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Questo libro è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi, marchi, media ed
episodi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono utilizzati in modo
fittizio. L’ autore riconosce lo status del marchio di fabbrica e i proprietari del marchio dei
vari prodotti, band e/o ristoranti menzionati in questo romanzo, che sono stati usati senza
permesso.
La pubblicazione/uso di questi marchi non è autorizzata, associata o sponsorizzata dai
proprietari del marchio. Qualsiasi somiglianza con persone reali viventi o defunte, eventi
o luoghi è puramente causale.
Titolo originale: Us
Copyright © 2016 by Sarina Bowen e Elle Kennedy
Traduzione dall’inglese di Valentina Cabras
Prima edizione: marzo 2020
Insieme © 2019 Always Publishing s.r.l. - Salerno
This is a work of fiction.
Names, characters, places, and incidents either
are the product of the author’s imagination or are used fictitiously.
Any resemblance to persons, living or dead, business establishments,
events, or locales is entirely coincidental.
All rights reserved. No part of this book may reproduced, scanned
or distributed in any manner whatsoever without written permission
from the author except in the case of brief quotations embodied in articles or reviews.
ISBN 978-88-85603-851
Photo ©ArtofPhotos/Shutterstock.com
www.alwayspublishingeditore.com
Titolo originale dell’opera
Us
1
Non sono incazzato. No, non sono incazzato per niente. Insomma,
che altro avrebbe dovuto fare Wes? Sbattere la porta in faccia al
compagno di squadra? Indicarsi l’uccello duro e dirgli: “Scusa, bello,
sto per scopare con il mio ragazzo?”. Il ragazzo che non vedeva da
otto giorni, quello che l’ha aspettato con ansia in questo
appartamento vuoto e che si è assicurato che avesse la cena pronta
sul tavolo e…
Okay. Forse sono un tantino incazzato.
Mia madre sostiene sempre che ho la pazienza di un santo, ma al
momento non mi sento molto santo. Il mio normale stato rilassato e
di calma infinita è stato sostituito da un senso di fastidio ben
radicato. Addirittura, risentimento.
Wes mi è mancato.
Mi manca ogni volta che è in viaggio, e tutto quello che volevo per
stanotte era riabituarmi a stare con l’uomo che amo, preferibilmente
facendo sesso selvaggio.
L’uomo che amo.
Ancora adesso, quell’espressione risuona nella mia mente quasi
con meraviglia. Non ho dato di matto quando l’estate scorsa mi sono
reso conto di essere bisessuale, e di certo non lo farò ora. Non è la
parola “uomo” ad affascinarmi in quella frase, ma la parola “amore”.
Quello che provo per Ryan Wesley… è qualcosa che pensavo
esistesse solo nei film. È la mia metà. Ci completiamo in molti più
modi di quanti riesca a contarne. Quand’è nella mia stessa stanza,
non vedo altro che lui. E quando non c’è vado in giro sentendo la
sua mancanza.
C’è una vecchia frase che mia madre una volta ha dipinto su un
piatto di ceramica: “L’amore è un’amicizia ardente”. Ora la capisco.
Ma ciò non significa che non sia incazzato con lui.
Lo guardo mentre si infila in bocca le enchiladas. I suoi stupendi
occhi grigi sono fissi sullo schermo della TV, ma so che non sta
prestando attenzione al telefilm. La tensione delle sue spalle
risulterebbe impercettibile a chiunque altro, ma io la vedo
chiaramente e la mia irritazione si placa un po’.
Odia questa situazione tanto quanto te, mi sussurra la coscienza.
Vaffanculo, coscienza. Sto cercando di piangermi addosso.
Blake, d’altra parte, si sta godendo la vita. Grida contro lo schermo
quando si svolge una scena d’azione particolarmente tosta e scola la
sua birra come se non avesse preoccupazioni. Ovvio che non ne ha.
Gioca nella squadra da tre anni e fa faville sul ghiaccio, stando alla
veloce ricerca su Google che ho fatto quando sono andato in
camera a cercare una maglietta. E, soprattutto, è etero: non deve
nascondere con chi va a letto né presentare il suo compagno come
“coinquilino”. Bastardo fortunato.
Sento un retrogusto amaro in bocca quando mi ricordo che, agli
occhi del mondo, anche Ryan Wesley è etero. Il mio ragazzo è
comparso in un sacco di liste del tipo I migliori scapoli dell’hockey. A
ogni partita, ci sono almeno cinque donne che hanno cartelli con
slogan brillanti e allusivi rivolti a lui, tipo: “Urlo per Ryan!” o “Wes la
bestia is the best”. O quelli meno originali: “Voglio avere i tuoi
bambini, #57!!!”
Io e Wes ridiamo per tutte le attenzioni che attira ma, anche se so
che non c’è pericolo che il mio ragazzo gay fino al midollo inzuppi il
biscotto in qualche passera, quelle occhiate fameliche che gli
lanciano danno comunque fastidio.
«Cristo» schiamazza Blake. «Quelle tette sono un cazzo di
spettacolo.»
Il commento sconcio mi riporta al presente. Allo sgradito presente.
Sullo schermo, uno dei personaggi femminili si è appena spogliato –
viva Cinemax! – e non mentirò: il suo seno è incredibile. E, dal
momento che dovrei essere il coinquilino super etero di Wes (e sono
già stato fin troppo maleducato con il suo compagno di squadra),
decido di fornire il mio modesto parere. «Sono una meraviglia»
concordo. «Quell’attrice è una figa pazzesca.»
La frase mi fa guadagnare una leggera smorfia di Wes, e questo
basta a far riemergere il nervosismo. Sul serio? Permette al suo
compagno di rovinarci la serata e poi gli girano se trovo attraente
un’attrice?
Blake prende il mio contributo alla conversazione come un segno
che siamo diventati migliori amici e si gira verso di me con gli occhi
verdi che brillano. «Ti piacciono le bionde, eh? Anche a me. Ti vedi
con qualcuna?»
Con la coda dell’occhio vedo le spalle di Wes irrigidirsi di nuovo. E
lo fanno anche le mie, ma potrebbe anche essere perché la poltrona
su cui sono seduto è scomodissima. Bastano appena cinque minuti
su quell’affare e sembra di aver subito ore di torture medievali.
Inoltre, sono sicuro al novantanove percento che ci è morto sopra
qualcuno. Wes l’ha trovata sul marciapiedi e non se ne libera, anche
se continuo a chiederglielo.
La prossima settimana, quella merda finisce sul marciapiedi.
La poltrona, intendo. Non Wes.
«Non proprio» rispondo vago, il che fa comparire un’altra smorfia
sulle labbra sexy di Wes.
«Ti dai da fare, eh? Anch’io.» Blake si passa una mano tra i capelli
castani. È molto attraente. Ed è enorme. Almeno un metro e
novanta, e bello massiccio. «Chi ce l’ha il tempo per una relazione
nel nostro mondo? Vero, Wesley? Sembra che tutta la nostra vita
consista nel salire e scendere da un aereo.»
Wes borbotta qualcosa di incomprensibile.
«Non ho idea di come facciano Eriksson e gli altri» continua Blake.
«Durante la stagione, sono sfinito. E sono single.» Rabbrividisce.
«Pensa avere moglie e figli. È, tipo, terrificante. Secondo voi è così
che nascono gli zombie? Non per un qualche virus strano, ma
perché si è talmente sfiniti che mangiare cervelli di colpo sembra
una buona idea?»
Non riesco a non ridacchiare. Ho l’impressione che Blake Riley
potrebbe portare avanti un’intera discussione da solo. Che poi è
quello che sta facendo ora, dal momento che né io né Wes
proferiamo parola.
Appena l’episodio finisce, Blake prende il telecomando dal tavolino
e fa partire quello successivo senza chiedere il permesso. E poi apre
un’altra birra.
Il grumo di rancore che sento in gola adesso è grande quanto un
disco da hockey. Sono le nove passate. Devo coricarmi entro le
dieci, altrimenti domani mattina sarò mezzo morto. Se non dormo
almeno sette ore, mi prende l’insonnia, come Edward Norton in Fight
Club. Cavolo, in questo momento vorrei che la mia vita fosse Fight
Club, almeno avrei la scusa per trascinare Blake Riley via dal mio
divano e buttarlo fuori a calci.
Ma non posso. Ho promesso a Wes che avrei mantenuto le
apparenze almeno fino alla fine della sua stagione d’esordio. Fare
coming-out adesso danneggerebbe la sua carriera, e preferirei
tuffarmi in una vasca di vetri rotti piuttosto che rovinare il suo sogno.
Quindi mi siedo sulla poltrona della morte e fingo di interessarmi a
quello che c’è in TV. Fingo interesse per quello che Blake sta
blaterando, e a volte addirittura rido alle sue battute. Ma alle dieci e
un quarto non posso più permettermi il lusso di mantenere le
apparenze.
«Vado a dormire» comunico, alzandomi. «Devo essere allo stadio
alle cinque e mezza, domani mattina.»
Blake sembra sinceramente dispiaciuto di vedermi andare via.
«Sicuro di non poter restare per un’altra birra?»
«Magari un’altra volta. ‘Notte, ragazzi. È stato un piacere, Blake.»
«Anche per me, J-Bomb.»
Sì, Blake Riley dà soprannomi a persone che ha appena
conosciuto. Perché non mi sorprende?
Quando supero il divano, lancio un’occhiata a Wes. Ha la
mascella serrata e stringe forte la bottiglia di birra, mentre la mano
libera giocherella con il piercing al sopracciglio facendo girare il
cerchietto. Conosco questo ragazzo da quando avevo tredici anni.
Per me è come un libro aperto, ed è ovvio che in questo momento
non è affatto felice.
Nemmeno io, ma a parte cacciare Blake non c’è niente che
possiamo fare se non fingere di essere solo coinquilini che a volte
guardano insieme la TV.
A causa della stanchezza, faccio qualche passo in corridoio prima
di rendermi conto che ho un problema: non posso andare a dormire
nel nostro letto. Anche se ho conosciuto Blake solo oggi, non posso
essere sicuro che non sia mai stato qui. Quando è venuto a vedere
casa sua, ha visto anche il nostro appartamento? Wes gli ha
mostrato la vista dalla camera da letto?
Secondo la storia di copertura che raramente usiamo, la camera
degli ospiti è la mia. Quindi faccio una piccola inversione a U nel
corridoio buio e vado nel secondo bagno. Ci sono un dentifricio e
uno spazzolino che ho lasciato lì un po’ di tempo fa per dare alla
stanza un’apparenza vissuta.
Ho pensato di essere un fottuto genio per aver pensato a questa
sorta di scenografia. Ma ora eccomi qui, a fingere che la mia stanza
non è davvero mia. Entro nella camera degli ospiti e chiudo la porta,
escludendo i suoni del telefilm. Da quando io e Wes abbiamo iniziato
a convivere, questa stanza è stata usata solo una volta – quando i
miei genitori sono venuti dalla California per un fine settimana.
Stanotte sono io a buttare per terra i vestiti e a scostare la coperta
per infilarmi nel letto matrimoniale. E non mi piace.
Mi giro su un fianco ed elenco tutto quello che non va bene in
questo momento. Le tende sono trasparenti e non blu e spesse, il
materasso è più morbido rispetto a quello a cui sono abituato e il
cuscino ha più protuberanze.
Il mio ragazzo è in salotto anziché qui a farmi eccitare, come
avrebbe dovuto.
Chiudo gli occhi e cerco di dormire.
Sto sognando una vasca idromassaggio, e i getti sono fantastici.
Però il mio uccello è l’unica parte di me che entra nella vasca. Ma va
bene, perché ce l’ho duro e l’acqua è meravigliosa. Addirittura
magica.
Un attimo…
Come non detto. C’è una bocca calda intorno alla mia asta.
E forse sto ancora sognando, perché quando apro gli occhi
l’ambiente è sbagliato: la luce è strana e la testiera del letto produce
un rumore insolito mentre una testa scura si muove sopra di me e
una bocca sexy ci sta dando dentro con il mio cazzo.
Cavolo, che meraviglia.
«Sei sveglio, piccolo?» chiede Wes con voce roca.
«Più o meno. Non ti fermare.»
La sua risata mi massaggia la cappella. «Bene. Iniziavo a sentirmi
un maniaco.»
Una mano forte mi afferra l’erezione e mi sfugge un altro gemito
sordo. «Che ore sono?» Sono ancora intontito per il sonno. Il mio
piano consisteva nel tornare in camera nostra appena Blake se ne
fosse andato, ma devo essere crollato appena ho posato la testa sul
cuscino bitorzoluto.
«Le undici e mezza» sussurra. «Non ti terrò sveglio per molto,
giuro. È che… Mmm.» Il verso che emette sembra arrivare
direttamente dalla sua anima. «Cazzo, quanto mi sei mancato.»
Il risentimento che ho indossato come un’armatura per tutta la
sera si polverizza. Mi è mancato anche lui, e sarei stato un gran
pezzo di merda se avessi dato a Wes la colpa dell’interruzione
sgradita di Blake. Non è stata colpa sua se il suo compagno di
squadra si è presentato, e non è colpa sua se deve viaggiare così
tanto. Sapevamo entrambi fin dall’inizio che, finché Wes avesse
giocato a livello professionistico, avremmo dovuto affrontare lunghi
periodi di lontananza.
Gli passo le mani tra i capelli scuri e gli tiro su la testa. «Vieni qui»
ordino con voce roca.
Il suo corpo caldo e muscoloso scivola in alto e copre il mio. Gli
abbasso la testa per baciarlo. Adoro le sue labbra. Sono sicure e
avide. Sono magiche. I nostri baci diventano più profondi, sempre
più disperati mentre i nostri corpi si muovono sul materasso,
facendolo cigolare in modo incontrollabile.
