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Titolo | Bambini e ragazzi a rischio fra famiglia, scuola e strada

Autori | (a cura di) Leonardo Angelini, Deliana Bertani, Mariella Cantini


Copertina: Simona Valcavi
2022

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Dino Angelini
Via Ettore Barchi 8 - 42123 Reggio Emilia
dinange@gmail.com
3497190911
Indice
Cosa sono i Quaderni di Gancio Originale
Presentazione
Che cos’è Gancio Originale
Prima sezione: Difficoltà in latenza e modulo
Workshop ed ingresso in latenza: difficoltà e problemi ad entrare in latenza
Intellettualizzazione e produzione in latenza: problemi connessi, in classe e
fuori
La codocenza ed il bambino in età di latenza
Il bambino in età di latenza e il gruppo di pari
II sezione: Il lavoro nei workshop pomeridiani coi ragazzi a rischio
Workshop ed ingresso in preadolescenza: difficoltà e problemi
Problemi d’integrazione scolastica (e non) dei bambini e dei ragazzi
immigrati
I criteri di selezione: workshop ed altre cure ambientali
Tecniche di conduzione dei workshop: i contenuti in preadolescenza
Tecniche di conduzione dei workshop: i metodi e gli strumenti
Cosa sono i Quaderni di Gancio Originale
I quaderni di G.O. contengono le relazioni tenute alle giovani e ai giovani nostri volontari ed ai
nostri tirocinanti all’interno dei vari momenti formativi che inizialmente si svolgevano due volte
l’anno, e che in seguito si sono trasformati da una parte in atelier pratici tenuti durante l’anno,
dall’altra in una lunga serie di “Seminari al Seminario”, tenuti a Marola ai primi di Settembre di
ogni anno; ed in veri e propri cicli d’incontri su temi specifici (è il caso, ad esempio di
“Tirocinanti e tutor”) ai quali hanno spesso partecipato -sempre gratuitamente- tirocinanti,
psicologi, NPI, educatori, docenti, pedagogisti, provenienti spesso da ogni parte d’Italia.
L’idea che abbiamo avuto fin dall’inizio è stata quella di non ripetere sempre gli
stessi argomenti, ma di partire ogni volta dalle esigenze e dalle urgenze dei
volontari e dei tirocinanti che operavano con noi.
Ovviamente questo andamento apparentemente discontinuo, basato sulle
urgenze del momento, unito al fatto che sia i volontari che i tirocinanti
variavano di anno in anno ingenerando un considerevole turn over, trovava un
a sua ratio nel lungo periodo solo nella misura in cui di ogni argomento
affrontato nel tempo fosse lasciata traccia in relazioni scritte che venivano
ciclostilate e offerte ai nuovi arrivati, in modo che ognuno avesse la possibilità
di poter attingere a ciò che era stato già discusso e ‘studiato’ negli anni
precedenti.
Ogni tanto, allorché ci era possibile farlo, le varie relazioni venivano composte
in modo tale da recuperare nel tempo quel filo rosso che lì per lì ognuna di
esse sembrava non essere in grado di garantire. Da ciò le frequenti ripetizioni
riscontrabili nelle varie raccolte!
Un ultimo cenno ai relatori: nei limiti del possibile abbiamo cercato di offrire a
tirocinanti e volontari il meglio che era possibile trovare in città, in provincia, e
anche ‘fuori’. La maggior parte di loro non ha ricevuto alcun compenso per
questo impegno; per cui si può dire che anch’essi, in quanto volontari, hanno
fatto parte a pieno titolo di “Gancio Originale”. Li ringraziamo ancora una volta
per questa loro disponibilità. Così come ringraziamo presidi, docenti, e tutti
coloro che ha collaborato con noi in quegli anni!
“Dare, ricevere, contraccambiare”: è all’interno di questa logica che si sono
posti nei 25 anni scolastici intercorsi fra il 1990\91 e il 2014\15 i nostri 12.000
volontari, i nostri tirocinanti psicologi e no. Ed è all’interno di questo scambio
che abbiamo cercato di porci noi stessi, cercando di dare ciò che potevamo, e
ricevendo tantissimo da tutte e da tutti. (L.A., D.B., M.C.)
 

Presentazione
 
Deliana Bertani, Mariella Cantini
 
 
L’oggetto della nostra riflessione e di quella dei colleghi del Consultorio
Giovani (Open G) di Reggio Emilia - con i quali in questi anni è stato svolto sia il
lavoro formativo, sia il lavoro di cura e di prevenzione secondaria nei workshop
- in questo caso sono stati i bambini e i ragazzi a rischio. In effetti si tratta della
combinazione di due distinti momenti formativi: - il primo relativo alle difficoltà
del bambino a rischio nel nuovo modulo della scuola elementare; - il secondo al
lavoro restaurativo pomeridiano con ragazzi a rischio nei Workshop della AUSL
e nei Get (Gruppi Educativi Territoriali) del Comune della città.
In queste due officine si svolge ormai da anni un servizio di cura e di
restaurazione del Sé rivolto ai preadolescenti a rischio che si aggiunge alle
prestazioni rivolte ai singoli e che presenta anche, come la maggior parte del
nostro lavoro sui ragazzi a rischio, tutte le caratteristiche di un intervento di
prevenzione secondaria, volta cioè a minimizzare i rischi di devianza e di
passaggio a forme più consolidate di asocialità e di delinquenza minorile.
Le educatrici della scuola elementare, quelle dei GET, le volontarie e i volontari
di Gancio Originale, le psicologhe tirocinanti e gli obiettori che hanno potuto e
voluto seguire l’uno o l’altro di questi due percorsi formativi hanno avuto modo
di contribuire a definire la struttura finale del testo, quella che ora il lettore ha
sotto gli occhi, poiché in entrambi i casi è stato possibile lavorare in gruppo nei
momenti della formazione usando la tecnica del case work sui contenuti delle
relazioni iniziali.
Speriamo che il lavoro che oggi presentiamo ad un pubblico più ampio abbia
mantenuto quelle caratteristiche di freschezza e di praticità che è stato
possibile innescare grazie alla coniugazione e allo scambio che gli autori hanno
potuto instaurare con le due udienze originarie.
 

Che cos’è Gancio Originale


 
 
Deliana Bertani e Mariella Can ni
 
Gancio Originale è un gruppo sui generis di volontariato che si è costituito
all’inizio degli anni Novanta all’interno dell’AUSL di Reggio Emilia, e più
precisamente all’interno dei Settori di Neuropsichiatria Infantile e di Psicologia
Clinica Sociale e di Comunità di questa AUSL.
Non si tratta quindi di una associazione privata in grado di recepire i fondi che
le varie istituzioni mettono a disposizione dei servizi di volontariato, ma di uno
sportello pubblico che svolge opera di sensibilizzazione, di organizzazione e di
formazione rivolta principalmente a giovani volontari che frequentano le ultime
classi delle Medie Superiori della città, o che sono già al lavoro o all’Università.
Questi giovani svolgono la propria opera di volontariato essenzialmente su due
fronti: quello della disabilità e quello del disagio, e più precisamente nei
confronti dei bambini e dei ragazzi disabili e a rischio seguiti dai due settori
dell’AUSL.
Poiché da una parte i nostri volontari sono molto giovani, dall’altra la città di
Reggio Emilia non è una grande sede universitaria, Gancio Originale presenta
al proprio interno un grosso turn over di giovani, che magari cominciano a
prestare la loro opera di volontariato con noi, per poi passare all'impegno con
altri gruppi e in altre città. È venuto così a costituirsi nel tempo un gruppo
molto mobile, ma sempre È molto numeroso, che da un punto di vista
finanziario opera secondo criteri che potremmo definire di economia familiare,
cioè senza l’utilizzo di alcuna risorsa monetaria.
Giovani che aiutano giovani, quindi; e, come dicevamo prima:
a. giovani che vanno sensibilizzati. Ciò viene fatto in tutte le scuole medie
superiori della città attraverso l’individuazione di un target, gli allievi delle
ultime classi, ai quali viene presentato il progetto avvalendosi dell’aiuto di
giovani che hanno già svolto lavoro di volontariato con noi e che quindi sono in
grado di definire, con un linguaggio chiaro e comprensibile, i contorni e i limiti
temporali dell’impegno da noi richiesto (non si chiede mai più di tre, quattro
ore settimanali);
b. giovani che vanno seguiti e organizzati. Il che comporta un lavoro di
accoglienza, di individuazione delle vocazioni di ognuno, di abbinamento
peculiare con i bambini e con i ragazzi seguiti dai Servizi di NPI e di Psicologia
Clinica, Sociale e di Comunità, di tutoring individuale e di gruppo;
c. giovani che vanno formati nell’esercizio di un lavoro di aiuto ai disabili e ai
ragazzi a rischio che assume anch’esso caratteristiche di peculiarità poiché,
data la vicinanza anche anagrafica fra i primi e i secondi, mai come in questa
circostanza la cura che il volontario offre è anche una autoterapia che richiede
momenti di riflessione e di formazione specifici sia nei contenuti proposti, sia
nei metodi seguiti, sia nell’uso di un linguaggio appropriato.
Giovani, infine, che in prevalenza sono giovani donne che in questo modo
cominciano a intervenire, in maniera del tutto nuova e originale, in quel lavoro
di cura che ancora rimane, purtroppo, una prerogativa femminile, e sul quale si
va incentrando una parte non piccola della nostra riflessione critica.
 
 
Perché la collana “Quaderni di Gancio Originale”
 
Apparentemente la collana “Quaderni di Gancio Originale” esordisce con
questo testo sui bambini e i ragazzi a rischio. In effetti questo testo, che è il
frutto di due percorsi formativi che hanno visto, in qualità di allievi, volontari,
docenti, psicologi, tirocinanti ed educatori delle attività riabilitative
pomeridiane, ed in qualità di docenti quattro psicologi del Servizio di Psicologia
Clinica, Sociale e di Comunità della AUSL di Reggio Emilia, è in realtà il terzo, se
non il quarto elaborato di Gancio Originale.
Prima di esso sono stati pubblicati:
1. Volontariato – Gancio Originale. Processi di informazione, formazione,
trasformazione, 1995, a cura di L. Angelini, D. Bertani e M. Cantini, che
raccoglieva le trascrizioni scritte di una molteplicità di interventi formativi
svolti per i nostri volontari da vari tecnici della AUSL, del Comune di Reggio
Emilia e del privato sociale, sempre a titolo totalmente gratuito e cioè
volontario, centrati prevalentemente sulla disabilità.
2. Atti del convegno su Gancio Originale, 1995, a cura dell’Amministrazione
Provinciale e della Ausl di Reggio Emilia, che riassume gli atti di un
convegno che, dopo i primi cinque anni di lavoro, rappresentò il primo
momento di riflessione in pubblico sui significati molteplici dell’esperienza.
3. Molto più recentemente è apparso un video, prodotto dal signor Luciano
Guidetti, tecnico video della AUSL di Reggio Emilia, intitolato “Io gancio,..
e tu?”, che permette con la forza delle immagini di capire, diciamo così,
dall’interno le finalità e il funzionamento di Gancio Originale.
La ragione di tutte le pubblicazioni è nel fatto che i nostri momenti formativi
non sono mai uguali a se stessi, ma variano di volta in volta e ci sono suggeriti
dagli stessi volontari in base a quelle che risultano essere le urgenze formative
che emergono nel lavoro pratico sul campo. Per cui ad ogni nuovo volontario
viene fornita una copia dei primi due volumi usciti, così come da ora in poi sarà
fornita una copia del testo presente, quasi in forma di corredo che poi il
volontario potrà usare con noi o in altre sedi.
 
 
 
Reggio Emilia, giugno 1999 
 
 
Prima sezione: Difficoltà in latenza e modulo
 
Workshop ed ingresso in latenza: difficoltà e
problemi ad entrare in latenza
 
Deliana Bertani
 
 
 
Inizieremo a parlare di quelle particolari situazioni formative parallele e
integrative rispetto a quelle scolastiche e terapeutiche in cui abbiamo a che
fare con bambini in difficoltà, con problemi di apprendimento, di
comportamento, di autostima, spesso non sufficientemente seguiti e sostenuti
dalla famiglia.
Innanzi tutto accenneremo alle competenze che l'operatore deve mettere in
campo nel lavoro all’interno dei workshop: si tratta di competenze non diverse
da quelle dell'insegnante, ma più centrate su alcune aree e meno su altre.
 
La prima è una competenza di ordine affettivo, cioè la capacità di
comprendere i fenomeni affettivi, la capacità di osservarli e di riconoscerli.
Essere in grado di riconoscere nella condotta dei ragazzi l'emergenza di
richieste di aiuto, le ansie di smarrimento che si manifestano attraverso
comportamenti aggressivi, provocatori, di chiusura, di apatia o di incapacità,
può costituire un punto di forza per impostare o correggere il proprio lavoro, o
anche per rassicurarsi sul significato di eventi specifici.
La seconda competenza deriva dal fatto che siamo in una situazione
formativa e quindi abbiamo obiettivi di apprendimento in senso stretto che,
data l'età di cui ci occupiamo in questa sede (l’ingresso in latenza), sono legati
al leggere, allo scrivere e al far di conto.
La terza competenza deriva dal fatto che abbiamo a che fare con bambini in
difficoltà e l'approccio alla difficoltà comporta oggi un concorso di scienze, di
professioni, di tradizioni istituzionali che comprende la medicina, la psicologia,
la pedagogia, la sociologia, l'antropologia, la linguistica, l'epidemiologia, ecc.
La difficoltà diventa così un'area di confine che può produrre incontro e
contaminazione fra varie scienze e professioni oppure chiusura e ripiegamento
su se stessi.
La competenza richiesta, in questo senso, è il coraggio di affrontare il rischio
della contaminazione nella consapevolezza del proprio ruolo e nella chiarezza
personale e istituzionale circa i propri compiti: nessuno di voi è una madre
onnipotente, a tutti è richiesto di essere dei professionisti dell'operare
educativo in grado di mettere le competenze di ciascuno in rete insieme a
quelle degli altri professionisti che lavorano con i bambini.
 
 
 
1. Il concetto di difficoltà oggi
 
Cerchiamo di approfondire insieme il concetto di difficoltà (dis/facultas = che
non ha facoltà). Il concetto di facoltà non è un concetto astorico; consideriamo,
per esempio, la manualità fine in tre periodi storici: 1) prima dell'avvento della
scuola dell'obbligo la manualità fine aveva a che fare con i pregrafismi solo in
modo molto marginale, e non era comunque un problema; 2) dopo
l’introduzione dell'obbligo in scuola elementare, ma prima che le scuole
materne avessero fini educativi, cioè prima che ai bambini fossero impartiti i
pre-apprendimenti, la conquista della manualità fine attraverso l'esercizio delle
aste era il primo obbiettivo scolastico da raggiungere in prima elementare
entro Natale e comunque la scuola dava per scontato che il bambino a sei anni
ancora non possedesse questa facoltà; 3) oggi, allorché i pre-apprendimenti
sono all'ordine del giorno già in scuola materna, un bambino che non possiede
i pregrafismi in prima elementare viene considerato un bambino in difficoltà.
Esempi simili avrei potuto fare per quanto riguarda il variare degli introietti di
spazialità, di temporalità, ecc., nei vari contesti attuali e passati, rurali o urbani
in cui al bambino tocca vivere. Ciò vuol dire che tutto il problema dei pre-
apprendimenti va posto sul piano storico, in connessione con le mutanti
esigenze che ogni società ha. Ogni fine educativo e formativo, quindi, può
prevedere o meno che il bambino si impossessi, o meno, di determinate
facoltà.
Detto questo, cerchiamo di vedere ora come oggi il problema della difficoltà
viene affrontato da un punto di vista diagnostico e riabilitativo. Innanzitutto, il
bambino con presunte difficoltà viene inserito in un protocollo osservativo che
prevede un’anamnesi individuale e familiare.
Il primo problema è quello di fare una diagnosi, il secondo di organizzare un
trattamento che può essere di varia natura (riabilitazione, psicoterapia, cure
ambientali).
In base al confronto dei dati di natura clinica e sociale, è possibile inoltre
impostare dei programmi di prevenzione, miranti a rimuovere le cause del
disagio. In ogni caso il bambino, nel momento in cui viene osservato, viene
inserito in almeno uno dei seguenti assi interpretativi:
1. Asse sintomatico: in base al quale i sintomi diventano segnali che vanno
nella direzione della normalità o della patologia secondo i postulati della
semeiotica medica. Ciò farà sì che in sede diagnostica si tratterà di sceverare se
il sintomo riporta ad una patologia o se è rappresentativo di un
comportamento normale e tipico della fase che il minore sta attraversando.
2. Asse strutturale: in base al quale l’attenzione del diagnosta non è focalizzata
sul sintomo, bensì sulla conformazione dinamica della struttura psichica del
bambino.
3. Asse genetico: in base al quale la mente di quel bambino, intesa in termini
neuropsicologici, viene osservata e parametrata alle linee di sviluppo normale
(standardizzato) della mente.
4. Asse ambientale: in base al quale il comportamento del bambino viene visto
in rapporto con l'ambiente familiare, scolastico, amicale ecc.
Cosicché, se consideriamo, per esempio, la dislessia: secondo l'asse
sintomatico essa può apparire come una lesione neurofisiologica; secondo
l'asse strutturale come un'inibizione epistemofilica; secondo l'asse genetico
come il risultato di una disarmonia dello sviluppo di una funzione strumentale;
secondo l'asse ambientale, infine, come un'inadeguatezza pedagogica
(l'insegnante non avrebbe capito con quale strategia individuale quel bambino
sta apprendendo a leggere). Dov'è la verità? A mio avviso la verità può essere
cercata provando a coniugare tutti e quattro gli assi, nella consapevolezza che,
specie in età evolutiva, un’opzione adialettica per l'uno o per l'altro asse è
destinata ad un’approssimazione che, in molti casi, diventa intollerabile e
foriera di errori interpretativi.
Prendiamo ora in considerazione i quattro assi dal punto di vista
pedagogico/educativo:
- se l’operatore sposa solo l’asse sintomatico vedrà l'albero, ma non la foresta;
metterà in atto una didattica correttiva e per lui il problema principale sarà la
scomparsa del sintomo;
- se opterà per l’asse strutturale vedrà l'affettività, ma non gli apprendimenti
e ricorrerà ad una pedagogia degli affetti, poiché in questo caso il problema
principale sarà il rapporto con il bambino;
- se invece opterà per l’asse genetico vedrà gli apprendimenti, ma non gli
affetti e ricorrerà ad una pedagogia cognitivistica, poiché il problema in questo
caso apparirà come centrato sullo sviluppo intellettivo e l'acquisizione di
competenze;
- se infine opterà per l’asse ambientale vedrà la foresta ma non l'albero,
metterà in atto una pedagogia sociologistica e ideologica e sarà preoccupato
per le cause esterne.
Ritengo che in una situazione come quella nella quale operate ci sia bisogno
del massimo di integrazione possibile fra questi quattro assi.
 
 
2. Ingresso in latenza: difficoltà, problemi
 
Ma chi è questo bambino che ci troviamo di fronte tutti i giorni,
indipendentemente dal nostro umore, dal nostro stato di benessere o
malessere, dai nostri problemi personali? È il bambino che sta entrando in
latenza.
Riprendiamo ora il discorso che si faceva prima circa l'opportunità di
storicizzare il problema delle difficoltà. Molti indizi che ci inducono a pensare
che le modificazioni culturali e sociali intervenute nella realtà reggiana di questi
ultimi anni si riverberano sulla latenza del bambino di oggi rendendola diversa
da quella di ieri.
Ieri, ad esempio, vi era coincidenza fra ingresso in latenza e inizio della scuola.
Oggi tutto cambia poiché già durante la seconda infanzia i programmi delle
nuove materne che perseguono fini educativi (e non più assistenziali) esaltano
lo sviluppo cognitivo del bambino prima che il pensiero infantile abbia
raggiunto una sufficiente autonomia dalla sfera delle rappresentazioni
affettive.
Ciò rende del tutto nuovo quel processo di “decantazione” del fare operativo
dalle esigenze della sfera pulsionale-affettiva.
Cosicché, mentre trent’anni fa il passaggio dalla materna all’elementare
rappresentava l’uscita dal gioco e l’ingresso nell’operatività, oggi il processo di
decantazione e di passaggio dall’una all’altra dimensione necessita di una
preoccupazione da parte delle operatrici delle materne che non può limitarsi alla
didattica dei processi cognitivi, ma deve estendersi alla regolazione dei
comportamenti interpersonali, ad un esercizio per il controllo delle energie
pulsionali, al rafforzamento del Super-Io e allo sviluppo del senso d'identità in
rapporto con la realtà psico-sociale.
Favorire la decantazione in questo senso può diventare il leitmotiv che
accomuna scuola materna e scuola elementare, che permette il superamento
della conflittualità fra i due ordini di scuola e che valorizza le possibilità di
riorganizzazione della personalità del bambino che proprio lo stacco può
favorire.
Lo spazio che il workshop può avere nel favorire la decantazione e il
passaggio da una situazione dove prevale l'affettività ad una dove regna
l'operatività è grande. In un gruppo parallelo e complementare rispetto a
quello scolastico l'operatività infatti può assumere connotazioni molto più
varie, attraenti, meno spaventose, più interessanti e intriganti per il bambino,
di quelle che spesso assume in classe. Ciò può favorire e accompagnare il
passaggio.
Questo utilizzo in senso evolutivo della discontinuità può favorire il passaggio
graduale del bambino dal paese dei balocchi alla scuola, dal regno in cui
impera il principio del piacere a quello in cui vigono le leggi del principio di
realtà.
Usare in senso evolutivo la discontinuità vuol dire sfruttare la “nuova”
situazione per chiedere al bambino cose che precedentemente non era in
grado di dare o non era disposto a dare, difendendo contemporaneamente
certi privilegi dell'infanzia, soprattutto quelli connessi al piacere e ai vantaggi di
dipendere dall'adulto. È chiaro che queste richieste non debbono
improvvisamente sovraccaricare le capacità di adattamento e di
trasformazione del bambino, altrimenti la discontinuità si può trasformare in
un agente di stress, di disorganizzazione e talora di regressione specialmente
per i bambini a rischio.
La delicatezza del momento di passaggio è grande e l'impatto con la nuova
realtà è importante per l'atteggiamento del bambino, non solo nei confronti
della scuola, ma anche del mondo simbolico e della realtà sociale. In questo
momento particolare, la qualità dell'ambiente relazionale ed educativo che
ogni agenzia educativa riesce a dare è importantissima.
Noi dobbiamo essere consapevoli che nei workshop arrivano bambini per i
quali questo passaggio è particolarmente difficoltoso, per i quali la qualità
dell'ambiente che noi offriamo è fondamentale proprio perché, oltre ad
educare e ad insegnare, nei gruppi si deve anche riparare.
Come ci ha insegnato Erikson, i momenti di passaggio costituiscono dei punti
critici durante i quali il soggetto affronta le maggiori difficoltà di adattamento
con la più elevata probabilità di insuccesso.
E ciò di cui stiamo parlando è un delicatissimo momento di passaggio: il
primo giorno di scuola, infatti, per il bambino rappresenta l’ingresso in una
nuova dimensione della sua vita.
L'apprendimento scolastico richiede al bambino disciplina nel funzionamento
intellettuale, assunzione di nuove responsabilità e di ruoli più differenziati nel
comportamento sociale, organizzazione e differenziazione dell'Io, una
maggiore autonomia. In scuola, diversamente che in famiglia, sia i rapporti
verticali coi docenti, sia quelli orizzontali con i pari assumono delle
connotazioni che si basano sull'operatività piuttosto che sull'affettività.
Quindi - anche se, come dicevamo prima, nel caso del fanciullo reggiano di
oggi l’incontro con un adulto che svolge funzione docente c’è già stato in scuola
materna - ora ci sono nuovi obblighi, nuovi valori su cui essere valutati, c'è
l'accesso ai segni scritti, alla lettura, ai numeri e al mondo degli adulti.
L'ingresso nella scuola elementare rappresenta per il bambino, e non solo per
lui, una sorta di investitura, di iniziazione che è di grande valore simbolico e
tutto questo avviene in latenza, o meglio in quel periodo in cui deve avvenire la
decantazione della dimensione pulsionale affettiva (la decantazione, non la
scomparsa!).
 
 
3. Difficoltà ad insegnare e ad apprendere in latenza
 
A questo punto faremo alcune considerazioni sulle difficoltà legate
all'apprendimento in quest'epoca della vita e fisseremo l'attenzione
sull'intreccio che l'apprendimento ha con l'insegnamento.
Insegnare e apprendere sono due azioni che in questo periodo assumono un
significato istituzionalizzato, ufficialmente cadenzato e socialmente
riconosciuto.
Gli insegnanti elementari, in base a quanto abbiamo detto finora sulla
decantazione che accompagna la latenza, hanno la fortuna di seminare in
terreni già dissodati, e soprattutto possono lavorare con meno assilli, perché il
loro ruolo è più definito.
Ma se è vero che nella scuola ci sono i programmi, c'è qualcosa cioè di
condiviso, deliberato e approvato; non c'è scritto, però, da nessuna parte cosa
sottolineare, come interpretare, come modulare, e neanche come il bambino
riceverà quello che gli viene porto. Questo per dire che, così come ci sono
difficoltà ad apprendere, ci sono anche difficoltà ad insegnare ed entrambe si
riflettono sulla condizione che permette la trasformazione dei dati percepiti in
fatti appresi, strutturati e personali.
Quante volte avete sentito dire "quel bambino dimentica il giorno dopo
quello che ha imparato”, oppure, “ricorda solo quello che vuole”.
Potete riformulare ciò che avete ascoltato in questo modo: “Perché quello
che è stato detto e che il bambino ha ascoltato, non è diventato suo
patrimonio?”.
Vediamo ora l'intreccio che da un punto di vista relazionale l'apprendimento
ha con l'insegnamento.

Apprendere: Esistono molti ragazzi che apprendono con difficoltà perché non
sanno come si apprende o perché non controllano i meccanismi
dell'apprendimento (problemi cognitivi, asse genetico-sintomatico). Esistono
diversi bambini che hanno paura di apprendere perché vivono
l'apprendimento o come colpa o come sconfitta o anche come pericolo (asse
strutturale-ambientale, problemi emotivi, relazionali, ambientali).
Molti bambini presentano ambedue i problemi: non sanno come si apprende
e hanno paura di apprendere. I due problemi possono dipendere l'uno
dall'altro: chi non sa, non è capace, finisce per sviluppare un atteggiamento di
panico verso gli oggetti e i luoghi dell'apprendimento; chi prova paura verso
l'intelligenza, verso la conoscenza e la scoperta, sviluppa spesso delle tecniche
molto raffinate per apprendere come non si apprende o come si fa finta di
apprendere.
I presupposti affinché un qualunque apprendimento diventi produttivo sono i
seguenti: uno scopo, una tecnica, un piacere, una rappresentazione.
Perché si impara? Si impara a leggere e a scrivere per precisare e per
trasmettere, a distanza di tempo, di spazio e di conoscenza, i pensieri propri ed
altrui; si impara uno sport o la matematica per sviluppare un dominio e per
stabilire e moltiplicare le relazioni fra sé e il mondo; si impara ad usare i propri
apprendimenti e a legarli ai propri interessi e alle richieste della realtà se si
costruisce dentro la propria mente uno scenario e un repertorio di tutti gli
apprendimenti, se questi ultimi vengono messi in relazione fra di loro e se si
riescono a cogliere tutti i loro mutamenti. Perché molti bambini non usano, e
quindi non accumulano, i loro apprendimenti?
Perché molti bambini soffrono nei luoghi dell'apprendimento e affrontano
con dolore gli oggetti di apprendimento? Queste sono le difficoltà ad entrare in
latenza.
L'apprendimento significa pensare a cose nuove e per potere fare questo è
necessario mettere in discussione, e in parte cancellare, le cose vecchie e
riconoscere quelle nuove come tali. La possibilità e la stabilità
dell'apprendimento sono in parte legate al senso di stabilità di chi può
apprendere: chi cerca di apprendere può identificarsi e riconoscersi in oggetti
nuovi e può perdere oggetti e spazi conosciuti solo se mantiene coerente lo
spazio dell'apprendimento, cioè se stesso.
Per conoscere è necessario sentirsi conosciuti; per conoscere cose nuove è
necessario potersi muovere in uno spazio dove cambiamento e familiarità
coincidono, dove, cioè, tutto si può cambiare senza che niente venga perduto.
Il luogo dell'apprendimento e la funzione dell'apprendimento sono gli spazi e
le azioni in cui diventano pensabili le relazioni fra gli oggetti e fra sé e il mondo;
perché ci possa essere una relazione, è necessario che ci sia una storia in cui
nuovo e vecchio si confrontino ed entrino in rapporto.
Apprendere significa, quindi, uscire da se stessi e dal proprio egocentrismo
per essere se stessi all'interno del gruppo a cui si appartiene; si tratta di un
processo che conduce alle acquisizioni di competenze o di conoscenze nuove
che permettono, integrandosi, di rispondere in modo sempre più adeguato alle
richieste ambientali.

