Sei sulla pagina 1di 253

Indice

Copertina
Frontespizio
Colophon
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
Questo libro è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi, marchi, media ed
episodi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono utilizzati in modo
fittizio. L’ autore riconosce lo status del marchio di fabbrica e i proprietari del marchio dei
vari prodotti, band e/o ristoranti menzionati in questo romanzo, che sono stati usati senza
permesso.
La pubblicazione/uso di questi marchi non è autorizzata, associata o sponsorizzata dai
proprietari del marchio. Qualsiasi somiglianza con persone reali viventi o defunte, eventi
o luoghi è puramente causale.
Titolo originale: Us
Copyright © 2016 by Sarina Bowen e Elle Kennedy
Traduzione dall’inglese di Valentina Cabras
Prima edizione: marzo 2020
Insieme © 2019 Always Publishing s.r.l. - Salerno
This is a work of fiction.
Names, characters, places, and incidents either
are the product of the author’s imagination or are used fictitiously.
Any resemblance to persons, living or dead, business establishments,
events, or locales is entirely coincidental.
All rights reserved. No part of this book may reproduced, scanned
or distributed in any manner whatsoever without written permission
from the author except in the case of brief quotations embodied in articles or reviews.
ISBN 978-88-85603-851
Photo ©ArtofPhotos/Shutterstock.com
www.alwayspublishingeditore.com
Titolo originale dell’opera
Us
1

Vancouver è una città bellissima, ma non vedo l’ora di andarmene.


Abbiamo appena concluso il viaggio più lungo che avevamo in
programma e, cazzo, sono impaziente di tornare a casa. In piedi in
una lussuosa stanza d’albergo che sovrasta il lungofiume, scarto
una camicia che ho appena comprato in una boutique dietro
l’angolo. È da un bel po’ che vado avanti solo con i vestiti che avevo
messo in valigia, quindi non ho più indumenti puliti. Questa camicia è
bellissima e ha praticamente urlato il mio nome, quando sono
passato davanti alla vetrina di ritorno da un pranzo di beneficenza in
cui ho firmato autografi.
La sbottono e la indosso. Controllo allo specchio come mi sta e ne
sono soddisfatto. Anzi, più che soddisfatto. Il cotone è di ottima
qualità e propone un motivo a quadri verde lime. È molto britannica,
e il colore vivace mi ricorda che non sarà per sempre febbraio.
Adesso che il mio dress code richiede abito e cravatta tre o
quattro volte alla settimana, dovrò fare più attenzione al guardaroba.
All’università indossavo completi eleganti tre volte l’anno, al
massimo. Ma non è un sacrificio: mi piacciono i vestiti. E lo specchio
dell’albergo mi dice che io piaccio a loro.
Sono uno stronzo sexy. Se solo la persona a cui tengo fosse qui
per apprezzarlo.
Ieri sera abbiamo asfaltato Vancouver e, non per vantarmi, il
merito è mio. Due goal e un assist – la mia prestazione migliore
finora. La mia stagione d’esordio è una di quelle da titolo in prima
pagina. Anche se in questo momento darei tutto per una serata
davanti alla TV con Jamie e un pompino. Sono distrutto. Esausto.
Sfinito.
Per fortuna, al termine di questo viaggio manca solo una tratta sul
jet della squadra.
Prendo il telefono dal tavolo e lo sblocco. Con la fotocamera in
modalità selfie, mi scatto una foto agli addominali; la camicia è
aperta e lascia vedere la tartaruga e ho una mano sul cavallo dei
pantaloni. Mi ci è voluto un po’ per capire che Jamie ha un debole
per le mie mani. Giurerei che gli piacciono ancora di più del mio
uccello.
Invio la foto. Non c’è bisogno di didascalie.
Do un’ultima occhiata alla stanza, assicurandomi di aver preso
tutto. Ho imparato in fretta a non lasciare in giro caricabatteria e
spazzolini. Siamo in viaggio talmente spesso che fare i bagagli è
diventata la mia nuova specialità.
Il telefono vibra, è arrivato un messaggio. “Grrr. Datti una mossa e
torna a casa, va bene? Non mi servono foto. Il mio povero uccello si
sente solo ed è durissimo”.
Mi viene in mente una vecchia battuta di uno spettacolo, quindi
rispondo: “Quant’è duro?”
“Abbastanza da piantare chiodi nei nostri muri vuoti” risponde. È
vero, non abbiamo arredato del tutto il nostro appartamento.
Lavoriamo troppo e non c’è stato tempo.
Ma, come sempre, il sesso ha la priorità sui complementi d’arredo.
“Fammi vedere” supplico. C’è un motivo se blocco il telefono: a me e
Jamie piace mandarci foto intime.
Ma lui non risponde. Forse non è a casa. A Vancouver è
pomeriggio, quindi a Toronto è più tardi… Cazzo. Sono stanco di
calcolare il fuso orario ogni volta. Voglio solo tornare a casa.
Prendo la valigia e mi avvio di sotto. Alcuni dei ragazzi sono già
nell’atrio, impazienti di rientrare tanto quanto me. Li raggiungo.
«Cristo» esordisce Matt Eriksson, quando mi avvicino. «Sarà
meglio che mia moglie sia a casa nuda, quando arrivo. E sarà
meglio che le bambine stiano dormendo. Con tipo dei tappi per le
orecchie.»
Otto giorni è un periodo lungo, concordo tra me e me. Ma non lo
dico ad alta voce perché, anche se i miei compagni di squadra sono
delle gran brave persone, non affronto certi argomenti. Non è nel
mio stile mentire e fingere che ci sia una ragazza a casa ad
attendermi. E non sono pronto a confidare loro chi è che mi aspetta,
quindi tengo l’informazione per me.
Solo che i lineamenti nordici di Eriksson sono rivolti verso di me e
ha un sorrisetto stupido stampato in faccia. «Cazzo, i miei poveri
occhi! Credo di essere diventato cieco.»
«Perché?» chiedo senza entusiasmo. Eriksson è sempre in vena
di battute.
«Quella camicia! Cristo.»
«Sul serio» interviene Will Forsberg, il veterano, ridendo e
coprendosi gli occhi con una mano. «È troppo vivace.»
«È troppo gay» lo corregge Eriksson.
Il commento non mi turba per niente. «Questa camicia è di Tom
Ford ed è fighissima» borbotto. «Scommetto venti dollari che finisce
sui blog delle fan allupate entro la fine della settimana.»
«Puttanella egocentrica» mi accusa Forsberg.
Forsberg attira l’attenzione dei media più di chiunque altro in
squadra, e quando la mia faccia ha fatto la sua comparsa su
HockeyHotties.com non ha gradito la concorrenza.
Il che è ironico. Può pure tenersele, le orde di fan allupate.
«Dico solo,» insiste Eriksson, «che con quella camicia ti vedrei
bene nei locali su Church Street.»
«Ah, sì?» chiedo. «Lo sai per esperienza personale?»
Questo lo zittisce. Ma ora Blake Riley mi sta guardando storto il
petto. È un cucciolone dagli scompigliati capelli castani e nessun
filtro. «È ipnotica. Sembra dire: “Ehi, coglione, prova a distogliere lo
sguardo”.»
«Dice: “Trecento dollari, grazie”» lo correggo. «Essere così belli
costa.»
Blake ridacchia e Forsberg suggerisce che dovrei chiedere il
rimborso. Poi l’oggetto delle prese per il culo cambia e iniziamo a
fare ipotesi sul fatto che il pullman non arriverà mai e moriremo qui a
Vancouver con le palle blu.
Ma alla fine saliamo a bordo e io mi siedo da solo. Siamo a metà
strada verso l’aeroporto quando mi vibra il telefono per un
messaggio. L’ho impostato in modo che nessuno dei messaggi
(soprattutto le foto) compaia sullo schermo se non accedo. È una
precauzione fondamentale, e il messaggio che Jamie mi ha appena
mandato lo dimostra. Quando il telefono riconosce la mia impronta
digitale, sullo schermo compare una foto vietata ai minori. È allo
stesso tempo oscena e delirante. L’uccello parecchio duro di Jamie
riempie lo schermo. Solo che è rivolto verso il muro e la punta è
appoggiata a un chiodo, che sta presumibilmente piantando. E
Jamie ha usato una qualche app per disegnare una faccina
sorridente sulla punta. La trasformazione è inquietante. Il suo uccello
sembra… un’espressiva creatura aliena che fa piccole riparazioni
domestiche.
Mi scappa una risata. E gli altri pensavano che la camicia fosse
gay. Ve lo faccio vedere cos’è gay…
«Wesley?»
Blake si alza dal sedile dietro di me per dire qualcosa. Premo il
pulsante del menù talmente forte che mi scrocchia la nocca. «Sì?»
Mi chiedo cos’abbia visto.
«Ti ricordi che ti avevo chiesto se ti piaceva abitare al 2200 di
Lake Shore?»
«Sì.»
«Ieri hanno portato la mia roba lì. Sono il tuo nuovo vicino del
quindicesimo piano.»
Davvero?
«È grandioso, amico» mento. Quando mi ha chiesto se mi
piacesse il posto, avrei dovuto parlargli di tutti gli svantaggi. È troppo
lontano dalla metropolitana. Il vento freddo che tira dal lago è una
merda. Non ho niente contro Blake, ma non ho bisogno di
fraternizzare con i vicini. Mi sto facendo in quattro per tenere un
basso profilo.
«Sì, il panorama è stupendo, vero? L’ho visto solo di giorno, ma le
luci di notte devono essere spettacolari.»
«Lo sono» ammetto. Come se mi importasse. L’unica cosa che
voglio adesso è vedere il viso del mio ragazzo. E abbiamo ancora un
volo di quattro ore prima che arrivi a casa da lui.
«Puoi aiutarmi a trovare i locali migliori del quartiere» propone
Blake. «Ti offro il primo giro.»
«Fantastico» dico.
Cazzo, penso.
Ci vogliono diciotto anni per arrivare a Toronto.
Il tempo di atterrare e recuperare i bagagli, e si fanno le sette. Non
vedo davvero l’ora di passare un po’ di tempo con Jamie, ma
abbiamo i minuti contati. Domani mattina deve partire alle sei per
una partita fuori casa in Québec con la squadra della lega giovanile.
Abbiamo undici ore, e non sono ancora lì con lui.
Ogni semaforo rosso sul tragitto per arrivare a casa mi fa ribollire
di rabbia. Ma alla fine parcheggio nel garage (una delle
caratteristiche dell’edificio di cui mi sono vantato con Blake,
maledizione). Trascino l’enorme borsone in ascensore, che per
fortuna arriva al nostro appartamento al decimo piano senza
fermarsi. Tiro fuori le chiavi, così le ho già in mano.
Finalmente mancano venti passi, poi dieci. Quindi apro la porta.
«Ehi, piccolo!» grido come sempre. «Ce l’ho fatta.» Porto
l’attrezzatura dentro, poi ci butto sopra la giacca dell’abito e lascio
tutto vicino alla porta, perché tutto quello di cui ho bisogno ora è un
bacio.
Poi avverto un odore magnifico. Jamie mi ha preparato la cena. Di
nuovo. Giuro su Dio che è l’uomo perfetto.
«Ciao!» saluta, comparendo dal corridoio che porta in camera da
letto. Indossa un paio di jeans e nient’altro, e – cosa insolita – ha la
barba. «Ti conosco?» Mi rivolge un sorriso sexy.
«Stavo per chiedere la stessa cosa.» Sto fissando la barba
bionda. Jamie non l’ha mai avuta. Insomma, ci conosciamo da prima
che ci spuntassero i peli in faccia. È diverso. Sembra più grande,
forse.
Ed è sexy come il peccato. Davvero, non vedo l’ora di sentire
quella barba sul viso, e magari sulle palle… Cristo. Il sangue sta già
confluendo verso il basso e sono a casa da quindici secondi.
Eppure, resto immobile al centro della stanza per un attimo,
perché anche se io e Jamie stiamo insieme da otto mesi, sono
ancora un po’ sorpreso dalla fortuna che ho avuto. «Ciao» saluto di
nuovo, intontito.
Mi viene incontro. La sua andatura è così familiare che mi si
spezza un po’ il cuore. Mi posa le mani sui trapezi e stringe quei
muscoli. «Non andartene più per così tanto tempo. Se lo farai di
nuovo, mi toccherà intrufolarmi nella tua stanza d’albergo mentre sei
in viaggio.»
«Me lo prometti?» chiedo con voce roca. Adesso è abbastanza
vicino da poter sentire l’odore di oceano del suo shampoo e della
birra che ha bevuto mentre mi aspettava.
«Semmai dovessi avere un giorno libero, lo farò» risponde.
«Sesso in albergo dopo una partita? Molto sexy.»
Ora sto calcolando la distanza dal divano e contando gli strati di
vestiti da rimuovere nei prossimi novanta secondi.
Ma Jamie mi toglie le mani dalle spalle. «Ho già mangiato, ma la
tua cena è in forno. L’ho messa dentro qualche minuto fa.
Enchiladas di pollo. Dovrebbero scaldarsi in un quarto d’ora.»
«Grazie.» Mi brontola lo stomaco e lui sorride. Immagino di essere
affamato in più di un senso.
«Vuoi una birra?»
Se la voglio? «Siediti, ci penso io. Inizia a mettere l’episodio,
possiamo guardarlo mentre aspettiamo.» Mi sento fin troppo
educato, ma di solito è un po’ strano tornare a casa dopo un viaggio.
C’è sempre un breve momento di imbarazzo che non sapevo di
dovermi aspettare. Non mi interessano le conversazioni domestiche
che i miei compagni di squadra sposati intrattengono, ma se fossi il
tipo di persona capace di confidarsi sarei tentato di chiedere: sarà
sempre così? È una sensazione che sperimentano anche quelli
accoppiati da dieci anni? O è solo la novità della nostra relazione
che rende le cose un po’ strane per una o due ore, quando torno a
casa? Magari lo sapessi.
La prima tappa è in cucina per prendere due birre, che apro e
poso sul tavolino. Viviamo qui da quasi sei mesi, e ci sono ancora
pochi mobili. Siamo stati entrambi troppo impegnati per dedicarci
all’arredamento. Ma abbiamo le cose fondamentali: un divano
gigante in pelle, un tavolino che spacca, un tappeto e una TV
enorme.
Oh, e poi c’è la poltrona traballante che ho recuperato dal
marciapiedi e ho tenuto nonostante le obiezioni di Jamie. La chiama
“la poltrona della morte” e ci si tiene a distanza. Insiste nel dire che
attira del karma negativo.
Si può portare via un ragazzo dalla California, ma non si può
portare via la California dal ragazzo.
Devo cambiarmi, quindi vado verso la camera da letto. Ma poi mi
fermo per chiedergli: «Ehi, che ne pensi di questa camicia? L’ho
comprata oggi, non avevo più roba pulita».
Jamie punta il telecomando verso la TV. «È molto verde»
commenta, senza girarsi a guardare.
«A me piace.»
«Allora piace anche a me.» Si volta e la barba mi prende di nuovo
alla sprovvista, ma il suo sorriso mi fa correre in camera.
Il letto è rifatto alla perfezione, quindi lancio i pantaloni, la camicia
verdissima e la cravatta sulla trapunta per tornare in fretta da Jamie.
Mi infilo un paio di pantaloni della tuta e torno in salone. Jamie è
sdraiato su un fianco in un angolo del divano, le gambe distese sui
cuscini. Non mi disturbo neanche a fingere noncuranza: mi sdraio
davanti a lui, appoggio la testa sulla sua spalla e la schiena contro il
suo petto.
«Merda» impreco, quando mi rendo conto dell’errore. «Ho lasciato
le birre fuori portata.»
Mi stringe un palmo sugli addominali. «Prendile» comanda.
Allungo entrambe le mani per afferrare le bottiglie e lui mi evita di
cadere per terra. Anche se il tavolo è nella posizione perfetta per
poterci appoggiare i piedi quando siamo seduti, questa piccola
manovra serve per le emergenze riguardanti la birra quando ci
coccoliamo. A volte succede.
Gli passo la bottiglia da sopra la testa e sento che beve un sorso.
Sullo schermo scorrono i titoli di testa di Banshee – il telefilm che
stiamo seguendo al momento. «Non mi hai tradito mentre ero via,
vero?» chiedo.
«Non me lo sognerei neanche. Ma l’ultimo episodio non è finito
con un colpo di scena, quindi non sono neanche stato tentato.»
Ridacchio contro la bottiglia e mi appoggio al suo petto caldo. Di
solito resto concentratissimo sul telefilm, con la sua trama
stravagante e le folli scene di lotta, ma stasera è solo una scusa per
stare sul divano insieme al mio uomo, pelle contro pelle, mentre la
cena si riscalda. La sua barba mi fa il solletico all’orecchio, ed è una
cosa imprevista. Inclino la testa all’indietro in modo che mi sfiori
anche il viso. Non riesco a vedere la TV, ma non m’importa.
Abbassa il mento e mi sfrega la barba sulla guancia, poi mi sfiora
il collo con le labbra facendomi venire la pelle d’oca. «Che ne
pensi?» chiede, piano.
Mi giro con attenzione verso di lui per evitare di rovesciare la birra.
«Sei un cazzo di spettacolo. Come Justin Timberlake quando se n’è
andato dagli NSYNC ed è diventato figo. Ma prima di esprimere un
giudizio, devo sentire com’è sulle palle.»
Inclina la testa all’indietro e scoppia a ridere all’improvviso, ed è in
questo momento che si rompe la diga di ghiaccio dovuta al viaggio.
Siamo di nuovo solo noi – la sua risata allegra e il benessere che
provo quando mi sta vicino.
Sììì… Abbasso la testa e gli lecco la gola, proprio sotto il bordo
della barba, poi succhio delicatamente la pelle. Jamie smette di
ridere e rilassa il corpo contro il mio. Siamo pelle su pelle dalla vita in
su, e sentire il suo cuore che batte contro il mio mi fa venire voglia di
piangere per la gratitudine. Sfrego il naso sulla barbetta e traccio un
percorso tortuoso verso la bocca. I peli sono più morbidi di quanto mi
aspettassi.
«Che cazzo, datti una mossa e baciami» sussurra.
E lo faccio. La barba mi accarezza il viso mentre posiziono la
bocca sulla sua, tuffandomici come se fossi rimasto lontano da lui
per otto mesi, non otto giorni. Emette un verso felice che gli parte dal
petto. Lo bacio meticolosamente, riabituandomi al suo sapore e al
calore del suo respiro sul viso.
Sospira e rallento il ritmo, sfregando pigramente le labbra sulle
sue.
Non faremo follie al momento, ma non perché c’è dell’imbarazzo.
Teniamo entrambi una birra in mano, la mia cena è in forno e
abbiamo tutta la notte.
È questo il mio pensiero felice fin quando sento un suono insolito
– qualcuno che bussa alla porta. È talmente strano che all’inizio do
per scontato venga dalla televisione. Ma bussano di nuovo.
«Wesley, brutto bastardo! Apri, ho la birra!»
Jamie scosta il viso e inarca le sopracciglia. «Chi è?» chiede
sottovoce.
«Cazzo» sussurro. «Un attimo!» grido. Poi poso la bocca
sull’orecchio di Jamie. «Un mio compagno di squadra, Blake Riley.
Si è trasferito di sopra.»
Jamie mi spinge piano e mi alzo. Devo sistemarmi i pantaloni per
nascondere un minimo l’erezione. Vado alla porta e la apro
leggermente. «Ciao. Mi hai trovato.»
Blake mi rivolge un sorriso enorme e idiota, poi mi supera ed
entra. «Sì! Ho il salotto pieno di scatoloni. Un disastro. Mia sorella ha
trovato le lenzuola e ha preparato il letto, ma per il resto è un delirio.
Quindi ho mangiato un hamburger, ho comprato una cassa di birre
da sei e ho pensato di venirti a trovare.»
Per un attimo, considero l’idea di cacciarlo. Davvero. Ma non
posso farlo senza sembrare maleducato. Insomma, ho addosso i
pantaloni della tuta, una birra in mano e dietro di me c’è la
televisione accesa: ho l’aspetto di uno che ha tempo di bersi una
birra con un compagno di squadra. E questo ragazzo mi ha già
chiesto un sacco di volte di uscire a prenderci una birra, ma io ho
sempre declinato a meno che non fossimo in viaggio.
«Entra pure» lo invito, detestando pronunciare quelle parole. Tanto
per cominciare, è già entrato. Il bastardo. E sessanta secondi fa
avevo la lingua di Jamie in bocca.
Cazzo.
Blake non nota il mio disagio. Posa le birre sul tavolino e si siede
sul divano, dov’era Jamie un minuto fa. La sua birra è sul bancone
che divide la cucina dal resto della stanza, ma lui è sparito.
«Pronto per berne un’altra?» chiede Blake, prendendo una
bottiglia.
«Sono a posto» rispondo, bevendo un sorso da quella che ho in
mano.
Jamie ricompare dal corridoio con addosso una maglietta,
rovinando così la vista che avevo del suo petto dorato e muscoloso.
«Ciao» saluta. «Sono Jamie.»
«Ah, il coinquilino!» Blake si alza e lo raggiunge con un balzo per
stringergli la mano nella sua zampa enorme. «Piacere. Sei un
allenatore, giusto? Difesa? Adolescenti?»
«Ehm, sì.» Jamie mi lancia un’occhiata interrogativa.
Ma sono perplesso quanto lui. Ho menzionato il mio coinquilino
forse a due persone in tutta la stagione, ma a quanto pare Blake era
una di queste. Non ho mai parlato di Jamie ai miei compagni di
squadra perché non voglio dover cercare di capire quando fermarmi
o se sto dando troppe informazioni.
E non voglio assolutamente raccontare bugie su di lui. Non è nel
mio stile.
Blake è un ragazzone dalla risata facile, e sinceramente ho
sempre pensato fosse un po’ tonto. Ma potrebbe non essere esatto.
«Vuoi una birra?» gli sta chiedendo. «Ehi! Adoro Banshee! Che
episodio è?» Galoppa verso il divano e si risiede.
Non so cosa fare, quindi mi siedo dall’altra parte del divano.
Jamie va in cucina e io fisso lo schermo per un minuto, cercando
di capire cosa sta succedendo nell’episodio. Hood sta cercando di
scappare da un edificio da cui ha rubato qualcosa. Il suo amico trans
tutto colorato gli parla nell’auricolare nel tentativo di aiutarlo a uscire
di lì.
Non ho idea di cosa stia succedendo. Né sullo schermo né nel mio
salotto.
Jamie torna qualche minuto dopo con un piatto pieno di
enchiladas affogate nel formaggio fuso. Sta usando un vassoio
perché il piatto è ancora caldo, e io sono famoso per bruciarmi in
cucina. Inizio a sbavare quando vedo una montagna di panna acida
e un mucchietto di avocado a cubetti. Ha anche pensato al tovagliolo
e alle posate.
Caspita.
Avere un ragazzo che ti prepara la cena è la cosa migliore di
questo cazzo di mondo, solo che ora Jamie mi sta chiedendo con lo
sguardo se deve portarmi il piatto. Sembrerebbe strano? Troppo
casalingo?
Mi alzo e glielo prendo dalle mani perché, che cavolo, questa è
casa mia e posso fare quello che voglio. «Grazie. Sembra
buonissimo.»
Mi fa un occhiolino velocissimo e mi siedo sul divano per mangiare
la cena che mi ha preparato. Non è tutto quello che voglio da lui, ma
al momento dovrò farmelo bastare.
2

Non sono incazzato. No, non sono incazzato per niente. Insomma,
che altro avrebbe dovuto fare Wes? Sbattere la porta in faccia al
compagno di squadra? Indicarsi l’uccello duro e dirgli: “Scusa, bello,
sto per scopare con il mio ragazzo?”. Il ragazzo che non vedeva da
otto giorni, quello che l’ha aspettato con ansia in questo
appartamento vuoto e che si è assicurato che avesse la cena pronta
sul tavolo e…
Okay. Forse sono un tantino incazzato.
Mia madre sostiene sempre che ho la pazienza di un santo, ma al
momento non mi sento molto santo. Il mio normale stato rilassato e
di calma infinita è stato sostituito da un senso di fastidio ben
radicato. Addirittura, risentimento.
Wes mi è mancato.
Mi manca ogni volta che è in viaggio, e tutto quello che volevo per
stanotte era riabituarmi a stare con l’uomo che amo, preferibilmente
facendo sesso selvaggio.
L’uomo che amo.
Ancora adesso, quell’espressione risuona nella mia mente quasi
con meraviglia. Non ho dato di matto quando l’estate scorsa mi sono
reso conto di essere bisessuale, e di certo non lo farò ora. Non è la
parola “uomo” ad affascinarmi in quella frase, ma la parola “amore”.
Quello che provo per Ryan Wesley… è qualcosa che pensavo
esistesse solo nei film. È la mia metà. Ci completiamo in molti più
modi di quanti riesca a contarne. Quand’è nella mia stessa stanza,
non vedo altro che lui. E quando non c’è vado in giro sentendo la
sua mancanza.
C’è una vecchia frase che mia madre una volta ha dipinto su un
piatto di ceramica: “L’amore è un’amicizia ardente”. Ora la capisco.
Ma ciò non significa che non sia incazzato con lui.
Lo guardo mentre si infila in bocca le enchiladas. I suoi stupendi
occhi grigi sono fissi sullo schermo della TV, ma so che non sta
prestando attenzione al telefilm. La tensione delle sue spalle
risulterebbe impercettibile a chiunque altro, ma io la vedo
chiaramente e la mia irritazione si placa un po’.
Odia questa situazione tanto quanto te, mi sussurra la coscienza.
Vaffanculo, coscienza. Sto cercando di piangermi addosso.
Blake, d’altra parte, si sta godendo la vita. Grida contro lo schermo
quando si svolge una scena d’azione particolarmente tosta e scola la
sua birra come se non avesse preoccupazioni. Ovvio che non ne ha.
Gioca nella squadra da tre anni e fa faville sul ghiaccio, stando alla
veloce ricerca su Google che ho fatto quando sono andato in
camera a cercare una maglietta. E, soprattutto, è etero: non deve
nascondere con chi va a letto né presentare il suo compagno come
“coinquilino”. Bastardo fortunato.
Sento un retrogusto amaro in bocca quando mi ricordo che, agli
occhi del mondo, anche Ryan Wesley è etero. Il mio ragazzo è
comparso in un sacco di liste del tipo I migliori scapoli dell’hockey. A
ogni partita, ci sono almeno cinque donne che hanno cartelli con
slogan brillanti e allusivi rivolti a lui, tipo: “Urlo per Ryan!” o “Wes la
bestia is the best”. O quelli meno originali: “Voglio avere i tuoi
bambini, #57!!!”
Io e Wes ridiamo per tutte le attenzioni che attira ma, anche se so
che non c’è pericolo che il mio ragazzo gay fino al midollo inzuppi il
biscotto in qualche passera, quelle occhiate fameliche che gli
lanciano danno comunque fastidio.
«Cristo» schiamazza Blake. «Quelle tette sono un cazzo di
spettacolo.»
Il commento sconcio mi riporta al presente. Allo sgradito presente.
Sullo schermo, uno dei personaggi femminili si è appena spogliato –
viva Cinemax! – e non mentirò: il suo seno è incredibile. E, dal
momento che dovrei essere il coinquilino super etero di Wes (e sono
già stato fin troppo maleducato con il suo compagno di squadra),
decido di fornire il mio modesto parere. «Sono una meraviglia»
concordo. «Quell’attrice è una figa pazzesca.»
La frase mi fa guadagnare una leggera smorfia di Wes, e questo
basta a far riemergere il nervosismo. Sul serio? Permette al suo
compagno di rovinarci la serata e poi gli girano se trovo attraente
un’attrice?
Blake prende il mio contributo alla conversazione come un segno
che siamo diventati migliori amici e si gira verso di me con gli occhi
verdi che brillano. «Ti piacciono le bionde, eh? Anche a me. Ti vedi
con qualcuna?»
Con la coda dell’occhio vedo le spalle di Wes irrigidirsi di nuovo. E
lo fanno anche le mie, ma potrebbe anche essere perché la poltrona
su cui sono seduto è scomodissima. Bastano appena cinque minuti
su quell’affare e sembra di aver subito ore di torture medievali.
Inoltre, sono sicuro al novantanove percento che ci è morto sopra
qualcuno. Wes l’ha trovata sul marciapiedi e non se ne libera, anche
se continuo a chiederglielo.
La prossima settimana, quella merda finisce sul marciapiedi.
La poltrona, intendo. Non Wes.
«Non proprio» rispondo vago, il che fa comparire un’altra smorfia
sulle labbra sexy di Wes.
«Ti dai da fare, eh? Anch’io.» Blake si passa una mano tra i capelli
castani. È molto attraente. Ed è enorme. Almeno un metro e
novanta, e bello massiccio. «Chi ce l’ha il tempo per una relazione
nel nostro mondo? Vero, Wesley? Sembra che tutta la nostra vita
consista nel salire e scendere da un aereo.»
Wes borbotta qualcosa di incomprensibile.
«Non ho idea di come facciano Eriksson e gli altri» continua Blake.
«Durante la stagione, sono sfinito. E sono single.» Rabbrividisce.
«Pensa avere moglie e figli. È, tipo, terrificante. Secondo voi è così
che nascono gli zombie? Non per un qualche virus strano, ma
perché si è talmente sfiniti che mangiare cervelli di colpo sembra
una buona idea?»
Non riesco a non ridacchiare. Ho l’impressione che Blake Riley
potrebbe portare avanti un’intera discussione da solo. Che poi è
quello che sta facendo ora, dal momento che né io né Wes
proferiamo parola.
Appena l’episodio finisce, Blake prende il telecomando dal tavolino
e fa partire quello successivo senza chiedere il permesso. E poi apre
un’altra birra.
Il grumo di rancore che sento in gola adesso è grande quanto un
disco da hockey. Sono le nove passate. Devo coricarmi entro le
dieci, altrimenti domani mattina sarò mezzo morto. Se non dormo
almeno sette ore, mi prende l’insonnia, come Edward Norton in Fight
Club. Cavolo, in questo momento vorrei che la mia vita fosse Fight
Club, almeno avrei la scusa per trascinare Blake Riley via dal mio
divano e buttarlo fuori a calci.
Ma non posso. Ho promesso a Wes che avrei mantenuto le
apparenze almeno fino alla fine della sua stagione d’esordio. Fare
coming-out adesso danneggerebbe la sua carriera, e preferirei
tuffarmi in una vasca di vetri rotti piuttosto che rovinare il suo sogno.
Quindi mi siedo sulla poltrona della morte e fingo di interessarmi a
quello che c’è in TV. Fingo interesse per quello che Blake sta
blaterando, e a volte addirittura rido alle sue battute. Ma alle dieci e
un quarto non posso più permettermi il lusso di mantenere le
apparenze.
«Vado a dormire» comunico, alzandomi. «Devo essere allo stadio
alle cinque e mezza, domani mattina.»
Blake sembra sinceramente dispiaciuto di vedermi andare via.
«Sicuro di non poter restare per un’altra birra?»
«Magari un’altra volta. ‘Notte, ragazzi. È stato un piacere, Blake.»
«Anche per me, J-Bomb.»
Sì, Blake Riley dà soprannomi a persone che ha appena
conosciuto. Perché non mi sorprende?
Quando supero il divano, lancio un’occhiata a Wes. Ha la
mascella serrata e stringe forte la bottiglia di birra, mentre la mano
libera giocherella con il piercing al sopracciglio facendo girare il
cerchietto. Conosco questo ragazzo da quando avevo tredici anni.
Per me è come un libro aperto, ed è ovvio che in questo momento
non è affatto felice.
Nemmeno io, ma a parte cacciare Blake non c’è niente che
possiamo fare se non fingere di essere solo coinquilini che a volte
guardano insieme la TV.
A causa della stanchezza, faccio qualche passo in corridoio prima
di rendermi conto che ho un problema: non posso andare a dormire
nel nostro letto. Anche se ho conosciuto Blake solo oggi, non posso
essere sicuro che non sia mai stato qui. Quando è venuto a vedere
casa sua, ha visto anche il nostro appartamento? Wes gli ha
mostrato la vista dalla camera da letto?
Secondo la storia di copertura che raramente usiamo, la camera
degli ospiti è la mia. Quindi faccio una piccola inversione a U nel
corridoio buio e vado nel secondo bagno. Ci sono un dentifricio e
uno spazzolino che ho lasciato lì un po’ di tempo fa per dare alla
stanza un’apparenza vissuta.
Ho pensato di essere un fottuto genio per aver pensato a questa
sorta di scenografia. Ma ora eccomi qui, a fingere che la mia stanza
non è davvero mia. Entro nella camera degli ospiti e chiudo la porta,
escludendo i suoni del telefilm. Da quando io e Wes abbiamo iniziato
a convivere, questa stanza è stata usata solo una volta – quando i
miei genitori sono venuti dalla California per un fine settimana.
Stanotte sono io a buttare per terra i vestiti e a scostare la coperta
per infilarmi nel letto matrimoniale. E non mi piace.
Mi giro su un fianco ed elenco tutto quello che non va bene in
questo momento. Le tende sono trasparenti e non blu e spesse, il
materasso è più morbido rispetto a quello a cui sono abituato e il
cuscino ha più protuberanze.
Il mio ragazzo è in salotto anziché qui a farmi eccitare, come
avrebbe dovuto.
Chiudo gli occhi e cerco di dormire.
Sto sognando una vasca idromassaggio, e i getti sono fantastici.
Però il mio uccello è l’unica parte di me che entra nella vasca. Ma va
bene, perché ce l’ho duro e l’acqua è meravigliosa. Addirittura
magica.
Un attimo…
Come non detto. C’è una bocca calda intorno alla mia asta.
E forse sto ancora sognando, perché quando apro gli occhi
l’ambiente è sbagliato: la luce è strana e la testiera del letto produce
un rumore insolito mentre una testa scura si muove sopra di me e
una bocca sexy ci sta dando dentro con il mio cazzo.
Cavolo, che meraviglia.
«Sei sveglio, piccolo?» chiede Wes con voce roca.
«Più o meno. Non ti fermare.»
La sua risata mi massaggia la cappella. «Bene. Iniziavo a sentirmi
un maniaco.»
Una mano forte mi afferra l’erezione e mi sfugge un altro gemito
sordo. «Che ore sono?» Sono ancora intontito per il sonno. Il mio
piano consisteva nel tornare in camera nostra appena Blake se ne
fosse andato, ma devo essere crollato appena ho posato la testa sul
cuscino bitorzoluto.
«Le undici e mezza» sussurra. «Non ti terrò sveglio per molto,
giuro. È che… Mmm.» Il verso che emette sembra arrivare
direttamente dalla sua anima. «Cazzo, quanto mi sei mancato.»
Il risentimento che ho indossato come un’armatura per tutta la
sera si polverizza. Mi è mancato anche lui, e sarei stato un gran
pezzo di merda se avessi dato a Wes la colpa dell’interruzione
sgradita di Blake. Non è stata colpa sua se il suo compagno di
squadra si è presentato, e non è colpa sua se deve viaggiare così
tanto. Sapevamo entrambi fin dall’inizio che, finché Wes avesse
giocato a livello professionistico, avremmo dovuto affrontare lunghi
periodi di lontananza.
Gli passo le mani tra i capelli scuri e gli tiro su la testa. «Vieni qui»
ordino con voce roca.
Il suo corpo caldo e muscoloso scivola in alto e copre il mio. Gli
abbasso la testa per baciarlo. Adoro le sue labbra. Sono sicure e
avide. Sono magiche. I nostri baci diventano più profondi, sempre
più disperati mentre i nostri corpi si muovono sul materasso,
facendolo cigolare in modo incontrollabile.
Wes allontana la bocca e scoppia a ridere. «Meno male che i tuoi
genitori non hanno fatto sesso quando sono venuti a trovarci.
Questo letto fa un casino pazzesco.»
«Sarei rimasto traumatizzato a vita» concordo. Poi riprendo a
baciarlo perché, cavolo, è tardi, devo svegliarmi tra sei ore e ho
troppo bisogno di tutto questo.
Wes mi legge nel pensiero e infila la lingua tra le mie labbra
schiuse. Gliela succhio con entusiasmo, poi grugnisco, deluso. «Mi
manca il piercing alla lingua» mi lamento, senza fiato. L’ha tolto
all’inizio della stagione; evidentemente la squadra pensava non
fosse sicuro.
«Tranquillo,» scherza, «posso farti godere anche senza.» Un
attimo dopo, la sua lingua esperta scivola sul mio petto nudo e torna
sul mio uccello pulsante.
Mi prende tutto in bocca e sollevo i fianchi dal letto. Cristo. Da
quando ci siamo messi insieme, ci siamo fatti centinaia di pompini,
ma non smetto mai di stupirmi per quanto sia bello. Wes sa con
esattezza come muoversi per farmi venire. La sua fiducia in se
stesso mi fa eccitare un sacco, e non ha bisogno di istruzioni quando
si tratta di soddisfarmi.
Certo, ciò non mi impedisce di borbottare qualche ordine, ma solo
perché ci piace dire porcherie. «Ecco, lecca la punta. Sì, così.» Ho
una mano tra i suoi capelli e l’altra stringe le coperte. È passato
tanto tempo da quando mi ha preso in bocca, e la tensione alle palle
è quasi insopportabile.
La lingua di Wes mi traccia un cerchio lento e umido sulla punta,
poi scorre sulla lunghezza, ancora e ancora, finché ho il pisello
lucido e ho finito la pazienza.
«Devo venire» gemo.
Lui ridacchia piano. «Tranquillo, piccolo, ci penso io.»
E, porca puttana, lo fa. Le leccate diventano strattoni umidi
sull’erezione che mi fanno fremere dal piacere. Con la mano mi
massaggia le palle mentre mi accoglie fino in gola, succhiando forte
e veloce finché sono pronto a esplodere. Finché esplodo davvero.
Wes ringhia quando gli vengo in bocca, e smette di succhiare solo
quando mi ritrovo molle e inebetito. Mentre gli spasmi dell’orgasmo
continuano a scuotere il mio corpo soddisfatto, mi rendo vagamente
conto che ora Wes è accanto a me. Mi bacia il collo, mi massaggia
gli addominali, sfrega la guancia sulla barba.
«Quanto cazzo amo questa barba» sussurra.
«Quanto cazzo ti amo» mormoro in risposta. In qualche modo,
trovo la forza per posargli un braccio sulle spalle larghe e avvicinarlo
a me. La sua erezione sembra un tizzone ardente contro la mia
coscia, e quando mi giro per baciarlo geme sulla mia bocca e si
sfrega contro di me. Quindi lo sfioro con le nocche e lui sibila.
«Cosa vuoi?» chiedo tra un bacio e l’altro. «In questa stanza non
c’è lubrificante.»
Wes mugugna e preme i fianchi contro di me. «Non ci serve.
Voglio la tua bocca.»
Mi sposto un po’ più in alto sul cuscino. «Allora vieni qui. Fa’
vedere alla barba chi è che comanda.»
Con un grugnito prende l’altro cuscino e me lo sistema sotto la
testa, poi sposta una gamba e striscia verso l’alto.
Gli poso la mano sugli addominali e allargo le dita. È bellissimo
sentirlo sotto il palmo, caldo e sodo. Sono stufo di passare la notte
da solo; mi piace la presenza di un altro corpo nel letto. Quando non
c’è, mi manca girarmi e ritrovarmi contro il suo caldo corpo
addormentato.
Ma ora non è addormentato.
Allarga bene le gambe muscolose e gli afferro i glutei per
avvicinarlo di più. Il suo uccello è duro e già umido per me. E si
avvicina. Per stuzzicarlo un po’, serro le labbra e lui emette un verso
impaziente. Gli prendo il cazzo e me lo passo sulle labbra,
solleticandolo con la barba che mi copre il mento.
Sopra di me, Wes freme, eccitato. Dalle tende filtra abbastanza
luce da poter vedere che i tatuaggi sulle sue braccia sembrano
ombre, quando si muove. Il suo odore virile inizia a farmi impazzire.
Tiro fuori la lingua e lo assaggio, e lui ansima per l’aspettativa.
Ma non ho ancora finito di torturarlo. Allungo il collo in avanti,
premo il viso contro il suo inguine e glielo mordicchio. Ora mi sta
sfregando l’uccello sul collo, è talmente eccitato che scoperebbe
qualsiasi superficie del mio corpo. Quando Wes è disperato, è
divertente. Adoro costringerlo a perdere un po’ del suo autocontrollo.
Un giornalista sportivo una volta l’ha definito “impenetrabile,
imperturbabile, con i nervi d’acciaio”.
Ma io so qual è la verità.
Gli blocco il cazzo con la mano e muovo lentamente il collo,
strofinando la barba su ogni centimetro della sua erezione.
«Porca puttana» farfuglia. «Mi stai uccidendo. Datti una mossa e
succhiamelo.»
Gli bacio la punta e geme. Poi, di colpo, metto fine alle sue
sofferenze: apro bene la bocca e lo prendo tutto. Emette un verso
tutt’altro che virile che mi fa sorridere intorno al suo uccello, quindi
mi allontano leggermente e poi gli do un’altra forte succhiata. In
questo momento sono spietato. Non c’è ritmo, solo ambizione;
succhio, lecco, deglutisco. Lui spinge con frenesia, si gode
l’esperienza. E, appena un paio di minuti dopo, con un respiro
profondo annuncia: «Cazzo, sto venendo».
E non mente. Lo sento pulsare in bocca un’infinità di volte, e
inghiotto una settimana di tensione sessuale accumulata. Poi
abbandono la testa sui cuscini e sento la stanchezza sommergermi
nuovamente. Sopra di me, Wes china la testa e vedo il suo petto
allargarsi mentre riprende fiato. Sollevo entrambe le mani e allargo
le dita sul suo torace. «Sembri più magro» noto, sfiorandogli la pelle
liscia del petto con il pollice.
«Ho perso quasi sette chili dall’inizio della stagione.»
«Sette?» So che a volte i giocatori perdono un po’ di peso, ma
sette chili?
«Già. Succede.»
Lo spingo giù, e deve scivolare via da me in modo da poterci
abbracciare. «È un bel po’» gli sussurro all’orecchio. «Ti ci vogliono
più enchiladas.»
«Tu preparale, io le mangerò.» Affonda il viso nell’incavo del mio
collo. «Jamie?»
«Uhm?»
«Credo ci sia dello sperma nella tua barba.»
«Che schifo.»
Ride. «Sarà un problema?»
«Non lo so. È la prima volta che tengo la barba, e tu sei il primo a
schizzarci sopra.»
La sua voce è smorzata. «Ora possiamo andare nel nostro letto?»
«Sì.» Ma chiudo gli occhi, solo per un attimo.
Ci addormentiamo nella stanza degli ospiti, l’uno tra le braccia
dell’altro.
3

Otto ore dopo, la vita non è così meravigliosa.


Sono su un pullman con due dozzine di adolescenti. Ma va bene,
perché mi piacciono questi ragazzini. Lavorano sodo e giocano a
hockey in modo spettacolare. Pensavo di aver visto un sacco di
giovani giocatori bravissimi, ma a quanto pare i canadesi coltivano
campioni. La stagione della squadra non sta andando benissimo, ma
confido che ci rifaremo. Questi ragazzi hanno un ottimo istinto e un
atteggiamento grintoso.
Ma il mio, al momento, è meno stellare.
Poiché io e Wes ci siamo addormentati nella camera sbagliata, la
sveglia era lontana. Sono arrivato in ritardo di soli quaranta minuti, e
solo perché il letto era troppo piccolo: mi sono svegliato quando Wes
mi ha dato una gomitata sul sopracciglio. L’orologio sul comodino
segnava le sei meno dieci.
Mi ero alzato di scatto con il cuore a mille. Avevo fatto la doccia
più veloce della storia e avevo iniziato a saltellare per casa come un
cretino, cercando di infilarmi un calzino nel piede bagnato e, allo
stesso tempo, di raccogliere le mie cose. L’unica nota positiva?
Avevo preparato in anticipo i bagagli per il torneo a Montreal. Avevo
voluto risparmiare tempo per stare di più con Wes, almeno se non
altro il borsone era già pronto.
Wes era arrivato barcollando dalla stanza degli ospiti e mi aveva
fissato. «Devi andare via?»
«Sono in ritardo» avevo borbottato, mentre scrivevo un messaggio
al coach con cui avrei viaggiato. “Sono in ritardo. Non partite. Mi
dispiace”.
«Mi mancherai» aveva detto.
Non c’era stato bisogno di rispondere che anche lui mi sarebbe
mancato. Gli avevo dato un bacio veloce e insoddisfacente ed ero
corso verso la porta. Quando avevo allungato la mano per prendere
la mia giacca appesa, ero inciampato nella sua enorme valigia.
«Fammi un favore: disfa i bagagli.»
Quelle erano state le mie ultime, dolci parole prima di uscire –
sudato e infuriato con me stesso per il ritardo. E per aver borbottato
al mio ragazzo di mettere via la sua roba.
Tanto non lo fa mai. Di solito, la valigia resta in giro finché non gli
serve per il viaggio successivo.
Ora sto bevendo il fondo di un pessimo caffè che ho preso a una
stazione di servizio quando il pullman si è fermato per fare benzina e
sto ascoltando il mio collega blaterare. David Danton ha solo un paio
d’anni più di me. Tecnicamente, abbiamo entrambi lo stesso ruolo,
quello di assistente coach, ma dal momento che il primo allenatore
dei nostri ragazzi è al comando di varie squadre, a volte Danton fa le
sue veci, soprattutto nelle trasferte.
Cose da sapere su Danton: ha un ottimo slap shot e un carattere
orribile.
«La prima squadra contro cui giocheremo,» inizia, spostando un
pezzo di tabacco da una guancia all’altra, «è formata dalle stesse
femminucce che avete sconfitto a Londra l’anno scorso. Le loro
statistiche non sono migliorate. Chiudete bene in difesa e segnate
nel primo tempo. Nell’intervallo staranno già frignando. Sono solo un
branco di froci.»
Il pessimo caffè si trasforma in acido nel mio stomaco. Tanto per
cominciare, questo metodo di allenamento è disastroso. L’altra
squadra ha difensori dotati e un attacco carente, e i nostri ragazzi
devono essere avvisati: serve una strategia oltre a una buona dose
di audacia. Per non parlare poi degli insulti usati da Danton. È il
genere di persona che usa “gay” per descrivere tutto quello che non
gli piace – da una brutta macchina a un pessimo panino al tacchino
– e “frocio” per qualsiasi giocatore di hockey che non soddisfa i suoi
standard.
Avevo già chiesto a questo coglione di piantarla con le offese. Era
successo dopo una partita in casa. Avevamo vinto con facilità ed ero
orgoglioso dei ragazzi, ma Danton aveva gridato “L’abbiamo fatta
vedere a quei froci!” appena la partita era finita, quindi ne avevo
approfittato per fargli notare che così avrebbe rischiato di cacciarsi
nei guai.
«Non si può mai sapere chi ascolta» avevo commentato. Avevo
cercato di fargli capire che qualcuno avrebbe potuto rimproverarlo
per aver usato termini dispregiativi. Ma la mia vera preoccupazione
era per i nostri giocatori: non volevo che una figura autoritaria
legittimasse quel tipo di discriminazione. E Dio non voglia che uno di
quei ragazzi si stia ponendo domande sulla propria sessualità.
Nessuno dovrebbe ascoltare certe cazzate. A sedici anni si è già
abbastanza confusi.
Ma Danton non ha ascoltato. E, ogni volta che usa quella parola,
mi immagino sempre un Wes sedicenne, terrorizzato dalla propria
sessualità. Mi ha raccontato quanto l’aveva spaventato aver
scoperto di essere gay. Certo, ora l’ha superata, ma non tutti sono
forti come lui. Se in questa squadra c’è un ragazzo che sta
soffrendo, non voglio che senta le stronzate di Danton.
Lavorare con questo coglione mi fa ribollire il sangue, e non
perché me ne frega qualcosa di ciò che pensa di me. Ha perso il mio
rispetto la prima volta che l’ho sentito vomitare le sue cazzate. Usa
anche il termine “negro” – è proprio un bell’elemento, il nostro
Danton. Vorrei che lo rimproverassero. Ho anche accennato a Bill, il
nostro capo, che il vocabolario di Danton è spesso pessimo e
raramente inclusivo.
«Vedi se riesci a fargli dare una calmata» si era limitato a
rispondere Bill, dandomi una pacca sulla spalla. «Sarebbe un
peccato se avesse un richiamo sul curriculum. Sono permanenti.»
Una nota di demerito permanente sul suo curriculum non mi
sembra una cattiva idea, ma non ho ancora presentato un reclamo
perché sono paranoico. Da una parte, fare coming-out sarebbe
divertente perché non vedo l’ora di vedere l’espressione di Danton a
quella notizia, ma non posso fare una cosa del genere a Wes: la sua
stagione d’esordio sta andando alla grande e la stampa deve
concentrarsi sui suoi goal e i suoi assist, non sulla sua vita sessuale.
Penso sia a un passo dal competere per il trofeo Calder. Davvero.
Siamo bloccati nel traffico di Montreal e ho lo stomaco in
subbuglio. La nostra prima partita del torneo sarà alle 13, ed è
mezzogiorno passato.
«Ancora un chilometro e mezzo» ci avvisa Danton, controllando la
mappa sul telefono. «Avremo solo un quarto d’ora per prepararci,
ragazzi. Magari la prossima volta il coach Canning si sveglierà in
tempo.»
Cazzo. Odio aver fatto tardi.
E odio lui.
È un bel po’ d’odio per un californiano. La giornata non sta
andando bene.
Finalmente ci fermiamo. Facciamo scendere in fretta i ragazzi, e io
do una mano a portare dentro l’attrezzatura. Grazie al cielo, c’è un
ritardo di mezz’ora nello svolgimento del torneo. I ragazzi sono
vestiti e pronti a giocare con un avanzo di tempo quasi umano.
«Forza» esclamo, battendo i guanti. «Tu… Barrie! Tieni basso il
mento durante l’ingaggio. Questa squadra è un po’ lenta nel lanciare
il disco, ricordi?»
Il ragazzo annuisce, il suo viso è serio.
Poi rivolgo l’attenzione al mio portiere, Dunlop. È un giocatore
molto dotato, ed è eccezionale durante l’allenamento. Purtroppo,
però, ha la tendenza a bloccarsi nelle partite. All’inizio della stagione
stava andando bene, ma questo mese si è arenato.
«Come ti senti?» gli chiedo.
Distoglie i suoi occhi azzurri. «Vuole dire… se mi sento di nuovo
soffocare?»
«Senti, Dunlop, so cosa stai passando. A tutti i portieri è capitato
di avere un periodaccio, e sembra sempre che sia una cosa
permanente. Ma non lo è mai. Che succeda oggi o tra un mese,
passerà. Succede sempre così.»
Risponde con un verso arrabbiato tipico degli adolescenti. Non
l’ho convinto.
«Hai talento. Lo sanno tutti, anche se si arrabbiano con te.» Non
aiuta che i suoi compagni siano incazzati per le sue ultime
performance. «Non se la prenderebbero, se non credessero che ce
la puoi fare.» Gli do una pacca sul paraspalle. «Sta’ calmo. Puoi
farcela.»
Il suo sguardo diffidente finalmente si solleva per incrociare il mio.
«Va bene. Grazie, coach Canning.»
Eccolo qui, il motivo per cui faccio questo lavoro. «Figurati. Ora,
va’.»
La macchina ha finito di levigare il ghiaccio, quindi i nostri ragazzi
possono girare sulla pista per novanta secondi per riscaldarsi.
Dunlop pattina a testa alta e sfrega la linea come fanno i portieri
prima di una partita. Dà un colpetto al palo destro e due al sinistro –
il suo rituale. E penso che oggi potrebbe essere il suo giorno
fortunato.
Sento vibrare il telefono in tasca un paio di volte, e adesso ho un
attimo per controllare. C’è una chiamata persa di Wes. Deve aver
finito l’allenamento mattutino. Lo smartphone mi vibra di nuovo in
mano, è arrivato un messaggio.
“Ce l’ho di nuovo duro”.
Mi viene in mente il nostro scambio di ieri. “Quant’è duro?”
“Abbastanza da mettersi sull’attenti e farti il saluto militare”.
Lancio un’occhiata alla pista. Gli arbitri non sono ancora usciti,
quindi mi resta un minuto. Mi appoggio al muro di cemento in modo
che nessun altro possa vedere il telefono. “Me lo fai vedere o no?”
Un attimo dopo, compare la foto. Wes si è preso la briga di
ritagliare un piccolo cappello di carta da far indossare alla sua
erezione, che mi sorride da quello che dev’essere il divano. Ha
anche disegnato una stanghetta che esegue il saluto militare e una
faccina sorridente. Mi scappa da ridere e sento il fischio dell’arbitro.
“Notevole” gli scrivo. “Mi manchi”.
“Idem, piccolo”.
Prestando attenzione a bloccare la schermata e a mettere via il
telefono, raggiungo la panchina per assistere alla partita con un
umore migliore rispetto a prima.
4

Quando Jamie tornerà da Montreal, domenica, non sarò lì ad


accoglierlo: mi sto già imbarcando sul volo per Chicago per
l’ennesima partita fuori casa. La cosa positiva è che, dopo questa,
avremo una settimana di partite in casa. Una meravigliosa settimana
in cui dormirò nel mio letto. Una settimana di Jamie.
Non vedo l’ora, cazzo.
Infilo il cappotto nella cappelliera e gli auricolari nelle orecchie, ma
prima di riuscire a sedermi Forsberg urla dal posto dietro al mio:
«Ragazzi, la camicia gay! Se l’è messa di nuovo!»
Mi fermo e gli faccio l’occhiolino. «L’ho messa per te, tesorino,
visto che l’altra volta ti è piaciuta tanto.»
Forsberg mi lancia un tovagliolo appallottolato, ma lo schivo e mi
siedo. Certo, il vero motivo per cui la indosso è che non avevo fatto il
bucato e la camicia era su una sedia senza neanche una piega. E
poi è fighissima. Forsberg può andare a farsi fottere.
Mi metto comodo, chiudo gli occhi e reclino il sedile mentre mi
preparo mentalmente a questa partita importantissima contro i primi
in classifica. La maggior parte dei miei compagni sta facendo lo
stesso.
Quando sento il sedile accanto al mio sprofondare sotto il peso del
culo di qualcuno, do per scontato che sia Lemming, perché spesso
ci sediamo vicini in aereo e sul pullman. Anche Lemming, difensore
con i capelli rossi, è cresciuto a Boston. Ma, quando apro gli occhi,
vicino a me c’è Blake che mi sorride. È evidente che il mio nuovo
vicino ha deciso che la sua missione è fare amicizia con me, perché
mi toglie gli auricolari dalle orecchie.
«Mi sto annoiando, bello» si lamenta. «Parlami.»
Soffoco un gemito. Non siamo ancora decollati e il volo durerà due
ore. Di colpo, mi viene in mente una vecchia canzone dei Nirvana e
cerco di ricordare il testo… “Sono qui, ed è tuo dovere intrattenermi.
Eccoci, intratteneteci”.
In pratica è Blake Riley.
Eppure non riesco a farmelo stare antipatico. È esilarante.
Dal momento che non ha intenzione di andarsene, spengo l’iPod e
lo accontento. «Hai sentito qualcos’altro su Hankersen? Se lo
lasciano in panchina per l’infortunio o no?» Hankersen è l’attaccante
prodigio di Chicago, e finora ha segnato almeno un goal a partita.
Per noi è il pericolo più grande, quindi se stasera non gioca le nostre
possibilità di sconfiggere gli imbattuti Hawks aumentano.
«Ancora niente» risponde Blake. Tocca il telefono e apre una app
di sport, tenendo lo schermo rivolto verso di me. «Ho controllato in
continuazione.»
«Be’, se dovesse giocare, speriamo che la nostra difesa trovi il
modo di bloccarlo.» Improbabile, ma sognare non costa nulla.
«Com’è andata al tuo coinquilino questo fine settimana?»
La domanda mi sorprende. «Come?»
«J-Bomb» specifica Blake. «La sua squadra aveva un torneo, o
qualcosa del genere, no?»
«Ah, giusto.» Mi sento ancora parecchio a disagio a parlare di
Jamie con i miei compagni, ma ora che Blake ha passato un po’ di
tempo con noi sarebbe ancora più sospetto chiudermi a riccio ogni
volta che lo si nomina. «Ne hanno vinta una e perse due. Non
stanno andando molto bene, in questa stagione» ammetto. E so che
la cosa turba Jamie. Un sacco. Solo perché ha scelto di allenare,
invece di giocare nel professionismo, non vuol dire che non sia
competitivo. Lo fa star male vedere che i suoi ragazzi non stanno
ottenendo buoni risultati.
«È uno schifo» commenta Blake, solidale. «Soprattutto se sei il
coach. Non puoi fare altro che startene in panchina a guardare. Al
suo posto, attaccherei con: “Mi faccia giocare, coach! Io, io! Posso
far vincere la squadra!”»
Ridacchio. «Ma perché tu adori la gloria.» Ha anche una mossa
che fa ogni volta che segna: è a metà tra il cavalcare la mazza come
se fosse un pony e il guidare una locomotiva. È stupida da morire,
ma il pubblico ci va matto.
«Detto da quello che ha milioni di fan allupate che lo seguono
ovunque vada. Tipo una fila di paperette.» Mi fa un ampio sorriso.
«Scommetto che hai il doppio della fica che avevo io al mio anno
d’esordio.»
Perderesti la scommessa, idiota. È arrivato il momento di
cambiare argomento. Indico il giornale che ha in mano. «Che
succede nel mondo?»
«Il solito. I politici sono stronzi e la gente spara proiettili.»
«Anche noi “spariamo proiettili”» gli faccio notare. «E ci pagano
bene per farlo.» È davvero un lavoro strano.
Alza gli occhi al cielo facendo una smorfia che dovrebbe sembrare
stupida, ma stranamente non lo è. «Noi non uccidiamo persone,
Wesley.»
Più o meno tre minuti fa stavamo pregando che un altro sportivo si
facesse male, ma non mi disturbo a ricordarglielo.
«E nel Nord Dakota hanno trovato un nuovo velociraptor. Senti
qui: era alto cinque metri e aveva artigli e piume.» Annuisce con
veemenza. «È un raptor cazzutissimo. Da cagarsi addosso dalla
paura. Ma la nuova influenza fa ancora più paura. Hai sentito?»
Rabbrividisce in modo esagerato. «Viene dalle pecore. Odio le
pecore.»
Mi scappa una risata. «Chi è che odia le pecore? Sono innocue e
lanose.»
«Non sono innocue. Quelle che c’erano in fondo alla strada della
fattoria di mio nonno…» Scuote la testa gigante come se stesse
ricordando un covo di tossici nel suo quartiere. «Quelle stronze sono
perfide. E fanno casino. Quand’ero piccolo, i miei dicevano: “Oh,
Blakey, guarda gli agnellini!” E quei pezzi di merda si avvicinavano
alla staccionata e mi belavano in faccia.» Apre la bocca e fa un
belato talmente forte che parecchie teste si girano.
«Sembra che la cosa… abbia lasciato il segno» commento,
cercando di non ridere. «Dove abitavano i tuoi nonni, comunque?»
Blake sventola la mano. «In una fattoria in culo al mondo, fuori da
Ottawa…»
In culo al mondo? Sembra il posto adatto a me.
«…un sacco di agricoltura, un sacco di pecore. E ora quelle
stronze ci uccideranno con l’influenza. Geeezù. Lo sapevo che
erano perfide.»
«Come no.» Guardo il mio iPod con desiderio. In questo momento
potrei rilassarmi ascoltando un po’ di musica, invece stiamo
rivivendo le paure dell’infanzia di Blake. «C’è sempre allarmismo per
la nuova influenza, e alla fine non è mai niente di grave.» Anche se è
divertente vedere un omone come Blake che si fa prendere dal
panico. «Ho sentito che questi nuovi ceppi si diffondono in modo
particolarmente veloce sugli aerei.»
Mi guarda storto. «Non sei divertente. C’è stato un caso sull’ Isola
del Principe Edoardo.»
«Ma non è qui vicino, vero?» Le mie conoscenze geografiche sul
Canada traballano un po’, ma sono abbastanza sicuro che non
prenderò l’influenza da qualcuno che vive a migliaia di chilometri da
Toronto.
«Quello schifo viaggia. Insomma, in questo momento potremmo
stare infettando Chicago.»
Gli do una gomitata. «Diciamo che tutto il Canada è stato esposto,
così ci lasciano il disco nell’area di difesa.»
Esplode in una risata fragorosa e mi dà una pacca sul petto con la
sua zampa. A quel punto mi si illumina il telefono. Purtroppo, il nome
che leggo sullo schermo è quello di mio padre, quindi sento il petto
stringersi di colpo.
Tra me e i miei genitori le cose non sono migliorate molto da
quando mi sono laureato. Insistono col dire che la mia
omosessualità sia una fase. Mio padre considera ancora merito suo i
miei successi nel professionismo, e mia madre si dimentica che mi
ha partorito la metà delle volte.
Ho passato le vacanze con la famiglia di Jamie in California, e
quando Cindy, sua madre, ha proposto di invitare i miei genitori, ho
risposto con cinque minuti di risata isterica, finché mi ha intimato di
smettere. A quel punto mi ha abbracciato forte e mi ha detto che mi
voleva bene, perché lei è quel genere di madre.
I miei genitori, invece, si sono limitati a una chiamata veloce per
farmi gli auguri e per ricordarmi che, se avevo intenzione di andare a
trovarli, mi sarei dovuto presentare da solo. Già, Jamie non è il
benvenuto. Anzi, Jamie non esiste. I miei genitori non accettano il
fatto che convivo con un uomo. Per loro sono un atleta scapolo
eterosessuale con la casa piena di fica.
«Devo controllare» dico a Blake.
Sblocco il telefono e leggo al volo l’email. “Al volo” è il concetto
chiave, perché sono due righe di messaggio.

Ryan, secondo il tuo calendario, il mese prossimo sarai a Boston.


Io e tua madre ci aspettiamo che tu venga a cena con noi. Hunt
Club, sabato alle 21.

Non si firma “papà”, nemmeno “Roger”.


