Sei sulla pagina 1di 84

Indice

Rileggendo il testo di Arcangelo Lisi


Al lettore. Introduzione di Attilio Grassi
Arcangelo Lisi
1. I prodromi
2. Germinal : 1900- 1910
3. 1910- 1920. Lotte personali e guerra mondiale
4. 1919/20 - 1930. Ottimo inizio. Anni difficili
5. Movimento operaio, associazione combattenti, società operaia dal
1920 al 1956
6. 1930- 1942. Anni grigi
7. 1943 - 1956. Anni variabili. Post fata resurgo (1)
Rileggendo il testo di
Arcangelo Lisi

Leonardo (Dino) Angelini

Reggio Emilia, Dicembre 2015

Avevo ascoltato varie volte i comizi di Arcangelo Lisi durante la mia


infanzia e la mia adolescenza. E nella mia memoria il ricordo di lui
come oratore – della sua immagine e della sua parola - si affianca a
quelle di Attilio Grassi, che dopo di lui fu segretario della sezione del
PCI di Locorotondo, e col quale si alternava spesso al microfono.

Li ricordo su di un palchetto tutto fasciato di rosso, con tanti manifesti


sempre uguali che invitavano a votare PCI, e di sera illuminato da
una nuda lampadina. Ad ascoltarli sempre tanta gente: i compagni
iscritti e simpatizzanti, e spesso molti curiosi.

Ma, mentre conoscevo da lungo tempo il maestro Grassi, innanzitutto


perché era stato mio maestro in quinta elementare, e poi perché era
amico di mio padre, solo verso la fine dell’adolescenza ebbi modo di
conoscere direttamente Arcangelo. Fu lui a rivolgersi a me,
probabilmente perché era venuto a sapere che nel ’63 avevo aderito
allo PSIUP.

“Abbiamo bisogno di giovani intellettuali!” Diceva spesso a me ed a


Gino Palmisano ogni volta che c’incontrava.
Era molto curioso: voleva sapere come la pensavamo. Ma nello
stesso tempo, senza darlo a vedere, ci teneva a “fare della buona
propaganda” – come dirà nel libro che ora il lettore ha sotto gli occhi
parlando dei soldati della Piceno accampati durante la guerra sotto la
sua casa –, a farsi voler bene con i suoi modi affabili. Ci consigliò di
leggere ‘Il Metello’ di Pratolini, nella cui figura s’identificava, come
capimmo io e Gino non appena lo leggemmo.

E quando fu sicuro del nostro modo di pensare ci diede la leggere il


suo manoscritto: cosa che facemmo immediatamente,
complimentandoci poi con lui per la sua vivida e appassionata
descrizione delle cose di Locorotondo, che nel suo racconto quasi
sempre s’intrecciavano con la sua storia personale, fino a far
diventare quel manoscritto come un qualcosa di vero, di unico e di
prezioso per noi locorotondesi; e non solo, se è vero -come è vero-
che spigolando su internet dopo 45 anni molte sono le tracce che ci
riportano ad Arcangelo ed al suo testo.

Apprendemmo dopo che quel manoscritto per certi versi era per lui
una specie di biglietto da visita col quale si presentava ai giovani di
Locorotondo, per altri la testimonianza di un’amara verità politica che
rischiava di essere sottaciuta, e che lui, con le sue parole scritte
(scripta manent!) voleva gridare a squarciagola in maniera che
almeno i locorotondesi lo ascoltassero.

Cosicché quando Arcangelo morì decidemmo, con Gino Palmisano e


mio fratello Antonio, di dare alle stampe il manoscritto (che purtroppo
ritrovammo mutilato di una sua parte importante). Facemmo così: io
dettavo a Gino, che batteva a macchina il testo, così come Arcangelo
l’aveva scritto. Avevamo deciso di mantenerci puntigliosamente fedeli
alla forma e perfino alla punteggiatura impressa da Arcangelo per
ragioni evidenti, ma anche perché chi lo aveva conosciuto in vita,
leggendo quel testo aveva l’impressione di riascoltarlo.

Il suo italiano parlato, così come quello scritto, gli provenivano più
dalla lettura dei giornali socialisti e anarchici che dalla scuola, dove
dopo il 1° Maggio del 1903 un maestro reazionario lo prese a schiaffi
rimproverandogli il suo primo comizio (“Chi era il vero maestro?” – si
chiederà poi Attilio Grassi nella sua bellissima introduzione del ’70 –
“giudichi il lettore!”).

Ed a proposito di anarchia: ci dirà poi Arcangelo, in una delle sue


confidenze, che da ragazzo aveva avuto simpatie anarchiche, poi
temperate dall’influenza esercitata su di lui da Giovanni Gianfrate, il
fondatore del Partito Socialista locorotondese. Ed in questa
confidenza oggi – dopo aver letto di Paolo Perrini e di Elvira
Catello (1), anarchici locorotondesi della generazione precedente a
quella di Arcangelo, emigrati a New York agli inizi del secolo – risento
gli echi di quel movimento anarchico italiano e pugliese (Nicola
Sacco!) che poi tanta parte ebbe nella storia nel movimento dei
lavoratori statunitensi degli anni Venti.

Dopo aver letto di Perrini e della Catello, ma anche dopo avere


ascoltato le canzoni anarchiche da parte dei vecchi militanti socialisti
e comunisti locorotondesi in occasione di un I° Maggio degli anni ’60.
Quelle canzoni che Arcangelo cantò nelle carceri di Bari con
Giovanni Gianfrate, Saverio Bagordo e Francesco Nicandro, dove
erano stati reclusi come pericolosi sovversivi in occasione delle
nozze del principe Umberto, “cantando a squarciagola .. tanto
pericolo di andare in carcere non se ne aveva perché in carcere
c’eravamo già!”.

Come quarantacinque anni fa è toccato di nuovo a me rileggere


attentamente il testo e in certo qual modo ancora una volta ricopiarlo.
Nel farlo sono rimasto colpito da alcuni elementi.

Innanzitutto ciò che solo ad uno sguardo superficiale può apparire


quasi come una serie di amnesie: Arcangelo non dice nulla dei suoi
anni di guerra (anche se parla diffusamente della sua attività
successiva nell’associazione ex-combattenti); quasi nulla della sua
esperienza di emigrazione (anche se con pochi tratti descrive
orgogliosamente la solitaria partecipazione sua, di suo fratello e di un
altro operaio locorotondese alla manifestazione del I° Maggio a
Varnsdorf, ed altrettanto rapidamente del destino di emigrazione di
molti operai locorotondesi agl’inizi del ‘900). Evidentemente
considerava questi traumi come inscritti nell’ambito delle possibilità
concrete e – direi - quotidiane del proletariato di cui faceva parte.

In secondo luogo il legame con la generazione locorotondese del


Risorgimento e della lotta contro il brigantaggio, nel suo racconto
rappresentata dalle figure di Francesco Mauro e di Giuseppe
Mirabile: il primo ricordato sia per la sua confidenza con “tutti i
caporioni del Risorgimento” che lo condusse a provvedere non per
sé, ma per il paese sbloccando a Firenze - allora capitale del regno -
il lascito testamentario del benefattore Montanaro col qual sarà
costruito l’ospedale locale; il secondo ricordato per il suo spirito laico
che lo porterà ad esigere per sé il primo funerale laico locorotondese,
con l’ostilità della chiesa locale, rimasta borbonica, come gran parte
della chiesa pugliese. È come se volesse dirci che i veri eredi
locorotondesi del Risorgimento furono i laici socialisti ed i comunisti,
e non i borghesi locali, che nel resto delle sue pagine sono descritti –
con rarissime eccezioni – come trasformisti, egoisti, approfittatori,
arroganti, bigotti (specie nel secondo dopoguerra), e spesso violenti.

Ed infine la sua capacità di mantenere la calma in un mare


burrascoso ed irto di pericoli, di violenze e di attentati alla sua
persona ed a quella dei suoi compagni, grazie anche ai sapienti
consigli di Giovanni Gianfrate, dal quale non si separerà mai,
nonostante la diversa militanza dopo il ’21. Questa capacità di non
trascendere, di mantenersi coerente con il precetto gramsciano che
invitava a coniugare l’intransigenza con la tolleranza, che in lui di
univa ad un intuito non comune che lo portava a valutare acutamente
doti e difetti di compagni ed avversari, gli hanno permesso di non
abbassarsi davanti ai potenti senza urtarli (con lui si può parlare,
dicevano i vecchi diccì); di saper discernere fra avversari infidi e miti
(di buona indole, dirà dell’ultimo gerarca fascista locorotondese); di
indire uno sciopero in piena epoca fascista, e di riuscire a chiuderlo
positivamente! Sentiamo come Arcangelo descrive questo episodio:

“Nel 1932 mentre si facevano le fognature, la ditta Sardone


Vito approfittando della grande disoccupazione degli edili
pagava salari di fame e con intenso sfruttamento, secondato
da alcuni operai traditori dei loro fratelli. lo organizzai uno
sciopero. Una mattina, lavoratori, scalpellini e manovali, non
si presentarono al lavoro. Intervennero i carabinieri,
domandando agli operai perché non si erano presentati al
lavoro. Nessun operaio disse che aveva scioperato,
dicevano che non si sentivano bene, o che avevano da fare
qualcosa personale, o che avevano qualche ammalato in
casa. Intervenne da Bari il segretario provinciale Lovecchio
Musti al quale il Sardone ci presentò come un branco di
sovversivi. Bene, disse Lovecchio Musti, ne carichiamo un
paio di camion e li portiamo in carcere. lo ero dietro la porta
del podestà, che era ancora Pinto e udii tutto. Allora
intervenni alla testa di una delegazione di operai, dissi al
Lovecchio Musti le paghe che percepivano gli operai, l'orario
di 12-13 ore che si praticava, e le altre angherie che
sopportavamo, concludendo che non si trattava di uno
sciopero; ma di una protesta contro la Ditta, e che gli operai
erano contenti che fosse venuto lui, perché potesse fare da
intermediario. Allora, disse Musti, hanno ragione gli operai;
e a suo mezzo il prezzo delle basole e dei cordoni fu
aumentato, come pure i cottimi e il salario degli operai.”

Vorrei chiudere con un episodio ch’egli aveva narrato a me ed a


Gino, che non viene riportato nella sua Storia per rispetto, credo, a
Giuseppe Di Vittorio.

Subito dopo la scissione il I° Maggio del ’21 a Locorotondo si tennero


due comizi: il primo per i socialisti fu tenuto da Di Vagno, il secondo
per i comunisti da Di Vittorio, che proprio in quella occasione venne
per la prima volta a Locorotondo (per poi tornarci poco dopo proprio
per inaugurare la lapide che ricorda il martirio di Di Vagno ad opera
dei fascisti).

Arcangelo Lisi e Giovanni Neglia, che ancora non lo conoscevano di


persona, e che andarono alla stazione ad accoglierlo, quando videro
Di Vittorio rimasero di stucco, ed inoltrandosi a piedi verso il centro si
guardavano sgomenti perché, da come Di Vittorio era vestito,
sembrava una persona poco istruita. Era tutto lacero e rattoppato.
Persino la coppola era lisa e rattoppata, ci diceva Arcangelo. Per cui
erano in apprensione perché Di Vagno era un grande oratore e
temevano di fare brutta figura proprio nella prima uscita pubblica
come comunisti. Ma quando, salito sul palco, Giuseppe Di Vittorio
cominciò a parlare scoppiettando (acquànne akkumenzò a
sckattrascé!), ragazzi!, capirono subito di che pasta era fatto!!

Per il resto invito il lettore a leggere (o rileggere) l’introduzione del


1970 di Attilio Grassi, che lo conobbe, gli fu amico e militò con lui
finché Arcangelo visse.

(1) cfr: Elvira Catello e la "Lux" tra utopia e libertà. Una pacifista
pugliese a New York nel '900 di M. Gianfrate; J. Guglielmo; Vito A.
Leuzzi, Edizioni dal Sud, 2011
Al lettore. Introduzione di Attilio
Grassi
(il maestro Attilio Grassi, è stato Segretario della Sezione
locorotondese del P.C.I. dopo Arcangelo Lisi)

Con la pubblicazione de "La storia del movimento operaio di


Locorotondo" di Arcangelo Lisi, muratore autodidatta e antifascista,
intendiamo offrire soprattutto ai giovani d'oggi, l'alta testimonianza di
virtù morali, civili e politiche di cui, per più d'un settantennio, fu
portabandiera. Autentico rivoluzionario marxista - leninista, in quanto
mai ebbe paura della Ragione; anzi nella Ragione e nella Verità ebbe
la sua arma più propria, che, in tanti anni di milizia rivoluzionaria,
oppose alla violenza fisica e morale di cui fu sempre oggetto insieme
con pochi altri compagni, prima nella sua Locorotondo, prefascista e
liberale, indi in quella fascista, dominata sempre dalle stesse fazioni,
le quali, aderendo in massa al fascismo, continuarono, per qualche
decennio, ad amministrare il Comune all'ombra del fascio e sotto la
protezione dei manganelli.

Gl'inediti "Ricordi" del Lisi, che presentiamo senza nulla togliere o


correggere, ci sembrano quindi degni di essere pubblicati, in quanto
narrazione autobiografica, appassionata e lucida di un umile operaio
che vide giusto quando i più: gl'intellettuali, i "borghesi", coloro che
avevano avuto il privilegio di andare a scuola, brancolavano nel buio.
In un mondo offuscato da violenze, soprusi e abbruttimento della
persona umana, Egli seppe trovare la via giusta, la via della lotta per
la redenzione e per il riscatto delle plebi contadine ed operaie,
oppresse nella loro dignità di uomini liberi. Fu il Lisi che, vero
antesignano, volle e seppe indicare una scintilla di luce per la
conquista della libertà e della giustizia, quale il Socialismo soltanto
poteva insegnare.

In forma piana e scarnificata narra le lotte contadine ed operaie


combattute nel nome del Socialismo nella nostra Puglia, per quasi
mezzo secolo. Vissute non da dirigente, ma da semplice ed oscuro
gregario, a volte incompreso, a volte vituperato, il Nostro cerca con la
lotta politica quotidiana, i mezzi e la via per la formazione di una
coscienza di classe fra gli edili, i contadini, gli artigiani. Con un
linguaggio semplice, asciutto e senza fronzoli ci dà un quadro
veramente realistico delle dure condizioni, in cui quella lotta si svolse.
I rapporti con i suoi concittadini, con la classe operaia, durante il
fascismo, i "personaggi" del tempo rivivono in pagine schiette,
spontanee, rimeditate e sofferte nella memoria. Attraverso la lettura
dei "Ricordi» del Lisi, il lettore è portato a rivivere il dramma doloroso,
umano e sociale che Egli visse nei primi del Novecento, allorché gli
onesti operai affamati ed abbrutiti dalla miseria, a causa della
disoccupazione e dello sfruttamento, erano costretti a bussare alle
porte dei "signori" del tempo per chiedere l'elemosina d'un pezzo di
pane nero, che spesso veniva loro negato: primo impulso, per il Lisi,
alla ribellione anarcoide, dal quale successivamente si liberò a mano
a mano che andava prendendo coscienza di sè.

Ancora bambino entrò nel vivo della lotta per la redenzione degli umili
e degli oppressi della sua Locorotondo. In occasione della ricorrenza
della "Festa del Lavoro" del lontano 1903, Egli, appena decenne,
ricorda: "Io il I° Maggio 1903 (frequentavo la IV elementare) a Monte
guerra scrissi qualcosa e parlai ai lavoratori per la prima volta. Cosa
dissi non ricordo, certo da uno scolaro di dieci anni non si poteva
pretendere tanto; ebbi tanti battimani ed abbracci e il giorno dopo uno
schiaffo dal maestro a scuola». Chi dei due era il vero Maestro?
Giudichi il lettore! Nel 1921, con la scissione di Livorno, il Lisi aderì al
Comunismo, dove militò fino al 1968, anno della sua morte.
Infatti il socialismo che andava verso il riformismo socialdemocratico
non lo soddisfa. S'impadronisce del Materialismo storico, legge Marx,
Engels, Lenin. L'arma potente del Marxismo gli serve per interpretare
la realtà e quindi cangiarla. Comprende che la classe operaia può
spezzare le catene della schiavitù attraverso la lotta rivoluzionario e
non col riformismo piccolo-borghese, della cui azione moderatrice, è
vittima illustre l'On. Peppino Di Vagno, ucciso vigliaccamente a Mola
il 25 settembre 1921, ad opera delle squadracce fasciste. Dopo
l'assassinio dell'altro grande martire socialista, Giacomo Matteotti,
avvenuto nel 1924, il compagno Lisi scrive: ". . . se l'opposizione,
invece di ritirarsi platonicamente sull'Aventino avesse fatto un atto di
forza e chiamato il popolo, il fascismo sarebbe caduto». Ma le cose,
purtroppo, andarono diversamente!

Salito al potere il fascismo, il Nostro continua a condurre la sua


battaglia nella clandestinità, accettandone rischi e sofferenze d'ogni
specie. E fu allora che, nell'Italia in camicia nera, orbaciata e stivalata
— nella sua Locorotondo dove tutti, opportunisticamente,
rinunziarono, cedettero, Mollarono vergognosamente, si lasciarono
assorbire per bisogno, per paura o per cupidigia di posti e di
prebende, o anche per bassi ed egoistici interessi di parte — fu
allora, dicevamo, che in una società, dove ogni originalità tendeva a
disperdersi nel coro osannante all'imposto regime e al suo duce, la
voce del compagno Lisi, si levò alta, limpida e solenne e diventò
simbolo di libertà, di giustizia, di liberazione.

In ciò sta l'alto valore ideale, morale ed educativo della sua


personalità di resistente antifascista, che volle e seppe distinguersi
dalla massa! In quell'infausto ventennio, quando i più, gli altri erano
diventati folla anonima, succubi per interesse o per viltà dei ducetti,
uomini senza personalità, timorosi della Ragione e della Verità, il
Nostro, insieme con pochi altri locorotondesi e pugliesi, fu soltanto se
stesso: un Uomo, un democratico, un socialista. Per decenni il Lisi
sopportò percosse, ingiurie, perquisizioni domiciliari, intimidazioni, e
la stessa galera fascista in nome dei suoi ideali e della sua dignità di
Uomo libero.
Il 25 luglio 1943, alba gloriosa di Liberazione nazionale e sociale, il
Lisi apprende, mentre in bicicletta si recava al quotidiano lavoro di
umile muratore che "Lui se n'è andato" Il fascismo era caduto! Le
carnevalate erano finite! E ne gioisce e si rallegra perché pensa e
crede che la Ragione abbia, finalmente, trionfato della violenza. "Dei
fascisti — egli scrive — neanche più l'ombra. Vigliaccamente tutti
erano contro il fascio, che fino al giorno avanti, avevano osannato". In
Lui nessun segno di rancore, nessun sentimento di odio verso
chicchessia! La grande Umanità di cui era capace il suo nobile cuore
Gli la tutto dimenticare e perdonare.

