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NOTEBOOK

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INDICE
Capitolo 1 - Fondamenti di elettronica 1
Capitolo 2 - Componenti elettronici passivi 19
Capitolo 3 - Componenti elettronici attivi 39
Capitolo 4 - Circuiti integrati 57
Capitolo 5 - Monitor da PC 73
Capitolo 6 - Alimentatori AC/DC 89
Capitolo 7 - Struttura dei notebook 107
Capitolo 8 - Attrezzarsi per riparare i Notebook 149
Capitolo 9 - Guasti dell’alimentazione 185
Capitolo 10 - Guasti del video 199
Capitolo 11 - Guasti di CPU, RAM, Bios e Chipset 223
Capitolo 12 - Guasti delle memorie di massa 233
Capitolo 13 - Guasti delle porte di comunicazione 241
Capitolo 14 - Guasti del sistema di raffreddamento 249
Capitolo 15 - Guasti di tastiera e mouse-pad 255
Capitolo 16 - Guasti dell’audio 261
CAPITOLO 1
FONDAMENTI DI ELETTRONICA

Prima di vedere cos’è e come funziona un notebook, è necessario avere una certa
infarinatura di elettronica e dei suoi concetti fondamentali; diversamente, non si
può comprendere come funzionano i circuiti che compongono il computer e tan-
tomeno valutare se un certo stadio funziona bene o meno o come e con cosa sosti-
tuire un certo componente. Scopo di questo capitolo è fornire le basi, partendo
dalla considerazione che alla base dell’elettronica c’è l’elettricità, che è l’insieme di
tutti i fenomeni legati alla liberazione o al movimento di elettroni; questi ultimi sono
particelle infinitamente piccole che, insieme ai protoni e ai neutroni, compongono gli
atomi, i quali sono i “mattoncini” che costituiscono tutto quello che ci circonda.
Quando, per particolari condizioni fisiche, uno degli elettroni viene a mancare, si
crea uno scompenso di carica e nascono i fenomeni elettrici, che possono essere:
 statici; in questo caso si parla di elettrostatica, ossia di presenza di carica elettrica
su un corpo, dovuta ad elettroni mancanti o in eccesso, ma che restano fermi;
 dinamici; gli elettroni più esterni dell’atomo passano da un atomo all’altro e si
parla, allora, di corrente elettrica.

Per il funzionamento di qualsiasi apparato elettronico hanno rilevanza principal-


mente questi ultimi, tuttavia non vanno trascurati i fenomeni statici, dato che, ad
esempio, l’accumulo di elettricità statica può essere responsabile del danneggiamen-
to di alcuni componenti particolarmente delicati dei notebook e in generale di quel-
li in tecnologia MOS; per questo va evitata o contenuta. Per il momento prendia-
mo in considerazione la sola corrente elettrica, la quale è un movimento di elettro-
ni da un atomo all’altro, ovvero anche nel vuoto. Proprio in funzione di come si

1
Capitolo 1

comportano nei riguardi della corrente, i materiali si possono distinguere in:


 conduttori; si lasciano attraversare dalla corrente;
 semiconduttori; si fanno attraversare dalla corrente ma solo in determinate
condizioni (tipicamente, a seconda della polarità);
 isolanti; non si lasciano attraversare dalla corrente.

La corrente elettrica nasce tipicamente nei conduttori o nei semiconduttori,


mentre può fluire negli isolanti solamente rompendo la loro struttura chimica
tramite l’applicazione di un’intesa energia (scarica elettrica) che però danneggia
l’isolante; i conduttori sono metalli ed hanno una struttura chimica che vede gli
elettroni più esterni legati al nucleo molto debolmente. Ciò permette, applican-
do un leggero campo elettrico, di strapparli dall’atomo di appartenenza, facen-
doli passare da un atomo all’altro e creando la corrente elettrica. Il flusso va da
un capo all’altro del materiale conduttore, quando il campo elettrico applicato ha
una certa polarità. Per campo elettrico si intende l’addensamento forzato di cari-
che elettriche negative da una parte e di atomi con scoperta una carica positiva;
ciò determina quella che chiamiamo tensione, ovvero la differenza di potenziale.
L’elettronica è la disciplina che studia la corrente nei semiconduttori e nel vuoto.
Una cosa importante da dire è che la corrente si propaga con una fatica, quindi
il movimento degli elettroni richiede da parte del generatore di tensione un certo
lavoro e la somministrazione continuata di energia. La difficoltà incontrata dal
generatore nello spingere gli elettroni viene chiamata resistenza elettrica; ogni
materiale ha una resistenza, che dipende da quanto esso ostacoli la propagazio-
ne degli elettroni.

L’origine della corrente


La corrente nasce in componenti e dispositivi che, pertanto, vengono chiamati
generatori, i quali possono essere generatori di corrente o generatori di tensione. In realtà
è solo un modo per vedere sotto due aspetti la stessa cosa, dato che quando si
genera una differenza di potenziale tra due punti, chiudendo essi con un utiliz-
zatore si determina lo scorrimento di corrente. Il generatore di tensione produ-
ce, dunque, anche corrente e la corrente è sempre conseguenza dell’esistenza di
una tensione elettrica o differenza di potenziale che dir si voglia.
Volendo entrare nei dettagli, bisogna dire che un generatore di tensione puro
produce una differenza di potenziale costante e la corrente che può erogare
dipende dalla resistenza dell’utilizzatore che vi si collega; un generatore di cor-
rente, invece, indipendentemente dalla resistenza dell’utilizzatore tende a man-
tenere sempre lo stesso valore di corrente. Riassumendo, il generatore di tensio-
ne determina ai propri capi una differenza di potenziale, misurata in volt (V); può
produrre tensione continua o variabile. Il generatore di corrente induce, nel cir-
cuito collegato ai suoi terminali, una corrente elettrica espressa in ampere (A); la
corrente prodotta può essere continua o variabile.
Questo vale per i generatori ideali, che esistono solo in teoria, ma nella pratica
2
Fondamenti di elettronica

qualsiasi macchina elettrica (alternatore o dinamo) o circuito (alimentatore) è


affetto da una resistenza parassita, che nel generatore di tensione reale sta in
serie ai morsetti, mentre in quello reale di corrente si trova in parallelo. La resi-
stenza del generatore di tensione, essendo in serie al circuito che esso alimenta,
ne limita la tensione disponibile in maniera direttamente proporzionale alla cor-
rente erogata, ovvero richiesta dall’utilizzatore. La resistenza in parallelo al gene-
ratore di corrente sottrae (shunt) parte della corrente generata e diminuisce
quella erogata all’utilizzatore. La Figura 1.1 mostra i simboli grafici dei genera-
tori di tensione e corrente teorici (ideali).
Nella realtà, la corrente elettrica può essere generata con le macchine elettriche quali
alternatori (generatori di corrente alternata) e dinamo, o altri sistemi quali i pan-
nelli fotovoltaici e le pile di vario genere (elettrochimiche, termoelettriche ecc.).
In elettronica si utilizza l’alimentatore, che non è un generatore vero e proprio,
ma semplicemente ricava tensione e corrente dalla linea elettrica a 220 V o da
altre linee; l’alimentatore è una sorta di generatore di tensione ideale avente una
certa resistenza in serie all’uscita che ne fa abbassare, in una certa misura, la ten-
sione erogata, in funzione della corrente erogata. Dunque, l’alimentatore ha un
ingresso, dal quale preleva la tensione di partenza e tutta la corrente che gli
occorre, ed un’uscita, la quale alimenta il carico (l’elemento che assorbe l’ener-
gia del generatore).
La potenza elettrica
Quando si parla di potenza in un circuito, in un utilizzatore o in generatore, si
intende l’energia consumata nell’unità di tempo; più semplicemente, la potenza
elettrica è il prodotto della tensione per la corrente: P=V x I.
Se si parla di un generatore o un alimentatore, la tensione è quella presente all’u-
scita e la corrente quella che scorre a causa di essa; si parla, in questo caso, di
potenza generata o erogata. Quando, invece, ci si riferisce ad un utilizzatore (ad
esempio una resistenza) la potenza è dissipata o consumata; la tensione è quel-
la ricevuta dal carico e la corrente quella che scorre per effetto della tensione
applicata.
Leggi fondamentali dell’elettrotecnica
Prima di conoscere i componenti e i circuiti elettronici, bisogna conoscere le
leggi principali che regolamentano la corrente elettrica.

Figura 1.1 - Simbolo grafico usato


in elettrotecnica per il generatore di
tensione (a sinistra) e di corrente
(a destra).

3
Capitolo 1

Legge di Ohm
La prima regola da imparare è la Legge di Ohm, la quale dice che ai capi di una
resistenza ossia di un conduttore, che per sua natura oppone una certa resisten-
za al passaggio dell’elettricità, si registra una caduta o perdita di tensione che
dipende dall’intensità della corrente (I) secondo la relazione (Figura 1.2):

'V = I x R

dove R è quella che in elettrotecnica si definisce resistenza elettrica, che si misu-


ra in ohm, mentre 'V è la caduta di tensione.
Ragionando analogamente, si può dire che in una resistenza sottoposta a una
differenza di potenziale scorra una corrente pari a:

I = 'V / R

La Legge di ohm permette, ad esempio, di determinare la perdita di un genera-


tore reale nella propria resistenza interna Ro; così, in un generatore di tensione
(il tipico alimentatore stabilizzato o meno) la tensione prelevabile (Vu) è pari a:

Vu = Vo – (Iu x Ro)

Dove Iu è la corrente erogata e Vo la tensione a vuoto (Figura 1.3).


Per quanto riguarda il generatore di corrente, la tensione generata (Vu) dipende
dalla resistenza, secondo la formula:

Vu = Io x Ro

Dove Io è la corrente propria del generatore. La perdita di corrente (Ip) deriva-


ta dalla resistenza interna Ro (che si trova in parallelo) è pari a:

Ip = Io – (Vu/Ro)

Principi di Kirchhoff
Altre due leggi fondamentali dell’elettrotecnica, che spiegano come funzionano
le reti elettriche, ossia insiemi di generatori e componenti elettrici o elettronici,
sono i principi di Kirchhoff: il primo è il principio applicato ai nodi e il secon-

Figura 1.2 - La corrente che attraversa una resisten-


za, un filo o una pista di un circuito stampato deter-
mina una caduta di tensione.

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Fondamenti di elettronica

Figura 1.3 - Generatori reali di tensione (a sinistra) e corrente (a destra) con le loro resi-
stenze parassite che schematizzano le perdite.

do quello alle maglie. Prima di enunciarli, bisogna definire nodi e maglie: si chia-
ma nodo un punto di unione di due rami (un ramo è una parte circuitale sede di
un’unica corrente) ossia di conduttori o terminali di componenti o generatori
caratterizzati dal fatto che vi scorrono due correnti diverse; ad esempio, due
componenti o fili collegati tra loro portano la stessa corrente e la giunta non è,
quindi, un nodo. Quando, invece, due rami confluiscono in uno, esce un terzo
ramo che porta la somma delle correnti; ebbene, lì si crea un nodo (Figura 1.4).
Il principio di Kirchhoff ai nodi dice che in un nodo la somma delle correnti
entranti deve eguagliare quella delle correnti uscenti, ovvero che la somma alge-
brica delle correnti debba essere nulla. Con riferimento alla Figura 1.4, chiama-
ta Iu la corrente uscente dal nodo e I1 e I2 le correnti entranti, vale la relazione:

Iu = I1 + I2

Quanto al secondo principio di Kirchhoff, bisogna dire che una maglia è un cir-
cuito elettrico chiuso su un generatore (Figura 1.5); ebbene, il principio appli-
cato alle maglie dice che in una maglia la somma algebrica delle cadute di ten-
sione e delle differenze di potenziale generate deve valere zero:

V - DV1 – DV2 = 0

ovvero, anche:

V = DV1 + DV2

Figura 1.4 - Nodo elettrico: le correnti


entranti formano quella uscente.

5
Capitolo 1

Figura 1.5 - Maglia elettrica: la somma


delle cadute di tensione eguaglia la
tensione del generatore.

Corrente continua e alternata


La corrente elettrica può essere continua o variabile: nel primo caso il movimento
degli elettroni è di intensità costante nel tempo, mentre nel secondo l’intensità
varia in modo casuale o regolare; in quest’ultimo caso, si dice che la corrente è
periodica e per essa è possibile definire una frequenza di variazione, espressa in
periodi al secondo, ovvero in hertz (Hz). La corrente alternata è una corrente
variabile periodicamente, dove il flusso degli elettroni si inverte ciclicamente e
con esso la polarità; a differenza della continua e della variabile, l’alternata assu-
me valori sia positivi che negativi.
La forma d’onda sinusoidale (quella della tensione della rete elettrica) è chiama-
ta così perché rispecchia l’andamento del seno di un angolo che varia da 0 a
360°, che vale 0 a 0°, 1 a 90°, di nuovo 0 a 180°, -1 a 270° e, infine, di nuovo
zero a 360°. Per questa ragione, essendo il periodo di 360° e quindi pari alla cir-
conferenza di un cerchio (che vale 2 S volte il raggio, dove S vale 3,1416) si con-
sidera S/2 l’angolo di 90° (angolo retto) S quello di 180° (angolo piatto) e 2 S
l’angolo giro (360°). La corrente alternata (Figura 1.6) è quella che preleviamo
dalla rete elettrica di casa, degli uffici, delle fabbriche ecc. In Italia è a 220 volt
di ampiezza e 50 Hz di frequenza. Con essa funzionano gli alimentatori dei com-
puter, monitor, televisori ecc. Anche la tensione generata dall’inverter dell’LCD
dei notebook è alternata, sebbene quasi sempre sia di forma d’onda rettangola-
re, mentre quella che viene prodotta dai DC/DC dei blocchi d’alimentazione è
continua ad impulsi, quindi unidirezionale. In America e Giappone, ad esempio,
la rete è a 60 Hz e fornisce 110÷120 Vca. Un tempo, tale diversità rendeva i PC
di importazione inadatti all’uso in Italia, ovvero obbligava ad usare trasformato-
ri o a prevedere negli alimentatori dei selettori di tensione; oggi gli AC/DC dei

Figura 1.6 - Andamento nel tempo


della tensione della rete elettrica
(sinusoidale alternata).

6
Fondamenti di elettronica

Figura 1.7 - Andamento dell'onda rettan-


golare: quest'onda si dice quadra quando
l'ampiezza di ogni singolo semiperiodo è
uguale al semiperiodo stesso, ovvero
quando il rapporto durata/impulso è pari
ad 1. Nella figura è rappresentata un'onda
unidirezionale positiva; quella alternata
scende sotto l'asse del tempo t.

notebook sono tutti multitensione, nel senso che si adattano a funzionare da


100 a 240 Vca senza difficoltà e in modo del tutto automatico.
Elettricità statica
È l’addensarsi di elettroni in determinate zone di materiali o dell’atmosfera ter-
restre, dovuta al fatto che, sebbene vi sia una differenza di potenziale, questa
non è sufficiente a far sì che gli elettroni vadano a colmare i vuoti nella zona
dove mancano, ovvero il circuito elettrico è aperto. L’elettricità statica è parago-
nabile all’acqua in una vasca sopraelevata, che non riesce a scendere perché la
sua forza non ce la fa ad aprire il tappo di scarico.
I fenomeni elettrostatici sono responsabili ad esempio dell’attrazione dei peli e
dei capelli da parte di oggetti elettrizzati, nonché della polvere sui vecchi dischi
di vinile, sui mobili e su materiali plastici; ma talvolta causano correnti anche di
grande intensità, come ad esempio i fulmini.
L’elettrostatica si manifesta nei corpi isolanti e nell’aria, ma non nei conduttori,
dal momento che se un materiale conduce elettricità, lo scompenso di carica si
annulla in quanto gli elettroni possono attraversare il materiale formando la cor-
rente elettrica. I fenomeni elettrostatici nascono quando un materiale isolante
viene sollecitato meccanicamente o avvicinato da una grande quantità di carica
elettrica o esposto a un forte campo elettrico indotto da una tensione o da un
corpo elettrizzato. Nel caso della sollecitazione meccanica, i fenomeni elettro-
statici nascono a causa dell’effetto piezoelettrico, consistente nella deformazio-
ne della struttura di alcuni cristalli (quarzo) e materiali ceramici (titanato di
bario, per esempio) che provoca l’esposizione di elettroni da un lato e di cariche
positive scoperte dal lato opposto, ma anche strofinando tra loro due materiali
isolanti a differente struttura atomica periferica: in tal caso gli elettroni più ester-
ni si spostano e scoprono in uno cariche positive e nell’altro si addensano for-
mando carica negativa. La situazione resta immutata in quanto, essendo i mate-
riali isolanti, gli elettroni rimangono fermi.
Un fenomeno elettrostatico è quello causato quando ci alziamo da una sedia in
plastica provvista di rotelle di gomma o plastica, dopo esserci stati seduti indos-
sando vestiti sintetici o di lana e scarpe con la suola in gomma: alzandoci, por-
tiamo in giro l’elettricità statica accumulata e se tocchiamo qualcosa di metallo
collegato a terra, prendiamo la scossa. Lo stesso accade anche quando, scenden-
7
Capitolo 1

do dall’automobile in una giornata secca e ventosa, prendiamo la scossa.


Nei corpi, la carica elettrica si addensa in modo abbastanza uniforme, tuttavia si
stacca in prossimità delle zone sagomate a punta, ovvero dalle estremità; questo
perché, a parità di differenza di potenziale elettrico, la scarica avviene dal punto
più vicino tra le due zone diversamente cariche (positiva e negativa).
L’elettrizzazione non è uguale per tutti i materiali, ma dipende da ciascuno di
essi: alcuni assumono carica positiva ed altri carica negativa; più esattamente, si
elettrizzano positivamente le sostanze come vetro e plexiglass e in quelle che si
comportano analogamente (ossia che, se strofinate, respingono tali materie) e
negativamente quelle come l’ebanite o che, se strofinate, respingono l’ebanite e
attirano il vetro.
L’accumulo di carica nel nostro corpo è importante in un laboratorio di elettro-
nica, in special modo se si riparano computer e schede con logica MOS o
CMOS, che ormai sono le uniche usate nei Notebook; infatti se si toccano due
lati di una scheda dopo aver accumulato elettricità statica, quest’ultima può sca-
ricarsi attraversando il circuito stampato e danneggiando i componenti più deli-
cati. Lo stesso vale se ci si alza da una sedia accumulando carica elettrica e si
tocca una parte di una scheda quando il computer è collegato alla linea elettrica
o grandi parti metalliche. Per questa ragione è buona regola, durante le ripara-
zioni, fornire i banchi di lavoro di un braccialetto metallico da mettere al polso
di chi deve manipolare e saldare gli integrati, collegato elettricamente a terra
mediante una catenella di ferro. Questo permette di scaricare l’elettricità che
dovesse formarsi anche per lo sfregamento di vestiti sintetici e in lana con le
sedie di plastica. Anche la punta del saldatore dovrebbe risultare a massa.

La gabbia di Faraday
Nei conduttori, le cariche elettriche tendono sempre a disporsi preferibilmente
nella parte esterna, ovvero in superficie; questo è responsabile del cosiddetto
“effetto pelle”, che nei cavi vede la gran parte della corrente fluire sulla superfi-
cie, fenomeno che con l’ossidarsi dei cavi porta a un aumento delle perdite col
passare del tempo.
Il fatto che gli elettroni tendano a disporsi sulla superficie esterna dei metalli è
dimostrato dalla gabbia di Faraday: investendo una gabbia metallica con un
campo elettrico, all’interno di questa non accade nulla e qualsiasi oggetto intro-
dotto non risente di alcuna forza elettrostatica né si elettrizza. Tale fenomeno
viene sfruttato nella schermatura delle apparecchiature elettroniche, quali stru-
menti di misura per deboli segnali elettrici e apparati audio: essi vengono rac-
chiusi in involucri metallici o coperti da fogli di alluminio poi collegati a terra (o
alla presa di terra dell’impianto elettrico, ormai obbligatoria in tutti gli insedia-
menti) e tipicamente alla massa dei circuiti, con l’accortezza di realizzare il col-
legamento di quest’ultima in un solo punto, altrimenti è possibile che si creino
differenze di potenziale lungo il metallo del contenitore, responsabili dell’intro-
missione di disturbi nei circuiti stessi.
8
Fondamenti di elettronica

Il Magnetismo
Si tratta di un fenomeno che interessa essenzialmente i metalli e che può essere
definito come la capacità di una materia di attrarre a sé o respingere materia
similare e che esiste in natura da quando è nato il mondo; la sua manifestazio-
ne più lampante si può vedere utilizzando una bussola, il cui ago magnetizzato
viene attratto dal polo nord terrestre. In pratica il magnetismo si consiste nel-
l’attrazione, da parte di una massa di materiale ferromagnetico, di un’altra com-
posta anch’essa di materia ferromagnetica.
L’importanza del magnetismo sta nel fatto che su di esso si basa il funzionamen-
to degli altoparlanti, dell’inverter per il display e dei convertitori DC/DC inter-
ni a un notebook, ma anche dell’alimentatore AC/DC esterno.
Ai fini dello studio del magnetismo, i materiali si dividono in ferromagnetici,
paramagnetici e diamagnetici: i primi sono quelli che manifestano spiccata atti-
vità magnetica o che possono acquisirla se esposti a un forte campo magnetico;
i secondi si comportano similmente ai ferromagnetici, però hanno effetto mini-
mo e trascurabile. I diamagnetici, infine, sono insensibili al magnetismo e non
interferiscono con esso.

L’elettromagnetismo
La corrente che fluisce in un conduttore genera un campo magnetico la cui
intensità è proporzionale a quella della corrente stessa e, se quest’ultima è varia-
bile, il campo assume il medesimo andamento; il campo magnetico generato da
un conduttore percorso da corrente è detto “campo elettromagnetico” e le sue
manifestazioni passano sotto il nome di elettromagnetismo.
La creazione di campi elettromagnetici da parte dei conduttori è la causa dei
disturbi irradiati dai convertitori DC/DC dei computer, ma produce anche tanti
effetti positivi.
La corrente elettrica interviene sulle calamite e interagisce con i campi magne-
tici, però è anche vero che un campo magnetico può a sua volta intervenire sulla
corrente: più precisamente, esercita una forza su un conduttore percorso da
elettricità. Questo fenomeno permette il funzionamento degli altoparlanti
magnetodinamici e dei motori elettrici usati ad esempio nei lettori di floppy-disk
e di CD/DVD, ma anche negli HD, per far girare i dischi e muovere le testine.
Il fenomeno può essere verificato disponendo un filo elettrico rettilineo tra le
espansioni polari (i poli) di un magnete in modo da risultare perpendicolare alle
linee del campo, dirette dal polo nord a quello sud. Facendo scorrere corrente
nel filo, questo si muove e lo fa ortogonalmente rispetto alla direzione della cor-
rente stessa e del campo magnetico prodotto dal magnete. Il verso dello sposta-
mento dipende da quello della corrente, nel senso che si inverte se cambia la
polarità del generatore che fa scorrere l’elettricità nel cavo. In altre parole, quan-
do un conduttore percorso da elettricità viene immerso in un campo magneti-
co, su di esso è esercitata una forza la cui direzione è perpendicolare sia alle linee

9
Capitolo 1

dirette dal polo nord al sud, sia al verso della corrente (Figura 1.8).
La direzione della forza può essere determinata con la cosiddetta “regola della
mano sinistra”: se si dispongono pollice, indice e medio in modo da tenerli per-
pendicolari tra loro, se il medio indica la direzione della corrente e l’indice quel-
la delle linee del campo magnetico, la forza esercitata sul conduttore (rappresen-
tato dal dito medio) è diretta come indica il pollice (Figura 1.9).
La forza esercitata da un campo magnetico è direttamente proporzionale all’in-
tensità della corrente che percorre il conduttore stesso, alla lunghezza della por-
zione di quest’ultimo che si trova nel campo magnetico e al seno dell’angolo for-
mato dalla direzione delle linee di forza del campo con quella del conduttore. Il
tutto può essere rappresentato con la formula seguente:

F = B x I x l x senD

dove F è la forza esercitata sul conduttore, percorso dalla corrente di intensità


pari ad I e la cui lunghezza è l, mentre D è l’angolo formato dalle linee del campo
con il conduttore stesso. B rappresenta l’induzione magnetica, ossia una gran-
dezza vettoriale il cui modulo è rappresentato dalla solita formula quando l’an-
golo a vale 1.

Campo magnetico indotto dalla corrente


L’effetto magnetico dovuto alle correnti elettriche è estremamente importante
perché consente di realizzare ad esempio i motori elettrici, i sistemi di identifi-
cazione di oggetti mediante RFid, i detector, la radio ecc.
L’intensità dell’induzione magnetica considerata in un punto del campo prodot-
to da un conduttore percorso da corrente elettrica è proporzionale direttamen-
te all’intensità della corrente stessa e inversamente alla distanza dal conduttore.
Più esattamente, indicando con I l’intensità della corrente e chiamando d la
distanza dal punto considerato, l’induzione vale:

Figura 1.8 - Disponendo un conduttore percor-


so da corrente elettrica fra le espansioni polari
di un magnete permanente, esso riceve una
spinta determinata da una forza che agisce
perpendicolarmente al flusso magnetico ed al
verso della corrente stessa; il verso della forza
dipende dalla polarità del campo magnetico e
della corrente. Questo fenomeno viene sfruttato
nei motori, dove permette di creare del moto,
ma anche negli strumenti di misura (ampero-
metri) a lancetta.

10
Fondamenti di elettronica

Figura 1.9 - Regola della mano


sinistra (o regola di Fleming).

I
B = k ——
d

Il parametro k è una costante che vale, limitatamente al vuoto, µo/2S; suppo-


nendo il conduttore nel vuoto, la formula diventa:

µo x I
B = ———— (I)
2Sxd

µo è la permeabilità magnetica del vuoto e vale 2 S x 10-7 Wb/Am; indica la


capacità di un materiale o dell’aria (o del vuoto, se si tratta di spazio privo di
materia) di farsi attraversare dalle linee di forza di un campo magnetico.

Campo magnetico in una spira


Se il conduttore invece di essere rettilineo è curvato ad anello (a spirale) il
campo prodotto dalla corrente che l’attraversa è formato da cerchi concentrici
ad esso. Il magnetismo nelle spire è importante perché spiega il funzionamento
delle bobine utilizzate nei DC/DC converter e nei trasformatori, che sono l’in-
sieme di più spire.
L’induzione magnetica che si verifica al centro della spira, supponendo che si
trovi nel vuoto, è espressa dalla seguente relazione:

µo x I
B = ————
2xr

dove I è l’intensità della corrente che fluisce nel filo ed r il raggio della spira.
Quando si deve generare un campo elettromagnetico di una certa intensità,
invece che una sola spira si preferisce impiegare dei solenoidi, che sono bobine
composte da un certo numero di spire di filo elettrico accostate ed avvolte nello
stesso verso; in ragione di ciò, un solenoide sviluppa un’induzione magnetica la
11
Capitolo 1

cui intensità è pari alla somma delle induzioni ottenute dalle singole spire, dato
che si suppone essere l’insieme di più spire collegate una dopo l’altra e quindi
aventi in comune la medesima corrente. L’uso dei solenoidi permette di ottene-
re campi magnetici molto intensi, per ottenere i quali da una singola spira occor-
rerebbe far scorrere in essa correnti di valore estremamente elevato. Se la bobi-
na ha una lunghezza (intendendo con ciò non quella del filo usato ma la distan-
za dalla prima all’ultima spira) decisamente maggiore del suo diametro (almeno
dieci volte) il campo magnetico che si forma al suo interno è uniforme e la sua
direzione coincide con quella dell’asse delle spire, mentre il verso dipende da
quello della corrente e può essere determinato dalla cosiddetta regola della
mano destra: “se si pone il palmo della mano sul lato della bobina in modo che
la corrente circoli dal polso alle dita, il pollice aperto indica il verso del campo
magnetico”.
In linea generale, vale quanto enunciato per la singola spira: il campo prodotto
ha la direzione dell’asse e il verso determinato con la regola del cavatappi, ossia
quello di una vite destra che ruota nel senso di spostamento della corrente.
Induzione magnetica nelle bobine
Per quanto riguarda l’intensità raggiunta dall’induzione magnetica, consideran-
do un solenoide molto più lungo del proprio diametro si può dire che essa vale
la somma delle induzioni dovute alle singole spire; più esattamente, ammonta a:

µo x I x n
B = —————
l

dove n è il numero di spire ed l la lunghezza intesa tra la prima e l’ultima spira.


Esistono casi in cui, per aumentare l’induzione magnetica a parità di spazio, si
debbono realizzare bobine composte da più strati; in questo caso il solenoide è
l’insieme di più bobine sovrapposte e la formula appena esposta non è più appli-
cabile. Il valore dell’induzione magnetica si ottiene verosimilmente utilizzando
un’altra relazione, che tiene conto del diametro delle singole spire (d) ed è la
seguente:

µo x I x n
B = ———————
¹ (l² + d²)

Tale formula è applicabile anche alle cosiddette bobine corte, quelle, cioè, in cui
la lunghezza non è molto maggiore del diametro, ma paragonabile ad esso.

Induzione elettromagnetica
Quando un conduttore, non collegato ad alcuna fonte di elettricità, viene
immerso in un campo magnetico, ai suoi capi si sviluppa una tensione elettrica
12
Fondamenti di elettronica

(f.e.m.) impulsiva, massima all’inizio e decrescente, fino a zero, col passare del
tempo. Quando l’induzione magnetica è dovuta a un elettromagnete alimentato
a corrente variabile, l’induzione elettromagnetica si manifesta finché c’è varia-
zione e determina, ai capi del conduttore immerso nel campo, una tensione che
varia in analogia con la corrente nell’elettromagnete. Ancora, se il conduttore
viene mosso all’interno del campo, in esso si manifesta una tensione indotta, il
cui andamento nel tempo dipende dall’orientamento che esso assume rispetto
alle linee di forza dell’induzione magnetica. È questo il principio di funziona-
mento dei motori elettrici, siano essi in continua o in alternata, ma anche dei
generatori di elettricità (dinamo e alternatori).
Il flusso magnetico è la densità dell’induzione magnetica in un certo campo e
per una determinata angolazione; dipende strettamente dall’intensità dell’indu-
zione e dalla superficie entro il quale lo si considera, secondo la relazione:

) = B x S x cosD

dove B è il modulo del vettore induzione magnetica, S la superficie entro cui si


considera il flusso (espresso in Weber) e D l’inclinazione del conduttore immer-
so nel campo magnetico. Per l’esattezza, nel caso di un filo rettilineo è l’angolo
formato dalla perpendicolare alla sua direzione con la direzione delle linee di
forza del campo, mentre se si prende in considerazione una spira, è l’angolo for-
mato tra l’asse di questa e le linee di forza del solito campo. Siccome il flusso
dipende dall’angolo con il quale il conduttore viene disposto nel campo magne-
tico, ruotando il conduttore stesso si ottiene una tensione variabile che, se la
rotazione è uniforme e va da 0 a 360°, assume andamento sinusoidale.
Quando si considera l’induzione dovuta a un elettromagnete, della tensione
indotta va osservato come essa abbia un’ampiezza tale da produrre, se il circui-
to del conduttore o della spira viene chiuso, una corrente che tende ad opporsi
a quella che l’ha generata. In altre parole, se nell’elettrocalamita la corrente
aumenta, aumenta anche il flusso magnetico che investe il conduttore, ma in
esso la corrente reagisce sviluppando un suo campo magnetico che va ad
opporsi a quello creato dalla calamita. Tornando sulla tensione indotta nel con-
duttore, è provato che ha un verso tale da risultare l’opposto di quello che avreb-
be considerando la regola di Fleming; in pratica produce, se il circuito si chiude
su un utilizzatore, una corrente che fluisce nel verso di una vite sinistra che
avanza nel verso delle linee del campo magnetico dovuto all’elettrocalamita.

Mutua induzione
Il fenomeno dell’induzione elettromagnetica si manifesta non solo quando un
conduttore si trova fermo in un campo magnetico di intensità variabile o in
movimento in un campo costante, ma anche all’interno di un solenoide o di una
semplice spira di filo elettrico; la tensione indotta ha polarità e ampiezza tali da
opporsi a quella che ha determinato il flusso di corrente e il campo magnetico,
13
Capitolo 1

quindi che ha generato la f.e.m. indotta. Il fenomeno prende il nome di autoin-


duzione o mutua induzione e spiega come mai le bobine hanno un carattere iner-
ziale nei riguardi della corrente: applicando loro tensione, inizialmente non
assorbono nulla, poi, col passare del tempo, cominciano a farsi attraversare dal-
l’elettricità; sospendendo bruscamente la tensione di alimentazione, tendono a
far permanere la corrente, tanto che se si apre il circuito ma i punti di interru-
zione sono molto vicini, parte una scarica elettrica (arco elettrico) che va dall’u-
no all’altro e può provocare la fusione dei contatti. Sfruttando questo fenome-
no sono stati realizzati importanti dispositivi quali quelli di accensione dei tubi
fluorescenti a neon, usati nell’illuminazione, ma anche i convertitori DC/DC a
carica d’induttanza, di tipo buck e boost. In un solenoide percorso da elettricità,
collocato in un mezzo a permeabilità magnetica costante, il flusso dovuto all’in-
duzione ()i) si esprime con la relazione:

)i = L x i

dove i è l’intensità della corrente che origina, istante per istante, il flusso, men-
tre il parametro L prende il nome di coefficiente di autoinduzione o induttanza.
Corrisponde alla tendenza che un solenoide ha a sviluppare il campo magneti-
co e la tensione indotta, che si oppongono al flusso magnetico: tanto più è alta,
tanto maggiore è, a parità di flusso, la reazione sviluppata, e viceversa.
L’induttanza si misura, nel Sistema Internazionale, in henry (1 henry = 1 ohm x
secondo) ed è assimilabile a una resistenza elettrica, che si manifesta però quan-
do il circuito lavora in regime variabile, aumentando in maniera direttamente
proporzionale alla frequenza di variazione. Si noti che dalla formula precedente
si deduce che la variazione di flusso, considerata in un istante di durata infinita-
mente piccola (derivata) è pari a:

d)i = L x di

dove di è la variazione di corrente considerata in un istante della stessa durata


infinitesima di quello entro il quale si prende in esame la variazione del flusso.
Da tale relazione risulta il valore della tensione autoindotta, che risulta essere:

d)i di
ei = - —— = - L ——
dt dt

Autoinduzione nelle bobine


Siccome in una bobina di filo elettrico si trovano più spire e ciascuna di queste
determina un proprio campo indotto, è sensato dire che il valore dell’induttan-
za è funzione diretta del numero di spire componenti qualsiasi solenoide.
14
Fondamenti di elettronica

Inoltre, va notato che l’induttanza dipende dall’entità del flusso del vettore indu-
zione magnetica; essendo, il flusso, direttamente proporzionale alla permeabilità
magnetica dell’ambiente in cui un solenoide si trova, l’induttanza è direttamen-
te proporzionale anche alla permeabilità. Dunque, si può dire che se un solenoi-
de è avvolto in aria ha un comportamento diverso da uno analogo ma avvolto
su un supporto metallico; per l’esattezza, essendo il metallo più predisposto a
rispondere ai fenomeni magnetici, esso ha una permeabilità maggiore e quindi
determina maggiore induttanza.
Per determinare l’induttanza di un solenoide; si prendono in considerazione
alcune forme tipiche, che sono la toroidale e la lineare.
Per quel che riguarda il toroide (anello di materiale ferromagnetico) le spire ven-
gono avvolte tutte nello stesso verso, partendo da un punto e spostandosi lungo
la circonferenza del solido; dato che un siffatto avvolgimento è realizzato su un
nucleo di permeabilità magnetica uniforme, perché il toroide è dello stesso
materiale che si suppone uniformemente denso, si può iniziare con il determi-
nare il flusso dovuto a una spira, che vale:

µxIxS
F = µ x H x S = —————
l

dove S è la sezione della spira, ricavabile dal prodotto Sxr² (r è il raggio della
spira) ed l la lunghezza dell'avvolgimento immaginando di svilupparlo linear-
mente, mentre H è il campo magnetico (si ricordi che il flusso magnetico è pari
all'intensità del campo moltiplicata per la sezione entro cui la si considera).
Notate che il parametro µ è la cosiddetta permeabilità assoluta del mezzo entro
il quale si muove il flusso magnetico e vale il prodotto tra la µo e la µr; quest'ul-
tima è chiamata permeabilità relativa ed è caratteristica di ogni materiale: ha
valori molto bassi per i composti paramagnetici (poche unità) mentre raggiun-
ge le migliaia in quelli ferromagnetici (ferro dolce, ferrite, leghe ferro-silicio).
Vale esattamente 1, nei materiali diamagnetici, per i quali la permeabilità assolu-
ta (µ) corrisponde a quella del vuoto (µo). Il flusso nell'intero solenoide è pari
alla somma di quelli delle singole spire, quindi se N è il numero di queste, F vale:

µxIxSxN
F = µ x H x S x N = ———————
l

Da questa formula si ricava il flusso concatenato della bobina, che vale:

µ x I x S x N²
F c = F x N = ———————
l

15
Capitolo 1

L'induttanza complessiva della bobina è legata al flusso concatenato così calco-


lato, dalla relazione seguente:

Fc µ x S x N2
L = —— = —————
I l

Questa stessa formula, utilizzata per il calcolo dell'induttanza su nucleo toroida-


le, può essere applicata alle bobine rettilinee, con sufficiente approssimazione, a
patto che la loro lunghezza sia almeno cinque volte il diametro delle spire che le
compongono.

16
CAPITOLO 2
COMPONENTI ELETTRONICI PASSIVI

Per cercare i guasti e riparare i notebook, bisogna conoscere i principali componen-


ti elettronici attivi e passivi impiegati in essi. In questo capitolo ci si soffermerà sui
componenti passivi, così chiamati perché subiscono gli effetti della corrente. Il
loro funzionamento si spiega con l’elettrotecnica ed hanno effetti su corrente e ten-
sione limitandone l’intensità e l’ampiezza, ovvero variando la relazione di fase che
esiste nei circuiti funzionanti in alternata. Gli elementi passivi sono resistore, con-
densatore e induttore; tutti hanno due terminali, ossia due contatti elettrici, a
parte i dispositivi variabili come il potenziometro, che ne contano tre.
Ogni componente passivo viene identificato da un valore, che è quello della sua
grandezza caratteristica; per le resistenze è la resistenza, per le bobine l’induttanza
e per i condensatori la capacità. Inoltre, per le resistenze si definisce la massima
potenza dissipabile, per le induttanze la corrente sopportabile e per i condensatori
la massima tensione applicabile, anche se in realtà anche condensatori e bobine dis-
sipano potenza e quindi occorre definire la potenza sopportabile anche per essi.
Infine, dei componenti passivi viene specificata anche la tolleranza, intesa come lo
scarto tra il valore teorico scritto sul componente e quello che potrebbe essere in
realtà. Ad esempio, quando si ha una tolleranza del 5 %, ad esempio su un resisto-
re avente 1.000 ohm di resistenza, vuol dire che il valore resistivo esatto può esse-
re compreso tra 950 e 1.050 ohm.

Il resistore
Anche detto impropriamente “resistenza”, oppone resistenza al passaggio della
corrente elettrica; il suo valore si esprime in ohm (è di 1 ohm la resistenza che per-

19
Capitolo 2

Figura 2.1
Resistore a strato di
carbone, da ¼ di watt.

Figura 2.2
Resistore di potenza
a filo.

corsa da 1 A di corrente fa cadere tra i propri estremi 1 volt di tensione) o anche


nei suoi multipli, che sono il kohm (chiloohm) che vale 1.000 ohm e il Mohm
(megaohm) che vale 1.000.000 di ohm.
Il resistore si comporta nella stessa maniera sia in corrente continua che in alter-
nata e, nel caso di tensione e corrente variabile, indipendentemente dalla fre-
quenza; questo, almeno in teoria, perché in pratica è affetto da componenti
parassite (capacità e induttanza) che si fanno sentire, specie alle alte frequenze.
I resistori si trovano in commercio in svariate forme e dimensioni, le quali
dipendono dall’utilizzo, oltre che dalla potenza elettrica che devono smaltire e
dalla tensione massima ammissibile tra i loro terminali. Quelli più comunemen-
te utilizzati in elettronica si presentano come cilindretti aventi ai lati, assialmen-
te, i due terminali; a volte hanno una sagoma affusolata, mentre altre volte sono
a parallelepipedo.
Sul piano costruttivo, i resistori sono diversi in base alla destinazione d’uso,
ovvero alla potenza; le loro dimensioni dipendono essenzialmente dalla resisti-
vità del materiale usato, ossia dalla resistenza specifica, tipicamente misurata in
(ohm x m)/mm², perché riferita all’unità di volume.
I resistori possono essere costruiti con impasti di carbone e altri materiali, dosa-
ti in modo da ottenere una determinata resistività adatta a ottenere la resistenza
voluta. La tecnica ad impasto è stata praticamente abbandonata perché compor-
ta un pessimo funzionamento alle alte frequenze, a causa delle grandi compo-
nenti parassite (ad esempio capacità dovute all’agglomerazione dei granuli che
formano l’impasto); inoltre i resistori ad impasto hanno una tolleranza relativa-
mente alta (da ±5 a ±10 %).
Al tipo ad impasto viene da decenni preferito il resistore a strato metallico, la cui
struttura consta di un cilindretto di materiale isolante sul quale viene depositato
uno strato di metallo con un dosaggio e uno spessore che dipendono dalla resi-
stività che si desidera e dalla potenza da dissipare. Per aggiustare il valore, nei
resistori di precisione si incide con il laser lo strato, in modo da aumentare o
ridurre la resistenza.
Una tecnologia costruttiva similare è quella a strato di carbone, dove sul cilin-
dretto viene deposto uno strato di carbonio la cui concentrazione è tanto più
alta quanto minore deve essere la resistenza del componente da costruire; anche
qui si usa il laser ber bruciare parte dello strato e correggere la resistenza.

20
Componenti elettronici passivi

Le resistenze a strato metallico hanno un’ottima tolleranza: si va da un massimo


del 5 % ad appena l’1 %. Le potenze dissipabili da questo genere di resistore
vanno da 0,125 (1/8) di watt, per i modelli miniatura, a 2 W per quelli di poten-
za. I resistori di precisione sono a strato metallico, perché, oltre a garantire una
bassissima tolleranza sul valore resistivo, presentano una notevole stabilità ter-
mica; per stabilità si intende la variazione del valore resistivo al variare della tem-
peratura. Infatti nelle resistenze il valore cresce in maniera direttamente propor-
zionale al valore della temperatura. La stabilità si esprime con un parametro
detto coefficiente di temperatura ed espresso in ppm, ossia parti per milione per °C;
per darvi un’idea di cosa si tratta, diciamo che in un resistore da 1.000 ppm la
resistenza elettrica aumenta dell’uno per mille ad ogni grado centigrado di incre-
mento della temperatura. Ad esempio, un elemento da 1 kohm a 25 °C alla tem-
peratura di 100 °C presenta una resistenza di 1.075 ohm.
I resistori per SMD sono realizzati su una lamina inserita in un parallelepipedo
con i terminali su due lati; l’eventuale aggiustamento del valore si effettua inci-
dendo la superficie della lamina.
Le resistenze che devono dissipare più di 2 watt vengono realizzate avvolgendo
alcune spire di filo ad alta resistività su un supporto cilindrico; per ottenere un
determinato valore resistivo, a parità di lunghezza dell’avvolgimento si gioca sul
diametro del conduttore. Resistori a filo si utilizzano per testare gli alimentato-
ri AC/DC dei notebook, come verrà spiegato nel Capitolo 9.

Codifica dei resistori comuni


I resistori si trovano in commercio in valori standard raggruppati in serie, le più
comuni delle quali risultano la E12 (12 valori base) la E24 (24 valori base) e la
E96 (96 valori base). Il valore base si riferisce ai componenti (quelli fino a 2
watt) ad impasto e a strato, dove il valore viene rappresentato mediante un codi-
ce di colori; per valore base si intende quello delle prime due cifre (cifre signifi-
cative) di tale codice. La scelta della serie dipende da quanto accurato debba
essere il valore del componente nel circuito, nel senso che se è ammessa un’am-
pia tolleranza, si può usare, ad esempio, un resistore da 12 kohm al posto di uno
da 11 kohm.
La serie meno assortita, ossia la E12, ha i seguenti valori base: 1 - 1,2 - 1,5 - 1,8
- 2,2 - 2,7 - 3,3 - 3,9 - 4,7 - 5,6 - 6,8 - 8,2; si tratta comunque della serie più comu-
nemente utilizzata, almeno nei circuiti dove non è richiesta una certa precisio-
ne. La serie intermedia (E24) conta già più valori intermedi ed è quella più usata
nei circuiti di precisione: 1 - 1,1 - 1,2 - 1,3 - 1,5 - 1,6 - 1,8 - 2 - 2,2 - 2,4 - 2,7 -
3 - 3,3 - 3,6 - 3,9 - 4,3 - 4,7 - 5,1 - 5,6 - 6,2 - 6,8 - 7,5 - 8,2 - 9,1.
Tipicamente, i componenti della serie E12 hanno una tolleranza del 5 %; quel-
li della E24 sono all1 % o al 2 %, mentre quelli della E96 sono all’1 %.
I resistori normali vengono marchiati secondo un codice di colori che ne esprime
il valore, ma anche la tolleranza e il coefficiente di temperatura; il codice è com-
posto con fasce o anelli colorati che girano intorno al corpo e che vengono

21
Capitolo 2

posti in un determinato ordine. Guardando il codice può, però, sorgere un dub-


bio: da quale fascia partire per calcolare il valore? Diciamo subito che normal-
mente le resistenze della serie E12 hanno la tolleranza oro (5 %) o argento (10
%) quindi è chiaro che i valori si contano a partire dal lato opposto. Nei com-
ponenti in cui la tolleranza è marrone (1 %) o rossa (2 %) tipicamente la si
distingue perché è la fascia più distante dalle altre; altrimenti, la prima fascia delle
cifre significative si riconosce perché è più spessa delle altre. La Tabella 2.1 vale
per i resistori E12 ed E24, mentre per quelli delle serie E96 sono tipicamente
presenti tre cifre significative, ovvero cinque fasce colorate. Vale, allora, la
Tabella 2.2.
Normalmente le resistenze con quattro sole fasce di colore sono quelle con tol-
leranza del 10 %, 5 % o 2 %; quelle all’1 % hanno sempre cinque fasce e sono
della serie E96. Esistono poi resistori di altissima precisione, con tolleranza

Tabella 2.1
Codice dei colori per le
resistenze E12: tipicamente
sono quelle con tolleranza al 5
e 10 %, ma alle volte, anche
all'1 %. La prima fascia è la
prima cifra del valore base, la
seconda è la seconda di queste
cifre, la terza il moltiplicatore e
la quarta la tolleranza.

COLORE 1^ FASCIA 2^ FASCIA 3^ FASCIA 4^ FASCIA


NERO non usato 0 x1 non usato
MARRONE 1 1 x10 non usato
ROSSO 2 2 x100 non usato
ARANCIO 3 3 x1.000 non usato
GIALLO 4 4 x10.000 non usato
VERDE 5 5 x100.000 non usato
BLU 6 6 x1.000.000 non usato
VIOLA 7 7 x107 non usato
GRIGIO 8 8 non previsto non usato
BIANCO 9 9 non previsto non usato
ORO non usato non usato non previsto 5%
ARGENTO non usato non usato non previsto 10 %

22
Componenti elettronici passivi

addirittura allo 0,5 %, 0,25 % e 0,1 %; questi hanno una sesta fascia (dalla parte
opposta a quella che indica la prima cifra significativa, cioè la più larga) che indi-
ca il coefficiente di temperatura.

Resistori variabili
I resistori fin qui descritti sono detti “fissi” perché hanno valori costanti.
Esistono però resistori di cui è possibile variare la resistenza, per ottenere ad
esempio la regolazione del volume audio o della tensione di regolazione di un
alimentatore switching; tali componenti vengono genericamente chiamati resi-
stori variabili e sono potenziometro e trimmer. In realtà i due sono la stessa cosa:
hanno tre terminali, due dei quali corrispondono agli estremi della resistenza ed
un terzo è il cursore, ossia un elettrodo che scorre lungo la resistenza permet-
tendo di avere tra esso e un valore che varia da zero a quello massimo misura-

Tabella 2.2
Codifica a colori utilizzata
dalle resistenze della serie
E96, che hanno tre fasce per
definire il valore (nella serie
E96 è molto accurato) una per
il moltiplicatore e l'altra per la
tolleranza.

COLORE 1^ FASCIA 2^ FASCIA 3^ FASCIA 4^ FASCIA 5^ FASCIA


NERO non usato 0 0 x1 non usato
MARRONE 1 1 1 x10 1%
ROSSO 2 2 2 x100 2%
ARANCIO 3 3 3 x1.000 non usato
GIALLO 4 4 4 x10.000 non usato
VERDE 5 5 5 x100.000 non usato
BLU 6 6 6 x1.000.000 non usato
VIOLA 7 7 7 x107 non usato
GRIGIO 8 8 8 non previsto non usato
BIANCO 9 9 9 non previsto non usato
ORO non usato non usato non usato non previsto 5%
ARGENTO non usato non usato non usato non previsto 10 %

23
Capitolo 2

bile tra i terminali. Dei resistori variabili i costruttori definiscono sempre que-
st’ultimo valore, ragion per cui quando si dice che un trimmer o potenziometro
è, ad esempio, da 10 kohm, s’intende che il componente presenta una resisten-
za di 10 kohm tra gli estremi, ovvero che la massima resistenza che può assume-
re è 10 kohm.
Fra trimmer e potenziometro cambiano l’aspetto e la costituzione: il trimmer ha
tipicamente una cava per regolare la posizione del cursore mediante un caccia-
viti a lama, mentre il potenziometro dispone di un perno cui applicare una
manopola; inoltre il trimmer nasce per essere ritoccato poche volte, mentre il
potenziometro è studiato per continue regolazioni, quindi è più robusto, sia
nella meccanica che nello strato resistivo, il quale è fatto per resistere all’usura
che frequenti spostamenti del cursore provocano. L’elemento resistivo, che è il
resistore vero e proprio, viene realizzato deponendo una pellicola fatta di impa-
sto (tipicamente basato su carbonio) su un supporto plastico; si cono anche i
trimmer in Cermet, un composto a base ceramica. Esistono, però, potenziome-
tri di potenza che vengono realizzati a filo: l’elemento resistivo è dunque un filo,
avvolto quasi accostato su un supporto toroidale; il cursore è una lamina che
scorre su di esso. La resistenza è disposta ad arco e la regolazione avviene ruo-
tando il cursore e facendolo scorrere circolarmente. I potenziometri comuni
sono normalmente disponibili in tre esecuzioni: rotativo, rotativo multigiri e sli-
der; quest’ultimo ha il cursore che scorre linearmente, lungo l’elemento resisti-
vo che è in linea. Ci sono anche potenziometri o trimmer multigiri, dove il perno
o la vite di regolazione hanno una demoltiplica in grado di compiere una com-
pleta escursione dell’elemento resistivo in un numero di giri che varia da 2 a 20.
Trimmer e potenziometri possono essere utilizzati in due configurazioni circui-
tali: a reostato e a partitore variabile; la prima è sostanzialmente una resistenza
variabile, quindi si collegano un estremo e il cursore (Figura 2.5). In alcuni casi
vedete collegati insieme un estremo e il cursore, a costituire un unico elettrodo,
e l’altro estremo da secondo elettrodo.
Quanto alla configurazione a partitore variabile, costituisce l’uso da potenzio-
metro vero e proprio e serve a ricavare una tensione variabile: gli estremi si ali-
mentano con una differenza di potenziale e tra il cursore e uno di essi si ottiene
una tensione la cui ampiezza cresce man mano
che ci si allontana dall’estremo cui ci si riferisce
(per contro, cala la tensione misurata tra il curso-
re e l’altro estremo). La configurazione a poten-
ziometro è illustrata nella Figura 2.6. In entram-
be le configurazioni, il componente (trimmer o
potenziometro) lo vedete chiamato RV.

Fotoresistore
Si tratta di un resistore (anche detto fotoresistenza)
Figura 2.3 - Alcuni trimmer in cui la resistenza varia in funzione della luce
per montaggio normale.

24
Componenti elettronici passivi

che ne colpisce la superficie; si utilizza come fotocel-


lula o anche nei circuiti di variazione automatica
della luminosità dello schermo dei computer in fun-
zione della luce nell’ambiente. Il fotoresistore è com-
posto da un elemento resistivo appoggiato a un sup-
porto e ricoperto da uno strato protettivo che gli
Figura 2.4
permette di restare esposto all’ambiente esterno; lo Un potenziometro per
strato è ottenuto con un impasto di materiale semi- montaggio normale.
conduttore, che tipicamente è solfuro di cadmio
(CdS) o tellururo di cadmio (CdTe). Quando viene
investito dalla luce, il composto vede ridursi la proprie resistenza, che da alcuni
Mohm al buio diventa fino a poche centinaia di ohm in piena luce.
Come tutti i resistori, anche la fotoresistenza ha due soli terminali e si fa per-
correre dalla corrente egualmente nei due sensi. Il simbolo grafico del fotoresi-
store è illustrato nella Figura 2.7.

Termistore
È un resistore usato per rilevare la temperatura e fino a qualche anno fa veniva
collocato sotto lo zoccolo della CPU (ad esempio negli AMD Athlon socket 462
e degli Intel Pentium III socket 370) per rilevarne il surriscaldamento ed attiva-
re gli allarmi termici. Il termistore varia la propria resistenza in funzione della
temperatura. Il termistore esiste in due tipi:
 PTC; acronimo di Positive Temperature Coefficient, è un componente a coeffi-
ciente di temperatura positivo, nel quale la resistenza misurata tra i terminali cre-
sce all’aumentare della temperatura;
 NTC; ha coefficiente di temperatura negativo (NTC deriva da Negative
Temperature Coefficient) e in esso la resistenza cala al crescere della temperatura.

Il termistore NTC non è molto lineare, nel senso che la relazione tra la tempe-
ratura e la resistenza tra i due terminali non è di primo grado; in altre parole, se
un NTC presenta 1 kohm a 50 °C, non è detto che a 100 °C presenti 2 kohm.
Invece il PTC è molto più lineare, seppure lo sia solo entro un certo campo di
temperatura: sotto una temperatura specificata dal costruttore (temperatura di
switching) inverte il proprio comportamento e funziona come un NTC.
I termistori hanno elevata sensibilità e rapida risposta, ma sono fragili e copro-

Figura 2.5 - Trimmer o potenziometro configura-


to da reostato.

25
Capitolo 2

Figura 2.6 - Trimmer o potenzio-


metro configurato a potenziometro
(partitore di tensione variabile).

no un intervallo di temperatura limitato, compreso all’incirca tra -100 °C e + 200


÷ 300 °C.

Il condensatore
È un componente reattivo, nel senso che reagisce alle sollecitazioni producendo
in risposta un’azione; mentre la resistenza dissipa l’energia, il condensatore la
immagazzina per poi restituirla. Questo, almeno in teoria, perché nella pratica
qualcosa si perde. Il condensatore funziona come una molla, che dopo essere
stata premuta (caricata) si estende e vibra fino a tornare normale; è formato da
due piastre di materiale elettricamente conduttore, parallele tra loro (o arrotola-
te, una sull’altra, ma sempre equidistanti) dette armature; fra di esse si trova l’ele-
mento dielettrico, ossia un isolante, che può essere aria, carta, plastica, ossido
metallico o altro ancora (Figura 2.10). Ogni armatura è collegata a un elettrodo
(o capo) del componente.
Applicando una pila ai capi del condensatore, l’armatura cui è collegato il polo
positivo si carica elettricamente; togliendo tensione, il condensatore resta carico
come una batteria e presenta, tra le armature, una differenza di potenziale pari
alla tensione della pila che l’ha caricato. Per scaricarlo bisogna collegare tra i capi
qualcosa che dissipi l’energia accumulata: ad esempio una resistenza.
Alimentando un condensatore inizialmente scarico, oppure applicando alle
armature una tensione di polarità contraria a quella alla quale il componente si
trova attualmente carico, il condensatore assorbe corrente: ciò accade perché la
carica elettrica deve spostarsi da un’armatura all’altra, attraversando il dielettri-
co. Finita la carica, non c’è più assorbimento.
Il condensatore ha carattere inerziale nei riguardi della tensione, nel senso che,
fin quando non si carica, la differenza di potenziale ai suoi capi cresce da zero
al valore della fonte di tensione che sta caricandolo; in altre parole, mentre la
corrente scorre subito, la tensione cresce gradualmente. L’andamento di tensio-
ne e corrente in un condensatore è sempre opposto, nel senso che inizialmente

Figura 2.7 - Simbolo del fotoresistore usato nel disegno


degli schemi elettrici.

26
Componenti elettronici passivi

Figura 2.8 - Simbolo grafico del termistore, usato nel


disegno degli schemi elettrici.

la corrente è massima e la tensione minima, poi, al salire della tensione la cor-


rente diminuisce fino ad annullarsi. Il tempo impiegato da un condensatore a
raggiungere la piena carica, dipende dalla resistenza che gli si trova in serie, com-
posta dalla somma della resistenza interna del generatore di tensione che sta
caricando, della resistenza dei conduttori e delle giunture tra essi e di eventuali
resistori posti lungo il cammino della corrente.
La quantità di carica elettrica immagazzinabile (Q) dipende da due fattori, che
sono l’intensità della corrente e il tempo per il quale essa scorre nel componen-
te, secondo la relazione: Q = I x t; dove I è la corrente di carica e t il tempo con-
siderato. La quantità di carica viene espressa in Coulomb (1 C = 1 ampere x 1
secondo).
Il condensatore è caratterizzato dall’attitudine ad immagazzinare una certa
quantità di carica elettrica, la quale dipende, oltre che dalla corrente assorbita e
dal tempo, anche dalla tensione applicata fra le armature, si può dire che la capa-
cità (C) vale:

C = Q/V

La capacità si esprime in Farad o, più frequentemente, in sottomultipli che sono:


il microfarad (µF) ossia 1 milionesimo di farad, il nanofarad (nF) ossia 1
miliardesimo di farad e il picofarad, che vale 1 milionesimo di milionesimo di
farad (10-12 F).
La natura inerziale del condensatore nei riguardi della tensione fa sì che se in un
circuito viene preceduto da una resistenza, in regime variabile esso riduce l’am-
piezza della tensione ai suoi capi in maniera direttamente proporzionale sia alla
frequenza, sia alla propria capacità ed alla resistenza; ma non solo, perché porta
in ritardo (fino a 90°) la tensione rispetto alla corrente, determinando uno sfa-
samento del segnale ai propri capi.

Figura 2.9 - Esempi di termistore per montaggio tradizionale


(THT).

27
Capitolo 2

Figura 2.10 - Simbolo grafico del


condensatore, non polarizzato (a
sinistra) ed elettrolitico (a destra).

Il condensatore che troviamo nella realtà è un po’ diverso dal modello appena
descritto, nel senso che ha delle componenti parassite: un’induttore (rappresen-
tato dai terminali) e una resistenza; quest’ultima è formata da due parti, una in
serie e l’altra in parallelo. La prima, detta E.S.R. (Electric Series Resistance) e
dovuta ai terminali, rallenta la carica e si sente in special modo sui condensato-
ri elettrolitici; la seconda è determinata dal non perfetto isolamento del dielettri-
co, che porta a un flusso di corrente continua (seppure quasi trascurabile) anche
a piena carica e determina una perdita di energia.
Il condensatore si trova in commercio in varie esecuzioni, con valori da 1 pF a
centinaia di migliaia di microfarad; il dielettrico può essere carta, plastica (mylar,
polietilene, poliestere) o un materiale ceramico, tipicamente sintetico. Perciò esi-
stono condensatori a carta, in poliestere o mylar, polipropilene, ceramici e cera-
mici multistrato.

Il condensatore elettrolitico
Si tratta di un tipo di condensatore che presenta elevati valori di capacità a parità
di volume occupato. Per ottenere grandi capacità, in un elettrolitico le armature
sono sottili fogli d’alluminio arrotolati a spirale, uno dei quali è rivestito da un
ossido, che funge da dielettrico; il tutto è imbevuto in una soluzione chimica
(elettrolito). La struttura siffatta conferisce un alto rapporto capacità/ingombro,
però comporta alcuni inconvenienti: prima di tutto elevate componenti parassi-
te induttive e soprattutto resistive; queste ultime si concretizzano in un’alta
E.S.R. e in una perdita di isolamento nel dielettrico non indifferente. In secon-
do luogo, la struttura con elettrolito impone che il condensatore non possa fun-
zionare in corrente alternata e che debba obbligatoriamente essere polarizzato
con polarità positiva sull’elettrodo + rispetto al -; in caso contrario l’elettrolito
si depolarizza e l’ossido che fa da dielettrico viene rimosso.
Negli stadi alimentatori dei computer e quindi dei notebook, si fa ampio uso di
condensatori elettrolitici a bassa E.S.R., visto che si ha a che fare con frequenze
di commutazione molto elevate. In alternativa si adottano elettrolitici al tantalio,

Figura 2.11 - Condensatore ceramico: è di tipo non


polarizzato e si usa come filtro delle linee di alimen-
tazione delle varie parti del computer.

28
Componenti elettronici passivi

Figura 2.12 - Condensatore elettrolitico:


viene usato come filtro di ripple negli ali-
mentatori tradizionali e switching.

in cui il dielettrico è un ossido di tantalio; tali componenti presentano basse resi-


stenze serie e perdite di corrente, però costano parecchio di più dei comuni elet-
trolitici. I condensatori SMD sono quasi tutti in tantalio e si distinguono da
quelli a dielettrico comune perché mentre questi ultimi sono dei cilindri tozzi
con due elettrodi posti lateralmente in basso, quelli al tantalio sono dei paralle-
lepipedi con sotto i contatti.

Codifica dei condensatori


Per esprimere le capacità vengono utilizzati svariati sistemi, che vanno dal codi-
ce dei colori a un’espressione numerica; sono espressi con il codice dei colori

Tabella 2.3
Codice dei colori per i
condensatori non polarizzati
contrassegnati con bande
colorate; nel calcolare il
valore si parte sempre dalla
fascia in alto, ossia da quella
lontana dagli elettrodi.

COLORE 1^ FASCIA 2^ FASCIA 3^ FASCIA 4^ FASCIA 5^ FASCIA


NERO non usato 0 x1 20 % non usato
MARRONE 1 1 x10 non usato 100 V
ROSSO 2 2 x100 non usato 250 V
ARANCIO 3 3 x1.000 non usato non usato
GIALLO 4 4 x10.000 non usato 400 V
VERDE 5 5 x100.000 non usato non usato
BLU 6 6 x1.000.000 non usato 630 V
VIOLA 7 7 x10.000.000 non usato non usato
GRIGIO 8 8 non previsto non usato non usato
BIANCO 9 9 non previsto 10 % non usato
ORO non usato non usato non previsto 5% non usato
ARGENTO non usato non usato non previsto non usato non usato

29
Capitolo 2

alcuni componenti in carta, poliestere e simili (in questo caso il codice è simile
a quello usato per le resistenze della serie E12). Usano la codifica a numeri i con-
densatori ceramici, comuni e multistrato, alcuni in poliestere o mylar ed altri tipi
ancora. Infine, gli elettrolitici hanno il valore scritto in chiaro, normalmente
espresso direttamente in microfarad (ad esempio, 10 µF 16 Vl). La Tabella 2.3
illustra la codifica a colori usata per i condensatori in poliestere e mylar, che pre-
vede la marchiatura del corpo con cinque fasce colorate. Per calcolare il valore
si parte sempre dalla fascia in alto, ossia da quella più lontana dagli elettrodi.
Nel sistema a colori, il valore è tipicamente espresso in picofarad, quindi un con-
densatore che abbia la prima fascia gialla, la seconda viola e la terza verde, vale
4.700.000 picofarad, ovvero 4, microfarad. Per quanto riguarda il codice nume-
rico, si usano tre cifre e una lettera: la prima e la seconda definiscono il valore
base (sono le cifre significative...) e la terza è il moltiplicatore, ossia il numero di
zeri ma aggiungere per ottenere il valore; la lettera è la tolleranza, che vale 5 %
se è J, 10 % se è K, 20 % se è M e -20/+80 % se è Z. Quest’ultima lettera la tro-
vate tipicamente in alcuni condensatori ceramici a disco. La capacità calcolata
con la codifica a numeri è sempre in picofarad. Ad esempio, 103 K identifica un
condensatore da 10.000 pF (10 nanofarad) con tolleranza del 10 %; 104 M è un
condensatore da 100.000 pF (0,1 µF) al 20 %.
Nei condensatori in poliestere, specie quelli di maggior pregio e costo più ele-

1^ CIFRA 2^ CIFRA 3^ CIFRA LETTERA


Prima cifra Seconda cifra
Significato Moltiplicatore Tolleranza
significativa significativa

Tabella 2.4 - Codifica numerica per i condensatori non polarizzati; il moltiplicatore


rappresenta il numero di zeri da aggiungere.

NUMERO 1^ CIFRA 2^ CIFRA 3^ CIFRA (moltiplicatore)


1 1 1 non usato
2 2 2 100 V
3 3 3 250 V
4 4 4 non usato
5 5 5 400 V
6 6 6 non usato
7 7 7 630 V
8 8 8 non usato
9 9 9 non usato

Tabella 2.5 - Codice numerico per i condensatori non polarizzati: il valore è usualmente in
picofarad.

30
Componenti elettronici passivi

Tabella 2.6 - Tolleranza dei condensatori il cui


LETTERA TOLLERANZA valore è espresso dal codice numerico.
J 5%
K 10 %
M 20 %
Z -10 % ÷ +80 %

vato, trovate la lettera J, ossia la tolleranza al 5 %. Ma la gran parte degli elemen-


ti ceramici ha la lettera Z o la K, mentre per quel che riguarda i componenti in
poliestere, mylar e simili c’è la M o la K. Nei condensatori ceramici in cui il valo-
re è espresso col codice numerico, a volte si trova una fascia colorata sulla som-
mità, che indica il coefficiente di temperatura; ciò perché i ceramici hanno varia-
zioni abbastanza rilevanti della capacità in funzione della temperatura (a parte
gli NPO) quindi in alcune applicazioni può essere necessario fare caso anche
alla deriva termica. Il coefficiente, espresso al solito in ppm, vale tipicamente
100 se la fascia è rosso/viola, 0 se è nera, -75 se è rossa, -150 se è arancio, -220
se gialla, -330 se verde, -470 se blu, -750 se viola e -1.500 se arancio con una stri-
scia nera.

Induttore
È un componente di vitale importanza per i notebook, in quanto è alla base del
funzionamento degli alimentatori, a partire da quello di rete a tutti gli stadi che
fanno funzionare CPU, RAM, scheda video ecc. Si tratta di una bobina compo-
sta da un filo avvolto più volte su un supporto diamagnetico (che non interferi-
sce con i campi elettromagnetici) ferromagnetico (che, nei riguardi dei campi
magnetici, si comporta come il ferro) o paramagnetico (che interferisce, ma
poco, con i campi magnetici) che, percorso da corrente elettrica, vede manife-
starsi il fenomeno della mutua induzione. Il valore dell’induttore si chiama
induttanza ed è espresso in Henry (1 H = 1 ohm al secondo) sebbene gli indut-
tori per elettronica siano tipicamente marchiati in microhenry (µH).
L’induttore ha carattere inerziale nei confronti della corrente, perché, alimenta-
to in continua, inizialmente non assorbe nulla, ma si oppone ad essere attraver-
sato dalla corrente; poco dopo comincia a condurre e, abituatosi ad un certo
regime, tenta di mantenerlo anche se il circuito viene interrotto. Quando viene
alimentato, l’induttore sviluppa una tensione indotta uguale in valore ma con-
traria nel verso a quella che l’ha generata. La tensione, direttamente proporzio-

Figura 2.13
Due induttori in esecuzione
SMD: è facile trovarne nelle
mainboard dei notebook, in
prossimità dei blocchi DC/DC
converter.

31
Capitolo 2

nale al valore della corrente e a quello dell’induttanza, è inversamente propor-


zionale al tempo in cui la si considera; significa, cioè, che inizialmente è massi-
ma, poi decresce, fino ad annullarsi, man mano che trascorre tempo dal momen-
to in cui la bobina riceve l’alimentazione. In regime continuo, l’induttore per-
mette lo scorrimento della corrente di regime (quella che dipende dalla somma
della resistenza interna del generatore di tensione e di quelle dei conduttori e
delle giunte) solo trascorso un certo intervallo di tempo, che dipende dalla resi-
stenza complessivamente in serie e dal valore dell’induttanza stessa. Il compor-
tamento inerziale nei riguardi della corrente fa sì che alimentando l’induttanza
in regime alternato la corrente venga ritardata rispetto alla tensione; infatti, ad
ogni variazione l’induttore si adegua lentamente e si lascia attraversare dalla cor-
rente di pieno regime solo dopo un certo tempo. In una bobina che ha in serie
una resistenza e lavora in regime alternato, l’ampiezza della differenza di poten-
ziale ai suoi capi diminuisce in maniera inversamente proporzionale sia alla fre-
quenza, sia ai valori di induttanza e resistenza; la tensione si porta in anticipo
(fino a 90°) rispetto alla corrente.
Normalmente il valore degli induttori viene rappresentato in microhenry (1
microhenry = 10-6 henry) con il codice numerico già descritto per i condensato-
ri, ma non è infrequente trovare componenti che adottino un codice dei colori
a punti o fasce; anche in questo caso si applica il codice dei colori dei conden-
satori ed il valore è sempre in microhenry. Ad esempio, se trovate un induttore
con tre punti colorati più uno, ordinati così: rosso, viola, giallo, argento, signifi-
ca che il componente è da 4.700 µH, al 10 % di tolleranza. Notate che spesso i
colori sono solo tre, perché la tolleranza si dà per scontata al 10 %. Per quanto
riguarda l’ordine di lettura, con i punti si parte da quello più grande, mentre con
le fasce si inizia dalla più spessa.

Quarzi
Sono componenti elettronici usati per stabilizzare la frequenza di lavoro degli
oscillatori, in virtù della loro caratteristica di risuonare meccanicamente ad una
frequenza che coincide con quella di risonanza elettrica. Vengono impiegati per
generare il clock delle CPU e delle unità grafiche (GPU) dei computer, oltre che
per stabilizzare la frequenza di funzionamento di vari stadi.
Un quarzo è formato da una scatolina metallica dalla quale fuoriescono due elet-
trodi e sulla quale è impresso il valore della frequenza fondamentale di oscilla-
zione. Dentro l’involucro (Figura 2.14) si trova un dischetto di quarzo sottilissi-

Figura 2.14 - Due quarzi in SMD utiliz-


zati ad esempio come clock per le main-
board dei computer.

32
Componenti elettronici passivi

Figura 2.15
Condensatori elettrolitici in
SMD: a sinistra quello a dielet-
trico tradizionale e a destra
quello al tantalio.

mo, le cui facce, rivestite da un sottile strato d’argento, sono collegate, attraver-
so due piccole molle, che fungono pure da elementi di sostegno, con i termina-
li. Lo spessore del quarzo ne determina la frequenza di lavoro.
Il quarzo è un materiale piezoelettrico, quindi sottoposto a una tensione si
espande o si contrae seguendone l’andamento; per contro, se sollecitato mecca-
nicamente produce tensione. I quarzi vengono utilizzati nella prima modalità:
collegandoli in un circuito oscillatore, la tensione loro applicata determina
vibrazioni sulla superficie del cristallo. Se la frequenza applicata è pari a quella
di risonanza meccanica, le deformazioni diventano macroscopiche ed un segna-
le di piccolissima entità è sufficiente per mantenere innescate le oscillazioni.
Quindi il quarzo presenta una tensione elevata ai propri capi solo in presenza di
frequenze pari a quella propria di risonanza, mentre fa sì che l’oscillatore non
produca alcunché o quasi fuori dal valore di risonanza.
In pratica, ogni quarzo è affetto da componenti parassite (Cp ed R) che esten-
dono il campo di frequenze entro le quali il esso oscilla.
La bontà di un quarzo, intesa come la sua capacità di manetenere il più precisa
e stabile possibile la frequenza dell’oscillatore in cui è inserito, dipende dal fatto-
re di merito, che vale Q=fo/Bw, dove fo è la frequenza di risonanza e Bw la dif-
ferenza tra le frequenze di oscillazione massima e minima che in realtà caratte-
rizzano il quarzo. In pratica, più è largo il campo di frequenze alle quali risuona
il quarzo rispetto alla frequenza di risonanza fo, minore è il fattore di merito.
Tipicamente un quarzo ha un Q di 80.000÷1.000.000.
Negli oscillatori dei microprocessori e in generale in quelli impiegati per il clock
dei circuiti digitali, il quarzo viene connesso a pi-greca con due condensatori
(ognuno dei quali ha un capo a massa) che avviano l’oscillazione.
L’assortimento dei valori dei quarzi è notevole, tuttavia non sempre si trova la
frequenza desiderata; in tal caso si può “correggere” la frequenza di un oscilla-
tore a quarzo aggiungendo un condensatore (o anche un compensatore, cioè un
condensatore variabile) o un’induttanza. Più esattamente, per abbassare la fre-
quenza si aggiunge un’induttanza, mentre per alzarla si inserisce un condensa-
tore. Collegando in serie al quarzo un’induttanza e una capacità si realizza un
oscillatore variabile.
Nei circuiti di clock dei microprocessori e microcontrollori, l’esatto valore di
frequenza si ottiene partendo da quarzi di frequenza molto più elevata e divi-
dendo mediante contatori. Per ottenere frequenze maggiori di quella del quar-
zo, nei computer si utilizzano moltiplicatori di frequenza basati su PLL e con-
33
Capitolo 2

Tabella 2.7 - Dimensioni dei componenti SIGLA DIMENSIONI (mm)


passivi in SMD.
01005 0,4x0,2
0201 0,6x0,3
0402 1x0,5
tatori; l’uso del PLL è la tecnica principe 0603 1,6x0,8
nei computer, dove il quarzo fa da base 0805 2x1,25
per un moltiplicatore di frequenza che
ricava il clock della CPU e del chipset. 1206 3,2x1,6
1812 4,6x3
Risuonatori ceramici 1913 4,8x3,3
Da diversi anni si realizzano componen-
2010 5x2,5
ti dal comportamento simile a quello dei
quarzi, ma aventi come elemento pie- 2512 6,3x30
zoelettrico un materiale sintetico, cera- 2615 6,6x3,2
mico; in talune applicazioni sono prefe-
riti per la miglior resistenza alle sollecitazioni meccaniche, alla temperatura e
all’umidità, ma soprattutto per il minor costo di produzione, dovuto sia al fatto
che il materiale sinterizzato in fabbrica costa meno del quarzo, sia perché è più
facile aggiustare lo spessore con processi automatizzati. I risuonatori ceramici si
usano come i quarzi e trovano impiego nei telecomandi TV, nei circuiti RF e in
quelli digitali.

Componenti passivi in SMD


Nei computer e in special modo nei notebook di ultima generazione, resistenze
(anche molte di potenza) condensatori e induttori, ma anche i componenti atti-
vi, sono quasi sempre e quasi tutti in versione per montaggio superficiale
(SMD=Surface Mount Device): non hanno reofori o piedini da far passare attra-
verso i fori del circuito stampato, ma si montano a diretto contatto delle piste,
grazie a contatti posti inferiormente o lateralmente nella parte bassa del corpo,
che possono esser di vario genere: a lamella, a placca ecc.
Gli SMD, o SMT (acronimo di Surface Mounting Technology) che dir si voglia,
vengono impiegati perché consentono di ridurre le dimensioni dei circuiti, come
richiesto da notebook che i costruttori vogliono sempre più prestanti a parità di
peso e ingombro.
Tipicamente i contatti sono posizionati in cor-
rispondenza dei lati corti, ma alle volte si trova-
no sui lati lunghi, come nel caso di alcuni resi-
stori di potenza da pochi ohm o frazioni di
ohm.
Rispetto ai componenti tradizionali (THT, ossia
Trough Hole Technology) quelli per montaggio
Figura 2.16 - Resistore in SMD.