Insegnare: Apprendere deriva dal latino ab-prehendo = prendere da,


afferrare, impadronirsi: è quel processo di "integrazione" del nuovo nel già
esistente che porta ad una trasformazione dinamica della personalità
sostenuta dalla tensione verso un obiettivo, cioè da una motivazione più o
meno conscia, ed è un processo che si estrinseca in una dimensione
relazionale: prendere da.
Per apprendere, per imparare è necessario quindi che ci sia qualcuno che
insegni, dove insegnare diventa un fatto complicato che va evidentemente
oltre la comunicazione di nozioni, ma che implica, infatti, anche un
atteggiamento che schematicamente possiamo riassumere in tre azioni:
ascoltare, domandare, osservare.
Ascoltare: essere pronti a percorrere i sentieri che l'altro sta elaborando e
percorrendo. Domandare: far emergere e dar corpo alle paure, alle conquiste e
alle scoperte dell'altro usando se stessi. Osservare: "leggere" i comportamenti,
decifrare il linguaggio del corpo e del movimento, i sentimenti che aleggiano
nella " scena" che sta avvenendo in classe.
Insegnare, in questo senso, significa entrare nel vivo della strutturazione
dell'identità emotiva, intellettiva e corporea del bambino. Insegnare significa
"segnare di sé" mettere dei propri segni nell'altro, dei propri “pezzi”, cioè quelli
della propria storia, della propria esperienza consapevole e inconsapevole, ma
comunque complessiva.
Secondo quest’ottica, insegnare significa avere il coraggio di ripercorrere le
tappe della propria crescita per avere un'idea di quello che è il seme, il segnale,
il pezzo che sto mettendo dentro all'altro, per avere un'idea dell'occhio e
dell'orecchio con il quale sto ascoltando, domandando e osservando il
bambino che ho davanti, le sue trasformazioni, le trasformazioni delle
dinamiche fra me e lui, le mie trasformazioni.
Nell'incontro fra chi impara e chi insegna in un’aula scolastica, ma anche in
famiglia, nel nido, nelle scuole materne, in una seduta riabilitativa, in un
workshop, in un GET, c’è un flusso di sentimenti ed emozioni che comprende
anche l'ambiguità, la sfiducia, l'aggressività, il bisogno di controllo, la paura, la
rabbia, l'amore e l'odio .
Il fare, l'insegnare e l'apprendere che passano attraverso questo rapporto
sono determinati e fortemente condizionati dalla coloritura di questi
sentimenti.
L'affrontare questa coloritura cercando di trincerarsi dietro il proprio ruolo,
oppure cercando di "domare" il bambino o di trincerarsi dietro una teoria
psicopedagogica dà risultati apparenti: il bambino obbedisce, ma cova una
profonda ostilità oppure sorge improvvisamente un altro problema, cosa che
inevitabilmente produrrà sentimenti di inadeguatezza e di incomprensione che
determineranno interruzioni.
Nel processo insegnare-apprendere si intrecciano i vissuti dell'insegnante e
degli alunni, cioè ciascuno vede nell'altro "qualcosa" e questo qualcosa è
storico, specifico, individuale e legato al rapporto, come si diceva prima, fra ciò
che è accaduto in quel momento, in quella situazione specifica, e il proprio
mondo rappresentazionale, cioè quella scenografia dettata dal modo in cui
ciascuno di noi ha vissuto, ha rappresentato e percepito sé e gli altri nel corso
della propria storia (e questo anche quando si insegna tecnica o algebra).
Se la classe non sta attenta, se un ragazzo fa lo stupido, se non capisce, se c'è
qualcuno che sa già e lo esibisce: queste sono tutte situazioni che mettono in
movimento sentimenti che mobilitano il nostro mondo interno (quando noi
capivamo o meno, quando noi eravamo lodati o sgridati, quando noi non ci
sentivamo amati o ascoltati).
Riprendiamo il discorso dei bambini che sembrano non avere gli strumenti
per conoscere o li hanno per così dire difettosi, o che imparano in modo non
comparabile con gli strumenti che hanno; o ancora che, pur avendo
apparentemente tutti gli strumenti necessari, non apprendono.
E per capire meglio focalizziamo la nostra attenzione sulla lettura.
La lettura. Da alcuni modi di dire, che si riferiscono ai libri e ai lettori, emerge
un'indubbia relazione tra il leggere e il mangiare. ‘Un lettore avido’; ‘un libro
indigesto’; ‘un libro pesante’; ‘divorare un libro’: sono modi di dire che indicano
il collegamento tra leggere e mangiare, come se l'energia mentale impiegata
nella lettura fosse in qualche modo un derivato o un sostituto di quella
impiegata per soddisfare gli impulsi di tipo orale.
È poi indubbia la connessione della lettura con un altro fatto orale: il parlare.
Ma parlare è espellere nel mondo, leggere invece è prendere dentro di sé i
pensieri e le parole di altri e questo può procurare angoscia, la cui maggiore o
minore intensità e coloritura non può che avere a che fare con la modalità con
cui sono avvenuti i primi tentativi di conoscenza.
Mettere dentro di sé e guardare dentro le cose sono situazioni ansiogene, ma
non si tratta solo di guardare, riconoscere e dare un nome: per poter leggere e
scrivere è necessario riconoscere e tollerare il fatto che ci sono sequenze
obbligate, che il tutto ha più rilevanza delle parti e che alcune parti già
conosciute debbono essere eliminate per mettere insieme una nuova
conoscenza.
Ciò vuol dire che le operazioni mentali effettuate nell'apprendimento della
lettura ripetono, per certi versi, i primi tentativi di conoscenza del bambino e
rielaborano in modo attuale i suoi contenuti mentali. Nel momento, cioè, in cui
queste operazioni diventano possibili (guardare, riconoscere, sequenziare,
ecc.), il bambino acquista la capacità di guardare dentro di sé e di controllare
cognitivamente contenuti intrapsichici fino ad allora confusi e quindi ansiogeni.
Apprendere a leggere e a scrivere è quindi un modo per fare ordine e non è
casuale che ciò avvenga all'inizio della latenza, in un momento della propria
storia evolutiva nel quale il bambino cerca di mettere una certa distanza tra i
contenuti emotivi e la loro rappresentazione simbolica, nel momento, cioè, in
cui avviene la famosa decantazione di cui si parlava prima.
Un bambino che non può mettere ordine nella sua realtà intrapsichica – e
cioè spesso il bambino candidato ad entrare nel workshop –, un bambino che
vede confermate nelle parole scritte la sua angoscia (e la sua colpa) di aver
guardato troppo, di aver separato cose che dovevano stare insieme, di averle
danneggiate, è un bambino che resta in uno stato di confusione della sua realtà
interna e che perciò non può rivolgersi a conoscere la realtà esterna.
La scuola si colloca in una fase in cui l'Io e gli altri, il mondo esterno e gli
oggetti, sono separati e si pongono fra di loro in una relazione dinamica. Ciò
rappresenta un passaggio importante nel cammino verso l'indipendenza e
segna lo spostamento da un apprendimento basato sulle identificazioni
imitative ad uno basato su quelle proiettive e introiettive.
La scuola rappresenta un passaggio molto importante nel cammino verso
l'indipendenza. Andare a scuola significa per il bambino uscire dall'ambiente
familiare conosciuto per accedere ad un altro nuovo e sconosciuto, ma creato
appositamente per lui. La scuola contribuisce alla differenziazione e fa sì che il
bambino prenda coscienza di se stesso.
Ed è proprio il prendere coscienza di sé uno dei primi apprendimenti
essenziali per poter accedere a quelli successivi. Perché esista apprendimento,
inoltre, bisogna che ci sia differenziazione e l'entrata nella scuola rappresenta
un passo importante in questa direzione fra il bambino e i coetanei, la casa e la
scuola, la famiglia e la classe, i genitori e la maestra. E l'insegnante, come prima
i genitori, mette a disposizione uno spazio in cui avviene il libero scambio dei
contatti fra il bambino e gli altri, uno spazio mentale esterno ed interno.
Anche il gruppo di cui parliamo è uno spazio interno ed esterno. Ogni
bambino porta nel gruppo se stesso, con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue doti e
le sue mancanze, il suo temperamento e il suo carattere, i suoi sentimenti e i
suoi conflitti, i suoi desideri e le sue paure. Nei rapporti con i compagni egli
trova inevitabilmente, come in una camera degli specchi, chi gli somiglia e chi
no, chi rappresenta un amico e chi un nemico, chi un uguale con cui affiatarsi e
chi un diverso con cui confrontarsi.
Ed a proposito di gruppo occorre fare attenzione perché non sempre la
dinamica gruppale corrisponde a quella che ci descrivono gli insegnanti: il
bambino ha modi diversi di agire e di muoversi in ambienti che hanno
caratteristiche e dinamiche diverse e questa è una risorsa da cogliere!
Non dimentichiamo infine che la latenza è l’età in cui i bambini giocano a chi è
il più bravo, in cui mettono in risalto le proprie capacità fisiche ma anche le
proprie idee, la popolarità e la capacità. In questa corsa ad ostacoli verso
l'affermazione di sé, non tutti corrono, c'è chi per paura corre nella direzione
opposta, chi si ferma al primo ostacolo, chi sposta il confronto sul piano
dell'aggressività.
Per questi bambini il gruppo può essere uno spazio dove si ripete sempre lo
stesso copione che li vede perdenti, ma può essere anche spazio di confronto
ad armi pari, con qualcuno uguale a loro, e non con giganti invincibili e
giudicanti.
Se il gruppo fornisce, oltre che uno spazio fisico, anche uno spazio mentale,
chi ci lavora, come si può ben intuire, si "compromette", mette in gioco se
stesso, è disponibile, quindi, a prendere dentro di sé e a pensare all'altro.
È quello che fa o dovrebbe fare l'insegnante, è quello che fa, con connotazioni
qualitative e quantitative diverse, la madre "che pensa a suo figlio": è
preoccupata, vigile e attenta alle su esigenze.
La funzione degli operatori dei workshop in età di latenza è quella di fare da
ponte fra la scuola e la famiglia, fra una situazione connotata dall'affettività e
una connotata dall'operatività.
Il workshop può conservare qualche somiglianza in più con la casa o con la
sezione di scuola materna, rispetto alla classe di scuola elementare, in modo
da rendere più leggero il passaggio a quell'operatività necessaria
all'apprendimento scolastico, oppure fornire un contenimento più tollerante a
chi non è ancora stato abituato a fare fatica o, ancora, essere un contenitore,
un “agente rassicuratore” dove si può provare meno paura, meno assillo del
risultato; può essere, infine, proprio “un'officina” dove qualcuno è disponibile
a cercare fino a trovare il giusto pezzo di ricambio.
Mi preme dire e sottolineare però che nemmeno nei workshop si fanno
miracoli!
 
 
 
Bibliografia:
 
L.Angelini e D.Bertani, “L’alleanza terapeutica in un servizio pubblico per
l’infanzia”, in Pollicino, n. 2, Prim-Estate 85, pp.6\14
L.Angelini e D.Bertani, Il bambino che è in noi, Unicopli, Milano 1995.
L.Angelini, Affabulazione e formazione, Unicopli, Milano 1998
E. Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1966
 

Intellettualizzazione e produzione in latenza:


problemi connessi, in classe e fuori
 

Leonardo Angelini
 
 
 
"Con l'avvento del periodo di latenza il bambino che ha conosciuto uno
sviluppo normale dimentica o, piuttosto, sublima la necessità di "disporre"
della gente per mezzo dell'aggressione diretta o di diventare in fretta papà e
mamma, ed apprende a conquistare il riconoscimento degli altri grazie al
lavoro produttivo" (Erikson).
 
 
 
1. La latenza
 
La latenza, ossia la fanciullezza, è l'età in cui solitamente nella società
occidentale inizia la scuola1 e, più in generale, è l'età in cui in tutte le culture lo
stato e la società cominciano a prendersi cura del bambino, senza più deleghe
totali, o quasi, a quell’importantissimo primo intermediario di cultura
rappresentato dalla madre come avviene dappertutto nella prima e nella
seconda infanzia.
Se noi ci chiediamo il perché di questo cambiamento che da sempre avviene in
ogni cultura, la risposta è nell’intuizione che gli adulti hanno sempre avuto di
trovarsi solo a quest’età di fronte ad un bambino capace d’industriarsi nello
studio e nell’applicazione operativa. Con ciò non si vuol dire che prima, cioè
prima della latenza, il bambino non sia capace di applicazione e d’industriosità,
ma che, se lo fa, lo fa in condizioni tali che le sue pulsioni libidiche ed aggressive
(il voler diventare in fretta papà e mamma e il poter disporre degli altri di cui
parla Erikson) sono troppo manifestamente presenti sul campo, finendo col
caratterizzare pesantemente tutta la scena della operatività.
Ciò che ora, in latenza, c’è in lui, e che prima non c'era, è una disposizione a
“dimenticare”, o piuttosto a “sublimare” tali pulsioni che, da manifeste, diventano
latenti, appunto, cioè nascoste. Ma perché ciò possa avvenire, cioè perché le
pulsioni libidiche ed aggressive non occupino più apertamente il campo, ma siano
trasformate e, almeno parzialmente, sublimate, è necessario che prima, e cioè
nella prima e seconda infanzia, ci sia stata una precedente azione volta a favorire
al massimo tali processi trasformativi che, come vedremo fra un attimo, sono poi
quei processi di inculturazione e socializzazione precoce di cui parlano etnologi e
sociologi. Tale azione, o meglio tale insieme molto complesso di tante
microazioni quotidiane che sono dirette dall’adulto al bambino perché esso, nella
prima e nella seconda infanzia, così come anche dopo, sia inculturato e
socializzato, va sotto il nome di educazione.
Come frutto dell’educazione ricevuta, il bambino, che all’inizio era un essere
asociale e totalmente schiavo del proprio mondo pulsionale, si abitua a
distribuire le proprie pulsioni libidiche ed aggressive in tre aree che, con Janine
Chasseguet Smirgel, chiameremo: 1) area della messa in atto; 2) area della
definizione del carattere; 3) area della sublimazione.
Tale spinta discriminatrice, in concreto, è la spinta esercitata, attraverso l’azione
educativa, dai genitori e dagli educatori della prima e della seconda infanzia,
spinta in base alla quale lentamente, sotto l’influenza specifica e personalissima
di questi concreti agenti educativi, si va formando dentro di noi la nostra
altrettanto specifica personalità.
Con ciò non si vuol dire che l’accesso alla sublimazione sia un fatto acquisito di
botto, quasi per illuminazione divina, alla fine della seconda infanzia. Anzi, occorre
ribadire che la spinta, frutto dell’educazione, a trasformare e distribuire le pulsioni
nelle tre aree avviene fin da subito nel bambino. Ma occorre aggiungere che fino
alla (momentanea) eclissi delle tematiche edipiche e preedipiche, cioè fino
all’ingresso nella latenza2, la terza area, quella della sublimazione, pur presente ed
associata all'attività di gioco - prima e, ancor di più, dopo che i processi di
simbolizzazione sono entrati dentro di lui - è tutta “spesa” sul piano della messa in
scena di un dramma egoistico, prima, ed egocentrico, dopo. Dramma che esclude
il fare produttivo, cioè quello commisurato ai riconoscimenti che attraverso questo
fare possono pervenire al soggetto sia dal giudizio degli altri, sia dalle proprie parti
interne giudicanti, poiché incentrato sul prevalere nel bambino dei processi primari
che, appunto, sono caratterizzati da quel fare gratuito, non produttivo e non
programmatorio, tipico del gioco.
Col tramonto, momentaneo, dell’Edipo invece, e con l’inizio della scoperta della
propria marginalità, e cioè dei propri limiti, è possibile passare da un
apprendimento tutto intriso di eros e aggressività ad un apprendimento
sublimato ed intellettualizzato. È questo il terreno particolare sul quale, se le cose
in precedenza sono andate sufficientemente bene3, si impianta il lavoro dei
docenti di scuola elementare: un terreno già arato e preparato da coloro che si
sono in precedenza preoccupati di imbrigliare le pulsioni libidiche ed aggressive,
di trasformarle e convogliarle negli alvei domestici della produzione e della
creazione, in modo tale da farle diventare non nemiche dell’operatività, ma anzi
preziosi strumenti a disposizione del bambino.
Due esempi ci permettono, forse, di comprendere meglio l’importanza che il
filtro educativo esercita sulle pulsioni, ed il rapporto che c’è fra le tre aree di cui
parlavamo prima:
a. la masturbazione: 1. finché non c’è stata un’azione educativa, la
masturbazione infantile viene esperita dal bambino liberamente (in effetti,
potremmo dire, sotto l’impeto dell’impulso libidico); quando invece l’azione
educativa ha luogo, la masturbazione può trasformarsi seguendo essenzialmente
due direttrici: 2. quella che va verso la formazione del carattere, con
un’oscillazione che va dall’inibizione all’esibizione (del proprio corpo, ad
esempio); 3. quella che va verso la sublimazione, che potrebbe diventare, ad
esempio, esibizione delle proprie capacità.
b. il sadismo infantile: 1. qui, nella prima area, avremo il mordere, il pizzicottare,
eccetera; 2. nella seconda area un’azione trasformativa potrebbe essere
rappresentata da forme caratteriali del pizzicottare, quali il punzecchiare con le
parole; 3. nella terza area, quella della sublimazione, la trasformazione diventa
ancora più radicale (e produttiva), e potrebbe essere il desiderio sublimato di
pizzicottare, penetrare il sapere, e cioè una delle componenti di quella pulsione
epistemofilica che è alla base di tutti gli apprendimenti, che è anzi il presupposto
sul quale si basa ogni autentica spinta all’apprendere.
 
2. Latenza, sublimazione, produzione
 
“Il bambino che ha conosciuto uno sviluppo normale”, diceva Erikson, “accede
più facilmente alla latenza”. Se, invece - come avete avuto modo di vedere con la
dott.ssa Bertani - il bambino non ha conosciuto uno sviluppo normale, il
prevalere in lui di spinte alla regressione ed alla fissazione all'interno di conflitti
edipici o preedipici comporterà delle difficoltà più o meno grandi perché esso
possa accedere, senza eccessivi problemi, nel mondo dell'industriosità.
Questo tipo di bambini cioè, pur trovandosi anagraficamente all'interno del
periodo di latenza, continuerà ad usare modalità arcaiche di rapporto col mondo,
non riuscirà, di fatto, ad accedere all'industriosità, o vi accederà con fatica ed
acquisirà quello che gli sarà consentito di acquisire, in base ai propri disturbi
(oltre che alle eventuali carenze dell’ambiente scolastico) non in maniera
autentica, ma forzata.
Quanto abbiamo fin qui detto ci fa intuire, quindi, non solo che fra lavoro
produttivo e sublimazione c'è un rapporto di parentela, ma che anche fra
produzione e creazione, soprattutto quando la produzione avviene sotto il segno
dell’autenticità, c’è lo stesso tipo di parentela.
Appare chiaro, così, che quello che potremo definire il laboratorio del comune
mortale (e cioè l’insieme di quei presupposti strutturali che ci permettono di
produrre e creare) e quello dell'artista o dello scienziato sono costruiti con gli
stessi criteri e, potenzialmente, siamo tutti attrezzati a produrre, a programmare,
a creare. Semmai le differenze fra noi e loro, ma anche (potenzialmente) fra il
bambino, qualsiasi bambino e loro non sono di natura qualitativa, ma
quantitativa.
In età evolutiva poi, come ben sanno coloro che hanno osato esplorare i cento
linguaggi del bambino4, le potenzialità sono distribuite fra la popolazione in
crescita in modo tale che un educatore attento sarà in grado di cogliere delle
vene aurifere dappertutto, anche nel terreno ritenuto più povero.
Appare chiaro anche che, da quanto abbiamo detto finora, fino alla latenza
questo laboratorio non è ancora perfettamente pronto a che il bambino produca
e crei: perché questo possa avvenire, come dice Erikson, da una parte, sul terreno
dell’aggressività, ci deve essere stata la rinuncia “a disporre degli altri per mezzo
dell’aggressione diretta”, mentre dall’altra, su quello della libido, una corrispettiva
rinuncia “a diventare in fretta mamma o papà”.
Dove quell’“in fretta” va letto come lento e penoso apprendimento, da parte
del bambino, del fatto che il passaggio dall'endogamia alla esogamia è un
processo lento e doloroso e non immediato e velleitario, così come egli aveva
azzardato che fosse durante la fase edipica.
Vi è qui, da una parte, un chiaro riferimento alla necessità che il bambino che
produce debba aver superato l'egocentrismo tipico dell’età prescolare e la sua
scarsa disposizione a decentrarsi, a considerare gli altri come soggetti autonomi e
se stessi in termini marginali (cosa che, a dire il vero, sarà pienamente
conquistata solo in adolescenza). Dall’altra, un accenno altrettanto importante al
fatto che il bambino realmente produttivo deve essere in grado di uscire, in certo
qual senso, da quell’universo transferale, edipico, che fino a qualche tempo
prima lo aveva tirannicamente occupato; di uscirvi libero, poi, di rientrarvi
rapidamente ogni volta che ne sente il bisogno: è questa la novità cui il bambino,
e con lui i genitori, i docenti, da ora in poi si devono abituare a convivere.
Va ricordato, cioè, che l'atto del dimenticare e del sublimare non implica affatto
l'uscita definitiva dall'universo transferale (e cioè dal mondo degli affetti e delle
forti passioni familiari, dei miti e delle usanze fin qui acquisite), bensì una sua
ridefinizione, in termini allargati, entro tutto l'universo nuovo che il bambino
incontra a scuola. Cosicché in scuola, sia nel rapporto col gruppo degli adulti che
con quello dei pari, il bambino potrà trasferire i propri introietti avendo modo di
arricchire e di complicare la propria camera degli specchi, di modificarla in base
alle influenze più importanti che da questo nuovo luogo deriveranno.
Dai nuovi adulti, quindi, così come dai nuovi pari con cui entra in contatto, il
bambino impara non solo le materie, ma anche a ridefinire le tematiche legate
all'appartenenza, nella doppia direzione del rapporto con le imago genitoriali, da
una parte, e con quelle fraterne, dall’altra (fratelli che, come sappiamo, anche se
sotto forma di ombre, sono presenti fin da subito anche nei figli unici).
Questa capacità di oscillazione fra universo transferale e universo operativo,
produttivo, è un segnale inequivocabile e tipico dell’età, qualora le cose siano
andate bene in precedenza. Così come, per converso, possono essere visti come
segnali di difficoltà d’ingresso nell’area operativa sia il persistere da parte del
bambino in una lettura del nuovo (e cioè della scuola) sempre attraverso gli occhi
del vecchio, cioè attraverso le lenti deformanti del proprio mito familiare; sia
l’attaccamento sostitutivo al nuovo (e cioè alla scuola), volto a compensare quello
che in casa in precedenza non c’è stato, o non c’è stato a sufficienza.
È il caso di molti di quei bambini provenienti da famiglie deprivate, che poi
diventeranno ragazzi a rischio, i quali, finché sono piccoli, fanno di tutto per
ridurre la scuola alla famiglia, chiedendo di essere esautorati dalla produzione e
implorando i docenti di trattarli (solo) come figli e poi, in preadolescenza, qualora
i docenti di scuola elementare abbiano consentito loro di sentirsi esautorati, ne
combinano di cotte e di crude.
Resta da notare, in ogni caso, come il bambino in questo periodo non sia ancora
pienamente in grado di autogiudicarsi autonomamente e, anzi, abbia ancora
bisogno di entità altre, cioè esterne a sé, che riconoscano i meriti che va
acquisendo sul piano dell'apprendimento, che cioè facciano da cassa di risonanza
ad un Ideale dell’Io non ancora pienamente dispiegato internamente (“ed
apprende a conquistare il riconoscimento degli altri grazie al lavoro produttivo”,
dice Erikson).
 
