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Orazio, “Ibam forte via sacra” (I, 9): traduzione, metrica, analisi

Riassunto
Nella celeberrima “satira del seccatore” (Satire, I, 9) Orazio descrive il suo incontro con un
tipico arrampicatore sociale molesto, “spaccone” e meschino: mentre il poeta passeggia per
la via che dal Foro sale al Campidoglio, gli si avvicina una persona di cui conosce a mala
pena il nome e che si presenta come un letterato e aspirante poeta (v. 7). Dopo pochi
convenevoli, Orazio cerca di liberarsi di questa scomoda compagnia, dapprima mostrandosi
indaffarato (vv. 8-10), poi fingendo di andare a trovare un amico malato al di là del Tevere
(vv. 16-18). Tutto però si rivela inutile: il seccatore intuisce chiaramente (vv. 14-16) le
intenzioni del poeta e si mostra pronto a seguire unOrazio ormai rassegnato. Al v. 21
l’interlocutore inizia a magnificare le proprie doti artistiche, sostenendo di essere in grado di
comporre velocemente molti versi, di saper ballare con grazia e di cantare in modo
straordinario: egli si sente perciò superiore sia a Visco e Vario, due personaggi del circolo di
Mecenate, sia al noto cantante Ermogene.

Orazio tenta a questo punto (v. 24) di interromperlo e fa riferimento ai parenti del seccatore:
il motivo esatto di questa menzione ci sfugge, ma possiamo ipotizzare che il poeta esorti
l’uomo a non elencare tutte queste invidiabili qualità, se vuole evitare di incorre nell’invidia
degli dei e tornare al più presto - come forse implicitamente si augura Orazio? - sano e salvo
dai suoi. Ma anche questa volta va male: la risposta disarmante del seccatore (v. 28: “omnis
composui”, ovvero, con humour nero, “li ho seppelliti tutti”) rafforza l’idea che egli non abbia
proprio nulla da fare e che a casa non lo attenda nessuno; potrà perciò dedicarsi totalmente
al nostro povero poeta. Con ironia Orazio riferisce ora al lettore (v. 29) le parole che una
vecchia fattucchiera, che egli inventa di aver conosciuto durante l’infanzia nella sua terra
natia, aveva pronunciato profetizzando la sua morte: essa sarebbe stata causata per
l’appunto da un garrulus, cioè un chiacchierone. I due arrivano intanto, tra le nove e le dieci
del mattino, nei pressi del tempio di Vesta (v. 35). Il seccatore dovrebbe recarsi a questo
punto in tribunale e chiede a Orazio di fargli da advocatus; sperando di liberarsi una volta
per tutte dell’inopportuno compagno, il poeta rifiuta, sostenendo di non esserne in grado.
Dopo un attimo di incertezza, però, l’interlocutore decide di abbandonare il processo e di
continuare a seguire il poeta.

È solo adesso (v. 43) che il seccatore rivela il motivo della sua insistenza, cioè il desiderio di
essere presentato a Mecenate. Egli, però, ha un’idea completamente distorta dei rapporti
esistenti all’interno di questo circolo di amici: questi, infatti, non si basano su favoritismi e
adulazione, come gli fa notare Orazio in uno scambio serrato di battute, ma sulla sincerità e
l’onestà. Ecco comparire ora (v. 60) sulla scena Aristio Fusco: questi, al quale Orazio fa
immediatamente capire la situazione tramite occhiate e gesti disperati, ne approfitta per
prendersi gioco dell’amico e lo lascia in balia del seccatore. Quest’ultimo però è trascinato in
tribunale dal suo avversario, apparso quasi d’incanto sulla scena. Il poeta è dunque libero.

