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Titolo | Gioco, scamio e alterità

Autori | (a cura di) Leonardo Angelini, Deliana Bertani, Mariella Can ni


Coper na: Simona Valcavi
2022 (prima ed. 2001)

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delle modifiche; e che alla nuova opera venga a ribuita la stessa licenza dell'originale (quindi a ogni opera derivata non
verrà consen to l'uso commerciale.

Dino Angelini
Via E ore Barchi 8 - 42123 Reggio Emilia
dinange@gmail.com
3497190911
Cosa sono i Quaderni di Gancio
Originale
I Quaderni di G.O. contengono le relazioni tenute alle giovani e ai giovani nostri volontari ed ai nostri
rocinan all’interno dei vari momen forma vi che inizialmente si svolgevano due volte l’anno, e
che in seguito si sono trasforma da una parte in atelier pra ci tenu durante l’anno, dall’altra in
una lunga serie di “Seminari al Seminario”, tenu a Marola ai primi di Se embre di ogni anno; ed in
veri e propri cicli d’incontri su temi specifici (è il caso, ad esempio di “Tirocinan e tutor”) ai quali
hanno spesso partecipato -sempre gratuitamente- rocinan , psicologi, NPI, educatori, docen ,
pedagogis , provenien spesso da ogni parte d’Italia.
L’idea che abbiamo avuto fin dall’inizio è stata quella di non ripetere sempre gli stessi argomen , ma
di par re ogni volta dalle esigenze e dalle urgenze dei volontari e dei rocinan che operavano con
noi.
Ovviamente questo andamento apparentemente discon nuo, basato sulle urgenze del momento,
unito al fa o che sia i volontari che i rocinan variavano di anno in anno ingenerando un
considerevole turn over, trovava un a sua ra o nel lungo periodo solo nella misura in cui di ogni
argomento affrontato nel tempo fosse lasciata traccia in relazioni scri e che venivano ciclos late e
offerte ai nuovi arriva , in modo che ognuno avesse la possibilità di poter a ngere a ciò che era
stato già discusso e ‘studiato’ negli anni preceden .
Ogni tanto, allorché ci era possibile farlo, le varie relazioni: - o venivano composte nei Quaderni, in
modo tale da recuperare nel tempo il filo rosso che le unificava (da ciò le frequen ripe zioni
riscontrabili nelle sei raccolte!); oppure, di fronte ad argomen che richiedevano una riflessione più
organica, diventavano l’ossatura di veri e propri percorsi forma vi, dai quali poi sono na vari tes .
Vedi ad esempio: e “L’adolescenza nell’epoca della globalizzazione. Unicopli, 2005”, e “Free Student
box. Counselling psicologico per studen , genitori e docen . Psiconline, 2009”.
Un ul mo cenno ai relatori: nei limi del possibile abbiamo cercato di offrire a rocinan e volontari
il meglio che era possibile trovare in ci à, in provincia, e anche ‘fuori’. La maggior parte di loro non
ha ricevuto alcun compenso per questo impegno; per cui si può dire che anch’essi, in quanto
volontari, hanno fa o parte a pieno tolo di “Gancio Originale”. Li ringraziamo ancora una volta per
questa loro disponibilità. Così come ringraziamo presidi, docen , e tu coloro che ha collaborato
con noi in quegli anni!
“Dare, ricevere, contraccambiare”: è all’interno di questa logica che si sono pos nei 25 anni
scolas ci intercorsi fra il 1990\91 e il 2014\15 i nostri 12.000 volontari, i nostri rocinan psicologi e
no. Ed è all’interno di questo scambio che abbiamo cercato di porci noi stessi, cercando di dare ciò
che potevamo, e ricevendo tan ssimo da tu e e da tu . (L.A., D.B., M.C.)
Indice

Cosa sono i Quaderni di Gancio Originale


Presentazioni

Prima parte: Gancio Originale, un progetto di volontariato nei servizi


pubblici
Se dieci anni vi sembran pochi : dal 1991 al 2001, un gancio…….tanti
‘ganci’
I metodi di Gancio Originale

2a parte: Bambini, ragazzi, giovani


I quattro luoghi dell’adolescenza
Dall’etica padana del lavoro all’estetica consumista: l’adolescente reggiano
di oggi a confronto con quello di ieri (e di avant’ieri)
Un’umanità senza corpo
Il corpo come un altro sé da plasmare
Il tatuaggio come rito ‘privato’ di passaggio all’età adulta fra i giovani
reggiani di oggi
Essere genitori oggi: funzioni materne e funzioni paterne a casa e nelle
strutture prescolari
Dire di sì, dire di no. Il rapporto adulto - bambino

3a parte: Alterità
Lo specchio impossibile: problemi di identificazione con ragazzi
handicappati
Gravità e gravosità: l’impegno con i gravi
Dove trovare le regole per regolare e regolarsi
L’uscita dalla latenza oggi
L’incontro fra culture diverse, due testimonianze dal mondo della scuola,
L’immigrazione a Reggio Emilia: gli scenari possibili
Come li vediamo, come ci vedono. Interviste a operatori e bambini

4° parte: Gioco
La funzione del gioco nella crescita
Gioco, volontariato e strutturazione del tempo
Giocando si impara
Giocando si insegna
Funzione terapeutica e formativa delle fiabe

5° parte: Scambio
Cosa dà chi riceve – cosa riceve chi dà
Varie forme di comunicazione orale nell’intervento di volontariato
Incontrarsi: gli spazi dello scambio solidale
Uno specchio importante: quali funzioni abbiamo nei confronti dei bambini
e dei ragazzi coi quali lavoriamo
Presentazioni
di Sonia Masini e Mariella Martini
 
Gli scritti qui presentati sintetizzano l'insieme dei momenti formativi
che Gancio Originale, il gruppo di volontariato giovanile dell'AUSL di
Reggio Emilia, ha svolto in questi ultimi cinque o sei anni. Momenti
formativi a volte rivolti ad un pubblico esclusivamente giovanile, altri
— è il caso ad esempio delle due conferenze organizzate da Gancio e
dalla Melagrana, che il prof. David Le Breton ha tenuto in città proprio
un anno fa - rivolti ad un pubblico più ampio comprendente gio-vani ed
adulti.
Il volontariato giovanile a Reggio Emilia, come avremo modo di vedere
in dettaglio nel convegno del 28.11.2001 consiste in un insieme di
attività decentrate, svolte quasi sempre sotto il segno della discrezione
e del silenzio: di modo che si potrebbe dire che decentramento,
discrezione e si-lenzio, insieme al tratto della gratuità, sono gli elementi
distintivi di tutte queste attività giovanili.
Ciò mi pare particolarmente signi icativo in una società come la nostra
in cui il chiasso e l'appa-renza sono all'ordine del giorno e in cui
qualsiasi gesto compiuto in assenza di un pubblico, com-presente o
virtuale, può facilmente apparire inutile, quando addirittura ‘non
accaduto’, soprattutto agli occhi di chi, come i giovani d’oggi, è stato
precocemente alfabetizzato all’enfasi del linguag-gio televisivo, a quel
gioco, spesso osceno, consistente nel mettere in piazza, (nella piazza
virtuale brulicante di veri e propri performer dell'intimità) ogni più
intima parte di se stessi. Ecco, mi pare che la discrezione che informa le
attività del volontariato giovanile reggiana possa essere ricono-sciuta
come un elemento emblematico di un modo di operare nuovo, che
rompe con questo an-dazzo.
Ma i meriti dell'attività volontaria dei nostri giovani non sono solo nella
loro modalità discreta di operare, ma si estendono ai contenuti che
informano la loro opera.
Nel retro del dépliant che annuncia il nostro convegno abbiamo voluto
porre una frase di Albert Einstein: ‘L'amore è un padrone migliore del
dovere’. Vi è in queste parole una verità che i giovani volontari reggiani
mi pare abbiano compreso ino in fondo e sulla quale, come traspare da
ogni loro opera, dimostrano nelle pratica di essere molto conseguenti:
la gratuità del gesto volontario. la discrezione che lo accompagna, la
consapevolezza che dare signi ica ricevere e quindi arricchir-si,
insomma le basi di fondo di quel solidarismo che è stato gran parte
della storia della nostra terra a partire dalla seconda metà
dell'Ottocento, tutto ciò signi ica che fare in ragione dell'amo-re per
l’altro, per spirito di solidarietà nei confronti dell'altro che ha bisogno:
è mille volte più formativo e arricchente del fare per il dovere; che
insomma c'è più gusto, più sapore, direi più co-lore nel fare per amore e
per dedizione, rispetto al grigiore dell'operare per il dovere. E questo
mi pare, a livello contenutistico, la più grande lezione che viene dal
mondo del volontariato giovanile reggiano.
Noi adulti sappiamo, però, che nella nostra società a ianco al sistema
dello scambio basato sul dono – così silente e discreto, come dice anche
Godbout, da passare spesso inosservato - vi è un sistema di scambio più
venale in cui le azioni compiute diventano lavoro remunerato. Per cui è
giusto che ai giovani, che si apprestano a diventare adulti pienamente
autonomi, non ci si limiti a chiedere di rimanere solo nel sistema del
dono e dell'impegno gratuito. Il nostro impegno di adul-ti, di
amministratori deve essere indirizzato anche verso il mercato, di modo
che quando essi, così come tutti i loro coetanei, si appresteranno ad
entrare nel mondo del lavoro remunerato ciò av-venga con tutta la
preparazione e le tutele di cui la nuova generazione che avanza ha
bisogno in una società dinamica come la nostra, in modo tale che essi
possano essere pienamente respon-sabilizzati, dando corso a tutta la
loro spinta creativa e capacità professionale.
Penso che l'insieme delle attività per i giovani che nei vari assessorati
della Provincia si vanno proponendo da lungo tempo, insieme ai
rappresentanti della scuola, delle associazioni delle varie attività
produttive, dell'Azienda Unità Sanitaria Locale e delle Organizzazioni di
Volontariato, stia-no lì a testimoniare l'ampiezza e la puntualità del
nostro impegno complessivo sui giovani, che non è certamente
esaustivo ma dovrà costituire tante altre occasioni di incontro, di
scambio, di crescita comune.
 
Sonia Masini
Vicepresidente della Provincia di Reggio Emilia
 
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I quaderni di Gancio Originale sono una delle ricchezze di
un'esperienza esemplare, costruita con intelligenza, generosità e
fantasia, che ha saputo rimanere vitale e crescere negli anni.
Un'esperienza che è una risorsa preziosa per tutti coloro che vi sono
coinvolti: i bambini e ragazzi in dif icoltà, i giovani volontari, gli
insegnanti e le famiglie, gli operatori sanitari.
Gli operatori sanitari che hanno ideato e sostenuto l'esperienza, hanno
avuto la capacità di pro-muovere, con anticipo di alcuni anni, un “piano
per la salute” mettendo in sinergia competenze e risorse diverse così da
rendersi capaci di risposte complessive e, contestualmente, di
rafforzare la coesione sociale e la iducia verso se stessi, elementi
insostituibili del benessere degli individui e della collettività.
 
Dr.ssa Mariella Martini
Diirettore Generale dell'Ausl di Reggio Emilia
Prima parte: Gancio Originale, un
progetto di volontariato nei
servizi pubblici
 
Se dieci anni vi sembran pochi : dal 1991 al 2001,
un gancio…….tanti ‘ganci’
di Deliana Bertani
 

Un compleanno è un compleanno, ma soprattutto lo è quando gli anni


sono dieci.
Gancio Originale compie dieci anni : questa ricorrenza ci spinge a fare
un bilancio e a proporre al-cune ri lessioni.
Gancio Originale è un gruppo sui generis di volontariato nato nel 1991
all’interno della AUSL di RE , nei Settori di Psicologia e di
Neuropsichiatria infantile.
Non si tratta di una associazione ma di progetto di un servizio pubblico,
un’attività di sensibilizza-zione, di organizzazione ,di formazione rivolta
principalmente a giovani che frequentano le ultime classi delle medie
superiori della città , che sono già all’Università o al lavoro e di sostegno
e cura di bambini e ragazzi disabili e/o a rischio della scuola
dell’obbligo
Questi giovani infatti svolgono la propria opera di volontariato
essenzialmente sui fronti della di-sabilità e del disagio, cioè nei
confronti dei bambini e dei ragazzi disabili e a rischio seguiti dai due
servizi della AUSL.
La giovane età dei nostri volontari fa sì che G.O. presenti al proprio
interno un grosso turnover. E’ venuto a crearsi così nel tempo un
gruppo molto mobile,(sono più di 700 i giovani che hanno lavo-rato con
noi in questi anni) ma sempre molto numeroso.
Giovani che aiutano i più giovani quindi e che come dicevamo prima:

giovani che vanno sensibilizzati. Ciò viene fatto in tutte le scuole
superiori della città attra-verso insegnanti , presidi , ragazzi stessi che
conosciamo con i quali abbiamo già lavorato- e at-traverso
l’individuazione di un target, gli allievi delle ultime classi, ai quali viene
presentato il pro-getto insieme a giovani che hanno già lavorato con noi
e che quindi sono in grado di precisare, con un linguaggio chiaro e
comprensibile, i contorni e i limiti temporali dell’impegno da noi
richiesto : 2 o 3 ore settimanali

giovani che vanno seguiti e organizzati. Il che comporta un lavoro di
accoglienza, di indivi-duazione delle vocazioni di ognuno, di
abbinamento peculiare con i bambini e i ragazzi seguiti, di tutoring
individuale e di gruppo

giovani che vanno formati nell’esercizio di un lavoro di aiuto che
assume anch’esso delle peculiarità poiché, data la vicinanza anche
anagra ica con i minori seguiti, mai come in questa cir-costanza la cura
che il volontario offre è anche autocura che richiede momenti di
ri lessione e di formazione speci ici sia nei contenuti proposti, sia nei
metodi seguiti, sia nell’uso di un linguaggio appropriato.

giovani che in questo modo sviluppano e coltivano, cominciando a
intervenire in maniera del tutto nuova e originale nel lavoro di cura e
nell’assunzione di responsabilità, quell’attitudine ad ascoltare le ragioni
dell’altro, a considerare gli effetti delle proprie azioni, a sapere che alla
i-ne ogni forma di relazione lascia un segno e ha delle conseguenze
sugli altri.
Queste cose si sono evidenziate nel tempo.
All’inizio non avevamo considerato che questo spazio producesse un
dare e un avere, uno scam-bio bidirezionale. All’inizio non eravamo
coscienti che questi ragazzi avrebbero prodotto cultura , cultura della
riparatività nei propri confronti e nei confronti dei ragazzi più giovani.
E’ stata una bella scoperta che ci ha riempito di soddisfazione: avevamo
messo in piedi uno spazio importante signi icativo per un’età dif icile e
faticosa, quella della crescita.(questo ci è stato rico-nosciuto anche con
il Premio nazionale del volontariato 1999 FIVOL riservato ad azienda
che abbia attuato la promozione di servizi reali, cioè l’utilizzo di propri
mezzi, strutture e competenze tecni-che a sostegno di iniziative di
solidarietà o di gruppi).
Uno spazio sul quale ci pare interessante soffermarci .
Innanzitutto c’è stato un incontro fra la scuola e i servizi sanitari
pubblici avvenuto in uno spazio dentro la scuola ,lasciato però libero
dalla scuola.
Uno spazio che ci piace de inire di avventura. Nella scuola capita spesso
che i ragazzi vivano una situazione inglobante, istituzionale, spesso
ingessata, una situazione in cui al di là della disposi-zione, della buona
volontà, delle capacità degli insegnanti, vi è distinzione di ruoli e di
potere, vi è un ineludibile ine selettivo che impedisce lo sviluppo di
certe potenzialità. All’interno della scuola i ragazzi vivono spesso
l’avventura non tanto in uno spazio di ricerca o di sperimentazione o di
la-boratorio, quanto più attraverso il recupero di momenti di
trasgressione ( e ormai la trasgressione non si limita più ai sistemi per
copiare, per fumare ecc.)-
La nostra proposta si è rivelata un’avventura, un apprendere
dall’esperienza, uno sperimentare la dimensione dell’inedito, del
rischio. Avere a che fare con l’altro con il diverso perchè più piccolo,
perchè in dif icoltà, perchè con handicap, perchè appartenente ad una
cultura sconosciuta, è un inedito pieno di sorprese belle e brutte, è uno
spazio mentale che si crea in ciascun volontario all’interno del quale vi
è una scoperta di capacità, di propri aspetti sicuramente poco
sperimenta-ti, di autonomia, di argini personali alla distruttività , alla
aggressività, al razzismo, alla stigmatiz-zazione dell’altro.
Sono state richieste attività e imprese che incanalano lo spirito
agonistico e le istanze narcisisti-che permettendo la sperimentazione
delle proprie capacità e dei propri limiti.
In questo “spazio “ l’adulto non si è presentato per proteggere, per
controllare, per catechizzare , per intrudere, per descrivere, per
passivizzare , ma è intervenuto concretamente per aiutare nel fare
(cambiamenti di orari, discussioni dei momenti di crisi, dif icili rapporti
con la famiglia ,incomprensioni con l’insegnante ecc. .... ).
C’è un rapporto con l’adulto, con l’istituzione non con littuale e fuori dal
giudizio: quando ci rivol-giamo ai giovani è esplicito che siamo noi
adulti ad avere bisogno di loro, a chiedere.
Questo è il senso con cui ho usato il termine avventura, come s ida con
se stessi e perchè no co-me rito iniziatico che permette di veri icare
autenticamente le proprie possibilità, un rito iniziatico non individuale
,come ormai sono tutti i riti di passaggio, ma personale all’interno di un
gruppo.
Avventura quindi non come evasione, non come regressione verso il
mondo magico dell’infanzia, non come ricerca di sensazioni forti,
eccitanti, non come fuga dalla realtà verso l’isola che non c’è, avventura
non come ci si sta abituando a pensare in una società dove tutto passa e
si consuma, ma avventura come proposta di un lavoro utile e
soprattutto collocato nel contesto sociale e di vi-ta quotidiana e quindi
facilmente integrabile nella propria storia, dentro di sè. L’avventura si
sta complicando da circa un anno infatti abbiamo aderito al progetto
congiunto Ministero degli Affari Sociali e CEE per scambi di
volontariato europeo giovanile
Tutte le volte che siamo andati e andiamo nelle scuole nei momenti di
reclutamento dei volonta-ri abbiamo chiamato i giovani a fare delle
cose dif icili ma precise, che sono state spesso ricono-sciute come
importanti e ben fatte da altri adulti ( dai nostri colleghi, da operatori di
altri servizi, da insegnanti, da genitori),delle cose da adulti ma fattibili e
veri icabili, cose al di là dell’infantilizzazione, al di qua
dell’onnipotenza.
I nostri stimoli sono stati raccolti, come dimostrano i dati, soprattutto è
stato raccolto lo stimolo ad esprimere potenzialità creative, a fare
dell’apprendistato che va nel senso dello schizzare fuori da una
condizione di bambino , di non capace, di rompiscatole (come spesso
consideriamo i nostri giovani)
Fare delle cose precise, vedere qualcosa di proprio crescere :il rapporto
con il ragazzino, un po’ più di sua voglia e di sua capacità a fare i
compiti, più possibilità di stare con gli altri ecc. -
Fare un lavoro autonomo, non tanto dal punto di vista isico, ma
psichico attraverso il riappro-priarsi di funzioni che solitamente ino a
quel momento sono state svolte dagli adulti, dai genitori cioè funzioni
“di prendersi cura”: questo signi ica avere accesso alle funzioni adulte,
fare una tap-pa, come si diceva prima, nel percorso di maturazione, di
integrazione; costruirsi e vivere uno spa-zio in cui trovare altre igure di
mediazione, fare investimenti fuori di sè, sperimentare accettabili
rappresentazioni di sè
E questo spazio ha la funzione di aprire al giovane la possibilità di
crearsene nuovi e quindi fare successivi spostamenti, perchè questo
spazio è padroneggiabile, usabile in modo concreto, in pro-prio,
trasportabile con sé dove si va.
Dall’altro fronte molti ragazzini seguiti dai volontari in più occasioni si
son lasciati scappare “ma con loro è diverso! non sono dei “maestri”
sottolineando con questo la posizione “strana”, il ruo-lo meno
asimmetrico, la possibilità quindi di creare insieme una in\lusione, un
gioco in comune dove ognuno è un po’ più grande rispetto al solito e
può guardare le proprie incapacità e debo-lezze con più tranquillità.
I ragazzini hanno la proposta di un modello più facilmente
raggiungibile, perchè meno istituziona-le, più informale, e soprattutto
più disposto a de inire il setting in maniera non dogmatica ma come
un’avventura in comune.
I volontari possono tornare indietro un passo nella storia del loro
processo maturativo e vederla dall’altra parte (quella
dell’autorevolezza, della necessità di farsi ubbidire, della dif icoltà di
farsi ubbidire e quindi della necessità di trovare mediazioni)Insomma
possono sperimentare, perchè più grandi a essere spiazzati e non più
solo a spiazzare.
G.O. è un’impresa congiunta fra bambini ,ragazzi, giovani e adulti ,
operatori pubblici, psicologi tirocinanti, tirocinanti di scienze
dell’educazione, tirocinanti di scuole di specializzazione dove si
rinegoziano delle relazioni facendo delle cose insieme, mettendosi
reciprocamente in situazione di scambio e di arricchimento ma senza
confusione di ruoli.
G.O. è un intervento soprattutto preventivo di un Servizio del Sistema
Sanitario pubblico che è cresciuto un po’ alla volta giorno dopo giorno,
che ha affrontato concretamente, pazientemente alcuni aspetti di
“alcuni” giovani reggiani – che si è messo in rete con l’altro pubblico ,
con il priva-to, con le parrocchie, con le polisportive , con tutti coloro
che abbiamo incontrato e via via incon-triamo nel nostro percorso.
E’ un’esperienza con la quale siamo entrati nel merito dei problemi del
rapporto fra la generazio-ne dei giovani e quella dei padri a RE , con la
quale abbiamo fatto sperimentare che il volontaria-to non è una
dichiarazione di fede né una scelta di vita ,ma un dare – ricevere
contraccambiare alla portata di tutti, che tutti possono avvicinare senza
perdere le proprie caratteristiche di giova-ne.
All’attuale assenza di limiti simbolici collettivi che contengano il senso
di identità e orientino tra punti di riferimento relativamente af idabili,
ci pare importante che un ente pubblico, preposto al-la tutela e alla cura
della salute dei cittadini fornisca ai giovani uno spicchio di mondo reale
i cui accessi , in termini di opportunità di lavoro e di crescita, siano facili
; in cui per dirla con E. Dickin-son possano trovare “quel procedere
incerto fra mare e cielo che chiamano esperienza”.
Riteniamo che il coinvolgimento del mondo della scuola che ha
contraddistinto la nostra attività dal 1991 ad oggi, è stato determinante
per comunicare ai giovani percorsi di impegno e per con-cretizzare
momenti di crescita personale , ai ragazzini modalità “ più lievi,
diverse“ per apprende-re e per stare a scuola
OBIETTIVI SPECIFICI :
1.
Sostegno alla frequenza scolastica :
a)
sugli apprendimenti in orari extra scolastici
b)
promuovendo azioni di aiuto o tutoring da parte di studenti coetanei o
più grandi all’interno dell’orario scolastico
2.
Creazione di momenti aggregativi al ine di:
a)
promuovere e valorizzare le capacità individuali
b)
favorire la socializzazione mediante l’acquisizione di abilità e
competenze sociali e l’integrazione nella rete di pari presenti sul
territorio
c)
offrire spazi di ri lessione per i giovani volontari sui temi sociali,
culturali, emotivo-affettivi aventi rilevanza formativa ed evolutiva.
(Vengono infatti svolti tre momenti di formazione collet-tiva all’anno,
nonché tutorship a ciascun volontario)
3.
Realizzazione e stabilizzazione di gruppi – workshop- riabilitativi ,
“riparativi” pomeridiani all’interno delle scuole.
 
4.
Iniziative volte alla collaborazione e alla messa in rete delle risorse per
l’infanzia e l’adolescenza (ludoteche, biblioteche, Get, centri sportivi
,parrocchie gruppi scout ecc..) presenti sul territorio per una maggiore
fruizione delle stesse da parte anche dei bambini e dei ragazzi di-sabili
o a rischio che soli non riescono a reggere l’inserimento.
Le attività
I workshop - gruppi di intervento pomeridiano sono attualmente
6 dislocati all’interno delle scuole medie
2 in scuole medie superiori - un liceo e una istituto agrario- I volontari
sono studenti interni alle scuole, i ragazzini seguiti sono alunni delle
scuole dell’obbligo limitrofe alle scuole stesse
2 in scuole elementari;
2 in istituti comprensivi
si riuniscono due volte alla settimana per circa due ore. Ogni gruppo
accoglie 10-11 ragazzini e quasi altrettanti volontari. I ragazzini sono
tutti in carico ai servizi di NPI e di Psicologia Clinica

Gli interventi in rapporto singolo sono attualmente circa 70.

Interventi in strutture della Ausl : un corso speciale in un Centro


addestramento professionale, i laboratori di musica, cucina, attività
espressive bricolage e serra, un corso per genitori di bambi-ni sordi sul
linguaggio dei segni gestito da una volontaria sorda.

Volontariato giovanile europeo. Ci siamo inseriti in questo ilone di


attività promosso della CEE e dal ministero degli Affari Sociali con
l’intenzione di favorire scambi non solo fra giovani vo-lontari, ma anche
fra giovani portatori di handicap, cosa peraltro prevista che va però
gestita e programmata come d’altra parte anche lo scambio fra
volontari. Abbiamo già iniziato questa esperienza con il supporto di Dar
– Voce – Centro di servizio per il Volontariato di Reggio Emilia,
vorremmo appunto ampliarla.

le pubblicazioni degli Annuari e dei Quaderni contenenti i temi della


formazione in cui sono raccolte le esperienze e le impressioni dei
protagonisti di tutte le attività nel corso dell’anno (que-sto ci è
sembrato utile perché ognuno possa sapere ciò che sta facendo l’altro e
per rafforzare il senso di appartenenza a un’iniziativa che non è
un’organizzazione e che ha una struttura organiz-zativa leggera e
variabile).

La formazione per due volte l’anno, di cui una residenziale di due giorni
consecutivi e l’altra di due o tre serate , su tematiche concordate e con
l’alternanza di momenti teorici e momenti prati-ci. Nel gennaio 2001
sono partiti 6 laboratori pratici per complessivamente 32 incontri di
due ore ciascuno

 
Fin qui il bilancio sul passato che ci pare notevole e degno di lode - lo
diciamo senza timore e senza falsi pudori - per la volontà spesso
realizzata con successo di intraprendere nuove esperien-ze, di
confrontarci con le dif icoltà, di sperimentare partendo da niente come
abbiamo appunto fatto in dall’inizio ,di 10 anni fa .
Ora alcune ri lessioni sul presente che come è noto è anche futuro.
Il presente che ci vede impegnati su tanti fronti, al lavoro con tanti
partner, con tante richieste di nuove attività e collaborazioni per
l’autunno, con tanti giovani e giovanissimi che lavorano con noi , con i
quali e per i quali lavoriamo.
Questo vuol dire che G.O. è diventato un organismo complesso e
numericamente importante: quest’anno - fra volontari maggiorenni e
minorenni, ragazzini seguiti in gruppo e individualmente, collaboratori
stabili - le persone in circolazione dentro G.O. hanno s iorato le 500
unità.
Dunque non è più vero ciò che ino a poco tempo fa abbiamo
sottolineato e cioè la marginalità istituzionale di Gancio Originale.
Gancio Originale è diventata una presenza riconosciuta dentro alla
AUSL e soprattutto in città; questo è un elemento importante per il
nostro futuro, per i nostri ragionamenti, per le nostre atti-vità, per le
scelte di questa nostra “impresa” (così all’inizio siamo stati de initi).
Essere visibili, complessi e numerosi comporterà affrontare sempre di
più rischi: perdere in ela-sticità e in sveltezza; dover assumere
procedure più voluminose; perdere la dinamicità, la crea-tività; diluire
molti di quegli elementi che permettono a Gancio Originale di
avvicinarsi con suc-cesso ai giovani e di essere addirittura da essi
cercati.
Acquisire una centralità in città però comporterà anche dei vantaggi:
Gancio Originale ha lavorato per dare soddisfazione ai bisogni e alle
aspettative di salute, con le risorse via via disponibili, ha garantito
prestazioni di prevenzione e di cura, è diventato uno strumento, un
luogo a questo pun-to conosciuto e riconosciuto in cui, parafrasando ciò
che dice l’OMS, si cerca di favorire un ap-proccio globale alla persona
che è soggetto del proprio benessere, a maggior ragione se è un gio-
vane, un ragazzo che sta crescendo.
Abbiamo avuto delle conferme e questo è indubbiamente un vantaggio
in termini di sicurezza e di conferma di quello che si sta facendo, e ciò è
particolarmente importante se si considera che G. O si è sempre posto
in modo aperto, in interazione continua con un ambiente circostante
che è una entità che muta in continuazione e che costringe ad una
continua revisione dei propri obiettivi. G.O. in questo modo ha potuto
progettare azioni pratiche intervenendo nelle situazioni per modi-
icarle con due soli punti di riferimento: l’ascolto attento e l’adesione ai
valori da cui si era partiti, che consistevano nel cercare di sviluppare, a
partire da un’istituzione pubblica, integrazione, si-nergie con la scuola e
le famiglie per migliorare l’offerta di servizi per la salute.
L’area , nella quale ci siamo mossi e ci muoviamo, quella cioè della
salute dell’infanzia, della preadolescenza, e dell’età giovanile, non è di
poca dif icoltà. E’ un’area che solitamente emerge soprattutto quando si
manifesta con le sue modalità più esasperate e drammatiche, ma che in
ef-fetti richiede, più che “grandi strategie” utili solo a descrivere il
problema, un’azione quotidiana, una serie di ‘ganci’ che vanno lanciati
nei luoghi di vita e di studio dei giovani.
G.O si è mosso per andare incontro alla realtà, quella di tutti i giorni,
quella fatta dai problemi, dai disturbi, dalle paure dei giovani e dei
ragazzi che vivono e studiano a Reggio nel 2000.
Come operatori ci siano ‘posti in gioco’ in un’area fatta di disordine,
molteplicità, variabilità; ab-biamo rischiato, perché no, anche la nostra
immagine personale, professionale con la sensazione a volte di non
avere punti di appoggio o comunque con la fatica di doverseli
continuamente ricrea-re: ne è valsa la pena, siamo soddisfatti del lavoro
fatto, dei riconoscimenti ottenuti, non solo a livello locale.
 
Ringraziamo tutti i giovani che in questi dieci anni hanno lavorato con
noi, ringraziamo chi ci ha dato iducia e ha seguito il nostro lavoro,
ringraziamo anche chi – La Regione e la COOP Consuma-tori Nord-Est -
ci ha dato in questi ultimi anni quei contributi economici che
sicuramente ci hanno permesso di diventare più grandi e capaci - l’AUSL
di Reggio Emilia che ha saputo riconoscere il valore del nostro
progetto- la Provincia di Reggio Emilia che ha continuato a valorizzare
il nostro lavoro e la nostra presenza in città dandoci ,tra l’altro, la
possibilità di pubblicare –come già nel 1995- il materiale della nostra
formazione.
 
Deliana Bertani – Mariella Cantini
 
 
Quadro degli interventi di Gancio Originale, Giugno
2001
 
di Mariella Cantini
 
I iloni in cui i volontari operano in collaborazione con i servizi
dell’A.U.S.L. sono rimasti gli stessi che nel 1991, anno d’inizio della
nostra attività, avevamo individuato.
Aiuto nei compiti in gruppo e singolarmente
Attività legate al tempo libero
Animazione ai progetti gestiti dall’azienda USL
Presenza negli atelier di pittura, musica e cucina
 
Nel corso di questi anni, la nostra attività ha trovato altre forme
d’espressione, pur mantenendo la stessa organizzazione, la stessa
metodologia, la stessa tipologia di volontari e utenti e lo stesso
turnover.
Il lavoro di rete ormai consolidato, sul territorio reggiano, ci permette
di collaborare con quasi tut-te le istituzioni, le strutture, le associazioni
e le parrocchie. L’obiettivo principale, diventato abi-tuale, è quello di
cercare di posizionarsi all’interno del tessuto sociale per rispondere ai
bisogni d’ogni singolo caso.
L’attività che maggiormente si è andata a consolidare in questi anni
sono i Workshop pomeridiani.
Sono nati nel 1995, presso due scuole medie statali Fontanesi e Dalla
Chiesa, come prevenzione del disagio scolastico, mediante
l’integrazione linguistica, scolastica e relazionale dei bambini e dei
ragazzi (immigrati e non). L‘attività non è solo nell’aiuto scolastico ma
in tutti i Workshop ab-biamo aperto laboratori creativi: Pollicino Verde,
Laboratorio di Creta, di Cucina, di Pasta e Sale, di Riciclaggio del
materiale di recupero, di Drammatizzazione, ….
E’ proprio in quest’attività, che i volontari esprimono, in modo più
spontaneo e creativo, la loro voglia di mettersi in gioco. Quest’attività è
notevolmente aumentata, si opera attualmente in molte scuole
Elementari e Medie cittadine e limitrofe: Dalla Chiesa, Don Milani, San
Giovanni Bo-sco, A D’Aosta, A. Pertini, Fontanesi, E.Lepido, più Rivalta e
Bagnolo. Presso la scuola E.Lepido ab-biamo aperto un Workshop
d’accoglienza per ragazzi immigrati. L’esperienza è stata più che posi-
tiva, altre scuole cittadine ne hanno fatto già esplicita richiesta. Sono in
via di de inizione altri workshop cittadini e due workshop periferici:
presso la Scuola Elementare di Quattro Castella e la scuola Media di
Cadelbosco. Un’altra attività pomeridiana di workshop noi molto cara è
quella che si svolge all’interno dell’Istituto Zanelli e del Liceo Aldo
Moro. Con gli studenti dell’Istituto Zanelli è il quarto anno che ci
attiviamo in un workshop per ragazzini delle scuole elementari e medie
della zona. Attualmente i ragazzini che partecipano sono 10, il Lunedì e
il Giovedì pomeriggio dal-le 14.30 alle 16.30. L’esperienza è coordinata
sempre dalla stessa insegnante e da una psicologa borsista di Gancio
Originale, si svolge nei locali della scuola e coinvolge studenti delle
ultime clas-si, entusiasti del lavoro e motivati sul piano sociale.
Con il Liceo Aldo Moro è il terzo anno che collaboriamo dando una
risposta a 10 ragazzini delle scuole medie limitrofe: Fermi, Manzoni,
Fontanesi, Leonardo. L’attività che è coordinata da alcuni insegnanti
della scuola stessa, diventa incisiva non solo per i ragazzini ma per il
notevole numero di volontari della scuola coinvolti.
Complessivamente il numero dei ragazzini seguiti nelle attività
pomeridiane dei Workshop sono 119. Il numero dei volontari
minorenni coinvolti 150.
Una notevole mole di lavoro inoltre è svolta dai volontari che,
individualmente, seguono bambini delle Scuole Elementari e ragazzi
delle Scuole Medie, in attività di recupero scolastico o in attività legate
al tempo libero. Sono più di 70 i casi seguiti con patologie più o meno
gravi.
Una decina di volontari sono impegnati in progetti dell’A.U.S.L., quello
presso il Centro di Forma-zione Professionale Simonini e negli atelier di
pittura, musica e cucina. I casi seguiti in tutto sono circa 20.
 
 
COSA FANNO I VOLONTARI:
Aiutano a fare i compiti:
-
A casa
-
A scuola
-
Nelle biblioteche
-
Presso i circoli ARCI
-
Presso le parrocchie
 
Accompagnano a conoscere la città. Vanno:
-
In ludoteca
-
In piscina
-
A musica
-
A ginnastica
-
A tennis
-
ecc.
 
Molto spesso in questi anni ci è capitato di scoprire per caso che i
volontari continuano sponta-neamente a mantenere un rapporto di
amicizia con i nostri ragazzini, andando con loro al cinema, a mangiare
una pizza, andando alle feste di compleanno. E’ un constatare che lo
spirito della soli-darietà e del servizio è consolidato e va oltre la nostra
spinta iniziale.
Dal 1995 il numero dei volontari è stato quasi costante: 100 - 110
l’anno. I dati numerici del 1999 e 2000 dimostrano un leggero
aumentano come lo dimostrano il numero delle ore svolte da loro:
-
da Gennaio a Dicembre 1999: 5180
-
da Gennaio a Dicembre 2000: 5320
Vanno aggiunte le ore di 150 volontari minorenni che hanno
collaborato con noi, ragazze e ragazzi provenienti dal B.U.S. Pascal,
dall’Istituto Magistrale, dall’Istituto Zanelli e dal Liceo Aldo Moro che
nell’anno scolastico 2000-2001 hanno svolto un monte ore di 3300. In
queste scuole, si è deli-neata la igura di un insegnante referente, che
coordina con noi l’attività di propaganda informati-va, che cura
l’assicurazione degli studenti fuori dai locali scolastici, e che è diventata
un punto di riferimento per i ragazzi e per noi nel progettare gli
interventi e nel fare le veri iche di gruppo.
Per concludere vorrei aggiungere due parole sul ruolo che in
quest’avventura con i giovani mi trovo a ricoprire. Sono per loro la
prima igura che incontrano quando vado nelle scuole, sono anche la
prima che li accoglie progettando insieme il loro intervento di
volontariato. Poche ore de inite in un giorno o due la settimana inserite
in un progetto mirato e preciso. La vicinanza alla sede dove il volontario
svolgerà la sua attività è diventata una regola, come è diventata una
regola accettare la predisposizione personale alle attività. Do un
messaggio chiaro: “Sai dove trovarmi, ci sono per accompagnarti, sono
disponibile ad ascoltarti e se possibile ad aiutarti”.
 
Volontari maggiorenni
Anno
N° volontari
Monte ore
1997
100
2792
1998
118
4542
1999
138
5180
2000
158
5320
 
 
Volontari minorenni
Anno scolastico
N° volontari
1997 –1998
30
1998 – 1999
50
1999 – 2000
80
2000 – 2001
150
 

provenienti dalle scuole: Istituto Magistrale, Istituto Zanelli, Liceo Aldo


Moro, B.U.S. Pascal.

impegnati quasi tutti nei workshop

al Giugno 2001 sono seguiti 119 ragazzi


 
I metodi di Gancio Originale
 
Leonardo Angelini
 
Tutte le attività del gruppo di volontariato Gancio Originale possono
essere raggruppate in due grandi ambiti: 1. Il lavoro frontale con i
bambini e con i ragazzi disabili e a rischio ; 2. La forma-zione dei
giovani e dei meno giovani volontari che af luiscono in Gancio Originale
e che prestano la loro opera con i bambini e con ragazzi disabili e a
rischio. Perciò una ri lessione sui metodi di lavoro di Gancio Originale
signi ica ri lettere 1. sui metodi del lavoro frontale e 2. sui metodi del-la
formazione.
 
1. I metodi del lavoro frontale
Il lavoro frontale, cioè l’insieme delle attività di volontariato che in
concreto si fanno, a dire il vero viene preceduto da alcune importanti
attività.
Innanzitutto vi è una attività di reperimento dei volontari che implica
l’esigenza di programmare e poi effettuare il contatto con i giovani nelle
scuole, nelle parrocchie, fra le associazioni giovanili, ecc.
Già in questo momento ci siamo trovati, in dall’inizio della nostra
attività, di fronte ad un impor-tante nodo metodologico: come far
capire ai giovani che la natura dell’impegno che noi cerchiamo è quella
di un impegno limitato, consistente sempre in poche ore settimanali?
Impegno limitato ma importante per aiutare chi è in dif icoltà?
Il metodo che abbiamo ‘inventato’, e che abbiamo potuto sperimentare
grazie alla collaborazione della scuole medie superiori della città, è
quello dell’abbinamento nel momento dell’incontro con i giovani, che
avviene sempre in scuola, o negli altri luoghi da essi frequentati, tra la
nostra tutor, Mariella Cantini, e alcuni volontari che già hanno lavorato
con noi. L’obiettivo è quello di rendere in questo modo, grazie
all’esempio concreto di chi ha già prestato la propria opera di aiuto con
noi, il meno enigmatico possibile la natura dell’impegno che viene
richiesto ai giovani.
Si vede già in da questo momento come una simile attività di
reperimento sia strettamente le-gata alla natura pubblica del gruppo:
Gancio Originale è infatti un gruppo di volontariato che fa capo all’AUSL
di Reggio Emilia. E la natura pubblica, e cioè non ‘di parte’ di Gancio,
connessa con le precedenti attività svolte da lungo tempo nelle scuole e
nel territorio di Reggio dai servizi terri-toriali per l’infanzia dell’AUSL, è
all’origine del rapporto di iducia che ci lega alle istituzioni, così come è
all’origine della natura iduciaria che ci lega ai giovani,
indipendentemente del loro credo religioso e del loro orientamento
ideologico .
In secondo luogo vi è l’esigenza di abbinare i neo-volontari o ad un caso
individuale di disabilità o di disagio; oppure ad un gruppo: cioè di
inserirli nei workshop o nei laboratori linguistici per i bambini
stranieri. Questo delicatissimo momento di abbinamento viene svolto
da svolto dalla no-stra tutor, che nello stesso momento si propone al
neo-volontario come istanza di tutorship, cioè di aiuto e di guida di
fronte a qualsiasi dif icoltà il neo volontario dovesse incontrare in
itinere.
A costo di sembrare lezioso ed esagerato - ma vi assicuro che non è così
– devo dire che forse la dote di sapere fare gli abbinamenti e di saperli
gestire in itinere, fra le mille doti dell’amica Ma-riella Cantini, è quella
che rende così speciale e, direi, infallibile il suo lavoro.
Il metodo da lei usato ai ini della valutazione delle speci iche vocazioni
dei singoli neo-volontari consiste in una serie di colloqui individuali o
di gruppo all’interno dei quali si cerca di:
Individuare le singole vocazioni, come dicevamo prima, poiché ognuno
di noi ha una propensione particolare al fare operativo, propensione
che va individualizzata e valorizzata;
Continuare ed adattare alle concrete disposizioni, anche temporali, dei
singoli quell’opera di espli-cazione della natura limitata dell’impegno
da noi richiesto;
Avere in mano, nel senso di conoscere bene le insite dif icoltà, i luoghi
di cura etc., delle situazioni a lei segnalate in precedenza dalle équipe di
Psicologia Clinica o di NPI;
Comporre un abbozzo delle linee generali entro le quali si de inisce il
lavoro del singolo volontario (orari, rapporto con i tecnici dell’AUSL,
itinerari, etc) di modo che il dato enigmatico derivante dal fatto che il
giovane volontario non conosce ancora il caso assegnatogli sia, non dico
del tutto eli-minato, ma almeno spogliato dei veli che più pesantemente
e in maniera più ansiogena lo avvol-gono in dal momento in cui egli
stesso, nonostante la presenza di questo dato enigmatico, si è detto
disposto a prestare la propria opera di volontariato.
Segue il lavoro frontale vero e proprio che consiste: - nella
presentazione del caso, o del workshop o del laboratorio linguistico con
cui il volontario è stato abbinato; - nella veri ica della fattibilità per il
volontario degli orari, degli impegni e dei luoghi dell’intervento; -
dell’attività di tutoring dell’attività svolta; - nell’insieme delle veri iche
in itinere e inali.
I metodi con cui viene eseguito il lavoro frontale sono nella discussione
con la tutor e il personale AUSL che già segue il caso o il gruppo, come
abbiamo appena detto, nonché in quell’insieme di pratiche sui disabili e
sui ragazzi a rischio che costituiscono ormai l’ossatura del nostro
operare e che sono riassunte nelle varie pubblicazioni che in questi
dieci anni abbiamo fatto .
 
I metodi della formazione
La caratteristica fondamentale della nostra formazione, in dall’inizio
del nostro operare, è nel nostro proposito di partire sempre dai punti di
crisi che caratterizzano sia il rapporto tra il volonta-rio ed il soggetto, o
il gruppo a lui af idato, sia – più in particolare - il rapporto tra
volontario e Gancio Originale, fra lui e la scuola o le famiglie dei
bambini e dei ragazzi disabili o a rischio.
Ci proponiamo cioè di evitare quel tipo di formazione che potremmo
de inire di tipo narcisistico ed autoesaltatorio che, a nostro avviso, nel
breve periodo può anche produrre dei risultati di tipo propagandistico,
ma che nel lungo periodo non paga poiché, se si pone il rusco sotto il
tappeto – come dicono a Reggio E. – cioè se ci si ri iuta di individuare ed
affrontare di petto i nodi proble-matici dell’operare, tutto ciò che è
messo da parte come qualcosa di fastidioso e di non presenta-bile è
destinato prima o poi a venire a galla e a in iciare più o meno
pesantemente l’operatività.
Ma come si fa ad individuare questi punti di crisi? Innanzitutto
attraverso una continua opera di ri lessione in base alla quale ogni
indizio, sia esso da noi ritenuto all’inizio positivo che negativo, viene
valutato attentamente, ogni voce, ogni pensiero – anche il più
eccentrico – viene preso in considerazione, se non altro per essere
messo lì, in un cantuccio ad aspettare la sua occasione, ogni elemento di
forza che modi ichi la nostra rete sia laicamente sottoposto a veri iche
tendenti a vedere ino a che punto esso possa essere visto come una
risorsa o come un vincolo.
Per questo, anche all’interno di ogni momento formativo viene chiesto
ai volontari di esprimere i loro bisogni formativi e i loro punti di crisi e
l’insieme di queste richieste viene considerato un im-portante
contributo per la de inizione dei futuri momenti formativi.
Spero sia chiaro, però, dopo quanto ho detto che è lontano dal nostro
modo di fare formazione sia il battersi in petto di natura masochista e
immobilizzante, sia quel tipo di genu lessione nei con-fronti delle
esigenze della base che potremmo de inire assemblearismo.
Un’altra nostra abitudine è legata alla natura stessa di Gancio Originale
che presenta un enorme turn over al proprio interno, prodotto dal fatto
che si tratta di un gruppo di volontariato giovanile operante, per di più,
in una città che non ha una rilevante sede universitaria: il che produce
una specie di nomadismo dei nostri volontari . Tale abitudine è ciò un
po’ immodestamente abbiamo de inito: Paganini non ripete! Di modo
che non avviene mai di ripetere la stessa relazione ai nuovi arrivati. Di
ogni relazione precedente però, proprio per questo, viene consegnata
una copia scritta al volontario nel momento in cui egli prende servizio
con noi.
E’ facile capire il perché di questo nostro operare: se avessimo iterato
ogni volta lo stesso pac-chetto formativo da una parte ci saremmo
subito stufati e avremmo ridotto la nostra formazione ad una vuota
litania, dall’altra saremmo rimasti inchiodati su aspetti formativi,
magari importan-ti, ma non rispondenti alle dinamiche esigenze di un
gruppo che si rinnova così tumultuosamente ogni anno.
Avere invece la possibilità e, direi, l’obbligo di aggiornare sempre la
nostra proposta formativa ci permette di disporre di un prodotto fresco
poiché sempre aderente ai sempre nuovi bisogni dei volontari. Avere
però testimonianza scritta dei precedenti momenti di formazione ci
permette di dare in dote a i nuovi arrivati parte del nostro patrimonio
di pensiero e di ri lessione che segna in dall’inizio la loro esperienza
con noi.
Un altro elemento che caratterizza la nostra formazione è nel
reperimento degli esperti all’interno dell’AUSL, quando ciò è possibile, e
all’esterno allorché l’argomento lo impone. In un caso o nell’altro si
chiede sempre all’esperto la sua disponibilità a fare formazione
volontaria-mente, cioè gratuitamente: solo i tecnici che svolgono con
noi degli stage o dei veri e propri corsi sono da noi remunerati per
l’attività da loro svolta.
Un altro elemento importante è l’adeguamento dei metodi formativi
all’argomento all’O.d.G., per cui ci potrà essere di volta in volta la
lezione, il dibattito, il seminario o il lavoro di gruppo, il ca-sework, il
roleplayng, ed in ine quella forma che abbiamo inventato quattro anni
or sono e che tanta fortuna ha avuto fra i nostri giovani, il seminario al
Seminario, cioè un momento stanziale presso il seminario di Marola,
che gentilmente ci ospita, una vera e propria full immersion forma-tiva
teorico-pratica.
In ine abbiamo lo strumento della supervisione degli operatori
(psicologi tirocinanti e studenti di scienze della formazione) che
guidano i workshop e i laboratori linguistici. Questo momento, che
avviene di mattina per esigenze pratiche, solitamente non vede
direttamente coinvolti i volontari, ma ugualmente ha un effetto di
ricaduta sul loro lavoro.
2a parte: Bambini, ragazzi, giovani
I quattro luoghi dell’adolescenza
di Leonardo Angelini
 

1. L'adolescenza da un punto di vista "storico"


 
Parleremo stasera dei quattro luoghi dell'adolescenza.
Il termine adolescenza etimologicamente deriva dal latino "adolescere"
che signi ica, alla lettera, "nutrirsi". Vi è perciò nel termine
"adolescenza" un qualcosa che ha a che fare con il nutrimento e con la
crescita. Quindi, considerato il fatto che ha ragione Erikson quando dice
che psicologica-mente non si smette mai di crescere, potremmo dire
che il tempo dell'adolescenza è il tempo della crescita, per eccellenza.
Se, mantenendoci sempre sul piano terminologico, diamo un'occhiata al
vocabolario Zingarelli ri-leviamo che l'adolescenza viene de inita come
"l'età della vita che sta tra la fanciullezza e l'età adulta, caratterizzata
dalla maturazione sessuale". Quindi "adolescenza", oltre che per tempo
della crescita, sta anche per tempo del passaggio all'età adulta.
Se noi guardiamo ora al problema non più in termini etimologici, ma in
termini antropologici e storici scopriremo che in qualsiasi società esiste
un tempo del passaggio, della crescita, che tale tempo è diverso da
società a società, poiché ogni cultura affronta e risolve il problema del
pas-saggio in maniera diversa, ma che ogni società non può esimersi
dall'affrontarlo con cerimonie di passaggio che segnano l'uscita da una
fascia d'età e l'ingresso in un'altra fascia. Ad esempio in tutte le culture
mediterranee preistoriche il passaggio veniva affrontato attraverso un
insieme di cerimonie che duravano qualche ora o qualche giorno e che
consistevano nel condurre in un labi-rinto il gruppo dei ragazzi e delle
ragazze che stavano uscendo biologicamente dalla fanciullezza. Questo
labirinto non corrispondeva, come comunemente oggi intendiamo, al
luogo in cui ci si per-de, ma era un luogo concavo, una specie di grande
utero in cui si entrava fanciulli e si usciva adul-ti. In questo modo e con
questa cerimonia veniva mimata una rinascita. I nostri progenitori
affron-tavano questo passaggio dalla fanciullezza all'età adulta
coinvolgendo tutta la comunità.
Per fare un altro esempio, più legato all'oggi, alcuni popoli primitivi
dell'Africa centrale che hanno scarsi contatti con la civiltà, ancora oggi
ritualizzano il momento del passaggio con cerimonie che spesso si
accompagnano a tutta una serie di atti di coraggio, quali rimanere per
un determinato tempo soli nella foresta, procurarsi da soli il cibo, o
rimanere per un determinato periodo di tem-po digiuni, sottoporsi alla
circoncisione, etc).
Alcune culture, quasi a voler sottolineare l'elemento di discontinuità
che vi è in questo passaggio, in questo trapasso da una età ad un'altra,
prevedono addirittura un cambiamento di nome per il giovane o la
giovane che stanno per diventare adulti. Ciò è in contrasto con la nostra
tendenza ad armonizzare quello che eravamo (fanciulli) con quello che
diventeremo (adulti), ma può essere, in ogni caso, una soluzione al
problema della crisi di identità che prende tutti gli individui, di qualsia-
si cultura essi siano, di fronte al cambiamento. Un altro esempio che
viene da un mondo più vici-no a noi è quello costituito dalle cerimonie
di apprendistato. Coloro che, nella cultura artigiana di un paese del Sud
degli anni '50, non proseguivano gli studi e venivano inseriti
precocemente nel mondo del lavoro entravano nel gruppo di lavoro
secondo una procedura altamente cerimonializ-zata che era diversa a
seconda del mestiere, dell’arte all'interno della quale si entrava.
Se noi consideriamo invece la società odierna constatiamo che oggi ci
troviamo di fronte a un tempo della crescita che si prolunga sempre di
più: quella che in una cultura primitiva era una ce-rimonia che si
concludeva in pochi giorni, o in poche ore, diventa oggi una complessa
procedura che si dipana in un tempo molto dilatato, e de inito in base a
quelle che sono le odierne esigenze della produzione.
Per comprendere il perché di tale prolungamento del tempo del
passaggio, nonchè della macchi-nosità e, nel tempo stesso , della scarsa
visibilità delle cerimonie del nostro passaggio, occorre partire da una
analisi delle esigenze produttive della nostra società. Oggi per formare
una forza lavoro capace di essere al passo con lo sviluppo tecnologico è
necessario allungare i tempi di for-mazione, per cui, ad esempio, oggi si
parla di elevare l'età dell'obbligo ino ai 16 anni poiché al-trimenti non
saremmo in grado di formare lavoratori adatti a svolgere i lavori che lo
sviluppo tec-nologico richiede.
Ebbene il concetto odierno di "adolescenza" è legato a questa
dilatazione, è iglio di questa dila-tazione, dovuta alle nostre esigenze
formative che, a loro volta, sono legate alle nostre esigenze produttive.
Concludendo su questa prima parte, diciamo così, terminologica e
storica, possiamo constatare come in questi ultimi anni ci sia stato un
ultimissimo cambiamento nel signi icato del termine "adolescenza":
ino a poco tempo fa il tempo e il luogo dell'adolescenza erano
abbastanza immu-ni da ingerenze esterne, erano tempi e luoghi "a
parte" in cui l'adolescente si rintanava, lontano dal mondo degli adulti,
geloso della propria appena scoperta intimità ( i luoghi e i tempi
dell’isola che non c'é di Peter Pan, tanto per intenderci).
Ebbene questo luogo oggi (cioè nell'ultimo ventennio) é stato occupato
dai mass-media, per cui non é più "l'isola che non c'é" al di fuori del
tempo e dello spazio, ma un luogo dove il tempo vie-ne scandito in
maniera molto precisa dalla società degli adulti: la pubblicità, ad
esempio, che con le mode che riguardano l'abbigliamento, il cibo, i
divertimenti, etc, impone un determinato ritmo al tempo
dell'adolescente, ne occupa gli spazi, inisce con l'abbattere i con ini
dell’isola che non c'è e di introdurre l'adolescente (ed anche il bambino,
ormai) nel mondo degli adulti, violando l'intimità dell'adolescente
prima ancora che si sia formata.
 
 
2. I quattro luoghi dell'adolescenza odierna
 
Possiamo considerare l'adolescente della nostra società come un
viandante che frequenta o, al-meno, si propone e si attrezza a
frequentare 4 luoghi:
a) la famiglia;
b) il gruppo;
c) la coppia;
d) lo star da soli.
Tutta la sua esperienza si svolge su questi scenari che, di volta in volta,
potranno essere luoghi ri-cercati o fuggiti, luoghi di tranquillità o di
con litto, luoghi di arricchimento o di impoverimento.
Pertanto sapere come l'adolescente vive e si serve di questi luoghi
signi ica, in fondo, sapere cos'è l'adolescente dei giorni nostri.
Prima di addentrarci in questi luoghi, però, potrà essere utile vedere
quali sconvolgimenti deriva-no dal prolungamento nel tempo
dell'adolescenza odierna, prolungamento le cui ragioni abbiamo visto
nel paragrafo precedente e che per alcuni, per coloro che frequentano
l'università, ad esem-pio, va ben al di là della soglia dei 18\19 anni, età
in cui si vota, si fa il servizio militare, etc., età insomma che solitamente
oggi si considera come spartiacque fra adolescenza ed età adulta.
Perché un individuo possa considerarsi adulto è necessario che dentro
all'adolescente scattino 3 timer:
1) un primo "timer" di carattere biologico costituito dal sopraggiungere
del menarca nella ragazza e della capacità erettiva del ragazzo;
2) un secondo "timer" di tipo emozionale che implica l'acquisizione di
una piena genitalità intesa sia come capacità orgastica, sia come
capacità di sublimazione degli istinti e perciò di accesso all'attività
creativa e critica;
3) ed in ine un terzo "timer" di natura "economica" che implica il
raggiungimento dell'autonomia e la conseguente capacità di
programmare il proprio futuro in termini responsabili e indipendenti
dalle leggi eteronome issate dai genitori e dagli altri adulti da cui ino
all'adolescenza si dipende.
Come abbiamo visto in molte società con esigenze formative (e
produttive) più semplici delle no-stre i tre timer scattano quasi
all'unisono, in altre società i timer scattano ad una certa distanza
temporale l'uno dall'altro, ma secondo un iter che rimane ugualmente
molto cerimonializzato. La nostra società non solo dilata i tempi della
crescita e del passaggio, ma - fatto non sempre consi-derato con la
dovuta attenzione - non marca più con cerimonie visibili questo
passaggio e, nel far ciò, inisce con il gettare sulle spalle
dell'adolescente tutto il peso della crisi di identità che ac-compagna
questa fase. Blos in proposito parla di una vera e propria seconda
individuazione per il giovane: ebbene in questa fase delicatissima molte
istanze formative, educative (ad esempio la scuola) non sembrano esser
coscienti del fatto che uno dei compiti, o dei "meta-compiti", loro af-
idati è quello di cerimonializzare il passaggio all'età adulta dei ragazzi
loro af idati, di diventare dei veri e propri sacerdoti del passaggio.
Detto questo accingiamoci ora ad un breve viaggio nei quattro luoghi in
cui "si spende la miglior parte" dei giovani d'oggi, nel tempo, ormai
lungo, in cui si accingono, "lieti e pensosi", a "salire" "il limitare" della
loro gioventù.
 
 
2a) L'adolescente e la famiglia
 
Il primo luogo di cui parleremo è quello in cui il ragazzo vive "da una
vita": quello più domestico, più conosciuto, che pure - come vedremo -
all'improvviso diventa un luogo nuovo in cui la posizio-ne degli attori, il
canovaccio che essi recitano sul palcoscenico delle quattro mura
domestiche cambiano quasi da un giorno all'altro, ponendo spesso in
crisi anche i genitori, da troppo tempo ormai abituati ad assumere un
ruolo centrale presso i loro igli e che vedono messa in crisi la so-larità
della loro posizione precedente.
Il con litto fra adolescente e famiglia, banalizzando e frammentando un
processo che altrimenti è continuo e altalenante, io uso scandirlo in
questo modo:
Si va da una fase ‘A’ , fra la nascita e l’ingresso in preadolescenza, in cui i
genitori sono in posizione, appunto, solare e i bambini orbitano intorno
a loro. Vi è già una tensione fra Idem e Autos nel bambino, cioè fra
"essere identico a.." (Idem) ed emergenza come individuo autonomo
(Autos) (Napolitani). Ma ino alla ine della fanciullezza nessuno di
sogna di porre in dubbio la posizione solare dei genitori in questo
sistema.
 
B - Nella seconda fase, che prende tutta l’adolescenza e che oggi si
estende per molti giovani anche ino alla ine della postadolescenza (cfr.
in proposito il prossimo articolo del presente volume), l'adolescente
comincia sempre più a sperimentare le proprie capacità di essere
autonomo e indipendente. Questa sperimentazione, che all’inizio è una
pretesa, poi diventa sempre più un terreno in cui il giovane, se le cose
vanno suf icientemente bene, mostra realmente di essere in grado di
de inirsi come autonomo e di possedere un proprio pro ilo individuale.
Viene messa in crisi, in questo modo a poco a poco, la solarità della
posizione genitoriale.
C - In ine l'avvento dell'età adulta è contrassegnato dalla capacità
tendenziale a "creare nuove unità", cioè a vivere pienamente la propria
genitalità, la propria produttività intesa sia in termini simbolici che
letterali.
 
 
2b. L'adolescente e il gruppo dei pari.
 
Il gruppo, non solo per l'adolescente, può essere visto come un
caleidoscopio, o come una camera degli specchi che ci permette di
vedere ri lesse in ogni componente del gruppo, e nel gruppo nella sua
interezza, varie parti di noi.
Ciò però è particolarmente importante in adolescenza dal momento in
cui il soggetto che si ri-specchia nel gruppo, e cioè l'adolescente, da una
parte, come abbiamo detto prima, è un sogget-to in rapida
trasformazione, dall'altra, in un certo qual modo, pur avendo
frequentato gruppi esterni alla famiglia da lungo tempo, non ha mai
fatto degli investimenti così massicci su di essi come quelli che si
appresta a fare in adolescenza. Ciò perché, mentre ino alla fanciullezza
ha preferito rispecchiarsi sul versante familiare, ora, in preadolescenza
soprattutto, sente come ormai vecchie e stantìe le immagini parentali, e
si sente più disposto a trovare fuori delle quattro mura domestiche
nuovi modelli cui ispirarsi, nuovi soggetti con cui parametrarsi.
Cosicché l'adolescente può provare ad avventurarsi nel gruppo per
conoscere le parti di sè con cui ino ad allora ha avuto meno con idenza,
cosa che prima non riusciva a fare, per poi magari ritirarsi, non
riconoscendosi, non identi icandosi ino in fondo con gli altri
componenti del gruppo, quando queste parti, da loro rappresentate e
con le quali l'adolescente non ha gran con idenza, diventano troppo
minacciose per la sua integrità personale. Quindi in questo gioco di
rifrazioni per l'adolescente é possibile ritrovare tutte le varie
colorazioni, tutte le varie parti, tutti i vari "personaggi" da cui è abitato,
tutte le varie introiezioni che nelle esperienze precedenti ha avuto
modo di fare in maniera più o meno integrata.
Quanto detto in queste ultime righe ci permette di capire anche quando
è che il gruppo non funziona bene: infatti se il gruppo funziona come
abbiamo detto inora diventa un luogo di arricchimento, mentre se
ripete in maniera monomaniacale sempre la stessa immagine, se mette
in moto solo e sempre lo stesso introietto diventa un luogo di
impoverimento: è questo il caso, ad esempio, del gruppo delinquenziale
che ripete in modo monomaniacale sempre la stessa immagine, lo
stesso agito, quello delle parti distruttive, aggressive.
 
 
2c.L'adolescente e la coppia
 
All'interno dei gruppi preadolescenziali, solitamente verso la ine
dell'adolescenza, si formano dei sottogruppi. Sempre in base ai processi
di identi icazione, cioè, è possibile che nel gruppo si de i-niscano delle
alleanze composte da amici o amiche "del cuore", delle alleanze dalle
quali nascono delle vere e proprie coppie omoerotiche (non
omosessuali, cioè basate su forti correnti erotiche sublimate
nell'amicizia, e non sulla messa in atto delle pulsioni sessuali), cioè
coppie di adole-scenti dello stesso sesso che de iniscono per ciascuno
di noi la base sulla quale si stabilisce la nostra disposizione successiva a
stringere le amicizie profonde. La coppia omoerotica, é l'anticamera
della coppia eterosessuale, é come un ponte tra il gruppo
preadolescenziale e la coppia ete-rosessuale, che nello stesso tempo
però diventa il luogo in cui "ci si allena" a quel comune sentire, a quel
giocare sul piano delle amicizie che sarà molto fecondo di scambi e di
arricchimenti nella vita adulta.
In termini di maturazione psicologica la disposizione ad una vita di
coppia rappresenta un salto che porta l'adolescente dalla endogamia,
cioè dai legami esclusivi all'interno della famiglia, alla esogamia, che va
vista come generatività, come possibilità di "mettere al mondo dei igli"
sia in termini materiali, sia pure in termini simbolici, generatività che
viene giocata non più dentro la famiglia d'origine ma fuori di essa.
Cosicchè quando parliamo della capacità emozionale da parte
dell'adolescente di de inirsi come adulto, noi parliamo della capacità
del giovane di immaginarsi e proiettarsi in un futuro, di de inirsi sul
piano dell'autorappresentazione come capace di genera-tività. E nel far
questo non bisogna pensare che ci sia bisogno di un partner, ma della
disposizione interna a coniugare ed a coniugarsi: a coniugare parti di sè
che nel frattempo di vanno scoprendo nei quattro luoghi di
sperimentazione, ed a coniugarsi, ad unirsi con quei membri della
comunità con i quali si sente più in sintonia.
E, mentre in un primo tempo, in preadolescenza, questa capacità di
uscire fuori dalla famiglia d'origine e sentirsi autonomi, passa
attraverso la ribellione, quando si avvicina al "limitare di gioventù" il
giovane non sente più il bisogno della ribellione poiché è già sicuro dei
suoi limiti e delle sue possibilità di adulto. Alla pro\vocazione del
preadolescente, che è un richiamare l'attenzione su di sè poiché non si è
sicuri di se stessi, segue ora una più piena e tranquilla generatività che,
ripeto, può essere giocata sia sul piano materiale che simbolico, sia su
entrambi i piani.
 
 
b4. Lo stare da soli dell'adolescente
 
Il terreno "principe" di sperimentazione dello stare da soli é proprio
quello della ribellione, che rappresenta la via attraverso la quale
l'adolescente impara ad andare da solo nel mondo nella misura in cui
mette inizialmente alla prova se stesso e gli altri - soprattutto le
persone care- attra-verso una serie in inita di prove. In questa età
l'esigenza principale é quella di trovare un luogo al nostro interno, che
è nostro e solo nostro, all'interno del quale il preadolescente impara ad
auto-rappresentarsi, e lo fa prima in maniera "mitologica" (è questo il
momento in cui è più attivo den-tro di noi quel "personaggio eroico" di
cui abbiamo parlato in un precedente nostro incontro), poi in maniera
sempre più realistica. Questo luogo intimo può essere visualizzato
come quel luogo psicologico in cui é possibile fare tutte le esperienze,
per lo meno sul piano immaginativo (per cui questo luogo è anche il
luogo della masturbazione in cui l'adolescente impara a conoscere il
proprio corpo ed i propri desideri sessuali). In questo modo
l'adolescente costruisce lentamente dentro di sé quello che, crescendo,
egli va diventando, quello che vorrebbe essere, la propria progettualità,
il proprio futuro. E' un terreno di crescita interna che si forma come
raddoppiamento di quello che si è fuori e come capacità di ri lessione
sull'esperienza vissuta che si conclude proprio nella de inizione di se
stessi come individui soli, intendendo per "soli" l'essere autonomi, cioè
essere capaci di de inirsi in base ad una propria legge.
Questo processo, come dicevamo prima, nella nostra società é molto più
complicato che nelle società più semplici per via del nostro lungo iter
formativo, ma è complicato anche per un'altra ragione, legata alla
natura particolare del nostro essere soli, che adesso cercherò di
spiegare. Il fat-to è che nella società attuale a ciascuno di noi è richiesto
di raggiungere una propria identità in-dividuale e non solo di gruppo.
Nelle società più semplici a ciascun componente viene richiesto di
raggiungere solo una specie di identità gruppale in cui tra i membri del
gruppo non c'é alcuna di-stinzione signi icativa sul piano delle singole
particolarità. La s ida che impone la nostra società è invece quella di
diventare un individuo nel senso più pieno del termine e di diventarlo
senza un aiuto esplicito, cerimonializzato, direi consapevole, da parte
delle varie istanze formative che sono investite nel periodo di crescita e
di trasformazione dell'adolescente in adulto.
 
Bibliogra ia:
 
- Amerio e Borgogno; "Introduzione alla psicologia dei piccoli gruppi",
Giappicchelli TO, 1975.
- Blos: "L'adolescenza" Franco Angeli, MI, 1980.
- G. Fara e C. Esposito: "Fantasia e ragione nell'adolescenza". Il Mulino,
BO, 1984.
- A. Freud: "l’Io e i meccanismi di difesa", Martinelli, FI, 1967.
- D. Kiley: "Gli uomini che hanno paura di crescere: la sindrome di Peter
Pan" Rizzoli, MI, 1985.
- G.Levi-Strauss: "Razza e storia ed altri studi di antropologia", TO,
Einaudi, 1967.
- D.Napolitani: "Individualità e gruppalità" Boringhieri, TO, 1987.
- J.Piaget: "Dal bambino all'adolescente: la costruzione del pensiero"
Nostra Italia Ed., FI, 1969.
- D. Winnicott: "Il dibattersi nella bonaccia" in: "La famiglia e lo
sviluppo dell'individuo" A. Ar-mando, Roma, 1976.
Dall’etica padana del lavoro all’estetica consumista:
l’adolescente reggiano di oggi a confronto con
quello di ieri (e di avant’ieri)
di Leonardo Angelini
 

L’adolescenza, le adolescenze

Etimologicamente il termine adolescenza deriva dal latino adolesco che


signi ica mi nutro.
Allorché si parla di adolescenza quindi si allude a quel tempo e a quello
spazio in cui il ragazzo prima ed il giovane, poi, hanno bisogno di
nutrirsi per crescere, per forti icarsi nel proprio processo di crescita
psicologica che li porterà dalla fanciullezza all’età adulta.
Così come avviene nelle iabe, in cui sempre il nutrimento materiale
allude al nutrimento spirituale, nell’etimo del termine adolescenza vi è
quindi una allusione ad un processo spirituale lungo il quale ci si
forti ica e ci si arricchisce. Un processo di passaggio, più o meno
cerimonializzato, come vedremo fra un po’, che richiede un tempo e uno
spazio ad hoc, distinti da quelli dell’infanzia, così come da quelli adulti.
Un processo in cui, come in ogni grande cambiamento, all’inizio si sa
che non si è più ciò che si era, ma non si sa (1) affatto ciò che si sta
diventando. Un processo, in ine, che implica la costruzione di un
progetto, e quindi di una idea sul proprio futuro in un aspro confronto
con le vecchie e nuove imago genitoriali ideali da demolire, da
ricostruire, da levigare, da agglutinare, da de-idealizzare, alla ine, e da
adattare alle esigenze reali del mondo del lavoro ed alle coniugazioni
possibili nel mondo degli affetti, una volta diventati adulti.
Da una indagine storica ed antropologica emerge poi un secondo dato
in tema di passaggio: ogni società, infatti, de inisce una propria
modalità di passaggio, delle proprie cerimonie di passaggio; per cui non
esiste una adolescenza, ma tante adolescenze, alcune delle quali sono
così brevi che si esauriscono nell’atto stesso del passaggio, di modo che,
così come è fondata l’opinione di chi, al di là delle differenze
riscontrabili in ogni società, de inisce l’adolescenza in base al criterio
uni icante costituito dall’unanime signi icato che il passaggio assume in
qualsiasi società (Jeammet), altrettanto è quella di chi, ponendo in
primo piano non il tema del passaggio, ma quello del tempo per la
crescita, afferma che in determinate società tale tempo è così breve che
appare improprio, in questi casi, parlare di adolescenza (Easson).
Per comprendere le ragioni in base alle quali vi è, da una parte, una
pluralità di modelli di passaggio, dall’altra una esigenza - comune a
tutte le culture - di cerimonializzare il passaggio, occorre partire dal
signi icato della cerimonializzazione.
Essa rappresenta, secondo l’antropologia e la psicoanalisi, un tentativo
di elusione delle ansie e delle angosce collegate al lutto derivante da
una perdita, reale o simbolica, sentita come tale sia dal soggetto che da
tutta la società. L’atto della cerimonializzazione, anzi, al di della
singolarità dei contenuti delle varie cerimonie, è la modalità difensiva
gruppale attraverso la quale in tutte le culture si esprime il lutto (Van
Gennep).
Nel caso dell’adolescenza: - la perdita consiste nella ine della
fanciullezza del soggetto e nel suo passaggio ad un nuovo stato, quello
adulto (il che equivale, in termini simbolici, ad una morte e ad una
rinascita); (2) - la cerimonia consiste in una serie di modalità gruppali
di separazione, marginalizzazione e riaggregazione, che ogni società
assume per accompagnare il giovane lungo questo tragitto.
La natura gruppale dei riti di passaggio trova la sua ragione di fondo nel
fatto che, di fronte all’angoscia derivante dal cambiamento, e di fronte
soprattutto all’ineluttabilità del cambiamento, non è solo il ragazzo in
crisi, ma tutta la società che, ino all’ingresso nell’età adulta degli ex
bambini e dei non ancora adulti, non sa come e dove collocare i soggetti
in cambiamento. E’ per questo che cerimonializzare il passaggio serve,
da sempre ed in ogni luogo, ad esorcizzare l’ansia e l’angoscia derivanti
da questo stato di sospensione e di confusività.
L’immagine più archetipica di cerimonializzazione del passaggio, nella
nostra cultura, è quella del labirinto. Noi siamo abituati a pensare al
labirinto come ad un luogo in cui facilmente ci si può perdere. Questa,
però, come ci insegna Kern, è un’immagine recente di labirinto. In
effetti, secondo i paleontologi, l’immagine originaria del labirinto era
quella di un luogo in cui ci si perdeva e ci si ritrovava : ci si perdeva
come bambini e ci si ritrovava come adulti. Luogo elettivo quindi di
rinascita psicologica che veniva proposto, a cavallo della crisi puberale
(arrivo del menarca e della capacità erettiva), a ragazze e ragazzi al ine
di aiutarli a ri\de inirsi, a ri\collocarsi nella gerarchia sociale, a
ri\identi icarsi come adulti.
Rito di passaggio, quindi, e rito di iniziazione all’età adulta, che veniva -
come ogni rito - cerimonializzato dalla comunità attraverso una
procedura che consisteva nell’ingresso e nell’uscita dal labirinto, che in
questo modo era visto come una specie di utero sociale che aveva in sé
la possibilità di togliere il non più bambino ed il non ancora adulto da
una penosa e pericolosa condizione di assenza di signi icato e di ri-
collocarlo, alla ine della cerimonia, all’interno del più confortevole e
meno angosciante universo di cose conosciute e de inite.
Condizione penosa per il soggetto appena pubere e pericolosa per la
società di cui quel soggetto faceva parte poiché non de inibile
all’interno di codici certi che ne permettessero il riconoscimento e la
discriminazione.
La mimesi della rinascita, rappresentata letteralmente attraverso
l’ingresso e l’uscita, di fronte a tutta la comunità, del neopubere nel e
dal labirinto permetteva un rapido ingresso nel mondo degli adulti,
riducendo il momento di pericolosa discontinuità (menarca e capacità
erettiva ) e la conseguente situazione di liminarità ad un insieme di atti
dovuti e cerimonializzati che favorivano la ricomposizione del corpo
sociale come un tutto esplicato in ogni sua manifestazione, comprese
quelle che, come la crisi puberale, altrimenti avrebbero rischiato di
minare alle fondamenta l’armonia e la pace fra le generazioni.
Ma allo stesso modo, ad esempio, facendo un salto di molti secoli,
attraverso la ritualizzazione dell’apprendistato in precise tappe,
scandite nel tempo (nel primo anno si devono imparare le tali cose, le
tali altre nel secondo, eccetera), de inite nello spazio (la bottega
artigiana), e sancite dalla società, era possibile, ino a non molto tempo
fa, intravedere un percorso certo che conduceva l’apprendista a
diventare un artigiano e, potenzialmente, un maestro. E la stessa
goliardia che cos’era, in ultima istanza, se non una (odiosa) cerimonia
di passaggio e di iniziazione all’età adulta per i futuri laureati?
 
