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Il sogno di H. O.

Earwicker
Una lettura di Finnegans Wake di J.Joyce
di Edmund Wilson

Ulyssesdi James Joyce fu il tentativo di presentare direttamente i pensieri e i sentimenti di un


gruppo di dublinesi durante l’intero corso di una giornata d’estate. Finnegans Wakeè un tentativo
parallelo di rendere poeticamente i sogni visionari e le sensazioni semi-conscie di un singolo
individuo durante il sonno di una notte.

Questo crea al lettore, come all’autore, un problema più difficile. In Ulysses, il lettore poteva
percepire il mondo oggettivo reale in cui vivevano i Bloom e Dedalus, e la loro situazione e i loro
rapporti in questo mondo, sicché le distorsioni e le liquefazioni alle quali esso andava soggetto per
influsso di particolari stati psicologici restavano ancora generalmente comprensibili.
Ma in Finnegans Wake non ci è fornito alcun dato oggettivo prima del penultimo capitolo, in cui il
protagonista, e anche lì piuttosto indistintamente, si risveglia per un breve periodo di tempo,
all’appressarsi del mattino; e noi abbiamo a che fare con degli stati di coscienza, che pur avendo a
volte qualcosa in comune con le ebbre fantasie della scena della « Città Notturna » nell’ Ulysseso
con le libere associazioni delle fantasticherie cui s’abbandona nell’insonnia la signora Bloom, sono
ancora più confuse e fluide. Di modo che la preoccupazione fondamentale del lettore, a una prima
lettura, è quella di scoprire chi sia il dormiente, e che cosa gli sia successo e gli succeda. E poiché
Joyce ha impiegato diciassette anni a elaborare e rendere più complesso questo indovinello, è
difficile sperare che una prima lettura possa bastare a scioglierlo del tutto.

A ogni modo, vediamo di fissare alcuni dei dati più importanti che costituiscono le fondamenta
realistiche di questo immenso poema del sonno. Il protagonista di Finnegans Wake è un uomo di
sangue scandinavo, e il suo nome, in apparenza, è l’adattamento inglese di un nome scandinavo:
Humphrey Chimpden Earwicker, padrone di una mescita chiamata « The Bristol », a Dublino.
Costui è fra i cinquanta e i sessanta anni, rubicondo, chiaro di capelli, baffuto come un tricheco,
robustissimo ma da qualche anno abbastanza grasso. Quando è messo in imbarazzo tende a
balbettare. Ha tentato varie occupazioni: ha preso parte a un concorso per un impiego, ha fatto
fallimento in commercio. È sposato con una donna di nome Ann, ex-commessa di negozio, più o
meno illetterata, il cui cognome da ragazza cominciava con « Mac », a quanto pare. Sono ambedue
protestanti in una comunità di cattolici; lei presbiteriana, lui episcopaliano; e sia per la sua religione,
sia per il suo nome straniero col suo buffo suono, e gli è come Bloom di Ulysses, si sente un po’
straniato in mezzo ai suoi vicini. Gli Earwicker hanno tre figli: una ragazza, Isobel, che
evidentemente ha passato l’adolescenza, e due gemelli più piccoli, Kevin e Jerry. C’è anche in casa
una donna tuttofare, Kate, e un uomo, Tom.

È una notte di sabato in estate, dopo una serata piuttosto caotica nel suo locale. Qualcuno,
forse Earwicker stesso, è stato persuaso a cantare una canzone: più tardi, al momento di chiudere,
egli ha dovuto cacciare dalla mescita un uomo, che l’ha insultato ed ha tirato delle pietre contro la
vetrina. Vi è anche stato un temporale. Earwicker ha passato tutta la giornata bevendo un sorso qui e
tino lì e forse è andato a letto un po’ brillo. Passa una notte agitata, comunque sia. Dapprima sogna
ciò che ha fatto durante il giorno, ed è pieno di rimorso e di umiliazione: poi, come la notte s’inoltra
ed egli cade in un sonno più profondo, attraversa penosamente un incubo oppressivo.
Egli e la moglie dormono assieme; ma egli non è più attratto da lei come donna. Adesso pensa ai
figli. La moglie è assai più giovane di lui, sembra: era una fanciulla appena quando la sposò; di
modo che gli viene facile confondere l’antico sentimento che aveva per lei con qualcosa di simile a
un sentimento erotico, che adesso comincia a provare per la figlia. E l’affetto che prova per il figlio
favorito acquista perfino delle associazioni omosessuali. Il piccolo Kevin è un ragazzo
relativamente posato: battezzato col nome del santo ascetico, San Kevin, egli è destinato
probabilmente ad essere un prete cattolico. Jerry (Shem) è più volubile e ha dato prove di vocazione
poetica: ed è con Jerry, piuttosto che con Kevin (Shaun), che il padre è stato portato a identificarsi.

Raccontare la storia in questo modo, comunque, vuol dire presentarla secondo il verso
sbagliato. La sua efficacia drammatica si fonda sul fatto che noi non veniamo a sapere se non quasi
alla fine (alle pagine 555-590, in cui Earwicker si sveglia parzialmente) che i voli di fantasia erotici
e gli orrori del rimorso nel suo sogno sono stati ispirati da ciò che Earwicker sente per i propri figli.
Lo spaccio è al margine del giardino pubblico, il Phoenix Park, tra questo e il fiume Liffery e non
lontano dal sobborgo di Chapelizod, che secondo la leggenda è il posto dove nacque Isotta. Proprio
all’inizio del sogno troviamo Earwicker nella parte di Tristano, e per tutta quanta la notte egli va
corteggiando Isotta; la porta via, la sposa. L’elemento freudiano di censura è intervenuto a
modificare Isobel in Iseult la Belle, e similmente ha trasformato l’« ana-Liffey » (il Liffey
superiore), che appare nel sogno come una donna, in Anna Livia Plurabelle. (1) L’idea dell’incesto
fra padre e figlia è sviluppata a pag. 115; la transizione da Isobel a Iseult è indicata nell’« Icy-la-
Belle » di pag. 246; e la sorella dei due gemelli è designata col vezzeggiativo familiare « Izzy » a
pag. 431. Ma sebbene ai ragazzi siano stati dati i loro nomi reali, ed essi siano stati introdotti
abbastanza apertamente alle pp. 26-27, è soltanto verso la fine (a pag. 556) che viene fatta una
precisa identificazione della figlia di Earwicker con Isotta. Allo stesso modo, è solo al passo a pp.
564-5 65 che noi siamo portati a connettere col figlio di Earwicker il motivo omosessuale che è
entrato per la prima volta nel sogno col sinistro incidente del padre che avvicina un soldato nel
parco, e che subito dopo .è malmenato dalla polizia; lo stesso motivo che verso il mattino (pag. 474)
si libera e si chiarisce nell’immagine, senza riferimento ai fatti reali, di « qualche paffuto sfrontato
amorino d’un angelo ».