«Cena con i genitori, eh?»
Sobbalzo e trovo Blake che sbircia da dietro la mia spalla. Porca
troia. Meno male che blocco il telefono, perché probabilmente non ci
penserebbe due volte a ficcanasare.
«Sì» rispondo, teso.
«Non avete un buon rapporto?»
«Neanche lontanamente.»
«Merda. Non va bene.» Blake si mette comodo sul sedile. «Dopo
la prossima partita in casa, ti presento i miei. Sono fantastici. Fidati,
dopo dieci minuti saranno la tua famiglia adottiva.»
Ce l’ho già una famiglia adottiva: i Canning. Ma tengo per me
l’informazione. E poi mi innervosisco perché la devo tenere per me.
Che cavolo, perché nella mia vita deve essere tutto un segreto?
Cazzo, muoio dalla voglia che arrivi il giorno in cui potrò presentare
con orgoglio Jamie Canning come il mio ragazzo. Non vedo l’ora di
poter parlare ai miei compagni della mia vita privata e di raccontare
della famiglia meravigliosa di Jamie, o invitarli a casa a bere
qualcosa senza dover vedere Jamie entrare nella stanza degli ospiti
quando deve andare a dormire. Perché non è un ospite nel nostro
appartamento, che cavolo. È casa sua. E lui è casa mia.
Di solito non mi piango addosso per la situazione ingiusta in cui
siamo. Capisco il mondo in cui vivo, e so che essere gay è ancora
un marchio d’infamia. Non importa quanti passi avanti siano stati
fatti, ci saranno sempre persone che non accetteranno che mi piace
il cazzo, che giudicheranno e vomiteranno insulti e cercheranno di
rendermi la vita impossibile. Il fatto che ora sia sotto i riflettori
peggiora le cose, perché ci sono tanti altri elementi da tenere in
considerazione.
Se facessi coming-out, cosa significherebbe per la mia carriera?
Per la squadra?
Per Jamie?
Per la famiglia di Jamie?
I media ci si butterebbero a pesce; gli stronzi e i bigotti
striscerebbero fuori dalle loro fogne. I riflettori non sarebbero più
puntati sul mio modo di giocare, ma sulla vita privata di tutti quelli a
cui tengo. Sono travolto da un’ondata di nausea. Ricordo a me
stesso che non sarà così per sempre. La prossima stagione, qualche
altro esordiente conquisterà i media, che si scorderanno di me. A
quel punto, avrò dimostrato alla mia squadra che non può andare
avanti senza di me, al diavolo l’omosessualità.
«Oh, sì» esclama all’improvviso Blake. Mi giro e vedo che sta
leggendo qualcosa sul telefono. «Indovina chi resta in panchina?»
Mi si mozza il fiato. «Mi prendi per il culo?»
«No. È proprio qui, nero su bianco.» Solleva il telefono, poi si gira
verso Eriksson e Forsberg. «Hankersen non gioca. Per almeno
cinque partite.»
Alle nostre spalle si sente esultare, poi l’annuncio di Eriksson
risuona per tutto l’aereo. «Hankersen non gioca!»
C’è uno scoppio collettivo di gioia. Sia chiaro, ci dispiace per
Hankersen: un infortunio è la cosa peggiore che può capitare a un
atleta, e non lo augurerei a nessuno. Ma, allo stesso tempo, l’hockey
non è solo un gioco, è una questione di affari. Abbiamo tutti lo stesso
obiettivo: vincere il campionato. E se stasera vinceremo a Chicago,
saremo un passo più vicini a quell’obiettivo.
Il telefono si illumina di nuovo, ma stavolta sullo schermo vedo il
nome di Jamie con accanto l’icona dei messaggi. Blake, però, si sta
di nuovo sistemando accanto a me, quindi non cedo all’impulso di
sbloccare lo schermo.
Ma, naturalmente, il mio compagno di squadra dà una sbirciata.
«Un messaggio del tuo coinquilino» mi avverte, come se non me ne
fossi accorto.
Stringo i denti e metto il telefono in tasca. «Vorrà solo ricordarmi di
andare a fare un po’ di spesa, quando rientrerò domani mattina.
Niente di importante.»
Quell’ultima frase è come veleno – mi brucia la gola e mi fa a
pezzi lo stomaco. Sto male e mi sento in colpa anche solo per averlo
detto ad alta voce, per aver sottinteso che Jamie Canning non è
importante quando invece per me è la persona più importante del
mondo.
Faccio proprio schifo.
«Allora,» riprende Blake, ignaro del mio dolore, «ho letto che J-
Bomb aveva un contratto a Detroit. Una figata. Come mai non è
andato?»
Per un attimo, mi limito a guardarlo. «Dove l’hai letto?»
«Su Google, amico mio. Ne hai mai sentito parlare? J-Bomb non
voleva trasferirsi nella città dei motori?»
Merda! Blake è un cazzo di ficcanaso. «Voleva allenare. Faceva il
portiere. Quella squadra ha una panchina ben fornita e lui ha
pensato che non avrebbe mai giocato. Un nostro vecchio coach gli
ha trovato il lavoro. Un’ottima opportunità.» Sento che mi sto
impappinando e chiudo la bocca. Ho raccontato troppi dettagli? Ho
dato l’impressione di sapere troppo? Ecco, ora mi ritrovo seduto a
detestare le mie paranoie.
«Ah-ah» commenta Blake, ormai distratto. «Senti, ma secondo te
come si fa a sconfiggere un velociraptor di cinque metri? Insomma,
servirà un arsenale. E quello stronzo è pure veloce. Tipo le auto
della Formula 1.»
«Uhm…» Ho perso il filo della conversazione da un bel po’.
«Forse con i taser?»
«Giusto. Ottima idea. Sarebbe divertente friggere un raptor.»
Più tardi, quando Blake si alza per andare in bagno, copro lo
schermo e sblocco il telefono per poter leggere il messaggio. Ha
scritto: “i.m.c.è.d.”. Ci metto un attimo per capire l’acronimo.
“Quant’è duro?” rispondo.
“Abbastanza da arrivare al telecomando”.
La foto è uno scatto con una perfetta angolazione che prende il
divano e la televisione. Ma in primo piano c’è il cazzo di Jamie, che
sembra stia puntando il telecomando vicino alla TV. Ha disegnato un
braccio stilizzato che preme un pulsante, mentre l’altro è dotato di
una mano che è posata… sul fianco. Be’, i cazzi non hanno i fianchi,
ma pazienza.
“Digli di non andare avanti con Banshee” rispondo.
“Ha scelto Die Hard II”.
“Digli che mi manca”.
“Lo sa” risponde Jamie.
Passo il resto del volo con gli auricolari nelle orecchie pensando
alle foto del mio uccello che potrebbero far sorridere Jamie.
5

Guardo la partita di Chicago da solo sul divano. Anche se vedere


le partite dal vivo è più esaltante, ci sono dei vantaggi nel seguirle
nel proprio salotto: posso urlare contro il televisore e nessuno mi
guarda male.
«Forza, piccolo!» grido, e batto le mani per incoraggiarlo anche se
nessuno mi sente. «Vedrai che ci riesci!»
Wes ha fatto un milione di tiri in porta stasera, ma il miglior
portiere della NHL continua a respingerli come mosche, accidenti a
lui. Durante la pubblicità, corro a prendere una birra dal frigo.
Nessuno segna fino al terzo tempo e sono agitatissimo. Wes si sta
scambiando di nuovo con la seconda linea e trattengo il respiro.
Quando arriva la sua occasione, sto praticamente levitando per
l’aspettativa. Wes attira il portiere oltre la linea con un cross lungo e
rischioso verso l’ala sinistra. Ma funziona. Quando l’ala gli ripassa il
disco, Wes lo infila nell’angolo prima che il portiere riesca a reagire.
Ora sto saltando sul divano e si rovescia un po’ di birra, ma ne
vale la pena. Un altro goal, un altro successo. Ce la sta facendo. La
sua stagione d’esordio è fenomenale, di quelle da record. E sono
elettrizzato per lui.
La telecamera inquadra il viso sudato dell’enorme portiere, e
immagino i suoi pensieri. La Montagna deve stare davanti alla rete.
Ridacchiando, mi siedo di nuovo e poso i piedi sul tavolino.
Qualche giorno fa, mia sorella mi ha chiesto se fossi geloso, se mi
fossi pentito di aver rinunciato alla mia occasione di giocare, e ho
risposto di no senza doverci pensare. Certo, al mio povero conto in
banca sarebbe piaciuto il bonus iniziale, ma se fossi andato a Detroit
(dove i portieri dell’anno scorso sono stabili come sempre) non avrei
fatto parte di tutto questo.
E allora sì che me ne sarei pentito.
Guardo il resto della partita con il cuore in gola, chiedendomi se il
vantaggio durerà. L’ultimo quarto d’ora di gioco è esaltante. Per
fortuna non ho problemi cardiaci, perché Chicago risponde
segnando un goal e Toronto tira un rigore. Quasi mi prende un colpo
quando la squadra di Wes lo sbaglia. Negli ultimi due minuti,
Eriksson segna ed evitano di andare ai supplementari. Toronto vince
2-1.
Ormai senza energie e sollevato, crollo sul divano. Ma adesso
comincia la vera attesa. Wes passerà un’ora buona, forse anche
due, con i compagni, i coach e la stampa. Poi, siccome il viaggio per
Toronto è breve, torneranno con l’aereo della squadra stanotte.
Ammazzo un po’ il tempo a riordinare casa. La cucina è già pulita
perché me ne sono occupato prima, quindi apro la posta e faccio
una smorfia quando vedo la bolletta del riscaldamento. Pago metà
delle bollette e parte dell’affitto, ma se fosse per Wes salderebbe
tutto lui. Mi sono impuntato quando l’ha proposto, perché non posso
vivere in questo appartamento e non contribuire. Ci sarà pure il
nome di Wes sul contratto, ma è anche casa mia, che cavolo.
L’enorme valigia di Wes è ancora vicino alla porta dove l’ha
lasciata dopo il viaggio precedente. Sono in conflitto con me stesso:
dovrei lasciarla lì o no? Mi sembra meschino lavare la mia roba e
lasciare sporca la sua. Ma non so bene cosa Wes crede che
succeda ai suoi vestiti, quando li lascia in valigia o ammucchiati per
terra in camera. Probabilmente è convinto che ci sia una fata del
bucato che passa ogni tanto a lavargli la biancheria.
Comunque, mi infastidisce. Quindi mi arrendo, apro la valigia e tiro
fuori una vagonata di vestiti sgualciti. Metto tutto in lavatrice e la
faccio partire.
Poi vado a letto, facendo attenzione a lasciare una luce accesa in
cucina in modo che Wes riesca a venire da me.

Quando mi sveglio, un po’ di luce filtra dai bordi delle tende e un


uomo nudo e muscoloso sta dormendo con un braccio tatuato
intorno alla mia vita. Scivolo con cautela verso il bordo del letto, ma il
braccio stringe la presa. «No» protesta Wes, assonnato.
«Vado a fare la pipì» sussurro.
«Poi torna subito qui.»
«Affare fatto.» Mentre mi avvio verso il bagno, lancio un’occhiata
al suo viso rilassato. Forse stava parlando nel sonno, sembra
proprio privo di sensi.
Dopo aver fatto quello che dovevo ed essermi lavato i denti, vado
in cucina per bere un po’ d’acqua. A metà del bicchiere, sento dei
passi leggeri nel corridoio. Quando mi giro, Wes è sulla porta e si
tocca lentamente una colossale erezione. Mentre poso il bicchiere
nel lavandino, mi segue con lo sguardo.
«Non sei tornato subito» commenta con voce roca.
«Avevo sete» borbotto. Sono distratto dal movimento seducente
della mano sul suo uccello. I pompini che ci siamo fatti l’altra notte
sono stati frettolosi. Soddisfacenti, certo, ma non abbastanza. È
passato troppo tempo dall’ultima volta che abbiamo avuto una notte
solo per noi. Un’intera notte per stuzzicarci ed esplorarci e farci
impazzire a vicenda.
«Perché li hai ancora addosso?» Gli occhi di Wes brillano alla luce
del mattino mentre indica i miei boxer.
Non ha tutti i torti. Li lascio cadere sulle mattonelle. «Perché non
mi hai svegliato, quando sei arrivato a casa?» controbatto.
Sorride. «Eri cotto.» La sua voce è roca, e il solo suono mi fa
pompare più velocemente il sangue nelle vene. «E abbiamo
un’intera settimana.» Pronuncia quelle ultime parole nello stesso
modo in cui qualcun altro sospirerebbe “dieci milioni di dollari”.
Probabilmente Wes ha già dieci milioni. La sua famiglia è ricca, ma a
lui non frega niente. Quello che vuole di più sono io. E mentirei se
dicessi che la cosa non mi fa piacere. Wes non è mai tirchio nelle
dimostrazioni d’affetto.
Infatti, proprio in questo momento si avvicina e mi stringe a sé.
Mi premo contro il suo corpo sodo e la pelle liscia. Quando i nostri
inguini entrano in contatto, il mio uccello si indurisce, come a dire:
“Dove sei stato?”. Wes mi sorride con malizia e abbassa una mano
tra i nostri corpi per afferrarmi l’erezione.
«Ciao» saluto, ricambiando il sorriso.
«Ciao.»
«Bel goal, ieri sera.»
«Vuoi parlare, adesso?» ringhia. «Perché preferirei scoparti.»
«Allora parliamo dopo.»
Wes mi afferra la nuca e mi attira per un bacio. Mugola con
soddisfazione, quando le nostre bocche si scontrano. Il suo bacio è
brusco, famelico.
Prendo il controllo e gli schiudo la bocca con la lingua. Wes geme,
concentrato, la fronte corrugata. Spingo contro di lui, facendo
strusciare i nostri uccelli impazienti, e lui mi afferra i fianchi come se
intendesse impedirmelo.
«Camera?» riesco a dire.
Mi libera la bocca e scuote la testa. «Troppo lontana.»
L’urgenza che leggo sul suo viso mi fa ridere, ma la risata mi
muore in gola quando all’improvviso si inginocchia e me lo prende in
bocca prima che io riesca a sbattere le palpebre.
Santo cielo. Picchio il sedere contro il bancone quando Wes me lo
succhia fino alla base. La sua bocca è umida e calda e impaziente. Il
cuore mi batte a mille; a ogni succhiata avida e a ogni leccata sento
il piacere concentrarsi nelle palle. Adoro quello che mi sta facendo,
ma odio che la base della mia spina dorsale stia già formicolando.
Sto per venire, e questo indica quanto l’eccessivo tempo trascorso
lontani l’uno dall’altro ci abbia resi assetati di sesso. Di solito resisto
di più, maledizione. Ma ultimamente il mio corpo è talmente eccitato
dall’avere Wes vicino per più di cinque minuti che esplodo appena
mi tocca.
«Non voglio ancora venire» mi lamento, stringendo le dita tra i
suoi capelli.
Allontana la bocca e con una risata sommessa si alza in piedi e mi
sfiora la mascella, accarezzandomi delicatamente la barba. Sento un
brivido lungo tutto il corpo. Quest’uomo… cazzo, quest’uomo. Gli
basta un tocco, uno sguardo appassionato.
«Girati» sussurra. «Posa le mani sul bancone.»
Faccio quello che dice e, un attimo dopo, un paio di mani forti mi
afferrano il sedere. Stringe e gemo, spingendo istintivamente i
fianchi in avanti e sbattendo il cazzo ancora umido contro il granito
duro e freddo. Abbasso la mano per prendermi l’erezione e sfrego
lentamente la punta con il pollice, mentre Wes continua a
massaggiarmi le natiche. Quando ci infila un dito in mezzo, vado
incontro a quella carezza, supplicando in silenzio di darmi di più.
«Questo culo mi è mancato.» Il suo respiro mi solletica la nuca,
poi tira fuori la lingua e la fa roteare sulla mia pelle bollente. «Non
sai quante seghe mi sono fatto mentre eravamo in viaggio. Quante
volte sono venuto pensando di infilare l’uccello in questo culo
stretto.» Mi sfrega l’apertura con la punta del dito, e le mie
terminazioni nervose tornano in vita. L’uccello inizia a sgocciolarmi in
mano. Merda. Sto per venire. Ci sono troppo vicino. Stringo la
cappella abbastanza forte da farmi male, nel tentativo di tenere a
freno l’orgasmo che minaccia di esplodere.
«Avresti dovuto chiamarmi su Skype» lo ammonisco. «Avremmo
potuto venire insieme.» Non l’abbiamo mai fatto.
In risposta ricevo un gemito soffocato. Oh, sì, gli piace l’idea. Ma
scaccio il pensiero. Al momento non c’è bisogno di pensare a modi
creativi per scopare quando siamo lontani chilometri. Perché siamo
insieme. Siamo qui, in carne e ossa, e possiamo scopare come
vogliamo.
«Non ti muovere.» Il suo ordine secco echeggia nella cucina buia.
Sento i suoi passi sparire nel corridoio. Sto fermo. L’aspettativa mi
monta dentro e l’uccello mi pulsa in mano, mentre prego per il ritorno
di Wes.
Non impiega molto. Sento un click, l’inconfondibile rumore di un
coperchio che si apre. È andato a prendere il lubrificante. Ha le dita
unte, quando me le rimette sul sedere. La sua mano mi tormenta, mi
scivola tra le natiche e mi sfrega le palle. Quando infila un dito
dentro di me, impreco e sospiro contemporaneamente.
«Così stretto» geme. Affonda di più e i miei muscoli si stringono
intorno al suo dito. «Vuoi il mio cazzo, Canning?»
«Sì.» Spingo più forte sul dito. Non basta, voglio di più. Ho
bisogno che la sua erezione spessa mi riempia, che prema contro
quel punto che non sapevo esistesse fino alla scorsa estate, quando
Ryan Wesley è rientrato nella mia vita e mi ha mostrato un’altra
parte di me.
Aggiunge un dito, accarezzando il canale e aprendomi finché vado
a fuoco. «Di più» supplico. È tutto ciò che sono in grado di dire. Di
più. Di più, di più, di più. Sto supplicando, e Wes mi priva ancora di
quello che voglio. Mi sta premendo l’erezione contro un gluteo
mentre muove il dito dentro di me. Posa l’altra mano sul mio petto e
poi la fa scivolare in basso, scostando la mia per afferrarmi l’uccello.
«Cristo» sibilo, quando inizia a massaggiarlo.
«Ti piace, piccolo? Ti piace quando ti faccio una sega mentre ti
scopo col dito?»
Borbotto una risposta incoerente che lo fa ridere. Quel suono roco
mi scalda il lato del collo, poi sobbalzo quando mi affonda i denti
nella carne. Porca vacca, mi sta facendo impazzire. Placa il dolore
con la lingua, leccando i tendini del collo e lasciandomi una scia di
baci fino alla spalla, che morde.
«Sei pronto per me?» sussurra.
Mi sfugge un gemito tormentato. «Cazzo, se lo sono.»
Con un’altra risata, sfila le dita e il mio corpo si incurva, deluso,
addolorato per la perdita, bramando di nuovo quella pressione. Wes
non mi fa aspettare molto: in un attimo la punta del suo membro
preme contro il mio culo, poi il suo uccello enorme e lubrificato
scivola nel buco ed entra.
Gemiamo entrambi. Mi afferra i fianchi e le sue dita lunghe mi
affondano nella pelle, mentre esce e spinge di nuovo dentro.
«Porca troia, Canning, quanto cazzo ti amo.» Sembra fatichi a
respirare, e quando metà del suo vocabolario si riduce alle parolacce
significa che sta perdendo il controllo. Adoro quando succede. Voglio
che sia selvaggio e, porca vacca se mi sta accontentando.
Sprofonda dentro di me ripetutamente, con i fianchi che scattano e
le palle che mi sbattono sul sedere a ogni affondo disperato. Mi
piego in avanti, appoggiandomi al bancone. Ho l’uccello più duro del
granito sotto i miei palmi. Voglio toccarlo, ma Wes mi sta sbattendo
talmente forte che ho bisogno di entrambe le mani per reggermi. Ma
si adatta ai miei bisogni, perché toglie una mano dal mio fianco e la
posa sul mio uccello incredibilmente duro. Poi posiziona i fianchi in
modo da toccarmi la prostata a ogni movimento.
«Vieni per me» comanda. «Vienimi sulla mano, Jamie. Lo voglio
sentire.»
Il getto è talmente rapido da essere quasi comico. È necessario
solo l’ordine roco di Wes per venire con un urlo selvaggio,
inzuppandogli la mano come voleva. Mentre sono scosso dai fremiti,
Wes ringhia e le sue spinte si fanno sempre più frenetiche. Spinte
incontrollate, del tutto convulse, finché finalmente lascia cadere la
testa sulla mia spalla e freme dietro di me. Lo sento pulsare dentro
di me e, quando pochi istanti dopo esce, ho il sedere e le cosce
appiccicose, ed entrambi tremiamo per le risate.
«È stato… intenso» commenta Wes, ironico.
Mi scappa una risatina. «Mi sa che mi hai scaricato dentro quattro
litri di sperma.» Non che mi stia lamentando: adoro sapere di avere il
potere di trasformare Wes in un maniaco assatanato. Ma comunque
mi lamento un po’ perché passiamo i cinque minuti successivi a
pulire. Anche il mio orgasmo è stato incontrollabile, e ha lasciato
schizzi perlacei sul bancone e sul mobiletto sotto. Insisto nel voler
pulire bene tutta la superfice, mentre Wes mi prende in giro
dicendomi che ho un disturbo ossessivo-compulsivo.
«Ci mangiamo lì sopra» gli ricordo. «Non è un disturbo ossessivo-
compulsivo, è igiene di base.»
Lui ridacchia e continua a strofinare il pavimento con lo straccio e
il detersivo che gli ho dato. «Allora, che vuoi fare stasera? Andiamo
a quel nuovo ristorante di cui mi ha parlato Eriksson?»
La prossima partita in casa della squadra sarà domani, il che
significa che abbiamo tutto il giorno e tutta la notte per noi. E si dà il
caso che il martedì, in tutti i cinema della città, il biglietto costa la
metà. «Certo» rispondo. «Ma possiamo andarci dopo il film. Non so
quanto ancora lo terranno in sala.»
«Merda, The Long Pass? Sì, hai ragione. Dobbiamo per forza
vederlo stasera.» Sul viso gli passa un lampo di rimorso e so che sta
pensando a quello che è successo l’ultima volta che ha avuto una
serata libera. Non vedevo l’ora di vedere quel cavolo di film, e anche
Wes, infatti mi ha fatto promettere di non andare senza di lui. Solo
che quando finalmente abbiamo avuto l’occasione di vederlo, l’ufficio
delle pubbliche relazioni l’ha chiamato proprio mentre stavamo
uscendo di casa per informarlo che la sua presenza era richiesta a
una conferenza stampa dell’ultimo minuto per annunciare uno
scambio a sorpresa nella società. È successo tre settimane fa.
Ma non ne parlo, perché so che si sente già una merda per avermi
dato buca. «Va bene, allora che ne dici se andiamo allo spettacolo
delle 19 e dopo ceniamo?» propongo.
«Ottimo piano.» Mi sorride. «Allora, pronto per il secondo round?
E poi colazione. Dobbiamo restare in forze per l’allenamento che ti
farò fare oggi e stanotte.»
Abbasso lo sguardo sul suo cavallo e inarco un sopracciglio
quando noto la sua semierezione. «Stamattina sei una bestia in
calore, eh?» Ma quella vista lo fa venire di nuovo duro anche a me, il
che lo fa sorridere di più.
«Il bue che dice cornuto all’asino.» Fa un passo in avanti e mi
bacia, poi mi tira via dal bancone.
Ci allontaniamo ridendo dalla cucina splendente e senza sperma e
corriamo verso la doccia. Per la prima volta dopo settimane, mi
sento leggero. Voglio solo passare tutto il giorno nudo con il mio
ragazzo assatanato.
Ma, come ho scoperto dieci minuti dopo, non si può sempre avere
quello che si vuole.
6

Sento bussare forte alla porta e può essere solo una persona.
Nessun altro del palazzo sa chi sono, nessuno sarebbe tanto
scortese da bussare alla mia cazzo di porta alle otto di mattina.
Nessuno tranne Blake Riley, certo. Io e Jamie ci blocchiamo a metà
bacio, in mezzo alla camera da letto. Siamo entrambi nudi,
gocciolanti per la doccia appena fatta e con delle erezioni colossali.
Lui ha un’espressione infastidita che rispecchia il mio stato d’animo.
«Forse, se lo ignoriamo, se ne andrà» sussurro.
Jamie emette un verso seccato.
«Wesley! Apri!»
La voce smorzata di Blake arriva fino alla camera da letto, e il viso
di Jamie diventa più cupo.
«Dai, bello, è un’emergenza!»
Mi irrigidisco. Merda. Per qualche motivo, il mio primo pensiero è
che sia venuta fuori la verità sul mio orientamento sessuale. Quanto
sono egoista? Come se i media di Toronto non avessero di meglio
da fare che riferire chi si scopa Ryan Wesley. Eppure, il mio timore
più grande è che i successi che sto avendo nella mia prima stagione
a Toronto saranno eclissati – o, peggio ancora, dimenticati – perché
essere un atleta professionista gay è una storia molto più succosa.
«Potrebbe essere importante» dico a Jamie, cercando di fargli
capire con lo sguardo quanto sono infelice per l’interruzione.
Mi infilo un paio di pantaloni della tuta e vado ad aprire. Blake si
fionda dentro casa con addosso un paio di pantaloncini e una
maglietta che mette in mostra i bicipiti enormi.
«Grazie, che cazzo» si lamenta. «Ce l’hai del caffè? Sono
disperato!»
Lo guardo a bocca aperta mentre marcia in cucina e inizia ad
aprire ante come se fosse in casa sua. Davvero? Mi ha quasi
sfondato la porta perché vuole del caffè? Mi devo mordere la lingua
per evitare di fargli notare che a Toronto ci sono un sacco di
caffetterie Tim Hortons, due delle quali nel raggio di tre isolati dal
nostro palazzo.
«Che fortuna che siamo vicini.» Blake afferra una tazza dalla
credenza e va dall’altra parte del bancone per accendere la
macchina del caffè.
Fortuna? Sono a tanto così dal commettere un omicidio. Ma so già
che quel corpo gigante non passerebbe nello scivolo che porta al
compattatore di rifiuti del palazzo. Mi si ferma il cuore quando noto la
tazza che ha in mano. Fa parte di una coppia e sopra c’è scritto
“SUO”, gentile concessione di Cindy Canning.
Ci ha regalato le tazze per le feste, e posso affermare con
sincerità che è il regalo più premuroso che abbia mai ricevuto. Vorrei
strappargliela dalla mano enorme e gridare: “È mia!”. O magari
pisciarci sopra per marcare il territorio. Ma Blake l’ha già riempita di
caffè e se la sta portando alla bocca.
Si appoggia al bancone e sorseggia il liquido caldo, poi fa un
sospiro soddisfatto. «Grazie. Non riesco a carburare senza la mia
vitamina C.»
Mi sta ringraziando come se l’avessi invitato gentilmente a
prendere un caffè. Cosa che non ho fatto.
Nel corridoio si sentono dei passi, poi Jamie compare in cucina.
Anche lui si è messo un paio di pantaloni della tuta, insieme a una
camicia blu sbottonata che mette in mostra gli addominali scolpiti e
la pelle liscia e dorata.
«Buongiorno» farfuglia senza guardarmi.
«Oh, cazzo, ti ho svegliato?» Blake sembra sinceramente
dispiaciuto. «Non sono bravo a bussare.» Solleva una mano
enorme. «Queste zampe non sanno essere delicate.»
«Nessun problema, tanto mi dovevo alzare» risponde Jamie. Si
versa una tazza di caffè, poi si gira e mi guarda. «Hai programmi per
oggi?»
So che sta cercando di comportarsi da coinquilino educato, ma il
dolore che gli leggo negli occhi mi sta straziando. Vorrei aprire la
bocca e dichiarare “Ho in programma di passare tutto il giorno sotto
il tuo corpo nudo!”, e che si fotta Blake. Ma tengo la bocca chiusa. Io
e Jamie ci siamo dati da fare per mantenere segreto il nostro
rapporto fin dall’inizio della stagione, possiamo sopravvivere qualche
altro mese nascosti.
«Non lo so ancora» rispondo allegramente.
Blake interviene: «Abbiamo quell’evento di beneficenza stasera, ti
ricordi? Champagne e modelle. Sento odore di troiaggine. Tu?»
Scuoto la testa. «No. Per una volta non sono nella lista. Le
pubbliche relazioni hanno chiesto di partecipare solo ai giocatori
veterani.»
«Merda, mi considerano un veterano? È solo la mia terza
stagione» protesta Blake. Beve velocemente un sorso. «Spero non
significhi che pensano stia invecchiando.»
«Hai venticinque anni» ribatto, seccato. «Sono sicuro che ti
considerano ancora un pulcino.»
Posa l’avambraccio sul bancone, e quasi soffoco quando mi rendo
conto che è poggiato nel punto preciso in cui ho fatto piegare Jamie
neanche dieci minuti fa. È palese che il mio uomo stia pensando alla
stessa cosa, perché mi rivolge un sorriso sbilenco da dietro la spalla
del mio compagno di squadra.
Blake beve il suo caffè e vedo il suo sguardo illuminarsi. «Ah! Mi è
venuta un’idea magnifica. Lo sapevi che sono intelligente?» Tira
fuori il telefono dalla tasca e inizia a scrivere messaggi.
Non gli chiedo perché, dal momento che fa comizi su qualsiasi
cosa gli passi in quel testone. Quindi mi godo il silenzio e prendo
una tazza di seconda scelta, visto che Blake sta usando la mia, e mi
verso del caffè. Jamie ora sta trafficando in cucina e tira fuori cose
dal frigo: una dozzina di uova, qualche tortilla di mais del negozio
biologico in cui gli piace fare la spesa, salsiccia di chorizo, salsa
messicana. Prende una scodella di vetro e inizia a rompere le uova.
Adoro l’attenzione che dedica alla cucina. Potrei guardargli le mani
tutto il giorno. Al momento starebbero meglio sul mio uccello, ma
anche così non sono male. Mette la salsiccia in una padella
riscaldata, e questa inizia a sfrigolare. Poi infila la padella nel forno.
«Cavolo» esclama Blake, alzando lo sguardo dal telefono. «Che
combini, J-Bomb?»
«Preparo la colazione» risponde Jamie, buttando i gusci delle
uova nella spazzatura. «Wesley mi ha detto che più tardi ha
intenzione di fare un intenso allenamento, ho pensato gli servissero
proteine.» Tira fuori uno strofinaccio da un cassetto e mi lancia
un’occhiata significativa. Poi inizia a sbattere le uova.
«Porca vacca! Cucini?» si meraviglia Blake, la faccia da
cucciolone palesemente colpita. «Non mi stupisce che piaci a
Wesley.»
Vedo Jamie mordersi il labbro per trattenere un sorriso. C’è una
lunga lista di cose che adoro di Jamie, e la sua cucina non rientra
neanche nelle prime cinquanta posizioni. C’è il suo sorriso, il suo
corpo perfetto, il suo carattere alla mano, la sua lingua esperta…
Certo. Ora non è proprio il momento di pensarci.
«Resti per colazione, Blake?» chiede Jamie, girandosi.
Il nostro vicino prende uno sgabello e ci si piazza sopra. «Ora non
vi libererete mai più di me.»
Cavolo. Inizierò a piangere come una bambina, se lo ripete.
Prendo dei piatti e delle posate e mi rendo utile.
Sto cercando di aiutare Jamie a impiattare il cibo, quando allungo
la mano verso il manico della padella. Prima ancora di rendermi
conto del movimento, Jamie scatta e mi dà un colpo alla mano per
allontanarla dalla padella.
«Ehi, bello!» grida Blake. «J-Bomb non vuole che gli tocchi la
salsiccia!» E ride istericamente della sua battuta.
Ma Jamie non riesce ad apprezzare l’ironia perché è impegnato a
guardarmi male.
«Ripassiamo: lo strofinaccio sul manico significa che…»
«Brucia. Mi sono dimenticato.» Sono già famoso perché mi brucio
sempre, e nemmeno cucino.
Jamie mi scaccia e serve la colazione.
«Quei riflessi da portiere,» dice Blake, «ti hanno salvato la mano.»
Due minuti dopo ci stiamo spazzolando tortillas di mais calde con
dentro uova strapazzate, chorizo, formaggio e salsa messicana.
Blake mangia un altro boccone e geme in modo buffo. «Ti amo.»
«Me lo dicono tutti i ragazzi» ribatte Jamie, impassibile.
Probabilmente sta pensando all’ultima volta in cui abbiamo fatto
colazione insieme nudi nel nostro letto.
Ma, alla fin fine, è difficile odiare Blake. Davvero. Soprattutto
quando sparecchia dopo aver mangiato e inizia a lavare i piatti
senza chiedere niente. Quando ha finito, pensa alle padelle e poi
pulisce il bancone. Jamie si versa un’altra tazza di caffè e si lascia
cadere sul divano mentre un’altra persona pulisce la cucina.
Anche Jamie si sta ammorbidendo nei confronti di Blake. Lo
capisco.
Alla fine, Blake ci ringrazia per la colazione e fa per uscire.
«Fammi controllare… Ah-ha!» esulta, digitando sul telefono.
«Fantastico. Ti ho procurato un invito all’evento di stasera! Sarà una
festa movimentata, la mia preferita della stagione. Parliamo di gente
famosa. Supermodelle, bello.»
«Non credo che…» inizio.
«Controlla la mail, va bene? Il responsabile delle pubbliche
relazioni ha detto che era entusiasta di averti. Due giocatori hanno
dato buca perché le mogli hanno sbroccato. La squadra ha
prenotato un tavolo e sembra brutto se non è pieno. Quindi ci sei
anche tu!»
Alla fine del bancone, il mio telefono inizia a squillare.
«Ci si vede, ragazzi. E il tuo cibo è una bomba, J-Bomb.» Blake
sta ancora parlando da solo quando esce dall’appartamento e
chiude la porta.
Jamie guarda la porta come se fosse un serpente velenoso e il
mio telefono riprende a suonare. Mi avvicino e lo guardo storto.
«Merda. Devo rispondere.» Lo prendo e saluto il capo delle
pubbliche relazioni. «Pronto? Frank?»
«Buongiorno, Ryan. Scusa se ti disturbo nel fine settimana.»
«Figurati.» Sono super educato perché sto parlando con l’uomo
che dovrà gestire il mio Grande Momento Gay, quando il segreto
verrà fuori. Ogni volta che ci parlo, lo tengo a mente.
«Blake Riley dice che stasera saresti disponibile ad andare
all’evento di beneficenza in abito scuro. So che a volte è un
lavoraccio passare l’ennesima notte lontano dalla famiglia, e voglio
tu sappia che apprezzo davvero che ti sia offerto.»
«Ehm…» Non mi sono offerto, sto per dire. «Hai detto “abito
scuro”?» Cristo. Ammazzerò Blake.
«Hai uno smoking? Posso darti il numero di un servizio che
fornisce abiti formali…»
«Ce l’ho» sospiro. «Grazie.»
«No, grazie a te. Ci vediamo alle otto. Senti, Ryan…» Esita.
«Sì?»
«Hai intenzione di venire accompagnato?»
«No» rispondo fin troppo velocemente.
«Va bene» replica in tono leggero. Ma sa che è una domanda
piena di significato. Frank è una delle poche persone che conosce la
verità su me e Jamie. Gliel’ho detto la scorsa estate, perché se la
squadra avesse voluto licenziarmi per questo, lo volevo sapere
subito. «Divertiti.»
Come no. «Sì, grazie.»
Quando chiudo la chiamata, Jamie è seduto sul divano e sta
fissando lo schermo, ma la TV non è nemmeno accesa. Vado lì e mi
siedo accanto a lui, poi poso i piedi vicino ai suoi sul tavolino e la
testa sul suo petto.
«Fammi indovinare: stasera vai a una festa.»
Nascondo il viso nell’incavo del suo collo. «Posso richiamare e
darmi malato.»
Jamie sospira. «Potrebbero lasciarti in panchina, se pensassero
che hai preso l’influenza di cui parlano al telegiornale. La gente inizia
ad avere paura. Domani devi giocare contro la squadra di Detroit.»
«Cazzo. ‘Fanculo a Blake.» Restiamo in silenzio per un minuto. Mi
sollevo e accarezzo la barba di Jamie. Mi ci sto ancora abituando.
«Va bene, lunedì chiamo un agente immobiliare e cerchiamo un’altra
casa.»
«Cosa?» Jamie scoppia a ridere.
«Sono serissimo. Questo è… Lui…» Non finisco neanche la frase,
perché è una cosa di cui non parliamo ad alta voce. Quello che
facciamo per nascondere la nostra relazione – le piccole omissioni
impacciate, le bugie – è terribile. So che dà fastidio anche a lui. Non
ne parliamo perché è imbarazzante. L’ho messo in questa posizione
perché volevo che la mia stagione d’esordio venisse giudicata solo
per le mie abilità, ma ora siamo a metà e diventa sempre più difficile
da sopportare.
«Non possiamo trasferirci» ribatte in tono piatto. «Sarebbe una
rottura di palle e non ci sarebbe comunque la garanzia di avere più
privacy.»
Tristemente vero. «Bastano solo tre mesi. Quattro al massimo.»
«Lo so.»
Restiamo ancora in silenzio. Ma almeno mi posa la mano sulla
schiena. Se Jamie mi tocca, allora andrà tutto bene. «Mi dispiace
per il film di stasera.»
«Possiamo andare allo spettacolo della mattina.»
«Certo» concordo. Ma nessuno dei due si alza per controllare gli
orari. Invece, inizio a lasciargli una scia di baci sul collo, proprio sotto
la camicia. Mi resiste per uno o due minuti, perché gli girano le palle
per la serata rovinata, ma io non demordo e, in fin dei conti, sono
irresistibile. Sposto le labbra sulla clavicola, poi sui pettorali sodi.
Apro bene la camicia e gli sfioro il capezzolo col naso, quindi inizio a
succhiare. Lui si muove sul divano e apre le gambe. Continuo a
baciargli il torso, scendendo più giù fino alla protuberanza nei
pantaloni. Jamie mi posa una mano tra i capelli e sospira. È un po’
triste, ma anche eccitato.
Il film ormai è bello che dimenticato. Dopo averglielo succhiato sul
divano, ci spostiamo sul letto e, per tutto il giorno, alterniamo pisolini
ad attività sessuali. E quando devo alzarmi e prepararmi per l’evento
di beneficenza a cui non mi interessa partecipare, è troppo rilassato
e soddisfatto per rimuginarci.
Alle sette, sto maledicendo la cravatta mentre lui mi guarda dal
letto. «Sei un figo pazzesco con lo smoking» commenta. «Anche se
la tua capacità di annodare cravatte fa pena.»
«Aiutami» frigno, ricominciando per la terza volta.
Si alza e mi scosta le mani. «Il trucco è iniziare tenendola molle e
tirare tutto alla fine. Tipo i pompini.»
Mi scappa una risatina. Chi l’avrebbe mai detto che la mia cotta
adolescenziale avrebbe imparato a fare pompini? Per tutte le
superiori, Jamie è stato la mia fantasia. Il bel biondino che mi sta
aggiustando la cravatta mi stupisce ancora ogni volta che mi tocca.
Resto immobile perché voglio che questo momento duri. Può
armeggiare con questa cosa tutta la notte, se significa avere un
posto in prima fila per vedere i suoi occhi castani – sorprendenti per
un ragazzo biondo – e i suoi marcati zigomi dorati.
«Ecco fatto» annuncia, e il suo respiro mi sfiora il viso. Tira ancora
una volta la cravatta.
Sposto con riluttanza lo sguardo verso lo specchio e vedo che la
cravatta è perfettamente centrata e dritta. Ora non ho più scuse per
restare a casa. «Grazie» dico, piano. E non è solo per la cravatta,
significa molto di più.
Mi tocca la guancia. «Non c’è di che. Ora va’. Fa’ il bravo. Saluta
quando sei sul tappeto rosso o quel che è. E quando ti chiedono
cosa stai indossando, inventati qualche cazzata.»
«Bell’idea.» Mi sporgo in avanti per dargli un bacio, uno al volo.
Poi scappo prima di ripensarci.
7

Sono tristissimo all’evento di beneficienza.


Non sono nuovo alle feste, ma odio quelle di questo genere: un
gruppo di persone vestite da pinguini che cercano di fare buona
impressione l’una sull’altra.
Se non altro, il cibo è stato buono e l’alcool ha un buon sapore,
anche se fanno i taccagni sulla quantità. Il mio bicchiere è di nuovo
vuoto, quindi mi guardo intorno. A questi eventi ci sono sempre vari
bar. Il trucco è puntare quello dove c’è meno fila. In quello vicino alla
porta la coda è lunga, quindi studio la sala e trovo ciò che sto
cercando in un angolo.
Cinque minuti dopo, sto sorseggiando del whiskey mentre torno
dai miei compagni. Anche se non si vedono, si sentono. Posso
seguire le risatine di Eriksson e la risata fragorosa di Blake.
Sto evitando Blake perché ce l’ho con lui. Sarà un atteggiamento
infantile, ma il mio scopo è arrivare alla fine della serata. L’ho già
sentito proporre di andare a bere appena la nostra presenza qui non
sarà più richiesta. Non se ne parla neanche. Appena finiscono i
discorsi, me la svigno dal retro.
«Ehi, Wesley» mi saluta Eriksson con una bella pacca sulla
schiena. «Ti stai divertendo?»
Mentire o non mentire? Questo è il problema. Mi sono rotto i
coglioni delle bugie che ho raccontato per tutta la settimana. «Non
molto. Non è il mio genere di ambiente.»
Eriksson spalanca gli occhi. «Sei single e non t’importa niente di
una sala piena di donne ricche con vestitini striminziti? In passato
rimorchiavo un sacco a questi eventi. Sette anni fa, portai a casa
due gemelle che mi erano rimaste attaccate per tutta la sera.» Fa un
sorriso frastornato. «Bei tempi.»
Il mio compagno sembra sbronzo e sono solo le dieci. Ha gli occhi
rossi e appare esausto. «Stai bene?» gli chiedo di colpo. È stato da
schifo tutta la settimana, in realtà, non so perché me ne rendo conto
solo ora.
«Certo che sì. Se non fosse che mia moglie stamattina mi ha
comunicato che vuole il divorzio, poi ha portato le bambine dalla
sorella. Mi sono perso un’altra sessione di terapia di coppia, a
quanto pare. Quindi getta la spugna.»
Cristo santo.
«Mi dispiace tantissimo. Forse deve solo dormirci su.» È questo
che si dice a un uomo la cui vita sta andando a rotoli? Non ne ho
idea.
Eriksson scrolla le spalle. «È questa vita. Non è facile, sai? Ma
basta con le mie cazzate. Cos’hai contro le feste?»
«Non tutte» ribatto subito. «Ma queste qui mi ricordano la mia
infanzia. Mia madre passa tutto il tempo a organizzare eventi del
genere. Vedi quei fiori?» Indico uno dei centritavola appariscenti. Ce
ne sono a miliardi, e dal momento che qui in Canada è febbraio,
devono essere arrivati dai tropici. Dal soffitto pendono sciami di
farfalle finte, ognuna tenuta su da qualche tipo di filo invisibile.
«Qualcuno ha speso un bel po’ di soldi per decorare questo posto,
perché i ricchi che hanno sborsato quattromila dollari per venire qui
stasera si aspettano di restare abbagliati. Mi sono sempre chiesto
perché non possiamo starcene tutti a casa e firmare un assegno con
solo le mutande addosso. Così alla fondazione arrivano più soldi.
Boom. Risolto il problema della raccolta fondi.»
Eriksson piega la testa all’indietro e ride. «Che stronzo cinico. Ti
adoro, cazzo. Ma ormai sei qui, quindi piantala di fare quella faccia,
come se la cravatta ti stesse strozzando.»
La tiro di nuovo, perché questa merda mi sta davvero strozzando.
«Per chi è quest’evento, comunque?» Mi sono perso l’informazione
fondamentale. E, dal momento che queste feste sono tutte uguali, le
decorazioni non danno indizi. A meno che la festa non sia per i fiorai
e le farfalle finte.
«Ricerca per la psoriasi» risponde Eriksson. «A quanto pare, è
una vera sciagura.»
«Cosa?» ridacchio. «La malattia della pelle?» Osservo di nuovo gli
invitati, ma l’unica pelle che si vede è quella di giovani donne nubili
con vestiti scollatissimi sulla schiena. Evidentemente, la ricerca sta
facendo miracoli.
«Occhio.» Eriksson fa un cenno del capo verso un gruppo di
ragazze bellissime che si fanno strada verso di noi tra la folla. «Tu
sei single, io quasi. A questo punto, possiamo ammirare le modelle.
È per una buona causa, no?»
Dopo un bel sorso di whiskey, mi stampo in faccia un sorriso. Ma
poi mi rendo conto che in realtà conosco una di quelle ragazze.
«Kristine! Che cavolo ci fai qui?» La conosco dai tempi
dell’università, usciva con il fratello del mio amico Cassel. Non la
vedo da tre anni, da quando si è lasciata con Robbie.
Mi fa un enorme sorriso. «Quando ho visto il nome della tua
squadra nel programma, mi sono chiesta se ci saresti stato anche tu.
Il piccolo Ryan, il famoso centrale esordiente. Perché non riesco a
dirlo con la faccia seria?»
L’abbraccio e riesco a toccare quasi solo pelle. Il suo vestito
brillante color bronzo è talmente striminzito che è praticamente
nuda. «È bello vederti, Krissi. Come stai? Ti sei ritrasferita a
Toronto?» Avevo dimenticato che era canadese. Era a Boston,
quando andavo a far visita alla famiglia di Cassel durante le vacanze
all’università.
«Intanto, non sono Kristine. Sono Kai.»
«Cosa? Chi è Kai?»
«Io, imbecille.» Mi pizzica il sedere. «Secondo la mia agenzia
Kristine non era abbastanza fashion. Mi hanno cambiato il nome.»
Giusto, fa la modella. Avevo scordato che stava cercando di
sfondare in quel campo. «Hai permesso che ti cambiassero nome?
Un po’ estremo.» Detto dall’uomo che tiene nascosta la propria
sessualità per giocare nella NHL. Okay, cambiare nome non è così
strano. «Kai suona mascolino. Mi piace.»
Ride. «Vieni a ballare con me. Diamo una scossa a questo posto.»
«Certo» rispondo subito. Parlare con Kristine/Kai mi ha risollevato
l’umore. Mi ricorda un periodo più facile, quando io, lei, Robbie e
Cassel andavamo a fare danni nei noiosi locali di Boston. Vorrei
fossimo di nuovo là, invece che qui, ma non si può avere tutto. E
ballare con una vecchia amica rende la musica swing che il gruppo
sta suonando molto più interessante di quanto fosse qualche minuto
fa.
La prendo per mano e la porto sulla pista da ballo.

Sto piegando il bucato sul divano, guardo distrattamente una


partita di baseball e traffico con il telefono. Niente di tutto questo è
particolarmente interessante.
L’ultimo spettacolo del film che volevo vedere inizia tra quaranta
minuti. Devo decidere se andare a vederlo entro i prossimi cinque.
Se ci vado da solo, Wes si incazzerà? Probabilmente no. Non
molto, comunque. E se è bello, posso riguardarlo insieme a lui
quando sarà disponibile on-demand.
Piego altre due magliette e cerco di decidermi. Il biglietto non
costa molto, ma poi ci sono i popcorn e la bibita dal prezzo
esagerato. E due viaggi in metropolitana. Non è gratis, e cerco di
risparmiare il più possibile per le uscite con Wes. L’affitto che insisto
nel pagare è più di quanto posso permettermi, quindi sono al verde
la maggior parte del tempo.
Inoltre, fuori fa freddo. A Toronto, in inverno, tira un vento gelido
che ghiaccia le ossa. Avendo vissuto sulla costa ovest per tutta la
vita, non ho mai davvero capito quanto potesse essere rigido
l’inverno. Forse suona come una stupida scusa per stare a casa, ma
il fattore vento freddo non è tra i pro dell’andare al cinema.
Però, se Wes fosse qui, ci andrei subito, e al diavolo il tempo.
Sto ancora poltrendo quando apro Instagram. E, stranamente,
Wes è nella prima foto che vedo. Lo scatto è stato pubblicato
sull’account della squadra. Qualcuno delle pubbliche relazioni è
occupato a fare foto alla festa. Nell’immagine, Wes sta sorridendo a
una ragazza stupenda con un vestito color rame. Sono abbracciati.
La didascalia recita: “Il centrale esordiente, Ryan Wesley, balla con
la modella Kai James alla #FestaPerLaPsoriasi”.
Wes sta ballando lo swing con una modella, e io sono qui a
piegare biancheria.
Basta. È la spinta che mi serviva per alzarmi dal divano e uscire.

Venti minuti dopo, sto scendendo alla fermata Dundas della linea
Yonge. Quando esco dalla stazione della metro, il vento mi sferza il
viso. Mi infilo velocemente i guanti e tiro su il cappuccio, ma quando
arrivo al cinema ho la faccia quasi del tutto gelata.
Cerco di comprare il biglietto, ma il ragazzo con la faccia butterata
alla cassa mi dà una brutta notizia. «Mi dispiace, lo spettacolo è
stato cancellato.»
«Ma c’era sul sito del cinema» ribatto.
«Lo so, ma questo fine settimana è uscito Morph-Bots e dallo
scorso venerdì tutti i biglietti sono esauriti. Non vendevamo biglietti
per The Long Pass da giorni, quindi il direttore del cinema ha deciso
di usare la sala per uno spettacolo extra di Morph-Bots.» Si sfrega il
mento brufoloso, a disagio. «Vuoi un biglietto per Morph-Bots?»
Se ripete ancora una volta Morph-Bots giuro che do di matto, che
cazzo.
«…sono rimasti dei posti. Tutti in prima fila, ma…» Scrolla
timidamente le spalle, come se si fosse reso conto che non sta
buttando l’acqua al mulino di questo stupido film di robot.
«No, non fa niente. Grazie lo stesso.»
Infilo le mani nelle tasche della giacca e mi allontano lentamente
dalla biglietteria. Merda. E ora? Sono venuto fin qui ma non ci sono
altri film che mi interessa vedere.
Con il cuore pesante, esco dal cinema. Appena metto un piede
fuori al freddo, sento vibrare il telefono in tasca. È un messaggio di
Wes. Mi si stringe il cuore, quando lo leggo.
“Vorrei che fossi qui”.
Davvero? O è contento che non ci sia, perché significa non dover
rispondere alle domande imbarazzanti dei suoi compagni e dei
tifosi?
Cazzo. Non è giusto. Sono uno stronzo ad averlo anche solo
pensato, ma ultimamente è sempre più difficile andare avanti così.
Non mi hanno insegnato a nascondere chi sono. I miei genitori
hanno sempre incoraggiato noi sei figli a essere orgogliosi della
nostra identità, a seguire il nostro cuore e a fare ciò che ci rende
felici, al diavolo quello che pensano gli altri. Tutti i miei fratelli hanno
seguito il consiglio.
Tammy ha spostato il suo ragazzo delle superiori a diciotto anni,
rinunciando a una borsa di studio a un’università sulla costa est per
una pubblica perché suo marito Mark e il clan Canning erano la cosa
più importante per lei.
Joe è stato abbastanza coraggioso da essere il primo Canning a
divorziare, anche se mi ha confidato che era a disagio e che si è
sentito un fallito.
Jess si barcamena tra ragazzi e lavori come se volesse battere
qualche guinness dei primati. Ma non la giudichiamo. Non molto,
almeno. E io? Per ventidue anni ho frequentato solo donne, finché la
vita ha deciso di prendermi in contropiede: mi sono innamorato di un
altro uomo e l’ho accettato. Ma essere bisessuale non è una
passeggiata. L’estate scorsa, ho imparato con le cattive che non tutti
hanno la mente aperta come la mia famiglia, ma ho scelto la felicità
al posto delle opinioni deviate della gente e dei giudizi crudeli. Ho
scelto Wes.
Ora, però, devo nascondere quella scelta. Devo fingere che Ryan
Wesley non sia la mia anima gemella. Devo guardare delle cavolo di
foto su Instagram di lui che balla con ragazze bellissime e fingere di
non essere geloso.
“Anch’io vorrei essere lì” rispondo. Perché è vero. Vorrei esserci io
con lui stasera a quell’evento di beneficenza.
«Canning?»
Mi giro, sorpreso, e infilo d’istinto il telefono nella tasca, nel caso si
veda il nome di Wes sullo schermo. Il che mi fa incazzare ancora di
più, perché mi sto di nuovo nascondendo.
Coby Frazier, uno degli assistenti del coach della squadra della
lega giovanile, mi si avvicina sorridendo. Dietro di lui c’è Bryan
Gilles, coach associato di una delle altre squadre del mio capo.
Gilles è un tranquillo franco-canadese con la barba folta e un amore
viscerale per i motivi scozzesi – la fantasia del parka che ha
addosso stasera è a quadri. La camicia che gli spunta da sotto il
cappotto? A quadri anche quella.
«Quindi hai davvero una vita fuori dalla pista» scherza Frazier,
dandomi una pacca sulla spalla. Poi lo fa anche Gilles,
accompagnandola con un cenno del capo. «Hai un appuntamento
galante?»
Scuto la testa. «Mi ha dato buca all’ultimo. Ma ho deciso di andare
comunque a vedere il film, solo che a quanto pare qui non lo danno
più.»
«Dovresti guardare Morph-Bots» consiglia Frazier. «Siamo
appena usciti dallo spettacolo delle sette. È magnifico, cazzo.
Incredibile cosa riescono a fare con la CGI.»
Scrollo le spalle. «Non mi piacciono le lotte tra robot che vanno
adesso, finisco sempre per addormentarmi.»
Frazier sorride. «E che ne dici di birra fredda e belle ragazze?
Quelle ti piacciono? Io e Gilles stiamo andando al pub. Vieni?»
Da quando mi sono trasferito a Toronto e ho iniziato a lavorare
come coach, i miei colleghi mi hanno sommerso di inviti. Vieni a
prenderti una birra. Andiamo a mangiare qualcosa. Vieni a casa per
una grigliata, a mia moglie farebbe piacere. Ho rifiutato la maggior
parte degli inviti, perché se non posso portare Wes che senso ha?
Inoltre, è molto più facile nascondere il fatto che ti piace il cazzo se
tieni tutti a distanza.
Stasera non dico di no, perché una birra con i ragazzi sembra una
bella distrazione. O quello, o torno nel mio appartamento vuoto a
stalkerare Wes su Instagram tutta la sera.
«Certo, ci sto» rispondo.
Il telefono mi vibra in tasca prima che riesca a finire la frase.
Stavolta lo ignoro e seguo Frazier e Gilles sul marciapiedi verso il
pub.
8

«Non lo sa nessuno? Davvero?» Kristine/Kai mi guarda a bocca


aperta nel nostro angolino tranquillo della sala da ballo. Dopo quasi
un’ora sulla pista, abbiamo finalmente deciso di riprendere fiato e
ora ci stiamo reidratando. O meglio disidratando, perché il mio
scotch e il suo Cosmopolitan non aiutano l’assunzione giornaliera di
liquidi.
«Nessuno» confermo.
Scuote la testa, incredula, e la sua chioma di ricci scuri le ricade
su una spalla nuda. «Neanche uno dei tuoi compagni?»
«No.»
«Ma nella tua squadra all’università tutti sapevano che eri gay.»
Abbassa la voce sull’ultima parola, e si guarda intorno per
assicurarsi che nessuno ci senta.
«Quella era l’università» rispondo a bassa voce. «Nella NHL è un
altro paio di maniche, gioia.»
«Di pattini, vuoi dire.»
Sorrido. «Di pattini» ripeto.
Kai beve un sorso del suo drink. «È uno schifo, Ryan.» Ora
sembra turbata. «Pensi davvero che sarebbe così terribile, se la
cosa venisse fuori?»
«I media ci si fionderebbero, tesoro. Lo sai.»
Fa un verso disgustato. «Be’, cazzo, è ridicolo. Il matrimonio
omosessuale ora è legale. In Canada lo è da anni. Perché ci sono
ancora così tanti bigotti di merda al mondo? E perché non li
spediamo tutti in Antartide?»
Mi scappa una risata. «Perché siamo più gentili di loro.»
«Forse non dovremmo esserlo. Forse dovremmo giudicarli e
perseguitarli, così saprebbero cosa si prova.»
Apprezzo il suo sostegno e la dimostrazione di solidarietà, ma la
verità è che non ha idea di come ci si senta. Jamie è l’unico con cui
possa condividere la frustrazione perché è l’unico che la condivide
davvero con me. E, anche in questo caso, non ne parliamo spesso
perché ci deprimiamo.
«Cos’avete da bisbigliare qui in un angolo?» Blake compare con
un bicchiere in mano e il suo tipico sorriso stampato in faccia. I suoi
occhi verdi fanno una lenta radiografia al corpo mezzo nudo di Kai
prima di rivolgersi a me. «E perché non mi hai presentato questa
dea, Wesley? Pensavo fossimo amici.»
Mentre Kai arrossisce, li presento velocemente, e passiamo i
minuti successivi a chiacchierare tutti e tre insieme finché lei si
scusa per andare in bagno. Appena io e Blake rimaniamo soli, mi fa
un occhiolino esagerato. «Allora…»
«Allora» ripeto.
«Ben fatto, Wesley. Anche se sono un po’ deluso che tu sia
arrivato prima di me. È stupenda. Quella bocca… Geeezù. Non
saprei dove fargliela mettere.»
«Sono sicuro di sì.»
«E tu? Sembrate intimi. Sono geloso.»
Avverto un formicolio di paranoia lungo la schiena, e scelgo le
parole con attenzione perché Blake ha pronunciato la frase in modo
strano. O no? Probabilmente vuole solo sapere se Kai è disponibile,
se l’ho rivendicata. Bevo velocemente un sorso di scotch. «No, non
è come credi. Usciva con il fratello di un mio compagno di squadra.
È come una sorella per me.»
Gli si illumina il viso. «Quindi stai dicendo che non è già
prenotata?»
«No, bello.» Lancio un’occhiata alla pista da ballo ancora affollata
e mi chiedo quanto ancora debba restare qui. I discorsi sono finiti
dieci minuti fa, ma sembra che nessuno stia andando via e non
voglio essere il primo a svignarsela.
«Pensi che sia dubev o ca?»
«Cosa?» chiedo perplesso.
«Da una botta e via o cerca l’anello.»
Piego le labbra all’insù. Cavolo, Blake Riley è fin troppo esilarante.
«Credo tu sia salvo» gli dico. «Al momento è concentrata sulla
carriera da modella. Non penso cerchi qualcosa di serio.»
«Sono le parole più belle che abbia mai sentito.» Inizia a parlare di
quanto adori essere single, e passa qualche secondo senza che io
risponda prima che lui smetta di parlare e inclini la testa.
Mi sento un insetto al microscopio sotto l’improvviso sguardo
indagatore di Blake.
«Ho fatto una cazzata, vero?» chiede.
Inarco le sopracciglia. «Che vuoi dire?»
«Stasera non volevi venire a questa festa.» Il suo esame critico
continua, lo sguardo si fa serio. «Non avrei dovuto dare per scontato
che volessi venire. Sono stato un cretino.» Sventola una mano,
imbarazzato. «Ti ho rovinato la serata.»
Non è una domanda, ma un’affermazione. E sento di nuovo quel
formicolio di paranoia. «Lo smoking non fa per me. Mi ricorda i miei
genitori e la gente che frequentano.»
Blake inclina il testone di lato. «Hai detto che non ci vai d’accordo.
Che intendi?»
«Eh…» temporeggio. «Tengono più agli eventi di gala che a me.»
Mi sta ancora osservando. «Colpa mia, Wesley. Mi dispiace.»
Scrollo le spalle, cercando di chiudere il discorso. «Ora sono qui,
vestito da pinguino, che mi piaccia o no. E le donne sono una gioia
per gli occhi.»
C’è un lungo silenzio, poi Blake riprende a parlare. «Che fa Jamie
stasera?»
Il formicolio diventa un brivido e mi irrigidisco. Perché parla di
Jamie? E l’ha chiamato Jamie, non J-Bomb o qualche altro
nomignolo stupido che lo relega a semplice coinquilino.
«Non lo so» farfuglio. «Probabilmente è uscito.»
Blake continua a guardarmi.
Sento l’impellente bisogno di scappare, e forse sono più brusco di
quanto dovrei quando dico: «Senti, va tutto bene. Non sono
entusiasta di essere qui stasera, ma non è andata male, okay?»
Per fortuna, veniamo interrotti dai nostri compagni prima che
Blake possa rispondere – o insistere. Eriksson è davanti al branco,
con Forsberg e Hewitt al seguito. È evidente che stasera sono
passati spesso al bar, perché quando ci raggiungono fanno un
casino pazzesco.
«Stiamo andando al Lantern House» annuncia Eriksson,
prendendo a pugni l’aria davanti a noi. «Venite.»
«Scusa, ma ho dei programmi» risponde Blake con voce
strascicata. Lancia un’occhiata in lontananza e poi sorride
lentamente. «Eccola lì.»
Forsberg fa un fischio mentre Blake si allontana lentamente per
andare dalla bellissima bruna che è appena tornata in sala. Kai lo
saluta con un sorriso smagliante, e poco dopo sono avvinghiati sulla
pista da ballo.
Bene. Fantastico. Stanotte Blake è ufficialmente occupato, il che
significa che non si presenterà a casa quando tornerò.
Se l’avessi saputo prima, avrei passato la serata a presentarlo a
tutte le donne presenti.
Eriksson, però, non pare scoraggiato dalla defezione di Blake. Mi
posa una grande mano sulla spalla e dice: «Mi sa che siamo solo noi
quattro, ragazzino. Forza, andiamo al pub».
Mi si stringe la gola per l’irritazione. Col cazzo. Non ho intenzione
di andare al pub con i ragazzi, non con Jamie che mi aspetta dopo
aver lasciato che questo maledetto evento ci rovinasse la serata. Se
vado a casa ora, almeno io e Jamie potremmo passare qualche ora
insieme prima di andare a letto. Domani dobbiamo entrambi
svegliarci presto per l’allenamento.
«Scusa, ma passo anch’io.»
Ma ho sottovalutato la tenacia di Eriksson. O forse non mi ero
accorto di quanto la mia amicizia sembri contare per lui. «No, non
darmi buca. Questa giornata ha fatto schifo dal momento in cui mi
sono svegliato.» Il suo tono di voce si fa imbarazzato. «Stasera ho
bisogno di avere la mia squadra vicina.»
«Certo, bello» lo rassicura Forsberg. «Non posso credere che
stasera stia rinunciando a una scopata facile per te. Ma ogni tanto
addirittura il sottoscritto può mettere gli amici prima della fica.»
Quanto odio quella frase. Ma l’espressione addolorata e gli occhi
rossi di Eriksson mi fanno sentire in colpa. Sua moglie gli ha appena
detto che vuole il divorzio, Cristo santo. E io sono qui a mandarlo a
cagare perché voglio tornare a casa a coccolare il mio ragazzo?
«Va bene» mi arrendo alla fine, allungando una mano per dargli
una pacca sul braccio. «Ci sono.»
9

