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Questo libro è un’opera di finzione.

I nomi, i personaggi, i luoghi, marchi,


media ed episodi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice
o sono utilizzati in modo fittizio. L’ autore riconosce lo status del marchio
di fabbrica e i proprietari del marchio dei vari prodotti, band e/o ristoranti
menzionati in questo romanzo, che sono stati usati senza permesso.
La pubblicazione/uso di questi marchi non è autorizzata, associata o
sponsorizzata dai proprietari del marchio. Qualsiasi somiglianza con
persone reali viventi o defunte, eventi o luoghi è puramente causale.

Titolo originale: Brooklynaire


Copyright © 2018 by Sarina Bowen
Traduzione dall’inglese di Mariacristina Cesa

Prima edizione: maggio 2020


Brooklyn in Love © 2020 Always Publishing s.r.l. - Salerno
This is a work of fiction.
Names, characters, places, and incidents either
are the product of the author’s imagination or are used fictitiously.
Any resemblance to persons, living or dead, business establishments,
events, or locales is entirely coincidental.
All rights reserved. No part of this book may reproduced, scanned
or distributed in any manner whatsoever without written permission
from the author except in the case of brief quotations embodied in articles or
reviews.

ISBN 978-88-856-0394-3
Photo ©royalty free/Shutterstock.com
www.alwayspublishingeditore.com
INDICE

Copertina

Collana

Frontespizio

Colophon

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9
Capitolo 10

Capitolo 11

Capitolo 12

Capitolo 13

Capitolo 14

Capitolo 15

Capitolo 16

Capitolo 17

Capitolo 18

Capitolo 19

Capitolo 20

Capitolo 21

Capitolo 22

Capitolo 23

Capitolo 24

Capitolo 25

Capitolo 26

Capitolo 27

Capitolo 28

Capitolo 29
Capitolo 30

Capitolo 31
Titolo originale dell'opera
Brooklynaire
1

“Non so dire l’ora, il luogo, lo sguardo o le parole che hanno posto


le basi.
È stato troppo tempo fa. Mi ci sono trovato in mezzo prima
di accorgermi che fosse cominciato”.
- Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio

2 aprile, Brooklyn

È universalmente noto che sono una donna cazzuta.


Per chi non lo sapesse, vivo a Brooklyn, dove tutti, più o meno, se
la sanno cavare. Bevo caffè nero. In più, lavoro con atleti
professionisti, tenendo testa a un ufficio così pieno di testosterone
da rendere la caffeina quasi irrilevante. Riesco a eseguire
venticinque flessioni di fila. L’anno scorso un giocatore di hockey ha
scommesso contro di me e ha perso i suoi cento bigliettoni. Quindi,
fino a ventiquattr’ore fa, mi consideravo una tipa tosta.
E devo continuare a esserlo. I Brooklyn Bruisers si stanno
avvicinando ai playoff della NHL per la prima volta da anni. Di
conseguenza, non appena la mia squadra si sarà qualificata, mi
arriverà addosso una gigantesca mole di lavoro. Organizzazione del
viaggio. Eventi pubblicitari. Vendita di biglietti in (altre) zone (più)
lontane. Come responsabile dell’ufficio, è compito mio coordinare
questo allegro caos.
Ieri pomeriggio, però, in un momento di pura stupidità, sono
entrata sul ghiaccio scintillante della pista di allenamento per
consegnare un messaggio a uno dei miei colleghi.
Lavoro da due anni per la squadra di hockey e non avevo mai
messo piede sul ghiaccio. Ma ieri ho pensato... perché no? È come
lavorare in un ristorante di lusso e non aver mai assaggiato niente.
Il perché no mi è apparso chiaro circa sessanta secondi dopo,
quando le suole piatte delle mie Converse hanno perso aderenza
sulla superficie sdrucciolevole. Sono scivolata così in fretta da non
riuscire nemmeno ad ammortizzare lo schianto con le mani. Sono
caduta di peso su un gluteo, che ha continuato a scivolare! Così mi
sono accasciata su un lato, sbattendo il braccio e la testa. La testa,
in particolare, ha rimbalzato sul ghiaccio diverse volte prima che
riuscissi a fermarmi sulla fredda, gelida superficie.
Ho subito agito come avrebbe fatto ogni ragazza che si rispetti
dopo uno scivolone scomposto: mi sono spolverata, rassicurando i
due colleghi che avevano assistito alla mia figuraccia di stare
benissimo. E lo pensavo davvero, se escludevo il livido sul sedere di
dimensioni tali da coprire tre stati.
All’inizio, la commozione cerebrale non si era manifestata. Avevo
imputato il senso di disorientamento al forte imbarazzo. Sentirmi
arrossata e stordita era più che logico, in quel momento.
Così ero tornata a casa, avevo mangiato degli avanzi dal
frigorifero ed ero andata a letto presto. Alle due del mattino, però, mi
ero svegliata di soprassalto. Il mal di testa era aumentato e avevo
una leggera nausea, così ero andata in bagno a cercare un’aspirina.
Non appena avevo acceso la luce, la stanza si era inclinata. Mi ero
aggrappata al portasciugamani con tanta forza da smurarlo.
E, per la seconda volta in un giorno, ero caduta sul sedere.
Il tonfo aveva svegliato mia sorella nell’altra camera da letto.
Quando mi aveva visto a terra con le palpebre frementi, si era fatta
prendere dal panico. Ci eravamo ritrovate al pronto soccorso del
Brooklyn Methodist nel cuore della notte. Se penso al conto che mi
invieranno, probabilmente mi verrà di nuovo da vomitare. I medici mi
hanno tastato e portato in ogni reparto necessario, mi hanno sparato
luci infernali negli occhi mentre io continuavo a insistere di lasciarmi
tornare a casa.
Alla fine mi hanno dimesso, non prima di rifilarmi una lista infinita
di istruzioni da seguire per riprendermi dalla commozione cerebrale.
Così, eccomi qui, sul divano più brutto del mondo, nel mio
appartamentino sovraffollato, a chiedermi cosa diavolo farò. Intanto,
grosse lacrime di frustrazione mi rigano le guance.
E io non piango mai. Che cazzo mi prende?
Okay, fa male, cavolo. E non è il mal di testa ad avvilirmi. Il medico
del pronto soccorso mi ha messo a riposo dal lavoro per due
settimane. Mi ha ammonito di restare a casa ed evitare schermi,
scartoffie, stress e tutto ciò di fisicamente e intellettualmente
impegnativo. Mi scende un’altra lacrima mentre cerco di farmene
una ragione. Ho appena inviato un messaggio a Hugh Major, il
direttore generale dei Brooklyn Bruisers, per comunicargli che ho
bisogno di qualche giorno di malattia. E nel comporlo ho dovuto
strizzare gli occhi per impedire alle lettere sullo schermo di
continuare a fluttuare.
E comunque… due settimane? È una follia. Il tempismo è pessimo
e Hugh non ne sarà contento. E nemmeno Nate Kattenberger, il
proprietario della squadra.
In più, io per prima ci sto male. I miei ragazzi stanno per arrivare ai
playoff per la prima volta da quando lavoro con loro. Devo essere lì
per vederlo. Sono due anni che questa squadra di hockey è tutta la
mia vita. Restarne fuori per due settimane? Impensabile.
Spengo il telefono esalando un altro respiro incerto. Mi muovo
furtivamente perché il mio nipotino di quattro mesi dorme in una
cesta ai miei piedi. Non posso svegliarlo. Se comincia a piangere
adesso, la mia testa non sarà in grado di sopportarlo.
Mi concentro sul suo viso addormentato e mi sento un po’ più
tranquilla, perché i bambini sanno davvero come farti rilassare. Le
ciglia scure di Matthew segnano le sue guance paffute e la coperta
si alza e si abbassa lievemente a ogni dolce respiro.
Fino a ieri pensavo che il mio più grande problema fosse
condividere casa con mia sorella e la sua famiglia. Ah, e il non fare
sesso da undici mesi e tre giorni.
Ma adesso ci ho ripensato.
Viviamo in quattro in questo appartamento, ma io sono l’unica con
un lavoro a tempo pieno. Be’, il bambino non può lavorare, ma ci
sono due adulti che contano su di me. Mia sorella sta cercando di
ottenere una laurea breve e intanto copre qualche turno da barista. Il
padre di suo figlio, invece, quarto coinquilino, si occupa di tanto in
tanto di lavori di ristrutturazione. Più che altro, però, si prende cura
del bambino.
Pertanto, sono l’unica con uno stipendio fisso. E anche se il
proprietario della squadra mi conosce ormai da sette anni, negli
ultimi due anni sono stata in apprensione circa la sicurezza del mio
impiego. Questa mia assenza di certo non aiuta.
Quindi, cosa diavolo farò adesso?
Evidentemente devo aver pronunciato la domanda ad alta voce,
perché mio nipote si sta agitando nel sonno.
Da quando Matthew è venuto a vivere con me, ho imparato che i
bambini hanno una straordinaria abilità nello scegliere il momento
peggiore per svegliarsi. Mi asciugo le lacrime con i palmi delle mani
e prendo un respiro profondo per calmarmi.
Matthew si gira con un piccolo grugnito. Muove la boccuccia come
se stesse ciucciando.
Oh-oh.
Lentamente, mi chino sul porte-enfant in cui dorme e pesco il
ciuccio abbandonato dalle coperte. Quindi, con gran cautela, glielo
faccio scivolare in bocca. Sono trucchi che mai avrei pensato di
imparare. Poi la mia sorella minore è rimasta incinta a ventidue anni.
«Terrò il bambino» aveva dichiarato subito. «E Renny andrà a
lavorare su una piattaforma petrolifera nel Golfo per mantenerci.»
Certo.
Qualche mese dopo, quando Missy ha dovuto lasciare il suo
appartamento nel Queens per non essere riuscita a saldare le spese
d’affitto, non ne sono rimasta affatto sorpresa. Lo sono stata appena
un po’ di più vedendo Renny durare qualche mese sulla piattaforma
petrolifera.
Si è presentato alla mia porta una settimana fa e si è messo in
ginocchio sullo zerbino in uno dei suoi gesti melodrammatici. «Non
posso sopportare un altro giorno senza la mia famiglia!» ha
esclamato tra le lacrime lo sciocco ventunenne (sì, mia sorella si è
innamorata di un ragazzo più giovane. Lo definirei il suo sposo-
bambino, se non fosse che non sono sposati).
Così adesso siamo tutti una grande famiglia felice nel piccolo
appartamento di Brooklyn che ho sempre condiviso solo con la mia
migliore amica Georgia. Voglio un gran bene a mia sorella ma,
davvero, questo posto non è abbastanza grande per un simile
melodramma. A me è toccato il ruolo della Zietta Zitella. E in questo
momento, dietro la porta chiusa della camera da letto che Missy e
Renny condividono, sento i loro gemiti soffocati e il ritmico battere
della testiera contro il muro mentre fanno l’amore.
Pensano di essere furbi. Da quando Renny è tornato dal Texas,
sgattaiolano via una volta al giorno per una sveltina durante il
pisolino del bambino. Da un momento all’altro riemergeranno, rossi e
felici, scambiandosi sguardi languidi, indugiando nello sfiorarsi le
mani, come se separarsi fosse una sofferenza fisica.
Mia sorella è un po’ idiota. Lo è sempre stata. Eppure è riuscita ad
accalappiare un uomo che la ama davvero. Ogni volta che penso a
loro, mi viene quasi da vomitare. E questo già prima della
commozione cerebrale.
Ai miei piedi, il piccolo Matthew stiracchia le braccine corte sopra
la testolina calva. Ha le palpebre ancora ben chiuse, ma non durerà.
Perde di nuovo il ciuccio. Quindi, con un piccolo lamento, spalanca
gli occhi blu.
Non importa quanto la vita mi vada di merda in questo momento,
una certezza resta incrollabile: mio nipote è assolutamente
adorabile. «Ciao» lo saluto con dolcezza, quando i suoi occhi si
fermano su di me. «Hai dormito bene?»
Il bimbo considera la mia domanda.
«Vuoi stare un po’ con me qui sul divano?» Mi allungo per infilare
le mani sotto il suo corpo. Lo tiro su. Quando mi rimetto seduta,
però, provo una fitta alla testa così acuta da sibilare per la sorpresa.
Quel verso coglie alla sprovvista Matthew, che piagnucola. «Tutto
a posto» sussurro, stringendo gli occhi per il dolore. «Passerà.»
Non so bene chi dei due stia rassicurando.
Matthew si agita un altro po’. Si sta preparando a un vero e
proprio pianto. Per una volta non mi dispiace, visto che coprirà il
crescendo di gemiti nell’altra stanza. Ma ho lasciato il ciuccio nel
porte-enfant, accidenti. Chinarsi è doppiamente difficile con Matthew
in braccio, ma ci riesco. A fatica.
Quando ci ritroviamo di nuovo seduti, la stanza gira in un modo in
cui le stanze non dovrebbero vorticare. Le grandi rose marroni di
questo orribile divano – la Bestia, come lo chiamiamo Georgia e io –
sembrano nuotare davanti ai miei occhi.
Psichedelico.
Matthew per un po’ ciuccia, disperato. Ma il ciuccio non lo tratterrà
a lungo. Ha fame. Tant’è che il piagnucolio diventa pianto nel giro di
qualche minuto. Lo cullo un po’ tra le braccia, ma dall’angolo degli
occhi gli sbucano due grosse lacrime. Per solidarietà, ne sgorgano
due anche dai miei.
A quel punto la porta della camera da letto si apre di scatto.
«Arriva papà!» annuncia Renny. È a torso nudo e i jeans sono
ancora sbottonati. Ma corre verso il divano e mi toglie Matthew dalle
braccia. «Ecco il mio muffin. Il mio pasticcino.» Appoggia il viso
ruvido sulla guancia vellutata di Matthew e lo sbaciucchia.
Tuttavia, il bambino ha fame, e Renny di certo non ha l’apparato di
cui ha bisogno. A quanto pare, però, uno sciroccato seminudo come
lui è abbastanza interessante da distrarre Matthew dalla sua pancia
vuota. Appoggia la piccola mano a forma di stella marina sul viso del
papà e i due si guardano negli occhi come due amanti separati da
tempo.
«Chi è il muffin più buono del mondo?» blatera Renny. Si siede
all’altro angolo della Bestia e, in quel momento, nella stanza entra
mia sorella, rossa in viso e con l’espressione più sessualmente
soddisfatta di quanto qualsiasi neomamma avrebbe il diritto di avere.
«Mammina!» esclama Renny come un deficiente. «Abbiamo bisogno
delle tue deliziose tette qui!»
«Sai» borbotto, anche se sono sicura che non mi ascolti nessuno,
«tra un paio di anni ripeterà tutto quello che dici.»
Non mi sentono nemmeno. Missy si accomoda contro il suo toy-
boy e tira su la camicia. Renny sistema il bambino tra loro in modo
che possa arrivare al seno di mia sorella. Così Matthew si attacca e i
due genitori lo guardano mangiare, producendosi in qualche
sporadico e disgustoso commento su che grande ciucciatore il
bambino sia.
Questa è la mia vita.
Non mi sono mai sentita un terzo incomodo come adesso. Anzi,
un quarto incomodo. Quello che è. Ma questo è il mio divano e non
mi alzerei da qui neanche se avessi un altro posto dove andare. Che
non ho, comunque. Quindi resto seduta e basta, crogiolandomi nella
mia stessa infelicità, sola con i miei pensieri bui, anche se nessuno
se ne accorge.
È allora che suona il citofono. Il trillo ha l’effetto di un coltello
piantato nel mio cranio già dolorante. «Qualcuno può andare?»
La famigliola più felice di Brooklyn non si muove.
Quindi mi alzo per rispondere. «Sì?»
«Rebecca.» È una voce maschile, bassa e decisa. «Posso
salire?»
Non si preoccupa nemmeno di indentificarsi. In realtà non ce n’è
bisogno. Nate Kattenberger è abituato a essere riconosciuto.
D’altra parte, però, non è abituato a presentarsi nell’appartamento
di Brooklyn della sua assistente. Lavoro da sette anni per Nate e non
ha mai messo piede in casa mia.
Mi ci vuole un attimo per riprendermi dalla sorpresa. Poi torno in
me e premo il pulsante per aprire il portone.
Do un’occhiata al soggiorno. Sembra che sia esplosa una bomba.
«Renny, va’ a metterti una maglietta! Missy? Quante di queste
stronzate del bambino riusciamo a raccogliere nei prossimi quindici
secondi?»
«Nessuna? Sto allattando. Perché?»
Perché l’uomo più famoso di tutti da qui al Connecticut sta salendo
le scale in questo preciso istante! Non ho nemmeno il tempo di
andare nel panico. Nate Kattenberger bussa alla porta in meno di un
minuto. Deve aver fatto le due rampe di corsa. Ormai non c’è
rimedio al mio imbarazzo, quindi apro la porta.
«Dovresti essere a letto.» È la battuta di ingresso di Nate. Non è
mai stato uno che si perde in chiacchiere.
Per un attimo non rispondo. Oggi ho il cervello rallentato e mi ci
vuole un po’ più del normale per superare la solita scarica di
sconcerto che mi attraversa quando quegli intensi occhi castano
chiaro si fissano nei miei. Il magnetismo di Nate sarà dieci volte
superiore a quello di un uomo normale. Dopo sette anni dovrei
esserci abituata, ormai. Invece, no.
«Ehi» rispondo dopo un attimo. «Hai suonato al citofono. Non
posso mica aprire e dormire allo stesso tempo.»
«Ben detto, Bec. Stavi dormendo prima che suonassi?»
Non rispondo, mi limito a fargli cenno di entrare. Nel varcare la
soglia, si tira dietro qualcosa. È il mazzo di rose più grande che
abbia mai visto fuori da una camera ardente.
«Gesù. Respiro ancora, sai.» La battuta dovrebbe nascondere il
mio imbarazzo per la sua generosità, ma mi esce in un tono piccato.
E quando provo a prenderlo, il cesto è così grande che non so
nemmeno dove metterlo.
«Mi sa che ho esagerato» ridacchia. «Tieni, prendi questa, allora.»
Mi porge una busta di Dean & DeLuca piena di cibo gourmet.
«Posso mettere i fiori sul tavolo vicino alla finestra?»
«Se c’entrano. Attento all’...»
Non faccio in tempo ad avvertirlo e Nate inciampa nell’altalena del
bambino. Sta quasi per cadere, ma si salva per un pelo
appoggiandosi al muro.
«Mi dispiace per l’altalena» si scusa mia sorella dal divano. Non si
scusa, però, per il suo ragazzo seminudo, rimasto a bocca aperta
nel trovarsi di fronte il miliardario più famoso di Brooklyn.
Buon Dio. A confronto siamo l’equivalente di un campo nomadi di
Brooklyn. E non è carino.
«Nate,» riprendo, sentendomi morire dentro, «forse ti ricordi di mia
sorella Missy.» Si sono conosciuti circa cinque anni fa, quando la
invitai a un evento di beneficenza in un museo da qualche parte.
Non ricordo nemmeno l’occasione. «E questo è il suo ragazzo,
Renny.»
«Come stai?» chiede Nate a Missy. La punta delle orecchie gli
diventa rossa, forse perché mia sorella è praticamente in topless.
«Sei qui per occuparti di Rebecca ora che sta male?»
«No! Noi viviamo qui» puntualizza Renny, piazzando i piedi sul
tavolino.
Ora voglio solo morire. Fintanto che è relativamente indolore.
«Renny,» tento, «non mi avevi detto che saresti andato a fare la
spesa? Quando si fosse svegliato il bambino… così avevi detto.»
Non è neanche una bugia. Aveva davvero accennato di voler fare un
salto al supermercato. Prima di saltare addosso a mia sorella e
distrarsi, però.
«Certo» si strofina la guancia non rasata. «Potrei.»
«Vengo con te» propone mia sorella, che Dio la benedica. «Ci
portiamo anche Matthew nel marsupio. Finisce di mangiare tra un
minuto.»
Dio sia lodato.
Renny si alza, massaggiandosi il petto nudo. «Ehi, è aperta la
biblioteca? Ho finito quel fantastico libro… quello dell’universo
parallelo, ma è rimasto in sospeso. Mi serve il seguito.»
Più veloce, Renny! Riesco a vedere la sua maglietta dalla porta
aperta della stanza di Missy. Lo guido mentalmente lì. La maglietta,
Renny. Prendi la maglietta.
«Gli universi paralleli sono il massimo» commenta, vagando nella
direzione della maglietta. «Del tipo che esiste un universo parallelo
in cui sono il quarterback dei Giants. E un universo parallelo in cui tu
sei la regina di Francia.»
«Non c’è la monarchia in Francia» preciso. Metti la maglietta.
Mia sorella sventola le tette in giro, poi le rimette nel reggiseno.
«È proprio questo il punto!» esclama Renny dalla camera da letto.
Ricompare vestito e, a passo di danza, va a prendere il figlio dalle
braccia di Missy. «Tutto può succedere in un universo parallelo. Il
mio ometto può volare. Whee!» E fa volteggiare Matthew,
reggendolo sul palmo delle mani.
«Non lo farà rigurgitare?» chiedo, preparandomi al peggio.
Missy riprende il bambino da quello scemo del suo ragazzo.
«Muoviamoci. Mi ha fatto piacere rivederti, Nate. Vacci piano con
mia sorella. Ha passato l’intera mattinata a farsela sotto per la paura
di perdere il lavoro. Ma non deve usare il computer fino a che…»
«Missy» l’ammonisco.
«Be’, è vero!» esclama. Poi, saggiamente, apre la porta e
scompare.
Renny prende il marsupio e una coperta. Pur essendo un vero
idiota, è comunque un bravo papà. «A dopo, Nate Kattenberger e
Becca!»
Il rumore della porta che si richiude dietro di lui è il migliore che
abbia sentito in tutta la giornata. Il fattore di imbarazzo scende da
100 a… ehm, 97.
«Wow» commenta Nate.
«Sì, sono fatti così» borbotto.
«No…» Sta guardando le gigantesche rose di velluto marrone
della Bestia. «Il tuo divano è davvero…»
«Orrendo?»
Scoppia a ridere.
«Ci credi che è comodissimo? Georgia e io avevamo pensato di
farlo rifoderare, ma non eravamo sicure che passasse dalla porta di
casa.» Mi butto a sedere in un angolo. «Siediti. Prova tu stesso.»
Nate si abbandona all’altro angolo. Incrocia le mani dietro la nuca
e si stende all’indietro. «Sì, okay.»
«Non solo è comodo, ma quando ti ci siedi non lo vedi neanche
più.»
Nate ride di nuovo e io studio il suo profilo, come ho già fatto un
migliaio volte. È oggettivamente bello. Più che bello, in realtà. Sexy.
Oggi indossa la sua solita felpa nera col cappuccio e un paio di
jeans da quattrocento dollari.
Quando è nell’ufficio del suo grattacielo di Manhattan, indossa
giacca e cravatta. Ma un tempo la felpa era la sua divisa. All’epoca
non indossava neanche jeans esclusivi o scarpe da ginnastica
firmate. Non aveva nemmeno un grattacielo di uffici.
Quando sono entrata nell’azienda, c’erano sette dipendenti.
Adesso sono più di duemila.
Per cinque anni ho lavorato al fianco di Nate come assistente
personale. Poi, due anni fa, ha comprato la squadra di hockey dei
Brooklyn Bruisers. Ed è stato allora che mi ha chiesto di lasciare la
Kattenberger Tech e di gestire l’ufficio della squadra. Nel mio ruolo di
assistente a Manhattan è subentrata un’altra donna, la gelida
Lauren.
Nate mi aveva assicurato che non si trattava di una retrocessione,
e lo stipendio non mi era mai stato ridotto. Anzi, ho ottenuto alcuni
benefit, perché la squadra di hockey è una società a parte, con una
struttura leggermente diversa. E vedo ancora Nate diverse volte alla
settimana, almeno durante il campionato di hockey.
Il trasferimento, però, ancora mi brucia. Mi chiedo che cosa abbia
fatto per uscire dalle grazie di Nate.
E ora mi rendo conto che lo sto fissando. Ma mi sta fissando
anche lui. «Stai bene davvero?» mi chiede con un’espressione
indecifrabile. Nate è notoriamente stoico. I giornalisti amano
utilizzare il termine “imperscrutabile” nei loro articoli su di lui. La
verità è che in società è impacciato.
«Mi riprenderò.» Mi schiarisco la gola. «Dio, è stata la caduta più
stupida di tutti i tempi. Non penso nemmeno di aver battuto la testa
così forte. Andrò in ufficio domani mattina, okay? Ci vado piano con
il lavoro per un giorno o due...»
Sta già scuotendo la testa. «Assolutamente no. Ci vogliono
almeno due settimane per guarire da una commozione cerebrale.»
«Due settimane!» esclamo con voce stridula. «Non devo mica
giocare a hockey, Nate. È un lavoro d’ufficio, il mio!»
«Non vuol dire niente.» Raccoglie le mani in una posa da
amministratore delegato qual è, poi sgancia la bomba. «Nelle
prossime due settimane, Lauren lascerà il suo posto a Manhattan
per coprire l’ufficio dei Bruisers. Finché non ti sarai davvero rimessa
in piedi. È già tutto deciso.»
Il cuore mi sprofonda nelle viscere. «Non è necessario.» Non
Lauren! È un totale déjà-vu. «Lauren odia l’hockey, comunque.»
L’avrà ripetuto decine di volte.
Nate si limita ad ammiccare. La maggior parte degli uomini non ci
riesce neanche. Ma la maggior parte degli uomini non è Nate
Kattenberger. Se sei intelligente e attraente come lui, puoi fare
praticamente qualsiasi cosa.
«Lauren dovrà farsene una ragione.»
«Non riuscirò a dissuaderti in nessun modo? Resterò in questo
piccolo appartamento ad annoiarmi.»
«Sei in panchina, Bec. Succede. Anche i giocatori si lamentano
nei momenti di inattività. Abbiamo bisogno del tuo cervello, okay?
Non si scherza con le commozioni cerebrali.»
Non sottolineo l’ovvia differenza: i giocatori di hockey di Nate
subiscono traumi cranici mentre eseguono grandi azioni per la
squadra. Io per cadute idiote. Viva me.
«Grazie per i fiori, Nate.» Parlo a voce così bassa che non sono
sicura mi abbia sentito.
Poi i nostri occhi si incontrano e gli anni scompaiono. Rivedo il
ragazzo di venticinque anni che conoscevo, quello con un ufficio
trascurato e un grande sogno. A quel tempo, lavoravamo fino a tardi,
mangiavamo gli avanzi del cinese alla scrivania, sfidandoci a chi
riusciva a fare canestro con i tovaglioli appallottolati nel cestino
dall’altra parte della stanza. Era un ragazzo dal sorrisetto scaltro e
un grande cervello. Mi occupavo di piccole cose in modo che lui
avesse il tempo di reinventare la connessione a Internet dei vostri
cellulari.
Ora Nate mi sorride, sfoderando le sue fossette. Le fossette non si
addicono al resto del pacchetto Nate Kattenberger. Sono troppo da
ragazzino per un viso così serio. Lo ammorbidiscono.
Ricambio il sorriso istintivamente. E per quel momento, va tutto
bene.
È buffo essere così in confidenza con quest’uomo potente e, allo
stesso tempo, ben cosciente che ha in mano tutta la mia vita. Mi fido
di lui, ma non posso nemmeno permettermi di deluderlo.
«Forte la teoria dell’universo alternativo» esordisce all’improvviso.
«C…cosa?» Come al solto sono sempre qualche passo dietro a
Nate. Anche senza commozione cerebrale.
«Universi alternativi. Il multi-verso È una legittima teoria fisica.»
«Umpf. Renny legge solo fantascienza.»
Gli occhi di Nate si illuminano. «Perché la fantascienza è
meravigliosa. La teoria del multi-verso presuppone che l’infinito sia
abbastanza grande da comprendere simultaneamente ogni
possibilità parallela. Ogni non-scelta Ogni eventualità.»
«Be’, fa paura! Per favore, non mandarmi su un pianeta in cui mio
cognato gestisce la tua azienda.»
Nate fa un sorrisetto.
«Però mi piace l’idea che ci sia un universo in cui ieri non sono
andata sul ghiaccio per poi rovinare il nostro carico di lavoro di fine
stagione.»
Il suo sorriso svanisce. «Andrà tutto bene, Bec. Cos’è un po’ di
casino in più tra amici?»
«Vero?» ribatto, ma mi si incrina la voce. Sono così stanca dei
casini. All’improvviso sono così... stanca.
«Ehi» il suo tono ora è più dolce. Allunga una mano sulle orribili
rose marroni del divano e stringe la mia. «Me lo diresti se non stessi
bene?»
«Sì.» No. Probabilmente no. «Sono certa che tra qualche giorno
starò benissimo.»
«Lo spero. E poi… la squadra non ce l’ha ancora fatta. Secondo le
mie previsioni riusciremo a qualificarci per i playoff tra una settimana
da stasera.»
«In questo universo, vero?» lo stuzzico.
«Da’ retta a me, stronzetta.»
E lì scoppiamo a ridere perché “Da’ retta a me, stronzetta” nasce
dalla battuta di un film di seconda categoria che abbiamo visto una
volta su un jet per… Bruxelles? Londra? Non mi ricordo dove
eravamo diretti. Il volo aveva subito un ritardo e ci eravamo ritrovati
a guardare due alieni in lotta e quello viola ha rivolto un “Da’ retta a
me, stronzetto” a quello verde.
Da allora fa parte del nostro lessico comune. Quello e i palindromi.
Con Nate si tratta sempre di umorismo demenziale.
«E così agganceremo i playoff la prossima settimana, eh?» Gli
tocco il piede con il mio. «Sarà bene mettere in fresco lo
champagne.»
«Adesso, siamo seri.» Il suo sguardo vaga per il mio angusto
soggiorno, sul gigantesco pacco di pannolini incastrato sotto il
tavolino e i tre ciucci sparsi sul pavimento. «Riuscirai ad avere la
pace e la tranquillità che ti servono per rimetterti?»
«Starò bene» insisto. «Di solito non siamo tutti in casa nello
stesso momento.» È vero, ma solo perché di solito io sono al lavoro.
Nate si alza. «Mi chiamerai, se avrai bisogno di qualcosa?»
«Certo» mento, alzandomi a mia volta. Lamentarmi con Nate non
è il mio stile. Non vorrei rovinarmi la nomina di tipa tosta. E Nate ha
già abbastanza di cui preoccuparsi.
Mi guarda a lungo e tento di sorridere. Quest’uomo è perspicace
da morire e non voglio che capisca quanto sono spaventata.
«Stammi bene, Bec. Non ti sforzare troppo finché il medico non ti
dirà che è tutto a posto.»
«Va bene. Promesso.»
Dopo avermi stretto nell’abbraccio più goffo del mondo, svanisce
nel pomeriggio di Brooklyn.
2

Sette anni prima


New York, NY

C’ERA UNA VOLTA, una bella fanciulla che entrò in un palazzo di


uffici nel centro di Manhattan. Era nervosa, il che non era da lei. Ma
la posta in gioco era alta.
Le ci era voluto un attimo per arrivare al quarto piano, quindi non
aveva avuto molto tempo per farsi prendere dal panico. Per il
colloquio di lavoro aveva indossato un ruvido completo di lana e
aveva raccolto i capelli in un ordinato chignon.
Fissò il suo alter ego aziendale nelle porte d’acciaio
dell’ascensore.
Solo due mesi prima era stata una studentessa universitaria di
letteratura inglese piuttosto felice, fino a quando era arrivata una
telefonata da casa: suo padre era improvvisamente morto d’infarto.
Non aveva avuto un’assicurazione sulla vita e la sua attività
annegava nei debiti.
Rebecca aveva portato a termine il semestre universitario, ma a
fatica. Sostenere la madre devastata e la sorella adolescente era
stato sfiancante.
Ora era gennaio, e si trovava ufficialmente tra coloro che,
abbandonato il college, erano a caccia di un lavoro.
Rebecca aveva le mani sudate mentre le porte dell’ascensore si
aprivano su un angusto corridoio male illuminato. Non era certo lo
sfavillante ambiente aziendale che si era aspettata. Ma, ehi, poiché
l’azienda offriva un posto di lavoro con un vero stipendio, non poteva
permettersi di sindacare sull’arredamento.
Trovò con relativa facilità la stanza 402. Accanto alla porta c’era
una targa che recitava “Kattenberger Technologies”. Solo che –
aspettate un attimo – era composta interamente da mattoncini Lego.
Rebecca sorrise per la prima volta da una settimana. Quindi aprì
la porta.
All’interno, l’ufficio era composto da un’unica grande stanza. Non
c’erano nemmeno vere postazioni: solo scrivanie appoggiate alle
pareti e rivolte verso il centro della stanza. Un terzo dello spazio era
stato occupato da un malconcio tavolo da ping-pong con un evidente
squarcio sulla superficie. Due atletici ragazzi in jeans e maglietta
erano impegnati in un avvincente campionato delle 10:30 di quella
mattina.
C’erano altri tre uomini nella stanza, che digitavano furiosamente
sulle tastiere dei rispettivi computer. Sembravano ignari dell’accanita
partita di ping-pong, ma anche della presenza di Rebecca.
Boing-boing, Boing-boing, Boing-boing, rimbalzava la pallina.
Lo sguardo di Rebecca vagò per l’ufficio e si soffermò su un poster
di hockey attaccato al muro con lo scotch. La parete dal lato opposto
era blu e su di essa erano stati dipinti tre fumetti. Le citazioni
riportate erano bizzarre. Una declamava: “Nate bit a tibetan”. Nate
aveva morso un tibetano?
Un po’ inquietante, dal momento che era lì proprio per incontrare
qualcuno di nome Nate Kattenberger. Forse era una fortuna non
essere tibetana?
Un’altra riportava: “Eterni in rete”. Forse è un codice di
programmazione? Dopotutto la Kattenberger Technologies era una
società di software. Almeno così le aveva detto Harry, il vecchio
amico di suo padre, quando l’aveva raccomandata per quel lavoro.
Harry era il responsabile della struttura e aveva chiesto loro la
possibilità di fissarle un colloquio.
Restò accanto alla porta, nella speranza che qualcuno notasse il
suo arrivo. Ma nessuna testa si staccò da quei monitor giganteschi.
Le apparecchiature informatiche erano gli unici elementi nella stanza
ad avere un aspetto nuovo e costoso. Tutto il resto appariva di
seconda mano. Quindi, o la società era nuovissima oppure fatturava
molto poco.
Fa’ che sia la prima, pregò Rebecca. Non che l’universo la
ascoltasse molto, ultimamente.
Lo scambio a ping-pong più lungo del mondo terminò quando la
pallina colpì lo squarcio sul piano e rimbalzò in modo imprevedibile
sulla fronte di uno dei giocatori. «Cazzo!» esclamò quello.
«Cambio!» gridò l’altro, ridendo. Girarono in senso antiorario
intorno al tavolo, una manovra così consolidata da indurre a pensare
che avvenisse almeno cinquanta volte al giorno.
Solo allora uno dei due notò finalmente Rebecca e la salutò con la
racchettina. «Su la testa, Nate! Hai visite» annunciò, rivolgendosi a
uno dei due ragazzi al computer.
Nate era di schiena. Rebecca lo guardò, senza tuttavia percepire
alcuna reazione da parte sua.
Il giocatore di ping-pong, allora, appoggiò la racchetta e la pallina
sul tavolo e si avvicinò a Nate, che aveva ancora la testa protesa in
avanti per la concentrazione. «Amico, c’è una persona per te.»
Nate sollevò una mano dalla tastiera, tenendo il dito indice in su,
nel segno universalmente noto con cui si chiede di attendere un
minuto. L’altra mano continuava a scrivere furiosamente.
L’attesa si protrasse abbastanza da lasciare a Rebecca il tempo
per accumulare ancora un po’ di panico.
E se Nate aveva già scartato il suo misero curriculum? E se Harry
si era sbagliato e quei ragazzi non stavano affatto cercando
un’assistente di segreteria? E se Nate non si era nemmeno
aspettato il suo arrivo? E se non avesse più smesso di scrivere?
Avrebbe dovuto andarsene da sola dopo un po’? Respira, si
incoraggiò Rebecca. Erano persone normalissime. Non avevano
alcun potere su di lei. Se non avesse ottenuto il lavoro, ne avrebbe
trovato un altro.
Era una ragazza piena di risorse.
Proprio quando Rebecca decise di annullare l’intero colloquio,
Nate si appoggiò allo schienale e portò entrambe le mani dietro la
testa. Rebecca probabilmente non avrebbe dovuto notare che aveva
delle belle braccia per essere un programmatore. Era snello, ma con
bicipiti ben definiti che sbucavano dalla maglietta. E aveva dita
lunghe, da pianista.
«Merda» esclamò il giocatore di ping-pong. Ma non erano state le
braccia di Nate ad affascinarlo. Si avvicinò di più allo schermo. «Hai
appena scritto un algoritmo più breve per determinare la gamma del
nostro... Merda! Mitico.»
Nate gli picchiettò il petto. «Ti ho appena risparmiato circa tre
giorni di programmazione. Che ne dici di andare a comprare il
pranzo? È il tuo turno, in ogni caso.»
«Va bene. Ma sappi che sono in vena di cinese. E adesso saluta
la tua ospite, bastardo maleducato.»
Nate ruotò la testa verso la nostra ragazza.
Era ora. Rebecca rilevò dapprima un paio di occhi intelligenti. Le
passarono addosso, ma non in modo sensuale. Non la stava
spogliando con gli occhi, la stava valutando. Inoltre, era più giovane
di quanto Rebecca si fosse aspettata. Tra i venti e i trenta. Carino,
anche. Aveva il viso spigoloso, che però gli donava. Gli zigomi
prominenti erano ammorbiditi da una bocca carnosa e mossi capelli
castani.
Aveva gli occhi grandi di un’intrigante tonalità marrone chiaro.
Nate batté le palpebre una volta, quindi si alzò dalla sedia con grazia
inattesa.
«Aspetta, tu sei...» Fece una pausa per cercare un appunto tra i
fogli sulla sua scrivania, provocando la caduta di un paio di
documenti.
«... Rebecca Rowley» intervenne l’altro ragazzo, il giocatore di
ping-pong. Si allungò a raccogliere un foglio dal pavimento. «Ecco il
suo curriculum.»
Grazie, Gesù bambino.
«Molto piacere» esordì Rebecca, andandogli incontro per
stringergli la mano. «So che state cercando una office manager.»
Nate le strinse la mano, poi si guardò intorno come se vedesse la
stanza per la prima volta. Trasalì. «Non ci occupiamo granché della
gestione aziendale. Immagino sia ora.»
«Lo è già da un po’» commentò il suo collega. Le strinse la mano
anche lui. «Sono Stew. Sei quella che ci ha mandato Harry, giusto?»
«Giusto.»
«Bene, bene.» Diede un colpetto a Nate. «Falle il colloquio. Dieci
minuti. Ci serve.»
Gli occhi di Nate deviarono sul monitor del suo computer, e
Rebecca quasi percepì l’attrazione che l’inconscio di Nate ne subiva.
Nel giro di qualche settimana, avrebbe scoperto che Nate era
veramente speciale. Un genio, davvero. Entro un anno sarebbe
entrato in affari con tutti i produttori di dispositivi mobili del mondo.
Rebecca avrebbe scoperto che trovarsi di fronte a un giovane Nate
Kattenberger sarebbe stato come assistere allo sviluppo della storia
della tecnologia moderna. Quel giorno, però, era troppo presto per
dirlo. Era solo una ragazza che aveva bisogno di un lavoro. Non le
importava nemmeno che si fosse laureato magna cum laude
all’Harkness College o che dopo solo un paio di mesi si sarebbe
aggiudicato il suo primo contratto milionario.
«Adesso ti troviamo una sedia» annunciò distrattamente lui. Si
diresse verso una scrivania vuota su cui erano accatastati vecchi
cartoni di pizza. Li gettò dentro un cestino strapieno.
Qualcuno dovrebbe svuotarlo, pensò Rebecca. Hanno almeno
un’impresa di pulizia serale?
«Accomodati» la invitò Nate, indicando la sedia da ufficio che
aveva accostato alla scrivania ora sgombra. Poi andò ad appollaiarsi
sull’angolo di quella stessa scrivania. «Siamo in sette. Stewie
gestisce la parte economica. L’ufficio in sé, però, è una specie di
terra di nessuno. Non tutte le telefonate ricevono risposta. La gente
va e viene. I documenti sono un disastro.»
Rebecca annuì, chiedendosi se era il caso di sapere di cosa si
occupasse esattamente quella piccola azienda.
«Lavoriamo tutti almeno quaranta ore in ufficio, ma non in
contemporanea. L’orario è flessibile» proseguì Nate, e i suoi grandi
occhi castani non lasciarono mai il suo viso. «Qual è la tua
disponibilità? Probabilmente mi hai inviato una lettera di
presentazione con il curriculum, ma...» scrollò le spalle, mostrando
almeno la decenza di essere imbarazzato.
«Tempo pieno» si affrettò a rispondere Rebecca. «Posso
accettare qualsiasi orario. E sono disponibile da subito.» Sapeva di
apparire disperata.
«Fantastico» commentò lui, rivolgendole un sorriso. Le fossette la
colsero di sorpresa. Quindi lui lanciò di nuovo un’occhiata al suo
curriculum. «Se posso chiedere...» si schiarì la gola. «Come mai sei
disponibile da subito? Da quanto leggo, fino al mese scorso
frequentavi l’università.»
«Giusto» rispose lei a bassa voce. «Mio padre è morto due mesi
fa. Quindi ora per me è più importante cominciare a lavorare.»
«Ah.» Si schiarì la gola. «Mi dispiace molto.»
Con un tempismo terribile gli occhi di Rebecca bruciarono. Non
piangerai durante un colloquio! Avrebbe voluto darsi uno schiaffo.
«Grazie, ma sto bene e sono pronta a lavorare. Il disordine di questo
ufficio non mi spaventa, signore.» Forzò un sorriso, sperando che la
schiettezza si rivelasse l’approccio giusto con Nate. Il suo istinto le
suggeriva di sì.
E Nate Kattenberger la premiò con un altro rapido sorriso. Quelle
fossette! «Abbiamo sicuramente bisogno di una mano. Non è un
ambiente molto strutturato, ma forse potresti lavorarci su.»
Fu allora che lei notò il disegno sulla maglietta. Nove ragazze
erano impegnate in una piramide, ma non si trattava di cheerleader,
bensì di gattini. La didascalia recitava “Stack Cats”, piramide di gatti.
«Oh!» trasalì. Girò il capo per tornare a quegli strani fumetti sul
muro. “È Nate: bit e tibetane”. Ogni frase si poteva leggere in
entrambi i sensi. «Sono tutti palindromi. Anche la tua maglietta.»
Nate sgranò gli occhi. «Che occhio. I palindromi sono il mio forte.
Il murale l’ha realizzato la mia fidanzata. Tu ti occupi di
programmazione?» domandò, speranzoso.
«No, mi spiace.» Magari. «Ma i palindromi esistono da secoli.
Perfino nell’antica Grecia. La letteratura è il mio forte.» Era il suo
forte.
«Letteratura, eh?» Nate inarcò un sopracciglio.
«Esatto. Seguivo il corso di laurea in letterature comparate.»
Anche se aveva frequentato solo due anni e mezzo di college e
aveva superato ogni semestre con risultati meno proficui di quello
precedente. Rebecca amava il modo in cui la facevano sentire i suoi
romanzi preferiti di Jane Austen e delle sorelle Brontë. Purtroppo,
però, la letteratura comparata riguardava più analisi sfiancanti che
sentimenti.
Già prima che suo padre morisse, si era trovata in difficoltà e
aveva avuto paura di non avere sufficiente entusiasmo per il corso
scelto. Non aveva avuto intenzione di lasciare gli studi ma, da una
parte, era un sollievo non dover dissezionare un altro sonetto in quel
momento della sua vita.
«Cos’altro dovrei sapere di te?» chiese Nate.
«Lavoro sodo» rispose, rapida. «Avevo una media quasi
perfetta...»
«In quale materia non raggiungevi il massimo?»
Ovviamente si concentrò su quello. «Biologia. A mia discolpa,
però, nella descrizione del corso non si accennava minimamente alla
dissezione di un occhio di maiale.»
Nate accennò un sorrisetto, un’espressione che in futuro le
sarebbe diventata familiare. «Sono, ehm, molto affidabile. Ho una
lista di referenze...» Frugò nella cartellina che aveva portato con sé
e ne estrasse l’elenco di nomi di insegnanti e datori di lavoro estivi
che, lungo il tragitto per il colloquio, aveva stampato nella filiale di
Mid-Manhattan della biblioteca pubblica.
Nate prese il foglio senza neanche guardarlo. «Hai domande da
farmi?»
Da dove cominciare? «Di cosa si occupa la tua assistente
principalmente?»
Nate incrociò le sue braccia deliziose. «Non ho mai avuto
un’assistente prima d’ora. Quindi lo capiremo in corsa. Ma ci stiamo
preparando per una grande fiera a marzo. Dovremo pensare a
locandine e altre stronzate. Abbiamo bisogno di una tabella di
marcia e di un nuovo sito web aziendale. Dobbiamo assumere
un’agenzia pubblicitaria. Tutte cose che ci porterebbero via un
mucchio di tempo...»
A quel punto Nate distolse lo sguardo e lo fissò nel vuoto. Il panico
travolse Rebecca. Lo stava perdendo. «Mi sembra tutto fattibile»
commentò. «Potrei aiutarvi nell’organizzazione di quei progetti.
Tenere traccia di tutto.»
Nate si voltò di nuovo verso di lei. «Scusami. A volte mi distraggo,
quando le persone parlano.» Il che, nel tempo, si sarebbe rivelato
vero, ma Rebecca avrebbe scoperto anche che non era così irritante
come sembrava. Perché, di contro, quando era pronto a rivolgerti
tutta la sua attenzione, non c’era niente di meglio. «Ma ho sempre
tempo per mia madre e la mia fidanzata» stava dicendo. «Si chiama
Juliet. La mia fidanzata, cioè. Mia madre si chiama Linda. Se
chiamano loro, è sempre importante. Tutti gli altri possono
aspettare.»
Quando sorrise di nuovo, Rebecca avvertì uno sfarfallio nel petto.
Su, su, si ammonì. Quest’uomo delizioso è fidanzato e tu hai
bisogno del lavoro.
Stew si avvicinò e poggiò la mano sulla spalla di Nate. «Come va
qui? Stai già facendo programmi?»
«Così pare» rispose Nate. «Stavo giusto dicendo a...» Si bloccò.
Aveva dimenticato il suo nome.
«Rebecca» precisarono lei e Stew allo stesso tempo.
«...tutto quello che c’è da fare» concluse Nate senza scusarsi.
«Per esempio, paghiamo il pranzo a turno perché è l’unico modo per
ricordarci di mangiare. Qualcuno dovrebbe formalizzare la rotazione.
In qualche modo tocca sempre a me. Ma...,» alzò il tono di voce, «se
finissimo quella cazzo di beta della versione tre entro il mese
prossimo, offrirò il pranzo ogni giorno per due settimane.»
Dal tavolo da ping-pong si udirono festeggiamenti, ma i giocatori
non interruppero comunque la partita.
Nate batté le mani. «Okay, Rebecca. Puoi iniziare quando vuoi.
Probabilmente ci sono dei moduli che dovrai compilare. Stewie
saprà indicarteli.»
«Moduli di impiego?» Il cervello arrancò, cercando di tenere il
passo. «W-4? E I-9?» L’aveva davvero assunta? Sul serio?
«Esatto.» Si alzò. «Roba buona. Stew? Puoi occupartene?»
Stava per andarsene, Rebecca lo capì.
Ma non importava. Il suo disinteresse in un colloquio approfondito
giocava a suo favore.
«Amico,» lo riprese Stew, guidandolo lontano da lei, «aspetta. Ci
sono alcuni dettagli che non hai considerato.»
Merda. La nostra ragazza trattenne il respiro.
«Lo stipendio» mormorò Stew, e Nate borbottò qualcosa in
risposta. Stew annuì. «E per l’opzione di capitale azionario?»
Nate arricciò il naso. «Nah. Per il personale amministrativo no.»
Come vi pare, pensò Rebecca. Non sapeva neanche bene cosa
fosse l’opzione di capitale azionario, quello di cui aveva bisogno in
quel momento era una vera busta paga, comunque.
I due tornarono a girarsi verso di lei dopo un minuto. Nate le
rivolse un altro rapido sorriso. «Va bene. Devo tornare al lavoro. Ma
il tuo primo incarico è ordinarti un computer. Matty ti darà il contatto
del nostro fornitore.» Fece un gesto distratto verso uno dei giocatori
di ping-pong. «E compila quei moduli. Benvenuta a bordo, Rebecca
Rowley.»
3

22 aprile, Brooklyn

Mentre mi avvicino alla porta dello spogliatoio, avverto il mormorio


all’interno. Il telefono di qualcuno sta squillando con una melodia hip-
hop, quindi, per sovrastare la musica e farsi sentire, i giocatori della
mia squadra di hockey urlano le loro battute.
«Per quanto mi riguarda, non vado oltre» brontola al mio fianco
Lauren, la mia assistente. Si ferma in corridoio a una decina di passi
dalla porta, incrociando le braccia sul suo abito firmato e
lanciandomi uno sguardo incazzato. Giusto in caso mi fosse sfuggito
che la struttura in cui si allenano i Brooklyn Bruisers sia l’ultimo
posto del pianeta in cui vorrebbe trovarsi.
«Per me va bene» dichiaro in tono leggero. «Mi fermerò solo un
paio di minuti.»
Finge di spararmi con le dita. Vedi di sbrigarti.
Le strizzo l’occhio e il suo broncio aumenta. Quindi apro la porta
dello spogliatoio e la lascio fuori a cuocere nel suo brodo.
In pochi secondi le chiacchiere e la musica si interrompono. Uno
dopo l’altro, due dozzine dei più talentuosi giocatori di hockey del
mondo restano in religioso silenzio, prestandomi tutta la loro
attenzione. Non è un colpo basso? Questo genio della matematica
del Midwest possiede una squadra di hockey, che ha riportato un
punteggio di 2 a 2 nel primo turno dei playoff.
Lascio che quel silenzio si prolunghi mentre cammino lentamente
sul tappeto di quello spazio ovale. Arrivo in prossimità del logo dei
Brooklyn Bruisers al centro del tappeto – ma senza calpestarlo
perché i miei giocatori sono superstiziosi. Abbasso lo sguardo sulle
due B viola e sorrido. Gli esperti sostenevano che era impossibile,
che non sarei riuscito ribaltare le sorti della squadra. C’erano
problemi con gli allenatori, ritardi nei pagamenti dei salari e le
vendite dei biglietti colavano a picco. Ora non più.
Rialzo lo sguardo e osservo i giocatori uno per uno e tutti mi
guardano negli occhi. Hanno i capelli bagnati perché sono appena
usciti dalla doccia, necessaria dopo aver ricevuto il loro mattutino
calcio in culo da parte del mio allenatore. Ma trasudano potenza.
Sono pronti. Beacon, il mio portiere, è appoggiato al muro, in forma
e sicuro di sé. O’Doul, il mio capitano, appare forte e vivace.
«Ragazzi» sorrido, perché non posso farne a meno. «State
spaccando e ne sono veramente colpito.»
Quel complimento riscuote più di un sorriso.
«Non starò qui a dirvi quanto contano le prossime tre partite,
perché lo sapete già. Sono un tipo presuntuoso, ma non così
arrogante da insegnarvi come giocare a hockey. Questo è compito
del vostro allenatore.»
I sorrisi si fanno più ampi.
«Una cosa ve la dico, però: domani scenderete sul campo
avversario. Affronterete una squadra che ha le statistiche migliori
dell’intera divisione. Sono sicuri di potervi buttare fuori dai playoff
nelle prossime due partite. E con i loro ventimila fan che vi urleranno
contro allo stadio potreste avere la tentazione di crederci. Ma non lo
farete.»
Prendo fiato in quel silenzio assoluto. Ci troviamo nella struttura
per l’allenamento di prima classe che ho costruito per questa
squadra subito fuori il Brooklyn Navy Yards. I miei giocatori possono
contare su una pista all’avanguardia e sulla migliore assistenza
medica che il denaro possa comprare. Ma non è per questo che si
sono qualificati ai playoff. E voglio assicurarmi che lo sappiano.
«Avete già battuto i DC tre volte in questa stagione, e tutto perché
ci avete creduto. È la fiducia a fare la differenza tra vincitori e vinti in
ogni gara. Io non sono capace di fare ciò che fate voi. Il mio slapshot
è molto meno impressionante del vostro. Ma ho una lunga
esperienza di gente che mi diceva che non sarei mai riuscito a
realizzare il cazzo che volevo.»
Trevi, il mio novellino in prima fila, annuisce, mentre il suo amico
Castro mi fissa, serio. A dispetto delle apparenze, questi uomini
sanno bene quanto ci assomigliamo. Abbiamo tutti dedicato migliaia
di ore di tempo al nostro mestiere.
«Ci sono ragazzi molto più brillanti di me ancora impiegati in lavori
noiosi a Cupertino o Palo Alto. Hanno il cervello, ma non il coraggio
di rischiare tutto per le proprie idee. Incontro in continuazione
ragazzi così. Li assumo per lavorare sessanta ore a settimana per
me. In cambio di un ottimo stipendio e benefit. Ma non potranno mai
dire “Sono arrivato fin qui da solo”.
C’è un tale silenzio che riesco a sentire i miei giocatori respirare.
«Ma voi non siete quei ragazzi. Voi siete quelli del “Lo faccio. Non
mi importa se le statistiche suggeriscono che Brooklyn non potrebbe
mai battere DC. Non mi importa se la loro prima linea pattina
insieme da quando io portavo ancora il pannolino. Non conta niente
di tutto questo, perché io sono qui per cambiare le regole”.»
Riporto lo sguardo sul logo del tappeto. Questo figlio di puttana
verrà di nuovo schiaffato in faccia alla gente da tutte le televisioni
domani sera. E sostenevano che era impossibile. Quando rialzo la
testa, tutti gli occhi sono ancora puntati su di me.
«Chiedetevelo: perché non io? Perché non adesso? Se non ora,
quando? Andate a prendervelo, ragazzi. Non perché qualche
commentatore vi abbia dato il permesso. Ma perché sapete di
poterlo fare.»
«Cazzo, sì!» A quell’esclamazione di Beacon, scoppia un boato.
Piedi che battono e fischi. Una stanza piena di milionari applaude un
miliardario.
Ho formato un bizzarro piccolo club qui. Ed è meraviglioso, cazzo.
Detto ciò, mi giro e lascio la stanza. Lauren è in piedi nel corridoio
e sembra sulle spine. «Molto motivante, capo.»
«Grazie.»
Si gira verso l’uscita e comincia subito a parlare. «La macchina ti
sta aspettando per portarti a Manhattan. Incontro con gli ingegneri a
mezzogiorno. Pranzo all’una. Ragionieri alle due. E devi chiamare
Alex.»
L’ho già esclusa, però, perché il mio prossimo punto nella scaletta
di oggi è una cosa che Lauren non sa. Passo in rassegna il corridoio
davanti a noi, ma è vuoto. Dov’è? Rebecca non è mai in ritardo.
Lauren è già molto più avanti di me in corridoio. Impaziente, gira
sui suoi tacchi a spillo di marca. Tic, tic, tic. Quasi mi spinge verso il
corridoio che collega la struttura al palazzo in cui ci sono gli uffici dei
Bruisers. Il suo obiettivo è uscire da qui prima che i giocatori lascino
lo spogliatoio. Prima che compaia il suo ex.
Sia io che lei abbiamo motivazioni personali che ci spingono in
direzioni diverse, ma io sono il capo, quindi sarà lei ad adattarsi. Non
sono un bastardo senza cuore, però, così la porto in un’area riparata
accanto alla pista. Aggrotta la fronte perché è nella direzione
sbagliata, ma non discute.
«Scusa, chi dovevo chiamare?» chiedo, guardando il corridoio
opposto.
Rebecca dovrà passare di qui per andare dal suo ufficio a quello
del dottor Herberts. Le ho fissato un appuntamento per un consulto
con il medico della squadra, perché non è ancora rientrata al lavoro.
Sono passate tre settimane. E non mi torna.
Non è da Rebecca.
«Nate!» Lauren mi schiocca le dita davanti agli occhi.
«Scusa, cosa c’è?»
«Non farmi domande, se poi ti assenti. Devi chiamare Alex. Vuole
appianare alcuni dettagli dell’ultimo minuto sulla serata di
beneficenza.»
Ogni volta che sento le parole “dettagli” e “festa” nella stessa
frase, calo i paraorecchie. «Non c’è gente già pagata per occuparsi
di quelle stronzate?»
Lauren alza gli occhi al cielo, come se stesse pregando per
raccogliere un po’ di pazienza. «Sì. Alex vuole solo controllare i tuoi
impegni. Ha accennato a un incontro privato per un drink prima che
inizi l’evento»
«Mmm. E ti ha detto anche il motivo?»
«Accidenti, Nate!» Lauren sta per esplodere. «Forse perché siete
amici dai tempi delle sbronze al college? Non gliel’ho chiesto. Lei
non lo ha riferito. C’è qualche motivo per cui non vuoi incontrarla?
Se così fosse, è una strana scelta quella di organizzare un party con
lei.»
I miei occhi tornano a scrutare il passaggio. Ancora niente
Rebecca.
«Beh, ma...» riporto l’attenzione su Lauren, perché il suo
misuratore di cazzate è sensibilissimo e non voglio dovermi
giustificare. «Il tempismo è imbarazzante perché i miei consulenti
per gli investimenti stanno discutendo con uno dei concorrenti di
Alex circa la mia divisione di router.»
Lauren è una donna davvero intelligente e posso quasi vedere le
sinapsi accendersi dietro i suoi acuti occhi blu. «Ah. Quindi ti serve
che l’offerta di Alex sia la seconda per la business unit, non la
prima.»
«Esatto.»
«Quindi, ti dichiaro non disponibile per il drink?» Si morde il
labbro. «È sospetto, però. E se il tuo volo ritardasse, rischieresti di
perdere la tua stessa serata di beneficenza.»
«No, tutto a posto. Organizza. Posso sopravvivere un’ora da solo
con lei. Se vuole parlare di acquisti, le dirò che non sono ancora
pronto a considerarlo.»
«Va bene. Oppure, ecco un’idea pulita, potresti andarci
accompagnato.» Lauren si stringe nelle spalle. «Alex non parlerà di
fusioni e acquisizioni alla presenza di sconosciuti.»
«Idea interessante, signora Furbizia. Interessante.»
Sorride. Lauren e io andiamo molto d’accordo, da sempre.
Quando l’ho assunta per aiutarmi nell’ufficio di Manhattan, ho scelto
bene. Tempo un secondo, però, e mi dimentico di lei. Perché vedo
Rebecca attraversare il centro di allenamento. Finalmente. E mentre
la guardo avvicinarsi, escludo tutto il resto.
A prima vista sembra stare bene. Più che bene. Indossa una
gonna corta che mostra due gambe che non dovrei notare e
un’accattivante giacca arancione acceso.
Ma c’è qualcosa che non va. Ha un’andatura leggermente curvata
in avanti. Sembra oppressa. Becca non cammina così. Incede ogni
volta a testa alta e spalle dritte. È solo un metro e sessanta, ma
appare sempre pronta a placcare il mondo.
«Cristo santo, Nate! Ti ho fatto una domanda.»
Alla fine giro la testa verso Lauren. «Scusa, non ho sentito cos’hai
detto.»
«Grazie per averlo ammesso» commenta, gelida. «È una novità.»
Non è del tutto vero. So di essere una spina nel culo. Ne abbiamo
convenuto più di una volta. «Sono un po’ distratto, oggi. Non riesco a
smettere di pensare alla partita di domani sera.» In parte è vero, ma
non è la reale ragione della mia distrazione di stamattina. Di certo,
però, non posso confessarlo a Lauren.
Rebecca scompare dalla mia vista mentre prosegue verso l’ufficio
del dottor Herberts. E continuo a fissare il punto vuoto in cui si
trovava un secondo fa. In sette anni, Rebecca non è mai stata
assente dal lavoro per più di due giorni per malattia. Il fatto che sia
ancora fuori dai giochi mi infastidisce. Tanto. Non me lo so nemmeno
spiegare.
Un foglio accartocciato del blocchetto di Lauren mi colpisce in
testa. È così che capisco di aver perso il filo ancora una volta.
«Quando fai così, di solito mi alzo, me ne vado e riprovo più tardi»
inizia Lauren. «Ma devi essere a Manhattan per la riunione con gli
ingegneri a mezzogiorno. E sono già le 11:15. Se non finiamo, farai
tardi.»
Ah. «Nessun problema, allora. Ho spostato la riunione alle due.»
Un lampo di incredulità accende il viso di Lauren, subito seguito
da uno di irritazione. «Se è così, perché il calendario riporta ancora
mezzogiorno?»
Bella domanda. «Forse mi sono dimenticato di metterti in copia
conoscenza?» Oh-oh...
Lauren si protende in avanti fino a toccare la parete lì accanto con
la fronte. E poi comincia a sbatterla più volte contro la copertura di
legno.
«Ehi, dacci un taglio. Abbiamo già abbastanza commozioni
cerebrali da queste parti.»
Quando rialza la testa, il suo viso è il ritratto della
disapprovazione. «Ma ti ho appena fissato una conference call alle
due! E quando te l’ho detto, non più di tre minuti fa, mentre fissavi il
corridoio, hai grugnito come se andasse bene! Invece, non va bene
per niente. Ora devo tornare indietro e contattare l’ufficio finanziario
per comunicare che dobbiamo riprogrammare la call per la terza
volta in tre giorni!»
«Scusa, scusa.» Alzo le mani in segno di resa. «Mi offrirei di fare
harakiri per convincerti delle mie sincere scuse, se non fosse che,
così facendo, dovresti riprogrammare un sacco di altra roba.»
Lo sguardo infuriato di Lauren potrebbe essere brevettato e
venduto come armamento per l’esercito. Ecco perché buona parte
dei dirigenti a Manhattan è terrorizzata da lei. «Dimmi solo questo:
perché hai posticipato alle due la riunione con gli ingegneri?»
Non ho una bugia pronta, quindi quella che esce è alquanto
debole. «Gara 5 potrebbe rappresentare una vera svolta per noi,
così volevo assistere all’allenamento di stamattina.» Quello che è
finito mezz’ora fa.
Lauren mi guarda fisso.
È probabile che sappia benissimo perché mi sto trattenendo a
Brooklyn e che stia solo giocando al gatto e topo in attesa di
avventarglisi addosso e ucciderlo. Oppure sta sperimentando una
nuova tecnica di intimidazione che insegnano alla scuola di ninja-
business che frequenta lei. All’improvviso, batte le palpebre e il viso
si addolcisce. «Nate, stai bene?»
Quel cambio di approccio mi sorprende. Potrebbe anche essere
una trappola. «Certo. Perché?»
Lauren sospira e lascia cadere il discorso. Faccio sospirare di
continuo le donne, ma non sempre in modo positivo.
«Basta parlare di me» taglio corto. «Come stai affrontando questa
situazione?»
«Per “situazione”,» fa il segno delle virgolette con le dita, «intendi
il fatto che mi stai costringendo a viaggiare con i giocatori di hockey?
Cosa che odio?»
«O che dichiari di odiare.» Sono pronto a vedermi lanciare
addosso una grandinata di prodotti da ufficio, invece si limita a
guardarmi in cagnesco.
Alcuni giocatori stanno uscendo alla spicciolata dagli spogliatoi.
Imboccano il corridoio lì accanto, diretti all’uscita. E ora tocca a
Lauren essere distratta. Si sposta, in realtà, quindi è parzialmente
nascosta dietro di me. Ecco la misura in cui non vuole interagire con
il mio portiere.
«Va’ di sopra» le suggerisco. «Ti prometto che troverò la strada e
sarò a Manhattan alle due in punto.» Accenno con la testa alla porta.
«Esci da qui. So che vuoi farlo.»
«Alza la mano destra.» Lo faccio solo per darle spago.
«Giuro solennemente che non farò riprogrammare più niente a
Lauren per il resto della settimana.»
«Della settimana? Andiamo...» Abbasso la mano. «Chiedi alla mia
macchina di aspettare, okay? Faccio presto.»
«Sarà meglio per te» minaccia. Poi sbircia alle mie spalle, vede
che la via è libera e si prepara a uscire, mentre io ridacchio. Si gira
un attimo prima di raggiungere una doppia porta. «Salutami
Rebecca» dice. E quando la guardo in faccia, il suo sorriso è
eloquente.
Beccato di brutto. «Ah…» Cazzo. Lauren mi ha scoperto. Ma è
una donna sveglia. Non so perché la malattia di Rebecca mi abbia
frantumato il cervello, ma se il dottor Herberts riesce a darle una
mano, forse la mia distrazione tornerà ai livelli normali.
Lauren cammina all’indietro verso l’uscita. «Se il dottor Herberts
autorizza Becca a tornare al lavoro, voglio essere la prima a
saperlo.»
«Contaci» le assicuro.
«Salterò sulla prima metropolitana per Manhattan.»
«Ci credo.»
«Ti odio» esclama, spingendo le porte.
«Non è vero.»
Alza il dito medio al di sopra della spalla, ottenendo così l’ultima
parola. Ovviamente. Le donne nella mia vita sono feroci. Tutte
quante.
Sono un uomo molto fortunato.
Esco dalla rientranza del corridoio e un paio di giocatori che
stanno andando a pranzo mi salutano. Quindi supero la pista e la
zona degli spogliatoi e mi dirigo lungo il corridoio che ospita gli uffici
dei preparatori atletici. La stanza del medico di squadra è in fondo e,
quando la raggiungo, la trovo chiusa. Un colpetto alla porta
interrompe il mormorio all’interno. «Avanti» risponde il dottore.
Quando apro la porta, sia il medico che Rebecca mi guardano. Poi
Rebecca abbassa gli occhi in grembo e provo un’ondata di disagio.
Perché sembra così tesa? «Novità?» chiedo nel silenzio.
Il dottor Herberts si schiarisce la gola. «Poiché Rebecca non è un
membro della squadra, gode del privilegio della riservatezza medico-
paziente. Non posso discutere il suo caso senza il suo permesso. E
dal momento che sei il suo capo, potrebbe sentirsi sotto pressione
per...»
Lei lo guarda. «È tutto a posto. Non ho nessun problema, se Nate
ascolta.»
È più che un invito per me. Entro subito, richiudendomi la porta
alle spalle. Le siedo accanto e aspetto che il medico prenda la
parola.
Il dottor Herberts mi studia con un sorrisetto che gioca agli angoli
della sua bocca. «Bene. Rebecca è ancora convalescente. Non ha
recuperato del tutto l’equilibrio e il rumore la infastidisce. Si stanca
facilmente e lo sforzo fisico le provoca nausea.»
Cacchio. Azzardo un’occhiata verso di lei, ma non mi guarda. Si
comporta in un modo che non le appartiene. La sua espressione mi
gela dentro.
«Detto questo, ha superato tutti i test cognitivi. La memoria è
solida. Il pensiero chiaro. Si sente spesso frustrata, ma potrebbe non
essere un sintomo clinico, quanto piuttosto una normale reazione a
una situazione stressante. In breve, da come si presenta, il trauma
cranico potrebbe non essere una classica commozione cerebrale.»
Gesù. «Allora che cos’è?»
Il dottore giocherella per un po’ con la penna stilografica prima di
rispondere. «Vorrei farla visitare da uno specialista a Manhattan. È a
lui che mandiamo i casi più seri.»
«Okay» rispondo subito, come se dovessi decidere io. «Chi è?»
«Il dottor Evan Armitage. È un neurologo specializzato in terapia
post-commozione cerebrale e vestibolare. E uno che ama un bel
grattacapo. Sono certo che possa capire qual è il problema di
Rebecca. Purtroppo ha una agenda fitta. Potrebbe essere difficile
ottenere un appuntamento.»
Tiro fuori il telefono e mi metto a cercare il suo nome prima ancora
che il dottor Herberts finisca la frase.
«Se Armitage non può vederti, ho un paio di altri medici da
contattare. Nel frattempo, vorrei che riposassi un po’ di più,
signorina. È difficile per il cervello recuperare senza una buona dose
di riposo.»
«Va bene» si affretta a rispondere Rebecca. «Abbiamo finito per
ora? Chiamerò il dottor Armitage nel pomeriggio.»
«Abbiamo finito quando vorrai tu» le risponde gentilmente il
medico.
Becca si alza in piedi. «Grazie mille per la consulenza.»
«È stato un piacere. Chiamami quando vuoi. Giorno o notte.»
Mi alzo anch’io perché Becca sembra pronta a filare via. «Già
scappi?» chiedo. «Hai un minuto per me?»
«Certo» acconsente, ma deglutisce subito dopo avermi risposto.
Come se non morisse dalla voglia di passare qualche minuto in più
in mia compagnia.
Sempre peggio. Mi sta spaventando, e l’ho vista solo una volta
nelle ultime tre settimane, che deve essere un record. Ringrazio il
dottor Herberts e poi la seguo nel corridoio. Camminiamo fianco a
fianco, ma Rebecca tace. Tiene le braccia incrociate ed è chiusa in
se stessa.
Lo detesto.
Raggiungiamo il tunnel che porta al palazzo degli uffici. Le tengo
aperta la porta e Rebecca mi passa avanti. Il sole batte sulla parete
vetrata e i raggi rimbalzano su tutte le superfici, facendole luccicare
come gioielli. La rampa sotto i nostri piedi è così luminosa da
somigliare alla via per il paradiso.
Rebecca rallenta il passo. Poi ondeggia di lato e io scatto prima
ancora di capire cosa stia succedendo. La prendo per il gomito e la
blocco contro di me, la sua schiena contro il mio petto.
«Merda!» esclama in tono acuto, allungando una mano per
appoggiarsi alla parete di vetro.
Si rimette in piedi e addrizza la schiena, ma continuo a sostenerla
finché non si allontana dalla mia presa. «Ehi, prenditi un minuto,
okay? Cos’è stato?»
«Niente» sospira. «Un capogiro. C’è troppa luce.»
Capogiro. È un sintomo della commozione cerebrale? Ecco di
nuovo il formicolio di disagio che ho provato nello studio medico. Le
cingo le spalle con un braccio. «Andiamo.»
Non gradisce l’aiuto, ma non le lascio altra scelta. E dal momento
che la sostengo, procediamo lungo il tunnel assolato senza ulteriori
drammi. Arriviamo in cima e, in confronto, l’atrio risulta piuttosto
buio. L’interno di mattoni è rischiarato solo dagli infissi vintage in
nichel e vetro appesi al soffitto. C’è un salottino qui, anche se
nessuno lo usa mai. Accompagno Rebecca verso una panca
imbottita e poi mi siedo accanto a lei. «Meglio?» mi informo.
«Sì.» Batte a lungo le ciglia. «Adesso sto bene.»
«Col cavolo che stai bene» mi esce in tono più duro di quanto
intendessi. «Adesso ti accompagno a casa.»
Guarda la porta. «Ora vado.»
«Ho la macchina.» Prendo il telefono dalla tasca. «Lascia che gli
dica di venire qui.»
«Gesù. Sono due isolati, Nate. Sto bene.»
No, non stai bene e questo mi spaventa a morte! Per fortuna sono
abbastanza intelligente da non pronunciarlo ad alta voce. «Ti
accompagno.»
«Preferirei di no.»
Ouch. «Perché?»
«Perché io...» Inspira a fondo e mi guarda dritto negli occhi per la
prima volta, e quello sguardo mi colpisce come un pugno. Mi
mancano quegli occhi. «Non lo sopporto. Non sopporto di essere un
tale casino. E non posso permettermi di perdere il lavoro. Scusa se ti
sto creando problemi immensi, okay? Non perdere ancora tempo
con me. Ci sono almeno altri dieci posti in cui dovresti trovarti in
questo momento e, di sicuro, da qualche parte Lauren sta affilando
gli artigli per farci a brandelli tutti e due»
«Ehi, aspetta un minuto, testa calda.» L’ultima cosa che ha detto
probabilmente è vera, ma Rebecca si sta concentrando su tutte le
cose sbagliate e non posso sopportarlo. «Ci sono cose più
importanti di un piccolo intoppo nel programma. Per esempio, la tua
salute.»
«Lo so!» Adesso mi sta gridando addosso. Le donne lo fanno
spesso. «Ma sono così stufa di me! Sono passate tre settimane.
Senza alcun cambiamento. Ogni notte vado a letto pensando che il
giorno dopo mi sentirò meglio. E invece non è così.»
Stringo entrambe le mani perché provo il bisogno di allungarmi e
prenderla tra le braccia. L’attrazione che provo per Rebecca è a dir
poco sconveniente, ma non ho mai agito in proposito. «Presto starai
meglio» la rassicuro. E poi mi rendo conto di quanto sia impotente in
questo momento. Nella mia vita ci sono poche cose che non riesco a
risolvere con una telefonata o un memo dettato in modo severo.
Una è questa.
Rebecca deglutisce a fatica. «Ricordi quando sei venuto a
trovarmi a casa e abbiamo avuto quella stupida chiacchierata sugli
universi paralleli?» sussurra. «Be’, penso di essere in uno di quelli.
In questo universo, non c’è niente che giri a mio favore.»
«Hai paura.»
«Certo che ho paura!» Ha gli occhi rossi. «Tu e Hugh siete stati
fantastici. Davvero fantastici. Ma dovrei ripresentarmi al lavoro. È
quello che viene richiesto alle persone.»
«No. Adesso ti prendi tutto il tempo che ti serve. Non mi importa
quanto. Da quanto ci conosciamo noi due?»
Alza lo sguardo, di nuovo imbronciata. «Sette anni. Ma...»
«Niente ma. Non sei una stagista precaria che non sa cosa
significhi conservare il posto di lavoro»
«Nate, il manuale dei dipendenti fissa dei limiti ai giorni di
malattia.»
«A quale pagina? Li faccio modificare.»
Finalmente ottengo un sorriso. Aspetto che scoppi a ridere. Ha
una risata esplosiva che va da zero a cento in meno di un secondo.
Ma oggi guadagno solo un sorriso prima che il suo viso torni di
nuovo triste.
«Dai» sussurro. «Siamo io e te. Una soluzione la troviamo.»
Mi rivolge uno sguardo titubante, ma meno teso. «Il dottor
Herberts pensa che questo specialista sia in grado di capire perché
ho ancora tutte queste difficoltà. Ma anche se ci mette un’etichetta,
non mi farà magicamente ristabilire.»
«È pur sempre un inizio, Bec.» Allungo il braccio per una rapida
stretta al polso, poi la lascio andare. È il massimo contatto fisico che
mi sia mai concesso con lei. «Non sei molto brava come paziente.»
«Me ne sono accorta.» Si alza. «Ci lavorerò su.»
«Vorrei che tu mi facessi un favore.»
«Quale?»
Mi alzo anch’io e, nel farlo, avverto l’odore della lozione per il
corpo al lillà che usa sempre. Quella dolce familiarità mi mette
definitivamente al tappeto. E so che, dopo essermi tenuto alla
catena per anni, ciò che sto per fare infrange tutte le mie regole. Ma
questa è un’emergenza.
«Te lo dico in macchina» rispondo.
4