 
3. La posizione dei docenti: il controtransfert educativo in latenza
È decisivo per noi notare ora, cioè in latenza, come in classe il transfert, cioè il
flusso di legami affettivi che dai discenti va verso i docenti, non sia più
dipendente da azioni dirette agite o patite dai bambini, ma sia legato al "fare",
cioè al lavoro, alla produzione e, quindi, alla programmazione: questo accesso più
pieno all'area dell'operatività, reso possibile dalla precedente attività gratuita di
gioco, implica un “condurre”, un “commisurare per sé” che permette una nuova
organizzazione interna del tempo. Accesso ad una nuova temporalità che
potrebbe essere definita come il poter permanere, da parte del bambino, più o
meno stabilmente, in un tempo presente che, però, è teso verso il futuro.
In base a questa nuova posizione, che come è possibile vedere è strettamente
connessa con l’operatività (si potrebbe forse dire che il tempo dell’operatività,
ridotto all’osso, non sia altro che questo), la famiglia lentamente acquisisce, agli
occhi del bambino, una posizione passata, comincia cioè lentamente a
stemperarsi in un tempo passato, in un tempo mitico - importantissimo5 peraltro,
e non solo per il periodo di latenza, ma per tutta la vita -; un tempo che ora, in
latenza, il bambino può finalmente cominciare a guardare6 non più come una
schiavitù, ma come una tradizione alla quale ci si può conformare o dalla quale ci
si può, lentamente, emancipare.
In questa nuova palestra che è la classe il bambino, lo ripeto, non allena il
proprio spirito solo sul piano dei contenuti scolastici, ma anche sul piano del
riconoscimento delle emozioni e dei sentimenti7 in partenza ed in arrivo, che
provengono sia dal versante degli adulti in essa presenti, sia dai pari. Ma in
questo vero e proprio ginnasio delle emozioni e dei sentimenti anche gli adulti,
cioè i docenti, non possono passare un’intera vita fuori dal potente flusso di
passioni che qui si vanno giornalmente a concentrare. Anzi, consapevoli o meno
che essi siano di trovarsi in questo crogiolo di sentimenti, capita loro di essere
sempre coinvolti, e perciò presi da forti ed implicanti passioni che noi
sinteticamente chiameremo controtransfert educativo (Angelini), proprio perché
si tratta di un transfert speculare a quello dei discenti (il termine contro nel nostro
caso va visto come corrispettivo ad una posizione frontale, speculare, appunto).
E, come il transfert educativo del discente è tutto mediato dal fare scolastico,
anche il controtransfert del docente si sposta sul fare, nel senso che giunge al
gruppo dei discenti ed a ciascuno di essi attraverso il fare del docente, e non
attraverso l’“azione diretta” di quest'ultimo sulla classe.
La classe, cioè, e, nel caso della codocenza, gli altri docenti coinvolti con me
docente sulla scena scolastica, diventano gli specchi in cui, a seconda di ciò che
succede, vengono riflessi (cioè visti una seconda volta) i fantasmi familiari del mio
passato, i personaggi della mia personalissima costellazione edipica. Ed
esattamente come succede per il discente, anche io docente potrò, o meno,
prendere le distanze dal passato, non esserne schiavo, ma trasfigurarlo e
trasfonderlo nel presente, a seconda di quelli che per me sono i punti critici della
situazione presente e di come ho risolto dentro di me quei conflitti nel momento
in cui io docente ho attraversato come bambino, come figlio e come discente,
quei luoghi che ora mi vedono responsabile della formazione altrui.
Cosicché, come il bambino può attardarsi in modalità arcaiche, pre-operative di
rapporto, anche il docente può, se non riesce a superare dialetticamente la forza
gravitazionale che viene dalla propria costellazione edipica, continuare, in forme
più o meno camuffate, a rigettare sulla classe, insieme al fare o, peggio, invece
del fare, le proprie coazioni infantili.
L'alternativa perciò, sia per il discente che per il docente, è la sublimazione o la
coazione a ripetere: nel primo caso lo scambio è pienamente ricondotto sul fare
educativo; nel secondo il meta-discorso transferale che impregna tutto è così
immanente, così pesante che ciò che passa, in verità, è un insieme di “azioni
dirette” seduttive o aggressive, che sono tanto più pericolose per tutta la classe,
quanto più incentrate sugli adulti presenti in essa (Fürstenau).
Se le cose vanno sufficientemente bene, invece, quella del docente di scuola
elementare appare come un’importantissima funzione di ponte:
Ponte fra l’affettività e l’operatività in un’epoca di grandi cambiamenti nel
mondo interno del bambino; ponte fra il mondo della famiglia e quello dello
studio (e domani, su questo stampo, del lavoro) in un momento felice per molti
bambini, in cui l’industriosità, frutto delle nuove tendenze alla sublimazione, può
espandersi; ponte fra il gruppo primario ed i gruppi secondari, anticamera di
future, più ardite migrazioni.
Funzione ponte che non impedisce al docente accorto di mantenersi ben vicino
al mondo degli affetti del bambino (ed al proprio: c’è sempre un bambino dentro
di noi, ed il docente di scuola elementare lo sa bene, ha confidenza col proprio
bambino interno, e con esso si pone spesso in gioco con il bambino che ha di
fronte a se stesso).
Il docente di scuola elementare sa anche, però, che le pietre più importanti che
compongono questo ponte sono quelle tipiche del fare operativo che si basa
essenzialmente su un’espressione delle emozioni e dei sentimenti mediata dal
fare operativo stesso, e non direttamente giocata sulla ricattatoria mozione degli
affetti.
Infine, se le cose vanno sufficientemente bene, il bambino potrà accedere al
tempo operativo, pur mantenendo un rapporto con le proprie tradizioni familiari
e il docente, a sua volta, potrà oscillare fra un presente che, pur essendo figlio
della propria doppia tradizione d’individuo e d’insegnante, va verso la classe
attuale, verso ciò che essa implicitamente chiede per il proprio futuro, ed un
passato mitico, fatto di tradizioni particolari, familiari ed anche pedagogico-
didattiche, professionali che, però, si riattualizzano e trasfigurano nella palestra
del presente, coniugandosi con le nuove istanze di cui sono portatori i discenti.
L’alternativa è soccombere inseguendo le ombre del passato e restandone
schiavi.
 
 
 
 
 
 
 
Bibliografia:
 
Angelini L., Affabulazione e formazione, Docenti e discenti come produttori e
fruitori di testi, Unicopli, Milano, 1998
Chasseguet-Smirgel J., “Super-Io e Ideale dell'Io”, in: Mancia M. (a cura di),
Super-Io e Ideale dell'Io, Il Formichiere, Milano 1979
Erikson E., Infanzia e società, Armando, Roma, 1966
Fürstenau P., “Contributo alla psicoanalisi della scuola in quanto istituzione”, in:
AA.VV., Educazione o condizionamento?, Savelli, Roma 1975
Gardner H., Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli,
Milano, 1989
La codocenza ed il bambino in età di latenza
 
 
Leonardo Angelini
 
 
1. La codocenza : qualcosa di nuovo... anzi di antico.
 
Se il docente di scuola elementare si pone ad osservare il fenomeno della
codocenza a partire dal proprio abituale (e circoscritto) punto di osservazione -
quello che viene dalla propria pratica educativa - la codocenza gli apparirà come
una novità assoluta. Ma se lo stesso docente decide di ampliare il proprio sguardo e
se, soprattutto, osa andare al di là dell’esperienza che gli è più prossima e familiare,
quella del modulo, ciò che vedrà non è un campo vergine, ma un terreno già da
altri ampiamente arato. Terreno la cui analisi alla fine potrà non solo permettergli
d’inquadrare il problema della codocenza in un ambito più ampio ed all’interno di
varie ed importanti tradizioni istituzionali, ma anche fargli capire meglio molte cose
che sono nel modulo stesso, o che ad esso potrebbero essere ricondotte.
Nell’incamminarci per questa strada consideriamo innanzitutto un fatto
incontrovertibile, almeno nel nostro territorio: oggi nel distretto scolastico di Reggio
Emilia il 96% dei bambini che hanno un’età compresa fra i tre e i cinque anni ed il
30% di quelli che sono fra i tre mesi ed i tre anni hanno già conosciuto la
codocenza. I metodi didattici adottati sia nelle scuole per l’infanzia, sia in asilo nido,
infatti, prevedono una distribuzione delle ore degli adulti, sezione per sezione, che
garantisce, almeno in alcuni momenti della giornata (ad esempio, il cosiddetto
momento delle attività in scuola per l’infanzia, e sicuramente in quelli del pranzo e
dell’addormentamento in asilo nido) che i bambini siano seguiti da una coppia o da
una tripletta di docenti.
Inoltre, se noi consideriamo un po’ più attentamente ciò che avviene sia
all’interno della coppia genitoriale della famiglia nucleare, sia all’interno di quella
vera e propria comunità di adulti che è possibile trovare nei vari modelli di famiglia
unita, vediamo che, anche nei gruppi primari, una cura del bambino da parte di
una coppia o di un gruppo di adulti c’è sempre stata.
E se, alla fine, osserviamo ciò che accade, successivamente all’età di latenza, nella
stessa scuola, così come nei luoghi dell’apprendistato o in quelli del tirocinio, non
possiamo non convenire sul fatto che spesso anche questi luoghi sono, o possono
essere, luoghi in cui si definisce una codocenza, in cui cioè un certo numero di
adulti, superiore in ogni caso all’uno, si prende cura del discente, dell’apprendista,
del tirocinante.
Una discussione sulla codocenza in età di latenza non può, quindi, essere
circoscritta solo a ciò che sta avvenendo nel qui ed ora dell’esperienza dei docenti
delle scuole elementari, ma può e deve essere un’occasione più ampia, che
abbracci anche altre esperienze, altri luoghi della formazione, sia per ri-vedere
criticamente questi altri luoghi, queste altre esperienze, sia per ri-considerare, alla
luce di tale sguardo critico più ricco e più esteso, il significato della vostra esperienza
attuale di codocenza.
Perciò, con questo spirito, volgiamo ora velocemente il nostro sguardo ai tre
luoghi cui avevamo prima accennato.
 
 
2. La codocenza nella fascia prescolare
 
Dicevamo prima che nella fascia prescolare, sul piano della docenza, ci troviamo
di fronte o ad una tripletta di adulti nei nidi, o ad una coppia nelle scuole per
l’infanzia, tripletta e coppia che, fra l’altro, spesso si muovono su di un piano di
collaborazione stretta con le famiglie (cioè in una situazione di cogestione educativa
con esse).
Ebbene, se analizziamo più da vicino quel che avviene sul piano pedagogico-
didattico nei nidi e nelle materne, ci rendiamo subito conto del fatto che oggi nel
nostro territorio, da una parte, ci troviamo di fronte ad una pluralità di modelli
educativi8 dall’altra, in ogni caso, e qualsiasi sia il modello educativo, siamo sempre
di fronte ad un ragionamento, ad una riflessione sulle diverse e discriminate
funzioni che la co-docenza assume in ciascuno dei modelli educativi usati. Avremo
così:
- nel modello istituzionale una codocenza che si declina secondo i codici forti della
gerarchia, in base ai quali i più anziani fra gli adulti lavorano meno e fanno le cose
più leggere;
- il modello gestionale che si gioca intorno ai modelli asettici della gestione sociale,
in base ai quali il rapporto adulto-bambino si pone prevalentemente come
rapporto da gruppo a gruppo, e ciò perché nel modello gestionale ogni mozione
individuale degli affetti che provenga dal versante adulto (così come del resto ogni
segnale di attaccamento particolare da parte del bambino) sono visti con sospetto,
se non banditi;
- nel modello curricolare una codocenza che si declina, invece, secondo quello che
deriva dalla suddivisione del programma, e cioè del curricolo, in tante porzioni (e
cioè, attenzione!, in quelle che poi in scuola elementare diventeranno le materie)
per cui io faccio questo e tu quest’altro, secondo criteri standard che pongono in
primo piano gli apprendimenti, specialmente quelli scomponibili e, quindi,
curricolarizzabili;
- ed infine i modelli relazionali (che possono essere di natura etologica o
psicoanalitica) che si declinano secondo un più preciso ed individualizzato rapporto
con i singoli e con i sottogruppi. Si affrontano compiti che sorgono da esigenze
educative che non pongono più in primo piano gli apprendimenti, ma qualcosa di
più nucleare, qualcosa che implichi un coinvolgimento più pieno sia dell’adulto sia
del bambino nel rapporto.
Qualcosa che, conseguentemente, non può non basarsi su esigenze di stabilità, di
individuazione, di calore, di vicinanza psicologica, di continuità nel rapporto adulto-
bambino. Qualcosa, infine, che si gioca su di un palcoscenico ben più ampio e
coinvolgente, per entrambi, di quello eretto allorché erano in primo piano solo gli
apprendimenti.
 
 
3. Il policentrismo dei modelli educativi familiari
Ma anche nel modello educativo familiare o, meglio, in quella pluralità di modelli
educativi che corrispondono agli innumerevoli modelli di famiglia che si dispiegano
poi concretamente nel loro divenire storico, qualcosa di apparentabile alla
codocenza c’è sempre stato e continua ad esserci. Una rapida indagine su come
una coppia o una pluralità di adulti si prende cura, a casa, del bambino può esserci
di aiuto per riflettere sul modello di codocenza che da qualche anno si va
sperimentando in scuola elementare, e cioè sul modulo.
Partiamo dall’analisi di ciò che avviene in famiglia, in qualsiasi tipo di famiglia. Il
gruppo primario, come ci insegnano i sociologi, qualsiasi sia la forma che esso
assume nelle varie società e nelle varie classi sociali, è un luogo di scambio sia per le
comunicazioni orizzontali che si determinano all’interno della coppia genitoriale o, il
che è lo stesso, all’interno della comunità degli adulti che lo compongono, sia per
quelle comunicazioni che verticalmente vanno dai genitori o dalla comunità degli
adulti verso i figli o i rappresentanti dell’ultima generazione, e viceversa.
Funzioni materne e funzioni paterne9, in questo modo, si declinano in qualsiasi
tipo di famiglia, sia che gli adulti siano i genitori naturali dei piccoli, sia che non lo
siano, secondo una dinamica che varia da coppia a coppia, da comunità a
comunità, e che perdura lungo tutto il periodo di crescita psicologica della prole;
funzioni che, però, sono sempre distribuite in maniera policentrica fra gli adulti
presenti in casa. Funzioni genitoriali alle quali corrispondono funzioni filiali
altrettanto universali: si tratta insomma di ciò che in termini psicoanalitici si dice,
rispettivamente, controedipo, per indicare l’insieme dei sentimenti che dagli adulti
vanno verso i piccoli, ed edipo, per indicare quelli che, per converso, vanno dai
piccoli verso gli adulti (immagino che qualcosa di simile sia quello che, secondo i
sistemici, avviene in ciò che loro chiamano sistema familiare).
Possiamo rappresentare riassuntivamente questo duplice flusso di emozioni e di
sentimenti in questo modo:
 

(* o chi nella comunità degli adulti svolge funzioni materne o paterne)

Veniamo ora alla nostra neonata comunità degli adulti in scuola elementare e
vediamola in rapporto alla comunità dei bambini loro affidati. Ebbene, se
abbandoniamo contemporaneamente sia la troppo squilibrante ed altisonante
voce di maestro, sia quella sminuente di bambino con cui solitamente è indicato
l’altro polo presente sulla scena della scuola elementare10, e se sostituiamo a
questi termini quelli di docente e di discente, più legati alle funzioni svolte
effettivamente in scuola, vediamo che la scena scolastica immediatamente ci
appare come meno squilibrata. Infatti le parole docente e discente hanno entrambe
una comune ascendenza etimologica che, a mio avviso, può essere vista anche
come una comune ascendenza di senso: entrambe derivano infatti dalla radice
indoeuropea dek, che significa ricevere mentalmente11.
In questo modo, e cioè in base a queste assonanze di significato, la scuola non ci
appare più come un luogo di grandi squilibri, ma come un luogo di scambio fra
docenti e discenti, e cioè come un gruppo secondario in cui nel rapporto fra i vari
partner c’è sempre un dare ed un avere, e non un luogo in cui da una parte c’è chi
solo dà e dall’altra chi, più o meno voracemente, prende.
Anche a scuola vi è un flusso continuo di scambi che, nel caso in cui vi sia una
codocenza, può essere rappresentato in questi termini:

Così come a casa l’insieme di queste emozioni e sentimenti fra le due generazioni
dei grandi e dei piccoli viene chiamato con il duplice nome di edipo e controedipo,
così anche a scuola, se si vuole alludere a ciò che avviene sul piano relazionale, si
potrà parlare di transfert e controtransfert educativo, per alludere rispettivamente
a ciò che passa nella direzione bambino adulto, e per converso a quella che
dall’adulto va verso il bambino. E, come nella famiglia monoparentale il genitore
rimasto solo nella cura del figlio spesso si trova nella posizione impossibile di dover
svolgere contemporaneamente funzioni materne e paterne (con risultati spesso
infelici), allo stesso modo, laddove non c’è codocenza, questo complesso tipo di
gioco e di oscillazione fra polo materno e paterno non può essere sempre giocato
al meglio.
 
 
4. La codocenza nella scuola media inferiore e superiore, nell’apprendistato e nel
tirocinio
 
Nella scuola media inferiore e superiore la codocenza è stata sempre presente, è
stata da sempre giocata sul piano della curricolarizzazione degli studi e, per quanto
riguarda la media inferiore, ha visto negli ultimi vent’anni accentuarsi, direi,
sbriciolarsi l’insegnamento nei tanti spezzoni del curricolo.
Ritengo che la facilità con cui nella scuola elementare si è andato incistando in
quest’ultimo periodo lo schema curricolare dell’insegnamento sia dovuta anche a
quest’esperienza così limitrofa ai maestri, come a tutti noi. Limitrofa, cioè facile da
copiare poiché tutti noi abbiamo fatto esperienza di tale approccio allorché siamo
stati discenti di scuola media inferiore e superiore.
Ma anche all’interno di quella ricca messe di esperienza e saggezza che viene
dall’apprendistato e dal tirocinio è possibile, a mio avviso, per noi imparare e fare
tesoro dell’esperienza altrui: non dimentichiamo che, in fondo, entrambi questi
luoghi sono luoghi d’insegnamento e di apprendimento.
Partiamo dal rapporto che si definisce, all’interno della bottega del maestro, fra il
maestro stesso e gli apprendisti. È questo, come noi tutti sappiamo, spesso il luogo
di declinazione di un modello di relazioni fra più anziani e più giovani basato sulla
gerarchia. È questo il luogo in cui, quasi sempre, una più o meno rigida
cerimonializzazione delle tappe della crescita sancisce l’emergere di un’aria asettica.
Le cerimonie d’ingresso, la suddivisione delle mansioni, i livelli di autonomia,
l’attestazione dell’avvenuta crescita, la fine dell’esperienza e la separazione: tutti
questi momenti sono scanditi spesso secondo un rigido cerimoniale che ha nella
gerarchia il suo perno.
Anche questo luogo, a ben vedere però, è abitato da una comunità di adulti che,
al riparo, direi, delle oggettivate regole gerarchiche, esprime sempre funzioni
genitoriali nei confronti degli apprendisti mettendo in piedi con essi rapporti molto
forti che poi devono essere sottoposti, esattamente come quelli genitoriali in
adolescenza12, a tutte le prove cui le grandi passioni vanno incontro; non ultima, la
prova della separazione e del confronto, da parte del vecchio maestro, con l’ex-
apprendista, che si avvia a diventare esso stesso maestro e che, esattamente come
succede a casa fra genitore e figlio grande ed autonomo, col suo diventare grande
sottolinea impietosamente il passare del tempo e l’esito del confronto fra
generazioni.
Nel rapporto del tirocinante con il tutor - un po’ al contrario, mi pare, di ciò che
avviene nell’apprendistato - si definisce un luogo più intimo in cui le funzioni
materne e paterne sono esercitate contemporaneamente dalla stessa persona,
come in una famiglia monoparentale (e come avveniva nella vecchia scuola
elementare), con conseguenti difficoltà che possono intervenire sia
nell’espletamento delle funzioni materne (contenimento, condivisione,
individuazione), sia di quelle paterne (istituzione, separazione), proprio per il
significato antitetico che in esse spesso è implicito: pensiamo, per esempio, al
rapporto fra esigenze di contenimento ed esigenze di autonomizzazione.
 
 
5. Il modulo: un modello recente di codocenza in età di latenza
 
Il cosiddetto modulo è solo un modello recente di codocenza che si aggiunge ad
una ricca tradizione e che, sotto certi punti di vista, si impianta in una parte di essa,
consapevole o meno di questa sua propria collocazione.
Sono note le ragioni, diciamo così, di politica scolastica che hanno dato origine al
modulo: il calo delle nascite, i conseguenti problemi di eccedenza dell’offerta di
docenza, rispetto al calo della domanda. Certo ora il modulo ormai è in mezzo a
noi, vede in voi docenti gli attori principali, insieme ai vostri discenti, e non è
pensabile, e neanche auspicabile, per l’insieme di ragioni che andiamo
argomentando, un ritorno indietro.
Per comprendere, però, i motivi più profondi che hanno dato origine al modulo
occorre che, a fianco a quelle che abbiamo definito ragioni di politica scolastica (ed
all’esempio proveniente dalla scuola media inferiore e superiore, cui si accennava
prima), diamo un’occhiata a quelle che, a onor del vero, fin dall’inizio sono state le
ragioni di fondo che hanno provocato la sua nascita e che potremmo definire
ragioni di natura pedagogico/didattica: è in esse, infatti, l’anima che poi è stata
trasfusa nel modulo.
Nel 1984 avvenne a Reggio Emilia una discussione, le cui tracce sono riscontrabili
in un ormai vecchio numero di Pollicino13, all’interno della quale molti degli
intervenuti (fra i quali il sottoscritto) affermavano, dopo aver letto attentamente
quelli che allora erano solo gli Orientamenti emersi nella commissione ministeriale
che stava lavorando alla riforma della scuola elementare, che le ragioni del modulo,
in una parola, erano in una visione curricolare dell’insegnamento.
Facevamo notare, in quella sede, come la parcellizzazione della funzione docente
in tanti capitolati (lingua, logico-matematica, attività complementari) che
corrispondevano alle singole voci del curricolo, parlasse chiaro in proposito.
Sottolineavamo, inoltre, come un discorso simile sulla scuola materna era stato già
fatto qualche anno prima, nella nostra regione, sia da Frabboni (vedi il suo concetto
di “Bambino Mec 2000”, in base al quale si predicava l’ingresso in Europa di un
bambino competente, e non di un “bambino tartaruga”, incapace di stare al passo
con i tempi14), sia da Malaguzzi (vedi l’enfasi posta in quegli anni dalle comunali di
Reggio Emilia sul concetto di bambino cognitivo).
Ciò che si voleva eliminare dalla scena scolastica, sia nell’ipotesi della
commissione ministeriale autrice degli Orientamenti, sia, ancor prima, da parte dei
pedagogisti emiliani (e non solo da parte loro) era l’idea retrò del fanciullino, cioè
quella di una visione romantica del bambino, per sostituirla con una immagine
dell’infanzia di tipo scientifico, cioè curricolarizzabile, scandibile in tanti percorsi che
avrebbero dovuto condurre il bambino di oggi ad entrare nella comunità degli
adulti di domani garantito e sul piano della propria spendibilità nel mercato
(europeo) e sul piano interno come un apparato multimediale capace di leggere i
linguaggi della complessità.
Quello che oggi mi verrebbe da aggiungere a quanto già detto in proposito in
quella ormai lontana sede è che l’immagine scientifica dell’infanzia, lungi dall’essere
al di fuori o al di sopra dell’ideologia, è solo una delle tante immagini dell’infanzia
che ogni comunità degli adulti si dà per potersi avvicinare all’infanzia, per poterla
formare, per poterla interpretare, per vincere l’angoscia che dal bambino deriva, in
quanto entità intrinsecamente non riconducibile al mondo adulto15. Le alternative,
perciò, sono due: o si tende, da parte nostra, ad ipostatizzare questo modello di
infanzia, questa immagine di infanzia, a sposarla acriticamente (in quanto
scientifica, ad esempio) e a subirla; oppure si tenta di porla in discussione, cercando
di definire un approccio pedagogico-didattico diverso, che accolga la codocenza
come uno strumento funzionale ad altri fini formativi.
Ma se abbandoniamo il campo delle immagini scientifiche tipo “bambino Mec
2000” o “bambino cognitivo”, a quale modello ci ispiriamo, a quali fini e a quali
funzioni risponderà un eventuale nuovo modello, critico nei confronti del modello
curricolare?
Prima di rispondere, ritorniamo alle immagini del “bambino Mec 2000” e del
“bambino cognitivo”. Abbiamo visto a che cosa esse siano funzionali: abbiamo visto
che, al di là delle belle parole, vi è dietro di esse una visione del soggetto nella
società come forza-lavoro fungibile, cioè acritica, capace di letture multimediali, sì,
ma che non mette mai in discussione la propria funzione, subordinata ad un
sistema che lo accoglie solo in quanto scomparto di un qualche cosa di più grande e
di più importante che c’è e che non si discute. Si tratta, cioè, di una immagine
sistemica - nel senso conservatore che tale termine ha assunto nelle scienze
sociali16 - della società e del soggetto, così come della criticità e del conflitto, in cui
al soggetto sfugge la dimensione globale del tutto, anche se magari tale soggetto si
dimostra molto competente e molto capace di sofisticate performance.
Ebbene, ammesso che a noi una simile immagine dell’infanzia non vada bene,
che i nostri fini pedagogico-didattici non siano coincidenti con questa immagine,
direi, efficientistica, oggettivante e alienante del soggetto, cosa possiamo opporre a
questa visione del bambino di oggi e dell’adulto di domani?
Non certo l’immagine del fanciullino che domani diventerà, a seconda del censo o
del merito, parte della classe dirigente o lavoratore subordinato: non certo, cioè, la
vecchia immagine della scuola italiana dell’immediato dopoguerra. Ma, forse, è
l’immagine di un bambino che s’impone - direi - alla scuola come soggetto da
formare su obiettivi che vanno ben al di là del curricolo, ma che comprendono tutti
gli aspetti dell’educazione, prima che dell’istruzione, proprio perché egli è destinato
a crescere in una famiglia nucleare in crisi, in cui all’eclisse delle funzioni paterne17
si aggiunge, almeno parzialmente, quella delle limitate funzioni materne, destinate
ad essere cogestite dalle educatrici dei nidi e delle materne, in una cogestione
educativa che ormai comincia in tenerissima età18.
Laddove ex-ducere sta per trasformare un essere che all’inizio è antisociale o
asociale in un soggetto critico, capace di porsi dialetticamente nei confronti della
complessità e di non lasciarsi incapsulare in una sommatoria di ruoli, né di definirsi
in base al possesso, o meno, dei beni di consumo. Compito immane, come potete
comprendere, compito di fronte al quale, però, il docente non può fare la politica
dello struzzo, dicendo “non mi spetta”, come da qualche parte pure si sostiene.
Compito che richiede, infine, competenze di tipo diverso da quelle richieste a chi
deve portare a spasso il bambino attraverso il curricolo, e cioè competenze di tipo
formativo che non si riducono alla cura delle parti più orbitali e periferiche del
bambino, ma che abbracciano e comprendono prioritariamente la parte più
nucleare, quella in cui avvengono i processi d’identificazione e di rispecchiamento
reciproco dei due soggetti in campo, il docente ed il discente19.
 
 
6. Il modulo: elementi per la definizione di un modello alternativo di codocenza
 
Dicevamo prima che il modello attualmente prevalente anche nella scuola
elementare nasce nello stampo del curricolo e quindi, come accade in quelle
materne che hanno un’impronta curricolare, determina una doppia riduzione, cioè
mette al bando qualsiasi mozione degli affetti, riducendo il bambino ad alunno ed il
docente ad istruttore.
Il nostro modello alternativo, quindi, non può non partire da un’altrettanto doppia
espansione: quella dell’alunno a discente, a soggetto critico in formazione, ricco di
competenze possibili, ma anche - e prima ancora - di un’identità personale, di un
insieme di passioni e predisposizioni che non possono essere ricondotte al
curricolo, ma che vanno coltivate in una serra calda ed accogliente, che somigli a
quella originaria e che, come quella originaria, sia capace di trasformare queste
passioni in un insieme di attività e, prima ancora, di curiosità sublimate.
Se a casa tutto si gioca nella dialettica appassionata e forte di edipo e controedipo,
a scuola, come dicevamo prima, tutto deve poter essere giocato sul piano di una
dialettica altrettanto forte ed appassionata, quella che pone in rapporto il bambino
con la comunità degli adulti nel gioco del transfert e controtransfert educativo, con
la differenza - non da poco - che a casa l’affettività è direttamente espressa, non è
mediata, mentre a scuola sì, e lo è nel fare pedagogico.
Se si parte da queste premesse, il modello di riferimento non può più essere
quello curricolare, bensì quello relazionale, che abbiamo già incontrato nei nidi e
nelle materne (vedete come qui si imponga già, ad esempio, di volta in volta, un
altro modello di passaggio fra luoghi formativi precedenti e luoghi successivi).
Cosa comporta questo sul piano pedagogico-didattico, e più in particolare: - sul
piano della suddivisione dei compiti fra adulti; - sul piano dell’autoconsapevolezza
della propria vocazione di formatori; - sul piano del riconoscimento dei fantasmi
formativi dai quali siamo abitati; - sul piano del riconoscimento degli elementi
controtransferali che ci legano (o meno) ai bambini, in maniera che è sempre - in
ogni caso - discriminata; - sul piano della nostra e della loro motivazione al fare
operativo; - sul piano dell’esercizio delle funzioni paterne e materne nell’atmosfera
scolastica; - sul piano della nostra mobilizzazione a cercare dentro di noi i nostri
contenuti e a sapergliela raccontare20; - sul piano infine della stima e
dell’autostima? -
 

Il bambino in età di latenza e il gruppo di pari


 
 
Piera Bevolo
 
 
 
 
In questo incontro parleremo del significato che ha il gruppo dei pari per il
bambino in età di latenza, ossia durante gli anni della scuola elementare.
Pur essendoci ancora oggi molti dubbi sull’esistenza di un periodo di latenza
chiaramente delimitato, in questa età il gruppo dei coetanei assume un
significato particolare che riflette proprio la specificità del momento evolutivo
che il bambino sta attraversando.
Nella prima e nella seconda infanzia il gruppo dei pari risulta un po’ periferico,
mentre è centrale la costruzione dell’identità che inizia a svilupparsi all’interno
di un rapporto adesivo con la figura materna, ma che successivamente,
durante il complesso edipico, comprenderà anche la figura paterna in un’ottica
tridimensionale ed orientata maggiormente all’adulto.
In adolescenza, il gruppo risponde a bisogni che sono emotivamente più
contrastanti ed ha, per sua natura, l’esigenza di collocarsi fuori dal contesto
adulto.
Negli anni della scuola elementare il bambino si troverebbe, invece,
abbastanza libero da conflitti di natura affettiva e, quindi, nelle condizioni
migliori per confrontarsi con i coetanei e per contribuire alla nascita di un
“gruppo operativo”, teso a maturare nuove competenze, a conoscere ed
apprendere; tali finalità coincidono, a grandi linee, con gli obiettivi scolastici.
 
