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verrà consen to l'uso commerciale.
Dino Angelini
Via E ore Barchi 8 - 42123 Reggio Emilia
dinange@gmail.com
3497190911
Cosa sono i Quaderni di Gancio
Originale
I Quaderni di G.O. contengono le relazioni tenute alle giovani e ai giovani nostri volontari ed ai nostri
rocinan all’interno dei vari momen forma vi che inizialmente si svolgevano due volte l’anno, e
che in seguito si sono trasforma da una parte in atelier pra ci tenu durante l’anno, dall’altra in
una lunga serie di “Seminari al Seminario”, tenu a Marola ai primi di Se embre di ogni anno; ed in
veri e propri cicli d’incontri su temi specifici (è il caso, ad esempio di “Tirocinan e tutor”) ai quali
hanno spesso partecipato -sempre gratuitamente- rocinan , psicologi, NPI, educatori, docen ,
pedagogis , provenien spesso da ogni parte d’Italia.
L’idea che abbiamo avuto fin dall’inizio è stata quella di non ripetere sempre gli stessi argomen , ma
di par re ogni volta dalle esigenze e dalle urgenze dei volontari e dei rocinan che operavano con
noi.
Ovviamente questo andamento apparentemente discon nuo, basato sulle urgenze del momento,
unito al fa o che sia i volontari che i rocinan variavano di anno in anno ingenerando un
considerevole turn over, trovava un a sua ra o nel lungo periodo solo nella misura in cui di ogni
argomento affrontato nel tempo fosse lasciata traccia in relazioni scri e che venivano ciclos late e
offerte ai nuovi arriva , in modo che ognuno avesse la possibilità di poter a ngere a ciò che era
stato già discusso e ‘studiato’ negli anni preceden .
Ogni tanto, allorché ci era possibile farlo, le varie relazioni: - o venivano composte nei Quaderni, in
modo tale da recuperare nel tempo il filo rosso che le unificava (da ciò le frequen ripe zioni
riscontrabili nelle sei raccolte!); oppure, di fronte ad argomen che richiedevano una riflessione più
organica, diventavano l’ossatura di veri e propri percorsi forma vi, dai quali poi sono na vari tes .
Vedi ad esempio: e “L’adolescenza nell’epoca della globalizzazione. Unicopli, 2005”, e “Free Student
box. Counselling psicologico per studen , genitori e docen . Psiconline, 2009”.
Un ul mo cenno ai relatori: nei limi del possibile abbiamo cercato di offrire a rocinan e volontari
il meglio che era possibile trovare in ci à, in provincia, e anche ‘fuori’. La maggior parte di loro non
ha ricevuto alcun compenso per questo impegno; per cui si può dire che anch’essi, in quanto
volontari, hanno fa o parte a pieno tolo di “Gancio Originale”. Li ringraziamo ancora una volta per
questa loro disponibilità. Così come ringraziamo presidi, docen , e tu coloro che ha collaborato
con noi in quegli anni!
“Dare, ricevere, contraccambiare”: è all’interno di questa logica che si sono pos nei 25 anni
scolas ci intercorsi fra il 1990\91 e il 2014\15 i nostri 12.000 volontari, i nostri rocinan psicologi e
no. Ed è all’interno di questo scambio che abbiamo cercato di porci noi stessi, cercando di dare ciò
che potevamo, e ricevendo tan ssimo da tu e e da tu . (L.A., D.B., M.C.)
Indice
3a parte: Alterità
Lo specchio impossibile: problemi di identificazione con ragazzi
handicappati
Gravità e gravosità: l’impegno con i gravi
Dove trovare le regole per regolare e regolarsi
L’uscita dalla latenza oggi
L’incontro fra culture diverse, due testimonianze dal mondo della scuola,
L’immigrazione a Reggio Emilia: gli scenari possibili
Come li vediamo, come ci vedono. Interviste a operatori e bambini
4° parte: Gioco
La funzione del gioco nella crescita
Gioco, volontariato e strutturazione del tempo
Giocando si impara
Giocando si insegna
Funzione terapeutica e formativa delle fiabe
5° parte: Scambio
Cosa dà chi riceve – cosa riceve chi dà
Varie forme di comunicazione orale nell’intervento di volontariato
Incontrarsi: gli spazi dello scambio solidale
Uno specchio importante: quali funzioni abbiamo nei confronti dei bambini
e dei ragazzi coi quali lavoriamo
Presentazioni
di Sonia Masini e Mariella Martini
Gli scritti qui presentati sintetizzano l'insieme dei momenti formativi
che Gancio Originale, il gruppo di volontariato giovanile dell'AUSL di
Reggio Emilia, ha svolto in questi ultimi cinque o sei anni. Momenti
formativi a volte rivolti ad un pubblico esclusivamente giovanile, altri
— è il caso ad esempio delle due conferenze organizzate da Gancio e
dalla Melagrana, che il prof. David Le Breton ha tenuto in città proprio
un anno fa - rivolti ad un pubblico più ampio comprendente gio-vani ed
adulti.
Il volontariato giovanile a Reggio Emilia, come avremo modo di vedere
in dettaglio nel convegno del 28.11.2001 consiste in un insieme di
attività decentrate, svolte quasi sempre sotto il segno della discrezione
e del silenzio: di modo che si potrebbe dire che decentramento,
discrezione e si-lenzio, insieme al tratto della gratuità, sono gli elementi
distintivi di tutte queste attività giovanili.
Ciò mi pare particolarmente signi icativo in una società come la nostra
in cui il chiasso e l'appa-renza sono all'ordine del giorno e in cui
qualsiasi gesto compiuto in assenza di un pubblico, com-presente o
virtuale, può facilmente apparire inutile, quando addirittura ‘non
accaduto’, soprattutto agli occhi di chi, come i giovani d’oggi, è stato
precocemente alfabetizzato all’enfasi del linguag-gio televisivo, a quel
gioco, spesso osceno, consistente nel mettere in piazza, (nella piazza
virtuale brulicante di veri e propri performer dell'intimità) ogni più
intima parte di se stessi. Ecco, mi pare che la discrezione che informa le
attività del volontariato giovanile reggiana possa essere ricono-sciuta
come un elemento emblematico di un modo di operare nuovo, che
rompe con questo an-dazzo.
Ma i meriti dell'attività volontaria dei nostri giovani non sono solo nella
loro modalità discreta di operare, ma si estendono ai contenuti che
informano la loro opera.
Nel retro del dépliant che annuncia il nostro convegno abbiamo voluto
porre una frase di Albert Einstein: ‘L'amore è un padrone migliore del
dovere’. Vi è in queste parole una verità che i giovani volontari reggiani
mi pare abbiano compreso ino in fondo e sulla quale, come traspare da
ogni loro opera, dimostrano nelle pratica di essere molto conseguenti:
la gratuità del gesto volontario. la discrezione che lo accompagna, la
consapevolezza che dare signi ica ricevere e quindi arricchir-si,
insomma le basi di fondo di quel solidarismo che è stato gran parte
della storia della nostra terra a partire dalla seconda metà
dell'Ottocento, tutto ciò signi ica che fare in ragione dell'amo-re per
l’altro, per spirito di solidarietà nei confronti dell'altro che ha bisogno:
è mille volte più formativo e arricchente del fare per il dovere; che
insomma c'è più gusto, più sapore, direi più co-lore nel fare per amore e
per dedizione, rispetto al grigiore dell'operare per il dovere. E questo
mi pare, a livello contenutistico, la più grande lezione che viene dal
mondo del volontariato giovanile reggiano.
Noi adulti sappiamo, però, che nella nostra società a ianco al sistema
dello scambio basato sul dono – così silente e discreto, come dice anche
Godbout, da passare spesso inosservato - vi è un sistema di scambio più
venale in cui le azioni compiute diventano lavoro remunerato. Per cui è
giusto che ai giovani, che si apprestano a diventare adulti pienamente
autonomi, non ci si limiti a chiedere di rimanere solo nel sistema del
dono e dell'impegno gratuito. Il nostro impegno di adul-ti, di
amministratori deve essere indirizzato anche verso il mercato, di modo
che quando essi, così come tutti i loro coetanei, si appresteranno ad
entrare nel mondo del lavoro remunerato ciò av-venga con tutta la
preparazione e le tutele di cui la nuova generazione che avanza ha
bisogno in una società dinamica come la nostra, in modo tale che essi
possano essere pienamente respon-sabilizzati, dando corso a tutta la
loro spinta creativa e capacità professionale.
Penso che l'insieme delle attività per i giovani che nei vari assessorati
della Provincia si vanno proponendo da lungo tempo, insieme ai
rappresentanti della scuola, delle associazioni delle varie attività
produttive, dell'Azienda Unità Sanitaria Locale e delle Organizzazioni di
Volontariato, stia-no lì a testimoniare l'ampiezza e la puntualità del
nostro impegno complessivo sui giovani, che non è certamente
esaustivo ma dovrà costituire tante altre occasioni di incontro, di
scambio, di crescita comune.
Sonia Masini
Vicepresidente della Provincia di Reggio Emilia
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I quaderni di Gancio Originale sono una delle ricchezze di
un'esperienza esemplare, costruita con intelligenza, generosità e
fantasia, che ha saputo rimanere vitale e crescere negli anni.
Un'esperienza che è una risorsa preziosa per tutti coloro che vi sono
coinvolti: i bambini e ragazzi in dif icoltà, i giovani volontari, gli
insegnanti e le famiglie, gli operatori sanitari.
Gli operatori sanitari che hanno ideato e sostenuto l'esperienza, hanno
avuto la capacità di pro-muovere, con anticipo di alcuni anni, un “piano
per la salute” mettendo in sinergia competenze e risorse diverse così da
rendersi capaci di risposte complessive e, contestualmente, di
rafforzare la coesione sociale e la iducia verso se stessi, elementi
insostituibili del benessere degli individui e della collettività.
Dr.ssa Mariella Martini
Diirettore Generale dell'Ausl di Reggio Emilia
Prima parte: Gancio Originale, un
progetto di volontariato nei
servizi pubblici
Se dieci anni vi sembran pochi : dal 1991 al 2001,
un gancio…….tanti ‘ganci’
di Deliana Bertani
La formazione per due volte l’anno, di cui una residenziale di due giorni
consecutivi e l’altra di due o tre serate , su tematiche concordate e con
l’alternanza di momenti teorici e momenti prati-ci. Nel gennaio 2001
sono partiti 6 laboratori pratici per complessivamente 32 incontri di
due ore ciascuno
Fin qui il bilancio sul passato che ci pare notevole e degno di lode - lo
diciamo senza timore e senza falsi pudori - per la volontà spesso
realizzata con successo di intraprendere nuove esperien-ze, di
confrontarci con le dif icoltà, di sperimentare partendo da niente come
abbiamo appunto fatto in dall’inizio ,di 10 anni fa .
Ora alcune ri lessioni sul presente che come è noto è anche futuro.
Il presente che ci vede impegnati su tanti fronti, al lavoro con tanti
partner, con tante richieste di nuove attività e collaborazioni per
l’autunno, con tanti giovani e giovanissimi che lavorano con noi , con i
quali e per i quali lavoriamo.
Questo vuol dire che G.O. è diventato un organismo complesso e
numericamente importante: quest’anno - fra volontari maggiorenni e
minorenni, ragazzini seguiti in gruppo e individualmente, collaboratori
stabili - le persone in circolazione dentro G.O. hanno s iorato le 500
unità.
Dunque non è più vero ciò che ino a poco tempo fa abbiamo
sottolineato e cioè la marginalità istituzionale di Gancio Originale.
Gancio Originale è diventata una presenza riconosciuta dentro alla
AUSL e soprattutto in città; questo è un elemento importante per il
nostro futuro, per i nostri ragionamenti, per le nostre atti-vità, per le
scelte di questa nostra “impresa” (così all’inizio siamo stati de initi).
Essere visibili, complessi e numerosi comporterà affrontare sempre di
più rischi: perdere in ela-sticità e in sveltezza; dover assumere
procedure più voluminose; perdere la dinamicità, la crea-tività; diluire
molti di quegli elementi che permettono a Gancio Originale di
avvicinarsi con suc-cesso ai giovani e di essere addirittura da essi
cercati.
Acquisire una centralità in città però comporterà anche dei vantaggi:
Gancio Originale ha lavorato per dare soddisfazione ai bisogni e alle
aspettative di salute, con le risorse via via disponibili, ha garantito
prestazioni di prevenzione e di cura, è diventato uno strumento, un
luogo a questo pun-to conosciuto e riconosciuto in cui, parafrasando ciò
che dice l’OMS, si cerca di favorire un ap-proccio globale alla persona
che è soggetto del proprio benessere, a maggior ragione se è un gio-
vane, un ragazzo che sta crescendo.
Abbiamo avuto delle conferme e questo è indubbiamente un vantaggio
in termini di sicurezza e di conferma di quello che si sta facendo, e ciò è
particolarmente importante se si considera che G. O si è sempre posto
in modo aperto, in interazione continua con un ambiente circostante
che è una entità che muta in continuazione e che costringe ad una
continua revisione dei propri obiettivi. G.O. in questo modo ha potuto
progettare azioni pratiche intervenendo nelle situazioni per modi-
icarle con due soli punti di riferimento: l’ascolto attento e l’adesione ai
valori da cui si era partiti, che consistevano nel cercare di sviluppare, a
partire da un’istituzione pubblica, integrazione, si-nergie con la scuola e
le famiglie per migliorare l’offerta di servizi per la salute.
L’area , nella quale ci siamo mossi e ci muoviamo, quella cioè della
salute dell’infanzia, della preadolescenza, e dell’età giovanile, non è di
poca dif icoltà. E’ un’area che solitamente emerge soprattutto quando si
manifesta con le sue modalità più esasperate e drammatiche, ma che in
ef-fetti richiede, più che “grandi strategie” utili solo a descrivere il
problema, un’azione quotidiana, una serie di ‘ganci’ che vanno lanciati
nei luoghi di vita e di studio dei giovani.
G.O si è mosso per andare incontro alla realtà, quella di tutti i giorni,
quella fatta dai problemi, dai disturbi, dalle paure dei giovani e dei
ragazzi che vivono e studiano a Reggio nel 2000.
Come operatori ci siano ‘posti in gioco’ in un’area fatta di disordine,
molteplicità, variabilità; ab-biamo rischiato, perché no, anche la nostra
immagine personale, professionale con la sensazione a volte di non
avere punti di appoggio o comunque con la fatica di doverseli
continuamente ricrea-re: ne è valsa la pena, siamo soddisfatti del lavoro
fatto, dei riconoscimenti ottenuti, non solo a livello locale.
Ringraziamo tutti i giovani che in questi dieci anni hanno lavorato con
noi, ringraziamo chi ci ha dato iducia e ha seguito il nostro lavoro,
ringraziamo anche chi – La Regione e la COOP Consuma-tori Nord-Est -
ci ha dato in questi ultimi anni quei contributi economici che
sicuramente ci hanno permesso di diventare più grandi e capaci - l’AUSL
di Reggio Emilia che ha saputo riconoscere il valore del nostro
progetto- la Provincia di Reggio Emilia che ha continuato a valorizzare
il nostro lavoro e la nostra presenza in città dandoci ,tra l’altro, la
possibilità di pubblicare –come già nel 1995- il materiale della nostra
formazione.
Deliana Bertani – Mariella Cantini
Quadro degli interventi di Gancio Originale, Giugno
2001
di Mariella Cantini
I iloni in cui i volontari operano in collaborazione con i servizi
dell’A.U.S.L. sono rimasti gli stessi che nel 1991, anno d’inizio della
nostra attività, avevamo individuato.
Aiuto nei compiti in gruppo e singolarmente
Attività legate al tempo libero
Animazione ai progetti gestiti dall’azienda USL
Presenza negli atelier di pittura, musica e cucina
Nel corso di questi anni, la nostra attività ha trovato altre forme
d’espressione, pur mantenendo la stessa organizzazione, la stessa
metodologia, la stessa tipologia di volontari e utenti e lo stesso
turnover.
Il lavoro di rete ormai consolidato, sul territorio reggiano, ci permette
di collaborare con quasi tut-te le istituzioni, le strutture, le associazioni
e le parrocchie. L’obiettivo principale, diventato abi-tuale, è quello di
cercare di posizionarsi all’interno del tessuto sociale per rispondere ai
bisogni d’ogni singolo caso.
L’attività che maggiormente si è andata a consolidare in questi anni
sono i Workshop pomeridiani.
Sono nati nel 1995, presso due scuole medie statali Fontanesi e Dalla
Chiesa, come prevenzione del disagio scolastico, mediante
l’integrazione linguistica, scolastica e relazionale dei bambini e dei
ragazzi (immigrati e non). L‘attività non è solo nell’aiuto scolastico ma
in tutti i Workshop ab-biamo aperto laboratori creativi: Pollicino Verde,
Laboratorio di Creta, di Cucina, di Pasta e Sale, di Riciclaggio del
materiale di recupero, di Drammatizzazione, ….
E’ proprio in quest’attività, che i volontari esprimono, in modo più
spontaneo e creativo, la loro voglia di mettersi in gioco. Quest’attività è
notevolmente aumentata, si opera attualmente in molte scuole
Elementari e Medie cittadine e limitrofe: Dalla Chiesa, Don Milani, San
Giovanni Bo-sco, A D’Aosta, A. Pertini, Fontanesi, E.Lepido, più Rivalta e
Bagnolo. Presso la scuola E.Lepido ab-biamo aperto un Workshop
d’accoglienza per ragazzi immigrati. L’esperienza è stata più che posi-
tiva, altre scuole cittadine ne hanno fatto già esplicita richiesta. Sono in
via di de inizione altri workshop cittadini e due workshop periferici:
presso la Scuola Elementare di Quattro Castella e la scuola Media di
Cadelbosco. Un’altra attività pomeridiana di workshop noi molto cara è
quella che si svolge all’interno dell’Istituto Zanelli e del Liceo Aldo
Moro. Con gli studenti dell’Istituto Zanelli è il quarto anno che ci
attiviamo in un workshop per ragazzini delle scuole elementari e medie
della zona. Attualmente i ragazzini che partecipano sono 10, il Lunedì e
il Giovedì pomeriggio dal-le 14.30 alle 16.30. L’esperienza è coordinata
sempre dalla stessa insegnante e da una psicologa borsista di Gancio
Originale, si svolge nei locali della scuola e coinvolge studenti delle
ultime clas-si, entusiasti del lavoro e motivati sul piano sociale.
Con il Liceo Aldo Moro è il terzo anno che collaboriamo dando una
risposta a 10 ragazzini delle scuole medie limitrofe: Fermi, Manzoni,
Fontanesi, Leonardo. L’attività che è coordinata da alcuni insegnanti
della scuola stessa, diventa incisiva non solo per i ragazzini ma per il
notevole numero di volontari della scuola coinvolti.
Complessivamente il numero dei ragazzini seguiti nelle attività
pomeridiane dei Workshop sono 119. Il numero dei volontari
minorenni coinvolti 150.
Una notevole mole di lavoro inoltre è svolta dai volontari che,
individualmente, seguono bambini delle Scuole Elementari e ragazzi
delle Scuole Medie, in attività di recupero scolastico o in attività legate
al tempo libero. Sono più di 70 i casi seguiti con patologie più o meno
gravi.
Una decina di volontari sono impegnati in progetti dell’A.U.S.L., quello
presso il Centro di Forma-zione Professionale Simonini e negli atelier di
pittura, musica e cucina. I casi seguiti in tutto sono circa 20.
COSA FANNO I VOLONTARI:
Aiutano a fare i compiti:
-
A casa
-
A scuola
-
Nelle biblioteche
-
Presso i circoli ARCI
-
Presso le parrocchie
Accompagnano a conoscere la città. Vanno:
-
In ludoteca
-
In piscina
-
A musica
-
A ginnastica
-
A tennis
-
ecc.
Molto spesso in questi anni ci è capitato di scoprire per caso che i
volontari continuano sponta-neamente a mantenere un rapporto di
amicizia con i nostri ragazzini, andando con loro al cinema, a mangiare
una pizza, andando alle feste di compleanno. E’ un constatare che lo
spirito della soli-darietà e del servizio è consolidato e va oltre la nostra
spinta iniziale.
Dal 1995 il numero dei volontari è stato quasi costante: 100 - 110
l’anno. I dati numerici del 1999 e 2000 dimostrano un leggero
aumentano come lo dimostrano il numero delle ore svolte da loro:
-
da Gennaio a Dicembre 1999: 5180
-
da Gennaio a Dicembre 2000: 5320
Vanno aggiunte le ore di 150 volontari minorenni che hanno
collaborato con noi, ragazze e ragazzi provenienti dal B.U.S. Pascal,
dall’Istituto Magistrale, dall’Istituto Zanelli e dal Liceo Aldo Moro che
nell’anno scolastico 2000-2001 hanno svolto un monte ore di 3300. In
queste scuole, si è deli-neata la igura di un insegnante referente, che
coordina con noi l’attività di propaganda informati-va, che cura
l’assicurazione degli studenti fuori dai locali scolastici, e che è diventata
un punto di riferimento per i ragazzi e per noi nel progettare gli
interventi e nel fare le veri iche di gruppo.
Per concludere vorrei aggiungere due parole sul ruolo che in
quest’avventura con i giovani mi trovo a ricoprire. Sono per loro la
prima igura che incontrano quando vado nelle scuole, sono anche la
prima che li accoglie progettando insieme il loro intervento di
volontariato. Poche ore de inite in un giorno o due la settimana inserite
in un progetto mirato e preciso. La vicinanza alla sede dove il volontario
svolgerà la sua attività è diventata una regola, come è diventata una
regola accettare la predisposizione personale alle attività. Do un
messaggio chiaro: “Sai dove trovarmi, ci sono per accompagnarti, sono
disponibile ad ascoltarti e se possibile ad aiutarti”.
