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Dino Angelini
Via Ettore Barchi 8 - 42123 Reggio Emilia
dinange@gmail.com
3497190911
Indice
Cosa sono i Quaderni di Gancio Originale
Presentazione
Che cos’è Gancio Originale
Prima sezione: Difficoltà in latenza e modulo
Workshop ed ingresso in latenza: difficoltà e problemi ad entrare in latenza
Intellettualizzazione e produzione in latenza: problemi connessi, in classe e
fuori
La codocenza ed il bambino in età di latenza
Il bambino in età di latenza e il gruppo di pari
II sezione: Il lavoro nei workshop pomeridiani coi ragazzi a rischio
Workshop ed ingresso in preadolescenza: difficoltà e problemi
Problemi d’integrazione scolastica (e non) dei bambini e dei ragazzi
immigrati
I criteri di selezione: workshop ed altre cure ambientali
Tecniche di conduzione dei workshop: i contenuti in preadolescenza
Tecniche di conduzione dei workshop: i metodi e gli strumenti
Cosa sono i Quaderni di Gancio Originale
I quaderni di G.O. contengono le relazioni tenute alle giovani e ai giovani nostri volontari ed ai
nostri tirocinanti all’interno dei vari momenti formativi che inizialmente si svolgevano due volte
l’anno, e che in seguito si sono trasformati da una parte in atelier pratici tenuti durante l’anno,
dall’altra in una lunga serie di “Seminari al Seminario”, tenuti a Marola ai primi di Settembre di
ogni anno; ed in veri e propri cicli d’incontri su temi specifici (è il caso, ad esempio di
“Tirocinanti e tutor”) ai quali hanno spesso partecipato -sempre gratuitamente- tirocinanti,
psicologi, NPI, educatori, docenti, pedagogisti, provenienti spesso da ogni parte d’Italia.
L’idea che abbiamo avuto fin dall’inizio è stata quella di non ripetere sempre gli
stessi argomenti, ma di partire ogni volta dalle esigenze e dalle urgenze dei
volontari e dei tirocinanti che operavano con noi.
Ovviamente questo andamento apparentemente discontinuo, basato sulle
urgenze del momento, unito al fatto che sia i volontari che i tirocinanti
variavano di anno in anno ingenerando un considerevole turn over, trovava un
a sua ratio nel lungo periodo solo nella misura in cui di ogni argomento
affrontato nel tempo fosse lasciata traccia in relazioni scritte che venivano
ciclostilate e offerte ai nuovi arrivati, in modo che ognuno avesse la possibilità
di poter attingere a ciò che era stato già discusso e ‘studiato’ negli anni
precedenti.
Ogni tanto, allorché ci era possibile farlo, le varie relazioni venivano composte
in modo tale da recuperare nel tempo quel filo rosso che lì per lì ognuna di
esse sembrava non essere in grado di garantire. Da ciò le frequenti ripetizioni
riscontrabili nelle varie raccolte!
Un ultimo cenno ai relatori: nei limiti del possibile abbiamo cercato di offrire a
tirocinanti e volontari il meglio che era possibile trovare in città, in provincia, e
anche ‘fuori’. La maggior parte di loro non ha ricevuto alcun compenso per
questo impegno; per cui si può dire che anch’essi, in quanto volontari, hanno
fatto parte a pieno titolo di “Gancio Originale”. Li ringraziamo ancora una volta
per questa loro disponibilità. Così come ringraziamo presidi, docenti, e tutti
coloro che ha collaborato con noi in quegli anni!
“Dare, ricevere, contraccambiare”: è all’interno di questa logica che si sono
posti nei 25 anni scolastici intercorsi fra il 1990\91 e il 2014\15 i nostri 12.000
volontari, i nostri tirocinanti psicologi e no. Ed è all’interno di questo scambio
che abbiamo cercato di porci noi stessi, cercando di dare ciò che potevamo, e
ricevendo tantissimo da tutte e da tutti. (L.A., D.B., M.C.)
Presentazione
Deliana Bertani, Mariella Cantini
L’oggetto della nostra riflessione e di quella dei colleghi del Consultorio
Giovani (Open G) di Reggio Emilia - con i quali in questi anni è stato svolto sia il
lavoro formativo, sia il lavoro di cura e di prevenzione secondaria nei workshop
- in questo caso sono stati i bambini e i ragazzi a rischio. In effetti si tratta della
combinazione di due distinti momenti formativi: - il primo relativo alle difficoltà
del bambino a rischio nel nuovo modulo della scuola elementare; - il secondo al
lavoro restaurativo pomeridiano con ragazzi a rischio nei Workshop della AUSL
e nei Get (Gruppi Educativi Territoriali) del Comune della città.
In queste due officine si svolge ormai da anni un servizio di cura e di
restaurazione del Sé rivolto ai preadolescenti a rischio che si aggiunge alle
prestazioni rivolte ai singoli e che presenta anche, come la maggior parte del
nostro lavoro sui ragazzi a rischio, tutte le caratteristiche di un intervento di
prevenzione secondaria, volta cioè a minimizzare i rischi di devianza e di
passaggio a forme più consolidate di asocialità e di delinquenza minorile.
Le educatrici della scuola elementare, quelle dei GET, le volontarie e i volontari
di Gancio Originale, le psicologhe tirocinanti e gli obiettori che hanno potuto e
voluto seguire l’uno o l’altro di questi due percorsi formativi hanno avuto modo
di contribuire a definire la struttura finale del testo, quella che ora il lettore ha
sotto gli occhi, poiché in entrambi i casi è stato possibile lavorare in gruppo nei
momenti della formazione usando la tecnica del case work sui contenuti delle
relazioni iniziali.
Speriamo che il lavoro che oggi presentiamo ad un pubblico più ampio abbia
mantenuto quelle caratteristiche di freschezza e di praticità che è stato
possibile innescare grazie alla coniugazione e allo scambio che gli autori hanno
potuto instaurare con le due udienze originarie.
Apprendere: Esistono molti ragazzi che apprendono con difficoltà perché non
sanno come si apprende o perché non controllano i meccanismi
dell'apprendimento (problemi cognitivi, asse genetico-sintomatico). Esistono
diversi bambini che hanno paura di apprendere perché vivono
l'apprendimento o come colpa o come sconfitta o anche come pericolo (asse
strutturale-ambientale, problemi emotivi, relazionali, ambientali).
Molti bambini presentano ambedue i problemi: non sanno come si apprende
e hanno paura di apprendere. I due problemi possono dipendere l'uno
dall'altro: chi non sa, non è capace, finisce per sviluppare un atteggiamento di
panico verso gli oggetti e i luoghi dell'apprendimento; chi prova paura verso
l'intelligenza, verso la conoscenza e la scoperta, sviluppa spesso delle tecniche
molto raffinate per apprendere come non si apprende o come si fa finta di
apprendere.
I presupposti affinché un qualunque apprendimento diventi produttivo sono i
seguenti: uno scopo, una tecnica, un piacere, una rappresentazione.
Perché si impara? Si impara a leggere e a scrivere per precisare e per
trasmettere, a distanza di tempo, di spazio e di conoscenza, i pensieri propri ed
altrui; si impara uno sport o la matematica per sviluppare un dominio e per
stabilire e moltiplicare le relazioni fra sé e il mondo; si impara ad usare i propri
apprendimenti e a legarli ai propri interessi e alle richieste della realtà se si
costruisce dentro la propria mente uno scenario e un repertorio di tutti gli
apprendimenti, se questi ultimi vengono messi in relazione fra di loro e se si
riescono a cogliere tutti i loro mutamenti. Perché molti bambini non usano, e
quindi non accumulano, i loro apprendimenti?
Perché molti bambini soffrono nei luoghi dell'apprendimento e affrontano
con dolore gli oggetti di apprendimento? Queste sono le difficoltà ad entrare in
latenza.
L'apprendimento significa pensare a cose nuove e per potere fare questo è
necessario mettere in discussione, e in parte cancellare, le cose vecchie e
riconoscere quelle nuove come tali. La possibilità e la stabilità
dell'apprendimento sono in parte legate al senso di stabilità di chi può
apprendere: chi cerca di apprendere può identificarsi e riconoscersi in oggetti
nuovi e può perdere oggetti e spazi conosciuti solo se mantiene coerente lo
spazio dell'apprendimento, cioè se stesso.
Per conoscere è necessario sentirsi conosciuti; per conoscere cose nuove è
necessario potersi muovere in uno spazio dove cambiamento e familiarità
coincidono, dove, cioè, tutto si può cambiare senza che niente venga perduto.
Il luogo dell'apprendimento e la funzione dell'apprendimento sono gli spazi e
le azioni in cui diventano pensabili le relazioni fra gli oggetti e fra sé e il mondo;
perché ci possa essere una relazione, è necessario che ci sia una storia in cui
nuovo e vecchio si confrontino ed entrino in rapporto.
Apprendere significa, quindi, uscire da se stessi e dal proprio egocentrismo
per essere se stessi all'interno del gruppo a cui si appartiene; si tratta di un
processo che conduce alle acquisizioni di competenze o di conoscenze nuove
che permettono, integrandosi, di rispondere in modo sempre più adeguato alle
richieste ambientali.
Leonardo Angelini
"Con l'avvento del periodo di latenza il bambino che ha conosciuto uno
sviluppo normale dimentica o, piuttosto, sublima la necessità di "disporre"
della gente per mezzo dell'aggressione diretta o di diventare in fretta papà e
mamma, ed apprende a conquistare il riconoscimento degli altri grazie al
lavoro produttivo" (Erikson).
1. La latenza
La latenza, ossia la fanciullezza, è l'età in cui solitamente nella società
occidentale inizia la scuola1 e, più in generale, è l'età in cui in tutte le culture lo
stato e la società cominciano a prendersi cura del bambino, senza più deleghe
totali, o quasi, a quell’importantissimo primo intermediario di cultura
rappresentato dalla madre come avviene dappertutto nella prima e nella
seconda infanzia.
Se noi ci chiediamo il perché di questo cambiamento che da sempre avviene in
ogni cultura, la risposta è nell’intuizione che gli adulti hanno sempre avuto di
trovarsi solo a quest’età di fronte ad un bambino capace d’industriarsi nello
studio e nell’applicazione operativa. Con ciò non si vuol dire che prima, cioè
prima della latenza, il bambino non sia capace di applicazione e d’industriosità,
ma che, se lo fa, lo fa in condizioni tali che le sue pulsioni libidiche ed aggressive
(il voler diventare in fretta papà e mamma e il poter disporre degli altri di cui
parla Erikson) sono troppo manifestamente presenti sul campo, finendo col
caratterizzare pesantemente tutta la scena della operatività.
Ciò che ora, in latenza, c’è in lui, e che prima non c'era, è una disposizione a
“dimenticare”, o piuttosto a “sublimare” tali pulsioni che, da manifeste, diventano
latenti, appunto, cioè nascoste. Ma perché ciò possa avvenire, cioè perché le
pulsioni libidiche ed aggressive non occupino più apertamente il campo, ma siano
trasformate e, almeno parzialmente, sublimate, è necessario che prima, e cioè
nella prima e seconda infanzia, ci sia stata una precedente azione volta a favorire
al massimo tali processi trasformativi che, come vedremo fra un attimo, sono poi
quei processi di inculturazione e socializzazione precoce di cui parlano etnologi e
sociologi. Tale azione, o meglio tale insieme molto complesso di tante
microazioni quotidiane che sono dirette dall’adulto al bambino perché esso, nella
prima e nella seconda infanzia, così come anche dopo, sia inculturato e
socializzato, va sotto il nome di educazione.
Come frutto dell’educazione ricevuta, il bambino, che all’inizio era un essere
asociale e totalmente schiavo del proprio mondo pulsionale, si abitua a
distribuire le proprie pulsioni libidiche ed aggressive in tre aree che, con Janine
Chasseguet Smirgel, chiameremo: 1) area della messa in atto; 2) area della
definizione del carattere; 3) area della sublimazione.
Tale spinta discriminatrice, in concreto, è la spinta esercitata, attraverso l’azione
educativa, dai genitori e dagli educatori della prima e della seconda infanzia,
spinta in base alla quale lentamente, sotto l’influenza specifica e personalissima
di questi concreti agenti educativi, si va formando dentro di noi la nostra
altrettanto specifica personalità.