 
1. Gruppo classe come laboratorio sociale
 
Non mi dilungo sulle caratteristiche dell’età di latenza, già ampiamente
trattate nelle precedenti relazioni. Vorrei invece soffermarmi sul concetto di
gruppo.
La comunità dei bambini, o gruppo classe, è in qualche modo il primo spazio
in cui il bambino s’inserisce con un compito, un “ruolo sociale”, nei confronti
del quale genitori ed insegnanti maturano aspettative di produttività e di
risultato.
Il gruppo classe rappresenta, quindi, un modello in miniatura del
funzionamento e della convivenza sociale ed è principalmente la scuola a
dover sostenere il compito di formare tale gruppo. Il bambino (così come
l’insegnante) porta nella classe la sua personale idea di società e di rapporti tra
le persone che, essendo fortemente influenzata dai modelli di convivenza e di
relazione che egli assorbe dagli adulti, può risultare anche estremamente
dissonante tra i vari bambini.
Non è da trascurare, inoltre, il fatto che questi ultimi vivono attualmente un
modello di convivenza sociale estremamente contraddittorio e confusivo:
slanci di solidarietà si mescolano spesso ad atteggiamenti di chiuso localismo
volti a difendere situazioni ritenute più sicure; spinte tendenti a razionalizzare
la spesa pubblica si alternano a tentativi di smantellamento dello stato sociale
e di ogni forma di sicurezza per gli strati più deboli e indifesi della società; si
valorizzano gli aspetti di carrierismo e di affermazione individuale e
s’individuano all’interno di uno stesso territorio scuole di élite e scuole
marginali.
Spesso, nel lavoro clinico con genitori e bambini in difficoltà mi trovo a
riflettere sul dato culturale, figlio dei nostri tempi, che porta i genitori a vedere
come problematici i propri figli quando si isolano o non ricercano attivamente
le amicizie, salvo poi descrivere un ritmo di vita quotidiano in cui lo spazio per
gli incontri, le amicizie, il divertirsi insieme ad altri risulta molto limitato, a volte
quasi inesistente. Quello vissuto in famiglia è il primo modello di gruppo con
cui il bambino si confronta; nel gruppo familiare il bambino sperimenta e
introietta relazioni complesse e intrise di molteplici sentimenti: l’amore o la
gelosia verso i genitori o i fratelli, l’alleanza, la complicità, il confronto, la
collaborazione, l’ostilità, il senso di valere o di non valere, il senso di protezione
e quello d’incapacità.
Tutto ciò costituisce l’identità e la cultura che il bambino porta dentro di sé
nel momento in cui si accinge ad entrare in relazione con i suoi compagni di
classe.
È tuttavia molto difficile, pur conoscendo la composizione familiare, il livello
cognitivo dei bambini, il sesso e le variabili del contesto culturale di
appartenenza, prevedere quale sarà la tonalità emotiva che il gruppo dei
bambini assumerà in classe; quanto, in che modo e sotto quale aspetto ogni
bambino entrerà in risonanza con gli altri membri della classe e quale sarà
l’assetto delle dinamiche che ogni gruppo assumerà. In realtà, il gruppo è
qualcosa di diverso delle singole esperienze personali fuse insieme.
 
 
2. il gruppo come spazio mentale
 
La parola “gruppo” rimanda etimologicamente ai significati di viluppo, nodo,
groppo, ma anche ad una “unione di corpi della stessa specie che formano un
tutto pur rimanendo ciascuno diverso dagli altri”.
Si tratterebbe di un’entità che non esiste concretamente, ma che è qualcosa
in più della somma dei singoli componenti: un’immagine collettiva di
appartenenza a qualcosa di comune, ma d’indefinito, o meglio, di definito in
modo personale da ogni componente.
Alcuni autori (Winnicott, Anzieu) parlano di illusione gruppale come di uno
spazio mentale che rimanda al sogno, all’utopia, al desiderio (“insieme si può”)
e anche alla difesa, alla protezione (“insieme niente ci può nuocere”). Del resto,
anche il senso comune, attraverso i proverbi, sottolinea questi due aspetti:
“l’unione fa la forza”, “mal comune mezzo gaudio”.
Si tratterebbe quasi di un’esperienza transizionale (usando la terminologia di
Winnicott), cioè uno spazio che non è del tutto interno né tutto esterno alla
singola persona e che deriva dalle prime esperienze di fusione illusoria e di
separazione dalla madre. Lo spazio per un’esperienza transizionale è
inizialmente occupato dall’oggetto transizionale, ma si estende poi
all’esperienza del gioco, all’esperienza culturale, religiosa ed artistica: è il luogo
della comunicazione e della creatività.
L’idea di gruppo fa quindi pensare ad un sentimento di appartenenza a
qualcosa di comune ad altri ma anche, contemporaneamente, d’interno e
d’intimo, con significati influenzati dalla propria storia personale, da come
abbiamo vissuto le relazioni nel nostro gruppo primario e dal ruolo che
abbiamo assunto all’interno di questa prima configurazione di rapporti. I
gruppi umani si costituiscono su queste emozioni molto primitive e regressive
che, è evidente, sono lontane dal gruppo operativo di cui abbiamo parlato
all’inizio.
Questo porta a pensare che non tutte le classi siano gruppi di lavoro, per lo
meno non da subito. Il ritrovarsi in gruppo assumerebbe per il bambino un
ruolo regressivo e difensivo in cui le differenze individuali si assottiglierebbero
in funzione di una coesione e di una fusione onnipotente, così come
inizialmente il rapporto con la madre dava al bambino piccolo “l’illusione”
irrealistica di capacità illimitate, di forza, rischiando, però, al contempo la con-
fusione e la perdita di sé. D’altra parte, il gruppo dei compagni potrebbe
evolversi fornendo all’individuo un contenitore, uno spazio preciso in cui
potenziare il Sé, in cui identificarsi con altri e ritrovarsi, riconoscersi e
attraversare le differenze, scoprire nuovi individui, nuove relazioni, nuovi
oggetti di apprendimento ed esperienza.
La classe ha perciò in sé la possibilità di diventare un gruppo di lavoro che
permette al bambino di apprendere, d’integrare ed ampliare la sua visione del
mondo e della società.
Si tratta di un sottile equilibrio, di una sottile oscillazione tra gruppo e
individuo, tra sovrapposizione e distinzione, tra bisogno di continuità e
d’immutabilità e attenzione al nuovo e al diverso. Se i gruppi si formano
all’interno di un’area di pensiero comune condivisa, è in realtà la differenza che
permette l’arricchimento.
La differenza suscita l’aggressività e questo è palese (sia dentro che fuori la
scuola) quando sono presenti in classe bambini “diversi” (stranieri, portatori di
handicap), ma il realizzare una convivenza non fatta solo di paure reciproche o
di pietismo, ma soprattutto di scambio ed esperienze positive vissute insieme è
qualcosa che cementa e rende significativo il rapporto tra i bambini.
Rapportarsi con qualcuno che ci è estraneo, che è molto diverso da noi, può far
emergere il contatto con le nostre parti interne sconosciute, paurose, confuse.
A questo proposito, Bion parla del funzionamento psichico del gruppo come di
una mente e descrive due modalità fondamentali in cui questa mente gruppale
si manifesta:
a. un modo di essere più spontaneo e primitivo, favorito proprio dalla
regressione che il ritrovarsi in gruppo comporta per ciascuno (è lo stato
emotivo detto “gruppi per assunti di base”): nel gruppo prevalgono emozioni
intense e primitive (di dipendenza, di paura, di ostilità) che portano a una
perdita del senso di identità personale dei membri e si contrappongono ad
ogni esperienza di conoscenza di se stessi e di sviluppo;
b. una condizione emotiva più matura, chiamata “gruppo di lavoro”, che
consente sia il contatto con la realtà esterna ed interna al gruppo, sia una sua
elaborazione: è possibile affrontare il conflitto che deriva dal confronto fra le
diverse istanze e sviluppare nuove idee; la crescita e l’evoluzione, d’altro canto,
suscitano in ogni membro di un gruppo così connotato un inevitabile
sentimento di solitudine e di dolore.
Secondo Bion, questi due stati mentali sono normalmente presenti come
istanze di conflitto in ogni gruppo concreto, sebbene “a lungo andare” spesso
riesca a prevalere l’organizzazione più matura.
 
 
3. L’insegnante e i bambini: conoscersi per lavorare insieme
 
Da quanto è stato detto finora, sembra chiaro che l’adulto che si trovi a dover
gestire un rapporto con un gruppo di bambini a scuola dovrebbe riuscire a
prendere atto che, per lavorare e per seguire degli obiettivi concreti di
apprendimento, è necessario sperimentare e convivere con emozioni forti e
complesse. L’insegnante in classe potrà avvertire sentimenti di espulsione e
tentativi d’invalidazione della propria presenza di adulto che, in qualità di
rappresentante della realtà, riporta la delusione del non essere magicamente
onniscienti e superpotenti. L’insegnante può rappresentare un nemico, una
fonte di conflitto, perché con la sua stessa presenza innesca movimenti di
differenziazione tra i bambini: alcuni bambini vorranno accaparrarsi il suo
affetto uscendo dal “mucchio”, emergendo con le loro capacità intellettuali e
seduttive, rischiando l’isolamento tra i compagni; altri bambini, più in difficoltà
con la loro dipendenza interna dalle figure genitoriali, diverranno accaniti
oppositori dell’insegnante e lo screditeranno di fronte ai compagni creando tra
i bambini e nell’insegnante un conflitto doloroso e lacerante (come può
capitare tra i fratelli in famiglia). L’insegnante solitamente rappresenta la
“regola” tipica del mondo degli adulti; di conseguenza può suscitare nel gruppo
dei bambini dei desideri trasgressivi o demolitori che vanno a scapito
dell’evoluzione, dell’apprendimento e della crescita del gruppo stesso.
Il gruppo classe è quindi un complesso di relazioni in trasformazione che si
definisce nel tempo. Ogni bambino ha bisogno di un’attenzione individuale e di
un percorso che sia rilevante soggettivamente, ma, nello stesso tempo, anche il
gruppo nel suo insieme merita uno spazio di riflessione ed un posto nella
mente dell’insegnante; perciò credo che approcciarsi al gruppo classe
costituisca un compito estremamente delicato. Doversi occupare anche delle
dinamiche tra i bambini potrebbe sembrare un problema in più per
l’insegnante già sovraccarico dei compiti istituzionali, di programmi, riunioni
ecc., ma credo che questo sia uno di quegli aspetti che, se “curati”, permette di
ampliare lo spazio di apprendimento e la resa dei bambini in classe (tutti
sappiamo come sia estremamente più agevole parlare e proporre concetti a
qualcuno che sia disponibile ad ascoltarci, a collaborare, che ci abbia accolto e
attribuito autorevolezza).
Un’altra considerazione che mi sembra valida per i bambini, ma anche per
tutti noi, riguarda il fatto che in parte si apprende in modo individuale, ma
certamente l’utilizzo e la sperimentazione concreta delle conoscenze apprese
avviene sempre “in società”, altrimenti si tratterebbe solamente di un “sapere
autistico”, poco gratificante e poco utilizzabile; in altre parole si sta insieme per
imparare, ma s’impara per stare insieme.
Rispetto a questi delicati percorsi che si sviluppano tra i bambini, ritengo che
sia fondamentale mantenere uno sguardo di “osservazione fiduciosa”: uno
sguardo che “curi”, nel senso più ampio del termine, il nascere delle idee
collettive e della collaborazione tra i simili, nel rispetto delle differenze
individuali.
L’adulto possiede, a differenza del bambino, una idea più precisa circa le
aspettative sul futuro e sul compito del gruppo e ciò lo aiuta a conservare la
fiducia nell’arrivare a stare bene insieme. L’insegnante può riconoscere,
identificare e facilitare le relazioni, senza avere la pretesa di preordinarle,
facendo da testimone alla storia del gruppo (che è anche la storia di ogni
bambino). Può ascoltare, comprendere (nel senso di prendere dentro di sé),
metabolizzare e restituire senza violenza anche le tendenze distruttive del
gruppo; può, inoltre, stimolare il conflitto e la competizione (competizione per
qualcosa, non per qualcuno) come strumenti per esporsi, per rischiare e per
conoscersi.
Infine, occorre considerare anche che i bambini in gruppo imparano, ma nello
stesso tempo si divertono: forse è proprio dalla leggerezza dei bambini che
possiamo raccogliere il messaggio che le cose importanti e le esperienze che ci
accrescono non sono sempre e necessariamente le più faticose e solitarie.
 
 
Bibliografia:

D. Anzieu: Il gruppo e l’inconscio, Borla, Roma, 1979


W. Bion: Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972
W. Bion: Gruppi di apprendimento, Armando, Roma,
Blandino, Granieri: La disponibilità ad apprendere, R. Cortina, Milano, 1995
B. Copley, B. Foryon: Setting e istituzione in psicoterapia infantile, Liguori,
Napoli,
Devoto, Oli: Vocabolario della lingua italiana, Selezione del Reader’s Digest,
Roma, 1979
I. Salsberger, Wittenberg e altri: L’esperienza emotiva nei processi di
insegnamento e di apprendimento, Liguori, Napoli, 1993
D. Winnicott: Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma, 
Il bambino in età di latenza e gli adulti
 
 
Piergiuseppina Fagandini
 
 
 
 
“Chi sono dunque io ?
ditemi questo prima di tutto“
(L. Carroll, Alice)
 
 
 
1. Il lungo viaggio dell’identità del bambino e dell’adulto
 
Il bambino nasce una prima volta. Poi è come se continuasse a nascere
attraverso una fatica lunga e laboriosa per darsi un’identità, che non è mai
completamente definita, ma continua a modificarsi nell’infanzia, nella latenza,
nell’adolescenza, nell’età adulta, fino alla morte.
Per darsi il viso, il corpo, il gesto, l’azione, la parola, il pensiero, l’emozione,
l’immaginazione, la fantasia, in breve quel sentimento dell’essere, della
rappresentazione dell’Io, del Sé, che sono assolutamente necessari alla
persona umana per distinguersi dagli altri individui e dalle cose, il bambino
estrae dalle continue interazioni con l’ambiente gran parte dei materiali
costruttivi della sua identità personale; per riconoscersi ed essere riconosciuto,
riconoscersi negli altri e negli altri ritrovare parti di sé. Questa operazione è
molto complessa e delicata, perché la rete delle interazioni cognitive, affettive
e sociali che i bambini vivono è di mutevole natura e incorpora sempre i segni e
le contraddizioni del costume, delle culture, dei media, dei “modelli” che
filtrano attraverso le esperienze familiari, scolastiche, sociali e che di fatto
accreditano e spesso impongono al bambino immagini, risorse, valori tra di
loro difformi.
È la capacità di autorappresentazione che, gradualmente, definisce un
confine tra due mondi: il mondo esterno e il mondo interno della persona. Il
mondo interno, anche se apparentemente invisibile, è altrettanto vasto e
popolato di quello esterno, è strutturato secondo modalità spaziali e temporali
diverse, è lontano ma sempre presente, è la storia e insieme il futuro di quella
persona. Non possiamo qui approfondire questo argomento, rimando alle
relazioni della dott.ssa Bertani e del dott. Angelini, ai concetti psicoanalitici già
esposti di Io, Super-Io, ecc. e alla bibliografia allegata; ho voluto solo partire da
questi concetti generali per sottolineare che il processo di apprendimento si
situa all’interno del processo di costruzione dell’identità, che apprendimento e
relazione si intrecciano continuamente, che pensiero e affettività sono
interdipendenti, che in gioco in questo processo di cambiamento continuo non
c’è solo il bambino, ma anche l’adulto. Tutto questo è evidente ed esplosivo
nella prima infanzia, ma continua a succedere anche nell’età di “latenza”: il
periodo che dovrebbe consolidare il passaggio dal principio di piacere al
principio di realtà, la progressiva autonomia del pensiero dalla sfera delle
rappresentazioni affettive, la decantazione della dimensione pulsionale-
affettiva, attraverso l’uso della didattica dei processi cognitivi e la regolazione
dei comportamenti interpersonali, il rafforzamento del Super-Io (cfr. la
relazione della dott.ssa Bertani).
Tenendo conto di questo “sfondo”, cercherò di analizzare il processo di
apprendimento nella scuola elementare dal punto di vista della relazione
adulto-bambino.
 
 
2. L’apprendimento come esperienza emo va
 
Secondo il modello teorico psicoanalitico di riferimento, l’ipotesi di partenza è
che l’apprendimento non è solo frutto di una acquisizione proveniente dal
mondo esterno, ma è mediato dal mondo interno del soggetto che apprende e
del soggetto che insegna. Il bambino che apprende entra in contatto con un
qualsiasi “oggetto” del mondo esterno, ma la percezione e la conseguente
introiezione nella mente di questo oggetto o esperienza sono mediate dal suo
mondo interno, cioè dalle sue emozioni, dai suoi affetti, dalle sue fantasie.
L’insegnante, svolgendo la propria funzione professionale, entra nel vivo della
strutturazione dell’identità emotiva, intellettiva e corporea del bambino,
coinvolgendo non solo il mondo interno dell’allievo, ma anche il proprio.
Insegnare significa “segnare di sé”; mettere dei propri segni nell’altro, dei
propri pezzi, pezzi della propria storia.
Il modello interno di apprendimento si sviluppa a partire dalla prima infanzia,
dal modo in cui il neonato vive il suo rapporto con il corpo e il seno materno, e
da come vive l’esperienza del mangiare. Il mondo interno del bambino si
struttura quindi a partire dalle prime esperienze corporee legate al rapporto
con la madre e l’alimentazione, dal modo in cui sono vissute queste esperienze,
se con piacere o con angoscia e persecuzione. L’individuo sviluppa in tal modo
una sorta di “filtro percettivo” che costituisce successivamente l’elemento che
media il suo rapporto con il mondo esterno.
In questa prospettiva la realtà non è conoscibile come oggetto a sé stante, ma
solo e sempre attraverso la mediazione interna. L’apprendimento quindi è
possibile solo come fatto non esclusivamente intellettuale né esclusivamente
dipendente dalle strutture neurologiche, ma in quanto dipendente anche dallo
sviluppo (presente, o mancante, o incompleto) delle emozioni, cioè delle
vicissitudini emotive che determinano la qualità e il tipo d’incontro con gli
oggetti del mondo esterno. Quindi l’apprendimento autentico nasce solo
nell’esperienza. L’esclusione di questa dimensione della propria realtà mentale,
esclusione che spesso è dovuta all’intolleranza del dolore psichico, porta alla
realizzazione di un apprendimento astratto, senza vita, adesivo .
Con l’intuizione dell’artista, il poeta libanese Gibran (Il Profeta, 1923) anticipa
liricamente i concetti della ricerca psicoanalitica:
 
“... Nessuno può insegnarvi nulla, se non ciò che in dormiveglia giace
nell’alba della vostra conoscenza. Il maestro che cammina nell’ombra del
tempio, tra i discepoli, non dà la sua scienza, ma il suo amore e la sua
fede. E se egli è saggio non vi invita ad entrare nella casa della sua scienza,
ma vi conduce alla soglia della vostra mente.”
 
In questo lungo processo di conoscenza, in cui mondo esterno e mondo
interno si intrecciano, l’obiettivo per l’Io maturo è saper distinguere tra ciò che
è “reale” (riconoscibile collettivamente e condivisibile) nel mondo esterno e ciò
che è proiettato su di esso dal nostro interno.
L’insegnamento e l’apprendimento in età di latenza dei codici simbolici
(scrittura, matematica) utilizzati nella nostra cultura per riconoscere il “reale”
rappresenta un percorso fondamentale di questo processo di costruzione
dell’Io maturo e dell’identità personale, culturale e sociale del bambino.
Attraverso la conoscenza del linguaggio verbale prima e del linguaggio scritto e
matematico poi, il bambino impara a riconoscere, dare un significato e un
ordine, non solo al mondo esterno, ma anche al proprio mondo interno. Il
pensiero, utilizzando questi nuovi strumenti, può dare un “nome” e quindi un
significato almeno a una parte dei sentimenti, affetti, fantasie, buoni e cattivi,
che popolano il mondo interno e, gradualmente, realizzare un’integrazione
nella mente delle sue varie parti, in particolare di quelle problematiche o
“cattive”.
 
 
3. La crescita e lo sviluppo della mente e della identità sono possibili solo
all’interno di una relazione
 
Il processo educativo è un’interazione tra due menti che si influenzano
reciprocamente. L’educazione e l’insegnamento sono una “relazione” in cui i
due poli giocano un’influenza reciproca.
Ritornando alla relazione madre-bambino come prototipo delle successive
relazioni comprese quelle educative, possiamo osservare che la buona madre è
quella capace di contenere l’angoscia del bambino, di essere per lui supporto
mentale nel momento in cui cresce, cioè attraversa le sue vicissitudini emotive.
Una madre, un adulto, in grado di fare questo, restituisce al bambino una
risposta bonificata dall’angoscia, l’esempio di una mente che pensa, e la
conseguente speranza e fiducia, quindi la possibilità di “dipendere da” chi lo
educa, la possibilità di “aver bisogno di” chi lo può aiutare. La possibilità che
abbiamo di pensare, l’attivazione di una funzione cognitiva nella nostra mente
dipende dunque anche dall’aver potuto incontrare una relazione in cui l’altro è
stato in grado di contenerci e di aiutarci a mettere dentro di noi una mente che
pensa, la capacità di aspettare e di rinviare la soddisfazione immediata dei
nostri bisogni.
Winnicott sostiene che il neonato ha bisogno di essere tenuto, contenuto
fisicamente e mentalmente dalla madre; l’attività educativa e formativa deve
svolgere una funzione simile all’holding materna, cioè deve costituire uno
spazio fisico e mentale in cui l’allievo si può muovere per esprimere la propria
ansia e rielaborarla attraverso la funzione di contenimento che ne farà il
docente. L’attività educativa è tale quando insieme alla crescita dell’allievo c’è
una contemporanea crescita dell’insegnante. Così come un’attività di
apprendimento implica sempre il confronto con il nuovo e con ciò che è
sconosciuto, anche l’attività dell’insegnante si deve confrontare con il nuovo e
lo sconosciuto e come tale è ansiogena e frustrante quando è davvero incisiva
e innovativa e promuove l’apprendimento dall’esperienza.
La relazione con gli allievi non è solo un fatto cognitivo, ma un fatto
emozionale che rimanda a elementi primari, a stati infantili della mente; la
funzione del docente è di ascoltare, riconoscere, accogliere e raccogliere questi
elementi, in modo da renderli visibili, permettendo al soggetto di riconoscerli e
quindi non solo di apprendere qualcosa, ma anche di apprendere riguardo al
proprio modo di apprendere. Nell’incontro tra chi impara e chi insegna c’è un
flusso di sentimenti ed emozioni che comprende anche l’ambiguità, la sfiducia,
l’aggressività, il bisogno di controllo, la paura, la rabbia, l’amore e l’odio.
In età di latenza dovrebbe essere ormai possibile per il bambino
abbandonare l’”onnipotenza”, accettare di non sapere, di dover imparare,
accettare la dipendenza dall’adulto (ora che è più competente e la dipendenza
non è più assoluta); ma, come segnalava la dott.ssa Bertani, la società e la
struttura familiare sono notevolmente cambiate, la tv ha invaso la vita dei
bambini. Di fronte all’esposizione amplificata e ripetuta di immagini
problematiche e impietose del mondo esterno, è sempre più difficile, per i
bambini, l’idealizzazione del mondo adulto, l’identificazione con gli adulti; non
è possibile capire situazioni e problemi sempre più complessi e virtuali (il
contrario dell’apprendere dall’esperienza), sono sempre meno gli adulti
disponibili a spiegare, ad essere con; nonostante l’età di latenza favorisca il
desiderio e il piacere di conoscere e crescere, si rischia che sempre più bambini
si chiedano, come Peter Pan, se vale la pena crescere o anticipino le fasi di
sviluppo e passino direttamente ai modelli adolescenziali sempre più proposti
dai media.
Anche molti adulti, soprattutto genitori, sembrano aver sempre più paura di
aiutare i propri figli a crescere; forse si sentono inadeguati; il venir meno della
certezza delle regole e dei valori ha prodotto confusione; il tempo per stare
insieme è sempre minore; la delega alla scuola, agli esperti delle varie
discipline è sempre più diffusa. I bambini rischiano di ritrovarsi soli di fronte a
richieste sociali di competenze e prestazioni sempre maggiori e complesse.
Cerchiamo di capire perché è così difficile educare e imparare.
 
 
4. Il dolore mentale nell’apprendere dall’esperienza
 
L’accesso al mondo simbolico della scuola, nella nostra società, rappresenta
ancora l’accesso al mondo degli adulti.
“... L’insegnamento giunge solo ad indicare la via e il viaggio; ma la visione
sarà di colui che avrà voluto vedere ...“ (Plotino).
Si affronta il viaggio dell’apprendimento per il desiderio e il piacere della
scoperta, per appropriarsi del “tesoro”, ma la via è costellata di difficoltà e
pericoli: le frustrazioni di non sapere, l’ansia di non riuscire, la paura di
affrontare lo sconosciuto, d’incontrare mondi che mettano in pericolo il nostro
mondo (interno), in cui non riuscire a riconoscersi. Tutto questo è il dolore
mentale: l’attrazione e la paura dell’ignoto che rompe equilibri e certezze. È la
fatica di crescere.
Il dolore mentale può essere anche dell’insegnante-genitore che considera la
“meta” del viaggio (il mondo esterno) un posto pericoloso, confuso, che forse
non vale la pena raggiungere o troppo sconosciuto (pensiamo ai genitori
immigrati), quindi fatica ad indicare la via; oppure l’adulto può sentire troppo
diverso il mondo interno del bambino rispetto al proprio e può aver paura ad
avvicinarsi per trovare una via comprensibile ad entrambi (succede spesso con
i bambini immigrati e “diversi”) e si rischia d’indicare la via sbagliata.
Anche solo indicare la via è complicato, perché significa interrogarsi, come
adulti, su quali siano per noi il viaggio e la meta, poi trovare gli strumenti per
scegliere ed affrontare la via. È facile che riflettiamo consapevolmente solo su
questi strumenti, lasciando nell’oscurità del mondo interno tutto il resto.
La capacità di pensare e lavorare, la possibilità di conoscere dipende dalla
capacità-possibilità di modulare e tollerare il dolore mentale.
S’impara quando si ha la possibilità di elaborare la fatica emotiva che è
connessa all’imparare e quando chi ci aiuta nel processo di apprendimento ci
permette di vedere le cose in una prospettiva diversa, in quanto è capace di
creare un ambiente fisico e relazionale per cui nella nostra mente possa
accadere qualcosa di nuovo, un “ambiente facilitante”, in cui si possa esplorare,
sperimentare, giocare e anche sbagliare, per imparare dai propri errori.
In altre parole, potremmo dire che, nel processo di apprendimento, non è
importante aumentare la quantità d’informazioni, ma la disponibilità ad
apprendere, ovvero lo spazio mentale disponibile a ricevere nuovi dati e nuove
esperienze. L’apprendimento autentico, cioè, comporta un cambiamento
mentale nel modo di essere.
Nell’interazione professionale, quando è fortemente connotata in termini
interpersonali e relazionali come la professione educativa, ciò che è
massicciamente in gioco non sono solo le capacità tecnico-professionali
dell’insegnante, così come le capacità intellettuali dell’allievo, ma soprattutto la
mente dell’insegnante e quella dell’allievo, intese come insieme di fattori
cognitivi e affettivi.
Quindi la mente di chi insegna è lo strumento principale di lavoro. La funzione
psicoanalitica della mente dell’insegnante è essenzialmente una funzione di
ascolto, di pensiero e di consapevolezza di quel che prova l’altro, ma anche di
ciò che proviamo nel rapporto con l’altro; è una potenzialità specifica della
mente umana, che ha permesso il nascere della poesia, della letteratura, della
filosofia e infine della psicoanalisi.
L’attivazione di una simile funzione mentale, che è eminentemente
autointerrogativa, non ha niente a che vedere con gli inviti moralistico-
ideologici a “fare autocritica”, che non servono a nulla, se non a colpevolizzare
le persone in nome di criteri di comportamento tutti da discutere. Non si tratta
quindi di mettersi sulla strada dell’autoflagellazione, ma su quella del capire
quello che si fa e come lo si fa, strada però percorribile solo se si è capaci di
sentire, dire e dirsi la “verità”.
 
