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PARAREIPC
NOTEBOOK
Ac
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By Davi
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Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con sistemi elettronici, meccanici o
altri, senza l'autorizzazione scritta di CoreTech Srl.
INDICE
Capitolo 1 - Fondamenti di elettronica 1
Capitolo 2 - Componenti elettronici passivi 19
Capitolo 3 - Componenti elettronici attivi 39
Capitolo 4 - Circuiti integrati 57
Capitolo 5 - Monitor da PC 73
Capitolo 6 - Alimentatori AC/DC 89
Capitolo 7 - Struttura dei notebook 107
Capitolo 8 - Attrezzarsi per riparare i Notebook 149
Capitolo 9 - Guasti dell’alimentazione 185
Capitolo 10 - Guasti del video 199
Capitolo 11 - Guasti di CPU, RAM, Bios e Chipset 223
Capitolo 12 - Guasti delle memorie di massa 233
Capitolo 13 - Guasti delle porte di comunicazione 241
Capitolo 14 - Guasti del sistema di raffreddamento 249
Capitolo 15 - Guasti di tastiera e mouse-pad 255
Capitolo 16 - Guasti dell’audio 261
CAPITOLO 1
FONDAMENTI DI ELETTRONICA
Prima di vedere cos’è e come funziona un notebook, è necessario avere una certa
infarinatura di elettronica e dei suoi concetti fondamentali; diversamente, non si
può comprendere come funzionano i circuiti che compongono il computer e tan-
tomeno valutare se un certo stadio funziona bene o meno o come e con cosa sosti-
tuire un certo componente. Scopo di questo capitolo è fornire le basi, partendo
dalla considerazione che alla base dell’elettronica c’è l’elettricità, che è l’insieme di
tutti i fenomeni legati alla liberazione o al movimento di elettroni; questi ultimi sono
particelle infinitamente piccole che, insieme ai protoni e ai neutroni, compongono gli
atomi, i quali sono i “mattoncini” che costituiscono tutto quello che ci circonda.
Quando, per particolari condizioni fisiche, uno degli elettroni viene a mancare, si
crea uno scompenso di carica e nascono i fenomeni elettrici, che possono essere:
statici; in questo caso si parla di elettrostatica, ossia di presenza di carica elettrica
su un corpo, dovuta ad elettroni mancanti o in eccesso, ma che restano fermi;
dinamici; gli elettroni più esterni dell’atomo passano da un atomo all’altro e si
parla, allora, di corrente elettrica.
1
Capitolo 1
3
Capitolo 1
Legge di Ohm
La prima regola da imparare è la Legge di Ohm, la quale dice che ai capi di una
resistenza ossia di un conduttore, che per sua natura oppone una certa resisten-
za al passaggio dell’elettricità, si registra una caduta o perdita di tensione che
dipende dall’intensità della corrente (I) secondo la relazione (Figura 1.2):
'V = I x R
I = 'V / R
Vu = Vo – (Iu x Ro)
Vu = Io x Ro
Ip = Io – (Vu/Ro)
Principi di Kirchhoff
Altre due leggi fondamentali dell’elettrotecnica, che spiegano come funzionano
le reti elettriche, ossia insiemi di generatori e componenti elettrici o elettronici,
sono i principi di Kirchhoff: il primo è il principio applicato ai nodi e il secon-
4
Fondamenti di elettronica
Figura 1.3 - Generatori reali di tensione (a sinistra) e corrente (a destra) con le loro resi-
stenze parassite che schematizzano le perdite.
do quello alle maglie. Prima di enunciarli, bisogna definire nodi e maglie: si chia-
ma nodo un punto di unione di due rami (un ramo è una parte circuitale sede di
un’unica corrente) ossia di conduttori o terminali di componenti o generatori
caratterizzati dal fatto che vi scorrono due correnti diverse; ad esempio, due
componenti o fili collegati tra loro portano la stessa corrente e la giunta non è,
quindi, un nodo. Quando, invece, due rami confluiscono in uno, esce un terzo
ramo che porta la somma delle correnti; ebbene, lì si crea un nodo (Figura 1.4).
Il principio di Kirchhoff ai nodi dice che in un nodo la somma delle correnti
entranti deve eguagliare quella delle correnti uscenti, ovvero che la somma alge-
brica delle correnti debba essere nulla. Con riferimento alla Figura 1.4, chiama-
ta Iu la corrente uscente dal nodo e I1 e I2 le correnti entranti, vale la relazione:
Iu = I1 + I2
Quanto al secondo principio di Kirchhoff, bisogna dire che una maglia è un cir-
cuito elettrico chiuso su un generatore (Figura 1.5); ebbene, il principio appli-
cato alle maglie dice che in una maglia la somma algebrica delle cadute di ten-
sione e delle differenze di potenziale generate deve valere zero:
V - DV1 – DV2 = 0
ovvero, anche:
V = DV1 + DV2
5
Capitolo 1
6
Fondamenti di elettronica
La gabbia di Faraday
Nei conduttori, le cariche elettriche tendono sempre a disporsi preferibilmente
nella parte esterna, ovvero in superficie; questo è responsabile del cosiddetto
“effetto pelle”, che nei cavi vede la gran parte della corrente fluire sulla superfi-
cie, fenomeno che con l’ossidarsi dei cavi porta a un aumento delle perdite col
passare del tempo.
Il fatto che gli elettroni tendano a disporsi sulla superficie esterna dei metalli è
dimostrato dalla gabbia di Faraday: investendo una gabbia metallica con un
campo elettrico, all’interno di questa non accade nulla e qualsiasi oggetto intro-
dotto non risente di alcuna forza elettrostatica né si elettrizza. Tale fenomeno
viene sfruttato nella schermatura delle apparecchiature elettroniche, quali stru-
menti di misura per deboli segnali elettrici e apparati audio: essi vengono rac-
chiusi in involucri metallici o coperti da fogli di alluminio poi collegati a terra (o
alla presa di terra dell’impianto elettrico, ormai obbligatoria in tutti gli insedia-
menti) e tipicamente alla massa dei circuiti, con l’accortezza di realizzare il col-
legamento di quest’ultima in un solo punto, altrimenti è possibile che si creino
differenze di potenziale lungo il metallo del contenitore, responsabili dell’intro-
missione di disturbi nei circuiti stessi.
8
Fondamenti di elettronica
Il Magnetismo
Si tratta di un fenomeno che interessa essenzialmente i metalli e che può essere
definito come la capacità di una materia di attrarre a sé o respingere materia
similare e che esiste in natura da quando è nato il mondo; la sua manifestazio-
ne più lampante si può vedere utilizzando una bussola, il cui ago magnetizzato
viene attratto dal polo nord terrestre. In pratica il magnetismo si consiste nel-
l’attrazione, da parte di una massa di materiale ferromagnetico, di un’altra com-
posta anch’essa di materia ferromagnetica.
L’importanza del magnetismo sta nel fatto che su di esso si basa il funzionamen-
to degli altoparlanti, dell’inverter per il display e dei convertitori DC/DC inter-
ni a un notebook, ma anche dell’alimentatore AC/DC esterno.
Ai fini dello studio del magnetismo, i materiali si dividono in ferromagnetici,
paramagnetici e diamagnetici: i primi sono quelli che manifestano spiccata atti-
vità magnetica o che possono acquisirla se esposti a un forte campo magnetico;
i secondi si comportano similmente ai ferromagnetici, però hanno effetto mini-
mo e trascurabile. I diamagnetici, infine, sono insensibili al magnetismo e non
interferiscono con esso.
L’elettromagnetismo
La corrente che fluisce in un conduttore genera un campo magnetico la cui
intensità è proporzionale a quella della corrente stessa e, se quest’ultima è varia-
bile, il campo assume il medesimo andamento; il campo magnetico generato da
un conduttore percorso da corrente è detto “campo elettromagnetico” e le sue
manifestazioni passano sotto il nome di elettromagnetismo.
La creazione di campi elettromagnetici da parte dei conduttori è la causa dei
disturbi irradiati dai convertitori DC/DC dei computer, ma produce anche tanti
effetti positivi.
La corrente elettrica interviene sulle calamite e interagisce con i campi magne-
tici, però è anche vero che un campo magnetico può a sua volta intervenire sulla
corrente: più precisamente, esercita una forza su un conduttore percorso da
elettricità. Questo fenomeno permette il funzionamento degli altoparlanti
magnetodinamici e dei motori elettrici usati ad esempio nei lettori di floppy-disk
e di CD/DVD, ma anche negli HD, per far girare i dischi e muovere le testine.
Il fenomeno può essere verificato disponendo un filo elettrico rettilineo tra le
espansioni polari (i poli) di un magnete in modo da risultare perpendicolare alle
linee del campo, dirette dal polo nord a quello sud. Facendo scorrere corrente
nel filo, questo si muove e lo fa ortogonalmente rispetto alla direzione della cor-
rente stessa e del campo magnetico prodotto dal magnete. Il verso dello sposta-
mento dipende da quello della corrente, nel senso che si inverte se cambia la
polarità del generatore che fa scorrere l’elettricità nel cavo. In altre parole, quan-
do un conduttore percorso da elettricità viene immerso in un campo magneti-
co, su di esso è esercitata una forza la cui direzione è perpendicolare sia alle linee
9
Capitolo 1
dirette dal polo nord al sud, sia al verso della corrente (Figura 1.8).
La direzione della forza può essere determinata con la cosiddetta “regola della
mano sinistra”: se si dispongono pollice, indice e medio in modo da tenerli per-
pendicolari tra loro, se il medio indica la direzione della corrente e l’indice quel-
la delle linee del campo magnetico, la forza esercitata sul conduttore (rappresen-
tato dal dito medio) è diretta come indica il pollice (Figura 1.9).
La forza esercitata da un campo magnetico è direttamente proporzionale all’in-
tensità della corrente che percorre il conduttore stesso, alla lunghezza della por-
zione di quest’ultimo che si trova nel campo magnetico e al seno dell’angolo for-
mato dalla direzione delle linee di forza del campo con quella del conduttore. Il
tutto può essere rappresentato con la formula seguente:
F = B x I x l x senD
10
Fondamenti di elettronica
I
B = k ——
d
µo x I
B = ———— (I)
2Sxd
µo x I
B = ————
2xr
dove I è l’intensità della corrente che fluisce nel filo ed r il raggio della spira.
Quando si deve generare un campo elettromagnetico di una certa intensità,
invece che una sola spira si preferisce impiegare dei solenoidi, che sono bobine
composte da un certo numero di spire di filo elettrico accostate ed avvolte nello
stesso verso; in ragione di ciò, un solenoide sviluppa un’induzione magnetica la
11
Capitolo 1
cui intensità è pari alla somma delle induzioni ottenute dalle singole spire, dato
che si suppone essere l’insieme di più spire collegate una dopo l’altra e quindi
aventi in comune la medesima corrente. L’uso dei solenoidi permette di ottene-
re campi magnetici molto intensi, per ottenere i quali da una singola spira occor-
rerebbe far scorrere in essa correnti di valore estremamente elevato. Se la bobi-
na ha una lunghezza (intendendo con ciò non quella del filo usato ma la distan-
za dalla prima all’ultima spira) decisamente maggiore del suo diametro (almeno
dieci volte) il campo magnetico che si forma al suo interno è uniforme e la sua
direzione coincide con quella dell’asse delle spire, mentre il verso dipende da
quello della corrente e può essere determinato dalla cosiddetta regola della
mano destra: “se si pone il palmo della mano sul lato della bobina in modo che
la corrente circoli dal polso alle dita, il pollice aperto indica il verso del campo
magnetico”.
In linea generale, vale quanto enunciato per la singola spira: il campo prodotto
ha la direzione dell’asse e il verso determinato con la regola del cavatappi, ossia
quello di una vite destra che ruota nel senso di spostamento della corrente.
Induzione magnetica nelle bobine
Per quanto riguarda l’intensità raggiunta dall’induzione magnetica, consideran-
do un solenoide molto più lungo del proprio diametro si può dire che essa vale
la somma delle induzioni dovute alle singole spire; più esattamente, ammonta a:
µo x I x n
B = —————
l
µo x I x n
B = ———————
¹ (l² + d²)
Tale formula è applicabile anche alle cosiddette bobine corte, quelle, cioè, in cui
la lunghezza non è molto maggiore del diametro, ma paragonabile ad esso.
Induzione elettromagnetica
Quando un conduttore, non collegato ad alcuna fonte di elettricità, viene
immerso in un campo magnetico, ai suoi capi si sviluppa una tensione elettrica
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Fondamenti di elettronica
(f.e.m.) impulsiva, massima all’inizio e decrescente, fino a zero, col passare del
tempo. Quando l’induzione magnetica è dovuta a un elettromagnete alimentato
a corrente variabile, l’induzione elettromagnetica si manifesta finché c’è varia-
zione e determina, ai capi del conduttore immerso nel campo, una tensione che
varia in analogia con la corrente nell’elettromagnete. Ancora, se il conduttore
viene mosso all’interno del campo, in esso si manifesta una tensione indotta, il
cui andamento nel tempo dipende dall’orientamento che esso assume rispetto
alle linee di forza dell’induzione magnetica. È questo il principio di funziona-
mento dei motori elettrici, siano essi in continua o in alternata, ma anche dei
generatori di elettricità (dinamo e alternatori).
Il flusso magnetico è la densità dell’induzione magnetica in un certo campo e
per una determinata angolazione; dipende strettamente dall’intensità dell’indu-
zione e dalla superficie entro il quale lo si considera, secondo la relazione:
) = B x S x cosD
Mutua induzione
Il fenomeno dell’induzione elettromagnetica si manifesta non solo quando un
conduttore si trova fermo in un campo magnetico di intensità variabile o in
movimento in un campo costante, ma anche all’interno di un solenoide o di una
semplice spira di filo elettrico; la tensione indotta ha polarità e ampiezza tali da
opporsi a quella che ha determinato il flusso di corrente e il campo magnetico,
13
Capitolo 1
)i = L x i
dove i è l’intensità della corrente che origina, istante per istante, il flusso, men-
tre il parametro L prende il nome di coefficiente di autoinduzione o induttanza.
Corrisponde alla tendenza che un solenoide ha a sviluppare il campo magneti-
co e la tensione indotta, che si oppongono al flusso magnetico: tanto più è alta,
tanto maggiore è, a parità di flusso, la reazione sviluppata, e viceversa.
L’induttanza si misura, nel Sistema Internazionale, in henry (1 henry = 1 ohm x
secondo) ed è assimilabile a una resistenza elettrica, che si manifesta però quan-
do il circuito lavora in regime variabile, aumentando in maniera direttamente
proporzionale alla frequenza di variazione. Si noti che dalla formula precedente
si deduce che la variazione di flusso, considerata in un istante di durata infinita-
mente piccola (derivata) è pari a:
d)i = L x di
d)i di
ei = - —— = - L ——
dt dt
Inoltre, va notato che l’induttanza dipende dall’entità del flusso del vettore indu-
zione magnetica; essendo, il flusso, direttamente proporzionale alla permeabilità
magnetica dell’ambiente in cui un solenoide si trova, l’induttanza è direttamen-
te proporzionale anche alla permeabilità. Dunque, si può dire che se un solenoi-
de è avvolto in aria ha un comportamento diverso da uno analogo ma avvolto
su un supporto metallico; per l’esattezza, essendo il metallo più predisposto a
rispondere ai fenomeni magnetici, esso ha una permeabilità maggiore e quindi
determina maggiore induttanza.
Per determinare l’induttanza di un solenoide; si prendono in considerazione
alcune forme tipiche, che sono la toroidale e la lineare.
Per quel che riguarda il toroide (anello di materiale ferromagnetico) le spire ven-
gono avvolte tutte nello stesso verso, partendo da un punto e spostandosi lungo
la circonferenza del solido; dato che un siffatto avvolgimento è realizzato su un
nucleo di permeabilità magnetica uniforme, perché il toroide è dello stesso
materiale che si suppone uniformemente denso, si può iniziare con il determi-
nare il flusso dovuto a una spira, che vale:
µxIxS
F = µ x H x S = —————
l
dove S è la sezione della spira, ricavabile dal prodotto Sxr² (r è il raggio della
spira) ed l la lunghezza dell'avvolgimento immaginando di svilupparlo linear-
mente, mentre H è il campo magnetico (si ricordi che il flusso magnetico è pari
all'intensità del campo moltiplicata per la sezione entro cui la si considera).
Notate che il parametro µ è la cosiddetta permeabilità assoluta del mezzo entro
il quale si muove il flusso magnetico e vale il prodotto tra la µo e la µr; quest'ul-
tima è chiamata permeabilità relativa ed è caratteristica di ogni materiale: ha
valori molto bassi per i composti paramagnetici (poche unità) mentre raggiun-
ge le migliaia in quelli ferromagnetici (ferro dolce, ferrite, leghe ferro-silicio).
Vale esattamente 1, nei materiali diamagnetici, per i quali la permeabilità assolu-
ta (µ) corrisponde a quella del vuoto (µo). Il flusso nell'intero solenoide è pari
alla somma di quelli delle singole spire, quindi se N è il numero di queste, F vale:
µxIxSxN
F = µ x H x S x N = ———————
l
µ x I x S x N²
F c = F x N = ———————
l
15
Capitolo 1
Fc µ x S x N2
L = —— = —————
I l
16
CAPITOLO 2
COMPONENTI ELETTRONICI PASSIVI
Il resistore
Anche detto impropriamente “resistenza”, oppone resistenza al passaggio della
corrente elettrica; il suo valore si esprime in ohm (è di 1 ohm la resistenza che per-
19
Capitolo 2
Figura 2.1
Resistore a strato di
carbone, da ¼ di watt.
Figura 2.2
Resistore di potenza
a filo.
20
Componenti elettronici passivi
21
Capitolo 2
Tabella 2.1
Codice dei colori per le
resistenze E12: tipicamente
sono quelle con tolleranza al 5
e 10 %, ma alle volte, anche
all'1 %. La prima fascia è la
prima cifra del valore base, la
seconda è la seconda di queste
cifre, la terza il moltiplicatore e
la quarta la tolleranza.
22
Componenti elettronici passivi
addirittura allo 0,5 %, 0,25 % e 0,1 %; questi hanno una sesta fascia (dalla parte
opposta a quella che indica la prima cifra significativa, cioè la più larga) che indi-
ca il coefficiente di temperatura.
Resistori variabili
I resistori fin qui descritti sono detti “fissi” perché hanno valori costanti.
Esistono però resistori di cui è possibile variare la resistenza, per ottenere ad
esempio la regolazione del volume audio o della tensione di regolazione di un
alimentatore switching; tali componenti vengono genericamente chiamati resi-
stori variabili e sono potenziometro e trimmer. In realtà i due sono la stessa cosa:
hanno tre terminali, due dei quali corrispondono agli estremi della resistenza ed
un terzo è il cursore, ossia un elettrodo che scorre lungo la resistenza permet-
tendo di avere tra esso e un valore che varia da zero a quello massimo misura-
Tabella 2.2
Codifica a colori utilizzata
dalle resistenze della serie
E96, che hanno tre fasce per
definire il valore (nella serie
E96 è molto accurato) una per
il moltiplicatore e l'altra per la
tolleranza.
23
Capitolo 2
bile tra i terminali. Dei resistori variabili i costruttori definiscono sempre que-
st’ultimo valore, ragion per cui quando si dice che un trimmer o potenziometro
è, ad esempio, da 10 kohm, s’intende che il componente presenta una resisten-
za di 10 kohm tra gli estremi, ovvero che la massima resistenza che può assume-
re è 10 kohm.
Fra trimmer e potenziometro cambiano l’aspetto e la costituzione: il trimmer ha
tipicamente una cava per regolare la posizione del cursore mediante un caccia-
viti a lama, mentre il potenziometro dispone di un perno cui applicare una
manopola; inoltre il trimmer nasce per essere ritoccato poche volte, mentre il
potenziometro è studiato per continue regolazioni, quindi è più robusto, sia
nella meccanica che nello strato resistivo, il quale è fatto per resistere all’usura
che frequenti spostamenti del cursore provocano. L’elemento resistivo, che è il
resistore vero e proprio, viene realizzato deponendo una pellicola fatta di impa-
sto (tipicamente basato su carbonio) su un supporto plastico; si cono anche i
trimmer in Cermet, un composto a base ceramica. Esistono, però, potenziome-
tri di potenza che vengono realizzati a filo: l’elemento resistivo è dunque un filo,
avvolto quasi accostato su un supporto toroidale; il cursore è una lamina che
scorre su di esso. La resistenza è disposta ad arco e la regolazione avviene ruo-
tando il cursore e facendolo scorrere circolarmente. I potenziometri comuni
sono normalmente disponibili in tre esecuzioni: rotativo, rotativo multigiri e sli-
der; quest’ultimo ha il cursore che scorre linearmente, lungo l’elemento resisti-
vo che è in linea. Ci sono anche potenziometri o trimmer multigiri, dove il perno
o la vite di regolazione hanno una demoltiplica in grado di compiere una com-
pleta escursione dell’elemento resistivo in un numero di giri che varia da 2 a 20.
Trimmer e potenziometri possono essere utilizzati in due configurazioni circui-
tali: a reostato e a partitore variabile; la prima è sostanzialmente una resistenza
variabile, quindi si collegano un estremo e il cursore (Figura 2.5). In alcuni casi
vedete collegati insieme un estremo e il cursore, a costituire un unico elettrodo,
e l’altro estremo da secondo elettrodo.
Quanto alla configurazione a partitore variabile, costituisce l’uso da potenzio-
metro vero e proprio e serve a ricavare una tensione variabile: gli estremi si ali-
mentano con una differenza di potenziale e tra il cursore e uno di essi si ottiene
una tensione la cui ampiezza cresce man mano
che ci si allontana dall’estremo cui ci si riferisce
(per contro, cala la tensione misurata tra il curso-
re e l’altro estremo). La configurazione a poten-
ziometro è illustrata nella Figura 2.6. In entram-
be le configurazioni, il componente (trimmer o
potenziometro) lo vedete chiamato RV.
Fotoresistore
Si tratta di un resistore (anche detto fotoresistenza)
Figura 2.3 - Alcuni trimmer in cui la resistenza varia in funzione della luce
per montaggio normale.
24
Componenti elettronici passivi
Termistore
È un resistore usato per rilevare la temperatura e fino a qualche anno fa veniva
collocato sotto lo zoccolo della CPU (ad esempio negli AMD Athlon socket 462
e degli Intel Pentium III socket 370) per rilevarne il surriscaldamento ed attiva-
re gli allarmi termici. Il termistore varia la propria resistenza in funzione della
temperatura. Il termistore esiste in due tipi:
PTC; acronimo di Positive Temperature Coefficient, è un componente a coeffi-
ciente di temperatura positivo, nel quale la resistenza misurata tra i terminali cre-
sce all’aumentare della temperatura;
NTC; ha coefficiente di temperatura negativo (NTC deriva da Negative
Temperature Coefficient) e in esso la resistenza cala al crescere della temperatura.
Il termistore NTC non è molto lineare, nel senso che la relazione tra la tempe-
ratura e la resistenza tra i due terminali non è di primo grado; in altre parole, se
un NTC presenta 1 kohm a 50 °C, non è detto che a 100 °C presenti 2 kohm.
Invece il PTC è molto più lineare, seppure lo sia solo entro un certo campo di
temperatura: sotto una temperatura specificata dal costruttore (temperatura di
switching) inverte il proprio comportamento e funziona come un NTC.
I termistori hanno elevata sensibilità e rapida risposta, ma sono fragili e copro-
25
Capitolo 2
Il condensatore
È un componente reattivo, nel senso che reagisce alle sollecitazioni producendo
in risposta un’azione; mentre la resistenza dissipa l’energia, il condensatore la
immagazzina per poi restituirla. Questo, almeno in teoria, perché nella pratica
qualcosa si perde. Il condensatore funziona come una molla, che dopo essere
stata premuta (caricata) si estende e vibra fino a tornare normale; è formato da
due piastre di materiale elettricamente conduttore, parallele tra loro (o arrotola-
te, una sull’altra, ma sempre equidistanti) dette armature; fra di esse si trova l’ele-
mento dielettrico, ossia un isolante, che può essere aria, carta, plastica, ossido
metallico o altro ancora (Figura 2.10). Ogni armatura è collegata a un elettrodo
(o capo) del componente.
Applicando una pila ai capi del condensatore, l’armatura cui è collegato il polo
positivo si carica elettricamente; togliendo tensione, il condensatore resta carico
come una batteria e presenta, tra le armature, una differenza di potenziale pari
alla tensione della pila che l’ha caricato. Per scaricarlo bisogna collegare tra i capi
qualcosa che dissipi l’energia accumulata: ad esempio una resistenza.
Alimentando un condensatore inizialmente scarico, oppure applicando alle
armature una tensione di polarità contraria a quella alla quale il componente si
trova attualmente carico, il condensatore assorbe corrente: ciò accade perché la
carica elettrica deve spostarsi da un’armatura all’altra, attraversando il dielettri-
co. Finita la carica, non c’è più assorbimento.
Il condensatore ha carattere inerziale nei riguardi della tensione, nel senso che,
fin quando non si carica, la differenza di potenziale ai suoi capi cresce da zero
al valore della fonte di tensione che sta caricandolo; in altre parole, mentre la
corrente scorre subito, la tensione cresce gradualmente. L’andamento di tensio-
ne e corrente in un condensatore è sempre opposto, nel senso che inizialmente
26
Componenti elettronici passivi
C = Q/V
27
Capitolo 2
Il condensatore che troviamo nella realtà è un po’ diverso dal modello appena
descritto, nel senso che ha delle componenti parassite: un’induttore (rappresen-
tato dai terminali) e una resistenza; quest’ultima è formata da due parti, una in
serie e l’altra in parallelo. La prima, detta E.S.R. (Electric Series Resistance) e
dovuta ai terminali, rallenta la carica e si sente in special modo sui condensato-
ri elettrolitici; la seconda è determinata dal non perfetto isolamento del dielettri-
co, che porta a un flusso di corrente continua (seppure quasi trascurabile) anche
a piena carica e determina una perdita di energia.
Il condensatore si trova in commercio in varie esecuzioni, con valori da 1 pF a
centinaia di migliaia di microfarad; il dielettrico può essere carta, plastica (mylar,
polietilene, poliestere) o un materiale ceramico, tipicamente sintetico. Perciò esi-
stono condensatori a carta, in poliestere o mylar, polipropilene, ceramici e cera-
mici multistrato.
Il condensatore elettrolitico
Si tratta di un tipo di condensatore che presenta elevati valori di capacità a parità
di volume occupato. Per ottenere grandi capacità, in un elettrolitico le armature
sono sottili fogli d’alluminio arrotolati a spirale, uno dei quali è rivestito da un
ossido, che funge da dielettrico; il tutto è imbevuto in una soluzione chimica
(elettrolito). La struttura siffatta conferisce un alto rapporto capacità/ingombro,
però comporta alcuni inconvenienti: prima di tutto elevate componenti parassi-
te induttive e soprattutto resistive; queste ultime si concretizzano in un’alta
E.S.R. e in una perdita di isolamento nel dielettrico non indifferente. In secon-
do luogo, la struttura con elettrolito impone che il condensatore non possa fun-
zionare in corrente alternata e che debba obbligatoriamente essere polarizzato
con polarità positiva sull’elettrodo + rispetto al -; in caso contrario l’elettrolito
si depolarizza e l’ossido che fa da dielettrico viene rimosso.
Negli stadi alimentatori dei computer e quindi dei notebook, si fa ampio uso di
condensatori elettrolitici a bassa E.S.R., visto che si ha a che fare con frequenze
di commutazione molto elevate. In alternativa si adottano elettrolitici al tantalio,
28
Componenti elettronici passivi
Tabella 2.3
Codice dei colori per i
condensatori non polarizzati
contrassegnati con bande
colorate; nel calcolare il
valore si parte sempre dalla
fascia in alto, ossia da quella
lontana dagli elettrodi.
29
Capitolo 2
alcuni componenti in carta, poliestere e simili (in questo caso il codice è simile
a quello usato per le resistenze della serie E12). Usano la codifica a numeri i con-
densatori ceramici, comuni e multistrato, alcuni in poliestere o mylar ed altri tipi
ancora. Infine, gli elettrolitici hanno il valore scritto in chiaro, normalmente
espresso direttamente in microfarad (ad esempio, 10 µF 16 Vl). La Tabella 2.3
illustra la codifica a colori usata per i condensatori in poliestere e mylar, che pre-
vede la marchiatura del corpo con cinque fasce colorate. Per calcolare il valore
si parte sempre dalla fascia in alto, ossia da quella più lontana dagli elettrodi.
Nel sistema a colori, il valore è tipicamente espresso in picofarad, quindi un con-
densatore che abbia la prima fascia gialla, la seconda viola e la terza verde, vale
4.700.000 picofarad, ovvero 4, microfarad. Per quanto riguarda il codice nume-
rico, si usano tre cifre e una lettera: la prima e la seconda definiscono il valore
base (sono le cifre significative...) e la terza è il moltiplicatore, ossia il numero di
zeri ma aggiungere per ottenere il valore; la lettera è la tolleranza, che vale 5 %
se è J, 10 % se è K, 20 % se è M e -20/+80 % se è Z. Quest’ultima lettera la tro-
vate tipicamente in alcuni condensatori ceramici a disco. La capacità calcolata
con la codifica a numeri è sempre in picofarad. Ad esempio, 103 K identifica un
condensatore da 10.000 pF (10 nanofarad) con tolleranza del 10 %; 104 M è un
condensatore da 100.000 pF (0,1 µF) al 20 %.
Nei condensatori in poliestere, specie quelli di maggior pregio e costo più ele-
Tabella 2.5 - Codice numerico per i condensatori non polarizzati: il valore è usualmente in
picofarad.
30
Componenti elettronici passivi
Induttore
È un componente di vitale importanza per i notebook, in quanto è alla base del
funzionamento degli alimentatori, a partire da quello di rete a tutti gli stadi che
fanno funzionare CPU, RAM, scheda video ecc. Si tratta di una bobina compo-
sta da un filo avvolto più volte su un supporto diamagnetico (che non interferi-
sce con i campi elettromagnetici) ferromagnetico (che, nei riguardi dei campi
magnetici, si comporta come il ferro) o paramagnetico (che interferisce, ma
poco, con i campi magnetici) che, percorso da corrente elettrica, vede manife-
starsi il fenomeno della mutua induzione. Il valore dell’induttore si chiama
induttanza ed è espresso in Henry (1 H = 1 ohm al secondo) sebbene gli indut-
tori per elettronica siano tipicamente marchiati in microhenry (µH).
L’induttore ha carattere inerziale nei confronti della corrente, perché, alimenta-
to in continua, inizialmente non assorbe nulla, ma si oppone ad essere attraver-
sato dalla corrente; poco dopo comincia a condurre e, abituatosi ad un certo
regime, tenta di mantenerlo anche se il circuito viene interrotto. Quando viene
alimentato, l’induttore sviluppa una tensione indotta uguale in valore ma con-
traria nel verso a quella che l’ha generata. La tensione, direttamente proporzio-
Figura 2.13
Due induttori in esecuzione
SMD: è facile trovarne nelle
mainboard dei notebook, in
prossimità dei blocchi DC/DC
converter.
31
Capitolo 2
Quarzi
Sono componenti elettronici usati per stabilizzare la frequenza di lavoro degli
oscillatori, in virtù della loro caratteristica di risuonare meccanicamente ad una
frequenza che coincide con quella di risonanza elettrica. Vengono impiegati per
generare il clock delle CPU e delle unità grafiche (GPU) dei computer, oltre che
per stabilizzare la frequenza di funzionamento di vari stadi.
Un quarzo è formato da una scatolina metallica dalla quale fuoriescono due elet-
trodi e sulla quale è impresso il valore della frequenza fondamentale di oscilla-
zione. Dentro l’involucro (Figura 2.14) si trova un dischetto di quarzo sottilissi-
32
Componenti elettronici passivi
Figura 2.15
Condensatori elettrolitici in
SMD: a sinistra quello a dielet-
trico tradizionale e a destra
quello al tantalio.
mo, le cui facce, rivestite da un sottile strato d’argento, sono collegate, attraver-
so due piccole molle, che fungono pure da elementi di sostegno, con i termina-
li. Lo spessore del quarzo ne determina la frequenza di lavoro.
Il quarzo è un materiale piezoelettrico, quindi sottoposto a una tensione si
espande o si contrae seguendone l’andamento; per contro, se sollecitato mecca-
nicamente produce tensione. I quarzi vengono utilizzati nella prima modalità:
collegandoli in un circuito oscillatore, la tensione loro applicata determina
vibrazioni sulla superficie del cristallo. Se la frequenza applicata è pari a quella
di risonanza meccanica, le deformazioni diventano macroscopiche ed un segna-
le di piccolissima entità è sufficiente per mantenere innescate le oscillazioni.
Quindi il quarzo presenta una tensione elevata ai propri capi solo in presenza di
frequenze pari a quella propria di risonanza, mentre fa sì che l’oscillatore non
produca alcunché o quasi fuori dal valore di risonanza.
In pratica, ogni quarzo è affetto da componenti parassite (Cp ed R) che esten-
dono il campo di frequenze entro le quali il esso oscilla.
La bontà di un quarzo, intesa come la sua capacità di manetenere il più precisa
e stabile possibile la frequenza dell’oscillatore in cui è inserito, dipende dal fatto-
re di merito, che vale Q=fo/Bw, dove fo è la frequenza di risonanza e Bw la dif-
ferenza tra le frequenze di oscillazione massima e minima che in realtà caratte-
rizzano il quarzo. In pratica, più è largo il campo di frequenze alle quali risuona
il quarzo rispetto alla frequenza di risonanza fo, minore è il fattore di merito.
Tipicamente un quarzo ha un Q di 80.000÷1.000.000.
Negli oscillatori dei microprocessori e in generale in quelli impiegati per il clock
dei circuiti digitali, il quarzo viene connesso a pi-greca con due condensatori
(ognuno dei quali ha un capo a massa) che avviano l’oscillazione.