Con ciò non si vuol dire che l’accesso alla sublimazione sia un fatto acquisito di
botto, quasi per illuminazione divina, alla fine della seconda infanzia. Anzi, occorre
ribadire che la spinta, frutto dell’educazione, a trasformare e distribuire le pulsioni
nelle tre aree avviene fin da subito nel bambino. Ma occorre aggiungere che fino
alla (momentanea) eclissi delle tematiche edipiche e preedipiche, cioè fino
all’ingresso nella latenza2, la terza area, quella della sublimazione, pur presente ed
associata all'attività di gioco - prima e, ancor di più, dopo che i processi di
simbolizzazione sono entrati dentro di lui - è tutta “spesa” sul piano della messa in
scena di un dramma egoistico, prima, ed egocentrico, dopo. Dramma che esclude
il fare produttivo, cioè quello commisurato ai riconoscimenti che attraverso questo
fare possono pervenire al soggetto sia dal giudizio degli altri, sia dalle proprie parti
interne giudicanti, poiché incentrato sul prevalere nel bambino dei processi primari
che, appunto, sono caratterizzati da quel fare gratuito, non produttivo e non
programmatorio, tipico del gioco.
Col tramonto, momentaneo, dell’Edipo invece, e con l’inizio della scoperta della
propria marginalità, e cioè dei propri limiti, è possibile passare da un
apprendimento tutto intriso di eros e aggressività ad un apprendimento
sublimato ed intellettualizzato. È questo il terreno particolare sul quale, se le cose
in precedenza sono andate sufficientemente bene3, si impianta il lavoro dei
docenti di scuola elementare: un terreno già arato e preparato da coloro che si
sono in precedenza preoccupati di imbrigliare le pulsioni libidiche ed aggressive,
di trasformarle e convogliarle negli alvei domestici della produzione e della
creazione, in modo tale da farle diventare non nemiche dell’operatività, ma anzi
preziosi strumenti a disposizione del bambino.
Due esempi ci permettono, forse, di comprendere meglio l’importanza che il
filtro educativo esercita sulle pulsioni, ed il rapporto che c’è fra le tre aree di cui
parlavamo prima:
a. la masturbazione: 1. finché non c’è stata un’azione educativa, la
masturbazione infantile viene esperita dal bambino liberamente (in effetti,
potremmo dire, sotto l’impeto dell’impulso libidico); quando invece l’azione
educativa ha luogo, la masturbazione può trasformarsi seguendo essenzialmente
due direttrici: 2. quella che va verso la formazione del carattere, con
un’oscillazione che va dall’inibizione all’esibizione (del proprio corpo, ad
esempio); 3. quella che va verso la sublimazione, che potrebbe diventare, ad
esempio, esibizione delle proprie capacità.
b. il sadismo infantile: 1. qui, nella prima area, avremo il mordere, il pizzicottare,
eccetera; 2. nella seconda area un’azione trasformativa potrebbe essere
rappresentata da forme caratteriali del pizzicottare, quali il punzecchiare con le
parole; 3. nella terza area, quella della sublimazione, la trasformazione diventa
ancora più radicale (e produttiva), e potrebbe essere il desiderio sublimato di
pizzicottare, penetrare il sapere, e cioè una delle componenti di quella pulsione
epistemofilica che è alla base di tutti gli apprendimenti, che è anzi il presupposto
sul quale si basa ogni autentica spinta all’apprendere.
2. Latenza, sublimazione, produzione
“Il bambino che ha conosciuto uno sviluppo normale”, diceva Erikson, “accede
più facilmente alla latenza”. Se, invece - come avete avuto modo di vedere con la
dott.ssa Bertani - il bambino non ha conosciuto uno sviluppo normale, il
prevalere in lui di spinte alla regressione ed alla fissazione all'interno di conflitti
edipici o preedipici comporterà delle difficoltà più o meno grandi perché esso
possa accedere, senza eccessivi problemi, nel mondo dell'industriosità.
Questo tipo di bambini cioè, pur trovandosi anagraficamente all'interno del
periodo di latenza, continuerà ad usare modalità arcaiche di rapporto col mondo,
non riuscirà, di fatto, ad accedere all'industriosità, o vi accederà con fatica ed
acquisirà quello che gli sarà consentito di acquisire, in base ai propri disturbi
(oltre che alle eventuali carenze dell’ambiente scolastico) non in maniera
autentica, ma forzata.
Quanto abbiamo fin qui detto ci fa intuire, quindi, non solo che fra lavoro
produttivo e sublimazione c'è un rapporto di parentela, ma che anche fra
produzione e creazione, soprattutto quando la produzione avviene sotto il segno
dell’autenticità, c’è lo stesso tipo di parentela.
Appare chiaro, così, che quello che potremo definire il laboratorio del comune
mortale (e cioè l’insieme di quei presupposti strutturali che ci permettono di
produrre e creare) e quello dell'artista o dello scienziato sono costruiti con gli
stessi criteri e, potenzialmente, siamo tutti attrezzati a produrre, a programmare,
a creare. Semmai le differenze fra noi e loro, ma anche (potenzialmente) fra il
bambino, qualsiasi bambino e loro non sono di natura qualitativa, ma
quantitativa.
In età evolutiva poi, come ben sanno coloro che hanno osato esplorare i cento
linguaggi del bambino4, le potenzialità sono distribuite fra la popolazione in
crescita in modo tale che un educatore attento sarà in grado di cogliere delle
vene aurifere dappertutto, anche nel terreno ritenuto più povero.
Appare chiaro anche che, da quanto abbiamo detto finora, fino alla latenza
questo laboratorio non è ancora perfettamente pronto a che il bambino produca
e crei: perché questo possa avvenire, come dice Erikson, da una parte, sul terreno
dell’aggressività, ci deve essere stata la rinuncia “a disporre degli altri per mezzo
dell’aggressione diretta”, mentre dall’altra, su quello della libido, una corrispettiva
rinuncia “a diventare in fretta mamma o papà”.
Dove quell’“in fretta” va letto come lento e penoso apprendimento, da parte
del bambino, del fatto che il passaggio dall'endogamia alla esogamia è un
processo lento e doloroso e non immediato e velleitario, così come egli aveva
azzardato che fosse durante la fase edipica.
Vi è qui, da una parte, un chiaro riferimento alla necessità che il bambino che
produce debba aver superato l'egocentrismo tipico dell’età prescolare e la sua
scarsa disposizione a decentrarsi, a considerare gli altri come soggetti autonomi e
se stessi in termini marginali (cosa che, a dire il vero, sarà pienamente
conquistata solo in adolescenza). Dall’altra, un accenno altrettanto importante al
fatto che il bambino realmente produttivo deve essere in grado di uscire, in certo
qual senso, da quell’universo transferale, edipico, che fino a qualche tempo
prima lo aveva tirannicamente occupato; di uscirvi libero, poi, di rientrarvi
rapidamente ogni volta che ne sente il bisogno: è questa la novità cui il bambino,
e con lui i genitori, i docenti, da ora in poi si devono abituare a convivere.
Va ricordato, cioè, che l'atto del dimenticare e del sublimare non implica affatto
l'uscita definitiva dall'universo transferale (e cioè dal mondo degli affetti e delle
forti passioni familiari, dei miti e delle usanze fin qui acquisite), bensì una sua
ridefinizione, in termini allargati, entro tutto l'universo nuovo che il bambino
incontra a scuola. Cosicché in scuola, sia nel rapporto col gruppo degli adulti che
con quello dei pari, il bambino potrà trasferire i propri introietti avendo modo di
arricchire e di complicare la propria camera degli specchi, di modificarla in base
alle influenze più importanti che da questo nuovo luogo deriveranno.
Dai nuovi adulti, quindi, così come dai nuovi pari con cui entra in contatto, il
bambino impara non solo le materie, ma anche a ridefinire le tematiche legate
all'appartenenza, nella doppia direzione del rapporto con le imago genitoriali, da
una parte, e con quelle fraterne, dall’altra (fratelli che, come sappiamo, anche se
sotto forma di ombre, sono presenti fin da subito anche nei figli unici).
Questa capacità di oscillazione fra universo transferale e universo operativo,
produttivo, è un segnale inequivocabile e tipico dell’età, qualora le cose siano
andate bene in precedenza. Così come, per converso, possono essere visti come
segnali di difficoltà d’ingresso nell’area operativa sia il persistere da parte del
bambino in una lettura del nuovo (e cioè della scuola) sempre attraverso gli occhi
del vecchio, cioè attraverso le lenti deformanti del proprio mito familiare; sia
l’attaccamento sostitutivo al nuovo (e cioè alla scuola), volto a compensare quello
che in casa in precedenza non c’è stato, o non c’è stato a sufficienza.
È il caso di molti di quei bambini provenienti da famiglie deprivate, che poi
diventeranno ragazzi a rischio, i quali, finché sono piccoli, fanno di tutto per
ridurre la scuola alla famiglia, chiedendo di essere esautorati dalla produzione e
implorando i docenti di trattarli (solo) come figli e poi, in preadolescenza, qualora
i docenti di scuola elementare abbiano consentito loro di sentirsi esautorati, ne
combinano di cotte e di crude.
Resta da notare, in ogni caso, come il bambino in questo periodo non sia ancora
pienamente in grado di autogiudicarsi autonomamente e, anzi, abbia ancora
bisogno di entità altre, cioè esterne a sé, che riconoscano i meriti che va
acquisendo sul piano dell'apprendimento, che cioè facciano da cassa di risonanza
ad un Ideale dell’Io non ancora pienamente dispiegato internamente (“ed
apprende a conquistare il riconoscimento degli altri grazie al lavoro produttivo”,
dice Erikson).
3. La posizione dei docenti: il controtransfert educativo in latenza
È decisivo per noi notare ora, cioè in latenza, come in classe il transfert, cioè il
flusso di legami affettivi che dai discenti va verso i docenti, non sia più
dipendente da azioni dirette agite o patite dai bambini, ma sia legato al "fare",
cioè al lavoro, alla produzione e, quindi, alla programmazione: questo accesso più
pieno all'area dell'operatività, reso possibile dalla precedente attività gratuita di
gioco, implica un “condurre”, un “commisurare per sé” che permette una nuova
organizzazione interna del tempo. Accesso ad una nuova temporalità che
potrebbe essere definita come il poter permanere, da parte del bambino, più o
meno stabilmente, in un tempo presente che, però, è teso verso il futuro.
In base a questa nuova posizione, che come è possibile vedere è strettamente
connessa con l’operatività (si potrebbe forse dire che il tempo dell’operatività,
ridotto all’osso, non sia altro che questo), la famiglia lentamente acquisisce, agli
occhi del bambino, una posizione passata, comincia cioè lentamente a
stemperarsi in un tempo passato, in un tempo mitico - importantissimo5 peraltro,
e non solo per il periodo di latenza, ma per tutta la vita -; un tempo che ora, in
latenza, il bambino può finalmente cominciare a guardare6 non più come una
schiavitù, ma come una tradizione alla quale ci si può conformare o dalla quale ci
si può, lentamente, emancipare.
In questa nuova palestra che è la classe il bambino, lo ripeto, non allena il
proprio spirito solo sul piano dei contenuti scolastici, ma anche sul piano del
riconoscimento delle emozioni e dei sentimenti7 in partenza ed in arrivo, che
provengono sia dal versante degli adulti in essa presenti, sia dai pari. Ma in
questo vero e proprio ginnasio delle emozioni e dei sentimenti anche gli adulti,
cioè i docenti, non possono passare un’intera vita fuori dal potente flusso di
passioni che qui si vanno giornalmente a concentrare. Anzi, consapevoli o meno
che essi siano di trovarsi in questo crogiolo di sentimenti, capita loro di essere
sempre coinvolti, e perciò presi da forti ed implicanti passioni che noi
sinteticamente chiameremo controtransfert educativo (Angelini), proprio perché
si tratta di un transfert speculare a quello dei discenti (il termine contro nel nostro
caso va visto come corrispettivo ad una posizione frontale, speculare, appunto).
E, come il transfert educativo del discente è tutto mediato dal fare scolastico,
anche il controtransfert del docente si sposta sul fare, nel senso che giunge al
gruppo dei discenti ed a ciascuno di essi attraverso il fare del docente, e non
attraverso l’“azione diretta” di quest'ultimo sulla classe.