I miei nuovi amici hanno scelto il Lantern House, che è un posto


bello grande. Ci sediamo a un tavolo in fondo, e Frazier si fa strada
tra la folla per prenderci un boccale. La musica e il ronzio delle
chiacchiere intorno a me mi risollevano il morale. Mi stupisce
rendermi conto di quanto poco frequenti posti del genere. Per essere
un ventitreenne, ultimamente vivo praticamente da recluso. Gilles
racconta una storia divertente sulla sua squadra che si è persa a
Québec, e io mi ritrovo a ridere con più facilità di quanto non abbia
fatto ultimamente. Mi è mancato tutto questo. Io e Wes ogni tanto
andiamo al ristorante, ma non è la stessa cosa che andare al pub
per un paio d’ore.
«Giochiamo a freccette? Si è appena liberato il bersaglio»
propone Gilles con un cenno.
«Andiamo» concordo.
Spiega le regole per la partita a tre e iniziamo a lanciare. Subito
partono gli sfottò. «Sei un portiere, Canning. Scommetto che non
riesci a centrare il bersaglio.»
Quando lo faccio, deve offrire il giro successivo.
Forse era inevitabile, ma tre ragazzi attraenti che giocano a
freccette di sabato sera attirano le donne. Non passa molto tempo
prima che tre ragazze inizino a guardarci e a fare il tifo.
Frazier e Gilles si mettono ancora più in mostra. Siamo al secondo
turno quando Frazier sfida Gilles a centrare con una freccetta una
mela sopra la sua testa. Le ragazze scoppiano a ridere. E per
fortuna nessuno riesce a trovare una cazzo di mela, perché non
voglio passare il resto della serata al pronto soccorso con Gilles con
una freccetta nell’occhio. Comunque, quando ci allontaniamo dal
bersaglio, le ragazze si avvicinano. La bruna energica reclama
Frazier che, con le sue fossette e degli avambracci che non dovrei
neanche notare, è più figo di Gilles. La bruna non è carina quanto le
sue amiche bionde, ma ha quell’aura autoritaria che la rende sexy a
modo suo.
A quanto pare, una delle bionde ha un debole per i motivi
scozzesi, perché si aggancia subito al braccio di Gilles. Nonostante
abbia evitato di proposito il contatto visivo con tutte e tre, si applica
la legge della giungla. La terza si muove e mi si piazza davanti,
annuendo ogni volta che parlo. Mi posa una mano sulla schiena e
ride quando faccio una battuta.
Non è la prima volta che qualcuno ci prova con me in un locale,
quindi non andrò certo nel panico. E lei non sembra una insistente.
Posso tranquillamente offrire un paio di bicchieri a una ragazza e poi
uscirmene con un “Oh, si è fatto tardi, devo scappare”. Ma una parte
di me è stanca della farsa, perché c’è una persona nella mia vita e
mi sentirei diversamente se fosse qui con me.
Tuttavia, non si può avere tutto ciò che si vuole.
È l’ultima cosa a cui penso prima che giri per caso la testa e
guardi verso l’entrata del locale. Gli occhi mi si fermano su un
gruppo di uomini in smoking vicino al bancone del bar. Riconosco al
volo uno di loro. Da qui, riesco a vedere solo la nuca di Wes; solo
dei capelli scuri a spazzola rasati sul collo. E conosco quel collo. Mi
piace posare la bocca su quella pelle liscia, e quando succhio quel
punto lui geme.
La bionda vicino a me sta parlando, ora ha la mano sul mio
braccio. Ma non sento neanche quello che sta dicendo, perché sono
distratto dal casino in cui mi trovo. Frugo nella tasca e tiro fuori il
telefono, poi apro la schermata dei messaggi. “Dietro di te” scrivo a
Wes. Voglio avvisarlo che sono qui. “Girati”.
Ma non lo fa. Nel frattempo, Tracie, la mia nuova migliore amica,
con una mano tiene me e con l’altra un boccale di birra.
All’improvviso, questa serata non è più tanto divertente.
Eriksson è un disastro.
Non l’ho mai visto così ubriaco ed emotivo. Passa dall’essere
socievole, ad arrabbiato e a essere sul punto di piangere.
«Un altro giro, ragazzi?» farfuglia. «Tanto non ho nessuno a casa
che mi aspetta.»
Mi si spezza il cuore. Eriksson è uno tosto, cazzo. Una volta l’ho
visto rimettersi a posto un dente in panchina, nel bel mezzo di una
partita, dopo essersi beccato una botta in faccia. Ha giocato il terzo
tempo con il sorriso sulle labbra e il sangue che gli colava sul mento.
Ma, a quanto pare, essere tosti non serve quando la tua famiglia ti
abbandona. È sull’orlo di un precipizio emotivo e non credo riuscirei
a tirarlo via neanche se fossimo amici intimi.
Si sta facendo tardi e lui è sempre più ubriaco. Che fare? Continuo
a pregare che qualcuno degli altri che lo conosce meglio si faccia
avanti e prenda in mano la situazione – lo metta su un taxi o lo riporti
a casa a dormire.
Eriksson è come un treno che sta deragliando a rallentatore e che
sono obbligato a guardare.
Inoltre, ci sono i fan che continuano ad avvicinarsi. Un gruppo di
ragazzi in smoking in un pub attira sempre l’attenzione, ma a Toronto
tutti amano l’hockey, e le facce che mi circondano sono conosciute.
Tifosi ubriachi continuano a venire e chiedere autografi. Una ragazza
mi chiede di autografarle la pancia. Lo faccio senza toccarla. «Fa il
solletico!» squittisce.
«Casa mia è… vuota» geme Eriksson.
Tra un minuto perdo la testa.
Sento un altro gridolino e so che si sta avvicinando un altro gruppo
di fan. Una ragazza bruna mi si piazza davanti. «Oddio, sei Ryan
Wesley! Bellissimo il tuo goal a Montreal la scorsa settimana! Mi fai
un autografo sulla cover del telefono?»
«Certo» rispondo, mentre invade il mio spazio personale. Ma
sorrido lo stesso, perché che alternativa ho? Poi alzo la testa per
vedere chi altro ci ha circondati e… resto di sasso.
Jamie è in piedi a un metro e mezzo da me e mi guarda,
arrabbiato. Una ragazza bionda e minuta lo sta trascinando verso di
me.
«Non volete conoscere la squadra? Anche voi giocate a hockey!
Che emozione.»
Tre ragazze si avvicinano e due dei loro accompagnatori restano a
distanza con le mani in tasca e un sorriso scocciato.
E poi c’è Jamie. Inarca un sopracciglio come a chiedere: “Come
cavolo facciamo a finire in situazioni del genere?”
La bruna insistente afferra uno degli altri ragazzi. «Loro sono
Frazier, Gilles e Canning!» li presenta allegramente, come se
fossimo destinati a diventare migliori amici. Riconosco i nomi dei
ragazzi: sono i colleghi di Jamie. «Salutate, ragazzi! Che
spettacolo.»
I suoi accompagnatori stringono le mani ai miei indulgenti
compagni di squadra, anche se Eriksson barcolla leggermente.
Jamie tiene le braccia incrociate. E io non ce la faccio più. Gli porgo
una mano. «Ehi, come stai? È da tanto che non ci vediamo.» Gli
faccio l’occhiolino e aspetto che sorrida.
Jamie mi prende la mano e la stringe. «È passato davvero un
sacco di tempo» borbotta.
«Aspetta!» grida la bionda che gli sta incollata addosso. «Conosci
Ryan Wesley? Non ci credooo!»
Altroché. In senso biblico. «Ci conosciamo da tanto» intervengo.
«Dal campo estivo di hockey.»
La sua bella boccuccia si spalanca e noto che guarda Jamie come
se lo vedesse per la prima volta. Ha gli occhi sgranati e stringe la
presa sul suo braccio.
Odio vedere quella mano lì.
«Me lo stavi tenendo segreto!» urla, poi gli dà un leggero colpo sul
petto.
«Ma no.» Il viso di Jamie forse sembra amichevole a tutti i presenti
nel locale, ma non a me.
Bisogna conoscerlo bene come lo conosco io per capire quant’è
irritato.
La bionda gli si avvicina e solleva il mento verso il suo. La mossa
è senza dubbio civettuola. «In che posizione giochi?»
Mi sfugge una risata prima che riesca a rendermene conto. Ma
tanto lei non se ne accorge. Avvolge le braccia intorno al mio uomo
e lo allontana dal resto del gruppo.
Cristo, non lo posso vedere. Quindi mi giro. Se dieci minuti fa
pensavo che la serata fosse triste, ora è da tagliarsi le vene.
«Ehi, Forsberg.» Mi faccio spazio tra la calca per rivolgermi
all’uomo con cui Eriksson ha giocato negli ultimi tre anni. «Cos’hai
intenzione di fare con il nostro amico, qui?» Se non si offre
volontario per risolvere il problema, lo costringo.
«Credo dovrei portarlo a casa.»
Dici? Gli do ancora tre minuti, e visto che non si muove insisto.
«Sarà più difficile, se beve ancora.»
«Forse hai ragione.» Finalmente – finalmente – acchiappa
Eriksson per il colletto e dichiara: «È ora di andare, bello. Abbiamo
fatto abbastanza danni per stasera».
Altroché. Mi giro per vedere cosa combina Jamie e, porca puttana,
sta per pomiciare. La bionda gli si è spalmata addosso e fa scendere
le mani verso il suo culo. Sono del tutto impreparato alla morsa di
rabbia impotente e di gelosia che mi toglie il respiro, quando scorgo
le loro teste bionde così vicine. Davvero, vorrei lanciare uno sgabello
contro il muro.
Jamie è attratto dalle donne. Anche dopo otto mesi insieme, è
ancora dura per me accettarlo. Ho visto come a volte guarda le
ragazze per strada, e la cosa mi uccide. Non che io sia un santo, ho
guardato altri ragazzi. È nella natura umana apprezzare la bellezza
degli altri. Ma, cazzo, fa paura pensare che sono in competizione
con gli uomini e con le donne per l’amore di Jamie.
Non sei in competizione con nessuno, deficiente. È già tuo.
Ricordarmelo mi tranquillizza. Un po’. Ma, mentre lo guardo, inizio
a notare più chiaramente alcuni dettagli di quella scena. Jamie in
realtà si muove per il disagio, non per il desiderio. E la mano che
pensavo stesse tenendo quella di lei, in realtà sta cercando di
staccarle il palmo dalla chiappa. «Scusa,» gli sento dire «devo
andare in bagno.»
Giuro su Dio che avverto il rumore di una ventosa quando se la
stacca dal petto. Poi Jamie va verso il bagno più veloce che mai,
anche più di quando è sui pattini.
E in un attimo lo seguo. Non me ne frega un cazzo di chi ci vede.
Il nodo di gelosia che mi stringe lo stomaco è più urgente della paura
di essere scoperto.
Un tizio che sta uscendo mi tiene aperta la porta. Entro nella
stanza buia e trovo Jamie al lavandino che si lava le mani. «Ehi»
prorompe, sorpreso.
Non dico niente. Lo prendo per un gomito e lo trascino verso una
delle tre cabine. Lo spingo dentro e chiudo la porta. Poi lo sbatto
contro la parete ammaccata di metallo e lo bacio. Con forza.
Lui mi afferra il viso con le mani umide e ricambia allo stesso
modo. Mi infila la lingua in bocca e praticamente mi colpisce
violentemente con le labbra. È un bacio rabbioso. Mi sento grugnire
per la sorpresa e per l’angoscia.
Sia chiaro, è sexy da morire. Ma io e Jamie non siamo soliti
scambiarci baci rabbiosi. Siamo più tipi che ansimano quando l’altro
gli fa il solletico al sedere e ridono quando uno dei due cade dal
letto.
Ma non stasera.
Spingo i fianchi contro i suoi e la cabina traballa. Attacco la sua
bocca, gli stringo la maglietta tra le mani. Sa di birra, ma ha addosso
anche un profumo nauseante. Lo assaporo più profondamente per
cercare di allontanare quell’odore estraneo e scrollarmi di dosso la
serata disastrosa.
Ma all’improvviso sentiamo delle voci. Il rumore aumenta, quindi
sparisce di nuovo quando qualcuno apre la porta per poi richiuderla.
Ci irrigidiamo, bocca contro bocca. Siamo troppo vicini e ho la
vista distorta – Jamie sembra un incazzato ciclope biondo.
Stacco le labbra dalle sue, ma le nostre fronti sono ancora
attaccate. E stiamo cercando di non boccheggiare per la rabbia e
per lo sforzo.
Chiunque ci sia fuori dalla cabina, fischietta ubriaco. Sento il
rumore della pipì che tocca il cesso. Dopo un minuto il tizio alza la
cerniera e se ne va. Ma sembra di più, perché devo guardare gli
occhi scontrosi di Jamie. Stanno chiedendo perché deve essere
così.
La porta del bagno si richiude e torna il silenzio, ma passa un altro
istante prima che riesca a parlare. «Da’ la buonanotte ai tuoi amici»
ordino aspramente. «Torniamo a casa.»
«Prima tu» sbotta. «Sei tu quello famoso che non può uscire di qui
senza che lo fermino.»
Vorrei ribattere, ma rimanderei solo il viaggio verso casa. Quindi
faccio quello che devo fare: esco dalla cabina e dal bagno. Al bar ci
sono solo due dei miei compagni di squadra. Li saluto, poi esco e
aspetto Jamie sul marciapiedi.
Ci mette un po’, probabilmente sta salutando i colleghi. Mi rendo
conto che non ho mai conosciuto nessuno dei ragazzi con cui lavora
ogni giorno. Quant’è malata questa cosa?
La mia mente mi regala l’immagine di quella ragazza che gli si
spalma addosso. Mi fa sentire male chiedermi se sta cercando di
convincerlo a non andarsene da solo. So che non lo farà, ma mi
viene comunque la nausea.
Alla fine arriva, le mani in tasca e un’espressione cupa sul viso.
Sollevo la mano, sperando che passi un taxi e metta fine a questa
serata di merda. Per fortuna, uno si ferma lentamente davanti a me.
Apro la portiera e indico a Jamie di entrare per primo. Quando lo fa,
quasi mi accascio per il sollievo sul marciapiedi di Toronto.
Durante il tragitto verso casa non parliamo, e non appena
entriamo nell’appartamento Jamie va dritto verso la doccia. O sente
anche lui quel profumo, o si sta preparando per fare del sesso
pacificatore.
Quando finalmente ricompare, sono sul letto. Nudo. Pronto.
Ma Jamie si infila un paio di pantaloni di flanella e dà un colpo al
cuscino prima di mettersi a letto, dandomi le spalle. Ancora
fiducioso, rotolo verso di lui e gli bacio la spalla. «Mi dispiace,
piccolo» sussurro. «Fammi sistemare le cose.»
«Ho un po’ di mal di testa» borbotta.
Se fossi uno di quei tipi che piangono, avrei già aperto i rubinetti.
Invece, gli bacio di nuovo la spalla. Poi mi sdraio sulla schiena e
inizio a contare le settimane che mancano alla fine della stagione.
Non credo di riuscire a sopportare ancora tutto questo. Non se rende
Jamie infelice.
10

La mattina successiva scorre lentamente tra tensione e


frustrazione. Tra me e Wes non sta andando benissimo. Sa che
sono arrabbiato per quello che è successo ieri sera. L’averlo
incontrato al pub, aver finto che fossimo vecchi conoscenti invece
che amanti. No, compagni.
A peggiorare le cose, il pomeriggio dopo il disastro chiama il padre
di Wes. Dal momento che il signor Wesley non si disturba mai a
chiamare, mi irrigidisco quando sento Wes esordire: «Ciao, papà.
Che ti serve?»
Quell’uomo non telefona mai, a meno che gli serva qualcosa.
«Ah-ah» risponde Wes dopo aver ascoltato per un attimo.
«Immagino si possa fare.»
La risposta non mi suggerisce niente. Sfrego il lavello come se ce
l’avessi con lui, chiedendomi quando finirà la chiamata così che Wes
possa dirmi cosa succede. E visto che non termina subito, mi ritrovo
ad aprire l’acqua al massimo. Poi fischietto. Sto facendo rumore
perché a Roger Wesley non piace che suo figlio viva con un uomo.
Per quello stronzo non esisto, quindi è divertente ricordarglielo.
Divertente, se non patetico.
Ma Wes si allontana e va in camera per sentire meglio.
Quindi la mia battaglia infantile per essere riconosciuto finisce
senza un minimo di soddisfazione. Ma, ehi, il lavello è splendente.
Quando Wes finalmente ricompare, sono talmente nervoso che
non gli chiedo neanche cosa voleva il padre, perché non sono sicuro
di riuscire a parlare tranquillamente.
Si siede al bancone e mi guarda finché la smetto con la farsa e
poso la spugna. «Che c’è?»
Tace per un istante. Non mi sono mai sentito così in preda delle
emozioni come in questo momento. Ho appena scoperto che
innamorarsi ha un lato oscuro: quando sei arrabbiato con l’amore
della tua vita, è impossibile essere felici.
«Ha chiamato mio padre» dice alla fine.
«Quello l’avevo capito» rispondo, ma il mio tono di voce è più
gentile delle parole.
Annuisce. «Ti ricordi del suo amico di Sports Illustrated?»
«Certo. Quello che voleva scrivere una serie di articoli sulla tua
stagione d’esordio.»
Wes annuisce di nuovo. «Be’, ora che la mia stagione d’esordio
sembra andare bene, è deluso dal mio rifiuto. Quindi sta facendo
pressioni su mio padre per avere un’intervista esclusiva.»
«E non puoi dire di no?» L’ha già fatto prima.
Il mio ragazzo si guarda le mani. «Stavolta si è dato da fare su
due fronti: conta su Frank per avere la storia.»
Ah. Frank è quello delle pubbliche relazioni, e Wes non gli dice
mai di no perché pensa che fare coming-out sarà molto più facile se
Frank sarà dalla sua parte. «Allora… di’ al giornalista che se
pazienta fino a giugno gli darai una storia per cui valeva la pena
aspettare.»
Wes alza velocemente lo sguardo su di me. «Non posso farlo.
Sarebbe come sventolare un topo davanti a un pitone e chiedergli di
non attaccare. Inizierebbe a indagare. Con un’allusione del genere,
quanto credi gli sarà difficile scoprire quello che vuole e poi
pubblicare la storia senza di me?»
Merda. «Okay, non funzionerebbe.»
«Ma dai?» Gli si spezza la voce. «Non penso ad altro, piccolo. Ho
immaginato tutti gli scenari possibili. Non è che non ci ho provato,
okay?»
So che si sente in trappola. Lo capisco. Il fatto è che non vedo
come il problema sparirà a giugno. Ho paura che non manterrà la
parola. Che troverà il pensiero del circo mediatico talmente
ripugnante che non riuscirà ad agire.
E allora che cavolo farò io? Se Wes stabilisse di aver bisogno di
un altro anno di professionismo prima di fare coming-out, non credo
che sarei in grado di ingoiare il rospo.
All’improvviso, il nostro appartamento è troppo piccolo. «Vado a
correre» annuncio.
«Adesso?» chiede. Di solito passiamo le ore prima della partita
insieme, a meno che io non sia via per una partita o un allenamento.
«Solo per un po’» borbotto, senza guardarlo negli occhi.
Dopo essermi cambiato al volo, infilo gli auricolari ed esco di casa.
Ci sono i tapis-roulant nella “palestra” sul tetto del palazzo. Ne
imposto uno a velocità intensa e riverso la frustrazione sul nastro di
gomma.
So che bisognerebbe discutere di queste cose, il problema è che
conosco già le risposte di Wes. Mi prometterebbe che a giugno non
ci saranno più segreti. Ma ora quella scadenza mi sembra arbitraria.
Perché non a maggio? O a luglio?
O mai?
Anche se so che Wes è un uomo di parola, non posso fare a
meno di preoccuparmi. Quello che gli sto chiedendo è difficile, e odio
essere la persona che lo costringe a farlo. Se dovesse andare male,
potrebbe prendersela con me.
E lo detesterei, cazzo.
Mezz’ora dopo, sono sudato ma non meno triste. Mentre scendo
verso l’appartamento, mi chiedo cosa dirò se Wes volesse parlarne.
Ma, a quanto pare, non ne parleremo.
Quando esco dall’ascensore, sento bussare. «Wesley! Animale!
Apri!»
Blake Riley è davanti alla nostra porta.
«Ciao» lo saluto, perché non sono abbastanza furbo da tornare in
palestra per correre un altro chilometro o due finché non si arrende.
«J-Bomb!» Il viso di Blake si illumina, quando mi vede. «Ho i
postumi di una sbornia terribili. Tipo una pecora con le zanne che mi
rosicchia la testa!»
«Una… pecora?» Cosa? Lo scosto e apro la porta.
«Ti serve una doccia, bello.» Blake continua a blaterare mentre mi
segue dentro casa, diretto in cucina. «Ho bisogno di due pizze e un
litro di caffè. Come sta andando la tua squadra? Come la vuoi la
pizza?»
«Ehm…» Non so a quale domanda rispondere prima.
«Salsiccia o funghi?»
Almeno è una domanda a risposta multipla. «Tutti e due?»
«Lo sapevo che sei uno forte. Va’ a farti la doccia, io preparo il
caffè» dice al centro della mia cucina.
In fondo all’appartamento, si apre la porta di un bagno. «Tesoro?»
grida Wes.
Cazzo! «Che c’è, Ryan? E Blake vuole sapere che pizza vuoi!»
Blake alza lo sguardo dal telefono. «Il tuo soprannome è “tesoro”?
Come quello di Gollum?» ridacchia.
«No, imbecille» risponde Wes appena gira l’angolo. «Perché è un
tesoro di coinquilino.»
«Ti girano, Wesley? Anche tu con i postumi? Sto ordinando la
pizza.» Si porta il telefono all’orecchio. «Certo che attendo. Ma
sbrigatevi, per favore, siamo disperati.»
Senza dire altro, vado a farmi la doccia nel bagno della camera da
letto. Blake è troppo occupato a parlare a macchinetta per
accorgersene. Quando torno, dieci minuti dopo, non si è spostato
dalla cucina. Ora ha in mano una delle tazze che ci ha fatto mia
madre e avverto una fitta al cuore nel dover scegliere quella con il
logo della squadra.
Visto il mio stato d’animo, probabilmente bere caffè non è una
grande idea, ma me ne verso comunque una tazza.
Non mi consola il fatto che Wes sia triste almeno quanto me. Le
pizze arrivano durante il monologo di Blake su Il Signore degli anelli
e sulla modella con cui è andato a letto ieri sera e sul fatto che le
pecore fanno paura. Non vi sto prestando troppa attenzione. Mentre
Blake va nel corridoio a pagare, Wes si sporge dal bancone e posa
una mano sulla mia. «Com’è andata la corsa?»
«Bene.» Non credo che riuscirei a parlargli di tutte le mie paure,
neanche se Blake non fosse qui. Ma la sua presenza di sicuro non
aiuta.
Wes sospira, poi Blake torna e iniziamo a mangiare la pizza
guardando un talk show che sembra interessare solo a Blake.
Mi assicuro di guardare male la poltrona della morte mentre Blake
posa la sua pizza sul tavolino. Wes non è stupido: si siede sulla
poltrona della morte, lasciandosi cadere rassegnato sulla brutta
fodera. Poi mi sento uno stronzo perché tra qualche ora gioca contro
gli Oilers e spero che la zona lombare non gli si blocchi per essersi
seduto lì. Se stasera perdessero, mi sentirei ancora più in colpa.
Evviva.
«Vieni mai alle nostre partite, J-Bomb?» chiede Blake, mentre
finisco l’ultima fetta di pizza.
«A volte» rispondo con la bocca piena. «Ma stasera c’è
allenamento.»
«Forte» commenta lui, prendendomi il piatto dalle mani. Apprezzo
le sue capacità di pulizia, anche se non credo che compensino per le
irruzioni impreviste.
Mentre Blake si trascina in cucina, il mio telefono squilla. Mi
sporgo e vedo una notifica di Facebook. Di solito non mi
interesserebbe, a meno che non si tratti di qualcuno della mia
famiglia, ma Wes tiene il broncio sulla poltrona e io lo tengo dentro di
me, e ho un bisogno disperato di una distrazione prima di fare una
scenata davanti a Blake. Apro la app e trovo un aggiornamento di
stato della mia amica dell’università, Holly. Dice che ora è impegnata
e ci sono due foto: a sinistra la minuta Holly e a destra un uomo
grande quanto una montagna. Sono una coppia talmente
improbabile – fisicamente, almeno – che mi scappa una risatina.
Il che, ovviamente, attira l’attenzione di Blake. Ha finito di pulire e
ora si sporge da dietro il divano per sbirciare il mio telefono.
«Ohhh» approva, toccando con il dito enorme la foto di Holly per
ingrandirla. «E chi è questa elfetta sexy?»
«Ah, solo un’amica dell’università» rispondo. Per qualche stupido
motivo, mi sento in dovere di aggiungere: «Una ex, immagino».
Blake si gira verso di me di scatto e mi guarda, sorpreso. O
meglio, confuso. Non capisco la sua espressione, e con la coda
dell’occhio vedo le spalle di Wes irrigidirsi.
«Holly ti sta scrivendo?» Wes sembra indifferente, ma lo conosco
bene.
«Ma va’,» rispondo senza guardarlo, «mi è arrivata la notifica di un
aggiornamento di stato. Ha un nuovo ragazzo.»
«Buon per lei.» Ancora una volta, solo chi lo conosce bene quanto
me potrebbe notare il suo tono tagliente.
Una delle paure più grandi di Wes appena ci siamo messi insieme
era che la mia attrazione per le donne si sarebbe intromessa tra noi.
Gli ho assicurato più e più volte che voglio solo lui, ma ogni tanto mi
chiedo se mi crederà mai. Il fatto è che Wes è abituato alle delusioni.
Che cavolo, non è neanche qualcosa di cui ha paura, ma qualcosa
che si aspetta, come se vivesse nella costante attesa che succeda
l’inevitabile.
Quando i miei genitori mi ripudieranno ufficialmente, quando il
mondo scoprirà che sono gay, quando la squadra mi mollerà,
quando Jamie mi lascerà.
Di solito, faccio di tutto per dargli le rassicurazioni di cui ha
bisogno, ma al momento sono troppo nervoso. Non posso dargli
quello di cui ha bisogno, quindi mi concentro su Blake, invece che
sul mio ragazzo chiaramente turbato.
«Ti sbattevi questa bella signorina?» chiede Blake lentamente.
Annuisco. «Eravamo più amici di letto.» Percepisco che non mi
crede. O, se ci crede, non riesce a spiegarselo.
Inizio a preoccuparmi. Pensavo che io e Wes stessimo facendo un
lavoro discreto nel tenere Blake Riley all’oscuro della nostra
relazione, ma inizio a chiedermi se ci siamo riusciti davvero.
Trovo finalmente il coraggio di guardare Wes negli occhi, ma lui
non incrocia il mio sguardo. Ha la mascella serrata e sta stringendo
fortissimo il bracciolo della poltrona. Cazzo. Perché è tutto così
difficile? E se fosse sempre così?
«Dobbiamo avviarci» dice Blake a Wes.
Il mio ragazzo si alza dalla poltrona continuando a evitare il mio
sguardo. «Prendo la roba» borbotta.
Qualche minuto dopo, Wes e Blake escono per il riscaldamento
prepartita, e io sono quasi sollevato. La tensione tra noi è
insopportabile. Certo, ora nell’appartamento c’è un silenzio di tomba;
sono solo con i miei pensieri negativi.
Difficile dire cosa sia peggio.

La mattina dopo, esco di casa mentre Wes sta ancora russando


piano nel nostro letto. Non me la sto svignando di proposito come un
ladro nella notte – be’, mattina. Devo andare a una riunione del
personale e non me la sento di svegliarlo, neanche per un bacio
veloce. Almeno, questa è la scusa, e mi ci sto attenendo.
Ma non ne ho una buona sul perché ho finto di dormire quando ieri
sera è tornato a casa dopo la partita. Codardia, forse? Stanchezza?
Sono sicuro che Wes è stanco quanto me di questa tensione. So
che lo è. In tutti gli anni che abbiamo passato insieme al campo
estivo di hockey, non abbiamo mai avuto problemi a parlarci. Non
facevamo altro, cazzo. Parlavamo di musica, di dov’eravamo
cresciuti, delle nostre opinioni sulle marche di deodoranti, delle
fazioni Superman/Batman e di quale candidato presidente avesse il
nome più stupido.
Ora siamo una coppia e ci siamo dimenticati come si fa
conversazione. È come se fossimo due conoscenti che
chiacchierano del tempo. Che cavolo, negli ultimi giorni è sembrato
che fossimo davvero solo conoscenti: ci siamo fatti scrupoli in casa
nostra, con la paura di dire la cosa sbagliata e far arrabbiare l’altro.
Non abbiamo neanche parlato della sera al pub, santo cielo. E il
sesso? Lasciamo perdere. Ci siamo a malapena baciati dopo la
pomiciata rabbiosa nel bagno del locale.
Non so come sistemare le cose. Amo questo ragazzo, davvero,
ma non mi aspettavo che sarebbe stato così difficile.
Ci sto ancora soffrendo durante la riunione dei coach, e spero con
tutte le forze che i miei colleghi non notino quanto sono distratto
mentre il mio capo, Bill Braddock, parla di ordini di nuove
attrezzature e della scuola estiva di hockey che la società gestirà.
Un’ora dopo, la riunione finisce, e mi alzo dalla sedia impaziente di
tornare a casa. È un po’ ridicolo da parte mia voler tornare
all’appartamento adesso, ma l’allenamento inizia fra tre ore e l’ultima
cosa che voglio fare è girovagare per l’arena.
«Jamie.» La voce di Braddok mi ferma prima che riesca ad
arrivare alla porta.
Trattengo un sospiro e mi giro lentamente. «Sì, coach?»
«Va tutto bene?» Il suo tono è leggero, ma nei suoi occhi vedo
preoccupazione.
«A meraviglia» mento.
«Mi sei sembrato un po’ distratto, stamattina.» Merda.
Evidentemente qualcuno l’ha notato. Lo sguardo di Bill si fa più
acuto. «So che il tuo portiere ha qualche problema, ma non vorrei
che la prendessi sul personale.»
Infatti non lo sto facendo. È solo un’altra cosa che sta andando
male nella mia vita. «La supererà» assicuro a Bill. «Ha le capacità,
ma sta passando un brutto periodo. Capita a tutti i portieri.»
Bill annuisce, pensieroso. «Vero, ma forse dobbiamo dargli più
sostegno. Potrei chiedere a Hessey di passare un po’ di tempo con il
ragazzo per cercare di aiutarlo a ritrovare un po’ di fiducia in se
stesso. Qui non ci limitiamo ad allevare campioni, formiano giovani
uomini e giovani donne. Per fortuna, abbiamo tutte le risorse
necessarie per chi ha problemi.»
Una scossa di panico mi attraversa la spina dorsale. «Dammi un
paio di settimane con lui» gli propongo, più tranquillo di quanto mi
senta in realtà. Non posso permettere che Bill pensi che
l’allenamento con me non sia abbastanza. Che cavolo ci faccio qui,
allora? «Se Dunlop avesse l’impressione di essere un ragazzino
problematico, la sua fiducia non ne gioverebbe.»
Braddock si massaggia il mento. «Se vuoi gestirla così… Ma il
morale della tua squadra è basso, e lo spirito di Dunlop non è l’unico
che ha bisogno di cure. Penso che un po’ di affetto e di attenzioni
extra da parte degli allenatori sia quello di cui hanno bisogno per
andare avanti.»
Mi si stringe il cuore. Non voglio che un coach più anziano risolva
il problema di Dunlop, se posso aiutarlo io. E Braddock è un uomo
intelligente, ma se c’è un coach nella squadra che ha bisogno di
supporto extra è Danton, con la sua boccaccia del cazzo. Non riesco
a credere che non se ne renda conto. «Ti aggiorno la prossima
settimana» prometto.
Bill mi dà una pacca sulla spalla. «Ne riparliamo presto. Non vedo
l’ora.» Dopodiché mi lascia a cuocere nel mio brodo.
È come se tutto quello che ho fatto negli ultimi mesi sia stato
perdere: perdere la pazienza, perdere la capacità di parlare con il
mio ragazzo, perdere quella serenità indescrivibile che c’è sempre
stata tra me e Wes.
Ma l’abbiamo persa davvero o l’abbiamo solo messa da parte? Ci
rimugino un altro po’ mentre salgo sulla metro per tornare a casa.
Wes è uscito di sicuro per l’allenamento mattutino, e sono sollevato
dal tempismo. Poi mi sento in colpa per essere sollevato. E
arrabbiato perché mi sento in colpa. E infastidito perché sono
arrabbiato. Oggi le mie emozioni ce l’hanno con me.
La prima cosa che noto quando entro in salotto è la poltrona. O,
piuttosto, il fatto che non c’è. La poltrona della morte è sparita.
Spalanco la bocca.
Mi avvicino alla poltrona nuova di zecca che ha rimpiazzato quella
che per mesi è stata protagonista dei miei incubi. Wes deve averla
ordinata ieri, perché ora sto fissando un affare nero e comodo che
sembra avere più manopole e pulsanti di quanti una poltrona
dovrebbe avere.
Su uno dei braccioli imbottiti c’è un post-it. Lo prendo e vedo la
calligrafia a zampe di gallina di Wes.
“Al negozio hanno detto che questa fa bene alla schiena. Ci sono
dieci impostazioni diverse per i massaggi. Dovremmo provarla sulle
palle per vedere se fa anche da sex toy. Incrociamo le dita”.
Rileggo il biglietto. Riguardo la poltrona.
Non so se ridere o imprecare.
Ma il divertimento sparisce in fretta, perché… che cavolo, è tipico
di Wes pensare che un mobile risolva le tensioni fra noi.
Accartoccio il biglietto tra le dita. Wes si sta illudendo, se pensa
che sentimenti feriti e rancori sempre più grandi possano essere
placati con una poltrona.
11

Quando arriva venerdì, Wes parte per una partita a New York e,
detto sinceramente, sono di nuovo sollevato. Detesto sentirmi così,
ma mi sono fatto il culo tutta la settimana per esibire una faccia
felice. E adesso non ce l’ho, perché l’allenamento di oggi della mia
squadra è disastroso.
Mentre la squadra di Wes questa settimana ha vinto entrambe le
partite in casa, la mia ha perso quattro partite di fila del torneo a
Montreal. Il morale è basso; i ragazzi sono arrabbiati e frustrati e si
vede dal modo in cui giocano.
Fischio per la terza volta in dieci minuti e pattino verso i due
adolescenti con il viso paonazzo che si stanno scambiando parole
non proprio simpatiche durante l’ingaggio. «Datevi una calmata»
sbotto, quando uno di loro grida un brutto insulto nei confronti della
madre del compagno di squadra.
Barrie non sembra nemmeno pentito. «Ha iniziato lui.»
Taylor protesta: «Stronzate!»
Inizia un altro acceso battibecco, e mi ci vuole qualche secondo
per capire il motivo del litigio. A quanto pare, Barrie ha accusato
Taylor di essere il motivo della nostra ultima sconfitta, visto che ha
commesso un fallo inutile che ha portato gli avversari a segnare
durante il power play. Taylor non ha accettato l’accusa (e perché
dovrebbe? Ci vuole molto di più dell’errore di un giocatore per
perdere una partita) e ha iniziato a dire che la madre single di Barrie
è una milf che si fa quelli più giovani.
È palese che i miei giocatori non stanno prendendo molto bene le
recenti sconfitte.
«Basta!» Alzo il braccio e divido i due ragazzini. Guardo storto
Barrie. «Incolpare la gente non cancellerà le sconfitte.» E poi anche
Taylor. «E non ti farai degli amici parlando male della madre di
qualcun altro.»
L’espressione dei ragazzi diventa cupa.
Fischio di nuovo, facendoli sobbalzare. «Un minuto di penalità per
condotta antisportiva. Sulla panca delle penalità, tutti e due.»
Mentre pattinano verso le rispettive panche, noto le espressioni
tristi dei loro compagni. Lo capisco, anch’io odio perdere. Ma sono
un ex giocatore di hockey universitario di ventitré anni con un bel po’
di sconfitte sul groppone e un bel carapace che si è formato come
conseguenza. Loro sono sedicenni che hanno sempre eccelso in
questo sport, sono sempre stati i giocatori migliori delle squadre
delle scuole medie o superiori in cui sono stati reclutati; ora sono
nella lega giovanile e giocano contro ragazzi che sono bravi quanto
loro, se non di più, e non sono abituati a non essere i migliori.
«Porca troia» borbotta Danton un’ora dopo, mentre andiamo nello
spogliatoio dei coach. «Questi frocetti sono viziati…»
«Non insultare» interrompo, ma è come parlare al vento, la sua
filippica non si ferma.
«…ecco perché continuano a perdere.» Poi prosegue: «Non
hanno disciplina né etica del lavoro. Pensano che le vittorie arrivino
su un vassoio d’argento».
Con le sopracciglia aggrottate, pattino verso la panchina e sgancio
i pattini. «Non è vero. Si sono fatti il culo per anni per arrivare fin qui.
La maggior parte di questi ragazzi ha imparato a pattinare prima
ancora che a camminare.»
Fa un verso ironico. «Proprio così. Erano piccoli prodigi
dell’hockey che sono sempre stati lodati da genitori, insegnanti e
coach. Pensano di essere i migliori perché tutti glielo dicono.»
Ma lo sono, vorrei ribattere.
Questi ragazzini hanno un talento enorme che la maggior parte
dei giocatori si sogna, compresi alcuni che giocano nella NHL.
Devono solo affinare quel talento, partire dalle abilità innate e
imparare a migliorarle. Ma è inutile discutere con Danton.
Quest’uomo è un giocatore decente, ma inizio a credere che la sua
ignoranza sia una malattia incurabile. Frazier l’altra sera mi ha detto
che Danton è cresciuto in un “paesino di zotici a nord” (parole sue,
non mie) dove pregiudizio e ignoranza sono trasmessi di
generazione in generazione. Non sono rimasto sorpreso nel sentirlo.
Metto velocemente i pattini nell’armadietto e mi infilo stivali e
cappotto. Meno tempo passo con Danton, meglio è. Anche se mi dà
fastidio non riuscire a farmelo piacere, visto che è la persona con cui
lavoro più spesso.
Quando, cinque minuti dopo, esco dall’arena, sono demoralizzato
nello scoprire che sta ancora nevicando. Stamattina mi sono
svegliato con una bufera che infuriava fuori dalla finestra. Come
risultato l’allenamento è stato spostato di tre ore, in modo che gli
spazzaneve potessero occuparsi delle montagne di neve che si
erano accumulate sulle strade durante la notte. Ho finito per
prendere l’Honda Pilot di Wes per andare al lavoro perché non
volevo farmi la camminata fino alla fermata della metro, sia
all’andata che al ritorno, con questo tempo di merda.
Arranco nel parcheggio innevato e mi infilo nel SUV nero, dove
attivo immediatamente il sedile riscaldato e accendo il
riscaldamento. I fiocchi bianchi cadono con regolarità sul
parabrezza, e mi chiedo se il tempo sia così brutto anche a New
York. Wes mi ha scritto prima dicendo che erano atterrati, ma vista la
nevicata più abbondante rispetto a quella di stamattina temo che non
riesca a tornare stasera. O forse sono di nuovo sollevato. Se Wes è
bloccato dalla neve, non dovrò fingere per un’altra sera che le cose
tra noi non facciano schifo.
Trattengo un gemito ed esco dal parcheggio, ma dopo appena
cinque minuti di viaggio verso casa mi squilla il telefono. Visto che è
collegato al SUV tramite Bluetooth, vedo che è mia sorella che sta
chiamando. Per rispondere devo solo premere un pulsante, così ho
le mani libere per guidare oltre i trenta centimetri di neve sulla
strada. «Ehi» saluto Jess. «Come va?»
Invece di ricambiare il saluto, dice: «Mamma è preoccupata per te.
Pensa che a Toronto siano arrivati gli alieni e ti abbiano trasformato
in un ultracorpo».
«Biip bzz» replico in tono piatto.
La risata di mia sorella riecheggia nell’abitacolo. «Ho detto alieni,
non robot. Sono abbastanza sicura che gli extraterrestri abbiano un
linguaggio molto più avanzato di “biip bzz”.» Resta un attimo in
silenzio, poi continua. «Davvero, però. Stai bene lì in Siberia,
Jamester?»
«Sto bene. Non ho idea del perché mamma sia preoccupata, le ho
parlato al telefono ieri sera.»
«Per quello è preoccupata. Ha detto che non sembravi te stesso.»
Per l’ennesima volta, maledico il fatto che mia madre mi conosca
così bene. Ha chiamato mentre io e Wes stavamo guardando
Banshee – ognuno su un lato del divano. È stata un’altra serata
piena di tensione per noi, ma pensavo di essere sembrato allegro al
telefono.
«Dille che non c’è motivo di preoccuparsi, qui va tutto bene.
Giuro.»
Purtroppo, Jess mi conosce bene quanto mia madre. Tra tutti i
miei fratelli, lei è quella con cui ho meno differenza d’età e siamo
sempre stati molto uniti.
«Stai mentendo.» Il tono di voce è più tagliente per il sospetto.
«Cos’è che non mi stai dicendo?» Poi la sento sussultare di colpo.
«Oh, no. Ti prego, non dirmi che tu e Wes vi siete lasciati.»
Mi sento stringere il cuore. Il solo pensiero mi fa andare nel
panico. «No,» rispondo subito, «certo che no.»
Sembra sollevata. «Okay. Grazie a Dio. Adesso hai fatto
preoccupare me.»
«Io e Wes stiamo bene» le assicuro.
Un altro momento di silenzio, poi ribadisce: «Stai mentendo di
nuovo.» Impreca a bassa voce. «State avendo problemi?»
Stringo le mani intorno al volante per la frustrazione. «Stiamo
bene» ripeto, scandendo ogni parola.
«James.» Il suo tono di voce è deciso.
«Jessica.» Il mio lo è di più.
«Giuro su Dio che se non mi dici cosa succede ti sguinzaglio
contro mamma. E papà. Anzi, no… chiamo Tammy.»
«Oh, cazzo, no, non lo fare.» Quella minaccia basta per farmi
sciogliere la lingua perché, per quanto adori nostra sorella maggiore,
Tammy è anche peggio di mamma quando si tratta di me. Quando
sono nato, la Tammy dodicenne aveva informato tutta la famiglia che
ero il suo bambino. Mi portava in giro come se fossi la sua bambola
e mi riempiva di attenzioni come una mamma chioccia. Con gli anni
si è data una calmata, ma è ancora iperprotettiva nei miei confronti
ed è la prima persona che viene ad aiutarmi ogni volta che sono nei
guai. O quando pensa che sia nei guai.
«Sto aspettando…»
Il tono severo di Jess provoca un altro gemito silenzioso da parte
mia. Faccio un bel respiro e poi le racconto la situazione con meno
dettagli possibili. «La nostra relazione è a un punto strano, al
momento.»
«Quanto siamo criptici. Insomma, definisci “strano”. E con “punto”
intendi un posto? Al momento siete in un locale sadomaso? Vi siete
uniti al circo?»
Alzo gli occhi al cielo. «Sì, Jessica, ci siamo uniti al circo. Wes
addestra le foche e io cavalco gli orsi. Dividiamo la stanza con la
donna barbuta e il tizio che ingoia spade.»
«È un eufemismo gay? “Ingoiare spade”?» Ride alla sua stessa
battuta stupida, prima di tornare seria. «Avete litigato?»
«Non proprio.»
Arrivo a un incrocio e schiaccio lentamente il freno finché il SUV si
ferma. Davanti a me noto un’inquietante fila di macchine e un bel po’
di luci posteriori accese. Merda, c’è un incidente? Guido da dieci
minuti e non mi sono allontanato neanche di un chilometro
dall’arena. Di questo passo, non arriverò mai a casa.
«Che cavolo, Jamie. Per favore, la smetti di fare il vago e mi parli
da persona adulta?»
Stringo le labbra, ma non riesco a fermare la confessione. «È
difficile, porca puttana. Va bene? La cazzo di metà delle volte non è
a casa, e quando c’è non facciamo altro che nasconderci. Ci
nascondiamo in casa nostra, ci nascondiamo dalla stampa, ci
nascondiamo e basta, porca troia. E io sono stufo marcio, va bene?»
Trattiene il respiro. «Ah. Okay. Cavolo. Erano un bel po’ di
parolacce. Mmm.» Il tono di Jess si addolcisce. «Da quant’è che sei
infelice?»
La domanda mi prende alla sprovvista. «Non… sono infelice.» No,
non è vero. «Sono infelice. È che… mi manca il mio ragazzo,
maledizione. Sono frustrato.»
«Ma sapevi che avreste dovuto tenere segreta la relazione» mi fa
notare Jess. «Tu e Wes eravate d’accordo che non sareste usciti allo
scoperto fino alla fine della stagione.»
«Sempre se lo faremo.» La parte più cinica di me resta attaccata a
quel pensiero. E se Wes decidesse che non è pronto a dire al
mondo di essere gay? Se mi facesse sedere e mi pregasse di non
dire niente per un altro anno? O per tutta la durata della sua carriera
professionistica? O per sempre?
«Aspetta, Wesley ha cambiato idea?» chiede mia sorella. «O la
squadra gli ha chiesto di continuare a fingere di essere etero?»
«Non credo. Wes ha detto che alle pubbliche relazioni hanno già
una dichiarazione pronta per quando verrà fuori la notizia. E non so
se ha cambiato idea, ultimamente non comunichiamo molto»
ammetto.
«Allora iniziate a comunicare.»
«Non è così semplice.»
«Dipende da te.» Resta in silenzio per un attimo. «Sei la persona
più trasparente e sincera che conosco, Jamie. Be’, tu e Scottie. Per
Joe e Brady…» nomina gli altri due nostri fratelli. «Per loro parlare
dei propri sentimenti è come ammettere una debolezza. Ma tu e
Scott per me siete di grande ispirazione, siete la prova che non tutti
gli uomini sono stronzi di poche parole. In realtà, anche Wes è
sincero. Penso sia per questo che state così bene insieme. Tu non
eviti mai le conversazioni difficili, trovi sempre il modo di superare le
situazioni di merda.»
Ha ragione. Io e Wes ci conosciamo da quando eravamo
ragazzini. L’unica volta in cui abbiamo avuto difficoltà a parlare è
stato quando è sparito dalla mia vita per quattro anni, dopo una
parentesi di fuoco al campo estivo. Ma l’ho perdonato, perché ho
capito il motivo per cui mi ha escluso: si sentiva in colpa pensando di
essersi approfittato di me ed era confuso riguardo la propria
sessualità. All’epoca, era una cosa che doveva risolvere da solo.
Ma questa distanza tra noi… è una cosa che dobbiamo risolvere
insieme. E ignorare la questione non porterà certo a quel risultato.
Jess ha ragione: io e Wes di solito non evitiamo le conversazioni
difficili, ma stavolta lo stiamo facendo e le cose stanno peggiorando.
«Dovrei parlare con Wes» concedo con un sospiro.
«Non mi dire, Sherlock. Ora ringraziami per la mia enorme
saggezza e chiedimi come sto io.»
Non riesco a non ridere. «Grazie, o saggia maestra. E tu come
stai?»
«Bene e male. Credo che la mia attività da disegnatrice di gioielli
sia un fallimento.»
Sono tentato di dirle “Non mi dire, Sherlock”, ma mi mordo la
lingua perché so che Jess è sensibile quando si parla della sua
carriera. O piuttosto della mancanza di una carriera. Mia sorella, Dio
la benedica, è la persona più indecisa che abbia mai conosciuto. Ha
venticinque anni e ha fatto più lavori di quanti riesca a ricordarne. Si
è anche iscritta, per poi ritirarsi, a dozzine di facoltà universitarie, e
ha creato dozzine di negozi su Etsy che non hanno portato a niente.
«Mamma e papà non ti avevano prestato i soldi per tutto quel
materiale per creare gioielli?» chiedo con cautela.
«Già» risponde in tono cupo. «Non dirgli niente, va bene? Mamma
è già stressata per il parto di Tammy, quindi non voglio farla
innervosire ancora di più.»
Mi irrigidisco. «Perché è preoccupata per il parto di Tammy? Il
medico ha detto che dovremmo preoccuparci?» Nostra sorella
maggiore è di nuovo incinta e partorirà il mese prossimo. La prima
gravidanza era filata liscia, quindi questa non mi ha granché
impensierito. Ho dato per scontato che sarebbe stata come la prima.
«No, credo sia solo questione di nervi» mi assicura Jess. «Il
bambino è molto più grande di quant’era Ty. Credo che mamma
abbia paura che a Tammy serva il cesareo. Ma, sul serio, non
preoccuparti. Tammy sta alla grande. È più grossa di una casa, ma è
radiosa eccetera eccetera. Comunque, la storia dei gioielli era la
cattiva notizia. Vuoi sapere qual è la buona?»
«Spara.»
Fa una pausa drammatica, poi annuncia: «Farò l’organizzatrice di
eventi!»
Ma certo. «Sembra divertente» sospiro.
«Potresti metterci un po’ più di entusiasmo» sbuffa. «Finalmente
so cosa voglio fare nella vita!»
Tipo quando sapeva che voleva fare la chef. E la bancaria. E la
disegnatrice di gioielli. Ma tengo la bocca chiusa, perché nella
famiglia Canning ci sosteniamo a qualsiasi costo. «Allora sono molto
contento per te» dico con sincerità.
Jess parla del suo nuovo azzardo per tutto il viaggio di ritorno, ma
devo interromperla quando arrivo nel parcheggio sotterraneo perché
non c’è campo. Ci accordiamo per risentirci nel fine settimana, poi
prendo l’ascensore e quando entro in casa mi tolgo strati su strati di
vestiti invernali. Mi faccio la doccia e preparo la cena mentre aspetto
che inizi la partita di Wes, dopodiché mi pianto sul divano con un
piatto di risotto e pollo alla griglia. Passerò la serata a tifare per il mio
uomo. E quando stasera tornerà a casa, ho intenzione di seguire il
consiglio di Jess e parlargli di come mi sento. Non può essere tanto
dura, no?
Quant’è duro?, pensa il mio cervello traditore. E, mentre mangio
un altro boccone, sorrido.
12

Stasera succede qualcosa di magico. È come se la frustrazione e


l’angoscia che sento per il rapporto teso tra me e Jamie mi abbiano
trasformato in uno stronzo aggressivo, determinato e inarrestabile.
Ho fatto una tripletta. Una cazzo di tripletta, e i tifosi di Toronto
presenti si sgolano quando l’ultimo tempo finisce e la nostra squadra
batte New York in casa loro.
Negli spogliatoi si sente un brusio esaltato, e quasi tutti i presenti
si avvicinano per darmi una pacca sulla spalla o, nel caso di
Eriksson, per sollevarmi da terra e farmi girare come se fossi un
poppante. «Porca troia, ragazzino!» esclama. «È stato il miglior
hockey che abbia mai visto, cazzo!»
Sorrido. «Tre goal non sono niente. Alla prossima partita, ne
segnerò quattro.»
Scoppia a ridere fragorosamente. «Cazzo, Wesley, ti adoro.
Davvero.»
Il coach fa una capatina per un veloce discorso esortativo, ma non
serve perché siamo già esaltati e pensiamo alla vittoria. Diversi
giornalisti sportivi hanno il permesso di entrare negli spogliatoi per le
interviste post-partita, ed è la cosa che mi piace di meno del giocare
nella NHL. Dopo un po’ tutte le interviste diventano noiose. Stasera,
però, una giornalista mi prende da parte e decide di mettere un po’
di pepe. Becky qualcosa – ci segue parecchio.
«Abbiamo una nuova rubrica qui su Sport Tonight» spiega con un
sorriso enorme. «La chiamiamo “Cinque di getto”. Si tratta solo di
cinque domande per raccontare ai fan chi è davvero Ryan Wesley.»
Fidati, i fan non vogliono sapere chi sono davvero.
«Allora, che ne dici?» incalza.
Come se potessi rifiutare. Parlare con i giornalisti fa parte del
contratto.
«Spara» rispondo.
Fa cenno al cameraman, e di colpo mi ritrovo un microfono in
faccia mentre lei mi presenta al pubblico a casa come “l’esordiente
sensazionale”.
«Partiamo!» squittisce, come se questa fosse la cosa più
divertente del mondo. «Tè o caffè?»
«Caffè» rispondo, sperando che tutte le domande siano così facili.
«Musica rock o musica elettronica?»
«Rock, ovvio. Al momento sono in fissa per i Black Keys.»
«Fantastico!» sorride. «Mare o montagna?»
E chi se li ricorda. Le vacanze sono per gli altri. «Mare» dico,
perché a Jamie piace il mare e voglio portarcelo. Certo, ci sono un
sacco di cose che voglio ma non posso avere.
«Cani o gatti?»
«Eh, nessuno dei due. Non ho mai avuto animali.»
«Caspita» commenta, come se avessi confessato qualcosa di
scandaloso. Se solo sapessi, signorina. «L’ultima… Preferisci le
ragazze della porta accanto, bionde con gli occhi azzurri, o ti
piacciono more e misteriose?»
«Ehm… Capelli biondi e occhi castani» rispondo velocemente,
felice di liberarmi di lei.
Annuisce lentamente, come se avessi appena detto qualcosa di
intrigante. «Scelta interessante. Non ci saranno molte donne con
quei colori.»
«Be’, Becky, forse è per questo che sono scapolo.»
Ridacchia e l’intervista finalmente termina. Ma, quando si gira,
vedo che Blake mi sta guardando con un sopracciglio inarcato.
Quindi faccio il gay non dichiarato, riesaminando quello che ho detto
e analizzando ogni parola alla ricerca di qualcosa di incriminante. E
mi prenderei a calci per aver sbandierato al mondo che mi piacciono
i capelli biondi e gli occhi castani.
Ma è impossibile che Blake abbia collegato. Probabilmente sta
decidendo tra sé se preferirebbe incontrare un velociraptor alto
cinque metri al mare o in montagna.
Vado finalmente alle docce. Quando la squadra è sul pullman e
pronta per tornare all’aeroporto, il manager fa un annuncio.
«Ragazzi? Stiamo andando al Marriott Marquis. Stasera non
possiamo decollare da La Guardia.»
Mentre gemo, Blake esulta. «Festa in camera mia!» Si sporge
oltre il passaggio tra i sedili per darmi un colpo sulla spalla. «Tanto i
voli notturni fanno schifo. Ordiniamo da mangiare e un po’ di birra.
Sarà fantastico.»
Invece no. Perché devo vedere Jamie. Non sopporto la distanza
che c’è tra noi, questa situazione deve finire. Ho pensato che
liberarmi della poltrona della morte sarebbe stato il modo perfetto
per rompere il ghiaccio e parlare, ma la sua risposta è stata solo un
“Grazie”. Avevo scherzato dicendo che ora l’appartamento non era
più infestato da fantasmi, visto che era convinto che qualcuno fosse
morto su quella poltrona, ma lui ha a malapena sorriso.
Ora sono a ottocento chilometri di distanza da lui, di nuovo
incapace di sistemare le cose tra noi.
L’albergo è a un chilometro e mezzo dal Madison Square Garden,
ma per raggiungerlo impieghiamo mezz’ora tra neve e traffico. E poi
c’è un ulteriore ritardo mentre cercano delle stanze per tutti noi e per
darci le chiavi. Ma il cibo di Blake arriva subito, perché si è
organizzato quand’eravamo ancora sul pullman «Pronto, Brother
Jimmy’s bbq? È un’emergenza. Sono messo male, potete salvarmi
solo voi…».
Ha ordinato abbastanza per tutti, non mi sorprende che abbiano
accettato di fare la consegna con la neve.
Mi addosso al termosifone della sua stanza e prendo un panino
con straccetti di maiale. Quando tento di restituirgli i soldi, rifiuta. «A
volte mi sfamate, no? Non voglio i tuoi soldi. Qualcuno del servizio in
camera deve portare un paio di casse di birra, non te ne andare.»
Molto gentile da parte sua, ma devo parlare con il mio uomo. E,
porca puttana, il mio uomo vuole parlare con me. Anche se è
mezzanotte passata, vedo che Jamie ha provato a chiamarmi su
Skype tre volte nell’ultima ora, il che mi rende euforico. Forse la
nuova poltrona non è stata un fallimento, dopotutto.
Esco di soppiatto quando sono tutti concentrati sulla televisione e
vado in camera mia, dove scopro che hanno portato il borsone. Lo
sposto da una parte e appendo l’abito. Appena ho addosso i
pantaloni della tuta e una T-shirt, richiamo Jamie. «Ehi!» saluto
quando risponde. «Scusa l’ora. Stasera non torniamo.»
«Immaginavo. Morivo dalla voglia di vederti.» Sorride, e sono
talmente felice che quel sorriso sia rivolto a me che mi viene quasi
da piangere.
Apro la bocca e la richiudo. Non ho idea di cosa dire per lasciarci
alle spalle la settimana pesante che abbiamo appena avuto. «Mi
manchi un sacco» confesso. Forse è patetico, perché stamattina ci
siamo svegliati nello stesso letto, ma almeno sono stato sincero.
«Insomma, quest’ultima settimana…»
Jamie annuisce. Socchiude gli occhi castani e aggrotta le
sopracciglia. Conosco quello sguardo: ha qualcosa per la testa e
sento una fitta di inquietudine. Cristo. Non vorrà lasciarmi su Skype,
vero?
Lasciarmi?
Oddio. L’ho davvero pensato? Sono davvero passato da “brutto
periodo” a “l’amore della mia vita mi sta mollando”?
«Piccolo» dico in un tono timido che non avevo mai sentito uscire
dalla mia bocca prima d’ora. Il cuore mi batte all’impazzata. «Stai
bene?»
Apre la bocca. «Sì. Sto bene. Ma…» Quelle labbra sexy si
richiudono, poi fa un sospiro e sorride di nuovo. Ma stavolta sembra
un po’ forzato. «Raccontami della partita, perché è stata proprio
bella da vedere. Sinceramente, mi ha ricordato perché ci troviamo in
questo casino.»
«Va bene» rispondo, cercando di venire a capo del cambio di
temperatura tra noi. «Stasera mi sono scatenato. Non so neanche
cos’è successo esattamente. È come se la rete avesse avuto una
calamita solo per me.»
«Per fortuna non ero io il portiere.» Jamie solleva le braccia sexy
sopra la testa e noto che è sul nostro letto. Quelli sono la testiera di
legno che ho scelto e le lenzuola di flanella che ho comprato quando
è arrivato l’inverno e Jamie ha iniziato a lamentarsi del freddo.
Vengo sommerso da un’ondata di nostalgia. «Ucciderei per essere
lì, ora.» Non riesco a credere di aver rovinato il nostro tempo
insieme, la scorsa settimana. «Ti dimostrerei esattamente quanto sei
sexy.»
Jamie sorride, e io mi do praticamente una botta in testa quando
mi rendo conto di una cosa. «La barba! Dov’è finita?» Ora il suo viso
è perfettamente rasato.
«Eh» scrolla le spalle. «Mi sono stancato. Prudeva.» Si porta una
mano sulla guancia e la fa scivolare lentamente sul mento.
Quando il mignolo passa sul labbro inferiore, mi sento gemere.
«Fallo di nuovo, Canning» chiedo.
Inarca un sopracciglio. «Perché?»
«Perché ho bisogno di vederlo.»
Deve avvertire una nota disperata nella mia voce, perché
obbedisce senza ribattere. Si porta di nuovo il palmo sulla guancia e
chiude gli occhi. Lo guardo prendere un respiro profondo. Espira e si
passa la mano sulla mascella. Quando le dita arrivano alla bocca,
socchiude le palpebre di un paio di millimetri. Poi infila due dita in
bocca e le succhia.
«Cazzo» sibilo. Sono geloso di quelle dita, dell’obiettivo e del letto.
«Togliti la maglietta.»
Per un decimo di secondo, penso protesterà. Non l’abbiamo mai
fatto, e abbiamo appena vissuto la settimana più merdosa di
sempre. Ma Jamie si solleva leggermente, e la telecamera inquadra
il soffitto invece che lui. Poi vedo un pezzo di braccio e la maglietta
che vola via. Quando raddrizza la telecamera, il suo petto dorato è in
bella mostra. Deve avere il tablet appoggiato alle cosce, perché da
quell’angolazione si vedono gli addominali che salgono fino ai
pettorali. I capezzoli ben distanziati mi stuzzicano ai lati dell’obiettivo,
e una mano perfetta è posata sull’ombelico, dove la peluria dorata
brilla in alta definizione.
«Toccati il petto» ordino. Sembro un dominatore burbero in una
qualche videochat squallida, solo che dall’altra parte c’è Jamie. E le
sue dita ora stanno accarezzando la peluria addominale. Impiega un
istante a esplorare quei peli chiari al centro della pancia. Muovo i
fianchi sul letto, ho l’uccello già duro. Ho visto Jamie a torso nudo un
milione di volte, ma ora si sta mettendo in mostra per me.
Appiattisce la mano sullo sterno, poi la allarga finché le dita toccano
il capezzolo, dopodiché trema.
Mi sento gemere dal desiderio. Se fossi lì, la mia bocca sarebbe
ovunque. Gli scosterei la mano e succhierei quel bottoncino.
«L’altro» gracchio. «Lentamente, Canning.»
Prima posa la testa sui cuscini e chiude gli occhi, poi con la mano
traccia un percorso lento sul petto finché copre il pettorale. Il pollice
e l’indice circondano il capezzolo e poi lo stringono. «Mhh» ansima,
e all’improvviso ho i brividi ovunque.
«Canning.»
«Sì?»
«Ce l’ho duro da morire.»
Sorride senza aprire gli occhi. «Quant’è duro?»
Mi sfugge una risata. «Togliti tutti i vestiti, piccolo. Voglio vederti.»
Prima geme e si stiracchia, facendomi aspettare. Poi riapre gli
occhi color cioccolato e si lecca le labbra. Sparisce di nuovo
dall’obiettivo e la stanza gira per il movimento. Qualche secondo
dopo, la telecamera torna in verticale e vedo la gamba piegata di
Jamie, il suo fianco perfetto, un assaggio del suo culo in ombra e la
maggior parte del torso nudo. Deve aver posato il tablet sulla mia
metà del letto.
Tiene la mano tra le gambe, ma vedo solo la curva dei bicipiti e
l’avambraccio muscoloso. Il resto è nascosto.
«Sei crudele» mi lamento, e lui sorride. «Se fossi lì…»
«Cosa?» chiede con voce roca. «Dimmi esattamente cosa
faresti.»
«Ti succhierei la lingua fino a fartelo diventare duro.» La bocca di
Jamie è la sua zona erogena più sensibile: potrebbe venire anche
solo se gli mordicchiassi le labbra.
«Troppo tardi» dice, lasciando cadere la gamba sul letto. Ed ecco
il mio premio. Gemo vedendo la sua erezione che svetta dal
cespuglio chiaro e morbido dell’inguine. Anche dopo otto mesi, mi
sento ancora fortunato che reagisca così per me.
«Cristo, voglio assaggiarti.» Ho la voce roca. «Sei bagnato?
Prendi quella goccia. Con un solo dito.» Stasera mi sento uno
stronzo prepotente. Però ho lo sguardo incollato allo schermo. In
realtà, è lui ad avere il controllo. Se così non fosse, in questo
momento non mi starei toccando da sopra la tuta con l’acquolina in
bocca davanti allo schermo.
«Mhh» mugolo, e lui si succhia un dito per torturarmi. E l’adoro,
cazzo. «Ora toccati.» Non ce la faccio più ad aspettare. «Con una
mano sola.»
Jamie fa scivolare una mano sul petto e poi se lo prende in mano.
E si massaggia due volte.
«Più lento» ordino. «Così» lo incoraggio, quando i suoi movimenti
si fanno languidi. Il suo petto si gonfia e si sgonfia a ogni respiro, e
ha la fronte aggrottata per la tensione. «Vuoi venire, Canning?»
«Sì» soffia. «Ti ho pensato un sacco oggi. Aspettavo che iniziasse
la partita…» Si sta masturbando un po’ più velocemente. E io sto
fremendo alla notizia che gli manco. Non ho incasinato troppo le
cose. O forse sì, ma la chimica sessuale che c’è tra noi non è una di
quelle. Ultimamente avremo anche fatto pena a comunicare, ma non
è mai stato un problema eccitarci a vicenda.
«Prenditi le palle» comando. «Se fossi lì, le succhierei.» Geme, e
le sue palpebre si fanno pesanti. «Ti assaggerei ovunque. Ovunque,
cazzo. Ti lubrificherei con la lingua.» Il suo ritmo si altera per un
attimo. Piega la testa ancora più indietro e allarga le gambe, come
ad aprirsi per me.
E a quel punto guardare non basta più. Infilo spontaneamente la
mano nei pantaloni. Mi afferro il cazzo e stringo. ‘Fanculo. Mi sollevo
sulle ginocchia e abbasso i pantaloni. Grazie all’angolazione del
tablet sul letto, l’uccello sembra comicamente grande. Sarebbe
esilarante se non fossi così eccitato. Pompo il mio uccello con
impegno.
«Ti voglio così tanto, piccolo.» La voce mi esce con un ansito.
Jamie si gira verso lo schermo. Schiude leggermente le labbra
quando nota il movimento frenetico della mia mano. Anche la sua si
muove più veloce, a tempo con me. Per la prima volta in tutta la
settimana, siamo in sintonia. Non siamo nemmeno nella stessa
stanza, eppure mi sento più vicino a lui di quanto non lo sia stato per
giorni, e al momento siamo così eccitati l’uno dall’altro che stiamo
entrambi ansimando e gemendo e masturbandoci disperatamente.
«Sto per venire» ansima.
«Fallo» gemo in risposta. «Sul petto.»
Fa un verso meraviglioso, e sugli addominali gli compare una
perfetta scia perlacea. Gli si contrae il ventre quando si scarica
ancora. E ancora.
Anch’io.
Mi scopo la mano velocemente e con forza. Desidero talmente
tanto essere a casa con lui che fa male. Ma ho ancora residui
dell’adrenalina della partita. Tutta l’angoscia e il desiderio mi
attraversano la spina dorsale ed esplodo nella mano.
Passa qualche istante prima che riesca a calmarmi. Senza dire
niente. Jamie sparisce. Mi ripulisco e aspetto che ricompaia.
Dopo un minuto torna a letto, stavolta si infila sotto le coperte. Poi
si gira verso la telecamera, appoggiando la guancia liscia sulla
mano. «Oggi ho parlato con Jess» mi informa.
Sorrido.
Adoro la sorella più piccola di Jamie. È la ragazza più incostante
che abbia mai conosciuto, ma cavolo se è divertente. «Come sta?
Disegna sempre gioielli?»
Ridacchia, e quel suono mi scalda il cuore. «No. Ora vuole fare
l’organizzatrice di eventi.»
«Ma certo.»
«Ehi, potrebbe essere brava.» Ma ride ancora, anche se ha
appena preso le difese della sorella. Poi sta zitto per un attimo, e
basta quello per farmi di nuovo innervosire.
«Cosa c’è che non va?» gli chiedo bruscamente.
Muove il pomo d’Adamo, gesto che lo tradisce. «Non c’è niente
che non va. Be’, sì. Non è che non va, ma devo togliermi dei pesi
dallo stomaco.» Un’altra pausa. «Ma posso aspettare.»
Sento un nodo in gola talmente stretto che riesco a malapena a
parlare. «Jamie…» Non riesco a dire altro.
«Sembri distrutto» sottolinea con fermezza. «Dovresti dormire. Ne
parleremo quando tornerai.»
Parleremo… o ci lasceremo?
Credo noti il panico sul mio viso, perché sospira di nuovo e poi
aggiunge con decisione: «Ti amo. Tantissimo».
Il mio cuore fa una piccola capriola. Sembra che dica sul serio.
Che cavolo, certo che è serio, mi rassicuro. Ci amiamo, cazzo. «Ti
amo anch’io» rispondo, piano.
La sua bocca si piega in un sorriso. «Bene. Ora fila a dormire. Ci
vediamo domani.»
13