Wes allontana la bocca e scoppia a ridere. «Meno male che i tuoi
genitori non hanno fatto sesso quando sono venuti a trovarci.
Questo letto fa un casino pazzesco.»
«Sarei rimasto traumatizzato a vita» concordo. Poi riprendo a
baciarlo perché, cavolo, è tardi, devo svegliarmi tra sei ore e ho
troppo bisogno di tutto questo.
Wes mi legge nel pensiero e infila la lingua tra le mie labbra
schiuse. Gliela succhio con entusiasmo, poi grugnisco, deluso. «Mi
manca il piercing alla lingua» mi lamento, senza fiato. L’ha tolto
all’inizio della stagione; evidentemente la squadra pensava non
fosse sicuro.
«Tranquillo,» scherza, «posso farti godere anche senza.» Un
attimo dopo, la sua lingua esperta scivola sul mio petto nudo e torna
sul mio uccello pulsante.
Mi prende tutto in bocca e sollevo i fianchi dal letto. Cristo. Da
quando ci siamo messi insieme, ci siamo fatti centinaia di pompini,
ma non smetto mai di stupirmi per quanto sia bello. Wes sa con
esattezza come muoversi per farmi venire. La sua fiducia in se
stesso mi fa eccitare un sacco, e non ha bisogno di istruzioni quando
si tratta di soddisfarmi.
Certo, ciò non mi impedisce di borbottare qualche ordine, ma solo
perché ci piace dire porcherie. «Ecco, lecca la punta. Sì, così.» Ho
una mano tra i suoi capelli e l’altra stringe le coperte. È passato
tanto tempo da quando mi ha preso in bocca, e la tensione alle palle
è quasi insopportabile.
La lingua di Wes mi traccia un cerchio lento e umido sulla punta,
poi scorre sulla lunghezza, ancora e ancora, finché ho il pisello
lucido e ho finito la pazienza.
«Devo venire» gemo.
Lui ridacchia piano. «Tranquillo, piccolo, ci penso io.»
E, porca puttana, lo fa. Le leccate diventano strattoni umidi
sull’erezione che mi fanno fremere dal piacere. Con la mano mi
massaggia le palle mentre mi accoglie fino in gola, succhiando forte
e veloce finché sono pronto a esplodere. Finché esplodo davvero.
Wes ringhia quando gli vengo in bocca, e smette di succhiare solo
quando mi ritrovo molle e inebetito. Mentre gli spasmi dell’orgasmo
continuano a scuotere il mio corpo soddisfatto, mi rendo vagamente
conto che ora Wes è accanto a me. Mi bacia il collo, mi massaggia
gli addominali, sfrega la guancia sulla barba.
«Quanto cazzo amo questa barba» sussurra.
«Quanto cazzo ti amo» mormoro in risposta. In qualche modo,
trovo la forza per posargli un braccio sulle spalle larghe e avvicinarlo
a me. La sua erezione sembra un tizzone ardente contro la mia
coscia, e quando mi giro per baciarlo geme sulla mia bocca e si
sfrega contro di me. Quindi lo sfioro con le nocche e lui sibila.
«Cosa vuoi?» chiedo tra un bacio e l’altro. «In questa stanza non
c’è lubrificante.»
Wes mugugna e preme i fianchi contro di me. «Non ci serve.
Voglio la tua bocca.»
Mi sposto un po’ più in alto sul cuscino. «Allora vieni qui. Fa’
vedere alla barba chi è che comanda.»
Con un grugnito prende l’altro cuscino e me lo sistema sotto la
testa, poi sposta una gamba e striscia verso l’alto.
Gli poso la mano sugli addominali e allargo le dita. È bellissimo
sentirlo sotto il palmo, caldo e sodo. Sono stufo di passare la notte
da solo; mi piace la presenza di un altro corpo nel letto. Quando non
c’è, mi manca girarmi e ritrovarmi contro il suo caldo corpo
addormentato.
Ma ora non è addormentato.
Allarga bene le gambe muscolose e gli afferro i glutei per
avvicinarlo di più. Il suo uccello è duro e già umido per me. E si
avvicina. Per stuzzicarlo un po’, serro le labbra e lui emette un verso
impaziente. Gli prendo il cazzo e me lo passo sulle labbra,
solleticandolo con la barba che mi copre il mento.
Sopra di me, Wes freme, eccitato. Dalle tende filtra abbastanza
luce da poter vedere che i tatuaggi sulle sue braccia sembrano
ombre, quando si muove. Il suo odore virile inizia a farmi impazzire.
Tiro fuori la lingua e lo assaggio, e lui ansima per l’aspettativa.
Ma non ho ancora finito di torturarlo. Allungo il collo in avanti,
premo il viso contro il suo inguine e glielo mordicchio. Ora mi sta
sfregando l’uccello sul collo, è talmente eccitato che scoperebbe
qualsiasi superficie del mio corpo. Quando Wes è disperato, è
divertente. Adoro costringerlo a perdere un po’ del suo autocontrollo.
Un giornalista sportivo una volta l’ha definito “impenetrabile,
imperturbabile, con i nervi d’acciaio”.
Ma io so qual è la verità.
Gli blocco il cazzo con la mano e muovo lentamente il collo,
strofinando la barba su ogni centimetro della sua erezione.
«Porca puttana» farfuglia. «Mi stai uccidendo. Datti una mossa e
succhiamelo.»
Gli bacio la punta e geme. Poi, di colpo, metto fine alle sue
sofferenze: apro bene la bocca e lo prendo tutto. Emette un verso
tutt’altro che virile che mi fa sorridere intorno al suo uccello, quindi
mi allontano leggermente e poi gli do un’altra forte succhiata. In
questo momento sono spietato. Non c’è ritmo, solo ambizione;
succhio, lecco, deglutisco. Lui spinge con frenesia, si gode
l’esperienza. E, appena un paio di minuti dopo, con un respiro
profondo annuncia: «Cazzo, sto venendo».
E non mente. Lo sento pulsare in bocca un’infinità di volte, e
inghiotto una settimana di tensione sessuale accumulata. Poi
abbandono la testa sui cuscini e sento la stanchezza sommergermi
nuovamente. Sopra di me, Wes china la testa e vedo il suo petto
allargarsi mentre riprende fiato. Sollevo entrambe le mani e allargo
le dita sul suo torace. «Sembri più magro» noto, sfiorandogli la pelle
liscia del petto con il pollice.
«Ho perso quasi sette chili dall’inizio della stagione.»
«Sette?» So che a volte i giocatori perdono un po’ di peso, ma
sette chili?
«Già. Succede.»
Lo spingo giù, e deve scivolare via da me in modo da poterci
abbracciare. «È un bel po’» gli sussurro all’orecchio. «Ti ci vogliono
più enchiladas.»
«Tu preparale, io le mangerò.» Affonda il viso nell’incavo del mio
collo. «Jamie?»
«Uhm?»
«Credo ci sia dello sperma nella tua barba.»
«Che schifo.»
Ride. «Sarà un problema?»
«Non lo so. È la prima volta che tengo la barba, e tu sei il primo a
schizzarci sopra.»
La sua voce è smorzata. «Ora possiamo andare nel nostro letto?»
«Sì.» Ma chiudo gli occhi, solo per un attimo.
Ci addormentiamo nella stanza degli ospiti, l’uno tra le braccia
dell’altro.
3
Sento bussare forte alla porta e può essere solo una persona.
Nessun altro del palazzo sa chi sono, nessuno sarebbe tanto
scortese da bussare alla mia cazzo di porta alle otto di mattina.
Nessuno tranne Blake Riley, certo. Io e Jamie ci blocchiamo a metà
bacio, in mezzo alla camera da letto. Siamo entrambi nudi,
gocciolanti per la doccia appena fatta e con delle erezioni colossali.
Lui ha un’espressione infastidita che rispecchia il mio stato d’animo.
«Forse, se lo ignoriamo, se ne andrà» sussurro.
Jamie emette un verso seccato.
«Wesley! Apri!»
La voce smorzata di Blake arriva fino alla camera da letto, e il viso
di Jamie diventa più cupo.
«Dai, bello, è un’emergenza!»
Mi irrigidisco. Merda. Per qualche motivo, il mio primo pensiero è
che sia venuta fuori la verità sul mio orientamento sessuale. Quanto
sono egoista? Come se i media di Toronto non avessero di meglio
da fare che riferire chi si scopa Ryan Wesley. Eppure, il mio timore
più grande è che i successi che sto avendo nella mia prima stagione
a Toronto saranno eclissati – o, peggio ancora, dimenticati – perché
essere un atleta professionista gay è una storia molto più succosa.
«Potrebbe essere importante» dico a Jamie, cercando di fargli
capire con lo sguardo quanto sono infelice per l’interruzione.
Mi infilo un paio di pantaloni della tuta e vado ad aprire. Blake si
fionda dentro casa con addosso un paio di pantaloncini e una
maglietta che mette in mostra i bicipiti enormi.
«Grazie, che cazzo» si lamenta. «Ce l’hai del caffè? Sono
disperato!»
Lo guardo a bocca aperta mentre marcia in cucina e inizia ad
aprire ante come se fosse in casa sua. Davvero? Mi ha quasi
sfondato la porta perché vuole del caffè? Mi devo mordere la lingua
per evitare di fargli notare che a Toronto ci sono un sacco di
caffetterie Tim Hortons, due delle quali nel raggio di tre isolati dal
nostro palazzo.
«Che fortuna che siamo vicini.» Blake afferra una tazza dalla
credenza e va dall’altra parte del bancone per accendere la
macchina del caffè.
Fortuna? Sono a tanto così dal commettere un omicidio. Ma so già
che quel corpo gigante non passerebbe nello scivolo che porta al
compattatore di rifiuti del palazzo. Mi si ferma il cuore quando noto la
tazza che ha in mano. Fa parte di una coppia e sopra c’è scritto
“SUO”, gentile concessione di Cindy Canning.
Ci ha regalato le tazze per le feste, e posso affermare con
sincerità che è il regalo più premuroso che abbia mai ricevuto. Vorrei
strappargliela dalla mano enorme e gridare: “È mia!”. O magari
pisciarci sopra per marcare il territorio. Ma Blake l’ha già riempita di
caffè e se la sta portando alla bocca.
Si appoggia al bancone e sorseggia il liquido caldo, poi fa un
sospiro soddisfatto. «Grazie. Non riesco a carburare senza la mia
vitamina C.»
Mi sta ringraziando come se l’avessi invitato gentilmente a
prendere un caffè. Cosa che non ho fatto.
Nel corridoio si sentono dei passi, poi Jamie compare in cucina.
Anche lui si è messo un paio di pantaloni della tuta, insieme a una
camicia blu sbottonata che mette in mostra gli addominali scolpiti e
la pelle liscia e dorata.
«Buongiorno» farfuglia senza guardarmi.
«Oh, cazzo, ti ho svegliato?» Blake sembra sinceramente
dispiaciuto. «Non sono bravo a bussare.» Solleva una mano
enorme. «Queste zampe non sanno essere delicate.»
«Nessun problema, tanto mi dovevo alzare» risponde Jamie. Si
versa una tazza di caffè, poi si gira e mi guarda. «Hai programmi per
oggi?»
So che sta cercando di comportarsi da coinquilino educato, ma il
dolore che gli leggo negli occhi mi sta straziando. Vorrei aprire la
bocca e dichiarare “Ho in programma di passare tutto il giorno sotto
il tuo corpo nudo!”, e che si fotta Blake. Ma tengo la bocca chiusa. Io
e Jamie ci siamo dati da fare per mantenere segreto il nostro
rapporto fin dall’inizio della stagione, possiamo sopravvivere qualche
altro mese nascosti.
«Non lo so ancora» rispondo allegramente.
Blake interviene: «Abbiamo quell’evento di beneficenza stasera, ti
ricordi? Champagne e modelle. Sento odore di troiaggine. Tu?»
Scuoto la testa. «No. Per una volta non sono nella lista. Le
pubbliche relazioni hanno chiesto di partecipare solo ai giocatori
veterani.»
«Merda, mi considerano un veterano? È solo la mia terza
stagione» protesta Blake. Beve velocemente un sorso. «Spero non
significhi che pensano stia invecchiando.»
«Hai venticinque anni» ribatto, seccato. «Sono sicuro che ti
considerano ancora un pulcino.»
Posa l’avambraccio sul bancone, e quasi soffoco quando mi rendo
conto che è poggiato nel punto preciso in cui ho fatto piegare Jamie
neanche dieci minuti fa. È palese che il mio uomo stia pensando alla
stessa cosa, perché mi rivolge un sorriso sbilenco da dietro la spalla
del mio compagno di squadra.
Blake beve il suo caffè e vedo il suo sguardo illuminarsi. «Ah! Mi è
venuta un’idea magnifica. Lo sapevi che sono intelligente?» Tira
fuori il telefono dalla tasca e inizia a scrivere messaggi.
Non gli chiedo perché, dal momento che fa comizi su qualsiasi
cosa gli passi in quel testone. Quindi mi godo il silenzio e prendo
una tazza di seconda scelta, visto che Blake sta usando la mia, e mi
verso del caffè. Jamie ora sta trafficando in cucina e tira fuori cose
dal frigo: una dozzina di uova, qualche tortilla di mais del negozio
biologico in cui gli piace fare la spesa, salsiccia di chorizo, salsa
messicana. Prende una scodella di vetro e inizia a rompere le uova.