34
Componenti elettronici passivi

Figura 2.17 - Un fotoaccoppiatore in versione SMD: si


può trovare nella rete di retroazione degli alimentatori
switching galvanicamente isolati, come gli AC/DC dei
notebook e dei PC da tavolo.

superficiale vengono distinti in serie, ciascuna delle quali ha specifiche dimen-


sioni. Il formato dei componenti passivi SMD come resistenze e condensatori
è definito da un numero che indica le dimensioni, intese guardando il compo-
nente montato sullo stampato, di larghezza e lunghezza, espresse in pollici; più
esattamente, il codice identificativo è composto da due coppie di numeri, che
sono i decimali di pollice delle dimensioni o, se preferite, le dimensioni in pol-
lici senza la virgola davanti. In altre parole, le coppie di numeri indicano le
dimensioni dei componenti in centesimi di pollice. Per esempio, 0805 significa
che le dimensioni di lunghezza e larghezza sono rispettivamente 0,08 x 0,05 pol-
lici, ovvero circa 0,2 x 0,125 cm. La Tabella 2.7 riporta la corrispondenza tra i
codici e le dimensioni dei componenti a montaggio superficiale.
Per quanto riguarda i valori degli elementi passivi, l’identificazione non avviene
come sulle resistenze comuni a impasto o a film, oppure su alcuni condensato-
ri in poliestere; qui si usa il codice numerico già visto per i condensatori cerami-
ci e in poliestere senza codice colori e ciò sia per vale anche per resistenze e
induttori. Ad esempio, un resistore che abbia stampato 102 K significa che è da
1.000 ohm, al 10 % di tolleranza; un 473 J è da 47.000 ohm al 5 % di tolleran-
za. Ma sovente si trova il solo valore di resistenza, capacità, induttanza, senza la
tolleranza, perché quella è definita dalle specifiche della serie cui il componente
appartiene; quindi si troveranno più facilmente scritte del tipo 103, 473, 394 ecc.
È chiaro che per le resistenze il valore indicato è in ohm, mentre per i conden-
satori risulta in picofarad; per gli elettrolitici, solitamente viene stampigliato il
valore in microfarad, quindi se leggiamo 10 significa 10 microfarad. Comunque
non è infrequente veder marchiare gli elettrolitici, specie quelli a scatoletta (tan-
talio) in picofarad, quindi 10 microfarad corrisponderà a 107, ossia 10 seguito
Per quanto riguarda le reti resistive, che sono gruppi di resistenze di uguale valo-
re (raccolte in un unico contenitore) delle quali un terminale è in comune oppu-

Figura 2.18
A sinistra, la freccia verde
indica un condensatore SMD
non polarizzato; a destra, la
freccia rossa evidenzia un
resistore SMD e quella gialla
un diodo, sempre a montag-
gio superficiale.

35
Capitolo 2

Figura 2.19 - Vari tipi di fusibile SMD utilizzati nei computer sia fissi che notebook.

re i terminali sono tutti liberi, il valore viene stampigliato come per le singole
resistenze; talvolta sono indicate sigle che identificano anche la tipologia (cioè a
terminale comune o indipendenti).
Particolare attenzione la meritano i fusibili in SMD, che si presentano sovente
come sottili lastrine con due elettrodi ai lati, ma che talvolta sono parallelepipe-
di a sezione verticale quadrata (Figura 2.19). Questi componenti talvolta posso-
no essere scambiati per resistenze o condensatori, ma solitamente riportano ele-
menti distintivi e comunque sulle mainboard dei portatili vengono siglati con F
(Fuse); le sigle sono tipicamente numeri che indicano la massima corrente prima
che saltino, quindi 1, 4, ecc. indicano correnti di 1, 4 ampere ecc.
A volte, in luogo dei fusibili vengono impiegate delle resistenze di potenza, però
a film metallico; queste si usano come limitatrici della corrente massima eroga-
bile da un certo stadio e vengono calcolate per presentare, in condizioni norma-
li, una caduta di tensione che non disturba il funzionamento degli stadi che
seguono e che dal resistore vengono protetti.
I componenti SMD vanno trattati con cura e devono essere smontati utilizzan-
do la macchina a getto d’aria calda eventualmente abbinata ad un riscaldatore
che scaldi il circuito stampato; una buona dose di flussante agevolerà lo sciogli-
mento della lega saldante consentendo di dissaldare il componente a temperatu-
re relativamente basse e non critiche per la sua incolumità. È anche possibile sal-
dare e dissaldare gli SMD con un saldatore a punta fine, ma la cosa funziona
solo se il componente non ha elettrodi sotto, ovvero se la gran parte della super-
ficie degli elettrodi è di lato.

36
CAPITOLO 3
COMPONENTI ELETTRONICI ATTIVI

Oltre ai componenti passivi, per lo studio dei notebook ci interessano quelli attivi,
che sono alla base del funzionamento degli stadi principali. Gli “attivi” sono quei
componenti che oggi si basano su materiale semiconduttore o, meglio, su giunzio-
ni o speciali accoppiamenti di materiale semiconduttore (in passato erano i tubi a
vuoto). Sono così chiamati perché non si limitano a subire la corrente elettrica ma
hanno un ruolo attivo, nel senso che possono decidere come comportarsi relativa-
mente al suo passaggio, ovvero modificare sensibilmente i parametri della potenza
elettrica. Sono attivi il diodo e i transistor (bipolare a giunzione, unigiunzione,
jFET, MOSFET, IGBT) i tiristori (SCR e TRIAC); lo sono anche i circuiti integra-
ti, che pure comprendono elementi attivi. In questo capitolo si parlerà degli attivi
“discreti”, intendendo con discreti i componenti che si trovano singoli in un con-
tenitore; più esattamente, verranno spiegati diodi e transistor sia bipolari che ad
effetto di campo.

Il diodo
È il più semplice componente elettronico attivo, oggi realizzato da una giunzione a
semiconduttore capace di lasciarsi attraversare dalla corrente in un solo verso;
almeno in teoria, perché in pratica conduce anche nella direzione opposta, lascian-
do tuttavia transitare una corrente trascurabile. Il diodo è un componente a due ter-
minali che polarizzato con l’anodo positivo rispetto al catodo non conduce fin
quando la tensione applicatagli non supera il valore di soglia; superato questo, il
diodo comincia a condurre, prima gradualmente e poi bruscamente, lasciandosi
attraversare da forti correnti con minime variazioni di tensione ai propri capi. Il

39
Capitolo 3

valore della tensione di soglia dipende strettamente dal tipo di diodo; i tipi esi-
stenti di diodo sono quello a giunzione PN, PIN, il diodo a giunzione
metallo/semiconduttore e quello a punta di contatto. Il primo costituisce la base
di componenti largamente usati nell’elettronica di consumo e industriale; il
secondo trova impiego quasi esclusivamente nei converter switching e il terzo
come rivelatore a modulazione d’ampiezza nei ricevitori radio.
Il diodo comune (anche detto rettificatore) viene usato essenzialmente dove serva
consentire il passaggio della corrente in una sola direzione, quindi negli alimen-
tatori dei computer, come raddrizzatore di corrente (dove serve a far sì che la
corrente alternata presa dalla rete o dal secondario di un trasformatore carichi
dei condensatori fino ad ottenere una componente continua) ovvero per smor-
zare le tensioni inverse generate dalle bobine degli switching dei notebook.
Il diodo a giunzione è realizzato dall’unione di due materiali semiconduttori o
metallici: nel primo caso è del tipo PN o PIN, mentre nel secondo è uno
Schottky; la giunzione PN è in realtà un blocchetto di silicio o germanio (mate-
riali tetravalenti che la chimica classifica come semiconduttori) all’estremità del
quale vengono introdotte impurezze, ossia atomi di elementi trivalenti o penta-
valenti; l’operazione di introduzione viene detta drogaggio e serve a creare ecces-
so di portatori di carica elettrica (elettroni) da un lato e carenza di essi dall’altro.
La zona drogata con atomi a valenza cinque viene chiamata regione N e costi-
tuisce il catodo, mentre quella con drogaggio trivalente è la regione P, o catodo.
Per far condurre il diodo a giunzione PN bisogna applicargli una differenza di
potenziale di valore opposto a quella (barriera di potenziale) creatasi agli estremi
della regione di svuotamento. La tensione deve essere positiva sull’anodo (zona
P) rispetto al catodo (zona N) in modo da spingere gli elettroni in eccesso nella
regione N a spostarsi nella P; il suo valore deve superare quello di soglia, corri-
spondente al potenziale elettrico necessario a portare via gli elettroni andati a
colmare le lacune in prossimità della regione di svuotamento dalle lacune stes-
se. La tensione necessaria alla conduzione (tensione di soglia) vale 0,6 V per le giun-
zioni composte da silicio e 0,2 V per quelle in germanio; esistono anche semi-
conduttori sintetici, usati soprattutto nella realizzazione dei diodi luminosi

Figura 3.1 - Curva caratteristica di


un diodo a giunzione e simbolo
grafico del diodo.

40
Componenti elettronici attivi

Figura 3.2 - Struttura della giunzione


PN che compone i diodi a semicon-
duttore.

LED) nei quali la tensione di soglia può essere maggiore (fino a 4 volt).
Polarizzando inversamente il diodo, ovvero con l’anodo (zona P) negativo
rispetto al catodo (N) il componente non conduce, se non la debolissima cor-
rente di saturazione inversa fin quando, superata la tensione di rottura, la giun-
zione non cede e conduce per l’effetto valanga. La tensione di soglia, come la
massima inversa sopportabile da un diodo, e tutti gli altri parametri caratteristi-
ci dei diodi, vengono forniti dai costruttori.
Delle giunzioni PN di diodi e transistor, la corrente in polarizzazione inversa
(Io) raddoppia ogni 10 °C di incremento termico, mentre la tensione di soglia
Vs si abbassa di 2,5 mV ogni °C di incremento termico.

Diodo PIN
Il diodo PIN è una speciale variante del PN: è sempre costituito da una giun-
zione, ma tra la regione P e la N riporta una zona di semiconduttore intrinseco
(non drogato) isolante, che allarga la regione di svuotamento. L’allargamento
permette di ottenere elevate tensioni inverse di rottura, quindi di impiegare i
diodi PIN come raddrizzatori in circuiti ad alta tensione. La struttura PIN con-
sente, inoltre, tempi di ripristino (passaggio dalla conduzione all’interdizione)
minori di quelli della tradizionale regione PN, il che rende adatto il diodo a fun-
zionare da raddrizzatore negli alimentatori switching e comunque in circuiti
dove avvengono commutazioni ad elevata frequenza e dove un comune diodo
condurrebbe anche per i primi istanti della polarizzazione inversa. La tensione
di soglia del diodo PIN è più alta di quella del comune diodo a giunzione PN.

Diodo Schottky
Si tratta di uno speciale diodo dove la giunzione è formata dalla fusione di un
metallo su un semiconduttore drogato N, dove il metallo costituisce la parte P;
più esattamente, il metallo è alluminio ed avendo valenza +3 funge da drogan-
te trivalente. Nella superficie interessata al contatto metallo/semiconduttore si

Figura 3.3 - Aspetto di un generico diodo: la fascetta


è in corrispondenza del terminale di catodo (K) che è
quello da polarizzare positivamente nei diodi usati da
raddrizzatori e negativamente in fotodiodi e Zener.

41
Capitolo 3

forma la solita zona di svuotamento, priva di cariche libere e quindi isolante,


almeno fin quando tra il semiconduttore N e l’elettrodo di alluminio non viene
applicata una tensione superiore alla barriera di potenziale.
Come per i diodi a giunzione PN e PIN, anche per gli Schottky la polarizzazio-
ne diretta consiste nell’applicare la polarità positiva alla regione P e la negativa
alla N; la tensione di soglia è però molto bassa: appena 0,3 volt. Ciò rende lo
Schottky il diodo ideale per i circuiti a bassissima tensione.
Altra caratteristica importante del diodo Schottky è l’elevata frequenza di com-
mutazione da conduzione a interdizione, che lo rende molto adatto alla realiz-
zazione di alimentatori switching e circuiti per il comando a impulsi; il diodo del
genere viene molto utilizzato come raddrizzatore dei DC/DC converter dei
notebook, ma anche degli alimentatori esterni AC/DC.

Diodo Zener
È un diodo che permette di stabilizzare la tensione. Per comprenderne il fun-
zionamento bisogna riprendere quello dei diodi a giunzione PN, dei quali si è
visto che in polarizzazione inversa non conducono corrente, se non quell’esiguo
valore chiamato “corrente di fuga” o “corrente di saturazione inversa”. Oltre un
certo valore di tensione, però, la giunzione si rompe e la corrente aumenta a
dismisura, divenendo praticamente indipendente dalla tensione. È in questa
zona della caratteristica (3° quadrante) che lavorano quei particolari diodi detti
Zener, che sono progettati per funzionare a tempo illimitato, con determinati
valori di corrente, senza danneggiarsi; in altre parole uno Zener quando si rag-
giunge la sua tensione di soglia inversa (tensione di Zener) prende a condurre e la
corrente è praticamente limitata da una resistenza che vuole in serie (resistenza
zavorra). La tensione ai suoi capi rimane praticamente costante per qualsiasi
valore di corrente, almeno in teoria. Questa caratteristica rende lo Zener ideale
per realizzare circuiti stabilizzatori di tensione, alimentatori stabilizzati e comun-
que dove serva un riferimento costante di tensione. In polarizzazione diretta, lo
Zener si comporta come qualsiasi diodo. Nei prossimi capitoli vedrete come si
impiega per stabilizzare la tensione negli alimentatori; per ora, accontentatevi di
conoscere il tipico circuito di polarizzazione, ovviamente inversa.
La regolazione della tensione nasce dal fatto che, entro certi margini, qualsiasi
variazione della corrente nel diodo derivante da un cambiamento del valore della

Figura 3.4 - Circuito di polarizza-


zione del diodo Zener.

42
Componenti elettronici attivi

tensione di alimentazione del bipolo Zener/resistenza zavorra o da una varia-


zione di assorbimento del carico, lascia praticamente inalterata la Vz. Infatti la
caduta sul diodo Zener, superata la tensione nominale, si mantiene pressoché
costante.

Il diodo luminoso (LED)


Ogni diodo a giunzione PN, quando viene polarizzato direttamente emette una
radiazione luminosa, solo che per i diodi al germanio e al silicio l’emissione
avviene nel campo degli infrarossi (sopra i 750 nanometri); esistono però diodi
in cui la luce emessa è nel campo del visibile: si chiamano LED (Light Emitting
Diode) sono realizzati con semiconduttori di sintesi, capaci di emissioni nel
campo di lunghezza d’onda da 450 a 700 nm.
Come tutti i diodi, anche i LED conducono (e si accendono) solo quando la
tensione diretta applicata ai loro capi supera quella di soglia; questa non è ugua-
le per tutti i LED ma dipende dal colore, o meglio, cresce andando dal rosso al
blu, perché al rosso corrisponde il minor potenziale di estrazione (circa 1,8 V)
mentre nei LED blu, che danno la radiazione luminosa a maggiore energia
(minor lunghezza d’onda) per estrarre gli elettroni serve un potenziale che può
raggiungere i 4 volt.
I semiconduttori artificiali sono composti da differenti elementi per ottenere
vari livelli energetici, quindi svariate lunghezze d’onda e colori. I materiali utiliz-
zati per i LED sono tipicamente:
 arseniuro di gallio (GaAs); permette di ottenere diodi emittenti principalmen-
te luce rossa, con lunghezze d’onda che variano dai 640 ai 700 nanometri;
 arseniuro di gallio e alluminio (GaAl-As); realizza diodi luminosi emittenti lu-
ce rossa più scura di quella dell’arseniuro di gallio (650÷720 nanometri);
 arseniuro e fosfuro di gallio (Ga-AsP); con esso si realizzano LED di cui la
tonalità della luce dipende dalla percentuale di fosforo; con il fosfuro e arseniu-
ro di gallio vengono costruiti diodi a luce rossa da 640 nm in giù, ma anche
arancioni (intorno ai 600 nm) e gialli (550 nanometri);
 fosfuro di gallio (GaP); con questo semiconduttore si preparano diodi lumi-
nosi che emettono luce verde (fino a 500 nm) ma anche gialla e azzurra;
 fosfuro di gallio drogato con zinco e ossigeno; permette di realizzare led
emittenti al confine tra rosso e infrarosso;
 arseniuro di indio, gallio e alluminio (InGaAlAs); permette di ottenere diodi

Figura 3.5 - Simbolo grafico usato


negli schemi elettrici per rappresentare
il LED.

43
Capitolo 3

emittenti in varie zone dello spettro, ovvero rossi,


arancioni, verdi, ma anche nell’infrarosso; controllan-
do le percentuali degli elementi componenti il semi-
conduttore, si può spaziare tra 550 e 800 nm;
 fosfuro gallio, alluminio e indio; con esso si realiz-
zano giunzioni capaci di emettere essenzialmente luce
gialla e rossa (550÷700);
 nitrato di gallio e indio (InGaN); realizza diodi lu-
minosi emittenti luce verde scuro, blu e, soprattutto,
Figura 3.6 - Struttura e bianca, con temperatura di colore dell’ordine anche su-
collegamenti del tipico periore ai 4.500 °K.
LED con contenitore a
cupola.
I LED sono nati per sostituire le lampadine spia a fila-
mento o a neon nei pannelli dei macchinari e delle
apparecchiature elettriche ed elettroniche; nei notebook trovano impiego come
spie di accensione, carica della batteria o presenza della rete (alimentazione dal-
l’alimentatore AC/DC) attività dei dischi rigidi o lettori CD/DVD ecc., ma
anche come retroilluminatori dei display LCD, della tastiera e della zona davan-
ti all’eventuale webcam integrata nel notebook.

Il fotodiodo
Esponendo la giunzione PN a una luce, ma anche all’infrarosso o all’ultraviolet-
to, nel semiconduttore si libera una quantità di elettroni proporzionale all’inten-
sità dell’illuminazione. Se il diodo viene polarizzato inversamente, la sua corren-
te di saturazione inversa Io aumenta di conseguenza. Il diodo in questo caso
lavora nel quadrante fotoconduttivo. Il diodo a giunzione PN costruito in modo
da lasciare esposta alla luce la giunzione viene chiamato fotodiodo; in esso la giun-
zione è fatta in modo da affacciare all’esterno il lato drogato P, che, allo scopo,
viene realizzato il più esteso e sottile possibile (la regione N viene invece realiz-
zata molto sottile, per lasciar passare la luce.
Il fotodiodo si usa come sensore di luce ma anche per ricevere segnali trasmes-
si sotto forma di luce da LED all’infrarosso, quindi nei telecomandi, nelle cuf-
fie wireless e ricevitori per link dati ottici; è pure alla base dei fotoaccoppiatori.
Nei notebook viene impiegato sia nelle porte ad infrarossi (IRDA) sia nei letto-
ri di CR-ROM e DVD come ricevitore della luce riflessa dalla superficie del CD.

Figura 3.7 - Diodo lumi-


noso (LED) in esecuzio-
ne SMD: si usa nei note-
book per le segnalazioni
di accensione, attività
dei dischi rigidi ecc.

44
Componenti elettronici attivi

Figura 3.8 - Un fotodiodo BPW34B: si tratta di uno dei com-


ponenti classici ed è sensibile alla luce sia visibile, sia infra-
rossa. Viene usato nei ricevitori per telecomandi e in generale
per captare gli infrarossi.

Diodo Laser
Si tratta di un componente a semiconduttore usato nei lettori CD-ROM e DVD,
ma anche nei masterizzatori, per generare la luce all’infrarosso necessaria a leg-
gere o a scrivere i dati; il laser viene preferito al tradizionale LED (seppure sia
anche questo un generatore di luce) perché produce un fascio luminoso molto
concentrato e collimabile a brevissima distanza, ma anche perché la luce prodot-
ta è coerente, ossia concentrata in uno spettro estremamente ristretto, che teo-
ricamente coincide con una soloa lunghezza d’onda (la luce emessa dal LED è
invece l’insieme di più lunghezze d’onda).
Il diodo laser si basa su una giunzione, tipicamente di arseniuro di gallio ed allu-
minio, che produce una radiazione luminosa riflessa da una superficie rifletten-
te e che riesce ad uscire, dopo essere stata riflessa più volte, da una seconda
superficie, semiriflettente; quest’ultima lascia passare i fotoni componenti la
luce solamente quando la loro lunghezza d’onda è coerente con un certo valo-
re. Le molte riflessioni fanno sì che la luce sia molto concentrata.
I diodi laser usati nei lettori di CD e DVD e nei masterizzatori hanno potenze
molto ridotte, dell’ordine di 1 o 2 mW al massimo; bisogna, tuttavia, prestare
molta attenzione a non guardarli quando sono accesi, perché la luce da essi pro-
dotta può danneggiare gli occhi. Quindi se si apre un lettore da CD o DVD
bisogna farlo quando è spento.

Il transistor bipolare
Anche detto semplicemente transistor, è stato l’elemento fondamentale della
logica, di memorie e microprocessori TTL. È in realtà solo uno dei tipi di tran-
sistor esistenti, ma è comunque il più antico. Si tratta di un componente attivo,

Figura 3.9 - Diodo laser: viene tipi-


camente usato nella lettura dei
CD-ROM e dei DVD.

45
Capitolo 3

nel senso che è in grado di agire su una corrente comandato da un’altra, ed è


formato da due giunzioni PN accostate secondo due schemi:
 NPN; la barretta di semiconduttore è drogata N agli estremi e P in centro;
 PNP; la barretta di semiconduttore è drogata N agli estremi ed N in centro.

Dato che è costituito da giunzioni PN orientate nell’uno o nell’altro verso, viene


anche detto BJT, acronimo di Bipolar Junction Transistor (ossia transistor bipolare
a giunzione); bipolare significa che funziona interessando i due tipi di carica elet-
trica che si “muovono” nella giunzione PN, ossia elettroni (a carica negativa) e
lacune (che non sono cariche ma mancanza di cariche e quindi determinano,
loro malgrado, l’esposizione di carica positiva nella zona a drogaggio P). Le zone
esterne del transistor sono dette collettore ed emettitore. Affinché tutto fun-
zioni correttamente, bisogna fare in modo da polarizzare la giunzione base-col-
lettore inversamente e quella base-emettitore direttamente.
Per capire come funziona il transistor, facciamo riferimento al circuito di test
visibile nella Figura 3.11, che mostra un transistor NPN, e immaginiamo di pola-
rizzare direttamente la giunzione base-emettitore e inversamente la collettore-
base. Superata la tensione di soglia (Vbe, uguale alla tensione di soglia della giun-
zione PN, quindi 0,6 V per i transistor in silicio e 0,2 V per quelli in germanio)
dalla zona di emettitore gli elettroni (portatori di carica elettrica) si spostano
verso la base. Intanto la giunzione base-collettore è interdetta e in essa non scor-
re altro che la debole corrente inversa già descritta per i diodi; elevando oltre una
certa soglia la tensione di polarizzazione collettore-emettitore, il campo elettri-
co diviene tale da estendere la zona di svuotamento e ad un certo punto strap-
pa via gli elettroni che occupano la base e che non hanno trovato collocazione
nelle buche della struttura P.
Il transistor è dunque sede di due correnti: una è quella di base e l’altra quella
determinata dal flusso di elettroni che, provenienti dall’emettitore, in buona
parte vengono risucchiati dal collettore dopo aver effettuato un breve transito
nella base; la prima è una corrente intensa perché è quella della giunzione pola-
rizzata direttamente. La seconda, pur essendo dovuta alla polarizzazione inver-
sa della giunzione base-collettore è particolarmente intensa: si assiste così a quel
fenomeno che in elettronica è definito trasferimento di resistenza, in quanto nel
transistor si verifica il trasferimento della corrente di polarizzazione diretta del
circuito a bassa resistenza della giunzione base-emettitore nella giunzione base-
collettore, la quale, essendo polarizzata inversamente, è caratterizzata da un’alta
resistenza. Il nome transistor nasce proprio da tale fenomeno ed è la composi-

Figura 3.10 - Simboli usati per identificare i transistor


negli schemi elettrici.

46
Componenti elettronici attivi

Figura 3.11 - Polarizzazione del transi-


stor NPN montato nella configurazione
ad emettitore comune, che poi è quella
usata quando il componente fa da inter-
ruttore.

zione delle parole transfer e resistor. La caratteristica di far fluire una corren-
te particolarmente intensa in una regione ad alta resistenza, ovvero di far scor-
rere nella giunzione base-collettore praticamente la stessa corrente che fluisce
nella base-emettitore, fa sì che il transistor amplifichi: infatti, se mantiene la stes-
sa corrente di un circuito a bassa resistenza in uno ad alta resistenza, la caduta
di tensione Vbe determinerà una tensione tra collettore e base (Vcb) proporzio-
nalmente più alta. Indipendentemente dal verso delle tensioni di polarizzazione,
cioè sia per l’NPN che per il PNP, in un transistor la corrente dell’emettitore (Ie)
vale:

Ie = Ic + IB

La corrente di base è molto piccola rispetto alle altre due e lo è tanto più quan-
to maggiore è il guadagno del componente, ovvero la sua tendenza ad elevare la
corrente nella giunzione base-collettore a parità di corrente nella base. Il rappor-
to tra corrente di collettore e corrente di base prende il nome di guadagno del
transistor e vale:

hfe = Ic/IB

Si parla di guadagno o coefficiente di amplificazione perché si suppone che la Ic


sia determinata e modulata dalla corrente che polarizza la base. Ciò evidenzia
come sia la corrente di base a modulare quella che fluisce tra collettore ed emet-
titore e come, quindi, il BJT sia comandato in corrente.

Figura 3.12 - Polarizzazione del


transistor NPN in pratica.

47
Capitolo 3

Figura 3.13 - Polarizzazione del


transistor PNP in pratica.

Gli esempi fatti finora prendono in considerazione transistor NPN, per i quali
le correnti di base e collettore entrano nel componente, per uscirne, come
somma, dall’emettitore (IE); ma esiste anche il tipo PNP, per il quale i versi delle
correnti sono alla rovescia, così come le tensioni di polarizzazione. Le regole
sono, però, le stesse.
Il transistor bipolare viene utilizzato come amplificatore di corrente e può lavo-
rare in modo lineare (ta componente di uscita segue linearmente l’andamento di
quella di ingresso) o a scatto; funziona linearmente quando viene polarizzato in
modo che corrente di collettore e tensione collettore-emettitore siano ad un
valore che sta a metà dell’escursione della zona lineare (è così definita quella
parte di caratteristiche di uscita in cui il rapporto tra corrente di collettore e di
base si mantiene pressoché uniforme). Il BJT funziona, invece, a scatto, quando
lavora interdetto o saturato, ossia come interruttore statico; in quest’ultimo caso
lo si polarizza perché dia la minima caduta di tensione tra collettore ed emetti-
tore, senza riguardo per la linearità. Ciò che distingue il funzionamento lineare
da quello come interruttore è il fatto che nel primo caso il transistor va polariz-
zato anche a riposo (quando non deve trattare alcun segnale) mentre nel secon-
do richiede polarizzazione solo quando deve condurre.

Parametri del BJT


Oltre al guadagno i costruttori specificano numerose caratteristiche tecniche
indispensabili al corretto dimensionamento degli stadi che si basano sui transi-
stor. I parametri più importanti riferiti alla configurazione ad emettitore comu-
ne, sono:
 VBE = caduta di tensione in polarizzazione diretta tra base ed emettitore;
 VEB = tensione sopportabile dalla giunzione base emettitore quando viene
polarizzata inversamente;
 VCEO = massima tensione (inversa) applicabile tra collettore e base per evi-
tare danni; è definita per IB = 0, ossia quando la giunzione base-emettitore è in-
terdetta;
 V(BR)CEO = tensione inversa che provoca la rottura della giunzione base-col-
lettore ed il corrispondente cortocircuito; se raggiunta, il transistor diventa inu-
tilizzabile;
 VCESAT = massima caduta di tensione in condizioni di saturazione;

48
Componenti elettronici attivi

 IC = massima corrente di collettore sopportabile continuativamente;


 IB = massima corrente di base sopportabile continuativamente;
 ICEO = corrente che scorre nella giunzione base-collettore (in polarizzazio-
ne inversa) quando la giunzione base-emettitore non è polarizzata (IB = 0);
 IEBO = corrente nella giunzione base-emettitore in polarizzazione inversa;
 hFE = guadagno in corrente (IC/IB) in continua; il costruttore specifica in
corrispondenza di quale valore della tensione collettore-emettitore è stato misu-
rato;
 hfe = guadagno in corrente dinamico, ossia quando il transistor è polarizza-
to in base con una corrente variabile, tipicamente alla frequenza di 1 kHz;
 PTOT = potenza massima dissipabile dal componente alla temperatura di la-
voro definita dal costruttore (solitamente a una temperatura del contenitore di
25 °C);
 TjMAX = massima temperatura di lavoro delle giunzioni;
 TjA = resistenza termica tra semiconduttore e ambiente
 TjC = resistenza termica tra semiconduttore contenitore; quando il transistor
è incapsulato in un contenitore che presenta una parte metallica, è la resistenza
misurata tra il semiconduttore e la superficie metallica.

La conoscenza dei parametri dei transistor è importante quando si deve effet-


tuare una riparazione e magari non si ha in casa un componente della stessa
sigla; in tal caso si può valutare l’adozione di un altro transistor scelto tra quelli
con caratteristiche similari.

Configurazioni del BJT


Il BJT può funzionare in tre diverse configurazioni, definite ciascuna a seconda
di qual è il terminale messo in comune (Figura 3.14): emettitore comune, collettore
comune e base comune. La prima è quella usata più frequentemente ed è caratteriz-
zata dal fatto che il transistor amplifica in potenza, ossia tanto la corrente, quan-
to la tensione; presenta alta resistenza d’ingresso (base-emettitore) e bassa resi-
stenza d’uscita (collettore-emettitore). La seconda amplifica solo in corrente e
viene definita anche emitter-follower (inseguitore di emettitore) perché la tensione
di uscita segue, perfettamente in fase, quella di ingresso; è quella normalmente
utilizzata negli stadi d’uscita dei regolatori di tensione lineari e degli amplifica-
tori di potenza e presenta resistenza d’ingresso molto alta e resistenza d’uscita

Figura 3.14 - Configurazioni del


transistor bipolare: da sinistra a
destra, emettitore comune, col-
lettore comune e base comune.

49
Capitolo 3

molto bassa. L’ultima (base comune) trova impiego in particolari amplificatori


audio e negli stadi d’antenna dei radioricevitori; presenta basse resistenze d’in-
gresso e d’uscita ed amplifica esclusivamente in tensione.

Polarizzazione del BJT


Il transistor può essere polarizzato per funzionare da amplificatore lineare il più
possibile o da interruttore; nel primo caso viene usato per amplificare segnali
analogici quali l’audio destinato agli altoparlanti o quello del microfono incorpo-
rato nel computer, mentre nel secondo serve per attivare motori (ad esempio
quelli dei lettori floppy e CD) o elettromagneti (per aprire il cassetto del lettore
CD) o per pulsare sulle induttanze negli alimentatori switching interni o nell’a-
dattatore di rete.
Nel funzionamento da amplificatore, il transistor deve avere applicata tra base e
collettore (ovvero tra base ed emettitore) una tensione maggiore di quella pre-
sente fra base ed emettitore: tipicamente più di 4÷5 volt. Alimentando la giun-
zione base-emettitore, in essa scorre una corrente diretta il cui andamento è
quello già visto per il diodo a semiconduttore; nel collettore la corrente ha inve-
ce un andamento nettamente diverso, non lineare: partendo da zero volt e
aumentando la VCE, inizialmente si ha un aumento consistente della corrente
per lievi variazioni della tensione collettore-emettitore. Ad un certo punto la cre-
scita della IC si riduce drasticamente e si dice che il transistor satura; aumentan-
do ulteriormente la VCE, oltre il punto VCESAT, la corrente continua a crescere
ma di poco e diviene poco sensibile alle variazioni di tensione. Quando il tran-
sistor viene usato da amplificatore occorre sfruttarlo nella zona lineare, ossia nel
tratto delle caratteristiche di uscita nel quale si hanno lievi variazioni della IC per
grandi variazioni della VCE; questo vale tanto più quanto più deve essere preci-
so e privo di distorsione l’amplificatore.
Il BJT si può anche usare come interruttore statico, per azionare utilizzatori o
far commutare l’alimentazione sui trasformatori (ad esempio negli alimentatori
switching e negli inverter): in questo caso lavora in saturazione, ossia con VCE
minori o uguali a quella di saturazione. Si noti che per saturazione si intende il
funzionamento del transistor in una condizione nella quale la VCE può divenire
paragonabile alla VBE o minore di essa; in tale evenienza, ovvero nella zona delle
caratteristiche a sinistra del punto di saturazione, il guadagno in corrente del
transistor crolla.

Figura 3.15 - Vari transistor in ver-


sione a montaggio superficiale.

50
Componenti elettronici attivi

Bene, finora si è visto come polarizzare un transistor, trascurando la deriva ter-


mica e la massima potenza dissipabile dal BJT. Per quanto riguarda la deriva ter-
mica, va detto che il transistor non mantiene costante il punto di lavoro scelto
in sede di progetto, ma la sua polarizzazione varia in base alla temperatura del-
l’ambiente in cui si trova; questo perché la VBE si abbassa di 2,5 mV ogni °C
centigrado di aumento della temperatura e la corrente inversa di collettore ICBO
raddoppia ogni 10 °C di incremento termico.
Quanto alla dissipazione di potenza, bisogna dire che il punto di lavoro va scel-
to rispettando una semplice condizione: il transistor non deve, in ogni caso,
smaltire una potenza elettrica che sia fuori dalla SOA (Safe Operating Area) zona
che viene definita dal costruttore mediante una curva tracciata sulle caratteristi-
che di uscita. In breve, la potenza dissipata dal BJT, potendo essere considerata
essenzialmente quella del circuito collettore-emettitore, si può calcolare come:

Pd = VCE x IC

Trascurando la dissipazione del circuito di base.


Ogni transistor può smaltire da solo una potenza che il costruttore specifica ad
una determinata temperatura ambiente e che si può facilmente calcolare nota la
resistenza termica totale del componente; oltre tale potenza, va aiutato con dispo-
sitivi che dissipano il calore prodotto, altrimenti le giunzioni si danneggiano.
La potenza dissipata è un parametro fondamentale da valutare attentamente
prima di sostituire un transistor con un altro durante una riparazione.

Il transistor ad effetto di campo


Quella dei transistor ad effetto di campo, genericamente detti FET (acronimo
inglese di Field Effect Transistor) è una vasta famiglia di componenti molto
importante nel mondo dei computer, perché ha soppiantato molto rapidamen-
te i comuni transistor bipolari nel controllo di motori ed elettromagneti, ma
anche e soprattutto negli alimentatori. Di questa famiglia fanno parte i jFET e
i MOSFET.

jFET
Anche detto FET a giunzione, il jFET (acronimo di junction Field Effect
Transistor, ossia transistor ad effetto di campo a giunzione) è, come il BJT, un
componente amplificatore a semiconduttore, che però funziona con un solo
tipo di cariche elettriche ed è pilotato in tensione anziché in corrente. Ha
anch’esso un circuito di uscita, la cui resistenza viene modulata dalla differenza
di potenziale applicata al circuito di ingresso o di comando che dir si voglia.
Come il BJT, il FET è molto utilizzato negli oscillatori e nei trasmettitori (ma
anche nei comuni amplificatori BF ed RF); ha i soliti tre terminali, chiamati,
però, gate, drain e source; il gate è l’elettrodo di controllo. Il gate può essere
accoppiato tramite una giunzione PN, ed in tal caso il transistor prende il nome
51
Capitolo 3

Figura 3.16 -
Composizione e circuito
di prova del jFET a
canale N.

di jFET (Junction Field Effect Transistor); ma può anche risultare separato da


un isolante, nel qual caso si parla di struttura MOS (Metal Oxide
Semiconductor, ossia Metallo Ossido Semiconduttore) o di MOSFET. La tipica
struttura del jFET (Figura 3.16) è una barretta di silicio drogato N (chiamata
canale) con ai fianchi una giunzione, che gli gira intorno, realizzata diffondendo
impurezze P; il gate fa capo alla giunzione e in questo caso si parla di FET a
canale N. In alternativa, la barretta è drogata P e il gate è nella zona a drogaggio
N; è il caso del FET a canale P. La formazione della giunzione crea la solita
regione di svuotamento, priva di cariche, che penetra nel canale.
Per scoprire come funziona il jFET, supponiamo di polarizzarne uno a canale
N come indicato a destra nella Figura 3.16; la Vgs deve essere negativa sul gate
nei componenti a canale N e positiva in quelli a canale P. In condizioni di ripo-
so, ossia con Vgs nulla, il canale presenta tra drain e source la sua tipica resisten-
za; polarizzando il drain positivamente rispetto al source, nel canale fluisce sem-
pre corrente.
Rendendo il gate negativo, la regione di svuotamento si allarga e restringe il
canale; nella pratica ciò causa un aumento della resistenza del canale e una dimi-
nuzione dell’intensità di corrente drain-source. Oltre un certo livello di Vgs, le
regioni di svuotamento dei due fianchi si toccano e il canale si interrompe e con
esso la corrente nel drain; il valore che provoca ciò si chiama tensione di pinch-
off. Invece, rendendo la tensione Vgs positiva, ma sempre minore di quella di
soglia della giunzione (0,6 V) il canale si allarga leggermente rispetto alla condi-
zione nominale e la sua resistenza diviene poco più bassa che a riposo.
Comunque, la Vgs deve essere sempre negativa o nulla, altrimenti il jFET assor-

Figura 3.17 - Struttura, simbolo


grafico e circuito di polarizzazio-
ne di un MOSFET a canale N
enhancement mode.

52
Componenti elettronici attivi

be sul gate, condizione non consona al suo funzionamento.


Il jFET è sostanzialmente una resistenza variabile (fra drain e source) modula-
bile agendo sulla tensione applicata tra gate e source. I terminali di drain e sour-
ce sono teoricamente intercambiabili, perché posti ad uguale distanza dal gate.
Come per il BJT, anche il jFET può essere usato in tre configurazioni, che sono
source comune, gate comune e drain comune. Lo schema esemplificativo nella Figura
3.16 ritrae la prima configurazione; la polarizzazione negativa del gate è ottenu-
ta mediante la caduta sulla Rs, sfruttando il fatto che il gate non assorbe corren-
te e quindi, malgrado il resistore Rg, è come fosse collegato al source. Allo scopo
di elevare il più possibile l’impedenza d’ingresso dell’amplificatore, Rg può esse-
re scelta di valore elevato (ad esempio 1 Mohm).

Il MOSFET
Si tratta di un FET a gate isolato e consta di una barretta di semiconduttore
nella quale sono realizzate due zone a drogaggio opposto (P se la barretta è N
o N se la barretta è P) tra le quali si trova un elettrodo isolato da essa mediante
ossidazione. Il MOS esiste in due varianti: nella Depletion Mode (a svuotamento)
che funziona come il jFET, normalmente la barretta fa da canale e presenta una
certa resistenza tra gli estremi, resistenza modulabile intervenendo con un
campo elettrico sul gate (Vgs negativa sul gate); ciò svuota in tutto o in parte
delle cariche libere e la resistenza aumenta. La conduzione smette quando si rag-
giunge la tensione di pinch-off, ovvero quando la Vgs negativa raggiunge un
valore tale che il campo di gate allontani tutti gli elettroni dal canale. C’è poi il
tipo Enhancement Mode (a riempimento, Figura 3.17) nel quale a riposo non scor-
re corrente tra gli estremi, perché il canale non esiste; viene creato applicando
un opportuno campo elettrico (Vgs positiva sul gate) che richiama elettroni
sotto il gate, iniziando la conduzione. In quest’ultimo tipo la conduzione inizia
appena superata superata la differenza di potenziale che costituisce la soglia
(Vgs di soglia). In entrambi drain e source non si possono scambiare tra loro,
perché, sebbene il canale non abbia polarità, il source è internamente collegato
al substrato della barretta, in modo da creare il campo elettrico di comando.
Per effettuare una riparazione che comporti la sostituzione di uno dei transistor
MOS dell’alimentatore occorre conoscere le caratteristiche principali del com-
ponente guasto da rimpiazzare; in particolar modo è necessario che la potenza
del MOSFET che sostituirà quello guasto sia maggiore di quella di quest’ultimo.
Lo stesso dicasi per la tensione Vds. La resistenza in stato di ON (Rdson) deve
invece essere minore o uguale.
I costruttori di MOSFET solitamente specificano:
 VGSTH = tensione gate-source che dà inizio alla conduzione tra drain e sour-
ce (vale per i soli MOS a riempimento);
 VGSOFF = tensione di pinch-off; è definita per i MOS Depletion Mode e cor-
risponde alla tensione gate-source che provoca l’interruzione della corrente di
drain;
53
Capitolo 3

 VGSMAX = massima tensione applicabile tra gate e source;


 VDS = massima tensione applicabile tra drain e source quando la ID è nulla;
 ID = massima corrente di drain sopportabile continuativamente;
 RDSON = resistenza tra drain e source in piena conduzione (a VGSMAX);
 IDSS = corrente di perdita tra drain e source con VGS = 0;
 IGSS = corrente di perdita tra gate e source o substrato con VGS = VGSMAX;
 TON = tempo impiegato, da quando viene applicata la tensione tra gate e
source, a raggiungere la corrispondente ID;
 GFS = transconduttanza (rapporto tra corrente di drain e VGS necessaria ad
otternerla);
 CISS = capacità parassita gate-source (definita perché il circuito di gate si
comporta come un condensatore);
PTOT = potenza massima dissipabile dal componente alla temperatura di lavoro
definita dal costruttore (solitamente a una temperatura del contenitore di 25 °C);
 TjMAX = massima temperatura di lavoro del semiconduttore;
 TjA e TjC; hanno lo stesso significato visto per i transistor bipolari.

Nel sostituire un MOSFET con uno equivalente, se la riparazione riguarda un


alimentatore switching bisogna verificare che quest’ultimo abbia la stessa poten-
za e le medesime Vgs e Vds, ma anche che TON sia minore o uguale; infatti TON
determina la frequenza alla quale il MOSFET può commutare se se è troppo
lungo, il componente presenta fronti di salita a discesa inclinati, che in pratica
comportano un aumento anche deciso della dissipazione di potenza (se il
MOSFET passasse istantaneamente dalla conduzione all’interdizione e vicever-
sa teoricamente consumerebbe solo quel minimo di potenza dato dal prodotto
della RDSON per la corrente di drain) e quindi il surriscaldamento del transistor
e la perdita di efficienza dell’alimentatore switching in cui è montato.
Come molti transistor o Darlington, anche i MOSFET di potenza sono interna-
mente provvisti di un diodo di protezione, collegato in modo da condurre quan-
do drain e source sono polarizzati al contrario: in pratica il diodo ha il catodo
sul drain e l’anodo sul source nei MOSFET a canale N e il catodo sul source e
l’anodo sul drain in quelli a canale P.
Nei MOSFEt prodotti ultimamente il diodo di protezione tra drain e source è
sostituito da uno Zener, che oltre a proteggere dall’inversione di polarità, per la
sua caratteristica di condurre anche in polarizzazione inversa oltre la propria
tensione di Zener, permette di limitare la massima VDS diretta a riposo (ad
esempio quando il transistor è interdetto) del MOSFET.
Per la facilità con cui si pilota, l’assorbimento quasi nullo del gate e la bassissi-
ma resistenza in stato di conduzione, ma anche in virtù della velocità di commu-
tazione di quello di potenza (sempre maggiore di quella dei BJT di potenza) il
MOSFET viene da tempo preferito al transistor nella commutazione e nell’uso
da interruttore statico, quindi negli alimentatori switching e negli interruttori che
comandano l’alimentazione principale nei notebook. Non è un caso, infatti, che

54
Componenti elettronici attivi

negli switching presenti nelle schede madri dei notebook i transistor che com-
mutano la corrente sulle bobine siano sempre e solo MOSFET, a canale N o P;
lo stesso dicasi per i transistor utilizzati come interruttori statici (compito che il
MOSFET svolge meglio del BJT in virtù della bassissima resistenza di condu-
zione che presenta nel canale drain-source) posti lungo l’alimentazione princi-
pale delle mainboard, usati per accendere l’alimentatore/caricabatteria o altri
stadi switching.

55
CAPITOLO 4
CIRCUITI INTEGRATI

Oltre ai componenti discreti, nei computer si fa largo uso di circuiti integrati; anzi,
senza questi ultimi un PC ed in special modo un notebook, sarebbero grandi cento
volte tanto. Il circuito integrato è un circuito molto più piccolo di quanto sarebbe se
realizzato con i tradizionali componenti (discreti) montati sul comune circuito stam-
pato di bachelite o vetronite. A tutti gli effetti un circuito integrato (o integrato, come
lo chiamiamo comunemente, oppure IC, acronimo di Integrated Circuit) altro non è
se non un completo circuito elettronico realizzato in un unico componente, al
quale eventualmente necessitano componenti discreti esterni che si è scelto di non
integrare perché troppo grandi o da tenere separati per ragioni di smaltimento del
calore o di interferenza.
Gli integrati possono essere di due tipi:
 monolitici, se sono realizzati interamente su un unico chip di semiconduttore;
 ibridi, quando sono composti da componenti discreti e/o integrati monolitici
montati su microcircuiti stampati tipicamente realizzati su allumina.

La vera rivoluzione è stata rappresentata dall’integrato monolitico, perché su un


unico chip si trovano non solo diodi e transistor, ma anche elementi passivi quali
resistori e condensatori. Un integrato monolitico arriva ad essere piccolo come un
transistor, tanto che non è infrequente trovare componenti in contenitore TO-92,
come ad esempio i regolatori di tensione della serie 78Lxx o sensori termici come
il DS18S20, che contiene un digitalizzatore e un’interfaccia di comunicazione,
oppure lo ZN414, che è un completo radioricevitore. L’avvento dell’SMD ha per-
messo di ottenere componenti il cui contenitore è molto più piccolo e quindi occu-

57
Capitolo 4

pa pochissimo spazio. I monolitici si presentano in varie forme, la più comune


delle quali è quella rettangolare, con i piedini su due file poste sui lati lunghi; tale
tipo di configurazione prende il nome di dip, ossia Dual Inline Pin. Si tratta di un
incapsulamento standard che prevede passo dei piedini e distanza tra le due file
uniformati; il passo è 2,54 mm, mentre la distanza laterale è 7,5 mm per il dip
più piccolo e 15 mm per i più grandi. Solitamente si parte da contenitori a 3 pie-
dini per lato (usati dai fotoaccoppiatori) fino ad arrivare anche a quelli da 40 pin
a lato; i chip da 3+3 a 10+10 sono solitamente in contenitore a passo 2,54 x 7,5
mm e quelli oltre, in case da 2,54 x 15 mm. Ma non è raro trovare eccezioni,
quali i microcontrollori Microchip, che sovente usano il passo laterale da 7,5 mm
pur avendo anche 14 pin per lato. Oltre a quelli descritti, esistono contenitori di
altre forme: ad esempio quadrata con i piedini sui quattro lati o sotto, ovvero
senza piedini ma con semplici contatti; poi, tanti altri ancora, spesso brevetto di
alcune case produttrici e chiamati con nomi dati anche quelli dalle case.
Gli integrati monolitici vengono costruiti in esclusiva dai produttori che li hanno
progettati e brevettati, fino allo scadere dei brevetti; poi, le aziende che li hanno
progettati devono rendere pubbliche le pellicole usate nel procedimento di
fotoincisione e gli schemi dei loro prodotti, affinché altre case (second sources)
possano produrre degli integrati compatibili. Ecco perché, ad esempio, un
LM324 si trova prodotto, ad esempio, dalla Texas Instruments, dalla ST o dalla
National Semiconductors.
Gli integrati tra loro compatibili hanno quasi sempre sigle simili e solo di rado
diverse; in ogni caso, i costruttori pubblicano le tabelle di equivalenza tra i pro-
pri integrati e quelli delle altre principali case, ovvero quelli standard. A livello
internazionale, un integrato che viene prodotto da altre case ha una sigla base
che resta sempre quella; ciò che cambia possono essere lettere o numeri che
fanno da prefisso o suffisso: ad esempio di integrati come l’LM723 si trovano
equivalenti siglati µA723 o MC1723. Ancora, la famiglia logica 4000 viene chia-
mata, a seconda di chi la produce, HCF/HEF4000 (ST o ex SGS) TC4000
(Toshiba) MM4000 (National) MC144000 (Motorola).
Quanto agli ibridi, sono una quantità limitata e quasi sempre non unifornati, nel
senso che ogni costruttore produce i propri, con proprie peculiarità; hanno varie
forme e quasi sempre si presentano come sottili piastrine, eventualmente rico-
perte da resina, sui quali spesso si vedono i componenti (tutti rigorosamente a
montaggio superficiale) direttamente o come sagome nel rivestimento. Gli ibri-

Figura 4.1 - Tipico integrato in contenitore


DIP; questo case può essere sia plastico
(componenti per uso civile) sia fatto di
materiale ceramico (componenti di grado
militare o industriale).

58
Circuiti integrati

di hanno i piedini da uno o più lati e possono a volte somigliare ai monolitici.


Esistono anche moduli ibridi di potenza, incapsulati in contenitori di resina
epossidica nera come quella dei monolitici.

Scale di integrazione
Fin dalla loro creazione, i circuiti integrati monolitici sono stati classificati per
livello di integrazione, ossia per complessità; partendo dai più semplici, conte-
nenti pochi dispositivi attivi, la tecnologia è arrivata ai giorni nostri, proponen-
do componenti contenenti milioni di transistor. Per avere un’idea della comples-
sità di un chip, elenchiamo la classificazione per complessità:
 SSI (Small Scale of Integration); è la classe più semplice, cui appartengono inte-
grati come gli operazionali e in generale i c.i. lineari, ma anche la logica elemen-
tare, e conta alcune decine di componenti o porte logiche per chip;
 MSI (Medium Scale of Integration); vi appartengono i dispositivi logici comples-
si (contatori, registri a scorrimento, unità aritmetico-logiche) e conta qualche
centinaio di componenti elettronici per chip;
 LSI (Large Scale of Integration); è quella di microprocessori, microcontrollori e
memorie e conta migliaia di componenti per chip;
 VLSI (Very Large Scale of Integration); comprende i chip contenenti anche più
di centomila componenti ed è usata nella realizzazione di memorie ad alta capa-
cità e dei moderni microprocessori e dei microcontrollori più prestanti.

Attualmente nei notebook si fa largo uso di componenti di vario genere: i chi-


pset e i processori sono indubbiamente dei VLSI, mentre LSI possono essere i
controller e bridge USB, ethernet ecc. La logica comune è di tipo SSI.

Generi di integrati
Proprio per la sua natura di microcircuito, l’integrato può contenere diverse
strutture, ossia circuiti elettronici più o meno completi o indipendenti, che rea-
lizzano singoli blocchi o interi sistemi autonomi; inoltre, come un qualsiasi cir-
cuito, può essere di tipo analogico o digitale, di bassa o alta frequenza, di picco-
la o grande potenza ecc.
Gli integrati si dividono, come tutti i circuiti elettronici, in due generi: analogi-
co e digitale. All’interno di ciascuno, esistono poi varie categorie, ognuna delle
quali è a sua volta divisa in tipi. Nei computer si fa uso principalmente di inte-
grati digitali, dalle semplici porte logiche ai complessi chipset, ai microproces-
sori o CPU. Non è scopo di questo volume spiegare i singoli generi e tipi di inte-
grati, ma piuttosto fare una rapida carrellata su di essi.

L’amplificatore operazionale
Tra tutti gli integrati analogici, quello sicuramente più interessante, per le sue
caratteristiche e l’impiego che se ne può fare, è l’operazionale. Si tratta di un
amplificatore, ossia un dispositivo che eleva tensione e corrente restituendole in
59
Capitolo 4

uscita rispetto a come si presentano all’ingresso, la cui particolarità è che ha un


ingresso di tipo differenziale, ovvero due ingressi che si comportano l’uno all’op-
posto dell’altro: la tensione applicata a quello detto invertente (-) viene sottratta
a quella applicata al non-invertente (+). L’operazionale amplifica la somma alge-
brica delle tensioni ai due ingressi; ecco perché viene detto “operazionale”.
L’operazionale viene impiegato nei circuiti audio del computer, ma anche come
comparatore di tensione nella sezione di alimentazione e di controllo della tem-
peratura della CPU o dell’alimentatore principale.

Regolatori di tensione lineari


Tra gli integrati utilizzati più di frequente nei circuiti elettronici ci sono i regola-
tori lineari, che servono a ricavare tensioni stabilizzate partendo dalle alimenta-
zioni principali; sono tipicamente a tre terminali, incapsulati in contenitore TO-
92 e TO-220. Usarli è molto semplice: si applica all’ingresso (E) la tensione di
partenza ed all’uscita (U) si preleva quella stabilizzata che si desidera ottenere; le
due sono riferite al terminale comune (M). Sovente, allo scopo di filtrare le ten-
sioni da disturbi che potrebbero compromettere la stabilità dei regolatori, si col-
legano tra entrata e massa ed uscita e massa dei condensatori. I regolatori a tre
terminali sono tipicamente quelli siglati 78xx e 78Lxx; a seconda del costrutto-
re che li produce, possono essere chiamati µA78xx, LM78xx, L78xx ecc. Le due
x stanno a indicare che al 78 seguono due cifre, che indicano la tensione stabi-
lizzata fornita dal componente. Inoltre i 78xx sono quelli in TO-220 e possono
erogare fino a 1,5 ampere (una versione più potente, siglata 78Sxx, eroga fino a
2 A); quelli in TO-92 sono i 78Lxx, che erogano 500 mA. I regolatori del gene-
re hanno dei complementari, che servono a stabilizzare le tensioni negative; si
collegano alla stessa maniera, ma chiaramente sui rami negativi.

Integrati digitali
Una grande famiglia di circuiti integrati, importante almeno quanto quella degli
analogici, è quella comprendente gli IC digitali, intendendo con questo termine
tutti i circuiti integrati che lavorano con segnali numerici o comunque contenen-
ti blocchi a logica di boole (binaria). Di essi fanno parte anche i microcontrol-
lori e microprocessori, meglio descritti nel Capitolo 7.
Per ora l’attenzione va concentrata sugli IC più semplici, che sono le cosiddette
“porte logiche”: in pratica componenti contenenti componenti che realizzano le
funzioni logiche elementari, ossia OR, NOR, AND, NAND, NOT, OR esclusi-
vo e NOR esclusivo. Tali funzioni possono essere svolte da circuiti elettronici
integrati basati su diverse tecnologie, ovvero famiglie di transistor: BJT (si parla,
in questo caso, di logica TTL, CML o I²L) oppure MOSFET (CMOS, NMOS,
HCMOS).
In un primo momento, ossia oltre trentacinque anni fa, le porte logiche ed altri
integrati con funzioni semplici come flip-flop e contatori, venivano realizzate
con circuitazioni basate su transistor e diodi o su soli transistor: le corrispon-
60
Circuiti integrati

denti categorie di logica erano chiamate, rispettivamente, DTL e TTL; della


TTL furono sviluppate molte varianti, tra le quali TTL-L (a basso consumo)
TTL-F o S (ad alta velocità) e TTL-LS (un misto di velocità e bassi consumi).
La logica TTL è stata la prima ad essere sviluppata per due ragioni:
 l’alta velocità dei transistor bipolari rispetto ai mosfet integrati di allora, “fre-
nati” dalle grandi capacità parassite dovute al fatto che i transistor non poteva-
no essere più piccoli di tanto;
 le dimensioni relativamente ridotte dei chip;
 la bassa tensione di funzionamento, che permetteva di realizzare circuiti fun-
zionanti a 4÷5 volt.

Ma la tecnologia TTL aveva un difetto: il consumo consistente dei transistor e


l’impedenza di ingresso non proprio trascurabile, visto che i BJT sono elemen-
ti comandati in corrente; inoltre ad incrementare i consumi dei TTL e a rallen-
tarne la commutazione, c’era e c’è il fatto che nel passaggio dalla saturazione
all’interdizione il BJT è piuttosto lento. Per accelerare la commutazione fu allo-
ra messa a punto la tecnologia Schottky (TTL-S) che prevede un diodo Schottky
(appunto) tra collettore ed emettitore del transistor di uscita della porta logica;
la bassa caduta del diodo fa sì che la tensione di saturazione del transistor riman-
ga ad un valore tale da permettere una rapida ricombinazione quando si passa
all’interdizione.
Malgrado l’adozione degli Schottky, i dispositivi TTL consumavano comunque
troppa corrente; fu allora realizzata la serie TTL-LS, ossia porte TTL con tec-
nologia Schottky ma a basso consumo, che coniugavano le proprietà di velocità
degli Schottky e di basso consumo della circuitazione TTL-L.
Oltre alla logica TTL, a transistor bipolari venivano realizzati integrati in CML
(Current Mode Logic) e I²L; ma, visto l’elevato costo e soprattutto il consumo
consistente, venivano impiegati solo in grandi computer.
Quanto alla logica ad elementi MOS, fino a vent’anni fa rappresentava una
ristretta parte dell’elettronica digitale; era realizzata con soli MOSFET, tipica-
mente enhancement mode a canale N, in luogo dei BJT NPN; più tardi fu rea-
lizzata quella a CMOS, nella quale ogni porta logica era composta da una cop-
pia complementare di transistor MOS: uno a canale N ed uno a canale P. Ciò
consentiva di ottenere porte con elevatissima impedenza d’ingresso e bassa
impedenza di uscita (nella MOS l’impedenza di uscita è bassa solamente quan-
do a condurre la corrente è il transistor, mentre quando la stessa deve passare
dalla resistenza di carico è abbastanza alta).
A parte la ridotta velocità di commutazione (dovuta alla non trascurabile capa-
cità parassita di gate) e le dimensioni non trascurabili, il principale difetto dei
MOS stava nella tensione necessaria a mandarli in conduzione, non compatibi-
le con quella dei TTL perché l’ossido isolante interposto tra gate e canale non
permetteva di ottenere tensioni di soglia inferiori ai 5÷6 volt. Lo stesso proble-
ma riguardava i CMOS. Con gli anni la tecnologia dei mosfet integrati è miglio-

61
Capitolo 4

rata tantissimo, soprattutto grazie all’affinamento delle tecniche fotolitografiche,


che oggi permettono di incidere zone grandi anche poche decine di nanometri;
questo e la possibilità di usare ossidi isolanti di gate più sottili, hanno consenti-
to di far funzionare la logica MOS e CMOS con tensioni anche di 2÷3 volt,
quindi di adattarla alla TTL e a circuiti alimentati a pile e batterie.
Da quel momento i costruttori hanno spinto molto sulla tecnologia CMOS, l’u-
nica che ha potuto permettere la realizzazione di porte logiche piccole e di basso
assorbimento che hanno consentito la nascita dei moderni microprocessori e
microcontrollori destinati ai dispositivi portatili e ai Personal Computer, ma
anche dei chip di memoria che stanno in apparecchi come i lettori MP3 e nelle
card delle fotocamere digitali.
Attualmente sono in produzione sia processori che memorie con tecnologia a
32 nm, dove, cioè, un transistor misura appena 32 nm (0,032 milionesimi di
metro). Prossimamente vedranno la luce processori e memorie realizzati con
transistor delle dimensioni di 28 nm.

Logica discreta
Gli integrati che più comunemente si trovano nei circuiti elettronici e che sono
alla base della logica binaria, sono porte logiche, contatori, flip-flop, shift-regi-
ster ecc.; insomma, la cosiddetta logica discreta. Per quel che riguarda la logica
TTL esiste la famiglia 74xxx o la corrispondente 54xxx, per uso militare o indu-
striale; la prima funziona in ambienti la cui temperatura sia compresa tra 0 e 70
°C, mentre la seconda è prevista per situazioni gravose (da –55 a +125 °C).
Ad esempio l’integrato 7400 contiene quattro porte NAND, il 7404 sei inverter
logici (NOT) e il 7474 due flip-flop.
Quanto ai CMOS, almeno per la logica discreta gli integrati sono quelli della
serie 4000: ad esempio il quadruplo OR 4001, il quadruplo AND 4081, il qua-
druplo NAND a Schmitt-trigger 4093, il sestuplo NOT 40106, il doppio flip-
flop 4013. Nella serie CMOS, oltre alla logica tipica dei TTL sono presenti fun-
zioni come le matrici e gli interruttori CMOS, che sfruttano la possibilità dei cir-
cuiti MOS di condurre come interruttori quando pilotati in tensione.
Esiste poi la serie dei CMOS compatibili TTL, che sono gli HS-CMOS; insom-
ma, i 74HCxxx: realizzano le stesse funzioni dei corrispondenti 74xxx (ad esem-
pio il 74HC00 è equivalente al TTL 7400). Sono pienamente compatibili per
quanto riguarda i livelli di tensione all’ingresso, mentre per quanto riguarda l’u-
scita si adattano, anche se non sempre a lavorare a 5 volt; la piena compatibilità
con i TTL a livello ingresso/uscita la danno i 74HCTxxx.
Nei computer si fa molto uso dei latch 74HCT373 e 374 e di buffer come i
74HCT244, o transceiver quali i 74HCT245.

Amplificatori audio
Un’importante categoria di IC analogici è quella che comprende gli amplificato-
ri audio integrati, che consta di numerosi dispositivi, alcuni dei quali non sem-
62
Circuiti integrati

pre solo lineari, ma misti; annovera componenti da poche centinaia di milliwatt


a decine di watt, solitamente funzionanti in classe AB. Negli amplificatori audio
rientrano molti tipi di integrato: finali per altoparlanti, per cuffie, ma anche sem-
plici driver, ossia componenti nati per pilotare dei transistor cui è affidato il
compito di dare al carico (altoparlante) la necessaria corrente.
Esistono, inoltre, complessi integrati che lavorano in classe D o in classe H.
A parte i componenti di piccola potenza, come TDA2822, LM380, LM386N,
TBA820 (che si trovano in contenitore dip) gli amplificatori integrati sono inca-
psulati in case che presentano un’aletta metallica per essere appoggiati a un
radiatore che consenta di smaltire il calore prodotto durante il funzionamento.
Gli amplificatori audio possono preamplificare i segnali o pilotare altoparlanti;
nei notebook vengono usati di entrambi i tipi: quelli che amplificano deboli
segnali sono collegati all’ingresso del microfono (o a quello di linea) ed all’even-
tuale microfono integrato nello schermo, mentre i finali di potenza pilotano gli
altoparlanti collocati ai lati del contenitore per diffondere i suoni, ma anche, tra-
mite l’apposita presa jack, la cuffia. Gli integrati audio sono sempre associati alla
scheda sonora (periferica audio) ovvero ne fanno parte.

Array di transistor
Nei notebook viene fatto largo uso di MOSFET integrati,ovvero disponibili in
contenitori TSSOP a piedini dual-in-line: diffusissime sono le coppie comple-
mentari di MOS a canale N e P, usate per realizzare la sezione di commutazio-
ne degli alimentatori switching. I MOSFET singoli si impiegano, oltre che negli
switching, anche per commutare l’alimentazione o accendere e spegnere i vari
stadi dei notebook. Sovente si tratta di integrati SMD molto piccoli, che usano
i piedini o una placca metallica sul fondo (da stagnare su apposite piste dello
stampato in modo che trasmetta il calore e realizzi il collegamento elettrico di
uno dei terminali di drain o source) per dissipare il calore prodotto durante il
funzionamento. Ciò è possibile grazie al fatto che i MOSFET hanno bassissime
resistenze Rdson, quindi anche a forti correnti dissipano poca potenza: resisten-
ze di 0,001 ohm a 10 A determinano una potenza di appena 0,01 watt! I
MOSFET si trovano anche in array, ossia integrati che ne contengono anche più
di due collegati con il source in comune.

FPGA e PAL
A volte nei computer si fa uso di logica programmabile (PAL ed FPGA): si trat-
ta di circuiti integrati anche molto complessi, programmabili per compiere fun-
zioni specifiche in luogo di microcontrollori e microprocessori, ovvero per fun-
zionare come unità di gestione del segnale video; ad esempio le FPGA si pos-
sono utilizzare per l’elaborazione delle immagini e quindi come vere e proprie
GPU (Graphic Processing Unit).
Va detto che in realtà le FPGA si adottano prevalentemente nei server e nei
minicomputer o mainframe, e raramente si trovano nei Personal Computer; nei
63
Capitolo 4

Figura 4.2 - Contenitore TSSOP a 20 pie-


dini: è un DIP per montaggio superficiale.

portatili non si usano perché le moderne architetture si basano su processori


standard e unità grafiche convenzionali reperibili sul mercato.
Le FPGA si trovano praticamente solo in contenitore quadrato BGA, QFN e
simile, anche se la gran parte di esse è in contenitore BGA. Tipici costruttori di
FPGA sono Altera e Xilinx. Quanto alle PAL, sono array di logica, più sempli-
ci ed economici delle FPGA ma ugualmente utili in molte applicazioni.

Contenitori per integrati


I circuiti integrati vengono incapsulati in contenitori aventi svariate sagome e
peculiarità, e contraddistinti ognuno da una forma e da una certa disposizione
dei piedini; il più comune è il dip (Dual In-line Pin) che riporta i piedini lateral-
mente e può essere di resina plastica o materiale ceramico, con eventuali riporti
metallici o vitrei. Il dip nasce sostanzialmente per il montaggio a terminale pas-
sante; la sua evoluzione in versione SMD, ampiamente utilizzata nei notebook,
è la TSSOP (si tratta ancora di un case dip ma con i piedini praticamente oriz-
zontali per il montaggio superficiale).
Molto usati sono anche i formati QFN (quadrati o chip-carrier che dir si voglia)
TQFN ecc., i quali hanno il contenitore quadrato circondato da piedini da sal-
dare, che possono essere distesi o ripiegati sotto il corpo.
Il contenitore che più interessa i grandi chip dei notebook, intendendo con ciò
i chipset northbridge e soutbridge, ma anche alcune CPU e GPU (chip grafici)
è il BGA: in esso i contatti sono dischetti di rame dorato che vengono uniti alle
piazzole del circuito stampato dove i chip vanno montati mediante saldature a
stagno o con lega saldante Rohs compatibile; le saldature si realizzano applican-
do a caldo delle piccole sfere di lega saldante sui contatti (pad) del chip, che ven-
gono posizionate con estrema precisione grazie ad apposite dime di acciaio su
cui la lega saldante non può aderire, quindi fuse in presenza di flussante per farle
ben aderire ai contatti.

Figura 4.3 - Chip con contenitori


quadrati: a sinistra il VQFN a 20
contatti (visto sopra e sotto) e a
destra il TQFP (sempre visto sopra
e sotto) a 64 pin; come si nota, que-
sti case dispongono di un contatto
metallico inferiore che si salda a
un'apposita pista del circuito stam-
pato fatta per smaltire il calore.

64
Circuiti integrati

Una volta applicate le palline, il chip può esse-


re appoggiato allo stampato facendo coincide-
re le palline stesse con le piazzole del c.s. e
riscaldando il tutto: così avviene in pratica la
saldatura, che può aver luogo grazie anche al
fatto che sullo stampato si applica del flussan-
te per favorire lo scioglimento della lega sal-
dante e la diffusione, con buona aderenza, sui
Figura 4.4 - Case QFP: è come pad del BDA e della scheda.
il TQFP ma sotto non ha il con-
tatto dissipatore di calore. Fotoaccoppiatori
Un’importante categoria di circuiti integrati è
quella dei fotoaccoppiatori, anche detti optoisolatori o optoaccoppiatori; un fotoaccop-
piatore è un circuito, anche molto semplice, che prevede il trasferimento di un
segnale elettrico sotto forma di luce, tipicamente all’infrarosso e consta di un
contenitore sigillato che impedisce l’entrata e l’uscita della luce, nel quale un
LED è affacciato direttamente su un fotodiodo o sulla base di un fototransistor,
di solito NPN. Il LED è l’elemento di ingresso, ossia quello che riceve il segna-
le da trasferire, mentre il fotodiodo o il fototransistor è l’elemento di uscita,
ovvero quello che riconverte in elettrico il segnale ottico.
Per comprendere il funzionamento dei fotoaccoppiatori bisogna innanzitutto
sapere cosa sono e come funzionano fotodiodo e fototransistor. Nel Capitolo 3
è già stato spiegato il funzionamento del fotodiodo; ora si può descrivere quel-
lo del fototransistor.
Il fototransistor è un BJT (Capitolo 3) in cui la base è affacciata all’esterno da
una finestrella in modo da essere investita dalla luce o, meglio, dagli infrarossi.
Quando la base riceve luce, l’energia che quest’ultima cede libera elettroni dai
legami degli atomi di drogante, elettroni che, se il collettore è polarizzato posi-
tivamente rispetto all’emettitore e con una tensione di valore sufficiente, vengo-
no risucchiati nel circuito base-collettore dando origine a una rilevante corren-
te di collettore.
Dunque, un fototransistor collegato a emettitore comune e polarizzato sul col-
lettore come si farebbe normalmente, con la base non collegata ad alcunché, se
investito dalla luce fa registrare la solita Ic; inserendo il resistore di collettore, su
di esso si verifica una caduta di tensione.

Figura 4.5 - Due tipi di integrato in


contenitore BGA.

65
Capitolo 4

Siccome gli elettroni liberati impiegano un certo tempo a ricombinarsi, anche


dopo che viene sospeso l’illuminamento della base, il fototransistor risulta un
po’ lento nel ripristinarsi e interdirsi, ovvero nel commutare dalla conduzione
all’interdizione; per questo, alle volte conviene collegare la base all’emettitore
tramite una resistenza, che ha lo scopo di chiudere il circuito della giunzione.
Nelle applicazioni dove il transistor debba passare bruscamente dall’interdizio-
ne alla conduzione e viceversa, la resistenza accelera la transizione; tuttavia ha
l’effetto di ridurre la corrente di base e quindi la Ic registrata a parità di inten-
sità della luce, perché parte delle cariche si ricombina a causa della chiusura del
circuito di base e comunque non resta in base ma circola nella resistenza.
Dunque, quest’ultima va scelta considerando che più è di valore elevato, mino-
re è la velocità di commutazione ma più alta è la Ic, mentre, viceversa, bassi valo-
ri velocizzano, sì, la commutazione, ma riducono la Ic.

Funzionamento del fotoaccoppiatore


Polarizzando direttamente il LED, la luce che questo emette investe il fotodio-
do o fototransistor, il quale va in conduzione; inserendo l’elemento di uscita in
un apposito circuito, la corrente che fluisce in esso rappresenta il segnale trasfe-
rito otticamente.
Il fotoaccoppiatore non è un circuito lineare, perché il LED non ha una carat-
teristica di proporzionalità di primo grado tra la tensione che gli si applica e la
corrente che l’attraversa ma anche perché non c’è relazione lineare tra corrente
ed emissione luminosa; inoltre, non è lineare neppure il fotodiodo o fototransi-
stor di uscita.
Per i fotoaccoppiatori si usa definire un parametro che esprime l’efficienza, ossia
il rapporto tra la corrente che bisogna far scorrere nel led per avere una certa
corrente nel componente di uscita; il parametro è il CTR (Current Transfer Ratio,
ossia rapporto di trasferimento di corrente) e vale:

CTR = Iu/Ii

dove Iu è la corrente nel dispositivo di uscita (ad esempio la Ic del fototransistor)


e Ii quella nel led. Tipicamente un fotoaccoppiatore composto da un LED e un
fototransistor (ad esempio 4N35 o 4N25) ha un CTR del 100 % (1); uno che ha
in uscita un fototransistor e un transistor comune connessi a Darlington, ha un

Figura 4.6 - Simbolo grafico del fotoaccoppiatore; il compo-


nente è formato da un fototransistor (in alto) e un LED all'in-
frarosso (in basso).

66
Circuiti integrati

Figura 4.7 - Schema a blocchi e piedinatura del moltiplicatore di clock CY2300 della
Cypress.

CTR anche del 200÷300 % (2÷3).


Dunque, un fototransistor collegato a emettitore comune e polarizzato sul col-
lettore come si farebbe normalmente, con la base non collegata, se investito
dalla luce fa registrare la solita Ic; inserendo il resistore di collettore, su di esso
si verifica una caduta di tensione. Siccome gli elettroni liberati impiegano un
certo tempo a ricombinarsi, anche dopo che viene sospeso l’illuminamento della
base, il fototransistor risulta un po’ lento nel ripristinarsi e interdirsi, ovvero nel
commutare dalla conduzione all’interdizione; per questo, alle volte conviene col-
legare la base all’emettitore con una resistenza. Nelle applicazioni dove il tran-
sistor debba passare bruscamente dall’interdizione alla conduzione e viceversa,
la resistenza accelera la transizione; tuttavia ha l’effetto di ridurre la corrente di
base e quindi la Ic registrata a parità di intensità della luce, perché parte delle
cariche si ricombina a causa della chiusura del circuito di base e comunque non
resta in base ma circola nella resistenza.

Oscillatori a quarzo e moltiplicatori di clock


Una categoria di integrati molto interessante per quel che riguarda i computer,
quindi anche i notebook, è quella che raggruppa i generatori di clock: si tratta
di componenti che producono il segnale base e di moltiplicatori (clock multiplier)
in grado di elevarne la frequenza, quando occorra farlo.
I generatori sono completi oscillatori basati su un quarzo, disponibili in forma
integrata ed hanno usualmente quattro piedini; esternamente appaiono come
quarzi, solo che contengono un quarzo ed un circuito elettronico in grado di
oscillare alla frequenza di quest’ultimo. Questi microcircuiti ibridi vengono
molto utilizzati in vari stadi dei computer, dove possono servire per fornire il
clock non solo delle CPU e delle schede video, ma anche dei convertitori di peri-

67
Capitolo 4

Figura 4.8 - Schema a blocchi interno dell'NB3N502.

feriche audio, dei dispositivi di comunicazione (bus di vario genere) e di tanti


altri tipi di periferica .
I moltiplicatori di clock, invece, sono particolari circuiti logici che si mettono in
cascata ai generatori a quarzo e sono in grado di moltiplicarne la frequenza di
uscita fino ad arrivare a centinaia di MHz, partendo dal valore standard di
32.768 kHz adottato universalmente dai generatori di clock.
I moltiplicatori ricavano i segnali di clock per il processore (almeno il clock base,
perché poi la CPU moltiplica internamente di un certo fattore) e la GPU, ma
anche per le interfacce di comunicazione, i bus interni (per esempio l’I²C-Bus
usato nel dialogo tra alimentatore principale e chipset) e le memorie; i moltipli-
catori funzionano generalmente basandosi su dei PLL (Phase Locked Loop, ossia
anello ad aggancio di fase) che sono dispositivi in grado di sincronizzarsi con una
frequenza e generarne una multipla. Possono anche essere composti da conta-
tori o logiche discrete opportunamente configurate in grado di produrre due,
tre, quattro o più impulsi in uscita per ciascun impulso di clock ricevuto all’in-
gresso, ma la tecnica principe è quella del PLL.
Nelle mainboard dei portatili e in generale dei computer, i moltiplicatori di clock
si riconoscono perché sono vicini ai quarzi oppure agli oscillatori a quarzo e
sono quasi sempre prodotti dalla Cypress o dalla ICS; esempi della Cypress sono
il CY2300, il CY2308, ma anche il CY22800.
La Figura 4.7 mostra lo schema a blocchi interno e la piedinatura dell’integrato
CY2300. La Figura 4.8 illustra, invece, lo schema a blocchi di un altro integrato
moltiplicatore di clock: si tratta dell’NB3N502 della ON Semiconductors.

68
CAPITOLO 5
MONITOR DA PC

Nei notebook, le schermate vengono visualizzate mediante display digitali in cui


l’immagine viene costruita polarizzando uno ad uno i punti di una matrice compo-
sta da celle contenenti cristalli liquidi; gli stesi monitor, ma meno sottili e inseriti in
contenitori da tavolo, sono quelli che ormai si trovano abbinati a tutti i computer
fissi, da quanto gli schermi a tubo catodico sono stati messi al bando.
Il monitor LCD (acronimo di Liquid Crystal Display, ossia visualizzatore a cristal-
lo liquido) è composto dalle seguenti parti:
 il discriminatore di sincronismo;
 il digitalizzatore della componente video;
 il circuito posizionatore dei punti;
 il pannello a cristalli liquidi.