Volontari maggiorenni
Anno
N° volontari
Monte ore
1997
100
2792
1998
118
4542
1999
138
5180
2000
158
5320
Volontari minorenni
Anno scolastico
N° volontari
1997 –1998
30
1998 – 1999
50
1999 – 2000
80
2000 – 2001
150
L’adolescenza, le adolescenze
Il mio lavoro di ricerca sui signi icati del tatuaggio fra i giovani reggiani
d’oggi è consistito in un insieme di interviste a trentadue giovani
reggiani, che fanno parte di tre compagnie cittadine, e alle interviste ai
quattro tatuatori uf iciali presenti in provincia: Tony Messina, Lauro
Paolini, Antonella Tambakiotis ed Elisa Vaccari.
Da queste interviste emerge un dato fondamentale: il tatuaggio spesso
è associato ad un momento della crescita psicologica, quello del
passaggio all’età adulta.
Il passaggio all’età adulta, in tutte le culture rappresenta un momento
particolarmente ansiogeno, in cui, sia a livello individuale, che a livello
sociale, viene colto un dato di frattura nel tranquillo tran tran
quotidiano, determinato dal fatto che un certo numero di soggetti non
fa più parte del gruppo dei bambini, ma non fa ancora parte del gruppo
degli adulti.
Solitamente questa situazione di ansia e di angoscia viene risolto a
livello culturale attraverso un insieme di cerimonie che mediano ed
accompagnano il passaggio. Cerimonie che solitamente consistono in
un insieme di riti sociali di separazione, marginalizzazione e
aggregazione (Van Gennep, 1981).
Afferma Van Gennep (op.cit) che ‘coloro che, in questo tipo di culture,
sono stati già iniziati, conoscono l’età in cui il non più bambino diventa
un candidato all’iniziazione, conoscono quali sono le cerimonie che
accompagnano il passaggio, in quale luogo tali cerimonie avvengono e
chi sarà il sacerdote of iciante il passaggio’ 2.
La società solitamente in questo modo mostra di essere consapevole
che il giovane che intraprende un rito di iniziazione lascia la sua vecchia
identità per sposarne una nuova.
Secondo Van Gennep (op.cit.), inoltre, il rito di iniziazione si può
descrivere partendo dalla constatazione che, presso tutte le culture, la
pubertà isiologica e quella sociale sono due cose parzialmente
differenti, che non sempre coincidono, e che in ogni caso, quando si
parla di riti di iniziazione, ci si riferisce sempre alla pubertà sociale, più
che a quella biologica .
La circoncisione, il taglio del lobo dell’orecchio, del setto nasale, la
pratica del tatuaggio e delle scari icazioni, sono pratiche usuali che
caratterizzano i riti di iniziazione. Il rito di iniziazione provoca una
separazione - da qui l’idea del tagliare, perforare, dice Van Gennep
(1981:65) - da qualcosa che non c’è più (l’infanzia) per poi
successivamente far si che avvenga una aggregazione (del giovane nel
mondo adulto).
Il rito immette il novizio in due nuove dimensioni del tempo e dello
spazio, in base alle quali avvengono una serie di fenomeni che
prevedono e cerimonializzano: - una separazione del novizio dal mondo
precedente, per il quale egli è già morto; - un periodo di
marginalizzazione, nel quale il novizio viene sottoposto a prove; come
la circoncisione, etc. - la permanenza per un certo periodo, che varia da
cultura a cultura, in una dimensione temporale e spaziale che sono
estranei a quelli della comunità; - il fatto che il novizio segue delle
norme tipiche solo di quello spazio e di quel tempo, - e alla ine, dopo
questo periodo appunto di marginalizzazione, il fatto che il soggetto
viene reinserito, attraverso dei riti di aggregazione, nella comunità. Il
novizio, in questo modo, assumendo una nuova identità, compie una
vera e propria rinascita.
Oggi – però - nelle realtà metropolitane, la società sembra curarsi poco
della cerimonializzazione del passaggio all’età adulta: e ciò avviene
proprio ora che esso viene a dilatarsi nel tempo a causa di esigenze
formative che prendono, in maniera crescente, la maggioranza dei
giovani e delle giovani.
L’adolescenza in questo modo anche nella metropoli postindustriale,
come e ancor più che in passato, diviene un luogo in cui ci si perde e ci
si ritrova: ci si perde come bambini e ci si ritrova come adulti, il luogo
elettivo della scomparsa in quanto bambini e della rinascita psicologica
in quanto adulti.
Ma oggi, al contrario di ieri, l’adolescente è lasciato solo dalla società e
deve affrontare, in questo stato di solitudine, le ansie e le angosce del
passaggio, mentre di fronte a lui, il gruppo degli adulti - che una volta
prevedeva al proprio interno dei veri e propri sacerdoti del passaggio,
in grado di de inire, i candidati alle cerimonie di separazione,
marginalizzazione e reintegrazione nella comunità - oggi si erge spesso
contro di esso e, in ogni caso, non sembra più in grado di comprendere
e di socializzare e cerimonializzare il passaggio.
Cosicché ieri, a cavallo della crisi puberale (arrivo del menarca, per le
ragazze, e della capacità erettiva, per i ragazzi), la comunità aiutava
ragazze e ragazzi sia nella due fasi iniziali di separazione e di margine,
sia nella fase inale di ride inizione e di ricollocazione nella gerarchia
sociale, e come vedremo meglio nel prossimo paragrafo,
ri\identi icazione (nel corpo e nella psiche) in quanto adulti.
Oggi la società si è privata di quella specie di utero sociale (Kern),
rappresentato dalla cerimonializzazione del passaggio, e non sembra
possedere più in sé la capacità di togliere il non più bambino ed il non
ancora adulto da quella penosa e pericolosa condizione di assenza di
signi icato e per ricollocarlo all’interno del più confortevole e meno
angosciante universo delle cose conosciute e de inite.
La mimesi della morte e della rinascita, in questo modo – presente in
tutte le cerimonie sociali del passaggio - rimane tutta sulle spalle dei
singoli soggetti, che, per soprappiù, non avendo di fronte a sé la
prospettiva di un rapido ingresso nel mondo degli adulti, devono
affrontare un lungo iter personale e privato di passaggio (se sono in
grado di farlo) in cui vige per lungo tempo una situazione di pericolosa
discontinuità, di prolungata permanenza in una situazione di liminarità,
in cui l’adolescente è costretto a compiere un insieme del tutto
personale di atti volti al reinserimento nella comunità in quanto adulto,
a risolvere in modo del tutto personale e privato quella tensione alla
ricomposizione del corpo sociale, che le altre società risolvono
attraverso cerimonie sociali, e cioè condivise da tutta la comunità.
Fortunatamente, se noi analizziamo ciò che effettivamente succede oggi
a livello funzionale, indipendentemente dalla coscienza che la società
ha di svolgere queste funzioni, possiamo dire che, ad esempio, la scuola,
così come molti altri luoghi dell’adolescenza, nei fatti svolge una
funzione di cerimonializzazione del passaggio. E’ riscontrabile infatti
l’esistenza di un percorso che scandisce le tappe della crescita
psicologica, anche se occorre aggiungere che gli agenti adulti di queste
cerimonie sono spesso totalmente ignari di essere i sacerdoti of icianti
di un simile rito.
In questo modo l’adolescenza diventa un lunghissimo momento
liminare praticamente interminabile per i post-adolescenti, cioè gli
universitari. In questa situazione il soggetto che si va formando si trova
come sospeso in una specie di “ Isola che non c’è” , cioè in un luogo a
parte che ha tutto il fascino, ma anche tutti i pericoli di illusorietà
presenti nell’Isola che non c’è, e in un tempo a parte che si prolunga
all’in inito non permettendo al giovane di vedere la tappa inale della
reintegrazione nella società.
Cosicché oggi siamo di fronte, da una parte a riti privati di iniziazione,
fra i quali il tatuaggio, dall’altra alla presenza di funzioni rituali,
cerimoniali di passaggio, mediate dagli adulti, che però non sono
coscienti di esplicare questa funzione.
Ed, in particolare, il periodo di marginalizzazione, nella nostra società,
si è dilatato e consolidato. Durante questo periodo il soggetto vive
appunto in un luogo e in un tempo a sé, in cui lo spazio e il tempo
liminari vengono costruiti dall’adolescente: si pensi ai luoghi e ai tempi
della discoteca, allo slang, cioè al gergo delle comunità giovanili, e cioè
al loro linguaggio subculturale, alla funzione svolta sul piano
identi icatorio dalla musica, eccetera.
L’adolescenza assume così le caratteristiche di un’emarginazione
volontaria, in cui la ritualizzazione è presente ed è rappresentata
dall’inaspettato riemergere di pratiche arcaiche e sensoriali. Claude
Riviére afferma:
“La ritualità adolescenziale contemporanea è attratta verso la
sensorialità: ritmo e scansione, tatuaggio, giochi di linguaggio, di luci e
di sonorità, attrazioni per gli effetti della droga, incanto per il
movimento del corpo. Quando il giovane non ha più dei riferimenti
sociali precisi, cerca di costruirsi una propria ritualizzazione anche
attraverso la ricostituzione del simbolico. Il giovane è libero di agire e
deve trovare da solo la sua strada nell’incertezza del mondo moderno”
(Rivière,1998: 107).
L’assenza della società nell’aiutare il giovane a trovare la propria
identità, fa si che questo la cerchi da solo sottoponendosi a prove
personali che gli consentano di testare i suoi limiti (Le Breton, 1990).
Ed in effetti, da quanto emerge dalle interviste, il giovane nel sottoporsi
alla pratica del tatuaggio, sembra che si sottoponga a tutti gli effetti ad
una prova, Elia infatti racconta:
Elia: :…sul il primo tatuaggio (che mi ha fatto un male boia) non lo
rimpiango lo sai che fa male ma lo sai sempre per modo di dire, lo sai da
quello che c’è andato prima di te ma inché non ci vai tu, è come per gli
esami!..
Il rito ha effetti strutturanti e afferma l’identità del soggetto, ne forma
anzi, una nuova: riprendendo sempre l’esame delle interviste, si deduce
che la pratica del tatuaggio è associata dal soggetto ad un periodo
particolare della sua vita, è associata ad un cambiamento che sta
vivendo.
Ecco le parole di un intervistata, Francesca:
FR.:…poi va bene era un periodo un po’ strano, avevo appena inito la
scuola, mi sentivo già libera, già grande, quindi probabilmente l’ho fatto
per quello…
Ricercatrice: Prova a raccontarmi un po’ questo periodo
FR.: cosa ti racconto, che ero spensieratissima, avevo tantissima voglia
di divertirmi, avevo tantissima voglia di stare con le mie amiche, non
ero idanzata, mi innamoravo continuamente.. venivo a casa alle cinque
di mattina.. queste erano le cose di quel periodo, per me cominciava
una nuova vita perché iniva la scuola e quindi non sapevo ancora cosa
andavo a fare, non avevo le idee chiare quindi, comunque non avevo
voglia di studiare, avevo voglia di essere indipendente economicamente
per andare in giro e comprarmi quello che volevo..
E’ chiaro che Francesca in quel periodo, diremmo noi, stava vivendo
una situazione di liminarità, cioè di marginalizzazione, del tutto
personale e privata, di chi ancora non ha de inito in maniera chiara la
propria identità adulta; così come è chiaro che, d’altro canto, oggi
Francesca appare cosciente di questo suo stato e associa in maniera
inequivocabile questo periodo con la pratica del tatuaggio.
Francesca, in ultima analisi, oggi si sente diversa e cambiata, il tatuaggio
dunque rappresenta un modo per affermare questa sua diversa
condizione.
Abbiamo così conferma del fatto che, così come vi sono dei punti in
comune fra riti di iniziazione odierni e riti delle società tradizionali, allo
stesso modo rileviamo che ci sono anche delle differenze fra i due tipi di
ritualizzazione: oggi la ritualità è un fenomeno individuale e privato,
che non si inquadra in alcuna cerimonia socialmente prevista.
Gli intervistati, inoltre, a conferma di quanto detto sulla scuola, hanno
spesso risposto alla domanda mirante ad individuare le tappe che
hanno contrassegnato la crescita psicologica del soggetto ed i
cambiamenti vissuti come signi icativi, individuando nella scuola, e più
precisamente nel passaggio da una scuola ad un'altra, da una classe ad
un’altra, uno dei più importanti metri di paragone in grado di
testimoniare la propria crescita psicologica.
Franca, da questo punto di vista, rappresenta un bel esempio:
Ricercatrice: Mi puoi descrivere le tappe principali della tua crescita, i
momenti di cambiamento, gli eventi critici sia positivi che negativi?
Franca: Sicuramente il periodo delle medie è stato un periodo brutto
proprio…le medie inferiori è stato un periodo ..ero nella fase critica
dove ti devi trovare un nuovo corpo, una nuova esistenza, per cui
brutto.. non traumi particolari però.. le superiori direi abbastanza
stabile, io vado a periodi scolastici, ho vissuto le mie esperienze
adolescenziali in maniera tranquilla ..altri momenti, l’università e il
fatto di aver trovato il ragazzo con il quale sono stata sette anni….
La scuola però, come dicevo nel terzo capitolo, e come prima ha detto F.
Vanni (1992), spesso non appare cosciente di questo suo ruolo così
importante. Lascia sulle spalle del giovane tutte le ambiguità connesse
al cambiamento di identità, cioè a quel secondo processo di
individuazione che avviene nell’adolescenza e che, come afferma Octave
Mannoni (1988), più che un processo di identi icazione, si de inisce
come un drammatico processo di disidenti icazione.
Affermano gli psicologi che si sono interessati dei problemi della
crescita e dell’adolescenza (Erikson, Blos, O. Mannoni) che le fasi di
cambiamento del soggetto sono molto importanti nel costituirsi
dell’identità, e - nel contempo - molto delicate.
La crescita, il passaggio da una fase all’altra comportano sempre la
perdita di certi atteggiamenti, di certi aspetti della propria identità,
prima ancora che gli elementi nuovi, tipici della nuova età si siano
strutturati dentro al soggetto. Ciò comporta l’insorgere, in questi
momenti, di un tasso di angoscia molto alto e la comparsa di con litti
interni ed esterni alla persona.
D’altro canto il soggetto, di fronte ai cambiamenti, non solo reagisce con
l’angoscia per la nuova situazione, ma anche con sentimenti depressivi
originati dalla perdita di precedenti rapporti o situazioni, cioè
sviluppando un lutto simbolico.
Ciò è vero in qualsiasi età, ma è ancora più vero e drammatico in
adolescenza, allorché i cambiamenti sono così radicali, soprattutto a
livello corporeo.
D’altro canto in ogni processo educativo vi sono elementi che evolvono
altri che restano relativamente stabili. Il cambiamento ottimale
avverrebbe se le parti della personalità che non cambiano
assimilassero il nuovo, mantenendo una coerenza e una continuità a
livello dell’identità. Cioè a livello della propria immagine psichica e
isica. Ma ciò durante l’adolescenza è praticamente impossibile poiché i
con litti sono più frequenti e più intensi che negli altri periodi di
passaggio, e l’angoscia che ne scaturisce si forma a partire dagli svariati
lutti che derivano da questi continui cambiamenti di ordine sia isico
che psicologico.
Crescere signi ica passare attraverso una successione di lutti.
Afferma Blos che durante l’adolescenza si opera il secondo processo di
individuazione (Blos,1979), in quanto che il primo è stato raggiunto dal
bambino verso la ine del terzo anno di vita attraverso l’acquisizione
della costanza dell’oggetto. Con il secondo processo di individuazione
l’adolescente opera il distacco dalle dipendenze familiari, l’acquisizione
di un proprio punto di vista sul mondo, il passaggio dalla endogamia
alla esogamia, l’apertura verso il mondo e verso la vita di coppia,
dapprima solo sognate e più o meno timidamente sperimentate,
successivamente - mano a mano che il processo maturativo prosegue -
sempre più coerentemente perseguite (se le cose vanno
suf icientemente bene).
L’adolescente è un soggetto in transizione continua, e il distacco dagli
oggetti interiorizzati precedentemente, apre la strada ad oggetti di odio
ed amore esterni ed extra-familiari.
In questo senso si possono meglio interpretare quei comportamenti che
evidenziano il distacco del giovane dalla famiglia.
Anche nella mia ricerca quasi tutti gli intervistati - a meno che non si
parli di giovani che si sono praticati il tatuaggio in età già più adulta -
quando hanno risposto alla domanda concernente il vissuto del
tatuaggio all’interno della famiglia, hanno raccontato dell’emergere di
episodi con littuali, fatti un po’ di menzogne e un po’ di litigi.
In sei interviste addirittura, il giovane fa riferimento al tatuaggio come
un atto di ribellione nei confronti della famiglia.
Nelle parole di Luisa, ad esempio, si possono cogliere molto
precisamente, questi atteggiamenti:
Ric.: quando ti sei fatta il tatuaggio è stato un momento dunque di
libertà, di indipendenza?
Luisa: Si quello sicuramente.
Ric.:Un momento di indipendenza dalla tua famiglia?
Luisa: Anzi fargli un torto più che indipendenza forse, cioè non è stato
fargli un torto perché sinceramente non ci tengo a fargli dei tori. Lo so
anche io che più mi dicono di non fare una cosa più la voglio fare, però è
proprio di dire non me ne frega niente di quello che dicono, io ci tengo a
farlo e comunque so prendere i miei rischi; sono cosciente di quello che
ho fatto, non l’ho fatto per ripicca.. io sono anche una “bestia” che se
sono convinta di una cosa è dif icile che cambi idea, se sono convinta
signi ica che me lo devo fare..
Seguendo il percorso dell’individuazione in adolescenza, possiamo
osservare come il ricorso all’acting out sia frequente in questa fase.
Per acting out si intende quel momento in cui la concretezza,
l’impellenza dell’azione sostituiscono l’elaborazione a livello mentale.
Nelle interviste svolte si è notato che la maggior parte dei soggetti
scelgono di tatuarsi in modo frettoloso e non meditato. Nelle parole di
qualche intervistato si ritrova la frase : “ è stata una scelta impulsiva”:
Ad esempio in Claudia:
Ric.: Mi poi descrivere se quando ti sei praticata il tatuaggio è stato un
periodo particolare?
C.: …..Ero molto piccola, è stato un colpo di testa
Ric.: Cosa intendi per colpo di testa?
C.: Si un colpo di testa che tuttora rifarei una cosa dettata dall’istinto
niente di particolare
Ric.: Ti ricordi qualcosa di più preciso?
Claudia: no, diciamo che stavo lasciando il mio gruppo di amici che
frequentavo nell’adolescenza, il gruppo del (bar) Mazzoli, quella gente
lì, un modo per dire sono differente, per dire.. non so… Devo ammettere
che ero stata scottata parecchio, perché avevo discusso con queste
persone, quindi forse questo è l’unico aneddoto che mi posso ricordare..
Da quanto emerge da questa intervista il gesto del tatuarsi è vissuto dal
soggetto come “un colpo di testa”, che è stato fatto in un momento
particolare di cambiamento, in cui il soggetto sta cambiando gruppo di
amici, sta vivendo una situazione di lutto, che non riesce in quel
momento a elaborare razionalmente. Si trova quasi costretta a vivere
sul piano dell’azione irri lessiva, dell’acting out.
Occorre a questo punto ricordare che, quando si parla di acting out,
sembra sempre che si alluda a qualcosa di negativo; sembra cioè che
l’aspetto positivo dell’acting out sia spesso ignorato. Invece Blos (1979)
ci insegna che, così come esiste un versante negativo dell’acting out,
esiste anche un versante positivo. La differenza fra l’uno e l’altro
sarebbe, secondo Blos (op.cit.), nel fatto che l’uno ha un coté regressivo
alle spalle, cioè è un indizio di regressione, l’altro ha un signi icato
progressivo e di crescita psicologica.
Tra i soggetti che ho intervistato, la facciata positiva dell’acting out
sembra prevalere, poiché l’azione del tatuarsi aiuta il soggetto a
superare il lutto che deriva dal cambiamento e dalle ansie e angosce
connesse col passaggio che il giovane sta vivendo.
La scelta di tatuarsi appare come meditata solo in quattro intervistati
tatuati.
A sostegno dell’azione che scavalca il pensiero riporto le parole di
Nicola:
Ric.: La scelta di praticarti il tatuaggio come è stata?
Nic.: è come quando mi sono tagliato i capelli a zero, mi è venuto in
mente e l’ho fatto.. poi ti voglio far capire che sono stato contento di
averlo fatto perché spesso mi capita di prendere queste decisioni
improvvise, faccio la tal cosa e magari a mente più serena dico ma forse
è meglio che ci pensi bene. Invece con il tatuaggio e con il taglio di
capelli sono andato via senza far delle storie. Sì l’ho detto e l’ho fatto…
Tatuaggio e crisi di identità: un corpo ed una mente nuova in cerca di
senso
La capacità di sentirsi se stesso nel cambiamento costituisce la base
emozionale per l’identità.
Il sentimento di identità si fonda sulla possibilità di sentirsi separato e
diverso dagli altri; nasce sempre da una differenziazione e successiva
integrazione delle parti che si sono formate nel cambiamento con
quelle che già esistevano prima.
Questo può avvenire su tre piani: spaziale, nel senso di una
differenziazione tra Sé e non Sé (cioè resto del mondo); temporale, che
riguarda le diverse rappresentazioni del sé nel tempo; sociale, che
consiste nella relazioni tra aspetti del sé e aspetti degli oggetti, cioè
delle persone che ci stanno intorno e alle quali, per un verso o un altro,
siamo legate.
L’uomo dunque ricerca una identità del tutto personale e circoscritta al
proprio mondo esperienziale, all’interno del quale è in rapporto con gli
altri, ma tende anche a differenziarsi da essi, specialmente in società
come la nostra che esaltano l’individualità.
