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TAINTED LOVE
di
Alessia I.
 
 
Copyright © 2021 Alessia Iorio
 
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono frutto
della fantasia dell’autrice, qualsiasi analogia con persone, fatti e luoghi è da
considerarsi puramente casuale.
Anche Cedar e Finnik sono due cittadine frutto della fantasia dell’autrice.
 
Progetto grafico copertina, editing e correzione di bozze a cura di
EK Graphic Factory
(ek.graphicfactory@gmail.com)
 
Contatti:
alessia.io94@gmail.com
Instagram: alessiaios_
Facebook: Alessia Iorio – Autrice
Ti amo, nonostante tu mi faccia del male.
Tainted Love – Claire Guerreso
 
1
 

Theodora
 

La Buick che ho comprato con i soldi che sono riuscita a racimolare di


nascosto nelle ultime settimane è ferma nel parcheggio della stazione degli
autobus di Cincinnati.
Il tizio a cui l’ho venduta mi ha pagato in contanti, come da accordi, e ora la
sta ispezionando con attenzione. In cambio ci ho guadagnato un pick-up che
parte a spinta e con i finestrini crepati, mentre lui ha trovato il regalo perfetto
per il figlio che ha da poco preso la patente.
O almeno, così mi ha detto.
Mi sono sentita in colpa quando ho pensato al radiatore da sistemare e alla
cinghia di distribuzione sul punto di passare a miglior vita, però, per quanto
mi dispiaccia, non posso permettermi di preoccuparmene. Ci metteranno un
po’ di tempo prima di accorgersene e, per allora, sarò lontana, con un nuovo
numero di telefono e un indirizzo che nessuno conoscerà.
Quel catorcio di un pick-up l’ho comprato solo per raggiungere la meta
finale. Non gli ho dedicato troppe attenzioni perché ho avuto altro a cui
pensare. Ho sempre avuto altro a cui pensare. In circostanze diverse non mi
sarei mai permessa di vendere un mezzo del genere a qualcuno. È
un’emergenza, tutta la mia vita lo è da un po’ di tempo a questa parte. Sto solo
cercando di sopravvivere.
Una donna sulla cinquantina esce dal bagno della stazione di servizio e io mi
ci tuffo dentro, dicendo addio per sempre alla malconcia Buick. Frugo nella
borsa alla ricerca della tinta per capelli che ho comprato prima di partire e
occupo uno dei bagni di questa sudicia stazione. Apro la confezione, unisco le
varie miscele seguendo le istruzioni scritte sulla scatola e procedo. Faccio tutto
alla cieca, chiusa in quel bagno fatiscente. Copro i miei capelli biondi con il
nero, una ciocca alla volta. Vado avanti senza badare al tremolio delle mani e al
nauseante odore che proviene dal water.
Sono solo capelli, mi ripeto. Un giorno potrò riavere il mio colore e tornerò a
essere me stessa. Sei ancora tu, è solo uno stupido colore.
Non sono mai stata una di quelle che non si accettano. I miei capelli, il mio
aspetto e la mia vita, una volta mi piacevano, per questo devo ricordarmi che è
tutto temporaneo. Me lo ripeto ancora e ancora, finché tutto il colore non è
steso. Poi, passo alle sopracciglia. Non ho idea di come si tingano e farlo in un
bagno putrido in tutta fretta non mi sembra una grande idea, perciò ripiego sul
trucco. Prendo una matita dalla borsa, comprata nel reparto cosmetici della
stazione di servizio, e la applico usando il cellulare come guida. Non riesco a
coprire del tutto i peli biondi, ma va bene lo stesso.
Fisso il mio riflesso nello specchio e mi chiedo cosa manchi ancora da
cancellare, poi ecco che me ne ricordo. Prendo i jeans di ricambio, li indosso e
metto i pantaloncini che avevo nella borsa, poi mi infilo una camicetta.
Esco dal bagno quando sono passati venti minuti. Mi dirigo al lavandino e
inizio a sciacquare i residui di colore. Quando ho finito mi guardo allo
specchio: della vecchia me non è rimasto più niente. Non è solo la tinta per
capelli il problema, la maggior parte delle donne lo fa almeno una volta nella
vita. Solo che io non lo sto facendo per sentirmi più bella o diversa, io devo
essere diversa. La mia non è una scelta. Quello che ho fatto per arrivare qui mi
fa accartocciare il cuore, e la speranza che un giorno io possa sbarazzarmi di
questo nero, e che non debba più nascondermi, non mi dà alcun conforto.
Un giorno è un tempo indefinito, lontano e buio. Non lo posso visualizzare,
non posso pianificare niente. Tutto quello che farò da questo momento sarà il
frutto di decisioni improvvise, prese senza qualcuno accanto e senza radici alle
quali ancorarmi per sentirmi al sicuro.
Una donna esce all’improvviso da uno degli altri bagni. Avrei dovuto
controllare che non ci fosse nessuno… Sussulto e mi schiarisco la voce. La
donna passa il suo sguardo dai miei capelli umidi al lavandino ancora sporco di
tinta per capelli…
«Tutto bene?» domanda.
«Certo» esito.
Merda.
La donna si dirige al lavandino. Si sciacqua le mani e continua a osservarmi
con diffidenza.
«È sicura?» insiste.
«Sì, non si preoccupi».
Trattengo il fiato fino a quando la donna non esce dal bagno, poi, sospiro di
sollievo e mi accascio contro il lavandino sporco.
Devi imparare a mentire meglio, Theodora.
Mi ripeto quel mantra nella testa, ma non aiuta. Tampono i capelli bagnati
con la vecchia maglietta, butto i tubicini di tinta sporca e raccolgo le mie cose.
Per ora può andare, sono al sicuro.
Esco dal bagno e mi incammino verso lo schifoso pick-up che ho comprato,
salgo a bordo e imposto l’indirizzo della nuova casa sul telefono. Il senso di
colpa per l’auto che ho venduto a quell’uomo passa in secondo piano quando
realizzo di essere stata fregata. Mi ha venduto un mezzo di trasporto che
sembra divorato dal tempo e dalla polvere, come se lo avessero preso a morsi,
graffiato e torturato. E tutto questo senza menzionare l’odore insopportabile
che emanano i sedili, con la gomma piuma che fuoriesce da diversi squarci.
Arriccio il naso e giro la chiave nel quadro, quel rottame ci mette cinque
minuti per partire. Quando lo fa ricomincio a respirare. Lascio la stazione di
servizio e mi immetto nel traffico, il pick-up borbotta scontroso sull’asfalto e
divora miglia come se lo facesse per l’ultima volta, mentre Cincinnati mi
scorre accanto, a sette stati di distanza da casa mia.
Attraverso la città e percorro sessanta miglia fino a Cedar, una cittadina di
poche anime in mezzo a distese di campi dall’aspetto terroso e pezzi di cielo.
Più mi ci addentro e più rimango affascinata dalle foglie arancioni, le zucche
enormi e dai bambini che corrono felici per strada. È un buco di mondo in cui
tutti conoscono tutti, sono sicura che sia questo il motivo per cui mi fissano
con curiosità. O forse è colpa del pick-up decadente.
Mi lascio alle spalle la scuola elementare, la tavola calda e l’ufficio postale
del paese per addentrarmi in una strada sterrata. Dovrò tornare al
supermercato per fare rifornimento di cibo e altri beni di prima necessità, ma
sono talmente stanca che l’unica cosa che desidero al momento è un letto.
Non ho scelto questo posto di proposito, all’inizio volevo andare in Michigan e
affittare una casa sul lago per confondermi con i turisti in estate e
nascondermi in inverno. Poi, navigando in internet e spulciando i vari annunci
immobiliari, ho trovato questo posto. Non c’è nessun lago, nessuna attrazione
turistica o possibilità di confondermi tra la gente di passaggio, ma me ne sono
innamorata. Sembra un luogo da sogno, una di quelle cittadine da telefilm in
cui tutti conoscono tutti e in cui puoi contare su qualcuno anche se sei l’ultimo
arrivato. Una specie di Stars Hallow, solo reale. Me ne sono innamorata e non
c’è stato più spazio per altre ricerche. Ho cercato Cedar su Google, ho raccolto
quante più informazioni possibili in un’ora, poi ho telefonato alla proprietaria
della casa che mi aveva rapito il cuore. Un’ora dopo, avevo un piano.
Le ruote del pick-up faticano a tenere la strada mentre divorano i metri che
mi separano dal cottage che ho preso in affitto. La fattoria dei Willow ha
l’esterno dipinto di rosso scuro, è circondata da campi di non-so-che-cosa e ci
sono staccionate bianche ovunque che la delimitano, come a proteggerla dagli
estranei e dal resto del mondo. Sembrano segnare il confine tra il centro
abitato e il loro terreno, come se oltre tutto appartenesse a questa famiglia. In
foto era meravigliosa e me ne sono innamorata più per i colori che per la
struttura, ma dal vivo è un sogno. Mi sembra di stare in un quadro dipinto con
dolorosa passione e ne sento tutti i colori addosso, imbrattarmi la pelle e
rendermi parte dello sfondo. Non sapevo nemmeno che posti del genere
esistessero davvero.
Un pick-up decisamente più nuovo del mio è fermo nel vialetto
dell’abitazione principale e, dal lato opposto, c’è il cottage. Il mio cottage.
Mi si stringe lo stomaco dall’emozione e ho un brivido lungo la schiena. È
piccolo, di mattoni rossi proprio come la fattoria, e con piccole finestre
bianche circondate da ghirlande di foglie pigmentate di un arancione così vivo
da sembrare irreale. Questo è un posto da sogno.
Fantastico su tutte le cose meravigliose che potrò imparare vivendo in un
posto del genere, circondata dalla natura, quando un rumore brusco mi riporta
alla realtà. Sposto lo sguardo sulla strada e lancio un urlo vedendo un trattore
sbucare fuori dal retro della fattoria. Cerco di frenare ma questo coso che mi
hanno venduto è così vecchio che rallenta a malapena e il clacson è inutile. Gli
vado a sbattere contro. I miei fari si frantumano sul colpo e pezzi di vetro mi
schizzano sul parabrezza. Resto con il sedere incollato al sedile e le mani
strette intorno al volante. Cerco di recuperare fiato.
Sono ancora viva.
Apro lo sportello cigolante e salto giù, gli occhi ancora sgranati per lo
spavento.
«Io… mi dispiace… Ero distratta, il pick-up è vecchio. Non frena bene»
farfuglio.
«Ma che cazzo di problemi hai?»
Sussulto. Un uomo enorme scende dal trattore e mi raggiunge. Enorme non
per dire, ma sul serio. Gli arrivo a malapena al centro del petto e sembra
davvero furioso. Più si avvicina, più riesco a metterlo a fuoco. Ha i capelli
castani scompigliati, gli occhi scuri pieni di rabbia e gli scarponi sporchi di
fango. O forse è qualcos’altro… L’odore è nauseante!
«Mi dispiace, ero distratta» ripeto dispiaciuta.
Lui poggia le mani sui fianchi e lancia un’occhiata al mio pick-up. Ha solo il
paraurti ammaccato e i fari rotti, ma non riesco a preoccuparmene. Non era
mio fino a qualche ora fa e non penso che resterà mio a lungo. Ogni cosa che
possiederò da oggi in poi non sarà mia tanto a lungo da poterla considerare
tale. Anche i miei dannati capelli dovranno avere un altro colore tra qualche
settimana.
«Ho capito, ho capito. Cosa stai cercando? Oggi è sabato, se cerchi le zucche
devi venire domani».
Aggrotto la fronte, confusa. Seguo il suo sguardo, sulla nostra sinistra c’è
una specie di portico sotto al quale sembrano essere esposte zucche di ogni
tipo e dimensione, decorate con disegni e foglie.
«No, non sono qui per le zucche. Non mi interessa il Pumpkin Patch, sono
qui per il cottage» spiego.
Lui mi fissa con espressione sempre meno amichevole. I suoi occhi si
assottigliano e le labbra carnose assumono una piega sprezzante.
Dove diavolo sono finita e chi è questo tizio? È l‘indirizzo giusto, ho
controllato più volte. Non possono avermi fregata, la foto corrisponde proprio
a questo posto.
«Sei una dannata agente immobiliare, allora. Non vendiamo il cottage, torna
dal tuo capo e digli pure di prendere questa informazione e ficcarsela su per
il…»
«Lachlan!»
La voce di una donna lo interrompe. È una donna sulla cinquantina con folti
capelli castani raccolti in una crocchia disordinata. Ha occhi caldi e gentili,
anche lei indossa stivali sporchi di fango ma non emana strani odori.
«Non è un’agente immobiliare, è la nostra nuova inquilina! Le ho affittato il
cottage e resterà qui fin quando vorrà» interviene. «Sono Addie, comunque, è
un piacere conoscerti dal vivo».
Ah, lei è Addie!
Le stringo la mano e forzo un sorriso. Cerco di ignorare lo sguardo
assassino dell’uomo davanti a noi, ma mi costa una certa fatica. Ho parlato al
telefono con lei diverse volte e so che il cottage era di proprietà della sorella
deceduta e che per la loro famiglia è troppo costoso da mantenere. Quando le
ho detto che avevo intenzione di restare a Cedar a tempo indeterminato, e che
potevo pagare quattro mensilità d’affitto in anticipo, non ha voluto pormi altre
domande. Mi ha spedito il contratto nel mio vecchio ufficio in California e
sono diventata ufficialmente la sua nuova inquilina.
«Conoscerti di persona è un piacere, Addie. Grazie ancora per il contratto,
questo posto è meraviglioso».
«L’autunno è la stagione in cui Cedar dà il meglio di sé, sono sicura che
Lachlan e Lilli saranno più che felici di mostrarti la fattoria».
Annuisco e lancio un’occhiata a Lachlan che sembra tutt’altro che
amichevole. Apro lo sportello del mio pick-up con l’intenzione di liberare il
passaggio, quando lui si schiarisce la voce.
«Quando pensavi di dirmi che hai affittato il cottage, zia?».
«Non pensavo di dirtelo, non si può parlare della fattoria con te. Perdi le
staffe solo a sentirla nominare».
Fingo di non ascoltarli e frugo nella borsa alla ricerca delle chiavi che Addie
mi ha spedito qualche settimana fa, le afferro e le poso sul cruscotto. Non vedo
l’ora di vedere la casa e di buttarmi sul letto.
«Forse perché non voglio vendere e non voglio che degli estranei mettano
piede in casa nostra. Che cazzo, il cottage era di mia madre, non puoi affittarlo
senza dirmi niente!»
Il nipote della signora Addie sembra piuttosto contrariato, ma ho pagato
quattro mensilità d’affitto, sto morendo di sonno e anche se il cottage era di
sua madre e lui non è stato consultato prima che venisse messo in affitto, non è
un mio problema. Ho pagato per avere questa casa e non ho intenzione di
andarmene.
«Scusate» li interrompo. «Io andrei in casa a sistemare le mie cose e a
controllare se è tutto a posto».
Lui mi fulmina con lo sguardo e sale di nuovo sul trattore.
«Il cottage è a posto» ringhia. «Lo pulisco una volta a settimana».
Poi muove la mano come a farmi capire che devo levarmi di torno. Sbuffo e
accendo l’auto, ingrano la marcia e mi sposto per farlo passare, dirigendomi
fino alla mia nuova casa.
Sono qui da solo cinque minuti e già mi chiedo se Lachlan Willow mi
renderà la vita più difficile di quanto non sia già.
Però sono al sicuro ed è tutto quello che conta, per ora.
 
2
 
Lachlan
 

Finisco di controllare i cavalli e chiudo il vecchio maneggio prima che Lilli


sbuchi fuori e decida che vuole dormire qui. Secondo lei i cavalli hanno
bisogno di compagnia per non avere gli incubi. Il mese scorso è toccato ai
vitelli. Abbiamo passato una notte d’inferno per assicurarci che non facessero
brutti sogni, e non ho intenzione di ripetere la scena.
Risalgo a bordo del mio pick-up e percorro gli ultimi metri che mi separano
dalla fattoria. Le luci sono accese e riesco a vedere le sagome di zia Shirley e di
Lilli che si muovono veloci per la cucina. È ora di cena e so che le ha già fatto il
bagno e che starà morendo di fame. Io sono esausto e vorrei solo buttarmi a
letto e dormire per due giorni interi, ma la settimana prossima inizierà la
scuola e abbiamo deciso di aprire la fattoria al pubblico per racimolare qualche
soldo extra.
Il Pumpkin Patch è stato un’idea di Lilli e devo dire che, per quanto io non
abbia voglia di fare questa cosa, è geniale. Abbiamo mandato volantini a tutte
le scuole di Cedar e delle cittadine limitrofe e quasi tutte porteranno i bambini
in gita scolastica a scegliere delle zucche da intagliare. Non mi piace l’idea di
avere troppa gente qui intorno, ma mia figlia ha ragione. L’idea funziona e la
fattoria può darci molto più che un tetto sopra alla testa, soprattutto ora che ne
abbiamo bisogno.
Scendo dal pick-up e percorro il vialetto fino alla veranda in legno, salgo gli
scalini e mi pulisco gli stivali sporchi sul tappeto rosa che Lilli ha messo
davanti alla porta. Sorrido osservando le macchie di fango, dovrò comprarne
un altro prima che mi sgridi: sa essere molto severa. Entro in casa e mi tolgo
gli scarponi, lascio la camicia sulla panca rivestita da cuscini a quadri e
raggiungo il resto della famiglia in cucina. La casa è un po’ vecchia e classica, e
io l’adoro. L’arredamento interamente in legno e il grande camino al centro del
salone sono la parte che preferisco. Da bambino passavo ore lì davanti ad
ascoltare le storie che mio nonno mi raccontava.
Ora ci sto con Lilli, spesso da solo.
«Cos’è questo profumino?»
Non appena entro in cucina Lilli scende dalla sedia, correndomi incontro. I
capelli biondi sono scompigliati e raccolti in una crocchia disordinata, mentre
il pigiama rosa è stropicciato e troppo piccolo per lei. Mi appunto
mentalmente di comprargliene uno nuovo.
«Papà! Hai controllato i cavalli? Stanno bene?»
Roteo gli occhi e la sollevo per stamparle un bacio sulla fronte.
«I cavalli stanno bene, piccola».
«Ma è buio, non hanno paura del buio?»
Mia zia ridacchia mentre mescola qualcosa in una pentola. La fulmino con
lo sguardo.
«Tesoro, i cavalli stanno benissimo dove sono» la rassicuro.
Lilli scalcia per tornare con i piedi per terra, così la lascio andare e la
osservo correre al divano, sollevare il suo coniglietto e tornare da me. Me lo
porta per farmelo salutare, come sempre. Lo accarezzo e lei sembra così felice.
Non credevo che sarei riuscito a crescere una figlia nello stesso modo in cui
sono cresciuto io, in mezzo alla natura. Le premesse, sette anni fa, erano del
tutto diverse. Ora che siamo qui e che vedo quanto questo posto la stia
rendendo sensibile, mi sento felice.
«Mr. Bingley può mangiare con noi?» chiede.
Mr. Bingley è il coniglio che le ho permesso di tenere in casa per il suo
scorso compleanno.
«No, lo sai che gli animali devono stare lontani dalla cucina. Zia Shirley non
vuole intrusi nel suo regno».
Lei inarca un sopracciglio e io sbuffo.
«Lillibeth, tesoro, perché non metti Mr. Bingley nella sua gabbia insieme a
Mrs. Bennet e non vai a lavarti le mani? La cena è quasi pronta» propone mia
zia.
Mia figlia annuisce con riluttanza e si allontana con il coniglietto stretto al
petto. Mi avvicino a Shirley e lancio uno sguardo a quello che sta preparando:
pasticcio di carne. Mi appoggio al ripiano della cucina e mi strofino gli occhi.
Sono esausto e tutti i problemi dell’ultimo periodo mi stanno rendendo le
notti un vero inferno. Ho bisogno di andare a dormire senza temere che
qualcuno porti via a mia figlia quello che di più caro ha al mondo.
«Non mi piace come ti sei comportato oggi» esordisce lei.
Sbuffo e incrocio le braccia al petto. «Quella si è lanciata sotto al mio
trattore, che diavolo avrei dovuto fare?»
«Ma è stato un incidente!» protesta. «È la nostra nuova inquilina, e non è
così che accogliamo gli ospiti, Lachlan».
Ospiti. Non abbiamo mai avuto ospiti da queste parti, questo non è un
maledetto villaggio vacanza e non voglio che lo diventi.
«Non mi hai detto di aver affittato la casa di mia madre» le faccio notare.
So che lei ne è la legittima proprietaria tanto quanto me, ma era la casa di
mia madre e vorrei tanto aver saputo prima che qualcuno ci avrebbe vissuto in
pianta stabile. Avrei potuto svuotarla delle cose a cui tengo particolarmente.
Ha affittato il cottage così com’era e ora non posso entrare lì dentro e portare
via quello che voglio, sarebbe una violazione di proprietà.
Zia Shirley spegne il fuoco e sposta la pentola sul fornello più lontano, poi
mi fissa negli occhi. È giovane, potrebbe sembrare mia madre se non fosse per
gli occhi incredibilmente scuri e i capelli chiari così diversi dai miei. Anche
Lilli sembra non c’entrare niente con me; bionda, con gli occhi azzurri e la
pelle diafana. È identica a sua madre. A quel pensiero mi mordo il labbro.
«Quella ragazza ha pagato quattro mensilità anticipate d’affitto a una tariffa
schifosamente alta, Lachlan. Abbiamo debiti per migliaia di dollari, rischiamo
di perdere tutto e un’opportunità del genere non capita due volte. Cedar è
sconosciuta al mondo, nessuno verrà mai a vivere qui dopo di lei».
Socchiudo gli occhi e rifletto sulle sue parole. Chi diavolo pagherebbe
quattro mensilità anticipate per vivere in un cottage in una fattoria a Cedar?
«Cosa sai di lei? Voglio dire, avrai qualche informazione su questa donna».
Scrolla le spalle e prende i piatti. «Si chiama Theodora Sanders e viene dalla
California».
«Tutto qui?»
Ha affittato la casa di mia madre a una tizia che non sa guidare e l’unica cosa
che sappiamo di lei, oltre al fatto che non sa guidare un maledetto pick-up, è il
suo nome di battesimo? La fisso in tralice e trattengo un’imprecazione, mi
costa una certa difficoltà.
«Perché non vai a scoprire qualcosa mentre ti scusi con lei?» propone.
Mi strofino il viso, nervoso.
«Sono stanco, voglio cenare e andare a letto».
«Puoi farlo anche più tardi. Ti tengo la cena in caldo e penso io a Lilli, oggi è
presa da Mr. Bingley e Mrs. Bennet».
«Perché mi tratti come se fossi un ragazzino? Non mi devo scusare di
niente» protesto.
Mia zia mi fulmina con lo sguardo e indica il cottage oltre la finestra, le luci
sono tutte accese e mi viene un moto di rabbia al pensiero che la nostra
inquilina stia sprecando energia inutilmente. È una maledetta snob
californiana.
Mi sposto dal ripiano e mi allontano verso la porta.
«Non ci metto tanto» la avviso. Anche perché non ho niente da dirle.
«Non ti preoccupare, penso io a Lilli».
Mugugno una protesta e mi infilo di nuovo gli stivali e la camicia sopra alla
maglietta. Non mi preoccupo di allacciare né stringhe né bottoni, e nemmeno
di sistemarmi come sarebbe consono per visitare la propria inquilina.
Probabilmente puzzo di letame, di stalla e di sudore, ma me ne frego. Sto
andando solo a scusarmi per il bene di una convivenza civile e per zia Shirley.
Detesto che lei paghi sempre le conseguenze del mio pessimo carattere e so
che negli ultimi anni è successo spesso con diversi abitanti di questo posto.
Tornerò subito a casa per mettere a letto mia figlia e crollare sul materasso.
Attraverso il vialetto sterrato e mi fermo davanti alla porta d’ingresso in
legno. È ricoperta da uno strato sbeccato di vernice rossa, sulla quale spicca
una ghirlanda di foglie arancioni che sarebbe da cambiare. È finta e vecchia,
mamma la tirava sempre fuori a settembre e la lasciava lì fino a marzo, mia zia
deve averla ripescata da qualche scatolone in soffitta. Avrebbe dovuto
chiedermi di riverniciare la porta prima di metterlo in affitto, ma sapeva che
avrei reagito male. I due colpi riecheggiano nel buio di settembre, il frinire dei
grilli riesce ancora a mettermi di buon umore, anche se il freddo inizia a farsi
più pungente con il passare dei giorni. Amo questo posto e forse ha ragione
mia zia quando dice che per non farcelo portare via dobbiamo fare di tutto.
Anche affittare un posto che consideriamo sacro.
La porta si spalanca e l’inquilina incapace di guidare un pick-up sgrana gli
occhi. Sono chiari, circondati da ciocche nere e mosse che le coprono il viso
arrossato.
«Hai intenzione di farmi entrare?» borbotto.
Lei sussulta e si sposta di lato.
«Scusami, io non aspettavo visite» mormora. «Lachlan, vero? Stavo
cercando di sistemare la caldaia».
Aggrotto le sopracciglia e mi dirigo verso la cucina dove sembra sia esplosa
una bomba. Attrezzi di ogni tipo giacciono sul pavimento, ma nessuno sembra
essere utile a quello che stava facendo. Lancio un’occhiata a quel disastro e mi
schiarisco la gola.
«Hai mai riparato qualcosa in vita tua?» chiedo.
Lei scrolla le spalle e si morde il labbro. È piccola, penso. Ed è curioso che
sia quello il primo aggettivo che mi venga in mente, piuttosto che bassa. Credo
non arrivi a un metro e sessantacinque senza scarpe, e indossa una tuta che la
fa sembrare una ragazzina. Potrebbe non avere più di venticinque anni, ma
non ne sono sicuro. Sembra una di quelle persone senza tempo, alle quali è
difficile attribuire un’età. Ma non sono la persona più indicata per stabilire gli
anni di qualcuno: la gente mi da almeno dieci anni in più dei miei reali
ventisette, tutto a causa del mio aspetto trasandato.
«Ci stavo provando, la signora Addie…»
«Non si chiama Addie. Lo sai, vero?»
Sgrana gli occhi e mi viene da ridere, ma mi trattengo.
«Ma era sul contratto e lei si è presentata così…»
«Si chiama Shirley Addie Willow» chiarisco. «Un bel nome di merda».
Lei sussulta, ma lo vedo: trattiene una risata. Mi volto e raccolgo gli attrezzi,
li rimetto nella cassetta, che era di mia madre, poi la sistemo al suo posto.
Lancio uno sguardo alla caldaia e giro la manopola laterale.
«Non è rotta, era solo spenta. Questo è un modello vecchissimo, si aziona
qui» le faccio vedere.
Si avvicina e guarda con attenzione la mia mano.
«La prossima volta che ti serve qualcosa, per favore, attraversa la strada e
vieni a chiedere aiuto prima fare danni» concludo.
Chiudo il mobile verde della cucina e mi sposto per appoggiarmi alla piccola
isola con il ripiano in legno d’acero. Il mio sguardo scivola sugli sgabelli che
mamma aveva costruito. Voleva che fossero unici al mondo e perfetti per
questo posto. Mi si annoda lo stomaco. Odio che ci viva un’estranea, qui. Avrei
preferito cederle la fattoria e trasferirmi qui con Lilli, anche se è troppo
piccolo e non avrei saputo dove sistemare la sua camera. Avrei dormito sul
divano, in fondo è così che mi arrangiavo con mamma.
«Sono venuto a scusarmi per oggi» sputo fuori a fatica.
La fisso con attenzione e cerco di capire se possiamo fidarci di lei. Io ho
smesso di fidarmi delle persone da molto tempo e anche di trattarle bene. Ho
riguardo solo per mia figlia, non intendo cambiare atteggiamento e permettere
a qualcuno di entrare nella bolla che ho creato per noi. Nessuno ha idea di
quanto sia faticoso costruire un mondo perfetto senza una madre per una
bambina di sei anni, farle accettare che non avrà mai qualcuno da chiamare
con quel nome e che io posso bastarle.
È fottutamente faticoso.
«Oh» sussurra. «Non importa, è stata colpa mia. Il pick-up è vecchio e non
frena bene».
«Ne hai mai guidato uno?»
Lei arriccia le labbra rosa in una smorfia e scrolla le spalle.
«L’ho ritirato al mio arrivo, pensavo che qui tutti ne avessero uno».
«C’è anche gente che guida un’utilitaria» le faccio notare. «Qualcuno si è
arrischiato anche a comprare un SUV, ma non voglio scioccarti».
Sbuffa e rotea gli occhi.
«Comunque, domani lo porterò in officina per un check-up. C’è un’officina
qui, vero?»
«Dove diavolo credi di essere finita? C’è l’officina di Ollie vicino alla
stazione di servizio, ci sei passata davanti per venire qui. Cedar è piccola, ma
c’è tutto quello che serve per vivere bene».
Odio la spocchia delle persone che vengono dalla città e che ci trattano
come se fossimo dei selvaggi. Vivere in un piccolo paese non è qualcosa di cui
vergognarsi, è un’opportunità per godersi le cose davvero importanti della vita
e per ristabilire la scala delle priorità. Qui non siamo ossessionati dal lavoro
competitivo, dal produrre e diventare qualcuno, qui vogliamo solo
sopravvivere e, di tanto in tanto, essere felici.
Theodora solleva le mani e indietreggia fino al soggiorno.
«D’accordo, scusa» borbotta. «Sono appena arrivata e non ho idea di come
funzioni qui la vita».
«Non sei in un dannato villaggio Amish, Theodora».
Sussulta quando uso il suo nome e le guance le si tingono di rosso.
«D’accordo, allora pensi che potrei trovare un lavoro in paese?»
Questa visita sta prendendo una piega strana. Dovevo solo chiederle scusa e
tornare a casa, non farle da guida turistica e tuttofare.
«Se ti accontenti di poco, il negozio di articoli per la casa vicino alla tavola
calda cerca una commessa».
Lo so perché Laurel veniva al liceo con me, ha ereditato il negozio da suo
padre il mese scorso e ha bisogno di qualcuno che l’aiuti dato che vive a venti
minuti da Cedar e ha due figli problematici da seguire. Dopo il divorzio sta
passando un momento complicato e ha bisogno di tempo da dedicare a loro.
«Domani ci faccio un salto».
Annuisco e lancio uno sguardo al corridoio con tutte le luci accese. Vorrei
entrare in camera di mia madre e prendere la sua poltrona preferita per
poterla mettere al sicuro in garage, ma mi trattengo. Sarebbe un
comportamento da psicopatico. Mi allontano e torno verso la porta, penso di
non avere più niente da dirle ma, prima che io possa anche solo registrare quel
pensiero, le mie labbra si muovono da sole.
«Se vuoi, domani posso dare un’occhiata al pick-up prima di portarlo
all’officina».
Mi mordo una guancia e impreco mentalmente, chiedendomi che diavolo
mi passi per la testa. Theodora annuisce e accenna un sorriso, poi prende le
chiavi dal ripiano vicino alla porta e le lascia cadere nel palmo della mia mano.
Me le infilo in tasca ed esco dal cottage, sollevo una mano in segno di saluto e
mi allontano quando lei parla un’ultima volta.
«Buonanotte, Lachlan!» urla. «E grazie, davvero».
Annuisco senza voltarmi e continuo a camminare fino a casa mia, dove
quella donna non può entrare e dove tutto è sotto il mio controllo, compreso il
mio respiro. Quello che ha accelerato in modo strano quando lei ha
pronunciato il mio nome.
 
3
 
Theodora
 

Il mio primo giorno a Cedar è iniziato con le urla di una bambina che rincorre
un pony nel vialetto e Lachlan che ripara il mio pick-up, sbattendo attrezzi di
ogni tipo giusto per darmi fastidio. So che lo sta facendo di proposito perché,
andiamo, che bisogno c’è di sbattere gli attrezzi in quel modo?
Sbadiglio e tiro fuori la testa da sotto al cuscino. La biancheria è pulita e
profuma di agrumi, come se fosse appena stata lavata. È piacevole. Sono sicura
che sia merito di Addie, o Shirley, come diavolo l’ha chiamata suo nipote ieri
sera. Non sono ancora riuscita a farmi un’idea di quell’uomo e non sono sicura
nemmeno di volermela fare. Devo tenere un profilo basso, sono qui per
mescolarmi con questa gente e passare inosservata e non ho alcun interesse
nello stabilire una qualsiasi relazione con qualcuno. Mi farò delle conoscenze,
ovvio, ma non avrò un rapporto stretto con nessuno. E i Willow sono solo i
miei rumorosi e, a tratti scortesi, vicini di casa.
Lancio un’occhiata alla sveglia sul comodino e sbuffo. Sono le nove del
mattino e avrei voluto dormire un po’ di più, ho guidato così tanto negli ultimi
giorni che mi si incrocia ancora la vista e ho le spalle più tese di una corda di
violino. Ma la bambina della fattoria non pensa che io debba riposarmi.
Probabilmente questa gente si sveglia all’alba. Alle nove è ora di pranzo da
queste parti…
Mi alzo e mi infilo i pantaloni del pigiama, prendo una felpa dalla valigia che
ho poggiato sul pavimento e mi avvio verso il bagno. Perdo mezzora ad
ammirare le mattonelle bianche, con queste specie di greche di un arancione
acceso, ma alla fine mi ricordo di dover fare qualcosa prima di uscire di casa.
Mi lavo il viso e prendo la matita per disegnare le sopracciglia, cerco di fare un
buon lavoro mentre impreco e mi ripeto di dover cercare un dannato centro
estetico. Devo tingermi le sopracciglia anche solo per sentirmi normale: il
risultato con il trucco è orribile. Mi sistemo la frangia in modo da nasconderle
e mi lego i capelli senza impegno, con qualche ciocca che mi ricade intorno al
viso. Sembro una ragazzina appena scesa dal letto, ma non posso offrire di
meglio.
Mi incammino verso l’ingresso ed esco sul portico, guardandomi intorno
con gli occhi socchiusi per la luce. L’aria del mattino è frizzante, ma il sole
rende la temperatura ancora piacevole.
«Si può sapere che diavolo c’è da sbattere in quel modo?» sbotto,
avvicinandomi a Lachlan che ha la testa infilata nel cofano del mio pick-up.
Lui mi lancia un’occhiata e si toglie la sigaretta dalle labbra, rilasciando una
nuvola di fumo.
«Dalle vostre parti la mattina non esiste? La passate a letto?»
Mi strofino le braccia e mi avvicino per sbirciare quello che sta combinando.
Ignoro deliberatamente le sue parole e mi concentro sui miei piedi nudi che
accolgono l’umidità delle assi di legno che scricchiolano sotto il mio peso.
«La domenica si dorme» puntualizzo.
Lui mi ignora e stringe qualcosa con una chiave tutta sporca di grasso, poi
chiude il gancio che sorregge il portellone sollevato e fa sbattere la lamiera così
forte che sussulto.
«Questo coso è da buttare» constata. «Secondo me non ti conviene neanche
metterlo a posto, è un rottame. Ti hanno fregata per bene».
«Lo sospettavo» mugugno. Non mi importa più di tanto: tra qualche
settimana avrei comunque voluto cambiarlo.
«Penso sia pericoloso guidarlo» continua.
Prende i suoi attrezzi e li ripone in una cassetta, si pulisce le mani sporche di
grasso su uno straccio e se lo infila nella tasca posteriore dei jeans logori. Dà
un ultimo tiro alla sigaretta e la spegne sotto lo stivale, poi la raccoglie e la
getta nel cestino all’angolo. Sollevo le sopracciglia. Non ho idea di quanti anni
potrebbe avere, ma il modo in cui se ne frega di qualunque cosa lo circondi è
attraente. Potrebbe anche esserci la più alta carica dello Stato qui, nella sua
proprietà, e lui non si degnerebbe nemmeno di farsi la barba.
«Allora?» esclama.
Sussulto e sbatto le palpebre. «Cosa? Scusami, stavo pensando al pick-up»
mento.
Lui si scosta i capelli scuri dalla fronte e poggia le mani sui fianchi.
«Vuoi venire al Pumpkin Patch oggi?» domanda.
Lancio uno sguardo al terreno alle sue spalle e al pezzo di porticato bianco
che custodisce le zucche.
«Perché no».
In fondo, oggi è domenica e so che in questo posto è tutto chiuso tranne la
tavola calda. Potrei iniziare a conoscere qualcuno, capire se è possibile trovare
davvero un lavoro da queste parti. Meno esco da Cedar e meglio è per me.
«Apriamo alle due, dopo pranzo. Ce li hai degli stivali?»
Sto per dirgli che no, non ho portato dei dannati stivali con me, quando la
bambina che sentivo urlare prima ci raggiunge correndo come se fosse
inseguita da qualcuno. Saltella sugli scalini della veranda con un coniglio
bianco a macchie nere tra le mani e si fionda da Lachlan a tutta velocità.
«Papà, Mrs. Bennet non sta bene!» urla. «Non mangia e non gioca con Mr.
Bingley!»
È piccola, bionda, ha gli occhi azzurri e la pelle così chiara da sembrare
porcellana. Lachlan è suo padre? Quanti anni ha questo uomo?
«Lilli, sai che non devi stressare i conigli in questo modo. Mrs. Bennet sta
benissimo, è solo stanca» risponde lui.
Lei fissa il coniglietto tra le sue mani con le sopracciglia inarcate. Indossa
una camicia a scacchi neri e rosa e jeans infilati in un paio di stivali sporchi di
fango. È adorabile, così diversa da lui. Adoro anche i nomi che ha dato ai suoi
coniglietti, sono sicura che ci sia la mano della signora Addie. Continuerò a
chiamarla Addie, qualunque sia il suo nome.
«Allora puoi controllare Mr. Snowflakes? È un po’ strano stamattina, non
vuole fare colazione» mormora la piccola. Lachlan prende un respiro
profondo e annuisce, facendole cenno di precederlo. Quando la piccola si
volta, mi nota e spalanca gli occhi. Per un secondo penso che mollerà la presa
sul coniglietto e che Mrs. Bennet rotolerà a terra, ma lei lo tiene saldamente tra
le sue mani e mi raggiunge.
«E tu chi sei?» esclama. «Vivi qui? Ma sei ancora in pigiama?»
Spara una domanda dietro l’altra e l’ultima mi conferma che è la figlia di
quell’energumeno. Sorrido e mi abbasso per guardarla negli occhi. Do una
carezza a Mrs. Bennet e torno in piedi contro la porta.
«Vivo qui da ieri, mi chiamo Theodora».
«Come il presidente degli Stati Uniti? Quello di una volta?» replica.
Aggrotto la fronte e sento Lachlan trattenere una risata, quello che ne esce è
un grugnito ma mi basta fissarlo per capire che sta ridendo.
«Sì, ma al femminile» rispondo. «Puoi chiamarmi Theo».
«Papà, ha un nome da maschio! È così fico, posso avere anche io un nome da
maschio?»
Lachlan sbuffa.
«Le parole, Lillibeth» la rimprovera.
«Sì, ma posso avere un nome da maschio anch’io?»
«Ne riparliamo dopo, ora andiamo a controllare Mr. Snowflakes».
Seguo la discussione passando lo sguardo da uno all’altro con interesse e
confusione. Lui deve cogliere i miei pensieri perché prende la figlia per mano e
si avvicina. Prima che possa anche solo schiudere le labbra, Lillibeth lo
precede.
«Vieni a conoscere Mr. Snowflakes, Theo?»
Lachlan rotea gli occhi azzurri.
«Ti devi mettere le scarpe più simili a un paio di stivali che hai» mi ordina.
Lancio un’occhiata al mio ingresso e mi infilo gli scarponi che ho tirato fuori
dalla valigia ieri sera, non sono neanche lontanamente paragonabili a degli
stivali, ma sono meglio dei piedi nudi. Li allaccio con due fiocchi e chiudo la
porta senza curarmi delle chiavi. Poi li seguo.
«Quale potrebbe essere il mio nome da maschio, papà?» continua la piccola.
Ridacchio e fisso suo padre: è esasperato.
«Tu hai un bellissimo nome e non ti serve un nome da maschio» risponde.
«Ma io ne voglio uno».
«Lilli» la ammonisce lui.
Lei sbuffa e mi fissa roteando gli occhi in maniera teatrale. Trattengo una
risata e le strizzo l’occhio. Percorriamo una passerella in legno sporca di fieno
e fango fino a un recinto che circonda un porticato vicino ai campi. È
decisamente la versione più moderna di una qualsiasi stalla. Lilli lascia la mano
di suo padre e corre fino al cancello, apre una piccola gabbia in legno e ci posa
dentro Mrs. Bennet. Poi sparisce nella stalla.
«Lillibeth Anna, fermati!» urla lui. «Maledizione, questa bambina mi
manderà fuori di testa».
«Sono qui, papà!»
Ridacchio e mi copro le labbra con una mano, lui mi fulmina con lo sguardo.
«Quanti anni ha?» chiedo.
Lachlan apre il cancello e mi indica l’interno per farmi passare.
«Sei, tra qualche settimana. Ma a volte penso che sia più grande».
Lo seguo e sgrano gli occhi quando mi ritrovo davanti cinque agnelli bianchi
come la neve. Capisco chi è Mr. Snowflakes subito, mi basta vedere il foulard
rosa che porta al collo e il modo in cui Lilli lo riempie di baci. Lachlan la
rimprovera e le dice di allontanarsi, ma lei insiste affinché lui controlli il suo
amico. Non so se mi colpisca di più il fatto che i migliori amici di questa
bambina siano tutti animali o il modo in cui suo padre interagisce con lei.
«Theo» mi chiama la piccola.
«Dimmi».
«Pensi che Mr. Snoflakes abbia bisogno di un nome come il tuo? Uno fico e
da adulto».
Scoppio a ridere e mi avvicino per osservare meglio il diretto interessato. È
così adorabile che vorrei tenerlo in braccio.
«Penso che il suo nome sia perfetto» rispondo.
Lachlan poggia l’agnellino sul fieno e si alza, si pulisce le mani lavandole
sotto a un rubinetto di fortuna, all’angolo, e torna da noi.
«Il tuo amico sta bene, piccola. Ora pulisciti le mani, recupera Mrs. Bennet e
andiamo a casa a lavarci. Puzziamo di stalla, maledizione».
Mi annuso le maniche e arriccio le labbra in una smorfia. Puzziamo eccome,
ma contro ogni aspettativa la cosa non mi infastidisce. Lilli saluta Mr.
Snowflakes, tira fuori il coniglietto dalla gabbia e se lo stringe al petto
correndo come se fosse rincorsa da qualcuno.
«Non si corre con gli animali in braccio!» urla suo padre. «Lilli,
maledizione, stai attenta a Mrs. Bennet!»
Impreca tra le labbra e chiude il recinto.
«Forse il coniglio di tua figlia era solo provato dalla corsa» gli faccio notare.
«Tu dici? Di questo passo non sopravviverà al Natale».
Scoppio a ridere.
«Grazie per aver dato un’occhiata al pick-up».
Lui scrolla le spalle. «Non pensare che ora siamo amici, perché non lo
siamo. Io non sono Lilli e non credo nella bellezza del mondo, men che meno
voglio fare amicizia o mi interessa il tuo nome maschile. È un nome di merda,
se proprio lo vuoi sapere».
Mi irrigidisco e incrocio le braccia al petto come a proteggermi. Che diavolo
è successo negli ultimi due secondi? Sembrava tranquillo, un vicino
amichevole con cui scambiare due chiacchiere, mentre ora sembra di nuovo lo
stronzo di ieri.
«Io non ho un nome maschile e Theodora non è un nome di merda!»
esclamo.
È l’unica risposta che mi viene in mente e mi sento un’idiota, mancava una
canzoncina cantata saltellando e sarei sembrata una bambina.
Lachlan sospira e raccoglie la cassetta degli attrezzi dalla mia veranda.
«Comunque, non ne sono affascinato».
«Nemmeno Lachlan è questa gran cosa, se proprio lo vuoi sapere» gli faccio
notare.
«Allora direi che andiamo d’accordo».
Scende gli scalini e le assi scricchiolano, si incammina lungo il vialetto
sterrato e a metà strada si volta.
«Ricordati del Pumpkin Patch, oggi» esclama.
Annuisco e gli volto le spalle, lascio gli scarponi sporchi sulla veranda ed
entro in casa chiudendomi la porta alle spalle. Giro la chiave nella serratura e
sbuffo per la frustrazione. Può andare al diavolo, insieme al suo Pumpkin Patch
e alla sua dannata fattoria.
Mi cercherò un centro estetico a Cincinnati e farò un salto al centro
commerciale a comprare abiti adatti alla vita di campagna. Lachlan può
prendere le sue zucche e infilarsele dove farebbero un male cane, tanto per
citare le parole con cui mi ha accolta ieri.
Che poi, Theodora non è neanche un nome maschile.
Maledetto pallone gonfiato.
 
 

4
 
Lachlan
 

Scatto una foto a una madre che stringe il figlio di due anni tra le braccia e
restituisco il telefono alla donna. Prendo la zucca che il bambino ha scelto e la
porto alla sua auto, mentre scambiamo due chiacchiere sui nostri figli. Il suo si
chiama Aiden, sa già contare fino a quindici e non usa più il pannolino da tre
mesi. Infilo queste informazioni nel cassetto delle cose di cui non mi importa
assolutamente niente e le sorrido. Di Lilli parlo poco, accennando solo al fatto
che inizierà la scuola elementare a breve e che ama stare a contatto con la
natura.
Non mi piace parlare di lei con degli estranei, anche se a Cedar ci
conosciamo tutti e chiunque nel raggio di quindici miglia sa che è mia figlia.
Zia Shirley mi definisce geloso e troglodita, ma proteggerla da quello che ci è
stato fatto è dura e so che, se la tengo lontana dai pettegolezzi e dalla gente,
posso riuscirci. La donna mette il figlio in auto e allaccia le cinture del suo
seggiolino, chiude lo sportello e mi si avvicina. Distolgo lo sguardo e lo punto
sul cielo alle sue spalle. Il sole sta tramontando e d’istinto cerco il cottage di
mia madre. Le luci sono tutte spente e il pick-up non è nel vialetto, Theodora
non si è presentata al Pumpkin Patch oggi pomeriggio e Lilli mi ha chiesto per
un’ora dove fosse.
«Mi chiamo Lisa» esordisce lei, riportandomi alla realtà.
Distolgo lo sguardo dal cottage di mamma, sollevo la zucca tra le mani e
indico il retro dell’auto, un fuoristrada vecchio e sporco di fango.
«Beh, Lisa, se mi apri il bagagliaio posso mettere via questa».
Lei annuisce e si sposta per aprire il portellone. Mi fissa mentre infilo la
zucca nel retro della sua auto e lo fa in quel modo: labbro tra i denti, occhi
languidi e scollatura in mostra. Trattengo un sospiro e mi sposto.
«Sei Lachlan, giusto?».
Annuisco e prendo il pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans. Non credo
che Lisa sia di Cedar, non l’ho mai vista da queste parti e non conosco la sua
auto, ma lei sembra conoscermi.
«Io sono di Finnik, andavo alla Bristol High» va avanti.
«Si vede che non sei di Cedar».
Inarca un sopracciglio e mi si fa più vicina, poggia una mano sul mio petto e
la fa scorrere lungo i bottoni della camicia a quadri che indosso. Prendo una
boccata di fumo e rilascio una piccola nuvola nell’aria, si disperde vicino al suo
viso ma lei non sembra farci caso.
«E da cosa si vede?».
«Dal fatto che stai per chiedermi qualcosa che dovresti tenere per te.
Nessuno qui osa farmi quella domanda, tesoro».
So già cosa vuole chiedermi e se non avessi i nervi tesi all’idea di sentire di
nuovo quella domanda, penserei anche che Lisa sia carina. Non è niente di che,
non ha lineamenti fuori dal comune o un fisico da far girare la testa, ma per
una notte e per uno come me andrebbe benissimo.
«Quindi sei Willow» constata. «Blade Willow».
Sospiro. «Perché non me lo chiedi e basta? Sappiamo cosa vuoi da me, Lisa.
Blade Willow non esiste più da almeno otto anni, ma se ti fa sentire bene sono
la tua fantasia liceale in carne e ossa».
Lei ridacchia, fruga nella borsetta e tira fuori un biglietto da visita rosa
confetto. Me lo porge e mi strizza l’occhio. È di un centro estetico di Finnik,
una cittadina a una trentina di miglia da Cedar e c’è ogni tipo di contatto
scritto sopra: fax, e-mail, cellulare e numero di telefono fisso. Lisa non vuole
lasciare nessuna strada imbattuta, a quanto pare. Mi scappa una risata mentre
me lo infilo in tasca.
«Chiamami qualche volta».
«Per cosa vorresti essere chiamata?»
Perché se la sua fantasia è scoparsi la sua cotta liceale, non le dirò certo di
no. Ho ventisette anni e il sesso serve a me come a qualunque altro individuo
della mia età. Avere una figlia non cambia le cose.
Lisa socchiude gli occhi e apre lo sportello dell’auto.
«Per quello che ti pare, Lachlan. Tu chiamami, quando ne senti il bisogno».
Mi strizza l’occhio e sale a bordo della sua auto, si allaccia la cintura di
sicurezza e parte senza degnarmi più di uno sguardo. Scuoto la testa e prendo
l’ultimo tiro dalla mia sigaretta, riflettendo veramente sulla possibilità di
chiamarla e di farmi una scopata con una donna che non sia di questo
maledetto buco di mondo in cui la gente non fa altro che parlare. Mi
scompiglio i capelli e controllo l’orologio al mio polso: le sei di pomeriggio.
Dove diavolo è Theodora? E perché mi importa così tanto di sapere dove si
trovi quella ficcanaso snob? Odio ancora il fatto che viva in casa mia e vorrei
che se ne andasse domani! Però perché non è venuta al Pumpkin Patch?
«Pensi di chiamarla?»
Sussulto e mi volto di scatto, ritrovando l’oggetto dei miei pensieri davanti
ai miei occhi. In piedi davanti a me, Theodora mi fissa con un sorriso sulle
labbra mentre le sue mani sorreggono qualche decina di buste del centro
commerciale di Cincinnati. Ci vado spesso quando devo comprare un po’ di
vestiti nuovi a Lilli, cresce troppo in fretta e lì le cose costano di meno rispetto
a Cedar. Distolgo lo sguardo dalle sue mani e lo punto su di lei; indossa un
paio di jeans attillati dentro a degli stivali di pelle marrone alti fino al
ginocchio e un cappottino di lana leggera a quadri blu e nero.
Dio, le sto facendo una radiografia.
«Avevi detto di non avere degli stivali».
Quando quelle parole lasciano le mie labbra, mi tiro uno schiaffo
mentalmente.
«Non ho mai detto niente del genere» mi fa notare.
«Ma stamattina sei venuta nella stalla con quelle scarpe».
«Ecco perché sono andata a fare shopping, così ora ho degli stivali nuovi»
mi fa notare, sollevando le buste tra le sue mani. Inarca un sopracciglio scuro e
arriccia le labbra. I capelli le ricadono sulle spalle mossi, sono di uno strano
colore che non saprei definire. Non è naturale, ma non so nemmeno quale
dovrebbe essere il suo vero colore.
«Beh, non me ne frega niente» borbotto.
Sospira e porta le buste sul porticato del cottage, poi prende le chiavi da una
piccola borsa a tracolla. Come diavolo è vestita? Sembra uscita da una rivista di
moda newyorkese, a Cedar la gente spala letame e coltiva i campi, non presta
attenzione alla moda.
«Allora, la chiamerai?» mi chiede.
«Perché non dovrei?»
Seriamente, perché non dovrei chiamare Lisa e scoparmela fino a
dimenticarmi il mio nome? Non c’è nessun motivo per non farlo. Non è
nemmeno di qui, potrei lasciare Lilli a Zia Shirley e fuggire da questo posto
per una sera, una soltanto.
«Non sembra il tuo tipo» mormora.
Ridacchio e mi appoggio alla ringhiera in legno del porticato, la osservo
mentre apre la porta e lascia cadere i suoi acquisti sul pavimento per poi
tornare a fissarmi.
«Nemmeno mi conosci» le ricordo.
«Si vedeva da come la guardavi che non lo è».
«E come la guardavo?»
La guardavo come una donna scopabile, niente di eccezionale e niente che
qualcun’altra non sia. Non cerco niente di duraturo e non voglio una donna
che mi piaccia davvero. Voglio solo vivere esperienze normali per persone
normali, cose che negli ultimi anni non sono riuscito a fare.
«Non lo so, la stavi studiando come un animale da laboratorio» risponde.
Mi raggiunge e incrocia le braccia sul petto, rimango dove sono e inarco un
sopracciglio mentre la fisso negli occhi azzurri.
«Stavo cercando di capire se fosse una da una scopata e basta» ammetto.
Sussulta e arriccia le labbra in una smorfia di disappunto.
«Sei squallido» sbotta.
«Può darsi, ma lei era una da una scopata e basta».
Mugugna qualcosa di incomprensibile e si sposta verso la porta, salgo i
gradini prima che possa infilarsi in casa e la raggiungo. Dovrei lasciarla entrare
in casa e chiamare Lisa, concordare un appuntamento alle mie condizioni e
comunicare a Zia Shirley che una sera di queste dovrà badare a Lilli, invece
continuo a parlare con lei. A chiederle cose che non dovrebbero interessarmi.
«Dov’è il tuo pick-up, Theodora?»
Lei sbuffa e rotea gli occhi.
«Alla stazione di servizio alla fine del centro abitato».
Trattengo una risata nel sentirla parlare in quel modo e lei mi fulmina con lo
sguardo.
«E come sei venuta qui?»
«A piedi. Hai ragione, quel coso è da buttare. Domani cercherò un’auto
d’occasione e vedrò di sbarazzarmene al più presto, nel frattempo spero che il
proprietario della stazione di servizio non si arrabbi con me per averlo lasciato
lì» mormora.
Prendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e digito un messaggio a Fred, il
padrone della stazione di servizio, lo avviso del pick-up fermo nella sua
proprietà e gli dico che domani andrò a prenderlo per liberare lo spazio. Non
so perché lo faccio, ma Fred mi ha visto crescere e so che a me non direbbe
niente di male.
«Ho avvisato Fred, se mi lasci le chiavi domani vado a prenderlo e lo porto
da Ollie. Può cercare di ripararlo finché non trovi qualcosa di meglio» la
informo.
Aggrotta la fronte in un modo buffo e sbatte le palpebre, gli occhi azzurri
scintillano nella penombra del tramonto mentre il cielo aranciato fa sembrare i
suoi capelli più chiari.
«E perché lo fai?» indaga. «Stamattina mi hai chiaramente detto che non
siamo amici e che ho un nome di merda».
«Non vedo come avere un nome di merda possa essere un problema, devo
solo andare a prendere il tuo pick-up» le faccio notare.
Che diavolo di ragionamenti fa questa donna?
«Sì, ma perché dovresti farlo?»
Non lo so, maledizione.
«Allora, sai che c’è?» sbotto. «Non me ne frega un cazzo del tuo pick-up,
lascialo dov’è e aspetta che Fred venga qui con il suo fucile a cercarti per farti
saltare il cervello. Sono cazzi tuoi».
Theodora sgrana gli occhi e scuote la testa in preda al panico, il respiro più
accelerato e le guance rosse.
«Un fucile? Ma sono rimasta a piedi, dannazione! È stata un’emergenza, non
ho fatto niente di male».
Faccio schioccare la lingua sul palato e la fisso per capire se stia recitando.
No, l’ho spaventata veramente. Ma che diavolo di problemi ha?
«Dio mio, sto scherzando! Non siamo dei selvaggi, nessuno verrà a spararti
per quel cesso di macchina» la tranquillizzo.
Scendo gli scalini della veranda e mi incammino verso il Pumpkin Patch. È
quasi ora di chiudere al pubblico e devo riuscire ad allontanare Lilli dagli altri
bambini prima che regali qualche animale a qualcuno senza che me ne renda
conto. L’estate scorsa ha regalato un coniglio alla figlia della sua insegnante
d’asilo, per aiutarla a superare la morte di sua nonna. Giuro che amo il suo
animo sensibile, ma a volte è un problema averci a che fare.
«E comunque non mi serve il tuo aiuto, Lachlan Willow!»
Theodora è sul porticato con le braccia tese lungo i fianchi e le mani chiuse
a pugno. Sollevo la mano e le punto due dita contro per farle capire che ho
recepito il messaggio.
«Bene, perché non avevo intenzione di aiutarti» rispondo. «E, comunque,
Lilli ti ha aspettata per tutto il pomeriggio. Se non sai mantenere la parola con
un bambino, allora dovresti evitare di averci a che fare. So che nel tuo mondo
snob probabilmente le promesse non contano niente, ma qui le prendiamo
seriamente. Chiedile scusa e lasciala in pace».
Sul serio, se deve parlare con mia figlia e farle credere che sono amiche e che
possono avere un ridicolo nome maschile da condividere, per poi sparire per
tutto il giorno e lasciarla a chiedersi dove sia finita, allora può evitare di
parlarle. Non deve neanche guardare nella direzione di Lilli, è chiaro che non
sa interagire con nessuno che non sia l’alta società di quella città di merda da
dove viene.
Theodora si sporge oltre la ringhiera. «Non le ho fatto nessuna promessa e
non sono venuta perché suo padre è un grande stronzo!»
«Dato che continuerà ad esserlo, stai lontana da lei!»
«Vaffanculo, Lachlan Willow!» ruggisce.
«Con piacere».
Le strizzo l’occhio e mi allontano senza voltarmi. Mi tasto la tasca dei jeans
e ci frugo dentro fino a quando non trovo il biglietto di Lisa. Mi serve una
scopata con una donna che non mi urli dietro ogni volta che mi vede. E mi
serve subito.
 