Nel frattempo, il tabù dell’incesto e il tabù dell’omosessualità hanno dato insieme origine, nel
corso della faticosa notte di Earwicker, a un’intera mitologia, a un’intera « morality » (come nello
sviluppo della tragedia greca dai vecchi miti del cannibalismo e dell’incesto). Earwicker è Tristano
che rapisce Isotta, si, ma è anche, e il suggerimento viene da una mensola di caminetto nello stile
dei fratelli Adam che si trova nella stanza da letto in cui dorme, è anche Adamo cui il peccato ha
fatto perdere il Paradiso del Phoenix Park; e per suggerimento di una copia del quadro raffaellesco
di San Michele che vince Satana, appesa alla parete della stanza, egli è un arcangelo in lotta col
Demonio. Ed egli è caduto non soltanto come Adamo, ma anche come l’Humpty Dumpty della
filastrocca popolare (egli è grasso e il suo primo nome è Humphrey), come l’eroe della ballata
di Finnegans Wakeche cadde da un’impalcatura mentre costruiva una casa ma tornò in vita al suono
della parola « whisky », e come Napoleone (una caratteristica del Phoenix Park è un obelisco
dedicato a Wellington, ma non vi è che io sappia alcun Museo Wellington). Poiché gli avvenimenti
fondamentali della vita di Swift godono ancora tutto il loro prestigio a Dublino, egli è Swift che
amò Stella e Vanessa con l’amore inibito di un padre, e il cui cervello fu in ultimo offuscato dalla
pazzia: il crittogramma di Stella usato da Swift, « Ppt », punteggia tutta l’opera.
Ed Earwicker inoltre va trovando nel sonno un compenso per il sentimento abituale di impotenza
che gli viene dal suo appartenere ad una minoranza etnica e religiosa. Qualche volta egli è il primo
conquistatore danese dell’Irlanda, che risalì quell’identico fiume Liffey; e qualche volta Oliver
Cromwell, quell’altro odiato invasore senza Dio.

Ma Joyce si propone in più di creare, nel corso del sogno mitopoetico di Earwicker, un sistema
di simboli ancora più generali e fondamentali. Egli ha voluto che Earwicker, risolto nei suoi
componenti elementari, includesse tutta l’umanità. Il fiume con la sua personalità femminile, Anna
Livia Plurabelle, viene a rappresentare lo stesso principio femminile. Prima o poi tutte le donne che
appaiono nella fantasia di Earwicker si dissolvono in questa corrente vitale che si rinnova sempre e
non s arresta mai, scorrendo per il mondo costruito dagli uomini. La figlia, ancora ragazzina, è
presto identificata con una nuvola, che verrà giù alla terra come pioggia e si tramuterà nel giovane
fiume svelto; il capitolo di Anna Livia Plurabelle descrive il maturarsi di una vispa donna; alla fine,
la corrente matura, ora più ampia e lenta, muoverà verso il proprio padre, il mare. Il principio
maschile corrispondente è simboleggiato dal Colle di Howth, che sovrasta la foce del Liffey: e con
questo s’associano l’idea del colle come cittadella e l’idea della città come costruzione maschile:
l’uomo è un colle che sta saldo mentre la corrente gli scorre ai piedi, è una fortezza, è Dublino e
tutte le città del mondo.

E se Earwicker è animato nel sonno dai principi di tutti e due i sessi, egli vive anche una
doppia esistenza impersonando sia la Gioventù che la Vecchiaia. Nel far confluire i suoi impulsi
giovanili in un’immagine di se stesso che è quella del suo figlio prediletto, egli sogna di avere una
nuova capacità di uscire ancora una volta ad affrontare la vita; eccitato da un puro idealismo non
ancora macchiato dall’esperienza, e tuttavia ribollente di beffe canagliesche, gaiamente amato dalle
ragazze. Dall’altro canto, prevedendo il suo futuro declino, egli ha la visione di un coro di vecchi
che borbottano bavosi ricordi e allo stesso tempo si eccitano di cupidigia e di biasimo al pensiero
del giovane fiorente Tristano che bacia Isotta dall’altro lato dei cespugli, e danno in esclamazioni di
meraviglia (un’espansione dei sentimenti di Earwicker alla vista del figlio che dorme) dinanzi alla
forma del dormiente Earwicker (Shaun-Jerry). I vecchi si chiamano Matthew Gregory, Marcus
Lyons, Luke Tarpey e Johnny MacDougall; e sono variamente identificati con i quattro apostoli, i
Quattro Maestri (antichi saggi della leggenda irlandese), le Quattro Ondate della mitologia
irlandese, le quattro corti di Dublino e le quattro province dell’Irlanda (Johnny MacDougall è
evidentemente l’Ulster: egli cammina sempre a una certa distanza dietro gli altri). Questi padri sono
sempre associati a un asino grigio e agli alberi di sicomoro, e forse sono stati suggeriti a Earwicker
dai quattro sicomori sulla sponda del Liffey, fra i quali andava brucando l’asino di un vicino. Tutti
questi temi maggiori affiorano e affondano nell’intessitura del libro dal principio alla fine, e
ciascuno a un dato punto riceve uno sviluppo completo: la donna-fiume alle pagine 196-216 (il noto
capitolo di Anna Livia Plurabelle); il colle che è insieme fortezza e città maschile alle pagine 532-
554 (già pubblicate a parte col titolo Haveth Childers Eterywhere); il Giovane nei capitoli su Shaun,
pagine 403-473; e i Vecchi, che formano un contrasto, subito prima, nelle pagine 383-399.

Vi sono anche un masso e un olmo sulle sponde opposte del Liffey, che rappresentano il
principio di morte e il principio di vita (Ygdrasil). L’albero eseguisce varii a solo dal grazioso
stormire (uno notevole alla fine, cominciando da pag. 619), e nel capitolo dì Anna Livia Plurabelle
quest’ultima ha una lunga conversazione con il masso, che si fonde col chiacchierìo di due vecchie
lavandaie che asciugano i panni sulla sponda. Questo dialogo è solo uno dei tanti dialoghi che in
realtà sono sempre la stessa disputa, e nei quali una delle due parti, come il masso, è sempre ruvida,
testarda e prosaica, mentre l’altra è sensibile, vivace, chiacchierante o cinguettante frivolamente. Il
più coriaceo dei due interlocutori in questi scambi continua a terrorizzare e tiranneggiare l’altro.
Talvolta essi sono Satana e San Michele, talvolta sono delle magiche metamorfosi di antitesi
derivate dalle favole di Esopo: « the Mookse » e « the Gripes » (la Volpe e l’Uva), « the Ondt » e «
the Grasshopper » (la Formica e la Cavalletta); ma tutti questi dualismi sono evidentemente
connessi coi diversi temperamenti dei gemelli di Earwicker (che a volte appaiono come Caino e
Abele) e rappresentano i diversi elementi del carattere dello stesso Earwicker, in quanto essi lottano
entro la sua stessa coscienza, riflettendo a volta gli elementi aggressivi, certe forze del mondo
esterno (le forze dell’opinione pubblica ostile, o la polizia) che egli a volte teme, a volte sente di
poter affrontare. Le varie coppie, comunque, mutano il loro rapporto di equilibrio e si sciolgono
l’una nell’altra così prontamente che è impossibile dame una definizione che valga per tutti i casi
nel corso dell’opera.
Oltre a tutto questo, proprio come il Joyce di Ulyssesfece ricorso all’Odissea purché aiutasse a
fornire una struttura per i suoi contenuti (contenuti che, una volta cominciati a sgorgare dalla roccia
della sigillata personalità di Joyce al tocco della verga di Aronne della libera associazione d’idee,
minacciarono di sollevarsi e sommergere l’artista come il flutto scatenato dall’apprendista stregone
con la sua scopa magica), allo stesso modo il Joyce di Finnegans Wake, dinanzi a un pericolo
ancora più formidabile, ha messo a contributo la teoria strica del filosofo settecentesco Giambattista
Vico, perché l’aiutasse a organare l’opera. Vico pensava che le civiltà passano sempre attraverso tre
distinte fasi: una fase in cui gli uomini si creano gli dei, una fase in cui gli uomini costruiscono miti
sugli eroi, e una fase in cui vedono le cose in termini di uomini reali. Si noterà che le immagini
joyciane che abbiamo menzionato si suddividono fra queste tre categorie di esseri: Vico credeva
inoltre che la storia si muovesse in cicli e che sempre si ripetesse, e ciò è quello che succede
in Finnegans Wake(e che esaspera spesso il lettore). Vi è ancora parecchio che deriva dal Vico, e se
ne troveranno notizie in Our Exagmination(1), ma sono cose che sembrano anche più inutili e
forzate degli aspetti più inutili e forzati del parallelo con l’Odissea nell’Ulysses. Il fatto che nel
sobborgo dublinese di Dalkey esista una « via Vico » (« La via Vico va torno torno a riallacciarsi
dove cominciano i termini ») dà a Joyce un appiglio reale, a cui agganciare tutta questa teoria.