5. Il mondo interno dell’insegnante
 
Per capire le emozioni del bambino, l’insegnante deve entrare in contatto con
il proprio mondo interno, riconoscere le emozioni dell’allievo dentro di sé e, in
questo modo, entrare in contatto con il mondo interno del bambino. I bambini
stessi ci indicano questa via per meglio comprenderli; nell’infanzia e nell’età di
latenza, non riescono a verbalizzare, esprimere in parole i propri sentimenti;
utilizzano la proiezione per esprimerli, li “fanno sentire” all’adulto e questi, se
non si spaventa, se è attento e sensibile, li può riconoscere e restituire in modo
comprensibile al bambino. Ogni bambino è diverso ed irripetibile, questa è la
difficoltà ma anche la ricchezza del nostro lavoro.
Il mondo interno dell’insegnante è una “risorsa” perché chi svolge un lavoro
educativo ha di solito dentro di sé una forte “spinta riparativa”. Poiché educare
è un modo di mantenere la vita e di farla evolvere e progredire attraverso la
trasmissione di conoscenze, l’atto dell’insegnare implica una vittoria della vita
sulla morte, dell’amore sull’odio.
Per l’adulto, l’insegnamento può essere vissuto come un modo per
combattere gli impulsi distruttivi che sono dentro ogni essere umano, e
riparare i danni prodotti dalla nostra distruttività tanto all’interno quanto
all’esterno di noi stessi. Dal momento che ho introdotto altri esseri umani al
mondo e alla vita sociale, sono in qualche modo rassicurato: non distruggo, ma
creo; non danneggio, ma aiuto.
Per questi motivi, alcuni autori parlano esplicitamente di una specie di
“pulsione ad educare”, che esisterebbe come parte della pulsione di vita.
Anche per questi legami con la vita, la creatività e la nascita, che lottano
contro la morte, la distruttività e la colpa, l’insegnamento presenta
problematiche del tutto simili, da un punto di vista emotivo, a quelle che
vivono i genitori con il figlio.
Identificato (nel proprio mondo interno) con la madre incinta o il padre in
attesa, l’insegnante tende a vivere simbolicamente le stesse angosce e paure
che un genitore vive rispetto al figlio, che consistono essenzialmente nella
paura profonda di generare figli malati e deformi o l’angoscia di essere incapaci
di generare o, all’opposto, un’idealizzazione della nascita, la fantasia di
generare un figlio bellissimo, intelligentissimo, perfetto.
Ma i “figli” degli insegnanti sono tanti e diversi. Così l’insegnante
contemporaneamente può vivere il timore di fare un lavoro inutile, di non
riuscire a far crescere i propri allievi, di allevare “mostri” o “disadattati”, oppure
di essere il “maestro” che dà un ‘impronta duratura ai propri allievi.
Da questo punto di vista, è il mondo interno dell’insegnante che rischia di
prevalere sugli allievi e le loro famiglie, attraverso meccanismi di proiezione ed
identificazione che, se non consapevoli, possono danneggiare il processo
educativo, ma, se riconosciuti, possono essere un fondamentale strumento di
lavoro per entrare davvero in contatto con il mondo interno dei bambini. Il
lavoro educativo ha una forte componente di discrezionalità, cioè esige che si
operino continuamente delle scelte, senza poter prevedere il risultato. In
questa luce l’insegnamento ripetitivo e autoritario è una difesa (coazione a
ripetere) dal rischio e dall’incertezza della creatività e dall’angoscia della
discrezionalità, del mettersi in gioco, del non sapere.
Le resistenze trovano espressioni diverse, individuali, gruppali e istituzionali;
ogni insegnante in quanto professionista all’interno di un’organizzazione, può
cercare e trovare un abitacolo difensivo e rassicurante negli aspetti prescrittivi
e formali del proprio ruolo, nel proprio gruppo di lavoro, nella propria
organizzazione. Le resistenze al cambiamento dipendono dalla natura stessa
del cambiamento, che suscita di per sé ambivalenze: lo si desidera ma lo si
teme. I bambini producono continuamente cambiamento e, se la si sa cogliere,
nuova ricchezza per il mondo interno e l’identità degli adulti.
Insegnare ai bambini, soprattutto se “stranieri”, “diversi”, significa lavorare
continuamente sulla loro identità sospesa, ma anche sospendere ed arricchire
continuamente la nostra identità.
 
 
 
Bibliografia
 
AA.VV., La difficoltà ad apprendere; A del Convegno, Torino 1988
G. Blandino, B. Granieri, La disponibilità ad apprendere, R.Cor na Editore,
Milano 1995
Con C., La pedagogia psicoanali ca, Borla Editore, Roma 1989.
Grinberg L., Grinberg R., Psicoanalisi della migrazione e dell’esilio, F.Angeli,
Milano 1982.
Harris M.,Capire i bambini, Armando, Roma 1969.
Meltzer D., Harris M., Il ruolo educa vo della famiglia, CST Editore, Torino
1986.
Salzberger - Wi enberg I., L’Esperienza emo va nei processi di
insegnamento ed apprendimento, Liguori Editore, Napoli 1993.
Stella G. (a cura di), Imparare: questo è il problema, Edizioni del Cerro,
Tirrenia 1994.
Winnico , D. W., Il bambino deprivato, R. Cor na Editore, Milano 1986.
Winnico , D. W., Sulla natura umana, R.Cor na Editore, Milano 1989.
 
II sezione: Il lavoro nei workshop pomeridiani coi ragazzi a
rischio
 

Workshop ed ingresso in preadolescenza:


difficoltà e problemi
Deliana Bertani
 
 
 
 
Parleremo di quel momento della vita in cui, parafrasando il linguaggio dei
computer, serve un nuovo programma che consenta soluzioni diverse, perché
quello vecchio non è più in grado di raccogliere e organizzare le nuove
informazioni che provengono dalla realtà esterna e dal mondo interno: da
questo momento, inizia una nuova fase della vita la cui direzione è
imprevedibile perché mentre la vita passata era ritmata da abitudini e da
comportamenti divenuti familiari, ora si aprono nuove strade.
Uscire dalla latenza significa entrare nell'adolescenza; in questo periodo, fra
gli undici e i dodici anni, si mette in moto un orologio biologico pre-
programmato che comincia ad attivare ormoni e centri cerebrali, che non solo
producono lo sviluppo del corpo e la maturazione sessuale, ma esercitano
anche una forte influenza sul comportamento. Si tratta della pubertà, l'evento
biologico che dà l'avvio all'adolescenza, innescando un complesso di
trasformazioni che riguardano, oltre al corpo, anche cambiamenti psicologici e
sociali.
Il corpo manda ai ragazzini i primi segnali che creano in loro forti tensioni
interne; si verifica un mutamento travolgente e ingovernabile che li fa sentire
diversi: il corpo si trasforma sotto i loro occhi e le tensioni sessuali li turbano
profondamente.
Gli ormoni li fanno sentire più aggressivi e scatenano reazioni che fino a
qualche tempo prima erano inconcepibili. I genitori diventano i primi bersagli,
ma a cambiare sono anche i sentimenti che ora entrano in collisione con il
proprio vecchio modo di pensare, inducendoli a rimuginare su se stessi e sulla
propria famiglia.
È iniziato un viaggio che porta il ragazzo/a in una direzione sconosciuta: in
questo viaggio ci si guarda intorno, si scrutano i propri compagni di ventura e si
osserva anche se stessi, chiedendosi cosa si sta facendo e soprattutto dove si
sta andando.
In questa situazione è difficile voltarsi a guardare il luogo della propria
infanzia; il ragazzino/a parte per il suo viaggio e i genitori rimangono a terra.
Nell’età della latenza il bambino sembrava prevalentemente occupato a
cercare d’impadronirsi delle qualità mentali possedute dai genitori e che egli
identifica nell’onnipotenza e nell’onniscienza.
Quando il bambino inizia ad andare a scuola, durante gli anni che
caratterizzano la latenza, il concetto di imparare viene focalizzato soprattutto
sull’apprendere il nome delle cose, ed egli crede di sapere tutto di quella cosa:
sta esercitando il suo senso di onnipotenza.
Questa convinzione, insieme a quella che i suoi genitori sappiano e facciano
tutto, si frantuma però quando inizia la pubertà. I bambini si rendono conto
piano piano che il padre e la madre non sempre sanno cosa fare e questo
permette loro di liberarsi dalla sottomissione ai genitori visti come divinità.
Quando, però, il ragazzo riesce a liberarsi, prorompe in lui tutto il mondo della
confusione, che fino ad allora era stato nascosto e trattenuto dalle precedenti
convinzioni: la confusione tra buono e cattivo, tra le diverse zone del corpo, i
diversi modi in cui tali zone possono entrare in rapporto con il mondo esterno
e con le altre persone, quella tra maschio e femmina, tra adulto e bambino.
Tale confusione si acuisce con la pubertà, non appena nel corpo cominciano a
svilupparsi le caratteristiche dell’adulto (l’area pubica, il seno, lo sviluppo dei
genitali). Il corpo, con tutti i suoi cambiamenti, comincia a diventare una grossa
fonte di preoccupazione: non potendo accettare se stessi per una quantità di
ragioni emotive, il ragazzo proietta fisicamente le sue preoccupazioni su alcuni
aspetti della propria immagine.
La confusione che prorompe gli fa anche scoprire che le parole non
significano più solo quello che dicono, non contengono, cioè, significato in se
stesse, ma le stesse parole assumono significati diversi a seconda di chi le dice.
Egli sente così di scoprire che il mondo degli adulti è un “ammasso di ipocrisia
dove gli adulti sono dei tiranni e i bambini i loro schiavi”.
Il ragazzo che esce dalla latenza si viene a trovare in una posizione in cui non
si fida più del mondo degli adulti, ma nemmeno di quello dei bambini; è in una
posizione in cui disprezza ambedue i mondi. È una crisi d’identità profonda,
quella che il ragazzo sperimenta con la perdita dell’identità familiare: non più
bambino, non ancora adulto. La decisione di accettare temporaneamente
l’identità di semplice preadolescente rappresenta un fatto fondamentale e il
gruppo dei pari diventa un “luogo essenziale di crescita, di possibilità di
identificazione”.
Sta cominciando una nuova separazione-individuazione, una nuova nascita.
Ciò che nell'infanzia è "una nascita dalla membrana simbiotica per diventare
un bambino individuato",21 nell'adolescenza diventerà il distacco dalle
dipendenze familiari, che avviene attraverso il viaggio di cui si parlava prima,
viaggio che inizia nell'età di cui stiamo parlando: l'uscita dalla latenza.
Il distacco dalle dipendenze familiari, cioè dai legami oggettuali infantili, apre
la strada alla scoperta di oggetti di amore e di odio esterni, extrafamiliari,
nuovi.
Nella prima infanzia, nella fase di separazione-individuazione, quando il
bambino realizzava la separazione psicologica dalla madre (oggetto concreto),
era vero l'inverso. Allora era necessario un processo di interiorizzazione che
favorisse gradualmente la crescente indipendenza del bambino dalla presenza
fisica della madre, dalla sua assistenza e dal suo appoggio emotivo. Il progresso
è segnato nel bambino dalla formazione della capacità di regolamentazione
interna (formazione del Super-Io) che è appoggiata e promossa da processi
motori, percettivi, verbali, cognitivi. Il processo avviene, nel migliore dei casi, a
zig-zag, come possiamo osservare di nuovo nella fase di cui ci stiamo
occupando: i movimenti regressivi e progressivi si alternano, dando facilmente
l'impressione di una maturazione squilibrata.
L'individuazione dell'adolescente sarà il riflesso di quei cambiamenti
strutturali che accompagnano il distacco emotivo dagli oggetti infantili
interiorizzati. Questo processo è estremamente complicato perché, senza un
positivo distacco dagli oggetti infantili interiorizzati, la scoperta di nuovi oggetti
d'amore extrafamiliari è preclusa ed impedita o rimane ristretta alla semplice
ripetizione e sostituzione.
L’Io è completamente coinvolto in questo processo. Fino alla fine della latenza
i genitori sono stati selettivamente disponibili per il bambino come legittima
estensione del suo Io (onnipotenza e onniscienza) e ciò ha permesso il
controllo dell'ansia e la regolamentazione dell'autostima. Con il distacco dalle
dipendenze infantili, anche le dipendenze abituali dell’Io tipiche del periodo di
latenza vengono ripudiate (confusione); perciò il ragazzo entra in un periodo in
cui c'è una relativa debolezza dell’Io che è dovuta sia all'intensificazione delle
pulsioni, sia all'effettiva debolezza dell’Io per il rifiuto da parte dell'adolescente
del supporto dell’Io genitoriale.
I disturbi dell’Io si esprimono con varie modalità quali l’acting-out, i disordini
dell'apprendimento, la mancanza di scopi, i continui rinvii, il cattivo umore e il
negativismo, ed essi sono spesso segni sintomatici di crisi o di fallimento nel
distacco dagli oggetti infantili; di conseguenza essi rappresentano una
deviazione del processo stesso d’individuazione.
Lo sforzo che l’adolescente compie per evitare il dolore insito nel processo di
distacco si può riconoscere nel totale rifiuto della famiglia e del suo passato.
Nelle misure di emergenza rappresentate dalla rottura violenta con l'infanzia e
con la continuità familiare non si può non riconoscere la fuga da una potente
spinta regressiva verso la dipendenza, la sicurezza, il benessere e le
gratificazioni infantili.
Il processo di distacco dagli oggetti infantili, così essenziale per il progressivo
sviluppo, rinnova quindi il contatto dell’Io con le pulsioni infantili, contatto che
si era relativamente interrotto durante la latenza per permettere un
rafforzamento dell’Io in tutte le sue funzioni. Infatti l’Io della post-latenza è, per
così dire, preparato a questo incontro regressivo ed è capace di diverse
soluzioni, più durevoli e adeguate. Le funzioni dell’Io relativamente stabili, quali
la memoria o il controllo motorio, come del resto le istanze psichiche
relativamente stabili, quali ad es. il Super-Io o l'immagine corporea, dovranno
sottostare a notevoli fluttuazioni e cambiamenti.
Durante la latenza, tramite l'identificazione e l'organizzazione del Super-Io, si
è compiuta una riduzione della dipendenza oggettuale infantile, ma ora, per
poter andare avanti, è necessario che il ragazzo e la ragazza distruggano per
poter ricostruire. La costruzione e la distruzione, la regressione e
l'avanzamento saranno le più specifiche caratteristiche dell'adolescenza, e
l'andamento a zig-zag di cui si parlava prima comincia ad apparire nell'epoca di
cui stiamo parlando, all'inizio di quel percorso che è la premessa per la
costruzione di una propria immagine sociale (come membro della società e
non solo come figlio di una famiglia) e per l'avvio dei rapporti eterosessuali.
 
 
1. I compiti evolutivi
 
Alla base del cambiamento psichico e del passaggio di ruolo ci sono dei
compiti evolutivi che si presentano ai ragazzi come problemi, come difficoltà da
superare, che vanno però ben distinti dai disturbi, dalle perturbazioni più o
meno gravi che interferiscono nella loro soluzione.
Potremmo fare una lista di questi compiti evolutivi per meglio renderci conto
della fatica che si apprestano ad affrontare i ragazzi e le ragazze che abbiamo di
fronte: instaurare relazioni nuove e mature con coetanei di entrambi i sessi;
acquisire un ruolo sociale maschile o femminile; accettare il proprio corpo ed
usarlo in modo efficace; conseguire l’indipendenza emotiva dai genitori e da
altri adulti; raggiungere la sicurezza dell’indipendenza economica; orientarsi
verso una professione; prepararsi alla vita di coppia; sviluppare competenze
intellettuali e conoscenze necessarie per la convivenza civile; acquisire e
desiderare un comportamento socialmente responsabile; acquisire un sistema
di valori ed una coscienza etica come guida al proprio comportamento.
 
2. I compiti scolastici
 
I compiti evolutivi sono in stretto rapporto con i compiti scolastici; i successi e
gli insuccessi evolutivi si legano in vario modo a quelli scolastici. Possiamo dire,
con una formula sintetica, che i compiti evolutivi prevalgono su quelli scolastici
e che, se un adolescente sente che i propri compiti di sviluppo sono minacciati
invece che sostenuti dalla situazione scolastica, inevitabilmente finirà con il
privilegiare la vita alla scuola.
Le difficoltà nei rapporti e nella crescita possono distogliere energie allo
studio, riducendo le capacità di concentrazione e il rendimento.
Oltre a ciò, i significati affettivi che il ragazzo o la famiglia attribuiscono al
rendimento scolastico possono sovraccaricare di eccessive aspettative il
rapporto con lo studio rendendolo, perciò, più difficile. In modo ancor più
specifico le capacità cognitive e di socializzazione sono poi un banco di prova
diretto della crescita e delle possibilità di inserimento sociale: in questo caso, la
scuola non è solo un luogo di proiezione di conflitti che provengono da altri
luoghi affettivi, ma è anche il campo di prova delle diverse aree dello sviluppo
ed il luogo in cui si esercita una parte dei compiti evolutivi e la capacità di
inserimento sociale (ciò è importante soprattutto oggi, dato che sono venuti
meno tanti luoghi di incontro per i ragazzi e che c'è un'altra agenzia, la
televisione, che sforna in continuazione nozioni e che fornisce un
insegnamento parallelo a quello della scuola, ma non certamente uno spazio di
crescita affettiva e sociale).
Vale la pena di dire, comunque, che a volte il successo scolastico non equivale
ad un successo nei compiti della vita e questo capita quando gli atteggiamenti
che sono alla base del successo scolastico sono difensivi.
 
 
3. I conflitti evolutivi
 
Dopo aver discusso dei compiti evolutivi, proviamo ora a parlare dei conflitti
evolutivi, cioè dei "modi" in cui i compiti vengono affrontati, proponendo, cioè,
dei profili più che delle definizioni diagnostiche.
Faremo una carrellata dei tipi di ragazzini con i quali ci si trova tutti i giorni a
scuola o in altre situazioni parascolastiche e davanti ai quali gli adulti
reagiscono con pena, rabbia, preoccupazione, fastidio, aggressività, ecc.
Ragazzi irrequieti e aggressivi: sono quelli in cui di solito si combinano
iperattività, difficoltà di attenzione e aggressività. Spesso sono anche ribelli o
prepotenti, con bassa capacità di tollerare le frustrazioni, con esplosioni di
collera che esprimono vissuti di bassa autostima e che non sono disciplinati.
Sono quei ragazzi che hanno difficoltà a stare seduti e concentrati, a portare a
termine i loro compiti, che disturbano gli altri, che interrompono senza
aspettare il proprio turno, che dimenticano le loro cose e si mettono spesso in
situazioni di pericolo. Sono quelli per i quali i provvedimenti disciplinari sono
spesso inutili, per i quali non ci sono strumenti istituzionali per affrontare il
problema. Sono ragazzini (prevalentemente maschi) nei quali spesso si trova
l'idea di non avere futuro, dove c'è una bassa autostima, dove c'è la
produzione di atteggiamenti identificatori più adulti. Sono ragazzini difficili da
gestire, che agiscono il conflitto in modo aggressivo e drammatizzato
provocatoriamente; essi andranno incontro facilmente a bassi profitti e a
bocciature che introdurranno scarti di età con i compagni e costituiranno
grosse minacce per il loro sviluppo.
Ragazzi che hanno paura: sono quei ragazzi che "non creano problemi", poco
visibili istituzionalmente, silenziosi e nei quali prevale l'ansia di separazione,
che spesso si manifesta con malesseri psicosomatici, con mal di testa, vomito,
mal di stomaco, nausea o palpitazioni, vertigini o altri malesseri; nelle sue
forme più gravi l'ansia di separazione, o la fobia scolare, si manifesta proprio
intorno agli 11-12 anni. Spesso i ragazzi affetti da questo tipo di sintomo
provengono da famiglie premurose e unite.
Ragazzi tristi e senza desideri: questi sono ragazzi che non provano piacere
nel funzionamento mentale, nel pensare con la propria testa, che hanno
difficoltà ad individuarsi, che non vivono lo studio come un fatto proprio, che
elaborano con difficoltà particolare le situazioni di competizione. Sono ragazzi
con problemi d’identità che non riescono a liberare la propria mente per le
funzioni di apprendimento. La demotivazione e l'assenza di desideri possono
assumere forme depressive, esplicitamente autosvalutanti o più narcisistiche,
e, in tal caso, la svalutazione passa su obiettivi ed oggetti esterni.
Ragazzi che si vergognano: la timidezza è un tratto che si accentua con
l'uscita dalla latenza, quando i sentimenti di vergogna si rafforzano attingendo
a nuovi pudori per il proprio corpo e la sessualità: sta iniziando il processo
d’individuazione adolescenziale, che comporta nuovi sguardi su di sé che fanno
arrossire, sudare, balbettare, perché lo sguardo non è più familiare ma è
diventato sociale.
Fatta questa carrellata molto schematica, diventa però indispensabile
precisare che queste modalità di reazione ai conflitti di sviluppo, così come li
abbiamo chiamati, e la persistenza dei disturbi possono essere messi in conto
sia al ragazzo, sia a disfunzioni, rigidità e incompetenze istituzionali.
La scuola e gli insegnanti che devono affrontare l'età che va dalla fine della
latenza alla prima adolescenza si trovano a trattare con ragazzi che vivono un
momento particolarmente eccitato della loro vita pulsionale, che cominciano
ad essere in grado di agire senza il controllo adulto.
La scuola ha pochi strumenti, ma viene sempre più individuata come il punto
di riferimento strategico per la lotta contro il disagio in età evolutiva, per
l'educazione alla salute e la promozione del benessere. D'altra parte, non si
può ignorare il fatto che l'insuccesso e l'abbandono scolastici si trovino quasi
sempre all'inizio delle “carriere” di devianza, emarginazione e
tossicodipendenza. La scuola può svolgere una importante opera di
prevenzione se combatte innanzitutto il disagio scolastico: si tratta di una sfida
difficile, che parte dalle trasformazioni delle relazioni tra insegnante e allievo e
dagli strumenti che possono aumentare le capacità di ascolto dell'insegnante.
Una maggiore consapevolezza di questa dimensione e una maggiore
competenza sulle complesse dinamiche che accompagnano il percorso di
crescita possono essere utili strumenti per migliorare la qualità
dell'insegnamento, senza che per questo l'insegnante si debba trasformare in
psicologo o in assistente sociale.
Una riflessione sugli aspetti relazionali fa parte, d'altro canto, di ogni
competenza professionale, dall'ambito aziendale a quello commerciale e a
quello sanitario.
 
 
4. L’uscita dalla latenza oggi
 
Qualche considerazione per storicizzare i discorsi fatti. I bambini in età scolare
appaiono più loquaci, più informati, più curiosi e critici; sanno ciò che vogliono
e ciò che non vogliono e sanno come fare per ottenerlo; sembrano anche
molto sicuri di sé, ma ci rendiamo conto che dietro questa apparente sicurezza
c'è una grande fragilità e, quando non sappiamo come fare per aiutarli, ci
limitiamo ad appagare i loro desideri più immediati.
Cos'è ancora cambiato? Sicuramente il modo di vivere e di comunicare. Nella
maggior parte dei casi, i genitori lavorano entrambi, hanno sempre meno
tempo da trascorrere in famiglia e quando sono con i figli preferiscono evitare
di criticarli, sgridarli e punirli. Cercano di rendere gradevoli le poche ore che
condividono, anche a costo di cedere in tutto e di rendere un po’ superficiali i
loro rapporti. Rapporti che si sono ribaltati rispetto al passato anche in senso
numerico: non più tanti bambini per due genitori, ma molti adulti intorno ad
un solo bambino, con la conseguenza che spesso la scuola è l’unico posto dove
può incontrare coetanei.
La scuola stessa è cambiata radicalmente con i nuovi programmi e la riforma
organizzativa del 1990, che l’ha rivoluzionata.
Nel frattempo, la televisione ha acquistato sempre, più spazio e potere:
trascorrendo molte ore davanti alla tv, i bambini incamerano una quantità
enorme di nozioni e opinioni, nonché una dose d’urto di emozioni.
L’insegnamento parallelo della tv produce un’omologazione dei processi di
conoscenza e una equiparazione dei sessi senza precedenza, ma anche uno
scollamento enorme fra adulti e bambini, tanto che spesso non sappiamo più
che cosa pensano, ma nemmeno come pensano i bambini che abbiamo
davanti.
All’ampliamento degli spazi mentali fa riscontro il contemporaneo
restringimento di quelli reali ed essi possiedono, di conseguenza, molte nozioni
astratte, ma non conoscono la realtà: confondono l’informazione con la
competenza, si sentono pronti ad affrontare i pericoli del mondo per il solo
fatto di essere sopravvissuti ad una caterva di immagini volgari e violente.
Eppure, quando escono allo scoperto, e la scuola elementare ha un valore
iniziatico in questo senso, sotto un’apparente baldanza rivelano profonde
insicurezze. La loro eccessiva autostima può essere facilmente messa in crisi da
un sistema scolastico che tende a privilegiare la valutazione dell’alunno
piuttosto che la conoscenza del bambino. Bastano un giudizio pesante e
affrettato dell’insegnante o la prepotenza di un compagno perché la baldanza
si trasformi in insicurezza e senso di inferiorità.
Dal canto loro i genitori, consapevoli che la società attuale è enormemente
più complessa di quella in cui vivevano i loro padri alla loro età, richiedono per i
loro figli il massimo dell’istruzione in vista della dura competizione sociale che li
attende; perciò il loro tempo libero non esiste quasi più.
 