Adoro l’attenzione che dedica alla cucina. Potrei guardargli le mani
tutto il giorno. Al momento starebbero meglio sul mio uccello, ma
anche così non sono male. Mette la salsiccia in una padella
riscaldata, e questa inizia a sfrigolare. Poi infila la padella nel forno.
«Cavolo» esclama Blake, alzando lo sguardo dal telefono. «Che
combini, J-Bomb?»
«Preparo la colazione» risponde Jamie, buttando i gusci delle
uova nella spazzatura. «Wesley mi ha detto che più tardi ha
intenzione di fare un intenso allenamento, ho pensato gli servissero
proteine.» Tira fuori uno strofinaccio da un cassetto e mi lancia
un’occhiata significativa. Poi inizia a sbattere le uova.
«Porca vacca! Cucini?» si meraviglia Blake, la faccia da
cucciolone palesemente colpita. «Non mi stupisce che piaci a
Wesley.»
Vedo Jamie mordersi il labbro per trattenere un sorriso. C’è una
lunga lista di cose che adoro di Jamie, e la sua cucina non rientra
neanche nelle prime cinquanta posizioni. C’è il suo sorriso, il suo
corpo perfetto, il suo carattere alla mano, la sua lingua esperta…
Certo. Ora non è proprio il momento di pensarci.
«Resti per colazione, Blake?» chiede Jamie, girandosi.
Il nostro vicino prende uno sgabello e ci si piazza sopra. «Ora non
vi libererete mai più di me.»
Cavolo. Inizierò a piangere come una bambina, se lo ripete.
Prendo dei piatti e delle posate e mi rendo utile.
Sto cercando di aiutare Jamie a impiattare il cibo, quando allungo
la mano verso il manico della padella. Prima ancora di rendermi
conto del movimento, Jamie scatta e mi dà un colpo alla mano per
allontanarla dalla padella.
«Ehi, bello!» grida Blake. «J-Bomb non vuole che gli tocchi la
salsiccia!» E ride istericamente della sua battuta.
Ma Jamie non riesce ad apprezzare l’ironia perché è impegnato a
guardarmi male.
«Ripassiamo: lo strofinaccio sul manico significa che…»
«Brucia. Mi sono dimenticato.» Sono già famoso perché mi brucio
sempre, e nemmeno cucino.
Jamie mi scaccia e serve la colazione.
«Quei riflessi da portiere,» dice Blake, «ti hanno salvato la mano.»
Due minuti dopo ci stiamo spazzolando tortillas di mais calde con
dentro uova strapazzate, chorizo, formaggio e salsa messicana.
Blake mangia un altro boccone e geme in modo buffo. «Ti amo.»
«Me lo dicono tutti i ragazzi» ribatte Jamie, impassibile.
Probabilmente sta pensando all’ultima volta in cui abbiamo fatto
colazione insieme nudi nel nostro letto.
Ma, alla fin fine, è difficile odiare Blake. Davvero. Soprattutto
quando sparecchia dopo aver mangiato e inizia a lavare i piatti
senza chiedere niente. Quando ha finito, pensa alle padelle e poi
pulisce il bancone. Jamie si versa un’altra tazza di caffè e si lascia
cadere sul divano mentre un’altra persona pulisce la cucina.
Anche Jamie si sta ammorbidendo nei confronti di Blake. Lo
capisco.
Alla fine, Blake ci ringrazia per la colazione e fa per uscire.
«Fammi controllare… Ah-ha!» esulta, digitando sul telefono.
«Fantastico. Ti ho procurato un invito all’evento di stasera! Sarà una
festa movimentata, la mia preferita della stagione. Parliamo di gente
famosa. Supermodelle, bello.»
«Non credo che…» inizio.
«Controlla la mail, va bene? Il responsabile delle pubbliche
relazioni ha detto che era entusiasta di averti. Due giocatori hanno
dato buca perché le mogli hanno sbroccato. La squadra ha
prenotato un tavolo e sembra brutto se non è pieno. Quindi ci sei
anche tu!»
Alla fine del bancone, il mio telefono inizia a squillare.
«Ci si vede, ragazzi. E il tuo cibo è una bomba, J-Bomb.» Blake
sta ancora parlando da solo quando esce dall’appartamento e
chiude la porta.
Jamie guarda la porta come se fosse un serpente velenoso e il
mio telefono riprende a suonare. Mi avvicino e lo guardo storto.
«Merda. Devo rispondere.» Lo prendo e saluto il capo delle
pubbliche relazioni. «Pronto? Frank?»
«Buongiorno, Ryan. Scusa se ti disturbo nel fine settimana.»
«Figurati.» Sono super educato perché sto parlando con l’uomo
che dovrà gestire il mio Grande Momento Gay, quando il segreto
verrà fuori. Ogni volta che ci parlo, lo tengo a mente.
«Blake Riley dice che stasera saresti disponibile ad andare
all’evento di beneficenza in abito scuro. So che a volte è un
lavoraccio passare l’ennesima notte lontano dalla famiglia, e voglio
tu sappia che apprezzo davvero che ti sia offerto.»
«Ehm…» Non mi sono offerto, sto per dire. «Hai detto “abito
scuro”?» Cristo. Ammazzerò Blake.
«Hai uno smoking? Posso darti il numero di un servizio che
fornisce abiti formali…»
«Ce l’ho» sospiro. «Grazie.»
«No, grazie a te. Ci vediamo alle otto. Senti, Ryan…» Esita.
«Sì?»
«Hai intenzione di venire accompagnato?»
«No» rispondo fin troppo velocemente.
«Va bene» replica in tono leggero. Ma sa che è una domanda
piena di significato. Frank è una delle poche persone che conosce la
verità su me e Jamie. Gliel’ho detto la scorsa estate, perché se la
squadra avesse voluto licenziarmi per questo, lo volevo sapere
subito. «Divertiti.»
Come no. «Sì, grazie.»
Quando chiudo la chiamata, Jamie è seduto sul divano e sta
fissando lo schermo, ma la TV non è nemmeno accesa. Vado lì e mi
siedo accanto a lui, poi poso i piedi vicino ai suoi sul tavolino e la
testa sul suo petto.
«Fammi indovinare: stasera vai a una festa.»
Nascondo il viso nell’incavo del suo collo. «Posso richiamare e
darmi malato.»
Jamie sospira. «Potrebbero lasciarti in panchina, se pensassero
che hai preso l’influenza di cui parlano al telegiornale. La gente inizia
ad avere paura. Domani devi giocare contro la squadra di Detroit.»
«Cazzo. ‘Fanculo a Blake.» Restiamo in silenzio per un minuto. Mi
sollevo e accarezzo la barba di Jamie. Mi ci sto ancora abituando.
«Va bene, lunedì chiamo un agente immobiliare e cerchiamo un’altra
casa.»
«Cosa?» Jamie scoppia a ridere.
«Sono serissimo. Questo è… Lui…» Non finisco neanche la frase,
perché è una cosa di cui non parliamo ad alta voce. Quello che
facciamo per nascondere la nostra relazione – le piccole omissioni
impacciate, le bugie – è terribile. So che dà fastidio anche a lui. Non
ne parliamo perché è imbarazzante. L’ho messo in questa posizione
perché volevo che la mia stagione d’esordio venisse giudicata solo
per le mie abilità, ma ora siamo a metà e diventa sempre più difficile
da sopportare.
«Non possiamo trasferirci» ribatte in tono piatto. «Sarebbe una
rottura di palle e non ci sarebbe comunque la garanzia di avere più
privacy.»
Tristemente vero. «Bastano solo tre mesi. Quattro al massimo.»
«Lo so.»
Restiamo ancora in silenzio. Ma almeno mi posa la mano sulla
schiena. Se Jamie mi tocca, allora andrà tutto bene. «Mi dispiace
per il film di stasera.»
«Possiamo andare allo spettacolo della mattina.»
«Certo» concordo. Ma nessuno dei due si alza per controllare gli
orari. Invece, inizio a lasciargli una scia di baci sul collo, proprio sotto
la camicia. Mi resiste per uno o due minuti, perché gli girano le palle
per la serata rovinata, ma io non demordo e, in fin dei conti, sono
irresistibile. Sposto le labbra sulla clavicola, poi sui pettorali sodi.
Apro bene la camicia e gli sfioro il capezzolo col naso, quindi inizio a
succhiare. Lui si muove sul divano e apre le gambe. Continuo a
baciargli il torso, scendendo più giù fino alla protuberanza nei
pantaloni. Jamie mi posa una mano tra i capelli e sospira. È un po’
triste, ma anche eccitato.
Il film ormai è bello che dimenticato. Dopo averglielo succhiato sul
divano, ci spostiamo sul letto e, per tutto il giorno, alterniamo pisolini
ad attività sessuali. E quando devo alzarmi e prepararmi per l’evento
di beneficenza a cui non mi interessa partecipare, è troppo rilassato
e soddisfatto per rimuginarci.
Alle sette, sto maledicendo la cravatta mentre lui mi guarda dal
letto. «Sei un figo pazzesco con lo smoking» commenta. «Anche se
la tua capacità di annodare cravatte fa pena.»
«Aiutami» frigno, ricominciando per la terza volta.
Si alza e mi scosta le mani. «Il trucco è iniziare tenendola molle e
tirare tutto alla fine. Tipo i pompini.»
Mi scappa una risatina. Chi l’avrebbe mai detto che la mia cotta
adolescenziale avrebbe imparato a fare pompini? Per tutte le
superiori, Jamie è stato la mia fantasia. Il bel biondino che mi sta
aggiustando la cravatta mi stupisce ancora ogni volta che mi tocca.
Resto immobile perché voglio che questo momento duri. Può
armeggiare con questa cosa tutta la notte, se significa avere un
posto in prima fila per vedere i suoi occhi castani – sorprendenti per
un ragazzo biondo – e i suoi marcati zigomi dorati.
«Ecco fatto» annuncia, e il suo respiro mi sfiora il viso. Tira ancora
una volta la cravatta.
Sposto con riluttanza lo sguardo verso lo specchio e vedo che la
cravatta è perfettamente centrata e dritta. Ora non ho più scuse per
restare a casa. «Grazie» dico, piano. E non è solo per la cravatta,
significa molto di più.
Mi tocca la guancia. «Non c’è di che. Ora va’. Fa’ il bravo. Saluta
quando sei sul tappeto rosso o quel che è. E quando ti chiedono
cosa stai indossando, inventati qualche cazzata.»
«Bell’idea.» Mi sporgo in avanti per dargli un bacio, uno al volo.
Poi scappo prima di ripensarci.
7
Venti minuti dopo, sto scendendo alla fermata Dundas della linea
Yonge. Quando esco dalla stazione della metro, il vento mi sferza il
viso. Mi infilo velocemente i guanti e tiro su il cappuccio, ma quando
arrivo al cinema ho la faccia quasi del tutto gelata.
Cerco di comprare il biglietto, ma il ragazzo con la faccia butterata
alla cassa mi dà una brutta notizia. «Mi dispiace, lo spettacolo è
stato cancellato.»
«Ma c’era sul sito del cinema» ribatto.
«Lo so, ma questo fine settimana è uscito Morph-Bots e dallo
scorso venerdì tutti i biglietti sono esauriti. Non vendevamo biglietti
per The Long Pass da giorni, quindi il direttore del cinema ha deciso
di usare la sala per uno spettacolo extra di Morph-Bots.» Si sfrega il
mento brufoloso, a disagio. «Vuoi un biglietto per Morph-Bots?»
Se ripete ancora una volta Morph-Bots giuro che do di matto, che
cazzo.
«…sono rimasti dei posti. Tutti in prima fila, ma…» Scrolla
timidamente le spalle, come se si fosse reso conto che non sta
buttando l’acqua al mulino di questo stupido film di robot.
«No, non fa niente. Grazie lo stesso.»
Infilo le mani nelle tasche della giacca e mi allontano lentamente
dalla biglietteria. Merda. E ora? Sono venuto fin qui ma non ci sono
altri film che mi interessa vedere.
Con il cuore pesante, esco dal cinema. Appena metto un piede
fuori al freddo, sento vibrare il telefono in tasca. È un messaggio di
Wes. Mi si stringe il cuore, quando lo leggo.
“Vorrei che fossi qui”.
Davvero? O è contento che non ci sia, perché significa non dover
rispondere alle domande imbarazzanti dei suoi compagni e dei
tifosi?
Cazzo. Non è giusto. Sono uno stronzo ad averlo anche solo
pensato, ma ultimamente è sempre più difficile andare avanti così.
Non mi hanno insegnato a nascondere chi sono. I miei genitori
hanno sempre incoraggiato noi sei figli a essere orgogliosi della
nostra identità, a seguire il nostro cuore e a fare ciò che ci rende
felici, al diavolo quello che pensano gli altri. Tutti i miei fratelli hanno
seguito il consiglio.
Tammy ha spostato il suo ragazzo delle superiori a diciotto anni,
rinunciando a una borsa di studio a un’università sulla costa est per
una pubblica perché suo marito Mark e il clan Canning erano la cosa
più importante per lei.
Joe è stato abbastanza coraggioso da essere il primo Canning a
divorziare, anche se mi ha confidato che era a disagio e che si è
sentito un fallito.
Jess si barcamena tra ragazzi e lavori come se volesse battere
qualche guinness dei primati. Ma non la giudichiamo. Non molto,
almeno. E io? Per ventidue anni ho frequentato solo donne, finché la
vita ha deciso di prendermi in contropiede: mi sono innamorato di un
altro uomo e l’ho accettato. Ma essere bisessuale non è una
passeggiata. L’estate scorsa, ho imparato con le cattive che non tutti
hanno la mente aperta come la mia famiglia, ma ho scelto la felicità
al posto delle opinioni deviate della gente e dei giudizi crudeli. Ho
scelto Wes.