Vi è un aspetto importante sotto il quale può sembrare che Joyce si allontani dal Vico. Vico, per
quanto se ne conosce, non credette nel progresso: i suoi cicli non procedono a spirale verso un fine
terreno, la sua speranza di salvezza era in cielo. Ma i cicli in Finnegans Wake danno invece come
risultato un deciso progresso. Come la vita di Earwicker passa dal buio alla luce, egli si spoglia del
suo senso di colpa. Al mattino il demonio è stato vinto da Michele, la gioventù ha rotto le catene
della vecchiaia, la Fenice di Vico e il Parco della Fenice sono risorti dalle loro ceneri per un nuovo
volo, Tristano ha costruito un castello (Howth Castle) per la sua sposa, e Isotta, già oggetto di un
amore illegale, ora sposata e sempre più anziana, si trasforma infine naturalmente e serenamente
nella moglie legale che riposa accanto a lui, e che Earwicker si sforza di non urtare con le
ginocchia; il tumulto e la turbolenza della notte del sabato si chiarificano nella pace della mattina
domenicale; l’anima già sepolta nel sonno è risorta rianimata alla vita.

Eppure, a guardare il libro come un tutto, ci si accorge che il ciclo più ampio torna in effetti su
se stesso. Questo si vedrà quando tratterò delle ultime pagine. Nel frattempo vorrei notare
semplicemente che noi non troviamo in Finnegans Wakeun vertice di emozione paragonabile o alla
scena in cui Stephen Dedalus acquista la coscienza della propria vocazione poetica, o alla grande
affermazione di Molly Bloom. Il libro più tardo segna una fase di invecchiamento nel soggetto
umano costante di cui ha trattato la serie dei libri di Joyce. Questo soggetto, che non bisogna mai
perdere di vista, anche se in questo caso Ciò possa essere facile, è il nesso di intimi rapporti
impliciti in una situazione familiare. Lo troviamo per la prima volta nel Portrait of an Artistnell’
atteggiamento di Dedalus verso la propria famiglia, e nel delicato ma vitale spostarsi dei rapporti
della coppia di giovani sposi nel racconto The Dead. In Exiles, un’altra coppia di sposi ritorna
dall’estero con un figlio e si verifica un più serio squilibrio quando la moglie incontra un suo antico
innamorato. In Ulysses, i rapporti fra uomo e donna, ormai di mezza età, hanno risentito l’effetto di
riassestamenti più seri, e presentano delle complesse corrispondenze coi rapporti fra i Bloom e i
loro figli, fra Dedalus e i suoi genitori, e fra ambedue i Bloom e Dedalus. Ora, in Finnegans Wake,
il marito e la moglie hanno raggiunto un’età in cui, dal punto di vista emotivo, l’uno interessa l’altro
a stento, e la fonte principale di interesse è l’atteggiamento del padre verso i figli, « i figli in cui tutti
amiamo riporre le nostre speranze », come pensa Earwicker negli ultimi istanti, prima che il sole
che si alza lo risvegli. (E noi abbiamo già trovato accenni a questo rapporto negli istinti da padre
adottivo di Bloom nei riguardi di Dedalus che è orfano spiritualmente, o nelle brevi liriche di Joyce,
dolorose fino al limite dell’angoscia, sui propri bambini, o infine nella poesia Ecce Puerdove
appare il ciclo della famiglia.)
In Finnegans WakeJoyce ha esplorato questa situazione della famiglia più profondamente che
in ogni altro suo libro. Nel sonno, le convenzioni e le istituzioni con cui discipliniamo le nostre
esigenze e diamo ad esse una forma possono in parte dissolversi ed evaporare, in modo da liberare
in parte gli impulsi del comune plasma da cui tutte le creature umane sono ricavate; e allora gli
istinti sessuali dell’uomo e della donna, l’istinto filiale e l’istinto paterno, gli stessi principi
maschile e femminile, entrano in giuoco in modi caotici, adombrano preoccupanti rapporti che
tuttavia sgorgano dai processi elementari della vita. Finnegans Wakeapprofondisce ancora di più
quell’intuizione di tali rapporti umani che era già stata notevolmente approfondita in Ulysses; e
porta in avanti con un balzo stupefacente il tentativo di scoprire l’elemento umano universale
nell’esperienza particolare e ordinaria, che era implicito nel parallelo con l’Odissea del libro
precedente. Joyce cercherà adesso di ricostruire induttivamente tutta la struttura della storia umana e
del mito dagli impulsi coscienti o inconsci e dalle potenzialità irrealizzate in un unico essere umano,
che sarà un uomo anche più oscuro e anche meno dotato, meno civilizzato e capace di elevazione
del Leopold Bloom di Ulysses. Finnegans Wake, nella sua concezione e nella sua forma concreta, è
uno dei libri più audaci che siano mai stati scritti.

Per potere ricavare qualcosa dalla lettura di Finnegans Wake, bisogna impadronirsi bene di una
bizzarra convenzione letteraria. È stato detto da T. S. Eliot che Joyce è il più grande maestro di
linguaggio della letteratura inglese, dai tempi di Milton. Eliot ha fatto notare anche che Milton è
soprattutto uno scrittore per l’orecchio. Ora Joyce per gran parte della sua vita di adulto è stato
cieco quasi come Milton; ed ha finito con l’occuparsi soprattutto, come fece Milton, di sensazioni
auditive. Vi è poca visualizzazione in Finnegans Wake, come in Samson Agonistes. Ciò che noi
troveremo da criticare anzitutto sarà dunque, probabilmente, che nulla è visto nel sogno di
Earwicker. Dopo tutto non è rara nei sogni l’impressione di vedere le figure umane e i luoghi così
chiaramente come quando si è svegli; e nella letteratura del sogno che conosciamo (Alice in
Wonderland, Le tentazioni di Sant’Antonio), vengono ai dormienti delle apparizioni distinte, non
soltanto delle voci invisibili. Ma nel caso di Finnegans Wakenoi dobbiamo supporre che la fantasia
di Earwicker, come quella di Joyce, sia quasi del tutto auditiva e verbale. A questo ci ha preparati in
parte l’Ulysses, in cui ascoltiamo i pensieri dei personaggi senza vedere questi con perfetta
chiarezza.