Wes prende due biglietti per ogni partita, e io sono l’unico a usarli.
Sono posti fantastici – danno sul passaggio, un paio di file dietro la
panchina della squadra di casa. Infatti, sono circondato dalle famiglie
degli altri giocatori. I veterani devono aver diritto a più posti, perché
c’è un’intera sezione con gente che grida ogni volta che Lukoczik
tocca il disco. E i due signori seduti accanto a me a ogni partita in
realtà sono i genitori di Blake Riley. E Blake il gigante è la copia
sputata di… sua madre: robusta, parla ad alta voce e ha i capelli
flosci striati di grigio.
E poi c’è suo padre… magro e con l’aspetto da professore. Ah, la
genetica. Sono fuori di testa. E se il team Riley pensa che sia strano
che io mi presenti da solo a ogni partita, non l’ha mai detto.
Mi sono perso il riscaldamento e riesco ad arrivare al mio posto
proprio alla fine dell’inno nazionale. Conosco piuttosto bene O,
Canada. Ho dovuto imparare le parole per la mia squadra della lega
giovanile: l’allenatore non può certo stare lì e muovere la bocca a
caso come un coglione.
Stasera ho mal di testa, il che è insolito. Quindi infilo la cannuccia
in una bibita fin troppo cara che ho comprato venendo qui e bevo un
bel sorso, sperando che zucchero e caffeina risolvano il problema.
Devo riprendermi, perché Wes vuole uscire dopo la partita.
E anch’io, perché nei tre giorni da quando è tornato ho trascurato
la mia missione di “comunicazione col partner”. Ho promesso a Jess
che avrei parlato con Wes, e ci sono quasi riuscito la notte che
abbiamo fatto sesso su Skype. Ma in quel momento, vedendo il suo
bel viso così pieno di desiderio… Non ho voluto rovinare tutto tirando
fuori i nostri problemi. E poi è tornato a casa, e il sesso di persona è
stato anche meglio che farsi le seghe davanti allo schermo di un
computer. Non ho voluto rovinare neanche quello.
Forse sono un codardo di merda. Mia sorella concorderebbe di
sicuro. Ma le cose stanno andando bene, che cavolo. Io e Wes
siamo in sintonia da quando è di nuovo qui, e ho troppa paura di
tornare alla disarmonia di prima.
E non mentirò: una sera fuori con Wes sembra il paradiso.
Quando gli ho chiesto dove voleva andare, ha risposto: «Non
importa. Fuori. Io e te. Ci sediamo in un pub, giochiamo a freccette o
a biliardo».
«Biliardo no» avevo replicato. «Il mio fragile ego non reggerebbe
una sconfitta del genere.»
Aveva riso come un delfino. «Va bene. Quello che vuoi. Tanto il
gioco non è importante. Tu sei importante.»
Mi era piaciuto sentirlo.
Il coach Hal ha cambiato le linee, stasera. A volte lo fa. Ha messo
Wes in seconda linea con Blake e Lukoczik. Le punte stasera
escono belle cariche: Eriksson praticamente falcia il centrale
avversario dopo l’ingaggio. Mentre inizia la fulminea caccia al disco,
smetto di pensare a tutto ciò che non è la partita davanti a me. Il mio
mondo si riduce a questi dodici uomini che sfrecciano per
conquistare il vantaggio e al pesante dischetto di gomma che
significa tutto per le diciottomila persone che sono qui stasera.
Wes scavalca il muretto per il suo turno in campo, e non posso
fare a meno di sporgermi in avanti sul mio sedile. Ottawa ha
riconquistato il disco e non sta correndo rischi, coccolandolo come
fanno le anziane che passeggiano con un barboncino da concorso.
Così non possono segnare, ma irritano Wes. Il suo turno finisce
prima che abbia la possibilità di fare qualcosa.
E va avanti così per un po’, ma non perdo mai interesse. Alcuni
membri della mia famiglia con poco tatto mi hanno chiesto se mi
dispiace essere uno spettatore della NHL piuttosto che un giocatore.
Sinceramente no, ma non penso mi credano. Però ho sempre
guardato l’hockey, anche quando i posti non erano così belli. E
comunque pattino ogni giorno con giocatori eccellenti.
La vita è bella. Tranne che per questo mal di testa.
Sul ghiaccio l’atmosfera si scalda. Blake riesce a sbloccare la
situazione e parte all’attacco. Passa a Wes, che gli restituisce il
disco appena è libero. Blake effettua un tiro di polso e il portiere
riesce a malapena ad arrivare in tempo, allontanando goffamente il
disco con la punta del guanto. Ma è ancora in gioco, quindi
entrambe le squadre difendono.
«VAI, TESORO, COLPISCI! BUTTALO DENTRO! VINCI,
BLAKEYYY!» La signora Riley è in piedi e grida come una pazza.
Fa sempre casino, ma stasera è come avere un martello
pneumatico in testa. Suo marito, invece, è seduto accanto a lei con
le mani incrociate sulle gambe. A vederlo, sembra sia in chiesa.
Davanti alla porta c’è una mischia che termina quando il portiere
blocca il disco sotto il guanto. Niente goal.
La partita continua e il primo tempo finisce senza punti. Durante
l’intervallo vado un po’ in giro, sperando che uno dei venditori abbia
l’ibuprofene. Ma non ce l’hanno. Compro un pretzel auspicando che
un po’ di cibo mi rianimi.
Quando inizia il secondo tempo, la velocità del gioco aumenta.
Wes è aggressivo e fa diversi tiri in porta che però vengono respinti.
Non mi preoccupo. Se continua così, prima o poi ce la farà.
Toronto tira meglio di Ottawa. Ogni volta che corriamo verso la
porta, Mamma Riley esplode in un incoraggiamento da migliaia di
decibel. «MANGIATELI COME ANTIPASTO, BLAKEY! TIRAGLIELO
SUI GIOIELLI!»
Sono diventato sordo. Inoltre, l’arena inizia un po’ a girare in un
modo in cui nessun posto dovrebbe. E quando cerco di concentrarmi
sul disco, il bianco del ghiaccio mi brucia le retine.
Eriksson segna a metà del secondo tempo, e io non sono
neanche lontanamente esaltato come al solito. Anzi, voglio andare a
casa. No, devo andare a casa. Tiro fuori il telefono e scrivo a Wes.
“Mi dispiace un sacco, piccolo. Ho un mal di testa lancinante. Vado a
casa prima. Usciamo domani? Stesso programma, solo un giorno
dopo”.
«CAVALCALO COME UN ASINO, BLAKEY!» sta urlando la
signora Riley quando mi alzo. Riesco ancora a sentirla quando arrivo
in cima agli spalti.
La mattina dopo, la sveglia suona alle cinque e mezza. La rinvio e
faccio il punto della situazione. Il mio corpo sembra di piombo, anche
se potrebbe essere in parte per il fatto che è schiacciato dalla coscia
muscolosa di un certo attaccante di Toronto che è crollato mezzo a
cavalcioni su di me.
Non l’ho sentito tornare a casa, ieri sera.
Ancora assonnato, mi sembra che la sveglia suoni di nuovo troppo
presto. Ma mi alzo perché i miei ragazzi hanno un allenamento alle
sei e mezza. Questi ragazzi giocano a hockey prima di andare a
scuola, si allenano mentre tutti gli altri sedicenni del mondo
dormono. Se ce la fanno loro ad arrivare in tempo, allora posso
riuscirci anch’io.
Il caffè che compro alla pista quarantacinque minuti dopo sembra
acqua e mi arriva nello stomaco come se fosse acido. Dev’essere
stato di un lotto andato a male. L’allenamento della mia squadra va a
rilento perché sto soffrendo: mi è tornato il mal di testa, stavolta alla
base del cranio, e ho continui crampi allo stomaco.
Cavolo. Dunlop sembra particolarmente incerto sul ghiaccio; è
solo questione di tempo prima che Bill Braddock chiami un
allenatore della difesa più anziano per lavorare con lui. E, dal
momento che dopo questo allenamento c’è una riunione dei coach,
tutti i miei colleghi sono qui a vedere il mio portiere che annaspa.
Questa giornata può andare peggio di così?
Dopo che i ragazzi vanno via, sopravvivo alla riunione di novanta
minuti appoggiando la testa dolorante sulla mano e sforzandomi di
stare sveglio. Probabilmente sto covando l’influenza, ma non me ne
vado perché: a) non sono un rammollito; b) se la ignoro, forse
sparisce.
Dopo la riunione, in teoria dovrei rimettermi sui pattini: io e altri
due coach della difesa stamattina lavoreremo insieme per gestire
una scuola di hockey per dei giocatori più grandi. Ma, quando arrivo
sul ghiaccio, ho di nuovo i crampi allo stomaco. Quindi esco dalla
pista, metto i coprilame ai pattini e vado in bagno.
Il quarto d’ora successivo è piuttosto sgradevole, ma almeno
l’intestino non sta più per esplodere. So che non va bene per niente.
Devo andare a casa, ma all’improvviso mi sembra troppo lontana.
Mentre mi lavo le mani, la luce della stanza diventa gialla e i suoni si
fanno confusi.
Non è un buon segno.
Muovo qualche passo verso la porta del bagno, ma non sta
andando bene. Forse, se mi riposo un attimo, starò meglio.
Il pavimento del bagno degli uomini di una pista di allenamento è
l’ultimo posto su cui ci si dovrebbe sedere ma, ehi, è vicino. Mi lascio
cadere, la schiena scivola sulle piastrelle, e finisco col culo per terra.
«Canning?» Danton si blocca appena entra in bagno. «Ehi. Stai
bene?»
Non molto, no. Me lo chiede diverse volte, come se la risposta
potesse cambiare. Smetto di ascoltarlo.
Per fortuna lo stronzo sparisce, e io chiudo gli occhi e cerco di
ricompormi.
Il silenzio non dura abbastanza. Danton è tornato – sento la sua
voce subdola. Ma è insieme a Bill, il nostro capo. Le loro voci si
mischiano, e sono troppo stanco per ascoltare.
«L’hai trovato così?»
«Sì. Credi sia sotto l’effetto di droghe?»
«Ma sei serio?»
Qualcuno mi tocca, e non mi piace.
«Ha la febbre, Danton. Alta. Resta con lui, vado a prendere la lista
dei contatti di emergenza. Hai il telefono?»
«Sì.»
Per un attimo, c’è un silenzio beato. Ma poi le voci tornano. «Qui
dice che dobbiamo chiamare… Ryan Wesley? Strano.» Bill ride. «Si
chiama come quel bravissimo attaccante esordiente. Chiama il
416…»
Mi addormento.
«Se te lo dico non ci credi.» La voce di Danton mi rovina il sonno.
«Il numero è del centralino della sede del Toronto. Sto davvero per
chiedere di Ryan Wesley?»
«Così c’è scritto sul foglio, ragazzino. Dev’essere vero.»
In stato di semi-incoscienza, il mio ultimo pensiero è: Mi dispiace,
Wes.
14

Non siamo neanche a metà dell’allenamento mattutino quando


Blake esce a fatica dalla pista e viene accompagnato nel corridoio
dal medico della squadra. Avverto una fitta di preoccupazione nel
notare che sta preferendo appoggiarsi sul ginocchio sinistro. Ieri
sera, dopo la partita, nello spogliatoio ci ha messo del ghiaccio, ma
stamattina mi ha assicurato che stava alla grande. Ha detto che era
solo un vecchio infortunio che si faceva sentire e che dalla
radiografia e dall’ecografia che gli avevano fatto fare per
precauzione non era risultato niente.
Mi sforzo di concentrarmi per il resto dell’allenamento, ma spero
che Blake stia bene. Quando è uscito dalla pista non sembrava
particolarmente dolorante, ma non si sa mai. I giocatori di hockey
sono degli stronzi belli tosti: potrebbero avere una gamba rotta con
tanto di osso che sbuca dalla carne e assicurerebbero comunque di
star bene.
Credo che valga lo stesso per i coach di hockey, perché il giorno
precedente Jamie ha liquidato subito il suo malanno. Ieri sono
tornato a casa e l’ho trovato a letto con un cuscino sulla testa. Si è
lamentato di non aver mai avuto un’emicrania così forte prima. L’ho
sentito rigirarsi per tutta la notte, ma quando mi sono svegliato era
già andato via, quindi immagino che il mal di testa gli sia passato.
Spero proprio di sì, che cavolo. Ieri non vedevo l’ora di uscire con lui,
e sono deciso a farlo stasera.
Il secondo coach fischia per indicare la fine dell’allenamento,
quindi vado nello spogliatoio dove faccio la doccia e mi cambio,
dopodiché cerco Blake. Lo trovo nella sala della fisioterapia: è steso
su un lungo tavolo in metallo, la gamba sinistra è sollevata e ha del
ghiaccio sul ginocchio.
«Che dicono?» chiedo, preoccupato.
Il suo viso si rannuvola. «Mi mandano a fare la risonanza
magnetica.»
Merda. «Collaterale mediale? Crociato anteriore?» Prego che la
risposta sia “nessuno dei due”, ma l’espressione di Blake si fa
ancora più tetra.
«Crociato anteriore. Non credono sia strappato. Male che vada è
una distorsione, ma resterò comunque fermo per un po’. Si spera
due settimane, sei al massimo.»
Doppia merda. Perdere Blake, anche solo per un paio di
settimane, sarebbe un brutto colpo per la squadra. È uno degli
attaccanti migliori. «Mi dispiace» dico, piano.
Blake mi rivolge subito il suo tipico sorriso spensierato, anche se
sappiamo entrambi che è triste alla prospettiva di perdere delle
partite. «Non fare quella faccia depressa, Wesley. Niente mi ferma
mai per troppo tempo. Tornerò prima che te ne renda conto.»
Inarco un sopracciglio. «Sarà meglio. Avremo bisogno di te, se
arriveremo ai playoff.» Per la prima volta da anni, Toronto è davvero
in lizza per i playoff. Mi piace pensare che in parte sia merito mio –
nelle ultime sei partite ho segnato almeno un goal – ma cerco di
tenere i piedi per terra. L’hockey è un gioco di squadra, e in squadra
non c’è posto per gli individualisti.
«Quando arriveremo ai playoff» mi corregge. «Pessimista di
merda.»
«Quando arriveremo ai playoff» ripeto, guadagnandomi così un
altro ampio sorriso in risposta. «Quindi occupati di quel ginocchio,
chiaro? Non cercare di tornare sul ghiaccio prima di quanto
raccomandano i medici. Possiamo difendere il forte finché non sarai
pronto a…»
«Wesley.» La voce maschile alla porta mi interrompe, e quando mi
giro vedo uno dei nostri assistenti coach sulla soglia.
«Sì, coach?»
«C’è una chiamata per te al centralino principale.» Indica il
telefono bianco attaccato vicino alla porta. «Sono in attesa. Linea
due. Sembra importante.»
Si allontana senza dire altro. Non so bene perché, ma mi si stringe
lo stomaco. Non posso vantarmi di essere una persona
particolarmente intuitiva; quello è il forte di Jamie, che capisce cosa
pensa la gente e sa per istinto cosa fare in ogni situazione. Ma, in
questo momento, ho un brutto presentimento e mi tremano le gambe
mentre vado verso il telefono.
Porto la cornetta all’orecchio e premo il tasto della linea due con il
dito che trema. «Pronto?»
«Ryan Wesley?» ringhia una voce sconosciuta.
«Sì. Chi parla?»
C’è un attimo di silenzio. «Merda, è davvero Ryan Wesley? Il
centrale di Toronto?»
«L’ho appena detto, no?» ribatto senza riuscire a trattenere il tono
tagliente. «Con chi parlo?»
«Sono David Danton, coach associato dei Wildcats under 17.
Lavoro con Jamie Canning.»
Mi chino in avanti, appoggiando il palmo della mano contro il
muro. Perché il collega che sta antipatico a Jamie mi sta
chiamando? Il cuore mi va a mille.
«Canning è svenuto circa un’ora fa» spiega Danton, e tutto
l’ossigeno che ho nei polmoni viene risucchiato fuori. «Abbiamo
provato a chiamarla sul momento, ma ci hanno messo in attesa. E
quando è arrivata l’ambulanza ho riattaccato.»
Un’ora fa? Ambulanza? Mi si stringe la gola e la paura mi
attanaglia lo stomaco, tanto che sono sul punto di vomitare sul
pavimento immacolato.
«Dov’è?» chiedo. «Sta bene?»
Alle mie spalle, sento un fruscio. Faccio un salto di quasi due metri
quando Blake compare accanto a me. Sui suoi lineamenti marcati
c’è preoccupazione, ma ho troppa paura per prestargli attenzione.
«Siamo appena arrivati al St Sebastian’s. I medici del pronto
soccorso sono con lui. Dall’ultimo aggiornamento che ci hanno dato,
era ancora privo di sensi.»
Privo di sensi? All’improvviso, la cornetta mi cade di mano.
Dondola attaccata al cavo, avanti e indietro come un pendolo, e
colpisce il muro a ogni movimento. Sono vagamente consapevole di
una mano grande che la prende. Dal telefono proviene il parlottio di
una voce rauca, ma non so cosa dice. Riesco a sentire solo il battito
impazzito del mio cuore nelle orecchie.
Jamie è privo di sensi. Privo di sensi. Che cavolo vuol dire?
Perché è privo di sensi?
Un angosciato verso gutturale mi esce dalla bocca. Vado
velocemente verso la porta, ho la vista annebbiata e non distinguo
niente. Non so neanche dove sto andando. Mi limito a barcollare in
avanti alla ricerca dell’uscita più vicina.
Devo andare all’ospedale. Maledizione, neanche so dov’è il St
Sebastian’s. Se provassi a cercarlo sul navigatore in questo
momento, probabilmente romperei il telefono. Le mani non
collaborano – mi formicolano e tremano, e mancano la maniglia della
porta ogni volta che provo ad aprire.
«Wesley.» La voce è metallica, lontana.
Premo di nuovo la maniglia e la cazzo di porta finalmente si apre.
«Ryan.»
È il mio nome di battesimo che penetra la nebbia di terrore che mi
circonda come uno scudo. Mio padre mi chiama per nome, e fin da
piccolo sono stato condizionato a mettermi sull’attenti ogni volta che
sentivo quel tono di comando. Alzo la testa e vedo Blake correre
verso di me. Anche nello stato in cui mi trovo, so che non dovrebbe
farlo.
«Il ginocchio» riesco a gracchiare.
Si ferma davanti a me. «Il ginocchio è a posto. Per ora non entrerò
in pista, va bene, ma non è messo così male da lasciare che ti
ammazzi in un frontale.»
Sbatto le palpebre. Sinceramente, non so di che cosa sta
parlando.
«Ti porto all’ospedale» spiega.
Controbatto debolmente: «No…»
«Tanto non mi serve la gamba sinistra per guidare.» Il suo tono
non ammette repliche. «E tu non sei in condizioni di metterti al
volante, al momento.»
Credo abbia ragione. Non riesco ad aprire una cavolo di porta,
figuriamoci a far funzionare una macchina. Nella mia mente, scatta
un campanello d’allarme. Blake non può venire con me all’ospedale,
mi vedrà con Jamie. Scoprirà tutto.
Ma… Jamie, maledizione. Devo andare da Jamie, e al momento
Blake è la migliore opportunità che ho per arrivare in ospedale senza
investire dei passanti lungo il tragitto.
Non protesto quando mi posa una grande mano sul braccio e mi
allontana dalla porta. Mi rendo conto che stavo per uscire da
un’uscita di emergenza che porta a una zona di carico, che è da
tutt’altra parte rispetto al parcheggio in cui dovevo andare.
Blake mi guida nel corridoio. Nessuno dei due parla mentre
prendiamo l’ascensore e scendiamo nel parcheggio sotterraneo.
Invece di prendere il mio SUV, Blake mi spinge nel sedile del
passeggero del suo Hummer. Si mette al volante ed esce
velocemente dal parcheggio.
«Il tizio al telefono ha detto che J-Bomb aveva la febbre alta e
dolori addominali» rivela Blake a bassa voce. «È svenuto quando
sono arrivati al pronto soccorso, non ha ancora ripreso
conoscenza.»
La bile mi brucia la gola. Secondo lui questo sarebbe un discorso
di incoraggiamento? Ora mi sento svenire anch’io, perché il pensiero
di Jamie – privo di sensi, malato, da solo – mi annebbia la vista. Non
vedo neanche la strada oltre il parabrezza. È tutto buio e confuso e
sta scomparendo.
«Wesley» mi chiama Blake con decisione.
Alzo di nuovo di scatto la testa.
«Respira» ordina.
Inspiro lentamente, ma sono abbastanza sicuro che nell’aria non
ci sia ossigeno. Sto solo respirando altra paura. Non so come faccia,
ma Blake e il suo Hummer gigantesco sfrecciano nel traffico del
centro come se non ci fossero altre macchine per strada. Quando
siamo saliti sul suo bolide, lo schermo del navigatore ha segnalato
che ci sarebbero voluti venticinque minuti per raggiungere la
destinazione. Siamo arrivati in sedici.
Appena superiamo le porte automatiche del pronto soccorso, vado
di nuovo nel panico. La grande sala d’attesa è piena. Le facce delle
persone diventano macchie indistinte, mentre sfreccio verso la
postazione delle infermiere e sbatto entrambe le mani sul bancone.
«Jamie Canning!»
Il mio grido fa sobbalzare l’infermiera con i capelli rossi, che mi
guarda da dietro delle lenti spesse. «Prego?»
«Jamie Canning!» A quanto pare, non riesco a formulare frasi
complete. Solo quelle sillabe cariche di terrore che tuonano per una
terza volta. «Jamie Canning.»
Blake interviene parlando in tono calmo. «Siamo qui per vedere un
paziente che si chiama Jamie Canning. È stato portato in ospedale
un’ora fa.»
«Un attimo, signore, do un’occhiata.» Le sue unghie rosse volano
sulla tastiera di un computer. I suoi occhi verdi osservano lo
schermo, dopodiché alza la testa e la sua espressione è abbastanza
seria da farmi battere il cuore più velocemente. Anche se sono
piuttosto sicuro che abbia smesso di battere poco fa.
«È stato spostato nel reparto di quarantena» ci informa.
Tutto intorno a me riprende a oscillare. O forse sono le mie gambe
che tremano. Non so neanche come faccio a stare in piedi. Poi me
ne rendo conto: Blake. Mi sta letteralmente tenendo su reggendomi
per la giacca.
«Quarantena?» gracchio.
«Ha i sintomi dell’influenza» spiega l’infermiera. «È molto
improbabile che la DSKH-DL arrivi nel nostro ospedale…»
«DSK… che?» sbotto.
«L’influenza ovina» spiega, e l’espressione di Blake è terrorizzata.
«Come ho detto, è improbabile, ma stiamo prendendo tutte le
precauzioni. Lei fa parte della famiglia del signor Canning?»
«Sì» rispondo senza esitare. Perché è così.
Inarca le sopracciglia. «È suo…?»
Merda. Non posso mentire e raccontare che sono il fratello,
perché nessuno ci crederebbe. E anche se dicessi, in questa sala
piena di gente, che sono il suo ragazzo, comunque non aiuterebbe:
se io e Jamie non siamo sposati, non fa differenza. «Sono tutto
quello che ha a Toronto» dico, invece. «Viviamo insieme.»
«Capisco» ribatte lei con pazienza. «Le spiego come funziona la
quarantena: mentre il paziente aspetta i risultati degli esami dal
laboratorio, i suoi familiari o i delegati possono vederlo solo dopo
aver seguito il nostro protocollo di quarantena. È tutto ciò che
possiamo fare finché non stabiliremo che gli altri pazienti e i visitatori
non sono a rischio.»
«Ma…»
«Il prossimo!»
E così mi liquida.
Per un attimo me ne sto in piedi davanti al bancone, restio a
muovermi. Come si permette?
Due mani grandi mi prendono gli avambracci e mi spostano.
«Forza, Wesley, dobbiamo organizzarci.» Blake mi fa girare e mi fa
appoggiare al muro, le sue zampe mi finiscono sulle spalle. «Dove
sono i familiari di Jamie? Li devi chiamare.»
Cazzo, sì che devo. Tiro fuori il telefono dalla tasca, ma Blake me
lo prende. «Non spaventarli, va bene? Solo perché tu stai dando di
matto, non devono farlo anche loro.»
«Sì. Giusto.» Mi restituisce il telefono e vado alla rubrica, nella
parte dove c’è la lista dei Canning, che non è corta. Ma prediligere il
numero del laboratorio di ceramiche è una scelta facile. Sta’ calmo,
mi ordino mentre sento gli squilli. Niente panico.
«Ceramiche Canning, sono Cindy.»
Nonostante il desiderio di restare calmo e padrone di me, la forza
calorosa della sua voce mi sblocca qualcosa dentro che non sapevo
ci fosse. «Mamma?» gracchio. Va bene… Non l’ho mai chiamata
così, nemmeno una volta. Non so perché l’ho fatto ora.
«Ryan, tesoro, che succede?»
Chiudo gli occhi e cerco di ricompormi. «Abbiamo un problema»
dico con cautela. Ma non posso ingannarla, perché mi trema la voce.
«Jamie è stato portato in ospedale, ha i sintomi dell’influenza. Ieri
sera aveva mal di testa e oggi è svenuto al lavoro. Al momento non
so altro.»
«D’accordo, Ryan, fa’ un bel respiro.» Perché continuano a
dirmelo? Ma obbedisco, perché me l’ha chiesto Cindy. «E adesso
ripeti: “Andrà tutto bene”. Dillo tre volte di fila.»
«Ma…»
«Ho sei figli, Ryan. Questo è un passo importante per mantenere
la sanità mentale. Dillo. Subito. Ti devo sentire.»
«Andrà tutto bene» soffio.
«Ancora due volte.»
«Andrà tutto bene. Andrà tutto bene.»
«Bravo. Ora dimmi dove sei.»
Le faccio un riassunto di quello che l’infermiera alle mie spalle mi
ha riferito.
«Quindi ti serve il mio permesso per vedere Jamie. Come contatto
la persona che si occupa di queste cose?»
«Ehm…» Cazzo.
Qualcuno mi mette davanti un pezzo di carta. È Blake, e mi sta
porgendo un biglietto con su scritto “Responsabile pazienti e
permessi”, seguito da un numero di telefono.
«Grazie» gli dico sottovoce, poi ripeto il numero a Cindy.
«Okay, tesoro, li chiamo subito. Non appena lo vedi, telefonami,
d’accordo? Sul cellulare, perché devo andare a prendere mio nipote.
Domani faranno il cesareo a Tammy.»
«Oh, caspita. Va bene. Ti chiamo. Giuro.»
«Lo so, tesoro. Resisti. Vi voglio un mondo di bene.»
Ora sento un enorme nodo alla gola. «Ti voglio bene anch’io.
Ciao.»
Al termine della telefonata la sala d’aspetto dell’ospedale diventa
più nitida. È rumorosa e piena di persone, alcune delle quali stanno
fissando me e Blake. Un’adolescente dà una gomitata all’amica e ci
indica. Se qualcuno mi chiede un autografo ora, probabilmente
scoppio.
Blake sposta il corpo enorme mettendosi tra me e il resto della
sala d’aspetto. «Diamole dieci minuti» mi suggerisce. «La madre di
J-Bomb deve riuscire a parlare con chi di dovere, poi forse il tuo
nome comparirà sul registro. L’infermiera nazista, lì, dovrà farti
entrare.»
«Giusto» rispondo. Mi gira ancora la testa. Jamie non può avere
nessuna influenza strana, dove potrebbe averla mai presa? Ma,
d’altra parte, perché sta così male? Nel mio stato di panico, sembra
qualcosa che avrei dovuto saper risolvere. Non mi sono mai sentito
così impotente in tutta la mia vita.
«Starà bene» mi rassicura Blake, leggendomi nel pensiero.
«Figurati, uno sano come lui. Tra due giorni ci riderete su.»
Però continuo a sentire in continuazione le parole svenuto e privo
di sensi nella testa. E se avesse un problema cardiaco che non gli è
mai stato diagnosticato? Al mio secondo anno di università, un mio
compagno è morto mentre giocava a baseball al chiuso. È crollato
sul pavimento della palestra. L’arbitro gli ha fatto la respirazione
bocca a bocca, ma era già troppo tardi.
Cazzo. Non posso pensare a queste cose. «Andrà tutto bene»
ripeto, come mi ha consigliato di fare Cindy.
«Ehi.» Blake mi scuote la spalla. «Certo che andrà tutto bene. È
stata la madre di Canning a fare quella tazza?»
«Come?» Ho la testa piena di brutti pensieri e Blake vuole parlare
di tazze?
«Ho lavato i piatti in casa vostra. Sul fondo c’è un’incisione.»
Oh. Porca troia. Su quella tazza c’è scritto: “Jamie ti ama, e ti
amiamo anche noi. Benvenuto nel clan Canning”. E quando guardo
Blake negli occhi, vedo esattamente ciò che temevo da mesi. Lo sa.
«Blake» inizio. Raccontargli cazzate è fuori discussione, quindi
glisso. «Non è il momento di parlare di questo.»
«Lo dici tu.» Non l’avevo mai sentito parlare con questo tono. È
arrabbiato, e non credevo nemmeno fosse possibile. «Tra dieci
secondi dovremo iniziare a evitare un gruppo di fan che stabiliranno
che non è per niente scortese avvicinare dei giocatori di hockey in
un pronto soccorso. E ci chiederanno perché siamo qui. Non so cosa
dovresti rispondere, ma sono tuo amico, e agli amici si racconta la
verità.»
Forse è vero, ma un sacco di cose dipendono da quel segreto.
Blake ha la lingua lunga, e non sono sicuro che potrebbe apprezzare
la situazione in cui mi trovo.
Ci sfidiamo con gli sguardi e vinco io, perché chiudere la bocca è
qualcosa in cui sono diventato bravissimo.
Lui sospira e distoglie lo sguardo. «Va bene, fa’ come vuoi. Ma se
sei così deciso a nasconderti per il resto della tua vita, almeno togliti
la giacca. Attira l’attenzione come una scritta al neon.»
Siccome ha ragione, mi scrollo di dosso la giacca della squadra e
la metto sotto il braccio.
«Ryan Wesley?» bela l’interfono. «C’è Ryan Wesley per il signor
Canning?»
Grazie a Dio. Mi giro e mi fiondo al bancone. L’infermiera con gli
occhi verdi indica un tizio con il camice che sta aspettando. «Vada
con lui.»
«Sono il dottor Rigel, malattie infettive.» Mi porge la mano e gliela
stringo.
Stringere la mano a una persona che si occupa di malattie infettive
mi sembra un po’ assurdo, ma lo faccio comunque.
Blake è alle mie spalle. «Cosa ci può dire?» chiede con la sua
voce tonante.
Il medico ci fa strada in un corridoio e spiega la situazione. «Il
signor Canning è stabile» ci informa, e quasi mi sciolgo per il
sollievo. «È arrivato disidratato e con la febbre alta. Gli stiamo
somministrando liquidi e un antivirale contro l’influenza, anche se
non avremo i risultati dal laboratorio per almeno altre dodici ore.
Dobbiamo escludere quella che i media chiamano influenza ovina.»
Blake trema talmente forte che si può misurare sulla scala Richter.
«È impossibile che J-Bomb ce l’abbia. Mi rifiuto di crederlo.»
«Be’…» Il medico chiama l’ascensore e ci fermiamo per
aspettarlo. «Probabilmente ha ragione, ma sarebbe da irresponsabili
sottovalutare la questione nel bel mezzo di un allarmismo sanitario.
E i suoi colleghi hanno dichiarato che viaggia per il Canada per
lavoro, quindi dobbiamo esserne sicuri.»
Le mie paure tornano a infuriare. «Non è abituato a questo clima»
balbetto. «Ha sempre vissuto sulla costa ovest.»
Blake mi lancia un’occhiata eloquente come a dirmi che dovrei
smetterla di parlare.
Saliamo in ascensore. «Bella partita, ieri sera» commenta il
medico, interrompendo il silenzio.
«Ehm, grazie» risponde Blake. «Permetterà al mio amico Wesley
di vedere Canning, giusto? Ci sono un paio di posti sulle poltroncine
disponibili, nel caso.»
Sul viso del medico passano una serie di emozioni in rapida
successione, dall’euforia al tormento, per arrivare all’irritazione.
«Non prenderei mai decisioni di protocollo medico per dei biglietti di
hockey.»
«Certo che no,» risponde subito Blake, «intendo solo dire che se
sarà lei a comunicarci quando J-Bomb potrà ricevere visite, gliene
saremmo molto grati.»
Il dottor Rigel annuisce lentamente. «Il signor Wesley può vedere
il paziente dopo essersi messo le protezioni.»
«Va bene» acconsento subito.
Le porte dell’ascensore si aprono e usciamo. Su un cartello
attaccato al muro si legge “Reparto d’isolamento”. Il medico ci porta
in una stanza che sembra uscita da un thriller psicologico: ha svariati
lati, ognuno dei quali è costituito da una parete di vetro che dà sulla
stanza del paziente. Un paio di queste stanze hanno le tende tirate,
ma altre sono aperte e le persone all’interno sembrano più malate di
quanto dovrebbero.
E poi lo vedo. Jamie è sdraiato su un letto, metà del suo viso
bellissimo è coperto da una maschera, ma mi basta un’occhiata per
riconoscerlo. Gli occhi castani sono chiusi ed è fin troppo immobile.
Mi si chiude la gola, e non riesco a fare altro che fissarlo.
Non so per quanto resto così. Qualche secondo? Un minuto?
Blake mi afferra le spalle da dietro e le stringe. Forte. Ed è in quel
momento che mi ricordo di respirare, buttando dentro un’enorme
quantità d’aria.
Mi scuote delicatamente. «Sta’ tranquillo, Wesley. Forza.»
«Scusa» borbotto.
Blake scuote la testa. «Non c’è problema. Io posso arrivare fin qui,
ma ti chiamo tra un paio d’ore, va bene? O scrivimi, se hai bisogno.
In ogni caso, ti vengo a prendere dopo. Abbiamo lasciato la tua
macchina alla pista.»
Merda, è vero. Non so neanche dove sono ora. «Grazie» gli dico,
incrociando il suo sguardo. «Davvero, non…»
Sventola la mano. «Non c’è bisogno di ringraziarmi. Ci sentiamo
dopo.»
Poi si gira e sparisce verso gli ascensori.
«Da questa parte, signor Wesley» mi indica il medico. «Le
infermiere l’aiuteranno a indossare le protezioni.»
Dieci minuti dopo, ho addosso un lungo camice monouso, dei
guanti, una cuffia, degli occhialini, ciabatte monouso e una
mascherina. Cazzo, è ridicolo.
«Queste stanze hanno due porte» spiega una donna minuta con i
tratti asiatici – sul suo cartellino si legge “Janet Li, infermiera”. «Si
entra da questa parte…» Indica una porta fuori dalla stanza con il
vetro. «E si esce da quella lì in fondo. Tutte le protezioni restano
nella stanza subito fuori da quella del paziente. Ci sono molti cartelli
che spiegano cosa deve fare, d’accordo?»
«Capito» rispondo. Devo solo entrare lì, ‘fanculo i cartelli.
«Adesso entrerà da solo, ma se lei o il paziente avrete bisogno di
qualcosa, usi il pulsante dell’interfono sul muro e qualcuno verrà
subito ad assistervi.»
«Grazie.»
Quando apre la porta della stanza di Jamie, mi ci fiondo dentro.
C’è un’altra porta dietro questa, e non è chiusa a chiave.
Poi ci siamo solo io e lui. Finalmente. Gli prendo la mano e gliela
stringo. Sono stupito da quanto è calda. Non scherzavano sulla
febbre alta. «Piccolo» mormoro in un soffio. «Sono qui.»
È immobile.
Quindi inizio a blaterare, perché voglio che sappia che sono io. Gli
racconto tutto quello che mi è successo oggi. Tutto quanto. Che
Blake si è infortunato e sono andato a cercarlo, che ho ricevuto
quella telefonata terribile. «Stavo dando di matto» gli dico, anche se
la sua fronte rimane perfettamente immobile per il sonno.
Le maschere tra noi sono odiose, vorrei solo strapparmela dalla
faccia. Alla fine la mia storia termina. Piazzo le chiappe sul bordo del
letto, sperando non sia un problema, e poso la sua mano sulla mia
gamba, dove la accarezzo con la mia con quello stupido guanto. Le
ciglia gli tremolano.
«Canning» sussurro, stringendogli la mano. «Ehi. Forza, piccolo.»
Le palpebre pallide si schiudono, e quando finalmente vedo i suoi
occhi credo davvero che andrà tutto bene. Spalanca gli occhi, ma
poi aggrotta le sopracciglia.
Cazzo, è spaventato. Devo sembrare un mostro, o almeno un
estraneo. «Sono io» lo rassicuro a voce alta. «Ehi, guarda.» Con la
mano libera, tolgo gli occhialini e poi – al diavolo – anche la
mascherina.
Il suo viso si rilassa e sorrido per la prima volta dopo ore. Forse da
una vita.
«Signor Wesley! Che sta facendo?» Mi giro e dall’altra parte del
vetro vedo l’infermiera con una mano sul fianco e un cipiglio
arrabbiato sul viso. Ha il telefono contro l’orecchio e la sua voce
rimbomba dall’altoparlante sul muro. «Non può togliersi le
protezioni!»
Invece sì. Non può sopraffarmi, avrei la meglio in uno scontro.
Quindi mi tolgo anche la cuffia, poi scendo dal letto e resto vicino
alla testa di Jamie. Mi sta guardando con gli occhi spalancati,
fiduciosi.
«Signor Wesley!» abbaia. «La smetta!»
«Non capisce» rispondo, guardando Jamie e non lei; tutto ciò che
conta è lui. «Se ha l’influenza ovina, sono già stato esposto.
Dormiamo nello stesso letto.»
Poi mi chino su di lui e gli bacio la fronte. Anche se siamo in
questa camera degli orrori, ha sempre il suo odore. E mi
tranquillizzo. «Ti amo» gli sussurro all’orecchio. «Non preoccuparti di
niente.» Chiude gli occhi, ma lo bacio di nuovo, stavolta sulle labbra.
Così sa che sono ancora qui.
Quando guardo di nuovo il vetro, l’infermiera non c’è. Per ora.
15

La foto finisce su internet sei ore dopo che sono entrato nella
stanza di Jamie.
TMZ è stato il primo a pubblicarla – ma come fanno questi stronzi
ad avere sempre scoop su tutti? – e dopo ha fatto il giro di vari siti di
hockey, blog sulle celebrità, giornaletti scandalistici e giornali che
dovrebbero avere cose migliori di cui occuparsi. Due giornali di
rilievo, in realtà, ci hanno dedicato la prima pagina, con la foto
minuscola molto più in alto rispetto all’articolo sulla cattura di un
terrorista.
Immagino che vedere me, Ryan Wesley, baciare sulla bocca un
altro uomo sia un’emergenza nazionale. E, al momento, non posso
fare niente per domare l’incendio.
L’ho detto che sono in quarantena anch’io? Sì, nel momento in cui
mi sono liberato delle protezioni, ho segnato la mia condanna alla
prigionia. Il dottor Rigel ha marciato nella stanza con il completo da
quarantena insieme all’infermiera arrabbiata. Mi ha informato che,
dal momento che mi ero probabilmente esposto a quello che
potrebbe essere un ceppo pericoloso di influenza, non avrei potuto
lasciare il reparto di isolamento fino all’arrivo dei risultati degli esami
di Jamie. Poi l’infermiera incazzata mi ha fatto un prelievo per far
analizzare anche il mio sangue.
Mi sono pentito? Assolutamente no. Tanto non avevo intenzione di
allontanarmi da Jamie. Almeno così nessuno potrà buttarmi fuori alla
fine dell’orario di visita. E ora che qualche stronzo ci ha fatti uscire
allo scoperto senza permesso, non posso negare che è bello avere
una scusa per nascondermi dal resto del mondo.
Non so chi abbia scattato la foto, ma hanno fatto il colpaccio con il
momento intimo che ci hanno rubato. Io, seduto sul letto di Jamie,
che premo le labbra sulle sue. Sembrava stare bene, quando aveva
ripreso conoscenza, e io ero stato così sopraffatto dalla gioia e dal
sollievo di poter vedere di nuovo i suoi bellissimi occhi castani che
mi ero dimenticato di essere in una scatola di vetro con le tende
aperte.
Dopo, aveva dormito per un’altra ora con la mano stretta nella
mia. Forse suona stupido, ma non mi sono mai sentito tanto utile a
qualcuno in tutta la mia vita. Se si fosse svegliato confuso, volevo
sapesse che non era da solo. Nonostante tutto il casino che sta
succedendo al momento, mi sono sentito calmo come non lo ero
stato per settimane. Perché, per una volta, sapevo che stavo
facendo la cosa giusta al momento giusto.
E, quando si è svegliato davvero, era confuso. «Dove siamo?» ha
chiesto, facendomi trasalire.
«In ospedale, piccolo. Sei malato. Forse hai l’influenza, ma ce lo
diranno quando avranno i risultati degli esami.»
«Va bene» ha risposto, stringendomi la mano. Ma più tornava
lucido, più si agitava. E quando si è reso conto della strana stanza di
ospedale in cui si trovava, non ci ha messo molto a capire che ero
stato esposto anch’io. E adesso non vuole lasciar perdere.
«Non avresti dovuto toglierti la mascherina» gracchia Jamie. «Sei
fuori di testa, Wes. Non dovresti essere qui.»
Non è la prima volta che ha messo in dubbio la mia sanità mentale
da quando si è svegliato, e ora io sto mettendo in dubbio la sua:
insomma, dove cavolo dovrei essere? In piedi dall’altra parte del
vetro a guardar soffrire l’uomo che amo?
«Ti prenderai questa stupida influenza ovina» borbotta.
«Prima di tutto, non sappiamo neanche se ce l’hai» gli faccio
notare. Sono seduto su una sedia accanto al suo letto ma sono
chino su di lui e gli accarezzo la guancia con la mano senza guanto.
La pelle gli scotta ancora, il che mi preoccupa: sono passate almeno
sei ore da quando gli hanno messo la flebo, la febbre non sarebbe
dovuta scendere? «Rigel pensava fosse improbabile, ti ricordi?
Seconda cosa, se ce l’hai tu ce l’avrò anch’io, perché avevo la lingua
nella tua gola l’altra sera. Terzo, dovrei essere qui. Guarda questa
stanza delle torture.» Indico lo spazio opprimente che ci circonda.
«Non ti avrei mai lasciato soffrire qui da solo.»
Ride debolmente.
Cristo. Sono sollevato da morire che sia sveglio. Quando l’ho visto
nel letto, immobile… me la sono fatta addosso per la paura.
«Al coach Hal verrà un colpo» sospira. «E se ti perdi l’allenamento
di domani mattina? E poi hai quella partita a Tampa giovedì sera.
Non puoi permetterti di ammalarti, Wes.»
Lo guardo, incredulo.
Jamie esita. «Che c’è?»
«Pensi davvero che domani andrò all’allenamento mentre tu sei in
ospedale?»
«Potrebbero dimettermi prima.»
«Con tutte le precauzioni che questi stronzi stanno prendendo?
Certo, come no. Ti terranno sotto osservazione almeno un paio di
giorni.» Il mio tono di voce si fa più tagliente. «Non salirò sull’aereo
per Tampa, spero te ne renda conto. Non ho intenzione di
allontanarmi da te finché non avrò la certezza che sei fuori pericolo.»
«Non sono mai stato in pericolo» ribatte.
Spalanco la bocca. «Sei svenuto al lavoro! Avevi la febbre a
trentanove! Sei rosso come un’aragosta eppure tremi come una
foglia perché hai freddo. Sei troppo debole per alzare la testa!»
Ma Jamie insiste: «Sto bene». E io sono tentato di dargli un pugno
in faccia. Però non lo faccio, perché è lui che è costretto su un letto
d’ospedale, quindi immagino di dover essere io a comportarmi da
adulto.
«Non stai bene» ribadisco con tono severo. «Sei malato.» Forse a
causa dell’alterazione di una tossina di pecora o che cavolo è, ma mi
rifiuto di credere che ce l’abbia davvero. Grazie all’inquietante
ossessione di Blake per le pecore, so che almeno sedici persone
sono morte per questa influenza. E Jamie non sarà il numero
diciassette. Venderei l’anima al diavolo piuttosto che permettere che
succeda qualcosa a questo ragazzo. È tutta la mia vita.
Smettiamo di parlare quando sentiamo un forte bip. La serratura
della porta si apre e l’infermiera, che ora mi odia ufficialmente, entra
nella stanza. È bardata con la tuta di protezione e la maschera. Non
le vedo la bocca, ma il suo sguardo mi dice che sta facendo una
smorfia.
«Signor Wesley, mi segua, per favore» ordina, e la nota
insoddisfatta nel suo tono di voce mi preoccupa. Oddio. Sono arrivati
i risultati degli esami di Jamie? Mi vuole parlare in privato per
confermare che ha l’influenza ovina?
Il battito del mio cuore triplica mentre mi alzo. Jamie sembra
preoccupato quanto me, ma non protesta quando seguo l’Infermiera
Morte nella stanza secondaria. Quando la porta si chiude alle nostre
spalle, tira fuori un cellulare. Il mio cellulare, che ha confiscato un’ora
fa dopo avermi beccato a mandare un messaggio al clan Canning.
A quanto pare, l’elettronica è proibita in quarantena. Detto
sinceramente, sono contento che mi abbia preso il telefono, perché
lo schermo ha iniziato a illuminarsi come un albero di Natale dopo
che la foto è stata pubblicata. Jamie stava ancora dormendo e sì,
non ha idea che circa un’ora fa, fuori dalla nostra prigione di vetro, si
è scatenato un putiferio. E non ho intenzione di dirglielo. Non
ancora, almeno.
La mia unica priorità è aiutarlo a stare meglio. Se scoprisse che
migliaia – che cavolo, forse milioni – di persone stanno discutendo e
dissezionando la nostra relazione, chissà quale sarebbe l’effetto sul
suo organismo già debilitato. Non posso rischiare.
«In quest’ultima ora abbiamo ricevuto una quantità di telefonate
esorbitante» dice in tono piatto. «Almeno due dozzine delle quali
erano di un certo Frank Donovan, che insiste per poterle parlare.
Sinceramente, io e i miei colleghi ci stiamo stancando che
quell’uomo ci sbraiti contro, quindi per lei faremo un’eccezione,
signor Wesley. Può usare il telefono, ma solo in questa stanza e per
poco tempo. Ora, per favore, richiami il signor Donovan prima che
inizi a informarmi sui prezzi per assoldare un sicario.»
Ridacchio. Okay, forse Infermiera Morte non è così male.
Aspetto che esca dalla stanza prima di fare il numero di Frank, ma
esito prima di chiamare. Cazzo. Non sono pronto a gestire la
situazione, al momento. Avevo un piano, porca vacca. Avrei
terminato l’anno d’esordio e poi avrei fatto coming-out. La storia
sarebbe stata controllata da Frank e da me, l’avremmo presentata ai
media come noi volevamo fosse presentata.
Ma qualche stronzo avido, impiccione e irrispettoso ha preso in
mano la faccenda. O… forse qualche stronza? All’improvviso mi
viene in mente Infermiera Morte. E se fosse stata lei?
Ma d’altronde potrebbe essere stato uno qualunque degli
infermieri dietro il vetro. O i tecnici di laboratorio che consegnavano i
risultati degli esami, i medici che entravano e uscivano dal reparto, i
familiari che visitavano i loro cari in quarantena.
Chiunque potrebbe aver scattato quella foto. Cercare di trovare il
colpevole è come giocare a una versione nonsense di Cluedo.
Infermiera Morte… nell’unità di isolamento… con la macchina
fotografica! E, a questo punto, importa davvero qualcosa? Quel che
è fatto, è fatto; ora bisogna occuparsi di arginare i danni.
«Ryan, diamine, era ora!» mi rimbomba nell’orecchio la voce
irritata di Frank. «Perché non rispondevi al telefono?»
«Le infermiere me l’hanno confiscato» gli racconto. «Non si
possono usare i cellulari in ospedale.»
«È una stupida credenza. Degli studi hanno dimostrato che gli
effetti che i cellulari hanno sui macchinari medici sono esigui.»
È davvero qualcosa di cui dovremmo parlare ora? «Frank,»
richiamo, reindirizzandolo su questioni davvero importanti, «che
ripercussioni stiamo avendo?»
«È ancora troppo presto per dirlo. La maggior parte degli organi di
stampa sta cavalcando l’onda arcobaleno…»
Serro la mascella.
«…sventolando bandiere del gay pride e ti lodano per il tuo
coraggio nell’essere uscito allo scoperto.»
«Ma non l’ho fatto» borbotto. «Qualcun altro l’ha fatto per me.»
«Be’, ormai è andata» taglia corto. «E ora abbiamo bisogno che la
storia giri nel modo giusto. La società rilascerà la dichiarazione che
avevo preparato quando ti abbiamo ingaggiato. Volevo avvisarti. La
rilasceremo entro un’ora.»
Poco fa, Frank mi ha mandato una copia della dichiarazione. Ci
sono un sacco di termini politicamente corretti, se non ricordo male.
“La squadra sostiene, e sosterrà sempre, i nostri giocatori e la
grande varietà che portano nell’hockey… Bla bla bla… Siamo
orgogliosi che Ryan Wesley faccia parte della nostra squadra”.
«Daremo agli avvoltoi la notte per beccare e rosicchiare,» mi
avvisa Frank in tono cinico, «e poi, domani mattina, farai una
conferenza stampa e…»
«Cosa?» lo interrompo. «Neanche per sogno.»
«Ryan…»
«Ho acconsentito a una dichiarazione scritta» gli ricordo. «Una
breve aggiunta a qualsiasi dichiarazione rilascerete alla stampa. Non
ho acconsentito ad andare davanti alle telecamere.» L’idea di stare
in una stanza piena di giornalisti a parlare della mia vita sessuale e
di rispondere a domande che nessuno ha il diritto di pormi mi fa
venire un travaso di bile.
«Questo era prima che su internet comparissero le foto di te e del
tuo innamorato che pomiciate» ribatte Frank. Non sembra arrabbiato
o disgustato, ma pragmatico. «Si aspetteranno qualcosa di più di un
paio di righe di dichiarazione, Ryan.»
«Non me ne frega un cazzo di cosa si aspettano!» La frustrazione
mi attanaglia il petto. Vorrei lanciare il telefono contro il muro,
guardarlo rompersi in mille pezzi e poi calpestarli per sicurezza. Mi
sento… violato. Il che rafforza i brividi di indignazione che mi
scorrono lungo la schiena. Queste persone non hanno il diritto di
puntarmi addosso i riflettori solo perché mi piace scopare con gli
uomini. Non sono affari loro, maledizione.
«Ryan.» Frank resta un attimo in silenzio. «Va bene. È ovvio che
dobbiamo rimandare la discussione a quando il tuo… compagno
sarà dimesso dall’ospedale. Per ora, rilascerò la dichiarazione per
conto della squadra. Appena avremo valutato le reazioni, studieremo
la mossa successiva.»
«Va bene.»
«Dobbiamo preoccuparci dei risultati dei tuoi esami?»
Per un attimo, ho un vuoto. «I risultati dei miei esami?»
«L’influenza» risponde con pazienza. «I coach sono preoccupati.
Tra due giorni dovrai giocare a Tampa.»
Faccio un respiro. «Giovedì non sarò sul ghiaccio, Frank. Se vuoi
chiamo io il coach per dirglielo, ma non è negoziabile. Sono nel bel
mezzo di un’emergenza familiare.»
«Il tuo contratto stabilisce…»
«Non me ne frega di cosa stabilisce» ribatto. «Non prenderò
quell’aereo.» Non gli do il tempo di obiettare. «Ora devo andare, le
infermiere mi stanno guardando in cagnesco.» Non è vero, ma Frank
non lo sa. «Ti richiamo appena arrivano i risultati degli esami di
Jamie.»
Mi tremano le mani, quando riattacco. Non ero pronto per niente di
tutto questo. E, anche se ho disperatamente bisogno di tornare da
Jamie, mi costringo a scorrere i messaggi nel caso in cui i Canning
avessero provato a mettersi in contatto.
E l’hanno fatto, cazzo.
Cindy: “Io e Patrick abbiamo bisogno di un aggiornamento, tesoro (anche se
sappiamo che andrà tutto bene, tutto bene, tutto bene!)”
Jess: “Perché gli stronzi dell’ospedale non mi permettono di chiamarti???”
Joe: “Come sta mio fratello?”
Scott: “Come sta Jamester?”
Brady: “J sta bene?”

C’è anche un messaggio di Tammy, che al momento è in ospedale


alle prese con la sua situazione:
“Chiamami appena arrivano i risultati degli esami. Chiedi al centralino di passare la
chiamata alla mia stanza: 3365”.

Invece di rispondere a ognuno di loro, mando un messaggio di


gruppo a tutto il clan Canning:
“Stiamo ancora aspettando i risultati. J è sveglio e irascibile. La febbre è ancora alta
ma i medici se ne stanno occupando. Non mi fanno usare il telefono, vi scrivo
appena posso”.

Scorro il resto dei messaggi non ancora letti, la maggior parte dei
quali è di Blake. Ce n’è anche uno di Eriksson, ma non lo apro
perché ho troppa paura di sapere cosa c’è scritto. Non credo di
essere pronto ad affrontare le reazioni dei miei compagni di squadra
alla “novità”. Scorro ancora e mi blocco quando leggo il nome di mio
padre. Stavolta lo apro.
Papà:“Sei un idiota”.

Mi si stringe il cuore. Sono incazzato con me stesso perché


permetto a quelle tre parole di farmi effetto, ma… cazzo, fanno male.
Sto per spegnere il telefono quando l’app di Twitter cattura la mia
attenzione. Segnala 4622 nuove notifiche. Cristo santo.
Nonostante il buonsenso, mi arrendo alla curiosità morbosa e apro
l’app per leggere cosa ne pensa la Twittosfera di quest’ultimo
sviluppo. Ah. #RyanWesley è tra le tendenze. E ho diecimila nuovi
follower da quando la foto è stata pubblicata. Clicco sull’icona delle
notifiche e scopro che la maggior parte dei tweet sono
sorprendentemente positivi.
@hockeychix96: Oddio! Il tuo ragazzo è un figo DA PAURA!
@T-DotFan: Buon per te, bello!
@Kyle_Gilliam309: Sei d’ispirazione per tutti noi, Wesley.

E avanti così. Con vari “Oddio”, abbracci virtuali e pacche sulle


spalle, la gente mi sta dicendo che sono un’ispirazione per la
comunità gay. Sparsi tra questi, ci sono anche dei tweet disgustati e
increduli.
@BearsFourEvr: I cazzi sono per le donne, frocio.
@Jenn_sinders: Ti prego, dimmi che non sei gay!

E, in una conversazione lunga una cinquantina di tweet, due tifose


decidono di taggarmi mentre esaminano minuziosamente la “prova”
del mio orientamento sessuale. Stanno anche ingrandendo e
tagliando certe parti della foto per dimostrare le proprie teorie.
@HeyyythereDelilah: Davvero, quello *non* è RW. Guarda gli occhi. Quelli di RW
non sono così vicini.

Ho gli occhi vicini?


@BustyBritt69: Ma certo che è RW! Riconoscerei quella bocca sexy ovunque.
@HeyyythereDelilah: L’avvocatessa del diavolo. Ammettiamo che sia RW: non
significa che quello sia il suo *ragazzo*. Potrebbe essere suo fratello.
@BustyBritt69: Ma chi è che bacia IN BOCCA suo fratello?
@HeyyythereDelilah: Io una volta l’ho fatto, ma ero ubriaca. Pensavo fosse qualcun
altro.
@BustyBritt69: Che schifooo! Troppi dettagli!