Ma la sua non era che una pia illusione! . . Ancora una volta la
violenza e l'odio accecano gli animi dei suoi avversari, dei
neo/fascisti, che, in un infausto giorno del novembre 1945, ritornano,
com'è loro costume, all'uso della violenza. Quel giorno una folla di
scalmanati teppisti, aizzati da pochi ben individuati vigliacchi,
bruciano la sezione del P.C.I., demoliscono la lapide del martire
socialista Giuseppe Di Vagno e, selvaggiamente, brutalmente,
battono a sangue, percuotono, picchiano ancora una volta il Lisi, che
insieme a pochi altri compagni, è a difesa della sezione del Partito.
Anche stavolta nessuna reazione da parte sua. Subisce ancora! Non
reagisce, non per viltà o cristiana bontà, ma perché "Uomo», e come
tale Egli è un forte! L'uomo, il cavaliere di un ideale di Giustizia, di
Libertà e di Uguaglianza ha fede ancora nella Ragione, che un giorno
dovrà inevitabilmente trionfare.

"Quello che mi dispiacque — commenta, dopo le subite violenze —


fu che bruciarono la biblioteca da me fondata con circa 150 volumi
miei di cui alcuni, di grande valore perché testi antichi . . .".

Ecco l'uomo, l'autore dei "Ricordi": un grande militante antifascista e


comunista, nato in un piccolo e bel paese del Sud della nostra Puglia,
la bella e laboriosa Locorotondo, che Egli onorò col lavoro e con
l'etica dei suoi nobilissimi sentimenti.
All'attenzione e alla meditazione dei giovani e di quanti ancora
sentono il culto delle memorie ed il rispetto riverente per le cose
grandi e nobili che furono, con l'augurio che essi, pur vivendo in un
mondo imbevuto dei veleni del fascismo, del fanatismo e della
intolleranza, in cui il "conformismo" e il "trasformismo" imperano e i
"voltagabbana" sono ancora numerosi, né vi mancano i "gattopardi",
sapranno intendere ed apprezzare la virtù ed il valore educativo di
queste belle e commoventi pagine, che ci paiono tanto più preziose in
quanto vengono da un Uomo che non fece mestiere di scrittore e
neppure ebbe memorie e ricordi per esaltare ed esaltarsi.
Arcangelo Lisi

La luce della storia — il socialismo —

splende anche nella terra dei morti.

Dalla viva coscienza tua

di militante comunista

nasce la speranza,

la lotta degli altri compagni.

— La vittoria sarà nostra

se lo vorremo, se combatteremo —

Ce lo hai detto dall'odio da ragazzo

scoperto per i ricchi agrari

affamatori del popolo

(come hai scritto),

dalle pietre sudate di sangue

di sfruttato,

dalla lotta di classe nel partito

qui da te e da altri costruito.


Finora sempre i morti hanno prevalso

qui,

ma la collera dei vinti

dei dannati della terra anche da noi vincerà.

Ed allora vedranno

come il seme che gettaste

non fu invano.

(di Dino Angelini, 1968)


1. I prodromi
'Sventoleranno le bandiere rosse' (parole del compagno Giovanni
Neglia in punto di morte)

Correva l'anno 1898-1899. L'inverno rigidissimo, la neve alta, la


numerosa classe edile da tempo disoccupata, la miseria anche fra i
piccoli proprietari campagnoli, che a Locorotondo vivevano e vivono
tuttora sempre nella campagna, avulsi ed estranei ad ogni
movimento non dico nazionale, ma persino comunale, la fame, la
vera fame in tutte le case degli artigiani, queste erano le condizioni di
quegli anni.

Ricordo bravi operai chiedenti l'elemosina, girare per le case dei


ricchi, per avere due centesimi o un soldo (5 cent.) o un tozzo di pane
(il pane nero e amaro costava 25 cent. il Kg.; il bianco 30). Ricordo
che una volta in piazza sei o sette giovani, fra i quali due miei fratelli
maggiori andarono a chiedere l'elemosina; io ravvolto in un
vecchissimo e sbrindellato scialle di mia madre li seguii nella neve
alta. Andammo a bussare alla casa del sig. Francesco de Bernardis
ed avemmo un pugno di pere secche ciascuno; di lì andammo alla
villa dei sig. Giovanni Basile Caramia (ora scuola Agraria, istituita da
lui dopo la sua morte) che ci diede un soldo ciascuno. (Bisogna
aggiungere che questo signore faceva sempre la carità a tutti i poveri
che a lui ricorrevano, dando in denaro o due centesimi o un soldo, o
un pezzo di pane).

Quindi tornammo in paese e bussammo alla casa di un altro riccone


per quei tempi, il comandante Nicola Aprile Ximenes, ci aprì il
cocchiere; ma giunti sul pianerottolo del palazzo uscì il comandante
che ci scacciò villanamente e voleva licenziare il cocchiere perchè
aveva aperto il portone.

Inutile riferire le imprecazioni che dalla piazza levarono gli operai che
avevano bussato e anche quelli che non ci erano andati, e dato che il
palazzo si trova sulla stessa piazza certo sentì anche lui. lo per me,
fanciullo ancora godevo della gazzarra contro quel signore, e forse, il
primo impulso ribelle mi venne di lì.

Intanto la fame era grave, e per la prima volta, gli operai, gli edili
soprattutto al grido di pane e lavoro si portarono sotto il municipio,
per cui vi furono alcuni fermi; ma questi tumulti, benchè fatti di sole
grida si ripeterono varie volte. Nella campagna invece avveniva
qualcosa di peggio. Una vera e propria associazione a delinquere si
era formata, per cui non passava giorno che non vi fossero per la
campagna cinque o sei grossi furti. Ma il furto del grano alla masseria
Lella sulla via di Martina Franca fu fatale all'associazione. Di primo
acchito ne furono arrestati 36 che ammanettati a quattro a quattro
con la neve e a piedi vennero condotti a Martina Franca dai
carabinieri, altri li seguirono; moltissimi rimasero celati.

Il contegno della popolazione verso gli arrestati fu durissimo: fischi,


sputi, sberleffì; specie perchè in mezzo ad essi vi erano parecchi
piccoli proprietari terrieri, che non soffrivano la fame come gli
artigiani.
2. Germinal : 1900- 1910

Intorno al 1900 vi è un risveglio nella massa operaia e artigiana.


Incomincia l'emigrazione verso Trieste e di lì in tutta l'Austria-
Ungheria, in Romania, Bulgaria, in Egitto e Palestina (in questi due
paesi si dormiva attendati e sempre armati causa le bestie feroci e gli
uomini ostili). Più tardi l'emigrazione prese la via degli Stati Uniti,
dell'Argentina e del Brasile, che tolse le migliori energie ai paese e
moltissimi non sono più tornati. Quelli che presero la via delle nazioni
europee partivano regolarmente a primavera e tornavano verso
dicembre con il loro gruzzoletto; o rimpatriati colla leggiera (dai
consolati italiani all'estero perché senza mezzi).

Nel 1900 fu fondata la Sezione Socialista, composta di artigiani ed


edili: circa 20 persone in tutto. Promotore e animatore del novello
movimento un giovanissimo barbiere GIOVANNI GIANFRATE.
Intelligentissimo, colto autodidatta, pieno di fede e di ardore, profonde
tutta la sua nobile anima e il suo fertile ingegno nella lotta per il suo
ideale, che allora sembrava più che un sogno, una mera utopia. Figlio
di operai, ne comprende e ne vive i dolori, le ansie, le speranze; lo
sprone ad incitare, a unire, a dirigere i lavoratori verso nuove vie e
nuove aspirazioni.

Apertosi la costruzione del tronco ferroviario Bari-Locorotondo, fonda


la Lega di resistenza fra Muratori e affini, che a poco a poco
raggruppò tutti gli operai fino a raggiungere l'elevatissimo numero fra
paesani e forestieri di oltre 900 aderenti. Presidente Giacovelli Luigi.

Due episodi dei primi tempi della lega mi rimangono impressi nella
mente: 1° -Uno sciopero, il primo avvenuto a Locorotondo durante la
costruzione della ferrovia, per migliorare il salario e ottenere le 10 ore
di lavoro. Un mio fratello lavorava su un ponte vicino al paese; gli
scioperanti venivano da qualche miglio più in su. Il capo dei muratori,
di Locorotondo stesso, avuta notizia che si avvicinavano gli
scioperanti diede ordine agli operai di tenere dei sassi in mano per
lanciarli contro gli scioperanti se questi avessero tentato con la forza
di far abbandonare il lavoro; e gli operai per paura di essere licenziati
obbedirono; ma gli scioperanti non andarono sul lavoro, si limitarono
dalla strada provinciale di Alberobello di invitarli ad abbandonare il
lavoro e di seguirli. Qualche settimana dopo quegli operai entrarono
nella lega facendo causa comune coi compagni.

2° Alla costruenda stazione ferroviaria vi era un certo sig. Francesco


(non so il cognome) un forestiere che faceva l'assistente, e sul lavoro
con gli operai era un cane arrabbiato.

Gli operai, per paura di essere licenziati, subivano e tacevano, ma lo


odiavano con tutto il cuore.

Un giorno se la prese con un giovane muratore: Giuseppe


Campanella, e siccome questi gli rispose lo licenziò in tronco come
esempio. La domenica successiva, il dopo pranzo come al solito vi
era molta gente a chiacchierare in piazza e fra essi Giuseppe
Campanella. Dallo stradone affiancato da alcuni leccapiedi salì il sig.
Francesto. Giuseppe Campanella gli mosse incontro domandando
che venisse ripreso a lavoro, quegli rispose di no e di parola in parola
si azzuffarono vicino alle colonne della villa comunale. Contro il
giovane Campanella si mise anche il padre, che aveva timore che per
causa del figlio fosse licenziato lui. Il Campanella scivolò e cadde
sotto al sig. Francesco che cominciò a tempestarlo di pugni; ma uno
della folla, rimasta spettatrice impassibile fino allora, corse verso la
mischia, e afferrato un peso da su una bilancia dove si vendevano
melloni, incominciò a pestare il grugno e la testa del sig. Francesco.

Ad un certo punto dalla folla partì una voce: i carabinieri. Allora il


giovane accorso in aiuto del Campanella lasciò tutto e
tranquillamente scese per Io stradone passando accanto ai
carabinieri, e invano questi vollero sapere dalla folla raccolta chi era
che aveva aiutato il Campanella: nessuno seppe dirlo e al processo
che ne seguì comparve il solo Campanella. Quell'operaio si
chiamava Mirabile Giuseppe detto 'recchia', ormai vecchio, vive
ancora ed è stato sempre dei nostri.

Al sig. Francesco gli rimasero i segni dei pesi; e il ricordo della


lezione subita, lo indusse ad essere più moderato.

lo andavo a scuola ma la sera andavo nella lega e siccome allora


erano pochi quelli che leggevano correntemente, mi si dava a
leggere ad alta voce le notizie del giorno. Era il tempo in cui Enrico
Ferri alla Camera tuonava contro il ministro Bettolo, e quando lo Zar
Nicola II doveva venire in visita ufficiale in Italia, il P.S.I. organizzò
l'arma del fischio contro il despota, per cui per timore che l'ospite
fosse fischiato, la crociera dello zar avvenne, ma non mise piede sul
suolo italiano. Gli operai discutevano animatamente sui fatti del
giorno e si entusiasmavano all'eloquenza di Ferri, e alle lotte che si
svolgevano in Italia e fuori.

Il 10 Maggio venne festeggiato sin dal primo anno di vita della lega. Si
andava a Monteguerra il dopo pranzo a fare una scampagnata, la
sera musica in testa e dimostrazione per le strade con comizi
terminali in piazza.

Io il 1° Maggio 1903, (frequentavo la IV elementare) a Monteguerra


scrissi qualcosa e parlai ai lavoratori per la prima volta. Cosa dissi
non ricordo, certo da uno scolaro di dieci anni non si poteva
pretendere tanto; ebbi tanti battimani e abbracci e il giorno dopo uno
schiaffo dal maestro a scuola.

Il giornale più letto da tutti gli operai la domenica era l'Asino diretto da
Guido Podrecca, allora socialista e fortemente anticlericale. Anzi in
quel torno di tempo vi furono due funerali civili, di cui mi tocca parlare
brevemente; gli unici funerali civili che ricordo in 50 anni. Ve ne sono
stati pochi altri dopo; ma in forma solenne bisogna arrivare fino al
1953 con la morte di Paolo Recchia, socialista, per trovarlo.

Il primo fu alla morte di Francesco Mauro, figlio di un fabbro, studiò


legge. Patriota e cospiratore era in relazione con tutti i caporioni del
Risorgimento. Fu procuratore generale del regno a Palermo e
altrove. Progressista e intinto di socialismo, onesto fino allo scrupolo
morì quasi povero. Ai suoi funerali intervennero molti funzionari e
amici, e tutto il popolo di Locorotondo. Vi parteciparono il circolo
socialista e la lega muratori con le rispettive rosse bandiere e il
discorso funebre fu tenuto da Giovanni Gianfrate.

Una sua biografia manoscritta dovuta all'avv. Giovanni Calella padre


del tuttora vivente avv. Sigismondo c'è ma io non l'ho letta, deve forse
trovarsi presso questi.

Il suo nome deve essere caro ai locorotondesi, perchè nel 1865 con
65 centesimi in tasca partì di qui per Firenze, allora capitale d'Italia, e
per mezzo delle sue aderenze riuscì ad ottenere il decreto che con la
rendita di Montanaro (un benefattore del paese) si costruisse
l'ospedale che di Montanaro porta il nome.

Un altro episodio per cui un suo detto è rimasto famoso qui è questo:
il 1867 nell'imminenza dell'azione di Garibaldi su Roma, Mauro
reclutava dei volontari per parteciparvi. Il prefetto di Bari avuto
sentore della cosa lo fece arrestare e tradurre a Bari. Otto giorni
dopo, si dice, mercé i suoi amici giungeva a Bari l'ordine di
scarcerazione e la lettera di trasferimento del prefetto che fu portata
da Mauro stesso, consegnandogliela con queste ormai proverbiali
parole: I tempi vanno e vengono e io son Mauro.

L'altro funerale civile fu di un muratore: Giuseppe Mirabile. Antico


liberale e sergente della guardia nazionale durante la lotta contro il
brigantaggio.

Venne portato senza preti; ma la lega muratori alla testa del corteo
fece costruire e portare da uno dei suoi una rozza croce.
Negri anni successivi, causa la mancanza di lavoro e l'accrescersi
dell'emigrazione, divenuta abitudine di edili e artigiani, che cercavano
all'estero il tozzo di pane che la patria negava, la lega decresceva,
fìnchè si spense verso il 1910.

Al contrario si accresceva la sezione socialista, con elementi piccolo-


borghesi intellettuali. Citerò fra questi, (perchè li ritroveremo) i fratelli
avv.ti Pinto Leonardo e Paolo, avv. Sigismondo Calella, avv.
Romualdo Scodalupi.

I Pinto vi entrarono per cercarvi un po' di popolarità, ma senza ideali


concreti, perciò poi furono col sindaco liberale Antonio Mitrano, poi
contrari, fascisti e alla caduta di questi antifascisti.

Sigismondo Calella, pur non essendo mai stato un vero socialista, è


stato ed è rimasto di idee progressive in senso liberale vecchio stile e
un assertore convinto della cooperazione.

Romualdo Scodalupi invece fu un tribuno e un convinto socialista.


Aveva la parola facile; e spesso insieme ad altri, fra i quali il futuro
triumviro fascista Umberto Bianchi, si spostava in altri paesi fino a
Gioia e Santeramo per portare la parola del socialismo. Spesso ai
suoi comizi succedevano piccoli incidenti con la polizia. Poi si spostò
a Roma dove vive ancora. Dal 1921 appartiene al P.C.I., durante il
fascismo ebbe l'ostracismo nell'esercizio della sua professione di
valente avvocato; è tuttora comunista militante.

In una polemica fra Antonio Mitrano, sindaco, e Sigismondo Calella


del P.S.I. corsero parole grosse per cui nel 1907 mi pare si sfidarono
a duello, che però non ebbe seguito.

Verso il 1910 i Pinto e Sigismondo Calella erano fuori del partito,


Scodalupi già a Roma, la sezione socialista viveva; ma con scarsi
elementi. A mantenere viva la sezione socialista rimaneva ancora e
sempre Giovanni Gianfrate coadiuvato in quel che potevo da me.
Anche la cooperativa socialiste di consumo, chiudeva i battenti, si
diceva, per la disonestà di due amministratori, che dei fondi si erano
serviti uno per andare in Argentina, e l'altro in Romania.

Io in questo frattempo, dopo 5 mesi di quinta elementare - causa che


mio fratello maggiore partì soldato nel 1904, e si fece carabiniere;
l'altro emigrò prima a Trieste e poi in Boemia, mio padre ebbe un
fiemone alla mano, in casa c'era la miseria - nel gennaio 1905
abbandonai la scuola e andai a lavorare coi muratori a trasportare
pietre, prima con 20 centesimi al giorno (dall'alba a dopo il tramonto)
e poi a 40 centesimi, spesso alle masserie fuori di casa, mal nutrito e
peggio alloggiato, perciò a 15 anni contrassi i reumatismi articolari e
poi l'artrite deformante e cronica che mi passerà quando sarò morto.

Però non abbandonai lo studio e cercai in tutti i modi di istruirmi. Da


Gianfrate trovavo i giornali, altri ne compravo. Compravo degli
opuscoletti da un centesimo, da due da cinque e qualche volta da 10
centesimi e mi approfondivo nella questione sociale, inoltre leggevo
tutto quanto mi capitava di avere: storia, geografia, letteratura,
scienze naturali e qualche libro di filosofia, ma tutto senza un metodo
fisso, e saltuariamente. Meno male che avevo ed ho buona memoria,
e le materie lette le assimilavo subito. Qualcosa che non riuscivo a
spiegarmi lo discutevo con Gianfrate e fra tutti e due trovavamo la
soluzione, o almeno quella che credevamo tale.

Giovanni Gianfrate intanto aveva acquistato un grande ascendente


sugli operai e sugli artigiani, tanto da chiamarlo spesso come arbitro
nelle loro questioni private, e spesso come padere nelle controversie
farnigliari. Invano allora e dopo i suoi avversari tentarono di
denigrarlo, specie quando li pungeva politicamente nei loro interessi
con la parola; o con la stampa sul settimanale provinciale. Le accuse
contro di lui lo lasciavano freddo e non sì attaccava, e queste
cadevano da sé stesse presto senza lasciar traccia o scalfirlo
minimamente.
In questi anni venivano spesso a parlare oratori forestieri fra i quali
ricordo Nicola Barbato dei fasci siciliani, Giuseppe De Falco,
Zagariello, Maria Rigier. Come candidato alle politiche fu portato una
volta Barbato, le altre volte Leone Mucci, allora molto popolare qui e
altrove. Oltre alle conferenze che spesso teneva Giovanni Gianfrate,
gli emigranti al ritorno invernale portavano l'eco delle lotte
economiche dei lavoratori dei paesi ove erano andati a lavorare.

