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Tribuna Dossier

IL NUOVO
CODICE ROSSO
Commento alla L. 24
novembre 2023, n. 168
recante le nuove
disposizioni per il
contrasto della violenza
sulle donne e della
violenza domestica
(Riforma Roccella)

Valerio de Gioia – Giuseppe Molfese


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All’On. Martina Semenzato
Presidente della Commissione Parlamentare di
inchiesta
sul Femminicidio nonché su ogni forma di violenza di
genere
cui si deve l’introduzione, nella legge in commento,
del reato di interruzione non consensuale di
gravidanza,
reato di genere per eccellenza
Presentazione

Il Dossier contiene un commento organico alla L. 24 novembre 2023,


n. 168 recante disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne
e della violenza domestica. La legge (nota come Riforma Roccella),
in vigore dal 9 dicembre 2023, si propone l’obiettivo di colmare le
lacune del Codice Rosso, rafforzando le procedure e gli strumenti per
la tutela delle vittime di violenza, così da consentire una preventiva
ed efficace valutazione e gestione del rischio di letalità, di
reiterazione e di recidiva. Si tratta di un pacchetto di misure che, non
solo, potenziano l’intervento delle forze dell’ordine nella delicatissima
fase iniziale delle indagini – in cui, dati alla mano, le vittime sono
maggiormente esposte –, ma addirittura anticipano le tutele in
funzione della maggior sicurezza delle persone potenzialmente
esposte a pericolo. L’istituto dell’ammonimento del questore è stato
opportunamente esteso ai «reati sentinella», nella nuova
consapevolezza che quei reati, tradizionalmente considerati minori,
nel contesto delle relazioni familiari ed affettive, assumono valenza
sintomatica rispetto a situazioni di pericolo per l’integrità psico-fisica
delle persone.
Al fine di interrompere tempestivamente il cosiddetto «ciclo della
violenza», sono state estese le misure di prevenzione (sorveglianza
speciale di pubblica sicurezza e obbligo di soggiorno nel comune di
residenza o di dimora abituale) ai soggetti semplicemente indiziati
dei delitti più ricorrenti nella violenza contro le donne e nella violenza
domestica. La velocità di intervento, fondamentale in relazione a
questi fenomeni delittuosi, informa l’intero provvedimento, come
confermato dalla trattazione prioritaria dei processi anche per i reati
spia e dalla maggiore celerità nella trattazione degli affari in materia
di violenza contro le donne e domestica anche nella fase cautelare.
Quanto alle misure precautelari, è adesso consentito l’arresto in
flagranza differita superando così le difficoltà operative che l’arresto
ha sino ad oggi incontrato con riferimento a reati, quali lo stalking e i
maltrattamenti in famiglia, che avendo natura abituale, devono
comporsi di una pluralità di atti non sempre accertabili dalle forze
dell’ordine in occasione del loro intervento. Sempre nell’ottica della
prevenzione, cruciali diventano le norme sul rafforzamento delle
misure cautelari e dell’uso del braccialetto elettronico, così come
quelle dell’estensione delle misure cautelari coercitive. Grande
importanza, infine, va tributata alla introduzione della provvisionale a
titolo di ristoro anticipato a favore delle vittime o, in caso di morte,
degli aventi diritto che vengano a trovarsi in stato di bisogno.

Gli Autori
Indice sommario

Presentazione

1. Premessa
1.1. La Convenzione di Istanbul
1.2. Le condanne dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo
1.3. Il monito del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa
1.4. L’evoluzione normativa
1.4.1. Il «Codice Rosso»
1.4.2. Le riforme «Cartabia»
1.4.3. La legge istitutiva della Commissione bicamerale di inchiesta sul
Femminicidio
1.5. La riforma Roccella.

2. L’estensione dell’ammonimento del


questore ai c.d. reati spia
2.1. L’estensione degli obblighi informativi
2.2. La revoca dell’ammonimento
2.3. L’aumento di pena
2.4. La procedibilità di ufficio
2.5. La vigilanza dinamica
2.6. Il potenziamento e l’estensione dell’ammonimento già
previsto per gli atti persecutori
3. Il potenziamento delle misure di
prevenzione
3.1. L’estensione dell’ambito applicativo
3.2. L’applicazione del c.d. braccialetto elettronico
3.3. Il divieto di avvicinamento
3.4. L’analisi criminologica sulla violenza di genere

4. Le misure in materia di formazione dei


ruoli di udienza e trattazione dei processi
5. La trattazione spedita degli affari nella
fase cautelare
6. Le disposizioni in materia di attribuzioni
del procuratore della Repubblica
7. Le iniziative formative in materia di
violenza contro le donne e violenza
domestica
8. I termini per la valutazione delle esigenze
cautelari
9. Le disposizioni in materia di rilevazione
dei termini
10. Le modifiche degli effetti della violazione
degli ordini di protezione contro gli abusi
familiari
11. L’arresto in flagranza differita
12. Le disposizioni in materia di
allontanamento d’urgenza dalla casa
familiare
13. Il potenziamento delle misure cautelari e
dell’uso del braccialetto elettronico
14. Le ulteriori disposizioni in materia di
misure cautelari coercitive
15. Le disposizioni in materia di informazioni
alla persona offesa dal reato e di obblighi
di comunicazione
16. Disposizioni in materia di sospensione
condizionale della pena
17. L’indennizzo in favore delle vittime di
reati intenzionali violenti
18. La provvisionale a titolo di ristoro
anticipato a favore delle vittime o degli
aventi diritto
19. Il riconoscimento e le attività degli enti e
delle associazioni organizzatori di
percorsi di recupero destinati agli autori
di reato
20. Considerazioni conclusive: le occasioni
perdute dal legislatore
Appendice normativa
1. L. 19 ottobre 1930, n. 1398. Approvazione del testo
definitivo del Codice penale
2. R.D. 28 maggio 1931, n. 601. Disposizioni di
coordinamento e transitorie per il Codice penale
3. D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447. Approvazione del
codice di procedura penale
4. D.L.vo 28 luglio 1989, n. 271. Norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale
5. D.L.vo 20 febbraio 2006, n. 106. Disposizioni in materia
di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, a
norma dell’articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25
luglio 2005, n. 150
6. D.L. 23 febbraio 2009, n. 11. Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonchè in tema di atti persecutori, convertito, con
modificazioni, nella L. 23 aprile 2009, n. 38
7. D.L.vo 6 settembre 2011, n. 159. Codice delle leggi
antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove
disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma
degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136
8. D.L. 14 agosto 2013, n. 93. Disposizioni urgenti in
materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di
genere, nonchè in tema di protezione civile e di
commissariamento delle province, convertito, con
modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119
9. L. 7 luglio 2016, n. 122. Disposizioni per l’adempimento
degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione
europea - Legge europea 2015-2016
Il nuovo Codice Rosso

1. Premessa.
La violenza contro le donne rappresenta un fenomeno
profondamente radicato nel substrato culturale e sociale sia in Italia
che nel resto del mondo.
Il 27 settembre 2012, l’Italia ha sottoscritto la Convenzione del
Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei
confronti delle donne e la violenza domestica, ovvero la cosiddetta
Convenzione di Istanbul; si tratta del primo strumento
internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro
normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di
violenza.
La Convenzione interviene specificamente anche nell’ambito della
violenza domestica, che non colpisce solo le donne, ma anche altri
soggetti, ad esempio bambini ed anziani, ai quali altrettanto si
applicano le medesime norme di tutela.
L’art. 4 della Convenzione sancisce il principio secondo il quale
ogni individuo ha il diritto di vivere libero dalla violenza nella sfera
pubblica e in quella privata. Al centro di ogni intervento delle
istituzioni giudiziarie, la Convenzione richiede che sia posta la
sicurezza della vittima, da assicurare attraverso una rigorosa
valutazione dei rischi e una rete di operatori, adeguatamente
formati, che si dedichi alla protezione, all’accoglienza e ad evitare
ogni forma di ulteriore vittimizzazione.
Come evidenziato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul
femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, tutti i
femminicidi si connotano per due requisiti costitutivi:
1) il «criminale di genere» forma la sua identità su una relazione
di dominio e controllo assoluto su una donna, unico tipo di relazione
che conosce, e la violenza nei confronti di questa gli serve a
riaffermare e confermare il suo potere;
2) la donna che decide di interrompere quella relazione viene
uccisa perché, in molti casi, sottraendosi ai doveri di ruolo, non solo
viola una regola sociale e culturale, ma rende l’uomo che glielo ha
«permesso» un perdente agli occhi della collettività.
La sanzione diventa la morte.
Le donne sono uccise non perché in sé fragili o vulnerabili, ma
perché, o diventano tali nella sola relazione di dominio o, al
contrario, nella gran parte dei casi, con veri e propri atti di coraggio,
si ribellano all’intento dei loro aggressori di sfruttarle, dominarle,
possederle e controllarle.
Solo da pochi decenni – prosegue la Commissione Femminicidio –
ogni forma di violenza contro le donne è ritenuta anzitutto una
violazione dei diritti umani, una questione di salute pubblica, un
ostacolo allo sviluppo economico ed un freno ad una democrazia
compiuta.

1.1. La Convenzione di Istanbul.


La Convenzione di Istanbul ha imposto agli Stati non solo di
dotarsi di una legislazione efficace, ma anche di verificarne in
modo costante l’effettiva attuazione da parte di tutti gli attori,
istituzionali e non, a partire da quelli appartenenti al sistema
giudiziario.
Nel perimetro tracciato dalla Convenzione, le politiche pubbliche
debbono pertanto essere orientate non solo alla conoscenza
puntuale delle cause strutturali del fenomeno della violenza contro le
donne, per rimuoverle in modo definitivo, agendo in particolare sulla
prevenzione e sull’educazione, ma anche alla sua misurazione,
qualitativa e quantitativa, nonché alla garanzia dell’effettivo accesso
alla giustizia da parte delle donne per tutelare i loro diritti e alla loro
efficace protezione con conseguente e adeguata e rapida punizione
degli autori.
Del resto, il diritto delle donne di vivere libere dalla
violenza costituisce “un diritto umano” (art. 3 della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo) che rende non più
accettabile il ritardo delle istituzioni a fronte di tempestive denunce
di violenza fisica, psicologica o anche semplicemente economica. In
questi termini si è espresso il GREVIO (Gruppo di esperte del
Consiglio d’Europa incaricato di monitorare l’attuazione della
Convenzione di Istanbul da parte degli Stati membri che la hanno
sottoscritta).
Gli atti coercitivi, anche solo minacciati, operanti a diversi livelli
(fisico, sessuale, psicologico o economico), sono volti a ledere la
dignità della persona offesa, ad annientarne pensieri ed azioni
indipendenti, a limitarne la sfera di libertà ed autodeterminazione,
anche rispetto a scelte minimali del vivere quotidiano, fino a ridurla
ad essere, anche solo in parte, non più una persona, ma uno
strumento di soddisfacimento di desideri e bisogni, di qualsiasi
natura, del maltrattante.
L’uomo intende piegare e sottomettere la “propria” donna
negandole libertà e dignità, affermando la posizione di incontrastato
dominio proprio attraverso le condotte maltrattanti. L’eventuale
condotta della vittima, reattiva o passiva, diventa del tutto irrilevante
ed utile, al più, a fini descrittivi o sintomatici.

1.2. Le condanne dell’Italia da parte della


Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Le ripetute condanne dell’Italia da parte della Corte Europea
dei Diritti Umani confermano il perdurare nel nostro Paese di una
situazione di grave sottovalutazione del rischio di escalation delle
aggressioni, nei casi di violenza sulle donne (e di violenza nel
rapporto di coppia in particolare).
Come rilevato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul
femminicidio, in molti casi la valutazione del rischio è del tutto
assente, in altri casi «gli ufficiali di polizia valutano il rischio in base
alle proprie esperienze e capacità intuitive e non in base a parametri
strutturali e standardizzati».
Con la sentenza 2 marzo 2017 (Talpis c. Italia), la Corte di
Strasburgo ha ricordato che l’art. 2 della Convenzione sancisce un
diritto fondamentale, quello alla vita, in base al quale – nei casi
di violenze domestiche – lo Stato ha l’obbligo positivo di predisporre
in via preventiva misure di ordine pratico volte a proteggere la
vittima di minacce. Non agendo prontamente (nel caso di specie con
sette mesi di ritardo) rispetto alla denuncia di violenze domestiche,
le autorità italiane hanno, di fatto, privato la denuncia di qualsiasi
effetto, creando così una situazione di impunità, che ha contribuito al
ripetersi di atti di violenza sulla denunciante e sui suoi figli. Le
autorità italiane, in sostanza, non hanno proceduto a una corretta
valutazione del rischio di una minaccia concreta e immediata alla
incolumità personale delle vittime che poteva essere riscontrato,
secondo un criterio di ragionevolezza, alla luce del contesto di
reiterata violenza nel nucleo familiare.
La Corte di Strasburgo, con sentenza del 7 aprile 2022, ha
nuovamente condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 della CEDU.
Il caso ha riguardato la mancata adozione, da parte delle autorità
giudiziarie italiane, di misure idonee a tutelare e assistere una donna
e i suoi due figli dalle violenze domestiche loro inflitte dal compagno,
sfociate poi nell’omicidio del figlio di un anno e nel tentato omicidio
della donna.
Il quadro giuridico italiano, spiega la Corte, è in grado di fornire
protezione preventiva contro atti di violenza in determinati casi. Nel
caso di specie, le autorità competenti avrebbero ben potuto
applicare delle misure giuridiche e operative idonee a prevenire il
drammatico epilogo se vi fosse stata una valutazione immediata e
proattiva del rischio di reiterazione degli atti violenti. In particolare,
prosegue la Corte Europea, i pubblici ministeri sono rimasti passivi di
fronte al grave rischio di maltrattamenti della donna e la loro inerzia
ha consentito al partner di continuare a minacciarla, molestarla e
aggredirla nella più totale impunità. Le autorità nazionali erano a
conoscenza, o comunque avrebbero dovuto esserlo, del rischio reale
e imminente per la vita della donna e dei suoi figli. Di fronte a questi
elementi, avrebbero dovuto valutare il rischio di ulteriori violenze e
adottare misure appropriate e adeguate a proteggere le vittime ma
sono venuti meno a tale obbligo nel momento in cui non hanno
reagito “immediatamente” così come richiesto, in particolare, nei casi
di violenza domestica. Basandosi sulle informazioni note alle autorità
nazionali all’epoca dei fatti – secondo cui esisteva un rischio reale e
imminente di ulteriori violenze contro i medesimi soggetti, anche in
considerazione dei problemi di salute mentale dell’uomo –, le
autorità non hanno mostrato la necessaria diligenza nella valutazione
reale del rischio di mortalità legato ai casi di violenza domestica. Non
tenendo in debita considerazione l’ampia gamma di misure di
protezione direttamente a loro disposizione, le autorità – che
avrebbero potuto attuare misure protettive allertando i servizi sociali
e psicologici e collocando la donna e la sua prole in un centro di
accoglienza per donne – hanno dimostrato una scarsa diligenza
nell’impedire le violenze che hanno portato agli atti di inaudita
violenza. Peraltro, concludono i giudici europei, le autorità nazionali
avrebbero potuto adottare le misure previste dal quadro giuridico
italiano indipendentemente dalla denuncia o errata percezione del
rischio da parte della vittima.

1.3. Il monito del Comitato dei Ministri del


Consiglio d’Europa.
A fine settembre del 2023, il Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa ha bacchettato l’Italia per la risposta inefficace
e tardiva rispetto alle denunce di violenza domestica, per l’aspetto
discriminatorio di tali carenze nella protezione delle donne contro la
violenza domestica e, infine, per la vittimizzazione secondaria delle
denuncianti a causa degli stereotipi di genere.
Il Comitato ha invitato le autorità a concludere tempestivamente il
procedimento penale contro gli aggressori fornendo informazioni sul
loro esito; ha preso, comunque, atto con soddisfazione delle misure
adottate dal legislatore nazionale che riflettono la continua
determinazione a prevenire e combattere la violenza domestica e la
discriminazione di genere.
È stata sottolineata l’importanza di garantire una risposta rapida
ed efficace da parte delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario
alle condotte riconducibili alla violenza di genere.
La maggiore preoccupazione, tuttavia, rimane legata ai dati che
riflettono una percentuale costante di procedimenti sulla violenza
domestica e sessuale archiviati nella fase delle indagini preliminari,
un uso limitato degli ordini di protezione e un tasso significativo della
loro violazione.

1.4. L’evoluzione normativa.


L’evoluzione della normativa italiana in materia di violenza
sulle donne ha preso le mosse proprio dalla ratifica della
Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta contro la
violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica a seguito
della quale l’Italia ha istruito una strategia integrata per combattere
la violenza di genere.
Il primo intervento in tal senso è stato operato dal D.L. n. 93 del
2013 che ha apportato rilevanti modifiche in ambito penale e
processuale ed ha previsto l’adozione periodica di Piani d’azione
contro la violenza di genere.
Già in precedenza erano stati adottati provvedimenti che
andavano in tale direzione, come il D.L. n. 11 del 2009,
riguardante misure in materia di sicurezza pubblica e di contrasto
alla violenza sessuale, maggiormente noto per aver introdotto nel
nostro ordinamento il reato di atti persecutori – meglio noto come
stalking, dal verbo inglese “to stalk” (avanzare furtivamente) che
indica il particolare modo di incedere del felino mentre si avvicina
alla preda –, prendendo spunto dalla disciplina di altri ordinamenti.
Il delitto, collocato tra quelli contro la libertà morale, ha lo scopo
di sanzionare determinati episodi di minacce o di molestie reiterate,
prima che queste possano degenerare in condotte ancora più gravi,
quali violenze sessuali o addirittura l’omicidio.
Colmando una profonda lacuna normativa che ha visto quasi
sempre le forze di polizia e la magistratura assenti sul piano
dell’intervento in tutte quelle gravi situazioni conosciute con il
termine di stalking e già oggetto di osservazione e di studio in
numerosi Stati esteri. Si tratta infatti di quei comportamenti molesti
o minacciosi che, turbando le normali condizioni di vita, pongono la
vittima in un grave stato di disagio fisico e psichico, di vera e propria
soggezione e che sono capaci di determinare un giustificato timore
per la propria sicurezza ovvero per la sicurezza di persona
particolarmente vicina alla vittima e che possono essere prodromici a
gravi atti di aggressione anche mortale. L’assenza di una adeguata
previsione normativa imponeva il ricorso alla contestazione di reati
(art. 660 c.p. “Molestia o disturbo alle persone”, contravvenzione
concernente l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica, art. 610 c.p.
“Violenza privata”) inadeguati alla copertura dei fatti accertati e non
in grado di offrire tutela processuale – attraverso un intervento
cautelare nei confronti dell’agente – alla vittima del reato.
Il legislatore ha preso atto che, spesso, la violenza è l’esito di una
pregressa condotta persecutoria: mediante l’incriminazione di
quest’ultima si è inteso in qualche modo anticipare la tutela della
libertà personale e dell’incolumità fisio-psichica attraverso
l’individuazione di condotte che, precedentemente, parevano
sostanzialmente inoffensive e, dunque, non sussumibili in alcuna
fattispecie penalmente rilevante o in fattispecie per così dire minori,
quali la minaccia o la molestia alle persone.

1.4.1. Il «Codice Rosso».


La L. n. 69 del 2019, meglio nota come “codice rosso”, ha
trasposto nell’ordinamento italiano i principi ispiratori della
Convenzione di Istanbul, introducendo misure di carattere penale e
processuale volte alla prevenzione dei reati di violenza di genere, alla
protezione delle vittime e alla punizione dei colpevoli.
Oltre a prevedere l’attivazione di una specifica procedura per tali
reati, al fine di velocizzare l’instaurazione del relativo procedimento
penale, la legge ha introdotto alcuni nuovi reati (deformazione
dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso,
diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il
consenso delle persone rappresentate – c.d. “revenge porn”,
costrizione o induzione al matrimonio, violazione dei provvedimenti
di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento
ai luoghi frequentati dalla persona offesa) e ha inasprito le pene di
reati già esistenti (maltrattamenti contro familiari
e conviventi, atti persecutori, violenza sessuale in danno di minori,
aggravante per atti sessuali con minori di anni 14 in cambio di
denaro o di qualsiasi altra utilità, estensione dell’ambito di
applicazione dell’omicidio aggravato dalle relazioni personali).
Particolarmente apprezzata è stata l’introduzione del delitto c.d.
“omicidio di identità”.
L’intervento, volto a fronteggiare l’allarmante ripetersi di vicende
in cui erano state intenzionalmente causate alla vittima tal genere di
lesioni, ha inteso dare una risposta ispirata a maggior rigore e,
soprattutto, scongiurare il rischio di possibili attenuazioni
sanzionatorie, conseguenti al meccanismo del bilanciamento delle
circostanze, in una prospettiva di contenimento della discrezionalità
del giudice.
Lo sfregio permanente è un qualsiasi nocumento che non venga a
determinare la più grave conseguenza della deformazione ma importi
un turbamento irreversibile dell’armonia, dell’euritmia delle linee del
viso, per tale intendendosi quella parte del corpo che va dalla fronte
all’estremità del mento e dall’uno all’altro orecchio. Per “deformità”
deve intendersi l’effetto permanente o l’alterazione dell’estetica delle
parti normalmente visibili del corpo umano, in particolare la
deformazione è considerata un’alterazione della simmetria del viso
produttiva di sfiguramento o di ridicolizzazione sgradevole. Per la
giurisprudenza non rileva la possibilità di eliminazione o di
attenuazione del danno fisionomico mediante speciali trattamenti di
chirurgia facciale.

1.4.2. Le riforme «Cartabia».


Anche la legge di riforma del processo penale (L. n. 134 del 2021)
ha previsto un’estensione delle tutele per le vittime di violenza
domestica e di genere, mentre la L. n. 53 del 2022 ha potenziato la
raccolta di dati statistici sulla violenza di genere attraverso un
maggiore coordinamento di tutti i soggetti coinvolti e, infine, la
D.L.vo n. 149 del 2022 (c.d. Riforma Cartabia del processo
civile) ha inserito nel codice di procedura civile una Sezione
interamente dedicata alle violenze domestiche o di genere.
L’allarmante diffusione della violenza di genere e domestica ha
indotto il legislatore delegante a prevedere numerosi principi di
delega finalizzati a evitare il verificarsi – nell’ambito dei procedimenti
civili e minorili, aventi ad oggetto la disciplina delle relazioni familiari,
e in particolare l’affidamento dei figli minori –, fenomeni di
vittimizzazione secondaria che ricorre quando “le stesse autorità
chiamate e reprimere il fenomeno delle violenze, non riconoscendolo
o sottovalutandolo, non adottano nei confronti della vittima le
necessarie tutele per proteggerla da possibili condizionamenti e
reiterazioni della violenza” (cfr. relazione sulla vittimizzazione
secondaria approvata il 20 aprile 2022 dalla Commissione
parlamentare di inchiesta sul femminicidio, del Senato della
Repubblica, Doc. XXII bis n.10).
La mancata attenzione al tema della vittimizzazione secondaria è
stata oggetto di specifici rilievi mossi alle istituzioni italiane nel
rapporto GREVIO redatto nel 2019 all’esito dell’attività del Gruppo di
esperti chiamato a verificare l’applicazione della Convenzione di
Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la
violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a
Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata e resa esecutiva in Italia con
legge 27 giugno 2013, n. 77.
Il legislatore, nella consapevolezza che il contrasto alla violenza
domestica non si realizza soltanto con le norme penali, ma anche, e
forse soprattutto, nell’ambito dei procedimenti civili e minorili,
ha dettato specifici criteri di delega per garantire piena tutela alle
vittime. Non è un caso, dunque, che, in sede di attuazione, sia stata
introdotta una apposita sezione. Con ciò si è voluto sottolineare
l’importanza del contrasto a questa forma di violenza nell’ambito dei
procedimenti disciplinati dal nuovo rito in materia di persone,
minorenni e famiglie, creando una sorta di “corsia preferenziale”
per tali giudizi, che dovranno avere una trattazione più rapida e
connotata da specifiche modalità procedurali. In presenza di
allegazioni di violenza o di abuso, il procedimento deve essere
trattato secondo una disciplina processuale connotata da specialità al
fine di verificare, già dalle prime fasi processuali, se quanto allegato
dalla parte sia o meno fondato. Particolare attenzione, poi, è
dedicata allo svolgimento dell’udienza ove il rischio di vittimizzazione
secondaria è altissimo: la vittima di violenza non può essere
costretta ad essere presente in udienza con il presunto autore della
violenza senza l’adozione di particolare cautele; non può essere
tentata la conciliazione (considerata anche la posizione di
subordinazione di una parte rispetto all’altra nelle relazioni
contraddistinte da violenza); non è consentito il ricorso alla
mediazione, vietata in presenza di violenza domestica. In presenza di
allegazioni di violenza sono previsti particolari accorgimenti, poi, per
l’ascolto del minore. Si segnala che recentemente la Corte Europea
ha condannato l’Italia perché un tribunale per i minorenni ha deciso
di proseguire con le sessioni di contatto tra il padre e i minori, anche
se il benessere psicologico, l’equilibrio emotivo e l’incolumità degli
stessi non erano garantiti: in nessuna fase è stato valutato il rischio
a cui sono stati esposti e nelle decisioni dei giudici nazionali non è
emersa la dovuta attenzione in merito al loro interesse superiore,
prevalente rispetto a quello del padre a continuare con le sessioni di
incontro (Corte Europea, 10 novembre 2022, L.M. e latri c. Italia, ric.
25426/20).
In seno alla riforma del processo penale, la riforma Cartabia
(D.L.vo n. 150 del 2022) ha escluso dall’ambito di operatività
dell’art. 131-bis c.p. (non punibilità per particolare tenuità del fatto) i
reati riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e
la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata ai
sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77 (i delitti, consumati o tentati,
previsti dagli artt. 558-bis, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli
articoli 576, comma 1, nn. 2, 5 e 5.1, e 577, comma 1, n. 1, e
comma 2, 583, comma 2, 583-bis, 593-ter, 600-bis, 609-bis, 609-
quater, 609 – quinquies, 609-undecies, 612-bis, 612-ter, nonché
dall’art. 19, comma 5, L. 22 maggio 1978, n. 194).

1.4.3. La legge istitutiva della Commissione bicamerale di


inchiesta sul Femminicidio.
La L. n. 12 del 2023 ha previsto l’istituzione di una
Commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio,
nonché su ogni forma di violenza di genere con i seguenti
compiti:
– svolgere indagini sulle reali dimensioni e cause del femminicidio
e, più in generale, di ogni forma di violenza di genere;
– monitorare la concreta attuazione della Convenzione di Istanbul
sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle
donne e la violenza domestica, nonché di ogni altro accordo
sovranazionale e internazionale in materia e della legislazione
nazionale ispirata agli stessi principi, con particolare riguardo al D.L.
n. 93 del 2013 e alla L. n. 69 del 2019 (c.d. “Codice rosso”);
– accertare le possibili incongruità e carenze della normativa
vigente in materia rispetto allo scopo di tutelare la vittima della
violenza e gli eventuali minori coinvolti, al fine di una sua eventuale
revisione (con specifico riferimento alla normativa penale
concernente le molestie sessuali perpetrate in luoghi di lavoro),
come pure a proseguire l’analisi degli episodi di femminicidio,
verificatisi a partire dal 2016, per accertare se siano riscontrabili
condizioni o comportamenti ricorrenti, valutabili sul piano statistico,
allo scopo di orientare l’azione di prevenzione;
– accertare il livello di attenzione e la capacità di intervento delle
autorità e delle amministrazioni pubbliche competenti a svolgere
attività di prevenzione e di assistenza;
– verificare, come raccomandato dall’OMS, la realizzazione di
progetti educativi nelle scuole;
– proporre soluzioni di carattere legislativo e amministrativo per
realizzare adeguata prevenzione e contrasto ad ogni forma di
violenza di genere nonché per tutelare la vittima della violenza e gli
eventuali minori coinvolti; valutare inoltre la necessità di redigere
testi unici, al fine di implementare la coerenza e la completezza della
regolamentazione in materia di violenza sulle donne;
– monitorare il lavoro svolto dai centri antiviolenza operanti sul
territorio, ivi compresi i centri di riabilitazione per uomini
maltrattanti, e l’effettiva applicazione da parte delle Regioni del Piano
antiviolenza e delle linee guida nazionali per le aziende sanitarie e
ospedaliere in tema di soccorso e assistenza socio-sanitaria alle
vittime di violenza;
– verificare l’effettiva destinazione delle risorse stanziate dal D.L.
n. 93 del 2013 e dalle leggi di stabilità e di bilancio alle strutture che
si occupano di violenza di genere e fare in modo che siano assicurati
finanziamenti certi e stabili al fine di evitarne la chiusura.
Come noto le Commissioni parlamentari d’inchiesta svolgono la
funzione investigativa con gli stessi poteri e limiti dell’autorità
giudiziaria, esclusa l’adozione di provvedimenti attinenti alla libertà e
alla segretezza delle comunicazioni relative alle indagini stesse
nonché alla libertà personale, salvo il caso di accompagnamento
coattivo di testimoni, periti e consulenti tecnici.

1.5. La riforma Roccella.


La L. 24 novembre 2023, n. 168 (Disposizioni per il contrasto
della violenza sulle donne e della violenza domestica), ormai nota
come Riforma Roccella, in vigore dal 9 dicembre 2023, ha
potenziato il Codice Rosso, rafforzando le procedure e gli strumenti
per la tutela delle vittime di violenza, così da consentire una
preventiva ed efficace valutazione e gestione del rischio di letalità, di
reiterazione e di recidiva.
Si tratta di un pacchetto di misure che, non solo, potenziano
l’intervento delle forze dell’ordine nella delicatissima fase iniziale
delle indagini – in cui, dati alla mano, le vittime sono maggiormente
esposte –, ma addirittura anticipano le tutele in funzione della
maggior sicurezza delle persone potenzialmente esposte a pericolo.
L’istituto dell’ammonimento del questore è stato opportunamente
esteso ai «reati spia», nella nuova consapevolezza che quei reati,
tradizionalmente considerati minori, nel contesto delle relazioni
familiari ed affettive, assumono valenza sintomatica rispetto a
situazioni di pericolo per l’integrità psico-fisica delle persone. Al fine
di interrompere tempestivamente il cosiddetto «ciclo della violenza»,
sono state estese le misure di prevenzione (sorveglianza speciale di
pubblica sicurezza e obbligo di soggiorno nel comune di residenza o
di dimora abituale) ai soggetti semplicemente indiziati dei delitti più
ricorrenti nella violenza contro le donne e nella violenza domestica.
Misure, queste, un tempo riservate ai mafiosi.
La velocità di intervento, fondamentale in relazione a questi
fenomeni delittuosi, informa l’intero provvedimento, come
confermato dalla trattazione prioritaria dei processi anche per i reati
spia e dalla maggiore celerità nella trattazione degli affari in materia
di violenza contro le donne e domestica anche nella fase cautelare.
Quanto alle misure precautelari, finalmente è consentito
l’arresto in flagranza differita superando così le difficoltà
operative che l’arresto ha sino ad oggi incontrato con riferimento a
reati, quali lo stalking e i maltrattamenti in famiglia, che avendo
natura abituale, devono comporsi di una pluralità di atti non sempre
accertabili dalle forze dell’ordine in occasione del loro intervento.
Sempre nell’ottica della prevenzione, cruciali diventano le norme sul
rafforzamento delle misure cautelari e dell’uso del braccialetto
elettronico, così come quelle dell’estensione delle misure cautelari
coercitive.
Grande importanza, infine, va tributata alla introduzione della
provvisionale a titolo di ristoro anticipato a favore delle vittime o, in
caso di morte, degli aventi diritto che vengano a trovarsi in stato di
bisogno, da intendersi quale primo passo verso un più ampio
intervento che lo Stato dovrà fare in favore delle vittime di violenza
economica da realizzarsi agevolando l’inserimento (o reinserimento)
delle stesse nel mondo del lavoro.

2. L’estensione dell’ammonimento del


questore ai c.d. reati spia.
La Riforma Roccella (L. 168/23) ha ampliato l’ambito di
applicazione della disciplina dell’ammonimento del questore sia
d’ufficio sia su richiesta della persona offesa.
L’ammonimento è una misura di prevenzione rientrante nelle
misure social preventive la cui finalità è quella di evitare la
commissione di reati da parte di soggetti ritenuti socialmente
pericolosi per la sicurezza pubblica.
L’ammonimento del questore è stato introdotto nel 2009 con
riferimento agli atti persecutori (stalking) e poi esteso dall’art. 3, D.L.
n. 93 del 2013, per le condotte di violenza domestica (percosse e
lesioni personali lievi) e, infine, con L. n. 71 del 2017, per gli atti di
cyberbullismo.
L’ammonimento orale nasce come misura deputata a svolgere
una funzione di prevenzione e di dissuasione dei
comportamenti sanzionati penalmente dall’art. 612-bis c.p.
Infatti, il superamento di una soglia di rispetto della libertà e dignità
altrui – comunemente insita nei limiti di un “civile” disaccordo e
confronto nelle relazioni interpersonali – desta un allarme sociale che
ha spinto il legislatore a prevedere e a sanzionare con
l’ammonimento condotte che potrebbero sfociare in ben più gravi
forme di violenza. Ne discende che, ai fini della sua emissione, non
occorre la piena prova della responsabilità dell’ammonito per le
condotte di stalking ovvero per comportamenti di cui sia accertato il
carattere persecutorio.
Invero, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 18 ottobre 2021, n. 6958; Cons.
Stato, sez. III, 25 maggio 2015, n. 2599), all’ammonimento deve
applicarsi la logica dimostrativa a base indiziaria e di tipo
probabilistico che informa l’intero diritto amministrativo della
prevenzione. La valutazione amministrativa è diretta non a stabilire
responsabilità, ma a prevenire la commissione di reati, mediante un
giudizio prognostico ex ante relativo alla sussistenza di un mero
pericolo. In particolare, l’ammonimento della Questura è un
provvedimento discrezionale in cui viene effettuata una delicata
valutazione delle condotte poste in essere dal potenziale stalker, in
funzione preventiva e dissuasiva, finalizzata a scoraggiare ogni forma
di persecuzione nel contesto delle relazioni affettive e sentimentali e
preordinato ad impedire che gli atti persecutori non siano più ripetuti
e cagionino esiti irreparabili. Il provvedimento di ammonimento
presuppone, dunque, non l’acquisizione della prova richiesta ai fini
della condanna per il reato di stalking, bensì la sussistenza di soli
elementi indiziari dai quali sia possibile desumere, con un
adeguato grado di attendibilità, un comportamento reiterato
anomalo, minaccioso o semplicemente molesto, atto a determinare
un perdurante e grave stato di ansia e paura, e potenzialmente
idoneo a degenerare, se non fermato, in condotte costituenti reato.
Alla luce della peculiare funzione, nei termini poc’anzi esposti, del
decreto di ammonimento ben si comprende l’urgenza in re ipsa che
caratterizza i procedimenti finalizzati all’adozione della misura.
Il provvedimento questorile di ammonimento svolge una
funzione preventiva e non sanzionatoria e, pur non richiedendo
l’accertamento della responsabilità del destinatario secondo i criteri
del giudizio penale, deve comunque fondarsi su un quadro indiziario
attendibile. In ragione del fatto che si tratta di provvedimento
finalizzato a una tutela anticipata della vittima e perché basato su
una valutazione di tipo probabilistico, la motivazione deve essere
stringente e puntuale, vieppiù laddove il rapporto tra denunciato e
denunciante oscilla tra fasi di allontanamento e fasi di
riavvicinamento.
Il provvedimento di ammonimento si sostanzia in un “invito
orale” a conformarsi alla legge, con interruzione immediata delle
condotte vessatorie o minacciose nei confronti della vittima.
In altri termini, si è soliti far ricorso al succitato provvedimento al
fine di dissuadere il responsabile della condotta di stalking a
persistere nella consumazione di una fattispecie criminosa che non è
di pericolo, bensì di danno proprio per l’incidenza che essa ha sulle
abitudini di vita della vittima.
Le differenze tra ammonimento amministrativo e
procedimento penale giustificano un differente regime
investigativo nelle due ipotesi, non essendo affatto necessario
per addivenire al primo che si sia raggiunta la prova del reato, bensì
sufficiente che si sia fatto riferimento ad elementi dai quali sia
possibile desumere, con un sufficiente grado di attendibilità, un
comportamento persecutorio che ha ingenerato nella vittima un
“perdurante” e “grave” stato di ansia e di paura, senza che se ne
renda necessaria la certificazione da parte di un medico. È cioè
essenziale che l’ammonimento raggiunga nella sua configurazione ex
ante quella funzione tipicamente cautelare e preventiva tesa ad
evitare che gli atti persecutori posti in essere contro la persona non
siano più ripetuti e non cagionino esiti irreparabili, a prescindere
dalla loro successiva sottoposizione al vaglio del giudice penale e
perfino dalla ritenuta successiva irrilevanza degli stessi sotto il profilo
di tale tipo di responsabilità.
L’art. 3, D.L. 93/2013 ha introdotto specifiche misure di
prevenzione per condotte di violenza domestica.
Nei casi in cui alle forze dell’ordine sia segnalato – in forma non
anonima – un fatto che debba ritenersi riconducibile all’art. 582,
comma 2, c.p. (lesioni personali punibili a querela della persona
offesa) ovvero all’art. 581 c.p. (percosse, anch’esse punibili a
querela), consumato o tentato, nell’ambito di violenza domestica, il
questore, anche in assenza di querela, può procedere, assunte le
informazioni necessarie da parte degli organi investigativi e sentite le
persone informate dei fatti, all’ammonimento dell’autore del fatto.
Ai fini dell’applicazione della norma sull’ammonimento, per
“violenza domestica” si intendono gli atti non episodici di
violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si
verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali
o precedenti coniugi o persone legate da relazione affettiva in corso
o pregressa, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti
condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.
Per effetto della riforma attuata con la L. 168 del 2023,
l’applicabilità della misura di prevenzione dell’ammonimento d’ufficio
del questore è stata esteso anche ai c.d. reati spia o sentinella,
tradizionalmente considerati come prodromici alla commissione di
reati più gravi.
L’ammonimento, adesso, presuppone la commissione (anche nella
forma del tentativo) dei seguenti delitti:
– violenza privata (art. 610 c.p.);
– minaccia aggravata (art. 612, comma 2, c.p.);
– atti persecutori (art. 612-bis c.p.);
– diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, il
c.d. revenge porn (art. 612-ter c.p.);
– violazione di domicilio (art. 614 c.p.);
– danneggiamento (art. 635 c.p.).
Il legislatore della riforma è intervenuto anche sulla definizione
di violenza domestica inserendovi la cosiddetta violenza
assistita ovvero la violenza commessa alla presenza di soggetti
minori di età.
La commissione degli atti in presenza di minorenni diventa quindi
un ulteriore, autonomo elemento idoneo ad integrare il requisito
della violenza domestica.
L’ordinamento – già prima delle modifiche introdotte con la L. 19
luglio 2019, n. 69 (c.d. “Codice Rosso”) – ha attribuito rilevanza ai
minori c.d. “vittime indirette” nei casi di “violenza assistita” o
“indiretta”. L’elaborazione di tale figura è stata il punto d’approdo di
una evoluzione giurisprudenziale basata sul presupposto che
l’oggetto giuridico della tutela penale apprestata dall’art. 572 c.p.
non è solo l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da
comportamenti vessatori o violenti, ma anche la difesa della
incolumità fisica o psichica dei suoi membri e la salvaguardia dello
sviluppo della loro personalità nella comunità familiare. Sulla base di
tali presupposti e sul rilievo dei consolidati esiti degli studi scientifici
concernenti gli effetti negativi sullo sviluppo psichico del minore
costretto a vivere in una famiglia in cui si consumino dinamiche di
maltrattamento, si è affermato che la condotta di colui che compia
atti di violenza fisica contro la convivente integra il delitto di
maltrattamenti anche nei confronti dei figli, in quanto lo stato di
sofferenza e di umiliazione delle vittime può derivare anche dal clima
instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di
sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle
persone sottoposte al potere del soggetto attivo. Coerentemente con
tale interpretazione, possono integrare il delitto di maltrattamenti nei
confronti dei minori i fatti commissivi abitualmente lesivi della
personalità del coniuge maltrattato laddove si traducano, nei loro
confronti, in una indifferenza omissiva, frutto di una deliberata e
consapevole trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed
esistenziali dei figli, in violazione anche dell’art. 147 c.c. in punto di
educazione e istruzione e rispetto delle regole minimali del vivere
civile, cui pure è soggetta la comunità familiare regolata dall’art. 30
Cost.. La circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma 2, c.p.,
inizialmente prevista con riferimento alla condotta commessa in
danno di persona minore degli anni quattordici, è stata abrogata dal
D.L. n. 93 del 14 agosto 2013, convertito con modificazioni dalla L.
n. 119 del 15 ottobre 2013 (art. 1, comma 1.bis) che,
contestualmente, ha introdotto la circostanza aggravante comune di
cui all’art. 61, n. 11-quinquies c.p. con riferimento alla condotta
commessa in presenza o in danno di un minore degli anni diciotto
(ovvero di persona in stato di gravidanza) in relazione ai delitti non
colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà
personale ed al delitto di cui all’art. 572 c.p.. La L. n. 69 del 19 luglio
2019 (c.d. Codice Rosso in vigore dal 9 agosto 2019) ha nuovamente
introdotto al comma 2 dell’art. 572 c.p. la previsione di una
circostanza aggravante, non più comune, ma ad effetto speciale,
ampliando le ipotesi previste dal testo originario della norma,
abrogato nel 2013. La norma, infatti, prevede l’aumento della pena
fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di
persona minore, di persona in stato di gravidanza o di persona con
disabilità. Con la medesima legge è stato, inoltre, espunto dall’art.
61, n. 11-quinquies c.p. il riferimento all’art. 572 c.p., cosicché
dall’entrata in vigore della L. n. 69 del 2019, allorché la condotta di
maltrattamenti sia stata commessa in presenza o in danno di un
minore, l’unica circostanza applicabile è quella prevista dall’art. 572,
comma 2, c.p.. La Suprema Corte, pronunciandosi in relazione
all’aggravante (semi)comune di cui all’art. 61, n. 11-quinquies, c.p.,
ha già affermato che, ai fini della sua configurabilità, non è
necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del
minore rivestano il carattere dell’abitualità, essendo sufficiente che
egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta
costituente reato (Cass. pen., sez. VI, 9 febbraio 2021, n. 8323;
Cass. pen., sez. VI, 25 ottobre 2018, n. 2003). Si è, infatti, distinto
tra la struttura abituale della fattispecie incriminatrice e la struttura
della circostanza aggravante per la cui sussistenza è, dunque,
sufficiente che anche una sola condotta sia stata commessa in
presenza del minore; le medesime considerazioni devono essere
estese all’aggravante di cui al comma 2 dell’art. 572 c.p. in quanto
strutturalmente sovrapponibile all’ipotesi prima prevista dall’art. 61,
n. 11-quinquies. Ne consegue, pertanto, che, anche ai fini della sua
configurabilità non è necessario che il minore assista abitualmente
alla commissione delle condotte vessatorie, essendo, a tal fine,
sufficiente che il minore degli anni diciotto percepisca anche una sola
delle condotte rilevanti ai fini della commissione del reato (Cass.
pen., sez. VI, 29 settembre 2022, n. 40045), e ciò anche quando la
sua presenza non sia visibile all’autore di questo, sempre che
l’agente, tuttavia, ne abbia la consapevolezza ovvero avrebbe dovuto
averla usando l’ordinaria diligenza (Cass. pen., sez. I, 2 marzo 2017,
n. 12328). Secondo altro orientamento giurisprudenziale, per la
configurabilità del reato di maltrattamenti ai danni della prole, sub
specie di violenza assistita, è necessario, da un lato, che vi siano
condotte di violenza reiterate nel tempo, in linea con la natura
abituale del reato e con la specifica tutela accordata dalla norma che
è finalizzata a proteggere i membri della famiglia da un sistema di
vita vessatorio e non dal singolo episodio di violenza, e, dall’altro,
che la percezione ripetuta da parte del minore del clima di
oppressione di cui è vittima uno dei genitori sia foriera di esiti
negativi nei processi di crescita morale e sociale della prole
interessata oggettivamente verificabili (Cass. pen., sez. VI, 28 marzo
2019, n. 16583; Cass. pen., sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 18833). È
stata, così, distinta l’ipotesi della “violenza assistita” – in cui il minore
è vittima del reato ai sensi dell’art. 572 c.p. perché, sebbene non
direttamente oggetto delle condotte di maltrattamento, ha
comunque subito nella crescita l’effetto negativo causato dall’avere
assistito a condotte concretanti una situazione abituale di
sopraffazione all’interno del proprio nucleo familiare – dalla
differente ipotesi in cui il minore, senza subire un tale effetto, sia
stato solo presente durante la commissione di una delle condotte
integranti il reato di maltrattamenti o altri delitti contro la libertà
personale, affermando l’applicabilità, in tale seconda ipotesi, della
circostanza aggravante disciplinata dall’art. 61, n. 11-quinquies, c.p.,
ha delineato la nozione di “violenza assistita” (Cass. pen., sez. V, 20
novembre 2020, n. 74). In particolare, mentre per il ricorrere della
prima autonoma ipotesi è necessario che al minore derivi uno stato
di sofferenza psico-fisica dalla reiterazione delle condotte, per
ritenere integrata la menzionata aggravante è sufficiente che il fatto
sia commesso in un luogo ove si trovi contestualmente anche un
minore, anche qualora quest’ultimo non sia in grado, per età o per
altre ragioni, di percepire e di avere consapevolezza del carattere
offensivo della condotta in danno di terzi avvenuta in sua presenza
(Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2020, n. 27901; Cass. pen., sez.
VI, 18 ottobre 2017, n. 55833) e anche allorché senza il carattere
dell’abitualità, essendo sufficiente che egli assista ad uno dei fatti
che si inseriscono nella condotta costituente reato (Cass. pen., sez.
VI, 25 ottobre 2018, n. 2003).
Più di recente, la Suprema Corte ha escluso la configurabilità
dell’aggravante dei c.d. maltrattamenti assistiti, affermando
esplicitamente che la tenera età dell’infante non consentisse a
quest’ultimo di percepire li contesto ambientale e le condotte
maltrattanti (così, Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2022, n. 21087), a
prescindere, quindi, dal numero di comportamenti a cui il minore
avesse assistito. Allo scopo di fugare equivoci interpretativi su una
questione così delicata, la Suprema Corte (Cass. pen., sez. VI, 5
ottobre 2023, n. 47121) ha ritenuto doveroso esplicitare che non
ritiene condivisibile tale ultimo orientamento – il quale non
costituisce espressione di una posizione consolidata (in senso
espressamente contrario, tra le altre, Cass. pen., sez. VI, 18 ottobre
2017, n. 55833) – dal momento che non trova giustificazione né nel
dato letterale, né in quello teorico e di sistema, né, infine, nel dato
empirico: aspetti, in verità, tra loro interrelati e di seguito distinti per
sola comodità espositiva. Quanto al dato letterale, è sufficiente
rilevare che, anche per dare attuazione all’art. 46, lett. d) della
Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta
contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica
(cd. Convenzione di Istanbul del 2011), la novella introdotta con la L.
19 luglio 2019, n. 69, ha positivizzato il precedente orientamento
giurisprudenziale di legittimità. Il legislatore ha, quindi, calato
l’ipotesi di “maltrattamenti assistiti” nel corpo dell’art. 572 c.p.,
introducendo un ultimo comma, a mente del quale «il minore di anni
diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si
considera persona offesa del reato», ed innestando, anzi, nel corpo
della fattispecie, un’ipotesi aggravata che dispone un consistente
aumento di pena «se li fatto è commesso in presenza o in danno di
persona minore» (art. 572, comma 2, c.p.). Altro non ha aggiunto in
ordine all’età del minorenne. Su un piano appena più approfondito,
che è quello teorico e di sistema, richiedere la verifica sull’idoneità
della condotta a produrre un danno psico-fisico nel minorenne
significherebbe ri-descrivere quest’ultimo in chiave di pericolo
concreto e imporre, quindi, un accertamento, di caso in caso, non
richiesto dal tipo. Significherebbe, in definitiva, destrutturare la
forma dell’offesa prescelta dal legislatore. Più esplicitamente, l’ipotesi
di “maltrattamenti assistiti” è tipizzata in chiave di pericolo astratto,
in quanto assume l’elevata probabilità di produzione del danno in
ragione della semplice realizzazione della condotta tipica (i
maltrattamenti) alla presenza del minorenne. Ciò basta ad integrare
l’offesa e, dunque, la tipicità del reato, senza che, d’altronde, appaia
necessario o anche soltanto opportuno proporre letture “correttive”,
volte a delimitare l’età del minorenne. Va infatti ricordato che,
secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale, ai fini
della c.d. offensività “in astratto” del reato (che la Consulta rivendica
al suo proprio sindacato), è sufficiente «che la valutazione legislativa
di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria,
ma risponda all’id quod plerumque accidit» (da ultima, sent. n. 139
del 2023, che richiama, a sua volta, sentt. n. 211 del 2022, n. 141
del 2019, n. 109 del 2016 e n. 225 del 2008; nello stesso senso,
sentenza n. 278 del 2019). Ove tale condizione risulti soddisfatta –
aggiunge la Corte costituzionale – il compito di uniformare la figura
criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa (c.d.
offensività «in concreto») resta affidato al giudice ordinario,
nell’esercizio del suo potere interpretativo, allo scopo di evitare che
l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di
un’apprezzabile potenzialità lesiva» (ancora sent. n. 139 del 2023,
che richiama sent. Corte Cost. n. 225 del 2008). Ebbene – e si
giunge al profilo empirico – nell’ipotesi di “maltrattamenti assistiti”
non vi è ragione di dubitare dell’offensività “in astratto” della
fattispecie. Infatti, non vi è motivo di dubitare del pericolo di danno
indotto dalla visione di comportamenti violenti anche in bambini in
età tenerissima, il cui sviluppo neurobiologico, nelle prime fasi,
appare, anzi, particolarmente delicato e potrebbe, quindi, essere
vieppiù compromesso, proprio per l’impossibilità/difficoltà, per il
neonato e l’infante, di elaborare le immagini e gli stimoli cui sono
passivamente sottoposti (né appare dotata di adeguato supporto
l’affermazione, presente in una delle due sentenze di legittimità
citate, che la “consapevolezza” si sviluppi soltanto a partire dalla
seconda metà del primo anno di vita). A fronte di tale dato empirico,
che – lo si ripete – fonda la conformità a Costituzione della
presunzione a fondamento dei “maltrattamenti assistiti” sul piano
dell’offensività “in astratto”, e precisato che, ovviamente, gli effetti
della compromissione del sano sviluppo psico-fisico del bambino
possono emergere a distanza di anche molto tempo dal fatto,
neppure si comprenderebbe, infine, come esperire quel giudizio sul
pericolo in concreto sollecitato dal ricorrente, e cioè accertare
l’idoneità offensiva della specifica condotta: vieppiù in casi come
quello di specie, in cui il minorenne era di «tenerissima età».
Altro discorso è quali siano i contenuti minimi, sul piano
dell’offensività e quindi della tipicità, dei “maltrattamenti assistiti”,
che è poi la questione trattata, come detto, da Cass. pen., sez. VI,
23 febbraio 2018, n. 18833 cit., e, attraverso il richiamo a
quest’ultima, da Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2020, n. 27901
cit., alla quale, dunque, si torna in conclusione del discorso. Tali
pronunce, mediante il riferimento all’idoneità della condotta – “far
assistere” il minorenne alle condotte realizzate nei confronti di altre
persone –, hanno inteso sollecitare il suddetto riscontro sulla
“offensività in concreto”, da parte dei giudici di merito, sotto questo
specifico profilo. Hanno, cioè, dato conto della necessità, prima di
tutto logica e poi anche giuridica, che il minorenne, quale ne sia
l’età, abbia presenziato ad un numero di episodi che, per la loro
gravità (non dovendo, peraltro, necessariamente consistere nell’uso
di violenza fisica) e per la loro ricorrenza nel tempo (abitualità),
possano comprometterne il sano sviluppo psico-fisico, locuzione a
proposito della quale è appena il caso di precisare che la distinzione
tradizionale tra “corpo” e “mente” risulta superata dalle acquisizioni
scientifiche. E hanno, per contro, escluso che li delitto sia
configurabile quando, ad esempio, li minore assista ad un solo atto
di maltrattamento verso terzi. Il principio di diritto espresso in tali
pronunce può essere, dunque, più precisamente specificato nei
termini seguenti: sussiste violenza assistita a prescindere
dall’età del minorenne, purché il numero, la qualità e la
ricorrenza degli episodi cui questi assiste siano tali da
lasciare inferire il rischio della compromissione del suo
normale sviluppo psico-fisico.
Come anticipato, per il reato di atti persecutori, l’ammonimento è
già previsto ai sensi dell’art. 8, D.L. 11/2009 che, a differenza
dell’art. 3, D.L. 93/2013, prevede che la richiesta dell’ammonimento
al questore deve essere formulata dalla parte offesa “fino a quando
non è stata presentata la querela”.
Per effetto della riforma, in relazione allo stesso reato di atti
persecutori il questore potrebbe procedere “d’ufficio”
all’ammonimento laddove il reato fosse riconducibile ad un contesto
di violenza domestica ovvero dover attendere la querela della parte
offesa in tutti gli altri casi.
Per alcuni reati spia, in presenza di determinate circostanze, è
prevista la procedibilità d’ufficio: il questore, in questi casi, non può
limitarsi ad applicare la misura dell’ammonimento ma è anche tenuto
a comunicare la notizia di reato.