Con un sospiro, chiudo l’app e spengo il telefono. L’Infermiera


Morte non ha detto che lo rivoleva indietro, quindi me lo infilo in
tasca a torno nella stanza principale, dove vengo accolto dallo
sguardo sospettoso di Jamie.
«Cos’è successo?»
Scrollo le spalle. «Mi ha fatto usare il telefono per poter richiamare
i tuoi.»
«Stanno dando di matto?»
«No. Proprio come me, sanno che non c’è niente di cui
preoccuparsi.» Mi rimetto comodo sulla sedia e gli prendo la mano.
«Starai bene, piccolo. Quegli esami sono negativi, vedrai.»
Lui annuisce, ma la sua espressione è ansiosa. «Sicuro che vada
tutto bene?» incalza.
Mi chino e gli poso le labbra sulla guancia caldissima. «Va tutto
benissimo» mento.
16

La febbre è allucinante. Nella stanza c’è uno strano nervosismo e


ho caldo e freddo allo stesso tempo.
C’è solo una cosa che si sta comportando esattamente nel modo
in cui ho bisogno: Wes. Ogni volta che apro gli occhi è qui. Anche se
sono preoccupato per la sua salute, la sua carriera e tutto quanto,
non posso negare che la sua presenza sia un sollievo. Perché tutto
quello che mi sta succedendo mi sta disorientando.
«Come sono arrivato qui?» chiedo all’improvviso.
Alza lo sguardo dal telefono. «Ehm… In ambulanza, credo. Il tuo
collega Danton mi ha chiamato alla pista, ma non ho sentito tutti i
dettagli.» Si schiarisce la gola. «Credo abbia parlato di
un’ambulanza.»
Ci rifletto mentre le pareti luccicano in modo strano. Dopodiché un
grizzly enorme preme il corpo gigante contro il vetro. Lo fisso mentre
tira la cornetta dal muro, poi sento una voce rimbombare: «Ehi! Sei
proprio una rogna, J-Bomb!»
Le mie sinapsi si avviano lentamente, ma il grugnito di Wes mi
mette al corrente della situazione: è arrivato Blake.
Cazzo! Cerco di togliere la mano da quella di Wes, che però
continua a stringere.
«Wes?» gracchio.
«Sì?»
«La nostra copertura è saltata?»
«Be’…»
L’isteria di Blake fa vibrare i muri. «La vostra copertura è saltata?
Un orso può essere cattolico? Il Papa caga nei boschi? Ho appena
visto tutte e due le vostre facce sul notiziario delle dieci. Bella la tua
foto sull’annuario, J-Bomb.»
Wes salta giù dalla sedia e si avvicina a grandi passi alla finestra.
Sono abbastanza sicuro che gli stia facendo segno di tacere.
«Che c’è?» dice Blake con una scrollata di spalle. «Vedrà un
televisore, un giornale o un telefono prima di domani, no?»
In qualche modo, questa informazione mi aiuta a schiarirmi le
idee. Se siamo sul notiziario, significa che tutto il mondo ha
l’acquolina in bocca come se Wes fosse la portata principale a un
banchetto. «Mi dispiace tantissimo» mormoro.
Wes si volta. «No. Questa non è colpa tua. Neanche un po’.»
Lo so che è così, ma scommetto che la situazione è fastidiosa da
morire. Ecco perché continua a controllare il telefono quando crede
che non stia guardando. «Che dice Frank?»
Wes scrolla le spalle. «La sta gestendo. Non ti devi preoccupare.»
Eppure non sembra neanche lontanamente tranquillo come le sue
parole lasciano intendere.
«Sei bloccato qui con me. Devono essere incazzati.
Probabilmente ci saranno i furgoni dei media davanti allo stadio.»
«Ci sono i furgoni dei media davanti all’ospedale» ci informa Blake
allegramente.
Lo fissiamo entrambi. «Davvero?» chiede Wes.
«Sì! Mi sono dovuto aprire un varco. Ho portato i pigiami» dice,
tirando su un borsone. «Il custode mi ha fatto entrare in casa vostra.
Non sapevo cosa fosse di chi, quindi ho preso tutto.»
Lentamente, in modo impercettibile, io e Wes ci voltiamo per
guardarci negli occhi. In testa ci frulla la stessa domanda
imbarazzante, lo so. Ha aperto anche…
«Forse non avrei dovuto aprire tutti i cassetti» prosegue Blake,
grattandosi il mento. «Non ci si può scordare di alcuni di quei
giocattolini. Ma ognuno si diverte come vuole. A proposito di
divertirsi, vi ho anche portato un panino all’italiana della gastronomia
all’angolo del nostro palazzo. Dite che riesco a convincere
l’infermiera stronza a consegnarvi il borsone?»
Wes fa un lungo sospiro tormentato. Sarò anche io quello in un
letto d’ospedale, ma oggi la sua privacy è stata squarciata e dalla
ferita zampilla sangue. «È una tortura dirtelo, Blake.»
«Che cosa, Wesley?»
«Grazie per l’aiuto.» Il mio ragazzo si gratta la nuca, come se
rivolgere parole gentili al nostro vicino insopportabile gli faccia male.
«Davvero. Apprezzo tutto quello che hai fatto per me oggi.»
«Ohh.» Blake si stringe il petto. «Figurati, novellino. E, ehi, adoro
la poltrona nuova. Magari me ne compro una uguale. Ah! Signorina?
Yuhuu!» Ha avvistato l’infermiera e molla il telefono per galoppare da
lei.
Wes si gira verso di me e mi posa la mano sulla fronte per la
milionesima volta. Probabilmente ho le sue impronte digitali
stampate in faccia. «Stai andando fuori di testa?» gli chiedo.
«No» mente.
«Non mi scuso per essere la causa,» metto le mani avanti, «ma mi
dispiace per il casino in cui ti trovi.»
Posa un gomito sul materasso e avvicina il viso stupendo al mio.
«Sarebbe comunque successo. È come un’operazione: sai che la
devi fare, che è una situazione temporanea, ma per un po’ è
comunque uno schifo.»
«Okay. È vero.»
Quello che nessuno di noi dice ad alta voce è che speriamo non
comprometta la sua carriera. Ieri era l’esordiente superstar, Ryan
Wesley; stasera è Ryan Wesley, il primo giocatore gay dichiarato
della NHL.
La serratura della porta si apre, e l’infermiera e il medico entrano
di nuovo nella stanza. Ma nessuno dei due ha il borsone che Blake
ci ha portato.
«Che novità ci sono?» chiede Wes, alzandosi.
«Spostiamo il signor Canning in un’altra stanza» risponde il
medico.
E a quel punto noto che lui e l’infermiera non hanno le tute
protettive. «I risultati sono negativi» gracchio.
«Sono positivi… per un virus influenzale normale.»
«Non è l’influenza ovina» ripete Wes, sollevato.
«Esatto» conferma il medico. «La classica, vecchia influenza.»
Continuano a parlare, ma sento di nuovo le palpebre pesanti. Wes
chiede perché sto così male, e le parole del medico mi fanno venire
ancora più sonno perché sembra non avere la minima idea del
perché mi sia ammalato. Usa frasi come “presentazione insolita” e
“non abituato al clima”.
Chi se ne frega. Ora voglio solo andare a casa.
«La febbre è scesa a trentotto. È incoraggiante» commenta
l’infermiera. È in piedi vicino alla mia testa e mi sta mettendo il
termometro nell’orecchio. «Appena l’antivirale farà effetto, inizierà a
sentirsi di nuovo un essere umano.»
Al momento sono talmente stordito che mi riesce difficile crederle.
Quando mi risveglio, mi stanno portando in un’altra stanza al
quarto piano. È quasi uguale a quella di prima, solo che devo
sopportare un imbarazzante viaggio per i corridoi su una barella. Mi
spostano sul letto tirando su le lenzuola su cui sono sdraiato e
posandomi sul nuovo materasso.
«Non posso andare a casa e basta?» chiedo a chiunque mi stia
sistemando sul letto.
«Non finché la febbre non scenderà, caro» risponde la nuova
infermiera. È una giamaicana imponente che si chiama Bertha e mi
piace subito. «Probabilmente domani.»
Ma pensavo fosse già domani.
Ha senso?
Ora mi rimetto a dormire.
Chiudo gli occhi mentre Bertha sta ancora trafficando con la flebo.
Wes compare vicino a me. E per ora è tutto quello che mi serve
sapere.
17

Dopo aver sbranato il panino che ha portato Blake, passo il resto


della notte seduto su una sedia di plastica nella stanza di Jamie.
Dormo un quarto d’ora alla volta, con la testa che mi dondola sul
petto. È più stancante che non dormire affatto. Vivendo si impara.
Poi si fa mattina e sobbalzo. C’è troppa luce ovunque, e quando
metto a fuoco l’ambiente mi ritrovo a fissare la testa di Frank
Donovan che fa capolino nella stanza di Jamie.
«Che ore sono?» chiedo, e sembro incoerente perfino a me
stesso.
«Le sette e mezza.»
Scuoto la testa con energia e cerco di riprendermi dalla
stanchezza. «Oggi inizi a lavorare presto?» È in piedi davanti a me e
indossa abito, cravatta e scarpe lucide. Ha i capelli pettinati. Siamo
l’uno il contrario dell’altro.
Frank ridacchia. «Ho spento il telefono alle due e mezza di notte,
l’ho riacceso alle sei e mi sono trovato centocinquanta chiamate
perse. Tutti i media sportivi vogliono parlare con te.»
«Purtroppo per loro non succederà» taglio corto, deciso.
Frank si mordicchia il labbro. «Senti, so che stai passando un
momento difficile, ma per la società non basta rilasciare una
dichiarazione alla stampa. Il mio ufficio sta facendo il possibile per
dire che, per quanto riguarda te, è tutto a posto come sempre, ma i
tifosi hanno bisogno di vederti sul ghiaccio con i tuoi compagni di
squadra. È l’unico modo per dimostrare al pubblico che la
dichiarazione è seria. O questo, o un’intervista sul divano di Matt
Lauer seduto vicino al tuo coach.»
Scoppio a ridere. «Hal non lo farà mai.»
«Hal farà tutto il necessario per il bene della squadra. E anche tu.»
Le ultime parole le pronuncia con un tono minaccioso.
«Altrimenti?» rispondo scontrosamente. «Mi licenziate? Il tizio
gay? Pessima figura.»
Frank batte il piede, spazientito. «Non fare così, Ryan. Mi sto
facendo il culo per calmare il casino con i media. Sono dalla tua
parte. Quindi mettiti quei maledetti pattini e facilitami il lavoro.»
«A che ora sarà l’allenamento, stamattina?» chiedo, meditabondo.
«Alle undici.»
Mi giro verso Jamie. Quando l’infermiera l’ha controllato, un paio
d’ore fa, la febbre era scesa a trentasette e mezzo. Finalmente. «Va
bene, vado all’allenamento, ma stasera non andrò a Tampa. Se
domani lo dimetteranno dall’ospedale, non potrà stare a casa da
solo. Non abbiamo familiari qui.»
Frank ci riflette. «Va bene, andata. Ma sarà meglio che chiami
qualcuno che venga a stare con lui. La prossima partita si terrà a
Nashville. La società non ti farà saltare delle partite a meno che non
si tratti di emergenze familiari serie.»
Vorrei ribattere qualcosa ogni volta che lo dice. Questa è
un’emergenza familiare seria. La più seria.
«…e i tifosi devono vedere che la tua posizione nella squadra è
sicura. Se non ti fai vedere, sembrerà che stiamo cercando di
liberarci di te. Tu presentati e pattina, le acque si calmeranno più in
fretta.»
Be’, ora sì che parla la mia lingua. «Va bene. Vedrò di
organizzarmi per Nashville» gli dico per farlo stare zitto. «E alle
undici sarò in pista.»
Solleva il mento verso la stanza di Jamie. «Salutalo adesso. Ti
porto a casa così potrai dormire un paio d’ore. Ci servi in forze.»
Siamo un tantino insistenti? Lo fisso per un attimo. Ma, porca
misera, sono bloccato qui in ospedale senza la macchina.
«Aspetta.»
Jamie è sveglio quando entro nella stanza. «Ti sta bene se vado
via per qualche ora?» Mi siedo nei pochi centimetri liberi di
materasso accanto al suo fianco. «Ti fa male da qualche parte?»
Deglutisce forte, come se avesse la gola in fiamme. «Va’. Starò
bene.»
«Vuoi un po’ d’acqua?» Mi guardo intorno alla ricerca del bicchiere
con la cannuccia.
«Va’» ripete con veemenza. «Ma…»
«Cosa?» Poso entrambe le mani sul letto e guardo il suo viso
bellissimo.
«Torna, più tardi» mi chiede con un sorriso. «Magari mi faranno
andare a casa.»
Mi chino e gli bacio la fronte, poi prendo il borsone dal pavimento
ed esco, prima di cambiare idea.

A casa, dormo come un sasso per due ore. Poi faccio la doccia e
vado alla pista. Sono un po’ in ritardo, ma va bene così: ci sarà
meno tempo per le chiacchiere nello spogliatoio. Sono troppo stanco
per stare a sentire le cazzate che i miei compagni potrebbero dire su
di me. Al momento non ci voglio neanche pensare. Non voglio
sapere se stanno cercando di farmi andare in uno spogliatoio
separato o stronzate del genere.
Quando entro nello spogliatoio, tutti smettono di parlare.
Pace. Non me ne frega un cazzo. Butto il borsone sulla panca e
mi tolgo il cappotto. Non si sente volare una mosca. Appendo il
cappotto e scalcio via gli scarponi.
«Wesley, brutto stronzo» esordisce Eriksson. «Non ci dici niente?»
«Dirvi cosa?» ringhio. La mia vita sessuale non è affar loro, che
cazzo.
«Come sta? Cristo santo, a sentire la TV il tuo ragazzo ha un
piede nella fossa.»
Le mie dita incespicano sui bottoni della camicia verde acceso.
«C-come?»
Il nostro portiere di riserva, Tomilson, interviene con un tono
sarcastico. «Quello che il signor Tatto sta cercando di chiedere è se
il tuo compagno sta bene.»
Mi risulta difficile tenere la mascella serrata. Prima di tutto, io e
Tomilson ci siamo scambiati a malapena dieci parole da quando
sono entrato in squadra. Il veterano se ne sta sulle sue, e con due
Stanley Cup in saccoccia immagino si sia guadagnato il diritto di non
presentarsi agli eventi mediatici, perché non l’ho mai visto a una
conferenza stampa né alle feste. Blake mi ha detto che passa tutto il
tempo libero con la moglie e i figli.
Sentire che si riferisce a Jamie come al mio “compagno”, e senza
giudicare, senza nessuna nota impacciata o disgustata nella voce,
mi fa pizzicare gli occhi. Porca troia. Se inizio a piangere nello
spogliatoio davanti ai miei compagni, me lo ricorderanno finché vivo.
Sento un groppo in gola, me la schiarisco. «Sta meglio. La febbre
è scesa, e penso che oggi lo dimetteranno.» Ho la voce roca quando
aggiungo: «L’influenza l’ha distrutto. Non ho mai visto niente del
genere».
«Almeno non era quel ceppo pericoloso» commenta Tomilson. «Il
coach ha detto che era una normale influenza, quindi è un bene,
no?»
Annuisco. Nella stanza torna a regnare il silenzio e mi irrigidisco
istintivamente in attesa di altre domande. Mi sembra troppo… facile.
Perché non mi tartassano per conoscere i dettagli della mia vita o
non mi chiedono perché non ho confessato loro di essere gay?
Però anche i miei compagni di squadra all’università avevano
reagito bene alla notizia della mia sessualità. Anche allora avevo
pensato fosse stato troppo facile, e mentre sono qui ad aspettare
che la mia squadra mi giudichi, mi rendo conto di che razza di
bastardo cinico sia diventato. Forse in questo mondo c’è più
tolleranza di quanto pensassi. È possibile? I miei genitori omofobi
sono l’eccezione in un sistema che si sta pian piano evolvendo?
Passa qualche altro secondo di silenzio, poi Eriksson parla di
nuovo. «È stata la camicia, eh?»
Sbatto le palpebre, confuso, e lui indica la camicia verde che ho
addosso.
«Lo sapevo. Ti ha fatto diventare gay» commenta allegramente.
«Matt» lo riprende uno dei nostri compagni, ma è troppo tardi: gli
altri stanno già ridacchiando e, porca miseria, anch’io.
«Quante volte te lo devo dire?» brontolo. «Questa camicia è
divina, porta la luce nel mondo.»
Forsberg ridacchia. «È accecante, ecco cos’è.» Mi si avvicina e mi
dà una pacca sul culo. «Datti una mossa e preparati. Il coach non ci
andrà leggero con te solo perché il tuo ragazzo ha l’influenza. Una
volta sono arrivato tardi all’allenamento perché la mia Donna era
malata, e il vecchio bastardo mi ha fatto fare cento flessioni. Con
tutta l’attrezzatura addosso. E i pattini. Sai quanto cazzo è difficile?»
«La tua donna? Non sapevo avessi la ragazza…» Ma è già sparito
nel corridoio, quindi Eriksson risponde per lui.
«Non ce l’ha» sorride. «Donna è il nome del suo cane.»
Va bene, quindi Forsberg ha un cane che si chiama Donna. Il che
è un altro promemoria su quanto poco mi sia sforzato di conoscere
gli uomini con cui pattino ogni giorno.
Sento di nuovo il groppo in gola. Deglutisco e mi cambio
velocemente per l’allenamento.

Stamattina è stato permesso a pochi membri della stampa di


entrare – reporter e giornalisti che sono stati scelti sicuramente da
Frank e dalla squadra di agenti.
La società di solito non permette l’accesso alla stampa il giorno
prima di una partita, ma oggi Frank sta facendo un’eccezione: la
gente mi deve vedere sul ghiaccio con i miei compagni, ed è
esattamente quello che vedrà.
Sono dolorosamente consapevole delle telecamere che mi
seguono come la luce di un puntatore laser. Ogni mia mossa è
documentata e fotografata, e riesco praticamente a immaginare le
didascalie sotto le foto.
Quando il coach mi rimprovera per aver sbagliato un tiro facile:
Sale la tensione. Hal Harvey e Ryan Wesley si scontrano durante
l’allenamento!
Quando io ed Eriksson battiamo il petto dopo che gli ho fatto un
bell’assist: Matt Eriksson appoggia il compagno di squadra gay! O,
se si parla di giornali scandalistici, immagino che il titolo sarebbe:
Matt Eriksson e Ryan Wesley: amanti gay?
Quando saluto e sorrido a uno dei giornalisti (dopo uno sguardo
eloquente di Frank): Orgoglioso di essere gay! Ryan Wesley
abbraccia l’attenzione dei media!
In questo momento, odio la mia vita. Davvero. L’unica cosa buona
è che l’uomo che amo non è più “privo di sensi” su un letto
d’ospedale. Jamie si sta riprendendo. Ero terrorizzato all’idea di
poterlo perdere, e sapere che starà bene è il lato positivo a cui mi
aggrappo durante questo spettacolino.
Dopo che il coach fischia e ci manda negli spogliatoi, faccio per
uscire come un fulmine dalla pista, il che mi fa guadagnare un’altra
occhiataccia di Frank, ma può andarsene a fanculo. Gli avevo detto
che non avevo intenzione di parlare con la stampa ed ero serio.
Nello spogliatoio, mi tolgo l’attrezzatura più velocemente di quanto
l’avessi messa. Quando sento un brusio nel corridoio, mi si stringe lo
stomaco. Perfetto. Frank avrà dato ai media l’accesso a tutta la
struttura, oggi. Purtroppo, c’è solo una via d’uscita dallo spogliatoio,
ed è dalla porta dietro cui probabilmente c’è una vagonata di
giornalisti.
Tomilson mi lancia uno sguardo solidale mentre vado con cautela
verso la porta.
«Sorridi e saluta» consiglia Eriksson.
«Saluta come la regina Elisabetta» suggerisce Luko. Poi fa il
movimento lento della mano che ogni membro della famiglia reale
britannica ha perfezionato, e tutti scoppiano a ridere.
«È un modo carino per darmi del finocchio?» scherzo.
Il sorriso gli sparisce dalla faccia. «N-no! Io non…»
«Tranquillo, ti sto prendendo in giro. Giuro su Dio.» Merda. Non ho
mai avuto occasione di pensare a come rassicurare questi ragazzi.
«Non mi offendo tanto facilmente. E, per la cronaca, nessuno di voi
cessi è il mio tipo. A parte forse Eriksson, ma non voglio essere il
suo ripiego.»
Eriksson ridacchia e io vado via, uscendo dalla porta appena in
tempo per sentire il coach Harvey rilasciare una dichiarazione che mi
fa uscire gli occhi dalle orbite.
«Se essere omosessuale vuol dire stare sui pattini come Ryan
Wesley, dovrò incoraggiare il resto dei miei giocatori a farci un
pensierino.»
I presenti sorridono e ridacchiano, per poi iniziare a gridare
appena mi notano nel corridoio.
«Ryan! Hai un messaggio per gli atleti gay troppo spaventati per
fare coming-out?»
«Come ci si sente a essere il primo giocatore gay dichiarato della
NHL?»
«Quando hai scoperto di essere gay?»
«Vuoi rispondere qualcosa alla dichiarazione del coach Harvey?»
Ero pronto a trincerarmi dietro un “no comment” finché la frase
non avesse perso significato, ma dopo aver sentito il mio coach
sostenermi apertamente (anche se in modo un po’ colorito), non
posso fare a meno di rispondere all’ultima domanda.
«Hal Harvey è il coach migliore per cui abbia mai pattinato»
dichiaro con voce rauca. «Spero di continuare a renderlo orgoglioso
per le stagioni a venire.»
I giornalisti sparano un’altra raffica di domande, ma ho detto tutto
quello che dovevo dire, quindi abbasso la testa e mi faccio strada
nella calca, lasciando che le voci mi rimbalzino addosso. Ci sono
gruppetti di giornalisti e furgoncini fermi nel parcheggio, ma ignoro
anche quelli e mi chiudo velocemente in macchina. Grazie a Dio ha i
vetri oscurati. Sono sicuro che le telecamere mi abbiano ripreso
mentre mi tuffavo sul sedile, ma spero che nessuno veda che mi sto
sfregando le mani sul viso e che sto emettendo un gemito
tormentato. Un attimo dopo, mi allontano dall’edificio e il Bluetooth
mi avverte che ho una chiamata in arrivo. Sullo schermo compare il
nome di Frank.
Ignoro la chiamata premendo il pulsante sul volante. Quando il
telefono squilla di nuovo, quasi strappo il volante dal resto della
macchina. Ma porca puttana, non può darmi un attimo di pace?
Un attimo, non è Frank. Mi rilasso quando leggo il nome di Cindy
Canning, e stavolta non esito a rispondere.
«Ciao, tesoro» mi saluta, e la sua voce scalda la macchina molto
meglio dell’aria che esce dalle ventole. «Ho appena parlato con
Jamie. Ha detto che non lo dimetteranno. Non ti voleva chiamare nel
caso fossi stato ancora all’allenamento.»
La notizia è come una doccia fredda. Speravo davvero che lo
facessero uscire oggi. Ma almeno così Frank non riuscirà a
convincermi a partire per Tampa stasera. Finché Jamie sarà in
ospedale, l’unico viaggio che farò sarà per andare al suo capezzale.
«Sono appena uscito, ora vado all’ospedale.»
«Jamie ha detto che non giocherai la partita di domani.» Sembra
preoccupata.
«Infatti. E neanche quella dopo, e forse quella dopo ancora.» Al
diavolo Frank e le sue stronzate sulle “emergenze familiari”. Questa
è un’emergenza familiare.
«Ryan…»
«Non metterò piede su un aereo finché Jamie non si sarà ripreso
del tutto» dichiaro con fermezza.
Il suo tono è altrettanto deciso. «Ryan.»
«Mamma» la imito, ma poi mi addolcisco. «Sono tutto quello che
ha qui. Non c’è nessun altro che possa stare con lui quando sono
via, e mi rifiuto di lasciarlo da solo a casa, almeno finché non sarò
certo che è guarito completamente.»
Cindy sospira. «Va bene. Aspettiamo che lo dimettano prima di
prendere decisioni affrettate.»
Metto la freccia a destra per prendere l’uscita dell’autostrada. È
ancora abbastanza presto, quindi sulla Gardiner non ci sarà troppo
traffico. «Ti chiamo appena capirò meglio quando lo dimetteranno»
assicuro alla madre di Jamie.
«Grazie, tesoro. Non appena vedrai Jamie, riferiscigli che ha una
nuova nipotina. Lilac è nata circa un’ora fa, quattro chili e due.»
«Wow, congratulazioni, nonna! Ma… Lilac?»
«Tammy aveva farmaci in circolo.»
«Ah. Senti, Cindy… grazie per quello che hai detto ieri.»
«Cos’ho detto?» chiede, incerta.
«Il mantra che mi hai insegnato» le ricordo. «“Andrà tutto bene”.
L’ho ripetuto tre milioni di volte, ieri sera, e mi ha fatto sentire
davvero meglio.»
Dalle casse della macchina si diffonde una risata. «Ah, quello? Ho
inventato al volo quella stronzata perché ne avevi bisogno, tesoro.»
Non riesco a trattenere una risata isterica. E ha appena detto
“stronzata”? Quella donna non pronuncia mai parolacce.
«Be’, ha funzionato. Mi hai risparmiato una crisi di nervi.»
«Mi fa piacere. Ora staccati dal telefono e concentrati sulla guida.
Prenditi cura del nostro ragazzo. Ti voglio bene.»
«Ti voglio bene anch’io.»
Termino la chiamata e ringrazio il cielo che Cindy e il resto del clan
Canning facciano parte della mia vita. Poi vado in ospedale a
prendermi cura del nostro ragazzo.
18

L’ospedale mi ha trattenuto un altro giorno solo per eseguire altri


esami. Mi hanno fatto talmente tanti prelievi che ho sognato vampiri
col camice.
Ho dovuto quindi passare un’altra notte qui dentro. Mentre
cercavo di coricarmi, continuavano a entrare per misurarmi la febbre,
ogni ora. E adesso ho una tosse secca continua che mi impedisce di
dormire anche quando gli infermieri non mi stanno pungolando.
Se non altro, ho convinto Wes ad andare a casa a riposare. Si
perderà la partita a Tampa per niente, perché sono ancora qui, che
cavolo. Voglio uscire da questo letto e mettermi i miei vestiti.
«Ciao, splendore!»
Sono circa le dieci quando viene a trovarmi, ben riposato e fresco
come una rosa. Mentre io sembro uno straccione con la barba e con
le ascelle che puzzano, almeno uno di noi due è a proprio agio.
«Ti ho portato una brioche al cioccolato e un cappuccino» dice,
baciandomi la tempia prima di lasciarsi cadere sulla sedia. «E ci
sono buone notizie: dovrebbero dimetterti tra un paio d’ore.»
«Ottimo» rispondo, cercando di credergli. «Grazie.» Prendo la
tazza che mi offre e bevo, ma un attimo dopo mi si contrae lo
stomaco. Cazzo. La poso sul tavolo. Se non riesco a reggere
neanche il caffè, tanto vale portarmi fuori e abbattermi.
Il suo sorriso sparisce. «Che succede? Cosa posso fare?»
Sono già stanco di essere quello per cui la gente fa le cose.
«Voglio solo farmi una doccia e andare a casa.»
L’infermiera Bertha schiocca la lingua. «Bisogna che la febbre
passi, prima di poter usare la doccia. Sono grossa, ma non
abbastanza da prenderti al volo se cadi.»
«Hai ancora la febbre?» esclama Wes, posandomi la mano sulla
fronte.
Faccio uno sforzo immane per non scrollarmelo di dosso. «È
bassa» borbotto. «Niente di che.»
«Posso portare una bacinella e un asciugamano, così potrai
rinfrescarti» propone Bertha. Si batte un’unghia smaltata di rosso
sulle labbra. «Oppure posso prendermi mezz’ora di pausa in
anticipo, venire qui e aiutarti a darti una sciacquata.»
«Ma dopo vado a casa, vero?» supplico, perché è quella l’unica
cosa che conta. A casa posso fare il cazzo che voglio.
«Certo, caro. Il medico farà il suo giro a mezzogiorno e ti
dimetterà. Ci vediamo fra trenta minuti.» Esce e io gemo, il che mi fa
iniziare a tossire. Evviva.
Wes attraversa velocemente la stanza e chiude la porta. «Okay, in
piedi!» ordina, togliendosi la giacca. «È l’ora della doccia.»
«Cosa?» Tossisco di nuovo, perché è difficile smettere anche se
mi fa già male la pancia per lo sforzo.
«Cristo, Canning.» Wes mi lancia un sorriso sornione da oltre la
spalla, lo stesso che mi rivolge da quando avevamo quattordici anni.
«Le regole sono fatte per essere infrante. Non si può chiudere la
porta a chiave, ma pazienza.» Quando si gira, vedo che si sta
sbottonando la camicia.
«Che stai facendo?»
«Non voglio bagnarmela» risponde con i tatuaggi in vista. Lancia
la camicia sulla sedia e poi abbassa la lampo dei jeans.
Ma io sono ancora titubante, le mani sul lenzuolo che mi copre le
gambe. Ho le parole sulla punta della lingua: Ci cacceremo in un
mare di guai.
«Vuoi farti una doccia, no?» Nei suoi occhi c’è un lampo divertito.
«L’acqua calda calmerà quella brutta tosse. Abbiamo trenta minuti al
massimo. Apro l’acqua.»
Sparisce nel piccolo bagno, dove sono stato solo una volta. Ieri
sera, invece di chiedere la padella, sono andato lì dentro,
barcollando, per fare la pipì. Che devo rifare, ora che sento l’acqua
scorrere.
Be’, ora o mai più.
Scendo con cautela dal letto e poso i piedi sulle mattonelle fredde.
Odio questa stupida vestaglia dell’ospedale che ho addosso; non
riesco a guardarla senza provare disgusto.
Devo ricordarmi di non ammalarmi mai più. Questo posto fa
schifo.
Vacillo nel tragitto verso il bagno. Ho pochissime linee di febbre,
ma non ho mangiato molto negli ultimi due giorni. Quando arrivo al
water, afferro la sbarra attaccata al muro come se fossi una
vecchietta.
«Okay, l’acqua è calda» annuncia Wes allegramente. Ma so che
mi sta studiando con attenzione e che ha un’espressione
preoccupata.
Mi giro e miro al water, poi svuoto la vescica. Wes finge di
trafficare con il rubinetto della doccia per tutelare la mia dignità a
pezzi. Dopo aver tirato l’acqua, mi slaccia la vestaglia e la appende
a un gancio. Lo supero ed entro nel piccolo box doccia.
«Siediti» mi chiede con disinvoltura. C’è una panca che mi
aspetta.
Lo ignoro e vado direttamente sotto l’acqua. È fantastico. Mi giro
lentamente, crogiolandomi nel getto della doccia. Ma ora mi gira la
testa, cazzo.
Una mano calda mi afferra il braccio. Che mi piaccia o no, mi
guida con fermezza sulla panca. Poso i gomiti sulle ginocchia e mi
prendo la testa tra le mani. Se non fossi così stanco, potrei anche
piangere. E qui, l’acqua mi arriva addosso da un’angolazione strana,
maledizione.
Sento un fruscio accanto a me, e il getto d’acqua si sposta.
Quando apro gli occhi, Wes è nudo ed è in piedi nel box. Ha preso il
soffione della doccia, che è attaccato a un tubo. Canticchiando tra sé
e sé, lo gira per farmi andare l’acqua sulla schiena. «Piega la testa
all’indietro» indica, piano. Quando lo faccio, mi bagna i capelli.
L’acqua sparisce un attimo dopo e sento le mani di Wes
insaponarmi la testa. Abbiamo fatto la doccia insieme centinaia di
volte, ma mai così. Odio dover dipendere da lui in questo modo.
Piegandomi in avanti, appoggio la fronte sul suo fianco e sospiro.
Lui continua a lavorare. Le mani forti che tanto amo mi sfiorano la
nuca, le spalle, dietro le orecchie. Poi mi risciacqua, posandomi una
mano sulla fronte per evitare che il bagnoschiuma mi vada negli
occhi. Mi bruciano comunque per la frustrazione. Poi si inginocchia
davanti a me.
Quando alzo lo sguardo, i sui occhi grigi, alla stessa altezza dei
miei, mi guardano con serietà. «Ehi.»
«E-ehi» balbetto. Non ti preoccupare, sto solo avendo un cazzo di
esaurimento.
Mi prende il viso tra le mani e mi bacia. Chiudo le palpebre e lo
attiro a me. Le sue labbra sono morbide e bagnate. Muove con
veemenza la bocca contro la mia, e la sua lingua calda mi passa tra
le labbra. Ci ritroviamo a pomiciare nella doccia di un ospedale, il
che è una cosa folle. Ma non si tratta di sesso: è un bacio di
conforto. Mi piace molto di più di una mano sulla fronte.
Quando Wes si allontana, mi rivolge un sorriso tenue. «Stasera
sarai a casa» sussurra. «Nel nostro letto.»
Deglutisco forte, poi annuisco. Sarà meglio che sia così.
«Alza le braccia» sollecita.
Quando lo faccio, mi lava sotto le braccia, massaggiando la pelle
sensibile con le mani insaponate. Quelle stesse mani proseguono il
viaggio scendendo sugli addominali e tra le gambe. Mi fa allargare le
ginocchia e mi lava l’interno coscia, sfiorandomi le palle con le dita.
Indugia in quel punto, toccandomi lentamente. Mi sta ricordando che
la vita non è sempre una rottura come ora, e sono grato per il
messaggio.
Ricomincia a canticchiare, prende di nuovo il soffione della doccia
e mi risciacqua con calma, toccandomi ovunque con le mani che
manifestano ammirazione. «Forse dovremmo uscire da qui»
propone alla fine.
«Sì.»
Wes chiude l’acqua e prende entrambi gli asciugamani appesi. Se
ne avvolge uno intorno alla vita e mi posa l’altro sulla testa, poi inizia
a frizionare per asciugarmi i capelli.
«Faccio io» dico, sollevando le braccia pesanti per fare il lavoro.
«Puoi vedere che vestiti mi ha portato Blake?»
«Ha preso dei pantaloni di flanella, quindi stamattina ti ho portato i
jeans. Aspetta.»
Wes si asciuga in fretta e si infila i boxer. Lo sento saltellare per la
stanza per rivestirsi. Poi torna con la biancheria intima e i jeans per
me. «Alzati, piccolo.»
Un po’ a fatica, eseguo. Mi asciugo, ma lo faccio appoggiato a lui.
Wes lancia il suo asciugamano sulla panca nella doccia, e io mi ci
siedo sopra per infilarmi la biancheria e i jeans. Mi porge una mano,
che afferro per alzarmi, e mi stringe in un abbraccio.
Se ho mai dubitato del suo amore per me, sono stato un idiota.
«Forza.» Mi lascia tornare da solo nella stanza, ma mi avvicina la
sedia. «Siediti. Ti sentirai meglio se starai fuori da quel letto per un
po’.»
Ha ragione, è vero. Mi siedo vicino alla finestra. Wes sta frugando
nel borsone che ha portato Blake. «Ehi, ti va di farti la barba?»
Solleva un rasoio e un tubetto di schiuma da barba.
«Qui? Adesso?»
«Hai altri programmi?»
«No» ridacchio.
Wes mi avvolge l’asciugamano intorno alle spalle, poi prende una
specie di bacinella da un armadietto. Non voglio nemmeno sapere a
cosa serve. La riempie d’acqua e si china su di me. Mi spalma la
schiuma sulle guance e sul mento e poi, centimetro dopo centimetro,
mi rasa.
Sento il suo respiro sullo zigomo quando si china per rasarmi con
attenzione. L’acqua è calda, come il suo tocco. Farsi fare la barba
dal barbiere era qualcosa che gli uomini facevano ai bei vecchi
tempi, ma ora so che la procedura è stranamente intima. Il mio viso
è sensibilissimo al tocco di Wes. Mi godo il modo in cui mi tocca la
mascella con la mano libera e mi sfiora la guancia con il pollice per
controllare il risultato del suo lavoro.
Quando cambia lato, mi bacia la nuca. «Dovrei andare a
Nashville, domani mattina» dice, mentre mi dà un colpetto sotto il
mento con due dita. «Alza.»
Eseguo. «Devi andare. Starò bene» rispondo subito. «Ordinerò
una zuppa da asporto e guarderò la TV a casa. Tanto non mi serve
altro, solo qualche giorno di pace. Sarò come nuovo.»
Ha quasi finito quando Bertha ritorna. «Ma guarda un po’,» esulta,
«qualcuno qui sembra più contento.»
Davvero? Probabile. È bello essere pulito.
Non dice niente in merito al vapore o ai nostri capelli umidi e ai
piedi scalzi, ma toglie le lenzuola dal letto e sparisce per tornare un
minuto dopo con altre pulite. Wes finisce di togliermi gli ultimi residui
di schiuma da barba dalla faccia.
«Ora siediti di nuovo qui» dice Bertha, sollevando lo schienale del
letto e indicandolo. «Ti porteranno del brodo di pollo per pranzo,
mentre io andrò a caccia dei documenti per dimetterti.»
Il brodo non sa di niente, ma lo mangio lo stesso nel caso sia una
specie di esame per stabilire se posso tornare a casa. Io e Wes
finiamo per dividerci la brioche al cioccolato, e io mando giù la mia
metà. Non ho appetito, ma sono stufo di sentirmi così debole.
Wes trova su Facebook una foto della mia nuova nipotina; poi,
miracolosamente, compaiono i documenti per le mie dimissioni. Wes
parla con un medico di tutti quei cavolo di esami, ma io nemmeno
ascolto. Non è risultato niente di interessante, e voglio solo lasciarmi
quest’incubo alle spalle.
L’insulto finale è la sedia a rotelle che Bertha mi porta. «È il
regolamento» insiste. «Come in TV.»
Voglio andarmene da qui così disperatamente che non ribatto
neanche e mi siedo su quell’affare.
Wes prende il borsone e mi spinge fino agli ascensori. La libertà è
vicina! Deve pensarlo anche lui, perché quando arriviamo al piano
terra mi spinge correndo e segue i cartelli che portano al garage.
Quando le porte si aprono, l’aria fredda mi toglie il fiato. Non ho la
giacca.
«Scusa» prorompe Wes, stringendomi la spalla. «Dovrebbe
essere… lì!»
Un Hummer si ferma davanti a noi, e Blake Riley sorride da dietro
il volante. «Perché Blake non è a Tampa?» chiedo.
«Infortunio al ginocchio. Si perderà… Oh, cazzo.»
Sto ancora assimilando la brutta notizia di Blake, quindi mi ci vuole
un attimo per rendermi conto del rumore di passi sull’asfalto.
«Ryan Wesley!» grida una voce. «Ci dica come state!» Poi i flash
iniziano a illuminare i muri di cemento del garage. «Da questa parte,
Wesley!»
«Ignorali» sbotta Wes, teso. Spalanca la portiera posteriore
dell’Hummer e si gira per darmi una mano.
«Se mi aiuti adesso, ti disintegro» lo minaccio.
Lui solleva velocemente le mani, come un criminale beccato dalla
polizia, e mi alzo da solo.
Dopo pochi passi, scivolo sul sedile in pelle della macho-mobile di
Blake.
Wes lascia la sedia a rotelle e si siede accanto a me. Chiude la
portiera mentre i giornalisti si affollano dietro i finestrini. Uno degli
stronzi riesce a puntare l’obiettivo contro i vetri oscurati e illumina
l’abitacolo con il flash.
Sento un grugnito dal sedile anteriore, poi Blake va avanti di
qualche centimetro e il trucchetto funziona: nessuno vuole che la
macchina gli distrugga i piedi. Blake accelera e Wes sospira.
«Cristo.»
Per un paio di minuti restiamo in silenzio, mentre Blake si
destreggia fra le strade trafficate di Toronto. «Come ti senti, J-
Bomb?»
«Bene» rispondo, ma poi inizio a tossire come un tubercolotico.
Wes è accanto a me, nervoso e in silenzio, e sta scorrendo quella
che sembra la lista di messaggi di una vita. «Oh!» esclama
all’improvviso. «Meno male.»
«Cosa?» chiedo tra un colpo di tosse e l’altro. Al momento, una
bella notizia farebbe bene.
Solleva il telefono per farmi vedere un messaggio di mia madre:
“Secondo il tuo calendario andrai a Nashville e poi in Carolina.
Quindi mandiamo Jess con il volo notturno. Arriverà di mattina”.
«Aspetta» boccheggio, cercando di rilassare la gola. «Cosa?»
«Jess sta venendo a prendersi cura di te perché io sarò fuori città.
Cavolo, potrei baciare tua madre. Peccato che Jess non arrivi fino a
domani.»
«Non ho bisogno di Jess» borbotto. «Non ho bisogno di nessuno»
mi correggo. Cristo. Mia sorella si impossesserà del telecomando e
mi tormenterà in continuazione.
Ma Wes mette via il telefono e si rilassa sul sedile. «Troppo tardi.
Pare abbiano già acquistato il biglietto.»
È parecchio sollevato, quindi trattengo le obiezioni. «Grazie per
essere venuto a prendermi» gracchio a Blake.
«No problem! Mi piace guidare la macchina per la fuga come un
gangster. Pensi che sarei bravo?» Si schiarisce la gola e fa una
pessima imitazione de Il Padrino. «Luca Brasi dorme coi gusci.»
«È pesci, campione» gli faccio notare.
«Ma va’» ridacchia. «Impossibile. Non avrebbe senso.» Gira un
angolo troppo velocemente, e io e Wes ci ritroviamo schiacciati dal
mio lato.
Wes mi posa una mano sul petto, come si fa con i bambini piccoli
che non hanno la cintura. Se tutti mi lasciassero in pace, starei bene.
Davvero.
«Non so se metterei la testa di un cavallo nel letto di qualcuno,
però» riflette Blake. «Sporca un po’ troppo.»
Piego la testa all’indietro sul poggiatesta e mi chiedo come ci
siamo trovati in questa situazione.
19

Wes è già andato via quando la mattina dopo sollevo le palpebre


pesanti. C’è un post-it verde sul suo cuscino e allungo a fatica una
mano per prenderlo.
“Volevo salutarti con un pompino, ma eri talmente esausto che
non ho avuto il coraggio di svegliarti. Ti chiamo quando arrivo a
Nashville. Blake è sul divano, se hai bisogno di lui. Jess arriverà alle
undici. Ti amo”.
La sua calligrafia illeggibile mi tranquillizza, ma quello che ha
scritto… non proprio. Non mi serve una balia, men che meno due.
Ciò che mi serve è uscire dal letto, vestirmi e andare all’allenamento
della mattina.
Ci sono persone che dipendono da me, che cavolo. Braddock mi
avrà anche dato la settimana libera (in realtà, mi ha dato un tempo
indefinito, finché “mi sarò ripreso”), ma non esiste che salti il lavoro.
Tra qualche settimana abbiamo un torneo importante, i ragazzi
devono essere pronti. Il mio portiere deve essere pronto. Mi sento
male a pensare che un altro coach potrebbe lavorare con Dunlop
solo perché ho una stupida tosse e…
Mi siedo sul letto e quasi vomito un polmone. Cazzo. Mi lacrimano
gli occhi e mi fa male il petto, mentre mi afferro il fianco e tossisco
talmente forte che ho paura di essermi incrinato una costola.
Nel corridoio rimbombano dei passi pesanti. In un secondo Blake
compare alla porta con addosso un paio di boxer a quadri e i capelli
arruffatissimi. «Geeezù! Stai bene, J-Bomb?» mi chiede. «Come
posso aiutarti? Acqua? Antidolorifici?»
Lo guardo storto tra un colpo di tosse e l’altro. Quando si avvicina,
sollevo di scatto la mano e gracchio: «Sto bene».
I suoi occhi verdi mi guardano, scettici. «Non stai bene. Sembra tu
stia per schiattare da un momento all’altro. Chiamo Wesley!»
Per fortuna, in quel momento la tosse si calma e scendo a fatica
dal letto. «Non c’è bisogno di chiamarlo» sbotto bruscamente. «Ho
detto che sto bene.»
«Ah, davvero? Allora perché stai barcollando come… Cos’è che
barcolla? Un cucciolo di cavallo, giusto? Un puledro.» Sembra
soddisfatto di sé. «Perché barcolli come un puledro? Ehi, dove stai
andando?»
Mi fermo davanti alla porta del bagno privato. «Devo pisciare»
rispondo a denti stretti. «Posso?»
Blake mi segue fin dentro il bagno. Con mio disappunto incrocia al
petto le braccia enormi e dichiara: «Wesley ha detto che non posso
perderti di vista, nel caso cadessi o cose del genere.»
Ma porca di quella puttana. «Mi vuoi anche tenere l’uccello?»
borbotto.
Lui ridacchia. «No, quello lo lascio fare al tuo uomo. Io mi limito a
guardare.»
Non c’è niente di più umiliante di fare pipì mentre il compagno di
squadra gigante del tuo ragazzo ti guarda. Dopo mi segue in
camera, dove faccio uno sforzo immane per vestirmi.
«Non c’è bisogno che ti metti in tiro per me» commenta, mentre mi
abbottono la camicia.
«Non è per te» ribatto. «Tra un’ora ho l’allenamento.»
«Oh, non penso proprio.» Un secondo dopo, mi trovo di nuovo
Blake davanti. Che mi sbottona la camicia. Provo a scostargli le
mani, ma senza successo. «Non vai da nessuna parte, se non di
nuovo a letto» ordina. «O sul divano, se vuoi guardare i talk show
del mattino con me. Ti piace The View? A me sì. Le conduttrici sono
divertenti. Ci sono stato una volta, lo sapevi? Ci ho provato con
Whoopi. Non è andata bene.» Fa il broncio. «Che palle, eh?»
«Blake.»
Si ferma. «Sì?»
«Chiudi. Quella. Cazzo. Di. Bocca.» Sono stato maleducato, lo so.
Ma, porca vacca, mi scoppia la testa, mi fa male il petto e le gambe
a malapena mi reggono. Almeno le mie orecchie si meritano un po’
di pace, no? Questo bestione non può tapparsi la bocca per cinque
cazzo di secondi?
Sul suo viso passa un lampo di dolore. «Ah, okay. Scusa.» Poi la
sua espressione si indurisce, e capisco perché è così bravo sul
ghiaccio: il suo sguardo della serie “non scherzare con me” è
terrificante. «Ma non andrai all’allenamento, J-Bomb. È meglio che ti
metti l’anima in pace perché non succederà.»

Io e Blake guardiamo The View. In silenzio. Nella mia testa sento


quella canzone di Joni Mitchell sul non sapere cosa si ha finché non
c’è più. In realtà mi mancano le chiacchiere senza senso di Blake.
Il silenzio è straziante. Mi induce a rendermi conto del mio respiro
instabile, del sibilo nel petto ogni volta che inspiro. Quando tossisco,
Blake si sporge in silenzio e mi dà delle pacche sulla schiena, e
quando smetto mi passa un bicchiere d’acqua intimandomi con il
solo sguardo di bere.
Cazzo. È proprio una brava persona.
«Mi dispiace» sparo.
Inclina la testa verso di me.
«Mi dispiace di averti detto di stare zitto. È che non sono abituato
ad accettare aiuto. Non sono abituato a essere…» Impotente. Non
riesco neanche a dirlo. E ora mi sento avvampare, ma non so se è
per l’imbarazzo e la frustrazione o perché mi è tornata la febbre. La
felpa e i pantaloni che ho addosso sono umidi, ora che ci penso. Sto
sudando.
«Va tutto bene» borbotta Blake.
Allungo la mano e gliela poso sulla spalla, stringendo
leggermente. «No, non è vero. Sono stato uno stronzo. Mi dispiace.
Sei un buon amico, Blake.»
Un attimo dopo, mi rivolge un enorme sorriso. «Cavolo se lo sono.
Scuse accettate, Brontolo. Lo so che ti girano solo perché…» Si
blocca e aggrotta le sopracciglia. «La tua mano sembra un guanto
da forno. Be’, se il guanto stesse arrostendo dentro al forno. Ti è
tornata la febbre?»
«No.»
Mi lancia uno sguardo sospettoso, ma almeno non salta giù dal
divano alla ricerca di un termometro. Non credo neanche che ne
abbiamo uno.
Però mi prende un bicchiere d’acqua fredda e qualche pastiglia,
che mi sforzo di mandare giù. Purtroppo sono di quelle che inducono
sonnolenza, quindi poco dopo mi ritrovo a russare sul divano. Non
so per quanto dormo, ma a un certo punto sento dei cani che
abbaiano. C’è un chihuahua che emette un latrato acuto e sembra
incazzato. Il rottweiler contro cui abbaia… forse pensa che il
chihuahua sia in calore? Sembra contento. I chihuahua e i rottweiler
si accoppiano? I cuccioli si chiamano rottwahua?
«Chiweiler» borbotto.
I cani smettono di latrare.
«Ha appena detto “chiweiler”?» chiede una voce femminile. «Che
cavolo è un chiweiler?»
«L’incrocio tra il chihuahua e il rottweiler» risponde una profonda
voce maschile. «È ovvio, che cazzo.»
Spalanco gli occhi e gemo quando vedo Blake e mia sorella
Jessica davanti al divano. Entrambi mi fissano come se mi fossero
spuntate le corna e i baffi da pappone.
Poi Jess esclama: «Jamie!» Quindi mi si lancia addosso,
stringendomi abbastanza forte da farmi male alle costole. «Stai
bene, Jamester? Come ti senti? Cavolo, sei un po’ caldo.»
«Merda» sputa Blake, irritato. «È tornata la febbre?»
«Bene, ora ci posso pensare io. Quindi ciao ciao, montagna
umana. Sono ufficialmente in servizio.»
Blake scuote la testa con decisione. «Ho promesso a Wesley che
mi sarei occupato di lui.»
«Ti do il permesso di infrangere la promessa. E ora sciò!»
«Ragazzi… vi dispiace di…» Ho la voce roca. «Smettere di
gridare, per favore? Mi sta scoppiando la testa.»
Negli occhi castani di Jess passa un lampo di preoccupazione, poi
si gira verso Blake con sguardo accusatore. «Non mi hai detto che
aveva mal di testa!»
«Non lo sapevo!»
«Ma che razza di infermiere sei?»
«La razza che gioca a hockey!»
Le loro voci sono di nuovo alte. Li vorrei strozzare entrambi. Con
un gemito, mi metto a sedere e mi sfrego i pugni sugli occhi. «Che
ore sono?»
«L’una» risponde Jess. «Hai pranzato?»
«Ehm…»
«Colazione?» incalza. Poi guarda male Blake. «Non gli hai dato
da mangiare? Come farà a riprendersi, se muore di fame?»
«Non ho fame» provo a dire, ma non serve a niente: quei due
stanno di nuovo litigando.
Stavolta il motivo è cosa dovrei mangiare per rimettermi in forze.
L’idea di Blake richiede un viaggio alla caffetteria Tim Hortons, quindi
esce.
Crollo di nuovo sul divano e per diversi, celestiali minuti nessuno
mi disturba, perché Jess sta trafficando in cucina per preparare
qualcosa. Il mal di testa si calma leggermente. Il tempo passa e
l’unico suono che sento è quello della TV che cerca di vendermi auto
di lusso e farmaci.
La pace finisce quando la porta d’ingresso si apre di nuovo ed
entra Blake. «Ho da mangiare, J-Bimba!»
«Come mi hai chiamata?» grida Jess dalla cucina.
«Come hai fatto a entrare?» farfuglio dal divano.
«Ho fatto una copia della chiave» risponde Blake, infilando il
doppione in tasca. Posa una scatola enorme sul tavolo e la apre. «Ti
ho portato un sandwich al tacchino su un cruller al miele! Tutti i
gruppi alimentari in un unico pacchetto.»
«Un…» Devo aver capito male, perché giurerei di averlo sentito
dire che mi ha portato un panino su una ciambella. È terribile.
Jess marcia verso il divano con un piatto in mano. «Tieni quella
roba lontana da lui» sbotta. «Gli ho preparato un’omelette al cavolo
verde biologico.» Mi posa il piatto sulle gambe e mi mette una
forchetta in mano.
Per non essere surclassato, Blake posa il terrificante sandwich su
ciambella accanto all’omelette.
Vorrei dire a entrambi dove possono ficcarseli, ma si
accenderebbe un’altra discussione. Quindi mangio un boccone di
omelette, e poi do un morso alla creazione di Blake.
Mastico. Inghiotto. Di solito mi riesce facile, ma ora mi fa male la
testa e lo stomaco non gradisce particolarmente. Mando giù un altro
pezzo di omelette – troppo cavolo verde – e un boccone sciropposo
di ciambella.
«Questo sì che è cibo salutare» gracchia Blake.
Jess posa le mani sui fianchi e inizia a discutere. E io non ce la
faccio più. La stanza gira per un attimo prima che la vista torni
normale, ma l’ondata di nausea peggiora.
«Cazzo» riesco a dire.
Mi alzo dal divano. Il bagno del corridoio sembra lontanissimo ma
ci arrivo in tempo, sbatto la porta alle mie spalle e mi chino sul water
per vomitare l’anima.
Sto ancora boccheggiando e tremando quando sento delle mani
calde sulle spalle. Ho di nuovo la vista annebbiata. Un panno freddo
e umido mi viene passato sul viso.
«Devi tornare a letto» dice Jess, piano.
Credo abbia ragione. Quindi mi ripulisco un attimo e poi barcollo
fino alla mia stanza. Mi accoccolo sotto le coperte e ascolto Jess e
Blake litigare su quale colazione mi abbia fatto rimettere.

Sono rimasto stordito per tutto il giorno. Credo di avere un po’ di


febbre, ma non dico niente perché non voglio attenzioni. L’unica
cosa di cui ho bisogno è riposare.
Jess sostiene che siamo a corto di cibo, il che potrebbe anche non
essere vero. Ma dà una lista a Blake e lo fa uscire, forse per tenerlo
occupato. Per un po’ si dimenticano di me, ed è perfetto.
Ma faccio ancora sogni deliranti.
Vivo attimi di confusione totale quando apro gli occhi e non
capisco dove cavolo mi trovo. Sento freddo, ho il corpo attraversato
da brividi come se nelle vene mi scorresse ghiaccio. No, un attimo:
ho caldo. Questa stanza sembra in fiamme. Cristo santo, viviamo in
una fornace?
Mi tolgo la felpa e i pantaloni freneticamente, ma mi si annodano
alle gambe.
«Fornace» spiego ai muri. «Sembra una fornace.»
La stanza non mi risponde.
Quando mi sveglio la volta successiva, fuori è buio. Non so che
ore siano.
Non capisco perché sono così stordito. Mi avevano assicurato di
non avere l’influenza ovina, che si trattava di una normale influenza,
maledizione. Dovrei già stare meglio.
Quindi, perché sto peggio?
Mi manca Wes. Voglio Wes. Gli ho parlato, oggi? Non mi ricordo.
Ma voglio sentire la sua voce. Invece, sento uno strano suono, come
di un chihuahua e un rottweiler che si accoppiano – uggiolii strani e
grugniti profondi, e il ronzio della poltrona massaggiante.
Strano.
Sto cercando di dare un senso a quei rumori quando il telefono sul
comodino si illumina. Anche se mi sento confuso, sullo schermo
leggo chiaramente “Wes” e sono felicissimo.
«Pronto?» farfuglio nel microfono. «Abbiamo dei cani?»
20

Sarò pazzo, ma sono in pensiero per Jamie per tutto il viaggio


verso Nashville. Anche mentre il taxi che ho preso all’aeroporto si
ferma davanti allo stadio, continuo a immaginare cosa potrebbe
andare storto. L’aereo di Jess potrebbe non ripartire dallo scalo a
Denver, Jamie potrebbe avere un capogiro e sbattere la testa e finire
per terra in una pozza di sangue… Porca vacca.
Devo smetterla di lasciar galoppare l’immaginazione. Di solito non
sono uno che si preoccupa, ma il mio senso di ragno è in allerta e
non capisco perché. Probabilmente per lo shock di averlo visto stare
così male in ospedale. Forse non l’ho ancora superata.
Inserisco di nuovo i dati del volo di Jess sull’app della compagnia
aerea e scopro che è atterrata senza problemi ore fa.
A meno che il suo telefono non prenda o sia morto…
Mentre pago il tassista, l’addetto alla sicurezza apre la portiera e
gli mostro il mio documento.
Lo guarda velocemente e inarca le spesse sopracciglia. «Lei è
quello al telegiornale.»
Purtroppo sì. «Dove posso trovare lo spogliatoio della quadra
ospite?» gli chiedo.
Si riscuote dalla sorpresa e apre la porta. In fondo a questo
corridoio. Vedrà le indicazioni sulla sinistra.»
«Capito, grazie.»
«Buona fortuna» mi augura, mentre mi avvio nel corridoio.
«Ehm, grazie.» Il nuovo me stesso paranoico riflette un attimo sul
significato di quella frase. Ho bisogno di fortuna extra, oggi? O è
quello che dice a tutti i giocatori che entrano da quella porta?
Merda. Spero che l’allenamento sia faticoso. Devo distrarmi,
cazzo. Non è difficile trovare lo spogliatoio: sento le voci dei miei
compagni avvicinarsi.
«Quindi chi aveva l’abbonamento sta vendendo il proprio posto
per pochi soldi?» chiede Eriksson.
«Non per pochi soldi,» gli risponde Forsberg, «ma quei posti non
fruttano alla società. C’è gente che aspetta di avere l’abbonamento
da un decennio, ma per le prossime partite sono in vendita un
centinaio di posti.»
Mi fermo così di botto che il borsone mi rimbalza sul sedere.
«E allora? Lo stadio non sarà vuoto, lunedì.»
«Figurati» concorda Forsberg. «Frank Donovan ha detto che la
società li sta comprando tutti a prezzo pieno per regalarli a qualche
gruppo LGSQ.»
«Vuoi dire LGBT?»
«Non lo so. Sono abbastanza sicuro ci fosse una Q in mezzo.»
«Ryan?»
Mi giro di scatto e vedo Frank arrivare verso di me dal corridoio
con un uomo di fianco. «Ciao» saluto subito con la mano,
imbarazzato. C’è la minima possibilità che non mi abbia visto fermo
fuori dalla porta a origliare?
«Va tutto bene, Ryan?»
No, impossibile che non mi abbia visto. «Certo, mai stato meglio.»
«Ottimo.»
L’altro tizio fa un passo avanti e mi porge la mano. La stringo,
chiedendomi se dovrei sapere chi è. «Sono Dennis Haymaker.»
Ah. L’amico dell’università di mio padre. «Di Sports Illustrated,
giusto?» chiedo, anche se sono sicuro che sia il giornalista che sto
evitando da luglio.
«Sì…» Si schiarisce la gola. «Come sta il tuo compagno?»
«Meglio.» Mi suona ancora strano parlare di Jamie in pubblico. Mi
ci abituerò, ma potrebbe volerci un po’ di tempo.
«Bene» dice. «Sai, tuo padre ha smesso di colpo di rispondere
alle mie chiamate.»
Rido, prima di rifletterci. «Ah-ha. Mi faccia indovinare: ha smesso
di farlo più o meno tre giorni fa?»
Dennis sorride, incerto. «Più o meno, sì.»
«Che sorpresa» sogghigno. «Non starei vicino al telefono ad
aspettare che richiami, se fossi in lei. Sarà troppo occupato a
cancellare il mio nome dall’albero genealogico della famiglia.»
«Questo è in via ufficiosa» borbotta Frank Donovan. So che vuole
che chiuda la bocca, ma per la prima volta sento che potrei voler
parlare con questo tizio. Sarebbe un bello smacco per mio padre
fare la Grande Intervista Gay con il suo amico dell’università. Con un
po’ di fortuna, potrebbe finire sulla rivista degli ex alunni.
«Be’…» Dennis ha un’espressione seria. «Sto ancora aspettando
di scrivere del tuo anno d’esordio.»
Non riesco a fare a meno di ridacchiare. «Ci scommetto.»
«Ehi, aspetto la tua storia da otto mesi. È ancora la storia
dell’anno d’esordio.»
«Davvero?» chiedo, guardandolo dall’alto in basso.
«Certo.»
«Quindi non si parlerebbe della mia sessualità?» domando con
l’espressione seria.
«Be’…» esita. «Non ho intenzione di scrivere un articolo
acchiappa-click, ma il tuo background farebbe comunque parte della
storia: la tua squadra universitaria, la tua infanzia…»
Quest’uomo è furbo. Ha già capito che vorrei metterla in quel
posto a mio padre. «Va bene. Giocheremo una serie di partite in
casa. Se Jamie starà meglio, vedrò di trovare il tempo per
l’intervista.»
Riesce quasi a non mostrare soddisfazione. Quasi. «Non vedo
l’ora» dice, porgendomi di nuovo la mano.
«La chiameremo» promette Frank, e anche lui gli stringe la mano.
Il tizio taglia la corda prima che cambi idea.
«Allora» inizia Frank.
«Allora.»
«Qualche problema? C’è qualcosa che vuoi sapere sulla copertura
mediatica?»
«A dire la verità, non ho letto molto, sono stato troppo occupato.»
Annuisce lentamente. «Va bene. Dirò alla mia squadra di mettere
insieme un fascicolo con le cose principali, se vuoi restare
aggiornato.»
«E se non voglio?» Sembro arrogante, ma sono serissimo.
Lui scrolla le spalle. «Sta a te decidere.»
«Senti, cos’è questa storia che la gente sta vendendo i propri
biglietti? Ho sentito delle voci.»
«Ah.» Sposta il peso da un piede all’altro. Il gesto lo tradisce. Se
ce l’avessi davanti a una partita a poker, scommetterei tutto non
appena glielo vedessi fare. «Sono solo voci, niente di grave.»
«Quanti abbonati ci hanno mollati?»
«Non abbastanza da farci preoccupare. È solo gente che non ha
niente di meglio da fare, la prossima settimana non se ne ricorderà
nessuno. Stiamo cercando di comprare tutti i biglietti in vendita, ho
inserito un numero verde sul sito e tutto il resto. Non ci sono state
molte offerte, i biglietti spariscono troppo in fretta su Craiglist.»
Ah.
Non so se credergli o meno. «Va bene.»
«C’è altro?»
«No.»
«Ti faccio sapere se dovrai partecipare alla conferenza stampa di
stasera. Vediamo come va la partita.»
La sua frase sembra di cattivo augurio, ma non pongo domande.
Mi supera e apre la porta dello spogliatoio. Lo seguo all’interno e
la squadra mi saluta.
«Come sta Jamie?» chiede qualcuno.
«Bene» rispondo per la seconda volta in cinque minuti. «Sua
sorella è venuta a Toronto per stare con lui qualche giorno.»
«Bene.»
«Già» concordo, sentendomi un po’ in colpa. Dovrei esserci io a
Toronto; invece sono qui, in questa stanza sconosciuta, cercando di
capire che posto mi hanno assegnato.
«Di qua» dice Hewitt. Indica una panca e vedo la mia felpa per
l’allenamento appesa sopra.
«Grazie.» Mi spoglio, l’allenamento inizierà tra pochi minuti.
«Dobbiamo allenarci per l’inferiorità numerica» mi informa Hewitt,
sedendosi accanto a me. Ha i pattini ai piedi ed è pronto ad andare.
«Va bene» rispondo, non del tutto concentrato sulla
conversazione. «Come mai?»
«Per accumulare minuti nel caso gli avversari ti prendano di mira.»
Sento il cuore schiantarsi sul cavolo di pavimento. «Perché pensi
che mi prenderanno di mira?» A parte l’ovvio motivo. «Cioè, non gli
si ritorcerebbe contro?» Ora che ci penso, scommetto che oggi gli
arbitri staranno avendo una riunione importante. Strategie per
gestire le squadre che vogliono denigrare l’omosessuale.
«Magari non lo faranno» si affretta a dire. «Voglio solo essere
preparato. Ho in programma di trascorrere tutti i minuti che servono
sulla panca delle penalità. Non lasceremo che quegli stronzi la
passino liscia.»
Merda!
Questo è esattamente ciò che speravo di evitare. Se avessi fatto
coming-out in estate, la storia sarebbe stata liquidata prima di essere
nella posizione di dover costringere la squadra a cambiare gli
schemi per difendermi.
«Senti» inizio, «lo apprezzo molto, davvero. Ma non saltare
addosso al primo che mi dà del frocio. Non ha senso farlo diventare
un circo, se possiamo evitarlo. Stiamo tranquilli e vediamo che
succede.»
Hewitt annuisce lentamente, poi mi dà una pacca sulla schiena e
si alza. «Va bene, novellino, allora non mi trasformerò subito in
Hulk.»
Pattino parecchio durante l’allenamento ridotto, ma quando mi
mandano in albergo a riposare non riesco a dormire. Chiamo Jamie,
ma non risponde. Probabilmente sta dormendo.
È una buona cosa, no? Ma mi sembra tutto un po’ strano. Sono
ancora preoccupato per lui, e raramente mi sono sentito così
nervoso per una partita come lo sono per questa.
Dopo qualche ora senza riposo, si torna alla pista e alla solita
confusione per prepararsi all’incontro. Siamo la squadra ospite,
quindi ci becchiamo qualche fischio quando ci presentano. Non ci ho
mai fatto caso, ma stasera non riesco a lasciar perdere. Quelle grida
sono più forti del solito? I miei compagni si pentiranno di avermi in
squadra?
La partita inizia come al solito, ma i miei compagni sono
palesemente tesi e so che è per causa mia. Quando la mia linea ha
un ingaggio, mi trovo spalla a spalla con un tizio che si chiama
Chukas. Continuo a tenere lo sguardo fisso sul disco, quando
esordisce: «Quindi tu sei il frocio, eh? Ti viene duro se ti sbatto
contro le balaustre?»
«Solo se prima mi dai un bacio» ribatto. Poi il disco cade e si
inizia. Quando gioco a hockey, metto a tacere tutti i miei dubbi. Devo
farlo. La partita richiede tutta la mia concentrazione. È una cosa
dell’hockey che adoro: è meraviglioso non pensare alla mia vita per
un paio d’ore e vedere solo corpi che si muovono su una lastra di
ghiaccio sgargiante.
Alla fine del primo tempo, è chiaro che questa partita non è più
violenta né più pacifica rispetto alle altre; solo le solite zuffe da serie
A. Al terzo tempo, la mia squadra non è più tanto tesa.
Solo che è troppo tardi, perché riusciamo solamente a pareggiare
quando avremmo potuto fare di meglio. Ma, per una volta nella vita,
la considero una vittoria: domani, sui giornali, non ci saranno titoli
brutali.
La settimana precedente avevo segnato una tripletta, stasera me
la sono cavata senza finire sui giornali nazionali. I miei standard si
sono abbassati.
Torno nello spogliatoio grondante di sudore e sollevato che la NHL
sia sopravvissuta a una partita con il primo giocatore gay dichiarato.
Lascio cadere le imbottiture e prendo il telefono. Sono quasi le dieci
e voglio chiamare Jamie prima che vada a dormire. Compongo il
numero, sperando di non svegliarlo. Risponde subito. «Abbiamo dei
cani?»
«Come? Non ho capito.»
«Cani. Chiweiler. Non ne abbiamo uno, vero?»
Sento un brivido lungo la schiena. «Ehm… Non abbiamo cani,
no.» Mi sta prendendo in giro?
«Voglio un cucciolo» dichiara. Ha la voce arrochita. «Ne ho
sempre voluto uno. I miei genitori dicevano che sei figli erano
abbastanza animali in casa.»
Il mio cervello sta cercando di afferrare il senso della
conversazione. «Hai la febbre, piccolo?»
«Non lo so. Ma qui fa caldo.»
«Dove sei?» Perché tra dieci secondi chiamo il 911.
«A letto. Tu dove sei? Non dovresti essere qui?»
Il brivido ora mi scorre lungo tutto il corpo. «Sono a Nashville» gli
ricordo con cautela. «Per una partita. Dov’è Jess? Dovrebbe essere
lì con te.»
«Ehm…» risponde con un sospiro. «Non la vedo da un po’.»
Poi inizia a tossire, ed è un suono terribile – profondo e grasso.
Resto in piedi, il telefono incollato al viso madido, e lo ascolto
respirare a fatica. Non mi sono mai sentito così impotente in tutta la
mia vita. «Jamie,» lo chiamo non appena c’è silenzio, «stai…»
Ma l’attacco di tosse riprende.
Ora Frank Donovan sta cercando di attirare la mia attenzione. Sta
indicando il suo orologio e poi le docce. Vuole che vada alla
conferenza stampa del dopopartita. Lo liquido con un cenno, o
almeno ci provo. Ma lui mi si para davanti, quindi lo ignoro. «Jamie»
supplico, quando smette di nuovo di tossire. «Ti amo, ma devo
riattaccare e chiamare Jess. Non ti ha sentito tossire?»
«Non lo so» farfuglia. «Ho sonno.»
«Va bene» rispondo, la testa che gira. Cosa devo fare? «Dormi, se
riesci. Ma se tua sorella ti vuole portare al pronto soccorso, tu ci vai,
d’accordo?»
«No» sussurra. «’Notte.» E cade la linea.
«CAZZO!» grido.
«Che succede?» chiede Frank.
Sono troppo spaventato per rispondergli. Seleziono il numero di
Jess e ascolto gli squilli. Quando risponde la segreteria, attacco e
riprovo. Niente. «Ehi, Eriksson?»
«Sì?» Si sta asciugando davanti al suo armadietto.
«Mi serve un favore. Chiama Blake. È un’emergenza. Ho bisogno
che vada a casa mia.»
Eriksson non fa domande. Infila una mano nella tasca del cappotto
e prende il telefono.
Riprovo a chiamare Jess. Dove cavolo è? Al quarto tentativo,
risponde. «Wes?»
«Dove sei?» le chiedo.
«A casa tua!» Sembra stranamente senza fiato.
«Davvero? Perché ho appena parlato con Jamie e stava
delirando. Crede che abbiamo qualcosa che si chiama chiweiler. E la
sua tosse sembra il rantolo della morte.» Tremo solo a dirlo. «Dov’è
Blake?»
«Ehm, Blake? Non saprei.»
Ma in sottofondo sento Who Let The Dogs Out, la suoneria di
Blake. «Ehi, è lui?»
«È appena entrato.» Ora sembra agitata.
«Va bene, senti, Jamie ha bisogno d’aiuto. Ha detto che era a
letto. Fai sfondare la porta a Blake, se è chiusa a chiave. Forse
dovrai portarlo al pronto soccorso.»
«Oddio» boccheggia. «Ti richiamo tra dieci minuti.»
«Va tutto bene?» chiede Frank, quando riattacco.
«No, cazzo. Conosci qualche dottore?»
«Dottore?» Fissa il soffitto, riflettendo sulla domanda. «Più o meno
tre anni fa uno dei medici della squadra è andato in pensione. Abita
nel quartiere di Rosedale. Perché?»
«Jamie ha qualcosa che non va. Ha la febbre e una bruttissima
tosse. Merda. Non sarei dovuto partire.»
Frank fa una smorfia. «Sembra polmonite. Forse gli è venuta
come infezione secondaria. Deve andare al pronto soccorso.»
«LO SO!» grido, e tutti nella stanza – compresi alcuni giornalisti –
si girano a fissarmi. «Lo so» ripeto a voce più bassa. «Dammi il
numero di questo medico. Mi serve aiuto.»
21