 
Riti di passaggio oggi
 
Queste le cerimonie di ieri. Ma oggi la situazione è paragonabile a
quella di ieri? Cerchiamo di capire quali sono i tratti distintivi della
situazione odierna.
Oggi intanto assistiamo ad una dilatazione dei tempi della formazione
che prende un numero crescente di giovani e che ha spinto gli scienziati
sociali a individuare un nuovo soggetto, il postadolescente, che occupa
un nuovo spazio fra l’adolescente vero e proprio e l’adulto, nuovo
spazio nato in base alle nuove e più complesse esigenze formative, nate
nella società industriale avanzata.
Un secondo elemento che emerge da un’analisi della società attuale e
dagli elementi di complessità in essa presenti è che oggi non esiste più
un solo modello di passaggio, ma una serie di modelli che coesistono e
che si declinano in base alla classe sociale di appartenenza del giovane,
per cui chi termina gli studi presto, o molto presto, ha un modello di
ingresso nell’età adulta diverso da chi termina gli studi tardi, o molto
tardi e, specie in una società come la nostra, è costretto a rimanere in
casa (Scabini).
Un terzo dato che risulta chiaro agli occhi dello scienziato sociale è,
conseguentemente, l’assoluta non coincidenza fra maturazione
biologica e maturazione intesa in termini psicosociali. Una non perfetta
coincidenza fra il polo biologico e quello psicosociale, secondo Van
Gennep, è riscontrabile in qualsiasi gruppo sociale; ma questo diventa
particolarmente evidente oggi, ed assume elementi di criticità
importanti, come vedremo fra un po’, allorché l’ingresso nell’età adulta
viene procrastinato fortemente, come abbiamo appena visto, per un
numero crescente di giovani, per i quali si va dilatando a dismisura
quella specie di Isola che non c’è, lontana dal mondo del lavoro e della
produzione, che è l’adolescenza (e la postadolescenza) attuale.
Cosicché, nelle culture tradizionali, gli elementi di fondo che de inivano
la ritualità del passaggio consistevano: - in un alto tasso di
cerimonializzazione del passaggio, - nella presenza di sacerdoti che
of iciavano scientemente il passaggio, - e nel fatto che tutto il rito si
svolgeva palesemente di fronte a tutta la comunità. Si de iniva così, in
quelle comunità, una ritualizzazione del passaggio che diventava un
importante strumento di difesa gruppale contro le ansie e le angosce
derivanti, in tutti i membri della comunità, dalla incerta collocazione
dei neo iti.
Nella nostra società invece, come afferma Le Breton, il giovane affronta
il passaggio sempre più solo e senza il conforto di cerimonie sociali che
attestino, agli occhi di tutta la società, il suo ingresso nella comunità
adulta. Questa cerimonia privata di passaggio, questo rito intimo
parallelo (Le Breton) da un lato testimonia l’importanza per il giovane
di dotarsi di segnali che attestino il cambiamento, dall’altra ci lascia
capire che la società adulta non sembra avere più al proprio interno
quei sacerdoti of icianti il passaggio che nelle società tradizionali
svolgevano l’importante funzione di rendere sociale, e cioè condiviso da
tutta la comunità, il passaggio stesso.
O meglio, come affermano Vanni e Sacchi, vi è una istituzione, la scuola,
che attraverso il passaggio da una classe all’altra, da un ciclo all’altro
oggettivamente svolge tale funzione agli occhi del giovane, una
istituzione però che non sembra (sempre) cosciente del signi icato che
tali attestazioni hanno per il giovane (3) .
Un secondo importante elemento tipico della società contemporanea è
la nascita di un nuovo tipo di famiglia, la famiglia prolungata (Scabini)
nata essenzialmente dalla dilatazione dei tempi del passaggio
dell’adolescente all’età adulta. Nella famiglia prolungata, come afferma
la Scabini, due generazioni adulte, quella dei genitori e dei igli post-
adolescenti, convivono per un certo periodo di tempo, dando luogo a
nuove dinamiche intergenerazionali che consistono, per il giovane,
nella forzosa compressione delle proprie tendenze alla autonomia e per
la società nel pericoloso venir meno dell’elemento della rottura
generazionale, cioè di quel seme del cambiamento che, in società
tradizionali, veniva visto con sospetto, ma che, in società dinamiche
come la nostra, era - ino a pochi anni fa - il lievito che premetteva alla
società stessa la necessaria opera di adattamento alle rapide
trasformazioni prodotte dalla tecnologia.
La società reggiana di oggi a confronto con quella di ieri e di avant’ieri
Partiamo dal confronto fra i tre censimenti del 51, del 71 e del 91.
Distribuzione percentuale degli occupati nei tre censimenti presi in
considerazione
ANNI DEL CENSIMENTO
SETTORE
AGRICOLO
SETTORE INDUSTRIALE
SERVIZI
ALTRO
1951
55,1
25,I
19,3
0,5
1971
2I,2
47,0
31,2
0,6
1991
6,6
44,7
48,1
0,6
 
I dati che risalgono al 1951 mettono in risalto una società di tipo
contadino e protoindustriale che basa la propria economia
prevalentemente sull’agricoltura: il 55,1% della popolazione attiva in
questo periodo è occupata in questo ramo di attività economica, mentre
l’industria, dopo una espansione degli anni bellici, non solo è arretrata,
ma attraversa una profonda crisi di riconversione che vede, in tutta
l’Emilia e Romagna, il numero degli occupati in questo settore
diminuire rispetto anche al periodo prebellico (4): ciò a causa sia delle
distruzioni belliche, sia per le dif icoltà a riconvertirsi in industria di
pace.
Da un’analisi della struttura della famiglia reggiana nel 1951 risulta la
prevalenza, specie fra i contadini e gli artigiani, della famiglia allargata.
La famiglia allargata, o plurinucleare, ha i suoi capisaldi
nell’autoconsumo e nella conseguente marginalità rispetto al mercato,
nella realizzazione del Sé individuale di ciascun componente all’interno
di un Sé familiare che lo comprende e lo condiziona, “in una concezione
dell’autorità parentale rigida e pervasiva che vede il capofamiglia
maschile presiedere ai lavori extradomestici e che si tramanda da
primo iglio maschio a primo iglio maschio, e la capofamiglia femmina
– la cosiddetta resdòra (reggitrice) – che è la moglie del primogenito e
che dirige gli affari domestici” (A. Angelini). Sottoposto a questa duplice
autorità, incapsulato in questa rigida gerarchia, e costretto a questa
vicinanza forzosa con la parentela meno stretta, l’individuo reggiano di
quei tempi era meno autonomo ed individualizzato di quello attuale,
con un enorme peso morale sulle spalle che lo portava a ritenersi
perennemente legato alla famiglia, sia sul piano lavorativo sia su quello
privato ed intimo.
I dati del 1971 mostrano come ormai il settore agricolo stia diventando
marginale e come la forza-lavoro si indirizzi prevalentemente verso il
settore industriale: il 47% della popolazione attiva occupa questo
settore contro il 25,3% del 1951, e l’agricoltura diminuisce al 21,2%
contro, come abbiamo visto a più della metà della popolazione che
svolgeva questa attività nel 1951. La struttura economica di Reggio
Emilia risente positivamente dei bene ici effetti del boom economico
degli anni sessanta come gran parte del Nord. In meno di dieci anni è
nata una nuova realtà industriale. La vera e propria inversione, in
termini percentuali, degli occupati nell’industria e nell’agricoltura in
questi venti anni è importante sia per la rilevanza dell’incremento degli
occupati nell’industria, sia per il decremento fra gli occupati in
agricoltura. Infatti questo secondo dato, affermano sempre Basini e
Lugli, avvicina Reggio Emilia elle società industriali di prima e di
seconda generazione
Cosicché degli anni cinquanta dalle campagne, dalle ville (5), la
popolazione si sposta nel centro cittadino, e da contadina si trasforma
in operaia e impiegatizia. Alla lunga questi elementi sono destinati a
sconvolgere anche il pro ilo della famiglia reggiana, e soprattutto quello
della famiglia contadina. Si pensi al dato dell’inurbamento: la stessa
struttura della casa cittadina, insieme agli altri importanti elementi che
abbiamo appena visto, implica l’abbandono della famiglia unita e
l’enorme ampliamento della famiglia nucleare, con un inizio di un
processo di emancipazione dalle autorità familiari tradizionali
destinato a crescere e in quest’ultimo ventennio ed a porre le basi per
ulteriori cambiamenti.
 
A i dati del censimento del 1991, in ine, ci fanno vedere come la
struttura della realtà reggiana in questo periodo si vada sempre più
con igurando come una società postindustriale e terziarizzata. E ciò è
rilevabile, da una parte, a partire dal fatto che quasi la metà della
popolazione attiva di Reggio Emilia, nel ’91, è impegnata nel settore dei
servizi, dall’altra dal fatto che, anche rispetto ai dati del ’71, è cambiata
la qualità del terziario, che – da arretrato che era ino al ’71 - ora
diventa avanzato, cioè sempre più concentrato sul piano della
comunicazione e nella inanza.
L’attività industriale in questi ultimi anni è ancora rilevante, anche se il
dato del 44,7, risulta oggi inferiore sia rispetto quello degli occupati nel
settore dei servizi, sia rispetto al dato degli occupati nell’industria
stessa del 1971. Da una recente rivelazione compiuta dall’Osservatorio
per le famiglie di Reggio Emilia emerge una nuova isionomia della
famiglia reggiana che appare ormai come un quadro strutturale
complesso, ormai mille miglia lontano dagli assiomi della famiglia
contadina, e analogo sotto molti pro ili a quello che va emergendo oggi
in tutta Europa. I dati raccolti mostrano una netta prevalenza di nuclei
semplici, con una scomparsa della tradizionale struttura plurinucleare,
di tipo patrilineare e con l’emergere della famiglia prolungata, a ianco
di quella nucleare, all’espansione della famiglia mononucleare, ed – in
ultima istanza - ad un complessivo aumento del numero di famiglie,
unito alla contemporanea diminuzione della loro dimensione media. La
famiglia in questo modo resta un punto di riferimento importante per
l’individuo, anche se il fulcro dell’identità individuale per quest’ultima
generazione appare come sempre più spostato sugli assiomi della
libertà del singolo, che diventa così sempre più unico e non omologabile
alle altre entità familiari.
 
 
L’adolescente reggiano di oggi a confronto con quello di ieri e di
avant’ieri
 
All’interno di una società così dinamica, che – grazie ad alcuni elementi
congiunturali favorevoli - nell’arco di un quarantennio ha compiuto il
passaggio da una società contadina ad una società postindustriale, la
struttura della personalità ha subito una serie di cambiamenti in base
ai quali si può dire che ad una personalità centrata su una sorta di etica
padana del lavoro, sia succeduta, nell’arco di due generazioni, una
personalità centrata su un’estetica consumista.
E’ il primo dato che va considerato, nel raffrontare l’adolescente di oggi
con quello di ieri e di avant’ieri, è costituito proprio dalla velocità del
passaggio. Come affermano Basini e Lugli, Reggio in particolare, e
l’Emilia in generale, sono stati sottoposti in questo quarantennio ad un
processo di cambiamento che in Inghilterra ed in Francia sono avvenuti
nell’arco di centocinquanta anni. Il rischio sul piano della identità e
della coesione sociale in situazioni di rapidissimo mutamento sociale, è
quello dell’ingenerarsi di una situazione di anomia (Durkheim) in cui i
soggetti hanno l’impressione che i vecchi valori siano diventati obsoleti
e che i nuovi valori siano ancora incerti ed appena abbozzati.
In secondo luogo, se abbandoniamo la prospettiva sociologica e
guardiamo al fenomeno da un punto di vista etnoanalitico, possiamo
dire che sia il carattere etnico dei giovani reggiani, e cioè l’insieme dei
comportamenti previsti a livello sociale, sia l’inconscio etnico, e cioè
l’insieme dei comportamenti socialmente rimossi (Devereux), siano
profondamente mutati in questo quarantennio in modo che la struttura
della personalità individuale e sociale ha de inito nel tempo modelli di
appartenenza profondamente diversi.
Avant’ieri nella società contadina e protoindustriale la struttura della
personalità prevalente era quella basata sui caratteri nevrotici ed in
special modo sulla struttura del carattere fobico ossessivo. Tale
struttura era prodotta dalla repressione precoce di alcune pulsioni
pregenitali nel bambino (soprattutto quelle relative alla fase anale), e
sulla enfasi compensativa data alla produttività ed alla attività, che
diventava un dover fare per tenere lontane quelle pulsioni pregenitali
rimosse che altrimenti avrebbero troppo pericolosamente occupato la
scena. Era su queste basi che nasceva quell’etica del lavoro, del
risparmio e dell’investimento, che trovava la sua più precisa
connotazione reggiana, emiliana e, direi, padana (6) nella coniugazione
con quel solidarismo socialista e cristiano che è stata, probabilmente, la
base sulla quale è stato possibile coniugare l’attivismo individuale con
la spinta alla cooperazione, che sarà alla base della costruzione di quel
reticolo di intraprese individuali e gruppali che faranno poi gli assi
portanti della ricostruzione ed del boom economico. Potremmo dire
marcusianamente che il freudiano principio di realtà, nella società
protoindustriale reggiana, diventa un particolare principio di
prestazione che coniuga intrapresa e solidarietà, iniziativa individuale e
cooperazione e che noi abbiamo de inito etica padana del lavoro.
Per cui il giovane di avant’ieri, educato in questo clima familiare e
sociale, diventava una operosa formica tutta dedita al lavoro, che
avrebbe visto con esecrazione alcuni più recenti aspetti della società
reggiana (quelli più consumistici).
Ieri, nella società industriale, nata alla ine degli anni cinquanta e che si
è espansa negli anni del boom (1961 – 64), la struttura della
personalità prevalente era ancora quella basata sui caratteri nevrotici
ed in special modo, come per le generazioni precedenti, sul carattere
fobico ossessivo. Ma proprio a partire dal boom economico (Crainz) un
numero rilevante di ceti e di classi sociali in Emilia Romagna ed a
Reggio in particolare, viene sospinto verso il consumismo: la 600, la
lavatrice, la tv ecc. sono i nuovi feticci delle classi emergenti di questo
periodo e, nel contempo, l’oggetto dei desideri e delle aspirazioni delle
classi che nel frattempo a Reggio hanno abbandonato le ville, si sono
inurbate, passando spesso, e velocissimamente (come abbiamo appena
visto) dal lavoro nei campi a quello nell’industria e nel terziario.
Questa spinta al consumo, tutta centrata sulle impellenze del presente,
ha cominciato a minare alle basi l’etica padana del lavoro, a partire
dagli anni del boom, poiché il consumismo fa a pugni con i principi del
risparmio e dell’investimento, che implicano la rinuncia al piacere
immediato e la costruzione di un progetto per l’avvenire.
La generazione del boom risulta così dilacerata, soprattutto sul piano
educativo, tra fedeltà all’etica padana del lavoro da una parte e
adesione più o meno critica al consumismo. E’ una generazione che
spesso predica bene e razzola male: che è ancora proiettata verso il
futuro, verso il progetto, sul cui altare, come la generazione precedente,
è disposta a sacri icare il presente; ma, nello stesso tempo, non riesce
più a rinunciare del tutto agli agi ora possibili e che comincia ad essere
in luenzata sul piano dei comportamenti economici dalla pubblicità e
dai media; una generazione, quindi, composta da individui che nello
stesso momento in cui proclamano di essere delle laboriose formiche in
effetti si stanno già trasformando in cicale.
Oggi, nella società postindustriale terziarizzata, si assiste ad una eclissi
della struttura della personalità nevrotica ed alla emersione ed alla
diffusione fra i giovani di una struttura della personalità narcisistica di
tipo anaclitico (anaklinein, cioè stare sdraiati). Una personalità che per
affermarsi, per mettersi in piedi, ha bisogno sempre di qualcuno o
qualcosa con cui mantenere il contatto, qualcuno o qualcosa che aiuti,
che sostenga, che tiri su. Qualcuno o qualcosa che riempia il soggetto di
affetto o di oggetti di consumo che aiutino a non sentirsi soli, a non
cadere in depressione, a sentirsi compresi; qualcuno e qualcosa che,
anche nel momento della produzione, dall’esterno del soggetto lo aiuti
e dia senso al suo fare, che altrimenti sarebbe inde inibile e non
giudicabile sul piano qualitativo, per l’assenza di introietti interni forti;
qualcuno o qualcosa che, attraverso queste strade, aiutino il soggetto a
de inire i propri con ini individuali. Si assiste cioè, come afferma
Bergeret, ad un passaggio da una società di tipo anancastico (ananke,
cioè dover essere) ad una società di tipo anaclitico, all’interno della
quale crescono dei giovani che forse all’origine, cioè quando erano
bambini, non hanno ricevuto quel sostegno adeguato che oggi possa
permettere loro di andare da soli per il mondo.
Sorge allora spontanea la domanda “come mai questa trasformazione
che a detta dei ricercatori è comune a tutti i giovani della metropoli
postindustriale?”
E di fronte al giovane reggiano sorge una seconda domanda “ci sono
degli elementi speci ici reggiani che hanno prodotto qui da noi tale
passaggio da personalità di tipo anancastico a quelle di tipo anaclitico,
da strutture della personalità nevrotiche a personalità incentrate sulle
tematiche narcisistiche?”
La risposta che provvisoriamente ho cercato di dare a questo problema
è in tre elementi.
1.
Le nuove famiglie: innanzi tutto il tema del lavoro femminile
extradomestico e quindi del venir meno per lunghi periodi della prima
e della seconda infanzia della igura materna sul piano educativo, non
può essere considerato nel caso reggiano un tratto di novità poiché da
sempre molte donne reggiane hanno svolto lavori extradomestici.
Semmai è il dato del venir meno della famiglia allargata all’inizio degli
anni settanta che occorre prendere in considerazione. La famiglia
allargata, infatti, permetteva la distribuzione delle funzioni genitoriali
fra più igure adulte. L’inurbamento ed il contemporaneo passaggio alla
famiglia mononucleare ha comportato una circoscrizione nell’esercizio
delle funzioni genitoriali di fatto alla sola madre, anche se ancor oggi
nel de inire le strategie di accesso e di uscita dal mondo del lavoro
extradomestico e soprattutto le strategie in base alle quali viene
de inito il luogo di vita della famiglia mononucleare, la coppia
genitoriale compie un attento esame in base al quale la rete parentale
estesa viene tenuta in grande considerazione (Iori).
Semmai è nell’eclissi delle igure genitoriali prodotta dalle
caratteristiche qualitative che il lavoro assume nella società
postindustriale che va trovato il bandolo di questa prima matassa.
Infatti nella società contadina e protoindustriale il capo famiglia e tutte
le igure adulte erano ed apparivano agli occhi del bambino come
dotate di una autorità, sia pur circoscritta all’ambito esperienziale e di
vita della famiglia. Mentre oggi la maggior parte dei lavori si esprime in
contesti aziendali ed istituzionali in cui le responsabilità del singolo
sono sottoposte ad un reticolo di decisioni a monte, spesso di tipo
burocratico, che morti icano l’autorità del singolo. Ciò appare agli occhi
del bambino come il segnale che attesta la debolezza delle igure
parentali (Mitscherlich afferma che si va verso una società senza
padre).
2.
La cogestione educativa: il ricorso alla cogestione educativa e cioè
all’integrazione dell’azione educativa esercitata dai genitori e dalla rete
parentale allargata con quella esercitata dalle educatrici dei nidi e delle
materne, soprattutto all’inizio dell’epopea dei nidi e delle materne
reggiane, è avvenuta in condizioni tali che hanno spesso condotto
questa seconda agenzia educativa a misconoscere le esigenze affettive
del bambino piccolo. Per cui nei nidi e nelle materne, specialmente
all’inizio degli anni settanta, ogni emozione degli affetti era bandita, (L.
Angelini, 1995) ciò che veniva privilegiato era il bambino cognitivo che
doveva giungere nella scuola elementare senza quel gap sul piano dei
pre apprendimenti che poi avrebbe potuto metterlo in condizioni di
sostanziale svantaggio rispetto ai bambini provenienti dalle classi più
agiate. Questo elemento che era originato da una giusta preoccupazione
e che mirava a instaurare una didattica di tipo compensativo, veniva
in iciata dal misconoscimento della scena affettiva, quindi iniva col
cumularsi col dato dell’eclissi delle igure genitoriali di cui abbiamo
detto prima, e con accentuare la sostanziale solitudine del bambino
sulla quale si andava innestando quella personalità narcisistica di tipo
anaclitico di cui abbiamo parlato prima.
3.
La presenza di una terza agenzia educativa, i mass – media, in da
tenerissima età ha in luito sicuramente sul piano della formazione della
personalità dell’adolescente di oggi. Se le caratteristiche delle nuove
igure genitoriali sono quelle deboli ed eteree che abbiamo appena
descritto, se la cogestione educativa agli inizi degli anni settanta è stata
giocata attraverso il misconoscimento delle esigenze affettive del
bambino piccolo, le caratteristiche di questa terza agenzia educativa, i
media, ha sicuramente accentuato la tendenza del mondo adulto a
lasciar solo il bambino o a de inirsi con lui sul piano di una
interlocuzione eterea ed impalpabile. Infatti, i mass – media si
presentano agli occhi del fruitore, bambino o adulto che sia, come
entità lontana, fredda, distante e soprattutto incapace di dialogare con
il soggetto.
Le conseguenze derivanti dall’eclissi delle igure genitoriali, dalla
cogestione educativa svolta in questo modo e dalla overdose di tv, per il
bambino sono la de inizione e l’accrescersi di gravi problemi sul
processo di interiorizzazione delle imago adulte nel bambino stesso.
Cosicché il bambino degli anni settanta, ottanta, e cioè il giovane di oggi
ha de inito nel proprio mondo interno una serie di introietti più deboli
ed eterei sui quali e in base ai quali si costruisce poi la struttura
anaclitica della personalità. Il bisogno di essere sempre in rapporto con
qualcuno che lo contenga, lo ami, gli dia senso, lo aiuti a de inire un
proprio pro ilo individuale che altrimenti risulterebbe improbabile, o
più frequentemente con qualcosa che lo riempia (Laf i) è strettamente
connesso con la debolezza delle imago adulte introiettate.
Nel processo di crescita personale i nonni ed anche i padri degli
adolescenti di oggi erano invece in rapporto, come abbiamo visto, con
imago genitoriali e di adulti forti. La loro adolescenza, così, diventava il
luogo ed il tempo per instaurare una dura lotta con queste immagini
potenti dalle quali bisognava emanciparsi. E’ chiaro che lungo il
processo di crescita personale in questo momento critico ieri ed
avant’ieri era anche possibile che lo scontro tra Edipo e Laio, fra il iglio
ed il padre, non si concludesse come nel mito con la vittoria del iglio e
che alla ine il giovane adulto di avant’ieri e di ieri poteva risultare
castrato ed incapace di de inire se stesso al di fuori ed al di là della
legge del padre. Questa era la s ida per gli adolescenti di avant’ieri e di
ieri.
Invece oggi il giovane, intanto, non deve scontrarsi con alcuna igura
forte nel momento della crisi adolescenziale: e ciò sicuramente non lo
aiuta a de inire un proprio pro ilo adulto autonomo e certo. In secondo
luogo, l’assenza di cerimonie sociali di passaggio ed il ricorso a
cerimonie private ed intime (Le Breton) che attestino la crescita,
connesso con il prolungarsi dell’adolescenza ino alle soglie della ine
dell’età fertile, continuano a porre il giovane in una situazione di
solitudine e di assenza di dialogo. In ine la permanenza in famiglia
attestata dall’estendersi a macchia d’olio della famiglia prolungata
(Scabini, Zanatta) erode e continua a minare alle fondamenta quel poco
di certezze che lungo il processo di crescita personale il bambino prima
e il preadolescente e l’adolescente poi sono andati accumulando.
Anche il modo di amare da parte del giovane d’oggi è cambiato rispetto
a quello di ieri e di avant’ieri, ciò che cerca il giovane d’oggi non è tanto
un oggetto da investire libidicamente, non è tanto cioè una tensione
verso l’altro quanto la ricerca di un investimento libidico del proprio io
ottenuto attraverso l’oggetto. Vale a dire una tensione ad amare l’altro
per sentirsi amati, valorizzati, compresi, cioè per tentare di riempire
quel vuoto creato dalla presenza degli introietti deboli, eterei,
impalpabili di cui sopra.
In ine l’ultimo cambiamento rilevante che mi pare di intravedere
paragonando il giovane di oggi con quello di ieri e di avant’ieri è nella
natura dell’Ideale dell’Io e del Super Io di questi tre soggetti. Poiché
come abbiamo detto, il reggiano di ieri e di avant’ieri doveva fare,
doveva produrre, doveva risparmiare per investire, magari in maniera
ansiosa e nevrotica, il suo Super Io risultava presente e molto esigente,
ed il suo Ideale dell’Io alto e capace di spronarlo a fare. La nuova
generazione dei giovani, invece, presenta un Super Io che non riesce a
far da iltro ef icace alla procrastinazione dei bisogni (Laf i) e un
principio che potremmo de inire di fruizione ansiosa, orale, che va
soppiantando quel principio di prestazione che era alla base degli ideali
di produttività del vecchio reggiano e che denota, nel giovane d’oggi, la
presenza di una scarsissima capacità di sublimare soprattutto le
esigenze di incorporazione orale. Sul piano della de inizione dell’Ideale
dell’Io, conseguentemente, ciò che viene ricercato dal giovane oggi è
immanente alla scena attuale e non più posto in una scena futura per
ora solo programmata ed immaginata. Questa assenza di proiezione nel
futuro e questo appiattimento sull’oggi, sul riempire l’oggi di oggetti da
consumare ed abbandonare ansiosamente, e sul ricercare, nel lavoro,
qualcuno o qualcosa fuori di sé, che lo confortino e lo attestino nel suo
fare operativo, trova la sua prima espressione in quell’angolo dei
giocattoli così colmo di oggetti appena fruiti e subito abbandonati che
ciascun genitore di oggi ricorderà di aver approntato per il proprio
iglio negli anni settanta ed ottanta.
 
 
L’isola che non c’è oggi
 
Nella iaba di Peter Pan l’isola che non c’è è il luogo in cui Peter Pan e i
suoi amici adolescenti vivono. Un luogo liminare, a latere, che
simboleggia il luogo dell’adolescenza. Un luogo quindi il cui accesso è
vietato agli adulti e soprattutto ai Capitan Uncino che rappresentano
l’immagine genitoriale caricaturalizzata che l’adolescente ha bisogno di
inventarsi e di mettere alla berlina per emanciparsi. Un’isola in cui il
giovane ha bisogno di rimanere per il tempo occorrente ad
abbandonare l’infanzia e a prepararsi ad entrare nell’età adulta con un
proprio scafo capace di affrontare il mare aperto dell’impegno e della
responsabilità.
Ebbene, in base a molte cose di cui abbiamo già parlato, quest’isola oggi
appare come profondamente trasformata.
Innanzitutto la dilatazione dei tempi di passaggio praticamente
all’in inito, fa si che emerga una nuova geogra ia familiare che vede
nella famiglia prolungata il suo fulcro. Questa recentissima forma di
famiglia insieme alla famiglia ricostruita (cioè alla famiglia nata
dall’unione fra genitori in cui almeno uno provenga da una precedente
unione ) insieme alla famiglia monoparentale, ride iniscono il rapporto
fra genitori e igli, fra genitori ed adolescenti, anzi vedono la nascita di
una nuova entità che noi chiamiamo post adolescenza.
Il procastinarsi dell’uscita da casa del postadolescente ha una rilevanza
non tanto per il dato quantitativo quanto per la nuova qualità dei
rapporti che si instaurano fra queste due generazioni adulte che sono
costrette a convivere, a volte anche abbastanza a lungo, fra loro. L’uscita
da casa del postadolescente, infatti, oltre che tardiva non avviene più in
polemica con i genitori. Non c’è polemica, non c’è pòlemos, cioè non c’è
guerra, non c’è rottura generazionale. Come dicevamo all’inizio e come
sottolinea la Scabini la rottura generazionale soprattutto nelle società
dinamiche è il seme del cambiamento per cui ciò che si semina oggi
nella famiglia prolungata e una epidemia di conformismo. Le cause
esterne che sono alla base di questo fenomeno sono note e sono il
prolungamento dei tempi di formazione on the job sia per i laureati sia
per i diplomati; le cause interne sono nel prevalere di una atmosfera
informale nel rapporto intergenerazionale che nel momento in cui si
accumula al dato della compresenza di due generazioni adulte inisce
col minare ancora di più l’autorità genitoriale e nel contempo col
de inire nuove forme di dialogo, nuove modalità di rapporto (più
conformistiche) ed in ine una nuova concezione della temporalità.
L’isola che non c’è però, come abbiamo detto, è anche un luogo liminare,
cioè un luogo di margine distinto da quello adulto. Un luogo mentale
oltre che isico, un luogo in cui l’adolescente può, o poteva convivere
con i propri pari al riparo dalle in luenze del mondo adulto. Ma oggi,
come ha messo in evidenza la Callari Galli, la società consumista con la
sua capacità pervasiva entra in questi luoghi, li occupa e li ride inisce in
continuazione in base alla continua riproposizione di nuovi oggetti di
consumo. Questa aggressione all’isola che non c’è, alla sua liminarità e
marginalità, è alla base di quel continuo gioco al rimpiattino che spinge
i giovani ad occupare sempre nuovi luoghi che all’iniziato sembrano
indenni dalle in luenza dei media e che sono poi immediatamente
raggiunti, sradicati nelle loro componenti più autentiche e gratuite e
riproposti come prodotti preconfezionati falsi e costosi.
Molte delle ragioni che spingono i giovani ad occupare i luoghi della
notte, a volgersi verso forme di comportamento a rischio (Le
Breton,1995), a sperimentare se stessi ed il proprio corpo (tatuaggio,
pearcing, droghe, etc.) sono in questa corsa verso un luogo che viene
ritenuto più autentico e che magari è un luogo in cui ci si perde in
maniera più o meno irrimediabile. In ine, come abbiamo detto all’inizio,
l’assenza di cerimonie sociali che aiutino il giovane a separarsi dalla età
precedente, a de inire dei propri luoghi marginali autentici e utili, a
riaggregarsi in maniera certa, credibile, de inita, rende ancora più
solitario e dif icile questo percorso.
 
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Note
1- Ma non sempre in maniera tempestiva: infatti, come ci ricorda la
Vegetti Finzi, mentre la ragazza è condotta dalla evidenza e dalla
ciclicità del menarca a prendere atto dell’avvio del processo di
cambiamento, non la stessa cosa avviene sempre nel ragazzo che, a
causa della rapsodicità dell’erezione, può per un periodo più o meno
lungo negare a se stesso il cambiamento e attardarsi nella fanciullezza.
2. In alcune società, che privilegiano il dato della discontinuità su quello
della continuità, il soggetto, dopo il passaggio, cambia anche aspetti
molto nucleari della propria identità, quali ad es. il proprio nome, per
cui, se nell’infanzia il soggetto aveva un nome x, allorché entra nella
comunità degli adulti si chiamerà y.
3. E’ in questa luce che certi suicidi di preadolescenti e di adolescenti,
dopo una bocciatura, alla ine dell’anno scolastico acquistano un
signi icato che va al di là del fallimento sul piano dell’istruzione, poiché
ai loro occhi in quel momento la bocciatura equivale ad una mancata
attestazione di crescita.
4. Cfr. il recentissimo studio sull’industria reggiana a cura di Basini e
Lugli, che - fra l’altro - riferendosi all’intera regione Emilia e Romagna
dice: “Secondo l’Uf icio regionale del lavoro, dal ’37 al ’52 la piccola
industria e l’artigianato , che vivono delle commesse della grande
industria, perdono il 40% dei posti di lavoro. Le 74.000 unità
produttive, che nel ’37 occupavano 295.000, nel ’51 si riducono a
58.000 e occupano 268.000 persone.” (ivi, pag. 143)
5. Reggio Emilia è ancora oggi contornata da molte ville, cioè da molte
frazioni, che negli anni 50 erano ancora agglomerati contadini, che a
partire degli anni del boom economico si sono via via trasformate in
luoghi residenziali borghesi, o, più tardi, in dormitori degli immigrati.
6. Ma le possibilità che il dato del solidarismo, tipico degli esordi del
modello emiliano, valga anche per situazioni come la Lombardia o il
Veneto, andrebbe più attentamente studiata. Certo è che, ad es. nel
mantovano e nel cremonese, la nascita del movimento cooperativo
bianco alla ine dell’800 è un segnale che va in questa direzione.
Un’umanità senza corpo
 
David Le Breton (1)
 
 
L’obsolescenza del corpo è diventata un messaggio forte per alcune
imprese tecnoscienti iche radicali. Ai loro occhi la specie umana sembra
invalidata da un corpo che ricorda troppo l’umiltà della sua condizione.
La precarietà della carne, la sua mancanza di resistenza, la malattia, la
vecchiaia, la morte, l’insostenibile leggerezza dell’essere sono
insopportabili. Il corpo è una brutta copia, bisogna correggerlo, o
addirittura liquidarlo a vantaggio di una forma più adeguata e più
all’altezza delle tecniche contemporanee. Un primo sospetto di malattia
si traduce in un incredibile consumo di sussidi chimici per regolare la
relazione col mondo degli individui malati. Anche senza essere malati si
prendono prodotti per dormire, risvegliarsi, essere in forma, energici,
per migliorare la memoria ed il rendimento, per sopprimere l’ansietà,
lo stress, et., tanti sussidi chimici per un corpo percepito debole
rispetto alle richieste del mondo contemporaneo, per restare a galla in
un sistema sempre più attivo ed esigente. Il corpo deve produrre le
emozioni richieste senza tergiversare. La questione non è il rimettersi
al suo umore ma il programmarlo.
Molti passaggi della tecnoscienza portano a sospettare la sua ine e
considerano il corpo come un abbozzo da correggere o da eliminare
completamente a causa della sua imperfezione. L’istituzione del corpo
in laboratorio, pubblico o privato, è uno dei dati basilari delle nostre
società contemporanee. Il fantasma di un corpo liberato dalle vecchie
pesantezze naturali porta al mito del “bambino perfetto”, costruito
medicalmente e dotato di buone qualità morfologiche e genetiche.
L’assistenza medica alla procreazione induce a una concezione del
bambino senza corpo, senza sessualità né rapporti con altri. Alcuni
biologi sognano di eliminare la donna dal principio alla ine della
gestazione, grazie all’incubatrice arti iciale. L’esistenza pre - natale
dell’individuo sarebbe solo un percorso medico dove la donna non è più
necessaria. La fabbricazione medica del bambino, oggi, si protrae con
una serie di esami che veri icano le sue qualità genetiche o il suo
aspetto isico. Esame d’ingresso nella vita che perpetua il sospetto
verso un corpo la cui perfezione risulta da una veri ica di qualità o da
una correzione tecnica. Il corpo diventa chiaramente soprannumerario
per alcune correnti della cybercultura, trasformato in artefatto o in
“carne” molti sognano a voce alta di sbarazzarsene per accedere in ine
ad un’umanità gloriosa.
La navigazione in rete, o l’immersione nella realtà virtuale, danno agli
inter - naviganti il sentimento di essere inchiodati a un corpo
ingombrante ed inutile che bisogna nutrire, curare, mantenere quando
la vita potrebbe essere così lieta senza queste seccature. La
comunicazione senza corpo e senza viso della rete favoriscono le
identità multiple, la frammentazione del soggetto impegnato in una
serie di incontri virtuali per i quali egli indossa ogni volta un nome
diverso e un’età, un sesso, una professione scelti in base alle
circostanze. Il corpo è un dato facoltativo. La cybercultura è spesso
descritta dai suoi adepti in termini religiosi come un mondo
meraviglioso aperto ai “mutanti” che inventano un universo nuovo.
Questo paradiso della rete è necessariamente senza corpo. Gli
innumerevoli giochi sulle identità sono possibili solo grazie alla
scomparsa del viso. Internet è una formidabile istituzione del
mascheramento.
Dissimulato sotto un’identità provvisoria e reversibile l’inter -
navigante non teme più di non osare guardarsi in faccia dopo un’azione
qualsiasi. La cybersessualità realizza pienamente questo immaginario
della scomparsa del corpo e anche dell’altro. Il testo si sostituisce al
sesso, lo schermo alla carne. L’erotismo raggiunge lo stadio supremo
dell’igiene con il corpo virtuale.
Più nessun timore per l’AIDS o le malattie sessualmente trasmissibili, né
logoramento in questa sessualità angelica dove è anche possibile, grazie
all’anonimato della rete, vestirsi di sesso e stato civile a scelta. Per molti
adepti dell’Intelligenza Arti iciale la macchina, un giorno, sarà senza
dubbio pensante e sensibile scavalcando l’uomo nella maggior parte dei
suoi compiti. Se la macchina si umanizza, l’uomo si meccanicizza. La
cybernegizzazione progressiva dell’uomo, soprattutto nelle sue
promesse per il futuro, confonde ancora le frontiere. Alcuni ricercatori
sognano di trasferire un giorno il loro “spirito” nel computer al ine di
vivere pienamente il cyberspazio. Il corpo non è più ai loro occhi
all’altezza delle capacità richieste nell’era dell’informatica perché è
lento, fragile, incapace di memoria, et.; conviene sbarazzarsene
fabbricandosi un corpo bionico nel quale inserire eventualmente un
dischetto contenente “lo spirito”. Si tratta non solo di soddisfare le
esigenze della cybercultura o della comunicazione, ma
simultaneamente di sopprimere la malattia, la morte e tutti gli ostacoli
legati al fardello del corpo.
Questi discorsi dipendono spesso dal puro immaginario (anche se
coloro che li affermano sono convinti della loro verità) ma sono attivi. Il
loro punto comune è fare del corpo uno scarto. È cambiando il corpo
che l’uomo raggiungerà la sua salvezza.
Un’umanità senza corpo è anche un’umanità senza sensorialità,
amputata del sapore del mondo. Ma si sa quanto gli uomini siano inclini
a rinunciare alla linfa del presente per raggiungere il domani che conta.
Se le ideologie o le religioni hanno perso la loro capacità di riunire gli
uomini attorno a credenze comuni, molti scienziati si precipitano ad
annunciare un avvenire radioso, grazie alle conquiste della genetica,
della medicina o del cyberspazio. Il corpo oggi è soprattutto una
scommessa politica, è l’espressione fondamentale delle nostre società
contemporanee.
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1. David Le Breton è professore di sociologia all’Università Marc Bloch -
Strasburg. Egli è soprattutto l’autore di: “Antropologia del corpo e
modernità” (PUF), “Passione del rischio” (Gruppo Abele, To),
“Antropologia del dolore” e “L’addio al corpo” (Métailié)
 
Il corpo come un altro sé da
plasmare
 
David Le Breton
 
Il corpo e i suoi signi icati (1)
Nelle nostre società il “bricolage” simbolico si allarga, le fonti di
conoscenza a disposizione degli individui sono smisuratamente
aumentate. La malleabilità di sé, la plasticità del corpo diventano luoghi
comuni. L’anatomia non è più qualcosa che ci è toccato in sorte, ma un
accessorio del nostro aspetto, una materia prima da plasmare, da
ride inire, da sottoporre al “design” del momento.
Il corpo è diventato, per molti contemporanei, una rappresentazione
provvisoria, un gadget, un luogo ideale di messinscena per “effetti
speciali”. Da una decina d’anni milioni di attori lo trasformano
facendone un emblema. Tra l’uomo ed il suo corpo, c’è un gioco nel
doppio senso del termine. Una versione moderna del dualismo non
oppone più il corpo allo spirito o all’anima, ma più precisamente
l’oppone al soggetto stesso. Il corpo non è più soltanto, nelle nostre
società contemporanee, l’assegnazione ad un’identità intangibile,
l’incarnazione irriducibile del soggetto, il suo “essere – al - mondo”, ma
una costruzione, una istanza di innesto, un “terminal”, un oggetto
transitorio e manipolabile suscettibile di parecchi allineamenti. Non più
identità propria, destino della persona, è diventato un kit, una somma
di parti che si possono staccare a disposizione di un individuo catturato
in un “bricolage” su di sé e per il quale proprio il corpo è l’opera
principale dell’affermazione personale. Il corpo oggi è un “alter ego”, un
doppio, un altro se stesso ma disponibile a tutte le modi iche, prova
radicale e modulabile dell’esistenza personale e visualizzazione di
un’identità scelta provvisoriamente o per lungo tempo.
Gli psicofarmaci regolano l’umore, la chirurgia estetica o plastica
modi ica le forme del corpo o il sesso, gli ormoni o la dietetica
aumentano la massa muscolare, le diete alimentari mantengono la
silhouette, chi esegue il percing o il tatuaggio dispensa i segni
dell’identità sulla pelle o nella pelle, il “body art” spinge al suo massimo
questa logica che fa apertamente del corpo il materiale di un individuo
che rivendica il diritto di rimaneggiarlo a suo piacimento e di mettere in
luce dei modi inediti di creazione. Alcuni sognano di agire direttamente
sul codice genetico del soggetto per plasmare la forma ed anche i
comportamenti. Tutti questi procedimenti isolano il corpo come una
materia a parte che forma uno stato del soggetto. Il corpo è supporto
alla geometria variabile di una identità scelta e sempre revocabile, una
proclamazione momentanea di sé. Se non si possono cambiare le
proprie condizioni di esistenza, si può almeno cambiare il proprio
corpo in molti modi. L’industria del “design” corporale nasce da questa
concezione che la sovranità relativa della coscienza dell’individuo deve
estendersi ugualmente alla sua apparenza e non lasciare il corpo
incolto. Il corpo è divenuto la protesi di un Io estremamente alla ricerca
di una incarnazione provvisoria per assicurare una traccia signi icativa
di sé. Innumerevoli declinazioni di sé attraverso una mutazione
differenziale del corpo, moltiplicazione delle messinscene per dare
tanti signi icati alla propria presenza nel mondo, compito impossibile
che richiede di rimettere di continuo il corpo in cantiere in una corsa
senza ine per aderire a sé, a un’identità ef imera ma essenziale per sé e
per un attimo all’ambiente sociale. Per dare pienezza isica all’esistenza,
si moltiplicano i segni della propria esistenza in modo visibile sul
corpo.
Helèna Velena, coinvolta profondamente sulla scena italiana del sesso
telematico e del gioco sulle identità sessuali, scrive che “volersi
modi icare, voler mettere il proprio corpo in rapporto con il proprio sé
non è né una malattia, né una cosa di cui ci si debba vergognare. Ma una
cosa da rivendicare apertamente alla luce del giorno, con orgoglio. Un
inno alla libertà. Come ci insegnano la transessualità o il cybersex”2 . Il
corpo diventa l’emblema del “fai da te”. L’interiorità del soggetto è uno
sforzo costante di esteriorità, si riduce alla sua super icie. Bisogna
mettersi al di fuori di sé per divenire sé. Più che mai, per riprendere
Paul Valéry “il più profondo è la pelle”.
La chirurgia estetica conosce uno sviluppo considerevole accresciuto da
questa concezione della malleabilità del corpo. La sua trasformazione
in oggetto da plasmare si traduce di primo acchito in cataloghi che i
chirurghi lasciano nella loro sala d’aspetto o che mostrano ai loro
clienti per proporre un intervento preciso. Vi si vede il viso o la parte
del corpo da modi icare, poi il risultato, una volta effettuata
l'operazione. Trasmutazione alchimistica del brutto oggetto. Il cliente
sceglie nella gamma degli interventi quello che darà la suo viso o al suo
corpo, quello che gli sta meglio. Seni imbottiti di silicone, modi icati da
protesi, o rimodellati, volti sottoposti a lifting in diverse maniere, labbra
ricostruite da iniezioni, ventre o cosce sottoposte a liposuzione, tagliate
secondo nuove misure, capelli trapiantati, impianti sottocutanei per
ottenere le proporzioni isiche desiderate, ecc.. Modo di ridurre la
distanza vissuta tra sé e sé.
Al di là degli imperativi dell’apparenza e della giovinezza che regolano
le nostre società, l’uso della chirurgia estetica è ricercato da individui in
crisi (divorzi, disoccupazione, invecchiamento, morte di una persona
cara, rottura con la famiglia, …) che trovano in questo ricorso la
possibilità di rompere, tutto in una volta, l’orientamento della loro
esistenza cambiando i tratti del viso o l’aspetto del corpo. La volontà
resiste nella preoccupazione di modi icare lo sguardo su di sé e quello
degli altri al ine di sentirsi esistere pienamente. Cambiando il proprio
corpo, l’individuo intende cambiare la sua vita, modi icare la sua
concezione di identità 3. La chirurgia estetica non è la metamorfosi
banale di una caratteristica isica sul viso o sul corpo, essa opera, prima
di tutto, nell’immaginario ed esercita una incidenza sul rapporto con il
mondo dell’individuo. Abbandonando un vecchio corpo non amato, ci si
aspetta una nuova nascita, un nuovo stato civile . La chirurgia estetica
offre un esempio sorprendente della considerazione sociale del corpo
come artefatto dell’aspetto e del vettore di una identità ostentata.
 
 
Il transessualismo o il fuori sesso
Il corpo del transessuale è un artefatto tecnologico, una costruzione
chirurgica e ormonale, una lavorazione plastica sostenuta da una
volontà salda. Attore della sua esistenza, il transessuale intende
rivestire per un momento un’apparenza sessuale conforme al suo modo
di sentire personale. Il suo sesso d’elezione è frutto di una sua decisione
personale e non di un destino anatomico, egli vive attraverso una
volontà deliberata di provocazione o di gioco. Il transessuale sopprime
gli aspetti troppo signi icativi della sua corporeità precedente, per
affrontare i segni senza equivoci del suo nuovo aspetto. Egli si foggia un
corpo sempre incompleto, sempre da conquistare grazie agli ormoni e
p p p p q g g
ai cosmetici, grazie agli abiti, e a allo stile del suo aspetto. Femminilità e
mascolinità, lungi dall’essere l’evidenza del rapporto con il mondo,
sono oggetti di produzione permanente attraverso un uso appropriato
dei segni, di una ride inizione di sé, conformemente al “design” del
corpo, diventano un vasto campo di sperimentazione. La categoria
sessuale del maschile, soprattutto, è profondamente rimessa in
discussione. “Per l’immaginazione maschile, dice Cooper, il trans è
un’esperienza sconvolgente, poiché sta sulla terra di nessuno tra omo
ed eterosessualità che cova in ciascuno di noi.
Quando giochi con me trans, è come se tu soddisfacessi una curiosità
infantile di vedere – toccare, provare come sono fatti gli uomini come te,
senza peraltro uscire dal turbamento dell’incontro con una donna” 4. H.
Velena rincara la dose ponendo il transessualismo “come un’identità
della non identità, o meglio una rivendicazione di sé che nasce dal non
sentirsi legati ad una situazione de inita e de initiva ma, al contrario, di
transito, di trasformazione, di relazione, di lusso. Il transessualismo va
bene per chi ha la barba e vuole uscire in minigonna, vuole soltanto
leccare i piedi dei partner, ama farsi legare, o possiede dei seni stupendi
ma anche un pene perfetto…” (p.211).Volontà di scongiurare la
separazione, di non considerare più il sesso (dal latino “secare”:
tagliare) né un corpo né una sorte predestinata ma una scelta e,
soprattutto, di liberarsene e reinventare se stessi e mettere se stessi al
mondo.
Il transessuale è un simbolo quasi caricaturale della concezione che il
corpo è una forma da trasformare. Nello stesso modo supera l’ostacolo
della nostalgia dell’essere indifferenziato che ossessiona tante pratiche
della vita moderna, lo vedremo in modo radicale nell’universo della
procreazione con assistenza medica o nella fantasticheria di sostituire
la donna, nella gravidanza, con un’incubatrice.
D. Welzer – Lang mostra l’importanza della prostituzione transessuale
nella città di Lione; egli nota il gioco dei segni che rende inde inibile
l’identità di un soggetto interamente in relazione ludica con gli altri:
“Che dire di questa prostituta che si presenta da donna all’inizio dei
nostri colloqui e parla in nome delle donne, ci informa velocemente che
in realtà siamo in presenza di un transessuale che, un anno dopo,
rivendica la sua identità maschile e la sua qualità di travestito? La qual
cosa non gli impedisce, d’altra parte, di vivere l’essenziale della sua vita
sociale come una donna” 5.
Cooper, fautore di una sessualità multiforme, spiega bene questo
successo evocando la ricerca di esperienze insolite: “La trans vi
sembrerà strana, a differenza della donna che si prostituisce, è una
creatura che vive e desidera. Come si svolge in realtà una serata di
prostituzione? Tantissimi clienti chiedono loro di essere sodomizzati. È
questo che li eccita, la sensazione di farsi sodomizzare da una donna
(p.87). Il transessuale è un viaggiatore del proprio corpo di cui cambia a
suo piacimento la forma ed il genere, spingendo al suo limite lo statuto
di oggetto di circostanza di un corpo divenuto modulabile e assegnabile
non più al soggetto ma al momento” 6.
 
 
Segni del corpo
Il tatuaggio è un segno visibile fatto direttamente sulla pelle grazie
all’iniezione di una materia colorata nel derma. A differenza del trucco,
ef imero, femminile e destinato al viso, è de initivo, riguarda uomini e
donne e viene praticato essenzialmente sull’insieme del corpo (spalla,
braccia, seno, schiena, ecc.), più raramente sul viso. Oggi il tatuaggio
esce dalla clandestinità e si allontana dalle cattive immagini che ha
avuto per tanto tempo, il suo valore capovolge persino, si ammorbidisce
dal momento che sono apparsi in vendita dei kit di tatuaggio
provvisorio. I percing si effettuano in vari punti delle orecchie, del naso,
delle labbra, della lingua, sui capezzoli, l’ombelico, gli organi genitali
maschili e femminili. Questi ultimi percing sono spesso legati ad una
volontà d’intensi icare le relazioni sessuali procurandosi sensazioni
nuove. Anche senza stimolazioni particolari, d’altronde, gli organi così
segnati sono spesso sentiti in modo intenso da coloro che si sono
sottoposti a percing. Sono i luoghi intimi di un allargamento delle
sensazioni e del godimento di sé. Sfuggono ai luoghi marginali del sado
– masochismo, del feticismo o del punk, assorbiti da ciò che si è
convenuto di chiamare “le tribù urbane” (punk, hard rock, techno,
grunge, bikers, gays, ecc.) e si propagano all’insieme della società
attraverso l’alta moda, particolarmente les manequins di Gautier, con
una predilezione per le giovani generazioni che crescono nell’atmosfera
intellettuale di un corpo incompiuto e imperfetto di cui l’individuo deve
completare la forma con il suo stile personale. I laboratori di tatuaggio
e di percing si moltiplicano e la richiesta aumenta.
In numerose società umane i segni del corpo sono associati a riti di
passaggio in diversi momenti dell’esistenza, oppure sono legati a
signi icati precisi in seno alla comunità. Il tatuaggio ha così un valore
d’identità, afferma nel cuore stesso della carne l’appartenenza del
soggetto al gruppo, a un sistema sociale, de inisce le appartenenze
religiose, rende più umani, in certo qual modo, attraverso questo
dominio culturale. In seno a certe società la lettura del tatuaggio ci
informa sull’iscrizione dell’uomo ad una stirpe, ad un clan, una classe
d’età; indica uno statuto e rafforza l’alleanza. Impossibile amalgamarsi
nel gruppo senza questo lavoro d’integrazione che i segni cutanei
imprimono nella carne.
All’inverso, per i “primitivi moderni”, la loro dimensione estetica o le
loro qualità di prestazioni isiche contano in un primo tempo, anche se
talvolta la preoccupazione del loro signi icato d’origine è sempli icata
per entrare in un altro contesto sociale e culturale. I riti tradizionali
sono resi folcloristici, allo stesso modo di una maschera da genio
esposta dietro i vetri di un museo, si trasformano in segni indifferenti al
loro contenuto di cui la sola cosa importante è il valore di
rappresentazione per le nostre società occidentali contemporanee.
Tatoo Mike, il cui corpo è quasi integralmente tatuato compreso il viso,
esprime la iloso ia del primitivismo moderno parlando dei suoi
numerosi segni sul corpo nati da “disegni che vanno dai Samoani agli
Indiani, combinati insieme in una sorta di “psychedelia” delle diverse
culture” (p. 39). Fakir Musafar, d’altronde, ha avuto contrasti con gli
Indiani Mandans di cui riprendeva il termine di “danza del sole” quando
si appendeva con dei ganci nel petto o un’altra parte del corpo. Gli
Indiani hanno ottenuto che egli non utilizzasse più questo termine 7. I
segni del corpo entrano in un sincretismo radicale.
Il segno tegumentale/ dell’epidermide è ormai un modo di scrivere
metaforicamente, nella carne, dei momenti – chiave dell’esistenza: una
relazione amorosa, una convivenza amichevole o politica, un
cambiamento di condizione, il ricordo di un soggetto, sotto forma
ostentata o discreta nella misura in cui il suo signi icato resta spesso
enigmatico agli occhi degli altri e il luogo più o meno accessibile al loro
sguardo nella vita corrente. È ricordo di un avvenimento forte, del
superamento personale di un passaggio nell’esistenza di cui l’individuo
intende conservare la traccia. Una rivendicazione di identità che fa del
corpo una scrittura indirizzata agli altri, una forma di protezione
simbolica contro l’avversità e contro l’incertezza del mondo. Il segno
tegumentale o il gioiello del percing sono anche modi di af iliazione ad
una comunità luttuante con, spesso, una complicità che si stabilisce
subito tra coloro che li condividono. Si iscrivono anche come attributi di
uno stile più largo che segna l’adesione ad una comunità urbana
particolare. Rito personale per cambiare se stessi cambiando la forma
del proprio corpo. L’individuo gioca con i riferimenti, le tradizioni e
costruisce un sincretismo che s’ignora, l’esperienza del segno diventa
allora un’esperienza spirituale, un rito intimo di passaggio 8.
I segni del corpo implicano anche una volontà di attirare lo sguardo, di
costruire un’estetica della presenza, anche se il gioco resta possibile a
seconda dei luoghi d’iscrizione, sia che i segni siano in continuità sotto
lo sguardo degli altri o che siano soltanto sotto lo sguardo di coloro di
cui si cerca la complicità. Essi restano appannaggio dell’iniziativa
dell’individuo e incarnano perciò uno spazio di sacralità nella
rappresentazione di sé. La super icie cutanea splende di un’aura
particolare. Essa aggiunge un supplemento di signi icato e di gioco alla
vita personale. È spesso vissuta come la riappropriazione di un corpo e
di un mondo che fuggono, ci si iscrive isicamente la propria traccia di
esistere, si prende possesso di sé, si iscrive un limite (di signi icato e di
fatto), un segno che restituisce al soggetto il sentimento della propria
sovranità personale. Il segno del corpo è un limite simbolico disegnato
sulla pelle, issa un momento di arresto nella ricerca di signi icato e di
identità, è una specie di irma di sé attraverso la quale l’individuo si
afferma in un’identità scelta. In mancanza della possibilità di esercitare
un controllo sulla propria esistenza, il corpo è un oggetto a portata di
mano sul quale la sovranità personale è quasi senza ostacoli.
 
 
Culturismo
Contrariamente alle pretese di certe correnti dell’Intelligenza
Arti iciale, che negano ogni importanza del corpo per fare dell’uomo un
puro spirito - elaboratore, il “body builder” riafferma con lo stesso
radicalismo (o ingenuità), il dualismo radicale tra lo spirito e il corpo,
punta su quest’ultimo in una forma di resistenza simbolica per
p q p
ristabilire o costruire un sentimento d’identità minacciato. Trasforma il
corpo in una specie di macchina, versione vivente dell’androide. L’Io
viene ostentato sulla super icie del corpo in forma iperbolica, l’identità
è plasmata nei muscoli come una produzione personale e dominabile. Il
“body builder” prende il suo corpo in mano e, facendo ciò, riprende il
controllo della sua esistenza. Ai limiti incerti del mondo nel quale vive,
sostituisce i limiti tangibili e potenti dei suoi muscoli sui quali egli
esercita una padronanza radicale tanto negli esercizi che s’impone di
fare quanto nella sua alimentazione trasformata in dietetica calcolata
meticolosamente, o nella sua vita quotidiana sempre all’insegna del
controllo e del risparmio di sé. Il culturista è preoccupato soltanto di
alimentare la massa muscolare, il grasso è ai suoi occhi un parassita che
mobilita una strategia permanente di eliminazione. Certamente il
debuttante, per costruirsi una “base” suf iciente, deve mangiare
all’inizio per quattro per sviluppare il suo volume isico. Poi il grasso
accumulato è convertito in alimento del muscolo attraverso un
esercizio rigoroso e una dieta appropriata. La sua alimentazione, pura
materia per fabbricare muscoli, si basa su sapienti calcoli della somma
delle proteine da assorbire. È costretto a cinque o sei pasti al giorno agli
antipodi della gastronomia e assimilati come un’altra forma di lavoro da
sviluppare. Il supplemento nutrizionale è dato da proteine in polvere,
minerali e vitamine. L’alimentazione riveste il ruolo di disciplina a
pieno diritto che occupa talvolta parecchie ore della giornata, e
l’allenamento diventa una forma ascetica dell’esistenza completamente
dedicata ai muscoli e all’aspetto, una liturgia del corpo da plasmare
senza sosta. All’incertezza dell’appartenenza sessuale che caratterizza
le nostre società, il “body builder” oppone la dimostrazione senza
equivoci della sua mascolinità.
Nella donna impegnata in una pratica intensiva, l’assunzione di ormoni
maschili, associata alla dieta e agli esercizi, tende a cancellare la
femminilità e a produrre un corpo inedito nella sua forma, inde inibile
se non per il tagli di capelli o l’abbigliamento. Migliaia di uomini o di
donne si s iancano nel loro corpo posto in “alter ego” sempre davanti a
loro a specchio, poiché le palestre sono piene di specchi e gli esercizi
esigono la loro presenza. Si tratta di inventarsi da sé, di fare del proprio
corpo un terreno da sfruttare. C. Plaziat, atleta francese, da buon
dualista, afferma la sua ierezza “di avere questa muscolatura…di aver
costruito questo corpo per anni e anni. Tutto ciò, è gestito dalla testa
che induce la volontà e il coraggio” (Actuel, n° 19, 1992). Il vocabolario
è senza ambiguità. In Francia, un sondaggio della SOFRES effettuato nel
1995 calcola quattro milioni di persone che vanno dalla frequenza
regolare ed intensiva delle palestre ad una pratica più rilassata di
mantenimento della forma attraverso il culturismo. Si sa che negli USA,
in Brasile e in altri luoghi il fenomeno ha una dimensione sociale
considerevole.
Il body building è un inno ai muscoli, un rivoltamento del corpo senza
scorticamento, poiché le strutture muscolari sono visibili anche sotto la
pelle viva dei praticanti. E d’altra parte l’allenamento presuppone di
distinguere sequenze di muscoli da far lavorare separatamente le une
dopo le altre. Pezzo per pezzo, il “body builder” costruisce il suo corpo
alla maniera di un anatomista meticoloso legato alla sola apparenza
sotto – cutanea. Una formula d’uso dice, d’altra parte, che un corpo ben
preparato è “tagliato alla perfezione”.
La messa in disparte del corpo come “alter ego” è esplicita
nell’intenzione di questo praticante lanciato in un’operazione metodica
di scultura di sé: “Non bisogna guardare un muscolo come una parte di
sé, bisogna in realtà guardarlo come se si guardasse un oggetto. Bisogna
che una parte sia sviluppata, un’altra più af inata, ecc.; come uno
scultore tu fai dei ritocchi, come se non fossero parti del tuo corpo”.
Il culturista si forgia un corpo macchina dalle ri initure cesellate la cui
potenza è rinforzata dagli steroidi e dalla dietetica, un corpo fabbricato
pazientemente facendo lavorare uno dopo l’altro le fascie muscolari e
seguendo una meticolosa analisi della carne. L’uso lancinante delle
macchine raggiunge lo scopo, queste sembrano lentamente penetrare il
corpo ed entrare nella sua composizione, fanno fondere il culturista nel
paesaggio tecnico della palestra di culturismo. In una relazione con lo
specchio che gli strumenti di costruzione di sé diffondono, il “body
builder” è una fortezza di muscoli inutili nella loro funzione, poiché non
si tratta per lui di esercitare un’attività isica in un cantiere o di farsi
assumere come taglialegna in una foresta canadese. La potenza
muscolare è ricercata in sé, nella sua dimensione simbolica di restauro
dell’identità. Il muscolo non ha incidenza in una società in cui le attività
che richiedono forza isica tendono a sparire, sostituite dalle macchine,
paradosso (apparente) in una società tesa verso la cybercultura in cui,
lo vedremo, il corpo è spesso considerato come obsoleto. Il “body
builder”, il costruttore di corpi, costruisce i suoi con ini isici, li affronta
giornalmente attraverso un’ascesa isica basata su esercizi ripetitivi, in
un mondo di incertezza egli costruisce palmo a palmo un “contenitore”
che gli permette di restare padrone di sé o almeno crearsi sinceramente
l’illusione di essere in ine se stesso 9. Egli indossa il suo corpo come
una seconda pelle, un sovra – corpo, una carrozzeria protettrice, con la
quale egli si sente in ine al riparo in un universo di cui controlla tutti i
parametri.
Si ritrova qui il dolore come modo di affrontare simbolicamente il limite
e come tappa provvisoria di un’identità da costruire 10. La palestra di
culturismo è spesso paragonata ad una camera di tortura. Più si soffre,
meglio i muscoli si sviluppano e sono valorizzati. Nello stesso tempo il
dolore si muta in godimento diffuso che i “body builders” paragonano
spesso ad un atto sessuale. La sensazione sostituisce il signi icato, il
limite indotto dal corpo si sostituisce a quello che la società non dà più
e che bisogna elaborare in modo personale.
 
 
Il corpo - partner
L’immaginario sociale contemporaneo attribuisce un valore
fondamentale a questo corpo posto come partner privilegiato, il miglior
amico che si possa avere. Dopo un lungo periodo di discrezione, il corpo
s’impone oggi come luogo di predilezione del discorso sociale.
L’individualizzazione crescente delle nostre società occidentali ha
modi icato in profondità l’atteggiamento collettivo nei confronti del
corpo. L’individuo diventa la prima sorgente delle scelte e dei valori che
attinge più da ciò che trova al suo tempo, piuttosto che dalla fedeltà alla
pesantezza delle regole sociali; oggi egli è relativamente autonomo di
fronte alle innumerevoli proposte della società. Isolato strutturalmente
dal declino dei valori collettivi di cui è, nello stesso tempo, bene iciario
e vittima, l’individuo cerca nella sua sfera privata ciò che non raggiunge
più nella vita sociale abituale.
L’individuo scopre, a portata di mano, attraverso il suo corpo, una
forma possibile di trascendenza personale e di contatto. Il corpo non è
più una macchina inerte, ma un “alter ego” da cui emanano sensazioni e
seduzione. Diventa il luogo geometrico della riconquista di sé, territorio
da esplorare a caccia di sensazioni inedite da cogliere (cure del corpo,
p g ( p
massaggi, ecc.), luogo privilegiato del contatto desiderato con
l’ambiente (jogging, passeggiate, ecc.), luogo privilegiato dello star bene
o dell’apparire bene attraverso le forme e la giovinezza da mantenere
(frequentazione di palestre, ginnastica, body building, cosmetici,
dietetica, ecc.). Si tratta dunque di soddisfare questi rapporti sociali
basati sulla seduzione, cioè lo sguardo degli altri. L’uomo intrattiene
con il suo corpo, avvertito come il suo miglior terreno di sfruttamento,
una relazione materna di tenera benevolenza da cui ricava nello stesso
tempo un bene icio narcisistico e sociale, poiché sa che, in certi
ambienti, il giudizio degli altri parte dal corpo.
Questa passione improvvisa nei riguardi del corpo è una conseguenza
della strutturazione individualista delle nostre società occidentali,
soprattutto nella sua fase narcisistica, come l’analizzano, ad esempio, C.
Lasch, R. Sennett o G. Lipovetski. Ripiegandosi su se stesso, l’individuo
ha conquistato un mondo “portatile” di cui si sforza di mantenere la
seduzione, di esplorare sempre di più le sensazioni, di portare sempre
più in là i con ini: il proprio corpo promosso al rango di partner
privilegiato. È proprio la perdita dei signi icati del mondo che spinge
l’attore a preoccuparsi del suo corpo per dare sostanza alla sua vita. In
se stesso ritrova quel partner compiacente e complice che manca al
proprio ianco. Nello stesso tempo i luoghi in cui ci si prende cura del
corpo sono spazi propizi per incontri occasionali e calorosi dove si
possono trascorrere momenti piacevoli senza dover impegnarsi di più.
La passione nei confronti del corpo modi ica senza dubbio il contenuto
tradizionale del dualismo, che faceva del corpo la parte decaduta della
condizione dell'uomo. In questo versante della modernità, il corpo è
associato ad un valore incontestabile, e questa infatuazione tende a
psicologizzarlo, a farne un luogo felicemente abitabile aggiungendovi
una sorta di supplemento dell’anima (supplemento di simbolo).
Favorisce, nella scala dell’individuo, una sorta di sostituto dell’altro.
Questa preoccupazione dell’apparenza, questa ostentazione, questa
volontà di stare bene che spinge a correre o a fare esercizi, non
modi ica tuttavia per niente la cancellazione del corpo che regna nella
vita sociale. L’occultamento del corpo resta e trova la sua miglior
indicazione nella sorte riservata agli anziani, ai moribondi, agli
handicappati o nella paura che abbiamo tutti di invecchiare. Si allarga
in qualche modo un dualismo personalizzato, che non bisogna
confondere con una “liberazione”. L’uomo sarà libero a questo riguardo
soltanto quando ogni preoccupazione del corpo sarà scomparsa.
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1. I temi sviluppati qui riprendono in parte il primo capitolo di David Le
Breton “L’addio al corpo” Paris, Métailié, 19991 Vedere a questo
riguardo le analisi di M. Dery, “Vitesse virtuel. La cyberculture
aujourd’hui”, Paris, Abbeville, 1998.
2. Helèna Velena “Dal cybersex al transgender. Tecnologie, identità e
politiche di liberazione”, Roma, Castelvecchi, 1995, p.191.
3. Vedere a questo proposito David Le Breton “Dei volti. Trattato di
antropologia”, Paris, Métailié, 1992.
4. W. Cooper, “Sesso estremo. Pratiche senza limiti nell’epoca cyber”,
Roma, Castelvecchi, 1996, p.86.
5. Daniel Welzer – Lang “Prostituzione. Les uns, les unes, les autres”,
Paris, Métailié, 1994.
6. Il travestimento è d’altronde una dimensione essenziale della “body
art” che esprime la volontà di liberarsi dei limiti dell’identità sessuale
(Journiac, Luthi, Molinier, Castelli, etc…). Cantanti conosciuti giocano
con l’ambiguità del loro aspetto (David Bowie, Boy George, Michael
Jackson, etc…). M. Jackson, che si è fatto rimodellare il viso, lisciare i
capelli, schiarire la pelle, ecc. è l’esempio sorprendente del modo con
cui il corpo non è che un’apparenza la cui messinscena è l’equivalente
di una nascita di sé.
7. Su Fakir Musafar e sui “modern primitivs” rinviamo al dossier di
Research (1989)
8. Vedere D. Le Breton “Passione del rischio”, Gruppo Abele, TO.
9. Vedere a questo riguardo le analisi di M. Dery, “Vitesse virtuel. La
cyberculture aujourd’hui”, Paris, Abbeville, 1998.
10. Abbiamo affrontato a lungo il rapporto stretto con il dolore
muscolare nelle attività isiche e sportive dell’estremo in “Passioni del
rischio” o in “Antologia del dolore” (Métailié, 1995), non ci ritorneremo
qui ma troviamo in molte attività sociali questo stesso passaggio
obbligato attraverso il dolore per produrre qualcosa di signi icativo. La
cultura sado – masochista che i punks avevano tirato fuori dai loro
centri nell’Inghilterra degli anni settanta e che è diventata di moda, ha
pure uno sviluppo considerevole. Si tratta, anche in questo caso, di
produrre un dolore signi icativo per chi la pratica in una relazione
ritualizzata con un altro.
Il tatuaggio come rito ‘privato’ di
passaggio all’età adulta fra i
giovani reggiani di oggi
Antonia Angelini
 