La classe, cioè, e, nel caso della codocenza, gli altri docenti coinvolti con me
docente sulla scena scolastica, diventano gli specchi in cui, a seconda di ciò che
succede, vengono riflessi (cioè visti una seconda volta) i fantasmi familiari del mio
passato, i personaggi della mia personalissima costellazione edipica. Ed
esattamente come succede per il discente, anche io docente potrò, o meno,
prendere le distanze dal passato, non esserne schiavo, ma trasfigurarlo e
trasfonderlo nel presente, a seconda di quelli che per me sono i punti critici della
situazione presente e di come ho risolto dentro di me quei conflitti nel momento
in cui io docente ho attraversato come bambino, come figlio e come discente,
quei luoghi che ora mi vedono responsabile della formazione altrui.
Cosicché, come il bambino può attardarsi in modalità arcaiche, pre-operative di
rapporto, anche il docente può, se non riesce a superare dialetticamente la forza
gravitazionale che viene dalla propria costellazione edipica, continuare, in forme
più o meno camuffate, a rigettare sulla classe, insieme al fare o, peggio, invece
del fare, le proprie coazioni infantili.
L'alternativa perciò, sia per il discente che per il docente, è la sublimazione o la
coazione a ripetere: nel primo caso lo scambio è pienamente ricondotto sul fare
educativo; nel secondo il meta-discorso transferale che impregna tutto è così
immanente, così pesante che ciò che passa, in verità, è un insieme di “azioni
dirette” seduttive o aggressive, che sono tanto più pericolose per tutta la classe,
quanto più incentrate sugli adulti presenti in essa (Fürstenau).
Se le cose vanno sufficientemente bene, invece, quella del docente di scuola
elementare appare come un’importantissima funzione di ponte:
Ponte fra l’affettività e l’operatività in un’epoca di grandi cambiamenti nel
mondo interno del bambino; ponte fra il mondo della famiglia e quello dello
studio (e domani, su questo stampo, del lavoro) in un momento felice per molti
bambini, in cui l’industriosità, frutto delle nuove tendenze alla sublimazione, può
espandersi; ponte fra il gruppo primario ed i gruppi secondari, anticamera di
future, più ardite migrazioni.
Funzione ponte che non impedisce al docente accorto di mantenersi ben vicino
al mondo degli affetti del bambino (ed al proprio: c’è sempre un bambino dentro
di noi, ed il docente di scuola elementare lo sa bene, ha confidenza col proprio
bambino interno, e con esso si pone spesso in gioco con il bambino che ha di
fronte a se stesso).
Il docente di scuola elementare sa anche, però, che le pietre più importanti che
compongono questo ponte sono quelle tipiche del fare operativo che si basa
essenzialmente su un’espressione delle emozioni e dei sentimenti mediata dal
fare operativo stesso, e non direttamente giocata sulla ricattatoria mozione degli
affetti.
Infine, se le cose vanno sufficientemente bene, il bambino potrà accedere al
tempo operativo, pur mantenendo un rapporto con le proprie tradizioni familiari
e il docente, a sua volta, potrà oscillare fra un presente che, pur essendo figlio
della propria doppia tradizione d’individuo e d’insegnante, va verso la classe
attuale, verso ciò che essa implicitamente chiede per il proprio futuro, ed un
passato mitico, fatto di tradizioni particolari, familiari ed anche pedagogico-
didattiche, professionali che, però, si riattualizzano e trasfigurano nella palestra
del presente, coniugandosi con le nuove istanze di cui sono portatori i discenti.
L’alternativa è soccombere inseguendo le ombre del passato e restandone
schiavi.
Bibliografia:
Angelini L., Affabulazione e formazione, Docenti e discenti come produttori e
fruitori di testi, Unicopli, Milano, 1998
Chasseguet-Smirgel J., “Super-Io e Ideale dell'Io”, in: Mancia M. (a cura di),
Super-Io e Ideale dell'Io, Il Formichiere, Milano 1979
Erikson E., Infanzia e società, Armando, Roma, 1966
Fürstenau P., “Contributo alla psicoanalisi della scuola in quanto istituzione”, in:
AA.VV., Educazione o condizionamento?, Savelli, Roma 1975
Gardner H., Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli,
Milano, 1989
La codocenza ed il bambino in età di latenza
Leonardo Angelini
1. La codocenza : qualcosa di nuovo... anzi di antico.
Se il docente di scuola elementare si pone ad osservare il fenomeno della
codocenza a partire dal proprio abituale (e circoscritto) punto di osservazione -
quello che viene dalla propria pratica educativa - la codocenza gli apparirà come
una novità assoluta. Ma se lo stesso docente decide di ampliare il proprio sguardo e
se, soprattutto, osa andare al di là dell’esperienza che gli è più prossima e familiare,
quella del modulo, ciò che vedrà non è un campo vergine, ma un terreno già da
altri ampiamente arato. Terreno la cui analisi alla fine potrà non solo permettergli
d’inquadrare il problema della codocenza in un ambito più ampio ed all’interno di
varie ed importanti tradizioni istituzionali, ma anche fargli capire meglio molte cose
che sono nel modulo stesso, o che ad esso potrebbero essere ricondotte.
Nell’incamminarci per questa strada consideriamo innanzitutto un fatto
incontrovertibile, almeno nel nostro territorio: oggi nel distretto scolastico di Reggio
Emilia il 96% dei bambini che hanno un’età compresa fra i tre e i cinque anni ed il
30% di quelli che sono fra i tre mesi ed i tre anni hanno già conosciuto la
codocenza. I metodi didattici adottati sia nelle scuole per l’infanzia, sia in asilo nido,
infatti, prevedono una distribuzione delle ore degli adulti, sezione per sezione, che
garantisce, almeno in alcuni momenti della giornata (ad esempio, il cosiddetto
momento delle attività in scuola per l’infanzia, e sicuramente in quelli del pranzo e
dell’addormentamento in asilo nido) che i bambini siano seguiti da una coppia o da
una tripletta di docenti.
Inoltre, se noi consideriamo un po’ più attentamente ciò che avviene sia
all’interno della coppia genitoriale della famiglia nucleare, sia all’interno di quella
vera e propria comunità di adulti che è possibile trovare nei vari modelli di famiglia
unita, vediamo che, anche nei gruppi primari, una cura del bambino da parte di
una coppia o di un gruppo di adulti c’è sempre stata.
E se, alla fine, osserviamo ciò che accade, successivamente all’età di latenza, nella
stessa scuola, così come nei luoghi dell’apprendistato o in quelli del tirocinio, non
possiamo non convenire sul fatto che spesso anche questi luoghi sono, o possono
essere, luoghi in cui si definisce una codocenza, in cui cioè un certo numero di
adulti, superiore in ogni caso all’uno, si prende cura del discente, dell’apprendista,
del tirocinante.
Una discussione sulla codocenza in età di latenza non può, quindi, essere
circoscritta solo a ciò che sta avvenendo nel qui ed ora dell’esperienza dei docenti
delle scuole elementari, ma può e deve essere un’occasione più ampia, che
abbracci anche altre esperienze, altri luoghi della formazione, sia per ri-vedere
criticamente questi altri luoghi, queste altre esperienze, sia per ri-considerare, alla
luce di tale sguardo critico più ricco e più esteso, il significato della vostra esperienza
attuale di codocenza.
Perciò, con questo spirito, volgiamo ora velocemente il nostro sguardo ai tre
luoghi cui avevamo prima accennato.
2. La codocenza nella fascia prescolare
Dicevamo prima che nella fascia prescolare, sul piano della docenza, ci troviamo
di fronte o ad una tripletta di adulti nei nidi, o ad una coppia nelle scuole per
l’infanzia, tripletta e coppia che, fra l’altro, spesso si muovono su di un piano di
collaborazione stretta con le famiglie (cioè in una situazione di cogestione educativa
con esse).
Ebbene, se analizziamo più da vicino quel che avviene sul piano pedagogico-
didattico nei nidi e nelle materne, ci rendiamo subito conto del fatto che oggi nel
nostro territorio, da una parte, ci troviamo di fronte ad una pluralità di modelli
educativi8 dall’altra, in ogni caso, e qualsiasi sia il modello educativo, siamo sempre
di fronte ad un ragionamento, ad una riflessione sulle diverse e discriminate
funzioni che la co-docenza assume in ciascuno dei modelli educativi usati. Avremo
così:
- nel modello istituzionale una codocenza che si declina secondo i codici forti della
gerarchia, in base ai quali i più anziani fra gli adulti lavorano meno e fanno le cose
più leggere;
- il modello gestionale che si gioca intorno ai modelli asettici della gestione sociale,
in base ai quali il rapporto adulto-bambino si pone prevalentemente come
rapporto da gruppo a gruppo, e ciò perché nel modello gestionale ogni mozione
individuale degli affetti che provenga dal versante adulto (così come del resto ogni
segnale di attaccamento particolare da parte del bambino) sono visti con sospetto,
se non banditi;
- nel modello curricolare una codocenza che si declina, invece, secondo quello che
deriva dalla suddivisione del programma, e cioè del curricolo, in tante porzioni (e
cioè, attenzione!, in quelle che poi in scuola elementare diventeranno le materie)
per cui io faccio questo e tu quest’altro, secondo criteri standard che pongono in
primo piano gli apprendimenti, specialmente quelli scomponibili e, quindi,
curricolarizzabili;
- ed infine i modelli relazionali (che possono essere di natura etologica o
psicoanalitica) che si declinano secondo un più preciso ed individualizzato rapporto
con i singoli e con i sottogruppi. Si affrontano compiti che sorgono da esigenze
educative che non pongono più in primo piano gli apprendimenti, ma qualcosa di
più nucleare, qualcosa che implichi un coinvolgimento più pieno sia dell’adulto sia
del bambino nel rapporto.
Qualcosa che, conseguentemente, non può non basarsi su esigenze di stabilità, di
individuazione, di calore, di vicinanza psicologica, di continuità nel rapporto adulto-
bambino. Qualcosa, infine, che si gioca su di un palcoscenico ben più ampio e
coinvolgente, per entrambi, di quello eretto allorché erano in primo piano solo gli
apprendimenti.
3. Il policentrismo dei modelli educativi familiari
Ma anche nel modello educativo familiare o, meglio, in quella pluralità di modelli
educativi che corrispondono agli innumerevoli modelli di famiglia che si dispiegano
poi concretamente nel loro divenire storico, qualcosa di apparentabile alla
codocenza c’è sempre stato e continua ad esserci. Una rapida indagine su come
una coppia o una pluralità di adulti si prende cura, a casa, del bambino può esserci
di aiuto per riflettere sul modello di codocenza che da qualche anno si va
sperimentando in scuola elementare, e cioè sul modulo.
Partiamo dall’analisi di ciò che avviene in famiglia, in qualsiasi tipo di famiglia. Il
gruppo primario, come ci insegnano i sociologi, qualsiasi sia la forma che esso
assume nelle varie società e nelle varie classi sociali, è un luogo di scambio sia per le
comunicazioni orizzontali che si determinano all’interno della coppia genitoriale o, il
che è lo stesso, all’interno della comunità degli adulti che lo compongono, sia per
quelle comunicazioni che verticalmente vanno dai genitori o dalla comunità degli
adulti verso i figli o i rappresentanti dell’ultima generazione, e viceversa.
Funzioni materne e funzioni paterne9, in questo modo, si declinano in qualsiasi
tipo di famiglia, sia che gli adulti siano i genitori naturali dei piccoli, sia che non lo
siano, secondo una dinamica che varia da coppia a coppia, da comunità a
comunità, e che perdura lungo tutto il periodo di crescita psicologica della prole;
funzioni che, però, sono sempre distribuite in maniera policentrica fra gli adulti
presenti in casa. Funzioni genitoriali alle quali corrispondono funzioni filiali
altrettanto universali: si tratta insomma di ciò che in termini psicoanalitici si dice,
rispettivamente, controedipo, per indicare l’insieme dei sentimenti che dagli adulti
vanno verso i piccoli, ed edipo, per indicare quelli che, per converso, vanno dai
piccoli verso gli adulti (immagino che qualcosa di simile sia quello che, secondo i
sistemici, avviene in ciò che loro chiamano sistema familiare).
Possiamo rappresentare riassuntivamente questo duplice flusso di emozioni e di
sentimenti in questo modo:
Veniamo ora alla nostra neonata comunità degli adulti in scuola elementare e
vediamola in rapporto alla comunità dei bambini loro affidati. Ebbene, se
abbandoniamo contemporaneamente sia la troppo squilibrante ed altisonante
voce di maestro, sia quella sminuente di bambino con cui solitamente è indicato
l’altro polo presente sulla scena della scuola elementare10, e se sostituiamo a
questi termini quelli di docente e di discente, più legati alle funzioni svolte
effettivamente in scuola, vediamo che la scena scolastica immediatamente ci
appare come meno squilibrata. Infatti le parole docente e discente hanno entrambe
una comune ascendenza etimologica che, a mio avviso, può essere vista anche
come una comune ascendenza di senso: entrambe derivano infatti dalla radice
indoeuropea dek, che significa ricevere mentalmente11.