Il discriminatore è un circuito che dal segnale video RGB estrae i segnali di sincro-
nismo; invia gli impulsi di riga e di quadro alla logica che provvede al posiziona-
mento dei punti sullo schermo. Tale logica è molto complessa e si avvale di un
microcontrollore, microprocessore o di un dispositivo per DSP (Digital Signal
Processing) perché deve, sincronizzandosi con gli impulsi dell’orizzontale, rimette-
re al loro posto tutti i punti corrispondenti alle porzioni di componente video con-
tenute in ogni riga. Agganciandosi agli impulsi di quadro, la stessa logica deve sepa-
rare i segnali corrispondenti ad un semiquadro da quelli del semiquadro seguente.
Il digitalizzatore della componente video è un convertitore analogico/digitale al
quale, mediante appositi circuiti separatori, giungono le singole porzioni di video-
composito contenenti l’informazione sulla luminosità e sull’eventuale tinta croma-

73
Capitolo 5

tica dei singoli punti. La lettura e la conversione in valore numerico del segnale
video avvengono con estrema rapidità (la frequenza di campionamento è alme-
no 10 volte quella del videocomposito).
Ogni volta che viene compiuta una conversione, i corrispondenti valori nume-
rici vengono collocati in una memoria di tipo RAM, dalla quale vengono poi
prelevati per essere inviati al circuito posizionatore dei punti, ovvero al gestore
dello schermo. Questo circuito, sostanzialmente comanda la matrice di punti
contenuta nel pannello a cristalli liquidi, attivando per ogni pixel la riga e la
colonna corrispondenti; nella pratica viene effettuata una scansione, attivando
prima la prima riga e in sequenza, una alla volta, le colonne dalla prima all’ulti-
ma, quindi la seconda riga, ripetendo l’attivazione sequenziale delle colonne e
via di seguito. Si procede così fino all’ultima delle righe, allorché la sequenza
riprende da capo; tale sequenza di ricostruzione viene eseguita un numero di
volte al secondo pari agli Hz della frequenza di refresh, quindi 50 se si parla di
50 Hz, 60 se il refresh è a 60 Hz ecc.
Siccome l’immagine sullo schermo a cristalli liquidi non viene costruita in tempo
reale, cioè direttamente su comando del segnale video (come avviene nel cine-
scopio) è possibile ricomporla senza ricorrere all’interlacciamento; ciò vuol dire
che prima di comporre un quadro completo la logica attende ed analizza i segna-
li costituenti i due semiquadri che lo compongono, poi li memorizza e li riela-
bora, quindi rimette nell’esatta sequenza le varie righe e le manda allo schermo
LCD per ricostruire l’immagine.
L’interlacciamento (o interallacciamento, che dir si voglia) corrisponde a comporre
l’immagine con una rapida sequenza di due metà dell’immagine, costruite una
attivando le sole righe pari (e le solite colonne in rapida sequenza) e l’altra atti-
vando le sole righe dispari; compiendo questo lavoro più di 25 volte al secondo,
l’occhio non si accorge del trucco e vede sempre quadri interi.
La visione interlacciata permette di ridurre di fatto la velocità di commutazione
dei singoli pixel della matrice LCD, cosa molto utile perché i cristalli liquidi sono
relativamente lenti; inoltre l’interlacciamento riduce la banda richiesta dal segna-
le video e quindi facilita il compito dei circuiti che generano i segnali video (quel-
li delle VGA) e degli amplificatori che lo trattano. Nel caso di visione interlac-
ciata, la frequenza di refresh è riferita ai semiquadri tracciati, mentre se l’imma-
gine non è interlacciata corrisponde ai quadri completi disegnati in un secondo.
Notate che il discriminatore di sincronismo e il digitalizzatore della componen-
te video servono solamente nei monitor LCD da computer fissi che dispongo-
no di ingresso VGA, oppure nei notebook il cui chip video non ha le uscite in
formato digitale, ma dispone dell’unica uscita VGA, smistata da uno switch
verso il connettore a 15 poli o verso il display.
Nei PC che hanno la periferica video dotata di uscita digitale, i due blocchi su
menzionati non servono: le uscite digitali comandano direttamente la logica
dello schermo. Lo stesso dicasi per i monitor da PC fissi a interfaccia HDMI o
DVI digitale.

74
Monitor da PC

Figura 5.1 - Sezione di un generico


display a cristalli liquidi.

I cristalli liquidi
Il visualizzatore LCD del monitor del portatile è formato da tante piccole celle
che, nella forma elementare, sono composte da una certa quantità di cristallo
liquido compresa fra due lamine di vetro; lateralmente l’insieme è delimitato da
vetro sigillato o collante epossidico sigillante. Il cristallo liquido è una sostanza
chimica a struttura cristallina che a temperatura ambiente si presenta in forma
liquida. Il cristallo liquido usato nei display LCD è di tipo colesterico o nematico, ma
attualmente il più usato è il nematico.
Nel lato interno delle superfici di vetro sono realizzati degli elettrodi ottenuti
per deposizione di materiale conduttivo (per esempio carbonio); per non osta-
colare la visione, il materiale è abbastanza trasparente, quindi, sebbene si veda,
non disturba più di tanto.
La caratteristica più interessante del cristallo liquido è che, sottoposto ad un
campo elettrico, diventa opaco e non lascia passare la luce dal vetro posto sul
retro a quello frontale; quindi sagomando gli elettrodi in modo che abbiano la
forma della figura da disegnare, un’opportuna polarizzazione consente di vede-
re scure le parti che si desidera formino l’immagine.
Il cristallo liquido ha la struttura cristallina di forma elicoidale, è composta da
tante strisce sottili sovrapposte, le quali normalmente hanno tutte il medesimo
orientamento. Sottoponendo la struttura ad un campo elettrico parallelo all’as-
se verticale, le strisce ruotano, dalla base al vertice, di 180 gradi; per effetto di
ciò, il cristallo da trasparente diventa opaco perché la luce non riesce più ad
attraversarlo. Normalmente la polarizzazione viene data sotto forma di tensio-
ne alternata, alla frequenza di alcune decine di kHz.
Più esattamente, il cristallo liquido è caratterizzato dall’avere le molecole orien-
tate in modo che quando la luce l’attraversa ne segue l’orientamento.
Normalmente, transitando per il cristallo liquido, la luce viene ruotata di 90°.
Quando lo stesso cristallo subisce gli effetti di un campo elettrico, le sue mole-
cole si dispongono verticalmente e quindi la luce passa senza subire rotazione.
All’esterno delle due superfici si trovano due ulteriori strati di filtro, disposti a
90° fra loro, che polarizzano la luce.

75
Capitolo 5

In condizioni di riposo, la luce che arriva da dietro passa per il primo filtro e
viene polarizzata, transita per il cristallo liquido (dove subisce una rotazione di
90°) e infine attraversa il secondo filtro ed esce dal vetro anteriore. Invece se il
cristallo viene sottoposto a una tensione elettrica, la luce polarizzata dal primo
filtro transita inalterata per il cristallo liquido e viene bloccata dal secondo filtro,
quindi non esce dal display. I primi LCD grafici erano a matrice passiva ed erano
formati da un substrato di vetro con superficie in ossido di metallo molto tra-
sparente, dotato di una griglia di elettrodi necessari ad attivare i singoli elemen-
ti dello schermo; sul substrato veniva deposta una pellicola di polimero con una
serie di solchi paralleli fatti per allineare le molecole del cristallo liquido. Un
secondo strato, analogo, formato da vetro, completo di pellicola di polimero di
allineamento, veniva sovrapposto (e dotato di spaziatori per mantenere una
distanza uniforme dallo strato inferiore). I due venivano saldati con una resina
epossidica ai lati per non far fuoriuscire il cristallo liquido. All’esterno delle due
lastre venivano infine applicati gli strati polarizzatori di luce.
Negli LCD grafici l’orientamento degli strati di allineamento varia da 90° a 270°,
in funzione della rotazione totale del cristallo liquido compreso fra di essi.
I display LCD sono realizzati secondo tre strutture, che sono la trasmissiva, la
riflettiva e la transflettiva. La prima prevede che all’osservatore giunga la luce
che il disegno formato dal cristallo liquido lascia passare dal retro; nella secon-
da il retro è appoggiato ad un foglio bianco o a specchio, così da riflettere la luce
nelle zone non polarizzate e quindi chiare. La terza combina entrambe le tecni-
che, ovvero il fondo del display è appoggiato ad un foglio bianco illuminato
posteriormente; in tal modo all’osservatore giunge sia la luce riflessa, sia quella
in arrivo dal retro.
Nei monitor a cristalli liquidi si predilige la tecnica trasmissiva: il display è
appoggiato posteriormente ad una lamina di plexiglass, la quale appoggia su un
foglio argentato; la lamina di plexiglass è illuminata lateralmente o superiormen-
te e inferiormente da tubi neon che, grazie alla propagazione orizzontale della
luce lungo la sua struttura, la fanno apparire uniformemente illuminata.
L’immagine, già visibile (seppure scura) alla luce del giorno, viene resa evidente
e chiara dall’illuminazione prodotta dal plexiglass.
Sviluppati inizialmente per comporre cifre e lettere (usati negli orologi a quarzo
e nei visualizzatori dei moderni strumenti di misura e controllo, nonché in tan-
tissime apparecchiature consumer), gli LCD sono poi stati realizzati con la tec-
nica a matrice di punti per visualizzare immagini. Proprio la realizzazione dei
display LCD a matrice di punti ha permesso di avere i monitor dei notebook.
Fino a una ventina di anni fa gli LCD erano monocromatici e a bassa risoluzio-
ne; il settore del personal computing e quello della TV hanno spinto l’industria
a studiare display a colori ad alta risoluzione. Il problema della risoluzione è
stato risolto affinando le tecnologie costruttive allo scopo di ridurre le dimen-
sioni dei punti mentre quello del colore è stato risolto approntando matrici in
cui ogni punto è formato da tre sub-pixel, ovvero da tre elementi posti ognuno

76
Monitor da PC

Figura 5.2 - Struttura dell'LCD a colori: vi


sono tre filtri ottici per cella, ognuno dei
quali si occupa di un subpixel.

in corrispondenza di un filtro di colore. In pratica, nel display a colori ogni


punto ha un filtro rosso, uno verde e l’altro blu, in linea con una porzione di cri-
stallo liquido; perché il punto diventi rosso si polarizzano le zone del verde e del
blu, in modo che la luce corrispondente non passi e che all’osservatore giunga
la sola componente rossa. Per far vedere la luce blu si polarizzano verde e rosso
e per ottenere il verde si polarizzano rosso e blu. Per ottenere gli altri colori si
effettuano opportune combinazioni (ad esempio, il viola si ottiene oscurando
solo il verde e lasciando liberi i pixel del rosso e del blu, che possono così esse-
re attraversati dalla luce). Il punto bianco si ottiene lasciando passare la luce da
tutti e tre i sub-pixel che lo compongono.
Per aumentare il contrasto, peggiorato proprio dal fatto che l’immagine non ha
luce propria ma viene retroilluminata, le lamine di vetro che delimitano il cristal-
lo liquido sono sì trasparenti, ma scure e non chiare. Ciò riduce la luminosità ma
dà maggiore risalto, specie alle immagini a colori.
Il display LCD tradizionale è relativamente lento, perché il tempo di rotazione
dei cristalli liquidi per effetto della polarizzazione e del ritorno a riposo quando
la stessa polarizzazione viene tolta, non è trascurabile; l’effetto si vede sul
display quando viene mostrato un oggetto in rapido movimento, che appare
seguito da un’ombra.
La velocità di risposta viene definita dal tempo di risposta, ovvero dai seguenti
due tempi:
 tempo di salita, ossia quello impiegato dal cristallo a ruotare dal momento in
cui il cristallo riceve la tensione di polarizzazione;
 tempo di discesa, cioè quello impiegato da una struttura elicoidale a tornare
a riposo dopo l’interruzione della tensione di polarizzazione.

Tipicamente i tempi sono dell’ordine di una decina di millisecondi (anche se nei


pannelli di produzione più recenti si scende anche sotto i 5 ms) quindi un rapi-
do calcolo fatto considerando il numero di punti costituenti un’intera immagi-
ne televisiva dà già un’idea della lentezza della visualizzazione.
Per ovviare all’inconveniente, si traccia un quadro intero alla volta e si pilotano
insieme tutti i punti di una linea, dando alle colonne i dati corrispondenti.

77
Capitolo 5

Comunque, in linea generale un pixel deve poter accendersi e spegnersi entro


1/60 di secondo (a tanto ammonta il tipico periodo di refresh dello schermo a
cristalli liquidi) così da garantire la massima fluidità delle immagini in movimen-
to; considerando quanto detto poco fa, ossia che tutti i punti dello schermo ven-
gono accesi insieme, il tempo di risposta non deve superare i 16 ms. Nei display
LCD di recente produzione tale requisito viene pienamente soddisfatto, tanto
che le immagini in movimento danno strascichi solo se sono molto veloci.
La risposta degli LCD con il sistema di pilotaggio a matrice passiva appena
descritti risulta molto lenta e non in grado di seguire veloci cambiamenti del
contenuto d’immagine rappresentata. Migliori tempi di risposta sono stati otte-
nuti organizzando lo schermo in due parti ed effettuando il refresh in modo
indipendente per ciascuna di esse, questi schermi sono denominati DSTN (Dual
Scan Twisted Nematic).
Il livello di luminanza di ciascun pixel è ottenuto variando la tensione applicata
al cristallo liquido, così da modulare l’angolo di rotazione e di conseguenza la
quantità di luce che transita; ciò permette di ottenere circa 64 livelli per ciascun
colore. Per ottenere un maggior numero di sfumature di colore, sono state svi-
luppate tecniche in base alle quali i livelli vengono modificati nel corso di tre o
quattro rinfreschi consecutivi dell’immagine.
In questo modo si ottengono precisioni prossime a 256 livelli (8 bit) per ciascu-
no dei colori primari, analoghe a quelle TrueColour (24 bit, 16 milioni di colo-
ri) fornite dai CRT.

Il display TFT
I primi display LCD avevano una visuale limitata a circa 90°; l’estensione degli
angoli di visione orizzontale e verticale permessa dai monitor dei moderni PC
portatili è stata ottenuta con la tecnica TFT (TFT è l’acronimo di Thin Film
Transistor, ossia transistor a pellicola sottile) che consiste nell’integrare in ogni
pixel una terna di transistor, che comandano ciascuno un sub-pixel; per questo
il display TFT viene anche detto “a matrice attiva”. La struttura così realizzata
consente di comandare sul luogo ogni punto dello schermo, ottenendo uno
spessore più ridotto del display (dovuto al fatto che ci sono meno linee di atti-
vazione) e quindi una miglior visuale (perché la luce arriva da una zona meno
profonda); inoltre permette una maggior velocità di commutazione del cristallo
liquido dalla posizione di oscuramento a quella di passaggio della luce (i tempi
di risposta sono anche dell’ordine dei 5 ms).
I TFT sono più leggeri e veloci nel passaggio dei pixel da trasparenti (la luce
passa) a opachi (la luce viene bloccata) ma molto più complessi (uno schermo
VGA richiede 921 mila transistor, mentre uno XGA da 1.024x768 punti impie-
ga 2.359.000 transistor).
Le qualità dei TFT sono state inizialmente sminuite da un difetto di visualizza-
zione dovuto all’imperfezione della tecnica costruttiva, la cui complessità non
permetteva di realizzare matrici con il 100 % dei pixel funzionanti: in pratica
78
Monitor da PC

alcuni punti della matrice apparivano bianchi o colorati perché i transistor cor-
rispondenti non funzionavano e non consentivano l’oscuramento. I pixel o sub-
pixel restavano quindi sempre trasparenti e lasciavano passare la luce, apparen-
do come punti luminosi che disturbavano la visione. Per ovviare a tale inconve-
niente, circa 10 anni fa venne messo a punto un TFT che utilizzava un nuovo
tipo di cristallo liquido in cui le molecole sono allineate verticalmente (VA, ver-
tically-aligned); in tal modo, quando non è applicata alcuna tensione, l’immagi-
ne è nera, mentre applicando la polarizzazione le molecole si dispongono oriz-
zontalmente e la luce attraversa il cristallo. Ciò migliora la qualità del nero e l’an-
golo di visione, che raggiunge i 140° in tutte le direzioni, ma anche il contrasto.
L’evoluzione degli LCD VA è quella chiamata MVA (Multi-domain Vertical
Alignment), che determina la rotazione delle molecole di cristallo liquido in più
direzioni per ogni cella anziché in una sola direzione come nella tecnologia di
base. Così, guardando lo schermo da varie angolazioni, la visione è relativamen-
te uniforme, mentre negli schermi standard varia tra chiaro e scuro in base all’al-
lineamento dell’osservatore rispetto all’orientamento delle molecole. La tecno-
logia MVA ha portato ad angoli di visione ancora più ampi (160°).
La matrice è composta da tante celle (pixel) ciascuna comandata da un transi-
stor ad effetto di campo (MOSFET) del quale il gate è collegato al circuito di
pilotaggio delle righe ed il source a quello delle colonne. Per attivare un sub-
pixel, si forniscono gli opportuni segnali (livelli logici) alla riga (gate) e alla
colonna (source) del transistor corrispondente; per controllare un pixel si attiva
una riga e le tre colonne (segnali RGB) del pixel stesso. I valori di ampiezza delle
tensioni di polarizzazione fornite ai transistor delle celle determinano la percen-
tuale di trasmissione della luce del retroilluminatore attraverso il pannello e i fil-
tri rosso, verde, blu, quindi la tonalità cromatica del punto corrispondente.
Di base, il circuito che pilota ogni subpixel è formato da un transistor e da un
condensatore (Cs) come carico d’uscita del TFT. Del circuito fa parte anche la

Figura 5.3 - A sinistra, schema elettrico delle celle del TFT; a destra, composizione di un
pannello LCD a TFT.

79
Capitolo 5

Figura 5.4 - Struttura di un moder-


no pannello LCD, completo di
retroilluminazione a lampada.

capacità virtuale del cristallo liquido (Clc). Applicando un impulso di circa +20V
alla linea gate, il TFT viene acceso, i Cs e Clc si caricano e la tensione sull’elet-
trodo specifico del subpixel (indicato come elettrodo pixel nell’immagine) sale
al livello del segnale applicato alla linea dati. Il TFT si spegne quando la tensio-
ne sul gate scende a -5 V. Il condensatore Cs ha la funzione di mantenere la ten-
sione sull’elettrodo pixel fino alla successiva scansione.
Siccome i cristalli liquidi devono essere pilotati a corrente alternata; ciò viene
solitamente realizzato invertendo la polarità della tensione applicata ai pixel a
ogni cambio di quadro, in modo da evitare sfarfallii dell’immagine.
Gli elettrodi gate e source di ogni subpixel sono usati in condivisione sulle righe
(le linee gate) e sulle colonne (le linee dati) della matrice, ma ciascun subpixel
può essere indirizzato individualmente senza interferire con quelli vicini. Il fun-
zionamento di un LCD si basa sulla scansione progressiva delle linee gate appli-
cando, per ciascuna riga dell’immagine, i segnali opportuni alle linee dati.
Nella maggioranza dei display TFT, la luce è generata da lampade a catodo fred-
do poste dietro o di fianco allo schermo. I filtri rosso, verde e blu di ogni pixel

Figura 5.5 - Un pannello LCD


completo, visto dal retro: si notano
i circuiti di controllo e l’attacco del
cavo flat che porta alla mainboard.
È ben visibile anche il cavetto della
lampada fluorescente di retroillumi-
nazione .

80
Monitor da PC

sono talmente piccoli che l’occhio percepisce la luce che li attraversa secondo
un’unica tonalità cromatica risultante dalla somma delle tre componenti prima-
rie, ovvero dalla somma delle intensità luminose derivanti dal passaggio della
luce attraverso i subpixel.
In un display a 16 milioni di colori, ogni subpixel può essere pilotato da un
segnale che ha 256 possibili valori. A ciascuno di essi corrisponde un valore del-
l’intensità di luce che attraversa il subpixel, dalla quasi totale opacità del cristal-
lo liquido alla sua massima trasparenza, filtrata dallo schermo colorato del sub-
pixel.

OLED
Acronimo di Organic Light Emitting Diode, è un nuovissimo tipo di display in
grado di generare luce propria come fanno i display a plasma, funzionando
però a bassa tensione e con un consumo paragonabile a quello degli LCD. La
sua introduzione nel settore dei PC portatili risale a circa un anno fa e ancor
oggi sono pochi i notebook equipaggiati con l’OLED, al momento ancora trop-
po costoso. La definizione di LED organico deriva dal fatto che il sistema si
basa su piccole celle realizzate con semiconduttori organici che emettono luce
colorata. Gli OLED hanno un ampio angolo di visuale e sono molto leggeri e
sottili come gli LCD. L’OLED è molto recente, infatti nel 1998 sono stati pro-
posti i primi prodotti a colori, seppure caratterizzati da prestazioni limitate (800
x 600 pixel, 300 cd/m² di luminanza, contrasto di 300:1); in poco più di 10 anni,
siamo passati dai primi piccoli display ai moderni visualizzatori a matrice attiva.
La cella elementare di un OLED consiste in una pila di strati di materiale orga-
nico elettricamente conduttivo compresi fra due elettrodi: un anodo (positivo)
trasparente e un catodo (negativo) metallico, oppure, nella struttura con emis-
sione dalla zona superiore, da un catodo semitrasparente e un anodo metallico.
Esistono poi display OLED a matrice attiva (AM OLED) la cui cella è l’insie-
me di un catodo metallico o inorganico e un anodo organico, il tutto appoggia-
to su un substrato che contiene i circuiti di attivazione dei singoli pixel. Come
nei comuni led, la corrente fluisce perché elettroni liberi e facilmente spostabili
da un debole campo elettrico possono andare a colmare lacune presenti nella
struttura del materiale a minore valenza. Quando ad una cella OLED viene
applicata una tensione di alcuni volt, negativa sul substrato e comunque sullo
strato inferiore (catodo), gli elettroni partono da questo e vanno a riempire le
lacune nello strato organico collegato all’anodo, cedendo l’energia fornita loro
dal campo elettrico per spostarli; tale energia si libera sotto forma di radiazione
elettromagnetica con lunghezza visibile (elettroluminescenza). Nella versione
grafica, gli OLED dispongono tutti di una struttura a matrice di punti e ciascun
pixel componente la matrice viene attivato da una coppia di contatti disposti
secondo righe e colonne: esattamente come negli LCD. Gli OLED si candida-
no a divenire i display del futuro, almeno per le applicazioni dove è necessario
avere immagini luminose e ben contrastate; la possibilità di produrli anche in
81
Capitolo 5

Figura 5.6 - Struttura della cella


dell’OLED.

versione trasparente, permetterà di realizzare sistemi combinati di visualizzazio-


ne di immagini e illuminazione: in pratica, lo stesso display potrà mostrare le
immagini della televisione o essere acceso fisso con tutti i punti dello stesso
colore, formando così una vera e propria lampada o una luce d’arredamento che
potrà fornire una qualsiasi tinta cromatica. Ma la cosa non finisce qui: siccome
l’emissione della luce avviene frontalmente, nulla vieta di applicare un OLED
trasparente a una finestra o una vetrata che divide due ambienti: in questo caso,
la luce sarà diretta nel locale verso cui è affacciata la parte frontale del visualiz-
zatore. Un’altra importante caratteristica dei moderni display AM OLED è la
capacità di attivare e disattivare i pixel più rapidamente di quanto possibile con
i TFT; per questo motivo, la tecnologia OLED è quella in grado di fornire i
migliori risultati in fatto di qualità della visione di oggetti in movimento.
Le prestazioni degli OLED sono ormai a livello di quelle dei migliori LCD sul
piano del contrasto (addirittura 100.000:1) per quel che riguarda la luminosità
(anche 600 candele/m²). Gli spessori possono scendere sotto il centimetro e la
risoluzione arriva anche a 1920×1080 pixel, più che adatta anche nel caso di fil-
mati in HDTV (TV ad alta definizione).
Analogamente agli LCD, esistono display OLED a matrice passiva e a matrice
attiva; nei display a matrice passiva, un sottile strato di polimero è applicato ad
un substrato, tipicamente vetro ricoperto da una struttura di linee (formano gli
anodi) ottenute a partire da uno strato conduttore depositato sul vetro. Le linee
di catodo sono applicate in direzione perpendicolare a quelle dell’anodo, con
analoga metodica. Una recente innovazione è rappresentata dalla tecnologia
LTPS (Low-Temperature PolySilicon) che prevede un substrato in silicio policri-
stallino capace di propagare la corrente in maniera più uniforme.
La struttura degli strati organici e di anodo e catodo è progettata al fine di otti-
mizzare il processo di ricombinazione nello strato di emissione e quindi il flus-
so luminoso. Scegliendo opportunamente i materiali costituenti i vari strati, l’in-

82
Monitor da PC

tera struttura può avere lo spessore di appena un decimo di millimetro.


Per attivare un punto o un sub-pixel (nei sistemi a colori) si applica una tensio-
ne opportuna ad una linea anodica e, fintanto che la stessa resta alimentata, ven-
gono polarizzate (collegate al negativo dell’alimentazione) in sequenza ed una
alla volta tutte le linee corrispondenti ai catodi.
Poi viene attivata la linea anodica successiva, e nuovamente si effettua una scan-
sione di quelle catodiche; il tutto si ripete dalla prima all’ultima linea anodica per
poi ricominciare da capo. Nel caso dei display OLED a matrice attiva, una strut-
tura di transistor è integrata sul substrato del display; di solito c’è una coppia di
transistor per ciascun pixel. Questi transistor sono connessi in sequenza alle
linee perpendicolari anodiche e catodiche e sono in grado di “mantenere” atti-
vo ciascun pixel fino al periodo di scansione successivo. I display OLED a
matrice attiva sono più complessi e quindi più costosi, ma offrono immagini più
luminose e definite di quelle ottenibili dagli OLED passivi.

Schermi E-ink
Si tratta di particolari visualizzatori che hanno fatto il loro esordio con gli e-
book reader. La tecnologia e-ink, ovvero inchiostro elettronico, o E-Paper
(Electronic Paper); tali display sono stati inventati nel 1996 da Joe Jacobson,
fondatore della E-Ink (www.eink.com) e sono tanto sottili e flessibili e risultano
simili, nell’aspetto, ad un foglio stampato. L’e-ink riflette la luce come un comu-
ne foglio di carta bianca o la assorbe come l’inchiostro nero. Il display è com-
posto da due lastre (una delle quali è trasparente), chiuse lateralmente, e tra le
quali si trova una sostanza liquida contenente piccolissime sfere caricate elettri-
camente; in ciascuna delle microsfere, metà è positiva e colorata di nero, men-
tre l’altra metà è caricata negativamente ed è di colore bianco. Applicando un
campo elettrico a speciali elettrodi sulla superficie delle lastre, si possono orien-
tare le sfere in modo che appaiano bianche o nere; in altre parole, applicando la
polarità positiva sulla lastra esterna (quella da cui guarda l’osservatore) le sfere
si orientano con la metà negativa da quella parte e, siccome le semisfere negati-
ve sono bianche, nei punti polarizzati positivamente il display è bianco. Se inve-
ce si applica la polarità positiva sulla lastra interna e negativa su quella esterna,
dall’esterno appare la metà nera (positiva). La tecnologia e-ink permette di rea-
lizzare supporti sottili e flessibili, dato che la struttura a sfere non viene altera-
ta dalla torsione o flessione; è quindi l’ideale per apparati da portare, ad esem-
pio, nella cartella scolastica. Ma ciò che rende davvero unica la tecnologia e-ink
sono due caratteristiche: la prima è che disponendo delle sfere consente di rap-
presentare perfettamente un foglio stampato, dato che l’immagine (foto o testo)
appare formata da punti, esattamente come avviene con una stampa a getto
d’inchiostro, a laser o in tipografia; nei display e-ink, analogamente a quanto si
fa nelle macchine tipografiche, una zona è tanto più scura quanto più fitti sono
i punti neri e viceversa. Non meno importante è il fatto che l’e-ink è l’unico
83
Capitolo 5

Figura 5.7 - Display e-ink in tonalità di


grigio: il pannello è flessibile e consuma
pochissima corrente.

display praticamente zero-power:


essendo basato su microsfere che
una volta orientate restano ferme,
richiede elettricità solo quando
bisogna polarizzare le lastre per
orientare le sfere stesse e quindi
soltanto per cambiare il contenuto
dello schermo. Il tipico contrasto
di un display e-ink è di 7:1, mentre
l’angolo di visione è di 180 gradi; il
tempo di risposta (ossia di rotazio-
ne della sfera dalla parte nera a quella bianca) è intorno ai 700 ms (nella moda-
lità a scala di grigio) e circa 250 ms in bianco e nero. Dato che non sono retroil-
luminati, i display e-ink non si possono utilizzare per TV e monitor, però sono
l’ideale per leggere libri, giornali ed altri documenti alla luce del giorno; anzi,
proprio l’assenza di luce propria li assimila alla carta stampata e consente di
guardarli per ore senza affaticare la vista.

Retroilluminazione degli LCD


Il display a cristalli liquidi è passivo e quello impiegato nei notebook è di tipo
trasparente, quindi richiede una retroilluminazione, che può essere ottenuta in
vari modi, ovverosia con un foglio elettroluminescente applicato dietro, con una
lampada CCFL (a catodo freddo) che diffonde la luce posteriormente mediante
una lastra di plexiglass, oppure con LED che illuminano sempre la lastra di
plexiglass.
Il foglio elettroluminescente funziona come il neon e rispetto a questo ha il van-
taggio di poter essere posizionato direttamente dietro l’LCD, quindi di illumina-
re con uniformità occupando pochissimo spazio; invece quando si retroillumi-
na con dei tubi fluorescenti questi devono essere collocati lungo uno o due lati
dell’LCD e la loro luce deve essere distribuita mediante una lastra di plexiglass
spessa 3÷5 mm: in pratica si sfrutta il fatto che illuminando lateralmente questa
lastra la luce si diffonde uniformemente (a meno che non vi siano distorsioni nel
materiale) più o meno in tutta la superficie, che appare quindi illuminata.
La tecnica a foglio elettroluminescente è stata presto abbandonata perché i fogli
avevano una durata limitata rispetto a quella dei tubi fluorescenti.
Il tubo o lampada a neon, è una lampadina a scarica ma del tipo a catodo fred-

84
Monitor da PC

do: consta di un tubetto sottile di vetro riempito di gas inerte (neon o miscele
di neon e xeno) le cui pareti interne sono rivestite di fosfori; dentro il tubo, ad
un’estremità o alle due estremità opposte si trovano due elettrodi. Applicando
una tensione sufficientemente alta, tra questi scocca una scarica elettrica, dovu-
ta alla ionizzazione del gas contenuto nel tubo; il fenomeno si propaga rapida-
mente al resto del gas e determina la produzione di fotoni (particelle di luce)
nell’ultravioletto, che investendo i fosfori fanno loro produrre luce bianca. Per
l’innesco della scarica si usano gli inverter, che producono tensioni anche di 200
volt.
Oggigiorno i costruttori hanno sperimentato ampiamente un’alternativa basata
su diodi luminosi: in pratica si sfrutta una metodica analoga a quella delle lam-
pade a fluorescenza, solo che al loro posto, ad illuminare lateralmente la lastra
di plexiglass, si trova una fila di LED. Il controllo dei LED si realizza con rego-
latori di corrente a bassa tensione, che però consumano una discreta potenza. Il
principale vantaggio dell’adozione dei LED è che il sistema di retroilluminazio-
ne dura molto più degli altri appena descritti, potendo funzionare anche per
50÷70.000 ore, corrispondenti a 15÷20 anni, ovviamente a patto che non si gua-
sti prima il circuito regolatore.
Con i LED è possibile realizzare display in cui i pixel lavorano in sincronismo
con il retroilluminatore, composto da diodi emittenti luce rossa, verde e blu:
quando il pixel deve apparire rosso si accendono solo i LED rossi, quando deve
essere blu solo i blu e quando deve apparire luce rossa si comandano solo i diodi
rossi. Ciò può essere realizzato grazie all’elevata velocità di commutazione di cui
sono capaci i LED e permette di ottenere display a colori senza dividere i pixel
in tre subpixel, ma semplicemente usando una sola cella per punto, il che sem-
plifica la matrice (seppure complichi il comando della retroilluminazione) e con-
sente di elevare notevolmente la risoluzione dell’immagine, visto che ogni pixel
non deve essere necessariamente composto da tre subpixel e quindi può avere
dimensioni più piccole di quelle di un LCD a singolo pixel. Per contro, una tec-
nica simile rallenta la rappresentazione delle immagini in movimento, in quanto
per comporre ogni punto di colore occorrono tre passaggi in sequenza, quindi
il tempo di risposta si triplica.

Comando della retroilluminazione


Nei vecchi notebook la retroilluminazione veniva accesa insieme al computer,
ma poi, per esigenze di risparmio energetico e quindi per aumentare la durata
della batteria, l’accensione dell’alimentatore o inverter di comando veniva gesti-
ta dal chipset, allo scopo di spegnerla o moderarla quando il PC non viene usato.
Il comando della retroilluminazione con power-saving operato dal chipset si
effettua in due modi:
 sospendendo il segnale di sincronismo; in questo caso l’inverter DC/AC la-
vora in dipendenza del chipset, nel senso che non genera il segnale di clock (non
ha oscillatore) ma viene attivato da quello mandato dal chipset;
85
Capitolo 5

 mediante un livello logico che attiva l’oscillatore dell’inverter o lo disattiva.


Il modulo di controllo comprende un convertitore DC/DC che fornisce i vari
livelli di tensione continua per controllare i cristalli liquidi, il circuito di control-
lo e quelli di pilotaggio delle colonne e delle righe, un invertitore DC/AC che
fornisce l’alta tensione per alimentare le lampade fluorescenti a catodo freddo
(CCFL) che provvedono alla retroilluminazione.

LCD touch-screen
Si tratta di visualizzatori che sono una completa interfaccia utente, nel senso che
fungono contemporaneamente da monitor, tastiera e dispositivo di puntamen-
to; vengono usati prevalentemente nei PC Tablet, palmari e nei PDA. Perché
uno schermo possa rilevare quando e dove viene toccato, sopra la struttura LCD
si applica un rivestimento che funziona con due tecniche: resistiva (la prima
messa a punto) o capacitiva.
Il touch-screen di tipo resistivo basa il suo funzionamento sul fatto che premen-
do sullo schermo si crea un contatto tra due strati conduttori di elettricità, stra-
ti situati in una pellicola trasparente che sta davanti all’LCD vero e proprio. Il
dispositivo rileva il punto di contatto elaborando i dati sulla resistenza rilevata
tra un lato verticale ed uno orizzontale. Il touch-screen capacitivo si basa inve-
ce sul trasferimento di carica elettrica tra un’armatura, ossia un contatto elettri-
co posto in una pellicola che riveste lo schermo, e la terra: quando si tocca lo
schermo, si verifica un flusso di elettroni che viene rilevato tramite dei sensori
posizionati in ciascun angolo del display, in modo da stimare le coordinate del
punto di contatto.
Sul piano della visibilità è preferibile il sistema capacitivo, dato che la pellicola
del resistivo riflette un po’ la luce; quanto alla sensibilità, nel resistivo la pressio-
ne è fondamentale per interagire con lo schermo ed è possibile utilizzare dita
(anche indossando guanti), unghie, pennini ecc. La possibilità di utilizzare il pen-
nino è molto importante quando si devono comporre lettere o scritti usando la
tastiera a schermo, come nei palmari o nei PC Tablet. Il sistema capacitivo ha
invece il difetto di richiedere il tocco con un oggetto conduttivo e quindi con i
polpastrelli delle dita (nude), il che limita la minima dimensione degli oggetti o

Figura 5.8 - Struttura vista in


sezione del sensore resistivo per
display touch-screen: sotto lo stra-
to protettivo superficiale, due con-
tatti vengono uniti in misura diver-
sa a seconda della deformazione
dell'inserto, che li avvicina per
una superficie più o meno vasta.
La base è rigida per trattenere la
struttura durante la compressione.

86
Monitor da PC

pulsanti a video che si possono attivare (al contrario del sistema resistivo, preci-
so almeno quanto la risoluzione dei pixel del display). Va inoltre detto che il
sistema resistivo funziona in un campo di temperature più esteso e sopporta
meglio l’umidità, mentre quello capacitivo necessita di un minimo di umidità
nell’aria per favorire il trasferimento della carica elettrica; inoltre quando l’am-
biente è troppo freddo o umido la condensa impedisce una chiara collocazione
del tocco e talvolta fa muovere arbitrariamente il puntatore.

87
CAPITOLO 6
ALIMENTATORI AC/DC

Nei PC e Mac portatili, le tensioni occorrenti si ricavano ormai praticamente solo


da alimentatori a commutazione, che sono un AC/DC per trasformare la tensione
alternata di rete (tipicamente a 110÷240 Vca) in bassa tensione continua generale,
oltre a dei DC/DC per convertire quest’ultima nelle componenti occorrenti ai vari
stadi del computer; l’AC/DC è l’alimentatore esterno, mentre i DC/DC sono tutti
all’interno del notebook. In questo capitolo verrà fatto cenno alla struttura ed al
funzionamento degli alimentatori a commutazione (altrimenti detti switching).
I convertitori a commutazione sono preferiti agli alimentatori lineari perché a parità
di potenza erogata hanno meno perdite nei transistor incaricati di erogare corren-
te al carico, il che provoca surriscaldamento e grandi consumi e obbliga a dimen-
sioni non proprio contenute. L’eccessivo consumo deriva dal fatto che i compo-
nenti attivi impiegati per stabilizzare la tensione di uscita trattengono “sulle loro
spalle” il peso della caduta di tensione, che è la differenza tra la tensione da dare al
carico e quella di partenza; infatti i transistor che operano la regolazione si compor-
tano come resistori variabili dinamicamente, che aumentano il proprio valore quan-
do occorre poca corrente e lo diminuiscono nella situazione contraria, ovvero
quando aumenta la richiesta di corrente da parte dell’utilizzatore. In applicazioni
come gli alimentatori a tensione d’uscita, variabile il problema può assumere
dimensioni non trascurabili.

Alimentatori switching
Nei PC, per passare dall’alternata di rete ma anche da una tensione continua ad
un’altra, si ricorre agli alimentatori a commutazione, o switching (o DC/DC converter). In

89
Capitolo 6

essi gli elementi attivi che devono alimentare l’utilizzatore conducono non in
maniera continuativa ma ad impulsi; il valore della tensione di uscita dipende
quindi dal valore medio, nel tempo, degli impulsi stessi. Lo stesso dicasi per la
corrente. Il vantaggio che ne deriva sta nel fatto che la potenza dissipata da ogni
transistor è praticamente la sola da cedere all’utilizzatore; la dissipazione, ovve-
ro la perdita del dispositivo di commutazione, è minima e corrisponde al pro-
dotto della VCE di saturazione per la corrente che l’attraversa, e il tutto rappor-
tato alla durata degli impulsi in ogni ciclo di commutazione.
Per prima cosa bisogna spiegare perché gli switching hanno una perdita trascu-
rabile; definito rendimento di un generico circuito che deve effettuare una con-
versione di potenza il rapporto:

Pe
K = ——
Pc

dove Pe è la potenza erogata e Pc quella consumata. Mentre negli alimentatori


lineari la perdita di potenza (la differenza tra Pc e Pe) è direttamente proporzio-
nale alla corrente erogata e alla differenza di potenziale tra ingresso ed uscita, in
quelli a commutazione si opera variando i parametri della potenza. In altre paro-
le, uno switching funziona come il trasformatore: per ottenere da una tensione
alta una più bassa, trasferisce la potenza variandone i parametri caratteristici,
ovvero trasporta l’energia elettrica in sé, a differenza di quanto fa il regolatore
lineare, che si limita a trattenere la potenza che non deve andare al carico.
Nei circuiti lineari, specie in quelli a tensione d’uscita variabile, si può arrivare a
perdere sul transistor fino al 100 %; inoltre, considerato che nel funzionamento
a collettore comune, un BJT può amplificare in corrente fin quando la caduta
VCE si mantiene superiore a 2÷3 volt, il rendimento non può mai raggiungere il
massimo, quindi, anche con il carico più leggero, sta sempre sotto il 90 %.
Nello switching, invece, si superano rendimenti del 90 % in ogni condizione di
carico, cioè la perdita è praticamente costante dalla minima alla massima tensio-
ne di uscita. Insomma, se nell’alimentatore lineare il rendimento è inversamen-
te proporzionale alla corrente erogata e direttamente proporzionale alla tensio-
ne di uscita, in quello switching è indipendente dalla tensione e legato esclusiva-
mente alla corrente fornita. Per garantire la minima perdita, l’alimentatore a
commutazione si avvale di elementi induttivi o trasformatori; almeno, lo swit-
ching in senso lato. Questa precisazione è doverosa perché i dispositivi a com-
mutazione fanno parte della famiglia dei DC/DC converter, la quale riunisce tutti
i circuiti che convertono una tensione continua in un’altra di diverso valore o
polarità, sfruttando la tecnica a commutazione. Un alimentatore switching è un
DC/DC converter, ma un DC/DC non sempre è uno switching. Le categorie
di DC/DC sono:
 alimentatori a commutazione; prendono la tensione d’ingresso da un altro ali-

90
Alimentatori AC/DC

mentatore, lineare o switching; quando devono lavorare con la rete di distribu-


zione elettrica sono preceduti da un alimentatore AC/DC, ossia da un raddriz-
zatore con filtro capacitivo;
 regolatori a commutazione; sono simili ai precedenti ma garantiscono una
tensione di uscita stabilizzata, eventualmente di valore variabile a piacimento;
invertitori e duplicatori di tensione.

Alimentatori switching generici e regolatori a commutazione giocano sui para-


metri della potenza elettrica per ottimizzare la resa, mentre invertitori e duplica-
tori di tensione sono accomunati solo dal fatto di trasformare la tensione con-
vertendo la continua in impulsi e gli impulsi in componente continua.
Un parametro ricorrente nello studio dei convertitori switching è il duty-cycle
(ciclo di lavoro) che è il rapporto che esiste, nel periodo della forma d’onda che
determina la commutazione dei transistor del converter, tra la durata dell’impul-
so (d) e il periodo stesso (T):

dc = d/T

Quando l’impulso dura metà del periodo, l’onda in esame ha un duty-cycle del
50 %; nel caso di tensioni periodiche con impulsi a gradino (rettangolari) l’on-
da prende il nome di “quadra”, perché ogni impulso, disegnato sulla carta, ha
forma quadrata. Il duty-cycle permette di valutare il valore medio di una com-
ponente variabile nell’intero periodo; nel caso dei dispositivi switching consen-
te di capire quanta energia, di quella totale presa dal generatore, trasferiscono
all’utilizzatore.

DC/DC converter non regolati


Si tratta di quelli che comunemente vengono detti switching, anche se il termine
DC/DC converter definisce non un tipo ma una famiglia di circuiti che com-
prende il convertitore a trasformatore e quello a carica d’induttanza. I due tipi,
pur essendo strutturalmente diversi, sono accomunati da una caratteristica: in
entrambi si gioca sugli impulsi al fine di trasferire più o meno potenza al carico;
in altre parole, l’alimentatore sfrutta dispositivi che non limitano la corrente nel-
l’utilizzatore, ma cedono impulsi la cui larghezza è proporzionale alla potenza
da erogare. Ecco perché consentono un notevole risparmio di energia e quindi
un elevato rendimento.

Convertitore a trasformatore
Nella sua forma più semplice, consta di un generatore capace di ottenere impul-
si partendo dalla tensione continua di alimentazione, di un transistor e di un tra-
sformatore (più o meno complesso) che trasferisce gli impulsi all’utilizzatore. Il
trasformatore serve:
 per elevare la tensione, quando lo switching deve alimentare utilizzatori che

91
Capitolo 6

richiedono più della tensione d’ingresso, ovvero abbassarla, nel caso contrario;
 per isolare galvanicamente l’alimentazione d’ingresso dal circuito nel quale si
trova l’utilizzatore.

L’isolamento galvanico non è sempre richiesto, quindi spesso il trasformatore


serve solamente per modificare la tensione voluta. Il transistor lavora in modo
on/off, quindi dissipa pochissimo, perché quando conduce la potenza perduta su
di esso è pari al prodotto P = VCESAT x Ic.
Lo schema di principio è illustrato nella Figura 6.1; il circuito usato per genera-
re gli impulsi rettangolari con cui pilotare il trasformatore è un multivibratore
astabile basato sull’NE555, ma al posto di questo può trovarsi un qualsiasi gene-
ratore di impulsi anche retroazionato per adeguare il duty-cycle alle condizioni
del carico. L’uscita dell’integrato pilota un transistor NPN di tipo BDW51A, che
funziona da interruttore allo stato solido: in corrispondenza dell’impulso va in
saturazione e lascia che l’avvolgimento primario del trasformatore venga attra-
versato dalla corrente di alimentazione; in conseguenza di ciò, ai capi del secon-
dario viene indotto un nuovo impulso, di verso opposto, la cui ampiezza è pro-
porzionale al rapporto spire. In corrispondenza delle pause, il transistor torna
interdetto e lascia isolato il primario del trasformatore. Ogni impulso attraversa
il diodo raddrizzatore D2 e va a caricare il condensatore di filtro C4, ai capi del
quale si viene a trovare la tensione continua di uscita. Perché tutto funzioni, gli
avvolgimenti devono essere effettuati nello stesso verso, ma poi vanno collega-
ti uno al contrario dell’altro: i pallini neri in prossimità del trasformatore indica-
no l’inizio di ciascun avvolgimento. Se non si rispetta il collegamento, il conden-
satore non viene caricato, perché D2 blocca gli impulsi, che gli arriverebbero
con polarità negativa; infatti, immaginando di guardare il trasformatore come
appare nel disegno, se gli avvolgimenti vengono effettuati nello stesso verso la
tensione indotta nel secondario ha polarità positiva verso il basso. Solo inverten-
do il collegamento, gli impulsi divengono positivi sull’anodo. Il condensatore C3
serve a filtrare l’alimentazione dell’NE555 dall’ondulazione che l’assorbimento
pulsante del primario provoca nella linea positiva della Vin; il diodo D1 proteg-
ge invece il transistor dalle extratensioni che il primario produce ad ogni inter-

Figura 6.1 - Un semplice


circuito di DC/DC converter
a trasformatore.

92
Alimentatori AC/DC

Figura 6.2 - Forme d'onda (rilevabili


con l’oscilloscopio) al primario e al
secondario del trasformatore, oltre che
sul condensatore di livellamento C4.

ruzione della corrente. Ciò perché ogni avvolgimento è un’induttanza e l’indut-


tanza ha carattere inerziale nei confronti della corrente: alimentata in continua,
inizialmente non assorbe nulla, ma si oppone all’essere attraversata dalla corren-
te; poco dopo comincia a condurre e, abituatasi ad un certo regime, tenta di
mantenerlo anche se il circuito viene interrotto.
L’induttanza è come una massa: se le si applica una forza, inizialmente si fatica
a muoverla, ma poi prende velocità e, in mancanza di attrito, tende a scorrere
senza mai fermarsi e senza richiedere ulteriore spinta. Tale comportamento si
spiega con la legge di Lenz, secondo la quale un avvolgimento elettrico sottopo-
sto a una certa tensione, nell’istante in cui viene alimentato sviluppa una tensio-
ne indotta uguale in valore ma contraria nel verso a quella che l’ha generata.
In continua, l’induttanza permette lo scorrimento della corrente di regime, che
dipende dalla somma della resistenza interna del generatore di tensione e di
quella del rame che costituisce il filo con cui è costruita, solo trascorso un certo
intervallo di tempo determinato dalla resistenza complessiva e dal valore dell’in-
duttanza stessa. Dunque, l’avvolgimento primario accumula una certa energia e,
togliendogli corrente, reagisce generando una tensione inversa di valore anche
molto elevato, che dipende molto dall’assorbimento sul secondario (maggiore è
quest’ultimo, minore è l’energia rimasta nell’induttanza relativa al primario, e
viceversa); la tensione inversa danneggerebbe la giunzione base-collettore del
transistor, ed è perciò che si connette il diodo D1. Esso, quando T1 conduce è
interdetto, perché polarizzato inversamente; all’interdizione del transistor, la
tensione inversa che si genera ai capi del primario manda il diodo in conduzio-
ne, cosicché questo possa assorbire la corrente e l’energia residua.
Sull’alimentatore switching a trasformatore si possono fare alcune considerazio-
ni, valide per tutte le sue varianti:
 in parallelo all’avvolgimento primario si trova sempre un diodo, dimensiona-
to considerando che la massima corrente che deve sopportare può essere stima-
ta in circa 1/3 di quella di collettore del transistor preposto alla commutazione
sul primario;
93
Capitolo 6

 il diodo deve essere scelto del tipo veloce, ovvero con un tempo di passaggio
dalla conduzione all’interdizione (TRR) minore di 1/20 del periodo della tensio-
ne rettangolare che pilota il transistor e comunque che sia il più basso possibile;
 si può evitare il diodo usando transistor specifici per la commutazione su ca-
richi induttivi (per esempio il BU508D) che incorporano un diodo collegato tra
emettitore e collettore e che può quindi cortocircuitare l’extratensione inversa
prodotta dal trasformatore;
 il diodo rettificatore (D4) deve essere scelto con TRR minore di 1/20 del pe-
riodo della tensione rettangolare che pilota il transistor e comunque che sia il più
basso possibile; deve sopportare una IF (corrente diretta) superiore del 20 % a
quella da erogare all’utilizzatore e una tensione inversa ripetitiva pari almeno al-
l’ampiezza degli impulsi sul secondario; ciò perché si presentano dei picchi an-
che in corrispondenza dell’interdizione del transistor e tali picchi sono negativi;
 il transistor deve essere sufficientemente veloce, ovvero presentare un tempo
di commutazione minore di 1/20 del periodo del segnale rettangolare che lo pi-
lota; altrimenti continua a condurre anche quando non deve e incrementa la per-
dita di potenza, che in esso e nel diodo raddrizzatore sono essenzialmente lega-
te alla frequenza di lavoro;
 il transistor va scelto con una VCEO maggiore del 20 % rispetto alla tensione
di alimentazione del circuito di commutazione (transistor/primario) e deve sop-
portare una Ic continua superiore alla massima corrente che si pensa di dare al
trasformatore; quest’ultima si determina come Iu = Vi x Ii/Vu.

DC/DC con stadio push-pull


Il convertitore appena descritto funziona pilotando il trasformatore con impul-
si unidirezionali, quindi il rettificatore utilizzato non può che essere del tipo a
singola semionda; il condensatore di filtro viene dunque caricato una sola volta
nel periodo. Per ottenere una componente che sia meglio livellata è possibile fare
ricorso ad un circuito nel quale il primario del trasformatore viene alimentato
nell’intero periodo; in tal modo il raddrizzatore può essere del tipo a doppia
semionda: più specificamente, usa la stessa configurazione già vista per il rad-
drizzatore a doppia semionda abbinato al trasformatore con secondario a presa
centrale. Su tale architettura sono possibili due varianti: la prima (Figura 6.3) si
avvale di un trasformatore a primario singolo pilotato con tensione alternata
mediante l’adozione di un ponte (bridge); quest’ultimo è un circuito a quattro
transistor, due NPN e altrettanti PNP, montati in modo che conducano, alter-
nativamente, l’NPN di un lato ed il PNP dell’altro. Perché funzioni correttamen-
te, il ponte va pilotato dando ai transistor di ogni lato il medesimo segnale; a sua
volta, un lato riceve sempre una tensione di controllo in opposizione di fase
rispetto a quella ricevuta dal lato opposto. Quando le basi di T1 e T2 ricevono
l’impulso positivo conduce il solo T2 (T1 è PNP e per condurre ha bisogno che
la sua base sia negativa rispetto all’emettitore); contemporaneamente, le basi di
T3 e T4 sono poste a zero volt e va in conduzione T3 (il T4 è un NPN e con-
94
Alimentatori AC/DC

duce solo quando arriva l’impulso). In questa condizione l’avvolgimento prima-


rio è attraversato da una corrente che fluisce dall’estremo in basso a quello in
alto. quando la situazione si ribalta, le basi di T1 e T2 ricevono zero volt e quel-
le di T3/T4 l’impulso positivo; adesso conducono T1 e T4, quindi la corrente
entra nell’emettitore del primo, esce dal suo collettore, attraversa il primario
entrando dal capo in alto e uscendo da quello in basso, quindi entra in T4 dal
collettore per uscirne dall’emettitore. Si noti che le tensioni di controllo devono
avere la stessa ampiezza di quella di alimentazione (+VIN) altrimenti i transistor
PNP restano sempre in conduzione.
Il circuito di comando a ponte viene impiegato in molti moduli DC/AC per il
comando della retroilluminazione dei display dei notebook; si vedano, ad esem-
pio, gli schemi riportati nel Capitolo 10.
Nella seconda versione del convertitore DC/DC con comando bidirezionale
(Figura 6.4) viene adottato un primario a presa centrale alimentato da uno sta-
dio detto push-pull: la presa è alimentata dal positivo della linea di ingresso
(+VIN) e gli estremi vengono chiusi sul negativo, uno per volta e alternativa-
mente, da T1 e T2. Anche questa struttura circuitale vuole che i transistor siano
polarizzati con due tensioni rettangolari in opposizione di fase. Il funzionamen-
to è il seguente: quando T1 riceve l’impulso va in saturazione e nella sezione
superiore del primario fluisce corrente in arrivo dal positivo di alimentazione; la
corrente si chiude nel collettore e da esso, tramite l’emettitore.
Contemporaneamente l’altra sezione è isolata, perché T2, ricevendo zero volt in
base, si trova interdetto. Nella seconda metà del periodo la situazione si inverte
e T1 si trova la base a zero volt, quindi va in interdizione e lascia isolata la parte
in alto del primario. Conduce, invece, T2, visto che la sua base riceve ora l’im-
pulso positivo; il suo collettore permette alla corrente di fluire dal positivo di ali-
mentazione nella sezione inferiore del primario, corrente che dal collettore si
chiude sull’emettitore e quindi sul negativo. Anche qui si possono fare alcune
considerazioni: la prima riguarda il dimensionamento del primario, che, nel
primo caso, deve essere calcolato considerando cosa si vuole ottenere in una
metà del secondario; per esempio, se la tensione di uscita e quindi quella di metà
secondario deve essere uguale a quella di ingresso dell’alimentatore (VIN) il pri-
mario deve essere composto dallo stesso numero di spire di metà secondario.

Figura 6.3 - DC/DC converter


con stadio pilota a ponte: lo
stadio a ponte permette di uti-
lizzare un trasformatore con
primario semplice ed ottenere
ai capi del secondario una
tensione alternata, raddrizza-
bile con un raddrizzatore a
doppia semionda.

95
Capitolo 6

Figura 6.4 - Stadio di


commutazione e di uscita
del DC/DC push-pull: qui il
trasformatore ha il primario
a presa centrale.

Invece, nel caso dello switching con primario a presa centrale, ogni mezzo pri-
mario deve essere calcolato sulla base di mezzo secondario; quindi, volendo che
la tensione di uscita del circuito sia uguale a quella di ingresso, mezzo primario
deve avere le stesse spire di mezzo secondario.

Il trasformatore
Giunti a questo punto, per meglio comprendere il funzionamento degli alimen-
tatori conviene spendere qualche paragrafo sul trasformatore: si tratta di una
particolare macchina elettrica statica, che non genera corrente ma trasferisce una
potenza elettrica tra due circuiti mutandone i parametri, ovverosia corrente e
tensione.
Il trasformatore serve moltissimo in elettronica: si usa per ottenere le basse ten-
sioni partendo dalla rete a 220 Vca, ma anche per elevare basse tensioni al fine
di pilotare sirene o ottenere scariche elettriche o ionizzare l’aria; serve inoltre per
trasferire un segnale tra due circuiti che devono essere mantenuti isolati tra loro
e quindi anche in telefonia. Il trasformatore funziona sfruttando il principio del-
l’induzione elettromagnetica ed è composto, nella sua forma basilare, da due
avvolgimenti di filo in rame opportunamente isolato chiamati primario e seconda-
rio (Figura 6.5). Per convenzione, il primario è quello che riceve l’alimentazione
ed il secondario quello in cui viene indotta la tensione da dare all’utilizzatore.
Solitamente i due avvolgimenti sono separati, ossia sono circuiti elettricamente
distinti (galvanicamente isolati); ciò mette al riparo da molti problemi che si veri-
ficherebbero prendendo l’alimentazione dalla rete di distribuzione elettrica e, in
molte situazioni, permette il funzionamento di circuiti che altrimenti non fun-

Figura 6.5 - Simbolo grafico del


trasformatore (abbassatore a sini-
stra ed elevatore a destra). Il pri-
mario è l'avvolgimento dal lato Vi
ed il secondario quello relativo a
Vu.

96
Alimentatori AC/DC

zionerebbero mai. Ma esistono particolari trasformatori, detti autotrasformatori,


nei quali l’avvolgimento secondario è un prolungamento del primario o ne è
parte integrante.
Gli avvolgimenti del trasformatore sono su un nucleo in materiale ferromagne-
tico, che per gli alimentatori AC/DC, la gran parte degli inverter e gli switching
a bassa frequenza (fino a una decina di kHz) è un pacco di lamierini di ferro al
silicio semplice o a grani orientati sagomato ad E+I oppure a doppia C. In alcu-
ni casi, specie per i piccolissimi trasformatori, vengono impiegati nuclei ad
“olla” Per i trasformatori ad alta frequenza, si usano nuclei composti da un
impasto di ferrite. Gli avvolgimenti vengono effettuati su un rocchetto di mate-
riale isolante.
Negli alimentatori dei dispositivi elettronici per la casa e il lavoro, il trasforma-
tore provvede a separare galvanicamente l’elettronica dalla rete elettrica, il che
risparmia di “prendere la scossa” quando si tocca il conduttore dell’alimentato-
re che verrebbe a trovarsi in contatto con il filo di fase della rete.
I trasformatori usati negli adattatori AC/DC dei notebook sono sempre, per
ragioni di sicurezza, galvanicamente isolati; nei DC/DC posti sulla scheda
madre, invece, si possono usare anche degli autotrasformatori, dato che tutti gli
stadi del computer sono riferiti ad una massa comune.

Funzionamento del trasformatore


Il trasformatore è un componente che funziona solamente se c’è variazione di
flusso magnetico, cosa che si verifica esclusivamente se il primario viene alimen-
tato da una corrente variabile, sia essa impulsiva o alternata . inoltre, la tensio-
ne indotta nel secondario è in opposizione di fase rispetto a quella che alimen-
ta il primario: quando una è positiva l’altra è negativa. La fase va considerata
supponendo di avvolgere primario e secondario nello stesso verso; chiamando
B la fine dell’avvolgimento primario e D quella del secondario, dando corrente
si vede che la tensione Vcd ha polarità opposta alla Vab (Figura 6.6).
Se i due avvolgimenti fossero costituiti dallo stesso numero di spire, varrebbe la
seguente relazione:

Vcd = -Vab

Figura 6.6 - La tensione al seconda-


rio di un trasformatore è opposta di
fase rispetto a quella sul primario.

97
Capitolo 6

Un parametro caratteristico del trasformatore è il rapporto di trasformazione e rap-


presenta il rapporto fra la tensione al secondario e quella al primario (r =
Vi/Vu). Di solito si esprime come rapporto, quindi 1:1 sta ad indicare che il tra-
sformatore presenta al secondario un valore di tensione uguale a quello che ali-
menta il primario, mentre 1:10 vuol dire che il trasformatore è elevatore e dà sul
secondario una differenza di potenziale 10 volte maggiore di quella che alimen-
ta il primario. Ammettendo di non avere perdite di potenza, si può scrivere che:

Vi/Ii = Vu/Iu

Vi e Vu sono, rispettivamente, le tensioni al primario e al secondario, mentre Ii


ed Iu, rispettivamente, la corrente prelevata dal primario e quella restituita dal
secondario. Appare come la corrente erogabile dal secondario sia direttamente
proporzionale al rapporto di trasformazione:

Iu = Ii x r

oppure, se si preferisce:

Iu = Vi x Ii / Vu.

Essendo, rendimento a parte, la potenza disponibile al secondario del trasfor-


matore uguale a quella prelevata dal primario, maggiore è la tensione del secon-
dario, minore è la corrente erogabile, e viceversa.

Convertitore a carica d’induttanza


Oltre che a trasformatore, lo switching esiste in un’altra versione, il cui princi-
pio di funzionamento si basa sulla ripartizione dell’energia immagazzinata da un
induttore; più esattamente, un transistor alimenta una bobina, quindi interrom-
pe la corrente e lascia che l’energia immagazzinata in essa si riversi sull’utilizza-
tore. Il livello della tensione di uscita si decide, non utilizzando il trasformatore
ma giocando sulla larghezza o frequenza degli impulsi con i quali viene caricato
l’induttore e sul valore di induttanza. La struttura varia in base alla configurazio-
ne del transistor, che può lavorare a collettore comune (Figura 6.8) o ad emetti-
tore comune (Figura 6.7). Nel primo caso si parla di convertitore buck, mentre nel
secondo di convertitore boost; in quest’ultimo la bobina riceve corrente dal collet-
tore ogni volta che il transistor viene portato in saturazione, mentre in interdi-
zione, l’induttore tenta di mantenere le condizioni della conduzione e genera
un’extratensione che forza lo scorrimento di corrente nel transistor. Affinché la
giunzione base-collettore non si danneggi, è inserito il diodo Dc (diodo di clam-
ping) la cui funzione è condurre e lasciare che, a transistor interdetto, la corren-
te fluisca dal capo della bobina connesso al collettore nel diodo Ds (è un diodo
Schottky) e dall’anodo di quest’ultimo al positivo del condensatore, quindi dal
98
Alimentatori AC/DC

negativo di quest’ultimo all’anodo


del Dc. Quando il transistor ripren- Figura 6.7
de a condurre, fornisce un nuovo
impulso di corrente alla bobina L,
che, nella successiva pausa, cede la
propria energia all’utilizzatore, e al
condensatore di filtro. Quanto allo
schema a collettore comune, il fun-
zionamento è il seguente: quando il
BJT viene polarizzato in base, la
corrente di emettitore fluisce nel-
l’induttore L e da esso nel conden-
satore; all’interdizione del transistor, la bobina tenta di mantenere la stessa cor-
rente, ma, visto che non può farla scorrere nell’emettitore, trova una via alter-
nativa attraverso il condensatore e quindi nel diodo Schottky Ds. Alla successi-
va fase di conduzione del transistor l’induttore riceve nuova energia, che poi
scarica, attraverso Ds, nel condensatore nella pausa di interdizione seguente.

DC/DC con retroazione in tensione


I DC/DC converter a carica d’induttanza possono essere retroazionati, in modo
da stabilizzarne la tensione d’uscita ad un valore prestabilito; ciò viene ottenuto
principalmente con due tecniche di regolazione: variando la frequenza del
segnale rettangolare che pilota il transistor di commutazione, allo scopo di varia-
re la durata degli impulsi di carica del condensatore di filtro, oppure mantenen-
do fissa la frequenza e giocando sul duty-cycle, quindi sull’energia trasferita.
Un esempio di circuito a carica d’induttanza regolato a frequenza variabile è illu-
strato nella Figura 6.9; la Figura 6.10 illustra, invece, un DC/DC regolato a cari-
ca d’induttanza con variazione del PWM.

DC/DC a trasformatore in PWM


Le stesse tecniche di modulazione della frequenza di lavoro o del duty-cycle del-
l’onda rettangolare a frequenza costante possono essere applicate anche al cir-
cuito a trasformatore; in tal caso, la ten-
sione che dà un’indicazione sul livello
della Vu viene ottenuta con un partito- Figura 6.8
re resistivo nei DC/DC in cui non sia
richiesto l’isolamento galvanico tra sta-
dio di controllo e uscita, ovvero con un
secondo trasformatore oppure un fotoac-
coppiatore, quando, invece, circuito di
controllo e utilizzatore non debbano
avere connessioni in comune.
Nella pratica viene usata solo la confi-
99
Capitolo 6

Figura 6.9 - DC/DC a carica d’in-


duttanza a frequenza variabile,
retroazionato.

gurazione a duty-cycle variabile; quella a frequenza variabile è sconveniente per-


ché, crescendo la frequenza insieme alla corrente assorbita, più aumenta il cari-
co, più aumenta la frequenza, mettendo in crisi il transistor e i diodi raddrizza-
tori e di clamping. Inoltre, essendo, le perdite, proporzionali alla frequenza, il
rendimento cala al crescere del carico, più di quanto avviene nel DC/DC a fre-
quenza fissa. Queste considerazioni valgono per tutti gli switching: a trasforma-
tore e a carica d’induttanza. Dunque, si esamina il solo circuito a duty-cycle
variabile, che può avere la struttura visibile nella Figura 6.11.
Il funzionamento dello stadio pilota è simile a quello del converter a carica d’in-
duttanza a duty-cycle variabile: il comparatore confronta la tensione triangolare
prodotta dal generatore con la componente continua riportata dall’uscita,
mediante il partitore resistivo; quest’ultimo serve per adattare il livello della
componente applicata all’ingresso invertente del comparatore all’ampiezza della
triangolare. Il dimensionamento si conduce, facendo in modo che l’onda trian-
golare abbia un’ampiezza minore o uguale a quella della caduta sulla RB. La fre-
quenza può essere decisa in funzione delle caratteristiche del trasformatore e
valgono le indicazioni date a proposito dei DC/DC a trasformatore non rego-
lati. Al solito, l’avvolgimento secondario del trasformatore va collegato al con-
trario. Per realizzare un circuito a doppia semionda, occorre un operazionale
montato a comparatore che inverta il segnale da inviare al secondo transistor del
push-pull, ovvero una logica che crei i segnali necessari allo stadio a ponte.
Rispetto al converter a carica d’induttanza, quello a trasformatore (regolato o

Figura 6.10 - DC/DC a carica


d’induttanza a duty-cycle varia-
bile.

100
Alimentatori AC/DC

Figura 6.11 - DC/DC converter


a trasformatore, provvisto di cir-
cuito di retroazione a frequenza
fissa e duty-cycle variabile.

meno) non ha le perdite di potenza nell’induttanza, ma deve fare i conti con il


rendimento del trasformatore; ciò vuol dire che, alla fin dei conti, con il trasfor-
matore (a causa delle perdite nel nucleo) si perde qualcosa di più di quel che si
spreca in un circuito a carica d’induttanza realizzato con una bobina ad alto fat-
tore di merito. Per il resto, vi sono le solite perdite nei diodi e nei transistor.
Dunque, il DC/DC a trasformatore ha un rendimento minore di quello a cari-
ca d’induttanza; è però preferibile usarlo, anche nella versione con ingresso ed
uscita riferiti a un’unica massa, quando serva una tensione negativa oppure una
maggiore protezione dell’utilizzatore. Infatti, se nel circuito a carica d’induttan-
za si danneggia il transistor, a regime l’uscita riceve una tensione prossima a
quella d’ingresso; con il trasformatore, invece, l’uscita va a zero.

DC/DC galvanicamente isolati


Quando la configurazione a trasformatore serve per alimentare un circuito che
debba essere elettricamente disaccoppiato dalla tensione di partenza, il segnale
di reazione non può essere portato al circuito di regolazione riferito alla massa
comune (negativo di alimentazione); bisogna farlo arrivare mediante un secon-
do trasformatore collegato con il primario al secondario di quello principale
(Figura 6.12); il rapporto di trasformazione del trasformatore va scelto in base
all’ampiezza della componente di uscita. Nello schema, la tensione ricavata con
il trasformatore ausiliario, raddrizzata e livellata, viene applicata ad un potenzio-

Figura 6.12 - Convertitore DC/DC


a duty-cycle variabile con retroa-
zione a trasformatore.

101
Capitolo 6

Figura 6.13 - DC/DC con retroa-


zione a circuito galvanicamente
isolato, ottenuta mediante un
fotoaccoppiatore.

metro: ciò allo scopo di consentire una regolazione accurata della componente
continua riportata al comparatore. Si noti che più si avvicina il cursore del
potenziometro alla massa, più sale la tensione Vu, perché diminuisce la tensio-
ne di reazione e il comparatore dà alla base del transistor impulsi più larghi,
ovvero T conduce per una maggiore porzione del periodo. Viceversa, avvicinan-
do il cursore al catodo del Ds3 sale la componente di retroazione, l’onda trian-
golare dell’oscillatore supera quella del piedino 2 dell’operazionale per una
minore porzione del periodo e T conduce per minor tempo, riducendo la ten-
sione di uscita. In alternativa al trasformatore, si può adottare la retroazione con
optoisolatore (fotoaccoppiatore) di tipo 4N25, 4N35, CNY75 e similari, secondo
lo schema della Figura 6.13. Il LED (diodo luminoso collegato con l’anodo al
piedino 1 e il catodo al 2) dell’optoisolatore viene polarizzato tramite R4 dalla
tensione di uscita dell’alimentatore, cosicché entra in conduzione il fototransi-
stor (collegato con il collettore al piedino 5 e l’emettitore al 4); ciò determina
una differenza di potenziale ai capi del bipolo R5/Dc, proporzionale alla Vu. Il
solito potenziometro (funzionante come già descritto per il circuito retroaziona-
to mediante trasformatore) permette una regolazione accurata della tensione di
uscita.

Converter a integrati
In commercio si trovano numerosi circuiti integrati che permettono di realizza-
re ottimi DC/DC, sia a carica d'induttanza che a trasformatore. Un ottimo
esempio, tra i più usati nella realizzazione di converter DC/DC sia neigli alimen-
tatori da rete dei PC fissi, sia in quelli dei notebook, è l'SG3525, costruito da
numerose Case quali ST, Exar, Signetics. Si tratta di un completo regolatore a
commutazione contenente uno stadio generatore della tensione di riferimento
(5,1 V) un amplificatore di errore, un generatore di onda a dente di sega e una
protezione in corrente, oltre a un doppio stadio d'uscita funzionante in contro-
fase. L'SG3525 è dunque progettato per pilotare stadi a trasformatore con due
transistor in push-pull, ma nulla vieta di impiegarlo con una sola uscita, pilotan-
do un singolo transistor che alimenti un trasformatore o un induttore. Usando
entrambe le uscite, quando una dà l'impulso positivo l'altra si presenta a zero

102
Alimentatori AC/DC

volt. L'oscillatore interno può lavorare tra 100 Hz e 500 kHz; necessita, per il
funzionamento, di un condensatore collegato tra il piedino 5 e il 12 e una resi-
stenza connessa tra il 6 e lo stesso 12. La tensione di alimentazione del compo-
nente deve essere compresa tra 8 e 35 volt.
Il circuito della Figura 6.14 è un DC/DC che, a seconda di come si sceglie il tra-
sformatore, può essere elevatore o riduttore; con i componenti attuali è previ-
sto sia 24/12 V, da ben 10 A di uscita. Il fusibile F1 va calcolato per la corren-
te assorbita dal primario del trasformatore e lo stesso vale per la bobina di fil-
tro L1 (inserita in una rete a pi-greca per sopprimere i disturbi originati dalla
commutazione dei MOSFET). L'SG3525 qui lavora a una frequenza di 50 kHz.

Problematiche dei condensatori di filtro


I condensatori, specie quelli di grande capacità, sono affetti da una resistenza
serie parassita (ESR) che si fa sentire soprattutto negli elettrolitici; ed hanno
anche una componente induttiva, derivante dai terminali. Se negli alimentatori
da rete tali componenti non si avvertono, negli switching, soprattutto in quelli
che operano oltre i 20 kHz, possono dare non pochi problemi. In special modo
la resistenza, che introduce una costante di tempo capace di ritardarne la carica
e quindi di limitare il livellamento della tensione erogata dal converter. Ma non
solo: la resistenza determina una dissipazione di potenza, che il condensatore
non dovrebbe presentare; essa causa surriscaldamento e degradazione, a lungo
andare, del dielettrico che separa le armature, con conseguente perdita di capa-
cità. Inoltre, la dissipazione sulla ESR aumenta le perdite, sottraendo potenza
all'uscita e riducendo così il rendimento di conversione.
Per questi motivi, quando si progetta uno switching che lavora a frequenze mag-
giori di 20 kHz è preferibile scegliere condensatori a bassa ESR, che sono rea-
lizzati esplicitamente per l'uso in dispositivi a commutazione.
I condensatori in poliestere, mylar e polipropilene, ma anche i multistrato cera-
mici, solitamente sopportano bene le alte frequenze e hanno bassa induttanza

Figura 6.14 - Convertitore


DC/DC basato sull’integrato
SG3525.

103
Capitolo 6

parassita; per questo motivo, quando bisogna filtrare l'alimentazione d'ingresso


del DC/DC per spegnere gli impulsi provocati dalla commutazione dei transi-
stor sulle induttanze o sugli avvolgimenti primari dei trasformatori, conviene
metterne uno o più in parallelo agli elettrolitici usati per filtrare la linea di ali-
mentazione d'ingresso.
Un'ultima nota riguarda il dimensionamento degli elettrolitici di filtro nei con-
verter a trasformatore: sono molto più piccoli di quelli adottati negli alimenta-
tori da rete, visto che la frequenza con cui vengono caricati è molto più elevata.
Senza fare troppi calcoli che implicherebbero la ricostruzione grafica dei cicli di
carica e scarica, si può dire che per un duty-cycle del 50 % si possono conside-
rare 1.000µ F/A da 500 a 5.000 Hz, 500 µF/A da 5 a 20 kHz, 200 µF/A da 20
a 50 kHz, 100 µF/A da 50 a 200 kHz.

104
CAPITOLO 7
STRUTTURA DEI NOTEBOOK

Per poter riparare un computer portatile o quantomeno ipotizzare che guasto possa
avere, bisogna conoscerne la struttura base. Scopo di questo capitolo è fare una
panoramica sulla composizione di massima di un notebook, fermo restando che
poi ogni PC potrà avere qualcosa in più o in meno e che col tempo alla struttura
base potranno aggiungersi nuovi elementi introdotti dall’innovazione tecnologica.
In linea generale, un moderno computer portatile (intendendo con “moderno” che
è stato costruito da una decina d’anni) è composto dalle seguenti parti:
 un microprocessore o CPU;
 una memoria di programma (EEPROM o Flash EPROM);
 una o più memorie RAM;
 un bus di interfaccia;
 un chipset che governa le funzioni del bus e di alimentazione;
 una serie di periferiche di I/O affacciate sul bus;
 uno o più controller per le unità a disco;
 un adattatore grafico (scheda grafica) con eventuali memorie;
 un adattatore audio;
 un adattatore di rete;
 eventuali interfacce wireless;
 un eventuale modem;
 uno o più alimentatori interni;
 un alimentatore esterno;
 un display;
 una tastiera;

105
Capitolo 7

 un dispositivo di puntamento (mouse o touch-pad);


 una o più unità di memoria di massa (dischi rigidi e lettori di card);
 un lettore di floppy-disk;
 un lettore/scrittore di dischi ottici.
 una o più ventole di raffreddamento
 un accumulatore (batteria).

Qui di seguito verranno analizzate una ad una nel dettaglio, fermo restando che
esse (ad eccezione delle unità a disco, delle ventole, della tastiera e del dispositi-
vo di puntamento) trovano collocazione, a seconda del tipo di computer, su :
 una scheda madre;
 una o più schede figlie.

Del display e degli alimentatori si è parlato dettagliatamente nei capitoli 5 e 6,


quindi non ci dilungheremo sul tema.
Scheda madre è il nome che, piuttosto impropriamente, si assegna alla scheda
principale del notebook, la quale ospita sempre la CPU e gli zoccoli per le RAM,
oltre alla memoria di programma BIOS; sovente la stessa scheda madre riporta
i connettori di interfaccia (porte di I/O) e del monitor esterno, oltre che dell’au-
dio e dell’alimentazione. Il termine scheda madre deriva dai computer fissi, dove
effettivamente esiste una scheda principale dotata di connettori standard nei
quali si inseriscono le varie schede (audio, video, I/O speciali ecc.). La scheda
madre prende anche il nome anglosassone di motherboard o mainboard.
Per schede figlie si intendono dei piccoli circuiti stampati contenenti connettori
o vari componenti, ovvero periferiche di I/O e, a volte, la scheda video separa-

Figura 7.1 - Schema


a blocchi di un PC
notebook.

106
Struttura dei notebook

ta. Va comunque notato che spesso nei notebook c’è solo la scheda madre.
Le unità a disco sono esterne alla scheda madre e vengono supportate dalla
scocca del computer; quest’ultima è formata da un semiguscio inferiore ed uno
superiore. Il display è anch’esso contenuto in un guscio formato da due metà ed
è incernierato sulla base.

CPU
Anche detta impropriamente “microprocessore”, è un circuito integrato che
rappresenta il cuore del notebook, dato che fa funzionare tutto perché provve-
de all’elaborazione dei dati. Per comprendere come funziona bisogna prima
conoscere la ALU (Arithmetic Logic Unit) ossia l’unità aritmetico-logica: questa è
un circuito binario in grado di compiere operazioni di addizione, sottrazione,
prodotto, decremento e incremento di parole composte da un certo numero di
bit o confrontare tra loro due parole. L’ALU è dunque l’unità di calcolo della
CPU e per compiere determinate operazioni si avvale di circuiti esterni quali una
serie di registri dove mettere i dati dei calcoli provvisori e i risultati; i registri

Figura 7.2 - Parti della


scheda madre di un com-
puter portatile vista sopra
(a sinistra) e sotto (in cen-
tro) elencate nella tabella di
riferimento a destra.