2.1. L’estensione degli obblighi informativi.


L’estensione dell’ammonimento del questore ai reati sentinella ha
comportato l’operatività delle misure a sostegno delle vittime di
condotte di violenza domestica o sessuale anche relativamente
ai reati di violenza privata (610 c.p.), minacce aggravate (art. 612,
comma 2, c.p.), violazione di domicilio (art. 614 c.p.) e
danneggiamento (art. 635 c.p.).
Il riferimento è all’obbligo – gravante sulle forze dell’ordine, sui
presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima
notizia dei reati considerati – di informare la medesima vittima
sui centri antiviolenza presenti sul territorio e, in particolare, nella
zona di residenza della stessa nonché metterla in contatto con i
centri antiviolenza, ove essa ne faccia espressamente richiesta.

2.2. La revoca dell’ammonimento.


La L. 168 del 2023, novellando l’art. 3 del D.L. n. 93 del 2013, ha
previsto che la misura di prevenzione può essere revocata su istanza
dell’ammonito non prima che siano decorsi tre anni dalla sua
emissione, valutata la partecipazione del soggetto ad appositi
percorsi di recupero e tenuto conto dei relativi esiti.

2.3. L’aumento di pena.


La riforma ha altresì previsto un aumento di pena, fino a un
terzo, se il fatto è commesso, nell’ambito di violenza
domestica, da soggetto già ammonito, per i reati di:
– percosse (art. 581 c.p.);
– lesioni personali (art. 582 c.p.);
– violenza privata (art. 610 c.p.);
– minaccia grave (art. 612, comma 2, c.p.);
– violazione di domicilio (art. 614 c.p.);
– danneggiamento (art. 635 c.p.);
– atti persecutori (art. 612-bis c.p.);
– diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, c.d.
“revenge porn” (art. 612-ter c.p.), con l’espressa precisazione che la
norma si applica anche se la persona offesa è diversa da
quella per la cui tutela è stato adottato l’ammonimento.

2.4. La procedibilità di ufficio.


La novella dell’art. 3 del D.L. n. 93 del 2013, ha comportato la
procedibilità d’ufficio per i seguenti delitti ordinariamente
procedibili a querela ove commessi – nell’ambito di violenza
domestica – da soggetto già ammonito:
– percosse (art. 581 c.p.);
– lesioni personali semplici (art. 582, comma 1, c.p.) considerato
che per l’ipotesi aggravata è già prevista la procedibilità d’ufficio;
– violenza privata (art. 610 c.p.);
– minaccia grave (art. 612, comma 2, prima ipotesi, c.p.);
– atti persecutori (art. 612-bis c.p.);
– diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti
(art. 612-ter c.p.);
-. violazione di domicilio (art. 614 c.p.);
– danneggiamento (art. 635 c.p.).
Anche in questo caso, il legislatore ha specificato che la norma
trova applicazione anche se la persona offesa è diversa da
quella per la cui tutela è stato adottato l’ammonimento.

2.5. La vigilanza dinamica.


La L. 168 del 2023, ha inserito, dopo l’art. 3, D.L. 93/2012, l’art.
3.1. a mente del quale l’organo di polizia, procedente per fatti
riconducibili ai reati di cui all’art. 362, comma 1-ter, c.p.p. commessi
in ambito di violenza domestica, qualora rilevi l’esistenza di concreti
e rilevanti elementi che prefigurino il pericolo di reiterazione delle
condotte, ne dà comunicazione al prefetto affinché questi possa
adottare, a tutela della persona offesa, misure di vigilanza
dinamica.
Tali misure, sono soggette a revisione trimestrale, sono
adottate sulla base delle valutazioni espresse nelle riunioni di
coordinamento di cui all’art. 5, comma 2, D.L. n. 83 del 2002.
Per delineare al meglio l’ambito di applicazione, è sufficiente
ricordare che l’art. 362, comma 1-ter, c.p.p. – che prevede l’obbligo
di assunzione di informazioni dalla persona offesa entro tre giorni
dall’iscrizione della notizia di reato –, richiama i seguenti delitti:
– tentato omicidio (art. 575 c.p.);
– maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.);
– violenza sessuale (art. 609-bis e 609-ter c.p.);
– atti sessuali con minorenni (art. 609-quater c.p.);
– corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.);
– violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.);
– atti persecutori (art. 612-bis c.p.);
– lesione personale (art. 582 c.p.) e deformazione dell’aspetto
della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-quinquies
c.p.) nelle forme aggravate.

2.6. Il potenziamento e l’estensione


dell’ammonimento già previsto per gli atti
persecutori.
Il legislatore della riforma è intervento anche sul D.L. n. 11 del 2009
che, all’art. 8, stabilisce che, fino a quando non è proposta querela
per il reato di atti persecutori, la persona offesa può esporre i fatti
all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di
ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta è
trasmessa senza ritardo al questore. Il questore, assunte, se
necessario, informazioni dagli organi investigativi e sentite le
persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce
oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il
provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla
legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è
rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito.
Il questore è tenuto ad adottare i provvedimenti in materia di
armi e munizioni (l’obbligo di adozione, in luogo della
discrezionalità valutativa del questore originariamente prevista dal
decreto-legge 11/2009, è stato introdotto dall’art. 1, comma 4, del
decreto-legge in sede di conversione).
La pena per il delitto di atti persecutori è aumentata se il fatto è
commesso da soggetto già ammonito e si procede d’ufficio per il
delitto di atti persecutori quando il fatto è commesso da soggetto
ammonito.
Per effetto della riforma, è stato esteso l’ambito di applicazione
dell’istituto dell’ammonimento, attualmente previsto per i fatti
riconducibili al reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), anche ai
casi in cui i fatti riferiti siano riconducibili alla diffusione illecita di
immagini o di video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p., c.d.
“revenge porn”).
È stato inoltre previsto un aumento della pena per i medesimi
reati quando il fatto è commesso da soggetto già ammonito
e la procedibilità d’ufficio per gli stessi reati quando il fatto è
commesso da soggetto ammonito, anche se la persona offesa è
diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato
l’ammonimento.
Sono stati potenziati gli obblighi informativi alle vittime di
violenza da parte delle forze dell’ordine, dei presidi sanitari e delle
istituzioni pubbliche
La riforma Roccella, modificando l’art. 11, D.L. 11/2009, ha
esteso l’obbligo per le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le
istituzioni pubbliche di fornire informazioni alle vittime di una serie di
reati sui centri antiviolenza presenti sul territorio provvedendo a
metterle in contatto con gli stessi anche con riferimento ai reati di:
– tentato omicidio (art. 575 c.p.);
– deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni
permanenti al viso (art. 583-quinquies c.p.);
– diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti
(art. 612-ter c.p.).

3. Il potenziamento delle misure di


prevenzione.
La L. 24 novembre 2023, n. 168 ha esteso l’applicabilità, da parte
della autorità giudiziaria, delle misure di prevenzione personali –
attualmente applicabili ai soli soggetti indiziati dei delitti di atti
persecutori (art. 612-bis c.p.) e di maltrattamenti contro familiari e
conviventi (art. 572 c.p.) – anche ai soggetti indiziati di alcuni gravi
reati che ricorrono nell’ambito dei fenomeni della violenza di genere
e della violenza domestica.
Le misure di prevenzione sono misure special-preventive,
considerate tradizionalmente di natura formalmente amministrativa,
dirette ad evitare la commissione di reati da parte di determinate
categorie di soggetti ritenuti socialmente pericolosi. Vengono, quindi,
applicate indipendentemente dalla commissione di un precedente
reato, onde la denominazione di misure ante delictum o praeter
delictum.
Prima di esaminare nel dettaglio le novità della riforma, appare
opportuno soffermarsi sul rapporto tra la misura di prevenzione e
l’accertamento di fatti rilevanti ai fini del giudizio di pericolosità e che
sia intervenuto in sede penale.
Vale la pena ricordare come sia risalente, nella giurisprudenza di
legittimità, la affermazione secondo cui, tra il procedimento di
prevenzione ed il processo penale, sussistono profonde differenze
funzionali e strutturali, essendo il secondo ricollegato ad un
determinato fatto reato ed il primo riferito ad una valutazione di
pericolosità; sicché, la reciproca autonomia dei due processi spiega
gli interventi del legislatore per regolare i punti di possibile
interferenza, abbandonando originarie sovrapposizioni e, di seguito,
regole atipiche di pregiudizialità per pervenire, da ultimo, alla
configurazione di ambiti di totale autonomia, salva l’opportuna
disposizione di coordinamento e di economia investigativa (cfr.,
Cass., pen., sez. I, 21 ottobre 1999, n. 5786; conf., Cass. pen., sez.
I, 3 novembre 1995, n. 5522, in cui la Corte ha ricordato che il
procedimento di prevenzione è autonomo rispetto a quello penale,
perché nel primo si giudicano condotte complessive, ma significative
della pericolosità sociale; nel secondo si giudicano singoli fatti da
rapportare a tipici modelli di antigiuridicità, sicché nel procedimento
di prevenzione il giudice è legittimato a servirsi di elementi probatori
e indiziari tratti dai procedimenti penali, prescindendo dalla
conclusione alla quale il giudice è pervenuto facendosi carico di
individuare le circostanze di fatto rilevanti accertate in sede penale, e
rivalutarle nell’ottica del giudizio di prevenzione).
È, inoltre, noto il percorso di riflessione che è stato intrapreso
dalla giurisprudenza anche alla luce dalle sollecitazioni provenienti
soprattutto in ambito convenzionale, e che ha trovato un importante
momento di sintesi nella sentenza n. 24 del 2019 della Corte
Costituzionale, che ha riguardato, in particolare, il profilo della
determinatezza della fattispecie descrittiva della pericolosità
“generica”, vagliata in un’ottica garantistica e di interpretazione
convenzionalmente orientata. Ed era stato proprio il giudice delle
leggi a ricordare, nell’occasione, che “nell’ambito di questa
interpretazione tassativizzante, la Corte di cassazione – in sede di
interpretazione del requisito normativo, che compare tanto nella lett.
a) quanto nella lett. b) D.L.vo n. 159 del 2011, art. 1, degli “elementi
di fatto” su cui l’applicazione della misura deve basarsi – fa infine
confluire anche considerazioni attinenti alle modalità di accertamento
in giudizio di tali elementi della fattispecie. Pur muovendo dal
presupposto che “il giudice della misura di prevenzione può
ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione
– anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtù della
assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di
prevenzione” (Cass. pen. n. 43826 del 2018), si è precisato: che non
sono sufficienti meri indizi, perché la locuzione utilizzata va
considerata volutamente diversa e più rigorosa di quella utilizzata dal
D.L.vo n. 159 del 2011, art. 4, per l’individuazione delle categorie di
cosiddetta pericolosità qualificata, dove si parla di “indiziati” (Cass.
pen. n. 43826 del 2018 e n. 53003 del 2017); che l’esistenza di una
sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto
impedisce, alla luce anche del disposto dell’art. 28, comma 1, lett.
b), che esso possa essere assunto a fondamento della misura, salvo
alcune ipotesi eccezionali (Cass. pen. n. 43826 del 2018); che
occorre un pregresso accertamento in sede penale, che può
discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di
proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in
motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua
commissione da parte di quel soggetto (Cass. pen. n. 11846 del
2018, n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015)”. Va tuttavia chiarito
che l’intervento della Corte Costituzionale era stato sollecitato, ed è
intervenuto, in ordine al profilo della sufficiente determinatezza delle
ipotesi e categorie di pericolosi “generici”, come normativamente
disegnate dal legislatore; è per l’appunto in questa prospettiva che è
stata richiamata, dai giudici delle leggi, la giurisprudenza di questa
Corte in punto di interpretazione “tassativizzante” di tali categorie,
nell’ottica della ricerca di uno standard di “legalità” (che si è ritenuto
di poter qualificare come “alta”) in grado di garantire la prevedibilità
delle conseguenze derivanti dalla consumazione di condotte
suscettibili di evocare le predette categorie. La Corte Costituzionale
ha perciò chiarito che “... nell’esaminare... se la giurisprudenza della
Corte di cassazione della quale si è poc’anzi dato conto sia riuscita
nell’intento di conferire un grado di sufficiente precisione, imposta da
tutti i parametri costituzionali e convenzionali invocati, alle fattispecie
normative in parola, occorre subito eliminare ogni equivoca
sovrapposizione tra il concetto di tassatività sostanziale, relativa al
thema probandum, e quello di cosiddetta tassatività processuale,
concernente il quomodo della prova. Mentre il primo attiene al
rispetto del principio di legalità al metro dei parametri già sopra
richiamati, inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e
prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che
costituisce oggetto di prova, il secondo attiene invece alle modalità
di accertamento probatorio in giudizio, ed è quindi riconducibile a
differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui, in
particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un
“giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art.
6CEDU – i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di
assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di
prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di
costituzionalità ora in esame”. Di qui la ulteriore precisazione
secondo cui “... non sono, dunque, conferenti in questa sede i pur
significativi sforzi della giurisprudenza – nella perdurante e totale
assenza, nella legislazione vigente, di indicazioni vincolanti in
proposito per il giudice della prevenzione – di selezionare le tipologie
di evidenze (genericamente indicate nelle disposizioni in questione
quali “elementi di fatto”) suscettibili di essere utilizzate come fonti di
prova dei requisiti sostanziali delle “fattispecie di pericolosità
generica” descritte dalle disposizioni in questa sede censurate:
requisiti consistenti – con riferimento alle ipotesi di cui al D.L.vo n.
159 del 2011, art. 1, lett. a), – nell’essere i soggetti proposti
“abitualmente dediti a traffici delittuosi” e – con riferimento alla lett.
b) – nel vivere essi “abitualmente, anche in parte, con i proventi di
attività delittuose””. Si è perciò ritenuto che, proprio alla luce della
evoluzione della giurisprudenza successiva alla sentenza “De
Tommaso”, sia possibile assicurare, in via interpretativa, una lettura
sufficientemente precisa della fattispecie di cui al D.L.vo n. 159 del
2011, art. 1 lett. b), con specifico riferimento alla categoria di “coloro
che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di
elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i
proventi di attività delittuose” e che va intesa come “... espressiva
della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di
reato, quanto di specifiche categorie di delitto”.
E, come pure precisato dai giudici delle leggi, le “categorie
delittuose” che possono essere assunte a presupposto per la
adozione della misura di prevenzione, sono poi suscettibili di
concretizzarsi, nel caso di specie esaminato dal giudice, in virtù del
triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi “elementi di fatto”,
di cui si dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13,
comma 2, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi
abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal
soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a
costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in
una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto
meno una componente significativa di tale reddito.
Traendo le fila del discorso, i principi convenzionali e costituzionali
che hanno guidato il progressivo evolversi della giurisprudenza,
hanno imposto la adozione di criteri interpretativi in grado di
garantire degli standard di legalità “alta”, quanto alla individuazione
delle condotte e dei comportamenti da cui possano conseguire
provvedimenti di prevenzione di natura personale o patrimoniale. Ed
è in quest’ottica che, correttamente, si è ribadito – anche in sede
costituzionale – come la premessa per la adozione di tali
provvedimenti non sia l’accertamento di “delitti”, terreno più
propriamente di competenza del giudice penale, ma di “elementi di
fatto” da cui possa desumersi che il proposto viva abitualmente,
anche in parte, del provento di attività delittuose (cfr., art. 1, lett. b),
cit.). Ecco, allora, che l’avvertita esigenza di uno “standard” di
legalità “alta”, finisce con il riflettersi non tanto sulle modalità di
accertamento quanto, piuttosto, sull’oggetto della verifica operata
dal giudice della prevenzione e che deve essere focalizzato, per
l’appunto, sull’esistenza di “elementi di fatto” suscettibili di essere
individuati e ricostruiti con adeguata precisione e puntualità.
Il tema si intreccia con quello del quomodo dell’accertamento, dal
momento che è certamente possibile, per il giudice della
prevenzione, prendere atto dell’esistenza di un giudicato penale,
relativo ad un “fatto” coincidente con una fattispecie delittuosa e per
cui sia intervenuta una condanna passata in giudicato; in tal caso,
infatti, gli “elementi di fatto” sono direttamente evincibili dalla
sentenza che ha riconosciuto la loro conformità alla fattispecie di
reato per cui è intervenuta la condanna.
È tuttora possibile, insomma, ribadire che nel procedimento di
prevenzione il giudice può pur sempre valorizzare elementi probatori
e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed
autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché, naturalmente,
dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere
sintomatici della attuale pericolosità del proposto (cfr., Cass. pen.,
sez. II, 30 aprile 2013, n. 26774; Cass. pen., sez. VI, 8 gennaio
2013, n. 4668; Cass. pen., sez. V, 31 marzo 2000, n. 1968).

3.1. L’estensione dell’ambito applicativo.


La L. 168 del 2023, modificando il comma 1, lettera i-ter, dell’art. 4
del Codice antimafia (D.L.vo n. 159 del 2011), ha esteso
l’applicabilità da parte dell’autorità giudiziaria delle misure di
prevenzione personali ai soggetti indiziati dei reati – consumati o
tentati – di:
– omicidio (art.575 c.p.);
– lesioni personali (art. 583 c.p.) nelle ipotesi aggravate dal
legame familiare o affettivo ex art. 577, comma 1, n. 1) e comma 2,
c.p.;
– deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni
permanenti al viso (art. 583-quinquies c.p.);
– violenza sessuale (art. 609-bis c.p.).
3.2. L’applicazione del c.d. braccialetto
elettronico.
Anche l’art. 6, comma 3-bis, del Codice antimafia è stato novellato.
L’applicazione ai sorvegliati speciali, previo il loro consenso, di
modalità di controllo elettronico ex art. 275-bis c.p.p., richiede
adesso la verifica di fattibilità tecnica, in luogo della verifica circa
la disponibilità dei dispositivi, così come previsto dalla formulazione
precedente della norma.
La legge di riforma ha previsto l’applicazione della misura della
sorveglianza speciale con le modalità di controllo elettronico ex
art. 275-bis c.p.p., ossia il c.d. “braccialetto elettronico”, con il
consenso dell’interessato e la verifica della fattibilità tecnica.
Nel caso di mancato consenso:
– la durata della misura non può essere inferiore a tre anni;
– è previsto l’obbligo di presentazione periodica all’autorità di
pubblica sicurezza con cadenza almeno bisettimanale;
– è imposto, salvo diversa valutazione, l’obbligo o il divieto di
soggiorno.
Nel caso di manomissione degli strumenti di controllo la durata
della misura non può essere inferiore a quattro anni.
Nel caso di non fattibilità tecnica delle modalità di controllo
elettronico il tribunale prescrive l’obbligo di presentazione
all’autorità di pubblica sicurezza con cadenza almeno bisettimanale
e, salvo diversa valutazione, l’obbligo o il divieto di soggiorno.

3.3. Il divieto di avvicinamento.


La L. 24 novembre 2023, n. 168 ha modificato l’art. 8, comma 5,
del codice antimafia, prevedendo che il tribunale, nel disporre la
misura della sorveglianza nei confronti dei soggetti indiziati dei delitti
di violenza domestica e di genere, di cui all’art. 4, comma 1, lett. i-
ter, imponga il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi,
frequentati abitualmente dalle persone cui occorre prestare
protezione, e di mantenere una determinata distanza, non inferiore a
cinquecento metri, da tali luoghi e da tali persone, potendo
comunque disporre specifiche modalità e ulteriori limitazioni quando
la frequentazione dei luoghi suddetti sia necessaria per comprovate
esigenze o per motivi di lavoro.
È stato modificato anche l’art. 9, comma 2, del codice antimafia,
in materia di provvedimenti d’urgenza adottabili dal presidente del
tribunale in pendenza del procedimento per l’applicazione della
misura del divieto o dell’obbligo di soggiorno: nel caso di soggetti
indiziati dei delitti di violenza domestica e di genere di cui all’art. 4,
comma 1, lett. i-ter, il presidente del tribunale può disporre, con
decreto, la temporanea applicazione del divieto di avvicinarsi alle
persone cui occorre prestare protezione o a determinati luoghi da
esse abitualmente frequentati e dell’obbligo di mantenere una
determinata distanza, non inferiore a cinquecento metri, da tali
luoghi e da tali persone, fino a quando non sia divenuta esecutiva la
misura di prevenzione della sorveglianza speciale (il tribunale può
disporre specifiche modalità e ulteriori limitazioni quando la
frequentazione dei luoghi suddetti sia necessaria per comprovate
esigenze o per motivi di lavoro).
Anche in queste ipotesi, si è prevista l’applicazione del c.d.
braccialetto elettronico ex art. 275-bis c.p.p. ferme restando,
ancora una volta, la necessità del consenso dell’interessato e la
verifica della fattibilità tecnica.
Nel caso di diniego del consenso o di non fattibilità tecnica
il tribunale impone, in via provvisoria, l’obbligo di presentazione
all’autorità di pubblica sicurezza con cadenza almeno bisettimanale.
Quando i luoghi che il soggetto non dovrebbe frequentare sono
luoghi di lavoro o vi sono comprovate esigenze che ne giustifichino la
frequentazione, il presidente del tribunale prescrive le modalità con
cui tale frequentazione debba avvenire e può imporre ulteriori
limitazioni.
La L. 168 del 2023 ha modificato anche l’art. 75-bis del codice
antimafia.
Nel caso di violazione dei provvedimenti d’urgenza adesso è
prevista la pena della reclusione da uno a cinque anni e
l’arresto anche fuori dei casi di flagranza.
Si tratta di previsioni analoghe a quelle dell’art. 75, comma 2, per
la violazione del divieto o dell’obbligo di soggiorno disposti in via
definitiva.

3.4. L’analisi criminologica sulla violenza di


genere.
Per effetto della modifica dell’art. 3, comma 3, D.L. 93/2013, si è
previsto che l’analisi criminologica sulla violenza di genere, elaborata
annualmente dal Ministero dell’interno-Dipartimento della pubblica
sicurezza, comprenda anche il monitoraggio sulla fattibilità
tecnica degli strumenti elettronici di controllo a distanza.
Il Ministero dell’interno-Dipartimento della pubblica sicurezza
elabora annualmente un’analisi criminologica sulla violenza di
genere, anche avvalendosi del centro elaborazione dati istituito
presso il Ministero medesimo, che costituisce un’autonoma sezione
della relazione annuale al Parlamento sull’attività delle forze di polizia
e sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica nel territorio
nazionale di cui all’art. 113, L. 121/1981.

4. Le misure in materia di formazione dei ruoli


di udienza e trattazione dei processi.
La L. 168 del 2023, ha assicurato priorità assoluta nella
formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei
processi anche relativi ai reati di:
– violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa
familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa;
– costrizione o induzione al matrimonio;
– lesioni personali aggravate;
– deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni
permanenti al viso;
– interruzione di gravidanza non consensuale;
– diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti;
– di stato di incapacità procurato mediante violenza, laddove
ricorrano le circostanze aggravanti ad effetto speciale, e quindi il
colpevole abbia agito con il fine di far commettere un reato, ovvero
la persona resa incapace commetta, in tale stato, un fatto previsto
dalla legge come delitto.
Si è proceduto alla modifica dell’art. 132-bis delle disp. att. e
trans. c.p.p. che stabilisce i criteri di priorità nella formazione dei
ruoli di udienza e di trattazione dei processi.
Sino ad oggi, la norma assicurava priorità assoluta nella
formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione ai processi relativi
ai reati di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), stalking (art.
612-bis c.p.) violenza sessuale, atti sessuale con minorenne,
corruzione di minorenne e violenza sessuale di gruppo (articoli da
609-bis a 609-octies c.p.).
L’art. 132-bis disp. att. c.p.p. – introdotto con D.L. 24
novembre 2000 n. 341 (conv. con modifiche con la L. 19 gennaio
2001, n. 4) e poi sostituito con D.L. 23 maggio 2008, n. 92
(conv. con modifiche in L. 24 luglio 2008 n. 125) – ha assicurato
nella «formazione dei ruoli di udienza» e nella «trattazione dei
processi» la «priorità assoluta» ad una serie di processi, con dovere
per i dirigenti degli uffici giudiziari di adottare i provvedimenti
organizzativi necessari per assicurarne la conseguente rapida
definizione.
Nella sua originaria formulazione, la norma prevedeva che: «1.
Nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi
è assicurata la priorità assoluta: a) ai processi relativi ai delitti di cui
all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice e ai delitti di
criminalità organizzata, anche terroristica; b) ai processi relativi ai
delitti commessi in violazione delle norme relative alla prevenzione
degli infortuni e all’igiene sul lavoro e delle norme in materia di
circolazione stradale, ai delitti di cui al testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286,
nonché ai delitti puniti con la pena della reclusione non inferiore nel
massimo a quattro anni; c) ai processi a carico di imputati detenuti,
anche per reato diverso da quello per cui si procede; d) ai processi
nei quali l’imputato è stato sottoposto ad arresto o a fermo di
indiziato di delitto, ovvero a misura cautelare personale, anche
revocata o la cui efficacia sia cessata; e) ai processi nei quali è
contestata la recidiva, ai sensi dell’articolo 99, quarto comma, del
codice penale; f) ai processi da celebrare con giudizio direttissimo e
con giudizio immediato».
Per effetto di successivi interventi legislativi sono state poi inserite
nella norma le seguenti nuove previsioni in tema di priorità assoluta,
sempre e solo per formazione dei ruoli d’udienza e trattazione dei
processi da assicurarsi:
«a-bis) ai delitti previsti dagli articoli 572 e da 609 bis a 609 octies
e 612 bis del codice penale» (lettera inserita dall’art. 2 co. 2 del D.L.
14 agosto 2013 n. 93, conv. con modifiche nella L. 15 ottobre 2013,
n. 119);
«a-ter) ai processi relativi ai delitti di cui agli articoli 589 e 590 del
codice penale verificatisi in presenza delle circostanze di cui agli
articoli 52, secondo, terzo e quarto comma, e 55, secondo comma,
del codice penale» (lettera inserita dall’art. 9 della l. 26 aprile 2019
n. 36);
«f-bis) ai processi relativi ai delitti di cui agli articoli 317, 319, 319
ter, 319 quater, 320, 321 e 322 bis del codice penale» (lettera
aggiunta dall’art. 1 co. 74 della l. 23 giugno 2017 n. 103, a decorrere
dal 3 agosto 2017);
«f-ter) ai processi nei quali vi sono beni sequestrati in funzione
della confisca di cui all’art. 12-sexies del decreto legge 8 giugno
1992 n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992
n. 356 e successive modificazioni» (lettera aggiunta dall’art. 30, co.
2, lett. c, della l. 17 ottobre 2017 n. 161).
La L. 168 del 2023 ha novellato la disposizione assicurando
priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza e nella
trattazione anche ai processi relativi ai seguenti reati:
– violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa
familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa (art. 387-bis c.p.);
– costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis c.p.);
– lesioni personali aggravate (art. 582 aggravate ai sensi dell’art.
576, comma 1, nn. 2, 5 e 5.1 e ai sensi dell’art. 577, comma 1 n. 1 e
comma 2, c.p.);
– deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni
permanenti al viso (art. 583-quinquies c.p.);
– interruzione di gravidanza non consensuale (art. 593-ter c.p.);
– diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art.
612-ter c.p.);
– stato di incapacità procurato mediante violenza laddove
ricorrano le circostanze aggravanti ad effetto speciale, e quindi il
colpevole ha agito con il fine di far commettere un reato, ovvero la
persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto previsto
dalla legge come delitto (art. 613, comma 3, c.p.).
La novella ha esteso la portata applicativa della norma
all’intera categoria dei reati c.d. da codice rosso
ricomprendendo anche al delitto di interruzione di gravidanza non
consensuale, reato di genere per eccellenza potendo essere
commesso solo ai danni di una donna e del soggetto più vulnerabile,
il nascituro.