Commento
Orazio in questa satira riesce in maniera magistrale a riprodurre la freschezza e la
spontaneità di un vero dialogo: il discorso è spezzato - capita spesso che all’interno dello
stesso esametro ci sia posto per entrambi gli interlocutori - e le interruzioni e gli incisi sono
frequenti; il lessico è colloquiale (i diminutivi, per esempio, hanno una valenza a volte
ironica, a volte affettiva); la sintassi è semplice e presenta sia costrutti poco ortodossi (es.
“nil habeo quod agam”, v. 19; “accendis quare”, v. 53) sia numerose costruzioni ellittiche,
tipiche del parlato (come al v. 5 o al v. 43). Anche la retorica e la metrica contribuiscono a
riprodurre il ritmo “a scatti” del dialogo: si pensi, per esempio, all’uso dell’asindeto e degli
infiniti descrittivi dei vv. 9-10, alle frasi nominali dei vv. 77-78, ai frequenti monosillabi alla
fine dell’esametro. Non mancano momenti in cui lo stile si fa più sostenuto, come nel caso
della profezia della vecchia (vv. 31-34) o del secondo emistichio dell’ultimo esametro (sic me
servavit Apollo): tuttavia l’inserzione di questi versi non fa altro che aumentare la comicità
dell’intero brano.

Non a caso lo studioso Antonio La Penna ha sostenuto che questa satira è “un mimo
vivacissimo e mobilissimo: nessuna mossa, nessuna parola superflua: l’arte oraziana non ha
mai avuto tanta rapidità e tanta misura insieme. Né si creda, solo perché qui mancano non
solo discussioni morali, ma anche semplici riflessioni morali intercalate, che qui abbiamo una
pura farsa […]: il pregio della satira non è nella forza comica, ma nella finezza, nella
ricchezza di sfumature, con cui sono tratteggiate le scene, svolti i dialoghi, illuminati nella
loro psicologia i personaggi. Il mimo si svolge tutto sotto un sorriso di ironia e rassegnazione
insieme: […] la vena comica è, insomma, di maturo umorismo” 1.