5
 
Theodora
 
 
Sono a Cedar da appena tre giorni e già mi sento soffocare. Se avessi qualche
altra alternativa la coglierei al volo e mi lascerei questo paesino chiuso e pieno
di pettegoli alle spalle, ma non ce l’ho. Cedar, al momento, è il posto più sicuro
in cui possa stare. E per quanto io trovi insopportabile il mio vicino, anche
vivere nel cottage accanto a casa sua è d’aiuto. Sono sotto lo sguardo costante
di qualcuno, se mi succedesse qualcosa so che i Willow si porrebbero qualche
domanda. Tutto questo mi rasserena, mi fa sentire più al sicuro di quanto
dovrebbe.
Cammino con un bicchiere di carta in mano e mi guardo intorno con
curiosità. Finalmente è lunedì e tutte le attività commerciali del posto
riaprono, non avrei mai pensato che ci potessero essere così tante piccole
attività.
Passo attraverso la via in cui sono concentrati tutti i negozi di alimentari.
Supero una piccola pasticceria, dalla quale proviene un delizioso profumo di
dolci appena sfornati. I marciapiedi sono di un insolito rosso mattone e
qualche foglia li ricopre qua e là. Manca ancora qualche settimana affinché gli
alberi si colorino completamente d’arancione e rosso, ma l’aria è già frizzante e
devo stringermi nella mia giacca un po’ di più quando il vento soffia forte. Non
sono abituata a queste temperature, a casa faceva sempre caldo e dove sono
cresciuta io il massimo del freddo equivale a venti gradi in inverno. La
California non offre spettacoli paesaggistici di questo genere, non ha colori
così accesi e reali. È più come una patina sfocata dalla quale si intravede una
vita che tutti vorrebbero, ma che nessuno riesce ad avere davvero: perfetta e
agiata, quella per la quale pensavo di dovermi prodigare fino a qualche mese fa.
Sbatto le palpebre per scacciare quel pensiero. Supero la tavola calda e la
caffetteria gestita da un tale Joe, poi ecco il negozio di cui parlava Lachlan,
quello di articoli casalinghi. Nella borsa ho un curriculum, scritto ieri sera. Ho
analizzato con cura quali informazioni inserire e in che modo renderle
appetibili. Spero che sia sufficiente per ottenere il lavoro e tirare avanti.
Osservo l’insegna arancione sopra al portone in vetro e controllo che
corrisponda a quello che sto cercando. Your Home, si chiama. L’insegna ha un
cucchiaio con due occhi e una bocca inquietante a completare il tutto. È l’unico
negozio di articoli per la casa nel raggio di qualche miglio, non posso
sbagliarmi. Prendo un respiro profondo ed entro. Mentre spingo il portone,
questo cigola. Un campanello fastidioso annuncia il mio ingresso, ma dietro al
bancone con sopra il registratore di cassa non c’è nessuno. Mi guardo intorno,
cercando segni di qualche dipendente.
Nell’aria c’è un piacevole odore di cannella.
«Arrivo subito!» urla una donna da dietro uno scaffale nascosto.
Non so se annunciarmi e né come farlo, perciò mi mordo il labbro in attesa
che compaia. Passa solo qualche istante prima che mi raggiunga, sorridendomi
con calore. È alta quanto me, ha i capelli di un intenso color rame e gli occhi
scuri. Sembra una ragazzina, ma il suo sguardo mi dice che non lo è più da un
pezzo.
«Posso aiutarti?» domanda.
«Io…»
«Sei quella nuova, lo so. In questo posto di ficcanaso non si parla d’altro.
Lachlan mi ha detto che vivi nel cottage vicino a casa sua e che saresti passata»
mi informa.
Apro la bocca per la sorpresa e non riesco a pronunciare una parola. Lachlan
le ha parlato di me? Quell’uomo è un enigma, non riesco a capire che problemi
abbia.
«Io sono Laurel, comunque».
Le porgo la mano e sorrido.
«Theodora» mi presento. «Scusami, sono ancora frastornata da questa totale
mancanza di privacy».
Lei ridacchia e si sposta dietro al bancone. Prende due scatole rosse dalla
mensola alle sue spalle e le poggia sul ripiano per incartarle.
«Ti ci abituerai. Sono tutti un po’ invadenti, ma scommetto che nessuno ti si
è ancora avvicinato stamattina».
Ci rifletto e realizzo che è vero, nessuno mi ha fermata per parlarmi.
«Hai ragione».
«Ti stanno dando qualche giorno per abituarti allo stile di vita di Cedar».
La cosa non è di conforto.
Prendo il curriculum dalla borsa e lo appoggio sul bancone. «Sono passata
per il lavoro. Lachlan mi ha detto che serve una commessa e ho pensato di
candidarmi».
Lei posa le forbici con cui stava tagliando un nastro da regalo e afferra il
curriculum. Gli lancia una rapida occhiata e lo getta nel cestino. Sussulto e
sgrano gli occhi, sorpresa dalla sua reazione. Non è un curriculum eccezionale,
d’accordo, ma come osa gettarlo via davanti a me? Sto per girare i tacchi,
quando lei scoppia a ridere.
«Dovresti vedere la tua faccia!» esclama.
«Io non…» Non so cosa diavolo dire.
«Sei assunta, Theodora. Qui non servono curriculum e lettere di referenza,
solo persone che hanno voglia di lavorare. E io sono disperata! Da quando ho
ereditato il negozio non riesco più a gestire niente della mia vita. Ho bisogno
di qualcuno con cui dividere i turni. Non vivo più a Cedar ed è complicato
mandare avanti il negozio da sola. Sarei più tranquilla sapendo di avere
qualcuno che può aiutarmi».
Sospiro per il sollievo. Vorrei mettermi a saltellare per la gioia ma mi
trattengo e mi limito a ringraziarla.
«Non ringraziarmi, mi fido di Lachlan».
Di nuovo quel dannato nome. Getto il bicchiere nel cestino accanto al
bancone, poi mi schiarisco la voce.
«Posso iniziare da subito, ti lascio i miei documenti per redare il contratto».
«Sei così adorabile» si lascia scappare.
«Grazie. Credo…» mormoro confusa e imbarazzata.
Non mi sento adorabile, ma voglio essere gentile con il mio nuovo datore di
lavoro. «Come ti trovi al cottage? I Willow sono dei buoni vicini».
Forse non abbiamo la stessa concezione di “buon vicinato”, ma evito di
dirglielo. «Bene, mi sto ancora ambientando. È tutto nuovo per me».
«Lilli è adorabile» continua.
Annuisco. Mi chiedo da chi abbia preso dato che di suo padre non ha niente.
A partire dalla gentilezza, per poi terminare con l’aspetto fisico.
«Già, è dolcissima» concordo.
Laurel infila i pacchi regalo in due sacchetti e li poggia da qualche parte
sotto il bancone, poi batte le mani.
«D’accordo, che ne dici di iniziare ufficialmente la settimana prossima? Da
domani puoi già cominciare a venire qui così ti spiego tutto e ti mostro il
negozio, intanto faccio preparare il contratto» propone.
Va benissimo, non ero nemmeno sicura che cercasse davvero del personale,
avere un lavoro quando fino a ieri ero senza prospettive mi fa sentire meglio.
«Sarebbe perfetto!» rispondo. «Grazie, Laurel. Davvero, mi stai aiutando
tantissimo».
«Tu aiuterai me, perciò va bene così».
Sto per chiederle a che ora dovrò presentarmi qui domani, quando un
clacson mi fa sobbalzare. Un pick-up accosta fuori dal negozio mentre il
portone cigolante si apre e una donna anziana si infila nel piccolo ingresso.
Laurel la saluta con un sorriso e io la imito.
«Buongiorno, cara. Sei la ragazza nuova, vero?» domanda.
Annuisco. «Esatto, mi chiamo Theodora».
Lei sospira.
«Un nome meraviglioso, cara. Non esiste una Theodora a Cedar, ora ne
abbiamo una anche noi».
Laurel rotea gli occhi. «Signora Klaus, posso aiutarla in qualche modo?».
Memorizzo quel nome, mentre veniamo ancora interrotte dal clacson
all’esterno. L’anziana donna sbuffa e si volta verso l’ingresso.
«Il giovane Willow è di cattivo umore» constata.
«E che novità» ribatte Laurel, poi indica il pick-up e mi sorride. «Puoi
andare a controllare che diavolo vuole? Io mi occupo della nostra cliente».
«Hai una nuova commessa, piccola Laurel?»
Me ne vado prima di sentire la risposta e ridacchio per quello scambio di
battute. La vecchia me non avrebbe mai avuto una conversazione del genere in
un piccolo negozio, troppo impegnata a correre da qualche parte per non
arrivare mai in nessun posto preciso. Troppo concentrata su se stessa.
Esco e Lachlan è già pronto a lanciarmi un’occhiataccia.
«Non ho tutto il giorno, Theodora Sanders».
«Si può sapere che diavolo vuoi da me? Stavo facendo un colloquio di
lavoro» sibilo.
«Con la signora Klaus?»
«Con Laurel!» sbotto.
Fisso le sue dita tamburellare sul volante e incrocio le braccia al petto.
«Sali, non ho tutto il tempo del mondo» mugugna.
«Io con te non vengo da nessuna parte».
Chi diavolo crede di essere? Mi ha lasciata sul vialetto di casa urlandomi
dietro quelle parole scortesi ieri sera e ora si presenta qui comportandosi da
padrone della città. Non lo conosco nemmeno, non gli devo niente. È solo il
mio maledetto vicino di casa.
«Ho portato la tua auto da Ollie, ti do un passaggio a casa».
Sono venuta in centro con Addie –continuo a chiamarla così – e le ho detto
che sarei tornata a piedi proprio come ho fatto ieri.
«Non mi serve un passaggio, posso camminare» replico.
Mi sposto sul marciapiede e supero il negozio di Laurel, senza guardarmi
indietro. Lachlan mette in moto il pick-up e mi segue a passo d’uomo,
irritandomi da morire.
«Theodora, maledizione» sibila. «Vuoi fermarti?»
«Non vedo perché dovrei, sei solo il mio stronzo vicino di casa».
«Theodora!» urla, facendo voltare alcuni passanti.
L’ultima cosa che voglio è diventare oggetto di pettegolezzo di Cedar, perciò
aumento il passo e cerco di seminarlo. Lui continua a seguirmi con il pick-up e
quando la strada si allarga per lasciare spazio a un piccolo spiazzo vicino a un
parchetto grande quanto il cortile della mia vecchia casa, sterza e ferma l’auto.
In pochi istanti me lo ritrovo davanti.
«Ma perché diavolo mi segui? Pazzo psicopatico!» urlo.
«Stai dando spettacolo» mi ammonisce. Mi afferra per un braccio, sorride a
qualche curioso passante che ci fissa con insistenza e mi spinge fino allo
sportello. Lo apre e mi butta letteralmente sul sedile del passeggero.
«Io ti…» intento, presa dall’ira.
«Odio? Lo so, la cosa è reciproca» conclude per me. «Ora smettila di
comportarti come una pazza e allacciati la cintura».
Lo fulmino con lo sguardo ma faccio come dice, poi finalmente ci
immettiamo sulla strada principale.
«Perché mi stai così addosso?» ringhio. La rabbia mi scoppietta sul fondo
dello stomaco, sono un vulcano di collera pronto ad eruttare e distruggere
tutto quello che c’è sul mio cammino.
Lui sbuffa e accende la radio. Allungo una mano e la spengo, sfidandolo a
riaccenderla.
«Vivi in casa di mia madre» borbotta.
«Ho pagato quattro mensilità anticipate per viverci, non sono un’intrusa» gli
faccio notare.
«Ma cosa ci sei venuta a fare in questo posto dalla California? Non è adatto
a te».
Incrocio le braccia al petto e reprimo la voglia di urlare. «Non sono affari
tuoi».
Sospira, poi svolta all’incrocio che porta fuori dal centro e imbocca la statale
che conduce alla fattoria.
«Smettila di fare la stronza».
È serio? Io dovrei smetterla di fare la stronza? Sollevo le mani e impreco.
«Si può sapere che problemi hai? È chiaro che non ti sei scopato quella
donna, sei ancora più insopportabile! Non ti conosco bene e già ti odio,
Lachlan Willow».
Lui ridacchia. Vedo lo steccato della fattoria. Grazie a Dio siamo arrivati.
«La cosa è reciproca, Theodora Sanders» replica. «Direi che siamo pari».
«Bene» sputo fuori.
«Bene».
Accosta davanti al cottage e io salto giù di corsa. Non voglio stare un minuto
di più vicino a lui.
«E stammi lontano, dico sul serio!» esclamo.
«Non sarà difficile».
«Bene» ripeto.
«Bene».
Mi volto e corro su per gli scalini, apro la porta e mi fiondo in casa lontano
da lui. Quell’uomo è insopportabile! non voglio passarci un minuto di più
accanto, eppure continuo a trovarmelo ovunque. La mia permanenza qui si sta
trasformando in un incubo grazie a lui.
 
6
 
Lachlan
 
A Cedar c’è una sola banca e la direttrice è la madre di una mia vecchia
compagna di liceo, prossima alla pensione. Sfuggirle non è proprio possibile.
Ho cercato di non farmi trovare, ho delegato tutto a Zia Shirley, ma vivere in
un buco di mondo significa che prima o poi, da quel buco, ti ci tirano fuori con
la forza. E quel momento è arrivato.
L’officina di Ollie è l’unico servizio della piccola cittadina in cui vivo che si
allontana dal centro. Per quanto grande possa essere il centro, poi. Si trova
all’angolo tra la stazione di servizio di Fred e un negozio di ferramenta che,
oggi, è stranamente pieno di gente. La posso vedere accalcata in coda proprio
mentre, con il mio pick-up, ci passo accanto.
Ed è in quel momento che vedo anche la signora Dallison, la direttrice della
banca. È in fila dietro a una decina di persone con addosso un tailleur nero che
la fa sembrare terribilmente fuori posto in questo paesino; i capelli biondi
sono tirati in uno chignon ordinato, con così tanta forza che sembrare che le si
staccherà la pelle. Lei mi nota subito, neanche fosse un dannato falco, e decide
di lanciarsi sotto la mia auto. Inchiodo sull’asfalto. Tutti ci stanno già
guardando.
Impreco tra i denti e balzo giù con i nervi a fior di pelle. Grazie a dio Lilli è a
casa, se fosse stata a bordo non avrei risposto delle mie azioni.
«Si può sapere che diavolo di problemi ha?» sbotto. «Ha deciso di uccidersi
lanciandosi proprio sotto il mio pick-up?»
Lei si liscia le pieghe della gonna e chiede a un uomo, ancora in fila al
negozio, di tenerle il posto. Poi torna a guardarmi con quello sguardo da
avvoltoio.
«Lachlan, devi venire in banca e affrontare la situazione. Ti conosco da
quando eri un bambino e sto cercando di aiutarti, ma tu non collabori.
Possiamo vendere una parte della proprietà, affittarla o addirittura
trasformarla in un posto aperto al pubblico. Hai mai pensato di aprire un bed
and breakfast?»
Deglutisco con forza e inspiro, cercando di mantenere la calma.
«Non trasformerò casa mia in un maledetto albergo, e sto già cercando una
soluzione per risolvere il problema ma non posso trovarla in quattro e
quattr’otto».
Non ho nessuna intenzione di vendere la fattoria né di trasformarla in
un’attrazione per turisti. Io ci vivo in quel posto! Ci sto crescendo una
bambina di sei anni da solo, cosa crede che succederebbe se decidessi di farci
entrare degli estranei? Abbiamo già Theodora tra i piedi e non penso che
potrei sopportare altre versioni di quella donna nella mia proprietà. Mi basta
l’originale.
«Non hai tutto il tempo del mondo» mi ricorda.
«Userò tutto il tempo che mi serve».
«Ho saputo che hai affittato il cottage di tua madre, è stata una buona idea
ma non basterà da sola. Ti consiglio davvero di trovare una soluzione al più
presto possibile e di venire nel mio ufficio».
Mi allontano senza rispondere e risalgo a bordo del mio pick-up. Ingrano la
marcia e la supero senza preoccuparmi di dare spettacolo. Che guardino pure,
sono stanco di questi ficcanaso e della noia delle loro vite. Devono riempirla a
ogni costo e con me l’hanno fatto per anni. Il piano non era restare qui per
sempre, non lo è mai stato. Ma è successo e ora sto cercando di ricordarmi
quello che mi piaceva di questo posto. La fattoria è quello che più amavo di
Cedar da bambino, ma anche quella rischia di essermi portata via.
Guido fino alla stazione di servizio dove Theodora ha lasciato il pick-up in
sosta e poi svolto a destra per raggiungere l’officina. Non so perché io mi stia
occupando del suo rottame a quattroruote, forse spero solo che ci salga sopra e
se ne ritorni da dov’è venuta, anche se so bene che non lo farà prima di quattro
mesi. Non resisterò così a lungo.
Parcheggio e balzo giù dall’auto. Il pick-up arancione di Theodora è fermo
davanti alla porta d’ingresso. Sono abbastanza sicuro che il colore originale
fosse rosso e che gli anni e l’incuria del proprietario precedente lo abbiano
ridotto in questo modo.
Entro e mi guardo intorno. Sfioro il manubrio di una moto col gomito,
mentre cerco traccia di Ollie. Sussulto quando questo mi si para davanti.
«Bella, vero?» domanda.
Annuisco e punto lo punto sui suoi ricci biondi e sporchi di grasso. Ci
conosciamo da tutta la vita: ha iniziato a lavorare con suo padre dopo il
diploma e ora gestisce lui la maggior parte del lavoro.
In questa città c’è qualcuno che non è condannato alla vita che vive da
sempre? Sto forse condannando Lilli a vivere come me?
«Il pick-up è a posto, per ora. Non credo che durerà molto, ma se lo usa per
girare qui intorno dovrebbe farcela. Qui intorno significa che Cincinnati è
troppo lontana. Avvisala» mi informa.
Fantastico, ora sono diventato anche un piccione viaggiatore!
«Quanto ti devo? Sono di fretta» dico, estraendo la carta di credito dal
portafogli.
«Io direi di provarlo prima, non ne ho avuto il tempo. Se c’è qualcosa che
non va riportamelo, altrimenti torna a pagare».
Ridacchio e annuisco. Ollie è troppo onesto. Credo che se suo padre non
fosse ancora qui a tenerlo in riga, l’officina fallirebbe domani stesso.
«Solo perché sei tu, Lachlan» esclama il suo vecchio. «E se non torni, so
dove venirti a prendere».
«Tornerò» lo rassicuro.
Prendo le chiavi dalle mani di Ollie e decido di provare quel rottame. Salgo a
bordo e il rumore cigolante dello sportello mi dà già sui nervi, la radio non
funziona e i sedili sono così logori che la gomma piuma è sparsa per
l’abitacolo. Chi diavolo comprerebbe qualcosa del genere?
Sbatto lo sportello e abbasso il finestrino con la manovella. Cigola pure
quello. Mi infilo una sigaretta in bocca e la accendo, poi esco dallo spiazzo e mi
immetto sulla strada principale. Non guido in direzione di Cedar, ma me la
lascio alle spalle. Ho un appuntamento e non posso fare tardi. Ci andrò
direttamente con questo catorcio. Guido canticchiando a labbra chiuse e
quando vedo il cartello con la scritta Finnik, tiro un sospiro di sollievo. A parte
qualche problema con il cambio, che è manuale, sembra essere tutto a posto.
Quando riconosco il cartello del Surrender, un motel scadente vicino a una
stazione di servizio, mi fermo. Parcheggio e tiro su il finestrino, poi scendo e
chiudo il pick-up prima di infilarmi le chiavi in tasca.
Vicino all’entrata vedo Lisa, mi sta aspettando davanti alla sua auto con le
braccia nude incrociate sul seno strizzato in un vestito aderente. Ai piedi porta
degli stivali di pelle da cowboy, mentre i capelli sono arricciati sulle spalle. Mi
fermo davanti a lei e la squadro bene. È sexy e sa di esserlo, siamo qui per un
motivo e sono sicuro che nemmeno a lei importi troppo di quanto sia
squallido. Non mi sono nemmeno preoccupato di darmi una sistemata, non ho
fatto la barba e indosso una maglietta bianca e dei pantaloni cargo neri. I
capelli sono un casino e forse puzzo di benzina per colpa del pick-up di
Theodora, ma lei sembra non farci caso.
Poggia una mano sul mio petto e si alza in punta di piedi, per sfiorarmi il
collo con le labbra. Agita una chiave nella mano e sorride.
«La nostra camera è di là, vieni».
La seguo e lancio un’occhiata al suo culo strizzato in quel vestito rosso.
«Sei sicura?» chiedo. «Lo sai che è solo per stasera».
Le ho già detto che non ci vedremo più e che dovrà dimenticarsi di avermi
conosciuto, ma voglio essere sicuro che abbia capito.
«Non darti tutta questa importanza, voglio divertirmi quanto te».
Annuisco e mi lascio trascinare dentro la nostra squallida camera da quattro
soldi. Giuro che se avessi il coraggio di fermarmi a riflettere su quello che sono
diventato negli ultimi anni, e sul modo in cui vivo il sesso, proverei pena e
tristezza per me stesso. Fortunatamente, non mi permetto mai di farlo e non
ne ho il tempo.
Lisa chiude la porta a chiave e si volta nella mia direzione, si toglie gli stivali
e abbassa la lampo del suo vestito. Lo sorregge con una mano mentre mi
raggiunge e si alza in punta di piedi per baciarmi. Ha un buon profumo, di
gelsomino e sapone, e le labbra sono morbide anche se poco carnose. Infilo
una mano tra i suoi capelli e l’altra la uso per abbassarle il vestito fino a
lasciarla con i seni scoperti e un paio di slip a coprirla. Mi lascio togliere la
maglietta e slacciare i pantaloni, toccare con la sua piccola e avida mano
mentre la sua lingua disegna piccoli cerchi intorno al mio capezzolo. Non me
ne frega un cazzo di quello che vuole fare con me, basta che mi aiuti a non
pensare per un’ora alla mia vita.
Lisa mi abbassa i pantaloni insieme ai boxer e si inginocchia per slacciarmi
gli scarponi sporchi di terra e togliermeli. Li lancia in un angolo insieme a
tutto il resto e mi spinge contro il muro. È inginocchiata tra le mie gambe e
non è difficile immaginare cosa voglia da me.
«Se lo vuoi, prendilo» sussurro.
Non sarò di certo io a fermarla, sono mesi che vado avanti con il vecchio
compagno “mano”.
Lei non se lo fa ripetere due volte, fa scivolare la lingua intorno alla punta e
poi me lo prende in bocca. Mi stringe le cosce così forte che vorrei staccarle le
dita dalla mia pelle con la forza, ma mi trattengo e mi concentro sulla sua
bocca calda che mi accoglie e mi svuota il cervello. Lisa succhia, lecca e geme e
io riesco a smettere di pensare ai miei problemi per un momento. Le infilo le
mani tra i capelli e la spingo contro di me mentre mi muovo sempre più
veloce; il respiro rotto e pesante. A un certo punto mi fermo. La trascino in
piedi e la spingo sul letto, mi abbasso per prendere un preservativo dal
portafogli e me lo infilo.
«Ti piace essere scopata da dietro?» chiedo.
«Mi piace essere scopata e basta».
Sorrido e la raggiungo.
«Bene, perché è quello che sta per succedere».
La spingo di nuovo sul letto e la tocco in mezzo alle gambe. È così bagnata
che non devo neanche lavorarmela un po’. Mi spingo dentro di lei e il suo urlo
mi fa dubitare per un momento di quello che sto facendo. Odio il sesso
rumoroso. Spingo più forte e stringo un suo seno nella mano, facendola
gemere così forte che sono sicuro l’abbiano sentita anche nella stanza vicino.
«Oh, dio… Lachlan…» lo ripete come una cantilena. E inizia a darmi sui
nervi.
Io non rispondo, grugnisco soltanto e ansimo mentre il sudore mi cola sul
petto e sulle spalle. Pompo sempre più velocemente mentre sento l’orgasmo
arrivare, lo accolgo e mi godo i miei pochi secondi di vuoto prima di
precipitare di nuovo nel casino della mia vita. Mi accascio su di lei e mi
accorgo che non è ancora venuta; perciò, ancora dentro di lei, la tocco
facendola gemere e urlare di piacere in pochi istanti. Quando il mio respiro
torna regolare, mi alzo e mi tolgo il preservativo per gettarlo nel cestino. La
lascio sul letto e mi accendo una sigaretta, gliene offro una mostrandole il
pacchetto e la accetta. Restiamo in silenzio a fissarci, ancora sudati e sporchi di
qualcosa che nessuno dei due avrebbe mai pensato di fare fino a qualche anno
fa.
«Lachlan, è stato…»
Solo sesso.
«Già» rispondo.
Prendo il posacenere dalla vecchia scrivania e lo poggio sul davanzale della
finestra, la guardo e non sento più la voglia di scoparmela che avevo dieci
minuti fa. Lisa non mi attrae più e vorrei solo andarmene. Succede sempre così
e lo odio. Da quando la mia vita è cambiata non riesco più a fare sesso come un
qualsiasi uomo della mia età. Chiunque sarebbe pronto per un secondo round,
io no.
«Ordiniamo qualcosa e ricominciamo?» propone.
Spengo la sigaretta e raccolgo i miei vestiti da terra.
«Devo tornare da mia figlia».
Non è vero, è con mia zia e dubito che mi stia anche solo pensando, ma non
voglio comunque restare qui. La mia mente sta già viaggiando troppo lontano.
«Va tutto bene?»
Annuisco e mi rivesto. Vorrei farmi una doccia ma significherebbe stare più
tempo qui con lei e non voglio rischiare che mi tocchi e che il mio corpo mi
faccia fare cose che non voglio davvero fare.
«Certo» borbotto, aprendo il portafogli. «Ti lascio i soldi per la stanza».
Le do cinquanta dollari e controllo il telefono, non c’è nessuna notifica e
nessun messaggio da parte di mia zia, ma lo muovo nella direzione di Lisa.
«Devo andare, mia figlia mi ha già chiamato».
Sono patetico. Lei annuisce e si copre il seno con le mani, le gambe
accavallate.
«D’accordo».
Apro la porta per uscire ma esito un istante. Non so come dirglielo, alla lo
faccio e basta.
«Lisa?»
«Sì».
«Cancella il mio numero di telefono, per favore. Ci vediamo in giro,
magari».
Me ne vado senza che abbia il tempo di rispondere. Salgo a bordo del pick-
up di Theodora e mi allontano da quel posto. Fumo dieci sigarette, sentendomi
un idiota per quello che ho fatto. Poi, quando mi ricordo che questo è tutto ciò
che posso avere dalla vita, torno alla fattoria, pronto a rivedere la mia bambina.
Torno a farmene una ragione, vado avanti.
7
 
Theodora
 
Lilli è di nuovo davanti al mio vialetto e sta correndo dietro a qualche animale.
È un orario improponibile per una bambina di sei anni. E per me.
Ora che sta per iniziare la scuola spero che si dia una calmata e che mi lasci
dormire. Il negozio apre alle nove e avrei tutto il tempo per presentarmi da
Laurel con un aspetto sufficientemente riposato, se solo la smettesse di giocare
ad acchiapparella con tutta la fattoria qui fuori.
Un gatto miagola così forte da sembrare quasi un bambino che piange, poi
Lilli urla qualcosa a suo padre a proposito dei cuccioli che vanno
assolutamente messi al caldo. Sbuffo e scendo dal letto, mi infilo la felpa e mi
stropiccio gli occhi mentre incontro il mio riflesso nello specchio vicino
all’armadio. Ho preso un appuntamento con una parrucchiera di Cincinnati la
prossima settimana e con un centro estetico che mi sistemerà le sopracciglia,
non vedo l’ora di avere i capelli di un colore decente e di poter smettere di
preoccuparmi della frangetta. Me la sistemo in modo che copra le sopracciglia
ed esco sulla veranda senza preoccuparmi di sciacquarmi il viso.
L’orologio del fienile segna le sette del mattino. Avrei voglia di imprecare.
Ma in questa famiglia non dormono mai?
«Lillibeth Anna, torna dentro e mettiti una felpa!» urla Lachlan.
«Ma i gattini, papà, hanno bisogno d’aiuto».
«Mettiti una felpa, subito!»
Ridacchio quando la piccola sbatte gli stivali sulla ghiaia e corre in casa
brontolando. Lachlan solleva un cartone da sotto un piccolo cespuglio, lo
sposta sotto il portico, apre la zanzariera e lo porta in casa. Torna fuori a
prendere una lampada rossa che aveva lasciato sul tavolino in vimini, quello
dove sua zia legge il giornale tutte le mattine.
Quell’uomo sa prendersi cura di ogni singolo animale sulla faccia della terra.
Cos’è, un veterinario?
Non credo che lo sia davvero, altrimenti avrebbe un ambulatorio a Cedar e,
conoscendo la gente del posto, a quest’ora l’avrei già saputo. Ne ho anche già
visto uno, di un tale dottor Kasser. Dubito abbiano spazio per due veterinari a
Cedar.
Noto che il mio pick-up è parcheggiato nel suo vialetto. Ringhio
un’imprecazione e decido di marciare verso la fattoria. Quando pensava di
dirmelo?
Non me ne importa niente di disturbarli, mi hanno svegliata alle sette del
mattino per dei maledetti gatti e lui ha la mia auto. Mi precipito in casa loro
come una schizzata. C’è profumo di caffè e di cioccolato. Mi guardo attorno
con circospezione: i vecchi mobili in legno danno un’atmosfera intima e, devo
ammetterlo, è totalmente diversa da come me l’aspettavo.
«Tu che diavolo ci fai in casa mia?»
Lachlan mi intercetta subito. Cos’è, un segugio? Mi sovrasta con la sua
altezza, con il suo profumo di bucato fresco e di sapone, come quello di un
bambino. Quale uomo ha un odore del genere? Mi avvicino e gli punto un dito
addosso, al centro della camicia di jeans che indossa.
«Perché il mio pick-up è nel tuo vialetto? Si può sapere che problemi hai?»
sbotto.
Lui sbuffa e mi dà le spalle, si abbassa per sistemare una coperta nello
scatolone con dei gattini e si comporta come se non fossi neanche qui.
«Pronto?» esclamo. «Ti ho fatto una domanda».
«Puoi smettere di urlare? Cristo, sono le sette del mattino, non ce la faccio a
sopportare le tue urla».
«Tua figlia urla da mezzora. Mi ha svegliata!» gli faccio notare.
«E infatti mi basta già lei, non mi servi anche tu».
Stringe gli occhi e si rialza, strofinandoseli con forza. Sembra non aver
dormito molto, ma non è un problema mio.
«Allora, il mio pick-up?» chiedo.
Sospira e si dirige verso la cucina, si versa una tazza di caffè e me ne porge
una uguale. La accetto solo perché sono già esausta e dubito che riuscirò a
dormire ancora.
«L’ho provato ieri sera dopo che l’ho ritirato da Ollie, dovevo andare in un
posto e ne ho approfittato».
Bevo un sorso di caffè e rifletto sulle sue parole. Dove diavolo è andato ieri
sera? È tornato a mezzanotte, ne sono sicura perché ho sentito le ruote
affondare nella ghiaia del vialetto, ma credevo fossero le sue ruote e non le
mie.
«Ma che problemi hai? Ti avevo detto che avrei cercato un’auto nuova e tu
hai deciso di portare il mio pick-up in un’officina, poi la vai a ritirare e ci fai
persino dei giri! Chissà dove diavolo sarai stato… Fino a mezzanotte, poi»
sbraito.
Solleva un angolo delle labbra e un sopracciglio, poi si porta la tazza alla
bocca. Sobbalzo quando capisco cosa intende.
«Ma è disgustoso!»
«Addirittura?»
«Hai fatto sesso nel mio pick-up?» urlo.
«Zitta! C’è una bambina di sei anni in casa» mi ricorda.
Ringhio un’imprecazione e poggio la tazza sul tavolo. Mi avvicino a lui e
abbasso la voce.
«Dimmi che non hai fatto sesso nella mia auto» quasi lo prego. «Dimmelo e
la smetto subito».
Lui sbuffa e si infila in bocca un biscotto. Sembra così rilassato, mi dà i
nervi!
«Non ho fatto sesso nella tua auto, contenta?»
Meno male! Prendo il biscotto che mi offre e ci affondo i denti con sollievo.
«Molto contenta» rispondo. «Era quella Lisa?»
Non so perché gliel’ho chiesto. Forse sono solo curiosa. Ha usato il mio
pick-up per un appuntamento a luci rosse, avrò pure il diritto di chiedere.
«Cos’è, vuoi i dettagli?»
«Dio, no! Non quel genere di dettagli».
«E allora che diavolo te ne frega?»
Sbuffo e finisco il mio biscotto, infilo le mani in tasca e mi allontano. «Era
solo per parlare, quanto sei burbero».
Indugio sulla soglia e lui mi guarda storto. «Cosa vuoi?» borbotta.
«Quanto devo darti per il pick-up?»
Per quanto stronzo e insopportabile sia, mi ha aiutata a risolvere un grosso
problema, quindi non ho intenzione di fingere che non abbia un costo.
Nessuno ripara un’auto senza compenso.
«Ancora non lo so, devo tornare in officina questa mattina a riprendere il
mio pick-up e dire a Ollie che funziona tutto. Lui mi dirà quanto gli devo».
Per quanto questo assurdo modo di lavorare mi lasci perplessa, annuisco.
«Posso venire con te, se mi aspetti. Devo farmi una doccia e cambiarmi».
«D’accordo, ma muoviti».
Torno in casa di corsa e mi butto sotto la doccia. Mi insapono, mi sciacquo e
mi asciugo in tempo record, poi indosso un paio di jeans e un maglioncino
azzurro. Mi sistemo la frangia sulla fronte e calzo i miei stivali, quindi esco di
casa. Ho il fiatone e i capelli ancora un po’ umidi, ma sono pronta. Raggiungo il
mio pick-up, Lachlan è già a bordo e quando apro lo sportello rimango
sorpresa nel trovare Lilli tra i due sedili.
«Theo!» esclama.
«Ehi, tesoro» la saluto. «Dove vai vestita così bene?»
Indossa dei pantaloni rosa con delle scarpe argentare e una camicia a quadri
bianca e rosa, uno zainetto abbinato e delle bellissime trecce svedesi le
ricadono sulle spalle.
«Oggi inizio la scuola» mi informa.
Suo padre sbuffa e scuote la testa.
«Non inizi la scuola, ma il corso preparatorio. Significa che conoscerai le
maestre e i tuoi compagni prima di iniziare la scuola» spiega.
Lei scrolla le spalle. «Quindi inizio la scuola, papà».
Lui si arrende e scuote la testa.
«Sono sicura che ti divertirai tantissimo con i tuoi nuovi compagni» la
rassicuro.
«Non sono nuovi, venivano all’asilo con me. Siamo tutti di Cedar».
Mi schiarisco la voce, sentendomi un’idiota. Viaggiamo con la voce di Lilli
in sottofondo, mentre ascoltiamo storie sui suoi amici animali e i loro
problemi fino a quando non arriviamo all’officina.
«Scendi e vai nella nostra auto, Lilli. Aspettami lì, sistemo una cosa con Ollie
e arrivo» dice Lachlan.
Lei balza già e corre verso la loro auto.
«Va bene, papà. Ma fai veloce. Devo andare a scuola!» esclama, poi mi fissa.
«Ci vediamo a casa, Theo!»
«Buon primo giorno di scuola, piccola Lilli».
Lei sorride e si arrampica sul sedile con non poca fatica, accende la radio e
scoppio a ridere quando la vedo agitarsi e ballare a ritmo di musica. Suo padre
le lancia uno sguardo che dovrebbe essere di rimprovero, ma non riesce a
trattenere un sorriso.
Entriamo nell’officina, Ollie è già lì ad aspettarci.
«Ollie, lei è Theodora Sanders, la proprietaria del pick-up» mi presenta
Lachlan.
Ollie solleva una mano sporca di grasso e mi sorride. È un ragazzo
probabilmente sulla trentina, biondo e con gli occhi azzurri. Sembra
amichevole e gentile, come Laurel.
«Come ho detto a Lachlan, è bene che tu sappia che con quel rottame non
puoi allontanarti troppo. Cedar va bene, Cincinnati no» mi informa.
Sospiro e annuisco. È già un miracolo che cammini!
Prendo il portafogli. «Quanto ti devo?»
«Cento dollari vanno benissimo, non ho potuto fare molto».
Decido di pagare in contanti. Glieli porgo e lui se li infila nel taschino. Mi dà
una fattura a nome di Lachlan e la infilo nella borsa.
«Grazie mille, davvero. Ora devo andare».
Mi allontano e torno a mio pick-up, le chiavi sono ancora nel quadro.
Sistemo il sedile e metto in moto pronta per raggiungere il negozio di Laurel.
Sto per uscire dal parcheggio quando Lachlan mi raggiunge. Bussa al finestrino
e io lo abbasso, incerta. Ha il telefono in mano e gli occhi fissi nei miei.
«Dammi il tuo numero di telefono».
«Cosa?» gracchio.
«Dammi il tuo numero di telefono, Theodora».
«Ma perché?» borbotto.
«Perché guidi un catorcio, se dovesse fermarsi di nuovo almeno potresti
chiamarmi. Dammi quel dannato numero e in fretta, Lilli deve essere a scuola
tra mezzora».
Sospiro e glielo detto controvoglia, poi lo osservo andarsene senza dire una
parola. Quando lascia il parcheggio dell’officina mi rendo conto che non mi ha
dato il suo. Chiamarlo in caso di bisogno è impossibile.
Maledetto Lachlan Willow, lo odio.
 
8
 
Lachlan
 
 
«Papà, sai che nella mia classe c’è una bambina di Finnik che ha un nome da
maschio? Come Theo, la nostra vicina».
Scuoto la testa e immergo la mano nella vasca colma di schiuma, afferro la
spugna e la strofino sulle gambe di Lilli così forte da sbarazzarmi di uno strato
di pelle, oltre allo sporco.
Zia Shirley l’ha lasciata giocare con i cavalli per tutto il pomeriggio. Le ha
persino permesso una piccola tappa nella stalla e un po’ di giardinaggio. L’ho
trovata completamente ricoperta di terra. In più, emana un nauseante odore di
letame, smorzato solo dal sorriso che le illumina il volto. Mi si stringe il cuore
a vederlo.
Mi chiedo se crescere una bambina in questo modo sia giusto. Spesso mi
rimprovero per non averle saputo dare di meglio, ma poi la vedo sorridere e
ricomincio a respirare. L’idea che possano portarci via tutto questo mi uccide,
il solo pensiero di Lilli che dice addio ai suoi migliori amici, mi spezza il cuore.
Devo assolutamente trovare una soluzione per mandare avanti la fattoria: lo
devo fare per lei.
Lilli mi schizza con un po’ d’acqua mentre pettina la chioma del suo pony
giocattolo. È il suo preferito per il momento del bagno, tutto rosa. Lo porta
con sé da quando aveva tre anni.
«Mi hai sentito?» lamenta.
Sbatto le palpebre per scacciare via i pensieri. Mi pulisco la guancia bagnata
sulla manica della maglietta. «La tua amica ha un nome da maschio» ricapitolo.
«Qual è?».
Le si illuminano gli occhi e solleva un dito, è espressiva come sua madre.
Rabbrividisco al suo pensiero. Abbasso lo sguardo sull’acqua sporca, libero lo
scarico della vasca e riapro il rubinetto. Devo riempirla di nuovo se voglio
toglierle di dosso tutto quel terriccio e il cattivo odore. Una doccia sarebbe
stata più pratica, ma non avremmo potuto parlare così. Sciacquo la vasca e
rimetto il tappo, spremo dell’altro bagnoschiuma alla fragola e le sorrido.
«Allora, questo nome?» la incalzo.
Rabbrividisce e si scosta i capelli biondi e bagnati dalla fronte.
«Si chiama Jamie!»
Sollevo le sopracciglia e mi schiarisco la voce. «Piccola, sei sicura che sia un
nome da maschio? Forse è il diminutivo di Jameson».
Lei mi ignora e finge di far cavalcare il suo pony rosa sul mio braccio.
«Che importa? Ha comunque un nome da maschio. È fico».
«Le parole» sbotto.
Le mie parole non la scalfiscono. «Il mio soprannome è Lilli, non mi piace.
Posso cambiarlo?».
Sospiro. Questa storia mi sta tormentando. Da quando Theodora si è
trasferita nella casa accanto non fa che parlarne. Non è nemmeno un nome da
maschio! Ma ormai ne è convinta e non riesco a toglierle questo pensiero dalla
testa.
«Lilli, il tuo nome è perfetto. Io lo adoro, la mamma…».
Mi fermo e trattengo il respiro. Erano mesi che non commettevo un errore
del genere.
Non parlo di sua madre davanti a lei. In realtà non ne parlo proprio da mesi.
Con lei devo stare attento, già sopravvivere alle sue domande è un’impresa
normalmente.
Lilli aggrotta la fronte e mi fissa con le labbra strette in un broncio.
«Io non ho una mamma».
«Ne abbiamo già parlato, piccola».
Ti prego, non mi chiedere niente della mamma perché non so cosa dire.
Scrolla le spalle e riprende a pettinare il suo pony. Per oggi l’ho scampata.
«Comunque, non importa, voglio il mio nome da maschio» conclude.
Mi arrendo e cerco di rimandare la discussione alla prossima volta. Finisco
di sciacquarla, poi la sollevo dalla vasca e la asciugo. Le infilo il pigiama, ogni
tanto le faccio il solletico e le provoco così tante risate che temo si faccia la pipì
addosso. Tra un divertimento e l’altro riesco anche ad asciugarle i capelli prima
che si addormenti.
Mia figlia è una fonte inesauribile di energia. All’inizio gestirla era
complicato, poi la mancanza di sonno dovuta alle preoccupazioni mi ha
insegnato che dormire non è così fondamentale e mi sono adattato. Ormai
dormo pochissimo, a volte il letto mi procura così tanta ansia che neanche ci
entro. Finisco sul piccolo divano, quello dello studio di mio nonno. Le pettino
i capelli e li fermo con un elastico sulla nuca, poi le lascio un bacio sulla fronte
e la prendo in braccio. Lilli poggia la guancia sulla mia spalla e mi bacia la
maglietta mentre gioca con il colletto. Lo faceva anche quando era più piccola,
significa che sta per addormentarsi.
«Sei stanca?» bisbiglio.
Sbadiglia e mi stringe più forte. «Un po’, la scuola mi ha tolto tante energie».
Ridacchio mentre la porto in camera sua. Non è la classica camera di una
bambina, tutta rosa, piena di brillantini e bambole. Le pareti sono giallo limone
e le lenzuola verdi, mentre le sue mensole sono piene di libri illustrati sugli
animali e peluche di dimensioni diverse. Sotto la finestra ci sono Mr. Bingley e
Mrs. Bennet nella loro gabbia a tre piani, e qualche giocattolo è sparso sul
pavimento. La poso sul letto e la infilo sotto alle coperte, gliele rimbocco bene
e sorrido quando chiude gli occhi e solleva il mento. È una cosa nostra che
facciamo da sempre: lei chiude gli occhi e io le bacio il naso per augurarle la
buonanotte.
«Stasera sono troppo stanca per leggere una storia, papà» sussurra.
Mi inginocchio e accendo la piccola luce notturna.
«Allora goditi i tuoi sogni, Lillibeth Anna».
Infila le mani sotto il cuscino e si volta verso di me. Mi fissa con i suoi
grandi occhioni.
«Papà?»
«Dimmi, piccola».
«Ma tu sei felice? A volte non lo sembri per niente».
Mi si attorciglia lo stomaco. È come se mi avesse infilato una mano dentro
da qualche parte e stesse tirando e annodando con forza. Mi avvicino e
appoggio il mento sul materasso.
«Certo che sono felice. Ho la mia Lillibeth Anna, come potrei non esserlo?»
Ed è vero, in fin dei conti. Per quanti casini io abbia in questo periodo,
quando penso che ho lei mi sento bene. Tutto lo stress, la paura e l’ansia di
perdere di nuovo ciò che amo si placano perché so che Lilli è con me e che
nessuno potrà portarmela via. Siamo sempre stati noi due e a me sta bene così,
voglio che lei lo sappia.
«Sei strano» continua.
«Sono solo un po’ stanco».
«Posso chiedere un desiderio?» continua.
Le scosto i capelli dalla fronte. «Che desiderio?»
«Possiamo invitare Theo a cena? Vorrei regalarle un mio gattino, so che non
me li farai tenere tutti. Voglio anche vedere se è capace di prendersene cura»
bisbiglia.
Ha gli occhi pesanti e sta per crollare, perciò sospiro e mi alzo. «Ci penserò,
ora dormi» rispondo. «Buonanotte, Lilli».
Lei non risponde, è già crollata. Esco dalla sua stanza e vado verso la cucina.
Nominare sua madre è stata un’idiozia, spero che domani non se ne ricordi e
non mi faccia domande su di lei. Non saprei cosa inventarmi. Sto costruendo
un castello di menzogne così grande da non riuscire più a gestirlo.
Apro l’armadietto vicino alla stufa in cucina e prendo la bottiglia di whisky
che mi ha portato Brooks da Los Angeles qualche mese fa. Eravamo migliori
amici al liceo, abbiamo studiato nella stessa città al college e poi lui è diventato
un bastardo attore di Hollywood che si scopa una donna diversa ogni sera e
veste abiti da migliaia di dollari. Ogni tanto torna a casa e porta un regalo a
Lilli, passa a salutare sua madre e sua sorella e poi riparte. È come se a Cedar
non ci fosse mai stato, come se la sua vita appartenesse al mondo soltanto. Lo
invidio. Per quanto ami Lilli, e non scambierei la mia paternità con nient’altro,
lo invidio.
Prendo un bicchiere e mi verso da bere, poi esco nella veranda a prendere
una boccata d’aria. Mi siedo sul divanetto in vimini di mia zia. Stasera è al
gruppo di lettura del paese e tornerà tardi a casa.
Mi porto il bicchiere alle labbra e prendo il telefono dalla tasca dei
pantaloni, apro l’applicazione della rubrica e scorro i pochi numeri che ho
salvato in memoria fino al suo. Lo fisso come se dovesse prendere fuoco da un
momento all’altro e lo sfioro. Ripenso allo sguardo speranzoso di Lilli e vorrei
davvero avere il coraggio di spingere il tasto con decisione. Invece me ne resto
immobile a fissare le lettere sullo sfondo bianco.
Bevo un altro sorso e sollevo lo sguardo verso il cottage. All’improvviso la
luce del portico si accende e la porta si spalanca. Dall’uscio sbuca una
Theodora molto diversa da quella che conosco: è molto più maldestra e goffa.
Spinge un enorme sacco della spazzatura, imprecando tra i denti.
«Maledizione, avrei dovuto riempirlo meno» borbotta. «Ma quanto può
pesare della carta?».
Chiudo l’applicazione della rubrica e mi infilo il telefono in tasca, mi scolo
quel che rimane nel bicchiere e lo abbandono sul tavolino prima di
raggiungerla.
«Serve aiuto?»
Lei sussulta per la sorpresa e lascia andare il sacco, che rotola lungo gli
scalini e finisce ai miei piedi. Si porta la mano al petto, poi mi fulmina con lo
sguardo.
«Sei pazzo? Perché arrivi così di soppiatto. Cos’è, un horror? Mi hai
spaventata!»
Afferro il sacco, è sempre così esagerata! Percorro la strada fino al
cassonetto nero davanti al suo posto auto e torno da lei.
«Lilli si è appena addormentata. Si riattiva con una facilità inquietante. Se ci
sentisse parlare, potrebbe correre da noi e trascinarci dai cavalli. Sono esausto,
non penso che ce la farei».
Theodora sorride e incrocia le braccia al petto. Indossa un pigiama grigio ed
è a piedi nudi, di nuovo. Noto che ha le unghie dipinte di rosa. E non so
nemmeno perché le sto guardando.
«Come fa ad avere tutta quell’energia? Si sveglia all’alba».
Già, ma il punto è che per Theodora l’alba sono le sette del mattino, mentre
Lilli si sveglia alle sei. Fa colazione e corre a dare il buongiorno agli animali.
Parte dai cavalli e poi passa a tutti gli altri. A volte fa un giro per i campi e
saluta i nostri collaboratori, raccoglie la frutta e la mangia direttamente. Starle
dietro è decisamente stancante. Forse in una città sarebbe stata più calma.
«Non lo so, ma ti assicuro che non è semplice da gestire» replico.
Lei annuisce. Si strofina le braccia e si schiarisce la gola. «Ti va di entrare?
Ho freddo».
Lancio uno sguardo a casa mia. Ho dimenticato di chiudere a chiave.
«Arrivo subito».
Lei sembra confusa, perciò mi spiego meglio.
«Devo chiudere a chiave. Mia zia non c’è, Lilli è da sola».
Anche se sta dormendo non mi sento tranquillo a lasciarla da sola in una
casa vuota in cui potrebbe entrare chiunque, nemmeno se sono a cento metri
da quella casa. Theodora annuisce e dice che mi aspetterà dentro. Chiudo a
chiave e entro nel cottage di mia madre. È la prima volta che torno qui dopo il
suo arrivo, pensavo di trovare le sue cose in giro per casa, magari qualche
arredo cambiato, invece è tutto identico a com’era. Non ha cambiato nemmeno
l’orologio a pendolo sulla credenza del salotto.
«Vuoi bere qualcosa?» mi chiede, sporgendosi dalla cucina.
Sì, la bottiglia che ho lasciato nella mia di cucina.
Non so nemmeno perché sono qui, dato che non la sopporto. Forse sono
solo frastornato dalla conversazione con mia figlia, e parlare con un adulto è
quello che mi serve.
«Dell’acqua va benissimo».
Lei riempie due bicchieri, me ne passa uno e si accomoda sulla poltrona a
fiori sulla quale mamma leggeva i suoi racconti preferiti. Per un istante
rabbrividisco. Mi siedo sul divano e bevo un sorso, chiedendomi cosa diavolo
sto facendo nella casa della mia scorbutica vicina di casa.
«Va tutto bene, Lachlan?»
Mi sposto i capelli dalla fronte. «Sì, certo».
«Sembri strano» continua.
«Sono solo stanco. Ho controllato tutti gli animali, poi ho fatto il bagno a
Lilli e non ho neanche cenato».
Me ne sono reso conto solo ora. Lilli ha mangiato la cena che le ha lasciato
zia Shirley, io mi ero ripromesso di mangiare una volta che fosse andata a
dormire, ma quel casino che ho fatto durante il bagno mi ha fatto passare la
fame. Theodora si alza e apre il frigorifero, prende un sandwich e lo scarta. L
mette in un piatto e me lo porge.
«Era il mio pranzo di domani, ma serve più a te questa sera».
«Sei sicura?»
«Mangia, Lachlan» ordina.
Annuisco e mordo il suo pranzo. Mastico lentamente e la osservo mentre si
tortura le mani e mi fissa.
«Vuoi chiedermi qualcosa, Theodora?»
Lei sospira e si schiarisce la voce.
«Tu, insomma… tu…»
«Io…?»
«Non mi hai lasciato il tuo numero di telefono, se dovessi restare a piedi
non potrei chiamarti. È solo per l’auto, sia chiaro» butta lì. Distoglie subito lo
sguardo e si morde il labbro.
Sorrido e scuoto la testa. So di non averle lasciato il mio numero, ma
contavo di farlo non appena ne avessi avuto la possibilità.
«Dopo ti mando un messaggio così puoi salvarlo, d’accordo?»
«Ti ringrazio».
Le strizzo l’occhio e finisco l’ultimo boccone del sandwich che mi ha offerto.
Mi pulisco le mani sul tovagliolo e bevo un altro sorso d’acqua.
«Ti piace la casa?» chiedo.
«Moltissimo. È perfetta».
Ha ragione, mia madre se ne prendeva cura ossessivamente.
«Posso farti una domanda?» continuo.
Incrocia le gambe sul divano e annuisce.
«Quanti anni hai, Theodora-Con-Un-Nome-Da-Maschio?»
Scoppia a ridere e il verso che le esce dalle labbra mi fa ridere di rimando. Si
copre la bocca con le guance rosse per l’imbarazzo, ma non riesce a smettere di
ridere e io nemmeno. Che diavolo di risata ha?
«Ho venticinque anni» risponde, tra una risata e l’altra. «E tu?»
Sembra molto più adulta, gli occhi tradiscono una maturità che va al di là di
una normale ragazza di venticinque anni.
«Ventisette» rispondo.
«Solo?»
Incrocio le braccia sul petto e le lancio uno sguardo truce. «Solo? Quanti
diavolo di anni pensavi che avessi?» sbotto.
Lei ridacchia e si asciuga le lacrime. «Almeno trenta».
Merda. Forse Lilli ha ragione, sono così noioso che sembro anche più
vecchio.
«Anche tu sembri più grande» mi lascio sfuggire.
«Lo so, è una cosa voluta».
Mi strizza l’occhio e mi ritrovo a rabbrividire senza un apparente motivo.
«Sei veramente una persona strana, Theodora Sanders».
«Anche tu sei veramente strano, Lachlan Willow».
Mi alzo e porto il piatto e il bicchiere al lavello, li sciacquo velocemente e mi
asciugo le mani mentre sento i suoi occhi scavarmi un solco sulla nuca, poi mi
volto e mi incammino verso la porta.
«Devo tornare a casa, Lilli è sola» la informo, di nuovo.
Annuisce e mi accompagna alla porta. Mi guarda uscire dal cottage e mi
sorride.
«Quindi adesso siamo tipo amici o cosa?» domanda.
Sbuffo. «Non siamo amici. Nemmeno lontanamente».
«Bene» replica, il sorriso ancora sulle labbra.
«Bene» rispondo.
Percorro il vialetto di ghiaia ed entro in casa. Prendo un altro bicchiere e lo
riempio del whisky di Brooks, poi mi lascio cadere sul divano e prendo di
nuovo il telefono dalla tasca. Stavolta non cerco lei, ma un’altra donna.
Seleziono il numero di Theodora e le scrivo un messaggio.
 
Lachlan: Comunque, non siamo tipo amici.
 
Passano pochi istanti e il mio telefono vibra. Il suo nome capeggia sullo
schermo, e io sorrido quando leggo la risposta.
 
Theodora: Certo che no, come potremmo? Io ti odio.
Lachlan: Anch’io ti odio, lo sai.
Theodora: Bene.
Lachlan: Bene.
Theodora: Buonanotte, Lachlan Willow.
 
Sospiro e digito una risposta.
 
Lachlan: Buonanotte, Theodora Sanders.
 
Blocco lo schermo e svuoto il secondo bicchiere. Mi decido ad andare a
dormire prima che mi vengano in mente idee folli, come contattare persone
che non sento da anni e che dovrei tenere a distanza.
È meglio se ci dormo sopra e mi concentro sulla mia bambina, sulla fattoria
e su un modo per salvarla.
Lo devo fare per Lilli.
 