Secondo Napolitani, infatti esiste, in ciascuno di noi, un aspetto che ci
ricongiunge alle persone importanti della nostra vita, che ci hanno
in luenzato con il loro esempio, aspetto che lui chiama idem, ed un altro
versante che ci distingue da essi, così come da tutti gli altri, che sempre
Napolitani chiama autos. Società statiche, fredde, direbbe forse Levi
Strauss, implicano un allargamento dell’idem, a spese dell’autos. Società
dinamiche, quali quelle metropolitane e postindustriali, al contrario
esaltano l’autos, cioè l’individualità, la singolarità, l’unicità del soggetto.
Habermas, parlando del rapporto fra uomo contemporaneo e uomo
medievale, sostiene che nel medioevo anche uomini eminenti e
originali, quali gli artisti, non si sarebbero mai sognati, per esempio di
irmare le proprie opere, poiché la dimensione gruppale dell’esistenza
era preminente e tendeva a schiacciare quella individuale, in quel
periodo.
Oggi invece l’individualità impera e qualsiasi cosa riceve il marchio
dell’individuo o del gruppo speci ico di individui, con tanto di nome e
cognome, che l’hanno compiuta, o solo immaginata.
E’ vero però che oggi, proprio per questa smania di individualismo, la
spinta all’individuazione si può fermare ad un livello primitivo,
elementare, che scaturisce da semplici differenziazioni che, specie in
momenti di crisi e di passaggio, sono de inite attraverso aspetti ef imeri
che pure contribuiscono a de inire l’individualità; aspetti quali i vestiti,
gli ornamenti e, fra questi, il tatuaggio.
In questi casi, è come se il soggetto, invece di approfondire da un punto
di vista psichico i signi icati profondi insiti nel processo di
individuazione, cercando di ricondurlo a igure del proprio mondo
interiore, ci tenesse a differenziarsi solo attraverso un segno estetico,
un evento apparentemente marginale e poco importante, ma che in
quel determinato momento, in quel determinato soggetto forse
acquisisce un signi icato particolare.
Nella nostra società di tipo postindustriale, questo differenziarsi
attraverso aspetti corporei è un topos poiché ormai viviamo in una vera
e propria ossessione visiva (Tropea, in: Cerani, Grandi, 1995:95), in cui
cioè il dato sensoriale più stimolato è senza dubbio la vista.
A partire da ciò è fuori dubbio che questa cultura della visibilità (op.cit)
sia penetrata anche nel mondo giovanile.
La differenziazione, a partire da questa modalità apparentemente
super iciale, però non va sottovalutata poiché rappresenta forse per il
giovane l’unico tentativo che egli ha sottomano in quel momento per
affermare la propria identità.
Dalle parole di Claudia possiamo comprendere con maggior chiarezza
che signi icato può assumere la pratica del tatuaggio per il soggetto,
all’interno del proprio faticoso processo di individuazione:
Cl.: Quando mi sono fatta il tatuaggio avevo quindici anni, lì è stato un
mio dovere per differenziarmi, per dire ‘sono diversa’..
Alle volte il possedere un tatuaggio non soddisfa in pieno il desiderio di
sentirsi diverso, perciò il soggetto ricerca qualcosa in più.
Il tatuato desidera che il proprio tatuaggio sia unico e non confondibile.
Nel paragrafo iniziale abbiamo visto quanto sia presente questa
inclinazione fra i giovani d’oggi. L’intervista di Elia ben rappresenta ciò
che voglio esprimere:
Ric.: Descrivimi il tuo tatuaggio
E.: …L’idea era quella di avere un tatuaggio che mi piace sulla pelle, però
l’ho modi icato perché avere un tatuaggio che può essere uguale a
quello di un altro, anche se il tuo è nascosto, mi dava da fare (mi dava
fastidio); invece quella è una cosa mia.
Nel momento in cui il soggetto è immerso nel cambiamento, si può
sentire sperso ed angosciato, in questo momento il tatuaggio è un
elemento che aiuta il soggetto ad affermare la propria identità.
Non ci si dovrebbe sorprendere, quindi, se tra i carcerati e tra i marinai
si rilevi una percentuale così alta di persone tatuate. Infatti in
condizioni in cui l’anonimato rappresenta una regola, ed in cui il corpo
appare come assente in determinate funzioni importanti, poiché
impedito dalla situazione di contenzione, il tatuaggio può sopperire,
almeno in parte, alla mancanza di un’identità personale socialmente
riconosciuta e di spessore corporeo, dato dall’esercizio della corporeità
nella vita affettiva e nel lavoro.
Tra le interviste che ho svolto, ho intervistato, fra l’atro, un soggetto
tatuato in gran parte del corpo che porta all’estremo le considerazioni
qui sopra fatte.
Questo soggetto possiamo dire che impone la propria presenza
attraverso la bizzarria e l’inusitato.
La società postindustriale è caratterizzata da spinte neo - tribali, che
sono la conseguenza del modello iperindividualista imposto dai valori
dominanti. Il soggetto che sceglie strade così chiassose e
esibizionistiche per imporre la propria presenza è come se cercasse, in
questo modo, di conferire un senso più forte alla sua esistenza e al suo
corpo, che altrimenti rischierebbe di apparire ai suoi occhi come
pericolosamente impalpabile e sfumato.
Tramite il tatuaggio il soggetto sente che può acquisire una maggior
consapevolezza di sé, così come traspare dal seguente brano
dell’intervista ad Andrea:
Ric.: Mi puoi descrivere le sensazioni che hai provato prima di tatuarti,
durante e dopo?
A.: Prima paura, insicurezza, quando sono entrato però dentro nel
locale, mi son seduto, ero convintissimo, mentre me lo faceva dicevo:
“questo non va più via e rimane mio, è una cosa seria!” quando ho inito
il tatuaggio mi sono alzato, mi sentivo più grande, più forte, una
sensazione piacevole che da quell’attimo lì, è una cosa importante, ti fa
sentire più grande.
L’identità personale deve essere in qualche modo garantita mediante
identi icazioni che fungono da rassicurazioni che si possono trovare
dentro di noi, e che possono essere ideali politici, religiosi eccetera; o
fuori di noi, che ci provengono cioè dal mondo esterno. In questo
secondo caso è come se chiedessimo agli altri di dirci in maniera
igurata chi siamo.
Durante il periodo di cambiamento, ed in particolare in adolescenza,
poiché la struttura della personalità è più vulnerabile, dato che il
soggetto, come dicevamo prima sa di non essere più quello di prima, ma
non sa con precisione cosa sta diventando, ha bisogno di rassicurazioni
ulteriori.
Il curare la propria immagine, il praticarsi tatuaggi, fa sentir bene, dà
sicurezza.
Il tatuaggio quale sistema di segni applicato direttamente sulla pelle,
diventa così un mezzo per enfatizzare il corpo, che sta cambiando
forma, presso se stessi e presso gli altri.
Secondo Achille Bonito Oliva (1985), il tatuaggio diventa allora un
mezzo di espressione narcisista che può essere diretto verso l’interno o
verso l’esterno.
Andrea descrive le sensazioni che prova quando il suo tatuaggio è visto
da estranei:
Ric.: di fronte agli estranei che sensazioni hai provato?
Andrea: Piacere di essere giudicato e guardato
Ric.: Ti ricordi degli episodi signi icativi?
Andrea: Ma no, magari solo occhi addosso, però bene o male mai
nessuno che mi abbia detto qualche cosa anzi, i ragazzi della mia età
dicono “ che bello dove l’hai fatto?”; però comunque non ho avuto
problemi
Ric.: Cosa intendi per piacevole?
Andrea: Piacevole, magari mi piaceva essere guardato con occhi non
d’accordo con quello che ho fatto, giudicato
Ric.: Ti inorgogliva?
Andrea: Certo perché quello che volevo fare era quello.
In queste parole possiamo trovare una traccia signi icativa, io penso,
dell’atteggiamento di chi specchiandosi negli occhi altrui trova un
riscontro che lo riporta, o almeno lo illude di riportarsi alla propria
identità.
In ine il tatuaggio sembra andare in due direzioni: verso l’esterno
allorché il tatuaggio è praticato su parti del corpo esposte e visibili,
verso l’interno quando il tatuaggio è nascosto e non è visibile agli altri.
Quando il tatuaggio va verso l’esterno acquisisce un signi icato
simbolico che lo apparenta al graf ito. Infatti il graf ito e il tatuaggio
sembrano mossi dal medesimo sentire che è quello di costruire senso
mediante applicazione di segni (più noti graf isti accompagnano questa
attività con quella di tatuatori).
Il tatuaggio così ci riporta al corpo individuale, mentre il graf ito al
corpo urbano. E così come nella nostra società vi è una nuova centralità
del corpo, come contraltare di un universo dominato dalla tecnologia,
allo stesso modo il graf ito rappresenta il contraltare del segno
pretecnologico nei confronti di una città urbana sempre più estranea
all’individuo.
E da una parte il corpo si propone sempre di più come espressione di
senso e di comunicazione, e tramite le alterazioni corporee, quali il
tatuaggio, si cerca di issare il senso che viene diluito e scompare ad
esempio nelle pratiche telematiche. Dall’altra il graf ito ripropone alla
città la corporeità materiale, di fronte alle tendenze alla ride inizione
alienata ed alienante degli spazi 3.
Connesso con il tema della smaterializzazione e della perdita di senso
del corpo è in ine il tema del dolore che, per quanto riguarda il
tatuaggio, ha un ruolo spesso centrale e sembra poter assumere il
signi icato di riproporre al giovane la percezione della sostanza e dello
spessore corporale e, in questo modo, la percezione della propria
esistenza.
Il dolore, come abbiamo visto da molte interviste è un elemento
sicuramente immanente nella pratica del tatuaggio.
Riportiamo qui sotto brani dell’intervista a Diego:
Ric.: Il rapporto con la tatuatrice?
D.: nessuno; di sofferenza, anche perché io soffrivo tantissimo e faceva
molto male, ma lei non smetteva, avrà smesso due volte in un due ore,
ma si fermava due secondi proprio, non è che si fermava mezz’ora! Io
proprio non ne potevo più…
Tatuarsi o no: ipotesi sui perché di una scelta
Se ci chiediamo perché, in ultima istanza, una parte dei giovani delle tre
compagnie considerate si tatua, ed un’altra no, emergono tutta una
serie di componenti che congiungono ancora una volta le nostre
interviste al materiale teorico che abbiamo tentato di riassumere nella
prima parte del presente lavoro.
Sembrerebbe, a prima vista, che il dato più evidente e discriminante sia
quello dell’acting out, cioè di quell’agire impulsivo e irri lessivo, che
abbiamo riscontrato in molte interviste con soggetti tatuati:
Pat.: ero piccola, avevo diciotto anni, l’ho fatto senza testa, senza
pensarci..
Ric.: La decisione è stata casuale, sono andato con L. in un negozio di
tattoo, ho visto il geco (il soggetto del tatuaggio) me ne sono
innamorato
Nelle interviste dei soggetti non tatuati traspare, anche se questi
sembrano possedere, più dei primi, una capacità di inibizione dell’agire
impulsivo:
Ric.: Hai mai avuto voglia di fartelo? Se si in che occasione? (qualcosa di
particolare nella tua vita esterno – interno?)
S.: sì c’è stato, cinque o sei anni fa avevo questa passione… poi mi aveva
detto una persona che li fa che in quel punto è un po’ doloroso… e allora
ho detto va bè e ho lasciato correre e dopo non l’ho più fatto..
Gom.: diciamo che è un’idea che ho sempre avuto, anche anni fa quando
eravamo in vacanza insieme, di farmi un tatuaggio mi è sempre
“prillato”(andato a genio) però non ho mai avuto la decisione di farlo,
per vari motivi: primo perché non sono mai stato deciso, poi perché è
sempre avuto paura di pentirmi perché se ce l’hai come fai…
Sembrerebbe cioè che entrambi i gruppi, di fronte a cambiamenti
importanti del periodo dell’adolescenza, siano presi da una pulsione a
fare impulsivamente qualcosa che i primi non riescono a inibire, i
secondi si. Questo qualcosa, come abbiamo visto nel sesto capitolo, è da
ascriversi nel novero degli acting out progressivi, cioè in quel tipo di
agito che aiuta la separazione dalle immagini genitoriali del passato, e
l’integrazione di parti di sé rimaste ino a quel momento non
perfettamente integrate.
In effetti, a ben vedere non vi è nulla che ci possa indurre a pensare che
questa differenza, che si manifesta in questo modo e con questo
discrimine nei confronti del tatuaggio, si presenti con la stessa
suddivisione su tutto l’universo degli agiti adolescenziali dei giovani
considerati.
Non abbiamo alcuna prova in proposito, ma nulla ci impedisce di
pensare come possibile il fatto che, su altri piani, la discriminazione fra
tendenza all’agito ed alla inibizione dell’agito sia diversa da quella che
nella presente ricerca abbiamo potuto riscontrare in tema di tatuaggio.
Anzi, proprio il fatto che anche i non tatuati spesso abbiano sentito il
bisogno di tatuarsi, anche se poi non l’hanno fatto, sta a dimostrare la
loro vicinanza all’agito, la loro propensione all’acting out, che solo per
questioni inerenti la indelebilità del disegno pare essere stata inibita.
Blos (1979), sostiene che l’intensi icarsi dell’acting out in adolescenza
sia un elemento caratteristico dell’età e che l’adolescente, attraverso la
ripetizione degli agiti, può permettersi lentamente di progredire nel
suo processo trasformativo, o bloccarsi e regredire. Si tratta quindi di
un fatto che prende entrambi i sottogruppi, e che può manifestarsi negli
uni in un modo, negli altri in un altro.
Ma, se la strada della spiegazione attraverso l’acting out non porta a
nessuna conclusione interessante, quella che parte dalle immagini della
corporeità dei singoli soggetti probabilmente può esserci di aiuto.
Abbiamo visto che anche coloro che non si tatuano spesso hanno
sentito il bisogno di farlo e che si sono fermati spesso a causa di due
elementi. La indelebilità del segno ed il dolore che immaginano
connesso all’atto del tatuaggio.
Ebbene, se ritorniamo alle tre metafore della corporeità di Baudrillard
(1979) – quella dell’animale, del robot e del mannequin come
corrispettive nell’immagine della corporeità del cristianesimo, della
società industriale e della società dei consumi, e cerchiamo di vedere il
rapporto che può esserci fra queste considerazioni e le immagini della
corporeità che sono sottese nelle argomentazioni dei nostri due gruppi,
vedremo che un’ipotesi – solo un’ipotesi – probabilmente può essere
fatta.
Era implicito nel discorso di Baudrillard, così come del resto in quello di
Le Breton (1990), il fatto che il prevalere nel soggetto di una delle tante
immagini della corporeità non implicasse affatto l’assenza in esso delle
altre immagini della corporeità presenti nella società, o nelle società in
cui il soggetto vive, o ha vissuto (teniamo presente che nell’Italia
odierna i processi migratori meno recenti e più recenti hanno senz’altro
prodotto una commistione fra varie strati icazioni di immagini della
corporeità).
Quindi ci si può attendere anche dal nostro campione la presenza di
varie immagini della corporeità che possono assumere uno spazio più o
meno grande nel dialogo interno al soggetto, a seconda di tutta una
serie di circostanze fra le quali l’età è solo una delle componenti.
Riandiamo così alle nostre interviste:
Afferma Paola :
…per me il tatuaggio è come può essere una pettinatura, un oggetto,
una collana un braccialetto, quindi una cosa permanente, io non sono
una persona cioè.. non mi piace l’idea di una cosa che rimarrà per
sempre impressa sulla pelle, la vedrei come una ferita, una cicatrice che
non potrebbe più andare via e quindi dopo non mi piacerebbe…
Anche Riccardo :
Ma la prima cosa che mi viene in mente è schifo e ribrezzo, poi se ci
penso meglio è anche il dolore di fare.. sì queste piccole penetrazioni,
mi hanno detto che è molto doloroso e poi anche il fatto che è una cosa
che non posso più togliere mi da fastidio, anche se con il laser…
Tutto ciò ci può fare pensare che, non in assoluto, ma di fronte a questo
evento sia prevalso in loro una immagine della corporeità riconducibile
non al corpo mannequin che deve essere mostrato per la sua
singolarità, ma ad un corpo robot che, al contrario, deve potere
ricondotto ad una entità standard, presentabile in tutte le circostanze, e
soprattutto sul lavoro, come simile agli altri corpi.
Il fatto che, però, anche i non tatuati ci tengano, alla singolarità della
propria silhouette alla quale non rinunciano e che anzi ricercano, come
la maggior parte dei giovani d’oggi, ci fa pensare che in loro sia
presente, a ianco ed in dialogo con l’immagine del corpo robot, anche
una immagine del corpo mannequin.
Ed, in contemporanea, il fatto che fra alcuni dei tatuati si senta il
bisogno di celare al grande pubblico il tatuaggio e di esibirlo solo ad un
pubblico selezionato ed intimo, fa pensare che un dialogo simile fra più
immagini corporee sia presente anche in loro e che ciò in de initiva
serva a temperare l’esposizione del tatuaggio, le sue dimensioni,
eccetera.
Il riferimento al dolore pensato e sentito, rispettivamente dai non
tatuati e dai tatuati, come connesso all’atto del tatuaggio, ci riconduce al
tema del sentire, del provare a se stessi l’esistenza di un corpo che sta
cambiando, e sembra avere poco a che fare con le immagini corporee
cristiane del corpo come sede del peccato, della carne come elemento
da punire e da macerare, come sembrerebbe, a prima vista, essere
implicito nel rapporto fra tatuatore e tatuato. Ma, anche in questo
campo è bene procedere con i piedi di piombo e limitarsi a dire che
ulteriori ricerche possono smentire o avvalorare la nostra opinione.
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Bibliogra ia
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Blos P., L’adolescenza come fase di transizione, Roma, Armando editore,
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Mannoni O., Il difetto della lingua, Pratiche Ed., Parma
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Riviére C., Riti profani, Roma, Armndo, 1998
Scanagatta S. (a cura di), Generazione virtuale: i giovani di un’area
emiliana tra benessere e ricerca dei valori, Roma, Carocci, 1999
Van Gennep A., I riti di passaggio, Torino¸ Bollati Bo-ringhieri, 1988
Vanni F. Sacchi M., Rappresentazione e costituzione delle identità
individuali nelle interazioni di gruppo, Milano, Cortina, 1992
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Note
1. D. Le Breton de inisce il fenomeno che io qui ho de inito come rito di
iniziazione privato come “rito intimo parallelo”: “questo rito, intimo
nella sua risonanza e comunque solitario, esorcizza il caos interiore di
colui che non riesce a trovare la sua sicurezza di base”(Le
Breton,1995:128).
2. “così un medesimo rito denota ora l’entrata nell’infanzia, ora
nell’adolescenza, ma senza aver nulla a che fare con la pubertà isica.”
(Van Gennep,1981)
3. Come magistralmente aveva intravisto Kubrik in Arancia Meccanica,
dipingendo le periferie urbane degli anni ’60.
Essere genitori oggi: funzioni
materne e funzioni paterne a
casa e nelle strutture prescolari
di Leonardo Angelini e Deliana Bertani
A Reggio Emilia in questi ultimi decenni ‘il mestiere di genitore’ è
attraversato da una serie di cambiamenti, intervenuti nella sfera
economica e sociale, così come a livello culturale e di costume(1), che lo
vanno ride inendo in dalle fondamenta.
Poiché i nostri bambini e ragazzi disabili e a rischio, e cioè i destinatari
della nostra opera di volontariato e di cura, provengono da famiglie che
– per le loro particolari condizioni – risentono spesso più di altre della
situazione di disorientamento che questi rapidissimi cambiamenti
hanno indotto in coloro che in questi anni hanno avuto la ventura di
diventare genitori iniziamo oggi un tentativo di analisi di ciò che va
accadendo all’interno della coppia genitoriale reggiana a seguito di
questi cambiamenti.
Cominceremo dalle trasformazioni intervenute nella coppia
nell’espletamento delle funzioni materne e paterne di fronte ai bambini
piccoli, rimandando ad altra occasione ulteriori considerazioni sulla
nuova coppia genitoriale reggiana di fronte ai vecchi e ai nuovi
problemi indotti dalla fanciullezza e dall’adolescenza dei propri igli.
1. La cogestione educativa: un modello emiliano di educazione
moderatamente policentrica
Sono ormai 30 anni che nella regione Emilia e Romagna viene
sperimentato un modello di educazione policentrica precoce (famiglia +
nido, e, ancor da più tempo, famiglia + scuola materna) che va
modi icando, in maniera silente, ma non per ciò inin luente, molte cose
sia a livello individuale, nei bambini di oggi e di ieri che hanno
frequentato il nido e la materna, sia a livello familiare e sociale.
Abbiamo de inito in un precedente lavoro (2) il modello emiliano come
modello moderatamente policentrico, e qualchedun altro, prima di noi,
ha ‘battezzato’ questo modello col nome di "cogestione educativa".
La cogestione educativa è caratterizzata, fra l'altro: - dalla permanenza
della coppia genitoriale in una posizione centrale nell'educazione
precoce del bambino cogestito; - e dalla integrazione di queste funzioni
genitoriali, che prevalentemente continuano ad essere svolte in famiglia
da parte della coppia genitoriale, da parte delle educatrici del nido
prima, e della scuola materna in un secondo tempo.
Finora, a nostro avviso, ciò che deriva da questo importante
cambiamento sul piano della socializzazione precoce del bambino non è
stato studiato a suf icienza.
All'inizio anzi da più parti, e specialmente in ambito psicoanalitico,
l'introduzione di questa novità, che come abbiamo detto prima era
legata agli irreversibili cambiamenti che sono avvenuti in questi anni
nella società e nella famiglia reggiana, era stata paventata come
possibile portatrice di danni, anche gravi, per la psiche del bambino.