Permetto a Nate di accompagnarmi fuori dall’edificio verso una


berlina lucente in cui ci aspetta Ramesh, suo autista e guardia del
corpo. È ridicolo prendere la macchina per un tragitto tanto breve,
ma non ho alcuna energia per discutere con Nate. Sono esausta. E
veramente, veramente stanca di sentirmi così.
Poco fa, nel tunnel, sono quasi caduta. Senza quel suo abbraccio
improvviso, sarei finita per terra.
Episodi del genere mi capitano ogni singolo giorno. Il mio
equilibrio va in tilt e non riesco a funzionare normalmente. E me la
faccio sotto dalla paura. Tutto in queste ultime tre settimane fa
paura. Ho seguito i consigli dei medici: riposo a casa. Ma non
funziona. Non sto affatto meglio.
Quando l’auto si allontana dal marciapiede, Nate mi rivolge una
domanda. «Posso chiederti perché non dormi? Vi ha accennato
Herberts.»
«Non è un grosso problema» mento. Sono stanca di lamentarmi
con il mio capo. «Mio nipote sta mettendo i denti e il… ehm…
ragazzo di mia sorella lavora a orari strani.» Renny copre dei turni
da barista per un po’ di denaro extra. «Quando rientra alle tre del
mattino, lo sento sempre. E poiché a Matthew piace svegliare mia
sorella a tutte le ore per farsi allattare, c’è sempre qualcuno che gira
per casa.»
«Mmm» commenta Nate. «Certo non aiuta.»
«Non è la fine del mondo.»
«Chiami lo specialista?»
«Certo che lo chiamerò.»
«No, intendo adesso. Se quel tipo è davvero così impegnato, devi
procurarti un posto nella sua agenda prima che sia troppo tardi.»
La classica prepotenza di Nate. Quando mi dà ordini, di solito lo
respingo, ma oggi non ho l’energia per combatterlo. Tiro fuori il
biglietto da visita dello studio medico. Lo schermo luminoso del
telefono mi fa strizzare gli occhi, ma digito il numero e poi li chiudo
per schermare il bagliore.
Quando risponde la segretaria, le riferisco che sono stata
indirizzata dal dottor Herberts e chiedo se posso prendere un
appuntamento.
«Be’, stiamo prenotando per metà giugno. Se per lei va bene,
posso segnarla per il sedici alle 14:00.»
«Va bene...» Giugno? Se il sedici giugno starò ancora così,
probabilmente mi serviranno anche uno psichiatra e una camicia di
forza, oltre allo specialista. Fisso comunque l’appuntamento, però,
perché non ho molte altre opzioni.
«Allora?» s’informa Nate mentre la macchina si ferma. Apre la
portiera ed esce, poi mi aspetta.
Scivolo lungo il sedile e lo raggiungo. «Ho prenotato per il sedici
giugno.»
«Giugno? Cioè tra due mesi?»
«Già.» Poi alzo lo sguardo. «Nate. Che diavolo…?»
«Qualche problema?»
Il problema è che non siamo fuori al mio palazzo di Water Street.
Non solo, quella che mi trovo di fronte è la casa di Nate su
Pierrepont Place. «Sembrerebbe… casa tua?»
«Il dottor Herberts aveva ragione: le tue capacità cognitive sono
intatte.»
Lo colpisco sul braccio. «Non fare il sapientone. Perché mi hai
portato qui?»
«Per il pranzo, tanto per cominciare. Poi parleremo dell’altro mio
piano.»
È leggermente esasperante, ma lo seguo lungo il sentierino
mattonato che conduce alla casa. Non è che ci sia un altro posto
dove dovrei essere, comunque. La casa di Nate è una villa nel vero
senso della parola. Quando fu messa in vendita quattro anni fa, il
New York Times pubblicò un articolo intero sulla sua storia e il suo
valore architettonico. Nate se l’è accaparrata. Ci vive da solo, in una
villa con sei camere da letto. Ci sono stata un paio di volte, quando
ha organizzato serate di beneficenza a casa sua. E uso il termine
“ha organizzato” in senso lato: quando Nate organizza una festa,
Lauren o io assumiamo persone che si occupano di tutto.
La porta d’ingresso si apre mentre ci avviciniamo. «Ciao, cari! Ma
sei Rebecca?» Una donna pienotta e sorridente, che indossa
grembiule e crestina, ci invita a entrare.
«Salve, signora Gray!» Parlo abbastanza spesso al telefono con la
governante di Nate, ma raramente la incontro di persona. «Come
sta?»
«Meglio di te, se ho sentito bene. Come va la zucca?» chiede la
signora Gray. «Ancora un po’ sottotono?»
Lancio un’occhiata a Nate, chiedendomi come faccia la sua
governante a sapere del mio infortunio, ma distoglie lo sguardo e
tossisce. «So di non aver chiamato in anticipo, ma… c’è qualcosa da
mangiare per pranzo?» domanda nel tono più educato che gli abbia
mai sentito usare con chiunque. Da sempre.
«Ma certo! Pensi così male di me? In cinque minuti, posso
preparare una Caesar Salad di pollo e una zuppa di pomodoro e
crostini.»
«Grazie» dice Nate, quasi imbarazzato. «È perfetto.»
«È perfetto solo se Rebecca è d’accordo.» La signora Gray tira su
col naso. «Posso prepararle un panino, se quel menu non è adatto.»
«Zuppa e insalata vanno benissimo» mi affretto a rispondere.
«Signora Gray?» Nate la blocca mentre sta lasciando in fretta
l’ingresso. «Rebecca verrà a stare qui per un po’. La farò sistemare
nella camera verde.»
«Cosa?» prorompo nello stesso istante in cui la signora Gray batte
le mani e sorride, per poi scappar via di nuovo.
«Stammi a sentire» inizia Nate, togliendomi la giacca dalle spalle
e sistemandola su un appendiabiti nell’angolo. L’ingresso di Nate è
più grande della mia camera da letto in Water Street. «Nel tuo
appartamento non c’è abbastanza silenzio. Questa casa ha sei
camere da letto. Io domani partirò per Washington. Avrai una privacy
totale. Datti una settimana. Vedi se la tranquillità ti aiuta a riposare.»
Lo fisso a bocca aperta. «Non posso restare qui.» Per una
settimana?
«Perché no?»
«Be’, non posso e basta, tutto qui.» Non è una frase molto
sensata, ma i motivi non sono poi così divertenti da articolare. «Sei il
mio capo.»
Nate alza gli occhi al cielo. «Non te lo sto chiedendo come datore
di lavoro, ma come amico. Dimmi solo una cosa.»
«Cosa?»
«Se mi fossi fatto male, se fossi spaventato e non riuscissi a
dormire bene, non mi offriresti una delle tue sei camere da letto?»
«Be’, certo.» Non devo nemmeno pensarci. È ovvio che aiuterei
Nate.
«Bene.» Come se la questione fosse ormai risolta, si gira e si
avvia sul retro. «Allora andiamo a mangiare» aggiunge da sopra la
spalla.
Lo seguo attraverso un enorme salone pieno di oggetti
d’antiquariato fino al tavolo da pranzo. L’ambiente potrebbe risultare
soffocante, anche a causa del lungo tavolo e sedici sedie. Tuttavia,
la parete di vetro piombato che affaccia su un giardino ben curato fa
sì che tutto quel verde distolga lo sguardo dagli infissi antichi e dal
lampadario.
Nate tira fuori una sedia per me, poi prende posto a capotavola.
Ci sediamo e mi sembra di essere la regina a Buckingham Palace.
Non potrei mai rimanere a casa di Nate per una settimana. È una
follia. Ma è ora di pranzo e la signora Gray fischietta in cucina.
Quindi mi siedo in silenzio e osservo ogni cosa. Sarebbe divertente
come esperienza, se la causa non fosse la mia commozione
cerebrale. Essermi fermata a pranzo si rivela una buona decisione,
dal momento che la zuppa della signora Gray e la Caesar Salad
sono divine. Non che mi sorprenda. Nate assume solo i migliori.
Mentre finisco la zuppa di pomodoro piccante, Nate tira fuori il
telefono e inizia a smanettare.
«Nathan» lo rimprovera la signora Gray, prendendogli la scodella
vuota. «Il phubbing è da maleducati.»
«Phubbing?» Si stupisce lui, sollevando lo sguardo.
«Snobbare una persona per stare al telefono. Finché mangi da
solo, e lo sa Dio se non è sempre così, non importa. Ma Rebecca è
la tua prima ospite da un millennio e il minimo che tu possa fare è
parlarle.»
Mi piace davvero molto la signora Gray.
Nate si morde l’angolo del labbro, indice di concentrazione.
«Grazie per questo suggerimento, ma sto cercando di aiutare Becca
con una cosa.» Poi chiede all’app KattSearch sul suo telefono: «Il
dottor Evan Armitage è nel consiglio di amministrazione di qualche
ente di beneficenza?».
Quando compaiono i risultati della ricerca, il suo viso si illumina.
«Ah, proprio quello che stavo cercando.» Tocca lo schermo un altro
po’ di volte.
Onestamente, se non lo avesse sottolineato la signora Gray, non
avrei nemmeno fatto caso alla distrazione di Nate. La sua mente
lavora su un piano diverso rispetto a quella di chiunque altro. Può
portare avanti una conversazione a pranzo con me e
contemporaneamente riscrivere una parte di codice che non lo
soddisfa.
«Bec, qual è il numero di quel dottore tanto impegnato?»
«Aspetta.» Tiro fuori il biglietto e lo metto sul tavolo. «Che cosa
stai facendo?»
«Ti faccio cambiare la data dell’appuntamento.» Tocca il telefono.
«Come pensi di ...?»
«Sì» dice Nate al telefono. «Penso proprio che mi possa aiutare.
Sono Nate Kattenberger per il dottor Armitage. Potreste fargli sapere
che ho appena devoluto cinquantamila dollari alla Fondazione per la
ricerca sulla commozione cerebrale? Una donazione per onorare il
suo impegno con gli atleti. Se desidera discuterne ulteriormente,
sono disponibile al seguente numero...»
«Che diavolo…?» inizio, quando riaggancia un attimo dopo.
«Non stressarti, Bec.» Nate mette giù il telefono con aria
compiaciuta. «Mi piace quell’ente. Il dottor Armitage ha scelto bene,
quando si è lasciato coinvolgere. E, ehi, le squadre professionistiche
sportive prendono troppo alla leggera il trauma cranico. Avrei dovuto
donare denaro già molto tempo fa.»
«Ma...»
Il telefono di Nate squilla sul tavolo.
«Che velocità... Pronto?» risponde al telefono. «Sì, dottore, sono
io. Certo che l’ho fatto. Esatto, sono il proprietario di una squadra di
hockey... Proprio quella! La ricerca sulla commozione cerebrale è
molto importante per me. Sembrava un momento buono come un
altro per dare un contributo... Giusto. È un tema importantissimo.
Ora più che mai.»
Nate mi strizza l’occhio e la testa rischia di scoppiarmi.
Cinquantamila... Cosa?
«Sono d’accordo con lei, al cento percento» conviene Nate,
indifferente al mio shock. «In effetti, c’è qualcuno seduto accanto a
me che ha davvero bisogno di un consulto per un trauma cranico. Ci
piacerebbe vederla quanto prima. Purtroppo, però, la sua segreteria
ritiene che un appuntamento a giugno sia il meglio che si possa
fare.»
Le labbra di Nate si piegano in un sorrisetto e provo a immaginare
la faccia del medico nel rendersi conto di essere stato incastrato.
«Oh, fantastico. È perfetto» continua Nate un attimo dopo.
«Domenica mattina alle dieci, allora. La paziente si chiama Rebecca
Rowley. Ci sarà. Grazie mille. Arrivederci, per ora.» Nate riattacca
più che soddisfatto di se stesso. «Il bravo dottore ti vedrà di
domenica! Questo sì che è un buon servizio.»
Sono momentaneamente ammutolita dallo stupore. Non può
essere successo. «Dimmi che non hai praticamente ricattato lo
specialista per farmi avere un appuntamento.»
Nate corruga la fronte nel considerare la mia domanda. Prende
una Diet Coke. «Nah. Sono abbastanza sicuro che per essere ricatto
avrei dovuto prendere i suoi soldi. Qui è il contrario.»
«Cinquanta. Mila. Dollari? Non riesco a credere che tu li abbia
appena dati via così...» La voce mi si incrina sull’ultima parola. È un
mucchio di soldi.
«Be’, tecnicamente non l’ho ancora fatto.» Riprende il suo telefono
e apre l’applicazione di memo vocale che usa spesso. «Robert…
sono Nate. Per favore fai una donazione di cinquantamila dollari alla
Fondazione per la ricerca sulla commozione cerebrale prima della
chiusura della giornata di oggi. Dal conto personale, non da quello
aziendale. Grazie amico.»
«Nate!»
Si scola la Coca. «È una buona causa, Bec. La migliore. Il
proprietario di una squadra di hockey dovrebbe occuparsi della
ricerca sulla commozione cerebrale. E tu hai bisogno di farti visitare
da lui. È una doppia vittoria.»
«Oh, mio Dio.» Appoggio la fronte al palmo delle mani e mi
massaggio le sopracciglia, perché il mal di testa è appena tornato a
ruggire. È già abbastanza brutto che la terra sotto i piedi abbia preso
l’imbarazzante abitudine di inclinarsi quando meno me lo aspetto. Ci
mancava Nate a stressarmi ancora di più.
Neanche mezz’ora fa mi aveva convinto che non c’era tutta questa
fretta di riportarmi al lavoro. Che non sarebbe stata la fine del
mondo, se ci fosse voluto più tempo per rimettermi. Allora perché
diavolo ha appena sganciato cinquantamila bigliettoni per una visita
medica?
Perché fare una cosa simile?
«Ehi.» Nate addolcisce il tono di voce e si alza per spostarsi dietro
la mia sedia. Una grossa mano mi atterra sulla testa. «Becca. Andrà
tutto bene. Lo sai, vero?»
No. «È un po’ difficile da immaginare» ammetto.
La grande mano scivola sui miei capelli e si ferma sul collo. Nate
mi massaggia i muscoli alla base del cranio con le sue dita forti. È
così bello che emetto un gemito non proprio signorile. Mi formicola
tutto.
Nate ridacchia, poi aggiunge l’altra mano e mi stringe le spalle.
«Sei tutta contratta, cavolo.»
Non riesco nemmeno a parlare perché è troppo bello. È passato
molto tempo da quando qualcuno mi ha toccato con tale delicatezza.
Avevo dimenticato quanto fosse piacevole. Nate mi ha appena dato
da mangiare, ha corrotto un dottore per farmi visitare e ora mi sta
piantando i pollici nei punti doloranti di nuca e collo.
Si sta prendendo cura di me. È destabilizzante. Il mio lavoro, più o
meno, è prendermi cura della squadra di hockey di Nate. E a volte di
Nate. Questa inversione di tendenza mi confonde. Non so cosa
pensare, e comunque non riesco a pensare a niente, dal momento
che ho un trauma cranico e le sue mani mi stanno riducendo in una
poltiglia senza cervello. «Grazie» biascico con la testa pesante come
quella di una bambola di pezza.
Nate preme un’ultima volta sulla nuca. «Permettimi di mostrarti
velocemente il piano superiore. Devi sapere come funziona tutto.»
Mi alzo con cautela, un’abitudine nuova per me. Prima saltavo su
dalle sedie e rimbalzavo per le stanze. Ora mi muovo come mia
nonna.
Nate mi riporta dall’altra parte del salone con i suoi divani antichi,
nell’ampio ingresso, poi saliamo le scale. Il corrimano è di mogano
intagliato e i gradini di marmo sotto i miei piedi sono coperti da
moquette decorata.
Non sono mai stata al piano di sopra e mi ha sempre incuriosito.
Saliamo un bel po’ perché i soffitti sono altissimi, soprattutto visto
che la costruzione di questa casa risale a prima della guerra civile.
La scala gira a sinistra. In cima, Nate mi guida in un corridoio con la
volta a botte sul quale si aprono due porte. «Laggiù c’è la mia
stanza» dice, indicando quella in fondo al corridoio. «Tu starai qui.»
Lo seguo in una grande camera con un letto a baldacchino.
«Wow, Nate. Sembra la stanza di Sua Maestà.»
«Quale maestà?»
«La regina di Francia, no?» Casa di Nate è come il Met Museum
dopo l’orario di chiusura. Grande e vuoto. Dalla camera da letto
intravedo il bagno annesso, che sfoggia un’enorme vasca da bagno
con i piedini. «Questa stanza è pazzesca.»
«Non voglio metterti al terzo piano. Meglio non salire troppe scale,
se sei instabile. E questa è una bella stanza. I miei genitori dormono
qui, quando vengono a trovarmi.»
Sono in grado di salire le scale, vorrei ribattere, ma mezz’ora fa
sono quasi caduta nel tunnel in ufficio. Quindi sospiro e basta.
«Ora lascia che ti mostri la mia tana. È lo spazio più vissuto, e
puoi comportarti come se fossi a casa tua.» Lo seguo da dove siamo
venuti, oltre le scale.
Entriamo in una stanza che è lunga e bassa, rivestita di pannelli di
quercia. Una delle pareti più lunghe ospita un camino in marmo. Ma
è più accogliente del lussuoso salone al piano di sotto. Lungo la
parete in fondo sono posizionate due comode sedie accanto a un
enorme finestra a bovindo. All’estremità opposta una TV e un divano
a elle. Sul tavolino da caffè sono sparsi diversi resoconti della
KTech.
C’è una libreria a tutta parete di fronte al camino e persino una di
quelle scale a rotelle per raggiungere gli scaffali più alti, come le
biblioteche su Pinterest.
«Wow» esclamo stupidamente. Potrei fare altrimenti?
«È la mia stanza preferita di tutta la casa.»
Non appena parla, sul tavolino lampeggia e si accende un piccolo
schermo. «Ciao, Nate» saluta una voce senza corpo. «Posso esserti
utile in qualcosa?»
«Non ora, Hal» risponde Nate.
«Era...?» Mi blocco.
«Non una persona reale» risponde Nate, sogghignando.
«Hal...»
«Sì?» interviene immediatamente l’apparecchio.
«...È la voce di un prodotto che sto testando» spiega Nate. «Sto
cercando di migliorare la qualità degli altoparlanti intelligenti. Fanno
tutti schifo. Hal, però, utilizza una tecnologia deep learning per
acquisire conoscenze più approfondite.»
«Deep learning…» ripeto lentamente. «Tipo Intelligenza
Artificiale?»
«Proprio come l’Intelligenza Artificiale» conferma, rivolgendomi il
sorriso che dice “ben fatto”. «E, a proposito, è un segreto. Hal rientra
tra gli elementi coperti dalle specifiche del tuo accordo di non
divulgazione con la KTech. Eccetera, eccetera.»
«Capito.» Frequentare Nate significa trovarsi sempre in presenza
di segreti aziendali gelosamente custoditi. Sono abituata a essere a
conoscenza di informazioni riservate.
«I prodotti al momento sul mercato sono tutti piuttosto ottusi. Hal,
invece, è acuto. Quindi, se gli chiedi qualcosa e non ti risponde
correttamente, riprova con parole leggermente diverse. E non evitare
il gergo: voglio che impari il vero modo in cui parlano le persone.»
Giuro, ci sono giornalisti di tecnologia che venderebbero un
organo per passare pochi minuti da soli con Hal, qualunque cosa
sia. «Aspetta, gli hai dato la voce inquietante del computer del film
Odissea nello Spazio, vero?»
Nate sembra imbarazzato. «Era solo per divertirmi un po’. Può
riprodurre qualsiasi tipo di voce. Che voce dovrebbe avere un
maggiordomo, secondo te?»
«Quella di un personaggio di Jane Austen. Affascinante e
sollecito.»
Nate si tocca il mento. «Tipo… come si chiama… il personaggio di
Colin Firth? Darcy?»
«Assolutamente no. A Darcy non piaceva parlare. Ti serve l’altro…
Bingley.»
«Bene. Ehi, Hal?»
«Sì, Nate» risponde la voce.
«Il tuo nuovo nome è Bingley.»
«Bingley al suo servizio» concede la voce inquietante.
«E voglio che usi una voce diversa. Maschio. Accento britannico.
Sangue blu. Vale a dire beneducato. Incorpora la struttura delle frasi
di Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen.»
«Certamente, signore!» risponde immediatamente il dispositivo
con un accento aristocratico. «In cosa posso servirla?»
«Saluta Rebecca.»
«I miei omaggi, signora. Lasciate che senta la vostra voce.»
Nate mi dà una gomitata. «Deve ascoltarla, così saprà di doverti
obbedire, quando parli.»
«Ehm… Salve, Bingley.» È difficile non ridere. «Sono Rebecca
Rowley.»
«Al vostro servizio, Miss! Potete chiedermi qualsiasi cosa.»
Nate indica con il mento il dispositivo sul tavolo. Avanti. Fagli una
domanda.
«Ehm. Qual è la capitale del Burkina Faso?»
«Ouagadougou.»
«Troppo facile» scherza Nate. «Perfino Siri risponderebbe in modo
corretto.»
Bene. «Chi fa la pizza migliore a Brooklyn?»
«Se avete un discreto appetito,» risponde Bingley
immediatamente, «Grimaldi è a poco più di un chilometro di distanza
e ha una quotazione molto alta. Le pizze più consigliate dai clienti
sono la focaccia bianca all’aglio o la pizza con pollo alla Buffalo.»
«No» dico io. «Il pollo alla Buffalo sulla pizza è una eresia.»
«Ne prendo nota» risponde Bingley. «Miss Rebecca non ama il
pollo piccante sulla pizza.»
Nate sembra molto soddisfatto di se stesso. «Bingley… Rebecca
starà con noi per un po’ per riprendersi da un trauma cranico» gli
spiega. «Se ti chiede di restare in silenzio, per favore non parlare
finché non ti chiama per nome.»
«Sta poco bene? Oh, cielo! Abbiate cura di voi, Miss Rebecca.
Non vi disturberò!»
«Grazie, Bingley» rispondo, trattenendo un sorriso. Non so proprio
dove Nate trovi il tempo di sognare questa roba. Ma parlare con
Bingley nella residenza di Nate è la cosa più divertente che abbia
fatto da un po’ di tempo a questa parte.
«Allora.» Nate si sfrega le mani. «Bingley controlla il sistema di
sicurezza. Stasera, quando la signora Gray andrà via, dovrai solo
chiedergli di chiudere casa. Si occuperà di tutto lui. Se dovessi
uscire, ti farà rientrare. Bingley, prendi l’impronta digitale di Rebecca,
per favore.»
Lo schermo si illumina. «Miss Rebecca, abbiate la cortesia di
porre il vostro grazioso dito sullo schermo.» Sullo schermo appare
un cerchio luminoso. Vi appoggio l’indice e Bingley emette un suono
di approvazione. «Scegliete un numero di quattro cifre, Miss.»
«7854» scandisco.
Bingley lo ripete e Nate sorride. «Un dettaglio da sapere: la
tastiera sulla porta d’ingresso utilizza sia l’impronta digitale, sia il
codice numerico. Basta anche solo l’impronta, ma se qualcuno
dovesse vederti inserire il codice, non saprà della rilevanza
dell’impronta.»
«Non vogliamo certo che qualcuno vi rapisca in mezzo alla strada
per asportarvi l’impronta digitale» esclama Bingley con più gioia di
quanta un computer dovrebbe essere in grado di gestire.
«È inquietante» sussulta Nate. «Sta’ buono, Bingley.»
«Nate, non è necessario» insisto. «Posso semplicemente andare
a casa e...»
«Ehi!» Alza una mano per fermarmi. «Proviamoci. Hai bisogno di
riposo. Non discutere, altrimenti scaricherò Bingley sul tuo telefono e
gli ordinerò di dare il tormento alla tua famiglia affinché ti garantisca
più pace.»
Conoscendo Nate, ne sarebbe capace. «Ma non ho la mia roba
qui...»
«Me ne occupo io.» Si dirige verso la porta. «Devo scappare, ora,
altrimenti Lauren mi scuoierà vivo per aver mandato a puttane
l’agenda del pomeriggio. La signora Gray ti preparerà la cena prima
di andar via. A più tardi!»
«Arrivederci, Nate» esclama Bingley. «Sei un principe tra gli
uomini! Sei più intelligente di Bill Gates!»
Rantolo un saluto anch’io, ma dubito che Nate riesca a sentirlo in
mezzo alle risate.
Non appena se ne va, mi sfilo le scarpe da ginnastica e mi siedo
sul grande divano a elle per riflettere. Stare con Nate non è
un’opzione. Non voglio disturbare.
Il divano è super confortevole, però. È rivestito di velluto rosso
intenso e il sedile è così generoso che non tocco il pavimento con i
piedi.
Piego le gambe sotto al sedere e considero le mie alternative.
L’operazione richiede circa trenta secondi, poiché non ne ho molte.
1.Restare e fare tutto ciò che Nate mi dice, in modo che almeno
sappia che non sto fingendo di essere un’idiota incapace. 2. Andare
a casa e ricominciare a fingere che il mio intero mondo non si stia
sgretolando.
Non sono abituata a sentirmi così destabilizzata. Eppure non c’è
bisogno di stare da Nate. Non sono la Jane Bennet di Orgoglio e
Pregiudizio, che continua a svenire a Netherfield per giorni e giorni
perché si è presa il raffreddore.
Di solito sono il tipo che gestisce tutto ciò che la vita le tira
addosso. Quando mio padre è morto improvvisamente, ho lasciato il
college e ho trovato lavoro presso la neonata compagnia di Nate. Ho
aiutato mia madre a far fronte all’inaspettata vedovanza. E proprio
quando lei iniziava a stare meglio, mia sorella ha cominciato ad
avere problemi. L’ho aiutata a pagare gli studi universitari che io non
avevo potuto completare. E poi, quando ha avuto il bambino e ha
perso l’appartamento, sono intervenuta di nuovo.
È così che sono sempre stata. Sono capace di gestire gli
imprevisti. Ma questo no. Non sta andando affatto bene. Non so
cosa fare e la costante preoccupazione finora non mi ha portato da
nessuna parte.
La vecchia Rebecca non se ne starebbe rannicchiata su questo
divano, con la testa sempre più pesante per la stanchezza. Chiuderò
gli occhi un minuto. La casa è così silenziosa. Nate aveva ragione.
Da qualche parte al piano di sotto la signora Gray fischietta. È
l’ultima cosa che sento prima di cedere al sonno.
5

Sei anni prima

La Kattenberger Technologies era un regno pacifico.


Per lo più.
La bella Rebecca era diventata rapidamente la regnante de facto
del castello, mentre il nostro principe era impegnato a reinventare la
rete mobile per il ventunesimo secolo.
Il compito di Rebecca era di provvedere al feudo, che ora copriva
un intero piano ristrutturato dell’edificio al centro della città. Era
compito suo ordinare le sedie ergonomiche da ufficio per ogni nuovo
dipendente (e adesso ce n’erano molti). Organizzava i viaggi e
manteneva sempre rifornita la macchina per il caffè espresso con
prodotti di alta qualità.
Aveva anche appeso un cartello sul muro sopra la macchina:
“OTTERRÒ CAFFÈ? BEH CHE BEFFA! CORRETTO”. Un
palindromo, ovviamente. Nate sorrideva sempre nel vederlo. «Sei
impagabile» la lodava, e lei si illuminava perché erano poche le
persone capaci di impressionare Nate.
Certo, qualsiasi cretino era in grado di cercare palindromi sul web
e memorizzare: “Ero maniaca in amore”. I veri punti nello stile si
guadagnavano quando si riusciva a infilarli in una conversazione.
Oltre a organizzare il loro feudo, Rebecca era anche la sentinella
al cancello. Tutti volevano un pezzo del ragazzo prodigio: guru della
finanza, aziende titaniche, premi Nobel per l’innovazione.
Rebecca custodiva l’agenda di Nate e la sua sanità mentale. Solo
così il nostro principe poteva avere la pace di cui aveva bisogno per
regnare sul mondo digitale.
La nostra Rebecca, però, non era uno spietato aguzzino. Sapeva
quando usare la spada e quando fare il giullare di corte.
Un venerdì pomeriggio di marzo, era di pattuglia lungo i confini per
assicurarsi che nel regno tutto fosse in ordine prima dell’inizio
ufficiale del fine settimana.
«Ehi, Stewie» salutò, bussando con le nocche sulla scrivania del
direttore finanziario. «Se vuoi che le presentazioni vengano
stampate a colori per martedì, avrò bisogno del file entro
mezzogiorno di lunedì.»
Il giovane funzionario sussultò. «Giusto. Scusa. Li avrai durante il
fine settimana.»
«Nessun problema, tesoro.» Gli strizzò l’occhio e proseguì,
ricordando agli addetti ai codici di spegnere le luci, se intendevano
lavorare fino a tardi, e di gettare le lattine di Red Bull nel cestino
giusto.
Mentre la giornata volgeva al termine, restò solo un altro
lavoratore da gestire.
Rebecca entrò nell’ufficio a passo di marcia, come al solito senza
preavviso. Nate, curvo su una tastiera ergonomica che gli aveva
trovato per aiutarlo ad alleviare il dolore alle mani, era seduto
davanti al più grande monitor per computer in vendita nei negozi. Gli
affari andavano a gonfie vele e oltre la metà dei dispositivi mobili del
Nord America montava il software KTech. Di lì a due anni, Nate
avrebbe lanciato il primo telefono KTech, catapultando la portata
dell’azienda nell’hardware oltre che nel software.
Ma prima, alcune parole taglienti per il nostro eroe.
Nate fissava il codice sullo schermo del computer con le labbra
carnose strette in una smorfia pensierosa. Rebecca aveva da tempo
archiviato la sua sconveniente cotta per lui. In quei giorni, lo fissava
solo per valutare quante probabilità aveva di ottenere la sua
attenzione. «Ehi, capo» provò come primo tentativo.
Nate grugnì. Buon segno. Quell’uomo aveva un udito molto
selettivo, quando era davvero concentrato.
«Lunedì dovrai chiamare l’amministratore delegato della
ArtComm» gli comunicò. «Mi serve che tu ti tenga al passo con le
telefonate nei prossimi due mesi, altrimenti la mia vita sarà un
inferno durante il tuo viaggio di nozze.»
«Non lo permetterei mai.» Nate alzò lo sguardo dal monitor, quindi
spinse indietro la sedia e appoggiò i piedi sulla sua nuova scrivania,
scelta per lui da Rebecca durante i lavori di ristrutturazione. «Per
quanto tempo starò via?»
«Dieci giorni, contando il viaggio. E non abbiamo in programma
nulla per il tuo primo giorno di rientro, quindi potrai aggiornarti su
quanto accaduto in tua assenza.»
Nate trasalì.
«È dopo la Festa del Lavoro. Il tempismo è perfetto.»
«Sì. Va bene» cedette lui, facendo scrocchiare le dita. Nate era un
maniaco del lavoro patentato. Le sue e-mail arrivavano a tutte le ore
della notte. Ovviamente Rebecca non era tenuta a rispondere fino
alla mattina dopo, ma il cervellone di quell’uomo sembrava non
spegnersi mai. «Qual è il prossimo impegno all’ordine del giorno?»
«Il fine settimana. Ricordi?» gli suggerì.
Nate aveva uno sguardo vacuo.
«Il tuo calendario personale suggerisce qualcosa come “cena con
Bart”.»
«Davvero?» Esibì l’espressione di un bambino che non voleva
mangiare i broccoli.
«Ne sono abbastanza certa» assicurò Rebecca. La cena con Bart
non era un suo problema. Nate gestiva da sé gli impegni sociali. O
forse se ne occupava Juliet. «Chi è Bart, comunque?»
«Un amico di Juliet della sua nuova palestra. Uno sportivo che
parla sempre e solo di nutrizione e del suo lato competitivo. Ma
Juliet è una discepola di CrossFit ora, quindi lo trova più interessante
di quanto lo ritenga io.»
«Ah.» Rebecca si morse la lingua, perché non stava a lei
immischiarsi nella vita sociale del capo. E anche perché non
avrebbe mai voluto farsi sfuggire di bocca ciò che pensava davvero
di Juliet.
A Becca non era mai piaciuta la fidanzatina del college di Nate,
ma aveva sempre avuto problemi a capire perché. Juliet con lei era
abbastanza gentile. Solo che non avevano nulla in comune. Per
restare in tema, di recente Juliet aveva sviluppato un’ossessione per
la palestra. Qualche tempo prima, in vista del servizio fotografico del
matrimonio, aveva iniziato ad allenarsi come una promessa olimpica.
Aveva perso dieci chili e aveva iniziato anche a preoccuparsi
dell’abbronzatura.
Di contro, il concetto di Rebecca di attività fisica era andare a piedi
all’appuntamento con gli amici per un drink, invece di prendere un
taxi. In più, aveva segretamente cominciato a considerare Juliet una
traditrice del club delle curvy. La ragazza nelle foto sulla scrivania di
Nate aveva un viso rotondetto e un sorriso sciocco. Il piccolo mostro
che di recente si era presentato per gli appuntamenti a cena, invece,
sembrava l’ultimo acquisto della squadra di pallavolo svedese: tutta
mèches bionde e sicurezza da pancia scoperta.
Era davvero difficile non odiare la futura signora Kattenberger a
prima vista.
«Mi sa che andrò via prima» proruppe Nate all’improvviso,
alzandosi in piedi.
«Prima?» esclamò Rebecca, trattenendo il fiato e portandosi la
mano al petto con finto stupore. «Si può? Come funziona
esattamente?»
Nate sogghignò, mostrando le fossette. Non avrebbero dovuto
apparire tanto belle su un uomo, ma Nate non era come gli altri.
«Sto morendo di fame. E ho bisogno di una birra. Forse riesco a
convincere Juliet a bere un paio di drink con me prima di cena. E a
mangiare stuzzichini. Bart di sicuro ci porterà in un ristorante
vegano.»
Nate e Rebecca rabbrividirono.
«... E non credo proprio che beva.» Nate infilò le chiavi e il
telefono in tasca.
«E la sete sale» ribatté Rebecca. Era un palindromo popolare in
tutto l’ufficio.
Il ghigno diventò un vero sorriso. «Suppongo che potresti
sgattaiolare via prima anche tu.»
«Moi?» esclamò lei senza fiato. «Assolutamente no. Resterò
tranquillamente seduta alla mia scrivania e mediterò sui tuoi
successi fino alle sei.»
«Leccaculo. Buon fine settimana, Bec.» Prese la giacca dal
divano. Il suo nuovo ufficio adesso aveva mobili veri e propri.
E, in un attimo, se n’era andato.

Rebecca era rimasta in ufficio per un’altra ora, ma solo perché


aveva in programma di prendere un drink nel Meatpacking District
con amici che non avrebbero potuto uscire in anticipo dal lavoro.
Quando alla fine lasciò l’ufficio, percorse solo tre isolati prima di
rendersi conto di aver lasciato il telefono nel cassetto della scrivania.
L’unica cosa da fare era tornare a prenderlo. Un intero fine
settimana senza telefono? Impensabile.
Tornò indietro.
Quando girò la chiave per riaprire la porta dell’ufficio, udì il
rimbalzo della pallina da ping-pong nell’area openspace. Non era
insolito. Erano pochi i dipendenti della KTech che lavoravano a orari
normali. Ma quando raggiunse l’ufficio di Nate, trovò la luce accesa.
E le tendine delle finestre erano abbassate.
Era strano. Dieci minuti prima quell’ufficio era stato buio. Rebecca
bussò alla porta. «Nate? Ci sei?» Silenzio.
Le si rizzarono i capelli sulla nuca mentre nella mente le si
affollavano immagini di spionaggio industriale. Qualcuno stava
rovistando nell’ufficio di Nate senza essere stato autorizzato?
Rebecca afferrò il pomello e girò. Non era chiuso. I suoi occhi
scattarono sulla sedia della scrivania, ma era vuota.
C’era Nate, però, piantato sul divanetto. Curvo in avanti, i gomiti
sulle ginocchia, il mento appoggiato alle mani giunte. Fissava il
tappeto, assorto.
«Nate?» sussurrò Becca. «Qualcosa non va?»
Nate si schiarì la gola, ma non alzò lo sguardo. «Non torno mai a
casa presto.»
«Lo so» concordò lei, spaesata. Aprì la bocca per chiedere
spiegazioni, ma poi capì. Era tornato prima e aveva visto qualcosa
che non avrebbe dovuto vedere.
Lo sguardo di Nate si sollevò per una frazione di secondo e in
quegli occhi castano chiaro lesse l’infelicità.
Confusa, Rebecca si voltò lentamente e tornò alla sua scrivania.
Si sedette e tirò fuori il telefono dimenticato per poi infilarlo in tasca.
Un uomo che aveva una crisi personale non desiderava
necessariamente compagnia. Probabilmente era tornato in ufficio
solo perché non aveva nessun altro posto dove poter stare da solo.
Nate e Juliet vivevano insieme. Merda.
Non le sembrava giusto andarsene e trascorrere in compagnia il
venerdì sera, sapendo che lui era da solo in ufficio, per di più triste.
Quindi sbloccò il telefono e annullò i programmi con gli amici. Uscì
dall’edificio e si diresse verso la ventottesima strada. Lì comprò un
sacchetto di empanadas appena fatte presso un chiosco e una
bottiglia di tequila nell’unico negozio di alcolici del quartiere.
Il negozio messicano all’angolo aveva anche il lime.
Quando risalì, Nate era ancora seduto, immobile come una statua,
a fissare il pavimento. Le si spezzò il cuore per lui proprio lì sulla
soglia del suo ufficio.
Mise il sacchetto di empanadas e la bottiglia sul tavolino. «Hai
detto che morivi di fame» esordì, e la sua voce rimbombò
nell’eccessivo silenzio della stanza.
Lui la guardò come se non avesse mai sentito parlare di cibo.
Rebecca aprì il sacchetto da sé. «Pollo o formaggio?»
«Grazie» mormorò Nate, prendendo una empanadas senza
guardarla.
Si sedette accanto a lui e mangiarono il primo round in silenzio.
Quindi affettò il lime con il coltellino del portachiavi e stappò la
bottiglia. «Un primo shot di riscaldamento. Poi ti troveremo una
stanza d’albergo prima di essere troppo ubriachi per cercare il
numero di telefono su Google.»
Nate la guardò con occhi riconoscenti e, quando parlò, la sua voce
uscì roca. «Bec, è ufficiale.» Nate si asciugò le mani sul tovagliolino
che gli aveva offerto. «Sei l’impiegata del secolo, cazzo.»
Sostenne il suo sguardo per un altro lungo istante e il cuore di lei
si gonfiò di gratitudine e di qualcosa di un pochino di più dell’amore
platonico che provava per il suo nerd preferito. Una volta, Nate
l’aveva salvata da una situazione difficile e, da un anno, stava
cercando di restituire il favore.
«Bevi, marinaio» lo incoraggiò. «Ti vado a prenotare una stanza al
Soho Grand.»
Nate stappò la bottiglia. «Cin.»
Ingollarono uno shot a testa. Quindi Becca gli avvicinò il sacchetto
di cibo. «Cibi libici?»
«Libici...?» Poi, però, spalancò gli occhi nel rendersi conto che gli
aveva appena servito un nuovo palindromo. «Da quanto lo
conservavi?»
«Da settimane. Non ci sono ristoranti libici in questo quartiere,
però. Quindi alla fine ho deciso che le empanadas andavano bene lo
stesso.»
Nate rise fino alle lacrime. Poi mangiò un’altra empanadas.
6

In città è tutto uno sgobbare tra riunioni e teleconferenze. Il mio


cervello non si è ancora adattato all’idea che Lauren stia coprendo il
lavoro di Becca a Brooklyn. Per due volte mi ritrovo a chiamarla a
gran voce dalla sedia della mia scrivania, solo per veder comparire
sulla soglia una delle sue schiavette spaventate.
Penseranno che sono un idiota, ma ho davvero un mucchio di
cose per la testa.
Alle sette finalmente arrivo a Brooklyn. Quando il traghetto urta il
molo, sono già in piedi, impaziente che l’addetto ci consenta di
sbarcare. Non appena ci dà il permesso, mi fiondo attraverso il
Brooklyn Bridge Park verso casa in un batter d’occhio.
Potrebbe esserci Rebecca ad aspettarmi.
Invitarla a stare da me è stata una follia. Lo so. Visto che ho
trascorso gli ultimi due anni a desiderare di spogliarla con i denti,
sapere che dormirà in fondo al corridoio di casa mia sarà una cazzo
di tortura. Ma vederla in difficoltà, questa mattina, ha avuto un effetto
sconvolgente su di me. Non lo capisco, davvero. Dio solo sa se ho
combattuto senza sosta l’attrazione che provo per lei. Ma ora si
tratta di qualcosa di diverso. E non riesco ad afferrarla. Ignorarla –
l’ormai consueta soluzione alla mia malsana dipendenza da lei –
questa volta non funziona.
Magari non ha nemmeno accettato la mia proposta. Becca è la
persona più fiera della propria indipendenza che abbia mai
conosciuto. Probabilmente ha fatto i bagagli pochi secondi dopo che
me ne sono andato. Devo saperlo.
Di solito impiego dodici minuti per raggiungere a piedi Pierrepont
Place dal terminal dei traghetti, ma oggi me ne bastano dieci.
Quanto tempo è passato dall’ultima volta che una donna (a parte la
deliziosa signora Gray) mi ha aspettato a casa al mio rientro? Anni.
Dai tempi di Juliet, la mia ex infedele. E anche quello è ormai un
brutto ricordo.
Non avevo nemmeno vent’anni quando Juliet e io ci siamo messi
insieme al college. Era la sorridente ragazza con la passione per
Doctor Who e le battute demenziali. Studiavamo insieme in
biblioteca, poi rientravamo per fare sesso in dormitorio.
Andare a convivere dopo la laurea era stata una decisione
naturale. Diciotto mesi dopo, durante una serata infrasettimanale nel
nostro squallido bilocale nell’East Village, le avevo chiesto di
sposarmi.
«Oh, Nate. Non sai quanto mi rendi felice» aveva detto dall’altro
capo del traballante tavolo della cucina.
Non era durato, però. Mesi dopo l’avevo sorpresa a fare sesso su
quello stesso tavolo con quella testa di rapa che aveva conosciuto in
palestra.
Il più grande shock della mia vita.
Quel fine settimana, mi aveva lasciato sul telefono una serie di
lacrimevoli messaggi vocali. Su sua insistenza ci eravamo visti il
lunedì mattina in un bar per parlare. Perfino in quel momento, non
avevo ancora capito che tutto era cambiato per sempre.
«È successo solo un paio di volte» aveva pianto, come se così
fosse meno umiliante. «Ma tu sei sempre al lavoro. Non è divertente
essere vedova della tecnologia.»
«Perché sto cercando di liberare l’agenda per il nostro viaggio di
nozze!» Anche allora, non ero stato abbastanza pronto a buttare via
tutto. Il mio cervello analitico stava ancora cercando di rimettere
insieme i pezzi.
Poi Juliet aveva confessato: «Sono andata in palestra perché non
mi piaceva la mia pancetta. Ma ha cambiato tutto il mio modo di
guardarmi».
«Eri bella anche prima» avevo affermato. E dicevo sul serio. Se la
Juliet 2.0 era infedele, non era di certo un miglioramento.
«Ma non avrei mai immaginato che uno come Bart potesse
degnarmi di un solo sguardo» aveva dichiarato come se avesse un
briciolo di senso.
«Uno come Bart» avevo ripetuto lentamente. E alla fine,
finalmente, era entrata in gioco l’autoconservazione. Uno come Bart.
Non avevo chiesto perché pensasse che il muscoloso Bart fosse
tanto speciale. Non volevo sapere se era per le sue serie alla panca,
il berretto da baseball calcato al contrario o la risata sguaiata.
O per il sesso sul tavolo della cucina.
Prima di quel momento, non avevo mai compreso cosa intendesse
la gente con “ci siamo allontanati”. Improvvisamente l’avevo capito.
«Stammi bene» le avevo augurato, alzandomi in piedi. «Passerò a
prendere i vestiti domenica sera, mentre sarai in palestra. Puoi
tenere il resto.»
«Aspetta! Nate! Non succederà più.»
No. Era finita. Quando una ragazza ti recrimina che il tuo stile di
vita è una seccatura e pensa che le attenzioni di un pompato come
Bart siano una sorta di riconoscimento, non rimane altro da dirsi.
Sono passati sei anni e sono single da allora. A volte Stewie mi
stuzzica. «È ora di rimettersi in gioco. Lo sai, vero, che “sposato con
il lavoro” è solo un modo di dire?»
Solo che non lo è. Juliet aveva ragione. Essere Nate Kattenberger
è un’occupazione a tempo pieno. Sono in viaggio per cento giorni
all’anno, senza contare il tempo trascorso con la mia squadra di
hockey. Più distanza metto dal fiasco con Juliet, più comprendo la
sua scelta. Forse non ho nessuno con cui condividere la mia vita,
ma almeno non sto rendendo infelice una donna.
Così è.
La cosa buffa è che la gente fa sempre battute sul nugolo di
ammiratrici che mi girano intorno. «Un ragazzo single e ricco come
te? Ci deve essere la fila intorno all’isolato.»
Hanno ragione. In un certo senso, sì. Sono molte le donne che
vogliono entrare nel mio letto. Ma è davvero difficile selezionarle.
Ogni volta che incontro una donna devo chiedermi: sta ridendo delle
mie battute perché è davvero interessata? O è solo per i soldi?
Se la signora geme a un mio bacio, vuole il mio uccello o il mio jet
privato?
Durante l’anno successivo alla rottura con Juliet, mi sono dato
molto da fare per espellerla del mio organismo. Ma mi sono stancato
presto. Soprattutto dopo aver letto, una mattina, un sms che la mia
ultima conquista aveva mandato a un’amica: “mi sono fatta un
multimilionario”.
Ed era prima che arrivassi a essere un miliardario. Più soldi
guadagno, più cala il numero di donne che possono sbandierare
quel vanto.
Sono praticamente un monaco a questo punto. Anche se volessi
andare a prostitute, il mio stile di vita rende rischioso il sesso
occasionale. Non posso invitare sconosciute in casa mia. In
qualsiasi momento, ci sarebbero probabilmente almeno tre diversi
segreti industriali sparsi per casa. Prima di arrivare nei pressi della
mia camera da letto, dovrebbero firmare un accordo di non
divulgazione – e non a causa delle inclinazioni sessuali. “Dopo aver
finito di scopare Nate, non fotografare alcun prototipo di eventuali
dispositivi individuati nella residenza, non registrare eventuali
telefonate e non leggere e-mail alle sue spalle”.
Molto sexy.
Quindi sono single, forse per scelta. E non ci rimugino troppo,
perché conduco una vita molto impegnata. Ho più denaro di quanto
potrei mai spendere e il rispetto dei miei colleghi. Viaggio molto. Ho
degli amici, anche se la maggior parte appare nel mio libro paga.
Nessuno mi aspetta mai a casa, però, tranne le persone pagate
per essere lì.
Quando finalmente raggiungo la mia porta, digito il codice di
sicurezza sulla tastiera. Appena entro, sento delle voci in cucina.
Mi blocco… è una novità avere gente a casa mia.
La risata improvvisa di Becca mi dà letteralmente un brivido.
Gesù. Che diavolo mi prende?
Mentre attraverso il salotto in direzione della cucina, riesco a
seguire la sua conversazione con la signora Gray.
«Il mio Christian non è un fan del cibo messicano» sta
raccontando la mia governante. «Non ama le spezie.»
«Aspetta un attimo» la interrompe Becca. «Tuo marito si chiama...
Christian Gray?»
«Esatto.»
«Ma...» Rebecca fa una pausa. «Il protagonista di una serie di libri
si chiama Christian Gray…»
«Lo so, cara! Il primo gliel’ho letto ad alta voce.»
«Veramente?» sghignazza Rebecca, e quel suono ha un effetto
strano sulle mie viscere.
«Sì! Quando gli ho mostrato il nome del protagonista, si è
incuriosito. E quando sono arrivata alle parti più piccanti, ha insistito
perché continuassi a leggere. “Non posso mica lasciare tutto il
divertimento a un mio finto omonimo”.»
Rebecca ride di nuovo e mi ritrovo a sorridere come uno scemo.
Quando entro in cucina, eccole lì, sedute a tavola insieme.
Rebecca sta mangiando un piatto di enchiladas preparate dalla
signora Gray e la mia governante sorseggia una tazza di tè.
Sono secoli che la mia cucina non è così viva. «Signora Gray, non
sarebbe dovuta rimanere fino a tardi.»
«Ho fatto una bella chiacchierata con la deliziosa Rebecca,
mentre il mio Christian è al bowling con il gruppo» mi spiega,
alzandosi per aprire il forno. «È sempre di cattivo umore dopo
qualche birra con gli amici. Farò meglio a tornare a casa.»
È di spalle, così Rebecca e io ci scambiamo un furtivo sguardo
divertito. Siamo sempre stati sulla stessa lunghezza d’onda in
quanto a umorismo. Dove la mia assistente Lauren è fredda, Becca
è calorosa. I suoi occhi danzano, quando sente qualcosa di
divertente, e le sue guance si colorano di rosa quando ride.
Non che abbia alcun diritto di notare certe cose.
La signora Gray mette a tavola il mio piatto. «Ecco la tua porzione,
Nate» dice. «Ora devo scappare. Ciao!»
Un momento dopo, scompare dalla porta sul retro, e Rebecca e io
ci ritroviamo da soli. Che Dio mi aiuti.
«La signora Gray è speciale» afferma Rebecca. Quindi allontana il
piatto. «Non riuscirei a mangiare neanche un boccone in più.»
«Stai meglio rispetto a stamattina» noto. Poi riformulo la frase
nella mia testa e mi rendo conto che potrebbe risultare offensiva ma,
dopotutto, nessuno mi ha mai accusato di avere troppo tatto.
«Voglio sperare.» Rebecca mi rivolge un sorrisetto. «Dormire per
cinque ore di fila deve pur dare dei benefici.»
«Cinque? Wow. Rebecca Van Winkle!» Prendo la forchetta e
infilzo le enchiladas della signora Gray. Quella donna sì che sa
cucinare. Anche se non ripeterò a Rebecca “te l’avevo detto”, è vero
che una buona notte di sonno cura quasi tutto.
«Sai...» Le guance di Becca assumono un colorito roseo che mi
distrae. «Non sapevo di essere così stanca. Ed è davvero tranquillo
qui. Avevi ragione.»
«Mmm» mormoro su un altro boccone. Voglio che resti. Voglio
prendermi cura di lei. Ma non le farò pressione. «Sono arrivati i tuoi
bagagli?»
«Ehi!» Rebecca mi rifila un’occhiata tagliente. «Hai avuto un po’ la
mano pesante con i bagagli. Mia sorella mi ha scritto per sapere se
fossi stata rapita.»
«Oh, per favore.» Avevo mandato il mio autista nell’appartamento
di Becca con le valigie vuote per farle riempire a sua sorella.
«Ramesh ha detto che Missy è stata fin troppo felice di dare una
mano. Anzi, gli ha chiesto di spostare la culla nella tua stanza per
avere un po’ più di spazio.»
«Ovviamente» sospira Becca. «Nate, è una stupidaggine. Posso
andare a casa e basta. Mi sono già riposata. Se hai riconsiderato il
tuo invito, non mi offenderò.»
Sì, certo…
Senza guardarla negli occhi, allungo la mano sul tavolo per
prendere la sua. «Resta, Bec. Domani mattina partirò per
Washington. Fatti un paio di notti di sonno decente. È una buona
medicina.»
«Grazie» sussurra.
Le stringo la mano, riluttante a lasciarla andare. Becca prende il
bicchiere e io mangio in silenzio per un po’.
È difficile individuare il momento in cui ho smesso di guardare Bec
come un’amica e ho iniziato a sognarla. È cominciato qualche tempo
dopo la rottura con Juliet, quando ho notato che Rebecca era stata
sempre presente nella mia vita, migliorandola ogni giorno. Avevo
iniziato a protendermi verso di lei quando parlavamo, riscoprendomi
distratto dal suo profumo. La sua risata roca riusciva sempre a
farmelo diventare duro.
Di notte avevo cominciato a svegliarmi, rendendomi conto di aver
sognato di spogliarla. Tuttavia, la mia coscienza mi ha sempre spinto
a svegliarmi prima che concludessimo qualcosa. Un minuto eravamo
pelle contro pelle, le mie mani sul suo corpo. E l’attimo dopo mi
destavo sudato e sofferente. E con i sensi di colpa.
Ecco un bel cliché, signori miei. Non sono altro che l’ennesimo
nerd scapolo preso da un desiderio senza speranza per la propria
assistente. La storia più antica del mondo.
«Vuoi una birra?» le offro.
«Vorrei, ma non devo bere. Né leggere. Né guardare la TV. O
mettermi in condizione di prendere spinte.»
«Sono tutte le mie cose preferite!» scherzo. Inoltre, so io che
spinte le darei. Con il mio cazzo.
Dopo essermi schiaffeggiato mentalmente, mi alzo e apro il
frigorifero, passando in rassegna il contenuto. La signora Gray ha un
po’ troppo tempo libero. Le bevande sono praticamente in ordine
alfabetico. «Succo d’ arancia? Soda? Sette diversi tipi di acqua
frizzante?»
«Stupiscimi» risponde.
Scelgo una lattina di seltzer di lamponi per lei e una birra per me.
«Vuoi giocare a...?» esito. Il ping-pong non si addice a chi perde
spesso l’equilibrio. «Scarabeo?» suggerisco, invece. «Non è uno
schermo. E non rischi spinte.»
«Ma il tuo cervellone mi batterà alla grande» sottolinea. «Sarà
meglio mettere un tetto basso alle scommesse.»
Prendo dalla dispensa un pacchetto di biscotti. «Ci giochiamo
questi.»
«Ci sto» dichiara Becca, con un sorriso che mi scioglie. È solo per
me, soffuso di quella sua grande personalità rinchiusa in un
corpicino morbido.
Prendo un piatto per i biscotti e andiamo di sopra nella tana. Forse
è triste, ma è la cosa più divertente che abbia fatto da anni.
7

Durante la prima notte a casa di Nate, mangio troppi Oreo e a


Scarabeo perdo miseramente.
Il mio punteggio non migliora giocando la parola “rutto”, ma la
compongo lo stesso perché il mio senso dell’umorismo è molto
infantile. «Dovrebbero esserci anche dei punti per lo stile» affermo,
mentre Nate annota il mio punteggio.
«Per cosa?» chiede.
«Per le parole impertinenti. Funzioni corporali. Imprecazioni. Doppi
punti per qualsiasi cosa vietata ai minori. Pensa al potenziale di
marketing! Gli adolescenti giocherebbero a Scarabeo invece che a
Call of Duty.»
Nate inizia a posizionare le lettere con una smorfia. «Da ragazzo
ero il tipo di giocatore che a Scarabeo cercava sempre i palindromi.»
«Mica tutti possiamo avere una mente perversa.» Poi mi rendo
conto che una battuta simile fa uno strano effetto se detta quando
sono da sola con Nate sul divano della sua accogliente tana.
Sentendomi colpevole, lo guardo per assicurarmi che sappia che sto
scherzando. Non sta sorridendo, però. Ha gli occhi ombrosi e seri. E
– forse sto davvero perdendo la testa – c’è un inusuale calore nel
suo sguardo. Una frazione di secondo dopo, entrambi ci rendiamo
conto che i nostri sguardi si sono incontrati in modo non normale per
noi.
Avverto un crampo al ventre, un desiderio insolito a cui non riesco
a dare un nome. O a cui non voglio dare un nome. Intanto, stiamo
intrattenendo un nuovo genere di conversazione con gli occhi. I suoi
sono sulla mia bocca. Forse a parlare è il mio trauma cranico, ma
potrei giurare che Nate sta pensando di baciarmi.
Baciare me.
«Nathan, signore?» interviene all’improvviso una voce incorporea.
L’interruzione di Bingley mi fa sussultare, dopodiché Nate e io
distogliamo lo sguardo nello stesso momento.
«Ramesh desidera sapere se è rientrato per la notte.»
Nate si schiarisce la gola. «Sì. Attiva tutti i sistemi di sicurezza.»
«Sistemi attivati» risponde Bingley.
C’è un lungo istante di silenzio, poi mi decido a parlare. «Quindi,
domani gara 5? Sto morendo. Dobbiamo avanzare, voglio vedere
un’altra partita prima della fine.»
«Andremo avanti» decreta, riordinando le sue tesserine. «Stai
cercando di distrarmi, eh? Così che non possa triplicare il punteggio
con la parola “visionario”.» Il suo tono è leggero come sempre. Devo
aver immaginato il momento strano di un attimo fa.
«Da’ retta a me, stronzetto» lo prendo in giro. Poi mi allungo a
prendere un altro Oreo. «Fa’ del tuo meglio. Posso farcela.»
Ridacchia. «Sicura?»
«O Geronimo! No minor ego.» È un palindromo.
Nate sorride mentre raccoglie alcune tesserine nel palmo della
mano. Sta per schiacciarmi come un insetto. Lo sento. «Mi fa
piacere sentirti scherzare, Bec.»
Quando alza il mento per sorridermi di nuovo, qualsiasi cosa
pensassi di aver visto nei suoi occhi è sparita. Compone una parola
da sessanta punti.
Mezz’ora dopo, sbadiglio e gli cedo la vittoria. «Non riesco a
credere di essere già stanca. Oggi pomeriggio non ho fatto altro che
dormire.»
«Bene» approva, spazzando via le tesserine. «Fallo anche
domani.»
«Quanto vorrei venire a Washington per la partita di hockey!»
Portami con te!
Mi manca il mio lavoro. Mi manca la mia vita
«Non puoi» sentenzia. «Se tu fossi lì, i ragazzi ti stresserebbero.
Sono abituati a chiederti sempre qualcosa e tu sei troppo efficiente
per dire di no.»
Mi acciglio perché ha ragione. «Ma non so come passare il tempo.
Questo divieto di leggere è snervante. E niente schermi? Mi sento
tagliata fuori da tutto e mi annoio.»
«Mmm» mormora Nate. «Puoi chiacchierare con Bingley.»
«Al vostro servizio!» Lo schermo dall’altra parte della stanza si
illumina. «Di cosa avete bisogno, ragazzi?»
«Racconta a Rebecca una barzelletta» gli chiede Nate.
«Subito! Perché lo spaventapasseri ha avuto una promozione?»
domanda Bingley. «Perché è eccezionale nel suo campo.»
Entrambi scoppiamo a ridere. Non perché sia stata una battuta
divertente, anzi, proprio per il contrario. E forse entrambi abbiamo
bisogno di una risata.
«Un’altra» reclama Nate.
«Se la tua vita non prende il servo giusto, probabilmente sei
dislessico.»
«Gesù. Bisogna lavorare un po’ sul modulo dell’umorismo»
ammette Nate. «Lo dirò ai miei programmatori.»
«C’è un modulo dell’umorismo?» chiedo, pur supponendo di sì.
«Magari si potesse insegnare alla gente a essere più spiritosa.
Quella sì che sarebbe un’innovazione.»
Nate fa un altro versaccio, il che mi eccita di nuovo.
«Non sopporto le matrioske» si intromette Bingley. «Sempre così
piene di sé.»
Muoio. Ho le lacrime agli occhi. «È ora d-di dormire» singhiozzo, e
Nate semplicemente sorride.

Una volta nella mia stanza, mi chiedo se avrò difficoltà ad


addormentarmi nella casa di Nate. Dopo essermi infilata nel letto a
baldacchino sotto coperte da un milione di fili, lo sento muoversi per
casa. L’acqua scorre rapida nelle tubature del suo bagno d’epoca e
avverto i suoi passi sui grandi e vecchi pavimenti di legno.
«Spegni le luci, Bingley» ordina da qualche parte.
«Buonanotte, dolce principe» risponde una voce.
«Amleto? Un po’ oscuro.»
«Chiedo scusa, signore. Dormite con gli angeli. Tutti i sistemi di
sicurezza sono attivati.»
Pochi minuti dopo, una piacevole pace cala sulla casa. Immagino
Nate a letto con chissà quale resoconto sul suo tablet, gli occhiali da
lettura sul naso.
Mi sdraio contro i cuscini, sentendomi accudita. Non è una
sensazione familiare. Mi addormento, domandandomi come ho fatto
a essere tanto fortunata da lavorare per l’uomo migliore del mondo.

La mattina dopo, quando riesco a farmi una doccia e rimettermi in


sesto, Nate è già in viaggio verso l’aeroporto. Forse è meglio così.
Altrimenti lo avrei supplicato di portarmi con sé a Washington.
Quando scendo le scale, in cucina c’è la signora Gray. Nel
vedermi, mi rivolge un sorriso simile a quello di un bambino la
mattina di Natale. «Rebecca! Hai dormito bene? Come ti piacciono
le uova? Caffè?»
È felicissima di vedermi. Potrei non essere l’unica a essersi sentita
un po’ sola in questi giorni. «Ho dormito bene» rispondo. Ed è vero.
«Non c’è bisogno che cucini per me.»
«Bel tentativo, cara. Le uova? Il bacon c’è.»
«Be’, in questo caso...»
Duemila calorie dopo, la signora Gray ritira un pacco alla porta sul
retro. «Ah!» esclama, portandolo dentro. C’è sopra un fiocco.
«Questo è per te. Nate mi aveva avvisata che sarebbe arrivato.»
Anche se Nate non c’è, sciolgo il fiocco con un po’ di imbarazzo e
apro la scatola. Quello che trovo dentro è completamente
inaspettato: un paio di costose cuffie antirumore. E un biglietto.
Rebecca, per favore, controlla il telefono. Vedrai che durante la notte è stato
aggiornato. Ci sono due nuove app. Una è Bingley, così lo puoi controllare a
voce direttamente dal telefono. L’altra è una app di audiolibri; ne troverai due
già scaricati e pronti all’ascolto. Ti faranno sentire meglio. N.
«Oh, mio Dio.» Accendo il telefono e cerco le app. Gli audiolibri –
Orgoglio e Pregiudizio e La Straniera – durano in tutto più di
quaranta ore. «Questo perché mi sono lamentata di annoiarmi.»
«Ora non più» ridacchia la signora Gray. «Non con Jamie Fraser
che ti sussurra all’orecchio. Che matrimonio!» Fa un piccolo verso di
approvazione. «Adesso, va’! Claire e quel marito che si ritrova che
rimbalzano sul letto alla locanda...» sospira.
La signora Gray è una fonte eccellente di cultura romantica. Mi
riempie di nuovo la tazza di caffè e mi spinge di sopra.
Ci vado volentieri, premendo “play” sul primo libro e sdraiandomi
su quel grande divano.

La sera mi ritrovo a casa da sola. La solitudine è un sogno. E


neanche mi sembra di aver trascorso ore in totale isolamento, visto
che i personaggi de La Straniera mi hanno parlato per buona parte
del tempo.
A trecento chilometri di distanza, però, la mia squadra di hockey
sta per scendere sul ghiaccio. E perdermelo mi uccide. Inoltre, non
riesco a trovare il telecomando per la TV gigante nella tana di Nate.
«Bingley» chiamo nel silenzio.
«Sì, Miss?»
«Come fa una ragazza ad accendere quel televisore? Deve
esserci un trucco.»
«Nate mi ha informato che gli schermi sono controproducenti per
voi.»
«Sul serio? Ha nascosto il telecomando.»
Bingley fa schioccare la sua lingua digitale. «Miss, non c’è il
telecomando. Controllo io il sistema di intrattenimento.»
«Porca miseria. Sei prepotente come Nate.»
«Perché io sono Nate. La mente di Nate. Il deep learning da lui
programmato è molto potente.»
Mi si drizzano tutti i capelli sul retro del collo. Non riesco a credere
di sentirmi così inquieta per via di un computer. Ma è una sorta di
versione britannica del mio capo. Riesco quasi a sentire girare le
rotelle di Nate.
Tuttavia, è l’ora dell’hockey. Non cederò a una macchina. «Nate
ha detto che avrei dovuto chiederti tutto ciò di cui avevo bisogno.»
«Assolutamente.»
«Apri lo sportellino dei comandi, Hal.»
«Conosco già questa battuta, Miss.»
Rido, nonostante tutto. «Bingley, ho bisogno che tu trasmetta la
partita dei Bruisers. Potrebbero chiudere la serie, stasera. E non
guarderò lo schermo, ascolterò e basta.»
«Affare fatto.»
Lo schermo si accende e il contatore dei canali all’angolo scorre
man mano che Bingley naviga in cerca della partita. Un momento
dopo, il ruggito della folla di Washington riempie la stanza.
«Ecco fatto, mia cara. Gentilmente sedetevi dove la luce blu non
possa disturbare i vostri graziosi occhi.»
«Sei davvero un brav’uomo, Bingley.» Non è affatto un uomo,
però. Il che significa che tecnicamente sto parlando da sola. O forse
con Nate. O un’eco di Nate? Giuro, mi fa un po’ male la testa solo a
rifletterci su. Quindi mi lascio cadere sul divano e mi sdraio. «Bene»
dico alla stanza vuota. «Che la vittoria abbia inizio.»
Gara 5 è una partita molto tesa. Nel primo tempo, non segna
nessuno. Poi, poco dopo l’inizio del secondo, arriva il gol di
Washington. E in qualche modo i Bruisers reagiscono subito. I minuti
restanti, però, scorrono a rilento. A quanto pare non sono l’unica a
sentirsi frustrata. Il gioco diventa instabile ed entrambe le squadre
cominciano ad accumulare minuti di penalità.
Mi rigiro sul divano, cercando di non guardare lo schermo. Ogni
volta che la folla prorompe in esclamazioni di sorpresa, però, vorrei
sbirciare. Se non fosse per il mio infortunio, in questo momento sarei
allo stadio, nella tribuna privata di Nate, a bere un bicchiere di vino
con Georgia, mia migliore amica e PR della squadra.
Invece, c’è Lauren a tenere in fresco la Diet Coke di Nate e a
guardare la partita dal vivo da un’ottima posizione. Col broncio,
probabilmente.
«Com’è ingiusta la vita» piagnucolo, lo sguardo rivolto al soffitto a
cassettoni di Nate.
«Vero» si accoda Bingley. «Il fallo su Trevi era da penalità, ma il
sistema di Nate calcola che abbiamo ancora il sessantasette
percento di possibilità di vincere la partita.»
Mi siedo. «È legato, Bingley. Significa che abbiamo entrambi
ancora una probabilità del cinquanta per cento.»
«Non è vero. Il sistema incorpora le statistiche dei giocatori in
tempo reale. E nel possesso del disco i Bruisers stanno
dominando.»
Non riesco a credere di stare qui a discutere con una macchina.
Cosa non farei per un bicchiere di vino in questo momento,
accidenti. Mancano meno di tre minuti al termine.
«Goal!» urla Bingley all’improvviso.
I miei occhi volano sullo schermo. Non posso farci niente. La luce
è accesa e O’Doul sta festeggiando. La telecamera taglia su Nate in
tribuna che si sfrega le mani. Un sorrisetto compiaciuto gioca agli
angoli della sua bocca. «Non festeggiare!» grido. «È troppo presto!»
«Ora le nostre probabilità di vittoria sono di novantaquattro punto
sette percento» aggiunge Bingley.
«Zitto.»
Obbedisce. E, per un attimo mi chiedo se non abbia ferito i suoi
sentimenti.
Solo che è una macchina.
Sto impazzendo, ma la sofferenza dura solo altri tre minuti. E poi è
proprio vero: i Bruisers sono passati al secondo turno.
«Devo rimettermi presto» dichiaro, sovrastando la gioia del
commentatore. «Questa merda di restare seduta a casa non fa per
me.»
Bingley non risponde e ne sono stranamente delusa. «Ehi,
Bingley.»
«Sì, Miss?»
«Puoi mandare un messaggio a Nate da parte mia?»
«Vocale o di testo?»
«Ehm… un testo. Digli che Rebecca gli manda le sue
congratulazioni.»
«Certamente, mia cara. Aggiungiamo emoji?»
«No, perché non abbiamo dodici anni.»
«Preso nota.»
Un minuto dopo, lo schermo della TV si oscura e mi alzo dal
divano. «Buonanotte, Bingley.»
«Buona notte, Miss. Devo svegliarla per la visita medica di
domani?»
«Certo. Grazie!»
«È un piacere. Nate ha risposto al suo testo. Le ricorda di riposare
un po’.»
Ovviamente.
8

Due anni prima

Il regno di Nate era diventato un impero. Il castello era stato


ampliato ulteriormente – ora lui possedeva l’intero palazzo in centro
e aveva ricollocato il suo ufficio nell’attico destinato ai dirigenti.
Via il tavolo da ping-pong. Via i jeans e le scarpe da ginnastica al
lavoro (fine settimana a parte). In quei giorni il nostro principe
doveva vestire come richiesto dal suo ruolo. Giacca e pantaloni, di
tanto in tanto anche la cravatta. L’ufficio aveva ampie vetrate che si
affacciavano sull’East River e Brooklyn.
Alcune cose non erano cambiate, però. Per raggiungere il lavoro
prendeva il traghetto ogni giorno, proprio come un pendolare
qualsiasi, perché stare fermi nel traffico era da coglioni. E lavorava
ancora tra amici, anche se molti di loro adesso indossavano giacca e
cravatta.
Ma non Rebecca. Quando Nate sbirciava tra le tendine del suo
ufficio per guardarla alla scrivania, gli appariva sempre magnifica e
professionale. Ma mai noiosa. Prediligeva gonne vintage o abiti dai
colori vivaci. Conferiva un timbro unico a tutto ciò che toccava. E il
suo sorriso ancora illuminava la stanza.
Era un felice martedì di marzo e Nate aveva una riunione di lì a
dodici minuti. Sorseggiava il suo eccellente caffè e sfogliava i titoli di
tecnologia.
Le riunioni erano il vero svantaggio di essere il capo di una
compagnia che rientrava nella Fortune 500. Il nostro feudatario non
poteva più chiudere la porta del suo ufficio chiedendo di essere
lasciato in pace. La KTech adesso era così grande che le decisioni
importanti divoravano quasi la metà della sua settimana lavorativa.
Di quei tempi, quando aveva una nuova idea rivoluzionaria, doveva
delegarne ad altri la parte più divertente.
Era una rottura. Davvero. Ma lo stipendio gli era di conforto. Con i
telefoni KTech in vendita in sei continenti, le casse reali
traboccavano di soldi. Nate possedeva una dimora storica a
Brooklyn, due automobili e un jet privato. Mangiava il miglior cibo
che il denaro potesse comprare e sceglieva i vini senza guardare il
prezzo.
«Nate.»
La dolce voce di Rebecca gli fece distogliere gli occhi dallo
schermo. «Sì?» Oggi indossava un abito avvolgente che le
abbracciava le curve. Era di un verde che le metteva in risalto gli
occhi. I capelli erano più lunghi del solito e, durante le riunioni, Nate
trascorreva più tempo di quanto fosse salutare a chiedersi che
consistenza avrebbero avuto se vi avesse passato in mezzo le dita.
Si sentiva in colpa per quelle fantasie su di lei. Erano cominciate
poco tempo dopo aver lasciato Juliet. Per un po’ aveva avuto una
lunga serie di incontri di una notte per cercare di sentirsi in pace con
quel fallimento. A un certo punto, però, quegli appuntamenti segreti
avevano perso la loro attrattiva. Nello stesso periodo aveva
cominciato a meditare sulle curve di Becca e a chiudere gli occhi
quando lei gli stava accanto. Un profondo respiro al momento giusto
gli avrebbe consentito di raccogliere il suo profumo di lillà per
spedirlo dritto in fondo al suo cuore solitario.
Il suono della sua voce a volte gli procurava la pelle d’oca.
Quando lei rideva, ne sentiva il riverbero nel petto.
In quell’istante, però, si rese conto di essersi assentato mentre
Rebecca parlava e non aveva idea di cosa gli avesse detto. «Scusa»
sospirò. «Puoi ripetere?»
Becca alzò al cielo gli occhi belli. «La chiamata. Sulla linea uno.
Qualcuno di una squadra di hockey della NHL? Non mi sembrava
una telefonata che avresti voluto prendere, ma il tipo ha insistito...»
«Oh, merda.» Controllò l’ora. «Gli ho chiesto io di chiamare oggi.
Rinvia la prossima riunione di dieci minuti, okay?»
Rebecca l’avrebbe gestito senza problemi, e infatti scomparve
dalla porta del suo ufficio senza fare commenti. Un rinvio di dieci
minuti non era niente per lei. Becca aveva intrattenuto capi di Stato
in momenti di sovrapposizione. Aveva attraversato in aereo il Paese
solo per portargli il prototipo di un componente che gli serviva,
perché non si era fidato di nessuno di rango inferiore. Aveva persino
sopportato delle palpatine da parte di uno dei suoi distributori
asiatici. E poiché non voleva guastare l’affare, lo aveva raccontato a
Nate solo a cose fatte.
Nate aveva annullato l’accordo e non era entrato in affari con
quell’azienda.
Rebecca gli era entrata sottopelle. Era un’amica. Era il suo braccio
destro. E ora anche la sua improbabile cotta.
Non glielo avrebbe mai confessato, comunque. Perché mai una
volta quella ragazza gli aveva dato l’impressione di ricambiare il
sentimento. Quindi non avrebbe perso tempo a trovare il modo di
aggirare la loro condizione di datore di lavoro e dipendente.
Avrebbe smesso semplicemente di desiderarla. Da quel giorno in
poi. O almeno lo sperava.
«Una squadra di hockey?» gli chiese Rebecca più tardi, mentre lui
passava davanti alla sua scrivania. Doveva essere orario di uscita,
perché c’erano pochi dirigenti in giro.
Nate si fermò e si sedette sul bordo della sua scrivania. «Che ne
pensi, Bec? A te piace l’hockey?»
«Molto. È un gioco rapido. Niente stronzate.» Si accigliò. «Prima
avevi l’abbonamento per i Rangers, vero? Immagino che tu li abbia
lasciati perdere.»
Così era, infatti, ma non gli piaceva parlare del perché. Aveva
sempre guardato l’hockey con Juliet. Ma ora gli era capitata
un’opportunità che non poteva lasciarsi sfuggire.
«C’è un po’ di lavoro da fare sulla squadra che ho preso in
considerazione. Ma potrei investirci su.»
«Veramente?» Spalancò i suoi begli occhi. «Sembra divertente.
Se compri una squadra di hockey, dovrò pianificare una festa. Con
tutti quei giocatori pieni di muscoli. E cibo a forma di disco.»
Nate rise, nonostante il commento sui giocatori di hockey l’avesse
trafitto come un coltello piantato nel cuore. «Cibo a forma di disco?
Tipo gli… Oreo?»
«Medaglioni di maiale. Mini Wellington di manzo.»
«Sushi? Cazzo. Ora ho fame.»
Si sorrisero per un secondo. Nate sarebbe potuto rimanere lì per
sempre, ma vennero interrotti da un giovane in divisa da corriere.
Nate si aspettava che le consegnasse una busta, ma non fu quello
che accadde. «Eccola qui!» esclamò quello, invece. «Pronta?»
Quindi si protese sulla scrivania e baciò Rebecca proprio sulle
labbra.
Nate desiderò di prenderlo a calci.
Nate desiderò di prendere a calci anche se stesso.
Tuttavia, non fece nessuna delle due cose.
9