Nel 1908 comparve alla macchia un foglio volante contro


l'amministrazione comunale capeggiata da Antonio Mitrano in cui
erano descritti vita e miracoli di ogni singolo consigliere. Di Mitrano
era detto: Uomo di fare e di sapersi far fare. (Riparleremo di lui più
avanti). Di Francesco Giacovazzo, docente di università e consigliere
comunale era scritto: socialista a Napoli, repubblicano a Pisa,
forcaiolo a casa.
3. 1910- 1920. Lotte personali e
guerra mondiale

Ai primi di Aprile 1911 emigrai anch'io in Boemia (Cecoslovacchia)


allora sotto il dominio austriaco; a Warnsdorf. Era questa una
cittadina di 22 mila abitanti, distesa sulle rive del fiume Man-dan-
Regulierung, un affluente dell'Elba credo (1), città eminentemente
industrializzata, specie in tessuti con circa 120 fabbriche varie, che
traevano la forza motrice dal fiume mediante chiuse, per cui nel fiume
in estate vi era poca acqua; ma a primavera i ghiacci col disgelo
rompevano ogni anno l'arginatura e spesso i ponti, e proprio sul
fiume e nel fiume lavoravamo dagli ottanta ai centocinquanta italiani,
in maggioranza abruzzesi da Leonessa e altri paesi, poi friulani,
lombardi, toscani, pugliesi ecc.- Nella maggioranza partivano
dall'Italia in primavera, e vi ritornavano verso Natale.

Di tutti gli italiani il i° Maggio 1911 alla manifestazione vi presero parte


tre soli: mio fratello Antonio, io e Mirabile Antonio, tutti e tre da
Locorotondo; ma malgrado la città era così industrializzata, alla
manifestazione svoltasi in un piccolo teatro vi presero parte appena
duecentocinquanta persone locali con vari oratori e una piccola
orchestrina che sonò i nostri inni e varie canzonette italiane.

Nessuno degli altri italiani aveva una coscienza di classe e se


qualcuno aveva parole con l'impresa era un episodio sporadico, che
benchè talvolta avesse ragione non era approvato e seguito dagli
altri.

Io rimasi l'inverno 1911-12 a Warnsdorf. Ma l'annata lavorativa del


1912 fu assai cattiva. Pioveva spesso, e il fiume era gonfio e ben
poche giornate lavorammo: appena la spese, per cui nel Settembre
tornai a Locoratondo. Qui il partito socialista era intervenuto presso
l'impresa dell'Acquedotto Pugliese da poco incominciato per imporre
un orario massimo di 10 ore lavorative al giorno.

Ma il paese era politicamente tutto cambiato. Due fazioni personali


erano sorte: una facente capo al sindaco Antonio Mitrano, l'altra al
dott. Francesco Aprile.

Due parole su questi due uomini e uno sguardo alle lotte politiche dei
mezzogiorno di allora.

Antonio Mitrano era un ragioniere che messosi a commerciare in vini


era riuscito a farsi una buona posizione e a costruirsi un grande
stabilimento vinicolo. Da circa tre lustri era sindaco di Locorotondo,
succeduto all'avv. Scodalupi padre del nostro Romualdo.

Liberale di nome, reazionario di fatto; sempre sorridente, largo con i


suoi fidi, tenace contro gli avversari; ma coi guanti gialli, per cui una
persona colpita da un provvedimento ingiusto che ricorreva a lui per
avere giustizia, faceva le finte di interessarsi, e anche se dipendeva
da lui e non concedeva quel che gli si richiedeva lo faceva in un
modo che pur comprendendo che era lui che non voleva, lo si
ringraziava.

Francesco Aprile, medico-chirurgo, di antica famiglia borbonica,


(sotto i borboni e dopo il 1860 Locorotondo era divisa fra i ciaur(2) e i
liberali, ciaur era stato il secondo sindaco di Locorotondo Vittorio
Aprile nonno di Francesco A.).

(Si racconta ancora di Vittorio Aprile un episodio che dimostra la


tenacia con cui conservava l'astio per i suoi avversari. Alla sua
sconfitta alle elezioni da sindaco, un giovane muratore, poi
commerciante in generi alimentari, Raffaele Curri di Francesco,
durante la dimostrazione popolare seguita alle elezioni lanciò una
pietra contro la balconata di Vittorio Aprile. Questi raccolse la pietra e
la posò sul comò ove rimase per 20 anni.
Dopo tanto tempo il Curri, già uomo e immemore dell'errore giovanile,
avendo bisogno di qualcosa da Vittorio Aprile vi si recò e allora questi
preso il sasso e mostrandolo al Curri gli disse: Riconosci questo
sasso? E alla risposta negativa del Curri aggiunse: Questo sasso lo
hai tirato tu venti anni or sono quando io caddi da sindaco).

Della stessa tempra e peggio era il dott. Francesco Aprile come


vedremo in seguito.

Laureatosi in medicina e fatto il noviziato altrove nel 1908 si trasferì


definitivamente a Locorotondo aprendo uno studio e curando malati.
Valente medico, giovane, ambizioso, scaltro; ma nervoso e
intemperante nell'ira, concepì il disegno di essere come il nonno a
capo dell'amministrazione comunale e formò un partito personale
contrapposto ad Antonio Mitrano.

Come medico si prodigava notte e giorno per i suoi malati e spesso ai


più poveri invece di pagarsi lasciava qualche moneta. Introdusse
nella terapia l'uso delle iniezioni che dai vecchi medici era poco
conosciuto e raramente eseguito, per cui gli avversari lo chiamavano
don Ciucino Siringhino.

La sua popolarità fu grande e a lui si unirono Sigismondo Calella, i De


Bernardis (gli agrari più ricchi del paese) e altri elementi borghesi
intinti di democrazia progressista.

Dalla parte di Mitrano si schierarono i Pinto, i Giacovazzo ed altri


elementi della piccola borghesia.

Il paese fu letteralmente diviso in due : Mitranisti (detti senussi) e


seguaci di Francesco Aprile (detti beduini).

I socialisti eravamo rimasti sei in tutto e precisamente: Giovanni


Gianfrate, Sampietro Francesco detto Garibaldi, Martino Ricci
passato in Argentina al Comunismo e ivi morto, Moccia Francesco,
passato poi al fascio e dopo il fascismo a Mario Conti (di cui
parleremo in seguito) e Donato Carrieri, un sarto zoppo e nostro
futuro responsabile del giornale locale "II Seme".

Siamo, soleva dire Gianfrate, 6 ufficiali senza soldati.

Per meglio comprendere quello che sto per narrare, è necessario


rievocare quello che avveniva allora nel mezzogiorno d'Italia.

Chi non ricorda dei vecchi, i mazzieri di Gioia del Colle al servizio
dell'ascaro di Giolitti on. De Bellis? Chi di noi pugliesi non ha letto con
commozione la rievocazione di Pietro Cannone di Andria fatta in
Parlamento dal comp. on. Mario Assennato? Ma i fatti di Gioia del
Colle e di Andria avevano attraverso la nostra stampa risonanza
nazionale perchè condotti contro la nascente lotta di classe e quindi
contro operai e contadini organizzati.

Mentre passava sotto silenzio quanto avveniva per esempio a


Martina Franca fra Grassi e Fighera (detti crumiri e pipistrelli) che
erano due fazioni borghesi aventi al loro servizio mazzieri e
pagnottisti per cui ad ogni testa che uno di questi rompeva in tempo
di elezioni ricevevano 5 lire di compenso e spesso ci scappavano dei
morti, per cui le elezioni si svolgevano in clima di terrore; e peggio
nella settimana successiva alle elezioni stesse per cui i vincitori
avevano mano libera sugli avversari persino nelle case di costoro,
ragione per cui dopo le elezioni a Martina quelli che perdevano
fuggivano a Locorotondo ove erano accolti dai commenti ironici di
questa cittadinanza.

Ahimè! Ridevamo dei martinesi e noi dovevamo fare peggio! E senza


la gloria dei nostri compagni di Gioia o di Andria.

Incominciata la lotta da Francesco Aprile contro Mitrano e la sua


amministrazione prima con parole da ambo le parti, poi ai primi del
1912 da parte dell'Aprile con un giornale politico-amministrativo locale
chiamato "La Fiaccola", a cui incominciò a rispondere Mitrano
attraverso un suo giornale dello stesso tipo chiamato "La Razzia" il
cui primo numero uscì il 15 giugno 1913 in cui i due giornali mai
obiettivi e ripieni spesso di vicendevoli non galanti contumelie si
combattevano a vicenda; ma presto la stampa non bastò e
incominciarono ad assoldare mazzieri.

Mitrano assoldò alcuni teppisti baresi che di giorno lavoravano da un


certo maestro Donato bottaio, barese anche lui trapiantato qui. Poi
aveva Vincenzo u barisiello da Locorotondo, un delinquente che più
tardi morì ucciso da una revolverata tiratagli da un marito geloso e
Pasquale Capotorto, barbiere da Bitonto che lavorava in un salone di
Locorotondo a giornata.

Dalla parte di Aprile vi era un certo Luciano il gatto, un certo


Adeodato Buongiorno, balbuziente e facinoroso, trapiantato qui da
Fasano in seguito al suo matrimonio con una locorotondese,
impiegato nella farmacia Selvagi, e altri teppisti locorotondesi.

Sia gli uni che gli altri come calava la sera scorazzavano per il paese
impunemente, armati di randelli e di pugnali. Ma le due squadre
avverse di mazzieri, forse per tacita intesa non si scontrarono mai;
mentre si abbandonavano a minacce, insulti e qualche bastonata ai
poveri cittadini di una parte o dell'altra, che a sera costretti da
necessità uscivano dalle loro case.

Di sera il timore delle squadracce faceva sprangare le porte e si


toglievano le invetriate per timore di trovarle rotte al mattino. Una
sera Giovanni Gianfrate fu inseguito pugnale alla mano dal barisiello,
e trovò scampo in una porta per caso trovata aperta.

Già, perché noi socialisti, eravamo malvisti dagli uni e dagli altri.

L'ultimo giorno di carnevale del 1913 uscì una mascherata con un


cartello scritto: 'Abbiamo ingiuriato, abbiamo incappato' alludendo
alle risa che ci avevamo fatti alle spalle dei martinesi altre volte.

Poco dopo un'altra mascherata usciva portando una testa mozzata in


una gabbia alludendo ad una triste storia che si racconta circa certi
signori allora di parte dell'Aprile. Ma questi risposero subito portando
sulle spalle dei vestiti da vendere a buon mercato "perché roba di
fallimento" allusione ad uno di parte mitranista che aveva fatto
fallimento in commercio di tessuti.

Tali sanguinose allusioni a fatti e persone da tempo scomparse, ma


che si rinfacciavano ai discendenti, inasprì gli animi e se non fosse
stato per il pronto intervento dei carabinieri in piazza sarebbe
successo il macello.

Ma gli odii si rinfocolarono, cittadini fra loro sempre amici, ora di parte
avversa si guardavano in cagnesco, persino nelle famiglie fratelli
contro fratelli, e padri contro figli finché avvenne il fattaccio che si
temeva.

Una brutta sera i fratelli Gianfrate caprai e altri si trovavano


nell'osteria vicino alla chiesa madre con altri a bere del vino e fra loro
essendo di diversa fazione vennero a lite. Rotto il lume
incominciarono a menare colpi di scure agli avversari. Il più grave fu
colpito Antonino capraio, anch'esso specie alla testa che fu spaccata,
altri colpi sulle spalle e anche altri ne ebbero e se li tennero zitti per
non essere coinvolti in processi. Antonino visse ancora qualche anno
ma si dice che ne morisse dai colpi ricevuti quella sera.

Siccome chi aveva dato era di parte beduina (Aprile) e chi aveva
ricevuto di parte senussa (Mitrano) un carrettiere, giovane, aitante,
analfabeta ma bravaccio e incosciente, da poco sposato con un figlio
di pochi mesi, saputo il fatto si arma di pugnale deciso che quanti
beduini incontrerebbe a tanti regalerebbe delle pugnalate.

Quel pazzo disgraziato si chiamava Angelo Curri e andò ad


incontrare un manovale mezzo carrettiere che lo stesso giorno aveva
lavorato insieme a lui, certo Scatigna Vito, padre di due figli. Contro di
lui si slanciò il Curri dandogli una pugnalata; lo Scatigna disarmato e
preso alla sprovvista (era uscito di casa con due cozze di Taranto per
bere un bicchiere di vino) fuggì chiedendo perdono al Curri; ma
questo lo rincorse, lo sopraggiunse e lo finì a colpi di pugnale, poi se
ne andò esclamando con aria di trionfo: E uno.

L'indomani sembrava che un lutto solenne incombesse su tutto il


paese: non grida, non schiamazzi, la gente si parlava sottovoce. Quel
morto, quei feriti, le famiglie dei feritori latitanti si, ma fra breve
sarebbero stati raggiunti dalla giustizia, le famiglie, dico, di tutti questi
uomini, morto, feriti, feritori piangevano. La tristezza era sul volto di
tutti, perchè in un piccolo paese tutti si aveva parenti fra feriti e
feritori, e dopo tanto un barlume di coscienza rinasceva nei cuori dei
cittadini che si domandavano perchè era avvenuto questo.

Dopo l'arresto degli autori dei fatti di quella tragica notte, i mazzieri
furono più cauti nel provocare; ma gli animi rimasero tesi.

Altra arma, ma buona questa, con la quale si combattevano i due


contendenti, fu la formazione di due bande musicali, ottime e
rinomate ambedue, che venivano finanziate l'una da Mitrano e l'altra
da Aprile e suoi accoliti.

Noi come ho detto nella lotta eravamo in disparte, malvisti dagli uni e
dagli altri, nessuno più prestava orecchio a noi.

Pure il 1° Maggio 1914 noi pubblicammo il primo numero del nostro


giornale locale che intitolammo "Il Seme", giornale socialista senza
pretese letterarie, che però letterariamente era superiore alla
"Fiaccola" e alla "Razzia", e trattava più questioni sociali che di
persone. Il giornale ebbe successo in Locorotondo, nei paesi vicini e
del collegio di Conversano. Redattore capo e direttore Giovanni
Gianfrate, altri redattori Ricci Martino, io e qualche altro
occasionalmente.

Ma in massima parte veniva redatto da Gianfrate; e quando lui aveva


poco tempo mi incaricava di scrivere un articolo su un dato
argomento che lui poi ampliava, o restringeva, oltre gli articoli o
racconti che scrivevamo ognuno personalmente e da noi firmati.
Gerente responsabile era Carrieri Donato, che a causa di una
querela poi rientrata da parte del delegato di P.S. Ippolito al "Seme"
fece mettere paura al povero buon Carrieri.

Ora della triste vicenda dei partiti locali mi resta a dire come si
svolsero le elezioni politiche e amministrative con la nuova legge
elettorale del 30 Giugno 1912 N. 666 (testo unico) pubblicata sulla
Gazz. Uff. 6 Luglio. Noi portammo come candidato l'avv. Leone Mucci
e avemmo circa 100 voti, Mitrano appoggiò Michelangelo Buonvino,
ricco di soldi e scarso di buon senso, comprando apertamente i voti e
dando la carta da cento metà all'elettore e metà la trattenevano loro
salvo a darla dopo la votazione l'altra metà per essere sicuri
dell'elettore. Lo stesso fecero Sigismondo Calella, il padre e altri del
partito di Aprile salvo che la carta da cento la davano per intero, ma
dopo le elezioni e appoggiavano Vittorio Positano di molto più elevata
cultura, ma corruttore anche lui degli elettori. Se si pensa che la
giornata media dell'operaio era di 2 lire e che 100 lire
rappresentavano 50 giornate lavorative, i voti che raccogliemmo noi
furono molti. Vinse Buonvino.

Le elezioni amministrative si svolsero il 28 Giugno 1914. Noi con un


articolo sul "Seme" a firma di Martino Ricci del 14 Giugno
dichiaravamo che, dato il clima in cui si svolgevano le elezioni, ci
ritiravamo dalla lotta, invitando i cittadini a disertare le urne e a
rompere la catena di servilismo verso Mitrano e verso Aprile.

Le elezioni si svolsero relativamente calme e tutto faceva prevedere


la sconfitta dei mitranisti, quando a fine della votazione fu proposto
da non so chi, che per essere sicuri che le urne non fossero
manomesse, fossero affidate all'arma dei carabinieri e i beduini (veri
babbuini) accettarono. E fu proprio questo, come si seppe poi, che
permise ai mitranisti di manomettere le urne d'accordo naturalmente
coi carabinieri durante la notte.

E così vinsero i senussi di Mitrano.


I beduini appena conosciuto l'esito delle lezioni, per tema di
rappresaglie fuggirono nella campagna. Quelli che rimasero si
barricarono in casa.

I senussi ebbri di vino che si beveva a più non posso, nello


stabilimento di Mitrano si abbandonarono ad indecenti dimostrazioni.
Il vecchio mio padre fu preso a pomodori, mentre si recava a
comprare un paio di tacchi (era ciabattino). Peggio successe tre
giorni dopo le elezioni a me. Ero a corto di sigarette e uscii per
comprarne. Il tabaccaio vicino alla chiesa madre era chiuso e mi
avventurai in piazza, quartiere generale della teppaglia senussa.
Appena qualcuno si avvide che ero entrato nel tabacchino corse a
darne annunzio ad altri. lo ignaro traversai la piazza, quando mi vidi
circondato da una cinquantina di facinorosi male intenzionati nei miei
riguardi.

Cercai scampo nel caffè di Antonietta ordinando un caffè. I facinorosi


giunsero quasi contemporaneamente a me e di fuori intimarono ad
Antonietta di mettermi fuori o rompevano tutto. Il caffè era sito vicino
all'Addolorata e precisamente dov'è il negozio di Zuliddo.

La povera Antonietta di fronte alla minaccia di aver rotto tutto nel


caffè, con le lacrime agli occhi mi disse: Arcangelo io non vi scaccio;
ma cerca di andartene se no chi sa che danno mi fanno. lo mi avviai
verso la porta guardando chi erano i capi istigatori della marmaglia e
vi scorsi Vincenzo u barisiello e Pasquale Capotorto. Li chiamai per
nome da sulla soglia e vennero avanti. Li apostrofai rudemente e
personalmente in questi termini: Voi che vi dite uomini di vita
(malavita) e d'onore vi ribassate a far aggredire un uomo solo da una
marmaglia celandovi dietro. Gli uomini di vita e di onore per quanto
so non commettono simili vigliaccheria; ma affrontano gli avversari a
viso aperto. Ecco io son qui, se voi volete colpirmi colpitemi pure, ma
a viso aperto e faccia a faccia, lo sono inerme fate di me quel che
volete. Ma, rispose u barisiello offeso, chi vi dice che vi si vuol fare del
male? Proprio in quel momento ricevetti un sasso sulla fronte che
cominciò a sanguinare. Ecco, dissi, la risposta la hanno dato i vostri
accoliti, e mi portai il fazzoletto alla fronte per tergermi il sangue.