In questo modo, e cioè in base a queste assonanze di significato, la scuola non ci
appare più come un luogo di grandi squilibri, ma come un luogo di scambio fra
docenti e discenti, e cioè come un gruppo secondario in cui nel rapporto fra i vari
partner c’è sempre un dare ed un avere, e non un luogo in cui da una parte c’è chi
solo dà e dall’altra chi, più o meno voracemente, prende.
Anche a scuola vi è un flusso continuo di scambi che, nel caso in cui vi sia una
codocenza, può essere rappresentato in questi termini:
Così come a casa l’insieme di queste emozioni e sentimenti fra le due generazioni
dei grandi e dei piccoli viene chiamato con il duplice nome di edipo e controedipo,
così anche a scuola, se si vuole alludere a ciò che avviene sul piano relazionale, si
potrà parlare di transfert e controtransfert educativo, per alludere rispettivamente
a ciò che passa nella direzione bambino adulto, e per converso a quella che
dall’adulto va verso il bambino. E, come nella famiglia monoparentale il genitore
rimasto solo nella cura del figlio spesso si trova nella posizione impossibile di dover
svolgere contemporaneamente funzioni materne e paterne (con risultati spesso
infelici), allo stesso modo, laddove non c’è codocenza, questo complesso tipo di
gioco e di oscillazione fra polo materno e paterno non può essere sempre giocato
al meglio.
4. La codocenza nella scuola media inferiore e superiore, nell’apprendistato e nel
tirocinio
Nella scuola media inferiore e superiore la codocenza è stata sempre presente, è
stata da sempre giocata sul piano della curricolarizzazione degli studi e, per quanto
riguarda la media inferiore, ha visto negli ultimi vent’anni accentuarsi, direi,
sbriciolarsi l’insegnamento nei tanti spezzoni del curricolo.
Ritengo che la facilità con cui nella scuola elementare si è andato incistando in
quest’ultimo periodo lo schema curricolare dell’insegnamento sia dovuta anche a
quest’esperienza così limitrofa ai maestri, come a tutti noi. Limitrofa, cioè facile da
copiare poiché tutti noi abbiamo fatto esperienza di tale approccio allorché siamo
stati discenti di scuola media inferiore e superiore.
Ma anche all’interno di quella ricca messe di esperienza e saggezza che viene
dall’apprendistato e dal tirocinio è possibile, a mio avviso, per noi imparare e fare
tesoro dell’esperienza altrui: non dimentichiamo che, in fondo, entrambi questi
luoghi sono luoghi d’insegnamento e di apprendimento.
Partiamo dal rapporto che si definisce, all’interno della bottega del maestro, fra il
maestro stesso e gli apprendisti. È questo, come noi tutti sappiamo, spesso il luogo
di declinazione di un modello di relazioni fra più anziani e più giovani basato sulla
gerarchia. È questo il luogo in cui, quasi sempre, una più o meno rigida
cerimonializzazione delle tappe della crescita sancisce l’emergere di un’aria asettica.
Le cerimonie d’ingresso, la suddivisione delle mansioni, i livelli di autonomia,
l’attestazione dell’avvenuta crescita, la fine dell’esperienza e la separazione: tutti
questi momenti sono scanditi spesso secondo un rigido cerimoniale che ha nella
gerarchia il suo perno.
Anche questo luogo, a ben vedere però, è abitato da una comunità di adulti che,
al riparo, direi, delle oggettivate regole gerarchiche, esprime sempre funzioni
genitoriali nei confronti degli apprendisti mettendo in piedi con essi rapporti molto
forti che poi devono essere sottoposti, esattamente come quelli genitoriali in
adolescenza12, a tutte le prove cui le grandi passioni vanno incontro; non ultima, la
prova della separazione e del confronto, da parte del vecchio maestro, con l’ex-
apprendista, che si avvia a diventare esso stesso maestro e che, esattamente come
succede a casa fra genitore e figlio grande ed autonomo, col suo diventare grande
sottolinea impietosamente il passare del tempo e l’esito del confronto fra
generazioni.
Nel rapporto del tirocinante con il tutor - un po’ al contrario, mi pare, di ciò che
avviene nell’apprendistato - si definisce un luogo più intimo in cui le funzioni
materne e paterne sono esercitate contemporaneamente dalla stessa persona,
come in una famiglia monoparentale (e come avveniva nella vecchia scuola
elementare), con conseguenti difficoltà che possono intervenire sia
nell’espletamento delle funzioni materne (contenimento, condivisione,
individuazione), sia di quelle paterne (istituzione, separazione), proprio per il
significato antitetico che in esse spesso è implicito: pensiamo, per esempio, al
rapporto fra esigenze di contenimento ed esigenze di autonomizzazione.
5. Il modulo: un modello recente di codocenza in età di latenza
Il cosiddetto modulo è solo un modello recente di codocenza che si aggiunge ad
una ricca tradizione e che, sotto certi punti di vista, si impianta in una parte di essa,
consapevole o meno di questa sua propria collocazione.
Sono note le ragioni, diciamo così, di politica scolastica che hanno dato origine al
modulo: il calo delle nascite, i conseguenti problemi di eccedenza dell’offerta di
docenza, rispetto al calo della domanda. Certo ora il modulo ormai è in mezzo a
noi, vede in voi docenti gli attori principali, insieme ai vostri discenti, e non è
pensabile, e neanche auspicabile, per l’insieme di ragioni che andiamo
argomentando, un ritorno indietro.
Per comprendere, però, i motivi più profondi che hanno dato origine al modulo
occorre che, a fianco a quelle che abbiamo definito ragioni di politica scolastica (ed
all’esempio proveniente dalla scuola media inferiore e superiore, cui si accennava
prima), diamo un’occhiata a quelle che, a onor del vero, fin dall’inizio sono state le
ragioni di fondo che hanno provocato la sua nascita e che potremmo definire
ragioni di natura pedagogico/didattica: è in esse, infatti, l’anima che poi è stata
trasfusa nel modulo.
Nel 1984 avvenne a Reggio Emilia una discussione, le cui tracce sono riscontrabili
in un ormai vecchio numero di Pollicino13, all’interno della quale molti degli
intervenuti (fra i quali il sottoscritto) affermavano, dopo aver letto attentamente
quelli che allora erano solo gli Orientamenti emersi nella commissione ministeriale
che stava lavorando alla riforma della scuola elementare, che le ragioni del modulo,
in una parola, erano in una visione curricolare dell’insegnamento.
Facevamo notare, in quella sede, come la parcellizzazione della funzione docente
in tanti capitolati (lingua, logico-matematica, attività complementari) che
corrispondevano alle singole voci del curricolo, parlasse chiaro in proposito.
Sottolineavamo, inoltre, come un discorso simile sulla scuola materna era stato già
fatto qualche anno prima, nella nostra regione, sia da Frabboni (vedi il suo concetto
di “Bambino Mec 2000”, in base al quale si predicava l’ingresso in Europa di un
bambino competente, e non di un “bambino tartaruga”, incapace di stare al passo
con i tempi14), sia da Malaguzzi (vedi l’enfasi posta in quegli anni dalle comunali di
Reggio Emilia sul concetto di bambino cognitivo).
Ciò che si voleva eliminare dalla scena scolastica, sia nell’ipotesi della
commissione ministeriale autrice degli Orientamenti, sia, ancor prima, da parte dei
pedagogisti emiliani (e non solo da parte loro) era l’idea retrò del fanciullino, cioè
quella di una visione romantica del bambino, per sostituirla con una immagine
dell’infanzia di tipo scientifico, cioè curricolarizzabile, scandibile in tanti percorsi che
avrebbero dovuto condurre il bambino di oggi ad entrare nella comunità degli
adulti di domani garantito e sul piano della propria spendibilità nel mercato
(europeo) e sul piano interno come un apparato multimediale capace di leggere i
linguaggi della complessità.
Quello che oggi mi verrebbe da aggiungere a quanto già detto in proposito in
quella ormai lontana sede è che l’immagine scientifica dell’infanzia, lungi dall’essere
al di fuori o al di sopra dell’ideologia, è solo una delle tante immagini dell’infanzia
che ogni comunità degli adulti si dà per potersi avvicinare all’infanzia, per poterla
formare, per poterla interpretare, per vincere l’angoscia che dal bambino deriva, in
quanto entità intrinsecamente non riconducibile al mondo adulto15. Le alternative,
perciò, sono due: o si tende, da parte nostra, ad ipostatizzare questo modello di
infanzia, questa immagine di infanzia, a sposarla acriticamente (in quanto
scientifica, ad esempio) e a subirla; oppure si tenta di porla in discussione, cercando
di definire un approccio pedagogico-didattico diverso, che accolga la codocenza
come uno strumento funzionale ad altri fini formativi.
Ma se abbandoniamo il campo delle immagini scientifiche tipo “bambino Mec
2000” o “bambino cognitivo”, a quale modello ci ispiriamo, a quali fini e a quali
funzioni risponderà un eventuale nuovo modello, critico nei confronti del modello
curricolare?
Prima di rispondere, ritorniamo alle immagini del “bambino Mec 2000” e del
“bambino cognitivo”. Abbiamo visto a che cosa esse siano funzionali: abbiamo visto
che, al di là delle belle parole, vi è dietro di esse una visione del soggetto nella
società come forza-lavoro fungibile, cioè acritica, capace di letture multimediali, sì,
ma che non mette mai in discussione la propria funzione, subordinata ad un
sistema che lo accoglie solo in quanto scomparto di un qualche cosa di più grande e
di più importante che c’è e che non si discute. Si tratta, cioè, di una immagine
sistemica - nel senso conservatore che tale termine ha assunto nelle scienze
sociali16 - della società e del soggetto, così come della criticità e del conflitto, in cui
al soggetto sfugge la dimensione globale del tutto, anche se magari tale soggetto si
dimostra molto competente e molto capace di sofisticate performance.
Ebbene, ammesso che a noi una simile immagine dell’infanzia non vada bene,
che i nostri fini pedagogico-didattici non siano coincidenti con questa immagine,
direi, efficientistica, oggettivante e alienante del soggetto, cosa possiamo opporre a
questa visione del bambino di oggi e dell’adulto di domani?
Non certo l’immagine del fanciullino che domani diventerà, a seconda del censo o
del merito, parte della classe dirigente o lavoratore subordinato: non certo, cioè, la
vecchia immagine della scuola italiana dell’immediato dopoguerra. Ma, forse, è
l’immagine di un bambino che s’impone - direi - alla scuola come soggetto da
formare su obiettivi che vanno ben al di là del curricolo, ma che comprendono tutti
gli aspetti dell’educazione, prima che dell’istruzione, proprio perché egli è destinato
a crescere in una famiglia nucleare in crisi, in cui all’eclisse delle funzioni paterne17
si aggiunge, almeno parzialmente, quella delle limitate funzioni materne, destinate
ad essere cogestite dalle educatrici dei nidi e delle materne, in una cogestione
educativa che ormai comincia in tenerissima età18.
Laddove ex-ducere sta per trasformare un essere che all’inizio è antisociale o
asociale in un soggetto critico, capace di porsi dialetticamente nei confronti della
complessità e di non lasciarsi incapsulare in una sommatoria di ruoli, né di definirsi
in base al possesso, o meno, dei beni di consumo. Compito immane, come potete
comprendere, compito di fronte al quale, però, il docente non può fare la politica
dello struzzo, dicendo “non mi spetta”, come da qualche parte pure si sostiene.
Compito che richiede, infine, competenze di tipo diverso da quelle richieste a chi
deve portare a spasso il bambino attraverso il curricolo, e cioè competenze di tipo
formativo che non si riducono alla cura delle parti più orbitali e periferiche del
bambino, ma che abbracciano e comprendono prioritariamente la parte più
nucleare, quella in cui avvengono i processi d’identificazione e di rispecchiamento
reciproco dei due soggetti in campo, il docente ed il discente19.
6. Il modulo: elementi per la definizione di un modello alternativo di codocenza
Dicevamo prima che il modello attualmente prevalente anche nella scuola
elementare nasce nello stampo del curricolo e quindi, come accade in quelle
materne che hanno un’impronta curricolare, determina una doppia riduzione, cioè
mette al bando qualsiasi mozione degli affetti, riducendo il bambino ad alunno ed il
docente ad istruttore.