24 aprile

«L’hotel ha due torri. Possono accoglierci, ma non tutti dalla


stessa parte.»
Lauren mi sta parlando, sta pianificando il nostro ormai prossimo
viaggio a Bal Harbour, ma non è che stia prestando effettivamente
attenzione. Anzi, mi concentro sul traffico intermittente del
Triborough Bridge. È domenica mattina e il jet della squadra è
appena atterrato al LaGuardia. I miei ragazzi ce l’hanno fatta. Hanno
vinto il primo turno dei playoff nella quinta partita contro Washington,
portandoci al secondo round. Fino alla partita di stasera non
sapremo chi sarà il nostro prossimo avversario.
Mi sta andando tutto per il verso giusto. Tranne il traffico. Sono già
venti minuti che siamo in macchina diretti a Manhattan. «Non
dovrebbe essere così di domenica mattina» mi lamento.
Lauren mi dà un colpetto sul fianco con la sua penna a sfera.
«Ramesh non arriverà prima se continui a battere il piede come un
cretino.»
«Grazie tante, grande saggia.»
Sul sedile anteriore Ramesh sbuffa.
«Vuoi ascoltarmi? Oppure no, non mi interessa. Basta che dopo
non ti incazzi per la sistemazione.»
Le sue unghie perfette ticchettano sulla tastiera wireless che ha in
grembo.
«Basta che prendi le suite per noi. Non mi importa dove.»
«E me lo dici ora...» Altri ticchettii dal suo lato del sedile
posteriore. «Va bene. Ho anche aggiunto uno smoking alla tua lista
di bagagli. Ti viene in mente qualcos’altro prima che lo spedisca alla
signora Gray?»
«Metti un paio di costumi da bagno. Non dimenticare il tuo.
Saremo sulla spiaggia.»
«Sai, non mi va molto di andare in Florida. Che ne dici di andare
senza di me e poi raccontarmi com’era?»
«Porta un costume, Lauren. Verrai.»
Brontola. È l’unica persona a me vicina a non essere totalmente
contenta che i Bruisers abbiano raggiunto il secondo turno, perché
significa più viaggi e più possibilità di interagire con Beacon, il suo
ex. «Non sono molti i proprietari di una squadra che farebbero
partecipare i propri giocatori a una serata di beneficenza in abito
scuro quarantotto ore prima del successivo turno dei playoff.»
«Non capita spesso che i nostri giocatori arrivino al secondo turno
dei playoff» sottolineo. «Dovranno stringere mani per un paio d’ore.
Sopravvivranno. È per una buona causa.»
«Ricordami perché lo facciamo.»
«Alex e io abbiamo fatto una scommessa. La mia squadra è
arrivata ai playoff e la sua no, quindi deve donare un milione di
dollari in beneficenza. La serata in abito scuro la aiuterà a pagare la
scommessa con i soldi degli altri ricconi della Florida.»
Lauren considera la strana spiegazione. «Cosa sarebbe successo
se foste arrivati entrambi ai playoff? O nessuno dei due?»
«Probabilmente avremmo diviso a metà. O ci saremmo ubriacati
con del costoso champagne chiedendoci perché abbiamo investito
nello sport.»
«Perché ami tanto l’hockey?» mi chiede Lauren.
«Perché l’hockey è tutto.» Sono cresciuto nell’Iowa, ma sono nato
nel Minnesota. L’hockey ce l’ho nel sangue. Potrebbero esserci altri
motivi per cui voglio vincere la Coppa, ma non ne parlo ad alta voce.
L’auto prende velocità e un paio di minuti dopo ci immettiamo
finalmente sulla FDR Drive di Manhattan. «Ti lascio a casa, vero?»
«Sì, grazie. Ma mi riposerò solo per un paio d’ore. Vuoi che ti
raggiunga in ufficio? Lo farò, finché non ti renderai conto che è
domenica. A quel punto, probabilmente piagnucolerò.»
«Risparmiati la fatica. Non vado in ufficio.»
Lauren mi guarda con sospetto. «Allora perché siamo entrambi su
un taxi per Manhattan? Ti sei perso? Brooklyn è laggiù.» Indica il
finestrino del passeggero.
«Devo andare in centro. Nei pressi del City Hall. Rebecca ha
l’appuntamento con lo specialista.»
Rispondere a quella domanda non è stata una buona idea. Lauren
è pronta a farmi la festa. I suoi occhi assumono un bagliore
malizioso e il suo sorriso diventa felino. «Hai duemila dipendenti. Ti
presenti alle visite mediche di ognuno di loro?»
«Ovviamente no. Sarebbe troppo dispendioso in termini di tempo,
nonché imbarazzante.»
«Allora perché vai a quella di Rebecca?»
La stessa domanda mi ha frullato nel petto per tutta la mattina.
«Perché le ho trovato io questo medico e voglio sentire cosa dice. E
perché ci conosciamo da molto tempo. Se tu fossi ammalata e
spaventata, accompagnerei anche te, se lo volessi.» Era vero.
Probabilmente.
«Spero di non aver mai bisogno di un simile favore da parte tua.»
«Lo spero anch’io, amica.»
Guardo il fiume mentre lasciamo la FDR e prendiamo l’uscita in
direzione del centro. Ormai Rebecca dovrebbe già essere
all’appuntamento. Spero che il medico se la prenda comoda con lei.
Ha bisogno di risposte. E dal momento che l’ho corrotto per
presentarsi al lavoro di domenica mattina, non avrà neanche altri
pazienti a reclamare la sua attenzione.
«Sai, Nate...»
«Mmm?»
Quando mi giro verso Lauren, la trovo a osservarmi. «Hai fatto un
bel discorso l’altro giorno ai giocatori. “Se non ora, quando”.»
«Non proprio originalissimo» preciso.
«È stato sincero, però.» Fa scattare la penna con fare assente.
«Mi è piaciuta soprattutto la parte sul “perché non io”.»
«Be’, è vero» dico. «Perché non noi? Questa squadra può arrivare
fino in fondo.»
«Certo. Ma tu?»
«Ma io cosa?»
«Se non ora, quando?» Inarca un sopracciglio. «E perché non
tu?»
«Non capisco di cosa stiamo parlando ora. E stavo perfino attento
come un bravo bambino.»
Lauren scuote la testa. L’auto rallenta fino a fermarsi di fronte al
suo condominio sull’East 30. «Secondo me, sai bene cosa intendo.
E se non è così, spero che lo scoprirai presto. Salutami tanto
Rebecca.»
Oh, cavolo. Lauren è subdola. Proprio mentre lo penso, scivola
fuori dalla macchina e chiude lo sportello, lasciandomi solo con la
mia stessa confusione. Ramesh continua verso il centro, arrivando in
ospedale poco prima delle undici. Quando finalmente trovo la
reception del dottor Armitage al nono piano, in fondo al corridoio si
apre una porta e ne esce Rebecca. Si sta asciugando le lacrime.
Qualcosa mi abbranca le viscere e scatto verso di lei. Mi bastano
quattro o cinque falcate per raggiungerla. Mi guarda con gli occhi
umidi e non riesco a trattenermi. La prendo tra le braccia e la stringo
al petto. È calda e viva contro di me. Se il dottore le ha dato cattive
notizie, non voglio crederci. Non c’è nessuno più vitale di Rebecca.
So che starà bene proprio come so che il sole sorgerà di nuovo
domattina. Prende un respiro profondo e incerto e si lascia
abbracciare.
«Dimmi tutto» le ordino. Qualunque cosa le abbia riferito lo
specialista, non importa. Troverò uno specialista ancora più
specializzato che sappia cosa cazzo fare.
«Ha detto...» Singulto. «C-che sa cosa c’è che non va.»
«E?» Mi preparo al peggio.
«Che si risolverà.»
Le sue braccia mi stringono. Le batto distrattamente il palmo sulla
schiena mentre cerco di dare un senso alle sue parole. «Bene»
azzardo con cautela. «Allora perché piangi?»
«P-perché...» Si stacca da me quel tanto che basta per rivolgermi
un sorriso lacrimoso. «Non me lo aveva mai detto nessuno! Tutti
dichiaravano “Non sappiamo perché la tua reazione non è quella a
una normale commozione cerebrale. Torna a casa e aspetta”. Invece
il dottor Armitage sostiene che sia...»
«Un problema vestibolare!» Sento una voce risuonare lì vicino e
sposto gli occhi da Rebecca a un uomo sorridente con i capelli
brizzolati e il braccio teso. Stringo la mano al dottor Armitage,
mentre continua a parlare. «Il trauma cranico non è più un problema.
Quando Rebecca ha sbattuto sul ghiaccio, ha strapazzato alcuni
nervi dell’orecchio e la normale elaborazione sensoriale ne è uscita
temporaneamente disturbata.»
«Oh.» Avevo già letto qualcosa in proposito. «Sono casi più rari
rispetto alla commozione cerebrale, ma non più gravi.» Il peso che
ho sul petto comincia a sciogliersi.
«Esatto. Dovrà impegnarsi molto nella terapia qui...» Con una
mano indica una stanza piena di colorate attrezzature da palestra.
«Deve allenare il corpo e il cervello a comunicare di nuovo in modo
efficiente. I miei terapisti la aiuteranno a lavorare sull’equilibrio e la
coordinazione. Vedrà qualche miglioramento già tra qualche
settimana e, nel giro di qualche mese, la ripresa sarà completa.»
Un’altra lacrima le scorre dall’occhio mentre sorride al dottore.
«Non vedo l’ora di cominciare.»
«Dopodomani.» Le dà una pacca sulla spalla. «Prenoto un trainer.
Le sessioni durano novanta minuti. Nel frattempo, deve aver cura di
se stessa. Può essere attiva quanto vuole, ma si assicuri di dormire
otto o dieci ore. E tempo limitato davanti allo schermo. Niente luci
blu dopo il tramonto. Imposti il telefono sulla luminosità minima, ma
non ci stia troppo davanti fin quando non ci saranno miglioramenti
nei sintomi.» Poi il medico si rivolge a me. «Se avete una TV in
camera da letto, deve rimanere spenta per qualche settimana. La
maggior parte delle coppie di solito trova di meglio da fare per
impiegare il tempo, comunque.»
Mi fa l’occhiolino, e il mio cervello si inceppa all’idea che ci
consideri una coppia. «Ehm…» Non so cosa dire, ma passare in
rassegna gli ultimi due minuti è illuminante. Mi sono precipitato qui,
ho abbracciato Rebecca come se fosse il mio orsacchiotto preferito
e le ho asciugato le lacrime dal viso...
«…Tre sessioni di novanta minuti a settimana.» Il dottore è già
passato oltre. «Prima di tutto prendiamo i parametri di base, poi ci
mettiamo subito al lavoro. È stato un piacere conoscere entrambi.»
Gli stringo la mano ancora una volta e poi se ne va. «Wow»
sospira Rebecca, appoggiandosi al muro. «Sono così sollevata. Non
ne hai idea.»
«È una magnifica notizia, Bec. Torniamo a casa?» Nel riascoltarmi
mentalmente, mi darei un calcio. Casa. È chiaro che devo
impegnarmi di più nel mantenere le distanze. Ho dato l’impressione
sbagliata al medico cinque secondi dopo il mio arrivo. Non vorrei che
Rebecca pensasse che avevo qualche secondo fine, quando le ho
chiesto di rimanere da me.
«Stai andando in ufficio?» mi chiede in ascensore. Le porte si
aprono sull’atrio e ci avviamo all’uscita. È una bella giornata di
primavera.
«No. È domenica. Mi prendo il giorno libero. E poi è ora di pranzo
e sto morendo di fame.»
Rebecca raddrizza la schiena. «Allora andiamo a trovarti il pranzo.
Sushi?» È subito scattata in modalità business. Prevenire la mia
morte per stenti è una cosa che Rebecca fa regolarmente. E anche
se è bello vederla tornare alla vecchia se stessa, sono sicuro di non
aver bisogno che si dia così tanto da fare per me.
«Lo cerchiamo lungo la strada» suggerisco. «Troviamo un
chiosco, magari? È una bella giornata e sono stato in aereo tutta la
mattina.» La guido verso Center Street.
«Dov’è la tua roba?»
«In macchina con Ramesh. Ehi, guarda.» Ho appena visto una
finestra del take-away. «Che ne dici di un falafel?»
«Vediamo che aspetto ha» risponde. «Un buon falafel è il
paradiso. Un falafel insignificante è solo uno spreco di carboidrati.»
La sua frase mi strappa un sorriso. Rebecca è una buongustaia in
modo divertente e non fastidioso. Ai vecchi tempi, aveva perlustrato
il quartiere alla ricerca di locali che ci potessero essere sfuggiti. Così
aveva trovato il Cantonese, divenuto poi la leggenda dell’ufficio. E il
nostro fornitore di sushi preferito.
Sotto il sole primaverile, provo una strana nostalgia per quei giorni
più semplici. All’epoca il mio lavoro era più divertente. Eravamo degli
sfigati. Solo io, Rebecca e una dozzina di programmatori contro il
mondo. Se cancelliamo il tradimento di Juliet, è stato un bellissimo
periodo della mia vita.
Rebecca dichiara accettabile il falafel, così ne compro due e un
paio di bottigliette d’acqua. «Ti va di attraversare il ponte di
Brooklyn?» È un sacco di tempo che non lo faccio.
«Certo!» Sorride, volgendo il viso verso il cielo. «Però camminare
e mangiare... Ho già abbastanza problemi di coordinazione e…»
Le trovo una panchina e ci sediamo a mangiare.
«Non devi comunicare a Ramesh dove siamo?» chiede.
La bocca piena, confermo con un grugnito. Ramesh dovrebbe
tenermi d’occhio, quindi quando me ne vado in giro è una
scocciatura.
Rebecca sfila il telefono dalla tasca per riferirgli via messaggio i
nostri spostamenti.
«Pensavo non dovessi usare gli schermi»
«Non usarli troppo» mi corregge. «Ma ora non devo seguire il
protocollo della commozione cerebrale, quindi è un po’ diverso.
Riprendere a leggere va bene. L’unica cosa che devo evitare è la
luce blu dopo il tramonto.»
I nostri occhi si incontrano per una frazione di secondo e le vedo
un lampo divertito nello sguardo, come se si fosse appena ricordata
del consiglio del medico a proposito del televisore in camera da letto.
Distogliamo lo sguardo nello stesso momento.
«A proposito, grazie per gli audiolibri» dice in tono allegro. «Gran
bella idea.»
«Prego.»
«Ho anche ascoltato la partita. Mi sono dovuta mettere di spalle
alla TV per evitare la tentazione di guardare. Quando Trevi ha
segnato il quarto goal, ho strillato così forte che Bingley mi ha
chiesto se andava tutto bene.»
«Ah, sì?» Pensare a Rebecca in giro per la mia tana mi rende
stupidamente felice. «Che forza. Hai fatto caso se Bingley ha
interpretato male altri segnali?» C’è sicuramente da lavorare sul suo
sistema di Intelligenza Artificiale, solo che non ne ho il tempo.
«È stato un perfetto gentiluomo. Ho starnutito e mi ha detto
“salute”.»
«Ah, sì? Che classe. Vai così, Bingley.» Il giovane programmatore
con cui sto lavorando al prodotto è un tipo spiritoso. Grazie a lui,
Hal/Bingley identifica anche il suono delle scorregge. Ecco cosa mi
tocca, quando assumo un ventiduenne.
Rebecca accartoccia l’involucro di alluminio vuoto del falafel.
«Congratulazioni, Nate. Scherzi a parte, la partita è stata
fantastica. Sono felicissima che tu stia andando avanti nei playoff.»
«Non ho mica vinto io» obietto, già in piedi e in cerca di un
cestino. «Ma da guardare è stata sicuramente divertente. Pronta a
fare due passi?»
«Certo.»
Avrei dovuto prevedere che il ponte di Brooklyn sarebbe stato
pieno zeppo di gente. Il tempo è così bello che la città intera è uscita
a goderselo. Ci sono famiglie e coppie che si tengono per mano.
Controllo Rebecca, perché non voglio che barcolli. Siamo proprio
accanto alla pista ciclabile, dove le biciclette sfrecciano in modo
pericoloso. L’idea che qualcuno possa farle male mi fa impazzire.
E non stiamo a chiederci il perché.
«Farò tre sedute a settimana con i terapisti» mi informa Rebecca.
«Il dottor Armitage ha detto che le prime mi prosciugheranno
totalmente, ma che non dovrò scoraggiarmi. Non ha mai avuto un
paziente vestibolare che non sia migliorato sensibilmente con la
terapia, a meno che non ci fosse qualche altro problema. Non pensa
che sia il mio caso, però.»
«Bene. Mi piace come suona.»
«Anche a me! Dovrei anche tornare presto al lavoro. Ha detto che
possiamo riparlarne tra due settimane.»
Due settimane mi sembra davvero ambizioso, ma per una volta
tengo la bocca chiusa.
«Pensavo che all’inizio potrei rientrare part-time» mi propone.
«Senti prima cosa ne pensa il dottore.»
Mi dà una piccola spinta sul braccio. «Non smontare la mia
ebbrezza, Nate. Ah, e a proposito di ebbrezza, il divieto di bere è
ancora in vigore. A quanto pare l’alcol può mandare in confusione i
sistemi vestibolari.»
«Questo avrei potuto dirtelo anch’io. La tequila, in particolare.»
Sorride, ed è il sorriso della vecchia Becca. Mi era mancato.
«Raccontami di questa festa per cui la signora Gray sta preparando i
bagagli. Bal Harbour? Sembra molto glamour.»
«L’ha organizzata Alex. Se glamour significa che mi farà indossare
uno smoking, allora sì, penso lo sia. Quel cazzo di papillon, quanto
lo odio.»
«Solo perché ancora non riesci ad annodarlo.»
Mi dà un colpetto col bacino e mi viene voglia di prenderla e
baciarla.
Non lo faccio, però. «So annodare il papillon. Semplicemente non
mi diverte.»
«Ecco la mia proposta: il nodo te lo faccio io. In Florida.»
Sghignazza. «Sulla spiaggia. Non riesco a credere di perdere questa
festa. L’universo mi odia.»
«Peccato. Mi avrebbe fatto comodo la compagnia. Devi andare a
fare terapia, però.»
«No. Per martedì ho preso il posto di qualcuno che ha disdetto,
ma poi non possono inserirmi prima di giovedì. In che senso ti
avrebbe fatto comodo la compagnia?» Si illumina a quella
prospettiva. «Sono settimane che non vedo nessuno. Mi sento
un’eremita.»
«Allora dovresti venire» mi sento dire. «Lauren mi ha consigliato di
presentarmi accompagnato alla serata.»
«Accompagnato? Davvero?» Becca gira intorno a una donna con
il passeggino, poi si volta a guardarmi da sopra la spalla. «Per cosa?
Non so se sarei capace di chiedere alla gente di fare donazioni.»
Scuoto la testa. «Non è questo il motivo. Ho bisogno che il cocktail
sia un evento sociale. Il tuo unico compito sarebbe quello di
stroncare qualsiasi chiacchierata di lavoro su un accordo di fusione e
acquisizione che sto prendendo in considerazione.» Con una
vecchia amica che voglio evitare.
«Ah, okay.» Respira. «Vorrei tanto venire. Ma sono già in debito
con te per così tante cose.»
«Stronzate» rispondo subito. «Non mi devi nulla, okay? Non dirlo
neanche.» Pensa solo a rimetterti, vorrei aggiungere. Ma non lo
dico, perché suonerebbe strano o assillante. «Vieni in Florida, allora.
Rilassati in spiaggia con Georgia. Visita la terra di chi sa vivere. Poi
torna qui in tempo per la terapia.»
«Sì!» Batte le mani. «Devo tuffarmi nell’armadio. Sarà un vero
spasso. Quanto è elegante questa festa? Sto cercando di
immaginare gli smoking su una spiaggia. Sa un po’ di matrimonio.»
«È la cosa più stupida che abbia mai sentito.»
Becca ridacchia. «Chiederò a Georgia cosa indossare. Non vedo
l’ora di rivederla.»
Appare così felice che so di aver preso la decisione giusta.
10

26 aprile

«Presa!» esclama una voce senza corpo nei paraggi. Poi il


terapista mi afferra la mano. La sua è calda e asciutta, mentre la mia
è un po’ sudaticcia. «Forza, signorina Rowley. Tenga gli occhi chiusi
e cominci a saltare.»
Sono quasi sopravvissuta alla mia prima seduta di terapia. Sono a
pochi minuti dalla vittoria. Ma saltare mi spaventa, così apro gli
occhi. Il centro terapico del dottor Armitage è un incrocio tra una
vera palestra e un asilo. Sono in piedi su un mini trampolino. Ci sono
tappetini, assi di equilibrio, un tavolo da ping-pong e palle mediche
colorate di ogni dimensione. Verrò qui tre volte a settimana per
un’ora e mezza, facendo tutto quello che mi ordinerà il preparatore.
Guardo Ramón di sottecchi. Ha i capelli neri e ricci, occhi scuri e
sorridenti e una pelle bronzea. È il ritratto della salute, in sostanza. E
ci teniamo ancora per mano, perché ho paura di eseguire l’esercizio
da sola.
«Forza» mi sprona pazientemente Ramón. Mi stringe la mano.
«Chiuda gli occhi, signorina Rowley.»
«Dammi del tu e chiamami Becca» insisto, temporeggiando.
«Salta, Becca. Manda il sedere in aria, altrimenti ti trattengo dopo
la scuola per aver disobbedito all’insegnante.»
Anche se so che sta scherzando, quella prospettiva mi fa
rinsavire, perché c’è un posto in cui devo assolutamente andare
dopo questa seduta. Così chiudo gli occhi, gli stringo la mano e
rimbalzo timidamente sul trampolino. Le scarpe da ginnastica
neanche si staccano dalla superficie. Ma non importa. Sono subito
travolta dalla nausea. Allarmata, riapro gli occhi di scatto e mi
aggrappo a Ramón come un gatto terrorizzato.
«Va tutto bene» mi rassicura. Poi ride.
«Non possiamo tornare al camminare? O alla trave?» imploro.
Prima di questo, ho fatto dieci minuti di tapis-roulant con gli occhi
chiusi. E anche se per tutto il tempo mi sono retta alle barre laterali
con una presa da far sbiancare le nocche, cosa importa? E l’asse di
equilibrio per bambini nell’angolo? Certo, è a soli cinque centimetri
da terra, ma l’ho percorsa tutta.
«No! Prima finiamo qui» risponde con fin troppa allegria. «Dai,
prova a saltare un attimo con gli occhi aperti. Provaci, solo un po’.»
Mi lascia le mani e si allontana.
Titubante, piego le ginocchia, cercando di prendere lo slancio.
Lo scopo della terapia vestibolare è di ripristinare il collegamento
tra orecchie, occhi e cervello. Per farlo devono disorientarmi di
continuo, in modo da costringere il cervello a recuperare sempre di
più. A meno che il dottor Armitage e Ramón non si siano bevuti il
cervello, dovrei migliorare. Lentamente.
«Così» mi incoraggia Ramón. «Scegli un punto fisso da guardare.
Ti senti stabile?»
«Abbastanza.» A parte le tette. Ho indossato il reggiseno sbagliato
per questa avventura. L’esperienza insegna.
Dopo lo sballottamento di tutte le mie varie parti, Ramón mi
prende la mano. «Okay, Becca. Chiudi gli occhi e rimbalza cinque
volte.»
Li chiudo. Uno. Due... Il mondo sembra ondeggiare nel vuoto. La
presa di Ramón intorno alla mia mano si stringe. «Ce la fai. Ancora
un paio.»
Non ce la faccio, invece. Al quarto rimbalzo, sono così spaesata
che mi cedono le ginocchia. Ramón mi sostiene. Mi afferra per i
fianchi e mi fa scendere dal trampolino, posandomi poi a terra.
Riapro gli occhi di scatto e mi aggrappo alle sue spalle muscolose
per non cadere. «Quel trampolino sta cercando di uccidermi.»
«Non è vero. I trampolini sono divertenti. In men che non si dica ti
faremo saltare come una professionista.»
Quando tornerò qui tra due giorni, dovrò ricordarmi di portare un
sacchetto per il vomito e un reggiseno sportivo.
«La mia seduta è finita?» mi informo, speranzosa.
«Abbiamo ancora cinque minuti. Vieni qui. Questa parte è facile,
non devi far altro che sederti su una sedia.»
«In questo sono sempre stata brava. Soprattutto se c’è del vino e
un film con Channing Tatum in TV.»
Ramón ride. «Il vino non è una buona idea, signorina. Dai al tuo
corpo ancora un paio di settimane per ritrovare il proprio equilibrio,
prima di concedertelo.» Mi accompagna a una sedia girevole e mi ci
siedo.
«Farai meglio a non dirmi che Channing Tatum non giova al mio
recupero. Altrimenti mi troverai già fuori di qui.»
«È in quel film di spogliarellisti maschi, giusto? La mia ragazza lo
adora. Se venisse Channing Tatum insieme a te sul trampolino,
accetteresti di saltare?»
«Ci puoi giurare.»
«Allora vedo di fargli un colpo di telefono per vedere se è
disponibile per la prossima seduta.»
Se solo non stesse scherzando. Anche se credo che Channing
Tatum sia effettivamente sposato nella vita reale, non fa niente. Quel
pensiero si interrompe quando Ramón appoggia le mani sullo
schienale della sedia e le fa fare un rapido giro.
«Oh, mio Dio. Ti odio» farfuglio, mentre la sedia gira in tondo. Le
mie gambe volano fuori ad angolature imbarazzanti, così stringo i
braccioli in una presa mortale.
«Invece no!» Dà un’altra spinta alla sedia e il mio stomaco viene
preso alla sprovvista. Chiudo gli occhi, ma questo non fa che
peggiorare le cose, così li riapro di nuovo. Per fortuna, la rallenta fino
a fermarla del tutto. «Come ti senti?»
«Secondo te? Mi gira la testa!»
Guarda l’orologio e sorride. «Dimmi quando smette di girare.»
Cerco di concentrare lo sguardo su un canestro da basket sulla
parete opposta. Ondeggia verso destra più volte prima di tornare al
proprio posto sul muro. Inspiro ed espiro lentamente ancora un paio
di volte in attesa che i confini del mio campo visivo smettano di
ballare. «Adesso. La stanza ha smesso di ondeggiare.»
«Cinquantacinque secondi» dichiara Ramón, alzando lo sguardo
dall’orologio. «Normalmente il sistema vestibolare recupera dopo
dieci secondi. Questo sarà il nostro obiettivo. Dieci secondi. Ci
arriveremo.»
Anche se quest’uomo ha rischiato ripetutamente di farmi vomitare,
sono abbastanza sicura di credergli. «È tutto per oggi, cattivone?
Perché c’è una festa che mi aspetta, dove potrò indossare un vestito
per la prima volta da un mese.»
Mi stringe la spalla. «Vai a prendertela, Rebecca. Divertiti. Ma non
bere, a meno che tu non voglia sentirti peggio di come ti ha fatto
sentire la sedia girevole.»
«Ricevuto!» Mi alzo, un po’ stanca, un po’ stordita, ma molto più
ottimista di quanto non sia stata da tanto tempo. «Ci si vede!»
Ramón mi batte il cinque e sono fuori. La mia borsa porta abiti e il
mio kit manicure/pedicure mi aspettano nello spogliatoio vicino
all’area di allenamento. Li prendo e corro fuori per entrare nella
macchina che mi aspetta.

Cinque ore dopo metto piede nell’elegante hall di un hotel di Bal


Harbour, in Florida. Anzi, entro a passo di danza in quella hall. Per
settimane ho provato solo nausea e paura. La nausea la sento
ancora (soprattutto quando Ramón mi fa girare sulla sedia), ma non
ho più tanta paura. E lasciare New York – anche se per meno di
ventiquattr’ore – è una sensazione favolosa.
Quando arrivo, Georgia mi sta aspettando. Nel vederla mi sfugge
un urletto di entusiasmo e l’abbraccio. «Dove posso lasciare la mia
roba, così possiamo andare a giocare sulla spiaggia?»
«Ho la chiave della tua stanza. Puoi salire subito.»
«Non dormo con te?»
«Stavolta no. Non c’è la partita stasera, quindi dormo con Leo.» Il
suo fidanzato, Leo Trevi, è un nuovo arrivo dei Bruisers. Di solito non
fanno coppia in trasferta. Ma questa festa di Nate è un evento
eccezionale, credo. «Nate ti ha aggiunto alla lista dei pernottamenti.
Stanza 404.»
«Ah. Non gli avevo chiesto di prendermi una stanza.»
«In ogni caso, te l’ha presa.»
Questo mi irrita un po’. «Non gli ho permesso di comprarmi il
biglietto aereo, però. Dato che non sono qui in veste ufficiale, non
sarebbe giusto.» Inoltre, sto cominciando a diventare sensibile
riguardo ai soldi che Nate ha speso per me da quando ho sbattuto la
testa sul ghiaccio. Continua a dire che gli amici si fanno favori a
vicenda. Ma non voglio approfittarne.
«Smettila di farti problemi. Hai portato il costume da bagno,
vero?»
«Sissignora. E una potente crema solare. Andiamo a sederci su
un asciugamano a spettegolare. Sono secoli che non ci vediamo.»

Il pomeriggio è magnifico. Non solo è divertente passare del


tempo con Georgia, ma mi sento a un milione di chilometri di
distanza dai miei problemi. Ci sfidiamo a tuffarci completamente tra
le onde, ma l’acqua è così fredda che ci chiamiamo fuori entrambe
quando ci arriva alle spalle. Tornate sulla spiaggia, ci sdraiamo sugli
asciugamani e lasciamo che il sole ci riscaldi di nuovo.
«Com’è stare a casa di Nate?» mi chiede Georgia.
«Strano. Come giocare alla casa in una villa. Siamo usciti a
mangiare sushi l’altra sera. La signora Gray non lavora la domenica
e Nate non entra mai da solo in cucina.»
«Almeno sa dov’è?»
«Certo, perché è lì che tiene la Diet Coke.»
Georgia ridacchia. «In quella casa dev’esserci l’eco. Ti fa un
effetto strano passare il tempo con lui? In quel modo?»
Ci rifletto. «Sì e no. Nate e io abbiamo sempre passato molto
tempo insieme. In aereo. Negli alberghi e nelle sale conferenze.
Tutte quelle prime trasferte nella Silicon Valley e persino in Asia,
prima che avesse un vero entourage. Stavamo sempre insieme
perché ci trovavamo in un posto sconosciuto.»
La mia amica resta in silenzio per un po’. «Dimentico sempre che
una volta passavi tutta la settimana con lui. Un’esperienza che deve
avervi unito.»
«Sì. Onestamente, l’unico aspetto strano di vivere a casa sua è
che non è poi così strano. È come se... Mi ha fatto sentire la sua
mancanza. Il che non ha senso. Ma quelli erano bei tempi. Eravamo
una grande squadra.»
«Mmm.» Georgia sembra assonnata dietro gli occhiali da sole.
«Capisco. È stato speciale. Non tutti possono dire di essere stati la
spalla di Nate Kattenberger per cinque anni di fila.»
«A quei tempi non era il famoso amministratore delegato della
KTech. Solo un ragazzo che non riusciva a sbloccare una stampante
inceppata senza il mio aiuto. Ma raccontava fantastiche barzellette.
Era divertente.»
Mi manca la sua irriverenza. E la sua estrema calma. Alcuni lo
considerano fin troppo tranquillo, ma io non l’ho mai visto così.
«Sai cos’è davvero pazzesco?» chiedo a una Georgia sonnolenta.
«Quando le cose vanno male, Nate non urla mai. È difficile fare
colpo su di lui, ma non è neanche facile mandarlo in crisi. Non credo
di aver apprezzato quell’aspetto fino a quando non sono andata a
lavorare per la squadra di hockey.»
«Hugh è un po’ più volubile» concorda Georgia, riferendosi al
direttore generale della squadra.
«Non è male, ma a volte entra nel panico, come ogni persona
normale. Ogni tanto alza la voce. Nate, invece, è come una roccia in
mezzo al fiume. Tutto gli scorre accanto, senza spostarlo
minimamente. Credo sia per questo che mi sento più calma da
quando sono andata a stare da lui. Continua a dirmi che andrà tutto
bene e io gli credo perché...» Non so neanche io perché.
«Perché è la persona più intelligente che abbiamo mai
conosciuto?»
«Sì, certo.» Ma non so se ho mai ammirato il suo carattere la metà
di quanto faccia in questo periodo. Ed ecco che mi ritrovo
meditabonda su una spiaggia. Che cosa significa?
«È quasi ora di agghindarsi per la festa» considera Georgia. «Ti
va di andarci a preparare nella suite di Lauren? Ci ha chiesto di
salire. Ci saranno degli snack, credo.»
«Sicura? Gli snack sono una bella cosa.» Tuttavia, è una richiesta
insolita. Non è un caso se la chiamiamo Regina Lauren: è la persona
più fredda che conosciamo. «Da quando in qua Lauren fraternizza
con noi?»
Georgia fa spallucce. «Non sono più tanto sicura che sia la
stronza che pensiamo. Lo sapevi che lei e Mike Beacon stavano
insieme?»
«No!»
«Storia vera.»
«Mike Beacon? Non riesco a immaginarlo.» Davvero, è da pazzi.
«Lauren non fa che ripetere quanto odi l’hockey.»
«Già.» Georgia si mette a sedere. «Sono quasi certa che abbia
cominciato a odiare l’hockey solo dopo che Mike Beacon l’ha
scaricata al telefono per tornare a vivere con la ex moglie.»
«Ah!»
Restiamo entrambe per un minuto a fissare le onde che si
infrangono sulla riva, mentre cerco di immaginare sua maestà
Lauren con il portiere. «Aspetta, quando si sono lasciati?»
«Due anni fa, proprio poco prima che Nate comprasse i Bruisers.»
«Cioè quando Lauren ha preso il mio posto.» Non è uno dei miei
argomenti preferiti. Georgia sa che a volte vado al manicomio
cercando di capire perché Nate abbia scambiato Lauren e me –
affidando a me la gestione dell’ufficio della squadra di hockey – che
era l’incarico di Lauren prima che Nate ne rilevasse la proprietà – e
dando a Lauren il mio lavoro a Manhattan.
«Ci stavo pensando anch’io» ammette Georgia. «È possibile che
Nate abbia considerato la sua rottura prima di scambiarvi di ruolo?
Forse sapeva che Lauren era un’ottima impiegata, ma che si
sarebbe licenziata se non l’avesse rimossa da quell’ufficio.»
«È... interessante» rifletto. «Ma un po’ inverosimile.»
«Forse» concorda Georgia, abbassando la voce. «So che ti ha
sempre infastidito che Nate ti abbia mandato a Brooklyn.»
«Sì, probabilmente non lo capirò mai.» All’epoca, Nate aveva
insistito che si trattava di uno “slittamento di carriera” e che aveva
bisogno di una persona di fiducia nel nuovo ufficio di Brooklyn. Ma
l’idea di essere esclusa dalla sua cerchia più ristretta di Manhattan
mi aveva scossa. Avevo pensato di averlo deluso, di essere a un
passo dal licenziamento.
Ma ormai dopo due anni mi sono abituata e Nate continua a
essere amichevole con me come sempre. Forse anche di più. Tutto
sembra perfetto e normale. O almeno fino a quando ho battuto la
testa.

Georgia e io incontriamo la nostra amica Ari all’ascensore nord


mentre ci dirigiamo in camera di Lauren, che si trova all’ultimo piano
dell’hotel. E, a giudicare dalla direzione che prendiamo uscendo
dall’ascensore, deve avere una sensazionale vista sull’oceano.
Quando apre la porta, sono in fondo al gruppetto. Non appena
Lauren mi vede, i suoi occhi si illuminano per la sorpresa. «Ehi,
ciao!»
«Noto l’entusiasmo sul tuo viso ma, purtroppo, non sono ancora
rientrata in azione. Il mio nuovo super dottore mi ha fissato diverse
settimane di terapia.» Mi incammino verso l’ampia vista sull’oceano
e, passando, prendo un sottaceto da un vero e proprio tavolo da
pranzo. «Ho frignato così tanto che Nate mi ha accordato un
permesso temporaneo. Mi hanno rilasciato per buona condotta per
questa festa, purché sia di nuovo nello studio di terapia tra
quarantotto ore.»
«Ah.» L’espressione di Lauren si spegne. «E va bene. Quindi
dovrò proprio andare a questa cazzo di festa. Qualcuno stappi una
bottiglia di vino.»
Ci diamo da fare con i capelli e il trucco nell’enorme camerino
pieno di specchi di Lauren.
«Come ti senti?» mi chiede Georgia, sdraiandosi sul divano
accanto a me.
«In questo momento? Alla grande. Sono seduta qui a mangiare
costosissimi cibi da albergo e ti ho appena messo uno smalto rosa
da urlo sulle dita dei piedi. Ma a volte mi sento tutta strabica e la
stanza comincia a oscillare.»
«Che peccato» commenta la mia migliore amica con un sorriso
triste.
«Davvero. Ma mi piace questo nuovo medico e mi sento davvero
fiduciosa che sappiano cosa fare. Sono così stanca di essere di
peso.»
«Non sei mai di peso» si affretta a ribattere Georgia.
«Magari…»
«È strano stare lontani dal lavoro?» chiede.
«Stranissimo. Ho sempre la sensazione che si dimenticheranno di
me e assumeranno qualcun altro. Tipo: “Ma non c’è nessuno a
quella scrivania? Meglio metterci qualcuno”.»
«Com’è stare con Nate?» mi chiede Ari. «Sicuramente a casa non
c’è mai, credo. Tranne che per dormire.»
«Forse, ma sono nella sua tana privata. Non può andare in giro
nudo o altro.»
Georgia ridacchia. «Se lo vedi nudo, voglio i dettagli. Quel
corpo…»
Una vampata mi risale per il collo. «Smettila. Cerco di non sedermi
in giro a immaginarlo nudo.»
Anche se probabilmente è un capolavoro. Quando Nate viaggia
con la squadra di hockey, ogni mattina fa yoga con loro. È anche
molto, molto bravo. E molto snodato. Non che sia stata lì a notarlo.
«Che c’è di male? Tutti abbiamo un corpo nudo» sottolinea
Georgia. «Anche chi indossa scarpe da ginnastica da ottocento
dollari.» Conosciamo tutti il prezzo delle scarpe di Nate perché una
volta GQ ha pubblicato un articolo sulle sue scelte in fatto di moda.
«Ma non dobbiamo immaginarcelo. È rischioso. Se mi concedo
questo tipo di curiosità, un giorno o l’altro, durante una riunione con
l’ufficio marketing, mi immaginerò Nate nudo e quando qualcuno si
girerà per farmi una domanda sulla vendita dei biglietti
probabilmente risponderò: “bicipiti”.»
«Ha davvero dei bicipiti notevoli» sospira Georgia.
«Smettila» le do una gomitata. Non voglio spogliare col pensiero il
mio capo che ultimamente è stato così buono con me. L’intera
faccenda mi mette a disagio.
«Becca, ora tocca a te farci vedere il tuo vestito» esordisce
Lauren, posando l’arricciacapelli.
Apro la chiusura lampo della custodia e tiro fuori il mio vestito, che
non potrebbe essere più diverso dall’elegante abito rosa di Georgia.
«È vintage anni Cinquanta, senza spalline.» Lo tengo su per far
vedere il pizzo rosa su raso bianco, con una fascia rossa coordinata
in vita.
«Wow!» approva Georgia. «Sono contenta che tu abbia deciso di
indossarlo.»
«Vero?» Lo scuoto appena. «Spero sia abbastanza elegante. Nate
mi ha chiesto di andare a bere qualcosa con lui prima che inizi
questa festa. Incontrerà la sua vecchia amica prima di dare il via alle
danze, e mi ha scritto...» Tiro fuori il telefono e strizzo gli occhi alla
fitta di dolore alla testa. «“Non ti staccare da me, non voglio parlare
di affari. Alex vuole sfilarmi la divisione router”.»
Lauren ride. «Oh, Nate. Bel modo di gestire la cosa da adulto.»
«Ho visto Alex una sola volta tanto tempo fa» racconto.
Scommetto che Lauren ne sa più di me. «Secondo te Nate ha un
debole per lei? C’è un’altra prospettiva? Devo forse farla ingelosire o
roba simile?»
«No!» esclama Lauren. «Non c’è niente tra quei due. Nate non
vuole ricevere un’offerta da Alex sulla divisione router perché pensa
di poter ottenere un accordo migliore se qualcun altro offre per
primo.»
«Ah, ok...» Mmm. «La serata è appena diventata molto meno
interessante di quanto pensassi. Peccato non poter neanche bere.
Georgia…Vieni qui, tesoro. Fatti sistemare il mascara.»
La mia amica si gira. «Mi sono macchiata?»
«Non ancora, bambolina. Ma stai sicuramente per farlo. Lascia
fare alla zia Becca.»
«Non hai nessuna fiducia in me!» piagnucola Georgia, ma poi
consegna lo stick del mascara.
«Ho piena fiducia in te! Tranne quando si tratta di moda e di
trucco.» La amo da morire, ma è negata, poverina. Il suo concetto di
lucidalabbra è il burro di cacao dell’anno prima rinvenuto nella tasca
del giaccone invernale.
Dopo aver salvato il viso di Georgia, indosso il mio vestito. In un
modo o nell’altro mi ritrovo accanto alla mia rivale davanti allo
specchio. Lauren è alta e sinuosa. Indossa un abito di seta blu che il
nostro portiere di punta ha scelto per lei in una boutique quando
stavano insieme. Sembra una cavolo di star del cinema.
Siamo uno studio di contrasti. Io sono una dozzina di centimetri
più bassa, tanto per cominciare. Sono l’amica bassa e formosa.
Quando ho trovato questo vestito in un negozio vintage di Brooklyn,
l’ho scelto per il taglio. È a vita stretta, come me, ma con abbastanza
spazio per le tette. La mia silhouette era molto in voga negli anni
Cinquanta. Adesso, non molto.
Forza, mi motivo da sola. Su la testa. Stasera ho l’occasione di
divertirmi un po’. Magari incontrerò un bel giocatore di basket e me
la spasserò un po’.
Si può sempre sognare.
«Sai...» Lauren mi guarda, pensierosa. «Mi sa che potresti avere
ragione. Ogni tanto ho una strana sensazione su Alex, come se
avesse una cotta per Nate. Ma potrei sbagliarmi. E Dio solo sa che
Nate potrebbe non accorgersene nemmeno. Quell’uomo è
acutissimo quando si tratta di motivare gli altri, ma ottuso come
pochi quando si tratta di se stesso.»
Alza gli occhi al cielo, e io provo un lampo di compassione per il
nostro capo. «Hai mai visto Juliet, la sua ex?» le chiedo.
«No! Tu?» Lauren si sistema un orecchino e i nostri sguardi si
incontrano nello specchio. Sembra molto incuriosita. A quanto pare
Nate non è l’unico ad amare il gossip.
«Certo che sì. Si faceva vedere spesso i primi tempi. Nate non
viaggiava molto durante il primo anno che ho lavorato per lui e i loro
uffici non distavano molto. A volte gli portava la cena. Erano una
bella coppia.»
Almeno all’inizio.
«Mi risulta difficile immaginare Nate in un rapporto di coppia»
ammette Lauren.
«Ci stava, però» ribatto. Sento il bisogno di difenderlo. «Era
premuroso, il genere di fidanzato che aiuta nell’organizzazione del
matrimonio. Sarebbe stato in tema Doctor Who, con tanto di Tardis
sulla torta...»
Lauren fa una smorfia, ma io lo avevo trovato adorabile.
Eccentrico al punto giusto. Nate le era stato molto devoto.
Finché lei non aveva mandato tutto a puttane.
Distolgo gli occhi dallo specchio per ammirare il nuovo vestito rosa
di Georgia, poi la conversazione si sposta sulle possibilità della
squadra di arrivare ai playoff e sui meriti delle spazzole rotonde di
diverse dimensioni per l’asciugatura dei capelli.
Niente ricarica le batterie come una piccola chiacchierata tra
ragazze.
«Me lo reggi?» mi chiede Georgia, porgendomi il suo bicchiere di
vino in modo da potersi infilare le scarpe. «Dio, quanto odio i tacchi.
Ma come fate?» mi chiede.
«Sono bassa. Mi esercito fin dalla pubertà.»
Bussano alla porta. Sto quasi per invitare lo sconosciuto a entrare,
quando sento la voce di Nate. «Lauren?»
«Un attimo!» risponde lei, posando la spazzola tonda.
«Ci serve ancora un minuto!» grido. «Non siamo presentabili!»
È una bugia bella e buona, infatti ridono tutte mentre Lauren apre
la porta. Nate è lì, con un papillon in mano. «Entra» lo incoraggia
Lauren.
Leggermente sotto shock, osserva il teatro della nostra pre-festa: il
cibo sul tavolo e il vino. I suoi occhi cadono su di me e, per qualche
motivo, si incupisce. «Sono stato al telefono tutto il giorno con
Silicon Valley. Non sapevo si svolgesse una festa nella stanza
accanto.»
«Povera, povera creatura» canticchio. Salto su per togliergli di
mano il cravattino. «Hai davvero appena bussato alla porta di Lauren
perché non sai allacciarti il papillon?»
Se non mi sbaglio, arrossisce. «Odio gli smoking.» Il suo sguardo
si abbassa sul bicchiere che ho in mano. «Pensavo che non dovessi
bere.»
Oh-oh.
Apro la bocca per dichiarare la mia innocenza, ma Georgia mi
toglie il vino di mano. «Me lo stava tenendo intanto che provavo
queste scarpe.»
«È la verità, agente» professo. «Ora avvicinati, così ti sistemo
questo.» Tiro su il papillon.
Nate esita solo un attimo e mi chiedo se dubiti delle mie abilità con
le cravatte. Poi, però, si avvicina e alza il mento.
Tiro su il colletto della camicia e gli faccio scivolare la seta intorno
alla nuca. Da vicino, il profumo di Nate mi è familiare: di bucato e
sapone da barba. Inspiro a fondo e mi sento rivitalizzata. «Allora, a
proposito di stasera» inizio, armeggiando con il cravattino. Sono un
po’ bassa per questo lavoro, quindi Nate si china appena per venirmi
incontro. «Devo farti da cuscinetto per tutta la serata? O solo per la
prima parte?»
«Solo per il drink» risponde con voce roca. «Alex non può
trattenermi per tutta la serata. Si dovrà lavorare la sala per la sua
causa benefica.»
«Fantastico!» Allaccio con cura il papillon, poi lo tiro alle estremità
e lo sistemo. Ho fatto un ottimo lavoro. «Voglio ballare con i giocatori
di basket. Si dice che siano svelti di piede.»
Nate si incupisce. «È quasi ora di incontrarci con Alex al piano di
sotto.»
«Lo so, schiavista. Fammi prendere la borsa.» Mi avvicino alla
borsetta della manicure e la chiudo di scatto. «Posso lasciare qui le
mie cose, per ora?» La poso sotto lo sgabello per la valigia.
«Certo» risponde subito Lauren. «Divertitevi.»
Prendo la borsa – una pochette di lustrini che ho trovato in un
mercatino delle pulci – e infilo le scarpe rosse; solo cinque
centimetri, perché una ragazza con problemi di equilibrio deve
andare sul sicuro. Saluto le ragazze e seguo Nate fuori dalla porta.
«Su col morale, capo» chiacchiero mentre preme il pulsante
dell’ascensore. «Siamo in spiaggia e la mia borsa scintilla. Sarà una
bella serata.»
Il suo viso si addolcisce. «Bene. Cercherò di divertirmi. Non vedo
Alex da un paio di mesi, comunque.»
«Perché?»
«Impegni.» Solleva una spalla. «Il suo ufficio è a venti isolati dal
mio, eppure non abbiamo mai il tempo.»
Mentre scendiamo in ascensore verso l’atrio, mi rendo conto di un
dettaglio importante della mia vita, qualcosa che di solito non
apprezzo. A volte spaventa doversi sempre preoccupare dei soldi e
far quadrare i conti. Ma io ho delle libertà di cui Nate non gode.
Quando timbro il cartellino di uscita dal lavoro, è finita. Sono libera di
vedere gli amici e di pensare a tutto ciò che mi va.
Guardo il mio capo di sottecchi, studiando la sua espressione
seria. Quest’uomo non stacca mai. Non importa che ora sia, Nate è
sempre l’ultima fermata del treno delle decisioni in un’azienda che
conta diverse migliaia di persone e un fantastilione di azionisti.
Essere ordinari ha i suoi vantaggi. Strano ma vero.
Le porte dell’ascensore si aprono sull’ampio spazio dell’atrio.
Fallisco, però, nel mio grandioso ingresso. L’ascensore in
movimento mi ha disorientato, tanto che devo reggermi al muro per
un attimo prima di azzardarmi a uscire con i tacchi.
Un paio di ballerine sarebbero state meglio, suppongo.
«Tutto bene?» chiede Nate a bassa voce.
Lo guardo negli occhi e vi leggo la preoccupazione. «Benissimo. È
solo un contrattempo momentaneo.» Sorridergli mi riesce facile.
Stavolta non fingo il mio ottimismo. Schiaccerò questo problema
vestibolare e lo farò piangere.
Non appena uscirò da questo ascensore.
Nate mi offre il braccio e lo prendo senza protestare. È solido, e in
questo momento lo apprezzo più che mai.
Inoltre, ha un buon profumo.
Ci facciamo strada con calma nell’atrio. Il party si terrà nel patio
posteriore. È stato già affisso un cartello per avvisare gli ospiti
dell’hotel di tenersi lontani dall’evento privato (Accesso consentito
solo ai muniti di biglietto!). Ci sono enormi tende bianche appese a
corde di velluto rosso per dividere gli invitati in abito scuro dai
comuni mortali. Per mille dollari a testa, suppongo che i partecipanti
abbiano il diritto di sentirsi speciali.
Un buttafuori in smoking sgancia una corda di velluto per farci
passare. «Buonasera, signore. L’organizzatrice dell’evento è già
dentro, se avete bisogno di qualcosa.»
«Grazie» risponde Nate, mentre entriamo.
Al di là delle tende, la hall dell’hotel semplicemente… finisce.
Gigantesche porte a vetri sono spalancate su piscina a forma di
infinito, con l’acqua che lambisce le mattonelle di travertino del
bordo. Tutt’intorno c’è un prato, che cede il passo alla sabbia.
In lontananza, la spiaggia è stata delimitata e ci sono già due
guardie di sicurezza al loro posto a vigilare come sentinelle. Nessun
furfante deve intrufolarsi alla festa.
Gli ospiti non sono ancora arrivati. Vedo solo il personale e una
donna con un firmato abito asimmetrico: Alex.
Sta aspettando in fondo al prato, su uno sgabello da bar, da sola.
È bellissima in modo naturale, come succede alle donne ricche.
Probabilmente ha un’intera squadra di specialisti che si occupano di
mantenere il color miele dei suoi capelli e del suo guardaroba.
Mentre ci avviciniamo, ci guarda con occhi freddi e svegli. «Ehi,
straniero» esordisce quando siamo a distanza di conversazione.
Scivola giù dallo sgabello e si fa avanti per abbracciare Nate.
«Ciao» la stringe appena. «Ti ricordi di Rebecca?» Alex fa un
passo indietro e mi scruta con un vero e proprio cipiglio. «Ah.
Rebecca. La segretaria.»
«Office manager» puntualizzo prontamente. E altrettanto
rapidamente me ne pento. Non serve a niente polemizzare con una
delle più vecchie amiche di Nate. Tuttavia, il messaggio che si cela
dietro il suo sguardo gelido è inequivocabile.
Non sei la benvenuta.
«Gestisco gli uffici dei Brooklyn Bruisers, ora» aggiungo, cercando
di smussare la mia precisazione.
«Capisco.» Mi stringe la mano con forza. «Questo spiega perché
non ti vedo da un po’. Ma ora ricordo, Nate ti ha trasferito a Brooklyn
e ha promosso Lauren Williams. Ragazza fantastica, Lauren.»
«Vero» confermo, cercando di mantenere un tono leggero. «È la
migliore.»
Nate sgrana leggermente gli occhi, poi mi mette un braccio sulle
spalle. Un gesto di amicizia, ma Alex stringe gli occhi. «Rebecca ha
passato un paio di settimane molto difficili. L’ho invitata stasera per
tirarla su di morale.»
«Ah.» Alex manda indietro i capelli. Sono biondi e setosi. Sembra
la testimonial di una marca di shampoo.
«Trauma cranico» blatera Nate. «Lo sapevi che può mettere fuori
uso l’apparato interno dell’orecchio? Il piano terapico prevede sedute
su un trampolino e girare su una sedia da ufficio.»
«Che cosa stimolante» commenta Alex, sorseggiando un cocktail.
Dalla sua faccia sembra che qualcuno abbia preso a calci il suo
cucciolo, e ho la netta sensazione di essere io quel qualcuno. Ma
che il diavolo mi prenda se so il perché.
Da parte sua, Nate ignora il tono freddo di Alex. Fa un gesto al
barista, che sta rifornendo il bancone, preparandosi per l’imminente
assalto. «Cosa bevi?» chiede Nate ad Alex. Le indica il bicchiere,
che sembra contenere un Gin Tonic, o forse una vodka. Qualcosa di
trasparente e probabilmente costoso. A questi eventi si servono solo
alcolici di alta qualità. Non si bada a spese per i ricchi benefattori.
«Per ora sono a posto» risponde. «Ma ci sono dei cocktail speciali
per il nostro evento. Magari vuoi provare…,» allunga la mano verso il
menu del bar, «un Brooklyn Bubbly. Champagne, nettare di
albicocca e acqua di fiori d’arancio. C’è un delizioso cocktail con il
nome delle nostre squadre.»
«Fino a domani» commenta Nate, con una risata asciutta.
«Domani sera chiameranno lo stesso drink col nome del
passatempo di qualche altro riccone.»
Alex lo colpisce sul braccio. «La serata è troppo giovane per
essere già così cinici.»
«Non è mai troppo presto per essere cinici.» Si spazzola i risvolti
della giacca da smoking.
«Ti sei ripulito per bene» lo stuzzica Alex. Mi ha voltato
completamente le spalle. «Il papillon è del tipo con le clip?»
«Certo che no!» esclamo. «Gliel’ho annodato io.»
A quanto pare, però, non esisto proprio. Alex non dà segno di
avermi sentito.
E comunque, perché mi sono buttata nella mischia? Questa non è
la mia battaglia. Se è incazzata con Nate, non mi serve sapere
perché. Mi tolgo i tacchi e li infilo sotto uno sgabello del bar. L’erba
sotto i piedi è piacevole e il mio equilibrio migliora immediatamente.
Nate scruta la scelta dietro il bancone. «Ehi, Bec! Hanno il ginger
ale che piace a te.»
Alex stringe di nuovo gli occhi, ma Nate la ignora, ordinando un
analcolico per me e un Macallan invecchiato di diciotto anni per sé.
Arrivano i drink, e Alex sposta la conversazione sui vecchi tempi
del college, quando lei e Nate avevano vent’anni e facevano a gara
con i voti. «Ti ho fatto superare io l’esame di poesia francese»
afferma. «Ammettilo.»
«Ebbene, sì.»
Osservo le onde lambire la sabbia in lontananza e mi chiedo
quanto manchi all’arrivo di Georgia.
11

Okay, questa situazione è imbarazzante. Alex è irritata, e non so


perché.
Ha gli occhi luminosi stasera, ma più taglienti del solito. È scaltra,
e non lo nasconde mai. In genere, però, non è così acida con le altre
donne.
Nonostante Becca si faccia scivolare tutto addosso, mi dà fastidio
che la tratti così. Il mio istinto mi suggerisce che lo strano
comportamento di Alex non ha niente a che fare con la mia divisione
di router. Non ha neppure accennato agli affari.
Forse le rode di aver perso la scommessa con me? Ma è solo una
pia speranza. Come me, Alex è una donna d’affari tosta. Sa
assumersi dei rischi e sa come gestire i fallimenti.
C’è una terza possibilità, ma non mi piace molto. L’ultima volta che
ci siamo visti è stato a marzo. Eravamo a Las Vegas a un grande
convegno di tecnologia. Dopo una cena a base di bistecca, ci
eravamo insolitamente ubriacati nella sua suite. Io venivo da
pochissime ore di sonno. Durante quella notte, avevamo scritto su
un tovagliolo la scommessa che è poi sfociata in questa serata di
beneficenza.
E per la prima e unica volta eravamo andati a letto insieme.
«Dio, che stupidaggine» aveva borbottato Alex alle quattro del
mattino. «Ma che ci è venuto in mente?»
Avevo mormorato delle scuse imbarazzate mentre mi tiravo su i
pantaloni e recuperavo l’involucro del preservativo dal pavimento.
Per più di dieci anni lo avevamo sempre evitato e, all’improvviso,
avevo capito il perché. Tra Alex e me non c’era chimica. Per niente.
Zero. A mia discolpa, va detto che aveva cominciato lei. Ma avrei
dovuto pensarci bene.
«Non sei venuta accompagnata, stasera?» chiedo ora ad Alex, nel
tentativo di restare nel presente. «Dov’è...» Cerco nella memoria, ma
non riesco a trovare alcun nome. Due settimane dopo la nostra
stupida avventura, Alex mi aveva riferito che usciva con un uomo.
L’avevo preso come un buon segno – e come un gesto amichevole
per mettermi a mio agio, in modo da poter archiviare il nostro
momento di idiozia.
Pensavo che l’avessimo superata, comunque.
«...Jared?» suggerisce, ma poi fa una smorfia. «L’ho scaricato il
mese scorso. Non avrebbe funzionato.»
«Mi dispiace» le dico, e sono sincero. Alex incontra le mie stesse
difficoltà quando si tratta di rapporti personali. Non può fidarsi di
nessuno. Solo che per lei è un po’ più difficile, perché sta
effettivamente cercando un compagno. Un paio di anni fa mi ha
confidato il suo desiderio di sposarsi prima dei trentatré anni in modo
da poter avere un figlio prima dei trentacinque. Come se il
matrimonio fosse un altro obiettivo aziendale da passare a un team
di analisti per ottenere una valutazione.
Tuttavia, quando si tratta di matrimonio, non esistono diagrammi di
flusso. Povera Alex.
Agita una mano, sprezzante. «Che vuoi che sia… Ci sono tanti
pesci nel mare.» Ma la sua risatina è fragile.
Ahia. Richiamo il barista e ordino un secondo giro. «Un altro
ginger ale, Bec? E tu non mi hai ancora detto cosa stavi bevendo.»
Indico il bicchiere di Alex.
«Una semplice acqua tonica, grazie. Devo rimanere lucida, così
posso spillare soldi a tanti vecchi ricconi.»
«Sono certo che ci riusciresti tanto da ubriaca quanto da sobria.»
«Grazie.» Sospira.
Rebecca butta giù ciò che resta del suo primo drink e posa il
bicchiere sul bancone. Al contrario di Alex, sembra proprio la
vecchia se stessa. Ha un bel colorito e le brillano gli occhi. Dondola i
piedi sullo sgabello del bar e poi mi racconta una barzelletta terribile.
«Lo sai che un commerciante che vendeva vernice blu si è scontrato
con uno che vendeva vernice gialla? Sono rimasti entrambi al
verde.» Mi strizza l’occhio.
«Un’altra chicca di Bingley, vero?»
«Esatto.»
Finalmente ha perso l’espressione spaesata e impaurita che
aveva la settimana precedente. Mi sento sollevato all’inverosimile. È
difficile non fissarla, soprattutto non indugiare sulla morbida curva
delle spalle lasciate scoperte dal vestito senza spalline. Tutta quella
pelle che implora solo di essere baciata. L’abito ha lo scollo a cuore
e vorrei tanto tracciarne il contorno con la lingua.
Dio, le cose che vorrei fare con lei. Che versi fa quando è
eccitata? I pantaloni dello smoking sono una benedizione in questo
momento.
Prendo il mio secondo bicchiere di scotch e mi sforzo di guardare
Alex negli occhi mentre mi parla. Sostengo la mia parte di
conversazione, ma non è facile. Un tempo mi riusciva meglio
controllarmi in presenza di Rebecca. Dal giorno dell’incidente, però,
sono incredibilmente distratto. Non mi basta sapere che sta meglio.
Di recente sono stato viziato dalla sua compagnia. Mi ha reso avido
di lei.
Alex finisce di raccontarmi pettegolezzi di settore che ha sentito a
qualche conferenza tecnologica. Per la prima volta in assoluto, fatico
a sostenere la conversione con una delle mie più vecchie amiche.
Deve averlo percepito anche Rebecca, perché scivola giù dallo
sgabello. «Voglio sentire la sabbia sotto i piedi» annuncia.
«Facciamo una passeggiata prima che arrivino i “muniti di
biglietto”?»
«Perché?» Alex sorseggia il suo drink, corrucciata.
«Siamo in spiaggia. Se sono vicina all’oceano, voglio vederlo
davvero.»
«Anche Brooklyn è vicina all’oceano» borbotta Alex sottovoce.
Anche se Rebecca si sta allontanando, ha comunque sentito il
commento. «Sai, ho frequentato anch’io la quarta elementare, ma la
mia scrivania non si affaccia su Far Rockaway.» Con il suo drink
analcolico tra le mani, cammina fino al punto in cui l’impeccabile
prato dell’hotel cede il passo alla spiaggia.
«Ah, ecco qua.» Balla sulla sabbia.
La raggiungo e scruto l’orizzonte buio. C’è una nave al largo, le
luci brillano in lontananza.
Becca scava nella sabbia con l’alluce. Il sole è tramontato, ma
posso ancora intuire che lo smalto sulle unghie dei piedi è di un viola
brillante. Ho una gran voglia di passarle la mano lungo la caviglia
liscia e di esplorare la consistenza della sua pelle.
Cazzo.
Mi è presa male, o cosa?
«È il bar migliore in cui sia mai stata» commenta Becca con un
sorriso. Si alza un alito di vento che le solleva il vestito di un paio di
centimetri, scoprendole le ginocchia. Qualche cellula del mio cervello
salta in aria per solidarietà. A quella leggera brezza, Rebecca si
stringe le mani sulle braccia nude.
«Hai freddo?» Non posso fare a meno di chiederle. Parlo come
mia madre.
«Non abbastanza da rovinare la linea di questo vestito con uno
scialle.»
Alex prorompe in un verso derisorio. «Dev’essere bello essere
fuori dall’ufficio, suppongo.»
«In realtà, sarebbe fantastico essere in ufficio.» Il sorriso di
Rebecca svanisce. «Sono in congedo per malattia, al momento. Non
ne esco più. Nate mi ha invitato a questa festa perché ho avuto un
grave attacco di claustrofobia.»
«Giusto.» Alex osserva Becca, poi il suo sguardo scatta di nuovo
nel mio. Riesco quasi a vedere gli ingranaggi che girano. «Da
quanto tempo lavori a Brooklyn?»
«Due anni» risponde Rebecca, guardando le onde infrangersi
sulla riva.
«Già così tanto?» si meraviglia Alex e mi preparo. Non mi piace lo
sguardo calcolatore negli occhi della mia amica. «Ti piace
Brooklyn?»
«Molto» risponde subito Becca. «La squadra di hockey è
parecchio divertente. E la nostra struttura a DUMBO è davvero
fantastica. Vivono tutti nei dintorni, così ho avuto modo di conoscere
i fornitori con cui lavoriamo. È come una piccola città all’interno della
città.»
«Sembra carino» concorda Alex. «C’è qualcuno che ti sta
salutando, tesoro. Immagino che stiano lasciando entrare la gente. È
ora di pensare alla beneficenza.»
Guardiamo tutti verso il cordone, dove la mia ala, Castro, sta
richiamando l’attenzione di Rebecca. «Ma guarda chi c’è!» esclama.
«Non ci credo!» gli fa eco un altro giocatore. «Becca! Ci sei
mancata!»
Rebecca esita. «Ti dispiace se vado a salutare?»
«Va’ pure» acconsento. Resta, piagnucola il mio cuore.
«Di certo non gli sfilerò la divisione router dalla tasca nei prossimi
due minuti» brontola Alex. «Nemmeno io riuscirei ad agire tanto in
fretta.»
Becca mi rivolge uno sguardo divertito e corre a salutare i suoi
amici. La guardo allontanarsi, i talloni lisci sull’erba...
«Ehi» mi richiama Alex, schioccando le dita. «Romeo.»
Quel nomignolo mi risveglia dall’incanto. «Cosa?»
Alex ammicca, poi mi toglie di mano il bicchiere e sorseggia.
«Santo cielo, Nate, ma quella ragazza sa cosa provi per lei?»
Merda.
Alex ride sotto i baffi alla mia espressione. «Sul serio? Spero che
tu non stessi davvero cercando di mantenere il segreto. La tua faccia
da poker fa schifo.»
«Raramente perdo a poker.» La risposta più fiacca del mondo.
La mia più vecchia amica alza gli occhi al cielo. «Non giocare mai,
allora, se c’è al tavolo anche lei. Credo che non riusciresti a vedere
nemmeno che carte hai.»
Fisso dentro il bicchiere di whisky. La mia infatuazione per
Rebecca deve rimanere un segreto. «Non importa, comunque. Non
ci sarà mai niente tra noi.»
«Perché no?»
Argh. Non posso parlarne proprio con Alex. «È un’impiegata.
Sarebbe del tutto sconveniente.» E, peggio, se la spaventassi,
perderei non solo una dipendente ma anche una cara amica.
«Capisco.» Alex mi osserva. Poi mi mette la mano sulla spalla e la
stringe. È una bella sensazione, perché nessuno mi tocca mai. Non
veramente. «Ma come farai a vivere così? Ho conosciuto cuccioli più
discreti di te. È per questo che l’hai mandata a Brooklyn, vero? Per
cercare di togliertela dalla testa.»
«In ogni caso,» inizio, mentre guardo Rebecca abbracciare il mio
portiere di riserva, «non ha funzionato.»
Alex sospira. «Nate, tu sei un tipo veramente sveglio, ma non sai
tutto. Soprattutto sulle donne.»
Ci ha preso in pieno. Le donne sono un mistero per me. Anche
Alex, che conosco piuttosto bene.
«Non siamo tutte Juliet, sai» afferma Alex.
«Ma dai, davvero?» Perfino io non sono così sprovveduto da
equiparare i problemi avuti con la mia ex alla situazione con
Rebecca. «Questo lo so, Al.»
«Non ne sono poi così sicura» ribatte a bassa voce, studiandomi
con i suoi grandi occhi marroni. «Juliet ha fatto un bel lavoro con te.
In pratica, ti ha convinto che nessuna donna ti troverebbe attraente
se non fosse per i soldi.»
«Non è vero» insisto. «È solo che quelle che mi piacciono non
sembrano notarmi.» Cazzo. Non dovrei mai più dire niente di simile
ad Alex. Quand’è che tutto è diventato così complicato? «Alex,»
ritento, «c’è qualcosa di cui avevi bisogno di parlare? Ti ascolto.»
Mi valuta con uno sguardo. «Troppo tardi. Un’altra volta,
immagino.»
Ho mandato tutto a puttane, a quanto pare.
«Stanno arrivano i nostri benefattori» mi indica. «È ora di sfilare un
po’ di soldi alle celebrità della Florida.» Raddrizza la schiena.
«Faresti meglio a sganciare qualche dollaro anche tu, Kattenberger.
Ho perso la scommessa, ma questo non significa che puoi
bighellonare in giro bevendo scotch a spese mie.»
«Riuscirei a ricavare più di te in solo un’ora.»
Alza il mento. «No che non puoi.»
Scommetto una cena al Nobu... Prima che riesca a pronunciare
quelle parole, però, Alex scivola verso un uomo anziano in smoking
al quale si illuminano gli occhi, quando la vede avvicinarsi. Questo
sarà l’ultimo momento tranquillo della serata, quindi chiedo al barista
di riempirmi di nuovo il bicchiere prima di gettarmi nella mischia.
Lauren mi si avvicina, leggiadra in un elegante vestito blu. «Sei
splendida» mi complimento, sperando che il mio portiere se ne
accorga. Quei due devono risolvere le loro divergenze prima che la
conclusione dei playoff li separi di nuovo.
«Grazie» dice. «Sei tutto in tiro anche tu. Hai bisogno di
qualcosa?»
«Il solito. Se qualcuno mi monopolizza, trova una scusa per
trascinarmi via. Penso di aver appena sfidato Alex a duell… a chi
riesce a raccogliere più soldi nella prossima ora.»
«Non mi stupisce. Ehi, quel tipo laggiù con la cravatta d’argento
non è un senatore della Florida?»
Guardo oltre la spalla di Lauren. «Che occhio, mia cara. Dovrei
parlargli della neutralità della rete.»
«Buttati.» Mi dà una pacca sul sedere con la borsetta. «Prendo un
drink e ti raggiungo tra un minuto. Me lo faresti un favore?»
«Sì?» Il mio sguardo vaga verso i giocatori di hockey nell’angolo.
Uno di loro sta cercando di convincere Becca a ballare.
«Non fissare continuamente la scollatura di Rebecca mentre
chiacchieri con il senatore. Se ne accorgerà.»
«Gesù» impreco, distogliendo lo sguardo. Non so con chi sia più
incazzato in questo momento, se con Alex e Lauren che si
impicciano o con me stesso per essere così trasparente, cazzo.
«Gesù un corno» ribatte Lauren, scontrosa. «Ti sembra giusto
intervenire nella mia vita, per poi aspettarti che finga di non notare
tutte le cose che non vanno nella tua? È stancante ignorare le tue
stronzate.» La sua espressione cambia prima ancora che io possa
rispondere. «Senatore! Cosa possiamo offrirle da bere?»
Mi incollo un sorriso in faccia e lo saluto, mentre Lauren mi lancia
un’ultima occhiataccia.
Le donne nella mia vita esistono solo per rimettermi al mio posto.
È un dato di fatto, accidenti.
12

La festa di Nate offre un fantastico banchetto ai miei occhi. Ci


sono giocatori di basket con smoking su misura che si ergono in
tutta la loro elegante altezza e donne coperte di diamanti in abiti di
alta moda. Non ho mai sentito neppure nominare la maggior parte
degli stilisti che queste donne mettono a confronto. Tutto il bel
mondo della Florida, nel suo splendore, è intervenuto allo spettacolo
di questa sera.
Strano a dirsi, ma tra questa gente ricca nessuno si interessa al
passaggio degli antipasti quanto me e Georgia. «Se vedi di nuovo il
ragazzo degli involtini primavera, fammi un cenno,» insiste la mia
migliore amica, «io devo allontanare quel giornalista da Castro, che
mi sembra un po’ brillo.»
«Sarà fatto» prometto. «Vuoi un altro po’ di bollicine? Vorrei bere
qualcosa.»
«Certo!» mi risponde da sopra la spalla. «Faccio in un lampo.»
Osservo il bar nel tentativo di valutare quale sia la fila più breve
per il bancone. È una bella festa, resa ancora più grandiosa dal fatto
che non ho degli incarichi. Georgia non è impegnatissima, per
fortuna. Ma i giocatori hanno il compito di socializzare per un paio
d’ore, affascinando gli ospiti che hanno pagato mille bigliettoni per
incontrarli.
Nel frattempo, Nate e Alex si lavorano la stanza per raccogliere
donazioni. Separatamente, ho notato. Perfino Lauren è occupata a
indirizzare personaggi importanti verso Nate e,
contemporaneamente, a evitare il suo ex.
Io sono l’unica a essere qui solo per il divertimento e il finger food.
E per la gioia degli occhi. Sto ammirando le due dozzine di giocatori
di basket presenti. Sono facili da individuare: svettano su tutti gli altri.
Scommetto che i loro sarti devono ordinare i pantaloni dello smoking
da un fornitore speciale, potrei giurarci.
Ho chiacchierato con qualcuno di questi giganti, ma mi fanno
sentire ancora più bassa di quanto non sono. E mi risulta difficile
negare la stanchezza che mi prende man mano che la serata
avanza.
Questo trauma cranico è una gran rottura di scatole.
Dall’altra parte del locale, uno sgabello vuoto mi chiama e io ci
scivolo sopra, in attesa che il barista mi noti. Ma è un uomo molto
impegnato e io ho tutta la notte a disposizione.
Resto alquanto sorpresa quando mi si avvicina Alex, l’amica di
Nate.
«Ciao, Becca» mi saluta in tono amichevole. «Sta andando bene
la festa?»
Per un momento mi limito a battere le palpebre. «Certo. Hai
organizzato un bellissimo evento.» Se vuole fingere di non essersi
comportata come Capitan Stronza con me un paio d’ore fa, sarò
felice di stare al gioco. Lancio comunque un’occhiata di sottecchi al
barista, sperando che alla fine si accorga di me. Si sta facendo il
mazzo con un ordine di cinque margarita. Lo osservo shakerare,
desiderando di poter bere quel drink anch’io.
«Permettimi di farti una domanda» riprende Alex. «Secondo te
perché Nate, due anni fa, ti ha trasferito a Brooklyn dal suo ufficio di
Manhattan?»
Quella domanda richiama la mia attenzione e volto di scatto la
testa. Alex mi guarda con un sorrisetto. «Ah, non lo so proprio»
sbotto. Ma poi mi riprendo. «Cioè, voglio dire...» Gulp. «I motivi sono
diversi. Nate voleva qualcuno di fiducia per il nuovo ufficio di
Brooklyn. E io non sono così... da Manhattan come Lauren.»
«Lauren è di Long Island, no?» chiede Alex, richiamando con un
gesto il barista indaffarato. «Non è affatto di Manhattan.»
Buon Dio, ma dove vuole arrivare questa donna? Sono a tanto
così dal pugnalarla con una cannuccia presa dal bancone. Prima di
stasera, non l’avevo mai considerata una persona cattiva. Ma eccola
qua, che individua la mia piaga e ci infila dentro il dito!
«Dove vuoi arrivare?» le chiedo, senza addolcire il tono. «Se stai
cercando di farmi notare che Nate è salito di livello con un’assistente
più intelligente, più alla moda e più ambiziosa di quanto io potrei mai
essere, credimi, lo so già.»
La sola risposta di Alex alla mia piccola sfuriata è “Chardonnay”. E
non sta neanche parlando con me. Il barista non ha perso un attimo
per servire lei, nonostante io aspettassi da più tempo.
«Il punto è, tesoro,» dice alla fine, «che forse dovresti chiederlo a
Nate. Fatti dire perché ti ha trasferita a Brooklyn.»
«Ehm…» Non capisco proprio. «Va bene…»
Alex prende il bicchiere dal barista e se ne va senza degnarmi di
un altro sguardo. Il suo “arrivederci” si traduce nel ficcare venti
dollari nel barattolo delle mance. Non c’è da stupirsi che riceva un
servizio eccellente.
«Cosa le servo?» mi chiede, infine, il bartender. Ha servito un’altra
decina di persone prima di me. I baristi sono come segugi da
contante: hanno fiuto per chi è abituato a essere servito subito e chi
può aspettare.
«Potrei avere due bicchieri di champagne, per favore?»
«Subito, signorina.»
Lo versa lungo il fianco del bicchiere, in modo che non si formi la
schiuma. Non era mia intenzione ordinarne uno anche per me. Non
dovrei bere alcolici, ma parlare con Alex mi ha dato alla testa. E poi
si tratta di un bicchiere solo.
«Grazie» dico, lasciando cadere due monete nel barattolo delle
mance, come le persone normali.
Bevo un sorso di champagne – il mio primo alcolico da settimane.
Ed è una meraviglia.
Come il sole e il burro. Adoro la Florida, cazzo, e Alex può
andarsene all’inferno.
Inoltre, ho sempre avuto la tolleranza di un peso massimo, per la
quale tendo a ringraziare i miei antenati irlandesi. Un solo bicchiere
di champagne non mi scalfirà nemmeno.
Merda, scalfisce eccome. E va bene, ho la tolleranza di un peso
medio.
Sono passati solo dieci minuti e ho la sensazione che i miei occhi
non si muovano in modo normale. Il mondo intorno a me sembra
andare a zig, quando invece dovrebbe andare a zag.
E ho quei maledetti capogiri. Per un unico bicchiere di
champagne! Che umiliazione.
Sfilandomi da una conversazione con due giocatori di hockey e un
playmaker niente male, mi allontano con cautela. Consegno a un
cameriere il flûte di champagne vuoto e mi avvio molto lentamente
verso la hall dell’albergo. Con l’equilibrio completamente andato,
sono costretta a sorreggermi a una palma in vaso per salire i due
gradini della hall.
Non è bello. Chiunque mi veda penserà che sono ubriaca.
Inoltre, sono a piedi nudi sul pavimento di marmo perché ore fa ho
abbandonato le scarpe sotto uno sgabello da bar. Ma non posso
preoccuparmene adesso. Mi gira la testa e ho paura di vomitare. Per
fortuna c’è un bagno per signore a pochi metri. Mi ci dirigo,
barcollando.
Dentro è molto chic. In punta di piedi, passo davanti a un paio di
donne dall’aspetto danaroso che si sistemano il trucco e mi faccio
strada in un bagno, dove mi abbandono sul water e riprendo a
respirare, sollevata. Posso nascondermi qui per qualche minuto fino
a che mi passerà la nausea, poi me ne andrò di sopra.
Aspetto. Nel bagno delle donne la gente va e viene. Dopo un po’,
il batticuore si ferma e decido che sto meglio. Mi alzo...
Eee… il mondo cerca ancora una volta di inclinarsi contro la mia
volontà. Con un gemito, mi appoggio al muro.
«Rebecca? Tutto bene?» È la voce di Lauren, credo.
«Non lo so» ammetto.
«Che succede?»
Il gemito successivo è più di frustrazione che di nausea. «Non
avrei dovuto bere, ma pensavo che un solo bicchiere di champagne
fosse fattibile.»
«Invece, no?» tira a indovinare Lauren.
«Non proprio, no.»
«Ti senti male?»
Apro la porta del bagno. Lauren mi fissa, preoccupata, ancora
impeccabile nel suo abito blu.
«Pensavo che avrei vomitato, invece lo stomaco è a posto.» Esco
dal bagno, ancora instabile. «Sono disorientata, però. Devo andare
di sopra.»
«Ti accompagno» propone senza battere ciglio.
Questa gentilezza improvvisa mi fa bruciare gli occhi. Tuttavia, c’è
un problema. «Non dirlo a Nate. Si arrabbierebbe.»
«Oh, che si fotta» ribatte Lauren, allungando la mano per
prendere la mia. «Non ci controlla mica.»
«Però si è dato tanto da fare per me e io sono stata una vera
idiota.» Mi strofino le tempie, dove comincia a martellare il mal di
testa. «Il mio nuovo dottore fico mi aveva detto di non bere e io non
gli ho dato retta.»
«Hai imparato la lezione» conclude Lauren in tono leggero. «Dove
hai messo le scarpe?»
«Le ho lasciate sotto uno sgabello del bar.»
«Siediti qui.» Lauren mi accompagna su un divano imbottito di
fronte agli specchi. È il più bel bagno per signore in cui mi sia mai
sentita male. «Te le trovo io.»
«Davvero? Scusami. Sei gentilissima stasera.»
Lauren sospira e mi rendo conto di come potrebbe averlo
interpretato.
Sei gentilissima stasera, al contrario di tutte le altre volte in cui sei
stata una vera stronza.
«Non ti muovere da qui.»
Chiudo gli occhi e respiro profondamente.
Non mi sento proprio ubriaca, piuttosto spenta. Non è la fine del
mondo, ma sono comunque triste. Poco fa mi sentivo benissimo e
anche molto ottimista.
Salve, punto di partenza. Rieccomi qua.
Lauren torna con le mie scarpe neanche cinque minuti dopo. Le
afferro con una mano e mi reggo a lei con l’altra. Arriviamo agli
ascensori senza intoppi.
Aspetta pazientemente davanti alla mia stanza, mentre armeggio
con la tesserina. «Adesso ce la faccio» borbotto, dopo essere
riuscita ad aprire la porta. «Grazie dell’aiuto.»
«Fammi entrare un attimo» insiste. «Così, se più tardi il nostro
signore e padrone mi interrogherà, potrò dirgli con certezza che stai
bene.»
«Nate è un vero prepotente» concordo, entrando.
«Come tutti gli uomini» brontola Lauren.
Mi segue dentro e io sono troppo stanca per farmi problemi.
Quando tiro fuori la camicia da notte dalla valigia, Lauren fischia. «Mi
dispiace che non ti sia accaparrata un giocatore di basket per
stanotte, se erano quelli i tuoi piani.»
Guardo il négligé di pizzo che sto infilando e mi stringo nelle
spalle. «Non è per le occasioni speciali. Indosso sempre lingerie
sexy. È il mio modo di ricordarmi che il sesso esiste ancora.»
«Ah. Devo provare anch’io. E Nate si piscerebbe addosso, se ti
vedesse così.»
«Perché?» chiedo, e poi rutto come una ragazzina ubriaca al ballo
di fine anno.
Lauren, però, non risponde alla domanda. «Hai bisogno di
un’aspirina? O di un bicchiere d’acqua?»
«Penso che l’acqua sia una buona idea. Mi sento così strana.
Come se avessi bevuto dieci bicchieri invece di uno.» Il letto affonda
sotto il mio peso e faccio un sospiro di sollievo per essere arrivata fin
qui.
Lauren mi porta un bicchiere d’acqua dal bagno. «Senti, pensi che
dovremmo chiamare il tuo medico?»
«No! Un bicchiere di champagne non mi ucciderà. Non voglio
farne un dramma.»
«Sicura?» persevera. «Nate non si arrabbierà.»
«Sì, invece!» Tiro via il piumone e mi ci infilo sotto. «Ci dormo su.
Non dirlo a nessuno.»
«Okay» si arrende Lauren «A una condizione: mi porto via la
chiave e torno a controllarti tra un paio d’ore.»
«Affare fatto.» Non credo di correre rischi, ma se Lauren vuole
farmi da babysitter, affari suoi. «La tessera è sulla scrivania.»
Cedo al sonno non appena pronuncio quelle parole.