L’assortimento dei valori dei quarzi è notevole, tuttavia non sempre si trova la
frequenza desiderata; in tal caso si può “correggere” la frequenza di un oscilla-
tore a quarzo aggiungendo un condensatore (o anche un compensatore, cioè un
condensatore variabile) o un’induttanza. Più esattamente, per abbassare la fre-
quenza si aggiunge un’induttanza, mentre per alzarla si inserisce un condensa-
tore. Collegando in serie al quarzo un’induttanza e una capacità si realizza un
oscillatore variabile.
Nei circuiti di clock dei microprocessori e microcontrollori, l’esatto valore di
frequenza si ottiene partendo da quarzi di frequenza molto più elevata e divi-
dendo mediante contatori. Per ottenere frequenze maggiori di quella del quar-
zo, nei computer si utilizzano moltiplicatori di frequenza basati su PLL e con-
33
Capitolo 2
34
Componenti elettronici passivi
Figura 2.18
A sinistra, la freccia verde
indica un condensatore SMD
non polarizzato; a destra, la
freccia rossa evidenzia un
resistore SMD e quella gialla
un diodo, sempre a montag-
gio superficiale.
35
Capitolo 2
Figura 2.19 - Vari tipi di fusibile SMD utilizzati nei computer sia fissi che notebook.
re i terminali sono tutti liberi, il valore viene stampigliato come per le singole
resistenze; talvolta sono indicate sigle che identificano anche la tipologia (cioè a
terminale comune o indipendenti).
Particolare attenzione la meritano i fusibili in SMD, che si presentano sovente
come sottili lastrine con due elettrodi ai lati, ma che talvolta sono parallelepipe-
di a sezione verticale quadrata (Figura 2.19). Questi componenti talvolta posso-
no essere scambiati per resistenze o condensatori, ma solitamente riportano ele-
menti distintivi e comunque sulle mainboard dei portatili vengono siglati con F
(Fuse); le sigle sono tipicamente numeri che indicano la massima corrente prima
che saltino, quindi 1, 4, ecc. indicano correnti di 1, 4 ampere ecc.
A volte, in luogo dei fusibili vengono impiegate delle resistenze di potenza, però
a film metallico; queste si usano come limitatrici della corrente massima eroga-
bile da un certo stadio e vengono calcolate per presentare, in condizioni norma-
li, una caduta di tensione che non disturba il funzionamento degli stadi che
seguono e che dal resistore vengono protetti.
I componenti SMD vanno trattati con cura e devono essere smontati utilizzan-
do la macchina a getto d’aria calda eventualmente abbinata ad un riscaldatore
che scaldi il circuito stampato; una buona dose di flussante agevolerà lo sciogli-
mento della lega saldante consentendo di dissaldare il componente a temperatu-
re relativamente basse e non critiche per la sua incolumità. È anche possibile sal-
dare e dissaldare gli SMD con un saldatore a punta fine, ma la cosa funziona
solo se il componente non ha elettrodi sotto, ovvero se la gran parte della super-
ficie degli elettrodi è di lato.
36
CAPITOLO 3
COMPONENTI ELETTRONICI ATTIVI
Oltre ai componenti passivi, per lo studio dei notebook ci interessano quelli attivi,
che sono alla base del funzionamento degli stadi principali. Gli “attivi” sono quei
componenti che oggi si basano su materiale semiconduttore o, meglio, su giunzio-
ni o speciali accoppiamenti di materiale semiconduttore (in passato erano i tubi a
vuoto). Sono così chiamati perché non si limitano a subire la corrente elettrica ma
hanno un ruolo attivo, nel senso che possono decidere come comportarsi relativa-
mente al suo passaggio, ovvero modificare sensibilmente i parametri della potenza
elettrica. Sono attivi il diodo e i transistor (bipolare a giunzione, unigiunzione,
jFET, MOSFET, IGBT) i tiristori (SCR e TRIAC); lo sono anche i circuiti integra-
ti, che pure comprendono elementi attivi. In questo capitolo si parlerà degli attivi
“discreti”, intendendo con discreti i componenti che si trovano singoli in un con-
tenitore; più esattamente, verranno spiegati diodi e transistor sia bipolari che ad
effetto di campo.
Il diodo
È il più semplice componente elettronico attivo, oggi realizzato da una giunzione a
semiconduttore capace di lasciarsi attraversare dalla corrente in un solo verso;
almeno in teoria, perché in pratica conduce anche nella direzione opposta, lascian-
do tuttavia transitare una corrente trascurabile. Il diodo è un componente a due ter-
minali che polarizzato con l’anodo positivo rispetto al catodo non conduce fin
quando la tensione applicatagli non supera il valore di soglia; superato questo, il
diodo comincia a condurre, prima gradualmente e poi bruscamente, lasciandosi
attraversare da forti correnti con minime variazioni di tensione ai propri capi. Il
39
Capitolo 3
valore della tensione di soglia dipende strettamente dal tipo di diodo; i tipi esi-
stenti di diodo sono quello a giunzione PN, PIN, il diodo a giunzione
metallo/semiconduttore e quello a punta di contatto. Il primo costituisce la base
di componenti largamente usati nell’elettronica di consumo e industriale; il
secondo trova impiego quasi esclusivamente nei converter switching e il terzo
come rivelatore a modulazione d’ampiezza nei ricevitori radio.
Il diodo comune (anche detto rettificatore) viene usato essenzialmente dove serva
consentire il passaggio della corrente in una sola direzione, quindi negli alimen-
tatori dei computer, come raddrizzatore di corrente (dove serve a far sì che la
corrente alternata presa dalla rete o dal secondario di un trasformatore carichi
dei condensatori fino ad ottenere una componente continua) ovvero per smor-
zare le tensioni inverse generate dalle bobine degli switching dei notebook.
Il diodo a giunzione è realizzato dall’unione di due materiali semiconduttori o
metallici: nel primo caso è del tipo PN o PIN, mentre nel secondo è uno
Schottky; la giunzione PN è in realtà un blocchetto di silicio o germanio (mate-
riali tetravalenti che la chimica classifica come semiconduttori) all’estremità del
quale vengono introdotte impurezze, ossia atomi di elementi trivalenti o penta-
valenti; l’operazione di introduzione viene detta drogaggio e serve a creare ecces-
so di portatori di carica elettrica (elettroni) da un lato e carenza di essi dall’altro.
La zona drogata con atomi a valenza cinque viene chiamata regione N e costi-
tuisce il catodo, mentre quella con drogaggio trivalente è la regione P, o catodo.
Per far condurre il diodo a giunzione PN bisogna applicargli una differenza di
potenziale di valore opposto a quella (barriera di potenziale) creatasi agli estremi
della regione di svuotamento. La tensione deve essere positiva sull’anodo (zona
P) rispetto al catodo (zona N) in modo da spingere gli elettroni in eccesso nella
regione N a spostarsi nella P; il suo valore deve superare quello di soglia, corri-
spondente al potenziale elettrico necessario a portare via gli elettroni andati a
colmare le lacune in prossimità della regione di svuotamento dalle lacune stes-
se. La tensione necessaria alla conduzione (tensione di soglia) vale 0,6 V per le giun-
zioni composte da silicio e 0,2 V per quelle in germanio; esistono anche semi-
conduttori sintetici, usati soprattutto nella realizzazione dei diodi luminosi
40
Componenti elettronici attivi
LED) nei quali la tensione di soglia può essere maggiore (fino a 4 volt).
Polarizzando inversamente il diodo, ovvero con l’anodo (zona P) negativo
rispetto al catodo (N) il componente non conduce, se non la debolissima cor-
rente di saturazione inversa fin quando, superata la tensione di rottura, la giun-
zione non cede e conduce per l’effetto valanga. La tensione di soglia, come la
massima inversa sopportabile da un diodo, e tutti gli altri parametri caratteristi-
ci dei diodi, vengono forniti dai costruttori.
Delle giunzioni PN di diodi e transistor, la corrente in polarizzazione inversa
(Io) raddoppia ogni 10 °C di incremento termico, mentre la tensione di soglia
Vs si abbassa di 2,5 mV ogni °C di incremento termico.
Diodo PIN
Il diodo PIN è una speciale variante del PN: è sempre costituito da una giun-
zione, ma tra la regione P e la N riporta una zona di semiconduttore intrinseco
(non drogato) isolante, che allarga la regione di svuotamento. L’allargamento
permette di ottenere elevate tensioni inverse di rottura, quindi di impiegare i
diodi PIN come raddrizzatori in circuiti ad alta tensione. La struttura PIN con-
sente, inoltre, tempi di ripristino (passaggio dalla conduzione all’interdizione)
minori di quelli della tradizionale regione PN, il che rende adatto il diodo a fun-
zionare da raddrizzatore negli alimentatori switching e comunque in circuiti
dove avvengono commutazioni ad elevata frequenza e dove un comune diodo
condurrebbe anche per i primi istanti della polarizzazione inversa. La tensione
di soglia del diodo PIN è più alta di quella del comune diodo a giunzione PN.
Diodo Schottky
Si tratta di uno speciale diodo dove la giunzione è formata dalla fusione di un
metallo su un semiconduttore drogato N, dove il metallo costituisce la parte P;
più esattamente, il metallo è alluminio ed avendo valenza +3 funge da drogan-
te trivalente. Nella superficie interessata al contatto metallo/semiconduttore si
41
Capitolo 3
Diodo Zener
È un diodo che permette di stabilizzare la tensione. Per comprenderne il fun-
zionamento bisogna riprendere quello dei diodi a giunzione PN, dei quali si è
visto che in polarizzazione inversa non conducono corrente, se non quell’esiguo
valore chiamato “corrente di fuga” o “corrente di saturazione inversa”. Oltre un
certo valore di tensione, però, la giunzione si rompe e la corrente aumenta a
dismisura, divenendo praticamente indipendente dalla tensione. È in questa
zona della caratteristica (3° quadrante) che lavorano quei particolari diodi detti
Zener, che sono progettati per funzionare a tempo illimitato, con determinati
valori di corrente, senza danneggiarsi; in altre parole uno Zener quando si rag-
giunge la sua tensione di soglia inversa (tensione di Zener) prende a condurre e la
corrente è praticamente limitata da una resistenza che vuole in serie (resistenza
zavorra). La tensione ai suoi capi rimane praticamente costante per qualsiasi
valore di corrente, almeno in teoria. Questa caratteristica rende lo Zener ideale
per realizzare circuiti stabilizzatori di tensione, alimentatori stabilizzati e comun-
que dove serva un riferimento costante di tensione. In polarizzazione diretta, lo
Zener si comporta come qualsiasi diodo. Nei prossimi capitoli vedrete come si
impiega per stabilizzare la tensione negli alimentatori; per ora, accontentatevi di
conoscere il tipico circuito di polarizzazione, ovviamente inversa.
La regolazione della tensione nasce dal fatto che, entro certi margini, qualsiasi
variazione della corrente nel diodo derivante da un cambiamento del valore della
42
Componenti elettronici attivi
43
Capitolo 3
Il fotodiodo
Esponendo la giunzione PN a una luce, ma anche all’infrarosso o all’ultraviolet-
to, nel semiconduttore si libera una quantità di elettroni proporzionale all’inten-
sità dell’illuminazione. Se il diodo viene polarizzato inversamente, la sua corren-
te di saturazione inversa Io aumenta di conseguenza. Il diodo in questo caso
lavora nel quadrante fotoconduttivo. Il diodo a giunzione PN costruito in modo
da lasciare esposta alla luce la giunzione viene chiamato fotodiodo; in esso la giun-
zione è fatta in modo da affacciare all’esterno il lato drogato P, che, allo scopo,
viene realizzato il più esteso e sottile possibile (la regione N viene invece realiz-
zata molto sottile, per lasciar passare la luce.
Il fotodiodo si usa come sensore di luce ma anche per ricevere segnali trasmes-
si sotto forma di luce da LED all’infrarosso, quindi nei telecomandi, nelle cuf-
fie wireless e ricevitori per link dati ottici; è pure alla base dei fotoaccoppiatori.
Nei notebook viene impiegato sia nelle porte ad infrarossi (IRDA) sia nei letto-
ri di CR-ROM e DVD come ricevitore della luce riflessa dalla superficie del CD.
44
Componenti elettronici attivi
Diodo Laser
Si tratta di un componente a semiconduttore usato nei lettori CD-ROM e DVD,
ma anche nei masterizzatori, per generare la luce all’infrarosso necessaria a leg-
gere o a scrivere i dati; il laser viene preferito al tradizionale LED (seppure sia
anche questo un generatore di luce) perché produce un fascio luminoso molto
concentrato e collimabile a brevissima distanza, ma anche perché la luce prodot-
ta è coerente, ossia concentrata in uno spettro estremamente ristretto, che teo-
ricamente coincide con una soloa lunghezza d’onda (la luce emessa dal LED è
invece l’insieme di più lunghezze d’onda).
Il diodo laser si basa su una giunzione, tipicamente di arseniuro di gallio ed allu-
minio, che produce una radiazione luminosa riflessa da una superficie rifletten-
te e che riesce ad uscire, dopo essere stata riflessa più volte, da una seconda
superficie, semiriflettente; quest’ultima lascia passare i fotoni componenti la
luce solamente quando la loro lunghezza d’onda è coerente con un certo valo-
re. Le molte riflessioni fanno sì che la luce sia molto concentrata.
I diodi laser usati nei lettori di CD e DVD e nei masterizzatori hanno potenze
molto ridotte, dell’ordine di 1 o 2 mW al massimo; bisogna, tuttavia, prestare
molta attenzione a non guardarli quando sono accesi, perché la luce da essi pro-
dotta può danneggiare gli occhi. Quindi se si apre un lettore da CD o DVD
bisogna farlo quando è spento.
Il transistor bipolare
Anche detto semplicemente transistor, è stato l’elemento fondamentale della
logica, di memorie e microprocessori TTL. È in realtà solo uno dei tipi di tran-
sistor esistenti, ma è comunque il più antico. Si tratta di un componente attivo,
45
Capitolo 3
46
Componenti elettronici attivi
zione delle parole transfer e resistor. La caratteristica di far fluire una corren-
te particolarmente intensa in una regione ad alta resistenza, ovvero di far scor-
rere nella giunzione base-collettore praticamente la stessa corrente che fluisce
nella base-emettitore, fa sì che il transistor amplifichi: infatti, se mantiene la stes-
sa corrente di un circuito a bassa resistenza in uno ad alta resistenza, la caduta
di tensione Vbe determinerà una tensione tra collettore e base (Vcb) proporzio-
nalmente più alta. Indipendentemente dal verso delle tensioni di polarizzazione,
cioè sia per l’NPN che per il PNP, in un transistor la corrente dell’emettitore (Ie)
vale:
Ie = Ic + IB
La corrente di base è molto piccola rispetto alle altre due e lo è tanto più quan-
to maggiore è il guadagno del componente, ovvero la sua tendenza ad elevare la
corrente nella giunzione base-collettore a parità di corrente nella base. Il rappor-
to tra corrente di collettore e corrente di base prende il nome di guadagno del
transistor e vale:
hfe = Ic/IB
47
Capitolo 3
Gli esempi fatti finora prendono in considerazione transistor NPN, per i quali
le correnti di base e collettore entrano nel componente, per uscirne, come
somma, dall’emettitore (IE); ma esiste anche il tipo PNP, per il quale i versi delle
correnti sono alla rovescia, così come le tensioni di polarizzazione. Le regole
sono, però, le stesse.
Il transistor bipolare viene utilizzato come amplificatore di corrente e può lavo-
rare in modo lineare (ta componente di uscita segue linearmente l’andamento di
quella di ingresso) o a scatto; funziona linearmente quando viene polarizzato in
modo che corrente di collettore e tensione collettore-emettitore siano ad un
valore che sta a metà dell’escursione della zona lineare (è così definita quella
parte di caratteristiche di uscita in cui il rapporto tra corrente di collettore e di
base si mantiene pressoché uniforme). Il BJT funziona, invece, a scatto, quando
lavora interdetto o saturato, ossia come interruttore statico; in quest’ultimo caso
lo si polarizza perché dia la minima caduta di tensione tra collettore ed emetti-
tore, senza riguardo per la linearità. Ciò che distingue il funzionamento lineare
da quello come interruttore è il fatto che nel primo caso il transistor va polariz-
zato anche a riposo (quando non deve trattare alcun segnale) mentre nel secon-
do richiede polarizzazione solo quando deve condurre.
48
Componenti elettronici attivi
49
Capitolo 3
50
Componenti elettronici attivi
Pd = VCE x IC
jFET
Anche detto FET a giunzione, il jFET (acronimo di junction Field Effect
Transistor, ossia transistor ad effetto di campo a giunzione) è, come il BJT, un
componente amplificatore a semiconduttore, che però funziona con un solo
tipo di cariche elettriche ed è pilotato in tensione anziché in corrente. Ha
anch’esso un circuito di uscita, la cui resistenza viene modulata dalla differenza
di potenziale applicata al circuito di ingresso o di comando che dir si voglia.
Come il BJT, il FET è molto utilizzato negli oscillatori e nei trasmettitori (ma
anche nei comuni amplificatori BF ed RF); ha i soliti tre terminali, chiamati,
però, gate, drain e source; il gate è l’elettrodo di controllo. Il gate può essere
accoppiato tramite una giunzione PN, ed in tal caso il transistor prende il nome
51
Capitolo 3
Figura 3.16 -
Composizione e circuito
di prova del jFET a
canale N.
52
Componenti elettronici attivi
Il MOSFET
Si tratta di un FET a gate isolato e consta di una barretta di semiconduttore
nella quale sono realizzate due zone a drogaggio opposto (P se la barretta è N
o N se la barretta è P) tra le quali si trova un elettrodo isolato da essa mediante
ossidazione. Il MOS esiste in due varianti: nella Depletion Mode (a svuotamento)
che funziona come il jFET, normalmente la barretta fa da canale e presenta una
certa resistenza tra gli estremi, resistenza modulabile intervenendo con un
campo elettrico sul gate (Vgs negativa sul gate); ciò svuota in tutto o in parte
delle cariche libere e la resistenza aumenta. La conduzione smette quando si rag-
giunge la tensione di pinch-off, ovvero quando la Vgs negativa raggiunge un
valore tale che il campo di gate allontani tutti gli elettroni dal canale. C’è poi il
tipo Enhancement Mode (a riempimento, Figura 3.17) nel quale a riposo non scor-
re corrente tra gli estremi, perché il canale non esiste; viene creato applicando
un opportuno campo elettrico (Vgs positiva sul gate) che richiama elettroni
sotto il gate, iniziando la conduzione. In quest’ultimo tipo la conduzione inizia
appena superata superata la differenza di potenziale che costituisce la soglia
(Vgs di soglia). In entrambi drain e source non si possono scambiare tra loro,
perché, sebbene il canale non abbia polarità, il source è internamente collegato
al substrato della barretta, in modo da creare il campo elettrico di comando.
Per effettuare una riparazione che comporti la sostituzione di uno dei transistor
MOS dell’alimentatore occorre conoscere le caratteristiche principali del com-
ponente guasto da rimpiazzare; in particolar modo è necessario che la potenza
del MOSFET che sostituirà quello guasto sia maggiore di quella di quest’ultimo.
Lo stesso dicasi per la tensione Vds. La resistenza in stato di ON (Rdson) deve
invece essere minore o uguale.
I costruttori di MOSFET solitamente specificano:
VGSTH = tensione gate-source che dà inizio alla conduzione tra drain e sour-
ce (vale per i soli MOS a riempimento);
VGSOFF = tensione di pinch-off; è definita per i MOS Depletion Mode e cor-
risponde alla tensione gate-source che provoca l’interruzione della corrente di
drain;
53
Capitolo 3
54
Componenti elettronici attivi
negli switching presenti nelle schede madri dei notebook i transistor che com-
mutano la corrente sulle bobine siano sempre e solo MOSFET, a canale N o P;
lo stesso dicasi per i transistor utilizzati come interruttori statici (compito che il
MOSFET svolge meglio del BJT in virtù della bassissima resistenza di condu-
zione che presenta nel canale drain-source) posti lungo l’alimentazione princi-
pale delle mainboard, usati per accendere l’alimentatore/caricabatteria o altri
stadi switching.
55
CAPITOLO 4
CIRCUITI INTEGRATI
Oltre ai componenti discreti, nei computer si fa largo uso di circuiti integrati; anzi,
senza questi ultimi un PC ed in special modo un notebook, sarebbero grandi cento
volte tanto. Il circuito integrato è un circuito molto più piccolo di quanto sarebbe se
realizzato con i tradizionali componenti (discreti) montati sul comune circuito stam-
pato di bachelite o vetronite. A tutti gli effetti un circuito integrato (o integrato, come
lo chiamiamo comunemente, oppure IC, acronimo di Integrated Circuit) altro non è
se non un completo circuito elettronico realizzato in un unico componente, al
quale eventualmente necessitano componenti discreti esterni che si è scelto di non
integrare perché troppo grandi o da tenere separati per ragioni di smaltimento del
calore o di interferenza.
Gli integrati possono essere di due tipi:
monolitici, se sono realizzati interamente su un unico chip di semiconduttore;
ibridi, quando sono composti da componenti discreti e/o integrati monolitici
montati su microcircuiti stampati tipicamente realizzati su allumina.
57
Capitolo 4
58
Circuiti integrati
Scale di integrazione
Fin dalla loro creazione, i circuiti integrati monolitici sono stati classificati per
livello di integrazione, ossia per complessità; partendo dai più semplici, conte-
nenti pochi dispositivi attivi, la tecnologia è arrivata ai giorni nostri, proponen-
do componenti contenenti milioni di transistor. Per avere un’idea della comples-
sità di un chip, elenchiamo la classificazione per complessità:
SSI (Small Scale of Integration); è la classe più semplice, cui appartengono inte-
grati come gli operazionali e in generale i c.i. lineari, ma anche la logica elemen-
tare, e conta alcune decine di componenti o porte logiche per chip;
MSI (Medium Scale of Integration); vi appartengono i dispositivi logici comples-
si (contatori, registri a scorrimento, unità aritmetico-logiche) e conta qualche
centinaio di componenti elettronici per chip;
LSI (Large Scale of Integration); è quella di microprocessori, microcontrollori e
memorie e conta migliaia di componenti per chip;
VLSI (Very Large Scale of Integration); comprende i chip contenenti anche più
di centomila componenti ed è usata nella realizzazione di memorie ad alta capa-
cità e dei moderni microprocessori e dei microcontrollori più prestanti.
Generi di integrati
Proprio per la sua natura di microcircuito, l’integrato può contenere diverse
strutture, ossia circuiti elettronici più o meno completi o indipendenti, che rea-
lizzano singoli blocchi o interi sistemi autonomi; inoltre, come un qualsiasi cir-
cuito, può essere di tipo analogico o digitale, di bassa o alta frequenza, di picco-
la o grande potenza ecc.
Gli integrati si dividono, come tutti i circuiti elettronici, in due generi: analogi-
co e digitale. All’interno di ciascuno, esistono poi varie categorie, ognuna delle
quali è a sua volta divisa in tipi. Nei computer si fa uso principalmente di inte-
grati digitali, dalle semplici porte logiche ai complessi chipset, ai microproces-
sori o CPU. Non è scopo di questo volume spiegare i singoli generi e tipi di inte-
grati, ma piuttosto fare una rapida carrellata su di essi.
L’amplificatore operazionale
Tra tutti gli integrati analogici, quello sicuramente più interessante, per le sue
caratteristiche e l’impiego che se ne può fare, è l’operazionale. Si tratta di un
amplificatore, ossia un dispositivo che eleva tensione e corrente restituendole in
59
Capitolo 4
Integrati digitali
Una grande famiglia di circuiti integrati, importante almeno quanto quella degli
analogici, è quella comprendente gli IC digitali, intendendo con questo termine
tutti i circuiti integrati che lavorano con segnali numerici o comunque contenen-
ti blocchi a logica di boole (binaria). Di essi fanno parte anche i microcontrol-
lori e microprocessori, meglio descritti nel Capitolo 7.
Per ora l’attenzione va concentrata sugli IC più semplici, che sono le cosiddette
“porte logiche”: in pratica componenti contenenti componenti che realizzano le
funzioni logiche elementari, ossia OR, NOR, AND, NAND, NOT, OR esclusi-
vo e NOR esclusivo. Tali funzioni possono essere svolte da circuiti elettronici
integrati basati su diverse tecnologie, ovvero famiglie di transistor: BJT (si parla,
in questo caso, di logica TTL, CML o I²L) oppure MOSFET (CMOS, NMOS,
HCMOS).
In un primo momento, ossia oltre trentacinque anni fa, le porte logiche ed altri
integrati con funzioni semplici come flip-flop e contatori, venivano realizzate
con circuitazioni basate su transistor e diodi o su soli transistor: le corrispon-
60
Circuiti integrati
61
Capitolo 4
Logica discreta
Gli integrati che più comunemente si trovano nei circuiti elettronici e che sono
alla base della logica binaria, sono porte logiche, contatori, flip-flop, shift-regi-
ster ecc.; insomma, la cosiddetta logica discreta. Per quel che riguarda la logica
TTL esiste la famiglia 74xxx o la corrispondente 54xxx, per uso militare o indu-
striale; la prima funziona in ambienti la cui temperatura sia compresa tra 0 e 70
°C, mentre la seconda è prevista per situazioni gravose (da –55 a +125 °C).
Ad esempio l’integrato 7400 contiene quattro porte NAND, il 7404 sei inverter
logici (NOT) e il 7474 due flip-flop.
Quanto ai CMOS, almeno per la logica discreta gli integrati sono quelli della
serie 4000: ad esempio il quadruplo OR 4001, il quadruplo AND 4081, il qua-
druplo NAND a Schmitt-trigger 4093, il sestuplo NOT 40106, il doppio flip-
flop 4013. Nella serie CMOS, oltre alla logica tipica dei TTL sono presenti fun-
zioni come le matrici e gli interruttori CMOS, che sfruttano la possibilità dei cir-
cuiti MOS di condurre come interruttori quando pilotati in tensione.
Esiste poi la serie dei CMOS compatibili TTL, che sono gli HS-CMOS; insom-
ma, i 74HCxxx: realizzano le stesse funzioni dei corrispondenti 74xxx (ad esem-
pio il 74HC00 è equivalente al TTL 7400). Sono pienamente compatibili per
quanto riguarda i livelli di tensione all’ingresso, mentre per quanto riguarda l’u-
scita si adattano, anche se non sempre a lavorare a 5 volt; la piena compatibilità
con i TTL a livello ingresso/uscita la danno i 74HCTxxx.
Nei computer si fa molto uso dei latch 74HCT373 e 374 e di buffer come i
74HCT244, o transceiver quali i 74HCT245.
Amplificatori audio
Un’importante categoria di IC analogici è quella che comprende gli amplificato-
ri audio integrati, che consta di numerosi dispositivi, alcuni dei quali non sem-
62
Circuiti integrati
Array di transistor
Nei notebook viene fatto largo uso di MOSFET integrati,ovvero disponibili in
contenitori TSSOP a piedini dual-in-line: diffusissime sono le coppie comple-
mentari di MOS a canale N e P, usate per realizzare la sezione di commutazio-
ne degli alimentatori switching. I MOSFET singoli si impiegano, oltre che negli
switching, anche per commutare l’alimentazione o accendere e spegnere i vari
stadi dei notebook. Sovente si tratta di integrati SMD molto piccoli, che usano
i piedini o una placca metallica sul fondo (da stagnare su apposite piste dello
stampato in modo che trasmetta il calore e realizzi il collegamento elettrico di
uno dei terminali di drain o source) per dissipare il calore prodotto durante il
funzionamento. Ciò è possibile grazie al fatto che i MOSFET hanno bassissime
resistenze Rdson, quindi anche a forti correnti dissipano poca potenza: resisten-
ze di 0,001 ohm a 10 A determinano una potenza di appena 0,01 watt! I
MOSFET si trovano anche in array, ossia integrati che ne contengono anche più
di due collegati con il source in comune.
FPGA e PAL
A volte nei computer si fa uso di logica programmabile (PAL ed FPGA): si trat-
ta di circuiti integrati anche molto complessi, programmabili per compiere fun-
zioni specifiche in luogo di microcontrollori e microprocessori, ovvero per fun-
zionare come unità di gestione del segnale video; ad esempio le FPGA si pos-
sono utilizzare per l’elaborazione delle immagini e quindi come vere e proprie
GPU (Graphic Processing Unit).
Va detto che in realtà le FPGA si adottano prevalentemente nei server e nei
minicomputer o mainframe, e raramente si trovano nei Personal Computer; nei
63
Capitolo 4
64
Circuiti integrati
65
Capitolo 4
CTR = Iu/Ii
66
Circuiti integrati
Figura 4.7 - Schema a blocchi e piedinatura del moltiplicatore di clock CY2300 della
Cypress.
67
Capitolo 4
68
CAPITOLO 5
MONITOR DA PC
Il discriminatore è un circuito che dal segnale video RGB estrae i segnali di sincro-
nismo; invia gli impulsi di riga e di quadro alla logica che provvede al posiziona-
mento dei punti sullo schermo. Tale logica è molto complessa e si avvale di un
microcontrollore, microprocessore o di un dispositivo per DSP (Digital Signal
Processing) perché deve, sincronizzandosi con gli impulsi dell’orizzontale, rimette-
re al loro posto tutti i punti corrispondenti alle porzioni di componente video con-
tenute in ogni riga. Agganciandosi agli impulsi di quadro, la stessa logica deve sepa-
rare i segnali corrispondenti ad un semiquadro da quelli del semiquadro seguente.
Il digitalizzatore della componente video è un convertitore analogico/digitale al
quale, mediante appositi circuiti separatori, giungono le singole porzioni di video-
composito contenenti l’informazione sulla luminosità e sull’eventuale tinta croma-
73
Capitolo 5
tica dei singoli punti. La lettura e la conversione in valore numerico del segnale
video avvengono con estrema rapidità (la frequenza di campionamento è alme-
no 10 volte quella del videocomposito).
Ogni volta che viene compiuta una conversione, i corrispondenti valori nume-
rici vengono collocati in una memoria di tipo RAM, dalla quale vengono poi
prelevati per essere inviati al circuito posizionatore dei punti, ovvero al gestore
dello schermo. Questo circuito, sostanzialmente comanda la matrice di punti
contenuta nel pannello a cristalli liquidi, attivando per ogni pixel la riga e la
colonna corrispondenti; nella pratica viene effettuata una scansione, attivando
prima la prima riga e in sequenza, una alla volta, le colonne dalla prima all’ulti-
ma, quindi la seconda riga, ripetendo l’attivazione sequenziale delle colonne e
via di seguito. Si procede così fino all’ultima delle righe, allorché la sequenza
riprende da capo; tale sequenza di ricostruzione viene eseguita un numero di
volte al secondo pari agli Hz della frequenza di refresh, quindi 50 se si parla di
50 Hz, 60 se il refresh è a 60 Hz ecc.
Siccome l’immagine sullo schermo a cristalli liquidi non viene costruita in tempo
reale, cioè direttamente su comando del segnale video (come avviene nel cine-
scopio) è possibile ricomporla senza ricorrere all’interlacciamento; ciò vuol dire
che prima di comporre un quadro completo la logica attende ed analizza i segna-
li costituenti i due semiquadri che lo compongono, poi li memorizza e li riela-
bora, quindi rimette nell’esatta sequenza le varie righe e le manda allo schermo
LCD per ricostruire l’immagine.
L’interlacciamento (o interallacciamento, che dir si voglia) corrisponde a comporre
l’immagine con una rapida sequenza di due metà dell’immagine, costruite una
attivando le sole righe pari (e le solite colonne in rapida sequenza) e l’altra atti-
vando le sole righe dispari; compiendo questo lavoro più di 25 volte al secondo,
l’occhio non si accorge del trucco e vede sempre quadri interi.
La visione interlacciata permette di ridurre di fatto la velocità di commutazione
dei singoli pixel della matrice LCD, cosa molto utile perché i cristalli liquidi sono
relativamente lenti; inoltre l’interlacciamento riduce la banda richiesta dal segna-
le video e quindi facilita il compito dei circuiti che generano i segnali video (quel-
li delle VGA) e degli amplificatori che lo trattano. Nel caso di visione interlac-
ciata, la frequenza di refresh è riferita ai semiquadri tracciati, mentre se l’imma-
gine non è interlacciata corrisponde ai quadri completi disegnati in un secondo.
Notate che il discriminatore di sincronismo e il digitalizzatore della componen-
te video servono solamente nei monitor LCD da computer fissi che dispongo-
no di ingresso VGA, oppure nei notebook il cui chip video non ha le uscite in
formato digitale, ma dispone dell’unica uscita VGA, smistata da uno switch
verso il connettore a 15 poli o verso il display.
Nei PC che hanno la periferica video dotata di uscita digitale, i due blocchi su
menzionati non servono: le uscite digitali comandano direttamente la logica
dello schermo. Lo stesso dicasi per i monitor da PC fissi a interfaccia HDMI o
DVI digitale.
74
Monitor da PC
I cristalli liquidi
Il visualizzatore LCD del monitor del portatile è formato da tante piccole celle
che, nella forma elementare, sono composte da una certa quantità di cristallo
liquido compresa fra due lamine di vetro; lateralmente l’insieme è delimitato da
vetro sigillato o collante epossidico sigillante. Il cristallo liquido è una sostanza
chimica a struttura cristallina che a temperatura ambiente si presenta in forma
liquida. Il cristallo liquido usato nei display LCD è di tipo colesterico o nematico, ma
attualmente il più usato è il nematico.
Nel lato interno delle superfici di vetro sono realizzati degli elettrodi ottenuti
per deposizione di materiale conduttivo (per esempio carbonio); per non osta-
colare la visione, il materiale è abbastanza trasparente, quindi, sebbene si veda,
non disturba più di tanto.
La caratteristica più interessante del cristallo liquido è che, sottoposto ad un
campo elettrico, diventa opaco e non lascia passare la luce dal vetro posto sul
retro a quello frontale; quindi sagomando gli elettrodi in modo che abbiano la
forma della figura da disegnare, un’opportuna polarizzazione consente di vede-
re scure le parti che si desidera formino l’immagine.