Il barisiello infuriato si rivolse ai suoi dicendo: Se non state fermi


l'avrete a fare con me. Quindi rivolgendosi a me: tu vattene e non
avere timore.

lo, in apparenza molto calmo, uscii, accesi una sigaretta e mi avviai


lentamente svoltando l'angolo di via Vittorio Veneto.

Ma appena svoltato l'angolo, sapendo che mi avrebbero inseguito


fuggii a gambe levate, scesi di corsa i gradini del Calvario (Via
Giannone) e arrivato a casa, sprangai la porta, corsi al cassettone
presi la rivoltella carica, mio fratello Eligio prese un trincetto e ci
mettemmo dietro la porta aspettando. Mio padre dietro di noi aveva
un bastone in mano, mia madre piangeva. Qualche istante dopo si
udirono urli, schiamazzi, quindi dei colpi sordi che battevano il
selciato, grida altissime poi nulla. Che era avvenuto? Lo seppi il
giorno dopo.

All'angolo delle scale abitavano i fratelli Palmisano (Carauit) più sotto


Francesco Grassi padre dell'industriale falegname Giuseppe i quali
udendo schiamazzi e minacce, essendo beduini e temendo per loro
da sui tetti sui gradini della scalinata fecero piovere delle chianche -
specie di pietre sottili da coperture di case - sugli scalmanati, per
fortuna senza gravi inconvenienti alle persone, e spaccandosi in
pezzi producevano il rumore che avevamo inteso e
conseguentemente la fuga della ciurmaglia, che si vendicò
scavalcando la pariete del giardino ove sorge ora la villa di Marcello
De Bernardis e rompendo i vetri delle finestre posteriori alle case da
dove erano cadute le chianche.

Altri fatti di rilievo oltre questi sino alla fine del 1914 non ricordo
senonchè, "Il Seme", incominciata la guerra degli imperi centrali
contro la Serbia prima, contro l'Europa dopo, condusse una
campagna contro la guerra e per la neutralità d'Italia.
Il 15 Gennaio 1915 partii anch'io soldato e seppi dipoi che "Il Seme"
aveva cessato le sue pubblicazioni su invito della federazione
socialista di Bari, per dare incremento al settimanale provinciale
"Puglia Rossa".

Di notevole durante la guerra fu il confino a Bitonto di Giovanni


Gianfrate per propaganda antimilitarista.

(1) Warnsdorf, oggi Varnsdorf, è una cittadina che si trova in Boemia


(nella catena montuosa dei Sudeti) proprio al confine con la
Germania, e più precisamente con la Sassonia; e che è attraversata
dal fiume Mendau (e non Man-dan-Regulierung) che a Zittau sfocia
nel Neisse (e non nell'Elba) [notizie tratte da Wikipedia]

(2)"Ciaurro = "Sostenitore del re borbone e del suo regime".


Estensione del termine spregiativo cia(v)urru 'cialtrone' (in
calabrese), ciaurro 'corsaro, uomo efferato' (a Napoli), dal turco gàvur
(che si pronuncia giàvur) 'giaurro, infedele' " (In Manlio Cortelazzo,
Carla Marcato, I dialetti italiani: dizionario etimologico, UTET, 1998)
4. 1919/20 - 1930. Ottimo inizio.
Anni difficili

Nel settembre 1919 tornai a Locorotondo da soldato.

La sezione socialista era risorta, forte di oltre 50 ottimi elementi


coscienti e ben preparati.

Seppi inoltre che nel Luglio stesso anno, vi erano state dimostrazioni
contro il crescente carovita; approfittando delle quali alcuni
facinorosi, mai stati socialisti, avevano tentato di dare l'assalto ai
negozi, o ne avevano approfittato per comprare roba sotto prezzo al
reale valore; e che i socialisti avevano funzionato da elementi
moderatori evitando saccheggi, e cercando di far vendere la merce al
giusto prezzo, malvisti dai facinorosi, e un po' dai commercianti, che
dopo ci rimproveravano di aver ceduto alla folla.

I partiti senusso e beduini, con la guerra erano andati a farsi benedire


cominciando a spuntare partiti su scala nazionale: socialista, liberale
(Mitrano), Partito Popolare (Francesco Aprile) e altri; ma non più a
sfondo personalistico.

Nel novembre 1919 sorse l'associazione combattenti, in un primo


tempo senza partito, con l'intento di assistere i reduci e tutelarne gli
interessi. Presidente il dott. Michele Campanella, io vice-presidente,
Adeodato Buongiorno segretario. I socialisti fondarono una
cooperativa di consumo, un'altra i combattenti. Io ero azionista in
entrambe.

Sembrava che il motto scritto sulla tessera del P.S.I. del 1920 "Post
fata resurgo" si avverasse in pieno. Il partito aumentava le file in tutta
Italia, e un incentivo veniva anche dagli avvenimenti russi con la sua
rivoluzione trionfante.

L'associazione combattentistica sorta per difendere gli interessi dei


reduci all'avvicinarsi delle elezioni politiche volse alla politica
portando suoi candidati in tutta Italia e creando così nel suo seno i
primi contrasti. Il partito socialista assegnò a me la cura di far
rimanere quanto più possibile libertà di voto ai componenti la sezione
combattenti, senza obbligo di votare per forza ai combattenti.

Nel contempo l'associazione combattenti poneva una lapide ai caduti


sulla colonna della piazza a destra ancora esistente.

La manifestazione del 1° Maggio riuscì bene e la sera la sezione


socialista nel suo locale offrì un ricevimento con musica, dolci, liquori
ecc. a cui intervennero numerose persone fra le quali l'avv. Leonardo
Pinto sempre pronto a gettarsi dalla parte vincente; ma male gliene
incolse a lui e a noi, come dirò in seguito, sotto il fascismo, per
questo.

Un fatto notevole, e da tenere sempre a mente i lavoratori, che


facendosi ingannare dai signorotti del paese parteggiano per l'uno o
per l'altro diviso in fazioni, ma si riuniscono di fronte al risorgimento
della coscienza popolare, avvenne il lunedì successivo alla fine del
carnevale 1920. La prima domenica di quaresima si usa che si rompe
la pignatta con balli e pranzi notturni ove si è trascorsi l'ultima sera di
carnevale e il giorno dopo si fa una scampagnata.

Il sindaco Mitrano vi intervenne coi suoi accoliti al ballo e alla


conseguente scampagnata sulla Serra.

Allora alcuni proposero a Mitrano che facesse la pace con Francesco


Aprile. Mitrano, che più non aveva a temere del suo antagonista di un
tempo, aderì. Perciò un gruppo di persone si recò a Locorotondo,
prelevò il dott. Aprile conducendolo sul monte Serra ove fece pace
con Mitrano con baci e abbracci fra gli evviva e gli schiamazzi di una
turba avvinazzata.
Così si dimenticava da ambe le parti Scatigna Vito ucciso, Curri
Antonio morto in carcere, e altri che avevano ricevuto botte e sofferto
il carcere per lor signori senza onore e senza gloria.

Alle elezioni amministrative Mitrano presentò la sua lista, i socialisti


una lista di minoranza; ma un gruppo di combattenti si recò dal
sindaco e presentò un'altra lista di minoranza.

Allora Mitrano ci comunicò che se eravamo d'accordo dei 4


consiglieri di minoranza due ne darebbe ai combattenti e due
avrebbe permesso a noi di averne. Noi rifiutammo il mercato
sdegnosamente e allora Mitrano che in queste cose era maestro,
manipolò le sue schede in modo che i combattenti ebbero circa 400
voti e la sua lista da un minimo di 900 a 1200 e noi ne avemmo 260
cosicchè dei nostri non andò nessuno come consigliere.

Mio padre pare che ebbe scheda segnata da Aprile, sapendosi che i
miei fratelli e io avremmo votato socialista, e posso affermare che
malgrado le nostre insistenze votò realmente contro di noi, ma la sua
scheda non risultò, come del resto per parecchi altri; allora Aprile lo
mandò a chiamare rimproverandolo aspramente tanto che se ne
venne piangendo a casa. Non così uno scalpellino, Montanaro
Natale, che rimproverato allo stesso modo brutale, e che pure aveva
votato sinceramente la scheda datagli, rispose per le rime
ingiungendo all'Aprile di non chiamarlo mai più a votare.

Alle elezioni politiche del 1921 partecipammo attivamente e il Partito


socialista riuscì a mandare in Parlamento nella nostra circoscrizione
Giuseppe Di Vittorio, Arturo Vella, e Giuseppe Di Vagno.

Intanto sorgevano a Locorotondo due altri partiti: il nazionalista


facente capo a Leonardo Pinto e il fascista ad Adeodato Buongiorno;
ma specialmente gli aderenti al fascio erano uomini della più bassa
plebaglia e di cattivi precedenti anche penali, perciò generalmente
disprezzati.
Subito dopo il congresso di Livorno venne a Locorotondo per il
Partito Comunista sorgente, la compagna Rita Maierotti e suo marito
il comp. D'Agostino. Al P.C.I. fra i compagni qualificati aderirono:
Giovanni Neglia, Sampietro Francesco, io e parecchi altri. Giovanni
Gianfrate rimase nel partito socialista massimalista.

Nel luglio 1921 venne a tenere un comizio l'on.le Giuseppe Di Vagno.


Era un riformista, alieno da ogni azione violenta, mentre in tutta Italia
le squadracce fasciste uccidevano e bruciavano tutto, per cui al
discorso di Di Vagno io lo interruppi in piazza, e nella sezione ne
seguì un vivace battibecco.

La sua azione moderatrice doveva pagarla di persona. Il 25


settembre a Mola veniva ucciso vigliaccamente. L'impressione fu
enorme in tutta la Puglia e ai suoi funerali a Conversano vi
convennero da ogni parte.

Noi oltre al parteciparvi, aprimmo una sottoscrizione per una lapide


che fu inaugurata il 1° Novembre 1921 con l'intervento del comp. on.le
Giuseppe Di Vittorio.

il 16 Agosto 1922 festa patronale di San Rocco, venne la banda di


Gioia del Colle vestita alla fascista. Vecchi rancori fra la nostra banda
musicale accumulati ai rancori contro i fascisti fecero sorgere vari
incidenti.

Il 17 mattina comparvero dai paesi circonvicini parecchie squadracce


fasciste armate di tutto punto; ma l'intervento del sindaco Mitrano
scongiurò il pericolo che da festa si volgesse a sanguinosa tragedia.

Qualche mese dopo, sotto la casa del comp. Saverio Bagordo i


fascisti di notte inscenavano una gazzarra. Bagordo, uomo di poca
pazienza si alzò e semi vestito scese in piazza per affrontare i
fascisti. A lui si univano subito molti edili e artigiani. Questi da una
macelleria si armavano di spiedi, quelli di pietre riunendosi vicino alle
colonne della piazza.
Adeodato Buongiorno dal fondo della piazza dov'era il circolo dei
signori con la rivoltella in mano gridò con la sua voce balbuziente:
Aaaadunata. Proprio vicino a lui passavano in quell'istante due
comunisti che andavano a prendere posto insieme agli altri: Giovanni
Neglia ed il suo fratello Francesco residente a Roma e che per caso
si trovava a Locorotondo. Al grido di adunata risposero: Viva
l'Internazionale comunista, abbasso il fascismo.

Intervenuta l'arma dei carabinieri, il maresciallo visto di che si trattava


costrinse i fascisti a ritirarsi, entrando nel circolo dei signori e
uscendone dalla porta posteriore.

Poco dopo il fascismo era al potere.

Le elezioni politiche del 1924 si svolsero sotto l'aperta minaccia


fascista contro di noi.

Gianfrate Giovanni ed io ci concertammo sul modo di comportarci:


Nessun intralcio fra socialisti e comunisti e mi consigliò (saggio
consiglio) di far votare fa mattina presto i miei aderenti. Difetti così
feci; ma appena ebbi votato mi fu tolto il certificato elettorale per cui
non potevo più entrare nella sezione elettorale.

Avevo da dare le schede ad altri sette od atto dei miei, per cui andai
in piazza; ma subito venni preceduto e seguito da parecchi fascisti. lo
passeggiavo solo avanti e indietro; come vedevo la persona che
cercavo gli passavo accanto e in un sussurro gli dicevo di andare a
casa di mio suocero, o di mio fratello. Alle nove del mattino avevo
finito; ma anche la mia posizione in piazza era divenuta insostenibile;
per cui mi ritirai a casa.

L'avv. Leonardo Pinto, che dopo l'avvento del fascismo, da


nazionalista era passato al fascismo e ne era mi sembra a quel
tempo segretario, visto che erano uscite centinaia di schede tutte
fasciste e neanche una delle nostre, disse: e i socialisti dove sono
andati a finire?. In cauda venenum!
Sul fondo delle urne incominciarono a uscire le schede con falce e
martello e libro e quelle con falce martello e spiga di grano: 250 ai
socialisti, 59 ai comunisti. Ce l'hanno fatta, disse Leonardo Pinto.

Dimenticavo dire, che dopo l'avvento del fascismo, la posizione della


sezione socialista divenne insostenibile e fu sciolta; la cooperativa di
consumo per non cadere in mano fascista la cedemmo a Giovanni
Gianfrate, dietro rimborso delle azioni che pagò quando potè non
avendo i mezzi immediatamente, la bottega di barbiere la diede al
figlio Leonardo e lui divenne commerciante in generi alimentari.

Tre giorni dopo lo scioglimento della cooperativa e l'avvenuta


cessione a Gianfrate il maresciallo si presentava per ordine
superiore, per prendere in consegna la cooperativa, ma si trovava di
fronte al fatto compiuto.

Incominciava allora, specie ad opera di Leonardo Pinto, il


boicottaggio, spesso con minacce ed intimidazioni contro la clientela
e la rivendita di generi alimentari del Gianfrate; ma salvo pochi, gli
altri continuavano a spendere colà.

Contro di me, non potendomi boicottare sul lavoro, si cercava di


sapere dove lavoravo e di cosa parlavo sul lavoro; ma il peggio era in
paese quando non lavoravo. Se andavo con un amico parlando di
lavoro o di altri affari nostri, eravamo seguiti passo passo da fascisti
in borghese; per cui spesso evitavo gli amici per non metterli in
cattiva luce.

Ma per me, uomo di azione e di amici, ciò era molto duro, meno male
che me ne andavo spesso da Gianfrate ove ci sfogavamo; ma anche
lì c'erano le spie, primo fra tutti un rinnegato ex socialista, ex
barbiere, agente di navigazione, topo di caserma e spia. Gianfrate,
conoscendolo, per tema di peggio se lo teneva amico.

Nel 1926 io ero capozona del P.C. per Cisternino, Fasano,


Alberobello e Locorotondo. A Cisternino poco e nulla potei
concludere coi vecchi compagni, a Fasano avevo rapporti col comp.
Pietro Nobile, e ad Alberobello con Argese Martino ed altri. Nel
Febbraio 1926 scoperto da una perquisizione a Bari, ove pare si trovò
una lista di corrispondenti e di capi, venni arrestato (1). Nella
caserma di Locorotonclo, un tenente dei carabinieri, saputo che ero
comunista mi diede uno schiaffo, e siccome dissi che era un eroe che
batteva i prigioneri, mi tirò un calcio in un fianco facendomi rotolare
per terra e dicendomi un sacco di contumelie. Poi fui tradotto a Bari e
incarcerato al Castello prima al N. 3, e poi al N. 1. Ma ero partito solo
da Locorotondo; e vi trovai una numerosa compagnia di socialisti e di
comunisti di tutta la provincia: si diceva che eravamo 250 circa.

Non conoscevo gli uomini della malavita e il loro gergo; lì li conobbi;


ma ad onor del vero, per quanto delinquenti, avevano del rispetto per
noi politici.

Dopo una quindicina di giorni mi rilasciarono.

Però ero entrato con una gran paura del carcere, ne uscivo più forte,
più temprato, senza timore se vi dovessi ritornare, visto che non era
cosi brutto come avevo creduto.

Il giorno dopo tornato dal carcere i compagni mi portarono in una


osteria per festeggiarmi ove facemmo uno spuntino; poi con
Gianfrate facemmo una passeggiata in villa.

Qui dei ragazzi si tiravano pietre, per cui li redarguii, uno mi rispose in
malo modo e io gli diedi un buffetto. Costui andava a bottega dal
barbiere Giuseppe Conti, acceso fascista, detto Farinacci, al quale il
ragazzo disse che io lo avevo battuto dicendo: un giorno comandano
i fascisti e uno i socialisti. L'accusa era insulsa, perché ad un ragazzo
che non conoscevo, non potevo dire simili cose; ma il segretario del
fascio Enrico Recchia, mi fece chiamare e lui e Farinacci volevano
farmi bastonare da due fascisti, uno dei quali è attualmente guardia
municipale Francesco D'Onofrio e coi bastoni in mano erano pronti a
lisciarmi. lo non mi lasciai intimorire, dissi quel che era avvenuto, che
ero un comunista e tale rimarrei. Mi minacciarono di farmi ritornare in
carcere, e risposi che il posto era ancora caldo, mentre i due fascisti
alzavano i bastoni; ma il Recchia mi rilasciò illeso.

Non posso passare sotto silenzio un comicissimo caso occorso a


Gianfrate e a mia moglie in casa mia.

Qualche mese prima del mio arresto Gianfrate ebbe la prima


perquisizione, e infine gli domandarono dove ero io. Lui disse di non
saperlo; ma come si allontanarono da casa sua, temendo che io
avessi in casa il libretto del soccorso rosso e altri documenti
compromettenti, corse a casa mia ad avvertire mia moglie di
nasconderli; ma mentre cercava di spiegare la cosa a mia moglie da
sotto la scala, questa tutta tremante lo pregava di salire e tanto insistì
che malvolentieri, temendo l'arrivo dei carabinieri salì; ma nello
stesso momento sopraggiungevano i carabinieri. Era necessario per
evitare l'arresto suo e mio, che scomparisse. Allora mia moglie
spranga la porta, conduce il Gianfrate sulla terrazza, e robusta come
era lo solleva su un muro alto più di due metri di dove scavalca su
altro terrazzino. Intanto i carabinieri tempestano alla porta, mia
moglie corre ad aprire e dice che essendo sul terrazzo a raccogliere i
panni non aveva sentito. Gettano sossopra la casa, fino al terrazzo,
sequestrano libri e giornali vecchi, il libretto del soccorso rosso mia
moglie se lo mette in petto, ma se ne accorge il maresciallo e lo
sequestra. Meno male che vi erano sulle matrici delle cifre ma
nessun nome, e invano il giorno dopo il maresciallo volle sapere da
me a chi avevo dato le ricevute che mancavano. Mia moglie la sera
quando venni dal lavoro era tutta spaventata; ma poichè le
perquisizioni erano quasi settimanali ci fece il callo.