Faccio bei sogni. Ci sono i saldi da Bloomingdale. Tutto il


cashmere al settanta percento, e sono l’unica ad averlo notato.
Ovunque mi giri, ci sono maglioni. Sto facendo incetta di cardigan,
tra le braccia una pila di maglioni da provare sempre più alta,
quando qualcuno si siede sul bordo del letto e mi accarezza i capelli.
Ma ho troppo sonno per darmene pena. E ho un cardigan con i
bottoni funky da provare. Così mi giro e continuo il sogno.
«Rebecca» mi chiama una voce.
«Mmm.» Il cuscino è il migliore amico del mondo.
«Bec» ritenta.
L’inconscio mi sollecita. Lauren aveva detto che sarebbe passata
a controllarmi, ma la voce non è la sua.
Mi giro e apro un occhio. «Nate?» indago, la voce roca. Il fatto che
si trovi sul mio letto in una stanza d’albergo è strano. Ma non
importa.
Mi scosta i capelli dalla fronte e il suo tocco è così tenero che mi
risveglia un po’. La sensazione dei suoi polpastrelli sulla fronte è
sorprendente e sconosciuta. «Che succede?» riesco a grugnire.
«Niente» sussurra. «Sono solo venuto a controllare.»
Mi rendo conto di cosa significa. «Lauren ha fatto la spia?»
«No.» Mi sorride nel buio. «Ti ho visto lasciare la festa
barcollando. Ho chiesto in giro e Lauren mi ha confessato dov’eri a
una sola condizione: che non ti avrei sgridato.»
«Ah.» Sbadiglio, ma la verità è che ora sono sveglia. Mi tiro su a
sedere e mi appoggio alla testiera imbottita.
Nate emette un leggero verso sorpreso e mi ci vuole un attimo per
capire che la causa è molto probabilmente la mia succinta
biancheria intima. Abbasso gli occhi e le tette mi guardano, coperte
a malapena da pizzo e raso. Ma è buio, quindi non me ne preoccupo
troppo. E, ehi, se ti avvicini di soppiatto a una ragazza che sta
dormendo, le vedrai anche un pezzo di pigiama.
«Mi hai appena svegliato da un sogno bellissimo» lo rimprovero
all’improvviso.
«Ehm…» tossisce Nate. «Davvero?»
«Sì.» Con un sospiro, mi sistemo meglio. «Tutti i maglioni di
cashmere erano in super saldo. E c’erano colori bellissimi
sull’espositore. Non solo quelli gialli, hai presente? E credo di aver
visto anche il cartello di saldi sulle scarpe. Sarei andata a dare
un’occhiata a quelle, dopo.»
Nate spalanca gli occhi e poi ride. «Scusa se ti ho rovinato i sogni
di shopping. Volevo solo assicurarmi che respirassi ancora.»
«Sinceramente, mi sento molto meglio.» Sollevo il bicchiere
d’acqua dal comodino e bevo. Poi Nate me lo prende di mano e va
in bagno per riempirlo di nuovo. «Ora sono completamente sveglia,
idiota» dico, quando torna a restituirmelo. «Che ore sono?»
«Saranno le due.» Si siede accanto a me dall’altra parte del letto.
Poi si toglie le scarpe per appoggiare i piedi sul piumone. Indossa
ancora la camicia dello smoking, ma manca la giacca e il papillon è
slacciato intorno al collo. «Sicura di star bene?»
«Sì, lo giuro. Il capogiro è passato. Ho preso solo un bicchiere di
champagne e non credevo che...»
Alza una mano. «Non mi devi spiegazioni. Non sono affari miei.»
«Davvero?» Questo è ancora più sorprendente della gentilezza di
Lauren di poco fa. «Ti sto servendo su un piatto d’argento la
possibilità di dirmi “te l’avevo detto”. Buttati, amico.»
Nate getta la testa indietro e libera una morbida risata.
«Non posso. Ho promesso di non farlo.»
«L’hai promesso a Lauren?»
Si gira verso di me e noto che gli occhi gli brillano, anche se è
buio. «Non voglio assillarti, Bec. È ovvio che stai bene. E sei
abituata a prenderti sempre cura di tutti, anche di te stessa. Lauren
me l’ha appena fatto ammettere. Tutto qui.»
Penso a Lauren nella sua seta blu e rivedo la mia opinione su di
lei per la centesima volta. «Stasera era un vero splendore.»
«Anche tu.» La voce di Nate è più profonda del solito. Allunga il
braccio sul piumone per stringermi la mano. E il suo tocco è più
caldo di quanto mi aspettassi.
Ho avuto milioni di conversazioni con Nate. E spesso da soli. Ma
questa è stranamente intima. Siamo nel cuore della notte ed è come
se fossimo le uniche due persone sveglie in tutta la Florida. «Posso
chiederti una cosa?»
«Certo» acconsente, senza lasciare andare la mia mano.
«Perché mi hai cambiato di ruolo con Lauren due anni fa?»
La mia domanda lo coglie alla sprovvista. Apre la bocca e poi la
richiude per un paio di volte. Alla fine, mi lascia la mano.
«Puoi dirmi la verità» sussurro. «Se pensi che Lauren sia più in
gamba di me o più abile nel gestire i pezzi grossi, non mi offendo.»
Non molto, comunque. «Ma mi ha sempre infastidito non sapere il
perché.»
«Davvero?» Ha un’espressione inspiegabilmente infelice.
«Sì» ammetto. «Ho passato un sacco di tempo a cercare di capire
cosa avessi sbagliato.»
«Cazzo» mormora. «Mi dispiace. Non è mai stata mia intenzione.»
Provo un’ondata di sollievo che non sapevo nemmeno di
aspettare. «Davvero?»
«Cristo, no. Non hai fatto niente di male. Neanche una singola
cosa.»
«Allora perché?» Mi si incrina un po’ la voce, ma è così che suona
la domanda che mi esce dal cuore.
Forse avrei dovuto chiederglielo tanto tempo fa.
«Perché sono un dannato idiota.»
Sono un sacco di parolacce per una semplice questione
lavorativa. Ho la sensazione di essere sul punto di scoprire qualcosa
di importante. Aspetto che prosegua, ma non pronuncia una sola
parola. «Non hai intenzione di spiegarti?»
«Se posso evitarlo, no» bofonchia.
«Nate!» Mi giro e mi alzo in ginocchio per essere alla sua altezza.
«Dimmelo e basta, okay?»
«E se non ti piacesse la risposta?» ribatte.
«Forse, però me la devi comunque. Sei assolutamente illogico in
questo momento!»
«Ma va?» contrattacca, voltandosi verso di me. Ci stiamo
affrontando. «Non riesco a essere logico quando si tratta di te! Non
ci riesco! Da anni!»
Le sue parole restano sospese nel buio tra di noi. Non le capisco
fino in fondo. Ma quando alza una mano a prendermi la guancia, non
mi sento più così confusa. Le sue dita sono talmente delicate che
dentro di me tutto si tranquillizza.
Di solito non ci tocchiamo in quel modo, ma per qualche motivo
non è imbarazzante, nonostante sia ben poco vestita. Guardo i suoi
occhi gentili e potrei giurare che tratteniamo tutti e due il fiato per un
bel po’. «Perché?» sussurro ancora una volta. E poi: «Per favore».
Chiude gli occhi e il pollice mi accarezza lo zigomo. Non sapevo di
avere così tante terminazioni nervose sul viso. Provo l’istinto di
appoggiarmi alla sua mano e chiederne ancora. Ma poi riprende a
parlare. «È successo due anni fa, a marzo. Avevi appena cominciato
a frequentare quel… tizio. L’artista. Gli piaceva venire in ufficio a
chiacchierare prima che andaste via insieme.»
Cosa? Per un lungo istante non riesco nemmeno a ricordare di
aver frequentato un artista. «Aspetta... Quel ragazzo che faceva il
corriere e dipingeva anche? Perché dovrebbe avere importanza?»
L’entusiasmo di uscire con lui è durato circa dieci minuti.
Nate scuote la testa e poi allunga anche l’altra mano. Mi prende il
viso con una delicatezza tale che la mia pelle formicola sotto i suoi
palmi caldi. Solo che mi rivolge uno sguardo esasperato, come se gli
stessi facendo del male con questa semplice conversazione. «Non
lo sopportavo, Bec. Sarei stato contento se avessi trovato qualcuno
con cui essere felice, ma… non volevo stare lì a guardare.»
Sto quasi per chiedergli ancora una volta perché. Ma poi le sue
parole cominciano a sedimentare. La sua confessione è una cosa
grossa. Anzi, enorme. E non me l’aspettavo proprio.
Nel frattempo, siamo presi dalla più infuocata lotta di sguardi del
mondo. I suoi occhi – che alla luce del giorno hanno un’insolita
tonalità castano chiaro – sono neri come la notte. Li sto studiando
così da vicino che giuro di riuscire a vederne le screziature d’oro
anche al buio. E, da parte sua, Nate mi sta fissando come se il futuro
del mondo dipendesse dal suo rifiuto di battere le palpebre.
E forse è così. Perché le sue mani si muovono, scivolando dal mio
viso alle spalle nude. All’improvviso mi rendo conto di quanto siamo
vicini. Il punto di contatto tra le sue mani e il mio corpo sembra
crepitare. Se rompiamo questo equilibrio, potrebbe accadere
qualcosa di ancora più folle. Il suo viso è a pochi centimetri dal mio.
Riesco perfino a sentire il calore che emana.
La pelle nuda mi si accappona.
La possibilità di ricevere un suo bacio è una novità per me. Sono
stata migliaia di volte davanti a quest’uomo senza rendermi conto di
che bocca abbia. È una bocca molto bella, che ho visto sempre
sorridere sulle copertine delle riviste e ammiccarmi sopra tazze di
caffè. Eppure, per la prima volta da anni, voglio sapere cosa proverei
nel sentirla contro la mia.
«Perché?» sussurro di nuovo, ma stavolta la domanda ha un altro
significato: perché ora sono così consapevole di te? Perché il seno
si gonfia dietro il pizzo della camicia da notte? Perché c’è così tanto
ardore nei tuoi occhi, e cosa mi fa? Perché...
Mi bacia.
Mi coglie di nuovo alla sprovvista. Ha labbra morbidissime. La mia
bocca diventa ipersensibile. Quando le sue labbra sfiorano di nuovo
le mie, lo schiocco del bacio mi riecheggia nel petto e mi si rizza la
peluria sulle braccia. È travolgente. Mi aggrappo ai suoi bicipiti e
annaspo.
Quel verso vibra tra noi. Nate se ne nutre. Mi avvolge la nuca con
una mano e inclina la testa, perfezionando il bacio e la nostra
connessione. Non c’è più titubanza, ormai. Ora so esattamente che
sensazione provoca la bocca di Nate sulla mia. È meraviglioso.
Socchiudo le labbra e mi sfiora la lingua con la sua.
E, accidenti! Lo “zing” che sento in questo momento sono i miei
ormoni che si attivano tutti insieme. E mi fa incazzare. Emetto un
gemito forte e spaventato dal profondo del petto. Perché... accidenti!
Quel verso lo fa sobbalzare e scatta all’indietro, interrompendo il
bacio.
«Nate!» lo sgrido. «Ma che diavolo!»
«Cristo» sussurra Nate. «Mi dispiace?»
«E vorrei vedere!» squittisco. «Hai appena rotto il sigillo! Abbiamo
passato sette anni a non farlo! E ora so cosa si prova.» Non sapevo
che un suo bacio mi avrebbe acceso ovunque, né che Nate avrebbe
avuto il sapore di whisky e ardore. «Voglio dire...» Mi porto un
polpastrello alle labbra con un sospiro strozzato.
Nate piega la testa di lato come un golden retriever che non riesce
a capire qualcosa. «Bec, ascolta, mi scuserò di nuovo e porterò il
culo fuori dalla tua stanza. Ma per l’amor di Dio, aiutami a capire: sei
incazzata per il bacio? O sei incazzata perché ho smesso?»
«Non è una domanda semplice.» Ovviamente.
Spaesato, aggrotta la sua bella fronte. «È a scelta multipla, però!»
Non posso fare altro che fissare confusa quest’uomo verso il quale
ho passato anni a coltivare un’immunità sessuale. Non me l’ha certo
reso facile con il suo insolito colore degli occhi e lo sguardo
intelligente, con l’elegante mascella non rasata che sfoggia solo
perché è troppo impegnato a reinventare il mondo per radersi.
In questo momento, trovo l’intero quadro tanto eccitante quanto
quest’uomo è irritante. Nate mi manda in tilt il cervello con pensieri
confusi e questo improvviso e sconveniente desiderio.
Che razza di idiota! Sono costretta a vendicarmi. Afferro a due
mani quel volto oggettivamente bellissimo e schiaccio la bocca
contro la sua.
«Umph!» Il suo gemito è tutto shock e stupore, perché finalmente
sono in vantaggio su di lui. Inclino la testa e lo bacio di nuovo.
Ma Nate è un concorrente feroce. In un battito di ciglia, mi infila un
braccio dietro le cosce e mi fa scivolare sul letto. Mi spinge sui
cuscini e prende il controllo del bacio.
E provo tutta una nuova serie di sensazioni in rapida successione.
Perché Nate è bravo in questo. Non dovrebbe sorprendermi, dato
che è bravo in tutto. Tuttavia, mi stupisce quando le sue labbra
iniziano a massaggiare le mie con baci lenti e travolgenti. Ognuno un
po’ più profondo dell’altro, finché la sua lingua arriva ad accarezzare
la mia.
Mi sento gemere nella sua bocca, mentre con la lingua mi spinge
verso uno stato di incoscienza. Una volta mi chiedevo come sarebbe
stato baciarlo. Era stata una faticaccia togliermelo dalla testa. E
adesso non lo dimenticherò più. Accidenti.
Nonostante la mia irritazione, gli avvolgo un braccio intorno alla
vita per non perdere il contatto con la sua bocca prepotente. La mia
lingua scivola contro la sua. Così eccitante!
Sarà una pessima idea. Già lo so. Ma ha cominciato lui.
Vero?
Il mio cervello si sta sciogliendo.
Forse anche il suo. Nessuno di noi due è pronto a fermarsi a
riflettere. I nostri baci non finiscono mai, cedono semplicemente il
passo ad altri. Ardenti e incessanti. Poi Nate abbassa il bacino sul
mio e gemo a quel nuovo contatto. Accolgo con piacere il suo peso
che mi preme sul letto. Chiudo gli occhi e mi arrendo al desiderio
che mi monta dentro.
Ogni volta che Nate decide di volere qualcosa – un affare da
Fortune 500, una vittoria a hockey, una pizza a notte fonda – parte a
tutto gas.
Solo che, adesso, tutta la sua attenzione è concentrata su di me.
La sua bocca adora la mia con una tale concentrazione e fame che
non posso fare altro che stare al passo.
Faccio del mio meglio, strofinando i piedi sui suoi e passandogli le
dita tra i capelli. Sono più morbidi di quanto mi aspettassi. Conosco
la mente di Nate da anni, ma il suo corpo è un continente straniero
mai visitato prima. In qualche modo, però, ne parlo già la lingua. Gli
passo il palmo delle mani lungo il collo e i muscoli della schiena. È
solido sotto le mie mani. Il cotone della camicia dello smoking non
costituisce una sufficiente barriera. Riesco a percepire il calore della
sua pelle.
E non riusciamo più a smettere di baciarci. Lo facciamo anche con
il corpo, ora: calore e pressione ovunque. Da qualche parte nel
profondo dell’anima sono ancora consapevole di star commettendo
un grosso errore. Ma è notte fonda e i baci di Nate sono affamati e
riverenti. È tutto meraviglioso, proprio come il mio sogno da
Bloomingdale: tante possibilità senza il peso della spiegazione.
La mia capacità di giudizio è calata del settanta percento stasera.
Dev’essere per questo che ho deciso di ficcare la mano sotto la
camicia già sfilata dai pantaloni. Ha la pelle più liscia di quanto
pensassi. Gli passo una mano sul fianco e sospiro nella sua bocca.
E quando traccio con l’unghia l’orlo posteriore dei pantaloni,
rabbrividisce nel bacio successivo.
Quella reazione istintiva mi rende audace. Abbasso la mano verso
il sedere tonico e lo strizzo. Anche attraverso due strati di tessuto,
sento che è tutto muscoli. Nate geme e interrompe il bacio.
Non mentirò: questo mio nuovo potere è oltremodo eccitante.
Nessuno mette mai fuori gioco Nate.
Quindi mi sento molto soddisfatta di me stessa fino a quando Nate
alza la posta. Abbassa la testa e fa scorrere la lingua sul mio seno
turgido. Tutti i miei sensi si allertano al passaggio di quella lingua
maliziosa così vicina ai capezzoli. Boccheggio. L’aria non fa in tempo
a lasciare i polmoni che mi afferra un seno e pizzica il capezzolo. E
ora tocca a me emettere gemiti e piagnucolii incontrollati. Mi ha
ribaltato contro la situazione e non me ne sono nemmeno accorta.
Indosso un négligé, non un reggiseno. Quindi Nate non fa alcuna
fatica ad abbassarlo e scoprimi del tutto il seno. La stoffa lo
incornicia, mettendo in risalto i capezzoli. Ammira il suo operato con
un luccichio malizioso negli occhi.
Per me. È sconvolgente.
Gli afferro la testa e me la porto sul seno. Nate geme, piegandosi
per girare la lingua intorno ai capezzoli. Poi ne prende in bocca uno
e mi guarda, gli occhi scuri e pieni di lussuria. Dà una bella succhiata
e rabbrividisco di aspettativa. Il desiderio monta tra le mie gambe e
vederlo prendere in bocca le mie tette è quasi troppo.
Ti prego, grida il mio corpo. Di più. Ora.
Potrei anche aver detto qualcosa ad alta voce, mentre gli calavo le
bretelle dalle spalle e gli afferravo la camicia. Ma, niente, è ancora
abbottonata.
Nate capisce il problema, però. Si tira su, inginocchiandosi
accanto a me. Mi raddrizzo anch’io e comincio a sbottonare la
camicia. Dopo un furioso lavorio delle dita, svelo un lembo di pelle.
Alla luce della luna riesco a vedere le pulsazioni sul suo collo.
Smetto di armeggiare e lo sfioro con i polpastrelli, con delicatezza.
Essere capace di accelerargli il battito in questo modo mi fa sentire
umile.
Io.
Non lo sapevo.
Mi prende la mano e se la porta alle labbra per baciarne il palmo.
L’intensità del suo sguardo brucia nel buio. So benissimo dove andrà
a parare tutto questo.
Lo sa anche Nate. Con la punta delle dita prende la mia piccola
camicia da notte di pizzo e me la sfila dalla testa.
«Gesù…» inspira a fondo, poi rilascia l’aria in uno sbuffo caldo.
Nel corso della nostra lunga storia insieme, Nate mi ha visto nelle
condizioni più disparate: annebbiata sui voli notturni, brilla dopo
un’alcolica cena di lavoro a Parigi. Una volta mi ha visto perfino
vomitare nel cespuglio di un albergo dopo una estenuante corsa in
cui ci eravamo lanciati insieme in occasione di un convegno di
tecnologia in Arizona. Era stato imbarazzante.
Mai, però, mi sono sentita tanto esposta come in questo momento.
Cedo all’urgenza di coprire le mie tette generose con entrambe le
mani.
Lentamente, si toglie la camicia e la butta per terra. Poi copre le
mie mani con le sue e mi bacia. I suoi pollici mi accarezzano il dorso
delle mani, il loro arco sussurra alla pelle del mio seno. Abbandono
la lingua nella sua bocca e cerco di dimenticare di avere una
ragione.
Stiamo per abbandonarci a qualcosa di meraviglioso e terribile. Se
ci penso troppo, la rovino.
Chiamando a raccolta tutto il mio coraggio, sfilo le mani da sotto le
sue. Nate emette un verso basso e gutturale, quando si ritrova il mio
seno nelle mani. Con un gemito, mi infila la lingua in bocca. La
prendo come un’anteprima di eventi futuri.
Il mio cuore scalpita per l’inebriante aspettativa e le mie mani
cominciano a esplorare il suo petto solido. È quasi glabro, tranne
che al centro della pancia. Traccio tutti gli avvallamenti degli
addominali, poi giocherello con la leggera peluria che scende verso i
pantaloni. Nate lascia andare un gemito disperato quando arrivo alla
patta. L’ultima barriera.
Quando gli slaccio il bottone, mi scansa e abbassa la cerniera da
solo. Lo guardo infilare dentro la mano per prendersi l’uccello e
tirarlo fuori. Me lo sarei aspettato lungo e snello come il resto del suo
corpo, invece, quando lo tocco, scopro che è grosso e duro.
Un particolare che rende tutto più sconcio e scioccante. Non so
nemmeno perché. Sul glande scuro e turgido c’è già una goccia
perlata.
Apparentemente la storia degli universi paralleli è vera. Ce n’è uno
in cui posso passare il pollice sul glande del mio capo e ascoltarlo
borbottare una sfilza di parolacce. Mi ci trovo in questo preciso
istante.
«Cazzo, Becca.» Mi spinge di nuovo sul letto e calcia via pantaloni
e boxer.
È un uomo da boxer, prende nota il mio subconscio mentre Nate
mi si sdraia accanto e mi coinvolge in un altro bacio. Poi, però,
smetto del tutto di pensare. Le sue mani frenetiche mi illuminano
come un flipper all’apice della partita.
È passato così tanto tempo da quando qualcuno mi ha toccato
che avevo dimenticato quanto fosse bello essere accarezzati e
sollecitati. La morbida pelle della mia pancia si contrae in uno
spasmo nel sentirsi sfiorare. Il primo affacciarsi dei polpastrelli dietro
l’elastico degli slip è delizioso. Apro le gambe, senza vergogna. E,
sììì. Mi inarco sul letto, quando finalmente arriva al punto cruciale.
Emette un verso scioccato nel trovarmi così bagnata.
«Tesoro» ansima.
È un giuramento potente e sussurrato. Gli avvolgo entrambe le
braccia attorno al collo. Siamo pelle contro pelle: tutto calore e
attrito. Si afferra la base del cazzo e lo preme contro la mia fica,
mentre mi tuffo nella sua bocca, chiedendo di più.
Ci muoviamo come in un video accelerato: ci afferriamo, ci
contorciamo, baciamo e mordiamo tutto ciò che capita a tiro. Sono
disperata. Il desiderio mi palpita dentro. In tutta me stessa. Sono
solo desiderio.
Riempio d’aria i polmoni e imploro: «Ti prego».
Nate mi sorride. Quel figlio di puttana sorride compiaciuto. Io sto
bruciando e lui...
Mi tira giù gli slip e li lancia via. Incombe su di me, con gli occhi
che brillano di desiderio.
Poi scivola dentro di me.
Tutto rallenta. Premo i talloni nel materasso per prepararmi ad
accoglierlo. C’è silenzio mentre ci fissiamo, scioccati. Sento il mio
respiro e il tum tum del mio stesso cuore. Dà un’ultima spinta e si
sistema. In questo momento, sono infilzata come una farfalla. Lo
guardo, stupita.
Il suo sorriso è sparito. Al suo posto c’è un’espressione così seria
che non posso evitare di alzare la mano e toccare il suo viso. Nate si
china, mi sfiora la lingua con la sua e sospira nell’inevitabile bacio.
Tesoro. Quella parola ancora mi riecheggia dentro mentre
comincia a muoversi.
Si toglie la mia mano dal viso e la bacia, poi imprime ai fianchi un
ritmo lento. Mi tiene entrambe le mani. Me le solleva sopra la testa e
le blocca contro il cuscino.
Ma ho bisogno di muovermi. Così alzo le ginocchia contro i suoi
fianchi per andare incontro a ogni spinta. E ci baciamo di nuovo. Sto
affogando nel calore e nel desiderio. Non voglio che finisca mai, ma
il mio corpo avido non è del mio stesso parere. All’inizio, avverto
un’incessante pulsazione tra le gambe. Quando non riesco più a
trattenermi, inarco la schiena e grido.
Il gemito di Nate si unisce al mio. Ondate di piacere si abbattono
su di me, mentre Nate impreca contro le mie labbra. Mi lascia
andare le mani e mi avvolge un braccio intorno alla coscia,
schiacciandoci ancora di più. Una volta... due volte.
Si pianta a fondo dentro di me e mi morde il punto tra il collo e la
spalla. Poi emette un mugugno strozzato e sussulta.
Porco...
Wow.
Io…
Non riesco a credere che l’abbiamo appena fatto.
È stupendo e meraviglioso e incredibilmente sconcertante. Tutto
quello che voglio fare adesso, però, è passargli di nuovo le mani
sulla pelle e sospirare.
13

La mia frequenza cardiaca è diversi chilometri all’ora al di sopra


del limite consentito e ho il corpo appesantito dall’appagamento
sessuale.
Perfino le mie endorfine hanno endorfine.
Rebecca si rilassa sotto di me, il fiato corto. Sollevo la mia stanca
carcassa e mi sposto di lato, trascinandomela addosso. Appoggia la
testa sul mio petto ed espira, come se fosse stupita.
E forse lo è. Io so di esserlo. Non solo è stata l’esperienza più
bella della mia vita, ma mi ha lasciato anche senza parole.
Non ho mai perso il controllo di me stesso in modo così totale.
Di solito, sono la persona più controllata che conosco. Mi alzo alle
cinque tutte le mattine. Ho corso delle maratone. Tenermi al
guinzaglio corto è l’unico modo che ho per rimanere in forma e
sempre sul pezzo.
Stanotte ho dato un nuovo pericoloso significato all’espressione
“stare sul pezzo”.
Cristo santo.
Scosto una ciocca di capelli dal viso perfetto di Rebecca. È
sudata. Ha un’espressione a metà tra il sognante e il diffidente.
Non c’è modo di capire quale prevalga.
«Nate» sussurra.
«Che c’è?» Infilo il viso tra i suoi capelli e stringo le braccia intorno
alle sue curve. L’uccello si tende in un piccolo spasmo stanco ma
speranzoso.
Si schiarisce la gola. «Per fortuna prendo la pillola.»
«Lo so» borbotto. «È proprio lì, sul piano del bagno.»
«Okay...»
«Non ti farei mai correre rischi» sussurro. «Sono prudente.» Fino
a oggi. Perché mai dovrebbe credermi, poi?
Becca esita e spero che la conversazione non si protragga oltre.
Ho bisogno di qualche minuto per capire cosa diavolo dire. Anzi, mi
serve più tempo. Un anno potrebbe non bastare.
«Quindi...» Solleva la testa dal mio petto. «Secondo te perché
abbiamo…»
«Bec?»
«Sì?»
Le passo il palmo della mano lungo il braccio liscio in una carezza.
«Non rovinarlo. A meno che tu non ne abbia davvero bisogno.»
Torna ad appoggiarsi sul mio petto.
Potrei offrirmi di andarmene. Forse lo preferirebbe. Invece, no.
Sono un cocciuto bastardo che ha appena ottenuto l’unica cosa che
ha sempre desiderato e non ha mai potuto avere. Così chiudo gli
occhi e mi appisolo, mentre il suo battito rallenta contro il mio.
Il mio subconscio, però, non mi consente di dimenticare troppo a
lungo che sono nudo in un letto con Rebecca. Mi risveglio che è
ancora buio pesto. Ora è distesa con la schiena contro di me. Le
passo una mano sul fianco, non posso farne a meno. Ha la pelle
incredibilmente morbida e mi piace il modo in cui la discesa delle
costole risale di nuovo lungo l’anca.
Perciò… lo rifaccio.
«Mmm» mugugna alla mia carezza. E quando le prendo il seno a
piena mano, il capezzolo si inturgidisce sotto i miei polpastrelli.
Preme la mano sulla mia, incoraggiandomi.
Gesù. Non sono poi così forte come pensavo. Basta il suo tocco e
già sono duro e pronto.
La bacio a bocca aperta sul retro del collo e lascio vagare le mie
mani sul suo corpo. Subito piagnucola, spingendosi contro di me.
Allora rotolo verso di lei, la giro a pancia in giù e le sollevo il
bacino.
«Sì» ansima, mentre mi spingo a casa per la seconda volta.
Sì.
Glielo do forte e rapido e Rebecca mi asseconda, il respiro
ansante. Quando le infilo una mano tra le cosce per accarezzarla,
singhiozza il mio nome contro il cuscino.
Rabbrividiamo insieme prima di crollare in un ammasso inutile di
membra stanche.
Poi il sonno arriva una volta per tutte.

La coscienza ritorna lentamente. La sensazione del corpo solido di


un uomo contro il mio è ancora meglio del cashmere scontato, e non
ho molta voglia di svegliarmi. Una mano enorme mi accarezza i
capelli mentre stringo gli occhi per evitare la luce del sole che entra
nella stanza.
Ma poi l’uomo dei miei sogni sospira in un modo molto da Nate e
mi sveglio di colpo. È una buona cosa che sia girata dall’altra parte,
perché sono certa di avere un’espressione sbalordita mentre i ricordi
della scorsa notte mi assalgono nella fredda luce del mattino.
Che diavolo abbiamo fatto?
Finché non ti svegli nuda accanto a un uomo che è il tuo capo da
sette anni non puoi dire di aver vissuto davvero.
Poi Nate emette un leggero verso di impazienza e mi irrigidisco.
«Rebecca.» La sua voce è bassa e ruvida. «Tutto bene?»
Considero la domanda. La verità è che non lo so. «Sì» mormoro.
«Non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui la gente smetterà di
chiedermelo.»
«Lo so.» Mi stringe le spalle ed è una sensazione fantastica. «Ma
non mi riferivo al trauma cranico.»
Merda. «Sto bene» affermo, sviando la domanda.
«Allora perché non mi guardi?»
«Ho sonno» brontolo. Ma poi mi giro, tirando con me il lenzuolo
per coprirmi il seno. Quel gesto non fa che ricordarmi l’espressione
ardente sul viso di Nate quando mi ha passato la lingua intorno ai...
Ah! Adesso tutte le parti della mia coscienza sono sveglie,
comprese quelle sexy.
Lentamente, alzo lo sguardo e trovo Nate che mi osserva. I suoi
occhi sono morbidi, ma la sua splendida bocca è piegata in un
sorrisino compiaciuto.
«Che c’è?» esigo.
Passa un dito sulla pelle appena sopra l’orlo del lenzuolo. «Vorrei
tanto che non avessimo destinazioni diverse, oggi. Non voglio che te
ne vada a casa a rimuginare.»
«Non lo farò.»
Lo farò sicuramente, invece.
Si acciglia. «Facciamo prima colazione?»
«Be’...» esito. «Dovrei fare colazione con Georgia. Se disdico,
vorrà sapere perché.»
«Ah.» È più un sospiro. «Sei sicura di stare bene?»
«Benissimo.»
Non mi crede, ma mi dà un bacio e si alza. Lo guardo rimettersi lo
smoking di ieri sera e mi chiedo quante persone incontrerà da qui
alla sua stanza. Non mi aspetto che si fermi e dica: “Ehi, indovina da
quale stanza sono appena uscito?”, ma l’idea di essere scoperta mi
innervosisce comunque.
Sono appena diventata la ragazza che va a letto con il capo.
«Ci sentiamo più tardi?» chiede, abbottonandosi la camicia.
«Come sempre?» ribatto, evitando così di rispondere.
Mi rivolge un’altra occhiataccia. «Non ripartire senza salutare,
okay?»
«Okay.» Anche se ormai è diventato tutto strano. Ho fatto sesso
con Nate. Due volte. Pur ripetendomelo nella mente, non riesco a
crederci.
Qualche minuto dopo, la porta si richiude dietro di lui e tiro un
sospiro di sollievo. Alzo il telefono e mando un messaggio a Georgia
per disdire la colazione. Le chiedo anche di andare a prendere il mio
kit da manicure dalla stanza di Lauren. Perché se salissi al piano
delle suite executive e trovassi Nate, bellissimo in giacca e cravatta,
non credo che riuscirei a fingere indifferenza.
Che cosa ho fatto?
C’è una colonna sonora nuova di zecca che mi scorre nel cervello.
Fa più o meno così: Porca puttana. Porca puttana. Porca puttana.
Per tutta la vita la gente mi ha ripetuto che sono una persona con
la testa sulle spalle. Le follie e i comportamenti rischiosi li lascio agli
altri… a mia sorella, per esempio. Io sono quella intelligente, quella
che non fa mai casini.
Finora. Ho gettato al vento il mio buonsenso per un’unica notte
rovente con il capo.
Anche se è stata una gran bella notte.
Sul volo di ritorno, sorseggio il mio acquoso caffè da aereo e mi
interrogo su quanto accaduto. Riesco ancora a sentire le sue mani
su di me. Il sapore dei suoi baci. Quando trascino il mio trolley giù
dal nastro del ritiro bagagli, sono delirante per lo stress e la
stanchezza.
Ramesh – l’autista di Nate – è già lì che mi aspetta. «Salve,
signorina Rebecca» mi accoglie con un sorriso. «Ho avuto l’ordine di
portarla a Pierrepont Place. È lì che desidera andare?»
Sì e no. «Devo andare da Nate, ma solo per cinque minuti circa.
Potresti aspettare mentre faccio una scappata dentro? Devo
prendere delle cose e poi tornare al mio appartamento in Water
Street.»
«Nessun problema.»
Ottimo. Sono ufficialmente in fuga.
Ci vogliono solo pochi minuti per preparare le valigie da Nate e
ritornare alla macchina. Ci sono tante domande inespresse negli
occhi della signora Gray. «Ti fermi per un tè?» mi invita, mentre
Ramesh porta la mia valigia giù per le scale.
«Stamattina non posso,» mento, «ma ci vedremo sicuramente
presto.» Solo che non ne sono affatto sicura.
Dieci minuti dopo, Ramesh ha trascinato le valigie su per le strette
scale del mio condominio. Lo ringrazio nel modo più gentile
possibile. Come la signora Gray, probabilmente anche lui si starà
chiedendo cosa diavolo mi passa per la mente.
Continua pure a chiedertelo, penso, mentre gli stringo la mano.
Tanto non lo so nemmeno io.
Per una volta, il mio piccolo appartamento è tranquillo. Renny
dorme nella stanza di mia sorella, ma Missy e il bambino sono in giro
da qualche parte.
Accosto la porta della camera da letto e poi mi do da fare con le
valigie. Disfo i bagagli e li metto via. Tolgo la culla portatile dalla mia
camera da letto e riordino.
Muoversi mi dà una bella sensazione, così continuo nelle pulizie.
Attacco il disordine del soggiorno, dividendo le cose del bambino da
quelle di mia sorella.
Nel frattempo, il panico mi si agita dentro come una tempesta. E,
come in un vero uragano, a volte non è facile intuire dove si
nasconda il pericolo. Quale sarebbe la conseguenza peggiore
dell’essere andata a letto con Nate? Difficile dirlo. Se qualcuno lo
scoprisse, i pettegolezzi in ufficio sarebbero feroci. Rabbrividisco
all’idea che Hugh Major possa guardarmi in modo diverso,
bollandomi come la tipa che se la spassa con il capo in trasferta.
Ma questo non è che la punta dell’iceberg. Se penso che dovrò
rivedere Nate – e viaggiare di nuovo con lui – mi sembra di
impazzire. Cosa dirà? Se fingerà che non sia successo niente, che
effetto mi farà?
Perché qualcosa è indubbiamente successo. Almeno per me.
D’altra parte, non mi aspetto che lui lo trasformi in qualcosa di
serio. Ha confessato di avere un’infatuazione per me. E credo di
avergli dato l’opportunità di togliersi lo sfizio. Due volte.
Porca miseria. Sono nel mezzo di un salotto, con una borsa di
pannolini in mano, e mi sento terribilmente eccitata. Quando ha
preso in bocca il mio capezzolo, io...
Puff. Forse dovrei aprire una finestra e dare una rinfrescata a
questa stanza.
Finisco di liberare spazio in soggiorno e affronto il cucinotto. Ci
sono dei piatti nel lavandino. Insapono la pentola per gli spaghetti e
intanto metto a punto una strategia. Ci sono due possibilità. A) Nate
ignora l’intero episodio. La prossima volta che lo vedrò in ufficio e mi
dirà: «Ehi, Bec! Hai le cifre della vendita dei biglietti? E che ne dici
del sushi per il pranzo di oggi?»
Brucerà, ma credo sia meglio dell’opzione B, cioè la
conversazione più imbarazzante del mondo. «Be’, Becca. Una volta
ogni sette anni o giù di lì, che ne sentiamo il bisogno o meno.
Giusto?» Vai con la risatina imbarazzata.
No, la conversazione potrebbe andare anche peggio. «Becca, ehi.
Mi dispiace tanto di essermi fatto sfuggire di mano le cose. Ti prego
di accettare le mie scuse e questo cesto di frutta gourmet. A
proposito, d’ora in poi verrà Lauren in trasferta con me.»
Cavolo. E pensare che ero così ansiosa di tornare al lavoro.
Alla fine sento la chiave di mia sorella girare nella serratura.
«Wow, Bec! È una meraviglia qui dentro.»
Mi rimangio la battuta acida sul perché. Missy non ha tempo per le
pulizie. Deve portare a termine il semestre e poi quello successivo
per ottenere il diploma. Ed è quello che desidero per lei. Le ho
consentito di vivere qui così che potesse prendere la laurea che io
non ho mai portato a termine.
«Grazie» dico.
Perché è questo ciò che conta nella vita: la mia famiglia e il lavoro
che ci mantiene. Non posso perderlo di vista. Andare a letto con
Nate è stato davvero stupido da parte mia. Perché mai dovrei
rendermi le cose più difficili in questo momento? Ho già un trauma
cranico e dei grossi obblighi.
«Va tutto bene?» chiede Missy, mentre Matthew balbetta nel
marsupio.
«Certo, tutto bene.»
Per dimostrarlo, continuo con le pulizie. Passo l’aspirapolvere e
spolvero ogni superficie. Poi mi dedico al bagno, riordinando
l’armadietto dei medicinali per lasciare la maggior parte dello spazio
a mia sorella, in modo che abbia un posto dove mettere tutti i ciucci
e le coppette assorbilatte.
Quando tiro fuori lo straccio per lavare il pavimento del bagno,
Missy interviene. «Mi preoccupi» dichiara sulla soglia, rimanendo a
distanza di sicurezza. «Voglio dire, le pulizie antistress sono una
cosa che ho sempre apprezzato della tua personalità, ma queste mi
sembrano eccessive.»
La mia risposta è un brontolio. Missy e mia madre dipendevano
dalle mie pulizie da stress in periodo d’esami universitari. Meno
fatica per loro.
«Hai perso il lavoro? Non c’è problema, me lo puoi dire. Ce la
caveremo.»
«No.» Ma trasalisco all’idea.
Mi sono appena resa conto che, con un capo diverso, perdere il
lavoro non sarebbe così fuori dalle possibilità. Nate è una brava
persona. Non mi licenzierebbe mai per imbarazzo, né farebbe un
dramma di tutta la storia.
«Ma potresti?» indaga mia sorella.
«Probabilmente dovrei.» So di essere eccessivamente
drammatica. Ma mi sembra tutto così confuso, e non essere dietro
una scrivania da settimane non aiuta.
«Che cosa hai fatto?»
«Sono andata a letto con il mio capo.» Cavolo. A voce alta voce
suona anche peggio che nella mia testa.
Missy arriccia il naso. «Veramente? Sei andata a letto con Hugh
Major? È vecchio!»
Come ho già detto, a mia sorella manca qualche rotella. «Ingoia
quella lingua. È vecchio e sposato. Non andrei mai a letto con Hugh
Major.»
Missy aspetta.
«Sono andata a letto con...» Non riesco quasi a dirlo. «Nate.» E
sono subito scossa da un piccolo brivido. Il suo nome non suona più
lo stesso tra le mie labbra. Per il resto della mia vita immaginerò
Nate nudo, ansimante, i pettorali scolpiti che si muovono sopra di
me, le sue dita lunghe che premono le mie sul letto...
«Nooo!» La bocca di Missy è una O perfetta. «Quindi ha
finalmente trovato il coraggio di ammettere di avere una cotta per
te?»
«Missy!» squittisco. «Non dire così.»
«Ma per favore.» Alza gli occhi al cielo, nel modo tipico delle
sorelle che fa venir voglia di mollare loro un pugno. «Reperto A.»
Indica il cesto gigante di fiori molto appassiti che ho messo accanto
alla porta. Spero sempre che Renny li noti e li porti al compattatore
di rifiuti.
«Sono solo fiori» borbotto.
«È stato bello?» chiede.
«Eh?» Sto strofinando le piastrelle come se fossi in attesa di
un’ispezione.
«Il sesso. È stato bello?»
Avvampo al solo sentire la domanda.
«Qualcuno ha fatto sesso senza di me?» chiede Renny,
riemergendo dalla camera da letto con Matthew in braccio.
«Rebecca!» annuncia Missy. «Con il suo capo.»
«Oh, ca... pperi» esclama. A quanto pare stanno lavorando per
eliminare le parolacce, questa settimana. «Ci hai dato dentro con
Hugh Major? Non è un po’ troppo vecchio per te?»
«Non lui» preciso a denti stretti. «Esco a fare due passi.» È una
decisione impulsiva, ma ho bisogno di prendere un po’ d’aria.
«Prima di uscire... ci sono due lettere che dovresti guardare.» Mia
sorella si degna di alzarsi dal divano giusto il tempo di rovistare tra la
posta sul tavolino. Si tratta per lo più di cataloghi, ma tra di essi
pesca due buste, una spessa e una sottile. «Su questa c’è scritto
che il mittente è una società immobiliare, quindi ho pensato che
fosse importante. E l’altra è dell’assicurazione sanitaria.»
Oh, merda. Doppia merda. La busta più spessa è della DUMBO
Holdings. «È il nostro nuovo contratto d’affitto.» Aspettavo questo
momento. Il biennio dell’affitto è scaduto e, per legge, possono
aumentarlo significativamente. Apro la busta e tiro fuori i fogli piegati.
Passo in rassegna la prima pagina finché trovo quello che cerco.
Aumento del tasso dopo due anni: 0,00%.
Lo leggo altre tre volte perché non riesco a crederci. Poi passo
alla seconda pagina per assicurarmi che i numeri corrispondano a
quelli della prima.
Corrispondono.
«Wow» respiro. «È la più bella notizia che abbia ricevuto da
settimane.»
«Ah, sì?» Missy mi si avvicina per guardare. «Nessun aumento? A
New York?»
«Già. Forse si sono sbagliati.»
«Non importa» si affretta a dire mia sorella. «Firma e rispedisci.
Dovranno onorarlo per forza.»
Non è vero, anche perché non è ancora controfirmato. Tuttavia,
prendo una penna dal barattolo in cui le ho raccolte (ordinatamente!)
e firmo.
«Prendo un francobollo» si offre Missy.
La busta più sottile è del mio piano sanitario. Anche questa mi
spaventa. Nell’ultimo mese ho accumulato una visita al pronto
soccorso, una dal neurologo e poi una visita domenicale dal dottor
Armitage. Non sarà mai coperta.
All’interno trovo uno di quei moduli di Spiegazione dei benefici, di
quelli scritti in codice. “Questa non è una fattura”, si legge in alto, ma
so bene che non devo aspettarmi buone notizie. E infatti non ce ne
sono. Il dottor Armitage compare nell’elenco dei “fornitori non
coperti”, e la cosa non mi sorprende affatto. Anche la mia prima
sessione nella sua clinica di riabilitazione è elencata come non
approvata per la copertura.
Quando leggo il costo, resto senza fiato. Quattrocento dollari per il
consulto e duecentosettantacinque per la prima seduta di terapia. E
dovrei andarci tre volte a settimana.
«Brutte notizie?» Missy è tornata con un francobollo sulla punta di
un dito.
«No» mento. «Solo un impiccio burocratico. Probabilmente
impiegherò mezza giornata per parlare con la compagnia di
assicurazioni.» Magari. Cercherò di farmi approvare la terapia, ma
so di avere scarsissime possibilità di successo.
Accidenti.
«Spedisci il contratto d’affitto!» mi sprona Missy, incollando il
francobollo sulla busta di ritorno. «Una cosa in meno di cui
preoccuparsi.»
Spero abbia ragione.
Cinque minuti dopo, imbuco la busta in una cassetta postale su
Water Street. Altri due anni con lo stesso canone di affitto in un
appartamento a soli due isolati da un lavoro che amo. Dovrebbe
essere un bel colpo.
Ma sono molto confusa su cosa succederà adesso.
14

1 maggio, Tampa

Di tanto in tanto nel corso dell’anno pubblicano articoli su di me


per il mio successo. Qual è il QI di Nate Kattenberger? Oppure,
L’uomo che vede il futuro della tecnologia.
Chi scrive queste cose è fuori strada. Perché sono l’uomo più
stupido della terra. Mi trovo in un affollato stadio di hockey con
ventimila persone. Milioni di dollari che ho investito stanno lottando
all’ultimo sangue sul ghiaccio sotto di me. E a cosa sto pensando io?
A Rebecca.
Proprio così. Cinque giorni dopo, me ne sto seduto qui a
prendermi mentalmente a calci per non aver mantenuto
l’autocontrollo. È bastata un’ardente conversazione al buio con
Rebecca per perdere la testa. Ora mi sta evitando, il che significa
che potrei essermi giocato una buona amica. E, se sarò davvero
sfortunato, anche un’ottima dipendente.
Finora non avevo mai capito cosa si intendesse con l’espressione
“ragionare col pene”. Adesso, invece, lo capisco. Il mio ha avuto
delle grandi idee e, anziché smontarlo, gli ho detto: “ma sì, amico,
buttiamoci.”
In che cazzo di incubo mi sono cacciato...
Lauren si alza in piedi e applaude, ricordandomi di guardare
questa cazzo di partita. Beacon ha appena eseguito una parata
miracolosa.
Almeno qualcuno è concentrato.
«Bello!» esclama Stew, accompagnando l’esclamazione con una
botta sul mio braccio. «Così si fa! Penso proprio che i tuoi ragazzi ce
la possano fare.»
Lo penso anch’io, anche se è stata una settimana impegnativa.
Abbiamo perso la prima partita contro il Tampa. Stasera, però, i
ragazzi sembrano forti. So che non è finita per noi. Hanno trascorso
le ultime quarantotto ore a guardare video, mentre io e Lauren
eravamo chini sui nostri portatili cercando di tenere sotto controllo
tutto quello che succede a New York.
Per lo più, io ho pensato a Rebecca.
La mattina in cui ha lasciato Bal Harbour, ho intercettato la
limousine prima che andasse in aeroporto. Mi sono sporto all’interno
per darle un bacio sulla guancia e Rebecca mi ha guardato con
occhi spalancati e scossi.
La sua espressione mi ha tagliato in due, perché averla tenuta tra
le braccia era stata un’esperienza che aveva cambiato tutto. E che
sto ancora elaborando.
Ma non so da che parte stia lei.
«Ci sentiamo presto, okay?» le avevo detto in quell’ultimo istante
insieme.
Aveva evitato il mio sguardo. «Sarò quasi sempre offline questa
settimana. Ordine del medico» mi aveva liquidato.
Ciononostante, le ho mandato un paio di messaggi e ne ho
lasciato uno in segreteria per sapere se sta bene. Ma o mi sta
bidonando o è davvero offline. E non posso continuare a contattarla
perché, se lo faccio, farei la figura di quello assillante che non riesce
a lasciarla in pace.
E questa è la cosa peggiore di questo casino. Se avessi
coscientemente tentato di infrangere le regole nel modo più sporco
possibile, non avrei fatto niente di diverso da quello che è successo
martedì sera. Avevo usato la tessera magnetica che Rebecca aveva
dato a Lauren per entrare nella sua stanza d’albergo. L’avevo
svegliata e poi avevamo fatto del sesso molto energico.
Due volte.
Già vedo i titoli dei giornali: Nate Kattenberger, amministratore
delegato di una compagnia della Fortune 500, è il più grande idiota
vivente.
Intanto, però, non riesco a togliermi dalla testa quella notte. Anche
Becca se l’è a dir poco goduta, lo so. Il modo in cui mi ha spogliato
continua a ripropormisi in quel cervello che una volta credevo
avesse una capacità di concentrazione superiore alla media. A
quanto pare, non è così, perché adesso non riesco a pensare ad
altro che al sapore dei suoi baci.
«Oh, mio Dio» annaspa Lauren. «Questa partita mi sta togliendo
dieci anni di vita.»
Controllo sul tabellone: ancora zero a zero. Perlomeno ho scelto la
partita giusta per avere la testa tra le nuvole.
Accanto a me, le dita di Lauren strapazzano la tracolla della borsa
e gli occhi non si scollano dal portiere che sostiene di non amare.
Si dà il caso che non sia stato l’unico ad aver trascorso una notte
interessante a Bal Harbour. Lauren non lo sa ma, mentre tornavo di
nascosto nella mia stanza, avevo sorpreso Mike Beacon a
sgattaiolare fuori proprio da quella di Lauren. Non ci eravamo detti
una parola, quando ci eravamo incrociati in corridoio, entrambi in
smoking sgualcito. Ci eravamo solo scambiati un sorrisetto, prima di
proseguire per la nostra strada.
Non direi mai nulla che possa mettere in imbarazzo Lauren.
Tuttavia, mi merito una medaglia per non aver minimamente
accennato al suo improvviso ritorno nel fandom dell’hockey.
«Nate.» Stew mi schiocca le dita davanti alla faccia. «Ma
veramente non stai prestando attenzione?»
«Sì, invece» mento.
«Solo tu riesci a pensare al lavoro in un momento simile»
commenta, infilandosi in bocca un’altra manciata di popcorn.
Stew mi conosce piuttosto bene. E io mi sono fatto la reputazione
di quello che pensa sempre al lavoro. Anche se, di questo passo,
non avrò mai un’altra idea originale. Non sono nemmeno sicuro che
mi importi. La mia ossessione per Rebecca è sfociata in un
bell’allenamento, e voglio aggrapparmi a quel ricordo il più a lungo
possibile.
La partita va avanti, sul ghiaccio la tensione cresce. Alla fine
riesco a seguire. Uomini più deboli lascerebbero trasparire la propria
frustrazione sul ghiaccio, ma i miei giocatori mantengono la calma.
Quelli di Tampa, invece, no. Il loro attaccante più decorato fa lo
sgambetto al mio difensore e poi se la prende con l’arbitro. Un
minuto dopo, viene sbattuto fuori dalla partita e io sorrido.
«Powerplay!» È il grido acuto di Lauren, e sorrido anche di questo.
«È bello che tu segua la partita» dice poi.
«È bello che tu sia di nuovo una fan dell’hockey» ribatto.
Ed è allora che succede: i miei ragazzi spediscono il disco in
porta. Era ora! Siamo tutti in piedi a urlare. Il secondo tempo si
chiude sul punteggio di 1-0.
Lauren torna a sedere e sbuffa. «Che tortura!»
Non commento e lucido la mia medaglia per la discrezione. Ora,
però, ho quindici minuti di attesa prima del terzo tempo. Ed è
un’eternità per me. Così il pensiero torna a Rebecca. Sarà di nuovo
sdraiata nella mia tana ad ascoltare la partita?
Dio, spero di sì. Spero di non aver fottuto tutto per aver…fottuto.
Sfilo il telefono di tasca come un ragazzino impaziente e controllo
lo schermo. Niente da Becca.
Apro una chat con Bingley. Una delle mie innovazioni per questo
prodotto è la capacità di comunicare a distanza.
Nate: Check-in.
Bingley: Ciao, Nate! Il punteggio dell’hockey è 1-zip in tuo favore. Ma
probabilmente già lo sai, visto che al momento sei seduto a 23,5 metri dalla
superficie di ghiaccio. Sul fronte casalingo, nulla da segnalare. La
temperatura interna è di 20 gradi. Tutti i sistemi di sicurezza sono attivati.
Nate: Bene. Mi chiedevo se Rebecca è lì.
Bingley: Ahimè, la bella Rebecca non è al momento sul posto. L’ultima volta
in cui ho interagito con Rebecca è stato mercoledì alle 13.30.

Cazzo. Subito dopo il suo ritorno dall’aeroporto. Ha praticamente


lasciato una scia, uscendo dalla mia vita.
Merda.
Nate: Ha lasciato un messaggio? Posso sempre sperare.
Bingley: No, caro signore. Devo localizzare la sua attuale posizione?

Ogni telefono di servizio ha un dispositivo di localizzazione, quindi


Bingley potrebbe rintracciarla facilmente. Ma la mia politica
aziendale è di non ficcare mai il naso nella vita privata di un
dipendente, a meno che non si ritenga che qualcuno sia in pericolo.
E non sarò così assillante.
Nate: No, grazie. Buonanotte.
Bingley: Buonanotte, caro signore!

Potrei di nuovo cambiargli nome in Hal, suppongo. Ma non lo


faccio.
Se per caso Rebecca tornasse. Se….
Metto via il telefono e trovo Stew a fissarmi. «Che c’è?»
«Niente» risponde con un sorriso. «Vuoi una birra? Sto andando
al bar.»
«Sono a posto» rispondo.
«Ti porto io da bere, Stew» si offre Lauren, alzandosi in piedi.
«No! Non devi.»
Anche se Lauren è qui in veste ufficiale, Stew non approfitterebbe
mai della sua cortesia per questi piccoli favori. C’è un motivo se
siamo amici da anni. Stew è una brava persona.
«Ma voglio bere qualcosa anch’io e non so cosa hanno.» Gli mette
una mano sulla spalla. «Vado io e, intanto, potresti provare a
riportare a terra Nate dallo spazio.»
«Ehi, amico» mi fa Stew, appena Lauren sparisce. «Che ti
succede? E non dirmi che stai pensando all’architettura dei sistemi
in questo momento.»
«Sono un po’ distratto. Niente di che.»
Stew inarca le sopracciglia. «Ti prego, dimmi che hai finalmente
rotto il periodo di siccità. Cominciavo a preoccuparmi.»
«Oh, vaffanculo.»
Ride. «Allora, chi è la fortunata?»
«Non posso parlarne con te.»
Il suo sorriso si spegne. «Perché no?»
«Perché la conosci. E io non sono un pettegolo.»
«Sì che sei un pettegolo. Ma anche bizzarramente discreto. E
adesso tutto questo mi farà impazzire, te ne rendi conto?»
«Non è un problema mio.»
«Figlio di puttana. Sono quasi tentato di pensare che ti sia
finalmente scopato Rebecca.»
Mi limito a guardarlo con occhi vuoti. La gente ripete sempre che
ho un volto impassibile.
«Non ci credo, cazzo!» esclama a bassa voce.
La gente sostiene anche che, quando si tratta di Rebecca, il volto
impassibile fallisce.
«Sul serio? Quando è successo?»
«Ricordi dieci secondi fa quando ti ho detto che non ne avrei
parlato?»

Stew si strofina il mento. «La cosa va avanti?» Sospiro e basta.


«Mi sentirei molto meglio adesso se mi dicessi che siete stati
insieme di nascosto per tutto l’anno.»
«Non quanto vorrei» borbotto.
Stew geme. «Allora... è successo una volta e ora ti sta
congelando? È successo di recente?»
«Bal Harbour. Solo pochi giorni fa. Poi è tornata a New York e io
sono qui. Non so cosa le passi per la testa.»
«L’hai chiamata? Ti prego, dimmi che l’hai chiamata.»
«Certo che l’ho chiamata. Non mi ha mai risposto, però. Ho
mandato anche qualche messaggio.»
Stew spalanca gli occhi. «Allora hai un problema.»
«Ma dai, tu credi?»
«Anzi, un grosso problema. È una tua dipendente e ora la stai
tampinando. Devi smettere.»
«È ovvio che io e lei abbiamo bisogno di parlare.»
Stew si sistema il colletto della sua camicia, segnalando che si
sente a disagio. «No. Penso che tu abbia commesso una cazzata.»
«E come fai a dirlo?» Mi guardo intorno, sperando di vedere
avvicinarsi Lauren. Ho bisogno di fermare questa conversazione.
«Voi due ve la siete spassata e ora lei non risponde alle tue
chiamate? È davvero una brutta cosa.»
«Forse ha solo bisogno di tempo per elaborare.» Per quanto mi
riguarda, io ne ho bisogno.
«Com’è andata, comunque? Ti prego, dimmi che ha cominciato
lei.»
Non ha cominciato lei.
Tuttavia, non si può negare che, nel giro di un attimo, non sia
arrivata a pensarla come me. «L’escalation è stata indubbiamente
sua.»
«L’hai baciata tu?»
«Sì» ammetto. Ma salto a piè pari la parte in cui ho fatto irruzione
nella sua stanza d’albergo e l’ho svegliata. Non riesco nemmeno a
immaginare cosa direbbero i miei responsabili delle Risorse Umane
a riguardo. Probabilmente rientra nella top ten delle cose da non fare
mai con i colleghi in trasferta di lavoro.
«Gliene hai stampato uno» incalza Stew. «E poi cosa è
successo?»
«Ha fatto un versaccio e mi sono fermato. Allora mi ha inveito
contro per un minuto, mi è saltata addosso e mi ha baciato come se
non ci fosse un domani.»
Stew si porta una mano sul cuore con un sorriso. «Wow, sono
anni che aspetti una cosa del genere.»
Sospiro perché è vero.
«Quindi siete andati fuori di testa tutti e due. E poi?»
«Non otterrai ulteriori dettagli.»
«Intendevo al mattino, idiota.»
Ah. «Ho passato la notte con lei. Quindi le ho chiesto di fare
colazione insieme, ma ha detto che aveva già un impegno. Un’ora
dopo l’ho messa nella limousine, l’ho salutata con un bacio e le ho
detto che non vedevo l’ora di rivederla.»
«E adesso non risponde alle tue chiamate.»
«Più o meno.»
«Cristo santo.» Stew tira di nuovo il colletto. «Non era ubriaca,
vero?»
«No! Affatto. Era molto loquace, faceva domande. Mi ha chiesto
perché l’ho trasferita a Brooklyn.»
«E tu le hai risposto “Perché sono innamorato di te”?»
«No. Sarebbe stata un’esagerazione.» Perfino mentre lo dico,
però, sento una strana morsa al petto. Forse non è poi così lontano
dalla verità come vorrei.
«Una mia prima analisi suggerisce solo due motivi per cui non
risponde alle tue chiamate.»
Non ho tutta questa fretta di conoscerli.
«Numero uno: non le è piaciuto e non vuole dirtelo.»
«Sì che le è piaciuto» ribatto all’istante. Posso anche essere
socialmente goffo, ma quando una donna ansima il mio nome e mi
viene sul cazzo so che si è divertita.
«Beh, congratulazioni» ammicca, e mi vien voglia di prenderlo a
pugni. «Ma la seconda possibilità non è molto migliore. Cioè, sul
momento le è piaciuto, ma ora se ne è pentita.»
Ha ragione, naturalmente. Non è certo meglio. «Pentita di cosa?»
«Di essersi complicata la vita, tanto per cominciare. Sei il capo. È
rischioso.»
«Non sono il suo capo.»
«Dai, Nate, sei più sveglio di così.» Mi spinge il braccio. «L’hai
assunta tu. Le hai dato il suo attuale lavoro. Anche se tecnicamente
lavora per Hugh, sei sempre il capo del suo capo.»
Questa linea di pensiero mi rende ancora più scontroso di prima.
Stew è il mio migliore amico e rispetto la sua opinione, ma non
voglio che mi rimproveri di complicare la vita a Becca. Ho passato le
ultime settimane a cercare di rendergliela più facile.
E perché l’hai fatto?
Vuole sapere il mio subconscio. Cazzo.
«Conosco quella faccia» mi ammonisce Stew. «Non sopporti
quando ti dico la verità. Ma ascolta, amico. È importante davvero.
Non puoi metterti a inseguire Rebecca. Né adesso, né mai più.
Sarebbe la pura e semplice definizione di molestia sessuale.»
«Non la molesterei mai» dichiaro. Cazzo.
Anche mentre lo dico, ho la sensazione di sprofondare. Perché
inseguire la propria assistente per fare sesso è proprio la definizione
di molestia.
«Senti,» la sua espressione è serissima, «in tutta la Fortune 500
sei il meno squallido. Questo lo so. E lo sa Rebecca. Ma non
importa. Non puoi comportarti in modo diverso dalle duemila
persone che lavorano per te.»
«Siamo 1999 in realtà, perché ti ho appena licenziato. Un vero
peccato, visto che sei il numero due dell’azienda. Al consiglio di
amministrazione verrà un colpo.»
Stew scuote lentamente la testa. «Mi dispiace, Nate. Se non
lavorasse per un’azienda di tua proprietà, sarebbe diverso.»
Lauren sceglie quel momento per tornare. Passa una birra a Stew
e una Diet Coke fresca a me. Per sé ha preso un succo d’arancia. In
mano, inoltre, ha un sacchetto che a quanto pare contiene tre pretzel
caldi.
«Gnam» esclama Stew. «Grazie!»
«Non dovevi portarmi niente» dico io, staccando un angolo del
pretzel.
Mi porge una piccola tazza di senape. «Non preoccuparti. Hai
pagato tu. Sto solo cercando di darti un’aria un po’ meno cupa.
Funziona?»
«Certo» mento.
Dopo quella chiacchierata con Stewart, però, sono abbastanza
sicuro che sarò cupo come la morte per un bel po’ di tempo.

La buona notizia è che, mezz’ora dopo, la mia squadra si


aggiudica la partita con un altro gol in powerplay. E visto che le
prossime due si giocheranno a Brooklyn, potremo godere del
vantaggio del ghiaccio di casa.
Quella notte io e Stew torniamo sul Gulfstream.
È tardi e non cerca più di parlarmi di Rebecca. Gliene sono grato.
Quando raggiungiamo l’altitudine di crociera, indossiamo la tuta e
recliniamo i sedili, sperando di riuscire a dormire un paio d’ore.
L’atterraggio è previsto alle tre del mattino.
Abbasso le luci della cabina e chiudo gli occhi. Ora che sto
rientrando a New York, è ancora più difficile accantonare i miei
pensieri su Becca. La nostra notte insieme scorre come un film nella
mia mente. Quel leggero strato di seta e pizzo che indossava
quando l’ho svegliata. Il nostro strano litigio e il bacio con cui le ho
chiuso la bocca affinché smettesse di fare domande.
Le sue labbra che si sono schiuse sotto le mie, il mio primo
assaggio di lei. Becca che mi cavalcava e gemeva...
Accidenti, è stato bello. Anzi, no, grandioso. Per entrambi. La sua
bramosia ha significato tutto per me. Solo che adesso non sta
esattamente infuocando le onde radio per dirmi che non vede l’ora di
rifarlo.
Non è un buon segno.
Avrei dovuto imparare la lezione. Dopo la mia sconsiderata notte
con Alex, avrei dovuto pensarci bene.
Quei due incontri non avevano nulla in comune, però. Rebecca mi
ha letteralmente infiammato muovendosi contro di me. Non
dimenticherò mai i suoi gemiti.
Non ero solo io, cavolo. Rebecca ha amato ogni minuto.
Ma allora, dov’è?
Mi giro e rigiro finché il mio jet non atterra al LaGuardia alle prime
ore del giorno. Auguro la buonanotte a Stew e salgo in macchina
con Ramesh. È un raro momento senza traffico in città, così mi
riporta a casa a Pierrepont Place in men che non si dica.
«Potrebbe essere un record» commenta, raggiungendo il garage
chiuso a chiave della villa.
«Grazie, amico. Scusa per l’orario di merda.»
Ramesh sbadiglia. «Sopravvivrò. Notte, capo.»
Sento i suoi occhi addosso mentre attivo il sistema di sicurezza
perché mi dia accesso alla porta sul retro. Non chiuderà a chiave la
macchina e non salirà al suo appartamento sopra il garage finché
non sarò al sicuro all’interno.
Questa volta, quando entro in cucina, sento solo silenzio. Arrivo in
salotto e mi metto in ascolto.
Niente. Le serrature si chiudono intorno a me con un sonoro
scatto.
Porto la mia valigia al piano di sopra e poi mi aggiro per la mia
casa tranquilla. «Bentornato, Nate» mi accoglie Bingley. «Sei solo a
casa.»
La sua affermazione è un protocollo di sicurezza, ma mi deprime
comunque. Non rispondo al saluto perché Bingley non può
offendersi. «Attiva tutti i sistemi di sicurezza» ordino, invece.
«Sistemi attivati.»
Lascio le valigie a terra nella mia stanza. Poi, pur sapendo bene
cosa ci troverò, entro nella camera da letto verde. Il letto è rifatto e
tutte le cose di Rebecca sono state rimosse dal bagno.
In quell’attimo capisco con assoluta certezza di aver mandato tutto
a puttane. Rebecca è un’amica fidata e una dipendente importante.
Ora non risponde alle mie chiamate.
Trascorro il lunedì a Manhattan, affrontando un’estenuante serie di
riunioni. Il mio livello di attenzione è ai minimi storici.
Al mio rientro a casa trovo un calzone al prosciutto e formaggio
preparatomi dalla signora Gray per cena.
E un biglietto.
Nathan, ha chiamato tua madre. Vorrebbe sapere il programma
per la loro rapida visita di questa settimana. P.S. Nel cassetto delle
verdure c’è un’insalata per te. Per favore, mangiala perché tua
madre vuole assicurarsi che tu assuma abbastanza fibre. G.
Non sento mia madre da una settimana, quindi, dopo aver trovato
la mia insalata e stappato un’altra Diet Coke, chiedo a Bingley di
chiamarla.
«Nate?» La sua voce mi arriva attraverso l’impianto audio. «La
partita di ieri sera è stata davvero emozionante.»
«Vero?» I miei genitori amano l’hockey. Per forza, si sono
conosciuti e sposati in Minnesota. «Verrete per gara 3 e 4?»
«Ci piacerebbe molto. Sei sicuro che non sia un problema?»
«Nessun problema per me. Non piloto mica io il Gulfstream.»
Quando partecipano alle partite, mando sempre il jet in Iowa a
prelevarli.
«È un vero sollievo, tesoro. Tuo padre ancora trema, quando
pensa alla porta del nostro vecchio garage.»
Emetto un brontolio di protesta.
Avevo sedici anni quando urtai la porta del garage con la
Oldsmobile di mio padre, causando più di mille dollari di danni.
All’epoca erano un sacco di soldi. Ma il vero problema era proprio la
macchina. L’incidente avvenne poco dopo l’annuncio ufficiale che le
Oldsmobile sarebbero uscite fuori produzione. «Era la mia ultima
Olds» sospirava sempre mio padre.
Quando i giornalisti scrivono di me, dicono che ho avuto “una
normale e ben equilibrata educazione del Midwest”. Suppongo che
abbiano ragione.
«Avete intenzione di fermarvi tutta la settimana?» chiedo,
cambiando argomento.
«Non possiamo, tesoro. Il Consiglio d’Istituto di giovedì prossimo
non è negoziabile.»
«Ah.» Mio padre è preside di una scuola media di periferia e
prende molto sul serio il suo lavoro. «Potete prendere l’aereo dopo
la partita, se non vuole chiedere un giorno di ferie. Darò disposizioni
in merito.»
«Grazie. Mercoledì avrò sonno, ma ne varrà la pena per vedere i
tuoi ragazzi falciare Tampa in casa.»
Sorrido alla mia insalata perché mia madre è fantastica. Anche lei
è un’insegnante e coordina le attività degli insegnanti di sostegno
dell’intero distretto scolastico. Qualche minuto dopo, però,
riagganciamo e intorno a me cala di nuovo il silenzio. Mi ritrovo a
finire la cena con nient’altro che i miei pensieri a tenermi compagnia.
Gli unici rumori provengono dall’esterno. È lunedì sera, ma Brooklyn
è in forma: coppie passeggiano sul lungomare, famiglie felici sono a
cena fuori. Non riesco a vederli dalla mia cucina silenziosa, ma
sento il brusio di Brooklyn che si gode la primavera.
Dopo una lunga giornata in ufficio, mi sento inquieto. Potrei
andare a correre o fare un salto a una lezione di yoga. Potrei
rispondere a qualcuna delle cinquanta e-mail del team di ingegneri
che si stanno accumulando nella mia casella di posta.
Certo. Come se potessi concentrarmi su qualcosa in questo
momento. La mia capacità di concentrazione è in pausa.
Invece, metto il piatto in lavastoviglie, prestando attenzione a non
lasciare briciole sul bancone, o la signora Gray mi sgriderà.
Poi prendo le chiavi e il telefono ed esco a cercare Rebecca. Non
so cosa voglia da me. Forse niente. Ma devo scoprirlo. Stew non
approverebbe. Ma io e lei ci conosciamo da troppo tempo per lasciar
perdere così. Mi basterà una breve conversazione, prima di
arrendermi completamente.