Tatuaggio come rito di iniziazione privato 1

Il mio lavoro di ricerca sui signi icati del tatuaggio fra i giovani reggiani
d’oggi è consistito in un insieme di interviste a trentadue giovani
reggiani, che fanno parte di tre compagnie cittadine, e alle interviste ai
quattro tatuatori uf iciali presenti in provincia: Tony Messina, Lauro
Paolini, Antonella Tambakiotis ed Elisa Vaccari.
Da queste interviste emerge un dato fondamentale: il tatuaggio spesso
è associato ad un momento della crescita psicologica, quello del
passaggio all’età adulta.
Il passaggio all’età adulta, in tutte le culture rappresenta un momento
particolarmente ansiogeno, in cui, sia a livello individuale, che a livello
sociale, viene colto un dato di frattura nel tranquillo tran tran
quotidiano, determinato dal fatto che un certo numero di soggetti non
fa più parte del gruppo dei bambini, ma non fa ancora parte del gruppo
degli adulti.
Solitamente questa situazione di ansia e di angoscia viene risolto a
livello culturale attraverso un insieme di cerimonie che mediano ed
accompagnano il passaggio. Cerimonie che solitamente consistono in
un insieme di riti sociali di separazione, marginalizzazione e
aggregazione (Van Gennep, 1981).
Afferma Van Gennep (op.cit) che ‘coloro che, in questo tipo di culture,
sono stati già iniziati, conoscono l’età in cui il non più bambino diventa
un candidato all’iniziazione, conoscono quali sono le cerimonie che
accompagnano il passaggio, in quale luogo tali cerimonie avvengono e
chi sarà il sacerdote of iciante il passaggio’ 2.
La società solitamente in questo modo mostra di essere consapevole
che il giovane che intraprende un rito di iniziazione lascia la sua vecchia
identità per sposarne una nuova.
Secondo Van Gennep (op.cit.), inoltre, il rito di iniziazione si può
descrivere partendo dalla constatazione che, presso tutte le culture, la
pubertà isiologica e quella sociale sono due cose parzialmente
differenti, che non sempre coincidono, e che in ogni caso, quando si
parla di riti di iniziazione, ci si riferisce sempre alla pubertà sociale, più
che a quella biologica .
La circoncisione, il taglio del lobo dell’orecchio, del setto nasale, la
pratica del tatuaggio e delle scari icazioni, sono pratiche usuali che
caratterizzano i riti di iniziazione. Il rito di iniziazione provoca una
separazione - da qui l’idea del tagliare, perforare, dice Van Gennep
(1981:65) - da qualcosa che non c’è più (l’infanzia) per poi
successivamente far si che avvenga una aggregazione (del giovane nel
mondo adulto).
Il rito immette il novizio in due nuove dimensioni del tempo e dello
spazio, in base alle quali avvengono una serie di fenomeni che
prevedono e cerimonializzano: - una separazione del novizio dal mondo
precedente, per il quale egli è già morto; - un periodo di
marginalizzazione, nel quale il novizio viene sottoposto a prove; come
la circoncisione, etc. - la permanenza per un certo periodo, che varia da
cultura a cultura, in una dimensione temporale e spaziale che sono
estranei a quelli della comunità; - il fatto che il novizio segue delle
norme tipiche solo di quello spazio e di quel tempo, - e alla ine, dopo
questo periodo appunto di marginalizzazione, il fatto che il soggetto
viene reinserito, attraverso dei riti di aggregazione, nella comunità. Il
novizio, in questo modo, assumendo una nuova identità, compie una
vera e propria rinascita.
Oggi – però - nelle realtà metropolitane, la società sembra curarsi poco
della cerimonializzazione del passaggio all’età adulta: e ciò avviene
proprio ora che esso viene a dilatarsi nel tempo a causa di esigenze
formative che prendono, in maniera crescente, la maggioranza dei
giovani e delle giovani.
L’adolescenza in questo modo anche nella metropoli postindustriale,
come e ancor più che in passato, diviene un luogo in cui ci si perde e ci
si ritrova: ci si perde come bambini e ci si ritrova come adulti, il luogo
elettivo della scomparsa in quanto bambini e della rinascita psicologica
in quanto adulti.
Ma oggi, al contrario di ieri, l’adolescente è lasciato solo dalla società e
deve affrontare, in questo stato di solitudine, le ansie e le angosce del
passaggio, mentre di fronte a lui, il gruppo degli adulti - che una volta
prevedeva al proprio interno dei veri e propri sacerdoti del passaggio,
in grado di de inire, i candidati alle cerimonie di separazione,
marginalizzazione e reintegrazione nella comunità - oggi si erge spesso
contro di esso e, in ogni caso, non sembra più in grado di comprendere
e di socializzare e cerimonializzare il passaggio.
Cosicché ieri, a cavallo della crisi puberale (arrivo del menarca, per le
ragazze, e della capacità erettiva, per i ragazzi), la comunità aiutava
ragazze e ragazzi sia nella due fasi iniziali di separazione e di margine,
sia nella fase inale di ride inizione e di ricollocazione nella gerarchia
sociale, e come vedremo meglio nel prossimo paragrafo,
ri\identi icazione (nel corpo e nella psiche) in quanto adulti.
Oggi la società si è privata di quella specie di utero sociale (Kern),
rappresentato dalla cerimonializzazione del passaggio, e non sembra
possedere più in sé la capacità di togliere il non più bambino ed il non
ancora adulto da quella penosa e pericolosa condizione di assenza di
signi icato e per ricollocarlo all’interno del più confortevole e meno
angosciante universo delle cose conosciute e de inite.
La mimesi della morte e della rinascita, in questo modo – presente in
tutte le cerimonie sociali del passaggio - rimane tutta sulle spalle dei
singoli soggetti, che, per soprappiù, non avendo di fronte a sé la
prospettiva di un rapido ingresso nel mondo degli adulti, devono
affrontare un lungo iter personale e privato di passaggio (se sono in
grado di farlo) in cui vige per lungo tempo una situazione di pericolosa
discontinuità, di prolungata permanenza in una situazione di liminarità,
in cui l’adolescente è costretto a compiere un insieme del tutto
personale di atti volti al reinserimento nella comunità in quanto adulto,
a risolvere in modo del tutto personale e privato quella tensione alla
ricomposizione del corpo sociale, che le altre società risolvono
attraverso cerimonie sociali, e cioè condivise da tutta la comunità.
Fortunatamente, se noi analizziamo ciò che effettivamente succede oggi
a livello funzionale, indipendentemente dalla coscienza che la società
ha di svolgere queste funzioni, possiamo dire che, ad esempio, la scuola,
così come molti altri luoghi dell’adolescenza, nei fatti svolge una
funzione di cerimonializzazione del passaggio. E’ riscontrabile infatti
l’esistenza di un percorso che scandisce le tappe della crescita
psicologica, anche se occorre aggiungere che gli agenti adulti di queste
cerimonie sono spesso totalmente ignari di essere i sacerdoti of icianti
di un simile rito.
In questo modo l’adolescenza diventa un lunghissimo momento
liminare praticamente interminabile per i post-adolescenti, cioè gli
universitari. In questa situazione il soggetto che si va formando si trova
come sospeso in una specie di “ Isola che non c’è” , cioè in un luogo a
parte che ha tutto il fascino, ma anche tutti i pericoli di illusorietà
presenti nell’Isola che non c’è, e in un tempo a parte che si prolunga
all’in inito non permettendo al giovane di vedere la tappa inale della
reintegrazione nella società.
Cosicché oggi siamo di fronte, da una parte a riti privati di iniziazione,
fra i quali il tatuaggio, dall’altra alla presenza di funzioni rituali,
cerimoniali di passaggio, mediate dagli adulti, che però non sono
coscienti di esplicare questa funzione.
Ed, in particolare, il periodo di marginalizzazione, nella nostra società,
si è dilatato e consolidato. Durante questo periodo il soggetto vive
appunto in un luogo e in un tempo a sé, in cui lo spazio e il tempo
liminari vengono costruiti dall’adolescente: si pensi ai luoghi e ai tempi
della discoteca, allo slang, cioè al gergo delle comunità giovanili, e cioè
al loro linguaggio subculturale, alla funzione svolta sul piano
identi icatorio dalla musica, eccetera.
L’adolescenza assume così le caratteristiche di un’emarginazione
volontaria, in cui la ritualizzazione è presente ed è rappresentata
dall’inaspettato riemergere di pratiche arcaiche e sensoriali. Claude
Riviére afferma:
“La ritualità adolescenziale contemporanea è attratta verso la
sensorialità: ritmo e scansione, tatuaggio, giochi di linguaggio, di luci e
di sonorità, attrazioni per gli effetti della droga, incanto per il
movimento del corpo. Quando il giovane non ha più dei riferimenti
sociali precisi, cerca di costruirsi una propria ritualizzazione anche
attraverso la ricostituzione del simbolico. Il giovane è libero di agire e
deve trovare da solo la sua strada nell’incertezza del mondo moderno”
(Rivière,1998: 107).
L’assenza della società nell’aiutare il giovane a trovare la propria
identità, fa si che questo la cerchi da solo sottoponendosi a prove
personali che gli consentano di testare i suoi limiti (Le Breton, 1990).
Ed in effetti, da quanto emerge dalle interviste, il giovane nel sottoporsi
alla pratica del tatuaggio, sembra che si sottoponga a tutti gli effetti ad
una prova, Elia infatti racconta:
Elia: :…sul il primo tatuaggio (che mi ha fatto un male boia) non lo
rimpiango lo sai che fa male ma lo sai sempre per modo di dire, lo sai da
quello che c’è andato prima di te ma inché non ci vai tu, è come per gli
esami!..
Il rito ha effetti strutturanti e afferma l’identità del soggetto, ne forma
anzi, una nuova: riprendendo sempre l’esame delle interviste, si deduce
che la pratica del tatuaggio è associata dal soggetto ad un periodo
particolare della sua vita, è associata ad un cambiamento che sta
vivendo.
Ecco le parole di un intervistata, Francesca:
FR.:…poi va bene era un periodo un po’ strano, avevo appena inito la
scuola, mi sentivo già libera, già grande, quindi probabilmente l’ho fatto
per quello…
Ricercatrice: Prova a raccontarmi un po’ questo periodo
FR.: cosa ti racconto, che ero spensieratissima, avevo tantissima voglia
di divertirmi, avevo tantissima voglia di stare con le mie amiche, non
ero idanzata, mi innamoravo continuamente.. venivo a casa alle cinque
di mattina.. queste erano le cose di quel periodo, per me cominciava
una nuova vita perché iniva la scuola e quindi non sapevo ancora cosa
andavo a fare, non avevo le idee chiare quindi, comunque non avevo
voglia di studiare, avevo voglia di essere indipendente economicamente
per andare in giro e comprarmi quello che volevo..
E’ chiaro che Francesca in quel periodo, diremmo noi, stava vivendo
una situazione di liminarità, cioè di marginalizzazione, del tutto
personale e privata, di chi ancora non ha de inito in maniera chiara la
propria identità adulta; così come è chiaro che, d’altro canto, oggi
Francesca appare cosciente di questo suo stato e associa in maniera
inequivocabile questo periodo con la pratica del tatuaggio.
Francesca, in ultima analisi, oggi si sente diversa e cambiata, il tatuaggio
dunque rappresenta un modo per affermare questa sua diversa
condizione.
Abbiamo così conferma del fatto che, così come vi sono dei punti in
comune fra riti di iniziazione odierni e riti delle società tradizionali, allo
stesso modo rileviamo che ci sono anche delle differenze fra i due tipi di
ritualizzazione: oggi la ritualità è un fenomeno individuale e privato,
che non si inquadra in alcuna cerimonia socialmente prevista.
Gli intervistati, inoltre, a conferma di quanto detto sulla scuola, hanno
spesso risposto alla domanda mirante ad individuare le tappe che
hanno contrassegnato la crescita psicologica del soggetto ed i
cambiamenti vissuti come signi icativi, individuando nella scuola, e più
precisamente nel passaggio da una scuola ad un'altra, da una classe ad
un’altra, uno dei più importanti metri di paragone in grado di
testimoniare la propria crescita psicologica.
Franca, da questo punto di vista, rappresenta un bel esempio:
Ricercatrice: Mi puoi descrivere le tappe principali della tua crescita, i
momenti di cambiamento, gli eventi critici sia positivi che negativi?
Franca: Sicuramente il periodo delle medie è stato un periodo brutto
proprio…le medie inferiori è stato un periodo ..ero nella fase critica
dove ti devi trovare un nuovo corpo, una nuova esistenza, per cui
brutto.. non traumi particolari però.. le superiori direi abbastanza
stabile, io vado a periodi scolastici, ho vissuto le mie esperienze
adolescenziali in maniera tranquilla ..altri momenti, l’università e il
fatto di aver trovato il ragazzo con il quale sono stata sette anni….
La scuola però, come dicevo nel terzo capitolo, e come prima ha detto F.
Vanni (1992), spesso non appare cosciente di questo suo ruolo così
importante. Lascia sulle spalle del giovane tutte le ambiguità connesse
al cambiamento di identità, cioè a quel secondo processo di
individuazione che avviene nell’adolescenza e che, come afferma Octave
Mannoni (1988), più che un processo di identi icazione, si de inisce
come un drammatico processo di disidenti icazione.
Affermano gli psicologi che si sono interessati dei problemi della
crescita e dell’adolescenza (Erikson, Blos, O. Mannoni) che le fasi di
cambiamento del soggetto sono molto importanti nel costituirsi
dell’identità, e - nel contempo - molto delicate.
La crescita, il passaggio da una fase all’altra comportano sempre la
perdita di certi atteggiamenti, di certi aspetti della propria identità,
prima ancora che gli elementi nuovi, tipici della nuova età si siano
strutturati dentro al soggetto. Ciò comporta l’insorgere, in questi
momenti, di un tasso di angoscia molto alto e la comparsa di con litti
interni ed esterni alla persona.
D’altro canto il soggetto, di fronte ai cambiamenti, non solo reagisce con
l’angoscia per la nuova situazione, ma anche con sentimenti depressivi
originati dalla perdita di precedenti rapporti o situazioni, cioè
sviluppando un lutto simbolico.
Ciò è vero in qualsiasi età, ma è ancora più vero e drammatico in
adolescenza, allorché i cambiamenti sono così radicali, soprattutto a
livello corporeo.
D’altro canto in ogni processo educativo vi sono elementi che evolvono
altri che restano relativamente stabili. Il cambiamento ottimale
avverrebbe se le parti della personalità che non cambiano
assimilassero il nuovo, mantenendo una coerenza e una continuità a
livello dell’identità. Cioè a livello della propria immagine psichica e
isica. Ma ciò durante l’adolescenza è praticamente impossibile poiché i
con litti sono più frequenti e più intensi che negli altri periodi di
passaggio, e l’angoscia che ne scaturisce si forma a partire dagli svariati
lutti che derivano da questi continui cambiamenti di ordine sia isico
che psicologico.
Crescere signi ica passare attraverso una successione di lutti.
Afferma Blos che durante l’adolescenza si opera il secondo processo di
individuazione (Blos,1979), in quanto che il primo è stato raggiunto dal
bambino verso la ine del terzo anno di vita attraverso l’acquisizione
della costanza dell’oggetto. Con il secondo processo di individuazione
l’adolescente opera il distacco dalle dipendenze familiari, l’acquisizione
di un proprio punto di vista sul mondo, il passaggio dalla endogamia
alla esogamia, l’apertura verso il mondo e verso la vita di coppia,
dapprima solo sognate e più o meno timidamente sperimentate,
successivamente - mano a mano che il processo maturativo prosegue -
sempre più coerentemente perseguite (se le cose vanno
suf icientemente bene).
L’adolescente è un soggetto in transizione continua, e il distacco dagli
oggetti interiorizzati precedentemente, apre la strada ad oggetti di odio
ed amore esterni ed extra-familiari.
In questo senso si possono meglio interpretare quei comportamenti che
evidenziano il distacco del giovane dalla famiglia.
Anche nella mia ricerca quasi tutti gli intervistati - a meno che non si
parli di giovani che si sono praticati il tatuaggio in età già più adulta -
quando hanno risposto alla domanda concernente il vissuto del
tatuaggio all’interno della famiglia, hanno raccontato dell’emergere di
episodi con littuali, fatti un po’ di menzogne e un po’ di litigi.
In sei interviste addirittura, il giovane fa riferimento al tatuaggio come
un atto di ribellione nei confronti della famiglia.
Nelle parole di Luisa, ad esempio, si possono cogliere molto
precisamente, questi atteggiamenti:
Ric.: quando ti sei fatta il tatuaggio è stato un momento dunque di
libertà, di indipendenza?
Luisa: Si quello sicuramente.
Ric.:Un momento di indipendenza dalla tua famiglia?
Luisa: Anzi fargli un torto più che indipendenza forse, cioè non è stato
fargli un torto perché sinceramente non ci tengo a fargli dei tori. Lo so
anche io che più mi dicono di non fare una cosa più la voglio fare, però è
proprio di dire non me ne frega niente di quello che dicono, io ci tengo a
farlo e comunque so prendere i miei rischi; sono cosciente di quello che
ho fatto, non l’ho fatto per ripicca.. io sono anche una “bestia” che se
sono convinta di una cosa è dif icile che cambi idea, se sono convinta
signi ica che me lo devo fare..
Seguendo il percorso dell’individuazione in adolescenza, possiamo
osservare come il ricorso all’acting out sia frequente in questa fase.
Per acting out si intende quel momento in cui la concretezza,
l’impellenza dell’azione sostituiscono l’elaborazione a livello mentale.
Nelle interviste svolte si è notato che la maggior parte dei soggetti
scelgono di tatuarsi in modo frettoloso e non meditato. Nelle parole di
qualche intervistato si ritrova la frase : “ è stata una scelta impulsiva”:
Ad esempio in Claudia:
Ric.: Mi poi descrivere se quando ti sei praticata il tatuaggio è stato un
periodo particolare?
C.: …..Ero molto piccola, è stato un colpo di testa
Ric.: Cosa intendi per colpo di testa?
C.: Si un colpo di testa che tuttora rifarei una cosa dettata dall’istinto
niente di particolare
Ric.: Ti ricordi qualcosa di più preciso?
Claudia: no, diciamo che stavo lasciando il mio gruppo di amici che
frequentavo nell’adolescenza, il gruppo del (bar) Mazzoli, quella gente
lì, un modo per dire sono differente, per dire.. non so… Devo ammettere
che ero stata scottata parecchio, perché avevo discusso con queste
persone, quindi forse questo è l’unico aneddoto che mi posso ricordare..
Da quanto emerge da questa intervista il gesto del tatuarsi è vissuto dal
soggetto come “un colpo di testa”, che è stato fatto in un momento
particolare di cambiamento, in cui il soggetto sta cambiando gruppo di
amici, sta vivendo una situazione di lutto, che non riesce in quel
momento a elaborare razionalmente. Si trova quasi costretta a vivere
sul piano dell’azione irri lessiva, dell’acting out.
Occorre a questo punto ricordare che, quando si parla di acting out,
sembra sempre che si alluda a qualcosa di negativo; sembra cioè che
l’aspetto positivo dell’acting out sia spesso ignorato. Invece Blos (1979)
ci insegna che, così come esiste un versante negativo dell’acting out,
esiste anche un versante positivo. La differenza fra l’uno e l’altro
sarebbe, secondo Blos (op.cit.), nel fatto che l’uno ha un coté regressivo
alle spalle, cioè è un indizio di regressione, l’altro ha un signi icato
progressivo e di crescita psicologica.
Tra i soggetti che ho intervistato, la facciata positiva dell’acting out
sembra prevalere, poiché l’azione del tatuarsi aiuta il soggetto a
superare il lutto che deriva dal cambiamento e dalle ansie e angosce
connesse col passaggio che il giovane sta vivendo.
La scelta di tatuarsi appare come meditata solo in quattro intervistati
tatuati.
A sostegno dell’azione che scavalca il pensiero riporto le parole di
Nicola:
Ric.: La scelta di praticarti il tatuaggio come è stata?
Nic.: è come quando mi sono tagliato i capelli a zero, mi è venuto in
mente e l’ho fatto.. poi ti voglio far capire che sono stato contento di
averlo fatto perché spesso mi capita di prendere queste decisioni
improvvise, faccio la tal cosa e magari a mente più serena dico ma forse
è meglio che ci pensi bene. Invece con il tatuaggio e con il taglio di
capelli sono andato via senza far delle storie. Sì l’ho detto e l’ho fatto…
 
Tatuaggio e crisi di identità: un corpo ed una mente nuova in cerca di
senso
La capacità di sentirsi se stesso nel cambiamento costituisce la base
emozionale per l’identità.
Il sentimento di identità si fonda sulla possibilità di sentirsi separato e
diverso dagli altri; nasce sempre da una differenziazione e successiva
integrazione delle parti che si sono formate nel cambiamento con
quelle che già esistevano prima.
Questo può avvenire su tre piani: spaziale, nel senso di una
differenziazione tra Sé e non Sé (cioè resto del mondo); temporale, che
riguarda le diverse rappresentazioni del sé nel tempo; sociale, che
consiste nella relazioni tra aspetti del sé e aspetti degli oggetti, cioè
delle persone che ci stanno intorno e alle quali, per un verso o un altro,
siamo legate.
L’uomo dunque ricerca una identità del tutto personale e circoscritta al
proprio mondo esperienziale, all’interno del quale è in rapporto con gli
altri, ma tende anche a differenziarsi da essi, specialmente in società
come la nostra che esaltano l’individualità.
Secondo Napolitani, infatti esiste, in ciascuno di noi, un aspetto che ci
ricongiunge alle persone importanti della nostra vita, che ci hanno
in luenzato con il loro esempio, aspetto che lui chiama idem, ed un altro
versante che ci distingue da essi, così come da tutti gli altri, che sempre
Napolitani chiama autos. Società statiche, fredde, direbbe forse Levi
Strauss, implicano un allargamento dell’idem, a spese dell’autos. Società
dinamiche, quali quelle metropolitane e postindustriali, al contrario
esaltano l’autos, cioè l’individualità, la singolarità, l’unicità del soggetto.
Habermas, parlando del rapporto fra uomo contemporaneo e uomo
medievale, sostiene che nel medioevo anche uomini eminenti e
originali, quali gli artisti, non si sarebbero mai sognati, per esempio di
irmare le proprie opere, poiché la dimensione gruppale dell’esistenza
era preminente e tendeva a schiacciare quella individuale, in quel
periodo.
Oggi invece l’individualità impera e qualsiasi cosa riceve il marchio
dell’individuo o del gruppo speci ico di individui, con tanto di nome e
cognome, che l’hanno compiuta, o solo immaginata.
E’ vero però che oggi, proprio per questa smania di individualismo, la
spinta all’individuazione si può fermare ad un livello primitivo,
elementare, che scaturisce da semplici differenziazioni che, specie in
momenti di crisi e di passaggio, sono de inite attraverso aspetti ef imeri
che pure contribuiscono a de inire l’individualità; aspetti quali i vestiti,
gli ornamenti e, fra questi, il tatuaggio.
In questi casi, è come se il soggetto, invece di approfondire da un punto
di vista psichico i signi icati profondi insiti nel processo di
individuazione, cercando di ricondurlo a igure del proprio mondo
interiore, ci tenesse a differenziarsi solo attraverso un segno estetico,
un evento apparentemente marginale e poco importante, ma che in
quel determinato momento, in quel determinato soggetto forse
acquisisce un signi icato particolare.
Nella nostra società di tipo postindustriale, questo differenziarsi
attraverso aspetti corporei è un topos poiché ormai viviamo in una vera
e propria ossessione visiva (Tropea, in: Cerani, Grandi, 1995:95), in cui
cioè il dato sensoriale più stimolato è senza dubbio la vista.
A partire da ciò è fuori dubbio che questa cultura della visibilità (op.cit)
sia penetrata anche nel mondo giovanile.
La differenziazione, a partire da questa modalità apparentemente
super iciale, però non va sottovalutata poiché rappresenta forse per il
giovane l’unico tentativo che egli ha sottomano in quel momento per
affermare la propria identità.
Dalle parole di Claudia possiamo comprendere con maggior chiarezza
che signi icato può assumere la pratica del tatuaggio per il soggetto,
all’interno del proprio faticoso processo di individuazione:
Cl.: Quando mi sono fatta il tatuaggio avevo quindici anni, lì è stato un
mio dovere per differenziarmi, per dire ‘sono diversa’..
Alle volte il possedere un tatuaggio non soddisfa in pieno il desiderio di
sentirsi diverso, perciò il soggetto ricerca qualcosa in più.
Il tatuato desidera che il proprio tatuaggio sia unico e non confondibile.
Nel paragrafo iniziale abbiamo visto quanto sia presente questa
inclinazione fra i giovani d’oggi. L’intervista di Elia ben rappresenta ciò
che voglio esprimere:
Ric.: Descrivimi il tuo tatuaggio
E.: …L’idea era quella di avere un tatuaggio che mi piace sulla pelle, però
l’ho modi icato perché avere un tatuaggio che può essere uguale a
quello di un altro, anche se il tuo è nascosto, mi dava da fare (mi dava
fastidio); invece quella è una cosa mia.
Nel momento in cui il soggetto è immerso nel cambiamento, si può
sentire sperso ed angosciato, in questo momento il tatuaggio è un
elemento che aiuta il soggetto ad affermare la propria identità.
Non ci si dovrebbe sorprendere, quindi, se tra i carcerati e tra i marinai
si rilevi una percentuale così alta di persone tatuate. Infatti in
condizioni in cui l’anonimato rappresenta una regola, ed in cui il corpo
appare come assente in determinate funzioni importanti, poiché
impedito dalla situazione di contenzione, il tatuaggio può sopperire,
almeno in parte, alla mancanza di un’identità personale socialmente
riconosciuta e di spessore corporeo, dato dall’esercizio della corporeità
nella vita affettiva e nel lavoro.
Tra le interviste che ho svolto, ho intervistato, fra l’atro, un soggetto
tatuato in gran parte del corpo che porta all’estremo le considerazioni
qui sopra fatte.
Questo soggetto possiamo dire che impone la propria presenza
attraverso la bizzarria e l’inusitato.
La società postindustriale è caratterizzata da spinte neo - tribali, che
sono la conseguenza del modello iperindividualista imposto dai valori
dominanti. Il soggetto che sceglie strade così chiassose e
esibizionistiche per imporre la propria presenza è come se cercasse, in
questo modo, di conferire un senso più forte alla sua esistenza e al suo
corpo, che altrimenti rischierebbe di apparire ai suoi occhi come
pericolosamente impalpabile e sfumato.
Tramite il tatuaggio il soggetto sente che può acquisire una maggior
consapevolezza di sé, così come traspare dal seguente brano
dell’intervista ad Andrea:
Ric.: Mi puoi descrivere le sensazioni che hai provato prima di tatuarti,
durante e dopo?
A.: Prima paura, insicurezza, quando sono entrato però dentro nel
locale, mi son seduto, ero convintissimo, mentre me lo faceva dicevo:
“questo non va più via e rimane mio, è una cosa seria!” quando ho inito
il tatuaggio mi sono alzato, mi sentivo più grande, più forte, una
sensazione piacevole che da quell’attimo lì, è una cosa importante, ti fa
sentire più grande.
L’identità personale deve essere in qualche modo garantita mediante
identi icazioni che fungono da rassicurazioni che si possono trovare
dentro di noi, e che possono essere ideali politici, religiosi eccetera; o
fuori di noi, che ci provengono cioè dal mondo esterno. In questo
secondo caso è come se chiedessimo agli altri di dirci in maniera
igurata chi siamo.
Durante il periodo di cambiamento, ed in particolare in adolescenza,
poiché la struttura della personalità è più vulnerabile, dato che il
soggetto, come dicevamo prima sa di non essere più quello di prima, ma
non sa con precisione cosa sta diventando, ha bisogno di rassicurazioni
ulteriori.
Il curare la propria immagine, il praticarsi tatuaggi, fa sentir bene, dà
sicurezza.
Il tatuaggio quale sistema di segni applicato direttamente sulla pelle,
diventa così un mezzo per enfatizzare il corpo, che sta cambiando
forma, presso se stessi e presso gli altri.
Secondo Achille Bonito Oliva (1985), il tatuaggio diventa allora un
mezzo di espressione narcisista che può essere diretto verso l’interno o
verso l’esterno.
Andrea descrive le sensazioni che prova quando il suo tatuaggio è visto
da estranei:
Ric.: di fronte agli estranei che sensazioni hai provato?
Andrea: Piacere di essere giudicato e guardato
Ric.: Ti ricordi degli episodi signi icativi?
Andrea: Ma no, magari solo occhi addosso, però bene o male mai
nessuno che mi abbia detto qualche cosa anzi, i ragazzi della mia età
dicono “ che bello dove l’hai fatto?”; però comunque non ho avuto
problemi
Ric.: Cosa intendi per piacevole?
Andrea: Piacevole, magari mi piaceva essere guardato con occhi non
d’accordo con quello che ho fatto, giudicato
Ric.: Ti inorgogliva?
Andrea: Certo perché quello che volevo fare era quello.
 
In queste parole possiamo trovare una traccia signi icativa, io penso,
dell’atteggiamento di chi specchiandosi negli occhi altrui trova un
riscontro che lo riporta, o almeno lo illude di riportarsi alla propria
identità.
In ine il tatuaggio sembra andare in due direzioni: verso l’esterno
allorché il tatuaggio è praticato su parti del corpo esposte e visibili,
verso l’interno quando il tatuaggio è nascosto e non è visibile agli altri.
Quando il tatuaggio va verso l’esterno acquisisce un signi icato
simbolico che lo apparenta al graf ito. Infatti il graf ito e il tatuaggio
sembrano mossi dal medesimo sentire che è quello di costruire senso
mediante applicazione di segni (più noti graf isti accompagnano questa
attività con quella di tatuatori).
Il tatuaggio così ci riporta al corpo individuale, mentre il graf ito al
corpo urbano. E così come nella nostra società vi è una nuova centralità
del corpo, come contraltare di un universo dominato dalla tecnologia,
allo stesso modo il graf ito rappresenta il contraltare del segno
pretecnologico nei confronti di una città urbana sempre più estranea
all’individuo.
E da una parte il corpo si propone sempre di più come espressione di
senso e di comunicazione, e tramite le alterazioni corporee, quali il
tatuaggio, si cerca di issare il senso che viene diluito e scompare ad
esempio nelle pratiche telematiche. Dall’altra il graf ito ripropone alla
città la corporeità materiale, di fronte alle tendenze alla ride inizione
alienata ed alienante degli spazi 3.
Connesso con il tema della smaterializzazione e della perdita di senso
del corpo è in ine il tema del dolore che, per quanto riguarda il
tatuaggio, ha un ruolo spesso centrale e sembra poter assumere il
signi icato di riproporre al giovane la percezione della sostanza e dello
spessore corporale e, in questo modo, la percezione della propria
esistenza.
Il dolore, come abbiamo visto da molte interviste è un elemento
sicuramente immanente nella pratica del tatuaggio.
Riportiamo qui sotto brani dell’intervista a Diego:
Ric.: Il rapporto con la tatuatrice?
D.: nessuno; di sofferenza, anche perché io soffrivo tantissimo e faceva
molto male, ma lei non smetteva, avrà smesso due volte in un due ore,
ma si fermava due secondi proprio, non è che si fermava mezz’ora! Io
proprio non ne potevo più…
Tatuarsi o no: ipotesi sui perché di una scelta
Se ci chiediamo perché, in ultima istanza, una parte dei giovani delle tre
compagnie considerate si tatua, ed un’altra no, emergono tutta una
serie di componenti che congiungono ancora una volta le nostre
interviste al materiale teorico che abbiamo tentato di riassumere nella
prima parte del presente lavoro.
Sembrerebbe, a prima vista, che il dato più evidente e discriminante sia
quello dell’acting out, cioè di quell’agire impulsivo e irri lessivo, che
abbiamo riscontrato in molte interviste con soggetti tatuati:
Pat.: ero piccola, avevo diciotto anni, l’ho fatto senza testa, senza
pensarci..
Ric.: La decisione è stata casuale, sono andato con L. in un negozio di
tattoo, ho visto il geco (il soggetto del tatuaggio) me ne sono
innamorato
Nelle interviste dei soggetti non tatuati traspare, anche se questi
sembrano possedere, più dei primi, una capacità di inibizione dell’agire
impulsivo:
Ric.: Hai mai avuto voglia di fartelo? Se si in che occasione? (qualcosa di
particolare nella tua vita esterno – interno?)
S.: sì c’è stato, cinque o sei anni fa avevo questa passione… poi mi aveva
detto una persona che li fa che in quel punto è un po’ doloroso… e allora
ho detto va bè e ho lasciato correre e dopo non l’ho più fatto..
Gom.: diciamo che è un’idea che ho sempre avuto, anche anni fa quando
eravamo in vacanza insieme, di farmi un tatuaggio mi è sempre
“prillato”(andato a genio) però non ho mai avuto la decisione di farlo,
per vari motivi: primo perché non sono mai stato deciso, poi perché è
sempre avuto paura di pentirmi perché se ce l’hai come fai…
Sembrerebbe cioè che entrambi i gruppi, di fronte a cambiamenti
importanti del periodo dell’adolescenza, siano presi da una pulsione a
fare impulsivamente qualcosa che i primi non riescono a inibire, i
secondi si. Questo qualcosa, come abbiamo visto nel sesto capitolo, è da
ascriversi nel novero degli acting out progressivi, cioè in quel tipo di
agito che aiuta la separazione dalle immagini genitoriali del passato, e
l’integrazione di parti di sé rimaste ino a quel momento non
perfettamente integrate.
In effetti, a ben vedere non vi è nulla che ci possa indurre a pensare che
questa differenza, che si manifesta in questo modo e con questo
discrimine nei confronti del tatuaggio, si presenti con la stessa
suddivisione su tutto l’universo degli agiti adolescenziali dei giovani
considerati.
Non abbiamo alcuna prova in proposito, ma nulla ci impedisce di
pensare come possibile il fatto che, su altri piani, la discriminazione fra
tendenza all’agito ed alla inibizione dell’agito sia diversa da quella che
nella presente ricerca abbiamo potuto riscontrare in tema di tatuaggio.
Anzi, proprio il fatto che anche i non tatuati spesso abbiano sentito il
bisogno di tatuarsi, anche se poi non l’hanno fatto, sta a dimostrare la
loro vicinanza all’agito, la loro propensione all’acting out, che solo per
questioni inerenti la indelebilità del disegno pare essere stata inibita.
Blos (1979), sostiene che l’intensi icarsi dell’acting out in adolescenza
sia un elemento caratteristico dell’età e che l’adolescente, attraverso la
ripetizione degli agiti, può permettersi lentamente di progredire nel
suo processo trasformativo, o bloccarsi e regredire. Si tratta quindi di
un fatto che prende entrambi i sottogruppi, e che può manifestarsi negli
uni in un modo, negli altri in un altro.
Ma, se la strada della spiegazione attraverso l’acting out non porta a
nessuna conclusione interessante, quella che parte dalle immagini della
corporeità dei singoli soggetti probabilmente può esserci di aiuto.
Abbiamo visto che anche coloro che non si tatuano spesso hanno
sentito il bisogno di farlo e che si sono fermati spesso a causa di due
elementi. La indelebilità del segno ed il dolore che immaginano
connesso all’atto del tatuaggio.
Ebbene, se ritorniamo alle tre metafore della corporeità di Baudrillard
(1979) – quella dell’animale, del robot e del mannequin come
corrispettive nell’immagine della corporeità del cristianesimo, della
società industriale e della società dei consumi, e cerchiamo di vedere il
rapporto che può esserci fra queste considerazioni e le immagini della
corporeità che sono sottese nelle argomentazioni dei nostri due gruppi,
vedremo che un’ipotesi – solo un’ipotesi – probabilmente può essere
fatta.
Era implicito nel discorso di Baudrillard, così come del resto in quello di
Le Breton (1990), il fatto che il prevalere nel soggetto di una delle tante
immagini della corporeità non implicasse affatto l’assenza in esso delle
altre immagini della corporeità presenti nella società, o nelle società in
cui il soggetto vive, o ha vissuto (teniamo presente che nell’Italia
odierna i processi migratori meno recenti e più recenti hanno senz’altro
prodotto una commistione fra varie strati icazioni di immagini della
corporeità).
Quindi ci si può attendere anche dal nostro campione la presenza di
varie immagini della corporeità che possono assumere uno spazio più o
meno grande nel dialogo interno al soggetto, a seconda di tutta una
serie di circostanze fra le quali l’età è solo una delle componenti.
Riandiamo così alle nostre interviste:
Afferma Paola :
…per me il tatuaggio è come può essere una pettinatura, un oggetto,
una collana un braccialetto, quindi una cosa permanente, io non sono
una persona cioè.. non mi piace l’idea di una cosa che rimarrà per
sempre impressa sulla pelle, la vedrei come una ferita, una cicatrice che
non potrebbe più andare via e quindi dopo non mi piacerebbe…
Anche Riccardo :
Ma la prima cosa che mi viene in mente è schifo e ribrezzo, poi se ci
penso meglio è anche il dolore di fare.. sì queste piccole penetrazioni,
mi hanno detto che è molto doloroso e poi anche il fatto che è una cosa
che non posso più togliere mi da fastidio, anche se con il laser…
Tutto ciò ci può fare pensare che, non in assoluto, ma di fronte a questo
evento sia prevalso in loro una immagine della corporeità riconducibile
non al corpo mannequin che deve essere mostrato per la sua
singolarità, ma ad un corpo robot che, al contrario, deve potere
ricondotto ad una entità standard, presentabile in tutte le circostanze, e
soprattutto sul lavoro, come simile agli altri corpi.
Il fatto che, però, anche i non tatuati ci tengano, alla singolarità della
propria silhouette alla quale non rinunciano e che anzi ricercano, come
la maggior parte dei giovani d’oggi, ci fa pensare che in loro sia
presente, a ianco ed in dialogo con l’immagine del corpo robot, anche
una immagine del corpo mannequin.
Ed, in contemporanea, il fatto che fra alcuni dei tatuati si senta il
bisogno di celare al grande pubblico il tatuaggio e di esibirlo solo ad un
pubblico selezionato ed intimo, fa pensare che un dialogo simile fra più
immagini corporee sia presente anche in loro e che ciò in de initiva
serva a temperare l’esposizione del tatuaggio, le sue dimensioni,
eccetera.
Il riferimento al dolore pensato e sentito, rispettivamente dai non
tatuati e dai tatuati, come connesso all’atto del tatuaggio, ci riconduce al
tema del sentire, del provare a se stessi l’esistenza di un corpo che sta
cambiando, e sembra avere poco a che fare con le immagini corporee
cristiane del corpo come sede del peccato, della carne come elemento
da punire e da macerare, come sembrerebbe, a prima vista, essere
implicito nel rapporto fra tatuatore e tatuato. Ma, anche in questo
campo è bene procedere con i piedi di piombo e limitarsi a dire che
ulteriori ricerche possono smentire o avvalorare la nostra opinione.
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Bibliogra ia
Baudrillard D . J., La società dei consumi, Bologna, Il Mulino, 1976
Blos P., L’adolescenza come fase di transizione, Roma, Armando editore,
1979
Bonito Oliva A. et al., L'asino e la zebra, Romsa, De Luca
Castellani A., Ribelli per la pelle, Genova , Costa & Nolan, 1996
Felcioni Gnecchi L, Tatuaggi. La scrittura del corpo, Milano, Mursia,
1994
Kern H., Labirinti. Forme ed interpretazioni, Milano, Feltrinelli, 1981
Le Breton D., Anthropologie du corps et modertité, Pa-ris, PUF, 1990
Le Breton D., Passione del rischio, Torino, Ed. Gruppo Abele, 1995
Le Breton D., L’adieu au corps, Paris, Ed. Métailié, 1999
Mannoni O., Il difetto della lingua, Pratiche Ed., Parma
Napolitani D., Individualità e gruppalità, Torino, Bo-ringhieri, 1987
Riviére C., Riti profani, Roma, Armndo, 1998
Scanagatta S. (a cura di), Generazione virtuale: i giovani di un’area
emiliana tra benessere e ricerca dei valori, Roma, Carocci, 1999
Van Gennep A., I riti di passaggio, Torino¸ Bollati Bo-ringhieri, 1988
Vanni F. Sacchi M., Rappresentazione e costituzione delle identità
individuali nelle interazioni di gruppo, Milano, Cortina, 1992
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Note
1. D. Le Breton de inisce il fenomeno che io qui ho de inito come rito di
iniziazione privato come “rito intimo parallelo”: “questo rito, intimo
nella sua risonanza e comunque solitario, esorcizza il caos interiore di
colui che non riesce a trovare la sua sicurezza di base”(Le
Breton,1995:128).
2. “così un medesimo rito denota ora l’entrata nell’infanzia, ora
nell’adolescenza, ma senza aver nulla a che fare con la pubertà isica.”
(Van Gennep,1981)
3. Come magistralmente aveva intravisto Kubrik in Arancia Meccanica,
dipingendo le periferie urbane degli anni ’60.
Essere genitori oggi: funzioni
materne e funzioni paterne a
casa e nelle strutture prescolari
di Leonardo Angelini e Deliana Bertani
 
 
A Reggio Emilia in questi ultimi decenni ‘il mestiere di genitore’ è
attraversato da una serie di cambiamenti, intervenuti nella sfera
economica e sociale, così come a livello culturale e di costume(1), che lo
vanno ride inendo in dalle fondamenta.
Poiché i nostri bambini e ragazzi disabili e a rischio, e cioè i destinatari
della nostra opera di volontariato e di cura, provengono da famiglie che
– per le loro particolari condizioni – risentono spesso più di altre della
situazione di disorientamento che questi rapidissimi cambiamenti
hanno indotto in coloro che in questi anni hanno avuto la ventura di
diventare genitori iniziamo oggi un tentativo di analisi di ciò che va
accadendo all’interno della coppia genitoriale reggiana a seguito di
questi cambiamenti.
Cominceremo dalle trasformazioni intervenute nella coppia
nell’espletamento delle funzioni materne e paterne di fronte ai bambini
piccoli, rimandando ad altra occasione ulteriori considerazioni sulla
nuova coppia genitoriale reggiana di fronte ai vecchi e ai nuovi
problemi indotti dalla fanciullezza e dall’adolescenza dei propri igli.
 
1. La cogestione educativa: un modello emiliano di educazione
moderatamente policentrica
Sono ormai 30 anni che nella regione Emilia e Romagna viene
sperimentato un modello di educazione policentrica precoce (famiglia +
nido, e, ancor da più tempo, famiglia + scuola materna) che va
modi icando, in maniera silente, ma non per ciò inin luente, molte cose
sia a livello individuale, nei bambini di oggi e di ieri che hanno
frequentato il nido e la materna, sia a livello familiare e sociale.
Abbiamo de inito in un precedente lavoro (2) il modello emiliano come
modello moderatamente policentrico, e qualchedun altro, prima di noi,
ha ‘battezzato’ questo modello col nome di "cogestione educativa".
La cogestione educativa è caratterizzata, fra l'altro: - dalla permanenza
della coppia genitoriale in una posizione centrale nell'educazione
precoce del bambino cogestito; - e dalla integrazione di queste funzioni
genitoriali, che prevalentemente continuano ad essere svolte in famiglia
da parte della coppia genitoriale, da parte delle educatrici del nido
prima, e della scuola materna in un secondo tempo.
Finora, a nostro avviso, ciò che deriva da questo importante
cambiamento sul piano della socializzazione precoce del bambino non è
stato studiato a suf icienza.
All'inizio anzi da più parti, e specialmente in ambito psicoanalitico,
l'introduzione di questa novità, che come abbiamo detto prima era
legata agli irreversibili cambiamenti che sono avvenuti in questi anni
nella società e nella famiglia reggiana, era stata paventata come
possibile portatrice di danni, anche gravi, per la psiche del bambino.
Vi era in quelle posizioni una sorta di paura nei confronti del nuovo,
iglia di una ipostatizzazione del modello monocentrico di educazione
precoce (quello cioè basato, almeno all'inizio, sul rapporto esclusivo
bambino-madre), visto come unico vero modello di socializzazione e di
inculturazione nella prima e nella seconda infanzia, e della visione di
ogni altro modello educativo come soluzione di ripiego e di emergenza,
o come qualcosa di assistenziale cui ricorrere solo in extremis.
Si trattava, lo sappiamo, di un falso storico, o meglio di una negazione
della varietà e della storicità delle forme concrete con cui vengono
esercitate le funzioni genitoriali nelle varie società. Si trattava, inoltre,
di una idealizzazione del rapporto monocentrico madre-bambino, che
in effetti, anche laddove sembra esistere, vede spesso altre igure (la
governante, baby sitter, un qualche familiare) impegnate in un’opera di
sostegno alla madre. Si trattava, cioè, in ultima istanza, di una visione
ideologica delle istituzioni prescolari, e del nido in particolare.
Non per niente di fronte ai modelli assistenziali e sanitarizzanti di nido
precedenti alla nascita dei nidi comunali (parliamo dei nidi ONMI o di
quelli aziendali) e, qualche decennio prima nei confronti delle materne
assistenziali, nessuna di quelle voci si era levata di fronte alla
pericolosità - quella si, accertata - di quei modelli di socializzazione
precoce che, proprio per il fatto di non perseguire obiettivi di tipo
educativo, si ponevano per ciò stesso su di un piano di discontinuità
con le famiglie.
L’educazione policentrica precoce invece è qui fra noi da 30 anni, è il
modello che ha informato la crescita dei nostri igli, ed ha nelle
educatrici dei nidi e delle materne le co-protagoniste che insieme ai
genitori svolgono, sul palcoscenico dell'educazione precoce del
bambino, funzioni genitoriali di tipo integrativo di quelle che a casa
svolgono i genitori stessi: funzioni materne, quindi, e funzioni paterne
che è ora di studiare più da vicino.
Quella che tenteremo oggi, però, è solo una esplorazione "a volo
d'uccello" sul problema, cercando di avvalerci, da una parte della nostra
esperienza (3), dall'altra della ricchissima bibliogra ia che ci permette
di attingere alle ricerche e alle ri lessioni che, specie in ambito
femminista (4), vanno ri\esplorando il concreto dispiegarsi sulla scena
sociale e domestica della dialettica fra uomo e donna, ed in particolare
fra funzioni paterne e materne, dall'altra, in ine, delle ricerche che sono
state fatte in ambito etnoanalitico, storiogra ico, etnologico sul
maternage multiplo e sull'in luenza che i vari tipi di famiglia esercitano
sul piano educativo(5).
 
 
2. Ruoli e funzioni nel processo educativo
 
Però, dato che, come appare anche dal titolo, la nostra ri lessione sarà
incentrata sul concetto di funzione genitoriale, più che su quello di
ruolo di genitore, ci sembra opportuno, prima di entrare nel merito,
accennare alle differenze concettuali che ci sono fra ‘funzione’ e ‘ruolo’,
di modo che il lettore sia posto nelle condizioni di compredere.
Quando si parla di ruolo normalmente ci si riferisce alla posizione che
singoli individui assumono all'interno di un sistema sociale, ed
all'insieme delle norme e delle aspettative che ci si attendono da questi
individui in quanto occupanti il tale o il tal altro ruolo.
Ad esempio sul piano educativo, all'inizio del processo di
socializzazione del bambino, in connessione con la posizione della
madre, ci saranno un insieme di aspettative e di norme secondo le quali
all’interno di ogni cultura si declina il ruolo materno rispetto alle
esigenze di contenimento del bambino.
Quando invece si parla di funzione ci si riferisce al contributo
particolare fornito da un insieme di parti della struttura sociale, vista
nel suo complesso, per il perpetuarsi o per la trasformazione del
sistema stesso o di una sua porzione.
Ad esempio sul piano educativo, e sempre a proposito del
contenimento, partire dalla funzione di contenimento signi icherà, non
più riferirsi ai ruoli, ma a come viene esaudita questa importante
funzione del processo di socializzazione, in un contesto speci ico, dalle
varie parti che oggettivamente la svolgono.
Nel nostro caso, e cioè nel caso della cogestione educativa, se noi
partissimo da una indagine fondata sul concetto di ruolo avremmo una
elencazione delle aspettative e delle norme che ci si attende dalla
madre, dal padre, e da ogni singola educatrice del nido o della materna.
Centrando la nostra indagine sul concetto di funzione noi siamo invece
in grado di vedere tutta la novità, la sperimentalità, la rivoluzionarità
del nostro modello moderatamente policentrico che consiste, proprio,
nel concorso di più soggetti che oggettivamente assolvono la funzione
di contenimento, così come tutte le altre funzioni genitoriali, secondo
un criterio di gerarchia di interessi, che nel contempo salvaguardia da
una parte le esigenze di continuità educativa [di ristrettezza (6) della
rete educante, in questa fase iniziale dell'educazione del bambino,
direbbe Parsons], dall’altra di ridistribuzione della cura del bambino
stesso fra più soggetti educanti secondo i cambiamenti intervenuti nella
società.
La cogestione educativa in questo modo ci appare per quello che è:
come il risultato di un processo di cambiamento che sta avvenendo sia
nella posizione della donna, e della donna-madre in particolare, sia
nella famiglia e nella società, in un momento speci ico della nostra
realtà sociale.
Qualora, di fronte a questi cambiamenti, il nostro punto di osservazione
fosse solo quello che parte dall'analisi dei ruoli, noi, laddove c'è un così
nuovo e particolare intrico di funzioni, iniremmo per vedere solo la
sommatoria di norme e di aspettative dei singoli individui, perdendo di
vista il legame funzionale che dinamicamente si sta de inendo nel
sistema educante della nostra società, oggi.
In questo modo, di fronte alle nuove identità femminili e maschili, la
cogestione educativa è una risposta pratica, reale, non ideologica ad un
enorme problema: l'educazione del bambino piccolo che richiede
continuità e calore da parte di chi si prende cura del bambino, da una
parte, e ridistribuzione delle funzioni che venivano tradizionalmente
svolte dalla donna, e particolarmente dalla madre, dall'altra. Una
ridistribuzione che non può che avvenire in un piccolo cerchio di
soggetti. Una risposta pratica, si diceva: un piccolo grande esempio di
ingegno padano nel risolvere i problemi. Non utopia, non ideologia (le
comuni infantili, i kibbutz ecc..) ma piccole grandi soluzioni che non
buttano per aria niente, che non rivoluzionano, ma riformano
confrontandosi con le nuove urgenze della realtà che cambia.
D'altra parte la famiglia allargata, quindi l'educazione nella famiglia
allargata e la conseguente distribuzione di funzioni, fa parte della
nostra tradizione. Fino a venti trent'anni fa, specie fra i contadini, le
funzioni materne erano spontaneamente articolate in modo tale che,
mentre la madre era nei campi, la donna che stava in casa si occupava
dei bambini di tutti coadiuvata dagli anziani, e da tutti coloro che non
potevano per varie ragioni lavorare fuori casa.
 
 
3. Funzioni materne al nido e in scuola materna
 
Torniamo alla realtà attuale e consideriamo innanzitutto le funzioni
materne, che sono tra l'altro le più evidenti.
Le principali funzioni materne svolte al nido e nella materna, a nostro
avviso sono:
La funzione di contenimento che noi osserviamo nella gestione, da
parte dell'educatrice, dei momenti di separazione, cioè del momento
dell'arrivo al nido o nella materna, allorchè il bambino piange e non
vuole lasciare il genitore; nell'uso e nella comprensione dell'oggetto
transizionale e dell’area di gioco come strumenti che attestano il
bambino nel suo processo di individuazione - separazione; nel
momento dell'uscita, quando spesso il bambino non vuole
interrompere i suoi giochi, o piange o scappa per la sezione e la madre
vive tutto questo come un ri iuto; nella gestione dei momenti di routine,
quali il sonno, il pasto, il cambio.
La funzione di parametro nel processo di identi icazione che vediamo
nella gestione di tutti i momenti in cui si de iniscono, grazie all'attività
dell'educatrice, i con ini corporei del bambino, intesi in un primo
momento come scoperta del proprio corpo e poi di quello dell'altro
come distinto da sè (cambio, prendere in braccio, lasciarsi toccare,
esplorare, etc); che vediamo, inoltre, nelle attività dell'educatrice che
favoriscono l'acquisizione, da parte del bambino, delle prime
dimensioni temporali e spaziali della propria identità (nell'attività di
gioco, nel pasto, nell'addormentamento e nel risveglio, etc.)
Andrebbe tra l'altro meglio considerata e approfondita la probabile
maggiore capacità, sul piano funzionale, delle educatrici, rispetto alle
madri, di gestire la fase in cui il bambino comincia, prima carponi, poi
camminando, e poi ancora con sempre maggiore competenza e
coraggio a "praticare il mondo", una capacità che probabilmente deriva
dalla possibilità di sintonizzarsi, con maggiore tranquillità rispetto alla
madre, col bambino su di un piano dell’identi icazione operativa, da cui
deriva una possibilità potremmo dire più tranquilla di gestire sia "la
prima andata del bambino verso il mondo" (7), sia anche le sue
successive esigenze di riavvicinamento.
Certo è che avere relazioni di diverso tipo con due o più persone che
svolgono funzioni materne, come avviene nella cogestione educativa, e
non con una sola, come avviene nell’educazione monocentrica, per il
bambino signi ica imparare a costruire con maggiore chiarezza se
stesso e la madre, e più in generale a costruire con maggiore facilità
distinte rappresentazioni del sé e degli oggetti.
Perché ci possa essere questo è necessario però, come dice Winnicott,
che si delinei fra bambino, genitori ed educatrice una ‘cross
identi ication’, cioè una situazione di identi icazione reciproca nella
quale il bambino possa acquisire, mediante una graduale
interiorizzazione di questo atteggiamento della madre, del padre e
dell'educatrice, una capacità di identi icazione e di immedesimazione
più differenziata. E questo avviene solo se al nido e alla materna è
garantita una suf iciente continuità nel rapporto, un rapporto
suf icientemente caldo e ravvicinato con l'adulto, un rapporto cioè
pieno delle grandi passioni della vita: l’amore e l’odio, l’invidia e la
gratitudine, la rabbia, la gelosia, l’aggressività, ma anche la colpa e la
riparazione.
Si può dire, anzi, che a partire dal nido e ino all’ultimo giorno di scuola
materna (ma anche oltre), è possibile delineare un doppio ambito di
intervento sul bambino: da una parte il disporsi dell’educatrice sul
piano dell’esercizio delle funzioni materne integrative, e cioè del sentire
e, in un qualche modo, del gestire i grandi sentimenti della vita,
dall’altra il disporsi sul piano di funzioni di tipo pedagogico-didattico,
di preapprendimento, cioè di funzioni educanti già abbastanza distinte
e complementari a quelle della famiglia. Si determina così un doppio
ilone di intervento: quello dell’esercizio delle funzioni genitoriali, da
una parte, quello delle attività pedagogico didattiche, dall’altra. Il primo
in calando, il secondo in crescendo mano a mano che il bambino
diventa più grande e passa dal nido alla materna.
Vi sono in ine la funzione di consolazione, che è la capacità da parte
dell'adulto del nido di ricreare sempre nella quotidianità quella
illusione di onnipotenza che c'era nella simbiosi primaria e funzioni di
accudimento legate alle routine, di cui già abbiamo parlato, e che, se
fatte all'interno di un rapporto ravvicinato e caldo, contano molto nel
processo di individuazione del bambino e di costruzione di
un'immagine di sé.
 
 
4. Ancora sulle funzioni materne: child bearers e child rearers \
portatrici di bambini e allevatrici di bambini
 
Molti equivoci, molte trappole in cui cadiamo allorchè parliamo di
funzioni materne sono dovuti al fatto che l'immagine della madre, le
rappresentazioni materne, gli introietti materni sono dentro di noi
(donne e uomini, indistintamente) un crocevia fra natura e cultura in
cui aspetti biologici e sociali connessi alle funzioni materne sono
avviluppati in un intrico, all'interno del quale è dif icile distinguere il
primo dal secondo versante.
Se noi, come ci suggeriscono alcune femministe americane (8),
distinguiamo fra funzioni da child bearers e funzioni da child rearers,
cioè fra funzioni collegate alla gestazione, intesa in termini puramente
biologici, e funzioni collegate con l'educazione, intesa in termini
psicosociali, se noi osiamo fare questo ci poniamo nella possibilità di
fare delle importanti distinzioni che, a nostro avviso, possono essere un
primo elemento per riconsiderare con maggiore autoconsapevolezza
l'azione educativa svolta dalle educatrici delle istituzioni prescolari sui
bambini piccoli loro af idati.
La Firestone e della Johnson sono state spinte a fare questa importante
distinzione - che, non dimentichiamolo, è una distinzione di funzioni, e
non di ruoli - per sgravare le donne almeno dal peso dell'allevamento
della prole, visto che ancora non è possibile liberarle dalla "maledizione
biblica" della gestazione, come loro affermano.
Il tentativo della Firestone e della Johnson può essere visto, secondo
noi, come un movimento "espulsivo" tendente a rimettere in circolo, sul
piano sociale, quelle funzioni educative che, soprattutto nei confronti
dei bambini piccoli, sono tuttora sostanzialmente a carico delle donne,
anche nelle società opulente.
Se noi utilizziamo questo ragionamento all'interno della ri lessione
sulla cogestione educativa e consideriamo sotto questo aspetto le
funzioni educanti che nel nido e nella materna sono svolte dalle
educatrici (cioè a dire il cuore del loro lavoro) vediamo che quella delle
educatrici, sul piano storico, qui da noi diventa la soluzione pratica -
non a caso inventata e fortemente voluta dalle donne emiliane - che è
stata trovata per distinguere fra funzioni biologiche e funzioni
educative in un momento in cui questi due ambiti, solitamente
accentrati dall'ideologia maschile nella sola igura materna,
rischiavano, almeno in alcuni strati sociali – quelli più investiti dai
processi di trasformazione cui accennavamo all’inizio - di de inire un
campo di tensioni nella donna pericoloso e, per certi versi,
insostenibile.
Cosicché qui da noi, da una parte le funzioni biologiche collegate alla
maternità sono rimaste alla madre, dall'altra quelle sociali (la funzione
di contenimento, il de inirsi come parametro del processo di
separazione - individuazione, etc.) sono state distinte e suddivise, in
base a questa distinzione, fra madre ed educatrice e, in alcuni casi fra
madre, padre ed educatrice.
Era questo, in fondo, che chiedevano i movimenti femminili che per
tutti gli anni 50 e 60 hanno fortemente voluto i nidi (e prima ancora le
materne) come strutture educative e non assistenziali o sanitarie.
Concludendo sulle funzioni materne, questo a nostro avviso potrebbe
essere un primo terreno di approfondimento: vedere come
dinamicamente avviene questo processo di distinzione e di
suddivisione delle funzioni materne fra nido e casa, fra materna e casa.
 
 
5. La de inizione di uno spazio negoziato: funzioni paterne oggi
 
Mentre nel caso della madre funzioni biologiche e funzioni sociali
connesse con la maternità sono strettamente collegate, nel caso del
padre le funzioni biologiche sono circoscritte, in ultima istanza, al
concorso nell'atto della procreazione. Ciò fa si che, diversamente da
quanto avviene nel caso della madre, le funzioni paterne non si
pongano affatto, in alcuna cultura, come crocevia fra natura e cultura.
Per i padri quindi diviene importante tutto ciò che avviene a livello
fantasmatico, cioè a livello del mondo rappresentazionale, al livello
delle immagini di paternità che sono dentro ciascuno di loro, come
prodotto esse stesse dell'educazione ricevuta ed, in ultima istanza, di
tutta l'esperienza fatta dal padre ino al momento in cui egli decide
interiormente di disporsi sul piano della paternità.
Questo distacco iniziale del padre dagli aspetti più biologici della
propria paternità viene poi elaborato in maniera diversissima in ogni
cultura (9), ma sempre in modo tale da mantenere le distanze dalle
funzioni biologiche (che possono al massimo essere esorcizzate e
mimate come avviene nella couvade).
Ma, come dicono D. Naziri e Th. Dragonas (10), "se la condizione
preliminare per effettuare il passaggio alla paternità consiste nella
possibilità che l'uomo ha di esercitare la funzione paterna (solo) a
livello simbolico, il vissuto della paternità resta in questo modo legato
alla modalità con la quale l'uomo rivendica, modi ica ed occupa lo
spazio paterno a livello delle relazioni fra partner, sia prima che dopo la
nascita del bambino", ed alle modalità con cui la partner è disposta a
concedere, o meno, questo spazio ed a modi icarlo, o meno, insieme a
lui; ed entrambe queste modalità sono in luenzate, come già sappiamo,
dal tipo di "sistema rappresentazionale" che entrambi i partner sono
andati de inendo dentro se stessi in base ai loro introietti paterni e
materni, maschili e femminili, etc.-
La funzione paterna così, affermano la Naziri e la Dragonas, si pone
all'interno di un campo di tensioni, in cui la negoziazione con la partner
è l'elemento centrale.
"La maternità è un dato, la paternità è un dovere", "la madre costituisce
sempre un qualcosa che c'è (un étant), il padre non può che darsi da
fare per essere ( pour etre)".
Su questa base si de iniscono, nei modelli prevalentemente
monocentrici, le funzioni paterne.
Ma nel modello policentrico e, più in particolare, all'interno del modello
emiliano di cogestione educativa come si de iniscono le funzioni
paterne (e cioè l'inserimento del nuovo nato all'interno di una
tradizione, la de inizione di una legge, la spinta ad uscire dall'abbraccio
soffocante con la madre, etc.)?
Noi intuiamo che, nella suddivisione dei compiti fra coppia genitoriale e
istituzioni prescolari, così come avviene per le funzioni sociali materne,
anche per quelle paterne ci sia una tendenza di tipo integrativo in base
al quale le funzioni paterne vengono fondamentalmente esercitare a
casa, mentre le educatrici svolgono funzioni paterne ausiliarie. Ma non
sappiamo come, in concreto, avvenga la negoziazione dello spazio
paterno nel nido fra le educatrici.
Possiamo fare l'ipotesi che essa si determini in modo similare a quanto
avviene a casa fra i due genitori, e cioè come il prodotto di una
dialettica fra partner della sezione che si mettono in gioco, su questo
piano, attraverso la messa in scena delle proprie parti paterne e
materne, maschili e femminili, etc.-
Ma non sappiamo in base a quali istanze intrapsichiche ed
interpersonali, in ciascuna delle educatrici, e nella dinamica gruppale
del collettivo, si addensino, più o meno dinamicamente, più o meno
stabilmente, le funzioni materne e quelle paterne di fronte a questo o a
quel bambino, in questa o in quella educatrice.
Questo, a nostro avviso, potrebbe essere un altro terreno di
approfondimento: vedere meglio come le funzioni materne e paterne
sono giocate nel nido dalle singole educatrici, cioè come ciascuna di voi
si dispone ad assumere su di sé le une e le altre funzioni, come in ine
tali funzioni si dispiegano all'interno del collettivo de inendo uno
spazio materno e paterno più o meno negoziato, più o meno "usurpato",
più o meno lasciato nel vuoto.
 
 
6. Funzioni genitoriali: "il passaggio del testimone" da una
generazione all'altra a casa e nelle istituzioni prescolari
Lo spazio genitoriale, però, sia che esso sia un "dato" - come avviene
per quello materno -, sia che debba essere "conquistato" in una
negoziazione fra partner - come si veri ica nel caso di quello paterno -, è
g p q p
uno spazio storico, nel senso che è determinato sul piano temporale dal
variare, da una generazione ad un'altra, della natura e del rilievo che i
vari introietti, le varie immagini di madre e di padre hanno, nei vari
contesti sociali e familiari in cui, in concreto, storicamente madri e
padri, a loro volta, sono stati educati.
Tali introietti, tali immagini, quindi, non sono pietri icate in una specie
di griglia astorica all'interno del mondo rappresentazionale di ciascuno
di noi, sempre uguali a se stesse, quasi fossero dei totem intoccabili.
Esse, al contrario, mutano e si adattano al variare delle condizioni
materiali e spirituali (strutturali e culturali, direbbe un sociologo) che
informano i vari tipi di società (11). Il meccanismo che ne determina il
mutamento cioè è del tutto simile a quello che, più in generale, è alla
base del mutamento della struttura e della "cultura" della famiglia.
In questa prospettiva, quindi, il passaggio dalla famiglia allargata alla
famiglia nucleare e la funzionalizzazione di quest'ultima alle nuove
esigenze della produzione, della riproduzione sociale (cioè della
formazione della forza-lavoro), e, da ultimo, del consumo, appaiono
come mutamenti strutturali coerenti con le nuove esigenze della società
odierna . Così come, d'altro canto, ed al di là della autoconsapevolezza
dei singoli, appaiono tutti i mutamenti che si determinano sul piano
culturale nella famiglia in correlazione con questi mutamenti
strutturali: pensiamo, per fare solo un esempio, a quanto sia diventato
per noi ovvio il fatto che il mercato attuale "non solo crea gli oggetti per
i soggetti, ma anche i soggetti per gli oggetti" (cioè al fatto che siamo
diventati tutti degli ottimi consumatori), e subito dopo pensiamo a
quanto tutto ciò fosse assolutamente fuori dell'ordinario in una famiglia
contadina degli anni '30 o '40.
Come è possibile che, in una maniera che sfugge alla
autoconsapevolezza di coloro che sono i protagonisti del mutamento,
questo avvenga in una dialettica fra spinte e controspinte più o meno
dolorosa, più o meno feconda?
Partiamo dal modello di educazione monocentrica: in questo caso la
madre ed il padre si pongono dinamicamente in rapporto con i propri
introietti genitoriali in base ad una dialettica fra Idem ed Autos (12):
cioè fra parti proiettate in ciascuno di loro, e su loro due in quanto
coppia genitoriale, dai propri genitori e dagli altri modelli importanti
della loro vita (Idem) e parti che non sono riconducibili a nessuno di
questi introietti (Autos), ma che con essi sono, in dall'inizio della vita,
in un rapporto di coniugazione più o meno ricca e feconda di novità. E'
in questa azione educativa che sono stati determinati gli elementi del
proprio essere adulti, quelli che sono alla base del carattere dei igli,
nonché quelli che sono alla base del "carattere sociale" del nuovo
nucleo che, insieme ai igli, essi vanno costituendo: la propria famiglia.
Passiamo ora alla cogestione educativa: in essa le proiezioni che sui
propri bambini fanno i genitori si congiungono, si intrecciano con
quelle che, sempre su quei bambini, fanno quelle educatrici dei nidi e
delle materne che non rinunciano a mettersi in gioco con tutte se stesse
ed a non ridursi al ruolo di istruttrici.
Per cui nel modello policentrico, per la pluralità di proiezioni che sul
bambino sono fatte, viene a costituirsi un vero e proprio campo
magnetico in cui il bambino diventa il depositario di tutte le proiezioni
che vengono sia dal versante familiare: madre, padre e coppia
genitoriale, sia dal versante nido: le singole educatrici cui il bambino è
af idato, nonché il gruppo delle educatrici in quanto depositario di una
propria storia gruppale che rientra a pieno titolo nello spazio
genitoriale che comprende il bambino, se ne prende cura, lo contiene, lo
riconosce come appartenente alla propria stirpe, etc, in una parola lo
af ilia.
Approfondire questi contenuti, a nostro avviso, signi ica:
- veri icare ino a che punto vi è complementarità, negoziazione, o
spinta alla usurpazione -"io lo so, te lo dico io quello che devi fare..-,
oppure ancora rinuncia - fatelo voi a scuola perché a casa non imparerà
mai a mangiare stando seduto..-, delega reciproca da una parte e
dall'altra, fra famiglia ed educatrici; avere qualche possibilità in più di
capire perché certi rapporti vanno male;
- ino a che punto gli ideali professionali della singole educatrici e quelli
che storicamente si sono de initi nel nido sono compatibili con quelli
delle famiglie; questo problema diventerà sempre più acuto con
l'aumento dell'immigrazione e con la pluralità delle culture che questa
sempre di più comporterà;
- ino a che punto l'educatrice ed il gruppo delle educatrici è portatore
di un cambiamento e, nel caso, di quale cambiamento si tratta;
- e ino a che punto, d'altro canto, la sovrapponibilità degli introietti da
veicolo di fecondo dialogo fra famiglia e nido può trasformarsi in
occasione di scontro e incomprensione.
 
 
7. L'in luenza che il permanere in una situazione di passaggio
perpetuo alla paternità ed alla maternità comporta sul burn out
della educatrice di asilo nido e di scuola materna
 
La Dragonas e la Naziri, parlando dell'ingresso dell'uomo nel mondo dei
padri, de iniscono questo importante momento dell'età adulta come
"passaggio alla paternità".
Allo stesso modo potremmo dire che anche il momento in cui la donna
si appresta a diventare madre per la prima volta potrebbe essere
de inito come "passaggio alla maternità".
Resta inteso però che, in un caso e nell'altro, questo importante
passaggio che spesso corona il nostro diventare adulti - e che sul piano
simbolico, per chi sceglie di non avere igli, è de inito da un'attività
creativa e (ri\)produttiva - è contraddistinto da una prospettiva di
sviluppo e di trasformazione delle funzioni connesse con la genitorialità
che fanno si che sulla scena familiare i protagonisti si vengono a trovare
di fronte ad un canovaccio in continua trasformazione per gli elementi
di novità connesse con la crescita dei igli, con le loro sempre più
imperiose richieste di autonomia, con le loro effettive conquiste, con il
nostro rispecchiarci nell'uno o nell'altro aspetto di noi che vediamo, o
non vediamo, in loro, con il nostro invecchiare, etc.
Nel nido e nella materna, però, così come in una qualsiasi altra attività
formativa, l'educatrice si trova in una situazione di blocco, che può
essere più o meno compensata dalle proprie altre funzioni sociali
riproduttive, ma che rimane, a nostro avviso, e pesa come un macigno
sull'equilibrio psichico delle educatrici: si ha a che fare per una vita
sempre con le stesse funzioni genitoriali, nel caso del nido e della
materna con quelle connesse con le prime esigenze di crescita
psicologica del bambino.
Questo connota il lavoro delle educatrici in maniera del tutto speci ica
rispetto a quello dei genitori e può diventare usurante.
La Benedek (13) sostiene che, durante la crescita del bambino, i
genitori hanno la possibilità di vedere rispecchiate in lui varie parti di
se stessi, e sostiene altresì che, a seconda di come sono stati vissuti da
loro stessi, nella loro infanzia, quegli elementi che ora vedono ri lessi
nel loro bambino, si sentiranno più o meno a loro agio nel processo
educativo.
Nel caso delle educatrici delle istituzioni prescolari, e più in generale in
tutti gli educatori, la ri lessione della Benedek potrebbe, a nostro
avviso, essere ride inita in questi termini: il burn out, e cioè l'usura sul
lavoro sarà più accentuata laddove all'interno della propria storia
personale le prime fasi della propria vita siano state travagliate e
penose. In ogni caso però la situazione di blocco su determinate
funzioni genitoriali merita un'attenzione particolare sia per i vantaggi
che ne possono derivare sul piano della competenza e della sicurezza
nell'affrontare sempre le stesse funzioni, sia per il disincanto ed il
fastidio che, specie in alcune operatrici, può prima o poi
sopraggiungere.
Va detto anche, però, che in un gruppo di educatrici che lavorano a
lungo insieme e che sono accomunate dagli stessi ideali (magari
solidi icati e vivi icati da una direzione pedagogica attenta e
lungimirante) è possibile che un pro ilo di crescita nelle funzioni
genitoriali sia possibile non tanto rispetto ai bambini, ma rispetto al
gruppo stesso, alle nuove arrivate, alle migrazioni interne, cioè ai nuovi
accoppiamenti che è possibile mettere in piedi al ine di coniugare (nel
senso di congiungere) nuove "famiglie" in nuovi progetti di vita
istituzionale.
I problemi che su questo piano è possibile affrontare, come è già
implicito in quanto in qui detto, sono quelli della risoluzione del burn
out, quelli della piani icazione degli accoppiamenti e dei "divorzi",
quelli delle operazioni possibili per mantenere in piedi un clima di
creatività e di produttività che non sia visto come un dovere verso i lari,
gli antenati, il nostro passato di "missionariato sociale", come diceva
tempo fa una nostra collega modenese (14), ma come il risultato degli
accoppiamenti fra parti maschili e femminili, fra parti adulte e bambine,
fra parti egoiche, superegoiche ed ideali, etc. che costituiscono il nostro
patrimonio sia se ci consideriamo individualmente, sia ancor di più se
ci consideriamo come gruppo . E soprattutto se ci collochiamo
all'interno di un percorso storico di crescita, di cammino che va avanti
,quindi che cambia e non corre il rischio di diventare un mito, sempre
uguale a se stesso, circolare e quindi sterile e allucinatorio.
 
