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D' Annunzio, tiranno del piacere tradì il fuoco che consumò la Duse

Dagli innamoramenti fatali ai legami infelici, dalle illusioni ai grandi tradimenti. Gli intrighi
sentimentali dell' attualità, della storia e della cultura rivisitati in forma di racconto da saggisti,
scrittori e famosi giornalisti
D' Annunzio, tiranno del piacere tradì il fuoco che consumò la Duse di DACIA MARAINI Sono famosi e amati dal pubblico quando si incontrano. Lui ha 32 anni, «È
piccolo - scrive Gide - da lontano la sua figura parrebbe ordinaria o già nota: non c' è nulla in lui che ostenti letteratura o genio. Porta una barbetta a punta di un biondo
pallido e parla con voce nitida un po' gelida, ma morbida e quasi leziosa. Ha uno sguardo freddo, forse un po' crudele ma probabilmente è l' apparenza della sua delicata
sensualità a farmelo apparire tale.» Lei è più alta, ha una bella testa gonfia di capelli castani, un sorriso timido, due occhi intensi e malinconici. È già considerata la più
grande attrice italiana di teatro, e viene invitata in tutte le parti del mondo, da New York a Buenos Aires, da Berlino a Madrid. Sembra un incontro caduto a fagiolo nel
piatto della vita. Lui ha appena finito di comporre il suo primo testo teatrale, La città morta, e sta cercando una interprete degna dell' opera. «Il mio vago e lungo sogno
di dramma fluttuante s' è alfine concretizzato», scrive al suo traduttore francese Georges Hérelle. «Ora spero di poter finalmente tradurre in forme materiali il mio
sogno di una tragedia moderna.» Lei è una attrice intelligente e umile, e sebbene cominci a sentire dentro di sé la tisi che incalza, o forse proprio per questo, è alla
ricerca di un nuovo grande amore e contemporaneamente di nuove esaltanti esperienze teatrali. Il repertorio tradizionale l' ha stancata. Girare per il mondo da sola l' ha
stremata. La vita le appare dolorosa e solitaria. Si incontrano all' Hotel Danieli di Venezia ma si parlano appena. Lui appare interessato all' arte di lei, si prodiga in
cerimonie galanti, come al solito e la riempie di complimenti. Lei si mostra subito affascinata dal meraviglioso dono linguistico di lui. D' altronde il mondo espressivo di
una attrice è fatto di parole e D' Annunzio è uno straordinario incantatore. Il giorno appresso si separano, per reincontrarsi qualche mese dopo a Firenze, all' Hotel De
Russie. Qui scoppia l' amore, e i due si scambiano i primi baci nei salotti fioriti dell' albergo fiorentino. Ma non fanno in tempo a dormire una notte insieme che già lui
parte per Pescara e lei per una tournée nel Nord Europa. Le lettere avranno una parte importante nel loro amore, visto che staranno ben poco insieme, perfino quando
decideranno di andare a vivere insieme alla Capponcina. Peccato che le lettere di lui si siano perse, pare bruciate dagli eredi della Duse dopo la morte della diva. Quelle
di lei invece sono rimaste e stupisce che giacciano ancora inedite nell' archivio del Vittoriale. Sono lettere infantili, spesso sgrammaticate, come di qualcuno a cui il
pensiero corra più veloce della mano e l' inchiostro fatichi a tenere dietro agli affanni, ai colpi di tosse, all' ansia notturna. «Je vous ecrit à Pescara trop souffrant de
votre silence, j' ai telegraphiè la bas, je suis triste à mourir, ma vie est trop dur et vous ete loin, je vous parle moi continuellment». Già dalle prime note si capisce che il
rapporto fra il grande poeta e la magnifica attrice è nato zoppo. Le parti sembrano stabilirsi subito, con perfetta disuguaglianza, come in teatro: lei è l' amante fedele,
sollecita, generosa che aspetta fremendo il ritorno dell' uomo desiderato e lui è l' amato che ricambia l' amore ma solo a momenti e quando piace a lui, che scappa e non
si sa mai per dove, si dedica ad amici che non le fa conoscere, coltiva amicizie femminili di cui Ghisola, come la chiama lui, non dovrà sapere. «Dove vai?» chiede lei,
vedendolo montare a cavallo. «Sempre alla ventura», risponde lui . «Ma da che parte?», «Non dimandare», è la risposta laconica e perentoria. «Per la via vecchia
fiesolana», racconta poi lui nel suo Libro Segreto: «Scendevo al cancello di una villa chiusa in bossoli esatti dove m' attendevano le due sorelle suonatrici di virginale e di
liuto, esperte in giochi perversi... Rientravo dopo tre ore, impaziente. Dal viale chiamavo l' unica mia compagna, gridavo l' amore col più tenero dei nomi: Ghisola,
Ghisolabella! Gettando la briglia balzavo su la ghiaia. Ghisola! ero folle di lei, oblioso, incolpevole. L' infedeltà fugace dava all' amore una novità inebriante: la sovrana
certezza. "Ghisola, Ghisola, ti amo, ti amo, e per sempre te sola"». Possiamo immaginare la bella Ghisola, ovvero Eleonora Duse, che ha aspettato per ore alla finestra,
tormentata dai dubbi e ora si sente abbracciare e baciare con impeto. Cosa pensare? La immaginiamo felice di quell' abbraccio, e poi di nuovo squarciata dai dubbi una
volta scoperto che l' amato porta addosso dei profumi sconosciuti e sospetti. La immaginiamo sola, allo specchio, che si scruta il viso chiedendosi se non saranno quei
piccoli segni del tempo (ha cinque anni più di lui) le responsabili delle distrazioni erotiche di lui. Senza considerare che il giovane fauno ha fatto e farà sempre così:
considera un suo diritto corteggiare tutte le donne, e fin da giovinetto ha teorizzato pubblicamente l' infedeltà: «Non v' è menzogna sillabica più confusa e più diffusa di
questa: la fedeltà. Ha il suono scenico delle false catene Non v' è coppia fedele per amore. Io sono infedele per amore, anzi per arte d' amore quando amo a morte».