Becca non è in casa, tuttavia ho una breve ma illuminante


conversazione con la sorella all’ingresso del loro appartamento.
Missy ha l’espressione intimidita di chi sa esattamente cosa è
successo tra noi. Blatera e sogghigna mentre io cerco di tenere a
bada il panico.
Il loro appartamentino è sorprendentemente pulito e profuma di
limone. E poi c’è quel bel bambino bavoso sull’anca di Missy. La
sorella di Rebecca è una tipa a cui piace chiacchierare, così mi
assento per un attimo guardando il piccolo che succhia il suo
ciuccio. Mi chiedo come sarebbe il nostro, se Rebecca e io ne
avessimo uno.
Poi mi viene voglia di darmi uno schiaffo. Ma che cazzo pensi,
cervello? «Sarà meglio che vada» dico a Missy, prima che si lanci in
un’altra storia sulla sorella. «Di’ a Rebecca che sono passato.»
«Senz’altro» risponde con un occhiolino sfacciato. «Grazie per
aver rotto il suo periodo di siccità.»
Non c’è una risposta educata a quel commento, quindi mi limito a
togliermi dai piedi.
A corto di idee, mi dirigo verso l’ufficio di Brooklyn. Visto che sono
le otto passate, mi stupisce vedere una luce accesa nei locali
dell’azienda. Le mie scarpe da ginnastica sono silenziose sui
pavimenti di legno lucido, quindi riesco a non farmi sentire mentre mi
avvicino. E poi trovo quello che cercavo. Nel mio ufficio privato c’è
Rebecca, in piedi davanti alla libreria con uno spolverino in mano.
Sta risistemando la mia collezione autografata di dischi da hockey
vincenti e canticchia tra sé e sé.
Non riconosco il motivo, ma devo fermarmi un attimo solo per
ammirarla. Ha un’espressione calma ma concentrata. Conosco tutte
le sue espressioni: la smorfia che fa quando qualcuno al telefono è
stato scortese con lei. Quella gioiosa di quando ride, con tanto di
mento all’insù e occhi accesi.
Adesso, però, so anche come appare quando è eccitata e vuole le
mie mani addosso. E forse non sarò mai più lo stesso. Stasera
indossa jeans attillati che le mettono in risalto il sedere delizioso;
ora, purtroppo, so esattamente come sia bello stringerlo nelle mani...
Rebecca si gira di scatto con un gridolino di sorpresa. L’ho
spaventata. Male. Le cade il piumino e, quando si china a
raccoglierlo, la vedo sbandare leggermente.
In una frazione di secondo sono lì a posarle una mano sulla spalla
per sostenerla. Non posso farne a meno.
Si rialza lentamente, gli occhi spalancati. Siamo troppo vicini. Il
suo profumo mi fa venire voglia di chinarmi e baciarle il collo.
«Ciao» la saluto, invece. Ha lo sguardo del cervo accecato dai
fari. Fantastico…
«Che ci fai qui di lunedì sera?» mi chiede, corrucciata.
«Stavo per chiederti la stessa cosa, visto che non hai ancora il via
libera per tornare al lavoro.»
Mi guarda male. «Non posso stare davanti a uno schermo, ma
posso dedicarmi alle pulizie antistress. Non sto infrangendo nessuna
regola.»
«Pulizie antistress? Azzardo un’ipotesi: sono io la causa del tuo
stress?»
Mi rivolge una colpevole alzata di spalle.
Cazzo. Non è così che volevo che andassero le cose tra noi (disse
l’idiota che si portò a letto la sua amica e collega). Respiro a fondo.
«Non volevo mettere in dubbio il tuo giudizio. Possiamo parlare un
attimo?»
«Dobbiamo proprio?» chiede a voce bassa.
«Sì» sussurro. C’è un lungo istante in cui ci guardiamo negli occhi.
E subito mi rendo conto di due cose: 1. Non rimpiango nulla. Anzi, in
questo stesso momento vorrei portarmela a casa, chiudere a chiave
la porta della camera da letto e passare il tempo a memorizzare tutti
i versi sexy che le sfuggono quando viene. 2. Non è sulla stessa
lunghezza d’onda. La sua espressione è chiusa. Indecifrabile.
Cazzo.
«Non rispondi alle mie chiamate, Bec» le faccio notare. «Parlami.»
Si gira e si siede sul divanetto nel mio ufficio. Il suo corpo è
irrigidito, come se stesse per ascoltare un sermone in chiesa.
Mi siedo accanto a lei, prestando attenzione a lasciare dello
spazio tra noi. «Come hai fatto a trovarmi?» mi chiede,
mordicchiando un’unghia.
«Dato che non rispondi alle mie chiamate...,» con il ginocchio do
un colpetto al suo, «sono passato da casa tua.»
«Mia sorella ha fatto la spia?»
«No. Ma è stata terribilmente loquace.»
Rebecca geme.
«Già. Missy non ha limiti. Ma non è questo che ti preoccupa. Puoi
dirmi qual è il problema? Posso sopportarlo. Qualunque cosa sia.»
Anche se non dovesse piacermi.
«Non riesco a credere che...» Mette le mani sulle ginocchia e mi
guarda in faccia. I suoi occhi azzurri sono timidi. «Sono diventata
quel tipo di donna.»
«Che tipo?»
«Quella che va a letto con il capo.»
Ahia.
Tento una battuta. «Veramente? Sei andata a letto con Hugh
Major?»
«Nate! Non è divertente!» Socchiude pericolosamente gli occhi.
«Non ti azzardare a fare il finto tonto. Hugh è il mio capo, ma solo
sulla carta. Sei stato tu ad assumermi sette anni fa. E ad assegnarmi
questo impiego con la squadra.»
«Certo, perché sei molto professionale.»
«Martedì sera non lo sono stata.» Il suo tono di voce si abbassa.
«Dio, non sentirti in colpa. Non dovresti proprio. Per niente.
Martedì sera è stata tutta colpa mia.» Mentre pronuncio quelle
parole, mi rendo conto di come suonano – come se fosse stato un
crimine, anziché una delle migliori notti della mia vita.
Infatti, Rebecca sussulta. «Non posso lasciare che ti assumi tutta
la colpa. C’ero anch’io.»
Sicuro che c’era… a sbottonarmi la patta. A passarmi le sue mani
su tutto il petto...
Gesù. Mi diventa duro al solo pensiero.
«...ma è stato un errore» continua. «Non è una cosa su cui posso
essere disinvolta. Anche se sulla carta non faccio capo direttamente
a te, sappiamo entrambi che sei tu che comandi.»
Emetto un verso di frustrazione. «Quanto vorrei essere di nuovo al
comando, Bec. E non mi riferisco alla squadra di hockey.»
«Oddio, Nate.» Sbuffa fuori l’aria.
«Sì, così. Ma più forte.»
Si porta le mani davanti agli occhi prima di parlare di nuovo. «E io
che pensavo potessimo accordarci sul dimenticare tutto.»
«È questo che vuoi?» Coltellata al cuore.
Becca sbircia tra due dita. «Devo dimenticarlo. Sappiamo bene
entrambi che nell’hockey professionistico sei uno dei proprietari più
presenti nella gestione pratica. Lavoriamo sempre insieme. Non
posso essere quella che, occasionalmente, va a letto con il capo.»
Il fatto è che mi sono appena reso conto che non c’è niente di
occasionale nel modo in cui la voglio. Come diavolo siamo arrivati a
questo? «Senti» inizio. «Fischio il fallo sull’idea che le nostre
spontanee esperienze di nudo siano legate al lavoro. Non mi sei
mica salita in grembo per avere un aumento!»
Le guance le si colorano di un rosso più intenso e distoglie lo
sguardo. «Comunque sia, voglio che il mio lavoro rimanga lo stesso.
Non posso diventare il giocattolino del proprietario.»
Il mio verso disgustato non è affatto sottile. «Davvero pensi che io
ti veda così?»
«No. Sì? Non lo so.» Si protende in avanti, lo sguardo a terra.
«Vorrei solo riavvolgere la mia vita a qualche settimana fa, a quando
tutto andava bene. Sei tu ad avermi suggerito di concentrarmi sul
mio recupero. E ora me lo stai rendendo davvero difficile.»
Cazzo. È vero. Vorrei continuare a discuterne finché non la porterò
a vedere le cose a modo mio. So essere molto persuasivo. Rebecca,
però, non vuole che la persuada. E Stew ha chiarito il perché non mi
è permesso provarci.
E su una cosa devo darle ragione: il tempismo è pessimo.
«Okay» concordo all’improvviso. Perché so riconoscere una
sconfitta.
Rebecca batte le palpebre. «Okay...?»
«Dimenticheremo quello che è successo. Non ne parleremo mai
più.»
«Va bene.» Apre la bocca e poi la richiude.
«Non è questo che mi hai chiesto?» Sembra incerta.
«Sì» conferma, annuendo. Poi inspira profondamente. «Amo
questo lavoro. E amo la nostra amicizia. E non voglio sacrificare
nessuno dei due.»
«Non succederà» la rassicuro in fretta. «Nessuno ti toglierà il
lavoro, Bec. Non succederà mai.»
«Buono a sapersi.» Si schiarisce la gola. «Anche se ora mi chiedo
se le valutazioni delle mie prestazioni che hai scritto siano mai state
imparziali.» Quando mi guarda, capisco che sta pensando a ciò che
le ho confessato prima di baciarla. Pur non avendolo mai ammesso
a me stesso prima d’ora, mi sono preso una bella cotta. E non ho la
più pallida idea di cosa fare a riguardo.
Ecco perché ho tenuto a bada la mia stupida libido per anni.
Questa è proprio la conversazione che non avrei mai voluto avere.
«Senti. Non vorrei mai metterti a disagio. Dimmi come posso
rimediare.»
Si strofina la fronte e so di essere responsabile del suo ultimo mal
di testa. Ancora una volta, ho fatto esattamente l’opposto della cosa
più intelligente. Questa ragazza mi rende stupido.
«Voltiamo pagina. Tra un paio di settimane rientrerò al lavoro e le
cose torneranno come prima.»
«Giusto» concordo, perché non c’è altro che possa aggiungere
senza passare per uno stronzo. Se non fosse che, tecnicamente, è
impossibile. Non potrò mai dimenticare quella notte. Non posso
impedirmi di pensare al suo corpo che si inarca verso il mio, né al
sapore della sua bocca sotto la mia.
«Grazie» dice. Ci fissiamo l’un l’altra per un lungo istante. Sono
appena andato incontro alle sue richieste. Eppure non mi sembra
sollevata. Mi guarda come se cercasse di capire qualcosa, senza
riuscirci.
Intuisco, però, il momento esatto in cui ci rinuncia.
I suoi begli occhi si abbassano. Si guarda intorno, vede la sua
giacca sul bracciolo del divanetto. Si alza, la prende con una mano
ed esce.
Mi si contraggono le viscere a vederla andar via. Tutto qui? Una
notte perfetta e una conversazione di tre minuti. È tutto quello che
avrò mai.
«Bec» la richiamo, bloccandola sui suoi passi.
«Sì?» Quando si gira per incontrare il mio sguardo, mi rendo conto
di non essere l’unico in conflitto. Sembra combattuta, mentre litiga
con la giacca.
Mi appoggio allo stipite della porta. Mi tengo a distanza di
sicurezza perché non mi fido di me stesso. «La mia porta sarà
sempre aperta per te.»
«Grazie» risponde a bassa voce.
«Qualsiasi cosa ti serva. Chiedi a Bingley, se non vuoi chiamare
me. Riguardati e abbi cura di te.»
«Anche tu» sussurra, poi mi rivolge un debole sorriso, si gira e se
ne va.
Trenta secondi dopo, sento la porta dell’atrio aprirsi e chiudersi.
Se n’è andata.
15

3 maggio, New York

«Così si fa, ragazza! Adesso, però, allenta questa stretta mortale


prima che perda definitivamente la sensibilità al braccio.»
Mi sforzo di allentare la presa sul polso di Ramón, ma mantengo
gli occhi serrati. Sto di nuovo saltando su quel maledetto trampolino.
Piccoli balzi. E la mia presa su Ramón è l’unica cosa che mi tiene in
verticale. Eppure, è un passo avanti. Due settimane prima, non ne
ero capace.
«Altri dieci» mi incoraggia. Poi inizia il conto alla rovescia. «Dieci,
nove. Respira, Becca. Otto...»
Quando arriva a “uno”, riapro gli occhi e mi fermo. «Wow. Okay.»
La stanza impiega un secondo o due per riorientarsi. Ma mi sto
abituando a questi piccoli riavvii del mio organismo. Non mi
confondono come una volta, e quindi non mi spaventano più. Faccio
un altro respiro e aspetto di recuperare la stabilità.
«Ottimo lavoro» approva Ramón. «Come ti è sembrato?»
«Non ti sto vomitando sulle Nike. Ecco il tuo primo indizio.» In
realtà, non ho mai vomitato durante la terapia, ma un paio di volte ci
sono andata molto vicina.
«Rebecca!» Il dottor Armitage in persona mi viene incontro con il
suo camice da laboratorio. «Come stiamo andando?»
«Il trampolino adesso è fattibile» annuncia Ramón. «Il suo tempo
di recupero ha ancora qualche margine di miglioramento, ma,
diamine, diamole una settimana. Si sta adattando rapidamente.»
Ed è vero. Sto finalmente meglio. Ogni giorno mi sento un po’ più
stabile. E il numero di episodi di sbandamento continua a diminuire.
E, soprattutto, non mi sento più così debole e senza speranza come
la prima volta che sono entrata qui. «Voi due fate miracoli.»
«Sta arrivando tutta da sola al suo recupero» afferma il medico.
«Noi le stiamo solo mostrando come fare.»
«E ora che si fa?» chiedo.
Ramón controlla l’orologio. «La temuta sedia girevole. E poi
avremo tempo per una partita di ping-pong.»
«In cui dovrai lasciarmi vincere.»
«Pfff!» ribatte lui, mentre il medico sorride. «Non è compreso nel
prezzo. Andiamo. Togliamoci il pensiero della sedia.»
«Passi nel mio ufficio, quando ha finito» mi invita il dottor
Armitage.
«Certo.»

Dieci minuti dopo, mi siedo davanti al dottore. Sono ancora sudata


per la terapia, che ha compreso un’altra sconfitta a ping-pong.
Il dottor Armitage si mette gli occhiali da lettura e scorre gli appunti
di Ramón. «Sta facendo grandi progressi. È fantastico.»
«Molto incoraggiante» concordo. «Mi sento meglio. Penso che
potrei anche tornare a lavorare, no?» La prego, dica di sì.
Armitage si incupisce. «Presto. Il suo rapido miglioramento è
fantastico, ma la terapia vestibolare non segue mai una linea retta.
La maggior parte dei pazienti va incontro a periodi di stallo, per poi
progredire ulteriormente. E noi stiamo chiedendo molto al suo corpo,
in questo momento. Deve concedersi ancora un po’ di esercizio
fisico prima di poter sottoporre la vista a un lavoro d’ufficio.»
Merda.
«Okay...» Mi schiarisco la gola. «Quanto tempo, però? Ho bisogno
di tornare a lavorare. Ho consumato tutti i giorni di malattia e anche
qualcuno di più. Vorrei poter riferire al mio capo una data di rientro.»
Il dottore è perplesso. A quanto pare non si aspettava questo
genere di preoccupazione da parte mia. Dopotutto, Nate ha
sganciato con disinvoltura cinquantamila dollari per ottenere il mio
primo appuntamento.
All’improvviso, mi sento accaldata. Il solo pensare a Nate mi fa
questo effetto. Ricordo anche quella prima mattina, quando il dottore
ha supposto che fossi la sua dolce metà.
Buffo che Nate e io ci siamo ritrovati a fare esattamente ciò che il
medico dava per scontato.
Argh. Ora il viso è in fiamme. Ma posso sempre attribuire la colpa
all’allenamento.
«Ne riparliamo tra una settimana» conclude il dottore con
delicatezza. «Dorma molto e resti attiva. Solo allora, forse, potremo
discutere di un rientro part-time. Pensa che il suo datore di lavoro
prenderebbe in considerazione un accordo del genere?»
«Certo.» È meglio di niente e mi sentirei meno esiliata e
dimenticata. «In tutta onestà, anche il part-time non sarebbe male. È
davvero pesante stare lontano dall’ufficio.»
La sua espressione si addolcisce. «Sono sicuro che mi sentirei
allo stesso modo. Si dia almeno un’altra settimana a casa, okay?
Sarò felice di scrivere una lettera a chiunque ne avesse bisogno, se
la sua assenza prolungata dovesse richiedere una giustificazione.»
A Hugh Major non interessa la lettera. Lo so nel mio cuore. Ma ciò
non mi rende meno desiderosa di tornare al lavoro. «Grazie, le farò
sapere se è necessario.»
Quando esco dall’edificio, trovo ad attendermi una nebbiosa
giornata di primavera. C’è odore di pioggia e non voglio scendere nel
tunnel della metropolitana. Quindi, mi incammino in superficie.
Girovago per Broadway, un tratto non particolarmente interessante
della bassa Manhattan, e sbircio nelle vetrine dei negozi. A Pearl
River mi fermo ad ammirare tutte le importazioni cinesi. Un set di
bacchette verdi con sopra dei panda mi ricorda quelle che Nate
teneva nel cassetto della scrivania, perché non gradiva quelle in
legno che consegnavano con il nostro cibo da asporto.
Ciao, subconscio. Penso spesso a Nate, e ogni volta avverto una
fitta. Dopo la nostra imbarazzata conversazione nel suo ufficio, è
sempre lì, ad affacciarsi nel mio inconscio come mai prima d’ora.
Riesco a sentirlo ridere nella mia testa e a immaginare il suo sorriso
sornione.
Gli avevo detto di voler scordare quella notte. E probabilmente lo
intendevo davvero. Solo che dimenticare è una causa persa.
Quando mi metto a letto la sera, riesco ad avvertire le sue mani sulle
mie cosce, intente a divaricarle. Quando chiudo gli occhi, la mia
immaginazione diventa spudorata.
La più recente delle mie fantasie è così potente ed estranea al mio
carattere!
Mi immagino sdraiata a letto a pancia in giù. Nate entra nella
stanza senza essere invitato. Solleva le coperte e si infila sotto con
me. “Non dovresti essere qui” lo rimprovero. Non mi risponde. Anzi,
mi toglie gli slip. “Non è una buona idea” lo ammonisco. In tutta
risposta, mi prende le gambe e le divarica. Sollevo il bacino perché
non posso impedirmelo. E mi ricompensa penetrandomi e poi
scopandomi senza dire una parola.
La femminista che è in me inorridisce. E, santo cielo!
All’improvviso il clima primaverile si è fatto davvero caldo.
Non riesco a spegnere il cervello. Eppure ho zittito del tutto Nate
durante la nostra imbarazzante chiacchierata in ufficio. Solo ora mi
rendo conto di non aver avuto mai la possibilità di sentire cosa
pensasse Nate del nostro incontro in Florida. Non gli ho permesso di
dirmelo. E ora la curiosità mi sta mangiando viva.
Una parte di me si chiede cosa sarebbe successo se non avessi
giocato la carta della paura. Se avessi confessato di essere rimasta
sbalordita dalla chimica tra noi, cosa sarebbe accaduto? Il risultato
più probabile avrebbe previsto un’altra notte bollente. Forse due.
Ma tutto lì, giusto? Nate e io non potremmo mai essere una vera
coppia. Quando Nate pensa al suo futuro, so che non vede me. Non
ho niente in comune con la sua ex, Juliet, che è stata una dei super
diplomati della sua Ivy League. Non sono un capitano d’industria
come la sua amica Alex. Non sono neanche lontanamente come
Lauren, che è sul punto di laurearsi in economia e scalare posizioni
nella KTech.
Sono la office manager, bravissima nel mio lavoro ma non
materiale da moglie trofeo. Sono la ragazza divertente e stravagante
che sa a che ora arrivano le auto e riesce sempre trovare una
prenotazione per la cena.
Non sono mai quella per cui si chiede la prenotazione.
Quando il mio piccolo cervello da criceto non è impegnato a
immaginare del sesso bizzarramente sottomesso con Nate, entra in
questo circuito: Cosa sarebbe potuto succedere tra noi? Oh, giusto.
Non molto.
Sciacquare e ripetere.
Anche se mi sta mandando al manicomio, sono convinta che
chiudere sia stata la mossa giusta. Qualsiasi flirt con Nate
significherebbe giocare con il fuoco. Sarebbe troppo facile
innamorarsi di lui. Non solo è l’uomo più intelligente che abbia mai
conosciuto, ma ha un gran bel sorriso, uno spiccato senso
dell’umorismo e, come ho avuto modo di constatare, un corpo
magnifico. Pacchetto completo.
Sento un piccolo fremito solo a pensare a un universo parallelo in
cui mi è permesso baciarlo ogni volta che ne ho voglia.
Ma qui, in questa realtà, ho un lavoro da tenermi stretto. Farmi
coinvolgere da Nate significherebbe mettere a repentaglio la stima di
tutti nell’organizzazione dei Bruisers. E non esagero nel dire che la
squadra è la mia seconda casa.
Mi dirigo verso la linea F per Brooklyn. I miei ragazzi giocano,
stasera. Gara 3. Non ne vedo una da settimane, da subito dopo il
mio incidente. Quanto vorrei poter andare allo stadio. Ma non posso
dire a Nate di aver bisogno di spazio e poi presentarmi nella sua
tribuna privata allo stadio. E non mi avanzano quattrocento dollari
per un biglietto.
Forse avrei dovuto pensarci prima di sbottonargli la camicia e
spogliarlo.
Vivi e impara.

Qualche ora dopo sono sdraiata sulla Bestia, il nostro orrendo


divano, mentre Missy passeggia avanti e indietro con un Matthew
molto irritato. Sta mettendo i denti.
Non abbiamo la TV, e la nostra connessione internet va a
singhiozzo, quindi la diretta streaming funziona a fatica.
Naturalmente. Missy sta monitorando un feed di Twitter sul mio
telefono per l’aggiornamento dei punteggi, perché gliel’ho chiesto io.
Lo stadio è a soli quattro chilometri dal mio appartamento, ma
stasera mi sembrano centinaia.
«Che dicono, adesso?» chiedo per la decima volta.
«Niente.»
«È Twitter. Dev’esserci qualcosa.»
«Qualcuno ha twittato che c’è troppa fila per il bagno delle
donne.»
«Uheee!» si lamenta Matthew sulla sua spalla e la mia testa
palpita in accordo.
«Dammi il telefono» ordino. Poi mi alzo e glielo strappo. Corro in
camera mia e chiudo la porta. Seleziono il nome di Georgia dalla
lista dei miei contatti e chiamo.
«Ciao!» strilla. «Becca?»
«A quanto stanno?» chiedo, brusca.
«Sono così tesa!» grida sopra il rumore di fondo. Non so neanche
se ha sentito la domanda.
«Gigi, quale stazione radio trasmette la partita? Ho bisogno di
sentire la radiocronaca!»
«Hockey alla radio? Lo passano?»
«No? I vecchi ascoltano il baseball. Sei tu la PR! Non lo sai?»
«Rebecca, stai bene? Perché non sei qui, a proposito?»
Mmm. Mantenere un segreto con la mia migliore amica non è
stato divertente, ma non è questo il momento per parlarne. Potrebbe
essere accanto a Nate. «Sto bene. È complicato. Dimmi solo cosa
sta succedendo sul ghiaccio.»
«In prima linea abbiamo Leo, Bayer, Castro.»
«Wow! Schieramento giovane stasera. Chi c’è in difesa?»
«Douley e... O’Doul passa a Leo! Ed è... OMIODIO. OH! DAI! Sì!
Non basta. Cazzo! Arrrgh!»
«Che cosa è successo? Non abbiamo segnato? Ti prego, dimmi
che non hanno segnato gli altri!»
Sento un rumore metallico e poi la chiamata si interrompe.
«Georgia?» chiamo.
Niente.
Questa è una tortura. Ho bisogno di risposte.
Tocco l’icona della app di Bingley. Si apre e una voce familiare mi
accoglie: «Ciao, mia cara Rebecca. Come posso esservi d’aiuto?»
«Ciao!» Mi sento come se mi fossi riconnessa con un amico
perduto da tempo, anche se so che è ridicolo. «Devo sapere cosa
sta succedendo alla partita di hockey.»
«La partita di hockey è attualmente in corso.»
«Il punteggio, Bingley. A quanto stanno?»
«Pareggio 0-0.»
«Okay. Che altro? Chi ha il disco?»
«Il disco, o puck, è un disco di gomma nera da 170 grammi.»
«Lo so, Bingley. Ma quale giocatore ha il controllo del disco in
questo momento?»
«Un attimo, Miss» dice Bingley. «Sto cercando assistenza.»
Bene, merda. Evidentemente ho sopravvalutato la capacità di
Bingley di elaborare la partita di hockey. Ora, probabilmente, a
qualche povero programmatore della KTech starà squillando il
telefono per via di questo bug di programmazione.
Bingley ritorna dopo circa novanta secondi. «Nate le ricorda che
ha bisogno di riposo per guarire. Ma aggiunge anche che dovrebbe
andare allo stadio, se vuole vedere chi sta giocando.»
«Aspetta, cosa? Hai chiesto a Nate?»
«Certo. È il mio amministratore. Standby per un’altra
comunicazione. Ah. Nate mi ha chiesto di mandarvi una macchina.
Tempo di arrivo previsto: tre minuti. Mercedes nera classe C.
L’autista si chiama Parker.»
Emetto un piccolo gemito di disagio.
«Cara Rebecca, state bene?»
«Sì, sto bene» sbotto. Ma sono scocciata. Non avevo intenzione di
chiedere niente a Nate. Mai. E non so neanche se dovrei andare allo
stadio, giacché sono così mentalmente incasinata.
«Oh, cielo» esclama Bingley. «Il punteggio ora è di 1-0 a favore
del Tampa.»
«No!»
«Oh, sì. Inoltre, l’auto è a due minuti di distanza.»
Basta. Non posso più stare ferma qui mentre la mia squadra
combatte contro Tampa. Mi alzo dal letto, butto giù il telefono e inizio
a cambiarmi. Anche se confuse e mortificate, bisogna sempre
apparire al meglio. Afferro il cappotto e la borsa, saluto la povera
Missy e poi corro giù per le scale. La macchina è già in attesa. Salto
su e chiudo lo sportello.
Sei minuti dopo, siamo in mezzo al traffico in direzione dello stadio
illuminato a soli due isolati di distanza. Così vicino, eppure così
lontano.
«Scendo qui!» dico all’autista, che sobbalza.
«È proprio qui davanti, signorina.»
«Lo so! Ma devo sbrigarmi» ribatto, quando il traffico si blocca di
nuovo. «Ciao!» Salto fuori dall’auto e procedo verso il marciapiede a
grandi passi.
Indosso le Converse, che si addicono meglio ai miei problemi di
equilibrio rispetto a scarpe più femminili. È la prima volta in vita mia
che mi capita di pensare a calzature pratiche, ed è una bella rottura.
D’altra parte, una volta arrivati allo stadio, la mia corsa non è ancora
finita. Presento il mio cartellino aziendale a innumerevoli agenti di
sicurezza lungo il corridoio che mi conduce alla tribuna privata, dove
Nate e qualunque pezzo grosso della KTech stanno guardando la
partita. È da lì che la guardo anch’io, quando sono in veste ufficiale.
La folla rumoreggia e la suspense mi sta uccidendo.
Ansimando, sbatto il mio documento contro lo scanner, che
sblocca l’accesso alla tribuna. Quando la lucina diventa verde, la
folla prorompe in un grido di gioia. Apro la porta con una spallata. «A
quanto stiamo?» chiedo a Georgia, la prima persona che vedo.
«Uno a uno. Eravamo sotto, ma abbiamo pareggiato. È appena
finito il secondo tempo. Tampa aveva tirato in porta, ma Beacon ha
parato col guanto.»
Espiro. Possiamo ancora farcela. Altri venti minuti per segnare
una o due reti.
Nel sentire la mia voce, Nate si gira lentamente. Quando i nostri
occhi si incontrano, sussulto, e probabilmente non sono molto brava
a nasconderlo. Ma Nate si limita a inarcare il sopracciglio in
un’espressione incuriosita.
Le viscere mi si contraggono per qualcosa che non è solo
desiderio.
No. Non andrò in quella direzione.
«Non cominciare» ammonisco Nate e anche me stessa. «Non è
così tardi, e poi non riesco a dormire con la partita in corso.» Sto
blaterando ed è difficile fermarsi, perché sono del tutto impreparata
alla mia reazione a Nate. Ho la stranissima voglia di volare sopra la
mezza dozzina di persone che ci divide e baciargli quel piccolo
cipiglio sul viso.
Cosa mi è successo?
Nate non è altrettanto combattuto, però. Con il volto impassibile, si
volta di nuovo e si concentra sul ghiaccio.
Okay, ahia.
Mi giro e trovo la mia migliore amica che mi fissa, uno sguardo di
valutazione sul suo dolce viso. Le prendo il bicchiere di vino dalla
mano e lo sorseggio.
«Pensavo che non potessi…»
«Shh!» la zittisco. «È solo un sorso. Non dire niente al mio
carceriere.» Capo. Amante. Quello che vuoi. Sono la persona più
confusa di Brooklyn.
E ora la più sessualmente frustrata.
Georgia mi porta una bibita e poi mi lancia un’altra occhiata
penetrante. «Come va, comunque? Non ti ho più sentito dopo la
festa a Bal Harbour. Stai ancora da Nate?»
«No.» Bevo una lunga sorsata della bibita senza guardarla negli
occhi. «Tornata a casa mia.»
«Okay...» Georgia attende ulteriori informazioni ma… buona
fortuna. Non possiamo parlare della mia contorta vita sessuale in
questo luogo, con i genitori di Nate seduti una decina di metri più in
là.
Per non parlare di Nate.
Mi viene risparmiata un’ulteriore graticola perché Tampa sceglie
proprio quel momento per togliere il disco a Trevi e riportarlo verso la
zona difensiva di Brooklyn.
«Piccolo, no!» urla Georgia.
In tribuna tutti si sporgono in avanti mentre Tampa si lancia verso
la porta. Sparano su Beacon, che devia il tiro con il bastone. Ma il
rimbalzo è stretto, quindi deve tuffarsi su un secondo tiro.
Tratteniamo tutti il fiato mentre Brooklyn cerca di liberarsi. Tampa
prende di nuovo la mira e due giocatori caricano la rete. Quando
l’ala tira, Beacon schiaffa via un altro disco.
Poi, però, l’altro avversario si avventa sul nostro portiere.
«Oh, Gesù» protesta Nate, una dimostrazione di emozioni rara per
lui. «Non ti azzardare a cominciare una...»
Non fa neanche in tempo a finire la frase che Beacon si toglie i
guanti e si getta sull’altro tizio. Lauren guaisce e nella tribuna tutti si
alzano in piedi, in ansia per le conseguenze.
Se il nostro portiere si infortunasse in una rissa, sarebbe un
disastro.
Di sotto scoppia una colluttazione. Il loro uomo ha afferrato
Beacon per la maglia e lo colpisce con l’altra mano. Beacon reagisce
e con un pugno fa volare la maschera dell’avversario sul ghiaccio. È
tutto un volare di pugni fin quando l’avversario non va giù, portandosi
dietro anche Beacon.
Provo una piccola fitta, perché mi è fin troppo facile immaginarlo
sbattere la testa sul ghiaccio, con tutti i mesi di recupero che ne
conseguirebbero. D’ora in avanti non riuscirò più a guardare un
giocatore andare giù senza prevedere un disastro.
L’arbitro e il guardalinee si lanciano nella mischia per separarli.
Beacon, però, sta bene. Si rialza subito. Ha del sangue sul viso, ma
il fuoco negli occhi. E quando l’allenatore entra sul ghiaccio per
accertarsi delle sue condizioni, lo caccia con un gesto della mano.
Tutti noi tiriamo un sospiro di sollievo. Mancano meno di quattro
minuti e la partita riprende un attimo dopo. I tre minuti successivi
sembrano lunghissimi e l’intera tribuna osserva Beacon in cerca di
eventuali problemi.
Non ce ne sono, però. Il gioco si sposta dall’altra parte della pista
e, a soli trenta secondi dal fischio finale, Leo Trevi aggancia il disco
con il bastone e lo fa scivolare dietro il portiere.
Georgia lancia un urlo di gioia mentre si accende la luce rossa
dietro il portiere di Tampa.
Il punteggio è di 2-1 a nostro favore, e un’ondata di ottimismo
attraversa la tribuna alla fine del tempo.
«Fiuuu» sospiro, sorseggiando la mia bibita. Sono di spalle
rispetto a Nate e ai suoi genitori per non essere tentata di fissarlo.
«Allora, qual è il problema?» mi chiede Georgia.
«In che senso?»
«Perché sei arrivata tardi alla partita?» Georgia mi afferra il polso.
«Vieni con me nel bagno delle donne. Devo farti qualche domanda.»
Suona come una minaccia. Poi la situazione peggiora. Mentre
Georgia va a prendere la sua borsa, la signora Kattenberger corre
ad abbracciarmi. «Rebecca! È bello vederti in piedi!»
La mamma di Nate è davvero affettuosa e, di fronte a lei, provo
subito una sorta di senso di colpa da scolaretta cattolica. «Oh, non si
preoccupi per me. Mi riprenderò.» Non dovrebbe stupirmi che Nate
abbia raccontato a sua madre del mio trauma cranico. Nate e sua
madre sono molto legati. Ma, comunque, ne sono colpita.
Non credo che le racconti ogni dettaglio della vita dei suoi duemila
dipendenti. È qualcosa su cui più tardi dovrò riflettere.
«Ho avuto mesi migliori» aggiungo con un sorriso nervoso. «Ma
sto migliorando di giorno in giorno.»
«Poverina! Che cosa fai per passare il tempo?»
Suo figlio. Quelle parole mi si affacciano in testa. E non posso fare
a meno di chiedermi cosa direbbe, se lo sapesse. «Un po’ di tutto»
azzardo. Poi, alzando lo sguardo, mi accorgo che Nate fa capolino
dalla spalla di sua madre.
I suoi occhi, però, non rivelano nulla. Se ha sentito il mio
commento o mi ha visto arrossire, non lo dà a vedere. Ed è un bene,
no? Gli ho chiesto io di smorzare le sue attenzioni. E l’ha fatto.
Fino in fondo.
«Che stress questa partita!» esclamo poi con voce stridula.
La signora Kattenberger allunga la mano a stringere la mia. «Eh,
già!» concorda.
Nate abbassa la testa e si allontana per salutare una giovane
donna che non ho mai visto prima. C’è un flusso costante di uomini e
donne d’affari nella tribuna di Nate durante le partite. Un invito diretto
dal proprietario è molto ambito e sono certa che venga elargito a
quelli su cui la KTech ha più bisogno di fare colpo in quel momento.
Comunque. Odio il sorriso che rivolge a quella donna in tailleur. E
tacchi, mica Converse. Mi sento più bassa di lei di almeno trenta
centimetri. E quando quella si protende a toccargli il braccio e ride a
una sua battuta, ho l’irrazionale impulso di darle un pugno sulla gola.
«Ehm, Bec?» Georgia è apparsa al mio fianco. Aggrotta la fronte,
poi mi guida nel corridoio. Faccio un respiro profondo e lo rilascio
mentre la seguo verso il lussuoso bagno delle donne al piano
rialzato.
Non scherzo, i ricchi usufruiscono di posti davvero speciali per
fare pipì. Perché è così che funziona il mondo.
«Okay, sputa il rospo, accidenti» esordisce Georgia, spingendo la
porta.
L’addetta ai bagni ci saluta con un sorriso. «Buonasera, signore!
Come va la partita?»
«Stressante» rispondo.
«Magnifica!» afferma Georgia.
«Per te, forse! Il tuo tesoruccio ha appena segnato. Quindi andrai
a segno anche tu, più tardi!»
«A questo proposito» riprende Georgia, mentre entriamo in bagni
adiacenti e chiudiamo le rispettive porte. «Sto aspettando che mi
aggiorni.» La sua voce fluttua sopra il divisorio in legno di noce.
«Su cosa? E non dovresti essere di sotto a preparare una
conferenza stampa in questo momento?»
«Non cercare di sfuggirmi, signorina. Danny sta organizzando la
conferenza di stasera, comunque. È in prova.» Scarica. «Quindi,
sputa il rospo. Ho tutta la notte a disposizione.»
Accidenti a lei.
Prendo in considerazione l’idea di restare nascosta in questo
bagno per il resto della serata. Ma è troppo da codardi, perfino per
me. Quando esco per lavarmi le mani, Georgia è lì che aspetta.
«Non hai niente da dire?»
«Tipo?»
«Tipo… perché un minuto fa sei diventata viola acceso durante la
conversazione più breve del mondo con la madre di una certa
persona?»
«Be’...» Faccio una risatina nervosa. «Viola, no. Rossa, forse.»
L’addetta ai bagni mi porge un morbido asciugamano di lino mentre
chiudo il rubinetto.
«Oh. Mio. Dio. L’hai fatto!» I suoi occhi sono lucidi e accesi.
«Wow! A Bal Harbour, vero? Hai disdetto la colazione per fare sesso
con...»
Mi alzo e le metto un palmo sulla bocca. «Ti prego. Un po’ di
discrezione sulle mie infelici scelte di vita.»
L’addetta al bagno, che non si era persa una parola, ora sembra
delusa. Georgia batte le palpebre. Tolgo la mano. «Oh, mio Dio»
ripete ancora una volta in tono stupito. «Wow, la Florida ha un
fascino potente. Chi l’avrebbe mai detto?»
Non io, questo è sicuro.
«Okay.» Inspira profondamente e soffia fuori l’aria. «Solo una
domanda. È stato bello?»
Argh. Perché tutti continuano a chiedermelo? «Che cosa importa?
Non mi rende la vita meno complicata, quindi non è questo il punto.»
«Invece è proprio questo il punto!» protesta Georgia,
tormentandosi le mani. «Sia che lui ti piaccia o no. Allora, come
stanno le cose?»
«Non è così semplice. Non possiamo avere una semplice storiella
da ufficio, Georgia. Ci sarebbero delle conseguenze… Più per me
che per lui.»
«Be’...» Si appoggia con un’anca contro il piano di marmo e
aggrotta la fronte. «È questo il problema, giusto? C’è uno squilibrio
di potere tra di voi.»
«Sì! Grazie tante!»
«N…» si riprende. «Il tuo uomo ha più potere di chiunque altro io
conosca. Ma è anche la sua prigione. Scommetto che non può mai
essere certo di essere amato per quello che è. E siccome la sua
azienda è la sua vita, chiunque incontri lì è già in debito con lui.»
Non l’avevo mai vista in questo modo. D’altra parte, il resto della
sua vita va più o meno come vuole lui. «Non tiriamo fuori i violini, per
ora. Non si può mica avere tutto così facilmente. Dove sarebbe il
divertimento, sennò?»
Georgia alza le spalle. «Lo so. Ha detto, ehm, che gli piacerebbe
rivederti? Fuori dall’ufficio, intendo?»
«O piegata sulla sua scrivania» sussurro. Questa è un’altra delle
mie fantasie. Non la riferirò mai a Nate.
Gli occhi dell’addetta ai bagni diventano enormi.
«Oh, wow.» La mia migliore amica si sventola con l’asciugamano
di lino. «Ricordami di bussare sempre, quando siamo al lavoro.» Fa
un ampio sorriso e io mi schiaffeggio mentalmente.
«Non c’è bisogno di preoccuparsi, davvero. Gli ho detto che
dobbiamo dimenticare l’intera faccenda.»
«Ah.» Georgia sembra delusa. «Ma perché? La mia mente era già
andata dritta alle cene a lume di candela e ai weekend alle
Bermuda. Immagina le serate che potresti organizzare in quella
villa!»
Non riesco a immaginarlo, però. «Questa è una favola. La realtà è
molto più imbarazzante. E se uscissimo insieme e non funzionasse?
Non voglio vivere con le conseguenze. E poi, non saprei nemmeno
come essere la sua...»
«Ragazza» completa Georgia.
Anche quella parola sembra impossibile. «La mia psiche potrebbe
non essere in grado di afferrare il concetto. Sono quella che gli
portava il caffè. Lo faccio tuttora.»
«Ragazza!» esclama l’addetta ai bagni. «Io servirei il caffè fino al
giorno della mia morte, se questo significa farmi scopare alle
Bermuda da uno ricco e focoso. Chiunque sia, devi fare un tentativo.
Se non lo fai, lo farò io per te.»
«Ottima osservazione» incalza Georgia.
16

15 maggio, Brooklyn

Ho imparato le prime stringhe del codice di un computer quando


avevo otto anni. Una delle mie prime lezioni riguardava i metodi per
evitare il loop infinito, quello per cui il programma si blocca e il
computer resta paralizzato, mentre tu cerchi di decidere se è il
momento di spegnere e riavviare.
In questo momento, mi trovo in questa situazione. È domenica
mattina e sono sdraiato sul divano del mio studio di casa a pensare
a Rebecca. Sono rimasto impantanato in un loop infinito da quella
imbarazzata conversazione nel mio ufficio.
Non posso smettere di chiedermi se ho peggiorato le cose.
Eppure non riesco a capire come avrei potuto migliorarle. Se avessi
detto di più – che provavo qualcosa di più – le avrei solo messo più
pressione. Non voglio essere lo stronzo che la molesta al lavoro. Le
donne hanno sopportato comportamenti simili per anni. E mi faccio
vanto di dirigere una grande azienda con un eccellente curriculum
nei confronti dei dipendenti di tutti i livelli.
Quando avevo tredici anni, mia madre ha affrontato un anno
terribile. Aveva appena ottenuto una promozione nella sede centrale
del distretto scolastico. E c’era questo stronzo che al lavoro la
rincorreva intorno alla scrivania. A mio padre è venuto un infarto. La
supplicava di dimettersi, ma mia madre non ha voluto.
Siccome quel tipo era un gigantesco farabutto, alla fine si è fatto
cogliere sul fatto e ha risolto le cose da sé facendosi licenziare. Ma
intanto i miei genitori erano entrati in crisi. Quando mia madre aveva
provato a lamentarsi, ai piani alti non avevano mosso un dito.
Non sarò mai quel tipo di persona.
Mi ci è voluta una buona settimana per capire che avevano
ragione sia Stew che Becca. Il dettaglio del lavoro rende tutto molto
spiacevole. Non posso andarle dietro come farei con una ragazza
che non lavora per la mia azienda. Non posso mandarle fiori,
invitarla a cena o rubarle un bacio. Non posso fare ciò che mi riesce
meglio, cioè andare a caccia di ciò che desidero di più e tenere duro
fino a quando non vinco. E sottolineo “tenere duro”.
Se non pensassi che potremmo avere qualcosa di grandioso,
sarebbe facile da accettare. Eppure il mio istinto mi suggerisce che
io e lei insieme saremmo una coppia fantastica. E del mio istinto mi
fido. Raramente ha sbagliato. Ma niente di tutto questo importa, se
lei non vuole considerare l’idea. Devo solo tenere chiusa la bocca (e
i pantaloni). Non posso ricordarle quanto sia stato bello, né
confessarle quanto desidero farla gemere su ogni superficie di
questa enorme casa.
Devo essermi fatto sfuggire un piccolo gemito anch’io, perché
Bingley si butta nella mischia. «Padron Nate! Va tutto bene?»
«Immagino di sì»
«Potrebbe ripeterlo, mio buon signore? Non avvertirò la squadra di
sicurezza, se non c’è motivo di preoccuparsi.»
«Sto bene, Bingley.»
«Lieto di sentirlo, signore. Posso aiutarla in qualche altro modo?»
Dovrei caricare un altro modulo vocale, in modo che la pianti di
chiamarmi “signore”. È troppo simile al mio lavoro diurno.
D’altra parte, ho scelto quello di un britannico vittoriano per far
divertire Becca. E mi manca Becca.
«Bingley» inizio, allora. «Come si fa a voltare pagina su
qualcuno?»
«Voltare pagina su qualcuno?» chiede. «Vale a dire, passarci
sopra una pagina o sottrarsi a un coinvolgimento romantico?»
«La seconda, Bingley. Non riesco nemmeno a immaginare la
prima.»
«Solo un momento, signore. Effettuerò una ricerca su Internet.»
Dovrebbe essere interessante.
«Nate, siamo tutti sciocchi in amore. Ci sono seicentoventidue
milioni di risultati per questa domanda» dichiara. «I suggerimenti più
comuni sono i seguenti: numero uno, non imbottigliare le emozioni.
Piangi, se necessario. Secondo: prendi atto della tua rabbia, se sei
arrabbiato. Tre: prenditi cura di te in altri modi. Non dimenticare di
mangiare bene e di fare esercizio fisico. Quattro: ascolta la musica,
soprattutto canzoni ritmate. Cinque...»
«Grazie, Bingley» sospiro.
«...Tieni un diario» finisce.
«Un diario.»
«Sì, annotare i tuoi pensieri e sentimenti, convalidando ed
esercitando tali emozioni sulla carta.»
Quello sarebbe un documento che il mio dipartimento delle
Risorse Umane non vorrebbe mai. Caro Diario, solo quando mi sono
intrufolato nella stanza d’albergo di Rebecca e l’ho scopata in sette
modi diversi fino alla domenica ho capito di essere innamorato di lei.
Non è stato d’aiuto.
Come ripete sempre mia madre, l’unica via d’uscita è quella che
passa in mezzo. E dovrei essere più concentrato sulla mia squadra
di hockey. Domani andremo a Detroit per affrontare un nuovo
avversario. Nel frattempo, in tutto il Paese, la squadra che meno
amo in assoluto sta facendo altrettanto.
«Bingley. Ci sono nuove segnalazioni di infortuni per la squadra di
Dallas o per Anaheim?»
«Un momento, signore... Sì. Simms non giocherà in gara 1 per
Anaheim.»
«Cazzo.»
«Signore?»
«È un’esclamazione di dispiacere. Ignora tutti i “cazzo”.»
«Sì, signore.»
E poi non riesco a decidere se sia o meno una buona notizia. Odio
Dallas con tutto il cuore e con tutta l’anima. Quindi non voglio che
vincano facile. D’altro canto, se vincessero la Western Conference i
miei ragazzi potrebbero falciarli in finale.
Questo sì che è un bel sogno ad occhi aperti. Anche se
statisticamente improbabile.
Nella mia tasca il cellulare vibra.
«Sta chiamando Stewart, signore» annuncia Bingley.
Prendo il telefono, perché Stewie di solito non mi disturba il fine
settimana. A differenza mia, lui ha una vita. «Sì» rispondo. «Come
va, amico?»
«Sono su un campo da golf a Kiawah» ridacchia. «E tu?»
«Mi chiami per sapere se sono in giro a dare al dipartimento delle
Risorse Umane qualcosa di cui preoccuparsi? Be’, no.» Siamo o no
un interessante studio di contrasti? «Sono sdraiato sul divano a
conversare con il mio assistente digitale. Normale amministrazione.»
Il mio vecchio amico prorompe in un versaccio. «Senti, non ti sto
controllando. E prima che i giocatori dietro di noi si incazzino, sappi
che ho appena ricevuto un messaggio e che domani riceveremo
un’offerta per la divisione router.»
«Davvero?» Mi tiro su a sedere. «Da chi?» Non può essere Alex,
perché mi chiamerebbe in prima persona.
«Dalla iBits Canada, in effetti. La chipmaker. E vogliono anche un
accordo di licenza.»
«Be’, è complicato.»
«Un po’. Comunque, domani avremo tutti i dettagli, okay?
Pensavo solo che avresti voluto saperlo per poter pianificare la tua
settimana.»
«Grazie, amico. Stendili tutti.»
«Magari. Ho già perso una fornitura a vita di palle in questo
campo.»
«Tieniti stretto le tue palle, amico.» Non ho mai saputo resistere a
una battuta ovvia.
«Ci sentiamo, nerd.»
«Ci sentiamo.»
Riattacchiamo e mi sento subito meglio. Ora il mio grande cervello
ha qualcosa da fare. Solo che c’è un problema. Pensavo di andare a
Detroit domani a vedere l’hockey. Ma a quanto pare non succederà.
«Bingley, chiamami Hugh Major.»
«Con piacere, signore.»
Mi si accende il telefono e, un attimo dopo, sento squillare il
telefono di Hugh.
«Ciao, Nate» risponde il direttore generale dei Bruisers. «Che
succede?»
«Dovrò sottrarre Lauren all’ufficio dei Bruisers, questa settimana.
Scusami per il breve preavviso, ma ho bisogno di lei a Manhattan.»
«Ne sarà entusiasta» ridacchia Hugh.
«Già, vero? Probabilmente non ce la faremo a essere a Detroit.
Puoi trovare qualcun altro che viaggi con te?» Hugh ha sempre un
assistente in viaggio.
«Certo, il tempismo è ottimo. Rebecca mi ha comunicato giusto
quarantotto ore fa che è stata autorizzata a tornare a lavorare part-
time.»
«Davvero?» È la notizia migliore che abbia ricevuto da una
settimana a questa parte. «Ne sei sicuro?»
Ridacchia di nuovo. «Certo che ne sono sicuro. Ho la nota del
medico che chiede un orario ridotto.»
«Non esiste orario ridotto durante i play-off» gli faccio notare. Ma
devo proprio stare zitto. Non sono affari miei.
«Ci penso io, okay? Assegnerò a Rebecca una stagista che la
assista a tempo pieno. Le porterò entrambe a Detroit. La stagista
può coprire le ore in cui Rebecca è a riposo. Non preoccuparti per
nessuno di noi, né della squadra. Abbiamo buone probabilità di
entrare nelle Series. I ragazzi sono pronti.»
Certo che lo sono.
«Andate a prendervela. Ci vediamo tra qualche giorno, forse.»
«A presto.»
Be’, okay, allora. È ora di pensare agli affari e dimenticare
Rebecca.
Magari.
17

21 maggio, Brooklyn

È quasi ora di andare allo stadio e i miei ragazzi stanno giocando


a calcio a eliminazione per passare il tempo. Indossano tutti giacca e
cravatta. Questo rende il calcio meno esilarante, anche se il
quoziente di gioia per gli occhi è piuttosto alto.
È bello tornare al lavoro.
Silas ha la palla. «Stai per andar giù, capitano.»
O’Doul incrocia le braccia potenti sul petto e sorride al giovane
portiere. «Piccolo sbruffone, calcia e basta.»
Lo fa.
Siamo nella sala di riscaldamento del centro di allenamento. Il
dischetto verrà scodellato tra due ore e mezza nella gara 3 del terzo
turno. La partita di stasera sarà molto combattuta.
O’Doul fa un balzo laterale per evitare che la palla colpisca terra.
Riesce a mantenerla in gioco e la passa con un colpo di ginocchio a
Trevi.
Ho un kit da cucito nella mia borsa, come sempre. Prima o poi a
qualcuno salterà una cucitura.
Il mio sguardo schizza verso l’orologio a muro e poi al telefono in
mano alla mia stagista. Non si è ancora acceso per segnalare
l’arrivo dell’autobus.
Heidi Jo mi becca a guardare e stringe il telefono al petto.
«Adesso, adesso. Non sbirciare» mi rimprovera.
Vorrei darle un cazzotto.
Il mio errore più grave, il giorno in cui sono tornata al lavoro, è
stato quello di dirle che dovevo limitare il mio tempo sullo schermo.
Chi avrebbe mai detto che una ventenne così carina potesse essere
una tale tiranna?
«Oh, grazie al cielo!» esclama all’improvviso. Il telefono le vibra
nella mano. «È ora!»
Infatti, il bordo esterno del mio telefono si illumina di arancione.
«Okay, ragazzi!» urlo, colpendo la mia cartellina per dare enfasi.
«Il pullman ci sta aspettando!»
«Sentito, O’Doul?» fa Castro. «Becca ha bisogno che sbagli il
prossimo passaggio, così possiamo andare allo stadio.»
O’Doul ringhia e Castro sfrutta quel momento per lanciargli la
palla. Non c’è niente di meglio di una piccola competizione
amichevole per gasare i ragazzi prima di una partita. È un’attività di
riscaldamento composta da coordinazione occhio-mano e
spavalderia in parti uguali. Resto in attesa, cercando di essere
paziente, ma bisogna rispettare la tabella di marcia.
«Sono un sogno» sospira la giovane donna accanto a me, mentre
la palla viaggia tra quegli uomini muscolosi. «Mia madre mi
picchierebbe per averlo detto, ma vorrei davvero scalare Silas come
un palo della cuccagna. O forse Castro.»
Escludo del tutto la mia stagista. In una scala da uno a dieci –
dove uno è “nessun problema” e dieci sono io che la stringo in una
presa da soffocamento – si piazza all’undici. E mezzo.
Quando Hugh mi ha comunicato che avrei avuto una stagista, ho
pensato che sarebbe stata una pacchia. Dopotutto, io sono
un’assistente. Non ne ho mai avuta una. Non da quando sono
venuta a Brooklyn, comunque. Sembrava divertente.
Quanto mi sbagliavo! Avere Heidi Jo appresso è esattamente
come passare la settimana con un cucciolo entusiasta. Non sta mai
zitta e si scoperebbe le gambe di tutti. È anche carina come un
cucciolo. Occhi grandi. Capelli biondi lucidi come la seta che si
arricciano intorno al viso.
Magari potessi passare al Brooklyn Animal Control e
sbarazzarmene... Gratis per chi l’apprezza.
È possibile che la stanchezza contribuisca a esaurire la mia
pazienza. Lunedì mattina sono salita sul jet della squadra alle sette
del mattino. Abbiamo passato quattro giorni a Detroit per due partite
e adesso siamo di nuovo a Brooklyn per le ultime due.
Ora è sabato sera, il sesto giorno dal mio ritorno al lavoro. Vado
avanti a caffè nero e adrenalina. Ma non c’è niente come la serata
della partita. I giocatori sono tutti pompati. Hanno vinto i primi due
incontri della serie, e ora sono di nuovo qui con il vantaggio del
ghiaccio di casa.
Il pallone da calcio, intanto, non è ancora caduto a terra. Silas lo
passa con il ginocchio a Trevi dall’altra parte del cerchio, che a sua
volta lo spedisce a Castro. Che lo calcia verso O’Doul. Che lo
manca.
«Cavolo» ridacchia il capitano.
«Bella rottura diventare vecchi, amico mio» commenta Silas, a
rischio della propria vita.
«Ragazzi» li ammonisco. «Tutti fuori, se non volete che apra un
nuovo barattolo di cazzi amari.»
«Non vogliamo» assicura O’Doul. «Andiamo, gente. Sappiamo
tutti che Silas vincerebbe di nuovo, comunque. Vince sempre.»
O’Doul lancia la palla a Castro e poi si muovono. Si mettono in fila
mentre lasciamo la stanza, diretti all’uscita posteriore, lontano dalla
strada.
Mi sbrigo per arrivare in testa, con Heidi Jo alle calcagna.
«Pronti, signorina?» chiede un uomo in abito scuro vicino alla
porta. È uno della sicurezza, ma non so come si chiama.
Studio l’esterno, dove l’autobus sta aspettando. «Andiamo»
concordo.
Ci tiene la porta ed esco. Dall’altra parte della recinzione di ferro ci
sono turisti che scattano foto. Conto due dozzine di giocatori che mi
passano davanti, poi guardo richiudersi lo sportello del pullman con
una certa soddisfazione.
Anche stasera sono riuscita a radunare la mandria. Quando il
pullman tra dieci minuti si fermerà davanti allo stadio con tutti i miei
ragazzi a bordo, potrò dire di aver svolto la parte più importante del
mio lavoro.
«Bene, signorina» dice il tipo della sicurezza. «Ecco la sua
macchina.»
Una limousine Mercedes si ferma nel punto esatto in cui si trovava
il pullman. «Oh, fico!» gongola Heidi Jo. «Non salivo su una
macchina simile dalla sera del ballo di fine anno! Avevo un vestito
carinissimo...»
Quanto chiacchiera.
Contenta lei.
Di solito non andiamo allo stadio in limousine, ma può capitare
che l’agenzia delle auto mandi chiunque sia libero. Non mi
preoccupo di spiegarglielo, però, perché sono troppo stanca. Il
cucciolo continua il suo abbaiare stridulo mentre l’autista in guanti
bianchi esce dall’abitacolo, ci passa accanto e ci apre lo sportello.
«Salta su» sospiro, chiedendomi se sia possibile fare un
sonnellino in un percorso di tre chilometri. Ma Heidi Jo
probabilmente parlerà per tutto il tragitto.
Varca lo sportello e scompare nell’oscurità dell’interno.
Aguzzo la vista nel parcheggio in cerca di colleghi che potrebbero
aver bisogno di unirsi a noi, ma non compare nessun altro. Con un
sospiro esausto, seguo la mia stagista all’interno, lasciandomi
cadere di peso sul primo sedile di pelle.
Mentre l’autista chiude la portiera con quel piccolo clic che solo
l’ingegneria tedesca riesce a produrre, mi accorgo di essermi seduta
praticamente sopra il solo e unico Nate Kattenberger.
E io che avevo dato per scontato che quest’auto fosse vuota. Ops.
«Ehm, ciao» squittisco, quando il profumo del suo dopobarba
speziato mi colpisce forte.
«Rebecca» mi saluta con la voce fredda e calma di un iceberg.
«Buonasera.»
Nate non mi parla in modo così distaccato da... be’, mai. Quindi è
strano. «Non mi aspettavo di trovarti qui» dico io. Come se non
fosse ovvio.
«Sono passato a fare due chiacchiere con Hugh.»
«Ah» è la mia stupida risposta.
Heidi Jo ci sta fissando con una manina dalla manicure perfetta a
coprirsi la bocca. Forse non ha mai incontrato un miliardario prima
d’ora.
Muovo i fianchi e mi sposto sul sedile di pelle per lasciare a Nate
un po’ più di spazio su quello che credevo fosse un posto vuoto.
«Scusa» balbetto, rossa in viso. Chissà se ho mangiato tutto il
rossetto. Spero di non avere gli aloni di sudore sotto le braccia.
Cosa cavolo mi è successo per sentirmi così in imbarazzo in
presenza di Nate?
«Signor Kattenberger, sono Heidi Jo» si presenta la ragazza a
voce bassa. «E sono una sua grande fan.»
Nate alza gli occhi dal suo telefono. «Grazie» dice dolcemente.
Percepisco una nota divertita.
«Heidi Jo è una stagista del front office» riesco a spiegare.
«...E mi sto prendendo cura della signorina Rowley!» cinguetta.
«È un piacere conoscerti e mi fa piacere saperlo.»
Anche se noto che non mi degna di uno sguardo.
Nate mette via il suo telefono. «Signorina Rowley, ha la lista degli
invitati di stasera a portata di mano?»
Signorina Rowley? Che diavolo di novità è questa? Passiamo al
lei? Con Nate? La sorpresa mi instupidisce e batto le palpebre per
un lungo istante. I suoi occhi pallidi sono indecifrabili dietro gli
occhiali da lettura.
Agitata, strappo via gli occhi dai suoi e appoggio la cartellina sulle
ginocchia. Il mio vestito di maglia – viola, il colore della squadra – si
solleva, così mi contorco per tirarlo giù. Poi sfoglio tutti gli appunti
per trovare la lista dei presenti nella tribuna aziendale di stasera.
«Vediamo» borbotto. «Hai invitato due persone della Goldman
Sachs: Kearns e Brown. Hai invitato Stew con Seely e Marsha Ryan.
Ah… e Alex Engels.» Merda. Se Alex si comporterà in modo strano
con me, probabilmente darò in escandescenze.
Mi esce il fumo dalle orecchie solo a pensarci. E invece di leggere
il resto dei nomi sulla lista, gli passo la cartellina, sentendomi
sconfitta.
Nate la scorre e me la restituisce senza dire una parola.
La riprendo e sospiro.
La macchina si avvicina a un altro semaforo rosso e tutti
aspettiamo in silenzio.
«Com’è andata la prima settimana di rientro al lavoro?» La
domanda di Nate mi sorprende.
Estenuante. E adesso strana. «Bene, grazie per averlo chiesto.»
«Ho fatto in modo che non lavorasse troppe ore a Detroit»
interviene Heidi Jo. «Sta andando alla grande.»
«Ah» dice Nate. «Ben fatto. Qualunque cifra ti paghiamo, sono
sicuro che non è abbastanza.»
Heidi Jo ridacchia. «Penso che potrei aver bisogno di un’indennità
di rischio per quando la signorina Rowley ha uno dei suoi sbalzi
d’umore. A volte, è un orso scontroso.»
«Davvero?»
Cerco di lanciare a Heidi Jo uno sguardo omicida, ma non mi
guarda proprio, quindi tutto ciò che ottengo sono i muscoli oculari
tesi. Quando la beccherò da sola, sarà una donna morta.
Nate mi lancia un’altra occhiata. È inspiegabilmente freddo. Mi
chiedo cosa veda. Una donna spettinata con un vestito viola
appiccicato addosso.
Oppure un grosso errore?
Per fortuna non ho più molto tempo per preoccuparmene. La
macchina si ferma dietro al pullman. Siamo all’ingresso dei giocatori
allo stadio. Quando sbircio fuori dai finestrini oscurati, noto che la
sicurezza ha fatto un bel lavoro a sgomberare il marciapiede. È stato
srotolato un tappeto rosso, in attesa che i giocatori facciano il loro
ingresso, e una discreta folla si è ammassata al di là delle barriere.
Lo sportello della limousine si apre. «Pronti?» chiede l’autista.
Vedo Heidi Jo muoversi.
«Aspe...» provo a dire, perché Nate dovrebbe uscire per primo
dalla limousine. Ma i cuccioli sono rapidi. Così, un attimo dopo, Heidi
Jo è lì fuori, accecata da un milione di flash in pieno viso.
Sento Nate ridacchiare, mentre la segue. I flash continuano a
scattare, quando prende con calma il braccio di Heidi Jo e la guida
verso il tappeto. Una persona normale sarebbe mortificata per
avergli rubato le luci della ribalta. Ma non la nostra Heidi Jo. Si ferma
all’inizio del tappeto rosso come un’invitata agli Oscar, poi si gira per
salutare la folla. Un altro milione di click, mentre Nate saluta la folla
con un rigido gesto della mano e un sorriso ancora più rigido, prima
di tirare Heidi Jo verso l’ingresso e scomparire all’interno.
Che diavolo è successo?
Di solito guardo questa passerella dallo stadio, non dalla
macchina. E di solito non c’è molta gente in giro. Ma questi sono i
playoff e, improvvisamente, a Brooklyn sono diventati tutti fan
dell’hockey.
Non volendo ripetere la performance di Heidi Jo, resto seduta a
guardare la portiera del pullman aprirsi e O’Doul scendere. Saluta gli
spettatori, che impazziscono all’istante. Controllo i giocatori, che
escono uno alla volta e salutano.
Approfittando che l’attenzione sia concentrata su quel ben di Dio
di atleti, scivolo fuori dalla limousine, ringraziando l’autista.
Brandendo la mia cartellina, marcio verso la porta. Nessuno mi
degna di un secondo sguardo, perché tutti gli occhi sono puntati sui
giocatori.
Georgia mi aspetta dentro. «Chi diavolo era quella ragazza...?»
«Mi dispiace» mi scuso in fretta. «Non l’ho avvertita di stare da
parte.»
«Ho ricevuto già tre messaggi di giornalisti che mi chiedono il
nome della liceale che sta frequentando Nate Kattenberger.»
Georgia alza gli occhi al cielo.
Non mi stupisce.
La mia amica abbassa la voce. «Forse avresti dovuto scendere
dall’auto tu per prima» sussurra. «Per fare una prova.»
«Molto spiritosa» sibilo. «Magari lunedì lo farò davvero, solo per
complicarti la vita. Poi prova a stroncare la voce che Nate esce solo
con assistenti e stagiste.»
«E solo persone sotto il metro e settanta di altezza. Miliardario
corteggia le diversamente alte, alle undici su questa rete» ridacchia
Georgia.
«Ti odio» ribatto.
Ma sto mentendo.
I giocatori ci sfilano davanti, diretti agli spogliatoi. Lì toglieranno
l’abito e indosseranno la tenuta da riscaldamento. Terranno riunioni
dell’ultimo minuto, si faranno fasciare i muscoli doloranti.
Fodereranno all’infinito i loro bastoni di nastro. Si idrateranno, si
dedicheranno allo stretching e indulgeranno in provocazioni.
Adoro la sera della partita. L’energia nell’edificio mi ha già dato un
po’ di carica.
Heidi Jo si dirige verso di me dal fondo del corridoio con i tacchi
che battono sul cemento. «Oddio, gente! È stato così carino da parte
di Mr. K percorrere il tappeto rosso con me!»
«Come se avesse avuto scelta» commenta Georgia sottovoce.
«Mr. K?» Mi sta prendendo in giro?
«Cosa facciamo, adesso?» cinguetta la mia stagista.
«Dobbiamo assicurarci che non salti di nuovo fuori dalle limousine
con il grande capo» chiarisce Georgia.
«Scusa» dice briosa Heidi Jo. «Che altro?»
Georgia alza un dito e chiede un altro minuto della mia attenzione.
«Un’altra cosa. C’è una reporter di Observer che smania per
intervistare Nate, ma mi sembra tutto molto strano.»
«Strano in che senso?» chiedo.
Georgia sposta rapidamente gli occhi lungo il corridoio e poi di
nuovo verso di me. «Non la conosco molto bene, ma vuole scrivere
un articolo sul motivo per cui Nate avrebbe comprato una squadra di
hockey. Solo che Nate non accetta di rilasciare l’intervista. Hai idea
del perché? Lo conosci da più tempo di me.»
Scuoto la testa lentamente. Al momento non mi sembra di
conoscerlo molto bene. «Quando Nate ha comprato la squadra, ne
sono rimasta sorpresa. Non sapevo neanche che lo stesse
considerando. Ma posso dirti che il nostro primo ufficio aveva un
poster di hockey sul muro.» Chiudo gli occhi stanchi e cerco di
ricordare. «I Blackhawks, credo.» L’ho fatto incorniciare quando
abbiamo ristrutturato gli uffici la prima volta, perché la nostra nuova
sistemazione era più di classe e non volevo incoraggiare i ragazzi a
decorarla in stile dormitorio universitario. Ma poi il poster è
scomparso. Ora che ci penso, sono anni che non lo vedo.
«I Blackhawks, eh?» riflette Georgia, picchiettandosi un labbro.
«Sì, ha senso, credo. Non poteva essere fan del Minnesota, perché
è una squadra che si è formata dopo che la sua famiglia ha lasciato
il Minnesota.»
«Chiediglielo e basta.»
«Non ne vuole parlare, ma questa giornalista non molla. Mi dà una
strana sensazione. Come se avesse qualche pettegolezzo e non
volesse confessarlo. Ma non riesco a capire cosa sia.»
«Strano» ammetto. D’altra parte, non riesco a immaginare cosa ci
sia di così affascinante nel fatto che Nate possieda una squadra di
hockey. È questo che fanno i bianchi ricchi. «Forse sta cercando di
farla passare come “La rivincita dei Nerd”. Un cervellotico a cui piace
la brutalità sul ghiaccio.»
«Non è così per tutti?» commenta Heidi Jo con un sospiro.
Georgia mi guarda, alzando gli occhi al cielo. «A dopo, piccola.»
«A dopo!» Torno alla mia assistente. «Vado dal personale dello
stadio ad accertarmi che non ci sia qualche appunto per me. E ad
assicurarmi che i giocatori abbiano tutto ciò che serve negli
spogliatoi.»
La mano di Heidi Jo scatta in aria. «Mi offro volontaria!»
Sigh. «E poi darò un’occhiata alla tribuna aziendale per
assicurarmi che sia pronta per...» Per quell’uomo a cui sto cercando
in tutti i modi di non pensare. «Andiamo» la incoraggio, invece.
«Prima la biglietteria.»
Mi dirigo verso gli ascensori, con Heidi Jo alle calcagna. «Quando
dici tribuna aziendale,» inizia la stagista, «intendi la tribuna di Mr.
K?»
Il fatto che gli abbia dato un nuovo soprannome mi fa venire la
pelle d’oca. Ma mi rimangio il commento acido. «Sì, quella.»
«È di lusso? Non ho mai incontrato un miliardario prima d’ora.»
«Mica vive lì» mi lamento. «È il tipico arredamento da ricchi. Sedili
da stadio di velluto. Pareti rivestite. Lampadari. Ballerini esotici nella
mezz’ora di pausa.»
«Cosa?»
«Maschio e femmina. Non dare mance, però. Sono stipendiati.»
Heidi Jo strabuzza gli occhi e mi sento una carogna.
«Scherzavo sull’ultima cosa.»
«Quindi gli dai la mancia?»
Sparatemi. «Non ci sono spogliarellisti. La partita di hockey è già
eccitante di suo. Ma c’è lo champagne, se vinciamo. E un altro
centinaio di bevande se non vinciamo. E quelle palline calde al
formaggio che Georgia mangia a razzo quando è tesa.» Mi brontola
lo stomaco solo a pensarci.
«Non è carino prendermi in giro» protesta Heidi Jo, mettendo il
broncio.
«Scusa.» Fantastico. Ho preso a calci un cucciolo. Ma Heidi Jo
tira fuori il peggio di me.
«Come ti senti?» chiede.
«Alla grande.» Sono stanca e ho fame. Ho bisogno di dodici ore di
sonno nel mio letto. Il medico mi aveva avvertito che la mia prima
settimana sarebbe stata dura, raccomandandomi di prendermela
comoda, ma chiaramente non aveva idea di cosa significhi seguire
una squadra ai playoff di hockey. Questa è la mia vita. Il mio lavoro.
E lo amo. Il sonno può aspettare.
«Ti fa male la testa?»
«No. Sono a posto.»
«Potrei trovarti uno spuntino...»
«Heidi? Smettila. Sto bene.»
Mi rivolge uno sguardo ferito. «Okay. Basta dirlo.»

Il disco viene scodellato sul ghiaccio alle sette e mezza, in perfetto


orario. È in quel momento che termina la mia giornata di lavoro. Ora
potrei benissimo tornare a casa e cominciare a recuperare il sonno
perso.
Invece, affondo su una poltrona nella tribuna di Nate. Scelgo
quella più lontana da lui e mi concentro sulla pista. Niente mi
impedirebbe di guardare i miei ragazzi impegnati in una partita dei
playoff. Nemmeno l’imbarazzo di prim’ordine tra me e il capo.
Purtroppo per entrambi, la partita non va come previsto.
Pareggiamo 1-1 all’inizio del primo tempo e non ci schiodiamo da lì
per ore. E meno male che c’è il vantaggio del ghiaccio di casa. Le
segnalazioni arbitrali sono brutali. Brooklyn viene richiamata per ogni
fallo del mondo. Sgambetto. Bastonata. Ostruzione. I nostri giocatori
passano più tempo in panchina stasera che nelle ultime due partite
messe insieme.
Ancora peggio: ogni volta che Detroit reagisce, l’arbitro diventa
improvvisamente cieco. Guardo, a bocca aperta, un giocatore di
Detroit mandare Castro a sbattere con la faccia contro il plexiglas.
«E DAI!» urlo, balzando in piedi, indignata per la mancanza del
fischio arbitrale. «GUARDA CHE CAZZATA PROPRIO LÌ DAVANTI!»
«Sono d’accordo» si intromette Heidi Jo. «Ma mia madre mi
darebbe uno schiaffo, se mi esprimessi come te.»
Qualcosa mi dice che io e la mamma di Heidi Jo non andremmo
d’accordo. Il mio sguardo si sposta su Nate per la centesima volta.
Chissà cosa pensa di questa partita orribile. Chissà se è cosciente
che sono qui.
E mi chiedo anche perché questo sia ora così importante per me.
Ero abituata a guardare le partite in quieta solidarietà con lui, e non
mi chiedevo mai cosa pensasse di me.
Il terzo tempo si chiude senza sbloccare il pareggio, così viene
segnato un tempo supplementare sul tabellone e la Zamboni scorre
a levigare il ghiaccio.
Sono stanca da morire, neanche avessi pattinato io per novanta
minuti di fila.
«Raccolta scommesse!» grida Stewie. Si alza in piedi, si toglie il
berretto dei Brooklyn Bruisers e lo capovolge. «Chi ci sta?»
Prendo una banconota da venti dollari dalla borsa e la butto nel
cappello. «Dodici minuti e trentasei secondi» dichiaro, e Stew segna.
«Oh!» esclama Heidi Jo. «Adoro i giochi.» Butta dentro un altro
biglietto da venti. «Cosa si indovina?»
«Quanto impiegherà la Zamboni a ripulire il ghiaccio.»
«Ah.» I suoi occhi azzurri studiano la macchina e, mentre riflette,
tira fuori la lingua all’angolo della bocca. «Dodici minuti e trentanove
secondi.»
Stew soffoca una risata, poi alza gli occhi verso di me. «La tua
stagista è una concorrente agguerrita, Bec.»
«Chi, io?» Heidi Jo batte le ciglia dei suoi occhioni.
Vorrei prenderla a calci. Non può esserle sfuggito che la sua
scommessa ha inscatolato la mia. «Se vinci, domani compri il
pranzo.»
«Fantastico!»
Stew mi sorride e va avanti.
«Già.» Heidi Jo si alza in piedi. «Stavo pensando di andarmi a
prendere un cocktail. Ti porto qualcosa?»
«Non sapevo che bevessi, Heidi Jo.» La cosa in un certo senso mi
diverte: la signorina carina e perfetta ha bisogno di un drink.
«Intendevo un cocktail di frutta!» ridacchia.
Giusto.
Sono a tanto così dal chiederle due dita di whisky, ma resisto. «Mi
andrebbe una Coca-Cola. Grazie.»
Ho gli occhi stanchi e trascorro il resto dell’intervallo a sorseggiare
la bibita e sgranocchiare bastoncini di carota.
Nate lo impiega a lavorarsi i banchieri della Goldman Sachs. E a
non guardarmi negli occhi. Quando la Zamboni lascia il ghiaccio al
suo ben noto passo lento, mi sono già completamente dimenticata
della scommessa. Poi Stew grida: «Dodici minuti e trentaquattro
secondi! Rebecca Rowley si aggiudica il piatto!»
Questo mi risveglia un po’. Stew mi consegna trecento dollari e un
bacio sulla guancia. «Congratulazioni, Bec!»
Si congratulano quasi tutti. A parte Nate, che non mi degna di uno
sguardo. Fantastico.
«Immagino che domani sarai tu a comprare il pranzo» commenta
Heidi Jo.
«Infatti» concordo. «E, comunque, tieni.» Infilo la mano in tasca e
tiro fuori una banconota da venti. «Non è corretto che una stagista
perda il suo denaro.»
Strabuzza gli occhi per la sorpresa, poi spinge la banconota verso
di me. «Quel che è giusto è giusto. Vincerò la prossima volta.»
Conoscendola, sarà sicuramente così.
Lei va a riempire di nuovo i nostri bicchieri e Stew mi si accosta.
«C’è mancato poco, Bec. Altri tre secondi e saresti stata in parità.
Pensi che il braccio di ferro sarebbe andato bene come spareggio?»
«La batterei sicuro» dichiaro, e lui ride.
«A proposito» aggiunge sottovoce. «È stato carino da parte tua
restituirle i suoi venti dollari. Ma sai bene che può permetterselo.»
«Ah, sì?» Non so niente di Heidi Jo perché cerco di non farle mai
domande. È troppo rischioso. Una volta che inizia a parlare, non ha il
pulsante di spegnimento.
Stew emette un verso di sorpresa. «Dai, Bec. Non ti sfugge mai
niente. È la figlia del commissario della lega.»
«Il...» Commissario della Lega? «Della NHL? Davvero?»
«Sì, Heidi Jo è Heidi Jo Pepper. Quando ha lasciato il college
Bryn Mawr, il paparino si è arrabbiato e l’ha mandata a lavorare in
una squadra.»
«Oh, diavolo. Che fortuna che ho.» Stew mi strizza l’occhio e torna
al suo posto. Io, invece, resto lì a riavvolgere ogni conversazione
avuta con la mia stagista, cercando di valutare il mio grado di
cattiveria. Merda.
Un minuto dopo, si siede accanto a me e mi passa il bicchiere.
«Grazie mille! È davvero gentile da parte tua» la lodo.
Heidi Jo mi guarda di traverso. «Cosa ti ha appena detto
quell’uomo?»
«Eh? Quale uomo?» Non la guardo negli occhi.
«Quel tizio della lotteria. Ti ha detto chi è mio padre, vero? E ora
sarai gentilissima. Stronzate, Becca. Sono solo la stagista. Non ho
bisogno di un trattamento speciale.»
Ops. «Ehm, okay. Scusa.»
Heidi Jo sembra di malumore per la prima volta da quando la
conosco.
Ma poi i nostri giocatori scendono sul ghiaccio e tutto il resto viene
dimenticato. Purtroppo, Detroit segna un gol a Beacon al quinto
minuto, concludendo la partita.
L’eliminazione diretta ai supplementari è sempre scioccante. Per
un attimo sulla tribuna cala il silenzio e restiamo tutti a fissare il
ghiaccio, cercando di negare ciò che i nostri occhi hanno appena
visto.
Nate si appoggia allo schienale, inclina la testa all’indietro e
sospira. «Andrà meglio la prossima volta, ragazzi» dice Stew.
«Nate,» chiama Georgia dalla porta, «avremo bisogno di te al
piano di sotto.»
Tutto qui. La mia serata è finita. Posso uscire dal retro e
finalmente andare a dormire un po’.
E poi mi rendo conto di aver lasciato il cappotto al piano inferiore.
Così sono costretta a seguire i VIP fuori dalla tribuna e verso
l’ascensore.
Resto indietro, scendendo per ultima. Heidi Jo mi ha mollato –
finalmente. Sono sola con i miei pensieri pigri fino a quando le porte
dell’ascensore non si aprono nel caos del dopo partita. Il corridoio è
pieno zeppo di giornalisti e personale di supporto. Georgia e il suo
collega stanno cercando di farli confluire nella sala stampa. Mi faccio
strada attraverso la folla verso l’ufficio di Hugh, dove credo di aver
lasciato il cappotto.
«Signorina Rowley.»
La voce di Nate mi blocca non appena passo davanti alla porta del
suo ufficio. Quando mi giro, lo trovo appollaiato sul bordo della
scrivania, probabilmente perché Georgia gli ha chiesto di aspettare lì
finché gli toccherà salire sul palco della conferenza stampa. La
cravatta è dritta e la camicia inamidata. Mentre il mio trucco è
sbavato e mi sembra di aver scalato la vetta di una montagna con i
miei vestiti, lui ha un aspetto da un milione di dollari.
O miliardo. Tecnicamente. «Hai bisogno di qualcosa?» chiedo. Per
favore, di’ di no. «E cos’è questo “signorina Rowley”?» Subito dopo
averlo chiesto, vorrei prendermi a calci. Lasciar trapelare che mi dà
fastidio è probabilmente una cattiva idea.
Si incupisce. «Volevo solo chiederti se sai come mai Alex non si è
presentata stasera.»
«No» rispondo. «Non l’ho sentita. Non sono stata io a inserirla
nella lista degli invitati.»
«Capisco. Immagino di doverla chiamare domani per assicurarmi
che stia bene.»
«Giusto. Okay.» Mi schiarisco la gola. «Buonanotte.» Mi volto per
andar via.
«E...»
Cazzo. «Sì?»
«Non volevo fare lo stronzo. È che...» accenna al corridoio con un
gesto della mano. «La stagista entusiasta ti chiama signorina
Rowley. Suonava carino.»
«Carino» ripeto stupidamente.
Dà un’alzata di spalle.
«A me, invece, sembra che tu abbia dimenticato il mio nome.»
Entro nel suo ufficio e chiudo la porta dietro di me, perché a quanto
pare sto per litigare con il grande Nate Kattenberger, il che è una
stupidaggine colossale. Almeno ho abbastanza istinto di
autoconservazione da non farlo sentire a nessun altro.
Nate si ritrae. Quando torna a parlare, lo fa ancora con la sua
voce da iceberg. «Non era mia intenzione metterti a disagio.»
«Mi tratti come se avessi l’Ebola.» Questa lamentela viene fuori in
un insolito squittio. Dovrei pensarci bene, prima di avviare una
conversazione emotiva quando sono esausta.
«Ho calibrato male» spiega Nate. Poi inclina la testa di qualche
grado e assume la sua faccia pensierosa.
«Cosa?»
Quell’espressione meditabonda lo rende sempre indecifrabile.
Forse sta considerando l’argomento in questione o forse ha già
cambiato marcia. In questo momento, magari sta pensando a una
fusione con la Comcast o reinventando il modo in cui funziona la
batteria del telefono.
«Mi ci è voluto più tempo di quanto sperassi per ricalibrare le mie
reazioni a te. Ti faccio le mie scuse, Rebecca. Avevi ragione quando
hai fatto notare che questo è il tuo posto di lavoro e che sarebbe
stato sbagliato venirti dietro. E non l’ho fatto.»
Tento di assimilarlo. «Quindi tutta questa manfrina alla Mr. Darcy
non è perché sei arrabbiato con me?»
«No.» Nate mi rivolge un piccolo sorriso. Il primo da settimane.
«Non ce l’ho con te. Per niente.»
Sono in confusione totale. E la cosa peggiore è che è tutta colpa
mia. Ero così ansiosa di chiudere quella conversazione imbarazzata
nell’ufficio di Nate da avergli impedito di parlare, oltre ad avergli
detto che non poteva più succedere niente tra noi. Se non mi fossi
lanciata in richieste tanto sconsiderate, forse ora saprei cosa pensa
di tutta la questione.
«Senti, mi dispiace di aver incasinato la tua... calibrazione.»
«È solo colpa mia. Ne abbiamo già parlato.»
«Non proprio» ammetto. «Non ti ho mai permesso di dirmi cosa
pensavi di tutta la faccenda.»
Mi rivolge un sorrisetto. «Con “tutta la faccenda” intendi una notte
alquanto bollente a Bal Harbour, in Florida?»
«Ovvio!»
Scrolla le spalle e vorrei picchiarlo. «Cosa importa cosa penso io?
Al tuo datore di lavoro non è concesso esprimere i propri sentimenti.
Non voglio passare per quel genere di persona. Non voglio essere
quel tipo di persona. E ora che sappiamo che ho bisogno di lavorare
sulla mia faccia da poker, mi metto subito all’opera.»
Raccoglie le mani, come se la questione fosse chiusa. Il problema
è che non voglio che si chiuda. Voglio sapere. «Nate» sussurro.
«Dimmi cosa sarebbe successo se non fossi stato il mio capo. O
anche... se non avessi rifiutato il tuo invito a colazione quella
mattina. Cosa mi avresti detto davanti al caffè dell’hotel?»
«Qualcosa di imbarazzante, probabilmente.» Si schiarisce la gola.
«Senti, qui non si tratta di ipotesi. Non sei mai stata una ragazza
qualunque conosciuta a una festa. Quindi non chiedermi di
confessarti ciò che penso. Non se il minimo imbarazzo ti manda in
tilt. Perché non credo che tu sia pronta per quello che potrei dirti.»
«Ma...»
Il mio battito cardiaco accelera. Mi sento totalmente sveglia,
gioiosa e sconcertata. Tutto in una volta. «E se non ti avessi fatto
quel lungo discorso su come l’intera faccenda sia stata un enorme
errore? Cosa avresti detto, se ti avessi lasciato parlare? Lo sai,
almeno?»
«Certo che lo so.» Si alza in piedi, ma non mi si avvicina. «Da
allora ci penso ogni dieci minuti. Ho pensato a noi durante le
teleconferenze e mentre guardavo l’hockey.» Con un gesto nervoso
insolito per lui, Nate si passa una mano tra i capelli. «Ho pensato a
noi sul Gulfstream e anche a letto.»
Il mio viso arrossisce all’istante. Perché l’idea che Nate abbia
fantasie parallele alle mie è qualcosa che non avevo minimamente
preso in considerazione. «E a cosa pensi di noi?» squittisco.
«Secondo te? Nella mia immaginazione non stiamo certo
esaminando fogli di calcolo, questo è certo.» Appoggia una mano
sulla scrivania lì accanto. «L’unico mobile da ufficio in questo
scenario è la scrivania su cui ti sto piegando.» Abbassa la voce.
«Questo risponde alla domanda? O devo continuare, parlandoti del
colore del vestito che indossi quando lo sollevo e...»
Alzo una mano per fermarlo, prima di dovermi azionare un
estintore addosso. «Credo di aver afferrato il concetto.»
«E questa è solo l’ultima cosa che mi è venuta in mente.»
Puff.
«Questo, ehm, si adatta abbastanza bene ai miei pensieri al
riguardo.»
«Davvero?» Sgrana gli occhi. «Allora perché ci stiamo evitando?»
«Perché sarebbe divertente, ma il divertimento finisce. Pensaci.
Arriveresti ben presto alla fine del tuo schema di gioco e poi tutto
sarebbe doppiamente imbarazzante. Se ci pensassi bene,
concorderesti anche tu che dovremmo dimenticarci dell’intera
faccenda.»
«Col cazzo» ribatte. «Quand’è che sei diventata così pessimista?»
«Dalla nascita» preciso. «Non mi conosci?»
«Tu non sei pessimista, Bec» mi contraddice, appoggiato alla
scrivania. «Tu vuoi bene a tutti, tranne forse alla tua stagista. Hai
pianificato il matrimonio di Georgia come se fosse una regina. Tutta
la squadra si butterebbe sotto un cazzo di treno per te. Questo non è
pessimismo. Ecco perché adesso non me la bevo.»
«Be’...» Il mio cuore martella. Non riesco nemmeno a pensare a
una risposta. «Forse è solo che non riesco a immaginare un bel
finale.»
«Quando ti interessa qualcuno pianifichi sempre in anticipo la tua
via di fuga?»
Mi ha in pugno. «Non mi interessa mai nessuno.» Dopo un battito
di cuore mi rendo conto di ciò che ha appena detto. «Sei interessato
a me?»
«Non stavi ascoltando quando ti ho descritto quanto mi interessi?
Se avessi potuto fare a modo mio, però, quello che sarebbe
successo subito dopo quella notte sarebbe stata una cena.»
«Una cena?»
Alza gli occhi al cielo. «Sai, quel cibo che si consuma a fine
giornata? Al ristorante, perché io non cucino. A lume di candela. Tu
con un maglioncino scollato. Ecco cosa ti avrei chiesto a colazione.»
Cerco di metabolizzare il tutto. «Tipo… uscire insieme?»
«Tipo… certo.» Ora mi prende anche in giro.
Batto le palpebre. «È davvero dolce. Mi dispiace di aver rovinato
tutto senza nemmeno chiedere.»
«Vieni qui.» Apre le braccia.
Faccio subito un passo avanti, lasciandomi avvolgere in un
abbraccio. Mi appoggio al suo petto solido e sospiro. Una delle sue
lunghe mani mi accarezza la schiena.
«Si è complicato tutto, eh?»
«Sì» confermo, il viso premuto sulla sua camicia. Appoggiarmi al
suo petto ha un effetto calmante.
«Mi dispiace di averti messa a disagio» sussurra. «Tu significhi
molto per me.»
E poi cominciano a bruciarmi gli occhi, accidenti. Sbatto le
palpebre rapidamente. «Credo di essere andata un po’ fuori di testa,
Nate. Anche tu significhi molto per me. Ma anche il mio lavoro.
Come siamo riusciti a diventare così complicati?»
«Tutto ciò che merita davvero è complicato.»
È meraviglioso essere tra le braccia di Nate. Quando sento il suo
cuore contro la guancia, non penso più a lui come al potente Nate
Kattenberger. In questo momento è solo un ragazzo che abbraccia
in modo magnifico.
Mi passa una mano tra i capelli. Poi mi preme le labbra contro la
tempia, in un bacio dolce e prolungato. È bello per il suo calore e per
il fatto che non mi chiede nulla se non di accettarlo. È perfetto.
Ed è allora che la porta si apre. «Alla conferenza stampa c’è
bisogno di lei, Mr. K!» annuncia una voce cinguettante. E poi:
«Oddio, scusate!»
Sono già saltata all’indietro, proprio come avrei fatto se fossi
inciampata in un cespuglio di ortiche. Mi si infiamma il viso nel breve
silenzio che segue.
«Arrivo tra un secondo» risponde Nate. Appare assolutamente
imperturbato.
Certo. Nate può fare quello che vuole. Non gli importa affatto se
Heidi Jo riferisce al commissario della Lega che Nate e la sua
assistente fanno cose strane nel suo ufficio tra una riunione e l’altra.
La sua reputazione non ne è intaccata.
Tocca a me guardare Heidi Jo negli occhi ogni maledetto giorno
per il resto della stagione.
Ma non ancora. Adesso non posso proprio.
Le passo davanti, lasciandomela alle spalle insieme a Nate. Tre
secondi dopo, prendo il cappotto ed esco dall’edificio nella fredda
notte di maggio.
18

SAREBBE POTUTA ANDARE SICURAMENTE MEGLIO.