5. La trattazione spedita degli affari nella fase


cautelare.
Con riguardo ai processi relativi ai delitti di violenza di genere e
domestica, la L. n. 168 del 2023, ha previsto che debba essere
assicurata priorità anche alla richiesta di misura cautelare personale
e alla decisione sulla stessa con riferimento ai seguenti delitti:
– maltrattamenti in famiglia;
– violenza sessuale anche di gruppo;
– atti sessuali con minorenne;
– corruzione di minorenne;
– atti persecutori;
– violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa
familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa;
– costrizione o induzione al matrimonio;
– lesioni personali aggravate;
– deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni
permanenti al viso;
– interruzione di gravidanza non consensuale;
– diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti;
– di stato di incapacità procurato mediante violenza, laddove
ricorrano le circostanze aggravanti ad effetto speciale, e quindi il
colpevole abbia agito con il fine di far commettere un reato, ovvero
la persona resa incapace commetta, in tale stato, un fatto previsto
dalla legge come delitto. Il codice di procedura penale consente di
adottare provvedimenti interinali e immediatamente
esecutivi, di natura sia personale che reale, in grado di far fronte a
esigenze contingenti senza dover necessariamente attendere la
conclusione dell’iter procedimentale.
Il legislatore ha previsto e disciplinato una varietà di misure
cautelari.
La distinzione fondamentale, originata dal tipo di libertà
compressa dal provvedimento cautelare, è quella fra:
1) misure cautelari personali;
2) misure cautelari reali.
Le misure cautelari personali comportano la limitazione della
libertà personale o della determinazione nei rapporti familiari e
sociali; quelle reali, invece, impongono dei vincoli alla libertà di
disporre di beni mobili e immobili.
Le misure cautelari personali, a loro volta, si dividono in
coercitive, interdittive e misure di sicurezza applicate
provvisoriamente.
La possibilità di incidere provvisoriamente su libertà fondamentali
relative alla persona e al patrimonio, tuttavia, si deve armonizzare
con il sistema delle guarentigie previste in materia dalla Costituzione
e dalle Convenzioni internazionali.
Viene al riguardo in considerazione, in primo luogo, l’art. 27,
comma 2, Cost. a tenore del quale l’imputato non è considerato
colpevole sino alla condanna definitiva: si tratta del principio di non
colpevolezza, così come del resto espressamente previsto dall’art. 6,
comma 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali nonché dall’art. 14, comma 2, del Patto
internazionale delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici.
L’art. 13 Cost., inoltre, oltre a stabilire il principio dell’inviolabilità
della libertà personale e una fondamentale riserva di legge in
materia di termini massimi di custodia cautelare, consente, al
secondo comma, la limitazione della libertà personale soltanto nei
“casi e modi previsti dalla legge”.
Il codice di rito precisa tali casi e modi all’art. 272 c.p.p. a mente
del quale le libertà della persona possono essere limitate con misure
cautelari soltanto a norma delle disposizioni previste dal codice
stesso.
L’art. 13, comma 2, Cost. consente, altresì, la limitazione della
libertà personale solo per effetto di un atto motivato dell’autorità
giudiziaria.
Il codice di procedura penale dà attuazione a tale riserva di
giurisdizione per mezzo dell’art. 279 c.p.p. secondo cui
sull’applicazione, revoca, o modifica delle misure cautelari provvede
il giudice che procede: per “autorità giudiziaria”, pertanto, deve
intendersi un giudice e non già il pubblico ministero, il quale potrà
solo chiedere che le misure cautelari vengano applicate e non potrà
quindi disporle direttamente.
Per l’individuazione del “giudice che procede” occorre far
riferimento alla seconda parte dell’art. 279 c.p.p. che precisa che,
prima dell’esercizio dell’azione penale, competente è il giudice per le
indagini preliminari.
Peraltro, la misura cautelare può essere applicata anche dal
giudice che ritenga di essere incompetente per qualsiasi causa: se,
infatti, sussistono le condizioni di applicabilità e l’urgenza di
soddisfare talune delle esigenze cautelari previste dalla legge, il
giudice dispone ugualmente la misura richiesta con lo stesso
provvedimento con cui si dichiara incompetente ma, in tal caso, la
misura cessa di avere effetto se non viene disposta, entro venti
giorni dalla ordinanza di trasmissione degli atti, dal giudice
competente (art. 27 c.p.p.).
L’art. 273 c.p.p. prevede che nessuno può essere sottoposto a
misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di
colpevolezza e che nessuna misura può essere applicata se risulta
che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di
giustificazione o di non punibilità o se sussiste una causa di
estinzione del reato ovvero una causa di estinzione della pena che si
ritiene possa essere irrogata.
Il primo presupposto di applicabilità delle misure cautelari
personali è rappresentato dalla sussistenza a carico dell’imputato di
gravi indizi di colpevolezza.
Secondo la giurisprudenza, anche più recente, il termine “indizi”
ha valore e significato diversi a seconda che con esso si faccia
riferimento agli elementi di prova necessari per affermare la
responsabilità di un soggetto in ordine ai reati ascrittigli, ovvero a
quelli legittimanti una misura cautelare personale, coercitiva, come la
custodia in carcere.
Nel primo caso, infatti, per indizi si intendono le prove c.d. logiche
o indirette, attraverso le quali da un fatto certo si risale, per massime
di comune esperienza, ad uno incerto, mentre nel secondo caso la
parola “indizi” fa riferimento anche alle prove c.d. dirette le quali, al
pari di quelle indirette, debbono essere tali da far apparire probabile
la responsabilità dell’indagato circa il fatto o i fatti per i quali si
procede.
L’indizio richiesto dall’art. 273 c.p.p. ai fini dell’adozione di una
misura cautelare non coincide con quello di cui all’art. 192, comma
2, c.p.p., che indica i criteri di valutazione della prova logica
indiziaria, necessaria e sufficiente ad affermare la responsabilità
dell’imputato in ordine al reato ascrittogli.
La prima delle richiamate disposizioni non richiede anche la
univocità e la convergenza – quindi la pluralità – dei dati indizianti,
bensì soltanto la gravità di essi.
Il concetto di “gravità” dell’indizio non può essere identificato con
quello di “sufficienza” da cui, invero, si distingue sia
quantitativamente che qualitativamente in quanto postula l’obiettiva
precisione dei singoli elementi indizianti che, nel loro complesso,
debbono essere – per la loro convergenza – tali da consentire di
pervenire ad un giudizio che, pur senza raggiungere il grado di
certezza richiesto per la condanna, sia di alta probabilità
dell’attribuibilità del reato all’indagato. Tale giudizio deve potersi, alla
stregua delle regole di comune esperienza, qualificare “grave” in
quanto capace di resistere ad interpretazioni alternative.
Altra condizione per arrivare ad applicare una misura cautelare è
costituita dalla punibilità in concreto del reato.
Nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato
compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di non
punibilità.
Condizione necessaria per poter limitare la libertà personale a fini
cautelari è rappresentata dal pericolo che la persona destinataria
della misura, se lasciata libera, possa pregiudicare una delle esigenze
tipizzate dal legislatore nell’art. 274 c.p.p. (c.d. periculum libertatis).
Tali esigenze, tassative e insuscettibili di interpretazione estensiva,
sono:
a) il pericolo di inquinamento probatorio;
b) il pericolo di fuga;
c) il pericolo di reiterazione criminosa.
La prima di tali esigenze cautelari ricorre quando sussistono
specifiche e inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai
fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto e
attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova, fondate
su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a
pena di nullità rilevabile anche d’ufficio.
Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere
individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o
dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione
degli addebiti.
La misura cautelare personale può essere applicata quando
l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo
che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa
essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione.
Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere
desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si
procede.
La sussistenza del pericolo di fuga, per quanto non desumibile
esclusivamente da comportamenti materiali che rivelino l’inizio
dell’allontanamento o una condotta indispensabilmente prodromica,
deve essere comunque tratto da elementi oggettivi e concreti quali la
situazione di vita del soggetto, le sue frequentazioni, i precedenti
penali e i procedimenti in corso, di modo che sia ravvisabile un reale
ed effettivo pericolo, pur sempre interpretato come giudizio
prognostico e non come mera constatazione di un avvenimento in
itinere che, proprio per tale carattere, può essere difficilmente
interrotto ed eliminato con tardivi interventi. In altre parole, la
“ragionevole probabilità” di fuga non equivale a certezza o quasi
certezza della fuga, ma sussiste quando si correli a un pericolo reale,
effettivo e non immaginario.
Ad esempio, la sussistenza della esigenza cautelare in parola,
secondo le indicazioni offerte dalla Suprema Corte, non si può
desumere:
– dal trasferimento in un paese estero in epoca assai precedente
all’inizio del procedimento, dovendo tale pericolo essere desunto
dalle modalità della condotta, quali, ad esempio, la permanenza
all’estero, senza apprezzabile e comprovato motivo, durante il
procedimento e l’assenza di qualsiasi affidabile prospettiva di
disponibilità verso la giurisdizione dello Stato, e sempre tenendo
conto del tempo trascorso dalla commissione del reato;
– dalla mera irreperibilità del soggetto, qualora non vi siano
elementi concreti tali da fare ritenere che l’irreperibilità sia
significativa della volontà di sottrarsi al processo;
– da una mera presunzione, quale è la condizione di straniero
dell’indagato, dovendosi ancorare a concreti elementi dai quali sia
logicamente possibile dedurre, attraverso la valutazione di un’attività
positiva del soggetto in termini di attualità, la reale ed effettiva
preparazione della fuga;
– dalla particolare gravità della pena inflitta con la sentenza di
primo grado, in quanto la sua valutazione comporta un giudizio di
probabilità che deve essere ricavato da elementi concreti, e non
meramente congetturali, e può fondarsi anche sulla natura degli
addebiti nonché sulla previsione, in relazione allo sviluppo del
processo, di una più o meno prossima esecuzione della pena, ma
non può prescindere dall’esame di ogni altro elemento che possa
influire sulla psiche del soggetto, in un giudizio complessivo della sua
personalità;
– dal possesso di documenti di identificazione contraffatti.
Diversamente, assume significativo valore sintomatico il pregresso
stato di latitanza dell’indagato, in quanto rivelatore di una tendenza
ostruzionistica all’esecuzione di provvedimenti restrittivi della libertà
e, pertanto, in posizione di patente inosservanza dei dettami della
legge.
L’esigenza cautelare della reiterazione del reato sussiste qualora,
per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità
della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da
comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il
concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti:
– con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale;
– diretti contro l’ordine costituzionale;
– di criminalità organizzata;
– o della stessa specie di quello per cui si procede.
La prognosi di pericolosità sociale di cui all’art. 274, lett. c)
c.p.p. va effettuata sia sulla base delle specifiche modalità e
circostanze del fatto, che della personalità dell’imputato, valutata
sulla base dei precedenti penali o dei comportamenti concreti,
attraverso una valutazione che, in modo globale, tenga conto di
entrambi i criteri direttivi indicati. Quanto poi, al requisito
dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, introdotto all’art.
274, comma 1, lett. c), c.p.p., dalla L. 16 aprile 2015, n. 47, questo
impone la previsione, in termini di alta probabilità, che all’imputato si
presenti effettivamente un’occasione per compiere ulteriori delitti
della stessa specie, e la relativa prognosi comporta la valutazione,
attraverso la disamina della fattispecie concreta, della permanenza
della situazione di fatto che ha reso possibile o ha, comunque,
agevolato la commissione del delitto per il quale si procede, mentre,
nelle ipotesi in cui tale preliminare valutazione sia preclusa, in
ragione delle peculiarità del caso di specie, il giudizio sulla
sussistenza dell’esigenza cautelare deve fondarsi su elementi
concreti – e non congetturali – rivelatori di una continuità ed
effettività del pericolo di reiterazione, attualizzata al momento della
adozione della misura, e idonei a dar conto della continuità del
periculum libertatis nella sua dimensione temporale, da apprezzarsi
sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità
criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi
dell’effettività di un concreto e attuale pericolo di reiterazione (Cass.
pen. n. 12618 del 2017).
Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa
specie di quello per cui si procede, le misure di custodia
cautelare sono disposte soltanto se si tratta di delitti:
– per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel
massimo a quattro anni;
– ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i
quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a
cinque anni, nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti
di cui all’art. 7 L. 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni.
L’interpretazione dell’espressione “delitti della stessa specie di
quello per cui si procede”, contenuta nell’art. 274, lett. c) c.p.p., non
si riferisce a violazioni della stessa disposizione di legge, ma ha
riguardo alla categoria dei delitti cosiddetti “simili”, che cioè
offendono interessi aventi lo stesso rilievo ovvero lo stesso valore
costituzionale. Il legislatore ha ritenuto che la reiterazione di delitti
gravi, in violazione della stessa categoria di interessi tutelati ovvero
di corrispondenti valori aventi rilievo costituzionale, rappresenti il
pericolo di un sacrificio incisivo e talvolta irreversibile in termini
apprezzabili socialmente dell’interesse tutelato. Quindi, qualora il
delitto per cui si procede rientri nella categoria dei reati
plurioffensivi, il giudice, nel formulare la valutazione delle esigenze
cautelari, dovrà considerare i parametri prescritti (specifiche modalità
e circostanze del fatto e personalità dell’imputato) rispetto a ciascun
bene protetto.
Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla
personalità dell’imputato, non possono essere desunte
esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede.
Secondo consolidato orientamento di legittimità, il pericolo di
reiterazione di reati della stessa indole, di cui all’art. 274, comma 1,
lett. c) c.p.p., non può desumersi dal carattere stesso dei reati
contestati e in particolare dalla protrazione nel tempo di condotte
professionalmente dedite alla perpetrazione dei fatti oggetto di
indagine, in quanto in tal modo ogni reato a struttura permanente o
caratterizzato dalla continuazione comporterebbe un pericolo di
reiterazione. È necessario invece che siano individuate condotte
concrete dell’indagato, e non la propensione generica a commettere
certi reati, ma la attuale ed effettiva potenzialità di commetterli, cioè
la disponibilità di mezzi e circostanze che renderebbero altamente
probabile, una volta adottata la diversa misura cautelare, la
ripetizione di delitti di quella specie.
La riforma Roccella, ha previsto che nei casi indicati dall’art. 132-
bis, comma 1, lett. a-bis), disp. att. c.p.p., come novellato, è
assicurata priorità anche alla richiesta di misura cautelare
personale e alla decisione sulla stessa.
A tal fine, i dirigenti degli uffici adottano i provvedimenti
organizzativi necessari per assicurare la rapida definizione degli affari
per i quali è prevista la trattazione prioritaria.
Con la delibera del 9 luglio 2014, il Consiglio superiore della
magistratura è intervenuto in merito alla necessità di individuare
criteri di priorità nella trattazione degli affari penali negli uffici, in
considerazione della difficoltà di procedere, nello stesso modo e
secondo gli stessi tempi, alla trattazione di tutti gli affari pendenti. Il
Consiglio ha quindi affermato che l’individuazione di priorità, ulteriori
rispetto a quelle legali, dovesse transitare attraverso atti di indirizzo
rimessi alla responsabilità del capo dell’ufficio da emanarsi in
occasione della formazione delle tabelle di organizzazione dell’ufficio
e delle tabelle infradistrettuali, a cadenza triennale, ed annualmente
rinnovati all’atto della predisposizione annuale del programma di
gestione dei procedimenti penali.
Con delibera 22 dicembre 2021, il CSM ha chiarito che
l’adozione da parte dei dirigenti degli uffici requirenti di criteri di
priorità può avere ad oggetto l’individuazione delle tipologie di
procedimenti a trattazione anticipata o postergata e può fornire ai
singoli sostituti indicazioni generali sull’applicazione degli istituti
deflattivi. In tali casi, si tratta di direttive di riferimento per i
magistrati dell’ufficio, fatta salva la possibilità per ciascun sostituto di
valutare eventuali deroghe a tali linee di indirizzo in ragione della
peculiarità del caso concreto, previa interlocuzione con il
Procuratore. Per la residua parte varranno come criteri generali di
orientamento. A loro volta, i protocolli fra uffici giudicanti e requirenti
in materia – in attuazione del principio di condivisione e necessaria
interlocuzione fra uffici – possono avere ad oggetto la gradazione
temporale dell’ordine di trattazione dei procedimenti e le soluzioni
organizzative funzionali alla celere ed efficiente definizione dei
procedimenti. Infine, non possono essere oggetto dei provvedimenti
organizzativi e dei protocolli processuali che incidano direttamente
giurisdizionali e per le quali non vi sia un adeguato supporto
normativo di rango primario.
Infine, con delibera 3 maggio 2023, il Consiglio Superiore della
Magistratura ha ancora una volta in risposta ad un quesito, ha
affermato che la materia dei criteri di priorità nella trattazione dei
procedimenti penali, con specifico riferimento alle prerogative dei
dirigenti degli uffici in materia, resta regolata dalle delibere consiliari
già adottate (tenendo conto della normativa transitoria ex art. 88-bis
della riforma Cartabia), in attesa del necessario intervento del
legislatore ordinario e successivamente del Consiglio (chiamato a
definire i principi generali cui il Procuratore dovrà attenersi nel
progetto organizzativo dell’ufficio).

6. Le disposizioni in materia di attribuzioni del


procuratore della Repubblica.
La L. 24 novembre 2023, n. 168 ha introdotto misure volte a
favorire la specializzazione degli uffici requirenti in materia di
violenza di genere e domestica.
L’art. 1, comma 4, D.L.vo 106/2006 attribuisce al procuratore
capo la facoltà di affidare a uno o più procuratori aggiunti, ma anche
a uno o più sostituti procuratori dell’ufficio, la cura di una
determinata tipologia di procedimenti o di uno specifico ambito di
attività quando gli stessi necessitano di una uniforme trattazione.
Per effetto della legge Roccella, nel caso di delega,
l’individuazione deve avvenire specificamente sempre per la cura
degli affari in materia di violenza di genere e domestica.
La riforma si allinea alle indicazioni della Convenzione del
Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei
confronti delle donne e la violenza domestica, la c.d. Convenzione di
Istanbul (ratificata con la legge 27 giugno 2013, n. 77)che individua
tra i vari obiettivi che gli Stati firmatari devono perseguire anche
quello di favorire la specializzazione di tutti gli operatori, fra i quali
vanno ricompresi “le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri e le
autorità incaricate dell’applicazione della legge”.
Anche il Consiglio Superiore della Magistratura,
intervenendo sulle tematiche connesse al contrasto della violenza
sulle donne e domestica, ha in più occasioni sollecitato la
specializzazione dei magistrati operanti in questi ambiti evidenziando
l’opportunità di garantire una risposta immediata ed efficace da
parte dell’autorità giudiziaria, promuovendo anche l’utilizzo di prassi
virtuose.
La delibera 9 maggio 2018 rappresenta uno dei punti
culminanti del percorso intrapreso dal Consiglio su una materia che
vede una enorme recrudescenza di fatti di reato, che hanno quindi
reso necessario un intervento del CSM volto a promuovere le buone
prassi organizzative al fine di rendere più efficiente ed efficace la
risposta giurisdizionale. Attraverso un monitoraggio, è stato
analizzato l’assetto organizzativo degli uffici giudiziari, al fine di
verificare la presenza di gruppi o sezioni specializzate, di protocolli
con organismi esterni, di strumenti volti a ridurre i tempi di
trattazione dei procedimenti.
Più specificamente, con riferimento all’organizzazione degli uffici
requirenti, il punto di partenza è la constatata necessità di un
approccio “specialistico” ai procedimenti per violenza di genere, che
consente lo sviluppo di prassi investigative efficaci e il
consolidamento di un background di conoscenze non solo giuridiche,
così da consentire alle autorità inquirenti un migliore vaglio sulla
fondatezza della notitia criminis, anche in funzione preventiva di
eventuali escalation, e un più corretto rapporto con la vittima. Si
rileva, quindi, che l’assetto organizzativo migliore coincida con la
costituzione di dipartimenti/gruppi di lavoro specializzati,
valorizzando le specifiche attitudini dei singoli magistrati in fase di
assegnazione a tali raggruppamenti. A tal fine, il Consiglio ha
reputato necessaria una puntuale formazione da parte della Scuola
superiore, necessità ancor più marcata per quegli uffici di ridotte
dimensioni ove non è possibile la costituzione di gruppi di lavoro
specializzati.
Quanto alle tipologie di reato, ferma restando l’autonomia
organizzativa dei procuratori, le indicazioni contenute nella delibera
vanno nel senso di allargare la sfera dei reati a tutti quelli contro la
libertà sessuale e la famiglia, il femminicidio, la prostituzione
minorile, i maltrattamenti, la pedopornografia, nonché quelli ex artt.
583-bis, 591, 593-bis e ter, 574 e 574-bis, 609-undecies, 414-bis
c.p.
La stessa esigenza di specializzazione si pone per gli uffici
giudicanti, per una migliore gestione della delicata fase
dibattimentale. Viene quindi auspicata la creazione di sezioni
specializzate in materia, o comunque di gruppi di lavoro nell’ambito
della sezione o, infine, l’assegnazione ai collegi predeterminati con
giudici specializzati. Inoltre, attesa la complessità e delicatezza di tali
procedimenti, si segnala l’opportunità di introdurre strumenti
correttivi di riequilibrio rispetto alle pendenze medie sui ruoli.
Ovviamente, il criterio della specializzazione dovrebbe connotare
anche la fase in cui è previsto l’intervento del GIP o del GUP, cui
sono demandati incombenti delicati quali l’incidente probatorio per le
vittime vulnerabili, o la definizione del giudizio mediante riti speciali.
Per quanto concerne i magistrati onorari, cui spesso sono affidati i
procedimenti monocratici, è emersa la necessità di potenziarne la
formazione, anche decentrata, e di garantire, ove possibile, una
forma di specializzazione anche per costoro.
Altra positiva prassi organizzativa è l’utilizzo dello strumento
processuale di cui all’art. 132-bis att. c.p.p., che consente corsie
preferenziali per la trattazione dei procedimenti per violenza di
genere e domestica. In questa prospettiva, è auspicabile un’intesa
fra gli uffici giudicanti e requirenti per un coordinamento e raccordo
nell’individuazione dei criteri di priorità e nella scelta degli
incombenti processuali più adeguati a garantire la protezione della
vittima.
In parzialmente diversa ottica, la delibera si concentra sulle
prassi virtuose che consentono a magistratura e forze di polizia di
riconoscere gli indici sintomatici della violenza di genere e di
garantire alla vittima una protezione efficace al di là dell’applicazione
di misure cautelari. In proposito, vanno valorizzati i protocolli
operativi che garantiscono la specializzazione delle forze di polizia,
un efficace coordinamento delle stesse con l’autorità giudiziaria,
onde prevenire i rischi per la vittima, un’accurata attività di raccolta
delle notizie di reato, la previsione – nelle Procure – di un c.d.
“turno violenza”; l’adozione di strumenti ed accorgimenti – in fase
investigativa e dibattimentale – tali da evitare danni emotivi alle
vittime (si pensi alle modalità di ascolto della vittima, che – per il
trauma psicologico subito – può avere bisogno della presenza di
esperti in psicologia o psichiatria che supportino gli inquirenti). Sotto
il profilo della protezione della vittima, si auspica poi la diffusione di
informazioni complete, comprensibili e chiare alle potenziali vittime
di violenza.
Ulteriori profili rilevanti riguardano l’opportunità di un
coordinamento con la magistratura minorile, i giudici civili, le reti
antiviolenza, i presidi sanitari e i servizi sociali, onde mettere a
disposizione della magistratura tutti gli strumenti utili a prevenire i
reati o, comunque, a fornire protezione e supporto alle vittime.
La delibera 4 giugno 2020 dà conto degli esiti del monitoraggio
sui procedimenti per violenza di genere e domestica in relazione
all’emergenza sanitaria e al connesso incremento di rischio di
esposizione alla violenza domestica. Nello specifico, sono state
esaminate linee guida e prassi applicative, per individuare le best
practices funzionali a offrire la miglior tutela a donne e minori.
Quanto all’attività degli uffici requirenti, è emerso che la maggior
parte degli uffici è intervenuto immediatamente nei casi urgenti,
ascoltando le persone offese, eventualmente da remoto, elemento
che viene ritenuta una prassi virtuosa. Con riferimento alla
diminuzione delle notitiae criminis, la delibera indica come prassi
virtuosa quella di creare nei singoli uffici presidi dedicati alla
presentazione delle denunce (eventualmente in collaborazione con
l’avvocatura) e di mettere il difensore in condizione di trasmettere
integrazioni, documenti e istanze anche in via telematica.
Quanto alla misura precautelare dell’allontanamento dalla
casa familiare, si è riscontrato un netto calo nell’applicazione,
anche in ragione del fatto che la misura non era fra quelle escluse
dalla sospensione e non era prevista la partecipazione da remoto
all’udienza di convalida.
Quanto agli incidenti probatori dichiarativi, la delibera invita a
valutare le esigenze di urgenza e indifferibilità.
Quanto alle misure cautelari, si indica come preferibile la
soluzione di allontanare dalla casa familiare l’autore della violenza e
non la vittima e di utilizzare – nei casi più gravi – il braccialetto
elettronico in luogo dell’ingresso in carcere.
Con riguardo alla fase dibattimentale, la delibera invita a
bilanciare, nella fissazione delle udienze, le esigenze di tutela della
salute e la necessità di evitare la vittimizzazione secondaria.
Quanto al settore civile e minorenni, la risoluzione analizzare
le problematiche connesse agli ordini di protezione e alla
regolamentazione degli incontri genitori figli e di quelli propedeutici
all’adozione.
Il “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà
giudiziaria” (doc. XXII-bis n. 4) approvato il 17 giugno 2021 dalla
Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su
ogni forma di violenza di genere ha accertato che gli uffici più
direttamente coinvolti nell’azione di contrasto alla violenza di genere
e domestica per le funzioni inquirenti attribuite dall’ordinamento
giudiziario sono le procure della Repubblica, uffici competenti,
insieme agli organi di polizia giudiziaria, nell’assicurare l’intervento
dello Stato nella immediatezza della commissione dei reati e nel
conseguente svolgimento delle attività di indagine. Per questo
motivo un’attenzione particolare è stata rivolta all’esame degli aspetti
più qualificanti dell’attività investigativa e dell’organizzazione delle
procure. Si sono dapprima evidenziati come determinanti, in una
corretta attività di contrasto alla violenza di genere e domestica, i
temi della effettiva specializzazione dei pubblici ministeri e delle
modalità di assegnazione dei relativi procedimenti. Si è inoltre
verificato se e quanto sia diffusa la coscienza della complessità della
materia e la conoscenza della specificità dei reati tipici e anche se, e
quanto, siffatta consapevolezza si sia tradotta in modelli organizzativi
idonei a garantire competenza e tempestività nella trattazione dei
procedimenti. Ciò in coerenza anche con i princìpi di efficienza ed
effettività dell’intervento giudiziario. Ci si è poi concentrati
sull’accertamento del grado di coinvolgimento degli esperti (quasi
esclusivamente psicologi) chiamati a prestare la loro attività anche
nel procedimento penale e, quindi, ci si è soffermati sulla verifica del
ruolo agli stessi riservato, su quanto siano diffusi e omogenei i
comportamenti più virtuosi: modalità di scelta dell’esperto, adozione
di quesiti standard oggetto dell’incarico, elaborazione dello stesso
con altri interlocutori istituzionali.
La carenza o la inidoneità di tali elementi, infatti, contribuisce a
rendere concreto il rischio di inadeguatezza della risposta giudiziaria,
con conseguenti ulteriori effetti negativi per le vittime vulnerabili,
con particolare riguardo alla inderogabile esigenza di garantirne
l’effettiva protezione.
Come spiegato dalla Commissione Femmicidio della precedente
legislatura, dall’analisi sugli esiti dell’indagine emerge una situazione
molto variegata tra i diversi uffici di procura. È stato possibile
individuare gruppi di procure che si trovano in stadi diversi di
consapevolezza e azione. Un percorso di cambiamento è stato
comunque avviato, sebbene ancora largamente incompleto. Emerge,
nel complesso, una insufficiente consapevolezza della complessità
della materia. Solo un significativo cambiamento culturale consentirà
un salto di qualità nell’azione degli uffici. È fondamentale fare in
modo che i comportamenti virtuosi, pur presenti, non restino
episodici e strettamente dipendenti dall’iniziativa personale e che le
best practices, oggi troppo frammentate e isolate, possano svolgere,
se adeguatamente supportate, un importante ruolo di traino per gli
altri uffici giudiziari. Si delinea, quindi, la necessità di una doppia
strategia: da un lato un percorso di tipo culturale che porti alla
condivisione della complessità e della rilevanza della materia;
dall’altro, la messa a punto di azioni e interventi strutturali, anche di
tipo ordinamentale e regolamentare, che siano coerenti e adeguati. I
segnali positivi che emergono nelle procure appartenenti ai gruppi
più virtuosi assumono una grande rilevanza in quanto potrebbero
svolgere un ruolo di impulso per le altre procure meno preparate, ma
anche per i tribunali ordinari, nei quali la situazione complessiva
appare più critica. Nel 10,1 per cento delle procure (14 su 138),
tutte di piccole dimensioni, non esistono magistrati specializzati nella
materia della violenza contro le donne e questo implica che i
procedimenti in materia sono assegnati a tutti i magistrati
indistintamente. Nel 77,5 per cento (107 su 138) delle procure,
invece, è stato costituito un gruppo di magistrati specializzati che
tratta la materia della violenza di genere contro le donne, tuttavia
insieme ad altre materie riguardanti i cosiddetti «soggetti deboli o
vulnerabili».
Solo una minoranza delle procure, pari al 12,3 per cento (ovvero
17 su 138, di cui 10 di piccole, 4 di medie e 3 di grandi dimensioni)
segnala l’esistenza di un gruppo di magistrati specializzati
esclusivamente nella violenza di genere e domestica, ma ciò non
esclude che, soprattutto nelle piccole procure, detti magistrati
trattino anche procedimenti di altre materie.

7. Le iniziative formative in materia di violenza


contro le donne e violenza domestica.
La L. 24 novembre 2023, n. 168 ha previsto iniziative formative in
materia di violenza contro le donne e violenza domestica.
In linea con gli obiettivi della citata Convenzione di Istanbul, si è
provveduto alla predisposizione, da parte dell’Autorità politica
delegata per le pari opportunità, anche con il supporto del Comitato
tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei
confronti delle donne, sentita l’assemblea dell’Osservatorio stesso, di
apposite linee guida nazionali al fine di orientare un’adeguata
ed omogenea formazione degli operatori che a diverso titolo
entrano in contatto con le donne vittime di violenza.
La disposizione fa salvo quanto già previsto dall’art. 5 del Codice
Rosso per la formazione degli operatori delle forze di polizia a mente
del quale la Polizia di Stato, l’Arma dei carabinieri e il Corpo di Polizia
penitenziaria attivino presso i rispettivi istituti di formazione specifici
corsi obbligatori destinati al personale che esercita funzioni di
pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria in relazione alla prevenzione
e al perseguimento dei reati in materia di violenza di genere o che
interviene nel trattamento penitenziario delle persone per essi
condannate. La frequenza dei corsi è obbligatoria per il personale
individuato dall’amministrazione di appartenenza.
Al fine di definire un sistema strutturato di governance tra tutti i
livelli di governo, presso il Dipartimento per le pari opportunità della
Presidenza del Consiglio dei ministri esiste già una Cabina di regia
interistituzionale e un Osservatorio sul fenomeno della violenza nei
confronti delle donne e sulla violenza domestica.
L’Osservatorio, costituito con D.M. 12 aprile 2022:
a) assicura le attività di analisi e studio delle problematiche in
tema di violenza nei confronti delle donne e violenza domestica,
anche attraverso la realizzazione di un rapporto biennale finalizzato
ad aggiornare le conoscenze sulle principali dinamiche riguardanti
tale fenomeno in Italia, formulando proposte di intervento;
b) svolge funzioni di monitoraggio dell’attuazione del Piano di cui
all’art. 5, comma 1, del D.L. legge 14 agosto 2013, n. 93, anche ai
fini delle eventuali proposte di aggiornamento degli interventi ivi
previsti, nonché di valutazione dell’impatto delle politiche in tema di
contrasto alla violenza maschile nei confronti delle donne, anche
mediante l’individuazione delle buone pratiche realizzate;
c) coordina le proprie attività di ricerca, studio e documentazione
con quelle relative al Piano strategico nazionale per la parità di
genere.
L’art. 5 del citato decreto ministeriale istituisce, in seno
all’Osservatorio, il comitato tecnico-scientifico con il compito di
individuare le linee di attuazione del programma delle attività
dell’Osservatorio medesimo. Il Comitato è presieduto da un
coordinatore tecnico-scientifico, nominato dal Presidente del
Consiglio dei ministri o dall’Autorità politica delegata alle pari
opportunità ed è composto dal Capo del Dipartimento per le pari
opportunità o da un suo delegato e da cinque esperti nominati dal
Presidente del Consiglio dei ministri o dall’Autorità politica delegata
alle pari opportunità, tra soggetti di elevata e comprovata
professionalità negli ambiti tematici di interesse dell’Osservatorio.
Il comma 2 prevede che nelle linee programmatiche che il
Ministro della giustizia annualmente propone alla Scuola superiore
della magistratura, ai sensi dell’art. 5 D.L.vo n. 26 del 2006, siano
inserite specifiche iniziative formative in materia di violenza contro le
donne e violenza domestica.
In base a tale ultima disposizione, il Ministro della giustizia e il
Consiglio superiore della magistratura propongano annualmente
delle linee programmatiche al fine dell’adozione del programma
annuale dell’attività didattica da parte del comitato direttivo della
Scuola superiore della magistratura.
La Scuola Superiore della magistratura organizza seminari di
aggiornamento professionale e di formazione per i magistrati e per
gli altri operatori della giustizia.
Come rilevato da C. De Robbio (La risposta giudiziaria
all’emergenza della violenza di genere e la sfida della formazione, in
Giustizia Insieme), il Comitato Direttivo della Scuola Superiore della
Magistratura ha cercato di rafforzare l’offerta formativa sul tema
agendo essenzialmente in due direzioni: attraverso l’impulso alle
Strutture Territoriali presenti nei distretti di Corte di Appello e
inserendo approfondimenti ad hoc sulla violenza di genere in corsi
dedicati ad altri argomenti.
Quanto alle Strutture Territoriali (veri e propri organismi di
formazione dislocati in ciascuna Corte di Appello e dedicati alla
formazione dei magistrati che ne fanno parte), il Comitato Direttivo
della Scuola Superiore della Magistratura ha fortemente
raccomandato l’organizzazione in sede locale di ulteriori
approfondimenti su questo specifico tema, con una risposta
oggettivamente eccellente da parte dei formatori decentrati.
Nel triennio 2016-2018, sono stati infatti organizzati in sede
decentrata 25 corsi sul tema in esame, che hanno coinvolto
pressocché tutte le Corti di Appello; lungi dall’essere iniziative di
formazione “minori”, si è trattato di preziose occasioni di confronto
tra magistrati appartenenti ad un medesimo territorio (e portatori a
volte di specifiche esigenze operative in relazione al contesto
culturale di appartenenza) e relatori, sia colleghi che esponenti del
mondo accademico, in uno scambio altamente proficuo proprio
perché calato nelle singole realtà concrete dei Tribunali e delle Corti
di Appello dislocati sul territorio.
Ancora, vanno menzionati in tema i numerosi approfondimenti
dedicati all’argomento nel corso del tirocinio iniziale, sia generico che
mirato, molti dei quali sovrapponibili agli argomenti già menzionati in
tema di formazione permanente, altri (come gli spazi dedicati ai bias
cognitivi nei processi di violenza di genere nella relazione sulla
“psicologia del giudicare”) specificamente immaginati per il percorso
formativo dei MOT. Altri specifici approfondimenti sono riservati alla
gestione processuale delle vittime vulnerabili. Tra di essi, una delle
esercitazioni che i MOT sono tenuti a redigere per la valutazione
finale del tirocinio.
Parimenti, appositi corsi sono stati specificamente dedicati al tema
nei corsi di formazione onoraria, mentre sono allo studio
implementazioni nei corsi di preparazione ai direttivi e semidirettivi
(c.d. formazione dirigenti).
Occorre infatti promuovere piena consapevolezza del tema anche
nei dirigenti degli uffici, con particolare attenzione al linguaggio
utilizzato dai magistrati dell’ufficio diretto nella redazione dei
provvedimenti ed ai comportamenti da loro stessi tenuti nei confronti
delle colleghe e dei colleghi.
In risposta alle sollecitazioni provenienti dagli organismi
comunitari, la Scuola ha inoltre aderito al primo dei “laboratori di
Strasburgo”, in particolare a quello dedicato a “La tutela dei diritti
della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni: la
giurisprudenza italiana e della Corte europea dei diritti dell’uomo”.
L’evento, realizzato in dialogo con la Rappresentanza permanente
d’Italia presso il Consiglio d’Europa, inaugura il progetto “Laboratori
Strasburgo”, volto a realizzare approfondimenti tematici di tipo
seminariale in relazione alle questioni controverse sull’applicazione
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della tutela dei
diritti fondamentali.

8. I termini per la valutazione delle esigenze


cautelari.
La L. n. 168 del 2023 è intervenuta anche sul procedimento di
applicazione delle misure cautelari nei procedimenti relativi a delitti
di violenza domestica e di genere, prevedendo che il Pubblico
Ministero debba chiedere l’applicazione della misura entro
trenta giorni dall’iscrizione della persona nel registro delle notizie
di reato e il giudice debba pronunciarsi sulla richiesta nei venti
giorni dal deposito dell’istanza cautelare presso la cancelleria.
Il nuovo art. 362-bis c.p.p. rubricato “misure urgenti di
protezione della persona offesa” prevede che nei casi in cui si
procede per i seguenti delitti, consumati o tentati, commessi in
danno del coniuge, anche separato o divorziato, della parte
dell’unione civile o del convivente o di persona che è legata o è stata
legata da relazione affettiva ovvero di prossimi congiunti:
– tentato omicidio (art. 575 c.p.);
– costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis c.p.);
– maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.);
– lesioni personali aggravate (art. 582 aggravate ai sensi dell’art.
576, comma 1, nn. 2, 5 e 5.1 e ai sensi
dell’art. 577, comma 1 n. 1 e comma 2, c.p.);
– pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583-
bis c.p.)
– deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni
permanenti al viso (art. 583-quinquies c.p.);
– interruzione di gravidanza non consensuale (art. 593-ter c.p.);
– violenza sessuale, atti sessuale con minorenne, corruzione di
minorenne e violenza sessuale di gruppo (artt. da 609-bis a 609-
octies c.p.);
– violenza privata (art. 610 c.p.)
– minaccia grave (art. 612, comma 2, c.p.)
– atti persecutori (art. 612-bis c.p.)
– diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art.
612-ter c.p.)
– stato di incapacità procurato mediante violenza, nelle ipotesi
aggravate (art. 613, comma 3, c.p.)
Il pubblico ministero, effettuate le indagini ritenute necessarie, è
tenuto a valutare, entro trenta giorni dall’iscrizione del nominativo
della persona nel registro delle notizie di reato, la sussistenza dei
presupposti di applicazione delle misure cautelari.
Entro venti giorni dal deposito dell’istanza cautelare presso la
cancelleria, il giudice deve provvedere in ordine alla richiesta di
applicazione di una misura cautelare.
Nel caso in cui il pubblico ministero non ravvisi i presupposti per
richiedere l’applicazione delle misure cautelari nel termine indicato,
prosegue nelle indagini preliminari.
La norma non prevede sanzioni di nullità in caso di “sforamento”
dei termini. Il ritardo potrà rilevare al più a livello disciplinare
per il magistrato che se ne rende responsabile.

9. Le disposizioni in materia di rilevazione dei


termini.
La riforma ha modificato anche l’art. 127 disp. att. c.p.p.
(comunicazione delle notizie di reato al procuratore generale)
aggiungendo un ulteriore comma che impone al procuratore
generale presso la Corte di appello l’obbligo di acquisire,
trimestralmente, dalle procure della repubblica del distretto i dati sul
rispetto dei termini relativi ai procedimenti di cui all’art. 362-bis
c.p.p. (appena esaminati) e di inviare al procuratore generale presso
la Corte di Cassazione una relazione almeno semestrale.
La disposizione, già oggetto di modifica ad opera della c.d. riforma
Cartabia, prevede, al comma 1, che la segreteria del pubblico
ministero debba trasmettere ogni settimana al procuratore generale
presso la corte di appello i dati indicati nel comma 3 dell’art. 127
disp. att. c.p.p. e raggruppati in distinti elenchi riepilogativi, relativi
ai procedimenti nei quali il pubblico ministero:
– non ha disposto la notifica dell’avviso di conclusione delle
indagini preliminari, né ha esercitato l’azione penale o richiesto
l’archiviazione, entro i termini previsti dall’art. 407-bis, comma 2,
c.p.p.;
– non ha assunto le determinazioni sull’azione penale nei termini
di cui all’art. 415-ter, comma 3, primo e secondo periodo, c.p.p.;
– non ha esercitato l’azione penale, né richiesto l’archiviazione,
entro i termini previsti dagli artt. 407-bis, comma 2, e 415-ter,
comma 3, quarto periodo, c.p.p.
Il comma 2 dell’art. 127 disp. att. c.p.p. stabilisce che, con
riguardo ai procedimenti nei quali il pubblico ministero non ha
disposto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini
preliminari, né ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione
deve essere specificato se il pubblico ministero ha formulato la
richiesta di differimento di cui al comma 5-bis dell’art. 415-bis c.p.p.
e, in caso affermativo, se il procuratore generale ha provveduto sulla
richiesta e con quale esito.
Il comma 3 infine elenca i seguenti dati che la segreteria del
pubblico ministero è tenuta a comunicare:
– le generalità della persona sottoposta alle indagini o quanto
altro valga a identificarla;
– il luogo di residenza, dimora o domicilio della persona
sottoposta alle indagini; le generalità della persona offesa o quanto
altro valga a identificarla;
– il luogo di residenza, dimora o domicilio della persona offesa;
– i nominativi dei difensori della persona sottoposta alle indagini e
della persona offesa e i relativi recapiti;
– il reato per cui si procede, con indicazione delle norme di legge
che si assumono violate, nonché, se risultano, la data e il luogo del
fatto.
La L. 8 settembre 2023, n. 122, aggiungendo un nuovo
comma (comma 1-bis) all’art. 6, D.L.vo n. 106 del 2006, ha stabilito
che il procuratore generale presso la Corte di appello, nell’ambito
dell’attività di vigilanza che gli è propria e che si sostanzia
nell’acquisizione di dati e notizie dalle procure del distretto,
acquisisca dalle procure della Repubblica del distretto, con cadenza
trimestrale, i dati sul rispetto del termine di assunzione di
informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di
reato in materia di violenza di genere entro tre giorni, inviando al
Procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione
almeno semestrale.
10. Le modifiche degli effetti della violazione
degli ordini di protezione contro gli abusi
familiari.
La L. n. 168 del 2023 ha elevato la pena prevista in caso di
violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e
al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa,
estendendo la disciplina penalistica anche alla violazione degli ordini
di protezione emessi dal giudice in sede civile.
L’art. 387-bis c.p., rubricato “violazione dei provvedimenti di
allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai
luoghi frequentati dalla persona offesa”, è stato introdotto dall’art. 4,
L. n. 69 del 2019 (c.d. Codice rosso).
La norma adesso prevede che chiunque, essendovi legalmente
sottoposto, violi gli obblighi o i divieti derivanti dal provvedimento
che applica le misure cautelari di cui agli artt. 282-bis e 282-ter
c.p.p. o dall’ordine di cui all’art. 384-bis del medesimo codice è
punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e sei mesi. La
stessa pena si applica a chi elude l’ordine di protezione previsto
dall’art. 342-ter, comma 1, c.c., ovvero un provvedimento di eguale
contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei
coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli
effetti civili del matrimonio.
La norma ha dato attuazione all’obbligo sovranazionale derivante
dall’art. 53 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e
la violenza domestica, la c.d. “Convenzione di Istanbul”.
Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez.
VI, 28 marzo 2023, n. 19442), ai fini della configurabilità del reato è
ininfluente l’assoluzione dal reato per il quale è stata applicata la
misura (così come l’improcedibilità per remissione della querela o
l’eventuale annullamento in sede di riesame della misura cautelare),
anche alla luce del suo carattere plurioffensivo perché il bene
giuridico protetto si individua sia nella tutela della vittima, sotto il
profilo fisico, psichico ed economico, sia nella corretta esecuzione dei
provvedimenti dell’autorità giudiziaria.
La ratio della previsione normativa corrisponde alla necessità di
maggior tutela della vittima di reati di violenza di genere,
conformemente a quanto previsto dall’intera legge, allorché vengano
applicate misure cautelari non custodiali (artt. 282-bis e 282-ter
c.p.p.) o la misura precautelare di cui all’art. 384-bis c.p.p. che sono
fondate esclusivamente sulla spontanea osservanza dell’indagato
imputato e hanno, quindi, una minore efficacia in termini di
prevenzione e reiterazione della condotta criminosa.
Allo scopo di implementare il contrasto a determinate
fenomenologie criminose, la L. 27 settembre 2021, n. 134,
recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale
nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere
definizione dei procedimenti giudiziari”, ha modificato il testo del
comma 2, lett. I-ter dell’art. 380 c.p.p., sull’arresto obbligatorio in
flagranza, aggiungendo, al preesistente richiamo al delitto di
maltrattamento contro familiari e conviventi e a quello al delitto di
atti persecutori, il riferimento ai delitti di violazione dei provvedimenti
di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento
ai luoghi frequentati dalla persona offesa delineati dall’art. 387-bis
c.p.. Di conseguenza, l’arresto obbligatorio in flagranza è
attualmente disposto per tale ultima fattispecie, nonostante
essa preveda, nel minimo edittale, la comminatoria di sei mesi di
reclusione, inferiore al limite di cinque anni, disposto dall’art. 380,
comma 1, c.p.p..
Quanto alle novità della riforma Roccella, da un lato, come
anticipato, è stata elevata la pena massima – che passa da tre anni a
tre anni e sei mesi di reclusione –, dall’altro, è stata estesa
l’applicabilità ai casi di violazione degli ordini di protezione contro gli
abusi familiari di cui all’art. 342-ter, comma 1, c.c. emessi dal giudice
in sede civile ovvero alla violazione di un provvedimento di eguale
contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei
coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli
effetti civili del matrimonio.
Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari sono
provvedimenti che il giudice, su istanza di parte, adotta con decreto
per ordinare la cessazione della condotta del coniuge o di altro
convivente che sia “causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o
morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente” (art. 342-
bis c.c.). Come chiarito dalla giurisprudenza, integrano il “grave
pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà” di cui
all’art. 342-bis c.c. condotte perpetrate da un coniuge nei confronti
dell’altro tali da ingenerare in questi il timore di subire violenza, per
via delle minacce e degli inseguimenti, nonché nei confronti dei figli,
laddove questi hanno dovuto assistere alle azioni intimidatorie di un
genitore nei confronti dell’altro, con conseguente realizzazione di una
“violenza assistita” .
In tema di ordini di protezione il requisito della convivenza
non è necessario per l’emissione di tali provvedimenti in quanto il
Legislatore, introducendo tali misure, ha inteso tutelare i familiari da
condotte pregiudizievoli che potrebbero essere perpetrate anche al
di fuori della casa familiare, tanto che il contenuto del
provvedimento può andare al di là del semplice allontanamento dalla
casa coniugale, giungendo al divieto di frequentare altri luoghi in cui
sia possibile incontrare le vittime.
Gli ordini di protezione richiedono l’istanza della vittima,
che può essere proposta anche dalla parte personalmente, con
ricorso al tribunale del luogo di propria residenza o domicilio, che
provvede in camera di consiglio in composizione monocratica con
decreto motivato immediatamente esecutivo. In caso di urgenza,
l’ordine di protezione può essere assunto dopo sommarie
informazioni, con successiva udienza di comparizione delle parti
entro un termine non superiore a quindici giorni in occasione della
quale vi è la conferma, la modifica o la revoca dell’ordine di
protezione. Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine di
protezione o rigetta il ricorso, o conferma, modifica o revoca l’ordine
precedentemente adottato, è ammesso reclamo al tribunale entro
dieci giorni dalla comunicazione o dalla notifica del decreto.
Ai sensi del comma 1 dell’art. 342-ter c.c., con il decreto di cui
all’art. 342-bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha
tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa
condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge
o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole
prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi
abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo di
lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri
prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di
istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba
frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.
Per effetto della modifica apportata all’art. 387-bis c.p.p., la L. n.
168 del 2023, è dovuta intervenire sul comma 2 dell’art. 388 c.p.p.,
sopprimendo la parte in cui prevede che la violazione degli ordini di
protezione civilistici sia sanzionata con la reclusione fino a tre anni o
con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Come precisato nella relazione illustrativa dell’originario disegno di
legge governativo, «l’intervento in esame si basa sulla circostanza
che l’ordine di protezione contro gli abusi familiari di cui all’articolo
342-ter, primo comma, del codice civile presuppone una condotta
pregiudizievole per l’integrità fisica o morale del coniuge o
convivente e che viene emesso dal giudice all’esito di una compiuta
istruttoria, per cui è opportuno equiparare le conseguenze della
violazione del predetto ordine emesso in sede civile a quelle previste
per la violazione delle misure cautelari del divieto di avvicinamento o
dell’obbligo di allontanamento».