Il nostro modello alternativo, quindi, non può non partire da un’altrettanto doppia
espansione: quella dell’alunno a discente, a soggetto critico in formazione, ricco di
competenze possibili, ma anche - e prima ancora - di un’identità personale, di un
insieme di passioni e predisposizioni che non possono essere ricondotte al
curricolo, ma che vanno coltivate in una serra calda ed accogliente, che somigli a
quella originaria e che, come quella originaria, sia capace di trasformare queste
passioni in un insieme di attività e, prima ancora, di curiosità sublimate.
Se a casa tutto si gioca nella dialettica appassionata e forte di edipo e controedipo,
a scuola, come dicevamo prima, tutto deve poter essere giocato sul piano di una
dialettica altrettanto forte ed appassionata, quella che pone in rapporto il bambino
con la comunità degli adulti nel gioco del transfert e controtransfert educativo, con
la differenza - non da poco - che a casa l’affettività è direttamente espressa, non è
mediata, mentre a scuola sì, e lo è nel fare pedagogico.
Se si parte da queste premesse, il modello di riferimento non può più essere
quello curricolare, bensì quello relazionale, che abbiamo già incontrato nei nidi e
nelle materne (vedete come qui si imponga già, ad esempio, di volta in volta, un
altro modello di passaggio fra luoghi formativi precedenti e luoghi successivi).
Cosa comporta questo sul piano pedagogico-didattico, e più in particolare: - sul
piano della suddivisione dei compiti fra adulti; - sul piano dell’autoconsapevolezza
della propria vocazione di formatori; - sul piano del riconoscimento dei fantasmi
formativi dai quali siamo abitati; - sul piano del riconoscimento degli elementi
controtransferali che ci legano (o meno) ai bambini, in maniera che è sempre - in
ogni caso - discriminata; - sul piano della nostra e della loro motivazione al fare
operativo; - sul piano dell’esercizio delle funzioni paterne e materne nell’atmosfera
scolastica; - sul piano della nostra mobilizzazione a cercare dentro di noi i nostri
contenuti e a sapergliela raccontare20; - sul piano infine della stima e
dell’autostima? -
Leonardo Angelini
1. La selezione
Selezionare significa scegliere, discriminare. L’attività di selezione, ovunque
essa venga esercitata - e specialmente in culture competitive come la nostra -
viene vista come una attività sgradevole e, a tratti, odiosa. Ciò nondimeno, essa
è un aspetto importante della nostra quotidianità che merita tutta la nostra
attenzione. I bambini, fino ai sei anni - età del loro ingresso in scuola elementare
- almeno in apparenza non sono sottoposti ad alcun filtro selettivo. In effetti
sappiamo che un confronto, e quindi un’implicita selezione, viene fatta sia a
casa, da parte dei genitori, sia in asilo nido e scuola per l’infanzia, da parte delle
educatrici. E la trasformazione di queste due istituzioni da asili, e cioè da luoghi
di assistenza, in scuola, è cioè luoghi in cui programmaticamente vengono svolte
funzioni educative e formative, così come spinge nella direzione della singolarità
delle performance del bambino, allo stesso modo induce la nascita di uno
sguardo adulto individualizzante e selettivo.
Certo è, che con l’arrivo in scuola elementare, ciò che era implicito diventa
esplicito, ciò che era racchiuso ansiosamente nella mente dei genitori e degli
educatori della prima e della seconda infanzia, ciò che magari traspariva solo
dalla preoccupazione dello sguardo, diventa esplicitamente un compito della
scuola e della famiglia.
La scuola elementare diventa così il primo luogo ufficiale in cui il soggetto in
età evolutiva si viene a trovare in una situazione di selezione e confronto con gli
altri pari. Per cui è importante che noi che lavoriamo con i ragazzi a rischio e che
ci interessiamo oggi dei criteri di selezione in base ai quali predisporre questa o
quella attività riabilitativa, riparativa, partiamo cercando di comprendere in che
quadro generale si iscrivono le funzioni di selezione della scuola. Secondo
Mottana, sono quattro le funzioni che permettono al formatore di definire il
setting formativo e di mantenerlo come tale nel tempo e nello spazio sia per sé,
sia per la propria udienza, cioè per la propria classe: 1) la funzione istituente; 2)
la funzione in-ludente; 3) quella individualizzante; 4) infine, quella di
separazione.
A partire da questa scansione del setting formativo, in altra sede (Angelini,
1998) ho tentato di fare alcune considerazioni che possono tornarci utili oggi,
nel momento in cui cominciamo ad affrontare gli effetti che la terza funzione,
quella individualizzante – e perciò selettiva – esercita in generale sui soggetti in
età evolutiva e, in particolare, sui ragazzi a rischio.
1) La prima funzione, quella istituente, va vista essenzialmente come
istituzione di luoghi, tempi e campi del fare operativo scolastico. Cosicché,
prima ancora che il docente sia entrato materialmente nella classe, il docente
stesso, e con lui l'amministrazione scolastica, devono compiere una serie di
silenti, ma importanti operazioni: a) quella dell'istituzione di un determinato
luogo (la classe) in cui la scena formativa abbia diritto di svolgersi con tutte le
garanzie d’intimità e di non ingerenza da parte di estranei sulla scena stessa; b)
quella della istituzione di un tempo, più o meno rigidamente determinato
(l'orario delle lezioni), in cui docenti e discenti possano, anzi debbano, lasciarsi
prendere dai contenuti delle materie, possano, anzi debbano, mettere in atto
delle modalità di scambio sublimate e desessualizzate; c) quella infine
dell'istituzione di un determinato campo fatto di contenuti e di metodi, di
pedagogia e di didattica, di materie e di procedure sublimate e desessualizzate,
appunto, che permettano nel loro insieme di circoscrivere quel luogo, quel
tempo, quel campo come luogo, tempo e campo in cui non solo per il docente e
per ciascuno dei discenti, ma anche per l'amministrazione scolastica, per le
famiglie, per la società intera possa aver luogo il rapporto educativo e
trasformativo.
Per cui, in base a quanto abbiamo appena detto, quella che abbiamo appena
riassunto non è solo un'operazione burocratica e pedagogica, ma anche
un’importante operazione mentale che avviene nel mondo interno del docente
e gli permette di svolgere le proprie mansioni al riparo sia dalle tentazioni che
altrimenti potrebbero nascere dentro di lui sia dai fraintendimenti che
potrebbero nascere in coloro che sono fuori dal diretto contatto con i discenti.
2) La seconda funzione-quadro è costituita dalla definizione di una membrana
gruppale in-ludente. Una volta istituiti i luoghi e i tempi della formazione, e
allorché sia stata definita la natura sublimata e desessualizzata dei contenuti che
è possibile scambiare sul mercato formativo, il docente si trova di fronte ad un
secondo ostacolo: quello derivante dal fatto che la classe non sempre è disposta
a lasciarsi affabulare, a lasciarsi prendere dall'argomento sublimato e
desessualizzato che è all'ordine del giorno della lezione.
Docente e discenti, cioè, non solo devono convenire, all'inizio di ogni singola
lezione, sul fatto che quel luogo e quel tempo siano effettivamente per la
formazione; essi devono anche condividere la stessa passione sublimata e
desessualizzata per la materia, cioè per quell'insieme di argomenti cui i
programmi ministeriali solo vagamente alludono. E ancora una volta è il
docente che deve supportare tutto lo sforzo che la situazione richiede.
Infatti non è detto che la classe, senza una pre-occupazione da parte del
docente di avvincerla al tema, alla materia, si lasci in ogni caso affabulare. Anzi,
probabilmente, sua sponte la classe sarebbe più disposta a dis-trarsi per
rivolgersi ad altri setting, ad altri giochi, meno sublimati e più spontanei. Per
conquistare la classe, per in-luderla in quel gioco sublimato e desessualizzato
che noi chiamiamo lezione, il docente dovrà esplicare una funzione in-ludente e
affabulante che ottenga, possibilmente da tutti i discenti presenti, l'equivalente
sul piano scolastico di quell'ascolto a bocca aperta che è il primo obiettivo che si
propone di raggiungere il buon raccontatore di fiabe (Angelini, 1989).
3) Ed ecco che a questo punto scatta una terza funzione, la funzione
individualizzante, e cioè di selezione, che è quella che in questo momento più ci
interessa. Afferma Mottana: al docente non basta riuscire ad avvincere il
proprio uditorio, e cioè la propria classe per trasportarla nell'atmosfera fatata
della lezione. Egli, una volta che abbia espletato questa funzione, se non vuole
limitarsi ad un confusivo embrassons nous, non può non cominciare a nutrire
ora nei confronti della sua classe un secondo tipo di preoccupazione, che
Mottana definisce di tipo materno, quella che gli psicoanalisti francesi chiamano
funzione di rêverie (Laplanche e Pontalis).
In un primo tempo il docente, come una madre sufficientemente buona, ha
cercato di dare senso e spessore in maniera indistinta alla propria classe
immettendola sul piano dell'operatività, grazie al proprio desiderio materno in-
ludente, e invogliandola ad accogliere il sapere che da lui proviene, quasi fosse
un cibo buono da introiettare. Ora però il docente, in base alla maniera specifica
con cui ciascun discente ha introiettato il sapere che da lui proveniva, lo ha fatto
proprio, lo ha coniugato con tutto ciò che nel proprio mondo interno
preesisteva a quel sapere, non può non cominciare ad attribuire a ciascun
discente un senso, un profilo, uno spessore che è specifico, appunto, individuale,
personale. Questa attività, secondo Mottana, è l’erede della funzione materna
di rêverie, in base alla quale la madre, attraverso la propria attività interpretante
dei segnali che derivano dal bambino, comincia ad individuarlo, a delinearlo in
maniera univoca e specifica.
Sulla scena scolastica ogni gesto, ogni parola, ogni segno che va nella direzione
dell'individuazione riprende e aggiorna le funzioni materne secondarie di
individuazione, le propone coram populo, cioè di fronte a tutta la classe
attraverso l'esercizio della selezione, del voto, della pagella ecc.
E, così come nelle vecchie famiglie in cui c'erano molti figli i genitori non
potevano distribuire in maniera uguale il proprio amore fra essi e non potevano
esimersi dall'individuarli nelle loro particolarità esaltando i loro pregi e cercando
di correggere i loro difetti, allo stesso modo in classe, dopo che un certo
percorso in una situazione di illusione sia stato effettuato, in un secondo tempo
il docente non può esimersi dal valutare, dall'individuare i singoli discenti
scoprendo le loro vocazioni e cercando di spingerli a interessarsi anche di quei
terreni ai quali i singoli non dovessero sentirsi vocati.
4) Infine, la quarta funzione, quella di separazione: che ci ricorda che, come
accade in ogni storia che si rispetti, anche quelle che si raccontano sulla scena
scolastica finiscono; anche gli amori e gli odi, l'insieme di tutte le passioni
sublimate che sul palcoscenico della classe sono giocate dai protagonisti in essa
recitanti passano, e, una volta che sono passate, si stemperano nel ricordo. Così
avviene per il discente, così per il docente, così per ciò che accadde tanto tempo
fa all'inizio del ciclo, all'inizio dell'anno scolastico o del quadrimestre, così per le
cose che sono accadute oggi nella lezione che è appena terminata.
Ogni volta il docente e i discenti devono rimettere in cartella i propri ferri del
mestiere, e, nel fare ciò, devono cercare di non soffrire troppo a causa dei
necessari ridimensionamenti che hanno senz'altro accompagnato le operazioni
appena concluse sul piano dei processi d’individuazione e di selezione; devono
sapere sortire dalla membrana gruppale che fino ad un momento prima, se le
cose erano andate sufficientemente bene, avvolgeva tutti e recuperare, senza
molti danni, la propria membrana personale; devono ritornare a casa e non
sentire più sulle proprie spalle il peso dell'istituzione che obbliga tutti i suoi
attori alla formazione, alla in-formazione, alla trans\formazione e, in certi casi
neanche tanto peregrini, alla con - formazione e alla de-formazione. E,
soprattutto, ripetere queste operazioni di abbandono e di separazione in
continuazione: per i docenti, sempre di fronte a nuovi discenti con i quali
costruire nuove storie, nuove avventure di scoperta e di ricerca; per i discenti,
lungo il proprio processo di crescita personale, sempre di fronte a nuovi
argomenti, a nuovi docenti, a nuove entità che li arricchiscano e li facciano
crescere umanamente e professionalmente.