107
Capitolo 7

(memorie) servono soprattutto per gestire operazioni complesse come la divi-


sione tra byte o parole binarie, che non possono essere compiute direttamente
ma vanno effettuate in più passaggi. L’ALU viene definita dal numero di bit che
può elaborare insieme, ovvero dalla dimensione delle parole sulle quali può
compiere operazioni; può essere a 4, 8 o più bit.
La CPU (Central Processing Unit) è un circuito integrato che incorpora l’ALU, i
registri e una quantità di RAM necessari a compiere le operazioni matematiche;
inoltre dispone dell’unità di controllo, un blocco che si occupa di far lavorare
l’ALU, con la quale interagisce ordinandole di compiere determinate operazioni
e interrogandola sullo stato di quelle in corso. Dell’unità di controllo fa parte la
logica per i segnali di stato, anche detti bit flag (flag vuol dire bandiera): i flag ser-
vono a comunicare lo stato di esecuzione delle operazioni o il segno del risulta-
to di un’operazione compiuta dalla ALU; sono utili, ad esempio, per compiere
operazioni come la divisione, che l’ALU da sola non potrebbe fare.
Nella CPU, l’ALU esegue i calcoli in base a delle istruzioni, che sono parole
binarie che un decoder posto nell’unità di controllo converte in operazioni; ogni
volta che l’unità riceve un’istruzione, lavora ciclicamente fino a portare a termi-
ne il compito richiesto. Il tempo necessario a portare a termine un’istruzione
viene detto ciclo d’istruzione ed è definito nelle specifiche delle CPU e dei micro-
processori e microcontrollori: tanto più è ridotto, tanto più prestante è il dispo-
sitivo. Le istruzioni vengono lette da un’apposita memoria non volatile (memo-
ria di programma o Program Memory) esterna la cui lettura è scandita dal
Program Counter; quest’ultimo è un contatore che detta l’ordine di esecuzione,
indirizzando, una locazione alla volta, l’accesso ad una memoria non volatile
nella forma binaria, che è il linguaggio direttamente interpretabile dall’unità di
controllo (linguaggio macchina).
Uno dei registri interni alla CPU è l’accumulatore, che è il registro contenente
uno degli operandi prima dell’operazione e il risultato dopo; l’unità di controllo
contiene un contatore e un decoder. Esternamente, la CPU richiede la memoria
che contiene il programma, il segnale di clock che scandisce le operazioni ed una
logica di interfaccia; quest’ultima serve a indirizzare la RAM esterna, le periferi-
che cui sono diretti i dati, ma anche a far viaggiare i dati sia verso le periferiche,
sia da esse alla CPU. L’insieme delle linee di indirizzamento costituisce l’Address
Bus o Bus Indirizzi; quello delle linee dati, il Data Bus o Bus Dati. Notate che

Figura 7.3 - Una microprocessore per Personal


Computer notebook: si tratta di un AMD Sempron
Mobile.

108
Struttura dei notebook

mentre il primo manda solo segnali all’esterno, il secondo è bidirezionale, per-


ché vede dati andare dalla CPU all’esterno e viceversa. I dati escono dalla CPU,
ad esempio, quando si deve scrivere in una memoria o dare informazioni a un
D/A converter che deve ricostruire un segnale analogico; entrano nella CPU
quando, invece, essa sta leggendo da una memoria esterna o acquisendo i dati
campionati da un A/D converter.
Si noti che l’ampiezza del bus dati dipende dalla dimensione delle parole bina-
rie che la CPU può elaborare; più è grande, più potente è il dispositivo a parità
di ciclo d’istruzione. La dimensione del bus definisce l’architettura della CPU,
che è a 8 bit se il bus dati è da 8 bit, a 16 bit se il bus dati è a 16 bit e via di segui-
to. Per valutare quello che è stato il progresso nel settore, sappiate che le prime
CPU erano basate su ALU a soli 4 bit, mentre quelle moderne, usate ormai nei
semplici Personal Computer IBM compatibili, sono anche a 64 bit.
La CPU può esistere come circuito integrato a sè stante (contenente una ALU
e un’unità di controllo più un po’ di registri esterni) però negli ultimi venti anni,
grazie anche alla possibilità di realizzare a costi accettabili integrati LSI e VLSI,
si è preferito realizzare in un singolo chip l’insieme delle parti di una CPU. Così
è nato il microprocessore. Microprocessori sono i vecchi 8088, 8086, 80286, 80386,
80486, e i più recenti Pentium, Pentium II, III e 4, gli AMD K6, Athlon,
Sempron, Turion, Opteron ecc.
Tipicamente, in un microprocessore sono integrati una CPU, i registri di I/O,
una RAM e un registro di stack. La capacità di elaborazione dei dati di un micro-
processore dipende dalle fattezze della CPU che contiene e, più precisamente,
dal numero di bit dell’ALU e dalla frequenza del segnale di clock, ma anche dal
numero di istruzioni eseguibili per ciclo di clock. Non sempre i microprocesso-
ri operano con byte, ma quelli più recenti trattano word di 16, 32 o 64 bit; per-
ciò nelle specifiche tecniche si trovano definiti sia il bus dati, sia la memoria di
lavoro, in word. Inoltre ciò che fa la differenza è anche la dimensione delle istru-
zioni, che possono essere a 4, 8 bit, ma anche più: ad esempio le unità RISC
Microchip funzionano con istruzioni in PICBasic formate da word di 14 bit.
I registri di I/O dei microprocessori sono quelli di Input e Output (da qui il ter-
mine I/O) che permettono di trasferire all’esterno il bus dati; sono normalmen-
te driver bidirezionali in grado di dirottare i dati risultanti da un calcolo e da
inviare all’esterno verso il bus dati, ovvero di dirigere dati in arrivo sul bus verso
i registri interni della CPU, perché questa provveda a compiere le necessarie
operazioni. Tipicamente i registri di input e output hanno tante linee quanti
sono i bit del data bus e dell’address-bus, anche se vi sono eccezioni in cui, per
limitare le dimensioni esterne dei chip e quindi il numero di piedini, una porzio-
ne di un bus diventa, all’occorrenza, parte di un altro. Un esempio è un micro-
processore che ha 16 bit di data bus e 16 bit di address, ma non ha abbastanza
piedini; in questo caso si può fare in modo che 8 bit dell’address bus diventino
ora indirizzi, ora dati. La cosa si realizza usando dei latch multipli (ad esempio i
TTL 74373 e 74374) che sono gruppi di flip-flop (di solito 8 alla volta, per adat-

109
Capitolo 7

tarsi ai bus dati dei microprocessori a 8 bit) connessi a latch: ognuno di essi,
quando riceve un impulso sulla linea di attivazione (strobe) carica i dati in ingres-
so e li porta in uscita, mantenendoli anche se gli ingressi vengono modificati. Gli
8 bit comuni vengono fatti passare da un latch, le cui uscite sono affacciate sul
bus indirizzi; un line-driver bidirezionale affaccia, invece, i bit sul bus dati.
Quando deve indirizzare una periferica, il micro (che ha una linea dedicata allo
scopo) dà il segnale di strobe al latch e fa caricare gli indirizzi, mentre tiene disat-
tivato il line driver che affaccia sulla corrispondente porzione di bus dati; quan-
do deve leggere o inviare dati, il microprocessore libera lo strobe e blocca il latch
con le uscite nella condizione precedentemente assunta, mentre comanda il line-
driver in modo da gestire il flusso dei dati.
L’utilizzo promiscuo di linee di dati e indirizzi è stato fatto in diversi micropro-
cessori: ad esempio l’Intel 8088, da 16 bit interni ed 8+8 esterni, ma anche in
dispositivi usati nei PC di una quindicina di anni fa, come gli Intel 80386-SX,
che si distinguevano dai DX per l’avere un bus dati interno a 32 bit ed esterno
a 16 bit. Lo stesso valeva per gli 80486SLC, versioni degli 80486-SX montati nel
contenitore compatibile con l’80386-SX.
Generalmente, un microprocessore ha i seguenti ingressi o uscite:
 bus dati;
 bus indirizzi;
 controllo lettura e scrittura (R/W);
 strobe dell’eventuale bus condiviso.

Il controllo di lettura/scrittura è una linea che serve a dire alle periferiche colle-
gate ai bus se i dati sul bus dati durante l’operazione in corso sono mandati dal
microprocessore o se il microprocessore deve leggerli; nel caso delle memorie
comanda il read/write e permette di leggere o memorizzare. La stessa linea
comanda i line-driver inseriti per commutare la direzione del bus dati.

Figura 7.4 - Struttura della


ALU del microprocessore.

110
Struttura dei notebook

Interrupt e cache memory


Una particolarità di CPU e microprocessori è la possibilità di interrompere
momentaneamente il programma in esecuzione, in modo da eseguire altri task.
Per ricevere le richieste di interruzione, il microprocessore ha uno o più ingres-
si detti interrupt, che agiscono in varie maniere; se gli interrupt sono più di uno,
può essere prevista una priorità di uno sugli altri (quindi se ne arrivano più insie-
me la CPU sa già quale deve considerare per primo) oppure l’architettura pre-
vede la possibilità di mascherarne alcuni, ossia di decidere, dal programma in
esecuzione, quali debbono essere ignorati al verificarsi di determinate condizio-
ni di lavoro. A volte si ricorre ad un apposito gestore degli interrupt.
Per ritrovare sempre il punto dove si era fermata al momento dell’interruzione,
la CPU contiene un apposito registro a catasta (il già accennato registro di stack
...) dove ogni volta vengono collocati uno sull’altro gli indirizzi del contatore di
programma man mano che le istruzioni corrispondenti sono eseguite; lo stacker
è come una pila di documenti che un impiegato, dopo aver compilato, mette
uno sull’altro. Se qualcuno interrompe il lavoro dell’impiegato per chiedergli di
farne un altro, al suo ritorno al tavolo riprende la fila e vede qual è stato l’ulti-
mo documento compilato. Così funziona lo stacker della CPU.
Gli interrupt vengono anche gestiti da appositi chip esterni alla CPU.
Per velocizzare l’esecuzione dei calcoli, il microprocessore si avvale sovente di
una memoria RAM aggiuntiva detta Cache, o (Cache Memory) dove posiziona
momentaneamente le istruzioni eseguite di recente, che dispone cronologica-
mente; in questo modo, quando deve eseguire un certo calcolo ha già lì pronta
l’istruzione e risparmia tempo, dato che altrimenti dovrebbe fermare l’esecuzio-
ne e andarla a prendere nella memoria di programma. La cache può essere inter-
na al microprocessore ed in questo caso si chiama cache di 1° livello, ovvero
esterna (in tal caso si chiama cache di 2° livello); molti microprocessori preve-
dono l’impiego di cache sia interna (ossia integrata nel chip) che esterna (mon-
tata sulla scheda dove lavora il componente). Nei microprocessori Intel la cache
ha iniziato a comparire nella famiglia 80486 e precisamente nei 486-DX, che
avevano qualche kB di cache di 1° livello; gli 80486-SX ne erano privi e la richie-
devano a parte, montata su scheda. Lo stesso dicasi per la famiglia i586: il
Pentium aveva a bordo la cache, mentre il Celeron ne era privo e richiedeva
apposite mainboard con cache da attivare mediante il setup. Un discorso a parte
sono stati i Pentium II, che erano sostanzialmente Pentium MMX montati su
una basetta che conteneva anche due cache di 2° livello, per 512 kB complessi-
vi; in tal caso la cache di 1° livello restava sempre quella dei Pentium comuni.
Nei Pentium II dei notebook la cache era sempre su scheda madre.
Le mainboard dei PC fissi nate per supportare i Celeron o Duron, non avendo
praticamente quest’ultimi una propria cache di II° livello, disponevano di una
cache; il problema è che mentre alcune possono identificare da sole il processo-
re e disattivare la cache on-board se trattasi di un Pentium II o III o di un
Athlon, in altre l’attivazione o disattivazione doveva essere compiuta dalle
111
Capitolo 7

schermate del BIOS, altrimenti si creavano conflitti di memoria capaci di bloc-


care il computer.
Quasi sempre la CPU dei notebook è montata su uno zoccolo ZIF (Zero Insertion
Force) nel quale si inserisce senza fare fatica, grazie al fatto che esso prevede un
meccanismo di rilascio per far entrare a fondo i pin dell’integrato e poi serrarli
tramite una levetta (ad esempio socket 370) o una chiusura a vite.

Coprocessore matematico
Per snellire il carico di lavoro della CPU, nei processori Intel a partire dall’80486
è stato introdotto il coprocessore matematico, il quale è un’unità di calcolo ope-
rante parallelamente alla CPU vera e propria e che si occupa dei calcoli matema-
tici; nella serie i486, il coprocessore matematico equipaggiava il processore
80486-DX, mentre l’SX, più economico, non disponeva di alcun coprocessore,
ma i computer basati su processore SX potevano montarlo come elemento addi-
zionale su uno zoccolo a parte (il coprocessore era l’80487).

Unità di calcolo in virgola mobile


Altrimenti detta FPU, è una sorta di ALU che si occupa di effettuare il calcolo
in virgola mobile per l’esecuzione delle istruzioni che lo richiedono; opera paral-
lelamente alla CPU ed è integrata nel microprocessore. Nella serie Intel, è pre-
sente dall’80386, e lo stesso dicasi per le CPU dell’AMD quali 80386, 80486,
80586, K6 ecc. Proprio il K6 sembra avere avuto, nelle sue prime versioni, pro-
blemi nell’unità di calcolo in virgola mobile.

Memoria di programma
Si tratta di una memoria permanente allo stato solido in cui risiede il program-
ma basilare che permette alla CPU di lavorare e caricare il sistema operativo (ad
esempio Windows, Linux ecc.); tale programma è il BIOS (Basic Instruction
Operating System) ed oltre ad avviare il computer svolge le funzioni di base e
consente l’avvio del sistema. Consta delle istruzioni basilari per inizializzare le
periferiche ed i bus di comunicazione, quindi per accedere alle unità di memo-
ria di massa ed avviare da esse (bootstrap) il sistema operativo. Quest’ultimo è
un software avanzato che consente il pieno utilizzo delle risorse del computer e
mette a disposizione dell’utente un ambiente operativo dove eseguire i program-
mi di utilità e gli applicativi (ad esempio Microsoft Office, Open Office, Adobe
Photoshop, AutoCAD ecc).
Si può comprendere questa gerarchia dei programmi considerando che le istru-
zioni eseguite dai microprocessori sono in realtà parole binarie la cui funzione è
semplicemente presentare una combinazione logica all’ingresso delle porte
costituenti la ALU, affinché i dati da elaborare (operandi) subiscano una deter-
minata operazione. Le uniche istruzioni direttamente comprensibili da micro-
processori e microcontrollri sono quelle in linguaggio macchina, ossia in formato

112
Struttura dei notebook

binario. Dato che ognuna di queste corrisponde all’esecuzione di un’operazione


elementare, è evidente che per scrivere un programma anche relativamente sem-
plice occorra compilare centinaia di righe e impartire altrettante istruzioni. Per
semplificare la compilazione dei programmi sono nati i linguaggi evoluti, nei
quali un’istruzione è in realtà l’insieme di più istruzioni in linguaggio macchina;
il più semplice di essi è il codice mnemonico. Per far comprendere al micropro-
cessore i comandi mnemonici, come le istruzioni scritte nei linguaggi più evo-
luti, occorre un compilatore, che fa da programma interprete e trasforma le
istruzioni mnemoniche nel gruppo di istruzioni corrispondente; un esempio è
l’assembler (assemblatore del programma).
Il linguaggio mnemonico è una via di mezzo tra un linguaggio evoluto e il lin-
guaggio macchina, dato che è fortemente vincolato alla struttura fisica della
CPU corrispondente. I veri linguaggi evoluti sono i vari Basic; diversamente dal
codice mnemonico, prescindono parzialmente dalla struttura fisica del micro-
processore e sono quindi adatti alla programmazione di svariati tipi di CPU.
Linguaggi ancora più evoluti sono il Cobol, il Fortran e il C, nelle sue varie ver-
sioni, che sono stati però scritti non per usarli con i microprocessori da soli ma
con schede nella cui architettura sono previsti microprocessori e un certo nume-
ro di periferiche di I/O e di memoria; tali linguaggi prescindono quasi comple-
tamente dal tipo di microprocessore ma si applicano abbastanza incondiziona-
tamente a determinate architetture, quali quelle dei Personal Computer. Quindi
gli basta che nel computer sia presente una CPU con determinate caratteristiche
e poi l’interprete fa il resto.
Un’evoluzione ulteriore è rappresentata dai programmi ad oggetti orientati
(Oriented Object) e qomunque dagli avanzatissimi Visual Basic, Visual C e
Delphi, fatti per gestire non la CPU in sè ma un intero computer, nel quale spe-
cifici software gestiscono l’esecuzione da parte del microprocessore.
I sistemi operativi sono scritti in linguaggi comprensibili (mediante interprete)
dai microprocessori; ad esempio, Microsoft Windows era scritto in C; invece i
programmi che girano in Windows, si scrivono con linguaggi che non sono
destinati a comandare il microprocessore, ma che attivano solamente determi-
nate funzionalità del sistema operativo.
I programmi di base, ovvero i BIOS, servono invece a consentire ai sistemi ope-
rativi di usare la CPU del computer; tra le funzioni del BIOS c’è il setup, che è
un pannello di impostazione hardware del computer e di interazione con il siste-
ma operativo.
La memoria contenente il BIOS è tipicamente una EEPROM, oppure una Flash
EPROM, che è più veloce. Se c’è un guasto in tale memoria, il computer non
può avviarsi.

Memorie RAM
Sono le memorie di lavoro del computer, cioè quelle di cui la CPU si serve per
elaborare i dati, ovvero per far transitare quelli da elaborare e immagazzinare
113
Capitolo 7

provvisoriamente i risultati parziali o mantenere informazioni necessarie all’ese-


cuzione di un programma o alla visualizzazione a video. Le RAM si dividono in
due categorie fondamentali: statiche (SRAM) e dinamiche (DRAM). Le prime,
una volta acquisito il dato (dopo che la loro cella fondamentale ha commutato
nello stato imposto) restano come sono; quanto alle RAM dinamiche, necessi-
tano di un refresh, ossia di un continuo aggiornamento dei dati scritti, che altri-
menti si perdono. La cella della RAM statica è basata su un transistor BJT o
MOS a canale N, ma anche su una struttura CMOS (due MOSFET complemen-
tari); invece quella di una RAM dinamica è un condensatore, quindi la parte
gate-canale (substrato) di una struttura N-MOS. Le differenze sostanziali tra le
due stanno nel consumo di corrente, nella complessità circuitale e nella rapidità
di accesso: la memoria a cella statica consuma più corrente perché composta da
più elementi attivi e per leggervi occorre un tempo maggiore di quello richiesto
dalla dinamica; per contro, è meno costosa perché la sua struttura complessiva
è resa più semplice dall’assenza dei circuiti di refresh. Invece la RAM dinamica
ha celle più piccole e richiede meno corrente, visto che un dato si immagazzina
in una struttura che è come un condensatore; però sono nell’insieme più com-
plesse, perché necessitano del circuito di refresh che serve a rinnovare periodi-
camente la carica nelle celle a livello alto (il refresh viene effettuato simultanea-
mente su tutte le celle); l’accesso ai dati è più rapido che nelle RAM dinamiche.
Riguardo all’accesso ai dati, qualsiasi memoria dispone di una serie di bit desti-
nata all’indirizzamento e una che rappresenta il percorso dei dati da scrivere o
leggere: una RAM (ma ciò vale anche per PROM, EEPROM ecc.) ha dunque un
bus (insieme di linee destinate allo stesso scopo) dati e un bus indirizzi; il primo
raggruppa le linee sulle quali viaggiano i dati e per le moderne memorie ha otto
fili, mentre il secondo riunisce le linee usate per definire, in formato binario, di
volta in volta l’indirizzo dove leggere o scrivere. Il bus indirizzi (anche detto
address-bus) conta tante linee quante ne servono a comporre, in formato bina-
rio, il numero di byte della memoria; ad esempio, se una RAM è da 64 kbit con
bus dati ad 8 bit, quindi da 8 kByte, ha 16 linee, perché 2 alla 16 vale 65.536,
ossia 64 kbit. Per accedere alle celle della matrice partendo dal bus indirizzi si
usa un decoder (vedere più avanti in questo stesso capitolo), il quale, per ogni
valore binario impostato ai suoi ingressi (le linee di indirizzo) compone una
combinazione logica che corrisponde a una coppia riga-colonna.
Oltre alle linee per indirizzare la locazione in cui operare e quelle contenenti i
dati da scrivere o sulle quali si ricevono i dati letti, una RAM dispone dei seguen-
ti contatti:
 R/W (Read/Write); serve a comunicare alla memoria se si desidera scrivervi
o leggervi; le linee possono essere due distinte, ma solitamente è una sola e l’o-
perazione da eseguire gli viene comunicata (dal microprocessore o microcon-
trollore) con un livello logico;
 E (Enable) o CE (Chip Enable); abilita al funzionamento il chip e si rivela uti-
le quando si costruisce un banco di memoria con più chip, allorché, avendo tut-

114
Struttura dei notebook

te le RAM lo stesso bus dati e lo stesso address-bus, occorre di volta in volta ac-
cendere quella destinataria dei dati o quella in cui leggere, altrimenti si legge o
scrive simultaneamente in tutte, con le ovvie conseguenze; talvolta viene chia-
mato CS (Chip Select).

Ogni volta che si deve scrivere in una locazione di memoria (una locazione è un
intero byte, quindi otto celle) il dispositivo che usa la RAM imposta sull’address-
bus l’indirizzo della locazione voluta, poi comanda il piedino W/R per ottene-
re l’operazione da compiere, quindi attiva l’Enable; fatto ciò, se deve scrivere
invia i dati sul bus, mentre se deve leggere il contenuto della locazione, attiva il
W/R per compiere l’operazione di Read.
Attualmente si costruiscono RAM organizzate in byte, quindi ogni indirizzo
riguarda un gruppo di otto celle di memoria lette o scritte simultaneamente; le
capacità sono dell’ordine di alcuni MB. Tipicamente le sigle delle memorie si
rifanno alla capienza complessiva, che si intende in celle, ovvero in bit: ad esem-
pio la 62256 è una RAM da 256 kbit, ma, essendo strutturata in byte (8 bit) è
una 16 K x 8 bit, ovvero una 16 kByte.
Le RAM usate nei Personal Computer e quindi nei notebook costruiti da una
quindicina d’anni a questa parte sono le DIMM (Dual In-line Memory Module) e le
SDRAM; questi due termini definivano essenzialmente due formati fisici. A
loro volta, le DIMM si dividevano in:
 FPM (Fast Page Mode); sono state le prime memorie non a chip singolo;
 EDO (Extended Data Output): hanno rappresentato l’evoluzione delle classi-
che RAM e sono ormai in disuso; si tratta di memorie statiche;

Le Fast Page erano RAM dinamiche organizzate ad 8 bit, la cui velocità veniva
definita dai tempi di acceso dei singoli chip, tempi (identificabili leggendo la
cifra a destra del trattino dopo la sigla) che variavano da 60 a 120 nanosecondi;
tipicamente si trattava di chip a 8 bit collegati con il bus dati in parallelo o a 4
bit connessi in serie-parallelo, quali ad esempio i 44C256 (256 kword) o i
44C1000 (1 Mword) con otto chip dei quali si realizzavano DIMM rispettiva-
mente da 1 e 4 Mbyte. I chip venivano usati accatastati a due a due perché erano
organizzati a 4 bit, quindi due facevano un byte; ecco perché 8 da 256 kword
formano 1 Mb, mentre 8 da 1 Mword formano 4 MB.
Le Fast Page erano a 4 bit, mentre le nuove nate EDO venivano costruite con
organizzazione del bus dati a 16 bit; con le Fast Page, un banco completo per
processori a 16 bit (80286 ed 80386sx, caratterizzato, quest’ultimo, da un data-
bus interno a 32 bit ma esterno a 16) si costituiva con 2 stecche, mentre per i
processori con bus dati a 32 bit (80386DX, 80486) un banco richiedeva 4
memorie.
Con le EDO (adottate con l’avvento degli ultimi 80486, nonché dei Pentium,
AMD K-5 e K-6) un banco si formava con due sole stecche.
Tutte le RAM per Personal Computer sono composte da circuiti stampati (stec-

115
Capitolo 7

che) su cui sono montati da 2 a 18 chip di memoria RAM, di tipo ad accesso


parallelo; ogni circuito dispone, su un lato lungo, di contatti dorati o stagnati che
riportano l’alimentazione diretta ai chip, le linee di indirizzo e quelle dei dati,
oltre ai segnali di controllo. Nelle Fast Page c’erano 30 contatti, mentre le EDO,
nate per lavorare con bus a 16 bit, erano a 64 piedini.
Nei notebook, al tempo delle RAM Fast Page le memorie non erano standard e
ogni costruttore ne costruiva di specifiche per i suoi portatili, ragion per cui era
impensabile scambiarle tra PC di marche diverse, ma anche della stessa Casa.
Con l’avvento delle EDO, nel mondo dei notebook si è tentata una prima stan-
dardizzazione, realizzando il formato a 64 contatti.
Alle EDO sono seguite le seguenti memorie, anch’esse organizzate in stecche:
 SDRAM: sono le RAM dinamiche utilizzate fino a pochi anni fa nei PC (se-
rie fino al Pentium IV di prima generazione ed all’AMD Athlon XP);
 DDR (o DDRAM); si tratta di SDRAM in cui il tempo d’accesso è dimezza-
to, grazie al fatto che il ciclo di lettura avviene a una velocità doppia rispetto al-
le SDRAM;
 RIMM (o RAM-Bus); sono RAM riservate ad alcuni server, oggi in disuso e
comunque non impiegate nei notebook.

Tutti questi tipi “moderni” sono caratterizzati, oltre che dalla capacità, dalla
velocità non più di accesso (come avveniva per Fast Page ed EDO) ma del bus
del computer con cui possono funzionare. Inoltre montano nel circuito stampa-
to una EEPROM dove sono memorizzati dati necessari al computer per identi-
ficarle correttamente. Inoltre, si tratta di memorie già a 32 bit, quindi per CPU
quali Intel Pentium, Pentium II, Pentium III e Pentium IV, nonché Cyrix/IBM
6x86, AMD Athlon, Duron, Athlon XP, Sempron, Athlon 64 ecc., per formare
un banco di memoria basta una sola di esse.
Le SDRAM hanno 168 contatti (84 per ciascuna faccia dello stampato che le
realizza) e velocità di 66, 100 e 133 MHz, utilizzabili con processori aventi il bus
a 66, 100 o 133 MHz; la velocità delle RAM può anche essere sottomultipla di
quella del bus del processore, così è stato possibile usare SDRAM da 100 MHz
con CPU dal bus a 200 MHz o da 133 MHz con CPU da 266 MHz, come ad
esempio i Pentium IV dall’1,4 al 2 GHz. Delle SDRAM sono state realizzate due
versioni distinte dalla tensione di alimentazione: a 5 e a 3,3 V; per evitare di mon-

Figura 7.5 - A sinistra una RAM di tipo DDR per computer fissi: è del tipo a singola faccia,
quattro chip senza parità. A destra una DDR per portatili.

116
Struttura dei notebook

tare una al posto dell’altra (usare SDRAM da 3,3 V in un circuito a 5 V ne pro-


voca il danneggiamento...) le due hanno la tacca di riferimento sul circuito stam-
pato posizionata diversamente.
Quanto alle DDR, in realtà sono memorie come le SDRAM, però organizzate
e gestite in modo da poter essere lette contemporaneamente sui due lati, il che
raddoppia la velocità di accesso ai dati; questo vuol dire che usando chip a 133
MHz, in realtà la velocità è di 266 MHz. Le DDR contano 184 contatti, egual-
mente divisi sulle due facce dello stampato (92 per lato).
Le DDR sono state sviluppate per velocità di lavoro di 266, 333 e 400 MHz; esi-
stono oggi varianti veloci chiamate DDR2 e DDR3, capaci di lavorare con
microprocessori il cui bas è a 533, 566, 667, 800 MHz e addirittura oltre 1 GHz.
Le DDR2 e 3 non sono compatibili con le DDR comuni, in quanto cambiano
anche le tensioni di lavoro; per evitare che si possa montare le une al posto delle
altre, la tacca di riferimento è posizionata diversamente.
Quanto alle RIMM, funzionano solo con bus loro dedicati e si riconoscono per-
ché hanno la tacca di riferimento al centro; hanno velocità di lavoro molto ele-
vate, che vanno da 400 MHz in su.
In tutti i PC, la RAM viene gestita da un chip dedicato (DMA) che fa da media-
tore fra la CPU e le memorie; ormai da tempo, esso è integrato nel chipset.
La scelta delle RAM da montare in un Personal Computer come memoria ini-
ziale o per un upgrade, deve rispettare alcuni parametri: innanzitutto le memo-
rie devono essere dello stesso tipo e della stessa velocità (o tempo d’accesso);
inoltre, quando per formare un banco occorrono più stecche, le RAM usate
devono essere identiche, altrimenti possono esserci problemi tipo il rallenta-
mento o il blocco delle operazioni del computer.
Nei PC fissi, il gestore della RAM può supportare particolari configurazioni
della memoria come il Dual Channel: questo è riservato alle DDR e consente di
usare le DDR a due a due per incrementare le prestazioni in fatto di velocità di
elaborazione; la configurazione Dual-Channel esige che le memorie di ciascun
banco siano uguali tra loro. Per indicare al tecnico dove montare le memorie
uguali, gli zoccoli hanno tipicamente colori diversi, posizioni sfalsate o segni di
riferimento.
Le RAM, dalle vecchie Fast Page alle DDR odierne, possono essere di tipo a
singola e doppia faccia, intendendo con ciò che possono avere i chip disposti su
un lato solo o su entrambi; nella scelta occorre verificare che il computer dove
si intende montarle supporti la lettura della RAM desiderata, perché non tutti i
PC leggono correttamente le memorie a doppia faccia: alcuni leggono metà del-
l’effettiva capacità (una sola faccia) ed altri si bloccano del tutto o lavorano più
lentamente).

Parità delle RAM


Per verificare la corretta scrittura dei dati nelle memorie, vista la loro comples-
sità e la possibilità che qualche cella funzioni male, è stato previsto il cosiddet-
117
Capitolo 7

Figura 7.6 - Schema a bloc-


chi di EEPROM o EPROM:
gli indirizzi sono 20, ossia
quanti ne servono per indi-
rizzare una memoria da 1
Mbit.

to “controllo di parità”; in altre parole, il gestore di memoria quando scrive una


word o un byte effettua la somma binaria dei singoli bit e poi memorizza in una
cella per ogni word o byte un bit di parità. Questo bit vale 0 se la somma della
word o del byte è pari (parità pari) ovvero 1 se la predetta somma è dispari
(parità dispari). Quando i dati vengono letti, il gestore di memoria va a leggere
ogni word o byte, fa la somma e confronta il risultato con il bit di parità corri-
spondente: se il valore è coerente va tutto bene, mentre in caso di incoerenza
(somma pari ma parità dispari) avverte la CPU e il computer segnala errore di
parità. Tale controllo viene usualmente effettuato durante il Memory Test, una
procedura avviata dal programma di base della scheda madre (il BIOS) all’avvio;
l’errore di parità blocca l’esecuzione delle ulteriori istruzioni e impedisce l’avvio
del sistema operativo.
Orbene, tutto questo discorso è propedeutico al fatto che il controllo di parità
può essere effettuato nelle stecche di memoria o da un chip nella scheda madre,
usualmente contenuto nel chipset; nel primo caso il controllo è più rapido (per-
ché ogni stecca lo esegue individualmente e comunica il responso al gestore di
memoria) tuttavia richiede un chip di memoria in più. Invece se il controllo
viene eseguito su scheda madre il chip in più è su quest’ultima.
Dunque, le stecche di RAM con controllo di parità hanno 9 o 18 chip (rispetti-
vamente per le configurazioni a 8 chip a singola faccia o 16 a doppia faccia)
ovvero 3 o 6 (se sono a due o 4 chip, rispettivamente singola e doppia faccia).
Le stecche con 2, 4, 8 o 16 chip sono invece senza parità e adatte a mainboard
capaci di effettuare da sè il controllo di parità.
Il chip di memoria in più serve per memorizzare i bit di parità di tutte le word
o dei byte degli altri.

Bus di interfaccia
La CPU del computer non gestisce direttamente le periferiche, ma si interfaccia
con esse mediante un bus, ossia un insieme di collegamenti che servono a invia-
re dati ed a riceverli a e da svariate periferiche come la scheda audio, quella video
ecc. Scopo del bus è, dunque, unificare le linee di comunicazione della CPU e di

118
Struttura dei notebook

tutte le unità che con essa devono dialogare, unità che sono i dischi rigidi, la
scheda video e quella audio, le porte di comunicazione e il dispositivo di punta-
mento e, nei portatili, le card PCMCIA o CardBus.
Il primo bus usato nei Personal Computer è stato l’ISA (ad 8 o 16 bit) quindi ad
esso è seguito il VESA Local Bus, implementato però solo per accelerare il flus-
so dati riguardante la scheda video e, successivamente, i dischi rigidi; infatti, già
con l’avvento dei processori i486 si avvertì il limite dell’ISA, che formava un
“collo di bottiglia” che strozzava il flusso dati da e verso la CPU, certamente più
veloce di quanto il bus permettesse.
Ma il VESA non era che una semplice estensione dell’ISA e si aggiungeva ad
esso; venne perciò introdotto il PCI, peraltro usato anche nei notebook fino al
Pentium 233 MMX o all’AMD K6-2.
Il PCI è un bus completamente diverso, a 32 bit e quindi capace di far transita-
re una maggiore mole di dati nell’unità di tempo, grazie alla sua velocità che
poteva raggiungere i 66 MHz (contro i 33 del VESA).
Ma tra gli intenti dei produttori e in special modo di Microsoft, dominatrice del
settore dei sistemi operativi, c’era quello di trasformare il PC da sostituto della
macchina da scrivere a vero e proprio computer multimediale; infatti da un lato
erano sempre più quelli che acquistavano un PC per giocarci e dall’altro c’era la
ricerca da parte dei professionisti del settore grafico di trovare un’alternativa i
costosi Mac, comunque migliori dei PC soprattutto nel sistema operativo.
Serviva quindi accelerare i flussi dati di audio e video, ma soprattutto questi ulti-
mi; per questo intorno al 1997 è stato introdotto l’AGP, un bus riservato alla
scheda video, che ha preso piede anche nei notebook già da oltre una decina
d’anni. L’AGP è stato realizzato in varie versioni: inizialmente a singola velocità
e poi più accelerato, con coefficiente di accelerazione di 2x, 4x, 8x, 16x.
Nelle mainboard dei computer fissi c’era un unico slot AGP, che utilizzava l’in-
terrupt riservato alla scheda video sul primo slot PCI, ragion per cui non era
normalmente possibile collegare due schede video a meno di non spostare la
PCI in uno slot diverso dal primo. La particolarità innovativa dell’AGP rispetto
al PCI è che si affaccia direttamente sul bus dati del processore e non passa da
altri chip.
L’ultimo bus in ordine di tempo è il PCI Express, che sostanzialmente è una rie-
dizione dell’AGP, solo un po’ velocizzata; anche il PCI Express esiste in diver-
se velocità, fino al 16x.

Chipset
Sotto questo termine passano dei circuiti integrati multifunzione che sostanzial-
mente governano l’attività del computer, costituiscono e raggruppano la quasi
totalità della logica e che si sono evoluti nel tempo in quanto ogni set veniva
progettato per una specifica CPU. Fino a qualche anno fa era prassi comune
dotare le mainboard dei computer sia fissi che portatili di un set di almeno due
chip, detti Northbridge e Southbridge; il primo (conosciuto anche come Memory
119
Capitolo 7

Controller Hub o MCH) si interfaccia direttamente con il bus della CPU e il bus
AGP o PCI Express, ovvero con gli slot di espansione e le periferiche audio e
di memoria di massa, oltre che la memoria. Il Southbridge si occupa invece delle
periferiche di comunicazione e di altre interfacce per le quali è richiesta una
minor velocità del flusso di interscambio dei dati: ad esempio bus ISA e PCI. La
funzione di Northbridge e Southbridge si comprende immaginando il compu-
ter strutturato come mostra la Figura 7.7: in pratica il Nortbridge dialoga diret-
tamente con il processore, mentre il Southbridge si interfaccia con le periferiche.
Nelle architetture con Northbridge e Southbridge distinti, il Northbridge con-
nette la CPU alla RAM, al bus PCI, alla cache di 2° livello e al bus video (AGP,
PCI Express ecc). Comunica con la CPU tramite il Front Side Bus (FSB) e con il
Southbridge. Alcuni Northbridge contengono anche un controller video inte-
grato, che è conosciuto anche come Graphic and Memory Controller HUB
(GMCH): esempi sono i chipset Intel 945, 965, 845, ma anche diversi Nvidia.
I chipset non sono generici, ma specifici per ogni famiglia di processori e di
RAM; ad esempio, il Northbridge NVIDIA nForce2 può lavorare solo con CPU
Duron, Athlon e Athlon XP combinate con RAM di tipo DDR. Invece i chipset
Intel i865 lavorano solo in mainboard basati su processori Pentium 4, che hanno
una velocità di clock superiore a 1,3 GHz, e che utilizzano RAM di tipo DDR.
Dunque, da Northbridge usato si capisce tipo, numero e velocità delle CPU, ma
anche quantità e velocità della RAM che si possono montare su una mainboard.
Nella famiglia di processori AMD a 64 bit (Athlon 64) il memory controller che
mette in comunicazione la CPU e le RAM è integrato nel processore; sempre
per le CPU AMD a 64 bit, si usa un singolo chipset NVIDIA (nForce3) che
integra il Southbridge con una porta AGP connessa direttamente alla CPU.
L’evoluzione di tale chipset unico è l’nForce4, chiamato anche MCP (Media
Communications Processor). Il Northbridge gioca un ruolo importante nello
stabilire il clock della CPU, dato che la sua frequenza di lavoro è quella del bus
(FSB) del processore; ciò significa che non è possibile impostare per la CPU un
clock di base diverso da quello del bus che unisce il Northbridge ad essa.
Dato che oggi le frequenze operative dei bus sono molto elevate, anche il chi-
pset Northbridge scalda molto, quindi è normale vedere all’interno di un PC un

Tabella 7.1
Caratteristiche dei bus
impiegati nei Personal
Computer dalla loro
nascita.

120
Struttura dei notebook

Figura 7.7 - Schema a blocchi del


PC con evidenziati Northbridge e
Southbridge; il rettangolo centrale
è l'insieme del chipset, che in que-
sto caso è un Intel 815.

radiatore di calore montato su di esso; per la famiglia Intel, ciò accade già dalla
serie i815. Nei notebook si monta il dissipatore o, per i chipset più veloci (dal-
l’i865 in poi) al dissipatore si associa la ventola di raffreddamento; solitamente,
per evitare di montare troppe ventole si uniscono CPU e Northbridge con un
solo dissipatore, che viene poi raffreddato mediante una ventola.
I chipset Northbridge più usati negli ultimi anni sono, per i processori Intel e il
bus AGP, l’i815, l’i845 e l’i865; i primi due supportano bus del processore (FSB,
ovvero Front Side Bus) con velocità fino a 400 MHz ed il terzo si spinge fino
ad 800 MHz. Northbridge per AGP sono, invece, sempre per CPU Intel, i915,
i945 e i965, capaci di supportare FSB anche maggiori di 1 GHz.
L’i845 è stato il primo a supportare le RAM di tipo DDR e aveva un FSB di 266
MHz e un AGP fino a 4x; ad esso hanno fatto seguito l’i850 e l’i865 (conosciu-
to anche con il nome Springdale) che è stato realizzato per i Pentium 4
Northwood e i successivi Prescott su socket 478 che si spingevano fino a 3 GHz
di clock. Parallelamente all’i865, Intel presentò anche l’i875 (Canterwood) che
offriva prestazioni leggermente superiori grazie alla minore latenza di accesso
alla memoria RAM e ai bus di sistema. L’i865 supportava il Dual Channel (fino
a 4 GB) con DDR-333 o DDR-400 e il bus Quad Pumped per FSB a 533 e 800
MHz; inoltre l’AGP si spingeva ad 8x. Grazie all’introduzione del Southbridge
ICH5, consentiva la gestione di 8 porte USB 2.0 e dell’interfaccia per hard-disk
S-ATA (150 Mbps). La comunicazione tra Northbridge e Southbridge avveniva
su bus a 266 MB/s. L’i865 ha avuto due varianti, che sono state il chipset i848,
destinato a mainboard economiche, privo del supporto Dual Channel, e l’i875
(versione migliorata).
Quanto al chipset Southbridge, è un chip che implementa le capacità più “lente”
di una scheda madre; è legato alla CPU tramite il Northbridge e le sue funzio-
nalità includono la gestione di:
 Bus PCI;

121
Capitolo 7

 Bus ISA (ancora integrato nei moderni Southbridge anche se nei PC non è
più utilizzato);
 Bus SPI o I²C (anche detti SM); viene usato per comunicare con altre perife-
riche della scheda madre quali ad esempio il gestore della temperatura e delle
ventole di raffreddamento;
 Controller DMA (permette alle periferiche sotto al Southbridge di accedere
direttamente alla memoria principale senza ricorrere alla CPU);
 Gestore di interrupt; permette alle periferiche collegate di fermare l’esecuzio-
ne dei programmi della CPU;
 Controller IDE, S-ATA o P-ATA; consentono una connessione diretta delle
periferiche di archiviazione al sistema;
 LPC Bridge; fornisce il data e il control path per il Super I/O (SIO);
 Real Time Clock; è l’orologio di sistema e mantiene l’ora grazie ad una bat-
teria tampone, ovvero la scrive in una EEPROM e lì costantemente aggiornata;
 Gestione dell’alimentazione elettrica (APM e ACPI); crea i segnali per mette-
re il computer in stand-by (nei notebook spegne la retroilluminazione dello
schermo) o spegnersi per risparmiare energia, sia dietro richiesta software, sia
quando l’utente interviene sugli appositi tasti;
 CMOS - Aiutato dalla batteria tampone, crea un’area limitata di memoria non
volatile per le configurazioni di sistema (BIOS).

Inoltre il Southbridge include anche il supporto per Ethernet, RAID, USB,


codec audio e Firewire. Può anche includere, anche se raramente, il supporto per
tastiere, mouse e porte seriali, ma
normalmente queste periferiche
sono connesse tramite un’altra peri-
ferica chiamata Super I/O.
Il Southbridge si occupa della
gestione dell’alimentatore principa-
le e dell’accensione e spegnimento
del notebook; infatti fornisce all’ali-
mentatore caricabatteria il segnale
di Power Good e può anche occu-
parsi della lettura della temperatura
della CPU e dell’azionamento delle
ventole di raffreddamento. Per que-

Figura 8.8 - Chipset Intel 815: schema


funzionale.

122
Struttura dei notebook

sta ragione, una saldatura fredda o un guasto del chipset integrato o del
Southbridge (nei PC con Northbridge distinto dal Southbridge) può impedire
l’accensione del portatile.
Le funzioni di governo dell’alimentazione includono il controllo dell’alimenta-
tore principale e degli alimentatori delle singole sezioni, allo scopo di spegnere
quelli non necessari quando il computer dev’essere messo in standby o in iber-
nazione (in questo caso funzionano solo le alimentazioni delle DDR e del pro-
cessore, oltre all’alimentatore caricabatteria); nei notebook provvedono inoltre
a controllare il segnale di enable o di clock dell’inverter o altro circuito che
comanda la retroilluminazione e a far disattivare nella scheda video i segnali di
sincronismo, in modo da far spegnere il monitor.
Il chipset comunica con l’alimentatore principale/caricabatteria mediante bus di
tipo seriale, come SPI, I²C ed SMBus; tutti e tre permettono il collegamento con
vari tipi di periferica e constano di almeno una linea su cui transitano i dati ed
un clock. In questi bus il chipset è l’unità Master della comunicazione (che avvia
le sessioni di scambio dati) e l’alimentatore o altro dispositivo è lo Slave. Il bus
SPI esiste in versione a due e quattro fili: nella prima si ha una linea dati bidire-
zionale ed un clock, mentre nella seconda le linee dati sono due unidirezionali,
una diretta dal Master allo Slave e l’altra diretta viceversa; l’SPI consente la
gestione di più periferiche.
Quanto all’I²C-Bus, consta di una linea dati (SCL) ed un clock (SCK) e può col-
legare fino a 256 unità Slave al Master, che nel caso del computer è il chipset;
ciascuna periferica permette di impostare (via hardware mediante pin o firmwa-
re) l’indirizzo sul bus. L’indirizzo permette al Master di inviare selettivamente
comandi alle varie Slave. L’SMBus (o SMB, cioè System Management Bus) è una
variante dell’I²C sviluppata dalla Intel specificatamente per il dialogo fra chipset
e periferiche come alimentatori DC/DC, sensori di temperatura e di apertura
del coperchio.

Periferiche di I/O
Sotto questa voce passano le interfacce di comunicazione del computer, che
sono normalmente la seriale, la parallela, la USB; a queste si aggiungono in alcu-
ni casi i lettori di memorie Flash (SD e Compact Flash) oltre al Firewire (anche
noto come IEEE1394 o i-Link). Nella gran parte dei computer portatili è anche
presente il lettore PCMCIA.
La porta seriale, che insieme alla parallela è la più antica interfaccia di comuni-
cazione adottata dai Personal Computer: consta di un dispositivo in grado di
trasformare i dati paralleli in arrivo dal bus dati, in seriali, chiamato USART
(Universal Serial Asynchronous Receiver/Transmitter) o anche UART
(Universal Asynchronous Receiver/Transmitter) interfacciato con un traslatore
dei livelli di tensione conforme allo standard RS232-C; il traslatore converte i
dati in formato TTL (0/5 V) in livelli –12/+12 V. Tale aumento di tensione per-
mette di collegare periferiche come stampanti a distanze anche superiori ai 20
123
Capitolo 7

metri, senza che la comunicazione risenta di particolari disturbi. L’interfaccia


seriale dispone di due linee: una per la trasmissione (TXD) ed una per ricevere
(RXD); il converter TTL/RS232 trasforma i livelli 0/5 V uscenti dall’UART in
–12/+12 V, mentre gli impulsi ricevuti sull’RXD, che sono del tipo –12/+12 V,
li converte in 0/5 V. L’UART è la periferica che si occupa di temporizzare ed
ordinare i dati seriali, per fare in modo che il dispositivo cui sono diretti sia in
grado di ricostruire i byte riordinando i singoli bit che esso in trasmissione ha
messo in fila uno ad uno. In ricezione, ridispone in forma parallela i bit ricevu-
ti serialmente.
Gli UART utilizzati nei PC sono tipicamente degli Intel 16550 e consentono
velocità massime di comunicazione dell’ordine di 115.200 bps (bit per secondo).
La seriale è nata, nei Personal Computer, per comandare stampanti, dialogare
con i terminali e comunicare tramite modem; oggi è stata soppiantata dall’USB.
Quanto alla parallela, è una porta che, come dice la parola, fa viaggiare i dati in
forma parallela: del bus dati del processore riporta soltanto otto bit, in quanto
quando è nata le CPU erano a soli 8 bit. Se un tempo era affacciata direttamen-
te al bus della CPU, oggi è interfacciata mediante il chipset Southbridge. La peri-
ferica consta di un chip di controllo che provvede ad alcuni segnali di temporiz-
zazione per il trasferimento dei dati in entrata e in uscita; tra questi c’è lo stro-
be, fondamentale per informare il dispositivo cui i dati vengono inviati che deve
caricare un byte.
Le prime parallele (dette anche Centronics perché conformi allo standard omo-
nimo) erano unidirezionali, ovvero usate solo per inviare dati all’esterno allo
scopo di comandare, ad esempio, stampanti; poi sono nate le attuali parallele,
che sono bidirezionali, nel senso che possono sia trasmettere, sia ricevere. La
parallela è più veloce e semplice della seriale e perciò è stata preferita ad essa nel
controllo delle stampanti, almeno fino all’avvento dell’USB; la maggior velocità
nasce dal fatto che i dati viaggiano paralleli e non un bit per volta in fila, quindi
nel tempo di trasferimento di un bit in formato seriale si può trasferire un inte-
ro byte in forma parallela. Oggi anche questa porta è in disuso e, analogamente
alla seriale, difficilmente viene montata nei portatili.
L’USB (acronimo di Universal Serial Bus) è un’interfaccia universale che, diver-
samente dalle due descritte, viene impiegata in una gran quantità di dispositivi;
si tratta di una periferica seriale molto particolare, perché funziona come un bus
composto da due linee dati (D+ e D-) e da altrettante di alimentazione (+ e -)
che trasportano una tensione di 5 volt. L’USB è un bus differenziale bidirezio-
nale e permette il collegamento simultaneo di più periferiche esterne, fino ad un
massimo di 127 dispositivi (il 128° è il controller USB integrato nel computer);
oltre a trasferire i dati in trasmissione e ricezione, consente di alimentare le peri-
feriche collegategli, fornendo un massimo di 500 milliampere di corrente.
Nella sua prima versione il bus consentiva velocità di comunicazione dell’ordi-
ne di poche decine di Mbit/s; nella 1.1 la velocità salì a 60 Mbit/s e nella 2.0 si
portò ad 8 volte tanto, ossia 480 Mbps. L’attuale versione 3.0 raggiunge la rag-

124
Struttura dei notebook

guardevole velocità di 4,8 Gbps e permette di alimentare periferiche esterne con


un massimo di 900 milliampere; va però detto che sono pochissimi i notebook
ad averla a bordo.
L’USB permette di gestire una gran varietà di periferiche tra le quali pen-drive,
modem per linea commutata e ADSL o ISDN, modem cellulari GPRS e
UMTS/HSDPA, unità HD, CD, DVD esterne, lettori di Card, strumentazione
da laboratorio, schede audio o video esterne ecc.
Il Firewire è invece un’interfaccia, sempre a bus come l’USB, ma nata pretta-
mente per trasferire le grandi quantità di dati proprie dei formati video e inizial-
mente adottata dai computer Macintosh per scaricare i filmati dalle videocame-
re digitali o da altri computer; nella sua prima versione consentiva un transfer-
rate di 400 Mbps e nella versione 2 è arrivata a 800 Mbps; inoltre può anche for-
nire corrente alle periferiche collegategli, per un massimo di 2,5 A. L’avvento
della USB 3.0 probabilmente farà lentamente scomparire tale periferica di
comunicazione. Della Firewire esiste una variante, sviluppata dalla Sony e chia-
mata i-Link: differisce perché non può alimentare le periferiche, ma dispone
solo della linea dati.

Controller dischi
Si tratta di un gestore in grado di interfacciare il chipset con le unità a disco rigi-
do, ottiche o con i lettori di floppy-disk; nei computer portatili costruiti fino a
circa cinque anni fa era di tipo IDE e aveva come collegamento al disco un con-
nettore a 40 contatti disposti su due file a passo 2,54 mm per i PC fissi e 2 mm
per quelli portatili. Nato dall’EDI (Enhanced Disk Interface) sviluppato oltre
vent’anni fa, l’IDE è stato il controller per dischi rigidi e ottici più longevo e di
esso sono state sviluppate numerose varianti, note come Ultra-ATA (o Ultra-
DMA) 33, 66, 100, 133 (capaci di transfer-rate rispettivamente di 33, 66, 100 e
133 MHz) mirate ad accelerare la velocità di acceso ai dati in lettura e scrittura.
Con l’avvento del Serial Ata (S-ATA) è divenuto uso comune chiamare P-ATA
i dischi IDE, intendendo con ciò che si tratta di dischi ad interfaccia parallela.
I controller IDE hanno un numero massimo di bit di indirizzo pari a 10, il che
permette di indirizzare 1.024 blocchi di memoria; quando la capacità dei dischi

Figura 7.9 - Connettori Firewire


(a sinistra) ed USB (a destra
l’USB 3.0).

125
Capitolo 7

rigidi superò i 512 MB si pose il problema di indirizzare dischi di dimensioni


maggiori ed il problema fu risolto traslando la geometria del disco. Tale opera-
zione consentiva in pratica di alterare l’architettura del disco, ossia simulare un
diverso numero di testine e cilindri in modo da mantenere inalterato il numero
di blocchi; l’operazione veniva realizzata dal controller IDE a bordo della sche-
da madre e i BIOS che lo prevedevano venivano chiamati LBA (Large Block
Address) proprio perché permettevano di gestire blocchi di dati più grandi.
Il controller per i lettori di dischi floppy, oggi praticamente scomparsi dai note-
book perché i sistemi operativi possono essere caricati mediante dischi in grado
di effettuare il boot dalle unità CD e DVD, sono strutturalmente simili a quelli
IDE, solo che hanno un’interfaccia con meno contatti (tipicamente 34).
Attualmente la stragrande maggioranza dei notebook monta controller S-ATA
per i dischi rigidi e IDE per le unità ottiche; il controller S-ATA è sostanzialmen-
te un’interfaccia periferica completa di segnali di controllo per i dischi rigidi.
Malgrado sia seriale, è capace di raggiungere velocità di comunicazione molto
elevate, anche superiori ai 200 Mbps.
Oltre a questi controller c’è lo SCSI (Small Computer System Interface) usato molto
raramente nei notebook e più nei PC fissi e nei server; si tratta di un bus capa-
ce di maggiori velocità di trasferimento dei dati, in virtù della maggior ampiez-
za del data-bus e degli indirizzi, che permette, a parità di velocità dei dati, di
aumentare la mole di informazioni in scrittura e lettura. I più recenti controller
SCSI Ultra permettono di raggiungere velocità superiori ai 320 Mbps.

Adattatore video
Anche noto come scheda video o scheda grafica, è un elemento del computer
che negli anni ha subìto una forte evoluzione; nato con i primi PC di 25 anni fa,
succedette all’interfaccia video di solo testo ed alla Hercules, che in un certo
senso è stata la prima scheda grafica, seppure con i suoi grossi limiti. La prima
scheda video che potesse definirsi tale era sostanzialmente una periferica inter-
na al computer, in grado di trasformare i dati della CPU in informazioni di colo-
re o di sfumature di grigio da inviare sincronizzate con due segnali di sincroni-
smo (verticale e orizzontale) in modo da costruire le immagini e i testi sullo
schermo compiendo un percorso ordinato per righe, dal primo punto in alto a
sinistra dello schermo a quello in basso a destra. Questo tipo di secheda video,
che nella versione a colori veniva chiamata CGA, era digitale e si limitava ad
inviare al monitor informazioni binarie sulla composizione del colore o sulla
scala di grigio di ogni singolo punto (pixel) dello schermo; ogni punto veniva
composto con un massimo di 4 bit, il che consentiva 16 colori o gradazioni di
grigio. La risoluzione, intesa come il numero di punti componenti ogni immagi-
ne, era bassissima: si parlava di 320x200 pixel o meno.
La connessione di questo tipo di scheda era costituita da un connettore a
vaschetta D-SUB femmina a 9 contatti, quattro dei quali erano i dati, due i sin-
cronismi ed uno la massa di riferimento.
126
Struttura dei notebook

Nacque poi la scheda video analogica, contenente un D/A Converter (conver-


titore digitale/analogico) in grado di trasformare in segnale video analogico i
dati digitali inviati dal data-bus della CPU; questa scheda grafica era la EGA,
evolutasi nella VGA, con tutte le sue varianti. Diversamente dalla prima, il
segnale che produce è simile a quello della televisione, anche se le frequenze in
gioco sono diverse. La connessione delle schede EGA era costituita dal solito
connettore a 9 poli, usato anche nelle prime VGA; comunque le VGA e supe-
riori (Super VGA, XGA ecc.) fu presto standardizzata in un connettore a
vaschetta D-SUB a 15 poli su 3 file.
La risoluzione permessa dalla CGA era sempre 320x200 pixel, mentre quella
della EGA e della VGA salì a 640x480 punti; seguirono la Super VGA (evolu-
zione della VGA) capace di 800x600 pixel e la XGA, da 1.024x768 pixel.
Le più prestanti schede video VGA sono state dotate di DSP (Digital Signal
Processor) che è un chip specifico per l’elaborazione di segnali in grado di garan-
tire elevate prestazioni in fatto di definizione (o profondità) del colore ad eleva-
te velocità di lavoro, come quelle richieste per comporre un numero sempre più
elevato di punti sullo schermo; comporre ogni schermata con un numero più
alto di punti consente di aumentare la definizione dell’immagine, dato che più
piccoli sono i punti da cui è composta, meno è facile per il nostro occhio per-
cepirne la trama. La definizione del colore è invece importante per comporre il
maggior numero di tonalità cromatiche possibili.
L’uso dei DSP ha permesso di arrivare a risoluzioni video di 1900x1.600 punti
e definizioni del colore di 16,8 milioni di colori.
Finché l’adattatore video era digitale e dalle prestazioni limitate, i dati per
costruire le schermate potevano essere inviati in tempo reale o con lieve ritardo
dalla CPU; man-mano che le prestazioni in fatto di risoluzione e profondità di
colore aumentavano, diventava impossibile per la CPU e per i chip contenenti il
bus video trasferire la mole di dati richiesta. Pertanto, oltre a realizzare bus sem-
pre più veloci (VESA, PCI, AGP, PCI-Express) i costruttori pensarono di dota-
re l’adattatore video di una propria memoria dove stivare i blocchi di dati desti-
nati all’aggiornamento delle immagini sullo schermo del monitor.
Questa memoria poteva essere a bordo della scheda video o, per le mainboard
con scheda video integrata (è il caso della gran parte dei PC notebook) parte
della stessa RAM del processore, che veniva condivisa per il video; in pratica
una porzione della RAM (a volte fissa ed altre definibile tramite il setup del
BIOS) si può destinare al refresh delle immagini della scheda video, ovvero
usare per la CPU quando la scheda video non richiede molta memoria.
Questo tipo di memoria video prende il nome di Shared Memory, ovvero memo-
ria condivisa; l’uso di parte della RAM per la scheda video, chiaramente riduce
l’ammontare disponibile per le applicazioni, quindi un PC con adattatore video
avente una propria memoria è più veloce di uno la cui scheda video si basa sulla
Shared Memory. Inoltre una scheda video, per quanto buona, se usa la Shared
Memory è più lenta di una con propria memoria, perché tipicamente i chip della

127
Capitolo 7

memoria video sono molto più veloci (ossia hanno minori tempi d’accesso) di
quelli usati nelle stecche di RAM.
I notebook di migliore qualità montano schede video separate innestate in appo-
siti connettori, dotate di chip di memoria video riservati; a volte la scheda video
è sulla stessa mainboard, però dispone di propria memoria video, mentre nei
notebook economici la memoria video è una shared ed è parte della RAM.

DVI
Le varie EGA, VGA ecc. hanno bisogno di un D/A Converter perché i moni-
tor a tubo catodico, usati fino a pochissimi anni fa dovevano essere pilotati con
segnali analogici; con l’avvento dei monitor a cristalli liquidi, che si comandano
mediante dati digitali contenenti posizione dei pixel sullo schermo, luminosità e
tinta cromatica di ciascuno, il converter non serve più. Pertanto, dopo i primi
anni di transizione dal monitor CRT (analogico) a quello LCD (digitale) in cui
le schede video convertivano i dati digitali in segnali analogici, si è passati a sche-
de video che in un certo senso funzionano come le prime CGA: mandano al
monitor dati numerici, che questo interpreta per posizionare correttamente sullo
schermo i punti componenti le immagini da mostrare.
Ciò con gli LCD è la miglior soluzione, in quanto altrimenti si passa da una
prima conversione digitale/analogico nella scheda video ed una seconda analo-
gico/digitale nel monitor, il che complica scheda video ed elettronica del moni-
tor, senza contare che degrada la qualità dell’immagine; infatti, la prima conver-
sione (nell’adattatore video) soffre di una certa approssimazione e la seconda
(nel monitor) pure.
Pilotare l’LCD con un segnale digitale permette, oltre al miglioramento della
qualità dell’immagine, un abbassamento dei costi dei computer e dei monitor,
una riduzione dei consumi elettrici (dovuta alla minor quantità di elettronica
richiesta) e la possibilità di trasportare il segnale video con cavi di qualità mino-
re di quelli richiesti dai monitor analogici, più sensibili ai disturbi e allo sdoppia-
mento delle immagini causato da un cattivo adattamento di impedenza tra cavo,
scheda video e ingresso del monitor.
Nei notebook, la soluzione interamente digitale è stata benvenuta in quanto ha
permesso la riduzione anche delle dimensioni, grazie al fatto che sono richiesti
meno chip.
Dato che i portatili hanno praticamente sempre avuto display a cristalli liquidi,
certamente a qualcuno viene da chiedersi perché fino a pochi anni fa in essi
veniva impiegata una tradizionale scheda video analogica; ebbene, ciò venne

Figura 7.10 - Connessioni per


scheda video con DVI, VGA e S-
VHS.

128
Struttura dei notebook

Figura 7.11 - Sezione di una mainboard di


un notebook comprendente la scheda
sonora: il chip audio utilizzato in questo
caso è l’AD1886 della Analog Devices,
evidenziato dalla freccia gialla.

fatto per poter disporre di un’uscita VGA per un monitor esterno convenzio-
nale, con cui doveva essere mantenuta la compatibilità. Infatti gli adattatori
video dei notebook dispongono di uno switch pluricanale allo stato solido
(CMOS) integrato o posto a parte sulla scheda madre, che permette di portare
i segnali video analogici al connettore VGA, mentre i dati digitali raggiungono
direttamente il controller montato sull’LCD. Lo switch viene comandato da una
combinazione di tasti (Fn più qualcos’altro...) che interviene sul chipset.
L’adattatore video senza convertitore D/A, ovvero con uscita digitale, viene
chiamato DVI (Digital Video Interface) ed ha un connettore come quello mostra-
to nell’apposita Figura 7.10.
Esistono due tipi di connessione DVI: quella più completa, detta DVI AD, tra-
sporta sia il segnale digitale, sia quello analogico e implica che la scheda video
sia insieme una VGA ed una DVI; c’è poi la connessione DVI-D, che è la DVI
pura. Nel connettore DVI, i quattro contatti dal lato della lamella sono quelli
che trasportano il segnale digitale, mentre quelli dal lato opposto portano i
segnali analogici, nel caso delle DVI AD. Va notato che esistono anche schede
video VGA dotate del solo connettore DVI: in questo caso la connessione è
usata solo sul lato analogico.

Scheda audio
La periferica audio serve al computer per riprodurre suoni, che possono essere
toni o composizioni di note per dare avvisi di sistema, ovvero melodie prodot-
te da particolari applicazioni o brani musicali riprodotti da codec quali l’MP3,
che permette di memorizzare la musica sotto forma di dati digitali, con una
compressione tanto elevata da stivare un minuto di musica all’incirca in un MB
di spazio su disco. Altro è il discorso per il CD-ROM, che può riprodurre da sè
l’audio e renderlo disponibile da un’apposita uscita, dalla quale un cavetto lo
porta direttamente all’amplificatore BF della periferica audio, già in formato
analogico.
Una scheda audio, sia essa di un computer fisso o integrata in un notebook,
consta di un decoder (ossia un convertitore digitale/analogico, come nella sche-

129
Capitolo 7

da video) e di un gruppo di amplificazione del segnale analogico decodificato,


oltre che di un buffer che fa uscire tale segnale.
La qualità dell’audio decodificato dipende dal numero di bit della scheda audio:
le prime erano ad 8 o 16 bit (bus ISA) mentre le più recenti sono state provvi-
ste di bus PCI, a 32 bit.
Tipicamente una periferica audio dispone, verso l’esterno, di una presa jack per
l’uscita audio prelevata dall’amplificatore, una per l’uscita audio prelevata diret-
tamente dall’output del D/A Converter ed uno o due ingressi per registrare;
questi ingressi sono uno ad alto livello (linea) ed uno eventualmente per il
microfono, che è predisposto per accettare segnali a basso livello (poche decine
di millivolt). Se la scheda può accettare segnali in ingresso, dispone di un A/D
Converter che digitalizza l’audio in ingresso e lo trasforma in dati digitali che la
CPU elabora e memorizza nelle unità di memoria di massa.
Dunque, una periferica audio è basata su un chip relativamente complesso (LSI)
che integra per la riproduzione dei suoni un convertitore digitale/analogico alla
cui uscita si trova un buffer (amplificatore di corrente) ed un filtro per soppri-
mere il disturbo residuo della conversione (talvolta un filtro attivo anti-aliasing);
l’uscita del buffer è poi l’output audio del chip e va all’amplificatore, che quasi
sempre è esterno. Per l’acquisizione dei segnali, il chip audio dispone di un buf-
fer d’ingresso e un convertitore analogico/digitale; l’adattamento dei livelli nel
caso il notebook abbia sia l’ingresso microfonico che quello di linea, viene com-
piuto da un amplificatore di segnale esterno al chip audio. Quest’ultimo chip dia-
loga con il chipset mediante un bus dati e alcuni segnali di controllo.

Scheda di rete
Anche detta adattatore di rete o network adapter, è una periferica di comunicazione
che consente di far dialogare il PC con periferiche esterne o altri computer
affacciati su una rete locale. Siccome non è scopo di questo volume fare una
trattazione sulle reti locali fra computer, ci si limiterà a dire che la scheda di rete
è un’interfaccia seriale che si distingue dalla RS232-C per la gestione dei dati, i
quali vengono organizzati in pacchetti smistati secondo regole ben precise, sta-
bilite da convenzioni come la ethernet (quella usata dai PC, notebook compre-
si) o la Token Ring (nata dall’IBM e usata per anni nei grandi server per la sua
maggiore precisione). Attualmente, malgrado i suoi limiti (i pacchetti di dati
viaggiano tutti insieme sulla linea e sovente vanno ritrasmessi a causa di “colli-
sioni” che ne fanno perdere l’intelleggibilità) la Ethernet è l’interfaccia di rete

Figura 7.12 - Connessione RJ45


di rete.

130
Struttura dei notebook

più utilizzata; nata per velocità di comunicazione fino ad 1 Mbps, oggi si spin-
ge a 10 gigabit per secondo.
L’adattatore ethernet è formato da un Controller ethernet ed un’interfaccia
adattatrice di impedenza, composta da uno o più trasformatori; il tipico control-
ler è una periferica che converte i dati passatigli dal bus (ISA, PCI, AGP o PCI
Express) attraverso la supervisione del chipset Northbridge, in formato seriale
e gestisce le temporizzazioni della comunicazione.

Interfacce wireless
Rientrano nella categoria delle periferiche di comunicazione e servono a con-
sentire la comunicazione dei dati in forma seriale, senza alcun filo di collega-
mento, come invece è richiesto per le periferiche appena descritte (eccetto
l’ethernet in fibra ottica, che fa viaggiare i dati modulando un fascio di luce
laser); sono la IR, il Wi-Fi ed il Bluetooth. Per quanto riguarda questi ultimi due
protocolli di comunicazione, va detto che si basano sulla modulazione FM di
una portante a radiofrequenza in banda ISM (intorno ai 2,4 GHz) ed operano
a potenze di trasmissione comprese tra pochi mW e qualche decina di mW.
Il Bluetooth è sostanzialmente un link wireless via radio, che prevede per ogni
dispositivo un ricetrasmettitore (RTX) operante a 2,4 GHz; per l’esattezza, in
Europa, negli Stati Uniti d’America e in buona parte del mondo le frequenze di
lavoro sono comprese tra 2400 e 2483,5 MHz (i corrispondenti canali sono col-
locati tra 2402+0 e 2402+78 MHz). Ciò permette di portare con sé e utilizzare
in viaggio i propri apparati mobili Bluetooth. Ogni canale radio è largo 1 MHz
e, per evitare l’affollamento dei canali, la potenza dei trasmettitori è ridotta a una
decina di milliwatt; così la portata dei sistemi è ridotta a un massimo di 100
metri in assenza di ostacoli. La comunicazione avviene secondo il protocollo
TCP/IP e ciascuna stringa di dati è composta da pacchetti più corti di quelli
adottati dagli apparati standard operanti in banda ISM, per garantire maggiore
insensibilità ai disturbi, quindi sicurezza della trasmissione, che viene elevata
grazie all’adozione della tecnica Frequency Hopping (salto di frequenza).
Quest’ultima consente alle interfacce radio Bluetooth di spostarsi su più canali
una volta instaurata una comunicazione, e ciò per agganciare la frequenza meno
disturbata. Un’altra particolarità del protocollo Bluetooth è l’adozione della tec-
nica Fast Acknowledgment, cioè del riconoscimento rapido dei terminali: in
sostanza, ogni dispositivo identifica la vicinanza degli altri, cosicché quando si
vuole instaurare una comunicazione quello interessato identifica se la chiamata
è diretta o meno a esso.
Dal punto di vista hardware, ogni interfaccia Bluetooth integra un ricetrasmet-
titore radio di piccola potenza e un processore in banda base, ossia un’unità di
controllo che supporta la ricetrasmissione di segnali vocali e di dati digitali, sia
in modalità point-to-point (due dispositivi che dialogano esclusivamente tra
loro) sia in multipoint (un dispositivo che dialoga con più di uno). Verso l’inter-
no dell’apparato che equipaggia, ogni interfaccia Bluetooth comunica mediante
131
Capitolo 7

Figura 7.13 - Vano con RAM (a sinistra) e modu-


lo wireless Wi-Fi (a destra) in un notebook.

un canale in banda base, cioè una sorta di bus molto veloce che permette il tra-
sporto di dati alla velocità delle moderne reti locali, e quindi anche di audiovisi-
vi campionati in real-time.
L’interfaccia Wi-Fi è sostanzialmente la stessa cosa, ma cambiano sia la potenza
impiegata in trasmissione, sia il protocollo di comunicazione, che sostanzial-
mente è quello della ethernet.
Le interfacce wireless dei portatili sono tipicamente montate su schede a parte
e collegate alla mainboard mediante un connettore e due cavetti coassiali scher-
mati per l’antenna, indispensabile in trasmissione ad irradiare il segnale radio e
in ricezione a ricevere quello trasmesso dall’Access Point o da un altro compu-
ter dotato di analoga interfaccia.
Quanto all’interfaccia ad infrarossi (altrimenti detta porta a infrarossi o sempli-
cemente IRDA) è invece una periferica di comunicazione sempre seriale, ma
basata sulla modulazione di un raggio infrarosso trasmesso nei dintorni dell’e-
mettitore (tipicamente un LED all’infrarosso) collocato a lato del PC o davanti
o dietro; un fotodiodo rileva gli infrarossi trasmessi dalle periferiche o da altri
PC dotati di analoga connessione. Per evitare l’interferenza della luce diurna,
emettitore e fotodiodo sono posti dietro una finestrella coperta da una lastra di
colore rosso/violetto.
È un’interfaccia praticamente scomparsa dai notebook e pensata inizialmente
per collegare al computer i telefoni cellulari o le stampanti, il tutto senza fili di
collegamento. La copertura, intesa come distanza alla quale la periferica ad infra-

Figura 7.14 - Modulo modem interno ad un PC


notebook.

132
Struttura dei notebook

rossi riesce ancora a comunicare con il PC, è dell’ordine di 5÷6 metri. La porta
a infrarossi è sostanzialmente un adattatore dotato di LED all’infrarosso per tra-
smettere ed un fotodiodo per ricevere, il tutto interfacciato con una COM del
computer; la connessione può essere simplex (si trasmette o si riceve alternati-
vamente) ovvcero duplex, nel qual caso si usano due portanti diverse.

Modem
In molti notebook costruiti fra il 2000 ed il 2008 e comunque prima della mas-
siccia diffusione dell’ADSL e delle connessioni wireless, veniva montata un’u-
nità modem posta su una basetta a parte e innestata mediante un connettore
dedicato; il distacco dalla mainboard era reso necessario dalla pericolosità per il
notebook di scariche elettriche propagate lungo le linee del telefono durante i
temporali.
Il modem (acronimo di MODulatore DEModulatore) è una periferica di comu-
nicazione, interna o esterna, ancora di tipo seriale, la quale si basa in trasmissio-
ne sulla modulazione di una portante sinusoidale a bassa frequenza ed in rice-
zione sulla demodulazione di questa portante modulata; questa metodica con-
sente di far viaggiare i dati sui fili del telefono come fa la voce durante una con-
versazione. La modulazione, che nei primi modem era d’ampiezza, per aumen-
tare la velocità di comunicazione dei dati dai 300 bps consentiti dalla linea ai 56
kbps degli ultimi modem, è diventata un insieme di modulazione d’ampiezza, di
frequenza e di fase.
I modem si possono distinguere in due principali categorie: per linea commuta-
ta (PSTN) o per linea dati pura (ISDN o ADSL); nel primo caso è integrata una
circuitazione che serve a comporre i numeri del telefono, dato che il modem è
destinato ad essere usato sulle comuni linee telefoniche. Nel secondo manca
questa parte, perché la linea usata è praticamente sempre aperta e collegata a
nodi di smistamento dei dati che lavorano come una rete locale fra computer.

Alimentatori
Se in un PC fisso l’alimentatore è unico e deve ricavare le tensioni di 3,3 V, ±5
V, ±12 V e 5 V per la circuiteria di standby, nel notebook le cose sono un po’
più complesse, in quanto la sua mainboard deve fare insieme parte di quel che
fa l’alimentatore del computer fisso e tutto ciò che fa la mainboard di un fisso.
Un moderno portatile ha un alimentatore AC/DC che ricava dalla tensione di
rete una componente continua di valore compreso fra 16 e 20 volt con cui ali-
menta il computer; la tensione d’ingresso dell’alimentatore dipende da quella
della rete del Paese dove si usa il PC e può essere compresa tra 100 e 240 Vca.
Negli ultimi anni, sostanzialmente per abbattere i costi sostenuti dai costruttori
e quelli per gli accessori sostenuti dai clienti, i notebook sono dotati di alimen-
tatori che si adattano a tutti i valori di tensione compresi fra 100 e 240 Vca; ciò
è indubbiamente un vantaggio per chi viaggia, che per usare il proprio PC può
limitarsi a sostituire il cavo di rete o a dotare la spina di quest’ultimo di un adat-
133
Capitolo 7

tatore conforme alle prese della nazione dove va. In realtà gli alimentatori mul-
titensione sono stati creati dai produttori per poter costruire un solo tipo di ali-
mentatore per tutto il mondo, così da risparmiare sulle linee di produzione.
L’alimentatore AC/DC siffatto dispone di un circuito all’ingresso in grado di
riconoscere il valore di tensione della rete; quando si inserisce la spina nella
presa, esso analizza la tensione e fa accendere l’alimentatore solo quando lo ha
configurato per funzionare con la tensione ottimale, così da evitare danni o mal-
funzionamenti.
All’interno del portatile sono presenti numerosi alimentatori DC/DC di tipo
switching (Capitolo 6) ognuno dei quali si occupa di alimentare un singolo bloc-
co della motherboard; in un primo tempo l’alimentatore era uno principale in
grado di ricavare 3,3 volt, 5 volt e ±12 V per le seriali, ma poi con l’aumentare
della complessità e del consumo dei notebook, è stato giocoforza scomporre l’a-
limentazione in blocchi opportunamente decentrati. Il decentramento permette
infatti di avere alimentatori fatti da componenti molto piccoli e quindi di ridur-
re l’ingombro del notebook in termini di spessore, in quanto ogni stadio deve
erogare una potenza limitata, certamente minore di quella che dovrebbe eroga-
re un singolo alimentatore che dovesse servire l’intero PC. Inoltre decentrando
gli alimentatori è possibile ridurre le perdite nelle piste del circuito stampato
della mainboard, in quanto, ad esempio, generare vicino alla CPU le alte corren-
ti da essa richiesta è meglio che trasportarle lungo tutto lo stampato; infatti se
un DC/DC deve ricavare 3,3 V, la corrente che deve transitare dalla presa di ali-
mentazione a 19 V della mainboard ad esso è circa 1/6 di quella che dovrebbe
passare lungo le piste se i 3,3 V venissero generati vicino alla presa stessa.
Un moderno notebook conta almeno due DC/DC per l’alimentazione della
CPU, uno per le RAM, uno per la scheda video, uno per il chipset, uno per le
unità disco ed uno per le periferiche di comunicazione come l’USB.
La CPU richiede tipicamente due alimentazioni, perché ormai dal tempo della
prima serie di processori Pentium, allo scopo di ridurre la dissipazione di poten-
za (pari al prodotto della tensione di alimentazione del chip per la corrente
assorbita) l’unità di calcolo vera e propria funziona a tensioni bassissime, anche
di appena 1,5 V, mentre i registri di I/O vengono alimentati a 5 o 3,3 volt per
poter essere compatibili con i livelli logici delle periferiche interne al PC, non-
ché delle RAM, dei chipset ecc. La tensione che alimenta l’unità di elaborazione

Figura 7.15 - Blocco di alimen-


tazione principale e caricabatte-
ria di un portatile.

134
Capitolo 7.qxp 29/06/2012 9.09 Pagina 135

Struttura dei notebook

è detta Vcore, mentre quella dei registri di input/output è chiamata Vio.


Fin dalle mainboard dei primi Pentium, le tensioni venivano imposte dal chipset
in base all’impostazione di alcuni jumper posti sulla mainboard, da parte del
tecnico che assemblava o modificava il computer; poi sono arrivati i chipset in
grado di identificare automaticamente il processore ed impostare da loro le ten-
sioni e il clock ottimali (auto-setting o jumperless). Per l’esattezza, la Vio resta-
va fissa a 5 V (poi a 3,3 V, man mano che la complessità dei processori aumen-
tava) mentre la Vcore poteva essere scelta fra 3 e 5 V.
La differenziazione delle tensioni esiste ancor oggi, dove vi sono processori con
Vcore anche di 1,5 V e logiche funzionanti a 3 o 3,3 V; le alimentazioni Vio e
Vcore vengono automaticamente gestite dal chipset, che agisce sui due alimen-
tatori utilizzati allo scopo (tra gli integrati più usati vi sono il TPS51124 e il
TPS51125).