11. L’arresto in flagranza differita.


La L. 24 novembre 2023, n. 168 ha introdotto nel codice di
procedura penale un nuovo articolo (art. 382-bis) che consente
l’arresto in flagranza differita nei casi di violazione dei provvedimenti
di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento
ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di maltrattamenti contro
familiari e conviventi, nonché di atti persecutori.
L’arresto e il fermo sono misure tipiche della fase
investigativa che trovano la loro giustificazione nell’art. 13, comma
3, Cost., che consente all’autorità di pubblica sicurezza di adottare, in
casi eccezionali di necessità e urgenza, provvedimenti provvisori
limitativi della libertà personale che, in quanto tali, devono essere
convalidati, in tempi brevissimi, dall’autorità giudiziaria, pena la loro
perdita di efficacia.
In particolare, all’autorità di polizia è consentito adottare
provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale solo
quando abbiano natura servente rispetto alla tutela di esigenze
previste dalla Costituzione, tra cui in primo luogo quelle connesse al
perseguimento delle finalità del processo penale, tali da giustificare,
nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo
sacrificio della libertà personale in vista dell’intervento dell’autorità
giudiziaria.
La provvisorietà, che contraddistingue i poteri di intervento del
pubblico ministero e della polizia giudiziaria sulla libertà personale, è
valsa ad attribuire all’arresto e al fermo la denominazione di
“precautele”, ma è indubitabile, almeno sul piano degli effetti, la loro
natura custodiale (Corte cost. n. 109 del 1999).
Presupposto fondamentale, per l’applicazione della misura
precautelare dell’arresto, è lo stato di flagranza; versa in tale
condizione chi viene colto nell’atto di commettere il reato ovvero chi,
subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla
persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o
tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato
immediatamente prima (art. 382 c.p.p.)
Nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando non
è cessata la permanenza.
Diversa dalla flagranza è la quasi flagranza: quanto all’esatto
significato da attribuire a quest’ultima nozione, per lungo tempo vi è
stato un contrasto giurisprudenziale.
Secondo l’orientamento prevalente, la quasi flagranza non è
ravvisabile, se l’inseguimento dell’indagato sia stato intrapreso dalla
polizia giudiziaria “per effetto e solo dopo” l’assunzione di
informazioni dalla persona offesa o da altri testi presenti in loco nel
momento della commissione del reato. L’indirizzo in parola valorizza
il carattere eccezionale della privazione della libertà personale, che si
traduce nell’arresto e ravvisa il fondamento e la “giustificazione”
dell’istituto nella diretta percezione della polizia giudiziaria della
azione delittuosa, ovvero – in difetto – nell’inseguimento del reo o,
infine, nella circostanza che costui presenti tracce (o rechi cose) le
quali rivelino che egli immediatamente prima abbia commesso il
reato. A siffatte condizioni, che abilitano all’arresto, non sono
assimilabili le investigazioni e le ricerche che la polizia giudiziaria,
subito dopo la commissione del reato, intraprende affatto
tempestivamente, sulla base delle dichiarazioni assunte, anche
informalmente, dalle persone presenti al fatto, così pervenendo alla
individuazione della persona dell’indagato. L’orientamento contrario
sostiene, invece, che la nozione di “inseguimento del reo” deve
essere estesa al di là della accezione “strettamente etimologica”
(scilicet: “di attività di chi corre dietro, tallona e incalza, a vista, la
persona inseguita”), fino a comprendere “anche la azione di ricerca,
immediatamente eseguita (...) protratta senza soluzione di
continuità, sulla base delle ricerche immediatamente predisposte
sulla scorta delle indicazioni delle vittime, dei correi o di altre
persone a conoscenza dei fatti” e nel tempo strettamente necessario,
occorrente “alla polizia giudiziaria per giungere sul luogo del delitto,
acquisire notizie utili e iniziare le ricerche”. L’indirizzo in parola
ravvisa il fondamento dell’arresto nella correlazione tra il dato
temporale di prossimità – fra la commissione della azione delittuosa
e la privazione della libertà del suo autore – con l’elemento
funzionale del “controllo anche indiretto” e della repressione del
reato esercitati dalla polizia giudiziaria tempestivamente intervenuta.
Tale contrasto ha imposto l’intervento della Corte di
Cassazione che, a Sezioni Unite, ha definitivamente chiarito che
non può procedersi all’arresto in flagranza sulla base di informazioni
della vittima o di terzi fornite nella immediatezza del fatto (Cass.
pen., sez. un., n. 39131 del 2015).
Le Sezioni Unite hanno così ribadito il prevalente indirizzo che,
negli anni più recenti, si è andato progressivamente affermando
nella giurisprudenza di legittimità. Deve riconoscersi che il contrario
orientamento risponde alla esigenza pratica, variamente avvertita
nella opinione pubblica, di assicurare la pronta reazione istituzionale
nella repressione dei reati, di maggior gravità, dei quali la polizia
giudiziaria (o, nei casi previsti, il privato abilitato all’arresto) ha
contezza nel medesimo contesto storico-temporale della loro
perpetrazione. In carenza della deprehensio in ipsa perpetratione
facinoris, il reo continua a versare nello stato di flagranza, qualora,
subito dopo il reato sia inseguito. L’art. 382 c.p.p. si sofferma a
enumerare categorie di inseguitori: la polizia giudiziaria, la persona
offesa o altre persone. Ma, in effetti, in virtù dell’ultimo termine della
disgiunzione, chiunque può inseguire l’autore del reato. Il punto
controverso risiede nella accezione della voce verbale. Il lemma
inseguire (nella norma coniugato in forma passiva) designa la azione
del “correre dietro a chi fugge, o anche a chi corre, cercando di
raggiungerlo, di solito con intenzione ostile, o anche per afferrarlo,
arrestarlo, e talvolta solo per superarlo”. Non è condivisibile la tesi
secondo cui il comma 1 dell’art. 382 cit. sia comprensivo di
previsione (ulteriore e affatto diversa) fondata sulla accezione del
verbo in senso figurato o puramente metaforico, così da includere la
ipotesi dell’autore del reato che venga fatto oggetto di incalzante
attività investigativa, in seguito alla ricezione della notitia criminis e,
pertanto, sotto tale profilo risulti “perseguito” dalla polizia giudiziaria,
come il caso dell’arresto eseguito tre ore dopo la consumazione del
fatto a seguito di chiamata di correo che abbia posto la polizia
giudiziaria sulle tracce dell’arrestato. Innanzitutto, il contesto
linguistico del periodo, composto dalle proposizioni che compongono
il testo normativo, conduce a escludere la postulata assimilazione.
Nel comma 1 dell’art. 382 c.p.p. – norma nella quale il legislatore,
ridefinendo lo stato di flagranza, ha concentrato in una unica
disposizione le previsioni collocate in commi distinti del
corrispondente articolo del codice abrogato, in prospettiva unitaria –
condotte e situazioni assumono rilievo nella evidenza della loro
materialità, siccome espresse da dati effettuali, quali l’essere il
soggetto colto nell’atto di commettere il reato ovvero l’essere
sorpreso con cose o tracce dalla quali appaia che egli abbia
commesso il reato immediatamente prima. Orbene la assimilazione
all’inseguimento materiale dell’”inseguimento” figurato, c.d.
investigativo, risulta palesemente incoerente rispetto al contesto
semantico del linguaggio normativo. Non è condivisibile la tesi che
ricomprende nello stato di flagranza il caso in cui, essendosi
consumato il reato ed essendo già iniziata la fuga, la polizia
giudiziaria intervenga in loco e, quindi, si ponga sulle tracce del
fuggitivo, per effetto delle informazioni acquisite dai testi presenti
circa la identità dell’autore del delitto e “la direzione di fuga” di
costui.
Inseguire e fuggire designano azioni differenti: la prima è
transitiva e richiede le attività concomitanti e antagoniste di due
persone (cioè, dell’inseguitore e dell’inseguito); mentre la seconda,
là dove prescinde dalla attualità dell’inseguimento, è affatto
intransitiva. Secondo la previsione della legge l’inseguimento in
continenti e non la fuga avvince il reo allo stato di flagranza, in
quanto assicura, per le ragioni indicate, il pregnante collegamento
tra il reato e il suo autore. Mentre la mera fuga (già incoata) di
taluno dal locus commissi delicti non permette (in difetto della
denunzia degli astanti) di inferire la reità del fuggitivo, posto che il
precipitoso allontanamento dalla scena del crimine può
indifferentemente correlarsi a ragioni diverse dalla colpevolezza
(come, ad esempio, alla esigenza di tutelare la propria incolumità, di
chiedere soccorso, ecc.); e l’inseguimento, qualora sia intrapreso non
immediatamente, bensì sulla scorta delle dichiarazioni acquisite dai
testimoni, non corrisponde alla previsione dell’art. 382, comma 1,
c.p.p., in quanto la disposizione esige che l’indagato sia inseguito
“subito dopo il reato”. Né, infine, appare fondato l’argomento che,
laddove la legge ammette l’arresto dell’indagato a opera del privato
(art. 383, comma 1, c.p.p.), sarebbe senza giustificazione “svilito” il
contributo informativo del testimone oculare del fatto che dia adito
all’inseguimento della polizia giudiziaria, quando, invece, il privato è
abilitato a procedere direttamente all’inseguimento e all’arresto del
reo. Ai fini della legittimità dell’arresto ciò che rileva è che colui che
lo esegue si determini – indipendentemente dalla condizione
personale di appartenenza alla forza pubblica ovvero di privato
cittadino – in virtù della diretta percezione della situazione fattuale,
costitutiva dello stato di flagranza dell’autore del reato, e non sulla
base di informazioni ricevute da terzi.
Nella dottrina sono diffusamente avvertiti il “rischio di pericolose
estensioni giurisprudenziali” e di prassi poliziesche, che attraverso la
dilatazione del concetto di inseguimento, conducano, “lontano dal
concetto stesso di flagranza”, a inammissibili interpretazioni “oltre i
limiti della norma” la quale, invece, si correla alla previsione
costituzionale che connota in termini di eccezionalità i provvedimenti
provvisori di restrizione della libertà personale adottati dalla autorità
di polizia. Si riconosce, peraltro, che, ai fini dello stato di flagranza,
l’inseguimento non necessariamente implica la rincorsa a vista del
reo, bensì “può manifestarsi in concreto nei modi più svariati, per
esempio, attraverso l’esecuzione di blocchi stradali ovvero con il
circondare l’edificio in cui si è nascosto l’autore del reato”.
Purtuttavia, in modo pressoché concorde, gli Autori escludono la
possibilità della assimilazione all’inseguimento “vero e proprio” di
quello “ideale”, ovvero del c.d. “inseguimento investigativo”,
dispiegato dalla polizia giudiziaria sulla base di informazioni
prontamente assunte.
L’indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità,
pienamente confortato dalla dottrina, trova decisivo avallo nella
piena conformità della ermeneutica della norma al dettato della
Costituzione.
In materia di libertà personale, laddove l’art. 26 dello Statuto
Albertino si limitava a sancire (genericamente), al primo comma, la
relativa guarentigia e a stabilire, nel comma successivo, che “Niuno
può essere arrestato (...) se non nei casi previsti dalla legge, e nelle
forme che essa prescrive”, con ben più pregnante formulazione, l’art.
13, primo comma, Cost. proclama: “La libertà personale è
inviolabile”. E il comma 2 appresta la tutela stabilendo che le
restrizioni della libertà personale sono ammesse “nei soli casi e modi
previsti dalla legge”, su disposizione della autorità giudiziaria e con
“atto motivato”. Nell’ambito della materia disciplinata dal comma
successivo sono generalmente collocate (salvo qualche isolata e non
recente obiezione dottrinaria) le disposizioni della legge ordinaria
relative all’istituto dell’arresto in flagranza.
L’art. 13, comma 3, Cost., contempla, infatti, che “in casi
eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla
legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti
provvisori” de libertate sottoposti alla comunicazione alla autorità
giudiziaria e alla convalida della stessa, da eseguirsi entro termini
perentori, a pena di revoca e, comunque, di perdita “di ogni effetto”.
La sancita eccezionalità delle ipotesi di privazione della libertà
personale a opera della autorità di polizia, di iniziativa e senza
provvedimento della autorità giudiziaria, osta alla espansione in
senso figurato della previsione dell’inseguimento così da includere
l’accezione “confinante” (Cassazione n. 22136 del 2015) – e,
pertanto, differente – del “perseguimento” del reo attraverso la
sollecita attività di investigazione e ricerca. In proposito, peraltro, il
giudice delle Leggi, in relazione alle disposizioni sull’arresto
contenute nel previgente codice di rito, non ha mancato di rilevare
che sì tratta di norme “di stretta interpretazione, e quindi non
suscettibili di applicazione estensiva”, in quanto trovano collocazione
nell’ambito della deroga al principio “che incentra nella sola autorità
giudiziaria ogni potere di disporre misure incidenti sulla libertà delle
persone” (Corte cost., sent. n. 89 del 1970).
La eccezionalità dell’arresto in flagranza – da apprezzarsi,
ovviamente, non sul piano empirico della frequenza statistica della
pratica di polizia, bensì sul piano squisitamente giuridico per la
natura derogatoria dell’istituto sottolineata dalla sentenza da ultimo
citata – si rinsalda alla considerazione che la privazione della libertà
a opera della polizia giudiziaria ovvero, nei casi ammessi, da parte
del privato, trova ragionevole giustificazione nella constatazione (da
parte di chi procede all’arresto) della condotta del reo, nell’atto
stesso della commissione del delitto, ovvero della diretta percezione
di condotte e situazioni personali dell’autore del reato,
immediatamente correlate alla perpetrazione e obiettivamente
rivelatrici della colpevolezza; sicché appare assai remota (e
praticamente esclusa) la eventualità di ingiustificate privazioni della
libertà personale. In conclusione, così definiti i confini della misura
precautelare dell’arresto in stato di flagranza, risulta evidente che nel
relativo ambito non deve essere compresa la privazione della libertà
dell’indagato allorché sia operata, seppure in tempo prossimo alla
commissione del reato, sulla base delle dichiarazioni rese alla polizia
giudiziaria dai testimoni del fatto.
L’arresto «ritardato» è stato introdotto dall’art. 9, comma 6, L.
146/2006, secondo cui, quando è necessario per acquisire rilevanti
elementi probatori ovvero per l’individuazione o la cattura dei
responsabili dei delitti previsti dagli artt. 317, 318, 319, 319-bis, 319-
ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353,
353-bis, 452-quaterdecies, 453, 454, 455, 460, 461, 473, 474, 629,
630, 644, 648-bis e 648-ter, nonché dei delitti contro la libertà
personale, dei delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, dei delitti
previsti dall’art. 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, D.L.vo 286/1998 e dal
d.P.R. 309/1990, limitatamente ai casi previsti agli artt. 70, commi 4,
6 e 10, 73 e 74, nonché dall’art. 3 L. 75/1958, gli ufficiali di polizia
giudiziaria, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, e le autorità
doganali, limitatamente ai citati artt. 70, commi 4, 6 e 10, 73 e 74,
possono omettere o ritardare gli atti di propria competenza,
dandone immediato avviso, anche oralmente, al pubblico ministero,
che può disporre diversamente, e trasmettendo allo stesso pubblico
ministero motivato rapporto entro le successive quarantotto ore. Per
le attività antidroga, il medesimo immediato avviso deve pervenire
alla Direzione centrale per i servizi antidroga per il necessario
coordinamento anche in ambito internazionale.
Diversa, invece, è la disciplina dell’arresto in flagranza «differita»,
istituto introdotto nell’ordinamento dal D.L. n. 28 del 2003 per
contrastare il fenomeno della violenza in occasione di manifestazioni
sportive e calcistiche e disciplinato dall’art. 8, comma 1-ter, della L.
n. 401 del 1989, prevede che nei casi di reati commessi con violenza
alle persone o alle cose in occasione o a causa di manifestazioni
sportive, per i quali è obbligatorio o facoltativo l’arresto ai sensi degli
artt. 380 e 381 c.p.p., quando non è possibile procedere
immediatamente all’arresto per ragioni di sicurezza o incolumità
pubblica, si considera comunque in stato di flagranza colui il quale,
sulla base di documentazione video fotografica dalla quale emerga
inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore, sempre che l’arresto sia
compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e,
comunque, entro 48 ore dal fatto. L’arresto è, inoltre, consentito in
caso di violazione del divieto di accedere ai luoghi dove si svolgono
manifestazioni sportive (c.d. “daspo”).
Successivamente, il D.L. n. 14 del 2017 (art. 10, comma 6-quater)
e il D.L. n. 130 del 2020 (art. 6) hanno esteso la possibilità di
procedere con l’arresto in flagranza differita rispettivamente ai casi di
reati commessi con violenza alle persone o alle cose, compiuti alla
presenza di più persone anche in occasioni pubbliche, e ai reati
commessi in occasione o a causa del trattenimento in uno dei centri
di permanenza per il rimpatrio (CPR o hotspot) o delle strutture di
primo soccorso e accoglienza (CPA e CAS).
L’istituto ha da sempre suscitato dubbi di legittimità
costituzionale.
Il rispetto dell’art. 13 Cost. passa da una attenta verifica di
consistenza delle condizioni di necessità e urgenza che costituiscono
il presupposto della misura coercitiva e dell’eccezionale delega
riconosciuta all’autorità amministrativa competente per l’esecuzione
di provvedimenti provvisori.
L’arresto differito, in tanto può ritenersi legittimo, in quanto
siano richiamati i motivi che impongono, malgrado il superamento
dello stato di flagranza o quasi flagranza, l’intervento per motivi di
necessità o di urgenza e si operino a tal fine dei riferimenti alla
condizione di fatto che dimostri l’impossibilità di procedere all’arresto
nell’immediatezza per comprovate “ragioni di sicurezza o incolumità
pubblica” e, nel contempo, alla persistenza di tali condizioni di
pericolosità.
Invero, se nelle situazioni contemplate dal codice procedurale la
situazione di pericolo è in corso o in condizioni di correlata
immediatezza temporale rispetto agli eventi delittuosi, la natura
differita dell’intervento rende ancora più imperativa l’individuazione
del presupposto della necessità e urgenza dell’atto, che sia di tale
persistente attualità da non consentire l’attivazione dell’ordinario
procedimento di richiesta di emissione della misura cautelare
all’autorità giudiziaria competente.
Nel dettaglio, il nuovo art. 382-bis c.p.p., rubricato arresto in
flagranza differita, prevede che nel caso di:
– violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa
familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa (art. 387-bis c.p.);
– maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.);
– atti persecutori (art. 612-bis c.p.), si considera comunque in
stato di flagranza colui il quale, sulla base di documentazione
videofotografica o di altra documentazione legittimamente
ottenuta da dispositivi di comunicazione informatica o
telematica, dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto, ne
risulta autore, sempre che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo
necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le
quarantotto ore dal fatto.
L’arresto in flagranza differita risulterebbe consentito, in ragione
della modifica apportata all’art. 387-bis c.p., anche nei casi di
violazione degli ordini di protezione o di analoghi provvedimenti
adottati in sede civile.

12. Le disposizioni in materia di


allontanamento d’urgenza dalla casa familiare.
Importanti modifiche sono state apportate anche in materia di
allontanamento d’urgenza dalla casa familiare.
L’art. 384-bis, rubricato “allontanamento d’urgenza dalla casa
familiare”, adesso prevede che gli ufficiali ed agenti di polizia
giudiziaria hanno facoltà di disporre, previa autorizzazione del
pubblico ministero, scritta, oppure resa oralmente e confermata per
iscritto, o per via telematica, l’allontanamento urgente dalla casa
familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente
frequentati dalla persona offesa, nei confronti di chi è colto in
flagranza dei delitti di cui all’art. 282-bis, comma 6, c.p.p. – ossia i
delitti previsti dagli artt. 570, 571, 572, 575, nell’ipotesi di delitto
tentato, 582, limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o
comunque aggravate, 583-quinquies, 600, 600-bis, 600-ter, 600-
quater, 600-septies.1, 600-septies.2, 601, 602, 609-bis, 609-ter,
609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612, comma 2, 612-bis,
c.p., commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente –
ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte
criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale
pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa. La
polizia giudiziaria provvede senza ritardo all’adempimento degli
obblighi di informazione previsti dall’art. 11, D.L. 23 febbraio 2009,
n. 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, e
successive modificazioni.
Si applicano in quanto compatibili le disposizioni di cui dagli artt.
385 e ss. c.p.p. Si osservano le disposizioni di cui all’art. 381, comma
3, c.p.p. e della dichiarazione orale di querela si dà atto nel verbale
delle operazioni di allontanamento.
Fermo restando quanto disposto dall’art. 384 c.p.p., anche fuori
dei casi di flagranza, il pubblico ministero dispone, con decreto
motivato, l’allontanamento urgente dalla casa familiare, con il divieto
di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa,
nei confronti della persona gravemente indiziata di taluno dei delitti
di cui agli artt. 387-bis, 572, 582, limitatamente alle ipotesi
procedibili d’ufficio o comunque aggravate ai sensi degli artt. 576,
comma 1, nn. 2, 5 e 5.1, e 577, comma 1, n. 1, e comma 2, e 612-
bis c.p. o di altro delitto, consumato o tentato, commesso con
minaccia o violenza alla persona per il quale la legge stabilisce la
pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre
anni, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte
criminose possano essere reiterate ponendo in grave e attuale
pericolo la vita o l’integrità fisica della persona offesa e non sia
possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento
del giudice.
Entro quarantotto ore dall’esecuzione del decreto, il pubblico
ministero richiede la convalida al giudice per le indagini preliminari
competente in relazione al luogo nel quale il provvedimento di
allontanamento d’urgenza è stato eseguito. Il giudice fissa l’udienza
di convalida al più presto e comunque entro le quarantotto ore
successive, dandone avviso senza ritardo al pubblico ministero e al
difensore. Il provvedimento di allontanamento d’urgenza diviene
inefficace se il pubblico ministero non osserva dette prescrizioni.
Sul piano procedimentale la disposizione fa rinvio, nei limiti
della compatibilità, a quella già prevista dal codice di rito in materia
di convalida dell’arresto in flagranza di reato e/o del fermo di
indiziato di delitto: occorre, pertanto, che entro quarantotto ore
dall’esecuzione del provvedimento di allontanamento il pubblico
ministero ne richieda la convalida al giudice per le indagini
preliminari e che entro le successive quarantotto ore il giudice,
pronunciandosi sulla convalida, disponga l’applicazione della misura
in conformità alla richiesta del pubblico ministero.
La giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. V, 13 gennaio
2023, n. 4572) ha affrontato la questione se la condizione di
convivenza nella casa familiare costituisca un ulteriore presupposto
legittimante l’allontanamento. In realtà, la norma che scaturisce dalla
necessaria correlazione tra l’art. 384-bis c.p.p. e la portata dell’art.
282-bis, comma 6, c.p.p. espressamente richiamato dalla prima
previsione, non richiede, già per ragioni letterali, che l’autore del
delitto abiti attualmente presso l’immobile dal quale deve essere
allontanato per ragioni di tutela della persona offesa. Quanto
precede non pone in discussione la premessa che, per effetto
dell’indicato richiamo normativo, le fattispecie delittuose ivi indicate
– tra le quali la fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p. (ivi inserita dal
D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, art. 16, comma 1 convertito con
modificazioni nella L. 1° dicembre 2018, n. 132) – sono quelle
commesse in danno dei prossimi congiunti o del convivente, ma
pone piuttosto il problema di delineare la nozione di convivenza
rilevante, che va calibrata in termini attenti e rispettosi della lettera
della legge, ma tenendo conto anche delle finalità di protezione,
perseguite attraverso la misura precautelare, di scongiurare il grave
e attuale pericolo per la vita e l’integrità fisica della persona offesa.
Occorre, quindi, nel pieno rispetto del divieto di applicazioni
analogiche della norma in ragione del contenuto della stessa relativo
alla limitazione della libertà personale, verificare il contenuto della
nozione di convivenza e di casa familiare.
Attraverso l’esame della giurisprudenza civile, emerge una
nozione di convivenza non coincidente con la semplice coabitazione
(Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2018, n. 9178; Cass. civ., sez. III, 21
marzo 2013, n. 7128). In particolare, il rapporto di convivenza, da
intendere quale stabile legame tra due persone connotato da
duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, è ravvisabile
anche quando non sia contraddistinto da coabitazione. La
giurisprudenza richiamata, nell’interpretazione adeguatrice delle
norme, evidenzia che è necessario prendere atto del mutato assetto
della società, collegato alle conseguenze di una prolungata crisi
economica, ma non originato soltanto da queste, dal quale emerge
che ai fini della configurabilità di una convivenza di fatto, il fattore
coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo
rispetto al passato. Il cambiamento sociale che è ormai verificato
nella società comporta che si instaurino e si mantengano rapporti
affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che in
passato e devono indurre a ripensare al concetto stesso di
convivenza, la cui essenza non può risolversi nella coabitazione. Il
dato della coabitazione, all’interno dell’elemento oggettivo della
convivenza è quindi attualmente un dato recessivo. La nozione di
convivenza di fatto peraltro trova ora il suo supporto normativo
nella L. n. 76 del 2016, che all’art. 1, definisce i conviventi di fatto
come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi
di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate
da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da
un’unione civile”, individuando sempre l’elemento spirituale, il
legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, la reciproca
assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul
vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma
sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco. Lo stesso dicasi
avuto riguardo alla nozione di vita familiare rilevante a norma
dell’art. 8 CEDU, per la quale è necessario un legame affettivo
qualificato da un progetto di vita in comune (Cass. civ., sez. I, 18
marzo 2020, n. 7427). Tali premesse dimostrano che, all’interno del
nostro ordinamento, la nozione di convivenza non coincide con
quella di coabitazione. Le specifiche esigenze di protezione delle
previsioni penalistiche – oltre che di raccordo tra le varie fattispecie
incriminatrici (e, si veda, al riguardo, lo sforzo ricostruttivo di Cass.
pen., sez. VI, 16 marzo 2022, n. 15883, all’indomani di Corte Cost.,
sent. n. 98 del 2021) – impongono, in armonia con le superiori
indicazioni, di ritenere che la convivenza, pur quando non si
accompagni alla coabitazione continuativa, permanga anche nelle
fasi di crisi del rapporto quando quest’ultima non sia divenuta ormai
irreversibile.
Alla luce delle considerazioni espresse, può dunque ritenersi che
allorquando la convivenza, intesa come coabitazione già esistita, non
sia più in atto, ma sussistono degli elementi in concreto che
depongono per una perdurante frequentazione del soggetto di quel
domicilio domestico anche in maniera occasionale o che consistono
nel violento ripristino da parte dell’agente della situazione di
condivisione del domicilio, appare corretto ravvisare anche l’ulteriore
presupposto che legittima l’allontanamento da una casa che
l’indagato continua a frequentare, anche contro la volontà della
donna con cui ha intrattenuto la relazione. A ciò si aggiunga che
l’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinarsi alla
stessa hanno un identico contenuto prescrittivo: l’art. 282-bis c.p.p.
quando descrive la condotta che deve osservare il destinatario della
misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare utilizza due
espressioni: “lasciare immediatamente la casa” ovvero “non farvi
rientro” e, dunque, non avvicinarsi. Non senza considerare, inoltre,
che una lettura di segno contrario susciterebbe più di un dubbio di
frizione costituzionale della norma e dell’intero assetto sistematico
della tutela, risultando manifestamente irragionevole che, proprio
laddove l’esigenza di tutela si connota per intensità massima (come
nei confronti di chi, nelle fasi di cessazione della relazione affettiva,
intenda riaffermare autoritativamente e prepotentemente,
nonostante la contraria volontà della persona offesa, la coabitazione
intesa come condivisione fisica del domicilio, assieme alla vittima che
abbia continuato a dimorarvi), essa risulti irrealizzabile.
13. Il potenziamento delle misure cautelari e
dell’uso del braccialetto elettronico.
Apprezzabile è anche l’intervento operato dalla legge di riforma in
materia di misure cautelari e, in particolare, di prescrizione del
dispositivo di controllo a distanza (c.d. braccialetto elettronico), che
ha imposto alcune modifiche al codice di procedura penale.
Nel nostro ordinamento la possibilità di utilizzare dispositivi
elettronici o altri strumenti tecnici per controllare persone sottoposte
agli arresti domiciliari risale all’introduzione nel codice di rito dell’art.
275-bis, avvenuta con l’art. 16, comma 2, D.L. 24 novembre
2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio
2000, n. 4. Il citato articolo, rubricato “Particolari modalità di
controllo degli arresti domiciliari”, stabiliva che “il giudice, se lo
ritiene necessario [...] prescrive procedure di controllo mediante
mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, quando ne abbia accertato
la disponibilità da parte della polizia giudiziaria”.
In tale prospettiva la norma, nella sua originaria formulazione,
offriva al giudice la possibilità di applicare, se lo riteneva necessario,
in relazione al grado e alla natura delle esigenze cautelari, particolari
modalità di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti
tecnici definiti, con espressione più immediata ed efficace,
“braccialetto elettronico”, previo accertamento della disponibilità da
parte della polizia giudiziaria. L’attuazione pratica del mezzo di
controllo elettronico fu demandata, ai sensi dell’art. 19, D.L.
n. 341 del 2000, a una fonte normativa secondaria, ossia il
D.M. 2 febbraio 2001.
Tale intervento, come segnalato in più occasioni dalla dottrina, era
ispirato soprattutto dalla preoccupazione di rendere effettivo il
rispetto delle prescrizioni imposte con misure alternative alla
custodia cautelare in carcere.
È tuttavia il caso di rimarcare che la disciplina sopra richiamata è
rimasta sostanzialmente disapplicata per circa un decennio e lo
scarso ricorso alla sorveglianza elettronica è stato oggetto di ripetute
critiche in sede di giurisdizione, sia amministrativa sia contabile, sul
rilievo dell’evidente sperequazione tra le spese sostenute per dare
attuazione al dettato normativo e i deludenti risultati applicativi della
innovazione, che non hanno consentito di abbattere i costi del
regime coercitivo.
Occorre dare atto che, a seguito della pronuncia della Corte EDU
dell’8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, che ha condannato il
nostro Paese per violazione dell’art. 3 CEDU, in particolare, per la
violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti, come
quello inflitto ai detenuti a causa del sovraffollamento carcerario e
della Raccomandazione CM/REC (2014)4 del Comitato dei Ministri
agli Stati Membri sulla Sorveglianza elettronica del 19 febbraio 2014,
si è registrata una spinta a potenziare l’istituto con una serie di
interventi legislativi indicativi della volontà di incentivare il più
possibile il ricorso alla sorveglianza elettronica.
In tal senso si inseriscono una serie di modifiche dell’art.
275-bis, comma 1, c.p.p. e la riforma in materia di misure
cautelari introdotta dalla legge n. 47 del 2015.
Con il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, recante “Misure urgenti in
tema di diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata
della popolazione carceraria”, convertito, con modificazioni, dalla L.
21 febbraio 2014, n. 10, è stata apportata una modifica al disposto
dell’art. 275-bis citato, sostituendo nel primo periodo del comma 1 la
locuzione «se lo ritiene necessario» con quella «salvo che le ritenga
non necessarie», ribaltando, in tal modo, i termini della valutazione
del giudice in ordine all’applicazione della speciale forma di controllo.
Mentre prima della novella l’operatività dei meccanismi di cui
all’art. 275-bis cit. era subordinata alla circostanza che il giudice li
ritenesse “necessari”, nella nuova formulazione della norma, essi
devono essere sempre ordinati a meno che si ritengano “non
necessari” in relazione al grado e alla natura delle esigenze da
soddisfare nell’ipotesi specifica.
Nessuna modifica è stata invece apportata alla norma laddove
prevede, al comma 2, che il soggetto sottoposto alla misura presti il
consenso in forma espressa all’utilizzo del dispositivo, con
dichiarazione resa all’ufficiale ovvero all’agente incaricato di eseguire
l’ordinanza, che verrà poi trasmessa al giudice e al pubblico
ministero unitamente a tutte le operazioni compiute ex art. 293,
comma 1, c.p.p.. La stessa norma, al comma 1, prevede che il
giudice disponga la misura della custodia cautelare in carcere
qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione dei mezzi e degli
strumenti anzidetti.
Tuttavia, mentre in relazione all’assenza del consenso del soggetto
all’applicazione del dispositivo, la norma ne disciplina le
conseguenze, demandando al giudice di prevedere con lo stesso
provvedimento l’applicazione della misura della custodia cautelare in
carcere, non si rinviene alcun riferimento alla più frequente ipotesi
dell’assenza di una concreta disponibilità del dispositivo elettronico
da parte della polizia giudiziaria, la cui verifica è, ai sensi dell’ultimo
inciso del comma 1 dell’art. 275-bis c.p.p., oggetto di specifico
accertamento del giudice.
Ebbene, le Sezioni Unite della Suprema Corte sono state
investite della questione se il giudice, destinatario di una richiesta di
applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari con c.d.
“braccialetto elettronico”, o di sostituzione della custodia in carcere
con la predetta misura, in caso di indisponibilità di tale dispositivo
elettronico, debba applicare la misura più grave della custodia in
carcere ovvero quella meno grave degli arresti domiciliari.
Sul tema appare effettivamente sussistere un contrasto
nell’ambito della giurisprudenza di legittimità.
Va rilevato che entrambi gli orientamenti partono dalla comune
premessa secondo la quale la previsione di cui all’art. 275-bis c.p.p.
non introduce una misura coercitiva ulteriore rispetto a quelle
elencate negli artt. 281-286 del codice di rito, ma disciplina
unicamente una “modalità esecutiva degli arresti domiciliari”.
Secondo una prima linea interpretativa, l’applicazione della misura
degli arresti domiciliari con l’utilizzo del braccialetto elettronico è
subordinata all’accertamento preventivo della disponibilità dei mezzi
elettronici o tecnici da parte della polizia giudiziaria e a ciò consegue
che, in caso di accertata indisponibilità dei suddetti mezzi di
controllo, al giudice sarà necessariamente imposta l’adozione della
misura della custodia in carcere poiché le stesse esigenze cautelari
che imponevano l’accertamento della misura degli arresti domiciliari
con l’adozione degli strumenti di controllo si prestano ad essere
adeguatamente tutelate solo con l’applicazione della misura della
custodia in carcere.
Anche il secondo orientamento parte dalla premessa della natura
“meramente modale del congegno elettronico” disciplinato dall’art.
275-bis c.p.p. Tuttavia, proprio in ragione di tale natura “servente”, si
osserva che l’indisponibilità e l’inidoneità di tale congegno elettronico
non possono condizionare l’effettività della misura prescelta, frutto
della valutazione di merito effettuata dal giudice sulla pericolosità
dell’indagato. Tale scelta, si precisa, deve essere indirizzata, senza
subordinate, ad una delle figure tipiche di misura, tanto che, ove le
modalità (di esecuzione) assumano nel giudizio, valore rilevante,
l’adeguatezza e l’efficienza dei supporti tecnici deve essere oggetto
di un accertamento preventivo, non potendo la valutazione di merito
effettuata dal giudice sulla pericolosità dell’indagato essere
subordinata alla disponibilità di tale congegno.
A tale ricostruzione della struttura del provvedimento con il quale
il giudice della cautela dispone l’applicazione del braccialetto
elettronico, consegue, secondo l’orientamento in esame, che
l’imposizione del braccialetto elettronico rappresenta una cautela che
il giudice, se lo ritiene necessario, può adottare non già ai fini
dell’adeguatezza della misura più lieve, per rafforzare il divieto di non
allontanarsi dalla propria abitazione, ma ai fini del giudizio, da
compiersi nel procedimento di scelta delle misure, sulla capacità
effettiva dell’indagato di autolimitare la propria libertà di movimento,
assumendo l’impegno di installare il relativo braccialetto e di
osservare le relative prescrizioni.
Ebbene, le Sezioni Unite, dopo aver chiarito che va esclusa la
natura di misura cautelare autonoma degli arresti domiciliari
“controllati”, hanno affermato che il giudice, investito di una richiesta
di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari con il
c.d. braccialetto elettronico o di sostituzione della custodia in carcere
con la predetta misura, escluso ogni automatismo nei criteri di scelta
delle misure, qualora abbia accertato l’indisponibilità del suddetto
dispositivo elettronico, deve valutare, ai fini dell’applicazione o della
sostituzione della misura coercitiva, la specifica idoneità,
adeguatezza e proporzionalità di ciascuna di esse in relazione alle
esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto (Cassazione, S.U.,
n. 20769 del 2016).
L’imputato accetta i mezzi e gli strumenti di controllo ovvero nega
il consenso all’applicazione di essi, con dichiarazione espressa resa
all’ufficiale o all’agente incaricato di eseguire l’ordinanza che ha
disposto la misura. La dichiarazione è trasmessa al giudice che ha
emesso l’ordinanza e al pubblico ministero, insieme con il verbale di
esecuzione della misura.
L’imputato che ha accettato l’applicazione dei mezzi e strumenti di
controllo elettronici è tenuto ad agevolare le procedure di
installazione e ad osservare le altre prescrizioni impostegli. Il giudice
prevede, invece, l’applicazione della misura della custodia cautelare
in carcere qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione dei mezzi
e strumenti anzidetti.
Per effetto della L. 24 novembre 2023, n. 168, la norma
adesso prevede che, nel disporre la misura degli arresti domiciliari
anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere, il giudice,
salvo che le ritenga non necessarie in relazione alla natura e al grado
delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, prescrive
procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti
tecnici, previo accertamento della relativa fattibilità tecnica
da parte della polizia giudiziaria e non più, come previsto dalla
formulazione precedente, quando veniva accertata la disponibilità da
parte della polizia giudiziaria.
La riforma Roccella ha novellato anche l’art. 276 c.p.p.
prevedendo l’applicazione della misura cautelare in carcere nel caso
di manomissione dei mezzi elettronici e degli strumenti
tecnici di controllo disposti con la misura degli arresti domiciliari
ovvero con le misure coercitive di cui agli artt. 282-bis (obbligo di
allontanamento dalla casa familiare) o 282-ter (divieto di
avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa) c.p.p.
È stato altresì modificato il comma 6 dell’art. 282-bis c.p.p., il
quale prevede che, per i reati ivi indicati, la misura coercitiva
dell’allontanamento dalla casa familiare può essere disposta anche al
di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p. (ovvero della
reclusione superiore nel massimo a tre anni) e con le modalità di
controllo di cui all’art. 275-bis c.p.p.
A seguito della riforma, l’elenco di cui al comma 6 dell’art. 282-
bis c.p.p. comprende i seguenti reati:
– violazione degli obblighi di assistenza famigliare (art. 570 c.p.);
– abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.);
– maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.);
– tentato omicidio (art. 575 c.p.);
– lesioni personali, limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o
comunque aggravate (art. 582 c.p.);
– deformazione mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-
quinquies c.p.);
– riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600
c.p.);
– prostituzione minorile (art. 600-bis c.p.);
– pornografia minorile (art. 600-ter c.p.);
– detenzione o acceso a materiale pornografico (art. 600-quater
c.p.);
– tratta di persone (art. 601 c.p.);
– acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 c.p.);
– violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) anche aggravata (art. 609-
ter c.p.);
– atti sessuali con minorenni (art. 609-quater c.p.);
– corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.);
– violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.);
– minaccia aggravata (art. 612, comma 2, c.p.);
– atti persecutori (art. 612-bis c.p.).
Per detti reati è altresì consentita l’adozione della misura
dell’allontanamento urgente dalla casa familiare (art. 384-bis c.p.p.).
La L. n. 168 del 2023 ha altresì previsto, sempre in relazione
all’allontanamento dalla casa familiare in relazione ai reati appena
elencati, che la misura coercitiva sia sempre accompagnata
dall’imposizione – sino ad oggi facoltativa –, delle modalità di
controllo previste dall’art. 275-bis c.p.p., ovvero del cosiddetto
braccialetto elettronico, con la contestuale prescrizione di mantenere
una determinata distanza, non inferiore a cinquecento metri,
dalla casa familiare o da determinati luoghi frequentati dalla persona
offesa. Nel caso in cui la frequentazione di tali luoghi sia necessaria
per motivi di lavoro la disposizione prevede che il giudice debba
prescrivere modalità e limitazioni.
Qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione di tale modalità
di controllo o sia accertata la non fattibilità tecnica delle predette
modalità di controllo dall’organo a ciò deputato, il giudice può
applicare, anche congiuntamente, una misura cautelare
maggiormente afflittiva.
Modifiche analoghe sono state apportate alla disciplina del
divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona
offesa, di cui all’art. 282-ter c.p.p.: risulta stabilita in 500 metri
la distanza minima che il giudice deve comunque garantire nel
disporre il provvedimento di divieto di avvicinamento superando così
il contrasto giurisprudenziale, in relazione alla mancata indicazione
della distanza da parte del giudice, che aveva imposto l’intervento
delle Sezioni Unite.
Con sentenza n. 39005 del 29 aprile 2021, il massimo
Consesso della Corte di Cassazione, aveva chiarito che il giudice che
ritenga adeguata e proporzionata la sola misura cautelare
dell’obbligo di mantenere una determinata distanza dalla persona
offesa (art. 282-ter, comma 1, c.p.p.) può limitarsi a indicare tale
distanza. Al contrario, nel caso in cui, nel rispetto dei predetti
principi, disponga, anche cumulativamente, le misure del divieto di
avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona
offesa e/o dell’obbligo di mantenimento della distanza dai medesimi,
deve indicarli specificamente (a tal ultimo riguardo, la Corte aveva
precisato che la chiara indicazione di quali siano i luoghi
abitualmente frequentati dalla persona offesa in relazione ai quali è
posto il divieto di avvicinamento e/o l’obbligo di mantenere una
determinata distanza serve a garantire che la persona offesa sia
libera nei suoi contesti quotidiani; in questo caso, è finanche del
tutto irrilevante che la persona offesa sia presente o meno: il divieto
vale anche se all’indagato è noto che il soggetto protetto si trovi in
tutt’altro posto; semplicemente, sia per la massima garanzia della
vittima che per la facilità ed efficacia dei controlli, l’indagato deve
sempre e comunque tenersi a distanza da tali luoghi che potranno
anche essere indicati in forma indiretta, purché si raggiunga la
finalità di dare certezza all’indagato sull’estensione del divieto).
Per effetto della Riforma è inoltre ora previsto che, nei casi di
allontanamento dalla casa familiare per condotte di violenza
domestica e di genere, la misura possa essere disposta anche al di
fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p. per l’applicazione
delle misure cautelari; il giudice, poi, con lo stesso provvedimento
che dispone il divieto di avvicinamento, può applicare anche
congiuntamente, una misura più grave qualora l’imputato neghi il
consenso all’adozione delle modalità di controllo a distanza ovvero
quando ne sia accertata, da parte dell’organo a ciò deputato, la non
fattibilità tecnica.
Infine, si è previsto che, qualora sussistano ulteriori esigenze
di tutela, il giudice possa prescrivere all’imputato di non avvicinarsi
a luoghi determinati abitualmente frequentati da prossimi congiunti
della persona offesa o da persone con questa conviventi o
comunque legate da relazione affettiva ovvero di mantenere una
determinata distanza comunque non inferiore a cinquecento metri,
da tali luoghi o da tali persone disponendo l’applicazione delle
particolari modalità di controllo previste dall’art. 275-bis c.p.p..