Ora, però, devo nascondere quella scelta. Devo fingere che Ryan
Wesley non sia la mia anima gemella. Devo guardare delle cavolo di
foto su Instagram di lui che balla con ragazze bellissime e fingere di
non essere geloso.
“Anch’io vorrei essere lì” rispondo. Perché è vero. Vorrei esserci io
con lui stasera a quell’evento di beneficenza.
«Canning?»
Mi giro, sorpreso, e infilo d’istinto il telefono nella tasca, nel caso si
veda il nome di Wes sullo schermo. Il che mi fa incazzare ancora di
più, perché mi sto di nuovo nascondendo.
Coby Frazier, uno degli assistenti del coach della squadra della
lega giovanile, mi si avvicina sorridendo. Dietro di lui c’è Bryan
Gilles, coach associato di una delle altre squadre del mio capo.
Gilles è un tranquillo franco-canadese con la barba folta e un amore
viscerale per i motivi scozzesi – la fantasia del parka che ha
addosso stasera è a quadri. La camicia che gli spunta da sotto il
cappotto? A quadri anche quella.
«Quindi hai davvero una vita fuori dalla pista» scherza Frazier,
dandomi una pacca sulla spalla. Poi lo fa anche Gilles,
accompagnandola con un cenno del capo. «Hai un appuntamento
galante?»
Scuto la testa. «Mi ha dato buca all’ultimo. Ma ho deciso di andare
comunque a vedere il film, solo che a quanto pare qui non lo danno
più.»
«Dovresti guardare Morph-Bots» consiglia Frazier. «Siamo
appena usciti dallo spettacolo delle sette. È magnifico, cazzo.
Incredibile cosa riescono a fare con la CGI.»
Scrollo le spalle. «Non mi piacciono le lotte tra robot che vanno
adesso, finisco sempre per addormentarmi.»
Frazier sorride. «E che ne dici di birra fredda e belle ragazze?
Quelle ti piacciono? Io e Gilles stiamo andando al pub. Vieni?»
Da quando mi sono trasferito a Toronto e ho iniziato a lavorare
come coach, i miei colleghi mi hanno sommerso di inviti. Vieni a
prenderti una birra. Andiamo a mangiare qualcosa. Vieni a casa per
una grigliata, a mia moglie farebbe piacere. Ho rifiutato la maggior
parte degli inviti, perché se non posso portare Wes che senso ha?
Inoltre, è molto più facile nascondere il fatto che ti piace il cazzo se
tieni tutti a distanza.
Stasera non dico di no, perché una birra con i ragazzi sembra una
bella distrazione. O quello, o torno nel mio appartamento vuoto a
stalkerare Wes su Instagram tutta la sera.
«Certo, ci sto» rispondo.
Il telefono mi vibra in tasca prima che riesca a finire la frase.
Stavolta lo ignoro e seguo Frazier e Gilles sul marciapiedi verso il
pub.
8
Quando arriva venerdì, Wes parte per una partita a New York e,
detto sinceramente, sono di nuovo sollevato. Detesto sentirmi così,
ma mi sono fatto il culo tutta la settimana per esibire una faccia
felice. E adesso non ce l’ho, perché l’allenamento di oggi della mia
squadra è disastroso.
Mentre la squadra di Wes questa settimana ha vinto entrambe le
partite in casa, la mia ha perso quattro partite di fila del torneo a
Montreal. Il morale è basso; i ragazzi sono arrabbiati e frustrati e si
vede dal modo in cui giocano.
Fischio per la terza volta in dieci minuti e pattino verso i due
adolescenti con il viso paonazzo che si stanno scambiando parole
non proprio simpatiche durante l’ingaggio. «Datevi una calmata»
sbotto, quando uno di loro grida un brutto insulto nei confronti della
madre del compagno di squadra.
Barrie non sembra nemmeno pentito. «Ha iniziato lui.»
Taylor protesta: «Stronzate!»
Inizia un altro acceso battibecco, e mi ci vuole qualche secondo
per capire il motivo del litigio. A quanto pare, Barrie ha accusato
Taylor di essere il motivo della nostra ultima sconfitta, visto che ha
commesso un fallo inutile che ha portato gli avversari a segnare
durante il power play. Taylor non ha accettato l’accusa (e perché
dovrebbe? Ci vuole molto di più dell’errore di un giocatore per
perdere una partita) e ha iniziato a dire che la madre single di Barrie
è una milf che si fa quelli più giovani.
È palese che i miei giocatori non stanno prendendo molto bene le
recenti sconfitte.
«Basta!» Alzo il braccio e divido i due ragazzini. Guardo storto
Barrie. «Incolpare la gente non cancellerà le sconfitte.» E poi anche
Taylor. «E non ti farai degli amici parlando male della madre di
qualcun altro.»
L’espressione dei ragazzi diventa cupa.
Fischio di nuovo, facendoli sobbalzare. «Un minuto di penalità per
condotta antisportiva. Sulla panca delle penalità, tutti e due.»
Mentre pattinano verso le rispettive panche, noto le espressioni
tristi dei loro compagni. Lo capisco, anch’io odio perdere. Ma sono
un ex giocatore di hockey universitario di ventitré anni con un bel po’
di sconfitte sul groppone e un bel carapace che si è formato come
conseguenza. Loro sono sedicenni che hanno sempre eccelso in
questo sport, sono sempre stati i giocatori migliori delle squadre
delle scuole medie o superiori in cui sono stati reclutati; ora sono
nella lega giovanile e giocano contro ragazzi che sono bravi quanto
loro, se non di più, e non sono abituati a non essere i migliori.
«Porca troia» borbotta Danton un’ora dopo, mentre andiamo nello
spogliatoio dei coach. «Questi frocetti sono viziati…»
«Non insultare» interrompo, ma è come parlare al vento, la sua
filippica non si ferma.
«…ecco perché continuano a perdere.» Poi prosegue: «Non
hanno disciplina né etica del lavoro. Pensano che le vittorie arrivino
su un vassoio d’argento».
Con le sopracciglia aggrottate, pattino verso la panchina e sgancio
i pattini. «Non è vero. Si sono fatti il culo per anni per arrivare fin qui.
La maggior parte di questi ragazzi ha imparato a pattinare prima
ancora che a camminare.»
Fa un verso ironico. «Proprio così. Erano piccoli prodigi
dell’hockey che sono sempre stati lodati da genitori, insegnanti e
coach. Pensano di essere i migliori perché tutti glielo dicono.»
Ma lo sono, vorrei ribattere.
Questi ragazzini hanno un talento enorme che la maggior parte
dei giocatori si sogna, compresi alcuni che giocano nella NHL.
Devono solo affinare quel talento, partire dalle abilità innate e
imparare a migliorarle. Ma è inutile discutere con Danton.
Quest’uomo è un giocatore decente, ma inizio a credere che la sua
ignoranza sia una malattia incurabile. Frazier l’altra sera mi ha detto
che Danton è cresciuto in un “paesino di zotici a nord” (parole sue,
non mie) dove pregiudizio e ignoranza sono trasmessi di
generazione in generazione. Non sono rimasto sorpreso nel sentirlo.
Metto velocemente i pattini nell’armadietto e mi infilo stivali e
cappotto. Meno tempo passo con Danton, meglio è. Anche se mi dà
fastidio non riuscire a farmelo piacere, visto che è la persona con cui
lavoro più spesso.
Quando, cinque minuti dopo, esco dall’arena, sono demoralizzato
nello scoprire che sta ancora nevicando. Stamattina mi sono
svegliato con una bufera che infuriava fuori dalla finestra. Come
risultato l’allenamento è stato spostato di tre ore, in modo che gli
spazzaneve potessero occuparsi delle montagne di neve che si
erano accumulate sulle strade durante la notte. Ho finito per
prendere l’Honda Pilot di Wes per andare al lavoro perché non
volevo farmi la camminata fino alla fermata della metro, sia
all’andata che al ritorno, con questo tempo di merda.
Arranco nel parcheggio innevato e mi infilo nel SUV nero, dove
attivo immediatamente il sedile riscaldato e accendo il
riscaldamento. I fiocchi bianchi cadono con regolarità sul
parabrezza, e mi chiedo se il tempo sia così brutto anche a New
York. Wes mi ha scritto prima dicendo che erano atterrati, ma vista la
nevicata più abbondante rispetto a quella di stamattina temo che non
riesca a tornare stasera. O forse sono di nuovo sollevato. Se Wes è
bloccato dalla neve, non dovrò fingere per un’altra sera che le cose
tra noi non facciano schifo.
Trattengo un gemito ed esco dal parcheggio, ma dopo appena
cinque minuti di viaggio verso casa mi squilla il telefono. Visto che è
collegato al SUV tramite Bluetooth, vedo che è mia sorella che sta
chiamando. Per rispondere devo solo premere un pulsante, così ho
le mani libere per guidare oltre i trenta centimetri di neve sulla
strada. «Ehi» saluto Jess. «Come va?»
Invece di ricambiare il saluto, dice: «Mamma è preoccupata per te.
Pensa che a Toronto siano arrivati gli alieni e ti abbiano trasformato
in un ultracorpo».
«Biip bzz» replico in tono piatto.
La risata di mia sorella riecheggia nell’abitacolo. «Ho detto alieni,
non robot. Sono abbastanza sicura che gli extraterrestri abbiano un
linguaggio molto più avanzato di “biip bzz”.» Resta un attimo in
silenzio, poi continua. «Davvero, però. Stai bene lì in Siberia,
Jamester?»
«Sto bene. Non ho idea del perché mamma sia preoccupata, le ho
parlato al telefono ieri sera.»
«Per quello è preoccupata. Ha detto che non sembravi te stesso.»
Per l’ennesima volta, maledico il fatto che mia madre mi conosca
così bene. Ha chiamato mentre io e Wes stavamo guardando
Banshee – ognuno su un lato del divano. È stata un’altra serata
piena di tensione per noi, ma pensavo di essere sembrato allegro al
telefono.
«Dille che non c’è motivo di preoccuparsi, qui va tutto bene.
Giuro.»
Purtroppo, Jess mi conosce bene quanto mia madre. Tra tutti i
miei fratelli, lei è quella con cui ho meno differenza d’età e siamo
sempre stati molto uniti.
«Stai mentendo.» Il tono di voce è più tagliente per il sospetto.
«Cos’è che non mi stai dicendo?» Poi la sento sussultare di colpo.
«Oh, no. Ti prego, non dirmi che tu e Wes vi siete lasciati.»
Mi sento stringere il cuore. Il solo pensiero mi fa andare nel
panico. «No,» rispondo subito, «certo che no.»
Sembra sollevata. «Okay. Grazie a Dio. Adesso hai fatto
preoccupare me.»
«Io e Wes stiamo bene» le assicuro.
Un altro momento di silenzio, poi ribadisce: «Stai mentendo di
nuovo.» Impreca a bassa voce. «State avendo problemi?»
Stringo le mani intorno al volante per la frustrazione. «Stiamo
bene» ripeto, scandendo ogni parola.
«James.» Il suo tono di voce è deciso.
«Jessica.» Il mio lo è di più.
«Giuro su Dio che se non mi dici cosa succede ti sguinzaglio
contro mamma. E papà. Anzi, no… chiamo Tammy.»
«Oh, cazzo, no, non lo fare.» Quella minaccia basta per farmi
sciogliere la lingua perché, per quanto adori nostra sorella maggiore,
Tammy è anche peggio di mamma quando si tratta di me. Quando
sono nato, la Tammy dodicenne aveva informato tutta la famiglia che
ero il suo bambino. Mi portava in giro come se fossi la sua bambola
e mi riempiva di attenzioni come una mamma chioccia. Con gli anni
si è data una calmata, ma è ancora iperprotettiva nei miei confronti
ed è la prima persona che viene ad aiutarmi ogni volta che sono nei
guai. O quando pensa che sia nei guai.
«Sto aspettando…»
Il tono severo di Jess provoca un altro gemito silenzioso da parte
mia. Faccio un bel respiro e poi le racconto la situazione con meno
dettagli possibili. «La nostra relazione è a un punto strano, al
momento.»
«Quanto siamo criptici. Insomma, definisci “strano”. E con “punto”
intendi un posto? Al momento siete in un locale sadomaso? Vi siete
uniti al circo?»
Alzo gli occhi al cielo. «Sì, Jessica, ci siamo uniti al circo. Wes
addestra le foche e io cavalco gli orsi. Dividiamo la stanza con la
donna barbuta e il tizio che ingoia spade.»
«È un eufemismo gay? “Ingoiare spade”?» Ride alla sua stessa
battuta stupida, prima di tornare seria. «Avete litigato?»
«Non proprio.»
Arrivo a un incrocio e schiaccio lentamente il freno finché il SUV si
ferma. Davanti a me noto un’inquietante fila di macchine e un bel po’
di luci posteriori accese. Merda, c’è un incidente? Guido da dieci
minuti e non mi sono allontanato neanche di un chilometro
dall’arena. Di questo passo, non arriverò mai a casa.
«Che cavolo, Jamie. Per favore, la smetti di fare il vago e mi parli
da persona adulta?»
Stringo le labbra, ma non riesco a fermare la confessione. «È
difficile, porca puttana. Va bene? La cazzo di metà delle volte non è
a casa, e quando c’è non facciamo altro che nasconderci. Ci
nascondiamo in casa nostra, ci nascondiamo dalla stampa, ci
nascondiamo e basta, porca troia. E io sono stufo marcio, va bene?»