L’alimentatore/caricabatteria
Subito dopo l’ingresso dell’alimentazione (connettore plug) il portatile ha un ali-
mentatore principale, che è quello che rimane sempre attivo e consente la cari-
ca della batteria, quando presente; si tratta dell’alimentatore principale del note-
book, il quale provvede sovente a fornire una tensione stabilizzata e più bassa
di quella della batteria a tutto il resto del computer, ovvero agli stadi converter
DC/DC che ricavano le tensioni per la CPU, le RAM, la scheda video ecc.
Questo alimentatore si identifica facilmente innanzitutto perché è l’unico sem-
pre sotto tensione e poi perché ha dei collegamenti che portano alla batteria;
inoltre, il suo chip di controllo (un regolatore PWM molto complesso) si trova
nella zona vicina al connettore della batteria, salvo eccezioni.
Nei moderni notebook il controller dell’alimentatore principale coopera con il
chipset, nel senso che è un complesso regolatore capace di funzionare sia da
solo, sia interfacciato mediante connessioni seriali a bus (I²C-Bus, SPI, SMBus)
con il chipset; è questa la ragione per cui un guasto nel chipset può far restare
spento un portatile anche se non si riesce a trovare alcun guasto sui componen-
ti dell’alimentazione.
Solitamente fra la presa di alimentazione e il primo stadio alimentatore viene
interposto un interruttore allo stato solido il quale altro non è se non un
MOSFET enhancement-mode posto in serie alla linea positiva ed il cui gate è
pilotato dalla logica, ovvero dal chipset o semplicemente da un piedino del rego-
latore dell’alimentatore principale.

La tastiera
È l’elemento con cui l’utente introduce i dati o risponde alle domande cui il PC
chiede di rispondere per procedere con i calcoli in corso; è stata ed è tuttora un
elemento indispensabile al rapporto fra macchina e utente, perché serve a scri-
vere testi, a introdurre dati numerici e codici quando richiesto; senza contare
che praticamente tutti i programmi per Microsoft Windows e MacOS preve-
135
Capitolo 7

dono scorciatoie da tastiera, ossia quelle combinazioni di tasti che danno imme-
diato accesso a comandi altrimenti impartibili passando dall’apertura di uno o
più menu.
Lo sviluppo dei Personal Computer ha richiesto alla tastiera di crescere per
impartire direttamente i comandi di alcuni tra i più sfruttati menu; ecco che,
dalle prime tastiere per XT si è passati a quelle a 102 tasti (con tastierino numeri-
co (per AT) per arrivare alle alle moderne, che hanno funzioni richiamabili diret-
tamente da tasti quali Windows, Menu, Alt Grafico. Il primo serve ad aprire il
menu di Avvio (Start) e l’altro il menu contestuale inerente alla posizione del
puntatore del mouse. Quanto all’Alt Grafico, attiva alcuni caratteri quali la @
per gli indirizzi di posta elettronica Internet e il simbolo dell’euro.
Nei portatili come nei PC fissi, vi sono tasti per l’apertura diretta del browser
Internet o l’attivazione della funzione vocale nei voice-modem, ma anche per la
messa in standby (sleep) del computer e la conseguente ripresa delle normali
attività (Wake Up).
La tastiera viene gestita da un Keyboard Encoder, ossia un codificatore che
legge la pressione dei singoli tasti, organizzati a matrice, e per ciascuno genera
un byte; perciò i codici dei tasti e dei caratteri componibili da tastiera sono 256.
L’uscita dell’encoder viene letta dal Chipset Southbridge, quindi se più tasti non
funzionano bisogna vedere innanzitutto se si tratta di un problema di tutta una
riga e poi andare a verificare le condizioni del Southbridge (l’encoder non si gua-
sta quasi mai).
I tasti della tastiera del computer sono pulsanti che possono essere di tipo
magnetico o elettromeccanico. Sono del primo tipo i tasti ad effetto di Hall, che
si usavano nelle tastiere dei computer fissi di qualche anno fa ed erano molto
pregiate (e purtroppo costose...) perché meno soggette a guasto di quelle tradi-
zionali a contatto elettromeccanico: infatti la pressione del tasto in questi dispo-
sitivi viene rilevata mediante il passaggio dello stelo del pulsante davanti ad un
sensore magnetico; non essendoci parti in contatto, la chiusura dei tasti non
dipende dall’usura.
Le tastiere elettriche invece si basano su un contatto che viene fatto toccare uno
sottostante quando si preme il pulsante corrispondente; per questa ragione, per
quanto semplici ed economiche sono soggette sia al consumo degli elettrodi, sia
all’ossidazione degli stessi, che può portare ad elevare la resistenza dei contatti
al punto che il Keyboard Encoder non riconosce più la chiusura del tasto. Le
tastiere del genere sono sostanzialmente composte da tanti interruttori a pul-
sante quanti sono i tasti che le compongono.
Una variante della tastiera a contatto elettrico è quella a membrana, dove non ci
sono interruttori a pulsante ma una membrana di gomma contenente tanti elet-
trodi in carbone, che quando si premono i tasti corrispondenti vanno a toccare
i sottostanti elettrodi; questi ultimi sono usualmente realizzati con le piste del
circuito stampato su cui è costruita la tastiera, quindi si tratta di piste in rame
stagnate o dorate. Le stesse piazzole sono collegate dalle piste che realizzano le

136
Struttura dei notebook

righe e colonne poi connesse al Keyboard Encoder. Le tastiere usate nei note-
book sono usualmente del tipo a membrana.

Dispositivo di puntamento
Dalla sua nascita, il dispositivo di puntamento dei computer è stato battezzato
mouse, probabilmente per quella sua forma affusolata terminante con un sot-
tile cavo elettrico, che ricorda appunto un “topo”; da allora nessuno usa più il
nome tecnico, che è quasi scomparso dai programmi.
Il nome “dispositivo di puntamento” deriva dal fatto che il mouse è nato per
operare nelle interfacce grafiche d’utente, esempi delle quali sono l’ambiente
operativo di Microsoft Windows, MacOS, Workbench degli ormai estinti com-
puter Amiga. Quando ancora si scrivevano i comandi da tastiera e si lottava con
l’ostica sintassi dei DOS o Unix, qualcuno pensò come sarebbe stato più facile
ordinare al computer di eseguire questa o quell’operazione semplicemente indi-
cando un’icona che la contrassegnasse e premendo un tasto; questa invenzione
divenne l’interfaccia grafica, il modo di dialogare con gli elaboratori che ha reso
possibile lo sviluppo di programmi un tempo improponibili. Il mouse del por-
tatile può essere un trackball, ma ormai è quasi solo touch-pad. In entrambi i
casi il dispositivo di puntamento viene letto dal Chipset Southbridge.
Il trackball (letteralmente palla di puntamento) è sostanzialmente un mouse alla
rovescia, o, meglio, rovesciato a pancia in su: nel suo basamento è inserita una
sfera in materiale plastico rigido sotto la quale si trovano due rulli, rivestiti di
gomma e perpendicolari tra loro, che azionano ciascuno un potenziometro dal
quale viene rilevato il segnale per lo spostamento orizzontale o verticale del
puntatore. La palla è vincolata superiormente mediante un anello a vite che ne
impedisce la fuoriuscita se il trackball dovesse cadere.
Facendola scorrere con la mano, i rulli girano per l’attrito e azionano i poten-
ziometri determinando un analogo movimento del puntatore sul desktop del
sistema operativo. Come il comune mouse, anche questo dispositivo dispone di
un paio di pulsanti, usati uno per impartire i comandi e l’altro per accedere ai
menu di scelta rapida.
Perché sia sempre efficiente, il dispositivo di puntamento va tenuto pulito nella
sezione di rilevamento del movimento; quindi periodicamente bisogna ruotare
con due dita l’anello di ritegno della pallina, nel verso indicato dalle eventuali
frecce, poi estrarre la pallina e riporla in un posto dove non può rotolare, quin-
di con un piccolo cacciaviti o stuzzicadenti rivestito di cotone imbevuto di alcol,
pulire dallo sporco i rullini interni.
Quanto al touchpad, funziona similmente allo schermo touch-screen descritto
nel Capitolo 5: consta di una membrana capacitiva organizzata in righe e colon-
ne che rileva la pressione, ovvero la sottrazione di carica elettrica da parte del
dito; quest’ultimo tipo è sensibile al fatto che l’utente tenga la mano appoggia-
ta al pianom del portatile, allorché il puntatore si sposta diversmente da come
va il dito. Il touchpad è, purtroppo, sensibile all’umidità presente nell’ambiente.
137
Capitolo 7

Figura 7.16 - Disco S-ATA visto da dietro.

Figura 7.17 - Connettori dell'interfaccia


S-ATA.

Hard-Disk
Anche detto disco rigido (o, più brevemente, HD) è l’unità di memorizzazione
di massa che non può mancare in un PC portatile, anzi, alcuni laptop ne hanno
due (ad esermpio HP Pavillon DV9000). L’hard-disk consta di un disco magne-
tizzabile che ruota ad alta velocità (5.400 giri/min è lo standard, ma vi sono
dischi a 7.200 e 10.000 giri/min) sul quale una o più testine registrano i dati sotto
forma di campo magnetico, che lascia sulla superficie una magnetizzazione resi-
dua in presenza dell’1 logico e nulla in concomitanza con il livello logico basso;
a volte il componente è composto da due dischi: quelli dei PC fissi, a parte rare
eccezioni (ad esempio il Quantum Bigfoot) hanno sempre da 2 a tre dischi
sovrapposti che ruotano insieme.
La velocità di rotazione, insieme alla velocità di commutazione dei chip che
compongono l’interfaccia, determina il tempo d’accesso al disco.
In lettura, la testina non magnetizza ma si limita a rilevare l’unduzione residua
sulla superficie del disco; la lettura, come la scrittura, avvengono a spirale, facen-
do spostare la testina dall’esterno verso l’interno del disco, in modo che l’acces-
so ai singoli livelli logici costituenti i dati
avvenga sequenzialmente.
Per come è costruito, il disco rigido è molto
delicato e basta una caduta anche da un’altez-
za limitata (meno di un metro) a farlo guasta-
re perché causa il distacco dei dischi o delle
testine. Gli HD per i notebook sono più resi-

Figura 7.18 - Interno di un hard-disk.

138
Struttura dei notebook

Figura 7.19 - Disco rigido per PC portatile


in formato 2.5".

stenti e progettati per subire gli inevitabili shock del trasporto, ma se prendono
un colpo netto mentre funzionano, è quasi certo che riportino danni.
Esteriormente l’hard-disk appare come una scatoletta con base in alluminio
massiccio e coperchio in lamiera zincata o d’alluminio; su uno dei lati corti
riporta la connessione, che può essere, almeno per i moderni HD, IDE o S-
ATA (nei PC di una decina di anni fa qualche costruttore, ad esempio
McIntosh, usava anche gli SCSI). Per IDE si intende il connettore a 40 poli su
due file (accanto al quale normalmente si trovano altri quattro contatti distan-
ziati dai 40) che servono ad impostare il Cable-Select o la funzione
Master/Slave; ciò perché ogni controller IDE nella mainboard supporta due
unità, di cui una principale (Master) e l’altra secondaria (Slave). Tipicamente il
Master è l’hard-disk e lo Slave il lettore o masterizzatore CD/DVD.
L’interfaccia IDE tipica ha un transfer-rate (ossia velocità di comunicazione dei
dati da e verso la mainboard) di una decina di Mb al secondo; ad essa è seguita,
una quindicina d’anni fa, la E-IDE (Enhancement IDE) o DMA-33, capace di una
velocità di 33 Mbps e poi la Ultra DMA o Ultra –ATA 66 (a 66 Mbps). Da allo-
ra i dischi IDE hanno cominciato a chiamarsi ATA ed è perciò che con l’intro-
duzione del Serial ATA i costruttori hanno cominciato a coniare il termine P-
ATA, per distinguerli da questi ultimi. I più recenti sviluppi dell’interfaccia IDE
sono stati l’Ultra-ATA 100 e il 133, capaci di velocità di comunicazione, rispet-
tivamente, di 100 e 133 Mbps.
Le mainboard capaci di gestire i dischi Ultra-ATA 100 e 133 sono solo quelle
più moderne, dotate di chipset Southbridge con bus

Figura 7.20 - Disco rigido con interfac-


cia ATA parallela (P-ATA).

139
Capitolo 7

Figura 7.21 - Funzionamento del lettore di


dischi ottici: un raggio laser colpisce la
superficie del disco dalla quale viene
riflesso con un'angolazione dipendente
dalla profondità del solco che incontra; l'in-
clinazione con cui il raggio rimbalza e col-
pisce il fotodiodo sensore determina una
diversa tensione discriminata come stato
logico zero o 1 del bit corrispondente.

a 100 o 133 MHz, quindi le mainboard con AGP; gli Ultra-ATA66 e i 33 si


accontentano di chipset con bus a 33 e 66 MHz, ovvero il classico PCI.
Quanto al disco S-ATA si distingue sia per la connessione, sia perché, mentre
l’IDE comunica con un bus parallelo (a 16/32 bit) che trasporta i dati letti e gli
indirizzi delle locazioni dove sul disco sono scritti i dati stessi, quello Serial-ATA
ha una linea seriale; non a caso utilizza meno contatti.
Indipendentemente dal tipo di interfaccia, gli hard-disk esistono in tre formati,
anche se oggi se ne trova soltanto in due; i formati sono contraddistinti dalla lar-
ghezza dell’alloggiamento in cui entrano, che può essere 5,25” o 3,5”, oppure
2,5” che è usato soltanto nei notebook e in alcuni PC integrati nello schermo
LCD. Il formato da 5” e ¼ era usato dai primi hard-disk da Personal Computer
fino a una ventina di anni fa, con l’eccezione del Quantum Bigfoot, costruito
fino a pochi anni addietro; oggi gli HD sono da 3,5” per i PC fissi e da 5,25”
per i notebook.

Unità a dischi ottici


In questa categoria rientrano tutti i lettori di supporti ottici utilizzati nei note-
book, ossia i CD-ROM e i DVD ROM, siano essi comuni o riscrivibili; rientra-
no altresì i masterizzatori (scrittori) sempre di CD-ROM e DVD. Tutti questi
apparecchi sono costituiti da una meccanica ed un’elettronica, più un’ottica: la
meccanica fa girare il disco e lo mantiene in posizione e inoltre provvede a posi-
zionare l’ottica in modo da leggere o scrivere; consta di motori passo-passo e
guide, oltre che di un carrello e due piattelli. L’ottica comprende un diodo laser
e un fotodiodo: il primo proietta un raggio di luce all’infrarosso verso la super-
ficie del disco e il secondo rileva il riflesso; l’inclinazione con cui questo riflesso
investe il fotodiodo dipende dalla profondità dei singoli “pozzetti” scavati in
scrittura dal dispositivo scrittore. La profondità dello stato logico 0 è diversa da
quella dell’1, il che permette al lettore di discernere i due livelli; il riconoscimen-
to si deve al fatto che il raggio riflesso si presenta con un’intensità diversa in base
all’angolazione con cui giunge sul fotodiodo. Questo vale in lettura.
Il masterizzatore scrive con un procedimento similare: il laser, più potente di
quando non è in lettura, depolimerizza un composto situato sotto lo strato pro-
tettivo del disco, scavando ogni pozzetto corrispondente all’1 logico; il fotodio-
do rileva il riflesso per verificare la corretta scrittura.
140
Struttura dei notebook

L’elettronica dei CD, DVD e masterizzatori è l’insieme dei circuiti che governa-
no, coordinandole, l’ottica e la meccanica dell’apparato.
I lettori e masterizzatori per portatili sono molto piccoli ed il loro cassetto non
viene aperto e chiuso mediante un motore elettrico come in quelli dei PC fissi:
un’elettrocalamita svincola una spinetta che trattiene il carrello, lasciando che la
molla di cui questo è provvisto lo spinga all’esterno, in modo da consentire all’u-
tente di estrarre il disco.
Le unità a disco ottico sono dotate di interfaccia IDE con connettore specifico
e solitamente si trovano sull’unico controller del computer portatile; se il note-
book ha due controller, l’unità a dischi ottici sta sul proprio e l’HD su un altro.
Tale evenienza si verifica semopre nei PC con disco rigido S-ATA.
Di recente è stato introdotto il DVD Blue Ray, cosiddetto perché utilizza un
laser a luce blu invece dell’infrarosso; il motivo di ciò deriva dall’esigenza di
aumentare la quantità di dati scrivibili in un DVD, cosa fattibile solo -a parità di
diametro del disco e di strati (2) disponibili- riducendo le dimensioni dei poz-
zetti costituenti i singoli bit. Siccome la dimensione dei DVD double-layer aveva
raggiunto la lunghezza d’onda del laser e più di questa non poteva scegliere, si
è pensato di ricorrere a un laser blu, la cui lunghezza d’onda è circa 1/3 di quel-
la dell’infrarosso, perciò anche i singoli pozzetti possono essere ridotti in pro-
porzione.

Unità FDD
Il Floppy-Disk-Drive è un’unità a disco rimovibile che concettualmente funzio-
na come un hard-disk, solo che il disco è estraibile e flessibile; il disco viene pro-
tetto da una custodia dotata di una finestrella per consentire alla testina del dri-
ver di appoggiarsi alla superficie magnetica e rilevare l’induzione residua da cui
leggere i dati. Il disco viene meso in rotazione da un meccanismo a frizione che
si appoggia nel foro centrale della custodia. L’unità floppy equipaggiava i note-
book fino a pochi anni fa e serviva essenzialmente ad effettuare il boot del siste-
ma operativo. I moderni BIOS contemplano il bootstrap dalll’unità a dischi otti-
ci, quindi –anche per l’inutilità di una periferica i cui supporti non consentiva-
no di memorizzare più di 1,44 o 2,88 MB, il floppy non si usa più. Il limite di
memorizzazione deriva sia dalla densità del supporto magnetico (pur aumenta-
ta negli ultimi floppy realizzati rispetto i primi dischi da 8”, capaci di appena 128

Figura 7.22 - Schema


applicativo dell'integrato
MAX6657: il componente
comanda una o più ventole
e comunica con il chipset
Northbridge.

141
Capitolo 7

Figura 7.23 - Ventola di raffreddamento montata su


un dissipatore che raffredda contemporaneamente
CPU, processore grafico e chipset. Sui tre compo-
nenti è appoggiata una placca di allumino solidale
con un tubo in rame contenente gas refrigerante che
si sposta per convezione e trasferisce il calore al
radiatore.

kB) sia dalla FAT utilizzata, detta FAT12, che con i suoi 12 bit non consentiva
di indirizzare più di 2048 settori o blocchi di memoria. Nei notebook che lo
hanno, è gestito da un suo controller, interfacciato con il Southbridge.

Ventole di raffreddamento
In un moderno notebook il processore, la GPU (processore grafico) ed il chi-
pset sviluppano un discreto calore, ragion per cui necessitano di un radiatore,
quasi sempre affacciato su una o più ventole che ne asportano il calore; le ven-
tole ruotano in modo da portare fuori l’aria dal computer e con essa il calore
prodotto. GPU, CPU e chipset possono essere uniti da un unico dissipatore o
avere radiatori distinti e ventole distinte.
La ventola aspira aria assialmente o tangenzialmente, tramite griglie o prese
poste sul fondo del notebook, ma a volte sul lato; l’espulsione dell’aria calda
avviene lateralmente.
Le ventole impiegate per raffreddare i dissipatori delle CPU spingono l’aria all’e-
sterno attraversando gli scambiatori di calore, che sono estremità alettate dei dis-
sipatori di CPU, GPU ecc.; in questo modo l’aria asporta dalle alette il calore,
che quindi viene dissipato più agevolmente.
La ventola di raffreddamento viene governata da un interruttore statico che la
accende e la spegne all’occorrenza oppure da un regolatore PWM che ne per-
mette la variazione della velocità di rotazione; a gestire la ventola provvede un
integrato sensore termico, che di solito dispone di un’interfaccia I²C-Bus per
dialogare con il chipset ed informarlo delle vicende termiche della CPU
L’integrato può avvalersi di un sensore termico esterno collocato sotto la CPU,
oppure, nelle CPU che ne sono provviste, del sensore interno ad esse, che soli-
tamente è un diodo collocato nello stesso chip di semiconduttore ed è accessi-
bile tramite due piedini.
Un tipico sensore di temperatura con bus I²C per il colloquio con il chipset è il
MAX6657 della Maxim, ovvero il MAX6658 o il MAX6659, della stessa casa: si
tratta di un sensore capace sia di informare il chipset delle vicende termiche
della CPU, sia di provvedere autonomamente al controllo delle ventole sopra

142
Struttura dei notebook

una temperatura considerata critica. Un altro componente che svolge un com-


pito analogo è l’ADM10342 della ON Semiconductors: si tratta di un gestore di
temperatura con sensore interno ma capace di usare sensori termici esterni,
anche questo interfacciato mediante I²C-Bus e dotato di uscite per il controllo
della ventola mediante transistor.
La ventola o le ventole utilizzate per il raffreddamento dei notebook sono tipi-
camente dotate di sensore di velocità, cosa che si evince guardandone i collega-
menti: infatti il connettore presenta tre contatti e altrettanti sono i fili che esco-
no dal corpo, due dei quali sono il positivo (rosso) ed il negativo (nero) dell’ali-
mentazione del motore, mentre il terzo (giallo) è l’uscita del circuito o sensore
tachimetrico, impiegato per comunicare all’integrato sensore termico o al chipset
del computer la velocità di rotazione della ventola. In pratica da questo filo esce
un segnale elettrico ad onda rettangolare la cui frequenza è direttamente pro-
porzionale al regime di rotazione, ovvero tipicamente combacia con il numero
di giri al secondo compiuti dal rotore della ventola.
Da tempo si usano ventole con sensore tachimetrico perché consentono al chi-
pset o all’integrato che gestisce il raffreddamento di verificare la velocità di rota-
zione e quindi segnalare eventuali problemi nelle ventole con appositi allarmi a
video o bloccare il computer (nei PC che prevedono tale funzione).

Batteria
La batteria ricaricabile (accumulatore) è un dispositivo elettrochimico reversibi-
le, la cui struttura elementare consta di due piastre dello stesso metallo immer-
se in un liquido o una gelatina detti elettrolito; la più semplice batteria ha le pia-
stre di piombo e in essa l’elettrolito è acido solforico diluito (H2SO4). In condi-
zioni di riposo, la tensione di una cella di batteria è di circa 2 V; cresce durante
la ricarica e diminuisce durante la scarica (per ottenere un accumulatore da 12
V occorre quindi collegare sei celle in serie).
Per vedere come funziona la batteria, immaginiamo di versare in essa la soluzio-
ne acquosa di acido solforico (H2SO4) dove si trovano ioni SO4— (ione solfato)
e ioni H2++ (ione idrogeno). Subito l’acido intacca la superficie degli elettrodi
formando solfato di piombo (PbSO4) e lasciando ricchezza di ioni H+ (idroge-
no) in soluzione. Applicando alle piastre una differenza di potenziale, al polo
negativo accorre l’idrogeno, che si accumula rendendo poroso l’elemento; al
polo positivo arriva l’SO4, che perde le cariche negative, reagisce con l’acqua e
riforma H2SO4 (che si scompone nuovamente in ioni) più ossigeno. L’ossigeno
liberato si combina col piombo e forma biossido di piombo (PbO2). La carica
termina quando la piastra con biossido di piombo (positiva) non può più ossi-
darsi e quella di piombo poroso ha ceduto tutto il materiale che la soluzione
poteva accettare.
Le due piastre sono ora una di piombo poroso (con idrogeno) e l’altra di PbO2;
le due piastre hanno una differenza di potenziale intrinseca e quindi, se si scon-
nette il generatore e si collegano con un filo, gli elettroni si spostano da uno
143
Capitolo 7

Figura 7.24 - Batteria per note-


book (IBM X200) del tipo agli ioni
di litio.

all’altro: il Piombo, arricchito di idroge-


no (polo negativo) invia elettroni al PbO2. La
scarica sarebbe di breve durata ma al piombo che
diventa positivo arrivano gli ioni negativi SO4 che sono nella soluzione. Questi
si neutralizzano, reagiscono con l’idrogeno e danno luogo a nuovo H2SO4; resta
così il piombo metallico di partenza. Il biossido di piombo, ricevendo elettroni,
diventa negativo e attrae dalla soluzione gli H++ che si combinano con l’ossige-
no formando acqua e lasciando il Pb. Così i due elettrodi tornano di piombo
come nelle condizioni iniziali, immersi nella soluzione di acido solforico.
Se la tensione di ricarica continua ad essere applicata anche quando l’accumula-
tore è ormai carico, si verifica l’elettrolisi dell’acqua, che produce ossigeno al
polo positivo e idrogeno al polo negativo; questa miscela di gas può essere
esplosiva, e perciò la ricarica deve avvenire in zone ventilate.
Per gli accumulatori si definiscono, oltre alla tensione nominale (2 volt a elemen-
to) la corrente di scarica a freddo e la capacità: la prima è la massima corrente
erogabile a bassa temperatura (tipicamente sotto i 20 °C) mentre la seconda è la
capacità di immagazzinare carica elettrica e si esprime in Coulomb (ampere x
secondo) o, più comunemente, in A/h (ampere/ora). A riguardo considerate
che 1 A/h vale 3.600 Coulomb.
Gli accumulatori non esistono solo a piombo ma si realizzano con vari materia-
li; visto il loro peso, il tipo appena esaminato è relegato all’autotrazione, agli
inverter e UPS (gruppi di continuità) e ad alcuni macchinari ed apparecchiature
fissi. Per le applicazioni dove serve un miglior rapporto tra peso, ingombro e
capacità, sono stati costruiti accumulatori in un primo tempo a nichel-cadmio
(NiCd) poi abbandonati perché afflitti dall’effetto memoria (si abituano al regi-
me di carica abituale, quindi se vengono caricati abitualmente a meno della cari-
ca intera perdono parte della capacità) a favore dei NiMH (nichel-metal-idrato)
e dei più moderni Li-ion (ioni di litio) Li-Po (polimeri di litio) e LiFe (litio-ferro).
Gli accumulatori usati nei moderni notebook sono a ioni di litio o Li-Po, sebbe-
ne fino a pochi anni fa si usassero i NiMH. Ogni cella al NiCd fornisce 1,2 V e
lo stesso vale per le NiMH; le batterie al litio (quindi Li-ion, Li-Po e Li-Fe) ero-
gano ognuna 3,6 V, quindi per formare un pacco-batteria ne servono meno.
Le batterie al litio sono certamente le migliori sotto l’aspetto della densità di
energia immagazzinabile e della corrente di scarica erogabile, tuttavia costano
molto e devono essere gestiti attentamente, in quanto forti correnti di scarica
(eccedenti la massima ammessa) portano a un forte surriscaldamento ed all’in-
cendio o esplosione; lo stesso vale se in carica non vengono rispettati i parame-
tri previsti. Dunque, il caricabatterie dei notebook deve essere progettato per il
144
Struttura dei notebook

tipo specifico di batteria utilizzata, sebbene in realtà molti portatili siano equi-
paggiati con regolatori di carica detti “multichemistry” perché capaci di ricari-
care NiMH, Li-Po o semplici Li-Ion. Gli integrati che governano i caricabatte-
ria hanno memorizzate le curve di carica tipiche di queste batterie e sanno come
rilevare la fine della carica in modo da non superare la corrente ammessa.
Le batterie NiCd e NiMH sono tipicamente formate da più elementi (da 8 a 12)
posti tra loro in serie ed eventualmente corredati da un circuito che segnala lo
stato di carica o dispone di un fusibile autoripristinante che limita la corrente
erogata in scarica o quella assorbita in carica; le Li-Po hanno invece sovente
delle prese intermedie che servono al bilanciamento delle singole celle. In altre
parole, siccome tali batterie se messe in serie possono non caricarsi tutte alla
stessa maniera, nel pacco-batteria si inserisce un circuito detto “bilanciatore di
carica” che ripartisce la corrente di carica nei vari elementi, bypassando parzial-
mente quelli che già risultano carichi, a favore degli elementi che presentano una
tensione più bassa e perciò necessitano di maggiore corrente per caricarsi.
Dunque, i pacchi-batteria Li-Ion e Li-Po sono più complessi perché integrano
spesso il bilanciatore degli elementi; talvolta questo circuito è decentrato nel
caricabatteria del notebook, quindi la batteria presenta, oltre ai contatti positivo
e negativo, tre prese intermedie (tipicamente un pacco-batteria al litio consta di
tre celle), ognuna delle quali dà accesso ad un elemento e permette di monito-
rarne la carica.
Oltre al circuito di carica e bilanciamento, normalmente nei pacchi a litio viene
introdotto un limitatore della corrente erogata, che serve ad evitare l’esplosione
dell’accumulatore laddove un cortocircuito all’interno del notebook tendesse a
far assorbire più della corrente erogabile; tale limitatore può essere composto da
un fusibile autoripristinante o da un vero e proprio circuito elettronico che al
superamento della massima corrente ammessa sconnette l’uscita (ossia il mor-
setto positivo) per qualche istante o fin quando non si preme un apposito pul-
sante di sblocco inserito all’esterno della batteria.
Questa complessità dovuta all’integrazione di una cerca elettronica, aumenta
notevolmente il costo dei pacchi-batteria al litio, che però si fanno apprezzare
per la grande autonomia concessa al computer.
Le più recenti batterie integrano un chip che può dialogare con il chipset del
computer per comunicare dati identificativi quali la capacità nominale; alcune
batterie (tipicamente SONY) in questo chip memorizzano il numero seriale ed
un codice che la scheda madre va a cercare: se non lo trova, non carica l’accu-
mulatore. Questa situazione impedisce l’uso delle batterie di concorrenza e può
esere aggirata mediante firmware patch da installare nel BIOS, con tutti i rischi
del caso (toccare il BIOS può rendere inservibile la scheda madre), oppure
software da installare nel sistema operativo. Tale forma di identificazione è volu-
ta chiaramente per costringere l’utenza ad acquistare ricambi originali e sobbar-
carsene i costi.

145
CAPITOLO 8
ATTREZZARSI PER RIPARARE I NOTEBOOK

La riparazione dei notebook esige la preparazione di un minimo di attrezzatura e la


disponibilità di un banco di lavoro possibilmente dotato di braccialetto con cate-
nella per la scarica a massa dell’elettricità statica. Sul banco bisognerà disporre di
una certa quantità di attrezzi ed utensili che variano in base al portatile da riparare
e che servono essenzialmente per smontare e rimontare la scocca e le parti interne,
oltre che per rimuovere alcuni componenti; non devono mancare cacciaviti di varia
misura a croce ed a taglio, oltre che chiavi torx, brugole, un tronchesino ed una
pinza per elettronica, pinzette tipo quelle per medicazione e quanto altro di speci-
fico può servire per i computer che di volta in volta si presentano.
Per quanto riguarda l’attrezzatura elettronica, bisogna avere a portata di mano
almeno un saldatore da 20÷25 W al massimo ed un dissaldatore o un succhiasta-
gno, una stazione ad aria calda ed una di lavorazione dei chip BGA; completano il
tutto una lente d’ingrandimento o una lampada con lente incorporata, necessari
perché quando si saldano chip con piedini molto ravvicinati è difficile riuscire a
vedere ad occhio se non ci sono stati cortocircuiti, ed una lampada da tavolo abba-
stanza potente da illuminare bene la zona di lavoro. Al posto del normale saldato-
re, meglio sarebbe usare una stazione di saldatura a stagno dotata di regolazione
elettronica della temperatura; alcune stazioni dispongono di un dissaldatore a
depressione, formato da uno strumento simile ad un saldatore, la cui punta è, però,
cava e comunica con un tubo che porta a una pompa di depressione.
Oltre a ciò, occorre della lega saldante a base di stagno e piombo, ovvero (visto che
ormai le norme Rohs impongono, per l’elettronica civile, l’adozione di leghe senza
piombo) una lega saldante di altro genere, priva di piombo; serve anche del flus-

149
Capitolo 8

sante, meglio se in forma di pasta. Il flussante è una sostanza chimica che age-
vola la fusione della lega saldante e ne favorisce la distribuzione e l’adesione ai
componenti da saldare. Serve anche della trecciola dissaldante, che è una sorta
di striscia di maglia di filo di rame imbibita di una sostanza flussante che cattu-
ra lo stagno, permettendo di rimuoverlo assai bene dalle piazzole e dalle salda-
ture intorno ai reofori e nei fori passanti metallizzati dove questi passano.
Qui di seguito verranno descritti i dispositivi elettronici sopra menzionati; si
accennerà anche agli strumenti di misura che dovrebbero essere presenti nel
laboratorio di un tecnico riparatore: in particolare al tester e all’oscilloscopio.

Il saldatore
Iniziamo con il saldatore, che è una semplice punta variamente sagomata (dota-
ta di impugnatura per evitare che ci si scotti le mani) il cui scopo è fondere la
lega saldante che collega i componenti elettronici al circuito stampato del com-
puter o i fili di collegamento ai connettori; per fare ciò, la punta viene a sua volta
riscaldata internamente da una resistenza, ormai sempre “corazzata” (rivestita
da un involucro di acciaio inox) su cui calza. La punta può essere di rame rive-
stito (argentato) o di acciaio inossidabile; la prima si scalda più rapidamente ma
dura meno, dato che è formata da un materiale più tenero e che si consuma alla
svelta a causa della pressione e dello sfregamento sulle zone da saldare. La punta
di acciaio è invece più duratura, anche se l’inerzia termica del materiale la rende
un po’ più lenta a scaldarsi.
Il saldatore per elettronica opera per brasatura ed è costruito per lavorare a tem-
perature tipicamente comprese tra 230 e 400 °C, in quanto serve per fondere la
lega saldante a base di stagno e piombo (o anche le leghe Rohs, che richiedono
temperature leggermente maggiori).
Il saldatore ha tipicamente una cordone terminante con una spina che ne per-
mette l’alimentazione con la tensione di rete (220 Vca); talvolta dispone di un
pulsante per funzionare a metà potenza, il che consente di scegliere tra due tem-
perature di saldatura. I saldatori per elettronica hanno potenze che tipicamente
spaziano da 20 a 50 watt.
Il classico saldatore raggiunge una temperatura che non è sempre uguale ma
viene influenzata da molte condizioni, non ultime quelle ambientali (temperatu-

Figura 8.1 - Un saldatore semplice per


elettronica: all’interno della sua punta c’è
una resistenza che gli fa raggiungere la
temperatura di fusione delle leghe saldan-
ti a base di stagno.

150
Attrezzarsi per riparare i notebook

ra) e gli sbalzi della tensione di rete. Per effettuare saldature ad una temperatu-
ra stabile e nota, occorre utilizzare una stazione saldante, la quale è composta da
un saldatore e da un blocco che ne controlla l’alimentazione; il controllo viene
effettuato in vario modo ma si basa sempre su un sensore collocato sulla punta,
scopo del quale è informare l’unità di controllo della temperatura raggiunta. Il
sistema è di tipo termostatato, in modo che quando viene raggiunta la tempera-
tura impostata la resistenza del saldatore viene privata dell’alimentazione e torna
sotto tensione non appena la temperatura scende di pochi gradi sotto il valore
impostato.
Stazioni saldanti ce ne sono di vario tipo, ma tutte funzionano secondo questo
principio; qualcuna lavora a temperatura fissa e la gran parte dispone di un selet-
tore per impostare due o tre temperature o di una manopola o di un pannello a
pulsanti per variare la temperatura a piacimento. Le più pregiate stazioni hanno
un display (LCD o a diodi luminosi) dove vengono mostrati i parametri di fun-
zionamento, ovvero la temperatura impostata e quella della punta o solo que-
st’ultima.

Uso del saldatore


La saldatura o brasatura a stagno consiste nell’unire due parti (nel caso specifi-
co i terminali dei componenti elettronici e i fili o le piste di dei circuiti stampa-
ti) che sono tipicamente di rame, mediante una certa quantità di lega stagno
piombo o Rohs compatibile: scaldato fino al punto di fusione, lo stagno cola
sulle parti e quando si raffredda le fissa l’una all’altra, stabilendo peraltro l’indi-
spensabile collegamento elettrico, dato che la lega saldante è metallica e quindi
molto conduttiva. Allo scopo di migliorare la presa dello stagno, normalmente
i terminali dei componenti elettronici sono stagnati in fabbrica ed è perciò che
appaiono di colore grigio argenteo.
Perché la saldatura venga bene, occorre che le superfici da saldare non siano né
umide, né ossidate; inoltre, sempre nell’intento di migliorare l’aderenza della
lega saldante, all’interno del filo che la costituisce viene incapsulato del flussan-
te, ossia una sostanza gelatinosa (più o meno densa) che scaldandosi liquefa ed
ha il duplice effetto di migliorare la fusione dello stagno e farlo aderire ed
addensare sulle zone metalliche, in modo che finisca sulle piazzole e i terminali

Figura 8.2 - Ecco come fare la saldatura di un com-


ponente su circuito stampato.

151
Capitolo 8

Figura 8.3 - Una stazione saldante


con la spugnetta per pulire la
punta del saldatore.

dei componenti invece che cortocircuitare piazzole attigue. La saldatura si con-


duce appoggiando la punta del saldatore per qualche secondo sulla pista di rame
dove è già stato infilato (se trattasi di montaggio a reofori passanti) o appoggia-
to (se si parla di montaggio superficiale) il terminale del componente da stagna-
re e poi appoggiando il filo di lega saldante sul terminale o sulla pista. Non biso-
gna appoggiare il filo sulla punta o quantomeno non bisogna farlo prima di aver
scaldato pista e terminale, altrimenti è facile si verifichi la cosiddetta “saldatura
fredda”: in pratica le parti sembrano unite ma non lo sono e la resistenza elet-
trica del contatto è troppo elevata per garantire il buon funzionamento del cir-
cuito. La saldatura fredda è molto insidiosa perché difficilmente visibile, in quan-
to il componente sembra saldato ma non lo è; si verifica perché lo stagno caldo
cola su parti (pista e componente) che non sono abbastanza caldi, quindi solo-
difica troppo rapidamente e non attecchisce come dovrebbe.
Allo scopo va ricordato che lo stagno ben fuso si riconosce, oltre che per la sua
forma liquida, per il colore, che diventa argento lucido; quando di raffredda e
torna solido, lo stagno passa repentinamente dal colore lucido all’opaco.

Il succhiastagno
È un apparato più o meno sofisticato il cui scopo è aspirare lo stagno delle sal-
dature; si rivela particolarmente utile quando occorra dissaldare componenti
elettronici a montaggio tradizionale (a terminali passanti, ovvero THT) con
molti piedini da circuiti stampati a doppia faccia con fori metallizzati, dato che
il saldatore qui non basta in quanto lo stagno rimane negli interstizi fra termina-

Figura 8.4 - Uso della trecciola dissaldante


per asportare lo stagno da una piazzola di un
circuito stampato.

152
Attrezzarsi per riparare i notebook

li e pareti dei fori. Nella sua forma più semplice, si tratta di una pompetta a
mano formata da un cilindro cavo contenente un pistone che si carica con una
molla e premendo un pulsante ritorna a riposo, aspirando la lega saldante
mediante un beccuccio metallico o di teflon comunicante con la camera della
pompetta. Tale succhiastagno, che è meccanico, si usa in abbinamento al salda-
tore: quest’ultimo fonde lo stagno da rimuovere e il succhiastagno lo aspira.
Siccome tenere in mano due attrezzi è scomodo, sono stati inventati i dissalda-
tori, che sono succhiastagno a punta metallica (in rame o acciaio inox) riscalda-
ta come nei saldatori. In essi il cilindro comunica con la punta riscaldata da una
resistenza elettrica e cava internamente. La punta scalda e fonde lo stagno e la
pompetta lo risucchia; chiaramente la cosa funziona se il tecnico preme il pul-
sante di rilascio della pompa quando lo stagno è ben fuso.
Il succhiastagno può essere una macchina vera e propria, sovente integrata nelle
stazioni di saldatura: in tal caso si tratta di un dissaldatore come quello appena
descritto, ma in cui manca la pompetta a mano; infatti l’interno della punta cava
è collegato ad un tubo di gomma che termina sulla base della stazione, all’inter-
no della quale si trova una pompa a depressione che il tecnico attiva semplice-
mente premendo un pulsante posto nell’impugnatura del dissaldatore.
La pompa è azionata elettricamente e può aspirare in continuazione, diversa-
mente da quella del dissaldatore comune, che aspira una sola volta e poi va rica-
ricata; per questa ragione la stazione saldante con dissaldatore è più efficace nel
rimuovere anche grandi quantità di stagno.

Manutenzione del succhiastagno


Lo stagno aspirato raffredda quasi subito e solidifica, formando masse più o
meno grandi che devono essere fermate prima di raggiungere la pompa aspiran-
te; allo scopo, all’interno dei dissaldatori si trova un filtro a retìna o formato da
un tampone di cotone non compresso, in modo da lasciar passare l’aria ma da
trattenere lo stagno.
Col tempo e con una frequenza che dipende dall’uso che si fa dell’attrezzo, il fil-
tro va rimosso e sostituito con uno idoneo.
Inoltre, specie se è fatta di rame, la punta tende a formare incrostazioni dovute

Figura 8.5 - Una stazione saldante


professionale con dissaldatore
(JBC).

153
Capitolo 8

al cedimento della parete interna a causa del calore e col tempo si intasa; perciò
va pulita usando uno spillone o del sottile filo di ferro, oppure appositi scovoli-
ni forniti in dotazione al dissaldatore dal costruttore.

La stazione ad aria calda


Si tratta di una macchina che per saldare o dissaldare riscalda i componenti o le
loro connessioni mediante un getto d’aria calda, di cui si possono regolare,
mediante comandi posti sul pannello frontale, l’intensità (la pressione, in prati-
ca...) e la temperatura. Questo macchinario si rende necessario quando occorre
rimuovere componenti in SMD con molti piedini o molto piccoli, ovvero con
piedini molto fitti, dato che in questi casi procedere con il solo saldatore può
danneggiare i componenti o rendere praticamente impossibile il distacco di inte-
grati ad elevato numero di piedini. Anche il dissaldatore servirebbe a poco, in
quanto più adatto a dissaldare integrati e componenti a terminali passanti; con
gli SMD, non riuscirebbe a rimuovere lo stagno sotto i piedini, quindi non per-
metterebbe di staccare i componenti dallo stampato.
La stazione a getto d’aria calda consta di una ventola o pompa da aria di tipo
rotativo a bassa pressione (sempre comandata da un motore elettrico), che aspi-
ra aria dall’esterno (protetta da un filtro) e la soffia in un tubo che porta alla testa
dell’erogatore; quest’ultimo è un ugello tubolare che può essere variamente
sagomato oppure avere forma cilindrica ma essere predisposto per l’applicazio-
ne di adattatori (deflettori) in grado di dirigere l’aria in vari modi. L’erogatore ha
un’impugnatura atermica che consente all’operatore di tenerlo in mano e diri-
gerlo dove serve.
La dissaldatura ad aria calda si effettua facilmente appoggiando su un piano
metallico la scheda da cui staccare i componenti e dirigendo il getto caldo sui
piedini di tutti i lati, passando in sequenza da uno all’altro; quando lo stagno sta
per fondersi diventa lucido ed è allora che si può asportare il chip. Allo scopo
bisogna, con mano ferma, afferrarlo mediante una pinzetta tipo quelle per medi-
cazioni, sollevandolo con decisione e badando di non urtare i componenti che
si trovano accanto; infatti, se l’elemento da staccare si trova in una zona del cir-

Figura 8.6 - Una stazione ad aria calda (a sinistra) ed uno dei deflettori, pensato per dissal-
dare chip quadrati o BGA: l'ugello è quadrato e diffonde l'aria sopra e accanto al chip.

154
Attrezzarsi per riparare i notebook

cuito stampato densamente “popolata” di componenti, è facile che anche quel-


li intorno siano scaldati al punto da sciogliere la lega saldante, il che vuol dire
che basta urtarli per staccarli e fare un piccolo disastro, anche perché il trascina-
mento di un componente provoca lo spargimento dello stagno e il cortocircui-
to di piste e componenti vicini, poi difficile da rimuovere.
La dissaldatura riesce meglio se il circuito viene collocato sopra una piastra
riscaldante, in quanto, mentre con la sola aria calda si può scaldare un lato e
quindi occorre raggiungere temperature molto elevate prima di ottenere lo scio-
glimento della lega saldante, scaldando da sotto lo stampato si prepara lo stagno
alla fusione, che può avvenire con una minore temperatura sul lato investito dal
getto d’aria calda. Ne beneficiano la durata dei componenti e le saldature: infat-
ti se un lato dello stampato viene riscaldato fortemente rispetto all’altro, la dif-
ferenza termica può far inarcare il circuito e deformare o staccare delle saldatu-
re, mentre con lo stampato uniformemente riscaldato questo rischio non esiste.
Quanto alla saldatura, la macchina ad aria calda è utile anche in questo caso per
i componenti con molti piedini o per quelli troppo piccoli per essere saldati col
tradizionale saldatore; naturalmente la macchina si presta alla sostituzione dei
componenti, nel senso che salda tranquillamente i chip a patto che le piste su
cui i loro piedini dovranno appoggiarsi siano adeguatamente stagnate.
La saldatura si effettua molto semplicemente appoggiando il chip sulle rispetti-
ve piazzole, ben centrato rispetto ad esse; posizionato il componente, si può
scaldarlo, badando che questa volta il getto d’aria calda deve essere abbastanza
debole, altrimenti se soffia forte può spostare il chip, tanto più se questo è pic-
colo. Infatti, mentre quando si tratta di dissaldare un componente si può anche
incrementare la potenza del getto per aumentare rapidamente la temperatura,
qui occorre cautela.
La saldatura riesce meglio se prima di appoggiare il componente si depone sulle
piazzole un sottile strato di flussante: infatti questo materiale agevola la fusione
e l’adesione della lega saldante attorno ai terminali del chip, impedendo che essa
vada a cortocircuitare contatti attigui.
Anche nel caso della saldatura, l’operazione riesce meglio se lo stampato viene
prima riscaldato mediante una piastra.
La saldatura ad aria calda si può effettuare anche su piste in rame pulito, ma

Figura 8.7
Asportazione di
un componente
SMD con la sta-
zione a getto d'a-
ria calda.

155
Capitolo 8

prima occorre stagnare le piazzole su cui i pin dei componenti dovranno aderi-
re; il solito flussante renderà le cose più facili.

Accortezze nell’uso della macchina ad aria calda


Alcune macchine a getto d’aria calda (ad esempio Velleman) dispongono di un
sistema di spegnimento ritardato che consente di raffreddare il riscaldatore
quando l’utente spegne il macchinario; sostanzialmente dopo lo spegnimento
manuale la ventola continua a soffiare aria per un certo tempo, fino a raffredda-
mento avvenuto. Ciò comporta che se si appoggia l’erogatore, dal suo ugello
uscirà ancora per un po’ aria calda e quindi se si è spenta la macchina quando
era a temperatura molto alta, ciò può essere pericoloso. Per questa ragione non
bisogna mai appoggiare l’erogatore su un tavolo o di fronte a materiale infiam-
mabile (solventi, alcol, carta) o deformabile col calore (polistirolo e plastiche
deboli) ma, piuttosto, riporlo sul proprio supporto. Tale accorgimento vale
anche per le macchine a spegnimento immediato, quando vogliamo appoggiare
momentaneamente l’erogatore perché per qualche istante non ci serve e non
vogliamo spegnere la macchina (ad esempio perché è di quelle in cui ogni volta
che si accende bisogna reimpostare con i pulsanti la temperatura e la pressione
dell’aria); in ogni caso accertatevi che dietro il sostegno dell’erogatore non vi
siano oggetti infiammabili o che si possono sciogliere.

La macchina per i BGA


Si tratta di un’attrezzatura più o meno complessa, che permette di saldare e dis-
saldare i chip con connessioni BGA, i quali, rispetto ai classici DIP, TSSOP,
chip-carrier e via di seguito, non hanno i contatti lateralmente, bensì li riporta-
no sotto il proprio corpo; per questa ragione, un chip BGA si salda riscaldando-
lo dopo averlo appoggiato alle corrispondenti piazzole ben centrato e dopo aver
riscaldato il circuito stampato. In questo caso la centratura è di fondamentale
importanza e viene ottenuta con dei riferimenti fatti nella serigrafia del circuito
stampato, la quale deve, perciò, essere realizzata nella maniera più accurata pos-
sibile; nelle macchine più complesse, il BGA si posiziona fotografando con una
fotocamera digitale la posizione dei contatti sullo stampato, quindi sovrappo-
nendo la griglia che essi compongono alla visione del chip quando viene appog-
giato allo stampato stesso. In ogni caso, di solito basta posizionare il BGA in
modo che tutti i suoi lati coprano i contatti, ovvero che siano equidistanti dal
segno serigrafato; nel momento in cui le sfere di lega saldante si sciolgono, il
BGA si posiziona automaticamente sui contatti del circuito.
Per potersi saldare, i contatti dei BGA vengono dotati di piccole sfere di lega sal-
dante che il costruttore in fabbrica applica a caldo su ogni piazzola; il calore
dello stampato e quello cui viene sottoposto l’integrato, fondono la lega, la quale
aderisce alle piazzole di esso e alle corrispondenti sul circuito stampato, realiz-
zando il fissaggio e la connessione elettrica. Per agevolare l’adesione dello sta-
gno nei punti giusti, prima di appoggiare i chip si depone un sottile strato di
156
Attrezzarsi per riparare i notebook

pasta flussante sulle rispetive piazzole del circuito stampato; il flussante deve
essere specifico per i BGA, quindi deve essere mediamente denso.
La saldatura viene normalmente operata scaldando lo stampato da sotto e da
sopra, ma in questo caso solo in corrispondenza del chip da saldare. Si posso-
no anche saldare più integrati, semplicemente posizionandoli ognuno al loro
posto e poi scaldando inizialmente la parte inferiore del circuito, quindi in un
secondo momento anche quella superiore.
Normalmente la saldatura dei BGA prevede il riscaldamento del lato inferiore
dello stampato in modo che quello superiore si porti ad una temperatura di circa
140÷150 °C; raggiunto questo livello, si inizia a riscaldare anche la parte supe-
riore con un potente riscaldatore rapido, che la porta ad una temperatura com-
presa fra 200 e 230 °C per un tempo predefinito dalla fabbrica sulla base di vari
parametri. In realtà è sufficiente raggiungere i 200÷230 °C solamente sui com-
ponenti da saldare.
Siccome i componenti potrebbero spostarsi, la gran parte dei costruttori di
notebook fissa i BGA mediante uno o più punti di colla resistente alle alte tem-
perature o con resine epossidiche; ciò viene fatto prima di iniziare il ciclo di
riscaldamento. Proprio queste colle sono la causa della difficoltà di risaldatura
di alcuni chip BGA quando si deve riparare un portatile.
La criticità del montaggio del BGA ne rende difficile la sostituzione, che non
sempre, senza la dovuta attrezzatura, avviene con successo; per questo è meglio
tentare prima con il reflow.
La macchina per BGA viene utilizzata in gran parte per la procedura di reflow,

Figura 8.8 - Macchine per saldatura e


risaldatura dei BGA; quella di sinistra ha il
riscaldatore inferiore a resistenza elettrica
e quello superiore a lampada. La macchina
qui a destra è di tipo professionale, a con-
trollo elettronico ed il riscaldatore superiore
è a getto d'aria calda, mentre quello inferio-
re è ad infrarossi.

157
Capitolo 8

che consiste nel “ripassare” le saldature con l’aiuto di un’adeguata quantità di


flussante specifico per reflow, che è piuttosto fluido (poco denso); la macchina
serve quindi nelle riparazioni, che peraltro sono le più frequenti, di notebook.
Infatti sempre più si usano componenti BGA (che hanno cominciato a fare la
loro comparsa nelle schede dei PC con i chipset LX e BX440 delle mainboard
dei Pentium II) soprattutto per i chipset e ormai i chipset sono responsabili del
governo di gran parte del funzionamento dei notebook, dal controllo dell’accen-
sione ed alimentazione all’accesso alla memoria ecc.
La macchina più semplice consta di una piastra orizzontale metallica o in mate-
riale ceramico riscaldata inferiormente mediante una resistenza elettrica (isolata
da materiale ceramico): una sorta di piastra per panini o di bistecchiera elettrica;
questa piastra è montata in una struttura che riporta due guide sulle quali scor-
rono due sostegni regolabili per sostenere il circuito stampato su cui operare il
trattamento termico. La stessa base che sostiene la piastra e le guide ha un brac-
cio (che può essere di vario genere) che sospende una lampada a quarzo che
emette una luce potentissima ed una gran quantità di infrarossi; essa serve a scal-
dare il lato superiore del circuito stampato.
Per evitare di raggiungere temperature troppo elevate o di mantenere le parti più
fredde di quel che occorre per una buona riuscita della saldatura, una macchina
che si rispetti deve disporre di due sonde da collocare una sulla superficie supe-
riore del circuito stampato ed una sul componente da riscaldare; ogni sonda
deve essere collegata ad un termometro elettronico in grado di comunicare all’o-
peratore le temperature raggiunte, in modo che questi possa spegnere il riscal-
datore del lato che ha superato il campo di temperatura ottimale.
Le macchine migliori sono termostatate, nel senso che dispongono di due ter-
mostati, ognuno dei quali si serve di una delle sonde per rilevare la temperatura
di un lato dello stampato e mantenerla entro i limiti previsti; ogni termostato è
solitamente di tipo elettronico (ma non è escluso che si possano trovare termo-
stati elettromeccanici a lamina bimetallica) e dispone di pulsanti e display per
impostare e visualizzare la temperatura raggiunta. Il termostato è un dispositivo
che mantiene la temperatura in esso impostata, rilevandola mediante le sonde.
Inoltre nelle macchine di buona qualità il riscaldatore del lato inferiore è a raggi
infrarossi; quello superiore può essere la solita lampada a quarzo, ma anche, in
modelli particolarmente pregiati (e costosi) una campana metallica che insuffla
aria calda diretta sul BGA. Alcune macchine dispongono anche di una ventosa
(un sistema a depressione) in grado di aspirare il chip BGA e sollevarlo quando

Figura 8.9 - Pasta flussante da spal-


mare a lato dei BGA per la procedu-
ra di reflow o per il distacco.

158
Attrezzarsi per riparare i notebook

lo stagno si è fuso; questo genere di apparecchiatura serve, chiaramente, per


estrarre i BGA e sostituirli, ma non è necessaria per il reflow.
Ancora, le macchine più prestanti dispongono di tre sistemi di riscaldamento:
uno inferiore ad infrarossi o a resistenza, che scalda la scheda; uno, sempre infe-
riore, che soffia aria calda sotto al chip; in queste macchine si possono imposta-
re distintamente le temperature dei tre riscaldatori.
Nelle macchine per la saldatura e risaldatura dei chip BGA, il riscaldamento del
lato inferiore deve avvenire lentamente e comunque rispettando le proprietà di
inerzia termica del circuito stampato: altrimenti prima che sopra si raggiungano
i 140÷160 °C richiesti, sotto la temperatura può arrivare anche a più di 220 °C
e cominciare a sciogliere la lega saldante, con la conseguenza che se ci sono
componenti possono staccarsi, con il risultato che nel tentare di riparare una
scheda la si danneggia in modo irreparabile, a meno di non avere le mappe di
disposizione dei componenti (che nessun costruttore fornisce) e rimettersi a sal-
dare uno ad uno gli elementi staccatisi dallo stampato.
La piastra riscaldante deve quindi operare in modo da far crescere la tempera-
tura progressivamente, cosicché la differenza tra il lato inferiore e quello supe-
riore dello stampato non sia eccessiva; in altre parole, il riscaldatore inferiore
deve lasciare il tempo allo stampato di scaldarsi sul lato superiore più o meno
quanto si scalda su quello superiore, altrimenti quando quest’ultimo avrà rag-
giunto la temperatura alla quale potrà essere spento il riscaldatore, magari il lato
inferiore avrà già raggiunto la temperatura critica.

Gli strumenti da laboratorio


Un buon tecnico non può prescindere dalla conoscenza degli strumenti tradi-
zionali di misura e analisi impiegati in un laboratorio di elettronica; ciò, allo
scopo di analizzare quello che accade nei circuiti del notebook. Qui di seguito
si farà qualche cenno alle apparecchiature di misura, primo fra tutti l’immanca-
bile tester, o multimetro che dir si voglia; quest’ultimo è lo strumento base che
non deve mancare sul banco di un tecnico elettronico, come nella borsa da lavo-
ro di un elettricista. La drastica riduzione dei prezzi dovuta alla massiccia inva-
sione dei prodotti dell’estremo oriente permette ormai a chiunque, anche allo
sperimentatore più “squattrinato”, di avere in casa un tester, che oggi si compe-
ra anche con 5 euro; certo, resta sempre il fatto che c’è strumento e strumento
e che sicuramente un multimetro Fluke, Philips, Beckman valgono i soldi che
costano, come uno cinese, da pochi soldi, non può certo essere ritenuto l’essen-
za dell’affidabilità, anche se va bene quando non serve una gran precisione.

Il tester
È insieme un voltmetro, un amperometro, un ohmmetro e può diventare anche
un buon misuratore di induttanze e capacità, ed un analizzatore di transistor. Il
tester permette di effettuare misure tra due punti ed ha, perciò, principalmente
due boccole dove infilare i cavi di due puntali; i puntali sono degli elettrodi, ben
159
Capitolo 8

rivestiti da materiale isolante calcolato per evitare la folgorazione di chi li tiene


tra le dita, da appoggiare nei punti tra i quali bisogna effettuare la misura.
Normalmente lo strumento misura tensioni e correnti sia in continua che in
alternata, tipicamente a frequenza di rete; può anche misurare grandezze varia-
bili a frequenze più elevate (fino a qualche kHz) ma è progettato per leggere
componenti ad andamento sinusoidale. Ciò perché la misura delle alternate
avviene rettificando la corrente mediante un raddrizzatore a singola semionda,
sul cui condensatore, in presenza di un’alternata sinusoidale, si trova una tensio-
ne pari a 1,414 volte il valore efficace. Se si va a misurare una tensione di forma
d’onda diversa, quale il clock delle CPU, i segnali presenti sulle induttanze degli
alimentatori switching e di altre parti di un computer, il valore ottenuto potreb-
be non essere quello esatto. Per fare misure su segnali rettangolari e complessi
occorre l’oscilloscopio. Nelle misure in alternata, anche la frequenza della ten-
sione o corrente da misurare ha la sua importanza: il tester è ottimizzato per fare
misure su frequenze relativamente basse . Misurando tensioni e correnti a fre-
quenze nettamente più elevate, si fa sentire l’effetto del condensatore usato per
il filtro, il quale, seppure di piccolo valore, attenua la tensione inviata al
microamperometro proporzionalmente alla frequenza; quindi con un tester non
conviene misurare tensioni e correnti alternate oltre 1 kHz.
Per le misure in continua va rispettata la polarità indicata, ossia il puntale posi-
tivo (rosso) sul punto più positivo e quello negativo (nero) sul contatto meno
positivo o negativo del circuito; per quelle in alternata i puntali si possono col-
legare liberamente (rosso e nero non hanno alcun significato). Lo stesso dicasi
per le misure di resistenza. Siccome con un tester analogico non è possibile rap-
presentare correttamente tutti i valori misurabili, ogni tipo di misura è diviso in
portate, ossia campi di misura; una portata è l’escursione tra la minima e la mas-
sima tensione leggibile sulla scala graduata.
Si definisce fondo-scala di una portata il valore che porta la lancetta alla fine della
corsa; quindi se una portata è da 30 V fondo-scala
(f.s.) vuol dire che il tester può misurare, disposto in
essa, fino a 30 V.
Per quel che riguarda il multimetro digitale (oggi
l’unico in commercio) è basato su un voltmetro
numerico in continua, capace di misurare anche
poche decine di millivolt, provvisto di convertitore
analogico/digitale e driver per display a cristalli
liquidi da 3 cifre più segno. Per effettuare le misure
di resistenza, il voltmetro viene collegato interna-

Figura 8.10 - Un multimetro digitale (Beckman).

160
Attrezzarsi per riparare i notebook

Figura 8.11 - Principali componenti del pannello


di comando del multimetro digitale:
1. SELETTORE FUNZIONI E PORTATE;
2. BOCCOLA PUNTALE COMUNE;
3. BOCCOLA MISURE TENSIONE E
RESISTENZA;
4. BOCCOLA MISURE BASSA CORRENTE;
5. BOCCOLA MISURE ALTA CORRENTE;
6. ZOCCOLO PROVA TRANSISTOR;
7. ZOCCOLO MISURA CONDENSATORI.

mente a una pila e il microamperometro o il voltmetro con LCD viene inserito


in un ponte di misura.
Il display dello strumento fornisce il valore numerico e in qualche caso mostra
anche il fondo-scala scelto e l’unità di misura cui la lettura si riferisce. Per usare
bene il tester digitale bisogna innanzitutto conoscere come è composto il visua-
lizzatore LCD, che, nella forma più comune ai multimetri (in special modo quel-
li “basic”, ossia quelli di basso costo) è diviso come mostrato nella Figura 8.12.
L’indicazione data dal display è sempre a quattro cifre, sebbene le tre di destra
siano intere e quella di sinistra sia metà (ecco da dove nasce la dicitura 3 digit e
mezzo); in altre parole i primi tre digit possono visualizzare qualsiasi numero da
0 a 9 e il quarto solo l’1 (sta spento se la lettura si può visualizzare con le prime
tre cifre). A sinistra c’è il segno meno, che si accende solo se il valore indicato è
negativo; per intendersi, appare solo nelle misure in continua se collegate i pun-
tali alla rovescia, ossia se il rosso sta sul negativo e il nero sul positivo. Può anche
apparire nelle misure ohmmetriche, se il circuito in cui si fa la misura è alimen-
tato, ovvero se ci sono condensatori di capacità rilevante rimasti carichi.
Oltre ai tre digit e mezzo e al segno, il display riporta sempre un’indicazione di
batteria scarica: la scritta LOBAT appare quando la pila si sta scaricando e non
dà una tensione sufficiente a garantire misure corrette. Se vi appare, vuol dire
che quanto prima dovete sostituire la pila, che di solito è da 9 volt.

Figura 8.12 - Tipica composizione del display del


tester digitale: la scritta in alto a sinistra (LOBAT)
appare solo quando la pila si sta scaricando.

161
Capitolo 8

Questa è la dotazione tipica; va però detto che gli strumenti di maggior pregio
riportano, sul display, indicazioni supplementari. E non solo: i multimetri auto-
range, non avendo selettori per i campi di misura, visualizzano la misura, l’even-
tuale indicazione di alternata o continua, ovvero di resistenza.
Ad esempio, alcuni tester visualizzano il tipo di misura: W se si tratta di resisten-
za, A= (o mA=) se si sta misurando una corrente continua, Arms (o mArms) o
qualcosa di simile (ad esempio A accompagnato dal simbolo di alternata) se la
misura è in corrente alternata, V= (o mV=) se si misurano tensioni continue e
Vrms (o mVrms) o V accompagnato dal simbolo di alternata se la misura riguar-
da una tensione alternata. Ancora, appare Hz se si stanno compiendo misure di
frequenza, µF o nF se si stanno misurando capacità e µH o mH se si stanno
misurando, invece, induttanze.
Il tester finora descritto è manuale, perché in esso selezioniamo con un seletto-
re rotativo o delle boccole il tipo di misura e la portata. In commercio esistono,
però, speciali multimetri digitali automatici in grado di decidere da soli qual è la
portata più adatta alla misura: vengono detti autorange perché scelgono da soli la
portata e a volte il tipo di misura. Tipicamente questi strumenti hanno un selet-
tore per scegliere se misurare tensioni, correnti o resistenze; nella misura di ten-
sioni e correnti, il tester riconosce da sé se si tratta di alternata o continua. Come
qualsiasi multimetro digitale, anche questo dispone di boccole distinte per le
varie misure. Tipicamente la funzione autorange è attiva per le misure di tensio-
ne, ma non si applica alle portate amperometriche a forte corrente, per le quali
esiste un circuito separato da usare manualmente.

Usare il tester
Il multimetro digitale si accende mediante un pulsante ON/OFF, oppure spo-
stando il selettore nella posizione corrispondente alla misura da effettuare.
Alcuni modelli si accendono e spengono con un pulsante (però restano sempre
alimentati, sebbene il consumo a riposo sia tale da far durare una batteria più di
un anno) e si spengono da soli se non usati per un certo numero di minuti.

Figura 8.13 - Multimetro digitale autorange: il suo selettore


serve unicamente a impostare il tipo di misura, mentre la
portata la sceglie lo strumento automaticamente. Le boc-
cole sono, in questo caso, solo tre: comune, tensioni/resi-
stenze e correnti. Per le misure amperometriche l'ingresso
è uno solo e la corrente viene rilevata su un unico shunt. Il
display del tester ad autorange indica il tipo di misura e se
si tratta di alternata o continua.

162
Attrezzarsi per riparare i notebook

Nell’eseguire le misure ricordate bene queste semplici regole:


 dovete far toccare le parti (punte) metalliche sui punti dove intendete legge-
re tensioni, correnti ecc.;
 evitate di toccare con le dita le parti metalliche, perché nel caso migliore fal-
sate la misura e in quello peggiore rischiate la vita; le dita devono stare sempre
e solo sulle impugnature in gomma o plastica;
 stringete sempre tra le dita pollice e indice (tenendo dietro il medio) i punta-
li e appoggiateli con decisione sui punti dove fare la misura, assicurandovi che
non possano scivolare via e andare a fare cortocircuito;
 sostituite sempre i puntali che presentassero screpolature sull’impugnatura o
sui cavetti tali da esporre i fili o le parti metalliche.

Misura di tensioni
Per misurare le tensioni, bisogna usare per il puntale negativo la boccola comu-
ne (COM) o, se lo strumento dispone di boccole separate per le misure in con-
tinua e in alternata, utilizzare nel primo caso la boccola = e nel secondo quella
riportante il simbolo d’alternata (~). Per quanto riguarda il puntale positivo,
dovete inserirne la spinetta nella boccola V se il multimetro è di quelli con il
selettore (la boccola per la misura delle tensioni è sempre la stessa, sia per le
misure in continua che per quelle in alternata, almeno negli strumenti con il
commutatore/selettore) ovvero nella boccola corrispondente alla portata se
disponete di un misuratore di quelli un po’ datati, che hanno una boccola per
ciascuna portata e per ciascun tipo di misura (alternata o continua). Prima di
fare una misura cercate di sapere quale può essere la massima tensione presen-
te nel circuito e accertatevi che il tester possa sopportarla; a riguardo notate che
sullo strumento o nel suo manuale viene sempre indicata la massima tensione
applicabile all’ingresso di misura delle tensioni o alla boccola della portata volt-
metrica più alta.
Tale tensione non va confusa con la massima indicabile (fondo-scala della por-
tata più alta) ma è intesa come il limite sopportabile dal multimetro senza che si
verifichino danni nel suo circuito.

Misura di correnti continue


Quando bisogna misurare una corrente, ad esempio quella erogata da una bat-
teria o da un alimentatore, occorre disporre il tester sulle portate amperometri-
che. Prima di vedere i dettagli, è il caso di fare una precisazione: mentre nella
misura delle tensioni i puntali dello strumento vanno collegati tra due punti e
comunque in parallelo, nel misurare la corrente il tester deve trovarsi in serie.
Se avete un tester digitale, portate il commutatore sulla portata amperometrica
corrispondente a quello che presumete possa essere il valore da misurare, stan-
do un po’ larghi. Ad esempio, se nel circuito possono scorrere al massimo 500
mA, scegliete la portata di 1 o 2 A o direttamente la 10 A. La spinetta del pun-
tale negativo inseritela nella boccola del comune (COM) e quella del puntale
163
Capitolo 8

positivo mettetela nella boccola che corrisponde al tipo di misura da fare: in


quella siglata A (quella delle misure di bassa corrente) se avete disposto il selet-
tore sulla misura di correnti di basso valore, ovvero in quella contrassegnata con
10 A (o 20 A, a seconda del multimetro che avete) se il selettore è sulla portata
ad alta corrente.
Se invece avete un tester con le boccole separate, identificate le boccole che
riguardano il comune (puntale negativo) e poi la portata, nelle misure ampero-
metriche, che permetta di misurare senza problemi la corrente che presumete
debba scorrere nel circuito sul quale vi apprestate a compiere la misura. Di soli-
to il comune è siglato COM oppure = (Figura 8.15).
Nelle misure in corrente continua, i puntali vanno collegati in una precisa
maniera: quello positivo (rosso) deve andare sul filo o morsetto dal quale la cor-
rente arriva, mentre il negativo (nero) va puntato sul filo o morsetto da dove la
corrente esce. Per non sbagliare, prima di fare la misura di corrente, con il tester
disposto alla misura delle tensioni continue andate a vedere qual è il filo a pola-
rità positiva; in alternativa, se dovete misurare la corrente in un motore elettri-
co, in un circuito elettronico, un timer, un campanello ecc., per sapere qual è il
terminale cui collegare il puntale positivo rintracciate la linea positiva di alimen-
tazione. Fatto ciò, staccate il filo che va sul + e toccatelo con il puntale rosso del
tester; con il puntale nero, toccate il + dell’utilizzatore. Così siete certi che la cor-
rente entrerà nel tester dal puntale rosso ed uscirà da quello nero. Comunque, se
usate un multimetro digitale l’inversione di polarità non deve preoccuparvi più
del dovuto: se avete messo i puntali alla rovescia, lo strumento segna - davanti
al valore visualizzato. La giusta polarità deve starvi a cuore più se usate un tester
analogico, perché in tal caso la lancetta si muove al contrario ed urta all’inizio
della scala.

Misure in alternata
Le misure in corrente alternata sono meno problematiche, in quanto non essen-
doci una polarità (perché la corrente alterna il proprio verso) non c’è nemmeno
l’onere di stare a identificare il positivo e il negativo della linea elettrica. Quando
dovete fate una misura in alternata, i puntali potete disporli a caso, perché uno

Figura 8.14 - Misura di tensioni


continue con un tester digitale: il
puntale rosso va sul punto positivo
e il nero su quello negativo; se
invertite i puntali lo strumento forni-
sce un'indicazione negativa.

164
Attrezzarsi per riparare i notebook

vale l’altro. Ma a parte questo dettaglio, per tutto il resto dovete fare come già
spiegato a proposito delle misure in corrente continua: nel tester analogico
senza selettore, identificate le boccole comune (= o COM) e della portata ovve-
ro la comune e quella delle misure amperometriche; quindi inserite la spinetta
del puntale nero nella boccola comune e quella del puntale rosso nella boccola
della portata. Invece, se disponete di un multimetro digitale oppure di uno ana-
logico con selettore rotativo dei campi di misura, identificate la boccola comu-
ne e inseritevi la spinetta del puntale nero, poi inserite la spinetta del puntale
rosso nella boccola delle misure amperometriche. Notate che qui parliamo di
nero e rosso solo per una questione di ordine, perché, come già detto, potrem-
mo benissimo scambiare le spinette e le posizioni dei puntali e la misura avver-
rebbe comunque correttamente.
Anche nel caso delle misure di correnti alternate, identificate prima quella che è
la portata che può ragionevolmente comprendere il valore da misurare e impo-
statela con il selettore; chiaramente valutate subito se è il caso di usare la porta-
ta ad alta corrente (10 A) e la relativa boccola. Il consiglio è, quando non avete
idea di quale sia la corrente che potrebbe scorrere nello strumento, scegliere la
portata più alta; poi, se vedete che la lancetta si sposta poco o che l’indicazione
del display si limita alla prima cifra o alle prime due cifre, scegliete una portata
con fondo-scala più basso. Questo vale per le misure sia in continua che in alter-
nata. Inoltre, ricordate che se disponete di un tester con autorange, dovete
impostare solo il tipo di misura con il selettore: la portata se la sceglie da solo.

Misure ohmetriche
Oltre alle tensioni e alle correnti, il tester permette di misurare anche le resisten-
ze elettriche, sebbene con una certa approssimazione (più del 5 %). Il campo di
misura ohmmetrico è ideale quando si debba verificare il valore di una resisten-
za per elettronica della quale non si vedono più le strisce perché l’esterno risul-
ta affumicato da un surriscaldamento o perché la sigla è venuta via; ma è anche
molto utile, nella portata più bassa, per accertare la presenza di eventuali corto-
circuiti nei montaggi elettronici. Già, quella più bassa è una delle portate mag-
giormente utilizzate del multimetro, sia perché permette di verificare se c’è un
cortocircuito tra due fili o piste di un circuito stampato, sia per fare le prove di
continuità dei cavi o per controllare se un transistor è in corto. Inoltre, sempre
con la portata a più bassa resistenza il tester serve a identificare i fili in cavi mul-
tipli: ad esempio, se non abbiamo un cavo a 5 conduttori tutti dello stesso colo-
re e non sappiamo dall’altro capo quali sono, ci basta unire da un lato una cop-
pia di fili e dall’altro toccare a due a due le estremità dei conduttori fino a veri-
ficare quando la lancetta del tester o il display indica resistenza zero o di pochi
ohm. Nei tester è solitamente prevista, nelle portate ohmmetriche, la funzione
di avviso acustico, abbinata alla portata più bassa; quando la resistenza misura-
ta è al disotto di una ventina di ohm e si può ritenere ci sia continuità o corto-
circuito, suona un cicalino (avvisatore acustico) inserito nello strumento.
165
Capitolo 8

Ma non solo: nelle portate ohmmetriche solitamente si trova anche un’utilissi-


ma funzione dedicata alla verifica dei diodi a giunzione; in altre parole, con lo
stesso circuito di misura delle resistenze, rispettando la giusta polarità, si può
verificare se un diodo o le giunzioni di un transistor bipolare sono a posto.
Le portate ohmmetriche sono utili per verificare l’integrità degli avvolgimenti di
un motore elettrico e di un trasformatore, della bobina mobile di un microfono
o altoparlante magnetodinamico, la bobina di un relé o le piste di un circuito
stampato, la corretta funzionalità di interruttori e pulsanti.

Come misurare le resistenze


Effettuare le misure di resistenza è molto semplice: basta inserire la spinetta di
un puntale nella boccola comune (COM nei tester digitali e =: o COM in quel-
li analogici) e quella dell’altro nella boccola V: (tester digitali) o in quella corri-
spondente alle portata ohmmetrica desiderata, che va scelta partendo sempre
dalla massima resistenza misurabile e scendendo via-via su portate più basse, a
meno di non avere già un’idea di quella che può essere la resistenza del compo-
nente da misurare.
Se utilizzate un multimetro analogico (a lancetta) nella funzione ohmmetrica, la
scala dello strumento non è lineare: è molto larga (valori molto spaziati tra loro)
all’inizio e si comprime (valori sempre più ravvicinati) verso la fine; per questo
motivo conviene scegliere sempre la portata più bassa permessa o quella del
valore che si presume abbia la resistenza da provare, in modo da leggere nella
zona più espansa della scala, che è più leggibile e chiara.
Per misurare le resistenze basta semplicemente applicare i puntali uno ad un ter-
minale; notate che la disposizione dei puntali non ha importanza, nel senso che
non esiste positivo e negativo, a meno di non voler controllare i diodi.
Nel fare le misure, ricordate di non misurare mai le resistenze nei circuiti dove
si trovano: infatti i componenti montati nei loro circuiti possono trovarsi in
parallelo altri componenti, cosicché la resistenza risultante e misurata dallo stru-
mento risulterebbe non quella del resistore ma una certamente più bassa.
Inoltre, nell’effettuare le misure ohmmetriche non bisogna toccare i puntali con
le mani; questo non certo perché la tensione data dal tester potrebbe darvi la

Figura 8.15 - Misura di correnti


continue di basso valore: il tester
va collegato interrompendo un filo.
Sempre, il puntale positivo va col-
legato al filo da dove la corrente
arriva e il negativo al filo che porta
la corrente all'utilizzatore (carico).

166
Attrezzarsi per riparare i notebook

scossa (in tal senso siete in una botte di ferro perché la pila dà da 3 a 9 volt e
comunque la corrente che sfugge allo strumento, per non danneggiare i com-
ponenti sotto misura è di poche decine di microampere o qualche mA a secon-
da della portata selezionata), ma perché nel circuito di misura sono inserite in
serie allo strumentino (microamperometro o voltmetro a cristalli liquidi) resi-
stenze che in alcune portate sono anche abbastanza elevate. Il nostro corpo
conduce corrente e presenta una resistenza che può valere anche pochi kohm,
quindi toccando con le dita i puntali o i terminali della resistenza che si sta misu-
rando mettiamo il nostro corpo e la sua resistenza in parallelo, falsando così la
misura, che risulterà minore.
Per la ricerca dei cortocircuiti e la verifica della continuità elettrica o l’identifica-
zione dei cavi, si usa la portata ohmmetrica più bassa, che nei multimetri digita-
li di qualità è abbinata ai 200 ohm fondo-scala o è per conto proprio. Si proce-
de esattamente come per la misura delle resistenze. La stessa tecnica si può
usare per provare un fusibile, sia esso da casa o da auto: toccando con i punta-
li si deve rilevare resistenza nulla o di pochissimi ohm; se si registrano diversi
kohm o resistenza infinita, il fusibile è bruciato. Tutte le prove qui descritte si
fanno senza badare ad alcun ordine o ad alcuna polarità: potete scambiare il
puntale rosso con il nero senza problemi.