Riassumendo: queste funzioni si rinnovano a livello di ogni ciclo, di ogni anno
scolastico, di ogni quadrimestre, di ogni tranche programmatoria, di ogni
“lezione”. Nell’espletamento di queste funzioni, la scuola si pone come
contenitore nei confronti dei discenti (di ogni ordine e grado). In questo
contenitore le funzioni genitoriali però non sono esercitate in una atmosfera in
cui come a casa prevale l’affettività, ma sono mediate dal fare pedagogico
(Angelini, 1998).
Uno degli impedimenti che spesso rendono difficoltoso il fluire di queste
azioni formative sta nel fatto che la scuola non è in grado da sola di individuare
in modo adeguato, di selezionare - cioè - con sufficiente approssimazione coloro
che sono affetti da problemi rilevanti da un punto di vista degli apprendimenti.
In questi casi, spesso è necessaria una convergenza di più professionalità e di
più istituzioni, tanto nel lavoro di selezione iniziale, quanto nei momenti delle
verifiche in itinere e dell’orientamento finale.
Nel nostro ordinamento scolastico, sono tre le istanze istituzionali preposte
alla selezione, nonché alle verifiche in itinere e finali dei problemi
dell’apprendimento: 1. la scuola, 2. la sanità pubblica e 3. la famiglia. Istituzioni
che, per svolgere questo lavoro, si avvalgono di una pluralità di professioni e
competenze.
Per cui, nei casi di problemi di apprendimento, bisogna tenere presente la
rilevanza di due versanti: 1. quello interprofessionale e 2. quello
interistituzionale.
Selezionare, infine, significa discriminare, e cioè fare delle diagnosi il più
possibile mirate, al fine di riparare, cioè stendere dei piani riabilitativi ad hoc e
dinamici, cioè individualizzati e scanditi nel tempo. Per cui occorre distinguere
sempre due momenti, uno selettivo ed uno riparativo: a. la selezione, al fine di
un inserimento in un luogo dinamicamente adatto al tal bambino, con il tal
problema; b. l’intervento riabilitativo mirato, cioè adatto alle particolari carenze,
esigenze riparatorie che quel caso, e solo quel caso, richiede.
Questi due interventi sono fra loro collegati e richiedono molta professionalità
e acume. Solo valutando la ricchezza e l’innervazione nel tessuto istituzionale di
una pluralità di luoghi che siano non tanto in concorrenza fra di loro quanto
piuttosto in una posizione di complementarità, possiamo comprendere se un
dato territorio è in grado, o meno, di prendersi cura dei bambini e dei ragazzi
con difficoltà di apprendimento.
Al contrario, un territorio che non sia riccamente innervato di proposte
discriminate in base ai bisogni particolari dei soggetti in età evolutiva non sarà in
grado, anche in presenza di un buon apparato diagnostico, di svolgere alcuna
cura efficace. Così come un territorio, pur ricco di proposte discriminate, che
però rinunci alla complementarità non sarà in grado di sfruttare per il meglio le
risorse disponibili.
2. Selezione dei bambini e dei ragazzi con problemi di apprendimento fra
formazione, riabilitazione e assistenza
Per ogni caso di bambino e di ragazzo con problemi di apprendimento
l’insieme dei servizi territoriali deve contemperare tre dimensioni : 1. la
formazione, 2. la (ri)abilitazione, 3. l’assistenza.
Di modo che si può affermare che - come i lati di un triangolo possono essere
più o meno lunghi senza mai perdere, nella loro composizione, la caratteristica
di definire insieme un triangolo - allo stesso modo le tre dimensioni cui abbiamo
appena accennato corrispondono ad un’unica esigenza restaurativa che va
coniugata secondo un mix che varia, in base alle necessità particolari di questo o
di quel ragazzo, alla sua età, ai suoi problemi specifici, alla famiglia o alla
istituzione in cui vive, alle possibilità offerte, o meno, dal contesto di studio ecc.
Qualora il momento della selezione risulti slegato dai momenti di
restaurazione - e cioè di formazione, di (ri)abilitazione e di assistenza - l’invio in
queste sedi, che poi è il fine dell’attività selettiva, può risultare più o meno
danneggiato.
Da una parte, bisogna infatti tenere ben presente che il momento selettivo e
quello diagnostico nel territorio non hanno senso in se stessi, anzi risultano
fonte di ulteriori angosce per le famiglie e per i pazienti qualora siano disgiunti
dalle sedi preposte alla restaurazione del Sé dei bambini e dei ragazzi, cosicché
ad esempio una ricerca sull’x fragile svolta solo a fini accademici e slegata da
ogni indicazione di cura specifica è destinata solo a far lievitare il tasso di ansia e
angoscia nella famiglie.
D’altra parte, deve essere chiaro che un servizio di restaurazione che rinunci
alla propria specificità, alla propria vocazione, e si proponga onnipotentemente
di accogliere tutti i casi senza alcuna coscienza dei propri limiti, è votato al
fallimento: ad esempio quegli istituti che prendono di tutto perché non si
azzardano a fare selezione spesso - proprio in base a questa mancata opera
selettiva - finiscono con il vedere non realizzati i loro obiettivi. E allo stesso
modo risulterà comunque votato al fallimento anche quel centro che delega ad
altri la selezione votandosi, così, a venire riempito di contenuti e di carichi di
lavoro in maniera eterodiretta.
Al contrario, ed in positivo, guardiamo cosa chiedono le strutture residenziali e
semiresidenziali psichiatriche reggiane agli invianti: la premessa, affinché una
presa in carico possa avvenire in queste situazioni, è nella consapevolezza, da
parte dell’équipe territoriale inviante e della famiglia, della limitatezza del
compito che le strutture semiresidenziali possono svolgere e nel fatto che una
parte delle necessità sanitarie ed assistenziali dei pazienti ricada (ancora) su chi
ha fatto l’invio.
Per tutti questi motivi, ribadiamo la necessità di connettere il momento
diagnostico a quello restaurativo; il che equivale, in altre parole, a valorizzare il
concetto di rete. Però, perché si possa dire di lavorare effettivamente in rete, è
necessario che ciascun operatore contemperi il senso della propria
appartenenza professionale ed istituzionale con il senso di una cointeressenza
più vasta. Bisogna avere cioè la sensazione più o meno precisa di far parte di una
rete di reti, il che implica:
- la predisposizione del singolo professionista e dell’istituzione (cioè del gruppo
di lavoro di cui lui fa parte) ad un ridimensionamento in base ai propri limiti ed
alle proprie possibilità, nonché ai limiti e alle possibilità del gruppo di lavoro di
cui si fa parte (insomma la presenza, nel singolo professionista e nel gruppo di
lavoro di una sorta, di Ideale dell’Io realistico e cosciente della propria fallibilità);
- la predisposizione dinamica al ridimensionamento: il che implica l’importanza
della formazione (quello che non si è in grado di dare oggi sarà possibile dare
domani, se ci si forma, se si progredisce nel proprio iter formativo individuale e di
gruppo);
- il non lasciarsi descrivere dagli altri, il fatto cioè di non rinunciare a fare da sé
una propria selezione (se il gruppo di lavoro non definisce i propri confini
restaurativi si ritrova presto pieno delle urgenze e delle grane le più
incongruenti, e questo equivale, come dicevamo prima, alla pianificazione del
proprio fallimento);
- in ultima istanza, e conseguentemente, è necessario definire un preciso luogo
di selezione che sia interno al luogo restaurativo, o in rapporto dialettico con
esso.
Tale luogo restaurativo va ridefinito in continuazione, in base agli
aggiustamenti che l’esperienza suggerisce. Il che significa che, nella riflessione
sull’e-sperienza fatta, non bisogna mai trascurare una ri- osservazione critica di
come è pensato e organizzato questo momento.
3. Selezione dei problemi dell’apprendimento e fasce d’età
Vi sono tre momenti delicati in cui è particolarmente importante soffermare la
nostra attenzione: a. la seconda infanzia; b. la latenza; c. la preadolescenza.
a. La seconda infanzia è il momento in cui emergono i problemi dei pre-
apprendimenti, e, in particolar modo, i problemi di linguaggio. La prima cosa
che dobbiamo chiederci, di fronte a questo, come agli altri due momenti critici,
è: chi osserva che cosa? Normalmente in questa età le istanze osservanti sono:
le assistenti sociali, i pediatri di base, le educatrici di scuola per l’infanzia, e, in
seconda battuta: gli psicologi, i neuropsichiatri infantili. Tutti questi
professionisti osservano vari aspetti: 1. il ritardo nell’acquisizione del linguaggio
verbale; 2. la differenza fra competenza verbale attiva (lessico) e quella passiva
(vocabolario); 3. la discriminazione fra competenze specifiche nel lessico
familiare (dialetto) e quelle nel linguaggio burocratico-curiale; 4. le condizioni
familiari con particolare riguardo: 4.1. da una parte, alle competenze verbali dei
genitori e soprattutto della madre (livello dell’istruzione); 4.2. dall’altra alle loro
capacità residue sul piano della genitorialità distinguendo: 4.2.1. svantaggio
socioculturale, cioè le scarse possibilità della famiglia sul piano culturale, in
permanenza di funzioni genitoriali svolte in maniera sufficientemente buone
(es.: molte famiglie immigrate, specialmente subito dopo il loro arrivo); 4.2.2.
deprivazione più o meno accentuata, cioè l’inca-pacità di esercitare le funzioni
genitoriali in maniera sufficientemente buona; 5. le condizioni contestuali di vita
in cui il bambino vive e che vanno al di là della famiglia: ad esempio, ci si deve
sempre chiedere quali obiettivi reali persegue non tanto, in generale, la scuola
materna che il bambino frequenta, quanto quelli che in concreto sono gli
obiettivi perseguiti dal gruppo di educatrici cui il bambino è affidato nella
quotidianità; 6. la necessità di una diagnosi differenziale (da parte dei
neuropsichiatri infantili) poi si impone chiaramente ogni volta che ci sia il sia pur
minimo dubbio (strabismo, scialorrea ecc., eventualmente associati al ritardo
nell’acquisizione del linguaggio verbale).
b. La latenza ed i problemi degli apprendimenti di base: Il “chi osserva che
cosa” in questo caso, e cioè con questi bambini più grandi, diventa l’insieme di:
le docenti di scuola elementare, gli psicologi, i neuropsichiatri infantili (le
assistenti sociali, i pediatri di base), che osservano e valutano: 1. il ritardo
nell’acquisizione degli apprendimenti di base; 2. la differenza fra competenza
verbale attiva (lessico) e quella passiva (vocabolario); 3. la discriminazione fra
competenze specifiche nel lessico familiare (dialetto) e quelle nel linguaggio
burocratico-curiale; 4. le condizioni familiari con particolare riguardo: 4.1. da
una parte, alle competenze verbali dei genitori e soprattutto della madre (livello
dell’istruzione); 4.2. dall’altra, alle loro capacità residue sul piano della
genitorialità distinguendo, come sopra: 4.2.1. svantaggio socioculturale, cioè le
scarse possibilità della famiglia sul piano culturale, in permanenza di funzioni
genitoriali svolte in maniera sufficientemente buona (es.: molte famiglie
immigrate, specialmente subito dopo il loro arrivo); 4.2.2. deprivazione, più o
meno accentuata, cioè l’incapacità di esercitare le funzioni genitoriali in maniera
sufficientemente buona; 5. le condizioni contestuali di vita in cui il bambino vive
e che vanno al di là della famiglia: ad esempio, ci si deve sempre chiedere quali
obiettivi reali persegue non tanto, in generale, la scuola elementare che il
bambino frequenta, quanto quelli che in concreto sono gli obiettivi perseguiti
dal gruppo di docenti cui il bambino è affidato nella quotidianità; 6. la necessità
di una diagnosi differenziale (da parte dei neuropsichiatri infantili) poi si impone
chiaramente ogni volta che ci sia il sia pur minimo dubbio (strabismo, scialorrea
ecc., eventualmente associati al ritardo nell’acquisizione del linguaggio verbale)
c. La preadolescenza, i problemi della ridefinizione del Sé durante la crisi
puberale ed i residui ritardi sul piano degli apprendimenti di base. Il “chi osserva
che cosa” subisce un altro piccolo, ma significativo cambiamento, ed è
composto dall’insieme di: le docenti di scuola media, gli educatori degli istituti,
gli psicologi, i neuro-psichiatri infantili, (le assistenti sociali, i pediatri di base).