14. Le ulteriori disposizioni in materia di


misure cautelari coercitive.
La L. 24 novembre 2023, n. 168 ha introdotto alcune deroghe
alla disciplina vigente in materia di criteri di scelta e di condizioni di
applicabilità delle misure cautelari coercitive, nonché in tema di
conversione delle misure precautelari in cautelari.
Le misure cautelari personali si suddividono in coercitive e
interdittive.
Le prime attengono a forme di privazione o limitazione della
libertà personale, mentre le seconde a forme temporanee di
impedimento dall’esercizio di talune facoltà o diritti.
Le misure cautelari coercitive sono suddivise a loro volta in:
– misure custodiali le quali implicano la soppressione della libertà
fisica dell’interessato che viene ristretto in un istituto carcerario, in
un presidio ospedaliero o in una privata dimora. Esse sono:
a) custodia cautelare in carcere;
b) arresti domiciliari;
c) custodia cautelare in luogo di cura;
d) custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute
madri,
– misure non custodiali le quali implicano la sola limitazione
della libertà di movimento dell’interessato. Tali misure sono:
a) divieto di espatrio;
b) obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria;
c) allontanamento dalla casa familiare;
d) divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona
offesa;
e) divieto e obblighi di dimora.
La misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti
domiciliari non può essere disposta se il giudice ritiene che con la
sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della
pena.
La valutazione prognostica del giudice circa la concedibilità della
sospensione condizionale della pena, richiesta dall’art. 275, comma
2-bis, c.p.p., secondo costante orientamento di legittimità, non può
tenere conto dell’eventuale applicazione delle diminuenti previste per
i riti speciali per i quali l’imputato ha preannunciato di optare, in
assenza di elementi concreti (quali, ad esempio, la presenza di una
istanza già formalizzata di giudizio abbreviato non condizionato o di
applicazione di pena già munita dal consenso del pubblico ministero)
che consentono di ritenere concretamente prevedibile l’accesso a tali
forme alternative di definizione del procedimento.
Salvo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 275 c.p.p. – secondo
il quale la custodia cautelare in carcere deve rappresentare una
extrema ratio (con conseguente obbligo di puntuale indicazione, da
parte del giudice, delle ragioni che ne giustificano l’applicazione,
pena la sua illegittimità, così come da ultimo evidenziato da Cass.
pen. n. 5840 del 2018) – e ferma restando l’applicabilità degli artt.
276, comma 1-ter , c.p.p. (che disciplina i provvedimenti da adottare
in caso di trasgressione delle prescrizioni imposte) e 280, comma 3,
c.p.p. – che prevede un’eccezione, concernente chi ha trasgredito le
prescrizioni inerenti alle misure cautelari, al principio secondo cui la
custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per i delitti
consumati o tentati per i quali sia prevista la reclusione non inferiore
nel massimo a cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei
partiti –, la misura della custodia cautelare in carcere (e non degli
arresti domiciliari) non può essere applicata se il giudice ritiene che,
all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a
tre anni.
Di recente, è stato precisato che il limite di tre anni di pena
detentiva necessario per l’applicazione della custodia in carcere,
previsto dall’art. 275, comma secondo bis, c.p.p., deve essere
oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione
della misura, ma non anche nel corso della protrazione della stessa,
con la conseguenza che il presupposto assume rilievo non in termini
di automatismo, ma solo ai fini del giudizio di perdurante
adeguatezza del provvedimento coercitivo, a norma dell’art. 299,
c.p.p..
La logica di quest’ultimo inciso è quella di evitare di applicare la
custodia carceraria nei casi in cui il condannato, potendo beneficiare
della sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656, comma 5,
c.p.p., avrà la possibilità di scontare la pena – n presenza di tutti i
presupposti –, usufruendo di una delle misure alternative alla
detenzione previste dall’ordinamento penitenziario.
Il legislatore, tuttavia, ha previsto delle limitazioni all’operatività
della disposizione che, infatti, non si applica nei procedimenti per i
delitti:
– di incendio boschivo (art. 423-bis c.p.);
– di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.);
– di atti persecutori (art. 612-bis c.p.)
– di diffusione illecita di immagini o video sessualmente
espliciti (art. 612-ter c.p.);
– di furto in abitazione e con strappo (art. 624-bis c.p.);
– espressamente indicati dall’art. 4-bis, L. 354/1975 (ordinamento
penitenziario) e, segnatamente, i delitti commessi per finalità di
terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine
democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitto di cui
all’art. 416-bis c.p., delitti commessi avvalendosi delle condizioni
previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività
delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli artt. 600,
600-bis, comma 1, 600-ter, comma 1 e 2, 601, 602, 609-
octies e 630 c.p., all’art. 291-quater del testo unico delle
disposizioni legislative in materia doganale e all’art. 74 T.U.
stupefacenti.
La L. n. 168 del 2023 ha aggiunto, all’elenco dei reati previsti al
comma 2-bis dell’art. 275 c.p.p. – per i quali, a seguito di una
valutazione del giudice, è esclusa l’applicazione della misura della
custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari –,
anche i seguenti:
– violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa
familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa (art. 387-bis c.p.);
– lesioni personali (art. 582 c.p.), nelle ipotesi aggravate ai sensi
degli artt. 576, comma 1, nn. 2, 5 e 5.1, e 577, comma 1, n. 1, e
comma 2, c.p.
La riforma Roccella ha aggiunto un ulteriore comma all’art. 280
c.p.p. che disciplina le condizioni di applicabilità delle misure
cautelari.
In particolare, esse possono essere disposte solo quando si
procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo
o della reclusione superiore nel massimo a tre anni.
Tale limite edittale, tuttavia, non opera:
– in caso di arresto per uno dei delitti indicati dal comma 2
dell’art. 380 c.p.p. ovvero per uno dei delitti per i quali l’arresto è
consentito anche fuori dai casi di flagranza;
– in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in
carcere, la quale può essere disposta solo per delitti, consumati o
tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore
nel massimo a cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei
partiti di cui all’art. 7, L. 195 del 1974, e ss. mod., a eccezione del
caso in cui l’interessato abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti a
una misura cautelare. In tale ipotesi, infatti, la misura della custodia
cautelare in carcere può essere disposta al di fuori dei limiti di pena
indicati.
Per effetto della riforma del 2023, i limiti edittali previsti dall’art.
280 c.p.p. non si applicano nei procedimenti per i delitti di:
– violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa
familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa (art. 387-bis c.p.)
– lesioni personali (art. 582 c.p.), nelle ipotesi aggravate ai sensi
degli articoli 576, comma 1, nn. 2, 5 e 5.1, e 577, comma 1, n. 1, e
comma 2, c.p.
Con riferimento tali reati, dunque, sarà possibile applicare la
misura della custodia cautelare in carcere anche per tali reati.
La L. n. 168 del 2023 ha esteso l’ambito di applicazione del
comma 5 dell’art. 391 c.p.p. anche ai casi di arresto eseguito per il
delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa
familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa, di cui all’art. 387-bis c.p.
Nella disciplina del codice, l’arresto obbligatorio in flagranza è
previsto dall’art. 380, comma 1, c.p.p., per i delitti non colposi,
consumati o tentati, per i quali la legge stabilisce la pena
dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque
anni e nel massimo a venti anni; ai sensi del comma 2 del medesimo
articolo, l’arresto è obbligatorio per una serie di delitti specificamente
indicati dal legislatore per il titolo del reato.
Analoga struttura ha la disciplina dell’arresto facoltativo in
flagranza: l’art. 381, comma 1, c.p.p. prevede che «[g]li ufficiali e gli
agenti di polizia giudiziaria hanno facoltà di arrestare chiunque è
colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per
il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel
massimo a tre anni ovvero di un delitto colposo per il quale la legge
stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque
anni». Il comma 2 dello stesso articolo prevede poi alcuni delitti,
specificamente e tassativamente indicati, per i quali è comunque
possibile procedere all’arresto in flagranza, a prescindere dalla entità
della sanzione massima edittale.
L’art. 391, comma 5, c.p.p. attribuiva al giudice chiamato a
convalidare l’arresto il potere di applicare misure cautelari allorché
sussistessero le condizioni previste dall’art. 273 c.p.p. e taluna delle
esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p.. Il medesimo comma, in
un secondo periodo, stabiliva che «[q]uando l’arresto è stato
eseguito per uno dei delitti indicati nell’articolo 381 comma 2,
l’applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti
previsti dall’articolo 280».
L’art. 280, comma 1, c.p.p., a sua volta, disponeva che le misure
coercitive potessero essere disposte dal giudice nei procedimenti
relativi a delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a tre
anni: ciò faceva sì che per i reati che ricadevano nella previsione
generale di cui all’art. 381, comma 1, c.p.p., le misure cautelari
potevano essere applicate secondo la regola generale; per altro
verso, per i delitti tassativamente elencati nell’art. 381, comma 2,
c.p.p., per i quali l’art. 280 stesso codice. poneva una barriera
edittale all’applicazione di misure coercitive, le esigenze cautelari
erano comunque soddisfatte in virtù del meccanismo derogatorio
scaturente dal richiamo effettuato dallo stesso art. 280, comma 1,
all’intero art. 391, e dunque anche al suo comma 5, c.p.p. e alla
disciplina ivi prevista.
Il legislatore è intervenuto successivamente a modificare tali
coordinate normative, innanzi tutto stabilendo, mediante il nuovo
comma 2 dell’art. 280 c.p.p., introdotto dall’art. 7, L. 8 agosto 1995,
n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di
semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di
difesa), che, fermo quanto previsto dal comma 1 (rimasto invariato),
la custodia cautelare in carcere potesse essere disposta solo per
delitti, consumati o tentati, per i quali fosse prevista la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. A tale
sopravvenienza normativa si aggiungeva poi, per effetto della
modifica introdotta con l’art. 3, comma 2, della medesima L. n. 332
del 1995, un periodo nell’art. 274, comma 1, lettera c), c.p.p.,
secondo il quale, nel caso in cui l’esigenza cautelare derivasse da
una prognosi di recidiva, le misure di custodia cautelare venivano
disposte solo se il reato di cui si paventava la reiterazione era punito
con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Solo con l’art. 12, L. 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi legislativi
in materia di tutela della sicurezza dei cittadini) è stato modificato
l’art. 391, comma 5, secondo periodo, c.p.p., il quale prevede oggi
che «[q]uando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati
nell’articolo 381, comma 2, ovvero per uno dei delitti per i quali è
consentito anche fuori dai casi di flagranza, l’applicazione della
misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli
articoli 274, comma 1, lettera c), e 280».
Da ultimo, e per effetto della modificazione apportata dalla lettera
0a) del comma 1 dell’art. 1, D.L. 1° luglio 2013, n. 78 (Disposizioni
urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 94, l’art. 280, comma 2,
cod. proc. pen. stabilisce ora che «[l]a custodia cautelare in carcere
può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali
sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a
cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui
all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive
modificazioni». Identico limite edittale è stato poi previsto, per
effetto della modifica introdotta dalla lettera 0b) del comma 1
dell’art. 1 del già richiamato d.l. n. 78 del 2013, nel testo dell’art.
274, comma 1, lett. c), c.p.p. per l’applicazione della misura
cautelare carceraria nel caso in cui ricorra l’esigenza cautelare ivi
prevista.
Il quadro normativo scaturito dalle plurime modificazioni
di cui si è detto mostra un difetto di coordinamento tra le
norme richiamate, derivante dalla circostanza che solo per i delitti
tassativamente indicati dall’art. 381, comma 2, c.p.p., è oggi
possibile l’applicazione, in sede di convalida, delle misure cautelari
coercitive in deroga agli ordinari limiti edittali, nel mentre per i delitti,
consumati o tentati, di cui al precedente comma 1, per i quali la
pena edittale massima sia compresa tra i tre anni e i quattro anni,
non è possibile applicare la misura degli arresti domiciliari, fermo
restando che per l’applicazione della misura cautelare della custodia
in carcere, al di fuori della deroga contenuta nel comma 5 dell’art.
391, cod. proc. pen., è necessario che il delitto per il quale si
procede sia punito con la pena della reclusione non inferiore nel
massimo a cinque anni.
Tanto premesso, deve rilevarsi che la facoltà, per il giudice
chiamato a convalidare l’arresto, di applicare nei confronti del
prevenuto misure cautelari in deroga agli ordinari limiti edittali
segnati dagli artt. 274, comma 1, lettera c), e 280 c.p.p., secondo
quanto previsto dall’art. 391, comma 5, c.p.p., è riconducibile
all’esigenza di raccordare funzionalmente la decisione in ordine alla
misura precautelare con quella riguardante la salvaguardia di
esigenze di natura propriamente cautelare. Già la L. 16 febbraio
1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per
l’emanazione del nuovo codice di procedura penale) aveva previsto
all’art. 2, numero 34), che al giudice dovesse incombere l’obbligo di
decidere «sulla convalida o meno dell’arresto o del fermo e sulla loro
eventuale conversione, ai sensi del numero 59), in una delle misure
di coercizione ivi previste», con ciò prefigurando l’attribuzione alle
relative previsioni del codice di procedura penale di un carattere
speciale rispetto ai limiti sanciti in via generale per le misure
cautelari coercitive applicabili in via autonoma.
Ciò si è tradotto nella disciplina dell’art. 391, comma 5, secondo
periodo, c.p.p., che contempla, come si è detto, la possibilità di
derogare agli ordinari limiti edittali, sia quello generale di cui all’art.
280, comma 1, c.p.p., sia quello connesso all’esigenza cautelare
special-preventiva di cui all’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p.,
quando la misura cautelare sia da applicarsi nei confronti di soggetto
accusato di uno dei delitti di cui all’art. 381, comma 2, c.p.p. e già
temporaneamente limitato nella sua libertà personale per effetto
della misura precautelare dell’arresto. Tale eccezionale possibilità
resta pur sempre rigidamente condizionata al «presupposto
necessario» (Corte Cost. sentenza n. 4 del 1992) che l’arresto sia
convalidato, a differenza di quanto avviene nei casi ordinari, nei quali
il giudice della convalida può pronunciarsi in materia cautelare nel
rispetto della disciplina generale di cui agli artt. 280 e 274, comma 1,
lettera c), c.p.p.: in tali casi, dunque, «la decisione sulla convalida è
concettualmente e funzionalmente scissa da quella che inerisce alla
applicazione delle misure cautelari» (ancora Corte Cost. sentenza n.
4 del 1992).
Solo la verifica della legittimità dell’arresto effettuata dal giudice,
idonea come tale a preservare la natura di esso come istituto
eccezionale dai contorni applicativi di stretta interpretazione (Corte
Cost. sentenza n. 89 del 1970 e ordinanza n. 412 del 1999), può
operare infatti come presupposto in grado di attribuire al medesimo
giudice il potere di pronunciarsi in materia cautelare anche in deroga
rispetto agli ordinari limiti edittali, «all’evidente e non irragionevole
fine di coordinare la facoltà di procedere all’arresto in flagranza con
la possibilità di disporre all’esito della convalida, e dunque solamente
quando l’arresto risulti legittimamente eseguito, misure coercitive»
(Corte Cost. ordinanza n. 187 del 2001).
Le norme in esame, pertanto, rientrano in un ambito
caratterizzato dalla discrezionalità legislativa, riguardante «la
determinazione dei casi eccezionali di necessità e urgenza in cui
possono essere adottati provvedimenti provvisori limitativi della
libertà personale ai sensi dell’art. 13, terzo comma, della
Costituzione» (Corte Cost. sentenza n. 188 del 1996 e ordinanza n.
187 del 2001), intesa anche quale riflesso specifico della più ampia
discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti
processuali in materia penale (Corte Cost. sentenze n. 31 e n. 20 del
2017, n. 216 del 2016).
Pur ribadendo che i provvedimenti provvisori restrittivi della libertà
personale, secondo quanto imposto dall’art. 13, comma 3, Cost.,
possono essere adottati «solo quando abbiano natura servente
rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione, tra cui in
primo luogo quelle connesse al perseguimento delle finalità del
processo penale» (Corte Cost. sentenza n. 223 del 2004) e che la
convalida dell’arresto è da ritenersi «di per sé non sufficiente a
legittimare l’applicazione in concreto delle misure» (Corte Cost.
ordinanza n. 148 del 1998), dovendo il giudice vagliare, secondo un
criterio di stretta necessità, la sussistenza delle esigenze cautelari e
in particolare quella di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), c.p.p.,
deve nondimeno ritenersi che le norme censurate non siano di per
sé manifestamente irragionevoli, perché con esse il legislatore ha
ritenuto non impropriamente che possa essere esclusa la liberazione
dell’arrestato ove specifiche esigenze cautelari impongano il
mantenimento della restrizione della libertà personale, senza che a
tale esito possano essere di impedimento soglie edittali più basse
rispetto a quelle ordinarie, laddove i relativi delitti, come quelli
tassativamente elencati dall’art. 381, comma 2, c.p.p., siano dal
legislatore apprezzati come di particolare allarme sociale (Corte Cost.
6 luglio 2020, n. 137).
Tornando alle novità della riforma, il comma 5 dell’art. 391
c.p.p., nel disciplinare l’applicazione delle misure cautelari nel
giudizio di convalida della misura precautelare, dispone
espressamente che la misura cautelare possa essere applicata,
anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli artt. 274, comma 1,
lett. c), e 280 c.p.p., quando l’arresto è stato eseguito per uno dei
delitti indicati dall’art. 381, comma 2, c.p.p., ovvero per uno dei
delitti per i quali è consentito anche fuori dai casi di flagranza:
dunque, anche con riferimento a determinati delitti punibili con la
reclusione non inferiore nel massimo a tre anni.
Come già detto, il delitto di cui all’art. 387-bis c.p. (“Violazione dei
provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di
avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”) è stato
inserito fra quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio ai sensi
del comma 2 dell’art. 380 c.p.p. dall’art. 2, comma 15, della legge 27
settembre 2021, n. 134, recante “Delega al Governo per l’efficienza
del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e
disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”.
Tuttavia, in considerazione del limite edittale previgente (prima della
riforma il reato era punito con la pena massima di tre anni di
reclusione), non era possibile procedere, eseguito l’arresto,
all’applicazione di misura cautelare custodiale, con la conseguenza
che all’arresto doveva seguire l’immediata liberazione dell’arrestato,
ove non intervenisse tempestivamente un provvedimento di
aggravamento della misura cautelare da parte del giudice, ex art.
276 c.p.p., in seguito a richiesta del pubblico ministero, trattandosi di
reato conseguente a violazione di misura cautelare in atto.
L’intervento, dunque, mira a soddisfare l’esigenza di ricondurre il
“rapporto fra misure precautelari e misure cautelari coercitive
all’originario coordinamento quanto ai presupposti per la loro
adozione” sul quale la Corte costituzionale (sent. 137 del 2020) ha
auspicato un intervento del legislatore ma non tiene conto del fatto
che la stessa legge Roccella, elevando il massimo edittale del reato
di cui all’art. 387-bis c.p. a tre e mesi sei di reclusione (in luogo dei
tre anni originariamente previsti), ha reso superflua questa ulteriore
modifica avendo risolto in nuce il problema della applicazione della
misura cautelare a seguito della convalida dell’arresto.

15. Le disposizioni in materia di informazioni


alla persona offesa dal reato e di obblighi di
comunicazione.
La L. n. 168 del 2023 ha introdotto importanti novità anche in
materia di informazioni da rendere alla persona offesa dal reato.
Modificando l’art. 90-ter, comma 1, c.p.p., la riforma ha esteso
l’obbligatorietà dell’immediata comunicazione alle vittime di violenza
domestica o di genere a tutti i provvedimenti de libertate inerenti
all’autore del reato, sia esso imputato in stato di custodia cautelare,
condannato o internato.
In tal modo vengono raggruppate in un’unica norma le
disposizioni dettate in altri articoli del codice di procedura penale, tra
cui l’art. 659, comma 1-bis, che, per questo motivo, è stato
contestualmente abrogato.
L’art. 90-ter c.p.p., introdotto dal D.L.vo. 15 dicembre 2015,
n. 212, dispone che, fermo quanto previsto dall’art. 299 c.p.p.
(revoca e sostituzione delle misure cautelari), nei procedimenti per
delitti commessi con violenza alla persona sono immediatamente
comunicati alla persona offesa che ne faccia richiesta, con l’ausilio
della polizia giudiziaria, i provvedimenti di scarcerazione e di
cessazione della misura di sicurezza detentiva, ed è altresì data
tempestiva notizia, con le stesse modalità, dell’evasione
dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato, nonché
della volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura
di sicurezza detentiva, salvo che risulti, anche nella ipotesi di cui
all’art. 299 cit., il pericolo concreto di un danno per l’autore del
reato.
Le medesime comunicazioni, dopo l’entrata in vigore della L.
69/2019 (c.d. Codice Rosso), sono sempre effettuate alla persona
offesa e al suo difensore, ove nominato, se si procede per il reato di
tentato omicidio o per uno dei delitti, anche nella forma tentata,
previsti dagli artt. 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies,
609-octies e 612-bis c.p., nonché dagli artt. 582 e 583-quinquies c.p.
nelle ipotesi aggravate ai sensi degli artt. 576, comma 1, nn. 2, 5 e
5.1, e 577, comma 1, n. 1, e comma 2, c.p.
L’estensione al tentato omicidio e alle ipotesi tentate è
avvenuta ad opera della L. 27 settembre 2021, n. 134 che ha
inteso così colmare una lacuna – lamentata da più parti – del c.d.
Codice Rosso.
Rispetto alla formulazione previgente della norma, che imponeva
tale comunicazione per tutti i reati commessi con violenza alla
persona, ma solo previa richiesta della vittima, la riforma ha
aggiunto per le vittime dei delitti di violenza domestica l’obbligo di
comunicazione.
Secondo l’art. 659 c.p.p., quando a seguito di un provvedimento
del giudice di sorveglianza deve essere disposta la carcerazione o la
scarcerazione del condannato, il pubblico ministero, che cura
l’esecuzione della sentenza di condanna, emette ordine di
esecuzione con le modalità volte a salvaguardare i diritti della
persona ad esse sottoposta (art. 656, comma 4, c.p.p.). Tuttavia, nei
casi di urgenza, il pubblico ministero presso il giudice di sorveglianza
che ha adottato il provvedimento può emettere ordine provvisorio di
esecuzione che ha effetto fino a quando non provvede il pubblico
ministero competente.
A seguito dell’entrata in vigore della L. 69/2019, quando a seguito
di un provvedimento del giudice di sorveglianza deve essere disposta
la scarcerazione del condannato per il delitto di cui all’art. 575 c.p.
nella forma tentata o per uno dei delitti, consumati o tentati, di
violenza domestica e di genere previsti dagli artt. 572, 609-bis, 609-
ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis c.p., ovvero
dagli artt. 582 e 583-quinquies c.p. nelle ipotesi aggravate ai sensi
degli artt. 576, comma 1, nn. 2, 5 e 5.1, e 577, comma 1, n. 1, e
comma 2, del medesimo codice, il pubblico ministero che cura
l’esecuzione ne dà immediata comunicazione, a mezzo della polizia
giudiziaria, alla persona offesa e, ove nominato, al suo difensore.
Anche in questo caso, l’estensione al tentato omicidio e alle
ipotesi tentate è avvenuta ad opera della L. 27 settembre 2021,
n. 134.
La legge Roccella ha modificato anche l’art. 299 c.p.p.
prevedendo che, nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 4,
comma 1, lettera i-ter), del codice delle leggi antimafia e delle
misure di prevenzione, di cui al D.L.vo 6 settembre 2011, n. 159,
l’estinzione, l’inefficacia pronunciata per qualsiasi ragione o la revoca
delle misure coercitive previste dagli artt. 282-bis, 282-ter, 283, 284,
285 e 286 c.p.p. o la loro sostituzione con altra misura meno grave
sono comunicati, a cura della cancelleria, anche per via telematica,
all’autorità di pubblica sicurezza competente per le misure di
prevenzione, ai fini dell’eventuale adozione dei relativi
provvedimenti.
Nei procedimenti per i delitti previsti dall’art. 575 c.p., nella forma
tentata, o per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli artt. 572,
609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies,609-octies e 612-bis
c.p., ovvero dagli artt. 582 e 583-quinquies c.p. nelle ipotesi
aggravate ai sensi degli artt. 576, comma 1, nn. 2, 5 e 5.1, e 577,
comma 1, n. 1, e comma 2, del medesimo codice l’estinzione o la
revoca delle misure o la loro sostituzione con altra misura meno
grave sono comunicate al prefetto che, sulla base delle valutazioni
espresse nelle riunioni di coordinamento di cui all’art. 5, comma 2,
D.L. 6 maggio 2002, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 2
luglio 2002, n. 133, può adottare misure di vigilanza dinamica,
da sottoporre a revisione trimestrale, a tutela della persona offesa.
La stessa legge Roccella, novellando il D.L. 93/2013, ha previsto
che l’organo di polizia procedente per fatti riconducibili ai reati
appena elencati commessi in ambito di violenza domestica, qualora
rilevi l’esistenza di concreti e rilevanti elementi che prefigurino il
pericolo di reiterazione delle condotte, ne dia comunicazione al
prefetto affinché questi possa adottare, a tutela della persona offesa,
misure di vigilanza dinamica. Tali misure, che sono soggette a
revisione trimestrale, sono adottate sulla base delle valutazioni
espresse nelle riunioni di coordinamento menzionate.

16. Disposizioni in materia di sospensione


condizionale della pena.
Di estremo interesse è la modifica apportata dalla L. 168 del 2023
ai presupposti per la concessione della sospensione condizionale
della pena, subordinata al percorso di recupero per i maltrattanti.
L’art. 165, comma 5, c.p. – introdotto dalla L. 19 luglio 2019, n.
69 (c.d. Codice Rosso) e successivamente modificato dalla L. n. 134
del 2021 – prevedeva la subordinazione per legge della sospensione
condizionale della pena inflitta per i delitti di cui agli artt. 572, 609-
bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis c.p., nonché
agli artt. 582 e 583-quinquies c.p., nelle ipotesi aggravate ai sensi
dell’art. 576, comma 1, nn. 2, 5, 5.1 c.p. e art. 577, comma 1, n. 1 e
comma 2, c.p. alla partecipazione a specifici percorsi di recupero
presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza
psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati.
Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, tale disposizione,
incidendo sulle condizioni di concedibilità del beneficio, ha natura
sostanziale e, pertanto, avendo effetti diretti sulla pena, in
applicazione dei principi stabiliti dall’art. 25 Cost. e art. 2 c.p., non
era applicabile ai fatti commessi anteriormente alla sua introduzione
(Cass. pen., sez. V, 19 ottobre 2021, n. 329. In termini analoghi, si
veda anche Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2017, n. 26873 in
relazione alle condotte previste dall’art. 165, comma 4, c.p., a titolo
di riparazione pecuniaria in favore della P.A. lesa dall’illecito del
pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio).
Per effetto della riforma Roccella, la sospensione condizionale
della pena è sempre subordinata alla partecipazione, con cadenza
almeno bisettimanale, e al superamento con esito favorevole di
specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si
occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di
soggetti condannati per i medesimi reati, accertati e valutati dal
giudice, anche in relazione alle circostanze poste a fondamento del
giudizio formulato ai sensi dell’art. 164 c.p..
Del provvedimento che dichiara la perdita di efficacia delle misure
cautelari ai sensi dell’art. 300, comma 3, c.p.p. penale è data
immediata comunicazione, a cura della cancelleria, anche per via
telematica, all’autorità di pubblica sicurezza competente per le
misure di prevenzione, ai fini delle tempestive valutazioni
concernenti l’eventuale proposta di applicazione delle misure di
prevenzione personali previste nel libro I, titolo I, capo II, del codice
delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al D.L.vo 6
settembre 2011, n. 159, fermo restando quanto previsto dall’art.
166, comma 2, c.p.. Sulla proposta di applicazione delle misure
di prevenzione personali, il tribunale competente provvede con
decreto entro dieci giorni dalla richiesta. La durata della misura di
prevenzione personale non può essere inferiore a quella del percorso
di recupero di cui al primo periodo. Qualsiasi violazione della misura
di prevenzione personale deve essere comunicata senza ritardo al
pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di
condanna, ai fini della revoca della sospensione condizionale della
pena ai sensi dell’art. 168, comma 1, n. 1), c.p.
L’istituzione e la diffusione di programmi di trattamento rivolti agli
autori di violenza di genere è prevista dall’art. 16 della Convenzione
di Istanbul all’interno dell’asse “Prevenzione”: secondo la
Convenzione, tali programmi hanno l’obiettivo prioritario di garantire
la sicurezza, il supporto e i diritti umani delle donne vittime di
violenza, attraverso interventi trattamentali volti ad aiutare gli autori
a modificare attitudini e comportamenti violenti, nel quadro di un
lavoro integrato con servizi specializzati nella prevenzione e
contrasto alla violenza sulle donne.
I programmi di trattamento rivolti agli autori di violenza si
fondano sul principio secondo cui la violenza di genere è l’effetto di
norme e credenze culturalmente costruite e socializzate che possono
quindi essere disapprese: in questo senso gli obiettivi primari dei
programmi per autori consistono nel raggiungimento della piena
assunzione di responsabilità e consapevolezza delle conseguenze che
la violenza agita ha sulle vittime, nonché nella riduzione del rischio di
recidiva.
Con riguardo all’ordinamento italiano, l’art. 5, comma 2, lett. g)
D.L. 93/2013 prevede espressamente tra le finalità del Piano
strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la
violenza domestica, la promozione dello “sviluppo e l’attivazione, in
tutto il territorio nazionale, di azioni, basate su metodologie
consolidate e coerenti con linee guida appositamente predisposte, di
recupero e di accompagnamento dei soggetti responsabili di atti di
violenza nelle relazioni affettive, al fine di favorirne il recupero e di
limitare i casi di recidiva”.
Sul piano delle risorse gli interventi per il recupero degli uomini
autori di violenza sono finanziati a valere sul Fondo per le politiche di
pari opportunità.
La riforma dell’art. 165 c.p. ha imposto la modifica dell’art. 18-bis
disp. att. c.p.p., tramite l’aggiunta di un comma, al fine di stabilire
che:
– la sentenza, al momento del suo passaggio in giudicato, sia
comunicata all’ufficio di esecuzione penale esterna, affinché lo stesso
accerti l’effettiva partecipazione del condannato al percorso di
recupero e dia comunicazione dell’esito al pubblico ministero presso
il giudice che ha emesso la sentenza;
– gli enti o le associazioni presso cui il condannato svolge il
percorso di recupero diano immediata comunicazione all’ufficio di
esecuzione penale esterna di qualsiasi violazione ingiustificata degli
obblighi connessi allo svolgimento del percorso di recupero;
– l’ufficio di esecuzione penale esterna, a sua volta, dia immediata
comunicazione al pubblico ministero, ai fini della revoca della
sospensione condizionale della pena, ex art. 168, comma 1, n. 1,
c.p.
Quest’ultima norma prevede la revoca della sospensione
condizionale della pena nei seguenti casi:
– commissione di un delitto ovvero di una contravvenzione della
stessa indole, per cui venga inflitta una pena detentiva;
– mancato adempimento degli obblighi imposti;
– ulteriore condanna per un delitto anteriormente commesso ad
una pena che, cumulata a quella precedentemente sospesa, superi i
limiti stabiliti per la sospensione dall’art. 163 c.p.

17. L’indennizzo in favore delle vittime di reati


intenzionali violenti.
La L. n. 168 del 2023 ha novellato la disciplina relativa alla
domanda di indennizzo per le vittime di crimini intenzionali violenti.
L’art. 13, L. n. 122 del 2016 prevede che, ai fini dell’indennizzo
alle vittime di reati violenti, la domanda di indennizzo sia presentata
dall’interessato, o dagli aventi diritto, e, a pena di inammissibilità,
debba essere corredata alternativamente dei seguenti atti e
documenti:
– copia della sentenza di condanna per uno dei reati per cui è
riconosciuto l’indennizzo ovvero del provvedimento decisorio che
definisce il giudizio per essere rimasto ignoto l’autore del reato;
– documentazione attestante l’infruttuoso esperimento dell’azione
esecutiva per il risarcimento del danno nei confronti dell’autore del
reato, salvo il caso in cui sia rimasto ignoto l’autore oppure
quest’ultimo sia ricorso al patrocinio a spese dello Stato;
– dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà sull’assenza delle
condizioni ostative di cui all’art. 12, comma 1, lett. d) ed e), nonché
sulla qualità di avente diritto ai sensi dell’art. 11, comma 2-bis;
– certificazione medica attestante le spese sostenute per
prestazioni sanitarie oppure certificato di morte della vittima del
reato.
Ebbene, per effetto della riforma Roccella, a corredo della
domanda per l’ottenimento dell’indennizzo, non deve essere più
allegata la documentazione attestante l’infruttuoso esperimento
dell’azione esecutiva per il risarcimento del danno nei confronti
dell’autore del reato quando quest’ultimo abbia commesso il delitto
di omicidio nei confronti del coniuge, anche legalmente separato o
divorziato, dell’altra parte di un’unione civile, anche se l’unione è
cessata, o di chi è o è stato legato da relazione affettiva e stabile
convivenza.
Inoltre, la domanda deve essere presentata, non più nel
termine di termine di sessanta giorni, bensì di centoventi
giorni dalla decisione che ha definito il giudizio per essere ignoto
l’autore del reato o dall’ultimo atto dell’azione esecutiva
infruttuosamente esperita ovvero dalla data del passaggio in
giudicato della sentenza penale.

18. La provvisionale a titolo di ristoro


anticipato a favore delle vittime o degli aventi
diritto.
La L. 24 novembre 2023, n, 168 ha previsto la possibilità di
corrispondere in favore della vittima di taluni reati, oppure degli
aventi diritto in caso di morte della vittima, una provvisionale,
ossia una somma di denaro liquidata dal giudice, come anticipo
sull’importo integrale che le spetterà in via definitiva.
La somma è corrisposta, su richiesta, alle vittime, o agli aventi
diritto, che vengano a trovarsi in stato di bisogno in conseguenza dei
reati medesimi.
La disposizione fa riferimento ai delitti di omicidio, violenza
sessuale o lesione personale gravissima o deformazione dell’aspetto
mediante lesioni permanenti al viso, commessi dal coniuge, anche
separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da
relazione affettiva alla persona offesa.
Più nel dettaglio, nella L. 7 luglio 2016, n. 122 – che, come detto,
reca disposizioni in materia indennizzi in favore delle vittime di reati
intenzionali violenti, in attuazione della direttiva 2004/80/CE –, è
stato introdotto una nuova disposizione: l’art. 13-bis che, al comma
1, ha introdotto la provvisionale in favore della vittima (o degli aventi
causa in caso di sua morte) dei delitti di:
– omicidio;
– violenza sessuale;
– lesione personale gravissima, ai sensi dell’art. 583, comma 2,
c.p. (ossia in caso di una malattia certamente o probabilmente
insanabile, di perdita di un senso o di un arto o di una mutilazione
che renda l’arto inservibile, ovvero di perdita dell’uso di un organo o
della capacità di procreare, ovvero di una permanente e grave
difficoltà della parola);
– deformazione dell’aspetto mediante lesioni permanenti al viso di
cui all’art. 583-quinquies c.p. (ovvero una lesione personale dalla
quale derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso).
La disposizione trova applicazione quando i suddetti delitti sono
commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona
che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
La provvisionale è corrisposta su richiesta della vittima o
degli aventi diritto che vengano a trovarsi in stato di bisogno ed
imputata nella liquidazione definitiva dell’indennizzo, a seguito di
pronuncia di una sentenza di condanna o di patteggiamento anche
non irrevocabile ovvero di emissione di decreto penale di condanna
anche non esecutivo.
L’indennizzo spetta:
– al coniuge superstite e ai figli;
– in mancanza del coniuge e dei figli, l’indennizzo spetta ai
genitori e, in mancanza dei genitori, ai fratelli e alle sorelle
conviventi e a carico al momento della commissione del delitto.
Al coniuge è equiparata la parte di un’unione civile tra persone
dello stesso sesso.
In mancanza del coniuge, allo stesso è equiparato il convivente di
fatto che ha avuto prole dalla vittima o che ha convissuto con questa
nei tre anni precedenti alla data di commissione del delitto.
Sono previste le seguenti condizioni per l’accesso alla
provvisionale:
– la vittima non deve aver concorso, anche colposamente, alla
commissione del reato ovvero di reati connessi;
– la vittima non deve essere stata condannata con sentenza
definitiva ovvero, alla data di presentazione della domanda, non
deve essere sottoposta a procedimento penale per uno dei reati di
cui all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. e per reati commessi in
violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di
imposte sui redditi e sul valore aggiunto;
– la vittima non deve aver percepito, in tale qualità e in
conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti
pubblici o privati, somme di denaro di importo pari o superiore a
quelle dovute in base alla legge.
La L. 122 del 2016 prevede, quale ulteriore condizione per
l’accesso all’indennizzo, che la vittima abbia già esperito
infruttuosamente l’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato
per ottenere il risarcimento del danno dal soggetto obbligato in forza
di sentenza di condanna irrevocabile o di una condanna a titolo di
provvisionale, salvo che l’autore del reato sia rimasto ignoto e che, in
caso la vittima abbia già percepito, in tale qualità e in conseguenza
immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti pubblici o privati,
somme di denaro di importo inferiore a quello dovuto a titolo di
indennizzo, l’indennizzo medesimo è corrisposto esclusivamente per
la differenza.
In caso di morte della vittima in conseguenza del reato, le
medesime condizioni devono sussistere, oltre che per la vittima
anche per gli aventi diritto.
L’istanza per la provvisionale deve essere presentata al
prefetto della provincia di residenza o della provincia ove è stato
commesso il fatto. A pena di inammissibilità, l’istanza deve essere
corredata dalla copia della sentenza di condanna o di
patteggiamento ovvero il decreto penale di condanna.
All’istanza deve essere altresì corredata da dichiarazione
sostitutiva di certificazione e dell’atto di notorietà attestante
l’assenza delle condizioni ostative, nonché sulla qualità di avente
diritto, la situazione economica dell’istante e delle persone di cui
all’art. 433 c.c. (ossia il coniuge; i figli, anche adottivi, e, in loro
mancanza, i discendenti prossimi; i genitori e, in loro mancanza, gli
ascendenti prossimi; gli adottanti; i generi e le nuore; il suocero e la
suocera; i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza
dei germani sugli unilaterali). È possibile produrre, in alternativa alla
dichiarazione sostitutiva, il certificato attestante la situazione
economica dell’istante o degli altri soggetti richiamati.
Entro sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza, il prefetto
verifica la sussistenza dei requisiti, avvalendosi anche degli organi di
polizia.
Sull’istanza relativa alla provvisionale, provvede il Comitato di
solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso e dei reati
internazionali violenti provvede, entro centoventi giorni dalla
presentazione della medesima istanza, acquisiti gli esiti
dell’istruttoria dal prefetto. È lo stesso Comitato che delibera circa la
corresponsione delle somme del Fondo di rotazione per la solidarietà
alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive,
dell’usura e dei reati intenzionali violenti nonché agli orfani per
crimini domestici, ai sensi dell’art. 3, L. n. 512 del 1999 (recante la
disciplina concernente il Fondo medesimo, così rinominato dall’art.
11, comma 4, L. 11 gennaio 2018, n. 4).
La provvisionale può essere assegnata in misura non superiore
a un terzo dell’importo dell’indennizzo determinato secondo
quanto disposto dal D.M. 31 agosto 2017 e, successivamente, dal
D.M. 22 novembre 2019, emanati in attuazione dell’art. 11, comma
3, della più volte citata L. n. 122 del 2016, recanti la determinazione
degli importi dell’indennizzo alle vittime dei reati intenzionali violenti.
L’art. 11, comma 3, L. n. 122 del 2016 demanda la
determinazione degli indennizzi ad un decreto del Ministro
dell’interno e del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, assicurando un maggior ristoro alle
vittime dei reati di violenza sessuale e di omicidio e, in particolare, ai
figli della vittima in caso di omicidio commesso dal coniuge, anche
separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da
relazione affettiva alla persona offesa, comunque nel limite delle
risorse stanziate con tali finalità.
Il Comitato dichiara la decadenza dalla provvisionale e dispone
la ripetizione di quanto erogato in caso di:
– mancata richiesta di indennizzo nei termini previsti, ovvero
quando la richiesta di indennizzo sia respinta o dichiarata
inammissibile;
– mancanza delle condizioni per la presentazione della domanda
di indennizzo se, decorso il termine di due anni dalla concessione
della provvisionale e con cadenza biennale per gli anni successivi,
non viene prodotta autocertificazione sulla non definitività della
sentenza penale o della procedura esecutiva o sulla percezione di
somme in connessione al reato.

19. Il riconoscimento e le attività degli enti e


delle associazioni organizzatori di percorsi di
recupero destinati agli autori di reato.
La legge Roccella ha previsto che, entro 6 mesi dalla sua
entrata in vigore (quindi entro il 9 giugno 2024), il Ministro della
giustizia e l’Autorità politica delegata per le pari opportunità adottino
un decreto interministeriale che disciplini le modalità per il
riconoscimento e l’accreditamento degli enti e delle associazioni
abilitati ad effettuare corsi di recupero degli autori di reati di violenza
sulle donne e di violenza domestica.
Il Ministro della giustizia e l’Autorità politica delegata per le pari
opportunità devono inoltre provvedere all’emanazione di Linee Guida
per l’attività di tali enti ed associazioni.
L’emanazione del sopra citato decreto si ricollega a quanto
stabilito dagli artt. 165, comma 5, e 282-quater c.p.p.,
espressamente richiamati dalla disposizione in commento.
Come già detto, ai sensi dell’art. 165, comma 5, c.p., la
sospensione condizionale della pena è subordinata alla
partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o
associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e
recupero di soggetti condannati per il delitto di tentato omicidio (art.
575 c.p.) e dei delitti, consumati o tentati, di:
– maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.),
– lesioni personali aggravate (art. 582 c.p.) e deformazione
dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art.
583-quinquies c.p.) aggravate ai sensi dell’art. 576, comma 1, nn. 2,
5 e 5.1 e ai sensi dell’art. 577, comma 1 n. 1 e comma 2, c.p.);
– violenza sessuale (art. 609-bis c.p.);
– violenza sessuale aggravata (art. 609-ter c.p.);
– atti sessuali con minorenne (art.600-quater c.p.);
– corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.);
– violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.);
– atti persecutori (art. 612-bis c.p.).
Dopo la legge Roccella, per ottenere la sospensione
condizionale della pena è necessario il superamento del percorso di
recupero con esito favorevole non essendo sufficiente la mera
partecipazione al medesimo.
L’art. 282-quater c.p.p. prevede che il responsabile dei servizi
socio-assistenziali del territorio dia comunicazione al pubblico
ministero e al giudice della positiva partecipazione dell’imputato ad
un programma di prevenzione della violenza organizzato dagli stessi
servizi socio-assistenziali, affinché possano valutare la sostituzione
della misura cautelare in essere (nel caso specifico allontanamento
dalla casa familiare ex art. 282-bis c.p.p. e divieto di avvicinamento
ai luoghi frequentati dalla persona offesa ex art. 282-ter c.p.p.) con
una meno grave o disporre che la medesima sia applicata con
modalità meno gravose, secondo quanto stabilito dall’art. 299,
comma 3, c.p.p..