Vi era in quelle posizioni una sorta di paura nei confronti del nuovo,
iglia di una ipostatizzazione del modello monocentrico di educazione
precoce (quello cioè basato, almeno all'inizio, sul rapporto esclusivo
bambino-madre), visto come unico vero modello di socializzazione e di
inculturazione nella prima e nella seconda infanzia, e della visione di
ogni altro modello educativo come soluzione di ripiego e di emergenza,
o come qualcosa di assistenziale cui ricorrere solo in extremis.
Si trattava, lo sappiamo, di un falso storico, o meglio di una negazione
della varietà e della storicità delle forme concrete con cui vengono
esercitate le funzioni genitoriali nelle varie società. Si trattava, inoltre,
di una idealizzazione del rapporto monocentrico madre-bambino, che
in effetti, anche laddove sembra esistere, vede spesso altre igure (la
governante, baby sitter, un qualche familiare) impegnate in un’opera di
sostegno alla madre. Si trattava, cioè, in ultima istanza, di una visione
ideologica delle istituzioni prescolari, e del nido in particolare.
Non per niente di fronte ai modelli assistenziali e sanitarizzanti di nido
precedenti alla nascita dei nidi comunali (parliamo dei nidi ONMI o di
quelli aziendali) e, qualche decennio prima nei confronti delle materne
assistenziali, nessuna di quelle voci si era levata di fronte alla
pericolosità - quella si, accertata - di quei modelli di socializzazione
precoce che, proprio per il fatto di non perseguire obiettivi di tipo
educativo, si ponevano per ciò stesso su di un piano di discontinuità
con le famiglie.
L’educazione policentrica precoce invece è qui fra noi da 30 anni, è il
modello che ha informato la crescita dei nostri igli, ed ha nelle
educatrici dei nidi e delle materne le co-protagoniste che insieme ai
genitori svolgono, sul palcoscenico dell'educazione precoce del
bambino, funzioni genitoriali di tipo integrativo di quelle che a casa
svolgono i genitori stessi: funzioni materne, quindi, e funzioni paterne
che è ora di studiare più da vicino.
Quella che tenteremo oggi, però, è solo una esplorazione "a volo
d'uccello" sul problema, cercando di avvalerci, da una parte della nostra
esperienza (3), dall'altra della ricchissima bibliogra ia che ci permette
di attingere alle ricerche e alle ri lessioni che, specie in ambito
femminista (4), vanno ri\esplorando il concreto dispiegarsi sulla scena
sociale e domestica della dialettica fra uomo e donna, ed in particolare
fra funzioni paterne e materne, dall'altra, in ine, delle ricerche che sono
state fatte in ambito etnoanalitico, storiogra ico, etnologico sul
maternage multiplo e sull'in luenza che i vari tipi di famiglia esercitano
sul piano educativo(5).
2. Ruoli e funzioni nel processo educativo
Però, dato che, come appare anche dal titolo, la nostra ri lessione sarà
incentrata sul concetto di funzione genitoriale, più che su quello di
ruolo di genitore, ci sembra opportuno, prima di entrare nel merito,
accennare alle differenze concettuali che ci sono fra ‘funzione’ e ‘ruolo’,
di modo che il lettore sia posto nelle condizioni di compredere.
Quando si parla di ruolo normalmente ci si riferisce alla posizione che
singoli individui assumono all'interno di un sistema sociale, ed
all'insieme delle norme e delle aspettative che ci si attendono da questi
individui in quanto occupanti il tale o il tal altro ruolo.
Ad esempio sul piano educativo, all'inizio del processo di
socializzazione del bambino, in connessione con la posizione della
madre, ci saranno un insieme di aspettative e di norme secondo le quali
all’interno di ogni cultura si declina il ruolo materno rispetto alle
esigenze di contenimento del bambino.
Quando invece si parla di funzione ci si riferisce al contributo
particolare fornito da un insieme di parti della struttura sociale, vista
nel suo complesso, per il perpetuarsi o per la trasformazione del
sistema stesso o di una sua porzione.
Ad esempio sul piano educativo, e sempre a proposito del
contenimento, partire dalla funzione di contenimento signi icherà, non
più riferirsi ai ruoli, ma a come viene esaudita questa importante
funzione del processo di socializzazione, in un contesto speci ico, dalle
varie parti che oggettivamente la svolgono.
Nel nostro caso, e cioè nel caso della cogestione educativa, se noi
partissimo da una indagine fondata sul concetto di ruolo avremmo una
elencazione delle aspettative e delle norme che ci si attende dalla
madre, dal padre, e da ogni singola educatrice del nido o della materna.
Centrando la nostra indagine sul concetto di funzione noi siamo invece
in grado di vedere tutta la novità, la sperimentalità, la rivoluzionarità
del nostro modello moderatamente policentrico che consiste, proprio,
nel concorso di più soggetti che oggettivamente assolvono la funzione
di contenimento, così come tutte le altre funzioni genitoriali, secondo
un criterio di gerarchia di interessi, che nel contempo salvaguardia da
una parte le esigenze di continuità educativa [di ristrettezza (6) della
rete educante, in questa fase iniziale dell'educazione del bambino,
direbbe Parsons], dall’altra di ridistribuzione della cura del bambino
stesso fra più soggetti educanti secondo i cambiamenti intervenuti nella
società.
La cogestione educativa in questo modo ci appare per quello che è:
come il risultato di un processo di cambiamento che sta avvenendo sia
nella posizione della donna, e della donna-madre in particolare, sia
nella famiglia e nella società, in un momento speci ico della nostra
realtà sociale.
Qualora, di fronte a questi cambiamenti, il nostro punto di osservazione
fosse solo quello che parte dall'analisi dei ruoli, noi, laddove c'è un così
nuovo e particolare intrico di funzioni, iniremmo per vedere solo la
sommatoria di norme e di aspettative dei singoli individui, perdendo di
vista il legame funzionale che dinamicamente si sta de inendo nel
sistema educante della nostra società, oggi.
In questo modo, di fronte alle nuove identità femminili e maschili, la
cogestione educativa è una risposta pratica, reale, non ideologica ad un
enorme problema: l'educazione del bambino piccolo che richiede
continuità e calore da parte di chi si prende cura del bambino, da una
parte, e ridistribuzione delle funzioni che venivano tradizionalmente
svolte dalla donna, e particolarmente dalla madre, dall'altra. Una
ridistribuzione che non può che avvenire in un piccolo cerchio di
soggetti. Una risposta pratica, si diceva: un piccolo grande esempio di
ingegno padano nel risolvere i problemi. Non utopia, non ideologia (le
comuni infantili, i kibbutz ecc..) ma piccole grandi soluzioni che non
buttano per aria niente, che non rivoluzionano, ma riformano
confrontandosi con le nuove urgenze della realtà che cambia.
D'altra parte la famiglia allargata, quindi l'educazione nella famiglia
allargata e la conseguente distribuzione di funzioni, fa parte della
nostra tradizione. Fino a venti trent'anni fa, specie fra i contadini, le
funzioni materne erano spontaneamente articolate in modo tale che,
mentre la madre era nei campi, la donna che stava in casa si occupava
dei bambini di tutti coadiuvata dagli anziani, e da tutti coloro che non
potevano per varie ragioni lavorare fuori casa.
3. Funzioni materne al nido e in scuola materna
Torniamo alla realtà attuale e consideriamo innanzitutto le funzioni
materne, che sono tra l'altro le più evidenti.
Le principali funzioni materne svolte al nido e nella materna, a nostro
avviso sono:
La funzione di contenimento che noi osserviamo nella gestione, da
parte dell'educatrice, dei momenti di separazione, cioè del momento
dell'arrivo al nido o nella materna, allorchè il bambino piange e non
vuole lasciare il genitore; nell'uso e nella comprensione dell'oggetto
transizionale e dell’area di gioco come strumenti che attestano il
bambino nel suo processo di individuazione - separazione; nel
momento dell'uscita, quando spesso il bambino non vuole
interrompere i suoi giochi, o piange o scappa per la sezione e la madre
vive tutto questo come un ri iuto; nella gestione dei momenti di routine,
quali il sonno, il pasto, il cambio.
La funzione di parametro nel processo di identi icazione che vediamo
nella gestione di tutti i momenti in cui si de iniscono, grazie all'attività
dell'educatrice, i con ini corporei del bambino, intesi in un primo
momento come scoperta del proprio corpo e poi di quello dell'altro
come distinto da sè (cambio, prendere in braccio, lasciarsi toccare,
esplorare, etc); che vediamo, inoltre, nelle attività dell'educatrice che
favoriscono l'acquisizione, da parte del bambino, delle prime
dimensioni temporali e spaziali della propria identità (nell'attività di
gioco, nel pasto, nell'addormentamento e nel risveglio, etc.)
Andrebbe tra l'altro meglio considerata e approfondita la probabile
maggiore capacità, sul piano funzionale, delle educatrici, rispetto alle
madri, di gestire la fase in cui il bambino comincia, prima carponi, poi
camminando, e poi ancora con sempre maggiore competenza e
coraggio a "praticare il mondo", una capacità che probabilmente deriva
dalla possibilità di sintonizzarsi, con maggiore tranquillità rispetto alla
madre, col bambino su di un piano dell’identi icazione operativa, da cui
deriva una possibilità potremmo dire più tranquilla di gestire sia "la
prima andata del bambino verso il mondo" (7), sia anche le sue
successive esigenze di riavvicinamento.
Certo è che avere relazioni di diverso tipo con due o più persone che
svolgono funzioni materne, come avviene nella cogestione educativa, e
non con una sola, come avviene nell’educazione monocentrica, per il
bambino signi ica imparare a costruire con maggiore chiarezza se
stesso e la madre, e più in generale a costruire con maggiore facilità
distinte rappresentazioni del sé e degli oggetti.
Perché ci possa essere questo è necessario però, come dice Winnicott,
che si delinei fra bambino, genitori ed educatrice una ‘cross
identi ication’, cioè una situazione di identi icazione reciproca nella
quale il bambino possa acquisire, mediante una graduale
interiorizzazione di questo atteggiamento della madre, del padre e
dell'educatrice, una capacità di identi icazione e di immedesimazione
più differenziata. E questo avviene solo se al nido e alla materna è
garantita una suf iciente continuità nel rapporto, un rapporto
suf icientemente caldo e ravvicinato con l'adulto, un rapporto cioè
pieno delle grandi passioni della vita: l’amore e l’odio, l’invidia e la
gratitudine, la rabbia, la gelosia, l’aggressività, ma anche la colpa e la
riparazione.
Si può dire, anzi, che a partire dal nido e ino all’ultimo giorno di scuola
materna (ma anche oltre), è possibile delineare un doppio ambito di
intervento sul bambino: da una parte il disporsi dell’educatrice sul
piano dell’esercizio delle funzioni materne integrative, e cioè del sentire
e, in un qualche modo, del gestire i grandi sentimenti della vita,
dall’altra il disporsi sul piano di funzioni di tipo pedagogico-didattico,
di preapprendimento, cioè di funzioni educanti già abbastanza distinte
e complementari a quelle della famiglia. Si determina così un doppio
ilone di intervento: quello dell’esercizio delle funzioni genitoriali, da
una parte, quello delle attività pedagogico didattiche, dall’altra. Il primo
in calando, il secondo in crescendo mano a mano che il bambino
diventa più grande e passa dal nido alla materna.
Vi sono in ine la funzione di consolazione, che è la capacità da parte
dell'adulto del nido di ricreare sempre nella quotidianità quella
illusione di onnipotenza che c'era nella simbiosi primaria e funzioni di
accudimento legate alle routine, di cui già abbiamo parlato, e che, se
fatte all'interno di un rapporto ravvicinato e caldo, contano molto nel
processo di individuazione del bambino e di costruzione di
un'immagine di sé.
4. Ancora sulle funzioni materne: child bearers e child rearers \
portatrici di bambini e allevatrici di bambini
Molti equivoci, molte trappole in cui cadiamo allorchè parliamo di
funzioni materne sono dovuti al fatto che l'immagine della madre, le
rappresentazioni materne, gli introietti materni sono dentro di noi
(donne e uomini, indistintamente) un crocevia fra natura e cultura in
cui aspetti biologici e sociali connessi alle funzioni materne sono
avviluppati in un intrico, all'interno del quale è dif icile distinguere il
primo dal secondo versante.
Se noi, come ci suggeriscono alcune femministe americane (8),
distinguiamo fra funzioni da child bearers e funzioni da child rearers,
cioè fra funzioni collegate alla gestazione, intesa in termini puramente
biologici, e funzioni collegate con l'educazione, intesa in termini
psicosociali, se noi osiamo fare questo ci poniamo nella possibilità di
fare delle importanti distinzioni che, a nostro avviso, possono essere un
primo elemento per riconsiderare con maggiore autoconsapevolezza
l'azione educativa svolta dalle educatrici delle istituzioni prescolari sui
bambini piccoli loro af idati.
La Firestone e della Johnson sono state spinte a fare questa importante
distinzione - che, non dimentichiamolo, è una distinzione di funzioni, e
non di ruoli - per sgravare le donne almeno dal peso dell'allevamento
della prole, visto che ancora non è possibile liberarle dalla "maledizione
biblica" della gestazione, come loro affermano.
Il tentativo della Firestone e della Johnson può essere visto, secondo
noi, come un movimento "espulsivo" tendente a rimettere in circolo, sul
piano sociale, quelle funzioni educative che, soprattutto nei confronti
dei bambini piccoli, sono tuttora sostanzialmente a carico delle donne,
anche nelle società opulente.
Se noi utilizziamo questo ragionamento all'interno della ri lessione
sulla cogestione educativa e consideriamo sotto questo aspetto le
funzioni educanti che nel nido e nella materna sono svolte dalle
educatrici (cioè a dire il cuore del loro lavoro) vediamo che quella delle
educatrici, sul piano storico, qui da noi diventa la soluzione pratica -
non a caso inventata e fortemente voluta dalle donne emiliane - che è
stata trovata per distinguere fra funzioni biologiche e funzioni
educative in un momento in cui questi due ambiti, solitamente
accentrati dall'ideologia maschile nella sola igura materna,
rischiavano, almeno in alcuni strati sociali – quelli più investiti dai
processi di trasformazione cui accennavamo all’inizio - di de inire un
campo di tensioni nella donna pericoloso e, per certi versi,
insostenibile.
Cosicché qui da noi, da una parte le funzioni biologiche collegate alla
maternità sono rimaste alla madre, dall'altra quelle sociali (la funzione
di contenimento, il de inirsi come parametro del processo di
separazione - individuazione, etc.) sono state distinte e suddivise, in
base a questa distinzione, fra madre ed educatrice e, in alcuni casi fra
madre, padre ed educatrice.
Era questo, in fondo, che chiedevano i movimenti femminili che per
tutti gli anni 50 e 60 hanno fortemente voluto i nidi (e prima ancora le
materne) come strutture educative e non assistenziali o sanitarie.
Concludendo sulle funzioni materne, questo a nostro avviso potrebbe
essere un primo terreno di approfondimento: vedere come
dinamicamente avviene questo processo di distinzione e di
suddivisione delle funzioni materne fra nido e casa, fra materna e casa.
5. La de inizione di uno spazio negoziato: funzioni paterne oggi
Mentre nel caso della madre funzioni biologiche e funzioni sociali
connesse con la maternità sono strettamente collegate, nel caso del
padre le funzioni biologiche sono circoscritte, in ultima istanza, al
concorso nell'atto della procreazione. Ciò fa si che, diversamente da
quanto avviene nel caso della madre, le funzioni paterne non si
pongano affatto, in alcuna cultura, come crocevia fra natura e cultura.
Per i padri quindi diviene importante tutto ciò che avviene a livello
fantasmatico, cioè a livello del mondo rappresentazionale, al livello
delle immagini di paternità che sono dentro ciascuno di loro, come
prodotto esse stesse dell'educazione ricevuta ed, in ultima istanza, di
tutta l'esperienza fatta dal padre ino al momento in cui egli decide
interiormente di disporsi sul piano della paternità.
Questo distacco iniziale del padre dagli aspetti più biologici della
propria paternità viene poi elaborato in maniera diversissima in ogni
cultura (9), ma sempre in modo tale da mantenere le distanze dalle
funzioni biologiche (che possono al massimo essere esorcizzate e
mimate come avviene nella couvade).
Ma, come dicono D. Naziri e Th. Dragonas (10), "se la condizione
preliminare per effettuare il passaggio alla paternità consiste nella
possibilità che l'uomo ha di esercitare la funzione paterna (solo) a
livello simbolico, il vissuto della paternità resta in questo modo legato
alla modalità con la quale l'uomo rivendica, modi ica ed occupa lo
spazio paterno a livello delle relazioni fra partner, sia prima che dopo la
nascita del bambino", ed alle modalità con cui la partner è disposta a
concedere, o meno, questo spazio ed a modi icarlo, o meno, insieme a
lui; ed entrambe queste modalità sono in luenzate, come già sappiamo,
dal tipo di "sistema rappresentazionale" che entrambi i partner sono
andati de inendo dentro se stessi in base ai loro introietti paterni e
materni, maschili e femminili, etc.-
La funzione paterna così, affermano la Naziri e la Dragonas, si pone
all'interno di un campo di tensioni, in cui la negoziazione con la partner
è l'elemento centrale.
"La maternità è un dato, la paternità è un dovere", "la madre costituisce
sempre un qualcosa che c'è (un étant), il padre non può che darsi da
fare per essere ( pour etre)".
Su questa base si de iniscono, nei modelli prevalentemente
monocentrici, le funzioni paterne.
Ma nel modello policentrico e, più in particolare, all'interno del modello
emiliano di cogestione educativa come si de iniscono le funzioni
paterne (e cioè l'inserimento del nuovo nato all'interno di una
tradizione, la de inizione di una legge, la spinta ad uscire dall'abbraccio
soffocante con la madre, etc.)?
Noi intuiamo che, nella suddivisione dei compiti fra coppia genitoriale e
istituzioni prescolari, così come avviene per le funzioni sociali materne,
anche per quelle paterne ci sia una tendenza di tipo integrativo in base
al quale le funzioni paterne vengono fondamentalmente esercitare a
casa, mentre le educatrici svolgono funzioni paterne ausiliarie. Ma non
sappiamo come, in concreto, avvenga la negoziazione dello spazio
paterno nel nido fra le educatrici.
Possiamo fare l'ipotesi che essa si determini in modo similare a quanto
avviene a casa fra i due genitori, e cioè come il prodotto di una
dialettica fra partner della sezione che si mettono in gioco, su questo
piano, attraverso la messa in scena delle proprie parti paterne e
materne, maschili e femminili, etc.-
Ma non sappiamo in base a quali istanze intrapsichiche ed
interpersonali, in ciascuna delle educatrici, e nella dinamica gruppale
del collettivo, si addensino, più o meno dinamicamente, più o meno
stabilmente, le funzioni materne e quelle paterne di fronte a questo o a
quel bambino, in questa o in quella educatrice.
Questo, a nostro avviso, potrebbe essere un altro terreno di
approfondimento: vedere meglio come le funzioni materne e paterne
sono giocate nel nido dalle singole educatrici, cioè come ciascuna di voi
si dispone ad assumere su di sé le une e le altre funzioni, come in ine
tali funzioni si dispiegano all'interno del collettivo de inendo uno
spazio materno e paterno più o meno negoziato, più o meno "usurpato",
più o meno lasciato nel vuoto.
6. Funzioni genitoriali: "il passaggio del testimone" da una
generazione all'altra a casa e nelle istituzioni prescolari
Lo spazio genitoriale, però, sia che esso sia un "dato" - come avviene
per quello materno -, sia che debba essere "conquistato" in una
negoziazione fra partner - come si veri ica nel caso di quello paterno -, è
g p q p
uno spazio storico, nel senso che è determinato sul piano temporale dal
variare, da una generazione ad un'altra, della natura e del rilievo che i
vari introietti, le varie immagini di madre e di padre hanno, nei vari
contesti sociali e familiari in cui, in concreto, storicamente madri e
padri, a loro volta, sono stati educati.
Tali introietti, tali immagini, quindi, non sono pietri icate in una specie
di griglia astorica all'interno del mondo rappresentazionale di ciascuno
di noi, sempre uguali a se stesse, quasi fossero dei totem intoccabili.
Esse, al contrario, mutano e si adattano al variare delle condizioni
materiali e spirituali (strutturali e culturali, direbbe un sociologo) che
informano i vari tipi di società (11). Il meccanismo che ne determina il
mutamento cioè è del tutto simile a quello che, più in generale, è alla
base del mutamento della struttura e della "cultura" della famiglia.
In questa prospettiva, quindi, il passaggio dalla famiglia allargata alla
famiglia nucleare e la funzionalizzazione di quest'ultima alle nuove
esigenze della produzione, della riproduzione sociale (cioè della
formazione della forza-lavoro), e, da ultimo, del consumo, appaiono
come mutamenti strutturali coerenti con le nuove esigenze della società
odierna . Così come, d'altro canto, ed al di là della autoconsapevolezza
dei singoli, appaiono tutti i mutamenti che si determinano sul piano
culturale nella famiglia in correlazione con questi mutamenti
strutturali: pensiamo, per fare solo un esempio, a quanto sia diventato
per noi ovvio il fatto che il mercato attuale "non solo crea gli oggetti per
i soggetti, ma anche i soggetti per gli oggetti" (cioè al fatto che siamo
diventati tutti degli ottimi consumatori), e subito dopo pensiamo a
quanto tutto ciò fosse assolutamente fuori dell'ordinario in una famiglia
contadina degli anni '30 o '40.
Come è possibile che, in una maniera che sfugge alla
autoconsapevolezza di coloro che sono i protagonisti del mutamento,
questo avvenga in una dialettica fra spinte e controspinte più o meno
dolorosa, più o meno feconda?