Ma c’è un’altra e più seria difficoltà da superare. Nel nostro tentativo di identificare e seguire
Earwicker, l’umile proprietario di uno spaccio, il quale abbraccerà l’intero microcosmo del sogno,
noi siamo continuamente distratti dall’intrudersi di ogni sorta di elementi: lingue straniere, allusioni
letterarie, notizie storiche la cui presenza nella coscienza di Earwicker non è verosimile. Il principio
sul quale si fonda Joyce può evidentemente definirsi in questo modo. Se l’artista deve esprimere
direttamente tutti i sentimenti e le fantasticherie di un dormiente, primitivi, inarticolati e
infinitamente imprecisi come sono, egli deve crearsi una tecnica, un veicolo espressivo di ricchezza
e libertà senza precedenti. Ora lo scopo di Joyce in Finnegans Wake è anche quello di svelare nella
coscienza di Earwicker i procedimenti della storia universale: le lingue, i cicli della società, le
corrispondenze tipiche della leggenda sono, egli tenta di mostrarci, tutti impliciti in ogni essere
umano. Egli s’è preoccupato, come abbiamo visto, di addentellare realisticamente il suo eroe ai temi
fondamentali della sua fantasia universale: le storie bibliche, la battaglia di Waterloo, la leggenda di
Tristano e Isotta e così via. Ma se le implicazioni di Earwicker sono mostrate come universali,
l’autore ha il diritto di fare appello a tutte le risorse del suo intelletto superiore perché gli forniscano
un veicolo espressivo che possa rendere questa esperienza del sonno. Quando egli fa parlare in
russo quelle figure del sogno di Earwicker che combattono all’assedio di Sebastopoli (che è entrato
nel sonno per via d’un quadro appeso in casa di Earwicker) Joyce ha la stessa giustificazione che ha
Thomas Mann, putacaso, quando descrive con la propria terminologia di letterato un paesaggio
visto da una persona ignorante. Se si obietta che in Finnegans Wakesi è costretti a supporre che
l’autore non descriva, ma presenti direttamente la coscienza del protagonista, Joyce potrebbe
rispondere che il suo procedimento ha dei precedenti non solo in poesia, ma anche nella narrativa
pre-naturalistica: anche i personaggi di Dickens potevano parlare in versi sciolti, anche i personaggi
di Meredith potevano conversare in apoftegmi. Perché allora H. C. Earwicker non dovrebbe poter
sognare in un linguaggio che deriva flessibilità e varietà dall’enorme riserva che l’autore possiede di
linguaggi colloquiali e letterari, di gerghi tecnici e di lingue straniere?

E tuttavia è proprio qui che comincia il guaio, per il lettore, perché qui, malgrado la difesa che
abbiamo or ora suggerita, è avvenuta una sconcertante violazione di una convenzione letteraria che
appare indispensabile. Ciò che Joyce vuol fare è di liberarsi dal naturalismo flaubertiano e passare
verso qualcosa che si muova più agevolmente, che domini un orizzonte più ampio, qualcosa che
non sia strettamente vincolato ai dati specifici su un tal uomo che vive in tale anno in quella certa
strada di una certa città; e la reazione, naturalmente, è comprensibilissima: era inevitabile che il
simbolo e il mito, contenuti tradizionali della poesia, dovessero asserirsi di nuovo contro le formule
di precisione scientifica che avevano cominciato a dimostrarsi così opprimenti. Ma qui l’atto di
liberazione da esse ci urta, come ci urtava talvolta in Proust. Proust sostiene in modo commovente
nella sezione ultima del suo romanzo l’accusa contro il naturalismo ottocentesco; eppure chi non s’è
e sentito a disagio nello scoprire che le manìe di Proust hanno potuto influire sulla struttura del suo
romanzo: che una storia presentata come reale non segue poi una cronologia consistente, che non è
mai chiaro se il narratore della storia è lo stesso autore del libro, e che l’autore che dovrebbe sapere
tutto ci lascia a volte nel dubbio sui fatti che riguardano il suo protagonista? Nel leggere l’Ulysses,
avevamo provato una qualche insoddisfazione dello stesso genere, quando la fantasmagoria nata nel
cervello di Bloom durante la scena ubriaca della « Città Notturna » s’arricchiva di colte fantasie che
sarebbero state più adatte a Dedalus. E ora in Finnegans Wakel’aerostato di questa nuovissima
poesia preme più forte sulla sua àncora naturalistica. Ci si richiede in primo luogo di credere che un
uomo come H. C. Earwicker possa cogliere ogni possibile pretesto fornito dalla sua abitazione e dal
sito di quest’ultima per includere nel sogno di una singola notte un gran numero di figure storiche e
leggendarie. E non è piuttosto forzato supporre che la coscienza che Earwicker può avere della
guerra di Crimea, o della vita di Swift, debba in realtà venire espressa accuratamente in termini
della coscienza di Joyce, il quale s’è fatto, una conoscenza speciale di questi argomenti? E ancora,
che dire delle allusioni alla vita letteraria parigina, e degli accenni al libro come « work in progress
», i quali ci fanno uscire immediatamente e del tutto fuori della coscienza di Earwicker, per
introdurei nella coscienza di Joyce?

Naturalmente non ce n’è molti, di questi ammiccamenti e toccatine di gomito, ma l’ombra di


Joyce al suo ingrato lavoro sembra talvolta discendere fra Earwicker e noi. Evidentemente Joyce ha
posto dei limiti al cammino che egli può fare in questa direzione; ed egli può sostenere che
Earwicker, se è l’uomo tout court, può avere in se la coscienza del destino di Joyce come del
destino di Swift o di Napoleone, per quanto egli non abbia mai sentito parlare di lui aSine ha sentito
parlare di loro, e che dare un accento personale alle espressioni di quella coscienza equivale
semplicemente alla firma che si pone sulla propria tela. Eppure, anche ad ammettere tutto questo e a
riconoscere le difficoltà del compito e ad accettare senza riserve il metodo che Joyce ha scelto
per arrivare al suo fine, il risultato appare tuttavia insoddisfacente, la cosa non è riuscita del tutto
perfetta. Non sono i miti a nascere da Earwicker, è Earwicker che sembra affondare nei miti come
in una sabbia mobile. Senza dubbio la sua personalità è lì viva: noi arriviamo a conoscerlo e
proviamo simpatia per lui. Ma egli non ci convince come faceva Bloom: è stato troppo riempito di
letteratura. Si sfoglia tutto in arabeschi, è rigonfio di troppe cose. E non solo egli deve portarsi
addosso questo carico di miti; egli è stato anche fasciato tutt’intorno dall’indulgenza crescente che
Joyce sembra dimostrare verso se stesso, nell’abbandonarsi all’impulso di un puro giuoco verbale.
E qui ci si presenta un altro genere di difficoltà. Vi è effettivamente un tipo tutto speciale di
linguaggio che la gente parla nei sogni, e nel quale talvolta si può anche scrivere della poesia.
Questo linguaggio è formato di parole e periodi che dal punto di vista razionale sembrano borbottii
ed espressioni insensate, ma che invece con quel loro spingere le parole l’una dentro l’altra, con
quelle loro combinazioni di idee incongrue tradiscono le preoccupazioni in-volontarie del
dormiente. Lewis Carroll fece ricorso a questo linguaggio dei sogni in Jabberwocky, ed esso è stato
studiato da Freud e dai suoi scolari, dai quali sembra che Joyce abbia preso l’idea delle sue
possibilità letterarie. A ogni modo, Finnegans Wakeè scritto quasi del tutto in questo linguaggio.
L’ideaera brillante in se stessa, e Joyce in molti casi l’ha realizzata brillantemente. Egli ha creato
tutta una nuova poesia, tutto un nuovo humour e una nuova drammaticità fatta di periodi e parole
che si deformano. Quel caratteristico genere di effetti ambigui e prismatici al quale miravano i poeti
simbolisti è qui raggiunto con un nuovo metodo e secondo principi psicologici che danno a quegli
effetti una nuova radice umana. Ma il fatto è a mio avviso, che Joyce in certo senso ha abusato del
suo metodo. Quel suo dare alle parole dei significati multipli gli permette di continuare, all’infinito,
a introdurre nuove idee; ed egli ha lavorato non meno di diciassette anni a ricamare in tal modo
il Finnegans Wake.