Il cristallo liquido ha la struttura cristallina di forma elicoidale, è composta da
tante strisce sottili sovrapposte, le quali normalmente hanno tutte il medesimo
orientamento. Sottoponendo la struttura ad un campo elettrico parallelo all’as-
se verticale, le strisce ruotano, dalla base al vertice, di 180 gradi; per effetto di
ciò, il cristallo da trasparente diventa opaco perché la luce non riesce più ad
attraversarlo. Normalmente la polarizzazione viene data sotto forma di tensio-
ne alternata, alla frequenza di alcune decine di kHz.
Più esattamente, il cristallo liquido è caratterizzato dall’avere le molecole orien-
tate in modo che quando la luce l’attraversa ne segue l’orientamento.
Normalmente, transitando per il cristallo liquido, la luce viene ruotata di 90°.
Quando lo stesso cristallo subisce gli effetti di un campo elettrico, le sue mole-
cole si dispongono verticalmente e quindi la luce passa senza subire rotazione.
All’esterno delle due superfici si trovano due ulteriori strati di filtro, disposti a
90° fra loro, che polarizzano la luce.
75
Capitolo 5
In condizioni di riposo, la luce che arriva da dietro passa per il primo filtro e
viene polarizzata, transita per il cristallo liquido (dove subisce una rotazione di
90°) e infine attraversa il secondo filtro ed esce dal vetro anteriore. Invece se il
cristallo viene sottoposto a una tensione elettrica, la luce polarizzata dal primo
filtro transita inalterata per il cristallo liquido e viene bloccata dal secondo filtro,
quindi non esce dal display. I primi LCD grafici erano a matrice passiva ed erano
formati da un substrato di vetro con superficie in ossido di metallo molto tra-
sparente, dotato di una griglia di elettrodi necessari ad attivare i singoli elemen-
ti dello schermo; sul substrato veniva deposta una pellicola di polimero con una
serie di solchi paralleli fatti per allineare le molecole del cristallo liquido. Un
secondo strato, analogo, formato da vetro, completo di pellicola di polimero di
allineamento, veniva sovrapposto (e dotato di spaziatori per mantenere una
distanza uniforme dallo strato inferiore). I due venivano saldati con una resina
epossidica ai lati per non far fuoriuscire il cristallo liquido. All’esterno delle due
lastre venivano infine applicati gli strati polarizzatori di luce.
Negli LCD grafici l’orientamento degli strati di allineamento varia da 90° a 270°,
in funzione della rotazione totale del cristallo liquido compreso fra di essi.
I display LCD sono realizzati secondo tre strutture, che sono la trasmissiva, la
riflettiva e la transflettiva. La prima prevede che all’osservatore giunga la luce
che il disegno formato dal cristallo liquido lascia passare dal retro; nella secon-
da il retro è appoggiato ad un foglio bianco o a specchio, così da riflettere la luce
nelle zone non polarizzate e quindi chiare. La terza combina entrambe le tecni-
che, ovvero il fondo del display è appoggiato ad un foglio bianco illuminato
posteriormente; in tal modo all’osservatore giunge sia la luce riflessa, sia quella
in arrivo dal retro.
Nei monitor a cristalli liquidi si predilige la tecnica trasmissiva: il display è
appoggiato posteriormente ad una lamina di plexiglass, la quale appoggia su un
foglio argentato; la lamina di plexiglass è illuminata lateralmente o superiormen-
te e inferiormente da tubi neon che, grazie alla propagazione orizzontale della
luce lungo la sua struttura, la fanno apparire uniformemente illuminata.
L’immagine, già visibile (seppure scura) alla luce del giorno, viene resa evidente
e chiara dall’illuminazione prodotta dal plexiglass.
Sviluppati inizialmente per comporre cifre e lettere (usati negli orologi a quarzo
e nei visualizzatori dei moderni strumenti di misura e controllo, nonché in tan-
tissime apparecchiature consumer), gli LCD sono poi stati realizzati con la tec-
nica a matrice di punti per visualizzare immagini. Proprio la realizzazione dei
display LCD a matrice di punti ha permesso di avere i monitor dei notebook.
Fino a una ventina di anni fa gli LCD erano monocromatici e a bassa risoluzio-
ne; il settore del personal computing e quello della TV hanno spinto l’industria
a studiare display a colori ad alta risoluzione. Il problema della risoluzione è
stato risolto affinando le tecnologie costruttive allo scopo di ridurre le dimen-
sioni dei punti mentre quello del colore è stato risolto approntando matrici in
cui ogni punto è formato da tre sub-pixel, ovvero da tre elementi posti ognuno
76
Monitor da PC
77
Capitolo 5
Il display TFT
I primi display LCD avevano una visuale limitata a circa 90°; l’estensione degli
angoli di visione orizzontale e verticale permessa dai monitor dei moderni PC
portatili è stata ottenuta con la tecnica TFT (TFT è l’acronimo di Thin Film
Transistor, ossia transistor a pellicola sottile) che consiste nell’integrare in ogni
pixel una terna di transistor, che comandano ciascuno un sub-pixel; per questo
il display TFT viene anche detto “a matrice attiva”. La struttura così realizzata
consente di comandare sul luogo ogni punto dello schermo, ottenendo uno
spessore più ridotto del display (dovuto al fatto che ci sono meno linee di atti-
vazione) e quindi una miglior visuale (perché la luce arriva da una zona meno
profonda); inoltre permette una maggior velocità di commutazione del cristallo
liquido dalla posizione di oscuramento a quella di passaggio della luce (i tempi
di risposta sono anche dell’ordine dei 5 ms).
I TFT sono più leggeri e veloci nel passaggio dei pixel da trasparenti (la luce
passa) a opachi (la luce viene bloccata) ma molto più complessi (uno schermo
VGA richiede 921 mila transistor, mentre uno XGA da 1.024x768 punti impie-
ga 2.359.000 transistor).
Le qualità dei TFT sono state inizialmente sminuite da un difetto di visualizza-
zione dovuto all’imperfezione della tecnica costruttiva, la cui complessità non
permetteva di realizzare matrici con il 100 % dei pixel funzionanti: in pratica
78
Monitor da PC
alcuni punti della matrice apparivano bianchi o colorati perché i transistor cor-
rispondenti non funzionavano e non consentivano l’oscuramento. I pixel o sub-
pixel restavano quindi sempre trasparenti e lasciavano passare la luce, apparen-
do come punti luminosi che disturbavano la visione. Per ovviare a tale inconve-
niente, circa 10 anni fa venne messo a punto un TFT che utilizzava un nuovo
tipo di cristallo liquido in cui le molecole sono allineate verticalmente (VA, ver-
tically-aligned); in tal modo, quando non è applicata alcuna tensione, l’immagi-
ne è nera, mentre applicando la polarizzazione le molecole si dispongono oriz-
zontalmente e la luce attraversa il cristallo. Ciò migliora la qualità del nero e l’an-
golo di visione, che raggiunge i 140° in tutte le direzioni, ma anche il contrasto.
L’evoluzione degli LCD VA è quella chiamata MVA (Multi-domain Vertical
Alignment), che determina la rotazione delle molecole di cristallo liquido in più
direzioni per ogni cella anziché in una sola direzione come nella tecnologia di
base. Così, guardando lo schermo da varie angolazioni, la visione è relativamen-
te uniforme, mentre negli schermi standard varia tra chiaro e scuro in base all’al-
lineamento dell’osservatore rispetto all’orientamento delle molecole. La tecno-
logia MVA ha portato ad angoli di visione ancora più ampi (160°).
La matrice è composta da tante celle (pixel) ciascuna comandata da un transi-
stor ad effetto di campo (MOSFET) del quale il gate è collegato al circuito di
pilotaggio delle righe ed il source a quello delle colonne. Per attivare un sub-
pixel, si forniscono gli opportuni segnali (livelli logici) alla riga (gate) e alla
colonna (source) del transistor corrispondente; per controllare un pixel si attiva
una riga e le tre colonne (segnali RGB) del pixel stesso. I valori di ampiezza delle
tensioni di polarizzazione fornite ai transistor delle celle determinano la percen-
tuale di trasmissione della luce del retroilluminatore attraverso il pannello e i fil-
tri rosso, verde, blu, quindi la tonalità cromatica del punto corrispondente.
Di base, il circuito che pilota ogni subpixel è formato da un transistor e da un
condensatore (Cs) come carico d’uscita del TFT. Del circuito fa parte anche la
Figura 5.3 - A sinistra, schema elettrico delle celle del TFT; a destra, composizione di un
pannello LCD a TFT.
79
Capitolo 5
capacità virtuale del cristallo liquido (Clc). Applicando un impulso di circa +20V
alla linea gate, il TFT viene acceso, i Cs e Clc si caricano e la tensione sull’elet-
trodo specifico del subpixel (indicato come elettrodo pixel nell’immagine) sale
al livello del segnale applicato alla linea dati. Il TFT si spegne quando la tensio-
ne sul gate scende a -5 V. Il condensatore Cs ha la funzione di mantenere la ten-
sione sull’elettrodo pixel fino alla successiva scansione.
Siccome i cristalli liquidi devono essere pilotati a corrente alternata; ciò viene
solitamente realizzato invertendo la polarità della tensione applicata ai pixel a
ogni cambio di quadro, in modo da evitare sfarfallii dell’immagine.
Gli elettrodi gate e source di ogni subpixel sono usati in condivisione sulle righe
(le linee gate) e sulle colonne (le linee dati) della matrice, ma ciascun subpixel
può essere indirizzato individualmente senza interferire con quelli vicini. Il fun-
zionamento di un LCD si basa sulla scansione progressiva delle linee gate appli-
cando, per ciascuna riga dell’immagine, i segnali opportuni alle linee dati.
Nella maggioranza dei display TFT, la luce è generata da lampade a catodo fred-
do poste dietro o di fianco allo schermo. I filtri rosso, verde e blu di ogni pixel
80
Monitor da PC
sono talmente piccoli che l’occhio percepisce la luce che li attraversa secondo
un’unica tonalità cromatica risultante dalla somma delle tre componenti prima-
rie, ovvero dalla somma delle intensità luminose derivanti dal passaggio della
luce attraverso i subpixel.
In un display a 16 milioni di colori, ogni subpixel può essere pilotato da un
segnale che ha 256 possibili valori. A ciascuno di essi corrisponde un valore del-
l’intensità di luce che attraversa il subpixel, dalla quasi totale opacità del cristal-
lo liquido alla sua massima trasparenza, filtrata dallo schermo colorato del sub-
pixel.
OLED
Acronimo di Organic Light Emitting Diode, è un nuovissimo tipo di display in
grado di generare luce propria come fanno i display a plasma, funzionando
però a bassa tensione e con un consumo paragonabile a quello degli LCD. La
sua introduzione nel settore dei PC portatili risale a circa un anno fa e ancor
oggi sono pochi i notebook equipaggiati con l’OLED, al momento ancora trop-
po costoso. La definizione di LED organico deriva dal fatto che il sistema si
basa su piccole celle realizzate con semiconduttori organici che emettono luce
colorata. Gli OLED hanno un ampio angolo di visuale e sono molto leggeri e
sottili come gli LCD. L’OLED è molto recente, infatti nel 1998 sono stati pro-
posti i primi prodotti a colori, seppure caratterizzati da prestazioni limitate (800
x 600 pixel, 300 cd/m² di luminanza, contrasto di 300:1); in poco più di 10 anni,
siamo passati dai primi piccoli display ai moderni visualizzatori a matrice attiva.
La cella elementare di un OLED consiste in una pila di strati di materiale orga-
nico elettricamente conduttivo compresi fra due elettrodi: un anodo (positivo)
trasparente e un catodo (negativo) metallico, oppure, nella struttura con emis-
sione dalla zona superiore, da un catodo semitrasparente e un anodo metallico.
Esistono poi display OLED a matrice attiva (AM OLED) la cui cella è l’insie-
me di un catodo metallico o inorganico e un anodo organico, il tutto appoggia-
to su un substrato che contiene i circuiti di attivazione dei singoli pixel. Come
nei comuni led, la corrente fluisce perché elettroni liberi e facilmente spostabili
da un debole campo elettrico possono andare a colmare lacune presenti nella
struttura del materiale a minore valenza. Quando ad una cella OLED viene
applicata una tensione di alcuni volt, negativa sul substrato e comunque sullo
strato inferiore (catodo), gli elettroni partono da questo e vanno a riempire le
lacune nello strato organico collegato all’anodo, cedendo l’energia fornita loro
dal campo elettrico per spostarli; tale energia si libera sotto forma di radiazione
elettromagnetica con lunghezza visibile (elettroluminescenza). Nella versione
grafica, gli OLED dispongono tutti di una struttura a matrice di punti e ciascun
pixel componente la matrice viene attivato da una coppia di contatti disposti
secondo righe e colonne: esattamente come negli LCD. Gli OLED si candida-
no a divenire i display del futuro, almeno per le applicazioni dove è necessario
avere immagini luminose e ben contrastate; la possibilità di produrli anche in
81
Capitolo 5
82
Monitor da PC
Schermi E-ink
Si tratta di particolari visualizzatori che hanno fatto il loro esordio con gli e-
book reader. La tecnologia e-ink, ovvero inchiostro elettronico, o E-Paper
(Electronic Paper); tali display sono stati inventati nel 1996 da Joe Jacobson,
fondatore della E-Ink (www.eink.com) e sono tanto sottili e flessibili e risultano
simili, nell’aspetto, ad un foglio stampato. L’e-ink riflette la luce come un comu-
ne foglio di carta bianca o la assorbe come l’inchiostro nero. Il display è com-
posto da due lastre (una delle quali è trasparente), chiuse lateralmente, e tra le
quali si trova una sostanza liquida contenente piccolissime sfere caricate elettri-
camente; in ciascuna delle microsfere, metà è positiva e colorata di nero, men-
tre l’altra metà è caricata negativamente ed è di colore bianco. Applicando un
campo elettrico a speciali elettrodi sulla superficie delle lastre, si possono orien-
tare le sfere in modo che appaiano bianche o nere; in altre parole, applicando la
polarità positiva sulla lastra esterna (quella da cui guarda l’osservatore) le sfere
si orientano con la metà negativa da quella parte e, siccome le semisfere negati-
ve sono bianche, nei punti polarizzati positivamente il display è bianco. Se inve-
ce si applica la polarità positiva sulla lastra interna e negativa su quella esterna,
dall’esterno appare la metà nera (positiva). La tecnologia e-ink permette di rea-
lizzare supporti sottili e flessibili, dato che la struttura a sfere non viene altera-
ta dalla torsione o flessione; è quindi l’ideale per apparati da portare, ad esem-
pio, nella cartella scolastica. Ma ciò che rende davvero unica la tecnologia e-ink
sono due caratteristiche: la prima è che disponendo delle sfere consente di rap-
presentare perfettamente un foglio stampato, dato che l’immagine (foto o testo)
appare formata da punti, esattamente come avviene con una stampa a getto
d’inchiostro, a laser o in tipografia; nei display e-ink, analogamente a quanto si
fa nelle macchine tipografiche, una zona è tanto più scura quanto più fitti sono
i punti neri e viceversa. Non meno importante è il fatto che l’e-ink è l’unico
83
Capitolo 5
84
Monitor da PC
do: consta di un tubetto sottile di vetro riempito di gas inerte (neon o miscele
di neon e xeno) le cui pareti interne sono rivestite di fosfori; dentro il tubo, ad
un’estremità o alle due estremità opposte si trovano due elettrodi. Applicando
una tensione sufficientemente alta, tra questi scocca una scarica elettrica, dovu-
ta alla ionizzazione del gas contenuto nel tubo; il fenomeno si propaga rapida-
mente al resto del gas e determina la produzione di fotoni (particelle di luce)
nell’ultravioletto, che investendo i fosfori fanno loro produrre luce bianca. Per
l’innesco della scarica si usano gli inverter, che producono tensioni anche di 200
volt.
Oggigiorno i costruttori hanno sperimentato ampiamente un’alternativa basata
su diodi luminosi: in pratica si sfrutta una metodica analoga a quella delle lam-
pade a fluorescenza, solo che al loro posto, ad illuminare lateralmente la lastra
di plexiglass, si trova una fila di LED. Il controllo dei LED si realizza con rego-
latori di corrente a bassa tensione, che però consumano una discreta potenza. Il
principale vantaggio dell’adozione dei LED è che il sistema di retroilluminazio-
ne dura molto più degli altri appena descritti, potendo funzionare anche per
50÷70.000 ore, corrispondenti a 15÷20 anni, ovviamente a patto che non si gua-
sti prima il circuito regolatore.
Con i LED è possibile realizzare display in cui i pixel lavorano in sincronismo
con il retroilluminatore, composto da diodi emittenti luce rossa, verde e blu:
quando il pixel deve apparire rosso si accendono solo i LED rossi, quando deve
essere blu solo i blu e quando deve apparire luce rossa si comandano solo i diodi
rossi. Ciò può essere realizzato grazie all’elevata velocità di commutazione di cui
sono capaci i LED e permette di ottenere display a colori senza dividere i pixel
in tre subpixel, ma semplicemente usando una sola cella per punto, il che sem-
plifica la matrice (seppure complichi il comando della retroilluminazione) e con-
sente di elevare notevolmente la risoluzione dell’immagine, visto che ogni pixel
non deve essere necessariamente composto da tre subpixel e quindi può avere
dimensioni più piccole di quelle di un LCD a singolo pixel. Per contro, una tec-
nica simile rallenta la rappresentazione delle immagini in movimento, in quanto
per comporre ogni punto di colore occorrono tre passaggi in sequenza, quindi
il tempo di risposta si triplica.
LCD touch-screen
Si tratta di visualizzatori che sono una completa interfaccia utente, nel senso che
fungono contemporaneamente da monitor, tastiera e dispositivo di puntamen-
to; vengono usati prevalentemente nei PC Tablet, palmari e nei PDA. Perché
uno schermo possa rilevare quando e dove viene toccato, sopra la struttura LCD
si applica un rivestimento che funziona con due tecniche: resistiva (la prima
messa a punto) o capacitiva.
Il touch-screen di tipo resistivo basa il suo funzionamento sul fatto che premen-
do sullo schermo si crea un contatto tra due strati conduttori di elettricità, stra-
ti situati in una pellicola trasparente che sta davanti all’LCD vero e proprio. Il
dispositivo rileva il punto di contatto elaborando i dati sulla resistenza rilevata
tra un lato verticale ed uno orizzontale. Il touch-screen capacitivo si basa inve-
ce sul trasferimento di carica elettrica tra un’armatura, ossia un contatto elettri-
co posto in una pellicola che riveste lo schermo, e la terra: quando si tocca lo
schermo, si verifica un flusso di elettroni che viene rilevato tramite dei sensori
posizionati in ciascun angolo del display, in modo da stimare le coordinate del
punto di contatto.
Sul piano della visibilità è preferibile il sistema capacitivo, dato che la pellicola
del resistivo riflette un po’ la luce; quanto alla sensibilità, nel resistivo la pressio-
ne è fondamentale per interagire con lo schermo ed è possibile utilizzare dita
(anche indossando guanti), unghie, pennini ecc. La possibilità di utilizzare il pen-
nino è molto importante quando si devono comporre lettere o scritti usando la
tastiera a schermo, come nei palmari o nei PC Tablet. Il sistema capacitivo ha
invece il difetto di richiedere il tocco con un oggetto conduttivo e quindi con i
polpastrelli delle dita (nude), il che limita la minima dimensione degli oggetti o
86
Monitor da PC
pulsanti a video che si possono attivare (al contrario del sistema resistivo, preci-
so almeno quanto la risoluzione dei pixel del display). Va inoltre detto che il
sistema resistivo funziona in un campo di temperature più esteso e sopporta
meglio l’umidità, mentre quello capacitivo necessita di un minimo di umidità
nell’aria per favorire il trasferimento della carica elettrica; inoltre quando l’am-
biente è troppo freddo o umido la condensa impedisce una chiara collocazione
del tocco e talvolta fa muovere arbitrariamente il puntatore.
87
CAPITOLO 6
ALIMENTATORI AC/DC
Alimentatori switching
Nei PC, per passare dall’alternata di rete ma anche da una tensione continua ad
un’altra, si ricorre agli alimentatori a commutazione, o switching (o DC/DC converter). In
89
Capitolo 6
essi gli elementi attivi che devono alimentare l’utilizzatore conducono non in
maniera continuativa ma ad impulsi; il valore della tensione di uscita dipende
quindi dal valore medio, nel tempo, degli impulsi stessi. Lo stesso dicasi per la
corrente. Il vantaggio che ne deriva sta nel fatto che la potenza dissipata da ogni
transistor è praticamente la sola da cedere all’utilizzatore; la dissipazione, ovve-
ro la perdita del dispositivo di commutazione, è minima e corrisponde al pro-
dotto della VCE di saturazione per la corrente che l’attraversa, e il tutto rappor-
tato alla durata degli impulsi in ogni ciclo di commutazione.
Per prima cosa bisogna spiegare perché gli switching hanno una perdita trascu-
rabile; definito rendimento di un generico circuito che deve effettuare una con-
versione di potenza il rapporto:
Pe
K = ——
Pc
90
Alimentatori AC/DC
dc = d/T
Quando l’impulso dura metà del periodo, l’onda in esame ha un duty-cycle del
50 %; nel caso di tensioni periodiche con impulsi a gradino (rettangolari) l’on-
da prende il nome di “quadra”, perché ogni impulso, disegnato sulla carta, ha
forma quadrata. Il duty-cycle permette di valutare il valore medio di una com-
ponente variabile nell’intero periodo; nel caso dei dispositivi switching consen-
te di capire quanta energia, di quella totale presa dal generatore, trasferiscono
all’utilizzatore.
Convertitore a trasformatore
Nella sua forma più semplice, consta di un generatore capace di ottenere impul-
si partendo dalla tensione continua di alimentazione, di un transistor e di un tra-
sformatore (più o meno complesso) che trasferisce gli impulsi all’utilizzatore. Il
trasformatore serve:
per elevare la tensione, quando lo switching deve alimentare utilizzatori che
91
Capitolo 6
richiedono più della tensione d’ingresso, ovvero abbassarla, nel caso contrario;
per isolare galvanicamente l’alimentazione d’ingresso dal circuito nel quale si
trova l’utilizzatore.
92
Alimentatori AC/DC
il diodo deve essere scelto del tipo veloce, ovvero con un tempo di passaggio
dalla conduzione all’interdizione (TRR) minore di 1/20 del periodo della tensio-
ne rettangolare che pilota il transistor e comunque che sia il più basso possibile;
si può evitare il diodo usando transistor specifici per la commutazione su ca-
richi induttivi (per esempio il BU508D) che incorporano un diodo collegato tra
emettitore e collettore e che può quindi cortocircuitare l’extratensione inversa
prodotta dal trasformatore;
il diodo rettificatore (D4) deve essere scelto con TRR minore di 1/20 del pe-
riodo della tensione rettangolare che pilota il transistor e comunque che sia il più
basso possibile; deve sopportare una IF (corrente diretta) superiore del 20 % a
quella da erogare all’utilizzatore e una tensione inversa ripetitiva pari almeno al-
l’ampiezza degli impulsi sul secondario; ciò perché si presentano dei picchi an-
che in corrispondenza dell’interdizione del transistor e tali picchi sono negativi;
il transistor deve essere sufficientemente veloce, ovvero presentare un tempo
di commutazione minore di 1/20 del periodo del segnale rettangolare che lo pi-
lota; altrimenti continua a condurre anche quando non deve e incrementa la per-
dita di potenza, che in esso e nel diodo raddrizzatore sono essenzialmente lega-
te alla frequenza di lavoro;
il transistor va scelto con una VCEO maggiore del 20 % rispetto alla tensione
di alimentazione del circuito di commutazione (transistor/primario) e deve sop-
portare una Ic continua superiore alla massima corrente che si pensa di dare al
trasformatore; quest’ultima si determina come Iu = Vi x Ii/Vu.
95
Capitolo 6
Invece, nel caso dello switching con primario a presa centrale, ogni mezzo pri-
mario deve essere calcolato sulla base di mezzo secondario; quindi, volendo che
la tensione di uscita del circuito sia uguale a quella di ingresso, mezzo primario
deve avere le stesse spire di mezzo secondario.
Il trasformatore
Giunti a questo punto, per meglio comprendere il funzionamento degli alimen-
tatori conviene spendere qualche paragrafo sul trasformatore: si tratta di una
particolare macchina elettrica statica, che non genera corrente ma trasferisce una
potenza elettrica tra due circuiti mutandone i parametri, ovverosia corrente e
tensione.
Il trasformatore serve moltissimo in elettronica: si usa per ottenere le basse ten-
sioni partendo dalla rete a 220 Vca, ma anche per elevare basse tensioni al fine
di pilotare sirene o ottenere scariche elettriche o ionizzare l’aria; serve inoltre per
trasferire un segnale tra due circuiti che devono essere mantenuti isolati tra loro
e quindi anche in telefonia. Il trasformatore funziona sfruttando il principio del-
l’induzione elettromagnetica ed è composto, nella sua forma basilare, da due
avvolgimenti di filo in rame opportunamente isolato chiamati primario e seconda-
rio (Figura 6.5). Per convenzione, il primario è quello che riceve l’alimentazione
ed il secondario quello in cui viene indotta la tensione da dare all’utilizzatore.
Solitamente i due avvolgimenti sono separati, ossia sono circuiti elettricamente
distinti (galvanicamente isolati); ciò mette al riparo da molti problemi che si veri-
ficherebbero prendendo l’alimentazione dalla rete di distribuzione elettrica e, in
molte situazioni, permette il funzionamento di circuiti che altrimenti non fun-
96
Alimentatori AC/DC
Vcd = -Vab
97
Capitolo 6
Vi/Ii = Vu/Iu
Iu = Ii x r
oppure, se si preferisce:
Iu = Vi x Ii / Vu.
100
Alimentatori AC/DC
101
Capitolo 6
metro: ciò allo scopo di consentire una regolazione accurata della componente
continua riportata al comparatore. Si noti che più si avvicina il cursore del
potenziometro alla massa, più sale la tensione Vu, perché diminuisce la tensio-
ne di reazione e il comparatore dà alla base del transistor impulsi più larghi,
ovvero T conduce per una maggiore porzione del periodo. Viceversa, avvicinan-
do il cursore al catodo del Ds3 sale la componente di retroazione, l’onda trian-
golare dell’oscillatore supera quella del piedino 2 dell’operazionale per una
minore porzione del periodo e T conduce per minor tempo, riducendo la ten-
sione di uscita. In alternativa al trasformatore, si può adottare la retroazione con
optoisolatore (fotoaccoppiatore) di tipo 4N25, 4N35, CNY75 e similari, secondo
lo schema della Figura 6.13. Il LED (diodo luminoso collegato con l’anodo al
piedino 1 e il catodo al 2) dell’optoisolatore viene polarizzato tramite R4 dalla
tensione di uscita dell’alimentatore, cosicché entra in conduzione il fototransi-
stor (collegato con il collettore al piedino 5 e l’emettitore al 4); ciò determina
una differenza di potenziale ai capi del bipolo R5/Dc, proporzionale alla Vu. Il
solito potenziometro (funzionante come già descritto per il circuito retroaziona-
to mediante trasformatore) permette una regolazione accurata della tensione di
uscita.
Converter a integrati
In commercio si trovano numerosi circuiti integrati che permettono di realizza-
re ottimi DC/DC, sia a carica d'induttanza che a trasformatore. Un ottimo
esempio, tra i più usati nella realizzazione di converter DC/DC sia neigli alimen-
tatori da rete dei PC fissi, sia in quelli dei notebook, è l'SG3525, costruito da
numerose Case quali ST, Exar, Signetics. Si tratta di un completo regolatore a
commutazione contenente uno stadio generatore della tensione di riferimento
(5,1 V) un amplificatore di errore, un generatore di onda a dente di sega e una
protezione in corrente, oltre a un doppio stadio d'uscita funzionante in contro-
fase. L'SG3525 è dunque progettato per pilotare stadi a trasformatore con due
transistor in push-pull, ma nulla vieta di impiegarlo con una sola uscita, pilotan-
do un singolo transistor che alimenti un trasformatore o un induttore. Usando
entrambe le uscite, quando una dà l'impulso positivo l'altra si presenta a zero
102
Alimentatori AC/DC
volt. L'oscillatore interno può lavorare tra 100 Hz e 500 kHz; necessita, per il
funzionamento, di un condensatore collegato tra il piedino 5 e il 12 e una resi-
stenza connessa tra il 6 e lo stesso 12. La tensione di alimentazione del compo-
nente deve essere compresa tra 8 e 35 volt.
Il circuito della Figura 6.14 è un DC/DC che, a seconda di come si sceglie il tra-
sformatore, può essere elevatore o riduttore; con i componenti attuali è previ-
sto sia 24/12 V, da ben 10 A di uscita. Il fusibile F1 va calcolato per la corren-
te assorbita dal primario del trasformatore e lo stesso vale per la bobina di fil-
tro L1 (inserita in una rete a pi-greca per sopprimere i disturbi originati dalla
commutazione dei MOSFET). L'SG3525 qui lavora a una frequenza di 50 kHz.
103
Capitolo 6
104
CAPITOLO 7
STRUTTURA DEI NOTEBOOK
Per poter riparare un computer portatile o quantomeno ipotizzare che guasto possa
avere, bisogna conoscerne la struttura base. Scopo di questo capitolo è fare una
panoramica sulla composizione di massima di un notebook, fermo restando che
poi ogni PC potrà avere qualcosa in più o in meno e che col tempo alla struttura
base potranno aggiungersi nuovi elementi introdotti dall’innovazione tecnologica.
In linea generale, un moderno computer portatile (intendendo con “moderno” che
è stato costruito da una decina d’anni) è composto dalle seguenti parti:
un microprocessore o CPU;
una memoria di programma (EEPROM o Flash EPROM);
una o più memorie RAM;
un bus di interfaccia;
un chipset che governa le funzioni del bus e di alimentazione;
una serie di periferiche di I/O affacciate sul bus;
uno o più controller per le unità a disco;
un adattatore grafico (scheda grafica) con eventuali memorie;
un adattatore audio;
un adattatore di rete;
eventuali interfacce wireless;
un eventuale modem;
uno o più alimentatori interni;
un alimentatore esterno;
un display;
una tastiera;
105
Capitolo 7
Qui di seguito verranno analizzate una ad una nel dettaglio, fermo restando che
esse (ad eccezione delle unità a disco, delle ventole, della tastiera e del dispositi-
vo di puntamento) trovano collocazione, a seconda del tipo di computer, su :
una scheda madre;
una o più schede figlie.
106
Struttura dei notebook
ta. Va comunque notato che spesso nei notebook c’è solo la scheda madre.
Le unità a disco sono esterne alla scheda madre e vengono supportate dalla
scocca del computer; quest’ultima è formata da un semiguscio inferiore ed uno
superiore. Il display è anch’esso contenuto in un guscio formato da due metà ed
è incernierato sulla base.
CPU
Anche detta impropriamente “microprocessore”, è un circuito integrato che
rappresenta il cuore del notebook, dato che fa funzionare tutto perché provve-
de all’elaborazione dei dati. Per comprendere come funziona bisogna prima
conoscere la ALU (Arithmetic Logic Unit) ossia l’unità aritmetico-logica: questa è
un circuito binario in grado di compiere operazioni di addizione, sottrazione,
prodotto, decremento e incremento di parole composte da un certo numero di
bit o confrontare tra loro due parole. L’ALU è dunque l’unità di calcolo della
CPU e per compiere determinate operazioni si avvale di circuiti esterni quali una
serie di registri dove mettere i dati dei calcoli provvisori e i risultati; i registri
107
Capitolo 7
108
Struttura dei notebook
109
Capitolo 7
tarsi ai bus dati dei microprocessori a 8 bit) connessi a latch: ognuno di essi,
quando riceve un impulso sulla linea di attivazione (strobe) carica i dati in ingres-
so e li porta in uscita, mantenendoli anche se gli ingressi vengono modificati. Gli
8 bit comuni vengono fatti passare da un latch, le cui uscite sono affacciate sul
bus indirizzi; un line-driver bidirezionale affaccia, invece, i bit sul bus dati.
Quando deve indirizzare una periferica, il micro (che ha una linea dedicata allo
scopo) dà il segnale di strobe al latch e fa caricare gli indirizzi, mentre tiene disat-
tivato il line driver che affaccia sulla corrispondente porzione di bus dati; quan-
do deve leggere o inviare dati, il microprocessore libera lo strobe e blocca il latch
con le uscite nella condizione precedentemente assunta, mentre comanda il line-
driver in modo da gestire il flusso dei dati.
L’utilizzo promiscuo di linee di dati e indirizzi è stato fatto in diversi micropro-
cessori: ad esempio l’Intel 8088, da 16 bit interni ed 8+8 esterni, ma anche in
dispositivi usati nei PC di una quindicina di anni fa, come gli Intel 80386-SX,
che si distinguevano dai DX per l’avere un bus dati interno a 32 bit ed esterno
a 16 bit. Lo stesso valeva per gli 80486SLC, versioni degli 80486-SX montati nel
contenitore compatibile con l’80386-SX.
Generalmente, un microprocessore ha i seguenti ingressi o uscite:
bus dati;
bus indirizzi;
controllo lettura e scrittura (R/W);
strobe dell’eventuale bus condiviso.
Il controllo di lettura/scrittura è una linea che serve a dire alle periferiche colle-
gate ai bus se i dati sul bus dati durante l’operazione in corso sono mandati dal
microprocessore o se il microprocessore deve leggerli; nel caso delle memorie
comanda il read/write e permette di leggere o memorizzare. La stessa linea
comanda i line-driver inseriti per commutare la direzione del bus dati.
110
Struttura dei notebook
Coprocessore matematico
Per snellire il carico di lavoro della CPU, nei processori Intel a partire dall’80486
è stato introdotto il coprocessore matematico, il quale è un’unità di calcolo ope-
rante parallelamente alla CPU vera e propria e che si occupa dei calcoli matema-
tici; nella serie i486, il coprocessore matematico equipaggiava il processore
80486-DX, mentre l’SX, più economico, non disponeva di alcun coprocessore,
ma i computer basati su processore SX potevano montarlo come elemento addi-
zionale su uno zoccolo a parte (il coprocessore era l’80487).