Partiamo dal modello di educazione monocentrica: in questo caso la
madre ed il padre si pongono dinamicamente in rapporto con i propri
introietti genitoriali in base ad una dialettica fra Idem ed Autos (12):
cioè fra parti proiettate in ciascuno di loro, e su loro due in quanto
coppia genitoriale, dai propri genitori e dagli altri modelli importanti
della loro vita (Idem) e parti che non sono riconducibili a nessuno di
questi introietti (Autos), ma che con essi sono, in dall'inizio della vita,
in un rapporto di coniugazione più o meno ricca e feconda di novità. E'
in questa azione educativa che sono stati determinati gli elementi del
proprio essere adulti, quelli che sono alla base del carattere dei igli,
nonché quelli che sono alla base del "carattere sociale" del nuovo
nucleo che, insieme ai igli, essi vanno costituendo: la propria famiglia.
Passiamo ora alla cogestione educativa: in essa le proiezioni che sui
propri bambini fanno i genitori si congiungono, si intrecciano con
quelle che, sempre su quei bambini, fanno quelle educatrici dei nidi e
delle materne che non rinunciano a mettersi in gioco con tutte se stesse
ed a non ridursi al ruolo di istruttrici.
Per cui nel modello policentrico, per la pluralità di proiezioni che sul
bambino sono fatte, viene a costituirsi un vero e proprio campo
magnetico in cui il bambino diventa il depositario di tutte le proiezioni
che vengono sia dal versante familiare: madre, padre e coppia
genitoriale, sia dal versante nido: le singole educatrici cui il bambino è
af idato, nonché il gruppo delle educatrici in quanto depositario di una
propria storia gruppale che rientra a pieno titolo nello spazio
genitoriale che comprende il bambino, se ne prende cura, lo contiene, lo
riconosce come appartenente alla propria stirpe, etc, in una parola lo
af ilia.
Approfondire questi contenuti, a nostro avviso, signi ica:
- veri icare ino a che punto vi è complementarità, negoziazione, o
spinta alla usurpazione -"io lo so, te lo dico io quello che devi fare..-,
oppure ancora rinuncia - fatelo voi a scuola perché a casa non imparerà
mai a mangiare stando seduto..-, delega reciproca da una parte e
dall'altra, fra famiglia ed educatrici; avere qualche possibilità in più di
capire perché certi rapporti vanno male;
- ino a che punto gli ideali professionali della singole educatrici e quelli
che storicamente si sono de initi nel nido sono compatibili con quelli
delle famiglie; questo problema diventerà sempre più acuto con
l'aumento dell'immigrazione e con la pluralità delle culture che questa
sempre di più comporterà;
- ino a che punto l'educatrice ed il gruppo delle educatrici è portatore
di un cambiamento e, nel caso, di quale cambiamento si tratta;
- e ino a che punto, d'altro canto, la sovrapponibilità degli introietti da
veicolo di fecondo dialogo fra famiglia e nido può trasformarsi in
occasione di scontro e incomprensione.
7. L'in luenza che il permanere in una situazione di passaggio
perpetuo alla paternità ed alla maternità comporta sul burn out
della educatrice di asilo nido e di scuola materna
La Dragonas e la Naziri, parlando dell'ingresso dell'uomo nel mondo dei
padri, de iniscono questo importante momento dell'età adulta come
"passaggio alla paternità".
Allo stesso modo potremmo dire che anche il momento in cui la donna
si appresta a diventare madre per la prima volta potrebbe essere
de inito come "passaggio alla maternità".
Resta inteso però che, in un caso e nell'altro, questo importante
passaggio che spesso corona il nostro diventare adulti - e che sul piano
simbolico, per chi sceglie di non avere igli, è de inito da un'attività
creativa e (ri\)produttiva - è contraddistinto da una prospettiva di
sviluppo e di trasformazione delle funzioni connesse con la genitorialità
che fanno si che sulla scena familiare i protagonisti si vengono a trovare
di fronte ad un canovaccio in continua trasformazione per gli elementi
di novità connesse con la crescita dei igli, con le loro sempre più
imperiose richieste di autonomia, con le loro effettive conquiste, con il
nostro rispecchiarci nell'uno o nell'altro aspetto di noi che vediamo, o
non vediamo, in loro, con il nostro invecchiare, etc.
Nel nido e nella materna, però, così come in una qualsiasi altra attività
formativa, l'educatrice si trova in una situazione di blocco, che può
essere più o meno compensata dalle proprie altre funzioni sociali
riproduttive, ma che rimane, a nostro avviso, e pesa come un macigno
sull'equilibrio psichico delle educatrici: si ha a che fare per una vita
sempre con le stesse funzioni genitoriali, nel caso del nido e della
materna con quelle connesse con le prime esigenze di crescita
psicologica del bambino.
Questo connota il lavoro delle educatrici in maniera del tutto speci ica
rispetto a quello dei genitori e può diventare usurante.
La Benedek (13) sostiene che, durante la crescita del bambino, i
genitori hanno la possibilità di vedere rispecchiate in lui varie parti di
se stessi, e sostiene altresì che, a seconda di come sono stati vissuti da
loro stessi, nella loro infanzia, quegli elementi che ora vedono ri lessi
nel loro bambino, si sentiranno più o meno a loro agio nel processo
educativo.
Nel caso delle educatrici delle istituzioni prescolari, e più in generale in
tutti gli educatori, la ri lessione della Benedek potrebbe, a nostro
avviso, essere ride inita in questi termini: il burn out, e cioè l'usura sul
lavoro sarà più accentuata laddove all'interno della propria storia
personale le prime fasi della propria vita siano state travagliate e
penose. In ogni caso però la situazione di blocco su determinate
funzioni genitoriali merita un'attenzione particolare sia per i vantaggi
che ne possono derivare sul piano della competenza e della sicurezza
nell'affrontare sempre le stesse funzioni, sia per il disincanto ed il
fastidio che, specie in alcune operatrici, può prima o poi
sopraggiungere.
Va detto anche, però, che in un gruppo di educatrici che lavorano a
lungo insieme e che sono accomunate dagli stessi ideali (magari
solidi icati e vivi icati da una direzione pedagogica attenta e
lungimirante) è possibile che un pro ilo di crescita nelle funzioni
genitoriali sia possibile non tanto rispetto ai bambini, ma rispetto al
gruppo stesso, alle nuove arrivate, alle migrazioni interne, cioè ai nuovi
accoppiamenti che è possibile mettere in piedi al ine di coniugare (nel
senso di congiungere) nuove "famiglie" in nuovi progetti di vita
istituzionale.
I problemi che su questo piano è possibile affrontare, come è già
implicito in quanto in qui detto, sono quelli della risoluzione del burn
out, quelli della piani icazione degli accoppiamenti e dei "divorzi",
quelli delle operazioni possibili per mantenere in piedi un clima di
creatività e di produttività che non sia visto come un dovere verso i lari,
gli antenati, il nostro passato di "missionariato sociale", come diceva
tempo fa una nostra collega modenese (14), ma come il risultato degli
accoppiamenti fra parti maschili e femminili, fra parti adulte e bambine,
fra parti egoiche, superegoiche ed ideali, etc. che costituiscono il nostro
patrimonio sia se ci consideriamo individualmente, sia ancor di più se
ci consideriamo come gruppo . E soprattutto se ci collochiamo
all'interno di un percorso storico di crescita, di cammino che va avanti
,quindi che cambia e non corre il rischio di diventare un mito, sempre
uguale a se stesso, circolare e quindi sterile e allucinatorio.
8. L'esercizio delle funzioni materne e paterne nei nostri gruppi
precoci di pari all'interno della cogestione educativa
Un accenno in ine alla funzione dei gruppi precoci di pari e del come
tali gruppi possono diventare dei contenitori e degli elaboratori delle
proiezioni che gli adulti di casa e del nido che operi in una situazione di
cogestione educativa fanno sui bambini.
Abbiamo già in altro luogo cercato di de inire la speci icità del gruppo
precoce di pari in situazione di maternage multiplo (15). Ora ci preme
vedere, o meglio fare delle ipotesi su come, nel nostro modello di
maternage multiplo (moderatamente policentrico, abbiamo detto), la
diffusione delle proiezioni che gli adulti fanno a casa e nel nido si
diffonde fra i pari.
L'ipotesi che facciamo rimane non suffragata da una indagine organica,
che però sarebbe urgente fare (e che forse faremo a Reggio Emilia nei
prossimi due anni).
Si può dire però, con suf iciente approssimazione alla realtà, che,
contrariamente a quanto sostenuto da scienziati sociali che hanno
studiato realtà di maternage multiplo molto più estremistiche della
nostra, la cogestione educativa non sedimenta, nel bambino oggi e
nell'adulto domani, un insieme di introietti eterei, inconsistenti come
ombre e quindi inaf idabili, ma un insieme di introietti ben più corposi
e riconoscibili.
E' il tipo di azione che il gruppo di adulti del nido svolge concretamente
sui singoli e sul gruppo che può rendere più o meno solida la
costellazione degli introietti del bambino.
Se questa azione è individualizzata, ravvicinata, calda, continua, allora
essa sarà un utile complemento dell'azione familiare, ed anzi un
elemento, supponiamo, che faciliterà, domani, il processo di
autonomizzazione, lo forti icherà, lo incoraggerà.
Se, invece, questi elementi non potranno essere presentati al bambino
in modo suf icientemente credibile allora i rischi saranno maggiori,
anche se la presenza di personaggi familiari forti farà senz'altro sempre
da contrappeso.
E' questo il signi icato più profondo del termine moderatamente
policentrico: quello di prevedere che, in fondo, la membrana duale
originaria rimanga intatta nella sua forza di contenimento e di
parametro del primo processo di individuazione - separazione.
Una autoanalisi spietata di come l'educatrice entra in questa
membrana, di come essa si impasta con essa in ogni caso va fatta
sull'oggi, al di la dei pur necessari follow up sul passato
--
Note
1. per una indagine sulla natura di questi cambiamenti cfr. il
documento, presente in questo quaderno, intitolato: ‘Dall’etica padana
del lavoro all’estetica consumista’
2. Cfr. L. Angelini, Il bambino piccolo nel gruppo di pari, in L. Angelini e
D. Bertani, 1995, Il bambino che è in noi, Unicopli, Milano
3.Cfr. L. Angelini e D. Bertani, 1995, op.cit.
4.Cfr. soprattutto, a) nell'ambito del femminismo americano: C.Gilligan,
1987, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano; N.Chodorow, 1991, La
funzione materna, La Tartaruga, Milano; M.M.Johnson, 1995, Madri forti
mogli deboli, Il Mulino, Bologna. - b) nell'ambito del femminismo di
stampo marxista: J.Mitchell, 1972, La condizione della donna, Einaudi,
Torino; J.Mitchell, 1976, Psicoanalisi e femminismo, Einaudi, Torino. - c)
nell'ambito del femminismo europeo: S. De Beauvoir, 1965, Il secondo
sesso, Il Saggiatore, Milano; A.Carter, 1986, La donna sadiana,
Feltrinelli, Milano; L. Muraro, L'ordine simbolico della madre, Editori
Riuniti, Roma. - d) in ambito psicoanalitico: H. Deutsch, 1968, Psicologia
della donna, Boringhieri, Torino; L.Baruf i (a cura di),1979, Il desiderio
di maternità, Boringhieri, Torino; J. Chasseguet-Smirgel, 1978, La
sessualità femminile, Laterza, Bari; J.Chasseguet-Smirgel, 1991, I due
alberi del giardino, Feltrinelli, Milano; M. Mitcherlich, 1992, La donna
non aggressiva, La Tartaruga, Milano; S. Vegetti Finzi, 1990, Il bambino
della notte, Divenire donna divenire madre, Mondadori, Milano.
5 .Cfr. soprattutto: I.Magli, 1982, La femmina dell'uomo, Laterza, Bari;
Ch.Saraceno, 1987, Pluralità e mutamento, ri lessioni sull'identità
femminile, F.Angeli, Milano; L.Balbo et al., 1990, Vincoli e strategie nella
vita quotidiana, una ricerca in Emilia e Romagna, F.Angeli, Milano;
G.Duby, M.Perrot, 1992, Storia delle donne, il novecento, Laterza, Bari;
Th. Laqueur, L'identità sessuale dai greci a Freud, Laterza, Bari;
M.Bettini,1993, Maschile\femminile, genere e ruoli nelle culture
antiche, Laterza, Bari; E.Cantarella, 1995, Secondo natura, Rizzoli,
Milano; A.Giddens, 1995, La trasformazione dell'intimità, Il Mulino,
Bologna.
6 .Cfr. T.Parsons e R.F.Bales,1974,Famiglia e socializzazione, Mondadori,
Milano.
7 . M. Malher, 1975, La nascita psicologica del bambino, Boringhieri,
Milano.
8. Le femministe, in verità, fanno ciò nel tentativo di liberarsi dal peso
dell'allevamento, cioè delle funzioni sociali collegate con la maternità
(quelle di child rearers).
9 . secondo un ampio spettro di possibilità di elaborazione che va dalla
negazione paternità alla mimesi della funzione materna nel parto, come
avviene nella couvade.
10. cfr. D. Naziri e Th.Dragonas, Il passaggio alla paternità: un approccio
clinico, In Psychiatrie de l'enfant, 1995, N. (traduzione di L.Angelini)
11. cfr, in proposito A. Mitcherlich, Verso una società senza padre,
Laterza, Bari
12 . sul legame fra Idem ed Autos vedi: D. Napolitani, 1988,
Individualità e gruppalità, Boringhieri, Torino.
13 .Cfr Th.Benedek, Essere genitori come fase dello sviluppo,
in:Psycoanal. Assn. N.7 del 1959 (Traduzione di L. Angelini e D. Bertani)
14. Cfr. L. Angelini, Asili nido: le dinamiche presenti nel collettivo delle
educatrici, in Angelini, Bertani, 1995, op.cit.-
15 . Cfr. (oltre al testo di L. Angelini sul gruppo precoce di pari, già
citato) l'articolo di W. Muestenberger, Ri lessioni culturali comparative
sul matrenage multiplo, apparso su Psychiatrie de l'enfance, 1975,
XVIII, 1, e in in L. Angelini e D. Bertani, 1995, Il bambino che è in noi, pp.
241-260 (traduzione di L.Angelini)
Dire di sì, dire di no. Il rapporto
adulto - bambino
di Elisabetta Musi
3a parte: Alterità
Lo specchio impossibile: problemi di
identi icazione con ragazzi handicappati
di Deliana Bertani
(ovvero: cosa accade nel rapporto educativo quando lo specchio
all'interno del quale l'adulto deve ri lettersi rimanda immagini che
rendono estremamente doloroso e dif icile il rispecchiamento).
Come appare dal titolo le ri lessioni che proporremo non sono centrate
ne sugli strumenti ne sul metodo di lavoro ma sulla necessità di capire
la natura e le dinamiche del rapporto educativo, la "parte" cioè che
l'educatore (così chiameremo l'adulto) fa nel viaggio che il ragazzo
handicappato sta compiendo per crescere.
Gli educatori affrontano esperienze emotive e dif icoltà simili a quelle
dei genitori anche se ci sono notevoli differenze di ordine qualitativo e
quantitativo
Differenze
Le differenze vanno cercate nel polo della formalità: l'educatore ha un
ruolo, fa un mestiere. Queste differenze possono essere riassunte in
queste parole: l'educatore è in parte esonerato dal tema della colpa è
protetto dal setting, dal fatto cioè di" essere lì" per motivi professionali
e con limiti di tempo e di luogo ben de initi. Chi ha avuto a che fare con
genitori di bambini handicappati sa come la colpa pesi in modo
massiccio sul rapporto, sulla vita, sull'esperienza del genitore e quindi
del ragazzo. Il genitore si attribuisce la colpa di quello che è successo,
dello stato del ragazzo, del suo star male, della non guarigione.
L'educatore è in gran parte esonerato dalla colpa come si diceva più
sopra o comunque dalla colpa originale; se di sensi di colpa si può
parlare riguarderanno il timore di non aver fatto tutto il possibile.
Inoltre l'educatore è protetto dal setting nel quale opera, dalla
situazione nella quale è, perché questa ha dei limiti di spazio e di tempo
ben precisi e de initi, l'educatore ha dei dati oggettivi che lo difendono
Analogie
Vediamo le analogie fra genitori e insegnanti. Queste vanno cercate nel
polo dell'informalità ,cioè in tutto quello che succede, nella
interpretazione di questa "parte", sul piano dell'affettività ,dell'intensità
e della coloritura dei sentimenti.
1)La prima analogia, quella centrale , è l'esigenza per l'educatore come
per il genitore di trovare una misura nella relazione tra il troppo
lontano e il troppo vicino. Il troppo lontano che signi ica fuga e
manipolazione, il troppo vicino che signi ica adesione, identi icazione
totale, sovrapposizione.
Esigenza di trovare la misura ed esigenza di fare i conti con i propri
meccanismi di difesa, con la reattività che ciascuno di noi ha e mette in
atto consapevolmente o inconsapevolmente nelle situazioni di
dif icoltà. Fare i conti con tutto questo signi ica avere almeno un'idea
delle nostre parti che mettiamo in gioco nel rapporto, che proiettiamo
nel ragazzo con il quale abbiamo un rapporto educativo ;signi ica avere
almeno un'idea dell'orecchio e dell'occhio che stiamo usando
nell'osservare, nel guardare, nel capire, nell’ascoltare la situazione.
Meccanismi di difesa che possono distrarre dalle esigenze educative del
ragazzo stesso, che sono attivati da sentimenti di angoscia ,di paura che
spingono a trovare dei ripari, degli aggiustamenti per stare il meno
male possibile, che ci portiamo dietro spesso sempre uguali o che
cerchiamo faticosamente di rendere adeguati.
Necessità di trovare una misura, di capire cosa sta succedendo dentro
di noi, di equilibrare l'interesse verso la persona con la quale abbiamo a
che fare- verso l'altro da me, verso il diverso da me - con" i miei
interessi" . Detto in altri termini: necessità di integrare l’investimento
oggettuale con l’investimento narcisistico.
Cosa signi ica? Le componenti oggettuali del rapporto sono quelle
componenti correlate con la capacità dell'educatore di identi icarsi con
l'allievo ,di mettersi nei suoi panni, sono quelle componenti correlate
con l'interesse, con l'attenzione verso l'altro da sé. La capacità ,la
possibilità da parte dell'educatore di mettere a disposizione dell'alunno
stesso uno spazio mentale. La capacità di pensare a quell'allievo che ha
davanti e che nella fattispecie è un ragazzo handicappato. Uno spazio
mentale all'interno del quale il ragazzo possa essere com-preso, preso
dentro, possa essere pensato e dove possano essere messe a punto
delle strategie educative, riabilitative , emancipatorie, dove l'insegnante
possa mettersi in una posizione di operatività.
Questo implica ,da parte dell'educatore, un'identi icazione introiettiva -
operativa, cioè il riuscire a capire quanto c'è di personale e quindi
gestirlo e quanto c'è del ragazzo in modo da non manipolarlo, non
sovrapporsi e , come spesso accade, non scappare. Cercare l'operatività
signi ica avere la capacità di fare i conti con i propri sentimenti ,le
proprie parti messe in gioco, i propri meccanismi di difesa. Queste sono
le componenti oggettuali.
Vediamo "i nostri interessi", le componenti narcisistiche. Queste sono
correlate con il fatto che l'educatore è professionalmente interessato al
successo del suo allievo. Quando l'interesse diventa però troppo
personale c'è il rischio di troppa frustrazione che può ingenerare
atteggiamenti educativi inadeguati. Anche qui bisogna trovare una
misura. E' chiaro che si cerca sempre soddisfazione nel lavoro che si sta
facendo ma per questo arricchimento personale, per questa
soddisfazione non deve prevaricare tutto il resto. Per esempio nella
misura in cui l'insegnante vive il disinteresse come un ri iuto attivo nei
suoi confronti, come una conferma del fatto che non è bravo, che non ci
sa fare, allora la componente narcisistica diverrà troppo forte e
rischierà di rendere l'atteggiamento educativo inadeguato, perchè la
frustrazione sarà troppo pesante
2)Per capire meglio e sottolineare l'analogia genitore\insegnante ,
diciamo che siamo nel campo delle componenti narcisistiche allorchè il
genitore, davanti a suo iglio che non mangia, vedrà crollare la propria
immagine ideale di genitore e si sentirà ri iutato ,sminuito nelle sue
capacità
3)Ancora analogie fra insegnante \ genitore: la presenza del ragazzo
handicappato produce un effetto perturbante che è collegato sia alle
caratteristiche psicologiche del ragazzo stesso sia alla presenza nella
mente del genitore, dell'educatore di problemi non risolti, di bisogni
insoddisfatti. Cosa signi ica? La presenza di un ragazzo handicappato
evoca e mette in moto tutta una serie di problemi non risolti, di bisogni
insoddisfatti. La presenza di una persona in dif icoltà, di una persona
dipendente ,inadeguata, inevitabilmente ci porta alla mente, ci evoca i
nostri bisogni insoddisfatti i problemi non risolti. Bisogni e problemi
antichi, vecchi perchè la persona che abbiamo davanti è grande ma
nello stesso tempo piccola.
Rappresenta, presenti ica in maniera reale ed esasperata il fatto che
ciascuno di noi è grande ma si porta dietro ,volente o nolente, anche il
suo essere piccolo, il suo essere adolescente e comunque il suo essere
bisognoso.
E questo viene fatto riemergere a dispetto dei tentativi di annullare, di
rescindere i legami con il bambino che c'è dentro di noi, quello che noi
eravamo
Il ragazzo handicappato che abbiamo davanti ci fa tornare alla mente
elementi che sono anche nostri, che ci turbano che ci fanno stare male,
che ci perturbano ,che ci mettono in discussione, che ci costringono a
rivedere il nostro equilibrio ,che ci fanno mettere in moto le nostre
difese. E tanto più gravi e grandi sono i problemi e i bisogni tanto più
massicce devono essere le difese per preservarci dall'angoscia.