 
9
 
Theodora
 
 
È la terza settimana di settembre e le temperature stanno calando. Laurel mi
ha fatto firmare il contratto da due settimane e ora lavoro al negozio a tempo
pieno.
È un lavoro semplice e mi tiene la mente occupata. Servire i clienti della
cittadina non è complicato, hanno tutti delle abitudini precise; basta impararle
ed è praticamente impossibile sbagliare. Mi piace soprattutto perché sento che
sto diventando parte di una piccola comunità, che potrò confondermi con
questa gente quando ne avrò bisogno e, forse, ci sarà qualcuno che mi cercherà
quando sarà il momento di farlo.
I pettegolezzi su di me si sono spenti in fretta. Forse hanno capito da soli
che è meglio starmi alla larga, o forse vivere in un piccolo paese non è così
male come dicono. Non so cosa pensare, ma sto iniziando ad ambientarmi e ad
affezionarmi a questo posto.
Chiudo il registratore di cassa e annoto qualche informazione per Laurel su
quaderno che teniamo sul bancone, poi prendo la mia giacca e mi incammino
tra gli scaffali.
«Laurel?» la chiamo.
Lei lancia uno scatolone mentre è ancora arrampicata sulla scala e quasi mi
colpisce in testa. Mi sposto appena in tempo per schivarlo.
«Santo cielo, ti ho quasi uccisa!» esclama allarmata.
«Sono tutta intera».
«Sei sicura? Devo chiamare il dottor Jason per farti visitare?»
«Non mi hai nemmeno sfiorata, tranquilla».
Non sembra convinta, ma lascia correre. Si asciuga il sudore dalla fronte con
un lembo della maglietta.
«Sto andando via» la informo. «Ho quell’appuntamento a Cincinnati di cui
ti ho parlato».
«Giusto, i tuoi capelli».
Non vedo l’ora di avere dei capelli di un colore decente e di non dovermi più
preoccupare di nascondere le sopracciglia sotto alla frangia.
«Ci vai con il tuo pick-up? Lachlan ha detto che Ollie…»
«Tranquilla» le dico, scacciando Lachlan Willow da quella conversazione
con un gesto della mano.
Non è mio padre, è solo il mio esagerato vicino di casa.
Prendo le chiavi dalla borsa e le faccio tintinnare. «Ci vediamo domani.
Posso aprire io il negozio».
«Theo, sei una manna dal cielo!» risponde lanciandomi un bacio.
Sorrido e mi incammino all’esterno del negozio. Con Laurel si sta creando
un rapporto simile a un’amicizia. Ci stiamo imparando a conoscere e andiamo
molto d’accordo. Adoriamo lo stesso genere di film, leggiamo gli stessi libri e
ridiamo sempre insieme quando al negozio succede qualcosa di buffo. Non ho
un’amica da molto tempo, l’idea che lei possa riempire quel vuoto mi fa
fluttuare tra bianche nuvole di felicità in una mite giornata di fine estate. Mi fa
stare bene.
Non so se mi definirei felice oggi, ma quello che ho trovato al mio arrivo a
Cedar mi ha reso più serena. Venire qui, in questo posto sconosciuto, è stata la
decisione migliore che potessi prendere.
Salgo a bordo del mio pick-up e saluto il proprietario della panetteria
all’angolo con un sorriso. Il signor Wilson ricambia e rientra per ripararsi dal
sole. Metto in moto ed esco dal piccolo parcheggio comunale, il motore romba
in maniera anomala ma non mi allarmo. Per essere un vecchio pick-up ha una
resistenza incredibile. Ollie ha fatto magie: da quando lo ha riparato non si è
fermato neppure una volta.
Guido con il vento che mi scompiglia i capelli e con la musica a tutto
volume sul cellulare. Canticchio vecchie canzoni fino a quando non arrivo a
Cincinnati e vengo inghiottita dal traffico della città. Supero il centro
commerciale e raggiungo la mia meta.
Ho scoperto il negozio di Jalisse quando sono venuta qui ad acquistare un
po’ di abiti nuovi dopo il mio arrivo, è vicino a un centro estetico che può
occuparsi anche delle mie sopracciglia perciò sono soddisfatta. Entro nel
salone e passano due ore prima che la povera estetista riesca a a cancellare
l’orrendo lavoro che ho fatto in quella sudicia stazione degli autobus.
 
***
 
«Sei adorabile».
Fisso Jalisse ferma alle mie spalle e accenno un sorriso, mi sfioro i capelli
ramati con la punta delle dita e mi tocco le sopracciglia dello stesso colore con
aria sognante. Sono perfette, il mio colore naturale è scomparso e il nero che ci
avevo messo sopra è un vecchio ricordo.
«Il colore è perfetto» rispondo.
Mi alzo e pago il conto in contanti, sto cercando di non usare la carta di
credito se non per necessità estreme. Anche Laurel mi paga in contanti, su mia
richiesta. Inoltre, ho ancora i risparmi che ho infilato nel borsone prima di
partire. Ero una che strisciava le carte di credito senza troppa importanza
prima, mentre ora la mia vita è l’esatto opposto di ciò che era. Ancora non mi
capacito di come sia successo.
«Ricordati di tornare il mese prossimo, non noterai nemmeno la ricrescita»
mi ricorda.
Annuisco e prendo il biglietto da visita dalle sue mani. Le ho spiegato che il
mio colore naturale deve rimanere nascosto, mi sono inventata qualcosa a
proposito di un nuovo lavoro come fotomodella e della severità del fotografo;
perciò si sono veramente impegnate per fare un lavoro eccezionale.
Infilo il biglietto nella borsa ed esco nel tiepido sole pomeridiano di
Cincinnati, mi infilo gli occhiali da sole e cammino lungo il marciapiede verso
la mia auto. Vorrei fare un giro per la città e godermi il pomeriggio, ma questo
posto è troppo grande e non posso guardarmi le spalle come dovrei, perciò
raggiungo il pick-up per tornare a casa.
O forse no…
Quando giro la chiave nel quadro, non succede niente. Ci riprovo altre tre
volte e la terza mi illudo che sia quella buona dato che il motore borbotta con
forza, ma non vuole saperne. Colpisco ripetutamente il volante e impreco ad
alta voce.
«Dai, amico, forza. Non lasciarmi ora, riportami a casa!» Ci riprovo, ma
stavolta non succede niente. Nemmeno l’ombra di un gemito da quel
dannatissimo motore.
«Maledetto il tizio che me l’ha venduto!» sbotto.
Abbasso il finestrino e rifletto sul da farsi. Non conosco le linee degli
autobus di questa città e non so nemmeno se ci sia una linea per arrivare a
Cedar. Potrei prendere un taxi ma non ho abbastanza contanti.
Potrei chiamare Laurel! Penso, ma poco dopo mi ricordo che non può lasciare
il negozio. Oggi era previsto l’arrivo di un ordine abbastanza grande. Mi
torturo le mani e lancio uno sguardo alla borsa sul sedile, c’è quella persona.
Ma non voglio. Non voglio assolutamente sentirmi urlare contro “te l’avevo
detto!”.
Mi scervello per trovare una soluzione, ma non arriva.
Mi sistemo i capelli dietro alle orecchie e prendo il cellulare. Seleziono il
numero di Lachlan, poi prendo un respiro profondo e lo chiamo. Risponde
dopo appena tre squilli.
«Theodora».
Mi schiarisco la gola e affronto l’imbarazzo del momento.
«L-Lachlan» mugugno. «Sei impegnato?»
«Perché?»
Sbuffo e mi guadagno una sua risata. Non può semplicemente rispondere e
non rendermi le cose difficili?
«Okay, senti. So che mi avevi avvisato e che ho fatto di testa mia, però…»
«Che hai fatto?»
Eccolo, quel tono da so-tutto-io…
«Sono a Cincinnati, e il pick-up non parte più» sputo fuori. «Non so come
tornare a casa e mi chiedevo se tu potessi aiutarmi».
Ecco, sono stata educata e ho ammesso di avere sbagliato.
«Maledizione, ti ho detto di non andarci».
«Lo so, ma era importante» mi difendo.
Grugnisce. «Parto tra dieci minuti. Mandami la tua posizione» dice, poi
chiude la telefonata.
Sospiro di sollievo e gli mando subito quello che mi ha chiesto, poi scendo e
mi incammino lungo il marciapiede. Ci metterà un po’, così penso di guardare
un po’ le vetrine. Magari trovo un regalo per Lilli, ha detto che presto sarà il
suo compleanno.
Osservo la vetrina di un negozio di una cartoleria. Sorrido quando trovo
quello che cerco. Ci vogliono solo cinque minuti per farmi impacchettare tutto
e per tornare al pick-up.
Lachlan ci mette quasi un’ora, ma alla fine arriva. Svolta nel parcheggio con
il suo enorme pick-up grigio metallizzato e si ferma dietro la mia auto. Scendo
e lo raggiungo, apro lo sportello e mi sforzo di sorridere.
«C’è un traffico infernale» borbotta.
«Nessun problema. Che facciamo con lui?» chiedo, indicando il mio pick-
up.
«Lo rottamiamo?»
Sbuffo, ma in parte gli do ragione. Salgo a bordo, faccio cadere le chiavi nel
porta oggetti del suo cruscotto e mi allaccio la cintura di sicurezza.
«Pensi che Ollie possa venire a prenderlo e provare a ripararlo ancora una
volta?»
Scrolla le spalle e riparte. «Glielo chiederò. Però se ti diciamo che devi
restare a Cedar, è perché devi restare a Cedar. Potresti aver fuso il motore».
«Ho capito, ho capito» borbotto.
Ci immettiamo sulla strada per tornare a casa e lui abbassa il volume della
radio.
«Hai fame?» domanda.
«Un po’».
Annuisce. Continua a guidare in silenzio per un altro quarto d’ora. Vorrei
dire qualcosa ma non mi viene niente di intelligente, quindi me ne resto in
silenzio e osservo la città fuori dal finestrino.
Alla fine Lachlan svolta nel parcheggio di un ristorante appena fuori città.
Parcheggia e e spegne il motore, poi si volta verso di me e aggrotta la fronte.
«Hai cambiato colore di capelli» dice, come se mi vedesse per la prima volta.
«Te ne sei accorto solo ora?» ridacchio.
«Stai… bene».
«Grazie» replico.
«Ora andiamo a mangiare» ordina.
Scende dall’auto in tutta fretta e si incammina verso l’ingresso, lasciandomi
lì come un’idiota.
 
 
10
 
Lachlan
 
 
Mi siedo al primo tavolo libero che trovo a osservo Theodora che entra nel
ristorante di Moesly. Si scosta i capelli ramati dal viso con uno sbuffo e
ancheggia verso di me. Ancheggia, maledizione! Non è per niente consapevole
del mondo che la circonda, e neanche di sé stessa. Ogni volta che le sono stato
vicino non si è preoccupata di sistemarsi o di mettersi in mostra. Tutto quello
che ho notato, l’ho notato perché lo possiede e basta.
E ne ho notate di cose.
Mi schiarisco la gola quando mi raggiunge. Indossa una camicetta e un paio
di jeans attillati. Scosta la sedia e si siede di fronte a me, si sposta i capelli dagli
occhi e inarca le sopracciglia come a chiedermi se c’è qualche problema. Forse
l’ho fissata troppo…
«Hai fuso il motore per cambiare colore di capelli?»
«Era un’urgenza» si difende.
«Cambiare colore di capelli era un’urgenza?»
Mi fa una linguaccia. Oggi dimostra meno dei suoi venticinque anni. Non ha
nemmeno un filo di trucco e gli occhi non sono coperti da quella frangetta che
li nasconde sempre.
«Non mi sentivo a mio agio con quel colore. Anche la signora Klaus mi ha
fatto notare che era orribile» si giustifica.
«La signora Klaus ha ottant’anni».
«Ottant’anni di saggezza».
Evito di risponderle per non guastare il momento. Saranno almeno cinque
minuti che non litighiamo. Do un’occhiata al menù e anche lei fa lo stesso. Mi
sorride. Oggi lo ha fatto spesso, mi sento un po’ a disagio. Mi agito sulla panca
e faccio un cenno al cameriere. Ordino una bistecca con contorno di insalata,
lei solo delle patatine fritte. Sembra una ragazzina.
«Allora, cosa stavi facendo quando ti ho chiamato?» mi chiede.
«Stavo riparando la staccionata del granaio. Da un po’ stavo pensando di
affittarlo per matrimoni e cose del genere, ma non trovavo mai il tempo di
ripararlo».
Non mi entusiasma l’idea di affittare il granaio per eventi del genere – le
cerimonie mi mettono l’ansia – ma potrebbero tamponare la situazione.
«Da quanto tempo vivi in quel posto?» domanda.
«Da sempre».
Eccetto per qualche anno, quando la mia vita ha preso una strada che ora
stento a riconoscere, direi da sempre.
«Quindi il cottage era di tua madre?»
«Sei una maledetta ficcanaso, te l’ha mai detto nessuno?» borbotto.
«Mi piace fare domande» si giustifica.
«E io le odio».
Arriccia il naso e solleva le mani in segno di resa. La fisso in silenzio mentre
lascia vagare lo sguardo oltre la finestra e mi concentro sulla spruzzata di
lentiggini che ha sulle guance.
Forse dovevo essere meno brusco. In fin dei conti non devo mica
raccontarle i miei segreti più intimi. Piccole informazioni qua e là che male
può fare?
«Mia madre viveva nel cottage con suo marito, poi ci ha vissuto sola dopo
che lui se n’è andato. Io ho sempre vissuto con i miei nonni, dove vivo ora con
Lilli. Quindi, sì, era casa sua» confesso.
C’è un terribile parallelismo tra la mia storia e quella di mia madre, qualcosa
che ho sempre visto come una maledizione, ma non starò qui a spiegarglielo.
Non voglio lagnarmi e poi… Chi vuole sentire cose del genere?
«L’hai persa tanto tempo fa?»
«Quattro anni fa» rispondo.
Non chiede altro, anzi, beve un sorso d’acqua e allunga una mano. La ritrae
quando si rende conto che sta per toccare la mia.
Gliel’avrei lasciata toccare, se ci avesse provato. Ne sono sicuro.
«Mi dispiace» farfuglia.
Scrollo le spalle, non parlo di mia madre da tempo e vorrei continuare a non
farlo. Decido di cambiare argomento.
«Come va con Laurel?» chiedo.
«Benissimo, penso che diventeremo ottime amiche. A differenza tua, lei mi
trova simpatica» mi provoca.
«Certo, non vivi in casa sua».
«Però sei qui».
«Ormai sei ovunque io vada, tanto vale accettarlo».
Ridacchia e scuote la testa. Decisamente non è giornata di litigi, questa.
Arrivano i nostri piatti e iniziamo a mangiare in silenzio. Affonda le patatine
nel ketchup e mugugna qualcosa a proposito di quanto le siano mancate. La
fisso in silenzio, forse anche lei è fissata con il suo fisico come lo era K…
Scuoto la testa e scaccio via quel nome.
Non ci pensare, non ci pensare, non ci pensare.
Prendo il bicchiere e me lo porto alle labbra. Theodora mi fissa con
attenzione.
«Tutto bene?»
«Sì, non preoccuparti» mugugno.
Quel nome è come un tarlo che mi martella le tempie. Mi sforzo con tutto
me stesso di allontanarlo, ma è ancora lì e non se ne vuole andare. Da quando
ne ho parlato con Lilli non riesco a smettere di pensare a lei. Odio questa cosa.
«Ho una domanda. Posso?»
Grazie a dio, penso.
«Ti ascolto».
Unisco le mani sotto al mento e la fisso negli occhi in attesa che parli,
qualunque cosa pur di distrarmi dal pensiero della madre di mia figlia.
«Sei un veterinario?» sussurra.
La fisso per capire se mi stia prendendo in giro. Sembra seria. Scoppio in
una fragorosa risata. Rido così tanto da piegarmi in due, devo sembrarle fuori
di testa.
«Cosa? Cos’ho detto?»
La sua confusione mi fa ridere di più.
«No, non sono un veterinario» spiego, continuando a ridacchiare.
Sembra sorpresa e un po’ delusa. «Sei veramente bravo con gli animali,
pensavo che lo fossi».
Infilo in bocca un pezzo di pane, mastico lentamente e deglutisco prima di
rispondere. Ho ancora un grosso sorriso stampato sulle labbra.
«Ho studiato veterinaria, ma non mi sono mai laureato perciò no, non sono
un veterinario» spiego.
Era uno dei sogni ai quali ho rinunciato per amore di mia figlia. Ho sempre
vissuto a contatto con gli animali, me ne sono preso cura con mio nonno fin da
bambino. Non riesco a immaginare niente di più bello e appagante. Ma non lo
sono, non sono un veterinario.
Theodora spalanca le labbra e si agita sulla sedia. Sembra proprio una
ragazzina.
«Ma come! E Lilli lo sa?»
«Perché credi che mi chieda sempre di controllare se i suoi animali stanno
bene?» le faccio notare.
«Perché non ti sei laureato?»
«Perché è arrivata Lilli e dovevo pensare a lei. Mi manca un semestre,
comunque. Un giorno, forse, finirò gli studi. Per ora non posso
permettermelo» concludo.
Avevo una borsa di studio grazie al football all’epoca, ma studiavo troppo
lontano da casa e nessuno poteva aiutarmi con Lilli. Le cose erano troppo
complicate, quindi scelsi di abbandonare gli studi con la speranza di
riprenderli prima dei trent’anni. Credevo che per allora avrei avuto un
ambulatorio a Cedar e almeno uno dei miei vecchi progetti si sarebbe
realizzato, ma non è stato così. La vita degli adulti è piena di cose rimandate al
giorno dopo, e quello dopo ancora. Alla fine, quel giorno non arriva mai. Per
me, soprattutto, non è mai arrivato. E con i debiti che ho per via della fattoria
non penso arriverà mai.
«Ci sono agevolazioni per i genitori che studiano e lavorano» mi fa notare.
«Madri o padri?»
Perché molti non ci fanno caso, ma quelle agevolazioni sono quasi tutte per
le giovani madri. Lei arrossisce e distoglie lo sguardo.
«Beh, non lo so, ne ho solo sentito parlare».
«Non posso riprendere a studiare adesso, non me lo posso permettere»
chiarisco.
Theodora annuisce e curva le labbra in un broncio che mi fa scoppiare a
ridere. Sembra che sia lei a non poter realizzare il suo desiderio più grande, mi
ricorda una bambina capricciosa.
«D’accordo, ma non ti arrendere. Sei bravissimo con gli animali».
Annuisco e abbasso lo sguardo sul tavolo. Sto arrossendo, maledizione. Sto
arrossendo come un bambino di fronte alla bambina per la quale ha una cotta.
Che diavolo succede?
«Tu, invece? Che cos’hai studiato?» domando, cercando di recuperare la
dignità.
Il cambiamento sul suo viso è repentino e un po’ preoccupante. Il sorriso
diventa di plastica e la schiena è dritta come se fosse inchiodata a un asse di
legno.
«Oh, non ho potuto studiare, ho solo il diploma del liceo» farfuglia.
Davvero? Non sembra affatto una donna che ha solo il diploma del liceo.
Anzi, ha proprio l’atteggiamento tipico di una donna d’affari e, non so per
quale motivo, ma ero convinto che si trattasse di un avvocato o qualcosa del
genere. Lei beve un sorso d’acqua e si pulisce le mani sul tovagliolo.
«C’è un’università pubblica molto valida da queste parti» mi ritrovo a dire.
«Le darò un’occhiata».
«Questi capelli ti stanno benissimo» mi lascio scappare.
«L’hai già detto».
«Te lo sto dicendo di nuovo, Theodora Sanders».
Sorride e mi strizza l’occhio. «Perché non siamo amici, giusto?»
Trattengo una risata e annuisco.
«Non lo siamo, no. Io non ti sopporto» dico. Quelle parole non hanno più lo
stesso sapore.
«E io ti odio, Lachlan Willow».
Terminato il pranzo ci alziamo. Prendo la sua borsa e aspetto che si alzi per
poggiargliela sulla spalla, poi mi dirigo alla cassa per pagare il conto. Usciamo
all’esterno in silenzio e io mi accendo una sigaretta. Questa giornata sta
prendendo una piega strana. Theodora è riuscita a spazzare via i pensieri
oscuri che in questi giorni mi stavano uccidendo. Le sono davvero grato.
Camminiamo fino al pick-up e le apro lo sportello, invitandola a salire a
bordo. Aspetto che si allacci la cintura e si volti verso di me. Prendo un tiro
dalla sigaretta e la fisso negli occhi.
«Quanto ti odio» mormoro.
Chiudo lo sportello giusto in tempo per sentirla ridere, e ridere ancora, così
forte che non posso fare a meno di seguirla.
Temo che odiarla non sia più possibile.
Maledetta Theodora.
 
11
 
Theodora
 
 
Ollie ha riparato il pick-up un’altra volta.
Ha compiuto un altro miracolo, che penso avrà breve durata. Mi sono
ripromessa di cercare una nuova auto il prima possibile. Il mio computer è
chiuso nell’armadio, l’ho comprato insieme a una valanga di vestiti e non l’ho
ancora usato. Sembra l’occasione perfetta per tirarlo fuori.
Il pick-up da rottamare mi ha fatto guadagnare anche un nuovo
corteggiatore: Ollie si è fatto dare il mio numero, e non certo per motivi
lavorativi! Da una settimana non fa altro che chiedermi di uscire. È un ragazzo
carino, un lavoratore molto più impegnato di me, al momento, ma una
relazione non è quello che cerco, e non so come diavolo dirgli che vorrei
tornare ad essere solo una sua cliente. Visto che non voglio che circolino
strane voci su di me a Cedar, eccomi a una fiera di paese con Ollie.
Ovviamente ci sono anche Lachlan, sua figlia Lilli, Laurel e i suoi due adorabili
bambini.
È la prima volta che partecipo alla vita mondana di questa cittadina, ma tutti
sembrano felici di vedermi. Sorrido alle persone che mi salutano con calore,
mangio le loro specialità e canto alcune vecchie canzoni rock.
È una fiera per celebrare l’arrivo dell’autunno, trovo meraviglioso che
centinaia di persone si riuniscano per festeggiare il cambio di stagione. In città
il ciclo delle stagioni è qualcosa che avviene, non lascia segno nei cuori delle
persone come invece accade a Cedar. Laurel mi ha detto che lo fanno con ogni
stagione e, ogni volta, è come tornare bambini. Osservo lo stand di mele
caramellate e lascio che il resto del gruppo prosegua lontano da me. Vorrei
tanto prenderne una. Quando finalmente mi decido a farlo, Lachlan si
avvicina.
Si schiarisce la voce. «Ne vuoi una?» domanda.
Prendo qualche banconota dalla tasca e gli faccio un cenno.
«Lilli dov’è?» chiedo mentre ordino la mia mela caramellata. Il signore
anziano dietro mi sorride e ne prepara una. Sto per pagarla ma Lachlan mi
anticipa.
«Cosa fai?»
«Pago il conto».
«Posso pagarlo da sola» gli faccio notare.
Rotea gli occhi e ringrazia il venditore, poi si incammina lungo gli altri
stand senza curarsi di me. Camminiamo tra gli stand ad almeno tre passi
dall’altro, poi, dal nulla, Lachlan dice: «Lilli sta giocando con i figli di Laurel».
Ci voleva tanto a rispondere?
Do un morso alla mela. Mi lecco la glassa dalle labbra, diamine se è
deliziosa! Lachlan mi guarda con la coda dell’occhio. Rallenta e mi si avvicina.
Ha gli occhi puntati sulle mie labbra. Scuote la testa e sorride. Mi indica il
ciuffo di glassa appiccicato al labbro e mi sento avvampare per l’imbarazzo.
«Gli altri dove sono?» domando. «Ollie?»
«A prendere la carne e a cercare un tavolo» spiega. «Ti piace?» aggiunge poi.
Un pezzo di mela caramellata mi va di traverso. Sempre così diretto?
Mi prendo qualche istante per pensarci. Fisicamente parlando, Ollie è un bel
ragazzo, ma non ci avrei dato peso se Lachlan non me lo avesse chiesto. Credo
di non avere niente in comune con Ollie. Abbiamo parlato talmente poco oggi,
e con un tono così forzato da risultare imbarazzante.
«Non proprio» rispondo evasiva.
«Non sembra».
Aggrotto la fronte, perplessa. Mordo quel che resta della mela e mi pento di
non averne prese due. Sbuffo. Odio le persone criptiche, e odio anche che mi
stia così appiccicato. Solo cinque minuti fa camminava ad almeno tre passi di
distanza da me, mentre adesso me lo ritrovo addosso. Dannato Lachlan, con
quella sua camicia di jeans e quei pantaloni blu da cowboy di campagna. Con
quegli occhi azzurri e quei capelli scuri spettinati.
Lo odio. Odio che il suo braccio mi sfiori lentamente, ad ogni passo. Odio di
più che lo faccia di proposito, proprio mente mi parla di Ollie.
Non vado in giro con le bende sugli occhi. Lachlan l’ho guardato bene ogni
volta che ne ho avuto l’opportunità. Per questo so che Ollie non mi piace,
almeno non quanto lui. Ollie non mi rende nervosa, non mi attrae in quel modo,
quello che mi fa venire voglia di guardarlo di nascosto dalla finestra del cottage
mentre lavora. Cosa che già faccio, e non so nemmeno quando e come ho
iniziato.
«Cosa stai cercando di dirmi, Lachlan?»
Scrolla le spalle. «Che non dovresti pensare a lui» risponde. «Non in quel
modo».
Getto lo stecco di legno e il tovagliolo nel cestino di uno stand, meditando
sulla prossima risposta. Non faccio in tempo, Ollie e Laurel sono seduti al
tavolo insieme ai bambini. Lilli sventola la sua manina verso Lachlan. In realtà
i bambini stanno già tutti mangiando, gli occhi felici e i vestiti sporchi di terra
per aver giocato. Lachlan prende posto vicino a Laurel e io vicino a Ollie.
Appena poggio il sedere sulla panca, la sua mano corre sulla mia coscia e io mi
irrigidisco. Forzo un sorriso e accavallo le gambe facendogli perdere la presa.
«Allora, Theo, ti piace la nostra fiera autunnale?» mi chiede Laurel,
servendomi carne e patate dolci.
«La adoro» dico, versandomi un po’ d’acqua. Ne ingollo il più possibile
mentre Ollie mi sfiora col suo braccio. Mi sento terribilmente a disagio e
vorrei andarmene, ma mi sforzo di sorridere.
Mi accorgo che Lachlan mi fissa. O meglio, fissa il punto in cui il braccio di
Ollie sfiora il mio con la fronte aggrottata.
«Theo, pensi che papà mi prenderà un cane?» esordisce Lilli.
Suo padre, per tutta risposta, sbuffa. Ridacchio e le scosto i capelli dalla
guancia rosea. È così diversa da lui.
«Penso che dovresti chiederglielo nel modo giusto, il tuo papà ama gli
animali».
Lachlan si schiarisce la voce e mi tira un calcio sotto il tavolo, facendomi
sussultare.
«Theodora, sta’ zitta» ringhia lui.
Laurel ride. «Secondo me avrai il tuo cagnolino, Lilli».
Lei sorride e strizza l’occhio a suo padre, facendoci scoppiare tutti a ridere.
Adoro quella piccola peste. Mentre si scatena una discussione molto accesa su
come accudire un cane in una fattoria piena di altri animali, e i figli di Laurel la
pregano di portare a casa un cucciolo, Ollie richiama la mia attenzione
sfiorandomi il braccio con le dita. Mi volto nella sua direzione e sorrido, anche
se in questo momento voglio solo che tenga le sue manacce a posto.
«Ti stai divertendo?» bisbiglia.
«Certo».
Mi strofina il pollice sotto il labbro e io mi scosto subito.
«Stavo pensando che potremmo uscire a cena. Solo io e te, domani»
propone.
Vorrei dirgli di no, di non toccarmi più e di cercarsi un’altra ragazza ma,
prima che ci riesca, qualcuno ci interrompe.
«Theodora, posso parlarti un attimo?»
Osservo Lachlan che è in piedi accanto a me. Annuisco e lo seguo
scusandomi con gli altri. Camminiamo in silenzio fino allo stand già chiuso dei
gelati. Aspetto che dica qualcosa ma poi, all’improvviso, Lachlan forza il gancio
della serratura, apre la porta e mi spinge dentro.
«Ma che diavolo fai?» sbotto.
Lui si passa le mani nei capelli con fare nervoso. «Che diavolo fai tu!»
ringhia. «Volevi farti scopare su quel tavolo da Ollie?»
Sussulto e indietreggio fino alla parete opposta, ma incontro uno sgabello e
rischio di cadere. Lui mi sorregge e mi spinge contro la parete libera.
«In realtà non sapevo come liberarmi di lui, ma cosa te ne importa? Tu mi
odi» gli faccio notare.
«Smettila con questa stronzata».
«Non è forse vero?»
Lui mi strofina il labbro inferiore con il pollice e risale il mio fianco con
l’altra mano. Mi sfiora un seno senza stringerlo e mi accarezza fino ai capelli.
Ci affonda le dita in mezzo e mi fissa le labbra, un luccichio affamato negli
occhi. Il cuore mi sta galoppando nel petto, so che può sentirlo. Pulsa così forte
che il rumore rimbomba tra le pareti della baracca, nemmeno i macchinari di
refrigerazione per i gelati possono coprirlo.
«Sei proprio stupida».
«Senti chi parla» lo provoco.
Sorride e mi sfiora di nuovo le labbra.
«Sai cosa intendevo, prima, quando ti ho detto che non dovresti pensare a
lui in quel modo?» sussurra.
Scuoto la testa e trattengo il fiato quando mi sfiora l’orecchio con le labbra.
«Non dovresti pensare a lui nel modo in cui pensi a me, Theodora».
Sbatto le palpebre e mi aggrappo alle sue braccia con l’intento di
allontanarlo, ma ottengo il risultato contrario. Lachlan non si allontana,
schianta le sue labbra sulle mie e mi spinge contro il muro più forte. Mi divora
le labbra e la lingua, divora le mie parole e i miei pensieri e si prende anche
quello che non sapevo di potergli dare. Mi solleva una gamba e se la porta
intorno alla vita, preme il bacino contro il mio e si aggrappa ai miei capelli
mentre mi saccheggia la bocca. Mi scappa un gemito e lui sorride,
allontanandosi da me per potermi guardare negli occhi.
«Questo non sta succedendo davvero» farfuglio.
«Invece sì» sussurra. «Così, forse, la smetterai di spiarmi da quella maledetta
finestra» rincara qualche istante dopo.
Arrossisco violentemente. Se non fosse per il buio sarei già morta di
vergogna.
Lachlan si arrotola una ciocca di miei capelli intorno al dito. Profuma di
bucato e di terra, di nuvole e pioggia. Un odore inebriante, unico, suo.
«Ma perché?» mi ritrovo a dire.
Lui mi strizza il sedere tra le mani e sorride sulle mie labbra.
«Perché ti odio» mormora.
Mi alzo in punta di piedi e premo le mie labbra sulle sue, inverto le nostre
posizioni e stavolta è lui contro il muro mentre io lo bacio e mi prendo quello
che voglio dalla sua bocca. Lachlan mi solleva da terra e mi stringe a sé, gli
circondo la vita con le gambe mentre lui mi slaccia la camicetta e mi stringe un
seno nella mano. Geme così forte che sono sicura che se non ci fosse la musica,
qualcuno ci avrebbe già scoperti. Finisce di slacciarmi la camicetta e sposta le
labbra dalle mie, scende sul mio collo e sul mio petto fino a raggiungere il
bordo del mio reggiseno di cotone. Non ho un seno grande, ma il modo in cui
mi guarda mi fa sentire sexy da morire. Sento le sue dita sfiorarmi, abbassare la
stoffa e la sua lingua tracciare il contorno del mio capezzolo prima di
prenderlo in bocca e succhiare.
«Lachlan…» mugolo.
Lui mi spinge di più contro ai suoi fianchi e succhia ancora e ancora,
facendomi gemere così tanto che dovrei vergognarmi. Mi strofino contro le
sue labbra e muovo i fianchi lentamente seguendo quella dolce tortura. Non
ricordo di aver mai ceduto così velocemente. Mi sento una ragazzina nelle
mani della sua prima cotta.
«Lachlan…»
«Vieni, Theodora. Non ti trattenere con me».
Sospiro e chiudo gli occhi, affondo la mano tra i suoi capelli scuri e li tiro. La
ricrescita della sua barba mi solletica. Gli sollevo il viso e lo bacio di nuovo. Lo
bacio, lo stringo e lo respiro, mentre lui mi richiude la camicetta. Poi mi lascia
scendere e toccare di nuovo terra. Ha un problema, giù nei pantaloni, ma mi
sento così in imbarazzo che non dico niente.
«Ora te lo richiederò» sussurra. Mi sistema i capelli dietro alle orecchie e mi
strofina le labbra con le dita. «Stai cercando di farti scopare da Ollie?»
«Vuoi che cerchi di farmi scopare da te?» lo sfido.
Lui sorride, ma non risponde. Il modo in cui mi guarda è abbastanza
eloquente.
«Gli dirai che non vuoi essere toccata e che finisce qui, qualunque cosa fosse
iniziata» mi ordina.
Avevo già intenzione di farlo, ma così c’è più gusto.
«Poi continuerai a guardarmi da dietro quella tenda, fino a quando non mi
volterò e i nostri occhi non si incontreranno e, in quel momento, mi farai
entrare in casa tua» continua.
«Ora è diventata casa mia?» chiedo con una punta di sorpresa.
Lui mi pizzica il fianco e io ridacchio. Da dove diavolo esce questo ragazzo?
Dov’è finito Lachlan Willow, il rozzo vicino che mi provoca e dice di odiarmi?
«Allora io verrò da te e ti spoglierò, ti assaggerò ovunque e le mie labbra
diventeranno la tua ossessione» bisbiglia.
Rabbrividisco e distolgo lo sguardo.
Che cosa sta succedendo?
«Lachlan, io…»
«Dobbiamo tornare dagli altri» mi interrompe. «Sistemati i capelli, sembri
una che è appena stata scopata».
Strabuzzo gli occhi e lo faccio scoppiare a ridere. La sua risata è contagiosa
in un modo che non so spiegarmi, così mi ritrovo a fare lo stesso. Mi sistemo i
vestiti e i capelli come posso, poi mi avvio alla porta. Lachlan mi ferma con
una mano sul battente, spinge il torace contro la mia schiena e mi sfiora
l’orecchio con le labbra.
«Stasera, al granaio» bisbiglia.
«Lachlan…»
«Ti scrivo quando Lilli si addormenta» sussurra, poi mi prende il lobo tra i
denti. «Se ti tocca di nuovo in quel modo, gli spacco la faccia».
Mi lascia andare e apre la porta cigolante, esco fuori e mi schermo gli occhi
dalla luce del sole mentre lui mi passa accanto fingendo di non conoscermi.
«Hai dimenticato di allacciare l’ultimo bottone» mi fa notare.
Abbasso lo sguardo sul mio petto e mi affretto a chiuderlo. «Quanto ti odio,
Lachlan Willow» sibilo.
«E quanto ti piace odiarmi ed essere odiata».
Impreco e lo colpisco sul braccio. «Al diavolo, maledetto presuntuoso».
Lo lascio indietro e torno al nostro tavolo, mi siedo vicino a Ollie e cerco di
fingere che non sia accaduto niente tra di noi. Ma il mio cuore lo sa. Quel
bastardo pompa ancora come un forsennato nel petto.
 
12
 
Theodora
 
 
Guardo alcune foglie volteggiare leggere nel cielo, oltre il parabrezza. Mi
stringo nella giacca che indosso, chiudo bene la cerniera e mi sfioro il collo con
le dita. Sento ancora le mani di Lachlan addosso, il suo respiro sulle labbra e i
suoi occhi scrutarmi come se fossi qualcosa che non vede l’ora di scoprire.
Come se non volesse fare altro. Mi sistemo meglio sul sedile della Mustang di
Ollie e cerco di ascoltarlo mentre mi dice quanto si è divertito e quanto
vorrebbe rivedermi. Invece, io, di rivederlo non ne ho proprio l’intenzione.
Dovrei dirglielo, ma sono codarda, forse spaventata dal fatto che siamo soli e
che Lachlan non potrà salvarmi trascinandomi in uno stupido chiosco di gelati
se lui cercasse di toccarmi. E so per certo che essere toccata da lui è l’ultima
cosa che voglio. Non so nemmeno come io abbia potuto permettere a Lachlan
di posare le sue mani su di me, forse per questo non riesco a smettere di
pensarci. Osservo la strada scomparire sotto le ruote dell’auto di Ollie e
intravedo il lampione che illumina il viale d’accesso alla fattoria. Lachlan ha
dovuto accompagnare a casa Laurel e i bambini, perciò non sono potuta
tornare a casa con lui anche se l’avrei decisamente preferito.
«Mi ascolti?»
Mi volto verso Ollie e forzo un sorriso, poi fingo uno sbadiglio.
«Scusami, sono molto stanca» mento. Non sono affatto stanca, sono a
disagio e infastidita dal suo nauseante profumo. Sembra si sia fatto il bagno
nell’acqua di colonia. È talmente forte da aver impregnato tutta l’auto.
«Pensavo che potremmo uscire domani sera».
«Ollie…» intento. Me l’ha chiesto due volte, e per due volte non ho risposto.
Come può non cogliere il messaggio?
«Che c’è? Non ti piaccio?»
No, non mi piaci, vorrei dire. Mi mordo la guancia ed estraggo le chiavi
dalla tasca della giacca. La ghiaia borbotta sotto il peso degli pneumatici e io
mi slaccio la cintura troppo in fretta. Ollie mi guarda come se stessi tentando
la fuga e, in effetti, è proprio così.
«Sei di fretta, eh?» borbotta.
«Scusami, sono veramente stanca» mi giustifico.
Ollie sembra bersela. Inchioda davanti al mio pick-up, spegne l’auto e
prende a fissarmi. Mi guarda in modo strano, in un modo che mi mette in
allerta come non succedeva da un po’. Sento un brivido partire dalla schiena e
solleticarmi con insistenza. Lo stomaco mi si contrae e la mia mano cerca la
maniglia. Non so perché io mi senta così in presenza di Ollie, lo dipingono
tutti come un bravo ragazzo e sono sicura che tante donne a Cedar vorrebbero
essere al mio posto e ricevere le sue attenzioni, ma il mio corpo non mente. C’è
qualcosa in lui che non mi piace.
«Ci sentiamo nei prossimi giorni» dico, apro lo sportello e scendo. «Grazie
per il passaggio».
Lui solleva una mano e sorride. Un sorriso un po’ falso che nasconde un
certo fastidio. «Ti chiamo» dice.
Mi affretto ad arrivare davanti al portico di casa. Aspetto che imbocchi di
nuovo il vialetto per sbarazzarmi di quella brutta sensazione.
Sei una paranoica, mi dico. È solo un bravo ragazzo che si è preso una cotta.
Smettila di avere paura.
Decido di entrare in casa e aspettare il messaggio di Lachlan dietro alla
finestra, dietro alla tenda dal quale ho imparato a fissarlo. Tengo addosso il
cappotto e accendo solo la piccola lampada da lettura del salotto. Scosto la
stoffa leggera della tenda e aspetto.
Il suo pick-up è nel vialetto e le luci del secondo piano della fattoria sono
accese, è tornato prima di me e Ollie. Prendo il telefono dalla tasca e me lo
rigiro ossessivamente tra le mani mentre mi domando ogni sorta di cosa:
dovrei rinfrescarmi, o indossare qualcosa di più carino? Lancio uno sguardo al
terreno che circonda le nostre case e ridacchio: chi diavolo si veste bene per
andare in un granaio?
Passano cinque minuti e le luci della casa di fronte si spengono tutte, eccetto
quella che so essere della cucina al piano terra. So che Lachlan verrà, che mi
scriverà e che mi bacerà ancora. Che le sue mani scacceranno la brutta
sensazione che lo sguardo di Ollie mi ha lasciato addosso e che mi sentirò
stranamente al sicuro. Eppure, lui non mi scrive.
La luce della cucina si spegne e nessuno esce dalla sua porta. Le mie mani
lasciano cadere il telefono, mentre mi dico che non è possibile, che presto
arriverà. Lo aspetto fino alle tre di notte, poi decido di arrendermi alla
vergogna.
Lachlan non verrà.
***
 
La mattina mi sveglio in ritardo. Mi alzo e mi faccio una doccia, asciugo i
capelli senza cura e indosso le prime cose che trovo nell’armadio. Fuori il cielo
è cupo, ricoperto di nubi scure e minacciose che fluttuano troppo basse.
Prendo un giubbotto più pesante con un cappuccio ed esco di casa. L’odore di
umido e pioggia mi colpisce le narici con prepotenza. Chiudo la porta del
cottage e scendo gli scalini di corsa, prendo la chiave del pick-up e sussulto
quando sollevo lo sguardo e mi ritrovo davanti il mio dannato vicino di casa.
Ho cercato di non pensare a lui da quando ho aperto gli occhi, ho persino
sperato che non uscisse più da quella maledetta casa.
«Spostati» ordino.
«Buongiorno anche a te».
«Togliti, Lachlan» ringhio. Cerco di non guardarlo negli occhi, sono ancora
troppo imbarazzata per ieri sera. Lo spingo via, infilo la chiave nella vecchia
serratura arrugginita e la apro. Lui però la richiude con un colpo secco.
«Che cosa stai facendo? Lasciami passare!» sbotto.
«Dobbiamo parlare».
Cerco di afferrare la maniglia ma lui la copre appoggiandosi contro.
Incrocia le braccia al petto e solleva un sopracciglio. Vorrei prenderlo a
schiaffi.
«Devo aprire il negozio e sono in ritardo, razza di idiota!».
«Vedo che sei tornata la solita».
«Intendi stronza come te?»
Vorrei dirgli che non mi sentivo così stupida da settimane e che ha distrutto
una parte del muro che avevo faticosamente costruito per proteggermi, che mi
ha fatto sentire piccola e in pericolo come pensavo di non dovermi più sentire
da quando sono qui e che ora, per colpa sua, non so se posso fidarmi della sua
famiglia. Perché dio solo sa quanto bisogno io abbia di fidarmi di qualcuno e
quanto volessi fidarmi di loro. Per colpa sua sono di nuovo sola, come lo sono
sempre stata da quando ho messo piede in questa stupida cittadina.
«Si può sapere cosa vuoi? Parla e falla finita, devo andare al lavoro» sbotto.
Lui scioglie le braccia e mi sfiora le spalle, sussulto e mi allontano senza che
si senta scoraggiato. Mi afferra una ciocca di capelli e se la rigira tra le dita.
«Sei arrabbiata per ieri?»
Non rispondo. Cerco di aprire lo sportello un’altra volta, ma lui me lo
impedisce.
«Devo andare al lavoro, Lachlan» insisto.
«Ieri è stato piuttosto… strano. Volevo davvero che venissi nel granaio e che
Ollie ti togliesse le mani di dosso, ma poi ho riflettuto sul fatto che non può
essere una cosa di una notte e basta se vivi di fronte a me» spiega.
Mi mordo la lingua e cerco di mantenere la calma, ingoio le parole che
vorrei sputargli addosso.
«Ora posso andare a lavorare?»
«Theodora, per favore».
Lo spingo e finalmente apro lo sportello. Entro in auto e metto in moto.
Quello stupido pick-up parte dopo tre tentativi, ma alla fine lo fa e io posso
andarmene. Non lo guardo neanche in faccia. Imbocco il vialetto e non lo
cerco negli specchietti retrovisori. Non tento neppure di decifrare le cose che
mi ha detto, il ricordo dell’attesa che mi ha consumata sul davanzale di quella
finestra mi fa ancora ribollire il sangue nelle vene.
Cerco di cancellare Lachlan dalla mia testa. Cerco di dimenticare il suo
profumo e il ricordo del suo respiro sulle mie labbra.
Ieri non è successo niente. Cerco di convincermi anche di questo.
13
 
Lachlan
 
Chiudo il computer con un gesto secco.
L’ho fatto, ho messo in affitto una parte di casa mia. Sto accettando la
sconfitta, ma per Lilli farei di tutto.
Lancio uno sguardo al cottage e mi accendo una sigaretta. La pioggia
picchietta sulla ringhiera del porticato e sul parabrezza del mio pick-up
mentre l’umidità mi penetra nelle ossa. Lilli è da Laurel per cena e mia zia è da
qualche parte con quel suo dannato club di qualunque-cosa-sia. Ultimamente
non la si vede spesso e non riesco a non provare rabbia nei suoi confronti.
Invece di trovare una soluzione per non farci portare via la nostra casa, lei
continua la sua vita come se niente fosse. Le sono grato per l’aiuto che mi dà
con Lilli e non so senza di lei come avrei fatto finora, ma non posso
nascondere il disappunto per il suo comportamento. E poi c’è Theodora, il suo
malconcio pick-up e la tenda del cottage.
Mi sono reso conto che mi spiava da lì dietro quasi subito. Non l’avevo
trovato inquietante e nemmeno fastidioso, direi più confortante. Era diventata
un’abitudine: guardavo il cottage e la cercavo dietro la tenda. Alla fine gliel’ho
detto. E l’ho baciata, toccata e divorata con il bisogno di dimostrarle che la
volevo e che mi infastidiva desiderarla tanto. L’ho fatto perché mi sono reso
conto che volerla è semplice. Che a volerla e a divorarla con gli occhi non ero il
solo.
Vedere Ollie girarle intorno e cercare di attirare la sua attenzione, mi ha
infastidito. Non ne ho il diritto, lo so, ma non posso farne a meno.
Maledetta Sanders, cosa diavolo ci sei venuta a fare qui?
Anche se, a pensarci, il bastardo sono io. Avrei dovuto farmi trovare al
granaio come le avevo promesso, anche perché sono stato io a darle
l’appuntamento. Ma quando ho visto mia figlia guardarla con adorazione,
scherzare con lei con complicità, mi sono detto che non potevo. Scopo nei
motel con donne che non sono di qui perché non posso permettere che Lilli si
innamori di una persona che non può restare.
Theodora se ne andrà da qui, l’ho capito da quando mi è venuta addosso con
il suo pick-up. Probabilmente non vedrà neppure la festa d’estate. Ma Lilli
resta qui, osserva, assorbe i sentimenti delle persone che stima e cerca di
imparare da loro. Non posso insegnarle che andare via è accettabile, che le
donne vanno via e basta. Non posso farlo. Anche se avrei voluto portare
Theodora al granaio, anche se lo voglio ancora.
È un desiderio che mi pulsa nel petto, vibra sotto la carne e sulla punta delle
dita. Si risveglia prepotente quando lei percorre il viale con quel rottame
arancione, parcheggia davanti al cottage e corre in casa con il cappuccio calato
in testa, senza degnarmi di uno sguardo.
Sposta la tenda, Theodora. Sposta quella tenda e guardami. Guardami, almeno tu.
Ma non lo fa. Accende la luce e non mi cerca. Spengo la sigaretta e mi
incammino sotto la pioggia, attraverso il vialetto di ghiaia che ci divide e
abbasso la maniglia della sua porta senza bussare. È aperto. Percorro il
corridoio e la raggiungo in cucina.
«Mi stai evitando» esordisco.
Lei lancia un urlo e si porta la mano al petto, il respiro accelerato le gonfia le
guance rosse e la fa sembrare una bambina.
«Ma che problemi hai!?» grida. Sto per ribattere ma mi zittisce ancora «E
prima che tu lo dica, questa non è casa di tua madre. È casa mia, dannazione!
Esci fuori, subito!».
Ok, forse ho esagerato…
Mi avvicino a lei lentamente. «Possiamo solo parlare?» intento.
«Vaffanculo, Lachlan» sibila. «Parla con qualcun altro, io non ho niente da
dirti».
Allungo una mano verso di lei, ma si sposta prima che io possa toccarla.
«Mi dispiace per ieri, dico sul serio. E anche per stamattina».
Si mette a sciacquare nervosamente una tazza nel lavello della cucina.
«Tranquillo, non ho nessuna intenzione di replicare. Non ti dovrai
dispiacere a lungo».
«Non mi dispiace per quello che è successo, ma per il granaio» chiarisco.
Si volta e si asciuga le mani con uno strofinaccio, poi incrocia le braccia al
petto.
«Che cosa vuoi, Lachlan?»
È una domanda che mi sto facendo da ieri, quando la risposta mi sembrava
chiara e palese.
«Non lo so» ammetto. «Voglio solo parlare».
«Beh, io non voglio parlare con te. Per favore, va’ a casa».
Annuisco e prendo un respiro profondo. Vorrei dirle la verità, spiegarle
perché non ho potuto mantenere la mia parola e non riesco a farlo nemmeno
oggi, ma decido di lasciare perdere. Le persone che non hanno figli non
possono capire queste cose. Le persone non capiscono mai i genitori soli,
soprattutto se sono uomini. Li giudicano e basta, e io non ho bisogno di
questo. Mi incammino verso la porta e mi fermo prima di aprirla, le lancio uno
sguardo dal fondo del corridoio e mi schiarisco la voce.
«Sabato c’è il compleanno di Lilli, vorrebbe tanto che tu venissi».
E lo vorrei anch’io, ma non è il caso di dirlo.
«Ci sarò».
«Sai una cosa?» sussurro. «Odiarti è molto più facile di questo».
Esco senza darle il tempo di replicare e corro verso casa mia, la pioggia è
così forte ora che mi sembra di essere punto tanti piccoli frammenti di vetro
sulla pelle. Rabbrividisco e mi strofino le braccia.
«Di questo?» urla.
Mi volto e mi ritrovo Theodora di fronte, la pioggia le ha inzuppato i capelli
ramati e le ciglia scure. Un po’ di trucco le cola sulle guance, ma sembra
ancorata al terreno e forte.
«Definisci questo, Lachlan» sbotta. Rabbrividisce e stringe il bordo delle
maniche del suo maglione zuppo tra le dita. Lancio uno sguardo al terreno che
ci circonda, siamo soli ed è buio pesto. Saremo soli ancora per un bel po’,
saremo soli quanto basta per sentirmi come in quel chiosco.
«Vuoi che te lo spieghi, Theodora?»
Lei annuisce, quindi la accontento. La afferro e la sbatto sulle mie labbra, poi
affondo la lingua nella sua bocca e la tocco dappertutto. Sa di pioggia, di terra,
di vaniglia e un po’ di cannella. I suoi pugni mi battono sul petto, ma io non mi
allontano. Non ne ho l’intenzione. La trascino verso casa mia, fino alla
veranda, fino al punto di non ritorno. La spingo dentro e la luce tenue della
lampada accanto al divano mi permette di osservarla e di guardarci. Siamo
fradici con i vestiti appiccicati addosso e le labbra umide di pioggia e saliva,
calde di cose non dette.
«Odiarti è più facile di questo» sussurro.
«Giuro che non capisco cosa ti passa in quella testa» ansima.
«Non devi capirlo, va bene così».
La bacio ancora e sollevo il maglione zuppo d’acqua, lo getto sul pavimento
e mi lascio slacciare la camicia. Sfila un bottone dopo l’altro lentamente, mi
sfiora la pelle con le dita e mi fa rabbrividire a ogni contatto. Me la sfila lungo
le braccia e io ne approfitto per sollevarla e portarla nella veranda sul retro. È
un posto che usa solo mia zia e che dà sui campi agricoli. C’è un divano,
qualche pianta ed è riscaldata. La poggio sui cuscini morbidi e la osservo
dall’alto.
«Voglio assaggiarti, Theodora».
«L’hai già detto» borbotta.
«Non voglio fermarmi» confesso. No, non voglio proprio fermarmi.
Maledizione.
Lei incrocia le gambe dietro alla mia schiena, trascinandomi sul suo petto
bagnato. Intravedo i capezzoli attraverso la stoffa del reggiseno e i brividi le
ricoprono la pelle fino all’ombelico.
«Allora non ti fermare» bisbiglia.
Non mi fermo. Le abbasso il reggiseno e ruoto la lingua intorno a un
capezzolo, lo prendo tra i denti e tiro piano mentre la sento gemere. Lo faccio
e rifaccio mentre le sue dita mi affondano nei capelli e i suoi fianchi si
muovono languidi, lo faccio fino a quando non resisto. Le slaccio i jeans e li
abbasso, le si sono appiccicati addosso per l’acqua e ci metto un po’ a
spogliarla, ma ci riesco. Risalgo le sue gambe con le labbra e vorrei che ci fosse
una luce più forte per poterla guardare meglio. La memorizzo in un altro
modo: la tocco, la annuso, la bacio. Succhio la pelle della sua coscia e la sento
stringere le gambe, risalgo e le sfioro le mutandine con le labbra. Prendo il
centro del suo piacere in bocca e succhio, lo faccio attraverso la stoffa mentre
le mie dita le sfiorano i seni e si muovono con il suo respiro. Lo faccio mentre
la sento ripetere il mio nome come una preghiera, mentre vorrei che anche lei
mi toccasse. Lo faccio e vorrei continuare a farlo, oltre questo momento. Sa di
pioggia, di sapone, di lei.
«Lachlan» sussurra.
La succhio più forte e lei esplode, mi afferra i capelli e mi trascina sulle sue
labbra mentre si strofina contro di me. Devo quasi trattenere il respiro per
controllarmi.
«Molto più facile odiarti» ansimo. «Ora capisci perché?»
«Molto più facile» concorda.
Infilo due dita nelle sue mutandine e le affondo dentro di lei, facendola
gemere. Le tiro fuori e le porto alle sue labbra.
«Ti sei mai assaggiata?»
Scuote la testa e mi stringe il polso.
«Apri le labbra, Theo».
Lo fa. Apre la bocca e io ci affondo le dita, le succhia piano mentre mi fissa
negli occhi e, giuro, potrei perdere il controllo solo guardandola. Almeno quel
che ne è rimasto.
Sfilo le dita e le strofino sul suo labbro.
«Mi dispiace per ieri sera» ripeto. «Dico sul serio».
Lei si irrigidisce e allunga una mano verso i miei jeans, li sbottona e sfiora il
bordo dei miei boxer con le dita. «Però volevi toccarmi ancora».
Annuisco. Voglio toccarla ancora e lo voglio anche se so che non posso.
«Volevi assaggiarmi» continua.
«Volevo assaggiarti e volevo toccarti, lo sai».
«E volevi che queste labbra diventassero la mia ossessione» conclude,
strofinando il pollice sul mio labbro per poi prenderlo tra i denti. Lo assapora
piano e si alza, poi mi spinge sul divano con decisione. Penso che salirà a
cavalcioni sulle mie gambe e che mi toccherà di nuovo. Lo aspetto, lo desidero,
ma non succede. La osservo sorridere, costernato. Raccoglie la mia camicia e
se la infila, poi mi raggela con lo sguardo.
«Non mi avrai, Lachlan» afferma. «Non mi scoperai come hai fatto con Lisa,
e non mi lascerai un’altra notte dietro a quella tenda ad aspettarti».
Poi si allontana.
Mi alzo per seguirla, lei è già in soggiorno e sta raccogliendo i suoi vestiti.
Provo a trattenerla, ma mi ignora. Si comporta come se non fossi nella sua
stessa stanza, come se non fossimo stati pelle contro pelle fino a pochi minuti
fa. Mi evita, apre la porta ed esce fuori solo con la mia camicia addosso. Si
abbottona la camicia, si infila gli stivali e si allontana. Si allontana da me,
cazzo!
«Theodora, fermati! Possiamo almeno parlarne?» quasi la supplico.
Si volta verso di me. Ha un sorriso sornione ad incurvarle gli angoli della
bocca. «Hai ragione, sai? Odiarti è molto più facile. Lo diventa ogni volta che ti
permetti di trattarmi come se fossi una totale idiota!»
«Theodora, maledizione» sbotto. «Fermati!»
La inseguo, mezzo nudo e scalzo. Ferito nel profondo, come io ho fatto con
lei qualche sera prima.
Sono un idiota!
«Perché dovrei ascoltarti? Non avrai quello che vuoi da me, fine della
storia».
«Che cazzo ne sai di quello che voglio da te?» insisto. «Non mi conosci
neanche e pensi di sapere tutto di me, non mi concedi neanche la possibilità di
spiegarmi» le urlo dietro.
Non sa niente di quello che ho passato prima di incontrarla. Non sa quello
che posso e non posso permettermi di vivere. Lei mi ignora, per niente colpita
dalle mie parole. Scende gli scalini con i vestiti fradici stretti al petto e le
gambe nude ricoperte di brividi.
«Con le labbra sei bravo, comunque!» urla. «Almeno sul corpo di una donna
sai usarle meglio che con le parole, perché con quelle sei un maledetto
stronzo».
Corre fino al cottage e si chiude in casa prima che possa anche solo pensare
di raggiungerla. Prima di accorgermene sono solo nudo, solo e arrabbiato.
Proprio come un patetico bastando.
14
 