Memoria di programma
Si tratta di una memoria permanente allo stato solido in cui risiede il program-
ma basilare che permette alla CPU di lavorare e caricare il sistema operativo (ad
esempio Windows, Linux ecc.); tale programma è il BIOS (Basic Instruction
Operating System) ed oltre ad avviare il computer svolge le funzioni di base e
consente l’avvio del sistema. Consta delle istruzioni basilari per inizializzare le
periferiche ed i bus di comunicazione, quindi per accedere alle unità di memo-
ria di massa ed avviare da esse (bootstrap) il sistema operativo. Quest’ultimo è
un software avanzato che consente il pieno utilizzo delle risorse del computer e
mette a disposizione dell’utente un ambiente operativo dove eseguire i program-
mi di utilità e gli applicativi (ad esempio Microsoft Office, Open Office, Adobe
Photoshop, AutoCAD ecc).
Si può comprendere questa gerarchia dei programmi considerando che le istru-
zioni eseguite dai microprocessori sono in realtà parole binarie la cui funzione è
semplicemente presentare una combinazione logica all’ingresso delle porte
costituenti la ALU, affinché i dati da elaborare (operandi) subiscano una deter-
minata operazione. Le uniche istruzioni direttamente comprensibili da micro-
processori e microcontrollri sono quelle in linguaggio macchina, ossia in formato
112
Struttura dei notebook
Memorie RAM
Sono le memorie di lavoro del computer, cioè quelle di cui la CPU si serve per
elaborare i dati, ovvero per far transitare quelli da elaborare e immagazzinare
113
Capitolo 7
114
Struttura dei notebook
te le RAM lo stesso bus dati e lo stesso address-bus, occorre di volta in volta ac-
cendere quella destinataria dei dati o quella in cui leggere, altrimenti si legge o
scrive simultaneamente in tutte, con le ovvie conseguenze; talvolta viene chia-
mato CS (Chip Select).
Ogni volta che si deve scrivere in una locazione di memoria (una locazione è un
intero byte, quindi otto celle) il dispositivo che usa la RAM imposta sull’address-
bus l’indirizzo della locazione voluta, poi comanda il piedino W/R per ottene-
re l’operazione da compiere, quindi attiva l’Enable; fatto ciò, se deve scrivere
invia i dati sul bus, mentre se deve leggere il contenuto della locazione, attiva il
W/R per compiere l’operazione di Read.
Attualmente si costruiscono RAM organizzate in byte, quindi ogni indirizzo
riguarda un gruppo di otto celle di memoria lette o scritte simultaneamente; le
capacità sono dell’ordine di alcuni MB. Tipicamente le sigle delle memorie si
rifanno alla capienza complessiva, che si intende in celle, ovvero in bit: ad esem-
pio la 62256 è una RAM da 256 kbit, ma, essendo strutturata in byte (8 bit) è
una 16 K x 8 bit, ovvero una 16 kByte.
Le RAM usate nei Personal Computer e quindi nei notebook costruiti da una
quindicina d’anni a questa parte sono le DIMM (Dual In-line Memory Module) e le
SDRAM; questi due termini definivano essenzialmente due formati fisici. A
loro volta, le DIMM si dividevano in:
FPM (Fast Page Mode); sono state le prime memorie non a chip singolo;
EDO (Extended Data Output): hanno rappresentato l’evoluzione delle classi-
che RAM e sono ormai in disuso; si tratta di memorie statiche;
Le Fast Page erano RAM dinamiche organizzate ad 8 bit, la cui velocità veniva
definita dai tempi di acceso dei singoli chip, tempi (identificabili leggendo la
cifra a destra del trattino dopo la sigla) che variavano da 60 a 120 nanosecondi;
tipicamente si trattava di chip a 8 bit collegati con il bus dati in parallelo o a 4
bit connessi in serie-parallelo, quali ad esempio i 44C256 (256 kword) o i
44C1000 (1 Mword) con otto chip dei quali si realizzavano DIMM rispettiva-
mente da 1 e 4 Mbyte. I chip venivano usati accatastati a due a due perché erano
organizzati a 4 bit, quindi due facevano un byte; ecco perché 8 da 256 kword
formano 1 Mb, mentre 8 da 1 Mword formano 4 MB.
Le Fast Page erano a 4 bit, mentre le nuove nate EDO venivano costruite con
organizzazione del bus dati a 16 bit; con le Fast Page, un banco completo per
processori a 16 bit (80286 ed 80386sx, caratterizzato, quest’ultimo, da un data-
bus interno a 32 bit ma esterno a 16) si costituiva con 2 stecche, mentre per i
processori con bus dati a 32 bit (80386DX, 80486) un banco richiedeva 4
memorie.
Con le EDO (adottate con l’avvento degli ultimi 80486, nonché dei Pentium,
AMD K-5 e K-6) un banco si formava con due sole stecche.
Tutte le RAM per Personal Computer sono composte da circuiti stampati (stec-
115
Capitolo 7
Tutti questi tipi “moderni” sono caratterizzati, oltre che dalla capacità, dalla
velocità non più di accesso (come avveniva per Fast Page ed EDO) ma del bus
del computer con cui possono funzionare. Inoltre montano nel circuito stampa-
to una EEPROM dove sono memorizzati dati necessari al computer per identi-
ficarle correttamente. Inoltre, si tratta di memorie già a 32 bit, quindi per CPU
quali Intel Pentium, Pentium II, Pentium III e Pentium IV, nonché Cyrix/IBM
6x86, AMD Athlon, Duron, Athlon XP, Sempron, Athlon 64 ecc., per formare
un banco di memoria basta una sola di esse.
Le SDRAM hanno 168 contatti (84 per ciascuna faccia dello stampato che le
realizza) e velocità di 66, 100 e 133 MHz, utilizzabili con processori aventi il bus
a 66, 100 o 133 MHz; la velocità delle RAM può anche essere sottomultipla di
quella del bus del processore, così è stato possibile usare SDRAM da 100 MHz
con CPU dal bus a 200 MHz o da 133 MHz con CPU da 266 MHz, come ad
esempio i Pentium IV dall’1,4 al 2 GHz. Delle SDRAM sono state realizzate due
versioni distinte dalla tensione di alimentazione: a 5 e a 3,3 V; per evitare di mon-
Figura 7.5 - A sinistra una RAM di tipo DDR per computer fissi: è del tipo a singola faccia,
quattro chip senza parità. A destra una DDR per portatili.
116
Struttura dei notebook
Bus di interfaccia
La CPU del computer non gestisce direttamente le periferiche, ma si interfaccia
con esse mediante un bus, ossia un insieme di collegamenti che servono a invia-
re dati ed a riceverli a e da svariate periferiche come la scheda audio, quella video
ecc. Scopo del bus è, dunque, unificare le linee di comunicazione della CPU e di
118
Struttura dei notebook
tutte le unità che con essa devono dialogare, unità che sono i dischi rigidi, la
scheda video e quella audio, le porte di comunicazione e il dispositivo di punta-
mento e, nei portatili, le card PCMCIA o CardBus.
Il primo bus usato nei Personal Computer è stato l’ISA (ad 8 o 16 bit) quindi ad
esso è seguito il VESA Local Bus, implementato però solo per accelerare il flus-
so dati riguardante la scheda video e, successivamente, i dischi rigidi; infatti, già
con l’avvento dei processori i486 si avvertì il limite dell’ISA, che formava un
“collo di bottiglia” che strozzava il flusso dati da e verso la CPU, certamente più
veloce di quanto il bus permettesse.
Ma il VESA non era che una semplice estensione dell’ISA e si aggiungeva ad
esso; venne perciò introdotto il PCI, peraltro usato anche nei notebook fino al
Pentium 233 MMX o all’AMD K6-2.
Il PCI è un bus completamente diverso, a 32 bit e quindi capace di far transita-
re una maggiore mole di dati nell’unità di tempo, grazie alla sua velocità che
poteva raggiungere i 66 MHz (contro i 33 del VESA).
Ma tra gli intenti dei produttori e in special modo di Microsoft, dominatrice del
settore dei sistemi operativi, c’era quello di trasformare il PC da sostituto della
macchina da scrivere a vero e proprio computer multimediale; infatti da un lato
erano sempre più quelli che acquistavano un PC per giocarci e dall’altro c’era la
ricerca da parte dei professionisti del settore grafico di trovare un’alternativa i
costosi Mac, comunque migliori dei PC soprattutto nel sistema operativo.
Serviva quindi accelerare i flussi dati di audio e video, ma soprattutto questi ulti-
mi; per questo intorno al 1997 è stato introdotto l’AGP, un bus riservato alla
scheda video, che ha preso piede anche nei notebook già da oltre una decina
d’anni. L’AGP è stato realizzato in varie versioni: inizialmente a singola velocità
e poi più accelerato, con coefficiente di accelerazione di 2x, 4x, 8x, 16x.
Nelle mainboard dei computer fissi c’era un unico slot AGP, che utilizzava l’in-
terrupt riservato alla scheda video sul primo slot PCI, ragion per cui non era
normalmente possibile collegare due schede video a meno di non spostare la
PCI in uno slot diverso dal primo. La particolarità innovativa dell’AGP rispetto
al PCI è che si affaccia direttamente sul bus dati del processore e non passa da
altri chip.
L’ultimo bus in ordine di tempo è il PCI Express, che sostanzialmente è una rie-
dizione dell’AGP, solo un po’ velocizzata; anche il PCI Express esiste in diver-
se velocità, fino al 16x.
Chipset
Sotto questo termine passano dei circuiti integrati multifunzione che sostanzial-
mente governano l’attività del computer, costituiscono e raggruppano la quasi
totalità della logica e che si sono evoluti nel tempo in quanto ogni set veniva
progettato per una specifica CPU. Fino a qualche anno fa era prassi comune
dotare le mainboard dei computer sia fissi che portatili di un set di almeno due
chip, detti Northbridge e Southbridge; il primo (conosciuto anche come Memory
119
Capitolo 7
Controller Hub o MCH) si interfaccia direttamente con il bus della CPU e il bus
AGP o PCI Express, ovvero con gli slot di espansione e le periferiche audio e
di memoria di massa, oltre che la memoria. Il Southbridge si occupa invece delle
periferiche di comunicazione e di altre interfacce per le quali è richiesta una
minor velocità del flusso di interscambio dei dati: ad esempio bus ISA e PCI. La
funzione di Northbridge e Southbridge si comprende immaginando il compu-
ter strutturato come mostra la Figura 7.7: in pratica il Nortbridge dialoga diret-
tamente con il processore, mentre il Southbridge si interfaccia con le periferiche.
Nelle architetture con Northbridge e Southbridge distinti, il Northbridge con-
nette la CPU alla RAM, al bus PCI, alla cache di 2° livello e al bus video (AGP,
PCI Express ecc). Comunica con la CPU tramite il Front Side Bus (FSB) e con il
Southbridge. Alcuni Northbridge contengono anche un controller video inte-
grato, che è conosciuto anche come Graphic and Memory Controller HUB
(GMCH): esempi sono i chipset Intel 945, 965, 845, ma anche diversi Nvidia.
I chipset non sono generici, ma specifici per ogni famiglia di processori e di
RAM; ad esempio, il Northbridge NVIDIA nForce2 può lavorare solo con CPU
Duron, Athlon e Athlon XP combinate con RAM di tipo DDR. Invece i chipset
Intel i865 lavorano solo in mainboard basati su processori Pentium 4, che hanno
una velocità di clock superiore a 1,3 GHz, e che utilizzano RAM di tipo DDR.
Dunque, da Northbridge usato si capisce tipo, numero e velocità delle CPU, ma
anche quantità e velocità della RAM che si possono montare su una mainboard.
Nella famiglia di processori AMD a 64 bit (Athlon 64) il memory controller che
mette in comunicazione la CPU e le RAM è integrato nel processore; sempre
per le CPU AMD a 64 bit, si usa un singolo chipset NVIDIA (nForce3) che
integra il Southbridge con una porta AGP connessa direttamente alla CPU.
L’evoluzione di tale chipset unico è l’nForce4, chiamato anche MCP (Media
Communications Processor). Il Northbridge gioca un ruolo importante nello
stabilire il clock della CPU, dato che la sua frequenza di lavoro è quella del bus
(FSB) del processore; ciò significa che non è possibile impostare per la CPU un
clock di base diverso da quello del bus che unisce il Northbridge ad essa.
Dato che oggi le frequenze operative dei bus sono molto elevate, anche il chi-
pset Northbridge scalda molto, quindi è normale vedere all’interno di un PC un
Tabella 7.1
Caratteristiche dei bus
impiegati nei Personal
Computer dalla loro
nascita.
120
Struttura dei notebook
radiatore di calore montato su di esso; per la famiglia Intel, ciò accade già dalla
serie i815. Nei notebook si monta il dissipatore o, per i chipset più veloci (dal-
l’i865 in poi) al dissipatore si associa la ventola di raffreddamento; solitamente,
per evitare di montare troppe ventole si uniscono CPU e Northbridge con un
solo dissipatore, che viene poi raffreddato mediante una ventola.
I chipset Northbridge più usati negli ultimi anni sono, per i processori Intel e il
bus AGP, l’i815, l’i845 e l’i865; i primi due supportano bus del processore (FSB,
ovvero Front Side Bus) con velocità fino a 400 MHz ed il terzo si spinge fino
ad 800 MHz. Northbridge per AGP sono, invece, sempre per CPU Intel, i915,
i945 e i965, capaci di supportare FSB anche maggiori di 1 GHz.
L’i845 è stato il primo a supportare le RAM di tipo DDR e aveva un FSB di 266
MHz e un AGP fino a 4x; ad esso hanno fatto seguito l’i850 e l’i865 (conosciu-
to anche con il nome Springdale) che è stato realizzato per i Pentium 4
Northwood e i successivi Prescott su socket 478 che si spingevano fino a 3 GHz
di clock. Parallelamente all’i865, Intel presentò anche l’i875 (Canterwood) che
offriva prestazioni leggermente superiori grazie alla minore latenza di accesso
alla memoria RAM e ai bus di sistema. L’i865 supportava il Dual Channel (fino
a 4 GB) con DDR-333 o DDR-400 e il bus Quad Pumped per FSB a 533 e 800
MHz; inoltre l’AGP si spingeva ad 8x. Grazie all’introduzione del Southbridge
ICH5, consentiva la gestione di 8 porte USB 2.0 e dell’interfaccia per hard-disk
S-ATA (150 Mbps). La comunicazione tra Northbridge e Southbridge avveniva
su bus a 266 MB/s. L’i865 ha avuto due varianti, che sono state il chipset i848,
destinato a mainboard economiche, privo del supporto Dual Channel, e l’i875
(versione migliorata).
Quanto al chipset Southbridge, è un chip che implementa le capacità più “lente”
di una scheda madre; è legato alla CPU tramite il Northbridge e le sue funzio-
nalità includono la gestione di:
Bus PCI;
121
Capitolo 7
Bus ISA (ancora integrato nei moderni Southbridge anche se nei PC non è
più utilizzato);
Bus SPI o I²C (anche detti SM); viene usato per comunicare con altre perife-
riche della scheda madre quali ad esempio il gestore della temperatura e delle
ventole di raffreddamento;
Controller DMA (permette alle periferiche sotto al Southbridge di accedere
direttamente alla memoria principale senza ricorrere alla CPU);
Gestore di interrupt; permette alle periferiche collegate di fermare l’esecuzio-
ne dei programmi della CPU;
Controller IDE, S-ATA o P-ATA; consentono una connessione diretta delle
periferiche di archiviazione al sistema;
LPC Bridge; fornisce il data e il control path per il Super I/O (SIO);
Real Time Clock; è l’orologio di sistema e mantiene l’ora grazie ad una bat-
teria tampone, ovvero la scrive in una EEPROM e lì costantemente aggiornata;
Gestione dell’alimentazione elettrica (APM e ACPI); crea i segnali per mette-
re il computer in stand-by (nei notebook spegne la retroilluminazione dello
schermo) o spegnersi per risparmiare energia, sia dietro richiesta software, sia
quando l’utente interviene sugli appositi tasti;
CMOS - Aiutato dalla batteria tampone, crea un’area limitata di memoria non
volatile per le configurazioni di sistema (BIOS).
122
Struttura dei notebook
sta ragione, una saldatura fredda o un guasto del chipset integrato o del
Southbridge (nei PC con Northbridge distinto dal Southbridge) può impedire
l’accensione del portatile.
Le funzioni di governo dell’alimentazione includono il controllo dell’alimenta-
tore principale e degli alimentatori delle singole sezioni, allo scopo di spegnere
quelli non necessari quando il computer dev’essere messo in standby o in iber-
nazione (in questo caso funzionano solo le alimentazioni delle DDR e del pro-
cessore, oltre all’alimentatore caricabatteria); nei notebook provvedono inoltre
a controllare il segnale di enable o di clock dell’inverter o altro circuito che
comanda la retroilluminazione e a far disattivare nella scheda video i segnali di
sincronismo, in modo da far spegnere il monitor.
Il chipset comunica con l’alimentatore principale/caricabatteria mediante bus di
tipo seriale, come SPI, I²C ed SMBus; tutti e tre permettono il collegamento con
vari tipi di periferica e constano di almeno una linea su cui transitano i dati ed
un clock. In questi bus il chipset è l’unità Master della comunicazione (che avvia
le sessioni di scambio dati) e l’alimentatore o altro dispositivo è lo Slave. Il bus
SPI esiste in versione a due e quattro fili: nella prima si ha una linea dati bidire-
zionale ed un clock, mentre nella seconda le linee dati sono due unidirezionali,
una diretta dal Master allo Slave e l’altra diretta viceversa; l’SPI consente la
gestione di più periferiche.
Quanto all’I²C-Bus, consta di una linea dati (SCL) ed un clock (SCK) e può col-
legare fino a 256 unità Slave al Master, che nel caso del computer è il chipset;
ciascuna periferica permette di impostare (via hardware mediante pin o firmwa-
re) l’indirizzo sul bus. L’indirizzo permette al Master di inviare selettivamente
comandi alle varie Slave. L’SMBus (o SMB, cioè System Management Bus) è una
variante dell’I²C sviluppata dalla Intel specificatamente per il dialogo fra chipset
e periferiche come alimentatori DC/DC, sensori di temperatura e di apertura
del coperchio.
Periferiche di I/O
Sotto questa voce passano le interfacce di comunicazione del computer, che
sono normalmente la seriale, la parallela, la USB; a queste si aggiungono in alcu-
ni casi i lettori di memorie Flash (SD e Compact Flash) oltre al Firewire (anche
noto come IEEE1394 o i-Link). Nella gran parte dei computer portatili è anche
presente il lettore PCMCIA.
La porta seriale, che insieme alla parallela è la più antica interfaccia di comuni-
cazione adottata dai Personal Computer: consta di un dispositivo in grado di
trasformare i dati paralleli in arrivo dal bus dati, in seriali, chiamato USART
(Universal Serial Asynchronous Receiver/Transmitter) o anche UART
(Universal Asynchronous Receiver/Transmitter) interfacciato con un traslatore
dei livelli di tensione conforme allo standard RS232-C; il traslatore converte i
dati in formato TTL (0/5 V) in livelli –12/+12 V. Tale aumento di tensione per-
mette di collegare periferiche come stampanti a distanze anche superiori ai 20
123
Capitolo 7
124
Struttura dei notebook
Controller dischi
Si tratta di un gestore in grado di interfacciare il chipset con le unità a disco rigi-
do, ottiche o con i lettori di floppy-disk; nei computer portatili costruiti fino a
circa cinque anni fa era di tipo IDE e aveva come collegamento al disco un con-
nettore a 40 contatti disposti su due file a passo 2,54 mm per i PC fissi e 2 mm
per quelli portatili. Nato dall’EDI (Enhanced Disk Interface) sviluppato oltre
vent’anni fa, l’IDE è stato il controller per dischi rigidi e ottici più longevo e di
esso sono state sviluppate numerose varianti, note come Ultra-ATA (o Ultra-
DMA) 33, 66, 100, 133 (capaci di transfer-rate rispettivamente di 33, 66, 100 e
133 MHz) mirate ad accelerare la velocità di acceso ai dati in lettura e scrittura.
Con l’avvento del Serial Ata (S-ATA) è divenuto uso comune chiamare P-ATA
i dischi IDE, intendendo con ciò che si tratta di dischi ad interfaccia parallela.
I controller IDE hanno un numero massimo di bit di indirizzo pari a 10, il che
permette di indirizzare 1.024 blocchi di memoria; quando la capacità dei dischi
125
Capitolo 7
Adattatore video
Anche noto come scheda video o scheda grafica, è un elemento del computer
che negli anni ha subìto una forte evoluzione; nato con i primi PC di 25 anni fa,
succedette all’interfaccia video di solo testo ed alla Hercules, che in un certo
senso è stata la prima scheda grafica, seppure con i suoi grossi limiti. La prima
scheda video che potesse definirsi tale era sostanzialmente una periferica inter-
na al computer, in grado di trasformare i dati della CPU in informazioni di colo-
re o di sfumature di grigio da inviare sincronizzate con due segnali di sincroni-
smo (verticale e orizzontale) in modo da costruire le immagini e i testi sullo
schermo compiendo un percorso ordinato per righe, dal primo punto in alto a
sinistra dello schermo a quello in basso a destra. Questo tipo di secheda video,
che nella versione a colori veniva chiamata CGA, era digitale e si limitava ad
inviare al monitor informazioni binarie sulla composizione del colore o sulla
scala di grigio di ogni singolo punto (pixel) dello schermo; ogni punto veniva
composto con un massimo di 4 bit, il che consentiva 16 colori o gradazioni di
grigio. La risoluzione, intesa come il numero di punti componenti ogni immagi-
ne, era bassissima: si parlava di 320x200 pixel o meno.
La connessione di questo tipo di scheda era costituita da un connettore a
vaschetta D-SUB femmina a 9 contatti, quattro dei quali erano i dati, due i sin-
cronismi ed uno la massa di riferimento.
126
Struttura dei notebook
127
Capitolo 7
memoria video sono molto più veloci (ossia hanno minori tempi d’accesso) di
quelli usati nelle stecche di RAM.
I notebook di migliore qualità montano schede video separate innestate in appo-
siti connettori, dotate di chip di memoria video riservati; a volte la scheda video
è sulla stessa mainboard, però dispone di propria memoria video, mentre nei
notebook economici la memoria video è una shared ed è parte della RAM.
DVI
Le varie EGA, VGA ecc. hanno bisogno di un D/A Converter perché i moni-
tor a tubo catodico, usati fino a pochissimi anni fa dovevano essere pilotati con
segnali analogici; con l’avvento dei monitor a cristalli liquidi, che si comandano
mediante dati digitali contenenti posizione dei pixel sullo schermo, luminosità e
tinta cromatica di ciascuno, il converter non serve più. Pertanto, dopo i primi
anni di transizione dal monitor CRT (analogico) a quello LCD (digitale) in cui
le schede video convertivano i dati digitali in segnali analogici, si è passati a sche-
de video che in un certo senso funzionano come le prime CGA: mandano al
monitor dati numerici, che questo interpreta per posizionare correttamente sullo
schermo i punti componenti le immagini da mostrare.
Ciò con gli LCD è la miglior soluzione, in quanto altrimenti si passa da una
prima conversione digitale/analogico nella scheda video ed una seconda analo-
gico/digitale nel monitor, il che complica scheda video ed elettronica del moni-
tor, senza contare che degrada la qualità dell’immagine; infatti, la prima conver-
sione (nell’adattatore video) soffre di una certa approssimazione e la seconda
(nel monitor) pure.
Pilotare l’LCD con un segnale digitale permette, oltre al miglioramento della
qualità dell’immagine, un abbassamento dei costi dei computer e dei monitor,
una riduzione dei consumi elettrici (dovuta alla minor quantità di elettronica
richiesta) e la possibilità di trasportare il segnale video con cavi di qualità mino-
re di quelli richiesti dai monitor analogici, più sensibili ai disturbi e allo sdoppia-
mento delle immagini causato da un cattivo adattamento di impedenza tra cavo,
scheda video e ingresso del monitor.
Nei notebook, la soluzione interamente digitale è stata benvenuta in quanto ha
permesso la riduzione anche delle dimensioni, grazie al fatto che sono richiesti
meno chip.
Dato che i portatili hanno praticamente sempre avuto display a cristalli liquidi,
certamente a qualcuno viene da chiedersi perché fino a pochi anni fa in essi
veniva impiegata una tradizionale scheda video analogica; ebbene, ciò venne
128
Struttura dei notebook
fatto per poter disporre di un’uscita VGA per un monitor esterno convenzio-
nale, con cui doveva essere mantenuta la compatibilità. Infatti gli adattatori
video dei notebook dispongono di uno switch pluricanale allo stato solido
(CMOS) integrato o posto a parte sulla scheda madre, che permette di portare
i segnali video analogici al connettore VGA, mentre i dati digitali raggiungono
direttamente il controller montato sull’LCD. Lo switch viene comandato da una
combinazione di tasti (Fn più qualcos’altro...) che interviene sul chipset.
L’adattatore video senza convertitore D/A, ovvero con uscita digitale, viene
chiamato DVI (Digital Video Interface) ed ha un connettore come quello mostra-
to nell’apposita Figura 7.10.
Esistono due tipi di connessione DVI: quella più completa, detta DVI AD, tra-
sporta sia il segnale digitale, sia quello analogico e implica che la scheda video
sia insieme una VGA ed una DVI; c’è poi la connessione DVI-D, che è la DVI
pura. Nel connettore DVI, i quattro contatti dal lato della lamella sono quelli
che trasportano il segnale digitale, mentre quelli dal lato opposto portano i
segnali analogici, nel caso delle DVI AD. Va notato che esistono anche schede
video VGA dotate del solo connettore DVI: in questo caso la connessione è
usata solo sul lato analogico.
Scheda audio
La periferica audio serve al computer per riprodurre suoni, che possono essere
toni o composizioni di note per dare avvisi di sistema, ovvero melodie prodot-
te da particolari applicazioni o brani musicali riprodotti da codec quali l’MP3,
che permette di memorizzare la musica sotto forma di dati digitali, con una
compressione tanto elevata da stivare un minuto di musica all’incirca in un MB
di spazio su disco. Altro è il discorso per il CD-ROM, che può riprodurre da sè
l’audio e renderlo disponibile da un’apposita uscita, dalla quale un cavetto lo
porta direttamente all’amplificatore BF della periferica audio, già in formato
analogico.
Una scheda audio, sia essa di un computer fisso o integrata in un notebook,
consta di un decoder (ossia un convertitore digitale/analogico, come nella sche-
129
Capitolo 7
Scheda di rete
Anche detta adattatore di rete o network adapter, è una periferica di comunicazione
che consente di far dialogare il PC con periferiche esterne o altri computer
affacciati su una rete locale. Siccome non è scopo di questo volume fare una
trattazione sulle reti locali fra computer, ci si limiterà a dire che la scheda di rete
è un’interfaccia seriale che si distingue dalla RS232-C per la gestione dei dati, i
quali vengono organizzati in pacchetti smistati secondo regole ben precise, sta-
bilite da convenzioni come la ethernet (quella usata dai PC, notebook compre-
si) o la Token Ring (nata dall’IBM e usata per anni nei grandi server per la sua
maggiore precisione). Attualmente, malgrado i suoi limiti (i pacchetti di dati
viaggiano tutti insieme sulla linea e sovente vanno ritrasmessi a causa di “colli-
sioni” che ne fanno perdere l’intelleggibilità) la Ethernet è l’interfaccia di rete
130
Struttura dei notebook
più utilizzata; nata per velocità di comunicazione fino ad 1 Mbps, oggi si spin-
ge a 10 gigabit per secondo.
L’adattatore ethernet è formato da un Controller ethernet ed un’interfaccia
adattatrice di impedenza, composta da uno o più trasformatori; il tipico control-
ler è una periferica che converte i dati passatigli dal bus (ISA, PCI, AGP o PCI
Express) attraverso la supervisione del chipset Northbridge, in formato seriale
e gestisce le temporizzazioni della comunicazione.
Interfacce wireless
Rientrano nella categoria delle periferiche di comunicazione e servono a con-
sentire la comunicazione dei dati in forma seriale, senza alcun filo di collega-
mento, come invece è richiesto per le periferiche appena descritte (eccetto
l’ethernet in fibra ottica, che fa viaggiare i dati modulando un fascio di luce
laser); sono la IR, il Wi-Fi ed il Bluetooth. Per quanto riguarda questi ultimi due
protocolli di comunicazione, va detto che si basano sulla modulazione FM di
una portante a radiofrequenza in banda ISM (intorno ai 2,4 GHz) ed operano
a potenze di trasmissione comprese tra pochi mW e qualche decina di mW.
Il Bluetooth è sostanzialmente un link wireless via radio, che prevede per ogni
dispositivo un ricetrasmettitore (RTX) operante a 2,4 GHz; per l’esattezza, in
Europa, negli Stati Uniti d’America e in buona parte del mondo le frequenze di
lavoro sono comprese tra 2400 e 2483,5 MHz (i corrispondenti canali sono col-
locati tra 2402+0 e 2402+78 MHz). Ciò permette di portare con sé e utilizzare
in viaggio i propri apparati mobili Bluetooth. Ogni canale radio è largo 1 MHz
e, per evitare l’affollamento dei canali, la potenza dei trasmettitori è ridotta a una
decina di milliwatt; così la portata dei sistemi è ridotta a un massimo di 100
metri in assenza di ostacoli. La comunicazione avviene secondo il protocollo
TCP/IP e ciascuna stringa di dati è composta da pacchetti più corti di quelli
adottati dagli apparati standard operanti in banda ISM, per garantire maggiore
insensibilità ai disturbi, quindi sicurezza della trasmissione, che viene elevata
grazie all’adozione della tecnica Frequency Hopping (salto di frequenza).
Quest’ultima consente alle interfacce radio Bluetooth di spostarsi su più canali
una volta instaurata una comunicazione, e ciò per agganciare la frequenza meno
disturbata. Un’altra particolarità del protocollo Bluetooth è l’adozione della tec-
nica Fast Acknowledgment, cioè del riconoscimento rapido dei terminali: in
sostanza, ogni dispositivo identifica la vicinanza degli altri, cosicché quando si
vuole instaurare una comunicazione quello interessato identifica se la chiamata
è diretta o meno a esso.
Dal punto di vista hardware, ogni interfaccia Bluetooth integra un ricetrasmet-
titore radio di piccola potenza e un processore in banda base, ossia un’unità di
controllo che supporta la ricetrasmissione di segnali vocali e di dati digitali, sia
in modalità point-to-point (due dispositivi che dialogano esclusivamente tra
loro) sia in multipoint (un dispositivo che dialoga con più di uno). Verso l’inter-
no dell’apparato che equipaggia, ogni interfaccia Bluetooth comunica mediante
131
Capitolo 7
un canale in banda base, cioè una sorta di bus molto veloce che permette il tra-
sporto di dati alla velocità delle moderne reti locali, e quindi anche di audiovisi-
vi campionati in real-time.
L’interfaccia Wi-Fi è sostanzialmente la stessa cosa, ma cambiano sia la potenza
impiegata in trasmissione, sia il protocollo di comunicazione, che sostanzial-
mente è quello della ethernet.
Le interfacce wireless dei portatili sono tipicamente montate su schede a parte
e collegate alla mainboard mediante un connettore e due cavetti coassiali scher-
mati per l’antenna, indispensabile in trasmissione ad irradiare il segnale radio e
in ricezione a ricevere quello trasmesso dall’Access Point o da un altro compu-
ter dotato di analoga interfaccia.
Quanto all’interfaccia ad infrarossi (altrimenti detta porta a infrarossi o sempli-
cemente IRDA) è invece una periferica di comunicazione sempre seriale, ma
basata sulla modulazione di un raggio infrarosso trasmesso nei dintorni dell’e-
mettitore (tipicamente un LED all’infrarosso) collocato a lato del PC o davanti
o dietro; un fotodiodo rileva gli infrarossi trasmessi dalle periferiche o da altri
PC dotati di analoga connessione. Per evitare l’interferenza della luce diurna,
emettitore e fotodiodo sono posti dietro una finestrella coperta da una lastra di
colore rosso/violetto.
È un’interfaccia praticamente scomparsa dai notebook e pensata inizialmente
per collegare al computer i telefoni cellulari o le stampanti, il tutto senza fili di
collegamento. La copertura, intesa come distanza alla quale la periferica ad infra-
132
Struttura dei notebook
rossi riesce ancora a comunicare con il PC, è dell’ordine di 5÷6 metri. La porta
a infrarossi è sostanzialmente un adattatore dotato di LED all’infrarosso per tra-
smettere ed un fotodiodo per ricevere, il tutto interfacciato con una COM del
computer; la connessione può essere simplex (si trasmette o si riceve alternati-
vamente) ovvcero duplex, nel qual caso si usano due portanti diverse.
Modem
In molti notebook costruiti fra il 2000 ed il 2008 e comunque prima della mas-
siccia diffusione dell’ADSL e delle connessioni wireless, veniva montata un’u-
nità modem posta su una basetta a parte e innestata mediante un connettore
dedicato; il distacco dalla mainboard era reso necessario dalla pericolosità per il
notebook di scariche elettriche propagate lungo le linee del telefono durante i
temporali.
Il modem (acronimo di MODulatore DEModulatore) è una periferica di comu-
nicazione, interna o esterna, ancora di tipo seriale, la quale si basa in trasmissio-
ne sulla modulazione di una portante sinusoidale a bassa frequenza ed in rice-
zione sulla demodulazione di questa portante modulata; questa metodica con-
sente di far viaggiare i dati sui fili del telefono come fa la voce durante una con-
versazione. La modulazione, che nei primi modem era d’ampiezza, per aumen-
tare la velocità di comunicazione dei dati dai 300 bps consentiti dalla linea ai 56
kbps degli ultimi modem, è diventata un insieme di modulazione d’ampiezza, di
frequenza e di fase.
I modem si possono distinguere in due principali categorie: per linea commuta-
ta (PSTN) o per linea dati pura (ISDN o ADSL); nel primo caso è integrata una
circuitazione che serve a comporre i numeri del telefono, dato che il modem è
destinato ad essere usato sulle comuni linee telefoniche. Nel secondo manca
questa parte, perché la linea usata è praticamente sempre aperta e collegata a
nodi di smistamento dei dati che lavorano come una rete locale fra computer.