 
5. Uscita dalla latenza e passaggio alla scuola media
 
Questo passaggio, che avviene in un periodo che è ricco, di per sé, di
cambiamenti e di compiti evolutivi, dovrebbe essere gestito in modo preciso.
Ogni insegnante sa che non è sufficiente il frettoloso passaggio di informazioni
che spesso avviene con chi non avrà nemmeno in classe il ragazzo, mentre
sarebbe utile, non solo per la formazione delle classi, ma soprattutto per i
ragazzi stessi, dare informazioni ai nuovi insegnanti affinché sappiano
“prenderli”, riescano ad ascoltarli e a motivarli.
Questo probabilmente farebbe diminuire il numero di quei ragazzi che vanno
a scuola come se andassero in prigione, in un luogo pieno di nemici dove non
ci si può concentrare sull’attività scolastica perché ci si deve difendere. Ma
mentre l’area dell’handicap ha trovato, seppur con fatica e non senza
contraddizioni, una propria regolamentazione che individua nell’insegnante di
sostegno un ruolo specifico di riferimento, l’area più vasta delle difficoltà
scolastiche, che non rientrano nella definizione di handicap, resta una terra di
nessuno a carico esclusivo dell’insegnante che, come si diceva sopra, non ha né
strumenti né conoscenze adeguate.
L’insegnante ha il compito di traghettare il ragazzo sulla nuova riva
dell’inserimento sociale; per questo scopo va sostenuto con la collaborazione
di altre professioni tenendo ben presente, però, che l’intervento specialistico è
utile, ma che il problema non si affronta trasformando l’alunno in un paziente o
in un caso sociale.
La relazione con gli insegnanti è una variabile fondamentale nel determinare
il successo o l’insuccesso scolastico e la consapevolezza dell’importanza di
questa relazione può orientare molto il ragazzo in questo viaggio che sta
intraprendendo.
Problemi d’integrazione scolastica (e non) dei
bambini e dei ragazzi immigrati
 
 
Piergiuseppina Fagandini
 
 
 
Dobbiamo affrontare il problema della comunicazione, in lingua italiana, in
particolare con gli alunni in situazione di difficoltà e marginalità; è un problema
che condividiamo, ognuno nella propria attività professionale, insegnante e
psicologo infantile, ed è spesso l’argomento dei nostri incontri sui “casi”. Ho
ritenuto opportuno partire da questa realtà comune, “i nostri casi”, perciò inizio
a descrivere la cruda realtà del problema, non per ricercarne le cause, il
colpevole (come ci capita spesso, diamo la colpa alla famiglia, alla scuola, alla
società, all’USL ecc.), ma per cercare di capire cosa c’è dentro la nostra relazione
con questi bambini, quali sono le fantasie e i sentimenti che circolano in quella
che chiamiamo relazione didattica.
 
 
1. La “diversità”
 
Ogni diversità è immediatamente sentita come un pericolo, una minaccia alla
propria identità. È un meccanismo psicologico difensivo tipico di ogni individuo,
ma anche di ogni gruppo e di ogni società. La paura di essere costretti a
rimettere in discussione la propria identità porta l’individuo o il gruppo ad
utilizzare diverse strategie culturali per annullare o delimitare la carica di
ambivalenza di cui, in tutte le società, lo “straniero”, il “diverso” è portatore.
Sempre rimanendo nel nostro comune ambito professionale, vorrei ricordare
attraverso quali modelli o strategie culturali le diverse culture storiche ed
etnologiche hanno considerato quello che noi oggi chiamiamo handicap: a) la
sacralizzazione ambivalente dei monstra naturae propria delle società
etnologiche; b) l’espiazione del pauper peccatore come occasione di redenzione
della colpa nell’Occidente medioevale; c) la patologizzazione del corpo,
considerato come “anormale” nel Settecento e Ottocento. Il mostro, il
peccatore, l’anormale sono i tre modelli prodotti dalle strategie difensive messe
in atto nelle diverse società per controllare la paura e l’angoscia che la
menomazione fisica crea nell’immaginario collettivo. La “fiducia scientifica”
permette di tollerare meglio questa paura e di accogliere questa “diversità”,
almeno in parte. Parlare di diversità e di uguaglianza comporta introdurre il
concetto di relatività. Le recenti riflessioni scientifiche, filosofiche e storiche
hanno messo in crisi l’idea del progresso graduale e cumulativo tipica della
teoria evoluzionistica. La rinuncia a parametri troppo lineari e troppo meccanici
per inquadrare le vicende della umanità può stimolare la riflessione su nuove
direzioni di sviluppo dell’esperienza culturale delle civiltà e della specie umana
nel suo complesso. Le molteplici interazioni che intercorrono tra individui,
collettività e civiltà, da un lato, e i loro molteplici ambienti naturali, dall’altro,
sembrano delineare, anziché un progresso lineare ed irreversibile, una
traiettoria che si avvolge su se stessa, una specie di cammino fatto di corsi,
ricorsi, deviazioni e parziali inversioni di rotta. Interazioni tra culture, forme di
spiritualità, forme di conoscenze eterogenee, che nel passato erano confinate in
particolari fasi della storia della civiltà o zone geografiche, si propongono oggi
anche nelle esperienze quotidiane di molti individui e di molte singole comunità,
come nelle vostre scuole, nelle vostre classi e, sempre più spesso, anche nelle
famiglie. Ma la difficoltà è grande. Per sdrammatizzare e insieme riflettere,
leggiamo il racconto “La Sentinella”, da “Le meraviglie del possibile”:
 
“Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano
cinquantamila anni luce da casa.
Un sole dava gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato,
faceva di ogni movimento una agonia di fatica.
Ma dopo decine di migliaia d’anni quest’angolo di guerra non era cambiato.
Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le
loro superarmi; ma quando si arrivava al dunque, toccava anche al soldato di
terra, alla fanteria, prendere posizione e tenerla, con il sangue palmo a palmo.
Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce
lo avevano sbarcato. E adesso è suolo sacro perché c’è arrivato anche il
nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della Galassia, dopo la lenta e
difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra,
subito; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un
accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava
combattere, coi denti e con le unghie. Era bagnato fradicio e coperto di fame e
freddo, e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva
male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era
vitale. Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni luce dalla
patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai
fatta a riportare a casa la pelle. E allora vide uno di loro strisciare verso di lui.
Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante
che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti col passare del
tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature
troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco
nauseante, e senza squame.”
 
Qui la scrittura dà voce ai sentimenti più profondi e primitivi: angoscia dello
sconosciuto, paura del diverso automaticamente sentito come pericoloso per la
propria identità, quindi per la propria sopravvivenza psichica e fisica, senza
distinzione, quindi l’ag-gressività come difesa primitiva. Purtroppo è ancora così,
nonostante la scienza ci ricordi, per esempio, che ci sono più differenze
cromosomiche tra due persone della stessa regione italiana che tra un italiano
ed un africano.
L’uguaglianza da perseguire è la condivisione, la conoscenza; in quest’ottica, la
differenza ha un significato progettuale e positivo, ma le resistenze sono grandi.
Si tratta di resistenze che, anche se in forma minore, sono sempre presenti in
ogni processo di apprendimento; apprendere veramente, cioè “apprendere
dall’esperienza”, significa accettare il nuovo, lo sconosciuto, il mutamento dentro
di sé. Questo è ciò che succede ad ogni bambino: la spinta, la forza per
affrontare il processo continuo e faticoso è il bisogno fondamentale di costruirsi
un’identità; l’uomo, ma soprattutto il bambino, hanno il desiderio e la necessità
di capire: “chi sono io ?”. La costruzione dell’identità è un continuo gioco di
somiglianze e differenze, identificazioni e differenziazioni; si possono costruire
identità “vere”, aperte all’arricchimento, al cambiamento e identità adesive, o
identità “come se”, fragili e insicure e per questo rigide, difensive, chiuse. È
possibile arricchire continuamente la propria identità se si rimane aperti al
conoscere.
 
 
2. La relazione adulto-bambino: essere e sentirsi diversi… tutti
 
“.... Quando noi non rispettiamo gli sforzi altrui di dare un senso al mondo,
di creare significati per loro stessi, commettiamo una forma di violenza
contro queste persone, o meglio, una violenza contro lo spirito umano. Non si
possono calpestare gli sforzi delle altre persone di costruire un mondo di
significati.”
(J. Bruner)
 
Per questo aspetto del problema, ho fatto riferimento al documento “Sentirsi
agitati tra due culture” elaborato dalle pedagogiste Paola Cagliari e Deanna
Margini; mi è sembrato particolarmente vicino, in modo concreto e insieme
approfondito, alle problematiche dei bambini e delle famiglie che voi incontrate
a scuola. Dal documento ho tratto le testimonianze che hanno fatto da filo
conduttore al mio tentativo di riflessione su argomenti così nuovi e coinvolgenti.
Ho premesso la frase di Bruner, perché, nella mia difficoltà, ho cercato di tenere
come obiettivo e valore la “ricchezza della diversità”.
Entriamo nel problema dell’apprendimento della lingua verbale e scritta, come
lingua “materna” e come lingua straniera, cercando di cogliere gli aspetti cognitivi
e affettivi che sono sempre intrecciati in ogni apprendimento umano, soprattutto
nel processo di apprendimento tra adulto e bambino, all’interno della famiglia e a
scuola, in patria e in terra straniera. Linguaggio: rappresentazione comunicabile
del pensiero. Pensiero: rappresentazione comprensibile della realtà. Linguaggio e
pensiero sono simboli. La costruzione e la dimensione simbolica è indispensabile:
a) per la costruzione dell’identità individuale della persona. b) per la costruzione
dell’identità della società. I codici simbolici utilizzati dall’uomo sono diversi
(religione, musica, danza, pittura, matematica ecc.), ma il linguaggio è
sicuramente il più usato. Per vivere e per crescere, un individuo o una società
hanno bisogno di codici simbolici per conoscere la realtà, muoversi al suo interno
e operare su di essa.
Nella società contemporanea occidentale si ipotizza una crisi della dimensione
simbolica. I cambiamenti della realtà (sviluppo tecnologico e mutamenti sociali
soprattutto) segnano un avanzamento troppo veloce, che non lascia tempo ai
codici simbolici della nostra società di variare, di adeguarsi ai mutamenti reali. Il
rischio è una realtà’ senza pensiero.
La realtà non pensata, impensabile, diventa per l’individuo e per la società una
realtà sconosciuta, estranea, quindi sentita come pericolosa. È necessario
conoscere (simbolicamente) per non avere paura e quindi per non usare come
meccanismo difensivo la comunicazione più primitiva: la forza fisica. Parto da
questi problemi generali, forse troppo vasti, per cercare di non negare la
complessità dell’incontro di culture diverse; nascondere le difficoltà dietro la
stereotipia dell’“accoglienza” mi sembra non permetta di cogliere, insieme alla
difficoltà, la ricchezza e le potenzialità della diversità, che è non solo degli
“stranieri”, ma di tutti gli individui.
Ritorniamo all’apprendimento della “lingua”; il linguaggio verbale è lo
strumento di comunicazione più forte tra gli esseri umani ed è parte inscindibile
dello sviluppo psicologico e cognitivo della persona. Il bambino cresce,
costruisce la propria identità personale (affettiva-cognitiva) e la propria
appartenenza culturale attraverso l’apprendimento della lingua della propria
famiglia, la “lingua materna”. È un apprendimento che avviene in un contesto di
comunicazioni emotive, affettive e insieme cognitive, etiche e sociali (connesse
ai valori, abitudini, riti, credenze sociali), prima all’interno della famiglia, poi nella
scuola e nella società attraverso canali sempre più ampi.
Cosa passa o cosa non passa attraverso il linguaggio tra genitori e figli?
Utilizzo una mia esperienza di lavoro:
Luca è un bambino di 6 anni, figlio di genitori ambedue non udenti; mi viene
segnalato per problemi comportamentali. Il suo papà e la sua mamma si
sforzano di parlare con il loro bambino “normale” il nostro linguaggio verbale,
ma il loro è un linguaggio povero, scarno, attraverso cui passano solo le
denominazioni degli oggetti e delle cose, ma non i pensieri e i contenuti
complessi dei sentimenti. Luca cerca di comunicare con loro come loro fanno con
lui, solo con i movimenti delle labbra, senza suono, ma non sempre le sue e le
nostre parole vengono capite dai genitori. Luca si sente escluso dal loro mondo,
la sua rabbia si trasforma in aggressività; guarda con attrazione e repulsione
insieme la comunicazione misteriosa del linguaggio delle mani tra la mamma e il
papà e tra loro e i loro amici non udenti. I genitori non gli hanno insegnato il
linguaggio delle mani perché almeno lui non si senta “diverso”. La logopedista mi
spiega che il linguaggio delle mani permette ai non udenti di comunicare molti
più pensieri e concetti del nostro linguaggio (che per loro manca di sonorità,
modulazione, sfumature affettive). Per entrare nel mondo affettivo e simbolico
(pensiero) dei genitori, Luca ha bisogno di imparare il linguaggio delle mani.
Si tratta di un esempio lontano dal nostro argomento, ma riporta a “mondi
diversi”, dove la diversità è considerata diseguaglianza, dove c’è un mondo e una
lingua della maggioranza, considerata più evoluta, che conta di più, e una di
minoranza che conta meno, che non vale la pena sapere.
È forse possibile fare un parallelo con i problemi dell’apprendimento della lingua e
della comunicazione tra genitori emigrati e figli, all’interno della famiglia e fuori
“con gli altri”, nella scuola e nella società. Per un bambino, per un figlio, attraverso la
lingua passa la cultura dei genitori (l’identità della loro società d’origine), ma anche
l’espressione e la comunicazione affettiva che s’intreccia con la costruzione del
pensiero.
Ogni genitore ha il desiderio-bisogno di trasmettere ai propri figli la propria lingua,
perché cultura e identità, storia personale e familiare coincidono nella propria
lingua. La lingua materna dà forma alle relazioni affettive tra soggetti, soprattutto se
si tratta di bambini e genitori, bambini e insegnanti, bambini e bambini. Questo
desiderio-bisogno incontra difficoltà e problemi particolari: a) nelle famiglie
composte da genitori di cui entrambi o uno provengono da un altro Paese (famiglie
immigrate o famiglie “miste”); b) per l’insegnante della scuola italiana che deve
insegnare la nostra lingua ai bambini stranieri e si rapporta con questi bambini, le
loro famiglie, le loro culture e le loro lingue. Si tratta di difficoltà ma anche
dell’opportunità di un incontro di lingue e culture diverse, un arricchimento nella
complessità.
 
 
3. Nella famiglia
 
Riporto brani di esperienze di famiglie, tratte dal documento, cercando di cogliere
soprattutto la varietà e l’unicità di ogni esperienza e alcuni dei significati che
“riempiono” l’apprendimento della lingua:
“Abbiamo deciso che lui parli inglese con la bimba per evitare di usare una lingua
quale l’italiano in modo innaturale, qualcosa che non ti viene dal cuore come
comunicazione, che devi sempre mediare attraverso il cervello con un’opera di
traduzione” (D.M., madre, Italia).
È qui evidente il valore affettivo della lingua che i genitori insegnano ai propri figli:
“Ho pensato se dover scegliere la lingua italiana o la nostra lingua araba e ho
riflettuto su questa frase: ‘La lingua fa la dittatura del pensiero’ e per aiutare questa
bimba dovevo scegliere una cosa: quella del pensiero, farla pensare” (M.E., padre,
Marocco).
In una frase questo padre ha concentrato tutto il valore cognitivo, simbolico, della
trasmissione e formazione del pensiero nella lingua.
“Una cosa importante è che il genitore straniero sia fiero della sua lingua e della
sua cultura, fierezza che ha bisogno anche di una comunità attorno che crei quelle
occasioni in cui il bambino può viverla nelle relazioni con gli altri ...” (D.M., madre,
Italia).
“... adesso quella famiglia ha comperato la parabola per poter ricevere i canali dei
Paesi del Maghreb e così il bambino ha modo attraverso la tv di ascoltare e
imparare la lingua araba” (A.B., padre, Marocco).
Questi genitori esprimono come la propria identità culturale passa attraverso la
lingua e come sia importante esserne consapevoli per le conseguenze educative di
questa “appartenenza”. Ma i bambini possono avere anche altri bisogni e desideri:
“... questa cosa di voler parlare la lingua di tutti gli altri è una estensione di questa
voglia che hanno sempre i bambini di essere come gli altri, come per
l’abbigliamento, i giochi, così la lingua. Come genitore lo vivi male, ma è abbastanza
normale, non è un grosso problema” (S.A.T., madre, Inghilterra).
Qui emerge, accanto alla diversità, il bisogno di uguaglianza proprio di ogni
bambino, la sensazione di doppia appartenenza che ogni bambino figlio
d’immigrati conosce nella propria crescita; può essere una ricchezza oppure un
problema per la costruzione dell’identità. Una doppia lingua, un’identità
complessa. Il bilinguismo può essere un arricchimento o può essere vissuto in
modo conflittuale; i genitori stessi possono volere difendere i figli da esperienze
negative e svalorizzanti:
“Forse a volte un genitore non vuol far vivere ad un figlio la stessa situazione che
ha vissuto nell’essere diverso dagli altri, con una cultura meno buona, meno
importante” (A.E., madre, Tunisia).
“... si deve creare un ambiente protetto per il bambino. Una volta, in un parco, dei
bambini italiani l’hanno presa in giro, lei ha sentito la mia insicurezza e ha reagito
così: ‘ Non voglio parlare tedesco’ ” (I.R., madre, Germania).
La svalutazione della lingua e della cultura può diventare svalutazione dei genitori,
quindi svalutazione dell’identità affettiva del bambino stesso.
 
4. Nella scuola
 
La lingua che ci rende uguali in un Paese ci rende diversi nell’altro Paese e quindi ci
costringe a riflettere sulla relatività delle situazioni in cui veniamo a trovarci con la
consapevolezza comunque dell’importanza di conoscere le proprie origini e le
origini di chi ci vive accanto.
“La cosa più importante è il viaggiare perché la radice e l’origine non la possiamo
togliere ai bambini. Arriverà il momento in cui il bambino chiederà: ‘Dove sono i
miei nonni?’, ‘Dove sono nato?’ ” (Z.M., padre, Arabia Saudita).
In questa frase credo si concentri tutto il significato dell’apprendimento come
percorso per uscire da se stessi, dal proprio egocentrismo, per essere se stessi
all’interno del gruppo a cui si appartiene e nell’in-contro con altri gruppi. Insegnare
a bambini stranieri può essere un’occasione di apprendimento per l’insegnante
stesso e per i bambini italiani, la dimostrazione che l’apprendimento è sempre
reciproco.
Apprendere deriva dal latino ab-prehendo = prendere da, impadronirsi; tra
bambini e adulti questo avviene in un processo d’identificazione introiettiva dove
ognuno mette dentro di sé, integrando con quello che è suo gli apprendimenti
nuovi che scaturiscono dall’incontro. Apprendere una lingua coinvolge tutta la
personalità del bambino; parlare è espellere nel mondo, leggere è prendere dentro
di sé i pensieri, le parole di altri; se queste parole, questi pensieri sono troppo
lontani da sé, dalla propria storia, ciò può procurare angoscia. Ma apprendere a
leggere e scrivere è un modo per mettere ordine nella realtà esterna e in quella
intrapsichica del bambino; imparare la lingua straniera permette di mettere ordine
nel mondo straniero in cui il bambino vive, mentre imparare la lingua dei propri
genitori permette di mettere ordine nel proprio mondo affettivo. La scuola
rappresenta un passaggio molto importante nel cammino verso l’indipendenza.
Andare a scuola, per tutti i bambini, significa uscire dall’ambiente familiare
conosciuto per accedere ad un altro nuovo. Questo è particolarmente vero per i
bambini immigrati; importante è che questi due mondi diversi non siano troppo in
conflitto, perché il bambino possa costruire la propria indipendenza, senza
diventare estraneo al proprio primo mondo. È importante, per l’insegnante e gli
“altri” bambini, non dimenticare che ogni bambino, ogni individuo è diverso; non
collocare quindi il bambino all’interno della categoria “straniero”, all’interno di un
gruppo etnico definito in base a stereotipi e pregiudizi, ma come soggetto unico e
irripetibile.
“... non gli si può chiedere dal primo giorno di dove è, dove è il suo Paese,
altrimenti il bambino si sentirà imbarazzato, con il timore di essere preso in giro dai
compagni” (A.B., padre, Marocco).
“Un bambino, da qualunque Paese provengono i suoi genitori, prima di tutto deve
sentirsi un bambino normale come tutti gli altri, soprattutto a scuola...” (A.B., padre,
Marocco).
L’incontro e la convivenza di culture nate in luoghi lontani e che si esprimono
attraverso lingue diverse può sollecitare la scuola ad interrogarsi su problemi, anche
di natura educativa, che in situazioni etniche omogenee possono essere rinviati o
negati.
“Il futuro e la speranza sono veramente i bambini, perché credo che loro insegnino
sulla convivenza delle culture, che non vuol dire cambiarle, ma conoscerle e lasciarle
stare insieme” (L.G., insegnante, Italia).
 
 

I criteri di selezione: workshop ed altre cure


ambientali
 
 

Leonardo Angelini
 
 
 
1. La selezione
 
Selezionare significa scegliere, discriminare. L’attività di selezione, ovunque
essa venga esercitata - e specialmente in culture competitive come la nostra -
viene vista come una attività sgradevole e, a tratti, odiosa. Ciò nondimeno, essa
è un aspetto importante della nostra quotidianità che merita tutta la nostra
attenzione. I bambini, fino ai sei anni - età del loro ingresso in scuola elementare
- almeno in apparenza non sono sottoposti ad alcun filtro selettivo. In effetti
sappiamo che un confronto, e quindi un’implicita selezione, viene fatta sia a
casa, da parte dei genitori, sia in asilo nido e scuola per l’infanzia, da parte delle
educatrici. E la trasformazione di queste due istituzioni da asili, e cioè da luoghi
di assistenza, in scuola, è cioè luoghi in cui programmaticamente vengono svolte
funzioni educative e formative, così come spinge nella direzione della singolarità
delle performance del bambino, allo stesso modo induce la nascita di uno
sguardo adulto individualizzante e selettivo.
Certo è, che con l’arrivo in scuola elementare, ciò che era implicito diventa
esplicito, ciò che era racchiuso ansiosamente nella mente dei genitori e degli
educatori della prima e della seconda infanzia, ciò che magari traspariva solo
dalla preoccupazione dello sguardo, diventa esplicitamente un compito della
scuola e della famiglia.
La scuola elementare diventa così il primo luogo ufficiale in cui il soggetto in
età evolutiva si viene a trovare in una situazione di selezione e confronto con gli
altri pari. Per cui è importante che noi che lavoriamo con i ragazzi a rischio e che
ci interessiamo oggi dei criteri di selezione in base ai quali predisporre questa o
quella attività riabilitativa, riparativa, partiamo cercando di comprendere in che
quadro generale si iscrivono le funzioni di selezione della scuola. Secondo
Mottana, sono quattro le funzioni che permettono al formatore di definire il
setting formativo e di mantenerlo come tale nel tempo e nello spazio sia per sé,
sia per la propria udienza, cioè per la propria classe: 1) la funzione istituente; 2)
la funzione in-ludente; 3) quella individualizzante; 4) infine, quella di
separazione.
A partire da questa scansione del setting formativo, in altra sede (Angelini,
1998) ho tentato di fare alcune considerazioni che possono tornarci utili oggi,
nel momento in cui cominciamo ad affrontare gli effetti che la terza funzione,
quella individualizzante – e perciò selettiva – esercita in generale sui soggetti in
età evolutiva e, in particolare, sui ragazzi a rischio.
1) La prima funzione, quella istituente, va vista essenzialmente come
istituzione di luoghi, tempi e campi del fare operativo scolastico. Cosicché,
prima ancora che il docente sia entrato materialmente nella classe, il docente
stesso, e con lui l'amministrazione scolastica, devono compiere una serie di
silenti, ma importanti operazioni: a) quella dell'istituzione di un determinato
luogo (la classe) in cui la scena formativa abbia diritto di svolgersi con tutte le
garanzie d’intimità e di non ingerenza da parte di estranei sulla scena stessa; b)
quella della istituzione di un tempo, più o meno rigidamente determinato
(l'orario delle lezioni), in cui docenti e discenti possano, anzi debbano, lasciarsi
prendere dai contenuti delle materie, possano, anzi debbano, mettere in atto
delle modalità di scambio sublimate e desessualizzate; c) quella infine
dell'istituzione di un determinato campo fatto di contenuti e di metodi, di
pedagogia e di didattica, di materie e di procedure sublimate e desessualizzate,
appunto, che permettano nel loro insieme di circoscrivere quel luogo, quel
tempo, quel campo come luogo, tempo e campo in cui non solo per il docente e
per ciascuno dei discenti, ma anche per l'amministrazione scolastica, per le
famiglie, per la società intera possa aver luogo il rapporto educativo e
trasformativo.
Per cui, in base a quanto abbiamo appena detto, quella che abbiamo appena
riassunto non è solo un'operazione burocratica e pedagogica, ma anche
un’importante operazione mentale che avviene nel mondo interno del docente
e gli permette di svolgere le proprie mansioni al riparo sia dalle tentazioni che
altrimenti potrebbero nascere dentro di lui sia dai fraintendimenti che
potrebbero nascere in coloro che sono fuori dal diretto contatto con i discenti.
2) La seconda funzione-quadro è costituita dalla definizione di una membrana
gruppale in-ludente. Una volta istituiti i luoghi e i tempi della formazione, e
allorché sia stata definita la natura sublimata e desessualizzata dei contenuti che
è possibile scambiare sul mercato formativo, il docente si trova di fronte ad un
secondo ostacolo: quello derivante dal fatto che la classe non sempre è disposta
a lasciarsi affabulare, a lasciarsi prendere dall'argomento sublimato e
desessualizzato che è all'ordine del giorno della lezione.
Docente e discenti, cioè, non solo devono convenire, all'inizio di ogni singola
lezione, sul fatto che quel luogo e quel tempo siano effettivamente per la
formazione; essi devono anche condividere la stessa passione sublimata e
desessualizzata per la materia, cioè per quell'insieme di argomenti cui i
programmi ministeriali solo vagamente alludono. E ancora una volta è il
docente che deve supportare tutto lo sforzo che la situazione richiede.
Infatti non è detto che la classe, senza una pre-occupazione da parte del
docente di avvincerla al tema, alla materia, si lasci in ogni caso affabulare. Anzi,
probabilmente, sua sponte la classe sarebbe più disposta a dis-trarsi per
rivolgersi ad altri setting, ad altri giochi, meno sublimati e più spontanei. Per
conquistare la classe, per in-luderla in quel gioco sublimato e desessualizzato
che noi chiamiamo lezione, il docente dovrà esplicare una funzione in-ludente e
affabulante che ottenga, possibilmente da tutti i discenti presenti, l'equivalente
sul piano scolastico di quell'ascolto a bocca aperta che è il primo obiettivo che si
propone di raggiungere il buon raccontatore di fiabe (Angelini, 1989).
3) Ed ecco che a questo punto scatta una terza funzione, la funzione
individualizzante, e cioè di selezione, che è quella che in questo momento più ci
interessa. Afferma Mottana: al docente non basta riuscire ad avvincere il
proprio uditorio, e cioè la propria classe per trasportarla nell'atmosfera fatata
della lezione. Egli, una volta che abbia espletato questa funzione, se non vuole
limitarsi ad un confusivo embrassons nous, non può non cominciare a nutrire
ora nei confronti della sua classe un secondo tipo di preoccupazione, che
Mottana definisce di tipo materno, quella che gli psicoanalisti francesi chiamano
funzione di rêverie (Laplanche e Pontalis).
In un primo tempo il docente, come una madre sufficientemente buona, ha
cercato di dare senso e spessore in maniera indistinta alla propria classe
immettendola sul piano dell'operatività, grazie al proprio desiderio materno in-
ludente, e invogliandola ad accogliere il sapere che da lui proviene, quasi fosse
un cibo buono da introiettare. Ora però il docente, in base alla maniera specifica
con cui ciascun discente ha introiettato il sapere che da lui proveniva, lo ha fatto
proprio, lo ha coniugato con tutto ciò che nel proprio mondo interno
preesisteva a quel sapere, non può non cominciare ad attribuire a ciascun
discente un senso, un profilo, uno spessore che è specifico, appunto, individuale,
personale. Questa attività, secondo Mottana, è l’erede della funzione materna
di rêverie, in base alla quale la madre, attraverso la propria attività interpretante
dei segnali che derivano dal bambino, comincia ad individuarlo, a delinearlo in
maniera univoca e specifica.
Sulla scena scolastica ogni gesto, ogni parola, ogni segno che va nella direzione
dell'individuazione riprende e aggiorna le funzioni materne secondarie di
individuazione, le propone coram populo, cioè di fronte a tutta la classe
attraverso l'esercizio della selezione, del voto, della pagella ecc.
E, così come nelle vecchie famiglie in cui c'erano molti figli i genitori non
potevano distribuire in maniera uguale il proprio amore fra essi e non potevano
esimersi dall'individuarli nelle loro particolarità esaltando i loro pregi e cercando
di correggere i loro difetti, allo stesso modo in classe, dopo che un certo
percorso in una situazione di illusione sia stato effettuato, in un secondo tempo
il docente non può esimersi dal valutare, dall'individuare i singoli discenti
scoprendo le loro vocazioni e cercando di spingerli a interessarsi anche di quei
terreni ai quali i singoli non dovessero sentirsi vocati.
4) Infine, la quarta funzione, quella di separazione: che ci ricorda che, come
accade in ogni storia che si rispetti, anche quelle che si raccontano sulla scena
scolastica finiscono; anche gli amori e gli odi, l'insieme di tutte le passioni
sublimate che sul palcoscenico della classe sono giocate dai protagonisti in essa
recitanti passano, e, una volta che sono passate, si stemperano nel ricordo. Così
avviene per il discente, così per il docente, così per ciò che accadde tanto tempo
fa all'inizio del ciclo, all'inizio dell'anno scolastico o del quadrimestre, così per le
cose che sono accadute oggi nella lezione che è appena terminata.
Ogni volta il docente e i discenti devono rimettere in cartella i propri ferri del
mestiere, e, nel fare ciò, devono cercare di non soffrire troppo a causa dei
necessari ridimensionamenti che hanno senz'altro accompagnato le operazioni
appena concluse sul piano dei processi d’individuazione e di selezione; devono
sapere sortire dalla membrana gruppale che fino ad un momento prima, se le
cose erano andate sufficientemente bene, avvolgeva tutti e recuperare, senza
molti danni, la propria membrana personale; devono ritornare a casa e non
sentire più sulle proprie spalle il peso dell'istituzione che obbliga tutti i suoi
attori alla formazione, alla in-formazione, alla trans\formazione e, in certi casi
neanche tanto peregrini, alla con - formazione e alla de-formazione. E,
soprattutto, ripetere queste operazioni di abbandono e di separazione in
continuazione: per i docenti, sempre di fronte a nuovi discenti con i quali
costruire nuove storie, nuove avventure di scoperta e di ricerca; per i discenti,
lungo il proprio processo di crescita personale, sempre di fronte a nuovi
argomenti, a nuovi docenti, a nuove entità che li arricchiscano e li facciano
crescere umanamente e professionalmente.
Riassumendo: queste funzioni si rinnovano a livello di ogni ciclo, di ogni anno
scolastico, di ogni quadrimestre, di ogni tranche programmatoria, di ogni
“lezione”. Nell’espletamento di queste funzioni, la scuola si pone come
contenitore nei confronti dei discenti (di ogni ordine e grado). In questo
contenitore le funzioni genitoriali però non sono esercitate in una atmosfera in
cui come a casa prevale l’affettività, ma sono mediate dal fare pedagogico
(Angelini, 1998).
Uno degli impedimenti che spesso rendono difficoltoso il fluire di queste
azioni formative sta nel fatto che la scuola non è in grado da sola di individuare
in modo adeguato, di selezionare - cioè - con sufficiente approssimazione coloro
che sono affetti da problemi rilevanti da un punto di vista degli apprendimenti.
In questi casi, spesso è necessaria una convergenza di più professionalità e di
più istituzioni, tanto nel lavoro di selezione iniziale, quanto nei momenti delle
verifiche in itinere e dell’orientamento finale.
Nel nostro ordinamento scolastico, sono tre le istanze istituzionali preposte
alla selezione, nonché alle verifiche in itinere e finali dei problemi
dell’apprendimento: 1. la scuola, 2. la sanità pubblica e 3. la famiglia. Istituzioni
che, per svolgere questo lavoro, si avvalgono di una pluralità di professioni e
competenze.
Per cui, nei casi di problemi di apprendimento, bisogna tenere presente la
rilevanza di due versanti: 1. quello interprofessionale e 2. quello
interistituzionale.
Selezionare, infine, significa discriminare, e cioè fare delle diagnosi il più
possibile mirate, al fine di riparare, cioè stendere dei piani riabilitativi ad hoc e
dinamici, cioè individualizzati e scanditi nel tempo. Per cui occorre distinguere
sempre due momenti, uno selettivo ed uno riparativo: a. la selezione, al fine di
un inserimento in un luogo dinamicamente adatto al tal bambino, con il tal
problema; b. l’intervento riabilitativo mirato, cioè adatto alle particolari carenze,
esigenze riparatorie che quel caso, e solo quel caso, richiede.
Questi due interventi sono fra loro collegati e richiedono molta professionalità
e acume. Solo valutando la ricchezza e l’innervazione nel tessuto istituzionale di
una pluralità di luoghi che siano non tanto in concorrenza fra di loro quanto
piuttosto in una posizione di complementarità, possiamo comprendere se un
dato territorio è in grado, o meno, di prendersi cura dei bambini e dei ragazzi
con difficoltà di apprendimento.
Al contrario, un territorio che non sia riccamente innervato di proposte
discriminate in base ai bisogni particolari dei soggetti in età evolutiva non sarà in
grado, anche in presenza di un buon apparato diagnostico, di svolgere alcuna
cura efficace. Così come un territorio, pur ricco di proposte discriminate, che
però rinunci alla complementarità non sarà in grado di sfruttare per il meglio le
risorse disponibili.
 