Questi professionisti, nel caso del preadolescente osservano: 1. la forza o la
fragilità del Sé del preadolescente nella fase di passaggio; 2. il suo grado
d’integrazione nel gruppo di pari; 3. le caratteristiche del gruppo di pari; 4.
come il ragazzo vive gli altri tre luoghi dell’adolescenza (oltre il gruppo, la
famiglia, la coppia, lo stare da soli); 5. la persistenza o meno del ritardo
nell’acquisizione degli apprendimenti di base; 6. la differenza fra competenza
verbale attiva (lessico) e quella passiva (vocabolario); 7. la discriminazione fra
competenze specifiche nel lessico familiare e quelle nel linguaggio burocratico-
curiale; 8. le condizioni familiari con particolare riguardo: 8.1. da una parte, alle
competenze verbali dei genitori e soprattutto della madre (livello
dell’istruzione); 8.2. dall’al-tra, alle loro capacità residue sul piano della
genitorialità distinguendo sempre fra: 8.2.1. svantaggio socioculturale, cioè le
scarse possibilità della famiglia sul piano culturale, in permanenza di funzioni
genitoriali svolte in maniera sufficientemente buona (es.: molte famiglie
immigrate, specialmente subito dopo il loro arrivo); 8.2.2. deprivazione, più o
meno accentuata, cioè l’incapacità di esercitare le funzioni genitoriali in maniera
sufficientemente buona; 9. le condizioni contestuali di vita in cui il ragazzo vive e
che vanno al di là della famiglia: ad esempio, ci si deve sempre chiedere quali
obiettivi reali persegue non tanto, in generale, la scuola media che il ragazzo
frequenta, quanto quelli che in concreto sono gli obiettivi perseguiti dal gruppo
di docenti cui il ragazzo è affidato nella quotidianità.
Bibliografia:
Angelini L., Le fiabe e la varietà delle culture, CLEUP, Padova, 1989
Angelini L., Affabulazione e formazione. Docenti e discenti come produttori e
fruitori di testi, UNICOPLI, Milano, 1998
Laplanche J., Pontalis J.B., Fantasma originario, Fantasmi delle origini. Origini del
fantasma, Il Mulino, Bologna, 1988
Mottana P., Formazione ed affetti, Armando, Roma 1993
Leonardo Angelini
1. Le molteplici dimensioni del viaggio
Nella relazione di ieri, Workshop e ingresso in preadolescenza, tenuta dalla
dott.ssa D. Bertani, a un certo punto è emersa la metafora del viaggio. Oggi,
nell’affrontare il tema dell’individuazione dei contenuti del vostro lavoro nei
workshop, riprenderemo questa metafora.
Spero di riuscire a dimostrare quanto, di fronte al problema del passaggio
dall’infanzia all’età adulta, la posizione delle psicologhe tirocinanti impegnate
nei workshop sia sovrapponibile a quella delle operatrici dei Get; non solo, ma
quanto entrambe queste posizioni siano (o potrebbero essere) ampiamente
sovrapponibili a quelle di qualsiasi docente della scuola media inferiore.
Infatti, per tutti gli adulti che si pongono in rapporto con i preadolescenti sul
piano del fare operativo, pedagogico, il problema rimane quello del viaggio
che il preadolescente si accinge a compiere e dell’atteggiamento che l’adulto
ha nei confronti dell’immanenza di questo viaggio, dei pericoli che in esso sono
insiti, dei problemi di separazione cui tutti gli attori presenti a casa, come a
scuola, vanno incontro.
In tutti gli adulti che si accingono a lavorare con gli adolescenti, quindi,
qualsiasi sia la loro particolare professionalità o la loro posizione nei confronti
del preadolescente, nascono dei problemi inerenti il rapporto con il viaggio che
il preadolescente sta cominciando a fare, ed in particolare: il fatto che si tratta
di un viaggio verso l’ignoto; il fatto che ci si trova di fronte un viandante che si
accinge a partire per il viaggio senza le certezze che aveva durante la latenza; il
fatto che le condizioni in cui comincia il viaggio sono quelle dell’accentuazione
dell’ambivalenza nei confronti delle figure adulte; il fatto che il viandante da
una parte è impaziente di cominciare il viaggio, di attrezzarsi autonomamente
per avventurarsi in mare aperto, dall’altro è tentato a regredire, a dipendere
ancora dall’adulto. Ciò che voglio aggiungere all’argomentazione di ieri è il
tema della molteplicità della dimensione del viaggio. Infatti solitamente,
allorché si parla di ragazzi con problemi di apprendimento, si pensa che un
lavoro riparativo, quale è quello che sia le operatrici dei Get, sia le psicologhe
tirocinanti stanno facendo, debba coincidere con ciò che comunemente si
intende per apprendimento. Ma non dobbiamo farci trarre in inganno dalla
parola apprendimento: in effetti, essa indica spesso qualcosa di circoscritto ad
un insieme di concetti che potremmo definire le materie, la scuola ecc. Invece
ab-prehendo significa, letteralmente, prendo da…; ciò vuol dire che è possibile
intendere quell’opera di prensione, di impossessamento come qualcosa che va
al di là dell’ab-prehendere scolastico. E allora, se abbandoniamo la comodità
della posizione di circoscrizione cui l’uso solito della parola apprendimento ci
riconduce, e ci esponiamo alla molteplicità di significati che invece in essa sono
impliciti, tutta la scena cambia aspetto, direi, si mobilizza, si arricchisce di una
molteplicità praticamente infinita di opportunità formative da proporre all’ab-
prendimento del preadolescente, oggi, come - del resto - del fanciullo in età di
latenza, ieri, e dei più grandi domani.
Inoltre, da questa nuova prospettiva, la nostra posizione di operatori di
frontiera (Napolitani) che lavorano, in particolare, sul disagio, e cioè con i
ragazzi a rischio, risulta avvantaggiata; la nostra, ma anche quella dei docenti
che lavorano con i ragazzi meno svantaggiati. Potremmo dire anzi che questa
visione più ampia del significato del viaggio, che il preadolescente si accinge a
compiere, potrebbe risultare, alla fine, più ricca di opportunità e di proposte
per tutti. La molteplicità di significati che derivano da un ascolto più attento del
preadolescente, da un più attento esame della reale natura del suo viaggio,
della reale portata del suo passaggio, può essere ricondotta a tre dimensioni
che racchiudono in sé e probabilmente esauriscono tutte le varie dimensioni
del viaggio. Esse, a mio avviso sono: 1. le materie scolastiche; 2. gli interessi (le
vocazioni) dei singoli, indipendenti dalle materie; 3. il corpo. Si definiscono così,
soprattutto per i nostri casi, ma non solo per essi, tre geografie di luoghi da
conoscere, da esplorare, tre ordini di contenuti da scandagliare ed ovviamente
tre ordini di problemi da affrontare.
2. Gli apprendimenti scolastici: un viaggio nelle materie
Il luogo delle materie scolastiche è un luogo geografico fatto di programmi, di
lezioni formali, di percorsi certi e ben delimitati. All’interno di questa arena i
nostri ragazzi si sono già mossi fin dalla seconda infanzia (i pre-apprendimenti)
e più scopertamente durante tutta la latenza subendo spesso delusioni a volte
cocenti (con relativi problemi di autostima); sono stati oggetto
dell’investimento, più o meno accentuato, da parte dei genitori e dei docenti
che li hanno riempiti con le proprie imago ideali e giudicanti e con le altre parti
interne, più o meno introiettate, con le quali ciascun adulto solitamente
dialoga ed interagisce con il preadolescente. La classe, quindi, è un luogo di
confronto che, da lunga pezza, vede i nostri ragazzi perdenti nel rapporto con il
gruppo classe, una vera e propria arena delle sconfitte, un luogo in cui la
distanza fra la propria capacità di ab - prehendere e quella degli altri è a volte
incolmabile. E d’altro canto qui, cioè con il ragazzo a rischio - al contrario di quel
che avviene col disabile -, non ci troviamo di fronte ad una stabile identità
precaria (Montobbio), ad una vaga autoconsapevolezza dei propri limiti, ma al
contrario di fronte ad un’acuta e dolorosa sensazione di impotenza, figlia di un
altrettanto preciso e spesso realistico confronto.
Si tratta quindi di un luogo geografico conosciuto, di una vera a propria
geografia politica con tanto di nomi di città e di strade, di porti e di nodi
ferroviari: Italiano, Matematica, interrogazione… ecc., che il ragazzo ha già
abitato a partire dall’inizio della latenza. Si tratta di luoghi che hanno in sé
tante merci, tante ricchezze che in passato egli, il ragazzo a rischio, avrebbe
dovuto ma non ha potuto ab-prehendere, con tanti dirigenti del traffico delle
merci educative, cioè con tanti docenti che avrebbero potuto ma a volte non
hanno saputo insegnarlo di sé, che avrebbero potuto arricchirlo, ma che, alla
fine, non hanno prodotto se non risicati arricchimenti.
La carta geografica che rappresenta questi luoghi è quella tipica della
geografia politica: le città, i porti, le strade, le ferrovie, le grandi vie di traffico
aereo e marittimo, ecc.: nel nostro caso, i programmi, i curricoli, le schede, i
libri: tutto materiale arci conosciuto, ma che ha già sedimentato tante
delusioni e che, perciò, presenta, in sé e per sé, solo pochi motivi di interesse e
di attrazione che, se rapportati ai grandi problemi di stima e autostima che
vengono dal giudizio dei docenti del mattino, diventano ancora più esigui.
2. Il viaggio inteso come ricerca dei propri interessi, delle proprie
vocazioni
Se la geografia dei luoghi precedenti può essere apparentata con la geografia
politica, quella consistente nella ricerca dentro se stessi dei propri interessi e
delle proprie vocazioni, invece, mi fa venire in mente la geografia fisica. Si tratta
di territori meno marcati dalla mano artificiale dei programmi, meno esposta
alle standardizzazioni che inevitabilmente in essi è implicita.
Monti, pianure, fiumi, mari, oceani ecc. che non sono stati conosciuti in
precedenza, se non in base alla forza dell’emulazione e delle identificazioni
infantili (le imago parentali prese a modello). Imago sulle quali è avvenuta
l’opera di erosione tipica della preadolescenza (con l’abbattimento dei vecchi
idoli), e quindi terreno in parte vecchio, ma vissuto con sospetto, in parte
nuovo e ignoto, da esplorare con circospezione. Terreno, inoltre, intriso di
grandiosità (i nuovi idoli della tv, dello sport ecc.) che genera attese irrealistiche
ed onnipotenti, ma che tiene vivo l’Io Ideale (Blos), e spinge il ragazzo verso il
mare aperto della sperimentazione e dell’impegno. Il ridimensionamento
dell’Io Ideale sarà poi il doloroso, ultimo tratto di strada prima che il ragazzo di
oggi diventi adulto, e cioè nell’imminenza dell’accesso all’adultità (qualora però
non sia stato brutalmente offeso prima).
La carta geografica che abbiamo di fronte in questo caso è quella
dell’orientamento, il che implica: 1. la scoperta delle vocazioni, e cioè quali
sono gli interessi per i quali il ragazzo è vocato o da una voce interna che viene
dall’infanzia e dal confronto con le imago genitoriali ideali e superegoiche,
allorché esse ci siano, o con imago genitoriali che derivano dal precedente
lavoro restaurativo che sul ragazzo e sulla ragazza è stato fatto a partire dal
momento che è stato segnalato, o ancora dal confronto con noi stessi,
operatori dell’intervento restaurativo, nel momento in cui ci atteggiamo nei
loro confronti come Ideale dell’Io e Super-Io sostitutivi (e non come Io
sostitutivo, come invece bisogna fare nel caso dei disabili); 2. preparazione di
un terreno solido di sperimentazione della vocazione: e cioè preparazione degli
atelier, ufficiali e non, affinché il ragazzo e la ragazza abbiano la possibilità di
allevare la propria vocazione e farla lievitare nell’impegno quotidiano. In
questo modo, è possibile perseguire anche un ri-utilizzo a fini produttivi e
creativi delle istanze libidiche e aggressive, che altrimenti sono destinate a
defondersi e a risultare dannose a sé e agli altri (terreno dell’acting-out); 3.
sopportazione dell’inerzia: e cioè sopportazione del fatto che i ragazzi possono
anche impiegare molto tempo prima di arrivare a comprendere quale è la loro
vocazione. Cosicché ciò che a un adulto distratto apparirà come un
bighellonare senza meta è in effetti proprio quel dibattersi nella bonaccia di cui
parla Winnicott, e cioè uno stato di inattività che ha bisogno di aiuto e di attesa
paziente prima di poter sfociare in qualcosa, un ribollire che ha bisogno di
tempo prima di diventare azione adulta e conseguente.