Alimentatori
Se in un PC fisso l’alimentatore è unico e deve ricavare le tensioni di 3,3 V, ±5
V, ±12 V e 5 V per la circuiteria di standby, nel notebook le cose sono un po’
più complesse, in quanto la sua mainboard deve fare insieme parte di quel che
fa l’alimentatore del computer fisso e tutto ciò che fa la mainboard di un fisso.
Un moderno portatile ha un alimentatore AC/DC che ricava dalla tensione di
rete una componente continua di valore compreso fra 16 e 20 volt con cui ali-
menta il computer; la tensione d’ingresso dell’alimentatore dipende da quella
della rete del Paese dove si usa il PC e può essere compresa tra 100 e 240 Vca.
Negli ultimi anni, sostanzialmente per abbattere i costi sostenuti dai costruttori
e quelli per gli accessori sostenuti dai clienti, i notebook sono dotati di alimen-
tatori che si adattano a tutti i valori di tensione compresi fra 100 e 240 Vca; ciò
è indubbiamente un vantaggio per chi viaggia, che per usare il proprio PC può
limitarsi a sostituire il cavo di rete o a dotare la spina di quest’ultimo di un adat-
133
Capitolo 7
tatore conforme alle prese della nazione dove va. In realtà gli alimentatori mul-
titensione sono stati creati dai produttori per poter costruire un solo tipo di ali-
mentatore per tutto il mondo, così da risparmiare sulle linee di produzione.
L’alimentatore AC/DC siffatto dispone di un circuito all’ingresso in grado di
riconoscere il valore di tensione della rete; quando si inserisce la spina nella
presa, esso analizza la tensione e fa accendere l’alimentatore solo quando lo ha
configurato per funzionare con la tensione ottimale, così da evitare danni o mal-
funzionamenti.
All’interno del portatile sono presenti numerosi alimentatori DC/DC di tipo
switching (Capitolo 6) ognuno dei quali si occupa di alimentare un singolo bloc-
co della motherboard; in un primo tempo l’alimentatore era uno principale in
grado di ricavare 3,3 volt, 5 volt e ±12 V per le seriali, ma poi con l’aumentare
della complessità e del consumo dei notebook, è stato giocoforza scomporre l’a-
limentazione in blocchi opportunamente decentrati. Il decentramento permette
infatti di avere alimentatori fatti da componenti molto piccoli e quindi di ridur-
re l’ingombro del notebook in termini di spessore, in quanto ogni stadio deve
erogare una potenza limitata, certamente minore di quella che dovrebbe eroga-
re un singolo alimentatore che dovesse servire l’intero PC. Inoltre decentrando
gli alimentatori è possibile ridurre le perdite nelle piste del circuito stampato
della mainboard, in quanto, ad esempio, generare vicino alla CPU le alte corren-
ti da essa richiesta è meglio che trasportarle lungo tutto lo stampato; infatti se
un DC/DC deve ricavare 3,3 V, la corrente che deve transitare dalla presa di ali-
mentazione a 19 V della mainboard ad esso è circa 1/6 di quella che dovrebbe
passare lungo le piste se i 3,3 V venissero generati vicino alla presa stessa.
Un moderno notebook conta almeno due DC/DC per l’alimentazione della
CPU, uno per le RAM, uno per la scheda video, uno per il chipset, uno per le
unità disco ed uno per le periferiche di comunicazione come l’USB.
La CPU richiede tipicamente due alimentazioni, perché ormai dal tempo della
prima serie di processori Pentium, allo scopo di ridurre la dissipazione di poten-
za (pari al prodotto della tensione di alimentazione del chip per la corrente
assorbita) l’unità di calcolo vera e propria funziona a tensioni bassissime, anche
di appena 1,5 V, mentre i registri di I/O vengono alimentati a 5 o 3,3 volt per
poter essere compatibili con i livelli logici delle periferiche interne al PC, non-
ché delle RAM, dei chipset ecc. La tensione che alimenta l’unità di elaborazione
134
Capitolo 7.qxp 29/06/2012 9.09 Pagina 135
L’alimentatore/caricabatteria
Subito dopo l’ingresso dell’alimentazione (connettore plug) il portatile ha un ali-
mentatore principale, che è quello che rimane sempre attivo e consente la cari-
ca della batteria, quando presente; si tratta dell’alimentatore principale del note-
book, il quale provvede sovente a fornire una tensione stabilizzata e più bassa
di quella della batteria a tutto il resto del computer, ovvero agli stadi converter
DC/DC che ricavano le tensioni per la CPU, le RAM, la scheda video ecc.
Questo alimentatore si identifica facilmente innanzitutto perché è l’unico sem-
pre sotto tensione e poi perché ha dei collegamenti che portano alla batteria;
inoltre, il suo chip di controllo (un regolatore PWM molto complesso) si trova
nella zona vicina al connettore della batteria, salvo eccezioni.
Nei moderni notebook il controller dell’alimentatore principale coopera con il
chipset, nel senso che è un complesso regolatore capace di funzionare sia da
solo, sia interfacciato mediante connessioni seriali a bus (I²C-Bus, SPI, SMBus)
con il chipset; è questa la ragione per cui un guasto nel chipset può far restare
spento un portatile anche se non si riesce a trovare alcun guasto sui componen-
ti dell’alimentazione.
Solitamente fra la presa di alimentazione e il primo stadio alimentatore viene
interposto un interruttore allo stato solido il quale altro non è se non un
MOSFET enhancement-mode posto in serie alla linea positiva ed il cui gate è
pilotato dalla logica, ovvero dal chipset o semplicemente da un piedino del rego-
latore dell’alimentatore principale.
La tastiera
È l’elemento con cui l’utente introduce i dati o risponde alle domande cui il PC
chiede di rispondere per procedere con i calcoli in corso; è stata ed è tuttora un
elemento indispensabile al rapporto fra macchina e utente, perché serve a scri-
vere testi, a introdurre dati numerici e codici quando richiesto; senza contare
che praticamente tutti i programmi per Microsoft Windows e MacOS preve-
135
Capitolo 7
dono scorciatoie da tastiera, ossia quelle combinazioni di tasti che danno imme-
diato accesso a comandi altrimenti impartibili passando dall’apertura di uno o
più menu.
Lo sviluppo dei Personal Computer ha richiesto alla tastiera di crescere per
impartire direttamente i comandi di alcuni tra i più sfruttati menu; ecco che,
dalle prime tastiere per XT si è passati a quelle a 102 tasti (con tastierino numeri-
co (per AT) per arrivare alle alle moderne, che hanno funzioni richiamabili diret-
tamente da tasti quali Windows, Menu, Alt Grafico. Il primo serve ad aprire il
menu di Avvio (Start) e l’altro il menu contestuale inerente alla posizione del
puntatore del mouse. Quanto all’Alt Grafico, attiva alcuni caratteri quali la @
per gli indirizzi di posta elettronica Internet e il simbolo dell’euro.
Nei portatili come nei PC fissi, vi sono tasti per l’apertura diretta del browser
Internet o l’attivazione della funzione vocale nei voice-modem, ma anche per la
messa in standby (sleep) del computer e la conseguente ripresa delle normali
attività (Wake Up).
La tastiera viene gestita da un Keyboard Encoder, ossia un codificatore che
legge la pressione dei singoli tasti, organizzati a matrice, e per ciascuno genera
un byte; perciò i codici dei tasti e dei caratteri componibili da tastiera sono 256.
L’uscita dell’encoder viene letta dal Chipset Southbridge, quindi se più tasti non
funzionano bisogna vedere innanzitutto se si tratta di un problema di tutta una
riga e poi andare a verificare le condizioni del Southbridge (l’encoder non si gua-
sta quasi mai).
I tasti della tastiera del computer sono pulsanti che possono essere di tipo
magnetico o elettromeccanico. Sono del primo tipo i tasti ad effetto di Hall, che
si usavano nelle tastiere dei computer fissi di qualche anno fa ed erano molto
pregiate (e purtroppo costose...) perché meno soggette a guasto di quelle tradi-
zionali a contatto elettromeccanico: infatti la pressione del tasto in questi dispo-
sitivi viene rilevata mediante il passaggio dello stelo del pulsante davanti ad un
sensore magnetico; non essendoci parti in contatto, la chiusura dei tasti non
dipende dall’usura.
Le tastiere elettriche invece si basano su un contatto che viene fatto toccare uno
sottostante quando si preme il pulsante corrispondente; per questa ragione, per
quanto semplici ed economiche sono soggette sia al consumo degli elettrodi, sia
all’ossidazione degli stessi, che può portare ad elevare la resistenza dei contatti
al punto che il Keyboard Encoder non riconosce più la chiusura del tasto. Le
tastiere del genere sono sostanzialmente composte da tanti interruttori a pul-
sante quanti sono i tasti che le compongono.
Una variante della tastiera a contatto elettrico è quella a membrana, dove non ci
sono interruttori a pulsante ma una membrana di gomma contenente tanti elet-
trodi in carbone, che quando si premono i tasti corrispondenti vanno a toccare
i sottostanti elettrodi; questi ultimi sono usualmente realizzati con le piste del
circuito stampato su cui è costruita la tastiera, quindi si tratta di piste in rame
stagnate o dorate. Le stesse piazzole sono collegate dalle piste che realizzano le
136
Struttura dei notebook
righe e colonne poi connesse al Keyboard Encoder. Le tastiere usate nei note-
book sono usualmente del tipo a membrana.
Dispositivo di puntamento
Dalla sua nascita, il dispositivo di puntamento dei computer è stato battezzato
mouse, probabilmente per quella sua forma affusolata terminante con un sot-
tile cavo elettrico, che ricorda appunto un “topo”; da allora nessuno usa più il
nome tecnico, che è quasi scomparso dai programmi.
Il nome “dispositivo di puntamento” deriva dal fatto che il mouse è nato per
operare nelle interfacce grafiche d’utente, esempi delle quali sono l’ambiente
operativo di Microsoft Windows, MacOS, Workbench degli ormai estinti com-
puter Amiga. Quando ancora si scrivevano i comandi da tastiera e si lottava con
l’ostica sintassi dei DOS o Unix, qualcuno pensò come sarebbe stato più facile
ordinare al computer di eseguire questa o quell’operazione semplicemente indi-
cando un’icona che la contrassegnasse e premendo un tasto; questa invenzione
divenne l’interfaccia grafica, il modo di dialogare con gli elaboratori che ha reso
possibile lo sviluppo di programmi un tempo improponibili. Il mouse del por-
tatile può essere un trackball, ma ormai è quasi solo touch-pad. In entrambi i
casi il dispositivo di puntamento viene letto dal Chipset Southbridge.
Il trackball (letteralmente palla di puntamento) è sostanzialmente un mouse alla
rovescia, o, meglio, rovesciato a pancia in su: nel suo basamento è inserita una
sfera in materiale plastico rigido sotto la quale si trovano due rulli, rivestiti di
gomma e perpendicolari tra loro, che azionano ciascuno un potenziometro dal
quale viene rilevato il segnale per lo spostamento orizzontale o verticale del
puntatore. La palla è vincolata superiormente mediante un anello a vite che ne
impedisce la fuoriuscita se il trackball dovesse cadere.
Facendola scorrere con la mano, i rulli girano per l’attrito e azionano i poten-
ziometri determinando un analogo movimento del puntatore sul desktop del
sistema operativo. Come il comune mouse, anche questo dispositivo dispone di
un paio di pulsanti, usati uno per impartire i comandi e l’altro per accedere ai
menu di scelta rapida.
Perché sia sempre efficiente, il dispositivo di puntamento va tenuto pulito nella
sezione di rilevamento del movimento; quindi periodicamente bisogna ruotare
con due dita l’anello di ritegno della pallina, nel verso indicato dalle eventuali
frecce, poi estrarre la pallina e riporla in un posto dove non può rotolare, quin-
di con un piccolo cacciaviti o stuzzicadenti rivestito di cotone imbevuto di alcol,
pulire dallo sporco i rullini interni.
Quanto al touchpad, funziona similmente allo schermo touch-screen descritto
nel Capitolo 5: consta di una membrana capacitiva organizzata in righe e colon-
ne che rileva la pressione, ovvero la sottrazione di carica elettrica da parte del
dito; quest’ultimo tipo è sensibile al fatto che l’utente tenga la mano appoggia-
ta al pianom del portatile, allorché il puntatore si sposta diversmente da come
va il dito. Il touchpad è, purtroppo, sensibile all’umidità presente nell’ambiente.
137
Capitolo 7
Hard-Disk
Anche detto disco rigido (o, più brevemente, HD) è l’unità di memorizzazione
di massa che non può mancare in un PC portatile, anzi, alcuni laptop ne hanno
due (ad esermpio HP Pavillon DV9000). L’hard-disk consta di un disco magne-
tizzabile che ruota ad alta velocità (5.400 giri/min è lo standard, ma vi sono
dischi a 7.200 e 10.000 giri/min) sul quale una o più testine registrano i dati sotto
forma di campo magnetico, che lascia sulla superficie una magnetizzazione resi-
dua in presenza dell’1 logico e nulla in concomitanza con il livello logico basso;
a volte il componente è composto da due dischi: quelli dei PC fissi, a parte rare
eccezioni (ad esempio il Quantum Bigfoot) hanno sempre da 2 a tre dischi
sovrapposti che ruotano insieme.
La velocità di rotazione, insieme alla velocità di commutazione dei chip che
compongono l’interfaccia, determina il tempo d’accesso al disco.
In lettura, la testina non magnetizza ma si limita a rilevare l’unduzione residua
sulla superficie del disco; la lettura, come la scrittura, avvengono a spirale, facen-
do spostare la testina dall’esterno verso l’interno del disco, in modo che l’acces-
so ai singoli livelli logici costituenti i dati
avvenga sequenzialmente.
Per come è costruito, il disco rigido è molto
delicato e basta una caduta anche da un’altez-
za limitata (meno di un metro) a farlo guasta-
re perché causa il distacco dei dischi o delle
testine. Gli HD per i notebook sono più resi-
138
Struttura dei notebook
stenti e progettati per subire gli inevitabili shock del trasporto, ma se prendono
un colpo netto mentre funzionano, è quasi certo che riportino danni.
Esteriormente l’hard-disk appare come una scatoletta con base in alluminio
massiccio e coperchio in lamiera zincata o d’alluminio; su uno dei lati corti
riporta la connessione, che può essere, almeno per i moderni HD, IDE o S-
ATA (nei PC di una decina di anni fa qualche costruttore, ad esempio
McIntosh, usava anche gli SCSI). Per IDE si intende il connettore a 40 poli su
due file (accanto al quale normalmente si trovano altri quattro contatti distan-
ziati dai 40) che servono ad impostare il Cable-Select o la funzione
Master/Slave; ciò perché ogni controller IDE nella mainboard supporta due
unità, di cui una principale (Master) e l’altra secondaria (Slave). Tipicamente il
Master è l’hard-disk e lo Slave il lettore o masterizzatore CD/DVD.
L’interfaccia IDE tipica ha un transfer-rate (ossia velocità di comunicazione dei
dati da e verso la mainboard) di una decina di Mb al secondo; ad essa è seguita,
una quindicina d’anni fa, la E-IDE (Enhancement IDE) o DMA-33, capace di una
velocità di 33 Mbps e poi la Ultra DMA o Ultra –ATA 66 (a 66 Mbps). Da allo-
ra i dischi IDE hanno cominciato a chiamarsi ATA ed è perciò che con l’intro-
duzione del Serial ATA i costruttori hanno cominciato a coniare il termine P-
ATA, per distinguerli da questi ultimi. I più recenti sviluppi dell’interfaccia IDE
sono stati l’Ultra-ATA 100 e il 133, capaci di velocità di comunicazione, rispet-
tivamente, di 100 e 133 Mbps.
Le mainboard capaci di gestire i dischi Ultra-ATA 100 e 133 sono solo quelle
più moderne, dotate di chipset Southbridge con bus
139
Capitolo 7
L’elettronica dei CD, DVD e masterizzatori è l’insieme dei circuiti che governa-
no, coordinandole, l’ottica e la meccanica dell’apparato.
I lettori e masterizzatori per portatili sono molto piccoli ed il loro cassetto non
viene aperto e chiuso mediante un motore elettrico come in quelli dei PC fissi:
un’elettrocalamita svincola una spinetta che trattiene il carrello, lasciando che la
molla di cui questo è provvisto lo spinga all’esterno, in modo da consentire all’u-
tente di estrarre il disco.
Le unità a disco ottico sono dotate di interfaccia IDE con connettore specifico
e solitamente si trovano sull’unico controller del computer portatile; se il note-
book ha due controller, l’unità a dischi ottici sta sul proprio e l’HD su un altro.
Tale evenienza si verifica semopre nei PC con disco rigido S-ATA.
Di recente è stato introdotto il DVD Blue Ray, cosiddetto perché utilizza un
laser a luce blu invece dell’infrarosso; il motivo di ciò deriva dall’esigenza di
aumentare la quantità di dati scrivibili in un DVD, cosa fattibile solo -a parità di
diametro del disco e di strati (2) disponibili- riducendo le dimensioni dei poz-
zetti costituenti i singoli bit. Siccome la dimensione dei DVD double-layer aveva
raggiunto la lunghezza d’onda del laser e più di questa non poteva scegliere, si
è pensato di ricorrere a un laser blu, la cui lunghezza d’onda è circa 1/3 di quel-
la dell’infrarosso, perciò anche i singoli pozzetti possono essere ridotti in pro-
porzione.
Unità FDD
Il Floppy-Disk-Drive è un’unità a disco rimovibile che concettualmente funzio-
na come un hard-disk, solo che il disco è estraibile e flessibile; il disco viene pro-
tetto da una custodia dotata di una finestrella per consentire alla testina del dri-
ver di appoggiarsi alla superficie magnetica e rilevare l’induzione residua da cui
leggere i dati. Il disco viene meso in rotazione da un meccanismo a frizione che
si appoggia nel foro centrale della custodia. L’unità floppy equipaggiava i note-
book fino a pochi anni fa e serviva essenzialmente ad effettuare il boot del siste-
ma operativo. I moderni BIOS contemplano il bootstrap dalll’unità a dischi otti-
ci, quindi –anche per l’inutilità di una periferica i cui supporti non consentiva-
no di memorizzare più di 1,44 o 2,88 MB, il floppy non si usa più. Il limite di
memorizzazione deriva sia dalla densità del supporto magnetico (pur aumenta-
ta negli ultimi floppy realizzati rispetto i primi dischi da 8”, capaci di appena 128
141
Capitolo 7
kB) sia dalla FAT utilizzata, detta FAT12, che con i suoi 12 bit non consentiva
di indirizzare più di 2048 settori o blocchi di memoria. Nei notebook che lo
hanno, è gestito da un suo controller, interfacciato con il Southbridge.
Ventole di raffreddamento
In un moderno notebook il processore, la GPU (processore grafico) ed il chi-
pset sviluppano un discreto calore, ragion per cui necessitano di un radiatore,
quasi sempre affacciato su una o più ventole che ne asportano il calore; le ven-
tole ruotano in modo da portare fuori l’aria dal computer e con essa il calore
prodotto. GPU, CPU e chipset possono essere uniti da un unico dissipatore o
avere radiatori distinti e ventole distinte.
La ventola aspira aria assialmente o tangenzialmente, tramite griglie o prese
poste sul fondo del notebook, ma a volte sul lato; l’espulsione dell’aria calda
avviene lateralmente.
Le ventole impiegate per raffreddare i dissipatori delle CPU spingono l’aria all’e-
sterno attraversando gli scambiatori di calore, che sono estremità alettate dei dis-
sipatori di CPU, GPU ecc.; in questo modo l’aria asporta dalle alette il calore,
che quindi viene dissipato più agevolmente.
La ventola di raffreddamento viene governata da un interruttore statico che la
accende e la spegne all’occorrenza oppure da un regolatore PWM che ne per-
mette la variazione della velocità di rotazione; a gestire la ventola provvede un
integrato sensore termico, che di solito dispone di un’interfaccia I²C-Bus per
dialogare con il chipset ed informarlo delle vicende termiche della CPU
L’integrato può avvalersi di un sensore termico esterno collocato sotto la CPU,
oppure, nelle CPU che ne sono provviste, del sensore interno ad esse, che soli-
tamente è un diodo collocato nello stesso chip di semiconduttore ed è accessi-
bile tramite due piedini.
Un tipico sensore di temperatura con bus I²C per il colloquio con il chipset è il
MAX6657 della Maxim, ovvero il MAX6658 o il MAX6659, della stessa casa: si
tratta di un sensore capace sia di informare il chipset delle vicende termiche
della CPU, sia di provvedere autonomamente al controllo delle ventole sopra
142
Struttura dei notebook
Batteria
La batteria ricaricabile (accumulatore) è un dispositivo elettrochimico reversibi-
le, la cui struttura elementare consta di due piastre dello stesso metallo immer-
se in un liquido o una gelatina detti elettrolito; la più semplice batteria ha le pia-
stre di piombo e in essa l’elettrolito è acido solforico diluito (H2SO4). In condi-
zioni di riposo, la tensione di una cella di batteria è di circa 2 V; cresce durante
la ricarica e diminuisce durante la scarica (per ottenere un accumulatore da 12
V occorre quindi collegare sei celle in serie).
Per vedere come funziona la batteria, immaginiamo di versare in essa la soluzio-
ne acquosa di acido solforico (H2SO4) dove si trovano ioni SO4— (ione solfato)
e ioni H2++ (ione idrogeno). Subito l’acido intacca la superficie degli elettrodi
formando solfato di piombo (PbSO4) e lasciando ricchezza di ioni H+ (idroge-
no) in soluzione. Applicando alle piastre una differenza di potenziale, al polo
negativo accorre l’idrogeno, che si accumula rendendo poroso l’elemento; al
polo positivo arriva l’SO4, che perde le cariche negative, reagisce con l’acqua e
riforma H2SO4 (che si scompone nuovamente in ioni) più ossigeno. L’ossigeno
liberato si combina col piombo e forma biossido di piombo (PbO2). La carica
termina quando la piastra con biossido di piombo (positiva) non può più ossi-
darsi e quella di piombo poroso ha ceduto tutto il materiale che la soluzione
poteva accettare.
Le due piastre sono ora una di piombo poroso (con idrogeno) e l’altra di PbO2;
le due piastre hanno una differenza di potenziale intrinseca e quindi, se si scon-
nette il generatore e si collegano con un filo, gli elettroni si spostano da uno
143
Capitolo 7
tipo specifico di batteria utilizzata, sebbene in realtà molti portatili siano equi-
paggiati con regolatori di carica detti “multichemistry” perché capaci di ricari-
care NiMH, Li-Po o semplici Li-Ion. Gli integrati che governano i caricabatte-
ria hanno memorizzate le curve di carica tipiche di queste batterie e sanno come
rilevare la fine della carica in modo da non superare la corrente ammessa.
Le batterie NiCd e NiMH sono tipicamente formate da più elementi (da 8 a 12)
posti tra loro in serie ed eventualmente corredati da un circuito che segnala lo
stato di carica o dispone di un fusibile autoripristinante che limita la corrente
erogata in scarica o quella assorbita in carica; le Li-Po hanno invece sovente
delle prese intermedie che servono al bilanciamento delle singole celle. In altre
parole, siccome tali batterie se messe in serie possono non caricarsi tutte alla
stessa maniera, nel pacco-batteria si inserisce un circuito detto “bilanciatore di
carica” che ripartisce la corrente di carica nei vari elementi, bypassando parzial-
mente quelli che già risultano carichi, a favore degli elementi che presentano una
tensione più bassa e perciò necessitano di maggiore corrente per caricarsi.
Dunque, i pacchi-batteria Li-Ion e Li-Po sono più complessi perché integrano
spesso il bilanciatore degli elementi; talvolta questo circuito è decentrato nel
caricabatteria del notebook, quindi la batteria presenta, oltre ai contatti positivo
e negativo, tre prese intermedie (tipicamente un pacco-batteria al litio consta di
tre celle), ognuna delle quali dà accesso ad un elemento e permette di monito-
rarne la carica.
Oltre al circuito di carica e bilanciamento, normalmente nei pacchi a litio viene
introdotto un limitatore della corrente erogata, che serve ad evitare l’esplosione
dell’accumulatore laddove un cortocircuito all’interno del notebook tendesse a
far assorbire più della corrente erogabile; tale limitatore può essere composto da
un fusibile autoripristinante o da un vero e proprio circuito elettronico che al
superamento della massima corrente ammessa sconnette l’uscita (ossia il mor-
setto positivo) per qualche istante o fin quando non si preme un apposito pul-
sante di sblocco inserito all’esterno della batteria.
Questa complessità dovuta all’integrazione di una cerca elettronica, aumenta
notevolmente il costo dei pacchi-batteria al litio, che però si fanno apprezzare
per la grande autonomia concessa al computer.
Le più recenti batterie integrano un chip che può dialogare con il chipset del
computer per comunicare dati identificativi quali la capacità nominale; alcune
batterie (tipicamente SONY) in questo chip memorizzano il numero seriale ed
un codice che la scheda madre va a cercare: se non lo trova, non carica l’accu-
mulatore. Questa situazione impedisce l’uso delle batterie di concorrenza e può
esere aggirata mediante firmware patch da installare nel BIOS, con tutti i rischi
del caso (toccare il BIOS può rendere inservibile la scheda madre), oppure
software da installare nel sistema operativo. Tale forma di identificazione è volu-
ta chiaramente per costringere l’utenza ad acquistare ricambi originali e sobbar-
carsene i costi.
145
CAPITOLO 8
ATTREZZARSI PER RIPARARE I NOTEBOOK
149
Capitolo 8
sante, meglio se in forma di pasta. Il flussante è una sostanza chimica che age-
vola la fusione della lega saldante e ne favorisce la distribuzione e l’adesione ai
componenti da saldare. Serve anche della trecciola dissaldante, che è una sorta
di striscia di maglia di filo di rame imbibita di una sostanza flussante che cattu-
ra lo stagno, permettendo di rimuoverlo assai bene dalle piazzole e dalle salda-
ture intorno ai reofori e nei fori passanti metallizzati dove questi passano.
Qui di seguito verranno descritti i dispositivi elettronici sopra menzionati; si
accennerà anche agli strumenti di misura che dovrebbero essere presenti nel
laboratorio di un tecnico riparatore: in particolare al tester e all’oscilloscopio.
Il saldatore
Iniziamo con il saldatore, che è una semplice punta variamente sagomata (dota-
ta di impugnatura per evitare che ci si scotti le mani) il cui scopo è fondere la
lega saldante che collega i componenti elettronici al circuito stampato del com-
puter o i fili di collegamento ai connettori; per fare ciò, la punta viene a sua volta
riscaldata internamente da una resistenza, ormai sempre “corazzata” (rivestita
da un involucro di acciaio inox) su cui calza. La punta può essere di rame rive-
stito (argentato) o di acciaio inossidabile; la prima si scalda più rapidamente ma
dura meno, dato che è formata da un materiale più tenero e che si consuma alla
svelta a causa della pressione e dello sfregamento sulle zone da saldare. La punta
di acciaio è invece più duratura, anche se l’inerzia termica del materiale la rende
un po’ più lenta a scaldarsi.
Il saldatore per elettronica opera per brasatura ed è costruito per lavorare a tem-
perature tipicamente comprese tra 230 e 400 °C, in quanto serve per fondere la
lega saldante a base di stagno e piombo (o anche le leghe Rohs, che richiedono
temperature leggermente maggiori).
Il saldatore ha tipicamente una cordone terminante con una spina che ne per-
mette l’alimentazione con la tensione di rete (220 Vca); talvolta dispone di un
pulsante per funzionare a metà potenza, il che consente di scegliere tra due tem-
perature di saldatura. I saldatori per elettronica hanno potenze che tipicamente
spaziano da 20 a 50 watt.
Il classico saldatore raggiunge una temperatura che non è sempre uguale ma
viene influenzata da molte condizioni, non ultime quelle ambientali (temperatu-
150
Attrezzarsi per riparare i notebook
ra) e gli sbalzi della tensione di rete. Per effettuare saldature ad una temperatu-
ra stabile e nota, occorre utilizzare una stazione saldante, la quale è composta da
un saldatore e da un blocco che ne controlla l’alimentazione; il controllo viene
effettuato in vario modo ma si basa sempre su un sensore collocato sulla punta,
scopo del quale è informare l’unità di controllo della temperatura raggiunta. Il
sistema è di tipo termostatato, in modo che quando viene raggiunta la tempera-
tura impostata la resistenza del saldatore viene privata dell’alimentazione e torna
sotto tensione non appena la temperatura scende di pochi gradi sotto il valore
impostato.
Stazioni saldanti ce ne sono di vario tipo, ma tutte funzionano secondo questo
principio; qualcuna lavora a temperatura fissa e la gran parte dispone di un selet-
tore per impostare due o tre temperature o di una manopola o di un pannello a
pulsanti per variare la temperatura a piacimento. Le più pregiate stazioni hanno
un display (LCD o a diodi luminosi) dove vengono mostrati i parametri di fun-
zionamento, ovvero la temperatura impostata e quella della punta o solo que-
st’ultima.
151
Capitolo 8
Il succhiastagno
È un apparato più o meno sofisticato il cui scopo è aspirare lo stagno delle sal-
dature; si rivela particolarmente utile quando occorra dissaldare componenti
elettronici a montaggio tradizionale (a terminali passanti, ovvero THT) con
molti piedini da circuiti stampati a doppia faccia con fori metallizzati, dato che
il saldatore qui non basta in quanto lo stagno rimane negli interstizi fra termina-
152
Attrezzarsi per riparare i notebook
li e pareti dei fori. Nella sua forma più semplice, si tratta di una pompetta a
mano formata da un cilindro cavo contenente un pistone che si carica con una
molla e premendo un pulsante ritorna a riposo, aspirando la lega saldante
mediante un beccuccio metallico o di teflon comunicante con la camera della
pompetta. Tale succhiastagno, che è meccanico, si usa in abbinamento al salda-
tore: quest’ultimo fonde lo stagno da rimuovere e il succhiastagno lo aspira.
Siccome tenere in mano due attrezzi è scomodo, sono stati inventati i dissalda-
tori, che sono succhiastagno a punta metallica (in rame o acciaio inox) riscalda-
ta come nei saldatori. In essi il cilindro comunica con la punta riscaldata da una
resistenza elettrica e cava internamente. La punta scalda e fonde lo stagno e la
pompetta lo risucchia; chiaramente la cosa funziona se il tecnico preme il pul-
sante di rilascio della pompa quando lo stagno è ben fuso.
Il succhiastagno può essere una macchina vera e propria, sovente integrata nelle
stazioni di saldatura: in tal caso si tratta di un dissaldatore come quello appena
descritto, ma in cui manca la pompetta a mano; infatti l’interno della punta cava
è collegato ad un tubo di gomma che termina sulla base della stazione, all’inter-
no della quale si trova una pompa a depressione che il tecnico attiva semplice-
mente premendo un pulsante posto nell’impugnatura del dissaldatore.
La pompa è azionata elettricamente e può aspirare in continuazione, diversa-
mente da quella del dissaldatore comune, che aspira una sola volta e poi va rica-
ricata; per questa ragione la stazione saldante con dissaldatore è più efficace nel
rimuovere anche grandi quantità di stagno.
153
Capitolo 8
al cedimento della parete interna a causa del calore e col tempo si intasa; perciò
va pulita usando uno spillone o del sottile filo di ferro, oppure appositi scovoli-
ni forniti in dotazione al dissaldatore dal costruttore.
Figura 8.6 - Una stazione ad aria calda (a sinistra) ed uno dei deflettori, pensato per dissal-
dare chip quadrati o BGA: l'ugello è quadrato e diffonde l'aria sopra e accanto al chip.
154
Attrezzarsi per riparare i notebook
Figura 8.7
Asportazione di
un componente
SMD con la sta-
zione a getto d'a-
ria calda.
155
Capitolo 8
prima occorre stagnare le piazzole su cui i pin dei componenti dovranno aderi-
re; il solito flussante renderà le cose più facili.
pasta flussante sulle rispetive piazzole del circuito stampato; il flussante deve
essere specifico per i BGA, quindi deve essere mediamente denso.
La saldatura viene normalmente operata scaldando lo stampato da sotto e da
sopra, ma in questo caso solo in corrispondenza del chip da saldare. Si posso-
no anche saldare più integrati, semplicemente posizionandoli ognuno al loro
posto e poi scaldando inizialmente la parte inferiore del circuito, quindi in un
secondo momento anche quella superiore.
Normalmente la saldatura dei BGA prevede il riscaldamento del lato inferiore
dello stampato in modo che quello superiore si porti ad una temperatura di circa
140÷150 °C; raggiunto questo livello, si inizia a riscaldare anche la parte supe-
riore con un potente riscaldatore rapido, che la porta ad una temperatura com-
presa fra 200 e 230 °C per un tempo predefinito dalla fabbrica sulla base di vari
parametri. In realtà è sufficiente raggiungere i 200÷230 °C solamente sui com-
ponenti da saldare.
Siccome i componenti potrebbero spostarsi, la gran parte dei costruttori di
notebook fissa i BGA mediante uno o più punti di colla resistente alle alte tem-
perature o con resine epossidiche; ciò viene fatto prima di iniziare il ciclo di
riscaldamento. Proprio queste colle sono la causa della difficoltà di risaldatura
di alcuni chip BGA quando si deve riparare un portatile.
La criticità del montaggio del BGA ne rende difficile la sostituzione, che non
sempre, senza la dovuta attrezzatura, avviene con successo; per questo è meglio
tentare prima con il reflow.
La macchina per BGA viene utilizzata in gran parte per la procedura di reflow,
157
Capitolo 8
158
Attrezzarsi per riparare i notebook
Il tester
È insieme un voltmetro, un amperometro, un ohmmetro e può diventare anche
un buon misuratore di induttanze e capacità, ed un analizzatore di transistor. Il
tester permette di effettuare misure tra due punti ed ha, perciò, principalmente
due boccole dove infilare i cavi di due puntali; i puntali sono degli elettrodi, ben
159
Capitolo 8
160
Attrezzarsi per riparare i notebook
161
Capitolo 8
Questa è la dotazione tipica; va però detto che gli strumenti di maggior pregio
riportano, sul display, indicazioni supplementari. E non solo: i multimetri auto-
range, non avendo selettori per i campi di misura, visualizzano la misura, l’even-
tuale indicazione di alternata o continua, ovvero di resistenza.