Theodora
 
 
Sono gli ultimi giorni di settembre e il mio amore per l’autunno inizia a
vacillare.
Piove da cinque giorni senza sosta, da quando Lachlan mi ha portata nella
veranda sul retro di casa sua e ha cercato di venire a letto con me. Da quando
ho quasi permesso che lo facesse, che mi prendesse su quel divanetto e che mi
trattasse come una di cui non gli importa niente.
Sento ancora le sue labbra umide addosso, l’odore della pioggia appiccicato
alla sua pelle bagnata e il suo cuore che batteva impazzito. Sento ancora tutto e
lo sento mentre lo osservo dietro la mia tenda, mentre fingo di non conoscerlo
e me ne tengo alla larga. Lo sento mentre viene a bussare alla mia porta, dopo
aver messo a letto Lilli, e io non rispondo. Lo sento quando mi scrive e io
cancello i suoi messaggi. Mi sono strofinata la pelle sotto la doccia per
mezzora dopo essere fuggita da casa sua, e non è bastato per cancellare
l’umiliazione che ho provato.
Non sto dicendo che voglio che mi dichiari amore eterno e mi renda felice
per tutta la vita. Vorrei solo che usasse un po’ di buon senso dato che sono la
sua vicina di casa, non può mica troncare i contatti con me, così come fa con le
altre. Invece non ci ha pensato, è così egoista e freddo, pensa solo a sé stesso.
L’unica cosa che lo preoccupa è la sua vita e quello succede alle persone che lo
circondano non lo sfiora nemmeno. Ho anch’io una vita, delle necessità, e non
posso permettergli di cancellarle per il suo piacere. Se vuole farsi una scopata,
può avere chiunque. In città impazziscono per lui: il ragazzo single che cresce
da solo un’adorabile bambina amante degli animali. Il ragazzo dal cuore d’oro
che si prodiga per salvare la sua fattoria. Tessono le sue lodi così tante volte
che vorrei vomitare.
Laurel sostiene che Lachlan sia ancora scottato dalla madre di Lilli. Secondo
lei è difficile quando hai un figlio, devi pensare a lui e il resto è secondario. La
verità la conosciamo solo io e lui: ci odiavamo, poi si è fatto avanti Ollie e lui
ha deciso che non doveva avermi, e mi ha baciata in quel chiosco dei gelati.
Non sono stata io a chiederglielo, ha fatto la prima mossa da solo e tutto per
una stupida questione di rivalità maschile. Ha voluto marcare il territorio e si è
ritrovato invischiato in una cosa che non sa gestire. D’accordo, mi sta bene. Ci
ero quasi cascata e, non posso negarlo, quella sera ho aspettato tanto che
venisse da me. Ma non commetto due volte lo stesso errore, ho già i miei
problemi da risolvere. Non mi serve un uomo così complicato.
Lego il nastro intorno al pacco regalo di Lilli e sorrido soddisfatta. Per
quanto io odi suo padre, non mi perderei mai il suo compleanno. Negli ultimi
giorni l’ho sentita spesso correre sotto la pioggia con i suoi stivali di gomma
mentre Lachlan cercava di acciuffarla e di portarla in casa. Credo che vivere
qui senza di lei sarebbe incredibilmente noioso.
«Sei pronta?»
Mi irrigidisco e il mio sorriso diventa di plastica. Ollie mi raggiunge in
salotto e mi sfiora un fianco con le dita. Indugia troppo, io mi divincolo con
una scusa. Mi ha chiesto di presentarci al compleanno di Lilli insieme.
All’inizio mi è sembrata un’idea innocua, quindi ho accettato, ma da quando si
è presentato alla mia porta, la sensazione che in lui ci sia qualcosa che non va è
tornata a strisciarmi dentro prepotente.
«Prendo la giacca e ci sono» rispondo. «Puoi prendere il regalo?»
Mi infilo gli stivali e la giacca, poi gli indico la porta mentre cerco di darmi
una calmata. Non lo conosco neanche, perché dovrebbe essere un tizio di cui
non fidarsi? Tutti lo adorano. Chiudo la porta a chiave e lo seguo oltre gli
scalini del portico, affondo gli stivali nella ghiaia e schivo qualche
pozzanghera. Non piove più, ma non penso durerà molto. Seguo Ollie sulla
strada verso il famoso granaio e rabbrividisco all’idea di quello che avevo
pensato di fare lì dentro con il mio vicino di casa.
«Ti piace il cibo messicano?» esordisce.
Mi volto verso Ollie e mi stringo nelle spalle. «Lo mangio volentieri».
«A Cincinnati c’è un ristornate che potremmo provare».
Sospiro e lo osservo bene. I capelli biondi e ricci gli ricadono scompigliati
sulla fronte, la camicia che indossa sbuca dalla giacca di pelle con qualche
piega che ben gli si addice; gli occhi chiari sembrano limpidi. Urto il suo
gomito con il mio e non ho nessuna sensazione. Forse sto esagerando.
«D’accordo».
«Lo sai che è un appuntamento, vero?»
Scrollo le spalle e forzo un sorriso. «Fa’ che sia buono allora».
Lo lascio indietro mentre raggiungo Laurel che parla al telefono sulla porta
del granaio, gesticola così tanto che sembra stia impazzendo. Ha il viso livido
di rabbia e le guance rosse.
«Harold, non te li porto i bambini dopo cena. Hai rinunciato al tuo tempo
con loro la settimana scorsa, adesso scordati il mio!» ringhia.
Solleva una mano per salutarmi e indica l’interno con un pollice. La sento
inveire ancora contro il suo ex marito, poi le urla dei compagni di classe di
Lilli coprono la sua rabbia in un istante. Il granaio è enorme, decorato da
grandi tavoli ricoperti da tovaglie gialle e piatti e bicchieri rosa. Ci sono due
scivoli e alcuni tavoli per poter colorare in un angolo. So che Lachlan ha deciso
di affittarlo per le cerimonie, presumo che l’abbia svuotato e sistemato per
questo motivo. C’è solo un po’ di fieno in un angolo, ma la quantità è irrisoria
per un posto del genere.
Mi avvicino a Addie che mi versa un bicchiere di succo di mirtillo.
«Qualcuno tolga lo zucchero a quei piccoli umani» borbotta.
Prendo il bicchiere e la ringrazio. «Lilli sembra felice» dico.
Indossa i suoi stivali preferiti, la sua camicia a scacchi rosa e bianca preferita
e i suoi jeans del cuore. Li ha definiti così l’altra mattina, l’ho sentita dirlo a
Lachlan che la rimproverava per vestirsi sempre allo stesso modo. Ho seguito
la discussione seduta al tavolo della mia cucina con un sorriso sulle labbra. Se
non altro c’è una donna alla quale quell’uomo non riesce a tenere testa: ha sei
anni ed è il mio mito da oggi.
«Dà a quella bambina un sorriso e un po’ d’amore e i suoi occhi brilleranno
come stelle» risponde Addie.
«La maggior parte dei bambini chiederebbe di più per poter sorridere come
lei».
«La maggior parte dei bambini non ha la sua storia, e nemmeno un padre
come il suo» conclude, strizzandomi l’occhio.
Non ho mai avuto il coraggio di chiedere informazioni sulla madre di Lilli e
anche oggi decido di non farlo. Non sono affari miei e non voglio
intromettermi nella vita di queste persone. Lachlan ha già fatto abbastanza.
Mi guardo intorno e non posso fingere di non sapere cosa sto cercando:
Lachlan non c’è da nessuna parte. Non è con i genitori degli altri bambini e
nemmeno con Ollie, che sta chiacchierando con un ragazzo che credo sia il
postino. Non è nemmeno con Laurel, che sta venendo verso di me.
«Kyle, Nash!» urla. «Non toccate la torta!»
È furiosa e i suoi figli sembrano capirlo subito perché si allontanano dal
tavolo come soldatini.
«Che cosa succede?» domando.
Si siede su una panca vicino al muro e si sistema i capelli in una crocchia.
«Non ti sposare mai» ringhia. «Perché poi devi divorziare e con quel figlio
di puttana non puoi smettere di averci a che fare solo firmando delle carte».
Mi irrigidisco e mi siedo vicino a lei. «Vuoi parlarne?»
«Non ti preoccupare, non voglio rovinarti la festa».
Mi spiega brevemente che si tratta della custodia dei bambini, poi torniamo
a parlare di stupidaggini. È quello che facciamo tutto il giorno al negozio di
articoli per la casa. A volte mi fa ridere così tanto che mi devo asciugare le
lacrime. Adoro Laurel, vorrei averla conosciuta prima. E vorrei poterla aiutare
di più.
«Dov’è Ollie?»
«Smettila» sibilo.
«Ti ha chiesto un appuntamento, vero? Perché non accetti? È un bravo
ragazzo, così carino e gentile».
Roteo gli occhi e la fulmino con lo sguardo. Sento queste parole in
continuazione, vorrei tapparle la bocca.
«Perché non ci esci tu?» borbotto.
«Perché ho due figli e a Cedar nessuno mi si avvicina da anni».
Ha sempre la risposta pronta.
«Ho accettato di andare a cena con lui» ammetto.
Batte le mani e si agita sulla sedia esultando. Arrossisco e cerco di bloccarla
afferrandole le braccia, ma fallisco e ottengo solo un groviglio di mani che
fingono di volersi afferrare. Laurel ride così forte che alcuni bambini ci
guardano, compresa Lilli. Mi nota per la prima volta e i suoi occhi si
spalancano. Abbandona i bambini con cui stava giocando e mi corre incontro,
me la ritrovo addosso in un attimo e rischio di cadere dalla panchina.
«Theo, sei venuta!»
«Certo che sono venuta, è la festa più bella dell’anno».
Ridacchia e agita la mano verso la mia amica.
«Ciao, zia Laurel».
«Ciao, tesoro. Dov’è il tuo papà?»
Trattengo il fiato nel sentirlo nominare. Pettino i capelli di Lilli con le mani,
sono così morbidi e lisci. Lachlan non ha i capelli così lisci, i suoi sono un
casino, sempre spettinati e umidi… Stringo i denti e scuoto la testa. Non devo
pensare a lui.
«Ha detto che doveva dare da mangiare agli animali».
Io e Laurel ci scambiamo uno sguardo perplesso e la osserviamo correre di
nuovo dai suoi amici. Sto per chiederle se ha idea del perché le abbia rifilato
quella scusa quando Lachlan entra nel granaio con la camicia bagnata. Deve
aver ricominciato a piovere, ma il chiacchiericcio e la musica qui dentro ci
impediscono di sentire lo scrosciare dell’acqua. Quello che attira il mio
sguardo, però, non è la sua camicia bagnata, nemmeno i suoi occhi, che mi
cercano per la stanza, ma il cucciolo che stringe al petto come se fosse un
neonato. Dentro mi si smuove qualcosa.
«Guardalo» mormora Laurel, ficcandosi in bocca una manciata di patatine.
«Tiene quel cucciolo per la sua bambina come se fosse la cosa più preziosa del
mondo. Dio, Lachlan è così sexy che se non fosse praticamente mio fratello me
lo farei seduta stante».
Sgrano gli occhi e la fisso sbalordita. «Laurel!»
«Che c’è? Guardalo e dimmi che non te lo faresti».
Lo guardo di nuovo e sento il calore salirmi al viso e colorarmi le guance.
Osservo le sue mani grandi e me le sento addosso, bagnate e forti, insistenti e
gentili. Le sento tra le gambe, sul seno e tra i capelli. Le sento sulle labbra e
vorrei non sentirle più. Lilli nota suo padre e lancia un urlo così forte che
Addie si spaventa. Corre verso suo padre a tutta velocità, inginocchiato verso
di lei.
«Ma è mio, papà? È tutto mio?»
La piccola saltella dall’emozione e lo guarda come se fosse il suo eroe. Il mio
cuore palpita.
Quanto vorrei odiarti, Lachlan.
«E di chi altro? Però devi promettermi che ti prenderai cura di lui come di
tutti gli altri tuoi amici» replica.
Laurel sospira. «Guarda che uomo».
Trattengo una risata e scuoto la testa.
«Ma è un lupo?» chiede Lilli.
«Un Husky. Ora trovagli un nome».
Lilli chiede se può pensarci per un po’, poi prende in braccio il suo nuovo
amico e lo bacia sulla testa. Mi si stringe il cuore, il modo incondizionato in
cui ama gli animali è la cosa che mi colpisce sempre di lei. Lachlan sta
crescendo una bambina sensibile e meravigliosa. Addie raggiunge la piccola e
Lachlan le lascia sole a fare conoscenza con il cucciolo, poi mi punta gli occhi
addosso e si incammina verso di me.
«Mi stai evitando di nuovo?» sussurra. Allunga un braccio per afferrare una
bottiglia d’acqua e mi sfiora.
«Non ti evito. Semplicemente non siamo amici».
«Allora cosa ci fai qui, Theo?»
«Sono amica di Lilli» specifico.
Sospira e mi si avvicina, mi intrappola tra il suo corpo e il tavolo, poi
abbassa lo sguardo sulle mie labbra.
«Io non ho finito con te. Non avevo finito neanche quando sei scappata».
«Solo perché non te l’ho permesso» gli faccio notare.
«Cosa vuoi che faccia? So che mi guardi ancora da dietro quella maledetta
tenda».
«Non lo so, Lachlan. Quando mi odiavi sempre, e non solo quando ti faceva
comodo, era molto più facile».
«Sei così stupida» mormora.
«E tu sei così idiota».
Aggancia un dito nel passante dei miei pantaloni e tira un po’. Quanto lo odio.
«Stasera mi aprirai quando verrò alla tua porta?» bisbiglia.
Sbatto le palpebre e cerco di divincolarmi, ma lui non me lo permette.
Vorrei che non profumasse così dannatamente di buono, renderebbe più facile
dirgli di no.
Alzo le spalle. «Tu prova».
«Ci provo da giorni» mi fa notare.
«Provaci ancora».
«Domani vieni a cena da me? Lilli ha una cosa da darti»
Assottiglio lo sguardo e cerco di capire se sta usando sua figlia per cercare di
raggirarmi. Sembra sincero. «Domani sera esco con Ollie».
Mi si imporporano le guance mentre quelle parole lasciano le mie labbra, le
sento storpie e stridenti. Sbagliate. Lachlan si irrigidisce e aggrotta la fronte, il
suo sguardo non è più intenso e seducente, ma furioso e sfuggente. Si allontana
da me furente, va verso Ollie, intento a parlare con qualcuno. Lo fermo appena
in tempo. Gli metto una mano sul petto e gli sibilo:
«Ti ho detto che non mi avrai».
Lo supero e mi allontano, ma lo sento seguirmi. Mi tallona in un modo che
troverai inquietante se il suo odore non fosse diventato così dannatamente
familiare.
«Stasera mi aprirai» ripete.
«Lachlan…» intento.
«Cazzo, ti odio da morire quando fai così. Apri quella dannata porta, Theodora.
Aprila e lasciami entrare».
15
 
Lachlan
 
 
Ollie circonda la vita di Theodora con le sue braccia e io impreco tra i denti.
Lei sembra infastidita dalla sua presenza, ma non sono sicuro sia la realtà o
quello che spero di vedere.
Ollie si è preso una grossa cotta per lei, non fa altro che raccontare a tutti di
quanto sia bella la sua Theodora e quanto stanno bene insieme. Vorrei
vomitare.
Non la conosce nemmeno. Ci ha passato insieme qualche ora e pensa di
conoscerla. Non sa niente di lei e, a essere sinceri, nemmeno io. Ma conosco il
suo profumo e il sapore delle sue labbra. Conosco il calore della sua pelle
quando la tocco e il modo in cui le si mozza il respiro perché le piace. Conosco
abbastanza da desiderare che lui smetta di toccarla con quelle mani.
Lilli sta aprendo i regali al centro del granaio, i suoi compagni di classe sono
seduti in cerchio intorno a lei mentre il cucciolo è in braccio a mia zia.
Prendendo quel cucciolo mi sono giocato l’ultimo barlume di sanità mentale
che mi era rimasto, ma al diavolo: il volto felice della mia Lilli vale più di
qualunque cosa. Come posso negarle un nuovo amico? Qualcuno da amare?
Forse è vero quello che sostiene mia zia, cerco di colmare il vuoto di sua madre
con tutti questi animali da accudire. Riempio casa nostra di piccoli esseri per
colmare un vuoto che custodisce dietro a grandi sorrisi e mani sempre sporche
di terra e fango. Forse dovrei semplicemente dirle la verità su sua madre.
Mi strofino gli occhi e lancio uno sguardo a Theodora. Si sta divincolando
da Ollie per guardarlo negli occhi e ridere di qualcosa. Stringo i denti e mi
appoggio alla parete, le braccia incrociate sul petto.
«Ti piace».
Mi volto verso Laurel e la guardo in silenzio. Non rispondo e torno a fissare
la mia vicina di casa.
«Non sarebbe un male se ti piacesse qualcuno…»
«Taci, Laurel».
Non ho nessuna voglia di sentirmi dire che è ora di voltare pagina e che Lilli
capirà. Sono stronzate. Lilli deve ancora capire perché non ha una madre, non
può capire questo. Qualunque cosa sia.
«Taci a me?» sbotta. «Lei ti piace! Stai uccidendo Ollie con lo sguardo e
continui a fissare lei come se in questo posto non ci fosse nessun altro. Ed è il
compleanno di tua figlia».
«Laurel, smettila. Dico sul serio» sussurro inviperito.
Non è vero che la fisso in quel modo. La fisso solo come uno che vorrebbe
essere guardato. Non si volta mai, la stronza. Lo sa che sono qui a guardarla,
ma non si volta. La odio, la odio da morire.
«Lachlan, Lilli ha sei anni. Sei anni, d’accordo? È ora di metabolizzare quello
che vi è successo e accettare che non cambierà. È ora di essere sincero con te
stesso, e con lei» sussurra.
La mia amica mi sfiora un braccio e io mi allontano. Le sue parole sono
spilli che mi si conficcano nella carne. Sanguino sotto la verità che ho nascosto
nelle mie menzogne, nei miei sorrisi e negli animali che regalo a Lilli per
colmare le sue mancanze. Le nostre mancanze. Ho nascosto il dolore in così
tanti posti che ora sono in trappola.
«Sei anni sono pochi» mi ritrovo a dire.
«Sono abbastanza, lo sai».
«Non posso comunque avvicinarmi a nessuno. Lilli è ancora piccola e non
voglio che soffra».
«Sei tu quello che non vuole soffrire. Lilli non c’entra niente» ribatte.
Scuoto la testa e mi allontano perché non voglio parlare di me, del mio
passato e di Lilli. Sei anni sono pochi, maledizione. E non sono io a non voler
soffrire, io non soffro più da tempo. Sono diventato insensibile al dolore, alle
delusioni e anche alla gioia. Lo sono diventato per mia figlia, per poter dire a
Laurel che sei anni non sono abbastanza e per riuscire ad aspettare ancora.
Nemmeno l’attesa mi logora più, nemmeno pensare a lei e chiedermi che
diavolo di cuore possa avere una donna che fa una cosa del genere.
Mi avvicino a Lilli, le sorrido come se niente fosse. Lei mi prende la mano e
mi porta al tavolo con i regali, per mostrarmeli. Ha ricevuto molti giocattoli e
so che la metà finiranno donati alla scuola di Finnik. Mia figlia gioca con la
terra, con gli animali e col fango, non ama i giocattoli fatti di plastica e senza
anima.
«Guarda cosa mi ha regalato Theo!» esclama.
Solleva una scatola enorme e una busta di carta, aggrotto la fronte e osservo
meglio. Nella scatola c’è un modellino di un’abitazione molto simile alla nostra
fattoria, mentre nella busta ci sono degli album da disegno, dei colori e delle
matite. Mi volto a cercarla con lo sguardo e sospiro. L’unica persona che ha
fatto il regalo giusto a Lilli è quella che la conosce da meno tempo. Ed è l’unica
alla quale non riesco a smettere di pensare.
«Un bellissimo regalo, tesoro» affermo.
«Mi aiuterai a costruirlo?»
«Certo. Ora che ne dici di mangiare la torta e salutare tutti?»
Le ho promesso pizza e bibite gasate per cena, perciò non devo convincerla
troppo per obbedire. Zia Shirley ridacchia e scuote la testa mentre osserva Lilli
impartire ordini a tutti e i genitori salutarla prima di andare via. Pochi parlano
con me, come sempre, e mi sta bene così. Laurel mi raggiunge e mi aiuta a
sparecchiare i tavoli. Dato che piove lascio il resto delle cose dove sono e porto
fuori solo i sacchi della spazzatura. Mi accompagna fino al vialetto in silenzio e
sospira solo quando torniamo indietro.
«Che c’è?» sbotto.
«Ti piace veramente Theodora?»
«Smettila, Laurel».
«Oh, maledetto testardo!» urla. «Ti prenderei a schiaffi quando fai così. Ti
piace, Lachlan? Prenditela e togli di mezzo Ollie. A lei neanche piace».
Mi supera e corre dentro a chiamare i suoi figli. Sbuffo infastidito e rifletto
sulle sue parole, ma quando li vedo andare via abbracciati, non mi sembra
affatto vero che lui non le piaccia. Ma Laurel è una donna, è sua amica, è mia
amica e forse parla perché conosce la verità… Ah, al diavolo quei due! Aspetto
che siano abbastanza lontani per poter riprendere a camminare e torno al
granaio. Rimango a salutare gli ultimi ospiti e a riordinare il più possibile il
caos che hanno lasciato quei bambini, poi torno a casa con mia figlia.
È stato un compleanno più sottotono degli altri, ma è colpa della pioggia. Di
solito stiamo all’aperto, Lilli corre tutto il giorno e si diverte così tanto che alla
sera dorme già prima di cena, ma oggi era impossibile farlo. Avrei potuto
rimandarlo, ma ormai aveva invitato troppa gente. Mi riprometto di rimediare
l’anno prossimo, se ci sarà brutto tempo rimanderemo la festa. Ceniamo con
Zia Shirley prima che lei esca di nuovo.
Io e Lilli mangiamo pizza sul pavimento del salotto mentre guardiamo
cartoni animati e osserviamo il nuovo arrivato familiarizzare con la casa. Lilli
non gli ha ancora trovato un nome adatto, ma credo che lo farà presto. Si
addormenta con lui e devo infilarlo sotto le coperte insieme a lei per riuscire a
convincerla ad andare a letto. Quando resto finalmente solo, sono le dieci
passate. Mi faccio una doccia e mi infilo un maglione e dei jeans ed esco. Ha
smesso di piovere e l’aria è così umida da farmi arricciare il naso. Attraverso il
vialetto di ghiaia e raggiungo il cottage. Per un attimo controllo se c’è la
Mustang di Ollie, ma non la vedo. Sospiro di sollievo e torno a fissare la porta.
Busso insistentemente e, quando Theodora apre la porta, sbatto le palpebre
sorpreso. Non ha mai aperto negli ultimi giorni e non mi aspettavo che lo
facesse stasera. Soprattutto dopo l’ultimo battibecco. Mi infilo in casa sua e la
osservo sbuffare e spostarsi nel salotto. Forse ha aperto solo perché è
esasperata dal mio comportamento.
«Lui ti piace?» chiedo.
Sospira esasperata. «Dio, sei veramente paranoico».
Poggio le mani sui fianchi, la fisso negli occhi e cerco di non guardare le sue
gambe nude. Indossa dei pantaloncini e un maglione, ai piedi porta due calzini
rosa. Odio trovarla così dannatamente attraente.
«Ti piace o no?» sbotto.
«Che problema hai, Lachlan?» urla. «Hai fatto tutto da solo, non sono stata
io a cercarti!»
«Ma ti è piaciuto».
«Sembrava piacesse anche a te» ribatte.
Mi avvicino e lei resta immobile. Muovo un altro passo e la raggiungo, le
sfioro i capelli e percorro il suo corpo con lo sguardo.
«Infatti mi piaceva» affermo. «Allora? Lui ti piace?»
«Come posso saperlo? Non lo conosco neanche» borbotta.
Grugnisco e le tiro una ciocca provocandole un gridolino sorpreso.
«Perché sei qui? E lascia stare i miei capelli» farfuglia.
Ma io non la lascio stare, la trascino sul mio petto e incastro la mia mano tra
le sue ciocche mosse. È piccola e calda, sa di buono e di cose che non sono
pronto a riconoscere. Ma le riconosco lo stesso, le sento strisciarmi sotto la
pelle, nello stomaco e cambiare il ritmo del mio respiro.
Sei anni sono abbastanza? Tutto questo è abbastanza?
Scuoto la testa e chiudo gli occhi.
«Perché te ne sei andata in quel modo?»
«Perché sei stato uno stronzo, Lachlan, e non mi piace farmi prendere in
giro».
Apro gli occhi e le sollevo il mento per permetterle di guardarmi. «Pensi a
lui nel modo in cui pensi a me?» sussurro.
Voglio saperlo. So che mi pensa, so che mi cerca e so che voleva essere
toccata da me.
«Lachlan…»
«Non pensare a lui nel modo in cui pensi a me» le ordino.
«Io non ti penso affatto».
Le circondo il viso con le mani. «Ora ti bacio» la avviso, poi schianto le mie
labbra sulle sue. Cerco la sua lingua, i suoi baci e quello che non mi dice. Lo
cerco nella sua bocca, nei suoi capelli e nel calore delle sue guance. Copro la
sua gola con la mano e sento il suo battito accelerare, lo sento sulla pelle e nello
stomaco. Le sfioro il collo col pollice e lei geme, si aggrappa al mio maglione e
si alza in punta di piedi per facilitarmi le cose. Succhio il suo labbro e lo mordo
piano. Forse mi odia, glielo concedo, e mi trova uno stronzo, arrogante ed
egoista. E forse lo sono davvero, ma sono anche certo che lei sia attratta da me.
Lo sento.
«Non pensare a lui nel modo in cui pensi a me» ripeto.
«Sei odioso».
Mi allontano e mi obbligo ad andarmene prima di ricommettere lo stesso
errore. Non so cosa diavolo io stia facendo, ma anche se mi piace, è meglio non
esagerare.
«Ma ti piace odiarmi» le ricordo.
«Devi starmi lontano» ordina.
Raggiungo la porta d’ingresso e mi volto a guardarla, ignoro le sue parole
perché sappiamo bene tutti e due che sono bugie.
«Domani sera, quando tornerai dalla cena con lui, verrò a bussare alla tua
porta e tu mi aprirai. Mi aprirai, Theodora, perché è quello che desideri. Ce
l’hai scritto in faccia, ti si legge negli occhi che mi vuoi. E siccome anch’io ti
voglio, smettiamola di fingere».
Non le do il tempo di replicare, me ne vado e la lascio sola a riflettere su
quello che è successo mentre io continuo a chiedermi sempre la stessa cosa.
Sei anni sono abbastanza?
 
16
 
Theodora
 
 
Devo smettere di ascoltare Laurel. Non ci volevo venire all’appuntamento con
Ollie, ma le ho dato retta anche se il mio istinto mi diceva di no. Ho voluto
dargli una possibilità solo perché se Laurel lo considera così meritevole della
mia attenzione, allora forse dovevo concedergliela.
Pessima idea.
Sono in questo ristornate messicano a Downtown Cincinnati e la cosa che
ho guardato di più è la porta d’entrata. Il posto è carino, un enorme locale con
arredamento etnico che affaccia sulla strada principale. Fuori si scorgono solo
file di auto con le loro luci accecanti. Quelle auto e quelle luci sono l’unica cosa
che riesco a guardare. Il locale è troppo buio per i miei gusti. Non avrei dovuto
allontanarmi così tanto da casa con uno sconosciuto.
Controllo di nuovo l’entrata e accavallo le gambe. Ollie affonda il cucchiaio
nel suo gelato e me lo avvicina alle labbra, è una cosa intima e fuori luogo per
due come noi. Accetto a fatica, vista l’insistenza.
«Buono» affermo, a disagio.
«Non ti stai divertendo, vero?»
Forzo un sorriso e gioco con la tovaglietta di carta. «Sono solo un po’ stanca,
ma mi stavi parlando dell’officina di tuo padre. Ti ascolto».
Mi ha raccontato che ha una sorella che se n’è andata da Cedar dopo il
diploma e che ora vive a Portland. Lui è rimasto qui per suo padre, perché ama
le auto e lavorarci lo rende felice fin da bambino. Tutto quello che i suoi
genitori si sono sempre aspettati da lui è questo: prendere le redini dell’attività
di famiglia, sposare una brava donna di Cedar e mettere al mondo due o tre
bambini. E poi ricominciare, ripetere l’eterno inferno dell’eredità. Ha fatto
bene sua sorella, trovo deprimente permettere a qualcuno di decidere della
propria vita e credo che, in fondo, anche lui la pensi così. Non è felice quando
mi descrive la sua famiglia, lo è solo quando parla delle auto. Le auto però sono
diventate la sua prigione, il biglietto di sola andata per un futuro già scritto.
Nonostante quello che mi è successo, mi sento molto più fortunata di lui. Io ho
vissuto, sono stata quello che volevo essere, sono stata libera di sbagliare e di
conoscere la paura e la solitudine. Sono stata libera di cadere e di imparare a
rialzarmi.
«Non mi ascolti e l’officina di mio padre non è importante» risponde. «Ti
sei divertita?»
«Certo».
«Pensi di poterti sedere vicino a me?» sussurra.
Indica lo spazio vuoto sulla sua panca e sorride. Mi si chiude la gola, non ho
neppure più la forza di sorridergli.
«Perché non facciamo due passi invece? Qui c’è troppa confusione e fatico a
sentire cosa dici».
Voglio tornare a Cedar il prima possibile, chiudermi nel mio cottage e
restarci fino a quando sarò costretta ad andare al negozio.
«D’accordo, come preferisci».
Chiede il conto e paga per tutti e due nonostante le mie proteste, poi
usciamo dal ristorante. L’aria è fresca ormai, pungente come una fragranza
troppo forte. Mi stringo nelle braccia e mi incammino al suo fianco mentre
percorriamo il marciapiede illuminato. Ollie mi si avvicina e allunga una mano
verso di me, mi pizzica il fianco e mi costringe a sciogliere le braccia, poi
intreccia le dita con le mie e mi strizza l’occhio. Ha la mano grande, ruvida per
le ore di lavoro in quell’officina, e calda. Ha una mano che dovrebbe
rassicurarmi, farmi smettere di cercare ossessivamente una scusa per evitarlo,
eppure non lo fa. Provo solo ansia standogli vicino.
«Raccontami qualcosa di te, sei stata molto vaga fino ad ora».
Eccoci, penso. Me lo ha chiesto.
Questo è il motivo per cui non posso uscire con nessuno. Non ho costruito
una storia abbastanza credibile, non sono pronta a questa domanda. A Laurel
ho raccontato poco e niente, ma a lei non è il tipo da fare domande invadenti.
Non si impiccia mai, prende quello che sono disposta a darle. E Lachlan… Mi
irrigidisco e stringo le dita d’istinto, Ollie ridacchia e ricambia la stretta
pensando che stessi cercando la sua mano. Ma non cercavo lui, non so più cosa
diavolo io stia cercando in questo posto.
«Non c’è molto da dire. Sono cresciuta in California e i miei genitori erano
insegnanti» mormoro.
«Erano?»
Annuisco e forzo un sorriso malinconico. Penso che funzioni perché lui mi
accarezza una guancia con delicatezza e sorride.
«Sono morti in un incidente d’auto l’anno scorso. Volevo cambiare aria,
perciò ho cercato un posto diverso, in cui ci fosse davvero l’autunno. Ho
trovato Cedar, c’era un cottage meraviglioso in affitto e me ne sono
innamorata. Ed eccomi qui» concludo.
«Mi dispiace, Theo».
Theo. Ricambio la sua stretta e gli ripeto che sono stanca, che vorrei
rientrare e che possiamo continuare a parlare in auto. Lui accetta, ma sembra
irritato dai miei modi schivi. Quel suo modo di fare mi stranisce. All’apparenza
sembra così paziente e carino eppure, quando gli dico qualcosa che non gli
piace, si indispettisce. E so per certo che modi di fare simili non portano a
qualcosa di buono.
Torniamo a Cedar e il viaggio dura poco, non c’è traffico di sera a Cedar. La
sua Mustang percorre gli ultimi tratti fino all’entrata della fattoria. A vederla
sospiro di sollievo. Mi ritrovo a dare un’occhiata alla casa di fronte alla mia: le
luci sono accese su entrambi i piani e il pick-up di Lachlan è nel vialetto.
Distolgo lo sguardo e prendo la borsa quando Ollie accosta davanti a casa mia.
«Grazie per la serata» intono evasiva, pronta a saltare giù dalla macchina.
Mai più. Se anche tutta la città venisse a pregarmi di uscire di nuovo con lui, non
accetterò!
«Non pensi che potrebbe continuare in casa tua?»
Mi irrigidisco e lo guardo sbalordita. No, non lo penso affatto. Anzi, penso
che sarebbe meglio che se ne andasse e che si togliesse dalla testa questa sua
fissazione per me. Invece mi ritrovo a sorridere, come sempre.
«Credo che sia troppo presto. È solo il primo appuntamento». Primo e
ultimo, penso poi.
«Quanti ce ne devono essere?»
Si avvicina e mi sfiora la coscia con insistenza, mi arpiona la carne tra le dita
e avvicina il viso al mio. Indietreggio verso lo sportello e sbatto le palpebre,
cerco di mantenere la calma.
«Scappi da me?» sussurra.
«Ollie… devo andare».
«Prima baciami».
Rido nervosamente e allungo la mano per aprire lo sportello, ma è bloccato.
Ha chiuso l’auto, che bastardo! Sono intrappolata qui dentro con lui. Cerco di
non farmi prendere dal panico e torno a fissarlo.
«Ollie, no» ripeto. «Un solo appuntamento…» Non basta, penso, ma non
riesco a dirlo.
Le sue labbra sono sulle mie e la sua mano affonda nella mia coscia con
irruenza, la sua lingua non fa che rendere la situazione più scomoda. Si spinge
nella mia bocca mentre io vorrei solo mordergliela, farlo sanguinare e
scappare.
Lo spingo lontano da me e mi pulisco la bocca con il dorso della mano.
«Devo andare» ringhio. Sblocco la sicura dal tasto centrale sul cruscotto
dell’auto e scendo, corro fino alla porta e cerco di infilare la chiave nella
serratura senza farla cadere. Lo sento raggiungermi, ma io riesco ad aprire la
porta e a infilarmi in casa. Giro la chiave due volte e infilo il catenaccio di
sicurezza, poi mi siedo sulla panca e mi tolgo le scarpe.
«Theo?» esclama. «Che diavolo ti prende? Apri la porta!»
Vorrei urlare e dirgli di lasciarmi in pace, ma non ho nemmeno un filo di
voce per farlo. Tremo dalla testa ai piedi, e non è solo per la rabbia. Sentirlo
gridare fuori dalla porta mi agita ancora di più, così mi allontano. Corro in
bagno e mi infilo sotto la doccia ancora vestita, apro l’acqua e spremo una
quantità di bagnoschiuma enorme sul palmo della mano, poi me lo strofino
sulle labbra e sul viso. Strofino così forte che non me li sento più. Ho i vestiti
fradici incollati alla pelle, i capelli appiattiti sulle spalle e ho freddo. Esco dalla
doccia e mi spoglio, infilo un accappatoio e vado a vestirmi in camera. I fari
della Mustang illuminano la finestra mentre percorre il vialetto d’accesso per
andarsene e io sospiro di sollievo.
Mi rivesto e mi lego i capelli. Come diavolo ho potuto permettere a Ollie di
trattarmi così? Mi strofino ancora le labbra e vado in cucina a versarmi del
vino. Non bevo spesso, ma Addie mi ha portato qualche bottiglia la settimana
scorsa con la scusa di farmeli assaggiare. Sono quelli che producono qui, grazie
ai loro vigneti. Riempio una tazza e ne ingollo una quantità generosa, poi mi
siedo sul divano con la bottiglia di fronte e la tazza in mano. Il bacio di Ollie
mi fa venire la nausea. C’è qualcosa in lui che non va e non importa quanto
Laurel lo trovi perfetto, non lo è. Non voglio più averci niente a che fare. Bevo
un altro sorso e impreco quando sento dei colpi contro la porta. Non è passato
nemmeno un quarto d’ora, maledizione. Mi alzo e sblocco la serratura.
«Wow, ora mi spii anche» borbotto. «Non è passato nemmeno un quarto
d’ora da quando se n’è andato».
Mi incammino verso il soggiorno e Lachlan mi segue con passo pesante.
Penso che sia la prima volta che lo vedo in tuta, ma non riesco a guardarlo
come vorrei. Mi riempio di nuovo la tazza con dell’altro vino e ne riempio una
per lui.
«Che cazzo ti ha fatto?» ringhia.
«Perché deve avermi fatto qualcosa?»
«Perché sembri sconvolta e stai bevendo vino da una tazza».
Scoppio a ridere e faccio tintinnare la mia tazza contro la sua, lui sbuffa e
beve senza togliermi gli occhi di dosso.
«Bevo perché ho voglia di bere, Lachlan» ribatto. «Come vanno le tue
scopate fuori da Cedar?»
Lo sento scandagliarmi da capo a piedi. Non penso di poterlo guardare,
quindi mi concentro sul vino che mi sono versata.
«Non scopo da settimane, Theo».
«Lisa è stata l’ultima?» chiedo.
«Che te ne importa?»
Ha ragione, non mi importa e non dovrebbe importarmene, eppure… Perché
mi guardi in quel modo, Lachlan? Perché mi tocchi in quel modo? Mi sfiori sempre,
senza toccarmi davvero e senza sentirmi.
«Non mi importa, infatti» rispondo.
«Lui ti piace? Ti sei divertita?»
«Non ricominciare…» esalo al limite dell’esasperazione.
Afferra le mie gambe nude e mi trascina verso di lui, percorre la mia pelle
fredda con le sue dita calde e mi stringe i fianchi con decisione, ma senza usare
la forza. Bevo un altro sorso e lo fisso negli occhi, le ciocche bagnate mi
raffreddano le guance bollenti per l’imbarazzo.
«Lo odi come odi me?» sussurra.
«Odio te di più, lo sai».
Sorride e mi strofina il pollice sul labbro umido. Trattengo il fiato e lo fisso
negli occhi.
«Ti tocca come ti tocco io?» continua.
«Lachlan…» mormoro. «Cosa stai facendo? Perché sei così ossessionato da
me?»
Lui scrolla le spalle e mi trascina più avanti, ora il mio sedere è sulle sue
cosce e le mie gambe sono prigioniere delle sue mani per davvero. Le
accarezza e le percorre con le dita, lentamente. Mi tocca e mi fa arricciare le
dita dei piedi, rabbrividire e contrarre da qualche parte in me stessa. Lo fa e
non sembra viscido, strano o inquietante come mi appare il comportamento di
Ollie.
«Perché non dovrei?»
«Che diavolo di risposta è?»
Lui mi ignora e mi scioglie i capelli bagnati. «Ti ha baciata?»
Scuoto la testa e mi mordo il labbro, le sue mani prendono la mia tazza e la
poggiano da qualche parte sul tavolino vicino, poi sollevano il bordo del
maglione e lo trascinano sopra la mia testa. Sotto indosso una camicia di
almeno due taglie più grandi e le mutandine. Rabbrividisco e lo osservo
mentre si toglie la felpa e la lancia sul pavimento.
«Ti ha toccata?»
«Cosa stai facendo?» borbotto.
«Ti ha toccata, Theo?» insiste.
Scuoto la testa e trattengo il respiro quando mi slaccia i bottoni della
camicia e mi sfiora la pelle con le dita. Non mi spoglia e io resto immobile,
eccetto per le mie dita che sembrano volerlo esplorare con ardore. Cercano le
linee del suo petto e ci affondano dentro, le disegno con lentezza e ne seguo le
tracce fino alla loro fine. Fino a sentirmi in imbarazzo.
«Posso baciarti?» bisbiglia.
«Non me l’hai mai chiesto».
«Stasera hai la faccia di una che ha bisogno di sentirselo chiedere».
Mi si stringe il cuore. Resto in silenzio e lo osservo senza rispondere, poi mi
sporgo verso di lui e poso le mie labbra sulle sue. Lo bacio piano, senza fretta.
Gli respiro addosso e colgo il suo calore. Lo bacio come un’adolescente
bacerebbe la prima volta. E lui me lo lascia fare, mi accarezza piano e non
smette di sfiorarmi.
«Posso abbracciarti?» mi ritrovo a dire.
Lui annuisce e mi accoglie tra le sue braccia, mi stringe forte e si lascia
cadere contro lo schienale della poltrona. Mi rannicchio tra le sue braccia
calde e vorrei piangere, vorrei che le lacrime sgorgassero dai miei occhi e
provassero pietà per la vecchia me e per la nuova, colei che vive una menzogna
mal costruita e che sente di non saperla gestire. Vorrei davvero piangere, ma
non ci riesco. Le lacrime mi si sono seccate sulle guance a Los Angeles, le ho
segregate dentro il mio cuore con sbarre d’acciaio e non so come liberarle.
Chiudo gli occhi e inspiro il suo odore, mi ritrovo a sorridere appena.
«Non odio nessuno come odio te» bisbiglio.
«Vale lo stesso per me».
«Pensi a qualcuno nel modo in cui pensi a me?» sussurro, rigirando la frase
che mi ha ripetuto più volte ieri. Lachlan si irrigidisce e si arrotola una ciocca
dei miei capelli intorno all’indice, la annusa e inspira forte.
«Non riesco a pensare a nessuno nel modo in cui penso a te» ammette.
«Nemmeno alla madre di Lilli?»
È la prima volta che trovo il coraggio di parlare di lei con lui. Capisco di
aver premuto il tasto sbagliato perché si irrigidisce, si agita sotto di me e
inspira forte.
«Scusami se l’ho nominata».
Lui mi tira una ciocca più forte e mi solleva il viso per costringermi a
guardarlo negli occhi.
«Nemmeno alla madre di Lilli» risponde. «Non penso nemmeno alla madre
di Lilli nel modo in cui penso a te».
«D’accordo».
«Pensi che domani mi aprirai di nuovo?»
«Tu prova a tornare» lo incoraggio.
E sii coraggioso, vorrei dire. Non smettere di tornare.
 
17
 

Lachlan
 
 
Casa mia è un maledetto casino, riuscire ad arrivare in cucina senza
inciampare e rompersi qualcosa è un miracolo. Raccolgo alcuni giocattoli di
Lilli e altri dei suoi amici e li getto in una cesta. Laverò questa roba quando lei
sarà a scuola e pulirò la gabbia di quei dannati conigli. Oggi è una di quelle
giornate in cui l’idea di colmare il vuoto di una madre con degli animali mi
sembra una grande idiozia. Quanti animali dovrò adottare ancora? Abbiamo
dei conigli, un cane, dei gatti, degli agnelli e anche dei cavalli. Ora Lilli si è
messa in testa di volere un alpaca. Un fottuto alpaca.
Mi strofino gli occhi e poggio la cesta sul tavolo della cucina. Mia zia sta
finendo di lavare alcuni piatti e sono felice di trovarla qui perché le devo
parlare. Lilli è già a scuola, altrimenti questa cesta non sarebbe così piena. Mi
verso un po’ di caffè e lancio uno sguardo all’orologio. Devo essere al vigneto
tra mezzora, ma considerato che è nella nostra proprietà c’è tutto il tempo per
parlare.
«Possiamo parlare un attimo, zia?»
Lei sorride e indica il disastro che c’è nel salotto. Sì, devo pulire anche lì, ma
ci penserò dopo.
«Dovresti dare una sistemata alla casa per la cena di stasera».
La cena di stasera. Merda. Stasera verrà qui a cena Theodora, Lilli vuole
regalarle uno dei suoi gattini e mi ha chiesto di poterla invitare qui per
parlargliene e accertarci che possa occuparsene come dovrebbe. Non posso
farla entrare in questo posto, sembra che sia passato un tornado.
«Non ti preoccupare, lo farò più tardi. Possiamo parlare?» insisto.
Zia Shirley si asciuga le mani e si appoggia al bancone, mi lancia uno
sguardo interrogativo e mi fissa in attesa. Dato che non sono particolarmente
paziente e bravo con le parole, lancio subito la mia domanda.
«Cosa stai tramando?»
Lei strabuzza gli occhi.
«Ma che diavolo dici, Lachlan?»
«Sono giorni che sei da un’altra parte. È come se ti stessi allontanando da
me e Lilli. Cosa stai facendo?»
Odio che mi tremi la voce, ma non posso farci niente. Mia zia è stata l’unica
persona ad avermi aiutato con mia figlia, l’unica alla quale importasse davvero
qualcosa di lei. Nemmeno mia madre ha saputo fare di meglio. L’unica cosa
che posso dire di avere ricevuto da lei è la sensazione di non essere davvero
mai completamente desiderato. Credo che abbia trasmesso lo stesso
sentimento a Lilli, è per questo che lei non se la ricorda nemmeno bene. Per lei
Zia Shirley è sua nonna, quella che le legge libri di storia e classici della
letteratura. E se per Lilli Zia Shirley è una nonna, per me è una madre. Mi ha
aiutato a crescere nel momento più importante della mia vita, mi ha insegnato
a cullare una neonata in preda alle urla, a mantenere la calma e pensare
positivo quando tutto sembra crollare. Se lei se ne va, noi siamo persi.
«Niente, sono solo molto impegnata…»
«Perché avevi così fretta di affittare il cottage? Dove sono le quattro
mensilità di Theodora?»
Odio che mi vengano raccontate bugie e lei lo sa.
«Lachlan, cosa vuoi?» sbotta.
«I soldi non sono mai serviti per noi, ma per salvare la fattoria. Le quattro
mensilità di Theodora non sono mai arrivate alla nostra famiglia, sono arrivate
a te. Si può sapere cosa stai facendo? È anche casa mia questa, ho il diritto di
saperlo!»
Credevo che avesse affittato la casa di mia madre per il nostro bene, per
salvare questo posto, ma mi sono reso conto che il nostro bilancio da quando è
arrivata Theodora non è cambiato. Avremmo dovuto poter respirare per un
po’ vista la cifra folle alla quale è riuscita ad affittarlo, ma quei soldi non ci
sono. E ho esasperato talmente tanto Theodora con la storia dell’affitto che
sono abbastanza sicuro che lei non menta.
«Senti, te l’avrei detto…»
«Dove sono i soldi, zia?»
Lei sospira e allarga le braccia in segno di frustrazione, sembra stizzita. C’è il
rischio che mi venga portata via la fattoria ma lei è stizzita.
«Quei soldi li ho usati per andarmene da qui!» sbotta. «Dovevo restare qui
solo pochi mesi, poi quella donna ti ha lasciato e hai deciso di tornare a casa.
Tua madre era troppo instabile per aiutarti quindi sono rimasta. Ma io odio
Cedar, Lachlan. La odio con tutta me stessa e non voglio invecchiare in questo
posto. Parto la settimana prossima e no, non c’è proprio niente che tu possa
fare per farmi cambiare idea».
Sbatto le palpebre in preda alla confusione e la osservo per cercare di capire
se sia seria.
È seria, cazzo.
«E dove diavolo vai?»
«Lachlan…»
«Lachlan un cazzo! C’è una bambina di sei anni qui che ti adora, l’hai
cresciuta tu, sei la sua unica figura femminile di riferimento e ora te ne vai
senza dirci niente? Come facciamo senza di te?» urlo.
Lei avanza e mi accarezza le braccia. Non ho bisogno di conforto, sono furioso.
«Lachlan, tesoro, non hai bisogno di me e nemmeno Lilli. Lei sa che sono la
Zia Shirley, non mi vede come una madre e non lo farà mai. E tu sei un bravo
padre, puoi farcela» mi incoraggia.
«Ma cosa farò con la fattoria? Come farò con i debiti? Non li ho nemmeno
contratti io, li ho ereditati e ora rischio di restare senza niente e odio essere
ripetitivo, ma c’è una bambina di sei anni di mezzo qui. Se mi portano via
tutto, dove vado a vivere? Tu ti sarai anche sistemata, ma noi? Mi avevi detto di
aver affittato il cottage per aiutarmi…»
Mi fermo e mi strofino gli occhi, prendo un respiro profondo e cerco di
calmarmi.
«Vendi il cottage di tua madre, Lachlan» sussurra.
La fisso come se fosse fuori di testa. «Non posso vendere una casa che tu hai
affittato a una persona per quattro mesi! Pensi che lei se ne andrà tra quattro
mesi?»
E poi non voglio venderlo, maledizione.
«Vendilo a lei» propone.
Sbuffo e decido di chiudere qui la conversazione, devo lavorare e poi
tornare a pulire la casa per la cena di stasera. E devo metabolizzare quello che
ho appena scoperto, capire chi potrà occuparsi di Lilli quando non ci sarò e…
Merda! Come la pago una baby-sitter?
Ringhio un’imprecazione e faccio per andarmene, ma prima mi volto a
guardarla.
«Oggi, dopo la scuola, dirai a Lilli che te ne vai. Questa cosa non la faccio al
posto tuo».
Me ne vado e sbatto la porta, tiro un calcio a un sasso e sibilo qualche altra
imprecazione. Questa è la dimostrazione che ho ragione quando lo dico: non
mi posso fidare di nessuno. Le persone si insinuano nella tua vita, occupano i
posti migliori e poi, quando decidono che lo spettacolo è ripetitivo, se ne
vanno. Lasciano il vuoto, che qualcun altro dovrà colmare, finché la storia non
si ripete. Ma se non mi posso fidare della mia famiglia, di chi posso fidarmi?
 
***
 
Sono riuscito a pulire la casa dopo che Lilli è uscita da scuola. Zia Shirley
l’ha portata nella stalla a salutare Mr. Snowflakes mentre le comunicava della
sua partenza. Quando sono tornate ho capito che l’aveva fatto perché Lilli era
triste. Grazie tante, avrei voluto dire. Grazie per averla fatta sentire sola,
un’altra volta. Sono rimasto in silenzio invece, mi sono messo a cucinare e non
ho risposto nemmeno al suo saluto quando mi ha detto che sarebbe uscita e
tornata tardi. Che faccia quello che vuole, tanto presto non la vedremo più. Ho
apparecchiato e fatto il bagno a Lilli, poi le ho spiegato che cercheremo di
restare in contatto con Zia Shirley e che, forse, tornerà per stare con noi
durante le feste. Lilli è troppo intelligente per credere alle mie stronzate. La
sua risposta è stata: «E chi si occuperà di me quando tu non puoi? Chi si
occuperà di te?»
Sono delle domande a cui sto ancora cercando delle risposte e odio che Lilli
se ne sia accorta. In questo momento odio anche mia zia. Come cazzo ha
potuto farci questo!?
L’idea di vedere Theodora a cena ha rasserenato un po’ Lilli, che ora corre
per casa con Mr. Bingley tra le braccia mentre Mrs. Bennet mangia del fieno in
un angolo del salotto e l’ultimo arrivato sonnecchia sul tappeto. Mi ripeto che
non colmerò il vuoto di Zia Shirley con un altro animale e non le prenderò un
maledetto alpaca ma, più la guardo, più quel bisogno si fa strada prepotente
dentro il mio petto. È così felice con quegli animali, così bella e sorridente.
Il suono del campanello mi fa sussultare, poggio il coperchio sulla pentola e
mi preparo ad accogliere la mia odiosa vicina di casa.
«Papà, vado io!»
«Non correre con Mr. Bingley in braccio!» le ripeto.
Quei conigli sono in pericolo ogni volta che escono dalla gabbia, Lilli è
troppo energica. Lei rallenta e saltella felice fino alla porta, indossa già un
pigiama rosa e ha i capelli legati in due codini bassi. Forse sono di parte, ma è
bellissima. La osservo mentre apre la porta e accoglie la nostra ospite con un
sorriso.
«Benvenuta, Theo!» esclama. «Mr. Bingley, saluta».
Scoppio a ridere e Theodora fa lo stesso, mi strizza l’occhio e si abbassa per
accarezzare il coniglietto. In questo momento sono invidioso di Mr. Bingley.
Vorrei quelle mani addosso, ma so che non mi basterebbero. Vorrei anche
quelle labbra e quegli occhi, li vorrei fissi su di me mentre la tocco e la sento
ripetere il mio nome come una preghiera.
«Stai bene?»
Theodora è di fronte a me, le mani infilate nelle tasche dei jeans e lo sguardo
incuriosito. Il bottone della sua camicia tira un po’ troppo sul seno e forse non
dovrei fissarlo. Annuisco, scacciando tutte le fantasie che m’ingombrano la
mente.
«Sto bene» la rassicuro. «Tu?»
«Tutto bene. Volevo portare il dolce, ma non ho trovato niente alla
pasticceria in centro e non ho potuto prepararlo perché ho fatto tardi. Sono
una pessima ospite, vero?»
Sorrido e mi avvicino, vorrei scostarle i capelli dal viso e appuntarglieli
dietro le orecchie, accarezzarle la curva del collo con le labbra e succhiare
piano il punto delicato sotto l’orecchio. Vorrei toccarla e lasciarmi toccare
dalle sue mani, ma non posso fare niente di tutto ciò.
«Hai visto Ollie oggi?» sussurro.
Lei si irrigidisce e distoglie lo sguardo.
«No, non l’ho nemmeno sentito».
Sto per chiederle per scelta di chi, quando Lilli salta in mezzo a noi con il
cucciolo in braccio e lo mostra a Theodora con orgoglio.
«Vuoi giocare un po’ con me e Ronald?» le chiede.
«Ronald?»
Mia figlia annuisce e strofina la guancia contro il pelo del cagnolino.
«Come il presidente! Me ne ha parlato Zia Shirley, mi sembrava un bel
nome perché mi ricordava il tuo».
Sospiro e le accarezzo la testa. «Lilli, tesoro, Theodora non è un nome da
maschio. Ne abbiamo già parlato» le ricordo.
Lei scrolla le spalle e solleva Ronald verso Theodora che lo prende in
braccio e lo guarda come se fosse la cosa più bella del mondo. Le osservo
mentre fissano quel cucciolo adoranti e mi si stringe lo stomaco.
«D’accordo, ragazze, che ne dite di sederci a tavola? Lilli, accompagna Theo
in bagno e lavatevi le mani».
Lilli la trascina verso il bagno senza rispondermi e io scuoto la testa. Di
solito, non si affeziona così in fretta agli estranei, perciò resto sempre sorpreso
dal modo in cui si comporta con Theodora. Tendo a usare Lilli come metro di
giudizio per le persone: se non piaci a lei, non puoi piacere a me. Lilli ha una
specie di sesto senso, avverte l’essenza delle persone immediatamente, lo ha
appreso molto bene dagli animali. Li ha studiati e ora fa come loro, me lo
ripete sempre. Sapere che Theodora le piace, mi fa pensare che per quanto
poco io la conosca, posso fidarmi di lei. Ma fatico a mettere davvero in pratica
questa assurda teoria, perché io non sono un bambino e mi serve qualcosa in
più per fidarmi delle persone. Sto cercando quel qualcosa in più da anni, forse
l’ho trovato. Lilli e Theodora tornano in cucina ridacchiando, servo l’arrosto e
le patate nei piatti poi mi siedo anch’io.
«Hai cucinato tu?» domanda la nostra vicina.
«Certo, papà sa cucinare molto bene» interviene mia figlia. Le strizzo
l’occhio e taglio la carne a Lilli, taglio anche le patate e poi le do il permesso di
iniziare a mangiare.
«Che c’è? Solo perché sono un uomo non dovrei saper cucinare?»
«Oh, no» replica lei, assaggia la carne e mugola. «Sono solo sorpresa dal
fatto che sei bravo».
Mi agito sulla sedia e borbotto un ringraziamento mentre inizio a mangiare.
Lilli racconta della scuola e delle sue amiche, dandomi qualcosa su cui
concentrarmi che non sia Theo che geme e mi guarda con le guance rosse.
Cerco di evitare il suo sguardo in qualsiasi modo, perciò lo tengo sulla mia
bambina che dice a Theo che sta cercando di convincermi a comprare un
alpaca. Lei le risponde che è un’idea bellissima e non mi aiuta. Roteo gli occhi e
le ascolto mentre discutono del nome del piccolo alpaca che avremo con noi
per Natale.
«Non ho detto di sì, Lillibeth Anna» le faccio notare.
«Ma tu dici sempre di sì, alla fine».
Theodora ridacchia, io la fulmino con lo sguardo.
«Beh, stavolta no. Quando Zia Shirley se ne sarà andata, saremo soli.
Occuparci di così tanti animali non sarà semplice» le ricordo. Occuparmene da
solo non lo sarà, dato che toccherà a me farlo.
Lilli si rabbuia e finisce di mangiare in silenzio, Theodora mi lancia uno
sguardo interrogativo e io mi spiego.
«Mia zia se ne va».
«E vi lascia qui?»
Scrollo le spalle.
«Chi si occuperà di me dopo la scuola? Quando papà lavorerà, chi penserà a
me?» chiede Lilli, tutt’a un tratto.
Mi prendo l’attaccatura del naso tra le dita e inspiro rumorosamente.
«Tesoro, ci sarò io, d’accordo? Zia Shirley va via, non tuo padre» la rassicuro.
«Ma quando io esco da scuola…» piagnucola.
«Posso aiutarvi io» si intromette Theodora. «Insomma, io e Laurel
potremmo incastrare i turni in caso di necessità e io potrei badare a Lilli».
Fisso Theodora così intensamente che lei arrossisce e distoglie lo sguardo.
Vorrei stenderla sul tavolo e divorarla, posare le mie labbra sulla sua pelle calda
e succhiare e mordere e baciare… Sbatto le palpebre e torno alla realtà. Mia
figlia sta già saltellando sulla sedia dalla felicità, mentre lei cerca ancora una
mia reazione a ciò che ha detto.
Provo un cazzo di vuoto alla bocca dello stomaco, come se ci avesse lanciato
una pietra e quella ci avesse scavato un buco. Un buco maledetto dove le parole
di Laurel giacciono in attesa di una risposta, un buco dove Theodora cerca uno
spiraglio di luce. Sei anni sono abbastanza?
«Sai badare a una bambina di sei anni?» mi ritrovo a chiedere.
«Penso di potercela fare».
«Non posso pagarti» ammetto. Non posso proprio permettermi di pagare
una baby-sitter, ho rifatto i conti prima di preparare la cena e quello che mi
rimane potrebbe servire per un’ora o due a settimana.
«Troverai un modo per sdebitarti» replica, agitando una mano.
«Papà, glielo diciamo subito? È la persona giusta, possiamo fidarci di lei»
esclama Lilli.
Theodora aggrotta la fronte perplessa e unisce le mani sotto al mento.
Annuisco a mia figlia e la invito ad alzarsi e ad andare a prendere quello che
vuole. Lei torna di corsa con un gattino tra le mani e io la rimprovero come
sempre per il modo in cui corre. Mi farà perdere la testa. Theo sgrana gli occhi
ed esclama qualcosa di incomprensibile mentre Lilli le porge il cucciolo, è il
più grande di tutti e ha il pelo tigrato con sfumature che vanno dal marrone al
grigio.
«Oddio, ma è bellissimo» sospira. «E tu vuoi darlo a me?»
Guarda Lilli con gli occhi lucidi e io non so perché, ma mi sento toccato da
questa scena in modo esagerato. Mi schiarisco la voce e mi intrometto nella
loro conversazione. «Devi aspettare ancora un mese almeno, non possiamo
allontanarlo dalla mamma troppo presto. Rischia di non sopravvivere».
«Ma papà, lui è il più forte. L’ho scelto apposta. Non vuole mai stare con i
suoi fratelli e nemmeno con la mamma» protesta Lilli.
«Non importa, Lilli. Ha bisogno di lei comunque».
Lei sbuffa e torna ad accarezzare il gattino tra le mani di Theodora.
«D’accordo. Tu lo vuoi, Theo? Mi faresti molto felice».
Bevo un sorso d’acqua e prego che questo momento finisca presto, mi sta
colpendo più di quanto dovrebbe. L’unica donna oltre a mia zia con la quale ho
visto Lilli è Laurel, non pensavo che si sarebbe affezionata così a Theodora.
Per un momento, per un solo fragile momento, mi dico che sei anni sono
abbastanza. Mi ripeto che posso farlo, che io e mia figlia siamo pronti a fare
entrare qualcuno. Ma dura un momento, un momento che viene subito
spazzato via dal volto della madre di mia figlia. Stringo un pugno sul tavolo e
controllo l’orologio alla parete.
«Lilli, che ne dici di andare a lavare i denti e poi di andare a letto? Domani
c’è scuola».
«Ma dobbiamo ancora scegliere il nome» protesta lei.
Theodora si alza e le sorride. «Perché non lo scegliamo mentre tu ti lavi i
denti e ti mettiamo sotto alle coperte? Vengo con te, così mi fai vedere la tua
camera».
Lilli si alza con un sorriso enorme sulle labbra e corre verso il bagno.
Sospiro e faccio segno e Theo di seguirla mentre io sparecchio e preparo due
bicchieri di vino e un po’ di gelato per noi due. Dio solo sa se ho bisogno di
bere in questo periodo. Mi esplode la testa per tutte le cose alle quali devo
pensare, ma la cosa assurda è che l’unico pensiero ridondante e martellante che
non mi lascia andare è lei. Theodora Sanders, che odio e vorrei toccare, che
bacio e vorrei allontanare. Theodora che profuma di novità e di libertà, di
qualcosa che lascio andare e di qualcosa che accolgo. Theodora che sorride a
mia figlia e le diventa amica.
Mi siedo nella veranda e mi accendo una sigaretta, dalla finestra entra l’aria
frizzante della sera e le braccia mi si ricoprono di brividi. Inizia a fare freddo,
tra un mese potrebbe già nevicare e per allora mi chiedo se sarò ancora il
proprietario di questo posto. Se me lo portano via troverò una soluzione, ma
come faccio con gli animali? Lilli ne morirebbe. Mi strofino il viso e prendo un
altro tiro dalla sigaretta, la finisco e me ne accendo un’altra mentre penso a
una soluzione per quegli animali. Sussulto quando Theodora entra nel mio
campo visivo.
«Si è addormentata» mi informa.
Controllo l’orologio. Ci ha messo solo mezz’ora, per Lilli è pochissimo.
«Le hai fatto una specie d’incantesimo? Di solito parla per un’ora buona
quando si mette a letto».
«Era stanca e Ronald le si è accucciato accanto. Si è addormentata mentre lo
accarezzava».
Scuoto la testa e le indico il gelato mezzo sciolto sul tavolino, poi le passo il
bicchiere di vino.
«Va tutto bene?» borbotta. Si infila il cucchiaio in bocca e io non riesco a
distogliere lo sguardo dalle sue labbra. Annuisco e le tolgo il cucchiaio dalle
mani, lo affondo nel gelato e glielo porto di nuovo alla bocca. Ne raccoglie
ogni traccia. Non resisto alla visione delle sue labbra e faccio lo stesso, mi
sporgo e le succhio il labbro inferiore. Poi riprendo a imboccarla.
«Che succede?» sussurra.
«Mi piace vederti mangiare».
«Ti senti bene?»
No, non mi sento bene. «Ieri mi hai chiesto se penso alla madre di Lilli»
inizio.
Lei si irrigidisce, ma continua a farsi imboccare. Andiamo avanti così fino a
quando il gelato non è finito, allora la bacio con le mani tra i suoi capelli e le
labbra affamate delle sue. La bacio e la consumo, consumo il bisogno di lei che
sento dentro e mi lascio consumare.
«Lachlan» farfuglia. «Cosa stavi dicendo?»
Mi allontano e la guardo. È piccola, spettinata e con le guance rosse per
quello che prova per me. Lo so, lo sento. È attratta da me e io lo sono da lei.
«Penso spesso a Karla» rispondo. «La madre di Lilli si chiama Karla».
Schiude le labbra sorpresa, ma non emette alcun suono. Decido di parlare
finché sento di avere qualcosa da dire. Karla è un argomento proibito in questa
casa, non si parla di lei e non la si nomina in nessun caso; quindi, l’eccezione
che sto facendo mi sta lasciando sorpreso.
«Ma non penso a lei nel modo in cui penso a te» chiarisco.
«Ti va di parlarmi di lei?»
«No, ma voglio parlare di te».
Sorride e distoglie lo sguardo. «Di me?»
Annuisco. «Il modo in cui parli con Lilli… il modo in cui mi guardi…»
«Come ti guardo?» bisbiglia.
«Tu mi vedi» mormoro. «Non mi guardi soltanto, Theodora. Mi vedi. Lo fai
anche se io provo a nascondermi, tu mi vedi comunque».
So che potrei sembrare folle in questo momento, ma da quando mi sono
avvicinato a lei non ho avuto altro che l’impressione di essere capito e
guardato per davvero. Theodora mi scosta i capelli dalla fronte e mi bacia la
punta del naso, le pizzico un fianco e lei ride.
«Com’era quella storia dell’odio?» sussurra.
«L’odio non è un sentimento semplice, nasconde tante cose. Ed è pur sempre
un sentimento».
«Non usare queste parole per una dichiarazione d’amore perché fanno
schifo».
Sbuffo e la trascino sulle mie gambe, lei mi stringe i fianchi con le ginocchia
e mi allaccia le braccia al collo. Sfioro il suo naso con il mio e sento il suo
respiro sulle mie labbra, addosso.
«Il punto è che non penso a nessuno nel modo in cui penso a te, non odio
nessuno nel modo in cui odio te e non sento nessuno nel modo in cui sento te»
confesso.
«Vale lo stesso per me».
«Ma c’è Lilli…»
E per lei rinuncerei alla mia felicità e alla mia vita se fosse necessario.
«E io adoro Lilli».
«Lo so, Theo, ma adorarla non basta».
«Karla la adora come la adori tu? Come la adoro io?»
Resto in silenzio e mi mordo il labbro fino a sentire il sapore metallico del
sangue. Karla la adora come la adoro io? Assolutamente no, non sa nemmeno che
faccia abbia oggi. E non la adora nemmeno come la adora Theodora, anche se
la conosce da poco.
«Non siamo qui per ferire Lilli, Lachlan. Siamo qui per noi due e basta».
«Può bastare?» chiedo.
«Io dico che può bastare».
Può bastare. Laurel ha ragione, sei anni sono abbastanza. Sei anni vanno più
che bene, l’attesa non può durare in eterno. Non posso sprecare la mia vita
seduto qui ad aspettare che Karla si faccia viva. E se lo facesse, io cosa farei?
Davvero potrei accoglierla e affidarle Lilli senza provare rancore? Conosco già
la risposta e la conosceva Laurel, ecco perché lei lo sapeva prima di me. Sei
anni sono più che abbastanza.
«Voglio spogliarti e sentirti ripetere il mio nome mentre ti tocco».
«Allora toccami, Lachlan».
«C’è Lilli» le ricordo.
«Puoi toccarmi anche senza spogliarmi e io posso sussurrare il tuo nome»
mi fa notare.
Mi avvento sulle sue labbra e la bacio, affondo nella sua bocca calda e divoro
il suo respiro e i suoi gemiti, mentre una mano si intrufola sotto il suo
maglione e le afferra un seno. Le slaccio i jeans e affondo la mano nelle sue
mutandine, sfioro il centro sul suo piacere e poi spingo un dito dentro di lei. È
bagnata, ansima sulle mie labbra e mi bacia. Mi allontano e la fisso negli occhi
mentre muovo le dita per lei, dentro e fuori. Dentro e fuori.
«Lachlan» sussurra.
«Ancora».
«Lachlan, Lachlan, Lachlan…» ripete.
E lo fa ancora e ancora finché non mi stringe le dita dentro di sé e non
trema, poi mi bacia così a lungo che il mio respiro diventa affannoso. Vorrei
spogliarla e fare molto di più con lei, ma non posso.
«Adoro anche le tue labbra e le tue mani» ammette.
«Ah, sì? Quindi questa cosa si può ufficialmente fare».
Sorride e si sistema i capelli dietro alle orecchie.
«Puoi sempre raccontarti che mi odi, se ti fa stare meglio. Funziona».
Mi strizza l’occhio e io scuoto la testa.
«Come diavolo ci sei finita in casa mia, Theodora Sanders?»
La fisso negli occhi e me lo domando davvero. Non riesco più a ricordarmi
come fosse la mia vita prima del suo arrivo.
«Cercavo solo un posto in cui sentirmi al sicuro».
18
 