Traduzione

Metrica: esametri

Mi trovavo a passeggiare per la via Sacra, come è mia abitudine,


pensando a non so quali sciocchezze, tutto immerso in quelle.
Mi corre incontro un tale, a me noto solo di nome, e, afferratami
la mano, [dice]: “Come stai, tu che sei il più caro al mondo?”.
“Magnificamente, almeno per ora - dico - e ti auguro tutto ciò che vuoi”.
Poiché continuava a seguirmi, lo prevengo: “Non vuoi niente altro, no?”.
Ma quello dice: “Dovresti conoscermi, sono un letterato”. A questo punto
io dico: “Tu sarai per me più di questo”. Cercando disperatamente
di allontanarmi, procedevo ora più velocemente, talvolta mi fermavo,
dicevo non so che cosa nell’orecchio al mio schiavetto, mentre il sudore
mi colava fino ai talloni. “Felice te, o Bolano, per la tua testa calda!”,
dicevo tra me e me, mentre quello starnazzava di tutto e di più,
e lodava le vie e la città. Siccome non gli davo
nessuna risposta, “tu brami disperatamente - dice - di andartene:
lo vedo da un po’; ma non ti serve a niente: ti starò appiccicato fino alla fine;
ti seguirò passo passo. Da qui dove vai?” “Non è per nulla necessario che
tu sia costretto a girare tanto: voglio visitare a un tizio che non ti è noto;
giace malato lontano, al di là del Tevere, vicino ai giardini di Cesare”.
“Non ho niente da fare e non sono pigro: ti seguirò tutto il tempo”.
Abbasso le orecchie, come un asinello dall’animo rassegnato
quando si sobbarca sul dorso un carico alquanto pesante. Quello inizia:
“Se ben mi conosco, non stimerai di più come amico né Visco
né Vario: chi, infatti, sarebbe in grado di comporre un numero maggiore
di versi o di farlo più velocemente? Chi è capace di danzare
più mollemente? Canto in modo tale che persino Ermogene mi invidierebbe”.
Qui era tempo di interromperlo: “Hai una madre,
dei parenti che hanno bisogno che tu ti mantenga in salute?” “Nessuno.
Li ho sotterrati tutti”. “Beati loro! Ora rimango solo io.
Finiscimi; infatti incombe su di me un triste destino, che una vecchia sabella
mi predisse, quando ero ragazzo, dopo aver agitato la sua urna profetica: “Costui non lo
porteranno via né crudeli veleni né la spada nemica,
né il dolore ai fianchi né la tosse e nemmeno la gotta che fa camminar lento;
sarà un chiacchierone che prima o poi lo consumerà: se ha senno,
eviti le persone loquaci, non appena l’età sarà diventata adulta”.
Si era giunti al tempio di Vesta, passata ormai la quarta ora del dì, e per caso
allora [quello] doveva presentarsi in tribunale, avendo offerto una garanzia,
e se non l’avesse fatto avrebbe perso inevitabilmente la causa.
“Se mi vuoi bene - dice - assistimi un po’ qui”. “Che io possa morire se
ho la forza di stare in piedi o se conosco il diritto civile;
e mi affretto dove sai”. “Sono in dubbio su che cosa fare - dice -
se abbandonare te o la causa”. “Me, ti prego”. Ma quello: “Non lo farò”,
e iniziò a precedermi; io, visto che è difficile tener testa
a chi vince, lo seguo. “Come va tra te e Mecenate?”,
riprende. “[Persona] di poca compagnia e di testa ben funzionante”.
“Nessuno si è servito più felicemente della sorte. Avresti
un valido aiuto che potrebbe sostenere il ruolo di spalla,
se volessi presentargli quest’uomo: possa io morire se non è vero che
avresti soppiantato tutti”. “Lì non viviamo in quel modo
in cui pensi: nessuna altra casa è più pura
né più lontana da meschinità di questa; non mi importa - ti assicuro - che questo sia più ricco
o più dotto; ciascuno ha il proprio ruolo”.
“Tu mi racconti una cosa grandiosa, a stento credibile”. “Eppure
è così”. “Mi infiammi a desiderare ancora di più
di essergli vicino”. “Purché tu lo voglia: con le capacità che hai,
lo conquisterai: ed è un uomo tale da poter essere vinto e proprio
per questo rende difficili i primi approcci”. “Non verrò meno a me stesso:
corromperò gli schiavi con dei doni; se oggi sarò lasciato fuori di casa,
non mi arrenderò; cercherò i momenti opportuni, gli andrò incontro
agli incroci, lo accompagnerò. La vita senza grande fatica
non concede niente ai mortali”. Mentre discute di queste cose, ecco
che mi viene incontro Fusco Aristio, a me caro e tale
da conoscere bene quello. Ci fermiamo. “Da dove vieni e
dove vai?”, chiede e risponde [a sua volta]. Cominciai a tirarlo,
ad afferrare con la mano le braccia inerti, facendogli cenni con la testa,
storcendo gli occhi, perché mi strappasse via [da quello]. Spiritoso
a sproposito, faceva finta di niente ridendo; la bile mi bruciava il fegato.
“Dicevi di voler discutere di non so che cosa in segreto
con me”. “Ricordi bene, ma te lo dirò
in un momento più opportuno; oggi è il trentesimo sabato: vuoi forse
oltraggiare gli Ebrei circoncisi?”. “Io” – dico – “non ho
nessuna superstizione”. “Ma io sì: sono un po’ più debole [di te], uno
tra molti. Mi perdonerai, te lo dirò un’altra volta”.
Che mi sia sorto un giorno tanto nero! Il furfante se la svigna e mi
lascia sotto tiro. Ma per caso gli viene incontro
l’avversario ed esclama a gran voce:
“Dove vai, sciagurato?” e “posso prenderti come testimone?”. Ed io
gli porgo l’orecchio. Lo trascina in giudizio; urla da tutte le parti,
da tutte le parti un accorrere. Così mi ha salvato Apollo.

Analisi
forte: significa letteralmente “per caso”; tuttavia l’espressione successiva (“sicut meus est
mos”) spinge a credere che qui l’azione sia occasionale, non certo casuale.

3 arreptaque manu: è un segno dell’invadenza del “seccatore”, in quanto nella cultura


romana non era abitudine salutarsi stringendosi la mano..