Ciò che ne è venuto fuori può constatarsi dai seguenti esempi. Cominciamo con un esempio
relativamente semplice tratto da un passo sull’Albero: « Amengst menlike trees walking or trees
like angels weeping nobirdy aviar soar anywing to eagle it! » È evidente che nelle ultime sette
parole l’espressione « nobody ever saw anything to equal it » (nessuno mai vide nulla d’uguale) ha
ricevuto un’inflessione ornitologica. Quest’altro è un esempio più complesso:
Earwicker. facendo il ritratto di se stesso nel capitolo in cui si risveglia parzialmente, indica i propri
capelli con l’espressione « beer wig » (parrucca da birra), la cui base è « bar wig » (parrucca da
magistrato), e che è affiorata nella forma « beer wig » sotto gli stimoli del mestiere di barista che
Earwicker esercita nel suo spaccio, del fatto che i suoi capelli sono gialli, e della sua tendenza a
pensare che il suo cognome bizzarro sia volto in caricatura dai suoi vicini come « Earwigger »: per
questo il suo sogno è divenuto un incubo diabolicamente pieno di «earwigs », di insetti che
penetrano nel cervello attraverso l’orifizio dell’orecchio. In quelle due parole « beer wig »sono
dunque compressi quattro concetti diversi. Ma esaminiamo, con l’aiuto dei suggerimenti che ci
fornisce An Exagmination, un passo ancora più complicato. Ecco come Earwicker-Joyce dipinge la
pazzia e l’eclisse di Swift: « Unslow, malswift, pro mean, proh noblesse, Atrahore, melancolores,
nears; whose glauque eyes glitt bedimmed to imm; whose fingrings creep o’er skull: till quench.,
asterr mist calls estarr and graw, honath Jon raves homes glowcoma. » Questo brano, oltre alle idee
più o meno ovvie, contiene apparentemente i seguenti concetti: Laracor, il beneficio ecclesiastico di
Swift in Irlanda, combinato con l’atra cura che cavalca dietro al cavaliere nella prima poesia del
libro terzo delle Odidi Orazio; il concetto oraziano che la morte viene ugualmente per il misero e il
nobile; proh, l’interiezione latina di dolore, e pro, con un probabile riferimento alla difesa swiftiana
degli irlandesi in miseria; melancolores è melancholypiù black-colored, (di color
nero); glauquefrancese più il greco glaux, gufo: la sera grigia più gli occhi azzurri di Swift, che
aveva anche l’aspetto di un gufo; in glitt bedimmed to imm(la cui base è « per lui la luce si oscurò
»), le consonanti raddoppiate vogliono esprimere evidentemente un intorpidirsi dei sensi; creep o’er
skull(strisciano sul teschio) è il francese crépuscule; asterr, greco aster, stella, la Stella di Swift che
in effetti si chiamava Esther; il vero nome di Vanessa era Hester — e Stella chiama Vanessa una «
(q)wench »(quench, estinguere, calmare, più wench, ragazza); forse il termine tedesco mist(letame,
rifiuto) entra anch’esso nel giuoco, e anche il tedesco starr, rigido; grawevidentemente contiene il
tedesco grau, grigio; honathJon è honestJohn e Jonathan; glowcomaè glaucoma, la malattia
accecante della pupilla, più l’idea di un pallido bagliore di vita che persiste in uno stato comatoso.
Questo brano ha certo bellezza e potenza drammatica, ma non è eccessivamente ingegnoso? Si
penserebbe spontaneamente ad Orazio, incontrando il termine « Atrahore »? E anche ammettendo
che può essere appropriato associare il latino con Swift, che cosa c’entra il tedesco? Swift non
conobbe il tedesco né ebbe alcun rapporto con cose tedesche.

In alcuni casi, questo stratificarsi di significati, come risultato, ha reso perfettamente opachi dei
passi che in uno stadio precedente (e lo vediamo col raffrontare il testo definitivo con alcune sezioni
del libro come apparvero la prima volta) erano più facilmente comprensibili, e non per questo meno
convincenti come poesia del sogno. Alla pagina 164 di An Exagminationsi troveranno tre versioni di
un brano di Anna Livia Plurabelle; e alla pagina 213 vedrete che Joyce ne ha elaborato ancora una
quarta stesura. A mio avviso, egli avrebbe dovuto fermarsi fra la seconda e la terza stesura. Ecco la
prima versione del 1925: « Look, look, the dusk is growing. What time is it? It must be late. It’s
ages now since I or anyone last saw Waterhouse’s clock. They took it asunder, I heard them say.
When will they reassemble it? » (Guarda, guarda, l’ombra cresce. Che ore sono? Dev’esser tardi.
Sono epoche adesso da quando io o alcun altro vedemmo per l’ultima volta l’orologio di
Waterhouse. L’hanno smontato, ho sentito dire. Quando lo rimonteranno?) Ed ecco la quarta stesura
del 1939: « Look, look, the dusk Is growing. My branches lofty are taking root. And my cold cher’s
gone ashley. Fieluhr? Filou! What age is at? It saon is late. ‘Tis endless now senne eye or erewone
last saw Waterhouse’s clogh. They took it asunder, I hurd thum sigh. When will they reassemble it?
». Vi è un guadagno in poesia, certo, ma intanto la domanda e la risposta sono quasi scomparse.
Forse Anna Livia è resa più fluviale da quell’uso dei nomi di parecchie centinaia di fiumi (saonè la
Saône che presta servizio sotto forma di soon, e cherè il fiume Cher che sta anche per il
francese chair, carne), ripetuto altrove per i nomi di città, di insetti, di alberi? E perché tirare in
ballo l’Erewhon? Allo stesso modo il discorso dei vecchi, che quando apparve sul Navire
d’Argent sembrò quasi uguale in bellezza al capitolo di Anna Livia Plurabelle, adesso è stato tanto
rimpinzato di cose eterogenee, che in certi punti le voci effettive dei vecchi sono rimaste quasi
obliterate.

Il senso drammatico e narrativo è stato sempre piuttosto scarso nel Joyce. Già
l’Ulyssesprocedeva con difficoltà, e vi si perdeva ogni orientamento. I momenti cruciali della
narrativa erano tanto rimpinzati di tutto il resto che ad una prima lettura, in genere, sfuggivano
all’attenzione. Bisognava meditare sull’opera, rileggerne alcuni capitoli, per intravvedere il disegno
e capire la profondità dell’intuizione. E sotto questo aspetto Finnegans Wakeè assai peggiore. I
contorni principali del libro sono comunque individuabili, se qualcuno ci ha avvertito in precedenza
sul senso di tutta la faccenda. Siamo aiutati dal fatto che, nel formare la nostra ipotesi, si può
ricorrere al principio del rasoio di Occam; perché tutta l’intenzione e il senso di Joyce è che
l’immenso spumeggiare di simboli si possa ridurre in pochi e semplici fatti. E uno straniero dovrà
anche ammettere che gran parte di ciò che potrà sembrargli misterioso sarebbe abbastanza semplice
-per chiunque conosca Dublino e un po’ di storia dell’Irlanda, e ciò che Joyce ha fatto è legittimo,
come sarebbe legittimo ad uno scrittore americano ambientare una simile fantasia in qualche punto
di Riverside Drive a New York, e presupporre che i lettori siano capaci di riconoscere la Tomba di
Grant, i pullman verdi, la Columbia University e la figura di Hendrik Hudson. Un lettore straniero
di Finnegans Wake dovrebbe consultare una pianta di Dublino e cercare nell’Enciclopedia
Britannica le voci su Dublino e l’Irlanda.