Eleonora lo sa ma non lo giudica con severità, non gli rimprovera nulla. Tende piuttosto a colpevolizzarsi, come spesso fanno le donne e nelle fughe di lui cerca di
scoprire la ragione di una sua mancanza: «Perdonami anche questo: cioè di sentire solamente la mia gioia quando ti sono vicina, poichè gioia io a te non so darne. Io
sono la tua poveretta». Spesso la «poveretta» attribuisce lo scacco alla sua infermità: «Maledico ogni ora questa mia mezza malattia che non è un buon tifo, non un
colpo apoplettico, ma niente fuorché morire lentamente e a occhi aperti». Si sente perfino in colpa di aiutarlo economicamente, non perché lui protesti: lo considera un
diritto naturale; ma perché le sembra di mortificarlo con interventi troppo decisi nella sua vita professionale. «Non è la creatura normale che ha bisogno di aiuto» gli
scrive affettuosa nel consegnargli tutti i soldi guadagnati col teatro, «ma il genio quale sei tu... Ahimè so bene che l' artista che esegue lèopera dèarte non è l' opera d'
arte e vi offendiamo noi interpreti voi poeti perché vi si interpreta (vi si tradisce) quasi sempre interpretandovi a modo nostro... pure... un buon strumento, agile, saldo,
rispondendo ad ogni corda è necessario all' opera d' arte». La sua umiltà è straziante, anche eccessiva, e si tinge di un masochismo che sappiamo accompagnare spesso
la psicologia ipersensibile dei tisici. «Oh tutto il gran pianto mi piglia se penso che posso morire ora ora e allora che avrò fatto io della mia arte? niente». D' Annunzio
certo non si chiede cosa rimarrà della sua arte, sicuro com' è della gloria e dell' eternità. Nell' amore però si fa esigente, incalzante. Vuole tutto dalla donna amata, la
fedeltà anche del pensiero e l' assoluta disponibilità: «Voglio possederti come la morte possiede», scrive nel Libro Segreto, «voglio raccoglierti come un fascio
spicanardo legato con un vimine, così che possa essere impugnato come l' asta di un gonfalone. E poi voglio disperderti, soffiare sopra te e disperderti come il tarassaco
si disperde al vento, disperderti alla rosa dei venti, discioglierti nel Gran Tutto - Pan». Un progetto che suona un poco sinistro. Eppure, come scrive Anna Maria
Andreoli nel suo bel libro Il vivere inimitabile: «negli anni trascorsi con l' attrice l' operosità di D' annunzio è prodigiosa. Abbiamo La città morta,il Sogno d' un mattino
di primavera e il Sogno d' un tramonto d' autunno, La gioconda, La Gloria, più tre Libri di Laudi , poi Il fuoco, Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, con l' aggiunta del
rifacimento di Canto Novo, dei Sonnets Cisalpins e della revisione dei racconti giovanili in vista delle Novelle della Pescara». Eleonora nel frattempo viene invitata a
Parigi dove è ricevuta come una regina, eppure non è felice, «Io non saprò mai dirti quanto questo esilio m' è parso crudele. Quanta forza per vivere contro la propria
forza! E quel Parigi, anche quello, che spreco di energia! Ogni giorno devo vincere la santa follia di non abbandonar tutto e andarmene senza discutere... Eppure, quanta
attrazione in pari tempo, un che, che non so dire quando apparivo, sola e con me contro la folla. Era come un brivido cosi dolce, così troublant che mai e mai più a
nessun' altra epidermide di pubblico mi sarebbe possibile recitare». Come si vede una lettera sgangherata che farebbe dubitare della sua mente. Invece sul palcoscenico
Eleonora era lucida e sublime. Solo il pubblico la consolava dei lunghi silenzi dell' amato Gabriele. «Tutta una settimana son rimasta come fossi sott' acqua». E poi, all'
arrivo di una missiva esplode: «Ti ringrazio, ti ringrazio, mi son buttata sulle tue parole. Sto di nuovo meglio. Sei buono, grazie. Purchè nulla ti turbi, purchè tu ritrovi la
gioia di lavorare». E ancora: «Io ho pietà, tenerezza e carezze e indulgenza per quelle che ti amano... ma nessuna di esse ha veduto nell' anima mia ciò che io traverso
loro ho veduto nella tua, ecco perché le sopporto e indulgo loro». Il guaio però è che D' Annunzio la tradisce non solo nel cogliere piaceri sessuali con altre donne, ma