Lo specchio interno
Ritorniamo al discorso degli specchi. Lo specchio interno è ciò che
risulta, il frutto delle identi icazioni, delle proiezioni, degli
insegnamenti che gli adulti cui ci siamo af idati hanno messo dentro di
noi. Quindi prima il super-io e l'ideale dell’Io sono esterni al bambino,
sono " la voce" del papà e della mamma e di altri adulti signi icativi, poi
diventano" esterni-interni" e in ine sono interni, sono fatti propri dal
bambino.
C'è poi un'altra cosa più vecchia e arcaica in noi l'io ideale, erede del
narcisismo primario di quella situazione cioè di onnipotenza totale data
al bambino nelle prime settimane di vita dalla fusione\confusione con
la madre. Quindi mentre l'ideale dell’Io è l'erede dei personaggi amati
l'io ideale lo è delle identi icazioni eroiche - onnipotenti.
Come fanno a stare insieme il super io, l'ideale dell’Io, l'io ideale? A
poco a poco c'è una parte di noi che comincia ad emergere, la parte più
razionale, la parte che tende a fare gli interessi della globalità del nostro
essere : l'io. L'io esercita una mediazione fra i personaggi interni e la
realtà, fra onnipotenza e impotenza ; l'io è l'istanza che " segna la rotta
del viaggio per non naufragare sugli scogli " . E il naufragio è un rischio
molto grande quando si ha a che fare con ragazzi handicappati, tanto
più grande quanto più il ragazzo è grave. Avere a che fare con persone
che non guariscono implica trovare l'equilibrio fra l'onnipotenza e
l'impotenza ( fra l'adesso arrivo io e il non c'è niente da fare.
La nascita dell’inatteso
Fermiamoci ora a considerare il ragazzo handicappato con il quale sia
gli educatori sia i genitori hanno a che fare.
Chi è questo iglio, chi è questo alunno ?
E' qualcuno non atteso.
Quando una coppia fa un iglio accompagna tutta la gravidanza con
fantasie sul bambino che deve nascere. Fantasie di coppia, fantasie
personali che vanno a costruire man mano un'immagine ideale del
bambino e parallelamente un'immagine ideale del genitore, come
dovranno essere l'uno e l'altro. Alla nascita questo bambino ideale
dovrà fare i conti con il bambino reale che nasce. Il genitore deve fare il
confronto fra quello che si era immaginato e il bambino vero che ha
davanti; dovrà quindi rinunciare al bambino ideale per rapportarsi con
quello vero. Abbandonata l'immagine ideale elaborerà un lutto per
quello che ha perso e si rivolgerà al bambino vero. La capacità dei
genitori di rinunciare a questo bambino ideale si basa anche sulle
capacità vitali del bambino.
Come hanno fatto i genitori a costruirsi questa immagine ideale?
Attingendo i vari elementi dalla propria storia, dai desideri, dai ricordi,
dai sentimenti positivi e negativi, dai personaggi amati o temuti. Si sono
serviti degli specchi di cui si parlava prima, dei loro ri lessi, dei loro
rimandi.
Il bambino vero è un qualcuno che presenta subito dei bisogni che
hanno risvolti sul piano organizzativo, sul piano affettivo e sul piano
interno della propria strutturazione psicologica. Il bambino vero ha
bisogno di spazio a tutti e tre questi livelli. Se i genitori non pensano a
lui ma continuano a pensare a quello che avrebbero voluto che fosse, il
bambino vero non riuscirà a crescere, non potrà crescere perchè
nessuno gli darà gli elementi per mettere insieme la struttura della sua
personalità. Se il genitore non pensa a lui, non lo "vede", ma "vede" il
bambino ideale ,gli rimanderà qualcosa che non ha niente a che fare con
lui, che riguarda qualcuno che non c'è. E questo è un problema che
accompagna tutta la crescita del bambino ino alla sua autonomia
Quando lo iato fra bambino reale e bambino ideale diventa una
voragine
Quando nasce un bambino handicappato lo iato fra bambino reale e
bambino ideale diventa una voragine un abisso, qualcosa che produce
un'esplosione di dolore, sofferenza, delusione, stupore, annichilimento.
Quando nasce un bambino handicappato, nasce qualcuno inaspettato,
non immaginato, qualcuno che ha pochi, pochissimi elementi in
comune con il bambino immaginato. Nascita dell'inatteso quindi. Allora
succede che la capacità di pensare al bambino vero, quello che si ha di
fronte, di immaginare si inceppa. E’ qualcuno che non sta nei tempi, nei
punti di riferimento nella mente dei genitori. Quando nasce un bambino
handicappato assistiamo alla nascita e alla progressiva formazione di
un sistema relazionale stabile e sofferente, di un sistema però che ha
nel dolore e nella sofferenza il suo elemento di stabilità.
genitori_________ ferita narcisistica
| scacco
senso di colpa
|
|
iglio __________ bambino danneggiato che manda messaggi angosciati,
che non può interiorizzare oggetti buoni a loro volta danneggiati.
La nascita del bambino non atteso da il via alla formazione di un
sistema relazionale stabile e sofferente cioè stabile in quanto sofferente
Il bambino non atteso è qualcuno che delude, qualcuno con cui si riesce
a fare i conti solo parzialmente, solo difendendosi in modo massiccio.
E' qualcuno che produce una distanza dif icilmente colmabile, per il
quale è possibile una messa a fuoco precaria, che richiede un
abbandono totale e immediato delle fantasie narcisistiche.
Che produce una ferita narcisistica che disorienta e taglia ogni punto di
riferimento interno ed esterno, che fa piombare in uno stato di
melanconia per il bambino reale scomparso, che sollecita sentimenti di
svuotamento, auto denigrazione, auto accusa.
E' qualcuno che spesso si può affrontare solo "facendo inta che"
Anche a questo punto possiamo cercare di schematizzare nel modo
seguente ciò che accade:
*FALSO SE' dei genitori ________ STABILE IDENTITA' PRECARIA del iglio
handicappato
difese dei genitori: tratti maniacali enfatizzazione delle proprie azioni,
situazione simbiotica, negazione
difese dei igli: psicotizzazione, asintonia, ossessività, negazione,
infantilismo, seduttività, ansia, insicurezza, depressione.
Anche l’educatore interagisce con questi ragazzi
La funzione dell'educatore come si diceva all'inizio è intrisa di
genitorialità, anche lui deve fare i conti con l'inatteso.
Se l'educatore non nega il polo dell'informalità si trova ad avere a che
fare, seppur con tonalità diverse e con una drammaticità molto
stemperata, con gli stessi sentimenti, con gli stessi problemi di
autenticità, con le stesse interruzioni identi icatorie, con gli stessi lutti
da elaborare.
Anche l'educatore costruisce le sue fantasie all'arrivo dei nuovi allievi,
fantasie che dovranno fare i conti con gli alunni veri, reali, così come la
sua immagine ideale dovrà fare i conti con la quotidianità: lutto
dell'immagine di allievo ideale /lutto dell'immagine di educatore ideale.
Il gioco degli specchi è simile a quello dei genitori: il ragazzo ,il
bambino che si ha di fronte evoca il bambino che è dentro di noi e le
immagini che vengono rimandate sono quelle fornite dalle parti più
maldestre, incapaci, inadeguate.
L’educatore interagisce con la famiglia
La relazione che si viene costruendo sarà inevitabilmente caricata nei
due sensi di signi icati affettivi e di elementi transferali.
Una relazione dove gli specchi che vengono attivati mettono a confronto
con immagini che provocano dolore angoscia e sofferenza, che
propongono frustrazione, sentimenti di onnipotenza e impotenza, che
rimandano immagini che possono essere destrutturanti
Specchio impossibile si diceva nel titolo, specchio comunque molto
dif icile da usare se non c'è nell'insegnante la comprensione dei propri
limiti e delle proprie dif icoltà. Se l'educatore si mette nella posizione di
cercare i problemi e le dif icoltà solo nell'altro, nel ragazzo o nella
famiglia, la situazione non potrà che peggiorare, il solco ,la non
comunicazione diventerà sempre maggiore.
L'educatore incontra la sofferenza dei genitori e in qualche maniera
viene incluso dai genitori nel complesso lavoro psicologico di
elaborazione del lutto e dovrà affrontare: frustrazione,
colpevolizzazione, idealizzazione, delega.
Questo rapporto è oggettivamente complesso perchè entra in modo
massiccio nel gioco degli specchi di cui si parlava nel titolo ed è inserito
in un rapporto triangolare dove le dinamiche sono confuse, dove
l'INATTESO scalza le previsioni e le immaginazioni, vani ica i punti
fermi.
Specchio impossibile o comunque molto dif icile da usare se non c'è
nell'insegnante comprensione dei propri limiti e delle proprie dif icoltà
,come si diceva prima, se non c'è almeno un vago sentore delle proprie
difese che possono essere messe in atto.
Difese che possiamo così riassumere: evitamento; oggettivazione
(trincerarsi dietro al ruolo); angoscia \ dipendenza (attesa dei
superiori o degli esperti per avere soluzioni magiche); soluzione
fusionale (interruzione della crescita, proposte regressivanti derivate
da un'identi icazione totale); complicità con il ragazzo
(colpevolizzazione dei genitori e degli altri operatori); tutto va bene;
negazione della situazione.
Gli educatori sono anche dei modelli sui quali si struttura l'identità del
ragazzo, hanno la possibilità di rafforzare in lui un'immagine di sè
accettabile e autentica nella misura in cui possono avere a che fare con
il ragazzo vero che hanno di fronte con meno drammaticità rispetto ai
genitori. L'educatore può stare meno male e può guardare quello che
davvero c'è davanti con più continuità e con più stabilità. Può pensare
di più al ragazzo, può immaginarselo di più e può conseguentemente
assegnare a questo ragazzo dei ruoli adeguati che lo possono aiutano a
darsi delle risposte alla domanda "io chi sono?"
L'educatore ha quindi, soprattutto in adolescenza, un ruolo importante
nella formazione dell'identità del ragazzo anche nella misura in cui
riesce ad assegnare dei ruoli sociali veri e autentici.
Gravità e gravosità: l’impegno
con i gravi
di Leonardo Angelini
Questo strano titolo deriva da una serie di ri lessioni che abbiamo fatto
per trovare un modo con cui dare risposte a quelli di voi- soprattutto i
più giovani- che in più di una occasione, parlando dei bambini , delle
situazioni che seguono e alla con littualità che spesso compare nel
rapporto educativo, ci hanno chiesto come fare a porre limiti, come fare
a dire di si ,quando dire di no, quando essere permissivi o esprimere in
modo chiaro e preciso il proprio volere
Uno strano titolo si diceva con il quale abbiamo cercato di riassumere il
tema e tracciare un percorso virtuale , potremmo dire, attraverso il
quale ognuno di noi trova le regole della vita, se ne appropria, le integra
in sé e le usa per sé , nel rapporto con gli altri in generale e in
particolare nei rapporti educativi : l’adulto con il bambino, i genitori
con i igli, gli insegnanti con i discenti, gli educatori con i ragazzi con cui
hanno a che fare. E’ un percorso che coincide con la nascita, con la
nascita psicologica con la formazione della coscienza individuale ( con
la formazione del Super-io ) con l ‘ acquisizione della capacità di
mediare fra il mondo esterno e il mondo interno, fra i nostri bisogni , i
nostri desideri, i nostri impulsi e quelli degli altri, fra noi e la realtà .
Nell’agire educativo questo percorso continua quando cerchiamo di
insegnare ad altri ,che sono più indietro di noi in questa acquisizione, a
raggiungere questa capacità. E allora facciamo ricorso alle nostre
regole, a quelle che abbiamo imparato noi, alle modalità con cui ci sono
state insegnate le ritiriamo fuori,
le aggiorniamo rispetto all’epoca in cui viviamo, cerchiamo di adeguarle
al bambino o al ragazzo che abbiamo davanti, alla sua età alle sue
caratteristiche, a quello che riteniamo ,noi, essere importante per lui.
Ecco allora il dentro di sé, il fuori di sé, il la dove il dentro e il fuori si
uniscono che trovate nel titolo.
Entriamo nei particolari e a grandi linee vediamo cosa succede a
cominciare dal bambino piccolo fra l’anno e mezzo e i due anni.
Abbiamo a che fare a questa età con un bambino che ha attuato sotto la
spinta dell’educazione un grosso cambiamento, dall’ essere che viveva o
meglio tendeva a vivere all’insegna del tutto e subito è diventato un
essere più o meno ragionevole.
Ha più o meno imparato che è uno tra tanti e sa di non poter contare su
una posizione privilegiata. Ha imparato che ci sono delle regole sociali.
Invece di andare come prima alla continua ricerca di grati icazione è
disposto a fare ciò che gli si chiede . Il suo interesse di vedere e scovare
gli intimi segreti dell’ambiente che lo circonda si è trasformato in
avidità di sapere e piacere di imparare.
I genitori, gli educatori hanno tutte le ragioni di compiacersi del fatto
che sono riusciti a fare del lattante urlante a volte fastidioso, a volte
sporco, sempre dipendente , un composto scolaro che sta quasi sempre
seduto al proprio banco.
La condizione emotiva del bambino è nel frattempo mutata. I rapporti
con i genitori non sussistono più nella forma precedente.
Il rapporto diviene meno appassionato e perde il suo carattere
esclusivo.
Il bambino comincia a poco a poco a vedere i genitori in una luce più
fredda a riportare la sopravvalutazione del padre che considerava ino
ad ora onnipotente, alle sue dimensioni reali. L’amore insaziabile per la
madre diventa meno esigente e non più così acritico.
Il bambino cerca di conquistare un po’ di libertà dai genitori e cerca
nuovi oggetti d’amore e di ammirazione oltre a loro. Ha inizio un
processo di emancipazione che va avanti per tutto il periodo di latenza.
E’ però un allontanamento che implica il portare con sé i genitori, è un
distacco solo isico. Il bambino cioè ha sviluppato, a prescindere dalle
forze che agiscono dall’esterno, una forza interna , una voce interiore
che decide il suo comportamento, una voce interiore che è la
continuazione di quella dei genitori che agisce ora dall’interno invece
che dall’esterno come accadeva prima. Il bambino ha per così dire
assimilato un po’ dei genitori, degli adulti signi icativi o meglio gli
ordini e i divieti che da loro gli provenivano e li ha fatti suoi .
Man mano che il bambino cresce, questa parte introiettata dei genitori
e degli adulti signi icativi assume sempre più la funzione di promozione
o proibizione nel mondo esterno, proseguendo internamente
l’educazione del bambino ormai indipendente dai genitori reali.
Quando il bambino era piccolo, l’educatore e il bambino si
fronteggiavano come due fazioni nemiche. Le posizioni erano
diametralmente opposte. Ora il bambino è diverso, è internamente
diviso, c’è la famosa voce o coscienza o Super Io che sta dalla parte
dell’educatore. Questa parte ideale alla quale deve obbedire per non
sentire troppa insoddisfazione interna .
All’approvazione dei grandi ha preso posto la soddisfazione interna. La
dipendenza dalla rassicurazione dell’adulto, per quanto riguarda i
sentimenti di valore e di importanza viene progressivamente sostituita
dall’autostima derivata da conquiste e capacità che ottengono
un’obiettiva approvazione sociale.
Quindi le risorse interne del bambino si af iancano alle persone dei
genitori e in generale degli educatori come regolatori della sua
autostima Con l’affermazione del Super io il bambino diventa
maggiormente capace di mantenere in modo più o meno indipendente
il proprio equilibrio narcisistico. La crescete ampiezza delle sue
capacità sociali, intellettuali e motorie gli mette inoltre a disposizione
un’ampia gamma di risorse che lo aiutano a mantenere una maggiore
stabilità di affetti e di umori.
Insieme a questi progressi, per la minore con littualità vissuta, si
consolidano importanti attività come la percezione, l’apprendimento, la
memoria e il pensiero. Questo sviluppo generale rende autonome le
funzioni psichiche superiori e riduce decisamente la tendenza a usare il
corpo come strumento espressivo della vita interiore .
Il linguaggio subisce un cambiamento, il bambino diviene più esperto
nell’uso del perché e il linguaggio viene sempre più usato a ini di
copertura, come indica l’uso delle allegorie, delle metafore ecc.., in
contrasto con l’uso che ne fanno i bambini più piccoli, che nel
linguaggio esprimono le loro emozioni e i loro desideri senza
circonlocuzioni.
Le emozioni che all’inizio accompagnano le scariche isiche trovano
canali e materiali sostitutivi.
Nuove capacità di espressione artistica compensano la perdita della
spontaneità corporea.
Durante la latenza la crescente consapevolezza sociale si accompagna al
progressivo distacco fra pensiero razionale e fantasia , alla distinzione
fra comportamento pubblico e privato , si accompagna una nuova netta
capacità di differenziazione.
Fino ad ora non abbiamo parlato di regole, ma abbiamo abbozzato
come è il bambino con cui abbiamo a che fare, un bambino che abbiamo
già regolato, altrimenti non sarebbe così come si accennava sopra.
Sarebbe infatti un bambino ancora totalmente in preda ai suoi impulsi,
ai suoi desideri, al suo volere tutto e subito, un bambino non in grado di
affrontare gli apprendimenti scolastici, un bambino che ha ancora
totalmente bisogno di un regolatore esterno.
Apprendere a leggere e a scrivere infatti non signi ica solo guardare ,
riconoscere , dare un nome : per poter leggere e scrivere è necessario
riconoscere e tollerare che ci sono sequenze obbligate, che il tutto ha
più rilevanza che le parti e che alcune parti già conosciute debbono
essere eliminate per mettere insieme una nuova conoscenza.
Apprendere a leggere e a scrivere è un modo per mettere in ordine : un
bambino che non può mettere ordine nella sua realtà intrapsichica , che
non distingue ancora fra fantasia e realtà, fra emozione e intelletto , che
non riesce a mettere una certa distanza fra i contenuti emotivi e la loro
rappresentazione simbolica, che non riesce a volgersi verso la realtà
esterna non riuscirà a mettere le cose una dopo l’altra in modo che
abbiano un senso , non riuscirà cioè a leggere e a scrivere. Infatti vedrà
confermate nelle parole scritte la sua angoscia e la sua colpa , la sua
aggressività e la sua paura.
La capacità di mettere in ordine è alla base dell’apprendimento
scolastico . La scuola si pone in una fase in cui l’io e gli altri , il mondo
esterno e gli oggetti sono separati e si pongono fra di loro in una
relazione dinamica; questo rappresenta un passaggio importante nel
cammino verso l’indipendenza e segna lo spostamento da un
apprendimento basato sulle identi icazioni imitative ad uno basato su
quelle proiettive ed introiettive . Cioè il bambino comincia a fare le cose
ed a impararle non perché le vede fare, ma perché ha fatto propria , ha
messo dentro di sé la voglia di farle, l’esigenza di fare, c’è
l’assimilazione di tratti appartenenti ad altri che è avvertito
distintamente come separato da sé; non c’è più l’adesione ad un
modello confuso tra sé e l’altro.
L’imitazione viene infatti utilizzata come mezzo per costruire un’unione
magica con l’altro , per essere l’altro. La fantasia di essere grandi in
questo caso non implica il passaggio nel tempo per diventare grande,
ma è una magia che dà l’illusione di essere già grande.
Andare a scuola signi ica uscire dall’ambiente famigliare conosciuto e
accedere ad un altro nuovo e sconosciuto dove si entra in contatto con
altri, e quindi con altri modelli di relazioni ,altri valori ecc. . Già il
bambino era uscito per andare alla scuola materna e al nido, Questa
uscita però porta una nuova dimensione nella sua vita che non sarà mai
più come prima. L’apprendimento scolastico richiede maggiore
disciplina, come si diceva prima ,c’è bisogno di maggiore autonomia ; la
scuola elementare è proprio diversa dalla famiglia, dalla casa, qui i
rapporti hanno connotazioni che si basano sull’operatività piuttosto
che sull’affettività.
Da tutto ciò che ho detto mi pare discenda in modo inequivocabile che
senza regole non avremmo il bambino di cui stiamo parlando. Il
bambino, che ha nel suo io la sua “centralina “, il suo agente centrale che
gli permette di dedicarsi a nuovi compiti, può acquisire contenuti ,
conoscenza e capacità nuove. In questo bambino l’ io e il super-io si
alleano per stabilire norme generali ( non più imitazione ) che
comprendano l’assoggettamento dell’istintualità alle richieste della
realtà esterna.
Chi deve dare queste regole ,chi deve dire , in altre parole , si o no, e
quando deve dire si o no ? queste sono evidentemente le domande
conseguenti ai discorsi precedenti.
Sono gli adulti, i genitori , gli educatori che debbono dire di sì e di no .
Ma questo è sempre successo, allora perché siamo qui a discutere a
confrontarci?
Per ritrovare il modo , i tempi, il tempo , la ragione per dire di NO e di
SI.
Perché ritrovare?
La società è cambiata rispetto al modo che noi sapevamo, quello che
avevamo visto usare con noi.
Il ruolo femminile è cambiato : i sensi di colpa accompagnano lo
svolgere le funzioni materne, ( poco tempo in casa, investimento anche
sulla carriera ad es.)
C’è la necessità di uscire dal dilemma autoritarismo / permissività
Le funzioni paterne e le funzioni materne si coniugano in modo nuovo,
quelle paterne cominciano a essere più articolate e svolte in prima
persona.
La famiglia non è più l’unica agenzia educativa : ci sono in da subito
altri educatori e questo signi ica che essere genitori oggi implica
guardare dentro e fuori la famiglia, assumersi le proprie responsabilità,
cominciare ad avere ben presente che non possiamo più essere soli,
cominciare ad avere delle immagini genitoriali che si basano sulla
complementarità. E questo non è solo un problema individuale.
L’ educazione è cogestita e questo è il risultato di un processo di
cambiamento ,come si diceva prima, che sta avvenendo sia nella
posizione della donna e della donna madre in particolare, sia nella
famiglia e nella società, in un momento speci ico della nostra realtà
sociale. Questa formula che c’è nei primi anni di vita ,dovremmo
vederla nei suoi aspetti pratici, reali, non ideologici anche per le età
successive.