Eppure io vedo un difetto serio nel fatto che non si riesca veramente a capire ciò che succede
finché non si sia arrivati quasi alla fine del libro. Allora soltanto possiamo voltarci indietro e capire
cosa significhi quell’improvviso balbettare di Earwicker alla parola father, a pag. 45; ci accorgiamo
che « Peder the Greste, altipaltar » a pag. 344 è una combinazione di « Pietro il Grande » e
di agreste, pederaste pater; possiamo concludere che l’accenno a pag. 373 al « begetting a wife
which begame his niece by pouring her young-things into skinthighs » (procreare una moglie che
divenne sua nipote versando le due giovani cose in cosce di pelle) allude alla storiella alle pagine 2
1-23, e che tutto questo tema è un espediente dell’inconscio che lavora nel sogno, per superare la
barriera dell’incesto col travestire i figli dello stesso Earwicker da figli di una sua nipote.

Ma intanto abbiamo dovuto aprirci faticosamente la strada per ben


cinquecentocinquantaquattro pagine; e vi è molto di indubbiamente importante che ancora non si
riesce a capire. Qual è per esempio il rapporto fra la storia della « ragazza della burla »cui
accennavamo or ora, e il motivo della lettera che i polli dissotterrano dal mucchio del letame? E
cosa vuol dire questa lettera? Il tema è sviluppato enormemente nel capitolo che comincia a pag.
104, ed esso va balenando attraverso tutto il libro, e torna fuori verso la fine (pagg. 623-624) con
nuove implicazioni emotive. Quella delle lettere e dei postini è un’immagine che gioca una parte
prominente per tutta l’opera. Il piccolo Kevin è presentato nell’atto di bussare a mo’ di portalettere;
e Earwicker, che qui sembra identificarsi però con l’altro figlio, Jerry, s abbandona a un lungo volo
fantastico in cui pensa di essere un postino. La lettera viene da Boston, Massachusetts, e pare sia
stata scritta da qualche parente femminile, forse la nipote ricordata più su. Si ha l’impressione che
vi sia una terza donna nella vicenda, e che da questo particolare dipenda qualcosa di importante.
Eppure il presente lettore ha filetto a lungo inutilmente, senza poter chiarire il problema.

All’atto pratico della lettura, mi sembra che Finnegans Wakeper due terzi della sua ampiezza
non arrivi ad attuare effettivamente ciò che si propone. Nè io ritengo possibile difendere il
procedimento di Joyce sulla base di un’analogia con la musica. È vero che nel Joyce c’è molto del
compositore: e la sua registrazione fonografica dell’episodio di Anna Livia è bella come un
magnifico « a solo » tenorile. Ma nessuno resisterebbe a sentire per mezz’ora un compositore di
opere o di poemi sinfonici che si tenesse di continuo su un’unica dominante come ha fatto Joyce in
vari punti di Finnegans Wake, che mescolasse tanti motivi in un unico passaggio, o che tornasse a
riprendere un tema un paio d’ore dopo il primo accenno, quando inevitabilmente gli ascoltatori
l’avranno dimenticato.

A mio avviso il fallimento di Finnegans Wake, dove l’opera può dirsi un fallimento, è dovuto
anzitutto a due propensioni di Joyce che erano già evidenti nell’Ulysses: l’impulso, in mancanza di
una vera forte intuizione drammatica, a suscitare un’impressione di epica solennità moltiplicando e
complicando i dettagli, colmando con diagrammi astratti e coprendo con strati sovrapposti di
concetti intellettuali, fino a rovinare il tentativo di organazione, al quale egli mirava, con
un’eccessiva artificialità; e una strana e circospetta sollecitudine nel nascondere al lettore i suoi veri
temi. Questi temi sono sempre rischiosi e imbarazzanti: riguardano quei sentimenti che gli uomini
stessi nascondono, e che solo un artista coraggioso può trattare. E quanto più i temi di Joyce
diventano rischiosi, tanto più egli tende a fasciarli con le capricciose fantasie del suo virtuosismo
letterario. Come se non solamente Earwicker fosse atterrito dallo stato delle proprie emozioni, ma
Joyce stesso ne fosse perplesso.

Ma con tutto questo Finnegans Wakeè, a tratti, un’opera straordinariamente riuscita. Joyce ha
colto la psicologia del sonno come nessuno ha mai fatto, riuscendo ad impadronirsi di certi stati
della coscienza che l’intelletto può difficilmente ricreare, e a distinguere con meravigliosa
delicatezza fra i differenti livelli di coscienza del dormiente. Vi è la relativa vividezza degli
avvenimenti riflessi dalla realtà del giorno passato; la viscidità d’incubo e il balbettio dei pesanti
sopori di mezzanotte; la leggerezza e l’assertoria vitalità che se ne sviluppa a mano a mano;
l’incipiente risveglio del primo mattino che torna a tramutarsi nelle filastrocche dei sogni; la
coscienza, più tardi, della luce esterna, col suo effetto come di velame di ciglia abbassate fra la
coscienza e il giorno. E attraverso tutto questo il calare del crepuscolo, il battere delle ore
all’orologio, la nebbia del mattino e il suo levarsi, la campana della messa mattutina, e il sole che
sorge alla finestra si fanno sentire dal dormiente. Con quale splendore sono resi da Joyce! E le voci
che echeggiano nel sogno di Earwicker, gli esseri che s’impadroniscono di lui e parlano per bocca
di lui: l’Albero e il Fiume, l’eloquenza di Shaun, il borbottìo e il chiacchierìo scorrevole dei vecchi;
la svolazzante giovinetta amorosa, la rassegnata moglie che invecchia; il brontolìo infastidito e
beffardo (che rasenta la pazzia e richiama l’apparizione di Virag nella scena della Walpurgisnacht di
Ulysses, ma qui associato col Diavolo) che viene come un incubo con l’oscurità e attraverso il quale
si fanno sentire a volte improvvisamente le voci dense della casa di Earwicker: « Mawmaw, luk,
your beeftay’s fizzin’ over’ » oppure « Now a muss wash the little face » (« O mamma guarda la tua
bistecca spruzza » o « Adesso debbo lavare la faccina »). Joyce non ha che da accennare il ritmo e il
timbro e noi sappiamo quale degli spiriti è con noi.

Alcuni degli episodi mi sembrano perfettamente riusciti: il capitolo di Anna Livia, per esempio,
e la fine di Hlaveth Childers Everywhere, che ha uno splendore e un ritmo audace che non hanno
riscontro nello stesso Joyee. Il brano in tono minore, che precede questo crescendo in maggiore e
descrive le abitazioni reali di Earwicker (« most respectable... thoroughly respectable... partly
respectable », e così via) è un capolavoro di umoristica grettezza (soprattutto quel « copious holes
emitting mice », « copiosi buchi che emettono topolini »); e così l’inventario a pp. 183-184 di tutti
gli oggetti inutili e assurdi nella casa in cui vive Shem l’Uomo di penna. La Ballata di Persse O’
Reilly(perce-oreille, buca-orecchio, earwig) che proclama la vergogna di Earwicker, è vera poesia
del sogno e terribilmente esilarante; e non meno esilarante la rivelazione (pp. 572-573) dei rapporti
sessuali colposi e intricati che prevalgono, si suppone, nella famiglia Earwicker, e che viene
presentata sotto la foggia di uno di quegli incomprensibili sommari di una leggenda di qualche
santo o di una tragedia latina. Il capitolo del risveglio è incantevole nel brano (pag. 565) in cui la
madre blandisce il ragazzo inquieto e nel riassunto (pag. 579) della vita matrimoniale degli
Earwicker; e riesce ad essere assai commovente ed emozionante nel riversare su quanto è già
avvenuto il pathos di una famiglia impoverita e schiva che Joyce ha il destino peculiare di
esprimere.