Prova dei diodi


Le portate ohmmetriche intorno ai 2 kohm f.s. permettono di controllare lo
stato dei diodi; molti tester hanno, su queste, il simbolo del diodo proprio a
ricordare tale possibilità Altri strumenti hanno, invece, un’apposita posizione
del selettore dedicata alla prova dei diodi. In ogni caso, qualunque sia la porta-
ta o la funzione scelta, ricordate che per controllare una giunzione dovete rispet-
tare la giusta polarità: inserite la spinetta del puntale nero nella boccola comune
o in quella comune delle misure di resistenza e la spinetta del puntale rosso nella
boccola riservata alle misure ohmmetriche o alla portata corrispondente alla
prova dei diodi. Fatto ciò, toccate con il puntale rosso l’anodo del diodo e con
il nero il catodo (lo riconoscete perché è il terminale che sta dalla parte della
fascetta colorata sul corpo: lo strumento deve indicare una resistenza dell’ordi-

Figura 8.16 - Misura della resi-


stenza di un componente o della
sua continuità: si effettua sulle por-
tate ohmetriche (resistenza) colle-
gando lo strumento come mostra-
to.

167
Capitolo 8

ne di poche centinaia di ohm, ma dipende dalla potenza del dido. Se invertite i


puntali (polarizzazione inversa) vedrete che la resistenza diverrà infinita (non
misurabile) nel senso che nel tester analogico la lancetta andrà a inizio scala e in
quello digitale l’indicazione sarà 1. Se lo strumento continuerà a dare una resi-
stenza misurabile, vorrà dire che il diodo sarà danneggiato. Lo stesso vale se la
resistenza misurata con il puntale rosso sull’anodo è prossima o uguale a zero.
Con il tester potete tipicamente provare tutti i diodi che hanno una tensione di
soglia fino a poco più di 1 volt: quindi i comuni raddrizzatori al silicio e al ger-
manio, i PIN, i Varicap, gli Schottky e anche gli Zener, ma solo in polarizzazio-
ne diretta. Purtroppo non è possibile provare i LED, dato che la loro tensione
di soglia è tipicamente più alta di quella dei comuni diodi (va da 1,8 a 4 volt).

Prova dei transistor bipolari


Prima di vedere come si sfrutta questa funzionalità, è il caso di fare una distin-
zione utile ad evitare equivoci; con un multimetro digitale si possono fare due
tipi di prova sui transistor bipolari, ossia la verifica dell’integrità delle giunzioni
e la misura del guadagno in corrente (l’hfe).
Quella che qui ci interessa è solo la prima, dato che nella riparazione dei PC por-
tatili bisogna sapere se un transistor è interdetto o in cortocircuito e non se
amplifica correttamente, visto che praticamente la totalità dei transistor impie-
gati in un computer funziona a commutazione. La verifica dell’integrità delle
giunzioni è sostanzialmente quella descritta quando si è parlato della verifica dei
diodi; infatti, siccome i transistor bipolari sono formati da due giunzioni PN,
ognuna delle quali individualmente è un diodo, con il multimetro disposto sulle
misure ohmetriche possiamo facilmente verificare se il transistor è, almeno dal
punto di vista elettrico, in buone condizioni, ovvero se una giunzione è andata

Figura 8.18 - Con le portate ohmmetriche si


possono controllare i diodi, ma anche le giun-
zioni dei transistor bipolari.

Figura 8.17 - Prova di continuità di fusibili: se il


fusibile è a posto, il tester misura circa zero ohm;
se invece è interrotto, visualizza una resistenza
infinita.

168
Attrezzarsi per riparare i notebook

in cortocircuito per un surriscaldamento o un eccesso di tensione che ne ha pro-


vocato il breakdown tra collettore ed emettitore.
Per verificare l’integrità delle giunzioni si considera una giunzione alla volta
usando come riferimento il terminale che resta in comune, cioè la base. In que-
sto tipo di prova è determinante rispettare la polarità dei puntali, quindi dovete
inserire nella boccola COM la spinetta di quello negativo (nero) e nella V/W la
spinetta di quello positivo (rosso). La portata da selezionare è quella apposita-
mente indicata, ossia quella che riporta il simbolo del diodo. Durante le prove
di integrità delle giunzioni, ricordate di non toccare i terminali del transistor o
il metallo dei puntali con le dita, altrimenti otterrete indicazioni inesatte.
Se il transistor da controllare è un NPN, appoggiate il puntale rosso sulla base
e il nero sul collettore, leggendo l’indicazione dello strumento; la resistenza deve
essere di qualche centinaio di ohm. Se l’indicazione è di resistenza infinita (1. nel
display del multimetro digitale) o quasi zero, la giunzione è rispettivamente
interrotta o in cortocircuito; in entrambi i casi il transistor è da buttare. Dopo
aver provato la giunzione base-collettore, lasciando il puntale rosso sulla base
spostate il nero sull’emettitore e verificate la giunzione base-emettitore; anche
in questo caso la resistenza deve essere di alcune centinaia di ohm, altrimenti
(resistenza infinita o prossima a zero) il transistor è guasto.
Così avete provato le giunzioni in polarizzazione diretta; conviene però fare una
prova anche in polarizzazione inversa, per vedere se le giunzioni non hanno par-
ticolari problemi. Ciò si fa ripetendo i passaggi descritti, ma invertendo la posi-
zione dei puntali: quindi mettete il nero sulla base e il rosso ora sull’emettitore,
ora sul collettore; in entrambi i casi il tester deve indicare resistenza infinita.
Se intendete provare un PNP, le prove da fare sono uguali a quelle appena
descritte per l’NPN, solo che dovete invertire l’ordine dei puntali: per le prove
in polarizzazione diretta portate il nero sulla base e il rosso sul collettore; se il
tester indica resistenza infinita (1. nel display del multimetro digitale o lancetta
a sinistra in quello analogico) o quasi zero, la giunzione è rispettivamente inter-
rotta o in cortocircuito. Dopo aver provato la giunzione base-collettore, lascian-
do il puntale rosso sulla base spostate il nero sull’emettitore e verificate la giun-
zione base-emettitore; anche in questo caso la resistenza deve essere di alcune

Figura 8.19 - Se il diodo è a posto,il tester indi-


ca bassa resistenza (200÷400 ohm) quando il
puntale positivo è sull'anodo e resistenza infini-
ta quando lo stesso è sul catodo. Se è in corto-
circuito, in entrambi i versi la resistenza è zero
o di pochi ohm; se il componente è interrotto, in
entrambi i versi la resistenza è infinita (indica-
zione 1.).

169
Capitolo 8

Figura 8.20 - Test delle giunzioni


del transistor: NPN a sinistra e
PNP a destra; la prova interessa
la giunzione base-collettore e va
ripetuta tra base ed emettitore.

centinaia di ohm, altrimenti (resistenza infinita o prossima a zero) il transistor è


guasto. Fatta la prova in polarizzazione diretta passate a quella in polarizzazione
inversa, nella quale è il puntale rosso a dover andare sulla base; toccando con il
nero ora il collettore, ora l’emettitore, dovete misurare una resistenza infinita o
quasi. Se il valore di resistenza è basso (minore di qualche decina di kohm) le
giunzioni sono danneggiate.

Prova dei FET


Nei FET con gate a giunzione potete verificare sia l’integrità del gate, sia la resi-
stenza del canale; nel primo caso dovete procedere come con un diodo.
Esaminiamo per prima la prova dei jFET a canale N: per la prova in polarizza-
zione diretta al gate va il puntale positivo e sul drain o source (indifferentemen-
te) il puntale negativo; in questo caso la resistenza misurata dovrà essere di qual-
che centinaio di ohm. Un valore prossimo a zero o tendente all’inifinito vuol
dire che la giunzione del gate è guasta. Potete anche fare una prova in polariz-
zazione inversa, per vedere se l’isolamento del gate tiene: invertite l’ordine dei
puntali e verificate che l’indicazione del multimetro sia di resistenza praticamen-
te infinita.
Quanto ai jFET a canale P, le prove sono analoghe ma cambia la disposizione
dei puntali: in polarizzazione diretta, portando il puntale nero sul gate e il rosso
indifferentemente su gate o source, la resistenza misurata deve essere di poche
centinaia di ohm; valori prossimi allo zero o all’infinito indicano che il transistor
è guasto. Per quanto riguarda la polarizzazione inversa, applicate il puntale rosso

Figura 8.21 - Prova della giunzio-


ne di gate di un jFET a canale N.

170
Attrezzarsi per riparare i notebook

al gate e il nero indifferentemente a gate o source e verificate che la resistenza


indicata sia prossima all’infinito.
E veniamo ai MOSFET, dove si può verificare la presenza o assenza del canale
a riposo e l’eventuale interruzione o cortocircuito: disponete un puntale sul ter-
minale di drain e uno su quello di source (in questo caso il gate non c’entra)
senza curarvi della polarità, a meno che il MOSFET non abbia il diodo di pro-
tezione; se è così, per il tipo a canale N portate il puntale positivo sul drain,
ovvero fate l’opposto per il canale P.
Nei MOSFET a riempimento, a riposo dovreste misurare resistenza pratica-
mente infinita; se il valore rilevato è particolarmente basso o prossimo a zero,
vuol dire che il transistor è danneggiato (il chip si è fuso per un sovraccarico).
Nei MOSFET a svuotamento, s riposo la resistenza misurata varia da qualche
ohm a diverse centinaia di ohm: dipende dalla potenza che il componente può
sopportare, nel senso che transistor da pochi watt hanno una resistenza del
canale molto alta e invece quelli per alte potenze presentano appena pochi ohm.
Se la resistenza misurata è troppo alta, il MOSFET è danneggiato.
Nei MOSFET di potenza, prevedendo che servano a commutare carichi indut-
tivi, i costruttori sovente inseriscono un diodo di protezione tra drain e source;
usando, per le prove, la portata 2 kohm o comunque quella riservata alla prova
dei diodi, noterete che quando i puntali sono collegati in un certo modo, il tester
indicherà una resistenza anomala del canale: ciò è del tutto normale e non deve
far pensare a un guasto.
Prendiamo ad esempio un MOSFET di potenza a riempimento a canale N (tipo
l’Si4812DY, in case TSSOP 4+4 pin): applicando il puntale rosso al source e il
nero al drain, si registra una resistenza di poche centinaia di ohm, perché il
diodo è in conduzione. Invertite i puntali: con il nero sul source e il rosso sul
drain, la resistenza sarà infinita o quasi; dovesse essere ancora troppo bassa o
nulla, il MOSFET sarebbe effettivamente in cortocircuito e quindi da buttare.
Per tutti i MOSFET occorre considerare l’effetto capacitivo del gate, che
potrebbe causare false indicazioni: siccome il tester applica una certa tensione:
se toccate con i puntali gate e source, il componente può restare attivo tra drain
e source. Per spiegare la cosa supponiamo di voler controllare un MOSFET a
canale N di tipo enhancement e di toccare con il puntale positivo il gate e con
il negativo il source: in queste condizioni si crea il canale, perché il componen-
te è polarizzato direttamente. Se ora spostiamo il puntale positivo sul drain,
incredibilmente vedremo il transistor condurre, anche se il gate non è polariz-
zato; in realtà ciò accade perché il gate ha accumulato una certa carica e per un
po’ rimane eccitato. Per evitare di ritenere guasto (in cortocircuito tra drain e
source) un MOSFET, è dunque importante cortocircuitare, prima della misura
della resistenza del canale, gate e source con un cacciaviti di metallo; ciò vale per
i MOSFET enhancement-mode. Per quelli a svuotamento, l’accumulo di carica
sul gate può interrompere il canale e far sembrare il transistor interrotto; anche
in questo caso è provvidenziale cortocircuotare G ed S prima della misura.

171
Capitolo 8

L’oscilloscopio
Questo strumento, di fondamentale importanza per il tecnico elettronico, è in
grado di leggere le tensioni e visualizzarle su uno schermo graduato (diviso in
quadretti); nella sua forma più essenziale consta di un circuito che periodica-
mente (la frequenza di lettura dipende dalla base dei tempi che si imposta) legge
l’ampiezza della tensione tra una coppia di puntali (sonda) e la visualizza su un
CRT o su uno schermo LCD. Ogni ingresso dello strumento, cui fa capo una
sonda, si chiama canale o traccia. L’oscilloscopio è molto importante perché con-
sente di vedere le forme d’onda, ossia l’andamento delle tensioni variabili e alter-
nate, come se venisse disegnato su carta.
In breve, un oscilloscopio è un monitor a CRT nel quale il circuito di sincroni-
smo verticale viene pilotato dal segnale (il punto disegnato i sposta in alto tanto
più quanto più grande diviene l’ampiezza della tensione all’ingresso) da visualiz-
zare e quello orizzontale è un comune generatore di dente di sega che viene fatto
partire da una rete di trigger. Per seguire la variazione del segnale con la giusta
velocità (ad esempio, un segnale triangolare a 100 kHz sale più rapidamente di
uno a 10 kHz) bisogna adattare la frequenza, ossia la pendenza di crescita, del
dente di sega; ciò si fa regolando la base dei tempi. Quest’ultima è definita in
µs/div (microsecondi per divisione dello schermo) e più si riduce il suo valore,
più alta è la frequenza generata dall’oscillatore e viceversa.
La corretta impostazione della base dei tempi è fondamentale per ottenere una
giusta visione; infatti, più è alta, più il segnale appare fitto, mentre diminuendo i
µs./div. l’onda visualizzata si estende il larghezza. Se il segnale da visualizzare è
periodico ed ha la stessa frequenza dell’oscillatore a dente di sega, sullo scher-
mo sta esattamente un periodo; se la sua frequenza cresce, a parità di frequenza
del dente di sega della deflessione orizzontale lo schermo conterrà più di un
periodo, mentre se la frequenza decresce lo schermo non riuscirà a visualizzare
l’intero periodo.
Se all’ingresso si applica il segnale in un qualsiasi istante, anche se è di frequen-
za maggiore di quella del dente di sega non è detto che venga visualizzato ordi-
natamente sullo schermo, in quanto può partire spostato rispetto all’inizio della
scala. Per esempio, avendo un segnale di pari frequenza può essere che appaia a

Figura 8.22 - In un
MOSFET depletion a cana-
le N, applicando il puntale
positivo al source (a
destra) si deve rilevare la
resistenza del diodo di pro-
tezione; con lo stesso pun-
tale sul drain (immagine a
sinistra) la resistenza deve
risultare infinita, altrimenti il
componente è guasto.

172
Attrezzarsi per riparare i notebook

partire da metà ampiezza fino a metà del successivo periodo. Per fare in modo
che l’oscilloscopio visualizzi le forme d’onda a partire dal lato più a sinistra, si
usa un circuito detto Trigger: si tratta di un comparatore a soglia variabile (la si
regola appunto con la manopola chiamata trigger) che aggancia un certo livello
del segnale (più bassa si imposta la soglia, più nella visualizzazione a sinistra si
trova il livello di zero volt della forma d’onda...) da visualizzare e fa partire il
dente di sega proprio al verificarsi di quel livello. Il trigger può essere abbinato
a uno dei canali dell’oscilloscopio o a entrambi, ovvero può essere sincronizza-
to con una fonte esterna (EXT); ciò serve per particolari misure, ovvero per
ottenere una corretta visualizzazione quando si usa un generatore di funzioni
provvisto di uscita di trigger sincronizzata col segnale che produce.
L’altra regolazione fondamentale dell’oscilloscopio è l’ampiezza, misurata in
V/div. (volt per divisione dello schermo): interviene sul guadagno di un ampli-
ficatore ovvero su un attenuatore posto tra la sonda (ingresso del canale corri-
spondente) e l’amplificatore che comanda il sincronismo verticale. La regolazio-
ne è una per ciascuno dei canali di cui lo strumento dispone.

Scegliere l’oscilloscopio
Nella scelta di un oscilloscopio bisogna innanzitutto considerare le proprie esi-
genze e valutare quali tipi di segnali si intende visualizzare; più esattamente, va
detto che il clock delle CPU, peraltro moltiplicato internamente, è molto eleva-
to e pochi oscilloscopi riescono a spingersi alle frequenze di base. In linea di
massima un 100 o 200 MHz va bene. C’è poi il discorso della memoria: è meglio
avere un oscilloscopio con memoria perché consente di fermare alcune imma-
gini ed analizzare certi segnali. Vediamo di seguito i parametri salienti di un
oscilloscopio.

Numero di canali
La maggior parte degli oscilloscopi è a 2 o 4 canali, tuttavia si trovano in com-
mercio strumenti per segnali misti (chiamati MSO, Mixed Signal Oscilloscope) dove
ai canali analogici vengono affiancati altri 8 o 16 canali in grado di acquisire solo

Figura 8.23
Oscilloscopio e princi-
pali comandi del suo
pannello di controllo.

173
Capitolo 8

segnali digitali, ma con la possibilità di impostare trigger ed eseguire misure


coordinate. In sostanza, è come poter disporre di oscilloscopio e un analizzato-
re logico integrati nello stesso strumento.

Schermo
Mentre negli oscilloscopi analogici la qualità della visualizzazione dipende dalle
caratteristiche del CRT, in quelli digitali uno dei fattori chiave che influenza la
qualità della visione è la frequenza di aggiornamento (frequenza di refresh) ossia
la velocità con la quale l’oscilloscopio è in grado di acquisire e aggiornare la
visualizzazione delle forma d’onda. Una maggiore velocità di aggiornamento
equivale a una maggiore probabilità di catturare, e quindi visualizzare sullo
schermo, gli eventi infrequenti come i “glitch”.
Nello scegliere il proprio oscilloscopio bisogna stare attenti che in alcuni casi la
velocità di aggiornamento massima vale solo quando non vengono attivate fun-
zioni speciali, come trigger avanzati o profondità di memoria estese. Le prime
generazioni di oscilloscopio digitale erano lente nella visualizzazione, rispetto
agli oscilloscopi analogici. Oggi le cose vanno meglio, tanto più quanto maggio-
re è la memoria a disposizione.

Banda passante
La banda passante, espressa in MHz, è la caratteristica di riferimento di ogni oscil-
loscopio e va scelta in base alla massima frequenza dei segnali da verificare,
ovvero alla ripidità dei fronti dei segnali di cui si vuole misurare il tempo di sali-
ta o di discesa (tempi brevi richiedono una frequenza elevata). In linea di mas-
sima la banda passante dell’oscilloscopio deve essere 1/2 del tempo di salita,
quindi se tale tempo è 0,01 µs, la banda dovrà essere almeno 20 MHz.
Se l’oscilloscopio è digitale, la sua frequenza di campionamento dovrà essere almeno
4 volte la banda passante dell’oscilloscopio e la massima frequenza del segnale
da misurare. La frequenza di campionamento è un’altra caratteristica fondamen-
tale dell’oscilloscopio digitale e viene espressa in campionamenti al secondo
(s/s) o multipli; nel valutare uno strumento va ricordato che talvolta il costrut-
tore dichiara la frequenza di campionamento massima e in questo caso è impor-
tante verificare a che condizioni è riferita. Infatti in molti oscilloscopi si sfrutta
il campionamento interlacciato per aumentare la frequenza di campionamento
massima; ciò va a discapito del numero di canali utilizzabili contemporaneamen-
te. Per esempio, un oscilloscopio a 4 canali potrebbe funzionare alla frequenza
di campionamento massima solo con uno o due canali, mentre se si vogliono
utilizzare tutti i canali bisogna accontentarsi di frequenze di campionamento
inferiori, spesso indicate in piccolo o solo nelle note delle specifiche tecniche
dello strumento.
Per valutare la frequenza di campionamento (fc) di cui si ha bisogno è di deter-
minare la risoluzione temporale (rt) desiderata tra i punti di acquisizione, che vale:
fc=1/rt. Per esempio, la frequenza di campionamento che permette di osserva-
174
Attrezzarsi per riparare i notebook

re i punti nel tempo con risoluzione di 1 ns è pari a 1/(1 ns), ovvero 1 Gs/s.
Nell’oscilloscopio digitale, anche la profondità di memoria è strettamente legata
alla frequenza di campionamento; con impostazioni lente della base dei tempi,
la velocità di campionamento massima viene ridotta quanto basta affinché non
si esaurisca la memoria di acquisizione dello strumento.
Quando il convertitore A/D dell’oscilloscopio converte il segnale analogico in
forma numerica, i risultati vengono via-via memorizzati all’interno della memo-
ria di acquisizione ad alta velocità dell’oscilloscopio, perciò la profondità di
memoria richiesta dipende sia da quanto è lungo l’intervallo di tempo che vole-
te osservare, sia da quanto frequente volete che sia il campionamento.
Se volete osservare lunghi periodi di tempo con un’elevata risoluzione tempo-
rale, allora vi serve un oscilloscopio con una grande quantità di memoria.
Tipicamente la profondità di memoria (Pm) occorrente è legata alla frequenza di
campionamento ed al periodo di tempo (t) da osservare, dalla relazione:
Pm = fc x t. In particolare, alcuni modelli quando utilizzano tutta la memoria di
acquisizione sono costretti a rallentare altre operazioni, per esempio la velocità
di visualizzazione.

Trigger
Il trigger viene normalmente agganciato sui fronti (edge trigger) di salita e discesa
dei segnali da visualizzare, però per fare misure sui sistemi che usano i bus seria-
li può essere molto comodo disporre di un trigger basato su condizioni specifi-
che che avvengono sui bus come SPI, CAN, USB, I²C, FlexRay, LIN o altri. Per
la ricerca dei problemi e dei guasti intermittenti un’altra funzione utilissima è il
trigger sui glitch, disponibile in varie forme in molti strumenti di fascia medio-
alta. Infine, molti oscilloscopi moderni offrono funzioni specifiche di trigger
per le applicazioni video, come TV e HDTV, utili anche nell’analisi dei segnali
dei notebook provvisti di uscita per HDTV e HDMI.

Sonde
La sonda (Fig. 5.24) determina la banda passante complessiva del sistema di
misura diventa parte integrante del circuito in prova modificandone il compor-

Figura 8.24 - Sonda per oscillo-


scopio completa di puntale a molla
per agganciarsi ai punti di misura
dei vari circuiti.

175
Capitolo 8

tamento, per cui impedenza e banda passante della sonda vanno sempre tenute
in considerazione, in particolar modo quando si devono misurare segnali a fre-
quenza elevata. In generale, le sonde attive non solo hanno una banda passante
superiore alle sonde passive, ma sono anche in grado di mitigare gli effetti sul
circuito in esame.
Le sonde per gli oscilloscopi possono essere dirette o demoltiplicate, con fatto-
re di divisione tipico di 10 (sonda x10); alcuni strumenti prevedono un seletto-
re che permette di adattare la scala volt/div. al tipo di sonda. La sonda diretta
non è altro che un cavo coassiale terminante su un puntale, mentre quella
demoltiplicata ha internamente un partitore resistivo con in parallelo dei con-
densatori, uno dei quali è variabile: si tratta di un compensatore regolabile con
un cacciaviti in modo da alterare il meno possibile il segnale; la regolazione si
compie portando il puntale sul segnale di calibrazione dello strumento e quindi
agendo sul compensatore fino a rendere i fronti della forma d’onda rettangola-
re visualizzata dallo schermo i più dritti possibile. Il compensatore ha lo scopo
di adattare l’impedenza della sonda a quella d’ingresso dell’oscilloscopio.

Interfacce
La maggior parte degli oscilloscopi moderni ha almeno uno delle interfacce
comuni che consente di collegare un PC, come ethernet o USB, il che facilita
notevolmente lo scambio dei dati e l’eventuale controllo automatico o remoto
dello strumento. Alcuni modelli, per esempio quelli conformi alle specifiche
LXI, contengono al loro interno un Web Server, che permette di gestirli da
computer con un semplice browser Internet via LAn o, a distanza, via web.

Usare l’oscilloscopio
Vediamo adesso due note sull’utilizzo dell’oscilloscopio, con la premessa che,
non essendo questo un volume dedicato a tale strumento, ci limiteremo a qual-
che caso. Per visualizzare un segnale bisogna prima di tutto collegare una sonda
ad un canale, poi sul selettore del canale da visualizzare scegliere quel canale,
quindi collegare la pinzetta della sonda alla massa del circuito dove compiere la
misura e con il puntale toccare il punto interessato; se conoscete le tensioni in
gioco impostate i volt/div. in modo che la tensione stia nell’altezza dello scher-
mo, ovvero dalla posizione di riposo della traccia al vertice dello schermo se trat-
tasi di tensione negativa o da essa al fondo, se trattasi di grandezza negativa. Se
la tensione è alternata, per visualizzarla tutta bisogna scegliere un’ampiezza per
divisione tale che lo schermo contenga la forma d’onda. Ricordate che i
volt/div. indicano a quanti volt corrisponde un quadretto dello schermo usando
una sonda diretta (x1); se usate una sonda x10 (con partitore che divide la ten-
sione per 10) dovete rammentare che ogni quadretto vale 10 volte il valore indi-
cato dal selettore volt/div.
Prima di fare qualsiasi misura, indipendentemente dall’impostazione dell’am-
piezza accertatevi che nel punto da misurare la tensione non ecceda la massima
176
Attrezzarsi per riparare i notebook

tollerabile dall’oscilloscopio: infatti se l’ampiezza supera quella visualizzabile


non succede nulla e per far rientrare la forma d’onda nello schermo basta gio-
care sulla manopola volt/div. o scegliere una sonda x10, mentre se si supera
all’ingresso la massima tensione accettabile, l’oscilloscopio si guasta. Usando la
sonda x10 la massima tensione va moltiplicata per 10, nel senso che se lo stru-
mento accetta in ingresso un massimo di 50 Vcc, la sonda può toccare punti
dove si raggiungono al massimo 500 Vcc; questo in teoria, perché in pratica i
condensatori nella sonda x10 potrebbero lasciar transitare brevissimi impulsi ad
alta tensione. Nel caso dei notebook le uniche zone critiche sono l’uscita dell’in-
verter per l’LCD e lo stadio d’ingresso dell’alimentatore AC/DC esterno.
Se non si conosce la frequenza del segnale occorre partire dal più basso valore
della base dei tempi, ovvero impostare il minimo tempo per divisione, quindi
andare a ritroso fin quando il segnale non viene visualizzato correttamente;
ricordate che ogni quadretto vale un tempo pari a quello impostato nella base
dei tempi, quindi scegliendo 1 ms/div. se il segnale ha un periodo pari a due qua-
dretti vuol dire che è alla frequenza di 500 Hz.
Con un oscilloscopio a due canali o più, è possibile visualizzare più segnali con-
temporaneamente: basta impostare il selettore in posizione CH1+CH2 (o
CH1+CH2+CH3+CH4 per gli oscilloscopi a quattro canali); si può anche
visualizzare alternativamente (selettore in posizione ALT) le tracce, ovvero
effettuarne la somma algebrica. Quest’ultima funzione (ADD) serve soprattut-
to quando si vuole vedere la risultante di due segnali miscelati e comunque nella
verifica dei notebook tipicamente non serve.
Per riuscire a visualizzare correttamente le forme d’onda, bisogna assegnare il
generatore di trigger (servendosi dell’apposito selettore) al canale corrisponden-
te, ovvero, se si usa più di un canale, al primo.

L’analizzatore logico
Si tratta di uno strumento digitale da laboratorio in grado di campionare e ripro-
porre sul proprio schermo gli stati logici rilevati dalla sua sonda in qualsiasi
punto di un circuito; è molto utile perché consente di monitorare l’andamento
dei segnali quali clock, dati, indirizzamento di memorie, dialogo su bus quali
USB e I²C.
Per scegliere un analizzatore logico occorre prendere in considerazione il siste-
ma delle sonde, quello di acquisizione, il display e le capacità di analisi. Le misu-
re eseguite con un analizzatore logico sono tanto precise e affidabili quanto lo
è il suo sistema di sonde; nella scelta del sistema di sonde non va trascurata l’op-
portunità di disporre di qualche sonda volante (flying probe).
Vediamo più in dettaglio quali sono le caratteristiche più importanti delle sonde
per l’analizzatore logico: una sonda a basso carico capacitivo permette di ridur-
re l’interferenza sul circuito sotto esame, che quindi può funzionare in modo
realistico e permettere all’analizzatore logico di rappresentare correttamente ciò
che sta succedendo; ciò vale tanto più quanto più elevata sarà la frequenza dei
177
Capitolo 8

segnali da monitorare. Se possibile, è meglio usare sonde che non richiedono


adattatori tra esse e il circuito in esame, dato che ogni adattatore supplementare
introduce un carico e diventa un ulteriore punto di guasto potenziale della cate-
na di misura.
Se la sonda ha una banda passante minore di quella dell’analizzatore, limita la
banda passante utile, quindi conviene scegliere sonde con banda passante alme-
no uguale a quella del sistema di acquisizione dell’analizzatore logico stesso.
Gli analizzatori logici possono funzionare con due distinte modalità di campio-
namento: nel dominio del tempo (time analysis) e nel dominio degli stati (state
analysis).
Le due modalità hanno scopi e principi di funzionamento diversi e complemen-
tari tra loro: quando serve monitorare le relazioni temporali tra vari segnali su
periodi di tempo anche lungo si utilizza l’analisi temporale utilizzando le tipica
visualizzazione e forme d’onda; invece se si vuole controllare sequenze di even-
ti, è utile l’analisi di stato, associata spesso a visualizzazioni di tipo tabellare o di
listato. Alcuni analizzatori logici possono funzionare contemporaneamente nelle
due modalità di acquisizione, permettendo di osservare ulteriori correlazioni nel
comportamento del sistema in esame.
Il numero dei canali, dipende da quanti segnali bisogna visualizzare simultanea-
mente: ad esempio dovendo monitorare una linea SPI conviene avere almeno
tre canali, per verificare se insieme al clock viaggiano i dati da e per l’unità
master. Va notato che per alcuni strumenti, solo un numero limitato di canali
può funzionare alla massima velocità di acquisizione, mentre i canali supplemen-
tare possono funzionare a velocità inferiore.
I processori di ultima generazione già richiedono 100/150 canali se si vogliono
coprire tutti gli I/O dei dispositivi, tuttavia si tratta di condizioni che raramen-
te hanno senso nella riparazione dei computer portatili; infatti una ricerca
approfondita di problemi sul bus dati nella comunicazione con una memoria o
una GPU impone dei tempi che non sempre sono ammissibili, visto che la ripa-
razione andrebbe a costare, di lavoro, quasi come il PC.
Nella modalità di acquisizione nel dominio del tempo, l’analizzatore logico fun-
ziona come un oscilloscopio e memorizza i campioni dei segnali acquisiti nella

Figura 8.25 - Analizzatore di stati


logici.

178
Attrezzarsi per riparare i notebook

sua memoria in modo asincrono rispetto al segnale di clock del sistema in


esame; perciò, più è elevata la frequenza di campionamento, maggiore è la riso-
luzione delle misure acquisite. Va da sé che a una velocità di acquisizione eleva-
ta, deve corrispondere una capacità di memoria altrettanto elevata per riuscire
ad accumulare un numero di campioni significativo nel dominio del tempo.
La quantità di memoria presente nell’analizzatore logico determina per quanto
tempo si può osservare il sistema in esame senza perdere informazioni signifi-
cative. La minima quantità di memoria che occorre si ottiene moltiplicando il
periodo di tempo da monitorare per la frequenza di campionamento o per la
frequenza di clock esterno.
La disponibilità di una grande quantità di memoria aumenta la probabilità di riu-
scire a catturare degli eventi rari o delle correlazioni tra causa ed effetto che tal-
volta sono separati notevolmente nel tempo.
Quanto alla visualizzazione, va detto che uno schermo più ampio permette di
vedere, quando necessario, più canali contemporaneamente o di mostrare in
modo ordinato le informazioni supplementari che servono a rendere una misu-
ra più intellegibile nel suo contesto. Un altro accorgimento per mostrare più
informazioni contemporaneamente disponibile in alcuni analizzatori logici è la
modalità dual-screen, che consente di collegare un monitor supplementare ove
visualizzare o altri canali, oppure informazioni complementari relative ai canali
visualizzati nello schermo primario.
Infine, non va dimenticata la possibilità di collegare lo strumento direttamente
al PC, dove potrebbe essere presente uno schermo dalle caratteristiche superio-
ri o quello integrato dello strumento.

Smontare i notebook
Bene, spiegati gli strumenti del laboratorio si può analizzare il primo passo
riguardante la riparazione dei notebook: lo smontaggio. Per quanto possa appa-
rire banale, smontare un portatile fino ad arrivare a rimuovere alcuni suoi com-
ponenti interni può non essere un’impresa facile, dal momento che in certi casi
le viti e gli incastri sono volutamente celati dai progettisti, in parte per ragioni
estetiche ma soprattutto per dissuadere i tecnici dall’impresa e spingere i clienti
a rivolgersi all’assistenza tecnica delle case.
Se parliamo di smontaggio bisogna distinguere in base a cosa si intende smon-
tare: lettori di dischi ottici e floppy-disk si estraggono quasi sempre mediante
levette di sgancio o viti accessibili dal fondo della base del computer, ma talvol-
ta sono bloccati da una vite interna cui si accede smontando la tastiera o, peg-
gio, rimuovendo la parte superiore della base.
RAM e moduli wireless sono quasi sempre accessibili da sportelli a vite posti
nella parte inferiore della base del computer e lo stesso dicasi per gli hard-disk.
Invece il resto e la mainboard si possono raggiungere solo smontando la parte
superiore della base o tutta la base; per resto si intende eventuali moduli di
memoria interni, schede video separate (anche se esistono notebook in cui la
179
Capitolo 8

scheda video si stacca da uno sportello della parte inferiore della base del com-
puter) moduli modem ecc. Anche per il monitor è necessario smontare il guscio,
dato che il display, il retroilluminatore e il relativo controller (tipicamente l’inver-
ter che alimenta le lampadine CCFL) sono all’interno.
In questi casi bisogna identificare le viti, ricordando che talune sono sotto tappi
di gomma e qualche volta celati da etichette, ovvero collocati nel vano della bat-
teria, che quindi va rimossa. Le viti per staccare la tastiera sono usualmente indi-
cate con il simbolo della tastiera, mentre quelle per smontare la parte superiore
della base sono tutte le altre, ovvero vengono marcate con un triangolino. In
alcuni notebook, per semplificare il rimontaggio vengono scritte accanto alle viti
le misure (ad esempio M2,5x15).
Quasi sempre, l’ordine di smontaggio è il seguente:
1. si asportano le viti della tastiera e le altre sul fondo, quindi si asporta an-
che la tastiera, se è possibile farlo, altrimenti bisogna rimuovere la placca posta
nella parte alta della tastiera, che sovente è fermata da linguette o viti accessibi-
li dal fondo del computer;
2. si smonta la parte superiore della scocca del computer, se è possibile far-
lo, oppure prima si rimuovono gli elementi che la bloccano;
3. si smonta il monitor agendo sulle viti delle sue cerniere.

Queste ultime sono una o due per cerniera e vi si accede dalla placca sopra la
tastiera; tuttavia quasi sempre i notebook hanno anche una o due viti per ogni
cerniera, avvitate dal retro delle due parti di guscio componenti la base. Per
rimuovere il video bisogna sconnettere il cavo o i cavi del segnale video e dell’a-
limentazione della retroilluminazione e del pannello LCD; nei notebook prov-
visti di microfono, web-cam e antenna wireless nello schermo, occorre staccare
anche i relativi cavetti. A volte per estrarre la base dell’involucro del PC occor-
re liberare le colonnette di fissaggio dei connettori della seriale e/o della paral-
lela, della SCSI o di eventuali connettori che hanno le colonnine filettate.
Sovente il coperchio della base del computer è in plastica sottilissima e quindi
fragile o facilmente deformabile, quindi nel separarlo dalla base per accedere
all’interno occorre molta accortezza; l’ideale è, dopo essersi accertati di aver

Figura 1.5 - Smontaggio della


base del notebook: si parte svitan-
do le viti sul fondo, che permettono
di liberare la parte superiore del
guscio.

180
Attrezzarsi per riparare i notebook

rimosso tutte le viti che lo vincolano (fate attenzione che in alcuni PC il coper-
chio viene trattenuto dalle colonnine di fissaggio del modulo modem o di quel-
lo wireless, quindi dovete smontare quest’ultimo e le colonnine) incuneare nella
giuntura una lamina di plastica rigida o un cacciaviti a lama larga e sottile, quin-
di fare leva per staccare i due componenti della base. Man mano che si allarga
una parte, bisogna spostarsi lungo il perimetro fino ad aprire la base.
In luogo del cacciaviti o della lamina si può usare una spatolina in plastica o,
ancor meglio, un plettro duro di quelli usati per suonare la chitarra: è una solu-
zione poco ortodossa ma funziona benissimo.
Aperto il notebook, se dovete staccare la scheda madre la prima cosa da fare è
cercare le viti da rimuovere; queste solitamente sono evidenziate da triangolini
serigrafati sulla superficie. A volte può essere necessario rimuovere anche la
ventola di raffreddamento (ad esempio in alcuni HP Pavillon come il DV9000).
Notate che in certi notebook la mainboard è avvitata sul retro della parte infe-
riore della base tramite le colonnine esagonali (o d’altra sagoma) del connetto-
re per il monitor esterno o di quello della porta seriale o parallela; in questo caso,
non è possibile rimuovere la scheda madre prima di aver svitato tali colonnine.
Prima di smontare qualsiasi notebook, in special modo quelli con il contenito-
re in policarbonato e quindi lucido, è bene appoggiare sul piano di lavoro un
panno o un sottotovaglia di gomma, ovvero basta uno di quei fogli di materia-
le espanso che si usano negli imballi di monitor, notebook e schede madri; ciò
eviterà di rigare il guscio del computer durante i vari movimenti richiesti dallo
smontaggio delle viti, quando il notebook si appoggia su coperchio per opera-
re sul fondo.

Liberare i connettori
I modedrni notebook hanno connessioni tra le varie parti e le schede, ma anche
tra schede e tastiera, supporti dei pulsanti, moduli video, realizzate con flat-
cable molto delicati, realizzati da strisce di plastica con depositati i conduttori in
rame elettrolitico; per questa ragione i cavi vanno staccati con molta attenzione
e lo stesso vale per i connettori.
Questi possono essere di vario tipo, ma quelli per i flat sono i più delicati e
richiedono particolare attenzione, onde evitare di romperli. I connettori posso-
no essere:
 ad innesto a pressione;
 ad innesto con fermo;
 ad appoggio con fermo girevole.

I primi hanno una fessura dove si trovano i contatti elettrici e il flat si introdu-
ce in essi tenendone ben dritta l’estremità (che di solito è rinforzata per non flet-
tersi) e spingendo a fondo; l’estrazione del flat-cable si effettua semplicemente
tirando, perché non c’è nulla che lo trattiene se non la pressione dei contatti. Per
conoscere il corretto verso d’inserimento bisogna ricordare com’erano quando
181
Capitolo 8

Figura 8.27 - Distacco del flat-cable da un connettore con fermo girevole: da sinistra a
destra, connettore chiuso, sollevamento del fermo e asportazione del flat.

sono stati estratti, ovvero guardare all’interno con una luce per vedere dove si
trovano i contatti, quindi disporre il flat con le piste da quella parte.
I connettori ad innesto con fermo hanno il flat che si infila in una fessura e,
quando arriva a fondo, si blocca spingendo nella stessa direzione la cornice di
fermo fino a sentirla scattare; di solito questi connettori hanno il corpo bianco
o avorio e il fermo è nero o marrone. Se dovete estrarre un flat da questo tipo
di connettore non tiratelo: prima con due piccoli cacciaviti a lama tirate le estre-
mità del fermo fino a sentirlo scattare. Cercate di non fare troppa forza, altri-
menti potete strappare il fermo. Per l’orientamento del flat rispetto ai contatti
del connettore vale quanto detto per la connessione a pressione.
Infine, il connettore ad appoggio ha i contatti adagiati sulla parte bassa e il flat
vi viene appoggiato, quindi premuto dal fermo, che stavolta è girevole su un ful-
cro. Per estrarre e sconnettere un cavo in questo tipo di connessione bisogna
sollevare il fermo e ruotarlo nella direzione opposta usando un piccolo caccia
viti a lama. Per rimontare il flat, dopo aver appoggiato il lato delle piste sui con-
tatti del connettore, ruotate il fermo appoggiandolo e poi spingetelo a fondo
facendolo scattare e bloccandolo. Anche questo tipo di connettore ha il corpo
bianco o avorio e il fermo nero o marrone.

Spray da laboratorio
Nelle riparazioni possono essere utili alcuni spray concepiti praticamente per il
laboratorio di elettronica; i più utilizzati sono:
 freon;
 alcol isopropilico;
 ghiaccio istantaneo;
 getto d’aria.

Il primo è un solvente del flussante e si trova anche in forma liquida; veniva


usato un tempo per pulire le schede elettroniche saldate a onda, ma ora per
ragioni ecologiche (è ritenuto il principale responsabile della carenza di ozono
nell’atmosfera) è stato sostituito dall’alcol isopropilico.

182
Attrezzarsi per riparare i notebook

Quest’ultimo fa più o meno la stessa cosa e si usa per ripulire le saldature o dis-
saldature dal flussante e dalle incrostazioni). Al suo posto si possono utilizzare
solventi “casalinghi” come l’AVIO (è uno smacchaitore molto volatile) o la trie-
lina, che però va utilizzata con cautela perché può sciogliere talune plastiche.
Il ghiaccio istantaneo è invece un getto d’aria umidificata compressa o di gas
refrigerante che uscendo dalla bomboletta si espande e il brusco calo di pressio-
ne lo fa gelare; si usa per raffreddare istantaneamente dei componenti che si
sospetta siano guasti, in quanto il raffreddamento improvviso causa deforma-
zioni e quindi se l’integrato ha contatti scollegati al proprio interno o lesioni nel
chip, manifesta subito il problema (ad esempio, le CPU e le memorie bloccano
il computer).
Il getto d’aria è pura aria compressa in bombolette, che si impiega sia per raf-
freddare modestamente senza sottoporre allo shock termico tipico del ghiaccio
istantaneo, sia per soffiare via polvere e corpi estranei dalle schede elettroniche.
Si usa sovente per pulire le tastiere e l’interno dei trackball.

Cercare i ricambi
Quando la riparazione del notebook richiede la sostituzione di componenti non
standard, ovvero non di semplici transistor, fusibili, circuiti integrati e simili,
bisogna procurarsi le parti di ricambio, che sono ad esempio le RAM compati-
bili o una tastiera oppure le schede interne. Per ordinarle è importante indivi-
duare il codice (part number) che normalmente è riportato insieme al codice a
barre in un’etichetta di varia foggia applicata al componente.
Il codice è molto importante i quanto, specie per le schede madri, talvolta può
succedere che non basti ordinarle indicando marca e modello del notebook e in
qualche caso neppure il serial number (numero seriale di produzione del PC)
può essere utile: infatti alcune case cambiano repentinamente scheda madre nel-
l’ambito della stessa annata di produzione, perché si approvvigionano da un
nuovo fornitorfe, quindi può accadere che ordinando il ricambio con modello e
anno di produzione ci si veda arrivare quello sbagliato.
A questa imprecisione concorrono le indicazioni talvolta eronee dei costrutto-
ri, che comunicano distinte deri componenti sbagliate o non le comunicano
affatto, almeno ai rivenditori di ricambi non autorizzati.

183
CAPITOLO 9
GUASTI DELL'ALIMENTAZIONE

È giunto il momento di approcciare alla ricerca e alla risoluzione dei problemi nei
computer notebook; lo si farà iniziando con i guasti riguardanti l’alimentazione, che
possono essere responsabili di molti e variegati problemi di funzionamento o che
arrivano a causare anche la mancata accensione del portatile. Il guasto va ricercato
esaminando il comportamento del PC, tuttavia per ritenere che sia compromesso
l’alimentatore non basta vedere se il computer si accende o meno: l’esame deve
essere più approfondito e deve riguardare il circuito interno, ovvero la scheda
madre.
Prima di esaminare i tipici comportamenti che possano far sospettare un problema
all’alimentazione, va precisato che per alimentazione si intende tutta una catena di
dispositivi: l’alimentatore AC/DC esterno al computer, le connessioni (ovvero lo
spinotto dell’AC/DC ed il plug di alimentazione del notebook) l’alimentatore prin-
cipale interno e tutti gli altri stadi di alimentazione sulla scheda madre.
Se il computer, pur alimentato, premendo il pulsante di accensione non dà segni di
vita (ossia non accende alcuna spia e non si sente attività o movimento dei dischi
rigidi o del lettore di dischi ottici) la prima cosa da fare è accertarsi che l’adattato-
re di rete funzioni ed eroghi la tensione prevista; il valore di quest’ultima è desumi-
bile dalla targhetta riportata su una faccia dell’alimentatore stesso. Bisogna quindi
armarsi di tester, disporlo sulla misura di tensioni continue con fondo scala di alme-
no 20÷30 V (per i tester auto-range non c’è da impostare alcuna scala) quindi toc-
care con ciascun puntale un elettrodo dello spinotto dell’alimentatore; se trattasi di
un adattatore AC/DC che fornisce più tensioni, bisogna portare il puntale negati-
vo sul contatto di massa ed il positivo sui connettori interni che portano le varie

185
Capitolo 9

tensioni. Se l’alimentatore non fornisce tensione o il valore misurabile sul suo


plug è almeno un 30 % inferiore a quello che dovrebbe, sostituite l’alimentato-
re; se invece la tensione è ok, non è comunque detto che l’alimentatore non
abbia problemi: ad esempio potrebbe non reggere lo spunto, ovvero non riusci-
re ad erogare la corrente nominale (il valore di questa lo trovate nella solita tar-
ghetta) richiesta dal notebook e che secondo i dati di targa dovrebbe fornire.
Per accertarsi di ciò basta procurarsi una resistenza di potenza (a filo) il cui valo-
re resistivo si determina dividendo la tensione nominale per la corrente riporta-
te sulla targhetta dell’alimentatore: ad esempio, se abbiamo una tensione di 18 V
e una corrente di 4,5 A, la resistenza dovrà essere da:

R = 18 V / 4,5 A = 4 ohm

La potenza che tale resistore dovrà dissipare ammonta a:

P = V x I = 18 V x 4,5 A = 81 W

Visto che in commercio non si trovano facilmente resistori di tale potenza, con-
viene costruire quello richiesto dalle prove ponendo in serie 4 resistenze a filo
da 1 ohm, 21 W.
La resistenza va collegata con due fili al plug dell’alimentatore e con un tester
occorre verificare che la tensione sotto carico non sia sensibilmente diversa (è
accettabile un 10 % in meno ma non oltre...) da quella misurabile senza collega-
re la resistenza. In caso contrario vuol dire che l’alimentatore AC/DC ha una
certa difficoltà ad erogare la corrente richiesta e quindi va sostituito.
È anche possibile tentare la riparazione dell’alimentatore da rete, ma ciò richie-
de molta attenzione perché una parte di esso è alimentata dalla tensione di rete;
tipicamente l’alimentatore AC/DC consta di un raddrizzatore formato da uno
o più diodi e un condensatore elettrolitico, che trasforma la tensione alternata in
una continua il cui valore è circa 1,4 volte maggiore di quello dell’alternata, per-
ciò nel caso della rete italiana si ottengono 1,4x220 V=308 V.
Oramai tutti gli AC/DC sono universali, nel senso che si adattano a tensioni di
rete comprese fra 100 e 240 Vca, quindi non vi sono selettori nella sezione rad-
drizzatrice.

Figura 9.1 - Alimentatore AC/DC e suo tipico con-


nettore plug; l’etichetta sul retro riporta, oltre al
modello e all’anno di produzione, utili dati come la
tensione e la corrente erogata, ma anche la potenza
massima e il tipo di tensione (CC o CA).

186
Guasti dell'alimentazione

L’alta tensione continua ottenuta alimenta un DC/DC gestito da un circuito


integrato e retroazionato in modo da mantenere la tensione d’uscita al valore
imposto, indipendentemente da qual è la tensione all’ingresso (purché questa si
mantenga nel campo previsto); l’integrato pilota uno o più MOSFET di poten-
za, riconoscibili perché sono appoggiati a dissipatori di calore variamente sago-
mati (ad U, a lamina o a raggiera). Al dissipatore vengono applicati anche i diodi
raddrizzatori, che sono tipicamente in contenitore TO-220 e possono essere
singoli (due soli terminali) o doppi con catodo in comune (tre terminali di cui il
centrale è il catodo e gli esterni sono gli anodi).
Oltre a questi componenti, nell’AC/DC c’è il trasformatore che trasforma gli
impulsi determinati dalla commutazione dei MOSFET da alta a bassa tensione
(e soprattutto isola galvanicamente la rete dal notebook) e tipicamente un
fotoaccoppiatore che forma la rete di retroazione, perché retrocede all’integra-
to di controllo una tensione proporzionale a quella di uscita. Non manca il fusi-
bile posto sulla rete per proteggere dai cortocircuiti e sovraccarichi. Lo stadio di
uscita è protetto dall’eccesso di carico mediante una protezione dinamica o un
Poliswitch.
I guasti degli alimentatori AC/DC vanno cercati innanzitutto nei fusibili, quin-
di nei MOSFET di commutazione, che sono i componenti più sollecitati; in
subordine si guastano anche l’integrato di controllo e più raramente il fotoac-
coppiatore di retroazione o il trasformatore.

Cercare i guasti nel notebook


Se invece l’alimentatore AC/DC funziona correttamente, bisogna cominciare a
indagare nel notebook partendo da una prova che serve a procedere per esclu-
sione: occorre verificare se il computer si accende con la batteria e con l’alimen-
tatore da rete no; se è così, il problema è nell’alimentatore principale. Invece, nel
caso il notebook non si accenda neppure con la batteria, evidentemente c’è uno
degli alimentatori interni (ad esempio il DC/DC che alimenta il chipset) che
non funziona correttamente; per dirimere il dubbio la prova deve essere fatta
con una batteria carica, possibilmente caricata in un computer similare o in cari-
cabatterie ausiliario per notebook. Ciò perché il computer potrebbe anche non
accendersi con la batteria perché quest’ultima si è scaricata a causa di un guasto
dell’alimentatore principale/caricabatteria interno al notebook, quindi in un
caso del genere il problema non sarebbe negli stadi alimentatori interni o nel
chipset, ma nell’alimentatore principale.
Dunque, se il PC si avvia con una batteria carica c’è un guasto nell’alimentato-
re principale, mentre se carica la batteria ma non si avvia, qualcosa non va nel
chipset o negli alimentatori DC/DC interni.
In questa evenienza occorre partire dal connettore di ingresso dell’alimentazio-
ne e seguire la linea per verificare innanzitutto la continuità; quest’operazione si
compie con il multimetro disposto alla misura di resistenze con portate molto
basse o con l’avvisatore acustico. È chiaro che in mancanza di schemi elettrici
187
Capitolo 9

dettagliati si deve un po’ andare ad occhio e comunque occorre cercare di segui-


re visivamente il percorso delle piste che partono dal plug di alimentazione; se
ci sono fusibili, bisogna testarli con le solide portate ohmiche, verificando che
non siano interrotti (se il fusibile è buono la misura deve essere pressappoco la
stessa che unendo i puntali del tester).
Bisogna altresì compiere un esame visivo della scheda madre del notebook e cer-
care eventuali componenti bruciati o che appaiono surriscaldati, deformati, cre-
pati, con segni di rigonfiamento.
Verificati i fusibili, se questi sono a posto e l’alimentazione arriva fino all’alimen-
tatore caricabatteria, prima di andare a caccia di guasti negli altri DC/DC biso-
gna verificare che l’alimentatore principale o caricabatteria del notebook sia a
posto; questo stadio fa capo a un circuito integrato (ad esempio MAX1908,
MAX1987, MAX8724, BQ24721, BQ24702, ISL6251 o ISL6265) solitamente
posto nelle vicinanze del connettore di collegamento della batteria. Se tale ali-
mentatore non funziona, tipicamente la batteria non si ricarica e il computer non
funziona né con l’alimentatore da rete, né con la batteria, perché non la ricarica
(con una batteria caricata a parte potrebbe funzionare).
Altro problema che può verificarsi è che l’alimentatore principale non riesca ad
avviarsi o lavori a una frequenza completamente diversa da quella prevista, ovve-
ro, ancora, che vada subito in spegnimento (shutdown) per l’intervento della
protezione da sovraccarico o perché l’integrato che lo governa è difettoso; in
quest’ultimo caso il guasto spesso si manifesta -dopo aver premuto il pulsante
di accensione- con un lampeggio cadenzato e lento del LED di accensione, ma
può essere diagnosticato con più certezza analizzando con l’oscilloscopio la
forma d’onda sui MOSFET (basta andare sul drain) dello stadio alimentatore,
ovvero sul lato delle bobine del DC/DC collegato ai MOSFET stessi, ovvero,
ancora, sui gate di questi ultimi o sui piedini di comando dei MOSFET localiz-
zabili nell’integrato controller guardandone il data-sheet. Ad esempio, nel caso
dei MAX1908, MAX8724 e MAX8725, i MOSFET (a canale N) vengono pilo-
tati dai pin DHI e DLO, che nella versione in contenitore Thin QFN sono
rispettivamente il 25 e il 21. Analizzando i segnali su tali pin o sui drain dei
MOSFET, si vede un’onda di tipo “burst”, cioè formata da periodi ad alta fre-
quenza intervallati da pause, con una periodicità relativamente lenta e correlata

Figura 9.2 - Uno stadio DC/DC sulla mainboard: è


un caricabatteria basato sull'integrato MAX8724.

188
Guasti dell'alimentazione

col lampeggio del LED di accensione. A volte la frequenza di ripetizione dei


periodi di onda è più alta o più bassa e in qualche caso il LED di accensione
neppure si vede accendersi.
Se il DC/DC principale funziona uniformemente ma ad una frequenza sbaglia-
ta, la cosa si nota non solo perché il notebook non si accende e con esso la spia
di accensione, ma anche perché le forme d’onda rilevabili nei punti appena
descritti è di frequenza nettamente minore (ad esempio 500 Hz) di quella tipica
desumibile dal data-sheet dell’integrato controller.
Tutte queste condizioni indicano che conviene tentare di sostituire l’integrato
controller del DC/DC caricabatteria; infatti se anche fosse un guasto nel chi-
pset o nel sensore termico a bloccare l’accensione del notebook, nel connetto-
re per la batteria si misurerebbe comunque una certa tensione. Solitamente un
guasto nell’alimentatore caricabatteria non fornisce tensione alla batteria stessa
o comunque applica una tensione casuale che passa attraverso diodi o resisten-
ze di polarizzazione.
Nel caso abbiate il dubbio che uno dei MOSFET che effettuano la commuta-
zione negli switching sia guasto, dissaldatelo e verificatelo con il solito tester,
posizionando i puntali tra D ed S ed accertandovi che non sia in cortocircuito;
l’analisi dei componenti elettronici attivi (diodi e transistor) è spiegata dettaglia-
tamente nel Capitolo 8, dove si parla dell’utilizzo del tester.
Se collegando l’alimentatore si vede la spia spegnersi, ovvero in mancanza di
questa si vede una forte scintilla, l’alimentazione è in cortocircuito e il guasto è
quasi sicuramente nei primi componenti: può accadere, ad esempio, che i
MOSFET dell’alimentatore principale siano entrambi saltati e cortocircuitino
l’alimentazione, ovvero che sia saltata una delle protezioni poste in parallelo
all’alimentatore; sovente la protezione è un diodo collegato in modo che nor-
malmente sia interdetto, ovvero con il catodo sulla linea positiva e l’anodo su
quella negativa. Questo diodo può guastarsi e andare in cortocircuito ad esem-
pio per una tensione troppo elevata applicata dall’alimentatore AC/DC, ovvero
se si usa, per alimentare il notebook, un alimentatore AC/DC che abbia i colle-
gamenti del connettore rovesciati rispetto a come previsto; in questa evenienza
l’inversione di polarità fa andare in conduzione il diodo e possono verificarsi
due situazioni: se il portatile dispone di un fusibile in serie al connettore di ali-
mentazione, questo si interrompe (se è autoripristinante, tipo Polyswitch,
aumenta enormemente la propria resistenza e poi, raffreddatosi, torna a con-
durre, ripetendo questo ciclo fin quando non si stacca l’alimentazione) e il diodo
si salva. Diversamente, laddove l’alimentatore AC/DC sia in grado di erogare
più della corrente diretta che il diodo può sopportare, la giunzione di questo si
fonde e va in cortocircuito, mettendo in cortocircuito l’alimentazione.
Nel caso della sovratensione, il diodo si guasta perché la sua giunzione non
regge la differenza di potenziale e si innesca la conduzione inversa ad effetto
valanga, la quale in breve tempo surriscalda e fonde la giunzione, come già
detto, con le stesse conseguenze.

189
Capitolo 9

Quando accadono questi due problemi, il diodo surriscalda a tal punto da bru-
ciarsi: appare allora carbonizzato o semplicemente crepato; ma non è sempre
così, in quanto alle volte la fusione della giunzione non raggiunge temperature
tali da manifestare segni inequivocabili sul contenitore.
In questo caso, comunque raro, si deve andare a verificare con il tester imposta-
to sulle prove di continuità (portate ohmiche a bassa resistenza o con avviso
sonoro) che il diodo non sia in cortocircuito; se si ha il sospetto che lo sia, biso-
gna dissaldare il diodo (con il saldatore o, se è in SMD, meglio con il getto d’a-
ria calda) e provarlo da solo o con almeno un elettrodo sconnesso dal circuito.
In condizioni normali, portando il puntale rosso (positivo) sul catodo (il contat-
to vicino alla fascetta segnata sul corpo del diodo) e il nero sull’anodo il diodo
deve avere resistenza infinita o quasi; se presenta zero o poche decine di ohm o
comunque pressappoco la resistenza misurata tra positivo e negativo del connet-
tore di ingresso alimentazione, significa che è guasto e va sostituito.
Se all’esame visivo non appare nulla, bisogna innanzitutto cercare l’origine del
cortocircuito, procedendo per passi: per prima cosa occorre individuare il per-
corso della tensione, sconnettendo i fusibili o i resistori di potenza che si trova-
no sulla linea di alimentazione principale. A riguardo va detto che usualmente gli
alimentatori switching di un notebook sono tutti alimentati da una linea comu-
ne, a volte protetta da fusibili comuni o autoripristinanti, ma sovente libera
(diretta) il che significa che una sovratensione potrebbe guastarli tutti insieme.
In tal caso la riparazione potrebbe essere troppo dispendiosa perché richiede-
rebbe di andare ad analizzare tutti i MOSFET inseriti negli stadi. Peraltro risul-
terebbe difficile ricercare il guasto in quanto per farlo occorrerebbe separare le
varie sezioni e ciò non sempre è possibile, dato che la linea comune che le ali-
menta passa in piste che si trovano anche negli strati interni del circuito stampa-
to del computer e che quindi non è possibile interrompere per isolare i DC/DC.
Una cosa da notare è che se si verifica un cortocircuito a valle dell’alimentatore
caricabatteria, ovvero nel chipset o in uno dei DC/DC converter interni, solita-
mente quando la batteria è carica salta il fusibile che la protegge, ovvero si bru-
cia la resistenza di protezione posta in serie ad essa; valutare questo indizio può
essere già un buon inizio per escludere eventuali altri problemi.

Figura 9.3 - Plug di alimentazione


saldato sulla scheda madre.

190
Guasti dell'alimentazione

Guasti nel plug di alimentazione


Nei notebook in cui l’alimentatore AC/DC si connette mediante una presa plug
saldata sul circuito stampato della mainboard, può capitare che, per surriscalda-
mento o falsi contatti, oppure semplicemente perché chi inserisce ed estrae lo
spinotto lo fa bruscamente o flettendolo (ma anche per una caduta o un urto)
la saldatura di uno o più piedini dello stesso plug venga meno alle proprie fun-
zioni; il surriscaldamento può dipendere da un’errata progettazione (ad esempio
da una sottostima delle correnti in gioco) ed è causato dal fatto che la corrente
passa in una sezione troppo ridotta e fa scaldare la saldatura, il foro metallizza-
to del contatto dove è saldato il plug o una o più piazzole del plug stesso.
Problemi di questo genere possono diventare abbastanza seri, perché vanno
dalla semplice mancanza di alimentazione generalizzata nel PC, fino alla brucia-
tura di parti dello stampato della mainboard che possono causare cortocircuiti
e danni irreparabili.
Nel caso del semplice distacco della lega saldante dovuto a saldatura fredda
(mancata aderenza di parte della saldatura) il problema si identifica perché pun-
tando i puntali del tester sui contatti positivo e negativo del plug che sono con-
nessi al circuito stampato si rileva tensione, ma collegando il positivo (mentre il
negativo sta a massa) oltre, ad esempio sulla prima pista che segue i contatti, non
si riscontra nulla. In questo caso è abbastanza evidente che bisogna risaldare il
plug, possibilmente dopo averne pulito i contatti ed aver deposto del flussante
su di essi per facilitare lo spargimento della lega saldante anche nei fori metal-
lizzati che eventualmente li ospitano.
La disconnessione della saldatura può essere riscontrata anche sconnettendo lo
spinotto dell’alimentatore AC/DC e, con il tester disposto alle misure ohmetri-
che (a bassissima resistenza) verificando la continuità fra il positivo del plug e la
pista corrispondente, quindi verificando altrettanto per la pista del negativo
(massa).
Può anche capitare che misurando la tensione sui contatti del plug saldati alla
mainboard non si legga praticamente tensione, ma che ciò non sia ascrivibile al
plug; in tal caso c’è un cortocircuito (ciò appare evidente facendo una prova con
il tester, ovvero -negli alimentatori AC/DC dotati di LED di segnalazione- dal
lampeggio di quest’ultimo) oppure l’alimentatore non riesce a fornire corrente
sotto carico, pur presentando tensione da solo, sullo spinotto. In tal caso vale
quanto già detto qualche paragrafo indietro.

Procedura di sostituzione del plug


In questo caso e laddove il plug sia danneggiato fisicamente (ad esempio da una
forzatura nell’inserimento o estrazione dello spinotto o da un urto) si deve
asportare il connettore e sostituirlo con uno nuovo idoneo; la sostituzione si
effettua dissaldando il componente con l’aiuto del dissaldatore/succhiastagno e
della trecciola dissaldante, dato che quasi sempre si tratta di un componente a

191
Capitolo 9

Figura 9.4 - Vari tipi di plug di ali-


mentazione.

montaggio passante (THT) ovvero con terminali che entrano in fori del circui-
to stampato, quasi sempre passanti. Per facilitare l’estrazione può essere neces-
sario sollevare il corpo del plug mentre si scaldano le piazzole corrispondenti; in
tal caso occorre prestare attenzione a non forzare troppo, in quanto quando la
vetronite che costituisce il circuito stampato è molto calda, può deformarsi o
lacerarsi facilmente e irrimediabilmente.
Estratto il connettore, bisogna pulirne bene le piazzole con la trecciola dissal-
dante ed inserire il nuovo plug, quindi saldarlo accuratamente e stagnarlo abbon-
dantemente.
Completate le saldature e lasciato riposare il circuito per circa un minuto, si può
ripulire la zona delle piste dal flussante, con dell’alcol isopropilico spray (o con
della trielina o del solvente Avio) e poi con uno spazzolino.
Con alcuni computer il lavoro si presenta molto più semplice, dal momento che
il plug di alimentazione non viene montato sul circuito stampato, bensì è forni-
to già cablato con un suo cavo a più conduttori ed un apposito connettore da
inserire nel corrispondente del circuito stampato (Figura 9.5). In questo caso
non bisogna fare danni al circuito stampato, ma basta sconnettere il connettore
e liberare il plug dall’eventuale piastrina di fermo che lo trattiene.

Figura 9.5 - Plug di alimentazione dotato di


cavetto: questo tipo di connettore si sostituisce
molto facilmente e in modo non invasivo per il
circuito stampato, dato che non è saldato su di
esso ma collegato mediante un connettore.

192
Guasti dell'alimentazione

Problemi con le piste


A volte può capitare che il connettore, muovendosi, faccia fare un cattivo con-
tatto ai propri piedini: se nella migliore delle ipotesi si perde la continuità elet-
trica, nella peggiore il cattivo contatto, causando un incremento della resistenza
elettrica fra plug e piste, provoca una maggiore dissipazione di potenza nel con-
tatto, che si traduce in un surriscaldamento delle zone interessate; a un certo
punto il calore può essere tale da carbonizzare la vetronite che costituisce il cir-
cuito stampato e danneggiarla, facendo perdere isolamento. Ciò comporta un
aumento della corrente e cortocircuiti fra piste e contatti, quindi se la piazzola
del positivo del plug è circondata da un piano di massa o la pista del positivo è
sovrapposta a quella di massa nella zona surriscaldata, si origina un cortocircui-
to.
Un guasto simile è insidioso perché non è facile determinarlo: l’alimentazione
del computer appare in cortocircuito anche sconnettendo la gran parte dei com-
ponenti degli alimentatori DC/DC ed il fusibile o resistore di protezione in serie
al primo di essi.
Per la riparazione conviene andare a tentativi, cominciando a sconnettere i com-
ponenti in parallelo all’alimentazione (ad esempio i condensatori di filtro) ed il
fusibile o la prima bobina di filtro EMI; se il cortocircuito c’è anche dopo, signi-
fica che la mainboard ha un guasto su uno degli alimentatori, mentre in caso
contrario si è verificato un cortocircuito tra le piste di due layer dello stampato,
in prossimità del plug, a seguito di una bruciatura dovuta a surriscaldamento.

Alimentare un notebook senza plug


Può capitare di dover provare un PC portatile e di non avere l’alimentatore
AC/DC con il plug adatto (succede anche con gli universali) oppure di trovarsi
guasto l’unico alimentatore idoneo; in questa evenienza è possibile comunque
verificare se il computer funziona. Basta saldare due cavetti sulle piazzole dei
contatti del plug sulla mainboard, dopo aver identificato positivo e negativo: il
rosso va sul positivo ed il nero sul negativo. Solitamente il + ed il – del plug si
localizzano con il tester, disposto sulle portate ohmetriche a bassissima resisten-
za (prova di continuità) rammentando che il contatto interno ormai per con-
venzione è il positivo e quello esterno (o quelli esterni) il negativo. Toccando

Figura 9.6 - Stampato rigonfiato a causa del surri-


scaldamento delle piste in prossimità del plug di ali-
mentazione.

193
Capitolo 9

con un puntale l’elettrodo interno si cerca quello che dà resistenza nulla o quasi
(pochissimi ohm): questo è il positivo; poi si tocca il contatto esterno e si va a
cercare l’elettrodo che fa cortocircuito (o resistenza bassissima) con esso, che
sarà il negativo.
Saldati i due fili, se disponete di un alimentatore da laboratorio (capace di ero-
gare da 14 a 20 Vcc e una corrente di almeno 4 A) il rosso andrà collegato al
morsetto positivo ed il nero al negativo; se invece disponete di un alimentatore
con plug standard coassiale con foro, infilate il filo rosso nel foro ed avvolgete
l’estremità del nero attorno all’esterno metallico del plug stesso. In entrambi i
modi, se il notebook è a posto deve accendersi.

Guasti del sensore termico e delle ventole


A volte può capitare che il notebook, pur correttamente alimentato, non si
accenda, malgrado sui contatti del plug nella mainboard ci sia tensione; il difet-
to potrebbe dipendere da un problema al chipset (saldatura fredda che necessi-
ta di reflow o guasto del chip vero e proprio, quindi è richiesta sostituzione)
oppure da un guasto nel sensore termico; infatti quest’ultimo interagisce solita-
mente con il chipset e può bloccarne l’attività. Ad esempio, se il sensore rileva
o comunica una temperatura sopra la soglia massima ammissibile, il chipset
blocca l’alimentatore e non fa accendere il computer. In questo caso, però,
dovrebbe vedersi girare la ventola di raffreddamento senza interruzione.
Altro discorso è quello che riguarda le ventole e che può comunque portare allo
spegnimento del PC pochi istanti dopo l’accensione; in questo caso è facile pen-
sare a un problema all’alimentazione principale, ma si cadrebbe in errore.
Se il notebook si scalda parecchio, si spegne da solo mentre state lavorando o
poco dopo (qualche manciata di secondi) essersi acceso, è necessario controlla-
re la ventola di raffreddamento, perché probabilmente gira troppo lenta (a causa
dell’accumulo di sporco che ne ostacola la rotazione) o non gira affatto. Anche
rumori anomali originati dalla ventola devono far sospettare che qualcosa non
va. Come accennato, se la ventola non raffredda adeguatamente di solito il sen-
sore termico arresta il PC, ma talvolta l’intervento è tardivo o solo sopra una
certa soglia di temperatura: intanto CPU, chipset e GPU lavorano in condizioni
di eccessiva temperatura e a lungo andare si danneggiano o alcune delle loro sal-
dature si staccano, rendendo necessario il reflow.

Figura 9.7 - Batteria per notebook:


in evidenza il connettore di collega-
mento alla scheda madre. Tale
connettore ha sempre i contatti
protetti, per evitare cortocircuiti se
dovesse toccare superfici metalli-
che.

194
Guasti dell'alimentazione

La ventola va pulita con un getto d’aria o, se gira lenta o non gira perché la bron-
zina su cui gira il rotore sta grippandosi, deve essere verificata e nel caso sosti-
tuita con una nuova.
Molto importante è anche verificare periodicamente che sulle griglie d’uscita
dell’aria che le ventole estraggono dal notebook o sulle alettature in rame del
dissipatore raffreddato dalla ventola non si sia accumulata lanuggine causata
dalla polvere, fuliggine o altra forma di addensamento che ostacolerebbe l’a-
sportazione del calore; in tal caso bisogna smontare il notebook fino ad accede-
re al dissipatore, staccare quest’ultimo e soffiarvi con un getto d’aria compres-
sa per ripulirlo, quindi rimontarlo al suo posto e chiudere il computer.
L’accumulo di sporco sulle feritoie di ventilazione (sia d’entrata dell’aria aspira-
ta dalle ventole che d’uscita del calore asportato) determina anomalie e proble-
matiche o guasti uguali a quelli derivanti dal malfunzionamento o blocco della
ventola di raffreddamento, ma anche dei difetti al sensore termico.

Problemi con la batteria


L’accumulatore del notebook ha una certa vita, che dipende strettamente da
come viene caricato e dalle condizioni climatiche, ma anche e soprattutto dal
numero di cicli di carica cui viene sottoposto, dal momento che ogni modello
ha un massimo numero di cicli di carica oltrepassato il quale perde le proprie
qualità. Il tipico difetto della batteria è la perdita di autonomia, nel senso che un
notebook che nuovo sta acceso per tre ore di fila, con l’andare del tempo si spe-
gne dopo 2 ore e mezza, poi dopo due ecc. Quando invece il computer non si
accende più a batteria, significa che c’è un guasto nel circuito interno al pacco o
è andato in cortocircuito almeno uno degli elementi, ovvero è saltato il fusibile
di protezione; ciò, prescindendo da guasti nel notebook, come ad esempio l’in-
terruzione dell’eventuale fusibile di protezione della batteria posto prima del
connettore sulla scheda madre.
Quando si riscontra una perdita di autonomia o un forte calo di tensione anche
a batteria carica, non c’è molto da fare: bisogna cambiare la batteria, ovvero, se
si possiede una certa dimestichezza con l’elettronica, aprirne il guscio, cercare
l’elemento difettoso e sostituirlo; idem se gli elementi difettosi sono più d’uno.

Figura 9.8 - Interno di un pacco-


batteria agli ioni di litio.

195
Capitolo 9

Figura 9.9 - Elementi di ricambio per batterie dei portatili:


hanno i contatti costituiti da lamelle saldabili a stagno e
sono disponibili in varie capacità.

L’eventuale sostituzione degli elementi si può fare dopo averne trovati di com-
patibili con quelli della batteria originale; ad esempio, in un pacco-batteria
NiMH da 12 V e 2.700 mAh ci vanno elementi NiMH da 2,7 Ah.
A parte questo, quando il notebook funziona solo con la rete e non a batteria,
prima di ritenere guasta la batteria stessa occorre accertarsi che il computer la
carichi correttamente; ciò si fa innanzitutto verificando che il fusibile della bat-
teria sulla scheda madre sia a posto (ossia lo si deve provare -a PC spento- con
il tester, accertando se manifesta continuità) e se lo è bisogna vedere se il cari-
cabatteria fornisce la giusta tensione, cosa verificabile con il tester disposto sulla
misura di tensioni continue e ponendo i puntali sui contatti di massa (negativo)
e positivo.
Notate che normalmente i contatti di massa sono due affiancati e più grandi
degli altri, ma non sempre è così; in ogni caso il contatto di massa della batteria
si trova con il tester disposto sulla misura di resistenze di basso valore, portan-
do un puntale sulla pista di massa della mainboard (è quella in contatto con il
negativo del plug di alimentazione) e l’altro sui contatti uno alla volta, fino a tro-
vare quelli che danno continuità, ovvero zero o pochissimi ohm di resistenza.
Solo se il notebook fornisce la giusta tensione, si può ritenere che la batteria sia
da sostituire; se manca tensione occorre verificare il fusibile o l’alimentatore
principale/caricabatteria ed eventualmente sostituire l’integrato che lo governa
o i MOSFET che fossero danneggiati.

Tester per batterie


Per verificare se una batteria da notebook è in buone condizioni esistono vari
metodi, il più semplice dei quali è individuarne i contatti positivo e negativo di
scarica (sono chiamati così gli elettrodi da cui si preleva la corrente per alimen-
tare il computer e che possono coincidere con quelli di carica, usati dal note-
book per caricare la batteria) e verificare quale tensione fornisce; in linea di mas-
sima, per una batteria al litio da 14,4 volt -quella più comunemente impiegata,

196
Guasti dell'alimentazione

composta da quattro celle- a piena carica si devono leggere almeno 14 volt. La


batteria scarica deve presentare almeno 11 volt, altrimenti è facile che ormai
qualche elemento si sia guastato; a tal riguardo va ricordato che le celle delle bat-
terie agli ioni di litio non devono scendere sotto i 2,8 volt, altrimenti si degrada-
no. Se le tensioni misurate sono a posto, si può fare anche una prova di massi-
ma per verificare l’erogazione di corrente: a tal proposito, dopo aver caricato la
batteria per un paio d’ore, si deve applicarle ai contatti di scarica una resistenza
di potenza che prelevi una corrente pari alla capacità della batteria stessa: per
esempio, se l’accumulatore è da 14,4 volt e 4.400 mA/h occorre una resistenza
da 14,4/4,4=3,27 ohm (la potenza del resistore dovrà essere circa 40 W).
Se caricata con questa resistenza la batteria presenta ai propri capi una tensione
che si mantiene sopra i 12,5 volt, in linea di massima va tutto bene; si può anche
provare a collegare una resistenza di valore più basso, ad esempio una che
costringa la batteria ad erogare 2C, cioè l’equivalente in corrente del doppio
della propria capacità, e vedere se la tensione si mantiene accettabile. Tenete
conto che le batterie agli ioni di litio possono essere scaricate a correnti dell’or-
dine di tre o quattro volte l’equivalente capacità.
Per le batterie NiMH il discorso è analogo, solo che le tensioni a pieno carico
possono essere minori.
Notate che le batterie agli ioni di litio hanno nel connettore, solitamente, dei
contatti collegati alle celle intermedie, che servono al bilanciamento delle celle;
ciò perché in questo tipo di accumulatore è più probabile che una cella si cari-
chi ad una tensione diversa da quella delle altre, con la conseguenza che il cari-
cabatterie stacca prima del dovuto, quando le celle a minor tensione ancora non
sono cariche. inoltre, se ci sono celle a tensione più bassa esse vengono solleci-
tate maggiormente. Il bilanciamento viene fatto di norma dal caricabatteria del
notebook, ma non tutti i portatili lo fanno.
A parte la tecnica manuale, esiste la possibilità di provare automaticamente le
batterie mediante appositi tester: questi preziosi strumenti sono in grado di
effettuare test completi di carica/scarica, bilanciamento delle celle e di predire
la durata, la carica residua (cioè quanta percentuale di capacità la batteria in
prova ha perso). Inoltre dispongono di adattatori per collegarsi ai connettori di
tutti i tipi di batteria in commercio.
I tester più avanzati possono inoltre dialogare serialmente con il controller
“intelligente” delle batterie che ne sono dotate.

197
CAPITOLO 10
GUASTI DEL VIDEO

In questa categoria rientrano tutte le problematiche riguardanti la visualizzazione


delle immagini da parte del notebook, quindi tante diverse tipologie di inconvenien-
ti che possono dividersi sostanzialmente in tre gruppi: guasti alla scheda video, gua-
sti del monitor e problemi delle connessioni. I guasti della scheda video riguarda-
no il chip video e l’eventuale switch (quando presente a parte) che gestisce la com-
mutazione dell’immagine tra display e monitor esterno; quelli del monitor sono gli
inconvenienti intrinseci della matrice dell’LCD o della retroilluminazione. Infine,
per guasti delle connessioni si intendono quelli che possono affliggere sia il connet-
tore per il monitor esterno, sia cavo e connettori che collegano la scheda madre al
display. Oltre a ciò, si annoverano nella categoria i problemi incrociati fra chipset e
scheda video, che talvolta alterano la visione, ovvero che impediscono di vedere le
immagini.