20. Considerazioni conclusive: le occasioni


perdute dal legislatore.
Sull’impianto complessivo della riforma non si può che esprimere un
giudizio positivo.
Il legislatore, tuttavia, ha perso l’occasione per apportare una
fondamentale modifica al codice di rito che avrebbe consentito di
ridurre in modo radicale il fenomeno della vittimizzazione secondaria:
rendere obbligatorio l’incidente probatorio in relazione ai reati
di violenza domestica e di genere.
L’incidente probatorio consente una anticipata acquisizione della
prova rispetto al dibattimento, sede naturale della sua formazione, al
fine di contemperare il principio del contraddittorio nella formazione
della prova e l’interesse alla conservazione dei mezzi di prova.
L’esigenza sottesa all’istituto è quella di evitare che il rinvio
dell’acquisizione delle prove fino al dibattimento ne determini la
perdita o l’inquinamento: quando è necessario assumere subito una
prova, pena la sua dispersione durante il tempo necessario per
l’espletamento dell’investigazione, vengono anticipati i meccanismi
dibattimentali di acquisizione probatoria.
Nei procedimenti per i delitti di maltrattamenti in famiglia,
riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, prostituzione
minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico,
pornografia virtuale, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della
prostituzione minorile, tratta di persone, acquisto e alienazione di
schiavi, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di
minorenne, violenza sessuale di gruppo, adescamento di minorenni e
atti persecutori (stalking), il pubblico ministero, anche su richiesta
della persona offesa, o la persona sottoposta alle indagini possono
chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della
testimonianza di persona minorenne ovvero della persona offesa
maggiorenne, anche al di fuori delle ipotesi previste dalla norma.
La ratio che ha sotteso l’introduzione, ad opera della L. n. 66 del
1996, della previsione da ultimo menzionata è in qualche modo
controversa.
In dottrina si è in proposito posto l’accento sull’indifferibilità
intrinseca della testimonianza del minore abusato, collegata alla
asserita sussistenza di un elevato e fisiologico rischio di rimozione
del vissuto determinato dalla ancora acerba capacità di elaborazione
dei traumi da parte dello stesso, oltre che al maggior pericolo che il
minore correrebbe di essere esposto a condizionamenti esterni.
Dalla lettura degli atti preparatori della citata legge emerge,
invece, con maggior forza, l’intenzione del legislatore di privilegiare il
risultato di consentire al minore di uscire anticipatamente dal circuito
del processo, proprio per aiutarlo a liberarsi più rapidamente delle
conseguenze psicologiche del trauma subito. E nel ribadire tale
ispirazione lo stesso legislatore (con la L. n. 269 del 1998) ha
modificato l’art. 190-bis c.p.p., aggiungendovi il comma 1-bis, per
consentire che il minore esaminato nell’incidente probatorio non
potesse essere richiamato a deporre nel corso della fase
dibattimentale se non quando assolutamente necessario
dimostrando, per l’appunto, di ritenere necessaria l’anticipazione in
tal caso della prova non in ragione della sua presupposta intrinseca
indifferibilità, quanto, piuttosto sulla scorta di valutazioni di
opportunità legate all’esigenza di tutelare la salute psichica del
minore.
La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 392, comma 1-bis, c.p.p., nella
parte in cui prevede che, nei procedimenti per i delitti ivi indicati,
l’assunzione della testimonianza in sede di incidente probatorio,
richiesta dal pubblico ministero o dalla persona offesa dal reato,
debba riguardare la persona minorenne che non sia anche persona
offesa dal reato.
L’assunzione della testimonianza del minore in sede di incidente
probatorio, consentita nei procedimenti per i delitti contro
l’assistenza familiare e la libertà sessuale, mira a sottrarre il teste,
particolarmente vulnerabile, ad un’esperienza fortemente
traumatizzante e lesiva della personalità, garantendo, altresì, la
genuinità della formazione della prova (Corte Costituzionale n. 14 del
2021).
In ogni caso, quando la persona offesa versa in condizione di
particolare vulnerabilità, il pubblico ministero, anche su richiesta
della stessa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere
che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della sua
testimonianza.
Il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono
altresì chiedere una perizia che:
– se fosse disposta nel dibattimento, potrebbe determinarne una
sospensione superiore a sessanta giorni;
– comporti l’esecuzione di accertamenti o prelievi su persona
vivente previsti dall’art. 224-bis c.p.p..
La disposizione di cui all’art. 392, comma 1-bis, c.p.p. contempla
un’ipotesi di incidente probatorio ritenuto “speciale o
atipico” (Corte Cost., sentenza n. 92 del 2018), in quanto, essendo
svincolato dall’ordinario presupposto della non rinviabilità della prova
al dibattimento, deroga rispetto agli ordinari presupposti che
governano la formazione anticipata della prova rispetto a tale fase.
Tale disposizione, introdotta con la L. 15 febbraio 1996, n. 66, di
contrasto alla violenza sessuale, e sostituita dalla L. 1° ottobre 2012
n. 172, di ratifica ed esecuzione della Convenzione firmata a
Lanzarote nel 2007, per la protezione dei minori contro lo
sfruttamento e l’abuso sessuale, offre la possibilità alla persona
sottoposta alle indagini e al pubblico ministero, anche su richiesta
della persona offesa, di chiedere l’assunzione della testimonianza
della persona offesa minorenne, ovvero maggiorenne, che sia stata
vittima di gravi reati, tra i quali il delitto di maltrattamenti in famiglia
di cui all’art. 572 c.p., “anche al di fuori delle ipotesi del comma 1”.
La disposizione in esame è stata integrata, da ultimo, dal
D.L.vo 15 dicembre 2015, n. 212, che recepisce la direttiva
2012/29/UE, in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime
di reato, consentendo l’audizione della vittima mediante incidente
probatorio, indipendentemente dal reato per cui si procede, qualora
essa “vers(i) in condizione di particolare vulnerabilità”.
Come emerge dai lavori parlamentari, il legislatore, nel
conformarsi all’assetto normativo sovranazionale con l’introduzione
dell’incidente probatorio speciale, ha inteso perseguire una duplice
finalità:
– anzitutto, evitare la vittimizzazione secondaria, ovvero “quel
processo che porta il testimone persona offesa a rivivere i sentimenti
di paura, di ansia e di dolore provati al momento della commissione
del fatto” (Corte Cost., sentenza n. 92 del 2018);
– in secondo luogo, salvaguardare, per quanto possibile, la
genuinità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, specialmente
laddove queste rappresentino la principale prova d’accusa, atteso
che la assunzione delle stesse in un momento quanto più prossimo
alla commissione del fatto costituisce anche una garanzia per
l’imputato, perché lo tutela dal rischio di deperimento dell’apporto
cognitivo che contrassegna, in particolare, il mantenimento del
ricordo del minore.
La giurisprudenza di legittimità nega la possibilità di considerare
abnorme il provvedimento con cui il giudice delle indagini preliminari
rigetti la richiesta di esame in incidente probatorio, ex art. 392,
comma 1-bis, c.p.p. della persona offesa vulnerabile.
Una sentenza della terza sezione penale della Corte di
Cassazione ha, tuttavia, ritenuto abnorme l’ordinanza del giudice
per le indagini preliminari che, in ragione dell’assenza di motivi di
urgenza che non consentano l’espletamento della prova nel
dibattimento, respinga l’istanza del pubblico ministero di incidente
probatorio presentata ai sensi dell’art. 392, comma 1-bis, c.p.p. per
l’assunzione della testimonianza della vittima di uno dei reati elencati
dalla disposizione citata (che nella specie era quello di violenza
sessuale), con ciò sostanzialmente disapplicando una regola
generale di assunzione della prova, prevista in ottemperanza agli
obblighi dello Stato derivanti dalle convenzioni internazionali per
evitare la vittimizzazione secondaria delle persone offese di reati
sessuali (Cass. pen., sez. III, 16 maggio 2019, n. 34091).
Il principio affermato da questa sentenza è stato ripreso da
un’altra pronuncia della stessa sezione che ha ritenuto parimenti
abnorme il provvedimento di rigetto della richiesta di assunzione
della testimonianza della persona offesa nelle forme dell’incidente
probatorio ai sensi del citato art. 392, comma 1-bis, c.p.p. perché
non preceduta dall’acquisizione di sommarie informazioni testimoniali
rese da parte della medesima persona offesa (Cass. pen., sez. III, 10
ottobre 2019, n. 47572).
Secondo tali pronunce, l’art. 35 della Convenzione del Consiglio
d’Europa sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi
sessuali, conclusa a Lanzarote, in data 25 ottobre 2007, e ratificata
dall’Italia con la L. 1° ottobre 2012, n. 172, art. 18 della
Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta
contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica,
firmata ad Istanbul, in data 11 maggio 2011, ratificata dall’Italia con
L. 23 giugno 2013, n. 77, gli artt. 18 e 20 della direttiva 2012/29/UE
del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti,
assistenza e protezione delle vittime del reato e sostituisce la
precedente decisione-quadro 2001/220/GAI, recepita nel nostro
ordinamento con il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, imporrebbe
l’obbligatoria assunzione dell’incidente probatorio al fine di
salvaguardare l’integrità fisica psicologica del soggetto vulnerabile e
di contenere il rischio di vittimizzazione secondaria legato alla
reiterazione dell’atto istruttorio.
Entrambe le pronunce affermano, dunque, un vero e proprio
obbligo del giudice di ammettere l’incidente probatorio finalizzato
all’assunzione della deposizione di un soggetto vulnerabile richiesto
ai sensi dell’art. 392, comma 1-bis, c.p.p. consentendogli di rigettare
la relativa richiesta esclusivamente qualora rilevi il difetto dei
presupposti normativamente configurati che legittimano
l’anticipazione dell’atto istruttorio (e cioè che la richiesta provenga
dal pubblico ministero o dall’indagato, venga presentata nel corso
delle indagini preliminari per uno dei reati elencati dalla disposizione
citata, che abbia ad oggetto la testimonianza di un minore ovvero di
un maggiorenne, se si tratta della persona offesa del reato o di
soggetto che versa in stato di particolare vulnerabilità) anche in
assenza delle condizioni generali stabilite dal comma 1 dello stesso
articolo.
Il giudice, nel caso di specie, sarebbe titolare di un mero onere di
verifica della legittimità della richiesta e, al contempo, privato di
qualsiasi potere discrezionale di valutarne la fondatezza in
riferimento agli ordinari indici di ammissione della prova previsti
dall’art. 190, comma 1, c.p.p..
Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza di
legittimità, non è, invece, abnorme il provvedimento con cui il
giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta, ex art. 392,
comma 1-bis, c.p.p. di esame in incidente probatorio della persona
offesa vulnerabile, trattandosi di provvedimento che non si pone al di
fuori dal sistema processuale, che rimette al potere discrezionale del
giudice la decisione sulla fondatezza della istanza, né determina la
stasi del procedimento (Cass. pen., sez. III, 28 maggio 2012, n.
29594; Cass. pen., sez. IV, 21 gennaio 2021, n. 3982; Cass. pen.,
sez. V, 11 dicembre 2020, n. 2554; Cass. pen., sez. VI, 15 luglio
2020, n. 24996).
La più recente giurisprudenza ha dato continuità a quest’ultimo
orientamento (Cass. pen., sez. VI, 28 ottobre 2021, n. 46109).
Non ricorrono, infatti, nella specie gli estremi strutturali o
funzionali dell’atto abnorme; secondo l’elaborazione delle Sezioni
Unite della Suprema Corte (Cass. pen., sez. un., 22 marzo 2018, n.
40984; Cass. pen., sez. un., 31 maggio 2005 n. 22909; Cass. pen.,
sez. un., 9 luglio 1997, n. 11; Cass. pen., sez. un., 26 aprile 1989, n.
7) può, infatti, ritenersi abnorme il provvedimento che, per la
singolarità e stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall’intero
ordinamento processuale, ovvero che, pur essendo in astratto
manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi
consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite; il
vizio di abnormità può riguardare sia il profilo strutturale, allorché
l’atto si ponga al di fuori del sistema organico della legge
processuale, sia il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo
al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità
di proseguirlo.
Alla luce di tali consolidate coordinate interpretative che
identificano l’atto abnorme, pertanto, il provvedimento di rigetto
dell’incidente probatorio richiesto ai sensi dell’art. 392, comma 1-bis,
c.p.p. risulta riconducibile ad uno schema tipico contemplato dalla
legge processuale (e segnatamente dall’art. 398 c.p.p.) e il suo
contenuto non diverge in maniera irragionevole dai limiti che la
stessa pone al giudice; men che meno determina, poi, una stasi del
procedimento e, dunque, non può essere considerato abnorme,
costituendo l’estrinsecazione di un potere discrezionale del giudice
che risulta inidoneo a paralizzare lo sviluppo processuale (ex multis,
Cass. pen., sez. II, 13 novembre 2003, n. 47075; Cass. pen., sez. IV,
30 novembre 2000, n. 2678). Al fine della qualificazione dell’atto
come abnorme, del resto, non può attribuirsi rilevanza all’interesse
“terzo” della persona offesa, di per sé estraneo alla nozione della
abnormità funzionale (Cass. pen., sez. III, 28 maggio 2012, n.
29594). Per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione,
l’ordinanza di rigetto della richiesta di incidente probatorio è, del
resto, inoppugnabile (ex multis, Cass. pen., sez. V, 11 luglio 2017, n.
49030) e tale consolidato principio non subisce eccezione solo
perché l’incidente probatorio viene promosso ai sensi dell’art. 392,
comma 1-bis, c.p.p. come la Suprema Corte ha già avuto occasione
di affermare (Cass. pen., sez. III, 13 marzo 2013, n. 21930).
La Suprema Corte ha ribadito che il provvedimento di rigetto
dell’incidente probatorio non è impugnabile e non può considerarsi
abnorme, nemmeno qualora la relativa richiesta sia stata proposta ai
sensi ed ai fini di cui all’art. 392, comma 1-bis, c.p.p..
La deroga introdotta da quest’ultima disposizione alla disciplina
generale dell’ammissione dell’incidente probatorio attiene
esclusivamente all’irrilevanza del presupposto della non rinviabilità
della prova al dibattimento e non già ad ulteriori profili della
delibazione richiesta al giudice.
Nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento
dei contrastanti interessi legati, da un lato, alle esigenze di
tutela della vittima e, dall’altro, alle garanzie processuali del
diritto di difesa dell’imputato, il giudice, al quale è rimessa la
decisione sull’istanza presentata ai sensi dell’art. 392, comma 1-bis,
c.p.p. è tenuto a vagliare, in un primo momento, i requisiti di
ammissibilità della richiesta e, successivamente, la fondatezza della
stessa; valutazione, quest’ultima, che egli compie, nella prospettiva
della rilevanza della prova ai fini della decisione dibattimentale, sulla
base sia delle argomentazioni addotte dalla parte istante (ex art.
393, comma 1, c.p.p.), sia delle eventuali deduzioni presentate dalla
parte avversa, in ragione del contraddittorio cartolare sviluppatosi
sull’istanza, quale diritto egualmente riconosciuto alle parti dall’art.
396 c.p.p., comma 1 (Cass. pen., sez. VI, 15 luglio 2020, n. 24996).
Gli stessi obblighi internazionali, invocatati dai fautori della tesi
che assume l’obbligatorietà dell’incidente probatorio, vincolano lo
Stato italiano e il giudice quanto allo scopo di evitare la
vittimizzazione secondaria del soggetto debole per effetto della
reiterazione dell’atto istruttorio, ma non fondando un automatismo
per il giudice in ordine all’accoglimento della richiesta di incidente
probatorio speciale, escludendone ogni sindacato sul punto.
L’art. 20 della direttiva 2012/29/UE sancisce, inoltre, che “fatti
salvi i diritti della difesa e nel rispetto della discrezionalità giudiziale,
gli Stati membri provvedono a che durante le indagini penali: a)
l’audizione della vittima si svolga senza indebito ritardo dopo la
presentazione della denuncia relativa a un reato presso l’autorità
competente”.
Il diritto dell’Unione Europea, come evidenziato anche dal
considerando 58 di tale direttiva, pertanto, non elide ma anzi lascia
integro l’ambito di discrezionalità del giudice nella decisione in ordine
all’assunzione della prova nelle forme dell’incidente probatorio.
Proprio l’indefettibile assunzione dell’incidente probatorio
potrebbe, peraltro, risultare sproporzionata rispetto allo scopo
legittimo di tutelare la personalità del soggetto vulnerabile, ad
esempio nei casi in cui la sua escussione si riveli irrilevante o
superflua perché la prova sia stata raggiunta aliunde o quando le
condizioni della vittima, in ragione della condotta delittuosa o di altra
ragione, sconsiglino l’immediata assunzione della testimonianza nella
fase delle indagini.
Il diritto dell’Unione Europea, dunque, lascia al giudice il
bilanciamento tra contrapposti interessi, quali quello alla tutela della
vittima, all’accertamento processuale dei reati e alla tutela del diritto
di difesa della persona sottoposta ad indagini, che deve
prioritariamente tendere a scongiurare il rischio di vittimizzazione
secondaria del soggetto vulnerabile chiamato a deporre, ma che non
può tradursi nell’incondizionato obbligo di assunzione delle
dichiarazioni di tale soggetto nelle forme dell’incidente probatorio.
L’assenza di un obbligo, in capo al giudice, di disporre
l’assunzione delle prove dichiarative della persona offesa
vulnerabile a seguito della mera presentazione di una
richiesta di incidente probatorio non è neppure censurabile
sul piano costituzionale.
La scelta discrezionale del legislatore – legata alla necessità di
speditezza della fase delle indagini e a quella di non “appesantire
oltre modo una parentesi istruttoria che la ratio del sistema vuole
quanto più possibile snella” – non si pone in contrasto con le fonti
internazionali, dalle quali emerge esclusivamente “un interesse
primario all’adozione di misure finalizzate alla limitazione delle
audizioni della vittima” e non anche un “automatismo probatorio
legato all’introduzione di un vero e proprio obbligo, in capo al
giudice, di disporre l’assunzione delle prove dichiarative della
persona offesa vulnerabile a seguito della mera presentazione di una
richiesta di incidente probatorio” (Cass. pen., sez. VI, 15 luglio 2020,
n. 24996).
La Corte Costituzionale nella sentenza n. 529 del 2002, del
resto, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità
costituzionale della formulazione originaria dell’art. 392, comma 1-
bis, c.p.p. in riferimento agli artt. 2 e 32 Cost., nella parte in cui non
prevedeva che si potesse procedere con incidente probatorio
all’assunzione della testimonianza di un minore di anni sedici, ha
significativamente affermato che “tutela della personalità del minore
e genuinità della prova sono certo interessi costituzionalmente
garantiti: non lo è però lo specifico strumento, consistente
nell’anticipazione, con incidente probatorio, delle testimonianze in
questione”. Anche in tale prospettiva, dunque, il rilievo fondamentale
accordato alla tutela della personalità della vittima vulnerabile non si
traduce nella costituzionalizzazione dell’obbligo di procedere
all’assunzione della prova nelle forme dell’incidente probatorio.
A fronte di tale quadro giurisprudenziale, non resta che
sperare in un futuro intervento legislativo che renda obbligatorio il
ricorso a questo importante istituto processuale. Solo così si potrà
contenere il fenomeno della vittimizzazione secondaria – per il
quale il nostro Paese continua ad essere condannato dai giudici
europei – e incoraggiare le vittime di violenza domestica e di genere
a denunciare.
Appendice normativa

1.

R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398. Approvazione del testo


definitivo del Codice penale (Suppl. alla Gazzetta Ufficiale n.
251 del 26 ottobre 1930).

(Estratto)

Libro I
Dei reati in generale

Titolo VI
Della estinzione del reato
e della pena

Capo I
Della estinzione del reato

165. (1) Obblighi del condannato. – La sospensione condizionale


della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle
restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di
risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata
sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di
riparazione del danno (36, 186; 538, 539 c.p.p.); può altresì essere
subordinata, salvo che la legge disponga altrimenti, all’eliminazione
delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il
condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita
a favore della collettività per un tempo determinato comunque non
superiore alla durata della pena sospesa (2), secondo le modalità
indicate dal giudice nella sentenza di condanna.
La sospensione condizionale della pena (163), quando è concessa
a persona che ne ha già usufruito, deve essere subordinata
all’adempimento di uno degli obblighi previsti nel comma precedente
[, salvo che ciò sia impossibile] (3).
La disposizione del secondo comma non si applica qualora la
sospensione condizionale della pena sia stata concessa ai sensi del
quarto comma dell’articolo 163 (4).
Nei casi di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317,
318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321 (5) e 322 bis, la sospensione
condizionale della pena è comunque subordinata al pagamento della
somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria ai sensi
dell’articolo 322 quater, (6) fermo restando il diritto all’ulteriore
eventuale risarcimento del danno (7).
Nei casi di condanna per il delitto previsto dall’articolo 575, nella
forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli
572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612
bis, nonchè agli articoli 582 e 583 quinquies nelle ipotesi aggravate
ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577,
primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione
condizionale della pena è sempre subordinata allaparte cipazione,
con cadenza almeno bisettimanale, e al superamento con esito
favorevole di specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni
che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di
soggetti condannati per i medesimi reati, accertati e valutati dal
giudice, anche in relazione alle circostanze poste a fondamento del
giudizio formulato ai sensi dell’articolo 164. Del provvedimento che
dichiara la perdita di efficacia delle misure cautelari ai sensi
dell’articolo 300, comma 3, del codice di procedura penale è data
immediata comunicazione, a cura della cancelleria, anche per via
telematica, all’autorità di pubblica sicurezza competente per le
misure di prevenzione, ai fini delle tempestive valutazioni
concernenti l’eventuale proposta di applicazione delle misure di
prevenzione personali previste nel libro I, titolo I, capo II, del codice
delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159, fermo restando quanto previsto
dall’articolo 166, secondo comma, del presente codice. Sulla
proposta di applicazione delle misure di prevenzione personali ai
sensi del periodo precedente, il tribunale competente provvede con
decreto entro dieci giorni dalla richiesta. La durata della misura di
prevenzione personale non può essere inferiore a quella del percorso
di recupero di cui al primo periodo. Qualsiasi violazione della misura
di prevenzione personale deve essere comunicata senza ritardo al
pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di
condanna, ai fini della revoca della sospensione condizionale della
pena ai sensi dell’articolo 168, primo comma, numero 1) (8).
Il giudice nella sentenza stabilisce il termine entro il quale gli
obblighi devono essere adempiuti.
Nel caso di condanna per il reato previsto dall’articolo 624 bis, la
sospensione condizionale della pena è comunque subordinata al
pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del
danno alla persona offesa (9).
(1) Questo articolo è stato così sostituito dall’art. 128 della L. 24 novembre 1981,
n. 689, in tema di depenalizzazione.
(2) Le parole da: «, ovvero, se il condannato ...» fino a: «... durata della pena
sospesa» sono state inserite dall’art. 2, comma 1, lett. a), della L. 11 giugno 2004,
n. 145.
(3) Le parole fra parentesi quadrate sono state soppresse dall’art. 2, comma 1,
lett. b), della L. 11 giugno 2004, n. 145.
(4) Questo comma è stato inserito dall’art. 2, comma 1, lett. c), della L. 11
giugno 2004, n. 145.
(5) La parola: «, 321» è stata inserita dall’art. 1, comma 1, lett. g), della L. 9
gennaio 2019, n. 3.
(6) Le parole: «di una somma equivalente al profitto del reato ovvero
all’ammontare di quanto indebitamente percepito dal pubblico ufficiale o
dall’incaricato di un pubblico servizio, a titolo di riparazione pecunaria in favore
dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un
pubblico servizio, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319 ter, in favore
dell’amministrazione della giustizia,» sono state così sostituite dalle attuali: «della
somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria ai sensi dell’articolo 322
quater,» dall’art. 1, comma 1, lett. g), della L. 9 gennaio 2019, n. 3.
(7) Questo comma è stato inserito dall’art. 2 della L. 27 maggio 2015, n. 69.
(8) Questo comma, inserito dall’art. 6 della L. 19 luglio 2019, n. 69, è stato così
sostituito dall’art. 15, comma 1, della L. 24 novembre 2023, n. 168.
A norma dell’art. 18, comma 1, della medesima legge, ai fini e per gli effetti di
questo comma, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge,
il Ministro della giustizia e l’Autorità politica delegata per le pari opportunità
stabiliscono, con proprio decreto, i criteri e le modalità per il riconoscimento e
l’accreditamento degli enti e delle associazioni abilitati a organizzare percorsi di
recupero destinati agli autori dei reati di violenza contro le donne e di violenza
domestica e adottano linee guida per lo svolgimento dell’attività dei medesimi enti
e associazioni.
(9) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 3 della L. 26 aprile 2019, n. 36.

Libro II
Dei delitti in particolare

Titolo III
Dei delitti contro l’amministrazione
della giustizia

Capo II
Dei delitti contro l’autorità
delle decisioni giudiziarie

387 bis. (1) Violazione dei provvedimenti di allontanamento


dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi
frequentati dalla persona offesa. – Chiunque, essendovi
legalmente sottoposto, violi gli obblighi o i divieti derivanti dal
provvedimento che applica le misure cautelari di cui agli articoli 282
bis e 282 ter del codice di procedura penale o dall’ordine di cui
all’articolo 384 bis del medesimo codice è punito con la reclusione da
sei mesi a tre anni e sei mesi (2).
La stessa pena si applica a chi elude l’ordine di protezione
previsto dall’articolo 342 ter, primo comma, del codice civile, ovvero
un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di
separazione personale dei coniugi o nel procedimento di
scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimoni (3).
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 4 della L. 19 luglio 2019, n. 69.
(2) Le parole: «e sei mesi» sono state aggiunte dall’art. 9, comma 1, lett. a), n.
1), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
A norma dell’art. 382 bis c.p.p., inserito dall’art. 10 della medesima legge, nei
casi previsti da questo articolo, si considera comunque in stato di flagranza colui il
quale, sulla base di documentazione videofotografica o di altra documentazione
legittimamente ottenuta da dispositivi di comunicazione informatica o telematica,
dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore, sempre che
l’arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e,
comunque, entro le quarantotto ore dal fatto.
(3) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 9, comma 1, lett. a), n. 2), della L.
24 novembre 2023, n. 168.

NOTE PROCEDURALI:
Arresto: obbligatorio in flagranza (380 lter c.p.p.).
Fermo di indiziato di delitto: non consentito.
Misure cautelari personali: non consentite.
Autorità giudiziaria competente: Tribunale monocratico (33 ter
c.p.p.).
Procedibilità: d’ufficio (50 c.p.p.).

388. (1) Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del


giudice. – Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi
nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è
in corso l’accertamento dinanzi all’autorità giudiziaria stessa, compie,
sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette
allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non
ottemperi all’ingiunzione di eseguire il provvedimento, con la
reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032.
La stessa pena si applica a chi elude [l’ordine di protezione
previsto dall’articolo 342 ter del codice civile, ovvero un
provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di
separazione personale dei coniugi o nel procedimento di
scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero
ancora] (2) l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile,
ovvero amministrativo o contabile, che concerna l’affidamento di
minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari
a difesa della proprietà, del possesso o del credito.
La stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un
provvedimento del giudice che prescriva misure inibitorie o correttive
a tutela dei diritti di proprietà industriale (3).
È altresì punito con la pena prevista al primo comma chiunque,
essendo obbligato alla riservatezza per espresso provvedimento
adottato dal giudice nei procedimenti che riguardino diritti di
proprietà industriale, viola il relativo ordine (3).
Chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora una
cosa di sua proprietà sottoposta a pignoramento (491 - 497 c.p.c.)
ovvero a sequestro giudiziario o conservativo (2905, 2906 c.c.; 670,
671 ss. c.p.c.; 682 c.n.) è punito con la reclusione fino a un anno e
con la multa fino a euro 309.
Si applicano la reclusione da due mesi a due anni e la multa da
euro 30 a euro 309 se il fatto è commesso dal proprietario su una
cosa affidata alla sua custodia, e la reclusione da quattro mesi a tre
anni e la multa da euro 51 a euro 516 se il fatto è commesso dal
custode al solo scopo di favorire il proprietario della cosa.
Il custode di una cosa sottoposta a pignoramento ovvero a
sequestro giudiziario o conservativo che indebitamente rifiuta,
omette o ritarda un atto dell’ufficio è punito con la reclusione fino ad
un anno o con la multa fino a euro 516.
La pena di cui al settimo comma (4) si applica al debitore o
all’amministratore, direttore generale o liquidatore della società
debitrice che, invitato dall’ufficiale giudiziario a indicare le cose o i
crediti pignorabili, omette di rispondere nel termine di quindici giorni
o effettua una falsa dichiarazione.
Il colpevole è punito a querela (120 - 126; 336 ss. c.p.p.) della
persona offesa .
(1) Questo articolo è stato così sostituito dall’art. 3, comma 21, della L. 15 luglio
2009, n. 94.
(2) Le parole: «l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342 ter del codice
civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di
separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di
cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero ancora», inserite dall’art. 2,
comma 1, lett. b), del D.L.vo 1 marzo 2018, n. 21, sono state soppresse dall’art. 9,
comma 1, lett. b), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(3) Questo comma è stato inserito dall’art. 9, comma 1, lett. a), del D.L.vo 11
maggio 2018, n. 63.
(4) Le parole: «quinto comma» sono state così sostituite dalle attuali: «settimo
comma» dall’art. 9, comma 1, lett. b), del D.L.vo 11 maggio 2018, n. 63.

NOTE PROCEDURALI:
Arresto: non consentito.
Fermo di indiziato di delitto: non consentito.
Misure cautelari personali: non consentite.
Autorità giudiziaria competente: Tribunale monocratico (33 ter
c.p.p.).
Procedibilità: a querela di parte (336 ss. c.p.p.).

2.

R.D. 28 maggio 1931, n. 601. Disposizioni di coordinamento


e transitorie per il Codice penale (Gazzetta Ufficiale n. 125 del
1° giugno 1931).

(Estratto)

Titolo I
Disposizioni di coordinamento

18 bis. (1) Nei casi di cui all’articolo 165 del codice penale il giudice
dispone che il condannato svolga attività non retribuita a favore della
collettività osservando, in quanto compatibili, le disposizioni degli
articoli 44, 54, commi 2, 3, 4 e 6, e 59 del decreto legislativo 28
agosto 2000, n. 274.
Nei casi di cui all’articolo 165, quinto comma, del codice penale, la
cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza la trasmette, al
passaggio in giudicato, all’ufficio di esecuzione penale esterna, che
accerta l’effettiva partecipazione del condannato al percorso di
recupero e ne comunica l’esito al pubblico ministero presso il giudice
che ha emesso la sentenza. Gli enti o le associazioni presso cui il
condannato svolge il percorso di recupero danno immediata
comunicazione di qualsiasi violazione ingiustificata degli obblighi
connessi allo svolgimento del percorso di recupero all’ufficio di
esecuzione penale esterna, che ne dà a sua volta immediata
comunicazione al pubblico ministero, ai fini della revoca della
sospensione ai sensi dell’articolo 168, primo comma, numero 1), del
codice penale (2).
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 5 della L. 11 giugno 2004, n. 145.
(2) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 15, comma 2, della L. 24 novembre
2023, n. 168.

3.

D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447. Approvazione del codice


di procedura penale (Suppl. ord. n. 92 alla Gazzetta Ufficiale
Serie gen. - n. 250 del 24 ottobre 1988) e avvisi di rettifica in
Gazzetta Ufficiale n. 291 del 13 dicembre 1988, n. 293 del 15
dicembre 1988 e n. 304 del 29 dicembre 1988.

Libro I
Soggetti

Titolo VI
Persona offesa dal reato

90 ter. (1) Comunicazioni dell’evasione e della scarcerazione.


– 1. Fermo quanto previsto dall’articolo 299, nei procedimenti per
delitti commessi con violenza alla persona sono immediatamente
comunicati alla persona offesa che ne faccia richiesta, con l’ausilio
della polizia giudiziaria, i provvedimenti di scarcerazione e di
cessazione della misura di sicurezza detentiva emessi nei confronti
dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato o
dell’internato (2), ed è altresì data tempestiva notizia, con le stesse
modalità, dell’evasione dell’imputato in stato di custodia cautelare o
del condannato, nonché della volontaria sottrazione dell’internato
all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva, salvo che risulti,
anche nella ipotesi di cui all’articolo 299, il pericolo concreto di un
danno per l’autore del reato.
1 bis. Le comunicazioni previste al comma 1 sono sempre
effettuate alla persona offesa e al suo difensore, ove nominato, se si
procede per il delitto previsto dall’articolo 575 del codice penale,
nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati, (3) previsti
dagli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609
octies e 612 bis del codice penale, nonchè dagli articoli 582 e 583
quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli
articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma,
numero 1, e secondo comma, del codice penale (4).
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 1, comma 1, lett. b), del D.L.vo 15
dicembre 2015, n. 212.
(2) Le parole: «emessi nei confronti dell’imputato in stato di custodia cautelare o
del condannato o dell’internato» sono state inserite dall’art. 14, comma 1, lett. a),
della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(3) Le parole: «per i delitti» sono state così sostituite dalle attuali: «per il delitto
previsto dall’articolo 575 del codice penale, nella forma tentata, o per i delitti,
consumati o tentati,» dall’art. 2, comma 11, lett. a), della L. 27 settembre 2021, n.
134.
(4) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 15, comma 1, della L. 19 luglio
2019, n. 69.

Libro IV
Misure cautelari

Titolo I
Misure cautelari
personali

Capo I
Disposizioni generali
275. Criteri di scelta delle misure (1). – 1. Nel disporre le misure
(292), il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in
relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare
nel caso concreto.
1 bis. Contestualmente a una sentenza di condanna, l’esame delle
esigenze cautelari è condotto tenendo conto anche dell’esito del
procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti,
dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulta taluna
delle esigenze indicate nell’articolo 274, comma 1, lettere b) e c) (2).
2. Ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla
sanzione che sia stata o (3) si ritiene possa essere irrogata.
2 bis. Non può essere applicata la misura della custodia cautelare
in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che
con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale
della pena. Salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando
l’applicabilità degli articoli 276, comma 1 ter, e 280, comma 3, non
può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il
giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata
non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei
procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423 bis, 572, 612 bis, 612
ter (4) e 624 bis del codice penale, nonché all’articolo 4 bis della
legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e quando,
rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non
possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di
esecuzione indicati nell’articolo 284, comma 1, del presente codice
(5). La disposizione di cui al secondo periodo non si applica, altresì,
nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 387 bis e 582, nelle
ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2,
5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del
codice penale (6).
2 ter. Nei casi di condanna di appello le misure cautelari personali
sono sempre disposte, contestualmente alla sentenza, quando,
all’esito dell’esame condotto a norma del comma 1 bis, risultano
sussistere esigenze cautelari previste dall’articolo 274 e la condanna
riguarda uno dei delitti previsti dall’articolo 380, comma 1, e questo
risulta commesso da soggetto condannato nei cinque anni
precedenti per delitti della stessa indole (7).
3. La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto
quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate
cumulativamente, risultino inadeguate (8). Quando sussistono gravi
indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 270, 270
bis e 416 bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari (9). Salvo quanto previsto dal secondo
periodo del presente comma, quando sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3 bis e 3
quater, del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli
articoli 575, 600 bis, primo comma, 600 ter, escluso il quarto
comma, 600 quinquies e, quando non ricorrano le circostanze
attenuanti contemplate, 609 bis, 609 quater e 609 octies del codice
penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano
acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari
possono essere soddisfatte con altre misure (9). [Le disposizioni di
cui al periodo precedente si applicano anche in ordine ai delitti
previsti dagli articoli 609 bis, 609 quater e 609 octies del codice
penale, salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi
contemplate] (10) (11).
3 bis. Nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve
indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso
concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di
controllo di cui all’articolo 275 bis, comma 1 (12).
4. Quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età
non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la
madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare
assistenza alla prole, non può essere disposta nè mantenuta la
custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari
di eccezionale rilevanza. Non può essere disposta la custodia
cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di
eccezionale rilevanza, quando imputato sia persona che ha superato
l’età di settanta anni (13).
4 bis. Non può essere disposta né mantenuta la custodia
cautelare in carcere quando l’imputato è persona affetta da AIDS
conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi
dell’articolo 286 bis, comma 2, ovvero da altra malattia
particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di
salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque
tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere
(14).
4 ter. Nell’ipotesi di cui al comma 4 bis, se sussistono esigenze
cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia cautelare presso
idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza
pregiudizio per la salute dell’imputato o di quella degli altri detenuti,
il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo
di cura o di assistenza o di accoglienza. Se l’imputato è persona
affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, gli
arresti domiciliari possono essere disposti presso le unità operative di
malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative
prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell’assistenza
ai casi di AIDS, ovvero presso una residenza collettiva o casa
alloggio di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 5 giugno 1990, n.
135 (14).
4 quater. Il giudice può comunque disporre la custodia cautelare
in carcere qualora il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto
ad altra misura cautelare per uno dei delitti previsti dall’articolo 380,
relativamente a fatti commessi dopo l’applicazione delle misure
disposte ai sensi dei commi 4 bis e 4 ter. In tal caso il giudice
dispone che l’imputato venga condotto in un istituto dotato di
reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie (14).
4 quinquies. La custodia cautelare in carcere non può comunque
essere disposta o mantenuta quando la malattia si trova in una fase
così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del
servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e
alle terapie curative (14).
5. (Omissis) (15).
(1) Per la disciplina delle misure cautelari con riferimento ad imputati minorenni si
vedano gli artt. 19 ss. del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, sul processo penale a
carico di imputati minorenni, e gli artt. 36 ss. del D.L.vo 14 gennaio 1991, n. 12,
recante norme integrative e correttive del processo penale.
Per i provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossico o alcool/dipendenti che
abbiano in corso programmi terapeutici si veda l’art. 89 T.U. 9 ottobre 1990, n.
309, sugli stupefacenti.
(2) Questo comma è stato inserito dall’art. 16, comma 1, del D.L. 24 novembre
2000, n. 341, convertito, con modificazioni, nella L. 19 gennaio 2001, n. 4, e poi
così sostituito dall’art. 14, comma 1, lett. a), della L. 26 marzo 2001, n. 128.
(3) Le parole: «sia stata o» sono state inserite dall’art. 14, comma 1, lett. b),
della L. 26 marzo 2001, n. 128.
(4) La parola: «, 612 ter» è stata inserita dall’art. 16, comma 1, della L. 19 luglio
2019, n. 69.
(5) Questo comma, inserito dall’art. 4, comma 2, della L. 8 agosto 1995, n. 332,
è stato così sostituito dall’art. 8 del D.L. 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con
modificazioni, nella L. 11 agosto 2014, n. 117.
(6) Questo periodo è stato aggiunto dall’art. 13, comma 1, lett. a), della L. 24
novembre 2023, n. 168.
(7) Questo comma è stato inserito dall’art. 14, comma 1, lett. c), della L. 26
marzo 2001, n. 128.
(8) Il primo periodo di questo comma è stato così sostituito dall’attuale, dall’art.
3 della L. 16 aprile 2015, n. 47.
(9) Il secondo periodo di questo comma è stato così sostituito dagli attuali
secondo e terzo, dall’art. 4, comma 1, della L. 16 aprile 2015, n. 47.
(10) Questo periodo è stato soppresso dall’art. 4, comma 2, della L. 16 aprile
2015, n. 47.
(11) Questo comma era stato dapprima modificato dall’art. 5 del D.L. 13 maggio
1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella L. 12 luglio 1991, n. 203 e poi
sostituito dall’art. 5, comma 1, della L. 8 agosto 1995, n. 332. A norma degli artt.
3 e 4, commi 1 e 2, della L. 16 aprile 2015, n. 47, questo comma è stato da ultimo
completamente riformulato.
Per il procedimento minorile si veda l’art. 192 del D.P.R. 22 settembre 1988, n.
448, sul processo penale a carico di imputati minorenni, come modificato dall’art.
54 del D.L. n. 152/1991.
(12) Questo comma è stato inserito dall’art. 4, comma 3, della L. 16 aprile 2015,
n. 47.
(13) Questo comma, dapprima sostituito dall’art. 1 del D.L. 9 settembre 1991, n.
292, convertito, con modificazioni, nella L. 8 novembre 1991, n. 356, è stato da
ultimo così sostituito dall’art. 1, comma 1, della L. 21 aprile 2011, n. 62. A norma
dell’art. 1, comma 4, della medesima legge, tali disposizioni si applicano a far data
dalla completa attuazione del piano straordinario penitenziario, e comunque a
decorrere dal 1° gennaio 2014, fatta salva la possibilità di utilizzare i posti già
disponibili a legislazione vigente presso gli istituti a custodia attenuata.
Si riporta il testo previgente: «Non può essere disposta la custodia cautelare in
carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando
imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei
convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente
impossibilitata a dare assistenza alla prole, ovvero persona che ha superato l’età di
settanta anni [o che si trovi in condizioni di salute particolarmente gravi
incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire
adeguate cure in caso di detenzione in carcere].».
(14) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 1, lett. b), della L. 12 luglio 1999,
n. 231.
(15) Questo comma è stato abrogato dall’art. 5, secondo comma, del D.L. 14
maggio 1993, n. 139, recante disposizioni urgenti relative al trattamento di
persone affette da HIV, convertito, con modificazioni, nella L. 14 luglio 1993, n.
222. Si veda ora l’art. 89 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in tema di stupefacenti.

275 bis. (1) (2) Particolari modalità di controllo. – 1. Nel


disporre la misura degli arresti domiciliari anche in sostituzione della
custodia cautelare in carcere, il giudice, salvo che le ritenga non
necessarie (3) in relazione alla natura e al grado delle esigenze
cautelari da soddisfare nel caso concreto, prescrive procedure di
controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, previo
accertamento della relativa fattibilità tecnica da parte della polizia
giudiziaria (4). Con lo stesso provvedimento il giudice prevede
l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere qualora
l’imputato neghi il consenso all’adozione dei mezzi e strumenti
anzidetti.
2. L’imputato accetta i mezzi e gli strumenti di controllo di cui al
comma 1 ovvero nega il consenso all’applicazione di essi, con
dichiarazione espressa resa all’ufficiale o all’agente incaricato di
eseguire l’ordinanza che ha disposto la misura. La dichiarazione è
trasmessa al giudice che ha emesso l’ordinanza ed al pubblico
ministero, insieme con il verbale previsto dall’articolo 293, comma 1.
3. L’imputato che ha accettato l’applicazione dei mezzi e strumenti
di cui al comma 1 è tenuto ad agevolare le procedure di installazione
e ad osservare le altre prescrizioni impostegli.
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 16, comma 2, del D.L. 24 novembre
2000, n. 341, convertito, con modificazioni, nella L. 19 gennaio 2001, n. 4.
(2) Si veda il D.M. 2 febbraio 2001 per le modalità di installazione e di uso.
(3) Le parole: «se lo ritiene necessario» sono state così sostituite dalle attuali:
«salvo che le ritenga non necessarie» dall’art. 1, comma 1, lett. a), del D.L. 23
dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, nella L. 21 febbraio 2014, n.
10. A norma dell’art. 1, comma 2, dello stesso decreto, l’efficacia di tali disposizioni
è differita al giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
della legge di conversione del presente decreto (G.U. Serie gen. - n. 43 del 21
febbraio 2014).
(4) Le parole: «, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia
giudiziaria» sono state così sostituite dalle attuali: «, previo accertamento della
relativa fattibilità tecnica da parte della polizia giudiziaria» dall’art. 12, comma 1,
lett. a), della L. 24 novembre 2023, n. 168.