Theodora
 
 
Il signor Kipling e io, il proprietario del minimarket vicino al negozio di
Laurel, abbiamo stretto amicizia nelle ultime settimane. A Cedar non c’è un
supermercato, bisogna andare a Finnik per trovarne uno. Va da sé che, per
rifornirmi di cibo, il negozio del signor Kipling è una tappa immancabile. E
dato che il pick-up rischia di lasciarmi a piedi da un momento all’altro, ho
deciso di abbonarmi al suo grazioso negozio. Non voglio rischiare di
ritrovarmi di nuovo da sola sul ciglio di una strada. Sto già cercando una
nuova auto, settimana prossima forse andrò a vedere una piccola utilitaria a
Cincinnati con Laurel. Tutto pur di non portare mai più quel catorcio da Ollie.
È da dopo quel bacio che sto cercando di evitarlo in tutti i modi possibili. Mi
sono inventata un mal di pancia, un raffreddore e un’emergenza familiare
telefonica. Una cugina di Los Angeles che ha avuto bisogno di me per una crisi
matrimoniale, o qualcosa del genere. Peccato che Cedar sia una minuscola
cittadina, la gente sparla alle spalle di tutti e, forse, qualcuno gli avrà già detto
che non ho saltato neanche un giorno di lavoro. Ma finché potrò continuare ad
accampare scuse, lo farò. Ollie deve starmi lontano.
Siamo a ottobre ormai, abbiamo superato la metà del mese e le temperature
stanno calando. Ho dovuto indossare un maglione più pesante e comprare una
sciarpa in uno dei piccoli negozi d’abbigliamento di Cedar. Sto anche cercando
di non fuggire dai miei nuovi concittadini, di fare amicizia e di farmi accettare.
La figlia di Kipling è adorabile, ha la mia età e uno spiccato senso
dell’umorismo. Le porgo la spesa e prendo i soldi in attesa del conto.
«Che cosa succede oggi nella grande Cedar?»
«Il signor Harvey mi ha chiesto in prestito della legna» dico.
«Cosa?» sbotta. «Quello è tutto matto! L’anno scorso ha cercato di rubarmi
la bicicletta sostenendo che fosse sua. Dicono che sia andato fuori di testa in
guerra, non lo so se è vero. So solo che fa paura».
Ridacchio e annuisco. Anche a me non pare troppo lucido e affidabile, e
adoro che Jade Kipling ami criticare gli abitanti di questo posto con me.
«Che programmi hai per il fine settimana?» chiedo.
«Andrò a Cincinnati da Roger, ma non lo avviserò perché devo capire se mi
tradisce. Una sorpresa è la cosa migliore» borbotta. «Tu cosa farai?»
Vorrei dirle che le sorprese non sono mai una buona idea, ma taccio e mi
concentro sulla mia risposta. Questo fine settimana lo passerò alla fattoria,
Lachlan mi ha detto di avere organizzato una sorpresa, quindi, sono molto
curiosa di capire di che si tratta. Lilli trascorrerà due giorni con Addie e
Laurel, si fermeranno a dormire da qualche parte per una gita fuori porta. Non
hanno voluto rivelare niente del loro programma segreto e Lilli era fuori di sé
dalla gioia, una piccola esploratrice pronta a partire per nuove terre. Lachlan,
intanto, sta cambiando e la cosa mi piace. Anche se so che quello che sto
facendo con lui non è giusto.
Jade mi comunica il conto e io torno alla realtà, le porgo i contanti esatti e
rispondo.
«Io niente, guarderò un film e leggerò un libro» rispondo.
«Non troppa allegria, sorella».
Scoppio a ridere e raccolgo le buste della spesa.
«Ti aspetto lunedì in negozio per sapere com’è andata con Roger, Laurel
scommette che ti sbagli!»
«Laurel non capisce niente!»
Esco da lì con la promessa di un resoconto dettagliato della sua missione e
con il sorriso ancora sulle labbra. Non definirei Jade una mia amica, ma una
buona e piacevole conoscente. Forse tra qualche mese sarà al livello di Laurel e
potrò ampliare la lista delle persone di cui potermi fidare, quelle che mi
cercherebbero nel caso in cui sparissi. Attraverso la strada e saluto la signora
Klaus, mi dirigo al parcheggio comunale in cui lascio l’auto e non lo noto
finché non sono costretta a sollevare la testa per prendere le chiavi dalla tasca.
Ollie è appoggiato al mio pick-up, e io quasi lascio cadere le buste sull’asfalto.
Le stringo più forte e cerco di controllare il respiro che accelera
inesorabilmente. Lo raggiungo e mi sforzo di sorridere, apro lo sportello e
lascio la spesa sul sedile del passeggero.
«Che ci fai qui, Ollie?»
Lui fa un passo avanti per toccarmi, ma io mi sposto.
«Perché non rispondi più ai miei messaggi? Siamo stati bene insieme».
Rabbrividisco al suono di quella parola. Qualsiasi donna della mia età al mio
posto non gli sarebbe indifferente come lo sono io, gli permetterebbe di
avvicinarsi ma io proprio non ci riesco. Non riesco a buttarmi tra le sue
braccia e il modo in cui mi cerca è ossessivo, stona molto con il ritratto che
questa città si è fatta di lui.
«Sono molto impegnata».
«Nessuno a Cedar è così impegnato».
«Io sì, Ollie» ribatto.
Lui mi afferra per un braccio e mi trascina sul suo petto. Mi ritraggo e cerco
di sfuggirgli, lui mi stringe con l’altra mano e cerca di baciarmi ancora.
Bastardo! Il parcheggio è vuoto a quest’ora del pomeriggio e non riesco a
liberarmi dalla sua presa. Metto un palmo sul suo petto e cerco invano di
mantenere la distanza tra noi due.
«Ollie!»
«Che c’è? Ti è piaciuto nella tua auto» dice, stringendomi più forte.
«Baciami, Theodora. Baciami o ti bacio io».
Mi divincolo ma lui mi riacciuffa. Mi spinge con la schiena contro al pick-
up e sussulto quando la vecchia maniglia arrugginita mi si conficca nelle reni.
Premo i palmi sul suo petto, lui si fa sempre più vicino e mi inchioda.
«Perché, non ti è piaciuto l’altra sera?»
Ti prego, no!
«Allontanati, Ollie» sibilo. «Lasciami andare, subito!»
Lui ridacchia. Mi stringe le braccia più forte e mi sbatte contro il pick-up
con veemenza. Colpisco la maniglia con forza, mi lascerà un livido. Quando
non ci spero più, qualcuno ascolta davvero le mie preghiere: il pick-up di
Lachlan svolta nel parcheggio. Vorrei mettermi a urlare e saltare a bordo, ma
resto ferma. Lo sguardo di Ollie mi pietrifica, quasi mi terrorizza. Scuote la
testa e si punta l’indice sulle labbra, come a zittirmi. Poi mi lascia andare.
«Tutto bene?» chiede Lachlan quando ci raggiunge.
Ho ancora gli occhi Ollie puntati addosso, quasi mi perforano il cranio.
Distolgo lo sguardo e annuisco sommessamente, poi apro lo sportello e mi
infilo dentro, pronta per fuggire da lì.
Cosa diavolo è successo? Ho il cuore che mi martella nelle tempie, le mani che
tremano ancora. Sembra surreale, ma il dolore alla schiena è lì, a ricordarmi
che è successo davvero.
Lachlan mi lancia uno sguardo indagatore attraverso il vetro, io scuoto
piano la testa. Glielo dirò dopo, ora ho solo bisogno di scappare da lui. Giro la
chiave nel quadro e sussulto quando Ollie apre la portiera e mi afferra un
braccio.
«Aspetta» dice. È tutta un’altra persona ora. Sorride, sembra così gentile e
tranquillo. «Dimmi quando ci rivedremo».
«N-Non… Non lo so» balbetto.
«Non mi vuoi più vedere?» dice, il viso imbronciato come quello di un
bambino. Quei suoi modi di fare, all’apparenza così innocenti, nascondono
una persona orribile.
Lachlan lo allontana e gli si para davanti.
«Ha detto che non lo sa» gli fa notare. «Che diavolo ti prende, Ollie?»
Lachlan sembra così incredulo. Com’è possibile che nessuno conosca la sua
vera natura? Nessuno vede quanto sia disturbante il suo sguardo e il suo
comportamento? Non mi conosce ed è convinto di sapere tutto di me, di avere
il diritto di toccarmi come vuole.
«Io vado» annuncio. «Ci vediamo».
Esco dal parcheggio e prego che questo maledetto rottame non si spenga
prima di riportarmi a casa. Non lo fa, grazie a dio. Porto la spesa in casa e mi
metto a sistemarla, cerco di non pensare a quello che è successo, alla schiena
che mi fa malissimo e al fatto che, se Lachlan non fosse arrivato, Ollie avrebbe
potuto farmi di tutto. Non posso pensare a quelle cose, altrimenti scoppierei in
lacrime. E non voglio più piangere.
Finisco di svuotare l’ultima busta e mi verso un bicchiere d’acqua. Da fuori
sento le ruote del pick-up di Lachlan sul vialetto, poi i suoi passi. Si ferma
davanti alla mia porta per un solo istante, poi entra in casa senza nemmeno
bussare.
«Che cazzo è successo?» sbotta.
Fingo di non capire e mi sposto nel salotto.
«Niente».
«Ti stava dando fastidio?»
Scuoto la testa e mi siedo sul divano. Non voglio più pensarci, figuriamoci
parlarne. Ignoro la fitta alla schiena e mi lego i capelli.
«Lilli è già partita? Laurel ha detto che stasera avrebbero guardato un film».
Provo a cambiare argomento e sembra che funzioni, lui sospira e annuisce.
Mi fissa per qualche istante in silenzio, poi parla di nuovo.
«Lilli è partita. Siamo soli» risponde.
«Allora, qual è la sorpresa?» chiedo.
Sbuffa e si incammina verso la porta.
«Ci vediamo alle otto al granaio».
«Ma è tra un’ora!»
«Devi fare cento metri, Theodora».
Se ne va e mi lascia lì, a chiedermi cosa diavolo sia successo con Ollie in quel
parcheggio. Devo avere paura di lui? Devo costruirmi un’altra bugia? Decido di
non pensarci più e di prepararmi per la mia sorpresa, è molto più semplice che
rispondere alle mie domande. Costruire un’altra bugia non è quello che voglio.
 
***
 
Alle otto sono davanti al granaio con lo stomaco chiuso in una morsa e la
pelle ricoperta di brividi per il freddo. Indosso un maglione e un paio di jeans
ma, anche se il tragitto dal cottage è breve, fa freddo. Mi strofino le braccia e
sposto l’enorme doppia porta in legno, cigola così forte che intirizzisco. Lancio
uno sguardo all’interno, sbattendo le palpebre per mettere a fuoco ciò che mi
circonda e trattengo il fiato quando realizzo quello che ho davanti. Entro e
chiudo la porta alle mie spalle, Lachlan mi lancia uno sguardo mentre finisce di
accendere alcune candele su un tavolino realizzato con dei bancali.
«Benvenuta» sussurra.
Sorride e sprimaccia alcuni cuscini su altri bancali che formano una specie
di divanetto di fortuna, sembrano piuttosto comodi. Ha appeso diverse lucine
luminose lungo il granaio e altre le ha stese per terra, intorno al divano. Sul
tavolino c’è un cartone della pizza, del vino e altre cose che non riesco a
identificare. Di fronte a noi, lungo la parete più vicina, c’è un telo per
proiettare immagini. Il cuore mi galoppa nel petto furioso, spinge e spinge
contro la cassa toracica e preme per uscire. Lo tengo al sicuro premendoci
sopra una mano e mi avvicino.
«Tu sei matto» sussurro. «Questo posto è stupendo».
Mi afferra le mani e intreccia le sue dita alle mie, poi si abbassa per
stamparmi un rapido bacio sulle labbra.
«Anche tu non sei male, odiosa vicina di casa».
Sorrido e lo seguo sul divano, i cuscini sono così soffici che ci sprofondo
dentro.
«Dove hai preso questa roba?»
«Il salotto l’ho costruito l’estate scorsa per Lilli, quando sei arrivata l’avevo
già ritirato dalla veranda per dargli una sistemata. Per questo non l’hai mai
visto» mi spiega.
«C’è qualcosa che non sai fare?»
«Non so dire di no a Lilli» ammicca.
Lo osservo sognante mentre si alza e si dirige al proiettore. Da quale epoca è
uscito questo uomo?
Lachlan indica lo schermo.
«La cosa più romantica che ho trovato tra la collezione di mia zia è Le pagine
della nostra vita» mi informa. «Non l’ho mai visto, ma ho cercato la trama su
internet e mi sembra piuttosto deprimente. Ho portato dei fazzoletti».
Scoppio e ridere e mi copro la bocca per trattenermi. Vorrei dirgli che è
adorabile, ma sono sicura che si chiuderebbe e tornerebbe a essere scontroso
come i primi giorni in cui sono arrivata a Cedar. E, in fondo, non è quello che
voglio. Con lui sto bene, sa sempre quando è il momento di toccarmi e quando
deve starmi lontano. Non è come Ollie, lui mi rispetta davvero. Mi sfioro la
schiena e il punto dolorante e arriccio le labbra in una smorfia, poi cerco di
distrarmi mentre Lachlan sistema il cartone di pizza sulle sue gambe e mi
porta una fetta alla bocca. Ne mordo un pezzo e mastico lentamente mentre lo
guardo negli occhi. I primi minuti del film scorrono così, nessuno di noi due lo
guarda davvero.
«Perché mi imbocchi sempre?»
«Perché mi piace guardare le tue labbra» risponde, morde un pezzo di pizza
e sposta lo sguardo sullo schermo. L’atmosfera è intima e perfetta, le luci
soffuse ci chiudono fuori dal mondo e non vorrei uscire da qui mai più. Potrei
nascondermi qui dentro con Lachlan per anni, nessuno saprebbe dove sono e i
miei capelli tornerebbero del loro colore naturale fino a cancellare il ricordo
delle menzogne che ho costruito. Ma so che devo prendere questa serata per
quello che è: il tentativo di un uomo che non ha ancora fatto pace con se
stesso. Domani potrebbe pentirsene, e io devo essere pronta. A metà del film,
Lachlan mi trascina tra le sue gambe e trattengo una smorfia per il dolore alla
schiena, mi accarezza una coscia, l’altra mano la usa per arrotolarsi le ciocche
dei miei capelli intorno alle dita e tirare piano. Lo fa sempre e lo trovo
rilassante. Ogni tanto mi solleva la maglia e mi disegna dei cerchi sulla pancia
con le dita, poi torna e toccare la gamba. A un certo punto, sospira.
«Ti piace questo film?» sussurra.
Trattengo una risata e sollevo lo sguardo verso di lui. «Lo adoro, a te non
piace?»
«Mi sembra tutto troppo esasperato. Per quale motivo lui l’ha aspettata così
tanto?» borbotta, per poi rispondersi da solo in un sussurro: «Perché noi
uomini siamo idioti quando amiamo qualcuno, ecco perché».
Mi sollevo e lo guardo bene, sono sicura che ci sia qualcosa di irrisolto con
la madre di sua figlia e sono anche sicura che lui la ami ancora.
«Amavi Karla?» sussurro, raccogliendo tutto il coraggio che possiedo.
Lui distoglie lo sguardo e lo punta sullo schermo.
«La amavo. Credevo di averla amata fino all’anno scorso» ammette.
«E cosa ti ha fatto cambiare idea?»
«Mi sono reso conto che l’amore non è questo. Aspettare che una persona
torni da te e morire dentro perché non arriva mai, non è amore. L’ho aspettata
per anni, mi sono logorato dentro nell’attesa e lei non è mai tornata. Ero
ossessionato dall’idea di vederla tornare».
Cerco di non farmi scalfire da questa confessione e mi avvicino di più. Si sta
aprendo con me e non credo che potrebbe farlo di nuovo se lo interrompessi.
«Cos’è successo tra di voi?» domando.
Lui beve un sorso di vino e mi lancia uno sguardo profondo, dentro ci leggo
così tanto dolore che mi si spezza il cuore. Deve averla amata tanto, con tutto il
cuore.
«Ho conosciuto Karla alla UCLA, eravamo solo due matricole. All’epoca
avevo una borsa di studio grazie al football nella tua amata California. Giocavo
anche al liceo ed ero bravo, mi chiamavano Blade. Ho puntato tutto su quello
che mi riusciva bene per andarmene da qui e pagarmi gli studi, anche perché
altrimenti non avrei potuto permettermeli». Scuote la testa, beve ancora e
riprende a parlare. «Ero una giovane promessa del football, quindi, e lei
un’aspirante modella. Lo so, eravamo un cliché. Comunque l’amavo sul serio,
avrei fatto qualunque cosa per lei, così quando all’ultimo anno mi ha detto di
essere incinta ho pensato: “Okay, ora faremo andare bene le cose. Stiamo insieme
da tre anni, un figlio è una cosa grossa ma possiamo farcela”. O almeno lo speravo.
Abbiamo avuto Lilli, io mi sono trovato un lavoro e aspettavo i responsi delle
selezioni per le squadre della NFL. Tirammo avanti così per tre mesi, poi mi
convocarono i Giants».
Sgrano gli occhi e mi inginocchio. Lui sorride e beve ancora.
«I Giants?»
«I fottuti Giants. Feci i colloqui e portai a casa il contratto per farlo vedere a
lei prima di firmare, ma quando arrivai l’appartamento era vuoto. Sul tavolo
c’era una lettera, Karla mi aveva scritto poche righe per dirmi che non era
pronta a fare la madre e che in realtà quella bambina non la voleva. Non voleva
nemmeno me, sai? L’ho chiamata e l’ho aspettata, ma non si è mai fatta viva.
Aveva mollato una bambina di tre mesi in casa da sola ed era scappata. A quel
punto cosa potevo fare? Ho rinunciato ai Giants e sono tornato a Cedar.
Andare a New York in quelle condizioni era impensabile per me, perché ero
completamente solo con una neonata. E non potevo nemmeno vivere da solo
in California per continuare a studiare perché non avevo nessuno che badasse
a Lilli mentre terminavo gli studi e lavoravo. Per questo non sono laureato»
conclude.
Rilascio un respiro e cerco di trovare le parole giuste per commentare la sua
storia. Non voglio giudicare una persona che non conosco, ma questa Karla
non sembra affatto meritevole di tanta attesa. E nemmeno di una bambina
dolce come Lilli.
«L’hai più sentita?»
«Per i primi tre anni chiamava sempre a Natale, poi è sparita. Ogni tanto mi
scrive per chiedermi come sta Lilli, ma dopo che le chiedo se ha intenzione di
tornare sparisce di nuovo».
Non la merita.
«La stai ancora aspettando?» sussurro.
Lui scuote la testa e mi accarezza il viso. «Fino a qualche settimana fa sì,
oggi ho smesso. Non posso passare la vita intera ad aspettarla, non ora che sei
arrivata tu».
Sorrido e gli mordo il palmo della mano piano.
«Quanto odio nelle tue parole, Lachlan Willow» mormoro.
Lui mi trascina sulle sue labbra per la nuca e mi respira addosso.
«Quanto futuro nel tuo sguardo» replica. «Non voglio più pensare a quello
che mi sono lasciato indietro. Non penso a lei nel modo in cui penso a te, lo
sai?»
Lo bacio e sorrido quando mi lecca le labbra.
«Dimostramelo».
«Cosa vuoi che faccia?» mi chiede.
«Beh, odiami come sai fare tu».
 
19
 
Theodora
 
 
«Odiami come sai fare tu».
Glielo ripeto all’orecchio mentre le sue mani si arrampicano sulla mia
schiena, sotto il maglione e sotto lo strato di insicurezze che mi sono messa
addosso. Sfiora il punto dolorante e trattengo il fiato. Non ho paura di lui e
nemmeno che questa cosa che c’è tra noi finisca, ho paura di quello che mi fa
provare. Quando Lachlan mi guarda, sento questa sensazione strana partirmi
dalla gola, diramarsi nello stomaco e poi scendere lungo le gambe. Poi la sento
spostarsi di nuovo nello stomaco, risalire fino al petto e le braccia e
raggiungere le dita. La sento sui palmi delle mani che fremono per toccarlo e
sulle labbra che vogliono essere baciate. Lo sento dappertutto e non importa se
mi stia toccando attraverso i vestiti o no, io sento sempre queste sensazioni. È
come ricevere una scarica elettrica, essere spostati di qualche metro e poi
spinti di nuovo al proprio posto. Non so spiegarmelo perché è qualcosa che
non ho mai provato prima per nessun altro, ma non ne ho paura. Non posso
aver paura di questi sentimenti, men che meno delle sue braccia che mi
tengono al sicuro. L’unica paura che ho è quella di non saperci rinunciare e di
vederci qualcosa che non esiste.
Forse questa scarica elettrica è solo eccitazione, piacere da soddisfare, e lui
non la sente affatto. Ma, qualunque cosa sia, voglio che mi riempia. Voglio
sentire Lachlan dentro, nel punto più profondo in cui sono ancora me stessa.
Voglio che arrivi lì e pianti un seme, qualcosa che possa germogliare e
ricordarmi che sono viva e che starò bene. Voglio che anche lui mi senta. Mi
allontano e mi sollevo il maglione, lo faccio scorrere oltre la testa e lo getto per
terra, poi faccio lo stesso con la camicia che indosso e rimango solo con il
reggiseno addosso. Mi concentro sui suoi vestiti e gli faccio fare la stessa fine
dei miei, poi accarezzo il suo petto con la punta delle dita e ci disegno infinite
strade da percorrere per sentirmi libera. Le esploro con il suo sguardo addosso
e le sue mani sulla schiena, con il cuore che mi galoppa nel petto. Lachlan mi
solleva il mento e mi fissa negli occhi, mi sfiora il labbro con il pollice e mi
bacia. Mi bacia come se volesse essere sentito nello stesso modo che desidero
io. Mi bacia con pazienza, con la lingua che mi cerca e mi assaggia, con le mani
che mi accarezzano e finiscono di spogliarmi. Mi bacia con gli occhi che mi
rassicurano, che ammettono di non sapere cosa stiamo facendo ma di avere la
certezza di desiderarlo. Mi bacia e non sa nemmeno in che punto io lo senta.
«Sei proprio bella» bisbiglia.
Poi mi slaccia i pantaloni e li fa scorrere sulle mie gambe, fa lo stesso con i
suoi e mi bacia ancora. Ancora, ancora e ancora. Vorrei sussurrarglielo
all’orecchio mentre mi sfiora il seno e mi spinge sui morbidi cuscini del
divanetto, ma mi lascio baciare in silenzio e permetto alle mie parole di perire
sotto i suoi baci. Lachlan mi sfila il reggiseno e lo lancia per terra, poi le sue
labbra dedicano le stesse attenzioni che hanno dedicato alla mia bocca al mio
seno. Mi ha già toccata così, eppure è tutto diverso ora. L’odio che ci unisce è
solo una facciata dietro la quale ci rifugiamo per sentirci al sicuro e i nostri
occhi hanno imparato a comunicare in silenzio, con sguardi profondi e
assordanti. Oggi lo conosco e lo sento davvero. Infilo le dita tra i suoi capelli e
lo trascino sulle mie labbra, non ci baciamo e non ci provochiamo. Ci fissiamo,
ci sfioriamo e ci respiriamo per un lungo e immobile istante.
«Voglio stare dentro di te» sussurra. «Ci voglio stare tutta la notte e tutto il
tempo che me lo permetterai. Dimmi che mi vuoi dentro di te, Theo».
Mi schiarisco la gola e sbatto le palpebre, rispondergli non è difficile. «Ti
voglio dentro di me».
Lo voglio in quel punto di me stessa, quello più profondo e intimo. Lo
voglio e lo vorrò ancora. Lui mi bacia e mi morde le labbra, mi succhia la
lingua e mi toglie le mutandine. Si allontana per prendere un preservativo e
torna da me prima che riesca a sentire il calore del suo corpo svanire. Mi
allarga le gambe e ci si infila in mezzo, mi bacia e mi morde, mi lecca e mi
tocca.
«Va bene se non parliamo troppo?» mi chiede.
Annuisco e resto immobile mentre lo sento spingersi dentro di me, piano
ma non senza impazienza. E quando lo sento completamente, gemo. Lui
sorride e si avventa sulle mie labbra, mi divora e si muove. E io lo seguo. È
come una danza, una danza solo nostra. Gemo e lo respiro, lo sento dentro e
addosso e dappertutto. Lachlan mi fa scorrere i polpastrelli sul seno, poi
scende fino al punto in cui i nostri corpi sono uniti. Mi sfiora in mezzo alle
gambe e io sussulto, gli allaccio le gambe intorno alla vita e gli bacio il collo, la
spalla e di nuovo le labbra. Ansimiamo, le luci intorno a noi vorticano anche se
sono ferme, e il sudore ci ricopre la pelle. Ci respiriamo e perdiamo il contatto
con la realtà, poi Lachlan si muove sempre più veloce e io mi mordo il labbro
inferiore per non urlare. Chiudo gli occhi e mi godo la sensazione delle sue
dita e dei suoi movimenti dentro di me, su di me.
«Gli occhi, Theo» sussurra. «Apri gli occhi».
«Lachlan…»
«Sono qui. Sono qui e non vorrei essere da nessun’altra parte. Ora stringimi
dentro di te, Theodora. Stringimi e non lasciarmi andare».
Lo faccio. Lo stringo e lo sento sempre più in profondità dentro di me, fino
a quando non arriva in quel punto. Il punto che mi fa esplodere e urlare il suo
nome, che mi fa sentire quella terribile paura mescolata a un senso di vuoto.
Quel punto in cui non sento nient’altro oltre lui.
***
 
Lachlan prende un tiro dalla sigaretta e mi stringe al suo petto mentre io
gioco con la sua pelle. Lo accarezzo e premo i polpastrelli fino a vederli
sbiancare, poi ricomincio. A volte ride perché gli faccio il solletico, altre mi
stringe di più. Siamo sdraiati sul divano sotto a una leggera coperta. Fuori ha
iniziato a piovere, ma non ho freddo. La sua pelle è così calda che potrei stare
qui per tutto l’inverno. Profuma di terra e di pioggia e trovo ironico che fuori
stia diluviando. Profuma di Lachlan e di cose che non pensavo di trovare
venendo a Cedar. Ed è un odore buonissimo.
Il film è finito da un pezzo, le luci sono ancora accese, ma sono meno forti di
prima ed è come se fossimo bloccati qui dentro. A essere onesta, vorrei esserlo
davvero. Rimarrei in questo granaio e tra le sue braccia per un tempo
indefinito, quello necessario a rendermi conto che è tutto vero.
«Hai freddo?» mi chiede.
«No, sei bollente».
Mi solleva il viso per guardarmi negli occhi. Poggio il mento sul suo petto e
sorrido, ha il fisico ancora forte e allenato di un atleta anche se non è
perfettamente scolpito. Non fatico a credere che fosse un giocatore di football
quasi professionista.
«Mi piace da impazzire odiarti» mormora. «Posso odiarti ancora?»
«Puoi odiarmi quanto vuoi».
«Ti dispiace che ti abbia chiesto di non parlare?» domanda.
Scuoto la testa. Non sono una che urla e fa sesso in modo rumoroso, non lo
sono mai stata.
«No, ma se è perché odi la mia voce allora mi dispiace».
Mi pizzica il fianco e sussulto, trattenendo il fiato per il dolore alla schiena.
Lui spegne la sigaretta nel bicchiere sul pavimento, poi si arrotola una ciocca
di capelli intorno al dito e il mio sguardo viene attratto dal tatuaggio che gli
percorre le spalla e il braccio fino al polso. È un intricato disegno, ora che lo
vedo senza vestiti riesco a comprenderlo. È un albero, le foglie gli si
arrampicano sulla spalla e sul braccio, sbucando da rami così realistici da
sembrare veri. Se aprissi la porta e raggiungessi il cortile principale della
fattoria, sono sicura che riconoscerei un albero molto simile davanti a casa sua.
La riproduzione è così fedele da farlo sembrare vero. I rami si diradano lungo
il braccio dove qualche foglia sembra essere stata trasportata dal vento, fino al
polso dove c’è la data di nascita di Lilli.
Sospiro e cerco di non toccare quel meraviglioso groviglio d’inchiostro, poi
mi sforzo di prestargli attenzione e di concentrarmi di nuovo sulla sua voce.
«Negli ultimi anni non ho avuto altro che scopate insignificanti in luride
stanze di motel. Urlano tutte, sai? Non so perché diavolo urlino in quel modo,
mi fa sentire così sporco e in imbarazzo. So che sembrerà folle, ma fare sesso
in quel modo non mi piaceva per niente» borbotta.
Lo osservo bene e capisco che è sincero. Lachlan è una persona sensibile e
introversa, tutto quello che mostra agli altri è l’uomo che è diventato per
proteggere sua figlia dal dolore dell’abbandono di sua madre, e che gli ha
portato via i sogni. Ma è sensibile, buono e generoso. Non tutti avrebbero
lasciato la propria carriera in fase di decollo per accudire una bambina di tre
mesi, non tutti sarebbero tornati qui in mezzo al nulla. Lachlan ha cresciuto
Lilli, ha rinunciato ai suoi sogni e al suo futuro mentre Karla si è creata la vita
che voleva senza di loro.
«A me sta bene non urlare. Mi basta solo essere sentita da te» rispondo.
«Ma io ti sento».
«E mi sentirai ancora quando usciremo da qui?» trovo il coraggio di
chiedere.
Lui mi tira leggermente una ciocca ramata e sospira, rimane in silenzio per
qualche istante e io resto immobile con gli occhi fissi sulle sue labbra. È una
domanda scomoda, ne sono consapevole, ma devo sapere quale sarà la sua
risposta.
«Ti sentirò» conferma. «Ma non posso fare promesse. Sono un padre single,
ho una bambina che viene al primo posto e devo fare solo quello che è meglio
per lei».
«Non dobbiamo sposarci, Lachlan».
Sbuffa e mi pizzica un fianco. «Lo so, solo che non voglio farle capire che
stiamo insieme e poi spiegarle un giorno che te ne sei andata. I bambini fanno
un sacco di domande e lo capiscono se menti».
Mi irrigidisco e cerco di non farmi prendere dal panico alle sue parole, ma
ha ragione. Un giorno me ne andrò da Cedar, era quello il piano fin dall’inizio.
Avrei cambiato di nuovo vita, avrei vissuto così fino alla notizia che aspetto da
tempo e poi sarei tornata a casa. Questo, prima di arrivare qui e conoscere lui.
Era prima di rendermi conto di volermi fermare, di volere una casa e un posto
in cui rifugiarmi.
«Perché dovrei andarmene?»
«Theo, io in California ci ho vissuto. So da dove vieni e so che qui è
completamente diverso. Vuoi dirmi che hai intenzione di restare a Cedar per
sempre?»
«Non lo so, per sempre è un periodo decisamente lungo. Per adesso, per
tutto il tempo che voglio, però, è più probabile. All’inizio questo posto non mi
piaceva e pensavo che non sarei rimasta, ma ti sbagli su di me. Me ne sono
andata da casa perché non volevo più stare lì» confesso.
«Perché sei finita qui?»
Ecco, ci siamo. La domanda inevitabile e per la quale mi sono preparata per
giorni. Perché cercavo un posto in cui essere al sicuro per davvero, vorrei dire
ma mi limito a ripetere quello che ho raccontato a Ollie e a chiunque altro.
«I miei genitori sono morti e io cercavo un posto in cui sentirmi al sicuro.
Ho visto l’annuncio di tua zia su internet e mi sono innamorata della casa. La
foto era stata scattata in autunno e c’erano così tanti alberi arancioni e così
tanti colori che mi sono emozionata. Sembrava un posto incantato» recito a
memoria.
Lachlan ridacchia e traccia la linea del mio naso con un polpastrello, poi mi
stampa un bacio sulle labbra.
«Hai intenzione di cambiare ancora colore di capelli?»
Scrollo le spalle e rimango in silenzio. Non è la risposta che mi aspettavo.
«Non lo fare» bisbiglia. «Queste lentiggini e questi capelli ramati mi fanno
impazzire».
«Sei dolce, a modo tuo».
«Ah, sì?»
Annuisco e sorrido. Forse conta molto anche il fatto che mai nessuno si sia
rivolto a me in questo modo.
«E sei caldo, troppo caldo» mi lamento. «Possiamo restare qui stanotte?»
«Io non ho intenzione di andare da nessuna parte».
Sorrido ancora e lo bacio, lo stringo con le gambe e con le mani. Lo stringo e
vorrei non poter fare altro. Lachlan allontana la coperta dal mio corpo e mi
afferra il sedere con forza, sento la sua erezione premermi sulla pancia e
sospiro nella sua bocca. Lui mi stringe ancora con una mano, mentre l’altra
scompare tra le mie pieghe umide. Le sfiora e le accarezza, le penetra e le
invade senza chiedere il permesso e mi fa impazzire. Continua così fino a
quando non inizio a muovermi su di lui. Allora esce e mi lascia insoddisfatta,
ma solo il tempo di rendermi conto di quello che sta facendo. Le sue dita ora
sono dove non ho mai sentito nessuno, mi sfiorano piano e mi fanno irrigidire.
«Stai calma, va tutto bene» bisbiglia.
Si ferma e spinge un dito dove non sono mai stata toccata, mentre mi
strofina contro la sua erezione. Si muove piano e mi morde le labbra, mi lecca
e mi bacia. Mi penetra e mi bacia. Mi penetra e mi bacia. Lo fa ancora e ancora,
fino a che non mi ritrovo a gemere così tanto che se ne avessi la forza mi
vergognerei. Lachlan continua, ancora e ancora, fino a quando non mi solleva
su di sé.
«Adesso prendimi, Theodora» sussurra. «E se ti va puoi anche urlare, tanto
non ci sente nessuno. Siamo solo noi due, ti sento solo io».
«Lachlan».
«Theo».
Entra dentro di me e non smette di toccarmi. Mi sento invasa da lui, lo sento
dappertutto e lo sento così forte che stavolta urlo davvero. Lui sorride e detta
il ritmo, mi spinge sulla sua erezione e continua così fino a quando non mi
sento più in grado di restare intera. La schiena mi pulsa, ma in questo
momento caccio lontano il dolore. Mi sento andare in pezzi, mi sento proprio
come un coccio di vetro abbandonato su una spiaggia e trasportato dall’alta
marea, in balia delle onde e della furia dell’oceano. Sono persa e fluttuante
mentre ci muoviamo insieme e il piacere diventa la sola cosa che riusciamo a
sentire. Mi frantumo su di lui e lui lo fa dentro di me. Ci incastriamo e ci
respiriamo addosso, poi restiamo abbracciati e sudati su quel divano.
«Come faccio a starti lontano adesso?» farfuglia.
«Non devi farlo».
«Non voglio che tu veda più Ollie, o chiunque altro» sussurra.
«E io non voglio che tu vada in quegli squallidi motel».
«Quindi è una specie di relazione?»
«Non lo so» ammetto.
Lui mi guarda negli occhi e rimane in silenzio per un po’, poi prende un
respiro profondo e mi sistema i capelli umidi di sudore dietro alle orecchie.
«Che diavolo ci sei venuta a fare qui?»
«Te l’ho detto» ripeto. «Cercavo solo un posto in cui sentirmi al sicuro».
«E l’hai trovato?»
Faccio un cenno d’assenso con il capo e gli bacio il petto.
«In questo momento, mi sento al sicuro come non mi sono mai sentita
prima d’ora».
«Bene, allora forse c’è una speranza che tu non te ne vada per davvero».
Ridacchio. «C’è davvero e forse un giorno sarai tu a chiedermi di andare
via».
Lui sembra non sentirmi o forse finge, ma dentro di me so che è esattamente
così che andranno le cose. Un giorno sarà lui a chiedermi di andare via e allora
io lo farò, mi allontanerò da qui e porterò sempre nel cuore il ricordo di una
notte da sogno in un granaio. Di un uomo gentile che mi ha fatto sentire una
donna possibile da desiderare. Lo porterò dentro di me proprio dove porto
tutto il peso della persona che sono stata, ma non glielo dico. A lui non dico
niente di tutto questo, lo bacio e lo sento. Lo respiro e lo tengo dentro di me,
finché ancora posso.
 
20
 
Lachlan
 
 
Mi sveglio tenendo Theodora tra le braccia. Tengo gli occhi chiusi, incapace di
trovare il coraggio per guardarla. Continuo a ripetermi che quello che ho fatto
non è sbagliato, che ho tutto il diritto di pensare un po’ a me stesso. Dentro di
me infuria una tempesta di dubbi. Lilli tornerà presto e insieme a lei
torneranno la scuola, gli animali da accudire e le domande che sembrano non
avere mai una risposta sufficientemente valida. Tornerà la solitudine e il senso
di colpa che mi porto dietro per non essere riuscito a riportarle sua madre, a
convincerla che amarla sarebbe stato semplice. Tornerà tutto quanto e l’idea di
avere una persona in più dentro a questo casino di vita mi manda fuori di testa.
Non ho una relazione da sei anni e non riesco a interagire davvero con
nessuno senza perdere le staffe e apparire insopportabile. Non so come sia
possibile che Theodora sia qui con me.
Mi stropiccio gli occhi e mi sforzo di aprirli, le lancio un’occhiata di sbieco e
scoppio a ridere quando la vedo imbronciata sul mio petto.
«Sto morendo di caldo, lasciami scendere» si lamenta. «Ma perché scotti
così tanto?»
«Buongiorno anche a te».
«Sul serio, Lachlan. Sei incandescente!»
«Se mi baci, ti lascio andare».
Non mi permetto di riflettere su questa assurda richiesta e mi godo le sue
smorfie di disapprovazione. Le mie braccia sono ancora serrate intorno al suo
corpo nudo e la nostra pelle è fusa in una cosa sola. Una cosa umida di sudore,
sesso e domande senza risposta. Theodora striscia su di me e mi stampa un
bacio sulle labbra, le afferro il viso con una mano e affondo la lingua nella sua
bocca. L’assaggio, la succhio e la sento, mentre ci risvegliamo e ci ricordiamo
che le cose sono cambiate. Poi la lascio andare e la osservo mentre si alza per
rivestirsi. Fuori ha smesso di piovere, ma l’umidità è elevata e il granaio ha
perso l’aspetto romantico di ieri sera. Mi alzo e la attiro in mezzo alle mie
gambe, le mordo piano una coscia e sorrido quando lancia un urlo.
«Sei pazzo!» mi accusa.
«E tu sei troppo buona».
Sorride e mi lancia i miei vestiti. «Che ne dici di andarci a fare una doccia?
Ho anche fame, potremmo fare colazione insieme».
Annuisco e mi rivesto, lascio perdere le luci, il proiettore e i bicchieri sul
tavolino perché tanto è casa mia e nessuno si lamenterà se non pulisco subito.
Ma soprattutto Lilli non mette piede nel granaio.
«Ti va di venire da me?» mi ritrovo a chiedere.
La mia voce suona incerta persino a me, ma stare qui tutto il giorno è fuori
discussione. Voglio che venga a casa mia? Sì, eppure l’idea di stare con lei dove
Lilli ci ha visti essere solo amici mi fa venire dei dubbi. E poi, se mia zia
decidesse di portarla a casa prima? Inspiro profondamente e mi intimo di
smetterla. Sembro delirante, cazzo. Che razza di pensieri sono? È ora di tirare
fuori le palle.
Theodora aggrotta la fronte, poi scuote la testa. «Andiamo da me» propone.
«Ma…»
«Andiamo da me, Lachlan. Così se Lilli torna, non ci vedrà» conclude.
Annuisco e mi mordo l’interno della guancia così forte da sentire il sapore
metallico del sangue. Non so per quale motivo mi stia innervosendo, so solo
che l’idea di non sapere come comportarmi e dove incastrare questa cosa che
c’è tra di noi, mi agita. La gente della mia età non ha questi problemi, non
quella che ha la carriera alla quale io ho rinunciato. Oggi invece sono qui e non
so gestire nemmeno una relazione. Mi viene voglia di tirarmi uno schiaffo da
solo, se solo sapessi che servirebbe a svegliarmi.
Finiamo di rivestirci e usciamo dal granaio. La luce del mattino è forte ma
non ci sono raggi del sole dai quali ripararsi. Fa freddo e il terreno è pieno di
pozzanghere fangose. L’autunno sta prendendo il controllo della città e presto
non resterà altro che alberi dai colori sgargianti e temperature rigide dalle
quali ripararsi. Ma ci sarà anche qualcos’altro: una calma che la stagione estiva
non ha, un angolo di nebbia e pioggia in cui riflettere e non sentirsi soli.
Questa è la migliore stagione in cui vivere a Cedar, Theodora è fortunata a
poterla vedere per la prima volta.
Al cottage lasciamo le scarpe sporche di fango nel portico, poi entriamo in
casa e io accendo subito il riscaldamento. La trascino verso il bagno e la
spoglio, poi apro l’acqua e la spingo nella cabina della doccia. La bacio e
succhio l’acqua sul suo corpo, assaggio la sua pelle e impazzisco. È esattamente
quello che mi succede quando tocco questa donna, quando lascio andare le mie
paure e sono me stesso.
«Mi volevi qui per questo, vero?» sussurro.
La insapono e lei si lascia toccare come se lo facessi da sempre.
«Certo».
«Girati, ti insapono la schiena».
«Lachlan, perché non chiudi un po’ quella bocca?» mormora.
Mi spinge contro la parete mi preme le labbra sul petto, raccoglie i rivoli
d’acqua dalla mia pelle con la lingua e si muove verso il basso. Il getto è caldo e
mi colpisce appena la spalla, ma non è il calore dell’acqua quello che sento
addosso. È Theodora, è la sua pelle e il suo respiro. Lei mi lancia uno sguardo
profondo e si porta la mia mano tra i capelli. Me li arrotolo intorno al pugno e
trattengo il fiato quando si inginocchia e mi accoglie nella sua bocca. Si muove
e mi tocca, mi accarezza e mi stringe. Guido i suoi movimenti e alzo lo sguardo
al soffitto, la mia voce è sepolta da qualche parte dentro di me e l’unica cosa
che riesco a emettere sono gemiti strozzati e respiri pesanti. La guardo, la
tocco, la sento e vorrei che fosse mia. Quel pensiero mi manda fuori di testa,
stringo il pugno più forte e mi lascio andare contro la parete bagnata.
«Theo» gemo. «Basta. Theo, spostati…»
Lei mi afferra le cosce e mi guarda, mi prende ancora e ancora fino a quando
non mi lascio cadere. Stringo gli occhi e forse la chiamo più e più volte, poi li
riapro in tempo per vederla spostarsi e leccarsi le labbra, posarle su di me e
rifare il percorso con la lingua al contrario. L’afferro per la nuca e la spingo
contro al muro, la bacio così tanto e così forte che le labbra mi diventano rosse
e gonfie.
«Ora puoi sciacquarmi» mi dice.
«Era questo il tuo piano, vero?»
Mi strizza l’occhio e si sposta per lavarsi i capelli e togliersi la schiuma di
dosso. Scuoto la testa e resto in silenzio, mi insapono e osservo l’acqua
scivolarle sui seni e sul petto, percorrerle la pancia e perdersi su di lei. La
osservo così tanto che se non fossimo tutti e due nudi mi sentirei un idiota
psicopatico. Theodora chiude l’acqua e si volta per uscire dalla doccia, sto
riflettendo sul fatto che siamo nella doccia di mia madre, quando lo sguardo
mi cade sulla sua schiena nuda e tutto quello che stavo pensando si dissolve.
Non l’ho notato prima perché al granaio non c’era abbastanza luce ed eravamo
piuttosto impegnati, ma adesso lo vedo bene. Sbatto le palpebre e inclino la
testa, ma è ancora lì. Un livido grande quanto un pugno, quasi viola.
«Che cazzo è quello?» sbotto.
Lei sussulta come se l’avessi colpita io in quel punto, si infila un accappatoio
e mi fissa senza capire. Mi metto un telo intorno ai fianchi e la porto davanti
allo specchio. La faccio spogliare di nuovo e voltare appena per poterlo vedere
con i suoi occhi. Non sussulta e non sembra sorpresa, anzi resta indifferente. Si
ricopre e prende una spazzola dal ripiano.
«Non è niente, solo una piccola botta».
«Non sopporto le bugie, lo sai?» ringhio.
Non lo sa perché non mi conosce abbastanza, ma è bene che inizi a
ricordarsene perché in questo momento riesco a sentire l’odore della
menzogna fin da qui. Lei si passa le mani nei capelli e mi lancia un’occhiata
attraverso lo specchio. Mi arriva appena al mento con la testa e io sembro
incredibilmente grosso e incazzato vicino al suo corpo.
«Lachlan, è tutto ok» sospira. «Ho la pelle molto chiara, per questo sembra
più grave di quello che è».
«E come te lo saresti fatta?»
Distoglie lo sguardo ed esce dal bagno, la seguo in camera da letto e
continuo a guardarla mentre si veste.
«Lachlan…»
«Theodora…» ripeto, usando il suo stesso tono di supplica.
Ripenso alla giornata di ieri, a quando l’ho incontrata nel parcheggio
comunale di Cedar e mi viene un dubbio. Il modo in cui è scappata, come
guardava Ollie, come Ollie guardava lei… Quel maledetto dubbio mi fa
innervosire così tanto che stringo i pugni. Theodora apre l’armadio e mi lancia
una tuta che avevo lasciato qui mesi fa, la afferro e mi infilo i pantaloni mentre
continuo a guardarla e cerco il coraggio di dire quello a cui sto pensando.
«È stato Ollie?» domando. «Ollie ti ha fatto male?»
Ho bisogno di una sua conferma. Ho bisogno che lei mi dica che una delle
persone che conosco da sempre le ha procurato quel livido. Perché se fosse
così, andrei a prendere quel bastardo e lo pesterei finché non impara come si
trattano le donne. Lei sussulta, esce dalla stanza e sbuffa. Le afferro il polso e la
costringo a voltarsi per guardarmi negli occhi.
«Rispondimi» sibilo. «E se devi mentire, almeno guardami negli occhi
mentre lo fai».
«Non l’ha fatto apposta» borbotta.
«Sul serio? Hai un livido enorme sulla schiena e il bastardo non l’ha fatto
apposta?»
Lei prosegue verso la cucina e inizia a preparare la colazione, del tutto
indifferente alla mia rabbia. Prende l’occorrente per imbastire un banchetto
dell’ultimo momento e mi ignora. Caffè, burro, marmellata e anche dei fottuti
biscotti. Tosta il pane e mi guarda mentre io fumo di rabbia e aspetto una
risposta.
«Mi ha spinta contro il pick-up, ok? Ma va tutto bene, dico sul serio. Siediti
e bevi un caffè, datti una calmata e smettila di comportarti da pazzo».
«Va tutto bene» mugugno. «E io mi sto comportando come un pazzo. Lui ti
fa del male e io sono pazzo».
«Esatto, lo sei. Se ti dico che va tutto bene, allora va tutto bene. Sono qui con
te e sono sicura che nessuno potrebbe farmi del male. Togliti quell’espressione
dalla faccia e mangia».
Prendo la tazza che mi porge e bevo un po’ di caffè, poi mi concentro sul
pane tostato. Mangio in silenzio e fisso il piatto giallo della collezione di mia
madre come se fosse la cosa più interessante del mondo.
«Non mi parli più?» sussurra.
Ignoro la sua domanda e riprendo il filo del discorso.
«Non lo vedrai più».
Sbatte le palpebre e mi fissa con attenzione. «Non lo vedo già più, te ne sei
dimenticato?»
«Non lo vedrai più neanche in giro. Se ti si avvicina, tu mi chiami e ti
allontani. Ti chiudi dentro il primo posto sicuro e mi chiami, cazzo».
«Dio… non stiamo esagerando?»
«Ti ha fatto del male una volta, vuoi che lo rifaccia? Non voglio decidere al
tuo posto ma, anche se si tratta di Ollie, che conosco da una vita, so
riconoscere i bastardi al primo segnale».
Il solo pensiero che possa accadere di nuovo fa montare una rabbia
accecante dentro di me. Theodora sospira e mi sfiora il braccio, sembra
dispiaciuta mentre io vorrei solo andare da Ollie a spaccargli la faccia.
«Lachlan, sto bene» mi rassicura.
«Allora qual è il problema se ti chiedo di stargli lontano?»
«Non c’è nessun problema, sono la prima a non volerlo mai più rivedere. È
che non voglio vederti così arrabbiato e in pena per me. Io sto bene e so
difendermi da sola».
«Non si direbbe» ribatto.
Sbuffa e mi guarda di sbieco. Stringo la sua mano nella mia. «Voglio solo che
tu sia al sicuro» continuo.
«Hai proprio l’istinto protettivo di un papà» ridacchia.
«E adesso posso usarlo anche con te, questo mio istinto protettivo» le faccio
notare.
«Perché io ti piaccio».
Annuisco e mi mordo il labbro.
«Allora smettila di pensare a Ollie e baciami, Lachlan. Baciami dappertutto».
Maledizione, questa donna mi manderà fuori di testa.
 