Vediamo un po’ più da vicino la permissività e l’autoritarismo in quanto
poli dei dilemmi della gestione quotidiana dell’educazione.
Una volta il problema non si poneva. Gli adulti avevano delle regole
precise, tramandate cui si riferivano per dire di si o di no, condivise da
tutti e perciò punti di riferimento precisi e rassicuranti. Quando ero una
ragazzina sapevo che le calze velate si potevano mettere solo alle
superiori, e come me lo sapevano tutte le mie coetanee.
L’autorità degli adulti non si metteva in discussione era così e basta, al
massimo i più intraprendenti trasgredivano di nascosto sapendo a cosa
andavano incontro.
Poi si è cominciato a dire che questo modo di educare basato
sull’autoritarismo creava complessi e nevrosi , disturbi psichici e così
come accade spesso si è buttato via il bambino con l’acqua sporca, si è
dimenticato che il bambino da solo non riesce a sopravvivere, a
crescere, che per questo ha bisogno dell’adulto, ma di un adulto che
faccia l’adulto che eserciti le sue funzioni, che detti cioè delle regole .
Anche la permissività ha dimostrato e dimostra i suoi limiti.
Si è visto che la sanità mentale dipende dal mantenimento all’interno
della personalità di un equilibrio tra le esigenze proprie i desideri
egocentrici da una parte e le richieste della coscienza e della società
dall’altra.
L’io mantiene l’equilibrio tra queste forze ma non c’è da subito, deve
crescere e formarsi .Il bambino deve essere aiutato a trovare soluzioni
che soddis ino entrambe le spinte. Il con litto tra desiderio e realtà, fra
sé e il mondo fra desiderio e soddisfazione dello stesso provoca ansia,
che di per sé non è patologica se il bambino ha la certezza di poter
contare su qualcuno che gli funga da contenitore e risolva per lui i
con litti inchè non è in grado di affrontarli da solo ( e ce ne vorrà
ancora di tempo !)
I nostri interventi , certi a questo punto che ci debbano essere, come
dovranno essere, quando , con quali stratagemmi ?
Il bambino collabora alla propria educazione perché vuole ottenere
l’amore e l’approvazione dei genitori e degli adulti signi icativi, sente la
disapprovazione come interruzione di affetto e di stima.
Il bambino per formarsi ,per acquisire autocontrollo deve sentire che
quando da calci non è amato allo stesso modo di quando non ne da, di
quando è ragionevole. Se non sentisse di perdere niente che ragione
avrebbe per imparare a controllarsi?
Si sente in colpa , non si sente stimato e perde parte della stima di sé.
Questo è uno strumento grosso importante che abbiamo in mano e che
dobbiamo utilizzare ( altrimenti permissività, lasciar fare) ma con
giudizio ( autoritarismo, inibizione ) e allora non diremo “sei cattivo “,
ma “ quando fai così sei cattivo”.Non diremo “ vai nella tua stanza ino
all’ora di cena “, ma “vai inchè non avrai deciso di essere ragionevole “.
Si può privare di qualcosa ma questa azione non può essere dettata
dalla vendetta.
Nel periodo di latenza l’ideale dell’io del bambino è il bambino buono
che da soddisfazioni agli insegnanti e ai genitori. Il bambino sta
iniziando a compiere i primi passi verso l’autonomia , il primo gradino è
l’indipendenza isica e questo è qualcosa che va tenuto presente nella
scelta di regole. Parlo di scelta perché è proprio questa la strategia
principale saper scegliere in base alle proprie convinzioni e ai propri
valori, consci che non si può puntare su tutto.
Gli insegnanti , gli educatori sono avvantaggiati perché hanno un ruolo,
un programma, una diversa distanza, i genitori hanno solo se stessi.
Ci sono genitori che non smettono mai di considerare il iglio come
piccolo e continuano a proteggerlo eccessivamente a fare cose per lui
senza stimolarlo a fare nuove esperienze, altri che lo considerano già
grande attribuendogli compiti e responsabilità eccessive. Entrambi
questi atteggiamenti sono negativi perché accentuano il dilemma del
bambino : andare avanti o tornare indietro.
“Perchè ti comporti così, ormai sei grande ! tuo fratello alla tua età
sapeva già scrivere correttamente ! che voto ha preso il tuo compagno!
Ma è possibile che tu sia ancora così goffo nei movimenti!” Frasi di
questo genere non fanno che alimentare quei sensi di inferiorità e di
inadeguatezza e di vergogna che sono i punti nevralgici nella
personalità del bambino a questa età.
Regole e divieti, ma mai sottolineare le incapacità “ hai sbagliato
facendo così non sei capace lascia stare !” Né tanto meno prendere in
giro
Il bambino ha bisogno di sentirsi rassicurato dai genitori non perché è
piccolo , ma perché sta crescendo, sta diventando a poco a poco grande
e nell’avvicinarsi al mondo dell’adulto è ovvio che abbia incertezze e
ritrosie : il bambino procede facendo tre passi indietro e uno in avanti.
Un atteggiamento di attesa e di iducia rassicura il bambino circa le sue
capacità di crescere, aiutandolo soprattutto a mantenere aspettative
realistiche, un compito che in questo periodo spetta soprattutto al
padre : è lui infatti la igura più adatta a fargli da guida, da spalla, nel
suo confronto con il mondo esterno, è lui che rappresenta agli occhi del
bambino l’universo maschile in cui predomina la norma , la legge.
Anche la madre può giocare questo ruolo, importante è che questo
riferimento non manchi non manchi la legge e la conferma di stima e di
iducia di cui ha bisogno.
Oggi si delinea una nuova igura paterna, più materna, più incline a
dispensare affetto che a dettare norme e principi da seguire, più
dinamica e intercambiabile.
Si è passati da una famiglia normativa ad una famiglia affettiva in cui
entrambi i genitori tendono a soddisfare i bisogni del iglio, a evitargli
frustrazioni piuttosto che a dettargli regole, principi morali, e norme
sociali. Gli effetti di questa situazione si manifestano soprattutto
quando cominciano ad andare a scuola : il bambino continua a vedere
nella scuola e nella società una grande madre e siccome non sarà così si
sentirà profondamente deluso. Non è il caso di rimpiangere il padre di
una volta e neppure le madri in lessibili che ricorrevano ad un
in lessibile silenzio per dimostrare la loro disapprovazione.
Non è che adesso il bambino arrivi a scuola del tutto privo di un
bagaglio di regole sue. Ma si tratta di un’educazione in cui lo stile
affettivo predomina su quello normativo. “ Abbiamo così poco tempo da
stare insieme che è un peccato rovinare tutto il piacere di stare insieme
discutendo di regole o di disubbidienze “ e c’è chi aggiunge “ci penserà
la scuola “.
La famiglia non può delegare totalmente questa funzione alla scuola .
Anche l’educazione alle norme sociali e un’espressione di affetto, è una
risposta ai bisogni fondamentali : senza regole è molto più dif icile per
il bambino vivere in mezzo agli altri e trovare un posto nella società non
solo a questa età ma anche quando sarà adolescente e poi adulto.
Ragazzi che creano problemi: la
demotivazione, l’assenza di
interessi e di desiderio possono
assumere forme depressive,
provocatorie
di Deliana Bertani
di Rita Bertozzi
4° parte: Gioco
La funzione del gioco nella
crescita
di Deliana Bertani
Cos’è il gioco?
gioco dal latino iocum = gioco di parole / facezia
d’altro canto ludum in latino =gioco / gara / spettacolo
illudere = in ludere =entrare in gioco , scherzare, ingannare qualcuno
facendo credere ciò che non è
de- ludere = uscire dal gioco
Eraclito : “l’eternità è un fanciullo che gioca, muovendo i pezzi sulla
scacchiera : di un fanciullo è il regno “ “il gioco è un metodo per
assimilare poco per volta un’esperienza troppo grande per essere
assimilata tutta d’un colpo “
Il gioco cioè permette di elaborare nel tempo le angosce sottostanti che
minacciano, fase per fase durante la crescita , l’integrità del sé del
bambino.
Perchè? con il gioco il bambino può
•
cambiare i ruoli
•
inventare lieti ini
•
trasformare , nella rappresentazione del gioco , in attività ciò che in
realtà è stato subito.
•
sintetizzare la realtà , l’es, il super io
Il gioco abitua a essere più elastici a sintetizzare e integrare meno
rigidamente le nostre parti.
Il signi icato del gioco nei primi anni di vita
Per intendere il signi icato del gioco dobbiamo partire dal concetto di
relazione oggettuale .
La relazione oggettuale è il legame emotivo, d'amore che un soggetto
stabilisce con un oggetto.
Un legame che è emotivo, affettivo o più precisamente libidico (con
questo termine si intende la qualità particolare dell'energia psichica
legata alle pulsioni istintuali).
Per oggetto si intende tutto ciò che è non sè, non io, altro da me.
Il primo oggetto è la madre (quando si parla di madre, si intende
sempre la persona che presta le cure materne, che soddisfa i bisogni del
bambino, non tanto e non solo la madre naturale).
Sappiamo però che il bambino quando nasce non ha la capacità di
distinguere fra sé e il mondo che lo circonda (non sè); questa capacità
di differenziazione inizia più o meno verso la ine del terzo trimestre di
vita.
Il bambino arriva cioè alla costruzione di un rapporto oggettuale dopo
essere passato attraverso una fase di non distinzione, una fase pre-
oggettuale in cui non esiste per lui un oggetto esterno.
Il rapporto oggettuale deve essere costruito e questa costruzione il
bambino la inizia partendo da una situazione di chiusura a guscio verso
l'esterno: fase narcisistica.
Nella prima settimana di vita c'è un'assenza relativa d'investimento
degli stimoli esterni. C'è una barriera di protezione del neonato che
passa quasi tutto il giorno in uno stato di sonno o di semiveglia, si
sveglia solo quando la tensione per la fame o per altri bisogni (le cure
materne) lo fa piangere, appena soddisfatto il bisogno ripiomba nel
sonno.
E' una fase de inita "autismo normale" dalla quale è tratto fuori grazie
alle cure materne che lo spingono verso un maggior contatto e quindi
verso una maggiore consapevolezza dell'ambiente esterno. La madre
durante questo periodo si prende cura del bambino in modo tale da in-
luderlo , inserirlo in un gioco che è quello di dargli l’impressione che la
perfezione il benessere l’omeostasi continui.
Si tratta di cure che riguardano il corpo del bambino. Questo è il primo
gioco ( gioco di corpi :seno, voce, braccia, odori, sapori, ecc.. ) che la
madre fa con il bambino : illuderlo che lo stato di perfezione, di
soddisfazione piena, garantito dalle risposte automatiche e perfette ( il
cordone ombelicale, l’assenza di penuria, di bisogno ) proprio della vita
intrauterina, continui anche in questa prima fase successiva alla
nascita.
Successivamente il gioco della madre si sposta per portare il bambino
verso l’esterno della diade. L’illusione ora è questa : è vero , il mondo è
diviso in due parti, da una c’è la diade, dall’altra c’è il resto del mondo.
Siamo all'inizio del processo per cui l'interno e l'esterno cominciano ad
essere avvertiti come diversi.
L'Io rudimentale (non ancora funzionante) del neonato deve avere
come complemento un rapporto emotivo di cura da parte della madre,
una sorta cioè di simbiosi.
Nella fase simbiotica c'è un'aumentata attenzione del neonato agli
stimoli esterni, un maggior investimento percettivo affettivo anche se
gli stimoli non sono ancora avvertiti come esterni ma interni alla diade
madre-bambino, alla unità duale simbiotica.
In questo periodo inizia lo stabilirsi delle "isole di memoria" o tracce
mnestiche, il punto di partenza per la costruzione del rapporto
oggettuale.
La principale conquista psicologica della fase simbiotica è il particolare
legame che si crea tra neonato e madre, come è indicato dalla speci ica
risposta del sorriso al volto umano in movimento.
Spitz ha descritto come l'esperienza uni icata bocca – mano – orecchio -
pelle si fonda con la prima immagine visiva : il volto della madre che è
un tutt'uno con l'esperienza dell'alimentazione.
Il viso è lo stimolo visivo che il bambino riceve più spesso nei primi
mesi di vita, è lo stimolo che si presenta al bambino in ogni situazione
in cui gli viene soddisfatto un bisogno e gli viene alleviato un dispiacere
o fornita una soddisfazione.
Il viso diventa il primo segnale nella sua memoria a partire dalla sesta
settimana circa.
Questo ricordo, questo interesse verso il terzo mese si cristallizzerà
sotto forma di una reazione peculiare: il sorriso.
In quest'epoca nessun altro oggetto, compreso il cibo, provoca una tale
risposta.
Spitz dice: "questo segnale appartiene al viso della madre e deriva da
esso; è legato alla situazione di nutrimento, protezione, al senso di
sicurezza; si svilupperà in seguito e inirà per fare della madre, in tutta
la sua persona un vero oggetto. Per questo ho chiamato tale risposta
limitata a una parte del viso umano (il triangolo occhi- bocca) un
rapporto preoggettuale, mentre tale segnale è il precursore
dell'oggetto. Oltre alla percezione visiva in questa esperienza uni icata
c'è sempre presente una percezione sensoriale proveniente dalla mano
che si appoggia, afferra, gratta il seno materno all'atto della nutrizione,
una percezione proveniente dalle eccitazioni auditive dovute
all'orecchio che preme sul corpo, " una percezione proveniente dalle
sensazioni di contatto con tutto il corpo “.
Tutte queste percezioni sensoriali fanno si che l'investimento di energia
psichica e libidica del bambino allarghi il suo raggio di azione per così
dire sempre più verso il mondo esterno.
Il bambino comincia a percepire che la soddisfazione del bisogno
proviene dall'esterno, da qualche oggetto parziale (il viso per esempio,
il seno) sebbene ancora dentro l'orbita dell'unità duale simbiotica e si
volge libidicamente verso quella fonte (il soggetto che offre le cure
materne).
Il bisogno diviene gradualmente desiderio e in seguito si muta in
desiderio speci ico affettivo "di legame con l'oggetto".
Il periodo, poi, che va dai 5 ai 7 mesi, è il momento di maggior
esplosione manuale, visiva, tattile della bocca, naso, faccia della madre
come pure del contatto sensoriale con la pelle della madre.
Il bambino con questi comportamenti sembra iniziare a distinguere tra
le esperienze di contatto percettivo e quelle che hanno origine nel suo
corpo e a differenziare le esperienze del suo corpo e di quello della
madre che in precedenza avevano una qualità indifferenziata.
E' questo il periodo in cui il bambino scopre gli oggetti inanimati
indossati dalla madre (la catena, gli occhiali, un ciondolo).
Inizia a guardarsi intorno, all'interno dell'unità simbiotica, tirandosi
indietro dal corpo della madre per guardarla al di là dell'orbita
simbiotica alla ricerca dei giochi per esempio (la catena, gli occhiali,
etc...).
Questo comportamento contrasta con il semplice plasmarsi sul corpo
della madre quando è tenuto in braccio, è diverso: il bambino comincia
a proiettarsi verso l'esterno.
Fino a questo periodo possiamo parlare di gioco come di una attività
che produce piacere erotico, attività che in un primo momento è
tutt'uno con l'atto dell'alimentazione, poi man mano se ne differenzia e
si scompone nelle varie sensazioni legate alle parti del corpo
interessate.
Questa attività, infatti, coinvolge la bocca, le dita, la vista, l'intera
super icie del corpo.
E' un gioco che si svolge sul corpo stesso del bambino (gioco
autoerotico) o su quello della madre senza una chiara disposizione tra i
due e senza alcun ordine o preferenza.
Verso i 6-7 mesi inizia a manifestarsi il mondo visibile il
comportamento di differenziazione.
Come dicevo, il bambino si stacca dal corpo della madre per guardarla.
Tutti i bambini che hanno avuto la possibilità di sperimentare almeno
in qualche modo, le fasi precedenti si avventurano un pò distanti dalle
braccia della madre e appena possono dal punto di vista motorio
scivolano giù dal grembo, ma amano tornare a giocare il più vicino
possibile.
Il bambino inizia un esame comparato con la madre. Paragona le cose
familiari con quelle che non lo sono. Si familiarizza più a fondo con ciò
che è madre al tatto, gusto, odorato, vista, udito. Impara a conoscere ciò
che gli appartiene. Inizia a distinguerla da qualunque cosa.
E' in questo periodo che si manifesta quello che Spitz ha chiamato
"angoscia dell'8ø mese" o angoscia dell'estraneo.
La Malher ha speci icato dopo una prolungata osservazione di bambini
di questa età che questo comportamento ha manifestazioni diverse nei
vari bambini, manifestazioni che vanno dalla curiosità e dalla
meraviglia alla indifferenza ino alla disperazione e questo è
direttamente proporzionale al modo in cui il bambino ha vissuto le fasi
precedenti.
Insieme con la differenziazione di sè dall'altro che gli permette di
stabilire un rapporto speci ico con la madre, il bambino comincia a
"praticare il Mondo" (Malher) cioè si allontana dalla madre prima a
carponi poi comminando.
Il suo interesse si sposta dalla madre agli oggetti inanimati inizialmente
forniti da lei (una coperta, un giocattolo, etc...).
Il bambino esplora questi oggetti, prova il loro gusto, la loro struttura, il
loro odore, con tutti i suoi organi percettivi ma in particolare con la
bocca e le mani. Uno o l'altro di questi oggetti può diventare l'oggetto
transizionale.
Winnicott descrive l'oggetto transizionale o la funzione transizionale in
questo modo: "Ho introdotto questa espressione per designare la zona
di esperienza intermedia fra il pollice e l'orso di peluche, fra l'erotismo
orale e il vero rapporto oggettuale".
Le proprietà del corpo della madre e di quello del bambino sono
trasferite su qualche oggetto morbido che serve come primo gioco.
Quindi è scelto su tracce mnestiche precedentemente acquisite.
Il bambino si arroga dei diritti su questo oggetto, esso è vezzeggiato,
amato, mutilato. Esso deve dare l'impressione di fornire calore, essere
capace di movimento, avere certe caratteristiche. Secondo l'adulto
l'oggetto è esterno al bambino, il quale però non lo percepisce così,
quindi esso è un oggetto ne interno, ne esterno. Copre un'area
intermedia fra ciò che è percepito oggettivamente e ciò che è percepito
soggettivamente, un'area intermedia che non viene mai messa in
dubbio quella che permette al bambino di passare da una percezione
tutta soggettiva, onnipotente, allucinatoria della realtà qual'è nella fase
simbiotica ad una oggettiva che si fonda sull'esame della realtà.
L'interesse per questi oggetti non consiste tanto nel valore simbolico,
quanto nella loro realtà oggettiva. Il fatto che non si tratta della madre è
altrettanto importante del fatto che rappresenta la madre.
Il bambino si serve dell'oggetto transizionale per prolungare
all'esterno, nel mondo, la simbiosi con la madre, soprattutto per
prolungarne la protezione e la sicurezza che l'essere insieme gli dava.
Con l'oggetto transizionale e sull'oggetto transizionale il bambino
dispone di un controllo magico e onnipotente sull'esterno in attesa di
passare al controllo attraverso la manipolazione che implica erotismo
muscolare cioè il piacere del movimento.
L'attaccamento ad uno speci ico oggetto transizionale si evolve in
seguito verso una propensione più generica verso i giocattoli (in genere
sof ici e morbidi) che, in quanto oggetti simbolici saranno
alternativamente investiti di libido e aggressività quindi vezzeggiati e
maltrattati. Verso di loro il bambino può esprimere tutta la gamma dei
suoi sentimenti, tutta la sua ambiguità senza paura.
Il bambino è sottoposto ad una molesta "routine" quotidiana: deve star
bravo, deve essere lavato, gli viene dato da mangiare, etc...
I nostri concetti di cura del corpo e di pulizia sono completamente al di
fuori della sua comprensione e tutto viene sentito come atto di
tenerezza o come minaccia, spesso si veri ica quest'ultimo caso.
Il rimedio è "Io faccio agli altri quello che gli altri hanno fatto a me":
orsacchiotti, bambole, etc..., sono portati in giro, alimentati, picchiati,
baciati.
Col gioco un'esperienza passiva viene trasformata in una attività…. Nel
gioco di questo genere, prima solo abbozzato poi via via più articolato,
verbalizzato, vengono elaborate e rielaborate, sia dai maschi che dalle
femmine, i diversi aspetti delle cure materne.
Per fare un altro esempio di gioco simbolico, possiamo citare quello
famoso del nascondino. Qual' è in questo periodo (stiamo parlando dei
15-18 mesi) la paura, la preoccupazione maggiore del bambino? Quella
di essere allontanato dalla madre.
La loro paura può essere più o meno espressa con queste parole: "La
mamma non c'è" - "Mia madre può fare di me quello che vuole".
Nel gioco il bambino cerca di superare le sue angosce invertendo i ruoli:
"Io allontano la mamma" il bambino si tira la coperta sul viso - "Io
faccio tornare la mamma" tira giù la coperta con un radioso sorriso.
Freud per primo ci parla del simbolismo del gioco e della sua funzione
rassicuratrice e di controllo della realtà, descrivendoci il gioco solitario
che un bambino faceva con un rocchetto attaccato a un ilo. Questo
bambino, descritto come ben educato, manifestava la fastidiosa
tendenza di buttare via, il più possibile lontano, tutte le piccole cose che
gli capitavano in mano e accompagnava questi gesti con un'espressione
soddisfatta e con una esclamazione che signi icava "vai via". Questo
bambino aveva un rocchetto legato ad un ilo e, raccontava Freud, un
giorno notò che dal suo letto continuava a lanciarlo, tenendolo per lo
spago, in modo da non vederlo più, dopo di che diceva "va via" e poi
ritirare il rocchetto per lo spago e salutava la sua ricomparsa con un
"là" gioioso. Scomparsa e ritorno.