Gianfrate intanto scavalcato il muro e sceso sull'altro terrazzino,


bussava alla porta del terrazzo della casa di Giuseppe Grassi,
falegname, e la moglie sentendo bussare, nè potendo capire come
potesse trovarsi una persona lassù, chiedeva tutta spaurita chi era.

Saputo che era Gianfrate aprì tremante, pensando a male, ma in


poche parole questo la mise al corrente, pregandola di guardare in
strada per vedere se vi erano carabinieri, e accertatosi che questi
erano saliti a casa mia se la filò velocemente, per cui dopo con la
signora Grassi si rise dell'incidente.

Altro fatto rilevante che avevo dimenticato passando avanti negli


anni, fu la commemorazione di Matteotti nel 1924, avvenuta con
l'intervento di numerosissimo pubblico e di quasi tutti gli intellettuali di
Locorotondo. Parlarono l'avv. Nicola Conti di Giuseppe, l'avv.
Sigismondo Calella e Giovanni Gianfrate. Si videro in quei giorni
fascisti sfegatati, vergognandosi di portare il distintivo togliendoselo,
e altri temere di essere travolti dalla furia popolare, e credo che in
quei giorni, se l'opposizione, invece di ritirarsi platonicamente
sull'Aventino avesse fatto un atto di forza e chiamato il popolo il
fascismo sarebbe caduto.

Fin dal 1925 nel fascio incominciarono le rivalità per giungere ai posti
di comando.

Leonardo Pinto ex socialista, mitranista (senusso), simpatizzante


socialista, nazionalista, fascista, segretario del fascio lui, dei sindacati
fascisti il fratello avv. Paolo Pinto; aspirava alla carica di podestà. Ma
lì vi era l'inamovibile Mitrano che dopo quasi 30 anni come sindaco
era stato nominato podestà di Locorotondo.

Il Pinto incominciò la lotta contro Mitrano; ma questo riuscì facilmente


a silurarlo da segretario del fascio, e a mettere una sua creatura: un
giovane maestro di scuola, Enrico Recchia.

Il Pinto non si diede per vinto, e continuò i suoi rapporti contro


Mitrano a Bari presso la federazione fascista. Allora questo fastidiato,
tentò di mettere per sempre il Pinto in disparte, facendolo accusare
da Adeodato Buongiorno, una volta suo nemico, allora suo
scagnozzo, e comandante dei fascisti locorotondesi, di essere stato
iscritto al P.S.I. nel 1920-21 e a riprova di questo lo si accusava di
aver il 1° Maggio 1920 partecipato al ricevimento nella sezione; e
inoltre il Buongiorno asseriva che la appartenenza al P.S.I. del Pinto
era stata confermata da Gianfrate Giovanni in un colloquio con lui.

L'accusa era grave, che se confermata, il Pinto poteva essere


espulso dal fascio, con gravi ripercussioni personali e professionali. Il
Pinto però nulla sapeva di tutto ciò.

A questo punto entriamo in ballo Giovanni Gianfrate e io, nostro


malgrado si intende.

Delle investigazioni, circa le asserzioni del Buongiorno viene investito


il maresciallo dei carabinieri, un fanatico fascista fazioso all'eccesso,
certo Leomanni, leccese, che si diceva parente di Achille Starace.

Costui chiamato in caserma Giovanni Gianfrate voleva, con gravi


minacce e intimidazioni che il Gianfrate confermasse quanto il
Buongiorno aveva esposto. Disse pure il maresciallo che non solo il
Buongiorno; ma anche io avevo detto che il Pinto aveva fatto parte
nel 1920-21 della sezione socialista concludendo che se il Gianfrate
non lo confermasse in un documento Io metterebbe in condizioni di
chiudere la bottega dei generi alimentari.

Il Gianfrate pur negando e non firmando cosa non vera, ne fu


spaventatissirno. Bisogna riportarsi ai tempi fascisti per comprendere
la vita che conducevamo noi sempre sotto la minaccia di essere
arrestati, o se si aveva una licenza di averla da un momento all'altro
ritirata, e perdere la fonte per vivere.

Io se la domenica lavoravo ero chiamato dal maresciallo per dire


dove ero stato la domenica, e se qualche giorno ero senza lavoro, o
non mi sentivo bene, Leomanni, mi mandava a chiamare per sapere
perchè non lavoravo, e se avevo ricevuto soldi dalla Russia. Fazioso
e imbecille!

Ora la domenica mattina come al solito, mi sono recato nella bottega


di Gianfrate, che trovai preoccupatissimo.
Ne domandai la ragione e allora lui domandò da quanto tempo
mancavo dalla caserma. Risposi da 15 giorni. Mi domandò se io
avevo detto al maresciallo che Leonardo Pinto nel 20-21 aveva
appartenuto alla sez. socialista. Mai più risposi, anzitutto perchè direi
il falso, eppoi anche se fosse stato vero non avrei mai detto niente al
maresciallo.

Allora mi disse tutto quello che gli era accaduto. Ma dissi il Pinto non
sa nulla di tutto questo? — No disse Gianfrate. — E perché non l'hai
messo al corrente, per sventare questa trama contro te e contro lui?
— Perché disse fra me e Pinto non corrono buoni rapporti. — Bene,
dissi, lo avvertirò io.

Difatti il dopopranzo, Leonardo Pinto, passeggiava tutto solo per la


piazza. Mi avvicinai e toccandolo su una spalla gli dissi: Bada a te
che ti si vuol pugnalare alle spalle.

Prima che il Pinto potesse rivolgermi la parola io ero lontano; ma capì


subito che qualche cosa di grave si tramava contro di lui. Mise
sottosopra il prefetto, la federazione ecc. Buongiorno fu destituito da
comandante dei fascisti da un capitano fascista; il il viceprefetto, il
federale e altri gerarchi piovvero a Locorotondo. Si cercava me per
testimoniare su quel che sapevo, ma essendo nel feudo di Martina
non mi trovarono, rimandando ad una prova scritta da me quanto
sapevo.

Ir sabato sera appena di ritorno dal lavoro Leonardo Pinta mi mandò


a chiamare e andai. Mi mise al corrente di tutto quei che era
avvenuto, mi ringraziò di averlo avvertito; poi volle sapere come ne
ero venuto a conoscenza io della trama.

Io gli dissi tutto, come Gianfrate era stato minacciato dal maresciallo
e come per salvarlo mi ero deciso ad avvertire lui.

Tutto sapeva il Pinto ormai, meno che il maresciallo per estorcere il


falso da Gianfrate e colpire lui fosse trasceso col Gianfrate. Tu, mi
disse il Pinto sarai chiamato a deporre, di quello che sai sul
maresciallo che lo farò saltare. Veramente l'idea di togliermi dai piedi
quel gambestorte peggio di me di Leomanni, che non mi dava mai
pace con le continue perquisizioni e le settimanali chiamate in
caserma mi seduceva e promisi di dire la verità. Poi andai da
Gianfrate e gli dissi del colloquio avuto con Pinto. Gianfrate ne fu
allarmatissimo, perché mi disse che quando il maresciallo fosse stato
accusato, se ne andrebbe si, ma avrebbe avuto tutto il tempo di fargli
chiudere la bottega, perciò lui all'inchiesta seguita aveva taciuto le
malefatte del Leomanni, perciò mi pregò di non parlarne nella
deposizione.

Riconobbi che Gianfrate aveva ragione nei riguardi suoi, ma io ero


imbarazzatissimo sul come e su cosa dovrei deporre, specie dopo il
colloquio con Leonardo Pinto.

Volevo salvare Gianfrate, volevo mantenere la parola con Pinto e


mandare a quel paese il maresciallo dicendo tutto, e non sapevo
neanche come amalgamare due cose opposte, e mi rendevo conto
che una parola falsa o sbilanciata poteva portarmi al tribunale come
seminatore di zizzanie e come falsa testimonianza oltre che come
sovversivo comunista.

Con questo mulinello in testa mi presentai la sera della domenica sul


fascio. Vi era Enrico Recchia segretario del fascio, Leomanni
maresciallo, l'avv. Leonardo Pinto e Gianfrate. Incominciò il Recchia
a interrogarmi, io rispondevo cauto si, ma un po' titubante per cui mi
disse: tu non sei sincero, tu sei un uomo losco. — lo losco! se mi
avesse dato uno schiaffo sarei stato più contento, e in altro luogo lo
avrei preso a schiaffi. Gli gettai un'occhiata di traverso così irata che
forse capì e tacque. A questo punto si alza il maresciallo dicendomi
mille volgarità e aggiungendomi che se dicessi una sola parola contro
di lui mi avrebbe arrestato e mandato al confino o davanti al tribunale.

Parla mi disse Recchia. lo risposi che non potevo e non volevo


parlare più. Facessero quello che volevano.
Allora prese la parola concitamente Leonardo Pinto e disse: Ha
ragione. Se deve parlare sotto la minaccia che qualunque cosa dica
deve essere arrestato fa bene a non voler più parlare. E allora come
si fa? chiese Recchia. Allora si misero d'accordo di lasciarmi andare a
casa, di stendere la deposizione e di farla recapitare al segretario del
fascio Enrico Recchia.

Così tornato a casa verso le 22,30 di notte mi misi a scrivere perchè il


giorno dopo dovevo andare a lavorare a Martina Franca. Quasi
avevo finito dopo mezzanotte, quando sentii bussare al portone della
scala. Era Gianfrate. Lesse quello che avevo scritto; ma disse che
ancora era troppo spinto. Allora lo redigemmo insieme e verso le tre
del mattino avevamo finito.

Il giorno dopo lo scritto era recapitato a Recchia, e quando il Pinto mi


rimproverò perché non avevo detto tutta la verità, io gli dissi che
mettevo in pericolo Gianfrate e perciò ho taciuto.

Di lì a breve tempo il Leomanni fu trasferito, come segretario del


fascio passò da Recchia a Francesco Aprile divenuto fascista
arrabbiato; e a seguito del fallimento di Antonio Mitrano, caduto da
podestà gli successe il Leonardo Pinto, che per farsi bello coi fascisti
perseguitò Gianfrate e un po' anche me, benchè io essendo a
lavorare fuori, ero un po' fuori tiro. Questa fu la sua gratitudine!

Alla caduta di Mitrano da podestà a causa del suo fallimento vinicolo,


assistemmo a l'indecente comportamento dei suoi ex seguaci, che
fecero a chi più ne poteva dire sul suo conto. Noi che eravamo stati
sempre suoi avversari, rimanemmo neutrali e talvolta suoi difensori,
rinfacciando ad essi le loro malefatte anteriori, e i benefici che ne
avevano ricavato sotto Mitrano, lo ne dissi quattro al rinnegato ex-
socialista, spia e imbroglione, che pur essendo stato salvato dalla
galera da Mitrano, ne era divenuto il suo più accanito denigratore.

Nel 1928 insieme a due miei fratelli, costruii un palazzo sulla via
Catena per conto nostro, e finito quello nel 1929 incominciavamo un
altro in via Milazzo da noi aperta. Verso la fine di quell'anno il crollo
dei dollaro fu seguito da tutte le altre monete in Europa. I tempi si
facevano economicamente difficili. Noi, io e i miei fratelli, cercammo
di completare alla meglio il secondo fabbricato, per venderlo subito e
pagare i debiti, quando il pomeriggio del 31 Dicembre 1929 verso le
14 sul lavoro venne una guardia e un carabiniere a chiamarmi, chè
voleva parlarmi il maresciallo.

Giunto in caserma, vi trovo il compagno Bagordo Saverio e un


simpatizzante: Nicardo Francesco ai quali si fa la perquisizione.
Capisco che siamo arrestati; ma non il perchè.

Metto un po' di tabacco sciolto in varie tasche e dei cerini, poi vengo
perquisito a mia volta e tutti e tre siamo chiusi in camera di sicurezza
ove troviamo il compagno Neglia Giovanni e un mio cugino Lisi
Ermenegildo che non era stato mai un socialista che mi domanda
perchè siamo arrestati. E che ne so io? Gli rispondo.

Nella tarda serata ci raggiunge Giovanni Gianfrate, che avendo


saputo che eravamo arrestati volle compiere il bel gesto (che io non
avrei fatto) di venire a costituirsi lui stesso, appena giunto dalla
campagna di un suo amico.

L'indomani mattina, Capodanno, ammanettati singolarmente con in


più una catena che ci legava tre persone ognuna insieme, fra il pianto
dei famigliari, e le imprecazioni di numerose persone accorse per
vederci partire ci imbarcammo su di un carrozzone trainato da due
cavalli e ci portarono al castello di Monopoli. Sapemmo che siccome
doveva sposarsi il principe Umberto con Maria losepha di Belgio, vi
era questo rastrellamento in tutta Italia, solo che a Monopoli avevano
rastrellato i delinquenti, a Locorotondo i politici, per cui il giorno dopo
a Monopoli ci raggiunsero tre delinquenti di Locorotondo. Mentre
eravamo in viaggio Gianfrate disse al maresciallo: Maresciallo, nella
vostra carriera ne avete arrestati molti; ma sei persone oneste come
noi, mai.
Passata l'amarezza del distacco dalle famiglie, felici di poter stare
insieme senza alcuna precauzione o sospetto, festeggiammo il
Capodanno ordinando un buon pranzo, innaffiato da un ottimo vino, e
dopo a cantare a squarciagola tutti gli inni socialisti e anarchici che
sapevamo.

Tanto pericolo di andare in carcere non se ne aveva perché in


carcere già ci eravamo.

Vi rimanemmo dodici giorni.

Intanto a Locorotondo il nostro ingiustificato arresto aveva provocato


in tutti, anche in mezzo ai fascisti, un vivo fermento, e si accusava il
podestà Pinto Leonardo e il segretario del fascio Francesco Aprile di
aver voluto il nostro arresto, mentre bastava la loro guarentigia per
evitarlo.

Rimessi in libertà, pagammo il viaggio noi stessi fino a Fasano, e da lì


con la corriera a Locorotondo.

Detta corriera si fermava prima a piazza Marconi e poi in piazza.


Giunti a piazza Marconi qualcuno voleva scendere, io mi opposi
dicendo che non essendo delinquenti dovevamo scendere in piazza
e così facemmo. Ma l'arrivo nostro era già stato segnalato e allo
scendere in piazza una vera folla ci accolse, anche moltissimi con
tanto di distintivo fascista, e qui a darci la mano e le congratulazioni. Il
compagno Bagordo meravigliato esclamò: Ma che veniamo
dall'America noi per essere festeggiati?

Da allora in poi non avemmo più tante seccature nè dalla caserma nè


dai fascisti.

(1)Fra le carte di A. L. è stato trovato un appunto autografo e firmato


che afferma: "Nel 1926 (non ricordo la data precisa) fui arrestato e
tradotto a Bari nel castello ove rimasi circa tre settimane, o poco più,
quindi senza alcun interrogatorio venni rilasciato e con foglio
obbligatorio (perchè nulla era risultato a mio carico) spedito a
Locorotondo, solo che rilevarono le mie impronte digitali. Ritornato a
casa, questa veniva perquisita anche 2 volte la settimana fin nei
materassi. Nel 1930-31 mentre lavoravo al cimitero fui prelevato dal
lavoro il 31 dicembre 1930 e il 1° gennaio 1931 condotto al castello di
Monopoli, ma questa volta non più solo, ma in 6 fra i quali ultimi
insieme a me dei sopravvissuti Giovanni Neglia e da allora al 25
Luglio 1945 dovevo render conto ai carabinieri con chi e dove
lavoravo. Lisi Arcangelo".
5. Movimento operaio,
associazione combattenti,
società operaia dal 1920 al 1956

Dopo disciolta la Lega dei muratori e affini nel 1910, nel nostro seno
non è sorta mai un'associazione o un sindacato, perchè gli edili erano
e sono quasi sempre fuori a lavorare, e i contadini, essendo quasi
tutti piccoli proprietari, non hanno mai sentito il bisogno di
organizzarsi e di lottare, solo dopo l'istituzione della Cassa Mutua
Malattia e la concessione degli assegni famigliari in agricoltura si
sono iscritti nei sindacati per usufruirne.

Pure gli edili con uno sciopero nel 1920 e precisamente il 5-6-1920
ottenevano le otto ore di lavoro, come risulta dal volantino qui
annesso (1). Breve ed effimera vittoria. Ben presto si ritornò all'antico
sistema: dall'alba al tramonto con brevi soste a colazione e a
mezzogiorno, che purtroppo vige tuttora nell'anno di grazia 1956 sia
per gli edili che per gli agricoltori. Peggio per falegnami, sarti ecc. che
stanno fino a sera inoltrata, quando lavorano!

Nel 1921-22 (2) si costruì l'imponente edificio scolastico, e si fece


l'allargamento del cimitero con la chiesa e l'abitazione del custode.
Gli edili allora erano quasi tutti del paese, mentre oggi sono quasi tutti
della campagna e numerosissimi, per cui si fanno fra loro una
spietata concorrenza a danno di tutti.

Essendo del paese, quasi tutti sovversivi e solidali fra loro, all'edificio
scolastico, si fecero circa sei volte sciopero, sempre al 100 per cento,
sia per l'orario che per il salario, imponendo le 9 ore di lavoro e un
salario adeguato per quei tempi.
Dopo l'avvento del fascismo il salario subì gli alti e bassi della
situazione economica a seconda come si presentava, e la instabile
occupazione fece ritornare l'orario all'antica dal levar del sole al
tramonto e oltre e vige tuttora.

L'associazione combattenti, di cui ero vice presidente, subito dopo


l'avvento del fascismo, dai fascisti stessi fu data la scalata facendo
domanda collettivamente di 60 elementi in blocco. Io mi opposi,
perchè ve ne erano molti che mai erano stati combattenti e domandai
che facessero la domanda ognuno singolarmente. Fu accettato il mio
parere; ma mentre io lavoravo fuori il presidente Michele Campanella
convoca una seduta per l'ammissione in blocco. Avutone sentore i
compagni, con una carrozzella il compagno Giovanni Neglia viene a
prelevarmi, insieme al compagno Colabello Francesco, e giungiamo
in tempo a stornare in una tempestosa seduta il colpo di mano. Ma
poco dopo i 60 sono ammessi, e io visto che ormai l'associazione era
caduta in mano fascista, mi dimetto da da vice presidente e da socio.
Quattro mesi dopo ricevo avviso di espulsione dall'associazione; ma
l'entrata dei fascisti provocò il decadimento dell'associazione che più
non visse, vivacchiò fin dopo la seconda guerra mondiale che la fece
per poco rifiorire. Ora vi è ancora e un gruppo dei nostri vi fa parte, fra
cui io, solo per mantenerla apolitica.

A Locorotondo vi sono due società operaie.

Una risale al 1884 denominata Società di Mutuo Soccorso, e l'altra


fondata da Francesco Aprile e Sigismondo Calella nel 1910 col nome
Unione Operaia.