 
8. L'esercizio delle funzioni materne e paterne nei nostri gruppi
precoci di pari all'interno della cogestione educativa
 
Un accenno in ine alla funzione dei gruppi precoci di pari e del come
tali gruppi possono diventare dei contenitori e degli elaboratori delle
proiezioni che gli adulti di casa e del nido che operi in una situazione di
cogestione educativa fanno sui bambini.
Abbiamo già in altro luogo cercato di de inire la speci icità del gruppo
precoce di pari in situazione di maternage multiplo (15). Ora ci preme
vedere, o meglio fare delle ipotesi su come, nel nostro modello di
maternage multiplo (moderatamente policentrico, abbiamo detto), la
diffusione delle proiezioni che gli adulti fanno a casa e nel nido si
diffonde fra i pari.
L'ipotesi che facciamo rimane non suffragata da una indagine organica,
che però sarebbe urgente fare (e che forse faremo a Reggio Emilia nei
prossimi due anni).
Si può dire però, con suf iciente approssimazione alla realtà, che,
contrariamente a quanto sostenuto da scienziati sociali che hanno
studiato realtà di maternage multiplo molto più estremistiche della
nostra, la cogestione educativa non sedimenta, nel bambino oggi e
nell'adulto domani, un insieme di introietti eterei, inconsistenti come
ombre e quindi inaf idabili, ma un insieme di introietti ben più corposi
e riconoscibili.
E' il tipo di azione che il gruppo di adulti del nido svolge concretamente
sui singoli e sul gruppo che può rendere più o meno solida la
costellazione degli introietti del bambino.
Se questa azione è individualizzata, ravvicinata, calda, continua, allora
essa sarà un utile complemento dell'azione familiare, ed anzi un
elemento, supponiamo, che faciliterà, domani, il processo di
autonomizzazione, lo forti icherà, lo incoraggerà.
Se, invece, questi elementi non potranno essere presentati al bambino
in modo suf icientemente credibile allora i rischi saranno maggiori,
anche se la presenza di personaggi familiari forti farà senz'altro sempre
da contrappeso.
E' questo il signi icato più profondo del termine moderatamente
policentrico: quello di prevedere che, in fondo, la membrana duale
originaria rimanga intatta nella sua forza di contenimento e di
parametro del primo processo di individuazione - separazione.
Una autoanalisi spietata di come l'educatrice entra in questa
membrana, di come essa si impasta con essa in ogni caso va fatta
sull'oggi, al di la dei pur necessari follow up sul passato
--
Note
1. per una indagine sulla natura di questi cambiamenti cfr. il
documento, presente in questo quaderno, intitolato: ‘Dall’etica padana
del lavoro all’estetica consumista’
2. Cfr. L. Angelini, Il bambino piccolo nel gruppo di pari, in L. Angelini e
D. Bertani, 1995, Il bambino che è in noi, Unicopli, Milano
3.Cfr. L. Angelini e D. Bertani, 1995, op.cit.
4.Cfr. soprattutto, a) nell'ambito del femminismo americano: C.Gilligan,
1987, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano; N.Chodorow, 1991, La
funzione materna, La Tartaruga, Milano; M.M.Johnson, 1995, Madri forti
mogli deboli, Il Mulino, Bologna. - b) nell'ambito del femminismo di
stampo marxista: J.Mitchell, 1972, La condizione della donna, Einaudi,
Torino; J.Mitchell, 1976, Psicoanalisi e femminismo, Einaudi, Torino. - c)
nell'ambito del femminismo europeo: S. De Beauvoir, 1965, Il secondo
sesso, Il Saggiatore, Milano; A.Carter, 1986, La donna sadiana,
Feltrinelli, Milano; L. Muraro, L'ordine simbolico della madre, Editori
Riuniti, Roma. - d) in ambito psicoanalitico: H. Deutsch, 1968, Psicologia
della donna, Boringhieri, Torino; L.Baruf i (a cura di),1979, Il desiderio
di maternità, Boringhieri, Torino; J. Chasseguet-Smirgel, 1978, La
sessualità femminile, Laterza, Bari; J.Chasseguet-Smirgel, 1991, I due
alberi del giardino, Feltrinelli, Milano; M. Mitcherlich, 1992, La donna
non aggressiva, La Tartaruga, Milano; S. Vegetti Finzi, 1990, Il bambino
della notte, Divenire donna divenire madre, Mondadori, Milano.
5 .Cfr. soprattutto: I.Magli, 1982, La femmina dell'uomo, Laterza, Bari;
Ch.Saraceno, 1987, Pluralità e mutamento, ri lessioni sull'identità
femminile, F.Angeli, Milano; L.Balbo et al., 1990, Vincoli e strategie nella
vita quotidiana, una ricerca in Emilia e Romagna, F.Angeli, Milano;
G.Duby, M.Perrot, 1992, Storia delle donne, il novecento, Laterza, Bari;
Th. Laqueur, L'identità sessuale dai greci a Freud, Laterza, Bari;
M.Bettini,1993, Maschile\femminile, genere e ruoli nelle culture
antiche, Laterza, Bari; E.Cantarella, 1995, Secondo natura, Rizzoli,
Milano; A.Giddens, 1995, La trasformazione dell'intimità, Il Mulino,
Bologna.
6 .Cfr. T.Parsons e R.F.Bales,1974,Famiglia e socializzazione, Mondadori,
Milano.
7 . M. Malher, 1975, La nascita psicologica del bambino, Boringhieri,
Milano.
8. Le femministe, in verità, fanno ciò nel tentativo di liberarsi dal peso
dell'allevamento, cioè delle funzioni sociali collegate con la maternità
(quelle di child rearers).
9 . secondo un ampio spettro di possibilità di elaborazione che va dalla
negazione paternità alla mimesi della funzione materna nel parto, come
avviene nella couvade.
10. cfr. D. Naziri e Th.Dragonas, Il passaggio alla paternità: un approccio
clinico, In Psychiatrie de l'enfant, 1995, N. (traduzione di L.Angelini)
11. cfr, in proposito A. Mitcherlich, Verso una società senza padre,
Laterza, Bari
12 . sul legame fra Idem ed Autos vedi: D. Napolitani, 1988,
Individualità e gruppalità, Boringhieri, Torino.
13 .Cfr Th.Benedek, Essere genitori come fase dello sviluppo,
in:Psycoanal. Assn. N.7 del 1959 (Traduzione di L. Angelini e D. Bertani)
14. Cfr. L. Angelini, Asili nido: le dinamiche presenti nel collettivo delle
educatrici, in Angelini, Bertani, 1995, op.cit.-
15 . Cfr. (oltre al testo di L. Angelini sul gruppo precoce di pari, già
citato) l'articolo di W. Muestenberger, Ri lessioni culturali comparative
sul matrenage multiplo, apparso su Psychiatrie de l'enfance, 1975,
XVIII, 1, e in in L. Angelini e D. Bertani, 1995, Il bambino che è in noi, pp.
241-260 (traduzione di L.Angelini)
 
 
Dire di sì, dire di no. Il rapporto
adulto - bambino
di Elisabetta Musi
 

Quando ho cominciato a ri lettere su questo tema - dire di sì, dire di no -


che mi sembrava persino banale nella sua accessibilità (considerando il
fatto che come educatrice pedagogista questo argomento ha costituito
una questione di abituale confronto con genitori o altri educatori), mi
sono accorta di mettere insieme a fatica un discorso soddisfacente e di
un qualche interesse.
Ho iniziato allora a rovistare nella memoria prima di af idarmi agli
esperti in cellulosa e per tutta risposta ho trovato una ilastrocca senza
capo né coda che mi raccontava la mia nonna, di quelle che prevedono
un breve intervento da parte di chi sta ascoltando (in quel caso si
trattava innanzitutto di un sì o di un no, a cui potevano seguire, al
ripetersi della storia, anche altre risposte, più bizzarre...), come se si
trattasse di inserire una parola magica per consentire alla narrazione di
andare avanti, per quanto questa tornasse inesorabilmente al punto di
partenza.
Ricordo che mia nonna introduceva quella nenia quando io mi
incaponivo coi miei sì o coi miei no, e nella sua semplicità riusciva a
sdrammatizzare ino a dissolvere nel gioco la possibilità di un con litto
e di una contrapposizione (e già in quel comportamento ritrovo una
saggezza popolare di pedagogia spicciola per uscire dalla logica binaria
e oppositiva del sì e del no).
Da quando la sentii per la prima volta, quella ilastrocca ripetitiva ebbe
sempre il potere di irritarmi, portandomi a detestarla.
Oggi invece, rivisitandola attraverso il iltro tras igurante della
metafora, le riconosco il pregio di sintetizzare in modo semplice e
suggestivo l'ambivalenza del sì e del no. Non solo perché sta nella
relazione interpersonale signi icativa -come ad esempio quella affettiva,
educativa -il rapporto di forza e resistenza a cui rimanda la dialettica
del sì e del no (per cui tanto più il sentimento è forte e profondo ed
esercita un potere coesivo, tanto più il processo di separazione,
emancipazione, differenziazione attraverserà momenti di ri iuto e
contrapposizione), ma anzitutto perché il sì e il no sono i due volti di
uno stesso Giano bifronte orientato ad un tempo verso il passato e
verso il futuro.
Se pensiamo infatti alla nostra storia, alle volte che abbiamo incontrato
dei sì e dei no che si sono presentati sulla nostra strada con
l'imponenza di un semaforo, rosso o verde, ci accorgiamo di aver
risposto ogni volta in modo diverso: a volte con pazienza, aspettando il
verde, a volte arrabbiandoci per un improvviso "stop", a volte aggirando
l'ostacolo e cambiando direzione, a volte trasgredendo, consapevoli o
incuranti delle conseguenze.
Se pensiamo ai sì ricevuti, al semaforo verde, forse li ricordiamo a fatica
calati in episodi speci ici, ma di certo essi hanno contribuito a
rafforzare in noi quel livello di autostima e iducia in noi stessi, che poi
sono serviti come riserve di energia per fronteggiare i no, le cadute, le
battute d'arresto con cui ci siamo confrontati nel percorso della
crescita.
Quindi la dialettica del sì e del no che nel singolo di forza e resistenza
rimanda ad una situazione dinamica, di cambiamento (nella relazione
tra se e se o tra se e l'altro), rivela l'ambivalenza di una doppia tensione:
all'evoluzione trasformata e alla conservazione dell'identico, al noto e al
nuovo, al sentimento inquietante della paura e all'ebbrezza della s ida.
Chiedere un sì, un'approvazione e una conferma, combattere per un sì,
piegando una resistenza e realizzando una conquista, vuoi dire allora
provarsi in un esercizio di potere, volontà e dubbio (che è premessa alla
responsabilità di se), concedersi alla trasgressione, che segna anche
l'ingresso in un nuovo orizzonte di realtà (trans -gredior, in -gredior) e
un misurarsi con le proprie (nuove) forze, capacità, possibilità...e (le
vecchie o) quelle altrui; il che signi ica in altri termini acquisire
consapevolezza in se, del proprio valore, dei propri limiti.
Questo è un processo che non ha ine e non ha età (nella stessa misura
in cui non ha ine, a ben vedere, il processo di adattamento e quindi la
possibilità di crescere), cambiano solo gli interlocutori a cui cerchiamo
di "estorcere" i sì: i genitori, gli educatori (in senso ampio, ad esempio,
la scuola, la parrocchia, il lavoro...), la vita, con il suo carico di prove
sempre più impegnative che via via ci sottopone.
Questo forse è il motivo per cui si ripetono ciclicamente nella nostra
vita momenti critici in cui ci misuriamo con diversi sì e no, in cui cioè il
rapporto di forza e resistenza con chi ci sta vicino è particolarmente
forte e intenso.
Un primo periodo in cui i bambini mettono alla prova gli adulti
instaurando un rapporto di forza e resistenza accade intorno ai due -tre
anni, quando sembra che improvvisamente le abitudini di sempre siano
oggetto di una revisione critica (ad esempio ribellarsi e fare i capricci
per mettersi un paio di scarpe sempre accettate di buon grado).
Ci sono genitori che, a questo punto, intervengono con decisioni perché
il bambino si adegui alle loro indicazioni: lo sgridano, ripetono con più
forza i divieti o le richieste, lo sculacciano, 1o puniscono con privazioni,
ecc. -
Pensano cioè di dover intervenire subito, per evitare che questa nuova
abitudine metta radici. Fanno bene ? Prima di rispondere a questa
domanda che riguarda gli adulti, poniamocene un'altra, che riguarda
invece i bambini: come mai, quasi di punto in bianco, lo stesso bambino
si mostra così diverso da prima ?
Fino a due anni circa, un bambino vive in simbiosi con la madre, senza
distinguere bene dove inisce la su a individualità e dove comincia
quella degli adulti che gli stanno vicino.
Verso i due anni; però, comincia a rendersi conto di essere un'entità
distinta. Margaret Mahler parla a questo proposito di "nascita
pedagogica del bambino", cioè della sua prima presa di coscienza di
essere un individuo a se, di poter prendere delle decisioni.
Quindi esprime, anche se a volte in modo eccessivo, questa nuova
possibilità di decidere di propria iniziativa. Utilizzando questa facoltà di
recente acquisizione egli ha più chiaramente il senso di possederla e di
rafforzarla con l'uso.
Per sentire di avere una volontà propria il bambino fa dunque in modo
diverso da come vorrebbero gli altri, oppone questa sua nuova volontà
alla volontà altrui e si immette così sulla via dell'autonomia.
Quando la coscienza della propria individualità si è suf icientemente
rafforzata e lo scopo di questo comportamento oppositivo è stato
raggiunto, non c'è più ragione che esso continui e la fase critica del sì e
del no si placa.
Quindi, prima di manifestare una reazione irritata e una risposta di
forza l'adulto dovrebbe saper contestualizzare questi nuovi
comportamenti nell'evoluzione psico isica del bambino.
Un altro momento della crescita in cui si ripresenta questa dinamica di
forza e resistenza tra adulto e bambino è la preadolescenza, che Guido
Petter de inisce una .'seconda nascita psicologica" (1994, p85), analoga
per molti aspetti alla prima.
Anche in questo caso l'atteggiamento degli adulti di riferimento
dovrebbe essere lessibile né duro né cedevole. Il dif icile sta proprio
qui: nel guadagnare un giusto equilibrio (che non è immobilismo) per
evitare di schiacciare il bambino con la forza che l'età adulta
inevitabilmente reca con se, pur consentendogli tuttavia un
contenimento relazionale che ha il senso della sicurezza e del limite.
Più che dire di sì o di no in virtù della nostra autorità e superiorità (in
un rapporto inevitabilmente asimmetrico) occorre fornire spiegazioni e
chiedere i motivi che muovono i comportamenti di opposizione e
contrasto. In questo modo spesso gli irrigidimenti si allentano e le
posizioni, apparentamenti inconciliabili, si dispongono all'incontro.
Dobbiamo forse lasciarci guidare dall'idea che si tratta di un
comportamento passeggero, che ha una sua ragione di essere
(contingente e occasionale o remota che sia), corrispondente a un
.'bisogno di crescita".
Conoscendo questo fenomeno e riconducendolo alle sue giuste
proporzioni è anche possibile scherzarci o sdrammatizzarlo, come
quando ad esempio la contrapposizione si/no tra adulto e bambino
assume i termini del gioco nello "scontro" verbale a monosillabi o
quando l'adulto anticipa o sostituisce, scambiandoli, i termini della
contrapposizione (ad es. dopo aver giocato i bambini non vogliono
rimettere a posto i giochi, sapendolo l'adulto può prevenire il ri iuto
presentando il compito come un gioco, oppure può assumere le
posizioni dei bambini per sortire una reazione contraria: “Mi sembra
che non sappiate dove vadano messi, tutti questi giochi, è vero?!, "
oppure può cercare di responsabilizzarli investendoli di un ruolo, di un
compito, motivato in un dialogo "alla pari").
 
La fermezza
Se consideriamo il si e il no non solo come elementi di dialogo e di
comunicazione ma come veri e propri strumenti educativi (anche se
non tutti i sì e tutti i no hanno lo stesso peso), che concorrono a
delimitare i con ini della nostra relazione interpersonale con il
bambino, ci accorgiamo che, a ben vedere, sono pochi i no (i divieti, i
limiti, le censure) irrinunciabili, che non ammettono replica, che non ti
mettono in discussione.
Con questo non intendo dire che- buona parte dei no può e deve
diventare si, ma semplicemente che i no veramente importanti e
irremovibili sono alla ine talmente pochi che vanno difesi con
fermezza, pena il disorientamento dei bambini o la perdita di credibilità
presso di loro.
La fermezza, infatti, quando si ha a che fare con bambini, non va intesa
come perseveranza cieca e rigida nel mantenere una richiesta o un
divieto. E' invece un atteggiamento più complesso, che ha componenti
cognitive, emotive, comunicative. comportamentali. e non esclude una
certa lessibilità.
Un atteggiamento di fermezza consiste anzitutto nel far appello al
ragionamento, come si diceva, nello spiegare con tranquillità, le ragioni
per le quali è giusto che una cosa venga o non venga fatta .
A questo ragionare con calma (componente cognitiva) si accompagna
poi (soprattutto se la spiegazione e la richiesta vengono ripetute, ogni
volta con più forza), l'idea che "noi teniamo particolarmente" che una
cosa venga fatta oppure no. E', questa, una componente emotiva che
consiste nel far leva sul desiderio del bambino di restare in sintonia con
noi e coi nostri sentimenti. In molti casi queste due componenti della
fermezza bastano per indurre al comportamento desiderato.
Talvolta invece non bastano, e allora può entrare in gioco anche la
componente comportamentale. E' noto che, in molti casi, basta riuscire
a dare avvio ad un'attività per superare in buona parte la resistenza che
si provava verso di essa, per "trovarcisi dentro", come dopo un tuffo
nell'acqua si comincia subito a darsi da fare per stare a galla. Cosi si può
indurre un bambino a svolgere un'attività di fronte alla quale indugia o
ha un atteggiamento di ri iuto, iniziandola noi per lui, invitandolo e
quasi s idandolo a partecipare, a proseguire. Nella fermezza sono
presenti, inoltre, componenti comunicative e ci può anche essere, come
si è detto, un elemento di lessibilità. Di fronte al bambino che insiste
nel ri iutare di fare una cosa, o nel volerne fare a tutti i costi un'altra,
avere fermezza non signi ica ne essere sordi ne dare l'impressione di
ingerlo. Si può mantenere la propria posizione di dissenso anche
lasciando che il bambino spieghi le sue ragioni, valutandole,
controbattendole con altre. La comunicazione cioè, deve restare aperta,
il bambino deve capire che ha la possibilità di farsi ascoltare e anche
persuaderci. Se poi, ascoltandolo, ci renderemo conto di qualcosa che ci
era sfuggito (per esempio di una certa attività o situazione che gli fa
davvero paura, o è per lui molto più importante di quanto credevamo),
non è detto che non si possa anche cambiare idea, trasmettendo il
messaggio che non si è trattato di un improvviso cedimento a suppliche
insistenti o ad un assenso per stanchezza, ma che ci si è resi conto che
le cose stavano in modo diverso da come si pensava. In questo senso la
fermezza può contenere anche un elemento di lessibilità.
 
 
Dire di si, dire di no in adolescenza ed oltre
Man mano che i bambini crescono, cresce la loro consapevolezza di se,
si ampliano gli spazi di azione e di autodeterminazione, aumenta la loro
capacità di contrattazione e negoziazione (oltre alla posta in gioco).
Nella relazione tra genitori e igli questo coincide col riemergere dei
rapporti edipici e col bisogno di liberarsene (trasferendo le proprie
cariche affettive di tipo genericamente erotico dai genitori a persone
esterne alla famiglia).
Questo da spesso luogo a una situazione temporanea dei genitori. Come
ha osservato Anna Freud, le igure genitoriali, proprio perché sono
presenti questa paura più o meno inconscia dell'antico rapporto e
l'esigenza superarlo, perdono agli occhi del iglio una parte della
possibilità che avevano e cominciano a venire vissute anche in modo
negativo. Egli può cominciare a considerarle come piuttosto banali,
all'antica, rigidi, con idee ristrette, senza entusiasmi e senza slanci,
oppure con interessi limitati, ecc.
Questo è dovuto anche a una visione più realistica di pregi e difetti dei
genitori, la quale si sostituisce alla convinzione infantile che essi siano
pressoché onnipotenti e onniscienti: la perdita di tali qualità comporta
un impoverimento della loro immagine; inoltre il bisogno di trasferire
le proprie cariche emotive dalle loro persone a persone esterne alla
famiglia accentua la loro situazione. Solo successivamente, dopo il
g p
superamento di queste fasi, avverrà una riscoperta dei genitori: i loro
pregi verranno nuovamente colti, loro comportamenti che erano stati
interpretati come difetti o limiti verranno compresi, giusti icati, e a
volte persino apprezzati.
Chi invece af ianca gli adolescenti in crescita senza avere con loro
stretti rapporti di sangue come quelli genitoriali, è di certo in una
condizione tendenzialmente meno con littuale, ma ugualmente può
essere messo alla prova da quella carica trasgressiva, oppositiva, spesso
di ribellione, che caratterizza questo passaggio verso l'età adulta.
Oltretutto occorre considerare che in questo periodo dell'evoluzione
cognitiva si forma e si afferma quello che Piaget ha de inito il pensiero
ipotetico - deduttivo, per lui l'inclinazione alla discussione (che spesso
si presenta coi toni marcati della polemica) è un'occasione importante
per mettere alla prova queste nuove capacità di ragionamento. Ciò può
creare degli attriti, se non si è disponibili ad accettare e sostenere un
confronto alla pari.
Queste forme di provocazione sono il ri lesso di una dinamica interiore
intrigata e complessa. Non dovremmo dunque risentirci troppo ne
inquietarci o polemizzare, ma prendere la cosa con pazienza,
soprattutto quando questa componente negativa di atteggiamenti
ambivalenti e provocatori viene espressa con forza.
In questo caso -in modo più intenso che in precedenza -la nostra
funzione, apprezzata e criticata ad un tempo, è anche quella di fornire
un modello di comportamento e consentire una presa di distanza da
questo modello.
Nel primo caso siamo assunti cioè come oggetto di imitazione, ma non
nel senso ristretto e negativo che attribuiamo a questo termine nel
linguaggio quotidiano (per esprimere una mancanza di originalità, di
uno stile personale) bensì nel senso più ampio e positivo, e cioè come
uno dei motori principali dello sviluppo psicologico.
Talvolta l'imitazione si spinge al punto da dare origine a processi di
identi icazione: questa "interiorizzazione" di un modello di adulto è di
grande importanza, e si veri ica più facilmente se il modello che
l'adolescente sceglie è positivo.
Accanto a questi momenti di totale adesione all'altro ci sono momenti
in cui il bisogno di avere un'identità propria, diversa dagli altri, si fa
sentire con forza. Questo è ciò che fa da sfondo e motiva parte dei
possibili contrasti (opposizioni, trasgressioni) degli adolescenti in
crescita. Si tratta spesso di posizioni manifestate come forti e rigide (ma
che il più delle volte nascondono fragilità e dubbi) rispetto alle quali
poco si ottiene rispondendo in modo uguale e contrario (che
sbloccherebbe la comunicazione) Meglio invece concedere uno spazio
di espressione e di ascolto - in cui passi il messaggio: "Non cerco di
cambiarti, ti accolgo così come sei". che consenta di fare proprie le
posizioni presentate per trasformarle arricchendole di sfumature.
Questo in altri termini signi ica evitare affermazioni drastiche e
perentorie del tipo "Non puoi, non devi farlo……. Non è così..., o
sentenze assolute che esprimono giudizi, del tipo: Non hai capito, non
sei capace, non lo sai fare…., mentre è importante invece sottolineare la
provvisorietà di una situazione ("vedo che riguardo a questo speci ico
problema..." " mi pare che in questo momento, tu potresti/dovresti "),
per stimolare nel contempo il passaggio ad una situazione più
soddisfacente ("Questa cosa non converrebbe che tu la facessi, per
questi motivi, ma se sei davvero convinto di poterla affrontare, non
posso permetterti di farla, però possiamo ragionare su
un'alternativa..").
Questo contribuisce a mantenere aperta e dinamica una relazione, a
promuovere un dialogo un dialogo e un confronto che sa relativizzare,
contestizzare, piuttosto che arroccarsi su sterili certezze. A volte,
quando lo scontro è intenso e sembra che nello s inimento manchino le
parole, persino il silenzio vigile, carico di trepidazione e attesa può
riconquistare uno spazio di incontro. Soprattutto quando il silenzio è
espressione di un legame rispettoso (non cedimento o ri iuto ma luogo
di ascolto della presenza dell'atto nei propri pensieri e sentimenti),
capace di seminare pur sapendo che il tempo del raccolto, magari tardo
a venire e per questo ingrato, non corrisponde ai propri tempi ma a
quelli dell'altro.
 
Bibliogra ia di riferimento:
(1982) Guido Petter, Il mestiere di genitore, Rizzoli, Milano, 1994
Anna Oliverio Ferraris, Crescere. Genitori e igli di fronte al
cambiamento, Raffaello Cortina, Milano, 1992.
 
 
 
 
 
 

3a parte: Alterità
 
 
 
Lo specchio impossibile: problemi di
identi icazione con ragazzi handicappati
 
di Deliana Bertani
(ovvero: cosa accade nel rapporto educativo quando lo specchio
all'interno del quale l'adulto deve ri lettersi rimanda immagini che
rendono estremamente doloroso e dif icile il rispecchiamento).
Come appare dal titolo le ri lessioni che proporremo non sono centrate
ne sugli strumenti ne sul metodo di lavoro ma sulla necessità di capire
la natura e le dinamiche del rapporto educativo, la "parte" cioè che
l'educatore (così chiameremo l'adulto) fa nel viaggio che il ragazzo
handicappato sta compiendo per crescere.
Gli educatori affrontano esperienze emotive e dif icoltà simili a quelle
dei genitori anche se ci sono notevoli differenze di ordine qualitativo e
quantitativo
 
Differenze
Le differenze vanno cercate nel polo della formalità: l'educatore ha un
ruolo, fa un mestiere. Queste differenze possono essere riassunte in
queste parole: l'educatore è in parte esonerato dal tema della colpa è
protetto dal setting, dal fatto cioè di" essere lì" per motivi professionali
e con limiti di tempo e di luogo ben de initi. Chi ha avuto a che fare con
genitori di bambini handicappati sa come la colpa pesi in modo
massiccio sul rapporto, sulla vita, sull'esperienza del genitore e quindi
del ragazzo. Il genitore si attribuisce la colpa di quello che è successo,
dello stato del ragazzo, del suo star male, della non guarigione.
L'educatore è in gran parte esonerato dalla colpa come si diceva più
sopra o comunque dalla colpa originale; se di sensi di colpa si può
parlare riguarderanno il timore di non aver fatto tutto il possibile.
Inoltre l'educatore è protetto dal setting nel quale opera, dalla
situazione nella quale è, perché questa ha dei limiti di spazio e di tempo
ben precisi e de initi, l'educatore ha dei dati oggettivi che lo difendono
 
Analogie
Vediamo le analogie fra genitori e insegnanti. Queste vanno cercate nel
polo dell'informalità ,cioè in tutto quello che succede, nella
interpretazione di questa "parte", sul piano dell'affettività ,dell'intensità
e della coloritura dei sentimenti.
1)La prima analogia, quella centrale , è l'esigenza per l'educatore come
per il genitore di trovare una misura nella relazione tra il troppo
lontano e il troppo vicino. Il troppo lontano che signi ica fuga e
manipolazione, il troppo vicino che signi ica adesione, identi icazione
totale, sovrapposizione.
Esigenza di trovare la misura ed esigenza di fare i conti con i propri
meccanismi di difesa, con la reattività che ciascuno di noi ha e mette in
atto consapevolmente o inconsapevolmente nelle situazioni di
dif icoltà. Fare i conti con tutto questo signi ica avere almeno un'idea
delle nostre parti che mettiamo in gioco nel rapporto, che proiettiamo
nel ragazzo con il quale abbiamo un rapporto educativo ;signi ica avere
almeno un'idea dell'orecchio e dell'occhio che stiamo usando
nell'osservare, nel guardare, nel capire, nell’ascoltare la situazione.
Meccanismi di difesa che possono distrarre dalle esigenze educative del
ragazzo stesso, che sono attivati da sentimenti di angoscia ,di paura che
spingono a trovare dei ripari, degli aggiustamenti per stare il meno
male possibile, che ci portiamo dietro spesso sempre uguali o che
cerchiamo faticosamente di rendere adeguati.
Necessità di trovare una misura, di capire cosa sta succedendo dentro
di noi, di equilibrare l'interesse verso la persona con la quale abbiamo a
che fare- verso l'altro da me, verso il diverso da me - con" i miei
interessi" . Detto in altri termini: necessità di integrare l’investimento
oggettuale con l’investimento narcisistico.
Cosa signi ica? Le componenti oggettuali del rapporto sono quelle
componenti correlate con la capacità dell'educatore di identi icarsi con
l'allievo ,di mettersi nei suoi panni, sono quelle componenti correlate
con l'interesse, con l'attenzione verso l'altro da sé. La capacità ,la
possibilità da parte dell'educatore di mettere a disposizione dell'alunno
stesso uno spazio mentale. La capacità di pensare a quell'allievo che ha
davanti e che nella fattispecie è un ragazzo handicappato. Uno spazio
mentale all'interno del quale il ragazzo possa essere com-preso, preso
dentro, possa essere pensato e dove possano essere messe a punto
delle strategie educative, riabilitative , emancipatorie, dove l'insegnante
possa mettersi in una posizione di operatività.
Questo implica ,da parte dell'educatore, un'identi icazione introiettiva -
operativa, cioè il riuscire a capire quanto c'è di personale e quindi
gestirlo e quanto c'è del ragazzo in modo da non manipolarlo, non
sovrapporsi e , come spesso accade, non scappare. Cercare l'operatività
signi ica avere la capacità di fare i conti con i propri sentimenti ,le
proprie parti messe in gioco, i propri meccanismi di difesa. Queste sono
le componenti oggettuali.
Vediamo "i nostri interessi", le componenti narcisistiche. Queste sono
correlate con il fatto che l'educatore è professionalmente interessato al
successo del suo allievo. Quando l'interesse diventa però troppo
personale c'è il rischio di troppa frustrazione che può ingenerare
atteggiamenti educativi inadeguati. Anche qui bisogna trovare una
misura. E' chiaro che si cerca sempre soddisfazione nel lavoro che si sta
facendo ma per questo arricchimento personale, per questa
soddisfazione non deve prevaricare tutto il resto. Per esempio nella
misura in cui l'insegnante vive il disinteresse come un ri iuto attivo nei
suoi confronti, come una conferma del fatto che non è bravo, che non ci
sa fare, allora la componente narcisistica diverrà troppo forte e
rischierà di rendere l'atteggiamento educativo inadeguato, perchè la
frustrazione sarà troppo pesante
2)Per capire meglio e sottolineare l'analogia genitore\insegnante ,
diciamo che siamo nel campo delle componenti narcisistiche allorchè il
genitore, davanti a suo iglio che non mangia, vedrà crollare la propria
immagine ideale di genitore e si sentirà ri iutato ,sminuito nelle sue
capacità
3)Ancora analogie fra insegnante \ genitore: la presenza del ragazzo
handicappato produce un effetto perturbante che è collegato sia alle
caratteristiche psicologiche del ragazzo stesso sia alla presenza nella
mente del genitore, dell'educatore di problemi non risolti, di bisogni
insoddisfatti. Cosa signi ica? La presenza di un ragazzo handicappato
evoca e mette in moto tutta una serie di problemi non risolti, di bisogni
insoddisfatti. La presenza di una persona in dif icoltà, di una persona
dipendente ,inadeguata, inevitabilmente ci porta alla mente, ci evoca i
nostri bisogni insoddisfatti i problemi non risolti. Bisogni e problemi
antichi, vecchi perchè la persona che abbiamo davanti è grande ma
nello stesso tempo piccola.
Rappresenta, presenti ica in maniera reale ed esasperata il fatto che
ciascuno di noi è grande ma si porta dietro ,volente o nolente, anche il
suo essere piccolo, il suo essere adolescente e comunque il suo essere
bisognoso.
E questo viene fatto riemergere a dispetto dei tentativi di annullare, di
rescindere i legami con il bambino che c'è dentro di noi, quello che noi
eravamo
Il ragazzo handicappato che abbiamo davanti ci fa tornare alla mente
elementi che sono anche nostri, che ci turbano che ci fanno stare male,
che ci perturbano ,che ci mettono in discussione, che ci costringono a
rivedere il nostro equilibrio ,che ci fanno mettere in moto le nostre
difese. E tanto più gravi e grandi sono i problemi e i bisogni tanto più
massicce devono essere le difese per preservarci dall'angoscia.
 
Lo specchio interno
Ritorniamo al discorso degli specchi. Lo specchio interno è ciò che
risulta, il frutto delle identi icazioni, delle proiezioni, degli
insegnamenti che gli adulti cui ci siamo af idati hanno messo dentro di
noi. Quindi prima il super-io e l'ideale dell’Io sono esterni al bambino,
sono " la voce" del papà e della mamma e di altri adulti signi icativi, poi
diventano" esterni-interni" e in ine sono interni, sono fatti propri dal
bambino.
C'è poi un'altra cosa più vecchia e arcaica in noi l'io ideale, erede del
narcisismo primario di quella situazione cioè di onnipotenza totale data
al bambino nelle prime settimane di vita dalla fusione\confusione con
la madre. Quindi mentre l'ideale dell’Io è l'erede dei personaggi amati
l'io ideale lo è delle identi icazioni eroiche - onnipotenti.
Come fanno a stare insieme il super io, l'ideale dell’Io, l'io ideale? A
poco a poco c'è una parte di noi che comincia ad emergere, la parte più
razionale, la parte che tende a fare gli interessi della globalità del nostro
essere : l'io. L'io esercita una mediazione fra i personaggi interni e la
realtà, fra onnipotenza e impotenza ; l'io è l'istanza che " segna la rotta
del viaggio per non naufragare sugli scogli " . E il naufragio è un rischio
molto grande quando si ha a che fare con ragazzi handicappati, tanto
più grande quanto più il ragazzo è grave. Avere a che fare con persone
che non guariscono implica trovare l'equilibrio fra l'onnipotenza e
l'impotenza ( fra l'adesso arrivo io e il non c'è niente da fare.
 
La nascita dell’inatteso
Fermiamoci ora a considerare il ragazzo handicappato con il quale sia
gli educatori sia i genitori hanno a che fare.
Chi è questo iglio, chi è questo alunno ?
E' qualcuno non atteso.
Quando una coppia fa un iglio accompagna tutta la gravidanza con
fantasie sul bambino che deve nascere. Fantasie di coppia, fantasie
personali che vanno a costruire man mano un'immagine ideale del
bambino e parallelamente un'immagine ideale del genitore, come
dovranno essere l'uno e l'altro. Alla nascita questo bambino ideale
dovrà fare i conti con il bambino reale che nasce. Il genitore deve fare il
confronto fra quello che si era immaginato e il bambino vero che ha
davanti; dovrà quindi rinunciare al bambino ideale per rapportarsi con
quello vero. Abbandonata l'immagine ideale elaborerà un lutto per
quello che ha perso e si rivolgerà al bambino vero. La capacità dei
genitori di rinunciare a questo bambino ideale si basa anche sulle
capacità vitali del bambino.
Come hanno fatto i genitori a costruirsi questa immagine ideale?
Attingendo i vari elementi dalla propria storia, dai desideri, dai ricordi,
dai sentimenti positivi e negativi, dai personaggi amati o temuti. Si sono
serviti degli specchi di cui si parlava prima, dei loro ri lessi, dei loro
rimandi.
Il bambino vero è un qualcuno che presenta subito dei bisogni che
hanno risvolti sul piano organizzativo, sul piano affettivo e sul piano
interno della propria strutturazione psicologica. Il bambino vero ha
bisogno di spazio a tutti e tre questi livelli. Se i genitori non pensano a
lui ma continuano a pensare a quello che avrebbero voluto che fosse, il
bambino vero non riuscirà a crescere, non potrà crescere perchè
nessuno gli darà gli elementi per mettere insieme la struttura della sua
personalità. Se il genitore non pensa a lui, non lo "vede", ma "vede" il
bambino ideale ,gli rimanderà qualcosa che non ha niente a che fare con
lui, che riguarda qualcuno che non c'è. E questo è un problema che
accompagna tutta la crescita del bambino ino alla sua autonomia
Quando lo iato fra bambino reale e bambino ideale diventa una
voragine
Quando nasce un bambino handicappato lo iato fra bambino reale e
bambino ideale diventa una voragine un abisso, qualcosa che produce
un'esplosione di dolore, sofferenza, delusione, stupore, annichilimento.
Quando nasce un bambino handicappato, nasce qualcuno inaspettato,
non immaginato, qualcuno che ha pochi, pochissimi elementi in
comune con il bambino immaginato. Nascita dell'inatteso quindi. Allora
succede che la capacità di pensare al bambino vero, quello che si ha di
fronte, di immaginare si inceppa. E’ qualcuno che non sta nei tempi, nei
punti di riferimento nella mente dei genitori. Quando nasce un bambino
handicappato assistiamo alla nascita e alla progressiva formazione di
un sistema relazionale stabile e sofferente, di un sistema però che ha
nel dolore e nella sofferenza il suo elemento di stabilità.
 
genitori_________ ferita narcisistica
| scacco
senso di colpa
|
|
iglio __________ bambino danneggiato che manda messaggi angosciati,
che non può interiorizzare oggetti buoni a loro volta danneggiati.
 
La nascita del bambino non atteso da il via alla formazione di un
sistema relazionale stabile e sofferente cioè stabile in quanto sofferente
Il bambino non atteso è qualcuno che delude, qualcuno con cui si riesce
a fare i conti solo parzialmente, solo difendendosi in modo massiccio.
E' qualcuno che produce una distanza dif icilmente colmabile, per il
quale è possibile una messa a fuoco precaria, che richiede un
abbandono totale e immediato delle fantasie narcisistiche.
Che produce una ferita narcisistica che disorienta e taglia ogni punto di
riferimento interno ed esterno, che fa piombare in uno stato di
melanconia per il bambino reale scomparso, che sollecita sentimenti di
svuotamento, auto denigrazione, auto accusa.
E' qualcuno che spesso si può affrontare solo "facendo inta che"
Anche a questo punto possiamo cercare di schematizzare nel modo
seguente ciò che accade:
 
*FALSO SE' dei genitori ________ STABILE IDENTITA' PRECARIA del iglio
handicappato
difese dei genitori: tratti maniacali enfatizzazione delle proprie azioni,
situazione simbiotica, negazione
difese dei igli: psicotizzazione, asintonia, ossessività, negazione,
infantilismo, seduttività, ansia, insicurezza, depressione.
 
 
Anche l’educatore interagisce con questi ragazzi
 
La funzione dell'educatore come si diceva all'inizio è intrisa di
genitorialità, anche lui deve fare i conti con l'inatteso.
Se l'educatore non nega il polo dell'informalità si trova ad avere a che
fare, seppur con tonalità diverse e con una drammaticità molto
stemperata, con gli stessi sentimenti, con gli stessi problemi di
autenticità, con le stesse interruzioni identi icatorie, con gli stessi lutti
da elaborare.
Anche l'educatore costruisce le sue fantasie all'arrivo dei nuovi allievi,
fantasie che dovranno fare i conti con gli alunni veri, reali, così come la
sua immagine ideale dovrà fare i conti con la quotidianità: lutto
dell'immagine di allievo ideale /lutto dell'immagine di educatore ideale.
Il gioco degli specchi è simile a quello dei genitori: il ragazzo ,il
bambino che si ha di fronte evoca il bambino che è dentro di noi e le
immagini che vengono rimandate sono quelle fornite dalle parti più
maldestre, incapaci, inadeguate.
 
 
L’educatore interagisce con la famiglia
 
La relazione che si viene costruendo sarà inevitabilmente caricata nei
due sensi di signi icati affettivi e di elementi transferali.
Una relazione dove gli specchi che vengono attivati mettono a confronto
con immagini che provocano dolore angoscia e sofferenza, che
propongono frustrazione, sentimenti di onnipotenza e impotenza, che
rimandano immagini che possono essere destrutturanti
Specchio impossibile si diceva nel titolo, specchio comunque molto
dif icile da usare se non c'è nell'insegnante la comprensione dei propri
limiti e delle proprie dif icoltà. Se l'educatore si mette nella posizione di
cercare i problemi e le dif icoltà solo nell'altro, nel ragazzo o nella
famiglia, la situazione non potrà che peggiorare, il solco ,la non
comunicazione diventerà sempre maggiore.
 
L'educatore incontra la sofferenza dei genitori e in qualche maniera
viene incluso dai genitori nel complesso lavoro psicologico di
elaborazione del lutto e dovrà affrontare: frustrazione,
colpevolizzazione, idealizzazione, delega.
Questo rapporto è oggettivamente complesso perchè entra in modo
massiccio nel gioco degli specchi di cui si parlava nel titolo ed è inserito
in un rapporto triangolare dove le dinamiche sono confuse, dove
l'INATTESO scalza le previsioni e le immaginazioni, vani ica i punti
fermi.
Specchio impossibile o comunque molto dif icile da usare se non c'è
nell'insegnante comprensione dei propri limiti e delle proprie dif icoltà
,come si diceva prima, se non c'è almeno un vago sentore delle proprie
difese che possono essere messe in atto.
Difese che possiamo così riassumere: evitamento; oggettivazione
(trincerarsi dietro al ruolo); angoscia \ dipendenza (attesa dei
superiori o degli esperti per avere soluzioni magiche); soluzione
fusionale (interruzione della crescita, proposte regressivanti derivate
da un'identi icazione totale); complicità con il ragazzo
(colpevolizzazione dei genitori e degli altri operatori); tutto va bene;
negazione della situazione.
Gli educatori sono anche dei modelli sui quali si struttura l'identità del
ragazzo, hanno la possibilità di rafforzare in lui un'immagine di sè
accettabile e autentica nella misura in cui possono avere a che fare con
il ragazzo vero che hanno di fronte con meno drammaticità rispetto ai
genitori. L'educatore può stare meno male e può guardare quello che
davvero c'è davanti con più continuità e con più stabilità. Può pensare
di più al ragazzo, può immaginarselo di più e può conseguentemente
assegnare a questo ragazzo dei ruoli adeguati che lo possono aiutano a
darsi delle risposte alla domanda "io chi sono?"
L'educatore ha quindi, soprattutto in adolescenza, un ruolo importante
nella formazione dell'identità del ragazzo anche nella misura in cui
riesce ad assegnare dei ruoli sociali veri e autentici.
 
Gravità e gravosità: l’impegno
con i gravi
 
di Leonardo Angelini
 

L’incontro odierno è centrato sul tema del rapporto fra gravità e


gravosità e sulle vicissitudini cui va incontro il volontario, ma anche
ogni altro professionista sella salute e dell’assistenza allorchè si
appresta ad impegnarsi sui gravi e, ancor di più – come avremo modo di
vedere fra un po’ – sui gravosi. Cominceremo col cercare di de inire
meglio cosa s’intende per ‘grave’ e per ‘gravoso’, ed in un secondo
tempo vedremo cosa signi ica impegnarsi su di essi.
 
Gravità
Al ine di inquadrare il problema del rapporto fra gravità e gravosità
cercheremo innanzitutto di vedere i vari modi con i quali è possibile
de inire la gravità, ognuno dei quali – come vedrete - ha un proprio
fondamento, che però a mio avviso non basta ad inquadrare
esaustivamente il problema, imponendo a noi tutti uno sguardo
d’insieme che alla ine li comprende tutti e privilegia l’una o l’altra di
queste letture della gravità a seconda della situazione in cui in concreto
ci troviamo di volta in volta ad operare con i gravi.
Prima di entrare nel merito dei vari approcci al tema della gravità va
detto però che, nella maggior parte dei casi, i gravi da noi seguiti hanno
una caratteristica distintiva che rende particolarmente angosciante per
le famiglie e per gli stessi operatori l’avvicinamento al grave: il fatto che
il nostro grave quasi sempre non presente possibilità di guarigione e
che tutti gli sforzi che è possibile fare con lui sul piano riabilitativo,
educativo e assistenziale – per quanto intensi – possono migliorare (a
volte di molto, spesso purtroppo no) la sua situazione di sofferenza e le
sue prospettive di vita sociale ed affettiva, ma non sono in grado di
guarirlo. Ciò determina nella famiglia, nel grave stesso allorchè non sia
presente in esso un ritardo mentale che ne impedisca
l’autoconsapevolezza ed in tutti noi che ci avviciniamo ad esso una
condizione di lutto di tipo melanconico, cioè mai del tutto riparabile col
quale occorre abituarsi a convivere e sul quale spesso è opportuno un
intervento di supporto alla famiglia del grave, e al grave stesso, allorchè
esso sia autoconsapevole, che come è possibile intuire sono le entità più
esposte alle mille e mille delusioni presenti nella quotidianità del grave.
Detto questo vediamo ora quali sono vari modi di de inire la gravità.
Il primo modo di de inire il grave è quello nosogra ico: vi è come una
lista delle malattie, delle disabilità, al cui interno è possibile de inire la
gravità in base a vari parametri, che possono riguardare l’entità del
ritardo mentale, dei problemi motori, delle prospettive di vita, eccetera.
Per cui ad esempio è possibile misurare l’entità del ritardo mentale
attraverso una serie di test, cioè di misurazioni, così come è possibile,
attraverso un percorso diagnostico, valutare l’entità dei problemi
motori, le prospettive di vita e così via.
Come vedete, allorchè cerchiamo di valutare la gravità a partire dalla
nosogra ia, cioè dalla ‘descrizione della malattia’, è molto importante
de inire un percorso diagnostico, cioè capace di capire ciò che il
soggetto presenta sul piano medico, psicologico, psichiatrico,
neurologico, di modo che, a partire dalla diagnosi, sia possibile de inire
un percorso di cura ef icace e tempestivo.
In quali occasioni un approccio nosogra ico è importante? Ad esempio
all’inizio di un percorso terapeutico, allorchè entriamo per la prima
volta in rapporto con il possibile paziente, di modo che sia possibile
discriminare quali cure siano adatte a quel determinato paziente
ragionando a partire da una impostazione professionale e scienti ica
della cura.
Ciò è ancora più importante da quando la diagnosi precoce di una serie
di malattie e il conseguente approntamento di percorsi terapeutici,
riabilitativi, assistenziali di cura ha permesso un aumento del livello di
ef icacia delle cure medesime 1.
Si determinano in questo modo cicli di cura che consistono in un
insieme dinamico di setting che variano dalla presa in carico diretta del
paziente (ma allora va detto quale tipo di presa in carico sia ritenuta in
quel momento più ef icace); ad interventi di consulenza e di sostegno
ad una o più reti non sanitarie: in età evolutiva è il caso della
consulenza alle istituzioni prescolari e scolastiche, agli istituti che
perseguono ini sociali ed educativi sostitutivi i integrativi di quelli
esercitati dalla famiglia; ad interventi in ine sulla famiglia del grave
soprattutto nel momento iniziale in cui il lutto per la mancata nascita di
un iglio normale è particolarmente angosciante ed in tutti quei
momenti di cambiamento (ad esempio arrivo a scuola, e ancora di più
uscita dall’obbligo) che noi, come molti colleghi, siamo postati a vedere
come una vera e propria rinascita per la famiglia di un iglio grave
(Montobbio).
Un altro modo di avvicinarsi al problema della gravità e quello inerente
la storia personale del soggetto e le possibilità che egli in concreto ha
avuto lungo il proprio percorso di vita di fruire, o meno, delle cure utili
alla risoluzione o all’attenuazione dei suoi problemi. Per farmi
comprendere partirò con un esempio: ho avuto modo in passato di
seguire contemporaneamente due bambini Down, coetanei, provenienti
dallo stesso milieu sociale e geogra ico, che però differivano in un
punto. Uno di questi due casi era stato segregato su consiglio dello
specialista 2 al DeSanctis, cioè in una istituzione totale, in un ospedale
psichiatrico per bambini prima che questi obbrobri fossero chiusi.
L’altro, o meglio l’altra – poiché si trattava di una bambina - invece era
rimasta in famiglia ed era stata inserita in scuola elementare grazie agli
sforzi della madre. Io ho visto entrambi allorchè stavano per inire la
scuola elementare nella quale anche il primo alla ine era stato inserito
dopo la chiusura del DeSanctis. Ebbene ho ancora il ricordo vivido delle
profonda impressione che mi fece il constatare le profonde differenze
presenti fra i due sia sul piano dell’apprendimento, sia sul piano
psicologico e comportamentale. Il primo era molto più indietro della
seconda negli apprendimenti, pur avendo frequentato la scuola speciale
del DeSanctis (che era una specie di parodia di scuola). Ma soprattutto
ciò che colpiva era l’assoluta assenza di problemi comportamentali
nella seconda e la presenza nel primo stereotipi comportamentali, di
angosce e di paure che non erano presenti allorchè era entrato nel
DeSanctis ma si erano come incrostate in lui in base alla sua lunga
permanenza in quell’istituzione.
Penso che questo esempio possa illustrare, meglio di ogni altra
spiegazione, ciò che voglio dire allorchè affermo che le opportunità di
cui il grave ha potuto fruire, o meno, lungo il suo percorso di crescita
personale siano molto importanti nell’accentuare la pesantezza dei
sintomi e a volte addirittura far diventare grave soggetti che in altre
circostanze non sarebbero stati gravi, o avrebbero potuto fruire di aiuti
e sostegni importanti.
Quando è importante considerare questo modo di vedere il grave?
Quando ad esempio entriamo in contatto tardi con esso. O quando,
ancora di più, l’arrivo presso di noi della famiglia del grave con grandi
attese, il fatto che essa riempia il nostro lavoro, il nostro aiuto di troppi
signi icati ci pone in una condizione imbarazzante. Il fatto che da noi
arrivassero tanti pazienti da altre provincie – specie negli anni scorsi,
allorché il fatto che in Italia eravamo stati i prima partire con i nuovi
metodi riabilitativi territoriali ci poneva in una situazione di vantaggio
e di notorietà rispetto ad altri contesti territoriali – alimentava in un
primo tempo il nostro narcisismo, ma ci poneva nella scomoda
posizione di chi poi deve spiegare a queste famiglie, che venivano a noi
con tante attese, che non eravamo onnipotenti e che non si aspettassero
miracoli. La stessa cosa, gli stessi sentimenti contrastanti penso
possano capitare a voi allorchè vi accingete a lavorare con i gravi.
Una terza componente che entra in gioco allorchè si parla del grave è
quella di come il contesto vede il grave, degli atteggiamenti concreti del
contesto nei suoi confronti. Anche qui partirei con degli esempi: -
innanzitutto la prescuola, la scuola o i CFP sono luoghi in cui altri
operatori guardano al grave, lavorano con esso, lo valutano,
intraprendono con lui un rapporto operativo ed affettivo. Ebbene se in
un determinato momento un operatore che ha a che fare con un
soggetto nosogra icamente non grave si accanisce contro di esso, non lo
valuta, non lo sopporta, l’esito che questa pratica continua avrà sul
soggetto è senz’altro un aumento dei suoi problemi, non solo sul piano
degli apprendimenti, ma anche sul piano comportamentale; - la stessa
identica cosa avviene se questo comportamento viene messo in atto dal
contesto riabilitativo o assistenziale; - con l’aggravante, in età evolutiva
che la perdita di un’opportunità al momento debito può di per sé (come
abbiamo visto prima a proposito dei due Down) comportare
l’accumularsi di un ritardo a volte incolmabile, ed in questo modo è
possibile creare un grave, cioè innescare un processo in base al quale
una situazione che originariamente non era grave poi lo diventa (ciò a
volte appare chiaro nei casi di bambini o ragazzi a rischio trattati male
ed intempestivamente).
Che ci dice questo modo di vedere la gravità: che il problema della
gravità non va individualizzato, che insieme all’albero va vista la
foresta; che nel valutare in un momento ‘x’ un bambino o un ragazzo
occorre sempre vedere, da un punto di vista anamnestico (cioè nella
sua storia personale), in quali contesti egli sia stato (a partire dalla
famiglia) e cosa è stato fatto in questi luoghi per lui. Cosa è stato fatto
effettivamente, e non quel che stava scritto nei programmi di quella
scuola, di quella istituzione (perché a mettere per iscritto buoni
programmi sono capaci tutti).
 
 
Gravosità
 
La gravosità è un concetto diverso dalla gravità, ed è stata oggetto
inora di minori attenzioni, anche se – come vedrette fra un po’ - è
qualcosa con cui abbiamo a che fare tutti, al di là del rapporto col grave.
Il merito di aver sollevato questo problema e di aver distinto la
gravosità dalla gravità va ai colleghi psichiatri e psicologi che operano
nei servizi pubblici di Piacenza (Ferrari, Messina) .
Si intende per ‘gravoso’ un caso che per i suoi comportamenti, e al di là
dei suoi livelli di gravità intesa in termini nosogra ici, comporta un
impegno che all’operatore costa di più sul piano psicologico e, direi,
anche isico. Si tratta quindi di quelle situazioni usuranti per gli
operatori, che ingenerano processi di irritazione, ri iuto,
allontanamento, tendenze al disimpegno.
Non è un caso che la ri lessione sulla gravosità sia nata a partire
dall’esperienza concreta che in questi anni è avvenuta nelle cosiddette
strutture intermedie, cioè in quelle strutture semiresidenziali e
residenziali di tipo professionale per la cura dei disabili e dei casi
psichiatrici che sono nate nel territorio dopo la chiusura dei manicomi.
In questi luoghi, infatti, l’impegno concreto e il rapporto ravvicinato e
fortemente coinvolgente degli operatori con i casi (all’opposto di ciò
che avveniva nei manicomi in cui tutto avveniva sulla base di una sorta
di distanziazione dai casi e sulla loro oggettivazione (E. Goffman) ha
messo in evidenza le dif icoltà concrete che l’operatore deve affrontare
allorchè entra in rapporto con i casi.
E’ stato notato, fra l’altro, che spesso le dif icoltà non nascono con quei
casi che nosogra icamente sono ritenuti gravi, ma partire da quei casi
che – indipendentemente dalla gravità - implicano, una serie di
dif icoltà sul piano identi icatorio per l’operatore: casi che rendono
pesante il lavoro psicologicamente o isicamente, casi che
rappresentano parti del mondo interno dell’operatore ritenute sporche,
impresentabili, parti dalla cura delle quali non è possibile avere alcuna
grati icazione narcisistica, etc.-
Come vedete nel caso della gravosità è l’operatore che quotidianamente
è in un rapporto di cura con il paziente che è messo in discussione, è la
cura stessa che può risultare in iciata qualora i livelli di gravosità
risultino non affrontati o, peggio, non discussi.
Per quanto riguarda il rapporto fra gravità e gravosità si potrebbe
molto schematicamente dire che vi sono quattro alternative, che ho
cercato di riassumere nella tabella seguente:
 

Spero sia chiaro, al di là della schematicità estrema di questo quadro,


ciò che può accadere:
-
il lieve non gravoso è il paziente che tutti vorrebbero avere, che non dà
problemi, con il quale è facile identi icarsi;
-
il grave non gravoso comporta uno sforzo maggiore sul piano
riabilitativo, o assistenziale rispetto al primo, ma non crea problemi di
identi icazione pesanti;
-
il lieve gravoso crea dei problemi che non sono legati al quadro
nosogra ico ma che comportano grossi problemi sul piano
identi icatorio, a partire dai quali nel lungo percorso di cura possono
innescarsi situazioni di progressivo rischio di negazione delle esigenze
riabilitative e affettive cui il paziente ha diritto:
-
il grave gravoso in ine, poiché si presenta problematico e dal punto di
vista clinico e da quello affettivo relazionale, è quel tipo di soggetto sul
quale l’impegno diventa più dif icile e ‘gravoso’, per l’appunto.
-
I rischi della gravosità sono per il paziente quelli di non ricevere le cure
di cui ha bisogno in maniera adeguata, per l’operatore il disimpegno, il
burn out cioè una situazione in cui progressivamente l’operatore perde
le sue capacità lavorative, la disposizione all’impegno, alla cura.
Come è possibile difendere il paziente e se stessi come operatori, come
volontari, dai rischi della gravosità?
-
Attraverso la supervisione, cioè la ri lessione con un esperto sui vissuti
e sui problemi che la cura del gravoso comporta, sui rischi cui si va
incontro allorchè si entra in rapporto con le nostre parti interne che
non vogliamo o non possiamo vedere.
-
Attraverso un turn over sui casi gravosi che salvaguardi il diritto di tutti
(e in primo luogo dei pazienti) a vedere tutelate le proprie disposizioni
alla cura.
-
Attraverso la formazione e l’aggiornamento.
-
E, allorchè, nonostante queste pratiche, il burn out è alle porte un
trattamento del burn out stesso considerando il gruppo degli operatori
coinvolti come pazienti.
 
 
L’impegno, il grave ed il gravoso
La parola impegno viene dal latino in \ pingere, cioè – letteralmente –
‘mi faccio un segno (per ricordare a me stesso che devo fare qualcosa)’.
Vi è in questo ricordare a se stessi di qualcosa già il segnale di una
dif icoltà: la dif icoltà derivante da un processo di decentramento da se
stessi, dalle proprie tendenze più egoistiche e centripete 3, per andare
verso gli altri, per impegnarsi in un lavoro di cura, nel nostro caso. La
dif icoltà è resa ancora più evidente se noi partiamo dall’assunto che
normalmente ci si fa un segno, un nodo al fazzoletto allorchè noi
temiamo di non ricordare una cosa che pure desideriamo fare.
p
Al contrario il disimpegno appare etimologicamente come un processo
di ritiro in se stessi, in una sorta di atarassia che nega ogni movimento
vitale, operativo, ogni preoccupazione altruistica , almeno rispetto a ciò
che è all’ordine del giorno.
La sottile linea di con ine che separa, ma in un certo senso congiunge
anche l’impegno al disimpegno è dimostrata dal ilm (e ancor prima dal
libro) Sostiene Pereira, che avete visto ieri. All’inizio della storia Pereira
ci appare come disimpegnato, preso com’è all’interno della sua
situazione di lutto che gli impone un ripiegamento su se stesso. In
questa fase l’unico essere con cui lui parla è la moglie morta, con la
quale comunica attraverso la foto, mentre tutti gli altri impegni, tutti gli
altri legami sono come attutiti dal lutto. Poi un evento esterno, l’arrivo
dei ribelli che si oppongono al fascismo nascente, le prepotenze del
potere nascente lo scuotono, lo segnano, prendono a coivolgerlo in
maniera viva via più forte, insomma lo sospingono verso l’impegno.
Assistiamo così ad un crescendo in cui i vecchi amori di Pereira, la
moglie morta, l’arte, si congiungono ai nuovi amori, ai nuovi legami la
coppia dei rivoluzionari, il medico, il cameriere; e questo non può che
condurlo alla ine alla forma più radicale e più diretta di impegno.
Venendo a noi accade spesso alla ine di un anno scolastico passato con
voi di ascoltare le vostre mamme, i vostri familiari che riferiscono di
non avere mai pensato che il oro iglia, la loro iglia sarebbero stati
capaci di ciò che invece fate, spesso egregiamente. La stessa cosa
accadeva a noi allorchè avevamo la vostra età e sembravamo inerti,
inchè qualcosa accadeva dentro di noi simile a ciò che accade ora in
voi. Ciò vuol dire che ino ad un certo punto noi rispetto ad un certo
problema è come se non sapessimo come spenderci e, ino ad a quel
momento, a vederci da fuori, può sembrare che non ci sia spazio in noi
per l'impegno. Ma poi, in base a movimenti interni che spesso è dif icile
identi icare con precisione ecco che, come in Pereira, assistiamo ad un
cambiamento, ad una spinta verso l‘impegno che perciò non va vista
come un gesto eroico, ma semplicemente come una risoluzione di un
problema interno che a me pare parente stretto di quel dibattersi nella
bonaccia, di cui parla uno psicoanalista che io amo: Donald Winnicott.
Venendo a noi e al problema della gravità e della gravosità accade,
proprio perché la nostra spinta verso l’impegno sui gravi è profonda di
instaurare con loro un legame profondo di carattere affettivo.
E allora, è questo il senso di questa relazione, occorre stare attenti
perché la spinta verso il grave intanto può solleticare il nostro
narcisismo e sollecitare in noi le nostre parti più onnipotenti, destinate
ahimè a perire ben presto, allorchè in un secondo tempo ci accorgiamo
che la gran parte dei nostri sforzi sembra cadere nel vuoto.
Occorre stare attenti soprattutto con i gravosi, poiché di fronte ad essi
forte è la spinta al disimpegno, alla fuga. Forte (e naturale) è l’emergere
in noi di desideri e fantasie negative, aggressive nei loro confronti.
E’ su questi casi che spesso la sottile linea di frontiera che separa e
unisce impegno e disimpegno mostra le sue crepe e minaccia le nostre
propensioni alla cura.
Di fronte a questi rischi molto importante, così come per gli operatori,
anche per i volontari è la supervisione, la formazione, il turn over sui
gravi e sui gravosi che vanno assicurate dall’organizzazione di cui
facciamo parte.
Se poi ogni tanto, come in Pereira, un qualche lutto dovesse af liggerci,
una conseguente tendenza al disimpegno dovesse sopraffarci e dovesse
tornare a prevalere in noi una propensione a ritornare a ‘dibatterci
nella bonaccia’ non per questo dovremo sentirci in colpa, e meno che
mai saremo tenuti a mostrarci sensibili a parole di colpa che dovessero
pioverci addosso dall’esterno. Perché, una volta elaborato il lutto,
sapremo sicuramente ritrovare la spinta verso l’impegno.
 
Bibliogra ia:
 
Angelini L., 1995, Egoismo - altruismo, in, Angelini, Bertani, Cantini (a
cura di), Volontariato: Gancio Originale, Amm. Prov. di Reggio Emilia.
Solnit A. e Stark M., "Mouming and the birth of a defective child" in "The
Psychoanalityc study of the child" XVI, 1961, 523-537 (cicloostilato,
trad. di G. Polletta).
Montobbio E., Handicap e lavoro, in: Handicappati e società, N.1, Ed del
Cerro 1981,
Ferrari, Messina, et. al., Il giudizio di gravità e di gravosità in psichiatria,
F. Angeli, Milano, 1995
Goffman E., 1968, Asylums, Einaudi, Torino
Winnicott D., Il dibattersi nella bonaccia, in: La famiglia e lo sviluppo
dell'individuo, Armando, Roma, 1968
---
Note
1. Mentre una diagnosi precoce cui non corrispondano cure altrettanto
puntuali e precoci non fa altro che precipitare la famiglia nella
disperazione (cfr.: Solnit e Stark).
2. Si tenga presente che in quel periodo era normale che gli specialisti
invitassero le famiglie ad inviare i bambini nelle istitu-zioni totali, per
cui ciò spiega il perché dell’acconsetire della famiglia del primo a
inviare il iglio al DeSanctis
3. per un’analisi del rapporto fra egoismo ed altruismo nel volontariato
vedi Angelini, Egoismo - altruismo
 
 
 
 
 
 
Dove trovare le regole per
regolare e regolarsi
 
di Deliana Bertani
 

Questo strano titolo deriva da una serie di ri lessioni che abbiamo fatto
per trovare un modo con cui dare risposte a quelli di voi- soprattutto i
più giovani- che in più di una occasione, parlando dei bambini , delle
situazioni che seguono e alla con littualità che spesso compare nel
rapporto educativo, ci hanno chiesto come fare a porre limiti, come fare
a dire di si ,quando dire di no, quando essere permissivi o esprimere in
modo chiaro e preciso il proprio volere
Uno strano titolo si diceva con il quale abbiamo cercato di riassumere il
tema e tracciare un percorso virtuale , potremmo dire, attraverso il
quale ognuno di noi trova le regole della vita, se ne appropria, le integra
in sé e le usa per sé , nel rapporto con gli altri in generale e in
particolare nei rapporti educativi : l’adulto con il bambino, i genitori
con i igli, gli insegnanti con i discenti, gli educatori con i ragazzi con cui
hanno a che fare. E’ un percorso che coincide con la nascita, con la
nascita psicologica con la formazione della coscienza individuale ( con
la formazione del Super-io ) con l ‘ acquisizione della capacità di
mediare fra il mondo esterno e il mondo interno, fra i nostri bisogni , i
nostri desideri, i nostri impulsi e quelli degli altri, fra noi e la realtà .
Nell’agire educativo questo percorso continua quando cerchiamo di
insegnare ad altri ,che sono più indietro di noi in questa acquisizione, a
raggiungere questa capacità. E allora facciamo ricorso alle nostre
regole, a quelle che abbiamo imparato noi, alle modalità con cui ci sono
state insegnate le ritiriamo fuori,
le aggiorniamo rispetto all’epoca in cui viviamo, cerchiamo di adeguarle
al bambino o al ragazzo che abbiamo davanti, alla sua età alle sue
caratteristiche, a quello che riteniamo ,noi, essere importante per lui.
Ecco allora il dentro di sé, il fuori di sé, il la dove il dentro e il fuori si
uniscono che trovate nel titolo.
Entriamo nei particolari e a grandi linee vediamo cosa succede a
cominciare dal bambino piccolo fra l’anno e mezzo e i due anni.
Abbiamo a che fare a questa età con un bambino che ha attuato sotto la
spinta dell’educazione un grosso cambiamento, dall’ essere che viveva o
meglio tendeva a vivere all’insegna del tutto e subito è diventato un
essere più o meno ragionevole.
Ha più o meno imparato che è uno tra tanti e sa di non poter contare su
una posizione privilegiata. Ha imparato che ci sono delle regole sociali.
Invece di andare come prima alla continua ricerca di grati icazione è
disposto a fare ciò che gli si chiede . Il suo interesse di vedere e scovare
gli intimi segreti dell’ambiente che lo circonda si è trasformato in
avidità di sapere e piacere di imparare.
I genitori, gli educatori hanno tutte le ragioni di compiacersi del fatto
che sono riusciti a fare del lattante urlante a volte fastidioso, a volte
sporco, sempre dipendente , un composto scolaro che sta quasi sempre
seduto al proprio banco.
La condizione emotiva del bambino è nel frattempo mutata. I rapporti
con i genitori non sussistono più nella forma precedente.
Il rapporto diviene meno appassionato e perde il suo carattere
esclusivo.
Il bambino comincia a poco a poco a vedere i genitori in una luce più
fredda a riportare la sopravvalutazione del padre che considerava ino
ad ora onnipotente, alle sue dimensioni reali. L’amore insaziabile per la
madre diventa meno esigente e non più così acritico.
Il bambino cerca di conquistare un po’ di libertà dai genitori e cerca
nuovi oggetti d’amore e di ammirazione oltre a loro. Ha inizio un
processo di emancipazione che va avanti per tutto il periodo di latenza.
E’ però un allontanamento che implica il portare con sé i genitori, è un
distacco solo isico. Il bambino cioè ha sviluppato, a prescindere dalle
forze che agiscono dall’esterno, una forza interna , una voce interiore
che decide il suo comportamento, una voce interiore che è la
continuazione di quella dei genitori che agisce ora dall’interno invece
che dall’esterno come accadeva prima. Il bambino ha per così dire
assimilato un po’ dei genitori, degli adulti signi icativi o meglio gli
ordini e i divieti che da loro gli provenivano e li ha fatti suoi .
Man mano che il bambino cresce, questa parte introiettata dei genitori
e degli adulti signi icativi assume sempre più la funzione di promozione
o proibizione nel mondo esterno, proseguendo internamente
l’educazione del bambino ormai indipendente dai genitori reali.
Quando il bambino era piccolo, l’educatore e il bambino si
fronteggiavano come due fazioni nemiche. Le posizioni erano
diametralmente opposte. Ora il bambino è diverso, è internamente
diviso, c’è la famosa voce o coscienza o Super Io che sta dalla parte
dell’educatore. Questa parte ideale alla quale deve obbedire per non
sentire troppa insoddisfazione interna .
All’approvazione dei grandi ha preso posto la soddisfazione interna. La
dipendenza dalla rassicurazione dell’adulto, per quanto riguarda i
sentimenti di valore e di importanza viene progressivamente sostituita
dall’autostima derivata da conquiste e capacità che ottengono
un’obiettiva approvazione sociale.
Quindi le risorse interne del bambino si af iancano alle persone dei
genitori e in generale degli educatori come regolatori della sua
autostima Con l’affermazione del Super io il bambino diventa
maggiormente capace di mantenere in modo più o meno indipendente
il proprio equilibrio narcisistico. La crescete ampiezza delle sue
capacità sociali, intellettuali e motorie gli mette inoltre a disposizione
un’ampia gamma di risorse che lo aiutano a mantenere una maggiore
stabilità di affetti e di umori.
Insieme a questi progressi, per la minore con littualità vissuta, si
consolidano importanti attività come la percezione, l’apprendimento, la
memoria e il pensiero. Questo sviluppo generale rende autonome le
funzioni psichiche superiori e riduce decisamente la tendenza a usare il
corpo come strumento espressivo della vita interiore .
Il linguaggio subisce un cambiamento, il bambino diviene più esperto
nell’uso del perché e il linguaggio viene sempre più usato a ini di
copertura, come indica l’uso delle allegorie, delle metafore ecc.., in
contrasto con l’uso che ne fanno i bambini più piccoli, che nel
linguaggio esprimono le loro emozioni e i loro desideri senza
circonlocuzioni.
Le emozioni che all’inizio accompagnano le scariche isiche trovano
canali e materiali sostitutivi.
Nuove capacità di espressione artistica compensano la perdita della
spontaneità corporea.
Durante la latenza la crescente consapevolezza sociale si accompagna al
progressivo distacco fra pensiero razionale e fantasia , alla distinzione
fra comportamento pubblico e privato , si accompagna una nuova netta
capacità di differenziazione.
Fino ad ora non abbiamo parlato di regole, ma abbiamo abbozzato
come è il bambino con cui abbiamo a che fare, un bambino che abbiamo
già regolato, altrimenti non sarebbe così come si accennava sopra.
Sarebbe infatti un bambino ancora totalmente in preda ai suoi impulsi,
ai suoi desideri, al suo volere tutto e subito, un bambino non in grado di
affrontare gli apprendimenti scolastici, un bambino che ha ancora
totalmente bisogno di un regolatore esterno.
Apprendere a leggere e a scrivere infatti non signi ica solo guardare ,
riconoscere , dare un nome : per poter leggere e scrivere è necessario
riconoscere e tollerare che ci sono sequenze obbligate, che il tutto ha
più rilevanza che le parti e che alcune parti già conosciute debbono
essere eliminate per mettere insieme una nuova conoscenza.
Apprendere a leggere e a scrivere è un modo per mettere in ordine : un
bambino che non può mettere ordine nella sua realtà intrapsichica , che
non distingue ancora fra fantasia e realtà, fra emozione e intelletto , che
non riesce a mettere una certa distanza fra i contenuti emotivi e la loro
rappresentazione simbolica, che non riesce a volgersi verso la realtà
esterna non riuscirà a mettere le cose una dopo l’altra in modo che
abbiano un senso , non riuscirà cioè a leggere e a scrivere. Infatti vedrà
confermate nelle parole scritte la sua angoscia e la sua colpa , la sua
aggressività e la sua paura.
La capacità di mettere in ordine è alla base dell’apprendimento
scolastico . La scuola si pone in una fase in cui l’io e gli altri , il mondo
esterno e gli oggetti sono separati e si pongono fra di loro in una
relazione dinamica; questo rappresenta un passaggio importante nel
cammino verso l’indipendenza e segna lo spostamento da un
apprendimento basato sulle identi icazioni imitative ad uno basato su
quelle proiettive ed introiettive . Cioè il bambino comincia a fare le cose
ed a impararle non perché le vede fare, ma perché ha fatto propria , ha
messo dentro di sé la voglia di farle, l’esigenza di fare, c’è
l’assimilazione di tratti appartenenti ad altri che è avvertito
distintamente come separato da sé; non c’è più l’adesione ad un
modello confuso tra sé e l’altro.
L’imitazione viene infatti utilizzata come mezzo per costruire un’unione
magica con l’altro , per essere l’altro. La fantasia di essere grandi in
questo caso non implica il passaggio nel tempo per diventare grande,
ma è una magia che dà l’illusione di essere già grande.
Andare a scuola signi ica uscire dall’ambiente famigliare conosciuto e
accedere ad un altro nuovo e sconosciuto dove si entra in contatto con
altri, e quindi con altri modelli di relazioni ,altri valori ecc. . Già il
bambino era uscito per andare alla scuola materna e al nido, Questa
uscita però porta una nuova dimensione nella sua vita che non sarà mai
più come prima. L’apprendimento scolastico richiede maggiore
disciplina, come si diceva prima ,c’è bisogno di maggiore autonomia ; la
scuola elementare è proprio diversa dalla famiglia, dalla casa, qui i
rapporti hanno connotazioni che si basano sull’operatività piuttosto
che sull’affettività.
Da tutto ciò che ho detto mi pare discenda in modo inequivocabile che
senza regole non avremmo il bambino di cui stiamo parlando. Il
bambino, che ha nel suo io la sua “centralina “, il suo agente centrale che
gli permette di dedicarsi a nuovi compiti, può acquisire contenuti ,
conoscenza e capacità nuove. In questo bambino l’ io e il super-io si
alleano per stabilire norme generali ( non più imitazione ) che
comprendano l’assoggettamento dell’istintualità alle richieste della
realtà esterna.
Chi deve dare queste regole ,chi deve dire , in altre parole , si o no, e
quando deve dire si o no ? queste sono evidentemente le domande
conseguenti ai discorsi precedenti.
Sono gli adulti, i genitori , gli educatori che debbono dire di sì e di no .
Ma questo è sempre successo, allora perché siamo qui a discutere a
confrontarci?
Per ritrovare il modo , i tempi, il tempo , la ragione per dire di NO e di
SI.
Perché ritrovare?
La società è cambiata rispetto al modo che noi sapevamo, quello che
avevamo visto usare con noi.
Il ruolo femminile è cambiato : i sensi di colpa accompagnano lo
svolgere le funzioni materne, ( poco tempo in casa, investimento anche
sulla carriera ad es.)
C’è la necessità di uscire dal dilemma autoritarismo / permissività
Le funzioni paterne e le funzioni materne si coniugano in modo nuovo,
quelle paterne cominciano a essere più articolate e svolte in prima
persona.
La famiglia non è più l’unica agenzia educativa : ci sono in da subito
altri educatori e questo signi ica che essere genitori oggi implica
guardare dentro e fuori la famiglia, assumersi le proprie responsabilità,
cominciare ad avere ben presente che non possiamo più essere soli,
cominciare ad avere delle immagini genitoriali che si basano sulla
complementarità. E questo non è solo un problema individuale.
L’ educazione è cogestita e questo è il risultato di un processo di
cambiamento ,come si diceva prima, che sta avvenendo sia nella
posizione della donna e della donna madre in particolare, sia nella
famiglia e nella società, in un momento speci ico della nostra realtà
sociale. Questa formula che c’è nei primi anni di vita ,dovremmo
vederla nei suoi aspetti pratici, reali, non ideologici anche per le età
successive.
Vediamo un po’ più da vicino la permissività e l’autoritarismo in quanto
poli dei dilemmi della gestione quotidiana dell’educazione.
Una volta il problema non si poneva. Gli adulti avevano delle regole
precise, tramandate cui si riferivano per dire di si o di no, condivise da
tutti e perciò punti di riferimento precisi e rassicuranti. Quando ero una
ragazzina sapevo che le calze velate si potevano mettere solo alle
superiori, e come me lo sapevano tutte le mie coetanee.
L’autorità degli adulti non si metteva in discussione era così e basta, al
massimo i più intraprendenti trasgredivano di nascosto sapendo a cosa
andavano incontro.
Poi si è cominciato a dire che questo modo di educare basato
sull’autoritarismo creava complessi e nevrosi , disturbi psichici e così
come accade spesso si è buttato via il bambino con l’acqua sporca, si è
dimenticato che il bambino da solo non riesce a sopravvivere, a
crescere, che per questo ha bisogno dell’adulto, ma di un adulto che
faccia l’adulto che eserciti le sue funzioni, che detti cioè delle regole .
Anche la permissività ha dimostrato e dimostra i suoi limiti.
Si è visto che la sanità mentale dipende dal mantenimento all’interno
della personalità di un equilibrio tra le esigenze proprie i desideri
egocentrici da una parte e le richieste della coscienza e della società
dall’altra.
L’io mantiene l’equilibrio tra queste forze ma non c’è da subito, deve
crescere e formarsi .Il bambino deve essere aiutato a trovare soluzioni
che soddis ino entrambe le spinte. Il con litto tra desiderio e realtà, fra
sé e il mondo fra desiderio e soddisfazione dello stesso provoca ansia,
che di per sé non è patologica se il bambino ha la certezza di poter
contare su qualcuno che gli funga da contenitore e risolva per lui i
con litti inchè non è in grado di affrontarli da solo ( e ce ne vorrà
ancora di tempo !)
I nostri interventi , certi a questo punto che ci debbano essere, come
dovranno essere, quando , con quali stratagemmi ?
Il bambino collabora alla propria educazione perché vuole ottenere
l’amore e l’approvazione dei genitori e degli adulti signi icativi, sente la
disapprovazione come interruzione di affetto e di stima.
Il bambino per formarsi ,per acquisire autocontrollo deve sentire che
quando da calci non è amato allo stesso modo di quando non ne da, di
quando è ragionevole. Se non sentisse di perdere niente che ragione
avrebbe per imparare a controllarsi?
Si sente in colpa , non si sente stimato e perde parte della stima di sé.
Questo è uno strumento grosso importante che abbiamo in mano e che
dobbiamo utilizzare ( altrimenti permissività, lasciar fare) ma con
giudizio ( autoritarismo, inibizione ) e allora non diremo “sei cattivo “,
ma “ quando fai così sei cattivo”.Non diremo “ vai nella tua stanza ino
all’ora di cena “, ma “vai inchè non avrai deciso di essere ragionevole “.
Si può privare di qualcosa ma questa azione non può essere dettata
dalla vendetta.
Nel periodo di latenza l’ideale dell’io del bambino è il bambino buono
che da soddisfazioni agli insegnanti e ai genitori. Il bambino sta
iniziando a compiere i primi passi verso l’autonomia , il primo gradino è
l’indipendenza isica e questo è qualcosa che va tenuto presente nella
scelta di regole. Parlo di scelta perché è proprio questa la strategia
principale saper scegliere in base alle proprie convinzioni e ai propri
valori, consci che non si può puntare su tutto.
Gli insegnanti , gli educatori sono avvantaggiati perché hanno un ruolo,
un programma, una diversa distanza, i genitori hanno solo se stessi.
Ci sono genitori che non smettono mai di considerare il iglio come
piccolo e continuano a proteggerlo eccessivamente a fare cose per lui
senza stimolarlo a fare nuove esperienze, altri che lo considerano già
grande attribuendogli compiti e responsabilità eccessive. Entrambi
questi atteggiamenti sono negativi perché accentuano il dilemma del
bambino : andare avanti o tornare indietro.
“Perchè ti comporti così, ormai sei grande ! tuo fratello alla tua età
sapeva già scrivere correttamente ! che voto ha preso il tuo compagno!
Ma è possibile che tu sia ancora così goffo nei movimenti!” Frasi di
questo genere non fanno che alimentare quei sensi di inferiorità e di
inadeguatezza e di vergogna che sono i punti nevralgici nella
personalità del bambino a questa età.
Regole e divieti, ma mai sottolineare le incapacità “ hai sbagliato
facendo così non sei capace lascia stare !” Né tanto meno prendere in
giro
Il bambino ha bisogno di sentirsi rassicurato dai genitori non perché è
piccolo , ma perché sta crescendo, sta diventando a poco a poco grande
e nell’avvicinarsi al mondo dell’adulto è ovvio che abbia incertezze e
ritrosie : il bambino procede facendo tre passi indietro e uno in avanti.
Un atteggiamento di attesa e di iducia rassicura il bambino circa le sue
capacità di crescere, aiutandolo soprattutto a mantenere aspettative
realistiche, un compito che in questo periodo spetta soprattutto al
padre : è lui infatti la igura più adatta a fargli da guida, da spalla, nel
suo confronto con il mondo esterno, è lui che rappresenta agli occhi del
bambino l’universo maschile in cui predomina la norma , la legge.
Anche la madre può giocare questo ruolo, importante è che questo
riferimento non manchi non manchi la legge e la conferma di stima e di
iducia di cui ha bisogno.
Oggi si delinea una nuova igura paterna, più materna, più incline a
dispensare affetto che a dettare norme e principi da seguire, più
dinamica e intercambiabile.
Si è passati da una famiglia normativa ad una famiglia affettiva in cui
entrambi i genitori tendono a soddisfare i bisogni del iglio, a evitargli
frustrazioni piuttosto che a dettargli regole, principi morali, e norme
sociali. Gli effetti di questa situazione si manifestano soprattutto
quando cominciano ad andare a scuola : il bambino continua a vedere
nella scuola e nella società una grande madre e siccome non sarà così si
sentirà profondamente deluso. Non è il caso di rimpiangere il padre di
una volta e neppure le madri in lessibili che ricorrevano ad un
in lessibile silenzio per dimostrare la loro disapprovazione.
Non è che adesso il bambino arrivi a scuola del tutto privo di un
bagaglio di regole sue. Ma si tratta di un’educazione in cui lo stile
affettivo predomina su quello normativo. “ Abbiamo così poco tempo da
stare insieme che è un peccato rovinare tutto il piacere di stare insieme
discutendo di regole o di disubbidienze “ e c’è chi aggiunge “ci penserà
la scuola “.
La famiglia non può delegare totalmente questa funzione alla scuola .
Anche l’educazione alle norme sociali e un’espressione di affetto, è una
risposta ai bisogni fondamentali : senza regole è molto più dif icile per
il bambino vivere in mezzo agli altri e trovare un posto nella società non
solo a questa età ma anche quando sarà adolescente e poi adulto.
 