Trattiene il respiro. «Ah. Okay. Cavolo. Erano un bel po’ di
parolacce. Mmm.» Il tono di Jess si addolcisce. «Da quant’è che sei
infelice?»
La domanda mi prende alla sprovvista. «Non… sono infelice.» No,
non è vero. «Sono infelice. È che… mi manca il mio ragazzo,
maledizione. Sono frustrato.»
«Ma sapevi che avreste dovuto tenere segreta la relazione» mi fa
notare Jess. «Tu e Wes eravate d’accordo che non sareste usciti allo
scoperto fino alla fine della stagione.»
«Sempre se lo faremo.» La parte più cinica di me resta attaccata a
quel pensiero. E se Wes decidesse che non è pronto a dire al
mondo di essere gay? Se mi facesse sedere e mi pregasse di non
dire niente per un altro anno? O per tutta la durata della sua carriera
professionistica? O per sempre?
«Aspetta, Wesley ha cambiato idea?» chiede mia sorella. «O la
squadra gli ha chiesto di continuare a fingere di essere etero?»
«Non credo. Wes ha detto che alle pubbliche relazioni hanno già
una dichiarazione pronta per quando verrà fuori la notizia. E non so
se ha cambiato idea, ultimamente non comunichiamo molto»
ammetto.
«Allora iniziate a comunicare.»
«Non è così semplice.»
«Dipende da te.» Resta in silenzio per un attimo. «Sei la persona
più trasparente e sincera che conosco, Jamie. Be’, tu e Scottie. Per
Joe e Brady…» nomina gli altri due nostri fratelli. «Per loro parlare
dei propri sentimenti è come ammettere una debolezza. Ma tu e
Scott per me siete di grande ispirazione, siete la prova che non tutti
gli uomini sono stronzi di poche parole. In realtà, anche Wes è
sincero. Penso sia per questo che state così bene insieme. Tu non
eviti mai le conversazioni difficili, trovi sempre il modo di superare le
situazioni di merda.»
Ha ragione. Io e Wes ci conosciamo da quando eravamo
ragazzini. L’unica volta in cui abbiamo avuto difficoltà a parlare è
stato quando è sparito dalla mia vita per quattro anni, dopo una
parentesi di fuoco al campo estivo. Ma l’ho perdonato, perché ho
capito il motivo per cui mi ha escluso: si sentiva in colpa pensando di
essersi approfittato di me ed era confuso riguardo la propria
sessualità. All’epoca, era una cosa che doveva risolvere da solo.
Ma questa distanza tra noi… è una cosa che dobbiamo risolvere
insieme. E ignorare la questione non porterà certo a quel risultato.
Jess ha ragione: io e Wes di solito non evitiamo le conversazioni
difficili, ma stavolta lo stiamo facendo e le cose stanno peggiorando.
«Dovrei parlare con Wes» concedo con un sospiro.
«Non mi dire, Sherlock. Ora ringraziami per la mia enorme
saggezza e chiedimi come sto io.»
Non riesco a non ridere. «Grazie, o saggia maestra. E tu come
stai?»
«Bene e male. Credo che la mia attività da disegnatrice di gioielli
sia un fallimento.»
Sono tentato di dirle “Non mi dire, Sherlock”, ma mi mordo la
lingua perché so che Jess è sensibile quando si parla della sua
carriera. O piuttosto della mancanza di una carriera. Mia sorella, Dio
la benedica, è la persona più indecisa che abbia mai conosciuto. Ha
venticinque anni e ha fatto più lavori di quanti riesca a ricordarne. Si
è anche iscritta, per poi ritirarsi, a dozzine di facoltà universitarie, e
ha creato dozzine di negozi su Etsy che non hanno portato a niente.
«Mamma e papà non ti avevano prestato i soldi per tutto quel
materiale per creare gioielli?» chiedo con cautela.
«Già» risponde in tono cupo. «Non dirgli niente, va bene? Mamma
è già stressata per il parto di Tammy, quindi non voglio farla
innervosire ancora di più.»
Mi irrigidisco. «Perché è preoccupata per il parto di Tammy? Il
medico ha detto che dovremmo preoccuparci?» Nostra sorella
maggiore è di nuovo incinta e partorirà il mese prossimo. La prima
gravidanza era filata liscia, quindi questa non mi ha granché
impensierito. Ho dato per scontato che sarebbe stata come la prima.
«No, credo sia solo questione di nervi» mi assicura Jess. «Il
bambino è molto più grande di quant’era Ty. Credo che mamma
abbia paura che a Tammy serva il cesareo. Ma, sul serio, non
preoccuparti. Tammy sta alla grande. È più grossa di una casa, ma è
radiosa eccetera eccetera. Comunque, la storia dei gioielli era la
cattiva notizia. Vuoi sapere qual è la buona?»
«Spara.»
Fa una pausa drammatica, poi annuncia: «Farò l’organizzatrice di
eventi!»
Ma certo. «Sembra divertente» sospiro.
«Potresti metterci un po’ più di entusiasmo» sbuffa. «Finalmente
so cosa voglio fare nella vita!»
Tipo quando sapeva che voleva fare la chef. E la bancaria. E la
disegnatrice di gioielli. Ma tengo la bocca chiusa, perché nella
famiglia Canning ci sosteniamo a qualsiasi costo. «Allora sono molto
contento per te» dico con sincerità.
Jess parla del suo nuovo azzardo per tutto il viaggio di ritorno, ma
devo interromperla quando arrivo nel parcheggio sotterraneo perché
non c’è campo. Ci accordiamo per risentirci nel fine settimana, poi
prendo l’ascensore e quando entro in casa mi tolgo strati su strati di
vestiti invernali. Mi faccio la doccia e preparo la cena mentre aspetto
che inizi la partita di Wes, dopodiché mi pianto sul divano con un
piatto di risotto e pollo alla griglia. Passerò la serata a tifare per il mio
uomo. E quando stasera tornerà a casa, ho intenzione di seguire il
consiglio di Jess e parlargli di come mi sento. Non può essere tanto
dura, no?
Quant’è duro?, pensa il mio cervello traditore. E, mentre mangio
un altro boccone, sorrido.
12
Wes prende due biglietti per ogni partita, e io sono l’unico a usarli.
Sono posti fantastici – danno sul passaggio, un paio di file dietro la
panchina della squadra di casa. Infatti, sono circondato dalle famiglie
degli altri giocatori. I veterani devono aver diritto a più posti, perché
c’è un’intera sezione con gente che grida ogni volta che Lukoczik
tocca il disco. E i due signori seduti accanto a me a ogni partita in
realtà sono i genitori di Blake Riley. E Blake il gigante è la copia
sputata di… sua madre: robusta, parla ad alta voce e ha i capelli
flosci striati di grigio.
E poi c’è suo padre… magro e con l’aspetto da professore. Ah, la
genetica. Sono fuori di testa. E se il team Riley pensa che sia strano
che io mi presenti da solo a ogni partita, non l’ha mai detto.
Mi sono perso il riscaldamento e riesco ad arrivare al mio posto
proprio alla fine dell’inno nazionale. Conosco piuttosto bene O,
Canada. Ho dovuto imparare le parole per la mia squadra della lega
giovanile: l’allenatore non può certo stare lì e muovere la bocca a
caso come un coglione.
Stasera ho mal di testa, il che è insolito. Quindi infilo la cannuccia
in una bibita fin troppo cara che ho comprato venendo qui e bevo un
bel sorso, sperando che zucchero e caffeina risolvano il problema.
Devo riprendermi, perché Wes vuole uscire dopo la partita.
E anch’io, perché nei tre giorni da quando è tornato ho trascurato
la mia missione di “comunicazione col partner”. Ho promesso a Jess
che avrei parlato con Wes, e ci sono quasi riuscito la notte che
abbiamo fatto sesso su Skype. Ma in quel momento, vedendo il suo
bel viso così pieno di desiderio… Non ho voluto rovinare tutto tirando
fuori i nostri problemi. E poi è tornato a casa, e il sesso di persona è
stato anche meglio che farsi le seghe davanti allo schermo di un
computer. Non ho voluto rovinare neanche quello.
Forse sono un codardo di merda. Mia sorella concorderebbe di
sicuro. Ma le cose stanno andando bene, che cavolo. Io e Wes
siamo in sintonia da quando è di nuovo qui, e ho troppa paura di
tornare alla disarmonia di prima.
E non mentirò: una sera fuori con Wes sembra il paradiso.
Quando gli ho chiesto dove voleva andare, ha risposto: «Non
importa. Fuori. Io e te. Ci sediamo in un pub, giochiamo a freccette o
a biliardo».
«Biliardo no» avevo replicato. «Il mio fragile ego non reggerebbe
una sconfitta del genere.»
Aveva riso come un delfino. «Va bene. Quello che vuoi. Tanto il
gioco non è importante. Tu sei importante.»
Mi era piaciuto sentirlo.
Il coach Hal ha cambiato le linee, stasera. A volte lo fa. Ha messo
Wes in seconda linea con Blake e Lukoczik. Le punte stasera
escono belle cariche: Eriksson praticamente falcia il centrale
avversario dopo l’ingaggio. Mentre inizia la fulminea caccia al disco,
smetto di pensare a tutto ciò che non è la partita davanti a me. Il mio
mondo si riduce a questi dodici uomini che sfrecciano per
conquistare il vantaggio e al pesante dischetto di gomma che
significa tutto per le diciottomila persone che sono qui stasera.
Wes scavalca il muretto per il suo turno in campo, e non posso
fare a meno di sporgermi in avanti sul mio sedile. Ottawa ha
riconquistato il disco e non sta correndo rischi, coccolandolo come
fanno le anziane che passeggiano con un barboncino da concorso.
Così non possono segnare, ma irritano Wes. Il suo turno finisce
prima che abbia la possibilità di fare qualcosa.
E va avanti così per un po’, ma non perdo mai interesse. Alcuni
membri della mia famiglia con poco tatto mi hanno chiesto se mi
dispiace essere uno spettatore della NHL piuttosto che un giocatore.
Sinceramente no, ma non penso mi credano. Però ho sempre
guardato l’hockey, anche quando i posti non erano così belli. E
comunque pattino ogni giorno con giocatori eccellenti.
La vita è bella. Tranne che per questo mal di testa.
Sul ghiaccio l’atmosfera si scalda. Blake riesce a sbloccare la
situazione e parte all’attacco. Passa a Wes, che gli restituisce il
disco appena è libero. Blake effettua un tiro di polso e il portiere
riesce a malapena ad arrivare in tempo, allontanando goffamente il
disco con la punta del guanto. Ma è ancora in gioco, quindi
entrambe le squadre difendono.
«VAI, TESORO, COLPISCI! BUTTALO DENTRO! VINCI,
BLAKEYYY!» La signora Riley è in piedi e grida come una pazza.
Fa sempre casino, ma stasera è come avere un martello
pneumatico in testa. Suo marito, invece, è seduto accanto a lei con
le mani incrociate sulle gambe. A vederlo, sembra sia in chiesa.
Davanti alla porta c’è una mischia che termina quando il portiere
blocca il disco sotto il guanto. Niente goal.
La partita continua e il primo tempo finisce senza punti. Durante
l’intervallo vado un po’ in giro, sperando che uno dei venditori abbia
l’ibuprofene. Ma non ce l’hanno. Compro un pretzel auspicando che
un po’ di cibo mi rianimi.
Quando inizia il secondo tempo, la velocità del gioco aumenta.
Wes è aggressivo e fa diversi tiri in porta che però vengono respinti.
Non mi preoccupo. Se continua così, prima o poi ce la farà.
Toronto tira meglio di Ottawa. Ogni volta che corriamo verso la
porta, Mamma Riley esplode in un incoraggiamento da migliaia di
decibel. «MANGIATELI COME ANTIPASTO, BLAKEY! TIRAGLIELO
SUI GIOIELLI!»
Sono diventato sordo. Inoltre, l’arena inizia un po’ a girare in un
modo in cui nessun posto dovrebbe. E quando cerco di concentrarmi
sul disco, il bianco del ghiaccio mi brucia le retine.
Eriksson segna a metà del secondo tempo, e io non sono
neanche lontanamente esaltato come al solito. Anzi, voglio andare a
casa. No, devo andare a casa. Tiro fuori il telefono e scrivo a Wes.
“Mi dispiace un sacco, piccolo. Ho un mal di testa lancinante. Vado a
casa prima. Usciamo domani? Stesso programma, solo un giorno
dopo”.
«CAVALCALO COME UN ASINO, BLAKEY!» sta urlando la
signora Riley quando mi alzo. Riesco ancora a sentirla quando arrivo
in cima agli spalti.
La mattina dopo, la sveglia suona alle cinque e mezza. La rinvio e
faccio il punto della situazione. Il mio corpo sembra di piombo, anche
se potrebbe essere in parte per il fatto che è schiacciato dalla coscia
muscolosa di un certo attaccante di Toronto che è crollato mezzo a
cavalcioni su di me.
Non l’ho sentito tornare a casa, ieri sera.
Ancora assonnato, mi sembra che la sveglia suoni di nuovo troppo
presto. Ma mi alzo perché i miei ragazzi hanno un allenamento alle
sei e mezza. Questi ragazzi giocano a hockey prima di andare a
scuola, si allenano mentre tutti gli altri sedicenni del mondo
dormono. Se ce la fanno loro ad arrivare in tempo, allora posso
riuscirci anch’io.
Il caffè che compro alla pista quarantacinque minuti dopo sembra
acqua e mi arriva nello stomaco come se fosse acido. Dev’essere
stato di un lotto andato a male. L’allenamento della mia squadra va a
rilento perché sto soffrendo: mi è tornato il mal di testa, stavolta alla
base del cranio, e ho continui crampi allo stomaco.