 
2. Selezione dei bambini e dei ragazzi con problemi di apprendimento fra
formazione, riabilitazione e assistenza
 
Per ogni caso di bambino e di ragazzo con problemi di apprendimento
l’insieme dei servizi territoriali deve contemperare tre dimensioni : 1. la
formazione, 2. la (ri)abilitazione, 3. l’assistenza.
Di modo che si può affermare che - come i lati di un triangolo possono essere
più o meno lunghi senza mai perdere, nella loro composizione, la caratteristica
di definire insieme un triangolo - allo stesso modo le tre dimensioni cui abbiamo
appena accennato corrispondono ad un’unica esigenza restaurativa che va
coniugata secondo un mix che varia, in base alle necessità particolari di questo o
di quel ragazzo, alla sua età, ai suoi problemi specifici, alla famiglia o alla
istituzione in cui vive, alle possibilità offerte, o meno, dal contesto di studio ecc.
 
Qualora il momento della selezione risulti slegato dai momenti di
restaurazione - e cioè di formazione, di (ri)abilitazione e di assistenza - l’invio in
queste sedi, che poi è il fine dell’attività selettiva, può risultare più o meno
danneggiato.
Da una parte, bisogna infatti tenere ben presente che il momento selettivo e
quello diagnostico nel territorio non hanno senso in se stessi, anzi risultano
fonte di ulteriori angosce per le famiglie e per i pazienti qualora siano disgiunti
dalle sedi preposte alla restaurazione del Sé dei bambini e dei ragazzi, cosicché
ad esempio una ricerca sull’x fragile svolta solo a fini accademici e slegata da
ogni indicazione di cura specifica è destinata solo a far lievitare il tasso di ansia e
angoscia nella famiglie.
D’altra parte, deve essere chiaro che un servizio di restaurazione che rinunci
alla propria specificità, alla propria vocazione, e si proponga onnipotentemente
di accogliere tutti i casi senza alcuna coscienza dei propri limiti, è votato al
fallimento: ad esempio quegli istituti che prendono di tutto perché non si
azzardano a fare selezione spesso - proprio in base a questa mancata opera
selettiva - finiscono con il vedere non realizzati i loro obiettivi. E allo stesso
modo risulterà comunque votato al fallimento anche quel centro che delega ad
altri la selezione votandosi, così, a venire riempito di contenuti e di carichi di
lavoro in maniera eterodiretta.
Al contrario, ed in positivo, guardiamo cosa chiedono le strutture residenziali e
semiresidenziali psichiatriche reggiane agli invianti: la premessa, affinché una
presa in carico possa avvenire in queste situazioni, è nella consapevolezza, da
parte dell’équipe territoriale inviante e della famiglia, della limitatezza del
compito che le strutture semiresidenziali possono svolgere e nel fatto che una
parte delle necessità sanitarie ed assistenziali dei pazienti ricada (ancora) su chi
ha fatto l’invio.
Per tutti questi motivi, ribadiamo la necessità di connettere il momento
diagnostico a quello restaurativo; il che equivale, in altre parole, a valorizzare il
concetto di rete. Però, perché si possa dire di lavorare effettivamente in rete, è
necessario che ciascun operatore contemperi il senso della propria
appartenenza professionale ed istituzionale con il senso di una cointeressenza
più vasta. Bisogna avere cioè la sensazione più o meno precisa di far parte di una
rete di reti, il che implica:
- la predisposizione del singolo professionista e dell’istituzione (cioè del gruppo
di lavoro di cui lui fa parte) ad un ridimensionamento in base ai propri limiti ed
alle proprie possibilità, nonché ai limiti e alle possibilità del gruppo di lavoro di
cui si fa parte (insomma la presenza, nel singolo professionista e nel gruppo di
lavoro di una sorta, di Ideale dell’Io realistico e cosciente della propria fallibilità);
- la predisposizione dinamica al ridimensionamento: il che implica l’importanza
della formazione (quello che non si è in grado di dare oggi sarà possibile dare
domani, se ci si forma, se si progredisce nel proprio iter formativo individuale e di
gruppo);
- il non lasciarsi descrivere dagli altri, il fatto cioè di non rinunciare a fare da sé
una propria selezione (se il gruppo di lavoro non definisce i propri confini
restaurativi si ritrova presto pieno delle urgenze e delle grane le più
incongruenti, e questo equivale, come dicevamo prima, alla pianificazione del
proprio fallimento);
- in ultima istanza, e conseguentemente, è necessario definire un preciso luogo
di selezione che sia interno al luogo restaurativo, o in rapporto dialettico con
esso.
Tale luogo restaurativo va ridefinito in continuazione, in base agli
aggiustamenti che l’esperienza suggerisce. Il che significa che, nella riflessione
sull’e-sperienza fatta, non bisogna mai trascurare una ri- osservazione critica di
come è pensato e organizzato questo momento.
 
 
3. Selezione dei problemi dell’apprendimento e fasce d’età
 
Vi sono tre momenti delicati in cui è particolarmente importante soffermare la
nostra attenzione: a. la seconda infanzia; b. la latenza; c. la preadolescenza.
a. La seconda infanzia è il momento in cui emergono i problemi dei pre-
apprendimenti, e, in particolar modo, i problemi di linguaggio. La prima cosa
che dobbiamo chiederci, di fronte a questo, come agli altri due momenti critici,
è: chi osserva che cosa? Normalmente in questa età le istanze osservanti sono:
le assistenti sociali, i pediatri di base, le educatrici di scuola per l’infanzia, e, in
seconda battuta: gli psicologi, i neuropsichiatri infantili. Tutti questi
professionisti osservano vari aspetti: 1. il ritardo nell’acquisizione del linguaggio
verbale; 2. la differenza fra competenza verbale attiva (lessico) e quella passiva
(vocabolario); 3. la discriminazione fra competenze specifiche nel lessico
familiare (dialetto) e quelle nel linguaggio burocratico-curiale; 4. le condizioni
familiari con particolare riguardo: 4.1. da una parte, alle competenze verbali dei
genitori e soprattutto della madre (livello dell’istruzione); 4.2. dall’altra alle loro
capacità residue sul piano della genitorialità distinguendo: 4.2.1. svantaggio
socioculturale, cioè le scarse possibilità della famiglia sul piano culturale, in
permanenza di funzioni genitoriali svolte in maniera sufficientemente buone
(es.: molte famiglie immigrate, specialmente subito dopo il loro arrivo); 4.2.2.
deprivazione più o meno accentuata, cioè l’inca-pacità di esercitare le funzioni
genitoriali in maniera sufficientemente buona; 5. le condizioni contestuali di vita
in cui il bambino vive e che vanno al di là della famiglia: ad esempio, ci si deve
sempre chiedere quali obiettivi reali persegue non tanto, in generale, la scuola
materna che il bambino frequenta, quanto quelli che in concreto sono gli
obiettivi perseguiti dal gruppo di educatrici cui il bambino è affidato nella
quotidianità; 6. la necessità di una diagnosi differenziale (da parte dei
neuropsichiatri infantili) poi si impone chiaramente ogni volta che ci sia il sia pur
minimo dubbio (strabismo, scialorrea ecc., eventualmente associati al ritardo
nell’acquisizione del linguaggio verbale).
b. La latenza ed i problemi degli apprendimenti di base: Il “chi osserva che
cosa” in questo caso, e cioè con questi bambini più grandi, diventa l’insieme di:
le docenti di scuola elementare, gli psicologi, i neuropsichiatri infantili (le
assistenti sociali, i pediatri di base), che osservano e valutano: 1. il ritardo
nell’acquisizione degli apprendimenti di base; 2. la differenza fra competenza
verbale attiva (lessico) e quella passiva (vocabolario); 3. la discriminazione fra
competenze specifiche nel lessico familiare (dialetto) e quelle nel linguaggio
burocratico-curiale; 4. le condizioni familiari con particolare riguardo: 4.1. da
una parte, alle competenze verbali dei genitori e soprattutto della madre (livello
dell’istruzione); 4.2. dall’altra, alle loro capacità residue sul piano della
genitorialità distinguendo, come sopra: 4.2.1. svantaggio socioculturale, cioè le
scarse possibilità della famiglia sul piano culturale, in permanenza di funzioni
genitoriali svolte in maniera sufficientemente buona (es.: molte famiglie
immigrate, specialmente subito dopo il loro arrivo); 4.2.2. deprivazione, più o
meno accentuata, cioè l’incapacità di esercitare le funzioni genitoriali in maniera
sufficientemente buona; 5. le condizioni contestuali di vita in cui il bambino vive
e che vanno al di là della famiglia: ad esempio, ci si deve sempre chiedere quali
obiettivi reali persegue non tanto, in generale, la scuola elementare che il
bambino frequenta, quanto quelli che in concreto sono gli obiettivi perseguiti
dal gruppo di docenti cui il bambino è affidato nella quotidianità; 6. la necessità
di una diagnosi differenziale (da parte dei neuropsichiatri infantili) poi si impone
chiaramente ogni volta che ci sia il sia pur minimo dubbio (strabismo, scialorrea
ecc., eventualmente associati al ritardo nell’acquisizione del linguaggio verbale)
c. La preadolescenza, i problemi della ridefinizione del Sé durante la crisi
puberale ed i residui ritardi sul piano degli apprendimenti di base. Il “chi osserva
che cosa” subisce un altro piccolo, ma significativo cambiamento, ed è
composto dall’insieme di: le docenti di scuola media, gli educatori degli istituti,
gli psicologi, i neuro-psichiatri infantili, (le assistenti sociali, i pediatri di base).
Questi professionisti, nel caso del preadolescente osservano: 1. la forza o la
fragilità del Sé del preadolescente nella fase di passaggio; 2. il suo grado
d’integrazione nel gruppo di pari; 3. le caratteristiche del gruppo di pari; 4.
come il ragazzo vive gli altri tre luoghi dell’adolescenza (oltre il gruppo, la
famiglia, la coppia, lo stare da soli); 5. la persistenza o meno del ritardo
nell’acquisizione degli apprendimenti di base; 6. la differenza fra competenza
verbale attiva (lessico) e quella passiva (vocabolario); 7. la discriminazione fra
competenze specifiche nel lessico familiare e quelle nel linguaggio burocratico-
curiale; 8. le condizioni familiari con particolare riguardo: 8.1. da una parte, alle
competenze verbali dei genitori e soprattutto della madre (livello
dell’istruzione); 8.2. dall’al-tra, alle loro capacità residue sul piano della
genitorialità distinguendo sempre fra: 8.2.1. svantaggio socioculturale, cioè le
scarse possibilità della famiglia sul piano culturale, in permanenza di funzioni
genitoriali svolte in maniera sufficientemente buona (es.: molte famiglie
immigrate, specialmente subito dopo il loro arrivo); 8.2.2. deprivazione, più o
meno accentuata, cioè l’incapacità di esercitare le funzioni genitoriali in maniera
sufficientemente buona; 9. le condizioni contestuali di vita in cui il ragazzo vive e
che vanno al di là della famiglia: ad esempio, ci si deve sempre chiedere quali
obiettivi reali persegue non tanto, in generale, la scuola media che il ragazzo
frequenta, quanto quelli che in concreto sono gli obiettivi perseguiti dal gruppo
di docenti cui il ragazzo è affidato nella quotidianità.
 
 
 
 
Bibliografia:
 
Angelini L., Le fiabe e la varietà delle culture, CLEUP, Padova, 1989
Angelini L., Affabulazione e formazione. Docenti e discenti come produttori e
fruitori di testi, UNICOPLI, Milano, 1998
Laplanche J., Pontalis J.B., Fantasma originario, Fantasmi delle origini. Origini del
fantasma, Il Mulino, Bologna, 1988
Mottana P., Formazione ed affetti, Armando, Roma 1993
 

Tecniche di conduzione dei workshop: i


contenuti in preadolescenza
 

Leonardo Angelini
 
 
1. Le molteplici dimensioni del viaggio
 
Nella relazione di ieri, Workshop e ingresso in preadolescenza, tenuta dalla
dott.ssa D. Bertani, a un certo punto è emersa la metafora del viaggio. Oggi,
nell’affrontare il tema dell’individuazione dei contenuti del vostro lavoro nei
workshop, riprenderemo questa metafora.
Spero di riuscire a dimostrare quanto, di fronte al problema del passaggio
dall’infanzia all’età adulta, la posizione delle psicologhe tirocinanti impegnate
nei workshop sia sovrapponibile a quella delle operatrici dei Get; non solo, ma
quanto entrambe queste posizioni siano (o potrebbero essere) ampiamente
sovrapponibili a quelle di qualsiasi docente della scuola media inferiore.
Infatti, per tutti gli adulti che si pongono in rapporto con i preadolescenti sul
piano del fare operativo, pedagogico, il problema rimane quello del viaggio
che il preadolescente si accinge a compiere e dell’atteggiamento che l’adulto
ha nei confronti dell’immanenza di questo viaggio, dei pericoli che in esso sono
insiti, dei problemi di separazione cui tutti gli attori presenti a casa, come a
scuola, vanno incontro.
In tutti gli adulti che si accingono a lavorare con gli adolescenti, quindi,
qualsiasi sia la loro particolare professionalità o la loro posizione nei confronti
del preadolescente, nascono dei problemi inerenti il rapporto con il viaggio che
il preadolescente sta cominciando a fare, ed in particolare: il fatto che si tratta
di un viaggio verso l’ignoto; il fatto che ci si trova di fronte un viandante che si
accinge a partire per il viaggio senza le certezze che aveva durante la latenza; il
fatto che le condizioni in cui comincia il viaggio sono quelle dell’accentuazione
dell’ambivalenza nei confronti delle figure adulte; il fatto che il viandante da
una parte è impaziente di cominciare il viaggio, di attrezzarsi autonomamente
per avventurarsi in mare aperto, dall’altro è tentato a regredire, a dipendere
ancora dall’adulto. Ciò che voglio aggiungere all’argomentazione di ieri è il
tema della molteplicità della dimensione del viaggio. Infatti solitamente,
allorché si parla di ragazzi con problemi di apprendimento, si pensa che un
lavoro riparativo, quale è quello che sia le operatrici dei Get, sia le psicologhe
tirocinanti stanno facendo, debba coincidere con ciò che comunemente si
intende per apprendimento. Ma non dobbiamo farci trarre in inganno dalla
parola apprendimento: in effetti, essa indica spesso qualcosa di circoscritto ad
un insieme di concetti che potremmo definire le materie, la scuola ecc. Invece
ab-prehendo significa, letteralmente, prendo da…; ciò vuol dire che è possibile
intendere quell’opera di prensione, di impossessamento come qualcosa che va
al di là dell’ab-prehendere scolastico. E allora, se abbandoniamo la comodità
della posizione di circoscrizione cui l’uso solito della parola apprendimento ci
riconduce, e ci esponiamo alla molteplicità di significati che invece in essa sono
impliciti, tutta la scena cambia aspetto, direi, si mobilizza, si arricchisce di una
molteplicità praticamente infinita di opportunità formative da proporre all’ab-
prendimento del preadolescente, oggi, come - del resto - del fanciullo in età di
latenza, ieri, e dei più grandi domani.
Inoltre, da questa nuova prospettiva, la nostra posizione di operatori di
frontiera (Napolitani) che lavorano, in particolare, sul disagio, e cioè con i
ragazzi a rischio, risulta avvantaggiata; la nostra, ma anche quella dei docenti
che lavorano con i ragazzi meno svantaggiati. Potremmo dire anzi che questa
visione più ampia del significato del viaggio, che il preadolescente si accinge a
compiere, potrebbe risultare, alla fine, più ricca di opportunità e di proposte
per tutti. La molteplicità di significati che derivano da un ascolto più attento del
preadolescente, da un più attento esame della reale natura del suo viaggio,
della reale portata del suo passaggio, può essere ricondotta a tre dimensioni
che racchiudono in sé e probabilmente esauriscono tutte le varie dimensioni
del viaggio. Esse, a mio avviso sono: 1. le materie scolastiche; 2. gli interessi (le
vocazioni) dei singoli, indipendenti dalle materie; 3. il corpo. Si definiscono così,
soprattutto per i nostri casi, ma non solo per essi, tre geografie di luoghi da
conoscere, da esplorare, tre ordini di contenuti da scandagliare ed ovviamente
tre ordini di problemi da affrontare.
 
 
2. Gli apprendimenti scolastici: un viaggio nelle materie
 
Il luogo delle materie scolastiche è un luogo geografico fatto di programmi, di
lezioni formali, di percorsi certi e ben delimitati. All’interno di questa arena i
nostri ragazzi si sono già mossi fin dalla seconda infanzia (i pre-apprendimenti)
e più scopertamente durante tutta la latenza subendo spesso delusioni a volte
cocenti (con relativi problemi di autostima); sono stati oggetto
dell’investimento, più o meno accentuato, da parte dei genitori e dei docenti
che li hanno riempiti con le proprie imago ideali e giudicanti e con le altre parti
interne, più o meno introiettate, con le quali ciascun adulto solitamente
dialoga ed interagisce con il preadolescente. La classe, quindi, è un luogo di
confronto che, da lunga pezza, vede i nostri ragazzi perdenti nel rapporto con il
gruppo classe, una vera e propria arena delle sconfitte, un luogo in cui la
distanza fra la propria capacità di ab - prehendere e quella degli altri è a volte
incolmabile. E d’altro canto qui, cioè con il ragazzo a rischio - al contrario di quel
che avviene col disabile -, non ci troviamo di fronte ad una stabile identità
precaria (Montobbio), ad una vaga autoconsapevolezza dei propri limiti, ma al
contrario di fronte ad un’acuta e dolorosa sensazione di impotenza, figlia di un
altrettanto preciso e spesso realistico confronto.
Si tratta quindi di un luogo geografico conosciuto, di una vera a propria
geografia politica con tanto di nomi di città e di strade, di porti e di nodi
ferroviari: Italiano, Matematica, interrogazione… ecc., che il ragazzo ha già
abitato a partire dall’inizio della latenza. Si tratta di luoghi che hanno in sé
tante merci, tante ricchezze che in passato egli, il ragazzo a rischio, avrebbe
dovuto ma non ha potuto ab-prehendere, con tanti dirigenti del traffico delle
merci educative, cioè con tanti docenti che avrebbero potuto ma a volte non
hanno saputo insegnarlo di sé, che avrebbero potuto arricchirlo, ma che, alla
fine, non hanno prodotto se non risicati arricchimenti.
La carta geografica che rappresenta questi luoghi è quella tipica della
geografia politica: le città, i porti, le strade, le ferrovie, le grandi vie di traffico
aereo e marittimo, ecc.: nel nostro caso, i programmi, i curricoli, le schede, i
libri: tutto materiale arci conosciuto, ma che ha già sedimentato tante
delusioni e che, perciò, presenta, in sé e per sé, solo pochi motivi di interesse e
di attrazione che, se rapportati ai grandi problemi di stima e autostima che
vengono dal giudizio dei docenti del mattino, diventano ancora più esigui.
 
 
2. Il viaggio inteso come ricerca dei propri interessi, delle proprie
vocazioni
 
Se la geografia dei luoghi precedenti può essere apparentata con la geografia
politica, quella consistente nella ricerca dentro se stessi dei propri interessi e
delle proprie vocazioni, invece, mi fa venire in mente la geografia fisica. Si tratta
di territori meno marcati dalla mano artificiale dei programmi, meno esposta
alle standardizzazioni che inevitabilmente in essi è implicita.
Monti, pianure, fiumi, mari, oceani ecc. che non sono stati conosciuti in
precedenza, se non in base alla forza dell’emulazione e delle identificazioni
infantili (le imago parentali prese a modello). Imago sulle quali è avvenuta
l’opera di erosione tipica della preadolescenza (con l’abbattimento dei vecchi
idoli), e quindi terreno in parte vecchio, ma vissuto con sospetto, in parte
nuovo e ignoto, da esplorare con circospezione. Terreno, inoltre, intriso di
grandiosità (i nuovi idoli della tv, dello sport ecc.) che genera attese irrealistiche
ed onnipotenti, ma che tiene vivo l’Io Ideale (Blos), e spinge il ragazzo verso il
mare aperto della sperimentazione e dell’impegno. Il ridimensionamento
dell’Io Ideale sarà poi il doloroso, ultimo tratto di strada prima che il ragazzo di
oggi diventi adulto, e cioè nell’imminenza dell’accesso all’adultità (qualora però
non sia stato brutalmente offeso prima).
La carta geografica che abbiamo di fronte in questo caso è quella
dell’orientamento, il che implica: 1. la scoperta delle vocazioni, e cioè quali
sono gli interessi per i quali il ragazzo è vocato o da una voce interna che viene
dall’infanzia e dal confronto con le imago genitoriali ideali e superegoiche,
allorché esse ci siano, o con imago genitoriali che derivano dal precedente
lavoro restaurativo che sul ragazzo e sulla ragazza è stato fatto a partire dal
momento che è stato segnalato, o ancora dal confronto con noi stessi,
operatori dell’intervento restaurativo, nel momento in cui ci atteggiamo nei
loro confronti come Ideale dell’Io e Super-Io sostitutivi (e non come Io
sostitutivo, come invece bisogna fare nel caso dei disabili); 2. preparazione di
un terreno solido di sperimentazione della vocazione: e cioè preparazione degli
atelier, ufficiali e non, affinché il ragazzo e la ragazza abbiano la possibilità di
allevare la propria vocazione e farla lievitare nell’impegno quotidiano. In
questo modo, è possibile perseguire anche un ri-utilizzo a fini produttivi e
creativi delle istanze libidiche e aggressive, che altrimenti sono destinate a
defondersi e a risultare dannose a sé e agli altri (terreno dell’acting-out); 3.
sopportazione dell’inerzia: e cioè sopportazione del fatto che i ragazzi possono
anche impiegare molto tempo prima di arrivare a comprendere quale è la loro
vocazione. Cosicché ciò che a un adulto distratto apparirà come un
bighellonare senza meta è in effetti proprio quel dibattersi nella bonaccia di cui
parla Winnicott, e cioè uno stato di inattività che ha bisogno di aiuto e di attesa
paziente prima di poter sfociare in qualcosa, un ribollire che ha bisogno di
tempo prima di diventare azione adulta e conseguente.
 