Ragazzi che creano problemi: la
demotivazione, l’assenza di
interessi e di desiderio possono
assumere forme depressive,
provocatorie
di Deliana Bertani
 

Collocheremo il discorso in un momento preciso dell’età evolutiva , in


quel momento della vita in cui, parafrasando il linguaggio dei computer,
serve un nuovo programma che consenta soluzioni diverse, perché
quello vecchio non è più in grado di raccogliere e organizzare le nuove
informazioni che provengono dalla realtà esterna e dal mondo interno;
in cui inizia una nuova fase della vita la cui direzione è imprevedibile.
Mentre la vita passata era ritmata da abitudini e da comportamenti
divenuti famigliari, ora si aprono nuove strade.
E’ il periodo dell’uscita dalla latenza e della conseguente entrata
nell'adolescenza.
Ho pensato considerare questo periodo perché mi pare particolarmente
interessante anche per il numero di casi da voi seguiti di quest’età.
In questo periodo ,fra gli undici e i dodici anni, si mette in moto un
orologio biologico pre-programmato che comincia ad attivare ormoni e
centri cerebrali, che non solo producono lo sviluppo del corpo e la
maturazione sessuale, ma hanno una forte in luenza sul
comportamento. Si tratta della pubertà, l'evento biologico che dà l'avvio
all'adolescenza, innescando un complesso di trasformazioni che
riguardano, oltre al corpo, anche cambiamenti psicologici e sociali.
Il corpo manda al ragazzino/a i primi segnali e gli/le crea forti tensioni
interne. Si veri ica un mutamento travolgente e ingovernabile che fa
sentire diversi: il corpo si trasforma sotto gli occhi e le tensioni sessuali
turbano profondamente.
Gli ormoni fanno sentire più aggressivi e scatenano reazioni che ino a
qualche tempo prima erano inconcepibili. I genitori diventano i primi
bersagli. Sul piano biologico, l'af lusso di scariche ormonali in luenza il
comportamento del ragazzo/a, ma a cambiare sono soprattutto i
sentimenti che ora entrano in collisione con il suo vecchio modo di
pensare ,inducendolo/a a rimuginare su se stesso/a e sulla propria
famiglia.
E' iniziato un viaggio che porta in una direzione sconosciuta. Il
ragazzo/a in questo viaggio si guarda intorno, scruta i suoi compagni di
viaggio, osserva anche se stesso chiedendosi cosa stia facendo e
soprattutto dove stia andando.
In questa situazione è dif icile voltarsi a guardare il luogo della propria
infanzia: il ragazzino/a parte per il suo viaggio e i genitori rimangono a
terra.
Nell’età della latenza il bambino ha la convinzione che i suoi genitori
sappiano e facciano tutto. Questa convinzione si frantuma quando
comincia la pubertà.
I bambini si rendono conto piano piano che i genitori non sempre
sanno cosa fare e questo permette loro di liberarsi dalla sottomissione
ai genitori visti come “divinità” ;
quando il ragazzo si è liberato prorompe però in lui tutto il mondo della
confusione che ino ad allora era stato nascosto e trattenuto dalle
precedenti convinzioni.
• confusione tra buono e cattivo,
• tra le diverse zone del corpo, i diversi modi in cui tali zone possono
entrare in rapporto con il mondo esterno e con le altre persone,
• confusione tra maschio e femmina,
• tra adulto e bambino.
• Confusione che si acuisce con la pubertà, non appena nel corpo
cominciano a svilupparsi le caratteristiche dell’adulto (l’area pubica, il
seno, lo sviluppo dei genitali). Il corpo con tutti i suoi cambiamenti
comincia a diventare una grossa fonte di preoccupazione: non potendo
accettare se stesso per una quantità di ragioni emotive il ragazzo/a
proietta isicamente le sue preoccupazioni su alcuni aspetti della
propria immagine.
 
Il ragazzo/a che esce dalla latenza viene a trovarsi in una posizione in
cui non si ida più del mondo degli adulti ma nemmeno di quello dei
bambini che continuano a essere “schiavi “; è in una posizione in cui
disprezza ambedue i mondi.
E’ una crisi di identità profonda ,quella che il ragazzo sperimenta con la
perdita dell’identità famigliare : non più bambino, non ancora adulto , il
gruppo dei pari diventa un “luogo essenziale di crescita, di possibilità di
identi icazione”.
Sta cominciando una nuova separazione -individuazione ,una nuova
nascita.
Ciò che nell'infanzia è "una nascita dalla membrana simbiotica per
diventare un bambino individuato " (Mahler) nell'adolescenza
diventerà il distacco dalle dipendenze familiari, distacco che avviene
attraverso il viaggio di cui si parlava prima, viaggio che inizia con
l'uscita dalla latenza.
Il distacco dalle dipendenze familiari apre la strada, durante il viaggio,
alla scoperta di oggetti di amore e di odio esterni, extra-familiari, nuovi.
Nella prima infanzia, nella fase di separazione individuazione, quando il
bambino realizza la separazione psicologica dalla madre (oggetto
concreto), era vero l'inverso. Allora era necessario un processo di
interiorizzazione che favorisse gradualmente la crescente indipendenza
del bambino dalla presenza della madre, dalla sua assistenza e dal suo
appoggio emotivo. Il progresso è segnato nel bambino dalla formazione
di capacità di regolamentazione interna (formazione del Super-Io). Il
processo però è, nel migliore dei casi, a zigzag, come possiamo
osservare di nuovo nella fase di cui ci stiamo occupando. I movimenti
regressivi e progressivi si alternano dando facilmente l'impressione di
una maturazione squilibrata.
Il processo, il viaggio è estremamente complicato. Senza un positivo
distacco dagli oggetti infantili interiorizzati, la scoperta di nuovi oggetti
d'amore extra-familiari è preclusa ed impedita o rimane ristretta alla
semplice ripetizione e sostituzione.
L’Io è completamente coinvolto in questo processo. Fino alla ine della
latenza i genitori sono stati selettivamente disponibile per il bambino
come legittima estensione del suo Io ( onnipotenza e onniscienza)
Questo ha permesso il controllo dell'ansia e la regolamentazione
dell'autostima. Con il distacco dalle dipendenze infantili anche le
dipendenze abituali dell’Io nel periodo di latenza sono ripudiate
(confusione );perciò il ragazzo entra in un periodo in cui c'è una relativa
debolezza dell’Io dovuta sia all'intensi icazione delle pulsioni, sia
all'effettiva debolezza dell’ Io per il ri iuto da parte dell'adolescente del
supporto dell’ Io genitoriale.
I disturbi dell’Io, che si esprimono in acting aut, disordini
dell'apprendimento, mancanza di scopi, continui rinvii, cattivo umore e
negativismo, sono spesso segni sintomatici di crisi o di fallimento nel
distacco dagli oggetti infantili e, di conseguenza, rappresentano una
deviazione del processo stesso di individuazione. Nel totale ri iuto
dell'adolescente della famiglia e del suo stesso passato si può
riconoscere l'affannoso evitamento del doloroso processo di distacco.
Nella rottura violenta con l'infanzia e con la continuità familiare non si
può non riconoscere la fuga da una potente spinta regressiva verso la
dipendenza, la sicurezza, il benessere e le grati icazioni infantili .
Il processo di distacco dagli oggetti infantili, così essenziale per il
progressivo sviluppo, rinnova quindi il contatto dell’Io con le pulsioni
infantili, contatto che si era relativamente interrotto durante la latenza
per permettere un rafforzamento dell’Io in tutte le sue funzioni. l’Io
della post-latenza è per così dire preparato a questo incontro regressivo
e capace di diverse soluzioni più durevoli e adeguate. Le funzioni dell’Io
relativamente stabili, quali la memoria o il controllo motorio, il super-io
, l'immagine corporea, le nuove capacità cognitive dovranno sottostare
a notevoli luttuazioni e cambiamenti.
La costruzione e la distruzione, la regressione e l'avanzamento saranno
le più speci iche caratteristiche dell'adolescenza e l'andamento a zigzag
cui si accennava prima comincia ad apparire nell'epoca di cui stiamo
parlando, all'inizio di quel percorso che è la premessa per la
costruzione di una propria immagine sociale (come membro della
società e non solo come iglio di una famiglia) e per l'avvio di rapporti
eterosessuali.
 
I compiti evolutivi
Alla base del cambiamento psichico e del passaggio di ruolo ci sono dei
compiti evolutivi che si presentano ai ragazzi come problemi, come
dif icoltà da superare che vanno però ben distinti dai disturbi, dalle
perturbazioni più o meno gravi che interferiscono nella loro soluzione;
la "debolezza “di questa età e degli anni seguenti è una debolezza
isiologica in un’ epoca di disorganizzazione e di scoperta, di incertezza
e di silenzi, di conquiste e di nuovi desideri.
Potremmo fare una lista di questi compiti evolutivi per meglio renderci
conto della fatica che si apprestano ad affrontare i ragazzi/e che
abbiamo di fronte:
- instaurare relazioni nuove e mature con coetanei di entrambi i sessi
- acquisire un ruolo sociale maschile o femminile
- accettare il proprio corpo ed usarlo in modo ef icace
- conseguire indipendenza emotiva dai genitori e da altri adulti
- raggiungere la sicurezza di indipendenza economica
- orientarsi verso una professione
- prepararsi alla vita di coppia
-sviluppare competenze intellettuali e conoscenze necessarie per la
convivenza civile
- acquisire e desiderare un comportamento socialmente responsabile
- acquisire un sistema di valori ed una coscienza etica come guida al
proprio comportamento.
 
 
I compiti scolastici
I compiti evolutivi sono in stretto rapporto con i compiti scolastici; i
successi e gli insuccessi evolutivi si legano in vario modo ai successi e
agli insuccessi scolastici. Possiamo dire ,con una formula sintetica , che i
compiti evolutivi prevalgono su quelli scolastici e che se un adolescente
sente che i propri compiti di sviluppo sono minacciati invece che
sostenuti dalla situazione scolastica, inevitabilmente inirà con il
privilegiare la vita sulla scuola.
Le dif icoltà nei rapporti e nella crescita possono distogliere energie
allo studio, riducendo le capacità di concentrazione e il rendimento.
Oltre a ciò i signi icati affettivi che il ragazzo o la famiglia attribuiscono
al rendimento scolastico, possono sovraccaricare il rapporto con lo
studio di eccessive aspettative e renderlo per questo più dif icile. In un
modo ancor più speci ico le capacità cognitive e di socializzazione sono
poi un banco di prova diretto della crescita e delle possibilità di
inserimento sociale. In questo caso la scuola non è solo un luogo di
proiezione di con litti che provengono da altri luoghi affettivi, ma è il
p p g g
campo di prova di aree dello sviluppo, è il luogo in cui si esercita una
parte dei compiti evolutivi e la capacità di inserimento sociale:
soprattutto oggi che sono venuti meno tanti luoghi di incontro per i
ragazzi e che c'è un'altra agenzia ,la televisione, che sforna in
continuazione nozioni, che dà un insegnamento parallelo a quello della
scuola, ma non certamente uno spazio di crescita affettiva e sociale.
Val la pena di dire che a volte il successo scolastico non signi ica
successo nei compiti della vita e questo capita quando gli atteggiamenti
che sono alla base del successo possono essere atteggiamenti difensivi.
 
 
I con litti evolutivi
Abbiamo parlato di compiti evolutivi proviamo a parlare dei con litti
evolutivi cioè dei "modi "con cui i compiti vengono affrontati,
proponendo cioè dei pro ili che non vogliono essere de inizioni
diagnostiche.
Faremo una carrellata di tipi di ragazzini, quelli che vi trovate davanti e
per i quali reagite con pena, con rabbia, con preoccupazione, con
fastidio, con aggressività, ecc. ..
- Ragazzi irrequieti e aggressivi
sono quelli in cui di solito si combinano iperattività, dif icoltà di
attenzione, aggressività. Spesso sono anche ribelli o prepotenti, con
bassa capacità di tollerare le frustrazioni, con esplosioni di collera che
esprimono vissuti di bassa autostima e che non sono disciplinati. Sono
quei ragazzi che hanno dif icoltà a stare seduti e concentrati, a portare a
termine i loro compiti, che disturbano gli altri, che interrompono senza
aspettare il proprio turno, che dimenticano le loro cose e si mettono
spesso in situazioni di pericolo. Sono quelli per i quali i provvedimenti
disciplinari sono spesso inutili, per i quali non ci sono strumenti
istituzionali per affrontare il problema. Sono
ragazzini(prevalentemente maschi) nei quali spesso si trova l'idea di
non avere futuro, in cui c'è una bassa autostima, in cui spesso c'è la
produzione di atteggiamenti identi icatori più adulti. In questi il
con litto viene agito in modo aggressivo e drammatizzato
provocatoriamente. Sono ragazzini dif icili da gestire, che andranno
incontro facilmente a bassi pro itti e quindi a bocciature che
introducendo scarti di età con i compagni costituiscono grosse minacce
per lo sviluppo.
p pp
- Ragazzi che hanno paura
Sono quei ragazzi che "non creano problemi", poco visibili, silenziosi. In
loro prevale l'ansia di separazione che spesso si manifesta con
malesseri psicosomatici, con mal di testa, vomito, mal di stomaco,
nausea o palpitazioni vertigini o altri malesseri; nelle sue forme più
gravi l'ansia di separazione o la fobia scolare si manifesta proprio
intorno agli 11/12 anni. Spesso i ragazzi affetti da questo tipo di
sintomo provengono da famiglie premurose e unite.
- Ragazzi tristi e senza desideri
Questi sono ragazzi che non provano piacere nel funzionamento
mentale, a pensare con la propria testa, che hanno dif icoltà ad
individuarsi, che non vivono lo studio come un fatto loro, che elaborano
con dif icoltà particolare le situazioni di competizione. Sono ragazzi con
problemi di identità che non riescono a liberare la propria mente per le
funzioni di apprendimento. A volte la demotivazione, l'assenza di
desideri può assumere forme depressive, esplicitamente autosvalutanti
o più narcisistiche e allora la svalutazione passa su obbiettivi e oggetti
esterni.
- Ragazzi che si vergognano
La timidezza è un tratto che si accentua con l'uscita dalla latenza,
sentimenti di vergogna si rafforzano in questo periodo, attingendo a
nuovi pudori per il proprio corpo e la sessualità. E' il processo di
individuazione adolescenziale che sta iniziando, che comporta nuovi
sguardi su di sé che fanno arrossire, sudare, balbettare perché lo
sguardo non è più famigliare ma è diventato sociale.
E’ però indispensabile dire che queste modalità di reazione ai con litti
di sviluppo, come li abbiamo chiamati, possono essere messe in conto a
disfunzioni, rigidità, incompetenze istituzionali.
La scuola ha pochi strumenti, ma è sempre più individuata come il
punto di riferimento strategico per la lotta contro il disagio in età
evolutiva, per l'educazione alla salute e la promozione del benessere.
D'altra parte non si può ignorare il fatto che l'insuccesso scolastico e
l'abbandono scolastico si trovano quasi sempre all'inizio delle "carriere
di devianza, emarginazione e tossicodipendenza. La scuola può
svolgere una importante opera di prevenzione se combatte innanzitutto
il disagio scolastico. E' una s ida dif icile che parte dalle trasformazioni
delle relazioni tra insegnante e allievo, dagli strumenti che possono
aumentare le capacità di ascolto dell'insegnante. Una maggiore
consapevolezza di questa dimensione e una maggiore competenza sulle
complesse dinamiche che accompagnano il percorso di crescita
possono essere utili strumenti, senza che per questo ci si debba
trasformare tutti in psicologo o in assistente sociale.
 
L’uscita dalla latenza oggi
Qualche considerazione per storicizzare i discorsi fatti.
I ragazzini di questa età appaiono oggi più loquaci, più informati più
curiosi e critici. Sanno ciò che vogliono e ciò che non vogliono, sanno
come fare per ottenerlo. Sembrano molto sicuri di sé . Ma dietro questa
apparente sicurezza c'è una grande fragilità . Quando non sappiamo
come fare per aiutarli ci limitiamo ad appagare i loro desideri più
immediati : questo nella nostra epoca lo possiamo fare.
Cos'è ancora cambiato? Sicuramente il modo di vivere e di comunicare.
Nella maggior parte dei casi i genitori lavorano entrambi, hanno
sempre meno tempo da trascorrere in famiglia e quando sono con i igli
preferiscono evitare di criticarli, sgridarli e punirli. Cercano di rendere
gradevole le poche ore che condividono con loro anche a costo di
cedere in tutto e di rendere un po’ super iciale i loro rapporti. Rapporti
che si sono ribaltati rispetto al passato anche in senso numerico: non
più tanti bambini per due genitori, ma molti adulti intorno ad un solo
bambino, con la conseguenza che spesso la scuola è l’unico posto dove
può incontrare coetanei.
La scuola stessa è cambiata radicalmente i nuovi programmi e la
riforma organizzativa del 1990 l’ha rivoluzionata.
Nel frattempo la televisione ha acquistato sempre più spazio e potere:
trascorrendo molte ore davanti alla tv, i bambini incamerano una
quantità enorme di nozioni, di opinioni, nonché una dose d’urto di
emozioni.
L’insegnamento parallelo della tv produce una omologazione dei
processi di conoscenza e una equiparazione dei sessi senza precedenza,
ma anche uno scollamento enorme fra adulti e ragazzi, tanto che spesso
non sappiamo più che cosa pensano, ma nemmeno come pensano quelli
che abbiamo davanti.
All’ampliamento degli spazi mentali fa riscontro il contemporaneo
restringimento di quelli reali. Possiedono molte nozioni astratte ma
non conoscono la realtà: confondono l’informazione con la competenza,
si sentono pronti ad affrontare i pericoli del mondo per il solo fatto di
essere sopravvissuti ad una caterva di immagini volgari e violente.
Eppure quando escono allo scoperto e il passaggio di scuola ha un
valore iniziatico in questo senso, sotto un’apparente baldanza rivelano
profonde insicurezze.
La loro eccessiva autostima può essere facilmente messa in crisi da un
sistema scolastico che tende a privilegiare la valutazione dell’alunno
piuttosto che la conoscenza del ragazzo. Basta un giudizio pesante e
affrettato dell’insegnante o la prepotenza di un compagno perché la
baldanza si trasformi in insicurezza e senso di inferiorità.
Dal canto loro i genitori richiedono per i loro igli il massimo
dell’istruzione in vista della dura competizione sociale che li attende.
Il loro tempo libero poi non esiste quasi più.
La società nella quale vivono è tra l’altro enormemente più complessa
di quella in cui vivevano i loro padri alla loro età, basti pensare al
problema della multietnicità
C’è la necessità di gestire il passaggio che avviene in un periodo che è
ricco di per sé di cambiamenti e di compiti evolutivi.
Il frettoloso passaggio di informazioni che spesso avviene dalle
elementari alle medie non è suf iciente. Sarebbe utile una maggiore
conoscenza non solo per la formazione delle classi; sarebbe importante
dare informazioni ai nuovi insegnanti perché sappiano “prenderli “,
riescano ad ascoltarli e a motivarli.
Questo probabilmente farebbe diminuire il numero di quei ragazzi che
vanno a scuola come se andassero in prigione, in un luogo pieno di
nemici dove non ci si può concentrare sull’attività scolastica perché ci si
deve difendere.
L’insegnante ha il compito di traghettare il ragazzo sulla nuova riva
dell’inserimento sociale, per questo scopo va sostenuto con la
collaborazione di altre professioni .
La relazione con gli insegnanti è una variabile fondamentale nel
determinare il successo o l’insuccesso scolastico e la consapevolezza
dell’importanza di questa relazione può orientare molto il ragazzo in
questo viaggio che sta intraprendendo.
I gruppi per l’apprendimento( workshop) hanno un signi icato molto
importante, così come le altre esperienze “ diverse “ di apprendimento.
Sono spazi più ampi, più tolleranti con maggiore possibilità di
sperimentazione.
Possono essere fondamentali perchè ci sono adulti, importanti modelli
di identi icazione;
c’è il gruppo dei compagni , una palestra di identi icazioni molto
variegata;
ci siete voi, volontari di Gancio Originale, che, in questo momento di
passaggio, potete essere traghettatori senza sembianze carontiche.
 
L’incontro fra culture diverse, due testimonianze
dal mondo della scuola,
 
di Maria Grazia Montecchi e Barbara Cantarelli
 

Maria Grazia Montecchi


Io insegno come maestra normale, non seguo progetti particolari.
Mentre io farò un quadro generale, la mia collega scenderà nei
particolari.
A Reggio Emilia e in Italia viviamo ormai una dimensione
multiculturale, nel senso che sono presenti nel nostro paese moltissime
persone di nazionalità diverse. Anche la scuola ha dovuto interrogarsi
su questa cosa: dico "ha dovuto" perché inizialmente, sia a livello di
circolari ministeriali, sia a livello di insegnamento, il primo approccio è
stato quello di fare inta di niente, nel senso che arrivavano i bambini da
paesi stranieri, igli di lavoratori stranieri e la scuola non si è per vari
anni attrezzata, né si è fatta delle domande particolari.
I bambini non sapevano scrivere, non sapevano leggere, ma soprattutto
non sapevano parlare la nostra lingua e dovevano in qualche modo
adattarsi in maniera molto negativa, nel senso che imparavano la lingua
come potevano, senza nessun aiuto particolare e soprattutto si
sentivano fortemente esclusi. Capitavano anche, spero non capitino più,
degli inserimenti selvaggi: bambini di 8-10 anni che non sapevano
parlare la lingua italiana venivano messi in classi basse, in prima o in
seconda elementare: in questo modo i bambini non avevano nessuna
motivazione, non sentivano nessuna voglia di imparare, di sforzarsi, per
cui si creavano davvero dei con litti molto forti, esagerati. Sia da una
parte sia dall'altra si rimaneva nelle proprie rigidità.
Piano piano, specialmente negli ultimi sei anni, la normativa, ma
soprattutto le esperienze, hanno fatto sì che il clima sia divenuto un po'
diverso. Chiaramente quando parlo faccio riferimento alla mia scuola e
alle esperienze che io ho conosciuto direttamente, ma so che, sia a
Reggio che in tutta Italia, vi sono comunque realtà in cui i igli di
lavoratori stranieri vivono ancora delle esperienze molto negative.
Fortunatamente ce ne sono anche altre, più positive rispetto al passato.
Sia le circolari che vi dicevo, sia anche tutta una serie di persone che
stanno lavorando attorno a questo tema, che stanno studiando e
sperimentando, ritengono che il fatto che ci siano molte culture in Italia
e, quindi, anche nella scuola, deve essere visto come un progetto, cioè
non è che noi dobbiamo accettarle tutte. Già questa asserzione fa sì che
sia falsata in partenza l'azione nel senso che non si tratta più di
un'azione responsabile o determinata. Quando in questi anni abbiamo
cercato di fare progetti interculturali e multiculturali domandandoci il
loro signi icato, abbiamo concluso che il senso principale è di poter
salvaguardare ogni cultura attraverso la quale ogni bambino con la sua
storia, con la sua famiglia, ha la necessità di esprimersi.
Noi pensiamo all'"intercultura" come a un valore che tende a
salvaguardare l'identità culturale di ognuno e anche a tutta una serie di
processi che possano garantire delle condizioni reali di crescita. Ciò
diviene una scelta pedagogica di metodo. Fare intercultura vuol dire
provare a fare scuola in modo diverso, cambiando la struttura della
mattina o del pomeriggio, utilizzando meno input derivanti dalla
maestra e più suggerimenti da parte dei bambini stessi (più gruppi di
lavoro, più possibilità ai bambini di proporre o di gestire argomenti),
andando a veri icare come essi siano portatori di conoscenza.
Questo lavoro non è facile per gli insegnanti dato che costituisce una
sperimentazione che potrebbe riservare degli insuccessi; è comunque
un metodo di lavoro che potrebbe rivelarsi grati icante, nonostante le
dif icoltà e la rigidità della struttura scolastica e che permetterebbe di
stabilire delle relazioni di conoscenza maggiori per l'insegnante, dato
che mette in risalto l'interiorità dei bambini.
La "relazione" è un altro importante punto di questo nuovo approccio
alla scuola: è determinante che le culture si incontrino e si scontrino in
modo che qualcosa si modi ichi, anche se ciò comporta un lungo
cammino (vedi esperienza di Valda). L'importante è capire che è
determinante la relazione con l'altro. I bambini non vanno visti come
piccoli "mostriciattoli", che alla ine della prima o della seconda
elementare debbono saper scrivere, leggere, raccontare delle cose, ma
come delle persone detentrici di saperi culturali che è importante fare
emergere.
Intercultura e multicultura, quindi, non solo per i igli dei lavoratori
stranieri, ma per tutti, perché la lingua italiana non è unica: ci sono i
dialetti e le altre realtà regionali che nella scuola incontriamo tutti i
giorni; anche per queste realtà la scuola italiana non ha fatto tanto
correndo il rischio di escludere tutto a vantaggio di un unico standard
ben de inito.
lo ho fatto alcune esperienze nella mia classe: c'erano bambini che
provenivano da altri paesi, ma anche bambini che venivano da altre
regioni d'Italia e anche loro comunque portavano elementi di diversità,
di un altro modo di vivere e di considerare la vita. Questa complessità
ha contribuito ad arricchire e anche a scontrare, poiché intercultura
vuol dire anche con litto. Ad esempio, non è detto che io facendo un
attività interculturale in cui vengo a conoscere le tradizioni di un paese,
ne sia affascinata, può anche non piacermi. L'importante è che noi
siamo disposti a continuare a parlarne e a non fermarci.
Il dibattito a livello teorico è arrivato proprio a questo punto:
l'importante è non fermarsi sulle stesse posizioni, ma conoscerle e
prima di tutto ascoltarle, poi impararle per farne esperienza e
costruirsi dei pensieri propri che possono essere di adesione o non
adesione.
Ritornando al tema dell'intercultura rispetto alla mia esperienza,
abbiamo cercato di individuare delle tematiche che partivano dal
vissuto reale dei bambini e che in un qualche modo potevano far
parlare di loro anche se i bambini stessi parlavano poco .
Così abbiamo fatto un lavoro di comparazione e di ricostruzione: molti
bambini che sono emigrati in Italia hanno "perso la memoria",
soprattutto quelli che arrivano in Italia quando sono già grandicelli ed
hanno già vissuto molte cose del paese di origine. Sembrerebbe che essi
non vogliano ricostruire, o comunque che ci siano dei con litti interni
per cui il bambino fa fatica ad elaborare le proprie esperienze: fare
questa attività interculturale permette ai bambini di altri paesi di
elaborare in parte le esperienze fatte per riconoscerle,
riappropriarsene e conservarle in un qualche modo. Ai bambini non
emigrati da altri paesi, queste attività permettono di venire a
conoscenza delle cose, portare le proprie e mettersi su di un unico
piano, anche nella diversità.
L'intercultura si attua a livello interdisciplinare: si può fare intercultura
facendo educazione motoria, facendo musica, facendo una qualsiasi
materia o anche tante insieme. Occorre che le insegnanti collaborino e
progettino insieme. Per riassumere: questa idea dell'intercultura, di
questo andare al di là della conoscenza delle varie culture, per far sì che
queste si parlino, mette il bambino al centro del "fare scuola" e si basa
sulla relazione. Si fonda su tematiche reali, quotidiane. Ciò comporta
che insegnanti e bambini piano piano siano disposti ad interrogarsi, ad
elaborare, a pensare e ad inventare dei percorsi nuovi.
Questa è un grande s ida della scuola perché anche a livello
ministeriale, se da un parte sono state scritte circolari molto "belle",
molto "aperte" che parlano di queste cose, ecc., dall'altra però ci
vengono richieste molte cose burocratiche che ingabbiano l'insegnate e
lo obbligano ad un insegnamento basato sul curricolo, su alcuni
contenuti, su alcune metodologie che rendono la scelta a volte faticosa.
Un'altra cosa di cui vi volevo parlare è l'apprendimento della lingua. lo
ho sempre fatto scuola come insegnante "normale" insegnando italiano
ed altre materie e nella mia esperienza ho avuto a che fare con bambini
che non sapevano l'italiano. Per questi bambini l'italiano è la seconda
lingua, la prima è la lingua madre, quella cioè con cui il bambino ha
imparato a parlare, è la lingua della famiglia e dell'affetto, in ine, quella
fondamentale. Anche quando i bambini esprimono delle con littualità,
anche quando non vogliono più parlare la loro lingua o stanno un po'
scordandosela, quella comunque rimane sempre dentro, come la lingua
dell'affettività, la lingua materna.
Anche il problema di imparare un'altra lingua mette in evidenza tutti i
problemi della scuola italiana, perché accanto alla lingua uf iciale sono
presenti tutta una serie di idiomi, di dialetti e anche per questi la nostra
scuola non ha saputo fare niente, cioè sono sempre stati ignorati.
La lingua è strettamente collegata con l'identità e con il vissuto del
bambino, per cui prima comincia a costruire una rete di relazioni,
comincia a stare bene in un posto, poi probabilmente comincia a
parlare.
Cosa succede quando si impara una seconda lingua? Non si cancella la
prima, ma praticamente si rimetabolizza dentro tutto; chi impara una
lingua seconda senza fare tutto un processo di comprensione e di
codi ica verbale, non riesce in realtà a comunicare davvero. Il bambino
deve comprendere prima di tutto sperimentando, vivendo, agendo,
facendo suo il signi icato delle parole; inizialmente non le sa ripetere,
ma riconosce a livello di suono che quella parola lì si colloca in
quell'ambito, in quel contesto, in quell'esperienza. Poi piano piano,
dopo avere fatto esperienza, sarà in grado di riprodurre i suoni e,
quindi, di parlare.
Ai ini dell'apprendimento, quindi, non serve tanto la ripetizione di una
singola parola. Dico questo perché ino a poco tempo fa c'erano tutta
una serie di procedimenti linguistici che si basavano sulla ripetizione o
su una serie di esercizi "terribili " che stancavano tantissimo i bambini
e non servivano a niente. Ora il metodo migliore in qui sperimentato
per far apprendere la lingua "due" è quello del contesto relazionale,
cioè quello basato sulla relazione.
Se il bambino vive in un posto accogliente in cui c'è spazio anche per
lui, anche se non parla, se in un qualche modo, anche a livello non
verbale, c'è qualcuno che comunica con lui e che ascolta o che accoglie i
suoi tentativi di comunicazione non verbale, piano piano impara, senza
che io dica "questo è il foglio, questo è il libro". La prima cosa che i
bambini emigrati fanno quando vengono a scuola è quello di trovarsi in
questo "bagno linguistico" perché sono già più o meno circondati da
bambini che si esprimono in questa seconda lingua. Sembrerebbe che i
bambini non ascoltino, che non considerino queste cose, invece, in un
qualche modo, stanno registrandole, sebbene non abbiano ancora la
possibilità di esprimerle.
Prima della produzione linguistica c'è, quindi, un'altra cosa più
importante che è la ricerca della comunicazione, del dialogo, del
contatto. Prima ci deve essere questo ambiente accogliente, che ha uno
spazio per il bambino, poi c'è l'aspetto della lingua. Molte volte i
bambini, quando cominciano a parlare, si esprimono con una lingua che
non è ancora la lingua due, che presenta tantissimi errori; a volte è
addirittura un collage della lingua madre e della lingua seconda.
Quando capita ciò spesso noi maestre li blocchiamo e li correggiamo,
proprio in contesti anche comunicativi. In realtà non attuare questo
comportamento correttivo sarebbe meglio, nel senso che bisognerebbe
in questi momenti tollerare l'errore, proprio perché l'importante è
lasciare al bambino questo desiderio di comunicare anche verbalmente.
Se c'è una continua correzione del bambino nei confronti dei suoi
errori, questi si scoraggia e non si sente più in grado di continuare.
Occorre quindi tollerare che questo bambino per un po' di tempo possa
continuare ad esprimersi anche male, e continuare per molto tempo a
lavorare sul vissuto del bambino, della classe, degli altri bambini. Tutto
questo è possibile se ne siamo convinti, se vogliamo far parlare l'altro.
Se vogliamo invece che l'altro impari quello che noi desideriamo, il
processo diventa sempre più dif icile, sempre più lungo, sempre più
complesso.
Perché i bambini ci tengono così tanto a parlare da subito? Perché
anche la seconda lingua è uno strumento che loro hanno per
rappresentare il mondo, per agire, per instaurare delle corrette
relazioni. E' chiaro che per questo hanno dei tempi di attesa, di silenzio;
anche qui abbiamo imparato a rispettarli. Il bambino sembra che non
stia facendo niente, invece sta immagazzinando, è un po' il processo che
fanno i bambini piccoli quando stanno imparando a parlare.
Una cosa importantissima: imparare una seconda lingua non vuol dire
cancellare la prima; in certi momenti i bambini tentano di farlo, si
ri iutano di parlare la lingua materna e si creano molte con littualità. E'
importante che noi, nella scuola, come detentori di questa seconda
lingua, non diamo mai il messaggio che la loro prima lingua sia meno
importante. Molte volte ho chiesto ai bambini di esprimersi con me o
con gli altri bambini nella loro lingua madre; molte volte si vergognano,
non vogliono farlo; ma anche quando non lo vogliono fare rimangono
molto colpiti e contenti di questa richiesta.
Si tratta in questo caso di un riconoscimento, di una legittimazione che
viene loro fatta per valorizzarli. La lingua è così legata all'identità, che
attribuirle poca importanza vuoI dire sminuire l'identità della persona
stessa.
E' importante che il bambino sia messo in condizione di avere il
desiderio di comunicare; molte volte nella nostra scuola non si ha
questa possibilità. Se invece si dà al bambino l'opportunità, egli
comunica in vari modi.
Attraverso la lingua è possibile ricostruire i signi icati che sono lontani
e collegarli con quelli che sono presenti, cioè legare l'esperienza
passata con quella presente, sia attraverso varie attività, sia attraverso
questo livello linguistico che chiude, per così dire, un cerchio.
Dopo queste premesse teoriche racconterò l'esperienza più importante
che ho fatto. L'anno scorso ho concluso un ciclo in cui in classe avevo
una bimba egiziana ed un bambino cinese dalla prima elementare e
nella classe erano presenti altri bambini con disagi culturali e sociali. I
due bambini sono arrivati con condizioni di base diverse: il cinese
sapevo dire "ciao" mentre la bimba egiziana aveva imparato la lingua
italiana alla scuola materna, ma in modo completamente
decontestualizzato. Aveva memorizzato una serie di frasi senza
conoscerne il signi icato e alcune volte riusciva a rispondere in modo
pertinente mentre altre volte no. Avevamo, quindi, questi due grandi
problemi: da un lato riempire di signi icato le parole e dall'altro
effettuare un lavoro di tipo diverso.
Siamo state avvantaggiate perché in prima, con l'insegnamento della
lettura e della scrittura, si riparte da zero; quando invece i bambini
arrivano in quarta o in quinta e debbono cominciare ad apprendere la
lingua, ci sono degli ostacoli maggiori.
I primi mesi abbiamo parallelamente concentrato la nostra attenzione
su tre aspetti fondamentali.
Da una parte lavoravamo sulla lingua italiana, molto analiticamente,
analizzando ogni suono, in modo che sia il bimbo cinese che la bimba
egiziana potessero conoscerli e riappropriarsene in maniera diversa e
dall'altra giocavamo ed utilizzavamo molto le mani denominando tutto.
In tal modo questi bambini riuscivano a seguire il gruppo, riuscendo ad
inserirsi, specialmente il bambino cinese che ha coinvolto i propri
compagni nei giochi con la carta.
Gradualmente si procedeva all'insegnamento delle varie lettere e alla
composizione delle prime parole legate al contesto scolastico che si
viveva quotidianamente.
Alla ine della prima il bimbo cinese cominciava a parlare esprimendosi
abbastanza bene in lingua italiana, utilizzando parole che si riferivano a
cose ed oggetti concreti; le maggiori dif icoltà le ha trovate con i
vocaboli che si riferivano a cose astratte.
Per lui è stata fondamentale un ' attività, che facevamo in gruppo con
altri tre bambini, basata su alcune favole cinesi; questa esperienza lo ha
sbloccato ed ha cominciato a raccontare come faceva a catturare i
serpenti in Cina (esperienze vissute in precedenza) .
Diversamente, con la bambina egiziana abbiamo avuto degli esiti più
contrastanti: infatti è riuscita a riempire di senso solo una parte di
vocaboli da lei conosciuti, e questo è avvenuto basandoci su una serie di
situazioni relazionali e utilizzando giochi (bambole, pentolini, ecc.) che
riproponessero esperienze concrete.
C'è stato quindi questo processo che partiva dall'ascolto dei suoi
bisogni: abbiamo individuato che il bisogno era quello di giocare (a fare
la mamma, a preparare la minestra, ecc.) per cui abbiamo puntato su
quello.
Pur essendo vero ciò che ho detto prima, c'è una serie di cose da
ricordare, anche al costo di annoiare: è importante che il bambino
impari a conoscere le parole in un contesto signi icativo, ricco di
motivazione, che si senta accolto, prima di tutto, come persona, non
tanto come bimbo che viene da un altro posto, che prima era povero,
ecc. Ad un certo punto, però, quando il livello di acquisizione della
lingua è discreto, occorre cominciare un lavoro più particolareggiato,
che cambia da una nazionalità all'altra, insistendo af inché una volta
diventati cittadini italiani sappiano esprimersi con precisione e
competenza, senza compiere ad esempio errori ortogra ici, ecc. -
Ogni lingua madre ha una serie di suoni diversi; per esempio il bimbo
cinese non pronunciava bene alcune lettere perché nella sua lingua non
c'erano; si è dovuto quindi effettuare un lavoro particolare, singolare, di
studio a livello grammaticale in quanto lui non possedeva i riferimenti
spazio-temporali (per es. in Cina non esiste il maschile e il femminile di
una parola) per arrivare a pronunciare la parola, a differenza di un
bambino italiano che possiede queste capacità "dentro" in da piccolo.
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Barbara Cantarelli
Io sono un insegnante di Cà Bianca che segue il progetto stranieri.
Quest'anno nella nostra scuola il numero di bambini stranieri è giunto a
22. Vi sono bambini marocchini, arabi, egiziani, ghanesi, cinesi, tunisini,
brasiliani, ecc.
Prendendo in considerazione la legge 297 del 1994 che prevede la
realizzazione di progetti sperimentali all'interno della scuola per
affrontare le problematiche che si presentano, noi abbiamo creato un
progetto sperimentale per l'inserimento e l'educazione linguistica dei
bambini stranieri.
Io lavoro su questo progetto da circa un anno facendo riferimento sia
alla teoria che alla mia intuizione personale.
Nelle prime ore della mattina tengo lezioni di educazione linguistica,
suddividendo i bambini in vari gruppi di livello; questi gruppi sono stati
formati sottoponendo i bambini a prove d'ingresso e valutando le loro
capacità linguistiche.
Attualmente ho individuato tre gruppi di livello. Il primo è formato da
un solo bambino cinese che, avendo bisogno di socializzare, viene
seguito all'interno della classe. Spesso mi ritrovo ad af iancare la
maestra nel lavoro di classe, cercando di non fargli pesare che è lui il
bambino seguito. Il problema si presenterà se arriveranno altri bambini
stranieri coi quali bisognerà formare una classe aperta che non terrà
conto del programma della singola classe di appartenenza, mentre
l'ideale sarebbe lavorare all'interno della classe.
Il secondo gruppo di livello è formato da due bambini del Ghana: una
bambina di 8 anni è arrivata l'anno scorso durante l'anno scolastico,
mentre l'altro è un bambino di 10 anni arrivato quest'anno, che non ha
mai frequentato la scuola. Lo scorso anno, per la bambina è stato
possibile effettuare un lavoro insieme alla classe, mentre quest'anno i
risultati sono stati molto più scarsi perché si sentiva demotivata dato
che lavorava esternamente alla classe.
Con il bambino, invece, è stato svolto un lavoro individuale mirato
all'apprendimento della lingua, per poi procedere all'insegnamento
della lettura e della scrittura.
Il terzo gruppo è formato da bambini di diverse nazionalità (Ghana,
Brasile, Albania), alcuni riescono a comunicare in italiano esprimendosi
correttamente, mentre altri non ci riescono ancora. Con questi ultimi
bambini seguo un programma di consolidamento delle strutture
fondamentali della lingua e di arricchimento della lingua stessa
(convenzioni ortogra iche, caratteristiche particolari che in altre lingue
non esistono).
Con questi tre gruppi lavoro la prima parte della mattinata. La seconda
parte la dedico ad attività interculturali: nel primo quadrimestre mi
occupo di educazione alla pace, mentre nel secondo quadrimestre di
antropologia culturale.
Io lavoro con 5 classi. Ho scelto di lavorare, come momento di
intercultura, su questi due argomenti perché mi è sembrato necessario
educare i bambini alla diversità, che in questo caso è culturale.
Con "educazione alla pace" ho iniziato a trattare argomenti riguardanti
l'educazione alle relazioni, alla conoscenza di se stessi e degli altri, ad
avere atteggiamenti di iducia reciproca e di cooperazione all'interno
del gruppo classe.
Lo scorso anno, nel primo quadrimestre, abbiamo lavorato in palestra
con giochi di relazione. All'inizio si sono presentate diverse dif icoltà
perché c'erano problemi di accettazione dell'altro, non soltanto nei
confronti di bambini di diversa cultura, ma anche verso coloro che
presentavano caratteristiche comportamentali differenti. Durante
queste attività ho notato che i bambini italiani hanno cominciato a
ri lettere maggiormente su se stessi, cosa che non erano abituati a fare;
nei bambini stranieri, invece, ho osservato un ri iuto della loro cultura e
della loro origine (per esempio, un bambino si ri iutava di parlare del
proprio colore della pelle). Questi ri iuti sono la conseguenza di
esperienze scolastiche negative, dove spesso il bimbo straniero viene
emarginato e non riesce ad apprendere.
Attraverso questi giochi abbiamo innanzitutto osservato quali erano le
problematiche dei bambini, che essi stessi hanno poi cominciato a
conoscere, ad accettare e discutendone insieme e si è iniziato a cercare
una soluzione.
Con questo tipo di attività abbiamo potuto notare che è migliorato
anche il rendimento e l'apprendimento scolastico.
Nel secondo quadrimestre siamo passati all'antropologia culturale,
organizzando tre percorsi diversi a seconda delle classi: in una prima
abbiamo letto e analizzato una storia, sempre in chiave di gioco nelle
seconde abbiamo lavorato sul "nome" come primo elemento che
de inisce un'identità nelle terze si è analizzato il gioco, argomento che
ha coinvolto anche i genitori dei bambini stranieri, allestendo una festa
suddivisa in quattro parti, ciascuna delle quali rappresentava le quattro
nazionalità presenti all'interno della scuola in ogni spazio veniva
proposto un gioco originario della nazione rappresentata. Secondo me
antropologia culturale è un insegnamento conseguente a quello di
educazione alla pace, perché prima di insegnare i contenuti occorreva
vivere l'esperienza della diversità.
L'insegnamento dell'educazione alla pace però è stato il momento più
importante dello scorso anno, perché ho potuto notare che anche fra
bambini di diverse culture è stato possibile lavorare sull'aspetto
linguistico. Attraverso il gioco, il bambino è riuscito a comprendere
cosa signi ica integrazione fra culture: andare incontro all'altro,
comunicare e cercare di conoscerlo.
Vorrei concludere dicendo che ci sono diversi modi di comunicare con
gli altri: c'è chi si proietta solamente su se stesso credendo che l'unico
insegnamento derivi dal paese di origine (eccesso di comunicazione
con la propria identità); c'è chi vuol dimenticare la propria identità e il
proprio passato nel paese di origine (oblio). C'è anche il caso di un
bambino brasiliano che si è chiuso in se stesso, perché non riesce più a
coniugare la sua cultura passata con il mondo in cui si trova a vivere
adesso.
L'obiettivo, quindi, è che il bambino riesca a comprendere che l'unico
modo per arricchire gli altri e se stessi è la comunicazione e la
relazione.
E' altrettanto importante il comportamento dell'insegnante. Occorre
stare attenti a non classi icare il bambino solamente in base alla sua
nazionalità o alle sue abitudini di vita, ma è importante riconoscerlo
come portatore della propria identità detern1inata dal carattere, dalla
personalità e dalla famiglia in cui vive. Altrimenti il bambino si sente
diverso e questo in luisce negativamente sull'apprendimento stesso.
L’immigrazione a Reggio Emilia:
gli scenari possibili
 
di Valda Busani
 

Sono Valda Busani e lavoro presso il Servizio di formazione e ricerca


della Provincia di Reggio Emilia, servizio che si occupa di scuola, di
formazione professionale, di orientamento e, quindi di attività
educative- formative, rivolte alla popolazione che risiede su questo
territorio, che comprende anche la popolazione straniera immigrata da
paesi extracomunitari.
Vorrei proporvi alcuni punti che mi sembrano fondamentali:
1.
che cosa è l’immigrazione da paesi extracomunitari a Reggio Emilia, che
dimensioni ha, in che cosa consiste qualitativamente e
quantitativamente, quali sono i caratteri signi icativi di questa
immigrazione;
2.
i possibili scenari di convivenza e di governo dei processi migratori;
3.
come è possibile governare il con litto interculturale;
4.
per fare un cenno in ine ad alcune esperienze promosse dalla Provincia
di Reggio Emilia.
Per un’analisi approfondita dei dati, vi rimando alla lettura dell’ultimo
numero dell’Osservatorio provinciale sull’immigrazione, una
pubblicazione annuale con cui la Provincia di Reggio Emilia recensisce
tutta la popolazione extracomunitaria residente. Lì potete vedere i dati
in modo più speci ico e, tra l’altro, con una suddivisione per distretto
scolastico e per unità sanitaria locale.
In questa sede vorrei invece portarvi solo dei dati fondamentali e
partirei facendo un piccolo test. Vorrei chiedere quanti sono, secondo
voi, i cittadini stranieri residenti nella provincia di Reggio Emilia, ed in
particolare quanti quelli provenienti da paesi esterni alla Comunità
Economica Europea, tenendo conto che la popolazione
complessivamente residente nella nostra provincia si aggira attorno
alle quattrocentotrentamila persone.
Ebbene i cittadini residenti nella provincia di Reggio Emilia erano
ottomila e sessantacinque alla ine dello scorso anno (cioè al
31/12/95) e rappresentavano l’1,88% della popolazione
complessivamente residente, di contro ad una percezione del fenomeno
che solitamente è molto sovradimensionata rispetto alla reale portata
dello stesso.
Questo test dà sempre questo risultato, di sovrastima della presenza di
cittadini stranieri.
E ciò dipende dal fatto che i media ci inviano una serie di messaggi che
fanno riferimento al concetto di invasione, di ondata migratoria; è
questo tipo di messaggio che contribuisce a dare l’impressione di
trovarci di fronte ad una dimensione del fenomeno di molto superiore
alla realtà.
Vediamo adesso, di questi ottomila e sessantacinque cittadini immigrati
residenti, quante sono le donne: sono duemila e trecentoundici, cioè il
39,8% della popolazione immigrata.
C’è da fare una ri lessione sul fatto che anche questa nostra percezione
del fenomeno non è del tutto esatta e che la presenza delle donne è in
effetti sottostimata: perché sono meno visibili socialmente, perché le
vediamo meno nei luoghi di lavoro, perché non le vediamo ai semafori.
Invece sono quasi il 40% della popolazione immigrata e, per di più,
l’aumento della popolazione immigrata dal ‘90 ad oggi è costituita
prevalentemente dalla popolazione femminile.
Dopo avervi fornito questi due dati, vorrei darvi altre piccole
informazioni: noi in questi anni abbiamo censito a Reggio la presenza di
oltre cento nazionalità quindi possiamo dire che c’è tutto il pianeta
nella nostra città.
Ci sono, fra queste cento nazionalità, delle aree geogra iche che sono
prevalenti anche in modo consistente: quasi il 46% degli stranieri
residenti a Reggio proviene dall’Africa del Nord, in particolare dalla
zona del Maghreb, cioè Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, tutti paesi
nordafricani di lingua araba.
Dopo l’Africa del Nord viene l’Asia col 18% degli stranieri residenti: uno
scarto notevole. Quando parliamo di Asia, parliamo soprattutto di India
e di Pakistan, ma anche, in misura crescente, di Cina, e ancora di paesi
minori come ad esempio la Corea, la Cambogia, il Vietnam. Segue
l’Europa extracomunitaria in particolare l’Europa dell’Est europeo col
13,7% delle presenze, con l’Albania, che è al primo posto, i paesi dell’ex
Iugoslavia, i paesi dell’ex Unione Sovietica, e poi paesi minori come
Bulgaria, Cecoslovacchia, etc.
In ine per un 13% è presente l’Africa sub-sahariana, cioè paesi
rappresentati, nella nostra realtà, prevalentemente dal Ghana e dalla
Nigeria.
Per quanto riguarda le classi d’età, la popolazione immigrata è una
popolazione giovanissima e questo è comprensibile: chi parte dalla
propria terra per realizzare una speranza di vita altrove è generalmente
la parte della popolazione più giovane, piena di speranze di vita, quella
più ricca di risorse, di progetti di vita.
Basti pensare che l’80% di questa popolazione ha meno di quarant’anni
e in particolare - vorrei darvi questo dato soprattutto per il tipo di
impegno che voi avete - il 26% va da 0 a 18 anni: quindi è una
popolazione davvero molto giovane .
Il dato che vorrei ora sottolineare è che i ragazzi e le ragazze da 0 a 18
anni sono duemila e trenta e di questi il 56% è nato in Italia.
Ciò signi ica che c’è un progressivo ricongiungimento familiare: si tratta
di una popolazione che mette radici, che fa progetti di stabilizzazione e
di permanenza a medio e lungo termine sul territorio, che mette su
famiglia in questo territorio.
Tra l’altro quest’ultimo dato, relativo ad oltre la metà di ragazzi e
ragazze, è destinato a far cambiare il loro status di cittadinanza: infatti
con una legge del ’92 viene introdotto per la prima volta nel nostro
paese il concetto di ius solis, cioè il diritto del bambino nato in Italia da
genitori stranieri di assumere al diciottesimo anno d’età, se lo vuole, la
cittadinanza italiana. Cosa che ino al ‘92 non era consentita, perchè
ino a quella data nel nostro paese funzionava il concetto dello ius
sanguinis, cioè del diritto di cittadinanza legato alla discendenza
genitoriale, e in questo modo si manteneva la cittadinanza dei propri
genitori.
Inutile aggiungere che questa legge introdurrà dei cambiamenti - oltre
che sul piano giuridico - anche sul piano culturale, perché questi ragazzi
e ragazze saranno, se lo vorranno, a tutti gli effetti cittadini italiani.
Per quanto riguarda la composizione dei gruppi familiari, ecco altri due
dati che vorrei darvi: le famiglie immigrate sono famiglie numerose,
comunque più numerose della media delle famiglie reggiane, nel senso
che tra i gruppi famigliari degli immigrati 544 sono composti da due
soli componenti, mentre oltre 800 hanno ino a quattro componenti e
più di 400 da 5 a più componenti. Si tratta, perciò, di famiglie molto
numerose.
Un altro elemento interessante è quello dei matrimoni misti, che è un
fenomeno recente, ma in crescita. Credo che le colleghe del Centro per
le famiglie possano portare delle ri lessioni molto interessanti in
proposito. Noi abbiamo recensito nel ‘95 143 matrimoni misti, in cui
cioè uno dei due coniugi è cittadino straniero. In speci ico nel 28% dei
casi il coniuge straniero è uomo, mentre nel 72% dei casi il coniuge
straniero è la donna.
In ine solo un lash sugli inserimenti lavorativi, perché credo che la
conoscenza di questi dati, in particolare degli inserimenti lavorativi,
possa aiutarci a sfatare alcuni stereotipi che spesso sono molto diffusi
nel senso comune.
L’immigrato è generalmente identi icato con quella igura molto
marginale, che de iniamo in gergo vu’ cumprà, l’ambulante che cerca di
venderci il fazzolettino, l’accendino, che ci ferma ai semafori, etc.
Ebbene credo che nella nostra realtà provinciale non ci sia niente di più
sbagliato di questo stereotipo, perché ad esempio noi nel ‘95 abbiamo
rilevato più di 2000 avviamenti lavorativi di cittadini stranieri, di cui
più di 400 riguardavano donne immigrate.
Bisogna fare una precisazione metodologica su questo dato, nel senso
che gli avviamenti lavorativi nel corso di un anno non corrispondono al
numero di persone avviato al lavoro. Io potrei aver cambiato lavoro tre
volte nel corso di un anno, forse perché ho fatto delle prestazioni a
tempo determinato, ho fatto un lavoro per tre mesi e poi un altro per
quattro mesi, etc. In questo modo vengo rilevata tre volte, mentre in
realtà sono una persona sola. Però mi sembra più signi icativo
sottolinearvi un dato: nel ’90, in occasione della prima conferenza
provinciale sull’immigrazione, la Provincia fece un’apposita ricerca
andando a vedere, a quella data - novembre ‘90 - chi era realmente
occupato, cioè quanti fra i cittadini stranieri residenti erano al lavoro in
quel momento con un contratto di lavoro regolare o in un’azienda
artigiana, o in una industria, o in un esercizio commerciale della
provincia di Reggio (quindi parliamo di regolari assunti con un regolare
contratto di lavoro). E a quel momento noi rilevammo che sul totale
della popolazione straniera in età lavorativa ben il 66% era inserito al
lavoro con queste caratteristiche.
Quindi davvero penso che dobbiamo smontare molti stereotipi: anzi
l’economia reggiana è - come tutta l’economia del nord Italia e dei paesi
industrializzati – un’economia che ha un forte bisogno di manodopera,
e sono i dati ce lo dicono. Infatti il trend dei cittadini stranieri, uomini e
donne, inseriti al lavoro è crescente dal ‘90 ad oggi in modo costante.
E ciò perché: la manodopera locale non riesce più a coprire il turnover
(cioè i giovani non riescono a coprire i pensionamenti), ma anche per
ragioni demogra iche: c’è stato un calo progressivo dagli anni sessanta
ad oggi delle nascite, come voi sapete bene; ed in ine anche per un dato
culturale, nel senso che ci sono aree professionali, tipi di lavoro per i
quali la manodopera locale non è più così disponibile. Ed è in queste
nicchie, sempre più grandi, che si inseriscono in modo sempre più
diffuso cittadini e cittadine straniere.
 
Vorrei portarvi ora alcune ri lessioni su quali sono i caratteri più
importanti e signi icativi dell’immigrazione straniera a Reggio Emilia.
Il primo dato che va colto è che si tratta di un universo estremamente
eterogeneo: noi non possiamo pensare all’immigrato “al singolare”, cioè
come ad una igura sulla quale appiattire una realtà che invece è
estremamente ricca ed estremamente diversi icata.
Ricca per provenienza geogra ica, per competenze linguistiche, per
appartenenze culturali e religiose, ricca per sesso e per fasce d’età.
Quando parliamo di immigrato, parliamo del bambino, dell’adulto, della
donna, dell’anziano (abbiamo fasce d’età oltre i sessant’anni), parliamo
di provenienze da tutto il pianeta.
Si tratta di un universo eterogeneo, oltre che per questi dati, anche per
le diverse motivazioni che hanno spinto le persone all’immigrazione. E
noi, credo, dobbiamo tenere conto di questa pluralità di motivi,
dobbiamo tener conto del fatto che le motivazioni che portano un uomo
e una donna a decidere di emigrare dal proprio paese per spostarsi con
distanze geogra iche notevolissime, ma con distanze culturali ancora
più grandi, sono molto eterogenee, molto diverse.
Invece di solito rischiamo di appiattire tutto con ragioni di carattere
economico. Pensiamo che ci si muova da paesi più poveri a quelli più
ricchi perché si tenta di uscire da situazioni, a volte, di vera e propria
fame e miseria, e comunque da situazioni di arretratezza economica, di
sviluppo diverso dal nostro. E ciò è senz’altro una delle cause, è una
delle ragioni per cui ci si muove. Ma spesso le ragioni che portano ad
emigrare sono di ordine culturale e anche di ordine politico: spesso ci si
muove da paesi dove ci sono con litti, guerre vere e proprie, come
quello della ex Iugoslavia che ha portato a Reggio centinaia di persone.
Penso alla caduta dei governi dei paesi ex-sovietici o ai sommovimenti
politici in Albania, che hanno provocato un forte movimento migratorio,
ma lo stesso potremmo dire di chi viene dalla Somalia o dall’Eritrea.
Oppure ci si muove da paesi in cui ci sono regimi di carattere
dittatoriale, dove sono ridotte o negate le libertà civili: di stampa, di
espressione politica, sindacale ed anche religiosa.
Molto spesso, soprattutto le persone giovani che hanno studiato, che
hanno fatto percorsi avanzati, sentono strette queste situazioni e sono
portate a migrare non solo fuggendo da contesti di povertà economica,
ma anche da spazi ristretti dal punto di vista politico – religioso -
culturale.
Ci sono poi fra le motivazioni dell’immigrazione non solo quelli che i
sociologi chiamano ‘fattori di espulsione’, cioè situazioni che ti spingono
a lasciare il tuo paese perché provocano disagio, sofferenza, dolore, ma
anche quelli che vengono de initi ‘fattori di attrazione’.
L’occidente - credo che sia molto evidente solo se ci fermiamo un
momento a ri letterci - esercita un’attrazione molto forte nei confronti
di una serie di paesi, in particolare della vicina area del bacino del
Mediterraneo. L’occidente è estremamente invasivo nei confronti di
questi paesi: noi esportiamo verso di loro merci, modelli di consumo,
stili di vita che vengono proposti come modelli da assumere.
In questo pianeta, cioè, c’è la libera circolazione delle merci, dei capitali.
Troviamo per esempio la Coca Cola ovunque, così come ovunque
troviamo televisori, videoregistratori, etc. Ma alla libera circolazione
delle merci non corrisponde la libera circolazione delle persone. E
anche questo sarebbe un elemento su cui ri lettere.
C’è così un mondo industrializzato che è presente in questi paesi in
modo massiccio, invasivo sia con le proprie merci che con i propri
modelli culturali, con i propri mezzi di informazione. Quanti ragazzi
abbiamo incontrato che arrivano dall’Albania e sanno parlare
perfettamente l’italiano e l’hanno appreso dai programmi televisivi
italiani che, come i motosca i degli sca isti clandestini, valicano
l’Adriatico e arrivano a Tirana, a Durazzo e in ogni villaggio albanese.
Quanti ragazzi che vengono dalla Tunisia o dal bacino del Mediterraneo
arrivano qui conoscendo perfettamente la nostra lingua e i nostri stili di
vita, o meglio quelli proposti in televisione, con tutti i rischi di
stravolgimento che da questa vetrina possono pervenire.
Provate a pensare a chi è nato in questi paesi e prova a specchiarsi in
determinate trasmissioni televisive o in certi modelli, in certe letture
della realtà che vengono proposte dai programmi televisivi italiani:
credo che faccia molta fatica a ritrovarcisi, a riconoscersi, una volta
arrivato qui.
Eppure non va sottovalutato anche questo mezzo di comunicazione dei
nostri stili di vita, questo modo di trasmettere l’immagine di un paese,
che viene recepita come un paese in cui si sta molto meglio che a casa
propria dal punto di vista economico, in cui è molto facile inserirsi, fare
fortuna, fare soldi.
Quando si arriva qui poi ci si scontra con una realtà che è
drammaticamente diversa e lo scontro può essere in molti casi
lacerante e doloroso, perché comunque il processo di inserimento è un
processo faticosissimo, dif icilissimo e, se anche si trova lavoro - cosa
che è relativamente facile per le cose dette in precedenza - anche se si
impara la lingua o se già la si conosce, si resta ugualmente ai margini,
per molto tempo, di tutto quell’insieme di reti sociali costituite
dall’accesso ai servizi, dalla vita sociale e civile e da quelle che sono le
relazioni con le persone con le quali si convive.
Credo che le situazioni di solitudine e di isolamento anche di persone
che da anni sono in Italia, che da anni sono a Reggio Emilia, che da anni
lavorano in aziende, in imprese artigiane ianco a ianco con lavoratori
italiani, reggiani, siano tantissime, soprattutto per le donne che hanno
dei percorsi di inserimento più complicati di quelli degli uomini.
In ine quello della migrazione è un universo eterogeneo per la diversità
della concezione dei processi migratori: non tutti gli immigrati e le
immigrate che arrivano in Italia infatti hanno lo stesso progetto di vita.
C’è chi pensa di rimanere qui il minimo indispensabile per fare un po' di
soldi, quindi disposto a lavorare tantissimo, a fare qualsiasi tipo di
lavoro in qualsiasi condizione per guadagnare il più possibile, per poi
ritornare a casa e magari, lì a casa, realizzare un progetto che prima si
aveva (costruire la casa, avviare un’attività artigiana, dare una
soluzione ai problemi della famiglia, etc.) ma che non era possibile
realizzare.
C’è chi arriva invece pensando ad un più lungo periodo di permanenza
o pensando che il nostro possa essere il paese dove si rimarrà per il
resto della propria vita.
Un altro elemento che vorrei richiamare riguarda ciò che è accaduto dal
‘90 ad oggi, anche se, a dire la verità, una signi icativa presenza di
comunità straniere è censita a Reggio a partire dai primissimi anni ’80,
periodo a partire dal quale si rileva ad esempio già una forte presenza
di una comunità egiziana presso di noi.
Il salto di qualità sul piano numerico avviene a partire dall’89-90, da
quando cioè venne fatta la grande operazione di “regolarizzazione”, con
la cosiddetta legge Martelli, di coloro che erano già arrivati in Italia.
Questa legge costituisce in un certo senso uno spartiacque: con essa da
una parte si prende atto di una presenza che andava regolarizzata,
dall’altro lato si predispongono i criteri secondo i quali si può aprire
verso i nuovi lussi migratori.
E qui vorrei fare una precisazione: è opinione diffusa, purtroppo, che in
Italia si entri con estrema facilità, con una facilità maggiore rispetto a
qualsiasi altro paese. Non è così.
Intanto si entra spesso clandestinamente, cosa che ci porta a fare altre
ri lessioni su quella che viene solitamente chiamata immigrazione
clandestina e sui racket dell’immigrazione clandestina.
In secondo luogo in Italia si entra con particolare dif icoltà dai paesi
extracomunitari: innanzitutto perché è previsto un visto di ingresso che
non è assolutamente facile avere, e poi perché la legge introduce il
concetto di regolamentazione dei lussi che riduce, di fatto, i movimenti
migratori.
Per cui, in effetti, può entrare in Italia solo chi o ha già una prospettiva
di lavoro documentata da un’azienda italiana, da una famiglia, da una
qualsiasi realtà produttiva italiana, o chi arriva per ricongiungimento
familiare.
Ma i criteri del ricongiungimento sono estremamente rigidi, perché tale
procedura può essere richiesta solo da cittadini o da cittadine stranieri
che vivano già in Italia, che abbiano un regolare contratto di lavoro, una
fonte documentabile di reddito e che dimostrino di avere una
situazione abitativa idonea ad ospitare la famiglia. E questi documenti
devono essere presentati alla questura che deve veri icare che la
situazione dichiarata corrisponda a quella reale.
Quindi non è così facile entrare.
Nonostante ciò la regolamentazione e il ricongiungimento familiare
hanno signi icato in generale nella realtà italiana, e in particolare nella
realtà reggiana, un processo di progressiva stabilizzazione: la presenza
di una popolazione straniera che si ferma, che trova lavoro, che con
molta fatica trova anche la casa e che quindi mette radici su questo
territorio.
Si ottiene così un aumento dei processi di femminilizzazione, che sono
connessi al ricongiungimento, cioè un aumento della percentuale delle
donne, in modo costante ed esponenziale rispetto alla popolazione
immigrata complessiva, ed una crescente presenza di bambini che è
costituita o da bambini che arrivano qui con la madre per
ricongiungersi con il padre, o da bambini che per oltre la metà (come
abbiamo già visto) nascono qua.
E va detto che le donne e i bambini sono anche quelli più esposti al
rischio di clandestinità. La parola clandestino di solito evoca degli
scenari un po' inquietanti. Di solito si associa questa parola alla parola
spacciatore, a chi vive nella microcriminalità. Ma in realtà nel nostro
paese – e sicuramente a Reggio, realtà che conosciamo bene, - va detto
che ci sono tantissimi clandestini per burocrazia.
Faccio un esempio: il processo di ricongiungimento di cui parlavo
prima spesso comporta un arco di tempo che va da uno a due anni. Da
quando il cittadino immigrato a Reggio presenta la domanda alla
questura e documenta tutte quelle cose che deve documentare, a
quando viene concesso il permesso ai familiari, passano a volte ino a
due anni. Allora cosa succede in effetti, tenendo conto che questo
cittadino, quando inalmente può ricongiungersi con la famiglia, ha alle
spalle già diversi anni di lontananza dal proprio paese e di permanenza
in Italia?
Succede molto spesso che la moglie e i igli arrivino con permesso di
carattere turistico validi soli tre mesi, e poi aspettino qui che arrivi
inalmente il permesso di soggiorno per il ricongiungimento familiare.
E in questo periodo di tempo queste donne e bambini, dal punto di vista
della nostra legislazione, sono clandestini, con tutto quello che
signi ica: rischio di espulsione costante di fronte a controlli, a veri iche
o accertamenti, ma anche esclusione dai servizi sanitari o sociali, che è
una cosa molto banale ma gravissima al tempo stesso.
E’ vero che per i bambini alcune situazioni sono risolte dal fatto che
l’accesso alla scuola è garantito comunque grazie ad un accordo
internazionale, per cui il bambino che non ha permesso di soggiorno
può usufruire di quello di uno dei due genitori e che, anche se fosse un
clandestino “totale”, avrebbe diritto comunque all’istruzione. Ma questo
bambino - ad esempio - non ha diritto al proprio pediatra, al proprio
medico di famiglia, allo stesso modo della madre.
Ed anche qui faccio un esempio molto banale: le donne che arrivano in
Italia durante questo periodo di clandestinità forzata non possono
nemmeno iscriversi ad un corso di italiano, perché un corso di italiano -
a meno che questo non sia effettuato da un gruppo di volontariato che
non guarda a questi aspetti - se è fatto dalla scuola, dal Comune o dalla
Provincia , non può accettare persone che non abbiano il permesso di
soggiorno regolare.
In questo modo si determina una esclusione dalla rete di servizi basilari
per il nostro vivere quotidiano. E questo diventa ancora più grave per le
donne, perché le donne sono la igura più in bilico tra il vecchio e il
nuovo mondo, cioè tra il mondo che si sono lasciate alle spalle con la
scelta di emigrare e la nuova cultura nella quale si trovano a vivere.
Abbiamo detto prima che le donne sono meno visibili socialmente, sono
meno inserite al lavoro per diverse ragioni, e va detto che certamente,
fra queste ragioni, vi sono anche quelle di ordine culturale. Esse
vengono da paesi dove la presenza lavorativa delle donne è molto più
bassa che in Italia; per le donne è ancora molto diffuso in molte culture
un ruolo solo familiare e domestico, come per altro era da noi ino una
trentina d’anni fa.
Quindi ci sono questi dati di carattere culturale, per cui le donna
vengono spesso da realtà in cui il ruolo femminile è costruito e si
esaurisce all’interno delle mura domestiche, nel ruolo di madre e di
moglie; ma ci sono anche questi ostacoli di carattere molto concreto
come il permesso di soggiorno, per cui - ad esempio - se il lasso di
tempo per ottenerlo dura uno o due anni, le donne sono impossibilitate
a lavorare, a meno che non facciano un lavoro nero, come collaboratrici
familiari o presso qualche azienda che le assuma in nero, con tutti i
rischi che ne conseguono. Non possono nemmeno apprendere la lingua
e, insieme al fatto che spesso sono chiuse in casa, tutto ciò acuisce lo
stato di isolamento e di solitudine delle donne che credo che diventi
davvero - per le esperienze che abbiamo avuto con donne che hanno
vissuto queste situazioni - anche molto faticoso e lacerante, perché si
vive all’interno di un nucleo familiare in cui il marito è inserito, va a
lavorare, ha un suo mondo di relazioni (negative o positive che siano), i
igli vanno a scuola, imparano l’italiano (e lo imparano spesso prima e
meglio della madre), cosicché diventano dei mediatori tra la madre e il
mondo esterno, e la donna rimane segregata in una posizione
marginale sotto tutti i punti di vista.
Ora voi capite che questo mette in discussione la propria identità di
moglie e di madre rispetto ad un marito che vive un processo di
cambiamento che va troppo veloce rispetto a quello della moglie,
rispetto a dei igli dai quali la madre è spesso dipendente per tutto
quello che riguarda il mondo esterno, (a volte deve dipendere da loro
anche per comunicare con il medico, il negoziante, l’insegnante, etc.).
Vorrei a questo punto proporvi alcune ri lessioni su questo tema: quali
scenari possibili?
L’immigrazione è sempre più spesso terreno di battaglia politica,
terreno sul quale si accavallano emozioni e sentimenti forti, perché
sono questioni che tirano in ballo il senso di sicurezza o di insicurezza
di ciascuno di noi.
E’ un terreno sul quale è molto facile agire in termini strumentali.
Laura Balbo, che è venuta spesso da noi per corsi rivolti ad operatori
sociali ed insegnanti, ci ha sempre proposto questo elemento di
ri lessione, che mi sembra stimolante: l’Europa ha di fronte un aut-aut:
può scegliere di essere una fortezza assediata, non solo in senso
metaforico ma anche isico, da paesi dai quali si muovono migliaia e
migliaia di persone alla ricerca di una possibilità di vita migliore ;
oppure può scegliere di essere un continente in grado di accoglienza e
di cooperazione.
L’immigrazione ci pone di fronte ad un fenomeno strutturale, non di
breve periodo, non congiunturale, fenomeno che è anzi destinato ad
aumentare, perché il divario tra Sud e Nord del mondo aumenta, e non
serve a niente erigere barriere.
Gli Stati Uniti hanno eretto la più grande barriera isica tra loro e il
Messico, un muro di cemento armato sorvegliato per decine di
chilometri da guardie armate, ma questo non ha impedito ai messicani
di scavare gallerie sotterranee per andare negli USA a cercare un lavoro,
a raccogliere patate, pomodori o frutta.
Non è possibile fermare l’immigrazione né con gli eserciti sulle coste, né
con i muri di cemento armato. Essa può essere regolamentata e può
diventare terreno di cooperazione tra Nord e Sud del mondo, agendo su
più piani attraverso politiche di accoglienza, visto che il Nord del
mondo, e l’Europa in particolare, conoscono dei processi di
invecchiamento e di saldo demogra ico negativo, cioè di calo delle
nascite, che fanno sì che ci sia bisogno di persone, di altre persone che
provengano da altri paesi.
A questo proposito vorrei ricordarvi che il presidente della
Con industria regionale - che non è certo un’associazione di
bene icenza e nemmeno di estrema sinistra - portava questa primavera
alla Conferenza Economica Regionale questo dato: da qui al duemila (e
mancano tre anni) in Emilia Romagna si prevede un saldo negativo di
cinquemila posti di lavoro. Ci saranno cioè cinquemila posti che da qui
al 2000 si renderanno liberi e che la popolazione residente non è in
grado di coprire, per tutte le ragioni che vi accennavo prima.
Quindi due possibili scenari sono di fronte a noi: o fortezza armata o
continente capace di accoglienza e di cooperazione. Sta anche a
ciascuno di noi contribuire a scegliere lo scenario futuro.
Dal punto di vista delle politiche di gestione del fenomeno migratorio,
in Europa inora sono stati sperimentati diversi modelli di accoglienza,
diversi modelli di governo dei lussi migratori.
La letteratura sull’argomento ne individua sostanzialmente due: il
modello tedesco che viene anche de inito il modello isolazionista, cioè
delle isole, ed il modello francese che viene anche de inito modello
assimilazionista.
Schematizzando molto, possiamo dire che il modello tedesco è
identi icato come modello isolazionista perché presuppone che il
cittadino straniero che arriva in Germania – che non viene de inito né
“immigrato” né “straniero” né “extracomunitario” bensì lavoratore in
transito - sia una persona che è lì in quanto lavoratore, ma resta un
“ospite” che vive una presenza temporanea e precaria. La sua
permanenza non è acquisita una volta per tutte , anche se nella realtà
può protrarsi per una vita intera. Il modello tedesco, - che poi è quello
che i nostri emigrati in Germania hanno sperimentato, insieme agli
immigrati turchi e di altri paesi non solo europei – è cioè un modello
che porta a concepire in sostanza le comunità straniere come delle isole
che restano separate all’interno della società tedesca, proprio perché la
permanenza è precaria e a termine e non è previsto un processo di
integrazione/interazione fra comunità.
Questo, ad esempio, ha portato in molte città tedesche alla
realizzazione di politiche sociali differenziate, ad esempio con quartieri
“etnici”.
Va anche detto che soprattutto negli ultimi anni, si sono sviluppate
anche in Germania ri lessioni critiche e sperimentazioni innovative
interessanti.
Il modello francese (anche qui detto molto schematicamente) è un po'
al polo opposto, nel senso che prevede un processo di assimilazione o
di omologazione, in cui molto forte è la richiesta sociale a rinunciare
alla propria diversità, alla propria identità, per assimilarsi al modello
culturale dominante.
Si tratta di un modello che da un lato riconosce il diritto di cittadinanza,
ma dall’altro lato spinge l’immigrato a dare un taglio alle proprie radici.
Ma una deprivazione delle proprie culture di appartenenza è spesso
all’origine di forti disagi, a volte sfociati in vere e proprie “rivolte”,
soprattutto delle nuove generazioni di cittadini immigrati che vivono
una forte crisi di identità, perché non sono francesi ino in fondo e non
sono più nemmeno marocchini, o algerini, o africani.
Infatti non basta avere la cittadinanza francese per essere francese: se
nasco e cresco in un contesto familiare e sociale che è “altro” per
religione, per lingua, per valori, per codici, per sistemi culturali a cui
faccio riferimento; se vivo una serie di situazioni di emarginazione,
perché ad es. per la legge sono un cittadino francese ma per la comunità
sono lo straniero, l’immigrato, rischio di vivere una situazione
lacerante, di essere in bilico fra due mondi senza appartenere a
nessuno di essi.
In questo modo si possono comprendere come rivendicazioni di un
bisogno forte di identità quegli episodi in cui alcune ragazze
musulmane rivendicavano il diritto di poter portare il chador a scuola,
come affermazione di un proprio senso di appartenenza, di una propria
identità, nel momento in cui la società in cui vivono fa loro notare ogni
giorno che non fanno parte a pieno titolo di quella società.
E in Italia? In Italia non si può dire che esista un “modello di
accoglienza” realizzato sia perchè da noi l’immigrazione è un fenomeno
relativamente recente, sia perchè coesistono probabilmente in diverse
parti del paese diversi approcci al problema e diverse esperienze.
La nostra quotidianità è fatta di episodi, di atteggiamenti, di
comportamenti individuali e di gruppo, di politiche, che sembrano
confermare la coesistenza di differenti tendenze, e quindi la possibilità
di sbocchi in scenari anche molto diversi fra loro: dalla esasperazione
del con litto all’intolleranza, alla convivenza indifferente, alla
comunicazione-interazione, alla solidarietà.
C’è un forte dibattito aperto anche sul piano politico e istituzionale, e lo
testimonia il fatto che si parli con insistenza di una nuova legge
sull’immigrazione che superi il limite maggiore della legge Martelli, cioè
quello di essere una legge che si limitava a regolarizzare una situazione
di fatto. Ci si rende conto che una cosa è regolarizzare l’esistente, altra è
governare i processi migratori con una prospettiva di futuro.
Mi pare si possa dire che in diversi contesti (istituzioni locali, servizi,
volontariato) sia crescente, anche se forse ancora insuf iciente, la
consapevolezza della necessità di sperimentare un approccio
multiculturale e/o interculturale , che superi i limiti e le contraddizioni
di altre esperienze europee.
E’ forse opportuno un chiarimento terminologico: per
multiculturalismo si intende in genere un approccio che riconosce le
diversità culturali nella loro pari dignità, ne valorizza il carattere di
arricchimento per tutti in un reciproco riconoscimento di signi icato,
che non chiede rinunce o abiure a nessuno.
L’approccio interculturale cerca di fare un passo avanti: cerca di
superare il limite di una semplice convivenza fra culture che, pur
riconoscendosi reciprocamente, tendono ad esistere separatamente, e
tenta la dif icile s ida di una comunicazione fra culture, consapevole che
una convivenza reale signi ica confronto, interazione, reciproca
in luenza e modi icazione, evoluzione comune che cambia entrambi, sia
chi arriva sia chi accoglie.
L’approccio interculturale è consapevole che il rapporto fra diversità
culturali è certamente stimolante e arricchente, ma può essere anche
molto dif icile, coinvolgente, e può scatenare con litti, perché richiede la
messa in discussione di valori, di certezze, di consuetudini a tutto
campo, a cui possiamo essere fortemente legati perché rappresentano
per ciascuno di noi, all’interno delle rispettive culture di appartenenza,
punti di riferimento fondanti della nostra identità.
Il con litto che ne può derivare, e che può essere esasperato da
situazioni di disagio sociale o ambientale che radicalizzano le posizioni,
richiede la disponibilità a ricercare un nuovo terreno comune di
convivenza, una comune ride inizione di valori e regole reciprocamente
condivise, che rispettino le appartenenze culturali, valoriali o religiose,
ma richiedano anche a ciascuno uno sforzo di comunicazione e di
comprensione dell’altro.
Il con litto è una dimensione inevitabile nelle relazioni umane (in
famiglia, tra genitori e igli, nel gruppo di pari, ecc.) ed è inevitabile
quando ci si incontra partendo da appartenenze così diverse.
Io credo che non bisogna avere paura del con litto, ma occorra
accettarlo come dimensione che è parte di questa relazione, con la
consapevolezza che il con litto va gestito e che ci possono essere degli
strumenti per governarlo. Non si rimuove negandolo, non si risolve con
un semplice appello ai buoni sentimenti.
Ed è evidente che non si governa il con litto che deriva dai processi
migratori nè con il soldato sulle coste pugliesi nè con il muro alto due
metri nè con i referendum più o meno leghisti che pensano di mandare
a casa chi è nato a Napoli ma lavora a Bergamo.
Penso che, almeno in questa sede, fra giovani volontari, sia un dato
scontato che non è così che si può governare il con litto: così lo si fa
esplodere, perché si carica quel con litto, che nasce da diversità
culturali, di altri signi icati.
Forse non è altrettanto scontato ri lettere sul fatto che anche la
“banalizzazione folcloristica” non è un modo corretto per affrontare il
con litto. Parlo di quel modo di pensare per cui “la convivenza è bella” e
basta un po' di buona volontà per superare le diversità. Questa è una
bella dichiarazione di intenti, ma non funziona, perché ci sono delle
diversità che sono evidentemente arricchenti per tutti, ma ce ne sono
altre che scatenano scontri e con litti profondi. E’ certamente una
risorsa per tutti il fatto che in un asilo nido o in una scuola si incontrino
bambini di provenienze diverse, che consente di arricchire le
esperienze educative, le conoscenze culturali, l’immaginario, il modo di
giocare, di tutti i soggetti coinvolti: bambini, educatrici/educatori,
genitori. Ma ci sono anche incontri con diversità culturali che ciascuno
di noi non è disposto ad accettare, da una parte e dall’altra dei due
“mondi” che si incontrano: pensiamo ad esempio ad alcune situazioni
culturali e sociali di segregazione delle donne, di disuguaglianza fra i
sessi a partire dalla vita delle bambine.
E’ di fronte a queste dif icoltà la “banalizzazione folcloristica” e
l’ottimismo sempli icante sono destinati ad entrare rapidamente in
crisi.
L’obiettivo di una città nella quale diverse culture sanno convivere e
comunicare non è di facile raggiungimento, va costruito con tenacia e
con pazienza, attraverso progetti e interventi lucidi, mirati e rigorosi.
In questa ottica, la formazione è una risorsa preziosa da giocare, sia
verso la popolazione immigrata che verso la popolazione locale, per
rispondere ai reciproci bisogni di conoscenza, di comprensione, di
rielaborazione che nascono dall’incontro fra le due realtà.
La formazione può essere uno strumento ef icace per leggere e
governare i possibili con litti fra le diversità; per ri-costruire sicurezze,
punti di riferimento, chiavi di lettura per chi (l’immigrato) è
disorientato perché sradicato dal proprio contesto e proiettato in un
ambiente nuovo e sconosciuto, ma anche per chi (il cittadino
autoctono) è disorientato perché spaventato dal cambiamento, perché
percepisce come minacciose le diversità ancora sconosciute.
 