Una settimana dopo

Ho un déjà-vu.
Un’altra dimissione dall’ospedale, un’altra sedia a rotelle, un’altra
folla di giornalisti avvoltoi appostati fuori e un’altra fuga veloce in una
macchina a noleggio che Wes ha lasciato fuori.
La settimana scorsa è stata un inferno. Mi sono ritrovato di nuovo
in quel cazzo di ospedale. Ma per i primi tre giorni sono rimasto privo
di sensi. Il quarto giorno, al risveglio, ho trovato mia madre e
l’infermiera Bertha che mi fissavano con un’espressione
preoccupata.
Non prendetevi mai la polmonite, è una vera merda.
Ma ora la febbre è sparita. Mia madre stamattina è tornata in
California con Jess, e non posso dire di non esserne sollevato,
soprattutto per mia sorella. Adoro Jess, ma questa settimana è stata
da schifo. Si sentiva in colpa per il fatto che mi fosse venuta la
febbre alta sotto il suo naso e mi è rimasta attaccata per tutto il
tempo del ricovero in ospedale. Mia madre l’ha mandata a casa un
paio di volte quando si è resa conto che non ne potevo più del suo
affetto soffocante.
Io e Wes usciamo in silenzio dall’ascensore del nostro palazzo. Le
gambe mi tremano un po’ e incespico, ma quando cerca di
prendermi il braccio lo guardo male. Sono stufo marcio che tutti
siano preoccupati per me e mi trattino come un invalido.
Senza dire una parola, lascia cadere la mano lungo il fianco.
Arriviamo davanti all’appartamento e Wes infila la chiave e apre la
porta. Una volta dentro, butta per terra il borsone con la mia roba e
resta in piedi al centro del salotto a guardarmi.
«Ti serve qualcosa?» La sua voce è roca. «Cibo? Una doccia? Del
tè?»
Tè? Cos’è, ora sono diventato una vecchietta con lo stomaco
delicato che non regge un buon caffè?
Sento salire l’amaro in bocca. Mi sforzo di mandarlo giù, perché
non è giusto nei confronti di Wes. Non è colpa sua se la polmonite
mi ha lasciato con il culo per terra, e so quanta paura ha avuto
nell’ultima settimana.
Ha giocato altre due partite fuori casa prima di potermi venire a
trovare in ospedale. Non che l’abbia notato, visto che ero privo di
sensi, ma la squadra non gli ha dato il permesso di allontanarsi
perché c’erano mia madre e mia sorella in ospedale con me.
Stamattina mi ha detto che neanche se le ricorda quelle partite,
che era troppo incazzato e preoccupato e chiamava mia madre,
Jess e Blake ogni secondo libero che aveva.
Dovrei baciargli i piedi per essere un fidanzato tanto attento e
affettuoso. Invece no, sono solo… arrabbiato. Con lui. Con il mio
corpo. Con tutto quanto, cazzo. Inoltre, le medicine che mi hanno
rifilato all’ospedale per tutta la settimana mi stanno distruggendo.
Stamattina ho iniziato una cura di steroidi e mi fanno sentire strano.
Avverto un’euforia superficiale che cozza con la rabbia e il
risentimento che mi ribollono nello stomaco.
Wes mi guarda con cautela. «Piccolo?»
Mi rendo conto che non gli ho risposto. «Non mi serve niente»
borbotto. «Vado a dormire un po’.»
Sul suo viso passa un lampo di delusione. Oggi non deve giocare.
So che sperava passassimo un po’ di tempo insieme, ma al
momento non sono una buona compagnia. Sono stanco di essere
malato. Ho odiato stare in quel cazzo di ospedale e detesto non
poter rientrare al lavoro fino a… chissà quando. Ieri sera ho
chiamato Bill e mi ha ordinato di non pensare neanche di tornare per
almeno un’altra settimana.
Non ho bisogno di un’altra settimana, ho solo bisogno di riavere la
mia vita.
«Va bene» si arrende Wes. «Allora io…» I suoi occhi grigi si
guardano intorno per poi posarsi sul tavolino nel corridoio, dove c’è
un sacco di posta ammonticchiata. «Controllo la posta e pago
qualche bolletta.»
Mi sta per sfuggire un commento acido.
Almeno sai come si fa?
Da quando abbiamo iniziato a convivere, Wes non si è mai
occupato delle questioni di casa: bucato, bollette, pulizie. Faccio
tutto io, perché lui è troppo impegnato a giocare nella NHL per…
Basta, ordina una vocina dentro di me. Forse è la mia coscienza.
Oppure la parte di me che è profondamente innamorata di
quest’uomo. In ogni caso, sono stato di nuovo ingiusto.
Quindi infilo una bella dose di gratitudine nella mia risposta.
«Grazie. Mi renderesti davvero le cose più facili. E occhio alla fattura
dell’ospedale…» Mi blocco e deglutisco, perché mi è appena venuto
in mente che due settimane in ospedale potrebbero benissimo
prosciugare i miei risparmi, e forse anche le carte di credito. Non
sono un cittadino canadese, quindi non so se la mia assicurazione
coprirà tutto.
«Oh, non arriverà» mi rassicura Wes, sventolando la mano. «Ho
già pagato il detraibile, il resto l’ha coperto l’assicurazione.»
Serro la mascella. Mi ha pagato la fattura?
Quando nota la mia espressione, Wes aggrotta le sopracciglia.
«Che succede?»
Il mio tono di voce risulta più freddo di quanto intendessi. «Dimmi
quanto hai pagato e ti farò un bonifico.»
Protesta immediatamente. «Non c’è problema, piccolo. Ho un
mucchio di soldi. Perché preoccuparti delle finanze quando posso
benissimo…»
«Te li restituisco» ringhio.
Restiamo in silenzio per un lungo istante, poi Wes annuisce: «Va
bene. Se è quello che vuoi».
«È quello che voglio.» Non so perché sono così stizzoso, ma mi
dà fastidio che si sia occupato della fattura dell’ospedale senza dirmi
niente. Capisco che ha un sacco di soldi, ma non sono… non sono il
suo cazzo di mantenuto. Siamo compagni, e che mi venga un colpo
se lascerò che paghi tutto lui.
Dopo un attimo di esitazione, si avvicina e mi tocca una guancia,
sfiorandomi la pelle liscia. Stamattina sono riuscito a radermi. Da
solo. Evviva, cazzo. Ma immagino di dover essere grato per le
piccole cose.
«Jamie» sussurra, la voce roca. «Sono contento che tu stia
meglio.»
Avverto un groppo in gola. Porca miseria. Il sollievo nel suo
sguardo mi fa sentire in colpa. So di essere stato uno stronzo con lui
per tutta la settimana: gli ho sbottato contro quando è venuto a
trovarmi; mi sono impuntato quando ha proposto che mia madre e
mia sorella restassero ancora un po’; me la sono presa con lui
quando l’ho guardato giocare dalla televisione dell’ospedale – lui a
fare il campione sui pattini e a segnare goal, e io coricato a pisciare
in una padella. E ora lo sto aggredendo per questioni di soldi,
nientemeno.
«Anch’io» mormoro, lasciandomi andare al calore del suo tocco.
Mi sfiora il labbro inferiore e poi posa la bocca sulla mia per un
bacio veloce. «D’accordo, va’ a riposarti. Io sono qui, se hai
bisogno.»
Sto per chiedergli di unirsi a me, ma il suo telefono squilla prima
ancora che riesca ad aprire bocca. La mano di Wes si allontana
dalla mia guancia e si infila nella tasca. Sul suo viso stupendo
compare una smorfia di frustrazione, quando scopre chi sta
chiamando.
«Frank» mi spiega a bassa voce, poi si allontana per rispondere.
Resto lì in piedi abbastanza da cogliere che Frank, il campione
delle pubbliche relazioni, sta ancora stressando Wes per le
interviste. O meglio, per la mancanza di interviste. Perché Wes si sta
ancora rifiutando di parlare ai media. Avrebbe dovuto concedere
finalmente l’intervista per Sports Illustrated, ma poi mi sono
ammalato e ha rinviato. Un’altra aggiunta alla lunga lista delle cose
che la mia malattia ha mandato a puttane.
Vado in camera nostra e mi siedo sul letto, appoggiando la testa
sui cuscini. Non sono stanco, gli steroidi che sto prendendo per
ripulire i polmoni si assicurano che stia bello sveglio e all’erta in
modo innaturale, quindi al momento dormire è escluso. A Wes l’ho
detto solo perché…merda, sto di nuovo facendo lo stronzo ingrato.
Ma ho bisogno di spazio. Ho bisogno di una maledetta ora per me
stesso, senza infermiere che mi ronzano intorno e Wes che mi
chiede se ho bisogno di qualcosa.
Dopo aver fissato il muro per cinque minuti, accendo il computer e
controllo le email. Porca troia. Ce ne sono a centinaia. Mia madre mi
ha confiscato il telefono in ospedale sostenendo che dovevo
concentrarmi solo sul guarire. Allora avevo protestato come una
preadolescente che non aveva il permesso di mandare messaggi,
ma ora sono contento l’abbia fatto: la casella è strapiena.
Ci sono messaggi dei miei compagni di squadra dell’università –
alcuni che si informano se sto bene e altri che si chiedono perché
non avessi confessato loro di essere gay. Sono sorpreso quanto voi,
gente.
Ci sono e-card con auguri di pronta guarigione da familiari e amici,
ma eclissati dalla quantità spaventosa di messaggi degli organi di
stampa – di ogni rivista sportiva che abbia mai sentito nominare, di
People, di quotidiani locali e non. Mentre scorro tra le richieste per
un’intervista, mi sento lo stomaco sottosopra. La mia vita – la mia
vita sessuale – è sotto un microscopio e non mi piace. All’improvviso
sono travolto da un nuovo moto di stima per Wes, perché mi rendo
conto che lui avrà il doppio dell’attenzione rispetto a me. Un altro
messaggio attira il mio interesse. È del mio capo. L’ha mandato
mentre ero in ospedale la prima volta.
Caro Jamie,
hai cercato di parlarmi della questione del linguaggio omofobo del
tuo collega, ma non ho ascoltato quanto avrei dovuto. Mi dispiace
davvero. La nostra politica è inequivocabile: nessun impiegato o
giocatore dovrebbe sopportare un linguaggio discriminatorio né un
ambiente lavorativo ostile.
Permettimi di aiutarti a fare adesso quello che avrei dovuto aiutarti
a fare allora. In allegato c’è il modulo per sporgere un reclamo.
Appena te la senti, compilalo così potremo fare i dovuti
accertamenti.
Questa settimana ho imparato una difficile lezione, e vorrei
correggere la precedente risposta alla tua richiesta.
Saluti, Bill Braddock
Non ho idea di come rispondere. Presentare un reclamo ora
sarebbe futile: poiché stavo tenendo segreta la mia bisessualità,
farei la figura della spia, di qualcuno che stava prendendo appunti
mentre gli altri non prestavano attenzione.
Danton non dovrebbe passarla liscia per aver diffuso odio, ma tra
qualche giorno dovrò tornare su quella pista e non voglio che i miei
colleghi pensino che mi sono segnato qualsiasi cosa sia stata detta
negli spogliatoi. Sto leggendo l’email per la quarta volta, quando
Wes entra in camera.
«Perché non lo metti via e ti riposi un po’?» propone il mio
ragazzo. Mi prende dalle mani il computer e lo chiude. «Sembri
stanco.»
Porca vacca. Sono stanco. Non lo ero cinque minuti fa, ma ora le
palpebre iniziano a chiudersi. Controllare qualche email mi ha
risucchiato le energie, e sento di nuovo quel senso di impotenza che
mi chiude la gola. Odio essere debole. Lo detesto, e la rabbia mi fa
esplodere: «Sì, mamma».
Negli occhi di Wes passa un lampo di dolore.
Mi sento di nuovo in colpa. «Mi… dispiace» sussurro. «Non volevo
sbottare.»
«Non c’è problema.» Ma sembra ancora ferito, quando esce dalla
stanza.
22

Jamie non sta bene. Sono passati tre giorni da quando l’hanno
dimesso dall’ospedale. Fisicamente sta riacquistando le forze: non
dorme più tanto durante il giorno, stamattina ha preparato la
colazione senza crollare per la stanchezza ed è uscito a fare delle
brevi passeggiate. Ma quando l’ho trascinato alla nostra tavola calda
preferita, quella che abbiamo trovato la mattina dopo che Jamie si è
trasferito qui, degli universitari si sono avvicinati per chiederci
l’autografo. Chiederci. Poi altre persone hanno voluto fare delle foto.
Jamie si è incazzato e ha iniziato a tossire.
Ce ne siamo andati senza mangiare. E quando ho proposto di
andare al nostro cinese preferito, ha risposto: «Facciamoci portare
qualcosa a casa».
Il suo corpo sta guarendo, lo so per certo, ma non ho idea di cosa
gli passi per la testa né cosa provi. Si è chiuso a riccio. Prima mi
sbotta contro e poi si scusa per averlo fatto.
Non ricordo l’ultima volta che ci siamo baciati. Baciati davvero,
non i bacetti al volo che ci siamo scambiati questa settimana. Credo
che l’ultima volta sia successo al primo ricovero. Sì… nella doccia.
Quella è stata una doccia magnifica.
Quella in cui sono adesso… non tanto. Sono in un box doccia stile
saloon, il che vuol dire che ho due compagni di squadra vicino, uno
a destra e uno a sinistra. E mi stanno fissando. Non in modo
pornografico, per guardarmi l’uccello, anche se sinceramente lo
preferirei agli sguardi pieni di preoccupazione.
«Non parli più con noi.» Lo scroscio d’acqua intorno a noi non
nasconde il tono accusatorio di Eriksson.
«Sì, invece» rispondo, insaponandomi il petto.
Dall’altro lato, Hewitt mi smentisce subito. «No, stai facendo
l’asociale.»
Vogliono che sia socievole? Quando il mio ragazzo è a casa a
deprimersi e a sbottarmi contro ogni volta che ne ha l’occasione?
Sono fortunati che mi presenti alle partite. La mia testa è talmente
concentrata su Jamie che è un miracolo mi ricordi come si gioca a
hockey.
«Blake dice che il tuo uomo sta meglio» incalza Eriksson.
Mi risciacquo e prendo lo shampoo. «Sì, infatti.»
«E allora cos’è quel muso lungo?»
La mia riluttanza a confidarmi con loro mi porta a metterci molto
più tempo per lavarmi e risciacquarmi i capelli. Spero sia abbastanza
perché si dimentichino la domanda di Eriksson, ma mi stanno ancora
guardando quando apro gli occhi.
«Forza, Wesley, sputa il rospo. Che succede a casa?» Eriksson fa
una risata autoironica. «Non può essere peggio di quello che sto
passando io.»
Il ricordo dei suoi problemi coniugali manda in frantumi la mia
esitazione. Fanculo. I miei compagni hanno fatto di tutto per
sostenermi da quando è saltata fuori la “notizia” del mio
orientamento sessuale. Hanno sempre chiesto come stava Jamie,
hanno dovuto sopportare la mia faccia arrabbiata a ogni partita fuori
casa. Sono stati gentilissimi e mi sento uno stronzo a tenerli ancora
a distanza.
«Jamie è depresso» confesso.
Queste parole rimangono sospese in mezzo al vapore. Non le
avevo mai pronunciate ad alta voce. Che cavolo, non ci avevo
riflettuto neanche troppo, ma ora mi rendo conto di quanto siano
vere. Jamie non è solo imbronciato, non è solo deluso. È depresso.
Prima di riuscire a fermarmi, dalla mia bocca scivolano fuori altre
parole. «Non può ancora tornare al lavoro, e ieri sera la sua squadra
ha vinto un’altra partita senza di lui. Non ha ancora recuperato tutte
le forze; non può allenarsi – il medico gliel’ha proibito – e non può
uscire di casa senza essere perseguitato da qualche giornalista.» Mi
si stringe la gola. «Credo dia la colpa a me per tutto.»
Cazzo, è la prima volta che pronuncio ad alta voce anche questo.
Mi fa stare male pensare che sia vero, che Jamie mi incolpi per la
tempesta mediatica che non si calma.
Frank mi chiama ancora diverse volte al giorno, la società ha
rilasciato varie dichiarazioni per rimediare al mio rifiuto di parlare con
la stampa. La mia faccia e quella di Jamie sono su tutti i blog
sportivi. Durante la nostra ultima partita in casa, fuori dallo stadio
c’erano manifestanti che avevano dei cartelli con su scritti passaggi
della Bibbia e slogan disgustosi.
La vita… fa schifo. Adesso fa davvero schifo, cazzo.
«Non so come rimediare» farfuglio. Chiudo l’acqua, prendo un
asciugamano e me lo avvolgo intorno alla vita. «E non posso
chiamare rinforzi per risollevargli il morale. Non conosciamo nessuno
in città… A parte voi» aggiungo subito, quando noto le loro
espressioni ferite. «Ma la maggior parte degli amici di Jamie è sulla
costa ovest, dov’è andato all’università. E i suoi familiari sono in
California, e non possono mollare tutto e prendere l’aereo per il
Canada per stare con lui. Sua madre e sua sorella l’hanno già fatto
quand’era in ospedale.»
Eriksson e Hewitt mi seguono nello spogliatoio; le loro espressioni
sono solidali. «Dev’essere dura» commenta Hewitt.
«Già.» Mi giro verso l’armadietto così che non vedano quanto
sono disperato. “Dura” è un eufemismo, in quel caso sarei in grado
di gestirla. Ma tutto questo… Vedere Jamie arrabbiato e non essere
capace di aiutarlo…
Non è dura.
È una tortura.

Quando torno a casa dall’allenamento, Jamie è in camera da letto


e sta leggendo. Un saggio scientifico sulle specie in via di estinzione,
stando al titolo.
D’istinto mi irrigidisco, perché ultimamente non so cosa vedrò sul
suo viso: l’espressione impenetrabile? Il cipiglio che dice “non mi
parlare”? Il senso di colpa? Lo sguardo triste?
Ma oggi non c’è niente di tutto questo. Lo saluto con un sorriso
teso prima di togliermi la felpa. Sono sbigottito nello scorgere un
lampo di desiderio nei suoi occhi castani.
L’uccello mi si ingrossa all’istante sotto la lampo: non ricorda – e
nemmeno io – l’ultima volta che abbiamo fatto sesso. Non dal primo
ricovero in ospedale, almeno.
«Com’è andato l’allenamento?» chiede, posando il libro sul
comodino.
«Bene. Com’è il libro?»
«Interessante. Lo sapevi che alcuni panda maschi in cattività non
sanno cosa fare quando una femmina è in calore?» Sorride e,
cavolo, il cuore mi schizza in gola. È rarissimo vederlo sorridere,
ultimamente.
«Bella rottura.»
«Davvero. Anche perché devono farli accoppiare in cattività.
Quindi uno zoologo ha girato un video hard per i panda maschi che
non riuscivano a concludere. Chi l’avrebbe mai detto che esiste il
porno per i panda?»
Ridendo, mi sfilo i jeans e li lancio sulla poltrona lì vicino. Jamie mi
fissa i boxer neri, poi passa al petto, e infine dice: «Pensandoci, sei
particolarmente scopabile, oggi.»
Sono talmente felice che mi viene da piangere. Non sono stupido,
lo so che il sesso non è la soluzione, so che non gli risolleverà il
morale né cancellerà le cose brutte delle ultime settimane. Ma è un
inizio.
Faccio un balzo verso il letto e lui scoppia a ridere per la mia
impazienza. Quel suono manda una scossa dritta al mio uccello. Mi
manca la sua risata. Mi manca il Jamie rilassato, quello con il sorriso
sempre sulle labbra, e il suo sorriso familiare mi spinge ad attaccare
la sua bocca.
Il mio bacio è disperato.
È eccitazione e desiderio e nostalgia, tutto nello stesso gesto sexy
e mozzafiato. La sua lingua entra nella mia bocca e mi fa impazzire.
Mi accarezza il petto, con i pollici mi sfiora i pettorali e poi i
capezzoli, prima di scivolare sugli addominali e sull’elastico dei
boxer.
«Via» borbotta, tirandoli.
Mi stacco dalle sue labbra abbastanza da togliermi la biancheria e
lanciarla dall’altra parte della stanza. I pantaloni di flanella di Jamie e
la maglietta fanno subito la stessa fine. Sono un po’ preoccupato che
possa prendere freddo e che si ammali di nuovo, ma preme il corpo
nudo contro il mio prima che riesca a coprirci con la trapunta.
Le sue labbra trovano il mio collo, baciano e succhiano la pelle
come se fosse ricoperta di zucchero. I suoi versi profondi e gutturali
mi solleticano l’orecchio e mi fanno formicolare le palle.
«Mi è mancato tutto questo» sussurra.
«Anche a me.» Le parole mi escono spezzate, piene di
sentimento. Cristo, non ha idea di quanto mi sia mancato.
Mi fa sdraiare sulla schiena e mi riduco a un ammasso fremente e
caldo mentre mi bacia sempre più in basso. Quando la sua bocca mi
circonda la punta dell’uccello, sollevo i fianchi per avere di più. Per
avere lui.
Jamie mi prende più a fondo, ancora e ancora, finché accoglie
tutta la mia lunghezza. Le uniche cose che sento sono umidità e
calore e meraviglia, cazzo. Ma poi mi torna in mente la sua violenta
tosse della scorsa settimana e gli tocco i capelli morbidi,
suggerendogli di fermarsi.
«Sei sicuro di essere pronto?»
Serra la mascella con forza.
Merda, ho detto la cosa sbagliata.
Per qualche motivo, Jamie è suscettibile sul fatto di sembrare
“debole”. Ma io non penso che lo sia, non l’ho mai pensato. Era solo
malato, punto. Ma, nonostante gliel’abbia ripetuto in continuazione,
per lui è ancora una questione spinosa.
«La tosse» spiego subito. «Perché se hai la gola ancora irritata, ci
sono altri modi per farmi venire…»
Si rilassa, e con la lingua mi disegna un cerchio sulla cappella.
Incurvo maliziosamente le labbra. «In realtà, più ci penso e più mi
piace l’alternativa.» Lascio che mi lecchi un’altra volta prima di tirarlo
su dalle spalle e farlo sdraiare di schiena.
«Qual è l’alternativa?» chiede con la voce roca.
Mi sto già sporgendo verso il cassetto del comodino per prendere
del lubrificante. «Che mi sbatti con quel cazzo enorme finché non
vengo.»
Gli sfugge un gemito pieno di desiderio. «Mhh. Sì. Sexy come
idea.»
Forse non mi prendo il tempo necessario per prepararmi, ma sono
troppo impaziente. È passato molto tempo. Troppo tempo. Lo voglio
talmente tanto che ho la gola secca e i palmi sudati. Mi tremano le
dita, quando ne infilo due dentro di me, sfregando e girando mentre
mi siedo a cavalcioni su Jamie.
Ha il petto arrossato per l’eccitazione e lo sguardo ardente, mentre
si concentra sul movimento del mio braccio e poi sull’erezione che si
protende dal mio inguine. Il suo uccello è duro quanto il mio, e gemo
quando lo avvolge con la mano e si tocca lentamente. La punta
gonfia esce dal pugno ed è già umida. Mi si secca ancora di più la
gola, quindi la inumidisco chinandomi per succhiare il liquido
perlaceo sulla sua punta. Dopodiché sollevo la testa e mi lecco le
labbra.
Jamie sobbalza. «Cazzo, Wes, ho bisogno di te.»
Il mio cuore fa una capriola. Ha bisogno di me. So che al momento
sta parlando del sesso, ma una parte di me spera che intenda anche
qualcos’altro. Questa settimana si è rifiutato di accettare il mio aiuto.
Quello di chiunque, in realtà. Si è rifiutato di ammettere che gli
serviva aiuto. Forse questo è il suo modo di ammetterlo, adesso.
In ogni caso, gli do quello che vuole. Gli do me stesso,
sollevandomi e poi sedendomi sul suo uccello duro. La fitta di dolore
conferma che non ero ancora pronto, ma non mi interessa. Accolgo
quel bruciore. Accolgo ogni centimetro dell’uomo che amo,
chinandomi per baciarlo mentre lui mi toglie il respiro con una spinta.
«Cavalcami» ordina. «Cavalcami forte.»
Stavolta non obbedisco, ma vado con calma. In un modo
dolorosamente e deliziosamente lento, prolungando ogni movimento
dei miei fianchi finché il suo viso si contorce per il bisogno e
l’impazienza, finché geme e si dimena per avere di più.
Jamie mi afferra i fianchi quasi con disperazione. Cerca di
sollevare i suoi, ma io continuo a stuzzicarlo, baciandogli il collo e la
clavicola, succhiandogli il lobo dell’orecchio, mordicchiandogli il
labbro. Voglio assaporare ogni secondo, voglio perdermi nel piacere
che provo quando mi riempie.
Ma poi mi tocca l’uccello.
Il lampo malizioso nei suoi occhi mi fa imprecare. Appena inizia a
masturbarmi, il mio corpo si muove da solo: all’improvviso lo sto
cavalcando con fervore, incapace di mantenere un ritmo lento.
«Voglio che mi vieni addosso» farfuglia. La sua mano aumenta la
velocità, e il pollice mi preme sotto la cappella a ogni rapido tocco.
Cristo santo. Sta cercando di farmi esplodere. Mi sta facendo
esplodere. Con la mano su di me e l’uccello dentro, è impossibile
fermare il fiotto che schizza veloce come un missile. Vengo con un
grido stridulo, e Jamie spinge i fianchi in avanti mentre il suo pugno
mi prosciuga.
Stringe gli occhi e freme per il suo orgasmo, lasciando la presa sul
mio uccello e avvolgendomi con entrambe le braccia. Ho il petto
incollato al suo a causa del sudore di entrambi e del mio sperma. Il
cuore gli batte all’impazzata e lo sento contro i pettorali. Mi
sembra… troppo veloce. È normale che abbia il battito così veloce?
Mi siedo di colpo, preoccupato che si sia sforzato troppo, che il
mio bisogno egoista di stare con lui gli provochi una ricaduta.
Jamie deve avermi letto nel pensiero, perché il piacere che c’è sul
suo viso sparisce e fa una smorfia. «Non dirlo» mi avverte.
Deglutisco. «Che cosa?»
«Qualsiasi cosa stessi per dire.» Mi attira di nuovo a sé e mi
avvolge un braccio intorno alle spalle. «Sono stufo di quello
sguardo.»
«Che sguardo?» Lo voglio davvero sapere?
«Lo sguardo preoccupato. Ha sostituito quello da sesso neanche
un minuto dopo che sei venuto.»
Non posso certo negarlo, perché mentirei. «Ho uno sguardo da
sesso?» chiedo, invece.
«Sì. Hai gli occhi un po’ annebbiati e sporgi leggermente la
lingua.»
Ridacchio contro la sua ascella. «Sembra molto sexy.»
«Lo è, quando lo fai per me. Ma fossi in te, eviterei di fare quello
sguardo durante la grande intervista per Sports Illustrated.»
Quando parla della stampa, Jamie diventa un po’… rancoroso,
credo. Non ho mai usato quella parola per descriverlo. Mai. E ora
sento un brivido di disagio lungo la schiena, perché non so come
gestirla. E ieri gli ho detto che il giornalista vuole farla in televisione,
non per iscritto. «Vuoi che la cancelli?»
Scrolla le spalle. «Non puoi.»
«Ehm…» Davvero? Per me è un territorio inesplorato. Dennis
Haymaker mi chiederà del rapporto con Jamie, e mi è appena
venuto in mente che, qualsiasi cosa dirò, dovrò prima discuterne con
lui. «Devo parlare di hockey, perché è previsto dal mio contratto, ma
vorrei sapere cosa ne pensi su cos’altro dovrei o meno dire.»
«Perché?»
«Perché siamo compagni.» Sollevo la testa. «No? Stiamo insieme.
E si tratta del nostro rapporto. Dovresti dire la tua su quello che
raccontiamo agli altri al riguardo.»
Gira la testa verso le finestre. «Di’ quello che vuoi.»
Mi si stringe lo stomaco.
Sono appena stato liquidato dall’amore della mia vita. «Jamie»
sussurro.
Non mi guarda.
«Credo che la polmonite non sia l’unico problema. E voglio che
me ne parli.»
«Sto bene.»
Non è vero. Sei depresso. Ho le parole sulla punta della lingua,
pronte a uscire, ma è tra le mie braccia per la prima volta da
settimane e non riesco a rovinare il momento con un discorso così
serio.
Mi schiarisco la gola e provo un’altra tattica. «Cosa ti piacerebbe
fare, adesso?»
«Adesso?» chiede.
«No. Ehm…» Scelgo le parole con cautela. «In generale. Cos’è
che ti manca?»
Fissa il soffitto. «Sarebbe bello avere il sole. Voglio andare in
California.»
Mi vibra il cuore. Jamie vuole andare via. Ha pronunciato la parola
“sole”, ma non posso fare a meno di intendere le sue parole in un
altro modo. Mi prendo mezzo secondo per pensare al mio
calendario. Dobbiamo andare in Minnesota e a Dallas, niente vicino
al mare. «Okay, allora… mancano otto settimane alla fine della
stagione. Perché non cerchi dei biglietti per quest’estate? Potremmo
fare una bella vacanza e andare a trovare i tuoi. Potresti insegnarmi
a fare surf.»
«Va bene» risponde lentamente. «Lo farò.»
Affondo il viso contro il suo collo. Forse organizzare una vacanza
lo rianimerà. Forse il sesso aiuterà le endorfine a circolare di nuovo
nel modo giusto. Forse il fatto che oggi mi abbia desiderato significa
che inizia a stare meglio. Lo spero.
La speranza è l’unica cosa che ho.
23

Il giorno dopo sono sdraiato sul divano a fissare il soffitto. Ormai


sono qui da un po’. Wes è all’allenamento e l’appartamento è
talmente silenzioso che ogni cazzo di pensiero mi riecheggia troppo
forte in testa.
Un paio d’ore fa ho cercato i voli per la California, ma mancano
ancora due o tre mesi per poter fare il viaggio – dipende dall’arrivo o
meno della squadra di Wes ai playoff. Non vedo perché dovrei
organizzarlo ora.
È come se mi fossi dimenticato come ci si esalta, o la febbre
avesse bruciato tutta la felicità dentro di me. Anche l’euforia di ieri
per il sesso con Wes si è affievolita in fretta.
La giornata prosegue. Non ho niente da fare e nessuno con cui
parlare. L’ora di pranzo arriva e finisce velocemente, ma non ho
neanche fame. Non si sprecano energie a stare tutto il tempo sul
divano, quindi il mio stomaco ha dimenticato di pregare per avere
cibo.
Un senso di disgusto mi spinge ad alzarmi e a raggiungere i
finestroni con vista lago, che è di un colore scuro e freddo e mi fa
venire i brividi solo a guardarlo. Ma sotto vedo la gente infagottata
che cammina celermente nel pomeriggio di marzo. Le macchine si
fermano e ripartono sulla Lakeshore.
Tutto il mondo è impegnato tranne me.
Sul bancone della cucina, il mio telefono vibra. Lo fa spesso. Vado
a prenderlo e studio il messaggio che mi è arrivato, ma è solo un
promemoria automatico che mi ricorda che la mia squadra ha una
partita tra mezz’ora. Anche se sono in malattia, quei messaggi
continuano ad arrivare, come a ricordarmi tutto quello che mi sto
perdendo.
Gironzolo per la cucina, prendo uno yogurt e lo mangio.
Ultimamente, cucinare mi sembra una rottura.
Quando finisco, butto il vasetto e rifletto sulle ore interminabili che
mi aspettano. Per una volta, il nervosismo per la prigionia batte
l’apatia. Se non vado subito da qualche parte, impazzirò.
Prendo il telefono e lo infilo in tasca; poi mi infilo il cappotto e
metto sciarpa e berretto, ma solo per evitare che Wes si arrabbi se
mi vede fuori al freddo.
Non so neanche dove voglio andare finché entro nell’ascensore.
Ma poi ho l’illuminazione: non posso lavorare, ma non mi hanno
esiliato dalla pista. Posso guardare i miei ragazzi che giocano, no? È
un paese libero.
Mi ci vuole mezz’ora per arrivare, tra la metro e un lungo tratto a
piedi. Quando finalmente scorgo l’edificio, sto rantolando. Mi fermo
per tossire, perché non voglio avere un attacco sugli spalti. Odio il
suono e il dolore agli addominali dovuti all’ormai familiare esercizio
per liberarmi i polmoni.
Ridere, poi, fa malissimo. Per fortuna non lo sto facendo spesso.
Quando raggiungo finalmente la pista, la partita è già iniziata. Ma
va bene, perché così posso entrare senza essere notato. E i miei
ragazzi sembrano concentrati. Salgo gli scaloni e mi siedo nell’ultima
fila. La pista non è molto grande, può ospitare solo un paio di
migliaia di persone, ma è strano essere così lontano dai ragazzi
durante una partita: dovrei essere in panchina, dove la testa rasata
di Danton fa avanti e indietro mentre parla alla squadra e grida alle
linee.
Mi manca essere coinvolto. Mi sento un estraneo, quassù. E
anche inutile. Un altro coach ha preso il mio posto: Gilles sta
lavorando con Danton e allena i miei difensori.
E, porca miseria, funziona. I miei ragazzi stanno facendo un bel
lavoro: con il mento sollevato, si passano il disco prima di essere
circondati dagli avversari nelle azioni di disturbo. E il mio portiere
sembra pronto e all’erta; ha una postura più rilassata rispetto
all’ultima volta che l’ho visto giocare, come se si fosse liberato delle
sue paure.
Le due squadre sono bilanciate, e nessuno segna per tutto il primo
tempo. Dunlop fa un paio di parate magnifiche, ma non deve
sforzarsi troppo. Non ancora.
Il gioco diventa più duro durante il secondo tempo. La nostra
squadra fa dei bei tiri, che trovano però un’ottima difesa. E poi il
nostro centrale ne infila uno, e dopo settimane la mia bocca si
allarga in un enorme sorriso.
Stringo i pugni per tutta la durata della partita. Gli avversari
mettono il turbo, approfittando di ogni occasione, e per un po’
Dunlop è impegnatissimo. Ma non soffoca. Sono talmente fiero di lui
che potrei scoppiare. Poi la nostra squadra becca una penalità e
trattengo il respiro per due minuti sperando che Dunlop non crolli.
Ma è una roccia. Fa due salvataggi durante l’inferiorità numerica e
protegge la linea per tutto il terzo tempo.
Quando la partita finisce, il punteggio è ancora di 1 a 0 e Dunlop
ha bloccato l’altra squadra. Sono così sollevato da sentirmi stremato.
È stupendo vederli vincere.
Ma poi tutta la felicità sparisce, come ormai succede sempre.
Sotto di me, Danton e Gilles chiamano i ragazzi. Sprizzano felicità
da tutti i pori per la vittoria, si danno pacche sulle spalle e sorridono,
i visi rossi e sudati. Mi sento come Scrooge quando i fantasmi del
Natale gli mostrano scene della sua vita. Dovrei essere giù con loro,
fare i complimenti ai ragazzi e tenere un discorso post-partita. Ma un
altro coach ha preso il mio posto, e ora stanno vincendo. Dunlop
sembra cento volte più felice rispetto alle mie ultime partite con lui.
Perché cavolo sono venuto? È stata una pessima idea.
Devo andarmene. Ma gli spalti si sono svuotati e la mia squadra si
vede ancora. Quindi mi siedo per qualche orribile minuto in attesa
che vadano alle docce, così da poter uscire senza che mi notino.
Non so neanche cosa potrei dire a quei ragazzi, in questo momento.
Bella partita. Sono contento di aver preso la polmonite, così ora
vincete.
La verità è come un pugno dello stomaco. Sono inutile e
probabilmente mi licenzieranno. Se dovesse succedere, non
lavorerò mai più a Toronto.
E poi?
Di colpo, non riesco a stare qui dentro un attimo di più. Mi alzo e
corro giù, verso la porta. Nel corridoio non c’è nessuno e sembra
che abbia la via libera verso la libertà. Ma poi qualcuno grida il mio
nome.
Mi giro d’istinto e vedo Danton corrermi incontro, poi si blocca.
«Ciao.» Ha il viso rosso.
«Ciao.» Non ho niente da dirti.
«Senti, saresti dovuto venire da me.»
«Cosa?» Lo guardo negli occhi piccoli e irosi e mi scappa quasi da
ridere. Non vorrà mica dirmi che avrei dovuto confidarmi con lui. Non
siamo amici.
«Avevi un problema con me e avresti dovuto parlarmene. Ora
Braddock mi sta attaccato al culo. Sei andato da lui alle mie spalle. E
non stavo insinuando un cazzo con quello che ho detto, erano solo
sfottò nei confronti dell’altra squadra, e tu lo sapevi. Non ti ho mai
dato del frocio.»
Sento il sangue ribollire nelle vene. Non mi sono mai sentito così.
Sto tremando. «Non importa a chi lo dici, è comunque sbagliato.»
«Ma non ti ho mai trattato male! Non sono così. Non avrei fatto lo
stronzo, se avessi saputo che avevi un ragazzo.»
Okay, basta così. Per oggi ho sentito abbastanza cazzate. Afferro
Danton per le spalle e lo sbatto contro il muro. «Razza di stupido
coglione. Non credere che mi freghi qualcosa di quello che pensi di
me.»
Spalanca gli occhi, scioccato, ma non ho ancora finito. Gli do un
altro strattone e picchia la nuca contro il cemento. «Hai presente le
puttanate che ti escono dalla bocca? I ragazzi sentono tutto quello
che dici. Sei una figura autoritaria, e ora pensano che dare del frocio
a qualcuno come fai tu vada bene. E. Non. Va. Bene.» Gli sto
praticamente sputando in quella smunta faccia da topo.
Noto un movimento con la coda dell’occhio e, con orrore, vedo Bill
Braddock giungere dal corridoio.
Porca di quella puttana.
Stacco le mani da Danton. Sì, è una brutta cosa dire “frocio”
davanti alla squadra, ma lo è altrettanto sbattere un collega contro il
muro e gridargli in faccia. Sul regolamento per i dipendenti c’è
un’intera pagina che vieta di alzare le mani.
Visto quant’è facile farmi arrabbiare, ora?
L’uscita è a soli dieci metri, e all’improvviso mi ci dirigo a grandi
passi. Bill Braddock mi chiama, ma non mi fermo. Esco e corro sul
marciapiedi. Corro per un centinaio di metri, prima che i polmoni
inizino a bruciarmi. Inizio a barcollare e mi fermo. Poi la tosse mi
scuote.
Cazzo. Non riesco neanche a correre. Sono inutile perfino per me
stesso.
Quando mi riprendo, raggiungo la fermata della metro. E nessuno
mi segue.
24

Stasera giochiamo a Pittsburgh. La squadra è ottima, ma sono


sicuro che gli faremo il culo. L’allenamento mattutino è andato bene
e Blake è tornato sul ghiaccio. Altra cosa positiva, quando sono
uscito dallo stadio per le ore di riposo prepartita, non c’era nessun
matto accampato fuori, ed è da un paio di giorni che non sento
parlare di vendita dei biglietti sul mercato nero.
Magari tutta la frenesia sta diminuendo. Lo spero, che cazzo.
Stamattina, quando sono uscito, Jamie aveva il calendario dei
playoff in una mano e il computer aperto su un sito di prenotazioni
sulle gambe. Mentre andavo alla porta, gli avevo chiesto se c’era un
posto in particolare in California che desiderava visitare. «Oppure
che ne dici di un paio di giorni alle Hawaii, prima di andare dai tuoi?»
gli avevo proposto.
«Sembra un’idea costosa» aveva bofonchiato.
Ma volevo che pensasse in grande. Dopo un periodo angosciante,
ci meritiamo un po’ di divertimento. Mentre guido verso casa,
immagino me e Jamie fare surf in una qualche spiaggia. Ordinare
birre con uno spicchio di lime sul bordo del boccale.
Ho parlato delle Hawaii, ma anche il Messico sarebbe divertente.
Sto fischiettando, quando entro in casa. La prima cosa che noto
dopo aver superato la soglia è il disordine: ci sono bicchieri sul
bancone e riviste cadute per terra dal tavolino. Non è niente di che,
ma Jamie è un maniaco dell’ordine eppure ultimamente non gli
importa nulla della confusione. E la cosa mi preoccupa. Parecchio.
«Piccolo?» chiamo, come faccio spesso quando torno a casa.
Non risponde, ma sento il rumore di una cerniera da qualche parte
nell’appartamento. Lascio il cappotto sull’appendiabiti (Jamie l’ha
comprato quando si è stufato di ritrovare il mio cappotto sul divano),
e attraverso velocemente il corridoio per andare in camera da letto.
Jamie è chino su un grande borsone. Il suo borsone. Sta mettendo
l’occorrente per la barba nella tasca esterna.
«Piccolo?» ripeto.
Lui sobbalza, poi raddrizza subito la schiena. Con aria colpevole.
«Ciao» saluta, la voce rauca. «Non ti ho sentito arrivare.»
Ovvio. Ma non lo dico, sono troppo impegnato a farmi due calcoli:
sul letto c’è un foglio stampato su cui leggo CARTA D’IMBARCO. Air
Canada. Accanto, c’è il computer nella custodia. Il telefono e il
caricabatteria sono sul letto lì vicino. «Dove vai?» gracchio.
«A casa» risponde, ma poi aggiunge subito: «A trovare i miei. Ti
ho detto che credevo di dover stare per un po’ in California. Non
posso ancora tornare al lavoro, no? Tanto vale andare lì».
«Ehm…» C’è qualcosa che non torna in tutta questa situazione. E
il suo viso sta diventando rosso. «Avevi intenzione di dirmelo? Mi
avresti salutato?» Le parole escono spezzate, il tono spaventato. Ma
sono spaventato.
«Sì» risponde. «Certo. Sapevo che saresti tornato a casa a
quest’ora.»
Sento suonare le sirene d’allarme. Jamie è in piedi a un metro e
mezzo da me, ha le mani infilate goffamente nelle tasche dei jeans.
Non ho mai avuto una relazione prima, ma non è così che
dovrebbero andare le cose. «Ci stiamo lasciando?» chiedo di colpo.
Jamie sussulta, come se non si aspettasse che lo chiedessi a
voce alta. «No» risponde dopo una brevissima esitazione. «No. È
solo una vacanza. Ho…» Si schiarisce la gola. «Ho solo bisogno di
vedere i miei.»
Ma quello che sento io è “Ho solo bisogno di starti lontano”.
Il cuore mi batte all’impazzata. Gli dovrei gridare contro? È la cosa
giusta da fare? Non so di cos’ha bisogno. Se lo sapessi, glielo darei.
Una manifestazione forte e assillante del mio amore sarebbe un
modo.
Sul letto, il telefono gli squilla. Lo prende e risponde. «Grazie»
dice dopo un attimo. La chiamata è tutta lì.
«Chi era?»
«La… la compagnia dei taxi. La macchina sarà qui tra dieci
minuti.»
Trattengo il tremore. «Se ti serviva un passaggio in aeroporto,
perché non me l’hai detto?» Che CAVOLO sta succedendo, qui?
La sua espressione torna a essere colpevole. «Non lo so»
risponde, guardandosi le scarpe. «Ho solo pensato che così sarebbe
stato più facile.»
Ha ragione. Perché probabilmente avrei fatto una scenata in
aeroporto. Ne sto per fare una adesso. «Non voglio che te ne vada,
Canning.»
Jamie fa una smorfia. «Devo…» Gli si spezza la voce. «Devo solo
provare, va bene?» Quando solleva di nuovo gli occhi, sono umidi.
Ora ho più paura che mai. Barcollo verso di lui e lo abbraccio. Lui
ricambia, se non altro. Ho la gola completamente chiusa. No no no,
è la cantilena nella mia testa. Lo urlerei, se pensassi che è la cosa
giusta da fare, ma come posso negargli di andare dai suoi genitori?
Domani partirò per il Minnesota, e non ha senso pregarlo di restare e
poi salire sull’aereo della squadra e stare via per cinque giorni.
Cazzo.
Quindi faccio l’uomo e decido di fare la cosa giusta. «Prenditi cura
di te» sussurro. «Sei importantissimo per me, cazzo.»
Mi abbraccia un po’ più stretto ed emette un sospiro tremulo.
«Anche tu per me.»
Okay. Ce la posso fare. «Ti amo» dico, allontanandomi
leggermente.
«Ti amo anch’io» sussurra.
Non mi guarda negli occhi.
Cazzo.
Cazzo.
Cazzo.
Traffica con le ultime cose sul letto e le mette al loro posto. La
compagnia di taxi gli manda un messaggio per avvisarlo che l’autista
è arrivato in anticipo.
Fantastico.
Lo accompagno fino alla porta di casa. Gli do un bacio sulla
guancia e lo abbraccio un’altra volta.
Poi lascio che attraversi da solo il corridoio. Se scendessi con lui,
mi renderei solo ridicolo.
Invece appoggio la fronte sull’acciaio freddo della porta e ascolto il
rumore dei suoi passi che si allontanano.
Ripenso ancora una volta a tutta la situazione. Un viaggio in
California per vedere i genitori, tanto non può comunque tornare al
lavoro. Ha detto che non ci stiamo lasciando. È una vacanza.
E allora perché mi sembra che il cuore mi sia balzato fuori dal
petto e stia prendendo un taxi per l’aeroporto?
25

Dopo aver vinto 3 a 2 contro la squadra del Minnesota, mi lascio


cadere nella prima fila di posti sul pullman. Dovrei essere euforico
come i ragazzi intorno a me, ma non è così. Da due giorni sono un
rottame, e stasera sul ghiaccio si è visto: non ho segnato neanche
un goal né ho servito assist. Mi sono fatto il culo sui pattini, ma non
sono riuscito a realizzare magie.
Jamie si è portato via tutta la magia, quando mi ha lasciato.
Non ti ha lasciato. È in vacanza.
Cazzate. Mi ha lasciato.
Lemming sale sul pullman e per errore incrocia il mio sguardo. So
che è successo per sbaglio perché si gira subito dall’altra parte.
Supera il sedile vuoto vicino a me e prosegue fino in fondo.
Già, non tutti i miei compagni sono entusiasti di sedersi vicino al
tizio gay. A quanto pare, essere cresciuti entrambi a Boston non è
bastato per legare con Lemming.
Dieci minuti dopo, il pullman si ferma davanti a un albergo a
cinque stelle nel centro di Saint Paul, e insieme ai miei compagni di
squadra mi trascino giù dal pullman e dentro l’atrio. Sono di
malumore, quando raggiungo la camera. Mi tolgo l’abito e indosso
una tuta, ma starmene seduto nella suite vuota mi deprime, quindi
decido di scendere al bar dell’albergo. Eriksson e alcuni degli altri
avevano intenzione di andare in uno strip club. Mi hanno invitato, ma
non sono rimasti sorpresi quando ho rifiutato. Immagino abbiano
accettato la mia asocialità.
Prendo l’ascensore e arrivo nell’atrio, e non mi importa se sembro
un barbone. Giacca e cravatta sono riservate a viaggi e conferenze
stampa del dopopartita, ma al momento non sono al centro
dell’attenzione, e se voglio bere qualcosa in tuta allora lo faccio, che
cazzo. Mi siedo al lungo bancone, su uno sgabello alto, e ordino un
whiskey che il barista mi serve immediatamente. Forse ha notato il
mio sguardo disperato. Ma non cerca di brindare né di intavolare una
conversazione intima e sincera, cosa che apprezzo.
Mentre sorseggio il mio drink, controllo il telefono per vedere se
Jamie mi ha scritto: non l’ha fatto. Sento la delusione ribollirmi
dentro, e brucia più dell’alcol che mi scivola in gola. Mi ha chiamato
quando è atterrato a San Francisco ma, a parte qualche messaggio
in cui ha scritto “Sto bene, i miei stanno benissimo”, non gli ho
parlato.
Mi chiedo se sta provando il discorso che farà per lasciarmi non
appena tornerà a casa.
A quel pensiero, mi si spezza il cuore. Mando giù il resto del
whiskey e ne ordino un altro. Il barista mi lancia uno sguardo
solidale.
Dopo circa cinque minuti, durante i quali sono rimasto seduto in
silenzio con l’espressione impassibile, prendo di nuovo il telefono
con le dita che mi tremano, cerco il numero di Cindy e chiamo. È
quasi mezzanotte a Saint Paul, ma sulla costa ovest sono appena le
dieci.
La madre di Jamie risponde subito. «Ciao, tesoro! Devi essere
stanco dopo una partita così emozionante! Perché non sei a letto?»
Sorrido, nonostante il nodo enorme che ho in gola. Cindy Canning
è la madre che non ho mai avuto. Mi commuove avere qualcuno a
cui importa davvero se sto dormendo abbastanza. «Non sono
stanco» le assicuro. «Quindi hai guardato la partita, eh?»
«L’abbiamo guardata tutti. Jamie ha quasi preso a pugni il
televisore, quando quell’imbecille ti ha fatto lo sgambetto nel
secondo tempo.»
Il mio cuore fa una capriola. Jamie ha guardato la partita. Si è
arrabbiato quando un avversario mi ha fatto lo sgambetto. Dovrà
significare qualcosa, no? Forse non ha intenzione di lasciarmi.
Il mio attimo di silenzio deve aver innescato l’abilità sovrannaturale
di Cindy di leggere nel pensiero, perché aggiunge: «È stato molto
orgoglioso di te, stasera».
Mi si stringe la gola. «Ma… non ho segnato neanche un goal.»
Lei ridacchia. «Non devi segnare per renderlo orgoglioso, Ryan.
Gli basta vederti giocare a hockey sullo schermo.» Fa una pausa.
«Perché non mi chiedi quello per cui hai chiamato?»
Legge nel pensiero, porca miseria. «Sta bene?» chiedo di colpo.
«Presto.» La madre di Jamie resta in silenzio per un attimo.
«Ammetto che non è del tutto in sé, ma credo abbia qualcosa a che
fare con tutte le medicine che ha preso.»
Aggrotto la fronte. «Gli antidolorifici?»
«Pensavo più agli steroidi che gli hanno dato. Non sono un
medico, ma non posso credere che tutti quei medicinali non abbiano
un qualche effetto collaterale. È triste, sta un po’ sulle sue, ma mi
chiedo se smettere di prendere le medicine abbia contribuito.»
Sono di nuovo preoccupato. Dio, non sopporto che il mio Jamie,
sempre sorridente e rilassato, sia triste e sulle sue.
«Ma l’aria fresca ha aiutato» prosegue Cindy con un tono più
allegro. «In realtà, proprio ora è fuori con suo padre. Stanno facendo
una passeggiata. E ieri ha passato la giornata con i gemelli e ha
aiutato Scottie a scegliere una nuova tavola da surf. A volte, la
migliore medicina per ciò che ci affligge è una buona dose di
famiglia.»
Mi bruciano gli occhi. Pensavo che Jamie fosse la mia famiglia.
Pensavo che la sua famiglia fosse la nostra. Mi uccide sapere che
non sono stato abbastanza per lui, che ha dovuto cercare il conforto
dei Canning mentre io ho passato settimane a offrigli il mio senza
riserve. «Sono felice che stia meglio» riesco a dire. «Continuate… a
occuparvi di lui, va bene? E non dirgli che ho chiamato per sapere
come sta. Non…» Mi mordo il labbro. «Non gli piace quando mi
preoccupo, lo fa incavolare.»
«Oh, tesoro, non è vero. So che apprezza la tua preoccupazione.
Dimostra quanto lo ami.»
Mi rassicura per qualche altro minuto, ma mi sento ancora una
merda quando riattacchiamo. Jamie mi manca da morire, cazzo.
Odio stargli lontano, il che è stupido, pensandoci, perché tanto cosa
cambia? Che ora si trovi a Toronto o in California, saremmo
comunque lontani; io sarei comunque a Saint Paul per la partita fuori
casa.
Non vedo l’ora che la stagione finisca.
«Posso offrirti un altro giro?»
La voce maschile mi fa sobbalzare. Mi rimetto in equilibrio prima di
cadere dallo sgabello, poi mi giro e vedo un tizio biondo seduto
accanto a me. Sta indicando il mio bicchiere vuoto. Non ricordo di
essermi scolato il secondo giro, ma un terzo è fuori discussione.
Frank darebbe di matto, se qualcuno riferisse di avermi visto ubriaco
al bar dell’albergo.
«No, grazie» rispondo distrattamente.
Il tizio continua a guardarmi. È bello, sui trent’anni, e non si sforza
di nascondere il fatto che mi sta squadrando. E non è uno sguardo
del tipo “Sei Ryan Wesley, quello che gioca nella NHL?”, bensì uno
colmo di pura consapevolezza sessuale.
«Ne vuoi parlare?» chiede, strascicando le parole.
Stringo i denti. «Parlare di cosa?»
«Del motivo per cui hai quello sguardo devastato.» Posa un
avambraccio muscoloso sul bancone, si gira leggermente e si
sistema in modo da rivolgersi a me. Indossa una camicia e i
pantaloni di un abito. Suppongo sia un uomo d’affari. «Cos’è
successo? Una brutta rottura?»
I molari quasi mi si sbriciolano, tanto li sto serrando.
Resto ancora in silenzio, e lui ridacchia e si sporge ancora di più
verso di me. «Mi dispiace, mi rendo conto di essere insistente,
ma…» Scrolla le spalle. «So chi sei. Ryan Wesley, giusto?
Ultimamente ho visto la tua faccia ovunque, quindi so che hai un
ragazzo e tutto quanto.» Sembra imbarazzato. «Ma vista la tua
espressione… qualcosa mi dice che forse non hai più il ragazzo?»
Non rispondo.
Ha le palle, glielo concedo. Provarci pur sapendo che sono
impegnato è una mossa audace. Purtroppo per lui, non è il tipo di
audacia che apprezzo.
Si dimostra ancora più sfacciato quando allunga una mano e me
la posa sul polso, accarezzandolo piano. «E, in quel caso, sarei ben
felice di…»
«Sparisci» sbotta una voce tagliente. «È impegnato.»
Mi giro di scatto e vedo Blake che ci sovrasta. I suoi occhi verdi
brillano minacciosi, e lo sguardo storto che lancia al mio
corteggiatore ha l’effetto desiderato. Il signor Audacia scende dallo
sgabello e scrolla le spalle. «Valeva la pena provarci» dice, prima di
allontanarsi verso l’uscita.
Blake prende il posto di quel tizio e guarda male me.
«Ma che cavolo stavi facendo? Tradisci J-Bomb? Ma che problemi
hai?»
Alzo gli occhi al cielo. «Non stavo facendo proprio un cazzo. Stavo
per dire a quello stronzo di levarsi dai piedi prima che arrivassi tu.»
Le spalle enormi del mio compagno di squadra si rilassano. «Ah.
Okay. Va bene.»
«Pensavo fossi andato allo strip club con Eriksson.»
Annuisce. «Il programma era quello. Ma poi, sceso dal taxi, ho
visto l’insegna e sono rientrato al volo in macchina.»
Mi scappa una risatina. «E perché?»
«Lo sai come si chiamava il posto?» Fa una pausa drammatica.
«“La pecora nera”!»
La risatina diventa una vera e propria risata. È la prima volta che
mi diverto davvero da quando Jamie è partito per la California, e non
mi sorprende che sia stato Blake a suscitare questa reazione. In
qualche modo, anche se lo conosco da poco tempo, questo ragazzo
è diventato il mio migliore amico. Sono felice che sia di nuovo sul
ghiaccio con me. E, al contrario di alcuni degli altri compagni di
squadra, Blake non ha nessun problema a sedersi vicino a me su
quel cavolo di pullman.
«Dimmi tu se non era un segno dell’universo che mi diceva di
starci alla larga.» Scuote la testa con sgomento. «Lo giuro su Dio,
Wesley, le pecore sono il demonio.»
«Lo so» rispondo, solidale, dandogli una pacca sul braccio.
Blake lancia un’occhiata dietro il bancone. «Barista! Birra, por
favor!»
Mi si piegano le labbra quando il barista si avvicina ed elenca tutte
le birre che hanno.
Blake impiega un’infinità di tempo per decidere, un procedimento
che include due barzellette, una battuta su lupi e luppoli, e un
resoconto dettagliato della prima volta che ha bevuto una Heineken.
Il barista è stordito, quando serve a Blake una birra artigianale
locale. Io sto cercando di non farmela addosso dalle risate.
«Che c’è?» chiede Blake, stringendo gli occhi. «Perché sorridi
così?»
«È che…» Scrollo le spalle. «Mi sei mancato, tutto qui.»
Gli si illumina tutto il viso. «Mi sei mancato anche tu, fratello.
Quindi vuol dire che sei pronto a toglierti quel broncio dalla faccia?»
Basta quella domanda e il mio buon umore sparisce. Per un
attimo, mi ero davvero dimenticato che il mio ragazzo mi ha
abbandonato, e il ricordo della sua assenza è come la lama di un
pattino sulla giugulare.
Blake sospira. «Mi sa di no.» Si porta la bottiglia alle labbra e beve
un sorso, pensieroso. «Hai sentito J-Bomb?»
«Qualche messaggio.»
«Ha detto quando torna a casa?»
Il dolore mi attraversa il corpo.
«È a casa» farfuglio.
«Stronzate.» Blake tamburella le dita sul bancone, mentre con
l’altra mano gioca con l’etichetta sulla bottiglia di birra. Sembra il
testimonial di ADD. «Casa sua è a Toronto. Con noi.»
«Noi, eh?»
«Certo. Tu e J-Bomb siete i miei migliori amici. Siamo i tre
amigos.» Impallidisce di colpo. «J-Bomb lo sa, vero? O pensa che
sia suo amico solo perché ci sei tu? Perché non è così.»
«Lo so.» Ma mi chiedo se lo sappia anche Jamie. In tutti questi
mesi a Toronto è stato infelice. Se non è con me, è da solo. Credo
che sia uscito un’unica volta con i colleghi, e si sia trattato proprio
della sera in cui ci siamo incontrati al pub. Ed è tutta colpa mia. È
rimasto isolato per colpa mia, perché io dovevo nascondere il nostro
rapporto, per la mia carriera.
Ma Jamie non è così. Da quando lo conosco, è sempre stato
circondato da amici e famiglia. È popolare, tutti quelli che lo
conoscono lo adorano. E perché non dovrebbero? È la persona più
gentile, amichevole e affettuosa che abbia mai incontrato.
Non mi stupisce che se ne sia andato: l’ho condannato a una vita
in isolamento.
«Peccato che non giochiamo ad Anaheim fino ad aprile» medita
Blake. «Avremmo potuto fargli una sorpresa in California.»
Annuisco mestamente perché ho già fatto quel calcolo. Ma domani
andremo a Dallas, non ad Anaheim. E dopo Dallas torneremo a
Toronto, e toccherà a me stare seduto da solo nel nostro
appartamento mentre Jamie si crogiola nell’affetto e nel sostegno
della sua famiglia.
Mi trema tutto il corpo, quando scendo dallo sgabello. «Vado a
dormire» annuncio freddamente.
È chiaro che Blake è pronto a ribattere, ma non gliene do
l’occasione. Mi allontano a passi pesanti, dirigendomi all’ascensore
con una nuvola di tristezza sulla testa.
26