Guasti della scheda video


Si riconoscono dal fatto che l’immagine non appare correttamente ma è afflitta da
numerosi disturbi, ovvero tremola o presenta barre di colore più o meno larghe e/o
frequenti; l’immagine può anche non apparire ed in suo luogo si trovano scacchie-
re monocromatiche o colorate, strisce o quadrettature. Quando la visione è afflitta
da strisce verticali o sullo schermo appaiono solamente strisce, il difetto può dipen-
dere dal display; per dirimere il quesito bisogna collegare un monitor esterno all’ap-
posita presa e vedere cosa appare sullo schermo di quest’ultimo: se la visione è
uguale a quella fornita dal portatile, allora il guasto è nella scheda video, mentre se
l’immagine è buona, significa che i problemi sono nel controller dell’LCD del note-

197
Capitolo 10

book. Un guasto dell’LCD può far apparire l’intero schermo di colore bianco.
Quando l’immagine non appare né sul display né sul monitor esterno, i proble-
mi possono essere due: la scheda video è guasta o lo switch allo stato solido che
commuta l’immagine sul monitor di bordo o sul connettore per monitor ester-
no è danneggiato; in un caso del genere è abbastanza difficile identificare il pro-
blema, che comunque -se riguarda la scheda video- risiede nella sezione di usci-
ta e non in quella di conversione D/A. Infatti quando il chip video è guasto al
punto da non comunicare con il chipset Northbridge, quest’ultimo rileva l’ano-
malia e fa emettere al cicalino di bordo della scheda madre una serie di quattro
note acustiche.
Dunque, se accendendo il computer non si vede nulla a video ma si sentono i
quattro “beep”, significa che la scheda grafica è seriamente compromessa, ovve-
ro il suo chip grafico ha semplicemente scollegati uno o più piedini vitali per il
suo funzionamento e il dialogo con il bus verso il chipset; per “scollegati” si
intende che ci sono delle saldature fredde in corrispondenza di alcuni pin, che
quindi fanno falso contatto.
Se, invece, lo schermo resta ugualmente nero ma non si ode l’avviso acustico,
c’è da sospettare un guasto più serio, nel senso che il chip video ha la sezione di
conversione D/A, il processore grafico o le componenti d’uscita guasti; in que-
sto caso, per accertarsene basta collegare un monitor esterno e verificare cosa
accade.
Riguardo al collegamento di un monitor esterno va ricordato che la scheda
video dei portatili è in grado di rilevarne la presenza e regolarsi di conseguenza;
per l’esattezza, se all’accensione del notebook risulta collegato un monitor alla
presa VGA esterna, il BIOS passa automaticamente le immagini su questa e
disattiva il display LCD. In caso contrario, la visualizzazione viene attivata
sull’LCD ed alla presa esterna non arriva alcunché. Dopo aver avviato il com-
puter normalmente, cioè con l’LCD, si può in ogni momento passare alla visua-
lizzazione esterna o su entrambi i monitor, con le combinazioni di tasti previste.
Se il computer non visualizza nulla sul monitor esterno all’avvio o a seguito della
commutazione manuale, però visualizza correttamente sull’LCD, significa che è
guasto lo switch o almeno la sezione dello switch che provvede alla commuta-
zione dell’uscita video sul connettore esterno.
La scheda video può manifestare i propri difetti in altri modi, ad esempio facen-
do bloccare il computer nell’esecuzione di giochi o animazioni in grafica avan-
zata o CAD che implichino l’utilizzo delle istruzioni 3D; in questo caso il pro-
gramma in corso può bloccarsi e il computer produce a video una finestra di
avviso nella quale evidenzia un problema occorso a un certo modulo o nell’uso
di particolari dll Nvidia. A volte il PC non si blocca ma esce solo l’avviso di erro-
re nell’esecuzione o nel richiamo di dll Nvidia. In questi casi ci sono problemi
con il chipset video, ovvero la GPU, che nello specifico è una Nvidia GeForce
dell’ultima generazione.
Ancora, ma è più raro, quando la scheda video è guasta il computer non si

198
Guasti del video

accende, ovvero si accende e si spegne immediatamente, facendo emettere al led


d’accensione vari lampeggi; ciò succede più frequentemente nelle mainboard
più economiche, dove il video è integrato nel chipset (in alcuni Nvidia e Intel,
come l’i945 e l’i965).

Affrontare i guasti della scheda video


I guasti riguardanti la scheda video si possono risolvere solamente sostituendo
il chip grafico, tuttavia, soprattutto nei portatili più recenti dove tali componen-
ti sono BGA, sovente sono dovuti a falsi contatti causati dal surriscaldamento
dei chip. Infatti i computer portatili sono arrivati praticamente al limite, nel
senso che le loro prestazioni in fatto di velocità di elaborazione sono cresciute
vertiginosamente, mentre le dimensioni esterne si sono sempre più ridotte; ora
va detto che crescendo la velocità di elaborazione (ciò è necessario nei chip
video per incrementare la risoluzione, la definizione e la velocità di scorrimen-
to delle immagini) aumenta inevitabilmente il consumo, che nei dispositivi digi-
tali è sempre direttamente proporzionale alla velocità di commutazione tra i
possibili stati logici. Il consumo di potenza elettrica è determinante perché da
esso dipende la dissipazione di energia sotto forma di calore da parte dei chip.
Negli anni passati si è provato a ridurre la tensione di alimentazione dei compo-
nenti al fine di limitare i consumi, tuttavia, ciò non basta più e i chip, intenden-
do con ciò le CPU, i chipset e i chip video, scaldano sempre più e quindi richie-
dono adeguati metodi di dissipazione del calore. Purtroppo la folle corsa alla
riduzione delle dimensioni dei portatili sacrifica il raffreddamento dei chip all’al-
tare dell’estetica, quindi i sistemi di smaltimento del calore si limitano a dissipa-
tori di rame e alluminio con condotti a gas limitati al minimo, ventole troppo
piccole e feritoie di entrata ed uscita dell’aria che oltre ad essere sovente insuf-
ficienti si riempiono alla svelta di polvere e fuliggine, consentendo il transito di
poca aria rispetto a quella che servirebbe.
Queste problematiche, unite alla poca rigidità delle strutture dei notebook e
delle schede madri, fanno sì che col calore qualche saldatura dei BGA si stacchi,
nel senso che la lega saldante si ammorbidisce e perde aderenza, ovvero le “pal-
line” si afflosciano allontanandosi dai rispettivi contatti degli integrati.
Certo, non tutti i contatti di un BGA o di un qualsiasi chip servono, tuttavia
quando il distacco della saldatura si verifica a scapito di uno dei contatti neces-
sari, ne deriva un’avaria più o meno evidente.
Dunque, a volte per risolvere un guasto basta risaldare il BGA della scheda
video, ovvero sottoporlo al procedimento di reflow cui si accennato nel
Capitolo 8.
Ma come si fa a capire quando la GPU della scheda video è guasta e quando
invece richiede solo il reflow? Ebbene, a meno di non possedere sofisticati stru-
menti di test o software che hanno praticamente solo le case produttrici e i loro
centri di assistenza, bisogna procedere un po’ empiricamente. Nei casi più for-
tunati, per smascherare i falsi contatti basta accendere il portatile dopo averne
199
Capitolo 10

smontato almeno il coperchio superiore e toccare il chip video, premendolo leg-


germente, ovvero deformare delicatamente la scheda madre per vedere se cam-
bia qualcosa. Può anche essere d’aiuto la bomboletta che crea il freddo: basta
dirigere il getto sul chip video e verificare se c’è un cambiamento. Il freddo aiuta
anche a verificare guasti all’interno del chip, ma solo se dipendono da un pro-
blema termico.
Per identificare il chip video bisogna individuare i BGA della scheda madre o
l’unico grande componente integrato della scheda video, se questa è distinta;
sappiate comunque che normalmente i chip sono marchiati ATI o Nvidia, seb-
bene a volte il video sia integrato nei chipset della Intel, come ad esempio la
i815, i915 e i965, o in quelli Nvidia NForce. Se ritenete di aver trovato il chip
video potete togliervi i dubbi consultando i data-book delle suddette case pro-
duttrici di integrati, ovvero scrivendo in un motore di ricerca quale Google la
loro sigla e cercando il data-sheet. Tipici chip della Nvidia sono quelli la cui sigla
inizia con G86-770, G86-630A2 o GF-7200 (si tratta di integrati video della
serie Ge Force) GF-5200, GF5700, GF6200 ecc. Tipici esempi di chip ATI sono
i Radeon.
Altri chip grafici possono essere marchiati VIA-S3 o semplicemente S3: in que-
sto caso si tratta di (rari) chipset VIA con integrata la scheda video della S3.
In ogni caso, il chip video è provvisto di un dissipatore di calore, quindi lo si
riconosce anche per questo e la scelta, escludendo la CPU che si distingue facil-
mente, va fatta tra chipset e chip grafico; infatti i chip “dissipati” sono sempre
tre o due soli, quando il chipset non ha raffreddamento (cosa che comunque si
trova nei vecchi PC basati su Pentium II, III e sui primi Pentium IV o AMD
Athlon XP e 64.

Esecuzione del reflow


Letteralmente, reflow significa rifare il flussante; ciò spiega in cosa consiste il
relativo processo: far passare sotto i chip BGA del flussante ben fuso, in modo
che raggiunga tutte le saldature ed aiuti il calore a sciogliere lo stagno.
Sostanzialmente ciò serve a ripassare le saldature ed aiutare lo stagno a concen-
trarsi sui contatti sia del BGA che del circuito stampato. La lega saldante, in pre-
senza del flussante si scioglie modellandosi automaticamente fino a divenire una
pallina e toccare sia la piazzola del circuito stampato, sia il corrispondente con-
tatto del BGA.
Il reflow è dunque qualcosa più di una semplice “scaldata” ed è molto più effi-
cace in quanto limitandosi a scaldare circuito e chip è vero che si fonde lo sta-
gno delle saldature, però essendo ormai esaurita l’azione del flussante in esso
contenuto, la saldatura non è omogenea e concentrata sulle piazzole; invece
aggiungere del flussante ripristina le condizioni in cui è stata fatta la saldatura in
fabbrica e quindi corrisponde di fatto a risaldare il chip BGA.
Chiaramente tale procedimento si svolge senza staccare fisicamente il compo-
nente, ma basa la sua efficacia sul fatto che disponendo del flussante intorno al
200
Guasti del video

Figura 10.1 - Disposizione della mainboard sulla macchina per BGA e riscaldamento
mediante lampada ad infrarossi.

chip, col calore questo si scioglie e scorre sotto il BGA; è poi chiaro che non
sempre il flussante raggiunge tutte le zone sottostanti il componente e tutte le
saldature, il che praticamente implica che tale metodica non risolve tutti i pro-
blemi. Infatti se la saldatura o le saldature staccate sono in una zona molto inter-
na (per esempio al centro) del chip, non è detto che il flussante le raggiunga e
possa esercitare la propria azione; ciò si riscontra ad esempio nei chip molto
vasti, come gli Intel i965.
Per avere maggiore efficacia, si può utilizzare del flussante liquido, che però va
applicato ai bordi del chip BGA prima di riscaldare il circuito stampato, altri-
menti evapora; applicandolo a freddo si è certi che possa andare a spargersi
bene sotto il corpo dell’integrato. In ogni caso, se si usa flussante in pasta occor-
re scegliere quello meno denso, specifico per reflow o saldatura di componenti
SMD, evitando i flussanti usati nella saldatura dei BGA.
Il reflow si svolge sostanzialmente scaldando il circuito stampato in modo da
mantenere calda la superficie delle piazzole; quando questo raggiunge circa 100
°C, bisogna spargere il flussante in pasta; superati i 140÷150 °C, si scalda supe-
riormente il chip per un tempo variabile tra i 30 e i 50 secondi, cercando di non
fargli superare i 220 °C, ovvero superando questo limite ma operando per non
più di 15 secondi e comunque non oltre lo stretto necessario a veder muovere
leggermente il BGA o ribollire il flussante. Le temperature esatte vengono spe-

Figura 10.2 - Deposizione del flussante sui


bordi del chip BGA da lavorare; quando il com-
ponente verrà scaldato, il flussante si spargerà
penetrando al disotto del suo corpo e raggiun-
gendo, in teoria, tutte le saldature.

201
Capitolo 10

cificate dai vari costruttori e dipendono chiaramente dalle qualità termiche del
chip che si sta trattando. Si comprende quando lo stagno si è fuso dal fatto che
appoggiando delicatamente e gradualmente un cacciaviti metallico sul corpo del
BGA, questo si muove o si abbassa (evitate di premere troppo, altrimenti è faci-
le che due palline di lega saldante vicine si tocchino e facciano un cortocircuito,
per rimuovere il quale occorrerebbe smontare e risaldare il BGA).
Fusa la lega saldante, bisogna spegnere il riscaldatore superiore o, se è possibile,
farne scendere la temperatura gradualmente, all’incirca di un paio di gradi al
secondo (per seguire la variazione ci si può aiutare con le sonde di temperatura
di cui dispongono le macchine per reflow); lo stesso vale per il riscaldatore infe-
riore. I valori e le curve di variazione dipendono dal tipo di chip.
Se occorre, si può ripetere una volta il ciclo termico appena descritto; oltre le
due volte, le caratteristiche del componente possono venire pregiudicate irrime-
diabilmente.
Nell’eseguire questo procedimento non bisogna scordare che il riscaldatore del
chip scalda anche il circuito stampato, quindi se la macchina usata non dispone
di un meccanismo di regolazione adeguato, lo stampato può raggiungere tem-
perature tali da far staccare i componenti sul lato opposto o spostare quelli del-
l’altro, il che porta a danni irreparabili. Pertanto quando si persiste con il riscal-
datore superiore conviene spegnere quello inferiore, ovvero si può spegnere
quest’ultimo poco prima di accendere il riscaldatore del chip.
Un’altra cosa da considerare è che, per far meglio aderire la lega saldante ai con-
tatti, conviene, quando si scalda il chip, provare delicatamente a muoverlo late-
ralmente e a premerlo leggermente verso lo stampato; ciò si può fare con un
attrezzo metallico dotato di impugnatura isolante (altrimenti il calore si propaga
alla svelta e diviene difficile impugnarlo) e con mano molto ferma, in quanto
basta uno spostamento di un millimetro per far toccare le saldature di una fila
di contatti con quelle delle file attigue e creare una serie di cortocircuiti che
richiedono l’asportazione del chip e la sua risaldatura. Analogamente, se si
preme troppo energicamente il componente, le palline di stagno che realizzano
i contatti possono dilatarsi e quelle di una fila si fondono insieme a quelle delle

Figura 10.3 - A sinistra, trattamento della colla per BGA mediante l'apposito prodotto liqui-
do (in mezzo) applicato a pennello; a destra, rimozione dei punti di colla mediante un
attrezzo a punta, quando la scheda viene riscaldata.

202
Guasti del video

Figura 10.4 - A sinistra, protezione della zona di circuito stampato attorno al chip da scal-
dare per il reflow: il nastro deve distare 3÷4 mm dal bordo del BGA. A destra, riscaldamento
del chip: l'alluminio riflette la luce della lampada e impedisce il surriscaldamento dello stam-
pato della mainboard.

file vicine, con il risultato che il BGA va in cortocircuito e bisogna rimuoverlo


e risaldarlo. Inoltre va detto che se il chip da sottoporre a reflow ha sui lati o
sotto dei punti o delle strisce di colla, questi vanno rimossi, altrimenti il compo-
nente non può scendere e appoggiarsi sulle palline di lega saldante, quindi è faci-
le che il reflow non riesca.
I punti di colla si rimuovono con un piccolo cacciaviti o una punta di metallo,
quando lo stampato ha raggiunto i 100 °C circa (è sconsigliabile farlo oltre i 130
°C perché il chip potrebbe staccarsi) mentre se il BGA è incollato sui lati con la
resina rossa, l’operazione di rimozione riesce ma solo lateralmente, mentre sotto
è facile che la colla rimanga. In questo caso, più che a caldo conviene agire a
freddo, sciogliendo la colla mediante speciali liquidi capaci di rimuovere l’adesi-
vo dei BGA (BGA Glue Remover). Si tratta di solventi la cui applicazione va fatta
a freddo, altrimenti evaporano immediatamente o, peggio ancora, possono
incendiarsi; i solventi vanno applicati attorno alla colla: i produttori suggerisco-
no di circondare il chip interessato con del cotone, una pezza o della carta asciu-
gamani, quindi imbevere questi di solvente ed attendere un certo tempo, che
varia fra uno e cinque minuti.
Il Glue Remover ammorbidisce la colla sui lati del BGA e la rende più facilmen-
te asportabile a freddo ed ancor più quando, una volta evaporato, si mette la
scheda sulla piastra riscaldante della macchina per BGA; in questo caso la colla
diventerà molle e verrà via molto facilmente, con temperature del riscaldatore
inferiore che portino la superficie della scheda ad almeno 80 °C.

Curve di reflow
Il metodo di reflow descritto finora è generico e talvolta può non essere ottima-
le per un certo chip; giusto sarebbe disporre di una macchina più sofisticata in
cui fosse possibile impostare sequenze di lavorazione automatiche con le curve
di temperatura suggerite dai singoli costruttori di BGA. Macchine del genere
esistono da tempo in commercio e permettono di programmare il ciclo di
203
Capitolo 10

Figura 10.5
Sequenza
delle fasi di
asportazione
di un chip
BGA; a destra,
circuito stam-
pato dal quale
è stato aspor-
tato un chip
BGA. Si nota
la sonda termi-
ca della mac-
china, costan-
temente
appoggiata sul
circuito stam-
pato a ridosso
del chip, per
rilevarne la
temperatura.

reflow, ma anche di saldatura, definendo varie fasi e stabilendo per ciascuna la


durata, la temperatura da raggiungere (target) ed eventualmente il gradiente ter-
mico, intendendo con ciò di quanti gradi per unità di tempo (ad esempio al
secondo) la temperatura debba salire in riscaldamento o scendere in raffredda-
mento (al termine della saldatura o del reflow).
In linea di massima il reflow è un procedimento diviso in quattro fasi:
1. preriscaldamento graduale della scheda di 2÷3 °C al secondo;
2. riscaldamento del chip alla temperatura di attivazione del flussante;
3. ulteriore riscaldamento ad una temperatura di poco superiore a quella di
fusione della lega saldante;
4. raffreddamento graduale controllato.

Nella prima fase, le saldature e i contatti si asciugano dall’eventuale umidità; que-


sto accade fino a circa 130 °C; dopo, i contatti vanno tenuti preferibilmente per
un tempo compreso tra uno e tre minuti (in ogni caso conviene seguire i consi-
gli forniti dai costruttori dei chip nei loro data-sheet) ad una temperatura tra 150
e 18o °C alla quale il flussante possa sciogliersi, spargersi e pulire le superfici dei
contatti (questa fase prende il nome di “attivazione del flussante”).
Nella terza fase la temperatura deve crescere di 2÷3 gradi al secondo fino a por-
tarsi a quella di fusione delle sfere di lega saldante; per evitare falsi contatti e sal-
dature fredde, bisogna tenere il corpo del BGA al di sopra del punto di fusione
della lega saldante (per quella a piombo-stagno si parla di almeno 210 °C, men-
tre per la Rohs bisogna mantenersi almeno a 220 °C ) per circa 60 secondi. Ciò
204
Guasti del video

non significa che la temperatura debba essere di tale valore, ma che non biso-
gna scendere sotto, quindi sono ammessi picchi anche di 220 °C per la lega sal-
dante a piombo-stagno e 240 °C per le Rohs. Durante questa seconda fase, la
temperatura della scheda e con essa quella dei contatti, deve mantenersi ad
almeno 150 °C.
Completata la terza fase, inizia il raffreddamento: si fa scendere la temperatura
del lato inferiore insieme a quella del corpo del BGA, con un gradiente di 5
°C/s o poco più. Per il raffreddamento si possono semplicemente spegnere i
riscaldatori, ovvero spegnere i riscaldatori e raffreddare il chip con un ventilato-
re per accelerare il raffreddamento del chip.

Accortezze prima di eseguire il reflow


L’utilizzo della macchine di saldatura a caldo per schede già popolate di compo-
nenti e comunque appartenenti ai notebook, implica l’adozione di una serie di
accorgimenti atti ad evitare il danneggiamento di parti in plastica (che possono
deformarsi irrimediabilmente) e dei componenti particolarmente sensibili al
calore, come le batterie usate per la memoria CMOS riguardante l’orologio di
sistema ed il setup, le quali possono deformarsi e scoppiare, quantomeno se la
temperatura sale eccessivamente (cosa che può verificarsi se detti componenti si
trovano sulla faccia rivolta alla piastra riscaldante). Dunque, prima di disporre
una scheda sulla piastra della macchina per BGA bisogna;

Figura 10.6
Alcune curve di
reflow di chip BGA
saldati con la nor-
male lega piombo-
stagno: sopra
quella per i com-
ponenti dell’Altera
e sotto quella per i
Lattice.

205
Capitolo 10

 staccare i fogli isolanti adesivi in plastica applicati nelle varie zone del circui-
to stampato;
 staccare spugne e gomme incollate sullo stampato;
 smontare parti in plastica che si ritiene possano essere deformate dal calore,
quali ad esempio alcuni dettagli dei lettori di card PCMCIA;
 sconnettere e staccare fisicamente le batterie o pile della memoria CMOS;
rimuovere eventuali moduli Wi-Fi, Bluetooth e modem.

Quanto alle parti in plastica, va detto che normalmente gli zoccoli per le memo-
rie e per le varie card, come i connettori, sono costruiti in materiali in grado di
resistere alle temperature delle macchine per BGA, visto che peraltro i compo-
nenti si saldano con queste, comunque ci sono eccezioni. Bisogna anche rimuo-
vere i circuiti integrati su zoccolo, ovvero le CPU, salvo i casi in cui non siano
saldate sulla mainboard.
Oltre ai particolari su menzionati, prima di eseguire un reflow o la sostituzione
di un chip BGA conviene rimuovere anche eventuali fermagli metallici o plac-
che di ancoraggio delle viti che sostengono i dissipatori di chipset, chip video e
CPU; ciò a causa del fatto che usualmente queste parti sono isolate dal circuito
stampato mediante fogli di plastica, i quali con il calore possono deformarsi e
far perdere l’isolamento. In alcuni casi le plastiche sono particolarmente vicine
o parzialmente sovrapposte ad alcuni componenti SMD e la deformazione,
abbinata al forte calore ricevuto dal circuito stampato, può spostare questi com-
ponenti e rendere inservibile la scheda sottoposta al reflow.
Siccome quando si riscalda un circuito stampato, in presenza del flussante pos-
sono dissaldarsi anche componenti vicini o saldati dal lato opposto del BGA su
cui si sta operando, in certi casi per evitare danni irreparabili bisogna escogitare
una soluzione per limitare il riscaldamento alle zone che lo richiedono; un truc-
co molto efficace consiste nel circondare il BGA con un foglio di alluminio da
cucina o con del nastro di alluminio per fumisteria. Nel deporre questo “scher-
mo” bisogna lasciare 3÷4 mm dal bordo del chip. Il foglio o nastro metallico ha

Figura 10.7 - Pulizia delle piazzole del chip BGA: da sinistra a destra, deposizione del flus-
sante con una spatolina, riscaldamento e aggregazione dello stagno sulla punta del salda-
tore, passaggio con la trecciola dissaldante e risultato finale.

206
Guasti del video

un elevato potere riflettente, quindi riflette sia la luce, sia i raggi infrarossi e per-
mette di limitare decisamente il riscaldamento del circuito stampato nelle zone
estranee a quella del chip da trattare, le quali rimangono pressappoco alla tem-
peratura imposta dal riscaldatore inferiore.

Sostituzione di un BGA
Il reflow non sempre è risolutivo, sia perché lo scioglimento della lega saldante
può non riuscire a ripristinare le saldature, sia per il fatto che alle volte il pro-
blema che ha l’integrato non è una semplice saldatura fredda o un falso contat-
to, bensì è proprio guasto il chip. In questo caso è necessario sostituirlo con uno
nuovo. La sostituzione dei chip BGA si esegue similmente al reflow: per prima
cosa occorre mettere il circuito da riparare sull’apposita macchina e quindi por-
tare la superficie superiore a 140÷150 °C; raggiunta questa temperatura, con la
lampada al quarzo o altro riscaldatore si scalda la superficie del componente
BGA fino a portarla a 220÷240 °C , provando contemporaneamente a solleva-
re un lato del chip con una pinzetta metallica (Figura 10.5) o con la punta di un
sottile cacciaviti a lama. Quando il componente si solleva, bisogna asportarlo
con decisione evitando, per quanto possibile, di farlo strisciare, altrimenti è faci-
le far appiccicare dello stagno su componenti attigui o, peggio, staccare compo-
nenti attigui che si sono dissaldati per effetto del riscaldamento del circuito
stampato.
A questo punto si può spegnere la macchina, attendere che la scheda si raffred-
di fino a circa 50 gradi (oltre sarebbe difficile da maneggiare) e con un saldato-
re e della trecciola dissaldante si deve asportare lo stagno rimasto sulle piazzo-
le, fino a rendere queste ultime moderatamente piane. L’asportazione dello sta-
gno può essere condotta meglio con un saldatore dotato di punta piatta (a spa-
tola): per prima cosa bisogna cospargere di pasta flussante per BGA (ma va
bene anche la pasta per reflow o saldatura degli SMD illustrata nel Capitolo 8)
la superficie dei contatti del BGA appena asportato, quindi passare sulle sfere
con la punta del saldatore ben caldo; in questo modo vedrete la lega saldante
sciogliersi e addensarsi in grandi bolle, ragion per cui sarà necessario di tanto in
tanto scuotere la punta del saldatore lontano dalla scheda per staccare la lega
fusa, ovvero pulirla sulla spugnetta del saldatore, che deve essere ben inumidita.
Rimossa la lega saldante dalle piazzole bisogna asportare eventuali tracce di
colla dell’integrato dalla zona corrispondente al bordo, in modo da predisporre
il montaggio del nuovo componente.
Rimosso lo stagno e la colla, bisogna pulire le piazzole e la zona occupata dal
BGA con del solvente (alcol isopropilico o trielina) e poi (evaporato il solven-
te) spalmare in tutta questa zona, servendosi di un pennellino, un sottile strato
di pasta flussante per BGA, ti tipo abbastanza denso (solitamente questa pasta
è scura e sembra grasso da meccanica).
Ora si deve rimettere la scheda sulla macchina per saldatura ed appoggiare l’in-
tegrato nuovo (di norma i BGA vengono forniti già dotati di palline di lega sal-
207
Capitolo 10

dante sui contatti) facendo combaciare il riferimento segnato sul suo corpo con
quelli della serigrafia del circuito stampato, quindi centrarlo bene riferendosi al
quadrato disegnato sempre sulla serigrafia. Poi occorre accendere il riscaldatore
inferiore, portare la superficie del circuito stampato della mainboard a 150 °C e,
raggiunta tale temperatura, accendere il riscaldatore superiore e portarsi a
220÷230 °C fin quando non si vede il BGA abbassarsi, adagiarsi sulle proprie
saldature; ciò, di norma, coincide visivamente con l’ebollizione del flussante.

Procedura di reball
Se il reflow non ha avuto particolare successo, ovvero nel premere o muovere
un BGA durante tale procedimento si sono uniti più contatti, occorre risaldare
il chip in lavorazione; salvo rari casi, per farlo bisogna procedere al reball, ossia
alla creazione ex-novo dei contatti realizzati dalle sfere di lega saldante. Se inve-
ce la lega saldante rimasta sui contatti del BGA è abbastanza spessa, si può pro-
cedere alla risaldatura i contatti rimasti, come spiegato nel paragrafo Sostituzione
di un BGA, dopo aver asportato lo stagno dalle piazzole dello stampato.
In caso contrario, per rifare i contatti prima di saldare il BGA occorre:
1. dopo aver rimosso l’integrato, disporlo su un banco con il lato dei con-
tatti rivolto verso l’alto;
2. cospargerne la superficie con del flussante;
3. con la punta di un saldatore alla temperatura di 280÷300 °C, passare sul-
le piazzole (pad) sciogliendo lo stagno, che tenderà a raggrupparsi in gocce at-
torno alla punta stessa; quando le gocce sono troppo grosse bisogna scuotere il
saldatore (ovviamente lontano dal BGA ed evitando di far cadere lo stagno su
materiali che possono sciogliersi col calore) per scrollare via lo stagno e ripren-
dere fin quando tutte le piazzole non sembrano lisce;
4. passare con la trecciola dissaldante, appoggiandola delicatamente sulla
superficie dei contatti e scaldandola contemporaneamente con la punta del sal-
datore, in modo da farle assorbire la lega saldante in eccesso;

Figura 10.8 - Asportazione delle sfere da un BGA: a sinistra si spalma il flussante, mentre
in centro si scioglie ed aggrega la lega saldante usando un saldatore con punta a spatola.
A destra, in alternativa, asportazione delle sfere con la trecciola dissaldante.

208
Guasti del video

5. quando le piazzole sono abbastanza lisce, ripetere la procedura su quel-


le del circuito stampato, ovvero spalmare il flussante ed asportare lo stagno col
saldatore, quindi ripassare con la trecciola dissaldante e, ancora, il saldatore.

Fatto ciò si può far riposare la scheda rimuovendola momentaneamente dalla


piastra riscaldante; su questa bisogna porre (alla giusta distanza) il nuovo chip
BGA rovesciato (in modo che verso la piastra sia rivolto il lato delle scritte).
A questo punto bisogna procedere con il reball, ovvero dotare il BGA di nuove
palline di lega saldante, altrimenti non sarà possibile saldarlo. L’operazione di
reball richiede, oltre a una confezione di sfere di lega saldante e ad una di pasta
flussante specifica, un attrezzo di posizionamento (una piccola morsa) ed una
griglia con la dima dei contatti; servono anche una piccola spatola e la macchi-
na ad aria calda. La procedura è la seguente:
1. per prima cosa si posiziona il BGA, con il lato dei contatti rivolto verso
l’alto, sulla base dell’attrezzo di posizionamento, quindi lo si centra usando gli
appositi morsetti, da serrare mediante le viti di cui dispongono;
2. fissato il BGA, se ne cosparge la faccia riportante i contatti con della pa-
sta flussante per reball (è una pasta scura e densa) usando un pennello o una
spatola; lo strato deve essere omogeneo e sottile, perché basta poco flussante;
3. si posiziona la griglia/dima adatta al componente (in commercio si tro-
vano dime per ogni tipo di contenitore e disposizione dei contatti dei BGA usa-
ti come chipset e scheda video) in modo che i suoi fori coincidano con le piaz-
zole e poi la si ferma, sempre tra i morsetti dell’attrezzo di posizionamento, in
modo che non si muova rispetto al BGA;
4. si spargono sulla griglia/dima le sfere di lega saldante (ogni griglia ri-
chiede sfere di un certo diametro, sovente scritto sul corpo) cercando di non ec-
cedere ed eventualmente si distribuiscono quelle in eccesso finché tutti i fori
non sono stati riempiti; per spargere bene le sfere conviene agitare lateralmen-
te l’attrezzo di posizionamento;
5. a questo punto, bisogna rimuovere le sfere in eccesso, semplicemente
passando con una spatolina a raso della superficie della dima; le sfere non col-
locate nei fori si raccolgono sul lato che riporta la cava di uscita e si versano nel
barattolo che le conteneve in origine (quelle nei fori devono rimanere in posi-
zione grazie alla viscosità del flussante);
6. si rimuove la griglia/dima cercando di non spostare le palline e si estrae
il BGA dall’attrezzo di posizionamento, quindi con la macchina ad aria calda,
usando il getto diffuso (senza ugello concentratore) e a bassa pressione, si scal-
da il lato del BGA con le sfere; la temperatura deve essere scelta fra 300 e 320
°C; il getto va tenuto a 3÷4 cm dalla superficie dell’integrato, in modo da non
spostare le sfere;
7. quando si vedono ammorbidire e diventare lucide le sfere, si continua a
scaldare per altri 15÷30 secondi, fin quando tutte le sfere non si sono attaccate
alle rispettive piazzole.

209
Capitolo 10

Le sfere si possono ritenere saldate quando, per effetto del flussante, si agglo-
merano formando delle piccole palline, ognuna sulla rispettiva piazzola del
BGA. Fatto ciò, il componente è pronto e può essere saldato con la macchina
per BGA.
Oltre che con il getto d’aria calda, che potrebbe spostare le sfere, il reball può
essere eseguito mettendo il chip in un forno elettrico alla predetta temperatura
di 300÷315 °C per il tempo occorrente a fondere le sfere (il forno deve essere
illuminato e quanto accade all’interno dovete poterlo vedere chiaramente)
tempo che di solito è intorno ai 2 minuti. Il forno deve avere un riscaldatore a
resistenza elettrica o ad infrarossi: va assolutamente evitato il forno a microon-
de, perché funziona a induzione elettromagnetica e distruggerebbe il BGA!
Notate che da tempo esistono forni automatici gestiti da microprocessore che
permettono di eseguire sequenze preimpostate o definibili dall’utente, in manie-
ra del tutto autnonoma.
Ancora, le sfere si possono far aderire rimuovendo il BGA dall’attrezzo di cen-
tratura e ponendolo sulle guide della macchina per saldatura dei BGA, avendo
cura di portare il lato inferiore a 150 °C e quello superiore a 220÷240 °C fino a
veder sciogliere le sfere.
Una volta applicate le sfere ai contatti del chip, si dispone la scheda sulla mac-
china per la saldatura e si porta la sua temperatura a circa 150 °C, quindi, rag-
giunto questo valore, si dispone abbondante pasta flussante sulla superficie del
BGA che riporta le sfere di lega saldante e si appoggia il BGA sulle piazzole cor-

Figura 10.9 - Fasi del reball: in senso orario, deposizione del BGA nell’attrezzo di posizio-
namento, applicazione ai contatti del flussante, chiusura dell’attrezzo con la dima applicata
al BGA, spargimento delle sfere, introduzione nel forno ed esecuzione del programma.

210
Guasti del video

Figura 10.10 - Pasta flussante per reball (a sinistra) barattolino di sfere di lega saldante (in
mezzo) e dima per il posizionamento delle sfere per BGA (a destra).

rispondenti, badando di centrarlo bene rispetto alla serigrafia; il posizionamen-


to va fatto con una o due pinzette, in quanto a mano è sconsigliabile, visto che
la scheda scotta. Posizionato il componente, bisogna scaldarlo con la lampada a
quarzo o comunque con il riscaldatore riservato al piano superiore (lato com-
ponenti) raggiungendo almeno 230 °C; dopo qualche istante il chip deve ada-
giarsi nella propria sede, segno che le sfere di lega saldante si stanno fondendo.
Ancora qualche secondo a 230 °C e la saldatura dovrebbe completarsi.
L’esperienza aiuterà a capire quando la saldatura sarà completa, in quanto ciò
dipende molto dalla macchina che si usa e da come risponde la lega saldante,
quindi è inevitabile che ci si debba “fare un po’ la mano”.
Usando palline di lega saldante Rohs, è probabile che occorra lavorare a una
temperatura di 15÷20 °C più alta, ma in tal caso bisogna stare molto attenti a
non eccedere e a spegnere il riscaldatore superiore qualche secondo dopo che il
chip si è adagiato.
Nel caso riesca difficile fermare il componente BGA prima di procedere a
riscaldarlo, conviene fissarlo meccanicamente a freddo usando l’apposita colla:
in pratica si appoggia il componente sullo stampato (senza mettere quest’ultimo
sulla piastra riscaldante) dopo aver spalmato la pasta flussante sulle piazzole, poi
si applica un punto almeno di colla da BGA su ogni lato del componente, aspet-
tando che asciughi o che induri-
sca un po’. Poi si procede al posi-
zionamento dell’insieme sulla
macchina per la saldatura, ovvia-

Figura 10.11 - Attrezzo per il posi-


zionamento delle sfere di lega sal-
dante con inserita già una dima e
completo di sostegno per rotearlo
in modo da spargere le sfere.

211
Capitolo 10

mente tenendo il chip dalla parte opposta a quella della piastra riscaldante.
In questo caso, non si vede il chip muoversi ed è più difficile capire quando le
saldature hanno luogo; bisogna quindi fare un po’ di pratica, partendo comun-
que da alcuni punti di riferimento, che sono i seguenti:
 la scheda deve avere il lato superiore riscaldato a 150÷155 °C dal riscaldato-
re inferiore;
 raggiunta tale temperatura occorre riscaldare il lato superiore fino a 220÷230
°C se le sfere del BGA sono di lega di stagno e piombo, ovvero qualcosa di più
(235÷250 °C) se si usano sfere di lega Rohs compatibile; a tali temperature, bi-
sogna mantenere il componente per circa 10 secondi e poi spegnere il riscalda-
tore superiore, quindi ripetere il ciclo di 10 secondi;
 la saldatura si può ritenere compiuta quando il flussante comincia a “bollire”
e a fuoriuscire da sotto il chip; una decina di secondi in questa condizione assi-
cura, solitamente, l’avvenuta fusione della lega saldante.

La saldatura dei chip BGA, come il reflow e la dissaldatura, possono essere con-
dotti mediante macchine automatiche di lavorazione (ad esempio quella mostra-
ta nella figure 10.12, 10.13 e 10.14), nelle quali è possibile lavorare l’intera sche-
da madre eseguendo in maniera automatica sequenze impostabili dall’utente; si
tratta di macchinari basati su microprocessore o PLC, dotati di display per inte-
ragire con l’operatore, capaci anche di asportare fisicamente il BGA mediante
un sistema pneumatico ad aspirazione, che alla fine del riscaldamento fa scende-
re una ventosa in grado di risucchiare, staccare dalla scheda e trattenere il com-
ponente. Il riscaldamento del chip avviene sia inferiormente (dalla zona della
scheda sotto quella in cui è saldato) sia superiormente mediante getti d’aria calda
diretti da ugelli intercambiabili, mentre una base riscaldante ad infrarossi man-
tiene calda l’intera area di lavoro e quindi tutta la scheda, per evitare stress ter-
mici che potrebbero verificarsi se zone dello stampato si trovassero a tempera-
ture troppo differenti o si scaldassero e raffreddassero con tempi troppo diffe-

Figura 10.12 - Trattamento con


macchina automatica per lavora-
zione dei BGA: l’ugello superiore
(come quello inferiore) deve essere
scelto in modo che copra comple-
tamente l’area del componente da
trattare.

212
Guasti del video

Figura 10.13 - Dettaglio di una macchina


automatica per la lavorazione dei BGA: il
riscaldatore superiore soffia aria dall’ugello
rettangolare che appare sopra la scheda,
mentre il riscaldatore inferiore fa lo stesso
con un secondo ugello sotto la scheda; pro-
tetti dalla griglia in basso ci sono gli elementi
del riscaldatore della base, che riscalda il
circuito stampato.

renti, condizione, questa, che potrebbe pregiudicare le saldature dei componen-


ti più grandi e causare falsi contatti.
Queste macchine permettono di personalizzare le fasi definendo più passaggi
con temperature ed intervalli di tempo in cui applicarle, ma anche con momen-
ti di raffreddamento; il loro grande vantaggio è la precisione e la ripetibilità dei
procedimenti di montaggio, smontaggio e reflow, che una volta impostati
(occorre fare un po’ di pratica prima di trovare le giuste curve di lavorazione) si
compiono con succeso ed in tempi brevissimi, il che è l’ideale per i riparatori
che devono trattare grandi quantità di schede. Normalmente i cicli di lavorazio-
ne previsti sono due: saldatura e dissaldatura: nel primo, che va usato anche per
compiere i reflow, intervengono i tre riscaldatori con tempi e modalità persona-
lizzabili in base all’esperienza ed alle curve fornite dai produttori dei BGA; alla
fine, un ventilatore raffredda la scheda. Nel secondo ciclo, a fine riscaldamento
interviene l’aspiratore, che stacca e solleva il chip, il quale viene mantenuto

Figura 10.14 - Macchina per lavo-


razione dei BGA: è dotata di riscal-
datori ad aria calda superiore ed
inferiore del chip e di riscaldatore inferiore della scheda (ad infrarossi); l’attività dei tre può
essere impostata autonomamente mediante lo stesso pannello touch-screen che permette di
scegliere la lavorazione e programmare i cicli di saldatura, dissaldatura, raffreddamento e
smontaggio (fatto tramite un aspiratore comandabile separatamente).

213
Capitolo 10

sospeso fin quando l’operatore non spegne l’aspiratore (spegnendo l’aspiratore


il componente cade e va fatto appoggiare su un panno o in un contenitore); al
solito, la ventilazione raffredda la scheda al termine del riscaldamento. Notate
che quando il chip è stato staccato, prima di farlo ricadere occorre aspettare un
tempo sufficiente a far indurire la lega saldante rimasta sui suoi pad, altrimenti
cadendo la lega si spargerà o attaccherà all’elemento con cui l’operatore racco-
glie il chip.
Le macchine migliori dispongono anche di un sistema di guida per il montaggio
dei BGA, che consta di una telecamera in grado di fotografare perpendicolar-
mente la superficie della scheda dove va posizionato l’integrato e di un softwa-
re che memorizza e propone sullo schermo il pattern dei contatti (la foto con i
contatti) in modo da sovrapporlo alla visione quando si va ad appoggiare il
BGA; in questo modo basta allineare i pad ripresi e quelli in visione per essere
certi di aver posizionato correttamente il chip.

Guasti collaterali alla scheda video


Bene, esaminati i problemi che possono affliggere la scheda video, esterna o
integrata nella mainboard, si può passare a valutare le problematiche riguardan-
ti guasti alla sezione di commutazione del segnale video dal monitor LCD alla
presa VGA esterna; tale deviazione viene gestita da una serie di commutatori
CMOS allo stato solido che possono essere interni o esterni al chip video. Nel
caso siano esterni, va ricercato il componente che li contiene e che di solito è un
CM2009 della ON Semiconductors o un integrato equivalente (Figura 10.15).
Il guasto di questo integrato può provocare varie anomalie: la mancanza del
segnale video all’uscita per il monitor esterno, ad esempio. In questo caso il gua-
sto si rivela per il fatto che il monitor LCD funziona e quello esterno no, però
qualora vi sia un guasto nell’LCD e nello switch diviene assai difficile valutare

Figura 10.15 - Piedinatura e schema applicativo dello switch video CM2009.

214
Guasti del video

Figura 10.16 - In alto a sinistra,


memorie video in evidenza su
una mainboard; a destra, chip
grafico Nvidia. Sotto, due fasi
della rimozione di un chip di
Video RAM in una scheda che
ha la propria memoria video.

l’origine del problema e bisogna andare per tentativi.


A parte questo tipo di guasti, l’immagine sullo schermo può essere alterata da
un problema in una cella della Video RAM, almeno nelle mainboard dei porta-
tili che hanno la memoria video proprietaria e non condivisa (Shared) sulla
RAM ordinaria; in questo caso, accertato che il problema non sia causato dalla
GPU bisogna provare a dissaldare una ad una le RAM video fino a trovare il
guasto. Lo stesso dicasi se il notebook all’avvio non presenta segnale video ma
manifesta attività (accesso al disco rigido ed al CD/DVD) o se il suo avvisato-
re acustico emette la serie di “beep” caratteristica del guasto alla scheda video.
Le Video RAM sono memorie di forma rettangolare o quadrata collocate abi-
tualmente attorno alla GPU e in numero pari, quindi non dovrebbe essere dif-
ficile riconoscerle; presentano sigle come K4J55323QF-GC20, H5GQ-
1H24MJR, in base alla capacità. Ad esempio, la H5RS5223 è una 512 MB orga-
nizzata in 32 bit della Hynix, uno dei principali produttori di Video RAM.
Normalmente queste memorie sono di tipo BGA, quindi per dissaldarle occor-
re mettere la scheda che le supporta sulla solita macchina per BGA e scaldarla
mediante il riscaldatore inferiore; raggiunta la solita temperatura di 140÷150 °C,
con la macchina ad aria calda impostata a 350 °C si distaccano i chip, aiutando-
si con una pinzetta.
Ogni volta che si rimuove un chip bisogna togliere la scheda dalla macchina,
lasciarla raffreddare e provarla, per vedere se il guasto si è risolto; quindi biso-
gna procedere rimuovendo il primo chip e se le cose rimangono come prima,
occorre rimuovere anche il secondo. Se nulla cambia, si devono rimontare que-
ste due memorie e smontare le altre due. Tale procedura vale se le RAM video
sono quattro, mentre se sono due, difficilmente si risolve qualcosa; in questo
caso bisogna procurarsi delle nuove Video RAM e sostituirle alle uniche due, in
quanto un banco di memoria per la scheda video è formato da due chip, pertan-
to rimuovendone uno la scheda non funziona comunque e non perché sia gua-

215
Capitolo 10

Figura 10.17 - Scheda video ATI di un portatile


Acer 4730: è una scheda che si monta a parte
in un apposito slot (ad esempio in formato
MXM, che è quello che va per la maggiore). Per
quanto costose, queste unità hanno il vantaggio
di permettere la riparazione del notebook senza
lavorare sui chip della scheda madre.

sto il chip rimasto, quanto perché non è completato il banco di memoria.


Il rimontaggio della memoria video si esegue analogamente a quello degli altri
BGA, anche se in questo caso il minor numero di contatti rende la cosa meno
critica; inoltre, se nel rimuovere i chip si è avuta l’accortezza di sollevarli di netto
senza trascinarli, le sfere di lega saldante sono rimaste al loro posto e, almeno in
teoria, basta cospargere di pasta flussante sia il lato dei contatti del chip sia le
piste della scheda su cui si deve appoggiare il chip, quindi mettere la scheda sulla
macchina per BGA, scaldarla a 140÷150 °C, sovrapporre la RAM ben centrata
(aiutandosi con la serigrafia) e risaldarla con il getto d’aria calda.
La riparazione della memoria video diviene più semplice e meno invasiva nei PC
portatili in cui la scheda video è separata, dato che non si tocca la scheda madre
e che alla peggio (se la lavorazione fa danni) basta sostituire la sola scheda video.

Guasti dell’LCD
Si può ritenere che sia guasto il pannello a cristalli liquidi quando l’immagine
non appare del tutto ma lo schermo risulta illuminato, grigio, grigio scuro o
bianco, o anche quando vi appaiono linee verticali variamente colorate e dispo-
ste, più o meno fitte; oppure se l’immagine appare solo per una parte dello
schermo. Lo schermo è ovviamente guasto se a causa di un urto si provoca una
rottura fisica o una o più crepe. Invece, se l’immagine si intravede ma è molto

Figura 10.18 - Schermo LCD visto


da dietro: si nota l’etichetta con il
codice prodotto (PN) da usare per
ordinare il ricambio e l’eventuale
Serial Number (numero seriale di
produzione).

216
Guasti del video

buia malgrado siano regolati al massimo luminosità e contrasto, significa che è


guasta la retroilluminazione, ovvero che la fonte luminosa va esaurendosi. Lo
stesso dicasi se l’immagine appare come un’ombra scura sullo sfondo; in tal caso
la retroilluminazione proprio non funziona.
Per quanto riguarda il guasto dell’LCD, va detto che solitamente non è riparabi-
le perché coinvolge la logica di comando della matrice o la matrice stessa (col-
legamenti, transistor delle righe e colonne del TFT); non resta che smontare il
pannello e rilevarne la sigla identificativa, usualmente scritta su un’etichetta
posta sul retro, quindi ordinare il ricambio sulla base del Part Number (PN) e
dell’eventuale Serial Number. Siccome ai produttori di computer i display li for-
niscono costruttori di LCD (tanto per intendersi, l’HP, l’Acer o la Asus non pro-
duce display a cristalli liquidi...) il ricambio può anche essere ordinato diretta-
mente desumendone il codice del costruttore (ad esempio Philips, LG-Philips,
Toshiba, Samsung ecc.) quando è presente l’etichetta che lo riporta.
I pannelli LCD sono normalmente fissati con viti alla metà posteriore del coper-
chio del notebook; nello staccarli, bisogna avere cura di liberarli dalle connes-
sioni senza tirare o forzare cavi flat e connettori a pettine, i quali sono molto
delicati e possono danneggiarsi. Per accedere al pannello LCD bisogna smonta-
re la metà anteriore del coperchio, liberandola dalle linguette e prima ancora
dalle viti, usualmente collocate in prossimità degli angoli e nascoste da tappini
di gomma. Se invece il guasto è da imputare alla retroilluminazione, bisogna
innanzitutto identificarne l’origine, che non è una sola ma può essere ricercata
in vari fattori; nei notebook con la retroilluminazione attualmente più usata,
ossia quella a tubi fluorescenti (a neon) il guasto può dipendere da:
 malfunzionamento dell’inverter DC/AC che alimenta i tubi a neon;
un problema nel chipset che impedisce la generazione del segnale di clock per
l’inverter DC/AC;

Figura 10.19 - Tipico circuito inverter per il comando di retroilluminatori a pellicola fluore-
scente basato sull'integrato OZ9910.

217
Capitolo 10

Figura 10.20 - Tipico circuito inverter per il comando di lampade fluorescenti basato sull'in-
tegrato OZ9910: il driver è a doppio stadio complementare a MOSFET, ognuno dei quali
comanda un avvolgimento primario del trasformatore.

 l’esaurimento o il mancato funzionamento di una delle lampade a neon.

Il terzo problema si può identificare assai facilmente spegnendo il portatile,


quindi staccando la connessione della lampada (o delle lampade, se ce ne sono
più d’una) e applicando al connettore di uscita dell’inverter DC/AC un tester
con il quale misurare la tensione erogata dallo stesso; accendendo il computer,
dopo qualche istante deve essere leggibile una tensione di 130÷160 volt. In alter-
nativa è possibile, se si dispone di un altro tubo a neon di dimensioni simili, pro-
vare a sostituirlo senza montarlo nel display e verificare cosa accade.
Se è effettivamente guasto il tubo fluorescente, bisogna rimuoverlo e cambiarlo
con uno di pari dimensioni (teoricamente tensione e corrente di esercizio sono
uguali); se il tubo è inserito nel display, bisogna verificare cosa lo ritiene e rimuo-
verlo: a volte è una piccola vite che blocca una staffa, mentre altre è un tassello
o della semplice colla. Il tubo originale va sfilato delicatamente ad evitare che si
rompa dentro lo schermo; quello nuovo va introdotto con ancor più cura ed
eventualmente fissato con il sistema previsto.
Prima di chiudere il tutto è utile fare un controllo finale, verificando anche che
i cavi non siano stati stretti in qualche punto metallico oppure che l’isolante non
sia stato compromesso: in questo caso quando si accende il computer si sente
un sibilo e probabilmente appare una scarica elettrica più o meno evidente.
Vediamo adesso cosa fare nel primo e nel secondo caso esaminati, ovvero quan-
do manca la tensione che dovrebbe alimentare la retroilluminazione: che sia gua-
sto il chipset o l’inverter DC/AC, i sintomi sono abbastanza simili e si può diri-
mere il dubbio solo analizzando con un oscilloscopio la linea che porta il segna-

218
Guasti del video

le di clock; va comunque detto che non tutti i notebook hanno lo spegnimento


della retroilluminazione comandato dal chipset, quindi in quelli in cui l’inverter
DC/AC è sempre alimentato se il tubo a neon è a posto il problema può dipen-
dere dalla mancanza dell’alimentazione principale dell’inverter o dall’inverter
stesso. Nei PC in cui quando si attiva lo standby il chipset sospende il segnale
di clock per l’inverter, occorre prima cercare questo segnale, ovviamente in fun-
zionamento normale e non in standby; per localizzare il segnale di clock occor-
re prima di tutto identificare il componente principale dell’inverter DC/AC,
ovvero il controller, facilmente distinguibile da eventuali altri chip perché que-
sti ultimi sono quasi sempre MOSFET singoli o complementari e quindi pre-
sentano case TSSOP a 4+4 piedini. Dal data-sheet dell’integrato è facilmente
visibile il piedino che riceve il clock: su questo bisogna portare il puntale dell’o-
scilloscopio (la massa deve andare al negativo o massa del portatile) e verificare
la presenza del clock, che è un’onda quadra.
Se manca il clock il guasto è nel chipset (magari è una semplice saldatura fred-
da di uno dei suoi contatti ed è quindi conveniente tentare con il reflow) men-
tre se c’è vuol dire che è guasto l’inverter DC/AC.
Negli inverter si utilizzano anche integrati regolatori che generano da loro il
clock e che vengono semplicemente abilitati da un segnale logico in arrivo dal
chipset: un esempio è l’OZ9910 della O2Micro: questo componente si attiva
portandone a livello alto il piedino ENA (Figura 10.19 e Figura 10.20). In que-
sto caso bisogna verificare lo stato logico sulla linea di abilitazione (enable) e
capire -quando mancasse- a cosa è dovuto.
Nei PC con retroilluminatore dello schermo a foglio elettroluminescente, si uti-
lizzano circuiti integrati simili, in quanto il foglio raggiunge la luminescenza se
sottoposto a una differenza di potenziale piuttosto elevata, per ottenere la quale
a partire da ciò che può fornire la batteria bisogna utilizzare il solito inverter
DC/AC. Valgono le considerazioni fatte finora sulla ricerca e riparazione dei
guasti.
Un po’ diverso è il discorso dei PC che hanno la retroilluminazione dello scher-
mo a LED, perché quest’ultima funziona a bassa tensione: in pratica il sistema
consta tipicamente di un modulo regolatore di corrente, che però viene gestito
(acceso/spento) dal segnale di comando del chipset. Il segnale è un semplice

Figura 10.21
Scheda inverter per
retroilluminazione
del display LCD
mediante lampadine
a neon.

219
Capitolo 10

Figura 10.22 - Per dissaldare dei


componenti SMD con la tecnica ad
aria calda, conviene fissare la
scheda inverter su un morsetto da
tavolo con sostegno.

livello logico che comanda il regolatore dei LED, quindi è sufficiente andare a
cercare la presenza di questo laddove il monitor appaia funzionante ma primo
della retroilluminazione.
Se il segnale di enable è presente ma manca l’illuminazione, è guasto il regolato-
re e va sostituito, mentre se questo sembra essere funzionante occorre verifica-
re i collegamenti elettrici con le file di LED e quindi i LED.
In tutti i casi i circuiti sono a montaggio superficiale, quindi l’asportazione dei
componenti e la risaldatura conviene siano fatti con la macchina a getto d’aria
calda e una pinzetta; dato che il circuito dell’inverter è piccolo e leggero, convie-
ne fissarlo ad un morsetto che lo sospenda in aria, in modo da evitare di scalda-
re con l’aria il piano di lavoro e sciogliere o bruciare il rivestimento o altri mate-
riali (ad esempio tappetini per non graffiare il case del computer). Il morsetto
consente altresì di tenere ferma la piccola scheda.

Guasti delle connessioni


Alle volte la mancata visione sullo schermo delle immagini dipende non
dall’LCD o dalla scheda video, bensì dall’interruzione o sconnessione di uno dei
cavi che portano i segnali dalla mainboard al monitor; una delle principali cause
di ciò è indubbiamente l’usura, ovverosia il fatto che aprendo e chiudendo il
monitor, i cavi, che vengono perciò piegati e distesi, a lungo andare si rompo-
no. L’interruzione non è mai generalizzata ma colpisce uno o più conduttori

Figura 10.23 - Smontaggio del


monitor del portatile.

220
Guasti del video

prima degli altri e si riscontra in qualunque sia la soluzione adottata dal costrut-
tore per trasportare i segnali: infatti ad interrompersi sono tanto i cavi, quanto
le piattine (flat-cable). Generalmente il difetto si smaschera piegando il coper-
chio e sollevandolo più volte, allorché l’immagine a video appare o scompare,
ovvero diventa buia e poi torna luminosa.
In questo caso occorre smontare il coperchio del notebook ed anche la parte
superiore del contenitore della base, quindi individuare i punti di collegamento
(ovvero i connettori) del cavo di collegamento che porta i dati al monitor e
sostituirlo. Nei moderni notebook il coperchio dello schermo solitamente
incorpora un microfono e sovente la web-cam, ma a volte altro ancora, ragion
per cui bisogna individuare il cavo giusto; per non sbagliare potete seguire il per-
corso, ma comunque in linea di massima il cavo del monitor è solitamente uno
solo ed è quello più corposo, ovvero si presenta come una piattina. In alcuni
notebook ci sono due cavi: uno che porta i segnali del video vero e proprio (sin-
cronismi, colori RGB) ed uno che trasporta l’alimentazione per la matrice ed il
retroilluminatore, oltre al segnale di clock o di comando per l’inverter o regola-
tore del retroilluminatore stesso.

221
CAPITOLO 11
GUASTI DI CPU, RAM, BIOS E CHIPSET

Quando un notebook si avvia ma non lavora, intendendo con ciò che premendo il
tasto di accensione le spie si comportano normalmente e la ventola parte, per poi
fermarsi, ma non viene caricato il sistema operativo o la schermata di avvio (quel-
la del BIOS) non appare o si blocca, si può ipotizzare un guasto della CPU o delle
RAM. In questo capitolo esaminiamo i due casi che possono verificarsi, partendo
dalle problematiche inerenti alla CPU.
Se c’è un guasto nel processore, solitamente il computer si accende ma lo schermo
appare buio e non c’è attività nel disco rigido e nelle unità CD/DVD, cosa resa evi-
dente dal fatto che la spia di attività di tali periferiche di memorizzazione di massa
non pulsa; la ventola può avviarsi e poi fermarsi per riprendere più avanti a funzio-
nare, ovvero girare costantemente alla massima velocità. In questo caso significa
che il processore scalda molto a causa di un cortocircuito interno o che il sensore
di temperatura nel suo chip indica anomalia termica al gestore termico della vento-
la. È anche possibile, ma raro, che un cortocircuito nella CPU faccia accendere e
poi spegnere il computer, ma succede solo in quei vecchi PC in cui l’alimentatore
che ricava le tensioni Vcore e Vio (alimentazioni rispettivamente del core della CPU
e delle porte di I/O) con circuiti privi di protezione o usati anche per alimentare il
chipset.
Va comunque detto che non sempre la CPU è guasta al punto da non far avviare il
computer e non far apparire la schermata del BIOS; anzi, talvolta il guasto è più
subdolo ed il computer sembra partire correttamente, ma poi si blocca nel carica-
re il sistema operativo o durante qualche applicazione. Nel caso di Microsoft
Windows, appare la caratteristica schermata blu con l’indicazione dell’errore e il

223
Capitolo 11

riferimento a un’istruzione o a un indirizzo esadecimale; l’errore può anche esse-


re segnalato con una finestra di avviso, sempre riportante riferimenti a moduli,
indirizzi ecc.
Il sintomo dipende strettamente da quale componente della CPU non funziona:
infatti se c’è un cortocircuito sull’alimentazione o è guasta la ALU o non fun-
zionano il Program Counter e i registri, facilmente il PC nemmeno si avvia e si
vedono funzionare solo le spie e la ventola; invece se il problema riguarda gli
I/O oppure qualche segnale di controllo, si possono verificare le segnalazioni
suddette. Quando il guasto è nell’unità di calcolo in virgola mobile, il computer
sembra funzionare correttamente ma segnala problemi in programmi che richie-
dono tale calcolo, ovvero software di grafica avanzata, CAD e modellazione tri-
dimensionale.
In tutti i casi finora elencati, bisogna trovare una CPU uguale e provare a sosti-
tuirla, rammentando che prima di applicare nuovamente il dissipatore bisogna
spalmarne la piastrina metallica con pasta al silicone bianca o pasta termica
all’argento o altra idonea. La CPU può essere sostituita anche con modelli com-
patibili, secondo le indicazioni del costruttore del notebook e considerando
sempre questa regola: pur con clock differente, il processore deve avere la stes-
sa frequenza del bus FSB, ovvero una frequenza multipla. Per esempio, si può
montare un processore da 2,8 GHz con bus a 800 MHz al posto di uno da 2,4
GHz a 400 MHz, fermo restando che andrà a una velocità dimezzata rispetto a
quella prevista o al più raggiungerà 2,4 GHz. Ciò dipende da come il
Northbridge gestisce clock e moltiplicatore interno. Non bisogna, invece, mon-
tare una CPU con bus a 533 MHz o 667 MHz in portatili che hanno la CPU ori-
ginaria a 400 o 800 MHz, perché quasi sempre la cosa non funziona; ci sono casi
in cui il chipset del portatile è in grado di adattarsi a più clock dell’FSB, ma
dipende dal computer.
Nel caso la CPU funzioni ma ci siano problemi con l’unità di calcolo in virgola
mobile, il problema può anche essere palesato usando appositi software di test;
lo stesso dicasi per i registri o per l’ALU.

Problemi con la RAM


Se anche cambiando CPU le cose non migliorano, potrebbe essere opportuno
sostituire la RAM; infatti quando questa è guasta, solitamente il notebook si
avvia ma resta con il display scuro e non compie attività alcuna; la ventola fun-
ziona come se nulla fosse, nel senso che parte e poi si ferma, per ripartire quan-
do la CPU si scalda abbastanza. Bisogna anche controllare che le RAM non
siano inserite male e ripetere i test inserendo una stecca di memoria alla volta,
così da capire se c’è un guasto e quale stecca ne è responsabile; ciò è fattibile e
sensato solo se ogni stecca di RAM forma un banco completo, altrimenti occor-
re sempre montare due stecche alla volta.
Alle volte i problemi alle RAM vengono evidenziati da una serie regolare di
segnali acustici (beep regolarmente cadenzati); ciò accade nei portatili in cui il
224
Guasti di CPU, RAM, BIOS e chipset

chipset Northbridge lo prevede e nei casi in cui il difetto viene rilevato dal chi-
pset stesso. Comunque in molti PC portatili se la RAM è guasta o inserita male,
non viene dato alcun avviso acustico: il computer si accende, la ventola funzio-
na come se nulla fosse, ma non si vede e sente attività nei dischi rigidi (non lam-
peggia la spia dell’HD) e lo schermo resta spento.
Può anche capitare che il PC si avvii e poi si arresti bloccandosi su una scher-
mata durante il caricamento del sistema operativo; oppure che il PC si blocchi
durante l’esecuzione di un programma o dia una schermata di errore riferita a
moduli ecc. (si tratta della solita schermata blu o delle finestre di avviso già
accennate nei paragrafi riservati ai guasti della CPU). In questo caso va sostitui-
ta la RAM.
Nei computer notebook più economici, solitamente la scheda video utilizza la
cosiddetta Shared Memory: in pratica condivide una porzione della RAM asse-
gnabile dal BIOS e sottratta -di conseguenza- ai programmi, per usarla come
memoria video. In questi casi, eventuali problemi delle RAM possono, oltre a
manifestare i sintomi suaccennati, alterare l’immagine visualizzata dallo scher-
mo o determinare altri difetti correlati con l’attività della scheda video; ciò per-
mette di identificare con maggiore certezza un guasto della RAM rispetto ad
altri casi.
La sostituzione della RAM va fatta con modelli compatibili; in particolare
occorre utilizzare scheda di memoria che abbiano lo stesso clock ovvero che
supportino velocità superiori. Va comunque detto che alcuni notebook non si
adattano a memoria “più veloci” e quindi non funzionano correttamente; in tal
caso è obbligatorio usare memorie che supportano lo stesso clock.
Per quanto riguarda i portatili che usano le SDRAM, le velocità disponibili sono
66, 100 e 133 MHz; quindi in un notebook che monta le PC66 (adatte a clock
del bus di sistema di 66 MHz) teoricamente le RAM possono essere sostituite
da memorie PC100 o PC133. Quanto ai computer dotati di RAM di tipo DDR,
le frequenze disponibili sono 266 MHz (le memorie funzionanti a tale frequen-
za sono chiamate PC2100) 333 MHz (PC2700) o 400 MHz (PC3200); anche in
questo caso, teoricamente un computer con bus di sistema a 266 MHz può
montare RAM a 333 o 400 MHz. Invece se le RAM originali sono da 333 MHz,

Figura 11.1 - Accesso al vano conte-


nente le RAM: solitamente gli zoccoli
per le memorie sono accessibili dal
basso, ma vi sono computer (ad esem-
pio i Texas Extensa) che hanno uno
zoccolo sotto la tastiera ed un altro
speculare, dal lato opposto della sche-
da madre e accessibile da uno sportel-
lo posto nella parte inferiore della scoc-
ca. In tal caso, per accedere a tutta la
RAM bisogna asportare la tastiera.

225
Capitolo 11

è possibile usare delle 400 MHz, ma non delle 266 MHz. I più moderni note-
book montano memorie DDR-2, che lavorano con bus di sistema di 533
(PC4200) 566 (PC4300) 667 (PC5700) 733, 800 MHz (PC6400) oppure 1 GHz.
I notebook più datati montano memorie EDO e in questo caso bisogna verifi-
care il tempo d’accesso, usualmente definito in nanosecondi (ns); i tipi standard
(SO-DIMM) sono adatti a bus di sistema a 66 MHz.
Negli ultimi tempi hanno fatto la loro comparsa, nei notebook, le memorie
DDR3, più veloci delle precedenti e caratterizzate da una diversa posizione della
tacca di riferimento; va infatti detto che normalmente, per evitare che una
memoria possa essere montata in un computer che non la supporta, ogni tipo
di stecca di RAM ha una cava in cui deve incastrarsi una sporgenza nello zocco-
lo del PC. Questo accorgimento è importante in quanto, a parte differenze nei
tempi d’accesso (che sono poco rilevanti) diverse categorie di memoria richie-
dono differenti tensioni d’alimentazione e se si monta una RAM da 3,3 V in uno
zoccolo di un computer che vuole memorie a 5 V, la stecca si danneggia.
Un altro difetto tipico delle RAM si manifesta nel conteggio della memoria e nel
memory-test che i computer normalmente effettuano all’avvio; in alcuni PC,
comunque, la schermata di benvenuto riportante il logo del costruttore masche-
ra la fase di startup, per visualizzare la quale bisogna premere un tasto (barra
spaziatrice o TAB) indicato nella schermata stessa. Ebbene, se il conteggio della
memoria si arresta e non avanza più ed il computer si blocca, ovvero se il con-
teggio procede ciclicamente all’infinito e la fase di avvio non avanza, vuol dire
che il BIOS ha trovato un errore nella RAM. Sovente questo errore viene segna-
lato proprio nella fase di avvio mediante un avviso a video; a volte no.
Anche in questo caso va sostituita la RAM; se nel notebook sono montate più
schede di memoria, occorre procedere smontandole tutte e provando l’avvio del
PC montandone una per volta.
Va comunque ricordato che il memory-test iniziale non sempre può evidenzia-
re i problemi delle RAM, perché alcuni difetti non si manifestano in questa fase,
ma poi escono allo scoperto nell’uso della memoria da parte del sistema opera-
tivo; ciò perché il RAM-test iniziale consiste nella semplice lettura e scrittura di
dati casuali in modalità diverse da quelle richieste dal sistema operativo; quando

Figura 11.2 - La Flash EPROM


contenente il BIOS del notebook.

226
Guasti di CPU, RAM, BIOS e chipset

Figura 11.3 - Alcune schermate di


setup di computer.

si avvia il sistema operativo, la RAM viene utilizzata in tutta la sua estensione,


in quanto la CPU vi scrive dati con byte grandi quanto la capacità delle memo-
rie stesse, ovvero come la somma delle memorie, se il PC usa due banchi in
cascata per costituire un banco di memoria completo (è il caso di CPU a 32 bit
che usano SODIMM a 16 bit: due fanno un banco a 32 bit).

Guasto della memoria di programma


Se si verifica un problema nella memoria non volatile contenente il programma
base del computer, ovvero la EEPROM o Flash-EPROM del BIOS, il compu-
ter normalmente non si avvia, esattamente come accadrebbe in caso di guasto
della CPU; tuttavia può capitare che parta e resti bloccato in una delle fasi di
startup, ossia quando mostra la schermata di avvio o deve andare a fare il test
della RAM o a cercare ed elencare le unità a disco presenti (tale fase si chiama
tecnicamente POST, ossia Power On Self Test). Se il guasto è di questo genere,
prima di pensare al BIOS occorre tentare di sostituire le RAM, montandole una
alla volta e testando il notebook per verificare se il guasto non sia in esse.
Laddove si possano escludere RAM e CPU, il problema è quasi certamente nella
EEPROM del BIOS e in questo caso si può procedere in due modi: il primo
consiste nel riprogrammare tale memoria, ovvero nell’aggiornare il BIOS; tale
procedura si compie scaricando un’apposita utility software ed il file eseguibile
contenente il nuovo firmware (BIOS) dal sito Internet del costruttore del por-
tatile e copiandola su un floppy-disk, ovvero su una Pen Drive o un CD-ROM
se il computer non ha il floppy-disk ma può fare il boot da dischi rimovibili o

227
Capitolo 11

Figura 11.4 - Batteria CMOS: in


questo caso è una batteria ricarica-
bile; le pile si riconoscono perché
non hanno fili ma sono alloggiate in
un apposito portapile sullo stampato
della scheda madre.

lettore di dischi ottici. A questo punto si fa fare il boot e si eseguono le istruzio-


ni a video, quindi si installa il nuovo firmware.
Tale operazione è molto delicata ed è importante che durante il caricamento del
file eseguibile e del firmware non si spenga il portatile, altrimenti si interrompe
il caricamento del nuovo BIOS e il computer resta senza sistema di base, quin-
di non sarà più possibile riavviarlo per ripetere l’installazione del nuovo BIOS.
Se si verifica una simile evenienza, bisogna smontare la EEPROM contenente il
BIOS e programmarla con un apposito programmatore, ovvero, se il notebook
provvede un connettore di programmazione in-circuit, procedere al caricamen-
to del nuovo firmware collegando a questo il programmatore.
Se malgrado l’aggiornamento del firmware il computer manifesta gli stessi pro-
blemi, bisogna sostituire la EEPROM o Flash-EPROM del BIOS con una di
tipo analogo, che chiaramente deve essere programmata prima di introdurla nel
notebook. La memoria contenente il BIOS è sempre in SMD e va smontata
usando la macchina a getto d’aria calda, dopo averne cosparso i terminali con
del flussante per agevolare la fusione della lega saldante.
Notate che l’aggiornamento del BIOS è qualcosa che si può fare solamente se il
computer si avvia e poi si blocca nella schermata del POST; se non si avvia,
bisogna sostituire la Flash EROM e riprogrammarla.

Guasto della batteria di backup


Nei Personal Computer è normalmente presente una batteria ricaricabile o pila
che serve a mantenere in funzione l’orologio di sistema (RTC, ossia Real Time

Figura 11.5 - Pila al litio o all’ossido d’argento


della memoria CMOS.

228
Guasti di CPU, RAM, BIOS e chipset

Clock) e che, nei modelli in cui i parametri di setup vengono registrati in una
RAM CMOS, mantiene anche le impostazioni del computer. Questa pila o bat-
teria è solitamente di tipo a bottone, sebbene in passato venissero impiegate bat-
terie ricaricabili a barilotto formate da tre elementi NiCd da 1,2 V ciascuno, per
un totale di 3,6 V. La tensione standardizzata oggi è 3 V, ma si usano anche bat-
terie a ioni di litio, che forniscono 3,6 V.
Se la pila o batteria è scarica, il notebook all’avvio presenta l’avviso “CMOS
backup battery error” o “CMOS error” oppure un messaggio similare, quindi
l’avvio si arresta e viene richiesta la pressione di un tasto per procedere. Questo
avviso richiama l’attenzione sul fatto che la batteria va cambiata.
Se accade che la batteria va in cortocircuito, possono verificarsi problemi più

MODELLO NOTE- CHIPSET NORTH- CHIPSET SOUTH-


GPU
BOOK BRIDGE BRIDGE

HP TX1000 integrata nel


NF-G6150-N-A2 NF-430-N-A3
HP TX1350 northbridge

HP DV1000 NQ82915GM FW82801FBM

GF-GO7200-B-N-
HP DV6283 NF-SPP-100-N-A2
A3

HP DV7 G96-630-A1 AC82PM45 AF82801IBM

HP DV6000 MCP67M-A2

GF-GO7200-B-N-
HP DV6200 NF-SPP-100-N-A2
A3

HP DV6000 NF-G6150-N-A2

HP DV6500 LE82PM965

GF-GO7400-B-N-
HP DV8283 QG82945PM
A3

HP DV9000 GF-GO7600-N-A2 NF-SPP-100-N-A2

HP DV9500 G86-770-A2 LE82PM965

ATI RADEON
SONY VAIO
P49932.00

SONY VAIO G86-630-A2 LE82PM965 NH82801HBM

Tabella 11.1 - Chipset e chip VGA delle mainboard dei notebook più comuni.

229
Capitolo 11

Figura 11.6 - Alcuni chipset: da sinistra, NVidia, Intel ed AMD.

seri e talvolta può accadere che il computer non si avvii affatto, nel senso che si
accende normalmente ma non riesce ad eseguire le istruzioni base, quindi si
blocca sulla schermata di benvenuto o non mostra nulla. Tale evenienza è -però-
abbastanza rara; il problema si risolve staccando la batteria e verificando come
si comporta il computer, quindi sostituendo la batteria stessa, se necessario.

Problemi nel chipset


Essendo l’integrato o la coppia di integrati che raggruppa la gran parte della
logica di un computer, il chipset è responsabile di una gran varietà di problemi
che trovate descritti in diversi capitoli di questo volume; qui si possono riassu-
mere dividendoli per competenza.
Quando non funziona bene il Northbridge possono esserci problemi di acces-
so alla RAM, alla scheda video o in generale errori segnalati dal sistema opera-
tivo e riguardanti la memoria o indirizzi di periferiche quali quella video; in tali
casi non è semplicissimo discriminare il guasto, sebbene quelli propriamente di
competenza della scheda video siano individuabili come descritto nel Capitolo
10 e i guasti della memoria siano più evidenti, come spiegato qualche paragrafo
indietro in questo stesso capitolo. Di solito, quando viene segnalato un errore in
un modulo o a un preciso indirizzo, è sempre meglio cercare nella RAM che
indirizzarsi verso il Northbridge e solo dopo aver sostituito la RAM ed eventual-
mente la CPU, si può pensare di mettere le mani sul chipset.
Di competenza del Southbridge sono i problemi riguardanti le porte di comuni-
cazione, l’accesso alle unità a disco, la tastiera e il dispositivo di puntamento, le
unità di memoria di massa esterne e le PCMCIA o CardBus e in generale le peri-
feriche collegate ai bus PCI o ISA, laddove esistenti. I guasti inerenti al
Southbridge si identificano in maniera più netta e inequivocabile di quelli del
Northbridge, a parte quando si tratta di problemi coinvolgenti i dischi rigidi, che
talvolta presentano un po’ di ambiguità, nel senso che talvolta li si addossa ai
controller o agli stessi HD.
Quando qualcosa non va nel chipset Northbridge, le vie sono due: la sostituzio-
ne o, prima ancora, il reflow; infatti questo chipset è sottoposto a un discreto
riscaldamento, visto che lavora con frequenze di clock elevate (essendo a diret-
230
Guasti di CPU, RAM, BIOS e chipset

to contatto con la CPU) e perciò consuma una discreta energia; il forte riscal-
damento -che peraltro spiega come mai il Northbridge viene sempre raffredda-
to con un dissipatore o una ventola- è spesso responsabile del distacco di qual-
che saldatura, complice la deformazione del circuito stampato della mainboard.
Il reflow o la sostituzione del chipset Northbridge vanno condotti come spie-
gato nel Capitolo 10, a proposito del chip video; si tratta, infatti, anche in que-
sto caso di integrati in contenitore BGA.
Al surriscaldamento è soggetto anche il chipset integrato
(Northbridge+Southbridge) in quanto contiene molta più logica ed a maggior-
ragione consuma elettricità e dissipa più calore; anche in questo caso reflow o
sostituzione sono le soluzioni.
Per avere un’idea di quello che può essere il problema, ossia per discriminare
una saldatura fredda o staccata da un guasto del chipset dovuto al surriscalda-
mento del chip interno, si può procedere sperimentalmente provando a preme-
re sul corpo dell’integrato durante il funzionamento fino a deformare legger-
mente la mainboard: se c’è un falso contatto sotto, il computer manifesta il pro-
prio guasto, mentre in caso contrario si può pensare a un danno del chip di sili-
cio. Questa condizione può essere svelata soffiando dell’aria fredda o del ghiac-
cio istantaneo spray sul chipset quando il computer sta funzionando ed è ben
caldo, almeno se il guasto si riscontra a freddo; in tal caso, il brusco raffredda-
mento dell’integrato dovrebbe far bloccare il computer o manifestare il difetto.
Se invece il computer presenta anomalie a caldo, bisogna attendere che il pro-
blema si manifesti, quindi raffreddare il chipset per vedere cosa accade, ossia se
il problema scompare.
Quando invece si sospetta sia guasto il Southbridge, la via preferenziale è la
sostituzione, in quanto (eccezion fatta per alcuni computer) non è un compo-
nente che scalda molto e quindi è difficilmente ipotizzabile che si possano dis-
saldare dei contatti a causa del calore; il reflow potrebbe essere poco indicato
perché molto spesso insensato. Comunque anche in questo caso la bomboletta
del ghiaccio spray può aiutare a discriminare il guasto e se il notebook mostra
anomalie raffreddando il Southbridge, l’ipotesi della saldatura fredda (e della
conseguente necessità del reflow) non sia del tutto da scartare.
Per identificare il chipset ricordate quanto detto nei precedenti capitoli, ovvero
che è uno dei chip dotati di dissipatore o ventola; sappiate anche che i chipset
sono marchiati NVidia, Intel (il simbolo è spesso una i minuscola) ALI o VIA,
sebbene recentemente anche l’AMD fornisca chipset integrati o
Northbridge+Southbridge per schede madri di computer HP o Compaq. I chi-
pset della NVidia sono della serie NForce e la loro sigla inizia con NF (ad esem-
pio NF-SPP-100-M-A2) mentre quelli della Intel iniziano con una lettera che
precede 82 seguito da altre tre cifre: per esempio Q82945PM (i945) G82965GM
(i965) P82915 (i915) ecc.