Ho farfugliato durante la conferenza stampa. Ma va bene essere
un po’ inarticolati quando la propria squadra ha appena incassato
una sconfitta. A nessuno importa quello che dico, comunque.
Vogliono sentire coach Worthington e i giocatori.
E di qualsiasi cosa stiano sproloquiando adesso, non li ascolto
nemmeno. Bla bla bla, vinceremo la prossima, probabilmente.
Ho la testa altrove.
Penso ancora alla fretta con cui Rebecca si è allontanata e alla
sua espressione inorridita quando la sua tirapiedi chiacchierona ci
ha beccati insieme.
Lo considero solo un contrattempo temporaneo, però. Qualcosa di
cui rideremo più avanti. Farò di tutto per allentare la tensione tra noi.
Stasera mi è finalmente sembrato possibile.
Il rumore delle sedie che raschiano sul pavimento mi risveglia
dalle mie fantasticherie. La conferenza stampa è finita. Mi alzo e
vado diretto alla porta. Mentre mi muovo tra la folla, diversi giornalisti
cercano di fermarmi per una dichiarazione.
«Signor Kattenberger, cosa ne pensa della sua squadra...»
«Signor Kattenberger...!»
No. Stasera non ci sto.
Rivolgo a ognuno un saluto amichevole e proseguo. Il bordo del
mio telefono è illuminato di verde, segno che Ramesh mi sta
aspettando fuori. Perfetto. Dieci secondi dopo, scivolo sul sedile
posteriore della macchina.
Secondo il nostro protocollo di sicurezza, le serrature si chiudono
all’istante e Ramesh si allontana dal marciapiede non appena
possibile.
«Partitaccia» commenta dal posto di guida.
«Già, ma possiamo rifarci. Ehi, amico, possiamo fare una sosta
prima di tornare a casa?»
«Spari.»
Gli do l’indirizzo di Rebecca in Water Street. È a soli tre chilometri
da qui e Ramesh trova tutti i semafori verdi, quindi suono al citofono
di casa sua pochi minuti dopo.
È allora che mi viene in mente di controllare l’ora: le 23:46.
Cazzo. Sono proprio un coglione.
«Chi è?» risponde Rebecca nel giro di qualche secondo.
«Sono io» sospiro. «Senti, mi dispiace che sia così tardi. Ho
promesso di non darti il tormento. Invece, eccomi qui, sulla soglia di
casa tua a mezzanotte. Proprio nessun tormento, vero?
Probabilmente stavi dormendo e sognavi di maglioni, o qualcosa del
genere, e io ho rovinato tutto. Di nuovo.»
Mi sento blaterare. Nessuno mi ha mai accusato di essere bravo
in questo. Tuttavia, cerco di arrivare al punto.
«Ma, comunque, la nostra conversazione è stata interrotta proprio
nel momento sbagliato. O almeno pensavo che fosse il momento
sbagliato. Volevo solo dirti che se mai volessi finire quella
conversazione, sono qui. Non letteralmente. Non mi presenterò ogni
notte a mezzanotte finché non deciderai di parlare con me o di
chiamare le Risorse Umane. Ma se dovessi essere dell’umore
giusto, basta che tu lo dica.»
Ora ho finito l’aria nei polmoni. E nessuna delle mie frasi
sembrava particolarmente sensata. Quindi non mi meraviglia affatto
che Rebecca non dica nulla.
Neanche una parola.
Appoggio la fronte contro il pannello di vetro del portone e mi
chiedo se ho peggiorato di nuovo le cose.
Cazzo.
Poi, dall’altra parte del vetro, appaiono due begli occhi azzurri e
faccio un balzo indietro, spaventato.
Il portone si apre. «Ciao» mi saluta Rebecca, uscendo.
«Ciao.» Presto realizzo che non ha neanche sentito il mio discorso
farneticante. Non avrebbe potuto. Era impegnata a sistemarsi e a
scendere due rampe di scale. «Questo è un look nuovo per te»
commento, guardandola e cercando di riorganizzare le idee.
«È il trench di Renny» spiega. «Anche se hai già visto il mio
minuscolo pigiama, non volevo dare il piacere al resto di Brooklyn.»
«Intendevo… ehm… il bambino.» Suo nipote deve essere appeso
a qualche tipo di aggeggio che si è legata addosso. Tutto quello che
vedo spuntare sopra il primo bottone della giacca è la sua piccola
testa calva. «L’ho svegliato? Stai facendo la babysitter?»
«È un nottambulo.» Becca scuote la testa. «Anche Renny e Missy
sono a casa. Solo che in questo momento stanno facendo sesso a
tutto volume in camera da letto. Ecco perché non ti ho fatto salire.»
Rido, a disagio, e sorride anche lei.
Ha un’espressione più calda e rilassata di prima. Ma ha ombre
scure sotto gli occhi.
«Ascolta, penso che dovrei andare» esordisco. «Mi dispiace che
la nostra conversazione di prima sia stata interrotta. Vuoi che dica
qualcosa a quella stagista?»
«No.» Rebecca scuote la testa. «Me ne occupo io.»
«Bene. Basta che me lo dici. Sono venuto qui per precisare che il
mio invito a cena non scade, okay? Se tra un mese dovessi decidere
che l’idea non è così odiosa come pensavi inizialmente, fammelo
sapere. Non te lo chiederò di nuovo, però. Solo per non sconfinare
oltre la linea del tormento.»
«Oh, Nate!» Il suo viso si addolcisce e ci fissiamo negli occhi.
Avverto l’attrazione tra noi, e so che non sono il solo. Ne sono sicuro
al novantanove per cento. «Non potresti mai essere un tormento.
Non è quello.»
«Buono a sapersi.»
Becca dà un colpetto sulla testa pelata del bambino che, noto, sta
succhiando avidamente il ciuccio, emettendo strani risucchi alla
Maggie Simpson. «Voglio farlo» dichiara all’improvviso.
«Eh?»
«La cena. Voglio andarci.»
«Davvero?» Il mio tono è scioccato e Becca ride.
«Sì. Ma deve essere il nostro piccolo segreto. Sto cercando
di...sentirmi a mio agio rispetto alla nostra situazione.» Cerca di
incrociare le braccia al petto, ma il bambino le è d’intralcio, quindi le
abbassa di nuovo.
«Okay» mi affretto a rassicurarla. «Sei tu il capo.»
Inarca un sopracciglio perché è una battuta stupida.
Il capo sono io, ed è proprio questo il cazzo di problema.
«Intendevo in questo caso» aggiungo. Che poi è vero. «Che ne
dici di domani sera?»
Batte le palpebre. «Okay, certo, non sono ancora sicura che sia
una buona idea, però.»
«Non preoccuparti. Ti venderò con tutti gli utili.»
Distoglie lo sguardo con un sorrisetto e un lieve rossore sulle
guance.
Cazzo quanto l’adoro. Sono proprio cotto.
Il bambino alza gli occhi su di me e sbava. Anche lui sembra
valutare i miei meriti.
«Be’, ora vado.» Un bravo uomo d’affari sa quando bisogna
stringere la mano sull’accordo e tagliare la corda prima che la
controparte ci ripensi. «Ci vediamo alle sette?»
«Alle sette» conferma. Sostiene il mio sguardo.
«Scusami per essere stato... com’è che avevi detto? Mr. Darcy?»
«Sì, tutto…,» atteggia il viso in un’espressione severa,
leggermente strabica, «freddo. O forse stitico.»
Sbuffo.
Sono pochissime le persone nella mia vita che mi prendono in
giro. Rebecca mi ha sempre trattato come un ragazzo normale, non
come un’icona. E questo mi piace.
Ora sorridiamo entrambi come idioti e ci fissiamo a vicenda.
Succede al rallentatore. Mi chino in avanti, appena appena. Lei fa
altrettanto. Ora siamo a pochi centimetri di distanza. Non sto
esitando, le sto dando il tempo di abituarsi all’idea.
Poi si inumidisce le labbra e io non resisto più. Chiudo lo spazio
tra noi e cedo al bacio. Le nostre labbra si uniscono dolcemente. C’è
sempre un piccolo essere umano tra noi, dopotutto. Quest’unico
bacio è tutto ciò che otterrò. Quindi mi impegno affinché sia bello. Le
apro le labbra, accarezzandole la lingua con la mia solo una volta,
prima di ritirarmi.
Lo sguardo di Rebecca è annebbiato dal desiderio.
E io non vedo l’ora che sia domani sera, cazzo.
19

22 maggio, Brooklyn

«Basta. Non riuscirei a mandar giù neanche un altro boccone.»


Lascio la forchetta sul piatto da dessert e mi appoggio alla sedia.
«Perdente.» Nate raschia il piatto con il cucchiaio e si infila in
bocca l’avanzo del soufflé di lamponi al cioccolato che ci siamo
divisi.
Fare a metà un dolce con Nate è una cosa che ho già fatto in
passato. Stare da sola con lui in un bel ristorante con un vestito
studiato per mostrare la mia scollatura, invece, no.
Siamo al River Café. Nate ha allungato un centone al maître di
sala per assicurarsi questo tavolo perfetto contro le finestre.
Abbiamo appena consumato una delle migliori cene di Brooklyn, con
nient’altro che le luci di Manhattan e l’East River come panorama.
Uno yacht illuminato passa davanti alla finestra mentre guardo
Nate firmare l’assegno. «Ottima scelta, Nate. Ma mi sarebbe andata
bene qualsiasi cosa.»
«Cioè?» Alza gli occhi verso di me e sembrano ancora più scuri al
lume di candela. «Proprio tu che hai profonde opinioni persino sul
falafel?»
«Okay, va bene» sorrido. «Non qualsiasi cosa. Ma non c’è
bisogno di impressionarmi con stravaganze gastronomiche.»
Fa una smorfia come a dire: “Ma per favore”. «Credi che non lo
sappia? Non farmi ridere, Bec. Il mese prossimo andrò in Cina con
Lauren, e lei di certo non mangerà tutto lo street food che voglio
provare. Tu, invece, hai sempre avuto un buon senso dell’avventura.
È una cosa che adoro di te.»
Il mio viso si infuoca a quel complimento. Non sono abituata a
sentirgli dire certe cose. Questa serata è stata al tempo stesso
familiare e del tutto estranea. La conversazione non è mai stata
difficile perché conosciamo le stesse persone e non possiamo fare a
meno di parlare di hockey. Nel frattempo, Nate mi ha tenuto la mano
sotto il tavolo.
Mi è piaciuto. Un sacco. Anche adesso avrei voglia di montare sul
tavolo e baciarlo. Eppure, un mese fa non l’avrei mai pensato.
«Sai...» Mi schiarisco la gola. «Questa è un’avventura
completamente diversa.»
«Esattamente» conferma, chiudendo il libretto degli assegni. «Ed
è per questo che stasera siamo qui e non al chiosco dei falafel. Non
perché volevo stupirti con un dolce da venti dollari. Anche se è stato
squisito. Volevo solo dimostrarti che questa non è la solita cena di
lavoro.»
Il cameriere passa a prendere l’assegno. Non lo guardo neanche.
Non propongo di pagare la mia metà perché Nate ha più soldi di Dio
e non me lo permetterebbe.
Ciò non significa che non sia in conflitto nell’uscire con Nate. La
mia titubanza, però, ha ragioni molto più complicate dell’assegno per
pagare la cena.
Nondimeno, eccomi qui.
Prendo il mio bicchiere di champagne e scolo l’ultima goccia. Ne
ho ordinato mezzo bicchiere solo per far incazzare Nate.
E lui non ha detto una parola. Sveglio, il ragazzo. «Okay, Mister
Avventura,» poso il bicchiere, «pronto ad andare?»
Il suo sorriso suggerisce: “sempre”.
Recuperiamo il mio cappotto e usciamo. È una notte fresca, ma
c’è un sacco di gente in giro per il molo e la vista sul ponte di
Brooklyn è splendida. Nate, però, mi porta in strada, lontano dalla
folla.
Verso casa sua.
Non discuto, anche se sento un fremito di nervosa aspettativa
nella pancia. «Dov’è Ramesh? Lo stai seminando?»
«No.» Nate mi stringe la mano. «Gli ho dato la serata libera.»
«Davvero? Puoi farlo?»
«Certo, voglio dire, qualche altro membro del mio team di
sicurezza probabilmente sta guardando un puntino che si muove su
uno schermo da qualche parte, tracciando i miei movimenti. C’è
sempre qualcuno di guardia.» Si ferma e si gira verso di me. «Non è
un punto a favore, vero?»
«Cosa?»
«La sorveglianza è così sexy.» Si porta il palmo della mia mano
alle labbra e lo bacia. La sua bocca sexy è nascosta, ma alza gli
occhi rivolgendomi uno sguardo così affamato che avverto una
vampata di calore. Mi bacia di nuovo la mano e il mento ruvido
risveglia tutte le mie terminazioni nervose.
Wow. Mi ha solo toccato la mano e già voglio arrampicarmi
addosso a lui.
Nate parla di nuovo ed è una lotta costringermi ad ascoltare.
«Ramesh ha la serata libera perché sapevo che, se gli avessi
chiesto di accompagnarci a casa mia, avresti avuto difficoltà a
guardarlo negli occhi...»
Probabile.
«...e ho anche chiesto a una delle tirapiedi di Lauren di prenotare il
tavolo perché, se l’avessi chiesto direttamente a lei, avrebbe preteso
di sapere con chi andavo a cena. E mi hai fatto capire chiaramente
come la pensi sui pettegolezzi in ufficio.»
«Molto premuroso. E anche molto carino da parte tua rimanere il
mio piccolo sporco segreto.» Sottolineo la mia battutina dandogli un
colpetto con l’anca.
Mi mette un braccio intorno alla vita. «Adesso puoi farlo senza
perdere l’equilibrio. Ottimo.»
È vero, anche se mi stupisce che Nate se ne sia accorto. «Non
metterò mai più piede su quel ghiaccio. Tanto per dire.»
Il suo braccio resta intorno a me per tutto il tragitto verso casa.
Tuttavia, divento sempre più nervosa man mano che ci avviciniamo
alla villa. Spalanca il cancelletto d’ingresso e me lo tiene aperto. Lo
attraverso, perché anche con tutta la mia preoccupazione non posso
farne a meno.
Nate inserisce il suo codice di sicurezza sulla porta, che si
sblocca. Lo seguo nel grande ingresso, chiedendomi cosa
succederà.
«Buonasera, Nate!» saluta Bingley.
«Sera» risponde. Mi sfila il cappotto dalle spalle e lo appende.
«Ho messo nel frigorifero della tana un po’ di quella bibita messicana
che piace a te.» Accenna al piano di sopra. «Ne vuoi una?»
«Certo!» rispondo, allegra. Mi tremano un po’ le ginocchia, ma non
posso attribuirne la colpa alle mie condizioni di salute. In realtà, sono
agitata. È così poco da me. «Dio, non vedo l’ora di poter bere un
bicchiere di vino come una persona normale.» Ora sto blaterando.
Nate sorride e mi porge la mano per salire le scale con lui.
Di sopra. Dove c’è il suo letto gigante.
Mi blocco al quarto o quinto gradino.
«Probabilmente è una pessima idea» sussurro. Buffo, è la stessa
cosa che dico nella mia frequente fantasia con Nate, la stessa in cui
lui mi ignora e poi mi scopa fino a farmi perdere i sensi.
Non è quello che succederà adesso, però.
Nate si siede proprio lì, sulla grande scala. Batte la mano sulla
spessa moquette accanto a sé.
Mi siedo.
«Tutto bene?» chiede.
«Sì e no» mormoro. «Voglio solo fare la cosa intelligente. E a volte
non è facile capire qual è.» Nate probabilmente non capirà. Tutto ciò
che fa lui è intelligente.
«Pensi che io sia una cattiva idea. Hai ragione.»
«Ah, sì?»
Mi cinge con un braccio e mi bacia la mascella. Lentamente.
Posso sentire sul viso ogni punta della ricrescita della sua barba e la
morbidezza delle sue labbra. I capelli mi si drizzano sulla nuca,
mentre mi sussurra all’orecchio. «Cattivissima. Perché voglio farti
delle cose molto, molto cattive. Sconce. E se non sei d’accordo, è
meglio che tu lo dica adesso.»
«Che genere di cose?» chiedo, i capezzoli che si inturgidiscono.
«Potrei anche spiegartele» continua a bassa voce. «Se hai una
mezz’oretta o giù di lì. Perché sarò molto dettagliato. In effetti, ho
predisposto una presentazione in PowerPoint...»
Il nervosismo ha la meglio e comincio a sghignazzare.
«Non troppo lunga» precisa, accarezzandomi la schiena. «Una
cinquantina di diapositive, più o meno.»
«Ci sono anche grafici e diagrammi?» cerco di chiedere.
Purtroppo la mia risata si trasforma in un grugnito.
Nate mantiene la sua faccia da poker, ma i suoi occhi sorridono.
«Ci sono quattro diagrammi, tratti dalle mie fantasie. E anche le
specifiche e le stime delle prestazioni.»
«Oh, Nate» annaspo. «Non cambiare mai.» Sono sull’orlo
dell’isteria. Lo voglio, ma è così difficile arrendersi. Abbiamo passato
così tanti anni a non farlo...
Mi bacia.
Mi ci vuole circa un secondo e mezzo per superare l’effetto
sorpresa. Forse meno. Gli stringo le braccia attorno al corpo e mi
tengo stretta mentre mi apre le labbra e ci fa scivolare dentro la
lingua. Sa di cioccolata e sicurezza. Due sapori meravigliosi, che
stanno insieme alla grande. E sono spacciata.
Dimenticando la mia esitazione di poco prima, gli passo le dita tra i
capelli e lo stringo più vicino. Con un gemito, mi fa scivolare una
mano lungo il corpo, lasciandosi dietro una scia di brividi... E poi
quella mano birichina mi sfiora l’interno coscia. Avevo dimenticato
quanto fosse bello.
Forse si sarebbe fermato lì, se non avesse scoperto che sotto il
vestito indosso le autoreggenti. Quando la punta delle dita trova la
pelle, emette un verso di felice sorpresa. Ormai priva di
autocontrollo, rilasso i muscoli, dandogli un accesso migliore.
Il suo bacio successivo è profondo e lento e il suo pollice mi sfiora
gli slip di pizzo, proprio in mezzo alle gambe.
Emetto un gemito disperato nella sua bocca che fa trasalire
entrambi.
Nate ne deve essere davvero stupito, perché la mano sparisce, mi
richiude in fretta le ginocchia e si siede di scatto.
Solo allora vedo Ramesh, in piedi nel vano della porta con la
pistola puntata verso il pavimento. Lancio un gridolino di sorpresa. O
di imbarazzo. Forse entrambi.
«Ma veramente?» esclama Nate, rosso in viso.
Ramesh guarda il soffitto e scuote la testa. «Due segnali di calore.
Se foste stati, diciamo, su un divano, non mi sarei confuso. Ma sulle
scale? Sembrava una colluttazione. E stasera non ha attivato i
sistemi di sicurezza.»
«L’ho dimenticato» sbotta Nate.
Mi prendo il viso tra le mani.
«Arrivederci» saluta Ramesh. «Chiuda a chiave appena esco.
Domani rivedremo i protocolli di sicurezza. Possiamo fare delle
modifiche.» Scompare. La porta si chiude di nuovo.
Nate emette un gemito di frustrazione. «Mi dispiace...»
«Lo so» lo interrompo. «Forse alla fine ci rideremo su. Ma ora mi
serve un minuto.»
«Ci credo» sospira.

Sono così frustrato. Sessualmente e non solo. Ho già abbastanza


problemi con la mia goffaggine. Non ho bisogno dell’aiuto delle mie
guardie del corpo per rovinare il momento.
Rebecca si alza lentamente in piedi. Sembra dolorante e infelice.
Scatto in piedi anch’io. «Tutto bene?»
«Sì, solo un po’ indolenzita. Stamattina sono andata a una lezione
di pilates che mi ha consigliato Ari. Gli addominali e i glutei non mi
perdoneranno mai.»
Questo mi dà un’idea. «Vieni, c’è qualcosa che voglio mostrarti. E
non sono sistemi di sicurezza.»
Mi rivolge un sorriso mesto, ma poi prende la mano che le porgo e
mi segue di nuovo giù per le scale.
«Buonasera, Nate!» saluta ancora una volta Bingley, mentre
attraversiamo il salotto.
«Sera» rispondo. «Attivare tutti i sistemi di sicurezza.»
«Roger, Roger!»
«Quindi non me ne andrò stasera?» chiede Becca appena
entriamo in cucina. Bingley accende le luci e Rebecca sbatte le
palpebre sui suoi grandi occhi.
«Vuoi andar via?»
Non le permetto di rispondere, però. Le afferro la nuca e la bacio
proprio lì, davanti al frigorifero. E la sua bocca si scioglie sotto la
mia. È un momento di gloria. E significa che non ho rovinato tutto.
Purtroppo, Bingley non riceve il promemoria. «Salve, Rebecca!»
saluta. «È bello risentire la vostra voce, figliola!»
«Mmm» mugola contro il mio sorriso. «Salve a te.»
Ridendo, mi stacco. «Bibita?»
«Certo, perché no?» Scrolla le spalle.
Allungo la mano nel frigorifero e ne tiro fuori un paio. «Seguimi.»
Apro una porta che dà sul retro, ma anche nel seminterrato.
«Dove andiamo?»
«Hai parlato di muscoli indolenziti? Vedrai.» Premo l’interruttore e
le scale per il livello inferiore si illuminano.
«Bel seminterrato» commenta Becca, seguendomi.
«Non è proprio sottoterra.» Ma è un locale davvero elegante. Alla
nostra destra c’è la mia palestra personale, ma porto Becca a
sinistra, nella sala spa. Una parete è interamente composta da porte
a vetri scorrevoli, ma sono chiuse a chiave per la notte e oscurate da
pesanti tendaggi. E ci sono due sedie a sdraio che si affacciano sulla
vasca idromassaggio e sulla piscina.
Al momento, è settata l’impostazione della vasca idromassaggio,
infatti sento gorgogliare i getti di acqua calda. Premo un pulsante sul
pavimento e il coperchio si ritrae automaticamente.
«Oh, wow» esclama Becca. «Che meraviglia.» Si toglie le scarpe
e si avvicina al bordo. Poi esita. «Non mi fido ancora del tutto del
mio equilibrio. Se ci cado dentro, non ridere.» Immerge con cautela
una mano in acqua. «Bello.»
Prendo un asciugamano da una mensola e lo butto sul bordo.
«Puoi sederti e immergere i piedi.»
Indossa un vestitino corto di maglia che mi ha fatto impazzire per
tutta la sera, quindi sarebbe abbastanza facile per lei togliersi le
calze, sedersi sull’asciugamano e infilarci dentro i piedi.
Ed è quello che fa. Fa scivolare una calza sul ginocchio levigato e
la sfila.
Non voglio stare lì a fissarla come un ragazzino delle medie. Okay,
sì, invece. Ma non voglio metterla a disagio. Così vado all’impianto
stereo, collego il telefono alle casse e inserisco una vecchissima
playlist.
Una che riconoscerà.
Quando mi giro di nuovo, è seduta sull’asciugamano, entrambe le
gambe che penzolano nell’acqua calda. «Ah. Wow.» Mi guarda e i
suoi occhi sfavillano. «Hai un bel posticino qui.»
«Vero?» Sfilo le scarpe e le sposto da una parte con il piede.
Parte la prima canzone ed è un brano di Macklemore che
mettevamo fin troppo spesso nel nostro primo ufficio. Rebecca
scoppia immediatamente a ridere. «No! Non ascolto questa playlist
da una vita. Ma scommetto che ricordo ancora la scaletta. Lady
Gaga è la prossima.»
«Sicuro.»
Rebecca scalcia, schizzando acqua tutt’intorno. «Ho una piccola
confessione da farti.»
«Quale?» Allento la cravatta e sciolgo il nodo.
«Be’...» Mi sorride. «Mi ero presa una cotta per te. I primi tempi.»
Le mie mani si impietriscono sulla cravatta di seta. «Falla finita.
Non è vero.»
«Sì, giuro.» Ha le guance rosse. «Il primo anno soprattutto. Ma eri
già preso ed eri il mio capo. Due circostanze che rendono
abbastanza facile smorzare l’infatuazione, quando sei un tipo pratico
come me.»
Mi avvicino e mi siedo accanto a lei, ma con la schiena rivolta
all’acqua, perché indosso ancora pantaloni e calzini. «Allora, come
funziona esattamente?»
«Cosa?» Mi lancia un’occhiata furtiva, poi distoglie di nuovo lo
sguardo.
«Come si fa a non desiderare più qualcuno? Anch’io sono un tipo
pratico, ma non vedo come questo possa rendere le cose più facili.
Niente sembra mettere a tacere la furiosa attrazione che provo per
te.»
Si volta di scatto a guardarmi e colgo l’occasione per baciarla. E
basta un solo bacio: un solo scivolamento delle mie labbra sulle sue
e sono di nuovo in fiamme.
Siamo rivolti in direzioni opposte, quindi è scomodo da morire. Ma
non mi interessa. La divoro avidamente, finché si tira indietro e mi
fissa. Ha la pelle arrossata e gli occhi luminosi e felici. «Sembra il
Twister.»
«È meglio» la correggo. Parte una canzone di Lady Gaga, proprio
come aveva previsto Becca. «Entriamo in questa piscina o cosa?»
Becca calcia l’acqua col piede. «Sono tentata. Ma non ho il
costume da bagno.»
«Oh, cavolo.»
Sorride e scuote la testa. «Vuoi davvero entrare?»
«Non dobbiamo per forza.» Non le farò mai pressione.
Le sue dita scorrono sulla superficie gorgogliante. «Ma questa è
un’avventura, giusto?»
«Giusto.» Mi alzo e mi tolgo i calzini. Lei mi guarda.
E non riesco a decifrare la sua espressione. «Che c’è?»
«Mi stavo solo chiedendo cos’altro hai intenzione di togliere.»
Sorride.
«Vieni qui.» Il comando mi sfugge di bocca.
Rebecca, però, non batte ciglio. Si alza e si gira verso di me, lo
sguardo incuriosito.
«Dimmelo tu. Cosa mi tolgo?»
Mi appoggia le mani sul petto, titubante, e mi costringo a essere
paziente. Tutto ciò che ho sempre desiderato è dall’altra parte di
questo momento. Mi serve solo rompere questa tensione
imbarazzante del “vorrei e non vorrei”.
Le sue dita trovano il primo bottone in alto della mia camicia. «Non
entrerò in acqua, se non lo farai anche tu.»
È un compromesso accettabile. Slaccio l’ultimo bottone, salendo
verso l’alto fino a quando ci incontriamo nel mezzo. A quel punto,
Rebecca apre la camicia e fa scorrere una mano lungo il mio petto
nudo. Il mio cavernicolo interiore si alza in piedi e applaude. Mi
sporgo in avanti e la bacio sulla mandibola. Odora di fiori e un fiotto
di pura lussuria mi attraversa la spina dorsale. Una delle mie mani si
fa strada verso la parte bassa della sua schiena e le sussurro
all’orecchio: «Slacciami la cintura».
Accompagno la richiesta con un bacio sul collo.
I getti dell’idromassaggio producono l’unico rumore della stanza,
ma all’interno della mia testa c’è un concerto da stadio. Il polso batte
come un basso, mentre le sue mani slacciano la fibbia. Il cuore si
stabilizza su un ritmo forsennato, mentre abbassa la cerniera dei
pantaloni.
Cristo. Rebecca mi sta spogliando. Potrei non sopravvivere.
Mi porto la sua mano alla bocca e le bacio il palmo della mano. Ma
non mi basta. Così seppellisco il viso nel suo collo di seta e la bacio
di nuovo. Una volta. Due volte.
Mi sfila la camicia dalle spalle. «Ti sei vestito per la cena» mi
sussurra. «Niente felpa col cappuccio, stasera?»
La mia bocca trova la sua, perché non posso non baciarla. «C’è
una sola tenuta che preferirei indossare quando sto con te»
mugugno contro le sue labbra. Le mie mani sfiorano il tessuto
elastico del suo vestito, atterrando poi sul sedere.
Mi spingo oltre, fino alla pelle vellutata delle cosce. La sento
trattenere il fiato.
«Posso togliertelo?»
«Sì» ansima.
Le sollevo il vestito sopra la testa e lo lancio sulla chaise longue,
dove la mia giacca lo stava aspettando. Il pizzo nero che indossa
quasi mi uccide. «Gesù» boccheggio.
Il tessuto è trasparente, e c’è qualcosa di meravigliosamente
sconcio nel modo in cui i suoi capezzoli rosati si offrono al mio
sguardo avido.
Per la seconda volta la sua scelta di lingerie mi stende. Se in tutti
questi anni avessi avuto una mezza idea sul fatto che Becca
preferisse l’intimo sexy, non credo che sarei arrivato a fine giornata
in ufficio.
Ma lei è ignara della mia sofferenza. Allunga le mani dietro la
schiena e slaccia il reggiseno, poi lo getta via. Quasi ingoio la lingua,
quando il suo seno generoso viene liberato da quei legacci.
O forse non è del tutto ignara, perché poi si gira, mostrandomi la
parte posteriore del suo corpo seminudo. Con uno sguardo sfacciato
da sopra la spalla, lancia le mutandine a terra e poi si dirige verso le
scale che portano alla piscina.
Mi lascia lì in piedi con nient’altro che pantaloni slacciati, dai quali
il mio uccello sofferente cerca disperatamente di scappare.
Giusto.
Nei secondi successivi, mi tolgo i vestiti. L’erezione mi rimbalza
sull’addome mentre mi immergo nella vasca per raggiungerla.
Non c’è visuale migliore di Rebecca in una piscina, con l’acqua
che zampilla intorno al seno nudo. È seduta su una panca, con la
testa reclinata all’indietro contro il bordo. Gli occhi chiusi. «Sono una
fan di questo allestimento. Usi spesso questa vasca?»
«Sì e no. La uso per nuotare due volte a settimana. Sempre da
solo. Quindi questa è una novità.» Le faccio schizzare l’acqua sul
petto, perché il quindicenne che è in me non può resistere. Lei apre
gli occhi e sorride. «Ma mi chiedo: che senso ha avere questa casa
folle se non fai mai il bagno nudo nell’idromassaggio con la tua
ragazza preferita?»
La sua espressione si ammorbidisce. «Questo è divertente. Ma
non mi sono ancora abituata.»
Non si riferisce all’acqua. «Lo so. Hai ancora i tuoi dubbi.»
«Non su di te, però» precisa, portandomi una mano bagnata sulla
guancia. «Solo… è complicato.»
Annuisco, così penserà che abbia capito. E capisco... quasi tutto.
Anche se le mie capacità di comprensione dei rischi migliorano
quando siamo vestiti e mi ricordo che esiste anche il resto del
mondo. In questo momento, invece, sono senza vestiti, l’acqua mi
accarezza la pelle nuda e Becca è a pochi centimetri di distanza.
Mi sorprende che io riesca perfino ad articolare delle parole.
«È davvero piacevole sui muscoli indolenziti» commenta, roteando
il collo.
«Cos’è indolenzito esattamente? Te lo massaggio. Ti prego, di’
che sono i glutei.»
Lei ridacchia. «Quasi. Il retro delle cosce.»
«Come se mi servisse un motivo per toccarti le cosce.»
Sott’acqua, le metto una mano sul quadricipite e stringo
delicatamente.
«Ahi» annaspa. «Okay, fa male anche quello.»
«Mi dispiace.»
Scuote la testa. «È un dolore piacevole. Sono stata così felice
quando il dottor Armitage ha detto che stare sdraiata in stanze buie
non mi avrebbe aiutato a recuperare! È bello muoversi, perché sento
di fare qualcosa.»
Emetto un inarticolato verso di accordo, ma tutta la mia
concentrazione è rivolta alla coscia di Rebecca sotto la mia mano.
«Metti una gamba qui.»
Dopo solo un attimo di esitazione, acconsente.
Prendo quella gamba liscia nelle mie mani e lavoro delicatamente
sui muscoli.
Poi geme, e il cazzo mi diventa più duro dei tubi che riempiono
questa piscina d’acqua. «Quanto mi piace.»
Glielo farò ripetere più tardi, ma non si riferirà ai muscoli delle
gambe.
20

Nate mi sta facendo un massaggio di prima classe. Stiamo


entrambi cercando di non saltarci addosso l’un l’altra. Nate si sta
impegnando ad avere pazienza, perché pensa che io sia un po’
preoccupata. E lo sono... di uscire con lui.
A quanto pare, però, non di saltargli addosso. Tutti i miei sensi
sono spropositatamente in allerta e, ogni volta che le sue lunghe dita
eseguono un altro movimento sulla mia pelle nuda, vorrei solo
gemere.
Mi guardo intorno in questa incredibile stanza in cui ci troviamo.
Quelle grandi finestre devono consentire a parecchia luce di entrare
durante il giorno. Nate ha ciò che gli altri newyorkesi sognano
soltanto: uno spazio enorme in un’ottima posizione. È esagerato.
«Ciao, bella tartaruga» dico, solo per non implorarlo per sbaglio di
scoparmi.
«Mmm?» mugola, distratto, proprio come me.
«Hai una tartaruga gonfiabile, Nate. Mi sta sorridendo.» Indico
verso il giocattolo sul bordo opposto della piscina.
«Ah» esclama, degnandolo a malapena di un’occhiata. «Me lo ha
regalato Alex per scherzo.»
Solo sentir pronunciare il suo nome mi mette in tensione, non so
neanche perché. «Sembrava arrabbiata con te la sera della festa»
mi sento dire.
«Sì, vero?» Smette di accarezzarmi la gamba e le dà una
semplice stretta. «È stato un po’ strano. Credo che mi stia evitando.
Probabilmente ha qualcosa a che vedere con un affare che ho in
corso al lavoro.»
«Mmm.» Scommetterei un milione di dollari che non è quello.
«Posso farti una domanda? C’è mai stato qualcosa tra te e Alex?»
«Qualcosa» ripete lentamente. «No. Non proprio.»
«Non proprio?» Mi sembra proprio un’elusione.
Scuote la testa. «Una volta ci siamo ubriacati e abbiamo fatto una
follia. Ma non succederà mai più. Funzioniamo meglio come amici.»
Una volta. Questo non dovrebbe darmi fastidio. Si conoscono da...
dodici anni? Tredici? Ma allora perché era così incazzata, quando
sono comparsa in Florida?
Forse sono solo paranoica. Dopotutto, sono io quella seduta qui
nuda con Nate. Non lei. E sto sprecando il momento a pensare alla
sua scontrosa amica del college.
Fatti furba, Bec. Mi sposto in modo da far scivolare via la gamba
dal ginocchio di Nathan. Quando raddrizzo la spina dorsale, il seno
si solleva un po’, esponendo i capezzoli sopra il pelo dell’acqua. Lo
sguardo di Nate si aggancia al mio petto e non si schioda.
Migliorare la sua visuale sembra improvvisamente un gioco da
ragazzi. Mi volto verso di lui e mi metto in ginocchio sulla panchina.
Quando il mio busto bagnato e gocciolante emerge dall’acqua,
emette un morbido grugnito sorpreso. Forse più tardi me ne
vergognerò un po’ ma, di fatto, inarco leggermente la schiena per
accentuare l’effetto.
Dopodiché gli salgo in grembo, a cavalcioni. Il mio seno
ipersensibile incontra il suo petto bagnato.
Mi tira più vicino con un gemito, poi ci baciamo. La sua lingua è
calda e prepotente e i nostri baci saltano del tutto i preliminari e
vanno dritti ai playoff. Mi afferra il sedere con una stretta decisa e mi
dà una strizzata.
Pelle scivolosa e bagnata contro altra pelle. La sua erezione
turgida è intrappolata tra le mie gambe. E ci baciamo come stelle del
cinema.
«Tu mi rovini» mormora, afferrandomi il mento per controllare il
bacio.
Non so cosa significhi, ma mi piace come suona. Mi schiaccio
contro di lui. Sono spudorata e i versi agonizzanti che gli sfuggono
sono la mia ricompensa.
«Cazzo, Bec» ansima, infatti. «Siediti quassù.»
«Cosa?»
Batte il palmo sul bordo della piscina. «Anzi, aspetta.» Si sporge
dall’acqua per prendere la tartaruga. Quindi mi angola nell’abbraccio
verde del gonfiabile e si sistema tra le mie gambe, una mano sotto
ogni coscia. E mi bacia lungo il corpo.
«Oh» mormoro, non appena capisco le sue intenzioni. Quando le
mie anche risalgono in superficie, la sua bocca è lì, a baciarmi la
giuntura tra il busto e la coscia. Le sue labbra si muovono, trovando
il punto più potente del mio intimo. «Aaah» sussulto, abbandonando
di nuovo la testa sulla tartaruga.
«Rebecca, si sente bene?» La domanda arriva da Bingley, la cui
voce vispa rimbomba attraverso gli altoparlanti.
Nate ridacchia e ne avverto la vibrazione contro il clitoride.
Signore Gesù. La sua lingua calda passa sui punti più sensibili e
mi aggrappo al gonfiabile con entrambe le mani. «Ah!» Il mio gemito
riecheggia tra le pareti di piastrelle.
Nate si accoda con un basso mugugno e ricomincia a darsi da
fare con la lingua. Serro le gambe, intrappolandogli la bocca. Non
riesco a rilassarmi perché, buon Dio, è bellissimo ed è passato un
secolo da quando qualcuno mi ha viziato in questo modo.
I suoi occhi castani si alzano a sostenere il mio sguardo, poi
muove la lingua in modo deliberatamente lento e pesante.
Lascio andare un altro gemito, seguito da qualche implorazione.
«Non ti fermare» blatero.
«Fermare?» chiede Bingley. «Non ho capito bene, Rebecca.»
«SILENZIO, Bingley» urla Nate.
Mi schiaffo una mano sulla bocca perché è buffo e per un attimo
mi viene da ridere. Ma poi l’impulso svanisce perché ci sono altre
sensazioni che esigono la mia attenzione. Nate ha molte doti e
capacità, ma non avevo idea che la sua lingua fosse così abile,
cazzo. Mi stuzzica e mi sollecita fino a farmi morire d’impazienza.
Mi mordo il labbro. «Non dovremmo...» Mi guardo intorno,
selvaggia, chiedendomi quale superficie battezzare. La chaise
longue, forse. «Usciamo dalla piscina» lo esorto.
«Lo faremo» mi rassicura, un po’ folle. Poi abbassa di nuovo la
testa e fa scivolare le labbra su di me finché divento un ammasso
tremante. «Vieni sulla mia lingua» comanda. «Poi ti porterò di sopra
e ti farò venire di nuovo sul mio cazzo.»
La prospettiva è così allettante che faccio esattamente come mi
suggerisce. Immediatamente.

Mi sveglio alla luce dell’alba nel letto di Nate. Sono sdraiata su un


fianco con una gamba agganciata alla sua. È disteso a pancia in giù,
il viso girato dall’altra parte. Non posso resistere: mi puntello su un
gomito e lo osservo. Dorme profondamente, i lineamenti rilassati.
Lunghe ciglia scure si stendono su zigomi pronunciati. È stupendo. E
sembra così giovane in questo momento. Mi colpisce quanto
assomigli al Nate che ho conosciuto sette anni fa, quando era
ancora soltanto un ragazzo geniale e non un miliardario. Provo una
strana sensazione, come se stessi intravedendo un momento
perduto della nostra vita, quando tutto era meno complicato.
È stupido, forse, ma mi mancano quei tempi in cui Nate poteva
ancora fermarsi a metà giornata per una partita a ping-pong.
Potrei restare a fissarlo tutto il giorno, tuttavia mi allontano a
malincuore. La villa è così silenziosa che perfino il mio leggero
movimento lo sveglia. «Dove stai andando?» borbotta senza aprire
gli occhi.
Il palindromo mi arriva dal nulla. «A visitar prati si va.»
Nate sorride contro il cuscino.
Nel bagno padronale più grande del mondo, faccio quello che
devo fare, poi mi lavo i denti, giusto in caso qualcuno volesse
baciarmi.
E cerco di non stupirmi troppo del fatto che ho appena passato la
notte con Nate.
Oh, wow!
La mia borsetta del trucco è sul piano di legno alla sinistra del
lavandino, così prendo il blister delle mie pillole anticoncezionali e ne
ingoio una. Sono una ragazza pratica fino al midollo.
O no? Mi pettino i capelli allo specchio del bagno e ricordi molto
vividi della notte scorsa mi assalgono. Nate che mi spinge sul letto,
proprio come nella mia fantasia. Apre l’asciugamano che indosso,
appoggiandosi sopra di me nel letto. I muscoli delle braccia e del
petto si tendono mentre spinge...
Mi sento formicolare solo a ricordarlo. E non credo che svanirà
presto. È stata una notte da record. Non pratica. Ma magica.
Quando esco dal bagno, spengo la luce per nascondere il mio
sorriso. Non c’è alcuna possibilità che riprenda sonno con quei
ricordi che mi bersagliano la mente. Ma posso starmene distesa
mentre Nate continua a far riposare il suo gigantesco cervello.
Oppure no. Non appena scivolo tra le lenzuola, infatti, rotola verso
di me, adattandosi alla mia schiena. «Ciao» mi sussurra.
«Ciao a te.»
Mi rilasso contro il suo grande corpo caldo. Ultimamente non c’è
stato molto affetto nella mia vita. Quando prendo in giro Georgia, le
dico sempre che sono invidiosa di tutto l’amore bollente che riceve
da Leo da quando sono tornati insieme.
Non ammetto mai, però, quanto sia invidiosa anche di questo: una
coccola al mattino. Il naso di Nate tra i capelli. Un lungo braccio
adagiato sull’anca.
Chiudo gli occhi e mi bevo tutta questa meraviglia. Nate è
silenzioso, chissà se si addormenterà di nuovo.
«Bec» sussurra qualche minuto dopo. Mi preme una mano sullo
sterno, poi mi prende il seno. «Anche questo è uscito dritto dalla
presentazione in PowerPoint. Slide diciassette: mi sveglio e tu sei
nuda nel mio letto.» Le dita trovano il mio capezzolo, che si
indurisce. I formicolii ritornano in forza.
E un’erezione impaziente mi colpisce la schiena.
«Cosa prevede la slide diciotto?» Mi si contrae tutto al solo
pensiero di quanto vorrei che mi spingesse sotto di lui e mi
riempisse.
Invece di rispondere, mi bacia dietro al collo. E poi la sua mano
spudorata mi attraversa il corpo, prima che i suoi polpastrelli
sprofondino tra le mie gambe senza esitazione. Mi lascio sfuggire
mezzo respiro, mezzo piagnucolio.
«La slide diciotto è il verso che hai appena fatto.» Mi accarezza,
l’erezione preme contro la schiena. «Girati.»
Lo faccio, ma la sua mano è nei miei capelli. Invece di tirarmi su
verso la sua bocca, fa il contrario. I nostri occhi si incontrano mentre
mi guida verso la sua erezione, i bicipiti che si flettono nel condurmi
in basso. Sì. Senza battere ciglio, apro la bocca e lo prendo sulla
lingua, che faccio girare avidamente. È il mio primo assaggio di lui. E
adoro che mi abbia spinto giù e me l’abbia chiesto. Come fa a
sapere che così mi eccita? È una cosa su cui rifletterò più tardi.
Nate geme, forte, e il suono si riverbera in tutto il mio corpo. Lo
sento dai capezzoli alle dita dei piedi. Stringo le labbra e succhio
forte. Poi alzo gli occhi per scoprire che effetto gli fa.
Nate è rosso in viso, le palpebre pesanti, il petto si alza e si
abbassa mentre comincio a lavorarmelo. La sua presa è come una
morsa sui miei capelli. «Cazzo» mormora, poi, di fatto, ride.
«Cristo.» Mentre lo guardo, si costringe a rilassarsi contro i cuscini.
Allenta la stretta e mi accarezza i capelli. «Sei bellissima. Quando mi
guardi così, vorrei solo venire ovunque.»
Anche a me sembra divertente. Così succhio con più entusiasmo.
Flette i fianchi, scopandomi la bocca a colpi lenti. Riesco a sentire
che si avvicina al culmine. Gli prendo i testicoli nelle mani...
Mi riafferra i capelli. «Fermati, tesoro.» Ridacchia e poi geme.
«Non voglio ancora venire.»
È vero che mi piace essere comandata a bacchetta. Ma mi piace
anche reagire. Così mi ritraggo e mi siedo. In un attimo mi metto a
cavalcioni sulla sua erezione, la prendo in mano e la guido dentro di
me. Il suo gemito è un ululato, e respiri profondi entrano ed escono
dal suo petto scolpito. Fisso il relitto che ho fatto di Nate, soddisfatta
di me stessa. Ha il petto e il collo arrossati; rosse sono anche le
labbra. È bellissimo ed è eccitato al massimo di quanto può esserlo
un uomo.
Anch’io mi sento magnificamente. «A che slide siamo adesso?»
Scuote la testa contro il cuscino. «Cazzo, Bec. Pensavo che le
mie fantasie fossero buone, ma tu le spazzi via tutte.» Mi appoggia
una mano calda sulla pancia, allargando le sue lunghe dita. «Dimmi
un altro palindromo.»
«Cosa?» Spingo i fianchi in su, bramosa di proseguire. È così
bello. Non posso farne a meno.
«Ho bisogno di un minuto per calmarmi.» Con il pollice mi
accarezza il fianco in un punto in cui dovrei avvertire il solletico. Ma
non succede perché sono troppo eccitata. «Ero maniaca in amore»
sussurro.
Nate sorride. «Ecco la mia ragazza.» E rotea i fianchi per
ricompensarmi.
Lo prendo come un invito. Gli appoggio le mani sulle spalle,
scivolo all’indietro, poi spingo di nuovo in avanti. È tanto, tanto bello.
E io sono senza vergogna. Aumento il ritmo, consapevole che le mie
tette rimbalzeranno a ogni movimento.
E lui lo adora. Le sue mani mi accarezzano la pelle, alimentando
le fiamme. Non riuscirò a mantenere ancora a lungo la routine da
pornostar. Sono a pochi secondi dallo sciogliermi come burro sul suo
corpo stupendo e dimenticare perfino come mi chiamo.
Nate punta i talloni sul letto e mi viene incontro spinta dopo spinta.
Poi mi afferra per la nuca e mi tira giù per un bacio. La sua lingua
trova la mia in un gemito.
E questo è quanto. Sto tremando e gemendo e sono senza fiato
contro la sua bocca.
E sorride. I suoi occhi si illuminano come se avessi fatto qualcosa
di meraviglioso. Ci fa rotolare entrambi. Mi ritrovo di schiena con
Nate che si tuffa nella mia bocca per un bacio appassionato e
perverso. «Devo prendere un preservativo?» chiede tra un bacio e
l’altro. Ieri sera l’ha indossato senza chiederlo.
«Non c’è bisogno» biascico, allegra. «Accomodati pure.»
Geme e poi ride, pompando i fianchi contro i miei.
Il sesso con Nate è tutto sorrisi. Gli avvolgo le braccia intorno e lo
stringo.
Penso che potrei essere innamorata di lui. E non è una presa di
coscienza del tutto gradita.
Ma ora non è il momento di farsi prendere dal panico. Abbraccio
Nate con le braccia, le ginocchia e il corpo. Il gemito che mi regala è
lungo e basso. I suoi muscoli si bloccano e sussulta due volte.
Poi mi succhia il collo. «Dio, Bec. Non ci sono parole per dire
quanto mi fai sentire viziato.»
Gli passo le dita tra i capelli morbidi. Mi sento viziata anch’io.
Si puntella su un gomito. «Il senza preservativo è una cosa
nuova.»
«Mmm?»
«Prima della Florida, non l’avevo mai fatto senza.»
«Davvero?» Lo guardo negli occhi. Sono così luminosi e felici.
«Forse è per questo che ti piace così tanto.»
Scuote la testa. «No, ecco perché non duro tanto a lungo quanto
vorrei. Sei tu il motivo per cui mi piace così tanto.»
Poi mi bacia di nuovo.
21

Questa mattina sono più felice di quanto qualsiasi ragazzo lo sia


mai stato. Spedisco Ramesh a prendere bagel e caffè.
«Non andrò ad aprirgli la porta» brontola Becca. «Non riuscirò mai
più a guardarlo negli occhi.»
«Come preferisci» rispondo, rifilandole una sculacciata sulla natica
nuda mentre si dirige alla mia doccia. «Ramesh è un uomo
intelligente. Lascerà la spesa sul tavolo all’ingresso e si toglierà dai
piedi.»
«Quando arriverà la signora Gray?» chiede, parlando sopra lo
scroscio d’acqua.
«Alle nove. Perché?»
Non risponde, ma si prepara per andar via prima. Alle otto e un
quarto, la saluto con un bacio. «Quando ti rivedrò?» m’informo.
«Quando rivedrai me o me nuda?» replica con un sorriso.
«Intendevo la prima, ma suona bene anche la seconda.»
«Alla partita di stasera, forse? Non verrò in tribuna, però. La
guarderò con Georgia dalla postazione del coach.»
«Okay.» La bacio sulla mandibola. «Cena martedì sera? So che
mercoledì devi andare a Detroit.»
«Sì» sorride. «Bel programma.»
«Allora prenoto.»
Becca apre la porta d’ingresso. «Intendi che chiederai a qualcuno
di farlo per te.»
«Non si sa mai. Potrei imparare a sbrigarmela da solo. Per te,
piccola, lo farò. Ehi, Bingley?»
«Sì, mio signore.»
«Come si prenota un ristorante?»
Becca esce da casa mia ridendo.

La settimana di lavoro ha un inizio difficoltoso. Il lunedì si


trasforma in una lunga serie di riunioni a Manhattan. Tutto ruota
intorno alla scelta di un acquirente per la mia divisione router. Dopo
l’offerta dell’azienda canadese, ne ho ricevuta una anche dalla
compagnia telefonica di Alex.
Stranamente, Alex non ha chiamato per parlarmene di persona.
Ogni cosa passa attraverso il suo team di consulenti bancari. È
insolito.
E – come Rebecca aveva previsto – quella sera non riusciamo a
beccarci alla partita. Perdiamo anche gara 4, ma ciò che detesto di
più è che mi stia evitando. Dopotutto, però, sono sempre il suo
sporco segreto.
Martedì sera, invece, è tutta sorridente. Mangiamo sushi in un
posto nuovo a Brooklyn Heights e poi torniamo a casa a piedi.
Accendo il camino nella tana e Becca prepara la partita di Scarabeo.
Dopo solo due giri, ci saltiamo addosso.
Vacci piano, mi ricordo mentre pomiciamo sul divano. Ma è
impossibile. Dieci minuti dopo ho già eliminato tutti i suoi vestiti e
anche i miei. Le ordino di chinarsi su un pouf davanti al camino. Le
divarico le ginocchia e geme.
L’afferro per i fianchi e la penetro.
«Nathan» ansima, aggrappandosi al pouf.
Me la faccio proprio lì. Ed è incredibile. Ma non vado piano.

Tuttavia, nient’altro va altrettanto bene.


Le riunioni sono fitte e veloci. Sono stanco di analizzare questa
transazione, ma non posso scaricare il lavoro sugli altri perché ci
sono centoventisei dipendenti della Kattenberger Tech i cui posti di
lavoro sono a rischio. Ho il dovere verso di loro di prendere la
decisione giusta.
Alex continua a parlarmi solo attraverso un messaggio vago e il
suo team di consulenti bancari. Quindi non posso nemmeno
discuterne con lei in modo appropriato.
Mercoledì mattina ricevo una telefonata da Stew. «Ehi, hai un
secondo?»
«Certo, ma non abbiamo una riunione tra un quarto d’ora?»
Ride. «Sì, ma non su questo. È una conversazione a porte
chiuse.»
«Oh-oh.» Mi alzo e chiudo la porta del mio ufficio. «Qual è il
problema?»
«Ho ricevuto una telefonata da un ragazzo, Mickey, della divisione
di ricerca sulla IA.»
«Ah, sì? Perché?» Stewie è il nostro CFO e di solito non si occupa
di ricerca. Mickey è il ragazzo che sta lavorando al prodotto Bingley.
«Giochiamo insieme a squash il giovedì. Il suo rovescio mi fa
sentire come un vecchio decrepito. Comunque, sa che io e te siamo
in confidenza e voleva un mio consiglio su una cosa.»
«Okay… cosa?»
Stew ride di nuovo e comincio a chiedermi cosa ci sia di tanto
divertente. «Be’, pensaci. Studia i file audio del tuo modulo a casa. E
all’improvviso sono pieni di...»
«Oh, cazzo.»
«Esattamente.» Stew scoppia a ridere all’altro capo della linea.
Per essere un tipo intelligente, ne faccio di stupidaggini. Avevo
completamente dimenticato che altri ascoltavano le mie interazioni
con Bingley. Bingley parla con me e la signora Gray e i ragazzi giù
all’IA ascoltano le interazioni per capire quanto bene risponda il
modulo.
Rebecca morirebbe di imbarazzo, se lo venisse a sapere. E
probabilmente mi castrerebbe anche.
«Spero che tu gli abbia detto di cancellare quei file.»
«Sì, e gli ho anche chiesto di organizzare la gestione del modulo
in modo che spetti a te autorizzare le interazioni quotidiane.
Riceverai un’e-mail ogni mattina. Se premerai il pulsante per inviargli
i file, li sentirà. Se cancellerai l’e-mail, i file rimarranno privati.»
«Okay» sospiro. «Grazie per essertene occupato.»
«Prego!» sghignazza. «E nota bene che non esprimo giudizi sul
contenuto.»
«Questo perché non li hai sentiti. Ho fatto alcuni dei miei lavoretti
migliori, questa settimana.»
«Congratulazioni. Posso supporre che la beneficiaria dei tuoi
sforzi sia una certa dipendente dei Bruisers? O hai portato le tue
ambizioni altrove?»
«No. È lei. Non c’è bisogno di farmi la predica, però.»
«Perché, le ascolti mai? In qualunque modo voi due l’abbiate
risolta, sono sicuro che abbiate reso orgoglioso l’ufficio Risorse
Umane.»
«Non sarebbero entusiasti dell’intera faccenda. Ma è stata una
sua decisione.»
«Ehi, non ho alcun dubbio.» Stew si schiarisce la gola. «Ti auguro
che duri, amico. Ti meriti qualcuno che sopporti quel tuo culo
sfigato.»
«Non più sfigato del tuo» ribatto.
«Ero malato, idiota l’amore» risponde, e mi ci vuole un secondo
per capire che è un palindromo. «Sono felice per te. A quando il
matrimonio?»
Faccio una smorfia.
«Piccoli passi. Devo prima convincerla che il mondo non finirà se
gli altri sapranno che stiamo insieme.»
«Ragazza intelligente. Le implicazioni pratiche dell’uscire con te
non sono il massimo. Le assegnerai una guardia del corpo?»
«Argh, no. Non lo sopporterebbe.»
Il mio migliore amico resta per un attimo in silenzio. «Prima o poi
si saprà.»
«Chi sei, mia madre?»
«Per favore. Se fossi tua madre non avrei cominciato la
conversazione congratulandomi per la tua attività sessuale.»
«Stavi andando giù nell’atrio per incontrare quelli delle tasse, o
cosa?»
«Ci vediamo tra dieci minuti.»

E se già il lavoro non era abbastanza divertente, la mia squadra di


hockey ha deciso di fare schifo durante le gare 5 e 6. I Bruisers
conducevano la serie 3-0 in questa settimana. Ma dopo la débâcle di
lunedì, hanno perso altre due importanti partite di fila.
A malapena riesco a lasciare lo stadio, dopo l’incontro di sabato
sera. La conferenza stampa è fosca e, mentre esco, tutti i giornalisti
di New York vogliono sbattermi un microfono in faccia per chiedermi
cosa ne penso adesso del mio investimento.
No comment, segaioli. Ma non posso dirlo. Diavolo, ci sono molte
cose che non posso dire. Il fatto che Dallas abbia appena vinto la
Western Conference mi fa impazzire.
Cazzo, quanto odio quella squadra! Il mio fragile ego maschile
desidera davvero la possibilità di affrontarli. Veramente tanto.
Ma non posso dire neanche questo. Così lascio che Ramesh e
altri due della sua squadra mi circondino mentre ci avviamo alla
macchina.
È già mezzanotte. Sono scontroso e probabilmente non sono di
buona compagnia, eppure tiro fuori il telefono per mandare un
messaggio a Rebecca, perché non possiedo un briciolo di
autocontrollo.
E scopro che mi ha già battuto sul tempo.
Rebecca: Mi dispiace per questo partita di merda. Hugh sembra una bomba
pronta a esplodere.
Nate: Ci scommetto, Dove sei?

Vedo che comincia a rispondermi immediatamente.


Rebecca: A fare i bagagli. Partenza per Detroit anticipata.

Merda. Certo.
Nate: Verrai in tribuna con me martedì?

Passano un paio di minuti senza risposta. Ramesh parcheggia in


garage e io gli auguro la buonanotte. All’interno, Bingley mi saluta,
ma io gli riservo il trattamento del silenzio. Ha cercato di mettere in
imbarazzo la mia ragazza.
Oppure, cazzo, immagino di essere io il colpevole. Bingley non ha
un cervello umano.
Ma a cosa serve la tecnologia, se non possiamo prendercela con
lei quando le cose vanno male?
Becca finalmente risponde.
Rebecca: Non credo di potermi sedere in tribuna accanto a te e far
finta di non spogliarti con gli occhi. Guarderò la partita con Georgia,
come al solito. Ci aggiorneremo dopo.
Ah, bene. La rassicuro.
Nate: No problem. La vedremo insieme durante il quarto turno a Dallas.
Rebecca: Terribilmente sicuro di te! :)
Nate: Resta con me, piccola.

Torna dopo un minuto


Rebecca: Ti dico una cosa. Se i nostri ragazzi arriveranno in finale la
prossima settimana, mi siederò accanto a te durante la partita decisiva.
Nate: È un appuntamento. Se vinciamo la Coppa, dovrò baciarti.
Rebecca: Se vinciamo la coppa, dovrò lasciartelo fare.

Raggiungo il piano di sopra sorridendo da solo.


22

Altro giorno, altro tappeto rosso.