Cavolo. Dunlop sembra particolarmente incerto sul ghiaccio; è
solo questione di tempo prima che Bill Braddock chiami un
allenatore della difesa più anziano per lavorare con lui. E, dal
momento che dopo questo allenamento c’è una riunione dei coach,
tutti i miei colleghi sono qui a vedere il mio portiere che annaspa.
Questa giornata può andare peggio di così?
Dopo che i ragazzi vanno via, sopravvivo alla riunione di novanta
minuti appoggiando la testa dolorante sulla mano e sforzandomi di
stare sveglio. Probabilmente sto covando l’influenza, ma non me ne
vado perché: a) non sono un rammollito; b) se la ignoro, forse
sparisce.
Dopo la riunione, in teoria dovrei rimettermi sui pattini: io e altri
due coach della difesa stamattina lavoreremo insieme per gestire
una scuola di hockey per dei giocatori più grandi. Ma, quando arrivo
sul ghiaccio, ho di nuovo i crampi allo stomaco. Quindi esco dalla
pista, metto i coprilame ai pattini e vado in bagno.
Il quarto d’ora successivo è piuttosto sgradevole, ma almeno
l’intestino non sta più per esplodere. So che non va bene per niente.
Devo andare a casa, ma all’improvviso mi sembra troppo lontana.
Mentre mi lavo le mani, la luce della stanza diventa gialla e i suoni si
fanno confusi.
Non è un buon segno.
Muovo qualche passo verso la porta del bagno, ma non sta
andando bene. Forse, se mi riposo un attimo, starò meglio.
Il pavimento del bagno degli uomini di una pista di allenamento è
l’ultimo posto su cui ci si dovrebbe sedere ma, ehi, è vicino. Mi lascio
cadere, la schiena scivola sulle piastrelle, e finisco col culo per terra.
«Canning?» Danton si blocca appena entra in bagno. «Ehi. Stai
bene?»
Non molto, no. Me lo chiede diverse volte, come se la risposta
potesse cambiare. Smetto di ascoltarlo.
Per fortuna lo stronzo sparisce, e io chiudo gli occhi e cerco di
ricompormi.
Il silenzio non dura abbastanza. Danton è tornato – sento la sua
voce subdola. Ma è insieme a Bill, il nostro capo. Le loro voci si
mischiano, e sono troppo stanco per ascoltare.
«L’hai trovato così?»
«Sì. Credi sia sotto l’effetto di droghe?»
«Ma sei serio?»
Qualcuno mi tocca, e non mi piace.
«Ha la febbre, Danton. Alta. Resta con lui, vado a prendere la lista
dei contatti di emergenza. Hai il telefono?»
«Sì.»
Per un attimo, c’è un silenzio beato. Ma poi le voci tornano. «Qui
dice che dobbiamo chiamare… Ryan Wesley? Strano.» Bill ride. «Si
chiama come quel bravissimo attaccante esordiente. Chiama il
416…»
Mi addormento.
«Se te lo dico non ci credi.» La voce di Danton mi rovina il sonno.
«Il numero è del centralino della sede del Toronto. Sto davvero per
chiedere di Ryan Wesley?»
«Così c’è scritto sul foglio, ragazzino. Dev’essere vero.»
In stato di semi-incoscienza, il mio ultimo pensiero è: Mi dispiace,
Wes.
14
La foto finisce su internet sei ore dopo che sono entrato nella
stanza di Jamie.
TMZ è stato il primo a pubblicarla – ma come fanno questi stronzi
ad avere sempre scoop su tutti? – e dopo ha fatto il giro di vari siti di
hockey, blog sulle celebrità, giornaletti scandalistici e giornali che
dovrebbero avere cose migliori di cui occuparsi. Due giornali di
rilievo, in realtà, ci hanno dedicato la prima pagina, con la foto
minuscola molto più in alto rispetto all’articolo sulla cattura di un
terrorista.
Immagino che vedere me, Ryan Wesley, baciare sulla bocca un
altro uomo sia un’emergenza nazionale. E, al momento, non posso
fare niente per domare l’incendio.
L’ho detto che sono in quarantena anch’io? Sì, nel momento in cui
mi sono liberato delle protezioni, ho segnato la mia condanna alla
prigionia. Il dottor Rigel ha marciato nella stanza con il completo da
quarantena insieme all’infermiera arrabbiata. Mi ha informato che,
dal momento che mi ero probabilmente esposto a quello che
potrebbe essere un ceppo pericoloso di influenza, non avrei potuto
lasciare il reparto di isolamento fino all’arrivo dei risultati degli esami
di Jamie. Poi l’infermiera incazzata mi ha fatto un prelievo per far
analizzare anche il mio sangue.
Mi sono pentito? Assolutamente no. Tanto non avevo intenzione di
allontanarmi da Jamie. Almeno così nessuno potrà buttarmi fuori alla
fine dell’orario di visita. E ora che qualche stronzo ci ha fatti uscire
allo scoperto senza permesso, non posso negare che è bello avere
una scusa per nascondermi dal resto del mondo.
Non so chi abbia scattato la foto, ma hanno fatto il colpaccio con il
momento intimo che ci hanno rubato. Io, seduto sul letto di Jamie,
che premo le labbra sulle sue. Sembrava stare bene, quando aveva
ripreso conoscenza, e io ero stato così sopraffatto dalla gioia e dal
sollievo di poter vedere di nuovo i suoi bellissimi occhi castani che
mi ero dimenticato di essere in una scatola di vetro con le tende
aperte.
Dopo, aveva dormito per un’altra ora con la mano stretta nella
mia. Forse suona stupido, ma non mi sono mai sentito tanto utile a
qualcuno in tutta la mia vita. Se si fosse svegliato confuso, volevo
sapesse che non era da solo. Nonostante tutto il casino che sta
succedendo al momento, mi sono sentito calmo come non lo ero
stato per settimane. Perché, per una volta, sapevo che stavo
facendo la cosa giusta al momento giusto.
E, quando si è svegliato davvero, era confuso. «Dove siamo?» ha
chiesto, facendomi trasalire.
«In ospedale, piccolo. Sei malato. Forse hai l’influenza, ma ce lo
diranno quando avranno i risultati degli esami.»
«Va bene» ha risposto, stringendomi la mano. Ma più tornava
lucido, più si agitava. E quando si è reso conto della strana stanza di
ospedale in cui si trovava, non ci ha messo molto a capire che ero
stato esposto anch’io. E adesso non vuole lasciar perdere.
«Non avresti dovuto toglierti la mascherina» gracchia Jamie. «Sei
fuori di testa, Wes. Non dovresti essere qui.»
Non è la prima volta che ha messo in dubbio la mia sanità mentale
da quando si è svegliato, e ora io sto mettendo in dubbio la sua:
insomma, dove cavolo dovrei essere? In piedi dall’altra parte del
vetro a guardar soffrire l’uomo che amo?
«Ti prenderai questa stupida influenza ovina» borbotta.
«Prima di tutto, non sappiamo neanche se ce l’hai» gli faccio
notare. Sono seduto su una sedia accanto al suo letto ma sono
chino su di lui e gli accarezzo la guancia con la mano senza guanto.
La pelle gli scotta ancora, il che mi preoccupa: sono passate almeno
sei ore da quando gli hanno messo la flebo, la febbre non sarebbe
dovuta scendere? «Rigel pensava fosse improbabile, ti ricordi?
Seconda cosa, se ce l’hai tu ce l’avrò anch’io, perché avevo la lingua
nella tua gola l’altra sera. Terzo, dovrei essere qui. Guarda questa
stanza delle torture.» Indico lo spazio opprimente che ci circonda.
«Non ti avrei mai lasciato soffrire qui da solo.»
Ride debolmente.
Cristo. Sono sollevato da morire che sia sveglio. Quando l’ho visto
nel letto, immobile… me la sono fatta addosso per la paura.
«Al coach Hal verrà un colpo» sospira. «E se ti perdi l’allenamento
di domani mattina? E poi hai quella partita a Tampa giovedì sera.
Non puoi permetterti di ammalarti, Wes.»
Lo guardo, incredulo.
Jamie esita. «Che c’è?»
«Pensi davvero che domani andrò all’allenamento mentre tu sei in
ospedale?»
«Potrebbero dimettermi prima.»
«Con tutte le precauzioni che questi stronzi stanno prendendo?
Certo, come no. Ti terranno sotto osservazione almeno un paio di
giorni.» Il mio tono di voce si fa più tagliente. «Non salirò sull’aereo
per Tampa, spero te ne renda conto. Non ho intenzione di
allontanarmi da te finché non avrò la certezza che sei fuori pericolo.»
«Non sono mai stato in pericolo» ribatte.
Spalanco la bocca. «Sei svenuto al lavoro! Avevi la febbre a
trentanove! Sei rosso come un’aragosta eppure tremi come una
foglia perché hai freddo. Sei troppo debole per alzare la testa!»
Ma Jamie insiste: «Sto bene». E io sono tentato di dargli un pugno
in faccia. Però non lo faccio, perché è lui che è costretto su un letto
d’ospedale, quindi immagino di dover essere io a comportarmi da
adulto.
«Non stai bene» ribadisco con tono severo. «Sei malato.» Forse a
causa dell’alterazione di una tossina di pecora o che cavolo è, ma mi
rifiuto di credere che ce l’abbia davvero. Grazie all’inquietante
ossessione di Blake per le pecore, so che almeno sedici persone
sono morte per questa influenza. E Jamie non sarà il numero
diciassette. Venderei l’anima al diavolo piuttosto che permettere che
succeda qualcosa a questo ragazzo. È tutta la mia vita.
Smettiamo di parlare quando sentiamo un forte bip. La serratura
della porta si apre e l’infermiera, che ora mi odia ufficialmente, entra
nella stanza. È bardata con la tuta di protezione e la maschera. Non
le vedo la bocca, ma il suo sguardo mi dice che sta facendo una
smorfia.
«Signor Wesley, mi segua, per favore» ordina, e la nota
insoddisfatta nel suo tono di voce mi preoccupa. Oddio. Sono arrivati
i risultati degli esami di Jamie? Mi vuole parlare in privato per
confermare che ha l’influenza ovina?
Il battito del mio cuore triplica mentre mi alzo. Jamie sembra
preoccupato quanto me, ma non protesta quando seguo l’Infermiera
Morte nella stanza secondaria. Quando la porta si chiude alle nostre
spalle, tira fuori un cellulare. Il mio cellulare, che ha confiscato un’ora
fa dopo avermi beccato a mandare un messaggio al clan Canning.
A quanto pare, l’elettronica è proibita in quarantena. Detto
sinceramente, sono contento che mi abbia preso il telefono, perché
lo schermo ha iniziato a illuminarsi come un albero di Natale dopo
che la foto è stata pubblicata. Jamie stava ancora dormendo e sì,
non ha idea che circa un’ora fa, fuori dalla nostra prigione di vetro, si
è scatenato un putiferio. E non ho intenzione di dirglielo. Non
ancora, almeno.
La mia unica priorità è aiutarlo a stare meglio. Se scoprisse che
migliaia – che cavolo, forse milioni – di persone stanno discutendo e
dissezionando la nostra relazione, chissà quale sarebbe l’effetto sul
suo organismo già debilitato. Non posso rischiare.
«In quest’ultima ora abbiamo ricevuto una quantità di telefonate
esorbitante» dice in tono piatto. «Almeno due dozzine delle quali
erano di un certo Frank Donovan, che insiste per poterle parlare.
Sinceramente, io e i miei colleghi ci stiamo stancando che
quell’uomo ci sbraiti contro, quindi per lei faremo un’eccezione,
signor Wesley. Può usare il telefono, ma solo in questa stanza e per
poco tempo. Ora, per favore, richiami il signor Donovan prima che
inizi a informarmi sui prezzi per assoldare un sicario.»
Ridacchio. Okay, forse Infermiera Morte non è così male.
Aspetto che esca dalla stanza prima di fare il numero di Frank, ma
esito prima di chiamare. Cazzo. Non sono pronto a gestire la
situazione, al momento. Avevo un piano, porca vacca. Avrei
terminato l’anno d’esordio e poi avrei fatto coming-out. La storia
sarebbe stata controllata da Frank e da me, l’avremmo presentata ai
media come noi volevamo fosse presentata.
Ma qualche stronzo avido, impiccione e irrispettoso ha preso in
mano la faccenda. O… forse qualche stronza? All’improvviso mi
viene in mente Infermiera Morte. E se fosse stata lei?
Ma d’altronde potrebbe essere stato uno qualunque degli
infermieri dietro il vetro. O i tecnici di laboratorio che consegnavano i
risultati degli esami, i medici che entravano e uscivano dal reparto, i
familiari che visitavano i loro cari in quarantena.
Chiunque potrebbe aver scattato quella foto. Cercare di trovare il
colpevole è come giocare a una versione nonsense di Cluedo.
Infermiera Morte… nell’unità di isolamento… con la macchina
fotografica! E, a questo punto, importa davvero qualcosa? Quel che
è fatto, è fatto; ora bisogna occuparsi di arginare i danni.
«Ryan, diamine, era ora!» mi rimbomba nell’orecchio la voce
irritata di Frank. «Perché non rispondevi al telefono?»
«Le infermiere me l’hanno confiscato» gli racconto. «Non si
possono usare i cellulari in ospedale.»
«È una stupida credenza. Degli studi hanno dimostrato che gli
effetti che i cellulari hanno sui macchinari medici sono esigui.»
È davvero qualcosa di cui dovremmo parlare ora? «Frank,»
richiamo, reindirizzandolo su questioni davvero importanti, «che
ripercussioni stiamo avendo?»