4 dulcissime rerum:indica propriamente, in modo colloquiale, “il più caro tra le cose”. È
un’espressione tipica del sermo cotidianus.

5 et cupio omnia quae vis: si tratta di una formula convenzionale di augurio nell’oralità, che
sottolinea la situazione dialogica e comune in cui Orazio si ritrova, suo malgrado“.

6 noris: forma sincopata di noveris (da nosco, nosci, novi, notum, noscere, “accorgersi,
venire a conoscenza, essere informato”), è congiuntivo perfetto indicante la probabilità (si
ricordi che novi è un cosiddetto perfetto logico con valore di presente); “nos” è un ridicolo
plurale maiestatis.

7 ire: come i successivi “consistere”e “dicere”, sono infiniti descrittivi che vanno tradotti con
l’indicativo imperfetto. Sulla pagina, questa serie traduce bene le mosse concitate con cui
Orazio prova, senza speranza, a liberarsi del fastidioso compagno.

8 ad imos [...] talos: l’iperbato, tipico di uno stile alto ed elevato, stride efficacemente con il
contesto ordinario e quotidiano in cui è inserito e con le preoccupazioni di Orazio che, con
iperbole, lo fanno sudare senza sosta.

9 La figura di Bolano non ci è altrimenti nota, ma intuiamo che egli fosse famoso per la sua
iracondia e suscettibilità. Da notare che “felix” regge stranamente un genitivo, che è da
considerarsi più di limitazione che di causa.

10 Gli horti Caesaris furono lasciati in eredità alla plebe romana da Giulio Cesare e si
trovavano alle pendici del Gianicolo, un miglio oltre il Tevere. Rispetto al Foro, si trovavano a
quasi un’ora di cammino (anche se ciò non farà desistere il “seccatore”).

11 asellus: come il precedente “auriculas”, è diminutivo tipico della lingua parlata.


12 Visco e Vario fanno parte con Orazio del circolo di Mecenate: il primo è uno dei due figli
del cavaliere Vibio Visco; il secondo, Vario Rufo, è un poeta epico e tragico, incaricato da
Augusto di pubblicare l’Eneide dopo la morte di Virgilio.

13 Il seccatore tenta di accattivarsi il favore di Orazio, ma non sa che il poeta ama i


componimenti brevi e sottoposti al labor limae, oltre a condannare canto e danza, che
ritiene degni di bellimbusti effeminati (come dice ad esempio in Sermones, II, 1, v. 24).
L’effetto delle sue parole è dunque, involontariamente, comicissimo.

14 quis: sta per “quibus” ed è arcaismo abbastanza frequente in poesia. Il dativo è retto da
“opus est”.

15 La “Sabella” nominata da Orazio doveva essere una sorta di fattucchiera che si serviva
probabilmente di un’urna divinatoria da cui estraeva laminette di bronzo dal significato
ambiguo. I Sabelli erano una popolazione dell’Appennino centromeridionale, vicino a
Venosa, città natale del poeta; si trattava di una terra celebre appunto per le sue streghe. Il
passo è parodico, in quanto intessuto di iperbati e enjambements tipici di uno stile elevato di
tono drammatico.

16 laterum dolor: in quest’espressione, si può ravvisare la pleurite, un’infiammazione


polmonare.

17 La podagra, detta anche gotta, è una malattia metabolica, che si caratterizza per dolorosi
attacchi (dolori, arrossamenti e gonfiori) di artrite che colpisce le articolazioni del corpo. È
qui definita “tarda” (cioè “lenta”) perché associata all’età avanzata in cui sopraggiunge e alla
mobilità limitata che ne consegue.

18 quando […] cumque: è una tmesi per quandocumque, che significa “una volta o l’altra”.

19 ad Vestae (sottointeso, templum): il tempio di Vesta si trovava nel Foro, vicino al tribunale
del pretore (dove si tiene la causa che vede coinvolto il “seccatore”) e al tempio dei Dioscuri.