Ad esempio, alcuni tester visualizzano il tipo di misura: W se si tratta di resisten-
za, A= (o mA=) se si sta misurando una corrente continua, Arms (o mArms) o
qualcosa di simile (ad esempio A accompagnato dal simbolo di alternata) se la
misura è in corrente alternata, V= (o mV=) se si misurano tensioni continue e
Vrms (o mVrms) o V accompagnato dal simbolo di alternata se la misura riguar-
da una tensione alternata. Ancora, appare Hz se si stanno compiendo misure di
frequenza, µF o nF se si stanno misurando capacità e µH o mH se si stanno
misurando, invece, induttanze.
Il tester finora descritto è manuale, perché in esso selezioniamo con un seletto-
re rotativo o delle boccole il tipo di misura e la portata. In commercio esistono,
però, speciali multimetri digitali automatici in grado di decidere da soli qual è la
portata più adatta alla misura: vengono detti autorange perché scelgono da soli la
portata e a volte il tipo di misura. Tipicamente questi strumenti hanno un selet-
tore per scegliere se misurare tensioni, correnti o resistenze; nella misura di ten-
sioni e correnti, il tester riconosce da sé se si tratta di alternata o continua. Come
qualsiasi multimetro digitale, anche questo dispone di boccole distinte per le
varie misure. Tipicamente la funzione autorange è attiva per le misure di tensio-
ne, ma non si applica alle portate amperometriche a forte corrente, per le quali
esiste un circuito separato da usare manualmente.
Usare il tester
Il multimetro digitale si accende mediante un pulsante ON/OFF, oppure spo-
stando il selettore nella posizione corrispondente alla misura da effettuare.
Alcuni modelli si accendono e spengono con un pulsante (però restano sempre
alimentati, sebbene il consumo a riposo sia tale da far durare una batteria più di
un anno) e si spengono da soli se non usati per un certo numero di minuti.
162
Attrezzarsi per riparare i notebook
Misura di tensioni
Per misurare le tensioni, bisogna usare per il puntale negativo la boccola comu-
ne (COM) o, se lo strumento dispone di boccole separate per le misure in con-
tinua e in alternata, utilizzare nel primo caso la boccola = e nel secondo quella
riportante il simbolo d’alternata (~). Per quanto riguarda il puntale positivo,
dovete inserirne la spinetta nella boccola V se il multimetro è di quelli con il
selettore (la boccola per la misura delle tensioni è sempre la stessa, sia per le
misure in continua che per quelle in alternata, almeno negli strumenti con il
commutatore/selettore) ovvero nella boccola corrispondente alla portata se
disponete di un misuratore di quelli un po’ datati, che hanno una boccola per
ciascuna portata e per ciascun tipo di misura (alternata o continua). Prima di
fare una misura cercate di sapere quale può essere la massima tensione presen-
te nel circuito e accertatevi che il tester possa sopportarla; a riguardo notate che
sullo strumento o nel suo manuale viene sempre indicata la massima tensione
applicabile all’ingresso di misura delle tensioni o alla boccola della portata volt-
metrica più alta.
Tale tensione non va confusa con la massima indicabile (fondo-scala della por-
tata più alta) ma è intesa come il limite sopportabile dal multimetro senza che si
verifichino danni nel suo circuito.
Misure in alternata
Le misure in corrente alternata sono meno problematiche, in quanto non essen-
doci una polarità (perché la corrente alterna il proprio verso) non c’è nemmeno
l’onere di stare a identificare il positivo e il negativo della linea elettrica. Quando
dovete fate una misura in alternata, i puntali potete disporli a caso, perché uno
164
Attrezzarsi per riparare i notebook
vale l’altro. Ma a parte questo dettaglio, per tutto il resto dovete fare come già
spiegato a proposito delle misure in corrente continua: nel tester analogico
senza selettore, identificate le boccole comune (= o COM) e della portata ovve-
ro la comune e quella delle misure amperometriche; quindi inserite la spinetta
del puntale nero nella boccola comune e quella del puntale rosso nella boccola
della portata. Invece, se disponete di un multimetro digitale oppure di uno ana-
logico con selettore rotativo dei campi di misura, identificate la boccola comu-
ne e inseritevi la spinetta del puntale nero, poi inserite la spinetta del puntale
rosso nella boccola delle misure amperometriche. Notate che qui parliamo di
nero e rosso solo per una questione di ordine, perché, come già detto, potrem-
mo benissimo scambiare le spinette e le posizioni dei puntali e la misura avver-
rebbe comunque correttamente.
Anche nel caso delle misure di correnti alternate, identificate prima quella che è
la portata che può ragionevolmente comprendere il valore da misurare e impo-
statela con il selettore; chiaramente valutate subito se è il caso di usare la porta-
ta ad alta corrente (10 A) e la relativa boccola. Il consiglio è, quando non avete
idea di quale sia la corrente che potrebbe scorrere nello strumento, scegliere la
portata più alta; poi, se vedete che la lancetta si sposta poco o che l’indicazione
del display si limita alla prima cifra o alle prime due cifre, scegliete una portata
con fondo-scala più basso. Questo vale per le misure sia in continua che in alter-
nata. Inoltre, ricordate che se disponete di un tester con autorange, dovete
impostare solo il tipo di misura con il selettore: la portata se la sceglie da solo.
Misure ohmetriche
Oltre alle tensioni e alle correnti, il tester permette di misurare anche le resisten-
ze elettriche, sebbene con una certa approssimazione (più del 5 %). Il campo di
misura ohmmetrico è ideale quando si debba verificare il valore di una resisten-
za per elettronica della quale non si vedono più le strisce perché l’esterno risul-
ta affumicato da un surriscaldamento o perché la sigla è venuta via; ma è anche
molto utile, nella portata più bassa, per accertare la presenza di eventuali corto-
circuiti nei montaggi elettronici. Già, quella più bassa è una delle portate mag-
giormente utilizzate del multimetro, sia perché permette di verificare se c’è un
cortocircuito tra due fili o piste di un circuito stampato, sia per fare le prove di
continuità dei cavi o per controllare se un transistor è in corto. Inoltre, sempre
con la portata a più bassa resistenza il tester serve a identificare i fili in cavi mul-
tipli: ad esempio, se non abbiamo un cavo a 5 conduttori tutti dello stesso colo-
re e non sappiamo dall’altro capo quali sono, ci basta unire da un lato una cop-
pia di fili e dall’altro toccare a due a due le estremità dei conduttori fino a veri-
ficare quando la lancetta del tester o il display indica resistenza zero o di pochi
ohm. Nei tester è solitamente prevista, nelle portate ohmmetriche, la funzione
di avviso acustico, abbinata alla portata più bassa; quando la resistenza misura-
ta è al disotto di una ventina di ohm e si può ritenere ci sia continuità o corto-
circuito, suona un cicalino (avvisatore acustico) inserito nello strumento.
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Capitolo 8
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Attrezzarsi per riparare i notebook
scossa (in tal senso siete in una botte di ferro perché la pila dà da 3 a 9 volt e
comunque la corrente che sfugge allo strumento, per non danneggiare i com-
ponenti sotto misura è di poche decine di microampere o qualche mA a secon-
da della portata selezionata), ma perché nel circuito di misura sono inserite in
serie allo strumentino (microamperometro o voltmetro a cristalli liquidi) resi-
stenze che in alcune portate sono anche abbastanza elevate. Il nostro corpo
conduce corrente e presenta una resistenza che può valere anche pochi kohm,
quindi toccando con le dita i puntali o i terminali della resistenza che si sta misu-
rando mettiamo il nostro corpo e la sua resistenza in parallelo, falsando così la
misura, che risulterà minore.
Per la ricerca dei cortocircuiti e la verifica della continuità elettrica o l’identifica-
zione dei cavi, si usa la portata ohmmetrica più bassa, che nei multimetri digita-
li di qualità è abbinata ai 200 ohm fondo-scala o è per conto proprio. Si proce-
de esattamente come per la misura delle resistenze. La stessa tecnica si può
usare per provare un fusibile, sia esso da casa o da auto: toccando con i punta-
li si deve rilevare resistenza nulla o di pochissimi ohm; se si registrano diversi
kohm o resistenza infinita, il fusibile è bruciato. Tutte le prove qui descritte si
fanno senza badare ad alcun ordine o ad alcuna polarità: potete scambiare il
puntale rosso con il nero senza problemi.
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Capitolo 8
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Attrezzarsi per riparare i notebook
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Capitolo 8
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Capitolo 8
L’oscilloscopio
Questo strumento, di fondamentale importanza per il tecnico elettronico, è in
grado di leggere le tensioni e visualizzarle su uno schermo graduato (diviso in
quadretti); nella sua forma più essenziale consta di un circuito che periodica-
mente (la frequenza di lettura dipende dalla base dei tempi che si imposta) legge
l’ampiezza della tensione tra una coppia di puntali (sonda) e la visualizza su un
CRT o su uno schermo LCD. Ogni ingresso dello strumento, cui fa capo una
sonda, si chiama canale o traccia. L’oscilloscopio è molto importante perché con-
sente di vedere le forme d’onda, ossia l’andamento delle tensioni variabili e alter-
nate, come se venisse disegnato su carta.
In breve, un oscilloscopio è un monitor a CRT nel quale il circuito di sincroni-
smo verticale viene pilotato dal segnale (il punto disegnato i sposta in alto tanto
più quanto più grande diviene l’ampiezza della tensione all’ingresso) da visualiz-
zare e quello orizzontale è un comune generatore di dente di sega che viene fatto
partire da una rete di trigger. Per seguire la variazione del segnale con la giusta
velocità (ad esempio, un segnale triangolare a 100 kHz sale più rapidamente di
uno a 10 kHz) bisogna adattare la frequenza, ossia la pendenza di crescita, del
dente di sega; ciò si fa regolando la base dei tempi. Quest’ultima è definita in
µs/div (microsecondi per divisione dello schermo) e più si riduce il suo valore,
più alta è la frequenza generata dall’oscillatore e viceversa.
La corretta impostazione della base dei tempi è fondamentale per ottenere una
giusta visione; infatti, più è alta, più il segnale appare fitto, mentre diminuendo i
µs./div. l’onda visualizzata si estende il larghezza. Se il segnale da visualizzare è
periodico ed ha la stessa frequenza dell’oscillatore a dente di sega, sullo scher-
mo sta esattamente un periodo; se la sua frequenza cresce, a parità di frequenza
del dente di sega della deflessione orizzontale lo schermo conterrà più di un
periodo, mentre se la frequenza decresce lo schermo non riuscirà a visualizzare
l’intero periodo.
Se all’ingresso si applica il segnale in un qualsiasi istante, anche se è di frequen-
za maggiore di quella del dente di sega non è detto che venga visualizzato ordi-
natamente sullo schermo, in quanto può partire spostato rispetto all’inizio della
scala. Per esempio, avendo un segnale di pari frequenza può essere che appaia a
Figura 8.22 - In un
MOSFET depletion a cana-
le N, applicando il puntale
positivo al source (a
destra) si deve rilevare la
resistenza del diodo di pro-
tezione; con lo stesso pun-
tale sul drain (immagine a
sinistra) la resistenza deve
risultare infinita, altrimenti il
componente è guasto.
172
Attrezzarsi per riparare i notebook
partire da metà ampiezza fino a metà del successivo periodo. Per fare in modo
che l’oscilloscopio visualizzi le forme d’onda a partire dal lato più a sinistra, si
usa un circuito detto Trigger: si tratta di un comparatore a soglia variabile (la si
regola appunto con la manopola chiamata trigger) che aggancia un certo livello
del segnale (più bassa si imposta la soglia, più nella visualizzazione a sinistra si
trova il livello di zero volt della forma d’onda...) da visualizzare e fa partire il
dente di sega proprio al verificarsi di quel livello. Il trigger può essere abbinato
a uno dei canali dell’oscilloscopio o a entrambi, ovvero può essere sincronizza-
to con una fonte esterna (EXT); ciò serve per particolari misure, ovvero per
ottenere una corretta visualizzazione quando si usa un generatore di funzioni
provvisto di uscita di trigger sincronizzata col segnale che produce.
L’altra regolazione fondamentale dell’oscilloscopio è l’ampiezza, misurata in
V/div. (volt per divisione dello schermo): interviene sul guadagno di un ampli-
ficatore ovvero su un attenuatore posto tra la sonda (ingresso del canale corri-
spondente) e l’amplificatore che comanda il sincronismo verticale. La regolazio-
ne è una per ciascuno dei canali di cui lo strumento dispone.
Scegliere l’oscilloscopio
Nella scelta di un oscilloscopio bisogna innanzitutto considerare le proprie esi-
genze e valutare quali tipi di segnali si intende visualizzare; più esattamente, va
detto che il clock delle CPU, peraltro moltiplicato internamente, è molto eleva-
to e pochi oscilloscopi riescono a spingersi alle frequenze di base. In linea di
massima un 100 o 200 MHz va bene. C’è poi il discorso della memoria: è meglio
avere un oscilloscopio con memoria perché consente di fermare alcune imma-
gini ed analizzare certi segnali. Vediamo di seguito i parametri salienti di un
oscilloscopio.
Numero di canali
La maggior parte degli oscilloscopi è a 2 o 4 canali, tuttavia si trovano in com-
mercio strumenti per segnali misti (chiamati MSO, Mixed Signal Oscilloscope) dove
ai canali analogici vengono affiancati altri 8 o 16 canali in grado di acquisire solo
Figura 8.23
Oscilloscopio e princi-
pali comandi del suo
pannello di controllo.
173
Capitolo 8
Schermo
Mentre negli oscilloscopi analogici la qualità della visualizzazione dipende dalle
caratteristiche del CRT, in quelli digitali uno dei fattori chiave che influenza la
qualità della visione è la frequenza di aggiornamento (frequenza di refresh) ossia
la velocità con la quale l’oscilloscopio è in grado di acquisire e aggiornare la
visualizzazione delle forma d’onda. Una maggiore velocità di aggiornamento
equivale a una maggiore probabilità di catturare, e quindi visualizzare sullo
schermo, gli eventi infrequenti come i “glitch”.
Nello scegliere il proprio oscilloscopio bisogna stare attenti che in alcuni casi la
velocità di aggiornamento massima vale solo quando non vengono attivate fun-
zioni speciali, come trigger avanzati o profondità di memoria estese. Le prime
generazioni di oscilloscopio digitale erano lente nella visualizzazione, rispetto
agli oscilloscopi analogici. Oggi le cose vanno meglio, tanto più quanto maggio-
re è la memoria a disposizione.
Banda passante
La banda passante, espressa in MHz, è la caratteristica di riferimento di ogni oscil-
loscopio e va scelta in base alla massima frequenza dei segnali da verificare,
ovvero alla ripidità dei fronti dei segnali di cui si vuole misurare il tempo di sali-
ta o di discesa (tempi brevi richiedono una frequenza elevata). In linea di mas-
sima la banda passante dell’oscilloscopio deve essere 1/2 del tempo di salita,
quindi se tale tempo è 0,01 µs, la banda dovrà essere almeno 20 MHz.
Se l’oscilloscopio è digitale, la sua frequenza di campionamento dovrà essere almeno
4 volte la banda passante dell’oscilloscopio e la massima frequenza del segnale
da misurare. La frequenza di campionamento è un’altra caratteristica fondamen-
tale dell’oscilloscopio digitale e viene espressa in campionamenti al secondo
(s/s) o multipli; nel valutare uno strumento va ricordato che talvolta il costrut-
tore dichiara la frequenza di campionamento massima e in questo caso è impor-
tante verificare a che condizioni è riferita. Infatti in molti oscilloscopi si sfrutta
il campionamento interlacciato per aumentare la frequenza di campionamento
massima; ciò va a discapito del numero di canali utilizzabili contemporaneamen-
te. Per esempio, un oscilloscopio a 4 canali potrebbe funzionare alla frequenza
di campionamento massima solo con uno o due canali, mentre se si vogliono
utilizzare tutti i canali bisogna accontentarsi di frequenze di campionamento
inferiori, spesso indicate in piccolo o solo nelle note delle specifiche tecniche
dello strumento.
Per valutare la frequenza di campionamento (fc) di cui si ha bisogno è di deter-
minare la risoluzione temporale (rt) desiderata tra i punti di acquisizione, che vale:
fc=1/rt. Per esempio, la frequenza di campionamento che permette di osserva-
174
Attrezzarsi per riparare i notebook
re i punti nel tempo con risoluzione di 1 ns è pari a 1/(1 ns), ovvero 1 Gs/s.
Nell’oscilloscopio digitale, anche la profondità di memoria è strettamente legata
alla frequenza di campionamento; con impostazioni lente della base dei tempi,
la velocità di campionamento massima viene ridotta quanto basta affinché non
si esaurisca la memoria di acquisizione dello strumento.
Quando il convertitore A/D dell’oscilloscopio converte il segnale analogico in
forma numerica, i risultati vengono via-via memorizzati all’interno della memo-
ria di acquisizione ad alta velocità dell’oscilloscopio, perciò la profondità di
memoria richiesta dipende sia da quanto è lungo l’intervallo di tempo che vole-
te osservare, sia da quanto frequente volete che sia il campionamento.
Se volete osservare lunghi periodi di tempo con un’elevata risoluzione tempo-
rale, allora vi serve un oscilloscopio con una grande quantità di memoria.
Tipicamente la profondità di memoria (Pm) occorrente è legata alla frequenza di
campionamento ed al periodo di tempo (t) da osservare, dalla relazione:
Pm = fc x t. In particolare, alcuni modelli quando utilizzano tutta la memoria di
acquisizione sono costretti a rallentare altre operazioni, per esempio la velocità
di visualizzazione.
Trigger
Il trigger viene normalmente agganciato sui fronti (edge trigger) di salita e discesa
dei segnali da visualizzare, però per fare misure sui sistemi che usano i bus seria-
li può essere molto comodo disporre di un trigger basato su condizioni specifi-
che che avvengono sui bus come SPI, CAN, USB, I²C, FlexRay, LIN o altri. Per
la ricerca dei problemi e dei guasti intermittenti un’altra funzione utilissima è il
trigger sui glitch, disponibile in varie forme in molti strumenti di fascia medio-
alta. Infine, molti oscilloscopi moderni offrono funzioni specifiche di trigger
per le applicazioni video, come TV e HDTV, utili anche nell’analisi dei segnali
dei notebook provvisti di uscita per HDTV e HDMI.
Sonde
La sonda (Fig. 5.24) determina la banda passante complessiva del sistema di
misura diventa parte integrante del circuito in prova modificandone il compor-
175
Capitolo 8
tamento, per cui impedenza e banda passante della sonda vanno sempre tenute
in considerazione, in particolar modo quando si devono misurare segnali a fre-
quenza elevata. In generale, le sonde attive non solo hanno una banda passante
superiore alle sonde passive, ma sono anche in grado di mitigare gli effetti sul
circuito in esame.
Le sonde per gli oscilloscopi possono essere dirette o demoltiplicate, con fatto-
re di divisione tipico di 10 (sonda x10); alcuni strumenti prevedono un seletto-
re che permette di adattare la scala volt/div. al tipo di sonda. La sonda diretta
non è altro che un cavo coassiale terminante su un puntale, mentre quella
demoltiplicata ha internamente un partitore resistivo con in parallelo dei con-
densatori, uno dei quali è variabile: si tratta di un compensatore regolabile con
un cacciaviti in modo da alterare il meno possibile il segnale; la regolazione si
compie portando il puntale sul segnale di calibrazione dello strumento e quindi
agendo sul compensatore fino a rendere i fronti della forma d’onda rettangola-
re visualizzata dallo schermo i più dritti possibile. Il compensatore ha lo scopo
di adattare l’impedenza della sonda a quella d’ingresso dell’oscilloscopio.
Interfacce
La maggior parte degli oscilloscopi moderni ha almeno uno delle interfacce
comuni che consente di collegare un PC, come ethernet o USB, il che facilita
notevolmente lo scambio dei dati e l’eventuale controllo automatico o remoto
dello strumento. Alcuni modelli, per esempio quelli conformi alle specifiche
LXI, contengono al loro interno un Web Server, che permette di gestirli da
computer con un semplice browser Internet via LAn o, a distanza, via web.
Usare l’oscilloscopio
Vediamo adesso due note sull’utilizzo dell’oscilloscopio, con la premessa che,
non essendo questo un volume dedicato a tale strumento, ci limiteremo a qual-
che caso. Per visualizzare un segnale bisogna prima di tutto collegare una sonda
ad un canale, poi sul selettore del canale da visualizzare scegliere quel canale,
quindi collegare la pinzetta della sonda alla massa del circuito dove compiere la
misura e con il puntale toccare il punto interessato; se conoscete le tensioni in
gioco impostate i volt/div. in modo che la tensione stia nell’altezza dello scher-
mo, ovvero dalla posizione di riposo della traccia al vertice dello schermo se trat-
tasi di tensione negativa o da essa al fondo, se trattasi di grandezza negativa. Se
la tensione è alternata, per visualizzarla tutta bisogna scegliere un’ampiezza per
divisione tale che lo schermo contenga la forma d’onda. Ricordate che i
volt/div. indicano a quanti volt corrisponde un quadretto dello schermo usando
una sonda diretta (x1); se usate una sonda x10 (con partitore che divide la ten-
sione per 10) dovete rammentare che ogni quadretto vale 10 volte il valore indi-
cato dal selettore volt/div.
Prima di fare qualsiasi misura, indipendentemente dall’impostazione dell’am-
piezza accertatevi che nel punto da misurare la tensione non ecceda la massima
176
Attrezzarsi per riparare i notebook
L’analizzatore logico
Si tratta di uno strumento digitale da laboratorio in grado di campionare e ripro-
porre sul proprio schermo gli stati logici rilevati dalla sua sonda in qualsiasi
punto di un circuito; è molto utile perché consente di monitorare l’andamento
dei segnali quali clock, dati, indirizzamento di memorie, dialogo su bus quali
USB e I²C.
Per scegliere un analizzatore logico occorre prendere in considerazione il siste-
ma delle sonde, quello di acquisizione, il display e le capacità di analisi. Le misu-
re eseguite con un analizzatore logico sono tanto precise e affidabili quanto lo
è il suo sistema di sonde; nella scelta del sistema di sonde non va trascurata l’op-
portunità di disporre di qualche sonda volante (flying probe).
Vediamo più in dettaglio quali sono le caratteristiche più importanti delle sonde
per l’analizzatore logico: una sonda a basso carico capacitivo permette di ridur-
re l’interferenza sul circuito sotto esame, che quindi può funzionare in modo
realistico e permettere all’analizzatore logico di rappresentare correttamente ciò
che sta succedendo; ciò vale tanto più quanto più elevata sarà la frequenza dei
177
Capitolo 8
178
Attrezzarsi per riparare i notebook
Smontare i notebook
Bene, spiegati gli strumenti del laboratorio si può analizzare il primo passo
riguardante la riparazione dei notebook: lo smontaggio. Per quanto possa appa-
rire banale, smontare un portatile fino ad arrivare a rimuovere alcuni suoi com-
ponenti interni può non essere un’impresa facile, dal momento che in certi casi
le viti e gli incastri sono volutamente celati dai progettisti, in parte per ragioni
estetiche ma soprattutto per dissuadere i tecnici dall’impresa e spingere i clienti
a rivolgersi all’assistenza tecnica delle case.
Se parliamo di smontaggio bisogna distinguere in base a cosa si intende smon-
tare: lettori di dischi ottici e floppy-disk si estraggono quasi sempre mediante
levette di sgancio o viti accessibili dal fondo della base del computer, ma talvol-
ta sono bloccati da una vite interna cui si accede smontando la tastiera o, peg-
gio, rimuovendo la parte superiore della base.
RAM e moduli wireless sono quasi sempre accessibili da sportelli a vite posti
nella parte inferiore della base del computer e lo stesso dicasi per gli hard-disk.
Invece il resto e la mainboard si possono raggiungere solo smontando la parte
superiore della base o tutta la base; per resto si intende eventuali moduli di
memoria interni, schede video separate (anche se esistono notebook in cui la
179
Capitolo 8
scheda video si stacca da uno sportello della parte inferiore della base del com-
puter) moduli modem ecc. Anche per il monitor è necessario smontare il guscio,
dato che il display, il retroilluminatore e il relativo controller (tipicamente l’inver-
ter che alimenta le lampadine CCFL) sono all’interno.
In questi casi bisogna identificare le viti, ricordando che talune sono sotto tappi
di gomma e qualche volta celati da etichette, ovvero collocati nel vano della bat-
teria, che quindi va rimossa. Le viti per staccare la tastiera sono usualmente indi-
cate con il simbolo della tastiera, mentre quelle per smontare la parte superiore
della base sono tutte le altre, ovvero vengono marcate con un triangolino. In
alcuni notebook, per semplificare il rimontaggio vengono scritte accanto alle viti
le misure (ad esempio M2,5x15).
Quasi sempre, l’ordine di smontaggio è il seguente:
1. si asportano le viti della tastiera e le altre sul fondo, quindi si asporta an-
che la tastiera, se è possibile farlo, altrimenti bisogna rimuovere la placca posta
nella parte alta della tastiera, che sovente è fermata da linguette o viti accessibi-
li dal fondo del computer;
2. si smonta la parte superiore della scocca del computer, se è possibile far-
lo, oppure prima si rimuovono gli elementi che la bloccano;
3. si smonta il monitor agendo sulle viti delle sue cerniere.
Queste ultime sono una o due per cerniera e vi si accede dalla placca sopra la
tastiera; tuttavia quasi sempre i notebook hanno anche una o due viti per ogni
cerniera, avvitate dal retro delle due parti di guscio componenti la base. Per
rimuovere il video bisogna sconnettere il cavo o i cavi del segnale video e dell’a-
limentazione della retroilluminazione e del pannello LCD; nei notebook prov-
visti di microfono, web-cam e antenna wireless nello schermo, occorre staccare
anche i relativi cavetti. A volte per estrarre la base dell’involucro del PC occor-
re liberare le colonnette di fissaggio dei connettori della seriale e/o della paral-
lela, della SCSI o di eventuali connettori che hanno le colonnine filettate.
Sovente il coperchio della base del computer è in plastica sottilissima e quindi
fragile o facilmente deformabile, quindi nel separarlo dalla base per accedere
all’interno occorre molta accortezza; l’ideale è, dopo essersi accertati di aver
180
Attrezzarsi per riparare i notebook
rimosso tutte le viti che lo vincolano (fate attenzione che in alcuni PC il coper-
chio viene trattenuto dalle colonnine di fissaggio del modulo modem o di quel-
lo wireless, quindi dovete smontare quest’ultimo e le colonnine) incuneare nella
giuntura una lamina di plastica rigida o un cacciaviti a lama larga e sottile, quin-
di fare leva per staccare i due componenti della base. Man mano che si allarga
una parte, bisogna spostarsi lungo il perimetro fino ad aprire la base.
In luogo del cacciaviti o della lamina si può usare una spatolina in plastica o,
ancor meglio, un plettro duro di quelli usati per suonare la chitarra: è una solu-
zione poco ortodossa ma funziona benissimo.
Aperto il notebook, se dovete staccare la scheda madre la prima cosa da fare è
cercare le viti da rimuovere; queste solitamente sono evidenziate da triangolini
serigrafati sulla superficie. A volte può essere necessario rimuovere anche la
ventola di raffreddamento (ad esempio in alcuni HP Pavillon come il DV9000).
Notate che in certi notebook la mainboard è avvitata sul retro della parte infe-
riore della base tramite le colonnine esagonali (o d’altra sagoma) del connetto-
re per il monitor esterno o di quello della porta seriale o parallela; in questo caso,
non è possibile rimuovere la scheda madre prima di aver svitato tali colonnine.
Prima di smontare qualsiasi notebook, in special modo quelli con il contenito-
re in policarbonato e quindi lucido, è bene appoggiare sul piano di lavoro un
panno o un sottotovaglia di gomma, ovvero basta uno di quei fogli di materia-
le espanso che si usano negli imballi di monitor, notebook e schede madri; ciò
eviterà di rigare il guscio del computer durante i vari movimenti richiesti dallo
smontaggio delle viti, quando il notebook si appoggia su coperchio per opera-
re sul fondo.
Liberare i connettori
I modedrni notebook hanno connessioni tra le varie parti e le schede, ma anche
tra schede e tastiera, supporti dei pulsanti, moduli video, realizzate con flat-
cable molto delicati, realizzati da strisce di plastica con depositati i conduttori in
rame elettrolitico; per questa ragione i cavi vanno staccati con molta attenzione
e lo stesso vale per i connettori.
Questi possono essere di vario tipo, ma quelli per i flat sono i più delicati e
richiedono particolare attenzione, onde evitare di romperli. I connettori posso-
no essere:
ad innesto a pressione;
ad innesto con fermo;
ad appoggio con fermo girevole.
I primi hanno una fessura dove si trovano i contatti elettrici e il flat si introdu-
ce in essi tenendone ben dritta l’estremità (che di solito è rinforzata per non flet-
tersi) e spingendo a fondo; l’estrazione del flat-cable si effettua semplicemente
tirando, perché non c’è nulla che lo trattiene se non la pressione dei contatti. Per
conoscere il corretto verso d’inserimento bisogna ricordare com’erano quando
181
Capitolo 8
Figura 8.27 - Distacco del flat-cable da un connettore con fermo girevole: da sinistra a
destra, connettore chiuso, sollevamento del fermo e asportazione del flat.
sono stati estratti, ovvero guardare all’interno con una luce per vedere dove si
trovano i contatti, quindi disporre il flat con le piste da quella parte.
I connettori ad innesto con fermo hanno il flat che si infila in una fessura e,
quando arriva a fondo, si blocca spingendo nella stessa direzione la cornice di
fermo fino a sentirla scattare; di solito questi connettori hanno il corpo bianco
o avorio e il fermo è nero o marrone. Se dovete estrarre un flat da questo tipo
di connettore non tiratelo: prima con due piccoli cacciaviti a lama tirate le estre-
mità del fermo fino a sentirlo scattare. Cercate di non fare troppa forza, altri-
menti potete strappare il fermo. Per l’orientamento del flat rispetto ai contatti
del connettore vale quanto detto per la connessione a pressione.
Infine, il connettore ad appoggio ha i contatti adagiati sulla parte bassa e il flat
vi viene appoggiato, quindi premuto dal fermo, che stavolta è girevole su un ful-
cro. Per estrarre e sconnettere un cavo in questo tipo di connessione bisogna
sollevare il fermo e ruotarlo nella direzione opposta usando un piccolo caccia
viti a lama. Per rimontare il flat, dopo aver appoggiato il lato delle piste sui con-
tatti del connettore, ruotate il fermo appoggiandolo e poi spingetelo a fondo
facendolo scattare e bloccandolo. Anche questo tipo di connettore ha il corpo
bianco o avorio e il fermo nero o marrone.
Spray da laboratorio
Nelle riparazioni possono essere utili alcuni spray concepiti praticamente per il
laboratorio di elettronica; i più utilizzati sono:
freon;
alcol isopropilico;
ghiaccio istantaneo;
getto d’aria.
182
Attrezzarsi per riparare i notebook
Quest’ultimo fa più o meno la stessa cosa e si usa per ripulire le saldature o dis-
saldature dal flussante e dalle incrostazioni). Al suo posto si possono utilizzare
solventi “casalinghi” come l’AVIO (è uno smacchaitore molto volatile) o la trie-
lina, che però va utilizzata con cautela perché può sciogliere talune plastiche.
Il ghiaccio istantaneo è invece un getto d’aria umidificata compressa o di gas
refrigerante che uscendo dalla bomboletta si espande e il brusco calo di pressio-
ne lo fa gelare; si usa per raffreddare istantaneamente dei componenti che si
sospetta siano guasti, in quanto il raffreddamento improvviso causa deforma-
zioni e quindi se l’integrato ha contatti scollegati al proprio interno o lesioni nel
chip, manifesta subito il problema (ad esempio, le CPU e le memorie bloccano
il computer).
Il getto d’aria è pura aria compressa in bombolette, che si impiega sia per raf-
freddare modestamente senza sottoporre allo shock termico tipico del ghiaccio
istantaneo, sia per soffiare via polvere e corpi estranei dalle schede elettroniche.
Si usa sovente per pulire le tastiere e l’interno dei trackball.
Cercare i ricambi
Quando la riparazione del notebook richiede la sostituzione di componenti non
standard, ovvero non di semplici transistor, fusibili, circuiti integrati e simili,
bisogna procurarsi le parti di ricambio, che sono ad esempio le RAM compati-
bili o una tastiera oppure le schede interne. Per ordinarle è importante indivi-
duare il codice (part number) che normalmente è riportato insieme al codice a
barre in un’etichetta di varia foggia applicata al componente.
Il codice è molto importante i quanto, specie per le schede madri, talvolta può
succedere che non basti ordinarle indicando marca e modello del notebook e in
qualche caso neppure il serial number (numero seriale di produzione del PC)
può essere utile: infatti alcune case cambiano repentinamente scheda madre nel-
l’ambito della stessa annata di produzione, perché si approvvigionano da un
nuovo fornitorfe, quindi può accadere che ordinando il ricambio con modello e
anno di produzione ci si veda arrivare quello sbagliato.
A questa imprecisione concorrono le indicazioni talvolta eronee dei costrutto-
ri, che comunicano distinte deri componenti sbagliate o non le comunicano
affatto, almeno ai rivenditori di ricambi non autorizzati.
183
CAPITOLO 9
GUASTI DELL'ALIMENTAZIONE
È giunto il momento di approcciare alla ricerca e alla risoluzione dei problemi nei
computer notebook; lo si farà iniziando con i guasti riguardanti l’alimentazione, che
possono essere responsabili di molti e variegati problemi di funzionamento o che
arrivano a causare anche la mancata accensione del portatile. Il guasto va ricercato
esaminando il comportamento del PC, tuttavia per ritenere che sia compromesso
l’alimentatore non basta vedere se il computer si accende o meno: l’esame deve
essere più approfondito e deve riguardare il circuito interno, ovvero la scheda
madre.