276. Provvedimenti in caso di trasgressione alle prescrizioni


imposte. – 1. In caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti a
una misura cautelare, il giudice può disporre la sostituzione o il
cumulo con altra più grave, tenuto conto dell’entità, dei motivi e
delle circostanze della violazione (3853 c.p.). Quando si tratta di
trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura interdittiva (287
ss.), il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo anche con una
misura coercitiva (280 ss., 299 4).
1 bis. Quando l’imputato si trova nelle condizioni di cui all’articolo
275, comma 4 bis, e nei suoi confronti è stata disposta misura
diversa dalla custodia cautelare in carcere, il giudice, in caso di
trasgressione delle prescrizioni inerenti alla diversa misura cautelare,
può disporre anche la misura della custodia cautelare in carcere. In
tal caso il giudice dispone che l’imputato venga condotto in un
istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza
necessarie (1).
1 ter. In deroga a quanto previsto nel comma 1, in caso di
trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il
divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di
privata dimora e, comunque, in caso di manomissione dei mezzi
elettronici e degli altri strumenti tecnici di controllo di cui all’articolo
275 bis, anche quando applicati ai sensi degli articoli 282 bis e 282
ter (2), il giudice dispone la revoca della misura e la sostituzione con
la custodia cautelare in carcere, salvo che il fatto sia di lieve entità
(3).
(1) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 2 della L. 12 luglio 1999, n. 231.
(2) Le parole: «e, comunque, in caso di manomissione dei mezzi elettronici e
degli altri strumenti tecnici di controllo di cui all’articolo 275 bis, anche quando
applicati ai sensi degli articoli 282 bis e 282 ter» sono state inserite dall’art. 12,
comma 1, lett. b), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(3) Questo comma, aggiunto dall’art. 16, comma 3, del D.L. 24 novembre 2000,
n. 341, convertito, con modificazioni, nella L. 19 gennaio 2001, n. 4, è stato da
ultimo così sostituito dall’art. 5 della L. 16 aprile 2015, n. 47.

Capo II
Misure coercitive

280. (1) Condizioni di applicabilità delle misure coercitive. –


1. Salvo quanto disposto dai commi 2 e 3 del presente articolo e
dall’art. 391, le misure previste in questo capo possono essere
applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge
stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel
massimo a tre anni (287, 3081, 3142, 7142) (2).
2. La custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per
delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a cinque (3) anni e per il delitto
di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2
maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni (4).
3. La disposizione di cui al comma 2 non si applica nei confronti di
chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura
cautelare.
3 bis. Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei
procedimenti per i delitti di cui agli articoli 387 bis e 582, nelle
ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2,
5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del
codice penale (5).
(1) Articolo così sostituito dall’art. 7 della L. 8 agosto 1995, n. 332.
(2) Si veda l’art. 3 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, recante provvedimenti
urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata, convertito, con modificazioni,
nella L. 12 luglio 1991, n. 203.
(3) La parola: «quattro» è stata così sostituita dall’attuale: «cinque» dall’art. 1,
comma 1, lett. 0a), n. 1), del D.L. 1° luglio 2013, n. 78, convertito, con
modificazioni, nella L. 9 agosto 2013, n. 94, a decorrere dal 3 luglio 2013.
(4) Le parole: «e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo
7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni» sono state
aggiunte all’art. 1, comma 1, lett. 0a), n. 2), del D.L. 1° luglio 2013, n. 78,
convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2013, n. 94, a decorrere dal 3 luglio
2013.
(5) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 13, comma 1, lett. b), della L. 24
novembre 2023, n. 168.

282 bis. (1) Allontanamento dalla casa familiare. – 1. Con il


provvedimento che dispone l’allontanamento il giudice prescrive
all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di
non farvi rientro, e di non accedervi senza l’autorizzazione del
giudice che procede. L’eventuale autorizzazione può prescrivere
determinate modalità di visita.
2. Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità
della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può inoltre
prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati
abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo
di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi
congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di
lavoro. In tale ultimo caso il giudice prescrive le relative modalità e
può imporre limitazioni.
3. Il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può altresì
ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle
persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta,
rimangano prive di mezzi adeguati. Il giudice determina la misura
dell’assegno tenendo conto delle circostanze e dei redditi
dell’obbligato e stabilisce le modalità ed i termini del versamento.
Può ordinare, se necessario, che l’assegno sia versato direttamente
al beneficiario da parte del datore di lavoro dell’obbligato,
detraendolo dalla retribuzione a lui spettante. L’ordine di pagamento
ha efficacia di titolo esecutivo.
4. I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 possono essere assunti
anche successivamente al provvedimento di cui al comma 1, sempre
che questo non sia stato revocato o non abbia comunque perduto
efficacia. Essi, anche se assunti successivamente, perdono efficacia
se è revocato o perde comunque efficacia il provvedimento di cui al
comma 1. Il provvedimento di cui al comma 3, se a favore del
coniuge o dei figli, perde efficacia, inoltre, qualora sopravvenga un
(2) ovvero altro provvedimento del giudice civile in ordine ai rapporti
economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli.
5. Il provvedimento di cui al comma 3 può essere modificato se
mutano le condizioni dell’obbligato o del beneficiario, e viene
revocato se la convivenza riprende.
6. Qualora si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570,
571, 572, 575, nell’ipotesi di delitto tentato, (3) (4) 582,
limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate,
583 quinquies, (5) (6) 600, (7) 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600
septies.1, 600 septies.2, 601, 602, (8) 609 bis, 609 ter, 609 quater,
609 quinquies, 609 octies e 612, secondo comma, (9) 612 bis, (10)
del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del
convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti
di pena previsti dall’articolo 280, con le modalità di controllo previste
dall’articolo 275 bis e con la prescrizione di mantenere una
determinata distanza, comunque non inferiore a cinquecento metri,
dalla casa familiare e da altri luoghi determinati abitualmente
frequentati dalla persona offesa, salvo che la frequentazione sia
necessaria per motivi di lavoro. In tale caso, il giudice prescrive le
relative modalità e può imporre limitazioni (11). Con lo stesso
provvedimento che dispone l’allontanamento, il giudice prevede
l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora
l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo
anzidette (12). Qualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la
non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice
impone l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari
anche più gravi (12).
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 1, comma 2, della L. 4 aprile 2001, n.
154, contro la violenza nelle relazioni familiari.
(2) Le parole: «l’ordinanza prevista dall’articolo 708 del codice di procedura civile
ovvero altro» sono state così sostituite dalla attuale: «un» dall’art. 5, comma 2,
del D.L.vo 10 ottobre 2022, n. 149, a decorrere dal 28 febbraio 2023.
(3) La parola: «572,» è stata inserita dell’art. 16, comma 1, del D.L. 4 ottobre
2018, n. 113, convertito, con modificazioni, nella L. 1 dicembre 2018, n. 132.
(4) Le parole: «575, nell’ipotesi di delitto tentato,» sono state inserite dall’art.
12, comma 1, lett. c), n. 1), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(5) Le parole: «582, limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque
aggravate,» sono state inserite dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.L. 14 agosto
2013, n. 93, convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119.
(6) La parola: «583 quinquies,» è stata inserita dall’art. 12, comma 1, lett. c), n.
2), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(7) La parola: «600,» è stata inserita dall’art. 5, comma 1, lett. b), della L. 1°
ottobre 2012, n. 172.
(8) Le parole: «600 septies.1, 600 septies.2, 601, 602,» sono state inserite
dall’art. 5, comma 1, lett. b), della L. 1° ottobre 2012, n. 172.
(9) Le parole: «e 609 octies» sono state così sostituite dalle attuali: «, 609 octies
e 612, secondo comma,» dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.L. 14 agosto 2013, n.
93, convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119.
(10) La parola: «612 bis,» è stata inserita dell’art. 16, comma 1, del D.L. 4
ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, nella L. 1 dicembre 2018, n.
132.
(11) Le parole: «, anche con le modalità di controllo previste all’articolo 275 bis»,
aggiunte dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito,
con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119, sono state così sostituite dalle
attuali: «con le modalità di controllo previste dall’articolo 275 bis e con la
prescrizione di mantenere una determinata distanza, comunque non inferiore a
cinquecento metri, dalla casa familiare e da altri luoghi determinati abitualmente
frequentati dalla persona offesa, salvo che la frequentazione sia necessaria per
motivi di lavoro. In tale caso, il giudice prescrive le relative modalità e può imporre
limitazioni» dall’art. 12, comma 1, lett. c), n. 3), della L. 24 novembre 2023, n.
168.
(12) Questo periodo è stato aggiunto dall’art. 12, comma 1, lett. c), n. 4), della
L. 24 novembre 2023, n. 168.

282 ter. (1) Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati


dalla persona offesa. – 1. Con il provvedimento che dispone il
divieto di avvicinamento il giudice prescrive all’imputato di non
avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla
persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza,
comunque non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi o dalla
persona offesa, disponendo l’applicazione delle particolari modalità di
controllo previste dall’articolo 275 bis. Nei casi di cui all’articolo 282
bis, comma 6, la misura può essere disposta anche al di fuori dei
limiti di pena previsti dall’articolo 280. Con lo stesso provvedimento
che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prevede
l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora
l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo
previste dall’articolo 275 bis. Qualora l’organo delegato per
l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità
di controllo, il giudice impone l’applicazione, anche congiunta, di
ulteriori misure cautelari anche più gravi (2).
2. Qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, il giudice può
prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati
abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa
o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione
affettiva ovvero di mantenere una determinata distanza, comunque
non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi o da tali persone,
disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo
previste dall’articolo 275 bis (3).
3. Il giudice può, inoltre, vietare all’imputato di comunicare,
attraverso qualsiasi mezzo, con le persone di cui ai commi 1 e 2.
4. Quando la frequentazione dei luoghi di cui ai commi 1 e 2 sia
necessaria per motivi di lavoro ovvero per esigenze abitative, il
giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 9, comma 1, lett. a), del D.L. 23
febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, nella L. 23 aprile 2009, n. 38.
(2) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 12, comma 1, lett. d), n. 1),
della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(3) Le parole: «una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone» sono
state così sostituite dalle attuali: «una determinata distanza, comunque non
inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi o da tali persone, disponendo
l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’articolo 275 bis»
dall’art. 12, comma 1, lett. d), n. 2), della L. 24 novembre 2023, n. 168.

Capo V
Estinzione delle misure

299. Revoca e sostituzione delle misure. – 1. Le misure


coercitive (280 ss.) e interdittive (287 ss.) sono immediatamente
revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le
condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 o dalle disposizioni
relative alle singole misure ovvero le esigenze cautelari previste
dall’art. 274.
2. Salvo quanto previsto dall’art. 275, comma 3 (1), quando le
esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non
appare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si
ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la misura con
un’altra meno grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità
meno gravose.
2 bis. I provvedimenti di cui ai commi 1 e 2 relativi alle misure
previste dagli articoli 282 bis, 282 ter, 283, 284, 285 e 286, applicate
nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla
persona, devono essere immediatamente comunicati, a cura della
polizia giudiziaria, ai servizi socio-assistenziali e alla persona offesa
e, ove nominato, al suo difensore (2) (3).
2 ter. Nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 4, comma 1,
lettera i ter), del codice delle leggi antimafia e delle misure di
prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159,
l’estinzione, l’inefficacia pronunciata per qualsiasi ragione o la revoca
delle misure coercitive previste dagli articoli 282 bis, 282 ter, 283,
284, 285 e 286 o la loro sostituzione con altra misura meno grave
sono comunicati, a cura della cancelleria, anche per via telematica,
all’autorità di pubblica sicurezza competente per le misure di
prevenzione, ai fini dell’eventuale adozione dei relativi provvedimenti
(4).
2 quater. Nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 362,
comma 1 ter, l’estinzione o la revoca delle misure coercitive di cui al
comma 1 del presente articolo o la loro sostituzione con altra misura
meno grave sono comunicate al prefetto che, sulla base delle
valutazioni espresse nelle riunioni di coordinamento di cui all’articolo
5, comma 2, del decreto legge 6 maggio 2002, n. 83, convertito, con
modificazioni, dalla legge 2 luglio 2002, n. 133, può adottare misure
di vigilanza dinamica, da sottoporre a revisione trimestrale, a tutela
della persona offesa (4).
3. Il pubblico ministero e l’imputato richiedono la revoca o la
sostituzione delle misure al giudice, il quale provvede con ordinanza
entro cinque giorni dal deposito della richiesta. La richiesta di revoca
o di sostituzione delle misure previste dagli articoli 282 bis, 282 ter,
283, 284, 285 e 286, applicate nei procedimenti di cui al comma 2
bis del presente articolo, che non sia stata proposta in sede di
interrogatorio di garanzia, deve essere contestualmente notificata, a
cura della parte richiedente ed a pena di inammissibilità, presso il
difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona
offesa, salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a
dichiarare o eleggere domicilio (5). Il difensore e la persona offesa
possono, nei due giorni successivi alla notifica, presentare memorie
ai sensi dell’articolo 121 (5). Decorso il predetto termine il giudice
procede (5). Il giudice provvede anche di ufficio quando assume
l’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare o quando
è richiesto della proroga del termine per le indagini preliminari (328)
o dell’assunzione di incidente probatorio (392) ovvero quando
procede all’udienza preliminare (418) o al giudizio.
3 bis. Il giudice, prima di provvedere in ordine alla revoca o alla
sostituzione delle misure coercitive e interdittive, di ufficio o su
richiesta dell’imputato, deve sentire il pubblico ministero. Se nei due
giorni successivi il pubblico ministero non esprime il proprio parere, il
giudice procede (6).
3 ter. Il giudice, valutati gli elementi addotti per la revoca o la
sostituzione delle misure, prima di provvedere può assumere
l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini. Se l’istanza di
revoca o di sostituzione è basata su elementi nuovi o diversi rispetto
a quelli già valutati, il giudice deve assumere l’interrogatorio
dell’imputato che ne ha fatto richiesta (7).
4. Fermo quanto previsto dall’art. 276, quando le esigenze
cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico
ministero, sostituisce la misura applicata con un’altra più grave
ovvero ne dispone l’applicazione con modalità più gravose o applica
congiuntamente altra misura coercitiva o interdittiva (8).
4 bis. Dopo la chiusura delle indagini preliminari, se l’imputato
chiede la revoca o la sostituzione della misura con altra meno grave
ovvero la sua applicazione con modalità meno gravose, il giudice, se
la richiesta non è presentata in udienza, ne dà comunicazione al
pubblico ministero, il quale, nei due giorni successivi, formula le
proprie richieste. La richiesta di revoca o di sostituzione delle misure
previste dagli articoli 282 bis, 282 ter, 283, 284, 285 e 286, applicate
nei procedimenti di cui al comma 2 bis del presente articolo, deve
essere contestualmente notificata, a cura della parte richiedente ed
a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o,
in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo
caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio (9)
(6).
4 ter. In ogni stato e grado del procedimento, quando non è in
grado di decidere allo stato degli atti, il giudice dispone, anche di
ufficio e senza formalità, accertamenti sulle condizioni di salute o su
altre condizioni o qualità personali dell’imputato. Gli accertamenti
sono eseguiti al più presto e comunque entro quindici giorni da
quello in cui la richiesta è pervenuta al giudice. Se la richiesta di
revoca o di sostituzione della misura della custodia cautelare in
carcere è basata sulle condizioni di salute di cui all’art. 275, comma
4 bis (10), ovvero se tali condizioni di salute sono segnalate dal
servizio sanitario penitenziario, o risultano in altro modo al giudice,
questi, se non ritiene di accogliere la richiesta sulla base degli atti,
dispone con immediatezza, e comunque non oltre il termine previsto
nel comma 3, gli accertamenti medici del caso, nominando perito ai
sensi dell’art. 220 e seguenti, il quale deve tener conto del parere
del medico penitenziario e riferire entro il termine di cinque giorni,
ovvero, nel caso di rilevata urgenza, non oltre due giorni
dall’accertamento. Durante il periodo compreso tra il provvedimento
che dispone gli accertamenti e la scadenza del termine per gli
accertamenti medesimi, è sospeso il termine previsto dal comma 3
(6) (11).
4 quater. Si applicano altresì le disposizioni di cui all’articolo 286
bis, comma 3 (12).
(1) Le parole «Salvo quanto previsto dall’art. 275, comma 3» sono state aggiunte
dall’art. 1 del D.L. 9 settembre 1991, n. 292, recante disposizioni in materia di
custodia cautelare, convertito, con modificazioni, nella L. 8 novembre 1991, n.
356.
(2) Le parole: «al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla
persona offesa» sono state così sostituite dalle attuali: «alla persona offesa e, ove
nominato, al suo difensore» dall’art. 15, comma 4, della L. 19 luglio 2019, n. 69.
(3) Questo comma è stato inserito dall’art. 2, comma 1, lett. b), n. 1), del D.L.
14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n.
119.
(4) Questo comma è stato inserito dall’art. 14, comma 1, lett. b), della L. 24
novembre 2023, n. 168.
(5) Questo periodo è stato inserito dall’art. 2, comma 1, lett. b), n. 2), del D.L.
14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n.
119.
(6) Comma aggiunto dall’art. 14 del D.L.vo 14 gennaio 1991, n. 12, recante
norme integrative e correttive del processo penale.
(7) Questo comma è stato inserito dall’art. 13, comma 1, della L. 8 agosto 1995,
n. 332.
(8) Le parole: «o applica congiuntamente altra misura coercitiva o interdittiva»
sono state aggiunte dall’art. 9 della L. 16 aprile 2015, n. 47.
(9) Questo periodo è stato aggiunto dall’art. 2, comma 1, lett. b), n. 3), del D.L.
14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n.
119.
(10) Le originarie parole: «comma 4» sono state sostituite dalle attuali: «comma
4 bis» dall’art. 4, lett. a), della L. 12 luglio 1999, n. 231.
(11) L’originario ultimo periodo di questo comma è stato così sostituito dagli
attuali ultimi due periodi per effetto dell’art. 5, comma 3, della L. 8 agosto 1995,
n. 332.
(12) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 4, lett. b), della L. 12 luglio 1999,
n. 231.

Libro V
Indagini preliminari
e udienza preliminare

Titolo V
Attività del pubblico ministero

362 bis. (1) Misure urgenti di protezione della persona


offesa. – 1. Qualora si proceda per il delitto di cui all’articolo 575,
nell’ipotesi di delitto tentato, o per i delitti di cui agli articoli 558 bis,
572, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo
comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e
secondo comma, 583 bis, 583 quinquies, 593 ter, da 609 bis a 609
octies, 610, 612, secondo comma, 612 bis, 612 ter e 613, terzo
comma, del codice penale, consumati o tentati, commessi in danno
del coniuge, anche separato o divorziato, della parte dell’unione
civile o del convivente o di persona che è legata o è stata legata da
relazione affettiva ovvero di prossimi congiunti, il pubblico ministero,
effettuate le indagini ritenute necessarie, valuta, senza ritardo e
comunque entro trenta giorni dall’iscrizione del nominativo della
persona nel registro delle notizie di reato, la sussistenza dei
presupposti di applicazione delle misure cautelari.
2. In ogni caso, qualora il pubblico ministero non ravvisi i
presupposti per richiedere l’applicazione delle misure cautelari nel
termine di cui al comma 1, prosegue nelle indagini preliminari.
3. Il giudice provvede in ordine alla richiesta di cui al comma 1
con ordinanza da adottare entro il termine di venti giorni dal
deposito dell’istanza cautelare presso la cancelleria.
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 7, comma 1, della L. 24 novembre
2023, n. 168.

Titolo VI
Arresto in flagranza e fermo

382 bis. (1) Arresto in flagranza differita. – 1. Nei casi di cui


agli articoli 387 bis, 572 e 612 bis del codice penale, si considera
comunque in stato di flagranza colui il quale, sulla base di
documentazione videofotografica o di altra documentazione
legittimamente ottenuta da dispositivi di comunicazione informatica
o telematica, dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto, ne
risulta autore, sempre che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo
necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le quarantotto
ore dal fatto.
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 10, comma 1, della L. 24 novembre
2023, n. 168.

384 bis. (1) Allontanamento d’urgenza dalla casa familiare. –


1. Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria hanno facoltà di
disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta, oppure
resa oralmente e confermata per iscritto, o per via telematica,
l’allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto di
avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa,
nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti di cui all’articolo
282 bis, comma 6, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le
condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed
attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona
offesa. La polizia giudiziaria provvede senza ritardo all’adempimento
degli obblighi di informazione previsti dall’articolo 11 del decreto
legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla
legge 23 aprile 2009, n. 38, e successive modificazioni.
2. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni di cui agli
articoli 385 e seguenti del presente titolo. Si osservano le
disposizioni di cui all’articolo 381, comma 3. Della dichiarazione orale
di querela si dà atto nel verbale delle operazioni di allontanamento.
2 bis. Fermo restando quanto disposto dall’articolo 384, anche
fuori dei casi di flagranza, il pubblico ministero dispone, con decreto
motivato, l’allontanamento urgente dalla casa familiare, con il divieto
di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa,
nei confronti della persona gravemente indiziata di taluno dei delitti
di cui agli articoli 387 bis, 572, 582, limitatamente alle ipotesi
procedibili d’ufficio o comunque aggravate ai sensi degli articoli 576,
primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e
secondo comma, e 612 bis del codice penale o di altro delitto,
consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza alla
persona per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della
reclusione superiore nel massimo a tre anni, ove sussistano fondati
motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere
reiterate ponendo in grave e attuale pericolo la vita o l’integrità fisica
della persona offesa e non sia possibile, per la situazione di urgenza,
attendere il provvedimento del giudice (2).
2 ter. Entro quarantotto ore dall’esecuzione del decreto di cui al
comma 2 bis, il pubblico ministero richiede la convalida al giudice per
le indagini preliminari competente in relazione al luogo nel quale il
provvedimento di allontanamento d’urgenza è stato eseguito (2).
2 quater. Il giudice fissa l’udienza di convalida al più presto e
comunque entro le quarantotto ore successive, dandone avviso
senza ritardo al pubblico ministero e al difensore (2).
2 quinquies. Il provvedimento di allontanamento d’urgenza
diviene inefficace se il pubblico ministero non osserva le prescrizioni
del comma 2 ter (2).
2 sexies. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui
agli articoli 385 e seguenti del presente titolo (2).
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 2, comma 1, lett. d), del D.L. 14 agosto
2013, n. 93, convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119.
(2) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 11, comma 1, della L. 24 novembre
2023, n. 168.

391. Udienza di convalida. – 1. L’udienza di convalida si svolge in


camera di consiglio (127) con la partecipazione necessaria [del
pubblico ministero e] (1) del difensore (3862) dell’arrestato o del
fermato (att. 123). Quando l’arrestato, il fermato o il difensore ne
fanno richiesta, il giudice può autorizzarli a partecipare a distanza
(2).
2. Se il difensore di fiducia o di ufficio non è stato reperito o non è
comparso, il giudice provvede a norma dell’art. 97 comma 4. Il
giudice altresì, anche d’ufficio, verifica che all’arrestato o al fermato
sia stata data la comunicazione di cui all’articolo 386, comma 1, o
che comunque sia stato informato ai sensi del comma 1 bis dello
stesso articolo, e provvede, se del caso, a dare o a completare la
comunicazione o l’informazione ivi indicate (3).
3. Il pubblico ministero, se comparso, indica i motivi dell’arresto o
del fermo e illustra le richieste in ordine alla libertà personale (291).
Il giudice procede quindi all’interrogatorio dell’arrestato o del
fermato, salvo che questi non abbia potuto o si sia rifiutato di
comparire (5036); sente in ogni caso il suo difensore (4).
4. Quando risulta che l’arresto (380) o il fermo (384) è stato
legittimamente eseguito e sono stati osservati i termini previsti dagli
artt. 386 comma 3 (5) e 390 comma 1, il giudice provvede alla
convalida con ordinanza (att. 138). Contro l’ordinanza che decide
sulla convalida, il pubblico ministero e l’arrestato o il fermato
possono proporre ricorso per cassazione (606).
5. Se ricorrono le condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 e
taluna delle esigenze cautelari previste dall’art. 274, il giudice
dispone l’applicazione di una misura coercitiva a norma dell’art. 291.
Quando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati
nell’articolo 387 bis del codice penale o (6) nell’articolo 381, comma
2, del presente codice (7) ovvero per uno dei delitti per i quali è
consentito anche fuori dai casi di flagranza, l’applicazione della
misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli
articoli 274, comma 1, lettera c), e 280 (8) (4) (9).
6. Quando non provvede a norma del comma 5, il giudice dispone
con ordinanza la immediata liberazione dell’arrestato o del fermato.
7. Le ordinanze previste dai commi precedenti, se non sono
pronunciate in udienza, sono comunicate o notificate a coloro che
hanno diritto di proporre impugnazione. Le ordinanze pronunciate in
udienza sono comunicate al pubblico ministero e notificate
all’arrestato o al fermato, se non comparsi. I termini per
l’impugnazione decorrono dalla lettura del provvedimento in udienza
ovvero dalla sua comunicazione o notificazione. L’arresto o il fermo
cessa di avere efficacia se l’ordinanza di convalida non è pronunciata
o depositata nelle quarantotto ore successive al momento in cui
l’arrestato o il fermato è stato posto a disposizione del giudice (13
Cost.) (4).
(1) Inciso soppresso dall’art. 25 del D.L.vo 14 gennaio 1991, n. 12, recante norme
integrative e correttive del processo penale.
(2) Questo periodo è stato aggiunto dall’art. 19, comma 1, lett. b), del D.L.vo 10
ottobre 2022, n. 150, a decorrere dal 30 dicembre 2022 ex art. 99 bis del
medesimo decreto, così come modificato dall’art. 6 del D.L. 31 ottobre 2022, n.
162, convertito, con modificazioni, nella L. 30 dicembre 2022, n. 199.
(3) Questo periodo è stato aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. f), del D.L.vo 1
luglio 2014, n. 101, a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello della sua
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (G.U. Serie gen. - n. 164 del 17 luglio 2014).
(4) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 25 del D.L.vo 14 gennaio 1991,
n. 12, recante norme integrative e correttive del processo penale.
(5) Il riferimento al comma 4 è stato soppresso dall’art. 25 del D.L.vo 14 gennaio
1991, n. 12, recante norme integrative e correttive del processo penale.
(6) Le parole: «nell’articolo 387 bis del codice penale o» sono state inserite
dall’art. 13, comma 1, lett. c), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(7) Le parole: «del presente codice» sono state inserite dall’art. 13, comma 1,
lett. c), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(8) Il secondo periodo di questo comma è stato così sostituito dall’art. 12 della
L. 26 marzo 2001, n. 128.
(9) Si veda anche l’art. 3 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, recante
provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata, convertito, con
modificazioni, nella L. 12 luglio 1991, n. 203.

Libro X
Esecuzione

Titolo II
Esecuzione dei provvedimenti
giurisdizionali

659. Esecuzione di provvedimenti del giudice di


sorveglianza. – 1. Quando a seguito di un provvedimento del
giudice di sorveglianza (677 ss.) deve essere disposta la carcerazione
o la scarcerazione del condannato, il pubblico ministero che cura
l’esecuzione della sentenza di condanna emette ordine di esecuzione
con le modalità previste dall’art. 656 comma 4 (6555) (1). Tuttavia,
nei casi di urgenza, il pubblico ministero presso il giudice di
sorveglianza che ha adottato il provvedimento può emettere ordine
provvisorio di esecuzione che ha effetto fino a quando non provvede
il pubblico ministero competente.
[1 bis. Quando a seguito di un provvedimento del giudice di
sorveglianza deve essere disposta la scarcerazione del condannato
per il delitto previsto dall’articolo 575 del codice penale, nella forma
tentata, o per uno dei delitti, consumati o tentati, (2) previsti dagli
articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies
e 612 bis del codice penale, nonchè dagli articoli 582 e 583
quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli
articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma,
numero 1, e secondo comma, del codice penale, il pubblico ministero
che cura l’esecuzione ne dà immediata comunicazione, a mezzo della
polizia giudiziaria, alla persona offesa e, ove nominato, al suo
difensore] (3).
2. I provvedimenti relativi alle misure di sicurezza diverse dalla
confisca (658) sono eseguiti dal pubblico ministero presso il giudice
di sorveglianza che li ha adottati. Il pubblico ministero comunica in
copia il provvedimento all’autorità di pubblica sicurezza e, quando ne
è il caso, emette ordine di esecuzione, con il quale dispone la
consegna o la liberazione dell’interessato.
(1) Dopo la sostituzione dell’art. 656 con L. 27 maggio 1998, n. 165, il rinvio va
interpretato al comma 3 e non più 4.
(2) Le parole: «per uno dei delitti» sono state così sostituite dalle attuali: «per il
delitto previsto dall’articolo 575 del codice penale, nella forma tentata, o per uno
dei delitti, consumati o tentati,» dall’art. 2, comma 11, lett. d), della L. 27
settembre 2021, n. 134.
(3) Questo comma, inserito dall’art. 15, comma 5, della L. 19 luglio 2019, n. 69,
è stato abrogato dall’art. 14, comma 1, lett. c), della L. 24 novembre 2023, n. 168.

4.

D.L.vo 28 luglio 1989, n. 271. Norme di attuazione, di


coordinamento e transitorie del codice di procedura
penale (Suppl. ord. alla Gazzetta Ufficiale Serie gen. - n. 182 del
5 agosto 1989) (1) e avviso di rettifica in Gazzetta Ufficiale Serie
gen. - n. 227 del 28 settembre 1989.

(1) In vigore dal 24 ottobre 1989.

Titolo I
Norme di attuazione

Capo VIII
Disposizioni relative
alle indagini preliminari

127. (1) Comunicazione delle notizie di reato al procuratore


generale. – 1. La segreteria del pubblico ministero trasmette ogni
settimana al procuratore generale presso la corte di appello i dati di
cui al comma 3 relativi ai procedimenti di seguito indicati, da
raggrupparsi in distinti elenchi riepilogativi:
a) procedimenti nei quali il pubblico ministero non ha disposto la
notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, né ha
esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, entro i termini
previsti dall’articolo 407 bis, comma 2, del codice;
b) procedimenti nei quali il pubblico ministero non ha assunto le
determinazioni sull’azione penale nei termini di cui all’articolo 415
ter, comma 3, primo e secondo periodo del codice;
c) procedimenti, diversi da quelli indicati alle lettere a) e b), nei
quali il pubblico ministero, non ha esercitato l’azione penale, né
richiesto l’archiviazione, entro i termini previsti dagli articoli 407 bis,
comma 2, e 415 ter, comma 3, quarto periodo, del codice.
1 bis. Il procuratore generale presso la corte di appello acquisisce
ogni tre mesi dalle procure della Repubblica del distretto i dati sul
rispetto dei termini relativi ai procedimenti di cui all’articolo 362 bis
del codice di procedura penale e invia al procuratore generale presso
la Corte di cassazione una relazione almeno semestrale (2).
2. Per ciascuno dei procedimenti di cui al comma 1, lettera a), è
specificato se il pubblico ministero ha formulato la richiesta di
differimento di cui al comma 5 bis dell’articolo 415 bis del codice e,
in caso affermativo, se il procuratore generale ha provveduto sulla
richiesta e con quale esito.
3. Per ciascuno dei procedimenti indicati al comma 1, la segreteria
del pubblico ministero comunica:
a) le generalità della persona sottoposta alle indagini o quanto
altro valga a identificarla;
b) il luogo di residenza, dimora o domicilio della persona
sottoposta alle indagini;
c) le generalità della persona offesa o quanto altro valga a
identificarla;
d) il luogo di residenza, dimora o domicilio della persona offesa;
e) i nominativi dei difensori della persona sottoposta alle indagini
e della persona offesa e i relativi recapiti;
f) il reato per cui si procede, con indicazione delle norme di legge
che si assumono violate, nonché, se risultano, la data e il luogo del
fatto.
(1) Questo articolo è stato così sostituito dall’art. 41, comma 1, lett. n), del D.L.vo
10 ottobre 2022, n. 150, a decorrere dal 30 dicembre 2022 ex art. 99 bis del
medesimo decreto, così come modificato dall’art. 6 del D.L. 31 ottobre 2022, n.
162, convertito, con modificazioni, nella L. 30 dicembre 2022, n. 199.
Si riporta il testo precedente:
«Art. 127 (Comunicazione delle notizie di reato al procuratore generale)
1. La segreteria del pubblico ministero trasmette ogni settimana al procuratore
generale presso la corte di appello un elenco delle notizie di reato contro persone
note per le quali non è stata esercitata l’azione penale o richiesta l’archiviazione
entro il termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice (405, 406 c.p.p.).».
(2) Questo comma è stato inserito dall’art. 8, comma 1, della L. 24 novembre
2023, n. 168.

132 bis. (1) Formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei


processi. – 1. Nella formazione dei ruoli di udienza e nella
trattazione dei processi è assicurata la priorità assoluta:
a) ai processi relativi ai delitti di cui all’articolo 407, comma 2,
lettera a), del codice di procedura penale e ai delitti di criminalità
organizzata, anche terroristica;
a bis) ai delitti previsti dagli articoli 387 bis, 558 bis, 572, 582,
nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma,
numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo
comma, 583 quinquies, 593 ter, da 609 bis a 609 octies, 612 bis,
612 ter e 613, terzo comma, del codice penale (2);
a ter) ai processi relativi ai delitti di cui agli articoli 589 e 590 del
codice penale verificatisi in presenza delle circostanze di cui agli
articoli 52, secondo, terzo e quarto comma, e 55, secondo comma,
del codice penale (3);
b) ai processi relativi ai delitti commessi in violazione delle norme
relative alla prevenzione degli infortuni e all’igiene sul lavoro e delle
norme in materia di circolazione stradale, ai delitti di cui al testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero, di cui al al decreto legislativo
25 luglio 1998, n. 286, nonché ai delitti puniti con la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni;
c) ai processi a carico di imputati detenuti, anche per reato
diverso da quello per cui si procede;
d) ai processi nei quali l’imputato è stato sottoposto ad arresto o
a fermo di indiziato di delitto, ovvero a misura cautelare personale,
anche revocata o la cui efficacia sia cessata;
e) ai processi nei quali è contestata la recidiva, ai sensi
dell’articolo 99, quarto comma, del codice penale;
f) ai processi da celebrare con giudizio direttissimo e con giudizio
immediato;
f bis) ai processi relativi ai delitti di cui agli articoli 317, 319, 319
ter, 319 quater, 320, 321 e 322 bis del codice penale (4).
f ter) ai processi nei quali vi sono beni sequestrati in funzione
della confisca di cui all’articolo 12 sexies del decreto legge 8 giugno
1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto
1992, n. 356, e successive modificazioni (5).
2. I dirigenti degli uffici giudicanti adottano i provvedimenti
organizzativi necessari per assicurare la rapida definizione dei
processi per i quali è prevista la trattazione prioritaria.
(1) Questo articolo, aggiunto dall’art. 1, comma 5, del D.L. 24 novembre 2000, n.
341, convertito, con modificazioni, nella L. 19 gennaio 2001, n. 4, è stato così
sostituito dall’art. 2 bis del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con
modificazioni, nella L. 24 luglio 2008, n. 125.
Si veda inoltre l’art. 2 ter del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con
modificazioni, nella L. 24 luglio 2008, n. 125, di cui si riporta il testo: «1. Al fine di
assicurare la rapida definizione dei processi pendenti alla data di entrata in vigore
della legge di conversione del presente decreto, per i quali è prevista la trattazione
prioritaria, nei provvedimenti adottati ai sensi del comma 2 dell’articolo 132 bis
delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di
procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, come
sostituito dall’articolo 2 bis del presente decreto, i dirigenti degli uffici possono
individuare i criteri e le modalità di rinvio della trattazione dei processi per reati
commessi fino al 2 maggio 2006 in ordine ai quali ricorrono le condizioni per
l’applicazione dell’indulto, ai sensi della legge 31 luglio 2006, n. 241, e la pena
eventualmente da infliggere può essere contenuta nei limiti di cui all’articolo 1,
comma 1, della predetta legge. Nell’individuazione dei criteri di rinvio di cui al
presente comma i dirigenti degli uffici tengono, altresì, conto della gravità e della
concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la
formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della
persona offesa.
«2. Il rinvio della trattazione del processo non può avere durata superiore a
diciotto mesi e il termine di prescrizione del reato rimane sospeso per tutta la
durata del rinvio.
«3. Il rinvio non può essere disposto se l’imputato si oppone ovvero se è già
stato dichiarato chiuso il dibattimento.
«4. I provvedimenti di cui al comma 1 sono tempestivamente comunicati al
Consiglio superiore della magistratura. Il Consiglio superiore della magistratura e il
ministro della giustizia valutano gli effetti dei provvedimenti adottati dai dirigenti
degli uffici sull’organizzazione e sul funzionamento dei servizi relativi alla giustizia,
nonché sulla trattazione prioritaria e sulla durata dei processi. In sede di
comunicazioni sull’amministrazione della giustizia, ai sensi dell’articolo 86
dell’ordinamento giudiziario di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, il
ministro della giustizia riferisce alle Camere le valutazioni effettuate ai sensi del
presente comma.
«5. La parte civile costituita può trasferire l’azione in sede civile. In tal caso, i
termini a comparire, di cui all’articolo 163 bis del codice di procedura civile, sono
abbreviati fino alla metà e il giudice fissa l’ordine di trattazione delle cause dando
precedenza al processo relativo all’azione trasferita. Non si applica la disposizione
dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale.
«6. Nel corso dei processi di primo grado relativi ai reati in ordine ai quali, in
caso di condanna, deve trovare applicazione la legge 31 luglio 2006, n. 241,
l’imputato o il suo difensore munito di procura speciale e il pubblico ministero, se
ritengono che la pena possa essere contenuta nei limiti di cui all’articolo 1, comma
1, della medesima legge n. 241 del 2006, nella prima udienza successiva alla data
di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, possono
formulare richiesta di applicazione della pena ai sensi degli articoli 444 e seguenti
del codice di procedura penale, anche se risulti decorso il termine previsto
dall’articolo 446, comma 1, del codice di procedura penale.
«7. La richiesta di cui al comma 6 può essere formulata anche quando sia già
stata in precedenza presentata altra richiesta di applicazione della pena, ma vi sia
stato il dissenso da parte del pubblico ministero ovvero la stessa sia stata rigettata
dal giudice, sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione
della precedente.».
(2) Questa lettera, inserita dall’art. 2, comma 2, del D.L. 14 agosto 2013, n. 93,
convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119, è stata così
sostituita dall’art. 3, comma 1, della L. 24 novembre 2023, n. 168.
A norma dell’art. 4, comma 1, della medesima legge, nei casi indicati da questa
lettera, come sostituita dall’articolo 3 della citata legge, è assicurata priorità anche
alla richiesta di misura cautelare personale e alla decisione sulla stessa.
(3) Questa lettera è stata inserita dall’art. 9 della L. 26 aprile 2019, n. 36.
(4) Questa lettera è stata aggiunta dall’art. 1, comma 74, della L. 23 giugno
2017, n. 103, a decorrere dal 3 agosto 2017.
(5) Questa lettera è stata aggiunta dall’art. 30, comma 2, lett. c), della L. 17
ottobre 2017, n. 161. Si segnala che il testo originario della citata L. n. 161/2017
aggiunge la lettera f bis; la lettera è stata rinumerata in f ter, in quanto si è
ritenuto trattarsi di un errore di elencazione poiché la lettera f bis era stata già
aggiunta dalla L. 23 giugno 2017, n. 103.

5.
D.L.vo 20 febbraio 2006, n. 106. Disposizioni in materia di
riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, a
norma dell’articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25
luglio 2005, n. 150 (Gazzetta Ufficiale Serie gen. - n. 66 del 20
marzo 2006).

(Estratto)

2. (1) Titolarità dell’azione penale. – 1. Il procuratore della


Repubblica, quale titolare esclusivo dell’azione penale, la esercita
personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati
dell’ufficio. L’assegnazione può riguardare la trattazione di uno o più
procedimenti ovvero il compimento di singoli atti di essi. Sono fatte
salve le disposizioni di cui all’articolo 70 bis dell’ordinamento
giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12.
2. Con l’atto di assegnazione per la trattazione di un
procedimento, il procuratore della Repubblica può stabilire i criteri ai
quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività.
Se il magistrato non si attiene ai principi e criteri definiti in via
generale o con l’assegnazione, ovvero insorge tra il magistrato ed il
procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di
esercizio, il procuratore della Repubblica può, con provvedimento
motivato, revocare l’assegnazione; entro dieci giorni dalla
comunicazione della revoca, il magistrato può presentare
osservazioni scritte al procuratore della Repubblica.
2 bis. Quando si procede per il delitto previsto dall’articolo 575 del
codice penale, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o
tentati, previsti dagli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609
quinquies, 609 octies e 612 bis del codice penale, ovvero dagli
articoli 582 e 583 quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate
ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577,
primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice, il
procuratore della Repubblica può, con provvedimento motivato,
revocare l’assegnazione per la trattazione del procedimento se il
magistrato non osserva le disposizioni dell’articolo 362, comma 1 ter,
del codice di procedura penale. Entro tre giorni dalla comunicazione
della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al
procuratore della Repubblica. Il procuratore della Repubblica,
direttamente o mediante assegnazione a un altro magistrato
dell’ufficio, provvede senza ritardo ad assumere informazioni dalla
persona offesa o da chi ha presentato denuncia, querela o istanza,
salvo che sussistano le imprescindibili esigenze di tutela di cui
all’articolo 362, comma 1 ter, del codice di procedura penale (2).
(1) Questo articolo è stato così sostituito dall’art. 1, comma 2, lett. b), della L. 24
ottobre 2006, n. 269.
(2) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. a), della L. 8
settembre 2023, n. 122.

6. Attività di vigilanza del procuratore generale presso la


corte di appello. – 1. Il procuratore generale presso la corte di
appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio
dell’azione penale, l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione
delle notizie di reato (1) ed il rispetto delle norme sul giusto
processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della
Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli
uffici ai quali sono preposti, oltre che dei doveri di cui all’articolo 5,
(2) acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del
distretto ed invia al procuratore generale presso la Corte di
cassazione una relazione almeno annuale.
1 bis. Il procuratore generale presso la corte di appello ogni tre
mesi acquisisce dalle procure della Repubblica del distretto i dati sul
rispetto del termine entro il quale devono essere assunte
informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia,
querela o istanza nei procedimenti per i delitti indicati nell’articolo
362, comma 1 ter, del codice di procedura penale e invia al
procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione
almeno semestrale (3).
(1) Le parole: «, l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di
reato» sono state inserite dall’art. 1, comma 76, della L. 23 giugno 2017, n. 103, a
decorrere dal 3 agosto 2017.
(2) Le parole: «oltre che dei doveri di cui all’articolo 5,» sono state inserite
dall’art. 3, comma 2, del D.L.vo 8 novembre 2021, n. 188.
(3) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. b), della L. 8
settembre 2023, n. 122.

6.

D.L. 23 febbraio 2009, n. 11. Misure urgenti in materia di


sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonchè in tema di atti persecutori (Gazzetta Ufficiale Serie
gen. - n. 45 del 24 febbraio 2009), convertito, con modificazioni,
nella L. 23 aprile 2009, n. 38 (Gazzetta Ufficiale Serie gen. - n. 95
del 24 aprile 2009).