Come li vediamo, come ci vedono. Interviste a
operatori e bambini

di Rita Bertozzi
 

Le principali motivazioni che mi hanno condotto all'elaborazione della


mia tesi di laurea, intitolata "Bambini immigrati. Una indagine empirica
in un quartiere di Reggio Emilia", sono essenzialmente due.
La prima concerne la crescente portata del fenomeno migratorio, che
caratterizza sempre di più la nostra società e che penso costituisca una
s ida da gestire attentamente. La seconda consiste nel mio personale
interesse a cogliere come gli operatori socio-educativi vedono e si
rapportano ai bambini immigrati, che saranno gli adulti immigrati del
futuro, e come questi soggetti vivono ed entrano in relazione con i
reggiani, per promuovere la creazione di una società interculturale,
valorizzando le rispettive diversità.
Partendo dall'analisi dei lussi migratori nell'attuale società complessa
si può rilevare la trasformazione dell'Italia da paese d'emigrazione a
paese d'immigrazione.
I paesi di provenienza dei nuovi immigrati sono cresciuti
numericamente, rendendo più variopinto il panorama italiano e
diversi icando al suo interno i percorsi possibili. In particolare stanno
assumendo un peso rilevante i ricongiungimenti familiari, che
aumentano il numero dei minori stranieri presenti in Italia.
Ma oltre al movimento migratorio proveniente dall'estero, l'Italia
conosce al suo interno, già da diversi anni, il trasferimento di parecchi
cittadini dal sud al nord.
Il fenomeno migratorio non è quindi nuovo in se, ma si è ampliato,
coinvolgendo sempre più persone.
Dal '90 si è avuto un incremento annuale degli stranieri. Solo nel '94 si è
registrata una diminuzione rispetto al '93, dovuta in realtà alla
revisione dei permessi di soggiorno. Il decreto del 1994 ha previsto
l'ingresso in Italia a coloro chiamati per motivi di lavoro, ai familiari per
ricongiungimento e agli stranieri accolti per motivi umanitari.
I cittadini stranieri regolarmente dotati di permesso di soggiorno al
31/12/1994 costituiscono comunque 1'1,62% della popolazione
italiana, con una maggiore rilevanza di quelli extracomunitari, dato che
differenzia l'Italia dagli altri paesi europei nei quali si ha invece una
prevalenza degli stranieri comunitari.
La ripartizione regionale vede una maggiore concentrazione in
Lombardia, seguita dall'Emilia Romagna e dal Veneto.
Aggregando i dati per aree di provenienza troviamo:
-al primo posto l'Europa, suddivisa in paesi dell'Unione Europea, paesi
non comunitari a sviluppo avanzato e paesi dell'Est;
-al secondo posto l'Africa, con i paesi del bacino del Mediterraneo
(Marocco, Egitto, Tunisia, Algeria) e altri paesi quali il Senegal, Ghana,
Etiopia, Somalia;
-al terzo posto vi è l'Asia e in ine l'America e l'Oceania. La comunità dei
marocchini e quelle provenienti dalla ex-Jugoslavia sono le più
consistenti. La maggioranza degli stranieri si colloca nella fascia d'età
compresa tra i 19 e i 40 anni. La stabilizzazione delle famiglie, i
ricongiungimenti e la formazione di nuovi nuclei stanno facendo
emergere sempre più la presenza dei minori; in particolare la scuola, a
tutti i suoi livelli, incontra incrementi evidenti e si trova di fronte a
nuove s ide.
La situazione in Emilia-Romagna rispecchia la situazione nazionale, pur
presentando alcune particolarità. Gli stranieri sono 1'1,69% della
popolazione totale, con prevalenza degli extracomunitari. L'area di
provenienza è soprattutto l'Africa (Marocco, Tunisia, Senegal), seguita
dall'Europa, dall'Asia e in misura minore dall'America. Generalmente gli
immigrati giungono in Italia direttamente dal paese di appartenenza,
stabilendosi però prima al sud e poi al nord; in questo modo giungono
spesso in Ernilia-Romagna con una conoscenza base della lingua.
Per quanto riguarda Reggio Emilia, è la quarta città dell'Emilia
Romagna con maggiore presenza di popolazione straniera. L'incidenza
degli extracomunitari sul totale della popolazione residente continua
ad aumentare, attestandosi all'1,71 %. Nel 1994 si è registrato una
ripresa della crescita dei lussi immigratori extracomunitari, che sono
ormai entrati in una seconda fase, caratterizzata dalla ricostruzione dei
nuclei familiari.
Si ha dunque un aumento delle donne e dei minori in età scolare, nati
all'estero o nati in Italia. Ma a ianco di questo processo, si stanno
delineando anche nuove modalità di migrazione costituite dalle donne
che migrano sole, senza una famiglia o un coniuge da raggiungere, ma
in cerca di lavoro e di una nuova vita altrove e il fenomeno delle coppie
miste.
La principale area di provenienza è costituita dall'Africa del nord,
seguita dall'Asia, dai paesi dell'Europa extracomunitaria, dall'Africa
centrale e in ine dall'America.
Oltre ad immigrati da altri paesi, Reggio accoglie da più tempo tanti
nuclei provenienti dall'Italia meridionale, che tendono sempre più a
stabilizzarsi nella nostra realtà.
Dopo questa breve panoramica degli spostamenti oggi in atto, passerei
a delineare il cammino teorico che mi ha portato ad effettuare le
diverse interviste.
L'incontro-scontro con l'altro può essere analizzato, approfondendo chi
è l'altro, lo" straniero" con il quale ci rapportiamo (interessante il libro
di Kristeva "Stranieri a se stessi", 1990).
Lo straniero è generalmente colui che non fa parte del gruppo, che non
è dei "nostri " e per questo minaccia la sicurezza, rompe i legami di
appartenenza inquinando l'omogeneità del contesto culturale e il
sistema dei valori vissuti. L'incontro con l'altro oppone ciò che non ci è
familiare a ciò che ci è familiare e sembra farci perdere il contatto con le
nostre sensazioni. Di solito l'uomo proietta fuori di sé i sentimenti ostili
e cerca di rimuoverli; l'incontro con "altri", con degli "stranieri" evoca
appunto questa estraneità rimossa. Lo straniero lancia perciò
all'identità del gruppo e alla propria identità una s ida, perchè costringe
a manifestare il modo segreto di porsi davanti al mondo, di risolvere il
problema della diversità e il livello di apertura - chiusura della
comunità verso l'esterno. Si tratta certo di un rapporto ambivalente, in
quanto lo straniero è escluso e incluso, è vicino e lontano, serve per
delimitare i limiti del proprio gruppo ma proprio perchè differente è
ri iutato.
Ma nelle società contemporanee, dove ogni individuo sperimenta una
pluralità di appartenenze, il culturalmente diverso è individuato in
diverse condizioni sociali che si moltiplicano continuamente,
conducendo ad una estraneità parziale e ad una integrazione parziale.
Per questo secondo Kristeva , ciascuno deve considerarsi straniero o
altro per gli altri: non ci sono stranieri, siamo tutti stranieri. Anche nei
rapporti interpersonali l'altro è sempre una rivelazione insospettata.
Questa ri lessione sull'alterità mi ha portato ad analizzare le
rappresentazioni sociali che gli individui hanno dell'estraneità e della
propria diversità, inserite nel contesto socioculturale in cui vivono.
Chiaramente le considerazioni svolte sull'alterità e sulle
rappresentazioni sono valide anche per gli immigrati che, capovolgendo
la situazione, percepiranno i residenti come estranei. Del resto le
relazioni interetniche presuppongono la reciprocità fondamentale in
ogni relazione.
Le rappresentazioni sociali sono un modo speci ico di esprimere la
conoscenza in una società, sono condivise dal gruppo e permettono di
affrontare la realtà in mutamento, perchè danno continuità,
riconducendo tutto ciò che è estraneo entro categorie familiari.
L'etichettamento, che si ha con le rappresentazioni, segna i punti fermi
sui quali la mente appoggia le proprie interpretazioni, sopportando i
cambiamenti improvvisi.
Il primo scopo della ricerca è stato perciò quello di far emergere come il
bambino estraneo è ricondotto all'interno delle categorie familiari e
quali sono queste categorie. Qual è cioè la rappresentazione del
bambino immigrato che i testimoni intervistati si sono costruiti nella
mente e utilizzano per rapportarsi ad esso. Queste immagini sono il
frutto di un'elaborazione di quello che i soggetti vedono e percepiscono
del minore immigrato, in base a diverse variabili, personali ed
ambientali.
Il secondo scopo, centrale per la sua importanza, è stato quello di "dar
voce" ai bambini immigrati per cogliere il loro vissuto qui a Reggio e
per capire come essi vedono e si rapportano alle persone reggiane. Il
riferimento è ai bambini della seconda generazione, cioè ai igli di
coloro che per primi sono immigrati in una determinata realtà, perchè
questi sono generalmente de initi come "generazione a rischio". Sono
loro che devono infatti conciliare dentro di sè un doppio riferimento
culturale e rispondere a due aspettative: quelle della famiglia e quelle
della società d'accoglimento. Essi vivono direttamente o indirettamente
l'esperienza della migrazione attraverso il vissuto familiare e prendono
parte alle dif icoltà d'inserimento della famiglia. D'altro canto essi sono
il segno del processo di stabilizzazione in atto presso alcune comunità
immigrate, che richiede risposte tempestive.
Gli studi disponibili mostrano come la presenza dei bambini immigrati
sia molto variegata e richieda un'attenzione speci ica alle singole storie.
A livello teorico si può cercare di sintetizzare alcuni dei principali
ritratti di questa presenza "altra" che fungono da sfondo generale, sulla
base del quale, però, vanno analizzate le diverse storie con tutti le
variabili che recano con sè.
 
1. Bambini venuti dall'Asia
I bambini cinesi sono i principali rappresentanti di questo continente.
Oggi sono al primo posto nella graduatoria nazionale delle presenze
straniere nella scuola elementare. Il problema principale che
incontrano è quello linguistico, che provoca un forte disorientamento
della persona che deve imparare nuove forme di comunicazione. Essi
rientrano nel progetto migratorio familiare di autoaffermazione,
centrato su valori economici, ai quali la famiglia si dedica totalmente.
Spesso hanno un ruolo fondamentale di canale di comunicazione tra la
famiglia e la realtà esterna; la frequenza scolastica è ritenuta perciò
molto importante, anche se i genitori non si lasciano molto coinvolgere,
poiché i principi del Confucianesimo riservano una posizione
gerarchica e di iducia totale all'insegnante e una subordinata al
genitore.
I bambini cinesi risentono dell'isolamento in cui vivono i genitori, dato
l'inserimento lavorativo all'interno del gruppo etnico, e a volte sono
parte integrante della struttura produttiva familiare. Tutto questo
riduce fortemente i contatti e l'integrazione con i coetanei italiani.
Per i bambini ilippini il problema della lingua rimane, anche se la
cultura impartita nelle scuole è più vicina alla nostra, data l'in luenza
cristiana.
 
2. Bambini arabi
Dai paesi del Nord Africa provengono i gruppi più numerosi di bambini
arabi presenti in Italia. Essi hanno in comune l'appartenenza religiosa
all'Islam e la stessa lingua scritta.
I bambini marocchini sono entrati da poco nelle scuole dell'infanzia e
dell'obbligo italiane e si concentrano soprattutto in due fasce d'età: da
0-6 anni, per lo più nati in Italia e oltre i 10 anni, arrivati in seguito a
p p g
ricongiungimenti familiari. Il problema principale è la lingua:
l'inserimento a scuola porta ad una progressiva perdita della lingua
madre, causando forti con litti generazionali. Spesso i genitori
organizzano corsi di arabo in Italia o li mandano in patria per ristabilire
i legami di appartenenza, ma questo può creare una grossa confusione
interiore nel bambino. Generalmente i genitori trasmettono la cultura
d'origine e soprattutto un forte attaccamento ai dettami della religione
mussulmana, specie in rapporto all'abbigliamento, al cibo, ai rapporti
donne/uomini, al Ramadan.
I bambini egiziani hanno una presenza più consolidata. Anche per loro
restano validi i discorsi sul dif icile apprendimento della nuova lingua e
la permanenza di tradizioni diverse. In più ,essi sono abituati ad una
disciplina scolastica molto rigida.
 
3 .Bambini venuti dall'Africa
I bambini eritrei sono presenti da diversi anni a tutti i livelli di scolarità.
La maggioranza di loro è nata in Italia e tende a diventare monolingue
in italiano. Piuttosto diffusa nel loro caso è la famiglia monoparentale,
gestita dalla madre.
I bambini ghanesi risiedono soprattutto nelle province di Reggio Emilia
e Modena, in Sicilia, in Campania e in Veneto. Di solito il nucleo
familiare è composto da entrambi i genitori, ma mancano tutte le altre
igure che caratterizzano l'originaria famiglia allargata. Questo è motivo
di dif icoltà, in quanto la madre si trova sola con un patrimonio
culturale inadeguato al contesto di arrivo.
La lingua è sicuramente uno degli ostacoli all'inserimento, insieme a
problemi relazionali e di strutturazione dell'identità, dovuti
principalmente a differenze somatiche.
 
4. Bambini venuti dall'Est
Non esistono ricerche o documentazioni speci iche. Le migrazioni
provenienti dall'ex-Jugoslavia sono dovute alla fuga da situazioni di
guerra e alla ricerca di migliori condizioni di vita. I bambini che
giungono in Italia sono, perciò, segnati da vissuti drammatici, che
in luiscono sullo stato psicologico dei ragazzi. Non sempre hanno
entrambi i genitori ed anche per loro esiste il problema della lingua.
 
5. Bambini nomadi
Riguardo ai bambini nomadi non mi soffermo perchè so che questa
tematica è già stata affrontata in maniera approfondita due anni fa. Mi
limito solo a sottolineare come anche per loro esistono diverse
scansioni delle tappe di vita e la dif icoltà di conciliare nel proprio
vissuto modelli culturali diversi.
 
6. Bambini del sud Italia
Si tratta della prima forma di migrazione che l'Italia ha conosciuto. Essa
ha anticipato quel fenomeno migratorio che oggi proviene dal resto del
mondo. L'ottica con la quale è stato affrontato questo tema è differente
dall'attuale attenzione e accettazione della diversità, puntando invece
più sulle componenti di deprivazione culturale della famiglia e di
insuccesso scolastico dei igli.
Anche per i bambini provenienti dal sud Italia vi sono fasi della vita
diverse, un forte attaccamento al dialetto e alla propria città, che
rendono sicuramente più faticoso l'inserimento.
 
La s ida che io lancio nel mio studio è quella di riconsiderare anche
questa presenza alla luce del nuovo approccio attento all'integrazione e
alla valorizzazione delle diversità, poiché non siamo ancora in grado di
considerarli pienamente integrati.
Il patrimonio culturale che ogni famiglia trasmette ai minori è
certamente diverso ma, in tutti i casi di immigrazione, caratterizzato da
un vissuto di lacerazione, di sradicamento che af ievolisce certi tratti
culturali d'origine e fa propri altri elementi del contesto di arrivo.
Parallelamente allo spaesamento e al senso di provvisorietà dei genitori
immigrati, i minori della seconda generazione sono chiamati a costruire
un'identità plurale e complessa, in un contesto che invia messaggi
ambivalenti e contraddittori. Sono loro perciò i veri mediatori culturali.
I rischi di questa situazione sono parecchi: ad esempio quello di una
frammentazione della coscienza tra tante modalità culturali, che lascia
la vita sospesa tra due mondi. Oppure la chiusura in atteggiamenti
iperdifensivi o il tentativo di mimetizzarsi nella cultura d'accoglimento.
Per questo diventa importante salvaguardare l'identità di ciascuno.
In risposta al primo quesito che ci siamo posti "come li vediamo" ho
intervistato una ventina di testimoni signi icativi, scelti in ambito socio-
educativo: insegnanti, operatori sociali, genitori, il parroco, educatori
scout, educatori del G.E.T. e persone appartenenti a circoli sportivi e a
centri sociali.
Non potendo riprendere le singole interviste, peraltro molto
interessanti, cercherò di presentarvi alcuni dei punti più signi icativi
emersi da un'analisi trasversale di tutte le interviste.
Ci tengo a precisare che sia questi primi colloqui che quelli con i
bambini ve li propongo come esempi da non assolutizzare, in quanto si
tratta di un campione ristretto.
Un primo risultato emerso è una grossa eterogeneità di realtà,
motivazioni e fattori. L'ipotesi iniziale prevedeva di circoscrivere
l'analisi ai soli bambini stranieri, perchè si riteneva fossero i principali
portatori di diversità, in speci ico di diversità culturale. La ricerca ha
mostrato, invece, un panorama più diversi icato: non solo i bambini
extracomunitari, ma anche i sinti e i meridionali.
ci pongono a confronto con diversità. Permangono infatti
microcomunità separate verso le quali gli stereotipi e i pregiudizi sono
più radicati.
Gli intervistati comunque percepiscono la presenza di questa diversità,
accentuata dalla visibilità di certe situazioni e dall'apporto di
popolazione giovane che si contrappone alla prevalenza di autoctoni
reggiani anziani.
"acca miseria che rasa se ne nascono, sì, sì, le vedo queste negre con la
carrozzina, questi batuffoli, eh! proprio recentemente, diversi (..) ecco il
problema è riuscire a conoscere la famiglia, se è come fanno, che attività
svolgono, dove lavorano ecco..." (centro sociale-m-65)
Per quanto riguarda la socializzazione ,molti sottolineano i sintomi di
dif icoltà che tuttora permangono,
"...ma in genere sono tra emarginati... tra di loro o comunque con
bambini reggiani o meridionali che comunque sono di famiglie
emarginate (...) a fare dei gran danni e che non hanno nessuno che li
cura, cioè la cultura del cortile con la persona che tutto sommato li
aveva ancora sott'occhio qui purtroppo non c'è più, vanno proprio per
clan, anche gruppi" (maestro-m-32)
anche se si riconosce che per i ragazzi l'integrazione è più facile che per
gli adulti.
Le categorie utilizzate per interpretare la non-familiarità dei ragazzi
sono diverse, ma tendenzialmente etnocentriche; pochi sono
consapevoli che si utilizzano categorie "nostre" per cercare di de inire i
loro comportamenti o le loro caratteristiche. Brevemente riprendo
alcuni degli aspetti principali.
I cinesi sono considerati abbastanza chiusi e con dif icoltà di
inserimento, un mondo sconosciuto legato al valore del denaro e del
lavoro. Per i bambini molti notano uno stile adattivo, remissivo e più
tranquillo.
Per gli arabi, il pro ilo del ragazzo egiziano o marocchino è in genere
più preciso degli altri, forse perchè la non-familiarità è in questo caso
più esplicita e identi icabile ma, probabilmente per questo, più
accettata in quanto già elaborata. Sono considerati più fedeli alla
cultura d'origine e rispettosi delle regole religiose e tradizionali:
"quando c'è il Ramadan come faccio signora a non bere che devo andare
a calcio e dopo mi viene sete? ..." (insegnante-f-50). All'interno della
famiglia i ragazzi sono visti come più controllati, specialmente le
femmine, e più maturi "nel senso che di solito visto che loro vanno a
scuola, sono loro che aiutano le madri a integrarsi, con la lingua, con la
conoscenza dei negozi, delle abitudini nostre..." (psicologa-f-40).
 
l bambini dell'Africa Centrale, soprattutto ghanesi, sono invece de initi
come più vivaci, più svegli e “selvaggi”, più discoli. Alcuni hanno
richiamato anche una diversità culturale nei rapporti tra genitori- igli,
improntata alla considerazione del iglio come bambino del clan. In ine
rimangono l'insieme dei ragazzi meridionali e dei nomadi sinti.
Dalle interviste è emerso spesso che i bambini stranieri sono accettati
meglio di quelli meridionali, con i quali dicono “ le differenze sono più
notevoli, cioè negli atteggiamenti... i rapporti con la famiglia, scuola-
famiglia, sono veramente raccapriccianti..."(Atletico-m-32). A volte i
bambini vengono de initi più aggressivi, volgari, meno costanti negli
impegni, con poca voglia di studiare e meno seguiti dalla famiglia. Per
entrambi vengono rimarcati anche i diversi percorsi di crescita che
anticipano i momenti dell'accoppiamento e del matrimonio.
Un secondo elemento molto importante è quello della diversità. La
ricerca ha cercato di analizzare la percezione e la manifestazione della
diversità culturale. Molti ritengono necessaria la conservazione della
propria identità insieme però alla indispensabile apertura e
accettazione delle regole nostrane.
Nel vissuto dei bambini è riconosciuta importante l'in luenza della
famiglia. Alcuni pensano che la famiglia immigrata faccia fatica a
trasmettere un modello equilibrato, perchè l'immigrazione ha
sbilanciato tutti i valori; per altri, invece, il modello proposto è molto
più chiaro e de inito. Comunque la famiglia trasmette al bambino certi
costumi, valori e tradizioni, che il bambino deve conciliare con quelle
ricevute dalla società per poter costruire una identità salda e plurale.
Questo porta al fatto che i bambini si trovano a vivere
contemporaneamente modi diversi di gestire la vita, lo spazio, il tempo
e linguaggi differenti. Ricevono dunque messaggi ambivalenti che
possono creare un certo spaesamento.
“decisivi sono gli stimoli che i genitori danno in ordine a un
mantenimento delle proprie origini, oltre ad un'acquisizione di alcuni
costumi locali senza dover rinnegare le proprie..”(maestra-f-38).
\
“... E’ chiaro che da una parte forse nella crescita loro sentiranno un
rilento dell'età matura, perchè trovano una società diversa rispetto a un
coetaneo che hanno lasciato là...”(USL-f-50).
Le soluzioni a questa convivenza vanno dalla scelta di confrontarsi
pienamente alla società d'arrivo oppure alla società di partenza o di
rimanere in sospeso tra i due mondi.
Molti intervistati vedono, però, le differenze non tanto legate alla
provenienza, ma a situazioni particolari, a condizioni economiche,
sociali e lavorative più precarie dei genitori, che agirebbero a scapito
del minore. La conclusione che si può trarre da questo aspetto è la
necessità di prestare attenzione a tutti i tipi di diversità, più o meno
eclatanti, per poter garantire al minore condizioni adeguate ad uno
sviluppo armonioso della sua persona.
 
Le rappresentazioni dei testimoni sono comunque in generale positive:
vi è una sensibilizzazione rispetto al tema della diversità e un
riconoscimento della dignità culturale del bambino immigrato. Per i
bambini la categoria di "immigrato" viene dopo quella di "bambino";
cioè il bambino ha richieste ed esigenze comuni a tutti,
indipendentemente dalle origini, e per lui l'integrazione è più facile.
Per gli adulti immigrati invece sono più spesso sottolineate le dif icoltà,
gli ostacoli e certamente la , categoria di "immigrato" precede quella di
"adulto".
A Reggio non si può dire che vi siano manifestazioni di razzismo
evidenti, ma la ricerca ha dimostrato la presenza di stereotipi e
pregiudizi diffusi, latenti e sottili, che in luenzano le relazioni tra le
persone e che devono essere controllati per non degenerare in con litti.
Le s ide pongono molteplici domande:
"secondo me c'è molto il rischio di una occidentalizzazione, il fatto di
non sapere bene che cosa sono (...) cos'hai del Marocco? capisci? cosa
vuol dire per te essere marocchino? che sei nato in Marocco e basta? .."
"... perchè insomma loro questa pelle nera la vivono come un senso di
inferiorità, cioè questo è paci ico... "( educatori -f e m-55).
"...quando il ragazzino nero o la ragazzina extra europea cominceranno
a sentire l'esigenza dell'altro sesso, cosa avverrà? avremo superato i
pregiudizi o dovranno subire delle umiliazioni, delle scon itte, delle
offese, non lo so..."(insegnante-f-50).
Alcuni intervistati ritengono al riguardo sempre più necessarie quelle
risposte calate nel territorio, alcune peraltro già avviate, perchè in
grado di portare ad una reale integrazione e conoscenza della diversità
insieme alla gestione dei con litti.
La risposta alla seconda domanda "come ci vedono" è ancora più
dif icile perchè non è così immediato ricavare da un colloquio una
visione in realtà molto complessa. Nonostante ciò è possibile trovare
qualche indicazione nella seconda parte della ricerca.
L'ascolto delle storie di vita di alcuni bambini immigrati,
extracomunitari, sinti e meridionali, di età 9-13 anni, aiuta a
comprendere come questi soggetti vivono nel contesto reggiano, in
rapporto a persone e a una cultura diverse. L'ipotesi iniziale è stata che
il ragazzo immigrato si trovasse solo a dover conciliare due realtà
ugualmente forti e compresenti; questa dif icile operazione non è detto
che si risolva sempre immediatamente e in modo univoco, ma può
generare dei con litti o lasciare in situazioni di precario equilibrio, che
si ri lettono inevitabilmente sulla personalità del soggetto. Allo stesso
tempo non si escludeva che il ragazzo potesse giungere paci icamente
ad una convivenza tra i due modelli o alla scelta di uno di essi e ad una
elaborazione positiva della diversità.
 
I principali elementi presi in considerazione sono la diversità e
l'identità. Cioè i bambini della seconda generazione vivono in prima
persona la diversità culturale e d'origine, in una società diversa che
trasmette messaggi nuovi. I bambini vivono dunque su un "doppio
binario", portatori di due culture, che possono essere fonte di enorme
ricchezza. Ma allo stesso tempo l'esperienza delle differenze e dei
cambiamenti, interviene nell'organizzazione della personalità del
bambino, che deve ristrutturare la propria identità conciliando i
con litti presenti nella sfera culturale, linguistica e familiare.
Il modello culturale che l'individuo recepisce dall'ambiente è, infatti ,
fondamentale per la strutturazione della propria identità. La
migrazione cambia il contesto di vita, al quale corrisponde un diverso
modello culturale. Il bambino che vive questa esperienza è ancora in
balia delle scelte familiari, ma allo stesso tempo inizia i contatti con il
mondo esterno. Il modello culturale che gli viene trasmesso può ,quindi
essere non più univoco, pur manifestandosi nello stesso periodo e
contesto di vita. Questa duplicità richiede al ragazzo di trovare in sè una
risposta o di ristrutturare la propria identità.
Infatti il contatto con gli altri e la presenza in uno spazio diversi
possono mettere in discussione l'immagine di sè e del proprio corpo e
possono suscitare reazioni di autosvalutazione, di aggressività o di
mimetismo. Comunque l'esperienza di "rottura", di "frattura" rispetto a
un altrove che direttamente o indirettamente il bambino vive, può
comportare profonde dif icoltà a collocarsi nel nuovo mondo e spazio.
Le risposte a questa compresenza di culture diverse sono molteplici e
variegate. Si tratta di operazioni singolari, che portano a risultati non
de initivi e non univoci, ma sui quali agiscono continuamente variabili
cangianti.
Dalle diverse biogra ie raccolte è possibile tracciare alcune tipologie,
che non hanno nessuna pretesa di generalizzazione, ma che si
propongono come esempi di una possibile lettura di storie in sè molto
complesse.
In alcuni casi troviamo una scelta precisa di uno dei modelli proposti:
nel caso dei ragazzi meridionali è evidente la scelta del modello legato
al posto di provenienza, che porta a vivere in modo con littuale o a
ri iutare il modello alternativo. Una precisa collocazione nel modello di
origine si ha anche nel caso della bambina nomade residente al campo
e nel bambino egiziano, anche se in questi esempi il modello "altro" non
è ri iutato o vissuto negativamente, ma è accettato e conciliato con una
forte appartenenza diversa.
"...non vorrei essere una gagia... sai io sono sinta, se ero gagia no sinta e
il contrario insomma... io mi sento bene lì con i miei amici, i miei cugini
mi trattano molto bene.. "(bambina sinta)
 
"... sono musulmano, festeggiamo il Ramadan, la festa lt Alcabir... alla
moschea ci vado tutti i giorni, 5 volte al giorno da solo… sto bene a
Reggio, perchè ho capito che quando uno deve cambiare città c'è tempo
per farsi amici.." (bambino egiziano-9).
L'esperienza della migrazione come "frattura”; che si ri lette in modo
problematico sulla personalità è rappresentato dal caso della ragazza
marocchina, che stenta a trovare una soluzione al con litto identitario.
Una dif icoltà particolarmente accentuata a collocarsi nel nuovo
contesto si ha anche nella ragazza palermitana, proprio in virtù della
esclusiva identi icazione nella città di nascita. "…siamo musulmani di
religione... il Ramadan sì è una noia!! ma perchè bisogna farlo...io l'ho
fatto quest'anno ragazzi, non ce la facevo... però poi ho resistito...(...)
mia madre vuole che con lei io parli arabo se no si arrabbia... devo
parlare in arabo" (ragazza marocchina-12)
"... io qui non mi sono molto ambientata, è tutta un'altra vita,
completamente non mi ci trovo però... brutto, me ne volevo scendere di
nuovo a Palermo..." (ragazza palermitana-12).
Una soluzione diversa è, invece, quella di una compresenza dei due
modelli proposti, senza con litti particolari. Il ragazzo ceco sembra
conviva senza problemi con i due riferimenti culturali. Anche la
bambina sinta in via di sedentarizzazione sembra indirizzata verso un
mantenimento di entrambe le culture, provando una certa attrazione
per il modello della società esterna e identi icandosi però anche nella
cultura sinta.
"... avevo le giostre ma adesso le ho vendute... ho venduto anche la
roulotte e ne ho preso un'altra, perchè più avanti andremo su un
terreno, però mi piacerebbe di più avere una casa..." (bambina sinta).
Altre possibili risposte portano invece a equilibri più precari. Si tratta
specialmente di scelte non precise o non ancora de inite, causate da un
senso di disorientamento ancora presente. La bambina indiana e in
parte il cinese sembrano più caratterizzarsi in questo senso. La
bambina effettua frequenti spostamenti da un paese all'altro e questo
sembra destabilizzarla; il bambino conosce poco la lingua italiana,
mantiene legami sia con la Cina che con il paese di residenza-
"... sì come il carnevale, al nord hanno fatto... hanno tagliato l'albero di
banana in pezzettini , sì alla notte... c'erano fuori con... i luce da mettere
e tutte le ..mettere il tetto sopra, il tetto sotto, hanno messo luce e... così
bello veniva" (bambina Sri Lanka-9) .
"... diverse... le case sono anche diverse, qualche sono uguali, le case a
Reggio sono a tetti in giù, il nostro era a terrazzo, sì ma c'era anche
uguale a questa... non era molto tanto uguale, le persone diverse.."
(bambino cinese -10).
In ine vi sono tentativi di mimetizzazione della propria cultura, come
risoluzione di una compresenza dif icilmente gestibile. Il ragazzo
ghanese e le altre bambine sinte - giostraie, per alcuni versi,
propendono di più verso questa modalità.
“.. alla domenica i miei genitori mangiano altre cose ma io mangio gli
spaghetti... li cucino io... io veramente non so niente dei giochi ghanesi...
io non so parlare ghanese...”(ragazzo ghanese-12)
“... mio papà ha una rotonda, io do le palline, spesso rimango solo io al
gioco, però mio padre mi viene ad aiutare quando vede che c'è troppa
gente e non riesco da sola...I!(bambina sinta-1O).
In tutti i casi è comunque presente una diversità che il bambino
percepisce; questa può essere legata a tradizioni familiari, a stili di vita,
a comportamenti, a valori o credenze o a codici diversi. Queste diversità
emergono dal confronto tra i modelli di riferimento. Il modo in cui sono
vissute dal bambino immigrato è mostrato dalla gestione stessa della
propria vita.
Gli aspetti comuni riguardano la lingua “della casa”, la presenza di feste
familiari particolari.
Molti percepiscono le differenze ambientali, ma trovano anche elementi
in comune soprattutto nei giochi, dove il nascondino sembra essere
universale.
Dai risultati non si può affermare che il ragazzo sia sempre da solo a
conciliare le diverse realtà. A volte il minore riceve un aiuto dai
familiari, oppure dagli amici o dalla scuola, Ma spesso questi sostegni
rimangono separati e alla ine è sempre il bambino che raccorda e vive
le situazioni nella sua vita.
L'ottica integrativa del nuovo approccio interculturale valorizza le
diversità e l'accoglienza, ma devono essere studiate le piste per
organizzare nella quotidianità concreta rapporti umani paritari. La
scuola ha chiaramente il grosso compito di offrire un'educazione
interculturale, che sia la base per la formazione dei cittadini di oggi e di
domani, capaci di gestire il con litto in modo positivo.
Ma anche le altre realtà sociali devono gestire responsabilmente i
rispettivi tasselli del mosaico complessivo, partendo dall'ascolto delle
"voci” dei soggetti coinvolti e incentivando la loro attiva partecipazione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

4° parte: Gioco
 
 
 
La funzione del gioco nella
crescita
di Deliana Bertani
 

Cos’è il gioco?
 
gioco dal latino iocum = gioco di parole / facezia
d’altro canto ludum in latino =gioco / gara / spettacolo
illudere = in ludere =entrare in gioco , scherzare, ingannare qualcuno
facendo credere ciò che non è
de- ludere = uscire dal gioco
Eraclito : “l’eternità è un fanciullo che gioca, muovendo i pezzi sulla
scacchiera : di un fanciullo è il regno “ “il gioco è un metodo per
assimilare poco per volta un’esperienza troppo grande per essere
assimilata tutta d’un colpo “
Il gioco cioè permette di elaborare nel tempo le angosce sottostanti che
minacciano, fase per fase durante la crescita , l’integrità del sé del
bambino.
Perchè? con il gioco il bambino può

cambiare i ruoli

inventare lieti ini

trasformare , nella rappresentazione del gioco , in attività ciò che in
realtà è stato subito.

sintetizzare la realtà , l’es, il super io
Il gioco abitua a essere più elastici a sintetizzare e integrare meno
rigidamente le nostre parti.
 
 
Il signi icato del gioco nei primi anni di vita
 
Per intendere il signi icato del gioco dobbiamo partire dal concetto di
relazione oggettuale .
La relazione oggettuale è il legame emotivo, d'amore che un soggetto
stabilisce con un oggetto.
Un legame che è emotivo, affettivo o più precisamente libidico (con
questo termine si intende la qualità particolare dell'energia psichica
legata alle pulsioni istintuali).
Per oggetto si intende tutto ciò che è non sè, non io, altro da me.
Il primo oggetto è la madre (quando si parla di madre, si intende
sempre la persona che presta le cure materne, che soddisfa i bisogni del
bambino, non tanto e non solo la madre naturale).
Sappiamo però che il bambino quando nasce non ha la capacità di
distinguere fra sé e il mondo che lo circonda (non sè); questa capacità
di differenziazione inizia più o meno verso la ine del terzo trimestre di
vita.
Il bambino arriva cioè alla costruzione di un rapporto oggettuale dopo
essere passato attraverso una fase di non distinzione, una fase pre-
oggettuale in cui non esiste per lui un oggetto esterno.
Il rapporto oggettuale deve essere costruito e questa costruzione il
bambino la inizia partendo da una situazione di chiusura a guscio verso
l'esterno: fase narcisistica.
Nella prima settimana di vita c'è un'assenza relativa d'investimento
degli stimoli esterni. C'è una barriera di protezione del neonato che
passa quasi tutto il giorno in uno stato di sonno o di semiveglia, si
sveglia solo quando la tensione per la fame o per altri bisogni (le cure
materne) lo fa piangere, appena soddisfatto il bisogno ripiomba nel
sonno.
E' una fase de inita "autismo normale" dalla quale è tratto fuori grazie
alle cure materne che lo spingono verso un maggior contatto e quindi
verso una maggiore consapevolezza dell'ambiente esterno. La madre
durante questo periodo si prende cura del bambino in modo tale da in-
luderlo , inserirlo in un gioco che è quello di dargli l’impressione che la
perfezione il benessere l’omeostasi continui.
Si tratta di cure che riguardano il corpo del bambino. Questo è il primo
gioco ( gioco di corpi :seno, voce, braccia, odori, sapori, ecc.. ) che la
madre fa con il bambino : illuderlo che lo stato di perfezione, di
soddisfazione piena, garantito dalle risposte automatiche e perfette ( il
cordone ombelicale, l’assenza di penuria, di bisogno ) proprio della vita
intrauterina, continui anche in questa prima fase successiva alla
nascita.
Successivamente il gioco della madre si sposta per portare il bambino
verso l’esterno della diade. L’illusione ora è questa : è vero , il mondo è
diviso in due parti, da una c’è la diade, dall’altra c’è il resto del mondo.
Siamo all'inizio del processo per cui l'interno e l'esterno cominciano ad
essere avvertiti come diversi.
L'Io rudimentale (non ancora funzionante) del neonato deve avere
come complemento un rapporto emotivo di cura da parte della madre,
una sorta cioè di simbiosi.
Nella fase simbiotica c'è un'aumentata attenzione del neonato agli
stimoli esterni, un maggior investimento percettivo affettivo anche se
gli stimoli non sono ancora avvertiti come esterni ma interni alla diade
madre-bambino, alla unità duale simbiotica.
In questo periodo inizia lo stabilirsi delle "isole di memoria" o tracce
mnestiche, il punto di partenza per la costruzione del rapporto
oggettuale.
La principale conquista psicologica della fase simbiotica è il particolare
legame che si crea tra neonato e madre, come è indicato dalla speci ica
risposta del sorriso al volto umano in movimento.
Spitz ha descritto come l'esperienza uni icata bocca – mano – orecchio -
pelle si fonda con la prima immagine visiva : il volto della madre che è
un tutt'uno con l'esperienza dell'alimentazione.
Il viso è lo stimolo visivo che il bambino riceve più spesso nei primi
mesi di vita, è lo stimolo che si presenta al bambino in ogni situazione
in cui gli viene soddisfatto un bisogno e gli viene alleviato un dispiacere
o fornita una soddisfazione.
Il viso diventa il primo segnale nella sua memoria a partire dalla sesta
settimana circa.
Questo ricordo, questo interesse verso il terzo mese si cristallizzerà
sotto forma di una reazione peculiare: il sorriso.
In quest'epoca nessun altro oggetto, compreso il cibo, provoca una tale
risposta.
Spitz dice: "questo segnale appartiene al viso della madre e deriva da
esso; è legato alla situazione di nutrimento, protezione, al senso di
sicurezza; si svilupperà in seguito e inirà per fare della madre, in tutta
la sua persona un vero oggetto. Per questo ho chiamato tale risposta
limitata a una parte del viso umano (il triangolo occhi- bocca) un
rapporto preoggettuale, mentre tale segnale è il precursore
dell'oggetto. Oltre alla percezione visiva in questa esperienza uni icata
c'è sempre presente una percezione sensoriale proveniente dalla mano
che si appoggia, afferra, gratta il seno materno all'atto della nutrizione,
una percezione proveniente dalle eccitazioni auditive dovute
all'orecchio che preme sul corpo, " una percezione proveniente dalle
sensazioni di contatto con tutto il corpo “.
Tutte queste percezioni sensoriali fanno si che l'investimento di energia
psichica e libidica del bambino allarghi il suo raggio di azione per così
dire sempre più verso il mondo esterno.
Il bambino comincia a percepire che la soddisfazione del bisogno
proviene dall'esterno, da qualche oggetto parziale (il viso per esempio,
il seno) sebbene ancora dentro l'orbita dell'unità duale simbiotica e si
volge libidicamente verso quella fonte (il soggetto che offre le cure
materne).
Il bisogno diviene gradualmente desiderio e in seguito si muta in
desiderio speci ico affettivo "di legame con l'oggetto".
Il periodo, poi, che va dai 5 ai 7 mesi, è il momento di maggior
esplosione manuale, visiva, tattile della bocca, naso, faccia della madre
come pure del contatto sensoriale con la pelle della madre.
Il bambino con questi comportamenti sembra iniziare a distinguere tra
le esperienze di contatto percettivo e quelle che hanno origine nel suo
corpo e a differenziare le esperienze del suo corpo e di quello della
madre che in precedenza avevano una qualità indifferenziata.
E' questo il periodo in cui il bambino scopre gli oggetti inanimati
indossati dalla madre (la catena, gli occhiali, un ciondolo).
Inizia a guardarsi intorno, all'interno dell'unità simbiotica, tirandosi
indietro dal corpo della madre per guardarla al di là dell'orbita
simbiotica alla ricerca dei giochi per esempio (la catena, gli occhiali,
etc...).
Questo comportamento contrasta con il semplice plasmarsi sul corpo
della madre quando è tenuto in braccio, è diverso: il bambino comincia
a proiettarsi verso l'esterno.
Fino a questo periodo possiamo parlare di gioco come di una attività
che produce piacere erotico, attività che in un primo momento è
tutt'uno con l'atto dell'alimentazione, poi man mano se ne differenzia e
si scompone nelle varie sensazioni legate alle parti del corpo
interessate.
Questa attività, infatti, coinvolge la bocca, le dita, la vista, l'intera
super icie del corpo.
E' un gioco che si svolge sul corpo stesso del bambino (gioco
autoerotico) o su quello della madre senza una chiara disposizione tra i
due e senza alcun ordine o preferenza.
Verso i 6-7 mesi inizia a manifestarsi il mondo visibile il
comportamento di differenziazione.
Come dicevo, il bambino si stacca dal corpo della madre per guardarla.
Tutti i bambini che hanno avuto la possibilità di sperimentare almeno
in qualche modo, le fasi precedenti si avventurano un pò distanti dalle
braccia della madre e appena possono dal punto di vista motorio
scivolano giù dal grembo, ma amano tornare a giocare il più vicino
possibile.
Il bambino inizia un esame comparato con la madre. Paragona le cose
familiari con quelle che non lo sono. Si familiarizza più a fondo con ciò
che è madre al tatto, gusto, odorato, vista, udito. Impara a conoscere ciò
che gli appartiene. Inizia a distinguerla da qualunque cosa.
E' in questo periodo che si manifesta quello che Spitz ha chiamato
"angoscia dell'8ø mese" o angoscia dell'estraneo.
La Malher ha speci icato dopo una prolungata osservazione di bambini
di questa età che questo comportamento ha manifestazioni diverse nei
vari bambini, manifestazioni che vanno dalla curiosità e dalla
meraviglia alla indifferenza ino alla disperazione e questo è
direttamente proporzionale al modo in cui il bambino ha vissuto le fasi
precedenti.
Insieme con la differenziazione di sè dall'altro che gli permette di
stabilire un rapporto speci ico con la madre, il bambino comincia a
"praticare il Mondo" (Malher) cioè si allontana dalla madre prima a
carponi poi comminando.
Il suo interesse si sposta dalla madre agli oggetti inanimati inizialmente
forniti da lei (una coperta, un giocattolo, etc...).
Il bambino esplora questi oggetti, prova il loro gusto, la loro struttura, il
loro odore, con tutti i suoi organi percettivi ma in particolare con la
bocca e le mani. Uno o l'altro di questi oggetti può diventare l'oggetto
transizionale.
Winnicott descrive l'oggetto transizionale o la funzione transizionale in
questo modo: "Ho introdotto questa espressione per designare la zona
di esperienza intermedia fra il pollice e l'orso di peluche, fra l'erotismo
orale e il vero rapporto oggettuale".
Le proprietà del corpo della madre e di quello del bambino sono
trasferite su qualche oggetto morbido che serve come primo gioco.
Quindi è scelto su tracce mnestiche precedentemente acquisite.
Il bambino si arroga dei diritti su questo oggetto, esso è vezzeggiato,
amato, mutilato. Esso deve dare l'impressione di fornire calore, essere
capace di movimento, avere certe caratteristiche. Secondo l'adulto
l'oggetto è esterno al bambino, il quale però non lo percepisce così,
quindi esso è un oggetto ne interno, ne esterno. Copre un'area
intermedia fra ciò che è percepito oggettivamente e ciò che è percepito
soggettivamente, un'area intermedia che non viene mai messa in
dubbio quella che permette al bambino di passare da una percezione
tutta soggettiva, onnipotente, allucinatoria della realtà qual'è nella fase
simbiotica ad una oggettiva che si fonda sull'esame della realtà.
L'interesse per questi oggetti non consiste tanto nel valore simbolico,
quanto nella loro realtà oggettiva. Il fatto che non si tratta della madre è
altrettanto importante del fatto che rappresenta la madre.
Il bambino si serve dell'oggetto transizionale per prolungare
all'esterno, nel mondo, la simbiosi con la madre, soprattutto per
prolungarne la protezione e la sicurezza che l'essere insieme gli dava.
Con l'oggetto transizionale e sull'oggetto transizionale il bambino
dispone di un controllo magico e onnipotente sull'esterno in attesa di
passare al controllo attraverso la manipolazione che implica erotismo
muscolare cioè il piacere del movimento.
L'attaccamento ad uno speci ico oggetto transizionale si evolve in
seguito verso una propensione più generica verso i giocattoli (in genere
sof ici e morbidi) che, in quanto oggetti simbolici saranno
alternativamente investiti di libido e aggressività quindi vezzeggiati e
maltrattati. Verso di loro il bambino può esprimere tutta la gamma dei
suoi sentimenti, tutta la sua ambiguità senza paura.
Il bambino è sottoposto ad una molesta "routine" quotidiana: deve star
bravo, deve essere lavato, gli viene dato da mangiare, etc...
I nostri concetti di cura del corpo e di pulizia sono completamente al di
fuori della sua comprensione e tutto viene sentito come atto di
tenerezza o come minaccia, spesso si veri ica quest'ultimo caso.
Il rimedio è "Io faccio agli altri quello che gli altri hanno fatto a me":
orsacchiotti, bambole, etc..., sono portati in giro, alimentati, picchiati,
baciati.
Col gioco un'esperienza passiva viene trasformata in una attività…. Nel
gioco di questo genere, prima solo abbozzato poi via via più articolato,
verbalizzato, vengono elaborate e rielaborate, sia dai maschi che dalle
femmine, i diversi aspetti delle cure materne.
Per fare un altro esempio di gioco simbolico, possiamo citare quello
famoso del nascondino. Qual' è in questo periodo (stiamo parlando dei
15-18 mesi) la paura, la preoccupazione maggiore del bambino? Quella
di essere allontanato dalla madre.
La loro paura può essere più o meno espressa con queste parole: "La
mamma non c'è" - "Mia madre può fare di me quello che vuole".
Nel gioco il bambino cerca di superare le sue angosce invertendo i ruoli:
"Io allontano la mamma" il bambino si tira la coperta sul viso - "Io
faccio tornare la mamma" tira giù la coperta con un radioso sorriso.
Freud per primo ci parla del simbolismo del gioco e della sua funzione
rassicuratrice e di controllo della realtà, descrivendoci il gioco solitario
che un bambino faceva con un rocchetto attaccato a un ilo. Questo
bambino, descritto come ben educato, manifestava la fastidiosa
tendenza di buttare via, il più possibile lontano, tutte le piccole cose che
gli capitavano in mano e accompagnava questi gesti con un'espressione
soddisfatta e con una esclamazione che signi icava "vai via". Questo
bambino aveva un rocchetto legato ad un ilo e, raccontava Freud, un
giorno notò che dal suo letto continuava a lanciarlo, tenendolo per lo
spago, in modo da non vederlo più, dopo di che diceva "va via" e poi
ritirare il rocchetto per lo spago e salutava la sua ricomparsa con un
"là" gioioso. Scomparsa e ritorno.
Freud si rese conto che questo non era per il bambino che la sua
sdrammatizzazione nel gioco dell'andata e del ritorno della madre. Nel
gioco il bambino dominava la madre come una marionetta, giocava a
fare qualcosa che gli era stato fatto, nel gioco si vendicava, era lui che
mandava via la madre.
Esaminiamo un altro gioco tipico di questo periodo: la costruzione e la
distruzione di una torre.
Dice Erikson "Il piacere con cui i bambini guardano crollare in un
istante il prodotto di un lungo lavoro ha posto problemi a molte
persone" (soprattutto, aggiungo io, dal momento che il bambino non è
affatto contento se la torre cade per caso o è fatta cadere da un altro
bambino). Io penso - dice Erikson - che questo gioco ha origine nelle
esperienze molto prossime delle cadute improvvise, all'epoca in cui
tenersi dritti sulle proprie gambe era dif icile ma affascinante nello
stesso tempo.
Il bambino conquista il controllo attivo di un evento che aveva
sperimentato passivamente.
Il bambino ha quindi imparato a camminare e ad avventurarsi sempre
più lontano dalla madre è spesso così assorto nelle sue attività che per
lunghi periodi di tempo, sembra dimenticarsi della presenza della
madre, tuttavia ritorna periodicamente da lei e sembra aver bisogno
della sua vicinanza isica; la madre è come una "base" per una ricarica
emotiva.
Camminare, rende possibile al bambino, di aumentare la scoperta della
realtà e l'esame del suo mondo attraverso il suo stesso controllo. Esso
coincide con il sorgere di un'aggressività diretta e attiva verso una
meta.
In questo periodo, secondo Piaget, l'intelligenza senso motoria è
arricchita dall'inizio dell'intelligenza rappresentativa, del pensiero
simbolico.
Procedendo, il bambino nella de inizione del suo sè, diventa sempre più
consapevole della perdita del benessere precedente, quando si viveva
come un tutt'uno con la madre.
Il bambino si accorge che i suoi oggetti d'amore sono separati da lui e
deve gradualmente rinunciare al suo delirio di grandezza.
A quest'epoca le bizze, l'oppositività sono all'ordine del giorno. Da una
parte il bambino vuole staccarsi dalla madre, dall'altra si attacca
teneramente a lei; l'ambivalenza è la caratteristica del 2° anno di vita.
In questo periodo la maggior fonte di piacere si sposta verso
l'interazione sociale. I giochi d'imitazione diventano i preferiti.
Ora mostrano il desiderio di fare o avere quello che ha o fa un altro
bambino, desiderio di copiare, imitare, volere a tutti i costi che ha
l'altro.
Di pari passo appare il "no", insieme alla rabbia o all'aggressività diretta
verso una meta se questa non è disponibile.
Questi sviluppi avvengono nel mezzo della fase anale, con le sue
caratteristiche di possessività , gelosia, invidia, negatività e la scoperta
della differenza anatomica fra i sessi.
I giocattoli morbidi perdono la loro importanza, eccetto che nel
momento di andare a letto, quando, fungendo da oggetti transizionali,
continuano a facilitare al bambino il passaggio dalla partecipazione
attiva al mondo esterno all'isolamento narcisistico necessario per
dormire. Durante il giorno ci sono i giocattoli che servono alle attività
dell'Io e alle fantasie che le sottendono, attività che grati icano le
pulsioni, gli istinti propri dell'età o direttamente o attraverso lo
spostamento e la sublimazione..
Siamo arrivati verso i 3 anni 3 anni e mezzo, il bambino ora è nato
psicologicamente, si è completamente differenziato come soggetto
come sè distinto dall'oggetto. Ora l'oggetto è identi icato come tale con
le sue caratteristiche, le sue funzioni; il bambino può separarsi da esso
senza più cadere nell'angoscia di perderlo perchè ha acquisito la
capacità di mantenere e utilizzare una rappresentazione psichica
stabile di questo oggetto d'amore (la madre).
L'oggetto permane dentro al bambino e questi può evocarne l'immagine
in modo complesso e differenziato, l'immagine materna è divenuta
costante e disponibile al bambino nello stesso modo in cui la madre
reale era stata disponibile a sostenerlo e amarlo.
D'ora in avanti (3 anni - 4 anni e mezzo, fase fallica, si devono
considerare le date come indicative e non vincolanti) il bambino ricava
piacere dal crescere, dal diventare grande e forte e di contro gode anche
dell'essere ammirato dagli elogi che riceve. Si mette in mostra e si
paragona con altri, stabilisce la propria identità sessuale, sa quali sono
le differenze fra il maschio e la femmina.
Ha interesse nel mostrare il proprio corpo, a toccarsi, a manipolarsi e a
toccare quello degli altri.
Il bambino si impegna in attività, in giochi intensi, invadenti,
competitivi.
Costruisce, si impegna ad imparare. Il gioco drammatico si arricchisce
di ruoli che vanno oltre quello della mamma e del bambino: il bambino
è la maestra, il dottore, è superman, la ballerina e si traveste. Acquista
interesse per i giochi di gruppo. Soprattutto è curioso di vedere, di
capire come funziona e smonta e distrugge ma per vedere come i vari
giocattoli, le varie cose sono fatte.
Tutto in questo periodo è incentrato sugli interrogativi "Chi sono?",
"Quali sono le mie capacità" e in relazione a queste preoccupazioni le
sue paure fondamentali sono incentrate su eventuali danni al corpo e
all'autostima (angoscia di castrazione).
Nella misura in cui evolve la sua identità sessuale, si preoccupa di
essere un maschio o una femmina.
Gioca a "farsi vedere" il che comporta esporre il proprio corpo o i
genitali ad altri bambini. Il bambino fallico è esibizionista, si mette in
mostra, è orgoglioso della sua prodezza e vuole essere elogiato per
quello che fa.
E' competitivo, vuole essere il più bello, il più forte, il più grande, "Io ce
l'ho e tu no" è il leitmotiv di tutte le scuole materne.
La fase fallica rappresenta un ulteriore progresso, sviluppo della
capacità di relazioni oggettuali rispetto alla costanza dell'oggetto
conquistata nella fase precedente.
La cerchia sociale del bambino si amplia, soprattutto variano e si
differenziano i sentimenti (amore, invidia, ammirazione, etc...) e
soprattutto si differenziano le mete cioè gli oggetti di questi sentimenti.
La madre o la rappresentazione della madre, non sarà più l'unico
oggetto verso cui riversare tutto.
A questo punto abbandoniamo lo sviluppo del bambino perché
abbiamo a suf icienza visto come il gioco sia strettamente intersecato
con questo ; ora serve porci una domanda per riassumere e mettere a
fuoco alcune idee.
Perchè i bambini giocano? Innanzi tutto perchè questo procura loro
piacere; i bambini godono di tutte le esperienze isiche e affettive
vissute durante il gioco. Non solo, ma anche il procurarsi
autonomamente oggetti e inventare giochi nuovi fornisce godimento al
bambino.
Attraverso il gioco i bambini hanno la possibilità di manifestare
l'aggressività. Esprimere la propria aggressività può essere piacevole,
ma, nella realtà o nella fantasia, inevitabilmente danneggerà qualcuno
ed il bambino è costretto a fare i conti con questo.
Il bambino aggira l'ostacolo in dall'inizio, manifestando i suoi
sentimenti aggressivi nel gioco invece che con attacchi d'ira. Questo è
meno pericoloso, non suscita reazioni ed è socialmente accettato.
Mentre poi è facile dire che i bambini giocano per il piacere di giocare, è
molto più dif icile capire che essi giocano per riuscire a dominare
l'ansia o per padroneggiare idee o impulsi che, se non vengono
controllati, possono generare ansia. L'ansia è un elemento costante del
gioco infantile e spesso assume un ruolo di primo piano. La minaccia di
uno stato di ansia troppo grave, spinge il bambino al gioco coatto o
ripetitivo o a ricercare con troppo ardore i piaceri connessi con il gioco.
Quando il suo gioco è in luenzato in modo determinante dall'ansia, non
possiamo impedirgli di continuare a giocare senza creargli problemi e
attacchi di ansia o senza spingerlo alla creazione di nuovi sistemi di
difesa (come la masturbazione e l'abitudine di sognare ad occhi aperti).
Il gioco favorisce i contatti sociali. In un primo tempo i bambini giocano
da soli o con la madre senza sentire il bisogno di avere coetanei come
compagni di gioco.
E' in gran parte attraverso il gioco, in cui i bambini assumono ruoli
predeterminati, che un bambino inizia ad ammettere che gli altri
abbiano un'esistenza indipendente. Durante il gioco si fanno degli amici
e dei nemici ma, al di fuori del gioco, non sono capaci di creare queste
relazioni.
Il gioco serve all'integrazione della personalità si diceva all’inizio.
Il gioco stabilisce un legame fra il rapporto che un individuo ha con la
realtà interiore e quello che instaura con la realtà esterna (l'oggetto
transizionale è il precursore di questo legame).
Il bambino gioca il suo incontro con il mondo. Non potrebbe fare
diversamente , è un metodo per assimilare poco per volta un’esperienza
troppo grande per essere assimilata tutta d’un colpo.
In questa area il bambino intraprende il suo processo maturativo che gli
permette di accettare “ l’altro da sè” superando le angosce che derivano
dalla consapevolezza di essere soli , cioè distinti, indifesi, non
onnipotenti. E questo avviene attraverso il gioco che è fare, un fare che
è continua tensione fra passività e attività , fra illusione onnipotente e
disillusione basata sulla prova di realtà .
Anche nell’età adulta l’uomo continua a giocare per vincere le angosce
di base.
Può succedere se è fortunato che lo studio e il lavoro siano gli eredi del
suo gioco e questo avviene quando mantengono la sua leggerezza,
quando non prevale la “legge”, cioè l’aspetto normativo e istituzionale.
Stare con i bambini ,con i ragazzi signi ica de inire un’operatività
condivisa, signi ica giocare con loro, laddove giocare signi ica fare ,fare
con leggerezza, con piacere, condividere l’illusione e la disillusione.
Che gioco fa l’educatore ?
Vorrei rispondere citando Freud:
"Educatore può essere soltanto chi sa immedesimarsi nella vita psichica
infantile, e noi adulti spesso non comprendiamo i bambini perchè non
comprendiamo più la nostra stessa infanzia".
Questo non signi ica che per stare con i bambini bisogna tornare
bambini insieme a loro ma che dobbiamo imparare a riconoscere il
bambino che è in noi.
Il bambino viene spesso avvertito inconsciamente come "una voragine
istintuale" .
"Uno dei caratteri fondamentali dell'Inconscio è la sua relazione con
l'infantile: E’ quella parte della personalità che a quell'epoca si
separata, non ha seguito l'evoluzione del tutto ed è stata perciò
rimossa" (Freud).
Le nostre reazioni ai vari bambini e vari comportamenti sono
determinate da quello che evocano in noi e avremo quindi più o meno
problemi, più o meno repulsione o attrazione a seconda se le parti
infantili che sono state evocate sono di periodi o fasi felicemente
vissute o più propriamente fanno parte di periodi che in un modo o
nell'altro siamo riusciti a portarci dietro nella crescita senza rimuoverli.
 
Gioco, volontariato e
strutturazione del tempo
di Fortunata Romano
 

1. Cosa ne faccio del mio tempo ?


I punti su cui mi confronto con voi in questo incontro riguardano il
volontariato come "gioco" per la ristrutturazione del tempo ed il
giocare dell'adulto con il bambino. Vi sembra forse un po' strano
accostare il volontariato al gioco, ma quando è stato chiesto di fare una
lezione sul gioco ai volontari, mi sono chiesta: ma i volontari a che gioco
giocano? Il loro gioco ha qualcosa a che vedere con il problema
esistenziale dell'uomo nei confronti del tempo? Non vi è dubbio che le
motivazioni sia consapevoli che inconsapevoli che stanno alla base
della scelta dell'attività di volontariato, sono di svariata natura e
diverse da persona a persona, ma io credo che un’importante
motivazione ha radici nell'esigenza di strutturare il tempo quotidiano.
Su questa motivazione desidero soffermarmi oggi e sono interessata e
curiosa di avere il vostro feedback.
La tematica del tempo, del suo impiego quotidiano (come l'impiego e
perchè) emergono quotidianamente nelle comunicazioni interpersonali
da frasi quali: "ho poco tempo, vorrei averne di più"; "ho molto tempo e
non so cosa farmene"; "mamma cosa faccio ora?"; "mamma giochi con
me?" etc.
La iloso ia, la psicologia, la sociologia si sono occupate del problema
del tempo conseguentemente al problema della strutturazione delle ore
di veglia. La maniera più comune della strutturazione del tempo e
conseguentemente del problema della strutturazione del tempo, si
identi ica con l'organizzazione del lavoro. L'attività lavorativa nel senso
di lavoro retribuito, è talmente centrale nell'organizzazione del nostro
tempo quotidiano che il pensionamento dal lavoro, procura senso di
vuoto, di solitudine, sia per sgretolamento del senso di identità per la
restituzione del ruolo sociale, sia perché si interrompe la rete di
rapporti sociali, legati all'attività lavorativa.
Il tempo quotidiano piani icato in larga parte dal lavoro, viene de inito
tempo “dell’obbligo", la cui natura è spesso stressante data la struttura
della nostra società sempre più complessa ed in continua
trasformazione. Conseguentemente il tempo pieno (loisir) riservato allo
svago, è vissuto sempre meno come pausa per recuperare le energie
spese lavorando ma, come risulta da ricerche sociologiche, come mezzo
di affermazione della personalità. Infatti si sente dire: "faccio il part-
time così nel pomeriggio faccio quello che mi piace (e per la maggior
parte non si tratta dei cosiddetti hobbies).
La tendenza quindi è ormai da anni quella di contraffare il tempo
obbligato a favore del tempo libero, del tempo cioè non piani icato
dall'esterno. Tendenza che pone dei quesiti relativi alla capacità, alla
preparazione dell'uomo di gestire un'eventuale estensione del tempo
libero. Un mutamento dell'uso del tempo comporta infatti una maturità
personale che permette all'uomo di impadronirsi pienamente del senso
del tempo quotidiano, non vincolato, ma scelto e autogestito.
Il bisogno che sempre più si esprime, di avere più tempo, pone dei pro e
dei contro: avere più tempo libero può indurre ad una rivisitazione dei
modi di vita per inventarsene dei nuovi e più salutari, ma se l'uomo non
è preparato può andare incontro a stati di disagio, di insoddisfazione, di
emarginazione. Sicuramente anche voi avete letto e sentito frasi quali:
"non so cosa farmene del mio tempo". Sembra una frase fatta, ma in
realtà denuncia uno stato depressivo, un senso di solitudine. La
preoccupazione di come usare il tempo è quindi reale ed è un esempio
l'età del "pensionamento" che è l'età del tempo libero per eccellenza.
L'anziano comunque, la persona fuori dalla rete lavorativa (tempo
obbligato) tende a sostituire l'attività lavorativa lasciata con un'altra
che gli procura senso di soddisfazione e di utilità sociale. I cosiddetti
hobbies come attività sostitutiva non sempre, come vi dicevo prima,
soddisfano perché il più delle volte si tratta di soluzioni che favoriscono
l'isolamento nel privato.
Il problema del tempo libero riguarda tutte le generazioni, a tutte le età
si ha bisogno di occupare il tempo in modo soddisfacente. Minkowski
nel suo saggio "Il tempo vissuto" si chiede:
" che faremo dì questo tempo riconquistato? ...Bisogna veramente
sapere che cosa si farà del proprio tempo per rendersi conto del valore
del "tempo libero", di questo tempo che non è ne sinonimo di riposo
concesso ai nostri muscoli e al nostro cervello sovraffaticati, ne ancor
meno sinonimo di noia, ma che ci permette di distenderci realmente, di
contemplare la vita attorno a noi, e di confonderci con essa, di stare in
colloquio con noi stessi, spingendo lo sguardo ino in fondo al nostro
essere, di ri lettere in ine, senza che sia assolutamente necessario
precisare lo scopo di queste ri lessioni?"
Minkowski continua sostenendo che non è importante dare risposta a
questa domanda perché il farlo sarebbe prestabilire un programma e
togliere al tempo libero quel qualcosa di imprevisto, di misterioso, di
creatore. Non so cosa ne pensate voi, ma per me vivere il tempo
contemplando la vita, fondendosi con essa, può essere una linea di
tendenza, un indicatore perché essere capaci invece di "stare" invece di
"fare", presuppone un percorso interiore che può durare tutta una vita.
Di fatto la quasi totalità degli esseri umani è alla ricerca di modi, di
situazioni che permettono di relazionarsi, di "giocare" con altri. Ma fare
ciò non è facile in quanto bisogna essere "suf icientemente" capaci di
"giocare", di mettersi in gioco nella rete delle relazioni umane.
 
2. Imparare a giocare per poter giocare
Non mi soffermo sulla funzione del gioco per la crescita sociale,
cognitiva, affettiva, motoria, perché in questi giorni ve ne hanno parlato
la Dott.ssa Bertani e Aronne, ma mi interessa ri lettere con voi sul
volontariato come uno dei giochi adulti per impegnare il tempo. Come
avete già compreso, per poter svolgere una attività, anche se scelta, in
modo creativo e gioioso, è necessario aver maturato la capacità di
giocare, avere cioè raggiunto un senso di se separato e distinto per
poter investire la realtà esterna con il mondo interno ricco di
evocazioni e funzioni ludiche per poter condividere il gioco con gli altri.
L'attività di volontariato libera dalla costrittività (uso del tempo legato
al guadagno), può essere interrotta o ripresa o non ripresa a seconda se
si ha interesse ad apprendere il gioco, a seconda se la motivazione
iniziale si rafforza o meno. Il gioco una volta conosciuto può infatti non
piacere o può non essere compreso per cui qualunque sia il gioco che
scegliamo è importante chiedersi ogni tanto "a che gioco sto
giocando?", "quale parte di me si sta mettendo in gioco?", "e perché
proprio in questo gioco?", "quale è la soddisfazione che ne traggo?".
Parlare quindi di volontariato come gioco è riferirsi alla capacità di
rapportarsi alla realtà esterna in modo creativo, vivo, avere la capacità
di trattare la realtà in modo soggettivo. Solo così si ha l' impressione
che la propria vita sia dotata di senso e che valga la pena di essere
vissuta. Perché ciò avvenga è necessario impegnare emozioni e
ricercare soddisfazioni emozionali. L'opposto dell'atteggiamento
creativo è quello che Winnicott de inisce di "compiacenza" dove il
mondo è un luogo in cui è necessario inserirsi ed al quale ci si adatta
per dovere. Ciò implica la perdita di senso e ci si vive come individui
inutili. Per Winnicott l’estrinsecarsi del vivere creativo è favorito
dall'ambiente in cui vive. Lo spazio potenziale può essere colmato con
oggetti transizionali, gioco creativo e con tutto ciò che alla ine porta
alla vita culturale (esperienza).
B.E. S.P. M.A.
B = Bambino; E = Educando; M = Madre; A = Adulto; S.P. = Spazio
Potenziale. Non metto solo madre e bambino ma anche educando e
adulto perché interpretando Winnicott, lo spazio potenziale da lui
teorizzato è in tutti i rapporti educativi dove i due poli sono un discente
ed un educatore.
Lo spazio potenziale per Winnicott è un'area importante per la sanità
mentale dell'individuo e si trova né all'interno della persona, ne
all'esterno, ma al persistere di questa area contribuiscono sia la realtà
interna che quella esterna e rappresenta il luogo in cui gli oggetti del
mondo esterno vengono usati in unzione della realtà interna: es. la
copertina ( esterno) viene usata per far fronte all'angoscia di
separazione (interno).
Winnicott pone quindi l'importanza dell'ambiente, del rapporto con
l'adulto perché l'individuo si sviluppi sano e si avvii ad una vita adulta
in modo creativo e iducioso in se e negli altri. Winnicott sostiene che
adulto e bambino sono due persone che giocano insieme e che le due
aree di gioco si sovrappongono. E' chiaro che perché ciò sia possibile
tutti e due devono sapere giocare o almeno uno dei due (l'adulto).
 