Prima di esaminare i tipici comportamenti che possano far sospettare un problema
all’alimentazione, va precisato che per alimentazione si intende tutta una catena di
dispositivi: l’alimentatore AC/DC esterno al computer, le connessioni (ovvero lo
spinotto dell’AC/DC ed il plug di alimentazione del notebook) l’alimentatore prin-
cipale interno e tutti gli altri stadi di alimentazione sulla scheda madre.
Se il computer, pur alimentato, premendo il pulsante di accensione non dà segni di
vita (ossia non accende alcuna spia e non si sente attività o movimento dei dischi
rigidi o del lettore di dischi ottici) la prima cosa da fare è accertarsi che l’adattato-
re di rete funzioni ed eroghi la tensione prevista; il valore di quest’ultima è desumi-
bile dalla targhetta riportata su una faccia dell’alimentatore stesso. Bisogna quindi
armarsi di tester, disporlo sulla misura di tensioni continue con fondo scala di alme-
no 20÷30 V (per i tester auto-range non c’è da impostare alcuna scala) quindi toc-
care con ciascun puntale un elettrodo dello spinotto dell’alimentatore; se trattasi di
un adattatore AC/DC che fornisce più tensioni, bisogna portare il puntale negati-
vo sul contatto di massa ed il positivo sui connettori interni che portano le varie
185
Capitolo 9
R = 18 V / 4,5 A = 4 ohm
P = V x I = 18 V x 4,5 A = 81 W
Visto che in commercio non si trovano facilmente resistori di tale potenza, con-
viene costruire quello richiesto dalle prove ponendo in serie 4 resistenze a filo
da 1 ohm, 21 W.
La resistenza va collegata con due fili al plug dell’alimentatore e con un tester
occorre verificare che la tensione sotto carico non sia sensibilmente diversa (è
accettabile un 10 % in meno ma non oltre...) da quella misurabile senza collega-
re la resistenza. In caso contrario vuol dire che l’alimentatore AC/DC ha una
certa difficoltà ad erogare la corrente richiesta e quindi va sostituito.
È anche possibile tentare la riparazione dell’alimentatore da rete, ma ciò richie-
de molta attenzione perché una parte di esso è alimentata dalla tensione di rete;
tipicamente l’alimentatore AC/DC consta di un raddrizzatore formato da uno
o più diodi e un condensatore elettrolitico, che trasforma la tensione alternata in
una continua il cui valore è circa 1,4 volte maggiore di quello dell’alternata, per-
ciò nel caso della rete italiana si ottengono 1,4x220 V=308 V.
Oramai tutti gli AC/DC sono universali, nel senso che si adattano a tensioni di
rete comprese fra 100 e 240 Vca, quindi non vi sono selettori nella sezione rad-
drizzatrice.
186
Guasti dell'alimentazione
188
Guasti dell'alimentazione
189
Capitolo 9
Quando accadono questi due problemi, il diodo surriscalda a tal punto da bru-
ciarsi: appare allora carbonizzato o semplicemente crepato; ma non è sempre
così, in quanto alle volte la fusione della giunzione non raggiunge temperature
tali da manifestare segni inequivocabili sul contenitore.
In questo caso, comunque raro, si deve andare a verificare con il tester imposta-
to sulle prove di continuità (portate ohmiche a bassa resistenza o con avviso
sonoro) che il diodo non sia in cortocircuito; se si ha il sospetto che lo sia, biso-
gna dissaldare il diodo (con il saldatore o, se è in SMD, meglio con il getto d’a-
ria calda) e provarlo da solo o con almeno un elettrodo sconnesso dal circuito.
In condizioni normali, portando il puntale rosso (positivo) sul catodo (il contat-
to vicino alla fascetta segnata sul corpo del diodo) e il nero sull’anodo il diodo
deve avere resistenza infinita o quasi; se presenta zero o poche decine di ohm o
comunque pressappoco la resistenza misurata tra positivo e negativo del connet-
tore di ingresso alimentazione, significa che è guasto e va sostituito.
Se all’esame visivo non appare nulla, bisogna innanzitutto cercare l’origine del
cortocircuito, procedendo per passi: per prima cosa occorre individuare il per-
corso della tensione, sconnettendo i fusibili o i resistori di potenza che si trova-
no sulla linea di alimentazione principale. A riguardo va detto che usualmente gli
alimentatori switching di un notebook sono tutti alimentati da una linea comu-
ne, a volte protetta da fusibili comuni o autoripristinanti, ma sovente libera
(diretta) il che significa che una sovratensione potrebbe guastarli tutti insieme.
In tal caso la riparazione potrebbe essere troppo dispendiosa perché richiede-
rebbe di andare ad analizzare tutti i MOSFET inseriti negli stadi. Peraltro risul-
terebbe difficile ricercare il guasto in quanto per farlo occorrerebbe separare le
varie sezioni e ciò non sempre è possibile, dato che la linea comune che le ali-
menta passa in piste che si trovano anche negli strati interni del circuito stampa-
to del computer e che quindi non è possibile interrompere per isolare i DC/DC.
Una cosa da notare è che se si verifica un cortocircuito a valle dell’alimentatore
caricabatteria, ovvero nel chipset o in uno dei DC/DC converter interni, solita-
mente quando la batteria è carica salta il fusibile che la protegge, ovvero si bru-
cia la resistenza di protezione posta in serie ad essa; valutare questo indizio può
essere già un buon inizio per escludere eventuali altri problemi.
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Guasti dell'alimentazione
191
Capitolo 9
montaggio passante (THT) ovvero con terminali che entrano in fori del circui-
to stampato, quasi sempre passanti. Per facilitare l’estrazione può essere neces-
sario sollevare il corpo del plug mentre si scaldano le piazzole corrispondenti; in
tal caso occorre prestare attenzione a non forzare troppo, in quanto quando la
vetronite che costituisce il circuito stampato è molto calda, può deformarsi o
lacerarsi facilmente e irrimediabilmente.
Estratto il connettore, bisogna pulirne bene le piazzole con la trecciola dissal-
dante ed inserire il nuovo plug, quindi saldarlo accuratamente e stagnarlo abbon-
dantemente.
Completate le saldature e lasciato riposare il circuito per circa un minuto, si può
ripulire la zona delle piste dal flussante, con dell’alcol isopropilico spray (o con
della trielina o del solvente Avio) e poi con uno spazzolino.
Con alcuni computer il lavoro si presenta molto più semplice, dal momento che
il plug di alimentazione non viene montato sul circuito stampato, bensì è forni-
to già cablato con un suo cavo a più conduttori ed un apposito connettore da
inserire nel corrispondente del circuito stampato (Figura 9.5). In questo caso
non bisogna fare danni al circuito stampato, ma basta sconnettere il connettore
e liberare il plug dall’eventuale piastrina di fermo che lo trattiene.
192
Guasti dell'alimentazione
193
Capitolo 9
con un puntale l’elettrodo interno si cerca quello che dà resistenza nulla o quasi
(pochissimi ohm): questo è il positivo; poi si tocca il contatto esterno e si va a
cercare l’elettrodo che fa cortocircuito (o resistenza bassissima) con esso, che
sarà il negativo.
Saldati i due fili, se disponete di un alimentatore da laboratorio (capace di ero-
gare da 14 a 20 Vcc e una corrente di almeno 4 A) il rosso andrà collegato al
morsetto positivo ed il nero al negativo; se invece disponete di un alimentatore
con plug standard coassiale con foro, infilate il filo rosso nel foro ed avvolgete
l’estremità del nero attorno all’esterno metallico del plug stesso. In entrambi i
modi, se il notebook è a posto deve accendersi.
194
Guasti dell'alimentazione
La ventola va pulita con un getto d’aria o, se gira lenta o non gira perché la bron-
zina su cui gira il rotore sta grippandosi, deve essere verificata e nel caso sosti-
tuita con una nuova.
Molto importante è anche verificare periodicamente che sulle griglie d’uscita
dell’aria che le ventole estraggono dal notebook o sulle alettature in rame del
dissipatore raffreddato dalla ventola non si sia accumulata lanuggine causata
dalla polvere, fuliggine o altra forma di addensamento che ostacolerebbe l’a-
sportazione del calore; in tal caso bisogna smontare il notebook fino ad accede-
re al dissipatore, staccare quest’ultimo e soffiarvi con un getto d’aria compres-
sa per ripulirlo, quindi rimontarlo al suo posto e chiudere il computer.
L’accumulo di sporco sulle feritoie di ventilazione (sia d’entrata dell’aria aspira-
ta dalle ventole che d’uscita del calore asportato) determina anomalie e proble-
matiche o guasti uguali a quelli derivanti dal malfunzionamento o blocco della
ventola di raffreddamento, ma anche dei difetti al sensore termico.
195
Capitolo 9
L’eventuale sostituzione degli elementi si può fare dopo averne trovati di com-
patibili con quelli della batteria originale; ad esempio, in un pacco-batteria
NiMH da 12 V e 2.700 mAh ci vanno elementi NiMH da 2,7 Ah.
A parte questo, quando il notebook funziona solo con la rete e non a batteria,
prima di ritenere guasta la batteria stessa occorre accertarsi che il computer la
carichi correttamente; ciò si fa innanzitutto verificando che il fusibile della bat-
teria sulla scheda madre sia a posto (ossia lo si deve provare -a PC spento- con
il tester, accertando se manifesta continuità) e se lo è bisogna vedere se il cari-
cabatteria fornisce la giusta tensione, cosa verificabile con il tester disposto sulla
misura di tensioni continue e ponendo i puntali sui contatti di massa (negativo)
e positivo.
Notate che normalmente i contatti di massa sono due affiancati e più grandi
degli altri, ma non sempre è così; in ogni caso il contatto di massa della batteria
si trova con il tester disposto sulla misura di resistenze di basso valore, portan-
do un puntale sulla pista di massa della mainboard (è quella in contatto con il
negativo del plug di alimentazione) e l’altro sui contatti uno alla volta, fino a tro-
vare quelli che danno continuità, ovvero zero o pochissimi ohm di resistenza.
Solo se il notebook fornisce la giusta tensione, si può ritenere che la batteria sia
da sostituire; se manca tensione occorre verificare il fusibile o l’alimentatore
principale/caricabatteria ed eventualmente sostituire l’integrato che lo governa
o i MOSFET che fossero danneggiati.
196
Guasti dell'alimentazione
197
CAPITOLO 10
GUASTI DEL VIDEO
197
Capitolo 10
book. Un guasto dell’LCD può far apparire l’intero schermo di colore bianco.
Quando l’immagine non appare né sul display né sul monitor esterno, i proble-
mi possono essere due: la scheda video è guasta o lo switch allo stato solido che
commuta l’immagine sul monitor di bordo o sul connettore per monitor ester-
no è danneggiato; in un caso del genere è abbastanza difficile identificare il pro-
blema, che comunque -se riguarda la scheda video- risiede nella sezione di usci-
ta e non in quella di conversione D/A. Infatti quando il chip video è guasto al
punto da non comunicare con il chipset Northbridge, quest’ultimo rileva l’ano-
malia e fa emettere al cicalino di bordo della scheda madre una serie di quattro
note acustiche.
Dunque, se accendendo il computer non si vede nulla a video ma si sentono i
quattro “beep”, significa che la scheda grafica è seriamente compromessa, ovve-
ro il suo chip grafico ha semplicemente scollegati uno o più piedini vitali per il
suo funzionamento e il dialogo con il bus verso il chipset; per “scollegati” si
intende che ci sono delle saldature fredde in corrispondenza di alcuni pin, che
quindi fanno falso contatto.
Se, invece, lo schermo resta ugualmente nero ma non si ode l’avviso acustico,
c’è da sospettare un guasto più serio, nel senso che il chip video ha la sezione di
conversione D/A, il processore grafico o le componenti d’uscita guasti; in que-
sto caso, per accertarsene basta collegare un monitor esterno e verificare cosa
accade.
Riguardo al collegamento di un monitor esterno va ricordato che la scheda
video dei portatili è in grado di rilevarne la presenza e regolarsi di conseguenza;
per l’esattezza, se all’accensione del notebook risulta collegato un monitor alla
presa VGA esterna, il BIOS passa automaticamente le immagini su questa e
disattiva il display LCD. In caso contrario, la visualizzazione viene attivata
sull’LCD ed alla presa esterna non arriva alcunché. Dopo aver avviato il com-
puter normalmente, cioè con l’LCD, si può in ogni momento passare alla visua-
lizzazione esterna o su entrambi i monitor, con le combinazioni di tasti previste.
Se il computer non visualizza nulla sul monitor esterno all’avvio o a seguito della
commutazione manuale, però visualizza correttamente sull’LCD, significa che è
guasto lo switch o almeno la sezione dello switch che provvede alla commuta-
zione dell’uscita video sul connettore esterno.
La scheda video può manifestare i propri difetti in altri modi, ad esempio facen-
do bloccare il computer nell’esecuzione di giochi o animazioni in grafica avan-
zata o CAD che implichino l’utilizzo delle istruzioni 3D; in questo caso il pro-
gramma in corso può bloccarsi e il computer produce a video una finestra di
avviso nella quale evidenzia un problema occorso a un certo modulo o nell’uso
di particolari dll Nvidia. A volte il PC non si blocca ma esce solo l’avviso di erro-
re nell’esecuzione o nel richiamo di dll Nvidia. In questi casi ci sono problemi
con il chipset video, ovvero la GPU, che nello specifico è una Nvidia GeForce
dell’ultima generazione.
Ancora, ma è più raro, quando la scheda video è guasta il computer non si
198
Guasti del video
Figura 10.1 - Disposizione della mainboard sulla macchina per BGA e riscaldamento
mediante lampada ad infrarossi.
chip, col calore questo si scioglie e scorre sotto il BGA; è poi chiaro che non
sempre il flussante raggiunge tutte le zone sottostanti il componente e tutte le
saldature, il che praticamente implica che tale metodica non risolve tutti i pro-
blemi. Infatti se la saldatura o le saldature staccate sono in una zona molto inter-
na (per esempio al centro) del chip, non è detto che il flussante le raggiunga e
possa esercitare la propria azione; ciò si riscontra ad esempio nei chip molto
vasti, come gli Intel i965.
Per avere maggiore efficacia, si può utilizzare del flussante liquido, che però va
applicato ai bordi del chip BGA prima di riscaldare il circuito stampato, altri-
menti evapora; applicandolo a freddo si è certi che possa andare a spargersi
bene sotto il corpo dell’integrato. In ogni caso, se si usa flussante in pasta occor-
re scegliere quello meno denso, specifico per reflow o saldatura di componenti
SMD, evitando i flussanti usati nella saldatura dei BGA.
Il reflow si svolge sostanzialmente scaldando il circuito stampato in modo da
mantenere calda la superficie delle piazzole; quando questo raggiunge circa 100
°C, bisogna spargere il flussante in pasta; superati i 140÷150 °C, si scalda supe-
riormente il chip per un tempo variabile tra i 30 e i 50 secondi, cercando di non
fargli superare i 220 °C, ovvero superando questo limite ma operando per non
più di 15 secondi e comunque non oltre lo stretto necessario a veder muovere
leggermente il BGA o ribollire il flussante. Le temperature esatte vengono spe-
201
Capitolo 10
cificate dai vari costruttori e dipendono chiaramente dalle qualità termiche del
chip che si sta trattando. Si comprende quando lo stagno si è fuso dal fatto che
appoggiando delicatamente e gradualmente un cacciaviti metallico sul corpo del
BGA, questo si muove o si abbassa (evitate di premere troppo, altrimenti è faci-
le che due palline di lega saldante vicine si tocchino e facciano un cortocircuito,
per rimuovere il quale occorrerebbe smontare e risaldare il BGA).
Fusa la lega saldante, bisogna spegnere il riscaldatore superiore o, se è possibile,
farne scendere la temperatura gradualmente, all’incirca di un paio di gradi al
secondo (per seguire la variazione ci si può aiutare con le sonde di temperatura
di cui dispongono le macchine per reflow); lo stesso vale per il riscaldatore infe-
riore. I valori e le curve di variazione dipendono dal tipo di chip.
Se occorre, si può ripetere una volta il ciclo termico appena descritto; oltre le
due volte, le caratteristiche del componente possono venire pregiudicate irrime-
diabilmente.
Nell’eseguire questo procedimento non bisogna scordare che il riscaldatore del
chip scalda anche il circuito stampato, quindi se la macchina usata non dispone
di un meccanismo di regolazione adeguato, lo stampato può raggiungere tem-
perature tali da far staccare i componenti sul lato opposto o spostare quelli del-
l’altro, il che porta a danni irreparabili. Pertanto quando si persiste con il riscal-
datore superiore conviene spegnere quello inferiore, ovvero si può spegnere
quest’ultimo poco prima di accendere il riscaldatore del chip.
Un’altra cosa da considerare è che, per far meglio aderire la lega saldante ai con-
tatti, conviene, quando si scalda il chip, provare delicatamente a muoverlo late-
ralmente e a premerlo leggermente verso lo stampato; ciò si può fare con un
attrezzo metallico dotato di impugnatura isolante (altrimenti il calore si propaga
alla svelta e diviene difficile impugnarlo) e con mano molto ferma, in quanto
basta uno spostamento di un millimetro per far toccare le saldature di una fila
di contatti con quelle delle file attigue e creare una serie di cortocircuiti che
richiedono l’asportazione del chip e la sua risaldatura. Analogamente, se si
preme troppo energicamente il componente, le palline di stagno che realizzano
i contatti possono dilatarsi e quelle di una fila si fondono insieme a quelle delle
Figura 10.3 - A sinistra, trattamento della colla per BGA mediante l'apposito prodotto liqui-
do (in mezzo) applicato a pennello; a destra, rimozione dei punti di colla mediante un
attrezzo a punta, quando la scheda viene riscaldata.
202
Guasti del video
Figura 10.4 - A sinistra, protezione della zona di circuito stampato attorno al chip da scal-
dare per il reflow: il nastro deve distare 3÷4 mm dal bordo del BGA. A destra, riscaldamento
del chip: l'alluminio riflette la luce della lampada e impedisce il surriscaldamento dello stam-
pato della mainboard.
Curve di reflow
Il metodo di reflow descritto finora è generico e talvolta può non essere ottima-
le per un certo chip; giusto sarebbe disporre di una macchina più sofisticata in
cui fosse possibile impostare sequenze di lavorazione automatiche con le curve
di temperatura suggerite dai singoli costruttori di BGA. Macchine del genere
esistono da tempo in commercio e permettono di programmare il ciclo di
203
Capitolo 10
Figura 10.5
Sequenza
delle fasi di
asportazione
di un chip
BGA; a destra,
circuito stam-
pato dal quale
è stato aspor-
tato un chip
BGA. Si nota
la sonda termi-
ca della mac-
china, costan-
temente
appoggiata sul
circuito stam-
pato a ridosso
del chip, per
rilevarne la
temperatura.
non significa che la temperatura debba essere di tale valore, ma che non biso-
gna scendere sotto, quindi sono ammessi picchi anche di 220 °C per la lega sal-
dante a piombo-stagno e 240 °C per le Rohs. Durante questa seconda fase, la
temperatura della scheda e con essa quella dei contatti, deve mantenersi ad
almeno 150 °C.
Completata la terza fase, inizia il raffreddamento: si fa scendere la temperatura
del lato inferiore insieme a quella del corpo del BGA, con un gradiente di 5
°C/s o poco più. Per il raffreddamento si possono semplicemente spegnere i
riscaldatori, ovvero spegnere i riscaldatori e raffreddare il chip con un ventilato-
re per accelerare il raffreddamento del chip.
Figura 10.6
Alcune curve di
reflow di chip BGA
saldati con la nor-
male lega piombo-
stagno: sopra
quella per i com-
ponenti dell’Altera
e sotto quella per i
Lattice.
205
Capitolo 10
staccare i fogli isolanti adesivi in plastica applicati nelle varie zone del circui-
to stampato;
staccare spugne e gomme incollate sullo stampato;
smontare parti in plastica che si ritiene possano essere deformate dal calore,
quali ad esempio alcuni dettagli dei lettori di card PCMCIA;
sconnettere e staccare fisicamente le batterie o pile della memoria CMOS;
rimuovere eventuali moduli Wi-Fi, Bluetooth e modem.
Quanto alle parti in plastica, va detto che normalmente gli zoccoli per le memo-
rie e per le varie card, come i connettori, sono costruiti in materiali in grado di
resistere alle temperature delle macchine per BGA, visto che peraltro i compo-
nenti si saldano con queste, comunque ci sono eccezioni. Bisogna anche rimuo-
vere i circuiti integrati su zoccolo, ovvero le CPU, salvo i casi in cui non siano
saldate sulla mainboard.
Oltre ai particolari su menzionati, prima di eseguire un reflow o la sostituzione
di un chip BGA conviene rimuovere anche eventuali fermagli metallici o plac-
che di ancoraggio delle viti che sostengono i dissipatori di chipset, chip video e
CPU; ciò a causa del fatto che usualmente queste parti sono isolate dal circuito
stampato mediante fogli di plastica, i quali con il calore possono deformarsi e
far perdere l’isolamento. In alcuni casi le plastiche sono particolarmente vicine
o parzialmente sovrapposte ad alcuni componenti SMD e la deformazione,
abbinata al forte calore ricevuto dal circuito stampato, può spostare questi com-
ponenti e rendere inservibile la scheda sottoposta al reflow.
Siccome quando si riscalda un circuito stampato, in presenza del flussante pos-
sono dissaldarsi anche componenti vicini o saldati dal lato opposto del BGA su
cui si sta operando, in certi casi per evitare danni irreparabili bisogna escogitare
una soluzione per limitare il riscaldamento alle zone che lo richiedono; un truc-
co molto efficace consiste nel circondare il BGA con un foglio di alluminio da
cucina o con del nastro di alluminio per fumisteria. Nel deporre questo “scher-
mo” bisogna lasciare 3÷4 mm dal bordo del chip. Il foglio o nastro metallico ha
Figura 10.7 - Pulizia delle piazzole del chip BGA: da sinistra a destra, deposizione del flus-
sante con una spatolina, riscaldamento e aggregazione dello stagno sulla punta del salda-
tore, passaggio con la trecciola dissaldante e risultato finale.
206
Guasti del video
un elevato potere riflettente, quindi riflette sia la luce, sia i raggi infrarossi e per-
mette di limitare decisamente il riscaldamento del circuito stampato nelle zone
estranee a quella del chip da trattare, le quali rimangono pressappoco alla tem-
peratura imposta dal riscaldatore inferiore.
Sostituzione di un BGA
Il reflow non sempre è risolutivo, sia perché lo scioglimento della lega saldante
può non riuscire a ripristinare le saldature, sia per il fatto che alle volte il pro-
blema che ha l’integrato non è una semplice saldatura fredda o un falso contat-
to, bensì è proprio guasto il chip. In questo caso è necessario sostituirlo con uno
nuovo. La sostituzione dei chip BGA si esegue similmente al reflow: per prima
cosa occorre mettere il circuito da riparare sull’apposita macchina e quindi por-
tare la superficie superiore a 140÷150 °C; raggiunta questa temperatura, con la
lampada al quarzo o altro riscaldatore si scalda la superficie del componente
BGA fino a portarla a 220÷240 °C , provando contemporaneamente a solleva-
re un lato del chip con una pinzetta metallica (Figura 10.5) o con la punta di un
sottile cacciaviti a lama. Quando il componente si solleva, bisogna asportarlo
con decisione evitando, per quanto possibile, di farlo strisciare, altrimenti è faci-
le far appiccicare dello stagno su componenti attigui o, peggio, staccare compo-
nenti attigui che si sono dissaldati per effetto del riscaldamento del circuito
stampato.
A questo punto si può spegnere la macchina, attendere che la scheda si raffred-
di fino a circa 50 gradi (oltre sarebbe difficile da maneggiare) e con un saldato-
re e della trecciola dissaldante si deve asportare lo stagno rimasto sulle piazzo-
le, fino a rendere queste ultime moderatamente piane. L’asportazione dello sta-
gno può essere condotta meglio con un saldatore dotato di punta piatta (a spa-
tola): per prima cosa bisogna cospargere di pasta flussante per BGA (ma va
bene anche la pasta per reflow o saldatura degli SMD illustrata nel Capitolo 8)
la superficie dei contatti del BGA appena asportato, quindi passare sulle sfere
con la punta del saldatore ben caldo; in questo modo vedrete la lega saldante
sciogliersi e addensarsi in grandi bolle, ragion per cui sarà necessario di tanto in
tanto scuotere la punta del saldatore lontano dalla scheda per staccare la lega
fusa, ovvero pulirla sulla spugnetta del saldatore, che deve essere ben inumidita.
Rimossa la lega saldante dalle piazzole bisogna asportare eventuali tracce di
colla dell’integrato dalla zona corrispondente al bordo, in modo da predisporre
il montaggio del nuovo componente.
Rimosso lo stagno e la colla, bisogna pulire le piazzole e la zona occupata dal
BGA con del solvente (alcol isopropilico o trielina) e poi (evaporato il solven-
te) spalmare in tutta questa zona, servendosi di un pennellino, un sottile strato
di pasta flussante per BGA, ti tipo abbastanza denso (solitamente questa pasta
è scura e sembra grasso da meccanica).
Ora si deve rimettere la scheda sulla macchina per saldatura ed appoggiare l’in-
tegrato nuovo (di norma i BGA vengono forniti già dotati di palline di lega sal-
207
Capitolo 10
dante sui contatti) facendo combaciare il riferimento segnato sul suo corpo con
quelli della serigrafia del circuito stampato, quindi centrarlo bene riferendosi al
quadrato disegnato sempre sulla serigrafia. Poi occorre accendere il riscaldatore
inferiore, portare la superficie del circuito stampato della mainboard a 150 °C e,
raggiunta tale temperatura, accendere il riscaldatore superiore e portarsi a
220÷230 °C fin quando non si vede il BGA abbassarsi, adagiarsi sulle proprie
saldature; ciò, di norma, coincide visivamente con l’ebollizione del flussante.
Procedura di reball
Se il reflow non ha avuto particolare successo, ovvero nel premere o muovere
un BGA durante tale procedimento si sono uniti più contatti, occorre risaldare
il chip in lavorazione; salvo rari casi, per farlo bisogna procedere al reball, ossia
alla creazione ex-novo dei contatti realizzati dalle sfere di lega saldante. Se inve-
ce la lega saldante rimasta sui contatti del BGA è abbastanza spessa, si può pro-
cedere alla risaldatura i contatti rimasti, come spiegato nel paragrafo Sostituzione
di un BGA, dopo aver asportato lo stagno dalle piazzole dello stampato.
In caso contrario, per rifare i contatti prima di saldare il BGA occorre:
1. dopo aver rimosso l’integrato, disporlo su un banco con il lato dei con-
tatti rivolto verso l’alto;
2. cospargerne la superficie con del flussante;
3. con la punta di un saldatore alla temperatura di 280÷300 °C, passare sul-
le piazzole (pad) sciogliendo lo stagno, che tenderà a raggrupparsi in gocce at-
torno alla punta stessa; quando le gocce sono troppo grosse bisogna scuotere il
saldatore (ovviamente lontano dal BGA ed evitando di far cadere lo stagno su
materiali che possono sciogliersi col calore) per scrollare via lo stagno e ripren-
dere fin quando tutte le piazzole non sembrano lisce;
4. passare con la trecciola dissaldante, appoggiandola delicatamente sulla
superficie dei contatti e scaldandola contemporaneamente con la punta del sal-
datore, in modo da farle assorbire la lega saldante in eccesso;
Figura 10.8 - Asportazione delle sfere da un BGA: a sinistra si spalma il flussante, mentre
in centro si scioglie ed aggrega la lega saldante usando un saldatore con punta a spatola.
A destra, in alternativa, asportazione delle sfere con la trecciola dissaldante.
208
Guasti del video
209
Capitolo 10
Le sfere si possono ritenere saldate quando, per effetto del flussante, si agglo-
merano formando delle piccole palline, ognuna sulla rispettiva piazzola del
BGA. Fatto ciò, il componente è pronto e può essere saldato con la macchina
per BGA.
Oltre che con il getto d’aria calda, che potrebbe spostare le sfere, il reball può
essere eseguito mettendo il chip in un forno elettrico alla predetta temperatura
di 300÷315 °C per il tempo occorrente a fondere le sfere (il forno deve essere
illuminato e quanto accade all’interno dovete poterlo vedere chiaramente)
tempo che di solito è intorno ai 2 minuti. Il forno deve avere un riscaldatore a
resistenza elettrica o ad infrarossi: va assolutamente evitato il forno a microon-
de, perché funziona a induzione elettromagnetica e distruggerebbe il BGA!
Notate che da tempo esistono forni automatici gestiti da microprocessore che
permettono di eseguire sequenze preimpostate o definibili dall’utente, in manie-
ra del tutto autnonoma.
Ancora, le sfere si possono far aderire rimuovendo il BGA dall’attrezzo di cen-
tratura e ponendolo sulle guide della macchina per saldatura dei BGA, avendo
cura di portare il lato inferiore a 150 °C e quello superiore a 220÷240 °C fino a
veder sciogliere le sfere.
Una volta applicate le sfere ai contatti del chip, si dispone la scheda sulla mac-
china per la saldatura e si porta la sua temperatura a circa 150 °C, quindi, rag-
giunto questo valore, si dispone abbondante pasta flussante sulla superficie del
BGA che riporta le sfere di lega saldante e si appoggia il BGA sulle piazzole cor-
Figura 10.9 - Fasi del reball: in senso orario, deposizione del BGA nell’attrezzo di posizio-
namento, applicazione ai contatti del flussante, chiusura dell’attrezzo con la dima applicata
al BGA, spargimento delle sfere, introduzione nel forno ed esecuzione del programma.
210
Guasti del video
Figura 10.10 - Pasta flussante per reball (a sinistra) barattolino di sfere di lega saldante (in
mezzo) e dima per il posizionamento delle sfere per BGA (a destra).
211
Capitolo 10
mente tenendo il chip dalla parte opposta a quella della piastra riscaldante.
In questo caso, non si vede il chip muoversi ed è più difficile capire quando le
saldature hanno luogo; bisogna quindi fare un po’ di pratica, partendo comun-
que da alcuni punti di riferimento, che sono i seguenti:
la scheda deve avere il lato superiore riscaldato a 150÷155 °C dal riscaldato-
re inferiore;
raggiunta tale temperatura occorre riscaldare il lato superiore fino a 220÷230
°C se le sfere del BGA sono di lega di stagno e piombo, ovvero qualcosa di più
(235÷250 °C) se si usano sfere di lega Rohs compatibile; a tali temperature, bi-
sogna mantenere il componente per circa 10 secondi e poi spegnere il riscalda-
tore superiore, quindi ripetere il ciclo di 10 secondi;
la saldatura si può ritenere compiuta quando il flussante comincia a “bollire”
e a fuoriuscire da sotto il chip; una decina di secondi in questa condizione assi-
cura, solitamente, l’avvenuta fusione della lega saldante.
La saldatura dei chip BGA, come il reflow e la dissaldatura, possono essere con-
dotti mediante macchine automatiche di lavorazione (ad esempio quella mostra-
ta nella figure 10.12, 10.13 e 10.14), nelle quali è possibile lavorare l’intera sche-
da madre eseguendo in maniera automatica sequenze impostabili dall’utente; si
tratta di macchinari basati su microprocessore o PLC, dotati di display per inte-
ragire con l’operatore, capaci anche di asportare fisicamente il BGA mediante
un sistema pneumatico ad aspirazione, che alla fine del riscaldamento fa scende-
re una ventosa in grado di risucchiare, staccare dalla scheda e trattenere il com-
ponente. Il riscaldamento del chip avviene sia inferiormente (dalla zona della
scheda sotto quella in cui è saldato) sia superiormente mediante getti d’aria calda
diretti da ugelli intercambiabili, mentre una base riscaldante ad infrarossi man-
tiene calda l’intera area di lavoro e quindi tutta la scheda, per evitare stress ter-
mici che potrebbero verificarsi se zone dello stampato si trovassero a tempera-
ture troppo differenti o si scaldassero e raffreddassero con tempi troppo diffe-
212
Guasti del video
213
Capitolo 10
214
Guasti del video
215
Capitolo 10
Guasti dell’LCD
Si può ritenere che sia guasto il pannello a cristalli liquidi quando l’immagine
non appare del tutto ma lo schermo risulta illuminato, grigio, grigio scuro o
bianco, o anche quando vi appaiono linee verticali variamente colorate e dispo-
ste, più o meno fitte; oppure se l’immagine appare solo per una parte dello
schermo. Lo schermo è ovviamente guasto se a causa di un urto si provoca una
rottura fisica o una o più crepe. Invece, se l’immagine si intravede ma è molto
216
Guasti del video
Figura 10.19 - Tipico circuito inverter per il comando di retroilluminatori a pellicola fluore-
scente basato sull'integrato OZ9910.
217
Capitolo 10
Figura 10.20 - Tipico circuito inverter per il comando di lampade fluorescenti basato sull'in-
tegrato OZ9910: il driver è a doppio stadio complementare a MOSFET, ognuno dei quali
comanda un avvolgimento primario del trasformatore.
218
Guasti del video
Figura 10.21
Scheda inverter per
retroilluminazione
del display LCD
mediante lampadine
a neon.
219
Capitolo 10
livello logico che comanda il regolatore dei LED, quindi è sufficiente andare a
cercare la presenza di questo laddove il monitor appaia funzionante ma primo
della retroilluminazione.
Se il segnale di enable è presente ma manca l’illuminazione, è guasto il regolato-
re e va sostituito, mentre se questo sembra essere funzionante occorre verifica-
re i collegamenti elettrici con le file di LED e quindi i LED.
In tutti i casi i circuiti sono a montaggio superficiale, quindi l’asportazione dei
componenti e la risaldatura conviene siano fatti con la macchina a getto d’aria
calda e una pinzetta; dato che il circuito dell’inverter è piccolo e leggero, convie-
ne fissarlo ad un morsetto che lo sospenda in aria, in modo da evitare di scalda-
re con l’aria il piano di lavoro e sciogliere o bruciare il rivestimento o altri mate-
riali (ad esempio tappetini per non graffiare il case del computer). Il morsetto
consente altresì di tenere ferma la piccola scheda.