3. La nuova geografia della corporeità in preadolescenza
Nel caso del viaggio nelle materie il preadolescente deve, più o meno
dolorosamente ripercorrere percorsi di viaggio già compiuti, approfondimenti
quindi, ri-visitazioni.
Nel caso del viaggio nei luoghi più intimi, meno istituzionali in cui albergano le
vocazioni, nascoste spesso sotto una coltre d’indolenza e di accidia, vi è
sempre nel preadolescente una traccia criptica che viene dal passato, o una più
chiara che viene dal presente.
Nel caso del viaggio nel corpo pubere, invece, il terreno è molto più
accidentato. In questo caso le competenze provenienti dalle esperienze
precedenti, e cioè quelle che provengono dalle tracce mnestiche accumulate
nella prima e seconda infanzia intorno ai capisaldi delle varie organizzazioni
pregenitali e genitali sono state per lo più scarsamente mentalizzate,
dolorosamente e provvisoriamente risolte, e alla fine abbandonate in latenza
poiché la tendenza all’intellettualizza-zione aveva di fatto distolto lo sguardo
dal paesaggio del corpo, per indirizzarlo verso quello della mente.
Ciò per quanto riguarda il passato; ma anche venendo al presente, la
situazione risulta altrettanto criptica: infatti il confronto con le imago genitoriali
attuali risulta inficiato sul piano corporeo sia dai contenuti incestuosi più o
meno tabuizzati presenti nel ragazzo, sia dalle repressioni e dalle rimozioni che
la generazione precedente ha ricevuto su questo piano e che ha trasmesso al
bambino ieri, e continua a trasmettere al ragazzo oggi, tramite l’educazione
(tramite tutta l’educa-zione, e non solo tramite l’educazione sessuale).
Per cui la carta geografica che il ragazzo si trova di fronte in questo caso è
come una cartina muta che presenta al preadolescente solo i contorni vaghi di
quel fenomeno che pure sta massicciamente trasformando il suo corpo e che si
chiama crisi puberale lasciando a lui, e solo a lui, il peso della decifrazione di ciò
che sulla sua stessa carne sta avvenendo. Si tratta di un’opera di ri-
funzionalizzazione, di ri-attribuzione di senso che vede nella masturbazione e
negli interessi perversi polimorfi riemersi in questo periodo l’equivalente di ciò
che nelle altre due dimensioni sono i programmi scolastici e l’orientamento.
5. Necessità di un incremento e di una coniugazione fra le tre dimensioni del
viaggio
Come favorire, sul piano dei contenuti, l’incremento e la coniugazione fra
queste tre dimensioni del viaggio?
Innanzitutto occorre esaminare l’entità del ritardo sul piano degli
apprendimenti scolastici: se esso risulta essere consistente allora veramente,
poiché su quel terreno il ragazzo ha già ricevuto in passato molte delusioni,
insistere sarebbe inutilmente avvilente. Esaminare, in secondo luogo, il vissuto
sul piano dell’autostima che ogni singolo ragazzo ha di questo ritardo, facendo
bene attenzione fra ciò che in questa età il ragazzo ostenta e ciò che
effettivamente vive interiormente. Favorire poi l’emergere dentro al ragazzo
delle sue vocazioni: e ciò può essere fatto - come abbiamo appena visto - con
un’opera paziente di osservazione e d’attesa. Valutare dinamicamente le
vocazioni prima o poi emerse nel ragazzo cercando di appurare quale incidenza
esse abbiano nella definizione del suo Io Ideale. Esaminare come sta
avvenendo il clivaggio (cioè l’impianto) della sua genitalità. Favorire l’emer-gere
della sua area di intimità, rispettarla, cercare di instillare anche in lui/lei il
rispetto e la fierezza per questa nuova e tenera presenza interna. Come
vedremo meglio parlando dei metodi, far capire al ragazzo che il Get, il
workshop presentano entrambi due potenti strumenti in grado di aiutarlo nel
suo viaggio verso l’età adulta; due strumenti che sono a sua disposizione e che
può usare, o meno: poiché deve sempre essere lasciato a lui/lei il tempo e la
possibilità concreta di usarli. Tali strumenti sono essenzialmente: voi stesse,
psicologhe, educatrici, tirocinanti, volontarie, intese in senso sia individuale che
gruppale; il gruppo di pari, sotto la vostra direzione. Infine, cercare dentro di
voi i presupposti di un incontro che sia nuovo per loro. Tenete presente, però,
che non è pensabile che a questa età essi cerchino in voi un sostituto
genitoriale (se lo fanno, questo va visto come sintomo di una carenza, di un
bisogno). È più probabile che essi cerchino un’alleanza di tipo nuovo (o con
immagini di un fratello, di una sorella, di un amico maggiori e più saggi, o con
qualcuno di assolutamente nuovo e imprevisto) e occorre che voi siate pronte
a trovare in termini controtransferali, dentro di voi, un’assonanza con queste
istanze.
Il che, beninteso, non significa compiacerli e porre i presupposti per
acconsentire a costruire, ad esempio, una banda di tipo para-delinquenziale;
bensì essere disposte a definirvi come modelli deboli, fallibili, raggiungibili,
riparativi, ma fermi, rassicuranti, costanti nella dedizione, estremamente
discreti e pronti, soprattutto, a ritirarsi al primo accenno d’insofferenza e di
disagio.
Bibliografia:
Angelini L., “L’adolescenza dell’handicappato psicofisico”, in: Setting riabilitativi
con gli adolescenti handicappati, Usl N.9 di Reggio Emilia 1992, pp.13\24
D.Bertani: "Genitorialità, ed handicap", in: Se ng riabilita vi con gli
adolescen handicappa , op.cit. pp.51\58
Blos P., “La genealogia dell’Io Ideale”, in Blos P., L’adolescenza come fase
di transizione, Armando Ed., Roma 1988
Montobbio et altri: "L'handicappato psichico: adolescente senza
adolescenza", in AA.VV. Attualità di neuropsicopatologia in età adolescenziale,
Quaderni di N.P.I. n°22, vol. II, pagg.296/301.
Tecniche di conduzione dei workshop: i metodi e
gli strumenti
Leonardo Angelini
1. Metodi e strumenti: la spirale della programmazione
- Vi è una prima fase in cui si riflette, nel senso che ci si flette, ci si rivolge sia,
come dicevamo prima, su ciò che è stato oggetto di osservazione (riflettere) sia
anche sui risultati della auto-osservazione (ri-flettersi). Vengono in questo caso ri-
attivate le strutture egoiche della personalità, che garantiscono uno stato di
maggior attenzione e vigilanza, strutture che nella fase precedente avevamo
messo tra parentesi.
- Segue una seconda fase in cui si procede a dare un ordine a queste che non
sono più intuizioni, ma ormai nuclei di progetti programmatici che cominciano ad
acquisire sempre più senso; è questo un altro momento delicato in cui è
necessario prendere delle decisioni (de-cidere = tagliar via), cioè fare delle scelte,
scartando alcune ipotesi, lottando contro il proprio desiderio onnipotente che
vorrebbe far tutto.
A livello di strumenti, vanno previsti due tipi di contenitori per la riflessione: - un
contenitore per la riflessione individuale:
ciò implica un luogo interno all’operatore in cui sia viva una attitudine
ordinante, de-cidente, in base alla quale certe idee diventano prioritarie ed altre
meno, fino ad essere scartate o rimandate ad altre tranche formative;
- un contenitore per la riflessione di gruppo che, in base alla coniugazione fra le
varie osservazioni fatte da tutti i componenti dell’équipe, decida cosa fare:
Tale modo di procedere può celare alcuni aspetti negativi, dannosi, quali, ad
esempio, la massificazione del modo di procedere sul piano della
sperimentazione. A questo proposito, un’esemplificazione negativa è fornita dal
curricolo, che si presenta spesso come un ordinamento standardizzato dei
problemi in base al quale, per tutti, il più semplice e il più complesso coincidono.
[←1]
I recen proge ministeriali di an cipo dell’obbligo ai cinque anni possono
rappresentare, o meno, un rischio per il bambino a seconda di come poi, in concreto,
tali proge saranno realizza . Se ci sarà un rispe o per gli effe vi tempi di
maturazione di questo par colare periodo della crescita psicologica, non ci
dovrebbero essere problemi (tranne quelli forse derivan dalla formazione degli
educatori).
[←2]
Ciò che avviene poi alla fine della latenza, quando il bambino comincia a cambiar
pelle ed a diventare un preadolescente, lo vedrete con la do .ssa Bertani nell’ul mo
incontro, ma si può dire fin d’ora che il riemergere delle tema che edipiche e
preedipiche comporta una vera e propria esplosione di quel vor ce is ntuale che,
per tu a la latenza, cova so o le ceneri.
[←3]
Cfr. la prima relazione del nostro corso, tenuta dalla do .ssa Bertani, sulle difficoltà
ad entrare nella latenza.
[←4]
Le teorie di Gardner sui cento linguaggi del bambino, però, a mio avviso, poiché
tendono a non porre in un ordine gerarchico i vari pi di linguaggio, finiscono col
non cogliere i problemi di sele vità che sono implici nel possesso, o meno, di cer
pi di linguaggio, ad esempio di quello verbale.
[←5]
“Itaca ha dato il bel viaggio / senza di lei mai sares messo in viaggio”, dice il
poeta Kavafis, pensando al ruolo della famiglia nella crescita psicologica di ciascuno
di noi; ma non bisogna dimen care anche l’invito, proveniente sempre da Kavafis, a
compiere il proprio viaggio, ad abbandonare la propria Itaca, ed a tornarvi solo “da
vecchi”, fa ormai saggi della nostra esperienza personale.
[←6]
Poi in adolescenza ci si allontanerà più decisamente da Itaca e ciascuno troverà il
proprio mare aperto in cui navigare.
[←7]
Cfr. le relazioni, tenute in questo corso, dalle do .sse Fagandini e Bevolo.
[←8]
Per un’analisi più approfondita dei contenu e della dida ca presen nei vari
modelli educa vi cfr. il testo di L. Angelini “Nidi e materne: modelli educa vi”, in L.
Angelini e D. Bertani, “Il bambino che è in noi”, Unicopli, Milano 1995, pp. 13-38.
[←9]
Cfr. Angelini L., Bertani D., Funzioni materne e funzioni paterne a casa e al nido, a
cura del Comune di Parma, Parma 1996
[←10]
Che significano, non dimen chiamolo, rispe vamente: “il più grande” e “piccolo
scemo”.
[←11]
Cfr. G. Devoto, “Avviamento alla e mologia italiana”, Mondadori, Milano 1979.
[←12]
Cfr. P. Blos, “L’adolescenza”, F. Angeli, Milano 1980.
[←13]
Cfr. l’art. “I nuovi programmi della scuola elementare”, a cura di D. Bertani e G.
Polle a, su Pollicino n° 1, Aut.-Inv.1984-85, pp. 6-13.
[←14]
Cfr. Frabboni F., Costruiamo insieme il curricolo dida co, in: Infanzia, N., 4, 1979
[←15]
Cfr. L. Angelini, “L’osservazione del bambino in ambito educa vo e psicoterapeu co”,
in L. Angelini e D. Bertani, “Il bambino che è in noi”, Unicopli, Milano 1995, pp. 231-
246.
[←16]
Cfr. P. Barcellona, “Il capitale come puro spirito”, Editori Riuni , Roma 1990.
[←17]
Cfr. A. Mitscherlich, “Verso una società senza padre”, Feltrinelli, Milano 1970.
[←18]
Cfr. L. Angelini, “Il bambino piccolo nel gruppo dei pari”, in L. Angelini e D. Bertani,
op. cit., pp. 195-212.
[←19]
Per i conce di Sé nucleare e Sé orbitale vedi L. Grinberg, “Teoria
dell’iden ficazione”, Loescher, Torino 1982.
[←20]
Cfr.: Angelini L., Affabulazione e formazione, Docenti e discenti come produttori e
fruitori di testi, Unicopli, Milano 1998.
[←21]
Cfr. M. Mahler, La nascita psicologica del bambino, Boringhieri, Torino 1975.
[←22]
Cfr. Angelini L, 1992.
[←23]
Cfr. Angelini L,1998, e specialmente lo scri o di D. Bertani “Osservare, per chi?”.