«È ancora troppo presto per dirlo. La maggior parte degli organi di
stampa sta cavalcando l’onda arcobaleno…»
Serro la mascella.
«…sventolando bandiere del gay pride e ti lodano per il tuo
coraggio nell’essere uscito allo scoperto.»
«Ma non l’ho fatto» borbotto. «Qualcun altro l’ha fatto per me.»
«Be’, ormai è andata» taglia corto. «E ora abbiamo bisogno che la
storia giri nel modo giusto. La società rilascerà la dichiarazione che
avevo preparato quando ti abbiamo ingaggiato. Volevo avvisarti. La
rilasceremo entro un’ora.»
Poco fa, Frank mi ha mandato una copia della dichiarazione. Ci
sono un sacco di termini politicamente corretti, se non ricordo male.
“La squadra sostiene, e sosterrà sempre, i nostri giocatori e la
grande varietà che portano nell’hockey… Bla bla bla… Siamo
orgogliosi che Ryan Wesley faccia parte della nostra squadra”.
«Daremo agli avvoltoi la notte per beccare e rosicchiare,» mi
avvisa Frank in tono cinico, «e poi, domani mattina, farai una
conferenza stampa e…»
«Cosa?» lo interrompo. «Neanche per sogno.»
«Ryan…»
«Ho acconsentito a una dichiarazione scritta» gli ricordo. «Una
breve aggiunta a qualsiasi dichiarazione rilascerete alla stampa. Non
ho acconsentito ad andare davanti alle telecamere.» L’idea di stare
in una stanza piena di giornalisti a parlare della mia vita sessuale e
di rispondere a domande che nessuno ha il diritto di pormi mi fa
venire un travaso di bile.
«Questo era prima che su internet comparissero le foto di te e del
tuo innamorato che pomiciate» ribatte Frank. Non sembra arrabbiato
o disgustato, ma pragmatico. «Si aspetteranno qualcosa di più di un
paio di righe di dichiarazione, Ryan.»
«Non me ne frega un cazzo di cosa si aspettano!» La frustrazione
mi attanaglia il petto. Vorrei lanciare il telefono contro il muro,
guardarlo rompersi in mille pezzi e poi calpestarli per sicurezza. Mi
sento… violato. Il che rafforza i brividi di indignazione che mi
scorrono lungo la schiena. Queste persone non hanno il diritto di
puntarmi addosso i riflettori solo perché mi piace scopare con gli
uomini. Non sono affari loro, maledizione.
«Ryan.» Frank resta un attimo in silenzio. «Va bene. È ovvio che
dobbiamo rimandare la discussione a quando il tuo… compagno
sarà dimesso dall’ospedale. Per ora, rilascerò la dichiarazione per
conto della squadra. Appena avremo valutato le reazioni, studieremo
la mossa successiva.»
«Va bene.»
«Dobbiamo preoccuparci dei risultati dei tuoi esami?»
Per un attimo, ho un vuoto. «I risultati dei miei esami?»
«L’influenza» risponde con pazienza. «I coach sono preoccupati.
Tra due giorni dovrai giocare a Tampa.»
Faccio un respiro. «Giovedì non sarò sul ghiaccio, Frank. Se vuoi
chiamo io il coach per dirglielo, ma non è negoziabile. Sono nel bel
mezzo di un’emergenza familiare.»
«Il tuo contratto stabilisce…»
«Non me ne frega di cosa stabilisce» ribatto. «Non prenderò
quell’aereo.» Non gli do il tempo di obiettare. «Ora devo andare, le
infermiere mi stanno guardando in cagnesco.» Non è vero, ma Frank
non lo sa. «Ti richiamo appena arrivano i risultati degli esami di
Jamie.»
Mi tremano le mani, quando riattacco. Non ero pronto per niente di
tutto questo. E, anche se ho disperatamente bisogno di tornare da
Jamie, mi costringo a scorrere i messaggi nel caso in cui i Canning
avessero provato a mettersi in contatto.
E l’hanno fatto, cazzo.
Cindy: “Io e Patrick abbiamo bisogno di un aggiornamento, tesoro (anche se
sappiamo che andrà tutto bene, tutto bene, tutto bene!)”
Jess: “Perché gli stronzi dell’ospedale non mi permettono di chiamarti???”
Joe: “Come sta mio fratello?”
Scott: “Come sta Jamester?”
Brady: “J sta bene?”
Scorro il resto dei messaggi non ancora letti, la maggior parte dei
quali è di Blake. Ce n’è anche uno di Eriksson, ma non lo apro
perché ho troppa paura di sapere cosa c’è scritto. Non credo di
essere pronto ad affrontare le reazioni dei miei compagni di squadra
alla “novità”. Scorro ancora e mi blocco quando leggo il nome di mio
padre. Stavolta lo apro.
Papà:“Sei un idiota”.
A casa, dormo come un sasso per due ore. Poi faccio la doccia e
vado alla pista. Sono un po’ in ritardo, ma va bene così: ci sarà
meno tempo per le chiacchiere nello spogliatoio. Sono troppo stanco
per stare a sentire le cazzate che i miei compagni potrebbero dire su
di me. Al momento non ci voglio neanche pensare. Non voglio
sapere se stanno cercando di farmi andare in uno spogliatoio
separato o stronzate del genere.
Quando entro nello spogliatoio, tutti smettono di parlare.
Pace. Non me ne frega un cazzo. Butto il borsone sulla panca e
mi tolgo il cappotto. Non si sente volare una mosca. Appendo il
cappotto e scalcio via gli scarponi.
«Wesley, brutto stronzo» esordisce Eriksson. «Non ci dici niente?»
«Dirvi cosa?» ringhio. La mia vita sessuale non è affar loro, che
cazzo.
«Come sta? Cristo santo, a sentire la TV il tuo ragazzo ha un
piede nella fossa.»
Le mie dita incespicano sui bottoni della camicia verde acceso.
«C-come?»
Il nostro portiere di riserva, Tomilson, interviene con un tono
sarcastico. «Quello che il signor Tatto sta cercando di chiedere è se
il tuo compagno sta bene.»
Mi risulta difficile tenere la mascella serrata. Prima di tutto, io e
Tomilson ci siamo scambiati a malapena dieci parole da quando
sono entrato in squadra. Il veterano se ne sta sulle sue, e con due
Stanley Cup in saccoccia immagino si sia guadagnato il diritto di non
presentarsi agli eventi mediatici, perché non l’ho mai visto a una
conferenza stampa né alle feste. Blake mi ha detto che passa tutto il
tempo libero con la moglie e i figli.
Sentire che si riferisce a Jamie come al mio “compagno”, e senza
giudicare, senza nessuna nota impacciata o disgustata nella voce,
mi fa pizzicare gli occhi. Porca troia. Se inizio a piangere nello
spogliatoio davanti ai miei compagni, me lo ricorderanno finché vivo.
Sento un groppo in gola, me la schiarisco. «Sta meglio. La febbre
è scesa, e penso che oggi lo dimetteranno.» Ho la voce roca quando
aggiungo: «L’influenza l’ha distrutto. Non ho mai visto niente del
genere».
«Almeno non era quel ceppo pericoloso» commenta Tomilson. «Il
coach ha detto che era una normale influenza, quindi è un bene,
no?»
Annuisco. Nella stanza torna a regnare il silenzio e mi irrigidisco
istintivamente in attesa di altre domande. Mi sembra troppo… facile.
Perché non mi tartassano per conoscere i dettagli della mia vita o
non mi chiedono perché non ho confessato loro di essere gay?
Però anche i miei compagni di squadra all’università avevano
reagito bene alla notizia della mia sessualità. Anche allora avevo
pensato fosse stato troppo facile, e mentre sono qui ad aspettare
che la mia squadra mi giudichi, mi rendo conto di che razza di
bastardo cinico sia diventato. Forse in questo mondo c’è più
tolleranza di quanto pensassi. È possibile? I miei genitori omofobi
sono l’eccezione in un sistema che si sta pian piano evolvendo?
Passa qualche altro secondo di silenzio, poi Eriksson parla di
nuovo. «È stata la camicia, eh?»
Sbatto le palpebre, confuso, e lui indica la camicia verde che ho
addosso.
«Lo sapevo. Ti ha fatto diventare gay» commenta allegramente.
«Matt» lo riprende uno dei nostri compagni, ma è troppo tardi: gli
altri stanno già ridacchiando e, porca miseria, anch’io.
«Quante volte te lo devo dire?» brontolo. «Questa camicia è
divina, porta la luce nel mondo.»
Forsberg ridacchia. «È accecante, ecco cos’è.» Mi si avvicina e mi
dà una pacca sul culo. «Datti una mossa e preparati. Il coach non ci
andrà leggero con te solo perché il tuo ragazzo ha l’influenza. Una
volta sono arrivato tardi all’allenamento perché la mia Donna era
malata, e il vecchio bastardo mi ha fatto fare cento flessioni. Con
tutta l’attrezzatura addosso. E i pattini. Sai quanto cazzo è difficile?»
«La tua donna? Non sapevo avessi la ragazza…» Ma è già sparito
nel corridoio, quindi Eriksson risponde per lui.
«Non ce l’ha» sorride. «Donna è il nome del suo cane.»
Va bene, quindi Forsberg ha un cane che si chiama Donna. Il che
è un altro promemoria su quanto poco mi sia sforzato di conoscere
gli uomini con cui pattino ogni giorno.
Sento di nuovo il groppo in gola. Deglutisco e mi cambio
velocemente per l’allenamento.
Ho un déjà-vu.
Un’altra dimissione dall’ospedale, un’altra sedia a rotelle, un’altra
folla di giornalisti avvoltoi appostati fuori e un’altra fuga veloce in una
macchina a noleggio che Wes ha lasciato fuori.
La settimana scorsa è stata un inferno. Mi sono ritrovato di nuovo
in quel cazzo di ospedale. Ma per i primi tre giorni sono rimasto privo
di sensi. Il quarto giorno, al risveglio, ho trovato mia madre e
l’infermiera Bertha che mi fissavano con un’espressione
preoccupata.
Non prendetevi mai la polmonite, è una vera merda.
Ma ora la febbre è sparita. Mia madre stamattina è tornata in
California con Jess, e non posso dire di non esserne sollevato,
soprattutto per mia sorella. Adoro Jess, ma questa settimana è stata
da schifo. Si sentiva in colpa per il fatto che mi fosse venuta la
febbre alta sotto il suo naso e mi è rimasta attaccata per tutto il
tempo del ricovero in ospedale. Mia madre l’ha mandata a casa un
paio di volte quando si è resa conto che non ne potevo più del suo
affetto soffocante.
Io e Wes usciamo in silenzio dall’ascensore del nostro palazzo. Le
gambe mi tremano un po’ e incespico, ma quando cerca di
prendermi il braccio lo guardo male. Sono stufo marcio che tutti
siano preoccupati per me e mi trattino come un invalido.
Senza dire una parola, lascia cadere la mano lungo il fianco.
Arriviamo davanti all’appartamento e Wes infila la chiave e apre la
porta. Una volta dentro, butta per terra il borsone con la mia roba e
resta in piedi al centro del salotto a guardarmi.
«Ti serve qualcosa?» La sua voce è roca. «Cibo? Una doccia? Del
tè?»
Tè? Cos’è, ora sono diventato una vecchietta con lo stomaco
delicato che non regge un buon caffè?
Sento salire l’amaro in bocca. Mi sforzo di mandarlo giù, perché
non è giusto nei confronti di Wes. Non è colpa sua se la polmonite
mi ha lasciato con il culo per terra, e so quanta paura ha avuto
nell’ultima settimana.
Ha giocato altre due partite fuori casa prima di potermi venire a
trovare in ospedale. Non che l’abbia notato, visto che ero privo di
sensi, ma la squadra non gli ha dato il permesso di allontanarsi
perché c’erano mia madre e mia sorella in ospedale con me.
Stamattina mi ha detto che neanche se le ricorda quelle partite,
che era troppo incazzato e preoccupato e chiamava mia madre,
Jess e Blake ogni secondo libero che aveva.
Dovrei baciargli i piedi per essere un fidanzato tanto attento e
affettuoso. Invece no, sono solo… arrabbiato. Con lui. Con il mio
corpo. Con tutto quanto, cazzo. Inoltre, le medicine che mi hanno
rifilato all’ospedale per tutta la settimana mi stanno distruggendo.
Stamattina ho iniziato una cura di steroidi e mi fanno sentire strano.
Avverto un’euforia superficiale che cozza con la rabbia e il
risentimento che mi ribollono nello stomaco.
Wes mi guarda con cautela. «Piccolo?»
Mi rendo conto che non gli ho risposto. «Non mi serve niente»
borbotto. «Vado a dormire un po’.»
Sul suo viso passa un lampo di delusione. Oggi non deve giocare.
So che sperava passassimo un po’ di tempo insieme, ma al
momento non sono una buona compagnia. Sono stanco di essere
malato. Ho odiato stare in quel cazzo di ospedale e detesto non
poter rientrare al lavoro fino a… chissà quando. Ieri sera ho
chiamato Bill e mi ha ordinato di non pensare neanche di tornare per
almeno un’altra settimana.
Non ho bisogno di un’altra settimana, ho solo bisogno di riavere la
mia vita.
«Va bene» si arrende Wes. «Allora io…» I suoi occhi grigi si
guardano intorno per poi posarsi sul tavolino nel corridoio, dove c’è
un sacco di posta ammonticchiata. «Controllo la posta e pago
qualche bolletta.»
Mi sta per sfuggire un commento acido.
Almeno sai come si fa?