anche nell' affidare i suoi testi ad altre attrici dopo averli promessi a lei e dopo che lei magari si era messa in moto per trovare il teatro, i soldi, gli attori. Di questo
Eleonora si addolora molto, sebbene signorilmente cerchi di mascherare il dispiacere. La Città morta, scritta per lei, e che doveva debuttare a Roma, avrà invece il suo
debutto a Parigi con Sarah Bernhardt. Eppure D' Annunzio sapeva dare amore e gioia. Sapeva illudere deliziosamente e questo è indispensabile per un dongiovanni. Le
sue parole si rivolgevano lusinghiere e incantatrici alla vecchia amante anche quando già faceva l' amore con la nuova. Eleonora ben conosce le intime fragilità di un
uomo che ha bisogno di sentirsi sempre vincente: il suo corpo certamente non bello è però capace di tenerezze femminili che stupiscono e conquistano chi lo incontra.
Lui stesso racconta come nel fare l' amore, si facesse passivo per lasciare che il ventre della donna prendesse da lui il piacere, senza volere imporre i suoi tempi e le sue
energie. A quest' uomo egocentrico e tirannico, ma cedevole e dolce nei momenti di calore fisico più intenso, Eleonora rispondeva con un amore cieco e invadente che
finì presto per annoiare il poeta. Su di lei e sul loro amore, mentre ancora vivevano insieme, D' Annunzio scrisse un libro Il Fuoco in cui non esitò a descrivere con
crudeltà «lo sfacelo fisico» della sua compagna quarantenne. Eleonora che intanto si avvia verso la morte precoce, vedendosi portare via La figlia di Iorio scritta per lei e
accanto a lei, dalla più giovane Irma Grammatica, griderà: «Tu m' hai accoppata - e con che arte - la tua!». Eppure, come scrive Marinetti, «Non si può non ammirare in
lui il prestigioso seduttore, l' ineffabibile discendente di Casanova, di Cagliostro e di tanti altri avventurieri italiani di cui restano leggendarie l' astuzia, il coraggio
vittorioso e l' infaticabile strategia diplomatica». E naturalmente, aggiungiamo noi, non possiamo non ammirare il poeta languido, sensibile e raffinatissimo, dalla
prestigiosa inventiva linguistica e dalla elegante fantasia liberty. Eleonora sarà sostituita da Alessandra di Rudinì, ventiseienne, bellissima, vedova con due figli. Il poeta
la chiamerà Nike. Ma la vittoriosa Alessandra avrà una pessima influenza sul poeta, che si caricherà sempre più di debiti, rallenterà di molto il suo ritmo produttivo per
accontentare la capricciosa, volubile possessiva e noiosissima Alessandra. (Ringrazio il Vittoriale nella persona di Anna Maria Andreoli per la concessione delle lettere
inedite di Eleonora Duse) I PROTAGONISTI Dal mito del superuomo a quello della nazione. Vita e opere di un Vate Gabriele D' Annunzio (nella foto con Eleonora
Duse) nasce a Pescara nel 1863. Debutta nel 1879 con la raccolta di versi Primo vere, cui segue nel 1882 Canto novo. Vive nella Roma mondana, influenzato dal
decadentismo europeo. Scrive i romanzi Il piacere (1889), Giovanni Episcopo (1891) e L' innocente (1892). Pubblica il Poema paradisiaco (1893). Successivi Il trionfo
della morte (1894), Le vergini delle rocce (1895) e Il fuoco (1900) e i drammi La città morta (1899) e La Gioconda (1899). Ritiratosi nella villa La Capponcina a Firenze,
D' Annunzio compone: i primi 3 libri delle Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi (1903), le tragedie Francesca da Rimini (1902), La figlia di Iorio (1904), La
fiaccola sotto il moggio (1905), La nave (1908), Fedra (1909) e il romanzo Forse che sì forse che no (1910). I creditori gli sequestrano la villa, va in esilio in Francia dove
scrive Le martyre de Saint Sébastien (1910) musicato da Debussy. Al mito del superuomo si affianca il mito della supernazione. Torna in Italia allo scoppio della Grande
guerra, convinto interventista. Scrive il Notturno. Dal ' 19 al ' 21 occupa Fiume. Poi si ritira a Gardone. Lì scrive Il venturiero senza ventura, 1924 e Il compagno dagli
occhi senza cigli, 1928. Muore nel 1938.

Maraini Dacia

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