20 Ablativo assoluto di vadari (vador, vadaris, vadatus sum, vadari, “presentare garanzia,
citare i giudizio”). In realtà, chi non si presentava al processo per cui aveva presentato
cauzione perdeva la cauzione, non il processo. Solo successivamente, se l’assenza era
recidiva, il pretore giudicava in contumacia a favore dell’avversario. Il comico nasce qui dal
fatto che Orazio utilizza volutamente una terminologia tecnico-giuridica.

21 Il seccatore chiede ad Orazio di assumere il ruolo di advocatus, un assistente morale


durante il processo, non di difensore (per cui invece si usa il termine patronus oppure
orator).

22 valeo stare: nel corso del processo, era tassativo rimanere in piedi, spesso per molte ore.

23 rem: qui indica la causa in cui il “seccatore” è coinvolto


24 sodes: è forma contratta di si audes, un’espressione colloquiale per “se ti pare, per
favore”.

25 Ablativo retto dal verbo utor, uteris, usus sum, uti.

26 Orazio fa qui ricorso al lessico tipico dell’ambiente teatrale: “adiutor” e “ferre secundas”
(sott. partes) fanno riferimento al deuteragonista, cioè colui che aiuta il protagonista
nell’impresa da compiere.

27 summosses: è forma sincompata per summovisses, congiuntivo piuccheperfetto che qui


è protasi del periodo ipotetico; “omnis” è arcaismo per omnes (accusativo plurale), frequente
in poesia
28 Forma arcaica per reris, seconda persona singolare.

29 Ablativo di paragone.

30 quae tua virtus (sottointeso est tibi): “con il valore che hai”.

31 velis [...] virtus [...] vinci: pur in un contesto dialogico, Orazio non rinuncia agli effetti
retorici; si noti qui l’allitterazione della - v -.

32 deero: è bisillabico a causa della sinizesi di dee-.

33 Massima dal sapore sapienziale che risulta ridicola in bocca al seccatore.

34 Amico di Orazio e di Mecenate, grammatico e autore di commedie, è dedicatario di


un’ode (I, 22) e di un’epistola (I, 10).

35 nosset: congiuntivo (= novisset) con valore consecutivo.

36 vin: sta per visne, seconda persona del verbo volo (volere), cui si aggiunge la particella
enclitica interrogativa -ne.

37 La battuta è di difficile interpretazione: “Aristio sembra confondere due diverse festività, il


‘sabato’ settimanale degli Ebrei e il ‘trentesimo giorno’ del ciclo lunare, corrispondente alla
luna nuova, sacro a molti popoli antichi, fra cui i Romani (per questo alcuni editori scrivono
tricesima, sabbata, separando le due espressioni). Alcuni pensano che il ‘trentesimo sabato’
fosse una designazione della Pasqua ebraica; ma potrebbe trattarsi solo di una festività
inventata, un’espressione ridicola di sapore iperbolico” (G. B. Conte, E. Pianezzola, Corso
integrato di letteratura latina, vol. III, Le Monnier, Firenze 2004, p. 228). Il termine “curtis”
allude alla pratica della circoncisione.

38 surrexe: è forma sincopata per surrexisse, qui infinito con funzione esclamativa.

39 La seconda domanda è rivolta ad Orazio.

40 Secondo un gesto rituale al testimone viene toccato il lobo dell’orecchio, ritenuto sede
della memoria. Si vede qui la procedura della cosiddetta manus iniectio: di fronte a un
testimone recalcitrante, lo si poteva condurre a forza in tribunale, con l’unica condiizone
della presenza di un testimone. Orazio ovviamente e ben felice di prestarsi a tale pratica,
dato che così si libererà del “seccatore”.

41 Sic me servavit Apollo: anche nella “chiusa” finale, modellata sullo stile serio dell’epica
(ad esempi, troviamo la formula quasi identica in Iliade, XX, 443-444, dove Apollo salva
Ettore dalla furia di Achille), non manca una nota ironica: solitamente infatti l’intervento
divino era il deus ex machina che risolveva le vicende di eroi famosi e nobili; qui, più
prosaicamente, è ciò che permette a Orazio di liberarsi da un insopportabile pidocchio.

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