231
CAPITOLO 12
GUASTI DELLE MEMORIE DI MASSA

In questa categoria rientrano i problemi riguardanti hard-disk e unità a disco otti-


co, ma anche gli altri dispositivi di memorizzazione di massa quali Memory Card,
Memory Stick e i loro rispettivi lettori integrati nel notebook. Tali dispositivi, in
caso di anomalie possono dare luogo a molteplici sintomi in base all’entità del gua-
sto che si è verificato in essi.
Analizziamo prima di tutto le anomalie dell’hard-disk: se il disco non gira per un
guasto del motore o un problema meccanico, oppure perché l’elettronica non ali-
menta la meccanica (motore di trascinamento del disco magnetico o di spostamen-
to delle testine) all’avvio del computer il POST si arresta e quasi sempre, dopo il
self-test della memoria, il BIOS segnala l’anomalia con “HDD failure”; in casi del
genere, sovente non si sente il disco girare o questo inizia a girare per poi fermarsi
ciclicamente. Se, invece, è guasta l’interfaccia o il controller interno all’HD non fun-
ziona, il computer non riconosce il disco e indica che non è presente; i messaggi a
video sono del tipo “HDD not detected” o “HDD not present”. In questo caso
normalmente si sente comunque girare il disco all’interno dell’HD.
Il problema che impedisce l’avvio del sistema operativo o comunque del disco rigi-
do può essere anche d’altro genere e riguardare le testine e l’elettronica che ne con-
trolla il movimento; in questo caso, quando dovrebbe avviare il sistema operativo
si sente un “clac-clac” ripetuto, dovuto al tentativo dell’HD di posizionare le testi-
ne sul disco per leggere i dati. Il rumore continua ciclicamente e il sistema non si
avvia. Un altro tipo di guasto è quello che fa variare continuamente la velocità del
disco rigido (che invece deve ruotare a velocità costante) e che si avverte dall’ester-
no, talvolta con un suono che diventa più acuto e poi sale di frequenza diventando
233
Capitolo 12

un sibilo, il tutto ciclicamente. Tali problematiche sono da correlarsi con il


motore elettrico che fa ruotare il disco o, più verosimilmente, con il controller
elettronico del motore. In tutti questi casi esiste un solo rimedio: sostituire
l’hard-disk con uno funzionante.
Oltre a questo genere di problemi, il disco rigido può manifestarne altri, duran-
te l’uso del computer e a sistema operativo avviato; ciò capita quando il guasto
è sporadico o si presenta a caldo. In tal caso possono apparire schermate di erro-
re nel sistema operativo (la classica blu-screen, per esempio) riferite a moduli o
a indirizzi di memoria, simili a quelle mostrate, ad esempio, da Windows quan-
do la RAM ha dei problemi. Oppure il programma in esecuzione si blocca e
tastiera e mouse sono ininfluenti o bloccati anch’essi; in alcuni casi, questo mal-
funzionamento è accompagnato da rumori sinistri dell’HD, del tipo il solito
“clac-clac” delle testine o continue variazioni di velocità del motore del disco
rigido. Anche in questo caso va sostituito il disco rigido.
Talvolta, se i sintomi sono limitati al blocco del programma in esecuzione, però
il disco gira regolarmente e non si avvertono particolari rumori anomali, può
convenire salvare i dati finché si è in tempo e poi formattare l’HD con appositi
programmi quali Disk Manager o Disc Doctor; queste utility dispongono anche
di funzioni in grado di testare il disco per quanto riguarda la capacità di memo-
rizzare i dati, il funzionamento delle testine, oltre che di verificare la presenza di
settori danneggiati (zone della superficie magnetica che non sono in grado di
tenere la magnetizzazione fatta dalla testina) o formattare il disco a basso livel-
lo. Quest’ultima va usata con attenzione, in quanto in alcuni casi può rendere il
disco inutilizzabile. La formattazione a basso livello non va confusa con quella
fatta dal sistema operativo (che è ad alto livello) in quanto quella eseguita, ad
esempio, da Microsoft Windows non fa altro che preparare, organizzare i setto-
ri di memorizzazione secondo la FAT16, FAT32 o l’NTFS, al solo scopo di con-
sentire al sistema operativo di gestire il disco e sapere dove scrivere i dati e dove

Figura 12.1 - Tre schermate del software di


gestione dei dischi rigidi Disk Manager;
questo programma permette la completa
gestione del disco, dalla verifica dell’inte-
grità del supporto, alla formattazione a
basso livello, fino alla rilocazione del MBR.

234
Guasti delle memorie di massa

andarli a cercare, mentre la formattazione a basso livello cancella materialmen-


te sia i dati, sia qualsiasi forma di organizzazione dei settori di memorizzazione
e va a cancellare anche il Master Boot Record (settore di avvio del disco, anche
detto MBR) e quindi predispone il disco ad accettare qualsiasi partizionatura.
Il problema è che alcuni sistemi operativi Microsoft, per loro limiti o problemi
di gestione del controller associati alla scheda madre o al controller, se si elimi-
na il Master Boot Record possono avere difficoltà a ricrearne uno nuovo, ad
esempio perché sono capaci di cercarlo solo in una certa posizione del disco.
Questo concetto si chiarisce meglio partendo dal presupposto che il disco rigi-
do è una superficie magnetica organizzata a spirale, come tale, può ospitare
informazioni sotto forma di magnetizzazione residua dovuta all’induzione
magnetica delle testine di scrittura. I sistemi operativi dispongono di program-
mi più o meno complessi fatti per “far accomodare” i loro dati in questo spa-
zio magnetico; nel caso di Windows 3.x, 95/98 e dell’MS-DOS, si usa l’FDISK,
che serve solo ed unicamente a preparare un disco rigido standard per l’uso con
i programmi Microsoft, ovvero a cercare il record d’avvio (quello da cui il con-
troller inizia a leggere e a fare il boot) in una posizione convenzionale e a scri-
vervi gli estremi dove si troverà la partizione creata.
La partizione è, come dice la parola, una parte di superficie magnetica del disco
in cui verrà creata una disposizione convenzionale dei dati, definita dalla for-
mattazione (il comando FORMAT, per intenderci...) ad alto livello. Quindi
FDISK crea una partizione di avvio per il sistema operativo, poi il comando
FORMAT la prepara formattandola secondo la FAT o l’NTFS scelti.
Il limite di FDISK è che non è capace di creare il Master Boot Record o di crea-
re partizioni di avvio che non partano dal primo settore disponibile del disco; al
limite si può aggirare l’ostacolo inserendo all’inizio una partizione NON DOS,
cosa utile ad esempio se il disco rigido ha dei settori danneggiati all’inizio.
Inoltre, se il disco non è preparato con un MBR nella posizione convenzionale,
FDISK potrebbe non riuscire a crearvi la partizione.
Invece Software di gestione disco come Disk Manager possono farlo e sono in
grado di rilocare il Master Boot Record, o anche di formattare a basso livello il
disco, per togliergli ogni genere di dato, MBR compreso.
Dunque, la formattazione a basso livello è una vera cancellazione della magne-
tizzazione residua del disco rigido, totale, mentre quella del sistema operativo è
un’organizzazione dei settori magnetici affinché lo stesso sistema operativo leg-
gere e scrivere nel disco e si può fare solo dopo aver creato una partizione la cui
collocazione deve essere stata preventivamente scritta nell’MBR da un program-
ma di gestione disco e comunque in fabbrica.
Alla luce di tutto questo discorso, piuttosto che formattare il disco a basso livel-
lo a volte è più semplice aggiornate il Master Boot Record con l’apposito
comando di cui Disk Manager dispone, cosa che rende subito riutilizzabile il
disco; tale comando è disponibile anche nei dischi di avvio di Microsoft
Windows 98/Me ed è l’FDISK/mbr. Per quanto riguarda i sistemi operativi

235
Capitolo 12

Microsoft NT-based, quindi NT, XP, Windows 7, esistono altre utility quali
DISKPART, che però vanno lanciate dal sistema operativo, visto che non esi-
stono i dischetti di boot.
Un discorso a parte lo meritano i sistemi operativi più evoluti, come quelli basa-
ti su architettura UNIX (Unix, Solaris, ma anche le varie distribuzioni Linux) i
quali sono in grado, oltre che di preparare partizioni loro conformi (per esem-
pio formattate in HPFS) anche di creare e modificare a piacimento il Master
Boot Record; ciò permette loro di non avere problemi se devono lavorare con
un disco formattato a basso livello.
Ma non solo: sistemi operativi come questi possono essere installati in dischi
rigidi nei quali è gia presente una partizione di Microsoft Windows e riescono a
riscrivere il Master Boot Record creando menu di avvio eseguiti al boot, dove
l’utente può decidere quale sistema operativo avviare.
Tornando ai problemi degli hard-disk, va notato che nei dischi IDE/ATA, può
accadere che un guasto dell’interfaccia nell’elettronica dell’hard-disk arrivi a
bloccare il computer, nel senso che ne impedisce l’avvio: sullo schermo non
appare alcunché, mentre il resto funziona correttamente (le spie sono accese e
la ventola o le ventole di raffreddamento girano). In questo caso per capire a
cosa sia dovuto il blocco, bisogna sconnettere l’hard-disk e verificare quel che
accade: se il notebook si avvia, ovvero presenta la schermata di avvio, significa
che l’HD è da buttare.
Nei dischi SCSI, dove c’è un controller evoluto a presidere il bus, il guasto di un
hard-disk rallenta l’avvio del tempo necessario a diagnosticarlo, ma solitamente
non causa il blocco del sistema.

Difetti delle unità CD e DVD


Quanto ai problemi delle unità a disco ottico, si manifestano solo quando si
tenta di leggere o scrivere (se trattasi di masterizzatori) su un disco ottico, ovve-
ro di avviare l’installazione di un programma da esse; i sintomi sono tipicamen-
te arresti o frequenti rallentamenti del caricamento del programma o del trasfe-
rimento dei dati, accompagnati da vari rumori dovuti alla testina laser che si spo-
sta nel tentativo di raggiungere le tracce da leggere. Non è infrequente sentire il
motore che accelera e poi si ferma, segno che il controller o il motore stesso che
fa girare il disco hanno dei problemi.
Altra cosa è, invece, se all’avvio, durante il self-test del BIOS appare la segnala-
zione di disco ottico guasto: “Optical Disk Failure” o qualcosa di simile; in tal
caso c’è un problema nell’interfaccia di comunicazione (bus IDE) dell’unità o
della mainboard. Il dubbio si dirime sostituendo l’unità ottica con una nuova e,
ovviamente, funzionante.
In casi particolari, il guasto dell’interfaccia IDE può arrivare a bloccare il com-
puter, impedendone l’avvio: in pratica il notebook non mostra alcunché sullo
schermo, anche se la spia di “acceso” e la ventola funzionano correttamente. In
questa evenienza, il dubbio si dirime asportando l’unità CD/DVD e facendo
236
Guasti delle memorie di massa

funzionare il computer senza: se parte, l’unità ha un problema tale da bloccare


il canale IDE e va sostituita.
Problemi di lettura dalle unità ottiche o di scrittura, così come il blocco del com-
puter durante tali operazioni, possono essere ricondotti anche a guasti del con-
troller integrato nella scheda madre, interfacciato con il chipset Southbridge o
integrato in esso; in casi del genere la soluzione consiste nel sostituire il chip
interessato dopo averlo individuato.
Altri problemi che possono coinvolgere le unità a disco ottico riguardano fun-
zioni speciali, come ad esempio l’apertura del cassetto, che in rari computer si
comanda dall’esterno mediante un pulsante cllocato nel notebook; è il caso, ad
esempio, del Sony VAIO, il cui lettore/masterizzatore DVD ha il tasto di aper-
tura/chiusura del cassetto coperto dalla mascherina e si apre e chiude mediante
un pulsante posto nella parte frontale del PC. Questa funzione viene ottenuta
inviando il comando tramite l’interfaccia S-ATA, ma è possibile perché il
firmware originale dell’unità è stato modificato inserendo istruzioni supplemen-
tari a quelle del protocollo S-ATA che permettono di ordinare l’apertura del cas-
setto. Sostituire questo tipo di unità ottiche implica di trovare il ricambio origi-
nale fornito dal costruttore del computer, perché altrimenti, pur trovando lo
stesso modello dello stesso costruttore dell’unità ottica, ma non adattato dal
fabbricante (SONY) del PC, è quasi certo che non si riuscirà ad aprire e chiude-
re il cassetto. Insomma, se l’unità ottica per un PC SONY è prodotta dalla LG
e si chiama ad esempio LG78ZZ, non basta comperarne una nuova siglata
LG78ZZ, ma occorre ordinare il pezzo di ricambio alla SONY, perché la
LG78ZZ esce di fabbrica con un firmware standard e risponde a comandi stan-
dard S-ATA, mentre quella della SONY è modificata per lavorare con i PC
SONY.
Sempre in tema di problemi di compatibilità nella sostituzione delle unità otti-
che, va ricordato che alcune case modificano il firmware dei propri
lettori/masterizzatori per obbligare i riparatori ad ordinare loro i ricambi, ovve-
ro si fanno costruire i dispositivi con interfacce opportunamente modificate; un
esempio riguardava alcuni notebook Toshiba, in cui il criterio di Cable Select era
invertito rispetto allo standard e quindi non consentiva al notebook di ricono-
scere la presenza di CD/DVD standard.

Problemi dei gestori di Memory-Card


Se si verificano guasti ai lettori di schede di memoria, i problemi riscontrati sono
simili a quelli descritti per le altre memorie di massa: tipico è il blocco del com-
puter quando si tenta di accedere a questi dischi rimovibili, ovvero la segnala-
zione di errore di time-out mediante un’apposita finestra di avviso da parte del
sistema operativo.
In questo caso bisogna innanzitutto capire se è guasto il supporto di memoriz-
zazione, cioè la Memory-Card, oppure se qualcosa non va nel gestore o se qual-
che contatto si è rotto o deformato nel lettore; se è guasta la card bisogna ovvia-
237
Capitolo 12

mente cercarne una nuova, mentre laddove si sia deformato qualche contatto,
con una pinzetta bisogna raddrizzarlo. Se ciò non è possibile, occorre sostituire
l’intero blocco lettore o lo zoccolo corrispondente.
Invece se la card è buona e i contatti (che conviene esaminare con una lente d’in-
grandimento) sono integri, il problema va cercato nel controller, che è un circui-
to integrato montato nella scheda madre in prossimità dello zoccolo o lettore;
in tal caso non resta che sostituire questo integrato con uno analogo. A tale
riguardo, notate che uno dei chip più utilizzati è prodotto dalla RICOH e quin-
di marchiato con tale nome; ciò vi permette di individuarlo meglio. Comunque
i gestori di Memory Card vengono prodotti anche da altre case, quali ON
Semiconductor, ene ed altre ancora.
I guasti del controller o il distacco di alcuni contatti determinanti per il ricono-
scimento della Memory-Card possono impedire al computer di riconoscere il
tipo di card o di vedere questa periferica: in tal caso il sistema operativo non rile-
va la periferica e non la comprende tra quelle di sistema; nel caso di Windows,
nelle Risorse del computer manda l’icona corrispondente e anche riavviando il
notebook il problema non sin risolve. Sempre i problemi al controller possono
determinare, in Microsoft Windows, messaggi di avviso del tipo: “Periferica non
riconosciuta”; in tale evenienza, anche reinstallando i driver e riavviando il siste-
ma nulla cambia.
Talvolta il mancato riconoscimento o rilevamento della periferica dipende da un
guasto nel DC/DC converter che alimenta il controller, il quale a questo punto
non è alimentato e ovviamente non funziona; un problema del genere, come
anche il guasto del controller, tipicamente si scopre perché oltre a non leggere
le memory-Card, il notebook nella schermata delle risorse di sistema non mostra
il controller, oppure evidenzia un’anomalia (punto esclamativo o altro simbolo
adottato allo scopo) nella periferica corrispondente.

Problemi dei gestori di PCMCIA e CardBus


I lettori di PCMCIA e i più CardBus possono supportare una gran varietà di
periferiche, quindi non solo memorie, come in origine, ma anche modem, inter-
facce wireless, interfacce USB per notebook che ne sono sprovvisti.
In caso di guasto di una periferica inserita nel lettore, non sarà disponibile la fun-
zione corrispondente, ma il computer non si bloccherà. Se invece si guasta il
controller PCMCIA o CardBus su scheda madre, essendo questo interfacciato
al chipset Southbridge potrebbe esserci qualche problema. Comunque, di solito
un malfunzionamento del controller non manda in blocco il sistema operativo
e non è vincolante per il funzionamento del resto del computer, in quanto di
norma non arriva a condizionare l’attività della CPU, ma semplicemente riporta
l’errore sotto forma di finestra di dialogo o di anomalia (ad esempio il classico
punto esclamativo in Gestione Risorse di Windows XP o in Gestione
Dispositivi di Windows 7). Il guasto del chip di controllo si può anche manife-
stare solamente quando si tenta di accedere a una periferica PCMCIA/CardBus.
238
Guasti delle memorie di massa

Il discorso è analogo per le periferiche di lettura delle Smart Card, sovente col-
legate via USB, ma talvolta intergate nel notebook per la lettura di informazio-
ni di autenticazione dell’utente o l’accesso a servizi Internet.
I controller tipicamente usati per gestire PCMCIA e CardBus sono prodotti da
vare case: ad esempio Texas Instruments e Intel. alcuni chip d’esempio sono
i82559 Intel e PCI7620 della Texas Instruments. Altri chip sono quelli della ene,
quali ad esempio l’UB6220, l’UB6225 e l’UB6230; tutti e tre sono dei
Multimedia Card Reader idonei a gestire svariati tipi di memory-card, quindi
non solo i dispositivi CardBus ma anche MMC ed altre schede di memoria.

239
CAPITOLO 13
GUASTI DELLE PORTE DI COMUNICAZIONE

Può capitare che in un computer non funzionino le porte COM o la parallela,


oppure la USB, la Firewire ecc.; ciò viene evidenziato dal mancato funzionamento
di periferiche collegate a queste porte, quali stampanti, scanner ed altro ancora e
dalla segnalazione, mediante una finestra di dialogo, dell’impossibilità di trovare o
comunicare con le periferiche suddette. Capita altresì che con l’USB, inserendo la
spina di una periferica nella presa del PC, il sistema operativo si blocchi o venga ral-
lentata l’esecuzione dei programmi in corso. Guasti e inconvenienti del genere sono
tutti da ricondurre alle porte di comunicazione ed alle periferiche correlate, ovve-
ro, anche a quella parte del chipset Southbridge che sovraintende all’interfaccia-
mento con gli adattatori e controller di comunicazione (Host USB, per esempio).
Invece, quando i problemi riguardano la mancata connettività di rete, bisogna cer-
care nell’interfaccia ethernet, sia essa integrata nella scheda madre o presente sotto
forma di periferica PCMCIA o CardBus.
In questo capitolo analizziamo alcune tipiche situazioni che possono riguardare le
porte di comunicazione dei PC e i rimedi del caso.

Porte COM e parallela


I guasti di seriali e parallele sono generalmente rivelati dall’impossibilità di comuni-
care con la periferica nel primo caso, o da difetti di acquisizione con lo scanner o
stampe di caratteri anomali sulla stampante, nel secondo. Le anomalie possono
essere molteplici e dipendono da quale periferica viene collegata a tali porte.
Per quanto riguarda le COM, tipicamente usate per modem o periferiche di con-
trollo di motori, ma anche per interfacce di misura ed acquisizione dati e per i pro-
241
Capitolo 13

grammatori di memorie e microprocessori usati dagli sviluppatori firmware, l’er-


rore di comunicazione viene segnalato dal programma che le usa; in tal caso,
conviene, prima di pensare ad un guasto hardware, verificare la configurazione
delle COM e la corretta installazione dei driver di periferica. Se tutto è a posto,
significa che qualcosa non va nell’hardware del notebook.
Tipicamente a guastarsi sono le interfacce che nelle COM provvedono alla con-
versione dei livelli TTL (5 o 3,3 V) in RS232-C (±12 V) ossia dei traslatori di
livello realizzati da svariati circuiti integrati, uno dei quali è il comunissimo
MAX232 della Maxim. Questi componenti si guastano sia per sovraccarichi o
erronei collegamenti dei cavi verso le periferiche collegate all’interfaccia seriale,
sia per situazioni abbastanza casuali; quando le COM sono collegate a modem,
possono danneggiarsi a causa di una scarica elettrica pervenuta dalla linea telefo-
nica e passata fino alla porta seriale. Va notato che quasi mai, a meno di sittua-
zioni particolari, i chip interessati si vedono fisicamente danneggiati (ad esem-
pio esplosi o bruciacchiati) quindi nella ricerca dei guasti bisogna procedere per
esclusione, ovvero, procuratosi il data-sheet, andare a verificare con un tester, sul
piedino TXD, se ci sono i livelli di tensione previsti a riposo. A riguardo sappia-
te che normalmente, in assenza di dati, TXD deve restare a 10÷12 volt positivi
(condizione di spacing invertita); se non c’è tensione, ovvero ciò che si legge è
minore di 9 volt, qualcosa non va.
Meno frequenti sono i guasti degli UART, ormai integrati nei chipset
Southbridge e che costringono alla sostituzione di questi ultimi.
I problemi alle porte seriali possono manifestarsi come errori di time-out o
mancata risposta della periferica collegata alla COM, ovvero mancato rilevamen-
to della stessa.
Per quanto riguarda la parallela, viene usualmente gestita da un apposito circui-
to integrato, almeno nei notebook più datati; in quelli più recenti che hanno
avuto tale interfaccia, viene gestita dal chipset Southbridge, ragion per cui se si
riscontrano problemi nella comunicazione parallela e un’analisi del sistema ope-
rativo e rispettivi driver dimostra che tutto è a posto sul piano software, diviene
indispensabile sostituire il chipset Southbridge oppure tentare di sottoporlo a
reflow, nel caso qualcuno dei suoi contatti sia dissaldato (evenienza peraltro
abbastanza rara).
Le porte COM ed LPT (parallela) possono anche non funzionare a causa del
guasto dell’alimentatore DC/DC che le alimenta; in questo caso, oltre a manca-
re tensione sulle linee di uscita e su quelle dati (nella parallela) noterete che ai
piedini di alimentazione dei chip coinvolti non ci sono i previsti 5 o 3,3 volt.

Problemi dell’USB
Come la Firewire, questa porta di comunicazione oltre a comunicare con le peri-
feriche ad essa collegate può dare loro alimentazione; per questa ragione è più
soggetta a guasti in caso di sovraccarico. L’alimentazione a 5 volt proviene da un
apposito alimentatore del notebook, quindi nel caso sui contatti 1 e 4 dell’USB
242
Guasti delle porte di comunicazione

Figura 13.1 - Due tipi di presa USB da circui-


to stampato: è il ricambio da procurare quan-
do si rompe la presa sulla mainboard.

manchino i 5 volt bisogna cercare la colpa in questo alimentatore DC/DC. Se


invece il problema è di comunicazione, bisogna cercare nel controller USB, che
può essere realizzato da vari circuiti integrati, un esempio dei quali è l’FT232
della FTDI; chip controller USB li produce anche la ene.
Quando qualcosa non va nell’USB, possono verificarsi molti problemi: ad esem-
pio il sistema operativo non riesce a riconoscere la periferica pur avendo instal-
lato i driver e riavviato il computer (in Windows appare il messaggio d’errore:
“Periferica USB non riconosciuta o sconosciuta”) oppure si blocca durante la
connessione di una periferica, ovvero si connette alla periferica però non c’è
comunicazione.
Per smascherare problemi all’USB, nei computer con sistema operativo
Windows basta anche entrare nelle risorse del sistema e vedere se in corrispon-
denza dell’icona dell’Hub USB c’è segnalata qualche anomalia.
In tutti questi casi bisogna sostituire il controller, oppure tentare di sottoporre
a reflow o sostituire il chipset Southbridge.

Guasti del modem


Nei computer dotati di modem che rimangono collegati alla linea telefonica a
lungo può capitare che il modem stesso si guasti a causa di un picco di tensio-
ne causato da interferenze o fulmini; in tal caso i problemi si manifestano ten-
tando la connessione, allorché dal computer viene segnalato che la linea è assen-
te. Per accertare il guasto occorre aprire lo sportellino che cela la scheda modem
(usualmente montata sulla scheda madre ma talvolta integrata in essa) e guarda-
re con attenzione che non vi siano componenti rigonfiati o bruciati; infatti le
sovratensioni possono bruciare facilmente i diodi di protezione o le resistenze
in serie alla connessione di linea, oppure il trasformatore di accoppiamento,
indispensabile per trasferire i segnali da e verso la linea salvaguardando l’isola-
mento galvanico tra computer e linea stessa.

Distacco dei connettori


Quando le porte di comunicazione funzionano correttamente ma non c’è con-
nettività con le periferiche ad esse collegate, il problema può dipendere senz’al-
tro dal distacco o danneggiamento dei connettori corrispondenti; in questo caso

243
Capitolo 13

Figura 13.2 - Tipico modulo per realizzare l’interfaccia wireless (visto dalle due facce) di un
computer notebook; si innesta in un apposito connettore con clip di ritegno.

il guasto è evidente perché i, connettori appaiono mobili o perché, guardando


attentamente, magari con l’aiuto di una lampada e di una lente d’ingrandimento,
sebbene i connettori siano stabili alcuni piedini sono scollegati. Solitamente i
connettori che si possono muovere sono gli USB o i plug telefonici, perché più
delicati; i connettori DB-9 e DB-25 usati da seriale e parallela sono molto più
stabili, non solo perché trattenuti dal maggior numero di contatti, ma anche per-
ché solitamente vengono avvitati alla scheda madre o al contenitore del note-
book.
Nel caso riscontriate che un connettore si muova troppo, provate a vedere se è
possibile risaldarne i contatti o le alette di fissaggio (che potrebbero essersi stac-
cate dalle piazzole corrispondenti) con saldatore e lega saldante; tutto dovrebbe
andare a posto. Se invece il connettore ha le alette di fissaggio rotte, bisogna dis-
saldarlo e sostituirlo con uno nuovo, procedendo in maniera analoga a quanto
spiegato nel Capitolo 9 a proposito del plug di alimentazione: in pratica dovete,
aiutandovi con il dissaldatore e la trecciola dissaldante, rimuovere lo stagno che
blocca contatti e alette di ancoraggio, quindi estrarre il connettore sollevandolo

Figura 13.3 - Chip ene per la gestione delle porte di


comunicazione USB e di altre unità del notebook.

244
Guasti delle porte di comunicazione

delicatamente con un cacciaviti a lama. Estratto il connettore, con la solita trec-


ciola dissaldante ripulite le piazzole, poi introducete il nuovo connettore e sal-
datelo.presa sulla mainboard.

Guasti dell’interfaccia wireless


Che sia una Wi-Fi o una Bluetooth, oppure una IRDa, l’interfaccia wireless gua-
sta presenta sempre lo stesso sintomo: non permette la comunicazione senza
fili; infatti comunque sia fatta, questa porta prevede un unico canale di collega-
mento che, nel caso delle connessioni via radio (le prime due) è un’onda elettro-
magnetica ad alta frequenza mentre nell’IR è una radiazione luminosa a una
certa lunghezza d’onda.
Per quel che riguarda le interfacce radio, la comunicazione avviene su un’unica
portante, quindi il sintomo è sempre lo stesso sia che si guasti il trasmettitore,
sia che vada fuori uso il ricevitore: in entrambi i casi non c’è connessione e ciò
si può verificare perché accendendo il wireless il computer rileva la periferica ma
non la presenza di reti wireless nei dintorni, ovvero può rilevare le reti ma non
riuscire (malgrado sia correttamente configurato) a instaurare la comunicazione.
In questo caso bisogna sostituire il modulo wireless.
Se invece la periferica non viene neppure riconosciuta, il problema può essere
nel driver o, se questo è corretto e installato esattamente, nel processore che
governa l’interfaccia; anche in quest’ultimo caso bisogna sostituire il modulo
wireless, che si estrae facilmente visto che è sempre una scheda a parte e mai
integrato (anche per ragioni di disturbi) nella mainboard.
Quanto all’interfaccia IR, valgono le stesse considerazioni: se non comunica è
guasta la sezione ricetrasmittente, mentre se non viene rilevata è fuori uso il chip
che la governa; in tal caso bisogna individuare quest’ultimo sulla mainboard e
sostituirlo.

245
CAPITOLO 14
GUASTI DEL SISTEMA DI RAFFREDDAMENTO

Il sistema di raffreddamento e ventilazione di un computer è di fondamentale


importanza per la sua integrità, perché se funziona male o non funziona del tutto,
i componenti critici possono surriscaldarsi e danneggiarsi; per questo, sono previ-
ste protezioni in grado di monitorare la temperatura della CPU (che è l’elemento
più sollecitato termicamente) ed attivare una o più ventole collocate strategicamen-
te e mirate ad asportare il calore, facendolo uscire dal notebook. Se malgrado la
ventilazione il calore rimane comunque eccessivo, le protezioni devono spegnere il
computer; materialmente, l’elemento che spegne il PC o lo manda in standby è il
chipset, che interviene disattivando l’alimentatore principale e gli altri DC/DC del
notebook, ma anche spegnendo l’inverter dell’LCD (ciò viene ottenuto privando
l’inverter del segnale di clock o di quello di enable, in base al tipo di circuito utiliz-
zato nello schermo.
Nel Capitolo 9 si è accennato al fatto che gli integrati sensori di temperatura pos-
sono impedire l’avvio di un notebook qualora comunichino dati errati al
Northbridge, tuttavia possono anche presentare altri problemi, tali da non consen-
tire l’avvio delle ventole (pur dialogando correttamente con il chipset) e portare al
surriscaldamento della CPU, della GPU o del chipset. Solitamente in questo caso è
lo stadio finale del sensore termico a guastarsi, ma questa evenienza si verifica solo
in quegli integrati che oltre a rilevare la temperatura ed eventualmente ad informar-
ne il chipset, dispongono di un transistor all’interno per comandare direttamente la
ventola o le ventole del notebook. Ricordiamo che il controllo avviene solitamen-
te mediante una tensione rettangolare in PWM, in modo da poter variare a piaci-
mento la velocità, aumentandola se la CPU tende a surriscaldare.

249
Capitolo 14

Le ventole possono comunque non avviarsi quando dovrebbero farlo, a causa


di un guasto dei transistor esterno che il sensore usa per comandarle; oppure
perché sono guaste esse stesse.

Verifica e sostituzione delle ventole


Se una ventola non gira mai o non parte malgrado il computer si spenga perché
è andato in sovratemperatura, bisogna innanzitutto verificare se è libera di gira-
re, ovvero se qualcosa le si è infilato nella sede. Se la ventola non gira malgrado
sia libera oppure sforza molto, vuol dire che è grippata, ovvero che si è grippa-
to il perno sulla bronzina; in questo caso bisogna sostituirla, individuando prima
di tutto la connessione elettrica e rimuovendola, poi andando a cercare dove è
fissata. A riguardo va detto che in alcuni notebook, per accedere alla sostituzio-
ne della ventola occorre smontare il piano superiore e con esso la tastiera, men-
tre in altri basta rimuovere uno sportello nella parte inferiore del guscio. In altri,
purtroppo, occorre rimuovere tutti i dissipatori e talvolta sollevare la scheda
madre, il che comporta un allungamento dei tempi di lavorazione.
Di recente sono state realizzate ventole della SUNON che funzionano a levita-
zione magnetica, quindi sono meno soggette al grippaggio perché ruotano sor-
rette da un campo elettromagnetico e perciò il loro perno si usura meno; que-
sto tipo di ventola dura molto più di una tradizionale e permette di ridurre la
frequenza degli interventi di manutenzione.
Se la ventola che non funziona è libera di girare e quando viene mossa a mano
ruota perfettamente, significa che meccanicamente è integra ed il motivo per cui
non funziona è da ricercare nella sua parte elettrica o nell’elettronica della sche-
da madre. Per prima cosa bisogna controllarne la connessione e, laddove questa
sia a posto (ovvero il connettore di alimentazione sia correttamente inserito)
conviene staccarla e provare a vedere se elettricamente il motore della ventola è
a posto; questa verifica può essere fatta assai agevolmente con il tester commu-
tato sulle misure di resistenza, con portata 1 kohm o giù di lì: basta toccare il
contatto rosso ed il nero, uno con un puntale e uno con l’altro, e verificare che
la resistenza sia, al massimo, dell’ordine di poche centinaia di ohm. Se la resi-
stenza letta dallo strumento risulta infinita o non misurabile, vuol dire che la

Figura 14.1 - Apertura del fondo del note-


book per accedere alla ventola di raffred-
damento, della quale si vede la griglia di
entrata dell'aria.

250
Guasti del sistema di raffreddamento

Figura 14.2 - Ventola e dissipatore di un PC portatile con addosso polvere aggregata che
forma della lanuggine: questo tipo di sporco è molto deleterio perché impedisce al dissipa-
tore di smaltire il calore e quindi può far surriscaldare il chipset e la GPU.

bobina del motore è interrotta, quindi occorre sostituire la ventola perché non
è possibile ripararla.
Può anche capitare che la ventola o le ventole girino, ma ad una velocità infe-
riore a quella richiesta e che perciò il flusso d’aria non sia sufficiente a raffred-
dare il computer; in questo caso può scattare l’allarme termico e il PC può spe-
gnersi ugualmente. Di solito l’anomalia si riscontra andando nel Setup e verifi-
cando, laddove sia presente l’apposita voce, la velocità di rotazione rilevata,
ovvero la presenza di errori. In molti notebook invece quando la ventola gira
lentamente, se la cosa si verifica all’avvio viene segnalata da un messaggio
durante il bootstrap e il PC si ferma richiedendo conferma dell’avvio.
Ancora, a volte tale allarme o l’arresto del computer possono essere causati da
un malfunzionamento del sensore tachimetrico, ovvero dalla mancanza -sul filo
giallo della ventola- del segnale che informa il chipset della velocità di rotazio-
ne; per questo, ritenendo ferma la ventola il chipset non consente l’avvio del
notebook anche se la stessa sta girando regolarmente.
In tutti i casi è possibile verificare la presenza del segnale tachimetrico utilizzan-
do un frequenzimetro o un oscilloscopio: basta collegarne la sonda con il comu-
ne al filo nero e il puntale centrale (terminale caldo) al filo giallo, a PC acceso.
Chiaramente occorre che la ventola sia anche collegata al computer, quindi biso-
gna scoprire il filo giallo ed il nero. In alternativa è possibile alimentare la ven-
tola con un alimentatore della tensione adatta (5 o 12 Vcc). Se il sensore tachi-
metrico funziona, sullo schermo dell’oscilloscopio appare la forma d’onda,
costituita da impulsi abbastanza regolari; nel caso del frequenzimetro, il display
mostra la frequenza del segnale tachimetrico, da cui risalire alla velocità.

Accumulo di sporco
Una delle cause del surriscaldamento della CPU o della GPU, ma anche del chi-
pset Northbridge, è l’accumulo di polvere e sporcizia sulle estremità alettate del
dissipatore di calore di fronte alla ventola; ciò si deve al fatto che nell’aria tirata
251
Capitolo 14

Figura 14.3 - Insufflazione di aria nello spazio


dove si trova il cuscinetto e fra gli avvolgimenti
che si trovano sotto il rotore: l’aria compressa
permette di asportare la polvere e la lanuggine
in modo molto efficace, rendendo al sistema di
raffreddamento l’efficienza originaria.

dalla ventola attraverso le feritoie di entrata c’è polvere o fuliggine in misura più
o meno consistente a seconda delle condizioni dell’ambiente in cui il computer
si trova a lavorare. Nella stagione primaverile, inoltre, non è infrequente avere
pollini in sospensione nell’aria, il che va ad incrementare la possibilità che l’im-
pianto di raffreddamento del computer si intasi.
Ciò pregiudica il sistema di raffreddamento e lo rende meno efficace, impeden-
do il corretto smaltimento del calore; questo problema in gran parte dei PC por-
tatili comporta il surriscaldamento ed il conseguente distacco di alcune saldatu-
re dei chip video (le GPU) in special modo se si trovano ad avere un dissipato-
re in comune con quello della CPU e sono collocati, nel flusso del calore, prima
della stessa CPU. Infatti se è vero che quasi tutti i notebook dispongono di una
protezione termica basata su un sensore e sull’intervento del chipset (che all’oc-
correnza spegne il computer) è verò altresì che detta protezione si basa sul rile-
vamento della temperatura della sola CPU, quindi se a surriscaldare è la GPU, il
sensore nemmeno se ne accorge ed il PC continua a funzionare, a danno del
chip video. Questo spiega perché in diversi modelli di notebook, come ad esem-
pio la serie HP Pavillon DVxxxx, sovente dopo qualche anno si verificano pro-
blemi di rappresentazione dell’immagine dovuti al fatto che il chip si deforma,
la lega saldante che compone le palline dei contatti (le GPU usate sono NVidia,
scaldano molto e sono in contenitore BGA) si fonde o comunque si ammorbi-
disce e quando si raffredda non si attacca più correttamente; ciò causa saldatu-
re fredde e, a seconda di quali sono i contatti interessati, non consente più il fun-
zionamento della GPU, ovvero determina una visione disturbata, a quadretti e
barre o altro ancora (immagine sdoppiata, per esempio). In questi casi solita-
mente il reflow del chip è risolutivo. Quando non è risolutivo significa che la
GPU ha riportato danni permanenti (ciò accade più frequentemente nei chipset
Intel i965 con video integrato).
Per proteggere l’impianto di raffreddamento, in alcuni notebook viene posizio-
nata una spugna filtrante in corrispondenza della presa d’entrata, quindi solita-
mente è il filtro ad intasarsi o a riempirsi di lanuggine.
Comunque, l’accumulo di polveri, fuliggine e pollini ad un certo punto arriva ad
intasare le intercapedini del dissipatore e, malgrado la ventola giri regolarmente,
ostacola e anche molto la fuoriuscita dell’aria calda che le ventole devono estrar-
252
Guasti del sistema di raffreddamento

re per mantenere l’equilibrio termico.


In questo caso bisogna smontare la ventola e, con uno spazzolino o con il getto
d’aria di un compressore (o di una più maneggevole bomboletta da laboratorio
contenente aria compressa) rimuovere la polvere e lo sporco; fatto ciò si può
rimontare la ventola e il dissipatore e verificare che con il computer in funzio-
ne ci sia il giusto flusso d’aria.
Alle volte lo sporco accumulato va a concentrarsi nel cuscinetto della ventola e,
complice il calore (che a volte può essere molto intenso) crea vere e proprie
incrostazioni tali da ostacolare la rotazione della ventola stessa, la quale arriva a
girare male, a scatti o a gripparsi. In tal caso si può tentare di ripulire la ventola
spruzzando del disincrostante tipo lo SVITOL tra il telaio e l’interno del roto-
re (dove c’è il motore) e soffiando poi con la bomboletta dell’aria compressa o
agendo con uno spazzolino (se ne può anche usare uno da denti); solitamente
questo intervento, magari ripetuto, libera la ventola, ma in caso contrario biso-
gna procedere alla sostituzione di quest’ultima.
Sostituire la ventola è, di norma, abbastanza semplice: è sufficiente identificare
le due o tre viti che la bloccano, quindi rimuoverla dopo averne staccato il con-
nettore di alimentazione, pulire la sede con un pennellino o un getto d’aria e
montare la nuova, quindi collegare il connettore di alimentazione di quest’ulti-
ma. Come già accennato, nei casi più favorevoli la ventola è accessibile dietro ad
uno sportello che si smonta da sotto il notebook, ma ci sono situazioni (per
esempio le serie Pavillon DV6xxx e Pavillon DV9xxx dell’HP) in cui bisogna
smontare per intero il computer.

253
CAPITOLO 15
GUASTI DI TASTIERA E MOUSE-P
PAD

La tastiera ed il mouse o touchpad del notebook sono, come tutte le parti del com-
puter, soggetti a guasti di vario genere, intendendo con ciò sia i guasti loro ascrivi-
bili (elettrici e di natura meccanica) sia i problemi riguardanti i circuiti integrati che
li governano, non ultimo il chipset Southbridge. In questo capitolo proviamo ad
esaminare i più frequenti, partendo dai problemi riguardanti la tastiera.
La tastiera è soggetta a guasti che possono essere sia meccanici, sia elettrici; quelli
meccanici sono rappresentati dalla rottura fisica di uno dei pulsanti che la compon-
gono o dal distacco di uno dei tasti (che sono, poi, i coperchi diplastica che entra-
no in contatto con le nostre dita quando scriviamo) collocati sopra i pulsanti, ma
anche l’incrinatura dell’intera tastiera dovuta a una caduta o ad un forte urto del
notebook. I guasti elettrici ed elettronici sono invece rappresentati dall’ossidazione
dei contatti o dalla loro usura, dato che nei PC portatili si utilizzano tastiere elettro-
meccaniche quasi sempre del tipo a membrana, molto affidabili, ma comunque sog-
gette ad ossidazione o rimozione dello strato conduttivo.
Ci sono poi i guasti dell’elettronica e riguardano il Keyboard Encoder ed il chipset
Southbridge; questi sono meno semplici da risolvere e richiedono interventi sulla
scheda madre. La riparazione del caso dipende sempre dal tipo e dall’entità del gua-
sto riscontrato.

Identificazione dei guasti della tastiera


A parte le rotture fisiche, che si identificano ad occhio, gli altri guasti vanno cerca-
ti procedendo con ordine; bisogna innanzitutto vedere quali sono i sintomi e per
farlo conviene aprire un editor di testo per i tasti dei caratteri alfanumerici. A que-

255
Capitolo 15

sto punto se premendo un tasto non appare il carattere corrispondente, bisogna


verificare che i tasti si premano regolarmente e a fondo; se no, occorre vedere
cosa li incastra, ovvero verificare se il meccanismo di molleggio non è rotto.
Nelle tastiere a membrana il molleggio è ottenuto dalla stessa membrana in
gomma, che è sagomata a cupola e a riposo spinge il tasto in alto.
Se invece i tasti scendono ma ciononostante nulla appare a video, significa che
c’è un guasto nella tastiera o nell’encoder, ovvero nel Southbridge; per cercare il
guasto nella tastiera, bisogna smontarla e accedere alla piattina, verificando i
contatti delle righe e delle colonne con il tester disposto alla misura di resisten-
za e continuità. Di solito le connessioni di righe e colonne si intuiscono seguen-
do le piste ricavate sotto la membrana; in alternativa bisogna procurarsi il data-
sheet della tastiera, che non è infrequente trovare in Internet cercando la sigla
con un qualsiasi motore di ricerca (ad esempio Google).
Individuate la riga e la colonna su cui si deve trovare il tasto difettoso, si punta
su una il puntale positivo del tester e sull’altra quello negativo, quindi si verifica,
premendo il tasto, se c’è continuità; se la resistenza rimane elevata, vuol dire che
i contatti del tasto sono ossidati, ovvero che il tasto è guasto. In questa evenien-
za non resta che cambiare tastiera.
Oltre ai tasti alfanumerici bisogna provare tutti gli altri tasti, come Alt, AltGr,
Bloc Num, Fn ecc.
Se in occasione dello smontaggio della tastiera per accedere alla mainboard o
effettuare un reflow, quando rimontate il computer notate problemi su file di
tasti, è probabile che abbiate stretto male nel connettore o danneggiato il flat-
cable della stessa tastiera; in questa evenienza provate ad estrarlo e reintrodurlo
nel suo connettore.
Se la tastiera non è danneggiata, significa che bisogna rivolgere le proprie atten-
zioni al keyboard encoder o al chipset Southbridge; più esattamente, se vi accor-
gete che oltre alla tastiera non funziona il mouse e nemmeno l’USB, è probabi-
le che il guasto sia nel chipset Southbridge, quindi dovete tentare di sottoporlo
a reflow, ovvero sostituirlo con uno funzionante.
Invece se non va solo la tastiera o non funzionano tastiera e touch-pad, è vero-
simile che il problema l’abbia il keyboard encoder. Di solito questo tipo di inte-
grato è un multifunzione ed oltre alla tastiera gestisce il touchpad, l’eventuale

Figura 15.1 - Vista della meccani-


ca sotto i tasti della tastiera del
notebook.

256
Guasti di tastiera e touch-pad

Figura 15.2 - Il codice identificativo, da


usare per richiedere il ricambio, si trova
su un'etichetta nella parte inferiore della
tastiera.

presa PS/2 esterna e i dispositivi ad essa collegati, ed altro ancora; un tipico


esempio di chip è il KB3920 della ene, che dialoga mediante SMBus con il chi-
pset Southbridge. Dunque, cercate di localizzare, nella scheda madre, il chip e
verificate se presenta rigonfiamenti, bruciature, cavità (segno evidente di un’e-
splosione del componente); in caso riscontriate una di queste anomalie, dovete
sostituire il chip. La sostituzione è comunque consigliata, anche se non si vede
nulla. Un altro chip che svolge la funzione di keyboard encoder e controller
della periferica di puntamento è il KB926QF, montato nei computer più recen-
ti e sempre prodotto dalla ene; dello stesso produttore sono gli integrati
KB3910, KB3925 e KB 3926, che tra le varie funzioni possono svolgere quella
di controller PWm della ventola di raffreddamento del notebook.
Nel reperire il componente da sostituire, prestate attenzione ad un dettaglio:
quelli della ene sono controller programmabili per svolgere varie funzioni, nor-
malmente programmati e customizzati specificatamente per un certo fabbrican-
te di computer, quindi dovete accertarvi di trovare lo stesso tipo, programmato
nella stessa maniera, per un certo portatile; in caso contrario, cioè se prendete il
chip generico, dovete programmarvelo, cosa non facile. Nel fare la ricerca, indi-
cate sempre l’intera sigla del componente, con tutti i prefissi e suffissi.

Figura 15.3 - Tipici circuiti integrati che nella scheda madre del notebook si occupano di
gestire la tastiera ed il touchpad.

257
Capitolo 15

Figura 15.4
Due touch-pad: a
sinistra il sensore
sotto il rivestimento
protettivo; a destra
un gruppo comple-
to di flat-cable per
la connessione con
la scheda madre e
pulsanti per fare
clic e attivare tutte
le funzioni tipiche
dei dispositivi di
puntamento.

Guasti del dispositivo di puntamento


Il mouse o touch-pad può presentare vari tipi di guasto in base a come funzio-
na: se è un piccolo trackball integrato (ad esempio negli Acer TravelMate serie
700 di qualche) anno fa può avere problemi di precisione nel posizionamento
del puntatore dovuto all’accumulo di sporcizia nei rulli dei potenziometri, ma
può anche bloccarsi in una direzione a causa di un guasto ad uno dei potenzio-
metri o al distacco di un rullo. Se il dispositivo di puntamento è un piccolo joy-
stick (ad esempio quello dei vecchi IBM Thinkpad e dei Toshiba Satellite di una
decina d’anni fa) i difetti che può accusare dipendono dai contatti delle quattro
direzioni; si tratta di pulsantini e quindi i guasti sono i medesimi della tastiera.
Più complesso è il problema che riguarda i touch-pad, che funzionano con una
matrice di sensori capacitivi o a trasferimento di carica; questo tipo di dispositi-
vo di puntamento può presentare imprecisione nel far seguire al puntatore la
posizione della mano a causa della deformazione del piano, ovvero può far sal-
tare il puntatore da una parte all’altra dello schermo. La deformazione può veri-
ficarsi a seguito di un urto oppure per l’uso prolungato.
Può anche accadere che qualche contatto si stacchi o che una o più celle vada-
no fuori uso o in cortocircuito; in tal caso il touch-pad diverrà impreciso, ovve-

Figura 15.5 - Funzionamento del


touch-pad capacitivo: tra contatti atti-
gui, ognuno avente una capacità, il
campo elettrico trasferisce una certa
carica; avvicinando il dito, parte della
carica elettrica viene sottratta e scari-
cata a terra. Il sensore del touch-pad
lo rileva e determica dove si trova il
dito, dato che i contatti sono moltissimi
e disposti a matrice, quindi è facile
determinare con una certa posizione
in quale punto della matrice si trova la
perdita di carica.

258
Guasti di tastiera e touch-pad

ro il puntatore procederà a scatti, dato che alcune posizioni non riuscirà a rile-
varle correttamente.
Infine, se si guasta l’integrato che decifra i segnali del touch-pad, quest’ultimo
può non funzionare o dare posizioni inesatte; se va fuori uso il chipset
Southbridge o la sua parte che si occupa di interfacciarsi con il mouse, il touch-
pad non verrà rilevato e comunque non potrà funzionare. Va comunque detto
che tipicamente quando si guasta il Southbridge si verifica una serie di guasti
generalizzata, coinvolgente le porte di comunicazione e la tastiera.
Per quanto riguarda il guasto del controller del touch-pad, vale quanto detto per
la tastiera, dato che l’integrato che gestisce quest’ultima normalmente si occupa
anche del dispositivo di puntamento; quindi, prima di mettere mano al chipset
Southbridge valutate l’opportunità di procurarvi e sostituire il controller multi-
funzione, che sovente è uno dei chip della ene di cui si è parlato due pagine
indietro. Comunque esistono altri produttori che realizzano controller per
tastiera e touch-pad; se non vedete un chip marchiato ene, cercate qualche inte-
grato in contenitore quadrato QFN o PLCC vicino all’attacco per la tastiera ed
il touch-pad.
Maggiori informazioni sui chip della ene (che sono quelli attualmente più utiliz-
zati) e sulle loro funzionalità potete trovarle sul sito del costruttore,
www.ene.com.tw/en/.

259
CAPITOLO 16
GUASTI DELL'AUDIO

La periferica audio può, come tutte quelle presenti nel computer, guastarsi e non
funzionare più, ovvero presentare vari inconvenienti di funzionamento quali la
distorsione del segnale acustico o il mancato funzionamento dell’ingresso microfo-
nico o di linea, verificabile in fase di registrazione. I problemi della scheda audio,
intesi come guasti della parte elettronica, sono comunque poco frequenti ed è sem-
mai più facile che si danneggi fisicamente uno dei connettori (jack) di ingresso o
uscita a causa di un eccessivo sforzo nell’introdurre gli spinotti o toglierli, di una
caduta o dello strappo del cavo ad esempio quando ci si alza con la cuffia alle orec-
chie e per poco non ci si porta dietro il notebook.
Altri inconvenienti riguardano non la periferica audio, ma piuttosto l’amplificatore
BF posto alla sua uscita e che pilota gli altoparlanti interni o quelli esterni collega-
ti alla presa jack; a volte possono anche guastarsi gli altoparlanti, evenienza, questa,
comunque rara. Semmai è più più facile che le membrane degli altoparlanti venga-
no danneggiate da cadute o dall’introduzione (i bambini sono “maestri” in questo
genere di “sabotaggio”...) di corpi estranei appuntiti nel notebook.
In questo capitolo verranno esaminate le varie problematiche, ognuna correlata con
l’intervento richiesto.

Inconvenienti nella scheda audio


Partiamo dai problemi che possono riguardare la scheda audio, facendo subito una
distinzione tra i vari blocchi che compongono questa periferica e che sono:
 il convertitore digitale/analogico;
 il convertitore analogico digitale.

261
Capitolo 16

Il primo è sempre presente e ricompone (vedere il Capitolo 7) il segnale sono-


ro in formato numerico generato dalla CPU e passato dal chipset o estratto dalle
unità di memoria di massa o scaricato da Internet durante lo streaming, trasfor-
mandolo in una tensione analogica; il secondo c’è solamente se la scheda audio
permette l’acquisizione di segnale di bassa frequenza, ovvero se dispone dell’in-
gresso di linea o microfonico.
A loro volta questi due elementi possono presentare difetti parziali o generali:
per guasto generale si intende la distruzione di parti del chip (dovuta ad esem-
pio a surriscaldamento e conseguente fusione e cortocircuito) tale da bloccare
completamente la periferica audio, mentre con parziale si intende un guasto ad
esempio nel bus dati con cui la scheda dialoga con il chipset per acquisire l’au-
dio o inviare il segnale di linea o del microfono già digitalizzato. Un guasto par-
ziale è anche quello che interessa la sezione analogica, ossia l’uscita BF del
segnale analogico o il buffer d’ingresso audio che precede il convertitore analo-
gico/digitale di acquisizione audio.
Va detto che il chip audio difficilmente si guasta, ma se ciò accade il segnale
sonoro non si sente o può apparire fortemente distorto. Comunque il sintomo
dipende strettamente dal guasto, quindi non è solo l’assenza dell’audio o la
distorsione; infatti tutto dipende da quale sezione dell’integrato della scheda
sonora si guasta. Ad esempio, se il chip va completamente fuori uso o si guasta
la sua parte digitale, il sistema operativo non lo riconosce del tutto, quindi nelle
risorse del sistema la scheda audio non appare; oppure, se il problema è meno
generalizzato, può capitare che la scheda venga riconosciuta come presente ma
non identificata e in tal caso viene prodotta la segnalazione di “periferica non
riconosciuta” oppure il computer indica che non è stato possibile installare i dri-
ver per la periferica.
Qualora a guastarsi sia il convertitore digitale/analogico, il computer installa
regolarmente la scheda audio, la quale risulta tra le periferiche nelle risorse di
sistema e il sistema operativo la riconosce funzionante; però in questo caso l’au-
dio non arriva né agli altoparlanti, né all’eventuale uscita di linea. Se l’audio non
arriva agli altoparlanti ma è presente nell’uscita di linea, dato che quest’ultima si
trova subito dopo il chip audio (ovvero a valle del suo buffer interno) si può rite-
nere che la scheda audio funzioni ma che guasto sia l’amplificatore BF che pilo-
ta gli altoparlanti o l’alimentatore DC/DC che lo alimenta, oppure che funzio-
nino male gli stessi altoparlanti. Invece, se il problema è nel buffer di uscita, l’au-
dio riprodotto risulta distorto.
Vediamo adesso quali sono i problemi riscontrabili in registrazione o acquisizio-
ne del segnale dall’ingresso di linea o microfonico: se l’audio viene distorto, è
responsabile il buffer d’ingresso, mentre se la periferica audio, pur essendo
installata correttamente e riconosciuta dal sistema, non acquisisce nulla, vuol
dire che è guasto il suo convertitore analogico/digitale.
In tutti i casi in cui siano coinvolti i convertitori ADC, DAC, i buffer interni, l’u-
nità logica o il bus dati del chip audio, bisogna sostituire quest’ultimo, che è facil-

262
Guasti dell'audio

mente individuabile perché è solitamente marchiato Analog Devices (ad esem-


pio AD1886 o altro che inizi con AD) Realtek, Creative o ALC ’97, CML,
Yamaha, Crystal oppure ESS. Comunque oggigiorno la gran parte dei notebook
monta, come chip audio, i prodotti della Realtek e della Analog Devices, men-
tre Yamaha, Creative ecc. sono costruttori che producono principalmente sche-
de audio separate per PC tradizionali o unità audio esterne su USB.
Bene, quando il guasto dipende dagli amplificatori esterni, bisogna individuare
questi ultimi, che solitamente sono piccoli chip a 8 contatti o poco più, posti
nelle vicinanze del chip audio o vicino ai connettori di ingresso e uscita BF. Gli
amplificatori che pilotano gli altoparlanti sono tipicamente dotati di una picco-
la aletta metallica con la quale sono fissati o saldati alla scheda madre; ciò li
rende facilmente riconoscibili.
Bisogna prestare attenzione al fatto che talvolta la periferica audio non funzio-
na o non riproduce i suoni perché può essersi guastato l’alimentatore DC/DC
che la alimenta o che alimenta l’amplificatore di potenza per gli altoparlanti; in
questo caso è d’obbligo verificare con il tester se il piedino di alimentazione del
chip audio e dell’amplificatore (potete verificare qual è questo piedino consul-
tando il data-sheet una volta che avete scoperto la sigla di tali componenti) rice-
ve la prevista tensione rispetto a massa (il contatto negativo di alimentazione,
corrispondente alle piazzole con i fori di fissaggio della scheda madre e alle parti
metalliche dei connettori).
Quando dalla scheda audio correttamente installata dal computer e riconosciu-
ta dal sistema operativo non esce segnale e collegando al jack una cuffia nulla
cambia, per capire se è guasto il convertitore D/A del chip o l’amplificatore
audio di segnale o di potenza, bisogna munirsi di oscilloscopio e portarne il
puntale sul piedino del chip audio corrispondente all’uscita del segnale; potete
individuare questo contatto procurandovi il data-sheet (Internet è prodiga di
questa documentazione: basta digitare la sigla, seguita da datasheet, del compo-
nente in Google o altro motore di ricerca) del componente e visualizzandone la
pin-out (disposizione dei piedini). Il contatto di massa del puntale deve andare

Figura 16.1 - Gli altoparlanti sono collocati in vari modi a seconda del notebook.

263
Capitolo 16

alla massa della scheda madre del notebook; l’oscilloscopio va impostato con
una base dei tempi a 1 o 0,5 ms/div e l’ampiezza a 0,1 V/div o poco più.
Avviando la riproduzione di un brano, se l’oscilloscopio mostra un segnale
variabile significa che il chip audio funziona e quindi occorre dedicare le proprie
attenzioni all’amplificatore che segue, sicuramente guasto. Un metodo empirico
per valutare se è guasto il convertitore D/A o se qualcosa non va nell’amplifica-
tore consiste nel riprodurre un CD audio; ma ciò funziona solo nei computer (i
fissi sicuramente e i notebook un po’ meno) in cui il CD-ROM ha l’uscita audio
e quest’ultima è collegata direttamente all’amplificatore. In tal caso, se è guasto
il convertitore digitale/analogico del chip audio i suoni di sistema o gli MP3 non
vengono riprodotti, mentre l’audio del Compact Disc sì.

Guasti degli altoparlanti


È molto raro, ma anche gli altoparlanti possono guastarsi; prima di vedere i rela-
tivi problemi conviene spendere qualche parola su come è fatto e come funzio-
na l’altoparlante.
L’altoparlante è un trasduttore che converte la corrente variabile in vibrazioni
dell’aria circostante e serve per riprodurre i suoni: pilotato da un segnale che
abbia frequenza compresa tra 20 e 20.000 Hz riproduce vibrazioni sonore.
Tipicamente negli apparecchi portatili e dove non occorra una riproduzione di
qualità nell’intera gamma delle audiofrequenze, si adotta un solo altoparlante,
generico. Nella riproduzione del suono ad alta fedeltà, ogni diffusore è formato
da più altoparlanti, ognuno dei quali si occupa di riprodurre una porzione della
banda passante (Woofer, Mid-range e Tweeter); questo perché un solo trasdut-

Figura 16.2 - Alcuni chip audio usati nei notebook: dall’alto a sinistra in senso orario,
Analog Devices, Realtek, Yamaha, CML, Crystal, ESS.

264
Guasti dell'audio

tore, per la propria struttura meccanica e acustica, non è in grado di rispondere


correttamente e uniformemente in tutta la banda delle audiofrequenze. Ad
esempio le casse esterne di qualità per i computer, hanno sovente due o tre alto-
parlanti. L’altoparlante vibra per effetto della corrente determinata dal segnale
applicatogli, corrente che dai due terminali fluisce nella bobina mobile; quest’ul-
tima è avvolta intorno all’espansione polare di un magnete permanente (un
tempo anche di un elettromagnete) il cui campo magnetico fa in modo che la
corrente di segnale faccia muovere la bobina. Dato che quest’ultima è rigida-
mente collegata alla membrana e che vibra a ritmo della corrente che l’attraver-
sa, nasce un suono della stessa frequenza del segnale audio.
Le caratteristiche più significative degli altoparlanti sono le seguenti:
 risposta in frequenza; indica come l’altoparlante si comporta entro lo spettro
di frequenze audio (20÷20.000 Hz) ed è solitamente è espressa con un grafico
che illustra la pressione sonora alla potenza di riferimento (tipicamente 1 watt)
misurata a 1 metro o a 50 cm di distanza dalla membrana; si esprime in Hz
(Hertz);
 frequenza di risonanza; è la frequenza alla quale l’impedenza elettrica rag-
giunge il massimo valore; si esprime in Hz;
 impedenza elettrica; è l’impedenza (espressa in ohm) misurata ai capi della
bobina alla frequenza di 1 kHz e non va confusa con la resistenza dell’avvolgi-
mento misurabile con un tester, che è sempre minore; gli altoparlanti da note-
book hanno impedenza che varia da 8 a 32 ohm;
 efficienza: è la pressione sonora esercitata ad una distanza convenzionale di
riferimento quando l’altoparlante viene pilotato da un segnale elettrico variabi-
le (di frequenza ben definita) che gli fa dissipare 1 watt di potenza; si esprime in
dB/w/m, ossia in dB misurati a 1 metro di distanza quando l’altoparlante dissi-
pa 1 watt;
 potenza nominale; è la potenza elettrica dissipabile senza limiti di tempo, in
funzionamento continuativo, con la bobina pilotata in corrente alternata;
 potenza musicale; è la potenza sopportabile facendo la media di tutto lo spet-
tro di frequenze riproducibili dall’altoparlante; è quella più usata (impropria-
mente) per definire gli altoparlanti da computer.

L’altoparlante ha una polarità che va rispettata quando si va a collegarlo all’usci-


ta dell’amplificatore; certo funziona anche invertendo i collegamenti, ma il

Figura 16.3 - Vista in sezione di


un altoparlante: la bobina mobile è
collegata rigidamente alla membra-
na (cono) che viene mantenuta in
sede dallo spider (anello di corru-
gato di centraggio) alla base e dal
proprio bordo superiore (corrugato)
all'esterno.

265
Capitolo 16

suono ottenuto viene rovesciato di fase, cosa che ha poca importanza se si ascol-
ta da un solo altoparlante ma dà fastidio nell’ascolto stereofonico o nei diffuso-
ri acustici formati da più altoparlanti. Il polo positivo (+) si collega al filo rosso
del cavetto (o a quello terminante sul positivo dell’amplificatore o del connetto-
re audio) ed il negativo va sul nero (- dell’uscita dell’amplificatore o del connet-
tore audio).
Sul retro del componente sono solitamente riportati i due dati essenziali: la
potenza e l’impedenza elettrica.
Nei notebook, soprattutto quelli sonorizzati con sistemi quali JBL, Bose o
Harman Kardon (che sono due importanti marchi di hi-fi) gli altoparlanti, sep-
pure minuscoli, riescono a fornire grande resa acustica, grazie alla chiusura in
piccoli box in grado di spegnere l’emissione posteriore (che annullerebbe quel-
la normale della membrana) o di convogliarla lateralmente per ottenere il fun-
zionamento bass-reflex e rinforzare le tonalità basse, che sono quelle più pregiu-
dicate dalle piccole dimensioini consentite agli altoparlanti dei notebook.
Bene, detto ciò si può vedere quali sono i guasti che possono interessare gli alto-
parlanti: il primo è la bruciatura della bobina mobile causata da un sovraccarico
elettrico, che può derivare da un eccessivo volume d’ascolto accompagnato da
forte distorsione. Va comunque detto che se il notebook è ben progettato, gli
altoparlanti sono dimensionati per sopportare questa condizione, ovvero per
una potenza maggiore di quella erogabile dall’amplificatore della periferica
audio; c’è però da tenere da conto l’effetto della distorsione, che può portare a
picchi di segnale capaci di mettere a dura prova la bobina mobile.
Un guasto del genere può anche verificarsi nel caso lo stadio alimentatore del-
l’amplificatore vada in avaria: in questo caso può fornire una tensione più alta di
quella ordinaria e quindi l’altoparlante viene comunque sottoposto a una poten-
za superiore a quella sopportabile, quindi si guasta; oppure un eccesso di tensio-
ne può far saltare l’amplificatore e quindi riversare sulla bobina mobile dell’alto-
parlante picchi di corrente, bruciando il filo che la compone.
Se c’è un guasto nell’alimentazione che danneggia l’amplificatore audio non si
sente alcun suono; invece se il salto di tensione è stato momentaneo o ha lascia-
to incolume l’amplificatore ma danneggiato l’altoparlante, l’ascolto manifesta
delle irregolarità.
In questo caso e in tutti quelli in cui il suono si può ascoltare perché l’amplifi-
catore e il chip audio funzionano, il problema principale che si manifesta negli
altoparlanti è che il surriscaldamento della bobina scioglie in parte lo smalto che
riveste il filo, riducendo l’isolamento e cortocircuitando alcune spire: ne deriva
una perdita di efficienza dell’altoparlante accompagnata da un “gracchiare”
durante la riproduzione dei suoi, dovuto sia al fatto che la riduzione dell’isola-
mento abbassa l’impedenza e quindi carica eccessivamente l’amplificatore audio,
sia alla carbonizzazione della carta che tipicamente fa da supporto alla bobina.
Per accertare ciò bisogna aprire il notebook, sconnettere i cavetti degli altopar-
lanti e, con un tester disposto sulla misura di resistenze (portate ohmetriche) leg-

266
Guasti dell'audio

gere la resistenza in continua della bobina, che in condizioni normali è almeno


l’80 % dell’impedenza dichiarata; quest’ultima la leggete sul retro dell’altoparlan-
te, dove normalmente viene stampigliata anche la potenza nominale (trovate eti-
chette o sigle stampate come 0,2 W - 16 W ecc.). Se la resistenza è molto mino-
re, è certo che la bobina si sia bruciata. In questo caso sostituite l’altoparlante o
gli altoparlanti guasti.
Se, malgrado la resistenza sembri a posto, il suono riprodotto continua ad esse-
re fortemente distorto, vuol dire che c’è un problema nell’amplificatore; per
dirimere il dubbio, collegate all’uscita audio una coppia di mini-casse o una cuf-
fia stereo e verificate come si sente l’audio; nel fare ciò accertatevi che l’uscita
audio del notebook sia amplificata, ovvero provvista di amplificazione per pilo-
tare carichi a bassa (8÷32 ohm) impedenza, altrimenti se si tratta di un’uscita di
linea ad alta impedenza vi tocca usare delle casse da computer, ma amplificate.
Diversamente sentite l’audio debole e distorto.
Oltre che per cause elettriche, gli altoparlanti possono danneggiarsi a causa di
una forte sollecitazione meccanica, dovuta alla caduta del notebook o alla pene-
trazione di un oggetto appuntito o allo sfondamento della parete su cui sono
montati gli altoparlanti, magari a seguito di un urto violento. Tali sollecitazioni
possono portare a vibrazioni causate dal distacco meccanico dell’altoparlante o
distorsioni causate dalla lacerazione della membrana dei trasduttori.
Va detto che molti altoparlanti, anche quelli da computer, hanno la sospensio-
ne della membrana in morbida schiuma sintetica, la quale con l’andare del
tempo, col calore e il clima asciutto, tende a seccarsi e rompersi; quindi se gli
altoparlanti del computer iniziano a gracchiare dopo un certo numero di anni
(se il notebook è un po’ vetusto, insomma...) non è da escludere che si siano
lacerate le sospensioni, Anche in questo caso il rimedio consiste nel sostituire
gli altoparlanti.

Il microfono
È un trasduttore che trasforma le vibrazioni dell’aria componenti il suono in
una tensione o in una variazione di corrente elettrica del circuito in cui si trova.
Allo scopo è costruito in modo da rilevare le vibrazioni acustiche, quindi dispo-
ne di una membrana, affacciata all’esterno direttamente o tramite dei fori o una
sottile griglia, meccanicamente connessa a un avvolgimento elettrico, a un mate-
riale piezoelettrico, a del carbone (o altro che sollecitato meccanicamente pro-
duce effetti elettrici) o a piastre metalliche.
Il microfono è un trasduttore analogico, nel senso che il segnale elettrico da esso
ricavato varia in frequenza e in ampiezza in analogia con le vibrazioni acustiche
trasmesse dall’aria. Il tipo di segnale che si può prelevare da un microfono
dipende dal fatto che il trasduttore sia attivo o passivo: attivo significa che gene-
ra una tensione e, se collegato a un carico (resistenza) una corrente elettrica; pas-
sivo vuol dire che le vibrazioni sonore producono in esso una variazione di resi-
stenza, che può tradursi in variazione di tensione o corrente solo alimentando il
267
Capitolo 16

trasduttore con una pila o un alimentatore.


Di microfoni ne esistono vari tipi, ognuno nato in un certo periodo e contrad-
distinto da proprie prerogative; nei computer portatili viene generalmente utiliz-
zato quello ad electret-condenser, perché di piccole dimensioni, robusto, fedele
e alimentabile a bassa tensione.
L’electret-condenser è uno speciale microfono a condensatore: in esso la mem-
brana vibrante che si muove a causa della pressione esercitata dalle onde sono-
re, sposta leggermente una piastra metallica che si trova parallela ad un’altra
uguale, però fissa. Applicando una differenza di potenziale tra le due piastre (o
armature) si assiste a un trasferimento di carica elettrica da quella negativa a
quella collegata al polo positivo del generatore che dà l’alimentazione; in condi-
zioni di riposo, una volta assestata la carica non scorre alcuna corrente elettrica.
Invece, quando il microfono capta delle vibrazioni acustiche lo spostamento di
una delle piastre determina una variazione nella distanza dall’altra e quindi un
nuovo trasferimento di carica elettrica.
Siccome quando si sposta una certa quantità di carica si verifica una corrente,
collegando una resistenza in serie al microfono e alla batteria che lo alimenta si
verifica un segnale elettrico che varia in analogia con l’andamento delle onde
sonore captate.
L’electret-condenser è un microfono a condensatore dove una delle armature
viene caricata elettricamente mediante uno speciale processo produttivo che
permette di elettrizzarla permanentemente. Di solito l’armatura elettrizzata è
rivestita di uno speciale materiale plastico. Scopo dell’elettrizzazione è fare in
modo che il microfono abbia già un proprio campo elettrico e non richieda
quindi polarizzazione esterna. Siccome non può erogare corrente, questo micro-
fono è solitamente abbinato a un transistor ad effetto di campo, integrato nel
suo stesso contenitore; è applicato al gate e il source del jFET, quindi non deve
(e comunque non potrebbe) erogare alcuna corrente, ma, piuttosto, intervenire,
con il proprio segnale, sulla polarizzazione. Il transistor lavora nella configu-
razione open-drain e richiede un resistore di polarizzazione del valore di alcuni
kohm. La tensione di alimentazione delle capsule electret è compresa fra poco
più di 3 e 9 volt, mentre l’impedenza di uscita, adattata dal transistor, è di circa
600 ohm.

Figura 16.4 - Schema elettrico del


microfono electret-condenser, che
è quello comunemente utilizzato
nei notebook.

268
Guasti dell'audio

La capsula electret si presenta sotto forma di un cilindro e, per le sue ridotte


dimensioni (tra 1 cm e 3 mm di diametro) è il microfono prediletto per le
apparecchiature in miniatura (registratori portatili, microfoni da taschino,
microspie). In commercio si trovano capsule a due e tre fili: nelle prime il tran-
sistor è un open-drain e il terminale positivo è sia l’uscita che il punto cui colle-
gare la resistenza di alimentazione; nelle seconde l’uscita è distinta dal +, che è
il contatto cui collegare la resistenza di alimentazione dell’amplificatore interno,
formato da uno o più transistor.

Guasti del microfono


Il microfono del computer fa capo all’ingresso della scheda audio, ovvero del
convertitore analogico/digitale di quest’ultima, al quale è sovente accoppiato
mediante un amplificatore di tensione ad operazionali. Se si guasta, non è pos-
sibile né registrare suoni da essa mediante la scheda sonora, né effettuare con-
versazioni telefoniche via Internet in VoIP; l’impossibilità di usare il microfono
può anche dipendere da un guasto dell’amplificatore operazionale che ne ampli-
fica il segnale, ma ciò è molto raro e comunque non è facile distinguere quale
dei componenti determina il problema. Per capirlo occorre dotarsi di oscillosco-
pio e, collegando il puntale della sonda sul positivo della capsula e la massa alla
massa del computer o al negativo della stessa capsula microfonica, verificare
cosa accade parlando; se il microfono fornisce il proprio segnale l’oscilloscopio
mostra l’onda corrispondente. Nel caso invece sia guasto il microfono, nello
schermo dello strumento non appare nulla.
Se il microfono funziona ma non si riesce a registrare o a conversare al telefo-
no, bisogna individuare l’operazionale che amplifica il segnale del microfono,
procurarsi il suo data-sheet e puntare la sonda dell’oscilloscopio alla sua uscita
(ovvero all’ingresso audio del chip della scheda sonora, anche questo rintraccia-
bile con il data-sheet corrispondente) per vedere se c’è segnale. Qualora non si
registri alcuna componente audio malgrado ai capi del microfono ci sia, è gua-
sto l’amplificatore.
Notate che trattandosi di deboli segnali, l’oscilloscopio deve funzionare con una
sonda x1 e ampiezza verticale impostata sul minimo possibile, ovvero su 0,1
V/div. La base dei tempi dev’essere congrua con la banda audio occupata dalla
voce: va bene 1 ms/div.
Il microfono viene solitamente sistemato nell’involucro dello schermo del por-
tatile, ragion per cui per sostituirlo bisogna smontare il monitor o quantomeno
asportare la parte frontale del suo involucro; se il microfono di ricambio viene
fornito completo di cavetto, bisogna smontare anche la parte superiore della
base del notebook e la tastiera, fino a raggiungere la connessione del cavo sulla
scheda madre.
Nei notebook in cui il microfono è sulla base, c’è meno lavoro da fare: occorre
rimuovere la parte superiore del guscio della base o l’eventuale sportello da cui
si accede al microfono.
269
Capitolo 16

Figura 16.5 - Basetta di un note-


book sulla quale sono alloggiati i
jack dell'audio (uscita per casse,
uscita di linea e ingresso di linea) e
alcuni componenti stadi di amplifi-
cazione; in computer che hanno i
connettori su una scheda a parte
la sostituzione degli stessi è più
agevole.

Danneggiamento dei jack


Può capitare che forzando uno spinotto a lungo andare si deformino, rompano
o dissaldino le prese jack; in questo caso è conveniente sostituire queste ultime
con modelli adatti, che fortunatamente sono facilmente reperibili anche nei
comuni negozi di componenti elettronici perché standardizzate (salvo eccezio-
ni, s’intende). Per rimuovere i jack bisogna smontare la base del notebook e rag-
giungere la scheda dove sono montati fino ad accedere al lato delle saldature; i
jack sono solitamente sulla scheda madre, ma talvolta si trovano su altre picco-
le schede che ospitano altre connessioni, quali l’alimentazione, la presa telefoni-
ca del modem ecc. In questo caso la riparazione è più semplice perché basta
estrarre la scheda e provvedere alla sostituzione, quindi rimetterla al proprio
posto e rimontare il notebook, senza interessare la scheda madre.
Smontare i jack dell’audio non è semplice come sembra, almeno se questi sono
del tipo con schermo metallico e tanti contatti; ciò perché i piedini sono molto
sottili e i fori dello stampato che li ospitano, piuttosto stretti. Operare con il dis-
saldatore non sempre permette di asportare tutta la lega saldante che serve ad
estrarre il jack in maniera pulita bisogna ripetere la manovra più volte, magari
sciogliendo del nuovo stagno quando il succhiastagno fatica ad aspirare.
Dato che le piste sono piuttosto delicate, occorre molta attenzione e bisogna
evitare di forzare i jack mentre li si estrae, altrimenti è facile asportare insieme ai

Figura 16.6 - Il jack a destra in


questa basetta nasconde dei LED:
sono i trasmettitori della porta a
infrarossi, il cui ricevitore è a sini-
stra, ma distinto.

270
Guasti dell'audio

Figura 16.7 - I jack dell'audio sono usualmente


collocati sul lato del notebook o frontalmente; nel-
l’estrarre gli spinotti occorre tirare senza flettere,
altrimenti è facile danneggiare o strappare le
prese, che solitamente hanno l’involucro in plasti-
ca e sono dbolmente ancorate alla scheda madre
solo mediante i terminali dei contatti.

contatti la metallizzazione dei fori e distruggere così il collegamento che soven-


te essa realizza tra piste delle due o più facce del circuito stampato.
Nello smontare i jack dell’audio bisogna prestare attenzione al fatto che in alcu-
ni portatili uno nasconde dei LED: è il caso di quello di cui la Figura 16.6 illu-
stra la basetta che ospita i jack, dove quello a destra in fondo è aperto e dà acces-
so a dei LED, che sono i trasmettitori di infrarossi della porta IR.

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