Queste due società al tempo delle fazioni personali fra Francesco


Aprile e Antonio Mitrano, nella prima si raccolsero gli elementi di
Mitrano (senussi), nella seconda i partigiani di Aprile; poi decaddero
con l'avvento del fascismo prima, e con il sorgere dei partiti nazionali
dopo. Il fascismo impose all'unione operaia di cambiare la bandiera
da bianca in tricolore, ora è ritornata bianca.
In questi ultimi anni, queste società si sono riprese, perchè avendo
delle cappelle al cimitero, i soci pensano per quando muoiono; onde
avere l'accompagnamento della società e il loculo; ma non svolgono
alcuna altra attività concreta anche di soccorso per i soci.

(1) Nessuno purtroppo ha mai potuto prendere visione di questo


volantino (N.d.R.).

(2) Nel 1922 dal rapporto di Nansen il mondo apprese la grave


carestia in Russia, specie nelle regioni del Volga, e da tutto il mondo
vennero inviati soccorsi in viveri e denaro. Noi a Locorotondo
organizzammo due concerti di musica e canto e raccogliemmo L. 700
circa, somma allora ragguardevole per Locorotondo, e la inviammo al
comitato nazionale per i soccorsi alla Russia (N. dell'A.).
6. 1930- 1942. Anni grigi

In tutti questi anni vi sono poche cose di importanza notevole. Nel


1932 mentre si facevano le fognature, la ditta Sardone Vito
approfittando della grande disoccupazione degli edili pagava salari di
fame e con intenso sfruttamento, secondato da alcuni operai traditori
dei loro fratelli. lo organizzai uno sciopero.

Una mattina, lavoratori, scalpellini e manovali, non si presentarono al


lavoro. Intervennero i carabinieri, domandando agli operai perchè
non si erano presentati al lavoro. Nessun operaio disse che aveva
scioperato, dicevano che non si sentivano bene, o che avevano da
fare qualcosa personale, o che avevano qualche ammalato in casa.

Intervenne da Bari il segretario provinciale Lovecchio Musti al quale il


Sardone ci presentò come un branco di sovversivi. Bene, disse
Lovecchio Musti, ne carichiamo un paio di camion e li portiamo in
carcere. lo ero dietro la porta del podestà, che era ancora Pinto e udii
tutto.

Allora intervenni alla testa di una delegazione di operai, dissi al


Lovecchio Musti le paghe che percepivano gli operai, l'orario di 12-13
ore che si praticava, e le altre angherie che sopportavamo,
concludendo che non si trattava di uno sciopero; ma di una protesta
contro la Ditta, e che gli operai erano contenti che fosse venuto lui,
perchè potesse fare da intermediario.

Allora, disse Musti, hanno ragione gli operai; e a suo mezzo il prezzo
delle basole e dei cordoni fu aumentato, come pure i cottimi e il
salario degli operai.
Nello stesso anno 1932, certo Acquaviva Francesco, muratore e il
fratello Oronzo che venti anni prima di ritorno dagli Stati Uniti, ne
erano venuti intinti di anarchismo, ebbero due grandi manifesti
anarchici clandestini, non so da dove. Francesco me li diede a me, e
io di notte li affissi in piazza. La mattina il podestà Pinto Leonardo,
prima che io arrivassi in piazza, mi abbordò domandandomi chi erano
gli anarchici a Locorotondo. lo dissi di non saperlo e domandai
perchè.

Mi portò a vedere i manifesti, che io lessi fingendo meraviglia; ma


confermai che non conoscevo anarchici.

Gianfrate Giovanni mi disse: Hai fatto andare in bestia le autorità; ma


potevi andare a finire al Tribunale Speciale. Mi raccomandò
prudenza.

Nel 1934 come segretario del fascio, fu messo un giovane avvocato,


Nicola Oliva che vi rimase fino alla caduta del fascismo.

Era ed è una persona di buona indole, fascista convinto; ma noi


scherzavamo sulla sua eloquenza quando in piazza veniva qualche
gerarca. Lo presentava con tutti i titoli, poi diceva:

Saluto al Duce e ... basta.

Dopo la deposizione da podestà di Pinto nel 1933 o 34 vi fu al


Comune come commissario Francesco Aprile, ma per breve tempo,
chè poi fu podestà l'avv. Alfredo Aprile Ximenes, avvocato senza
cause, e senza causa, bigotto e un po' testardo. Vi rimase fino alla
caduta del fascismo.

Vice podestà fu nominato un agrario; Luigi De Bernardis. Fu allora


che comparvero dei manifestini a stampatello in cui era scritto: La
stalla è piena, alludendo al podestà, al vice podestà e al segretario.

Intanto un giovane studente, Mario Conti Stanisci organizzava il


Gruppo Universitario Fascista.
Ambizioso, prepotente, sempre in malafede come vedremo in
seguito, si rese ben presto odioso ai colleghi e ai gerarchi di Bari.
Pare che costui ambisse al posto di podestà; ma non con vie oneste;
ma con la calunnia sugli altri e per poco non fu sospeso dall'esercizio
della sua professione d'avv. Paolo Pinto, accusato di aver partecipato
alla commemorazione di Matteotti nel 1924.

Io, ignaro allora di queste beghe, fui chiamato dal segretario del
fascio, Nicola Oliva per sapere se era vero che Paolo Pinto avesse
partecipato a detta commemorazione. Potevo rispondergli che vi era
anche lui e il padre; ma preferii rispondere di non ricordare, e che se
anche mi ricordassi di qualcuno io ero operaio e non spia.

Capì e non insistì.

Il 21 Luglio 1937, dopo breve malattia, moriva Giovanni Gianfrate.

Questo nome e quest'uomo deve essere sempre ricordato con


reverenza ed affetto da tutti i lavoratori presenti e futuri, vero
cavaliere dell'Idea socialista senza macchia e senza paura, soffrì
persecuzioni, calunnie, confino, carcere, lotta a colpi di spillo; ma lui
fu sempre tetragono ai colpi, calmo e sicuro proseguì sempre per la
sua strada incurante della canea scatenata contro di lui, e ben può
dirsi di lui col Giusti: Non Mutò Bandiera.

Egli fu un tenace pioniere, la forte guida dei lavoratori, il nostro padre


spirituale, l'amico di tutti i poveri e gli oppressi che a lui ricorrevano,
amato e stimato dal popolo, odiato, ma temuto dagli avversari.

I suoi funerali furono un vero plebiscito di popolo, fascisti o no, tutti


convennero ad onorare questo grande, umile uomo.

lo avevo preparato un piccolo discorsetto funebre; ma qualche ora


prima dei funerali, fui chiamato sul fascio, dal segretario Oliva e dal
maresciallo dei carabinieri, i quali mi dissero che per ordini superiori
se qualcuno avesse detto una sola parola per il defunto vi era
l'arresto immediato.
Allora io passai la parola d'ordine: Tutti al cimitero.

I funerali imponentissimi si svolsero; ma con l'accompagnamento dei


carabinieri fin dentro il cimitero.

Giunti nella Cappella dell'Addolorata si scoperchiò il cadavere per


l'ultimo saluto. I carabinieri cercarono di scacciare la gente, e allora io
irato dissi: E' una vergogna, quest'uomo è morto e non parlerà più,
neanche volete permetterci di vederlo per l'ultima volta?

I carabinieri tacquero, e salutato per l'ultima volta l'estinto ci


allontanammo.
7. 1943 - 1956. Anni variabili. Post
fata resurgo (1)

La mattina del 26 Luglio 1943 dalla mia casa in via Catena uscivo con
la bicicletta per recarmi al lavoro a uno stabilimento vinicolo vicino
alla stazione di Martina Franca, e fatto a piedi i 30 metri che mi
separano da via Martina, al centro del quadrivio trovo il dentista Pep
u pacc, che mi dice: Lui se ne è andato. Chi lui dico. Mussolini mi
risponde. lo incredulo dico: Tu pensi alle chiacchiere e io penso a
lavorare. Tu non lo credi; ma è vero mi dice, l'ha detto la radio
stanotte e io son venuto ad aspettarti per dirtelo e lo giuro che è vero.

Mezzo convinto arrivo a Martina, incontro nella strada dei muratori di


Martina, e li saluto alzando una mano dal manubrio. Giù quella mano
comunista, mi dicono, Mussolini non c'è più. Scendo, mi fermo, la
notizia mi vien confermata. Pazzo di gioia arrivo sul lavoro e mando
un manovale a comprare il giornale. Era vero. Raffaele Goriux sulla
"Gazzetta" ne tesseva ancora le lodi; ma ammetteva che con
Mussolini il fascismo era caduto.

Gli operai ascoltavano attentamente il giornale, poi un grido:

VIVA LA LIBERTÀ!

Quel giorno per caso, essendo in fine di lavoro il padrone ci diede il


capocanaIe, vale a dire un pranzo a tutti i lavoratori alle 2 del
pomeriggio; alle 17 ero di ritorno a Locorotondo.

Neanche a farlo apposta, mentre ero per rientrare a casa, passa il


barbiere Giuseppe Conti detto Farinacci e gli dico:
Ei Farinacci ora non mi farai più chiamare sul fascio per ricevere le
bussa. L'hai con me? mi dice. Certo dico, ricordi il 1926 quando sul
fascio volevi farmi lisciare? lo? risponde. Non ricordo. Ricordo io però
gli dico e bada a te, chè il fascio è sfasciato.

Vado in piazza, e di fascisti neanche più l'ombra. Vigliaccamente tutti


erano contro al fascio che fino al giorno avanti avevano osannato.

Ci incominciammo a ritrovare i vecchi compagni: Giovanni Neglia,


Piccoli Raffaele, Campanella Angelo Raffaele, Prete Martino, e altri,
mentre prendo contatti a Martina col vecchio compagno e antico
amico Massafra e col giovane dott. prof. Aldo Semeraro che cercano
di riunire i compagni vecchi e nuovi di Martina. In tutti c'è un fervore di
agire, di riunirsi, di discutere, di essere pronti in caso di un'azione di
forza.

Sento che il dott. Affilio Bruni è dei nostri e mi reco a parlargli nella
vicina campagna ove lo trovo insieme ad altre persone. Aspetto che
se ne vadano, e allora il Bruni senza attendere che io parlassi mi
disse: So perchè sei venuto; ma credo che bisogna aspettare ancora
un poco per organizzarci.

No, dissi è necessario farlo subito, che gli eventi possono precipitare
e noi dobbiamo essere pronti. Vedremo disse e mi congedò.

Altro compagno mi fece conoscere il compagno Gianfrate Leonardo,


figlio di Giovanni: era un avvocato sfollato a Locorotondo, Mario
Assennato, (oggi deputato Comunista alla Camera). Anche questo
era per l'attesa degli eventi prossimi, poi partì per Gravina per
mettere al sicuro la famiglia che causa la guerra riteneva un luogo più
sicuro. Invece ...

Il Generale Bellomo, comandante il corpo d'armata di Bari, faceva


affiggere in tutti i comuni un proclama, in cui era detto che chi con
parole o atti sediziosi tentasse di rovesciare l'ordinamento sociale
sarebbe stato passato per le armi. Invece qualche mese dopo
doveva essere lui passato per le armi dagli inglesi.
Noi niente affatto preoccupati da queste minacce, in Agosto 1943
avevamo già costituito il nucleo della Sezione Comunista.

Il direttore tecnico dei lavori della Sirti (Società Italiana Reti


Telefoniche Interurbane) Mauro Valente, genovese, ex rifugiato in
Francia, e sorvegliato politico, per seguire i lavori dei pozzetti da
Locorotondo a Bari si era trasferito a Conversano. Sembrandogli
pericolosa la nostra zona, inviò la moglie e i suoi due figli a Genova
presso i parenti. Invece ...

Dopo la caduta del fascismo, avuto notizia di quanto operavamo a


Locorotondo, formò i primi nuclei comunisti a Conversano, Turi,
Casamassima e altrove.

Trasferitosi di nuovo a Locorotondo nella cabina centrale della Sirti,


incominciammo il lavoro nei paesi viciniori. A piedi andammo a
Martina per prendere contatto con i compagni già costituiti da
Massafra e da Aldo Serneraro; con un mezzo di fortuna a Cisternino
ove ci abboccammo con un buon compagno fabbro ferraio,
spronandolo a raccogliere elementi nostri; a Fasano; io mi recai in
bicicletta ad Alberobello ove causa il feticcio Pietro Campione, ex
socialista fìlofascista, tornato alla ribalta come socialista non conclusi
niente; poi in bicicletta stesso a Noci, ove conoscevo parecchi
compagni di lotta e di lavoro. Ebbi assicurazioni buone, per cui ri
tornammo varie volte con Mauro Valente, facendo un buon lavoro.

Centro di tutto il movimento da Casamassirna a Martina la centrale


della Sirti, animatore Mauro Valente. Li ci riunivamo semi clandestini
e lì incominciarono ad affluire i profughi politici dopo l'armistizio
allorché l'Italia era divisa in due.

Il 27 Settembre 1943 Valente e io ci recammo a Bari per prendere


contatto con i nostri. Parlammo con De Leonardis e Raffaele Pastore.

Ancora clandestinamente a Bari si incominciò a stampare un nostro


giornale "Civiltà Proletaria" che io rivendevo a Locorotondo. Ogni
giorno gli iscritti al Partito crescevano; ma erano elementi che
bisognava istruire ed educare, per farne dei comunisti.

Nel frattempo la Brigata Piceno si era trasferita nei nostri paesi;


mentre il re, vigliaccamente fuggito da Roma e trasferitosi a Brindisi,
girava per i nostri paesi. Io lo vidi a Martina Franca, e il principe
Umberto a Locorotondo, ove si era recato al comando della Piceno
con una nuovissima fuori serie. Pochi soldati all'uscita lo
applaudirono al grido di Savoia.

Nel mese di Novembre 1943, nel cinema comunale si tenne il primo


comizio comunista, tenuto da un professore dell'Alta Italia che si
faceva chiamare Mario Mariani, (il vero nome non l'ho mai saputo)
rifugiato alla Sirti.

Per darne l'annunzio alla cittadinanza facemmo stampare dei


manifesti. Un colonnello della Piceno, dal suo attendente, ne fece
strappare parecchi; ma qualche mese dopo quando fece affiggere
degli striscioni di notte con su scritto Viva il Re, Viva l'Esercito, Viva
l'Italia, alcuni giovani fra i quali i figli del compagno Neglia Giovanni,
freschi freschi come li mettevano i soldati, essi li staccavano e non ne
rimasero neanche uno!

I soldati poi, non tutti però, cantavano a squarciagola Giovinezza


benché era proibito senza che i superiori lo impedissero. Mentre si
teneva il comizio nel cinema, parecchi dei nostri rimanemmo fuori
temendo le intemperanze di qualche militare e ben ci opponemmo
chè tre o quattro di essi tentarono di entrare nel cinema per gettare
delle bombe a mano che avevano nelle cartucciere e nelle tasche.
Mentre si mettevano d'accordo per entrare, non conoscendomi
scoprii tutto e tempestivamente ne avvertivo il maresciallo dei
carabinieri che li chiamò in caserma. Non so che ne fu; ma il
complotto fu sventato. Per la cronaca, uno dei più accesi nel voler
gettare le bombe era un tamburino della Piceno, oggi sposato e
domiciliato a Locorotondo, democristiano.
Nel gennaio 1944 si tenne a Bari lo storico congresso dei partiti
antifascisti. I soldati stettero in allarme giorno e notte perchè sì
temeva una rivoluzione, e come mi dissero dopo avevano ordine di
sparare a vista sui sospetti di notte.

Sotto la mia casa vi erano parecchi locali vuoti di contadini che


abitavano nella campagna, che requisiti dai militari erano occupati dai
soldati e in mezzo ad essi facevo della buona propaganda. Mi erano
tutti amici e mi volevano bene. Era la prima volta che sentivano
parlare di comunismo e mi ascoltavano attenti. Congedati parecchi
mi hanno scritto che erano divenuti compagni.

Molti, specie nell'edificio scolastico, erano ancora fascisti convinti e


cantavano gli inni fascisti quando non si poteva più parlare di
fascismo sotto pena di arresto. I superiori loro lasciavano fare. Per
mettere fine alla gazzarra inviammo uno dei nostri al Comitato di
Liberazione di Bari con una vibrata protesta contro il Comando della
Piceno che ebbe effetto immediato. Alle 11 dello stesso giorno a casa
mia venne il colonnello e l'aiutante maggiore. Mi chiesero se
avevamo mandato qualcuno a Bari e io dissi di sì. Dissi come erano
stati avvisati di far cessare lo sconcio e loro avevano fatto orecchie
da mercante; perciò ci eravamo rivolti a Bari. Promisero che
avrebbero provveduto.

A tale proposito ci fu un'inchiesta da parte di un generale e fummo


chiamati noi sul Comando a deporre.

La gazzarra fascista militare si attenuò, non si spense. Intanto gli


sfollati da Taranto vi ritornavano, e in uno dei locali da essi tenuti in
piazza in via Montanaro, con Mauro alla testa ci installammo noi
aprendo ra Sezione Comunista.

A Turi una squadraccia fascista invade la nascente Sezione


Comunista e la brucia. Mauro Valente organizza una spedizione
punitiva. Venti uomini da Martina Franca, dieci da Locorotondo, altri
da Noci, Conversano, Casamassima non ricordo da dove ancora
dovevano convergere su Turi. lo non dovevo andare perchè
impegnato dal lavoro a Martina Franca; ma la mattina pioveva e
decido di partire col secondo treno, parto dalla Sirti e si unisce a me il
capo cantiere della cabina della Sirti di Taranto Umberto Miglioli
modenese rifugiato a Locorotonclo, e porta con lui Giuseppe
Lodeserto che non sa perché si va a Turi se no si sarebbe
certamente rifiutato.

I primi partiti col primo treno erano arrivati a Conversano, ove


armatisi quelli che non avevano armi; insieme ai compagni di
Conversano col treno che veniva da Bari, cambiando treno
proseguivano per Turi e noi pure.

Lisi Ermenegildo mio cugino e cognato, cerca nei vagoni se vi sono


tutti e dieci i locorotondesi; ne domanda a me di tre e io dico di non
averli visti. Bene dice sono eroicamente scappati; ma tre se ne sono
andati e tre siete voi: il numero è giusto, e va a riferire a Valente. I tre
giovani eroi, giunti a Conversano, alla vista dei pugnali e delle
rivoltelle, avendo una santa paura, invece di scendere a Putignano e
salire sul treno per Turi, avevano proseguito direttamente per
Locorotondo, ove giunti narrarono alle nostre famiglie che noi
eravamo andati a Turi per fare a botte tutti armati e chi sa cosa
succederebbe.

Le nostre famiglie ne furono allarmatissime.