Dal finestrino, guardo i giocatori scendere dal pullman tra gli
applausi. Sono sicura che siano meno di quelli ricevuti dalla squadra
di Detroit al suo ingresso nello stadio, visto che gara 7 si gioca in
casa loro. Tuttavia, i tifosi di hockey sono accorsi in forze, dal
momento che questa partita deciderà chi giocherà per la Stanley
Cup al quarto turno. In ogni caso, c’è una considerevole folla che
applaude i miei ragazzi, che entrano impettiti nello stadio nei loro
completi eleganti.
«Mio Dio» sospira Heidi Jo accanto a me. Lo dice spesso, quando
i ragazzi indossano cravatte e camicie inamidate.
«Pronte, signore?» Hugh si ferma nel corridoio dell’autobus.
«Assolutamente sì» rispondo al mio capo.
Da gentiluomo qual è, Hugh aspetta che Heidi Jo e io scendiamo
dal pullman prima di lui. Non volendo trattenerlo, spingo Heidi Jo in
piedi e mi dirigo a passo veloce verso la parte anteriore del pullman.
Ringrazio l’autista e salto giù.
Purtroppo l’asfalto è un po’ più lontano di quanto avessi calcolato
e mi si storce la caviglia per una frazione di secondo, prima che
riesca ad aggrapparmi alla barra. Una fitta mi taglia in due la gamba.
Merda.
Nonostante tutto, mi sposto di lato e sorrido.
«Oh, tesoro!» esclama Heidi Jo ad alta voce. «Tutto bene?»
«Tutto bene!» Non c’è niente da vedere qui.
Hugh mi guarda, aggrottando appena la fronte, ma c’è tanta gente
intorno a noi così saluta la folla. «Pranzo di lavoro con i ragazzi tra
trenta minuti, giusto?» mi chiede.
«Giusto.» La caviglia pulsa. «Chiamo subito il catering e mi
assicuro che tutto sia a posto. Ci vediamo dentro?»
Mi rivolge un saluto amichevole e si dirige verso le porte,
accompagnato dal personale della sicurezza.
Aspetto che il pullman si allontani prima di appoggiare il peso sul
piede sinistro. Azzardo un passo. Fa… male. Non poi così tanto
però. Penso che sopravvivrò.
«Allora?» Heidi Jo è a braccia conserte. «È perché oggi sei
traballante?»
«Passerà. E non sono traballante.» Invece, sì. È tutto il giorno che
traballo. Troppo stress e troppo poco sonno la scorsa notte. Mi sono
assegnata la camera peggiore dell’albergo, quella vicino alla tromba
dell’ascensore, perché i giocatori hanno bisogno di un sonnellino, se
vogliono vincere gara 7. Inoltre, sono dieci giorni che salto la terapia
e sento che la stanchezza influisce sull’equilibrio. Mi sento abbattuta
e stanca. Non lo ammetterò mai con nessuno, però. Per di più, ieri
mi è anche arrivato il ciclo. Così ho passato le ultime quarantotto ore
a sgattaiolare nei bagni pubblici per ingerire ibuprofene e ad
alimentare di quarti di dollaro i distributori automatici di assorbenti.
Giuro su Dio, poco fa, sull’autobus, ho sentito O’Doul lamentarsi
per una pellicina. Un atleta professionista.
In piedi qui, sul marciapiede fuori dallo stadio, compongo il
numero del catering. Una cosa che si impara seguendo la squadra
nelle trasferte di hockey è che, se hai bisogno di parlare con
qualcuno, non devi chiamare dalle viscere di uno stadio.
Heidi Jo aspetta pazientemente mentre rivedo le nostre
ordinazioni. La mia ombra fedele.
«Okay» concludo, gettando in borsa il mio telefono Katt. «Sono in
viaggio, ma c’è traffico. Arriveranno con dieci minuti di ritardo.
Andiamo a dirlo a Jimbo, così può tenerli d’occhio.»
«Ricevuto» risponde. Ci dirigiamo verso la porta e io zoppico
leggermente. Ora che tutto il trambusto è finito, l’ingresso è
sorvegliato da una sola persona. Con la stazza di due. La
circonferenza del suo collo è più grande della mia vita, credo. Tiro
fuori il tesserino della squadra e glielo mostro. Heidi Jo fa lo stesso.
Il frigorifero umano si incupisce. «Solo i giocatori, oltre questo
punto» ci informa.
È ridicolo, visto che le credenziali della nostra squadra permettono
l’accesso ovunque. «Se si sposta le faccio vedere che il mio
tesserino apre la porta.»
Si fa da parte. Passo la tessera davanti allo scanner e... Non
succede niente. Merda. Si dev’essere smagnetizzato nella borsa.
«Heidi Jo?»
Solleva la carta, ma il frigorifero umano si mette in mezzo. «Mi
dispiace, signorina. Solo i giocatori, oltre questo punto.»
«Per favore, le lasci provare la sua tessera. O senta la radio
interna» dico fredda. «Sono l’assistente di Hugh Major, il General
Manager, e ci sta aspettando. Posso mostrarle il mio tesserino
Bruisers...»
Solleva una mano. «Ascoltate, ragazze. Forse a volte il trucco
funziona, ma non durante il mio turno. So che è divertente pedinare i
giocatori, ma...»
«Mi prende in giro?» sbotto. «Non siamo... stalker. Noi lavoriamo
per la squadra. È diverso!» Mi sento un po’ scombussolata. Queste
stronzate accadono abbastanza spesso, ma oggi non riesco proprio
a sopportarlo.
«Nemmeno le fidanzate» aggiunge il tizio.
Sto per saltare addosso a quel suo corpo gigante e strangolarlo,
quando Heidi Jo mi spinge gentilmente da parte con uno dei suoi
fianchi sottili. «Che ne dice se chiamo il General Manager per
garantire per noi? È mooolto occupato, ma è probabile che diventi
impaziente se non ci vede, quindi sono sicura che sarà disposto a
rispondere alle sue domande.» Sorride innocente all’uomo di
Neanderthal che ci sta dando problemi.
L’uomo gigante sbatte le palpebre. Davanti al bluff di Heidi Jo, ha
un momento di dubbio. Probabilmente farsi riprendere dal General
Manager di una squadra della NHL non è nella sua lista delle cose
da fare per oggi.
«Mi faccia vedere di nuovo il suo tesserino, signorina.»
Glielo consegna velocemente e il signor Frigorifero strizza gli
occhi. Se funziona, sarò in debito con Heidi Jo. Ma ne sarà valsa la
pena.
Mi pulsa la caviglia, mentre resto in attesa del verdetto. Deve
essere molto lento a leggere.
«Devo pensarci un secondo» mormora lentamente.
«Faccia pure» non posso fare a meno di dire.
Heidi Jo mi rifila un’occhiata di avvertimento e mi prende da parte,
per dare all’omone il suo spazio. «Piano» sussurra. «Ci penso io.»
Inspiro profondamente dal naso. «Hai ragione» concordo, anche
se mi fa male. «La tua routine da zuccherino funziona meglio della
mia insolenza.»
Il complimento la entusiasma e ottengo un grande sorriso da
cucciolo. «Ti ho visto fare la stessa cosa proprio la settimana scorsa.
Imparo dal maestro.» Tira fuori il telefono in un’evidente
dimostrazione di urgenza. Sfodera anche il suo accento del sud. «Mi
preparo a chiamare i pezzi grossi prima che un’intera squadra di
hockey resti senza pranzo. Saranno mooolto arrabbiati.»
In quel momento una limousine scintillante si ferma dove pochi
minuti fa c’era il pullman. Ci giriamo tutti e vediamo l’autista uscire
dal lato del conducente, girare intorno alla macchina e aprire lo
sportello a nientemeno che Nate Kattenberger.
Quante volte ho visto Nate scendere dall’auto? Centinaia?
Migliaia? Questa volta la mia pancia si ribalta.
Il suo corpo slanciato si allunga fuori dall’abitacolo, rivelando la
sua caratteristica felpa con cappuccio con tanto di maniche tirate a
scoprire avambracci forti. Indossa jeans da hipster e scarpe
scamosciate nere.
Ho passato anni a cercare di non constatare quanto sia attraente.
Ma ora è stato premuto un interruttore e non credo che riuscirò mai
più a non notarlo.
Afferra un borsone di pelle dalla macchina e lo mette in spalla. Poi
avanza impettito verso di noi con un cipiglio serio, come un modello
in passerella mentre la brezza gli scompiglia i capelli.
Anche il signor Frigorifero sembra un po’ eccitato. O forse sto solo
proiettando.
«Signorina Rowley» tuba Nate. Non mi guarda negli occhi, ma la
sua voce si sofferma sul mio nome in un modo che mi fa rabbrividire.
«Signorina Pepper. Cosa ci facciamo qui fuori all’entrata
posteriore?» Lancia uno sguardo penetrante al signor Frigorifero,
spalanca la porta con il suo tesserino della sicurezza e ci fa entrare
tutti. Ovvio.
«Non lo massacrare, Becca» mi mette in guardia la mia stagista.
«Continua a camminare.»
Nate ridacchia e quel suono mi vibra nel petto. È quasi sufficiente
a distrarmi dal dolore persistente alla caviglia. «Qualche problema
con la sicurezza?»
«Solo le solite stronzate sessiste, signor Kattenberger» aggiungo
per fare l’acida.
«Stavamo per superarlo in astuzia» aggiunge Heidi Jo.
«Non ne dubito» commenta. E poi il suo sguardo mi squadra dalla
testa ai piedi. È del tutto gratuito. Sono per metà infastidita dalla sua
mancanza di sottigliezza e per metà soddisfatta del suo interesse.
Heidi Jo ci rivolge un sorriso buffo. «Mi sono appena ricordata di
una piccola commissione da sbrigare» dichiara. «Se volete
scusarmi.» Quindi sfreccia lungo il corridoio di cemento
accompagnata dal picchiettio dei tacchi. Poi gira un angolo e
scompare.
Oh-oh. La mattina dopo l’ultimo incidente – quando era entrata in
ufficio e aveva trovato Nate e me fin troppo vicini – mi aveva chiesto
a bruciapelo se Nate fosse il mio ragazzo. Avevo negato, perché non
lo era. Ma ora lo è. Più o meno...
Questo pensiero viene interrotto da un certo miliardario che invade
il mio spazio personale, mi appoggia al muro e mi bacia il collo. Mi si
accappona la pelle in tutto il corpo e istintivamente giro la testa per
dargli un accesso migliore. «Signor Kattenberger,» sussurro,
«questo non è né il momento né il luogo.»
«Lo so» mugugna tra un bacio e l’altro. «Per questo è ancora più
divertente.» Mi palpa il sedere attraverso il vestito ed è difficile
mantenere il punto. «Vieni nella mia suite, dopo la partita.» È un
ordine, non una domanda, e i miei capezzoli scattano sull’attenti al
suono della sua voce. Uff.
Gli prendo il mento con entrambe le mani, stacco le sue labbra dal
mio corpo fremente e tengo a distanza di sicurezza la sua bocca. Mi
guarda da vicino con quegli occhi marrone chiaro caldi e felici. «Sta’
giù, bello» ordino.
Nate tira fuori la lingua e ansima come un cucciolo. «Sono a pochi
secondi dallo scoparti la gamba. Sono tre giorni che non ti vedo,
signorina Rowley.»
«Intendi che non mi vedi nuda» sussurro.
Lui scuote la testa, il che non è facile, visto che la sto ancora
tenendo. «Continui a dire così. E mi piace la tua nudità, ma mi
manchi, e neanche mi scrivi.»
«Perché Heidi Jo mi porta via il telefono non appena pensa che
abbia passato troppo tempo davanti allo schermo. Vuoi forse che
legga i palindromi sconci o qualsiasi cosa tu voglia mandarmi?»
Sorride. «Palindromi sconci. Potrei lavorarci su.»
Sento dei passi nel corridoio adiacente. Li sente anche Nate,
perché ci allontaniamo l’uno dall’altra. Tira fuori il suo telefono non
appena arriva Jimbo. «Becca, il catering sta accostando all’esterno.
Tieni tu aperta la porta?»
«Certo» rispondo, allegra.
Nate rimette via il suo telefono. «Mi porti quei documenti dopo la
partita?» mi chiede Nate.
Alzo gli occhi al cielo. Davvero sottile, signor Kattenberger. Ma
non andrò nella sua stanza stasera. Non voglio essere scoperta. E
dato che ho il ciclo, finirei solo per deluderlo. «Probabilmente dovrai
aspettare fino a domani per quelle scartoffie» insisto. «Passa una
buona serata.»
«Ci proverò» sospira. «A più tardi.»
La parola è casuale ma, mentre si allontana, mi lancia un’occhiata
ardente da sopra la spalla.
Aiuto Jimbo a portare il cibo dei giocatori sui carrelli, giacché il
catering non ha l’autorizzazione all’accesso di sicurezza. La maggior
parte dei giocatori non mangerà molto, perché mancano solo due
ore alla partita. Ma abbiamo ordinato rinfreschi leggeri e ogni tipo di
bevande. Abbiamo bisogno che i nostri ragazzi siano nutriti, felici e
pronti a falciare la Motown.
A Brooklyn non porto in giro i pasti della gente. Ma in trasferta non
c’è spazio per far valere i ranghi. Perfino il general manager aiuta la
squadra di trasporto con l’attrezzatura da hockey, se il tempo stringe.
Il cameratismo è uno degli aspetti migliori del mio lavoro. Quella
dei Bruisers è un’organizzazione fantastica e non vorrei lavorare da
nessun’altra parte.
«Grazie per l’aiuto, Bec!» mi ringrazia Jimbo, quando
raggiungiamo il piccolo sotterraneo che la squadra di casa ha
assegnato alla nostra come lounge. «Vieni a mangiare un panino?»
«Sono a posto» rispondo. «Devo andare a risolvere qualche
magagna al botteghino.» C’è sempre qualche persona importante
che litiga per i biglietti.
Quando le porte dell’ascensore si aprono, vedo Heidi Jo pronta a
uscire. «Eccoti qui!» esclama. «Ti ho portato una cosa.»
«Ah, sì?» Mi attira in ascensore e io premo il pulsante per il piano
terra.
«Ecco.» Tira fuori una bustina della farmacia dalla sua borsa
gigante. Dentro ci sono tre cose: una piccola scatola di assorbenti, di
cui avevo detto di aver bisogno, una cavigliera elastica e un paio di
collant neri. «Ho pensato che con le calze scure la cavigliera non si
sarebbe vista.»
Guardo il mio abbigliamento – un vestito nero con una fascia in
vita viola Bruisers – e rifletto che ci starebbero benissimo. «Ma…
grazie.» Accidenti, Heidi Jo! Sta cominciando a piacermi davvero.
«Non c’è di che. Come sta oggi il signor Kattenberger?»
«Bene, credo. Non riesco a immaginare come ci si senta a
guardar giocare molti milioni dei tuoi dollari mentre cerchi di arrivare
in finale.»
«Scommetto che non è una questione di soldi» afferma la mia
stagista. «Vuole solo vincere.»
«Mmm.» L’ascensore risale lentamente, mentre ci rifletto su.
Personalmente, penso sempre ai soldi, perché non ne ho mai
abbastanza. Nate ha più soldi di tutti, tranne pochi altri al mondo.
Eppure ho sempre creduto che anche per lui contassero molto. È
per questo che ha ottenuto così tanto, in primo luogo.
Non preoccuparsi dei soldi. È davvero possibile? Non saprei da
dove cominciare.
Quella sera, per novanta sfiancanti minuti, mi dimentico dei soldi e
di tutto il resto mentre i nostri ragazzi fanno ciò che devono: vincere
gara 7 in modo chiaro e pulito. Segnano due gol alla fine del primo
tempo e continuano a dominare il gioco per tutta la partita.
Quando suona la sirena finale, sto spudoratamente strillando e
abbracciando Heidi Jo.
Sul tabellone risplende la scritta Detroit: 1, Brooklyn: 3.
I miei ragazzi andranno in finale per la prima volta da anni!
Corriamo fino alla tribuna, dove è tutto un caos. Nate è circondato
da gente che gli fa gli auguri. Heidi Jo mi porge un mezzo bicchiere
di champagne e io lo bevo con un sorriso sulla faccia.
La coppa! I miei ragazzi potrebbero vincere tutto! Li ho adorati
anche quando non ci siamo qualificati per i playoff negli ultimi due
anni. Ma questa è davvero un’emozione!
Mi ci vogliono un paio di minuti tra sorsi di champagne e pacche
sulle spalle prima di ricordarmi che sono ancora in servizio. Tiro fuori
il telefono, mi infilo un dito nell’orecchio e chiamo l’albergo. Avremo
bisogno di una sala riunioni privata e di cibo e bevande per una festa
improvvisata.
L’hotel è ben felice di accontentarci, perché sanno che non
battiamo ciglio quando caricano del venticinque per cento i loro
prezzi da usurai per il “servizio d’urgenza”.
«Andiamo, pivella» dico a Heidi Jo. «Abbiamo una festa da
organizzare. Trovaci un Uber per tornare all’hotel e saliamo.»
Obbedisce. La mia stagista in realtà è abbastanza competente.
Quando sono di buon umore, posso anche ammetterlo.
Ma nessuno organizza una festa improvvisata come me. È il mio
superpotere. Non pianifichiamo mai queste cose in anticipo: gli atleti
sono superstiziosi. Tuttavia, utilizzo i successivi novanta minuti per
negoziare il prezzo di birra e vino e ordinare finger food per ottanta
persone. Ergo, quando il pullman torna trionfante dallo stadio, mi
ritrovo in mezzo a una distesa di cibi, bevande e famiglie di giocatori.
Non appena i primi atleti entrano nella stanza, Heidi Jo lancia un
grido di gioia un po’ troppo vicino al mio orecchio. Ma è difficile
biasimare quel culetto vivace, perché stasera siamo tutti in un brodo
di giuggiole.
«Si va a Dallas!» grida qualcuno, e la stanza esplode di gioia.
Comincio a distribuire flûte di champagne e, siccome questa è la
più speciale tra le occasioni speciali, ne prendo uno anche per me.
«Lo puoi bere?» mi chiede immediatamente Heidi.
«Mi vuoi assillare?» ribatto.
«Non credo. Alla salute, allora.» E brindiamo.
Dall’altra parte della stanza, sento gli occhi di Nate su di me.
Quando mi giro, trovo subito il suo sorriso. Alzo il bicchiere in un
brindisi e Nate fa lo stesso.
Mi lavoro la stanza, congratulandomi con i miei amici mentre si
addentrano sempre di più nei loro bicchieri. Ci saranno bei postumi
da sbornia domani, ma l’allenatore non si lamenterà, perché stasera
sono stati fantastici.
«Ottimo pressing, Castro» dico al mio uomo.
Per tutta risposta, mi prende e mi fa girare.
Lancio un piccolo urlo di sorpresa, ma lui completa diversi giri
prima di rimettermi giù. «Ehi! Occhio allo champagne!» mi lamento.
Mi aggrappo al suo braccio con la mano libera.
«Ti sto solo facendo un favore» scherza. «Non ti fanno girare in
continuazione in quelle sedute di terapia per le quali ti stai
indebitando?»
Sempre aggrappata al giocatore di hockey, conto i secondi fino a
quando non passa il capogiro. Non è un bel numero. Forse perché
sono stanca. E mi sono scolata almeno due bicchieri di bollicine.
Oppure – e non sopporto quest’idea – sto regredendo perché ho
interrotto la terapia. E comunque non ci tornerò. Ho già addebitato
tremila dollari di sedute sulla mia carta di credito. Non posso
aggiungere altro. E i playoff mi hanno fornito un’ottima scusa per
disdire gli appuntamenti. Castro mi cinge con un braccio e mi
stringe. Sta chiacchierando con Silas, il portiere di riserva, che ha
difeso la rete da fuoriclasse, durante il primo tempo di stasera. È
stata una di quelle rare partite in cui tutto è filato liscio. Domani ci
farà male la faccia per aver sorriso così tanto.
È allora che mi sento di nuovo gli occhi puntati addosso. Alzo lo
sguardo e scorgo Nate che mi osserva cupo a pochi metri di
distanza. Anche lui è nel bel mezzo di una conversazione. Hugh
Major gli parla, gesticolando animatamente.
L’attenzione di Nate, però, è su di me. Sembra di cattivo umore, il
che è strano; stasera è andata esattamente come sperava.
Abbasso gli occhi sul braccio di Castro, quello con cui mi ha
avvolto la vita in modo disinvolto. È un ragazzo affettuoso e siamo
amici. Abbraccia anche gli altri giocatori. Non ha un secondo fine di
tipo sessuale.
Solo che mi è appena venuto in mente che forse Nate non la vede
in questo modo. Ha gli occhi ridotti a fessura. Sta ignorando il suo
general manager e il suo sguardo è puntato come un laser sulla
mano di Castro sul mio braccio.
Nate è geloso.
Cose da pazzi.
Ora che sono più stabile, mi libero dalla stretta di Castro. «Vi
serve qualcosa, ragazzi? Vado a farmi una ricarica.»
«No, sono a posto» dice Castro, e mi dà qualche colpetto sulla
testa. Dato che è trenta centimetri più alto di me, non è così strano
come può sembrare.
Mi dirigo verso il tavolo del buffet e prendo una quiche in
miniatura. Non voglio nemmeno sapere quanto ci farà pagare l’hotel
per queste. La metto in bocca e ne afferro un’altra. Sprecarle non
servirebbe a niente.
Dopo aver preso una bibita dal barista, mi giro e ritrovo Nate. Il
suo sguardo si blocca nel mio ed è affamato.
Non dovrei star lì a fissarlo, ma è difficile distogliere gli occhi. Lo
conosco da sette anni. E ora l’ho toccato dappertutto. Diavolo, l’ho
assaporato dappertutto. Ma anche così, siamo come un problema di
matematica che non riesco a capire. Nate più Rebecca. Mi vuole, ma
ancora non so perché. Quando guarda sul lato opposto di questa
stanza piena di gente in festa, cosa vede?
Perché io vedo una office manager stanca con una cavigliera che
le serra il piede. È un po’ troppo bassa, un po’ goffa per una botta in
testa e ha la pancia gonfia a causa di mini quiches e crampi
mestruali.
Forse è ora di andare a letto.
Rivolgo a Nate un piccolo sorriso. Poi Hugh gli dà un colpetto sul
braccio per riacquistare la sua attenzione e Nate distoglie lo sguardo
da me.
23

Nate: Spero che tu stia dormendo, ma volevo solo farti sapere che mi manchi.
Avrei voluto usare un palindromo, ma sono fuori fase. Vorrei tanto avere
anche un palindromo per: perché non sei nella mia suite in questo momento?
Rebecca: Ciao, marinaio. Mi ero appena appisolata quando si è illuminato il
telefono. Neanch’io conosco palindromi per la buonanotte. Ma ce ne sono a
tema sesso? Voglio dire, a parte “ERO MANIACA IN AMORE”.
Nate: RECAI PIACER.
Rebecca: Bello. L’hai cercato su Google?
Nate: Faccio finta di non aver sentito. Per favore.
Rebecca: Io non mi sento in colpa per averli cercati su Google. Ho trovato
“EPPURE LE RUPPE”. Ma ha un doppio senso solo se hai una mente
perversa come la mia.
Nate: Non cambiare mai. Adoro la tua mente perversa.
Rebecca: Da discutere anche “È ROTTO DOTTORE?”
Nate: Poveraccio. Che ne dici di “ERA GELOSO, ANNA OSÒ LEGARE”?
Rebecca: Troppo maschilista. Meglio “ERA DONNA D’ANNODARE”
Nate: Touché.
Rebecca: Grazie.
Nate: Ora sono eccitato.
Rebecca: Scusa. So che ti eccitano i giochi di parole.
Nate: Argh, sì. Ma anche tu. Dove sei? Potrei intrufolarmi in camera tua. Un
giorno vorrei non dovermi intrufolare.
Rebecca: …
Nate: Ehi, niente panico. Non mi sto lamentando.
Rebecca: Non sono nel panico. Sto pensando. Ricordati che la gente
normale pensa meno rapidamente di te. Il mio cervello ha bisogno di tempo
per processare le cose, come succede al resto di noi poveri mortali.
Nate: Amo il tuo cervello. E anche le tue tette.
Rebecca: Giusto diversificare. Amo il tuo cervello. E anche la tua lingua.
Nate: Aaargh. Sali quassù. È RITROSA A SORTIRE. Eccoti il tuo palindromo.
Rebecca: Non sono di sopra con te perché non sono nella formazione
ufficiale, in questo momento. Sono tra gli infortunati.
Nate: Cosa? Ti sei fatta male? Cosa è successo? Mi sembrava che
zoppicassi.
Rebecca: No! Era una metafora sportiva. Sto bene.
Nate: Quindi? Metafora? Cosa?

Il telefono mi squilla in mano. «Pronto?»


«Ciao.»
Una sola parola sussurrata da Rebecca e mi diventa duro. Sono
proprio partito per lei. «Ciao a te. Adesso mi dici qual è il
problema?»
«Tutto a posto. È solo che… ho il ciclo. Il sesso è fuori dai giochi,
tutto qui.»
«Ah.» Tutto ha più senso, adesso.
«Grazie per essere tardo di tanto in tanto. Ti rende più normale.»
«La normalità è sopravvalutata» borbotto.
«Suppongo di sì. Congratulazioni, Nate. So che sei bello pompato
per questa chance di schiacciare Dallas.»
«Grazie. Sai, mi sento un po’ una merda quando la gente mi fa le
congratulazioni.» Mi sposto sul letto, rimpiangendo di non
potergliene parlare di persona.
«Perché?»
«Non ho segnato neanche un gol, stasera. E non sono
l’allenatore. Sono solo il portafoglio che c’è dietro.»
Becca resta in silenzio per un attimo.
«So cosa intendi. Sei tu, però, che hai messo su la squadra
vincente. Tu e Hugh. E l’avete fatto per Brooklyn. I bar saranno stati
pieni zeppi, stasera. Saranno i baristi ad averlo apprezzato di più,
ora che ci penso.»
«Mmm.» Un punto di vista molto generoso. Ma su un paio di cose
ha ragione. Volevo che Brooklyn avesse una squadra di hockey, e la
nostra restituisce molto in beneficenza.
«Nate?»
«Sì, Bec?»
«Ti ha dato fastidio vedermi parlare con Castro?»
Ah. «Tu non mi dai mai fastidio. Certo, non mi piace vedere le sue
mani addosso a te. E scusami se faccio il cavernicolo, ma lui ha un
debole per te.»
«Siamo solo amici.»
«Lo so, ma se avesse una possibilità con te, non si tirerebbe
indietro.»
«Una volta me l’ha chiesto.»
Ora sono tutto orecchi. «Davvero?»
«Sì. Solo una volta. Gli ho detto che non avrei mai potuto
frequentare un giocatore ed è finita lì.»
«Eri stata tentata?» La domanda mi scappa prima di poterla
fermare. «Lascia stare. Ritiro la domanda.»
«Non molto» mi risponde. «Cioè… Castro è affettuoso in modo
genuino. Solo che non valeva la pena approfondire. O sono la office
manager alla quale i giocatori danno retta oppure quella che sta lì
solo per guardare i giocatori. Alle donne non è concesso il beneficio
del dubbio.»
Questo mi zittisce: ha molto più senso di quanto mi piacerebbe
ammettere. «Bec?»
«Sì?»
«È buffo, ma non avevo capito del tutto il tuo punto di vista finché
non hai utilizzato Castro come esempio per indicare me.»
«Ah.» Percepisco il suo sorriso pur senza vederlo.
«Ora l’ho capito. Ho capito perché sei così riluttante.»
«Ed è peggio, sai? Farsi il capo. La cosa puzza.»
«Solo che la squadra già si fida di te.» Becca è amata da tutti. E
rispettata anche.
«Certo, ma c’è sempre gente nuova. Per loro sarei materiale da
gossip, o quanto meno una spia. “Occhio a cosa le dici, va a letto
con il proprietario”.»
Emetto un verso infelice. «Però lo stai facendo comunque.
Perché?»
«Non lo so» risponde subito. «Forse perché sei irresistibile.»
«Mi lusinghi» mi schermisco, ma non so se mi ha sentito perché il
mio telefono muore. Produce un bip e lo schermo si spegne.
Merda.
Salto su e lo metto in carica. Che cazzo, però. Becca penserà che
le ho attaccato in faccia e questo non va. Mi metto al volo una tuta,
infilo le scarpe e prendo la mia chiave. Poi mi dirigo agli ascensori.
La stanza di Becca è la 805. L’ho visto sul programma di viaggio
quando il coordinatore cercava la mia. Sto percorrendo il corridoio in
punta di piedi, quando la porta si apre e Becca esce, in tutta fretta e
con la chiave in mano.
Le faccio un cenno. Strabuzza gli occhi e sorride.
Fa marcia indietro e rientra nella stanza. La seguo, mi chiudo la
porta alle spalle e la guido verso il letto. Mi butto addosso a lei e la
bacio.
«Ti è morto il telefono?» chiede contro le mie labbra.
«Sì,» la bacio sul naso, «ma non ero stanco di parlare con te.»
«Finirai per rovinarmi la reputazione» dichiara, ma lo fa
stringendomi il sedere a due mani.
«Innanzitutto, me ne andrò in orario da dopo-sbronza. Nessun
giocatore si alzerà prima delle sette. E poi ho già la scusa pronta, se
qualcuno mi vedesse uscire dalla tua stanza.» Le bacio la
mandibola. Sa di caramella. Non voglio smettere.
«Quale?»
«Cosa?»
«La magnifica scusa sul perché esci dalla mia camera di mattina.»
«Dovevo assolutamente rivedere il budget dei playoff in tuta e
capelli da sesso.»
Becca infila la testa nel mio collo e ride. «Non avrai i capelli da
sesso, ricordi?»
Mi sistemo meglio sul letto. «Da coccole. Da cuscino. Quello che
è. Entra sotto le coperte.» Mi tiro su a sedere e mi tolgo la maglietta.
Becca fa lo stesso e vengo omaggiato da un altro pigiamino di
seta. Questo è rosso con una profonda scollatura a V.
Eee ce l’ho duro. «La tua biancheria è la migliore del mondo.»
Quando sfila il pantaloncino, prende l’elastico delle sue mutandine
con due dita e lo fa scattare sul fianco. «Mutande di cotone nella
settimana profondo rosso, però. Hai lasciato la tua suite imperiale
per niente.»
«Non è vero.» Tiro via la coperta e mi tolgo i pantaloni. Entro nel
letto, ma c’è un problema. «Sono sul lato sbagliato.»
«Hai un lato?»
«I mancini a sinistra.» La spingo contro i cuscini e la scavalco,
facendola ridere. Poi spengo la luce dalla mia parte e allargo le
braccia. «Vieni qui.»
Spegne la luce e si accoccola contro di me, permettendomi di
stringerla tra le braccia.
«Così va meglio» sussurro. «È per questo che sono venuto.»
«Okay.» Rebecca si fa più vicina e sospira.
«Ancora non ti fidi di me» sussurro. Poi la bacio sulla tempia. «Ma
lo farai.»
«Io mi fido di te»
«Ti fidi che non sono un cazzone. Ti fidi di me con il mio
cazzone.» Sorride. «Ma non pensi di riuscire ad amarmi.»
Si immobilizza tra le mie braccia. «Non ho detto questo. Non l’ho
mai detto.»
Non potrei fargliene una colpa, se l’avesse fatto.
Non sono una persona facile. Ma il mio istinto mi suggerisce che i
nostri problemi sono diversi da quelli che ho avuto con Juliet.
«Allora forse pensi che sia io a non poter amare te. È così?»
«Forse» sussurra.
«Perché?»
«Perché siamo così diversi…» Parla tanto piano che a malapena
riesco a sentirla.
«Non mi piace fare shopping da Bloomigdale ma, di contro,
abbiamo tante altre cose in comune. I film di Alien. Lo street food.
Non dimentichiamo l’hockey.»
«Nate,» inizia a voce bassa, «non fare il finto tonto. Tu sei un
genio e un laureato d’oro. E capo di una compagnia della Fortune
500. Io no.»
«Ma non c’è niente di stupido in te, però. Niente proprio. E aver
lasciato gli studi non è stata colpa tua.»
Non ribatte, e questo non depone a favore delle mie doti di
dibattito.
«Ascolta, Bec. Non ho un Power Point per spiegarti perché ho
bisogno di te. È così e basta. Lo è da un po’ ma, a quanto pare, non
sono la punta più acuminata in circolazione, perché mi ci è voluto fin
troppo per confessartelo. Ma adesso sono qui, nel tuo letto. Sono
sceso giù perché mi piace il tuo sorriso e voglio vederlo prima di
andare a dormire. E vorrei farlo il più spesso possibile, se me lo
permetterai…»
Il mio sermone farneticante si interrompe quando Becca si punta
su un gomito e si tira su per darmi un bacio. Ed è uno buono. Labbra
morbide e un dolce sospiro quando aumenta la pressione.
Socchiudo le mie e la invito a entrare. Accetta e mi bacia davvero,
davvero a fondo. La mia Becca può essere combattuta, ma non
indifferente. Le passo una mano sulla camicia da notte di seta e
vorrei tanto potergliela togliere. Le sue curve mi chiamano, ed è
difficile comportarmi bene. È una vera lotta.
Quando scosta il viso dal mio, respiriamo entrambi
affannosamente. «Mi spaventi» sussurra nel buio. «E non è una
sensazione a cui sono abituata.»
Ah.
Le passo un dito sul bordo della camicia da notte, seguendo gli
avvallamenti del seno. «Non faccio paura. E non sono neanche così
complicato. Ma avrò pazienza fino a quando avrai fatto chiarezza su
te stessa.» Sappiamo entrambi che la pazienza non è certo la mia
dote principale. Posso provarci, però. Voglio provarci.
Mi bacia sull’orecchio. «E adesso ti ho mandato tutto su di giri.»
La sua mano scivola tra le mie gambe, dove la mia erezione
rocciosa preme contro i boxer. «Che cosa vogliamo fare in
proposito?»
«Niente.» Le scanso la mano. «Sono abituato a essere eccitato in
tua presenza. Lo sono da anni. Pensavo fosse una condizione
permanente.»
«Oh, Nate» ride. «Non puoi dire sul serio.»
«Sì, invece.» Non riesco a smettere di toccarla, così le passo la
mano sulla curva del fianco e sulle costole. «Cioè, non mi ero mai
permesso di indugiare in fantasie su di te, ma ogni volta che
eravamo nella stessa stanza, ero distratto. Ma negli ultimi giorni,
invece, è tutta una fantasia. Nei miei sogni facciamo sesso in ogni
paese civilizzato. E in buona parte di quelli in via di sviluppo.»
Rebecca soffoca una risata. «Davvero? E qual è la tua fantasia
preferita?»
«Mmm…» Sposto il fianco sul letto. Ho troppa fame di lei e questo
non farà che peggiorare la situazione. Ma mi sta bene. «Siamo su
una spiaggia privata da qualche parte a giocare nell’acqua. E
cominciamo a cazzeggiare. Poi, però, non riusciamo più ad
aspettare. Devo portarti in braccio fuori dall’acqua, metterti a quattro
zampe e scoparti subito sulla sabbia bagnata.»
«Suona davvero bene.» Mi accarezza gli addominali e devo
mordermi il labbro per non mettermi a implorare. «Esistono davvero
le spiagge private o sono anche quelle frutto della tua fantasia?»
«No.» Le tolgo la mano dal mio torace, perché mi sta torturando, e
le bacio il palmo. «È privata perché…» Il formulare quella frase mi
aiuta ad esprimere qualcosa che prima mi fuggiva. «È questo
l’effetto che mi fai. La mia vita è un chiasso costante. Riunioni e
obblighi e duemila impiegati. È grandioso, ma fa rumore. Quando mi
baci, tutto diventa silenzioso. È l’unico momento in cui mi dimentico
di chiunque altro.» Rotolo di fianco e le porto le labbra contro
l’orecchio. «E quando sono dentro di te, non importa altro. Lo
desidero da morire.»
Si gira e ci troviamo naso contro naso. «Mi piace» sussurra. «Non
pensavo di farti questo effetto.»
Arrivano altri baci. Sono più duro dell’acciaio.
Stavolta, quando infila la mano nei miei boxer, non la spingo via.
Me lo accarezza e rilascio un gemito nella sua bocca.
«Bec» ansimo, mentre muove su e giù la sua mano liscia. «Qual è
la tua fantasia?»
Le sue labbra si bloccano contro la mia bocca. «È più semplice
della tua. Mi spingi a faccia in giù sul letto. Provo a parlarti, ma non
mi ascolti. Mi tieni giù e vai a segno.»
«Non è…,» è difficile parlare con Becca che gioca con le mie
palle, «molto educato da parte mia» riesco ad articolare.
«Lo so.» Mi succhia il lobo e mi passa il pollice sul glande. Sto
grondando per lei. «Ma alcune fantasie funzionano meglio nella testa
che nella vita reale.»
Ha ragione. Il sesso sulla spiaggia di solito comporta la sabbia in
mezzo al sedere. Ecco il mio ultimo pensiero razionale. Dio, devo
venire. Tiro Becca sopra di me, a cavalcioni, e glielo metto tra le
gambe. Si china a baciarmi e le afferro il sedere a due mani,
incoraggiandola a schiacciarsi su di me.
«Aaah» geme nella mia bocca.
«Puoi venire così?» ansimo
«Non lo so.»
«Scopriamolo.» Ci baciamo e ci strofiniamo come due adolescenti.
Ho bisogno di finire, ma vorrei che non finisse mai. Il silenzio ci
avvolge in un bozzolo. C’è solo il suono dei nostri ansiti e il battito
del mio cuore.
«Gesù» piagnucola Becca. Poi si mette a sedere a cavallo delle
mie cosce e si infila la mano negli slip, lavorando con le dita mentre
il seno tende la seta rossa a ogni respiro.
Ciao, fantasia nuova di zecca.
Becca annaspa e sussulta, e io me lo tiro fuori dai boxer un attimo
prima di eiacularmi in pieno petto.
24

3 giugno, New York

Al nostro rientro a New York, per due serate consecutive devo


cancellare le registrazioni audio di Bingley invece che inviarle al
team. La vita è piuttosto bella. Quando non penso a Rebecca, penso
ai miei ragazzi che mettono sotto Dallas.
Mi piace un sacco questa immagine.
Scrivo un messaggio a Rebecca la mattina in cui ha in programma
la partenza con la squadra.
Nate: Stai nella suite con me a Dallas. C’è una Jacuzzi.
Rebecca: No. È una trasferta di lavoro. Niente sbaciucchiamenti.

Ah, bene. Tentar non nuoce. Tanto per movimentare le acque,


chiamo l’albergo e chiedo di sostituire la stanza normale di Rebecca
con la mia suite. Anche senza sbaciucchiamenti, voglio che si goda
la suite. È già prenotata e lei si fermerà lì per tre notti mentre, a
quanto pare, io volerò con il Gulfstream solo per la sera della partita,
per poi tornare di nuovo a casa.
Non ho ancora firmato la vendita della divisione router. Sono più
propenso a venderla all’azienda di Alex, nonostante non si sia
ancora fatta vedere di persona per parlarmene.
«Ehi, amico» mi richiama Stewart, facendo capolino nel mio ufficio
il mercoledì mattina. «Non ci metti mai così tanto per prendere una
decisione. Potrei aprire una nuova azienda di router e venderla nel
tempo che ci stai impiegando a trovare una soluzione.»
Ha ragione. Non sono uno che impiega troppo tempo a deliberare,
ma è la prima volta che mi ritrovo a vendere una parte della mia
azienda. «Ci sono più di un centinaio di posti di lavoro in ballo» gli
ricordo. «Gente vera che ha famiglia.»
«È un onorevole motivo per prendertela con calma.» Stew prende
un oggetto dalla mia scrivania e ci giocherella. «Ma a meno che tu
non abbia insegnato a Bingley a prevedere il futuro, non c’è modo di
sapere cosa farà l’altra azienda una volta che saranno suoi.»
Ha ragione anche su questo. Le aziende si vendono e comprano
di continuo. «Solo che io sono un maniaco del controllo»
«Te ne accorgi solo ora?»
«Non hai qualche libro mastro da controllare o qualcosa del
genere?»
Il mio migliore amico si butta sul divano di pelle contro la parete.
«È un posto tranquillo per sedersi? Oppure ora che hai ripreso a fare
un po’ di esercizio devo preoccuparmi di cosa accade su questo
divano?»
Gli alzo il dito medio.
Abbiamo sedici anni? È vero che nel nostro primo ufficio c’era
qualche mobilio sospetto, ma le macchie erano dovute a cibo cinese
e pizza, non a fluidi corporei.
«Dallas, eh? Posso accodarmi per gara 1?»
«Certo, perché no?»
«Mi stupisce che tu non stia con la squadra da qualche parte a
guardare i filmati. “Ecco il tizio che devi colpire. Schiaccialo come
uno scarafaggio”.»
«Stew…»
Sto quasi per sfrattarlo dal mio ufficio quando Lauren infila dentro
la testa. «Nate... c’è un dottore in linea. Armitage. Ti dice qualcosa?
Ha detto che tu sai il motivo per cui chiama.»
«Ah. La prendo.» Punto un dito contro Stew. «Via. Fuori di qui.
Questo dottore mi vorrà scuotere per tirarmi fuori un’altra donazione
per la ricerca sulle commozioni cerebrali.»
«Sembra stimolante. A dopo.»
Non appena la porta si richiude dietro Stew, saluto il mio
interlocutore. «Salve, dottore! Come procede?»
«Speravo me lo dicesse lei» risponde. «Sono due settimane che
Rebecca non si fa vedere. Ha per caso cambiato numero? Vorrei
contattarla per sapere se tornerà a seguire la terapia e anche per
una visita di controllo.»
«Tornare a fare terapia» ripeto lentamente. «Non sta
proseguendo?»
Cala il silenzio. «Chiedo scusa. Pensavo lo sapesse. Non
gliel’avrei chiesto se…»
«No, va bene» mi affretto a rispondere. «È in viaggio per Dallas, in
questo momento.»
«Giusto! A proposito, congratulazioni. Grande notizia.»
«Siamo tutti molto eccitati» mi sento dire, ma dentro sto ribollendo.
Non era previsto che Rebecca smettesse di frequentare la terapia.
C’è una ragazza che la sostituisce, quando non può stare con la
squadra.
Riesco educatamente a sganciarmi dal medico promettendogli di
riferire il messaggio. Poi riaggancio. «Ma cosa diavolo ti viene in
mente?» chiedo all’ufficio vuoto.
Quello che non faccio, comunque, è chiamare Rebecca. Sono
troppo irritato e, anche se mi hanno già detto che faccio cagare nelle
relazioni interpersonali, “non urlare” è una regola che non capirò
mai.
Così vado al tapis roulant in un angolo dell’ufficio e comincio a
camminare. Lo schermo del computer si accende automaticamente,
quando il sensore avverte la mia presenza, e mi ripropone il lavoro
che stavo svolgendo alla scrivania.
Ora, però, non sono interessato al lavoro. Devo solo sbollire un
po’ di energia in modo da non spellare viva la mia ragazza non
appena la risentirò. Ma… siamo seri. Interrompere la terapia? Dopo
tutto quello che ha passato per avere una diagnosi?
Programmo il nastro per una scalata a intervalli e scorro i titoli di
giornale. Non aiutano il mio umore, dato che propongono sempre la
solita merda. La Corea del Nord lancia missili. Un orso polare
selvatico morto di fame. Previsioni di una nuova siccità in California.
I costi della sanità aumentano di un altro ventisette percento.
Costi della sanità.
Quello mi rimane attaccato al cervello mentre il tapis roulant mi
sottopone a una nuova camminata in finta collina. Mi chino e respiro
a fondo mentre il concetto sedimenta.
«Ehi, Bingley» dico al telefono.
«Ciao, Nate! Cosa ti faccio?»
«Bingley, hai parlato con Stew? È un suo scherzo?»
«Sissignore. Ti piace?»
«Lo trovo divertente, ma è inappropriato. “Cosa ti faccio” ha una
valenza sessuale.»
«Oh, cielo. Grazie per avermelo fatto sapere.»
«Puoi collegarmi all’ufficio del dottor Armitage?»
«Subito, signore.» Appena novanta secondi dopo mi annuncia:
«La segretaria del dottore è in linea, signore».
Prendo l’auricolare del tapis roulant. «Salve, sono Nate
Kattenberger…»
«Il suo assistente è molto cortese» si complimenta, entusiasta.
«Un accento delizioso.»
«Già, è il migliore. Potrebbe aiutarmi, per cortesia? Non ho ancora
ricevuto le fatture per le visite della signorina Rebecca Rowley.
Forse l’assicurazione le sta ancora lavorando?»
«Ah, Rebecca! Mi faccia controllare…» La sento digitare. «Le
sedute di terapia e le visite con il dottore non sono coperte. Vengono
addebitate su una carta Visa.»
La carta di credito di Rebecca. «Qual è il totale, finora?»
«Tremilaquattrocento dollari.»
Merda. Penso di aver capito perché Rebecca non segue più la
terapia.
«Ah, va bene. Penso ci sia stata un po’ di confusione. Posso darle
un’altra carta da registrare?»
«Certo, signor Kattenberger.»
Tiro fuori il portafoglio dalla tasca posteriore senza interrompere la
camminata e le detto il numero.
25

3 giugno, Dallas

Nate ripete sempre di odiare Dallas, ma all’aeroporto caricano il


nostro equipaggiamento sui pullman a tempo di record. Lo stadio è
davvero dignitoso e l’albergo dista pochi isolati.
Mi accontento di poco.
Mentre i ragazzi sono impegnati nella pattinata mattutina, Heidi Jo
e io andiamo a piedi dallo stadio al Ritz. «È davvero mooolto carino»
esclama Heidi Jo, deliziata nell’osservare l’atrio. È vecchia maniera,
con colonne di noce e pavimento di marmo. «So che siamo qui solo
per vincere, ma la squadra che si è occupata di organizzare il nostro
viaggio ci ha trattato davvero bene.»
Vero anche questo. La donna sorridente all’accettazione ha già
stampato la lista con la disposizione delle camere e preparato una
dozzina di chiavi su un vassoio. Mi ci potrei abituare.
«Guarda!» esclama Heidi Jo, indicando il mio nome sulla lista.
«Luxury Suite, piano attico.»
«Dev’esserci un errore.» Batto le palpebre, ma c’è davvero il mio
nome accanto a quella stanza. La suite di Nate. Solo che gli avevo
detto che sarei rimasta nella mia normalissima stanza. «Mi scusi,»
dico a quella donna molto disponibile, «io dovrei avere una stanza
normale.»
«No, è stata una richiesta speciale.» Sorride di nuovo. Devono far
ingerire le pillole del sorriso al personale qui.
«C’è una stanza normale disponibile?»
Il suo sorriso si spegne. «Mi dispiace, ma con i playoff abbiamo
tutto prenotato.»
Cazzo. Certo che è tutto prenotato.
«Ecco qui, allora!» Heidi Jo mi lancia un sorriso compiaciuto e la
chiave. Nate avrebbe dovuto saperlo che questo scherzetto non
sarebbe rimasto privato.
Sono incazzata, ma anche un po’ ferita. Mi aveva detto – quella
sera in cui abbiamo parlato del perché ho detto di no a Castro – che
capiva la pressione a cui ero sottoposta. Pensavo che mi avesse
ascoltato. E invece, nonostante gli avessi detto di non voler stare
con lui nella suite, mi ci ha messo comunque.
Chi fa una cosa del genere?
«Oooh! Offrono un margarita con sale alla spa!» tuba Heidi Jo.
«Vediamo se hanno due posti per un massaggio nella pausa
pranzo.»
«Vai tu» borbotto. Non posso permettermi un massaggio. Penso
che me ne resterò sul divano della suite a tenere il muso.
A meno che non ci sia davvero una Jacuzzi come ha detto Nate.
In quel caso terrò il muso lì, altrimenti sarebbe sprecata. Ma il bagno
me lo farò da sola e, quando domani mattina si presenterà Nate,
andrò a dormire da Heidi Jo. Così le leverò quel sorrisetto dalla
faccia.
La mia stagista va in esplorazione dell’albergo con l’incarico di
controllare la sala da pranzo dei giocatori prima del loro arrivo.
Lascio tutto nelle sue mani perché ha una sorprendente competenza
sotto la superficie spumeggiante.
Prendo l’ascensore e scopro che devo inserire la tesserina anche
solo per selezionare l’attico. Così lo faccio e la cabina sale
direttamente all’ultimo piano.
La suite è meravigliosa. Ci sono un tavolo da pranzo e un’area
salotto. Il letto è gigantesco e ricoperto di cuscini. Immagino me e
Nate a rotolarci lì sopra e, solo per un secondo, è difficile mantenere
la mia irritazione. Perché voglio tutto questo.
Ma solo con un uomo che mi ascolti.
Il mio telefono vibra per una notifica, quindi lo tiro fuori e guardo.
Non è un messaggio, ma una di quelle notifiche automatiche che
arrivano quando utilizzi la carta di credito. Sto quasi per rimetterlo in
borsa, poi mi ricordo di non aver usato la carta quel giorno. Adocchio
la cifra addebitata e per un attimo mi si ferma il cuore.
Tremilaquattrocento dollari. Non può essere vero. Apro la notifica.
Invece, è vero. Solo che non è un addebito, ma un accredito. Da
parte dell’ufficio del dottor Armitage.
Per un breve, luminoso istante esulto. La gioia, però, dura
sessanta secondi perché, quando apro il laptop per controllare la
mia richiesta all’assicurazione, c’è scritto ancora “negata”.
Ed è allora che mi esplode la testa. Non c’è la minima possibilità
che quel guadagno inatteso sia dovuto a un errore d’ufficio. E una
sola persona può esserne responsabile.
Digito il numero del cellulare di Nate. Risponde quasi
immediatamente. «Ehi! Come va a Dallas? Sei già salita nella
suite?» È tutto allegro e festoso.
Io no.
«Da dove comincio? Okay, bene. La suite. Avevo detto di no ed
eccomi qui lo stesso. Ed è il primo strike, perché è stata Heidi Jo a
notare per prima la modifica nella mia stanza. Quindi grazie tante.
Speriamo davvero che non sia una pettegola. Ma, poi, mi prendi per
il culo con quei tremilaquattrocento bigliettoni sulla mia carta di
credito?»
Gli ci vuole un minuto per rispondere. «Adesso puoi riprendere la
terapia, Bec. E, fidati, sto cercando di non arrabbiarmi per il fatto che
non hai seguito le indicazioni del medico.»
«Tu sei arrabbiato?»
Ridacchia. «Mi appello al quinto emendamento. Non riuscivo a
capire perché cazzo non ti prendessi cura del tuo cervello!»
«Io me ne prendo cura!»
«Stando a quello che dice il tuo buon medico, no. Mi ha chiamato
perché era preoccupato per te.»
«Stammi a sentire, adesso. Ci sono esercizi di terapia che non
costano quasi trecento verdoni a seduta! Faccio pilates per
venticinque dollari a lezione ed eseguo gli esercizi che mi
assegnano da svolgere a casa. Non sono un’idiota, ma grazie per
avermi fatto capire che mi consideri tale!»
«Non ho detto questo. Non esagerare.»
«Non mi trattare come una bambina!» Sono partita, ormai. «Se
fossi stato preoccupato, me ne avresti parlato. Se avessi desiderato
aiutarmi a seguire una terapia a costo platino, avresti dovuto
chiedermelo. Dici che tieni a me, ma poi fai queste cazzate. Ci tieni,
finché va tutto come dici tu.»
«Rebecca…»
«Risparmiatela, okay? Ho da lavorare qui. La questione è chiusa.
La tua suite sarà vuota, quando arriverai a Dallas. Rimani nella tua
metà campo fino a dopo i playoff.»
Poi, per la prima volta in sette anni, attacco il telefono in faccia a
Nate Kattenberger.

La notte successiva me ne sto distesa sul letto matrimoniale nella


camera di Georgia.
Sono triste per una miriade di motivi.
Georgia non se la passa molto meglio. Sta sfogliando con rabbia
una rivista di matrimoni che le ho messo a forza tra le mani. Il suo
sarà il mese prossimo. È già tutto pianificato, solo che non abbiamo
ancora la bomboniera.
«Che ne dici di cioccolatini a forma di taxi?» chiedo. «Secondo me
dovremmo attenerci al tema Brooklyn.»
«Ma il matrimonio sarà a Long Island» ribatte. Ha la voce roca per
aver sostenuto la nostra squadra con troppa veemenza durante la
partita di stasera.
«Brooklyn vi ha fatto incontrare!» protesto. «Va bene, il tema può
essere l’hockey. O l’hockey e il tennis! Entrambi i vostri sport.
Potremmo alternarli. Pensavo che quelle tavolette di cioccolato
personalizzate fossero carine.»
In un raro scoppio di malumore, Georgia chiude di scatto la rivista
e la lancia dritta dall’altra parte della stanza, dove atterra con un
tonfo sulla sedia della scrivania.
«Becca, smettila. A nessuno importa niente di cioccolatini con il
mio nome sopra.»
«Va bene. Piccole bottiglie di vino con i vostri nomi...»
«Basta!» Alza gli occhi al cielo. «Non mi interessano le
bomboniere. Tu sei fantastica, per questo ho un vestito, dei fiori e un
catering, ma abbiamo finito, okay?»
«Respira a fondo. È solo la prima partita. Possiamo rimontare.»
I nostri ragazzi hanno appena perso contro Dallas.
Georgia ha urlato a squarciagola ogni volta che Brooklyn ha
toccato il disco. Mi sorprende che riesca ancora a parlare. Non è
bastato, però. I nostri ragazzi non hanno giocato bene e Dallas ha
vinto la prima partita.
Ci sentiamo entrambe infelici.
Georgia si alza dal letto. Va in bagno a prendere lo spazzolino da
denti e lo infila in borsa. «Senti, mi intrufolo nella stanza di Leo per
vedere come sta. Sei la benvenuta qui. Sei la benvenuta anche se
non vuoi dirmi cosa diavolo ti sta succedendo. Mi hai dato il tormento
per ventiquattr’ore con le bomboniere e voglio sapere perché.»
«Perché il matrimonio è...»
Alza una mano per interrompermi; ha uno sguardo feroce. «Bec,
basta stronzate. È successo qualcosa e non mi hai detto cosa. Ma
ho delle teorie.»
Oh, cavolo. «Tipo?»
«Qualcosa è andato storto con Nate. E probabilmente non è tutta
colpa sua, altrimenti me l’avresti già detto.»
Be’, ahi. Ho sempre saputo che Georgia era una ragazza sveglia
«Mi sono arrabbiata con lui. Ma sono anche confusa.»
La sua espressione si addolcisce. «Dimmi perché.»
Così lo faccio. Le racconto tutta la triste storia, della camera
d’albergo e delle spese mediche. «Pensavo che mi ascoltasse. E poi
ha semplicemente ignorato quello che avevo detto.» Sventolo la lista
con la disposizione delle camere come una pazza.
Georgia me la toglie di mano e la legge. «A volte mette anche
Lauren in una suite, quando viaggiano.»
«Non nella sua.»
«Perché, allora, il nome di Nate è su un’altra stanza?» Indica la
seconda colonna di nomi.
«Cosa?» Gliela strappo di mano e leggo “Nathan Kattenberger:
stanza 512”. «Ma...» Non ha senso. «Mi ha chiesto di stare nella sua
suite con lui.»
«E tu hai detto di no.» Georgia parla con estrema gentilezza,
come si fa con i pazzi. «Allora le ha scambiate per lasciarti la suite.»
«Oh, cazzo» sussurro. «E io gli ho urlato addosso.»
«Tutti urliamo, a volte. E di sicuro avrebbe dovuto chiedertelo,
prima di pagare le fatture del medico. Anche se l’ha fatto perché ti
vuole bene e si preoccupa di quello che succede a quella tua stupida
testona.»
Con un gemito crollo sul piumone. «Proprio così! Una stupida
testona. Ma non credo di poterla far diventare più intelligente.»
Georgia si siede accanto a me e mi dà delle pacche sulla mano.
«Penso che tu sia solo stressata. A tua discolpa, va detto che negli
ultimi mesi nulla è stato semplice. Ti sei infortunata e ti sei
spaventata. Il lavoro è stato davvero stressante. Tua sorella e il suo
toy boy si sono impadroniti del tuo appartamento. Sono successe
cose grosse.»
«Nate mi confonde. Non siamo alla pari e non potremo mai
esserlo, quindi vado fuori di testa ogni volta che mi sento messa
all’angolo.»
«Alla pari» ripete lentamente Georgia. «Non so se sono
d’accordo.»
«Oh, per favore. Non mi lusingare.»
«Ma cosa rende uguali me e Leo? E chiunque altro?»
Alzo la testa e le lancio un’occhiata di sbieco. «Né tu né Leo
comandate il mondo.»
«Be’, è vero che non posso comprare e vendere un piccolo Paese
prima della colazione di domani,» ammette Georgia, «ma forse tutto
questo non ha alcuna importanza per Nate. Forse è solo un ragazzo
che sta davanti a una ragazza e le chiede di entrare in una Jacuzzi
con lui.»
«Forse» ammetto con la faccia ficcata nel piumone.
«Non è da te lasciarti intimidire da Nate. Quando l’hai conosciuto,
ti intimidiva?»
«No» tiro su con il naso.
«Allora perché adesso?»
Perché adesso potrebbe spezzarmi il cuore.
Faccio un respiro profondo e lo rilascio. «Forse non è Nate a
intimidirmi, ma la possibilità di correre rischi per un uomo. Non lo
faccio mai.»
Georgia mi dà una sculacciata. «La verità è svelata! Ti stai
facendo più sveglia. Guarda un po’.»
«Sta’ zitta o ti scelgo delle bomboniere orrende.»
«Come se me ne accorgessi.» Si alza di nuovo. «Ciao, per ora.
Vado a spogliare Leo e a vedere se riesco a tirarlo su di morale.»
«Ti voglio bene!» esclamo mentre va alla porta.
«Anch’io, piccola.»
Appena esce, la stanza diventa troppo silenziosa. Resto sdraiata lì
per un po’ a sentirmi stupida. Mi manca Nate. Stasera aveva i posti
in tribuna e io ho evitato la tribuna. Mi chiedo a cosa pensasse
durante l’intervallo e se mi abbia cercato. Ci saranno state decine di
persone ad aleggiargli intorno, tutto il bel mondo di Dallas si sarà
presentato per stringergli la mano.
È strano essere Nate. Non ha chiesto di essere importante. Lo so
per certo, perché ho visto accadere tutto. Ha inventato alcune cose
di cui il mondo aveva bisogno ed è successo. Il nostro ufficio ha
smesso di essere un rifugio con macchie di pizza e tavolo da ping-
pong ed è diventato una destinazione globale.
Forse Georgia ha ragione nel sostenere che gli eventi recenti mi
hanno guastato l’umore, ma mi risulta davvero difficile immaginare
un futuro al fianco di Nate mentre stringe la mano al mondo. È
questo che non riesco a superare: l’idea che io sia solo un
passatempo temporaneo e che una mattina si sveglierà e deciderà
di pianificare il suo futuro in termini reali.
E io non ci sarò.
Anche così, gli devo delle scuse. Prendo il telefono fisso e
compongo il numero della stanza 512. Squilla e squilla. Così tiro
fuori il cellulare e mando un messaggio a Heidi Jo.
Rebecca: Per caso hai visto Nate dopo la partita? Hai idea di dove possa
essere?

Forse sto alimentando i suoi pettegolezzi in questo momento, ma


non posso farne a meno.
Risponde immediatamente.
Heidi Jo: New York. È volato a casa dopo la partita. L’ho messo su un’auto
per l’aeroporto.

Ah, bene. Così adesso ci sono diverse stanze d’albergo vuote.


Heidi Jo: Hai bisogno di qualcosa?

Come sempre, sono tentata di dire di no. Ma la verità è che


ultimamente mi è stata molto utile e non ho tenuto fede alla mia
parte dell’accordo.
Rebecca: Se non ti dispiace, ti chiederei di ricordarmi di fissare un
appuntamento per la terapia domani. Devo riprenderla.
Heidi Jo: Buona idea!!!

Replica all’istante. Tre punti esclamativi. Ma mi fanno sorridere,


invece di darmi fastidio.
Questa ragazza comincia a piacermi davvero. Se non fossi stata
una pazza furiosa ultimamente, l’avrei apprezzata prima.
Rebecca: Riposati un po’. Hai fatto un ottimo lavoro oggi.

Risponde con tre diversi emoji a cuore. Non mi stupisce.


26

5 giugno, Dallas

Vinciamo gara 2, ma Nate neanche assiste di persona. Dopo la


partita, Leo Trevi mi offre un bicchiere di vino che mando giù in un
lampo. Non avendo più tolleranza per l’alcol, mi dà subito alla testa.
Quindi raggiungo la mia enorme suite vuota con la Jacuzzi e,
ubriaca, digito il numero di Nate.
Parte la segreteria telefonica. Ciò dovrebbe farmi desistere da
questa pessima idea, invece, no. Lascio un messaggio.
Ciao. Sono sola in albergo in questa bellissima stanza, ma ti ho
urlato contro e tu non sei qui. So che odi Dallas, ma stasera
abbiamo vinto ai supplementari anche se la squadra era un po’
irritata. Ci manca Beringer. Fanculo gli infortuni. Che volevo dire?
Ah, scusa, okay? Scusami se non so leggere un piano camere e non
ho visto che avevi fatto solo un cambio, il che significa che mi
ascoltavi quando ti ho detto di no. Sono ancora arrabbiata per il
conto del medico, perché avresti dovuto parlare con me prima di
agire. Non so cosa questo dovrebbe dimostrare, però, tanto tu sarai
sempre quello con i soldi e io quella che non ha finito l’università. E
ovviamente non riesco a superarla. O forse ci riesco, ma ci sono i
playoff e ho bisogno di riprendere la terapia e un cavolo di respiro.
Quindi spero che me lo consentirai.
O qualcosa del genere.
Forse non è poi così male.
No, lo è senz’altro. Le mie scuse sono lì da qualche parte, sepolte
sotto mucchi di rabbia e indecisione. Se non avessi già convinto
Nate che rappresento solo un ammasso di problemi, questa
telefonata ci metterà il sigillo.
«Bingley?» chiamo, fissando il soffitto decorato. In una suite
perfino il soffitto è più alto rispetto a quello delle stanze normali.
«Sì, Miss Rowley?»
«Chiamami Becca» dico, brilla.
«Sì, Becca?»
«Ho appena lasciato un lungo messaggio in segreteria per Nate.
Potresti cancellarlo per favore?»
«Spiacente, ma non è nei miei poteri. La segreteria telefonica
risiede nel cellulare del proprietario. I telefoni KTech utilizzano il
software di chi li detiene per questa funzione.»
«Be’, questo è un bug, signore» protesto. «Non riesco a credere
che Nate non abbia scritto da sé quel software.»
«Gli dirò che siete dispiaciuta.»
«No!» Mi alzo a sedere di scatto e la stanza gira. «Non lo fare.
Non dire mai a Nate che sono dispiaciuta per qualcosa.»
«Benissimo, Miss. Una vostra parola mi silenzierà per sempre.»
«Come sei melodrammatico.» Sbadiglio. «Buonanotte, Bingley.»
«Dolci sogni, Miss.»

Nate ovviamente ha ascoltato il mio messaggio nella segreteria


telefonica. Ora che siamo tornati a Brooklyn per gara 3 e 4, mi sta
dando tregua. Un sacco di tregua.
Che gli ho chiesto io, credo, quando ho detto che avevo bisogno di
riprendere “un cavolo di respiro”.
Lezione imparata. Niente più telefonate sotto l’effetto dell’alcol. Mi
sta evitando. O forse è impegnato a dirigere il mondo e io sono
un’idiota per aver presunto che stia pensando a me.
Vado in terapia per due giorni di fila. Sarebbe stato meglio ricevere
un calcio nel sedere: Ramón mi fa saltare su quel maledetto
trampolino per ore.
Poi, durante gara 4, anche il mio cuore fa qualche giro sul
trampolino. Se vinciamo questa, saremo pari 2-2. Guardo il match da
un posto nella fila B, per gentile concessione di David Beringer,
l’infortunato giocatore veterano. È seduto accanto a me, le nocche
sbiancate sulle mani serrate sul bracciolo. Se sono in agonia io a
guardare giocare i nostri ragazzi, la sua sofferenza non può che
essere doppia, sapendo che dovrebbe essere là fuori ad aiutarli a
vincere.
Nota per me stessa: c’è sempre chi sta peggio. «Sull’uomo!» grida
Beringer a Castro. «Trevi è libero!»
Mi produco un urletto nervoso mentre Castro passa davanti a noi.
«Forza, ragazzi, potete farcela!»
Eppure il primo tempo finisce senza punti. Trascorro l’intervallo
ritoccandomi il trucco in bagno e fingendo di non volermi carina per
un certo magnate della tecnologia.
Nel frattempo, Heidi Jo è nella tribuna aziendale a farmi esplodere
il telefono con domande a raffica.
Heidi Jo: Devo offrire a Nate un’altra Diet Coke? Cosa beve Stew?

Rispondo di cattivo umore.


Rebecca: Non darti pena. Entrambi hanno due mani funzionanti. Se la
possono versare da soli.
Heidi Jo: Lo sai che siamo in parità, vero? Perché sei così cupa, ciccia?

Non ribatto perché non sarebbe una replica amichevole.


Il mio umore migliora durante il secondo tempo. Segniamo due gol
e alla fine Dallas non riesce a recuperare. È un terzo tempo sudato e
veloce, ma chiudiamo la partita 4-2.
Sono fiaccata dal sollievo. Dave è rauco per le urla.
«Cazzo, sì!» esclama, stringendomi le spalle. «Questa partita mi
ha tolto dieci anni di vita, Bec. Vieni al bar con noi a far festa?»
«Okay» acconsento di getto.
Sfogarmi con gli amici mi sembra un’ottima idea, soprattutto da
quando ho scoperto che ora posso bere un bicchiere o due senza
andare giù di faccia. «La taverna di Hicks?»
«Naturalmente.» Si alza in piedi. «Ci vado subito e chiedo a Pete
di riservarci la sala sul retro.»
«Bel piano. Vado a cercare la mia stagista e la invito.» Mi sembra
corretto, dopo essere stata un orso scontroso. Alla Taverna, dopo
una vittoria, ci si diverte.
Beringer mi batte il pugno e se ne va. Scrivo a Heidi Jo mentre mi
avvio verso la sala dedicata alla conferenza stampa, perché non
posso farne a meno. Sono giorni che non vedo Nate. L’adrenalina
post-partita colpisce pesantemente, riempiendomi di gioioso
ottimismo.
Voglio vedere la sua faccia, accidenti.
E scusarmi da sobria.
Il solito caos fuori dagli spogliatoi non mi aiuta a calmarmi.
Giocatori e familiari si abbracciano e festeggiano. La porta dello
spogliatoio si apre e si chiude a ripetizione man mano che i ragazzi
escono, freschi di doccia, per accogliere le congratulazioni.
«Sala stampa, gente!» grida Georgia. «Da questa parte. Tre
minuti!»
Il lavoro della mia migliore amica non è ancora finito per stasera.
«Eccoti qui!» esclama Heidi Jo, affiancandomi e strappandomi il
telefono di mano. «Basta con lo schermo.»
«Ehi! Sei tu che mi mandi messaggi!»
Fa spallucce. «Non potevo farne a meno.»
«È davvero...» molto irritante! Ingoio il mio disappunto. «I giocatori
vanno a bere alla taverna di Hicks. Sono scesa per invitare anche
te.»
«Oh!» Si illumina in viso. «Ci sto. Hanno le freccette e un tavolo
da biliardo?»
«Penso di sì.» Non ci gioco mai.
«Sono una specie di squalo» ridacchia.
«Non posso dire che mi stupisca.» Heidi Jo non è stupida. Solo
troppo... entusiasta.
La conferenza stampa di Georgia sta iniziando. Sta sul palco
mentre la porta posteriore si apre. Nate, coach Worthington, O’Doul
e altri due giocatori escono tra gli applausi. Metto due dita in bocca e
fischio forte, tanto che Heidi Jo si copre le orecchie.
«Grazie per essere con noi stasera, mentre marciamo verso la
vittoria» esordisce Georgia sul palco. «Vi porgo i ringraziamenti
anche da parte del proprietario del club, il signor Nathan
Kattenberger. Vi preghiamo di rimandare le vostre domande alla fine
del discorso dell’allenatore. Grazie.»
Georgia si fa da parte per Nate, che ringrazia i suoi giocatori e
l’allenatore per l’impressionante sforzo di stasera.
Non sento una parola di quello che dice, perché sono troppo
occupata a lanciargli uno sguardo laser da “vieni qui”. Mi dispiace di
essermi comportata da stupida, suggeriscono inoltre i miei occhi. O
meglio, ci provano.
Ma a Nate non capita mai di guardare dalla mia parte.
Da persona bassa, intrappolata contro la parete in fondo a una
sala affollata, le mie probabilità di essere vista non sono eccezionali.
«Signor Kattenberger!» grida una giornalista. Immediatamente
vedo Georgia stringere gli occhi, perché le domande sono vietate
durante l’introduzione. «È vero che ha un rancore personale nei
confronti della squadra di Dallas?»
Non riesco a scorgere la giornalista dalla mia posizione. Potrebbe
essere anche lei una diversamente alta. Molte teste, però, si girano
dalla sua parte.
Nate sgrana gli occhi e provo un improvviso brivido alla nuca.
«Personale? No.» Si schiarisce la gola in un modo che non gli
appartiene. «Sebbene nutra rancore verso chiunque si metta sulla
strada tra la mia squadra e la Coppa.»
Georgia interviene. «Risponderemo alle domande alla fine de...»
Ma la giornalista la interrompe. «Ha comprato una squadra di
hockey per vendicarsi del giocatore di Dallas che le ha rubato la
fidanzata?»
Aspetta, cosa?
«È ridicolo» sbotta Nate, e ogni parola è una scheggia di ghiaccio.
«Sono un appassionato di hockey da prima di imparare a parlare. Ho
comprato una squadra di hockey per poter riportare la Major League
a Brooklyn...»
Questa donna deve avere voglia di morire perché lo interrompe di
nuovo. «Non ha sorpreso il capitano di Dallas, Bart Palacio, con...»
«Scusate.» Georgia passa davanti a Nate e al palco. «Conservate
le vostre domande per dopo. Prima i commenti dell’allenatore!» Ha il
viso rosso e chiazzato.
E Nate? Spegne il microfono, si gira e lascia la stanza.
Lo scatto della porta che si chiude dietro di lui sembra
riecheggiare nel silenzio che ne segue.
Georgia batte le palpebre. «Coach Worthington ha qualche
commento sulla partita?» interviene, piccata.
Mi gira la testa. Il capitano della squadra di Dallas è quello con cui
Juliet lo ha tradito?
Tocco tutte le tasche della borsa a tracolla fino a quando non mi
ricordo che Heidi Jo mi ha sequestrato il telefono. «Cellulare!» sibilo.
Ma non si muove abbastanza in fretta, così aggancio un braccio
attraverso il suo e la trascino in corridoio. «Ho bisogno del mio
telefono! Tiralo fuori.» Poi lo trovo nella tasca della sua giacca e mi
servo da me. Faccio una rapida ricerca sul web con il nome di Nate
e “Dallas” e boom. La giornalista ha già pubblicato la sua storia.
Sperava solo di aggiungere un momento di imbarazzo in diretta a
spese di Nate.
La faccio a pezzi, quella stronza.
Aspetto che la pagina si carichi, girando il telefono per cercare di
ingrandire il testo. Lo stress mi ha affaticato la vista e sento lo
sguardo strabico dopo una lunga giornata.
«Dai, ci penso io» propone la mia stagista. «Cosa stiamo
guardando? Ah» esclama all’improvviso. «Bleah.»
«Leggi» ordino.
«Che titolo.» Fa schioccare la lingua. «Scandalo: il rancore
segreto di Nate Kattenberger verso la Dallas Hockey Star.»
«Cazzo!» È la cosa più acchiappa-clic che abbia mai sentito.
«Nate non è così!»
«Shh!» sibila Heidi Jo. «Se vuoi tenere segreta la tua relazione
con Nate, devi abbassare la voce.»
Ringhio, ma ha ragione. E Nate non ha bisogno di altri
pettegolezzi in questo momento. «Continua a leggere.»
«Cinque anni fa il miliardario, oggi proprietario dei Brooklyn
Bruisers, ha sorpreso la sua fidanzata a letto con un giocatore di
hockey professionista. Questa settimana, Nate ha la possibilità di
vendicarsi, dato che la sua squadra affronta il Dallas nella finale
della Stanley Cup.»
«Porca puttana» respiro.
Mentre Heidi Jo continua a leggere, vengo a sapere che Juliet è
ora la signora Palacio. Possiede una catena di palestre a Dallas e ha
sposato Bart quando ancora giocava nei Rangers. Ora è capitano
della squadra di Dallas.
«Porca. Puttana» ripeto. Poi strappo il telefono dalle mani della
mia stagista e rileggo la storia, perché non riesco a crederci.
«Non sapevo che Nate fosse stato fidanzato!» sussurra Heidi Jo.
«Lei è carina.»
«Sì» sospiro. «Stavano insieme dal college. Non mi è mai
piaciuta.» L’ultima cosa mi sfugge.
Heidi Jo sniffa. «Non piacerebbe nemmeno a me. Ha spezzato il
cuore al tuo uomo!»
«Shh!» Povero Nate.
Il suo triste passato è stato appena schiaffato su internet.
Faccio una ricerca sul web per Juliet Palacio e lo schermo si
illumina di foto. Ha una figlia piccola. Nella foto posa accanto al
marito con la bambina sul fianco. Indossano tutti e tre delle magliette
coordinate con il numero di lui, e quando le vedo vomito un po’.
«Che bella bambina» commenta Heidi Jo. «Non sapevi che la sua
ex si era sposata con il capitano?»
«Non sapevo neanche che fosse sposata» balbetto. «Non l’avevo
mai cercata prima.» Ora, però, vorrei averlo fatto. Mentre me ne sto
qui, nella tribuna aziendale che si svuota, molte cose cominciano ad
acquistare senso per me.
Nate odia Dallas, ma non spiega mai il perché.
Nate non ha voluto accettare l’intervista sul perché possiede una
squadra di hockey.
Nate mi ha chiesto di sedermi accanto a lui alle partite di Dallas.
Dove sapeva che avrebbe potuto vedere la sua ex. Mi voleva al suo
fianco.
Invece, gli ho detto di no.
«Andiamo, Bec.» Alzo lo sguardo e mi trovo davanti Castro, che si
raddrizza la cravatta. «Beringer ha preso un tavolo alla Taverna.
Vieni anche tu, no?»
Mi stacco dal muro e lo seguo, anche se la mia testa è ancora
lontana chilometri.
Castro tiene la porta per Heidi Jo e me, poi appare anche Silas, il
portiere di riserva. «Uber, taxi o a piedi?»
«A piedi» rispondo subito. La Taverna non è molto lontana e ho
bisogno di schiarirmi le idee.
«Mi sta bene» approva Silas, e ci avviamo sul marciapiede.
«Un bello schifo per il grande capo» commenta Castro mentre
arriviamo all’angolo. «Non vorrei mai far sapere al mondo che la mia
ragazza mi ha scaricato per una testa di rapa come Palacio.»
«Dicono tutti che è un coglione» interviene Heidi Jo.
«Bec, tu la conoscevi?» chiede Silas.
Mentre aspettiamo di attraversare Atlantic Avenue, considero la
domanda. «Un po’. Telefonava un paio di volte al giorno. La vedevo
una o due volte a settimana. Ma solo chiacchiere, sapete? Sono
rimasta sconvolta, quando si sono lasciati.»
«Tu sei brava a giudicare le persone» considera Castro. «Ti
piaceva?»
«No» rispondo subito. «Ma non so dire perché.» Heidi Jo sorride e
io le lancio uno sguardo di avvertimento.
«Nate, stasera, si farà un bel whisky» decreta Castro.
«Scommetto che non si presenterà al bar, però. Non dopo quella
merda. Sappiamo tutti quanto odi Dallas; ora abbiamo capito il
perché.»
Sento il cuore sprofondare. «Perché Dallas è piena di sé» ribatto.
«Pensate davvero che se Nate volesse vendicarsi di un uomo, la
sua strategia più efficace sarebbe comprare una squadra?
Probabilmente gli farebbe funzionare il telefono a un quarto della
velocità normale o scriverebbe un codice che gli fa comparire i
brufoli in ogni foto su internet.»
I miei tre amici scoppiano a ridere.
Ma non stavo scherzando. E non sopporto l’idea che Nate se ne
stia a rimuginare nella sua casa vuota da solo. «Sapete, credo di
essere troppo distrutta per la Taverna. Ci vediamo più avanti?»
«Vuoi che ti accompagni a casa?» chiede Castro, sempre
gentiluomo.
«No, va bene così!» dico, allegra. Mi allontano da loro lentamente.
Non c’è niente da vedere.
Heidi Jo ridacchia. «Riposati un po’!» Mi strizza l’occhio.
Mi giro e mi avvio a passo di jogging lungo l’Atlantic, verso la
Promenade.
27

10 giugno, Brooklyn

La mia tana è buia, quando entro. Non appena varco la soglia,


però, si accendono delle luci soffuse.
«Salve, padron Nate» saluta Bingley. «Gradisci un po’ di
televisione?»
«Oddio, no.» Dopo la débâcle alla conferenza stampa, potrei non
guardarla mai più. «Versami un po’ di scotch, ti va?»
«Spiacente, signore. Non ho l’abilità che possiedono alcune
persone. È oltre le mie capacità.»
«Lo so, Bingley. Mi chiedevo soltanto che cosa avresti detto.»
Ecco un’altra notte a Singleville, a giocare con un robot. Via alla
festa. È una buona cosa che ci sia un mobile bar nascosto
nell’angolo di questa stanza. Apro un armadietto di noce e tiro fuori
un bicchiere e una bottiglia di Macallan 18. Mi verso due dita di
scotch e tolgo le scarpe.
Poi mi siedo e ne prendo un sorso. Brucia.
Non dovrebbe fregarmene nulla di cosa scrive di me un giornaletto
da strapazzo. Che vinciamo la coppa o no, la squadra di hockey è
un lavoro di cuore. Tutti dicevano che non sarei riuscito a rivoltare la
squadra. Eppure, l’ho fatto con una buona gestione e un grande
allenatore. E in soli due anni.
Annaspavano, prima che comprassi la squadra. E adesso no.
Fine. Ma quell’articolo fa male. Juliet mi ha lasciato per un giocatore,
e non voglio che la gente lo legga e rida.
Il telefono mi squilla nella tasca – è la suoneria assegnata a mia
madre. La ignoro. Mi direbbe qualcosa di carino, ma non voglio
sentirlo. Eppure mi scrive comunque.
Mamma: Cos’è successo? Pensi sia opera di Juliet?

Ne dubito, ma a mia madre non è mai piaciuta.


Mamma: Ho prenotato i biglietti per Dallas. Vogliamo essere lì con te per gara
cinque.

Il telefono torna nella tasca. Sono troppo stanco per interagire. Il


divano mi chiama e mi stendo, appoggiandomi il whisky sulla pancia,
alla maniera di Homer Simpson.
La mia addetta all’ufficio stampa – Georgia – è irritata che non
l’abbia messa in guardia. Mi ha chiamato mentre ero in macchina.
«Avrei potuto prevenirlo» aveva detto. «Mi devi permettere di
proteggerti.»
«Ho imparato la lezione» avevo grugnito, prima di riagganciare.
Che serata stupida. Dovrei ritirarmi presto e sperare che la
giornata di domani sia meno umiliante.
Prima, però, whisky. Sorseggio e cerco di guardare alla mia vita in
modo obiettivo. Ho il lavoro più soddisfacente che un uomo possa
desiderare e una squadra di successo. Dovrebbe bastare, no?
«Signore» esordisce Bingley all’improvviso. «Rebecca vorrebbe
sapere se è in casa.»
Gemo. Non so se sarei in grado di indossare la mia faccia da
poker e non voglio che mi veda così depresso. «Potresti dirle che
non è un buon momento?»
«Va bene,» replica Bingley, «la mando via.»
«Aspetta,» poso il bicchiere, «è qui?»
«Sul gradino d’ingresso, signore.»
«Allora falla salire» ordino, prima di ripensarci. Pochi secondi
dopo, sento i suoi passi su per le scale e il mio battito accelera. Non
posso farci niente, e non sono neanche sicuro che mi importi.
Rebecca mi farà sempre quest’effetto.
Scivola dentro un minuto dopo, raggiungendo subito il divano. Si
butta a sedere ai miei piedi e appoggia un sacchetto e un lime sul
tavolino. Poi tira fuori dalla borsa una bottiglia e l’appoggia con un
tonfo. «Cibi libici?»
Batto le palpebre.
Si morde il labbro.
«Aspetta.» Mi tiro su a sedere, ricordando il riferimento. «Mi hai
portato empanadas e tequila?»
«Sì» risponde a bassa voce. «Non è niente, davvero, ma…»
La interrompo. «Lo sai che ti amo?»
La sua bocca si chiude di scatto e gli occhi si inumidiscono. «No,
non lo sapevo.»
«È vero, Bec. Di brutto. E quella stronzata di articolo su me e
Juliet è una gran rottura, ma non significa niente.»
«Non lo sapevo» dice, asciugandosi le lacrime. «Di Juliet e
Dallas.»
Ah. «Davvero?» Davo per scontato che fosse ben informata sulla
mia umiliazione.
Scuote la testa. «Non ne avevo la minima idea. Però, mentre
venivo qui, ho capito una cosa importante. Mi hai chiesto di sedere
vicino a te a Dallas. E ho detto di no perché la gente ci avrebbe visto
insieme e avrebbe pensato che c’è qualcosa tra di noi.»
«Giusto. E lo capisco, Bec.»
Scuote la testa. «Ma sono io che non ho capito. Tu sapevi che
l’avrebbero vista così. Eppure mi volevi lì comunque.»
«Certo.» Non sono sicuro di capire dove voglia andare a parare.
«Non ti sarebbe importato che la gente dicesse “Guarda, Nate
esce con la segretaria”.»
«Office manager» la correggo.
Alza gli occhi al cielo, poi prende la bottiglia di tequila e svita il
tappo. Il suo fedele coltellino tascabile sbuca dalla tasca della giacca
e Becca taglia una fettina di lime su un sottobicchiere. «Bicchieri? O
beviamo direttamente dalla bottiglia come ai vecchi tempi?» Prendo
altri due bicchieri dal mobiletto: voglio che Bec sia in grado di vedere
quanta tequila beve. Perché non posso fare a meno di preoccuparmi
della donna che amo.
Perché la amo. Ora posso ammetterlo.
Versa uno shot in ciascuno dei due bicchieri e me ne passa uno.
«Scusami» inizia, guardandomi negli occhi. «Mi volevi accanto e io ti
ho detto di no. È solo che non ci credevo fino in fondo. Pensavo che
volessi un’altra Juliet o Alex. Qualcuno che fosse più…,» corruga la
fronte, «più di me.»
«Non c’è nessuna che sia più di te. Nessuna più divertente.
Nessuna con un carattere migliore. Nessuna più leale. Nessuna più
sexy. Questo è certo, accidenti.» Le tocco il bicchiere con il mio e
butto già la tequila.
Bec non beve. Mi fissa e basta.
«Che c’è?»
«Ti amo anch’io» confessa, e il mio cuore salta un intero battito.
Becca butta giù il suo shot. Le fa lacrimare gli occhi, così prende una
fettina di lime e la succhia, mentre i suoi begli occhi mi guardano.
«Sto per prendermi una insta-sbronza, quindi ti prego di notare che
l’ho detto mentre ero ancora sobria.»
Sono ancora su di giri, ma scoppio a ridere immediatamente.
«Insta-sbronza?»
«Già. Mi è permesso di nuovo di bere. Ma la mia tolleranza ormai
è andata.»
«E allora vieni qui e dammi un bacio, prima che la tequila colpisca
la tua capacità motoria.»
Becca mi si lancia in braccio così in fretta che quasi perdo
l’equilibrio. La prendo tra le braccia e la tengo stretta. Mi dà un bacio
al lime e sorrido contro le sue labbra.
«Scusa» dice tra un bacio e l’altro. «Scusa se ti ho urlato contro.
Scusami se ho dato di matto per le spese mediche.»
Aveva ragione su quelle, in effetti, perché davvero avrei dovuto
parlargliene prima. Glielo dirò più tardi, però, in questo momento
sono troppo occupato a leccarle la bocca e a dimostrarle quanto mi
sia mancata.
Becca restituisce il sentimento con baci insaziabili, il suo corpo
stretto al mio.
Le mie mani si affaccendano sul tessuto di maglia del suo vestito
viola delle partite. «Mmm» borbotto contro le sue labbra. È tempo di
sesso riparatore, proprio qui sul divano. Le sollevo il vestito e le
afferro il sedere. Siamo a giugno, quindi non porta calze. Cazzo,
adoro l’estate. La mia mano incontra solo mutandine di pizzo e pelle.
Becca geme, le sue dita setacciano i miei capelli.
«Abbassami la cerniera» le ordino.
Trova la patta e le succhio delicatamente il collo mentre si adopera
per tirare fuori il mio uccello. Giuro su Dio, un giorno o l’altro farò del
sesso ozioso con questa donna. Ma non sembra mai il momento
giusto per andarci piano. Il sesso con Rebecca è sempre veloce e
frenetico, e penso che a entrambi piaccia così.
Dita lisce si infilano nei miei boxer e mi accarezzano.
«Cazzo, sì.» Le infilo un dito sotto le mutandine e geme. È così
morbida. E mentre la sollecito, le mie dita si bagnano in fretta.
Che veloce e frenetico sia, allora.
«Via le mutandine» ordino, strattonandole con decisione.
Becca si tira su solo per il tempo necessario a toglierle.
«Ecco la mia ragazza» ansimo. Mi abbasso i pantaloni di qualche
centimetro e il cazzo la saluta, mettendosi sull’attenti come un
soldato a rapporto.
Le sue mani cercano i bottoni della mia camicia, ma non ho più
pazienza. Me la tiro addosso e finisce sopra di me, le ginocchia lisce
ai lati delle mie gambe. Allora me lo prendo in mano, lo metto in
posizione e la tiro giù, impalandola.
«Ah» piagnucola. «Sììì.»
La zittisco con un bacio che è tutto lingua e ambizione. Le tiro su il
vestito e scopro un reggiseno di pizzo che mi strappa un gemito.
Così scosto il vestito e la guardo. «Sei perfetta, cazzo» biascico,
muovendo i fianchi e mandando in giro le mani. «E così sexy da
farmi perdere la testa.»
«Perdila, allora» mi esorta, la sua voce resa densa dal desiderio.
Mi mette le mani sulle spalle e comincia a muoversi.
Ed è perfetto.

Mangiamo empanadas riscaldate nel mio letto alle due di mattina.