3. L 'educatore sa giocare?
Bambino: "a che gioco giochiamo ora?" (riferendosi all'educatore)
Educatore: (fra se) " non so più che gioco inventarmi, ho esaurito la
lista e poi è ora di fare i compiti".
Il bambino vuole sempre che l'adulto gli insegni un gioco
preconfezionato? Vuole allungare sempre l'ora della ricreazione?
Nell'ambito di ricerche si è rivelato che non sempre i ragazzi giocano
nello stesso tempo e nello stesso spazio deciso dagli adulti. Es. bambini
che in ricreazione non giocano, tornano in classe e organizzano una
battaglia navale. Ora io non so in che momenti seguite questi bambini e
per quale motivo, e se considerate il gioco come strumento per farli
divertire o uno strumento per comunicare, ma se dovete aiutarli a fare i
compiti è chiaro che tale momento come l'ora delle lezioni non può
diventare il paese dei Balocchi.
A tale proposito Duccio Demetrio sostiene che l'insegnante, l'educatore,
chiunque che per un motivo o per l'altro si occupa del bambino quello
che deve fare è trovare la giusta dialettica fra gioco e ludo e cioè tra il
gioco inteso come passatempo piacevole con le sue regole e ludo inteso
come la parte interiore, la creatività che il bambino, l'adulto, mettono
nel giocare. E' chiaro che ciò richiama alla personalità dell'adulto e cioè
a come egli si rappresenta il gioco, all'importanza che gli attribuisce
come adulto. Per poter giocare, aiutare i piccoli ad imparare a giocare,
bisogna quindi essere capaci di farlo e questo non vuole dire avere
competenze tecniche, ma sapere inventare e gestire situazioni piacevoli,
gestire dif icoltà di ri iuto nella relazione comunicativa con l' altro.
Quindi essere capaci di giocare non vuol dire solo saper tirare bene la
palla al compagno o fare canestro, ma è comunicare coi compagni di
gioco, essere suf icientemente in grado di stabilire una relazione. E'
infatti la dimensione relazionale che permette a ciascun giocatore di
tenere conto dell'altro. Pertanto spesso la richiesta "ora a che gioco
giochiamo?" non provoca ansia all'adulto perché deve inventarsi un
gioco, pescarne un altro nella sua memoria, ma per la dif icoltà che
avverte nel dovere mettere in gioco se stesso nel senso della sua
emozionalità a meno che, per difendersi da ciò, non insegna a chi deve
insegnare a "giocare" solo tecniche di gioco.
Il gioco, infatti, attività che fa da ponte fra l'immaginario dell'uno e
dell'altro assume valore di comunicazione di messaggio, ma perché sia
veramente un veicolo comunicativo ed emozionalmente soddisfacente
bisogna che ambedue i partner siano impegnati. In conclusione l'adulto
insegna a giocare o "fa" giocare se egli stesso sa giocare, se nel gioco usa
se stesso, se riesce a far rapportare il bambino che è dentro di se con il
bambino dell'altro. Winnicott parlando della psicoterapia sostiene che
se il terapeuta non sa giocare deve imparare a farlo. Possiamo dire che
ciò vale anche per l'operatore, l'educatore perché solo se sa giocare è
possibile che metta in atto un processo identi icatorio con il bambino
che si deve relazionare. Quindi si gioca se non si è perso il bambino
dentro di noi, se le parti infantili non sono morte ma vitali. Solo così è
possibile favorire nel gioco con il bambino o con l’adulto l'aspetto
ludico che è fantasia, trasgressione, curiosità, libertà sia psichica che
corporea.
 
B. Seconda parte
Questa seconda parte dell'incontro viene usata per giocare in cortile,
per sperimentare come da adulti si riesce a giocare uno dei giochi
dell’infanzia. Il gioco si compone di due parti: a) il gioco in cortile; b) il
gioco del feedback in aula.
l. L'invito a proporre dei giochi, perché escano allo scoperto, ci vuole del
tempo e siamo abbondantemente in ritardo rispetto alle tabelle di
marcia per cui propongo il gioco "Maghi e Statue".
Descrizione del gioco. Si delinea uno spazio di gioco. Un piccolo gruppo
di giocatori si trasforma in maghi ed ha il compito di acchiappare tutti
gli altri. Ogni volta che un giocatore è toccato da un mago, diviene di
pietra e resta immobile nel punto dove è stato acchiappato ino a che un
compagno non verrà a liberarlo. Il gioco inisce o quando tutti i
giocatori sono stati catturati o con la resa dei maghi.
Interesse relazionale del gioco. Intenzionalmente avevo scelto come
riserva il gioco dei "Maghi e Statue". I maghi hanno uno stretto legarne
di alleanze tra loro allo scopo di catturare e trasformare in statue gli
altri; nella squadra avversaria invece ciascun giocatore ha in primo
luogo il dovere di non farsi prendere, anche a costo di facilitare la
cattura di un compagno. Ha poi la possibilità di liberare i compagni
catturati, ma anche qui può decidere di favorire l'amico o di
disinteressarsi dei compagni. In ciascuno di questi ruoli (se scappa, se
prende, se libera) afferma la propria volontà di destrezza. Questo ruolo
attivo si capovolge non appena viene catturato perché il suo scopo
principale diverrà quello di trovare un compagno che si dedichi a lui e
cerchi di liberarlo.
2. Il gioco del feedback in aula. Finito il gioco, dal cortile si rientra in
aula per scambiarsi pareri, vissuti, collegamenti tra la lezione teorica e
come ci si sente di esserci comportati dentro il gioco e se realmente ci si
sentiva dentro.
Di questa parte che per certi aspetti poteva essere la più interessante
non si può raccontare molto perché la registrazione ha fatto cilecca.
Comunque trascrivo quanto con fatica, sono riuscita a recuperare.
Intanto per prima cosa se la memoria non mi tradisce, al rientro in aula
erano tutti divertiti anche se alcuni un po' ansimanti per la fatica
motoria.
La discussione è animata e nello scambio dinamico di pareri, emozioni,
stati d'animo emergono:
-gli stati d' animo ricorrenti, soprattutto delle persone più adulte
durante il gioco, sono stati di stupidità, ritenersi troppo grandi e quindi
fuori ruolo nel momento ludico;
-L'importanza del "qui e ora" di non farsi condizionare da ruoli che in
quel momento non sono contestuali (non devo farmi acchiappare dal
mago, devo acchiappare Pierino per farlo diventare statua);
- Dualismo mente- corpo: "se il gioco non avesse impegnato il corpo
bensì la mente, l’imbarazzo sarebbe stato decisamente inferiore, questo
perché si hanno meno problemi ad impegnare la mente che il corpo (la
fatica del coinvolgere la corporeità del proprio essere );
- Alcune situazioni possono coinvolgere: "al contrario vi possono essere
delle situazioni in cui anche delle persone adulte possono sentirsi
coinvolte durante il gioco perché ritengono di possedere, all'interno
della loro personalità, una parte infantile che permette loro di non
sentirsi in dif icoltà durante le fasi del gioco.
- Nel gioco è più importante la parte infantile o la parte adulta? "Nel
volontariato quando si viene in contatto con dei bambini è più
importante avere una parte infantile oppure una parte adulta?" Questa
domanda mi permette di ri-precisare un punto importante della lezione
teorica e cioè che: l'integrazione del bambino e l'adulto che stanno
dentro di noi è fondamentale per potersi comportare nella maniera più
consona in ogni situazione. Inoltre sottolineo che nel gioco tra adulto e
bambino la parte adulta dell'adulto deve restare vigile perché è la parte
adulta dell'adulto che, in intergico con la parte infantile, aiuta il
bambino ad imparare a giocare, a fare da contenitore quando serve.
- Se il bambino non accetta le proposte dell'adulto. "Nel caso in cui un
gruppo di bambini "normali" cominci ad assumere un comportamento
insofferente nei confronti delle proposte dell'adulto, come ci si deve
comportare?". Prendo spunto per sottolineare che non esiste nel
rapporto educativo, nel gioco delle parti il "fai da te". Comunque nella
discussione emerge che bisogna essere o molto creativi in modo che
non vi siano ripetizioni, o coinvolgerli nell'invenzione del gioco perché i
bambini quando ri iutano o vogliono mettere alla prova l'adulto o
hanno disinteresse perché l'altro è il bisogno.
 
Bibliogra ia:
Echange et Projets (traduttore: P. Vasalli), La rivoluzione del tempo
scelto, Ed. F. Angeli, Milano
Marcuse, L’uomo ad una dimensione, Einaudi, Torino
Minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi, Torino
Grazzini Hoffman, Dentro il gioco, Nuova Italia, Firenze
 
Giocando si impara
di Leonardo Angelini
 
 
 
"Vi è una linea diretta di sviluppo dai fenomeni transizionali al gioco,
e dal gioco al gioco condiviso, e da questo alle esperienze culturali", D.
Winnicott
 
 
La simbiosi
 
La mia relazione sarà essenzialmente il commento a quattro immagini:
spero di riuscire, attraverso di esse, e attraverso le cose che dirò su di
esse, a farvi comprendere e sentire con me come la nostra attitudine al
gioco e, prima ancora, la nostra esigenza di giocare entrino piano piano
dentro di noi, cosa signi ica il gioco per noi appartenenti al genere
umano, perché la propensione a giocare sia così universale e cosa in
effetti si impara attraverso il gioco.
Poiché il mio punto di riferimento scienti ico è la psicoanalisi e
principalamente, rispetto al gioco, il pensiero di Donald Winnicott,
affronterò il gioco in un’ottica winnicottiana: il suo pensare allusivo
spero possa contaminarvi così come ha preso me.
Partiamo dalla prima immagine, che è quella relativa ad un’icona
importantissima per la nostra religione e la nostra cultura, quella della
Madre col bambino:

Enorme è la forza che su di noi esercita questa immagine. Ciò che in


essa viene rappresentata è l’istanza del contenimento. Il contenimento
isico che la madre esercita sul bambino, rappresentato dalle braccia
che lo stringono al seno, fonte inesauribile di cibo e di calore, ha il suo
corrispettivo psicologico in un contenimento rappresentato dalla
continuità e dal calore con cui dalla madre o da chi ne fa le veci vengono
esercitate le cure materne primarie al ine di favorire una illusione nel
bambino, illusione qui intesa letteralmente come in\lusione, cioè come
inserimento in un gioco, che è quello di dare la sensazione al bambino
essere (ancora) un tutt’uno con l’adulto che si prende cura di lui.
Ad una simbiosi isica, ben visibile nell’immagine della Madre col
bambino, corrisponde così una simbiosi psicologica, che a ben vedere è
riscontrabile in ogni ef icace raf igurazione artistica della scena e che
spiega perché essa ci affascini.
Di modo che, poiché per il lattante non esiste ancora una propria
membrana individuale, distinta da quella della madre, non esiste cioè
ancora per lui una possibilità di de inirsi come una entità che se ne va
sola per il mondo con un proprio pro ilo personale, la madre
suf icientemente buona 1, si adatta a rispondere ai bisogni del
bambino, alimentando in lui l'illusione che tali bisogni possano essere
soddisfatti ogni volta che insorgono: nasce in questo modo una
membrana duale che accoglie madre e bambino, e quest’ultimo in
questo modo percepisce se stesso e la madre come un tutt'uno, come
un insieme indifferenziato. E’ questo il primo importante gioco in cui il
bambino possa essere inserito: come sanno coloro che fra di voi
lavorano con i gravi disabili spesso questa dimensione del gioco per in
nostri casi più gravi è l’unica possibilità che loro hanno per entrare in
comunicazione con noi, che ai loro occhi rimaniamo come
rappresentanti di funzioni materne primarie di tipo simbiotico, cioè di
funzioni di contenimento senza le quali, come un bambino piccolo, non
potrebbero vivere.
Tornando al nostro lattante se in questo momento non ci fosse questa
diade indifferenziata grandi sarebbero i pericoli che egli correrebbe,
poiché il lattante all’inizio della sua vita (così come il grave disabile
anche poi) non ha la possibilità, da solo né di concepire, né di percepire
il mondo, cioè non è in grado di sentire e operare sul mondo senza
l’aiuto della madre.
La presenza di una entità 2 che svolga quest’opera di illusione, la
presenza di questa membrana diadica illudente madre - bambino è il
primo tipo di appartenenza che il bambino ha: da quella piattaforma lui
partirà allorchè dovrà fare i primi passi nel mondo.
Bisogna dire subito dopo, però, che è anche chiaro che, se questa
situazione non evolvesse verso l’innesco di un processo di separazione
dalla madre e di individuazione, cioè se il bambino non imparasse a
poco a poco ad andare da solo nel mondo, questa membrana
risulterebbe per lui come una camicia di Nesso nella quale
soffocherebbe.
Esistono cioè delle linee di espansione di questa diade originaria 3 che
sono secondo Winnicott sono: l’instaurarsi nel bambino dell’oggetto
transizionale, l’accesso alla dimensione del gioco, e poi del gioco
condiviso, ed in ine l’armonizzarsi nell’individuo di quell’insieme di
istanze (lingua, usi, costumi, credenze, etc.) che determinano la nostra
appartenenza culturale. In questo modo, dice Winnicott, ci abituiamo
gradualmente ad uscire dalla simbiosi, non per negarla, ma per
espandere l’area della nostra appartenenza - che all’inizio è solo nella
diade - e, benché soli, a sentirci sempre in una situazione di
condivisione, di in\lusione con una entità che ci comprende, ma non ci
soffoca.
 
 
 
L’area transizionale
 
Veniamo ora alla seconda immagine che vi propongo, quella di Linus, il
famoso personaggio dei fumetti con la sua coperta:

Questa immagine è quella di un bambino con il suo oggetto


transizionale, ma ci potremmo trovare anche di fronte ad un bambino
che non ha, in apparenza un oggetto transizionale, il quale però – a ben
vedere - pone sempre in atto un insieme di cerimonie tradizionali,
magari meno visibili della coperta di Linus, ma che, come quella
coperta, lo aiutano a transire, a conquistare una nuova condizione, ad
uscire dalla simbiosi.
Il fatto è che, da una parte, a un certo punto il bambino comincia a
percepire di essere un individuo distinto dalla madre, dotato di propri
con ini corporei, e lo fa attraverso il gioco cominciando a percepire che
le mani che roteano attorno a lui sono sue, che egli può coordinarne il
movimento osservandole con i propri occhi e imparando così le sue
prime operazioni sul mondo, che all’inizio – come già sappiamo – è
rappresentato dalla madre, dal suo volto, dai suoi capelli, dagli oggetti
che essa porge a lui, ecc.- Dall’altra anche la madre che vuole la crescita
psicologica del bambino, cioè colei che non cede al desiderio possessivo
e soffocante di tenerlo legato a sé e di alimentare così la sua persistenza
nella diade ad libitum, cioè la madre suf icientemente buona attraverso
un’opera di illusione \ disillusione, attraverso i limiti delle sue cure, lo
spinge gradualmente ad uscire dalla simbiosi, pronta a riprenderlo
nelle sua braccia ogni volta che egli dovesse risultare angosciato.
Le reazioni del bambino a questa nuova condizione, cui è condotto
come abbiamo visto sia dalla sua crescita psicologica sia dalla madre,
sono quelle di mettere in piedi delle nuove modalità difensive nei
confronti dell'angoscia che deriva dalla percezione dell’essere separato
dalla madre. Ebbene la costruzione nell'oggetto transizionale e
soprattutto dell'area in cui tale oggetto si pone sono gli elementi che
permettono la separazione ed avviano all'individuazione.
Quell’oggetto (la coperta di Linus) e quell’area (l’area delle operazioni e
dei fenomeni transizionali) hanno un potere enorme per il bambino
poiché rappresentano la madre anche in sua assenza. Si de inisce così
per tutta la vita un’area intermedia che non appartiene né al mondo
interno e neanche a quello esterno di ciascuno di noi, che all’inizio è
l’area dell’oggetto transizionale, poi diventerà quella del gioco e
dell’appartenenza culturale.
La madre, in questa fase, da una parte alimenta l'illusione che il
bambino si trovi nella membrana duale che li contiene confusamente e
che dà senso, dall'altra disillude il bambino con gradualità e
circospezione.
Alla ine di questo processo si arriva ad un punto in cui, come dice
Winnicott, "l’individuo è", "cioè esiste" in quanto essere distinto,
indifeso, nudo: distinto, in quanto dotato di una membrana individuale
distinta da quella materna e dal mondo esterno; indifeso, da un punto
di vista psichico, in quanto dotato di una "metaforica" membrana
psichica che lo pone in diretto contatto con il mondo interno ed esterno
e non più attraverso la mediazione della diade; nudo, da un punto di
vista isico, cioè dotato di una pelle, di un corpo, come la psiche
altrettanto solo nel rapporto con il mondo.
E' a questo punto che, come dice Winnicott, da una parte avviene nel
bambino l'integrazione di una vera e propria membrana individuale che
poi continuerà ad essere plasmata nel corso della vita di ognuno,
dall’altra l’instaurarsi nel bambino di un’area intermedia, che lo ha
aiutato lungo la durata di tutto questo processo ( e che per questo è
detta transizionale), area che nel momento in cui è solo gli fa sentire la
sua appartenenza, e che lentamente lo sospingerà e lo sosterrà nel suo
cammino verso altre conquiste: da una parte la singolarità
dell’individuo, dall’altra l’espandersi della sua appartenenza.
Possiamo quindi dire, che in un certo qual senso, geneticamente la
membrana gruppale, quella importantissima membrana gruppale
originaria rappresentata dalla diade madre-bambino nasce e si instaura
dentro di noi prima di quella individuale, che l’appartenenza precede e
pone le fondamenta dalla nostra individualità.
Lungo il percorso di vita di ciascuno di noi vi è poi, in u secondo tempo,
come una espansione di questa iniziale membrana duale, in base alla
quale in essa sono compresi, mano a mano, la igura del padre, degli
altri membri della famiglia, della scuola, del gruppo di gioco, della
società.
Ma ogni espansione del gruppo iniziale (cioè della diade madre-
bambino) avviene attraverso una dialettica fra membrana individuale e
membrana gruppale: una dialettica, direbbe Napolitani, fra identico ed
autentico, dove il polo dell'identità (idem = essere uguale a...) si
de inisce attraverso l'espansione dell'esperienza provata nella diade
originaria, quella dell'autenticità (autos = se stessi) attraverso
l'emergere della propria individualità, attraverso cioè tutti i
consolidamenti e gli scioglimenti in base ai quali "l'individuo è", e
rimane sempre uguale a se stesso pur nel continuo cambiamento
originato dal continuo "apprendere dall'esperienza".
L'elemento di sintesi di questa continua dialettica fra membrana
individuale e membrana gruppale rimane sempre l'oggetto e l'area
transizionale, nonché le loro successive trasformazioni che, come
dicevamo prima, passano attraverso il gioco e si de iniscono in ine
dentro di noi come appartenenza culturale, cioè come quell'insieme di
elementi linguistici, etnici, iloso ico-religiosi, ecc., di quelle concrete
modalità di lavoro e di vita che costituiscono l'insieme dei tratti
culturali presenti in ognuno di noi.
Sono, nel tempo e nello spazio storico di ognuno di noi, gli oggetti
transizionali, il gioco e la cultura che determinano le modalità secondo
le quali ogni nuova presenza che può espandere e rendere più ricca la
membrana gruppale potrà essere accolta; e contemporaneamente ogni
assenza, ogni separazione ogni distacco potrà essere sopportato ed
elaborato. E’ questo della conquista dell’area transizionale, intermedia,
il secondo importantissimo gioco che il bambino impara a fare per
crescere, per maturare e per arricchirsi: gioco che prelude
all’espansione dell’area dell’appartenenza, e cioè al consolidamento
della nostra identità individuale e sociale.
 
 
Il gioco
La terza immagine che voglio proporsi è quella della bambina che gioca
con i suoi giocattoli:

Già in altro luogo vi ho parlato del celebre passo di Eraclito “il bambino
che sulla riva del mare vince il tempo giocando, spostando i pezzi del
suo gioco, è il re”.
g
Vi ho riferito che per Eraclito è il gioco che distrae il bambino
dall’in inità dello spazio e dalla caducità del nostro essere che ci
angoscia di fronte al luire in inito del tempo. E’ per questo, dicevamo,
che il bambino è il re, per Eraclito: perché attraverso il gioco riesce ad
addomesticare lo spazio e il tempo, a distrarsi dal senso di angoscia che
altrimenti il creato innescherebbe in lui.
E’ il gioco, potremmo aggiungere ora con Winnicott, erede dell’oggetto
transizionale, che lo fa sentire in sintonia con il mondo poiché gli
permette di viverlo come spazio né interno, né esterno a lui stesso, ma
come spazio intermedio: è il gioco l’elemento che rende il bambino
padrone del mondo, re, per l’appunto.
Quello stesso bambino - che in una prima fase aveva avuto bisogno di
una unità (duale) con la madre, e in una seconda di un'area
transizionale che gli permettesse di affrontare la separazione - ora,
attraverso il gioco, può de inire: - uno spazio come un'area intermedia
che si pone, come dicevamo prima, né dentro né fuori di esso, ma che lo
fa sentire parte di un tutto; - e un tempo come tempo occorrente a
portare a termine il gioco e a controllare le varie fasi dell’operare
ludico.
Questo controllo cioè si esprime in un fare. La bambina che gioca con la
sua bambola e si perde in questo gioco nella dimensione spaziale
poiché e in grado di ride inire magicamente quello spazio così come lei
desidera, ed in quella temporale poiché altrettanto magicamente può
procrastinare la ine del gioco anche ad libitum, se le cose vanno
suf icientemente bene. Altrimenti una incapacità a giocare sarebbe
indizio di una separazione non ben superata e di un processo di
individuazione non suf icientemente e stabilmente raggiunto.
Ma importante è ancora per noi tornare alla prima immagine in cui
oltre la dimensione spaziale della membrana duale in\ludente anche la
temporalità trova inizio. Infatti temporalmente al principio il bambino
vive una situazione in cui vi è una onnipresenza del seno materno (per
cui quando ha fame deve avere un'immediata soddisfazione) che
determina una situazione di "presente perpetuo".
Successivamente, da questo presente perpetuo iniziale vi è un doppio e
contemporaneo sviluppo nella direzione sia del futuro (che nasce dalla
frustrazione derivante dalle prime disillusioni e dalla aspettativa che
comunque ci sarà poi una soddisfazione che ora non c'è più) che del
passato (legato al mito e, cioè, ad un'età dell'oro in cui non vi era
disillusione, ma immediata soddisfazione).
E' anche attraverso questa strada che si consolida dentro di noi il senso
di appartenenza; è anche attraverso questa strada che poi il nostro
operare sul mondo potrà oscillare fra presente, passato e futuro cui
ogni nostro gesto rimanda.
 
 
Gioco ed operatività condivise
 
La quarta ed ultima immagine che vorrei proporvi è quella di un
gruppo di bambini che giocano insieme:

 
Prodromo di altri più maturi modi di operare, quelli possibili nello
studio e nel lavoro, in questa scena vediamo un gruppo di bambini
immersi in un’atmosfera ludica.
Se in un primo tempo il bambino è incapace di giocare con gli altri pari,
ma semplicemente si dispone a giocare accanto ad essi, in un secondo
tempo, allorchè il bambino sarà maturato sul piano della
complementarità e della reciprocità, sarà in grado di giocare con essi in
un gruppo che, in questo modo condividerà le stesse in\lusioni
gruppali.
Anche il gruppo di pari, se si lascerà prendere dal gioco, se si perderà
nel gioco, diventerà re in una medesima in-lusione (letteralmente
ancora intesa come ingresso nella stessa dimensione ludica) che lo
spingerà come tale, cioè come gruppo, ad addomesticare lo spazio ed il
tempo. Cosicché in un primo tempo, winnicottianamente, la capacità in-
lusoria di una atmosfera ludica si può misurare dal tempo occorrente ai
vari attori per rimanere in gioco, così come la disposizione dei singoli a
rimanere in gioco è come una cartina di tornasole della loro salute
mentale. Ma la stessa cosa avverrà dopo nel rapporto fra individuo e
libera attività lavorativa.
Lungo queste ultime e più mature fasi del processo maturativo, ogni
individuo, ogni gruppo sociale storicamente determinato, "crea"
dapprima un proprio modo di giocare, poi un proprio modo di operare,
una propria cultura, storica e concreta, visibile nei nostri pensieri e
nelle nostre opere che, così, concorrono, in tempi e luoghi speci ici, a
determinare tutte le macro e le microstorie di cui ognuno è partecipe.
Ed anche questo più ampio terreno dell'appartenenza ad una storia, ad
un tempo, ad un milieu isico e sociale – così come il primo oggetto
transizionale di cui è iglio - si porrà come un'area intermedia interna-
esterna che implica un tempo, il tempo del giocare e del fare insieme,
eredi del controllo magico che ci preserva, quando funziona
suf icientemente bene, dall'angoscia derivante dalla consapevolezza di
esser soli. Come Linus opera sulla sua coperta per vincere queste
angosce, così noi adulti operiamo sul piano lavorativo e sociale, inseriti
in una più ampia coperta che è il nostro mondo, la nostra cultura, quella
"casa" nella quale possiamo tranquillamente rannicchiarci per non
precipitare nel caos e nell'angoscia.
Il lavoro umano, quindi, è parte integrante dell'esperienza culturale che
de inisce la nostra appartenenza.
 
Per concludere, venendo alla speci icità del nostro punto di vista, la
classe, il workshop il gioco col bambino disabile, la diade riabilitativa
con il bambino disabile e a rischio, allorché funzionano, sono tutte
entità avvolte in una membrana gruppale (duale o più ampia) che
permette a tutti i presenti di condividere un gioco che avviene secondo
certe regole (vedi relazione Bertani di domani).
In questo tipo di gruppo vi sono sempre due polarità: da una parte il
polo di coloro che si prendono cura di .. (l’adulto, il docente, il
riabilitatore, la volontaria); dall’altra quello di chi ha bisogno di cure (il
minore, il discente, il minore a rischio o disabile).
Se noi osserviamo al problema dell’alleanza educativa, terapeutica,
riabilitativa dopo aver compiuto questo percorso che dalla simbiosi ci
ha condotto al gruppo operativo noi vediamo che molti dei nostri
problemi diventano: a che gioco giochiamo, con quali ini, con quali
regole?
Nel momento in cui ci poniamo in gioco in effetti stiamo facendo un
doppio gioco, anzi un gioco doppio: da una parte infatti li stiamo
aiutando poiché il nostro giocare con essi ha un senso da un punto di
vista curativo, riabilitativo all’interno di programmi ad hoc per ognuno
di essi.
Dall’altra però – e spero di avervelo fatto intendere con queste mie
sollecitazioni – nel momento in cui ci poniamo in gioco con essi noi
stiamo ribadendo, insieme a loro, una serie di cose importantissime per
loro, ma anche per noi.
La nostra disposizione al gioco infatti ha una serie di signi icati che
sono fra di loro legati da un effetto a catena e signi ica: disposizione
all’impegno; disposizione a mettersi in gioco con queste nostre parti
soccorrevoli all’interno del progetto Gancio Originale, di condividere il
tipo di gioco che qui si fa; e, al di là di queste ancora general-generiche
disposizioni, entrare in gioco ogni volta, con i nostri casi, in maniera
speci ica, sempre nuova, sempre rischiosa, poiché per la maggior parte
di essi il processo, che prima ottimisticamente ho de inito come un
insieme di tappe maturative quasi automatiche nel loro procedere, in
effetti è andato avanti male, a singhiozzo, o non c’è stato affatto. E’ noto
infatti a coloro fra di voi che seguono i gravi che molti dei nostri gravi
sono come issati alle prime tappe del processo maturativo che porta al
gioco ed al lavoro e che le loro richieste spesso sono di de inire o di
mantenere un legame simbiotico.
 
 
Bibliogra ia
 
D. Anzieu, 1979, "Il gruppo e l'inconscio", Borla, Roma.
R.Gaddini,1979, "Il processo maturativo", CLEUP, Padova
M. Malher,1975, "La nascita psicologica del bambino", Boringhieri,
Torino
D.Napolitani,1987,"Individualità e gruppalità", Boringhieri, Torino
D.Winnicott,1974,"Gioco e realtà", Armando, Roma.
D. Winnicott, 1986, "Il bambino deprivato", R. Cortina, Milano
--
Note
1. Cioè la madre che contiene, più che la madre che allatta, dice
Winnicott.
2. Parlando di esse Winnicott dice sempre: la madre o chi ne fa le veci.
3. Ho detto di espansione e non di superamento, poiché si tratta di un
processo che assomiglia a quello seguito nella costruzione di una casa,
durante il quale ad una prima ila di mattoni ne segue un’altra, e poi
un’altra ancora senza che le nuove altezze raggiunte spingano il
costruttore a togliere le ile sottostanti.
Giocando si insegna
di Deliana Bertani
 
 
Vorrei riprendere il titolo del seminario : GIOCO, IMPARO , INSEGNO.
per fare qualche considerazione che ci serve per rientrare in argomento
Dall’ introduzione e anche da molti altri incontri di formazione che in
questi anni abbiamo fatto sicuramente avrete capito i perché della
coniugazione di queste parole che spesso vengono invece viste e
soprattutto ragionate in contrapposizione GIOCO / imparo - insegno.
Infatti, nonostante ci sia una consapevolezza pressoché assodata negli
ambienti in cui si discute di educazione, di psicologia, di riabilitazione
che l’aspetto della motivazione è irrinunciabile, sporadici o quasi del
tutto assenti sono poi le indagini e un operare educativo che svisceri la
complessa maglia degli elementi affettivi-emotivi e cognitivi che danno
signi icato alla parola motivazione che dovrebbe appartenere senza
dubbio sia a chi insegna sia a chi impara.
La comprensione del mondo degli affetti e dei sentimenti che “ passano
fra “ e che contengono chi impara e chi insegna troppo spesso è oggetto
di conclusioni e conseguenti indicazioni buoniste di stampo moralistico
e ideologico ( “l’insegnamento è una missione “ è il sunto di questo
modo di fare)
Perché il titolo :
• Per mettere insieme il diavolo con l’acqua santa . Quante volte ci
siamo sentiti dire “ sa quel bambino non ha ancora capito che a scuola
non si gioca “ “ è troppo giocherellone, si distrae con i suoi giochi “ c’è
un’età per ogni cosa ,non si può continuare a giocare per tutta la vita “
• perché giocare è un fatto molto serio, è entrare in gioco, giocarsi,

• perchè con il gioco si possono cambiare i ruoli ,inventare lieti ini,


trasformare, nella rappresentazione del gioco, in attività ciò che in
realtà è stato subito e quindi trovare l’energia per superare la dif icoltà.
• il gioco abitua a essere più elastici a sintetizzare e integrare meno
rigidamente le nostre parti.
• è nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o
adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità,
ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé, sperimenta il
mondo e impara, “si gioca”.
• Sono tre verbi con i quali si mette insieme la gioia, il piacere, il
desiderio , il cambiamento, il dare e l’avere, lo scambio, ma anche la
fatica, l’ansia, la frustrazione: ed è importante capire e sperimentare
che tutte queste cose possono stare insieme.
• perché ci pare possa contenere la inalità e l’impostazione di queste
due giornate:
Ciascuno di voi quando lavora con Gancio Originale fa sostanzialmente
due cose : promuove “un apprendimento” (cognitivo , sociale, affettivo,
motorio, espressivo...) e gestisce le relazioni che sono concomitanti a
questo lavoro ( relazioni individuali, di gruppo..). Abbiamo voluto, come
già altre volte, lavorare su questi 2 registri : proporre l’apprendimento
di contenuti e l’utilizzo delle capacità di gestire la relazione (a tutti i
livelli ) con l’altro non solo come strumento per favorire
l’apprendimento di contenuti, ma come luogo e strumento di
apprendimento esso stesso: si impara insegnando, si insegna
imparando: c’è sempre uno scambio reciproco che può essere alla pari
o per meglio dire simmetrico, ma che spesso è asimmetrico ,impari sia
che ce ne rendiamo conto o meno.
Siamo partiti dal versante di chi impara, abbiamo attraversato con i
laboratori i l versante dei contenuti, oggi siamo approdati sul versante
vostro, nostro di chi insegna.
Innanzitutto per comodità, per capirci meglio possiamo sinteticamente
tentare un elenco di quelle che abbiamo de inito capacità di gestire le
relazioni:
 
osservare
ascoltare
sentire gli altri e se stessi
comunicare
pensare ( prima di fare)
avere pazienza
essere in contatto con i propri sentimenti e con quelli del bambino o del
ragazzo con cui
si ha a che fare
tollerare le frustrazioni
essere tolleranti verso se stessi
contenere l’ansia
collaborare
apprendere dall’esperienza
cambiare
assumersi la responsabilità nel lavoro e verso gli altri
 
Hanno a che fare con il gioco queste capacità ? Si.

Il gioco serve all'integrazione della personalità

Il gioco stabilisce un legame fra il rapporto che un individuo ha con la
realtà interiore e quello che instaura con la realtà esterna (l'oggetto
transizionale è il precursore di questo legame come si diceva ieri ).

Il bambino gioca il suo incontro con il mondo, non potrebbe fare
diversamente , è un metodo per assimilare poco per volta un’
esperienza troppo grande per essere assimilata tutta d’un colpo.

In questa area il bambino intraprende il suo processo maturativo che gli
permette di accettare “ l’altro da se” superando le angosce che derivano
dalla consapevolezza di essere soli e cioè distinti, indifesi, non
onnipotenti .
E questo avviene attraverso il gioco che è fare, un fare che è continua
tensione fra
passività e attività , fra illusione onnipotente e disillusione basata sulla
prova di realtà .
Anche nell’età adulta l’uomo continua a giocare per vincere le angosce
di base.
Può succedere se è fortunato che lo studio e il lavoro siano gli eredi del
suo gioco e questo avviene quando questi mantengono la loro
leggerezza, quando non prevale la “legge”, cioè l’aspetto normativo e
istituzionale.
Stare con i bambini ,con i ragazzi signi ica de inire un’operatività
condivisa, signi ica giocare con loro, laddove giocare signi ica fare ,fare
con leggerezza, con piacere, condividere l’illusione e la disillusione.
Che gioco fa l’educatore ?
Vorrei rispondere citando Freud:
"Educatore può essere soltanto chi sa immedesimarsi nella vita psichica
infantile, e noi adulti spesso non comprendiamo i bambini perchè non
comprendiamo più la nostra stessa infanzia".
Le nostre reazioni ai vari bambini e vari comportamenti, sono
determinate da quello che evocano in noi, e avremo quindi più o meno
problemi, più o meno repulsione o attrazione a seconda se le parti
infantili che sono state evocate sono di periodi o fasi felicemente
vissute o più propriamente se fanno parte di periodi che in un modo o
nell'altro siamo riusciti a portarci dietro nella crescita senza rimuoverli.
Questo non signi ica che per stare con i bambini bisogna tornare
bambini insieme a loro ma che dovremmo imparare a riconoscere il
bambino che è in noi.
 
Molti di voi sono molto giovani e questo bambino lo sentono ancora
molto vivo e pulsante, a volte prepotente, molto bisognoso, a volte
pauroso o di contro spaventoso, forse a volte lo vedono come
una voragine dalla quale non si riesce ad uscire e provano una grossa
voglia di fuggire per non ripiombare nella situazione infantile ritenuta
regressivante, testimonianza di incapacità e inadeguatezza.
Giocare dall’altra parte, nel ruolo adulto, di chi educa, di chi è punto di
riferimento, di chi insegna è impegnativo ma rassicurante.
Si è grandi, si ha la certezza , la prova di esserlo “ facendo “ e quindi ci si
possono permettere sentimenti teneri e bisogni infantili, ci si può
permettere di rivisitare gli impulsi arroganti, gli atteggiamenti
provocatori verso il mondo degli adulti che hanno caratterizzato
momenti della
propria vita, allorchè ci si rivede nei ragazzi che si hanno di fronte , ci si
può concedere anche autoironia, si può provare a essere spiazzati e non
solo più a spiazzare come accadeva ino a poco tempo prima.
Si può imparare in modo più radicato , sperimentandolo su di sè che gli
adulti a volte hanno ragione e che si può dare loro ragione.
Per tutti noi comunque , anche per i meno giovani, vale il discorso :
entriamo in contatto con il ragazzino in dif icoltà, il bambino
handicappato tramite un rapporto che come già in passato abbiamo
sottolineato “ è un incontro che avviene in un luogo preposto a questo e
inalizzato ad uno scopo “; ma quel bambino, quel ragazzino di cui
dobbiamo occuparci non assomiglia forse a quella parte di noi piccola o
grande che sia che è uscita molto malconcia dall’infanzia, dalla perdita
della illusione di onnipotenza e onniscienza ,parte che sta aspettando di
essere “curata “, che è in attesa di essere accettata, ma soprattutto di
essere aiutata da qualcuno a crescere ?
Abbiamo già affrontato questo tema nell’incontro “ lo specchio
impossibile “.
Abbiamo già più volte affrontato i problemi legati ai processi di
identi icazione legati al lavoro che state, che stiamo facendo con GO.
Vediamo un po’ più da vicino quelli che entrano in gioco quando “
Giocando si insegna “.
 
Insegnare \ apprendere: due azioni che si intrecciano in un processo
che inizia con la nascita del bambino, che vede costantemente due
attori a confronto in un gioco di rapporti complicati, adesivi,
confusionali, contraddittori, contrapposti che sono comunque necessari
per strutturare a poco a poco un mondo interiore e una mente capace
di generare pensieri.
 
Insegnare
Apprendere deriva dal latino ab-prehendo = prendere da, afferrare,
impadronirsi.
Quindi processo di "integrazione" del nuovo nel già esistente con il
risultato di una trasformazione dinamica della personalità sostenuta
dalla tensione verso un obbiettivo, da una motivazione più o meno
conscia, da un processo che si estrinseca in una dimensione relazionale:
prendere da..
Per apprendere , per imparare è necessario quindi che ci sia qualcuno
che insegna , dove insegnare diventa un fatto complicato che va
evidentemente oltre la comunicazione di nozioni , ma implica un
atteggiamento che schematicamente possiamo riassumere in 3 azioni:
ascoltare
domandare
osservare
Ascoltare: far emergere e dar corpo alle paure, alle conquiste, alle
scoperte dell'altro usando se stessi
p
Domandare: essere pronti a percorrere i sentieri che l'altro sta
elaborando e percorrendo
 
Osservare: "leggere" i comportamenti, decifrare il linguaggio del corpo
e del movimento, i sentimenti che aleggiano nella " scena".
Insegnare allora signi ica esercitare quelle capacità di gestire le
relazioni di cui si è tentato un elenco più sopra.
Insegnare signi ica "segnare di sè"
Mettere dei propri segni nell'altro, dei propri " pezzi", dei pezzi della
propria storia, della propria esperienza consapevole e inconsapevole,
ma comunque complessiva.
Insegnare in questa ottica vuol dire avere il coraggio di ripercorrere le
tappe della propria crescita per avere “ un’ idea" di quello che è il seme,
il segnale, il pezzo che sto mettendo dentro all'altro, per avere un'idea
dell'occhio e dell' orecchio con il quale sto ascoltando, domandando e
osservando il bambino che ho davanti, le sue trasformazioni, le
trasformazioni delle dinamiche fra me e lui, le mie trasformazioni.
Molto si è scritto sulle trasformazioni che all'interno di questo rapporto
avvengono nel bambino e nel ragazzo perchè queste trasformazioni
equivalgono alla crescita, poco si è scritto e si è ri lettuto sulle
trasformazioni che avvengono nell'altro polo del rapporto, nell'adulto
,in chi insegna .
Anche in questo polo c'è trasformazione e crescita e c'è partecipazione
alla " recita" al gioco consapevole o no che sia, perchè ci sono
rispecchiamenti reciproci, identi icazioni incrociate che determinano il
copione della recita stessa, la trama e le regole del gioco.
Possiamo parlare di recita, di copione , di personaggi rappresentati, che
si muovono su di un palcoscenico che è il mondo rappresentazionale di
ciascuno degli attori che si muovono nel
teatro che contiene, nell'ambiente cioè dove gli attori stessi fanno
esperienze, dove si strutturano conoscenze , si migliorano capacità, ma
anche si cade rischiando di rompersi, di scontrarsi, di incontrarsi senza
vedersi.
 
C'è una rappresentazione con un copione aperto o meglio con tanti fogli
che si possono combinare in maniere diverse e rendere cosi' diversa la
storia con un lieto ine, con una brutta ine, senza una ine, con
personaggi con tante maschere da usare a seconda dell'indirizzo che
p gg
prende il copione, a seconda dei movimenti, delle esperienze degli altri
attori.
Nei primi mesi di vita gli attori dell' azione educativa (dell'insegnare e
dell' apprendere) erano solo i bambini e i genitori.
Questi ultimi hanno dovuto lavorare in situazioni di grossa confusione e
precarietà', assumendosi spesso le parti dei co-protagonisti dovendo
organizzare e interpretare, costruire gli scenari e dirigere l' orchestra.
Chi insegna dopo trova terreni già dissodati, situazioni più strutturate e
soprattutto può lavorare con meno assilli e preoccupazione perchè il
teatro è più de inito(la scuola, il posto dove ci si incontra, il campo
giochi... / la vita)perchè il loro ruolo permette di staccare e
ricominciare il giorno dopo.
Il copione è nella scuola così come nel vostro lavoro, almeno in molte
parti, condiviso, approvato addirittura deliberato: mi riferisco ai
programmi scolastici.
In nessun caso c'è scritto però quali luci usare, con che musica
sottolineare le parti, come l'adulto deve interpretare la sua parte
(comica, drammatica) ne come il bambino riceverà le istruzioni e
interpreterà la sua parte ne' se darà' dei suggerimenti che dovranno far
approntare modi iche.
Tutta questa storia del teatro per dire che, cosi' come è complicato
apprendere lo è anche insegnare , perchè fra chi apprende e chi impara
vi è un lusso identi icatorio reciproco che è storico, speci ico ,
individuale legato al rapporto fra quello che succede "qui e ora" e il
mondo rappresentazionale di ciascuno degli attori, il palcoscenico cioè
sul quale avviene la recita, la condizione che permette la
trasformazione dei dati percepiti in fatti appresi, strutturanti e
personali.
 
Vediamo questo lusso reciproco di sentimenti e di movimenti
ulteriori( lusso identi icatorio) un po' più da vicino.
Innanzi tutto però va detto che questo avviene se non si riduce
l'insegnare solo ai programmi ministeriali o all’equivalente cioè se si
accetta di giocare , di mettersi in gioco, di interpretare creativamente,
personalmente quello che si fa, se non si assume il ruolo di adulto ,di
chi insegna come trincea; se si accetta di vivere e di immergersi in una
rete pressoché in inita di rapporti, di fantasie e di fantasmi che
determinano una situazione complessa e mutevole dove la dinamica
educatore \ insegnante - bambino \ ragazzo sottende inevitabilmente
quella genitori \ igli; insegnanti \ genitori; insegnanti \ propri
insegnanti; insegnante \ gruppo; ragazzo \ gruppo ; bambino – ragazzo
/ suoi insegnanti di classe.
Come si vede il palcoscenico è affollatissimo. Cosa succede fra tutta
questa gente? Dei movimenti identi icatori come si diceva prima.
Chi insegna, così come i genitori, così come tutti coloro che hanno a che
fare con bambini o ragazzi ( tutti noi appunto) fra i mille possibili tipi di
identi icazioni che si possono vedere crescere dentro di sè nell'incontro
con il bambino inisce con lo sceglierne uno che può essere isolato
come "leitmotiv" come dice Richter. Questo leitmotiv deriva dalla
funzione che inconsciamente si dà al bambino nel tentativo di venire a
capo dei propri con litti derivati dalla storia personale e dalla
situazione attuale. Sempre secondo Richter tutte le possibili alternative
sono riconducibili a due iloni: a) il b.\ ragazzo come rappresentazione
di un altro partner, quasi sempre un membro importante della
costellazione edipica: identi icazione transferale.
b) b.\ ragazzo come sostituto di un aspetto del proprio sè dell'adulto:
identi icazione proiettiva.
 
Facciamo un esempio: una madre brutta che ha avuto una iglia bella
può reagire in due modi diversi:1) è gelosa, così come lo era stata da
piccola nei confronti della sorella o di altre bambine più belle la
delusione della sua infanzia si ripropone, la iglia è " una concorrente";
2) è felice, la iglia non è rivale ma una realizzazione dei propri desideri
delusi.
Facciamo un altro esempio: un insegnante si trova di fronte un ragazzo
leader negativo o positivo:1) è geloso perchè si sente scalzato nel suo
ruolo, ha un concorrente 2) usa il ragazzo per avere il ritorno di un
immagine di sè di buon insegnante( si pone come salvatore o gli porta
libri, discute con lui ecc.)
Facciamo un altro esempio uno di voi si trova davanti un ragazzino che
non ne vuole sapere assolutamente di fare quello che gli dite di fare : 1)
si deprime perché non si sente tenuto in considerazione, si sente
svalutato così come gli è capitato tante volte in altre situazioni quando
si sentiva impotente davanti a chi lo svalutava, 2) collude con
l’oppositività e la trasgressione del ragazzo che ha di fronte quasi che
af idasse a lui le sue parti aggressive che non riesce a giocare
personalmente.
Queste sono le alternative se si agisce in modo inconscio e non
meditato.
Se l'adulto riesce invece ad agire in modo consapevole e meditato
,fermandosi per capire cosa sta succedendo vi è una terza strada che è
quella dell'identi icazione introiettiva dove ognuno mette dentro di sè
integrando con quello che è suo gli apprendimenti nuovi che
scaturiscono dall'incontro con il risultato di un arricchimento
reciproco.
Docente e discente nella lingua indeuropea hanno la stessa matrice dek
che signi ica ricevere mentalmente .
Cosa c'è da capire? Che nell'incontro, anche in un aula scolastica come
in famiglia, nel nido, nelle scuole materne ,in una seduta riabilitativa,
nel vostro lavoro c'è un lusso di sentimenti ed emozioni che
comprende ,anche l'ambiguità, la s iducia , l'aggressività', il bisogno di
controllo, la paura , la rabbia l'amore e l'odio .
Il fare ,l'insegnare e l'apprendere che passa attraverso questo rapporto
è determinato dalla coloritura di questi sentimenti e ne è fortemente
condizionato .
L'affrontare queste coloritura cercando di trincerarsi dietro al proprio
ruolo (cosa piu' possibile per gli insegnanti e sempre di più' man mano
si procede nell'ordine scolastico)o cercando di "domare" il bambino \
ragazzo o di trincerarsi dietro una teoria psicopedagogica da risultati
apparenti : il bambino \ ragazzo obbedisce, ma cova una profonda
ostilità' oppure sorge improvvisamente un altro problema, cosa che
inevitabilmente produrrà sentimenti di inadeguatezza.
Farà sorgere incomprensioni che determineranno interruzioni
nell'identi icazione reciproca dando luogo così a interferenze nel
processo dell'apprendimento e dell'insegnamento ,a rapporti di
manipolazioni del bambino \ ragazzo oppure, soprattutto nelle
situazioni più bisognose (bambini piccoli, ragazzi deprivati) a rapporti
di identi icazione totale per l'educatore; di apprendimento adesivo
(Bion) per il ragazzo.

Nel primo atteggiamento è implicito un ri iuto perchè c'è il non
riconoscimento ne dell'altro ne del bambino che è dentro di noi

nell'altro c'è la collusione, l'adesione totale al bambino che c'è in noi e a
quello che abbiamo di fronte con la confusione e la perdita di un polo
del rapporto cioè in tutti e due i casi vengono meno quelle tre azioni
dell'insegnamento di cui si parlava prima : ascoltare , domandare e
osservare .
Nel processo insegnare \ apprendere si intrecciano i vissuti di chi
insegna e di chi impara cioè ciascuno vede nell'altro "qualcosa "e
questo qualcosa è storico, speci ico, individuale e legato al rapporto,
come si diceva prima , fra ciò' che è accaduto in quel momento in quella
situazione speci ica e il proprio mondo "rappresentazionale " cioè
quella scenogra ia dettata dal modo con cui ciascuno di noi ha vissuto,
ha rappresentato , ha vissuto e percepito sè e gli altri nel corso della
propria storia e questa anche quando si insegna tecnica o algebra ,
anche quando si accompagna a passeggio un ragazzo con un grave
handicap.
Se la classe non sta attenta, se un ragazzo fa lo stupido, se non capisce,
se c'è qualcuno che sa già e lo esibisce ; queste sono tutte le situazioni
che mettono in movimento sentimenti che rievocano nostri "pezzi"
(quando capivamo o no, quando eravamo lodati o sgridati, quando non
ci sentivamo amati o amavamo troppo e ci vergognavamo).
Tra l'altro proprio la scelta dei leitmotiv di cui si parlava prima produce
inevitabilmente delle scelte o meglio delle preferenze in positivo o
negativo e questo e ciò' che potremmo de inire problema della
distribuzione o del ritiro del proprio amore , che è un fatto
determinante nel processo dell'apprendimento/insegnamento, nel
lusso di identi icazione reciproco (effetto Pigmalione).
Abbiamo a che fare con molti ragazzi che apprendono con dif icoltà, ma
abbiamo a che fare anche con molti insegnanti che insegnano con
dif icoltà perchè non controllano i meccanismi
dell'insegnamento, così come esistono ragazzi che hanno paura ad
apprendere così ci sono insegnanti che hanno paura ad insegnare
Così come si apprende per precisare , mettere ordine , per stabilire un
controllo e moltiplicare le relazioni fra sè e il mondo , altrettanto si
insegna per in-segnare di se' il mondo , alimentare il sogno della
propria eternità' ,lasciare una traccia di se'.
 
Allora apprendere è complicato ma insegnare anche e la complicazione
deriva da tutto quello che interviene in questo processo, da tutti i
"personaggi" che vi pongono mano.
Siamo all’interno di un gioco molto complicato e faticoso ,ma che può
continuare a mantenere le caratteristiche del gioco, di uno spazio che è
esterno ed interno, che rende possibile assimilare poco per volta
esperienze troppo grandi per essere assimilate tutte d’un colpo.
Mi preme concludere, riprendendo Winnicott.
Così come è impossibile essere un genitore perfetto altrettanto lo è
essere un insegnante perfetto. Questo perchè non si pensi che si è in
grado di fare le cose dette sopra solo se si è perfetti.
Così come il genitore non può che essere un genitore suf icientemente
buono, anche chi insegna non può che essere un insegnante
suf icientemente buono.
 
 
Funzione terapeutica e formativa
delle iabe
di Leonardo Angelini
 
Vorrei cominciare questo incontro sulle iabe partendo da un
personaggio realmente esistito, e quindi, a prima vista, lontano dal
mondo iabesco che, come tutti sanno, è un mondo in cui regna la
inzione: a Reggio Emilia, ino a cinquant’anni fa, è vissuto un
personaggio che si chiamava Zilòc.
Zilòc, come ci dicono coloro che l’hanno conosciuto, era uno di quei
personaggi, presenti ancor oggi in molti posti, che - grazie a una
capacità di dire profonde verità condensate in una battuta mordace –
poteva impunemente irridere ai potenti e alle istituzioni
semplicemente dicendo ‘il re è nudo’.
Ebbene qual è il limite di questo tipo di storie, che i demologi, cioè gli
studiosi delle tradizioni popolari, chiamano ‘fatti rammentati’: che
mentre è facile che un reggiano si identi ichi in Zilòc, un pugliese come
me, anche se è in grado di apprezzare la mordacità delle battute di
Zilòc, farà fatica ad identi icarsi con lui poiché sentirà la natura
particolare, locale del suo pro ilo. Il fatto rammentato, cioè, ha per sua
natura una dimensione locale che delimita e sminuisce le possibilità
identi icatorie di un più ampio pubblico.
La iaba, al contrario, è portatrice di un messaggio universale che
permette a tutti i suoi potenziali ascoltatori in raggiungimento di alto
tasso d’identi icazione. La universalità del messaggio iabesco è dovuta
ad un insieme di circostanze di meccanismi narrativi che concorrono
nel de inirne i contorni, il primo dei quali è nel fatto che la iaba è molto
poco contestualizzata.
Il secondo elemento, scoperto da Propp, tipico della iaba e solo della
iaba, è che in termini strutturali, in una trama iabesca noi incontriamo
potenzialmente solo sette personaggi: il protagonista, l’antagonista, il
falso eroe, il personaggio cercato, il donatore, l’aiutante e il mandante.
Non tutti e sette possono essere presenti in ogni iaba, spesso anzi in
una speci ica iaba ce ne sono solo tre o quattro; certo è però che aldilà
di questi sette personaggi altri non ce ne sono.
Vediamo ora come è possibile riconoscerli:
Il protagonista (o eroe) è quello in cui l’ascoltatore s’identi icherà,
poiché rappresenta le sue parti buone, intraprendenti, coraggiose.
L’antagonista è il malvagio, colui che fa del male in cui è impossibile
riconoscersi; il falso eroe è colui che inge di aver compiuto le azioni
che invece sono state compiute dall’eroe, colui che s’impossessa
fraudolentemente delle azioni dell’eroe. Il personaggio cercato - che,
come dice Bettheleim, è presente solo nelle iabe a sfondo edipico - è la
principessa o il principe da impalmare, da sposare, cioè quel
personaggio che alla ine produce l’happy end attraverso lo sposalizio
con l’eroe.
A ianco a questi personaggi ci sono in ine tre igure che non sempre
sono compresenti: il donatore, che dona all’eroe il mezzo magico;
l’aiutante, che è colui che aiuta l’eroe nel momento in cui il secondo è
sottoposto a delle prove; il mandante, colui che spinge l’eroe a compiere
l’azione a partire da quella situazione di penuria in cui si trova sempre
l’eroe all’inizio della storia iabesca, penuria relativa la fatto che l’eroe
cioè è sempre colui cui gli è morta la mamma, che vive in una famiglia
disgraziatissima, che deve lottare per arricchirsi, per partire verso il
compimento dell’impresa.
Il tutto in un intreccio di motivi della iaba anch’essi analizzati in
termini strutturali da Propp che era entrato in contatto con l’analisi di
iabe fatta da Thompson e da altri studiosi scandinavi, che avevano
tentato, prima di Propp, una categorizzazione delle iabe trovando,
però, più di due o trecento motivi. Invece Propp, in base al suo taglio
strutturalista, è stato in grado di vedere la struttura comune a molti
motivi aldilà della molteplicità delle azioni e in questo modo ha ridotto
il numero delle azioni riscontrabili in una iaba a trentuno. E qui vale
ciò che dicevamo a proposito dei protagonisti: secondo Propp non è
detto che una iaba abbia dentro di sè tutte le trentuno azioni, ne può
avere quindici, tredici; alcune di esse saranno iterate più volte; è
possibile, anzi probabile, che l’intreccio comporti un concatenarsi fra di
esse diverso dall’elenco fornitoci da Propp, ma tutte le azioni di tutte le
iabe sono strutturalmente riconducibili sempre a questi trentuno
motivi.
Rodari, che aveva letto Propp, e che era una persona creativa, sulla base
della coniugazione fra questi sette personaggi e fra queste trentuno ha
inventato un gioco di carte sulle quali sono raf igurati personaggi e i
motivi, in modo tale che, attraverso una distribuzione casule delle carte
sia possibile inventare e costruire delle iabe. E penso che oggi, nel
laboratorio di pittura, la Simona Valcavi abbia intenzione di farvi
lavorare proprio su questa cosa, di spingere cioè ciascuno di voi ad
inventare e dipingere dei personaggi con i quali poi potremmo giocare
come ci suggerisce Rodari.
Max Lüthi nella sua opera “La iaba popolare europea”, ha portato
avanti il discorso di Propp e si è chiesto: quali sono gli elementi in base
ai quali si può riconoscere una iaba e distinguerla dalle altre modalità,
dalle altre forme del narrare orale. E a tal proposito, vedrete, dice delle
cose che ci serviranno più avanti:
Il primo elemento di peculiarità individuato da Lüthi nel racconto
iabesco è quello della l’unidimensionalità, il fatto cioè che nella iaba
non è mai chiaro se si sta parlando del mondo reale o del mondo
soprannaturale, che in questo modo sono accomunati
‘unidimensionalmente’ in un mondo particolare, che è il mondo
iabesco che assume così una dimensione ambigua in cui reale e
soprannaturale si confondono.
La seconda caratteristica è quella che Lüthi chiama ‘tendenza
all’isolamento’: isolamento signi ica che il raccontatore deve inventare
un eroe che permette a tutti di identi icarsi; un eroe isolato dal
contesto, che non deve avere nome e cognome, perché altrimenti il
tasso di identi icazione delle in inite possibili sue udienze sarebbe più
basso, di modo che alcuni s’identi icherebbero, altri no. Le storie di
Zilòc, come abbiamo visto, non sono iabe perché manca l’isolamento.
Altra caratteristica individuata da Lüthi quella delle ‘colleganze
universali’: proprio in base all’isolamento il materiale iabesco è un
distillato che si adatta a qualsiasi udienza il buon raccontatore si trovi
ad avere di fronte. Di modo che, se io sono un buon raccontatore,
sottoporrò il materiale iabesco di cui dispongo ad un processo di
adattamento che sarà diverso in base alle diverse udienze che avrò di
fronte perché (e questo è il mio modesto contributo al discorso sulle
iabe) le esigenze materiali e spirituali della cultura di appartenenza dei
miei ascoltatori variano da luogo a luogo, e – in uno stesso luogo –
variano nel tempo.
Un altro elemento stilistico evidenziato da Max Lüthi è quello del
‘dono’: Lüthi aveva letto un sacco di materiale inerente modalità del
raccontare orale limitrofe alla iaba ed aveva scoperto che mentre nella
leggenda il dono è sempre un elemento straordinario (per es. spada
nella roccia per la leggenda di Re Artù), nella iaba esso è un oggetto
usuale (per es. un fuso, una lampada, ecc.) che nella iaba assumono
una veste magica.
Altro motivo, quello del ‘prodigio’ che non è mai richiesto, ma accade
improvvisamente e inaspettatamente.
E molto importante nell’economia iabesca, quello che Lüthi chiama ‘il
motivo monco’, in base al quale qualsiasi elemento della iaba, qualsiasi
personaggio, qualsiasi motivo viene utilizzato nella iaba per una
inalità precisa e poi viene abbandonato una volta che non ce n’è più
bisogno (che ino hanno fatto i due topolini nella favola di Cenerentola?
nessuno ce lo dirà mai). E così anche le igure dei donatori nel momento
che non servono più spariscono.
Il discorso di Lüthi è molto importante per de inire il discorso iabesco
però, proprio per il taglio strutturalista, simile a quello di Propp, di per
sè non basta comprendere come le iabe cambiano nel tempo e nello
spazio, diacronicamente e sincronicamente.
Un racconto, qualsiasi racconto, proprio perché è sempre immerso in
una data cultura, si trasforma continuamente nello spazio e nel tempo:
- Nello spazio in base al rapporto di scambio con le culture limitrofe:
secondo alcuni studiosi italiani, ad esempio, uno dei luoghi di
contaminazione tra le iabe di luoghi limitro i erano le iere e le gradi
cerimonie religiose, luoghi di incontro e di scambio culturale che
permettevano di trasmigrare in un altro posto e di trasmigrare con una
modalità speci ica che è il meccanismo di contaminazione fra varie
forme del narrare orale che ogni buon raccontatore conosce benissimo.
Io ho fatto una ricerca sul campo nella mia terra d’origine ed ho chiesto
ai miei informatori di raccontarmi le loro storie. Ebbene tutti costoro
non si sono mai limitati a raccontarmi delle iabe, ma anche tutta una
serie di fatti rammentati, di novelle, di novelle religiose a carattere
scherzoso, etc., ino alla declamazione di brindisi augurali. Ma un buon
raccontatore va oltre: e i raccontatori che nei ilòss intrattenevano quel
pubblico misto di adulti e bambini non ancora sequestrati dalla Tv, era
capace non solo di alternarsi nei vari tipi di racconto, ma anche di usare
una battuta di Zilòc, una sequenza desunta da un fatto rammentato per
inserirla dentro una iaba; così come esistono contaminazioni tra
cultura alta e cultura bassa: io ho raccolto nel mio paese una iaba in cui
ci sono echi dell’Odissea (Eolo che è diventata la Signora dei quattro
venti).
- Il materiale iabesco si trasforma però anche nel tempo poiché ogni
cultura si trasforma nel tempo per ragioni d’ordine materiale e
spirituale, poiché anche le culture limitrofe si trasformano nel tempo,
così come le altre modalità del narrare orale ed il rapporto fra cultura
alta e cultura bassa. Cosicché anche da un punto di vista diacronico,
cioè con passare degli anni e delle generazioni le iabe si trasformano.
Ad esempio mi è capitato di riferire ad una udienza del giorno d’oggi la
iaba principe della cultura reggiana, quella di Pirìn Fasòl (Pierino
Fagiolo) che avevo letto nella bellissima raccolta a cura di Loredana
Cassinadri e Matteo Pantaleoni, e tutti gli adulti presenti ricordavano la
trama, ma avevano dimenticato la sua ine cruentissima, che aveva un
senso all’inizio del secolo, ma che evidentemente oggi era diventata
super lua e dannosa ai ini terapeutici.
Come vedete, all’inizio abbiamo visto gli elementi strutturali della iaba,
mentre ora ci stiamo incamminando sul piano degli elementi culturali
presenti nella iaba e cominciamo a scoprire che il materiale iabesco è
materiale magmatico in perenne evoluzione, che ha in sé capacità di
contaminare e di essere contaminato proprio in base al suo alto tasso di
stilizzazione, cioè proprio in base al fatto che è decontestualizzato al
massimo.
Una delle iabe che interpreterà per noi stasera Giovanni Poli, che è
un’artista reggiano, è una iaba, raccolta dalla Cassinadri e da
Pantaleoni a San Martino in Rio, incentrata sul racconto di uno zufolo,
di una piva magica che parla e che conferma un delitto compiuto dai
fratelli dell’eroe, i quali – nella veste di falsi eroi – si appropriano di un
gesto eroico compiuto dal loro fratello e lo uccidono. Ne ho trovata una
versione nel mio paese, che ho intitolato ‘La piuma dell’augèl di Grifù’, e,
ancora più importante: - una versione raccolta da una ricercatore
austriaco a Rovereto nel 1870, in cui ad uno stesso contenuto si
accompagna una cantilena che avevo ritrovato nella versione
locorotondese ma che nella versione roveretana richiama alla mente
l’ambiente viennese; e un’altra versione, sempre della stessa storia,
nella raccolta siciliana ottocentesca del Pitrè. Quindi abbiamo della
stessa iaba, due versioni quasi sincroniche del novecento, ed due
altrettanto sincroniche di cento e passa anni fa. Ogni versione differisce
in base ad una serie di elementi che, studiati, ci dicono molto sulla
cultura speci ica che l’ha partorita, a partire da un unico vitigno che
però, come quello di un buon vino, si adatta al terreno sul quale cresce.
Ciò che voglio dire è che la iaba è esposta a tutte le contaminazioni e si
adatta alle esigenze materiali e spirituali di ogni determinata udienza,
di ogni cultura, di ogni società che l’ha partorita.
Ne discende che le doti che deve possedere un buon raccontatore sono
molteplici: egli innanzitutto deve essere in grado di intuire quali siano
le storie che in quel determinato momento quella determinata udienza
che lui ora ha di fronte si vuol far raccontare per stare meglio, per osare
affrontare i grandi nodi tematici della vita e della crescita psicologica;
in secondo luogo deve fare una continua opera di adattamento del
materiale iabesco che lui stesso ha ascoltato in passato alla nuova
udienza; insomma deve intuitivamente essere in grado di entrare in un
rapporto sintonico con le varie udienze, di coglierne le differenti
richieste che implicitamente esse pongono sul piano preventivo e
terapeutico, di adattare il proprio bagaglio di canovacci e di storie, non
tutte propriamente iabesche, a queste mutevoli esigenze.
Spero sia chiaro perciò, dopo quanto è stato detto, che una cosa è
limitarsi a leggere una raccolta di iabe di Andersen, dei fratelli Grimm
o di Calvino, etc., un’altra cosa è raccontare creativamente una iaba ad
una ‘udienza attuale ed in situazione’, adattare il testo iabesco alla
singolarità di questa udienza in un’opera continua di limatura dei
contenuti e dei metodi, che implica un coinvolgimento emotivo e quindi
non solo una terapia, ma anche una autoterapia, un livello di
espressività in cui elementi verbali, ma anche non verbali e corporei
siano compresenti (complanari, dice Cirese) in modo tale che le
capacità affabulatorie del raccontatore siano esaltate.
Andersen, i Grimm o Calvino hanno ascoltato da propri informatori,
vissuti molti anni fa, le iabe che poi hanno messo per iscritto e
cristallizzato nei loro libri. Anch’io, a dire la verità, ho fatto
un’operazione simile con le iabe da me ascoltate a Locorotondo (Bari)
negli anni ’80: lungi da me quindi la volontà di sminuire il signi icato di
quest’opera di scavo nei sotterranei culturali della propria società, della
propria cultura, opera che, oltre ad un signi icato scienti ico, ribadisce e
marca anche la propria appartenenza 1.
Altra cosa però, molto più dinamica e utile, economica 2 sul piano
dell’igiene mentale, è quella che fa il raccontatore in situazione, esposto
a tutte le contaminazioni esterne ed interne che arricchiscono il suo
materiale iabesco, lo rendono luido ed elastico, adatto alle nuove
udienze con le quali il raccontatore di volta in volta entra in contatto,
capace di continuare sempre ad affabulare le varie udienze, proprio
perché frutto di questa continua opera di adattamento che lo rende più
puntuale, aggiornato, vivi icato dai mille stimoli che su di esso
provengono dalle varie parti compresenti sulla scena in cui si dipana il
racconto.
Per comprendere il signi icato di questa compresenza del buon
raccontatore con la propria udienza attuale facciamo un esempio:
nell’enorme ambiente rurale australiano, dove le abitazioni sono molto
lontane tra loro e i centri scarsi, la scuola viene tenuta da maestri che
attraverso la radio comunicano con i propri allievi in lontananza; è
chiaro che in questo caso manca la possibilità di un feedback fra
maestro e allievo, cosicché non solo è possibile che il maestro dica
qualcosa ad un bambino mentre quest’ultimo, non visto, gioca con il
cane o sta mangiando un panino, ma è probabile anche che il maestro
non possa fare quell’opera di continuo adattamento del testo
all’udienza che solo il rapporto vis à vis rende possibile. La mancata
compresenza cioè, anche in ambito scolastico, può essere all’origine di
vari problemi.
La stessa cosa, anzi peggio, avviene allorchè l’adulto dà ad un bambino
un disco con le incisioni delle iabe af inché questo le ascolti da solo: in
questo caso mancano sia la compresenza che la contemporaneità del
raccontatore con la sua (potenziale) udienza: il risultato in questo caso
è da una parte la mancanza di comunicazione e di adattamento
dinamico del testo all’udienza, dall’altra, cosa ancora più grave,
l’impossibilità di scegliere, all’interno di un ampio bagaglio, quel
racconto che intuitivamente il buon raccontatore in situazione
facilmente metterebbe a disposizione della propria udienza: tale scelta,
in base alla mancanza di questa compresenza, ricade così interamente
sul bambino che spesso è distratto da altre forme di racconto, meno
utili e terapeutiche per lui in quel momento.
Il bagaglio del buon raccontatore è spesso ricchissimo, a volte
lussureggiante di canovacci, di storie che egli stesso ha ascoltato una
volta, che ha capitalizzato e che ha imparato ad adattare alle varie
udienze con cui è compresente: in questo caso è come se il raccontatore
avesse una gerla, un contenitore contenente un bagaglio di storie
potenziali, di tanti canovacci che egli è in grado, all’occorrenza, di
utilizzare duttilmente. Tale qualità adattiva deriva al raccontatore dalla
combinazione di un insieme di capacità intuitive, preconosce che
possono così essere elencate: capacità di osservare l’udienza attuale ed
in base a questa osservazione di rovistare dentro di sé (dentro la
propria gerla) per trovare i canovacci che egli intuitivamente sente
essere utili a questa udienza, capacità in ine di acconciare questi testi
potenziali ad essa e di profferirli in modo tale che l’udienza ne risulti
affabulata, cioè avvinta dalla storia che sta ascoltando.
Si tratta, come avrete compreso, di un insieme di processi velocissimi
che in pratica avvengono all’interno del raccontatore senza che egli sia
in grado di esprimere in termini razionali ciò che in lui sta accadendo,
ma in maniera intuitiva.
Il materiale iabesco in questo modo appare come potenzialmente
in inito, perché in initi sono gli adattamenti di cui le in inite udienze nel
loro divenire storico hanno bisogno di farsi raccontare, come in inite
sono le contaminazioni cui il materiale va incontro sul piano sincronico
e diacronico.
Quando ho fatto la mia ricerca sulle iabe locorotondesi a un certo
punto, dopo aver ascoltato vari raccontatori, mi sono reso conto che,
come nella storia del re, seduto sul sofà, ero andato ad in ilarmi in un
ilone aurifero senza ine che mi impediva letteralmente di fermarmi.
Avevo già raccolto trentasei storie alcune iterate in tre, altre addirittura
in quattro versioni e la cosa aveva cominciato a preoccuparmi. Quando
decidere di fermarmi?
Ricorsi allora ad un esperto che opportunamente mi disse che avrei
potuto legittimamente fermarmi quando avessi notato che il materiale
non cambiava più, e quando le iabe che mi erano riferite dai nuovi
raccontatori fossero state desunte dagli stessi canovacci. Questo per
farvi capire di che natura è questo lusso in inito di storie.
Il testo attuale, quello che noi ascoltiamo dalla viva voce del
raccontatore, perciò, è il prodotto momentaneo di questo lavorio
interno, cui il buon raccontatore intuitivamente sottopone i propri
canovacci nel momento in cui li adatta all’ultima sua udienza attuale.
 
Vediamo adesso più da vicino in che cosa consiste la funzione
terapeutica della iaba, ed in base a quale sistema avviene quest’opera
continua di adattamento dei testi iabeschi alle diverse udienze.
innanzitutto va detto che la iaba batte dove il dente duole, cioè va a
colpire quelli che sono gli elementi angoscianti e ansiogeni più
importanti che accompagnano il bambino nelle varie fasi della sua
crescita psicologica: quelli che pomposamente potremmo de inire i
problemi focali di fase.
Il messaggio della iaba di fronte a questi problemi è un messaggio
ottimistico che si rivolge proprio a quelle parti interne che il bambino
in quel momento fa fatica ad integrare (perché per la prima volta si
presentano in lui), messaggio che tende a confortare il bambino, a
infondergli coraggio, a dirgli che è vero che esistono quelle cose
ansiogene, è vero che la mamma in certi momenti può sembrare una
strega e il papà un orco, è vero che le parti prevaricatrici possono
sembrare terri icanti… però, se lui ha iducia in se stesso, quei problemi
di fase, vedrà che li supererà per il meglio. Questa è la natura del
messaggio della iaba, che come vedete non ha alcun ine moralistico,
ma si rivolge al bambino in dif icoltà per aiutarlo a superare gli ostacoli
della crescita. Si tratta di un messaggio abreatorio, cioè liberatorio che
non ha bisogno di ulteriori spiegazioni per giungere al bambino, che
cioè non va interpretato poiché velocissimamente giunge al suo cuore
ed è in grado di confortarlo: come vedete c’è come un rapporto
speculare fra la velocità in base alla quale tutto il materiale si condensa
nel testo narrato dal raccontatore e la velocità del processo abreatorio
che avviene nel bambino allorchè ascolta questo testo: in entrambi i
casi qualsiasi commento è non solo super luo, ma potrebbe essere
addirittura dannoso.
Bettelheim, che si interessa della natura terapeutica della iaba, dice che
da questo punto di vista ci sono due tipi di iabe, e che in entramb i tipi
vi è un messaggio abreatorio: - Le iabe edipiche, che sono le iabe in cui
c’è un personaggio cercato, la principessa o il principe da impalmare
(es. Biancaneve). - Le iabe narcisistiche che non prevedono la presenza
di questo personaggio (che poi è il personaggio cercato di Propp), ma si
rivolgono a parti interne che il bambino fa fatica in quel momento ad
integrare e servono ad aiutarlo ad integrarle: per esempio la iaba di
Pirìn Fasòl è - in assenza del personaggio cercato – una iab che tende a
fare accettare al bambino la compresenza nella igura materna di parti
cannibaliche (non vi spaventate!) voglio dire soffocanti che vorrebbero
mangiarselo vivo e non farlo andare da solo per il mondo.
Le iabe vanno così a confortare il bambino mano a mano che cresce e a
cercare di favorire il suo processo di crescita, esortandolo a essere
coraggioso nell’affrontare i problemi focali, cioè nucleari di base. Il
messaggio che esse danno è un messaggio liberatorio, abreatorio,
laddove, come dicevamo prima l’elemento più rilevante è la velocità con
cui il massaggio liberatorio giunge al cuore del bambino.
altra cosa importante è che questo messaggio abreatorio ieri era
espresso di fronte ad una udienza mista fatta di bambini ma anche di
adulti.
Ciò signi ica che ieri anche un pubblico adulto aveva bisogno di
ascoltare le iabe, anche un pubblico adulto aveva esigenze di tipo
terapeutico 3. Oggi l’udienza si è ristretta ad un pubblico di soli bambini
ed anzi, ci sono indizi che ci dicono che anche questa udienza potrebbe
presto trovarsi nelle condizioni di non ricevere questo tipo di sostegno
psicologico.
Allora diventa legittimo chiedersi : cosa vuol dire se una società non
sente più il bisogno in assoluto di raccontarsi delle storie? A mio avviso
vuol dire che in quel caso ci troviamo di fronte ad una società che ha
perso per strada uno strumento importante ed economico (in tutti i
sensi) di igiene mentale.
Un altro elemento importante che caratterizza la funzione terapeutica
delle iabe è questo: esse permettono al bambino di liberarsi dalle
tensioni e mantengono questo potere inche il bambino ne ha bisogno.
Se ci avete fatto caso, avrete notato che il bambino spesso vuole sentirsi
raccontare sempre la stessa storia, e ciò avviene per un certo periodo.
Ebbene questo avviene perché quello è il tempo a lui occorrente per
superare i con litti di base che ora lo attagliano. Superati quei con litti,
ecco che all’improvviso egli non ci chiede più quella storia, ma ne vuole
sentire un’altra che corrisponde a nuove esigenze abreatorie del nuovo
con litto di fase che in quel momento lo prede. E’ come se l’udienza (il
bambino oggi, l’udienza mista ieri) intuisca qual è la medicina giusta e
dica al raccontatore: più questa storia funziona per me come medicina,
più me la faccio raccontare, perché mi placa dalle angosce che in questo
momento mi prendono..
Diventa chiaro a questo punto però un altro importante passaggio:
infatti allorchè il raccontatore continua a narrare alla varie udienze che
mano a mano ha di fronte le iabe che ha ricevuto in eredità (quello che
ha nella gerla), svolge una funzione abreatoria per l’udienza, come
abbiamo visto, ma ha anche per se stesso. Poiché nel momento in cui
noi raccontiamo una storia alla nostra udienza, e l’aiutiamo a superare i
suoi propri con litti di fase noi compiamo un’opera di autoterapia anche
su di noi, in base sia alla forza della storia che parla anche ai nostri
con litti interni, sia soprattutto allo sforzo che intuitivamente facciamo
per comprendere quale storia quella udienza vuol sentirsi dire che uno
sforzo che ci costringe a fare continuamente i conti col nostro mondo
interno, esattamente come avviene nello psicoterapeuta che per
attivare il proprio controtransfert deve sentire acutamente se stesso
nell’altro che ha di fronte.
Ed in ine penso diventi chiaro ora che il buon raccontatore nello stesso
tempo svolge anche un terzo un lavoro terapeutico, che si aggiunge ai
primi due: quello per tutta la società che, attraverso questa strada,
riproduce i propri anticorpi. Per cui, ribadisco, una società che non ha
più bisogno di storie è una società che è cronicamente malata e non ha
le medicine che le potrebbero servirle.
 