(Estratto)

Capo II
Disposizioni in materia di atti persecutori

8. Ammonimento. – 1. Fino a quando non è proposta querela per i


reati di cui agli articoli 612 bis e 612 ter del codice penale(1), la
persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza
avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti
dell’autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al
questore.
2. Il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi
investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga
fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti
è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta
conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del
processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al
soggetto ammonito. Il questore adotta i provvedimenti (2) in materia
di armi e munizioni.
3. Le pene per i delitti di cui agli articoli 612 bis e 612 ter del
codice penale sono aumentate se il fatto è commesso da soggetto
già ammonito ai sensi del presente articolo, anche se la persona
offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato
l’ammonimento previsto dal presente articolo (3).
4. Si procede d’ufficio per i delitti previsti dagli articoli 612 bis e
612 ter quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi
del presente articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella
per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento previsto dal
presente articolo (4).
(1) Le parole: «il reato di cui all’articolo 612 bis del codice penale, introdotto
dall’articolo 7» sono state così sostituite dalle attuali: «i reati di cui agli articoli 612
bis e 612 ter del codice penale» dall’art. 1, comma 3, lett. a), n. 1), della L. 24
novembre 2023, n. 168.
(2) Le parole: «valuta l’eventuale adozione di provvedimenti» sono state così
sostituite dalle attuali: «adotta i provvedimenti» dall’art. 1, comma 4, del D.L. 14
agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119.
(3) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 1, comma 3, lett. a), n. 2),
della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(4) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 1, comma 3, lett. a), n. 3),
della L. 24 novembre 2023, n. 168.

11. Misure a sostegno delle vittime del reato di atti


persecutori. – 1. Le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le
istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia del reato di cui
agli articoli 572, 575, nell’ipotesi di delitto tentato, 583 quinquies, (1)
600, 600 bis, 600 ter, anche se relativo al materiale pornografico di
cui all’articolo 600 quater.1, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609
ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies, 612 bis o 612 ter del
codice penale(2) (3), hanno l’obbligo di fornire alla vittima stessa
tutte le informazioni relative ai centri antiviolenza presenti sul
territorio e, in particolare, nella zona di residenza della vittima. Le
forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche
provvedono a mettere in contatto la vittima con i centri antiviolenza,
qualora ne faccia espressamente richiesta.
(1) Le parole: «575, nell’ipotesi di delitto tentato, 583 quinquies,» sono state
inserite dall’art. 1, comma 3, lett. b), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(2) Le parole: «di atti persecutori, di cui all’articolo 612 bis del codice penale,
introdotto dall’articolo 7» sono state così sostituite dalle attuali: «di cui agli articoli
572, 600, 600 bis, 600 ter, anche se relativo al materiale pornografico di cui
all’articolo 600 quater.1, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater,
609 quinquies, 609 octies o 612 bis del codice penale, introdotto dall’articolo 7»
dall’art. 1, comma 4 bis, del D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con
modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119.
(3) Le parole: «609 octies o 612 bis del codice penale, introdotto dall’articolo 7»
sono state così sostituite dalle attuali: «609 octies, 612 bis o 612 ter del codice
penale» dall’art. 1, comma 3, lett. b), della L. 24 novembre 2023, n. 168.

7.

D.L.vo 6 settembre 2011, n. 159. Codice delle leggi


antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove
disposizioni in materia di documentazione antimafia, a
norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n.
136 (Suppl. ord. alla Gazzetta Ufficiale Serie gen. - n. 226 del 28
settembre 2011) (1) (2).

(1) Ai fini dell’applicazione del presente decreto, a norma dell’art. 6, comma 7, del
D.L.vo 12 maggio 2015, n. 72, è acquisita, anche a campione, la comunicazione
antimafia nei confronti dei soggetti di cui agli articoli 13 e 14 del decreto legislativo
24 febbraio 1998, n. 58. La Banca d’Italia e la Consob hanno accesso diretto al
Sistema informativo del Casellario e alla Banca dati nazionale unica della
documentazione antimafia.
(2) Ai sensi dell’art. 36, comma 1, della L. 17 ottobre 2017, n. 161, le modifiche
alle disposizioni sulla competenza dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la
destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata non si
applicano ai casi nei quali l’amministrazione è stata assunta ai sensi delle
disposizioni di questo provvedimento, vigenti fino alla data di entrata in vigore
della presente legge (Gazzetta Ufficiale Serie gen. - n. 258 del 4 novembre 2017).

(Estratto)

Libro I
Le misure di prevenzione

Titolo I
Le misure di prevenzione personali
Capo II
Le misure di prevenzione personali
applicate dall’autorità giudiziaria

Sezione I
Il procedimento applicativo

4. Soggetti destinatari. – 1. I provvedimenti previsti dal presente


capo si applicano:
a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo
416 bis c.p.;
b) ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51,
comma 3 bis, del codice di procedura penale ovvero del delitto di cui
all’articolo 12 quinquies, comma 1, del decreto legge 8 giugno 1992,
n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n.
356 , o del delitto di cui all’articolo 418 del codice penale (1);
c) ai soggetti di cui all’articolo 1 (2);
d) agli indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3
quater, del codice di procedura penale e a coloro che, operanti in
gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori,
obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti a sovvertire
l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati
previsti dal capo I del titolo VI del libro II del codice penale o dagli
articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice,
nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche
internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio
estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità
terroristiche di cui all’articolo 270 sexies del codice penale (3);
e) a coloro che abbiano fatto parte di associazioni politiche
disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n. 645, e nei confronti
dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che
continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente;
f) a coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti,
ovvero esecutivi (4) diretti alla ricostituzione del partito fascista ai
sensi dell’articolo 1 della legge n. 645 del 1952, in particolare con
l’esaltazione o la pratica della violenza;
g) fuori dei casi indicati nelle lettere d), e) ed f), siano stati
condannati per il delitto di cui all’articolo 421 bis del codice penale o
(5) per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e
negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n. 497, e
successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro
comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato
della stessa specie col fine indicato alla lettera d);
h) agli istigatori, ai mandanti e ai finanziatori dei reati indicati
nelle lettere precedenti. È finanziatore colui il quale fornisce somme
di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui sono destinati;
i) alle persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che
hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di
violenza di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401,
nonchè alle persone che, per il loro comportamento, debba ritenersi,
anche sulla base della partecipazione in più occasioni alle medesime
manifestazioni, ovvero della reiterata applicazione nei loro confronti
del divieto previsto dallo stesso articolo, che sono dediti alla
commissione di reati che mettono in pericolo l’ordine e la sicurezza
pubblica, ovvero l’incolumità delle persone in occasione o a causa
dello svolgimento di manifestazioni sportive (6);
i bis) ai soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 640 bis o del
delitto di cui all’articolo 416 del codice penale, finalizzato alla
commissione di taluno dei delitti di cui agli articoli 314, primo
comma, 316, 316 bis, 316 ter, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater,
320, 321, 322 e 322 bis del medesimo codice (7);
i ter) ai soggetti indiziati dei delitti di cui agli articoli 572 e 612 bis
(8) del codice penale (7) o dei delitti, consumati o tentati, di cui agli
articoli 575, 583, nelle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 577,
primo comma, numero 1, e secondo comma, 583 quinquies e 609
bis del medesimo codice (9).
(1) Le parole: «o del delitto di cui all’articolo 418 del codice penale» sono state
aggiunte dall’art. 1, comma 1, lett. a), della L. 17 ottobre 2017, n. 161.
Ai sensi dell’art. 36, comma 3, del medesimo provvedimento, tali disposizioni
non si applicano ai procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore della
presente legge (G.U. Serie gen. - n. 258 del 4 novembre 2017), sia già stata
formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione.
(2) La Corte costituzionale, con sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale di questa lettera, nella parte in cui stabilisce
che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati
nell’art. 1, lettera a).
(3) Questa lettera è stata così sostituita dall’attuale, dall’art. 1, comma 1, lett.
b), della L. 17 ottobre 2017, n. 161.
Ai sensi dell’art. 36, comma 3, del medesimo provvedimento, tali disposizioni
non si applicano ai procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore della
presente legge (G.U. Serie gen. - n. 258 del 4 novembre 2017), sia già stata
formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione.
Si riporta il testo precedente:
«d) a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti
preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato,
con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del
codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso
codice nonchè alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche
internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a
sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui
all’articolo 270 sexies del codice penale;»
(4) Le parole: «ovvero esecutivi» sono state inserite dall’art. 1, comma 1, lett.
c), della L. 17 ottobre 2017, n. 161.
Ai sensi dell’art. 36, comma 3, del medesimo provvedimento, tali disposizioni
non si applicano ai procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore della
presente legge (G.U. Serie gen. - n. 258 del 4 novembre 2017), sia già stata
formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione.
(5) Le parole: «per il delitto di cui all’articolo 421 bis del codice penale o» sono
state inserite dall’art. 4, comma 2 sexies, del D.L. 15 settembre 2023, n. 123,
convertito, con modificazioni, nella L. 13 novembre 2023, n. 159.
(6) Le parole: «, nonchè alle persone che, per il loro comportamento, debba
ritenersi, anche sulla base della partecipazione in più occasioni alle medesime
manifestazioni, ovvero della reiterata applicazione nei loro confronti del divieto
previsto dallo stesso articolo, che sono dediti alla commissione di reati che
mettono in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica, ovvero l’incolumità delle
persone in occasione o a causa dello svolgimento di manifestazioni sportive» sono
state aggiunte dall’art. 4, comma 2, del D.L. 22 agosto 2014, n. 119, convertito,
con modificazioni, nella L. 17 ottobre 2014, n. 146.
(7) Questa lettera è stata aggiunta dall’art. 1, comma 1, lett. d), della L. 17
ottobre 2017, n. 161.
Ai sensi dell’art. 36, comma 3, del medesimo provvedimento, tali disposizioni
non si applicano ai procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore della
presente legge (G.U. Serie gen. - n. 258 del 4 novembre 2017), sia già stata
formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione.
(8) Le parole: «del delitto di cui all’articolo 612 bis» sono state così sostituite
dalle attuali: «dei delitti di cui agli articoli 572 e 612 bis» dall’art. 9, comma 4,
della L. 19 luglio 2019, n. 69.
(9) Le parole: «o dei delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 575, 583,
nelle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 577, primo comma, numero 1, e
secondo comma, 583 quinquies e 609 bis del medesimo codice» sono state
aggiunte dall’art. 2, comma 1, lett. a), della L. 24 novembre 2023, n. 168.

6. Tipologia delle misure e loro presupposti. – 1. Alle persone


indicate nell’articolo 4, quando siano pericolose per la sicurezza
pubblica, può essere applicata, nei modi stabiliti negli articoli
seguenti, la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di
pubblica sicurezza.
2. Salvi i casi di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a) e b), alla
sorveglianza speciale può essere aggiunto, ove le circostanze del
caso lo richiedano, il divieto di soggiorno in uno o più comuni, diversi
da quelli di residenza o di dimora abituale, o in una o più regioni (1).
3. Nei casi in cui le altre misure di prevenzione non sono ritenute
idonee alla tutela della sicurezza pubblica può essere imposto
l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale.
3 bis. Ai fini della tutela della sicurezza pubblica, gli obblighi e le
prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale possono essere
disposti, con il consenso dell’interessato ed accertata la relativa
fattibilità tecnica (2), anche con le modalità di controllo previste
all’articolo 275 bis del codice di procedura penale (3).
3 ter. Quando la sorveglianza speciale è applicata ai soggetti
indiziati dei delitti di cui all’articolo 4, comma 1, lettera i ter), gli
obblighi e le prescrizioni di cui al comma 3 bis sono disposti, con il
consenso dell’interessato e accertata la relativa fattibilità tecnica, con
le particolari modalità di controllo previste dall’articolo 275 bis del
codice di procedura penale. Qualora l’interessato neghi il consenso
all’adozione delle modalità di controllo anzidette, la durata della
misura non può essere inferiore a tre anni e il tribunale prescrive
all’interessato di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza
preposta alla sorveglianza nei giorni e negli orari indicati, con
cadenza almeno bisettimanale, per tutta la durata della sorveglianza
speciale di pubblica sicurezza, e impone, salva diversa valutazione, il
divieto o l’obbligo di soggiorno ai sensi dei commi 2 e 3 del
presentearticolo . In caso di manomissione dei mezzi elettronici e
degli altri strumenti tecnici di controllo di cui all’articolo 275 bis del
codice di procedura penale, la durata della sorveglianza speciale,
applicata con le modalità di controllo di cui al secondo periodo, non
può essere inferiore a quattro anni. Qualora l’organo delegato per
l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica dell’applicazione delle
predette modalità di controllo, il tribunale prescrive all’interessato di
presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza preposta alla
sorveglianza nei giorni e negli orari indicati, con cadenza almeno
bisettimanale, per tutta la durata della sorveglianza speciale di
pubblica sicurezza, e impone, salva diversa valutazione, il divieto o
l’obbligo di soggiorno ai sensi dei commi 2 e 3 del presente articolo
(4).
(1) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 2, comma 2, della L. 17 ottobre
2017, n. 161.
(2) Le parole: «la disponibilità dei relativi dispositivi» sono state così sostituite
dalle attuali: «la relativa fattibilità tecnica» dall’art. 2, comma 1, lett. b), n. 1),
della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(3) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 15, comma 1, lett. b), del D.L. 20
febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 aprile 2017, n. 48.
(4) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 2, comma 1, lett. b), n. 2), della L.
24 novembre 2023, n. 168.

8. Decisione. – 1. Il provvedimento del tribunale stabilisce la


durata della misura di prevenzione che non può essere inferiore ad
un anno nè superiore a cinque.
2. Qualora il tribunale disponga l’applicazione di una delle misure
di prevenzione di cui all’articolo 6, nel provvedimento sono
determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura
deve osservare.
3. A tale scopo, qualora la misura applicata sia quella della
sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e si tratti di persona
indiziata di vivere con il provento di reati, il tribunale prescrive di
darsi, entro un congruo termine, alla ricerca di un lavoro, di fissare la
propria dimora, di farla conoscere nel termine stesso all’autorità di
pubblica sicurezza e di non allontanarsene senza preventivo avviso
all’autorità medesima.
4. In ogni caso, prescrive di vivere onestamente, di rispettare le
leggi, e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso
all’autorità locale di pubblica sicurezza; prescrive, altresì, di non
associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e
sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, di non
accedere agli esercizi pubblici e ai locali di pubblico trattenimento,
anche in determinate fasce orarie, (1) di non rincasare la sera più
tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora e senza
comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva
notizia all’autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere e non
portare armi, di non partecipare a pubbliche riunioni.
5. Inoltre, può imporre tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie,
avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale, e, in particolare, il
divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più regioni,
ovvero, con riferimento ai soggetti di cui all’articolo 1, comma 1,
lettera c), (2) il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati
abitualmente dalle persone cui occorre prestare protezione o da
minori (3) (4). Con riferimento ai soggetti di cui all’articolo 4, comma
1, lettera i ter), il tribunale impone il divieto di avvicinarsi a
determinati luoghi, frequentati abitualmente dalle persone cui
occorre prestare protezione, e l’obbligo di mantenere una
determinata distanza, non inferiore a cinquecento metri, da tali
luoghi e da tali persone (5). Quando la frequentazione dei luoghi di
cui al periodo precedente sia necessaria per motivi di lavoro o per
altre comprovate esigenze, il tribunale prescrive le relative modalità
e può imporre ulteriori limitazioni (5).
6. Qualora sia applicata la misura dell’obbligo di soggiorno nel
comune di residenza o di dimora abituale o del divieto di soggiorno,
può essere inoltre prescritto:
1) di non andare lontano dall’abitazione scelta senza preventivo
avviso all’autorità preposta alla sorveglianza;
2) di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza preposta alla
sorveglianza nei giorni indicati ed a ogni chiamata di essa.
7. Alle persone di cui al comma 6 è consegnata una carta di
permanenza da portare con sè e da esibire ad ogni richiesta degli
ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza.
8. Il provvedimento è comunicato al procuratore della Repubblica,
al procuratore generale presso la Corte di appello ed all’interessato e
al suo difensore (6).
(1) Le parole: «di non accedere agli esercizi pubblici e ai locali di pubblico
trattenimento, anche in determinate fasce orarie,» sono state inserite dall’art. 21,
comma 1 quater, del D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni,
nella L. 1 dicembre 2018, n. 132.
(2) Le parole: «agli articoli 1, comma 1, lettera c), e 4, comma 1, lettera i ter),»
sono state così sostituite dalle attuali: «all’articolo 1, comma 1, lettera c),» dall’art.
2, comma 1, lett. c), n. 1), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(3) Le parole da: «di cui» fino alla fine del comma, sono state così sostituite
dalle attuali: «di cui agli articoli 1, comma 1, lettera c), e 4, comma 1, lettera i
ter), il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente dalle
persone cui occorre prestare protezione o da minori» dall’art. 9, comma 5, della L.
19 luglio 2019, n. 69.
(4) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 2, comma 4, lett. a), della L. 17
ottobre 2017, n. 161.
(5) Questo periodo è stato aggiunto dall’art. 2, comma 1, lett. c), n. 2), della L.
24 novembre 2023, n. 168.
(6) Le parole: «e al suo difensore» sono state aggiunte dall’art. 2, comma 4,
lett. b), della L. 17 ottobre 2017, n. 161.

9. Provvedimenti d’urgenza. – 1. Se la proposta riguarda la


misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di
soggiorno, il presidente del tribunale, con decreto, nella pendenza
del procedimento di cui all’articolo 7, può disporre il temporaneo
ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio
di ogni altro documento equipollente.
2. Nel caso in cui sussistano motivi di particolare gravità, può
altresì disporre che alla persona denunciata sia imposto, in via
provvisoria, l’obbligo o il divieto di soggiorno fino a quando non sia
divenuta esecutiva la misura di prevenzione. Se la proposta della
sorveglianza speciale riguarda i soggetti indiziati dei delitti di cui
all’articolo 4, comma 1, lettera i ter), e sussistono motivi di
particolare gravità, il presidente del tribunale, con decreto, nella
pendenza del procedimento di cui all’articolo 7, può disporre la
temporanea applicazione, con le particolari modalità di controllo
previste dall’articolo 275 bis del codice di procedura penale, previo
accertamento della relativa fattibilità tecnica, del divieto di avvicinarsi
alle persone cui occorre prestare protezione o a determinati luoghi
da esse abitualmente frequentati e dell’obbligo di mantenere una
determinata distanza, non inferiore a cinquecento metri, da tali
luoghi e da tali persone, fino a quando non sia divenuta esecutiva la
misura di prevenzione della sorveglianza speciale (1). Qualora
l’interessato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo
anzidette o l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità
tecnica delle citate modalità di controllo, il presidente del tribunale
impone all’interessato, in via provvisoria, di presentarsi all’autorità di
pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza nei giorni e negli orari
indicati, con cadenza almeno bisettimanale, fino a quando non sia
divenuta esecutiva la misura di prevenzione (1). Quando la
frequentazione dei luoghi di cui al secondo periodo sia necessaria
per motivi di lavoro o per altre comprovate esigenze, il presidente
del tribunale prescrive le relative modalità e può imporre ulteriori
limitazioni (1).
2 bis. Nei casi di necessità e urgenza, il Questore, all’atto della
presentazione della proposta di applicazione delle misure di
prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno
nel comune di residenza o di dimora abituale nei confronti delle
persone di cui all’articolo 4, comma 1, lettera d), può disporre il
temporaneo ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini
dell’espatrio di ogni altro documento equipollente. Il temporaneo
ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio
di ogni altro documento equipollente sono comunicati
immediatamente al procuratore della Repubblica presso il tribunale
del capoluogo del distretto ove dimora la persona, il quale, se non
ritiene di disporne la cessazione, ne richiede la convalida, entro
quarantotto ore, al presidente del tribunale del capoluogo della
provincia in cui la persona dimora che provvede nelle successive
quarantotto ore con le modalità di cui al comma 1. Il ritiro del
passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni
altro documento equipollente cessano di avere effetto se la convalida
non interviene nelle novantasei ore successive alla loro adozione (2).
(1) Questo periodo è stato aggiunto dall’art. 2, comma 1, lett. d), della L. 24
novembre 2023, n. 168.
(2) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 4, comma 1, lett. b), del D.L. 18
febbraio 2015, n. 7, convertito, con modificazioni, nella L. 17 aprile 2015, n. 43.

Titolo V
Effetti, sanzioni e disposizioni finali

Capo III
Le sanzioni

75 bis. (1) Violazione delle misure imposte con


provvedimenti d’urgenza. – 1. Il contravventore al divieto di
espatrio conseguente all’applicazione delle misure di cui ai commi 1
e 2 bis dell’articolo 9 è punito con la reclusione da uno a cinque
anni.
1 bis. Il contravventore ai divieti, agli obblighi e alle prescrizioni
conseguenti all’applicazione delle misure di cui all’articolo 9, comma
2, è punito con la reclusione da uno a cinque anni; l’arresto è
consentito anche fuori dei casi di flagranza (2).
(1) Questo articolo è stato inserito all’art. 4, comma 1, lett. d), del D.L. 18 febbraio
2015, n. 7, convertito, con modificazioni, nella L. 17 aprile 2015, n. 43.
(2) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 2, comma 1, lett. e), della L. 24
novembre 2023, n. 168.

8.

D.L. 14 agosto 2013, n. 93. Disposizioni urgenti in materia di


sicurezza e per il contrasto della violenza di genere,
nonchè in tema di protezione civile e di commissariamento
delle province (Gazzetta Ufficiale Serie gen. - n. 191 del 16
agosto 2013), convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre
2013, n. 119 (Gazzetta Ufficiale Serie gen. - n. 242 del 15 ottobre
2013).

(Estratto)

Capo I
Prevenzione e contrasto
della violenza di genere

3. Misura di prevenzione per condotte di violenza domestica.


– 1. Nei casi in cui alle forze dell’ordine sia segnalato, in forma non
anonima, un fatto che debba ritenersi riconducibile ai reati di cui agli
articoli 581, 582, 610, 612, secondo comma, 612 bis, 612 ter, 614 e
635, consumati o tentati (1) del codice penale, nell’ambito di violenza
domestica, il questore, anche in assenza di querela, può procedere,
assunte le informazioni necessarie da parte degli organi investigativi
e sentite le persone informate dei fatti, all’ammonimento dell’autore
del fatto. Ai fini del presente articolo si intendono per violenza
domestica uno o più atti, gravi ovvero non episodici o commessi in
presenza di minorenni (2), di violenza fisica, sessuale, psicologica o
economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo
familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un
vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva,
indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia
condiviso la stessa residenza con la vittima.
2. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo
8, commi 1 e 2, del decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, come
modificato dal presente decreto. Il questore può richiedere al
prefetto del luogo di residenza del destinatario dell’ammonimento
l’applicazione della misura della sospensione della patente di guida
per un periodo da uno a tre mesi. Il prefetto dispone la sospensione
della patente di guida ai sensi dell’articolo 218 del codice della
strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285. Il prefetto
non dà luogo alla sospensione della patente di guida qualora, tenuto
conto delle condizioni economiche del nucleo familiare, risulti che le
esigenze lavorative dell’interessato non possono essere garantite con
il rilascio del permesso di cui all’articolo 218, comma 2, del citato
decreto legislativo n. 285 del 1992.
3. Il Ministero dell’interno - Dipartimento della pubblica sicurezza,
anche attraverso i dati contenuti nel Centro elaborazione dati di cui
all’articolo 8 della legge 1° aprile 1981, n. 121, elabora annualmente
un’analisi criminologica della violenza di genere, comprendente il
monitoraggio sulla fattibilità tecnica dell’impiego dei mezzi elettronici
e degli altri strumenti tecnici di controllo di cui all’articolo 275 bis del
codice di procedura penale, (3) che costituisce un’autonoma sezione
della relazione annuale al Parlamento di cui all’articolo 113 della
predetta legge n. 121 del 1981.
4. In ogni atto del procedimento per l’adozione dell’ammonimento
di cui al comma 1 devono essere omesse le generalità del
segnalante, salvo che la segnalazione risulti manifestamente
infondata. La segnalazione è utilizzabile soltanto ai fini dell’avvio del
procedimento.
5. Le misure di cui al comma 1 dell’articolo 11 del decreto legge
23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23
aprile 2009, n. 38, trovano altresì applicazione nei casi in cui le forze
dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche ricevono dalla
vittima notizia dei reati di cui agli articoli 581, 582, 610, 612,
secondo comma, 614 e 635 del codice penale (4) nell’ambito della
violenza domestica di cui al comma 1 del presente articolo.
5 bis. Quando il questore procede all’ammonimento ai sensi
dell’articolo 8 del decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, come modificato
dal presente decreto, e del presente articolo, informa senza indugio
l’autore del fatto circa i servizi disponibili sul territorio, inclusi i
consultori familiari, i servizi di salute mentale e i servizi per le
dipendenze, come individuati dal Piano di cui all’articolo 5, finalizzati
ad intervenire nei confronti degli autori di violenza domestica o di
genere.
5 ter. I provvedimenti emessi ai sensi del presente articolo e
dell’articolo 8 del decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, possono essere
revocati su istanza dell’ammonito, non prima che siano decorsi tre
anni dalla loro emissione, valutata la partecipazione del soggetto ad
appositi percorsi di recupero presso gli enti di cui al comma 5 bis e
tenuto conto dei relativi esiti (5).
5 quater. Le pene per i reati di cui agli articoli 581, 582, 610, 612,
secondo comma, 612 bis, 612 ter, 614 e 635 del codice penale sono
aumentate se il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica,
da soggetto già ammonito ai sensi del presentearticolo , anche se la
persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già
adottato l’ammonimento previsto dal presente articolo (5).
5 quinquies. Si procede d’ufficio per i reati previsti dagli articoli
581, 582, primo comma, 610, 612, secondo comma, nell’ipotesi di
minaccia grave, 612 bis, 612 ter, 614, primo e secondo comma, e
635 del codice penale quando il fatto è commesso, nell’ambito di
violenza domestica, da soggetto già ammonito ai sensi del
presentearticolo , anche se la persona offesa è diversa da quella per
la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento previsto dal
presente articolo (5).
(1) Le parole da: «581» fino a: «consumato o tentato» sono state così sostituite
dalle attuali: «581, 582, 610, 612, secondo comma, 612 bis, 612 ter, 614 e 635,
consumati o tentati» dall’art. 1, comma 1, lett. a), della L. 24 novembre 2023, n.
168.
(2) Le parole: «o commessi in presenza di minorenni» sono state inserite
dall’art. 1, comma 1, lett. a), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(3) Le parole: «, comprendente il monitoraggio sulla fattibilità tecnica
dell’impiego dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici di controllo di cui
all’articolo 275 bis del codice di procedura penale,» sono state inserite dall’art. 2,
comma 2, della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(4) Le parole: «581 e 582 del codice penale» sono state così sostituite dalle
attuali: «581, 582, 610, 612, secondo comma, 614 e 635 del codice penale»
dall’art. 1, comma 1, lett. b), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(5) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. c), della L. 24
novembre 2023, n. 168.

3.1. (1) Particolari tutele per le vittime di violenza


domestica. – 1. L’organo di polizia che procede a seguito di
denuncia o querela per fatti riconducibili ai delitti di cui all’articolo
362, comma 1 ter, del codice di procedura penale commessi in
ambito di violenza domestica, qualora dai primi accertamenti
emergano concreti e rilevanti elementi di pericolo di reiterazione
della condotta, ne dà comunicazione al prefetto che, sulla base delle
valutazioni espresse nelle riunioni di coordinamento di cui all’articolo
5, comma 2, del decreto legge 6 maggio 2002, n. 83, convertito, con
modificazioni, dalla legge 2 luglio 2002, n. 133, può adottare misure
di vigilanza dinamica, da sottoporre a revisione trimestrale, a tutela
della persona offesa.
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 1, comma 2, della L. 24 novembre
2023, n. 168.

9.

L. 7 luglio 2016, n. 122. Disposizioni per l’adempimento


degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia
all’Unione europea - Legge europea 2015-2016 (Gazzetta
Ufficiale Serie gen. - n. 156 del 8 luglio 2016) (1).

(1) Le parole: «Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie» sono state così
sostituite dalle attuali: «Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle
infrastrutture stradali e autostradali (ANSFISA)» dall’art. 12, comma 20, del D.L.
28 settembre 2018, n. 109, convertito, con modificazioni, nella L. 16 novembre
2018, n. 130.

(Estratto)

Capo III
Disposizioni in materia di giustizia e sicurezza

Sezione II (1)
(1) Si vedano i commi 2 e 3 dell’art. 6 della L. 20 novembre 2017, n. 167, che si
riportano:
«2. L’indennizzo previsto dalla sezione II del capo III della legge 7 luglio 2016,
n. 122, come modificata, da ultimo, dal presente articolo, spetta anche a chi è
vittima di un reato intenzionale violento commesso successivamente al 30 giugno
2005 e prima della entrata in vigore della medesima legge.
3. La domanda di concessione dell’indennizzo ai sensi del comma 2 del presente
articolo è presentata, a pena di decadenza, entro il termine di centoventi giorni
dalla data di entrata in vigore della presente legge, alle condizioni e secondo le
modalità di accesso all’indennizzo previste dagli articoli 11, 12, 13, comma 1, e 14
della legge 7 luglio 2016, n. 122, come modificati, da ultimo, dal presente
articolo».

11. Diritto all’indennizzo in favore delle vittime di reati


intenzionali violenti, in attuazione della direttiva
2004/80/CE. Procedura di infrazione 2011/4147. – 1. Fatte
salve le provvidenze in favore delle vittime di determinati reati
previste da altre disposizioni di legge, se più favorevoli, è
riconosciuto il diritto all’indennizzo a carico dello Stato alla vittima di
un reato doloso commesso con violenza alla persona e comunque
del reato di cui all’articolo 603 bis del codice penale, ad eccezione
dei reati di cui agli articoli 581 e 582, salvo che ricorrano le
circostanze aggravanti previste dall’articolo 583 del codice penale.
2. L’indennizzo per i delitti di omicidio, violenza sessuale o lesione
personale gravissima, ai sensi dell’articolo 583, secondo comma, del
codice penale nonchè per il delitto di deformazione dell’aspetto
mediante lesioni permanenti al viso di cui all’articolo 583 quinquies
del codice penale (1), è erogato in favore della vittima o degli aventi
diritto indicati al comma 2 bis nella misura determinata dal decreto
di cui al comma 3. Per i delitti diversi da quelli di cui al primo
periodo, l’indennizzo è corrisposto per la rifusione delle spese
mediche e assistenziali (2).
2 bis. In caso di morte della vittima in conseguenza del reato,
l’indennizzo è corrisposto in favore del coniuge superstite e dei figli;
in mancanza del coniuge e dei figli, l’indennizzo spetta ai genitori e,
in mancanza dei genitori, ai fratelli e alle sorelle conviventi e a carico
al momento della commissione del delitto. Al coniuge è equiparata la
parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. In mancanza
del coniuge, allo stesso è equiparato il convivente di fatto che ha
avuto prole dalla vittima o che ha convissuto con questa nei tre anni
precedenti alla data di commissione del delitto. Ai fini
dell’accertamento della qualità di convivente di fatto e della durata
della convivenza si applicano le disposizioni di cui all’articolo 1,
commi 36 e 37, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (3).
2 ter. Nel caso di concorso di aventi diritto, l’indennizzo è ripartito
secondo le quote previste dalle disposizioni del libro secondo, titolo
II, del codice civile (3).
3. Con decreto del Ministro dell’interno e del Ministro della
giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da
emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, sono determinati gli importi dell’indennizzo, comunque nei
limiti delle disponibilità del Fondo di cui all’articolo 14, assicurando
un maggior ristoro alle vittime dei reati di violenza sessuale e di
omicidio e, in particolare, ai figli della vittima in caso di omicidio
commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona
che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa (4)
(5).
(1) Le parole: «nonchè per il delitto di deformazione dell’aspetto mediante lesioni
permanenti al viso di cui all’articolo 583 quinquies del codice penale» sono state
inserite dall’art. 20, comma 1, della L. 19 luglio 2019, n. 69.
(2) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 1, comma 593, lett. a), n. 1),
della L. 30 dicembre 2018, n. 145, a decorrere dal 1° gennaio 2019.
(3) Questo comma è stato inserito dall’art. 1, comma 593, lett. a), n. 2), della L.
30 dicembre 2018, n. 145, a decorrere dal 1° gennaio 2019.
(4) Le parole: «e, in particolare, ai figli della vittima in caso di omicidio
commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata
legata da relazione affettiva alla persona offesa» sono state aggiunte dall’art. 1,
comma 146, della L. 11 dicembre 2016, n. 232.
(5) Si veda il D.M. 22 novembre 2019 (G.U. serie gen. - n. 18 del 23 gennaio
2020).

12. Condizioni per l’accesso all’indennizzo. – 1. L’indennizzo è


corrisposto alle seguenti condizioni:
[a) che la vittima sia titolare di un reddito annuo, risultante
dall’ultima dichiarazione, non superiore a quello previsto per
l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato] (1);
b) che la vittima abbia già esperito infruttuosamente l’azione
esecutiva nei confronti dell’autore del reato per ottenere il
risarcimento del danno dal soggetto obbligato in forza di sentenza di
condanna irrevocabile o di una condanna a titolo di provvisionale;
tale condizione non si applica quando l’autore del reato sia rimasto
ignoto oppure quando quest’ultimo abbia chiesto e ottenuto
l’ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato nel
procedimento penale o civile in cui è stata accertata la sua
responsabilità oppure quando l’autore abbia commesso il delitto di
omicidio nei confronti del coniuge anche legalmente separato o
divorziato, dell’altra parte di un’unione civile, anche se l’unione è
cessata, o di chi è o è stato legato da relazione affettiva e stabile
convivenza (2) (3);
c) che la vittima non abbia concorso, anche colposamente, alla
commissione del reato ovvero di reati connessi al medesimo, ai sensi
dell’art. 12 del codice di procedura penale;
d) che la vittima non sia stata condannata con sentenza definitiva
ovvero, alla data di presentazione della domanda, non sia sottoposta
a procedimento penale per uno dei reati di cui all’art. 407, comma 2,
lettera a), del codice di procedura penale e per reati commessi in
violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di
imposte sui redditi e sul valore aggiunto;
e) che la vittima non abbia percepito, in tale qualità e in
conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti
pubblici o privati, somme di denaro di importo pari o superiore a
quello dovuto in base alle disposizioni di cui all’articolo 11 (4);
e bis) se la vittima ha già percepito, in tale qualità e in
conseguenza immediata e diretta del fatto di reato, da soggetti
pubblici o privati, somme di denaro di importo inferiore a quello
dovuto in base alle disposizioni di cui all’articolo 11, l’indennizzo di
cui alla presente legge è corrisposto esclusivamente per la differenza
(5).
1 bis. In caso di morte della vittima in conseguenza del reato, le
condizioni di cui al comma 1 devono sussistere, oltre che per la
vittima, anche con riguardo agli aventi diritto indicati all’articolo 11,
comma 2 bis (6).
(1) Questa lettera è stata abrogata dall’art. 6, comma 1, lett. a), della L. 20
novembre 2017, n. 167.
(2) Le parole: «oppure quando l’autore abbia commesso il delitto di omicidio nei
confronti del coniuge anche legalmente separato o divorziato, dell’altra parte di
un’unione civile, anche se l’unione è cessata, o di chi è o è stato legato da
relazione affettiva e stabile convivenza» sono state inserite dall’art. 1, comma 489,
della L. 27 dicembre 2019, n. 160, a decorrere dal 1° gennaio 2020.
(3) Questa lettera è stata così sostituita dall’art. 6, comma 1, lett. b), della L. 20
novembre 2017, n. 167.
(4) Questa lettera è stata così sostituita dall’art. 1, comma 593, lett. b), n. 1),
punto 1.1), della L. 30 dicembre 2018, n. 145, a decorrere dal 1° gennaio 2019.
(5) Questa lettera è stata aggiunta dall’art. 1, comma 593, lett. b), n. 1), punto
1.2), della L. 30 dicembre 2018, n. 145, a decorrere dal 1° gennaio 2019.
(6) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 1, comma 593, lett. b), n. 2), della
L. 30 dicembre 2018, n. 145, a decorrere dal 1° gennaio 2019.

13. Domanda di indennizzo. – 1. La domanda di indennizzo è


presentata dall’interessato, o dagli aventi diritto in caso di morte
della vittima del reato, personalmente o a mezzo di procuratore
speciale e, a pena di inammissibilità, deve essere corredata dei
seguenti atti e documenti:
a) copia della sentenza di condanna per uno dei reati di cui
all’articolo 11 ovvero del provvedimento decisorio che definisce il
giudizio per essere rimasto ignoto l’autore del reato;
b) documentazione attestante l’infruttuoso esperimento
dell’azione esecutiva per il risarcimento del danno nei confronti
dell’autore del reato, salvo il caso in cui lo stesso sia rimasto ignoto
oppure abbia chiesto e ottenuto l’ammissione al gratuito patrocinio a
spese dello Stato nel procedimento penale o civile in cui è stata
accertata la sua responsabilità (1) oppure quando lo stesso abbia
commesso il delitto di omicidio nei confronti del coniuge, anche
legalmente separato o divorziato, dell’altra parte di un’unione civile,
anche se l’unione è cessata, o di chi è o è stato legato da relazione
affettiva e stabile convivenza (2);
c) dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, ai sensi
dell’articolo 46 del testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, sull’assenza delle condizioni
ostative di cui all’articolo 12, comma 1, lettere d) ed e), nonché sulla
qualità di avente diritto ai sensi dell’articolo 11, comma 2 bis (3);
d) certificazione medica attestante le spese sostenute per
prestazioni sanitarie oppure certificato di morte della vittima del
reato.
2. La domanda deve essere presentata nel termine di centoventi
(4) giorni dalla decisione che ha definito il giudizio per essere ignoto
l’autore del reato o dall’ultimo atto dell’azione esecutiva
infruttuosamente esperita ovvero dalla data del passaggio in
giudicato della sentenza penale (5) (6).
(1) Le parole: «, salvo il caso in cui lo stesso sia rimasto ignoto oppure abbia
chiesto e ottenuto l’ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato nel
procedimento penale o civile in cui è stata accertata la sua responsabilità» sono
state aggiunte dall’art. 6, comma 1, lett. d), della L. 20 novembre 2017, n. 167.
(2) Le parole: «oppure quando lo stesso abbia commesso il delitto di omicidio
nei confronti del coniuge, anche legalmente separato o divorziato, dell’altra parte
di un’unione civile, anche se l’unione è cessata, o di chi è o è stato legato da
relazione affettiva e stabile convivenza» sono state aggiunte dall’art. 16, comma 1,
lett. a), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(3) Le parole: «, nonché sulla qualità di avente diritto ai sensi dell’articolo 11,
comma 2 bis» sono state aggiunte dall’art. 1, comma 593, lett. c), della L. 30
dicembre 2018, n. 145, a decorrere dal 1° gennaio 2019.
(4) La parola: «sessanta» è stata così sostituita dalla attuale: «centoventi»
dall’art. 16, comma 1, lett. b), della L. 24 novembre 2023, n. 168.
(5) Le parole: «ovvero dalla data del passaggio in giudicato della sentenza
penale» sono state aggiunte dall’art. 6, comma 1, lett. e), della L. 20 novembre
2017, n. 167.
(6) A norma dell’art. 1, comma 594, della L. 30 dicembre 2018, n. 145, così
come, da ultimo, modificato dall’art. 2, comma 2, del D.L. 31 dicembre 2020, n.
183, convertito, con modificazioni, nella L. 26 febbraio 2021, n. 21, i termini di
presentazione della domanda previsti da questo comma, per la concessione
dell’indennizzo da corrispondere in conseguenza di lesione personale gravissima ai
sensi dell’articolo 583, secondo comma, del codice penale e di deformazione
dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso ai sensi dell’articolo
583 quinquies del codice penale sono riaperti e prorogati, a pena di decadenza,
fino al 31 dicembre 2021. Tuttavia, per i soggetti in relazione ai quali, alla data del
31 ottobre 2021, non risultano ancora sussistenti tutti i requisiti e le condizioni di
cui agli articoli 12 e 13, comma 1, della legge n. 122 del 2016, il termine per la
presentazione della domanda di accesso all’indennizzo è quello di cui al comma 2
del predetto articolo 13.

13 bis. (1) Provvisionale. – 1. La vittima o, in caso di morte, gli


aventi diritto che, in conseguenza dei reati di cui all’articolo 11,
comma 2, primo periodo, commessi dal coniuge, anche separato o
divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva
alla persona offesa, vengano a trovarsi in stato di bisogno possono
chiedere una provvisionale, da imputare alla liquidazione definitiva
dell’indennizzo, quando è stata pronunciata sentenza di condanna o
di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo
444 del codice di procedura penale, anche non irrevocabile, o
emesso decreto penale di condanna, anche non esecutivo.
2. La provvisionale è corrisposta alle condizioni di cui all’articolo
12, comma 1, lettere c), d) ed e), e comma 1 bis, e nei limiti delle
risorse disponibili allo scopo, a legislazione vigente, nel Fondo di cui
all’articolo 14. È comunque escluso il soggetto che abbia commesso
o concorso alla commissione del reato.
3. L’istanza è presentata al prefetto della provincia di residenza o
nella quale è stato commesso il reato e deve essere corredata, a
pena di inammissibilità, dei seguenti documenti:
a) copia del provvedimento giurisdizionale di cui al comma 1;
b) dichiarazione sostitutiva di certificazione e dell’atto di notorietà,
ai sensi degli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, sull’assenza
delle condizioni ostative di cui all’articolo 12, comma 1, lettere d) ed
e), nonchè sulla qualità di avente diritto ai sensi dell’articolo 11,
comma 2 bis, della presente legge;
c) certificato ovvero dichiarazione sostitutiva di certificazione e
dell’atto di notorietà, ai sensi degli articoli 46 e 47 del testo unico di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n.
445, attestante la situazione economica dell’istante e delle persone
di cui all’articolo 433 del codice civile.
4. Il prefetto, entro sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza,
verifica la sussistenza dei requisiti, avvalendosi anche degli organi di
polizia.
5. Il Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso
e dei reati intenzionali violenti, di cui all’articolo 3 della legge 22
dicembre 1999, n. 512, acquisiti gli esiti dell’istruttoria dal prefetto,
provvede entro centoventi giorni dalla presentazione dell’istanza. La
provvisionale può essere assegnata in misura non superiore a un
terzo dell’importo dell’indennizzo determinato secondo quanto
previsto dal decreto di cui all’articolo 11, comma 3.
6. Il Comitato di cui al comma 5 dichiara la decadenza dal
beneficio della provvisionale e dispone la ripetizione di quanto
erogato nei seguenti casi:
a) qualora non sia presentata domanda di indennizzo nel termine
di cui all’articolo 13, comma 2, ovvero questa sia respinta o
dichiarata inammissibile;
b) qualora, decorso il termine di due anni dalla concessione della
provvisionale e con cadenza biennale per gli anni successivi, in
assenza delle condizioni per la presentazione della domanda di
indennizzo, non sia prodotta autocertificazione sulla non definitività
della sentenza penale o della procedura esecutiva o sulla mancata
percezione di somme in connessione al reato.
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 17, comma 1, della L. 24 novembre
2023, n. 168.

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