Noi intanto giungevamo a Turi. Qui era stato già saputo che saremmo
arrivati noi, e mandanti ed esecutori dell'incendio erano spariti dal
paese mentre avvertiti dalle autorità locali, sul municipio vi erano tre
ufficiali alleati inglesi, e sulla piazza quattro carabinieri con tanto di
sottogola e moschetto. Guardandoli pensai che se fosse successo
qualche cosa di grave, cosa avrebbero potuto fare quei quattro militi,
contro duecento uomini armati.

Appena saputo del nostro arrivo, gli inglesi dissero di voler parlare
con una nostra delegazione sul municipio. Vi si portò Valente ed una
quindicina dei nostri. Parecchi ebbero il buonsenso di lasciare le armi
nella sezione, altri no.

La grande maggioranza rimase fuori di guardia, io con essi. Gli


inglesi saputo quello che era avvenuto promisero di mettere a posto i
fascisti, invitando alla calma poi fecero perquisire i presenti. Furono
trovate tre rivoltelle e vari pugnali e volevano trattenere i detentori
delle armi. Ma Valente protestò energicamente, e minacciando che
se uno solo fosse fermato si avrebbe avuto una rivolta immediata. Gli
inglesi capirono l'antifona, e lasciarono immediatamente liberi tutti.
Quindi Mauro Valente davanti alla sezione riaperta, pronunciò una
breve concione, minacciando che se si ripetesse qualcosa in danno
della sezione, noi saremmo ritornati mettendo a soqquadro uomini e
case dei nostri nemici.

Così ebbe termine la spedizione di Turi.

Nella nostra Sezione avevamo Mauro Valente e il dott. Attilio Bruni.


Valente, impetuoso uomo d'azione, vero rivoluzionario che non
guardava tanto per il sottile alla legalità e Bruni che vi era attaccato.
Noi ridendo dicevamo che bisognava togliere il 50% dell'impetuosità a
Valente e dada a Bruni.

Valente per cercare di aiutare i lavoratori alla ricerca di viveri, fonda


una nostra Cooperativa di Consumo di nome la Proletaria, che si
preoccupa di trovare fave e altri generi alimentari per i soci, quindi
ingrandendo il disegno si trasferisce a Bari dove fonda la Cooperativa
Di Vagno a cui aderiscono tutte le altre nostre cooperative della
provincia.

Intanto venivo nominato membro del comitato esecutivo della


federazione di Bari e capo settore per Alberobello Noci e
Locorotondo. Nella Camera del Lavoro di Locorotondo vi era stato il
comp. Michele Recchia fino al 1942, anno in cui avendo assunto a
suo collaboratore un fascista, noto che nel 1926 a diciassette anni,
aveva lanciato una pietra contro la lapide di Di Vagno e sempre
acceso fascista. Costui cattivo operaio falegname, impiegatosi alla
Camera del Lavoro, cercò tutti i mezzi per estromettere il Recchia, e
a seguito di un fallo di lieve entità del Recchia lo denunziò a Bari, per
cui il Recchia fu messo fuori e lui si insediò comodamente.

Il comp. Raffaele Pastore era stato nominato Commissario delle


Camere di Lavoro risorgenti con ampi poteri e il compagno Domenico
De Leonardis capo delle organizzazioni operaie e contadine. Il
permanere alla testa della Camera del Lavoro di Locorotonclo di un
elemento infido come Vittorino Campanella, era un pugno negli occhi
dei comunisti, e inoltre dato che il comp. Recchia era anche padre di
numerosa famiglia e disoccupato si cercò presso i compagni Pastore
e De Leonardis di riinsediarlo eliminando il Campanella. Costui
conosciuto il pericolo corse a Bari pregò, implorò e forse corruppe
qualcuno vicino ai compagni responsabili e rimase.

Non conoscevano ancora a Bari che perfido uomo era il Campanella.

Il 10 Maggio 1944 cadeva di lunedì; ma dato che era incominciata la


guerra di liberazione, acciocchè le poche industrie belliche del
Mezzogiorno, e gli altri lavori non ne venissero intralciati si ebbe
l'ordine di solennizzare la data il 30 Aprile, e io ricevetti l'ordine di
andare a parlare ai compagni di Noci.

Non essendoci treni nè altri mezzi di domenica, un autista figlio del


compagno Vito Miceli si offrì con un furgoncino che aveva in
consegna di condurci a Noci e ci andammo lui, il padre, Palmisano
Giambattista e io, issando sul motore una bandiera rossa con falce e
martello giungendo verso le otto del mattino, mentre la banda
cittadina suonava Bandiera Rossa e l'inno dei lavoratori. Fummo
accolti trionfalmente.

Vincenzo Guerra, socialista dovendo recarsi a parlare nel teatro di


Putignano mi chiese se permettevo di andare con la macchina. Si
mise d'accordo con l'autista e partì.
Verso le 10 nella affollatissima Camera del Lavoro, finalmente dopo
22 anni tornavo a parlare in pubblico. Che emozione! A mezzogiorno
fummo ospiti di un compagno e nel dopopranzo tornata la macchina
da Putignano tornammo a Locorotondo.

Avevamo deciso che qui avremmo solennizzato la data il lunedì 1°


Maggio.

La sera del 30 Aprile su casa mia vi fu un trattenimento di pochi


compagni e molti militari della Piceno.

Mia moglie aveva la pressione del sangue alta, ed era stata


consigliata dai medici di salassarsi. Non aveva voluto e fu la rovina
sua e mia.

Verso l'una di notte, mentre il trattenimento era al termine fu colta da


una trombosi che mise in pericolo fa sua vita e rimase poi paralizzata
per sette anni e quarantatre giorni fino alla sua morte avvenuta il 12
Giugno 1951.

Naturalmente la manifestazione progettata per il 1' Maggio andò a


monte.

Sulla casa del fascio, intanto veniva ritrovata la lapide di Giuseppe Di


Vagno infranta in 44 pezzi. La ricomponemmo, con l'aggiunta sotto di
un nuovo pezzo di marmo con dedica scritto dall'avv. Nicola Conti del
Partito d'Azione e il 4 Giugno la rimettemmo a posto con una solenne
manifestazione cui parteciparono i sei partiti antifascisti rappresentati
nel costituito Comitato di Liberazione di Locorotondo.

Di questo comitato ne facevano parte: Per i comunisti il dott. Attilio


Bruni e io, per i socialisti l'avv. Sigismondo Calella e Consoli
Leonardo ebanista, per il partito di Azione l'avv. Nicola Conti
presidente e l'avv. Vito Mitrano segretario, per la democrazia
cristiana il prof. Martino Recchia insegnante e lo studente
Giacovazzo Giuseppe di Pietro, per i liberali l'avv. Mario Conti
Stanisci e Gianfrate Cataldo fabbro ferraio.
Da tutto il Comitato nelle sue adunanze pubbliche, furono esaminati e
discussi con serietà e serenità tutti i problemi amministrativi,
economici e politici di Locorotondo in riferimento anche alla
situazione dell'Italia allora divisa in due tronconi dalla guerra.

Ma l'elemento falso, ambizioso, turbolento, provocatore vi era nel suo


seno: Mario Conti Stanisci.

Buon organizzatore parolaio, cattivo politico, aveva attirato a sè nel


partito liberale la maggioranza dei contadini; cercava di adescare a
sè noi e gli altri partiti seminando zizzanie e calunnie contro gli uni e
gli altri finchè conosciuto e smascherato da tutti venne espulso dal
Comitato di Liberazione all'unanimità nella seduta dell'8 Marzo 1945,
per indegnità politica (2).

Un solo episodio di quest'uomo.

Sul municipio di Locorotondo, dopo la destituzione di Alfredo Aprile


Ximenes da podestà erano stati nominati commissari comunali
Martino Recchia e dopo di lui l'industriale vinicolo Vito Campanella.
Poi una disposizione prefettizia diceva che ove i locali comitati di
liberazione fossero concordi potevano nominare un sindaco di loro
gradimento.

Tutti i partiti fummo convocati nello studio di Mario Conti il quale


propose che se fossimo stati d'accordo avremmo nominato sindaco
l'avv. Nicola Conti del Partito d'Azione, provato antifascista. Tutti
fummo d'accordo rilasciando una dichiarazione firmata da due
rappresentanti qualificati di tutti i partiti con la quale ci impegnavamo
a sostenere come sindaco Nicola Conti e di non accettare alcun altro
a sostituirlo di nomina prefettizia.

Forse sperava in opposizioni che non ci furono, per fare qualche suo
giochetto a suo pro'. Certo è che ancora le firme non erano forse
asciugate che Mario Conti si precipitava a Bari per impedire con tutti i
mezzi alla Prefettura, acciocchè la proposta nomina a sindaco di
Nicola Conti, proposta sua stessa, non venisse e non venne
convalidata.

Altro episodio: nei primi mesi del 1945 dal Comitato di Liberazione fu
deciso che i locali dell'ex beneficenza ove aveva sede ad una parte
l'associazione dei combattenti e questi rimarrebbero in quei locali che
avevano, e l'altra parte occupata dai ... (3) fosse convertita in Camera
del Lavoro. La chiave, come rappresentante dei combattenti ce
l'aveva l'ex tenente fascista Marco Conti. Chiedemmo la chiave
d'ingresso alla scala che porta ai locali a costui che ci promise che
alle nove dell'indornani verrebbe lui ad aprire. Tutti i rappresentanti
dei partiti, escluso il liberale, che Mario Conti ne era stato espulso,
erano presenti con un gran numero di operai contadini e popolo, e
aspettammo dalle nove alle undici che venisse Marco Conti, ma
costui non venne, finchè un operaio perduta la pazienza con una
semplice spallata aprì la porta d'ingresso e la Camera del Lavoro si
stabilì nei suoi locali destinati.

Mario Conti su un giornalucolo che si stampava a Bari, l'Idea liberale,


sotto una rubrica intitolata: "Settimana di Passione" ove si narravano
sedicenti agitazioni di sovversivi nella Provincia, era scritto che anche
a Locorotondo vi erano stati gravissimi disordini, con gravi accuse e
calunnie contro i membri del Comitato di Liberazione.

Questo riunitosi d'urgenza deliberava di dar querela per diffamazione


a Mario Conti; ma poi i democristiani, per carità cristiana alquanto
pelosa e forse interessata ritiravano la loro adesione e la querela per
questo sfumò.

Fu deciso pure di portare a conoscenza delle superiori autorità un


memoriale sulla vita politica di Mario Conti e anche qui, prima i
democristiani furono d'accordo, ma alla firma solo essi si rifiutarono di
fimarlo. Se avessero previsto l'avvenire! Copia del memoriale da me
conservato è nella Sezione Comunista.
lI 1° Maggio 1945 fui incaricato dalla Federazione di andare a parlare
ad Alberobello. Palmisano Giambattista e io in bicicletta mi recai
costà; nia dai socialisti capeggiati da Pietro Campione seppi che la
manifestazione si terrebbe la sera inoltrata.

Immediatamente ritornammo a Locorotondo.

Vi giungemmo mentre parlava un vecchio ferroviere inviato dalla


Federazione socialista e l'avv. Sigismondo Calella, i quali delusero un
po' l'uditorio numeroso in piazza.

Come finirono di parlare loro, salii sulla panca e tenni il miglior


discorso che abbia mai tenuto per un'ora e trentacinque minuti,
rifacendo tutta la storia del 1° Maggio dai martiri di Chicago all'epoca
presente, con le sue lotte, le rivendicazioni, le violenze patite dai
lavoratori in quel giorno attraverso la loro lotta per il diritto alla vita.

Fu un successone. Dopo per i democristiani parlò pure Giacovazzo


Giuseppe di Pietro studente.

Dopo alquanti giorni fui chiamato ad Alberobello dal segretario della


locale C. d. L. che era un mutilato di Minervino e compagno, per
inaugurare la nascente Sezione Comunista di Alberobello. Feci un
discorsetto inaugurale, la sezione fu costituita; ma purtroppo mi
avvidi che quella decina di persone, se non avessero avuto un vero
capo ben poco ne risulterebbe, non avendo preparazione politica
vera e propria.

Nel Luglio 1945 il Comitato di Liberazione decideva d'insistere presso


il Prefetto per la nomina a sindaco di Nicola Conti, contro gli intrighi
facinorosi di Mario Conti.

Ma appena tolta la seduta, il numeroso popolo presente acclamando


sindaco Nicola Conti lo portò in trionfo sul municipio. Dopo alcune
commosse parole di costui dal balcone, fu preso a spalla dal popolo e
portato sino a casa sua fra le acclamazioni di tutto il popolo. Così fu
sindaco Nicola Conti.
Mario Conti non si dette per vinto.

Col nuovo anno finanziario incominciava ad andare ..... [mancano


quattro facciate del manoscritto, N.dR.]

---------------------------

Il manoscritto manca qui di quattro facciate, Nel passare di


lettore in lettore, deve essere capitato in mani socialtraditrici
e vandaliche che non hanno esitato a distruggerle,
evidentemente parche non erano bene accetti i fatti ed i
giudizi riportati. Riassumeremo a grandi linee ciò che
ricordano personalmente alcuni compagni della lettura fatta
alcuni anni or sono. Le pagine mancanti parlavano della
formazione e composizione sociale dei partiti a Loco-
rotondo ed introducevano il racconto del barbaro assalto
alla sezione del P.C.I.

Per quanto riguarda il primo argomento, A. L. sottolineava la


natura essenzialmente trasforrnista e piccolo-borghese del
partito socialista che era stato messo su da alcuni "don" del
paese che intendevano passare per progressisti,
adeguandosi ai tempi nuovi e non brillando, fra l'altro, né per
coerenza politica né per coraggio fisico. Quanto alla D.C.,
egli non esitava nei giudicare questo partito come
organizzazione reazionaria e filo-monarchica. Il P.L.I. era,
invece, la formazione che si avviava ad egemonizzare larga
parte dei contadini, in ciò aiutato dalla presenza in
Locorotondo di un collocatore fascista che costringeva
praticamente i contadini ad organizzarsi in quel partito.

Quanto al secondo argomento, il P.C.I. aveva organizzato


nel novembre 1945 un comizio. Una folla di contadini e di
reduci fu aizzata e guidata da sette fascisti (di cui A. L.
riportava nomi e cognomi e che furono regolarmente
denunziati) ad impedire violentemente il comizio, a dare
l'assalto alle sezione comunista e distruggere per la
seconda volta la lapide a Di Vagno (N.d.R.).

----------------------------------

........ Noi ci ritirammo in Sezione Giovanni Neglia e io, l'avvocato poco


conosciuto si mischiò alla folla e raggiunse incolume la mia casa. l
quattro carabinieri vennero anche loro sulla porta della Sezione a
cercar di proteggerci. Gli altri compagni fra cui qualcuno qualche
giorno prima aveva fatto il rodomonte in piazza, e che io avevo
ripreso e mi ero sentito dire che parlavo così parche avevo paura,
eroicamente per tema di essere riconosciuti si tappavano nelle case,
cosicchè tra cento compagni iscritti solo noi due rimanevamo a
difendere la Sezione contro una folla tumultuante e inferocita.

Un ex socialista dirigente del Partito sino al 1922, Alfredo Recchia,


volle dire nella folla qualche parola in nostro favore, fu preso a pugni
e calci e a stento riparò nel locale della posta allora in piazza, due
carabinieri e una guardia municipale corsero a presidiare la posta
ove gli energumeni tentavano di entrare. Il compagno Neglia vista
inutile ogni resistenza, cercava di allontanarsi, Ebbe qualche bussa e
gli occhiali rotti. Da notare che in guerra ha perduto un occhio e l'altro
è assai minorato.

Davanti alla porta della Sezione sulle scale rimasero il maresciallo


dei CC. Scigliuzzi, un altro carabiniere ed io in mezzo fra i due.

Alcuni uomini, arrampicandosi sulla scala uno sull'altro, tiravano da


sulla porta la tabella del Partito, altri con martelli e un pezzo di scala
demolivano la lapide ricomposta di Giuseppe Di Vagno, altri sulla via
Montanaro adiacente alla piazza tentavano l'assalto alla Cooperativa
di Consumo; ma il buonsenso di alcuni cittadini li dissuase.

I carabinieri, impotenti cercavano veramente di impedire l'accesso


alla Sezione, e mentre cercavano di contenere la folla, un contadino
mi vibra un pugno sul muso che mi spaccava il labbro inferiore, quindi
tirato giù violentemente dalle scale per gilè per cui tutti i bottoni se ne
saltarono, e una volta al piano in piazza botte da orbi.

Il maresciallo Scigliuzzi e l'altro carabiniere abbandonando la


Sezione, si precipitarono dietro di me per salvarmi dalle mani degli
scalmanati, e in questo tentativo il maresciallo prese anche lui una
parte delle botte destinate a me.

Intanto la folla avuta via libera alla Sezione, la invadeva la


saccheggiava e bruciava tutto in piazza, persino il contatore della
luce elettrica!

Quello che mi dispiacque fu che bruciarono la biblioteca da me


fondata con circa 150 volumi miei di cui alcuni di grande valore
perchè testi antichi stampati a Venezia verso il 1790 con illustrazioni a
rilievo.

Intanto che la folla si riversava nella Sezione il maresciallo il


carabiniere ed io giungemmo oltre la colonna della piazza sul corso
Venti Settembre completamente sgombro di gente, e allora io fuggii a
tutte gambe giù per il corso per ripararmi a casa. In piazza Roma,
davanti al loro palazzo vi erano l'ex sindaco Nicola Conti e il fratello
Mario, che vistomi correre tutto lordo di sangue, col gilè aperto mi
chiamarono nel loro studio mi fecero lavare, mi riconfortarono con
caffè e liquori, e mentre raccontavo l'accaduto la loro domestica
Francesca toglieva i bottoni ad un loro gilè e li metteva al mio. Qui fui
raggiunto dall'avvocato mandato per il comizio da Bari, e dal
compagno Aldino che si prese cura dell'avvocato conducendolo alla
casa del padre Giovanni il mezzoprete; e io medicato e pulito alla
meglio potei presentarmi a casa senza spaventare mia moglie che
era sempre semi-paralizzata, e che nulla seppe sul momento di
quello che mi era accaduto.

A Locorotondo è uso verso la fine di un lavoro edile, che il padrone


per onorare i lavoratori che vi hanno partecipato, dia un banchetto. Io
ero a lavorare allo stabilimento vinicolo dei fratelli Vito e Cataldo
Campanella sulla via Sant'Elia, e proprio quel giorno verso le 13 si
doveva dare il banchetto nello stabilimento superiore dell'ex ditta
Antonio Mitrano che i Campanella avevano in fitto in attesa di
trasferirsi nel nuovo loro stabilimento. Ora dove doveva essere il
banchetto era ad appena 50 metri da casa mia sulla via Catena.
Sapevo che vi avrebbero preso parte come invitati parecchi
capoccioni D.C. per cui con l'animo turbato, e senza alcuna voglia di
mangiare decisi di recarmi lo stesso, per far vedere loro che io non
ero, né morto, nè vivo, nè abbattuto moralmente.