Un’altra caratteristica del buon raccontatore è la sua marginalità in
famiglia o nel contesto sociale in cui si trova: un nonno o una nonna non
più produttivi, la zia non sposata che rimane in casa e che è magari un
po' eccentrica. La centralità nel processo produttivo e riproduttivo è
come se non lasciasse spazio per quel tipo di sensibilità e di intuizione
che sono i ferri del mestiere del buon raccontatore. E qui la vostra
condizione di giovani, marginali per statuto, direi, nel mondo della
produzione, può essere, da questo punto di vista, importante per
permettervi di diventare delle buone raccontatrici di iabe. Se uno è
troppo impegnato nel lavoro, questa enfasi produttiva può essere
all’origine di una contrazione di altri aspetti dell’esistenza e può
togliere la voglia e il desiderio di compiere tutti quei processi
introspettivi e intuitivi sopraddetti.
La posizione di margine invece favorisce la tensione a ricercare i mondi
della propria infanzia (di porre il naso all’interno della mia gerla).
Fortunatamente, diceva Cirese: ogni nucleo familiare ha un dolce aedo,
un buon raccontatore che è capace di ascoltare, mantenere dentro di sè
e profferire, adattare ciò che è stato in precedenza ascoltato.
 
Per quanto riguarda la lingua delle iabe sappiamo che ieri le storie
venivano raccontate in dialetto, mentre oggi sono profferite in italiano,
perché? perché ad esempio se mia moglie avesse raccontato le storie a
nostra iglia in dialetto avrebbe compiuto un’opera inutile perché il
dialetto reggiano è un dialetto municipale, neanche provinciale e, se
aveva un senso parlarlo 70 anni fa, prima dell’industrializzazione, oggi
non lo ha più e mia iglia si sarebbe trovata ad ascoltare una lingua di
cui non ha competenza attiva, e forse nemmeno passiva 8che è quella
bastante per comprendere).
Questa eclissi dei dialetti, ripeto, è più evidente in quelle culture, come
quella reggiana (o quella pugliese) in cui non si va verso una koinè
(=unione) dialettale regionale. Se, come avviene ad esempio in Veneto,
ci trovassimo in una situazione di koinè regionale, il bambino sarebbe
in grado di comprendere ancora la iaba in dialetto. Noi però ci
troviamo di fronte ad un dialetto che è diverso da paese a paese in cui la
koinè è solo municipale: ed in questi casi il dialetto è attraversato da un
processo cambiamento veloce, di vera e propria sclerosi, ino a che non
lo parlerà più nessuno. Questo spiega perché noi siamo passati
all’italiano per raccontare le storie ai nostri igli.
Ma anche l’uso dell’italiano non è un fatto facile e scontato: infatti anche
in questo caso il buon raccontatore deve sapere adattare il testo alla sua
udienza. Esiste una raccolta seicentesca di iabe napoletane, ‘Lo cunto
dei cunti’, di G. B. Basile che era stata pensata per una udienza di nobili,
che per questo è scritta in un italiano barocco, aulico. La nostra
udienza, invece, è un’udienza di bambini a rischio, che ci spinge ad
usare un italiano diverso, non quello aulico, ma qualcosa che somiglia
ad un lessico familiare e che solo nel luire del racconto possiamo
de inire nei particolari.
 
I luoghi della iaba, cioè quelli in cui avviene l’affabulazione, sono luoghi
appartati in cui gli elementi di disturbo siano ridotti al minimo (non
posso raccontare una iaba in mezzo ad una piazza dove tutti
rumoreggiano).
Per esempio questa udienza in questo momento non si trova in una
situazione in cui ci sono elementi di disturbo, non ci sono rumori
esterni che impediscono a me di parlare e a voi di ascoltare, ma se
adesso arrivasse un estraneo non disposto ad ascoltarmi e se costui
cominciasse a rumoreggiare tutto ciò romperebbe l’atmosfera che ora ci
avvince e ci costringerebbe ad interrompere la lezione. Tutti i presenti
cioè, nel momento in cui avviene il racconto, devono concordare sul
fatto che quel luogo è il luogo in cui si racconta una iaba. Ci deve essere
una specie di membrana gruppale che avvolge tutti e che deve avere lo
stesso signi icato per tutti i presenti. Ci sono, come voi sapete, degli
elementi che aiutano a circoscrivere questa specie di membrana
illudente. per esempio il C’era una volta... è una formula che ci aiuta a
circoscrivere l’ingresso nella storia, così come ci sono varie formule di
uscita dalla dimensione iabesca, di modo che questo luogo appare
come racchiuso da queste due formule, e tutto ciò ci aiuta.
In questo luogo, inoltre, il raccontatore deve essere di fronte alla sua
udienza, accanto al suo narrare, alla sua parola affabulatrice ci devono
essere, di norma, e in ausilio ad essa una serie di posture, di espressioni
tipiche, di stilemi tipici del linguaggio mimico-gestuale. E questi gesti
devono essere complanari al testo: su questo la relazione di Francesca
Fontanesi di domani potrà essere più esauriente.
Non è la stessa cosa, dicevamo prima, ascoltare la iaba da un
raccontatore in situazione che arricchisce il testo di elementi
complanari legati alle reazioni dell’udienza dall’ascoltare la iaba a
distanza o leggere la iaba senza alcun trasporto: nel ilòss il buon
raccontatore era capace, quando capiva che una determinata iaba era
avvincente, di prolungare il racconto anche per una settimana,
ricorrendo a degli inneschi provenienti canovacci di altre iabe o da
esperienze reali, e ovviamente, quando calava l’attenzione, cercava di
riprendere il ilo del discorso per ri\avvincere l’udienza.
 
Veniamo ora al tempo delle iabe: questo tempo è l’imperfetto: “C’era
una volta una strega” infatti è molto diverso sia da “C’è adesso una
strega” sia da “Ci fu una volta una strega”.
Se io dicessi: “Adesso c’è una strega”, la iaba assomiglierebbe al sogno
nel momento in cui viene vissuto, avrebbe cioè delle caratteristiche di
tipo allucinatorio che potrebbero mettere paura al bambino.
Se io invece dicessi “In un tempo passato ci fu una strega”, non coglierei
l’attenzione dell’udienza.
L’imperfetto da questo punto di vista è malandrino, cioè ha quelle
caratteristiche di ambiguità temporale che permettono all’udienza di
aumentare o di diminuire il tasso di identi icazione con il protagonista
a seconda delle circostanze. Se volete una visualizzazione di questo
processo, provate ad osservare un bambino come si comporta di fronte
ad alcuni momenti drammatici in certi cartoni animati: allorchè sembra
che l’antagonista stia per prevalere egli tenterà di allontanarsi, di
nascondersi, senza però mai abbandonare la storia a metà, perché
troppo incuriosito dal testo 4, mentre sarà più tranquillo e seduto
allorchè per l’eroe o l’eroina si mette bene.
 
In ine qualche considerazione sulle caratteristiche particolari della
nostra udienza: essa è composta da ragazzi disabili o a rischio.
Prendiamo i due tipi di iaba di cui parla Bettheleim, cioè quelle in cui
manca il personaggio cercato a base narcisistica e quello in cui esso è
presente. Entrambe sono importantissime per i nostri casi.
Nei disabili le funzioni carenti sono quelle egoiche (cognitive,
intellettive). Ebbene avrete notato che nelle iabe l’eroe è sempre colui
che è meno dotato, lo scemo del villaggio, il più piccolo. Ciò è un
espediente che permette un più facile identi icazione. E’ come se si
volesse dirgli: “Non ti scoraggiare (tenete presente che i bambini
disabili in preadolescenza sono già in grado di capire di essere un po'
più lenti, meno capaci dei suoi compagni), perché le tue angosce sarai
in grado di affrontarle”. Ebbene proprio perché le iabe a sfondo
narcisistico non lanciano dei messaggi moralistici, ma messaggi che
infondono iducia e aiutano a recuperare l’autostima ecco che questo
tipo di storie risultano adattissime ai disabili..
Ma anche i bambini e i ragazzi a rischio hanno un’autostima bassissima,
o comunque non realistica: cioè o esageratamente alta o altalenante
ecco che la iaba a sfondo narcisistico lancia dei messaggi di
esortazione a superare gli ostacoli anche per loro.
Le iabe in ine in cui è presente un personaggio cercato, quelle cioè a
base edipica, vertono spesso sul tema del superamento dell’Edipo.
Spesso ci dicono: io quando ero bambino ero legato ai miei genitori; ora
che sono cresciuto, realizzo me stesso fuori casa e mi industrierò a
cercare fuori quegli oggetti ideali che prima erano rappresentati dalle
parti buone dei miei cari.
Ora tenete presente, come nelle iabe vi è sempre una partenza pessima
in cui vi è una matrigna cattiva incombente e la morte della mamma
buona, così anche nei nostri casi vi è spesso alle spalle un turbinio di
pensieri ambivalenti che dai genitori vanno verso il bambino e da esso
si riversano sul genitore; e così come alla ine il buono vince sempre sul
cattivo nella iaba, alo stesso modo i due temi del ri iuto genitoriale e
del male amato sono i temi centrali nei nostri bambini disabili e a
rischio. Per cui anche questo secondo tipo si storie assumono per loro
un signi icato abreatorio, terapeutico.
 
Bibliogra ia:
 
AAVV, 1981, Tutto e iaba. Emme ed. Milano
Angelini L., 1989, Le iabe e la varietà delle culture, Cleup, Padova
Basile G.B. 1986. Lo cunto de li cunti (a cura di Rak M.). Garzanti.
Milano.
Bettelheim B. 1977.11 mondo incantato. Importanza e signi icati
psicoanalitici delle iabe. Feltrinelli. Milano.
Calvino I.1981. Fiabe italiane. Mondadori. Milano (10° ristampa) (1 ed.:
1956).
Carloni G. 1973. introduzione a: G. Roheim: Le porte del sogno. Guaraldi
ed. Firenze.
Cassinadri L. e Pantaleoni L.1979. Fòla fulèta. Correggio.
Devéreux G. 1978. Saggi di etnopsichiatria generale, Armando, Roma.
Von Franz M.L. 1980. Le iabe interpretate. Boringhieri Milano.
Fromm E. 1973. Il linguaggio dimenticato. Garzanti, Milano.
Lùthi M. 1979. La iaba popolare europea: forma e natura. Mursia.
Milano.
Propp VJ. 1966. Morfologia della iaba. Einaudi. Torino.
Schenda R. Raccontare iabe, diffondere iabe: trasformazioni delle
forme di comunicazione di un genere popolare, in: «La rivista
folklorica”, n. 12, pp. 77/86.
pp /
Vansina J. 1976. La tradizione orale. Of icina ed. Roma.
Winnicott D W. 1974. Gioco e realtà, Armando. Roma.
---
Note
1. E’ noto, fra l’altro, il grande signi icato, che sul piano linguistico e
culturale, la raccolta dei fratelli Grimm ha avuto nella cultura tedesca in
un momento particolare della storia di questo popolo. quello in cui si
de iniva l’unità nazionale.
2. Economica poiché con il minimo sforzo rag-giunge un grande
risultato sia sul piano te-rapeutico che preventivo.
3. ancor oggi, come ci ricorda Bettelheim, in alcune zone dell’India gli
adulti ammalati di mente ricevono dallo sciamano l’indicazione
terapeutica di raccontarsi delle iabe per superare le proprie angosce.
4. Questa capacità di avvincere l’udienza an-che in presenza di
contenuti orripilanti da Freud venne chiamata ‘il perturbante’.
 
 
 
 
 
 

5° parte: Scambio
 
 
Cosa dà chi riceve – cosa riceve
chi dà
di Margherita Clò
 

Il mio intervento di oggi si inserisce nella serie di incontri formativi che


quest’anno abbiamo deciso di dedicare al tema, molto inerente a
Gancio, del Dare, Ricevere Contraccambiare- dal mercato allo scambio
solidale.
Per introdurre l’argomento prendiamo come riferimento due persone A
e B: A dà qualcosa a B e B riceve qualcosa da A
Le domande allora sono: - se B riceve, cosa dà poi ad A?; - cosa riceve A
da B dopo che gli ha dato qualcosa?
- ma A “riceve” (percepisce) ciò che B gli ha dato con lo stesso
signi icato, riceve solo quello o riceve anche altro? Es vi regalano dei
iori per il compleanno: per chi ve li ha regalati hanno il signi icato di
festeggiarvi. A voi magari i iori non piacciano, vi arrabbiate e pensate
che è sì stato gentile, ma che poteva regalarvi qualcos’altro, visto che
tutti sanno che a voi i iori non piacciono. Oppure siete molto contenti
perché quella persona che in genere non fa regali a nessuno si è
ricordato di voi……e iniziate già a pensare come ricambiare
 
In pratica il senso del ragionamento è “quando qualcuno ci dà qualcosa,
noi in genere ricambiamo? Ci sentiamo in dovere in un qualche modo di
ricambiare? E se ricambiamo come decidiamo di farlo e cosa decidiamo
di dare? E se invece siamo gli A della situazione (quelli che danno) ci
aspettiamo di avere qualcosa in cambio? E chi è ricambiato dà lo stesso
signi icato alla merce di chi ricambia?
 
Il punto credo che stia nel pensare in termini di regalo o di dono, perché
in un caso ci si aspetta di essere ricambiati mentre nell’altro no.
 
REGALARE Se regaliamo qualcosa lo facciamo in genere in una
ricorrenza, per celebrare qualcosa, per festeggiare qualcosa di pubblico
o di privato.
Se andiamo per esempio al compleanno di un amico, ci presentiamo
con un regalo e quando sarà la nostra festa ci aspettiamo che lui arrivi
con un regalo. Qui si presenta il grande problema del contraccambiare,
che sta nel fare un regalo all’altezza di quello che abbiamo ricevuto,
innescando una spirale un po’ perversa che comprende il fatto che il
regalo sia bello tanto quanto quello che abbiamo ricevuto. Sono le
regole sociali, che nella nostra società si sono accentuate in senso
consumistico, ma che in fondo ci sono sempre state, pur con inalità
diverse. Una volta il regalare qualcosa per il compleanno era una
occasione per dare alla persona qualcosa che quotidianamente non si
poteva permettere (il vestito, le scarpe).
A questo si allaccia il discorso del come viene scelto un regalo, cioè
perché scegliamo una cosa piuttosto che un’altra da regalare proprio a
quella persona. È chiaro penso a tutti che col regalo vogliamo
trasmettere tutta una serie di messaggi che riguardano la sfera dei
sentimenti privati. Rispetto a questo però non possiamo essere certi
che quello che vogliamo comunicare all’altro sia esattamente ciò che
l’altro percepisce.
C’è poi un altro elemento nel regalo che non va sottovalutato che è la
sorpresa: forse crescendo si perde un po’ il gusto della sorpresa e di
qualcuno che te la fa, ma se pensiamo ai bambini per Natale, capiamo
quanta parte ha nel regalo. Il fatto poi è che la sorpresa deve esser
all’altezza delle aspettative che uno si è creato e questo, chi fa il regalo,
lo sa ed allora cerca di fare un regalo molto bello. Fra l’altro questo ha
anche il senso di ridare all’altro il messaggio “il regalo che mi avevi fatto
mi è piaciuto molto, mi ha fatto molto felice ed io ora voglio ricambiare”.
Quindi nel regalo c’è la condivisione di una ricorrenza, il
contraccambiare in modo adeguato, il trasmettere dei messaggi e la
sorpresa.
 
DONARE Io credo che la dimensione del donare invece sia differente;
forse potremmo dire che è più legata ad una morale religiosa,
comunque sta di fatto che il donare prende dentro di sé più un dare
senza l’aspettativa di ricevere. Ti do qualcosa di mio perché mi fa
piacere farlo. Babbo Natale nella leggenda porta i doni: con le sue renne
viaggia nei cieli e porta nelle case ai bambini “buoni” i doni richiesti, ma
lui non si aspetta che i bambini ricambiano. Non per questo non riceve
nulla in cambio: lo fa perché gli fa piacere rendere i bambini felici e
questo - sempre nella leggenda!!- lo rende felice; è il suo lavoro… e degli
gnomi!!!!
Quindi nel dono non c’è l’aspettativa da parte di chi dona di ricevere
materialmente qualcosa in cambio. È un atteggiamento mentale
differente da quello del regalare, mosso da una particolare vena
altruistica.
Anche qui come nel regalare c’è comunque la dimensione della
sorpresa, della trasmissione di signi icati e de sentimenti che va nelle
due direzioni (chi dà e chi riceve). E chi riceve come si sente?
 
Tutto questo ragionamento si inserisce in un ottica di scambio: io do
una cosa a te, tu dai una cosa a me; ma in realtà si tratta di uno scambio
particolare, nel senso che il mercato di cui parliamo è fatto di merce
umana e quindi di sentimenti, di aspettative e di comportamenti. Tutto
questo è assente in un contesto di “mercantaggio”, perché il denaro
elimina, per così dire, gran parte della dimensione che chiamerei
“umana”. Quando andiamo in negozio a comprare qualcosa, la
commessa ci dà la merce che abbiamo scelto e noi le diamo i soldi.
Nessuna delle due si aspetta ringraziamenti, sorprese o altro. La merce
non ha valore in sé, ma il suo valore è determinato dalla legge della
domanda e dell’offerta: più una cosa è richiesta più costa, più
scarseggia più è preziosa.
 
Il mercato di Gancio Originale invece è un mercato in cui la merce ha
valore in sé, anche se è un valore diverso per ciascuno. La mia attività di
volontariato assume per me un signi icato, mi insegna, mi trasmette
delle cose che sono mie, perché sono io che le ricevo e le trasmetto; è
dunque uno scambio solidale.
Accennavo prima al donare come atto altruistico. Vorrei riprendere
alcuni concetti sull’altruismo e l’egoismo, anche se sono stati già
ampiamente trattati in passato dal dott. Angelini. Per la teoria
psicodinamica gli esseri umani sono governati da forze chiamate
pulsioni. Esiste una pulsione di vita ed una di morte. L’energia della
pulsione di vita si chiama Libido e si divide in libido dell’Io e libido
sessuale; esse possono essere dirette verso oggetti esterni (cose o
persone) o verso il Sé. Ciascuno di noi, in base alla sua storia, a come si
p )
è sviluppato, a come è cresciuto ed a come è stato educato, dirige la
libido più in un senso o più nell’altro.
 
Investimento sul Sé: libido dell’Io egoismo

libido sessuale narcisismo


 
Investimento oggettuale: libido dell’Io altruismo
libido sessuale innamoramento
 
Questo schema però non deve essere preso in termini rigidi, perché in
realtà le cose si mescolano: la libido dell’Io può essere diretta sul Sé, ma
la libido sessuale sugli oggetti, per cui avremo una persona egoista ma
non narcisista, capace cioè di stringere dei legami oggettuali (cose,
persone, interessi).
L’altruista fa sempre degli investimenti oggettuali, cioè su oggetti
esterni che hanno però natura differente: si può trattare di altruismo
puro o di innamoramento. Ecco perché nel senso comune si dice di una
persona che è altruista quando ha una particolare dedizione, “amore”
per gli altri. Per Altro intendo non solo chi è “separato” da me, ma anche
chi è diverso, estraneo.
Vorrei a questo punto farvi ri lettere però su come ciascuno di noi può
essere altruista. Innanzitutto non è una scelta volontaria, ma per lo più
è dettata da una serie di circostanze della vita personale di ciascuno;
nessuno di noi è obbligato per essere un bravo e onesto cittadino ad
essere altruista. In secondo luogo credo che per essere altruisti, cioè
per dedicarsi agli altri, per poter donare, sia in una certa misura
indispensabile essere egoisti. Bisogna in altre parole voler bene a sé
stessi, stare bene con Sé stessi per poter star bene con gli altri.
 
Chi fa attività con Gancio Originale e che quindi ha deciso di dedicare
parte del proprio tempo ad aiutare chi è in dif icoltà, ha fatto un lavoro,
più o meno consapevolmente, dentro di sé. Innanzitutto occorre
riconoscere che i bambini che aiutiamo hanno delle dif icoltà e sono in
una certa misura degli estranei, sia perché all’inizio non li conosciamo,
sia perché il loro mondo è molto diverso dal nostro. Per poter allearsi
con loro, avvicinarli, aiutarli occorre essere disposti ad entrare in
contatto con qualcosa che ci è ignoto, sconosciuto e che ci metterà alla
prova. Ecco perché ci deve essere dentro ciascun volontario una punta
di egoismo che lo aiuta a preservarsi, a proteggersi di fronte a questo
universo nuovo e dif icile.
Il secondo passo è quello che più riguarda il tema di oggi: stare con
Gancio signi ica accettare lo scambio solidale nella dimensione del
donare. Non sto dicendo che essere volontari signi ica diventare dei
martiri, ma semplicemente che dobbiamo pensarci un po’ Babbo Natale.
Il lavoro che durante l’anno si fa con Gancio implica un dare, in cui ciò
che si riceve è spesso dif icile da vedere. Credo che sia proprio questa la
grande s ida di ciascun volontario: imparare a riconoscere ciò che i
bambini con cui lavoriamo sanno darci. Non ci si deve aspettare dei
grazie, dei bei voti a scuola, la capacità di essere disciplinati e di
ascoltare. Ciascuno di loro contraccambia nel modo che gli riesce:
alcuni quando prendono un bel voto ce lo vengono subito a dire, altri
no. Alcuni di loro avranno forse raggiunto come unico obiettivo il venire
regolarmente al pomeriggio da noi.
Credo sia bene comunque tenere presente che quello che ogni
volontario gli da è qualcosa di raro: delle persone che regolarmente si
dedicano a loro, prestano loro attenzione, li aiutano, insegnano loro, li
fanno giocare. Ma anche ciò che danno questi bambini è qualcosa di
unico. Ogni volontario se pensa alla propria esperienza credo che possa
dire di avere ricevuto delle cose, di essere in un qualche modo stato
ricambiato, forse non tanto con della merce, ma sicuramente con dei
sentimenti, con una visione diversa del mondo.
 
Vorrei concludere ricordando un’immagine del libro di Alessandro
Baricco “Oceano Mare”. Per chi non lo conosce, uno dei personaggi è
Ismael Adelante Ismael prof. Bartleboom, che sta scrivendo
l’Enciclopedia dei limiti riscontrabili in natura con un supplemento
dedicato ai limiti delle umane facoltà. Nel libro è alle prese con la voce
MARE. Il suo problema è capire dove inisce il mare. È facile sulla carta
geogra ica vedere i con ini del mare, ma il problema è molto più
complesso…….
 
-
Cioè… vedete lì, dove l’acqua arriva… sale sulla spiaggia poi si ferma…
ecco, proprio quel punto, dove si ferma… dura proprio solo un attimo,
guardate, ecco, ad esempio, lì… vedete che dura solo un attimo, poi
g p p
sparisce, ma se uno riuscisse a fermare quell’attimo… quando l’acqua si
ferma, proprio quel punto, quella curva… è quello che io studio. Dove
l’acqua si ferma.
-
E cosa c’è da studiare?
-
Be’, è un punto importante… a volte non ci si fa caso, ma se ci pensate
bene lì succede qualcosa di straordinario, di… straordinario.
-
Veramente?
Bartleboom si sporse leggermente verso la donna. Si sarebbe detto che
avesse un segreto da dire quando disse
-
Lì inisce il mare.
Il mare immenso, l’oceano mare, che in inito corre oltre ogni sguardo,
l’immane mare onnipotente – c’è un luogo dive inisce, e un istante –
l’immenso mare, un luogo piccolissimo e un istante da nulla. Questo
voleva dire Bartleboom. (A. Baricco, “Oceano Mare”, pag. 33)
 
Questa immagine mi è parsa “giusta” per noi perché il dare, il ricevere e
il contraccambiare dentro Gancio ha dei limiti, delle regole, che noi ad
ogni occasione ci raccontiamo, ma il fatto è che quello che succede tra il
volontario e il bambino che egli aiuta è dif icile da dire, perché per
ciascuno è diverso. È come l’onda quando incontra la riva: il
meccanismo, se così lo possiamo chiamare, è lo stesso, ma in realtà ogni
onda incontra la riva in modo diverso; quello che l'onda dà alla spiaggia
e quello che la riva cede all’onda è diverso ogni volta, è speciale.
Nessuno “annuncia” all’altro ciò che gli darà, ma dopo il loro incontro
sono diversi entrambi, perché hanno dato e ricevuto, anche senza
saperlo, come fate voi. Potete scegliere di essere l’onda o la riva:
l’importante è non aver paura dell’incontro, delle mareggiate…
 
 
 
Varie forme di comunicazione
orale nell’intervento di
volontariato
di Francesca Fontanesi
 

Le tematiche che verranno affrontate riguarderanno inizialmente le


componenti della comunicazione per approfondire in seguito l’oralità e
la comunicazione come veicolo di relazione tra gli individui.
Comunicazione deriva dal latino communicare che signi ica mettere in
comune, rendere partecipe. Il processo di comunicazione si può
intendere come processo inalizzato alla messa in comune, tra due o più
interlocutori, di esperienze, informazioni, pensieri ed emozioni. La
messa in comune con corrisponde ad aprirsi a. E non è sempre facile:
infatti per mettere in comune deve essere riscontrata volonta’,
intenzionalità, concetto che riprenderemo in seguito e motivazione .
La motivazione, dal latino “capace di far muovere”, è un fattore
dinamico del comportamento umano che attiva e dirige un organismo
verso una meta.
Il termine COMUNICAZIONE indica tutti gli innumerevoli modi con cui
gli esseri umani entrano in contatto tra loro, non solo quindi le parole ,
la stampa, la pittura, la musica, ma anche le grida, i sussurri, i cenni del
capo, i segni con le mani, le varie posture assunte dal corpo, il tipo di
abiti indossato (Montagu e Matson, 1981).
Si può comunicare utilizzando la comunicazione verbale e quella non-
verbale. La comunicazione verbale è caratterizzata dal punto di vista
vocale dalle parole pronunciate che utilizzano, per essere trasmesse il
canale uditivo mentre dal punto di vista non-vocale è caratterizzata
dalle parole scritte che per essere ricevute, utilizzano il canale visivo. La
comunicazione non verbale è invece caratterizzata dal punto di vista
vocale dalla qualità e intonazione della voce, velocità e ritmo,
pronuncia, accento, retorica, enfasi e così via mentre dal punto di vista
non-vocale si parla del linguaggio silenzioso caratterizzato da
espressioni facciali, apparenza isica, distanza interpersonale, gestualità
etc.
La comunicazione umana è un insieme complesso di simboli e segni che
ci servono ad interpretare il nostro ruolo sociale secondo un copione
che noi stessi scriviamo. Quando si parla di ruolo ci si riferisce alla
posizione di singoli individui all'interno di un sistema sociale ed
all'insieme delle norme e delle aspettative che ci si attendono da quel
individuo in quanto occupante un determinato ruolo.
Lo scriviamo, lo sceneggiamo, ne allestiamo la coreogra ia, ne
predisponiamo le mosse e poi lo recitiamo af idandone l’esecuzione al
linguaggio delle parole, dei segni, dei gesti; e la scena come sempre è il
mondo sociale
In questo complesso insieme di simboli e segni la comunicazione non
verbale è considerata un linguaggio di relazione , un mezzo primario
che segnala i mutamenti nelle relazioni personali, che sostiene e
completa la comunicazione verbale, essendo meno facile da controllare
rispetto al comportamento verbale, lascia iltrare contenuti profondi e
parla come il linguaggio non sa parlare.
La comunicazione umana è un processo che implica una molteplicità di
fenomeni (verbali e non verbali, razionali ed emotivi).
Punto di partenza necessario per collocarsi all’interno del meccanismo
della comunicazione è la nozione di competenza comunicativa, intesa
come insieme di conoscenze e regole che rendono possibile e attuabile
per ogni individuo dare signi icato alle cose e il comunicare (Zuanelli e
Sonino, 1981). Una interazione comunicativa avviene se il parlante
possiede ed utilizza alcune (o tutte) delle componenti di una serie di
competenze (Berruto, 1974):

capacità di produrre e interpretare segni verbali (lettura e scrittura)

capacità di variare alcune caratteristiche della modalità verbale (es.


enfasi, esclamazioni…)

capacità di realizzare la comunicazione mediante segni gestuali

capacità di variare le distanze interpersonali dell’atto comunicativo (es.


nella nostra cultura la vicinanza isica è indice di con idenza e intimità)

la capacità di riconoscere le situazioni sociali e le relazioni di ruolo


insieme alla capacità di conoscere gli elementi distintivi di una
determinata cultura.
Per avere un atto di comunicazione sono essenziali almeno 6 fattori:
l’emittente (chi produce il messaggio), un codice (che è il sistema di
riferimento in base al quale il messaggio viene prodotto), un messaggio
(che è l’informazione trasmessa e prodotta secondo le regole del
codice), un contesto in cui il messaggio è inserito e a cui si riferisce; una
canale (cioè un mezzo isico-ambientale che rende possibile la
trasmissione del messaggio, es. aria oppure linee telefoniche, posta
elettronica), ; un ricevente che è colui che riceve e interpreta il
messaggio.
L’intervento di volontariato singolo e in gruppo mette in evidenza la
complessità del sistema di comunicazione: infatti sia i volontari che i
ragazziemettono e ricevono messaggi attraverso molteplici canali e
codici e soprattutto attraverso la relazione affettiva.
 
 
 
I messaggi rappresentati dai vettori possono essere emessi
intenzionalmente oppure no. Una comunicazione è intenzionale (da
intentio che signi ica tendere verso qualcosa diverso da sé) se
rappresenta una comunicazione “per l’altro”, espressa con un
linguaggio che egli possa comprendere, assumendo il suo punto di
vista, “mettendosi nei panni dell’altro”.
E’ il concetto di role-taking (Mead,1934) che comporta:

essere capaci di comprendere che esiste una prospettiva dell’altro
diversa dalla propria: superamento dell’egocentrismo cognitivo proprio
del bambino che non differenzia il proprio punto di vista da quello degli
altri;

ricevere un feedback cioè il controllo da parte dell’emittente sulla
comprensione del messaggio stesso da parte del ricevente;

osservare e inferire dal comportamento stesso del bambino il passaggio
dall’uso accidentale all’uso intenzionale di determinati segnali.
E’ possibile non comunicare?
Il concetto di intenzionalità della comunicazione costituisce un grande
problema teorico. Alcuni studiosi de iniscono comunicazione qualsiasi
comportamento che avviene in presenza di un’altra persona. Altri
affermano che bisogna distinguere tra comportamento che in certe
situazioni può fungere da segnale per chi osserva ed essere interpretato
come tale e comunicazione che comporta un sistema di segnali
socialmente condivisi o codice e prevede un’azione intenzionale di
codi ica e decodi ica. Qualsiasi cosa facciamo oppure no, viene
comunque interpretata secondo codici culturali e schemi caratteristici
sia del tempo e del luogo in cui questi stessi segnali vengono emessi sia
della persona che tali segni percepisce. (per es. l’assenza ad una
riunione, il non esserci isicamente può costituirsi come fonte di un
messaggio interpretabile in modi diversi).
Per concludere, dare forma ad un atto comunicativo comporta:

osservare e ascoltare se stessi e gli altri

disporre delle conoscenze utili e necessarie
(chi emette il messaggio, chi lo riceve, in quale contesto ci troviamo)

apprendere dall’esperienza

essere motivati a…. (capaci di far muovere)
 
All’interno del processo comunicativo, il primato del linguaggio orale è
evidente ancora oggi. Chi legge un testo scritto lo traduce, a voce alta o
solamente con l’immaginazione in parole “dette”. Quali sono le
caratteristiche del linguaggio orale?

Partecipazione e immediatezza: chi comunica oralmente, partecipa al
messaggio che trasmette. Quando i bambini ascoltano i racconti di
iabe, si possono vedere passare sul loro viso la successione degli stati
d’animo di ansietà, di speranza, di paura, di gioia. La comunicazione
orale ha bisogno di solito della presenza isica di un interlocutore.

Indistinzione tra soggetto e oggetto. Le parole hanno una loro vita e una
loro forza che le rende più simili a delle azioni. L’immedesimazione con
il contenuto del messaggio comporta questa tendenza a non distinguere
ciò che fa parte del proprio corpo e ciò che fa parte del mondo.

Il primato del tutto sulle parti: Le esigenze della conservazione


mnemonica portano a issare il messaggio non solo in forme ritmiche
ma anche in un insieme di forme precostituite con antitesi e ripetizioni.

Fonte di creatività attraverso una sempre rinnovata partecipazione del


pubblico al racconto grazie alla capacità di modulare il messaggio da
parte del narratore. Cirese afferma che la narrazione orale è intesa
come mobilissimo corpus in continua tensione in cui i vari generi si
alimentano l’uno dall’altro in base ai continui apporti provenienti dalla
cultura in cui si origina il racconto e dalle caratteristiche personali del
narratore.

Coinvolgimento sensoriale: mentre la vista pone l’osservatore al di fuori


di ciò che vede, a distanza, il suono si dirige verso l’ascoltatore. Per
vedere bisogna essere separati da ciò che si vede. L’ideale visivo è la
chiarezza, la nettezza dei contorni, quello uditivo è al contrario,
armonia, uni icazione (Ong, 1986)
La comunicazione orale può avere una funzione formativa?

La iaba. Secondo Luthi un racconto diventa iaba quando: il mondo
reale è distinto dal mondo soprannaturale; l’eroe è senza nome e senza
connotati e per questo tende ad essere un contenitore per accogliere
tutte le identi icazioni; presenza dell’elemento del dono e del prodigio e
di motivi narrativi utilizzati solo quando servono all’economia del
racconto. Le iabe, scrive Angelini (1988), esercitando una funzione
liberatoria (che spinge verso la crescita psicologica) permettono al
bambino di affrontare “le dif icoltà della crescita” senza ritrarsi di
fronte ad esse, ma affrontandole risolutamente sempre più iducioso
nei propri mezzi e cioè conscio delle proprie capacità ma anche dei
propri limiti. L’alternativa fra crescere e rimanere piccoli, fra la paura
della morte e la iducia nella vita, fra l’odio e l’amore, fra la distruttività
e la creatività, fra l’invidia e la gelosia di riparazione dall’altra, a tutte
queste alternative angoscianti le iabe danno una risposta che va nel
senso di un aiuto a crescere, ad avere iducia in se stessi. Nella iaba
questo aiuto avviene attraverso un processo di identi icazione con il
personaggio principale: quasi sempre un bambino e un ragazzo che
sembra essere debole e pauroso trionfa perché osa affrontare le
dif icoltà della vita. La iaba in luenza i processi di identi icazione e
quindi i processi in base ai quali si determina l’identità del bambino.
Presupposto per la realizzazione dei processi sopraindicati è la
copresenza di tutti i soggetti coinvolti nello stesso luogo mentale in cui
la scena ha luogo.
La iaba ha inoltre una funzione preventiva data dal narratore, che offre
attraverso la iaba una risposta immediata e coinvolgente ai vari
problemi, connessi alle varie fasi della crescita del bambino e una
funzione di trasmissione dell’identità culturale di un popolo e di un
territorio.

La favola. E’ un breve racconto fantastico contenente un insegnamento
morale in cui i protagonisti sono soprattutto animali e piante. La
funzione formativa consiste nel favorire un processo di apprendimento.

La storia. Le storie sono dei racconti in cui sono presenti dei personaggi
“storici”, realmente esistiti. Inoltre esistono luoghi reali, c’è in ogni
storia un ine quasi sempre legato alla fama dei protagonisti.

Storiella umoristica, storie di paura, la poesia (nella cultura orale per
tramandare messaggi occorreva organizzarli in modo ritmico per
facilitarne la memorizzazione), le ilastrocche (tutti i componimenti in
rima o ritmati, considerando la musicalità come elemento
fondamentale con la inalità di distrarre i bambini dal pianto o per farli
addormentare oppure con inalità didattica (i giochi tra adulti e
bambino o narrativa)

Role- playing. Attraverso questo gioco si possono cambiare i ruoli,
inventare i inali, essere più elastici nell’integrare parti della nostra
personalità con il ruolo del personaggio che interpretiamo. Questo
signi ica favorire la creatività individuale che diventa collettiva quando
il nostro personaggio si relaziona con gli altri e attua uno scambio.
La comunicazione orale può avere una funzione terapeutica?

La iaba arreca bene ici immediati che aiutano il bambino a superare i
problemi attuali, anche se, inché il problema non è risolto alla radice, il
bambino avrà sempre bisogno di qualcuno che gli racconti una iaba
che lo possa riconciliare con se stesso e col mondo (es. prima di
addormentarsi, la paura del buio, del non conosciuto, del lasciarsi
andare…), (Angelini,1988).

La psicoterapia che si occupa della cura dei disturbi mentali e dei
disadattamenti attraverso tecniche psicologiche fondate sulla relazione
verbale e non verbale tra medico e paziente. La metafora di Janet che
paragonava le parole che curano allo spago (che può legare diversi
oggetti fra loro, collegarli) e al paniere (che li contiene e li riunisce),
può aiutare a capire come le parole non siano solo regole comunicative
ma possono diventare il tramite con l’oggetto, “un involucro sonoro che
sfuma e contiene allo stesso tempo i limiti dell’Io e dell’oggetto”
(Anzieu, 1985)

Lo Psicodramma. Alcune tecniche terapeutiche, come lo psicodramma,
hanno una certa somiglianza con il gioco di ruolo. Ma in uno
psicodramma vengono messi in scena problemi e con litti della vita
reale, che riguardano l'individuo e i suoi rapporti con gli altri; in un
gioco di ruolo vengono interpretati personaggi di fantasia inseriti in un
universo narrativo.

Il riso. Farnè (1995) sostiene che il senso dell’umorismo costituisce una
difesa psicologica, personale contro lo stress; insieme ad altri
comportamenti come avere un atteggiamento ottimista, la percezione
di controllo sulla situazione, amare le novità e le avventure , avere un
“senso dell’impegno” e utilizzare le proprie capacità per reagire ai
contrattempi della vita quotidiana. E. Kris afferma che “sotto la spinta
della battuta di spirito, torniamo all’allegria dell’infanzia. Possiamo
inalmente liberarci dai legami del pensiero logico e divertirci in una
libertà dimenticata da anni e anni”. Un’importante funzione della risata
è di alleggerire i pesi della vita e il piacere deriva in parte dalla
soddisfazione che ne deriva. L’umorismo segue il principio di piacere
(“voglio quello che voglio e basta!”) piuttosto che quello più maturo
psicologicamente della realtà (“vorrei ma devo rispettare certe regole”).
 
Dopo aver fornito alcuni elementi di ri lessione sulla funzione formativa
e terapeutica della comunicazione orale, torniamo ancora una volta alla
radice etimologica del termine comunicazione.
Nella relazione comunicativa che i volontari creano con i ragazzi, che
cosa si mette in comune con loro, di che cosa li si rende partecipi?
Proverò ad affrontare quest’ultimo tema attraverso un ragionamento
parallelo tra un atto di comunicazione che avviene tra madre e
bambino, caratterizzato dalla regolazione reciproca di affetti e
attenzione e un atto di comunicazione tra il giovane volontario e il
bambino o ragazzo all’interno di un progetto di volontariato.
Studiare la comunicazione nel primo anno di vita signi ica studiare da
una parte il passaggio da una comunicazione non intenzionale alla
comunicazione intenzionale, dall’altra il passaggio da un tipo di
comunicazione non linguistica alla comunicazione linguistica. Il
neonato che piange non è consapevole di produrre un segnale
comunicativo. Al contrario il segnale verbale o gestuale del bambino di
un anno, viene prodotto intenzionalmente al ine di raggiungere uno
scopo preciso. La fase dello sviluppo che precede nel bambino
l’acquisizione del linguaggio è una fase prelinguistica, ma non
precomunicativa, nel senso che in essa sono già presenti diverse
modalità di comunicazione gestuali e vocali attraverso le quali il
bambino comunica con l’ambiente che lo circonda prima di essere in
grado di utilizzare il linguaggio.
Per studiare questi primi stadi dello sviluppo della competenza
linguistica è necessario “osservare” il processo di costruzione e inferire
dal comportamento stesso del bambino il passaggio dall’uso
accidentale all’uso intenzionale di determinati segnali. Il processo di
osservazione permanente dei possibili cambiamenti ed evoluzioni della
relazione è di grande importanza anche nell’intervento di volontariato.
Questa intenzione comunicativa viene dedotta sulla base del
comportamento esterno non verbale del bambino nelle sue prime
manifestazioni: dalle vocalizzazioni prelinguistiche al contatto visivo al
comportamento gestuale (Camaioni, Volterra, Bates;1976). Imparare a
parlare è un processo estremamente complesso che si veri ica di solito
nei primi tre anni di vita con estrema rapidità. In seguito il sistema
linguistico si espande, si specializza e si consolida ino all’inizio dell’età
scolare, quando si veri ica un altro importante cambiamento con
l’acquisizione della lingua scritta.
 
Ricostruzione della sequenza evolutiva nello sviluppo
comunicativo:
1. Il Bambino agisce (piange, vocalizza, sorride...)
2. EFFETTO COMUNICATIVO
La Madre reagisce al comportamento del B.
3. COMUNICAZIONE PREINTENZIONALE
I comportamenti diventano progressivamente diretti ad uno scopo: il
bambino guarda, vocalizza, si muove verso… e\o cerca di afferrare un
giocattolo.
4. INFERENZA COMUNICATIVA M interpreta i comportamenti
comunicativi e aiuta il bambino a raggiungere il suo scopo (es. il
giocattolo).
5. COMUNICAZIONE INTENZIONALE
B è in grado di utilizzare strumenti per raggiungere il suo scopo. E’ in
grado di utilizzare il controllo visivo e le vocalizzazioni per fare
intervenire la madre nel raggiungimento dei propri scopi.
6. M risponde appropriatamente alle intenzioni comunicative ma “alza
il tiro”, sollecitando la produzione di vocalizzazioni convenzionali e
parole.
7. COMUNICAZIONE LINGUISTICA
B comincia a produrre parole all’interno delle sequenze comunicative.
 
Siamo di fronte a vari livelli di comunicazione: nel bambino disabile
non sempre è possibile raggiungere tutti li livelli della sequenza
evolutiva.
 
Ricostruzione di una sequenza comunicativa nell’intervento di
volontariato all’interno dell’attività di workshop:
1. Il Bambino mette in atto un comportamento che sospende l’attività
del gruppo.
(Per es. si alza e si allontana dal gruppo uscendo dall’aula oppure
sedendosi sul banco più lontano; durante l’aiuto nei compiti può
capitare che, mentre vi state impegnando nella spiegazione, il ragazzo si
gira dalla parte opposta alla vostra, mostrandosi interessato ad un’altra
attività)
2. il volontario reagisce al comportamento del bambino: c’è un effetto
comunicativo ma non intenzionalita’ nell’atto comunicativo. Il bambino
attraverso quel comportamento esprime un disadattamento o un
disagio per una determinata situazione.
Il volontario può reagire in vari modi: può sentirsi impotente oppure
provare un sentimento di rabbia nei confronti del ragazzo perché ha
disturbato un buon progetto di lavoro.
Quale è la possibile soluzione? Si può pensare che l’altro ci abbia voluto
comunicare qualche contenuto che lo riguarda e che all’interno del
gruppo e in quella situazione, può emergere attraverso quel
comportamento.
3. Il ragazzo nel momento in cui rientra nel gruppo avrà una percezione
dell’interpretazione del suo comportamento da parte del volontario. In
questo senso può utilizzate il precedente comportamento in modo pre-
intenzionale per raggiungere uno scopo. Attraverso il feed-back che
riceve dal volontario, il ruolo di cattivo può essere confermato oppure
no, immagine spesso rafforzata dalle comunicazioni che provengono
dalla scuola e dalla famiglia.
4. Il volontario quando cerca di codi icare il messaggio sottostante il
comportamento, attua una inferenza comunicativa. Ha un compito
importante: attraverso il suo comportamento può fornire al ragazzo
quegli strumenti che evidenziano i diversi modi di comunicare che
abbiamo a disposizione.
Quale è lo scopo?

Insegnare a dare un nome alle proprie emozioni

favorire quel fondamentale passaggio dal gesto alla parola, dall’acting-


out al fare pensato (capire quello che passa dallo stomaco).
Per il raggiungimento di questi scopi appare molto importante la
capacità di osservazione e ascolto (per non farsi sommergere dal
disagio che questi comportamenti ci possono trasmettere).
Anche l’attivazione di laboratori ludico-creativi in cui i volontari sono i
principali animatori, costituiscono nuove opportunità di luogo
riparativo sia isico che mentale per rimandare al ragazzo un’immagine
in antitesi con l’etichetta di cattivo, che rappresenta una comunicazione
fonte di pregiudizio.
5. Il ragazzo può diventare in grado di utilizzare diversi strumenti
comunicativi oppure prediligerne uno. Più spesso questi ragazzi si
applicano parzialmente, dando l’impressione di non approfondirle.
Capacità di tollerare l’attesa e incontri di veri ica permanente
costituiscono alcuni strumenti importanti per valutare i risultati che si
evidenziano soprattutto a lungo termine.
 
 
Bibliogra ia
Angelini L., (1988). Le iabe e la varietà delle culture. Cleup editore,
Padova.
Angelini L., (1998). Affabulazione e Formazione, Unicopli editore,
Milano.
Angelini L., Bertani D., Bevolo P., Fagandini P., (1999). Bambini e ragazzi
a rischio tra famiglia, scuola e strada, Unicopli editore, Milano.
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Marola, 8 settembre 1998.
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emiliane, Unicoop editore, Correggio.
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Edizioni Borla, Roma.
Fontanesi F. (A.A.1996-97). Tesi di laurea: Dalla vocalizzazione al
linguaggio: studio longitudinale sulla relazione tra competenza
comunicativa e attaccamento in bambini nati pretermine, Facoltà di
Psicologia, Università degli Studi di Padova.
Henri Ey, Bernard P., Brisset Ch., (1993). Manuale di Psichiatria, editore
Masson, Milano.
Moderato P. e Rovetto F. (1997). Psicologo: verso la professione,
McGraw-Hill Libri Italia editore, Milano.
Morganti S. (1994). Le voci del silenzio: l’ascolto della comunicazione
interpersonale, Editori Riuniti, Roma.
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Ravasi Bellocchio L., (1999). Come il destino: lo sguardo della iaba
sull’esperienza autistica. Raffaello Cortina editore, Milano
Ricci Bitti P., Zani B., (1998). La comunicazione come processo sociale, il
Mulino editore, Bologna.
Riva Crugnola C. (a cura di…), (1999). La comunicazione affettiva tra il
bambino e i suoi partner, Raffaello Cortina editore, Milano.
Savagnone G., (1997). Comunicazione oltre il mito e l’utopia, Paoline
editore, Milano.
Tessarolo M. (1991). Il sistema delle comunicazioni: un approccio
sociologico, Edizioni Cleup, Milano.
Incontrarsi: gli spazi dello
scambio solidale
di Leonardo Angelini
 
 
La propensione al dono come spazio interno che esiste in ciascuno
di noi
Nella società in cui viviamo sembra che la dimensione del dono, non
esista, che cioè quell’insieme di atti gratuiti - dare, ricevere,
contraccambiare - che contraddistinguono lo scambio solidale non
trovino spazio.
Al contrario lo scambio non solidale, utilitaristico tipico del mercato, la
venalità del mercato sembrano avere il sopravvento ed occupare tutta
la scena.
Venalità contro gratuità, mercato contro dono: la partita sembra
irrimediabilmente persa per lo scambio solidale centrato sulla gratuità
del dono.
Godbout, un sociologo canadese che studia le ragioni e i meccanismi del
dono, ha dimostrato che ciò non è assolutamente vero e che, anche in
una società mercantile come la nostra, nella quotidianità per ciascuno
di noi vive, senza accorgersene, nella dimensione gratuita e altruistica
del dono.
La tesi di Godbout è che la quotidianità del gesto non venale del dono,
che anche il più egoista di noi esegue quotidianamente, passa
inosservato proprio grazie alla sua gratuità che, in una società come la
nostra basata sullo scambio mercantile, venale, non viene valutata
poiché computabile da un punto di vista economico.
Questo approccio al dono fa piazza pulita di alcuni preconcetti riguardo
ad esso, e soprattutto lo avvicina a noi comuni mortali poiché non lo
con ina nell’ambito liminare del gesto estremo, santo, unico,
straordinario.
Ecco quindi che, conseguentemente, gli stessi spazi dello scambio
solidale ci diventano più domestici e cominciamo a riconoscere la
presenza del dono in luoghi per noi consueti, che in una società
complessa come la nostra – come ci ricorda ancora Godbout – non sono
più con inati nel dare, ricevere e contraccambiare limitati all’ambito
familiare o poco più, così come avviene nelle società semplici, ma
risultano estesi ben oltre questo ambito e potenzialmente
comprendono tutta l’umanità.
Inutile dire che, dopo aver letto Godbout, noi ‘vecchi’ di Gancio
Originale abbiamo subito condiviso le sue tesi, specialmente per quanto
riguarda questo taglio basso che il sociologo canadese dà al sistema del
dono, taglio che ci ha subito fatto venire in mente la richiesta che
Gancio fa ai suoi aderenti, che è, si, importante, impegnativa, ma anche
limitata nel tempo e calibrata sulle reali disposizioni di ognuno, di
modo che risulti un impegno attuabile.
E subito dopo ci siamo chiesti: quali sono e come funzionano i nostri
luoghi dello scambio solidale? Quelli di interni – esterni di Gancio
Originale?
Innanzitutto cerchiamo di elencare i nostri spazi esterni che sono: il
workshop, gli spazi meno scanditi in cui si svolgono le attività
individuali, e qualsiasi luogo in cui si estrinsechi la nostra attività di
volontariato.
Spesso si tratta di luoghi scolastici, di ambulatori di tipo sociosanitario,
delle semplici abitazioni dei nostri bambini. Si tratta quindi di luoghi in
cui, spesso apparentemente giochiamo ‘fuori casa’. Cos’è che li rende
nostri, cioè nostri e dei nostri bambini o ragazzi? Il fatto che noi li
ride iniamo come nostri, come luoghi di scambio solidale, li facciamo
nostri, li segniamo come nostri attraverso la nostra opera e che, per fare
questo dobbiamo innanzitutto de inire dentro di noi uno spazio
interno, che potremmo de inire come lo spazio per l’impegno nel
volontariato, che è come una precondizione che ci permette di andare
verso l’altro.
In altra sede abbiamo già affrontato la natura di questo spazio interno e
le insidie cui andiamo incontro nel momento stesso in cui lo scopriamo
dentro di noi. E sono le vicissitudini e i mille intrecci che legano
egoismo ed altruismo, impegno e disimpegno, creazione e distruzione,
attività e passività.
In questa sede basti riscontrare questo: all’interno di questo intrico
movimenti interni occorre prenderne in considerazione un altro, il
sistema del dono, la propensione al dono, di cui anche noi ci eravamo
dimenticati, proprio perché, come opportunamente ci ricorda Godbout,
era in bella vista a ianco a noi, prima che dentro di noi, ed era
nell’amore gratuito che ci hanno mostrato i nostri genitori, i nostri
amici, e tutti coloro che ci hanno arricchito di doni materiali e spirituali.
 
 
Spazialità e appartenenza
Detto questo sullo spazio interno, veniamo ora sulla spazialità esterna
che – spero sia chiaro ora – per noi umani è in stretto rapporto con la
dimensione interna della nostra spazialità.
Diceva una grande studiosa della spazialità e della temporalità, Marie
Bonaparte, psicoanalista francese, allieva ed amica di Sigmund Freud:
 
“Lo spazio che ci terri ica è lo spazio eterno. Fortunatamente lo spazio
eterno è troppo estraneo allo spazio familiare. La nostra casa in questo
modo ci procura una sensazione di sicurezza cosmica e ci permette di
rannicchiarci nello spazio”.
 
Nel nostro caso la nostra casa, la dimensione della nostra domesticità è
la nostra appartenenza a “Gancio Originale”, che però, svolge la propria
attività in spazi che inizialmente non sono domestici sia per noi
volontari che occupiamo spazi non nostri (giochiamo fuori casa,
dicevamo prima), sia per i nostri ragazzi che magari frequentano quei
locali di mattina in quanto studenti, ma che proprio per questo
necessitano di un’opera iniziale di ride inizione degli spazi, che non è
poca cosa, visto che di mattina nessuno di loro è certo fra gli scolari
modello della propria scuola.
Il problema allora diventa: come addomesticare gli spazi in cui
operiamo, in modo da renderli nostri e dei nostri bambini, dei nostri
ragazzi?
All’inizio il problema sembra complicarsi per via del fatto che in quei
luoghi un po’ si gioca, un po’ si lavora: si de inisce così uno spazio
ambiguo che è un po’ spazio per il gioco, un po’ spazio per l’impegno
(cioè per lo studio, per la riabilitazione, etc.)
Ma si tratta fortunatamente solo di una contraddizione apparente:
sembra infatti che le due dimensioni siano in totale opposizione, ma in
effetti non è affatto così.
Per convincervi della giustezza delle cose che dico vorrei partire da
Eraclito, il quale in un suo celebre passo (ripreso poi da vari altri
iloso i e scienziati) afferma: “il bambino che sulla riva del mare vince il
tempo giocando, spostando i pezzi del suo gioco, è il re”
Cosa vuol dire Eraclito con queste parole? Che è il gioco che distrae il
bambino dal fatto che lo spazio è in inito e che il tempo passa, che
l’in inità dello spazio ed il luire in inito del tempo ci farebbero sentire
angosciati se non ci perdessimo nel gioco, proprio come fa il bambino,
che per questo diventa il re, perché attraverso il gioco riesce ad
addomesticare (a rannicchiarsi, avrebbe detto la Marie Bonaparte)
nello spazio e nel tempo.
E’ per questo che quel "sulla riva del mare" che, altrimenti, senza quel
processo di addomesticamento mediato e, direi, prodotto dal gioco,
sarebbe stato angosciante, viene ri-de inito, attraverso il gioco, come
spazio né interno, né esterno a lui, ma intermedio, come spazio che
viene ride inito dal gioco, dall’atmosfera ludica di cui è circonfuso che
permettono al bambino di sentirsi un tutt’uno con esso, di averlo
piegato ai suoi voleri regali.
La stessa cosa accade quando più attori sono immersi in un’atmosfera
ludica. Anch’essi, se si lasciano prendere dal gioco, se si perdono nel
gioco, diventano re in una in-lusione (letteralmente intesa come
ingresso nella stessa dimensione ludica) che li spinge ad addomesticare
lo spazio ed il tempo.
Anzi nel rapporto fra tempo e gioco va detto, winnicottianamente, che
la capacità in-lusoria di una atmosfera ludica si può misurare dal tempo
occorrente ai vari attori per rimanere in gioco, così come la
disposizione dei singoli a rimanere in gioco è una cartina di tornasole
della loro salute mentale.
 
Impegno e spazio di gioco
In questo modo è possibile addomesticare, cioè fare nostri gli ambienti
in cui operiamo. Ma il nostro stare insieme ai nostri bambini e a i nostri
ragazzi non è solo gioco, ma anche e soprattutto studio, riabilitazione,
cura.
Nel nostro operare siamo anche un po’ insegnanti, un po’ riabilitatori
dai piedi scalzi che cercano di operare con i propri bambini attraverso
l’addomesticamento e la mediazione ottenuta col gioco.
Ma insegnante è colui che segna (di sè e con le proprie competenze)
coloro che gli sono af idati, mentre (ri)abilitatore è colui che ‘fa avere’, o
riavere qualcosa a qualcuno che prima non aveva quella cosa, o che
l’aveva e poi l’ha persa.
Per cui per noi il problema è come insegnare, come far avere?
E qui emergono due modalità del fare: a. il fare come esercizio; b. fare
come gioco . Fare come esercizio implica un approccio parziale al
soggetto, poiché implica una sollecitazione e un riferimento non alla
totalità del soggetto, ma alla periferia del soggetto stesso, ad un Sè
orbitale attraverso il quale è possibile ottenere l’apprendimento, o
meglio l’ammaestramento.
Allorchè invece è in questione il Sè nucleare i processi che sono sottesi
nel rapporto fra docente e discente, fra riabilitatore e suo paziente sono
quelli di identi icazione, e più precisamente quelli di identi icazione
operativa (Grinberg).
Ebbene se noi optiamo unilateralmente per l'esercizio compiamo una
doppia riduzione: - del bambino ad una sua parte (l’allievo, il caso); - di
noi stessi, della nostra pienezza di individui ad istruttori, e cioè ad una
parte, quella più periferica (!), di noi stessi. In base a questa doppia
riduzione, l'area dello studio e dell’impegno risultano non attraversati
dalla dimensione del gioco, o meglio lo sono, ma solo di quel tipo di
gioco freddo, in cui sono in rapporto non due soggetti nella pienezza del
loro essere, ma due periferie, due parti orbitali di essi.
Se noi invece vediamo al nostro fare come ad un fare operativo che
passa attraverso il gioco intanto facciamo riferimento alle parti nucleari
del sè di entrambi i protagonisti della scena dello studio e dell’impegno,
e cioè siamo in gioco con tutto il nostro essere e spingiamo i bambini e i
ragazzi che ci sono af idati a fare altrettanto.
L’area dello studio e dell’impegno, in questo caso diventano un'area
intermedia calda in cui sono in gioco due soggetti nella pienezza del
loro essere ed in cui si mette in essere un doppio gioco, o meglio un
gioco doppio che è fatto contemporaneamente ed inestricabilmente,
quando le cose vanno bene, di gioco e di impegno.
Un’area intermedia che può essere di tipo transizionale, di gioco
contiguo o di gioco condiviso a seconda del punto del processo
maturativo raggiunto in quel momento dal bambino o dal ragazzo
disabile o a rischio
Ne deriva che l’area esterna, lo spazio isico in cui operare non è molto
importante:
a scuola, a casa o anche per la strada, tutti gli spazi possono essere
addomesticati in modo che diventino luoghi in cui, in una atmosfera
ludica, si inneschi un fare operativo basato sull’alleanza fra le parti più
nucleari, profonde e vere nostre e loro.
Per cui, in conclusione, alla domanda “quali devono essere le
caratteristiche che deve avere il luogo isico in cui si fa volontariato” la
risposta, a mio modo di vedere è: dovunque ci sia la possibilità di
mettere più facilmente in piedi una in-lusione duale o gruppale che
comprenda volontario e bambino.
 
Bibliogra ia:
- Bonaparte M., L’inconscio ed il tempo,; in: Sabbadini A. (a cura di), Il
tempo in psicoanalisi,, Fletrinelli, Milano, 1979, pp. 43 – 71
- Godbout J., Lo spirito del dono, Boringhieri, To, 1995
- Grinberg L., Teoria dell’identi icazione, Loescher, To, 1982
 
Uno specchio importante: quali
funzioni abbiamo nei confronti
dei bambini e dei ragazzi coi
quali lavoriamo
 
di Margherita Clò
 

Vorrei innanzitutto partire dal perché del titolo: “Uno specchio


importante: quali funzioni abbiamo nei confronti dei bambini e dei
ragazzi con i quali lavoriamo.” Abbiamo sentito l’esigenza di trattare
questo tema perché molti volontari si sono posti, e a ragione, il
problema di come devono comportarsi con i ragazzi con cui lavorano.
Le loro domande più frequenti sono “Se uno fa confusione posso dirgli
di smetterla?”; “se si comporta male posso riprenderlo?”; “se fa bene un
lavoro posso complimentarmi?”; “se arriva sempre tardi posso farglielo
presente?”. Con questo non pretendiamo di fornire un decalogo del
buon volontario; cercheremo invece insieme di capire quale è la nostra
posizione verso di loro, qual è il nostro ruolo.
Pensiamo innanzitutto a questi ragazzini: sono preadolescenti alle
prese con tutti i problemi di questa fase evolutiva. È una fase molto
delicata della crescita in cui la persona assiste ad una maturazione
psicologica, isica e sessuale. Il corpo manda dunque dei segnali
inequivocabili di cambiamento che creano una fortissima tensione
interna (i ragazzi si preoccupano che il loro peso e la loro altezza non
siano inferiori alla media; al contrario le ragazze si preoccupano che il
loro peso e la loro altezza non siano superiori alla media). Questo
cambiamento ha dei chiari risvolti anche sul piano comportamentale,
per cui metteranno in atto atteggiamenti che prima non avevano
presentato.
Ma dei cambiamenti se ne veri icano moltissimi anche sul piano
emotivo e cognitivo.
1) Il fanciullo è attirato dal mondo esterno: nega la con littualità e la
confusione, non ascolta la vita interiore, è preso da problemi del
concreto-presente; soddisfa la sua curiosità con le azioni.
L’adolescente invece inizia ad avvertire il primato della vita interiore,
per cui deve fare i conti con le sue fantasie i suoi sogni, col mondo del
passato del presente e del futuro.
2) Il bambino vive il mondo adulto come onnisciente ed onnipotente.
Il preadolescente comincia a intuire che gli adulti non sanno e possono
tutto e ne restano delusi; di conseguenza gli adulti diventano i detentori
di un potere che non hanno il diritto di avere, e i bambini vengono
vissuti come sudditi del regno adulto. Perciò a questa età si tende ad
allontanarsi dal mondo adulto, dagli antichi oggetti d’amore per andare
verso nuovi oggetti.
3) Il bambino pensa usando il primato del concreto, della percezione.
Il preadolescente introduce la categoria del possibile, del pensiero
ipotetico-deduttivo.
In sostanza con l’adolescenza vengono a cadere molte certezze: quella
dell’onniscienza e dell’onnipotenza degli adulti, dell’univocità della
realtà esterna, della sempli icazione della realtà interiore, dell’esistenza
di uno schema esterno di riferimento. A questo si deve aggiungere che
la realtà esterna è vissuta come deludente e quella interna come
angosciante.
In adolescenza dunque il ragazzo vive una grossa confusione tra ciò che
è buono e ciò che è cattivo, tra le diverse zone del corpo che cambiano,
tra maschile e femminile, tra adulto e bambino. L’ambivalenza si
manifesta anche per quanto concerne lo sganciamento dal passato: sul
piano conscio sottovaluta gli oggetti familiari e idealizza quelli extra-
familiari; sul piano inconscio invece permane l’antico attaccamento e
c’è un certo timore verso il nuovo.
In questa situazione allora il gruppo dei pari diventa un luogo
privilegiato di incontro, di crescita e d’identi icazione. Nella
preadolescenza il gruppo ha in genere una struttura omosessuale ed un
atteggiamento paranoide: si superano le angosce relative alla propria
identità sessuale attraverso una chiara distinzione tra i due sessi.
L’elemento paranoide sta nell’attribuzione reciproca di proprie
esperienze e caratteristiche vissute come sgradevoli, per cui l’altro
sesso viene denigrato.
Questi gruppi sono tenuti insieme più che dalle af inità, dalla
eterogeneità dei membri. Essi permettono una molteplicità di
identi icazioni. Ogni membro del gruppo infatti è vissuto come una
parte del Sé; l’intero gruppo come un contenitore di tutte le parti scisse.
Ogni individuo nel gruppo gioca diversi ruoli. Il gruppo omosessuale
però è importantissimo, perché se è vero che è antisociale, è anche vero
che il ragazzo può sperimentare nella guerra tra sessi che il suo odio
non è distruttivo (l’altro sesso sopravvive). Questo favorisce
l’integrazione dell’Io, perché le parti buone e cattive del Sé possono
stare insieme senza pericolo. Allora gli impulsi riparativi possono
prendere il sopravvento e si ha il fenomeno dell’amicizia e
dell’innamoramento e quindi il passaggio al gruppo adolescienziale
eterosessuale. L’Altro è complementare a Sé, nessuno è onnipotente.
Tutto questo processo di crescita avviene faticosamente e con un
andamento non lineare, per cui ci sono dei movimenti progressivi e
regressivi. Esso comunque ha successo solo se c’è stato un positivo
distacco dagli oggetti infantili interiorizzati. Il bambino può
allontanarsi dalla madre solo se sa di avere una madre a cui ritornare
nei momenti di bisogno. L’Io del bambino quindi è completamente
coinvolto in questo processo e vive gli stessi momenti di debolezza e
confusione.
I disturbi dell’Io si manifestano in modi molto diversi: dif icoltà di
apprendimento, comportamento antisociale, acting-out, svogliatezza,
demotivazione. Ne consegue che i successi e gli insuccessi nei compiti
evolutivi vanno di pari passo con i successi e gli insuccessi scolastici. La
pesantezza dei primi può precludere la buona riuscita degli altri,
mettendo a repentaglio, come un cane che si morde la coda,
l’inserimento scolastico e sociale, se si sovraccarica di aspettative la
buona riuscita scolastica.
Non voglio dilungarmi oltre nel delineare quelle che sono le fasi di
crescita dei nostri ragazzi. Ci tengo invece ora ad affrontare, alla luce di
quanto detto, il ruolo del volontario nel rapporto con loro.
Per prima cosa credo che nel momento in cui ci si propone agli altri sia
importante poter stabilire una buona alleanza di lavoro. Questo
signi ica innanzitutto delimitare un rapporto nel tempo e nello spazio e
pertanto è importante che ciascuno faccia chiarezza sul tempo che
vuole ritagliare per dedicarsi a questi ragazzi: dev’essere un’ora, due
ore, ma devono essere quelle. Perché il volontario dà una parte di sé
stesso, una parte del tempo della sua vita. Pertanto è importante che si
faccia chiarezza su questo discorso, per tutelare sé stessi e il rapporto.
È vero che quando ci si relaziona con altre persone, il solo fatto di
lasciarle non implica che si riesca automaticamente a non pensarle; e
questo è bello perché signi ica che la relazione che si sta creando è
importante. Il rischio però è che le due ore si dilatino e che il problema
di quel ragazzino occupi molto tempo e molto spazio nella nostra
mente. Di conseguenza si corre il pericolo di farsi trascinare dalla
relazione, sperando di poter risolvere la vita di quella persona. Il più
delle volte tuttavia questo non è possibile, per cui si vive un senso
inevitabile di frustrazione che porta, come difesa, ad allontanarsi da
questa relazione e a dedicarle via via meno tempo.
Tra l’altro cadere nella trappola dell’onnipotenza, signi ica arrivare poi
a credere che la relazione che si è creata sia esclusiva; mentre invece
questo non è vero: ogni volontario è una parte importante della vita del
ragazzino che aiuta, ma solo una parte. Accanto a questa relazione quel
ragazzino ha tutta una serie di altre relazioni altrettanto importanti.
Questo modo di pensare ci permette di non sentire la relazione come
pesante, perché ci rassicura sul fatto che oltre a noi, di lui si occupano
altre persone.
Quindi è bene tenere presente che per instaurare una alleanza di lavoro
è necessario de inire con molta chiarezza e onestà dentro di noi, un
tempo, un luogo e uno scopo. A questo punto ci si può porre verso i
ragazzini con cui si lavora con molta più serenità.
Il compiti di chi fa volontariato con Gancio Originale è quello in
sostanza di seguire i ragazzi nella loro crescita. In questo credo che la
maggior parte dei nostri volontari sia senza dubbio agevolata dalla
vicinanza d’età. Per cui tornando al discorso che si faceva prima, il
volontario di sedici o diciassette anni non è ancora connotato come
l’adulto dal quale bisogna allontanarsi perché rappresenta una
minaccia, un giogo da cui sottrarsi; ma nello stesso tempo è
suf icientemente grande da poter essere considerato un valido punto di
riferimento, qualcuno di cui idarsi.
Torniamo ora al discorso sulla relazione che si va costruendo. Abbiamo
detto che dobbiamo sfuggire da una identi icazione totale con il ragazzo
col quale lavoriamo, per evitare di sottrarci al nostro ruolo. Quindi
dobbiamo DARE/DARCI, ma non totalmente.
L’altro passo è quello di imparare a conoscere chi abbiamo di fronte e
per farlo dobbiamo prima di tutto OSSERVARE. Questo signi ica due
cose: prima di tutto dobbiamo prestare attenzione a ciò che l’Altro fa, al
perché, a cosa ci vuole dire. Quindi una modalità attiva di osservazione.
Esiste però anche una modalità più passiva, nel senso che noi dobbiamo
stare fermi e prestare attenzione a quale parte di noi stessi mettiamo in
gioco nella relazione. Ogni volta che ci rapportiamo a un’altra persona,
questa suscita in noi dei sentimenti delle reazioni, delle emozioni,
diverse da quelle che ci susciterebbe chiunque altro. E allora dobbiamo
fermarci per ascoltare e capire il perché di queste reazioni che derivano
senza dubbio dalla storia personale di ciascuno. Tante volte invece di
fronte a una persona diversa da noi ci spaventiamo, perché è possibile
che entriamo in contatto con quelle parti di noi che magari tanto
faticosamente eravamo riusciti a tenere sotto controllo; ed allora la
prima cosa che facciamo è agire, per tentare di controllarle di nuovo e
allontanarle. Invece dovremmo riuscire a mantenere una posizione di
ascolto, di osservazione, per rendere al ragazzo che abbiamo di fronte
un’immagine di sé intera, e non frantumata come lui ce l’ha posta.
Per esempio: stiamo aiutando un ragazzino a fare i compiti; lui di fronte
ad un compito per noi elementare, non combina niente, si distrae.
Allora è facile che questo ci disturbi, perché ci mette a contatto con le
nostre parti bambine, incapaci, inadeguate, per cui ci spaventiamo e
agiamo al posto suo, magari facendo noi i suoi compiti. Così però non gli
siamo serviti: siamo stati uno specchio che ha rimandato un’immagine
non integrata. Lui ci ha inviato un messaggio (questo compito mi fa
paura, mi sento inadeguato) e noi invece di ascoltare questi messaggi e
rimandarglieli depurati (non sei inadeguato, insieme possiamo
riuscirci), abbiamo agito senza funzionare da iltro (la tua
inadeguatezza mi spaventa).
Mi rendo conto che questo compito sia impegnativo e faticoso,
soprattutto perché richiede di tollerare delle parti bambine, inadeguate
per poter capire questi ragazzi; allo stesso tempo però dobbiamo
accantonare le nostre parti adulte, se no rischiamo di essere uno
specchio da guardare e non uno specchio in cui guardarsi. Non
dobbiamo essere perfetti e metterci in cattedra, ma semplicemente
essere persone coerenti, che tollerano le imperfezioni, che non cadono
o si spaventano di fronte ad esse, ma resistono.
Questo non signi ica però che dobbiamo solo dare senza avere. In una
relazione è giusto anche DOMANDARE, in quanto non possiamo
rinunciare al rispetto. Questo non signi ica fare dei discorsi idealisti,
onnipotenti. Torniamo al nostro ragazzino che non vuole fare i compiti
e disturba gli altri. È inutile che gli diciamo che deve fare i compiti
perché questo gli servirà in futuro, perché studiare è bello, quando
sicuramente è un ragazzo che a scuola non solo va male, ma ci va anche
mal volentieri. Probabilmente non ci ascolterà neanche. L’unica arma
che ci resta è essere realisti: sì è vero che andare a scuola è faticoso,
così come imparare e crescere.
Ma si può sbagliare, arrabbiarsi senza che accada nessuna catastrofe. In
sostanza è la nostra coerenza, la nostra imperfezione che li attira, che ci
dà credito ai loro occhi e che ci permette di domandargli di fare delle
cose con noi, che pure non siamo perfetti. Noi siamo lì con loro, ci siamo
sempre, regolarmente, in quel luogo e a quell’ora: questa nostra
perseveranza gli trasmette un setting, gli dimostra che per noi loro sono
importanti. Allo steso tempo noi implicitamente gli domandiamo la
stessa cosa: di venire regolarmente e di essere puntuali. Questo non
signi ica però che se uno arriva sempre in ritardo o viene quando gli
pare non lo si debba richiamare esplicitamente: chissà, forse non
aspettava altro, ci voleva mettere alla prova per vedere quanto per noi
lui è importante. Potremmo metaforicamente pensate di avere a che
fare con un oggetto fragile e molto prezioso (per esempio l’orologio
d’oro della nonna!); il fatto che sia fragile e prezioso non implica che
non lo dobbiamo né portare, né guardare. Lo adoperiamo come un altro
orologio, solo che gli prestiamo un po’ più di attenzione, perché si può
rompere più facilmente, può restare un po’ indietro….
Per concludere allora possiamo dire che nel momento in cui dobbiamo
metterci in relazione con questi ragazzi, dobbiamo non solo imparare a
conoscerli, ma dobbiamo conoscere anche noi stessi, per evitare che i
nostri bisogni, le nostre paure, i nostri sentimenti si confondano con i
suoi, per cui alla ine facciamo una gran confusione tra ciò che è mio e
ciò che è suo col rischio di perderci.

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