220
Guasti del video
prima degli altri e si riscontra in qualunque sia la soluzione adottata dal costrut-
tore per trasportare i segnali: infatti ad interrompersi sono tanto i cavi, quanto
le piattine (flat-cable). Generalmente il difetto si smaschera piegando il coper-
chio e sollevandolo più volte, allorché l’immagine a video appare o scompare,
ovvero diventa buia e poi torna luminosa.
In questo caso occorre smontare il coperchio del notebook ed anche la parte
superiore del contenitore della base, quindi individuare i punti di collegamento
(ovvero i connettori) del cavo di collegamento che porta i dati al monitor e
sostituirlo. Nei moderni notebook il coperchio dello schermo solitamente
incorpora un microfono e sovente la web-cam, ma a volte altro ancora, ragion
per cui bisogna individuare il cavo giusto; per non sbagliare potete seguire il per-
corso, ma comunque in linea di massima il cavo del monitor è solitamente uno
solo ed è quello più corposo, ovvero si presenta come una piattina. In alcuni
notebook ci sono due cavi: uno che porta i segnali del video vero e proprio (sin-
cronismi, colori RGB) ed uno che trasporta l’alimentazione per la matrice ed il
retroilluminatore, oltre al segnale di clock o di comando per l’inverter o regola-
tore del retroilluminatore stesso.
221
CAPITOLO 11
GUASTI DI CPU, RAM, BIOS E CHIPSET
Quando un notebook si avvia ma non lavora, intendendo con ciò che premendo il
tasto di accensione le spie si comportano normalmente e la ventola parte, per poi
fermarsi, ma non viene caricato il sistema operativo o la schermata di avvio (quel-
la del BIOS) non appare o si blocca, si può ipotizzare un guasto della CPU o delle
RAM. In questo capitolo esaminiamo i due casi che possono verificarsi, partendo
dalle problematiche inerenti alla CPU.
Se c’è un guasto nel processore, solitamente il computer si accende ma lo schermo
appare buio e non c’è attività nel disco rigido e nelle unità CD/DVD, cosa resa evi-
dente dal fatto che la spia di attività di tali periferiche di memorizzazione di massa
non pulsa; la ventola può avviarsi e poi fermarsi per riprendere più avanti a funzio-
nare, ovvero girare costantemente alla massima velocità. In questo caso significa
che il processore scalda molto a causa di un cortocircuito interno o che il sensore
di temperatura nel suo chip indica anomalia termica al gestore termico della vento-
la. È anche possibile, ma raro, che un cortocircuito nella CPU faccia accendere e
poi spegnere il computer, ma succede solo in quei vecchi PC in cui l’alimentatore
che ricava le tensioni Vcore e Vio (alimentazioni rispettivamente del core della CPU
e delle porte di I/O) con circuiti privi di protezione o usati anche per alimentare il
chipset.
Va comunque detto che non sempre la CPU è guasta al punto da non far avviare il
computer e non far apparire la schermata del BIOS; anzi, talvolta il guasto è più
subdolo ed il computer sembra partire correttamente, ma poi si blocca nel carica-
re il sistema operativo o durante qualche applicazione. Nel caso di Microsoft
Windows, appare la caratteristica schermata blu con l’indicazione dell’errore e il
223
Capitolo 11
chipset Northbridge lo prevede e nei casi in cui il difetto viene rilevato dal chi-
pset stesso. Comunque in molti PC portatili se la RAM è guasta o inserita male,
non viene dato alcun avviso acustico: il computer si accende, la ventola funzio-
na come se nulla fosse, ma non si vede e sente attività nei dischi rigidi (non lam-
peggia la spia dell’HD) e lo schermo resta spento.
Può anche capitare che il PC si avvii e poi si arresti bloccandosi su una scher-
mata durante il caricamento del sistema operativo; oppure che il PC si blocchi
durante l’esecuzione di un programma o dia una schermata di errore riferita a
moduli ecc. (si tratta della solita schermata blu o delle finestre di avviso già
accennate nei paragrafi riservati ai guasti della CPU). In questo caso va sostitui-
ta la RAM.
Nei computer notebook più economici, solitamente la scheda video utilizza la
cosiddetta Shared Memory: in pratica condivide una porzione della RAM asse-
gnabile dal BIOS e sottratta -di conseguenza- ai programmi, per usarla come
memoria video. In questi casi, eventuali problemi delle RAM possono, oltre a
manifestare i sintomi suaccennati, alterare l’immagine visualizzata dallo scher-
mo o determinare altri difetti correlati con l’attività della scheda video; ciò per-
mette di identificare con maggiore certezza un guasto della RAM rispetto ad
altri casi.
La sostituzione della RAM va fatta con modelli compatibili; in particolare
occorre utilizzare scheda di memoria che abbiano lo stesso clock ovvero che
supportino velocità superiori. Va comunque detto che alcuni notebook non si
adattano a memoria “più veloci” e quindi non funzionano correttamente; in tal
caso è obbligatorio usare memorie che supportano lo stesso clock.
Per quanto riguarda i portatili che usano le SDRAM, le velocità disponibili sono
66, 100 e 133 MHz; quindi in un notebook che monta le PC66 (adatte a clock
del bus di sistema di 66 MHz) teoricamente le RAM possono essere sostituite
da memorie PC100 o PC133. Quanto ai computer dotati di RAM di tipo DDR,
le frequenze disponibili sono 266 MHz (le memorie funzionanti a tale frequen-
za sono chiamate PC2100) 333 MHz (PC2700) o 400 MHz (PC3200); anche in
questo caso, teoricamente un computer con bus di sistema a 266 MHz può
montare RAM a 333 o 400 MHz. Invece se le RAM originali sono da 333 MHz,
225
Capitolo 11
è possibile usare delle 400 MHz, ma non delle 266 MHz. I più moderni note-
book montano memorie DDR-2, che lavorano con bus di sistema di 533
(PC4200) 566 (PC4300) 667 (PC5700) 733, 800 MHz (PC6400) oppure 1 GHz.
I notebook più datati montano memorie EDO e in questo caso bisogna verifi-
care il tempo d’accesso, usualmente definito in nanosecondi (ns); i tipi standard
(SO-DIMM) sono adatti a bus di sistema a 66 MHz.
Negli ultimi tempi hanno fatto la loro comparsa, nei notebook, le memorie
DDR3, più veloci delle precedenti e caratterizzate da una diversa posizione della
tacca di riferimento; va infatti detto che normalmente, per evitare che una
memoria possa essere montata in un computer che non la supporta, ogni tipo
di stecca di RAM ha una cava in cui deve incastrarsi una sporgenza nello zocco-
lo del PC. Questo accorgimento è importante in quanto, a parte differenze nei
tempi d’accesso (che sono poco rilevanti) diverse categorie di memoria richie-
dono differenti tensioni d’alimentazione e se si monta una RAM da 3,3 V in uno
zoccolo di un computer che vuole memorie a 5 V, la stecca si danneggia.
Un altro difetto tipico delle RAM si manifesta nel conteggio della memoria e nel
memory-test che i computer normalmente effettuano all’avvio; in alcuni PC,
comunque, la schermata di benvenuto riportante il logo del costruttore masche-
ra la fase di startup, per visualizzare la quale bisogna premere un tasto (barra
spaziatrice o TAB) indicato nella schermata stessa. Ebbene, se il conteggio della
memoria si arresta e non avanza più ed il computer si blocca, ovvero se il con-
teggio procede ciclicamente all’infinito e la fase di avvio non avanza, vuol dire
che il BIOS ha trovato un errore nella RAM. Sovente questo errore viene segna-
lato proprio nella fase di avvio mediante un avviso a video; a volte no.
Anche in questo caso va sostituita la RAM; se nel notebook sono montate più
schede di memoria, occorre procedere smontandole tutte e provando l’avvio del
PC montandone una per volta.
Va comunque ricordato che il memory-test iniziale non sempre può evidenzia-
re i problemi delle RAM, perché alcuni difetti non si manifestano in questa fase,
ma poi escono allo scoperto nell’uso della memoria da parte del sistema opera-
tivo; ciò perché il RAM-test iniziale consiste nella semplice lettura e scrittura di
dati casuali in modalità diverse da quelle richieste dal sistema operativo; quando
226
Guasti di CPU, RAM, BIOS e chipset
227
Capitolo 11
228
Guasti di CPU, RAM, BIOS e chipset
Clock) e che, nei modelli in cui i parametri di setup vengono registrati in una
RAM CMOS, mantiene anche le impostazioni del computer. Questa pila o bat-
teria è solitamente di tipo a bottone, sebbene in passato venissero impiegate bat-
terie ricaricabili a barilotto formate da tre elementi NiCd da 1,2 V ciascuno, per
un totale di 3,6 V. La tensione standardizzata oggi è 3 V, ma si usano anche bat-
terie a ioni di litio, che forniscono 3,6 V.
Se la pila o batteria è scarica, il notebook all’avvio presenta l’avviso “CMOS
backup battery error” o “CMOS error” oppure un messaggio similare, quindi
l’avvio si arresta e viene richiesta la pressione di un tasto per procedere. Questo
avviso richiama l’attenzione sul fatto che la batteria va cambiata.
Se accade che la batteria va in cortocircuito, possono verificarsi problemi più
GF-GO7200-B-N-
HP DV6283 NF-SPP-100-N-A2
A3
HP DV6000 MCP67M-A2
GF-GO7200-B-N-
HP DV6200 NF-SPP-100-N-A2
A3
HP DV6000 NF-G6150-N-A2
HP DV6500 LE82PM965
GF-GO7400-B-N-
HP DV8283 QG82945PM
A3
ATI RADEON
SONY VAIO
P49932.00
Tabella 11.1 - Chipset e chip VGA delle mainboard dei notebook più comuni.
229
Capitolo 11
seri e talvolta può accadere che il computer non si avvii affatto, nel senso che si
accende normalmente ma non riesce ad eseguire le istruzioni base, quindi si
blocca sulla schermata di benvenuto o non mostra nulla. Tale evenienza è -però-
abbastanza rara; il problema si risolve staccando la batteria e verificando come
si comporta il computer, quindi sostituendo la batteria stessa, se necessario.
to contatto con la CPU) e perciò consuma una discreta energia; il forte riscal-
damento -che peraltro spiega come mai il Northbridge viene sempre raffredda-
to con un dissipatore o una ventola- è spesso responsabile del distacco di qual-
che saldatura, complice la deformazione del circuito stampato della mainboard.
Il reflow o la sostituzione del chipset Northbridge vanno condotti come spie-
gato nel Capitolo 10, a proposito del chip video; si tratta, infatti, anche in que-
sto caso di integrati in contenitore BGA.
Al surriscaldamento è soggetto anche il chipset integrato
(Northbridge+Southbridge) in quanto contiene molta più logica ed a maggior-
ragione consuma elettricità e dissipa più calore; anche in questo caso reflow o
sostituzione sono le soluzioni.
Per avere un’idea di quello che può essere il problema, ossia per discriminare
una saldatura fredda o staccata da un guasto del chipset dovuto al surriscalda-
mento del chip interno, si può procedere sperimentalmente provando a preme-
re sul corpo dell’integrato durante il funzionamento fino a deformare legger-
mente la mainboard: se c’è un falso contatto sotto, il computer manifesta il pro-
prio guasto, mentre in caso contrario si può pensare a un danno del chip di sili-
cio. Questa condizione può essere svelata soffiando dell’aria fredda o del ghiac-
cio istantaneo spray sul chipset quando il computer sta funzionando ed è ben
caldo, almeno se il guasto si riscontra a freddo; in tal caso, il brusco raffredda-
mento dell’integrato dovrebbe far bloccare il computer o manifestare il difetto.
Se invece il computer presenta anomalie a caldo, bisogna attendere che il pro-
blema si manifesti, quindi raffreddare il chipset per vedere cosa accade, ossia se
il problema scompare.
Quando invece si sospetta sia guasto il Southbridge, la via preferenziale è la
sostituzione, in quanto (eccezion fatta per alcuni computer) non è un compo-
nente che scalda molto e quindi è difficilmente ipotizzabile che si possano dis-
saldare dei contatti a causa del calore; il reflow potrebbe essere poco indicato
perché molto spesso insensato. Comunque anche in questo caso la bomboletta
del ghiaccio spray può aiutare a discriminare il guasto e se il notebook mostra
anomalie raffreddando il Southbridge, l’ipotesi della saldatura fredda (e della
conseguente necessità del reflow) non sia del tutto da scartare.
Per identificare il chipset ricordate quanto detto nei precedenti capitoli, ovvero
che è uno dei chip dotati di dissipatore o ventola; sappiate anche che i chipset
sono marchiati NVidia, Intel (il simbolo è spesso una i minuscola) ALI o VIA,
sebbene recentemente anche l’AMD fornisca chipset integrati o
Northbridge+Southbridge per schede madri di computer HP o Compaq. I chi-
pset della NVidia sono della serie NForce e la loro sigla inizia con NF (ad esem-
pio NF-SPP-100-M-A2) mentre quelli della Intel iniziano con una lettera che
precede 82 seguito da altre tre cifre: per esempio Q82945PM (i945) G82965GM
(i965) P82915 (i915) ecc.
231
CAPITOLO 12
GUASTI DELLE MEMORIE DI MASSA
234
Guasti delle memorie di massa
235
Capitolo 12
Microsoft NT-based, quindi NT, XP, Windows 7, esistono altre utility quali
DISKPART, che però vanno lanciate dal sistema operativo, visto che non esi-
stono i dischetti di boot.
Un discorso a parte lo meritano i sistemi operativi più evoluti, come quelli basa-
ti su architettura UNIX (Unix, Solaris, ma anche le varie distribuzioni Linux) i
quali sono in grado, oltre che di preparare partizioni loro conformi (per esem-
pio formattate in HPFS) anche di creare e modificare a piacimento il Master
Boot Record; ciò permette loro di non avere problemi se devono lavorare con
un disco formattato a basso livello.
Ma non solo: sistemi operativi come questi possono essere installati in dischi
rigidi nei quali è gia presente una partizione di Microsoft Windows e riescono a
riscrivere il Master Boot Record creando menu di avvio eseguiti al boot, dove
l’utente può decidere quale sistema operativo avviare.
Tornando ai problemi degli hard-disk, va notato che nei dischi IDE/ATA, può
accadere che un guasto dell’interfaccia nell’elettronica dell’hard-disk arrivi a
bloccare il computer, nel senso che ne impedisce l’avvio: sullo schermo non
appare alcunché, mentre il resto funziona correttamente (le spie sono accese e
la ventola o le ventole di raffreddamento girano). In questo caso per capire a
cosa sia dovuto il blocco, bisogna sconnettere l’hard-disk e verificare quel che
accade: se il notebook si avvia, ovvero presenta la schermata di avvio, significa
che l’HD è da buttare.
Nei dischi SCSI, dove c’è un controller evoluto a presidere il bus, il guasto di un
hard-disk rallenta l’avvio del tempo necessario a diagnosticarlo, ma solitamente
non causa il blocco del sistema.
mente cercarne una nuova, mentre laddove si sia deformato qualche contatto,
con una pinzetta bisogna raddrizzarlo. Se ciò non è possibile, occorre sostituire
l’intero blocco lettore o lo zoccolo corrispondente.
Invece se la card è buona e i contatti (che conviene esaminare con una lente d’in-
grandimento) sono integri, il problema va cercato nel controller, che è un circui-
to integrato montato nella scheda madre in prossimità dello zoccolo o lettore;
in tal caso non resta che sostituire questo integrato con uno analogo. A tale
riguardo, notate che uno dei chip più utilizzati è prodotto dalla RICOH e quin-
di marchiato con tale nome; ciò vi permette di individuarlo meglio. Comunque
i gestori di Memory Card vengono prodotti anche da altre case, quali ON
Semiconductor, ene ed altre ancora.
I guasti del controller o il distacco di alcuni contatti determinanti per il ricono-
scimento della Memory-Card possono impedire al computer di riconoscere il
tipo di card o di vedere questa periferica: in tal caso il sistema operativo non rile-
va la periferica e non la comprende tra quelle di sistema; nel caso di Windows,
nelle Risorse del computer manda l’icona corrispondente e anche riavviando il
notebook il problema non sin risolve. Sempre i problemi al controller possono
determinare, in Microsoft Windows, messaggi di avviso del tipo: “Periferica non
riconosciuta”; in tale evenienza, anche reinstallando i driver e riavviando il siste-
ma nulla cambia.
Talvolta il mancato riconoscimento o rilevamento della periferica dipende da un
guasto nel DC/DC converter che alimenta il controller, il quale a questo punto
non è alimentato e ovviamente non funziona; un problema del genere, come
anche il guasto del controller, tipicamente si scopre perché oltre a non leggere
le memory-Card, il notebook nella schermata delle risorse di sistema non mostra
il controller, oppure evidenzia un’anomalia (punto esclamativo o altro simbolo
adottato allo scopo) nella periferica corrispondente.
Il discorso è analogo per le periferiche di lettura delle Smart Card, sovente col-
legate via USB, ma talvolta intergate nel notebook per la lettura di informazio-
ni di autenticazione dell’utente o l’accesso a servizi Internet.
I controller tipicamente usati per gestire PCMCIA e CardBus sono prodotti da
vare case: ad esempio Texas Instruments e Intel. alcuni chip d’esempio sono
i82559 Intel e PCI7620 della Texas Instruments. Altri chip sono quelli della ene,
quali ad esempio l’UB6220, l’UB6225 e l’UB6230; tutti e tre sono dei
Multimedia Card Reader idonei a gestire svariati tipi di memory-card, quindi
non solo i dispositivi CardBus ma anche MMC ed altre schede di memoria.
239
CAPITOLO 13
GUASTI DELLE PORTE DI COMUNICAZIONE
Problemi dell’USB
Come la Firewire, questa porta di comunicazione oltre a comunicare con le peri-
feriche ad essa collegate può dare loro alimentazione; per questa ragione è più
soggetta a guasti in caso di sovraccarico. L’alimentazione a 5 volt proviene da un
apposito alimentatore del notebook, quindi nel caso sui contatti 1 e 4 dell’USB
242
Guasti delle porte di comunicazione
243
Capitolo 13
Figura 13.2 - Tipico modulo per realizzare l’interfaccia wireless (visto dalle due facce) di un
computer notebook; si innesta in un apposito connettore con clip di ritegno.
244
Guasti delle porte di comunicazione
245
CAPITOLO 14
GUASTI DEL SISTEMA DI RAFFREDDAMENTO
249
Capitolo 14
250
Guasti del sistema di raffreddamento
Figura 14.2 - Ventola e dissipatore di un PC portatile con addosso polvere aggregata che
forma della lanuggine: questo tipo di sporco è molto deleterio perché impedisce al dissipa-
tore di smaltire il calore e quindi può far surriscaldare il chipset e la GPU.
bobina del motore è interrotta, quindi occorre sostituire la ventola perché non
è possibile ripararla.
Può anche capitare che la ventola o le ventole girino, ma ad una velocità infe-
riore a quella richiesta e che perciò il flusso d’aria non sia sufficiente a raffred-
dare il computer; in questo caso può scattare l’allarme termico e il PC può spe-
gnersi ugualmente. Di solito l’anomalia si riscontra andando nel Setup e verifi-
cando, laddove sia presente l’apposita voce, la velocità di rotazione rilevata,
ovvero la presenza di errori. In molti notebook invece quando la ventola gira
lentamente, se la cosa si verifica all’avvio viene segnalata da un messaggio
durante il bootstrap e il PC si ferma richiedendo conferma dell’avvio.
Ancora, a volte tale allarme o l’arresto del computer possono essere causati da
un malfunzionamento del sensore tachimetrico, ovvero dalla mancanza -sul filo
giallo della ventola- del segnale che informa il chipset della velocità di rotazio-
ne; per questo, ritenendo ferma la ventola il chipset non consente l’avvio del
notebook anche se la stessa sta girando regolarmente.
In tutti i casi è possibile verificare la presenza del segnale tachimetrico utilizzan-
do un frequenzimetro o un oscilloscopio: basta collegarne la sonda con il comu-
ne al filo nero e il puntale centrale (terminale caldo) al filo giallo, a PC acceso.
Chiaramente occorre che la ventola sia anche collegata al computer, quindi biso-
gna scoprire il filo giallo ed il nero. In alternativa è possibile alimentare la ven-
tola con un alimentatore della tensione adatta (5 o 12 Vcc). Se il sensore tachi-
metrico funziona, sullo schermo dell’oscilloscopio appare la forma d’onda,
costituita da impulsi abbastanza regolari; nel caso del frequenzimetro, il display
mostra la frequenza del segnale tachimetrico, da cui risalire alla velocità.
Accumulo di sporco
Una delle cause del surriscaldamento della CPU o della GPU, ma anche del chi-
pset Northbridge, è l’accumulo di polvere e sporcizia sulle estremità alettate del
dissipatore di calore di fronte alla ventola; ciò si deve al fatto che nell’aria tirata
251
Capitolo 14
dalla ventola attraverso le feritoie di entrata c’è polvere o fuliggine in misura più
o meno consistente a seconda delle condizioni dell’ambiente in cui il computer
si trova a lavorare. Nella stagione primaverile, inoltre, non è infrequente avere
pollini in sospensione nell’aria, il che va ad incrementare la possibilità che l’im-
pianto di raffreddamento del computer si intasi.
Ciò pregiudica il sistema di raffreddamento e lo rende meno efficace, impeden-
do il corretto smaltimento del calore; questo problema in gran parte dei PC por-
tatili comporta il surriscaldamento ed il conseguente distacco di alcune saldatu-
re dei chip video (le GPU) in special modo se si trovano ad avere un dissipato-
re in comune con quello della CPU e sono collocati, nel flusso del calore, prima
della stessa CPU. Infatti se è vero che quasi tutti i notebook dispongono di una
protezione termica basata su un sensore e sull’intervento del chipset (che all’oc-
correnza spegne il computer) è verò altresì che detta protezione si basa sul rile-
vamento della temperatura della sola CPU, quindi se a surriscaldare è la GPU, il
sensore nemmeno se ne accorge ed il PC continua a funzionare, a danno del
chip video. Questo spiega perché in diversi modelli di notebook, come ad esem-
pio la serie HP Pavillon DVxxxx, sovente dopo qualche anno si verificano pro-
blemi di rappresentazione dell’immagine dovuti al fatto che il chip si deforma,
la lega saldante che compone le palline dei contatti (le GPU usate sono NVidia,
scaldano molto e sono in contenitore BGA) si fonde o comunque si ammorbi-
disce e quando si raffredda non si attacca più correttamente; ciò causa saldatu-
re fredde e, a seconda di quali sono i contatti interessati, non consente più il fun-
zionamento della GPU, ovvero determina una visione disturbata, a quadretti e
barre o altro ancora (immagine sdoppiata, per esempio). In questi casi solita-
mente il reflow del chip è risolutivo. Quando non è risolutivo significa che la
GPU ha riportato danni permanenti (ciò accade più frequentemente nei chipset
Intel i965 con video integrato).
Per proteggere l’impianto di raffreddamento, in alcuni notebook viene posizio-
nata una spugna filtrante in corrispondenza della presa d’entrata, quindi solita-
mente è il filtro ad intasarsi o a riempirsi di lanuggine.
Comunque, l’accumulo di polveri, fuliggine e pollini ad un certo punto arriva ad
intasare le intercapedini del dissipatore e, malgrado la ventola giri regolarmente,
ostacola e anche molto la fuoriuscita dell’aria calda che le ventole devono estrar-
252
Guasti del sistema di raffreddamento
253
CAPITOLO 15
GUASTI DI TASTIERA E MOUSE-P
PAD
La tastiera ed il mouse o touchpad del notebook sono, come tutte le parti del com-
puter, soggetti a guasti di vario genere, intendendo con ciò sia i guasti loro ascrivi-
bili (elettrici e di natura meccanica) sia i problemi riguardanti i circuiti integrati che
li governano, non ultimo il chipset Southbridge. In questo capitolo proviamo ad
esaminare i più frequenti, partendo dai problemi riguardanti la tastiera.
La tastiera è soggetta a guasti che possono essere sia meccanici, sia elettrici; quelli
meccanici sono rappresentati dalla rottura fisica di uno dei pulsanti che la compon-
gono o dal distacco di uno dei tasti (che sono, poi, i coperchi diplastica che entra-
no in contatto con le nostre dita quando scriviamo) collocati sopra i pulsanti, ma
anche l’incrinatura dell’intera tastiera dovuta a una caduta o ad un forte urto del
notebook. I guasti elettrici ed elettronici sono invece rappresentati dall’ossidazione
dei contatti o dalla loro usura, dato che nei PC portatili si utilizzano tastiere elettro-
meccaniche quasi sempre del tipo a membrana, molto affidabili, ma comunque sog-
gette ad ossidazione o rimozione dello strato conduttivo.
Ci sono poi i guasti dell’elettronica e riguardano il Keyboard Encoder ed il chipset
Southbridge; questi sono meno semplici da risolvere e richiedono interventi sulla
scheda madre. La riparazione del caso dipende sempre dal tipo e dall’entità del gua-
sto riscontrato.
255
Capitolo 15
256
Guasti di tastiera e touch-pad
Figura 15.3 - Tipici circuiti integrati che nella scheda madre del notebook si occupano di
gestire la tastiera ed il touchpad.
257
Capitolo 15
Figura 15.4
Due touch-pad: a
sinistra il sensore
sotto il rivestimento
protettivo; a destra
un gruppo comple-
to di flat-cable per
la connessione con
la scheda madre e
pulsanti per fare
clic e attivare tutte
le funzioni tipiche
dei dispositivi di
puntamento.
258
Guasti di tastiera e touch-pad
ro il puntatore procederà a scatti, dato che alcune posizioni non riuscirà a rile-
varle correttamente.
Infine, se si guasta l’integrato che decifra i segnali del touch-pad, quest’ultimo
può non funzionare o dare posizioni inesatte; se va fuori uso il chipset
Southbridge o la sua parte che si occupa di interfacciarsi con il mouse, il touch-
pad non verrà rilevato e comunque non potrà funzionare. Va comunque detto
che tipicamente quando si guasta il Southbridge si verifica una serie di guasti
generalizzata, coinvolgente le porte di comunicazione e la tastiera.
Per quanto riguarda il guasto del controller del touch-pad, vale quanto detto per
la tastiera, dato che l’integrato che gestisce quest’ultima normalmente si occupa
anche del dispositivo di puntamento; quindi, prima di mettere mano al chipset
Southbridge valutate l’opportunità di procurarvi e sostituire il controller multi-
funzione, che sovente è uno dei chip della ene di cui si è parlato due pagine
indietro. Comunque esistono altri produttori che realizzano controller per
tastiera e touch-pad; se non vedete un chip marchiato ene, cercate qualche inte-
grato in contenitore quadrato QFN o PLCC vicino all’attacco per la tastiera ed
il touch-pad.
Maggiori informazioni sui chip della ene (che sono quelli attualmente più utiliz-
zati) e sulle loro funzionalità potete trovarle sul sito del costruttore,
www.ene.com.tw/en/.
259
CAPITOLO 16
GUASTI DELL'AUDIO
La periferica audio può, come tutte quelle presenti nel computer, guastarsi e non
funzionare più, ovvero presentare vari inconvenienti di funzionamento quali la
distorsione del segnale acustico o il mancato funzionamento dell’ingresso microfo-
nico o di linea, verificabile in fase di registrazione. I problemi della scheda audio,
intesi come guasti della parte elettronica, sono comunque poco frequenti ed è sem-
mai più facile che si danneggi fisicamente uno dei connettori (jack) di ingresso o
uscita a causa di un eccessivo sforzo nell’introdurre gli spinotti o toglierli, di una
caduta o dello strappo del cavo ad esempio quando ci si alza con la cuffia alle orec-
chie e per poco non ci si porta dietro il notebook.
Altri inconvenienti riguardano non la periferica audio, ma piuttosto l’amplificatore
BF posto alla sua uscita e che pilota gli altoparlanti interni o quelli esterni collega-
ti alla presa jack; a volte possono anche guastarsi gli altoparlanti, evenienza, questa,
comunque rara. Semmai è più più facile che le membrane degli altoparlanti venga-
no danneggiate da cadute o dall’introduzione (i bambini sono “maestri” in questo
genere di “sabotaggio”...) di corpi estranei appuntiti nel notebook.
In questo capitolo verranno esaminate le varie problematiche, ognuna correlata con
l’intervento richiesto.
261
Capitolo 16
262
Guasti dell'audio
Figura 16.1 - Gli altoparlanti sono collocati in vari modi a seconda del notebook.
263
Capitolo 16
alla massa della scheda madre del notebook; l’oscilloscopio va impostato con
una base dei tempi a 1 o 0,5 ms/div e l’ampiezza a 0,1 V/div o poco più.
Avviando la riproduzione di un brano, se l’oscilloscopio mostra un segnale
variabile significa che il chip audio funziona e quindi occorre dedicare le proprie
attenzioni all’amplificatore che segue, sicuramente guasto. Un metodo empirico
per valutare se è guasto il convertitore D/A o se qualcosa non va nell’amplifica-
tore consiste nel riprodurre un CD audio; ma ciò funziona solo nei computer (i
fissi sicuramente e i notebook un po’ meno) in cui il CD-ROM ha l’uscita audio
e quest’ultima è collegata direttamente all’amplificatore. In tal caso, se è guasto
il convertitore digitale/analogico del chip audio i suoni di sistema o gli MP3 non
vengono riprodotti, mentre l’audio del Compact Disc sì.
Figura 16.2 - Alcuni chip audio usati nei notebook: dall’alto a sinistra in senso orario,
Analog Devices, Realtek, Yamaha, CML, Crystal, ESS.
264
Guasti dell'audio
265
Capitolo 16
suono ottenuto viene rovesciato di fase, cosa che ha poca importanza se si ascol-
ta da un solo altoparlante ma dà fastidio nell’ascolto stereofonico o nei diffuso-
ri acustici formati da più altoparlanti. Il polo positivo (+) si collega al filo rosso
del cavetto (o a quello terminante sul positivo dell’amplificatore o del connetto-
re audio) ed il negativo va sul nero (- dell’uscita dell’amplificatore o del connet-
tore audio).
Sul retro del componente sono solitamente riportati i due dati essenziali: la
potenza e l’impedenza elettrica.
Nei notebook, soprattutto quelli sonorizzati con sistemi quali JBL, Bose o
Harman Kardon (che sono due importanti marchi di hi-fi) gli altoparlanti, sep-
pure minuscoli, riescono a fornire grande resa acustica, grazie alla chiusura in
piccoli box in grado di spegnere l’emissione posteriore (che annullerebbe quel-
la normale della membrana) o di convogliarla lateralmente per ottenere il fun-
zionamento bass-reflex e rinforzare le tonalità basse, che sono quelle più pregiu-
dicate dalle piccole dimensioini consentite agli altoparlanti dei notebook.
Bene, detto ciò si può vedere quali sono i guasti che possono interessare gli alto-
parlanti: il primo è la bruciatura della bobina mobile causata da un sovraccarico
elettrico, che può derivare da un eccessivo volume d’ascolto accompagnato da
forte distorsione. Va comunque detto che se il notebook è ben progettato, gli
altoparlanti sono dimensionati per sopportare questa condizione, ovvero per
una potenza maggiore di quella erogabile dall’amplificatore della periferica
audio; c’è però da tenere da conto l’effetto della distorsione, che può portare a
picchi di segnale capaci di mettere a dura prova la bobina mobile.
Un guasto del genere può anche verificarsi nel caso lo stadio alimentatore del-
l’amplificatore vada in avaria: in questo caso può fornire una tensione più alta di
quella ordinaria e quindi l’altoparlante viene comunque sottoposto a una poten-
za superiore a quella sopportabile, quindi si guasta; oppure un eccesso di tensio-
ne può far saltare l’amplificatore e quindi riversare sulla bobina mobile dell’alto-
parlante picchi di corrente, bruciando il filo che la compone.
Se c’è un guasto nell’alimentazione che danneggia l’amplificatore audio non si
sente alcun suono; invece se il salto di tensione è stato momentaneo o ha lascia-
to incolume l’amplificatore ma danneggiato l’altoparlante, l’ascolto manifesta
delle irregolarità.
In questo caso e in tutti quelli in cui il suono si può ascoltare perché l’amplifi-
catore e il chip audio funzionano, il problema principale che si manifesta negli
altoparlanti è che il surriscaldamento della bobina scioglie in parte lo smalto che
riveste il filo, riducendo l’isolamento e cortocircuitando alcune spire: ne deriva
una perdita di efficienza dell’altoparlante accompagnata da un “gracchiare”
durante la riproduzione dei suoi, dovuto sia al fatto che la riduzione dell’isola-
mento abbassa l’impedenza e quindi carica eccessivamente l’amplificatore audio,
sia alla carbonizzazione della carta che tipicamente fa da supporto alla bobina.
Per accertare ciò bisogna aprire il notebook, sconnettere i cavetti degli altopar-
lanti e, con un tester disposto sulla misura di resistenze (portate ohmetriche) leg-
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Guasti dell'audio
Il microfono
È un trasduttore che trasforma le vibrazioni dell’aria componenti il suono in
una tensione o in una variazione di corrente elettrica del circuito in cui si trova.
Allo scopo è costruito in modo da rilevare le vibrazioni acustiche, quindi dispo-
ne di una membrana, affacciata all’esterno direttamente o tramite dei fori o una
sottile griglia, meccanicamente connessa a un avvolgimento elettrico, a un mate-
riale piezoelettrico, a del carbone (o altro che sollecitato meccanicamente pro-
duce effetti elettrici) o a piastre metalliche.
Il microfono è un trasduttore analogico, nel senso che il segnale elettrico da esso
ricavato varia in frequenza e in ampiezza in analogia con le vibrazioni acustiche
trasmesse dall’aria. Il tipo di segnale che si può prelevare da un microfono
dipende dal fatto che il trasduttore sia attivo o passivo: attivo significa che gene-
ra una tensione e, se collegato a un carico (resistenza) una corrente elettrica; pas-
sivo vuol dire che le vibrazioni sonore producono in esso una variazione di resi-
stenza, che può tradursi in variazione di tensione o corrente solo alimentando il
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Capitolo 16
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