Quando mi ero lasciato convincere da Frank Donovan e dal


giornalista a concedere un’intervista davanti alle telecamere, avevo
immaginato che sarebbe stato umiliante. Ma non avevo tenuto conto
del trucco.
Digrigno i denti mentre un tizio di nome Tripp mi mette qualcosa
sugli zigomi con una spugnetta, canticchiando tra sé e sé.
A mio padre verrebbe un infarto, se mi vedesse. E il pensiero, in
qualche modo, mi rallegra.
Quando Tripp si allontana per guardare il risultato del suo lavoro
da dietro gli occhiali da hipster con la montatura nera, gli chiedo: «Lo
fate con tutti, vero?»
Lui ridacchia. «Sì, tesoro. Non è perché sei gay.»
Esci dalla mia testa. Odio quando la gente capisce cosa sto
pensando. E tra poco sarà anche peggio, perché sto per sedermi per
una chiacchierata intima con milioni di telespettatori. Sparatemi.
«Buono a sapersi» borbotto.
Frank entra nella stanza su di giri. Almeno qualcuno è contento
per questa assurdità. «Sei pronto?» chiede.
«Certo» rispondo. Tanto che alternativa ho? Ho promesso a
Dennis Haymaker che l’avrei fatto. La mia società lo vuole. E, come
vantaggio, c’è la possibilità di metterla in quel posto a mio padre.
Meglio togliersi il pensiero. «Qui abbiamo finito, giusto?» domando a
Tripp.
«Un attimo.» Si avvicina con un pennello gigante e chiudo gli
occhi appena in tempo, prima di essere ricoperto da una qualche
polverina.
«Ma che schifo» tossisco, quando l’aggressione finisce.
«Oh, il grande giocatore di hockey non sopporta un po’ di cipria?
Non vogliamo che la tua faccia sia lucida davanti alle telecamere»
ridacchia.
«Ti stai divertendo un po’ troppo» brontolo.
«Vero! Ma di solito sulla sedia non c’è un figo come te.» Mi toglie
la mantellina nera di nylon dalle spalle. «A posto. Va’ e spacca, Ryan
Wesley.»
«Grazie.» Ma non ho intenzione di spaccare niente, voglio solo
che quest’ora di esplorazione della mia anima finisca per poter
andare avanti con la mia vita.
Frank mi conduce in uno studio arredato per sembrare intimo. Ci
sono due poltrone di pelle da macho sistemate di sbieco in modo da
poterci guardare in faccia e guardare le ottantasette telecamere
puntate lì. Appena fuori quella stanza fittizia, ci sono attrezzature da
centinaia di migliaia di dollari. Tutto molto pittoresco. Mi hanno
messo addosso una elegante giacca scura, un paio di jeans scuri e
una camicia noiosa ma costosa sbottonata sul collo. Scommetto che
qualcuno delle pubbliche relazioni ha impiegato ore a cercare di
capire come farmi sembrare virile, moderno, casual e interessante
ma allo stesso tempo normale. Probabilmente hanno realizzato
simulazioni al computer per questa cazzata.
Va be’. Almeno non ho una cravatta che mi strangola.
«Questo è il tuo posto» mi avvisa Frank, indicando la poltrona
sulla sinistra.
Non chiedo come hanno scelto i posti, mi siedo e basta.
«Ora, ricorda» aggiunge, sfregandosi le mani. «Guarda Dennis o
la telecamera. Questa qui.» Indica quella sulla destra, vicino a dove
si siederà il mio interlocutore. «Se ti guardi intorno, sembrerai
sfuggente. Evita intonazioni alte. Non alzare la voce a fine frase.»
Mi sfugge un po’ del mio naturale cinismo. «Troppo gay?»
Lui alza gli occhi al cielo. «No, troppo insicuro. E tu non lo sei.
Quindi non lo sembrare.»
«Va bene.»
È strano essere quello su cui è puntata la telecamera. Non ho mai
chiesto di essere il portavoce degli uomini gay, e non mi sento
neanche in grado di rappresentarli. Diciamoci la verità: la mia è
un’esistenza egocentrica concentrata sul vincere partite di hockey e
sul passare più tempo possibile con Jamie Canning.
Al momento sto fallendo in entrambe le cose, quindi
quest’intervista arriva in un momento in cui sento di avere molto
poco da offrire.
La mia autoflagellazione viene interrotta dalla comparsa di Dennis,
vestito come me ma con i capelli più brillanti e più sicurezza di sé.
«Ryan! È un piacere vederti.» Mi stringe la mano e si siede. «Come
ti senti? Pronto a rispondere a qualche domanda?»
«Certo» mento. «Ho dato un’occhiata alla lista.»
«C’è qualcosa di off-limits?» chiede, sistemandosi i risvolti della
giacca.
«No.» Frank mi ha già avvisato sulla cosiddetta lista delle
domande: non è detto che Denny ci si atterrà. Dal momento che
l’intervista è preregistrata, potrò sempre uscirmene con un “Ci hai
provato, stronzo”, e la domanda verrà tagliata. Il contratto che ho
firmato stabilisce che posso tirare fuori qualsiasi argomento non
compaia sulla lista, ma sta a me o Frank segnalarlo.
«Ottimo» si entusiasma Dennis. «Iniziamo.»
Un regista si avvicina per parlarci di tempi e angolazioni. Cerco di
prestare attenzione, ma mi chiedo cosa stia facendo Jamie in questo
momento e se guarderà o meno l’intervista, stasera. Jamie era il mio
pensiero felice, il suo sorriso era ciò a cui pensavo ogni volta che mi
sentivo stressato.
Lo è ancora, ricordo a me stesso. Spero solo stia sorridendo,
ovunque sia.
Compaiono delle luci calde e Tripp corre da noi per tamponarci la
faccia un’ultima volta con un fazzoletto di carta. Quando se ne va, mi
stringe la spalla.
Poi il regista annuncia: «Si gira».
Dennis Haymaker si volta verso la telecamera. «Stasera sono qui
con Ryan Wesley, attaccante esordiente della squadra vincente di
Toronto…»
Mentre continua con la presentazione, sento la mia faccia
pietrificarsi in una sorta di maschera impacciata. Che razza di idea
stupida è stata, questa? Ma almeno inizia con domande semplici.
«Da quanto giochi a hockey?»
«Da sempre» rispondo subito. «Quando avevo cinque anni, mia
madre ha fatto ridecorare la mia camera con i colori dei Bruins
perché avevo attaccato foto su tutti i muri e si era stancata di
impedirmi di farlo.»
Mi fa parlare degli esordi, quando giocavo nei pulcini. Erano anni
che non ci pensavo. Racconto la storia di quando ho finito la partita
di un torneo con un braccio rotto, perché è la mia intervista e posso
far credere di essere stato un ragazzino tosto, se voglio. Ero un
ragazzino tosto. «All’epoca mi è dispiaciuto perdermi la premiazione
per andare al pronto soccorso. Dopo tutto quello che avevo passato,
volevo vedere il trofeo.»
Dennis ride. «Ahia. Cosa ne pensavano i tuoi genitori della tua
ossessione e dei rischi? Loro giocano a hockey?»
Ora sono io a ridere. Il pensiero di mio padre che suda per
qualcosa che non sia una transazione economica è comico.
«Nossignore.»
«Sono i tuoi più grandi fan?»
Direi che ci siamo. «Non proprio. Io e i miei non andiamo molto
d’accordo.»
«Come mai?»
Eccoci. Scoppio in una risatina nervosa. «La verità è che non
abbiamo mai avuto un gran rapporto. Quando mi sono rotto il
braccio, non sono stati loro a portarmi al pronto soccorso.»
Dennis sembra davvero sorpreso da questo colpo di scena. «E chi
è stato?»
«L’autista di mio padre. Si chiamava Reggie. Vedi, a mio padre
piaceva vedermi vincere le partite, finché non toglievano troppo
tempo ai suoi impegni. Mi mandavano alle partite con un autista, e
Reggie era il mio preferito. Dopo ogni goal, lo cercavo con lo
sguardo sugli spalti e lo vedevo esultare. Era sempre lì, con il suo
blazer blu a tifare per me. Ho sempre pensato che gli piacesse
l’hockey, ma oggi mi chiedo se mio padre non gli allungasse una
ventina di dollari extra per sostenermi. Non avevo idea che quello
fosse uno strano modo di crescere. Avevo dieci anni. Per me era
normale.»
«Quindi…» Dennis si prende un istante per formulare la domanda
successiva. «Tuo padre era troppo impegnato per portarti al pronto
soccorso per un braccio rotto?»
Scrollo le spalle, perché stiamo andando fuori tema. «Non lo so.
Forse Reggie mi ci ha portato per buonsenso. Non riporti a casa il
figlio del tuo capo con un osso rotto, no? Sembra un modo per farsi
licenziare. Ma tanto non mi importava chi mi ci avesse
accompagnato. Anche a dieci anni sapevo che dovevo fare l’uomo e
non piangere durante la lastra. Non importava chi ci fosse in sala
d’attesa.»
Il giornalista si schiarisce la gola. «E in che altri modi ci si
aspettava che facessi l’uomo, Ryan?»
Naturalmente questa domanda non è sulla lista, ma non blocco
l’intervista. «Be’, Dennis, non dovresti innamorarti del tuo compagno
di stanza del campo estivo di hockey. Quello era un altro tabù in
casa Wesley. Ma non sono mai stato bravo a seguire le regole.»
La sua espressione si fa cupa, come se stessimo per discutere del
disarmo dell’Iran. «Quando hai rivelato ai tuoi genitori di essere
gay?»
Cavolo, sono io o queste luci sono incandescenti?
Resisto all’impulso di asciugarmi la fronte con la mano, ma a
malapena. «Avevo diciannove anni, andavo all’università. Mi
aspettavo grida, parolacce, cose del genere. Invece, si sono solo
rifiutati si sentire.»
«Qual è stato il commento di tuo padre?»
«Be’…» Mi schiarisco la gola. «Credo abbia detto: “Hai la cravatta
storta”. La scorsa estate gli ho riferito che convivevo con il mio
ragazzo e ha risposto: “Ho una conference call. Devo andare!”. Si
rifiuta di ascoltare qualsiasi cosa non gli vada bene.»
«E come ti fa sentire?»
Quasi alzo gli occhi al cielo. «Cosa dovrei dire? Non è il massimo,
ma ci sono ragazzi che sono stati cacciati di casa dalla famiglia, e ce
ne sono altri che vengono picchiati. Quindi non mi lamento.»
«Quand’è stata l’ultima volta che i tuoi genitori ti hanno
chiamato?»
«Ehm…» Mi arrendo e mi gratto la nuca. Rispondere a domande
personali mi rende nervoso, ma faceva parte del contratto che avevo
firmato. «Credo di averli sentiti a febbraio. Mio padre voleva
organizzare una cena per la settimana in cui la mia squadra avrebbe
giocato a Boston. Ma dopo che il mio ragazzo si è ammalato e che la
mia faccia è spuntata ovunque su internet, ha annullato l’invito.»
«Capisco» commenta Dennis, e rivolge un’espressione solidale
alla telecamera numero due.
Abbattetemi.
«Raccontami del tuo ragazzo. Dev’essere speciale. Stai ricevendo
un sacco di critiche per stare con lui.»
Sorrido, perché mi piace pensare a Jamie. Ma queste domande
saranno le più difficili a cui rispondere, perché voglio rispettare la
sua privacy. «Siamo diventati amici a tredici anni, quando abbiamo
iniziato a frequentare lo stesso campo di hockey tutte le estati. È un
ragazzo fantastico e un grandioso coach di difesa. E, soprattutto, mi
sopporta.»
«Ma non siete sempre stati una coppia?»
Scuoto energicamente la testa. «Mi ci sono voluti nove anni per
confessargli quello che provavo. Ma ne è valsa la pena. Vedi…» Mi
ritrovo a fissare il buio dello studio mentre cerco di elaborare i
pensieri. Come un bravo intervistato, guardo Dennis negli occhi. «Mi
fido della persona che sono con Jamie. Lui non mi vede come
l’attaccante esordiente di Toronto, non gli importa della mia media di
goal. Non cerco di fare colpo su di lui.» Se non con la mia capacità
di fare pompini, ma non ne parleremo in prima serata.
«È la tua famiglia» commenta Dennis. «Più di quanto lo sia quella
vera.»
«Assolutamente sì» concordo.
«Pensi che vi sposerete?» chiede con un sorriso. «Aspetta… ti sto
mettendo in una posizione difficile?»
Che bastardo. Mi sta pungolando solo per alzare gli ascolti. Ma
non mi scompongo. «Oh, non stai mettendo me in una posizione
difficile, ma Jamie. Io lo sposerei in un attimo, e sono sicuro che lo
sappia.»
«Gliel’hai chiesto?»
Dennis sta tirando la corda e ne è ben consapevole. Dovrei
salvarmi la faccia con Jamie e glissare. Mi prendo un attimo per
considerare le mie opzioni.
Ho fatto trenta, faccio trentuno. «Non gliel’ho chiesto. Nel caso
non l’avessi notato, stiamo vivendo un anno difficile. Verrebbe fuori
qualcosa del tipo: “Ehi, piccolo, so che da quando sei finito in
ospedale ci ritroviamo telecamere spalmate in faccia ogni volta che
usciamo di casa e che il mondo intero vuole analizzare la nostra
sessualità, quindi che ne dici di metterci l’anello al dito?”.»
Il mio interlocutore ridacchia. «Quindi stai dicendo che non è
ancora arrivato il momento giusto?»
«Decisamente no.»
Dopo, Dennis torna a parlare di hockey e dei miei compagni di
squadra. E, poiché l’hockey è l’argomento più facile di cui parlare,
finalmente mi rilasso.
27

L’ultima volta che mi sono presentato turbato in California, mia


madre mi ha lasciato in pace con il mio muso lungo. Ma non
stavolta.
Ieri l’ho aiutata per tre ore a sistemare gli scaffali al banco
alimentare della chiesa, poi ci siamo occupati delle consegne per
tutto il pomeriggio. Oggi ho tosato l’erba del giardino enorme di un
anziano vicino e ho potato le rose di mia madre.
Ho quasi sputato un polmone per lo sforzo, ma mia madre mi ha
dato una pacca sulla schiena e mi ha ordinato di continuare a
tagliare.
Senza contare tutto il tempo che ho trascorso con i miei fratelli.
La cosa strana è che sta funzionando. Non mi sento ancora del
tutto me stesso, e nessuno dei miei problemi si è risolto, ma tenermi
impegnato mi ha aiutato un sacco. Più lavoro, meno mi preoccupo. E
mi è tornato l’appetito. Abbiamo cenato un’ora fa, ma sto già
cercando qualcosa per fare uno spuntino.
«Ieri sera ha chiamato Ryan.»
Mi immobilizzo al bancone della cucina, la mano sul barattolo dei
biscotti. Mia madre è seduta al tavolo, sta sorseggiando
tranquillamente un tè e mi guarda dritto in faccia. Mi chiedo cosa
veda nella mia espressione. Gioia? Terrore? Rimpianto?
Frustrazione? Provo tutte queste cose, quindi sono curioso di sapere
quale emozione è più palese.
Il rimpianto, immagino. Perché, cavolo, quanto rimpiango il modo
in cui ho gestito la mia partenza da Toronto. Dopo il disastro alla
pista, non riuscivo a stare in quell’appartamento un minuto di più.
Appena tornato a casa, avevo fatto altre ricerche per dei voli.
Quando avevo trovato un’offerta last minute per San Francisco, non
ci avevo pensato due volte. E, ehi, era costato molto meno del
viaggio che aveva in programma di organizzare Wes. Un
disoccupato non può permettersi un albergo di lusso sulla spiaggia.
Non è stata colpa di Wes se ho sentito il bisogno di allontanarmi,
ma il suo sguardo ancora mi tormenta.
Chiudo la mano intorno a uno dei biscotti ai sette cereali e uvetta
di mia madre. Sono molto più salutari di quanto dovrebbe essere un
biscotto, ma mi adeguo. «Cos’ha detto?» chiedo alla fine, dando un
morso al biscotto.
Mia madre sospira. «Voleva sapere come stai. A quanto pare, non
ti ha sentito molto.»
Ahia. Lo sto evitando perché mi sento in colpa, e ora mi sento
anche peggio. «Infatti» ammetto.
«E perché?»
«Be’…» Prendo un tovagliolo e mi siedo al tavolo con lei. «Non so
come spiegare cosa c’è che non va. Sono stato molto infelice, ma
non voglio che pensi sia colpa sua.»
Mia madre rigira la tazza tra le mani con un’espressione pensosa.
«Ma se non glielo dici, crederà comunque che lo sia.»
All’improvviso, il biscotto sa di polvere. «Quindi mi stai dicendo
che sono uno stronzo?»
Ride. «No. E non usare quella parola al mio tavolo.»
«Scusa» rispondo, mangiando. Mi alzo e vado verso il frigorifero
per prendere del latte, prima che questo cavolo di biscotto mi uccida.
E non posso morire, no? Non prima di aver chiarito le cose con Wes.
Verso il latte avanzato nel cartone in un bicchiere grande e me lo
scolo.
Quando torno al tavolo, mia madre mi sta scrutando. «Quindi,
cos’hai intenzione di fare?»
«Parlargli?»
«A parte quello. Se sei infelice, ci sarà un motivo.»
O una dozzina. La mia vita a Toronto è un groviglio che non riesco
a districare. Non ho detto ad anima viva delle email che mi ha
mandato Bill Braddock. La peggiore è arrivata prima che l’aereo
decollasse da Toronto.
Caro coach Canning,
mi dispiace informarti che Danton ha presentato un reclamo nei
tuoi confronti per la lite di oggi dopo la partita. In allegato trovi il
modulo che ha firmato. Hai quattordici giorni per rispondere prima
che il comitato disciplinare prenda una decisione definitiva. Dal
momento che sei in malattia, non è stato necessario prendere in
considerazione ulteriori azioni.
E, Jamie, chiamami, per favore. Non hai risposto al mio consiglio
di presentare un reclamo per il comportamento del tuo collega. Se
non racconti la tua versione della storia, mi sarà difficile aiutarti.
La tua squadra continua ad andare bene e spero sinceramente di
vederti di nuovo in pista con i tuoi ragazzi molto presto.
B. B.

Mi ha mandato un paio di altre mail, ma sono troppo in imbarazzo


per rispondere. «Al lavoro le cose vanno male» borbotto. «Potrei
ritrovarmi disoccupato prima dell’estate.»
«Mi dispiace, tesoro» sussurra. «Può succedere a tutti. Ma sono
sicura che sarai spaventato, visto che è il tuo primo vero lavoro.»
Sento un brivido di terrore solo a pensarci. Quando ho ottenuto il
lavoro, ho pensato: “È fatta!”. Il mio futuro era garantito.
Non tanto.
«Se il lavoro di coach non va, sono fregato. Non mi vorrà
nessun’altra squadra. Il mio visto lavorativo è valido solo per quella
società. Non mi posso presentare da qualche altra parte e farmi
assumere. Che cavolo farò?» Cristo, non l’ho mai detto ad alta voce,
e nella cucina dei miei è ancora peggio che nella mia testa.
Mia madre allunga una mano sul tavolo e stringe la mia.
«Succede, tesoro. Non puoi prenderla sul personale.»
Oh, invece sì che posso. In che altro modo dovrei prenderla?
«Wes lo sa?» Quando scuoto la testa, il suo sguardo si fa ancora
più pietoso. «Gli devi parlare. Ora sembra un buon momento.»
Ma non lo è. «Stasera manderanno in onda l’intervista. Mi ha
scritto dicendomi che va bene anche se non la guardo.»
«Oh, sì che la guarderemo» afferma mia madre. «Non potremmo
mai perdercela.»
Mi si stringe lo stomaco perché sono nervoso per Wes. E se
l’intervistatore fosse uno stronzo? Se la montassero in modo da fare
sembrare Wes uno stronzo? Sto male per lui. Non ha mai voluto
questo tipo di attenzioni.
Mia madre finisce il tè e guarda l’orologio. «E non dobbiamo
aspettare ancora molto. Facciamo i popcorn?»
Quaranta minuti dopo, sono seduto sul divano accanto a lei e mi
contorco le mani sudate. Mio padre sta leggendo il giornale sulla
poltrona.
Forse non dovrei guardare. Nel messaggio, Wes ha scritto: “Non è
andata malaccio, e non ho detto niente di personale su di te. Giuro.
Ma non guardarla, se ti fa sentire a disagio. La vita è troppo breve,
no? Chiamami, dopo. Mi manchi”.
Ho il telefono in tasca ed è una tortura. Mi manca tantissimo. Ma
ogni volta che penso di spiegargli i problemi sul lavoro, mi viene da
vomitare. Un licenziamento sarebbe molto più imbarazzante che
sentire il mio nome alla TV. E se non riuscissi a trovare un altro
lavoro? Ci lasceremo dopo una lenta agonia, quando si renderà
conto che posso lavorare solo negli Stati Uniti?
E mi pentirò di aver rinunciato alla possibilità di giocare a Detroit
solo per essere licenziato a Toronto?
Sono troppo giovane per una crisi di mezza età, dannazione.
A questo punto, il viso di Wes compare sullo schermo. Sembra un
cervo con i fari di una macchina puntati addosso, e non esiste che
me la dia a gambe ora.
«Oh» esclama mia madre vicino a me, mettendosi dritta a sedere.
«Ti vogliamo bene, Ryan!»
«Lo sai che non ti sente, vero?» chiede mio padre da dietro la
pagina degli opinionisti.
Trattengo il respiro per i primi dieci minuti dell’intervista. La storia
del braccio rotto mi uccide, perché non l’avevo mai sentita. E mi
sembra anche di aver incontrato Reggie: sono abbastanza sicuro
che abbia accompagnato Wes al campo la prima estate e poi sia
tornato a prenderlo.
Fino a questo momento non credo di aver mai capito quanto Wes
fosse solo. Insomma, quando siamo insieme non è solo, no? Quindi
come avrei potuto saperlo?
Oh.
Cazzo.
Porca troia.
Adesso è solo per colpa mia.
Man mano che l’intervista va avanti, affondo sempre di più nel
divano. Mia madre emette dei versetti ogni volta che Wes fa una
battuta autodenigratoria o parla del padre.
Quando dichiara che sono la sua vera famiglia, mi viene voglia di
prendermi a pugni.
E quando il giornalista gli chiede se si vuole sposare, smetto del
tutto di respirare.
«…che ne dici di metterci l’anello al dito?» scherza. Poi ride, come
se si fosse già convinto che sia un sogno irrealizzabile. Esibisce il
solito sorrisetto arrogante che gli ho sempre visto stampato in faccia,
ma ora so quanto dolore nasconde. Ed è sempre stato lì. Ma non
l’avevo capito, perché il mio uomo è bravissimo ad apparire sicuro di
sé.
Entrambi i miei genitori mi stanno fissando.
«Che c’è?» gracchio.
Mia madre si morde il labbro. Questa donna, che sa sempre qual
è la cosa giusta da dire, per una volta resta in silenzio, il che mi fa
stare ancora peggio.
Non ce la faccio più. Mi alzo e vado nella camera della mia
infanzia, dove mi siedo su uno dei due letti. Quando Wes era venuto
qui per Natale, era stato strano svegliarmi e osservarlo dormire
sull’altro. Era sereno come non l’avevo mai visto.
Maledizione. Cos’ho fatto?
Ora sono pronto a sistemare le cose, se non è troppo tardi. Tiro
fuori il telefono e trovo la vecchia email con l’itinerario di Wes.
Cazzo, sarà a Dallas per almeno un altro giorno. Domani sera
giocheranno lì, e l’aereo privato non tornerà a Toronto fino al
pomeriggio successivo.
Ma c’è sempre FedEx.
L’idea mi spinge ad alzarmi e a frugare nell’armadio della mia
vecchia camera. Sullo scaffale in alto, sotto delle vecchie imbottiture
di football di Scotty, trovo qualcosa che può fare al caso mio.
Una scatola.
Non è perfetta: qualcuno ci ha disegnato sopra con un pennarello,
ma è della grandezza giusta. Come una scatola per sigari.
Tiro fuori qualche mia vecchia figurina dei giocatori di hockey e poi
esamino l’interno vuoto. Voglio che Wes sappia che sono con lui.
Quando riceverà questa scatola, capirà. È sempre stato il nostro
modo per dirci quanto ci volevamo bene. E mi sento in imbarazzo
perché è da tanto che non faccio niente del genere per lui.
L’ultima volta è stato Wes a mandarmi una scatola al lago
Champlain, la settimana prima che andassimo a convivere. Cristo
santo. La verità mi arriva addosso come un vento gelido dal lago
Ontario: sono stato io a interrompere la catena. Non lui. Io.
Negli ultimi due mesi ho vissuto nella convinzione di essere io
quello che si era impegnato di più nel nostro rapporto, mentre lui era
il novellino. Ho pensato che fare qualche bucato in più mi rendesse
migliore.
Mica tanto.
Posso ancora sistemare tutto, vero? So cosa devo fare.
Ma il tempo passa mentre fisso la scatola vuota, chiedendomi
cos’è rimasto di me stesso da poterci mettere dentro. Un tempo, tutti
i nostri problemi erano abbastanza piccoli da entrare in una scatola
di queste dimensioni.
Nella mia testa, il senso di sconfitta rincorre la sicurezza man
mano che mi vengono in mente delle idee che scarto subito.
Stavolta, un regalo stupido non va bene.
E ho già regalato a Wes una scorta a vita di Skittles. Devo dargli
un segnale.
Dev’essere qualcosa di grande, e deve poter entrare nella scatola.
Okay.
Sto quasi per abbandonarmi alla disperazione, quando trovo la
risposta. E, cazzo, è talmente ovvia che scoppio a ridere da solo
nella stanza.
Tiro fuori il telefono e cerco il numero di mia sorella.
«Jamester!» esclama. «L’hai vista? Ommioddio…»
«Jess!» la interrompo. «Vieni al centro commerciale con me?
Credo che mi serva il tuo aiuto.»
«Ehm… Mi hai appena chiesto aiuto? Devo avvisare i media.»
«Piantala. Sei libera o no?»
«Vieni a prendermi tra un quarto d’ora.»
Mi infilo le scarpe e spalanco la porta della camera, e mi trovo
davanti mia madre con il pungo alzato, in procinto di bussare.
«Posso prendere la macchina? È per una cosa importantissima.»
«Certo» risponde senza esitare. «Ti prendo le chiavi dalla borsa.»
28

Abbiamo vinto la seconda partita consecutiva fuori casa. Ma


mentre tutti gli altri salgono baldanzosi sul pullman, io sono
stravaccato al mio posto, guardo fuori dal finestrino e ho stampato in
faccia quello che Blake ha battezzato ufficialmente il mio broncio da
Grinch.
Ma posso permettermi di essere giù di morale, perché non ho
ancora sentito Jamie. Non so nemmeno se ha guardato l’intervista,
non ha risposto al messaggio che gli ho mandato dopo che è andata
in onda. In seguito al suo silenzio radio, ho scritto di nascosto sia a
Cindy che a Jess, ed entrambe hanno detto che “non erano sicure”
che Jamie l’avesse vista.
Vorrei non dover tornare a Toronto, domani. Voglio solo saltare su
un aereo per la California e vedere Jamie, ma so che la direzione mi
ucciderebbe, se lo facessi. Stamattina Frank mi ha riferito che la mia
intervista ha realizzato ascolti pazzeschi. La squadra del reparto
comunicazioni è stata sommersa da altre richieste di interviste, e
Frank mi vuole a Toronto per il periodo in cui giochiamo in casa.
Devo essere “disponibile” nel caso organizzasse qualche conferenza
stampa. Non vedo cosa importi, tanto non ho intenzione di parlare
con altri giornalisti, a meno che l’argomento non sia l’hockey. La mia
vita personale è ufficialmente fuori discussione per il prossimo
futuro.
«E piantala, Grinch» sbotta Blake, dandomi un pugno sulla spalla.
Poi mi posa il pollice e l’indice ai lati della bocca e li spinge verso
l’alto per farmi sorridere.
«Mi dispiace» borbotto.
«Ed è giusto così. Mi stai deprimendo, e lo sai che non sono
contento se non sono contento.»
Lo fisso. «È la cosa più stupida che tu abbia mai detto.»
«No, ne ho dette di peggiori.»
Vero. Per fortuna il mio telefono vibra e mi evita così di ascoltare
qualsiasi discorso Blake avesse preparato per sollevarmi il morale.
Guardo lo schermo e noto un numero sconosciuto con prefisso di
Boston, e di colpo mi pento dell’entusiasmo provato per
l’interruzione. Ho salvato tutti i numeri dei miei amici di Boston,
quindi o si tratta di un giornalista o qualcuno ha ottenuto in qualche
modo il mio numero. O peggio, una persona collegata a mio padre.
Ma rispondo lo stesso, perché sono stanco di ascoltare la voce del
Grinch nella mia testa. «Pronto?» esordisco, cauto.
«Ryan?» La voce maschile mi sembra stranamente familiare:
molto profonda, con un che di confortante. Merda, dov’è che l’ho
sentita?
«Sì. Chi parla?»
«Be’, ragazzino, che cavolo. Non hai cambiato numero dopo tutti
questi anni? Non riesco a credere di essere davvero riuscito a
contattarti.»
Aggrotto la fronte. «Chi…» Mi blocco all’improvviso, travolto da
un’ondata di nostalgia. Ragazzino. Ultimamente solo la madre di
Jamie mi chiama così, ma prima lo sentivo sempre da… «Reggie?»
chiedo, scioccato. «Sei tu?»
«Sissignore. È bello sentirti, Ryan. Ne è passato di tempo.»
Da quando mi sono diplomato, mi rendo conto. Reggie è andato in
pensione quand’ero all’ultimo anno. «Troppo» rispondo con voce
roca. «Come stai?»
«Una favola. Adoro la pensione. Ma non ho chiamato per parlare
di me.» Sta zitto un attimo. «Ho visto la tua intervista in televisione.»
Un’altra pausa. «Non mi ha dato un centesimo.»
Deglutisco. «Come?»
«Tuo padre. Hai detto che ti chiedevi se mi allungasse qualche
banconota per fare il tifo per te alle partite. Non l’ha mai fatto.» La
voce di Reggie è pacatissima. «In realtà, sono stato quasi
licenziato.»
Rimango di nuovo scioccato. «Che vuoi dire?»
Emette un verso disgustato. «Gli autisti dovrebbero aspettare in
macchina. Dopo la tua prima partita, ho accennato a tuo padre
quanto eri stato bravo. Lui ha minacciato di licenziarmi, se mi fossi di
nuovo allontanato dalla macchina.»
Ovvio che l’ha fatto. Mio padre è uno stronzo con la “s” maiuscola.
«Ma…» aggrotto le sopracciglia. Con la coda dell’occhio, vedo Blake
accanto a me che ascolta attentamente la conversazione. Non finge
nemmeno di farlo di nascosto. «Ma hai continuato a venire alle
partite.»
Reggie ridacchia. «Non ho mai detto di essere furbo, ragazzino.
Ma tanto come avrebbe fatto a saperlo? Io di sicuro non gliene ho
più parlato, e non l’hai fatto neanche tu, quindi…»
Qualcosa dentro di me si spezza e il petto mi si riempie di
commozione. Quest’uomo ha affrontato l’ira di mio padre… ha
rischiato il suo lavoro solo per vedermi giocare a hockey?
«Guardarti sul ghiaccio mi rendeva così orgoglioso» continua.
«Volevo solo che lo sapessi. Non volevo pensassi che mi pagassero
o che fosse un lavoro per me. Perché non lo era.»
Mi si stringe la gola. «Ah. Va bene.»
«Ho guardato anche le partite dell’università, quando le
trasmettevano in TV. E questa stagione? Cavolo, ragazzino, stai
registrando record a destra e a manca.» La sua voce è burbera.
«Sono dannatamente orgoglioso di te.»
Oh, cavolo. Mi viene da piangere. Sul pullman. Davanti a tutti i
miei compagni e al mio coach.
Sbatto velocemente le palpebre, cercando di trattenere le lacrime.
«Grazie» sussurro.
«Sei un bravo ragazzo, Ryan. Lo sei sempre stato.»
Riesco quasi a vedere il suo sorriso sbilenco sul viso rugoso.
«Continua così, capito? Lascia stare tuo padre, lascia stare le
critiche e gli impiccioni. Vivi la tua vita come vuoi, e continua così. E
sappi che ci sono persone che stanno dalla tua parte, persone a cui
importa di te.»
Sbatto ancora le palpebre. «Grazie» ripeto.
«Bella vittoria, stasera» aggiunge, e poi chiude la telefonata.
Mi trema la mano quando mi poso il telefono sulla gamba. Blake
mi osserva, curioso. «Chi era?»
«Un vecchio amico.» Ho la gola talmente stretta che non so
neanche come faccio a rispondere. «Mi ha chiamato per salutarmi.»
Blake annuisce con entusiasmo. «Un tuffo nel passato, eh? È
sempre bello. Be’, non sempre. A volte fa schifo. Sai chi mi ha
chiamato la scorsa settimana, così, dal nulla? Un coglione delle
superiori. E sai che voleva? Che mi sbattessi la sua ragazza.»
Ero pronto a ignorare Blake, finché non ho sentito questo. «Dici
sul serio?» chiedo a bocca aperta.
«Serio come la lebbra.» Mi guarda, incredulo. «A quanto pare,
questa ragazza sogna di scoparsi un giocatore di hockey
professionista, e il coglione ha pensato che sarebbe stato un bel
regalo di compleanno.»
«Cavolo.» Poi stringo gli occhi di colpo. «Porca puttana. Ti prego,
dimmi che non hai accettato.»
Blake si limita a sorridere. Gemo. Forte. «Sei un uomo
profondamente disturbato, Blake Riley.»
Il suo sorriso viene sostituito da una risata. «Oh, tranquillo. È ovvio
che ho rifiutato. Non sono così tanto zoccola.»
«Cazzate» La voce di Eriksson giunge dai sedili accanto.
Evidentemente non sono l’unico rimasto affascinato dal tuffo nel
passato di Blake. «Sei una cagna, Riley.»
«Bau!» risponde Blake.
Eriksson ulula in risposta, a lui si aggiunge Forsberg e poi la metà
dei miei compagni si ritrova ad ululare come un branco di idioti
finché il coach Hal finalmente si alza e sbraita: «Tappatevi quelle
cazzo di fogne, imbecilli». Poi torna a sedersi e lo sento borbottare al
nostro coach della difesa: «Sembra di avere a che fare con dei
bambini».
Trattengo una risata. Sì, immagino abbia ragione. Siamo bambini.
Troppo cresciuti e pieni di testosterone.
Sono ancora sorpreso dal mio buon umore, quando il pullman
finalmente si ferma davanti all’albergo in cui alloggeremo. Ringrazio
l’autista e seguo Blake. Quando i miei piedi toccano l’asfalto, mi sto
già allentando la cravatta. A Frank non piacerà che mi mostri
trasandato ancor prima di arrivare in stanza, ma non me ne frega un
cazzo di quello che…
Merda. Forse mi importa. C’è una mezza dozzina di giornalisti
nell’atrio. Le telecamere sono accese e mi ritrovo un paio di
microfoni sotto il naso. Trattengo un gemito. Non sono dell’umore
per parlare con la stampa, e dentro di me maledico Frank per non
avermi avvisato che l’intervista di ieri sera avrebbe attirato una folla
di giornalisti nel nostro albergo.
Ovviamente, non fanno neanche una domanda sulla partita di
stasera. Eriksson e Blake mi lanciano uno sguardo solidale mentre
uno dei giornalisti mi infastidisce chiedendomi della mia “relazione
gay”. Sto per sbottare e rispondere che una relazione è una
relazione, e che non c’è bisogno che la etichetti come “gay”, ma
all’improvviso sento la mano di Blake sulla spalla.
«Bar» sussurra.
Serro la mascella. Al diavolo. Adesso non ho bisogno di bere,
devo solo sparire al piano di sopra.
Scuoto la testa e borbotto: «Non ho voglia di bere…»
Lui mi interrompe e ripete: «Bar». Stavolta con più decisione.
Le sopracciglia aggrottate, mi giro verso la zona bar dell’atrio, e il
mio cuore vola e precipita allo stesso tempo.
Jamie. Jamie è qui.
È seduto a un tavolo vicino al bancone, i suoi occhi castani
cercano tra la folla finché si incatenano ai miei. Il mio cuore fa una
capriola, prima di bloccarmisi in gola.
Che ci fa qui? E come cavolo posso raggiungerlo senza
concedere alla stampa degli scatti che metteranno di sicuro in
imbarazzo entrambi?
Sono combattuto tra il correre verso di lui e scrivergli di vederci di
sopra, ma Jamie decide per me. Mentre lo guardo con gli occhi
spalancati, si alza con eleganza e si fa strada verso di me. Con il
suo passo lungo macina il pavimento in marmo sotto le sue scarpe; i
capelli biondi si arruffano, quando ci passa una mano in mezzo.
Nell’altra ha qualcosa. Aguzzo la vista. Cazzo. È la scatola. O
meglio, è una scatola. Non quella che ci siamo scambiati varie volte
la scorsa estate, ma le somiglia.
Lo fisso, chiedendomi cosa significa, perché non è in California e
perché è venuto a Dallas…
Merda. Gli avvoltoi hanno sentito odore di sangue.
Diverse teste curiose si girano verso Jamie, che sta attraversando
l’atrio enorme. Scatta un flash, ma lui non si ferma: mi tiene
intrappolato con il suo sguardo serio e annulla la distanza tra noi. Me
lo ritrovo davanti, i suoi occhi castani che brillano divertiti mentre si
avvicina di più e… mi bacia.
Quando le sue labbra sfiorano le mie, dentro me provo panico e
gioia. Niente lingua, niente manifesta passione; ma quando si
stacca, è impossibile non scorgere il desiderio sul suo viso. Cristo.
Spero che gli obiettivi non catturino quello scintillio di passione, ma
Jamie sembra essere del tutto inconsapevole dei proverbiali riflettori
che si stringono intorno a noi.
«Ciao» mi saluta, piano.
Ritrovo la voce per miracolo. «Ciao. Cosa… cosa ci fai qui?»
Accanto a me, Blake ha un sorriso talmente ampio che sono
sorpreso non gli si apra la faccia.
«Possiamo… ehm, parlare in privato?» Jamie gira la testa e nota
finalmente tutte le persone che ci stanno fissando.
«C-certo» balbetto.
Blake mi posa una mano sulla spalla. «Ci sono degli ascensori di
là» mi informa, indicando con un cenno del capo la fine del bancone
del bar.
Jamie non perde tempo: mi prende per mano e mi trascina in
quella direzione.
Lo seguo e ci muoviamo a zig zag tra i tavoli finché compare la
porta dell’ascensore. È talmente bello sentire la sua mano stringere
la mia che mi dimentico di premere il pulsante. Jamie mi strizza
leggermente le dita. «Hai intenzione di dirmi a che piano sei?»
«Ehm, al nono. Ne sono abbastanza sicuro.» Ho già trascorso la
notte precedente in questo albergo, ma quando frequenti tanti hotel
come faccio io, è difficile starci dietro. Frugo nella tasca della giacca
per cercare la chiave magnetica.
Jamie sorride e preme il pulsante.
29

Un minuto dopo, stiamo facendo irruzione nella stanza 909.


Quando la porta si chiude alle nostre spalle, per un attimo mi sento
insicuro. Non ci sto ripensando: so cosa voglio fare, solo che non so
come farlo. Non ho mai detto a nessuno di voler passare insieme il
resto delle nostre vite. So che Wes mi ama, ma è comunque una
conversazione rischiosa.
Quindi do un’occhiata alla bellissima stanza dal lucente
arredamento alla moda e con delle finestre che vanno dal pavimento
al soffitto. «Bella camera» commento, esaminando il panorama.
Quando mi giro, Wes mi sta guardando. «È meglio ora di quanto
lo era prima.» Si scrolla di dosso la giacca dell’abito e la lancia su
una sedia. Non ha acceso le luci, ma il suo viso stupendo è
illuminato dalle luci del centro di Dallas. Ryan Wesley con addosso
un abito elegante, signore e signori. Pochissimi panorami sono belli
come questo.
Lo sto fissando. E ho ancora la scatola stretta nella mano. «Okay»
butto fuori. «Allora, ho preparato una cosa con l’aiuto di mia sorella e
sono salito su un aereo. Ma ora ho paura che penserai che sia
folle.»
«Be’…» Si schiarisce la gola. «Giuro che non lo farò. Sono solo
contentissimo di vederti.» Entra nel mio spazio personale e mi
avvolge in un abbraccio. «Pensavo non saresti tornato. Forse è
stupido, ma…» Nasconde il viso dell’incavo del mio collo e mi
respira.
D’accordo. Inizierò chiedendogli scusa. Gli poso la mano libera
sulla schiena. «Mi dispiace aver fatto lo stronzo. È stato… uno
schifo.» Eloquente. Anche no.
«Non ti scusare, non hai fatto niente di sbagliato. Sono solo
andato nel panico.»
«No, ci sono andato io.» Prendo un respiro profondo e mi
appoggio a lui. «Ho un problema al lavoro. Ho mandato tutto a
puttane e non volevo dirtelo. È imbarazzante. Ero anche
preoccupato per i soldi, quindi ti ho escluso. Bella merda, eh?»
Le sue mani calde mi accarezzano la schiena. «Piccolo, eri troppo
giù per pensare lucidamente. Se ora stai anche solo un po’ meglio,
per me non conta altro.»
Il mio primo impulso è quello di contraddirlo. Non voglio essere il
ragazzo che è crollato. Ma lo ero. E forse mia madre ha ragione
quando sostiene che gli steroidi hanno incasinato la chimica del mio
corpo. Ma, qualunque sia il motivo, mi sono perso per un po’, e non
sarebbe giusto nei confronti di Wes se lo negassi. Quindi dico: «Ora
mi sento meglio».
«Bene.» Mi stringe più forte. «È tutto quello che voglio, okay? È
tutto quello che conta.»
Non penso neanche per un attimo che non lo intenda sul serio.
Non so come ho fatto a essere così fortunato da trovare qualcuno
che mi ama incondizionatamente come Wes. Quante persone lo
trovano?
È arrivato il momento di tirare fuori le palle.
Arretro di mezzo passo, obbligando Wes a lasciarmi, e abbasso lo
sguardo sulla scatola che ho in mano. Penserà sia ridicolo.
Con un respiro profondo decido che va bene, che non fa niente. È
un gesto importante, e sono venuto fino a Dallas per scusarmi, no?
Ora sto fissando la scatola come se dentro ci fosse un serpente
velenoso.
«La posso aprire, a un certo punto, o no?» chiede Wes con una
risata.
Senza dire niente, gliela porgo. La studia e poi mi guarda. «È
leggera» commenta. «E non fa rumori strani.» Solleva il coperchio e
spuntano i fazzoletti con cui l’abbiamo imbottita. Che cavolo, forse è
rotto. Il che rende l’idea ancora più stupida di quanto già non fosse.
Ora andrò a nascondermi sotto una di quelle poltrone in pelle da
migliaia di dollari.
Wes scosta i fazzoletti con la sua grande mano e stringe gli occhi
per scrutarne il contenuto. Poi porta la scatola vicino alla finestra per
vedere meglio. «È… fatto di Skittles viola?»
«Sì.» È come se avessi della sabbia in gola.
Lo prende tra le dita e solleva quel piccolo cerchio alle luci della
città. «È un…?» Non finisce la frase, come se avesse paura di
sbagliare.
«Anello» gracchio. «Tu… Io…» La mia bocca sembra carta
vetrata. «Nell’intervista hai detto che avresti…» Respiri profondi.
«Che avresti voluto sposarti, un giorno. E credo che dovremmo
farlo.»
Per un attimo, subito dopo aver liberato quelle parole, Wes resta
talmente immobile da poter essere scambiato per una statua di cera
in un museo. Tiene ancora l’anello sollevato in tutta la sua stupida
gloria. A me e a Jess ci sono voluti un sacco di Skittles e di pazienza
prima di capire quale delle sue colle avrebbe fatto al caso nostro e
quanto tempo avremmo dovuto aspettare per incollare la caramella
successiva. Ieri sera era sembrata un’idea dolce e divertente.
Ora non ne sono così sicuro.
Wes china il mento e sento qualcosa contorcersi nel mio stomaco.
È in controluce, con la città sullo sfondo, quindi non riesco a vederlo
in faccia. Muovo qualche passo verso di lui, anche se ho paura di
aver mandato tutto a puttane. Devo sapere.
Apre la bocca, ma non gli esce niente. Poi gli occhi gli si riempiono
di lacrime, che brillano alla luce dello skyline. «Davvero?» chiede
con voce roca.
Gli tolgo quell’affare dalla mano e lo rimetto nella scatola, che
poso sulla scrivania. «Sì. Insomma, non subito, se hai bisogno di
tempo per abituarti all’idea…»
Mi afferra con forza la camicia e mi attira tra le sue braccia. «Non
ho…» Fa un respiro profondo che somiglia molto a un singhiozzo
soffocato. «Non ho bisogno di tempo per pensarci. Ti voglio sposare
quest’estate, prima che tu cambi idea.» Mi stringe di più tra le
braccia, azzerando lo spazio tra noi, e mi posa la testa sulla spalla.
Sento il suo petto tremare un paio di volte, mentre cerca di
riacquistare il controllo.
«Ehi,» sussurro, «non cambierò idea.»
«Ma…» Si schiarisce di nuovo la gola. «È una decisione enorme
per tutti e due. Sai, avresti potuto avere moglie e figli. Una famiglia.»
«Piccolo, ce l’ho una famiglia. Bella grande. Non mi sono mai
fermato a riflettere sull’idea di trasferirmi in periferia e procreare.»
«Ma potresti» obietta, la voce roca. «Volevo darti un po’ di tempo
per abituarti all’idea di stare con me e non avere… tutto quello.»
«E chi dice che non posso?» gli faccio notare.
Lui sbatte le palpebre.
«Se decidessimo di avere figli, ci sono diversi modi, piccolo.
Adozione, utero in affitto.» Gli do un pizzicotto sul sedere. «Piantala
di comportarti come se mi stessi condannando a una misera
esistenza senza prole.»
Quella frase lo fa ridacchiare.
«Ti amo» dichiaro, deciso. «Non ho mai smesso, neanche quando
le cose sembravano andare male. Poi ho guardato la tua intervista e
ho sentito il bisogno di venire qui. Il… biglietto non è stato proprio
economico, ma…»
Finalmente si raddrizza e mi guarda. Il suo viso è piuttosto
sconvolto, ma non mi è mai sembrato più bello. «Devo mandare una
bella bottiglia di scotch a quel giornalista. E una scatola di sigari
cubani.»
Poi mi bacia. Sa di lacrime e di Wes. E mi ci abbandono.
Dannazione, mi è mancato tutto questo: il modo in cui mi bacia,
come se stesse cercando di dimostrare qualcosa. E ora so cos’è.
Siamo destinati a stare insieme, quindi perché non rendere le
cose ufficiali?
All’improvviso, il mio corpo stabilisce che ci sono un sacco di modi
in cui dovremmo stare insieme. Mi stringo contro il suo petto solido e
approfondisco il bacio. Lui mi afferra i fianchi e geme. Un
nanosecondo più tardi, gli sto sfilando la cravatta e sbottonando la
camicia. Wes mi slaccia i jeans e mi guida verso il letto. Prima che
riesca anche solo a sbattere le palpebre, mi ritrovo sdraiato, senza
camicia e con i jeans abbassati, l’uccello nella bocca di Wes.
Il piacere si espande dalla punta fino alle palle. Gli afferro i capelli
disordinati e affondo di più nella sua bocca, sconvolto dalla brama,
dalla passione che sta mettendo nel pompino. Lecca, succhia e
mordicchia ogni centimetro, e gemo quando si infila un dito tra le
labbra prima di passarmelo tra i glutei.
Mi penetra e sollevo subito i fianchi. Wes ridacchia e affonda di più
con il dito, finché con il polpastrello mi accarezza la prostata. Tutto il
mio corpo trema. Formicola. Brucia. Wes impiega un’incredibile
quantità di tempo a torturarmi con la bocca e il dito – no, dita. Ora ne
ha due dentro di me, e strofina il punto sensibile facendomi vedere le
stelle.
«Wes» sussurro.
Lui alza la testa, gli occhi grigi annebbiati dal desiderio. «Mh?»
risponde pigramente.
«Piantala di stuzzicarmi e usa il cazzo, cazzo» ringhio.
«Uso il cazzo cazzo? Davvero ne vuoi due?»
«Uno è il complemento, l’alto è un’esortazione.» Il mio tono di
voce è teso come ogni muscolo del mio corpo. Scoppierò, se non mi
fa venire.
La sua risata mi riscalda la gamba. «Cavolo, adoro la nostra
lingua. È talmente creativa.»
«Ne stiamo davvero parlando adesso?» Gemo quando affonda i
denti nell’interno coscia. Ha ancora le dita dentro di me, ma non le
sta muovendo.
«Di cosa preferiresti parlare?» Sbatte le palpebre in modo non
tanto innocente. Sa esattamente quanto sono vicino all’orgasmo.
«Di niente» farfuglio. «Preferisco non parlare!»
Wes emette un verso di disappunto. «Non è così che funziona il
matrimonio, tesoro. La comunicazione sta alla base.»
Lo guardo male. «Allora di’ alla tua bocca di iniziare a comunicare
col mio cazzo. Perché se non mi farai venire nei prossimi cinque
secondi, allora…»
«Allora cosa?» mi prende in giro, e gemo quando le sue dita
scivolano via. Con una risata, Wes sale a cavalcioni su di me, mi
afferra i polsi e me li blocca sopra la testa. «Dimmi cosa farai,
Canning.»
«Io…» Mi si appannano gli occhi. È difficile pensare, mentre si
sfrega contro la mia erezione con i pantaloni ancora addosso. Cerco
di liberarmi dalla sua presa, ma il mio uomo è forte. Mi tiene i polsi
bloccati tra la mano e la testiera del letto, mentre con l’altro palmo mi
sfiora il petto, accarezzando lentamente un capezzolo.
Si strofina contro di me finché gemo per l’impazienza. Ma non
posso liberare i polsi, non posso abbassargli i pantaloni e
prenderglielo in mano. Non posso fare altro che restare sdraiato
mentre quest’uomo grande e bellissimo mi si struscia addosso come
se fossi la sua bambola gonfiabile.
Ha gli occhi socchiusi e riesco a vedere solo una fessura
argentata puntata su di me. Poi si lecca le labbra e un brivido mi
percorre la schiena.
Conosco quello sguardo. Amo quello sguardo.
Wes si abbassa i pantaloni, e la sua erezione sbatte contro i miei
addominali. «Voglio toccarti» lo supplico.
«No.» Il suo tono è autoritario, e non fa altro che intensificare
l’eccitazione. «Devo tenerti fermo così non scapperai di nuovo.» Mi
bacia di nuovo a lungo per farmi capire bene il concetto. E quando
finalmente lascia la presa sui miei polsi, scende dal letto prima che
riesca a sfiorarlo. «Non ti muovere» sussurra, e io mi blocco,
guardandolo affascinato mentre corre lì dove gli è caduto il
portafoglio. Lo apre, tira fuori una bustina dei suoi comodi lubrificanti
da viaggio e torna a letto.
«Alza le braccia.»
Obbedisco. Lancia i miei jeans di lato e si posiziona tra le mie
gambe, afferrandomi di nuovo i polsi. Con l’altra mano, si lubrifica
l’uccello e lo guida nel punto che lo desidera di più.
«Scopami, cazzo» supplico.
Nel suo sguardo passa un lampo divertito. «Non ho intenzione di
scoparti.»
Ora gemo di nuovo. Dannazione. Se ha in programma di
torturarmi ancora, andrò davvero fuori di testa…
«Ho intenzione di fare l’amore con te» finisce.
Resto senza fiato.
Sorridendo, Wes posa la bocca sulla mia. Le nostre labbra si
incollano nello stesso momento in cui scivola piano dentro di me. Il
piacere mi fa ansimare, ma lui assorbe il suono con un bacio dolce e
leggero come le spinte del suo cazzo. Mi riempie, mi completa. Il mio
uccello è come una spranga di ferro contro la pancia, e cerco di
divincolarmi dalla stretta delle sue dita sui miei polsi.
«Devo toccarmi» imploro.
Wes mi mordicchia il labbro inferiore. «Quello è compito mio,
ricordi?» Poi avvolge la mano intorno alla mia asta e la muove
velocemente su e giù, mentre affonda di più dentro di me.
L’orgasmo mi coglie di sorpresa. Pensavo che sarei durato di più,
almeno una dozzina di tocchi; ma no, sto venendo ed è epico, e tutto
il mio mondo si riduce a lui. Il mio migliore amico. Il mio amante. Il
mio… fidanzato… Cavolo, non avrei mai pensato che quella parola
potesse eccitarmi tanto. L’uccello pulsa più forte e un nuovo fiotto di
sperma mi colpisce la pancia al pensiero di passare il resto della mia
vita con quest’uomo.
Wes continua a fare l’amore con me, lento e languido, come se
stesse assaporando ogni istante. Quando finalmente viene, non
raggiunge l’apice in una forte esplosione di beatitudine, ma con un
delicato e appagante movimento dei fianchi e un gemito leggero. Poi
crolla su di me e mi stuzzica la bocca con le labbra, un bacio dolce
dopo l’altro, mentre con le mani mi accarezza i pettorali, le spalle, i
capelli.
Alla fine smette di accarezzarmi e restiamo sdraiati l’uno vicino
l’altro – Wes accoccolato contro di me, entrambi presi dai nostri
pensieri. Guardo l’orologio, che segna l’1:37. «Devi essere stanco»
sussurro. Ha giocato solo qualche ora fa. «Il pullman quando
ripartirà dall’albergo?» Sul suo itinerario c’è un volo per domani
mattina.
«Eh… alle sette e mezza?»
«Dovremmo dormire» suggerisco, anche se mi sento esaltato.
«Oppure mi puoi parlare del problema al lavoro.»
Gemo. «Lo farò, giuro. Ma dobbiamo affrontarlo proprio adesso?
Non posso stare nel mio posto felice?»
Ridacchia contro la mia nuca. «Non ci sono appena stato io nel
tuo posto felice?»
«Stasera sei molto letterale.» Mi alzo e vado nel bagno più grande
che abbia mai visto in una stanza d’albergo. Mi do una ripulita e
porto a Wes un asciugamano umido, poi mi sdraio di nuovo accanto
a lui.
«Ora, seriamente,» riprende, pulendosi i suoi notevoli addominali,
«cosa puoi aver mai fatto di così brutto?»
«Ho sbattuto Danton contro un muro.»
«Alleluia!»
«No. Non avrei dovuto farlo. Mi sarei dovuto controllare. Stiamo
cercando di insegnare la sportività a quei ragazzi, no? Quindi perché
ho ignorato il consiglio del mio capo su come gestire Danton per poi
mettergli le mani addosso? È la cosa più stupida che abbia mai
fatto.»
Wes resta in silenzio per un attimo. «Ma il punto è proprio questo:
tu sei molto più intelligente di così, non c’è motivo di pensare che lo
farai di nuovo. Dai la colpa alle medicine, di’ che è stato un caso,
tieni la testa alta e presenta il reclamo che Bill continua a chiederti.»
«In quel modo posso salvare il lavoro o la coscienza, non tutti e
due.»
Mi bacia il collo. «Salva il lavoro, piccolo, poi fa’ rilassare un po’ la
tua coscienza. Pensi davvero che quei ragazzini staranno meglio, se
quello stronzo vince?»
Ed è in questo momento che mi rendo conto, per la centesima
volta in ventiquattro ore, quanto amo Wes. Stare sdraiato qui,
incollato al suo corpo nudo a parlare della mia disastrosa carriera, è
la terapia migliore di sempre. C’è un motivo per cui mi fido di lui:
magari non affrontiamo i problemi sempre allo stesso modo, ma è
dannatamente intelligente.
«Lunedì andrò là e mi cospargerò il capo di cenere» decido.
«Voglio quel lavoro. E me lo merito.»
La sua mano grande mi massaggia il fianco. «Certo che sì.»
Restiamo di nuovo in silenzio, e dopo un po’ penso che Wes si sia
addormentato. Ma poi mi sorprende ricominciando a parlare.
«Possiamo discutere dell’altro tuo argomento preferito?»
«Come ti occupi da schifo della casa?»
Ride. «Okay, l’altro ancora.»
«Sarebbe?»
«Soldi.»
«Dio, perché?»
«Perché quando la stagione sarà finita, ci sposeremo e ci faremo
una vacanza spettacolare. Voglio organizzarla senza che ti
preoccupi di quanto costa. Ci aspettano ancora delle settimane
snervanti, no? Sarà tutto più sopportabile ogni volta che guarderò lo
screensaver di qualsiasi spiaggia avremo deciso di visitare.»
Non so cosa dire. «Non c’è bisogno che sia caro.»
Wes mi mordicchia il collo per un attimo, prima di rispondere. «La
privacy costa. E io ho i soldi.» Mi tira la spalla, quindi devo girarmi a
guardarlo. «Sai come ho fatto a diventare ricco?»
Scuoto la testa.
«Svegliandomi una mattina e scoprendo che mio nonno era morto
e mi aveva lasciato una vagonata di quattrini. E quello stronzo di mio
padre non può nemmeno toccare il mio fondo fiduciario. Il vecchietto
sapeva che papà era un avido di merda.» Sorride. «È tutta questione
di fortuna. E, anche se avessi guadagnato ogni centesimo scavando
buche, ti darei tutto quello che ho. Tutto quanto.»
Si sporge verso di me e mi bacia, mentre cerco di assimilare la
sua rivelazione. Mi dà un secondo bacio e poi un terzo. Pensavo di
aver capito tutto, ormai, ma c’è sempre qualcosa da imparare
all’1:45 di notte, mentre il tuo ragazzo si fa strada tra le tue labbra e
ti massaggia la lingua con la sua.
Per settimane mi sono preoccupato di accettare l’aiuto di Wes
perché non volevo apparire debole, e per tutto il tempo lui voleva
disperatamente dimostrarmi quanto mi ama.
Questa consapevolezza mi fa gemere.
«Che c’è?» chiede, sfiorandomi il collo con il naso.
«Ti amo.»
«Ma…?» ridacchia.
«Ma sono un cretino. Avere il tuo cazzo nel culo non ha mai
insultato la mia virilità, ma lasciare che mi pagassi le spese
dell’ospedale mi ha fatto andare fuori di testa.»
Wes ride e mi mordicchia l’orecchio. «Se facessi in modo che
l’affitto venisse scalato direttamente dal mio fondo fiduciario, daresti
di matto? È quello che voglio fare. Perché così, quando andrai a fare
la spesa, non dovrò chiederti di tenere gli scontrini. E se la
smettessimo di tenere il conto di tutto? Non è quello che fa la gente
sposata?»
«Immagino di sì.» Tutte le allusioni al matrimonio con Wes
minacciano di farmi scoppiare la testa.
Deve provare la stessa cosa anche lui, perché riprende a
baciarmi. E, alla fine, ci addormentiamo così: faccia a faccia, stretti
l’uno all’altro.