Dov’egli è meno felice, credo, è in episodi come quello del viaggio (pag. 311 sgg.), del giuoco
del calcio (pag. 373 sgg.) e dell’assedio di Sebastopoli (pag. 338 sgg.): tutti in quella intensa parte
del libro che ha il tono dell’incubo e che mi sembra in genere la più indigesta. Joyce è più poeta
quand’è idillico, nostalgico, o quando insanisce in modi introspettivi; ma non riesce ad esprimere
l’azione energica. Non vi è mai uno scontro diretto fra le coppie di antagonisti tipiche del Joyce, e
non v’è conseguentemente alcuna violenza reale (tranne dove Dedalus manda in pezzi il candeliere
per difendersi contro il rimprovero della madre morta). Tutto ciò che Joyce sa fare quando vuole
rappresentare una zuffa è di misturare uno sgraziato fiotto verbale. Per di più, si avvertono
generalmente nel Finnegans Wake gli stretti limiti degli interessi di Joyce. Egli ha tentato di rendere
universale la sua opera facendo che Earwicker partecipi, nel corso del suo sogno, a quante più
attività umane è possibile: ma Joyce stesso non ha la chiave né del mondo della politica, né di
quello dello sport e della violenza. I campi di attività che risultano meglio sono quelli sereni, come
l’insegnamento, come la predicazione.

La cosa più bella dell’opera, e una delle cose più belle che Joyce abbia mai scritto, è il brano
verso la fine in cui Ann, la moglie, può parlare per la prima volta con la sua voce piena e matura.
Ho notato che la narrativa di Joyce tratta in genere dei silenziosi raggiustamenti nei rapporti fra i
membri di una famiglia, di quel momento quasi impercettibile che segna l’inizio di una nuova fase.
In Finnegans Wake, il momento critico fissato è quello in cui il marito e la moglie acquistano la
consapevolezza definitiva (e si risveglieranno con quella consapevolezza) che la loro collaborazione
sessuale, il loro vincolo creativo è finito. Quell’energia non li tiene più polarizzati l’un l’altro come
uomo e donna; una nuova polarizzazione si attua, il padre è spinto verso i figli:
« Illas! I wisht I had better glances, » dice Ann-Anna, come Earwicker immagina di udirla (pag.
626), « to peer to you through this baylight’s growing. But you’re changing, acoolsha, you’re
changing from me, I can feel. Or is it me is? I’m getting mixed. Brightening up and tightening
down. Yes, you’re changing, sonhusband, and you’re turning, I can feel you, for a daughterwife
from the hills again. Imlamaya. And she is coming. Swimming in my hindmoist. Diveltaking on me
tail. Just a whisk brisk sly spry spink spank sprint of a thing theresomere, saultering. Saltarella
come to her own. I pity your oldself I was used to. Now a youngen’s there. »

È la « young thin pale soft shy slim slip of a thing, sauntering by silvamoonlake » « giovane
gracile pallida soffice timida sottile cosina che va a zonzo lungo il lago argenteolunare »; pag. 202
nell’episodio di Anna Livia Plurabelle) che ella stessa era stata una volta, e che ora le sembra buffa
e impertinente; e la moglie stessa è adesso il fiume vicino alla foce che si riversa nel mare. Qui la
corrente è più ampia, il suo fluire è più calmo: s’apre dinanzi ad essa l’ampia stagione
dell’esperienza. « I thought you were all glittering with the noblest of carriage. You’re only a
bumpkin. I thought you the great in all things, in guilt and in glory; You’re but a puny. Home! »(«
Pensavo tu fossi tutto splendente col più nobile portamento. Sei solo uno zotico. Pensavo tu fossi il
Grande in ogni cosa, nella colpa e nella gloria. Non sei che un meschinello. A casa! ») Ella lo vede
chiaramente adesso: non è né Tristano né Lucifero, ed è finito per lei, come ella è finita per lui. «
I’m loothing them that’s here and all I lothe. Loonely in me loneness. For all their faults. I am
passing out. O bitter ending! I’ll slip away before they’re up. They’ll never see me. Nor know. Nor
miss me. And it’s old ànd old it’s sad and old it’s sad and weary I go back to you, my cold father,
my cold mad father, my cold mad feary father. » (« Perdo coloro che sono qui e tutto ciò che
detesto. Perdutamente in me solitudine. Malgrado tutte le loro colpe. Io sto passando via. O amara
fine! Scivolerà via prima che si alzino. Non mi vedranno. Né sapranno. Né sentiranno la mia
assenza. Ed è vecchio e vecchio è triste e vecchio è triste e faticoso io ritorno a te, mio gelido padre,
mio gelido folle padre, mio gelido folle pauroso padre ») ...Ritornano le voci disperate e strazianti
dei bimbi di Earwicker: « Carry me along, taddy, like you done through the toy fair» («Portami
sulle braccia, babbo, come facesti per la fiera dei giocattoli», poiché adesso ella stessa è la creatura
infantile che si affida nelle braccia del mare, riversandosi nella luce del giorno che sarà il, suo
annientamento... « a way a lone a last a loved a long the... » (« via sola infine amata lungo il... »).

Il ciclo vichiano dell’esistenza ha compiuto ancora una volta il suo giro. Il periodo incompiuto
che chiude il libro troverà la sua continuazione nel periodo senza inizio col quale l’opera si apre. Il
fiume che si riversa nel mare deve ricominciare come nuvola; la donna deve abbandonare la propria
vita all’infante. Gli Earwicker si ridesteranno a un altro giorno, ma la notte li ha resi più vecchi: la
stessa liberazione della luce del giorno porta una stanchezza che si rivolge indietro alla sorgente
della vita.

In queste meravigliose pagine finali, Joyce ha trasfigurato tutto il suo intendimento in una
poesia di tale originalità, di tale purezza e forza emotiva, da sollevare Finnegans Wakecon tutti i
suoi eccessi al rango di grande opera poetica.

Edmund Wilson
tratto da La ferita e l'arco,Garzanti Milano 1973,trad.it. di Nemi D'Agostino
James Joyce e Dedalo