21
 
Theodora
 
 
Il fine settimana è stato pieno di Lachlan e delle sue labbra da baciare.
Lachlan, Lachlan, Lachlan.
Sussurro il suo nome mentre lo osservo da dietro la mia tenda e mi mordo
un labbro. Vorrei attraversare il vialetto e baciarlo, stringermi al suo corpo
caldo e restare tra le sue braccia, ma è tornata Lilli e tutto ciò non è possibile.
Ai suoi occhi siamo solo due amici, due vicini di casa che si danno una mano
come possono e che a volte cenano insieme. Forse è quello che siamo
realmente, in fondo. Io e Lachlan abbiamo fatto sesso, ma cosa c’è davvero tra
di noi? Una forte passione, un desiderio che non sentivo da tempo. Un’amicizia
che aiuta entrambi. Sollevo le dita per salutare Lilli che mi manda un bacio dal
vialetto e mi allontano dalla finestra. Sento il pick-up dei Willow allontanarsi
mentre finisco di fare colazione.
Il mio riflesso nello specchio mi restituisce un’immagine diversa da quella di
quando mi sono traferita qui. Ora ho le guance rosee, gli occhi accesi, le labbra
gonfie e rosse. Ora sono viva. Ho sempre un colore di capelli diverso dal mio,
ma pur sempre viva. E intendo fare di tutto per restare in questo modo, per
rimanere a Cedar il più a lungo possibile. Ha ragione Lachlan quando dice che
prima o poi me ne andrò, ma anche se sono passati solo due mesi da quando
sono qui, inizio a pensare che continuare a fuggire potrebbe non essere più
necessario. Posso stare qui, cambiare numero di telefono di frequente e non
usare carte di credito. Posso farlo.
Mi infilo le scarpe e afferro la borsa, poi esco di casa. Fa freddo ormai,
quindi mi avvolgo una sciarpa intorno al collo e raggiungo il mio pick-up da
rottamare.
«Theodora?»
Mi volto alla voce della zia di Lachlan e sorrido. Viene verso di me con
passo veloce mentre si stringe in uno scialle di lana. L’ho sempre trovata più
giovane della sua età e un po’ fuori luogo rispetto a questo posto. Non la
conosco bene, ma posso affermare che non è come Lachlan. Lui appartiene a
Cedar, alla sua terra umida e sporca di fango. Lui appartiene a questa terra
come se ci fosse nato da lì, dal terreno sul quale camminiamo. Come se non
fosse uscito dal grembo di una donna, ma dalle radici affondate in questa terra.
Addie non appartiene a questo posto, non lo guarda come lo guarda Lachlan e
non lo venera come fa suo nipote, sembra più una che non vede l’ora di fuggire
da qui. Controllo l’orologio al polso e lascio la borsa sul sedile, poi la
raggiungo. Ho ancora venti minuti prima di dover fuggire al lavoro.
«Va tutto bene?» chiedo.
«Certo, mi chiedevo solo se potessimo parlare un attimo».
Annuisco e la seguo verso casa sua, il portico è ancora arredato come se
fossimo a fine estate ma sulle poltroncine di vimini ci sono pesanti coperte di
lana da stendere sulle gambe. Mi sistemo la coperta sulle gambe e la osservo.
«Bene, ti chiederai cosa debba dirti di così urgente e perché proprio ora. La
verità è che non riesco mai a vederti quando Lachlan non è in casa e ho
bisogno che lui non ci sia».
Aggrotto la fronte perplessa e sbatto le palpebre.
«Cosa succede?»
Lei si tortura le mani e sospira.
«So che Lachlan ti ha riferito della mia partenza. Lilli mi ha detto che ti sei
offerta di badare a lei quando lui non potrà farlo. Ti ringrazio, davvero, non sai
quanto questo mi renda sollevata».
«Lo faccio volentieri e Lachlan non ha comunque bisogno d’aiuto» le faccio
notare.
Lei sembra contrariata e mi si fa più vicina, le mani strette attorno alla
coperta di lana.
«Cara, Lachlan ha sempre avuto bisogno d’aiuto. Oggi se la cava piuttosto
bene, ma non è così forte come vuole fare vedere a tutti. Il problema è che ama
questo posto e non c’è modo di farlo andare via di qui. Prima di Lilli ce l’aveva
quasi fatta, ma poi è tornato e ha ereditato tutti i problemi della nostra
famiglia».
Non ho idea di cosa stia parlando, quindi le chiedo di essere più chiara.
«Rischiamo di perdere tutto, per questo ho affittato il cottage e ora abbiamo
affittato il granaio, ma non basta. Sono debiti contratti da mio padre, lui non
c’entra niente, anche se questo non interessa a nessuno. In primavera Lachlan
sarà senza casa, se non accetta la realtà».
Sussulto e mi mordo un labbro. Se Lilli dovesse perdere questo posto,
soffrirebbe tantissimo. Gli animali sono i suoi migliori amici, la sua famiglia.
Come potrebbe lasciarli andare? Mi sento male al solo pensiero di Lachlan che
le comunica di doversi separare da loro e dalla sua casa. Riporto lo sguardo su
Addie e mi schiarisco la voce.
«Posso fare qualcosa?»
Lei mi fissa in imbarazzo. «Ti piace questo posto?»
Annuisco senza capire.
«Ti piace tanto? Al punto da comprare il cottage?»
Sgrano gli occhi e tossisco. Che diavolo di domanda è? Mi piace questo
posto, ma ci sono finita per caso e sono qui da solo due mesi. Restare va bene,
comprare il cottage è diverso.
«Se vuoi, puoi aumentarmi l’affitto. Posso pagare di più» rispondo.
«Non basta, cara. Convincerò Lachlan a vendere e lui lo farà perché capirà
di non avere scelta».
«Deve pur esserci un altro modo. E poi, io non me lo posso permettere» le
faccio notare.
Lei inarca un sopracciglio e mi fissa come se sapesse. Distolgo lo sguardo e
scuoto la testa.
«Pensaci, d’accordo? Possiamo tenerci in contatto quando sarò andata via».
«A proposito, come mai te ne vai?»
Non sono affari miei, ma non riesco a trattenermi. Come può abbandonare
la sua famiglia quando rischiano di perdere l’unico tetto sulla testa che hanno?
«Io non appartengo a questo posto da tanto tempo ormai. Sono rimasta
prima per la madre di Lachlan, poi per lui e infine per Lilli. Adesso è il
momento di pensare a me. Sono sicura che tu mi capisca».
La capisco, ma il modo in cui crede di conoscermi mi fa venire i brividi. Mi
alzo di scatto e mi allontano, devo andare al negozio. Le prometto che
rifletterò sulla sua proposta e me ne vado. Mentre guido verso il centro di
Cedar penso alla possibilità di comprare il cottage e di avere un posto in cui
rifugiarmi e, per un attimo, prendo in considerazione l’idea di farlo. Poi mi
ricordo del perché sono qui e mi risveglio dal bel sogno.
Lascio il pick-up nel parcheggio comunale e corro verso il negozio. Ora
sono in ritardo di dieci minuti. Quando arrivo davanti all’entrata trovo Laurel
già dietro al bancone intenta a parlare con Jade. Le saluto e mi scuso per il
ritardo, poi indosso la casacca con il mio nome sopra.
«Jade mi stava raccontando della sua sorpresa» spiega Laurel.
Sistemo due scatoloni nelle rispettive corsie e torno da loro. Jade non
sembra troppo felice, perciò la mia domanda risulta retorica.
«Com’è andata?» chiedo.
«Le sorprese non andrebbero mai fatte, soprattutto quando sospetti un
tradimento».
«Oh, no» mormoro. «Mi dispiace».
Lei scrolla le spalle e lancia un’occhiata al piccolo negozio di alimentari di
suo padre.
«Chi vuole stare con una sfigata di Cedar? Dammi retta, vattene da qui se
vuoi trovare un uomo».
«Theodora ha già attirato l’attenzione di Ollie» la informa Laurel.
Mi irrigidisco e non riesco a non notare l’espressione inorridita di Jade. Lo
conosce? Ci è uscita? Le ha fatto del male? Vorrei chiederle tutte queste cose,
ma suo padre urla il suo nome dal marciapiede opposto e lei schizza via da lì
come se temesse una punizione. Mi riprometto di farle quelle domande
appena saremo sole. Mi volto e trovo Laurel che mi fissa con un sopracciglio
inarcato.
«Che c’è?» borbotto.
«Hai visto Ollie?»
Sbuffo. «Laurel, basta! Quante volte devo dirti che non mi piace?»
«Cosa ti aspetti da Cedar? Ollie è già abbastanza!»
«Sul serio? Allora perché non ci esci tu?»
«Te l’ho già detto» cantilena. «Divorziata e con due figli, nessuno mi si
avvicina qui».
Roteo gli occhi e la lascio sola mentre vado a sistemare i nuovi ordini. Non
capisco come mai Laurel sia così ossessionata da Ollie. È una donna sensibile e
intelligente, possibile che non si renda conto che in lui c’è qualcosa che non va?
Passo il resto della mattinata rintanata dietro a due pile di scatoloni mentre
cerco di non pensare troppo al fine settimana che ho trascorso tra le braccia di
Lachlan. Esco da lì solo quando Laurel mi dice che è ora di andare a pranzo.
Lei deve tornare a casa per controllare i lavori di riparazione del tetto, perciò
decido di pranzare da sola alla tavola calda in fondo alla via. È la prima volta
che ci vado e mi ricordo del perché quando entro dentro all’edificio di mattoni
rossi e gli occhi di tutti i commensali mi si puntano addosso. Sollevo una mano
per salutare e mi siedo a un tavolo vicino alla vetrina che affaccia sulla strada.
Do una rapida occhiata alle pietanze E ordino una bistecca con delle patate al
forno. Poi mi metto a fissare fuori dalla vetrina.
Addie vuole che io compri il cottage e per un attimo mi chiedo come
sarebbe considerare quel posto casa mia, arredarlo secondo i miei gusti,
trasformarlo in un rifugio, ma poi mi ripeto che non è una buona idea. Lachlan
non è una buona idea, forse. Non era parte del piano prendere anche solo in
considerazione l’idea di restare qui, invece sto pensando di comprare una casa
a Cedar. Un’azione così avventata per la situazione in cui mi trovo, per ciò che
mi ha spinta a partire. Sospiro e bevo un sorso dell’acqua che mi ha portato il
cameriere, mi volto e sussulto quando mi ritrovo davanti Ollie. Mi porto la
mano al petto e prendo un respiro profondo.
«Cosa stai facendo?» sbotto.
«Ti guardavo» risponde. «Non hai risposto ai miei messaggi».
«E non ho intenzione di rispondere» chiarisco. «Mi dispiace che tu ti sia
fatto un’idea sbagliata, ma io non voglio una relazione e non penso che
dovremmo continuare a vederci senza Laurel o Lachlan».
Il suo sguardo mi mette in agitazione e vorrei non essermi seduta davanti
alla vetrina, deve avermi vista passando qui davanti. Ollie si schiarisce la voce e
cerca di prendermi la mano sul tavolo, la nascondo in mezzo alle cosce e
distolgo lo sguardo dal suo.
«Che c’entra Lachlan?» sibila.
«Niente, Lachlan non c’entra niente. Sto solo dicendo che se dovessimo
uscire insieme a lui e Laurel come alla festa d’autunno, andrebbe bene. Ma non
aspettarti altro da me».
«Io penso che dovremmo parlarne» ribatte.
Non rispondo e resto immobile, lui tenta di nuovo di toccarmi ma in quel
momento Lachlan irrompe nel locale e ci raggiunge. Lo afferra per un braccio,
lo trascina in piedi e lo spinge. Gli occhi degli altri clienti ci si puntano
addosso e io sento le guance roventi.
«Che cazzo stai facendo, Ollie? Non mi sembra che voglia la tua compagnia»
sibila.
«Allora c’entra lui, vero?» Ollie mi guarda con un tale odio che mi vengono i
brividi. Che diavolo di problema ha? Cosa gli ha fatto Lachlan?
«Ollie, non mi fare incazzare» sbotta Lachlan.
«Anche lei» urla l’altro. «Hai voluto anche lei! Sei proprio un maledetto
figlio di puttana».
Non riesco a capire di cosa stiano parlando, ma mi alzo e mi metto in mezzo
a loro.
«Piantatela di dare spettacolo! Ollie, ti ho detto tutto quello che dovevo
dirti. Lachlan, lascialo andare».
Lui lo fa e mi si para di fronte. Ollie ci fissa con disprezzo e si allontana.
«Se ti trovo di nuovo vicino a lei…»
«Vaffanculo, Willow».
Sbatto le palpebre in preda alla confusione e trascino Lachlan al tavolo, nella
tavola calda torna il vociare di prima e tutti ci lasciano perdere, ma io non
posso dimenticarmi del modo in cui si è esposto.
«Che ne è stato delle tue insicurezze? Tra un’ora tutta Cedar saprà di noi
due» gli faccio notare.
«Che ne è stato del tuo non gli parlerò più? Che cosa ti salta in mente,
Theodora? Vai a pranzo con l’uomo che ti ha fatto un livido grande come un
pugno sulla schiena?»
Si sporge verso di me e mi fissa con un’intensità tale che devo distogliere lo
sguardo.
«Ero qui sola, non vedi che non è apparecchiato da quel lato?»
Lui abbassa lo sguardo e sbatte le palpebre, poi mi afferra la mano e
intreccia le sue dita alle mie. Mi lascio toccare perché credo che non mi
permetterebbe di allontanarmi. È così serio quando si tratta di Ollie.
«Perché diavolo stai pranzando da sola?»
«Perché Laurel non c’è».
«Ma io sì» borbotta.
Solleva la mano per attirare l’attenzione del cameriere e non smette di
fissarmi.
«Perché mi guardi in quel modo?» farfuglio.
«Perché», bisbiglia, «vorrei non essere circondato da pettegoli di mezza
età».
Trattengo una risata e scuoto la testa.
«E allora cosa faresti?»
«Ti toccherei, ti scosterei i capelli dal collo e ti bacerei. Sì, credo che ti
bacerei» sussurra.
Mi schiarisco la voce e lancio un’occhiata al bancone.
«Oggi devo aprire io il negozio, Laurel arriverà a metà pomeriggio. C’è un
magazzino senza finestre».
Lui sorride e mi strizza l’occhio «A pensarci, non ho fame».
«Sei sicuro?»
«Non quel genere di fame» chiarisce. «Dammi le chiavi del negozio. Ti
aspetto dentro».
Gliele poggio nel palmo della mano e cerco di tenere a bada le farfalle nello
stomaco, poi chiedo di avere il mio pranzo incartato e invento una scusa su un
fornitore che arriverà in anticipo. Non so cosa mi succeda quando mi sta
intorno, ma non voglio che finisca. Non voglio vederlo andare via.
 
***
 
Entro nel negozio di Laurel e lascio il pranzo sul bancone, chiudo a chiave
l’ingresso e mi assicuro che nessuno mi abbia vista entrare dopo il mio
padrone di casa. Mi tolgo la giacca e la poggio sulla sedia, poi mi incammino
verso il magazzino sul retro. Non faccio in tempo a entrarci che Lachlan mi
trascina dentro per un braccio e mi sbatte contro il muro per poi divorarmi le
labbra. Mi infila le mani tra i capelli e mi tocca dappertutto, mi percorre la
schiena con le dita e poi raggiunge le tasche dei miei jeans. Mi solleva, si sposta
verso il tavolo dall’altro lato della stanza e mi ci sdraia sopra. Torreggia su di
me e mi guarda come se non avesse mai visto nient’altro prima. Come se
questo fosse il principio di tutto e stessimo bruciando lentamente, minuscoli
granelli di cenere che si disperdono nell’aria e piccole fiamme scoppiettanti
che genereranno un incendio dal quale non riusciremo a metterci in salvo.
Lachlan mi bacia di nuovo, poi mi toglie il maglione e lo lancia sul pavimento
da qualche parte. Questo spazio è troppo stretto per lui, ma non per me. Siamo
così vicini che sento il suo cuore battermi addosso. Gli slaccio la camicia e lo
trascino su di me per le braccia, le sue labbra stuzzicano le mie e i suoi occhi
mi fissano con tale intensità da farmi rabbrividire.
«Possiamo non parlare troppo?» sussurra.
«Dobbiamo non parlare troppo, siamo a Cedar».
«Ricordatelo tra qualche minuto».
Mi morde il labbro e mi slaccia i pantaloni, finisce di spogliarmi e mi
trascina fino al bordo del tavolo. Si inginocchia tra le mie gambe e sorride
malizioso, con un dito sulle labbra mi ricorda che devo stare zitta e mi sfila le
mutandine. Le sue dita giocano con le corde del mio corpo e con i tasti che
pilotano le frequenze della mia voce. Mi sfiora lentamente, si mette i miei piedi
sulle spalle e si avvicina. Mi lecca la pelle delicata delle cosce e morde piano.
Lecca e morde, bacia e morde. Risale il mio corpo con calma e poi sostituisce le
sue dita con le labbra. Rabbrividisco e mi sollevo, punto i gomiti sul tavolo e lo
guardo mentre lui guarda me. Mentre mi bacia, mi tocca, mi respira addosso.
Gemo e mi mordo le labbra, stringo gli occhi e rovescio la testa contro il muro.
«Lachlan…» mugolo. «Lachlan».
«Ssh».
«Lachlan».
«Cosa vuoi?»
Mi sfiora con la lingua e io sollevo i fianchi dal tavolo, lascio scivolare i piedi
dalle sue spalle e lo trascino su di me. Gli slaccio e pantaloni e lo afferro,
aspetto che finisca di svestirsi e tremo. Tremo come se fosse la prima volta che
tocco un uomo, che mi permetto di essere guardata e toccata così. E forse è
davvero la prima volta che succede, quella in cui mi sento davvero libera.
Lachlan prende un preservativo e mi guarda mentre se lo infila, poi mi sorride.
«Braccia intorno al mio collo» ordina.
Faccio come mi dice e rabbrividisco quando si spinge dentro di me. Spinge,
bacia, tocca e respira dentro di me. Mi tocca, mi stringe e mi afferra. Si
aggrappa a me come se potessi salvarlo, impedendogli di precipitare.
Ansimiamo tutti e due con gli occhi spalancati e le labbra che si sfiorano, lui
che non mi lascia andare e io che lo stringo. Ansimiamo e io mi contorco
contro il suo corpo forte e caldo. Lui mi stringe e mi morde il labbro e
continua a muoversi. Lo fa anche quando chiudo gli occhi e serro le mie mani
intorno a lui una volta di più, non riesco a stare zitta e quando gli afferro i
capelli scuri. Lo fa fino a quando il suo corpo non cede e non mi riempie di
silenzi e cose non dette. Quando si ferma, invece di allontanarsi e rivestirsi
subito, mi passa una mano tra i capelli e mi bacia. Un bacio lento, languido e
profondo. Un bacio che mi scuote da qualche parte. Si allontana, mi preme le
labbra sul seno.
«Ti fa male la schiena?» mi chiede.
Scuoto la testa e lo osservo mentre si libera del preservativo e si riveste.
Raccolgo i miei indumenti e faccio lo stesso, sento le gambe ancora un po’
malferme.
«Ci stai mettendo su qualcosa?»
«Sto bene» lo rassicuro. «Devi andare via subito?»
«Prima mangiamo».
Allunga una mano verso di me e mi trascina sul suo petto, mi bacia la punta
del naso e sorride. È veramente alto e per riuscire a guardarlo bene negli occhi
rischio di farmi venire un dolore allucinante al collo. Spengo le luci del
magazzino e porto il cestino al bancone, butterò il sacco della spazzatura
subito dopo aver finito di mangiare così Laurel non si insospettirà. Mi sento
un’idiota a fare questi ragionamenti, come se fossi un’adolescente e dovessi
nascondermi da mia madre, ma so che siamo a Cedar e che è meglio essere
prudenti se si vuole mantenere un segreto. Lachlan prende una sedia e si
posiziona vicino a me, poi apro i contenitori e gli porgo forchetta e coltello.
Non ci sono posate per entrambi, ma a lui non sembra interessare. Taglia la
bistecca e mi imbocca: un po’ io e un po’ lui. Mi accarezza la schiena con le dita
e ogni tanto mi bacia, anche se ho la bocca piena o se ce l’ha lui. Mi sembra
tutto troppo intimo per due persone che, in fin dei conti, si conoscono poco,
ma non ne sono disturbata.
«Quali programmi hai per oggi?» domando.
«Devo incontrare la direttrice della banca».
Ripenso alle parole di sua zia e sento una fitta allo stomaco. Lachlan non mi
guarda e continua a imboccare prima me e poi se stesso come se fosse la sua
missione su questa terra, ma vorrei che mi parlasse dei suoi debiti. Maledetta
Addie, perché mi ha fatto quella proposta?
«Quando se ne va tua zia?» indago.
«Ha anticipato la partenza. Parte la settimana prossima».
Sgrano gli occhi e cerco di non esternare un’imprecazione. Cos’è tutta
questa fretta di fuggire?
«Devo parlare con Laurel, allora. Dobbiamo stabilire dei turni per Lilli»
rifletto.
Pensavo che avremmo avuto più tempo, ma evidentemente c’è qualcuno che
non vede l’ora di fuggire da qui. Lui sospira e intreccia le dita con le mie,
riportandomi alla realtà. Sono sicura che se Lachlan scoprisse che sua zia mi
ha proposto di comprare il cottage di sua madre, si infurierebbe così tanto da
non volermi nemmeno più parlare.
«Non ti affannare per noi, ok? Me la posso cavare da solo» mi rassicura.
«Ma non è così. Non so cosa fai quando lei esce da scuola, ma non ci sei mai.
Come farete?»
E poi ho detto che li aiuterò e intendo mantenere la mia parola, per me non
è affatto un peso e voglio davvero occuparmi di Lilli mentre lui non può farlo.
Lachlan poggia la forchetta nella vaschetta di plastica e afferra la bottiglia
d’acqua, beve e torna a fissarmi.
«Lavoro» sussurra. «Non è solo per la fattoria. C’è una clinica veterinaria a
Finnik…»
Rimane in silenzio e io lo scuoto per il braccio.
«Vai in quella clinica?»
«Sì. Pulisco gli animali, le gabbie e le sale per i ricoveri. Do loro i medicinali
e rimango lì fino a quando non arriva il veterinario del turno notturno. Copro
un turno di quattro ore in cui c’è necessità di una sorveglianza attenta, ma non
di un medico. Mi pagano una miseria, ma ho pensato che un giorno, se mai
tornerò a studiare, mi potrà tornare utile inserirlo nel curriculum. E poi è
un’esperienza e… Volevo fare qualcosa per me, una volta tanto».
Ha le guance rosse mentre lo dice e io vorrei abbracciarlo. Non immaginavo
che potesse avere un lavoro del genere all’oscuro della sua famiglia, ma non
fatico a immaginarmelo in quelle vesti. Ho sempre sospettato che fosse un
veterinario e, da quando mi ha confidato di aver quasi terminato gli studi
proprio in questo ambito, sono convinta che la sua strada sia questa e non
voglio che molli tutto un’altra volta. Ha già dovuto farlo, sacrificare i suoi
sogni per dedicarsi a sua figlia. So che lo rifarebbe e che non è stato un peso
per lui, ma so anche che ne ha sofferto. Glielo si legge negli occhi quando ne
parla, non importa quanto si sforzi di nasconderlo.
«Lilli impazzirebbe» mi lascio scappare.
«Per questo non glielo dico» mi fa notare. «Comunque, non c’è problema.
La settimana prossima mi licenzio, tanto mi pagano poco».
Scuoto la testa con forza e gli stringo la mano. Lui sospira come a dire che
sono ingenua e pesante, insistente fino all’invadenza, ma io non mollo. Forse
sono davvero ingenua e non ho idea di cosa significhi avere una figlia da
crescere, sentirne la responsabilità in ogni momento della giornata e temere di
non riuscire ad esserne all’altezza, ma so cosa significa avere dei sogni e
desiderare di essere qualcuno senza possibilità di diventarlo davvero. Non lo
pagheranno abbastanza, ma il semplice fatto che abbia tenuto questo lavoro
segreto, custodendolo come se fosse qualcosa di prezioso da voler tenere solo
per se stesso, dimostra che ci tiene e che non può lasciarlo.
«Non ti licenzierai, d’accordo? Posso badare a Lilli. Guarderemo dei cartoni
animati, leggeremo storie e coccoleremo i suoi animali. Le preparerò la cena, le
farò il bagno e quando tornerai non dovrai occuparti di niente. Lilli mi adora,
ci divertiremo insieme e tu non dovrai preoccuparti di niente» lo rassicuro.
«La devi strofinare fino a farle diventare la pelle rossa quando le fai il bagno,
si sporca sempre così tanto che sembra abbia lavorato con le ginocchia
immerse nel fango per tutto il giorno» borbotta.
Annuisco e sorrido, cerco di sembrare il più rassicurante possibile.
«La strofinerò per bene, ok? Mi occuperò io di lei. Può stare qui con me e
Laurel quando non riusciamo a scambiarci i turni, poi torniamo a casa
insieme».
Lui mi lancia uno sguardo indagatore e si schiarisce la voce.
«Devo potermi fidare di te. È la cosa più preziosa della mia vita. Lei è la mia
vita, Theo».
«Puoi fidarti di me. Vedrai, staremo bene».
 
22
 
Lachlan
 
 
Zia Shirley è partita da una settimana e ho già ricevuto quattro visite da parte
della maledetta direttrice della banca di Cedar. Mi chiedo cosa la faccia sentire
in diritto di venirmi a parlare in casa mia, davanti a mia figlia e ai miei
dipendenti. Me ne sono rimasti pochi, ma non voglio che pensino che non
posso pagarli. Mi occuperò di loro fino alla fine, proprio come avrebbe fatto
mio nonno. Avrò pure ereditato questi debiti ma non farò come mia zia e mia
madre, non cercherò qualcun altro su cui scaricare i miei problemi. Lotterò
per questo posto fino alla fine, anche se la situazione è davvero disastrosa.
L’unica cosa che potrei fare è vendere una parte di terra all’interno della
proprietà, ma non essendoci più spazio edificabile penso che faticherei a
trovare un compratore. Tutto il terreno su cui si poteva costruire è stato usato,
dovrei trovare qualcuno disposto a non vivere davvero qui. Potrei vendere il
granaio, ma chi diavolo lo comprerebbe?
Oppure, potrei vendere tutto quanto e al diavolo. Andarmene da qui e
portare Lilli in un posto dove la gente non conosce tutti i fatti suoi. Portarla
lontana dai suoi animali, ma crescerla come le bambine della sua età. Magari
potremmo tenere i conigli, i gatti e il cane, gli altri li affideremmo a qualcuno
di qui che possa prendersene cura per poterli vedere di tanto in tanto. Questo
però significherebbe arrendersi. Più ci penso, e meno voglio farlo, anche se
non trovo una soluzione.
In questo momento, vorrei prendere a pugni qualcosa. Odio mia zia e odio
mia madre, è tutta colpa sua se siamo in questa situazione. Era lei la
responsabile di tutto quanto dopo la morte del nonno, lei che non si è
preoccupata di mantenere attiva la nostra unica fonte di sostentamento e che
era troppo impegnata a pensare a come compiacere suo marito. Non abbiamo
avuto un grande rapporto, quando sono nato mi ha spedito subito a casa dei
nonni e lei si è tenuta la sua vita. La vedevo tutti i giorni, ma non la conoscevo
davvero e lei era felice così. E ora me ne sto qui a struggermi perché non
voglio vendere la sua terra, la stupida e inutile terra che non ha saputo fare
altro che incatenarmi a questo posto.
La verità è che lo faccio per mio nonno, l’unica persona al mondo che è
sempre stata al mio fianco. Era lui il padrone di questo posto, desiderava che
portassi avanti la baracca e che ci crescessi i miei figli. Ora che non sono più
una stella del football e che Los Angeles è un ricordo sbiadito, so che non
posso deluderlo.
Percorro il viale con il pick-up. Sta diluviando, tanto per cambiare. Piove da
giorni e Lilli è di cattivo umore perché non può giocare all’aperto con i suoi
amici. Parcheggio davanti a casa e lancio uno sguardo alle finestre illuminate,
Lilli e Theo sono in casa mia. Starle lontano in pubblico e davanti a mia figlia
sta diventando faticoso. Ogni volta che la vedo vorrei sbatterla al muro e
divorarla, ma poi mi ricordo che Lilli non deve sapere niente di noi due e
torno in me, non ancora. Anche se per suo padre sei anni sono abbastanza.
Scendo dall’auto e corro verso la porta, la spalanco ed entro in casa con i
vestiti zuppi. Lilli sta ridendo per qualcosa che Theodora ha detto, non fanno
nemmeno caso a me. Theo sta cucinando, ogni tanto raccoglie il cibo dalla
pentola con un cucchiaio e lo fa assaggiare a mia figlia. Stanno parlando di cani
con le ali, gatti che ballano in calzamaglia e criceti che parlano.
«Ehi» esclamo.
Lilli sgrana gli occhi e apre le braccia, la raggiungo e le lascio un bacio tra i
capelli che profumano di fragola. «Sono tutto bagnato, tesoro. Com’è andata la
giornata? Theo, come stai?»
Theodora sorride e mi si avvicina.
«La giornata è andata bene. Lilli perché non racconti a tuo padre quello che
abbiamo fatto?»
Mia figlia si illumina come una baia sotto i fuochi d’artificio del quattro
luglio.
«Siamo andate al mercato di Finnik e abbiamo preso due pesci rossi! Theo
ha promesso di regalarmi un bellissimo acquario e di aiutarmi a prendermi
cura di loro».
Gemo e lancio uno sguardo torvo alla mia vicina di casa, lei alza le spalle e
toglie la pentola dal fuoco.
«Che c’è? Sono solo due pesciolini rossi» mugugna.
«Altri animali» sibilo.
«Papà, vuoi sentire come li abbiamo chiamati?» esclama mia figlia.
«Come li avete chiamati?» le rispondo con un sorriso forzato. Un acquario?
Roba da pazzi!
Theo si schiarisce la voce e si allontana per apparecchiare, ho ancora i vestiti
bagnati appiccicati addosso e l’odore della clinica è tutt’altro che gradevole, ma
Lilli mi allaccia lo stesso le braccia al collo e sembra non essere interessata a
nient’altro che me. La bacio di nuovo e le ricordo che sono bagnato e sporco
mentre lei è già in pigiama.
«Li abbiamo chiamati Theo e Dora!» mi comunica.
Sollevo le sopracciglia e mi volto verso Theodora che scrolla le spalle come a
dire “io non c’entro”.
«Non so se sono un maschio e una femmina, ma Theo può essere sia un
maschio che una femmina e Dora suona bene. Vero?»
Annuisco e le ordino di andarsi a lavare le mani e di controllare Ronald.
Mi avvicino a Theo e le scosto i capelli ramati dalle guance.
«Pesci?» bisbiglio.
«Dai, sono due minuscoli pesci rossi».
«Tra poco dovrò uscire da questa casa per farci entrare tutti gli animali di
mia figlia».
«Manca ancora l’alpaca» mi fa notare.
Gemo e mi strofino il viso. Lei mi posa le labbra sul petto, sopra alla stoffa
bagnata della camicia, e sorride.
«Perché non vai a farti una doccia? Così poi vi lascio cenare tranquilli».
Sbatto le palpebre e lancio uno sguardo alle mie spalle, Lilli sta urlando
qualcosa dietro a Ronald e sento i suoi passi in fondo al corridoio. Mi avvicino
e le sfioro l’orecchio con le labbra.
«Tu non vai da nessuna parte, Theodora. Se non ti trovo qui quando torno,
vengo a prenderti e ti riporto in questa casa di peso».
Sorride e mi spinge verso il corridoio.
«Vai a lavarti, Lachlan Willow».
«E tu non andartene, ok?»
Annuisce e si allontana in tempo per accogliere Lilli che torna in cucina con i
suoi conigli. Roteo gli occhi e sollevo le braccia al soffitto, Theo trattiene una
risata e mi caccia via agitando una mano. Sul serio, tra poco dovrò andarmene
di casa per quei dannati animali.
 
***
 
Quando torno in cucina con addosso una maglietta pulita, un paio di
pantaloni della tuta e i capelli umidi, le trovo già sedute a tavola e impegnate e
confabulare con voci concitate. Osservo il modo in cui Theodora guarda
sempre Lilli negli occhi quando parla con lei e sento una fitta allo stomaco.
Non ho mai visto mia figlia vicino a una donna che potrebbe avere l’età di sua
madre. Certo, c’è Laurel e c’è sempre stata, ma ha i suoi figli a cui pensare e
non fa molto più di quello che farebbe un qualsiasi conoscente. Quando Lilli
deve chiedere qualcosa, Theo le dedica tutta la sua attenzione. Se è in piedi si
inginocchia per guardarla negli occhi e se è seduta lascia perdere quello che sta
facendo e si volta nella sua direzione. Sento una strana sensazione alla bocca
dello stomaco e mi riscuoto, supero il salotto e le raggiungo. Lancio
un’occhiataccia ai conigli sul divano e al cane appollaiato accanto al tavolo, poi
sbuffo alla vista dei gattini che gironzolano per casa.
«Perché sono tutti in giro? I conigli devono stare lontani dai gatti, Lilli».
«Ma papà, i cuccioli non riescono a saltare sul divano».
«I conigli però ci faranno i loro bisogni sopra» sbuffo.
Lei mi dice che Theodora le ha procurato un asciugamano per evitare che la
fodera del divano si sporchi e che non permetterebbe mai ai suoi gatti di
attaccare i suoi conigli. Sospiro e lancio un’occhiata a Theo, lei si morde il
labbro e riempie di piatti di carne e verdura. Lilli non batte ciglio e inizia a
mangiare, non è mai stata una bambina schizzinosa e non ha deciso di iniziare
ad esserlo oggi. Sembra affamata e non ci degna di uno sguardo.
«Vi danno da mangiare in quella scuola?» borbotto.
«Sì» bofonchia, mastica piano e deglutisce. «Ma non mi piace molto».
«Devi mangiare, d’accordo? Anche se non ti piace quello che cucinano, devi
sforzarti di mangiare. Devi crescere e non puoi permetterti di saltare un
pasto».
Lilli rotea gli occhi e vorrei sbuffare contrariato, ma mi trattengo. So che
non sembro convincente e che i bambini non capiscono questi discorsi, ma
non posso preoccuparmi anche del fatto che a scuola non mangia. Uno di
questi giorni avrò un crollo nervoso.
«Sei sicura che sia per il cibo?» interviene Theodora, gli occhi su di lei.
Lilli smette e masticare e lancia un’occhiata a Ronald sul pavimento, mi
guarda e poi torna a fissare Theodora.
«Sì, il cibo non è buono» borbotta.
Mi irrigidisco e la osservo bene. I capelli biondi come il grano sono legati in
una treccia scompigliata lungo la schiena, gli occhi azzurri fissano il piatto e le
lentiggini sono leggere macchie di sole sulle sue guance. La osservo e ascolto il
suo silenzio. Lilli non riflette mai prima di rispondere, lei è spontanea come
solo un bambino circondato da tanti animali può essere. Ha indugiato troppo
sulla domanda di Theodora, l’ha sviata.
«Va tutto bene, amore?» sussurro.
Lilli mi guarda e annuisce.
«A scuola va tutto bene? C’è qualcosa che vuoi raccontare al tuo papà? Sai
che ti ascolto».
«Va tutto bene, papà. Non mi diverto tanto però» risponde.
Rimaniamo in silenzio e finiamo di mangiare, i miei occhi fissi su mia figlia
come se fosse l’unica persona in questa stanza. Sembra la solita bambina di
sempre, eppure il tono della sua voce non è il solito. Quando i piatti sono
vuoti, Lilli si alza e si allontana per giocare un po’ mentre io e Theodora
restiamo in cucina a lavare i piatti.
«Va tutto bene?» sussurra.
«Secondo te c’è qualcosa che non va? Mi è sembrata strana».
Lei lancia un’occhiata al salotto e torna da me. «Mi sembra serena, forse
davvero non le piace tanto la scuola. Ai bambini succede, non sarebbe strano».
Annuisco e continuo a insaponare i piatti, li sciacquo e li passo a lei che li
asciuga. È tutto troppo intimo, ma cerco di non pensarci troppo.
«Domani in pausa pranzo hai impegni?» mi chiede.
Sorrido e mi abbasso per sfiorarle la guancia con il naso, Lilli è lontana e
troppo impegnata con i suoi animali.
«Così diventerà una cosa da pausa pranzo, eh?»
Lei avvampa e si morde il labbro.
«Sto scherzando» la rassicuro. «Tra poco la metto a letto, perché non resti?»
«E se si sveglia?»
«Non si sveglia più di notte da almeno tre anni».
Sorride e mi dà una spallata. «Okay, ma ero seria sulla pausa pranzo di
domani».
Scoppio a ridere e scuoto la testa, ma so già che domani sarò libero. Per la
sua pausa pranzo, per le sue labbra, per il suo seno e per le sue cosce. Per il suo
corpo e per le sue labbra. Per la mia pelle e il bisogno che ho di toccarla.
 
23
 
Theodora
 
 
Lascio vagare lo sguardo nel buio e cerco di scorgere qualche movimento
all’interno del terreno di Lachlan, ma lui me lo impedisce con le sue labbra. Mi
bacia il collo, mi lecca la pelle sensibile e mi morde. Mi tiene ferma contro il
granaio mentre le sue mani frugano sotto il mio costume di Halloween, sotto la
gonna attillata e sotto alla maglietta strappata. Mi bacia e mi tocca, mi bacia e
mi parla e io vorrei poter scomparire proprio tra le sue braccia. Afferro le sue
mani e sposto la gamba in modo che non possa arrivare alle mie mutandine, lui
protesta e mi fissa negli occhi. La sua pelle è così calda che non percepisco la
temperatura rigida.
«Che fai?» bisbiglia.
«Ci sono i bambini».
Lui si volta per lanciare un’occhiata alle sue spalle, poi mi stampa un bacio
sulle labbra e allontana le mie mani dal suo obiettivo.
«Lachlan…»
«I bambini sono con Laurel» mi ricorda.
«Ma nel granaio ci sono le caramelle, potrebbero tornare a fare
rifornimento prima di riprendere il giro del quartiere».
Sospira e soppesa le mie parole, poi annuisce e mi abbassa la gonna per poi
afferrarmi la mano e trascinarmi verso la stalla in cui Mr. Snowflakes conduce
la sua vita da privilegiato amico di Lilli. Lo scuoto per il braccio e gli vado
dietro cercando di tenere il passo. È una serata fredda, ma limpida. La luna
splende nel cielo e le stelle sono così luminose da sembrare minuscole lucine
appese al soffitto di casa mia.
Non pensavo che avrei trascorso Halloween con lui e sua figlia, eppure è
quello che abbiamo fatto. Oggi ho accompagnato Lilli a scuola e l’ho aiutata a
vestirsi da strega per la festa con i suoi compagni di classe, sono andata al
lavoro dove ho assecondato Laurel nelle sue richieste e poi sono andata a
prendere Lilli a scuola. Sono rimasta con lei fino all’arrivo di Lachlan dopo il
suo turno alla clinica veterinaria, infine insieme ci siamo vestiti e abbiamo
aspettato Laurel e i bambini, la giovane Kipling con il cuore infranto e qualche
amica di Laurel con i propri figli. Lachlan ha sistemato il granaio in modo che
tutti potessero rifornirsi di dolci e ha affidato una squadra intera a Laurel che
ora li sta accompagnando a fare dolcetto o scherzetto di porta in porta. Il
piano iniziale non era questo, ma quando Lachlan mi ha messo le mani sotto
alla gonna ho capito che lo sarebbe diventato. Se c’è una cosa che mi piace di
lui e di noi, è che non riusciamo a stare lontani. Non riesce a togliermi le mani
di dosso e io nemmeno. E non so neanche come ci siamo arrivati a questo
punto, so solo che ormai tutta la mia giornata ruota intorno a lui e a sua figlia.
Lachlan mi trascina dentro alla stalla e fa scattare il chiavistello in modo da
bloccare la porta. L’odore non è esattamente gradevole, ma lui mi porta in un
angolo opposto rispetto a quello in cui sono venuta quella mattina con lui e
Lilli. È una parte più pulita, con qualcosa che assomiglia a un mucchietto di
paglia appena sufficiente a ospitare un coniglio, e nient’altro. Mi spinge contro
la parete e mi slaccia la gonna, ha una lampo che ne percorre l’intera lunghezza
sul davanti e con un’unica mossa se ne libera. Mi solleva la maglietta e mi
scopre il seno per poi avventarcisi sopra con le labbra. Bacia, lecca, succhia. Lo
fa ancora e ancora. Mi tortura piano piano mentre io gioco con i suoi capelli
scuri. Lo spingo contro la mia bocca e lo bacio, gli slaccio la camicia e lo attiro
sul mio corpo, mi godo il suo calore.
«Come sei caldo» mormoro.
«Tu sarai più calda di me tra poco».
Sorrido e gli mordo il labbro, poi gli permetto di scaldarmi come sa fare. Mi
faccio sollevare e portare su quello che sembra un tavolo da lavoro pieno di
paglia e qualche attrezzo, un angolo con un odore un po’ sgradevole del quale
in questo momento non mi importa abbastanza. Mi ci spinge sopra e mi toglie
le mutandine, poi si libera dei vestiti.
«Spero che tu non sia schizzinosa» sussurra, riferendosi al posto in cui ci
troviamo.
«Mi sa che è un po’ tardi».
Lachlan mi bacia e si spinge dentro di me senza indugiare, mi aggrappo al
bordo del tavolo e gli avvolgo i fianchi con le gambe. Ogni volta che si muove
io perdo la presa. Mi sposta le braccia intorno al suo collo e ora mi sento
completamente avvolta dal suo calore. Si muove e mi tocca, io ansimo e lo
accolgo.
«Mi senti, Theo?»
Annuisco e gemo. Inerme, sotto all’incantesimo del suo corpo, mi lascio
sollevare dal tavolo per permettergli di intrufolare una mano sotto di me. Si
aggrappa al mio corpo, tiene insieme i miei pezzi.
«Lachlan» mormoro.
«Ripetilo».
«Lachlan» gemo. «Lachlan, Lachlan, Lachlan…»
Lachlan Willow, cosa mi stai facendo? In che modo sei riuscito a toccarmi? Cos’ho
fatto per meritarmi te?
Mi mordo il labbro e lo stringo forte mentre la sua pelle umida sbatte contro
la mia, sembriamo due onde infuriate che si infrangono sulla riva, due rami
mossi dallo stesso vento che non possono fare a meno di toccarsi. E siamo
anche quel vento, la causa di una tempesta che si sta abbattendo sulla mia pelle
colpendomi come schegge di vetro taglienti. Sento tutto e lascio che ognuno di
quei pezzi si conficchi in profondità sotto la mia pelle, proprio dove sono me
stessa e non devo fingere. Ansimiamo e ci baciamo fino a quando non ci
incontriamo da qualche parte dentro di me, dentro di noi.
Restiamo fermi a recuperare fiato, il buio che ci avvolge e l’umidità che
inizia a penetrare nelle ossa. Lui mi sistema i capelli sulle spalle e mi bacia la
punta del naso, poi si allontana e torna da me con i miei vestiti. Mi rivesto in
silenzio e cerco di schivare le sue labbra umide che mi baciano ovunque.
«Perché sei così silenziosa?»
«Pensavo ti piacesse il sesso silenzioso» gli ricordo.
Sbuffa e mi pizzica il fianco. Mi conduce a una piccola porta alla nostra
destra e poi su una distesa di campi. Non capisco di cosa siano, è troppo buio e
la luna non è abbastanza vicina per potermelo rivelare, ma c’è così tanto
silenzio che mi scappa un sospiro appagato. Lachlan si appoggia alla parete e
mi trascina sul suo petto, mi stringe con un braccio mentre con l’altra mano si
infila una sigaretta in bocca e la accende.
«Allora, mi dici cosa ti succede?»
Stringo le dita sul suo avambraccio e sbatto le palpebre.
«Cosa stiamo combinando? Ormai non facciamo altro che stare insieme».
Non voglio fare la parte di quella che vuole risposte e cose che sa di non
poter avere, ma sto facendo fatica a tenermi alla larga da lui alla luce del sole.
«Non ti sta bene?» sussurra.
«Mi sta più che bene».
«Non so cosa stiamo facendo, so che sto bene e non voglio rinunciarci»
continua.
«Nemmeno io» ammetto. «Ma nasconderci in questo modo è ridicolo».
Lachlan continua a fumare e il suo petto si muove regolare sulla mia schiena,
mi scalda con la sua pelle e mi tiene stretta come se fossi la cosa più preziosa
che ha.
«A Lilli piaci davvero».
«E a me piace lei, lo sai. Adoro tua figlia».
E non lo dico solo per fare colpo su di lui, ma perché quella bambina mi ha
rubato il cuore fin da subito. Lei e i suoi animali, i capelli sempre spettinati e i
piccoli stivali sporchi di fango. Le sue urla all’alba, la sua assurda idea che io
abbia un bellissimo nome da maschio. Adoro Lilli, la adoro dal primo
momento che l’ho vista. Lachlan poggia il mento sulla mia testa e mi stringe
più forte.
«Non ho mai permesso a nessuno di avvicinarsi a lei».
«Lo so, ma sei anni sono tanti. Forse lei non sarebbe così contraria».
So che non dovrei incoraggiare questa cosa, ma le ultime settimane con lui
in questo posto mi hanno portata a pensare che Cedar sia la meta finale.
«E se non funziona?» mi chiede. «Cosa le dico?»
«Non sono sua madre, Lachlan. Non devi avere giustificazioni per me».
Lui rimane in silenzio per qualche istante, poi mi stringe di più.
«Hai ragione, non sei sua madre. Ti conosce e ti vuole bene, sei molto di
più».
Mi si stringe il cuore a quelle parole, perciò resto in silenzio mentre aspetto
che finisca di fumare e che abbia di nuovo qualcosa da dire. Osservo la luna e
le stelle, la distesa di campi che si srotola a perdita d’occhio davanti a noi e
aspetto.
«Questo è un periodo del cazzo. Le feste si avvicinano e ho due mesi per
trovare una soluzione per non farmi portare via tutto, la settimana prossima
andrò a chiedere un prestito per guadagnare un po’ di tempo e non so se è il
momento per noi due di…»
Stringo il suo braccio più forte e inclino la testa verso l’altro. Non c’è
bisogno che continui a parlare.
«Ne riparliamo quando avrai risolto la questione del prestito, ok?»
Lui annuisce e mi bacia la fronte.
«Mi dispiace, ma sono più incasinato dei miei coetanei».
«Ollie non mi sembra il ritratto della stabilità» gli faccio notare.
«Non nominare quel coglione» sbotta. «Non ti sta più dando fastidio,
vero?»
«No, ma ho una domanda da farti».
«No, non puoi esserti sbagliata su di lui. Ti ha fatto del male, devi stargli alla
larga».
«Non era quello che volevo chiedere» ridacchio. «Perché ha detto anche lei?
Quando ti sei presentato al ristorante sembrava ti stesse accusando di
qualcosa».
Il suo corpo si irrigidisce dietro al mio, ma dura così poco che penso di
essermelo immaginato.
«Perché è un coglione, quello che dice non ha senso» risponde. «Torniamo
indietro prima che Laurel sospetti qualcosa».
Lo seguo mentre torniamo verso il granaio ad aspettare gli altri e i loro
dolcetti, ma ho l’impressione che mi stia sfuggendo qualcosa. Non ho fretta di
scoprirla, e Lachlan ha ragione: Ollie deve starmi alla larga.
 
24
 
Lachlan
 
 
Prestito negato.
Ripenso a quelle parole come ho fatto negli ultimi quindici giorni e fisso
Lilli che rincorre Ronald nel vialetto. Ieri ha nevicato per la prima volta, ma
non così tanto da ricoprire tutto di bianco. Il sole di oggi ha quasi sciolto il
nevischio e lei è triste perché non ha avuto nemmeno il tempo di fare un
pupazzo di neve, Ronald invece si gode il fango e la neve sciolta e le tira su il
morale. Vorrei anche io un Ronald in grado di farmi dimenticare l’immenso
casino che è la mia vita.
Prestito negato significa un altro fottuto casino.
La banca non pensa che io sia in grado di ripagare un prestito e hanno
ragione, il punto è che niente prestito significa solo una cosa: ultimo tentativo
disperato. E l’ultimo tentativo disperato significa ferire qualcuno che inizia a
occupare un posto ingombrante nella mia vita. Theodora si sta innamorando
di Cedar, adora questo posto quasi quanto Lilli e non so come farò a dirle che
devo vendere la casa in cui vive. Mi si stringe lo stomaco all’idea, ma non ho
altre alternative. Vendila, Lachlan. Vendi la casa di tua madre, fidati di me. Ho già
un’acquirente. Ripenso alle parole di zia Shirley e mi strofino il viso. Ci ho
provato, ci ho provato con tutto me stesso ma se non pago almeno una parte di
debiti entro Natale mi toglieranno tutto e non so dove andare. Non ho più
tempo da perdere né alternative da analizzare. E Lilli è troppo felice qui, come
posso portarla via?
«Papà!»
«Dimmi, tesoro».
Lei fa una ruota con le mani immerse nel fango e sorride raggiante.
«Sono brava? Me l’ha insegnato Theodora!»
Al suo nome mi si stringe di nuovo lo stomaco, ma non ho tempo di
pensarci perché Lilli mi raggiunge e punta le sue mani sporche verso di me. Mi
alzo e scuoto la testa.
«Lillibeth Anna Willow!» esclamo. «Non osare toccarmi con quelle mani».
Lei ride e mi rincorre, scappo mentre Ronald impazzisce e ci abbaia contro.
«Papà Lachlan Willow!» urla. «Vieni qui, non ti faccio niente!»
Mi fermo e mi volto a guardarla. Ha le guance rosse e gli occhi azzurri che
luccicano di promesse, mi mostra le mani sporche e saltella nei suoi stivali
ricoperti di fango e terra e nel suo giaccone pesante. Mi avvicino piano e fisso
il suo cucciolo.
«Cos’è successo a Ronald? Ha le zampe verdi!» prorompo, fingendomi
sorpreso.
Lei si volta di scatto e io colgo l’occasione; la prendo in braccio e la sollevo,
mi godo le sue urla mentre scalcia nel tentativo di liberarsi.
«Mi hai preso in giro! Mettimi giù!»
«Prima un po’ di punizioni per la mia bambina» dichiaro.
«Non ho fatto niente!»
La poggio a terra e l’attacco con un po’ di solletico, ride così tanto che si
accascia sul terreno e Ronald le salta addosso per leccarle la faccia. Come
faccio a toglierle tutto questo? Come posso anche solo pensare di farlo? Non
posso. Mi alzo e prendo un respiro profondo, la magia di questo nostro
momento è finita ed è ora di tornare alla realtà per affrontare tutti i casini della
mia vita.
«Posso lasciarti in casa da sola per dieci minuti? Sta arrivando Laurel a
prenderti. Vai a lavarti le mani, poi siediti in veranda e aspettala. Io devo
parlare con Theo di una cosa importante, sono qui vicino».
Lilli annuisce e si alza, da una pacca a Ronald che la segue come se fosse la
sua ombra e le lecca le mani sporche. Alzo gli occhi al cielo e scuoto la testa, il
giorno in cui mi darà retta sugli animali non arriverà mai.
Aspetto che entri in casa e chiuda la porta, poi attraverso il vialetto e
raggiungo il cottage. Busso e aspetto fino a quando Theodora non mi apre,
indossa una pesante tuta nera e ha i capelli raccolti in una crocchia.
«Ehi» esclama. «Chi ha vinto la lotta stavolta?»
«Io».
«Va tutto bene?»
Sbatto le palpebre e annuisco.
«Puoi uscire un attimo? Devo parlarti e Lilli è in casa da sola…»
Lei annuisce e prende il giaccone, se lo infila e mi segue sul portico. Ci
sediamo sulla panca in legno rivestita dai cuscini che le ho regalato il mese
scorso e fissiamo casa mia. Cerco le parole esatte dentro di me, ma non so dove
siano finite.
«Stai bene?»
Annuisco. «Mi dispiace per quello che sto per dire, ma non ho scelta».
«Che succede?»
Prendo un respiro profondo e la guardo negli occhi.
«Devo vendere il cottage, Theo» confesso. «Mi hanno negato il prestito e
non ho più alternative. Mia zia ha già un acquirente».
Lei apre le labbra per dire qualcosa, ma poi ci ripensa e resta in silenzio.
Non so davvero cosa dire, mi sento un grande stronzo. La sto cacciando di
casa senza nemmeno darle il preavviso necessario.
«Hai un posto dove andare? Puoi stare da noi» borbotto.
Lei scuote la testa e accenna un sorriso. «Non vuoi dire a Lilli di noi, ma
vuoi prendermi in casa tua? Lachlan, non è una mossa intelligente. Troverò
una soluzione, non ti preoccupare».
«Ma siamo a Cedar, non esiste una soluzione».
Non ci sono case in affitto e nemmeno alberghi, deve andare a Finnik per
trovare qualcosa e quel merdoso pick-up che avrebbe dovuto rottamare è
ancora il suo unico mezzo di trasporto.
«Non ti preoccupare» ripete. «Fammi sapere solo quando dovrò
andarmene».
Stringo i pugni sulle ginocchia e mi mordo il labbro, sto per ripeterle che
può stare da noi quando Lilli esce di casa e ci corre incontro. Abbraccia Theo e
poi me.
«Theo, vuoi venire a cena da noi stasera?» chiede.
Lei sorride e mi lancia uno sguardo interrogativo, annuisco e abbraccio mia
figlia che mi getta le braccia al collo.
«Papà, sono così felice che Theo sia qui!» saltella. «Non farla andare più via,
per favore».
Corre via e sfreccia verso Ronald che la sta cercando nel portico di casa.
Prendo un respiro profondo e mi strofino il viso. Sono felice anch’io, Lillibeth
Anna. E non voglio vederla andare da nessuna parte senza di noi.
 