«Allora, l’hai vista?» chiede Becca, leccando via un po’ di grasso
dalla punta delle dita. Indossa la mia maglietta di Star Trek ed è così
carina che mi viene voglia di scoparmela di nuovo.
«Chi?» chiedo, distratto dall’immagine dell’Enterprise tesa sulle
sue tette.
«Stai scherzando, vero? Juliet.»
Non stavo affatto scherzando, invece. Avere Becca di nuovo tra le
mie braccia mi ha fatto dimenticare i miei problemi. «No, non l’ho
vista. Non era detto, però, no? Le squadre non si mescolano mai per
davvero.»
«Grazie a Dio.»
Scrollo le spalle. «Già mi devo sorbire il culo di Bart a ogni partita.
Con tre gol, finora è il miglior marcatore per questa serie. Quanto
vorrei metterlo sotto con la Zamboni.»
«Pensi che sia ancora vegano?» Sorride, sfacciata.
«Ma come fai a ricordartelo?» Avevo chiuso fuori tutto di quel
periodo. Tranne la rabbia.
«Abbiamo blaterato del fatto che fosse una compagnia di merda a
cena. Ricordo tutto di quella sera, compreso l’averti messo su un taxi
dopo che ci siamo ubriacati. La metropolitana girava tutta, mentre
tornavo a casa.»
«Mi sembra passato un secolo.» Anche perché, ora come ora, non
riesco a ricordare un momento in cui non fosse Becca quella che
volevo nel mio letto. «Sarebbe troppo ottimistico da parte mia
chiederti di prendere in considerazione l’idea di vedere con me gara
5 a Dallas?»
La sua espressione si addolcisce. Mette via il piatto. «Sarei felice
di essere la tua accompagnatrice per gara 5. Solo che non ci sarò.
Poco fa ho chiesto a Heidi Jo di andare a Dallas al posto mio,
perché alla fine ho ripreso la terapia e il dottor Armitage vuole
vedermi lunedì mattina.»
Resisto all’istinto di commentare il suo ritorno in terapia, anche se
ne sono contento. «Non importa se non sei sul jet della squadra»
sostengo. «Io prenderò il Gulfstream lunedì pomeriggio. Verresti con
me. E non per lavoro. Sarebbe un appuntamento. Se sei pronta. Ma
senza pressioni.»
Rebecca sgrana gli occhi. Espira. «Be’, okay. Andata.»
«Pensaci, comunque» le dico tranquillamente. «Se non sei pronta,
capirò.»
«Voglio venirci» afferma, decisa. «Ci sto se ci stai anche tu.»
Mi avvicino, annullando la distanza che ci separa, e le bacio il
collo.
Passa un’altra ora prima di andare a dormire.
28

13 giugno, New York

NATE e io andiamo avanti come adolescenti arrapati per tutto il


fine settimana. Ma poi il lunedì arriva, come succede sempre. Dopo
l’appuntamento dal medico, ho qualche ora per me prima di
incontrarmi con Nate al LaGuardia per il volo per Dallas.
Via alla crisi abbigliamento.
Mi ritrovo da Bloomingdale a chiedermi cosa dovrebbe indossare
lo zuccherino al braccio di Nate la sera della partita. Ogni volta che
la telecamera taglierà su Nate per una sua reazione, sarò inquadrata
anch’io. O inquadrata a metà. Una tetta o l’altra sarà in prima serata.
Chiedo di provare ogni sciarpa di seta che abbia un punto di viola
simile a quello dei Brooklyn Bruisers. Mi guardo allo specchio e le
scarto una per una. Non indosso mai sciarpe, perché mi fanno
sembrare il seno ancora più prosperoso di quanto già non sia. Non
dovrei avere questa crisi di abbigliamento. Non dovrebbe importarmi
che le telecamere zoomino su Nate e la sua compagna ogni volta
che Brooklyn segna. Non dovrei chiedermi come dovrebbe essere la
ragazza di Nate. Ma è difficile non paragonarmi alla tonica, bionda
Juliet, allenatrice di fitness delle star.
E uscire con Nate non può trasformarmi in una a cui stanno bene
le sciarpe.
Lasciatami alle spalle una commessa frustrata, prendo la scala
mobile fino al piano dei capi firmati che visito raramente. Faccio un
giro, ma è tutto troppo estivo per la pista. Finché non scorgo in un
angolo capi fuori stagione in saldo. E ci trovo – non scherzo – i
cardigan di cachemire. Non ce ne sono tanti come nel sogno che
stavo facendo quando Nate mi ha svegliato in quella fatidica notte in
Florida, ma tanto non me ne servono centinaia, solo uno.
E lo trovo proprio nella giusta tonalità melanzana.
È destino, devo comprarlo per forza. Inoltre, il mio conto non è più
in rosso, dato che Nate ha cancellato il mio debito sanitario.
Per di più, dato che si tratta di me, non posso lasciare il negozio
senza aver visitato il reparto lingerie. Vago per le corsie chiedendomi
quali ritagli di seta o pizzo istigheranno in Nate l’espressione che
esibisce quando mi spoglio – quella di un cagnolino con la lingua di
fuori. Trovo delle mutandine di pizzo rosa tenue che non
nascondono nulla, e un reggiseno abbinato.
Poi vado a casa a vestirmi e a preparare le valigie.

Ho pensato che sarebbe stato strano volare con Nate come


compagna, invece che come assistente, ma non è così. Non ancora,
comunque. Tanto per cominciare, c’è anche Lauren. Non era
previsto, ma è venuto fuori che la storia con Beacon, il portiere,
continua, così ha chiesto a Nate se poteva venire a vedere la partita.
«Possiamo finire questi report durante il volo» dice, sistemando il
suo portatile sul tavolo del Gulfstream.
«Tu sei fuori di testa, ragazza» commento, sedendomi su uno
degli ampi sedili reclinabili in pelle. Non ho giustificato la mia
presenza a Lauren, né lo ha fatto Nate. Mi chiedo quanto tempo le ci
vorrà per chiederlo.
Con Lauren di spalle, Nate mi accarezza i capelli. Mi sorride di
nascosto e va a sedersi di fronte a lei.
Passo il volo a sfogliare una rivista di Vanity Fair e a oziare. Non
ricordo neanche quand’è stata l’ultima volta in cui non avessi niente
da fare. Ma quando ho rassicurato Heidi Jo che sarebbe stata in
grado gestire tutto durante la serata a Dallas, mi sono imposta di
lasciarle fare il suo lavoro a qualunque costo. È ancora iper
espansiva e parla sempre troppo, ma in qualche modo riesce a
portare a termine i suoi compiti. I miei ragazzi sono in buone mani in
questo momento. Se avesse un problema che non riesce a risolvere,
sono sicura che riceverò un messaggio.
L’assistente di volo mi porta una spremuta d’arancia in un
bicchiere di cristallo e una ciotolina di mandorle tostate. Poi mi
consegna un cartoncino su cui è stampata in eleganti caratteri la
password del Wi-Fi. «Posso portarle altro? Libri e riviste sono nella
tasca del sedile laggiù...» Indica l’altra poltrona reclinabile. «La cena
sarà servita tra un’ora.»
Bene, quindi ci sono un paio di piccoli vantaggi nell’essere la
ragazza di Nate. «Per ora sono a posto» le dico. «Grazie.»

Quando atterriamo a Dallas, c’è una limousine in attesa


sull’asfalto. È così che si viaggia con Nate. La macchina ci porta
subito allo stadio. Incontriamo traffico, ma arriviamo comunque
all’ingresso dello stadio prima che venga scodellato il disco.
Neanche si apre la porta che Heidi Jo inizia subito a parlare. Sta
farfugliando di aver ottenuto all’ultimo minuto una camera d’albergo
in più per Lauren e della bella lavata di testa che ha dato allo staff
del campo quando hanno cambiato l’orario per il riscaldamento dei
nostri ragazzi.
Ma la escludo totalmente nell’istante in cui raggiungiamo la tribuna
aziendale, perché Nate mi prende per mano e mi guida verso un
paio di posti centrali. Come se lo facessimo ogni giorno.
Il mio battito cardiaco accelera, quando faccio scivolare il palmo
contro il suo e stringo.
Ci sto, gli avevo detto. Via l’imbarazzo.
E così è. Subito.
«Rebecca!» mi accoglie la madre di Nate. «Che piacere vederti!»
Le rivolgo un gigantesco sorriso, con più sicurezza di quanta ne
stia provando in realtà. «Salve, Linda! Pronta per gara 5?» Poi
trattengo il fiato, chiedendomi se sia il tipo di madre per la quale
nessuna donna sarà mai abbastanza per il suo bambino. Ma non
lascio andare la mano di Nate. Anzi, la stringo. Lui ricambia la stretta
e saluta suo padre.
Osservo lo sguardo della signora Kattenberger posarsi sulle
nostre mani unite. Poi spalanca gli occhi.
E poi? Sorride come se avesse ricevuto un premio da Oprah.
«Prontissima» risponde. «Facciamolo. Sedetevi, prendo una birra
per tutti.»
La guardo trotterellare fino al tavolo delle bevande e un po’ di
tensione al petto si allenta. A quanto pare, la madre di Nate non sarà
un problema. Fuori uno. Ora manca solo il resto del mondo.
Le due ore successive non sono rilassanti. I nostri ragazzi fanno
faville, ma Dallas non rinuncerà alla partita senza combattere. Mi
dimentico di comportarmi come lo zuccherino al braccio di Nate e mi
metto a urlare contro l’arbitro. «Bastonata!» strillo durante il secondo
tempo. «Sono minimo due minuti di penalità!»
Nate ridacchia, senza distogliere gli occhi dal ghiaccio. Sorride,
nonostante la mancata penalità assegnata a Dallas! Tutti lamentano
sempre lo stoicismo di Nate quando guarda l’hockey. Stasera, però,
scopro quanto sia peggio stargli seduti accanto. Io ho la schiuma alla
bocca e lui sorseggia con calma la sua terza Diet Coke.
Sua madre chiacchiera un po’ durante gli intervalli, ma io sono
così su di giri che non vado oltre domande generiche su come sta.
Annuisco e sorrido in tutti i momenti giusti. O almeno spero.
La mia squadra è a due partite e mezza dal vincere la coppa e
non riesco a contenere la mia energia nervosa.
La partita termina in parità e io sono completamente fuori di testa.
Finché Trevi fa un gol ai supplementari e ogni tifoso di Brooklyn
presente a Dallas salta in piedi per la gioia.
«Alèèè!» urlo. «Grazie, Gesù Bambino!»
Nate ride e poi mi placca in un abbraccio.

Dopo la partita, accompagno i genitori di Nate a una macchina.


Alloggiano in un albergo diverso da quello della squadra. E, non
vorrei sbagliarmi, ma l’abbraccio della signora Kattenberger è
strettissimo. «Ciao, tesoro. Spero di rivederti presto» mi saluta.
Sono ancora troppo sovreccitata per entrare nella limousine in
attesa. Ci sarà una festa improvvisata nella hall dell’hotel e l’idea mi
rende ansiosa. «Possiamo tornare a piedi?» chiedo. «Sono solo due
isolati.»
«Certo» risponde subito Nate. Mi prende la mano e ci mettiamo in
strada. La limousine ci segue, naturalmente. Gli uomini della
sicurezza di Nate sono sempre vigili. Un giorno mi ci abituerò, vero?
«A questa festa...» Non so come formulare la mia richiesta in un
modo che non permetta a tutte le mie nevrosi di scoppiare in una
volta sola.
«Non ti ficcherò la lingua in gola, se è questo che ti stai
chiedendo.» Nate mi stringe la mano. «So che preferisci far abituare
tutti gradualmente.»
«Giusto! Esattamente. Non voglio dare scandalo. Quello dopo. In
privato. Quando vedrai la mia nuova lingerie.»
Nate si ferma bruscamente sul marciapiede. «Nuova lingerie?»
«Puoi scommetterci. E stasera abbiamo vinto, quindi la laverò con
cura e la indosserò di nuovo per gara 6 e 7. È la mia biancheria
portafortuna. Ovvio.»
«Ovvio.» Il sorriso di Nate è divertito. Mi prende il viso tra le mani
e scuote la testa. «Farò in modo che la tua biancheria intima porti
fortunata a te il prima possibile. Forse riusciremo a sgattaiolare via e
saltare la festa.»
Non possiamo, e lui lo sa. Ma proprio lì, sotto un lampione, mi
bacia comunque in modo molto appassionato.
Mi aggrappo alle sue spalle e sospiro mentre mi assapora. È il tipo
di bacio che mi fa capire che stasera è importante per lui.
E anche per me.
È la notte in cui supero me stessa e mi godo Nate senza
preoccuparmi di cosa questo significhi.
Sospira e si stacca. «Il bacio dovrà trattenermi per un’ora, credo.»
Percorriamo il resto della strada fino al Ritz e Nate mi lascia la
mano per seguirmi attraverso la porta girevole. Dopo non la
riprende, probabilmente per rendere più semplice agli altri abituarsi
alla relazione tra noi.
«Ehi!» Castro e Trevi chiamano da un’area delimitata da cordoni
all’estremità del bar della hall. «Guarda chi c’è.»
Non so se si riferiscono a me o a lui. Nate ha di nuovo saltato la
conferenza stampa. Lo avrei fatto anch’io, al suo posto.
«Ottimo lavoro stasera, ragazzi» si complimenta, e quelli ululano
in risposta. Ci spostiamo più avanti nella zona del bar e tra i giocatori
cala il silenzio man mano che il proprietario della squadra si
avvicina. Lui e coach Worthington sono gli unici due uomini che
riescono a ottenere un silenzio totale negli spogliatoi solo facendosi
vedere.
«Quest’uomo ha bisogno di una birra» dichiara O’Doul,
richiamando il barista.
«Due» lo corregge Nate. Cerco di non arrossire quando la passa
prima a me e poi ne prende una per sé. «Offro un giro, ragazzi»
annuncia tra altri applausi. «E ci sono un paio di cose che voglio
dirvi.»
«Discorso! Discorso!» grida Leo Trevi.
Nate sorride e beve un sorso della sua birra. «Prima di tutto,
voglio ringraziarvi per aver partecipato alla mia pluriennale
cospirazione top secret per vendicarmi di un giocatore di hockey di
Dallas. Quelli di voi che hanno partecipato, riceveranno i loro
assegni bonus non appena vinta la Stanley Cup.»
Un bonario coro di risate scoppia nel bar.
Nate sorseggia la sua birra e aspetta che si spenga. «Ora,
parlando sul serio, non è mai divertente quando la propria vita
personale viene sbandierata dagli organi di stampa, ma la gente ha
preso a schiaffi la nostra squadra fin dall’inizio: troppo giovani,
troppo arroganti, il riposizionamento della squadra sarà un
fallimento… Avete fatto un gran bel lavoro nell’ignorare quelle
chiacchiere e nel concentrarvi su ciò che conta davvero.»
I giocatori e le famiglie applaudono e io sento un piccolo sfarfallio
nel petto. Concentrarmi su ciò che conta davvero è anche in cima
alla mia lista delle cose da fare.
«L’articolo sul Post, comunque, era tutto sbagliato» aggiunge
Nate. Fa un sorriso diabolico e mi chiedo se stia per aggiungere
“non erano a letto, ma sul tavolo della cucina”. Invece, no. «Ho
comprato una squadra di hockey perché volevo vedervi spaccare
culi sul ghiaccio. E, contrariamente a quanto riporta la stampa, vorrei
ringraziare personalmente Bart e Juliet Palacio per il loro intervento
nella mia vita personale. Perché se non si fossero trovati a vicenda,
io non avrei mai avuto nella mia vita la magnifica donna che mi sta
accanto.»
Il mio cervello sta ancora elaborando quella frase quando Nate si
fa da parte, mi mette un braccio intorno alla vita e mi bacia sulla
guancia.
Il bar esplode. Georgia e Lauren strillano all’unisono e sento
distintamente il “cazzo, cosa?” di Castro e la risata improvvisa di
O’Doul.
Strano, giurerei anche di aver sentito più di qualche “Oh, era ora”.
Il mio corpo avvampa a quell’inaspettata attenzione. Provo un
breve istante di terrore e disagio, ma poi prendo coscienza che quasi
tutti mi guardano raggianti. Qualcuno chiede dello champagne e,
dato che siamo al Ritz, bastano pochi secondi e sento saltar via i
tappi di sughero.
Allo scroscio di applausi, faccio scivolare un braccio intorno alla
vita di Nate. E gli do un pizzicotto. «Che fine ha fatto il farli abituare
gradualmente?» borbotto.
«Offro da bere, eh. Quello fa abituare a tutto.»
Leo Trevi sale su uno sgabello da bar con un boccale in mano e,
con un cucchiaio, inizia a battere sul vetro. «Bacio! Bacio!»
«Oh, Cristo» borbotto. Poi appoggio una mano sul petto di Nate e
mi alzo in punta di piedi. Bacio il sorriso di Nate una volta sola, ma lo
trasformo in un bel sorriso. Poi punto il dito a pistola contro Leo Trevi
e tolgo la sicura. «Tutto qui. Fine dello spettacolo. Chiedilo di nuovo
e il tuo bagaglio andrà smarrito nel volo di ritorno.»
«Cazzo» impreca, saltando giù. E tutti ridono.
29

17 giugno, New York

Tornati a Brooklyn, perdiamo gara 6 a quei cavolo di rigori.


Potrebbe succedere a chiunque. I miei ragazzi hanno giocato bene
per tutta la partita. Sicuri di sé. Ma non basta per finire la serie.
Quindi dovremo farlo in gara sette. È così che stanno le cose.
Ma sono distratto. Non vorrei fare altro che guardare gli
allenamenti e ascoltare coach Worthington elargire le sue burbere
perle di saggezza.
Siamo così vicini. Riesco a sentirne il sapore.
Tanto per complicare le cose, i miei consulenti se ne escono con
un terzo offerente per la divisione router. È sbucato dal nulla un
produttore di hardware che vuole superare la concorrenza per
questa unità di business.
Stew alza gli occhi al cielo quando gli do la notizia. «Se avessi già
deciso, non avresti questo problema, pezzo grosso.»
Ma non mi dire.
Ma la mia indecisione non è l’unico problema. Di nuovo solo nel
mio ufficio, prendo il telefono e digito il numero di Alex. «Ehi, tu,
senti. Voglio fare questa transazione con te, ma dobbiamo muoverci
in fretta. E devi farti vedere, perché c’è una nuova complicazione.
Per l’amor di Dio, richiamami, così non dovrò mettere la tua foto sul
cartone del latte.»
Nell’ufficio esterno, Lauren è impegnata a programmare altre
riunioni, alle quali sono troppo distratto per partecipare, e a ordinare
il pranzo per evitare che mi trasformi in un moccioso petulante per il
calo di zuccheri. Fuori dalla mia finestra, l’ampia vista sullo skyline di
Manhattan è oscurata da pesanti nuvoloni. È un piovoso giorno di
giugno e la stagione di hockey è a una sola partita dalla sua
eccitante conclusione.
E sto per passare diverse ore ad ascoltare il brusio dei contabili.
Uccidetemi ora.
Sto finendo una grande ciotola di noodles piccanti quando sento
un colpetto sulla porta. «Avanti, soprattutto se sei Rebecca.» Poco
fa mi ha detto che aveva delle commissioni da sbrigare a Manhattan
e che forse avrebbe fatto un salto verso mezzogiorno.
«Scusa» esordisce una voce femminile, ma non è di Rebecca.
Quando la porta si apre, appare il volto di Alex.
«Ehi!» Mi alzo in piedi perché anche questa è una buona notizia.
«Finalmente! Come va?» Getto il resto del pranzo nel cestino
accanto al tavolo.
Alex mi rivolge un sorriso tirato. Chiude la porta dietro di sé e va
alla sedia di fronte alla mia scrivania. «Nate, sono qui per rovinarti la
giornata.»
«Cosa?» Le donne mi hanno spesso rovinato la giornata in
passato, ma raramente sono state così dirette al riguardo. «Be’,
perlomeno togliti prima la giacca. Oppure... usciamo a prendere un
caffè?» Mi farebbe comodo un espresso per superare le riunioni di
oggi.
Scuote la testa lentamente. È tesa come non l’ho mai vista. Se
fossimo in una puntata di Sherlock, scommetterei che ha una bomba
legata addosso sotto l’impermeabile.
«Sputa il rospo, amica mia» la incoraggio. «Cosa c’è che non
va?»
«Sono incinta. Ma probabilmente il bambino non è tuo.»
Sei volte.
Ecco quante volte mi sono ripetuto nella testa questa frase per
essere sicuro di aver sentito bene. Sento il sangue defluirmi dal viso.
Eppure, in qualche modo, riesco a concentrarmi sul fatto che ciò che
dirò in questo momento è fondamentale. Non mi metto a urlare “È
successo una volta sola in dodici anni, e abbiamo usato il
preservativo!”. Non grido affatto.
«Incinta» ripeto con cautela. Ma probabilmente non è mio, ha
aggiunto.
“Probabilmente” significa che ne è sicura al 51%. Oppure – se
sono fortunato – ne è sicura per più di tre deviazioni standard. In
qualche modo, riesco a non dare voce a questa domanda.
«Congratulazioni» aggiungo con delicatezza. Poi aspetto ulteriori
informazioni.
Alex mi offre un altro sorriso tirato. «Ti conosco abbastanza bene
da sentire i tuoi ingranaggi che girano. Sono... sicura all’88% che
non sia un tuo problema. Per un po’ sono uscita con Jonah, dopo
che noi...» Si schiarisce la gola. «Ma devo chiederti un favore. Prima
di avvicinare lui, devo escludere te.»
«Escludere me» ripeto come uno stupido.
Chiude gli occhi e li riapre. «Con un test di paternità, Nate.»
«Ah. Okay» rispondo in fretta. «Tutto ciò che serve.»
«Respira, Nate. Tu non c’entri. Ma ho comunque bisogno del tuo
aiuto.»
C’entro ancora per il dodici per cento, però. «Sto bene» dico.
«Dimmi cosa devo fare.»
Alex tira fuori dalla borsa una scatoletta blu con una grossa scritta.
La si potrebbe confondere con una nuova marca di dentifricio, se
non fosse per l’appariscente etichetta che recita “Test di paternità”.
«Ho bisogno che tu lo faccia, anche se le probabilità sono
scarse.»
Il mio cervello si riconnette, mentre la guardo aprire un’estremità
della confezione. «Hai bisogno di chiederlo a me perché non puoi
chiederlo a lui?»
Le sue dita si bloccano sull’involucro di cellophane. «Non voglio
parlarne con lui, se non sono sicura di doverlo fare. Non è una brava
persona.»
«Oh, merda, Alex.»
Le si arrossano gli occhi. «Lo so, okay? Lo so. Quest’anno ho fatto
più errori di quanti ne possa contare. Questa è in assoluto l’ultima tra
le conversazioni che avrei voluto avere con te. Ma anche se sono
abbastanza sicura che tu sia fuori dai guai, una parte di me vorrebbe
il contrario. Non posso avere un figlio da un uomo che mi ha
picchiata.»
Mi va di traverso l’aria e mi strozzo. «Picchiato? Quante volte è
successo?»
Scuote la testa. «Ti assicuro che l’unica volta che l’ha fatto è stata
anche l’ultima in cui ci siamo trovati nella stessa stanza. Stava con
me solo per arrivare a mio padre.»
«Oh, merda» ripeto. Il padre di Alex è un famoso capitalista. Ci
sono un sacco di teste di cazzo che cercano una scorciatoia per
avvicinarlo.
«Gliel’ho detto in faccia e mi è arrivato un manrovescio. E lì è
finita. Fino a ora.»
«Quindi...» Già so come andrà a finire. «Se il bambino è suo,
finirai comunque per finanziare la sua startup, in cambio di qualche
documento legale che attesti la sua rinuncia alla patria potestà.»
Annuisce, e dalla sua espressione trapela una stanchezza che
non avrei mai voluto vedere sul volto della mia povera amica.
«Mi dispiace» ripeto di nuovo. Tra noi cala un silenzio carico di
tristezza. «Fammi capire una cosa, visto che non sono bravo a
cogliere i segnali. Non sei qui per discutere della transazione della
divisione router?»
Alex strabuzza gli occhi e poi sorride. Finalmente. «Coglione.»
Ridendo sotto i baffi, mi alzo dalla sedia e giro intorno alla
scrivania. Mi chino e la abbraccio. «La supereremo, amica mia.
Andrà tutto bene.»
Alex preme il viso contro la mia spalla e fa un respiro profondo e
incerto.
30

Salire al piano dirigenziale per la prima volta dopo due anni è uno
sballo. È tutto esattamente com’era, dai pesanti tappeti
d’importazione alla macchinetta dell’espresso nel cucinotto.
«Ehi!» mi sorride Lauren dalla sua scrivania fuori dall’ufficio
privato di Nate. «Come sei chic.»
Un complimento da Lauren. È uno sballo ancora più
dell’arredamento immutato. «Grazie» dico un secondo troppo tardi.
Lauren è cento volte più sorridente del solito. O ha subito una
lobotomia o tornare insieme a Mike Beacon le ha fatto bene.
«Nate sta scambiando due parole con Alex Engels. Vuoi che lo
avverta che…?» Non appena me lo propone, però, la porta
dell’ufficio di Nate si apre e compare Alex. Batte le palpebre,
sconvolta, quando mi vede lì. Apre la bocca e poi la richiude. Infine,
abbassa la testa e se ne va.
Tre secondi dopo, è completamente sparita dalla vista, nascosta
dalla banchina dell’ascensore.
«Cosa?» esordisco stupidamente. «Un po’ strana o sbaglio?»
«Direi.» Lauren alza le spalle. «È scappata via, eppure non vedo
incendi.» Poi indica la porta. «Entra pure. Non ha riunioni per la
prossima mezz’ora.»
«Grazie.» Entro nell’ufficio, ma Nate non mi vede. È di spalle.
Fermo davanti alle finestre terra cielo con le mani dietro la nuca. Una
posa molto maschile. Non riesco a immaginare cosa stia guardando,
dato che là fuori c’è una nebbia così fitta che non si vede neanche il
fiume.
Chiudo la porta dietro di me con un piccolo clic. «Nate?»
Si gira di scatto. E il suo viso è… sofferente. Non mi viene in
mente un’altra parola. Ha la fronte aggrottata e le rughe profonde
suggeriscono che è preoccupato.
«Ciao» lo saluto a bassa voce, avvicinandomi alla scrivania.
Non risponde, ma in quattro falcate gira intorno alla scrivania e mi
raggiunge. Il suo bacio è un tornado sbucato dal nulla. Rapido e
feroce.
Mi ci vuole un attimo per entrare in gioco, ma un bacio così
famelico non può andare sprecato. Alzo il mento e rispondo al fuoco.
Gli afferro la nuca per incoraggiarlo.
Nate emette un verso basso e ingordo dal profondo del petto. Lo
sento ovunque. Rimbomba nello stesso angolo buio del mio
subconscio dove vivono le mie fantasie più sfrenate. Dev’essere per
questo che interrompo il bacio e faccio una cosa che non avrei mai
pensato di fare nella vita reale: allungo la mano e premo il pulsante
sulla scrivania di Nate per chiudere a chiave la porta.
I suoi occhi fiammeggiano e ha il petto ansante, come se avesse
corso dieci chilometri sul tapis roulant nell’angolo.
E poi mi attacca. Non c’è altra parola che si addica al suo assalto.
Le sue mani e la sua bocca sono dappertutto. Con il retro delle
ginocchia, urto il divanetto e ci cadiamo sopra.
Il petto di Nate è una parete di calore e la sua bocca è ovunque:
collo, mandibola, gola. Sono sopraffatta da lui e questo mi dà alla
testa. Quando mi porta la mano tra le gambe, serro le cosce per
l’aspettativa.
Ciò che sta accadendo è sorprendentemente vicino alle mie
fantasie, se non fosse che… «Nate?»
Grugnisce in risposta infilandomi la lingua nell’orecchio.
«Tutto bene?»
«No.» Mi tira su il vestito. Per qualche motivo, ho ancora i tacchi ai
piedi. Spero che non si pugnali da solo. «Ho bisogno di te» mi dice
con voce roca.
«Prendimi» annaspo.
Circa due secondi dopo, mi ha tolto gli slip e una scarpa. Se lo tira
fuori con la stessa frenesia di chi fugge da un edificio in fiamme. Mi
prende la gamba libera, mettendosi il mio ginocchio sotto il braccio,
e mi penetra con un’unica lunga spinta.
Solo allora si ferma. E finalmente mi guarda negli occhi. I suoi
sono splendidi e scuri e preoccupati. Gli rivolgo il sorriso più bello
che riesco a imbastire, anche se sono senza fiato e leggermente
attonita. Espira lentamente, appoggiandosi sugli avambracci. E
guadagno un altro bacio. Più morbido, ma non meno urgente. Le
nostre lingue si toccano, i denti urtano appena.
«Sì» ansima, muovendosi dentro di me.
La mia pelle si infiamma e poi si accappona. Non ho mai provato
così tante emozioni in così breve tempo. Il suo ritmo è incessante.
È bellissimo, ansante nel suo completo, e un leggero luccicore di
sudore gli vela la fronte. «Bec» geme.
Lo stringo a me con tutto il corpo ed emette il verso di una bestia
torturata. È selvaggio e disperato, e Dio solo sa perché quel suono
mi manda in orbita. Un minuto dopo, però, mi sto mordendo la lingua
per non gridare e sussulto sotto di lui.
Solo a quel punto Nate sembra lasciar andare qualsiasi cosa lo
stia tormentando. Si punta sugli avambracci e affonda il viso nel mio
collo. «Cazzo» sussurra, rallentando le spinte. Lo sento contrarsi e
scuotersi. Poi, finalmente, si rilassa.
Segue il silenzio. Cerchiamo di regolarizzare il respiro, ma non è
facile.
«Scusa» dice ancora, le labbra contro la mia pelle.
«Non ti scusare» sussurro immediatamente. «È stato alquanto
eccitante.»
«No… lo so… è che…» Impreca. «Scusa per i problemi che ti sto
per creare. E per averti inchiodato sul divano prima ancora di darti
spiegazioni.»
Con mano pigra gli accarezzo la testa. «Cosa può esserci di così
brutto dopo questo?»
Aspetto che rida, perché Nate ride sempre quando siamo a letto.
Si alleggerisce e il suo sorriso diventa quello di un ragazzino.
Oggi, però, non succede. Si libera con un sospiro. Poi, di fatto, mi
tira su e mi posa sul tappeto. «Ti ho ridotto a un casino.» Mi alliscia
la gonna. «Avevi pure un bel vestito.»
Mi guardo, perché avevo dimenticato di essere tutta in tiro e che
ero andata lì per spiegare la mia visita a Manhattan. Ora, tuttavia,
penso che possa aspettare. «Dimmi che succede.» Ha la camicia
storta, così gliela sistemo mentre lui si chiude i pantaloni.
«Sediamoci.» Guarda il divano con trepidazione. «Ehm, vieni qui.»
Va a prendere una delle poltroncine degli ospiti e la gira di fronte al
sofà.
Approfitto di quel momento per recuperare gli slip e infilarli.
Individuo le scarpe e mi siedo.
Siamo faccia a faccia e Nate mi posa le mani sulle ginocchia.
«Ricordi quando ti ho detto che non ero poi così complicato? Giuro
su Dio che lo pensavo davvero. Ora devo confessarti una cosa.»
Mi si rivolta lo stomaco: il suo sguardo è davvero brutto.
«Alex è incinta di due o tre mesi e ha bisogno di escludermi.»
«Incinta?» Mi ritiro sulla poltrona come se mi avesse dato un
pugno. «Di…» Non riesco neanche a ripeterlo, ma non riesco,
invece, a trattenermi dallo sputare fuori ciò che ho nella testa. «Ti
avevo chiesto se c’era qualcosa tra voi. Hai detto che lo avevate
fatto una volta sola e ho pensato che fosse accaduto al college.»
La sua vergogna è immediata. «È successo una volta sola.» Mi
stringe il ginocchio. «E sul quando… era quello che volevo farti
pensare. Non volevo che sapessi quanto fossi stato stupido quella
sera di marzo.»
Non sta mentendo, mi fa notare quel mio stupido cuore
speranzoso. «Quindi potresti avere un figlio da Alex» sussurro.
«È una leggerissima probabilità, ma aveva bisogno di controllare.
È molto più probabile che il padre sia l’altro. Un uomo che l’ha
picchiata.»
Resto a bocca aperta. «Figlio di puttana.»
«Già.» Nate si inumidisce le labbra. «Sono... ehm… attonito
anch’io. E incazzato con me stesso. Non era così che volevo
andasse il nostro primo anno insieme.»
«Se fosse tuo,» chiedo, «che farai?»
Nate fa spallucce. «Ho avuto questa notizia appena cinque minuti
prima che entrassi tu. Non ho idea di cosa succederà. Vorrei essere
presente, se fosse quello che vuole anche Alex. Con il bambino. Non
con Alex. Io amo te, e questo non cambierà mai.»
Faccio un profondo respiro e poi lo rilascio. Non ho sentito quello
che Nate ha detto ad Alex. Scommetto che non è stato un discorso
facile, ma scommetto anche che Nate è stato gentile e un buon
amico. Quindi posso esserlo anch’io, no? Giusto? Per quanto mi
faccia ribrezzo l’idea di Nate che spoglia Alex appena poche
settimane prima di spogliare me, posso comportarmi da adulta.
«Porca miseria, pivello» esclamo. «Scopi una volta sola e arriva il
test di paternità?»
«Già.» Il suo sguardo è ancora imbarazzato. «Quando faccio un
errore, lo faccio in grande.»
«Oh, Nate» ridacchio, ma molto probabilmente a causa dello
stress. «Mi dispiace. Povera Alex. Povero te.»
«Me la caverò. Non mi avrebbe nemmeno scosso più di tanto, se
non ce la stessi mettendo tutta per convincerti di essere un buon
partito.»
«Davvero?»
«Cercare di convincerti? Sempre.»
Ooh. «Tu sei un buon partito. Certo, se tu e Alex finirete per avere
un figlio insieme, io sarò incredibilmente gelosa.» Ecco, l’ho detto.
Si protende a stringermi in un abbraccio. Mi posa un bacio sulla
mandibola e mi sussurra «Preferirei di gran lunga averlo da te.»
Non dico nulla, perché ci siamo avventurati in un territorio delicato.
Mi appoggio a lui, comunque, per fargli capire che l’idea attira anche
me.
«Becca, mi ci sono voluti sette anni per capire quanto abbia
bisogno di te. E non permetterò a nessuno di mettersi in mezzo.»
«Andrà tutto bene» sussurro. Anche se adesso ci toccherà
affrontare gara 7 con il pensiero del test di paternità. «Quanto ci
vorrà per il risultato?»
«Non molto. In effetti…» Mi lascia andare, poi si china a prendere
una busta dal piano della scrivania. «Alex mi ha lasciato questa per
te. Quasi me ne dimenticavo.» Me la passa. Dentro c’è un biglietto.
Rebecca, ti devo delle scuse mostruose. Spero che mi crederai se
ti dico che di solito non sono l’emerita stronza che sono stata in
Florida. Ero terrorizzata all’idea di essere incinta e per ciò che
questo avrebbe potuto significare per tutte le persone coinvolte. Me
la sono presa con te e meriti di sapere il motivo. Il modo in cui Nate ti
guarda è meraviglioso e raro. Ti guarda come se fosse pronto ad
attraversare il fuoco per te. La maggior parte di noi non troverà mai
niente del genere, quindi ti auguro di trovarlo nel tuo cuore e
apprezzarlo. Mi dispiace essere il terzo incomodo che vi complica la
vita in questo momento. Spero che tu possa perdonarmi. A.
«Cosa dice?» chiede Nate, osservandomi con occhi attenti.
Mi si chiude la gola. «Dice che le dispiace. È un biglietto molto
bello.»
«Alleluia. Alex è una buona amica da anni. Non l’avrei mai potuto
sopportare, se non fosse stata carina con te.»
Vedremo, penso.
«Ti va un caffè?» chiede. «Vaffanculo. Penso che manderò all’aria
il resto della giornata.»
«Davvero? Wow!» È la prima volta che gli sento dire una cosa del
genere.
«Ehi… come mai sei qui in centro?» mi chiede.
Scuoto la testa. «Ne parliamo in un altro momento.»
«Spara» mi incoraggia. «Posso sopportarlo.»
«Beh, non sono incinta.»
Sorride. «A quello possiamo rimediare.»
«Spiritoso.» Traggo un profondo respiro. «Okay. Non dare di
matto, ma avevo un colloquio di lavoro.»
Nate sbatte le palpebre. «Un colloquio? Per te?»
«Sì» confermo a bassa voce. «Probabilmente non è il lavoro che
fa per me. Ho fatto solo qualche telefonata e una rapida riunione. Ma
è una cosa che potrei prendere in considerazione.»
Nate appoggia i gomiti sulle ginocchia e si prende la testa tra le
mani. «Bec, mi fa stare peggio questo che quel dodici percento di
possibilità di aver messo incinta Alex.»
Dodici percento. Non mi stupisce che Nate e Alex abbiano
calcolato una percentuale precisa. «Non sto dicendo che me ne
andrò di sicuro. Mi sto solo guardando intorno.» Quel colloquio di
lavoro è stata una cosa improvvisa e casuale. Ho ricevuto una
chiamata da un tipo che vorrebbe mettere su una nuova squadra di
hockey femminile nell’area dei tre stati. Pia illusione, a questo punto.
Ho bisogno di pensarci bene, prima di lasciare i Bruisers.
Nate rialza lo sguardo. «È tutta la tua vita, l’hai detto tu stessa. Tu
ami la squadra.»
«Lo so.» L’ho detto davvero. «Ma amo anche te. Quindi voglio
solo valutare cos’altro c’è là fuori per me e dove potrei andare a
lavorare senza essere la ragazza del proprietario. Magari non
succederà niente, ma voglio almeno provare a considerare l’idea. Te
lo dico adesso, per risparmiarti l’eventuale shock.»
Nate mi porge la mano con il palmo in alto. «Fa’ tutto ciò che ritieni
opportuno. Voglio solo che tu sia felice. Ma prima di concludere, mi
prometti che ne riparleremo?»
Questa è facile. «Promesso.»
«Grazie per essere stata grandiosa.»
«Non sei stato male neanche tu.» Mi sorride proprio mentre la
voce di Lauren nell’interfono lo avvisa che sta per cominciare la
riunione finanziaria.
«Annulla» dice, titubante. «Non mi sento bene e penso che andrò
a casa.»
«Ehm…» Percepisco lo shock nella risposta di Lauren. «Okay. Li
avviso.»
E dopo esserci ricomposti alla meglio nel bagno privato di Nate, ce
ne andiamo mano nella mano.
31

18 giugno, Dallas

La gente mi prende sempre in giro per lo stoicismo con cui assisto


alle partite di hockey. Perché non reagisco in modo visibile a una
grande giocata o a una brutta decisione arbitrale.
Dopo stasera, non lo faranno più.
Mai nella mia vita ho sentito che fosse in gioco così tanto tutto in
una volta sola. La mia squadra. La mia sanità mentale. La mia
autostima. La mia reputazione. Ogni volta che perdiamo il disco,
vorrei dare un pugno in gola a Dallas. E ogni volta che ce lo
riprendiamo, sono euforico.
«Treviii!» strilla Rebecca accanto a me. «Sull’uomo! Occhio a...»
Un difensore di Dallas lo colpisce alle spalle e perde il disco.
Afferro la mano di Rebecca, che fa un altro urletto quando due
giocatori avversari ci si tuffano contemporaneamente. O’Doul sta per
arrivarci. Rebecca praticamente mi sale in braccio per l’eccitazione.
Siamo guancia a guancia e tratteniamo il fiato tutti insieme mentre
O’Doul passa il disco a Castro, che tira...
Urliamo entrambi.
Ci vorranno ore prima di scoprire che qualche fortunato fotografo è
riuscito a immortalare proprio questo momento. Usciremo sui giornali
di tutto il mondo con gli occhi di fuori, come una coppia di Muppet
impazziti.
E nemmeno ce ne importerà niente: il tiro finisce fuori dai pali,
negandoci il gol che ci avrebbe portato in testa.
La sirena suona la fine di un terzo tempo in parità e Becca e io
siamo avvinghiati l’uno all’altra. Lei scivola indietro sul sedile ed
espira, ma io non voglio rilassarmi prima dei tempi supplementari. La
scarica di adrenalina è una droga.
Amo tutto questo. Ogni secondo. Sono agganciato a questo
ottovolante e non voglio scendere mai.
Il palmo della mia mano va a una certa scatolina nella tasca della
giacca. È lì che mi aspetta. Non sono del tutto sicuro che questa
notte offrirà il momento giusto per questa mossa. Ma Rebecca è la
donna giusta e so che non aspetterò ancora a lungo.
Tutto ciò che mi è più caro è in gioco in questo momento. Tutto. E
non cambierei nulla.
Lauren si china tra noi due, posandomi una mano sulla spalla.
«Controlla il telefono, Nate. Alex sta cercando di contattarti.»
Rebecca spalanca gli occhi immediatamente. È rossa per
l’eccitazione del gioco, le sue labbra rosa sono da bacio. «Prendilo»
sussurra. «Vediamo che ci dice.»
Le prendo il mento liscio nella mano. «Lo sai che ti amo, vero?»
Sorride e le accarezzo il labbro con il pollice. «Lo so, grande capo.
Leggi quel dannato messaggio.»
A malincuore, sfilo il telefono dalla tasca e lo sblocco. Tocco
l’applicazione di messaggistica, chiedendomi se ricorderò per
sempre questo momento come quello in cui ho saputo che sarei
diventato padre.
Alex: Nessuna relazione. Sei fuori dai guai. Un abbraccio a Becca.

«Bene» commenta Becca a bassa voce. «Povera Alex.»


La cingo con un braccio, perché è una cosa generosa da dire e
anche perché non riesco a smettere di toccarla. «Scusa per il
dramma.»
«Va tutto bene» dice. «Anche tua madre ti sta mandando un
messaggio.»
L’avevo notato anch’io. «Sta guardando la partita» le riferisco,
mettendo via il telefono. «Scaricherò dopo l’allegato. Vuoi bere
qualcosa?»
«Certo!» Mi rivolge un sorriso. «Una cosa qualsiasi.»
Mi alzo e prendo un paio di bibite. Sono tentato di scendere le
scale e ascoltare il discorso del coach nello spogliatoio per capire la
sua strategia per i supplementari. Ma non lo farò. Non sta al
proprietario andare a ficcare il naso.
Quando torno, Rebecca sta chiacchierando con Stew. Guardo il
suo viso animato mentre discute di hockey con il mio migliore amico.
Stew sembra su di giri quasi quanto me.
Non sopporto l’idea che Becca lasci i Bruisers. Stanotte non ho
praticamente chiuso occhio a furia di pensarci. Me ne stavo lì,
sdraiato a letto, ascoltando il respiro profondo e regolare di Becca, e
mi chiedevo come risolvere il casino in cui mi trovo. O di cui facevo
parte, comunque.
Verso l’alba, ho trovato la risposta. Era così semplice che mi sono
sentito un idiota per non averci pensato prima. Se Becca non si
sente a suo agio a lavorare per una squadra di mia proprietà, c’è un
modo semplice per risolvere il problema.
Ne parleremo dopo. Solo che ancora non lo sa.
Le passo una bibita.
«Dov’è la mia?» chiede Stew.
Indico il tavolo del bar ben rifornito e lui alza gli occhi al cielo prima
di andare a servirsi.
Il gioco riprende appena ripulito il ghiaccio. Il tabellone segna già
venti minuti dei supplementari. Becca, le nocche sbiancate, guarda i
giocatori affrontarsi.
E siamo di nuovo sulle montagne russe. I miei ragazzi lottano duro
e io fatico a respirare. Vivo per questo. Una passione e un sogno
sono diventati realtà. Ma non la mia fonte di sostentamento.
La mano di Rebecca mi stringe la coscia.
Ci protendiamo entrambi in avanti sui nostri sedili mentre Bart
Palacio estrae il disco da una mischia lungo la balaustra.
«FERMATELO» grida Becca, mentre Palacio scarta O’Doul e
mantiene il controllo del disco.
Ma nessuno arriva in tempo. Vedo cosa accadrà con orribile
chiarezza. Restano Palacio e Beacon, uomo contro uomo.
Il mio portiere è il migliore sul mercato. La sua mente è una
calcolatrice a fuoco rapido della fisica dell’hockey. Sceglie la sua
posizione basandosi sull’esperienza di una vita nell’anticipare
attaccanti come Palacio. Ma è solo. I suoi difensori hanno fallito e la
sua unica chance è fare la scelta migliore e posizionarsi per la
parata. Decide per il butterfly e si abbassa, in attesa di un tiro in
mezzo alle gambe, ma Palacio mira alla spalla.
La circolazione del sangue mi si ferma, mentre il disco entra
nell’angolo superiore della porta e poi ricade alle spalle di Beacon.
Lo stadio sussulta. La luce rossa si accende.
E con quello, tutto finisce.
Io e Rebecca restiamo seduti per un attimo in un silenzio stordito.
Succede sempre quando si perde ai supplementari, quando in un
battito di ciglia si passa da “tutto è possibile” a “No”.
«Oh, no» mormora Becca con una mano al cuore. «Accidenti.»
La abbraccio. «C’eravamo quasi…»
«Accidenti!» grida di nuovo. «Palacio! Gli strappo le braccia.»
Sotto di noi tutti i giocatori di Dallas si lanciano sul ghiaccio,
raggruppandosi come cuccioli, roteando in festeggiamenti sfrenati.
Gli occhi di Becca si arrossano. «Dovevamo essere noi. Indosso il
mio reggiseno portafortuna e tutto il resto.»
Guardo tutte quelle maglie del colore sbagliato che girano e
ondeggiano. Avevo immaginato questo momento un milione di volte,
con una combinazione di colori viola. Ma sono anche analitico fino al
midollo, e quando ho messo piede nello stadio sapevo che le nostre
probabilità erano solo un po’ più del 50%. Mi dispiace, ma non mi
sorprende.
Becca infila il viso nella mia spalla e le accarezzo i capelli con la
sicurezza di chi nelle ultime settimane ha ricevuto più di quanto ha
perso. La scatolina che ho in tasca mi chiama urlando. Ma so bene
anche io che è meglio non fare la proposta a una donna triste
mentre sono ancora nel raggio d’azione di diverse decine di
telecamere.
«Andiamo, ragazzi» dice Georgia con delicatezza. «È ora di
scendere di sotto, sorridere e far vedere che bravi sportivi siamo.»
«Oh, che gioia» borbotta Becca. «Non possiamo sgattaiolare via
dal retro?»
«Tra qualche minuto» assicura Georgia. «Sono certa che Nate
voglia ringraziare i suoi giocatori.»
In questo momento, lo spogliatoio sarà sprofondato in un silenzio
mortale. «Andiamo.» Mi alzo in piedi. «Prima scendiamo, prima
possiamo lasciare Dallas.»
«Che adesso è la città che meno preferisco al mondo» brontola
Becca.
Al piano di sotto, scambio qualche convenevole con quei pochi
giornalisti che si preoccupano di parlare con la squadra sconfitta. I
telegiornali di New York, perlopiù. «La gente di Brooklyn può essere
davvero orgogliosa di averci visto arrivare fin qui» dichiaro. Eccetera,
eccetera. Certi giorni si deve leggere il copione dei perdenti e non
c’è niente da fare.
Rebecca aspetta fuori dallo spogliatoio mentre io passo di lì a
stringere mani. È facile ringraziare questi uomini che hanno dato
tanto alla squadra. «Li riprenderemo l’anno prossimo» li rincuoro.
«Fatevi una bella e lunga vacanza. Riposatevi. Comprate un
bersaglio per freccette di Dallas.»
Quando torno in corridoio, Becca è affiancata da due dei miei
uomini della sicurezza. «C’è un po’ di casino qui fuori» mi avvisa uno
dei due, accennando al corridoio della squadra di casa.
Ne sono certo. La sicurezza dello stadio diventa meno attenta
dopo una grande vittoria come questa. Tutti vogliono stare gomito a
gomito con la squadra vittoriosa, e la gioia dei tifosi trabocca fino al
nostro corridoio. A causa di una pessima progettazione
architettonica, io e Becca dovremo costeggiare il bordo della folla
per arrivare all’uscita dei giocatori. La sicurezza apre i cordoni per
lasciarci passare. Ma quando raggiungiamo le porte, ci viene detto
che la macchina è stata allontanata dal parcheggio e l’autista
mandato a fare un giro intorno all’isolato.
«Possiamo andare a piedi» suggerisce Bec. La folla e la musica a
tutto volume di chi festeggia sono un po’ troppo.
«Stavolta no» sentenzia Gary, la guardia del corpo di stasera.
«C’è mezza Dallas che si sta affollando intorno allo stadio per
festeggiare. Il tempo di arrivo della macchina è di quattro minuti.»
«Bene» dico io, posando una mano sulla parte bassa della
schiena di Rebecca. «Aspettiamo fuori?»
«Ci sono un sacco di telecamere all’esterno» ci informa Gary.
La porta si apre, a dimostrazione di quanto ha appena detto. I
tifosi sono ammassati subito al di là dell’area delimitata dai cordoni.
Sto guardando la folla, così non mi accorgo di chi si è appena
fermato a spegnere una sigaretta sotto il tacco alto dello stivale per
poi tornare dentro.
È Juliet.

Mi compare davanti come un brutto sogno. La bella e intelligente


ex di Nate, con i capelli d’oro e il corpo da proprietaria di palestre.
La mano di Nate sulla mia schiena si blocca.
È esattamente questo lo scenario che temevo. Mi preparo a
sentirla sogghignare: “Nate, hai fatto carriera, eh? Esci con la tua
segretaria? Comodo”.
Sto già per entrare nel panico, quando mi soffermo su qualche
dettaglio in più. L’accendino nella sua mano ossuta, per esempio. Da
quando Juliet fuma? E la sua espressione cupa. Ha un aspetto più
duro rispetto a quando l’ho vista l’ultima volta. I suoi occhi non sono
felici. Se la mia squadra avesse appena vinto la Coppa, non avrei
quell’espressione. Poi vede Nate e strabuzza gli occhi. Quel
momento si allunga tra loro, interminabile e imbarazzato.
Mi chiedo cosa veda Nate. Una persona che odia? O qualcuno
che amerà sempre?
«Ciao» azzarda lei, riscuotendosi dalla sorpresa. «Dio, mi dispiace
davvero per quella storia del Post. Quella giornalista mi ha chiamato,
ma le ho detto di andare a cercarsi una storia vera. Ho riattaccato.»
«Va tutto bene» le assicura Nate con una voce monocorde. «Non
è stata la prima stupidaggine che hanno scritto su di me. E non sarà
certo l’ultima.»
«Be’...» Juliet fa per dire qualcosa, ma viene interrotta da una
burbera voce maschile che urla dal fondo del corridoio.
«Ehi. Juliet! Dove cazzo te ne vai?»
«Ehm...» I suoi occhi scattano nervosi in fondo al corridoio, poi
tornano su Nate. «Mi dispiace, comunque. È stato uno schifo.»
Deglutisce. «Ti trovo bene. Spero che tu stia bene.»
«Non posso lamentarmi.» Il suo palmo mi arroventa il centro della
schiena, mentre con il pollice accarezza il mio nuovo maglione viola.
«E anche tu stai benissimo. Congratulazioni, a proposito.»
«Juliet!» abbaia di nuovo la voce. «Scendi giù, cazzo!»
Apre la bocca per rispondere, ma poi appare un giocatore con un
viso rosso su un collo enorme. Bart Palacio. Mentre raggiunge il
nostro gruppetto a tre, le sue labbra si arricciano in un ghigno. «Ho
interrotto qualcosa?»
«No» si affretta a rispondere Juliet, arrossendo. «Certo che no.»
«E allora riporta giù quel culone che ti ritrovi.» Con il pollice indica
il corridoio affollato. «È il momento della foto.»
Poi, di fatto, la prende per il polso e la trascina lontano da noi.
Mi limito a fissarli per un momento a bocca aperta. «Che diavolo di
modi sono? Chi è che parla così a sua moglie?»
Quando mi giro verso Nate, noto che è esterrefatto. «Gesù»
espira. «È peggio di come lo ricordavo.»
Mi sento oltraggiata al posto di una donna che nemmeno mi piace.
Non sono nemmeno sicura che lei abbia notato la mia presenza. E
neanche mi interessa.
Ha detto di no a una vita con Nate per quello stronzo e non riesco
a capire il perché.
Non commetterò lo stesso errore.
«È arrivata la macchina» annuncia Gary. «Andiamo.»
Appena ci apre la porta, Nate e io usciamo nella notte. La folla
all’esterno si preme in avanti, cercando di vedere chi esce. Saranno
in gran parte delusi, perché stanno aspettando il Dallas vittorioso.
Ma alcune persone ci puntano il telefono addosso, mentre Gary fa
del suo meglio per impedirmi danni durante quei sei metri di strada
verso la macchina.
Pochi secondi dopo, gli sportelli si chiudono e le serrature
scattano. La macchina si allontana dal marciapiede.
Gary è saltato davanti, quindi ci siamo solo noi due sul sedile
posteriore.
«Tutto bene?» chiedo a Nate, allungando il braccio sul sedile in
pelle per stringergli la mano.
Si riscuote. «Sì, certo. È solo che...» Si picchietta il labbro.
«Quello stupido articolo aveva un fondo di verità. Avevo un sacco di
motivi per comprare la squadra. Ma uno di questi, dopotutto, era
anche la possibilità di battere Dallas nei playoff sul ghiaccio di casa
loro. Cioè, non che me ne stia qui a pensare a lei, però...»
«Lo so» mi affretto a dire.
Si gira verso di me nel buio. «Ho sempre pensato che fosse più
felice con lui, sai? Il fatto che non lo sia, è peggio. Ma non importa.
Non mi piace parlare di lei. È di cattivo gusto.»
«No! Affatto. Non sapevo che le cervellone potessero essere così
stupide.»
Nate fa un versaccio. «I cervelloni sono sempre stupidi. Chiedimi
come faccio a saperlo.» Si allunga sul sedile e mi passa un braccio
intorno alla vita, attirandomi al suo fianco. «È stata una serataccia
finora. Ma forse è recuperabile.»
Non aggiungo altro. Appoggio la guancia contro il suo braccio forte
e mi limito a sospirare.

Un’ora dopo, siamo felicemente rintanati nella vasca


idromassaggio, la stessa in cui mi sono rifiutata per principio di
entrare con lui due settimane prima.
Nei nostri bicchieri c’è dello champagne. Perché, fanculo, le
bollicine non sono solo per chi vince. Intanto, con la mano libera,
Nate mi accarezza il piede sott’acqua.
Siamo in silenzio, ma non tristi. È finita l’odissea, per ora. «C’è
sempre l’anno prossimo» rifletto, dopo un altro sorso.
Dall’altra parte della vasca, Nate concorda, alzando il bicchiere.
«E noi saremo lì a vederlo. Insieme.»
Questo mi fa sentire calda e frizzante dentro. «Se anche dovessi
lavorare da qualche altra parte, non mancherò di certo a sedermi in
tribuna con te.»
«A proposito di fare progetti» interviene, posando il bicchiere sul
bordo. «Ho una proposta di cui voglio discutere con te.»
«Sarebbe?» Tanto so cosa sta per dire. Sta per esporre una
ragione o l’altra per cui non dovrei cercare un altro lavoro. Devo
comunque prenderlo in considerazione.
Nate si alza e prende un asciugamano dal bordo. Dall’interno, tira
fuori una scatola molto piccola. Sembra...
«Porca miseria!» Mi sento dire. Perché non può essere quello che
penso che sia.
Nate apre la scatolina con il pollice. E forse dipende dalle costose
luci del Ritz, ma il diamante che sbuca è accecante. E grosso. E
accecante.
«Rebecca. Tesoro...»
Tesoro.
«Vuoi sposarmi? Lo so che è presto, ma non molto in realtà. Sette
anni mi sembrano un sacco di tempo per capire che sei la persona a
cui tengo di più al mondo. E non voglio passare un altro anno senza
di te.»
Vorrei tanto rispondergli, ma non riesco a parlare. Mi si appannano
gli occhi, eppure lo scintillio di quel diamante non diminuisce
minimamente, e qualcosa mi blocca la gola.
Nate sta aspettando.
Non esito nemmeno.
Ho smesso di scandagliarmi l’anima quando ho capito che la
risposta è stata davanti a me per tutto questo tempo. Mi affretto a
sollevare le chiappe dal fondo della vasca e mi sposto verso di lui.
Mi metto a cavalcioni delle sue gambe e mi spingo in avanti per
guardarlo negli occhi da vicino, tanto che deve tenere l’anello
sollevato. «S-sì» balbetto, sentendomi più sicura di quanto traspare.
«Lo voglio.»
Quegli occhi castano chiaro sorridono e si protende in avanti di
qualche centimetro per baciarmi. «Grazie» dice tra un bacio e l’altro.
«È uno strano tempismo il mio, ma...»
Lo bacio di nuovo. Sono stufa anch’io di preoccuparmi del nostro
tempismo.
«Bec.» Ride contro le mie labbra. «Non vuoi vedere l’anello? Puoi
scegliere lo stile che vuoi...»
«È bellissimo» dichiaro ancora prima di avergli dato un’occhiata. E
così è. Quando me lo fa scivolare al dito, vedo che su una montatura
vintage un diamante tagliato a cuscino è circondato da altre piccole
pietre. «Wow, che bello! Mi piace un sacco.»
Un anello di fidanzamento da parte di Nate. Al mio dito.
Quando lo guardo di nuovo, il suo viso è ancora più bello. Gli
occhi sembrano umidi e mi sorride come se avesse appena vinto...
la Stanley Cup. «Ti amo» sussurra.
«Ti amo anch’io.» Tengo con cura la mano fuori dall’acqua perché
non riesco a immaginare di perdere di vista una cosa così preziosa.
Il suo sorriso si fa divertito. «Non succede niente se si bagna,
sai.»
«Non con me» squittisco. «Ho una piccola fortuna al dito.»
«È assicurato.»
Quello che è.
«Ascolta, so di averti fatto un po’ scoppiare la testa, ma ho
bisogno di fartela scoppiare un altro po’.»
«Va bene.» Non riesco a immaginare che ci sia qualcosa di più
scioccante di una proposta di matrimonio. E pensare che avevo
liquidato la serata come un disastro.
Nate mi prende la mano e la tiene, ammirando la sua opera.
«Sposarmi è più complicato che uscire con me. Ci saranno un po’ di
scartoffie.»
«Oh, non ne dubito» dico, baciandolo sul naso. «Firmerò qualsiasi
accordo prematrimoniale il tuo avvocato possa sognare.»
Trasalisce. «Un accordo prematrimoniale ci deve essere. Posso
dirti perché?»
«Perché hai un miliardo di dollari?»
«Non è per questo.» Mi sorride di nuovo ed è difficile mantenere la
concentrazione. «È per via del mio diritto di voto. Se qualcuno
pensasse che la struttura gerarchica della KTech potrebbe essere
minata da un nostro divorzio, allora potrebbe avere milioni da
guadagnare dalla nostra separazione.»
«Ah» sussurro. «È inquietante.» La mia mente di solito non salta
subito all’ipotesi peggiore. Devo dire, però, che dopo aver visto quel
coglione del marito di Juliet sono più propensa del solito a capire che
le cose inquietanti esistono.
«Sì» conferma con delicatezza. «Quindi l’accordo prematrimoniale
dovrà assegnarmi tutte le azioni che possiedo della KTech. Non
credo che ti interesserà, perché c’è un regalo di nozze che voglio
farti. Ed è importante per me che tu lo accetti.»
«Ehm... non ho bisogno di niente, Nate. Non mi è mai importato
molto dei tuoi bigliettoni, per quanto non mi dispiaccia quando paghi
tu il conto della cena.»
Il suo palmo caldo e bagnato scivola sul mio viso sorridente. «Lo
so» sussurra, e quel sussurro mi vibra nel petto.
Chissà se il discorso può essere rimandato a più tardi, perché
dovremmo dare il via al sesso celebrativo. Il suo petto forte brilla di
goccioline d’acqua e ho l’impellente bisogno di raccoglierle tutte con
la lingua.
«Il regalo che stai per ricevere è una certa società di hockey. Di
recente hanno fatto un ottimo campionato e penso che
continueranno a prosperare sotto una nuova guida.»
«Cosa?» Me ne esco come una scema. Io sono in pieni brividi da
sesso e Nate ha ricominciato a parlare di hockey.
«Sarai la nuova proprietaria dei Brooklyn Bruisers. Non più quella
che si scopa il capo. Ma voglio sperare di fare sesso almeno una
volta nel tuo ufficio.»
Il mio povero cervellino non riesce a elaborare il concetto.
«Proprietaria... della squadra?» Non ha senso.
«Sì, piccola. Andrai alla grande. La mia è stata una buona
gestione, e tu sarai in grado di dare alla squadra più attenzione di
quanto probabilmente potrei prestargliene io. E nessuno ama i
Bruisers più di te, giusto? Quindi perché non tu?»
«Perché è tua?»
«Non per molto.» Scuote la testa e mi sorride. «Ho più bisogno di
avere te che la squadra. E voglio che passi a te. Potremmo doverci
sposare prima della firma, però. È per via delle tasse sulle donazioni.
O qualcosa del genere. Te lo saprà spiegare bene il mio
commercialista.»
Sono ufficialmente stesa. Non posso accettare altre notizie
scioccanti per stasera. Ma forse non ne ho bisogno. Ci baciamo
ancora e ancora. Poi Nate preme l’interruttore per svuotare la vasca.
Mi tira su in piedi. Non riesco nemmeno a prendere un asciugamano
che mi guida ancora gocciolante verso il letto, mi spinge su quella
morbida nuvola e si avvolge intorno a me.
«Ho ancora qualche domanda» ammetto, mentre ci sdraiamo a
letto, ci coccoliamo e facciamo progetti. O ci proviamo, comunque.
Ci sono un sacco di baci che ostacolano la pianificazione. Inoltre,
devo fermarmi ogni due minuti per ammirare il mio anello che brilla
anche al buio.
«Spara» mi invita Nate, stringendomi più forte.
«Ai tuoi genitori dispiacerà?»
«Di cosa? Mia madre ti adora. Tutti ti adorano. Ne abbiamo già
parlato.»
«Ma io sono una shiksa. Non vogliono che tu sposi una bella
ragazza ebrea?»
Mi fa scorrere un dito lungo il naso. «Ultime news: mia madre non
è ebrea. Sposare shiksa è già una tradizione di famiglia.»
«Davvero?» Non l’avrei mai detto.
«Davvero. Se questa è la tua più grande preoccupazione, siamo
coperti.»
Gli bacio il mento, perché non posso farne a meno. Potremmo non
uscire mai da questo letto e mi sta bene. «Nate,» inizio tra un bacio
e l’altro, «non so niente su come fare il proprietario di una squadra.»
«Sì, invece. È un lavoro in cui il requisito principale è dedicare
attenzione e cura. E a nessuno importa più che a te, Bec. Andrai alla
grande.»
«È difficile da immaginare.»
«Non per me. Puoi promuovere la tua stagista e occuparti di meno
lavoro palloso. In questo modo, avrai più tempo libero per questioni
di maggiore rilevanza. Alcune di queste sono divertenti. Tipo... quale
beneficiario sceglieresti per la raccolta fondi dell’anno prossimo?»
«Ricerca sulle commozioni cerebrali» rispondo di getto.
«Vedi?» La risata di Nate è gioiosa. «Qualsiasi lavoro si faccia lì è
importante almeno quanto la scelta dei giusti fornitori allo stadio.»
«Ci occupiamo noi anche del cibo? Le palline al formaggio
restano.» Nate sorride. «Per fortuna, non ti lascio con nessun
problema immediato da risolvere. L’affitto dello stadio dura altri otto
anni e Hugh Major e il Coach non andranno da nessuna parte.»
«Dio, spero di no.»
«Non preoccuparti! Ti aiuterò sempre. Ma non ti ci vorrà molto per
renderti conto che sai già quasi quanto me sulla proprietà di una
squadra di hockey. E, piccola, quando avremo bisogno di risposte, ti
basterà assumere qualche nerd della finanza o uno sfigato legale
che lo sappia.»
«Qualche volta verrò sopraffatta.»
«Certo, come chiunque abbia mai provato qualcosa di nuovo. Ho
fiducia in te. Questa organizzazione è migliore se ci sei tu. La mia
vita è migliore se ci sei tu.» Mi accarezza la schiena nuda con le sue
lunghe dita e poi mi sussurra: «Ti prego, sii la mia partner in questo
e in tutte le altre cose».
Passa molto tempo prima che torniamo a parlare. Ancora tanto
amore.
Riesco a sfinirci entrambi.
Alla fine, Nate rotola sulla schiena, gli occhi chiusi. «Ti trasferirai
subito da me?» chiede.
«Io…» Come al solito, comincio col supporre che dovrei avere
qualcosa da obiettare. «Certo.»
«Puoi cambiare le cose in casa, sai. Se non ti piace come è
organizzata, ci possiamo lavorare. Ma se non la odi troppo, mi
piacerebbe che restasse così. C’è tutto lo spazio perché la squadra
di sicurezza possa svolgere il suo lavoro.»
«Okay, sono sicura di poter trovare un modo per sentirmi a mio
agio in qualcuna delle tue dodici camere o quante sono.»
Mi accarezza i capelli. «Voglio che ti senta a casa, Bec, non
semplicemente a tuo agio. Ma ci lavoreremo su. Nel frattempo, a tua
sorella e la sua famiglia farà comodo un po’ più di spazio, giusto?»
«Giusto...» concordo lentamente. «Ho appena firmato un nuovo
contratto d’affitto. Dovrebbe bastargli per un po’ di tempo.»
«O per sempre» aggiunge Nate. «C’è una nota nella tua scheda
che prevede di non aumentare l’affitto.»
«Cosa?» La mia testa scatta su dal cuscino. «Sei il proprietario di
quell’edificio?»
«Certo, quando ho costruito lo stadio ho comprato tutto ciò che
era in vendita nel quartiere. E quando ti sei trasferita a Brooklyn...»
«L’agente immobiliare dei Bruisers mi ha mostrato
quell’appartamento.» Ho sempre ritenuto un colpo di fortuna aver
trovato un affitto ragionevole così vicino al lavoro. «Subdolo.»
Nate scuote la testa. «Non eri tenuta a scegliere quella casa, ma
sono stato felice che tu l’abbia fatto. Mi ha permesso di prendermi
cura di te nelle piccole cose. Sai... quando ti amavo solo da
lontano.» Si mette una mano al cuore e fa una faccia da Mr. Darcy
che mi fa sorridere. «Che tipo di matrimonio vuoi? Puoi scegliere
qualsiasi cosa.»
«Non lo so ancora. Molte riviste verranno consultate.» Il
pover’uomo non ne ha idea. «Possiamo tenerlo ristretto?»
«Sicura?»
«Intendo dire… famiglia, amici intimi e la squadra di hockey. Con
te sarebbe facile finire per invitare per sbaglio metà della KTech e
della Goldman Sachs.»
«Perché non organizziamo un matrimonio all’estero e affittiamo un
piccolo hotel da qualche parte ai Caraibi?»
«Sarebbe divertente.»
«Mantiene bassi i numeri e mi garantisce che indosserai un bikini
almeno per una parte del tempo.»
«Hai un cervello a senso unico.»
«No: quattro.» Alza la mano e conta. «Tecnologia. Hockey. Cibo.
Rebecca.»
«È molto simile al mio» sussurro. «Cibo. Moda. Hockey. Nate.»
«Tre su quattro non sono niente male» sussurra. Poi mi bacia di
nuovo.
New York Wire
La storia sportiva della settimana
13 giugno 2020

Prima Stanley Cup e primo figlio nello spazio di tre ore per la
proprietaria della squadra.

«Le urla sono piuttosto comuni nel reparto maternità» ha


dichiarato a The Wire l’infermiera Amalah Dawn del New York
Presbyterian Brooklyn Methodist Hospital. «Di solito, però, è per il
parto, non per l’hockey.»
Lo scenario è cambiato ieri sera, quando la proprietaria dei
Brooklyn Bruisers, Rebecca Rowley Kattenberger, 30 anni, ha
guardato i suoi giocatori vincere la prima Stanley Cup da quando
suo marito, il magnate della tecnologia Nate Kattenberger, 35 anni,
ha riportato la società a Brooklyn cinque anni fa.
La signora Kattenberger aveva in programma di guardare gara 6 a
Nashville con la sua squadra, ma è entrata in travaglio qualche ora
prima di salire sul volo per la partita.
«Ho pensato: “Va bene così, che sarà mai”» ha raccontato la
signora Kattenberger a The Wire via e-mail. «Se si arriva a gara 7, io
e la bambina possiamo fare una comparsa allo stadio di Brooklyn.»
Ma non è quello che è successo. Ha assistito a una emozionante
gara 6 in sala travaglio, mentre l’equipe medica monitorava le
contrazioni.
«Il travaglio non è progredito rapidamente» ha riferito l’infermiera
Dawn. «È normale per una primipara. Il medico voleva
somministrarle l’ossitocina per velocizzare il tutto, ma la signora ha
dichiarato: “Non prima del terzo tempo. E se si andasse ai
supplementari?”»
Alla fine, sia la squadra che il travaglio hanno fatto il loro dovere.
Brooklyn ha sbloccato il pareggio del 2-2 con un gol nella prima
parte del terzo tempo (Trevi, assistito da Castro), seguito da un altro
gol appena novanta secondi dopo (Bayer, assistito da Drake). Al
suono della sirena, erano i campioni ufficiali.
La reazione nella sala parto n. 407 è stata rumorosa e
assolutamente gioiosa.
«Durante una fase tesissima della partita, abbiamo rassicurato le
pazienti vicine che andava tutto bene. E quando Brooklyn ha vinto,
nel reparto c’è stata grande eccitazione» ha dichiarato la Dawn. «La
bambina di Rebecca ha aspettato. Le cose sono andate molto più
velocemente una volta spento il televisore. La signora era pronta a
spingere circa due ore dopo e la bambina è nata dopo un’ora.»
Rebecca Rowley Kattenberger e Nathan Kattenberger sono
diventati genitori di una bambina di tre chili all’una e dieci minuti del
mattino. Il suo nome è stato tenuto nascosto alla stampa, ma la
famiglia sta bene e sta riposando.
I Kattenberger vivono a Brooklyn e lì cresceranno la figlia. Il parto
è avvenuto nella sede di Brooklyn del New York Presbyterian
Hospital. La Brooklyn Bruisers Foundation della signora
Kattenberger ha raccolto dieci milioni di dollari per l’ala pediatrica
dell’ospedale proprio quest’anno. I suoi giocatori di hockey hanno
anche organizzato lì una festa di Natale nel mese di dicembre.
Gira voce che la Stanley Cup farà una visita al reparto maternità
prima della fine del weekend.
Quando le abbiamo chiesto se si è trattato del parto più insolito a
cui ha assistito durante il turno, l’infermiera Dawn ha subito negato.
«Proprio la settimana scorsa è nato un bambino in ascensore.
Bisogna essere piuttosto creativi per coglierci alla sprovvista.»
Alla fine di questo mese, si terrà a Wall Street una parata che
celebrerà la vittoria dei Bruisers. La data e l’ora verranno resi noti la
prossima settimana. I coniugi Kattenberger hanno in programma di
partecipare.
Prossimamente della stessa autrice

Un amore da principianti
Al liceo erano la coppia di fidanzatini perfetti... fino a che lei non
lo ha piantato in asso.

Leo Trevi, giocatore di hockey sul ghiaccio agli esordi, ha trascorso


gli ultimi sei anni a rincorrere due soli obiettivi: superare il ricordo
della ragazza che gli ha spezzato il cuore e sfondare nell’hockey
professionistico. Tutto il suo duro lavoro finalmente è culminato in
un’opportunità da sogno, un ruolo nei Brookyln Bruisers - la
nuovissima e acclamata squadra di Hockey di Brookyln. Il primo
giorno in squadra con i Bruisers, però Leo riceve una bella batosta
su tutti i fronti: prima c’è l’incontro col suo nuovo coach, che sembra
ribollire di rancore nei suoi confronti e, non da ultimo, lo scontro con
l’affascinante ma gelida pubblicista dei Bruisers ... niente di meno
che la sua famosa ex: Georgia Worthington.
Dire addio a Leo è stata una delle prove più difficili che Georgia
abbia mai dovuto affrontare, e salutare il ritorno di lui, così di punto
in bianco, nella sua vita non è poi tanto più semplice. Georgia è
comunque determinata a gestire questa spinosa situazione su un
piano strettamente professionale, anche perché ha una promozione
da assicurarsi nel team dei Bruisers. Ma quando un microfono
lasciato acceso per sbaglio cattura una dichiarazione d’amore di Leo
solo per lei, dopo tutti quegli anni, allora sì che la situazione
scivolerà di nuovo sul personale e molto, molto in fretta: perché la
dolcezza di Leo potrà non essere cambiata, ma lui sì. E adesso è
determinato a riaverla accanto a sé.

La dolcezza delle seconde possibilità, la tenerezza dei primi


amori.
Prossimamente della stessa autrice

Un amore da principianti
Al liceo erano la coppia di fidanzatini perfetti... fino a che lei non
lo ha piantato in asso.

Leo Trevi, giocatore di hockey sul ghiaccio agli esordi, ha trascorso


gli ultimi sei anni a rincorrere due soli obiettivi: superare il ricordo
della ragazza che gli ha spezzato il cuore e sfondare nell’hockey
professionistico. Tutto il suo duro lavoro finalmente è culminato in
un’opportunità da sogno, un ruolo nei Brookyln Bruisers - la
nuovissima e acclamata squadra di Hockey di Brookyln. Il primo
giorno in squadra con i Bruisers, però Leo riceve una bella batosta
su tutti i fronti: prima c’è l’incontro col suo nuovo coach, che sembra
ribollire di rancore nei suoi confronti e, non da ultimo, lo scontro con
l’affascinante ma gelida pubblicista dei Bruisers ... niente di meno
che la sua famosa ex: Georgia Worthington.
Dire addio a Leo è stata una delle prove più difficili che Georgia
abbia mai dovuto affrontare, e salutare il ritorno di lui, così di punto
in bianco, nella sua vita non è poi tanto più semplice. Georgia è
comunque determinata a gestire questa spinosa situazione su un
piano strettamente professionale, anche perché ha una promozione
da assicurarsi nel team dei Bruisers. Ma quando un microfono
lasciato acceso per sbaglio cattura una dichiarazione d’amore di Leo
solo per lei, dopo tutti quegli anni, allora sì che la situazione
scivolerà di nuovo sul personale e molto, molto in fretta: perché la
dolcezza di Leo potrà non essere cambiata, ma lui sì. E adesso è
determinato a riaverla accanto a sé.

La dolcezza delle seconde possibilità, la tenerezza dei primi


amori.
COLLANA

1. La partita vincente, Kristen Callihan


2. Sweet. Una dolce conquista, J. Daniels
3. La regola dell'amico, Kristen Callihan
4. Bandit, B.B. Reid
5. Per il mio amore, Whiskey, Kandi Steiner
6. Dammi mille baci, Tillie Cole
7. Obbligo o verità, Penny Reid
8. Knight, B.B. Reid
9. Lo schema di gioco, Kristen Callihan
10. Sweet. Una dolce ricompensa, J. Daniels
11. Idol, Kristen Callihan
12. La fattoria dei nuovi inizi, Devney Perry
13. Vicious. Senza pietà, L.J. Shen
14. Bastaun sorriso, Penny Reid
15. La strada dei nostri cuori, Kandi Steiner
16. Io+Te, Elle Kennedy e Sarina Bowen
17. Infamous. Senza Vergogna, L.J.Shen
18. Stars, Kristen Callihan
19. Closer, Corinne Michaels e Melanie Harlow
20. In due sotto un tetto, Helena Hunting
21. Élite. Ossessione e potere, Laurelin Paige
22. Come far perdere la testa al capo, Max Monroe
23. Four & Ever, B.B. Reid
24. Questione di chimica, Penny Reid
25. Affari d’amore, Melanie Moreland
26. Il Re di Wall Street, Louise Bay
27. Élite. Amore e potere, Laurelin Paige
28. Ruckus. Senza regole, L.J. Shen
29. Il Tempio della Fortuna, Devney Perry
30. Insieme, Elle Kennedy e Sarina Bowen
31. Sulle note di noi due, Tillie Cole
32. Brooklyn in Love, Sarina Bowen

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