Nel manierismo del nostro tempo, il


«romanzo fiume» diventa «romanzo di idee». Con ciò acquista nuova profondità, e riesce di uno splendore
formale che i suoi embrioni preziosi (tranne Cervantes) del Cinquecento e del Seicento avevano raramente
raggiunto. Con James Joyce, il romanzo manieristico è portato alle ultime ed estreme conseguenze. È
diventato il romanzo d’avventure intellettuale, la « trasformazione dell’immagine interna » in « immagine
esterna», un’opera di ingegneria dedalica, il modello della follia metodica.
Nel Dedalus(1916) Joyce dà al personaggio principale il nome « Dedalus ». E questi invoca il suo antico
omonimo: «Vecchio antenato, vecchio artigiano, assistimi ora e sempre. » Dedalus è l’artefice leggendario
della preistoria. Diventa il simbolo dell’artista fabbro. I misteri orientali si rinnovano. Bloom, il protagonista
dell’Ulysses, è « un ebreo greco o un greco ebreo, gli estremi si toccano ».Tutti sono liberati per opera di una
donna... Arianna.
Questo romanzo di J. Joyce è, anche sotto l’aspetto compositivo, « costruito » secondo i principi di una
labirintica ambage. La tematica segue il complesso dei simboli che sono noti dal mito di Teseo-Arianna-Dedalo.
Il labirinto diventa la metafora dell’« esistenza » umana, il simbolo del subconscio. Trovarne l’uscita vuol dire la
salvazione. Ma il labirinto è un « corridoio » senza fine. La sua forza oscura è più forte della speranza dei più.
Dublino, la città, la vita, l’uomo, tutto è labirinto. Ci si perde, quando si crede di aver trovato il centro o l’uscita.
Ma nel centro e in agguato il Minotauro. Che accade, quando si giunge in quel fondo aggrovigliato? Gli inferni
di Omero, Virgilio, Dante, Rabelais, Grimmelshausen, Goethe, Kafka, Sartre sembrano innocui in confronto
all’inferno labirintico di Dedalo. In esso si patisce l’essere senza scampo, la pena dell’essere se stesso, poiché
- ogni possibile e comunque irreperibile uscita è murata. James Joyce descrive l’orrore: « Ogni lordura del
mondo, ogni letame, ogni pantano si raccoglie colà
[nel labirinto] come in una fumante cloaca. ». « Là dentro ogni dannato è l’inferno di se stesso. » Tutti i sensi
sono tormentati e soprattutto la mente, che è condannata all’eterna consapevolezza di essere senza scampo.
Soltanto con l’astuzia, con l’invenzione ingegnosa, si potrebbe fuggire dal labirinto, come tentò Dedalo con il
figlio Icaro.
Come ribelle, qui la potenza dell’intelletto inventore si oppone al fato della dannazione; già Faust lo tentò. Ma il
Faust di Goethe trova una «via d’uscita»: alla fine della seconda parte, Faust diventa la figura mitizzata dell’«
ingegnere». Si sottrae al dubbio dell’inferno. La solidarietà sociale è il senso supremo della vita: prosciugare
paludi, « su libero suolo con libera gente stare». È questo il presupposto della salvazione di Faust, del suo
mitico volo liberatore, mentre le creature di Joyce, nell’«Inferno » perversamente persistono. Goethe abbraccia,
come Dante e Shakespeare e Bach, tutte le sfere:

Und hat an ihm Liebe gar


Von oben teilgenornmen,
Begegnet ibm die selige Schar
Mit hetzlichem Wilkommen)

(Se mai di lui l’Amore ,/ dall’alto si curò, /


l’accoglie la beata schiera con gaudio: benvenuto.)

Tratto da:
Gustav René Hocke
Il manierismo in letteratura
Garzanti, Milano 1975
Un'opinione di Gustav R. Hocke sul manierismo in Dedaluse Ulysses

In un vecchio ma non invecchiato saggio «Joyce e la tradizione del romanzo» del 1950, (che leggo ne I
funamboli, Einaudi, Torino 1974) Giorgio Melchiori sottolinea gli elementi forti di continuità con la tradizione
romanzesca inglese, piuttosto che quelli di rottura. «Il Joyce non infrange, ma riprende una tradizione». «Per
quel che riguarda la tecnica strutturale (o meglio le tecniche), si ricollega, al di là dell’ Ottocento, agli
esperimenti dei romanzieri settecenteschi».
Infatti Joyce rompe, se rompe, con la tradizione romanzesca oggettiva e realistica culminata nell’opera
di Flauberte James. Ma questa non è la forma stabile e consacrata del romanzo. Prima di questa c’era stata la
stagione settecentesca del genere, soprattutto quella di tradizione satirica e picaresca, che in Francia aveva
avuto i suoi sommi rappresentanti in Lesage (mentre in Spagna c’era stato il Don Chisciotte) e in Inghilterra il
magistero di Swift, Fielding, Smollett e Sterne. Orbene, prima che il romanzo si chiudesse nella «narrazione
lineare» e «nel perfetto equilibrio formale» indicato dalla Austen (narrazione oggettiva congiunta all’indagine
psicologica), il romanzo aveva vissuto nel '700 la sua erranza giovanile ( peraltro con romanzi in movimento,
non romanzi da fermo) e il suo acceso sperimentalismo formale, tecnico e linguistico.

Melchiori stabilisce un parallelo stretto tra l’Ulyssese il Joseph Andrewsdi Fielding. Il vero modello di questo
romanzo è indicato dallo stesso Fielding in un… originale omerico perduto. «Joseph Andrews, pertanto è una
specie di Odisseain prosa, dove alle avventure in terre fantastiche e tra popoli strani vengono sostituite le
avventure in Inghilterra d’un viaggiator settecentesco: i porti diventano locande lungo le strade maestre, i popoli
mitici diventano gli strani personaggi incontrati per via». Lo stile del romanzo di Fielding è parodistico ed
eroicomico. Ma anche l’Ulyssesè tale, e il suo parallelismo diretto con l’Odisseanon deve far dimenticare
anche il parallelismo alla rovescia, parodistico.

Altri punti in contatto tra i due romanzi sono:

- la frequente interruzione della narrazione dalla discussione di argomenti non connessi con essa (che
vanno dalle polemiche letterarie con romanzi correnti - Pameladi Richardson - alle deficienze del sistema
giudiziario inglese; ad argomenti teatrali

- gli improvvisi mutamenti di stile.


«Naturalmente, la struttura dello Ulyssesjoyciano e la sua tematica sono infinitamente più complesse, ma resta
comunque il fatto che già nel 1742 era stato scritto un libro che dimostrava come la forma narrativa potesse
assumere e sostenere un’elaborata struttura tematica ed esprimere una vasta gamma di interessi».

Altre affinità ed omologie strutturali con l’Ulysseso il Finnegans Wake, Melchiori rintraccia nelle opere di Sterne,
(soprattutto nel Tristram Shandy) e nei romanzi di Smollet (PeregrinePickel, RoderickRandom). Interessi
esoterici e condivisione del carattere erratico della narrazione e della scrittura semiatumatica tra Joyce e
Sterne; felibrismo e manierismo linguistico tra Smollet e Joyce.
Infine altra rispondenza tra l’opera di Joyce e la tradizione del romanzo inglese è nel realismo fisico e
nell’umorismo da trivio. Insomma nella “volgarità”. «Questa volgarità, quest’umorismo da trivio, presenti perfino
in Fielding, scomparvero con Jane Austen e nei romanzi dell’Ottocento, e riaffiorarono nuovamente in Joyce.
Essi sono dovuti in parte a una franchezza che le convenzioni vittoriane avevano soppresso, e in parte anche
al tentativo di quei pionieri della nuova forma narrativa di affrontare ed esprimere la vita nella sua totalità»

Nel 2003 è uscita per le edizioni di Storia e Letteratura una ristampa del libro del grande studioso che abbiamo
qui citato in una vecchia edizione non più disponibile dell'Einaudi

Giorgio Melchiori, I funamboli.Il manierismo nella letteratura inglese. Da Joyce ai giovani arrabbiati

Vedi su IBS Qui


James Joyce, Gente di Dublino Ordina da iBS Italia

Considerati tra i capolavori della letteratura del Novecento, questi quindici racconti - terminati nel 1906 ma
pubblicati soltanto nel 1914 perché per la loro audacia e realismo gli editori li rifiutarono - compongono un
mosaico unitario che rappresenta le tappe fondamentali della vita umana: l'infanzia, l'adolescenza, la maturità,
la vecchiaia, la morte. Fa da cornice a queste vicende la magica capitale d'Irlanda, Dublino, con la sua aria
vecchiotta, le birrerie fumose, il vento freddo che spazza le strade, i suoi bizzarri abitanti. Una città che, agli
occhi e al cuore di Joyce, è in po' il precipitato di tutte le città occidentali del nostro secolo.

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