25
 
Theodora
 
 
Osservo la distesa di alberi alle foglie arancioni dalla finestra di quella che
consideravo casa mia fino a qualche giorno fa. Ultimamente le cose hanno
preso una piega strana e inaspettata, mi sono ritrovata dall’odiare il mio vicino
di casa a non riuscire a stargli lontana. Mi sono innamorata di sua figlia e non
riesco a fare a meno nemmeno di lei. Questo ha complicato ulteriormente le
cose e, forse, la vendita del cottage è un segno del destino. Qualcuno che cerca
di dirmi: “Datti una calmata, Theodora. Torna alla realtà”. Eppure, non voglio
andarmene da qui. Non voglio andarmene dai Willow.
Sospiro e fisso la busta sul tavolo, è indirizzata a Lachlan ma il postino l’ha
lasciata nella mia cassetta delle lettere. Non dovrei ficcanasare, ma sembra
contenere dei documenti ed è una tentazione troppo grande. Mi trattengo a
stento, non posso di certo a frugare nella sua posta. Mi mordo il labbro e
controllo l’ora, devo andare a prendere Lilli a scuola per seguire il nostro
consueto programma pomeridiano. Resterò con lei fino all’arrivo di suo padre,
poi uscirò con Laurel a cena. È la sua serata libera dato che i figli stanno con il
padre e io ho decisamente bisogno di staccare dai Willow. Da quando Lachlan
mi ha confessato che avrebbe venduto la casa in cui vivo, si è innalzato un
muro tra di noi. Parliamo ancora, ci baciamo ancora e ci tocchiamo ancora, ma
non come prima. È come se non riuscisse a guardarmi davvero negli occhi e la
cosa mi dà sui nervi. Se deve vendere la casa per salvare questo posto e non
distruggere la vita di sua figlia, allora lo accetto. Avrei apprezzato un preavviso
maggiore, ma va bene. È casa sua, può farci quello che vuole. Al termine delle
mensilità d’affitto non sarò più una sua inquilina. Alla fine, era quello il piano
fin dall’inizio, no?
Prendo la busta dal tavolo ed esco di casa. Le giornate stanno diventando
sempre più rigide, il vento soffia aria gelida in grado di penetrare giacconi e
ossa, la neve si fa vedere da queste parti di tanto in tanto. Mentirei se dicessi di
non adorare tutto questo, perché è proprio quello che volevo vedere quando
mi sono trasferita qui. Mi stringo nel cappotto e salgo a bordo del mio pick-up
che parte dopo solo quattro tentativi a vuoto d’accensione. La faccenda
dell’auto è passata in secondo piano ultimamente, mi sono abituata a sentirlo
borbottare e gemere ogni volta che lo guido. Percorro il viale d’accesso e
imbocco la strada che porta al paese, la scuola elementare di Cedar è vicino
all’edicola del posto quindi parcheggio da quelle parti e mi incammino verso i
cancelli rossi per aspettare che Lilli esca. Mi confondo tra i genitori che mi
lanciano occhiate perplesse da settimane e trattengo una risposta sarcastica.
Sono settimane ormai che mi occupo di questa bambina, che diavolo hanno
ancora da fissare? Per evitare i loro sguardi, sbircio qualche annuncio
immobiliare sul telefono, ma non faccio in tempo a guardarne molti che la
campanella suona e i bambini si riversano all’esterno come una mandria di
bufali impazziti. Mi faccio da parte per schivare un bambino che corre con un
pallone tra le mani e agito le dita per salutare Lilli. Lei mi raggiunge, ma la
solita energia che riserva a qualunque cosa la circondi sembra essere assente
oggi. Mi saluta con un cenno del capo e aspetta che io le dica dove andare. Mi
inginocchio e le stampo un bacio sulla fronte, poi le sorrido.
«Va tutto bene, tesoro?»
Lei distoglie lo sguardo.
«Possiamo andare a casa?» mormora.
Annuisco e la prendo per mano, la folla si sta disperdendo e siamo rimasti in
pochi davanti all’edificio scolastico di mattoni rossi. Lilli continua a guardarsi
intorno nervosamente, si morde il labbro e saetta lo sguarda tra me e la scuola.
«Sei sicura di stare bene, Lilli?» indago.
Annuisce e mi stringe di più la mano, accelera il passo e mi trascina verso il
mio pick-up. Lo zaino le sbatte sulla schiena ritmicamente mentre cammina e
non mi permette nemmeno di toglierglielo dalle spalle. Apro l’auto e lei ci si
fionda dentro di corsa, la raggiungo e metto in moto. Mi tornano in mente i
sospetti di Lachlan e mi irrigidisco.
«Lilli, tesoro, c’è qualcosa di cui vuoi parlare a me o tuo padre?»
Lei si morde il labbro e fissa Cedar oltre il finestrino. Le case lasciano spazio
alla vegetazione dai colori sgargianti e sembra rilassarsi.
«Non voglio che il mio papà si arrabbi» sussurra.
Le è decisamente successo qualcosa.
«Perché dovrebbe arrabbiarsi?»
«Perché non sarà felice di questa cosa».
Resta in silenzio fino a quando non arriviamo alla fattoria, parcheggio e la
guido in casa dove le preparo del pane tostato con la marmellata per merenda.
Lilli resta taciturna per quella che sembra un’eternità, neanche Ronald riesce a
sollevarle il morale, così decido di intervenire. Scosto la sedia di fronte a lei e
poggio le mani sul tavolo, la osservo bene mentre mangia la sua merenda e
parlo con un tono di voce dolce e controllato, senza farle capire che sono
preoccupata per lei.
«Possiamo parlarne noi due? Decideremo insieme se raccontarlo al tuo
papà, qualunque cosa sia».
Lei sospira e si pulisce la bocca con un tovagliolo, poi mi lancia uno sguardo
che non riesco a decifrare. Sembra triste, stanco e non di certo adatto a una
bambina di sei anni. Non adatto a lei che passa le sue giornate a rincorrere
animali nel cortile della sua fattoria.
«Non mi piace la scuola» ammette. «I bambini sono cattivi. Dicono che
Ronald non esiste e che Mr. Bingley e Mrs. Bennet non sono reali. Ma sono
reali e sono miei amici!»
Ha gli occhi colmi di lacrime e le trema il labbro inferiore mentre stringe i
piccoli pugni sul tavolo nel tentativo di trattenersi. Ringrazio il cielo che
Lachlan non sia in casa perché andrebbe a cercare i genitori di quei bambini
prima ancora di sentire la fine del discorso e non si risparmierebbe dal dare
loro una lezione di educazione. Torno a Lilli, le accarezzo le mani e la guardo
negli occhi con il bisogno di farle percepire la mia totale attenzione verso ciò
che ha da raccontarmi. Mi ha concesso la sua fiducia e voglio esserne
all’altezza.
«Certo che sono reali e che sono i tuoi amici, io so che esistono davvero. Li
vedo tutti i giorni» la rassicuro.
Lei annuisce toglie una mano dalle mie per asciugarsi le guance.
«Rebecca poi…»
«Cosa dice?»
«Dopo il Ringraziamento inizieremo a lavorare allo spettacolo di Natale e ci
sarà una giornata mamma e figli. Ma io non ho una mamma» sussurra,
trattenendo le lacrime. «Rebecca dice che se neanche la mia mamma mi vuole
bene, allora non posso avere tutti quegli amici».
Trattengo il fiato e cerco di mantenere la calma e non andare a cercare
quella Rebecca e i suoi genitori. Come possono dei bambini così piccoli parlare
in questo modo? Faccio un respiro profondo e faccio il giro del tavolo, prendo
Lilli in braccio e mi siedo sulla sua sedia. Lei si rannicchia contro il mio petto e
piange in silenzio.
«Come fa a sapere della tua mamma?» chiedo.
«Dice che sua mamma le ha raccontato di lei perché lei e papà andavano a
scuola insieme» gracchia.
Forse vivere in una piccola città non è così bello quando la gente non si fa i
fatti suoi.
«Lilli, tesoro, sai che a volte i bambini usano le parole in modo sbagliato e
fanno del male agli altri bambini senza rendersene conto. Non devi credere
alle cose che dice Rebecca, i tuoi amici che siano animali o meno, ti amano. E ti
amano perché tu sei straordinaria, sei la bambina più dolce e simpatica che io
abbia mai conosciuto».
Lei annuisce e si asciuga le guance.
«Pensi che papà possa trasformarsi in una mamma per un giorno? Non ho
una mamma, non posso andare a quella giornata» farfuglia.
Il mio povero cuore si stringe così tanto che provo un dolore lancinante nel
petto e il respiro fatica a non somigliare a un rantolo strozzato. Per un istante
resto immobile, travolta dalla malinconia della quale sono intrise le sue parole,
poi decido di prendere in mano la situazione e di dare una lezione a quella
bambina che si è permessa di offenderla e di farla piangere. Le scosto i capelli
dalla fronte e le sollevo il viso in modo che possa guardarmi negli occhi.
«Ho avuto un’idea» esclamo.
«Funzionerà?» sussurra.
Alzo le spalle perché non lo so, spero che però le faccia tornare il sorriso.
«Che ne dici di andare insieme a quella giornata? Ti farebbe piacere essere
accompagnata da me?»
Lilli sbatte le palpebre e mi fissa con la fronte aggrottata, poi le sue rughe di
preoccupazione di distendono lentamente e le sue braccia mi cingono il collo.
«Dici davvero?»
«Davvero» confermo.
Mi stringe forte e finalmente sorride. Mi sento come se mi avessero tolto un
peso da cuore e potessi riprendere a respirare. Come può Lachlan sopportare
tutto questo peso da solo?
«Come vorrei avere una mamma come te» sospira. «Ci divertiremo
tantissimo».
Rabbrividisco alle sue parole e la stringo più forte.
«Chiunque ti incontri è fortunato, Lillibeth Anna. Tu sei un piccolo sole,
ricordatelo».
Lei annuisce e sorride. E il mio cuore perde un battito.
 
***
 
Decido di disdire l’appuntamento con Laurel e di restare con Lilli, non me la
sento proprio di pensare a divertirmi mentre c’è una bambina triste dall’altro
lato del mio vialetto. Anche se resterà il mio vialetto ancora per poco.
Lilli finisce di fare merenda e decide di non voler fare niente fino all’arrivo
di suo padre, accende la televisione e guarda un cartone animato con Ronald
che le si piazza ai piedi e le lancia occhiate furtive di tanto in tanto. Preparo la
cena e mi siedo accanto a lei e in un attimo ci ritroviamo nella posizione di
prima. Lei mi abbraccia e io la stringo forte al mio petto, commentiamo le
scene che si susseguono sullo schermo e riusciamo anche a ridere. Passiamo
così quasi due ore, poi lei si addormenta. Decido di non svegliarla e di restare
immobile sul divano, le scosto i capelli dal viso e la osservo bene. Sembra un
angelo, mi chiedo ancora come abbia potuto quella donna abbandonarla così.
Che razza di madre è una che lascia la figlia di tre mesi da sola in un
appartamento di Los Angeles e non si guarda più indietro?
Chissà se Lilli si domanda mai chi sia, se conosce il suo viso e se si aspetta di
vederla varcare la porta di casa da un momento all’altro proprio come ha fatto
suo padre per sei lunghissimi anni. Dall’esterno sembra serena, suo padre è il
suo mondo e non le fa mancare niente, ma quello che è successo oggi mi fa
pensare che forse dentro di lei c’è un vuoto enorme e che niente potrà
colmarlo. Resto immobile con Lilli tra le mie braccia per quelle che sembrano
ore, a un certo punto sento le chiavi girare nella serratura e Lachlan entra in
casa. Mi volto a guardarlo e lui solleva le sopracciglia, mi porto un dito alle
labbra e gli faccio capire di non fare rumore. Ci raggiunge e lascia un bacio
sulla fronte della sua bambina, poi la sdraia sul divano e la copre con una
coperta pesante, mi afferra la mano e mi porta in cucina. Indico la veranda e
lui mi segue perplesso.
«Che succede? Sta bene? Non dorme mai prima di cena» farfuglia.
Faccio un cenno verso il divanetto ricoperto di cuscini morbidi e ci sediamo,
mi stringe le mani e mi stampa un bacio sulle labbra. Il mio corpo reagisce con
una scarica di brividi sulla schiena, ma cerco di trattenermi.
«Ha avuto una brutta giornata» esordisco.
«Che è successo?»
Sospiro e lancio un’occhiata al salotto per essere sicura che Lilli dorma
ancora. Ronald veglia il suo sonno con attenzione, quindi torno a guardarlo
negli occhi.
«Avevi ragione, c’è qualcosa che non va a scuola. Mi ha raccontato di una
tale Rebecca».
Lui si irrigidisce e impreca.
«La conosci?»
«Sua madre veniva a scuola con me».
Annuisco e gli spiego quello che mi ha raccontato sua figlia. Ogni volta che
accenno alle sue lacrime, stringe i pugni così forte che temo gli si spezzino le
nocche. Quando gli racconto delle prese in giro per sua madre, perde la
pazienza e si alza. Inizia a camminare avanti e indietro e si scompiglia i capelli
con le mani.
«Questo posto di merda» sibila. «Perché non si fanno gli affari loro?»
«Non lo so, ma ho trovato una soluzione».
Inarca un sopracciglio e mi fissa come se fossi terribilmente ingenua.
«Le procurerai una madre entro due settimane?»
Sbuffo. «Lilli voleva che ti trasformassi in una mamma per una giornata, ma
mi è sembrato improbabile così mi sono offerta di accompagnarla. Ha
accettato e ha smesso di piangere, però tu devi parlare con i genitori di quella
Rebecca perché quello che le ha fatto è inammissibile».
Lachlan mi lancia uno sguardo così intenso che mi sento tremare fin nelle
ossa, non riesco a decifrare la sua espressione e inizio a preoccuparmi di aver
superato il limite e di dover deludere di nuovo Lilli. Se non potrò
accompagnarla, forse potrà farlo Laurel ma lei ci resterà male. Mi strofino le
mani sulle cosce e osservo Lachlan sedersi di nuovo accanto a me.
«Cos’hai fatto?» sussurra.
Mi schiarisco la voce e distolgo lo sguardo.
«Io… insomma, mi sono offerta di accompagnarla, ma se non vuoi…»
Lui mi scosta i capelli dal viso e sospira.
«Cristo, sei reale?»
Aggrotto la fronte e mi mordo il labbro.
«Vuoi accompagnare mia figlia a quella giornata, anche se non sei sua
madre?»
«Sì, ma se tu non vuoi…» intento.
In un attimo le sue labbra si schiantano sulle mie con forza, mi divora la
bocca e mi stringe il fianco mentre una mano tiene la mia testa ferma. Mi bacia
e mi consuma, mi bacia e mi brucia dentro. È un fuoco che divampa dal mio
stomaco ed esplode in tutto il corpo e non voglio pensare al cottage in vendita,
al motivo per il quale sono finita a Cedar e alle mille cose che ci dovrebbero
tenere lontani, voglio solo pensare a quelle che ci uniscono. A quelle che
funzionano. Mi aggrappo alla sua maglia e lui mi circonda le guance con
entrambe le mani, mi bacia ancora e ancora, fino a quando non veniamo
interrotti da un colpo di tosse. Ci allontaniamo di scatto e ci voltiamo,
ritrovandoci davanti Lilli che ci fissa con un’espressione assonnata ma
sorridente. I suoi occhi passano da me a Lachlan velocemente, Ronald è come
sempre al suo fianco e attende un suo movimento per seguirla.
«Ti sei svegliata» esclama Lachlan.
Lei annuisce e ci raggiunge, ci osserva con attenzione e aggrotta la fronte.
«Papà, perché baci Theo di nascosto?»
Tossisco e Lachlan mi lancia un’occhiata che è una richiesta d’aiuto.
«Tesoro, sei arrabbiata perché ho baciato il tuo papà?» mi azzardo a
chiedere.
Lei scuote la testa e abbraccia Lachlan, lui sospira di sollievo e le posa un
bacio tra i capelli.
«Theo mi accompagnerà alla giornata mamma e figlia» annuncia. «E sono
felice se la baci, papà. Vorrei tanto una mamma come lei».
Ci irrigidiamo tutti e due. Lachlan evita di guardarmi, punta lo sguardo
verso la finestra e sospira.
«Lilli…»
«Lo so, non è la mia mamma, ma io le voglio tanto bene lo stesso» risponde.
«Ora possiamo mangiare? Ho tanta fame».
Si allontana e corre in cucina seguita da Ronald. Lachlan mi guarda così
intensamente che sento le mie guance andare a fuoco, mi scosta i capelli dal
collo e si abbassa per sfiorarmi l’orecchio con le labbra.
«Ora abbiamo un problema» sussurra. «Ci sono due Willow che non
vogliono stare senza di te. Abbiamo un bel cazzo di problema».
Si alza e mi lascia sola per raggiungere sua figlia. Non posso che concordare
con lui perché i due Willow in questa casa stanno diventando così importanti
per me che mi fa male il cuore all’idea di perderli. E tutto questo non sarebbe
dovuto succedere.
 
26
 
Lachlan
 
 
I documenti che mi ha consegnato Theodora qualche sera fa sanciscono
definitivamente il passaggio di proprietà del cottage. Mia zia si è occupata
dell’intera faccenda, dato che è la proprietaria dell’immobile insieme a me. Le
sono grato del suo impegno, almeno non mi ha lasciato da solo anche in
questo. Ho dovuto solo firmare qualche documento e l’ho fatto sotto sua
indicazione e senza troppa attenzione, volevo solo disfarmi di quel posto in
fretta. Il distacco fa ancora più male ora che c’è lei. Mia zia mi ha telefonato per
dirmi che i nuovi proprietari non potranno raggiungere Cedar fino all’estate
prossima e che sono disposti ad affittare il cottage a Theodora per tutto il
tempo che resta a patto che lei si occupi della manutenzione. Non ce ne sarà
bisogno, lo farò io stesso e mi premurerò anche di liberarlo in tempo da tutta
la roba di mia madre. Sto pensando di vendere pure quella, di vendere i suoi
quadri e i suoi mobili, le sue lampade pregiate e i ricordi che mi fanno sentire
solo e impotente. Preparerò un bel po’ di roba per il mercato di primavera e
per allora me ne libererò, nel frattempo l’unica cosa che riesco a pensare è che
non dovrò lasciare andare Theodora e dentro mi sento sollevato.
Non posso più mentire a me stesso e fingere che averla qui non sia quello
che desidero, perché è tutto quello che voglio. Tra di noi c’è qualcosa e inizio a
pensare che definirla relazione sia la cosa più naturale. Il modo in cui si occupa
di Lilli e in cui la guarda, mi fa venire i brividi. Le osservo spesso di nascosto e
mi concentro sul modo in cui i loro sguardi si incatenano prima di scoppiare a
ridere per qualcosa che capiscono solo loro e mi si stringe il petto. Lilli la
adora e quello che ci ha detto quella sera mi continua a girare per la testa. Theo
si è offerta di accompagnarla a quella ridicola giornata a scuola e lei era così
felice. Come la prenderebbe se le dicessimo che stiamo insieme? Se
permettessi a Theodora di entrare davvero nella mia vita come dovrebbe
essere, Lilli cosa direbbe? Mi faccio questa domanda tutti i giorni e sono
giunto alla conclusione più ovvia: Lilli sarebbe al settimo cielo, ma sono io ad
avere paura. Non sono un bambino di sei anni che crede che le cose possano
durare per sempre, io non so se il coraggio di vedere qualcun altro andare via
ce l’ho ancora. Non sono Lilli.
Sospiro e prendo la busta dal tavolo, esco di casa e raggiungo il pick-up. Mia
figlia è a scuola e Theodora è al negozio, ma voglio comunicarle subito la
bellissima notizia e vedere quale sarà la sua reazione. Guido fino al centro di
Cedar e parcheggio davanti al negozio di Laurel, lancio uno sguardo al signor
Kipling che sta litigando con la signora Klaus e scuoto la testa, fuggendo prima
di dover intervenire. Stanno organizzando la festa d’inverno e, a quanto pare,
non convengono su niente. Sono due veterani di questo evento, se ne
occupano tutti gli anni e tutti gli anni si azzuffano, nemmeno la figlia del
signor Kipling si scomoda più a intervenire. Entro nel negozio di Laurel e il
trillo di un campanello avvisa del mio ingresso, mi incammino verso il
bancone e attendo che qualcuno mi raggiuga, ma la mia amica sbuca fuori
proprio da lì sotto facendomi prendere un infarto.
«Sei pazza? Potevo essere un anziano» esclamo.
«Ma se ti ho visto parcheggiare qui davanti».
«Theodora c’è?» chiedo.
Lei incrocia le braccia sul petto e poggia i gomiti sul bancone, poi punta gli
occhi nei miei.
«Theodora c’è, vorrei sapere cosa stai combinando con lei».
Sospiro. Non mi sembra né il luogo né il momento per un interrogatorio,
ma lei inarca un sopracciglio e mi obbliga a rispondere.
«Non lo so, ok? Ci sto bene insieme» butto fuori.
Laurel scuote la testa e si strofina gli occhi con una mano, prende un respiro
profondo e torna a fissarmi.
«Lachlan, maledizione, cosa stai facendo? Lo sa, almeno?»
Mi volto per accertarmi che nessuno ci stia ascoltando e mi abbasso verso di
lei.
«Non è il luogo per parlarne» sibilo.
«Non lo sa!»
«Laurel» ringhio. Non faccio in tempo a continuare perché veniamo
interrotti da Theodora che ci raggiunge, trasportando quelle che sembrano
essere delle scatole piene di oggetti pesanti. Lancio un’occhiataccia alla mia
amica e mi avvicino a Theo per toglierle dalle mani un po’ di peso, lei mi
sorride e mi ringrazia per poi raggiungere il bancone e prendere un po’ di
fiato.
«Che ci fai qui?» mi chiede.
Poggio le altre scatole sul ripiano e indico il magazzino a Laurel, lei alza gli
occhi al cielo e si defila senza dire una parola e spero che il suo silenzio
rimanga tale anche in altre circostanze perché quello a cui stava pensando è un
problema mio e non deve impicciarsi. Mi avvicino a Theodora e mi abbasso
per stamparle un bacio sulle labbra. Lei sussulta e lancia un’occhiata alla
vetrina con gli occhi sgranati.
«Sei impazzito? Se ci vede qualcuno?»
«Che guardi pure».
Mi sono rotto le palle di questo posto, di dovermi nascondere
continuamente e di dovermi preoccupare di quello che gli altri diranno di me.
Ora mi devo preoccupare anche di quello che i figli di questa gente dicono a
mia figlia, è semplicemente ridicolo.
«Cosa ci fai qui? Lilli sta bene?»
Annuisco e batto una mano sulla busta che ho lasciato sul bancone accanto
al registratore di cassa, lei la osserva e le basta un istante per riconoscerla.
«I nuovi proprietari non si trasferiranno qui prima dell’estate e hanno
accettato di affittarti il cottage a patto che tu possa occuparti della
manutenzione» la informo, non riuscendo a trattenere un sorriso.
Sulle sue labbra se ne disegna uno uguale e le guance le si imporporano così
tanto che vorrei toccarle solo per sentire se scottano come sembra.
«Dici davvero?»
«Sei felice? Io sono felice» sussurro.
«E cosa ti rende così felice?»
Si avvicina e il suo profumo mi fa rabbrividire, le circondo un fianco con il
braccio e la attiro al mio petto.
«Poter attraversare la strada e infilarmi tra le tue gambe» bisbiglio.
«Scoparti nel granaio e nella doccia del cottage, sul pavimento del salotto e
davanti alla finestra dalla quale mi spii».
Le sistemo i capelli dietro all’orecchio e le lascio un bacio sul collo proprio
dove sento il suo cuore pulsare forte, lei mi stringe il maglione in un pugno e
mi fissa con le labbra schiuse. Vorrei baciarla davvero, non solo sfiorandola
come ho fatto prima, ma so bene che non è opportuno farlo qui.
«Mi sembrano tutte motivazioni valide» borbotta.
«Ce ne sono altre» la informo. «Ma non è ancora il momento».
Lei aggrotta la fronte perplessa e sbatte le palpebre come per mettermi a
fuoco, ma io resto in silenzio. Non posso dirle che non voglio saperla lontana
da me e mia figlia, che mi piace sentirla ridere insieme a Lilli e vederle correre
dietro a Ronald che ha rubato loro una scarpa o qualcosa dal piatto. Non posso
dirle che mi piace osservarla mentre mi guarda e pensa che io non la veda. Che
mi piace sapere sia lì, dove dovrebbe essere. Mi tengo tutto questo dentro e
faccio un passo indietro in tempo per sentire il campanello sopra alla porta
trillare. Mi volto e il mio umore cambia, tutto il sollievo provato per averla
ancora con me viene sostituito dall’irritazione. Ollie sbuffa e ci raggiunge.
«Allora è come sospettavo, Lachlan Willow» esordisce. «Anche lei».
«Ollie…»
Lui scuote la testa e si avvicina a Theodora che fa un passo indietro.
L’immagine del livido sulla sua schiena mi si para davanti agli occhi e la rabbia
prende il sopravvento.
«Che cazzo vuoi, Ollie?» sbotto.
«Voglio solo parlare con lei» risponde, senza degnarmi di uno sguardo.
«Theo, possiamo parlare? Non mi rispondi ai messaggi e non so più cosa fare,
ho capito la lezione».
Non credo proprio, se siamo ancora qui a parlarne. Theodora si schiarisce la
voce e cerca di mostrarsi gentile, quello che vorrei è vederla mandare questo
idiota dove merita di stare.
«Ollie, mi dispiace che tu abbia frainteso quello che c’è stato tra di noi, ma
non posso continuare a incoraggiare qualcosa che non esiste. Siamo amici e
basta».
Vorrei dire che non sono neanche quello, ma mi trattengo e resto dietro a
Ollie con le braccia allacciate al petto. Sono più alto di lui di almeno una
spanna, spero che non sia così stupido da agitarsi e fare una scenata. A quanto
pare, lo è. Invece di accettare quella risposta e lasciarla in pace, lui le si avvicina
e cerca di prenderle la mano.
«Ollie, per favore» mormora Theo.
«Ti scopi lui, vero? Non mi vuoi più perché ti scopi Lachlan».
Perdo la pazienza e intervengo, lo spingo contro la parete opposta e lo tengo
fermo con la forza.
«Se ti avvicini di nuovo a lei, il livido che le hai fatto non sarà niente in
confronto a quelli che ti ritroverai a dover nascondere. Sono stato chiaro? Non
devi nemmeno guardare nella sua direzione».
Lui sgrana gli occhi e scoppia a ridere.
«Ma quale livido? Non l’ho mai toccata!»
«Le foto nel mio telefono dicono altro».
«Non le ho mai fatto del male!» protesta.
Lo spingo un’ultima volta e lo fisso negli occhi. «Sono stato chiaro?»
Ollie mi fissa con così tanto odio che se non fosse lui potrei anche sentirmi
intimorito, poi si libera e si incammina verso l’uscita. Prima di lasciare il
negozio si volta a guardarci e ridacchia.
«Figlio di puttana» esclama. «Aspetta che scopra tutte le carte che nascondi
e sarà lei a camminare lontano da te».
Esce e le sue parole riecheggiano ancora tra le pareti soffocanti, Laurel ci
raggiunge e abbraccia la sua amica con forza prima di fissarci con apprensione.
«Ti ha messo le mani addosso?» urla.
«Sto bene, è passato».
Laurel si lascia andare a una serie di imprecazioni e di punizioni che
secondo lei io dovrei infliggere a quello stronzo di Ollie, ma Theo non le
presta tanta attenzione perché i suoi occhi sono fissi su di me. Mi si avvicina e
mi afferra il braccio con forza, punta i suoi occhi nei miei e io non posso
fuggire al suo sguardo.
«Quali segreti nascondi, Lachlan?»
Mi irrigidisco e cerco di liberarmi dalla sua stretta, ma lei insiste.
«Nessuno, non vedi che non sta bene? Fidati di me, non di uno che ti ha
messo le mani addosso. Devo andare, ci vediamo a casa». Le poso un bacio
sulla fronte e lascio il negozio in fretta, mentre penso che dovrei considerare
l’idea di raccontarle qualcosa in più di me. Ma non voglio rovinare tutto e per
una volta sono egoista, voglio fingere di essere qualcuno che non sono da tanto
tempo.
27
 
Theodora
 

Non pensavo che poter restare in questa casa mi facesse sentire così bene, ma
da quando ho avuto la certezza di non dovermene andare via mi sento come se
mi avessero tolto un peso di dosso. Vorrei poter confessare a Lachlan tante
cose che mi tengo dentro e che non sono riuscita ancora a dirgli, ma sono
sicura che la metà di queste creerebbero dei problemi nella nostra fragile
relazione, così mi tengo alla larga dalle rivelazioni. So che è sbagliato, che
omettere certe cose è l’inizio peggiore per una qualunque relazione, ma non
posso farci niente. Se parlassi, dovrei andarmene da qui e io non voglio
andarmene. Voglio stare nella casa di fronte alla sua, spiarlo dalla mia tenda e
poi baciarlo al buio quando pensiamo che nessuno possa vederci. E forse non
servirà più farlo al buio. Ormai la nostra relazione non è più un segreto. Laurel
se n’è resa conto, Ollie se n’è reso conto e persino il signor Kipling ha capito
tutto. Anche Lilli, che Lachlan si ostina a proteggere con tutte le sue forze, ha
capito. Ho cercato di indagare con qualche innocente domanda durante i
nostri pomeriggi e ho intuito che sa molto di più di quello che credevamo e
che le sta bene così. Capisco le paure di suo padre e il bisogno di proteggerla
dall’ennesima donna che potrebbe andarsene dalla sua vita per sempre, ma non
credo che stia davvero proteggendo lei. Sta proteggendo se stesso, per un
motivo che forse va oltre a Lilli e il suo equilibrio. Lachlan ha paura che io lasci
lui, non sua figlia.
Mi strofino il viso e verso le patate dolci in una pirofila che ho trovato nella
cucina di Lachlan, cerco di concentrarmi sulla voce di Laurel e di accogliere la
sua rabbia per l’assenza dei bambini, che passeranno il Ringraziamento dal
padre, ma non riesco a concentrarmi. Continuo a pensare a Lachlan e a quello
che ha detto Ollie in negozio qualche giorno fa, poi penso alla sua paura di
aprirsi con me e al fatto che nonostante Lilli gli abbia sbattuto in faccia di
conoscere la verità, lui mi tenga a distanza in qualche modo. Mi nasconde
qualcosa? Tutti nascondo qualcosa, minuscoli segreti che crediamo essere
innocui ma che sono in grado di conficcarsi nel cuore come schegge. E
feriscono, penetrano in profondità e perforano i tessuti fragili di cui sono fatte
le nostre emozioni. Io ho dei segreti, perciò perché lui non dovrebbe averne?
Sbuffo e sistemo le verdure in un’altra pirofila, poi finisco di apparecchiare la
tavola e lancio un’occhiata fuori dalla finestra. Lachlan e Lilli sono andati a
controllare gli animali e a dare loro del cibo extra per festeggiare; perciò, mi
avvicino alla mia amica e mi schiarisco la voce.
«Odio dover interrompere il tuo turpiloquio».
Laurel rotea gli occhi e si asciuga le mani su uno strofinaccio, si appoggia al
bancone e mi rivolge tutta la sua attenzione. È veramente bella e mi chiedo per
quale assurdo motivo in questo posto nessuno le si avvicini più dopo il
divorzio, è una motivazione ridicola.
«Il mio ex marito sarà un bastardo anche tra cinque minuti, Lachlan invece
non starà via in eterno» esordisce. «Cosa vuoi sapere?»
Lancio un’altra occhiata al cortile e mi mordo il labbro.
«C’è qualcosa che non mi dice, vero?» sussurro. «Non c’entra niente Lilli, mi
tiene abbastanza distante perché io non scopra quello che nasconde».
Ora che l’ho detto ad alta voce sembra perfettamente sensato e lo sembra
ancora di più quando lo leggo nello sguardo di Laurel. Mi fissa come se fossi
un cucciolo ferito che non può essere curato da una semplice proprietaria di
un negozio di articoli per la casa, deve portarmi a Finnik ma non c’è tempo.
«Theo… Non posso raccontarti io la sua storia, non sarebbe corretto».
«Ma non si tratta della sua storia, vero? Perché quella la conosco».
Laurel scuote la testa e resta in silenzio, i nostri occhi incatenati in una lotta
a chi cede per primo. Ci riscuotiamo solo quando sentiamo la porta d’ingresso
aprirsi e la voce di Lilli riempire le pareti, Lachlan le ordina di correre a lavarsi
le mani per poi infilarsi dei vestiti puliti.
«Mi dispiace, ma non posso» conclude Laurel.
Sospiro e mi volto in tempo per vedere Lachlan entrare in cucina, mi
raggiunge e lancia uno sguardo alla sua amica che sbuffa e agita una mano
nella nostra direzione mentre riprende ad affettare il pane. Lachlan si abbassa
sulle mie labbra e mi bacia, mi sfiora appena e si allontana come se fossi fatta
di fuoco, ma mi accende come sempre. Sbatto le palpebre e osservo il sorriso
che gli si apre sul viso con una smorfia, maledetto presuntuoso.
«Vado a farmi una doccia e poi sono pronto».
«Ok».
«Va tutto bene?»
Annuisco e forzo un sorriso, poi mi allontano per finire di preparare la cena.
Non voglio trasformarmi in una di quelle donne appiccicose e in cerca di
risposte, una di quelle che per ottenerle farebbero qualunque cosa, ma
continuo a pensare all’espressione di Lachlan quando Ollie se n’è andato dal
negozio. Mi sforzo di non dargli troppo peso e cerco di godermi la cena, Lilli
ci intrattiene con i suoi discorsi a proposito degli animali che vorrebbe portare
a casa e Laurel si dimentica per qualche ora che il suo ex marito le ha portato
via i figli all’ultimo momento. Non è una cena che sa di festa, se non fosse per
la quantità esagerata di cibo che abbiamo cucinato non sembrerebbe neanche
il Ringraziamento e sono sollevata che queste persone non diano così tanto
peso alle festività perché è un periodo dell’anno che non voglio proprio
ricordare. Lachlan ascolta sua figlia, le taglia la carne e si accerta che finisca
tutto quello che ha nel piatto e mentre lo fa mi lancia qualche occhiata
indagatrice, ma io evito di ricambiare. A un certo punto, dopo aver servito la
crostata al cioccolato che ci ha fatto consegnare la zia di Lachlan, Lilli sparisce
in camera sua per poi tornare con il kit di modellismo che le ho regalato al
compleanno. Si siede sul tappeto davanti al divano e apre la scatola.
«Theo, mi aiuti?»
«Perché non inizi da sola? Aiuto Laurel a lavare i piatti e arrivo».
Laurel indica Lachlan con un cenno e si schiarisce la voce.
«Lilli, tesoro, ti aiuta zia Laurel».
Mi spinge verso la cucina e si inginocchia sul tappeto accanto alla piccola
che sta già svuotando la scatola per cercare le istruzioni. Le mani mi
formicolano per la voglia di lavorare a quel modellino, ma Lachlan mi sta
fissando come se potesse vedermi dentro. Lo raggiungo e lui mi trascina verso
la veranda sul retro della casa, chiude la porta e ci si appoggia contro.
«Che succede?»
Scrollo le spalle e mi lascio cadere sul divano, lancio uno sguardo oltre la
finestra e rabbrividisco quando vedo che ha ripreso a nevicare.
«Non succede niente».
«Mi vuoi chiedere qualcosa?» sussurra.
Si inginocchia tra le mie gambe e mi scosta i capelli dal viso, rabbrividisco e
cerco di non chiudere gli occhi.
«Si tratta di una sciocchezza…»
«Chiedimela».
Afferro la sua mano e la stringo nella mia, fisso le nostre dita intrecciate e
decido di sputare fuori i miei dubbi.
«Cosa mi nascondi, Lachlan? La tua espressione quando Ollie ha detto
quelle cose… cosa devi dirmi?»
Lachlan si irrigidisce e serra la presa più forte, le dita mi fanno male e la
pelle sbianca, ma non mi muovo.
«Non è niente, non devi credere alle insinuazioni di Ollie».
Non pensavo che mi rispondesse con sincerità, ma nemmeno che mi
rifilasse la stessa risposta.
«Lachlan… cosa mi nascondi? Non è Lilli il problema, vero? C’è qualcosa
che ti riguarda e che ti impedisce di lasciarti andare, mi stai tenendo alla giusta
distanza perché non lo scopra» lo accuso.
Lui si alza e inizia a camminare per la stanza, le mani sui fianchi e il respiro
pesante. Se potessi sfiorargli il petto sentirei il suo cuore martellare con forza,
la pelle incandescente come lava. Lo osservo in attesa che parli, ma sono sicura
che non mi dirà niente.
«Cos’è che vuoi? Vuoi dirlo a Lilli?» borbotta.
Mi fissa con gli occhi azzurri sgranati e io non so cosa dire.
«Non lo so, avevamo detto che ne avremmo discusso dopo la questione del
prestito ed è passato del tempo. Intanto Lilli ci ha visto baciarci e io
l’accompagno a quella giornata a scuola. Non lo so, penso che forse sia il
momento di definire questa cosa. È anche per lei» spiego.
«Lei sta bene così».
Scuoto il capo. «Mi ha chiesto perché vivo nella casa di fronte se sono la tua
fidanzata».
«Lei non…»
«Sì, Lachlan».
Restiamo in silenzio per qualche istante poi lui mi supera e raggiunge la
porta.
«Che garanzie mi dai? Resterai a Cedar anche quando i nuovi proprietari si
trasferiranno qui?»
Resterò qui a lungo. Vorrei dirglielo e concedergli la certezza che cerca e che
gli permetterà di mettere da parte la diffidenza che nutre verso il genere
femminile ma, parlando di segreti, devo proteggere il mio. Se lui non è
disposto a condividere con me il suo, non posso farlo nemmeno io.
«Resterò fino a quando lo vorrai» rispondo.
«Non è quello che serve a una bambina di sei anni, devi restare anche se io
non lo vorrò più».
Mi alzo e sbatto un piede sul pavimento in preda alla frustrazione.
«Non ci dobbiamo sposare, Lachlan! Ci stiamo ancora conoscendo, non
puoi chiedermi di ricoprire un ruolo che non mi appartiene e non puoi
punirmi al posto di sua madre. Io sono qui ora, mi occupo di lei tutti i giorni e
voglio esserci anche in futuro, voglio impegnarmi con te e voglio che lei senta
di poter contare su di me, ma non posso garantirti che tra un anno le cose
saranno ancora uguali. Nessuno può garantire cose del genere, posso solo
impegnarmi per riuscirci» sbotto.
Non posso pagare per quello che Karla ha fatto a sua figlia, io non sono sua
madre e non posso ricoprire quel ruolo solo perché lei ne ha bisogno.
«Theo…»
«Sai che c’è?» ringhio. «Sei veramente uno stronzo! Per le scopate nel
granaio vado bene, ma per dimostrarmi che non mi vuoi solo per evitare di
guidare fino a uno squallido motel e farti una sconosciuta qualsiasi, allora no.
Sono una baby-sitter che ti scopi dopo che ha messo a letto tua figlia,
immagino che questo per Lilli sia più facile da accettare».
Lo spingo e cerco di aprire la porta mentre sento gli occhi pizzicarmi, non
voglio piangere davanti a lui e dargli la soddisfazione di avere la certezza di
poter esercitare una tale forza su di me. Odio piangere e odio farlo per gli
uomini, maledetti bastardi. La sua mano preme contro il battente mentre io
cerco di tirare la maniglia verso di me, ma è impossibile spostarla di anche solo
un centimetro.
«Theodora, ti prego…» sussurra.
Mi sfiora la spalla e io sussulto, mi allontano e cerco di aprire di nuovo la
porta.
«Lasciami uscire, voglio andare a casa».
«Parliamone, ti prego».
«Se non mi lasci uscire da questa maledetta veranda, chiamo Ollie e mi
faccio venire a prendere da lui. Vuoi una scenata?» ringhio.
Aumenta la pressione contro la porta e contrae i muscoli del braccio.
«Che cazzo dici?» farfuglia.
«Dico che se non mi lasci uscire da questa casa, chiamerò qualcuno che
evidentemente conosce i tuoi segreti e non si farebbe problemi a svelarmeli.
Ora fammi passare».
Impreca e si allontana, confermando ancora una volta la mia teoria. Apro la
porta e corro verso l’ingresso, prendo il cappotto e corro fuori da quella casa.
Attraverso il viale nello sforzo di non cadere in mezzo alla neve e raggiungo il
cottage. Lachlan mi segue, i passi pesanti non vacillano nemmeno sul ghiaccio
che ricopre gli scalini e nemmeno sotto le mie minacce.
«Theodora, maledizione, possiamo parlare?»
«Hai voglia di sputare qualche segreto?» lo provoco. «Hai voglia di
comportarti da adulto e di non nascondermi nella stalla come se fossi uno
degli animali di tua figlia?»
Sussulta come se gli avessi tirato uno schiaffo, ma non importa. È ciò che
penso visto come continua a nascondermi.
«Non parlare così di te stessa, di noi due!»
«Sputa fuori i tuoi maledetti segreti, Lachlan!»
Stringe i pugni e se li porta alla testa, li strofina sulle tempie e fissa il soffitto.
«Non ho nessun segreto!» insiste. «Ti prego, ascoltami, possiamo dirlo a
Lilli…»
«Non sono una bambina che puoi fregare con un contentino. Preferisci
dirlo a Lilli pur di non confessare quello che nascondi, che cazzo di segreti
hai?» urlo. «Sai che c’è? Non mi interessa più».
Lui non risponde e lancia uno sguardo a casa sua, dubito che Laurel e Lilli ci
abbiano sentito ma sono stanca di nascondermi, non faccio altro da quando
sono partita da Los Angeles.
Gli sbatto la porta in faccia e lo lascio lì, a cercare una dannata risposta alle
mie domande.
 
28
 
Lachlan
 
 
Di solito, per me e Lilli le festività non sono un granché. Ci limitiamo a
trascorrerle in casa con del buon cibo, qualche film o cartone animato e le
mani immerse in una ciotola piena di farina e uova per impastare biscotti che
puntualmente nessuno finisce. Non abbiamo mai festeggiato in grande e io
non mi sono mai impegnato più di tanto per farle vivere l’atmosfera magica
che ogni bambino dovrebbe conoscere, mi limito agli addobbi e a pochi gesti
insignificanti. È l’unica cosa che non sono riuscito a fare per lei da quando
Karla se n’è andata. Ogni anno mi riprometto di cambiare e di iniziare a
regalare a questa bambina qualcosa in più, ma poi fallisco. Quando se n’è
andata si è portata via una parte di me, sarei ipocrita a dirlo. Sei anni persi ad
aspettare che tornasse da me sono la prova di quanto mi abbia ferito, ma ora le
cose sono diverse. Ora c’è Theodora nella mia vita e io non devo più sforzarmi
di essere qualcuno che non sono per proteggere Lilli, non devo restare
immobile davanti alla porta in attesa del ritorno di Karla e non devo nemmeno
punirmi per averla persa e per la stupida convinzione di non essere stato
abbastanza. Ieri sono stato un idiota, mi sono limitato a riprodurre la solita
scena che imbastisco da sei anni a questa parte. Poi, siccome sono un codardo,
non ho saputo nemmeno rispondere a una domanda.
Non ho idea del perché Theo si sia convinta del fatto che io nasconda
qualcosa e odio che sia stato Ollie a insinuarle quel dubbio, ma di sicuro non
ho fatto niente per convincerla del contrario. Ci ho riflettuto tutta la notte e il
giorno seguente. Mi sono imposto di non cercarla e di riflettere su quello che
voglio davvero dalla vita, poi mi sono accertato che non uscisse per andare da
Ollie e che lui non mettesse piede nella mia proprietà. Non si è visto e
nemmeno lei.
Guido percorrendo di nuovo il viale che porta alla fattoria e saluto Jim,
l’impiegato comunale che si è offerto di spazzare un po’ di neve anche da
queste parti con i suoi macchinari. Il bello di Cedar è questo: ci siamo gli uni
per gli altri nel vero momento del bisogno.
Parcheggio nel vialetto e scambio due parole con Jim, le luci del cottage
sono accese e il comignolo fuma come una piccola pentola a pressione. Ha
nevicato molto negli ultimi due giorni, forse troppo per la mia vicina di casa
che non è abituata alla neve.
Trattengo un sorriso e mi dirigo verso casa sua, controllo che le catene siano
montate sugli pneumatici di quel rottame che guida ancora e poi salgo gli
scalini, in due falcate raggiungo la porta e busso senza pensarci troppo. Il mio
fiato crea una piccola nuvola che si dissolve nell’aria e io vorrei che la nostra
discussione potesse fare la stessa cosa e andarsene, lasciarci in pace e liberi di
baciarci ovunque ne abbiamo voglia e senza limiti. L’uscio si schiude e
l’oggetto dei miei pensieri compare davanti ai miei occhi.
Poggio l’avambraccio al battente della porta e mi sporgo verso di lei che non
sembra aver voglia di vedermi.
«Ti prego» bisbiglio.
«Ti prego, cosa?»
«Possiamo parlare?»
Lancio uno sguardo alle mie spalle, Jim sta portando il suo prezioso
spalaneve fuori dalla mia proprietà e siamo ufficialmente soli. Torno a fissare
Theodora e lei apre di più la porta, incrocia le braccia al petto e mi fissa in
attesa che io parli. Prendo un respiro profondo e mi decido a parlare.
«Ti odio in questo momento» sussurro.
«Bene, la cosa è reciproca».
Entro in casa e raggiungo il salotto, aspetto che lei mi raggiunga e riprendo
a parlare. Una mano a torturarmi i capelli e un’altra in tasca.
«Tu non hai dei segreti? Ce li hai eccome» esordisco.
Si irrigidisce appena, ma cerca subito di rilassarsi. Ha stretto le dita intorno
ai gomiti quando l’ho detto e le braccia allacciate al petto sono diventate una
fortezza intorno al cuore. Ho ragione io: ha dei segreti anche lei.
«Lachlan, non è questo il punto. Tu mi tieni sempre a distanza».
«Non è vero!» protesto. «Sei in casa mia, nel cuore di mia figlia e dentro di
me. Sei ovunque io vada, in qualunque posto io guardi. Sei qui e sei
dappertutto».
Ho provato a starle alla larga, mi sono imposto di non guardare nella sua
direzione e di evitarla come se fosse una specie pericolosa per me e Lilli,
qualcosa che potesse infettarci. Ci ho provato, ma non ci sono riuscito. A
malapena sono stato in grado di finire di formulare il pensiero.
Theodora sospira e mi raggiunge, scioglie la prigione che si era costruita
intorno al corpo con le braccia e mi afferra una mano. Il calore della sua pelle
mi fa rabbrividire e vorrei baciarla, ma resto fermo.
«Perché ti tieni dentro queste cose?» sussurra.
«Perché l’ultima volta che ho osato dirle a qualcuno, quella persona è sparita
nel nulla».
Non ho altre giustificazioni se non questa. Non mi fido più delle persone e
ho paura di scoprire che mi lasceranno. Prima che lei possa rispondere, decido
di aggiungere qualcosa che possa aiutarla a capirmi.
«Mia madre è rimasta incinta all’ultimo anno di liceo, non voleva un
bambino ma non voleva nemmeno che la gente parlasse. Mio padre sparì dopo
la cerimonia del diploma e lei rimase qui. Strinse un patto con i suoi genitori e
si costruì la vita che aveva sempre voluto con le sue tele e i suoi dipinti. Sono
stato con lei per sei mesi in questo cottage, fino a quando è riuscita ad
allattarmi, poi sono andato a vivere dai miei nonni. Mi hanno cresciuto loro,
ho visto mia madre rifarsi una vita davanti ai miei occhi giorno dopo giorno.
Mi sono sentito indesiderato fin da quando ho capito che mia nonna non era
mia madre e questa casa è l’unica cosa di lei che non detesto. Perché la amava,
Theo. Amava questo posto e quando sono qui riesco a sentirlo, è l’unico
momento in cui sento quel sentimento da parte sua. Non mi ha voluto accanto
nemmeno quando si è ammalata, nemmeno quando stava morendo. Ha amato
questo posto più di me. Non ho mai potuto concedere fiducia a una donna».
Distolgo lo sguardo e mi lascio cadere sulla poltrona, mi strofino gli occhi e
mi sento privo di energie. Confessare questa storia mi fa sentire
incredibilmente solo, mi fa vergognare di me stesso. Mi sono sentito così per
tutta la vita, ma per Lilli voglio qualcos’altro. Non voglio che tutto si riduca a
una casa, voglio amore vero per lei. Protezione e appartenenza. Io sono quello
che non ho mai avuto, lo sono diventato per lei proprio per questo. Theodora
si inginocchia e mi costringe a fissarla negli occhi, i suoi sono due buchi neri
con qualche anello azzurro a confondermi. Somigliano a quelli di Lilli, sono
così profondi.
«Non è colpa tua, Lachlan».
«Lo so».
«Tua madre non ti ha scelto e Karla non ha scelto Lilli, ma io vi sto
scegliendo».
Annuisco e cerco di ordinare al mio cuore di non montarsi la testa, di
restare in allerta.
«Ma cosa succede, se non funziona? Cosa le dico? Io non voglio…» farfuglio,
scompigliandomi i capelli. Non voglio mentirle, deluderla e dovermi inventare
delle storie assurde che giustifichino un vuoto incolmabile come faceva mio
nonno con me. Theo mi stringe la mano e mi scuote per attirare la mia
attenzione.
«Vi sto scegliendo, Lachlan. Cos’altro ti serve per arrenderti a noi due? Non
posso prevedere il futuro, ma giuro che siete quello che voglio» afferma.
Il fatto che parli al plurale mi provoca una sensazione indescrivibile.
«Da dove sei sbucata fuori?» mormoro.
«Dalla California».
Sorrido e le scosto i capelli ramati dalla guancia.
«Mi sono scopato la ex di Ollie» confesso. «Lei mi stava addosso da un po’ e
io ero stufo dei motel. Mi piaceva l’idea di andare a letto di nuovo con una
ragazza gentile, che mi conoscesse e mi desiderasse davvero. Non ero così
attratto da lei, volevo solo essere desiderato».
Confessare questa cosa ad alta voce è più umiliante di quanto credessi, ma
lei non sembra per niente sorpresa. Mi fissa come se si aspettasse esattamente
questo da me, come se provasse compassione.
«Per questo il vostro rapporto si è incrinato? Mi sorprende che vi parliate
ancora» esclama.
«Rina se n’è andata dopo quel casino e non si è più guardata indietro, io mi
sono preso un pugno e qualche insulto, ma alla fine siamo a Cedar. Nessuno
tronca davvero i rapporti con questo posto, nemmeno con i suoi abitanti».
Restiamo in silenzio per un po’, mi trattengo dal dirle che penso che Ollie
voglia vendicarsi e usarla per farmi quello che io ho fatto a lui perché
suonerebbe presuntuoso e arrogante in questo momento. E perché forse è solo
una mia paura, riflesso di quello che mi porto dentro e che temo possa
ricapitare. Theo mi circonda le guance con i palmi caldi e mi bacia le labbra
rapidamente.
«Un segreto per un segreto» pronuncia. «Sono un ingegnere edile, non è
vero che non ho potuto studiare».
Si morde il labbro e chiude un occhio in attesa di una mia reazione. Sbatto le
palpebre per la sorpresa e cerco di pronunciare qualcosa di sensato.
«Perché mi hai mentito?»
«Non volevo che ti allontanassi da me, continuavi ad attaccarmi e riferirti a
me come snob. Non volevo che mi vedessi davvero così» ammette.
«Non è così che ti vedo».
«E cosa ne pensi?»
Sorrido e le bacio la mascella, trascino le mie labbra sulla sua pelle che
rabbrividisce a ogni tocco fino al collo. Succhio la pelle delicata e la mordo
piano, poi soffio per farla sussultare.
«Ti trovo ancora più sexy, ingegnere Sanders».
«D-davvero?»
«Davvero».
E non lo trovo snob dato che lavora in un negozio di articoli per la casa e
guida un pick-up che è più vecchio di me, lo trovo semplicemente un segreto
che non dovrebbe essere tale. Deve essere fiera di sé stessa.
«Quanto tempo hai?» domanda.
«Due ore».
Infilo una mano sotto al suo maglione e raggiungo il reggiseno, lo abbasso e
sfioro la pelle sensibile facendola gemere piano. Poi schianto le mie labbra
sulle sue, la bacio e perdo il fiato per l’intensità del momento. la trascino sulle
mie cosce e la spoglio, la divoro e la venero. La respiro e le concedo la mia
fiducia.
Perché è ovunque io guardi e non vorrei saperla da nessun’altra parte. È
dentro di me ed è lì che deve stare, dove voglio sentirla.
29
 
Theodora
 
 
Cosa diavolo stavo pensando quando ho proposto a Lilli di accompagnarla a
questa assurda giornata madri e figli?
Siamo alla Cedar Elementary School da due ore e sto controllando
ossessivamente l’orologio in attesa che l’ultima ora passi e Lachlan ci venga a
prendere. Il problema sono le madri degli altri bambini, delle pettegole,
ficcanaso e perbeniste che non si fanno nessun problema a parlare del padre di
Lilli in modo spregevole davanti ai miei occhi. Ora sono che sono a
conoscenza della realtà non correrò via da qui in lacrime perché Lachlan si è
scopato la ex di Ollie, quanto a Lilli… Forse sarebbe meglio evitare che una
bambina di sei anni senta certe cose uscire dalla bocca delle madri dei suoi
compagni di classe.
Cerco di allontanarla ogni volta che capto un qualche frammento di
conversazione scomoda, ma non posso continuare in questo modo. E Lachlan
non ha ancora parlato con la madre di quella Rebecca, lo so perché me ne sono
accertata e ne ho avuto la conferma quando quella piccola iena dai capelli
dorati è scoppiata a ridermi in faccia. Ha solo sei anni ed è più stronza di tutta
Cedar messa insieme, che diavolo di genitori ci sono in questo posto?
Comunque stiamo lavorando allo spettacolo di Natale, ci siamo divise i
compiti ai quali dovremo provvedere e mi sono appuntata una serie di acquisti
da delegare a Lachlan e dei quali mi occuperò personalmente, poi ci siamo
messe a costruire la scenografia di quello che dovrebbe essere uno spettacolo a
sorpresa. Trovo ridicolo tutto ciò, dato che ho capito dopo due minuti a
inchiodare assi di compensato che si tratta de Il Mago di Oz. Lilli mi ha
confermato che lei sarà Dorothy, forse è per questo che Rebecca è invidiosa. A
quanto pare le è stata affidata solo una parte come corista nella chiusura dello
spettacolo, quando tutti i bambini intoneranno canti natalizi a profusione.
Mi distraggo dai miei pensieri quando la madre di Rebecca mi si avvicina. È
alta, con un fisico slanciato e i capelli rossicci legati in una coda stretta. Il
colore dei suoi capelli è naturale, molto diverso dal mio, e potrei invidiarglielo
se solo non fosse così smorfiosa. Prende una sparachiodi e mi affianca,
inchioda l’asse che sto tenendo ferma e sorride.
«Così tu sei Theodora» esordisce.
Le lancio uno sguardo indifferente e passo un pennello intinto di vernice
rossa a Lilli.
«Tu sei? Scusa, credo di non conoscerti».
«Louise, la madre di Rebecca».
Lilli sta dipingendo le assi con attenzione, quindi colgo l’occasione per
afferrare Louise per il gomito e trascinarla in un angolo.
«Stammi bene a sentire, Louise madre di Rebecca, tieni a freno la tua lingua
velenosa e insegna a tua figlia cosa sia il rispetto. Se scopro che si rivolge
ancora alla mia bambina mancandole di rispetto, dovrai vedertela con Lachlan
e sono sicura che non sarà piacevole come questa chiacchierata» sputo fuori.
Sono così furiosa che resto sorpresa dalla veemenza che uso, lei rimane in
silenzio per qualche istante e mi scruta come se stesse cercando di capire se le
mie siano solo parole a vuoto, poi si schiarisce la voce.
«Sono bambine, non è necessario scaldarsi tanto» protesta.
«Le bambine non dovrebbero interessarsi della vita privata degli adulti.
Smettila di parlare della vita di Lachlan davanti a tua figlia e lei la smetterà di
comportarsi da bulla con la mia» sibilo.
Louise sbatte le palpebre e mi fissa in preda alla confusione, non riesco a
capire il suo atteggiamento e sinceramente non voglio sforzarmi di farlo. La
lascio in quell’angolo e raggiungo Lilli, le tolgo il pennello di mano e le bacio la
testa.
«Tesoro, abbiamo concluso le nostre tre ore, che ne dici di andare a fare
merenda? Tuo padre ci sta aspettando».
Lei non se lo fa ripetere due volte e salta in piedi, si infila il cappotto e i
guanti e corre verso l’ingresso. La rimprovero e la obbligo a salutare le sue
insegnanti, poi la raggiungo. Mi prende la mano e riesco a sentirne lo stesso il
calore nonostante la stoffa dei guanti, poi mi sorride e mi scuote il braccio.
«Hai detto alla mamma di Rebecca che sono la tua bambina» esordisce. «Hai
detto: “Smettila di parlare della vita di Lachlan davanti a tua figlia e lei la
smetterà di comportarsi da bulla con la mia.”».
Mi fermo sul marciapiede di fronte alla caffetteria piena di gente seduta
davanti a una cioccolata fumante e sento lo stomaco stringersi. Ho davvero
definito Lilli mia figlia? Ecco perché quella donna sembrava confusa dopo le
mie parole, devo esserle sembrata una pazza. Mi strofino il viso e borbotto
un’imprecazione. Questa cosa di me, Lachlan e Lilli sta diventando così reale
che non riesco a non vederla come parte della nostra relazione. Se qualcuno fa
del male alla mia Lilli, vorrei saltargli al collo e strozzarlo. Sono sempre stata
una tipa irascibile e iperprotettiva con le persone che amo, non posso farci
niente.
«Ho sbagliato qualcosa?» domando.
Lei si morde il labbro e gli occhioni azzurri mi fissano con intensità.
«Vorrei tanto essere la tua bambina».
Sospiro di sollievo e mi abbasso per abbracciarla, le sue piccole mani
guantate mi stringono le spalle e io mi sento così amata e confortata. In Lilli
rivedo tutto ciò che di irrisolto c’è dentro di me, la mia parte infantile mai stata
libera e ora finalmente compresa. Rivedo la bambina che avrei voluto poter
essere e sento di voler essere per lei quello che nessuno è stato per me ed è
folle, dato che ci conosciamo da appena tre mesi.
«Che ne dici di raggiungere tuo padre? È ora di riempire questo pancino».
Le solletico il cappotto e lei ridacchia, mi rialzo e la prendo di nuovo per mano
mentre ce ne stiamo in silenzio e camminiamo in direzione di suo padre. Il
mio rapporto con questa bambina sta diventando ogni giorno sempre più
intenso. Entriamo nella caffetteria e Lachlan solleva un braccio per indicarci il
tavolo che ha riservato per noi, lo raggiungiamo sotto gli sguardi invadenti dei
concittadini e ci sediamo. Lilli si inginocchia sulla sedia e stampa un bacio
sulla guancia di suo padre, mentre io mi limito a stringere la sua mano sotto il
tavolo. So perché siamo qui, ma dopo tutto quello che è successo in quella
scuola, temo che sia tutto esageratamente folle.
«Come stanno le mie ragazze?»
Lilli stringe la sua coda di cavallo e sorride.
«Papà, Theo ha sistemato la mamma di Rebecca per bene» lo informa.
Lachlan si volta verso di me e inarca un sopracciglio.
«Ah, sì? E cos’ha fatto?»
«Hai detto: “Smettila di parlare della vita di Lachlan davanti a tua figlia e lei
la smetterà di comportarsi da bulla con la mia.”» ripete.
Dio, deve esserle proprio rimasta in testa quella frase. Suo padre si strozza
con la saliva e tossisce così forte che temo soffochi, mi lancia un’occhiata
indecifrabile e scuote la testa.
«Te l’ha mai detto nessuno che sei pazza?» borbotta.
Scrollo le spalle e ringrazio il cameriere che ci versa tre bicchieri d’acqua,
ordiniamo tre cioccolate e qualche biscotto, poi torno a prestargli attenzione.
«Tu non hai risolto la cosa, quindi dovevo farlo. Giuro che quella donna è
insopportabile».
Lachlan ridacchia e Lilli lo imita.
«Che c’è?» sbotto.
«Niente, sei buffa» risponde la piccola.
Lachlan mi stringe la mano e mi strizza l’occhio, poi mima un grazie con le
labbra. Mi rilasso sulla sedia e cerco di liberare la mano dalla sua, ma lui non
mi lascia andare. Anzi, le solleva sul tavolo affinché Lilli possa vederle e il
momento in cui i suoi occhi si sgranano è chiaro a tutti e due.
«Lilli, io e Theo dobbiamo parlarti di una cosa» esordisce lui.
Sapevo che l’obiettivo di oggi era questa conversazione, speravo solo di
poterla fare in un posto più appartato. Siamo a Cedar però, non c’è nessun
posto appartato qui oltre alla fattoria. Lilli beve un sorso d’acqua e si siede
composta, le braccia incrociate sul tavolo e lo sguardo attento.
«Ho fatto qualcosa di brutto?» chiede. «Ronald ha mangiato il fieno di Mr.
Bingley, ma non volevo che ti arrabbiassi così non te l’ho detto. Mi dispiace
tanto, papà».
Trattengo una risata e mi godo l’espressione sorpresa di Lachlan, so che
vorrebbe rimproverarla ma decide di lasciare perdere e gliene sono grata. È già
abbastanza complicato così.
«Non è per questo, piccola» la rassicura.
«Che succede?»
Prendo un respiro profondo e mi faccio avanti.
«Sai, tesoro, a volte…» inizio, non sapendo bene come continuare. «A volte,
gli adulti diventano molto amici e finiscono con l’avere una relazione che
include la condivisione di tanti bellissimi momenti insieme. Io e il tuo papà…»
Sto facendo un casino, infatti Lachlan decide di prendere la parola.
«Lilli, Theodora è la mia fidanzata» confessa. «Pensi che potrebbe piacerti la
cosa?»
Lilli sorride così tanto che le labbra sfiorano gli occhi, annuisce e allunga le
mani verso di me. Sciolgo la stretta di suo padre e afferro quelle manine calde e
piene di speranza, le stringo e le sorrido.
«Sei d’accordo, Lillibeth Anna?» sussurro.
Lei annuisce e mi stringe le mani.
«Quindi ora sono la tua bambina!» esclama.
Lachlan sospira.
«Tesoro, Theodora non è la tua mamma, ma ti vuole tanto bene».
«Però ha detto che sono la sua bambina» insiste.
Annuisco e stringo le sue mani un’ultima volta.
«In qualche modo, lo sei. Voglio solo continuare ad essere per te quello che
sono stata fino a oggi».
Non so se una bambina di sei anni sia in grado di capire questo discorso, ma
lei fa un cenno d’assenso.
«Sei la mia amica speciale» conclude. «Ora devo proprio trovarmi quel
nome da maschio».
Scoppiamo a ridere e rilasciamo un respiro che non ci eravamo accorti di
trattenere. Siamo usciti allo scoperto, ora non si torna indietro.
 