Da quando abbiamo iniziato a convivere, Wes non si è mai
occupato delle questioni di casa: bucato, bollette, pulizie. Faccio
tutto io, perché lui è troppo impegnato a giocare nella NHL per…
Basta, ordina una vocina dentro di me. Forse è la mia coscienza.
Oppure la parte di me che è profondamente innamorata di
quest’uomo. In ogni caso, sono stato di nuovo ingiusto.
Quindi infilo una bella dose di gratitudine nella mia risposta.
«Grazie. Mi renderesti davvero le cose più facili. E occhio alla fattura
dell’ospedale…» Mi blocco e deglutisco, perché mi è appena venuto
in mente che due settimane in ospedale potrebbero benissimo
prosciugare i miei risparmi, e forse anche le carte di credito. Non
sono un cittadino canadese, quindi non so se la mia assicurazione
coprirà tutto.
«Oh, non arriverà» mi rassicura Wes, sventolando la mano. «Ho
già pagato il detraibile, il resto l’ha coperto l’assicurazione.»
Serro la mascella. Mi ha pagato la fattura?
Quando nota la mia espressione, Wes aggrotta le sopracciglia.
«Che succede?»
Il mio tono di voce risulta più freddo di quanto intendessi. «Dimmi
quanto hai pagato e ti farò un bonifico.»
Protesta immediatamente. «Non c’è problema, piccolo. Ho un
mucchio di soldi. Perché preoccuparti delle finanze quando posso
benissimo…»
«Te li restituisco» ringhio.
Restiamo in silenzio per un lungo istante, poi Wes annuisce: «Va
bene. Se è quello che vuoi».
«È quello che voglio.» Non so perché sono così stizzoso, ma mi
dà fastidio che si sia occupato della fattura dell’ospedale senza dirmi
niente. Capisco che ha un sacco di soldi, ma non sono… non sono il
suo cazzo di mantenuto. Siamo compagni, e che mi venga un colpo
se lascerò che paghi tutto lui.
Dopo un attimo di esitazione, si avvicina e mi tocca una guancia,
sfiorandomi la pelle liscia. Stamattina sono riuscito a radermi. Da
solo. Evviva, cazzo. Ma immagino di dover essere grato per le
piccole cose.
«Jamie» sussurra, la voce roca. «Sono contento che tu stia
meglio.»
Avverto un groppo in gola. Porca miseria. Il sollievo nel suo
sguardo mi fa sentire in colpa. So di essere stato uno stronzo con lui
per tutta la settimana: gli ho sbottato contro quando è venuto a
trovarmi; mi sono impuntato quando ha proposto che mia madre e
mia sorella restassero ancora un po’; me la sono presa con lui
quando l’ho guardato giocare dalla televisione dell’ospedale – lui a
fare il campione sui pattini e a segnare goal, e io coricato a pisciare
in una padella. E ora lo sto aggredendo per questioni di soldi,
nientemeno.
«Anch’io» mormoro, lasciandomi andare al calore del suo tocco.
Mi sfiora il labbro inferiore e poi posa la bocca sulla mia per un
bacio veloce. «D’accordo, va’ a riposarti. Io sono qui, se hai
bisogno.»
Sto per chiedergli di unirsi a me, ma il suo telefono squilla prima
ancora che riesca ad aprire bocca. La mano di Wes si allontana
dalla mia guancia e si infila nella tasca. Sul suo viso stupendo
compare una smorfia di frustrazione, quando scopre chi sta
chiamando.
«Frank» mi spiega a bassa voce, poi si allontana per rispondere.
Resto lì in piedi abbastanza da cogliere che Frank, il campione
delle pubbliche relazioni, sta ancora stressando Wes per le
interviste. O meglio, per la mancanza di interviste. Perché Wes si sta
ancora rifiutando di parlare ai media. Avrebbe dovuto concedere
finalmente l’intervista per Sports Illustrated, ma poi mi sono
ammalato e ha rinviato. Un’altra aggiunta alla lunga lista delle cose
che la mia malattia ha mandato a puttane.
Vado in camera nostra e mi siedo sul letto, appoggiando la testa
sui cuscini. Non sono stanco, gli steroidi che sto prendendo per
ripulire i polmoni si assicurano che stia bello sveglio e all’erta in
modo innaturale, quindi al momento dormire è escluso. A Wes l’ho
detto solo perché…merda, sto di nuovo facendo lo stronzo ingrato.
Ma ho bisogno di spazio. Ho bisogno di una maledetta ora per me
stesso, senza infermiere che mi ronzano intorno e Wes che mi
chiede se ho bisogno di qualcosa.
Dopo aver fissato il muro per cinque minuti, accendo il computer e
controllo le email. Porca troia. Ce ne sono a centinaia. Mia madre mi
ha confiscato il telefono in ospedale sostenendo che dovevo
concentrarmi solo sul guarire. Allora avevo protestato come una
preadolescente che non aveva il permesso di mandare messaggi,
ma ora sono contento l’abbia fatto: la casella è strapiena.
Ci sono messaggi dei miei compagni di squadra dell’università –
alcuni che si informano se sto bene e altri che si chiedono perché
non avessi confessato loro di essere gay. Sono sorpreso quanto voi,
gente.
Ci sono e-card con auguri di pronta guarigione da familiari e amici,
ma eclissati dalla quantità spaventosa di messaggi degli organi di
stampa – di ogni rivista sportiva che abbia mai sentito nominare, di
People, di quotidiani locali e non. Mentre scorro tra le richieste per
un’intervista, mi sento lo stomaco sottosopra. La mia vita – la mia
vita sessuale – è sotto un microscopio e non mi piace. All’improvviso
sono travolto da un nuovo moto di stima per Wes, perché mi rendo
conto che lui avrà il doppio dell’attenzione rispetto a me. Un altro
messaggio attira il mio interesse. È del mio capo. L’ha mandato
mentre ero in ospedale la prima volta.
Caro Jamie,
hai cercato di parlarmi della questione del linguaggio omofobo del
tuo collega, ma non ho ascoltato quanto avrei dovuto. Mi dispiace
davvero. La nostra politica è inequivocabile: nessun impiegato o
giocatore dovrebbe sopportare un linguaggio discriminatorio né un
ambiente lavorativo ostile.
Permettimi di aiutarti a fare adesso quello che avrei dovuto aiutarti
a fare allora. In allegato c’è il modulo per sporgere un reclamo.
Appena te la senti, compilalo così potremo fare i dovuti
accertamenti.
Questa settimana ho imparato una difficile lezione, e vorrei
correggere la precedente risposta alla tua richiesta.
Saluti, Bill Braddock
Non ho idea di come rispondere. Presentare un reclamo ora
sarebbe futile: poiché stavo tenendo segreta la mia bisessualità,
farei la figura della spia, di qualcuno che stava prendendo appunti
mentre gli altri non prestavano attenzione.
Danton non dovrebbe passarla liscia per aver diffuso odio, ma tra
qualche giorno dovrò tornare su quella pista e non voglio che i miei
colleghi pensino che mi sono segnato qualsiasi cosa sia stata detta
negli spogliatoi. Sto leggendo l’email per la quarta volta, quando
Wes entra in camera.
«Perché non lo metti via e ti riposi un po’?» propone il mio
ragazzo. Mi prende dalle mani il computer e lo chiude. «Sembri
stanco.»
Porca vacca. Sono stanco. Non lo ero cinque minuti fa, ma ora le
palpebre iniziano a chiudersi. Controllare qualche email mi ha
risucchiato le energie, e sento di nuovo quel senso di impotenza che
mi chiude la gola. Odio essere debole. Lo detesto, e la rabbia mi fa
esplodere: «Sì, mamma».
Negli occhi di Wes passa un lampo di dolore.
Mi sento di nuovo in colpa. «Mi… dispiace» sussurro. «Non volevo
sbottare.»
«Non c’è problema.» Ma sembra ancora ferito, quando esce dalla
stanza.
22
Jamie non sta bene. Sono passati tre giorni da quando l’hanno
dimesso dall’ospedale. Fisicamente sta riacquistando le forze: non
dorme più tanto durante il giorno, stamattina ha preparato la
colazione senza crollare per la stanchezza ed è uscito a fare delle
brevi passeggiate. Ma quando l’ho trascinato alla nostra tavola calda
preferita, quella che abbiamo trovato la mattina dopo che Jamie si è
trasferito qui, degli universitari si sono avvicinati per chiederci
l’autografo. Chiederci. Poi altre persone hanno voluto fare delle foto.
Jamie si è incazzato e ha iniziato a tossire.
Ce ne siamo andati senza mangiare. E quando ho proposto di
andare al nostro cinese preferito, ha risposto: «Facciamoci portare
qualcosa a casa».
Il suo corpo sta guarendo, lo so per certo, ma non ho idea di cosa
gli passi per la testa né cosa provi. Si è chiuso a riccio. Prima mi
sbotta contro e poi si scusa per averlo fatto.
Non ricordo l’ultima volta che ci siamo baciati. Baciati davvero,
non i bacetti al volo che ci siamo scambiati questa settimana. Credo
che l’ultima volta sia successo al primo ricovero. Sì… nella doccia.
Quella è stata una doccia magnifica.
Quella in cui sono adesso… non tanto. Sono in un box doccia stile
saloon, il che vuol dire che ho due compagni di squadra vicino, uno
a destra e uno a sinistra. E mi stanno fissando. Non in modo
pornografico, per guardarmi l’uccello, anche se sinceramente lo
preferirei agli sguardi pieni di preoccupazione.
«Non parli più con noi.» Lo scroscio d’acqua intorno a noi non
nasconde il tono accusatorio di Eriksson.
«Sì, invece» rispondo, insaponandomi il petto.
Dall’altro lato, Hewitt mi smentisce subito. «No, stai facendo
l’asociale.»
Vogliono che sia socievole? Quando il mio ragazzo è a casa a
deprimersi e a sbottarmi contro ogni volta che ne ha l’occasione?
Sono fortunati che mi presenti alle partite. La mia testa è talmente
concentrata su Jamie che è un miracolo mi ricordi come si gioca a
hockey.
«Blake dice che il tuo uomo sta meglio» incalza Eriksson.
Mi risciacquo e prendo lo shampoo. «Sì, infatti.»
«E allora cos’è quel muso lungo?»
La mia riluttanza a confidarmi con loro mi porta a metterci molto
più tempo per lavarmi e risciacquarmi i capelli. Spero sia abbastanza
perché si dimentichino la domanda di Eriksson, ma mi stanno ancora
guardando quando apro gli occhi.
«Forza, Wesley, sputa il rospo. Che succede a casa?» Eriksson fa
una risata autoironica. «Non può essere peggio di quello che sto
passando io.»
Il ricordo dei suoi problemi coniugali manda in frantumi la mia
esitazione. Fanculo. I miei compagni hanno fatto di tutto per
sostenermi da quando è saltata fuori la “notizia” del mio
orientamento sessuale. Hanno sempre chiesto come stava Jamie,
hanno dovuto sopportare la mia faccia arrabbiata a ogni partita fuori
casa. Sono stati gentilissimi e mi sento uno stronzo a tenerli ancora
a distanza.
«Jamie è depresso» confesso.
Queste parole rimangono sospese in mezzo al vapore. Non le
avevo mai pronunciate ad alta voce. Che cavolo, non ci avevo
riflettuto neanche troppo, ma ora mi rendo conto di quanto siano
vere. Jamie non è solo imbronciato, non è solo deluso. È depresso.
Prima di riuscire a fermarmi, dalla mia bocca scivolano fuori altre
parole. «Non può ancora tornare al lavoro, e ieri sera la sua squadra
ha vinto un’altra partita senza di lui. Non ha ancora recuperato tutte
le forze; non può allenarsi – il medico gliel’ha proibito – e non può
uscire di casa senza essere perseguitato da qualche giornalista.» Mi
si stringe la gola. «Credo dia la colpa a me per tutto.»
Cazzo, è la prima volta che pronuncio ad alta voce anche questo.
Mi fa stare male pensare che sia vero, che Jamie mi incolpi per la
tempesta mediatica che non si calma.
Frank mi chiama ancora diverse volte al giorno, la società ha
rilasciato varie dichiarazioni per rimediare al mio rifiuto di parlare con
la stampa. La mia faccia e quella di Jamie sono su tutti i blog
sportivi. Durante la nostra ultima partita in casa, fuori dallo stadio
c’erano manifestanti che avevano dei cartelli con su scritti passaggi
della Bibbia e slogan disgustosi.
La vita… fa schifo. Adesso fa davvero schifo, cazzo.
«Non so come rimediare» farfuglio. Chiudo l’acqua, prendo un
asciugamano e me lo avvolgo intorno alla vita. «E non posso
chiamare rinforzi per risollevargli il morale. Non conosciamo nessuno
in città… A parte voi» aggiungo subito, quando noto le loro
espressioni ferite. «Ma la maggior parte degli amici di Jamie è sulla
costa ovest, dov’è andato all’università. E i suoi familiari sono in
California, e non possono mollare tutto e prendere l’aereo per il
Canada per stare con lui. Sua madre e sua sorella l’hanno già fatto
quand’era in ospedale.»
Eriksson e Hewitt mi seguono nello spogliatoio; le loro espressioni
sono solidali. «Dev’essere dura» commenta Hewitt.
«Già.» Mi giro verso l’armadietto così che non vedano quanto
sono disperato. “Dura” è un eufemismo, in quel caso sarei in grado
di gestirla. Ma tutto questo… Vedere Jamie arrabbiato e non essere
capace di aiutarlo…
Non è dura.
È una tortura.
Brooklyn in Love
Un Amore da Principianti