Freud si rese conto che questo non era per il bambino che la sua
sdrammatizzazione nel gioco dell'andata e del ritorno della madre. Nel
gioco il bambino dominava la madre come una marionetta, giocava a
fare qualcosa che gli era stato fatto, nel gioco si vendicava, era lui che
mandava via la madre.
Esaminiamo un altro gioco tipico di questo periodo: la costruzione e la
distruzione di una torre.
Dice Erikson "Il piacere con cui i bambini guardano crollare in un
istante il prodotto di un lungo lavoro ha posto problemi a molte
persone" (soprattutto, aggiungo io, dal momento che il bambino non è
affatto contento se la torre cade per caso o è fatta cadere da un altro
bambino). Io penso - dice Erikson - che questo gioco ha origine nelle
esperienze molto prossime delle cadute improvvise, all'epoca in cui
tenersi dritti sulle proprie gambe era dif icile ma affascinante nello
stesso tempo.
Il bambino conquista il controllo attivo di un evento che aveva
sperimentato passivamente.
Il bambino ha quindi imparato a camminare e ad avventurarsi sempre
più lontano dalla madre è spesso così assorto nelle sue attività che per
lunghi periodi di tempo, sembra dimenticarsi della presenza della
madre, tuttavia ritorna periodicamente da lei e sembra aver bisogno
della sua vicinanza isica; la madre è come una "base" per una ricarica
emotiva.
Camminare, rende possibile al bambino, di aumentare la scoperta della
realtà e l'esame del suo mondo attraverso il suo stesso controllo. Esso
coincide con il sorgere di un'aggressività diretta e attiva verso una
meta.
In questo periodo, secondo Piaget, l'intelligenza senso motoria è
arricchita dall'inizio dell'intelligenza rappresentativa, del pensiero
simbolico.
Procedendo, il bambino nella de inizione del suo sè, diventa sempre più
consapevole della perdita del benessere precedente, quando si viveva
come un tutt'uno con la madre.
Il bambino si accorge che i suoi oggetti d'amore sono separati da lui e
deve gradualmente rinunciare al suo delirio di grandezza.
A quest'epoca le bizze, l'oppositività sono all'ordine del giorno. Da una
parte il bambino vuole staccarsi dalla madre, dall'altra si attacca
teneramente a lei; l'ambivalenza è la caratteristica del 2° anno di vita.
In questo periodo la maggior fonte di piacere si sposta verso
l'interazione sociale. I giochi d'imitazione diventano i preferiti.
Ora mostrano il desiderio di fare o avere quello che ha o fa un altro
bambino, desiderio di copiare, imitare, volere a tutti i costi che ha
l'altro.
Di pari passo appare il "no", insieme alla rabbia o all'aggressività diretta
verso una meta se questa non è disponibile.
Questi sviluppi avvengono nel mezzo della fase anale, con le sue
caratteristiche di possessività , gelosia, invidia, negatività e la scoperta
della differenza anatomica fra i sessi.
I giocattoli morbidi perdono la loro importanza, eccetto che nel
momento di andare a letto, quando, fungendo da oggetti transizionali,
continuano a facilitare al bambino il passaggio dalla partecipazione
attiva al mondo esterno all'isolamento narcisistico necessario per
dormire. Durante il giorno ci sono i giocattoli che servono alle attività
dell'Io e alle fantasie che le sottendono, attività che grati icano le
pulsioni, gli istinti propri dell'età o direttamente o attraverso lo
spostamento e la sublimazione..
Siamo arrivati verso i 3 anni 3 anni e mezzo, il bambino ora è nato
psicologicamente, si è completamente differenziato come soggetto
come sè distinto dall'oggetto. Ora l'oggetto è identi icato come tale con
le sue caratteristiche, le sue funzioni; il bambino può separarsi da esso
senza più cadere nell'angoscia di perderlo perchè ha acquisito la
capacità di mantenere e utilizzare una rappresentazione psichica
stabile di questo oggetto d'amore (la madre).
L'oggetto permane dentro al bambino e questi può evocarne l'immagine
in modo complesso e differenziato, l'immagine materna è divenuta
costante e disponibile al bambino nello stesso modo in cui la madre
reale era stata disponibile a sostenerlo e amarlo.
D'ora in avanti (3 anni - 4 anni e mezzo, fase fallica, si devono
considerare le date come indicative e non vincolanti) il bambino ricava
piacere dal crescere, dal diventare grande e forte e di contro gode anche
dell'essere ammirato dagli elogi che riceve. Si mette in mostra e si
paragona con altri, stabilisce la propria identità sessuale, sa quali sono
le differenze fra il maschio e la femmina.
Ha interesse nel mostrare il proprio corpo, a toccarsi, a manipolarsi e a
toccare quello degli altri.
Il bambino si impegna in attività, in giochi intensi, invadenti,
competitivi.
Costruisce, si impegna ad imparare. Il gioco drammatico si arricchisce
di ruoli che vanno oltre quello della mamma e del bambino: il bambino
è la maestra, il dottore, è superman, la ballerina e si traveste. Acquista
interesse per i giochi di gruppo. Soprattutto è curioso di vedere, di
capire come funziona e smonta e distrugge ma per vedere come i vari
giocattoli, le varie cose sono fatte.
Tutto in questo periodo è incentrato sugli interrogativi "Chi sono?",
"Quali sono le mie capacità" e in relazione a queste preoccupazioni le
sue paure fondamentali sono incentrate su eventuali danni al corpo e
all'autostima (angoscia di castrazione).
Nella misura in cui evolve la sua identità sessuale, si preoccupa di
essere un maschio o una femmina.
Gioca a "farsi vedere" il che comporta esporre il proprio corpo o i
genitali ad altri bambini. Il bambino fallico è esibizionista, si mette in
mostra, è orgoglioso della sua prodezza e vuole essere elogiato per
quello che fa.
E' competitivo, vuole essere il più bello, il più forte, il più grande, "Io ce
l'ho e tu no" è il leitmotiv di tutte le scuole materne.
La fase fallica rappresenta un ulteriore progresso, sviluppo della
capacità di relazioni oggettuali rispetto alla costanza dell'oggetto
conquistata nella fase precedente.
La cerchia sociale del bambino si amplia, soprattutto variano e si
differenziano i sentimenti (amore, invidia, ammirazione, etc...) e
soprattutto si differenziano le mete cioè gli oggetti di questi sentimenti.
La madre o la rappresentazione della madre, non sarà più l'unico
oggetto verso cui riversare tutto.
A questo punto abbandoniamo lo sviluppo del bambino perché
abbiamo a suf icienza visto come il gioco sia strettamente intersecato
con questo ; ora serve porci una domanda per riassumere e mettere a
fuoco alcune idee.
Perchè i bambini giocano? Innanzi tutto perchè questo procura loro
piacere; i bambini godono di tutte le esperienze isiche e affettive
vissute durante il gioco. Non solo, ma anche il procurarsi
autonomamente oggetti e inventare giochi nuovi fornisce godimento al
bambino.
Attraverso il gioco i bambini hanno la possibilità di manifestare
l'aggressività. Esprimere la propria aggressività può essere piacevole,
ma, nella realtà o nella fantasia, inevitabilmente danneggerà qualcuno
ed il bambino è costretto a fare i conti con questo.
Il bambino aggira l'ostacolo in dall'inizio, manifestando i suoi
sentimenti aggressivi nel gioco invece che con attacchi d'ira. Questo è
meno pericoloso, non suscita reazioni ed è socialmente accettato.
Mentre poi è facile dire che i bambini giocano per il piacere di giocare, è
molto più dif icile capire che essi giocano per riuscire a dominare
l'ansia o per padroneggiare idee o impulsi che, se non vengono
controllati, possono generare ansia. L'ansia è un elemento costante del
gioco infantile e spesso assume un ruolo di primo piano. La minaccia di
uno stato di ansia troppo grave, spinge il bambino al gioco coatto o
ripetitivo o a ricercare con troppo ardore i piaceri connessi con il gioco.
Quando il suo gioco è in luenzato in modo determinante dall'ansia, non
possiamo impedirgli di continuare a giocare senza creargli problemi e
attacchi di ansia o senza spingerlo alla creazione di nuovi sistemi di
difesa (come la masturbazione e l'abitudine di sognare ad occhi aperti).
Il gioco favorisce i contatti sociali. In un primo tempo i bambini giocano
da soli o con la madre senza sentire il bisogno di avere coetanei come
compagni di gioco.
E' in gran parte attraverso il gioco, in cui i bambini assumono ruoli
predeterminati, che un bambino inizia ad ammettere che gli altri
abbiano un'esistenza indipendente. Durante il gioco si fanno degli amici
e dei nemici ma, al di fuori del gioco, non sono capaci di creare queste
relazioni.
Il gioco serve all'integrazione della personalità si diceva all’inizio.
Il gioco stabilisce un legame fra il rapporto che un individuo ha con la
realtà interiore e quello che instaura con la realtà esterna (l'oggetto
transizionale è il precursore di questo legame).
Il bambino gioca il suo incontro con il mondo. Non potrebbe fare
diversamente , è un metodo per assimilare poco per volta un’esperienza
troppo grande per essere assimilata tutta d’un colpo.
In questa area il bambino intraprende il suo processo maturativo che gli
permette di accettare “ l’altro da sè” superando le angosce che derivano
dalla consapevolezza di essere soli , cioè distinti, indifesi, non
onnipotenti. E questo avviene attraverso il gioco che è fare, un fare che
è continua tensione fra passività e attività , fra illusione onnipotente e
disillusione basata sulla prova di realtà .
Anche nell’età adulta l’uomo continua a giocare per vincere le angosce
di base.
Può succedere se è fortunato che lo studio e il lavoro siano gli eredi del
suo gioco e questo avviene quando mantengono la sua leggerezza,
quando non prevale la “legge”, cioè l’aspetto normativo e istituzionale.
Stare con i bambini ,con i ragazzi signi ica de inire un’operatività
condivisa, signi ica giocare con loro, laddove giocare signi ica fare ,fare
con leggerezza, con piacere, condividere l’illusione e la disillusione.
Che gioco fa l’educatore ?
Vorrei rispondere citando Freud:
"Educatore può essere soltanto chi sa immedesimarsi nella vita psichica
infantile, e noi adulti spesso non comprendiamo i bambini perchè non
comprendiamo più la nostra stessa infanzia".
Questo non signi ica che per stare con i bambini bisogna tornare
bambini insieme a loro ma che dobbiamo imparare a riconoscere il
bambino che è in noi.
Il bambino viene spesso avvertito inconsciamente come "una voragine
istintuale" .
"Uno dei caratteri fondamentali dell'Inconscio è la sua relazione con
l'infantile: E’ quella parte della personalità che a quell'epoca si
separata, non ha seguito l'evoluzione del tutto ed è stata perciò
rimossa" (Freud).
Le nostre reazioni ai vari bambini e vari comportamenti sono
determinate da quello che evocano in noi e avremo quindi più o meno
problemi, più o meno repulsione o attrazione a seconda se le parti
infantili che sono state evocate sono di periodi o fasi felicemente
vissute o più propriamente fanno parte di periodi che in un modo o
nell'altro siamo riusciti a portarci dietro nella crescita senza rimuoverli.
Gioco, volontariato e
strutturazione del tempo
di Fortunata Romano
Già in altro luogo vi ho parlato del celebre passo di Eraclito “il bambino
che sulla riva del mare vince il tempo giocando, spostando i pezzi del
suo gioco, è il re”.
g
Vi ho riferito che per Eraclito è il gioco che distrae il bambino
dall’in inità dello spazio e dalla caducità del nostro essere che ci
angoscia di fronte al luire in inito del tempo. E’ per questo, dicevamo,
che il bambino è il re, per Eraclito: perché attraverso il gioco riesce ad
addomesticare lo spazio e il tempo, a distrarsi dal senso di angoscia che
altrimenti il creato innescherebbe in lui.
E’ il gioco, potremmo aggiungere ora con Winnicott, erede dell’oggetto
transizionale, che lo fa sentire in sintonia con il mondo poiché gli
permette di viverlo come spazio né interno, né esterno a lui stesso, ma
come spazio intermedio: è il gioco l’elemento che rende il bambino
padrone del mondo, re, per l’appunto.
Quello stesso bambino - che in una prima fase aveva avuto bisogno di
una unità (duale) con la madre, e in una seconda di un'area
transizionale che gli permettesse di affrontare la separazione - ora,
attraverso il gioco, può de inire: - uno spazio come un'area intermedia
che si pone, come dicevamo prima, né dentro né fuori di esso, ma che lo
fa sentire parte di un tutto; - e un tempo come tempo occorrente a
portare a termine il gioco e a controllare le varie fasi dell’operare
ludico.
Questo controllo cioè si esprime in un fare. La bambina che gioca con la
sua bambola e si perde in questo gioco nella dimensione spaziale
poiché e in grado di ride inire magicamente quello spazio così come lei
desidera, ed in quella temporale poiché altrettanto magicamente può
procrastinare la ine del gioco anche ad libitum, se le cose vanno
suf icientemente bene. Altrimenti una incapacità a giocare sarebbe
indizio di una separazione non ben superata e di un processo di
individuazione non suf icientemente e stabilmente raggiunto.
Ma importante è ancora per noi tornare alla prima immagine in cui
oltre la dimensione spaziale della membrana duale in\ludente anche la
temporalità trova inizio. Infatti temporalmente al principio il bambino
vive una situazione in cui vi è una onnipresenza del seno materno (per
cui quando ha fame deve avere un'immediata soddisfazione) che
determina una situazione di "presente perpetuo".
Successivamente, da questo presente perpetuo iniziale vi è un doppio e
contemporaneo sviluppo nella direzione sia del futuro (che nasce dalla
frustrazione derivante dalle prime disillusioni e dalla aspettativa che
comunque ci sarà poi una soddisfazione che ora non c'è più) che del
passato (legato al mito e, cioè, ad un'età dell'oro in cui non vi era
disillusione, ma immediata soddisfazione).
E' anche attraverso questa strada che si consolida dentro di noi il senso
di appartenenza; è anche attraverso questa strada che poi il nostro
operare sul mondo potrà oscillare fra presente, passato e futuro cui
ogni nostro gesto rimanda.
Gioco ed operatività condivise
La quarta ed ultima immagine che vorrei proporvi è quella di un
gruppo di bambini che giocano insieme:
Prodromo di altri più maturi modi di operare, quelli possibili nello
studio e nel lavoro, in questa scena vediamo un gruppo di bambini
immersi in un’atmosfera ludica.
Se in un primo tempo il bambino è incapace di giocare con gli altri pari,
ma semplicemente si dispone a giocare accanto ad essi, in un secondo
tempo, allorchè il bambino sarà maturato sul piano della
complementarità e della reciprocità, sarà in grado di giocare con essi in
un gruppo che, in questo modo condividerà le stesse in\lusioni
gruppali.
Anche il gruppo di pari, se si lascerà prendere dal gioco, se si perderà
nel gioco, diventerà re in una medesima in-lusione (letteralmente
ancora intesa come ingresso nella stessa dimensione ludica) che lo
spingerà come tale, cioè come gruppo, ad addomesticare lo spazio ed il
tempo. Cosicché in un primo tempo, winnicottianamente, la capacità in-
lusoria di una atmosfera ludica si può misurare dal tempo occorrente ai
vari attori per rimanere in gioco, così come la disposizione dei singoli a
rimanere in gioco è come una cartina di tornasole della loro salute
mentale. Ma la stessa cosa avverrà dopo nel rapporto fra individuo e
libera attività lavorativa.
Lungo queste ultime e più mature fasi del processo maturativo, ogni
individuo, ogni gruppo sociale storicamente determinato, "crea"
dapprima un proprio modo di giocare, poi un proprio modo di operare,
una propria cultura, storica e concreta, visibile nei nostri pensieri e
nelle nostre opere che, così, concorrono, in tempi e luoghi speci ici, a
determinare tutte le macro e le microstorie di cui ognuno è partecipe.
Ed anche questo più ampio terreno dell'appartenenza ad una storia, ad
un tempo, ad un milieu isico e sociale – così come il primo oggetto
transizionale di cui è iglio - si porrà come un'area intermedia interna-
esterna che implica un tempo, il tempo del giocare e del fare insieme,
eredi del controllo magico che ci preserva, quando funziona
suf icientemente bene, dall'angoscia derivante dalla consapevolezza di
esser soli. Come Linus opera sulla sua coperta per vincere queste
angosce, così noi adulti operiamo sul piano lavorativo e sociale, inseriti
in una più ampia coperta che è il nostro mondo, la nostra cultura, quella
"casa" nella quale possiamo tranquillamente rannicchiarci per non
precipitare nel caos e nell'angoscia.
Il lavoro umano, quindi, è parte integrante dell'esperienza culturale che
de inisce la nostra appartenenza.
Per concludere, venendo alla speci icità del nostro punto di vista, la
classe, il workshop il gioco col bambino disabile, la diade riabilitativa
con il bambino disabile e a rischio, allorché funzionano, sono tutte
entità avvolte in una membrana gruppale (duale o più ampia) che
permette a tutti i presenti di condividere un gioco che avviene secondo
certe regole (vedi relazione Bertani di domani).
In questo tipo di gruppo vi sono sempre due polarità: da una parte il
polo di coloro che si prendono cura di .. (l’adulto, il docente, il
riabilitatore, la volontaria); dall’altra quello di chi ha bisogno di cure (il
minore, il discente, il minore a rischio o disabile).
Se noi osserviamo al problema dell’alleanza educativa, terapeutica,
riabilitativa dopo aver compiuto questo percorso che dalla simbiosi ci
ha condotto al gruppo operativo noi vediamo che molti dei nostri
problemi diventano: a che gioco giochiamo, con quali ini, con quali
regole?
Nel momento in cui ci poniamo in gioco in effetti stiamo facendo un
doppio gioco, anzi un gioco doppio: da una parte infatti li stiamo
aiutando poiché il nostro giocare con essi ha un senso da un punto di
vista curativo, riabilitativo all’interno di programmi ad hoc per ognuno
di essi.
Dall’altra però – e spero di avervelo fatto intendere con queste mie
sollecitazioni – nel momento in cui ci poniamo in gioco con essi noi
stiamo ribadendo, insieme a loro, una serie di cose importantissime per
loro, ma anche per noi.
La nostra disposizione al gioco infatti ha una serie di signi icati che
sono fra di loro legati da un effetto a catena e signi ica: disposizione
all’impegno; disposizione a mettersi in gioco con queste nostre parti
soccorrevoli all’interno del progetto Gancio Originale, di condividere il
tipo di gioco che qui si fa; e, al di là di queste ancora general-generiche
disposizioni, entrare in gioco ogni volta, con i nostri casi, in maniera
speci ica, sempre nuova, sempre rischiosa, poiché per la maggior parte
di essi il processo, che prima ottimisticamente ho de inito come un
insieme di tappe maturative quasi automatiche nel loro procedere, in
effetti è andato avanti male, a singhiozzo, o non c’è stato affatto. E’ noto
infatti a coloro fra di voi che seguono i gravi che molti dei nostri gravi
sono come issati alle prime tappe del processo maturativo che porta al
gioco ed al lavoro e che le loro richieste spesso sono di de inire o di
mantenere un legame simbiotico.
Bibliogra ia
D. Anzieu, 1979, "Il gruppo e l'inconscio", Borla, Roma.
R.Gaddini,1979, "Il processo maturativo", CLEUP, Padova
M. Malher,1975, "La nascita psicologica del bambino", Boringhieri,
Torino
D.Napolitani,1987,"Individualità e gruppalità", Boringhieri, Torino
D.Winnicott,1974,"Gioco e realtà", Armando, Roma.
D. Winnicott, 1986, "Il bambino deprivato", R. Cortina, Milano
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Note
1. Cioè la madre che contiene, più che la madre che allatta, dice
Winnicott.
2. Parlando di esse Winnicott dice sempre: la madre o chi ne fa le veci.
3. Ho detto di espansione e non di superamento, poiché si tratta di un
processo che assomiglia a quello seguito nella costruzione di una casa,
durante il quale ad una prima ila di mattoni ne segue un’altra, e poi
un’altra ancora senza che le nuove altezze raggiunte spingano il
costruttore a togliere le ile sottostanti.
Giocando si insegna
di Deliana Bertani
Vorrei riprendere il titolo del seminario : GIOCO, IMPARO , INSEGNO.
per fare qualche considerazione che ci serve per rientrare in argomento
Dall’ introduzione e anche da molti altri incontri di formazione che in
questi anni abbiamo fatto sicuramente avrete capito i perché della
coniugazione di queste parole che spesso vengono invece viste e
soprattutto ragionate in contrapposizione GIOCO / imparo - insegno.
Infatti, nonostante ci sia una consapevolezza pressoché assodata negli
ambienti in cui si discute di educazione, di psicologia, di riabilitazione
che l’aspetto della motivazione è irrinunciabile, sporadici o quasi del
tutto assenti sono poi le indagini e un operare educativo che svisceri la
complessa maglia degli elementi affettivi-emotivi e cognitivi che danno
signi icato alla parola motivazione che dovrebbe appartenere senza
dubbio sia a chi insegna sia a chi impara.
La comprensione del mondo degli affetti e dei sentimenti che “ passano
fra “ e che contengono chi impara e chi insegna troppo spesso è oggetto
di conclusioni e conseguenti indicazioni buoniste di stampo moralistico
e ideologico ( “l’insegnamento è una missione “ è il sunto di questo
modo di fare)
Perché il titolo :
• Per mettere insieme il diavolo con l’acqua santa . Quante volte ci
siamo sentiti dire “ sa quel bambino non ha ancora capito che a scuola
non si gioca “ “ è troppo giocherellone, si distrae con i suoi giochi “ c’è
un’età per ogni cosa ,non si può continuare a giocare per tutta la vita “
• perché giocare è un fatto molto serio, è entrare in gioco, giocarsi,
5° parte: Scambio
Cosa dà chi riceve – cosa riceve
chi dà
di Margherita Clò