Quando la sveglia di Wes suona, alle sei e mezza, gemiamo


entrambi. La rinvia e seppellisco la faccia nel cuscino. Restiamo
coricati e mezzi addormentati per un po’, accarezzando pigramente
l’uno la pelle calda dell’altro. Il sesso sembra una buona idea, ma
siamo entrambi troppo stanchi per metterla in pratica. Quando la
sveglia suona per la terza volta, si alza con un lamento.
Ma io no. Il mio volo partirà tra quattro ore, quindi mi appisolo
ascoltando Wes fare la doccia e preparare i bagagli. Alla fine, si
sente bussare forte alla porta. «Ragazzi! Ho la vitamina C!»
Wes apre la porta e lascia entrare Blake, accidenti a lui. La stanza
ora è piena delle sue chiacchiere tipiche. Ma la vitamina C è il caffè,
e l’aroma mi fa risvegliare.
«Oh, ma guarda che dormiglione» canticchia Blake, lasciandosi
cadere sul lato del letto di Wes. «Caffeina, J-Bomb! Ti ho portato un
cappuccino.»
«Rendi difficile odiarti» brontolo contro il cuscino.
«Lo dicono tutti.» Mi afferra la spalla con la sua enorme zampa e
mi scuote.
«Smettila» intimo, tirando più su le coperte. «Altrimenti non ti
inviterò al matrimonio.»
«Al…? Oh, mio Dio!»
È evidente che ho commesso un gigantesco errore tattico, perché
ora Blake Riley – con l’abito addosso e in tutti i suoi novanta e rotti
chili – si alza e inizia a saltare sul letto. Apro la bocca per gridargli
contro, ma è difficile articolare le parole mentre urla: «Sì, cazzo!», e
mi sballotta come una scarpa in un’asciugatrice.
«Pi… pianta… PIANTALA!» riesco a urlare.
E Wes non è di nessun aiuto perché, per qualche motivo, è al
telefono dell’albergo. Riattacca appena sento un brutto crack, come
di legno che si spacca. Il letto sprofonda in modo strano e Blake
rimbalza per terra.
«Tranquilli! Sto bene!» grida da qualche parte sulla moquette di
lusso.
Io e Wes ci guardiamo, abbiamo stampata in faccia la stessa
espressione ilare mista a preoccupazione. «Hai rotto il letto, Blake»
sospira Wes. «Va sul tuo conto, non sul mio.»
«Non è la prima volta» risponde, alzandosi da terra e
raddrizzandosi la cravatta.
«Almeno hai rotto i mobili e non il mio fidanzato. Ne abbiamo
abbastanza degli ospedali.»
«Son felicissimo per voi.» Prende Wes e lo solleva da terra in un
abbraccio.
Wes mi guarda da sopra la spalla di Blake e alza gli occhi al cielo.
Quando tocca di nuovo terra, spinge Blake verso il corridoio. «Va’ a
chiamare l’ascensore, okay? Dobbiamo andare.»
Blake ci sorride. «Dagli un bel bacio per salutarlo, ma non ci
mettere troppo!» Prende il suo caffè e saltella fuori dalla stanza.
«Fiù» esclama Wes, guardandosi intorno. È come se fosse
appena passato un tornado, lasciando alle sue spalle silenzio
improvviso e macerie. Sono ancora nel letto, ma è inclinato in modo
scomodo. Il mio ragazzo fa il giro per sedersi con molta attenzione
sul bordo accanto a me. «Devo andare.»
Sorrido al suo viso bellissimo. «Lo so. Ci vediamo stasera. Il
biglietto più economico fa scalo a Chicago, quindi ci vorrà un po’.»
Mi passa una mano tra i capelli. «Non perdere la coincidenza. Ti
aspetto.» Mi rivolge un sorriso sensuale.
Al solo sentirlo, il mio uccello si mette sull’attenti. «Tranquillo.» Lo
attiro a me per baciarlo. Sa di dentifricio.
«Mmm» mormora, quando ci stacchiamo. «Senti, il servizio in
camera passerà tra un’ora. Mio nonno morto vuole che tu faccia una
bella colazione prima del volo.»
Gli sorrido, mentre mi bacia una seconda volta. «Ringrazialo da
parte mia.»
Wes sospira e mi accarezza la guancia con il pollice. «A dopo.»
«Certo.»
Quando la porta si chiude alle sue spalle, sto ancora sorridendo.
30

Lascio la valigia nel corridoio, chiudo a chiave la porta e mi


trascino in salotto sentendomi come uno che ha trascorso un anno
all’estero invece che una misera settimana sulla costa ovest. Ma,
cavolo, è bello essere a casa. E l’appartamento ha un odore
meraviglioso, come il dopobarba di Wes e… detersivo al pino?
Qualcuno ha pulito mentre ero via?
Porca vacca, qualcuno ha pulito davvero. Il pavimento brilla, la
cucina è immacolata e non c’è neanche un granello di polvere sulle
superfici. Di colpo mi sento come uno dei tre orsi imbrogliati da
Riccioli d’oro. Qualcuno ha pulito casa mia…
«Wes?» lo chiamo con cautela.
«Camera» risponde la voce smorzata del mio ragazzo.
No, non il mio ragazzo. Il mio… fidanzato? Wow. Sembra ancora
surreale, a pensarci. Compare un attimo dopo con addosso i
pantaloni della tuta bassi sui fianchi. Ammiro il suo petto nudo, i tanti
tatuaggi, la pelle dorata e liscia. È stupendo. E ha ripreso qualche
chilo. Ieri notte non l’avevo notato perché ero troppo impegnato a
strapazzarlo, ma i pettorali e i bicipiti sono notevolmente più scolpiti
rispetto a qualche mese fa.
«Com’è andato il viaggio?» Si infila una maglietta, coprendo il
petto spettacolare, poi si avvicina per darmi un bacio.
Allungo una mano per massaggiarmi il collo. «Noioso. E mi sono
addormentato in una posizione strana, quindi ora il collo mi fa un
male cane.»
Wes mi sfila il cappotto e lo lancia su uno degli sgabelli della
cucina.
Per una volta, non gli rompo le scatole per non aver usato
l’attaccapanni in corridoio. Sono troppo felice di vederlo. «Va’ a farti
una doccia» ordina. «Ti preparo qualcosa da mangiare e poi ti
massaggio il collo…» mi fa l’occhiolino, «tra le altre cose.»
«È…» inizio a dire, attirandolo a me, «un’idea…» poso le labbra
sulle sue e tremiamo entrambi, «fantastica.»
Sorride e mi dà una pacca sul sedere, poi mi spinge verso il
corridoio. Vado in camera da letto e mi spoglio, poi entro nella doccia
per lavare via l’odore di caffè stantio che mi è rimasto addosso da
quando sono uscito dall’aeroporto. Mi chiedo cosa stia preparando
da mangiare. Adoro quell’uomo, davvero, ma cucinare non è il suo
forte. Non riesce neanche a friggere un uovo senza bruciarlo.
E infatti, quando esco dieci minuti dopo, le mie narici sono
aggredite da un odore pungente. E un Wes imbarazzato mi accoglie
in cucina.
«Ho provato a preparare il formaggio grigliato» farfuglia.
Fisso la carcassa mutilata e carbonizzata di pane e formaggio
attaccata alla mia migliore padella di ghisa. Poi scoppio a ridere.
«Non c’è problema, piccolo. Tanto non ho fame. Passiamo
direttamente al massaggio al collo.» Gli bacio la guancia e spengo il
fornello. «Ma ti do una sufficienza per l’impegno.»
Si illumina. «Forte. E hai visto che ho pulito? Ho rassettato casa
tutto il giorno per te.»
«Davvero?»
Mi indirizza un sorriso impertinente. «Okay, no. Ho passato due
ore e mezza a guardare i video con la squadra. Ma è per questo che
ho chiesto a una signora simpaticissima che si chiama Evenka di
venire una volta a settimana per pulire e occuparsi del bucato. Blake
giura che è una maga delle pulizie.» Mi afferra la spalla. «Possiamo
tenerla? Per favore?» chiede come un bambino che ha portato a
casa un cucciolo.
Sento il solito impulso di rispondergli di no, sarebbe troppo
costoso, ma poi penso a suo nonno morto e traggo un respiro
profondo. «Certo»
«Sììì!» Poi mi prende la mano e mi trascina sul divano.
«Banshee?» propone.
«Cavolo, sì.»
Afferra il telecomando e me lo lancia, poi corre in cucina e prende
due bibite, probabilmente perché non posso ancora bere alcolici. Ma
non mi lamento neanche, perché sono troppo felice di essere qui.
Quando Wes si siede, ci avviciniamo come due calamite. Posa la
testa sul mio petto, io lo avvolgo con un braccio e intrecciamo le
gambe. Sto per far partire l’episodio quando Wes ride. «Ci credi che
mi è arrivata un’email dal reparto trasferte per la storia del letto
rotto?»
«Di già?»
«Aspetta, perché adesso arriva il bello. Sotto c’era un’email
dell’ufficio delle pubbliche relazioni con un link a un blog di gossip.
Non solo hanno la foto in cui ci baciamo nell’atrio dell’albergo, ma
anche quella del letto rotto.»
«Cosa?» grido.
Mi prende la mano e me la bacia. «Sì. Devono aver pagato
qualche addetto per quella chicca. Ma è solo la foto di un mobile,
Canning. Mi preoccupa molto di più che vogliano farmi pagare
ottocento dollari di danno. Quindi ho scritto una mail sia al reparto
trasferte che alle pubbliche relazioni suggerendo di far pagare Blake,
perché l’ha rotto lui col suo culone. E non indovineresti mai cosa mi
hanno risposto.» Ridacchia. «Pagherà la società perché non
vogliono che l’albergo registri un terzo uomo nella stanza. Io e te
andiamo bene per le pubbliche relazioni, ma gestire i pettegolezzi su
una cosa a tre sarebbe troppo.»
«Porca di quella puttana» commento, mentre Wes ride. «Sei
tentato, vero? Sento le rotelline del tuo cervello che si muovono.
Vuoi reclutare Blake per realizzare foto incriminanti fittizie.»
«Mi conosci troppo bene. E perché fermarsi lì? Faccio ubriacare
con lo scotch Eriksson e Forsberg per mettere in scena un’orgia.
Pensavo a… una lotta di cuscini. Nudi.»
Gli pizzico il sedere. «Nel frattempo io starei cercando di tenermi il
lavoro con i ragazzini. Ma niente di che.»
«Oh.» Piega la testa all’indietro e mi bacia il mento. «Sto
scherzando.»
«Come no.» Faccio partire il telefilm, ma sto ancora sorridendo. La
vita con Wes non è mai noiosa; anche quando saremo vecchi, con i
capelli bianchi e i culi flosci, sarà ancora divertente e sarà ancora
mio.
Beviamo le bibite e guardiamo la serie. Sono le sette, e
probabilmente ci sono dozzine di cose da controllare: chiamate,
email, bollette. Ma le ignoriamo tutte perché siamo a casa da soli e
siamo insieme, ed è l’unica cosa di cui ci importa, al momento.
Wes ha un odore magnifico: di shampoo agli agrumi e casa. Mi
passa le dita tra i capelli, e quando ride per una battuta del telefilm
sento vibrare quel suono nel mio petto. Appiattisco la mano e gliela
passo sul collo, poi sui muscoli della schiena. È una sensazione così
bella che devo stringerlo. Traccio il contorno del tatuaggio che gli
spunta dalla manica, quindi sposto la mano davanti e gli tiro su la
maglietta fino ai pettorali, così posso posargli la mano sulla pelle
soda della pancia.
La puntata prosegue, ma ho perso il filo. Sento Wes talmente vivo
e solido che devo chinarmi e baciargli la nuca. «Mmm» ansimo. È
fantastico essere a casa.
Mentre continuo a mordicchiargli il collo, Wes sospira e si scioglie
contro di me. «Dovrei essere io a massaggiarti il collo» mi ricorda.
«Sto meglio.» Continuo il mio lavoro sul lato, succhiando
delicatamente la pelle sotto l’orecchio.
«Cazzo» mormora. «È bellissimo.» Si rigira e un attimo dopo le
nostre labbra sono incollate. Il calore del suo respiro sul viso è tutto
quello di cui ho bisogno. Piego la testa per rendere ancora più
perfetto quel contatto e lui schiude le labbra. Le nostre lingue si
intrecciano e si stringe di più a me, mettendomi un ginocchio tra le
gambe.
E il mondo diventa un posto meraviglioso.
La mano di Wes esplora il mio fianco, poi si sposta sotto la maglia.
Mi fa scivolare il palmo sulle costole, e vorrei non avere addosso
niente perché desidero sentire la sua pelle sulla mia. Ma non voglio
neanche smettere di baciarlo, quindi bisognerà aspettare.
«Ti amo da impazzire» ansima tra un bacio e l’altro.
Concordo con un verso incomprensibile, poi respiro e riesco a
mettere in fila qualche parola vera. «Continuiamo in camera.»
Risponde con un gemito e preme i fianchi contro i miei e, boom!,
vogliamo entrambi la stessa cosa. Ma i nostri baci si fanno più
profondi, e sono troppo occupato a esplorare la sua bocca per
alzarmi e fare qualcosa per risolvere il piacevole dolore che avverto
alle palle.
Quindi rimaniamo qui, a palparci e a pomiciare finché suona il
citofono.
Wes geme, ma continua.
Però il citofono suona di nuovo, e Wes si stacca con riluttanza.
Sappiamo entrambi che chiunque abbia suonato probabilmente sta
già salendo. «Sarà Blake che ha perso le chiavi?» chiedo con la
voce roca.
Lui ridacchia. «Probabilmente sì.»
«Se entra, non ci libereremo mai più di lui.»
Wes sospira e si sistema i pantaloni. «Magari è solo una
consegna, o qualcosa del genere» ipotizza, speranzoso, ma
ovviamente non abbiamo ordinato niente.
Mi stendo sul divano e bevo un sorso mentre lui risponde.
«Va bene, grazie» dice Wes. «La faccia salire.»
«Chi è?»
«Katie Hewitt, la moglie di un mio compagno di squadra. A quanto
pare, ci ha portato le lasagne.»
«Le… Davvero?»
«Così ha affermato il custode. Ha detto: “Hanno un odore
buonissimo, signor Wesley”.»
«Ma perché?»
Wes scrolla le spalle. «Immagino lo scopriremo presto.»
Mi passo una mano tra i capelli verosimilmente scompigliati.
Qualcuno bussa alla porta e Wes apre. «Ehi, caspita. Buonasera,
Katie. Ciao, Hewitt. Pensavo vi godeste la serata libera.»
Una donna con i capelli neri lucidi e spessi e una teglia di lasagne
in mano scosta Wes. «Felice fidanzamento!» grida, poi si gira verso
il marito con uno sguardo tradito. «Ben! Avresti dovuto dirlo insieme
a me!»
«Mi sono dimenticato» farfuglia Hewitt.
Trattengo una risata, che però mi scappa quando Katie supera
Wes e si fionda in cucina come se fosse la sua. Sento il rumore del
forno aprirsi e chiudersi.
Mi alzo per salutare gli ospiti, e Katie corre verso di me e mi
prende il viso tra le mani. Ha le unghie molto rosse e molto brillanti,
sembrano artigli. «Congratulazioni per il fidanzamento! Sono
felicissima per voi, ragazzi! So che siete stati via una settimana e
immagino non abbiate avuto tempo di fare la spesa, quindi il mio
primo regalo per il vostro fidanzamento è del cibo.» Sorride e poi mi
abbraccia.
Cristo, questa donna fa paura, tanto è energica. «Grazie»
rispondo, sinceramente commosso. «Apprezziamo davvero…
Aspetta, il tuo primo regalo?» Quanti regali ha intenzione di farci?
Hewitt deve avermi letto nel pensiero, perché sospira e ci avvisa:
«Vi arriveranno pacchi ogni settimana fino al matrimonio, bello.
Mettiti l’anima in pace».
Wes ride. «Ma non è necessario» dice a Katie, che liquida la
questione sventolando una mano ben curata.
«Mi piace fare shopping» ribatte decisa.
«Le piace fare shopping» conferma il marito.
Katie mi prende per mano e mi trascina sul divano, poi si siede
accanto a me. «Dimmi come stai. Sei guarito del tutto? Fai ancora
incubi sull’ospedale? Quando mi sono fatta sollevare il seno, le
infermiere sono state terriiibili con me!»
«Ah.»
All’improvviso, è difficilissimo non guardarle le tette. Quando dice
che se le è fatte sollevare, mi immagino tipo delle gru per le tette.
«Sono stato in posti migliori, quello sì. Ma mia madre e mia sorella
sono rimaste qui quasi per tutto il tempo. E ora sto alla grande. La
tosse non è passata del tutto, ma sto molto meglio.»
Katie mi prende la mano e me la stringe. «Mi fa molto piacere!»
«Grazie.» Mi guardo intorno e vedo che dall’altra parte della
stanza Wes e Hewitt sono appoggiati al bancone della cucina e
bevono una birra. «Ehi, dov’è la mia?»
Wes inarca un sopracciglio, quello con il piercing. È figo da morire
quando lo fa, ma non mi piace quando fa il sopracciglio sexy per
negarmi una birra.
«Ma dai, è una cazzata» protesto. «È come con i cellulari e i
sistemi di navigazione degli aerei: una cosa non interferisce con
l’altra.»
Katie ride, e non ha ancora smesso quando il citofono suona di
nuovo. Sto per alzarmi, ma lei è già corsa a rispondere. «Li faccia
salire» dice al nostro custode.
Un minuto dopo, altre tre persone entrano in casa nostra.
Conosco così il veterano Lukoczic e sua moglie Estrella, che porta
un’enorme rostiera piena di cosce di pollo grigliate. «Congratulazioni
per il fidanzamento! Vi abbiamo preparato queste!» cinguetta
Estrella, andando verso la cucina.
Eriksson è dietro di loro con cinque litri di spremuta d’arancia e
un’espressione imbarazzata. «Katie ha detto di portare da mangiare,
ma non so preparare sformati.»
«Ehm… non c’è problema» riesco a rispondere, mentre ci
stringiamo la mano. Poi lo guardo osservare l’appartamento. La sua
curiosità mi diverte, perché vorrei proprio sapere cosa si aspettava.
Nessuno ci ha dato il manuale di come dovrebbe essere la casa di
una coppia gay. «Vuoi una birra?» Forse dovrei offrirgli un
Cosmopolitan per scherzo. Prendo nota: comprare succo di mirtillo
per spaventare i compagni di squadra di Wes.
«Certo, grazie.»
Vado nella cucina, ormai sovraffollata. Wes si è piazzato contro il
bancone ed è in mezzo ai piedi, quindi gli do una spintarella per farlo
spostare. Appena lo tocco, le donne sorridono come se avessi fatto
qualcosa di adorabile.
Strano.
Prendo una birra per Eriksson e gliela allungo sul bancone, poi ne
apro un altro paio per Estrella e il marito. Non vedevo la cucina da
una settimana e Katie aveva ragione: il frigo è vuoto. Wes,
ovviamente, ha deciso di andare a fare scorta di birra invece di
comprare da mangiare, ma non riesco neanche a irritarmi perché
sono troppo contento di essere tornato me stesso.
Ci vogliono pochi minuti per sistemare piatti e posate, eppure
Katie brontola e viene ad aiutarmi. «Non vogliamo farti lavorare» si
lamenta. «È per questo che abbiamo portato la cena! Va’ a
festeggiare!»
Sono davvero commosso. È stato molto premuroso da parte dei
compagni di Wes venire qui per congratularsi con noi e sfamarci, e
siamo entrambi stupiti. Gli lancio un’occhiata e vedo che mi sta
guardando. Ci sorridiamo e poi distogliamo lo sguardo. Non vedo
l’ora di essere da solo con lui, più tardi: non solo per finire quello che
abbiamo iniziato sul divano, ma anche per sapere cosa ne pensa di
questa invasione inaspettata.
Estrella mi prepara una tisana, di quelle che mia madre ha lasciato
dopo essere venuta l’ultima volta. Non vado pazzo per le tisane, ma
la prendo comunque perché muore dalla voglia di essere utile. Per
un qualche miracolo, ha preso anche la mia tazza preferita, quella
che ci ha fatto mia madre. «Allora, sei californiano?» chiede,
mettendomi la tazza in mano. «Scusa, l’ho letto sui giornali.»
Che cosa strana. «Sì. Mi manca il clima di lì.»
«Ci scommetto. Io sono di Madrid. Io e Luko ci siamo conosciuti
quando ho lavorato per un anno a New York.»
«Ah.» Luko ha iniziato la carriera nei Rangers.
«Credevo che a New York facesse freddo. Poi ci siamo trasferiti
qui.»
«Già.» A volte mi dimentico quant’è fugace questa vita. Queste
donne devono fare i bagagli e trasferirsi quando i mariti cambiano
squadra.
Forse anche per me sarà così, ora. Mi prendo un attimo per
rifletterci. Mi dà fastidio? Lancio un’altra occhiata a Wes, che ha la
testa piegata all’indietro e ride per qualcosa che ha detto Hewitt. Ho
bisogno di quella risata e di quell’uomo. Quindi, ovunque andrà, lo
seguirò. Ne vale la pena.
«Vai mai alle partite?» mi chiede. «Non ti ho mai visto nel box.»
Ridacchio. «Be’, Wesley ha un paio di posti, ma li uso solo io.»
Il suo viso si addolcisce quando fa due conti e capisce perché. Poi
mi afferra il polso. «Alla prossima partita, verrai su con noi! Noi
WAGs dobbiamo stare insieme, no?»
Dentro di me, rabbrividisco. Ho già sentito il termine WAGs: wives
and girlfriends, mogli e fidanzate. Ma… ho il pisello, che cavolo!
Credo mi legga nel pensiero – o forse nota la mia espressione
atterrita – perché si acciglia. «Al diavolo. Mi sa che dobbiamo
aggiungere una B da qualche parte per boyfriend.»
«E una H» la correggo con un sorriso. «Per husband, marito. Ma
WABGHs non è proprio il massimo.»
«Comunque, dico davvero» incalza. «Vieni a sederti con noi alla
prossima partita. Berremo Mai Tai e prosciugheremo le carte di
credito dei ragazzi per ordinare salatini.»
Rido, ma lei è seria. «Sembra divertente.» Il cibo nel forno ha un
odore meraviglioso, il che vuol dire che dev’essere cotto. Prendo
due strofinacci e apro lo sportello, posando entrambe le teglie sui
fornelli, per sicurezza. Ma il movimento mi fa tossire, quindi poso gli
strofinacci sui manici roventi e mi allontano velocemente dalla
cucina, tossendo contro il braccio.
Al suono delle mie difficoltà respiratorie, Wes posa la birra e si
avvicina. Gli intimo di allontanarsi con uno sguardo assassino, visto
che non posso parlare. Prova solo a darmi pacche sulle spalle come
ai bambini e sei morto.
Lui si trattiene – uomo saggio – e va verso il cibo, prendendo due
palette dal cassetto. Posa la prima sulla rostiera, ma poi vedo che
affonda l’altra nelle lasagne per tagliarle e servirle.
Mi schiarisco disperatamente la gola nel tentativo di dirgli “Attento,
brucia”, quando vedo che sta per toccare il manico…
Non riesco a muovermi abbastanza in fretta. Afferra il bordo
rovente.
«Cazzo!» esclama, sobbalzando.
Apro l’acqua fredda e lo prendo per il gomito, trascinandolo verso
il lavandino. Gli afferro la mano ustionata e, dopo aver controllato la
temperatura, gliela metto sotto l’acqua. «Piccolo, davvero. Un’altra
volta? Se vedi uno strofinaccio sul manico, non è per decorazione
ma…»
«È un avvertimento. Lo so» borbotta a denti stretti. «Mi sono
dimenticato.»
«Quant’è grave?» Sollevo lo sguardo e vedo cinque persone che
ci osservano affascinate.
«Ehm…» inizia lui, notando la stessa cosa. Mi allontana e si
guarda la mano: è rossa e si sta formando una bolla alla base del
pollice.
Riagguanto la mano e gliela rimetto sotto l’acqua. «Almeno non è
con questa che tiri.»
Si sente una risatina nervosa e Wes sospira.
Dopo, resta solo il suono dell’acqua che scorre. Una certa
risolutezza mi tiene incollato al fianco di Wes. Vorrei gridare:
“Sentite, a volte gli uomini si toccano tra loro!”. Non ci siamo mai fatti
vedere come coppia, prima d’ora: ci vorrà un po’ per abituarsi.
La porta si spalanca di nuovo. Stavolta è Blake, che ha usato la
copia della chiave. «Gente!» grida. «Sento il profumino delle lasagne
di Katie!» Il suo sguardo si posa su Wes e me. «Geeezù. Ti sei
bruciato di nuovo, novellino?»
Il mio ragazzo ringhia sottovoce, e Katie ed Estrella entrano in
azione e tagliano le lasagne, senza ustionarsi, per poi passare i
piatti.
Non ci sono abbastanza posti. Mi sento in colpa a occupare un
posto sul divano, ma Estrella mi costringe a sedermi lì con il mio
piatto e la tazza. Chiacchiero ancora con lei e Katie. Sono molto
simpatiche, ma sembra che mi stiano reclutando per far parte di un
circolo.
«Hewitt!» grida Blake, seduto sul bancone. «Hai sentito?
Organizzo il matrimonio.»
Mi giro in cerca di Wes, e la mia sirena d’allarme si scontra con la
sua. «Neanche per sogno» dice al suo compagno. «L’unica cosa che
devi fare è tenere quella fogna chiusa durante la cerimonia.»
Blake si incupisce. «Sarei bravissimo! Conosco i fiori!»
«Dimmi i nomi di almeno cinque fiori che metteresti nei
centrotavola» ordina Wes, e io trattengo una risata. Se Wes conosce
i nomi di cinque fiori, giuro che mi mangio il casco.
«Ehm… Rose, tulipani, narciselie…»
«Narciselie?» esclama Katie. «Tienilo alla larga dal tuo
matrimonio, Ryan. Ti do il numero della persona che ha organizzato
quello mio e di Ben.»
«Tanto non potrebbe comunque occuparsene lui» spiego. «Mia
sorella Jess ha deciso di diventare un’organizzatrice di eventi.
Questo lavoro andrà sicuramente a lei.»
Blake assume un’espressione singolare, quando nomino Jess.
Strano. Devono essersi infastiditi fino alla nausea mentre mi
facevano da balie.
Dopo aver finito di mangiare, ognuno prende il proprio piatto e va
in cucina a lavarlo. Non mi permettono di dare una mano. Finisco sul
divano accanto a Hewitt ed Eriksson, e iniziamo a raccontarci storie
sui modi più strani in cui abbiamo bloccato il disco.
Essendo un portiere, parare i tiri era la parte principale del mio
lavoro, ma le loro storie sono decisamente divertenti.
«Giuro, ho bloccato quel cavolo di tiro con il culo» mi sta
raccontando Hewitt. «Mi è rimasto un livido grande quanto un
pompelmo per settimane.»
Eriksson ridacchia. «Ehi, sei un difensore. È il tuo compito
sacrificare qualsiasi parte del corpo per la causa.»
«Okay, io ti batto» assicuro. «Avevo sedici anni ed era l’ultimo
allenamento al campo di hockey. Terzo tempo, la mia squadra era
sopra di un punto e lottava per mantenere il vantaggio. L’ala sinistra
avversaria mi aveva scagliato contro un tiro di polso. Lo parai, ma
qualcuno mi spinse addosso uno dei miei difensori e ci ritrovammo
aggrovigliati sulla linea. Il disco era in giro da qualche parte. In
qualche modo, ho perso il bastone e il guanto, ma ho visto che il
disco stava volando di nuovo verso di me e non ci ho pensato due
volte: l’ho respinto con l’avambraccio.»
Eriksson e Hewitt sembrano impressionati. «Ma è una follia. Ti sei
rotto il braccio?»
Sospiro. «In due punti.»
«Questa è devozione» commenta Eriksson, fischiando piano.
Wes fa capolino da dietro il divano, molto meno impressionato.
«Stai raccontando di quando ti sei rotto il braccio per fare
Superman?»
«Già.»
«Sto per sposare un pazzo» informa i compagni.
Ridacchio. «Ah! Detto da quello che è uscito di nascosto alle
quattro di mattina per andarsi a fare il bagno nudo e si è squartato il
piede. E non dimentichiamoci dell’antitetanica dopo che sei caduto
dal recinto che stavi provando a scavalcare. Per non parlare del
chiodo arrugginito che hai calpestato mentre facevi un’escursione
scalzo perché eri ubriaco. E del tizio che…»
«Va bene, va bene, hai vinto» mi interrompe Wes, sollevando le
mani in segno di resa. «Siamo entrambi pazzi.» Torna a rivolgersi a
Blake, che inizia a ciarlare delle sue avventure di quando ha fatto il
bagno nudo, mentre io riprendo a parlare di hockey con Hewitt ed
Eriksson.
Quando Katie annuncia che è ora di andare, mi sento un po’
scioccato. Ma non posso negare di essermi divertito un sacco a fare
amicizia con i compagni di squadra di Wes e le loro mogli.
«Ehm, grazie di tutto» dico a Katie ed Estrella, mentre le
accompagno alla porta.
Una alla volta, mi abbracciano come se fossimo amici che non si
vedevano da tempo.
«Stammi bene, Jamie.»
«Scrivimi prima della partita contro gli Sharks! Ti mettiamo da
parte un bicchierino!»
Do la buonanotte ai compagni di Wes, e quando alla fine la porta
si chiude alle loro spalle – anche Blake ha capito l’antifona e se ne
va – mi giro verso Wes. «È stato…» Mi interrompo.
Lui esita, scrutando la mia espressione. «Hanno buone intenzioni»
spiega, piano.
«Lo so. È… forte» ammetto, sorridendo. «Era ora, eh?» Io e Wes
non vedevamo l’ora di dover smettere di nasconderci, ma non avevo
mai pensato a come ci saremmo trovati nel circolo. Non ne sono
ancora sicuro, ma nessuno di noi due può negare che stasera è
stato un successone.
«Già.» Sorride anche lui. «È stato bello. Per la prima volta da
quando è iniziata la stagione, mi sento finalmente…» Aggrotta la
fronte in cerca della definizione giusta.
«Integrato» suggerisco con tono dolce.
Annuisce. «Sì. Quello.»
Mi si stringe il cuore, quando gli poso le mani sulle guance e gli
accarezzo la leggera barba scura. «Ed è davvero così» lo rassicuro.
«Il tuo posto è con questa squadra. Con quelle persone. Con me.»
I suoi occhi argentei si inumidiscono all’improvviso. «Ti amo,
Canning.»
«Ti amo anch’io, Wesley.»
Ma dentro di me mi sto chiedendo quale sia il mio posto. O,
piuttosto, dove andrò a finire. Wes è la mia casa, è il mio cuore. Ma
non può essere tutto il mio mondo. Le incertezze riguardo il mio
lavoro mi stanno logorando. Domani andrò a parlare con Bill, forse
dovrò affrontare Danton, vedere i ragazzi che senza di me hanno
giocato benissimo.
Non ho idea di cosa mi aspetta. Ma stanotte… Incrocio lo sguardo
meraviglioso di Wes e piego le labbra in un sorriso, nonostante
l’ansia per il lavoro. Stanotte sono con l’uomo che amo, ed è tutto ciò
che conta.
31

Lunedì arrivo alla pista alle nove spaccate. L’odore familiare di


ghiaccio e sudore mi investe, e me lo sento nel profondo: questo
lavoro vuol dire molto per me. Se lo perdessi, so che supererei la
delusione.
Non mi rovinerà la vita.
Ma sarebbe davvero uno schifo.
Sulla metropolitana ho provato il discorso di scuse, e sono pronto
ad affrontare la situazione. Quindi mi dirigo a passo di marcia verso
l’ufficio disordinato di Bill Braddock e busso.
Quando alza lo sguardo dalla scrivania appare sorpreso, ma poi
sorride. Il nodo che sento allo stomaco si allenta di uno o due
millimetri. «Hai un attimo?»
«Per te? Certo. Chiudi la porta, coach.»
Mi sto spremendo le meningi per decifrare quelle brevi frasi. Mi
chiama ancora “coach”, è una buona cosa. Ma appena la porta si
chiude, mi chiedo se avrò ancora quel titolo quando la riaprirò.
«Ti trovo bene» commenta, mentre mi siedo davanti a lui.
«Mi sento bene» concordo. «Finalmente l’organismo ha smaltito
tutti i farmaci e ho ripreso a fare qualche esercizio. Le cose vanno
meglio.» Tutto questo è vero, ma forse sembra che stia esagerando.
«Sei già stato dal medico per l’autorizzazione?»
Scuoto la testa. «Sono tornato qui ieri sera e venirti a parlare
aveva la priorità. Ma prenderò appuntamento per la prima data
disponibile.»
«Bene.» Prende un disco – l’unico tipo di fermacarte che un coach
di hockey ha sulla scrivania – e se lo rigira tra le mani. «Ti chiedo
ancora scusa per non averti ascoltato, quando mi hai riferito che il
tuo collega usava un linguaggio offensivo.»
Il mio primo impulso è quello di dire: “Non c’è problema”. Ma ci ho
riflettuto, e ora sono incazzato con me stesso per aver lasciato
correre, in passato.
«Sono pronto a presentare il reclamo» dichiaro. «Vorrei rendere
ufficiale la questione.» Anche se non mi sento personalmente
l’obiettivo del linguaggio di Danton, il mio lavoro consiste nell’evitare
che un altro coach usi il termine “frocio” ogni tre parole, anche se
puntare il dito mi mette a disagio. «Stiamo cercando di crescere
ragazzi eccellenti, e non dovrebbero sentire una figura autoritaria
usare insulti.»
Braddock annuisce con veemenza. «Verissimo. Devo stamparti un
altro modulo, però. Invece di presentare il reclamo, dovresti scrivere
una lettera a supporto di un altro reclamo.»
Mi fermo un attimo a pensare, cercando di capire di cosa stia
parlando, ma non ne vengo a capo. L’unico reclamo di cui sono a
conoscenza è quello contro di me.
«Che vuoi dire?»
Sorride. «Qualcuno ha già presentato un reclamo per il linguaggio
di Danton, e finirà davanti al comitato disciplinare lo stesso giorno in
cui valuteranno quello contro di te.»
Sento un brivido lungo la schiena. «Chi l’ha presentato?»
«La tua squadra. Dal primo all’ultimo giocatore. Hanno saputo del
reclamo di Danton – sai com’è qui, le voci girano – e si sono
arrabbiati. Si sono fiondati nel mio ufficio dopo l’allenamento e hanno
richiesto di parlare a tuo nome. Quindi li ho informati su come
funziona il nostro sistema disciplinare e hanno comunicato il
malcontento tramite reclamo.»
Per la prima volta dopo dieci giorni, mi gira la testa. «Davvero?»
Solleva la mano destra. «È la verità, giuro su Dio. Il loro reclamo è
lungo otto pagine, e hanno raccontato dettagliatamente tutte le
occasioni in cui è stato usato un linguaggio inappropriato o omofobo.
E anche qualche insulto razzista. Mi sono bevuto un bel bicchiere di
scotch, quando ho finito di leggere. Non avevo idea che la situazione
fosse così brutta.»
Devo serrare la mascella per evitare di dire “Te l’avevo detto”.
«Allora…» Si schiarisce la gola. «Presenta un resoconto della tua
esperienza e lo allegherò al documento. Il comitato prende sul serio
tutti i reclami.»
«Compreso quello contro di me» aggiungo.
«Già. Ma sono sicuro che riconosceranno la tua condotta
impeccabile con noi e al campo Elites. E poi c’è la questione dei
reclami contro Danton e la tua malattia. Potrebbero essere inclini a
lasciarti andare solo con un ammonimento. Possono farlo, per una
prima infrazione.»
Le parole “prima infrazione” mi fanno sentire strano. Non sono
termini che dovrebbero essere associati al sottoscritto. Mai.
Bill congiunge le punte delle dita e mi scruta. «Ho in mente una
cosa di cui vorrei ti occupassi. Un suggerimento che potrebbe
influenzare il comitato quando deciderà come risolvere il reclamo
contro di te.»
«Di che si tratta?» Se conosce una magia per tirarmi fuori dai
guai, sono tutto orecchie.
«Non abbiamo mai fatto corsi antidiscriminazione, ma voglio
iniziare. Che ne pensi di parlare al personale delle tue esperienze
per chiudere il reclamo contro di te con solo una lettera nel tuo
fascicolo?»
«Le mie… esperienze?»
«Con l’omofobia. Potresti parlare di com’è essere gay in ambito
sportivo, raccontare la tua storia. Per combattere i pregiudizi la cura
è trovare un punto d’incontro, no? Voglio che il mio personale
capisca il tuo punto di vista, perché probabilmente non è così unico
come credono. Potresti fare del bene anche solo condividendo le tue
esperienze in merito.»
La mia testa si riempie subito di obiezioni. Tecnicamente, non
sono gay, sono bisessuale. Non ho l’esperienza di una vita con
l’omofobia. Sono uscito allo scoperto solo da qualche settimana, non
sono un esperto. E, anche se lo fossi, odio parlare di faccende
personali al lavoro.
Ma sono qui per salvarlo, il mio lavoro. Un lavoro che amo. Quindi
mi arrendo. «Mi farebbe piacere parlare al personale» rispondo.
Bill sorride. «Fantastico. Allora, ritorneremo su questo argomento
dopo la riunione disciplinare della prossima settimana. Nel
frattempo, fatti firmare quel documento dal medico. La tua squadra
ha bisogno di te, soprattutto ora che abbiamo sospeso il signor
Danton in attesa del suo provvedimento disciplinare.»
Mi raddrizzo sulla sedia. «Chi sta allenando la squadra?»
«Gilles è un po’ occupato a seguire la sua squadra e la tua con
l’aiuto di Frazier. Sta’ tranquillo. Hanno bisogno di te, ma possono
reggere un’altra settimana, finché non si risolverà tutto.»
Mi stringe la mano ed esco prima di rendermi conto di quanto
sembrasse fiducioso sul mio reinserimento. La cosa mi fa sentire
bene. Sono solo le nove e mezza, quando metto piede sul
marciapiedi fangoso. Wes probabilmente è alla pista, ma non ancora
sul ghiaccio, quindi provo a chiamarlo al cellulare.
«Ciao!» mi saluta, rispondendo al primo squillo. «Com’è andata?»
«Non male. Credo che me la caverò.» Poi gli racconto del
resoconto che hanno presentato i miei giocatori.
«Cristo santo. Ma è incredibile!»
«Vero? Adoro quei ragazzi. Ma c’è un problema: Bill vuole che
parli al personale delle mie esperienze con l’omofobia. Sai, visto che
sono così esperto.» Rido solo a pensarci. «Sarà la riunione più corta
della storia.»
«Ti serve aiuto?»
Sto per rifiutare, giusto per abitudine. Ma mi fermo in tempo. «Che
vuoi dire?» chiedo, invece.
«Potrei parlare loro di com’era essere un giocatore di hockey gay
senza che nessuno lo sapesse. Ho passato il primo anno di
università a cagarmi addosso per la paura di quello che avrebbero
potuto farmi, se l’avessero scoperto. Se è di aiuto per te e per il tuo
capo, posso raccontare quella storia.»
Incespico e mi fermo. «Davvero?» Me lo immagino entrare in
quella sala conferenze e penso alle facce dei miei colleghi nel
vedere l’esordiente di Toronto più di successo degli ultimi dieci anni
varcare la porta.
«Certo, perché no? Frank Donovan mi chiederà comunque di
tenere quello stesso discorso alla squadra, prima o poi. Questa
potrebbe essere una prova generale.»
«Caspita. Okay. Sì. Ti preparo la cena tutti i giorni per una
settimana, se mi salverai da questa situazione.»
«Canning» dice, la voce che diventa bassa e più profonda. «Che
ne dici se scelgo io la ricompensa?»
«Per me… ehm… va bene.»
Ride. «Ti amo. Ora devo andare sul ghiaccio. Ci vediamo dopo per
un pranzo in ritardo?» Stasera giocherà contro gli Sharks, partita in
casa. E, a quanto pare, io berrò cocktail con l’ombrellino insieme alle
WAGS in un box da qualche parte.
Ma prima, pranzerò con il mio uomo. «Certo che sì. Ci vediamo a
casa.»
Dopo aver riattaccato, entro in metropolitana, sollevato, e mi
chiedo quale tra i cibi preferiti di Wes posso preparare per pranzo.
32

Una settimana dopo, la giuria mi dichiara non colpevole.


Va bene, sto facendo il melodrammatico. Non c’era nessuna
giuria, solo un comitato. E niente verdetto, solo una “decisione
ufficiale” che dichiara che le mie azioni nei confronti di Danton
possono essere state causate, e acuite, dai farmaci che stavo
prendendo. Ora il mio fascicolo include un ammonimento, ma non è
stato preso nessun altro provvedimento disciplinare, con mio sommo
sollievo. Anche se Wes mi aveva rassicurato per un’intera settimana,
avevo immaginato gli scenari peggiori, e sono contento di poter
finalmente riprendere a respirare.
Quando lunedì pomeriggio entro nell’arena, mi sento elettrizzato.
Inspiro l’aria frizzante e avverto quel freddo accogliente sul viso. I
ragazzi sono già sul ghiaccio a fare riscaldamento. Danton non si
vede da nessuna parte. Quando stamattina ho parlato con Bill, mi ha
detto che Danton resterà in permesso finché la sua situazione non
sarà chiarita. Non ho chiesto perché il mio “caso” sia stato risolto
prima, sono solo grato che sia successo.
I giocatori mi vedono mentre mi avvicino alle balaustre. Alcuni dei
ragazzi salutano con la mano, altri gridano: «Bentornato, coach
Canning!», ma solo uno mi viene incontro. È Dunlop, che si toglie il
casco mentre continua a pattinare.
«Coach!» Ha il viso rosso per lo sforzo. O forse per la felicità. Mi
piace pensare sia per quest’ultima.
«Dunlop» lo saluto con un enorme sorriso e una pacca sulla
spalla. Poi tolgo subito la mano. Probabilmente per un po’ presterò
particolare attenzione al modo in cui la squadra interagisce con me.
Wes dice che, in ogni gruppo, c’è sempre qualcuno che non riesce
ad accettare la propria sessualità, che è così e basta. «Mi siete
mancati.»
«Anche lei ci è mancato.» Sembra imbarazzato, e il suo viso
diventa più rosso. «Sta bene?»
«Da favola» lo rassicuro. «Ma ti do un consiglio: non prendere mai
la polmonite.»
Ridacchia.
«Cercherò di ricordarmelo.»
Scavalco il muretto e pattino in cerchio per un po’. Cazzo, è bello
essere di nuovo sul ghiaccio. Faccio un cenno del capo a Dunlop, in
modo che mi segua, e scivoliamo verso la porta. Il mio portiere posa
il casco sulla rete, un sorriso smagliante stampato in faccia.
«Ha visto il nostro record?» mi chiede.
«Caz…» Mi correggo subito. «Caspita, se l’ho visto. Quattro
vittorie consecutive, eh? State spaccando. Tu stai spaccando.»
Distoglie lo sguardo, ma non prima che riesca a vedergli un lampo
di soddisfazione negli occhi. «Due parate,» mi riferisce timidamente,
«e nell’ultima partita mi hanno segnato solo un goal.»
«Lo so. Sono orgoglioso di te.» Nonostante sia davvero contento
che la squadra sia di nuovo in carreggiata, non riesco a evitare un
pizzico di insicurezza. Insomma, non avevano mai vinto quattro
partite di fila quando c’ero io. «A quanto pare, il coach Gilles ti ha
mostrato qualche nuovo trucco» commento con leggerezza.
Dunlop aggrotta la fronte. «Davvero?»
«Ho guardato qualche partita. La tua sicurezza è schizzata alle
stelle, quando non c’ero.» Ora sono io a sentirmi in imbarazzo.
Porca vacca, perché sto scaricando le mie insicurezze su questo
povero ragazzino?
Mi guarda di nuovo in modo strano. «Pensa che sia migliorato
perché non c’era? Ma è una follia, coach. Lo sa cos’è successo
quando si è ammalato?»
Ora tocca a me aggrottare la fronte.
«Eravamo tutti molto preoccupati» borbotta, fissandosi i pattini. «E
io pensavo: “Cavolo, devo darmi una svegliata, perché il coach
Canning non ha bisogno di altre preoccupazioni”. Cioè, noi che
perdevamo sempre.» Arrossisce di nuovo. «Pensavo che, se
avessimo vinto, sarebbe guarito più in fretta.»
Fatico a non spalancare la bocca. Questo ragazzo ha fatto
progressi perché non voleva che mi preoccupassi per le sconfitte
della squadra? Gli occhi mi pizzicano e mi sento a disagio, quindi mi
schiarisco virilmente la gola e dico: «Be’, qualsiasi cosa tu stia
facendo, continua così. Stai giocando come un campione.»
Si sente un fischio. Gilles è sulla linea blu e abbaia ordini ad alcuni
dei nostri attaccanti. Quando mi vede, sorride e mi fa cenno di unirmi
a lui.
Pattino verso il gruppo, e i ragazzi con cui stava lavorando si
zittiscono.
Merda. Ora ci saranno imbarazzi? Dunlop mi ha riaccolto con
facilità, ma se non fosse così con gli altri?
Tossisco per schiarirmi la gola, poi chiamo il resto della squadra.
Mi stanno fissando tutti. Batto le mani, ma poi esito.
«Allora» inizio, impacciato. «Tra poco avrete un altro torneo. Prima
di iniziare qualcuno ha… qualche domanda da farmi?»
Segue un lungo silenzio.
Alla fine Barrie alza la mano, e trattengo il respiro in attesa della
domanda.
«Ryan Wesley verrà a vedere una delle nostre partite?»
Sbatto le palpebre per la sorpresa. Okay. Be’, non era quello che
mi aspettavo. E quando scruto i visi dei ragazzi, non vedo orrore o
disgusto, ma solo curiosità. Posso gestirla. Solo che mi chiedo: se
stessi per sposare un uomo qualsiasi, avrebbero più difficoltà ad
accettare la situazione? Forse non dovrei preoccuparmi; infatti,
conterò sul loro sostegno in qualsiasi modo arrivi.
«Non lo so» rispondo. «Controllerò il nostro calendario delle
partite e il suo e vedrò se si può fare. Ma so che a Wes farebbe
piacere venire, impegni permettendo.»
Tutti i loro visi si illuminano.
«Altro?» sollecito. Quando nessuno parla, batto di nuovo le mani.
«Va bene, allora mettiamoci al lavoro.» Basta quello e le loro
espressioni tornano serie, in attesa di iniziare l’allenamento.
Cavolo, è bello essere di nuovo qui.

L’allenamento finisce alle sei e mezza. Mentre mi dirigo nello


spogliatoio per cambiarmi, mando un messaggio a Wes e scopro
che è già fuori. Stasera mi è venuto a prendere perché andremo a
cena con i suoi compagni di squadra, ecco perché mi sono portato
un altro cambio. Invece dei jeans e della felpa col cappuccio con cui
sono entrato, indosso una camicia blu, una giacca blu navy e un
paio di pantaloni beige.
Il mio look attira l’attenzione di Gilles, che si sta mettendo –
sorpresa, sorpresa – una camicia con fantasia a quadri. «Devi
andare a un country club o qualcosa del genere?» ride.
«A cena con il mio…» Mi blocco di colpo. Stavo per dire
“coinquilino”, ma immagino sia un’abitudine che devo abbandonare,
eh? Io e Wes non ci stiamo più nascondendo. «Con il mio ragazzo»
finisco la frase. Forse avrei potuto dire “fidanzato”, ma non ho
ancora raccontato ai colleghi del fidanzamento, e non è una bomba
che voglio sganciare appena tornato.
Gilles fa un’espressione dispiaciuta. «Devi aver pensato che
siamo stati dei cretini a portarti in quel locale, a flirtare con quelle
ragazze…» Sospira, ed è talmente imbarazzato che non riesco a
fare a meno di sorridere.
«Ehi, mica lo sapevate che convivevo con un uomo.»
In risposta, inarca un sopracciglio. «No, non lo sapevamo. Una
certa persona non ce l’ha confidato.»
«Non era una cosa che potevo annunciare» ammetto. «Wes… la
sua carriera… dovevamo tenere segreta la relazione.»
Gilles annuisce. «Lo capisco. Ma mi sento comunque uno
stronzo.»
Cavolo.
Non è mai stata mia intenzione. «Mi dispiace. Era una situazione
un po’ di merda, ma ora è finita. Siamo usciti allo scoperto.» Mi
muovo a disagio. «E so che ci sarà qualcuno che non accetterà o
capirà il mio rapporto con…»
«Non sono uno di quelli» mi interrompe.
«No?»
«Ma va’. Mia sorella ha una ragazza.»
«Ah.»
«Già. I miei genitori fanno parte della PFLAG e tutto quanto.»
«Forte» commento, anche se non sono proprio sicuro di cosa
significhi. Sono tipo il gay peggiore di sempre. Qualcuno mi dia il
manuale. «Be’, grazie per avermelo detto. Mi piacerebbe andare di
nuovo a bere con voi ragazzi. Non avrei voluto rifiutare i vostri inviti,
ma è stato un anno strano.»
«Va bene.» Poi sorride. «Ma solo se starai in squadra con me a
freccette, perché Frazier non è bravo come crede.»
Scuoto la testa. «Quella sera ero concentratissimo sul bersaglio
per tenere le mani di quella tizia lontane dal mio culo.»
Ride. «Abbiamo visto il tuo, ehm… Abbiamo visto Ryan Wesley al
locale, giusto? Non l’ho solo immaginato perché ero ubriaco?»
Il ricordo mi fa sussultare.
«Sì, era lì. È stato parecchio imbarazzante.»
«Già. Be’, la prossima volta inviteremo anche lui.»
«Bella idea.»
Mi vibra il telefono in mano. “Sono nel parcheggio”, ha scritto Wes.
“Arrivo subito” rispondo.
Arriva un altro messaggio. “Il mio uccello è durissimo”.
Soffoco una risatina, e il verso che produco fa ridere Gilles.
«Divertiti a cena» mi raccomanda, prima di uscire dallo spogliatoio.
“Quant’è duro?” scrivo.
“Mi arresteranno, se gli faccio una foto mentre sono in macchina?”
Mi scappa da ridere. “Assolutamente sì” rispondo. “Stasera non
puoi finire in prigione, abbiamo impegni per cena”.
Infilo i piedi in un paio di scarpe eleganti, butto gli altri vestiti
nell’armadietto ed esco nel parcheggio, dove mi aspetta il SUV di
Wes. Per terra c’è un po’ di fango, quindi faccio attenzione a non
sguazzarci dentro e rovinarmi le scarpe, ma sono contento di vedere
che la neve si sta finalmente sciogliendo. A quanto pare, però, porta
sfortuna festeggiare. Ieri sera, Blake mi ha avvisato che a marzo ci
sono sempre una o due bufere. A volte anche ad aprile e maggio.
Blake le definisce “i vaffanculo dell’inverno”.
Wes mi saluta col suo sorriso sexy non appena mi siedo sul sedile
del passeggero. Mi sporgo per baciarlo, poi gli guardo il cavallo dei
pantaloni. «Bugiardo» lo rimprovero. «Non si è alzato neanche di un
centimetro.»
Si sfrega l’inguine e si lecca le labbra. «Posso lavorarci, dammi un
attimo.»
Ridacchio. «Dove andiamo, comunque?»
Si allontana dal bordo del marciapiedi e mi godo la vista delle sue
mani forti sul volante. Mi chiedo se sappia che ho un feticcio per le
sue mani.
«In un ristorante stellato che piace a Forsberg. Sono sicuro che
sarà uno spettacolo. E non vogliono farci pagare, quindi devi
ordinare la cosa più costosa che c’è sul menù. È così che fanno
questi idioti.»
«Buono a sapersi.»
La squadra ci porta fuori a cena per il compleanno di Wes. Di
solito festeggiano i compleanni in viaggio, ma tutta la squadra si è
presa la serata libera dalle famiglie in modo che potessi partecipare
anch’io.
Quando Wes si ferma davanti al ristorante, un valletto con
l’uniforme gli prende le chiavi e lo chiama “signore”.
E, quando entriamo, mi rendo conto che è sicuramente uno dei
posti più raffinati in cui sia mai stato qui a Toronto. La direttrice di
sala ci fa strada oltre un bar elegante e giù per una rampa di scale.
Siamo in una vera e propria cantina dei vini, con file e file di scaffali
triangolari pieni di bottiglie lungo i muri di pietra. Al centro della
cantina, c’è una sala privata con pareti in vetro e un tavolo
apparecchiato per due dozzine di uomini che non conosco. E la
maggior parte di loro è già lì a sorseggiare il primo cocktail della
serata.
«Ehiii!» gridano in coro diverse voci, mentre ci avviciniamo. Mi
rendo conto che chiunque abbia scelto questo posto è un genio
(ricco). La cena di una squadra di hockey può diventare piuttosto
rumorosa, quindi perché non organizzala in una sala insonorizzata
nel piano interrato più bello di Toronto?
Sono davanti a Wes, quindi sono il primo a entrare nella saletta,
ma poi mi fermo per aspettarlo. È subito dietro di me e mi posa la
mano sulla scapola. «Buonasera, signore» saluta i presenti. «Dove
volete che ci mettiamo?»
«Sedetevi qui!» grida Blake, indicando due posti vicini al centro
del tavolo lungo. «Che inizino i giochi.»
Ci sediamo, e un cameriere con un abito migliore di tutti quelli che
ho io arriva per prendere le ordinazioni. Considero l’idea di ordinare
un cocktail alla frutta giusto per prendere in giro i presenti, ma poi
dovrei berlo. Quindi decido di prendere una Griffon Ale. «Io prendo
un Manhattan. Secco, senza frutta.»
«Davvero?» Wes non ordina mai cocktail.
Il mio fidanzato scrolla le spalle. «È quello che beve mio padre, e
quando entro in posti del genere mi viene sempre in mente lui.» Si
sistema meglio sulla sedia. «Lo senti l’odore? Pelle vecchia e soldi.»
Eriksson ridacchia. «Ho mai visto tuo padre?»
«No» gli risponde Wes, sventolando il tovagliolo. «E non
succederà mai. Lo sentivo tre o quattro volte l’anno prima della
Grande Intervista Gay. Ora non sarà mai più un mio problema.»
Le sue parole sono accolte da un silenzio leggermente sconvolto.
«E tua madre?» chiede Blake.
«Non oserebbe mai uscire dai ranghi. Ci perde lei.» Batte le mani
e cambia argomento. «Cos’abbiamo di buono qui?»
Ordiniamo quantità spropositate di buon cibo. Io prendo la
bistecca, così come più della metà della tavolata. Blake ordina la
costata d’agnello, e non riesco a trattenere la sorpresa. «Lo sai che
è una pecora, vero?»
Mi guarda come se avessi il quoziente intellettivo di una scimmia.
«La miglior difesa è l’attacco, bello.»
Certo.
Arriva una vagonata di antipasti; qualcuno ne ha ordinati tre per
tipo per tutto il tavolo. Parliamo di come stanno procedendo i playoff,
mentre divoriamo una montagna di cocktail di gamberetti, un oceano
di ostriche servite su metà conchiglia e un sacco di tartare di tonno.
La vita è bella. Lo è davvero.

L’alcol ha appena iniziato a farmi effetto quando Hewitt si alza e


lancia il tovagliolo sulla sedia. «Scusatemi un secondo, ragazzi.» Ed
esce dalla sala. Dev’essere andato di sopra, è impossibile che qui
sotto ci sia un bagno.
Mi scordo che se n’è andato finché non torna qualche minuto
dopo. E sono talmente sorpreso che lo guardo di nuovo.
Ha addosso la mia camicia – quella verde acceso a quadri che ho
comprato a Vancouver.
«Quella è… dove l’hai presa?» balbetto. Mi guardo il petto giusto
per controllare di avere ancora la mia.
Hewitt scrolla le spalle. «Te l’ho detto che a mia moglie piace fare
shopping. Deve aver visto la tua e le è piaciuta.»
Potrei giurare che prima non la indossava, ma tutta la squadra è
qui, quindi magari non ci ho fatto caso. Bevo un altro sorso del mio
Manhattan e l’alcol mi brucia la gola. Faccio vagare lo sguardo per la
sala, guardando i visi dei giocatori illuminati dalla luce delle candele,
da cibo e alcolici eccellenti. La verità è che a mio padre sarebbe
piaciuta questa cena. Davvero. E, se non fosse un pezzo di merda,
probabilmente ora sarebbe qui.
Ci perde lui, come ho detto prima. Ci perde davvero.
Il sommelier entra con quattro bottiglie diverse di vino rosso
sottobraccio. «Nessuno ha ordinato il bianco, giusto?»
«Che cazzo, no» dico un po’ troppo ad alta voce. Ma è la mia
festa. «Anche il vostro locale omosessuale ha bisogno di un rosso
robusto con la bistecca.»
Il cameriere sembra essere colto di sorpresa, ma dal modo in cui
tutti i miei compagni di squadra ridono sembra che stiano per farsela
addosso.
Eriksson alza la mano. «Ma io ho ordinato il pesce.»
«Quello è un problema tuo» gli risponde qualcuno, dopodiché
Eriksson viene bersagliato da tovagliolini appallottolati.
Una normale serata con gli uomini più raffinati di Toronto.
Eriksson si alza. «Allora vado a ordinarne un po’ al bar.» Ed esce
a grandi passi dalla sala.
Jamie sta parlando di tattiche di difesa con Lemming, e non mi
sogno neanche di interrompere la conversazione. Forse Lemming
può superare il suo disagio con i gay finché parla con un altro
difensore. Quindi tolgo la bottiglia di birra vuota dalla mano di Jamie
e la sostituisco con un bicchiere di vino.
«Okay. Lo cercherò anch’io un marito, se ti mette alcolici in mano»
scherza Forsberg.
«Infatti è proprio per questo che mi sposa» rispondo, strizzandogli
l’occhio con impertinenza.
A metà frase, Jamie allunga una mano per darmi uno scappellotto,
poi finisce la sua riflessione sulla trappola nella zona neutra.
«Allora,» chiede Hewitt, che con la mia camicia sta da Dio, «com’è
che si sposano due uomini? Tipo… chi è che marcia fino all’altare?»
Io e Jamie ci scambiamo un’occhiata sconvolta, perché non ne
abbiamo ancora parlato. Sarà tutto nelle mani di Jess. «Ehm…»
inizio. «Canning? Idee?»
Scrolla le spalle. «Che ce ne facciamo dell’altare? Immagino ci
sarà solo un officiante o qualcosa del genere, e lo faremo a casa dei
miei. E poi mangeremo un sacco di costolette. Mia madre è una
maga con l’affumicatore.»
Gli occhi di Hewitt si spalancano leggermente. Vedo quasi la
lampadina che gli si accende sulla testa. «Quindi, se si sposano due
uomini, il cibo è migliore rispetto ai soliti matrimoni.»
«E c’è la birra» aggiunge qualcuno.
«Ma ci dev’essere la torta» interviene Blake. «Credo che senza
non sia legale. L’ho letto da qualche parte.»
A questo punto, Eriksson torna nella sala. Senza alcol. Ma
indossa… rullo di tamburi… la camicia. La camicia “gay” verde
acceso.
«Caaazzo» esclamo lentamente. Do un colpetto a Jamie per
attirare la sua attenzione. «La vedi quella camicia, piccolo? Mi
stanno facendo uno scherzo.»
Volta il suo bellissimo viso nella direzione da me indicata. Eriksson
è in piedi alla fine del tavolo, e flette i muscoli come un body builder
che dirige il traffico.
«Porca troia!» scoppia a ridere Jamie. «Devo fare una foto»
dichiara, tirando fuori il telefono. «Andate lì, tutti e tre.»
Jamie scatta la foto. Ma pochi minuti dopo, Blake esce e torna con
addosso la camicia taglia 56, o qualsiasi cosa porti quella bestia. E
mi rendo conto che i miei compagni di squadra hanno sborsato
qualche centone extra – a testa – per la spedizione rapida per
questa cretinata. È stupido il fatto che sia commosso da questa
follia?
Cavolo. Sto diventando un rammollito.
«Blake,» gracchio, «come diamine hai fatto a organizzare questa
cosa?»
Beve un sorso di vino. «Ho usato la mia copia delle chiavi. Ho
cercato in tutta la casa per scoprire chi facesse quell’affare. Mi ci è
voluta mezz’ora per trovarla, perché ho dovuto frugare parecchio.
Dovresti imparare a disfare i bagagli, bello.»
Jamie mi dà un pugno sul bicipite. «Visto?»
«…ho letto il nome della marca e ho cercato su Google. Un gioco
da ragazzi.»
Forsberg si alza. «Tocca a me. Tanto dovevo comunque andare a
fare pipì.» Schizza fuori dalla sala e torna qualche minuto dopo
vestito di verde.
E, Cristo, l’effetto di queste camicie tutte insieme in una
stanzetta… Be’, in effetti è un colore un po’ sgargiante. Ma solo sotto
le luci di questo ristorante.
Uno dopo l’altro, anche in seguito all’arrivo delle portate principali,
ogni giocatore esce dalla saletta e ritorna con addosso La Camicia.
Io continuo a bere, più felice e sdolcinato a ogni sorso di vino.
Ne hanno presa una anche per Jamie. È l’ultimo ad allontanarsi, e
torna con addosso quel verde lime e un enorme sorriso. «Ora
dobbiamo fare la foto» afferma. «Ho chiesto al cameriere di
scattarla.»
Ed è così che io e Canning ci siamo ritrovati in salotto un’enorme
foto incorniciata di tutta la squadra di Toronto con addosso una
camicia a quadri molto sgargiante. Giuro che il colore nell’immagine
sembra più acceso di quanto non lo sia dal vivo, perché questa foto
è accecante. Jamie ridacchia ogni volta che lo dico. Ma eccoci qui,
con due dozzine di sorrisi enormi per il vino, mentre salutiamo
l’obiettivo come cretini. Blake è nella fila di dietro, il tovagliolo legato
intorno alla testa a mo’ di bandana. Io ho la mano sulla spalla di
Jamie, proprio al centro dello scatto. Il suo sorriso è genuino e
rilassato come nel giorno in cui l’ho conosciuto. E io sembro…
inserito. È una parola che non ho mai usato per descrivermi, ma in
questa foto c’è tutto quello che ho sempre voluto: l’uomo dei miei
sogni e i miei compagni di squadra. Ho messo da parte il mio sorriso
spavaldo per uno talmente smagliante che a malapena mi riconosco.
Ma sono sicuramente io. Siamo noi, insieme. Ed è perfetto.
Di Sarina Bowen prossimamente in Italia

Brooklyn in Love

Un Amore da Principianti

Di Elle Kennedy e Sarina Bowen


prossimamente in Italia

Il primo volume della serie Wags:


Good Boy

La storia imperdibile di Blake Riley e Jess Canning.

Potrebbero piacerti anche