Entrando nello stabilimento Cataldo Campanella mi avverte che non


dovevo parlare di politica. Lo so, risposi.

In testa alla tavolata sedettero i padroni, gli invitati, gli appaltatori con
le loro donne e lungo la tavolata gli operai circa una trentina. lo con
gli altri.

Venne servita la pasta che appena toccai, poi ognuno la sua razione
di carne al sugo, al forno e formaggio sempre a razione. Le mie
razioni rimanevano sulla tavola davanti a me quando comparvero
nello stabilimento in cerca di me il compagno Michele Recchia ex
segretario della Camera del Lavoro e un compagno che era stato a
tenere il comizio ad Alberobello e che invitato dal Recchia a visitarlo
a Locorotondo era venuto con una fame!!! ... e siccome nella casa
del Recchia si soffriva la stessa malattia (famiglia numerosa, pochi
mezzi per comprare al mercato nero) l'aveva condotto a casa mia,
chè data la mancanza di regolari mezzi di comunicazione con Bari,
tutti i compagni che venivano da Bari erano sempre miei ospiti non
potendo raggiungere Bari.

Saputo a casa che io ero costì vennero, e subito i miei compagni di


lavoro fecero posto. Recchia ebbe la dabbenaggine di mangiare poco
e bere molto, per cui più tardi mi imbrattò tutta la casa di vomito; ma
l'altro compagno mangiò prima le mie razioni e poi i compagni di
lavoro gliene offrirono delle loro, e mangiò benissimo.
Poi venimmo chiamati a casa mia che vi era gente. Infatti su casa vi
erano molti compagni e parecchie donne. L'avvocato e il compagno
venuto da Alberobello si sedettero al tavolo e stesero una relazione
dell'accaduto. Sette persone fra i più scalmanati del paese che
avevano preso parte al saccheggio della Sezione e alle legnate date
a noi, riconosciuti venivano denunziati nella relazione e l'indomani
alla Caserma.

Erano circa le ore 21, e la riunione stava per finire quando due o tre
colpi forti furono battuti al mio portone. Da in cima alla scala
domandai chi fosse.

"Ieghie suont", rispose una voce che riconobbi per quella del comp.
dottor Aldo Semeraro di Martina Franca per cui aprii immediatamente
il portone, e immediatamente irruppero sulla mia casa una quarantina
di giovani martinesi, armati di pistole, bombe, mine, pugnali eccetera.

Arrivati in sala, Aldo battendo la sua pistola voleva sapere i nomi dei
promotori e le loro case della sommossa del mattino. Noi dicemmo
che ormai non avrebbero trovato nessuno, essendo in massima parte
contadini, e che del resto tutto era passato e che ce la vedremmo noi.

Nondimeno uscirono e giunti sul corso XX Settembre intonarono


Bandiera Rossa, recandosi poi in piazza nella Sezione, senza
notevoli incidenti.

Accanto a me, abitava un capoccia D.C. Mileti Benito e uno dei


promotori. Costui ritirandosi a casa, aveva visto i martinesi e
comprendendo che potesse succedere qualcosa, corse a riferire in
caserma della spedizione.

Immediatamente telefonarono alla tenenza dei CC. di Monopoli di


dove partivano in autocarro dei CC.

Giunti costoro, il maresciallo e il tenente, parlamentarono con i


compagni martinesi promettendo loro di arrestare e consegnare
l'indomani alla giustizia i sediziosi, quindi li indussero a partire,
mettendo a loro disposizione l'autocarro loro.

Il 12 Novembre chiamati in caserma tutti e tre Recchia Alfredo, Neglia


Giovanni ed io esponemmo i fatti come si erano svolti, facemmo i
nomi dei sette riconosciuti che avevano partecipato al fattaccio che
furono arrestati e dopo qualche giorno rilasciati, fummo chiamati a
deporre due volte davanti al pretore di Putignano. Poi più nulla.
Nessun processo. Se lo avessero fatto i nostri, forse ancora
sarebbero dentro.

Un altro grave incidente, per fortuna anche questo senza gravi


conseguenze successe il mattino di Natale. Due giovani ed uno più
anziano che avevano passata la notte di Natale chissà dove e che
erano brilli, aprono la Sezione, espongono un manifesto del P.C. e
gridano Viva i comunisti. Una trentina di contadini si riuniscono, li
fanno sloggiare dalla Sezione, e mentre due si eclissano, il terzo,
Albino Guarnieri, (attualmente emigrato in Francia) viene raggiunto e
percosso a dovere.

Quindi insieme il gruppo si dirige verso la casa di Giovanni Neglia per


dare un'altra lezione ai comunisti.

Nella casa del Neglia vi era lui, i tre giovani figli e le due figlie. Arrivati
i contadini bussano al portone, Neglia ignaro di tutto apre; ma dalle
facce e dalle minacce comprende subito e sugli invasori volano
bottiglie e sedie. Sul terrazzino c'è un vaso di fiori che viene gettato
sugli aggressori che stanno fuori, e battendo sul selciato fa' rumore
come una bomba, e credendo che questo fosse veramente,
incominciano a fuggire, mentre il compagno Neglia salito sul tetto
incomincia a lanciare addosso delle grosse pietre, per fortuna senza
gravi conseguenze salvo 3 o 4 contusi da schegge di pietra e allora
fuggono e come!

Io quella mattina ero intento a fare alcune urgenti riparazioni a casa.


Passa una donna e mi domanda se ero andato in piazza. Dico di no e
domando se è successo qualcosa. Mi dice di no e se ne va. lo
continuai il mio lavoro e solo nel pomeriggio seppi dell'accaduto.

Uno strascico di questi incidenti si ebbe nel gennaio 1946. Un giovane


contadino che io non conoscevo, si fermò due volte sotto casa mia
proferendo minacce contro di me e contro il compagno Neglia.

! vicini di casa mia che lo conoscevano, mi dissero il suo nome e


cognome e la contrada dove abitava.

Mi recai dal maresciallo che lo chiamò e gli domandò perchè ci


minacciava. Rispose perchè aveva ricevuto una scheggia di pietra al
viso il mattino di Natale. E tu disse il maresciallo cosa eri andato a
fare a casa di Neglia? Vi erano andati altri e vi andavo anch'io,
rispose. Sai tu che il Neglia potrebbe darti querela per violazione di
domicilio e dato che hai minacciato Neglia e Lisi, se succede loro
qualche cosa il primo ad andare dentro sarai tu?

Da allora se la finì.

Altre gravi conseguenze portò a Neglia e a me la inimicizia dei


contadini. Questi ha un fondo di poco più di un ettaro a vigna in
contrada Montetessa; nessun contadino voleva zapparlo e coltivarlo,
malgrado che pagasse a tariffa col lavoro a orario, cosa che anche
oggi nessuno fa', si offersero compagni di Martina Franca di farlo, ma
poi costretti dall'ufficio collocamento e saputo che se no venivano i
martinesi andarono a lavorare.

Neglia è un procaccia di campagna e per portare la posta andava


armato di rivoltella.

lo non potevo più andare a lavorare in campagna, perchè mi avevano


promesso di farmi la pelle.

Allora riunii una diecina di operai disoccupati come me e fondammo


una Cooperativa di Lavoro, estraendo il materiale dal largo Bonifacio,
lavorandolo e spedendolo a Taranto. Così tempestosamente si
chiudeva il 1945.

Per il 7 Aprile 1946 furono indette re elezioni comunali a sistema


maggioritario. Nella Sezione eravamo rimasti, da oltre cento iscritti 22
fra i quali ricordo oltre Neglia, Piccoli Raffaele mio braccio destro,
Prete Martino e il genero Attilio Grassi allora poco conosciuto, Lisi
Ermenegildo, Campanella Angelo Raffaele ecc.

Gli altri avevano paura di prendere la nostra tessera.

Ci disponemmo ad affrontare le elezioni, portammo un tavolo,


qualche sedia, un pancone nella Sezione, rimettendo la luce e ci
riorganizzammo. Prete e Grassi per il lavoro in Sezione ci furono
utilissimi, per il lavoro fuori, Neglia. Piccoli e io.

Si presentavano alle elezioni quattro liste: D.C., liberali, Partito


Socialista e Partito d'Azione riuniti, e Partito Comunista.

Tentammo un accordo coi partiti di sinistra per formare lista unica e


andammo a parlare coi direttivi del P.S. e con quello di Azione che
respinsero l'alleanza. Poveri fessi, (benchè intellettuali) credevano
chissa quanti voti avrebbero andando divisi da noi!

Il solo accordo, fu che noi presentando lista di minoranza (6 candidati


su 24) avremmo riversato gli altri voti sulla lista loro (grappolo d'uva) e
loro su di noi. Noi mantenemmo il patto cosa della quale me ne pento
e dolgo tuttora, loro non ce ne diedero neanche uno. Fu ammirevole
lo slancio dei lavoratori del paese: appena avvertiti che nella
conciliazione si raccoglievano le firme per presentare la lista in poche
ore 120 persone avevano firmato, vecchi, giovani e donne.

Il grappolo d'uva si arrabattò per parecchi giorni a raccogliere le firme


e siccome ne avevo ancora una trentina che non avevano fatto in
tempo a firmare la nostra lista li feci firmare su quella.
La prima lista fu la nostra ad essere presentata con falce e martello,
malgrado un tentativo da parte D.C. che volevano presentarla per
primi, ma essendo incompleta, il compagno Neglia sventò il tranello.

Sul mio nome come capolista si affermarono 365 voti di cui 61 di lista
(gli analfabeti) chè gli altri avevano riversato gli altri voti di preferenza
sul grappolo d'uva; compreso me.

Fu una vittoria per noi constatando che il popolo non ci aveva


abbandonato. Naturalmente essendo a sistema maggioritario tanto
noi che il grappolo d'uva non avemmo nessun consigliere.
Maggioranza DC minoranza liberale (v. 1200).

Subito dopo ci apprestammo per le elezioni del 2 Giugno per la


Repubblica e la Costituente con più fiducia.

In pochi eravamo; ma pieni di fede nell'avvento della Repubblica e


lavorammo sodo più per questo che per il Partito, perchè l'avvento
della Repubblica significava la cacciata pacifica dei Savoia, imbelli e
traditori della Nazione. I Socialisti e Partito d'azione, alleanza
repubblicana, parecchi DC erano per la Repubblica insieme a noi
perciò non forzammo troppo per il Partito, purchè votassero la Donna
Incoronata.

la sera del 1° Giugno 1946 il sindaco DC prof. Vittorio Aprile parlò da


un altoparlante sito nella bottega di Satalino Antonio contro i pericoli
dell'avvento della Repubblica definendola un "salto nel buio" e
incitando i cittadini a votare per il re. Giaurro borbonico gridai.

(Prima del 1860 Locorotondo era divisa tra Giaurri — borbonici — e


liberali).

Durante le elezioni lo studente in medicina Giuseppe Petrelli (oggi


bravo dottore) di tendenza liberale monarchica, vedendo me e Piccoli
affaccendati, correre di qua e di là, mi disse: Voi che vi state
arrabattando tanto quanti voti credi che potrà avere la Repubblica in
locorotondo?
Dai settecento agli ottocento risposi.

Oh! mi disse che porterete i morti a votare?

No, risposi saranno quelli che son veramente vivi a votare. Infatti la
Repubblica ebbe 720, il P.C. 222.

Come avevi fatto a sapere il numero dei voti per la Repubblica? mi


domandò Petrelli. Semplice, risposi, contando i nostri, quelli della
sinistra e i pochi DC che sapevo avrebbero votato Repubblica.
Calcolo facile.

Nel Gennaio 1946, essendo sindaco provvisorio Arcangelo


Calabretto, passato dai liberali ai DC questi avendo tutte le leve del
comune in mano, compresa l'E.C.A. coi fondi di questa fondano
l'Opera di S. Vincenzo Ferrero, e sotto questo nome con quei fondi
distribuiscono delle patate e altri generi ai bisognosi.

lo nulla sapevo di questo, quando durante una neve, ero nei


Consorzio Agrario Provinciale in conversazione col magazziniera
Felice Liuzzi nel suo sgabuzzino. Vedo arrivare tre studenti i quali
domandano quante patate avesse distribuito quel giorno e Felice
glielo disse.

Di che si tratta se è lecito? domando. Si distribuiscono delle patate ai


bisognosi, mi risponde uno degli studenti, e precisamente Mario
Cisternino, anche voi siete un operaio bisognoso, volete un buono?

lo che ero veramente disoccupato che ancora la cooperativa di lavoro


non funzionava, la moglie paralizzata, e in più la neve risposi: Se lo
credete datemelo. E mi fecero un buono da 2 Kg. di patate. Appena
usciti, Felice Liuzzi mi fa': Tu hai accettato un buono dall'Opera S.
Vincenzo Ferrero.

Come, dico, dall'Opera S. Vincenzo Ferrero, non è dall'E.C.A.?


No, mi disse. lo mi alzai per correre a restituirlo; ma Felice
prendendomi per il braccio, mi disse che sarebbe male e scortese
restituire il buono, me lo prendessi in santa pace.

A me quest'Opera di S. Vincenzo, benefattrice dei poveri, non


avendola mai sentito nominare a Locoratondo, non mi andava giù.
Indagai e venni a sapere che facevano la beneficenza coi denari
dell'E.C.A., facendo propaganda in favore della DC.

Dopo il 7 Marzo andata al potere la DC, per la festa di S. Rocco


misero il balzello sulla legna, sul carbone, sui pomodori e su tutti i
generi di prima necessità, che pagavano solo quelli del paese, vale a
dire appena un quarto della popolazione e i più poveri; che i
benestanti, anche stando in paese li avevano dai loro fondi di
campagna.

lo attesi l'occasione per smascherare l'Opera di S. Vincenzo e il


balzello.

Intanto alle elezioni del 2 giugno, gli scrutatori al seggio, riscossero


circa 750 lire l'uno. Piccoli e io, come rappresentanti di lista,
naturalmente nulla. Senza che noi ne sapessimo niente, il compagno
Neglia, Prete e Grassi, fecero dei passi presso il compagno G. M. il
famoso rodomonte di prima del fattaccio, perchè avendo noi lavorato
più di loro, ci dessero qualcosa anche a noi. Al che G. M. rispose che
lui doveva col denaro comprare legna e carbone a casa sua. L'altro
V. P. voleva dare 50 lire, che i compagni sdegnosamente rifiutarono.

Intanto pur sapendo che la Repubblica aveva vinto, si aspettava


l'esito della Corte di Cassazione che lo confermasse.

Il mattino del 18 Giugno giunse la notizia della conferma e per la sera


fu indetta una pubblica manifestazione.

I compagni Neglia, Grassi e Prete invitarono me, Piccoli e Palmisano


Gianbattista per il dopopranzo a fare una scampagnata in onore della
Repubblica insieme alle loro famiglie. Palmisano non venne, ma
Piccoli e io ci andammo, e col denaro avuto come scrutatori erano
riusciti a trovare chissadove e a che prezzo, pane, patatine con
carne, formaggio e vino.

Fu una bella mezzagiornata.

Sull'imbrunire tornammo in paese, e uniti a tutti i Repubblicani di tutti i


partiti, con bandiere rosse e tricolori, iniziammo, musica in testa la
manifestazione. Passando davanti alla sede della DC i repubblicani
DC vollero unire la loro bandiera alla nostra, ma GUARDA CASO non
si trovò la chiave. Capita l'antifona proseguimmo; giunti al pozzo di
Bonifacio ove abitava l'ex maresciallo di fanteria Cardone vidi al
balcone distesa una bandiera con lo scudo sabaudo. Grido: giù
quella bandiera. La manifestazione si ferma, tentano strapparla con
le lance delle bandiere, mentre il compagno Scatigna Antonio
attualmente domiciliato a Sandonaci, sale le scale sfonda la porta
d'ingresso e seguito da altri si precipita sulle scale interne.

Intervengono maresciallo carabinieri e guardie municipali che


trattengono i compagni e fanno immediatamente togliere la bandiera
provocatrice.

Dopo il 2 Giugno, parecchi ritornarono a tesserarsi nel Partito.


Formammo un direttivo dei più giovani, tirandoci in disparte Neglia e
io; ma questo si dimostrò inattivo e le redini della Sezione le
tenemmo ancora noi.

Ai primi di Agosto 1946, avvicinandosi le feste patronali di S. Rocco,


passammo la voce ai compagni di non sottoscrivere alla festa,
avendo già pagato fin troppo col balzello, e si fece simile propaganda
in mezzo agii artigiani e agli operai di ogni partito. Cosicchè, quando
la deputazione DC della festa, come uso girò casa per casa per la
sottoscrizione alla festa, si sentiva rispondere: Abbiamo pagato sul
balzello anche troppo, ora basta.

Capita che la frecciata veniva da noi una sera Pasquale Sampietro,


mentre ero in piazza, mi chiama col permesso in mezzo alle colonne
della villa, (perchè come dicono anche oggi con me si poteva parlare,
difatti il compagno Neglia Giovanni ha modi bruschi nel parlare ed è
un po' manesco) e mi parla della sottoscrizione per S. Rocco, (senza
naturalmente sapere che l'ideatore ero io). lo risposi che la gente
aveva ragione, che non era giusto che un quarto della popolazione
pagasse i tre quarti della festa, e che avevano commesso nell'interno
una indegna speculazione politica usando i fondi E.C.A. a mezzo
dell'opera S. Vincenzo Ferrarci.

Ma, mi dice, è stato dato anche ai comunisti!

E' vero, rispondo, non volendo l'ho avuto anch'io un buono, ma


questo buono, se si riconosceva che ero bisognoso, me lo doveva
dare l'E.C.A. e non l'opera di S. Vincenzo; e aggiunsi altre parole
abbastanza pungenti, per cui per poco non venivamo alle mani.
Intanto pur tenendosi lontano, dentro e fuori della villa si erano
radunati molti artigiani e operai che discutevano pro e contro. Alcuni
amici di Sampietro se lo portarono via, e in quel momento arrivavano
in piazza Neglia, Prete e altri compagni che entravano anch'essi in
discussione e per poco non succedevano incidenti.

--------------------

(1) A. L.. era intenzionato a non a fermare la sua storia al '46. Ad


alcuni compagni aveva confidato di voler scrivere fino agli
avvenimenti della a legge truffa (1953); da questo suo titolo si
comprende che avrebbe voluto anche fare di più, (N.d.R.).

(2)Siamo in possesso dì due verbali di riunioni del Comitato


Comunale di Liberazione. in uno di essi, quello del 2 febbraio 1945
che prelude l'espulsione, si legge fra l'altro che "è possibile a
Locorotondo la collaborazione di tutti i partiti e di tutte le persone,
compresi naturalmente gli aderenti al Partito Liberale, eccezion fatta
unicamente per l'Avv. Mario Conti e non già per ragioni di partito,
bensi per ragioni derivanti unicamente dal suo passato politico e dalla
sua condotta presente (N.d.R.).

(3) Il manoscritto è carente (N.d.R.).

Potrebbero piacerti anche