 
3. La nuova geografia della corporeità in preadolescenza
 
Nel caso del viaggio nelle materie il preadolescente deve, più o meno
dolorosamente ripercorrere percorsi di viaggio già compiuti, approfondimenti
quindi, ri-visitazioni.
Nel caso del viaggio nei luoghi più intimi, meno istituzionali in cui albergano le
vocazioni, nascoste spesso sotto una coltre d’indolenza e di accidia, vi è
sempre nel preadolescente una traccia criptica che viene dal passato, o una più
chiara che viene dal presente.
Nel caso del viaggio nel corpo pubere, invece, il terreno è molto più
accidentato. In questo caso le competenze provenienti dalle esperienze
precedenti, e cioè quelle che provengono dalle tracce mnestiche accumulate
nella prima e seconda infanzia intorno ai capisaldi delle varie organizzazioni
pregenitali e genitali sono state per lo più scarsamente mentalizzate,
dolorosamente e provvisoriamente risolte, e alla fine abbandonate in latenza
poiché la tendenza all’intellettualizza-zione aveva di fatto distolto lo sguardo
dal paesaggio del corpo, per indirizzarlo verso quello della mente.
Ciò per quanto riguarda il passato; ma anche venendo al presente, la
situazione risulta altrettanto criptica: infatti il confronto con le imago genitoriali
attuali risulta inficiato sul piano corporeo sia dai contenuti incestuosi più o
meno tabuizzati presenti nel ragazzo, sia dalle repressioni e dalle rimozioni che
la generazione precedente ha ricevuto su questo piano e che ha trasmesso al
bambino ieri, e continua a trasmettere al ragazzo oggi, tramite l’educazione
(tramite tutta l’educa-zione, e non solo tramite l’educazione sessuale).
Per cui la carta geografica che il ragazzo si trova di fronte in questo caso è
come una cartina muta che presenta al preadolescente solo i contorni vaghi di
quel fenomeno che pure sta massicciamente trasformando il suo corpo e che si
chiama crisi puberale lasciando a lui, e solo a lui, il peso della decifrazione di ciò
che sulla sua stessa carne sta avvenendo. Si tratta di un’opera di ri-
funzionalizzazione, di ri-attribuzione di senso che vede nella masturbazione e
negli interessi perversi polimorfi riemersi in questo periodo l’equivalente di ciò
che nelle altre due dimensioni sono i programmi scolastici e l’orientamento.
 
 
5. Necessità di un incremento e di una coniugazione fra le tre dimensioni del
viaggio
 
Come favorire, sul piano dei contenuti, l’incremento e la coniugazione fra
queste tre dimensioni del viaggio?
Innanzitutto occorre esaminare l’entità del ritardo sul piano degli
apprendimenti scolastici: se esso risulta essere consistente allora veramente,
poiché su quel terreno il ragazzo ha già ricevuto in passato molte delusioni,
insistere sarebbe inutilmente avvilente. Esaminare, in secondo luogo, il vissuto
sul piano dell’autostima che ogni singolo ragazzo ha di questo ritardo, facendo
bene attenzione fra ciò che in questa età il ragazzo ostenta e ciò che
effettivamente vive interiormente. Favorire poi l’emergere dentro al ragazzo
delle sue vocazioni: e ciò può essere fatto - come abbiamo appena visto - con
un’opera paziente di osservazione e d’attesa. Valutare dinamicamente le
vocazioni prima o poi emerse nel ragazzo cercando di appurare quale incidenza
esse abbiano nella definizione del suo Io Ideale. Esaminare come sta
avvenendo il clivaggio (cioè l’impianto) della sua genitalità. Favorire l’emer-gere
della sua area di intimità, rispettarla, cercare di instillare anche in lui/lei il
rispetto e la fierezza per questa nuova e tenera presenza interna. Come
vedremo meglio parlando dei metodi, far capire al ragazzo che il Get, il
workshop presentano entrambi due potenti strumenti in grado di aiutarlo nel
suo viaggio verso l’età adulta; due strumenti che sono a sua disposizione e che
può usare, o meno: poiché deve sempre essere lasciato a lui/lei il tempo e la
possibilità concreta di usarli. Tali strumenti sono essenzialmente: voi stesse,
psicologhe, educatrici, tirocinanti, volontarie, intese in senso sia individuale che
gruppale; il gruppo di pari, sotto la vostra direzione. Infine, cercare dentro di
voi i presupposti di un incontro che sia nuovo per loro. Tenete presente, però,
che non è pensabile che a questa età essi cerchino in voi un sostituto
genitoriale (se lo fanno, questo va visto come sintomo di una carenza, di un
bisogno). È più probabile che essi cerchino un’alleanza di tipo nuovo (o con
immagini di un fratello, di una sorella, di un amico maggiori e più saggi, o con
qualcuno di assolutamente nuovo e imprevisto) e occorre che voi siate pronte
a trovare in termini controtransferali, dentro di voi, un’assonanza con queste
istanze.
Il che, beninteso, non significa compiacerli e porre i presupposti per
acconsentire a costruire, ad esempio, una banda di tipo para-delinquenziale;
bensì essere disposte a definirvi come modelli deboli, fallibili, raggiungibili,
riparativi, ma fermi, rassicuranti, costanti nella dedizione, estremamente
discreti e pronti, soprattutto, a ritirarsi al primo accenno d’insofferenza e di
disagio.
 
 
 
 
 
Bibliografia:
 
 
Angelini L., “L’adolescenza dell’handicappato psicofisico”, in: Setting riabilitativi
con gli adolescenti handicappati, Usl N.9 di Reggio Emilia 1992, pp.13\24
D.Bertani: "Genitorialità, ed handicap", in: Se ng riabilita vi con gli
adolescen handicappa , op.cit. pp.51\58
Blos P., “La genealogia dell’Io Ideale”, in Blos P., L’adolescenza come fase
di transizione, Armando Ed., Roma 1988
Montobbio et altri: "L'handicappato psichico: adolescente senza
adolescenza", in AA.VV. Attualità di neuropsicopatologia in età adolescenziale,
Quaderni di N.P.I. n°22, vol. II, pagg.296/301.
Tecniche di conduzione dei workshop: i metodi e
gli strumenti
 

Leonardo Angelini
 
 
 
 
 
1. Metodi e strumenti: la spirale della programmazione
 

Diamo un’occhiata alla nota immagine della spirale della programmazione. In


sede psico-pedagogica, così come in sede sanitaria, possiamo osservare l’evolversi
di un percorso programmatorio, scandito nel tempo secondo determinati criteri e
linguaggi, i cui particolari variano a seconda delle concrete microstorie locali di
ogni singola istituzione, ma che - grosso modo - sono tutti riconducibili alla spirale
sopra illustrata.
Fare un’opzione nel senso della programmazione, però, non significa affatto fare
un’operazione banale: l’abitudine e l’assuefazione alla programmazione che noi
tutti abbiamo, dal momento in cui abbiamo cominciato a lavorare in istituzioni
moderne e professionali22, ci conduce a dare per scontato ciò che, in effetti, non
lo è affatto. Infatti, la parola programmare significa commisurare il futuro a
vantaggio di qualcuno che, nel nostro caso, è l’istituzione in cui operiamo e i suoi
acerbi fruitori. Lo sguardo del programmatore, nel nostro caso, è quello di chi
vede il presente in funzione del futuro: lo stesso sguardo, cioè, dell’in-dustriale,
dell’economista, del politico, ma anche, nello stesso tempo, uno sguardo molto
diverso da quello del contadino, tutto centrato sul ripetersi sempre uguale dei
cicli produttivi, diverso da quello di chi guarda nostalgicamente indietro
nell’attesa che il passato ritorni, che il mito si riavveri, diverso soprattutto da
quello dell’operatore delle istituzioni totali (Goffman) che non programma e
tende a vedere il tempo della propria operatività come una pesante incombenza
dalla quale liberarsi al più presto.
Un processo moderno, quindi, che conforma impercettibilmente il nostro modo
di pensare e che determina in maniera consistente la nostra professionalità e la
nostra appartenenza gruppale.
Un processo, infine, nel quale confluiscono vari momenti. Noi ne abbiamo
identificato sostanzialmente quattro: 1. Osservazione e auto-osservazione; 2.
Stesura di una ipotesi di lavoro; 3. Sperimentazione; 4.Verifica; 1.a. Ri-osservazione;
ecc.
Prima di tentare un’analisi dei principali problemi psicologici che intervengono
negli operatori in ciascuna di queste quattro fasi, occorre precisare però che il
tipo di pazienti che abbiamo davanti (i ragazzi a rischio), le loro esigenze di cura,
nonché il nostro mestiere di educatori e psicologi ci permette di dire che ciò che
guiderà il nostro lavoro di programmazione non sarà la cura delle parti malate dei
ragazzi che sono a noi affidati, ma, piuttosto, l’osservazione delle parti sane,
l’analisi delle vocazioni, l’analisi degli investimenti fatti dal soggetto - nella sua
duplice dimensione, individuale e gruppale - sia sull’operatore che sul materiale
utilizzato; e, nello stesso tempo, la consapevolezza che, fra il momento in cui si
attua l’intervento e quello in cui sarà possibile riscontrare gli effettivi
cambiamenti intervenuti nel ragazzo (se mai riusciremo a coglierli), vi è un
periodo più o meno lungo di latenza, durante il quale l’atteggiamento
dell’operatore sarà quello di non aspettarsi riconoscenza da parte dei ragazzi.
Un aspetto positivo, quindi, che distingue il nostro lavoro da quello di altri
riabilitatori, quali i logopedisti o i fisioterapisti, costretti, direi, dalla natura del
loro lavoro e dal tipo di soggetti loro affidati a lavorare sulle parti malate, più che
su quelle sane; ed uno negativo che implica una capacità di attesa che un domani
- che magari è molto al di là dell’orizzonte della nostra convivenza con loro - porti
quel cambiamento che nell’oggi sarebbe disperante attendersi.
 
 
2. Osservazione e auto-osservazione
 
Nel momento in cui ci si accinge a cominciare un lavoro di osservazione, può
essere utile analizzare i vari flussi identificatori emergenti o anche solo impliciti
nella relazione fra operatore e ragazzo. Non è possibile qui fornire una griglia dei
flussi identificatori, dato che ognuno ne ha una propria, che poi è quella che
ciascuno di noi utilizza, in maniera più o meno consapevole, nella relazione con
l’udienza attuale. Ma la estrema diversità di posizioni può essere ricondotta,
come dice Richter, a tre versanti: l’identificazione transferale; quella narcisistica;
quella introiettiva.
Veniamo ora alla figura illustrata più avanti.
Ciò vuol dire che, in questo primo momento, quello dell’osservazione e
dell’auto-osservazione, dopo l’an-alisi dei processi transferali e controtransferali
da parte dell’operatore23, seguirà il tentativo, non sempre facile, di coniugare la
scena attuale, l’udienza attuale con la tradizione e col “bagaglio” che ogni
operatore porta con sé e che è fatto delle proprie parti più professionali e di
quelle più personali. Teniamo presente che, da questo punto di vista, il nostro
patrimonio acquisito va considerato come un insieme dinamico e, quindi,
modificabile nel tempo in base all’esperienza ed alla formazione; un insieme che
da una parte non può essere sempre messo in crisi, dall’altra non va nemmeno
feticizzato e reso immutabile nel tempo. Inoltre, come spero traspaia dalla figura,
nell’ap-prontare strumenti per la programmazione è bene distinguere fra due
dimensioni del nostro essere, che sono entrambe coinvolte nel processo:
 
- il me individuale di ciascuno di noi: cioè chi sono io personalmente,
distinguendo fra Sé nucleare più profondo, centrale e sede delle nostre
identificazioni, e Sé orbitale, più periferico e sede dei nostri apprendimenti
(Whitman, cit. in Grinberg);
- il me gruppale: quale tipo di appartenenza professionale ci ha forgiato, quali
testimonianze, passate e presenti, lasciate in noi dai gruppi, nella storia della
nostra appartenenza gruppale, ci hanno influenzato.
Un terzo elemento va preso in considerazione, allorché si osserva. Come
insegnano Amerio e Borgogno, è sempre bene chiedersi, allorché si osserva, con
quali parti di me sto osservando: il nostro mondo interno, infatti, è variegato e, a
seconda del momento, del tipo di paziente o di discente che mi è stato
assegnato, io posso osservare con parti superegoiche, ideali, egoiche, ecc.
Un’attenzione a questo elemento dell’osser-vazione, e cioè al paio di lenti che
inforco nel momento che sono sospinto ad osservare, va fatta.
Nella fase di osservazione, infine, la stesura delle nostre prime idee e
impressioni è bene che sia lasciata a un livello di estemporaneità, quasi di
confusione; è bene, cioè, compiere ciò che, a livello metodologico, somiglia al
prodotto di un lavoro di brainstorming. Ciò significa accettare la complessità,
accettare il fatto che non è possibile definire subito con precisione ogni aspetto
dei fenomeni coinvolti nel processo innescato.
Risulta utile, in questa fase, per documentare questo momento di apparente e
conveniente confusione, l’uso di un diario oppure la registrazione all’impronta
degli incontri che verranno poi, in un secondo momento, verbalizzati con
precisione.
 
 
3. La stesura delle ipotesi
 
Nella seconda fase, quella della stesura delle ipotesi, si assiste al passaggio da
quelle che in una prima fase erano idee vaghe, abbozzi, illuminazioni a qualcosa
che diventa sempre più preciso e si avvicina alla riflessione. Se in un primo tempo
ci eravamo flessi sull’argomento confidando sul nostro intuito, ora dobbiamo
riflettere sulle nostre intuizioni, cominciare a organizzarle e a fare ordine dentro
le nostre idee ancora confuse.
L’atteggiamento metodologico prevalente nel lavoro di équipe in questa fase è
l’accoglienza del pensiero divergente. Dal punto di vista degli strumenti, va detto
che ora devono essere utilizzate parole precise, che ben descrivano l’oggetto
della programmazione.
Il passaggio dalla fase dell’osservazione a quello della stesura delle ipotesi può
essere così scandito:

 
- Vi è una prima fase in cui si riflette, nel senso che ci si flette, ci si rivolge sia,
come dicevamo prima, su ciò che è stato oggetto di osservazione (riflettere) sia
anche sui risultati della auto-osservazione (ri-flettersi). Vengono in questo caso ri-
attivate le strutture egoiche della personalità, che garantiscono uno stato di
maggior attenzione e vigilanza, strutture che nella fase precedente avevamo
messo tra parentesi.
- Segue una seconda fase in cui si procede a dare un ordine a queste che non
sono più intuizioni, ma ormai nuclei di progetti programmatici che cominciano ad
acquisire sempre più senso; è questo un altro momento delicato in cui è
necessario prendere delle decisioni (de-cidere = tagliar via), cioè fare delle scelte,
scartando alcune ipotesi, lottando contro il proprio desiderio onnipotente che
vorrebbe far tutto.
A livello di strumenti, vanno previsti due tipi di contenitori per la riflessione: - un
contenitore per la riflessione individuale:

ciò implica un luogo interno all’operatore in cui sia viva una attitudine
ordinante, de-cidente, in base alla quale certe idee diventano prioritarie ed altre
meno, fino ad essere scartate o rimandate ad altre tranche formative;
- un contenitore per la riflessione di gruppo che, in base alla coniugazione fra le
varie osservazioni fatte da tutti i componenti dell’équipe, decida cosa fare:

* con questo ragazzo/a


* in questo gruppo
* io
* (+ eventualm. altri chi ? a fare che cosa ?
complementarietà)
* quest’anno
* questo mese
* in questa settimana
* cosa mi propongo, e precisamente:
a.
b.
c.
d.
ecc. (gerarchia dei compiti)
• per raggiungere:
x
y
z (gerarchia degli obiettivi)
.. rimandando il resto a poi!
 
 
4. La sperimentazione
 
Anche in questa fase si deve fare attenzione alla duplice dimensione, individuale
e di gruppo, della programmazione, al mantenimento di un’attitudine
sperimentale durante tutta la durata dell’esperienza e di un’effettiva disposizione
a sottoporre a “prova” ciò che è stato programmato, nonché alla persistenza di
un’effettiva opzione sul futuro.

Tale modo di procedere può celare alcuni aspetti negativi, dannosi, quali, ad
esempio, la massificazione del modo di procedere sul piano della
sperimentazione. A questo proposito, un’esemplificazione negativa è fornita dal
curricolo, che si presenta spesso come un ordinamento standardizzato dei
problemi in base al quale, per tutti, il più semplice e il più complesso coincidono.

Questo modo d’immaginare il percorso formativo, ottenuto attraverso un’opera


di standardizzazione e di massificazione, non corrisponde spesso alla maniera
specifica ed individuale attraverso la quale il singolo discente procede nel suo
personale processo di apprendimento. Infatti - come ha dimostrato Bruscaglioni -
il discente, nel momento in cui si dispone all’ap-prendimneto, compie un doppio
investimento:
1. sul docente: verso il quale dirige un investimento affettivo, più o meno
ricambiato, composto originalmente dal flusso identificatorio, che il docente può
o meno favorire, e successivamente dalle spinte alla motivazione che su quella
base identificatoria si innescheranno, o meno.
2. sulla materia: verso la quale si dirigerà un investimento fatto di amore per la
materia stessa, che è diverso da soggetto a soggetto, che - all’interno di ciascun
soggetto - è diverso da momento a momento, e che si materializza in ciò che
Bruscaglioni chiama folata degli affetti.
Ecco, quindi, le ragioni che rendono personale il procedere dal più semplice al
più complesso, ed unico il nostro procedere verso l’arricchimento di noi stessi.
Anche a livello dell’utilizzo degli strumenti pedagogico-didattici e riabilitativi,
infine, ritroviamo la duplice dimensione individuale e di gruppo dell’apprendi-
mento. Nel caso dell’utilizzo di strumenti di tipo individuale, all’interno di quella
che solitamente viene definita programmazione individuale, va tenuto conto del
fatto che, se essa coincide con il curricolo, in base a quanto abbiamo appena
detto, va vista come un’illustrazione di un difetto delle nostre capacità
programmatorie, di una resa alla formazione all’ammasso.
A livello della programmazione di gruppo, bisogna sottolineare il fatto che il
nostro non è un gruppo scolastico, ma un gruppo creato da noi, un gruppo che
quindi ci lascia più libertà di intervento rispetto alle possibilità offerte dalla
programmazione scolastica.
La sperimentazione, in questo modo, viene fatta in base all’analisi: - delle parti
sane residue che sono state osservate nel ragazzo; - delle cose effettivamente
ritenute da lui, da lei, da loro come più semplici e più appetite; - da un
investimento individuale-gruppale che loro fanno su di voi (docenti) e sulla
“materia” (frutto delle vocazioni nel frattempo individuate) e proposta da voi, in
base all’osservazione fatta in precedenza.
Inutile aggiungere che anche su questo piano occorre fare molta attenzione
affinché non vi sia collusione con la scuola, ma sia mantenuta la più ampia
autonomia nella programmazione delle nostre attività.

5. Verifica (follow up)


 
Come è stato anticipato all’inizio, la verifica del nostro intervento deve poter
considerare alcune caratteristiche: riparazione (scarto fra ipotesi e risul-tati
effettivi); riconoscenza (da parte del discente e della famiglia); latenza
(nell’emergere degli effetti del nostro lavoro).
I problemi principali inerenti tali caratteristiche so-no sostanzialmente i
seguenti: - vi sarà sempre uno scarto fra i risultati attesi e i risultati effettivamente
ottenuti, perciò è necessario riflettere sul significato di tale scarto in termini
realistici e non allucinatori; - dobbiamo imparare a convivere con soggetti e
famiglie che sono incapaci, nel breve periodo, di mostrare riconoscenza e di
fornire soddisfazioni.
Mi ritorna in mente, in questi casi, una poesia (già ricordata in questo libro) che,
nella parte finale, in cui il poeta immaginando di rivolgersi ad un figlio (Ulisse) che
si appresta a riavvicinarsi emozional-mente ai propri genitori, alla propria Itaca, a
un certo punto dice:
“Sempre devi avere in mente Itaca
raggiungerla sia il pensiero costante
soprattutto non affrettare il viaggio;
fa’ che duri a lungo, per anni e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio
senza di lei mai ti saresti messo in viaggio:
che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”
(da Kostantinos Kavafis,Itaca)
Ecco, nel nostro caso, i nostri ragazzi, i nostri Ulisse, forse non potranno mai
venire a noi, a Itaca, per mostrare la propria gratitudine per il lavoro da noi fatto
con loro in un momento delicato e pericoloso del loro processo di crescita
personale; ma ugual-mente noi dobbiamo essere in grado di non nutrire rancore
verso questi Ulisse irriconoscenti e di accon-tentarci di poter pensare che, da
qualche parte, nel mondo forse continueranno a fare buon uso di quel poco che
siamo riusciti a dare loro. Infine, e conse-guentemente, dobbiamo essere
coscienti che, se sul piano del Sé orbitale (cioè degli apprendimenti) la latenza dei
loro progressi può essere più corta, sul piano del Sé nucleare (cioè della
formazione della loro personalità) il processo di restaurazione sarà sicuramente di
più lungo respiro.
 
 
6. La nuova programmazione
 
Con la verifica si chiude un ciclo, una prima parte di quel processo che
chiamiamo programmazione. Dopo questo ciclo, ci si riavvierà presto ad un
nuovo inizio, che implicherà la necessità di una nuova osservazione, e che sarà
anticipato da una nuova selezione. Approfitto per ricordare quanto dicevamo nel
nostro primo incontro: la selezione deve essere fatta a partire dai limiti reali del
luogo riabilitativo e dalla limitatezza dei compiti che è possibile attribuire ad esso
ed a noi stessi, pena il sicuro fallimento del nostro intervento.
 
 
Bibliografia:
 
Amerio P., Borgogno F., L’illusione di osservare, Giappichelli, Torino 1981.
Angelini L., “Storia delle istituzioni”, in: Angelini L., Bertani D., Setting riabilitativi con gli adolescenti
handicappati, Usl N.9 di Reggio Emilia 1992.
Angelini L., Formazione ed affabulazione, Unicopli, 1998.
Bertani D., “Osservare: per chi?”, in: Angelini L., Formazione ed affabulazione, Unicopli, Milano 1998.
Bruscaglioni M., La gestione dei processi nella formazione degli adulti, Angeli, Milano 1991.
Goffman E., Asylums, Einaudi, Torino 1968.
Grinberg l., Teoria dell’identificazione, Loescher, Torino 1976.
Richter H.E., Genitori, figli e nevrosi, Il Formichiere, Milano 1975.
Note

[←1]
I recen proge ministeriali di an cipo dell’obbligo ai cinque anni possono
rappresentare, o meno, un rischio per il bambino a seconda di come poi, in concreto,
tali proge saranno realizza . Se ci sarà un rispe o per gli effe vi tempi di
maturazione di questo par colare periodo della crescita psicologica, non ci
dovrebbero essere problemi (tranne quelli forse derivan dalla formazione degli
educatori).
[←2]
Ciò che avviene poi alla fine della latenza, quando il bambino comincia a cambiar
pelle ed a diventare un preadolescente, lo vedrete con la do .ssa Bertani nell’ul mo
incontro, ma si può dire fin d’ora che il riemergere delle tema che edipiche e
preedipiche comporta una vera e propria esplosione di quel vor ce is ntuale che,
per tu a la latenza, cova so o le ceneri.
[←3]
Cfr. la prima relazione del nostro corso, tenuta dalla do .ssa Bertani, sulle difficoltà
ad entrare nella latenza.
[←4]
Le teorie di Gardner sui cento linguaggi del bambino, però, a mio avviso, poiché
tendono a non porre in un ordine gerarchico i vari pi di linguaggio, finiscono col
non cogliere i problemi di sele vità che sono implici nel possesso, o meno, di cer
pi di linguaggio, ad esempio di quello verbale.
 
[←5]
“Itaca ha dato il bel viaggio / senza di lei mai sares messo in viaggio”, dice il
poeta Kavafis, pensando al ruolo della famiglia nella crescita psicologica di ciascuno
di noi; ma non bisogna dimen care anche l’invito, proveniente sempre da Kavafis, a
compiere il proprio viaggio, ad abbandonare la propria Itaca, ed a tornarvi solo “da
vecchi”, fa ormai saggi della nostra esperienza personale.
[←6]
Poi in adolescenza ci si allontanerà più decisamente da Itaca e ciascuno troverà il
proprio mare aperto in cui navigare.
[←7]
Cfr. le relazioni, tenute in questo corso, dalle do .sse Fagandini e Bevolo.
[←8]
Per un’analisi più approfondita dei contenu e della dida ca presen nei vari
modelli educa vi cfr. il testo di L. Angelini “Nidi e materne: modelli educa vi”, in L.
Angelini e D. Bertani, “Il bambino che è in noi”, Unicopli, Milano 1995, pp. 13-38.
[←9]
Cfr. Angelini L., Bertani D., Funzioni materne e funzioni paterne a casa e al nido, a
cura del Comune di Parma, Parma 1996
[←10]
Che significano, non dimen chiamolo, rispe vamente: “il più grande” e “piccolo
scemo”.
[←11]
Cfr. G. Devoto, “Avviamento alla e mologia italiana”, Mondadori, Milano 1979.
[←12]
Cfr. P. Blos, “L’adolescenza”, F. Angeli, Milano 1980.
[←13]
Cfr. l’art. “I nuovi programmi della scuola elementare”, a cura di D. Bertani e G.
Polle a, su Pollicino n° 1, Aut.-Inv.1984-85, pp. 6-13.
[←14]
Cfr. Frabboni F., Costruiamo insieme il curricolo dida co, in: Infanzia, N., 4, 1979
[←15]
Cfr. L. Angelini, “L’osservazione del bambino in ambito educa vo e psicoterapeu co”,
in L. Angelini e D. Bertani, “Il bambino che è in noi”, Unicopli, Milano 1995, pp. 231-
246.
[←16]
Cfr. P. Barcellona, “Il capitale come puro spirito”, Editori Riuni , Roma 1990.
[←17]
Cfr. A. Mitscherlich, “Verso una società senza padre”, Feltrinelli, Milano 1970.
[←18]
Cfr. L. Angelini, “Il bambino piccolo nel gruppo dei pari”, in L. Angelini e D. Bertani,
op. cit., pp. 195-212.
[←19]
Per i conce di Sé nucleare e Sé orbitale vedi L. Grinberg, “Teoria
dell’iden ficazione”, Loescher, Torino 1982.
[←20]
Cfr.: Angelini L., Affabulazione e formazione, Docenti e discenti come produttori e
fruitori di testi, Unicopli, Milano 1998.
[←21]
Cfr. M. Mahler, La nascita psicologica del bambino, Boringhieri, Torino 1975.
[←22]
Cfr. Angelini L, 1992.
[←23]
Cfr. Angelini L,1998, e specialmente lo scri o di D. Bertani “Osservare, per chi?”.

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