30
 
Lachlan
 
 
Dirlo a Lilli è stato più semplice e liberatorio di quanto pensassi. Temevo che il
suo giudizio potesse essere negativo, o che legarmi troppo a Theo davanti ai
suoi occhi ci avrebbe reso fragili ed esposti, invece non è successo niente di
tutto questo. Sono passate due settimane e non abbiamo perso la voglia di
sorridere, Theodora non ci ha lasciato e siamo qualcosa che inizia a somigliare
a una famiglia. In modo strano, certo, eppure lo siamo. Non ho mai avuto una
famiglia convenzionale, non nel senso in cui la maggior parte della
popolazione la intende, e questa volta non è diverso. La mia famiglia non mi è
stata donata, l’ho scelta e Theodora sembra essere l’ultima parte aggiunta di
questo quadro incasinato. Dentro di me aspetto ancora il momento in cui tutto
andrà a puttane, ma sto cercando di focalizzarmi su noi due e su quello che
sento esserci tra di noi. Quando siamo soli, io la sento. Non è solo attrazione
fisica, tra di noi c’è intesa e comprensione, un modo di comunicare che non ho
mai avuto con nessun altro. Nemmeno con Karla.
Penso spesso a lei ultimamente, succede tutti gli anni in questo periodo. Lilli
non fa mai domande, ma io aspetto sempre che si presenti qui con un regalo e
delle scuse valide per trascorrere del tempo con lei. Lo aspetto ogni anno da sei
anni e anche se stavolta ho quella che definisco la mia nuova famiglia, non
posso evitare di aspettarla. Penso che vivrò così per sempre, fino a quando Lilli
non mi consolerà e non mi perdonerà per non averle donato la madre che
meritava di avere. Vivrò in attesa, corroso dal rimorso e in balia dei se. L’idea
di restare prigioniero delle stesse catene, non mi alletta per niente.
Vorrei dare a Theodora il meglio di me, ma a volte mi sento così stanco e
sconnesso da chiedermi se io ne sia in grado. Non voglio dire a nessuno che
anche quest’anno la sto aspettando, non sarebbe giusto per Theo e nemmeno
per me stesso, ma è proprio così. Aspetto Karla anche se so che non arriverà.
Lascio uno scatolone accanto al divano e mi asciugo la fronte dal sudore.
Ronald ha fatto cadere il nostro albero di Natale mentre era a casa da solo e
poi si è mangiato le decorazioni, per fortuna sta bene e non è stato necessario
intervenire chirurgicamente, ma Lilli non era affatto contenta. Ho comprato
un nuovo albero di Natale e delle nuove decorazioni; quindi, stasera ci
dedicheremo di nuovo ad allestirlo. Manca una settimana a Natale e non
volevo lasciare la casa spoglia.
«Hai preso un albero molto più grande!»
Lilli mi raggiunge e saltella intorno all’albero e agli scatoloni con le
decorazioni.
«Ronald non riuscirà a buttare giù anche questo».
Theo sbuca fuori dalla cucina e sorride, le labbra rosse e piene sono lucide
per il caffè che sta bevendo e gli occhi chiari luccicano di malizia mentre mi
fissa. Sta pensando a quello che abbiamo fatto stamattina nel mio letto, non mi
serve chiederglielo per saperlo, io sto pensando alla stessa cosa. Non riesco a
togliere le mani da quel corpo perfetto, a starle lontano e a lasciarla in pace per
qualche ora. Sto diventando schifosamente appiccicoso.
«Che ne dici?» le chiedo.
Lei lancia uno sguardo all’albero che sfiora il soffitto e arriccia le labbra.
«Dico che è decisamente enorme».
«Allora è come lo volevo» la rassicuro.
Si siede sul bracciolo del divano e mi attira tra le sue gambe con una mano,
lancio uno sguardo a Lilli che è impegnata a frugare nello scatolone e mi lascio
trascinare sulle sue labbra. La bacio lentamente e inspiro il suo profumo, mi
godo il calore dei suoi baci.
«Facciamo questo albero e mettiamo a letto Lilli» sussurra.
Annuisco e la bacio un’ultima volta, poi mi alzo e raggiungo mia figlia che
sta sparpagliando gli addobbi sul tappeto. Mi assicuro che tutti gli animali
siano nella sua stanza e lontano dalle decorazioni, poi ci mettiamo al lavoro. I
colori predominanti sono il rosso e l’argento, gli stessi del nostro vecchio
albero di Natale, e Lilli saltella come una piccola fata impazzita mentre cerca
di appendere qualche pallina in alto. La fermo e mi abbasso.
«Ti sollevo io, tesoro».
Non ci pensa due volte e sale sulle mie spalle, mi alzo e mi posiziono
abbastanza vicino all’albero da permetterle di appendere tutto quello che tiene
dalle mani, poi mi abbasso e l’aiuto a raccogliere altri addobbi. Andiamo avanti
così mentre Theodora prova le nuove luci in un angolo, le lancio uno sguardo
e la becco ad arrossire. So a cosa sta pensando: il granaio. Le sorrido e le
strizzo l’occhio, guadagnandomi uno sbuffo. Lavoriamo ininterrottamente
fino a quando non finiamo, accendiamo le luci e Lilli lancia un urlo.
«Ti piace, Theo?» esclama.
«Penso che sia perfetto» risponde lei.
Le osservo mentre si abbracciano e sento una fitta allo stomaco. Sono così
complici e unite che mi chiedo come sia stato possibile per Theodora entrare
nella nostra vita con tanta felicità, abbattere i muri che avevo eretto intorno a
noi e ritrovarsi tra le nostre braccia. Se penso all’odio che provavo nei suoi
confronti i primi giorni del suo arrivo, mi sento un adolescente idiota. Batto le
mani e indico l’orologio alla parete. Non sono potuto tornare prima della fine
del mio turno alla clinica veterinaria di Finnik, quindi è già tardi e Lilli deve
andare a dormire.
«Ora che l’albero è al suo posto, devi andare a dormire» annuncio.
«Ma papà…»
«Devi andare a letto, Lilli».
Sospira e annuisce, le labbra atteggiate in un broncio. Considerando che si
sveglia all’alba tutte le mattine e che sono le undici di sera, mi chiedo come sia
possibile che non sia stanca. Theo la accompagna nella sua stanza e si trattiene
per dieci minuti, raccolgo gli incarti degli addobbi e metto gli scatoloni fuori
dalla porta giusto in tempo per vederla tornare da me. Indossa solo un
maglione di lana oversize che le arriva a metà coscia e i suoi immancabili
calzettoni di lana, i capelli ramati sono sciolti sulle spalle e gli occhi mi fissano
con intensità. Chiudo la porta a chiave e la raggiungo, le scosto una ciocca
dalla guancia e le lascio un bacio sulla fronte.
«Hai fame? Non hai ancora cenato».
«Non ho quel genere di fame» la informo.
Lei sorride e si morde il labbro, intreccia le dita alle mie e si incammina
all’indietro.
«E che genere di fame hai?»
«Il genere di fame che solo tu puoi saziare» bisbiglio.
Superiamo tutte le porte del corridoio della zona notte fino a quella della
mia camera da letto, Theo ci si infila dentro e gira la chiave. Mi trascina fino al
letto e mi spinge sul materasso, resta ferma tra le mie gambe con le cosce nude
e calde dalle quali non riesco a togliere le mani. Mi sfila il maglione e lo lancia
sul pavimento, poi fa lo stesso con la maglietta che trova sotto.
«Ti fa sentire meno virile sentirti dire che sei stupendo?» mi chiede.
Ridacchio e la trascino a cavalcioni su di me, intrufolo la mano sotto al suo
maglione e raggiungo un seno.
«Tu lo sei» sussurro. «Posso dimostrartelo?»
Annuisce e mi permette di spogliarla, mentre le sue ginocchia sono sul
materasso ora. I suoi seni sono davanti ai miei occhi e le mie labbra li
vezzeggiano dolcemente, venerano questa donna che mi ha fatto perdere la
testa. La accarezzo e la bacio, la faccio gemere e la stringo. E lo faccio mentre
sento di potermi fidare di lei.
Questa è la cosa che mi manda più fuori controllo quando sono con lei, la
consapevolezza di potermi fidare finalmente di una donna e di non dover
temere che se ne vada via senza dirmi addio. La trascino sulle mie labbra e
intreccio la mia lingua alla sua, finisco di spogliarmi e ribalto le nostre
posizioni. Siamo un groviglio di pelle e sospiri e ora lei è sotto di me,
bellissima e mia. Le divarico le cosce e mi ci intrufolo in mezzo, impaziente di
sentirla addosso, divoro i suoi respiri con le mie labbra umide e mi spingo
dentro di lei. È come se ci stessimo dondolando pigramente sotto la luna,
coperti solo del nostro calore e dal buio. Faccio l’amore con lei piano e lo
faccio con tutto me stesso, con il bisogno di dirle che la sento dentro e
dappertutto. La sento addosso e dove non sentivo più niente da tanto tempo.
Ho provato a lottare per evitare che arrivasse in quel punto, ma non è bastato.
Lei se l’è preso da sola e a me non resta che arrendermi. Mi arrendo e la sento,
fino in fondo.
Theo ansima e affonda le unghie nella mia schiena. Sposto le labbra sul suo
collo e continuo ad affondare dentro di lei fino a quando non emette quel
verso strozzato che mi fa impazzire e allora lo dice.
«Lachlan» cantilena. Lo ripete più e più volte fino a quando io non la
raggiungo e non riprendiamo a respirare regolarmente. È stato diverso
stavolta e lo sappiamo tutti e due, per questo restiamo sdraiati e nudi a fissarci
in silenzio. Ci accarezziamo pigramente e tentiamo di non dirlo ad alta voce,
ma più mi trattengo più sento il bisogno di liberarmi e di parlare.
«Non l’ho sentito solo io, vero?» bisbiglia.
Traccio il contorno del suo viso e lei chiude gli occhi.
«Apri gli occhi, Theo».
Obbedisce e punta i suoi occhi chiari nei miei, poggia la mano sulla mia e si
morde il labbro.
«Non so come sia possibile, ma sei diventata un’ossessione. Ti sei infilata
dentro di me e hai fatto in modo di restarci, ti sento in quel punto. Ti sento
dentro, addosso, ti sento anche quando non ci sei» confesso.
Lei sorride e sbatte le palpebre, se accendessi la luce sono sicuro che la
vedrei arrossire, ma non voglio muovermi da qui per nessun motivo al mondo.
«Ti sento anch’io» replica.
«Mi sono innamorato di te, odiosa vicina di casa».
Dirlo ad alta voce non è spaventoso come pensavo. Provo un inspiegabile
senso di pace e comprensione, non mi sentivo così in sintonia con qualcuno da
troppo tempo. Theodora chiude gli occhi e si sfiora il petto con una mano,
accenna un sorriso e torna a guardarmi.
«Sono innamorata anch’io» sussurra. «Non so nemmeno come sia
successo».
Rabbrividisco a quelle parole e la stringo al mio petto, lei si accoccola a me e
strofina il viso sulla mia pelle, facendomi ridere.
«Lachlan?»
«Mmh».
«Non ti sei messo il preservativo e sappiamo che siamo sani, ma io non
prendo la pillola…»
Trattengo il fiato alle sue parole mentre mi rimprovero per essermene
dimenticato, poi cerco di rilassare le braccia.
«Hai paura?» sussurro.
«No, tu?»
Scuoto la testa e poso un bacio sulla sua fronte.
«Ho paura solo di vederti andare via».
Ed è la verità, lo capisco adesso che posso stringerla a me nel mio letto senza
dovermi preoccupare di niente. Non ho paura di scoprire che potrebbe essere
incinta, ho paura solo di dover imparare a stare senza di lei e di dover riempire
il vuoto che lascerebbe dentro di me. Perché non ne sarei in grado, nessuno
potrebbe colmare il vuoto lasciato da Theodora.
Nessuno potrebbe essere lei.
 
31
 
Theodora
 
 
Mi sveglio all’alba, quando Lilli bussa alla porta della camera da letto e chiama
suo padre a gran voce. Avrei dovuto rivestirmi e tornare al cottage, ma ero così
stanca che mi sono addormentata nuda tra le braccia di Lachlan. Siamo usciti
allo scoperto, è vero, ma non ho mai dormito in questa casa con Lilli nella
stanza accanto e mi sento in imbarazzo come un’adolescente che non
dovrebbe trascorrere la notte fuori casa senza il consenso dei genitori. Mi
rivesto velocemente e raccolgo i capelli in una coda, poi cerco di svegliare
Lachlan che sembra non essersi reso conto di nulla.
«Papà!» urla Lilli. «Non chiudi mai la porta, che succede? Stai bene? Papà?»
Lachlan mugugna qualcosa e si strofina gli occhi.
«Che cosa facciamo? Mi sono addormentata qui» bisbiglio.
«Sto bene, Lilli! Arrivo subito» risponde, ignorandomi. Mi lancia uno
sguardo assonnato e sorride, si alza e mi stampa un bacio sulla coscia per poi
scendere dal letto. Continuo a chiedermi come farò a raggiungere il cottage
senza farmi vedere da sua figlia quando lui mi sorprende, dicendomi l’ultima
cosa che mi aspettavo di sentire.
«Va’ da lei, io vi raggiungo subito».
Sgrano gli occhi per la sorpresa. «Ho passato la notte qui» ripeto.
Lui scrolla le spalle, mi bacia sulle labbra e mi spinge verso la porta.
«Ora è ufficiale, ricordi?»
Si chiude in bagno e mi lascia sola. Prendo un respiro profondo e mi
preparo a rispondere alle domande di Lilli. È seduta per terra in corridoio con
Ronald tra le gambe. Il cucciolo zampetta verso di me e mi strofina il muso
sulle mani, gli gratto le orecchie e mi sporgo per baciare Lilli sulla fronte.
«Buongiorno, tesoro».
«Ma hai dormito qui, Theo?» esclama.
Annuisco e le porgo la mano per aiutarla ad alzarsi, lei la afferra e in silenzio
percorriamo il corridoio con Ronald che ci scorta fedelmente. Raggiungiamo
la cucina e ancora nessuna domanda, le mie guance iniziano a raffreddarsi e il
timore di non sapere cosa dirle sta scemando. Lancio uno sguardo alla finestra
e noto le luci della veranda accese, aggrotto la fronte.
«Theo?»
«Dimmi» replico, lo sguardo puntato ancora sulla finestra.
«C’è una donna fuori. Ha bussato così tante volte che pensavo fossi tu, ho
provato ad aprire ma papà ha chiuso a chiave e ha nascosto il mazzo. Lo fa
sempre perché una volta sono scappata di notte per andare da Mr. Snowflakes
e si è preso un colpo…» blatera.
Mi irrigidisco e la porto sul divano, cercando di ignorare il fatto che una
bambina di sei anni sia fuggita di notte in aperta campagna. Chi diavolo bussa
alla porta di Lachlan alle cinque del mattino? Addie ha le chiavi, non
perderebbe tempo in attesa che qualcuno le apra e chiunque altro aspetterebbe
che sia un orario decente.
«Ora vado ad aprire, tu devi stare qui però» la informo.
Lilli annuisce e accarezza Ronald che le dona qualche leccata affettuosa. Mi
dirigo verso la porta e prendo le chiavi senza farmi vedere da Lilli, ho la mia
copia per quando torniamo da scuola ma non voglio che me le rubi per fuggire
nella notte. Prenderebbe a me un colpo. Apro la porta e aggrotto la fronte
perplessa, esco nel portico e cerco di capire chi possa essere. Poi la vedo. È
seduta sul divanetto con le mani intrecciate in grembo, un cappotto di pelliccia
costoso addosso e i capelli biondi che cadono in una cascata dorata fino al
seno. Biondi, come quelli di sua figlia. Mi chiudo la porta alle spalle e prendo
un respiro profondo. Non voglio saltare a conclusioni affrettate.
«Posso aiutarla?»
La donna si volta e capisco che i miei dubbi erano fondati. Punta i suoi occhi
azzurri nei miei, gli stessi in cui da tre mesi mi specchio ogni giorno. Cerco di
controllare il tremore delle mie mani e mi avvicino, sincerandomi che Lilli non
sbuchi fuori da un momento all’altro.
La donna si alza e mi raggiunge, è più alta di me e più slanciata. Sembra una
di quelle modelle che si vedono sulle campagne pubblicitarie di moda, sui
social, sulle riviste… È perfetta.
«Sto cercando Lachlan Willow» mi informa.
Stringo i pugni e cerco di rimanere impassibile. «E chi lo cerca?»
E lei mi sorride. Un sorriso un po’ falso e amaro, come se sapesse già chi
sono e fosse pronta a rimettermi al mio posto.
«Sono sua moglie» esordisce.
Il cuore che mi batte come un forsennato nel petto. Sto per chiederle di
ripetere perché forse ho capito male, forse sto ancora dormendo e devo solo
risvegliarmi. Prima che riesca a ribattere Lachlan spalanca la porta e
l’espressione del suo viso quando la vede mi fa capire che non è un sogno. È un
vero e proprio incubo.
«Karla?» sussurra, quasi stordito.
«Ciao, Lachlan. Sono tornata».
Mi mordo il labbro, ha un sorriso terribilmente uguale a quello di Lilli.
Lancio uno sguardo a Lachlan e sento gli occhi riempirsi di lacrime. Sua
moglie. Karla è sua moglie, maledizione. Come ha potuto non dirmi che sono
ancora sposati? Come ha potuto non dirmi fino a che punto la stava
aspettando? A giudicare da come la guarda, la stava aspettando anche mentre
mi dichiarava il suo amore la notte scorsa.
Stupida Theodora, non impari mai!
Lachlan si avvicina, i suoi occhi sono ancora su di lei. La guarda come se
fosse la sola cosa che esista al mondo, come se volesse nutrirsi di lei. La guarda
e non vede nient’altro. Scendo gli scalini e percorro il vialetto a piedi nudi. La
ghiaia mi graffia le piante dei piedi e il freddo mi colpisce come una lama, ma
io non mi fermo. Lachlan mi chiama ma io non mi fermo. Entro nella rimessa
e recupero le chiavi dal barattolo di latta, poi corro in casa. Mi chiudo dentro e
resto immobile in mezzo al corridoio con gli occhi sgranati per ore.
Poi, per la prima volta dopo mesi, piango.
 
***
 
 
Mi muovo da lì solo nel pomeriggio. Ho i piedi doloranti e davvero troppo
freddo.
Accendo il riscaldamento e mi preparo un panino, poi faccio quello che non
faccio da mesi. Prendo il mio computer e accedo ai miei vecchi contatti. Ho
bisogno di ritrovare un po’ della mia vecchia me, della mia vecchia vita. Accedo
alla casella di posta elettronica, social network e conto corrente. L’ultimo è il
solo che non trovo come l’ho lasciato. È prosciugato, fino all’ultimo centesimo.
Sono riuscita a spostare la maggior parte dei soldi su un altro conto prima di
partire, perciò controllo anche quello e sospiro di sollievo quando ritrovo il
denaro. Passo qualche ora a controllare le e-mail e a resistere alla tentazione di
rispondere ai miei clienti, poi decido di aprire il motore di ricerca e di trovare
il coraggio di cercare un’altra meta. Mi sono trattenuta a Cedar più di quanto
fosse necessario e l’ho fatto perché il mio cuore si è legato a un uomo che
credevo potesse amarmi. Ma ora che è tornata Karla io devo andare.
Ne ho la conferma quando l’icona della mia casella di posta segnala una
notifica e il nome di Conrad compare sullo schermo. Mi immobilizzo, il cuore
torna a galopparmi in gola e realizzo troppo tardi l’errore che ho commesso.
Lachlan e sua moglie Karla passano in secondo piano: mi ha trovata.
Apro il suo messaggio con le dita che tremano.
 
Un passo falso dopo mesi, Nellie.
Sto arrivando.
 
Quelle parole si imprimono nella mia mente. Asciugo le guance umide di
lacrime e spengo il computer con un gesto deciso. Lo richiudo nella sua
custodia, poi apro l’armadio e tiro fuori la valigia. Ci infilo dentro i vestiti alla
rinfusa e faccio la stessa cosa con le scarpe e con tutto quello che riesco a
trovare.
Devo cambiare di nuovo colore di capelli e rimettermi in viaggio. Non c’è più
tempo da perdere. Guiderò fino all’aeroporto e prenderò il primo volo che mi porterà
abbastanza lontano da qui, mi dimenticherò di Cedar, di Lachlan e di Lilli.
Come ho potuto connettermi? Sono una stupida.
Quando finisco di impacchettare le mie cose è già buio. Lachlan bussa alla
mia porta. So che è lui. Il telefono non ha mai smesso di squillare nelle ultime
tre ore e lei se n’è andata, l’ho sentita andare via mentre finivo di programmare
la mia ennesima fuga. Raccolgo i capelli in una coda di cavallo alta, nascondo le
valigie sotto il letto e controllo il mio telefono. Non mi ha ancora scritto, forse
non mi ha ancora trovata.
«Theodora, ora entro con la mia chiave!» sbraita Lachlan.
Non ho il tempo di rispondere che sento la chiave girare nella serratura e lo
vedo sbucare in fondo al corridoio. Stringo il battente della porta tra le dita e
lo fisso in silenzio. Sono così delusa e arrabbiata che non riesco a parlare.
Ancor di più, sono infuriata con me stessa per aver commesso un errore così
stupido come accedere alla mia casella di posta. O abbassare le difese e
permettermi di sperare in una vita migliore con Lachlan. È un uomo sposato,
maledizione.
E io una che sta per fuggire di nuovo.
«Theo» mormora.
«Siete sposati» sbotto.
La mia non è una domanda, ma un’accusa. Una di quelle che si sputano
addosso con disprezzo e senza possibilità di difesa da parte dell’altra persona.
Lachlan mi si avvicina e prova a toccarmi, ma io mi allontano. Non voglio
farmi toccare da lui, non gli permetterò di fregarmi di nuovo.
«Sì, ma non ha nessuna importanza» farfuglia.
«Non ha nessuna importanza? Sono sei anni che la aspetti, la notte scorsa mi
hai detto di amarmi e oggi ce la ritroviamo fuori da casa tua che annuncia il
suo grande ritorno. Dimmi la verità: tu sei felice. Sei così felice che non sai
come chiedermi di togliermi dalle palle!»
Finalmente può smettere di aspettare, può dare a Lilli la madre di cui ha
bisogno e può avere la sua famiglia. Ha riavuto tutto in poche ore mentre io, in
meno tempo, sono tornata al punto di partenza. Devo di nuovo cercare di
capire come sopravvivere, come liberarmi di lui.
Lachlan scuote la testa e prova a toccarmi di nuovo, ma io mi allontano.
«Vorrei che non mi toccassi» sibilo.
«D’accordo, non ti tocco, ma giuro che non è come dici. Non sono felice che
sia tornata, non so nemmeno come parlarne con Lilli. L’ho mandata da Laurel,
ma non fa altro che chiedere tue notizie».
«Non sono problemi miei».
Mi asciugo una guancia e distolgo lo sguardo. Amo Lilli con tutto il cuore e
l’idea di lasciarla senza dirle addio mi uccide, e odio Lachlan per quello che mi
sta facendo.
«Theo, ti prego…»
«L’hai aspettata per sei anni, ora è qui. Complimenti, bastava scoparti
qualcuno di fisso per qualche mese per farla tornare da te».
Probabilmente Karla era a conoscenza della nostra storia e Lachlan mi ha
usata per farla ingelosire. Sembra folle come piano, ma io che cosa ne so delle
relazioni? Non ne ho mai avuta una, non mi è mai stato permesso. Conrad ha
controllato la mia vita ossessivamente fino quando non sono arrivata in questo
posto maledetto.
«Non sai quello che dici» sbotta. «Sono innamorato di te, voglio stare con te
e non me ne frega un cazzo di Karla».
Ridacchio e controllo di nuovo il mio telefono. Ancora nessuna notifica.
«Parliamo di tua moglie, Lachlan. Mi hai tenuta a distanza perché eri troppo
impegnato a struggerti per lei e ora è qui, davvero sei innamorato di me? Sono
solo una che ti sei scopato, una per la quale non hai dovuto pagare un motel.
Congratulazioni, spero che passiate un bel Natale e che Lilli la accetti».
Non credo che succederà, ma non sono affari miei. Lo supero e mi dirigo
alla porta, la spalanco e indico l’esterno con un cenno del capo. Lui rimane al
centro del corridoio e incrocia le braccia al petto.
«Non me ne vado».
«Me ne vado io tanto. Questa è l’ultima volta che mi vedi».
Sussulta e si strofina il viso.
«Che cazzo dovrei fare? Si è presentata qui, non l’ho chiamata io ed è
sempre la madre di mia figlia. Non posso mandarla via, ma questo non
significa che io voglia lei».
«Avresti potuto divorziare. O, almeno, dirmi che siete ancora sposati. Era
questo il segreto, vero?»
Ora mi è tutto più chiaro. La storia di Ollie era un diversivo, qualcosa con
cui depistarmi per poter continuare ad approfittare del mio amore per lui e sua
figlia. Mi sento proprio umiliata. Lachlan annuisce e si avvicina, mi sfiora una
guancia e mi fissa negli occhi.
«Ti amo» sussurra. «Ti amo e ti sento. Voglio stare con te».
«Tu non mi ami, tu mi hai solo usata. Sono io che mi sono innamorata di te e
Lilli e che dovrò imparare a stare senza di lei ora».
«Theo…»
Mi volto e prendo un respiro profondo.
«Vattene ora. Questa non è più casa tua. Ti odio con tutta me stessa».
Annuisce e picchia un pugno contro la parete. Sussulto e mi allontano, non
mi volto verso di lui fino a quando non sento i suoi passi sulle scale.
«Non ci porterà via quello che abbiamo, hai capito?» sbotta. «Chiederò il
divorzio, chiamerò un avvocato già domani. Non me ne frega un cazzo di lei,
mettitelo in testa. Mi importa solo di noi».
Per un istante le sue parole mi danno speranza, poi mi ricordo della triste
realtà: domani sarò di nuovo in fuga, da sola. Non può più esserci alcun noi.
 
32
 
Lachlan
 
 
Chiudo la telefonata con Laurel e mi strofino gli occhi con forza. Le ho chiesto
di occuparsi di Lilli e di tenerla lontana dalla scuola, da Cedar e da chiunque
possa avvicinarsi a lei e dirle che sua madre è qui. Sono riuscito a tenerle
lontane finora, ma non posso farlo in eterno. E poi c’è Theodora che ha eretto
una fortezza intorno a sé e mi ha letteralmente sbattuto fuori dalla sua vita e
da casa sua. So che avrei dovuto dirle che sono ancora sposato con Karla,
Laurel lo sapeva e per questo ha insistito così tanto perché fossi sincero con lei,
ma non gliel’ho detto perché ero sicuro che non avrebbe capito. Non ho mai
chiesto il divorzio perché la stavo aspettando, ma ho smesso di farlo da quando
io e Theo siamo diventati noi e non ho intenzione di ricominciare ora solo
perché quella stronza irresponsabile ha deciso che rivuole indietro la sua
famiglia.
Questa è la mia famiglia e io non voglio avere più niente a che fare con lei,
me ne sono reso conto nello stesso momento in cui l’ho vista. Non ho provato
niente, solo una rabbia accecante al centro del cuore e il bisogno di rinfacciarle
tutto quello che si è persa e che mi ha tolto. Avevo voglia di rinfacciarle il suo
egoismo, ma non sentivo il bisogno di toccarla o anche solo di averla più
vicina. Ho reagito in quel modo quando me la sono ritrovato davanti solo
perché ero sotto shock, ma io so perfettamente quello che voglio.
Non ci rinuncerò, non questa volta. Ho sacrificato tutta la mia vita perché
Karla ha deciso che fosse giusto così, ma adesso basta. Adesso è il mio
momento e voglio tutto quello che non ho potuto avere fino a qualche mese fa,
lo voglio con tutto me stesso e non me ne frega niente di Karla e di quello che
dovrebbe essere giusto per Lilli. Mi è bastato vederla per rendermi conto che
non sarebbe mai in grado di essere una madre per lei, a malapena si è ricordata
di sua figlia. Era troppo impegnata a cercare di toccarmi.
Prendo le chiavi dell’auto ed esco, è una giornata fredda e soleggiata, il cielo
è azzurro e potrebbe trarre in inganno se non fosse per la temperatura rigida.
Avevo in programma di portare Theo alla clinica di Finnik oggi, volevo farle
vedere il posto in cui mi sento più a mio agio ultimamente, ma i miei piani
sono cambiati quando quella stronza ha deciso di presentarsi alla mia porta e
mandare all’aria la mia vita e quella di Lilli.
Sto per dirigermi verso il cottage quando mi accorgo che il pick-up di
Theodora non è al suo solito posto. Prendo il telefono dalla tasca e provo a
chiamarla: parte subito la segreteria telefonica. Prendo la mia copia delle chiavi
e raggiungo il cottage, ma dentro sembra tutto in ordine. Esco da lì e provo a
richiamarla, ma non cambia niente. Laurel ha detto che non è riuscita a
parlarci e io non l’ho sentita uscire perché sono crollato sul divano come un
idiota. Sospiro e mi incammino verso il pick-up, ma in quel momento un taxi
percorre il viale d’accesso alla mia proprietà. È Karla.
Vorrei chiamare la polizia e farla allontanare da qui con la forza, ma so che
sembrerebbe folle fare una cosa del genere nei confronti della propria moglie.
L’auto si ferma poco distante da me e Karla scende. Indossa stivali con un tacco
vertiginoso e un cappotto così pacchiano che se lo vedesse nostra figlia
impallidirebbe. Una fottuta pelliccia in casa di Lilli? Solo un’estranea oserebbe
fare una cosa del genere. Mi raggiunge e si ferma a pochi passi da me, gli occhi
azzurri sono coperti dagli spessi occhiali da sole e i capelli biondi sono sciolti
sulla schiena. Una volta la amavo così tanto, veneravo questa donna come se
fosse la creatura più preziosa del pianeta e mi sarei gettato nel fuoco per lei e la
nostra famiglia, ora non riesco nemmeno a immaginare di commettere lo
stesso errore.
«Che cosa vuoi, Karla?»
Lei si avvicina e sorride, è identica a Lilli. So che mia figlia non mi
assomiglia quasi in niente fisicamente e ne ho la prova proprio adesso che
Karla è davanti a me.
«Accogli così tua moglie? Mi hai mandata via ieri, ma mi sto stancando.
Dobbiamo parlare e non me ne andrò da qui fino a quando non avremo risolto
i nostri problemi».
Incrocio le braccia al petto e mi appoggio al pick-up, soppeso le sue parole e
scuoto la testa.
«Ti presenti qui dopo sei anni e pretendi anche di dettare le regole?
Abbiamo una vita, io e Lilli. Non possiamo stare dietro ai tuoi capricci e non
puoi sconvolgere il mondo di una bambina che non ha idea di chi diavolo tu
sia! Ti rendi conto di quanto tempo è passato? Sei anni, Karla. Sei fottutissimi
anni. Aveva tre mesi quando te ne sei andata».
Esplodo, il cuore che mi batte come un forsennato nel petto e il fiato corto.
Come osa presentarsi qui e fingersi spazientita? Non ha idea di cos’ho passato
da quando ha deciso di mandarci al diavolo e rifarsi una vita.
«Dio, ti comporti come un bambino. Non sono tagliata per fare la madre,
Lachlan. Cosa avrei dovuto fare?»
«Provarci? Evitare di abbandonarla? Avrei potuto sul serio denunciarti per
abbandono di minore, cazzo. Hai lasciato una bambina di tre mesi in casa da
sola!»
«Ero uscita solo dieci minuti prima del tuo rientro, ti ho visto salire nel
nostro palazzo».
Stringo i pugni e cerco di respirare profondamente, di mantenere la calma e
di non dimostrarle quanto male sono stato per colpa sua. So che cerca questo,
gode nel sapere di essere al centro dell’attenzione.
«Cosa diavolo vuoi, quindi?» sbotto.
«Siamo ancora sposati» mi ricorda. «Voglio solo conoscere Lilli, provare ad
esserle amica…»
Ridacchio e inizio a camminare avanti e indietro. Abbiamo un’amica che si
occupa di noi e che definisce Lilli la sua bambina e poi abbiamo lei, che è la
madre biologica di Lilli e che legalmente è mia moglie, ma che vuole solo
essere amica di sua figlia.
«Saremo sposati ancora per poco, ho intenzione di divorziare e tagliare i
ponti con te».
«Non puoi farlo» ringhia.
«Posso eccome. E posso anche decidere in che modo farti avvicinare a mia
figlia. Perché è mia figlia, Karla. L’ho cresciuta da solo mentre tu eri in giro per
il mondo a risolvere la tua crisi esistenziale e lei non è un’amica che puoi
venire a trovare prima di ripartire per un viaggio con un biglietto di sola
andata».
Col cazzo che le farò conoscere Lilli per poi vederla andare via tra una
settimana. So cosa vuol dire sopportare l’abbandono della propria madre e non
intendo far sì che lei lo viva sulla propria pelle. Lilli non ha mai avuto una
madre, sa convivere con questo vuoto, ma sapere di averla e vederla andare via
sarebbe devastante. Non riempirò quel vuoto per qualche ora. Karla si avvicina
e prova a toccarmi, ma io mi allontano.
«Ti prego, Lachlan… Ero giovane e non sapevo cosa fare, ma adesso sono
una donna».
«Te lo chiedo per l’ultima volta: che cosa vuoi?»
«Non ho un posto in cui andare. Ho bisogno d’aiuto per un po’».
Se fosse arrivata all’inizio dell’estate, forse mi sarei fatto fregare e avrei finto
di poter giocare alla famiglia felice, ma ora è troppo tardi. Prendo il portafogli
e le porgo tutti i contanti che ho, poi le chiamo un taxi. I suoi occhi si
riempiono di lacrime, ma non posso farmi scalfire da lei.
«Trovati un motel e resta lontana da qui».
«Ma tu hai questa proprietà enorme, come puoi cacciarmi via? È per lei,
vero?»
Impreco e mi avvicino al suo viso.
«Vattene» ringhio.
«Tornerò domani e poi ancora e ancora. Allora andrà meglio».
«Vattene!»
«Abbiamo una figlia e siamo sposati».
«Vaffanculo!» urlo. «Io ho una figlia, Karla, tu non c’entri niente qui!»
Salgo a bordo del mio pick-up e me ne vado, guido cercando di capire dove
potrei trovare Theo. Perché sarò anche sposato con Karla, ma non voglio avere
niente a che fare con lei. Voglio Theodora e devo trovarla.
 
33
 
Theodora
 
 
Controllo lo specchietto retrovisore e mi mordo il labbro in preda al nervoso.
So che probabilmente Conrad non mi ha ancora trovata, ma quell’errore
potrebbe essermi stato fatale. Accedere ai miei contatti, soprattutto social,
potrebbe avergli dato un vantaggio su di me e se mi trova, la mia vita sarà un
inferno. Mi rendo conto solo ora di quanto fosse folle la mia idea di viaggiare
per sempre, non avrei mai potuto farlo e prima o poi lui mi avrebbe trovata e
costretta a tornare a Los Angeles e tenermi incatenata a lui. Vuole che io sia la
sua miniera d’oro, la sua chiave per aprire la porta del lusso che mamma non è
stata in grado di aprire. Ma io non ho nessuna intenzione di farlo. Mi farò
ammazzare piuttosto di fare quello che mi chiede quel verme.
Spingo il piede sull’acceleratore e impreco quando sento il motore
borbottare rumorosamente, se questa carretta si ferma proprio ora sarò
costretta a chiamare un taxi e perderò un sacco di tempo. Lachlan mi troverà e
io mi farò riportare in quella casa anche solo per poter stare con lui e Lilli
un’ultima volta. Questo permetterebbe a Conrad di trovare anche loro e di
ferirli, in qualche modo. Non glielo permetterò. Supero il viale principale e il
distributore di benzina. Ho fatto il pieno appena due giorni fa, perciò, non
devo fermarmi e posso tirare dritto fino a Cincinnati, ma quando imbocco la
statale, il motore inizia a gemere. Il pick-up procede a singhiozzi, come se
stesse per spegnersi, e il panico mi stringe lo stomaco. Procedo così per un
miglio, poi succede quello che temevo: il pick-up muore in un verso strozzato,
buttando fuori un insopportabile fumo nero dal cofano.
Scendo e mi scosto i capelli dalla fronte. Sono ancora ramati e le
sopracciglia sono dello stesso colore, ma appena arriverò in un posto nuovo
diventeranno di un nuovo colore. Cancellerò Lachlan e l’amore che aveva per i
miei capelli e che, per una notte, ho creduto potesse provare anche per me.
Prendo il telefono dalla borsa e valuto se chiamare Laurel o un taxi. Decido
di optare per la seconda opzione. Rientro in auto e chiamo un taxi, do
indicazioni precise per farmi trovare e attendo che arrivi, nel frattempo
controllo ogni auto che passa ossessivamente e cerco di ripetermi che Conrad
non arriverà prima che io me ne vada. Non mi troverà e io sono al sicuro. Poi mi
concedo un momento per soffrire, per sentire le lacrime strisciarmi sulle
guance e provare rimpianto per qualcosa che non ho mai avuto. Sfoglio le foto
di Lachlan e Lilli nella galleria del mio telefono e piango all’idea di non
rivedere più quella dolce bambina dagli occhi limpidi e il suo papà burbero e
dal cuore grande. Lachlan avrà anche sbagliato, ma mi ha allungato la mano a
ogni pericolo di caduta e mi ha stretta tra le sue braccia come nessuno ha mai
fatto prima. Non saprò mai se davvero sia innamorato di me, ma io so cosa c’è
nel mio cuore.
Tiro su con il naso e blocco lo schermo del cellulare, poi sollevo lo sguardo e
impreco quando vedo l’auto di Ollie accostare davanti alla mia. Spingo la
valigia sotto al sedile e mi stampo in faccia un sorriso.
«Che ci fai qui, Theo?»
Lo guardo attraverso il finestrino abbassato e batto la mano sul volante.
«L’amico mi ha lasciata di nuovo a piedi, ma arriverà presto un taxi a
prendermi».
«E dove vai?»
«Dal parrucchiere» mento.
Ollie lancia un’occhiata al cofano fumante e apre lo sportello.
«Scendi, potrebbe essere pericoloso stare a bordo mentre c’è tutto questo
fumo».
Mi afferra per un braccio e mi trascina fuori dal pick-up, sbatto le palpebre
in preda alla confusione e rabbrividisco quando non mi lascia andare. Cerco di
divincolarmi, ma lui stringe la presa. È sempre stato troppo un po’ troppo
ossessivo, tra i messaggi e le uscite, ma ora sembra proprio uscito di testa. Mi
trascina verso la sua Mustang mentre cerco di divincolarmi.
«Ollie, cosa stai facendo? Lasciami stare!»
Lui impreca e stringe la presa.
«Ti prego, non me la rendere difficile, stai calma!»
Non passano abbastanza auto per far sembrare la situazione sospetta e per la
seconda volta dopo mesi provo paura. Paura pura, stritolante e agghiacciante,
in grado di attorcigliarmi le viscere.
«Ollie, lasciami andare!» sbraito.
Lui lo fa, ma poi fa qualcos’altro che mi fa schizzare il cuore in gola. Estrae
un coltello dalla tasca del giubbotto e me lo punta addosso, lo tiene basso in
modo che le auto che ci sfrecciano accanto non lo notino, ma io lo vedo
benissimo. La luce colpisce la lama, mandando un bagliore dritto nei miei
occhi.
«Cosa vuoi da me?» sussurro.
«Sali in auto, Theo. Sali in quella maledetta auto».
Scuoto la testa e lancio uno sguardo al mio pick-up, sta ancora fumando
come il comignolo di un camino, ma devo trovare un modo per andarmene da
qui.
«Non vengo da nessuna parte con te! Sapevo fin dal primo momento di non
potermi fidare» sputo fuori.
«Cristo, smettila di parlare e sali in auto!»
Mi si avvicina e mi trascina fino allo sportello dal lato del passeggero, la
lama che preme contro la stoffa pesante del mio cappotto. Trattengo il fiato e
cerco di pensare a un piano.
«Per favore, sali» ripete. «Non voglio farti del male, io non sono così».
Mi spinge sul sedile e ritira il coltello, poi chiude l’auto il tempo di fare il
giro e salire al posto di guida. Mette in moto e sfreccia sulla statale, le mani
salde intorno al volante e lo sguardo furioso.
«Seguiamo il tuo piano originale».
«Di cosa stai parlando?»
«Te ne stavi andando da Cedar, quindi te ne andrai. Ma devo assicurarmi
che tu vada nel posto giusto».
Continuo a non capire quello che sta dicendo, il fatto che gli tremi la voce
non mi aiuta.
«Che cosa vuoi da me?»
Mi lancia uno sguardo, poi imbocca la strada per Cincinnati.
«Onestamente? All’inizio mi piacevi, volevo davvero una storia, qualcosa
che mi facesse tornare la voglia di mettermi in gioco, poi ho capito che non
c’era modo per noi due di avere di più di un’amicizia quindi ho smesso di
volere qualcosa» risponde.
«E allora dove diavolo mi porti?»
Non andrò da nessuna parte con lui, a costo di lanciarmi da questa auto in
corsa.
«A casa» sussurra. «Ti riporto a casa».
Un’ora più tardi, la Mustang di Ollie fa il suo ingresso in quella che sembra
una pista di atterraggio privata, siamo all’interno dell’aeroporto ma qui non ci
sono né aerei né persone. Abbiamo aggirato tutto quello che dovrebbe esserci
per renderlo tale, poi un uomo della sicurezza ci ha fatto accedere a una strada
ben asfaltata che ci ha condotto fino a qui. E davanti a me c’è l’aereo privato
della Miller Enterprises. Guardo Ollie con odio e rabbrividisco quando vedo la
scaletta dell’aereo aprirsi, poi Conrad scendere con il suo passo fiero e la
convinzione di essere la persona più importate del pianeta. Senza di me non
sarebbe niente, senza mia madre non sarà mai quello che vuole essere. E
quell’aereo è mio, così come la casa in cui vive e l’auto che guida. È tutto mio.
Guardo Ollie e gli sputo in faccia.
«Pezzo di merda» ringhio.
Lui si pulisce la guancia e sbatte le palpebre.
«Theodora, giuro che mi dispiace».
«Quanto ti ha dato? Sono soldi miei, ma tu questo lo sai. Lo sai, ecco perché
eri così ossessionato da me». Come ho potuto essere così stupida da non
rendermene conto? Ollie era a conoscenza di chi fossi, fin da subito.
«Ti giuro che non lo sapevo! Mi ha contattato solo quando ci conoscevamo
già da un po’ e senti… Avevo bisogno di soldi per l’officina» farfuglia.
«Vaffanculo!»
Scendo dall’auto e cerco di mantenere la calma. Non c’è modo di fuggire da
qui. Conrad mi caricherà su quel jet e mi porterà a casa dove ricomincerà
l’inferno da cui sono scappata. Non posso fuggire.
Osservo l’uomo che mi ha rovinato la vita e mi viene da vomitare. Alto, con
un fisico asciutto nonostante i suoi cinquant’anni e con un’ossessione per
quella che potrebbe essere sua figlia al limite della follia. Lo raggiungo e sputo
anche sulle sue costose scarpe. Che vada a farsi fottere.
«Non è questo il modo di accogliere la famiglia» mi rimprovera.
«Schifoso pezzo di merda».
«Le parole, Nellie. O forse dovrei chiamarti Theodora».
Scoppia a ridere e mi si avvicina, trattengo il fiato e stringo i pugni lungo i
fianchi mentre le sue dita mi scostano i capelli dalle guance e le sue labbra si
abbassano sulle mie. Vorrei vomitare. Mi allontano e cerco di mantenere la
calma.
«Non avrai quello che vuoi, Conrad» lo informo.
«Io non credo» ribatte.
«Non ti sposerò, maledetto psicopatico! Non avrai i miei soldi e nemmeno
me, mi farò ammazzare piuttosto che darti quello che vuoi».
Lui sbuffa e mi tocca di nuovo i capelli.
«I tuoi bellissimi capelli biondi…» mormora.
«Vaffanculo».
«Ti sbagli, avrò esattamente quello che voglio e sai perché?» domanda, senza
lasciarmi il tempo di rispondere. «Perché so che tieni molto a una bambina che
ama gli animali e che vive da queste parti, una bambina che potrei raggiungere
anche ora se solo volessi. Una bambina alla quale potrei fare molto male,
Nellie. E sai che non minaccio mai a vuoto».
Al pensiero delle sue mani su Lilli, mi viene da vomitare. Come diavolo ha
trovato Ollie? Restare a Cedar per più di un mese è stato un errore. Guardo
l’uomo che è il mio patrigno e penso a mia madre e a quello che di sicuro non
voleva per me quando mi ha lasciato. Lo guardo e sento la rabbia scoppiarmi
sottopelle, dentro il cuore e nella testa. Lancio uno sguardo a Ollie e poi fisso
l’aereo, quindi prendo una decisione. Nessuno torcerà un capello a Lilli.
«Se succede qualcosa a Lilli, vi ammazzo con le mie mani» li minaccio.
Ollie resta in silenzio, Conrad invece scoppia a ridere.
«Ho sempre pensato che tu fossi meglio di tua madre. Sei più forte, piena di
talento e sexy» sussurra.
«Mi fai vomitare».
Lo supero e salgo la scaletta da sola prima che chiami uno dei suoi tirapiedi
per portarmi su quel jet di peso, poi cerco di escogitare l’ennesimo piano per
sopravvivere. Sono fuggita una volta da lui, lo farò di nuovo. Non vincerà mai,
non mi avrà mai nel modo perverso in cui desidera e non toccherà un dollaro
del patrimonio della mia famiglia finché sarò su questo pianeta.
E anche se vorrei fuggire seduta stante, resto. Perché Lilli è più importante.
 
34
 
Lachlan
 
 
Se n’è andata.
Theodora ha lasciato Cedar senza darmi la possibilità di rimediare al casino
che ho combinato, senza lasciare traccia. Sono andato al cottage a cercarla per
una settimana dall’ultima volta che l’ho vista, ho chiesto a Laurel di provare a
rintracciarla per fare da tramite e tenderle un’imboscata, ma il suo numero
non risulta più attivo. Non posso passare davanti a quella casa senza stringere i
pugni, non riesco neanche a guardare il granaio senza sentire una mano
stringermi il petto.
Come ho potuto anche solo pensare che mentirle riguardo a Karla fosse una
mossa intelligente? Non l’ho fatto davvero perché la stavo aspettando, ma
perché pensavo che dirle che sono sposato l’avrebbe allontanata da me. Invece,
ecco che l’ho persa lo stesso. Mi ritrovo con una bambina di sei anni che mi
chiede di lei continuamente, che piange perché non vuole andare a scuola e
non vuole conoscere la madre. La donna che ho aspettato per anni e che adesso
vorrei fuori dalla mia vita esattamente come lo è stata fino a qualche giorno fa.
Le cose sono piuttosto incasinate e confuse. Non vuole divorziare e si
presenta qui almeno una volta al giorno, Lilli l’ha incontrata due volte e tutte e
due le volte l’ha evitata fingendo che non fosse davanti a lei, parlando di Theo
per tutto il tempo. Parla sempre di lei, dei suoi gattini che sono ancora a casa
nostra e dello spettacolo di Natale al quale non verrà e che si trasformerà in un
disastro quando lo scopriranno gli altri bambini. Passa le ore a costruire quella
maledetta miniatura della fattoria che le ha regalato e poi piange perché vuole
la sua amica e le manca zia Shirley.
Mi esplode la testa, mi fa male il cuore e odio me stesso per quello che ho
fatto. Rivivo l’ultima notte insieme ogni volta che chiudo gli occhi e sento le
stesse emozioni che ho provato quando le ho detto quelle parole. La verità è
che forse non sono affatto maturo come credevo di essere, sono un padre
single che sa tanto di animali e bambini e niente della vita vera e delle relazioni
che un uomo della sua età dovrebbe avere, così l’unica che volevo l’ho mandata
a puttane. E mia figlia mi odia per questo.
Lilli corre con Ronald davanti al cottage e non riesco a smettere di guardare
la tenda dietro la quale Theo mi spiava credendo che non la vedessi. È come
vivere con un fantasma: la vedo ovunque io vada in questa proprietà e dato che
non tornerà, vorrei poter smettere di sentire quello che sento. Volevo
proteggere mia figlia e mi ripetevo tutte quelle stronzate per tenerla a distanza,
ma era me che tenevo al sicuro. Era me che dovevo tutelare. Laurel mi da una
gomitata e mi porge un bicchiere del whisky di Brooks, lo accetto di buon
grado e ne ingollo un po’.
«Ho un indirizzo e-mail che Theo mi ha lasciato quando l’ho assunta al
negozio. Ho provato a scriverle e la mail non mi è tornata indietro, forse c’è
speranza».
«Non capisco perché non sia nemmeno venuta a licenziarsi, sembra sparita
nel nulla…»
Per quanto io comprenda il male che le ho fatto, sento che c’è qualcosa di
strano in questa storia. Theo è letteralmente sparita nel nulla da un giorno
all’altro, non si è licenziata e non ha consegnato le chiavi di una casa in cui
viveva in affitto. Sembra essere fuggita. Mi schiarisco la voce e guardo Lilli che
sale gli scalini della veranda del cottage e appiccica il naso alla finestra del
soggiorno per cercarla.
«Quella bambina la ama sul serio» mormora Laurel.
«E non è la sola».
Mi fissa con uno sguardo carico di compassione e mi da una pacca sulla
coscia.
«Io dico di non perderci d’animo. Theodora esiste, è una persona reale che
abbiamo conosciuto e avuto qui con noi per mesi, non può essere
semplicemente svanita nel nulla. Lei ti odia? Okay, ma possiamo trovarla e tu
puoi rimediare».
Sospiro e mi accendo una sigaretta. Ci ho già pensato, ma c’è sempre Karla
di mezzo.
«Karla non vuole il divorzio e continua a presentarsi qui e a destabilizzare
Lilli. Non dorme bene da giorni e mi ripete che non vuole conoscere la sua
mamma perché lei ne ha già una anche se non è vera».
Penso di aver incasinato le cose più di quanto credessi. Mentre io passavo le
ore alla clinica veterinaria, Lilli si innamorava di Theo e del suo modo
sfrontato di proteggerla e lottare per le sue piccole battaglie. In lei vede quello
che avrebbe sempre dovuto avere e che invece non conosce neanche. Le ho
ripetuto spesso che Theodora è un’amica e anche lei l’ha fatto, ma ora che se
n’è andata e che Karla è qui, Lilli sostiene di avere già una madre. Non la
nomina mai, ma so che si riferisce a lei. Mi strofino il viso e impreco.
«Che cazzo dovrei fare, Laurel? Lilli non la vuole, io non la voglio, eppure
non si toglie dalle palle» ringhio. «Se solo se ne andasse potrei concentrarmi
su Theo e cercarla. Potrei aiutare Lilli ad avere una piccola speranza di
ritrovarla e spiegarle con calma che lei non è sua madre, anche se la ama.
Invece Lilli piange, lancia i suoi giocattoli in aria e mi ripete che vuole Theo e
che odia Karla… Giuro che non so come tirarmene fuori» confesso.
Non ho mai visto Lilli così fuori controllo come in questi giorni, sta bene
solo con i suoi animali. Mi ferisce sapere di non poterla aiutare. Laurel mi
prende la mano nella sua e la stringe.
«Come prima cosa, devi portare quella stronza dal tuo avvocato e non uscire
da quello studio fino a quando non avrai messo in chiaro le cose. Lei non vuole
Lilli, Lachlan».
«Lo so, ma allora cosa vuole?» sbotto.
Non riesco a darmi una risposta. Vuole un posto in cui stare? Io non ho un
dollaro da darle, rischio di rimanere senza casa e sono ancora qui solo perché
ho venduto una parte della mia proprietà, ma non so quanto riuscirò a tirare
avanti. Non può essere tornata per i soldi, io non ne ho.
«Non lo so, ma devi portarla da quell’avvocato».
Annuisco e prendo il telefono dalla tasca dei jeans, sblocco lo schermo e
provo a scrivere all’indirizzo e-mail di cui parlava Laurel.
 
Ti prego, rispondimi. Dimmi che stai bene, che mi credi, che mi senti ancora. Ti
prego, rispondimi.
 
Scrivo quelle banali parole e lo rimetto in tasca, sapendo già che non otterrò
risposta. Sto per rispondere a Laurel riguardo la faccenda dell’avvocato, ma mi
fermo quando vedo un taxi percorrere il viale d’accesso e fermarsi davanti alla
fattoria. Mi irrigidisco e lancio un’occhiata a Lilli che tiene Ronald al suo
fianco e fissa sua madre scendere dall’auto con repulsione. Karla viene verso di
noi con la sua costosa pelliccia addosso e gli stivali con il tacco che rischiano di
farla cadere sul ghiaccio.
«Dio, non la sopporto» mugugna Laurel. «Vado da Lilli».
Lilli mi fissa con così tanta rabbia che mi sento morire. Mia figlia non mi ha
mai guardato così. Mi avvicino a mia moglie e incrocio le braccia al petto.
«Che diavolo stai facendo?» sibilo.
«Vengo a trovare mio marito e mia figlia. Hai parlato con Lillibeth per
spiegarle che presto vivrò qui con voi? Deve rispettare le mie regole da ora in
avanti, non tollero animali in casa, né bambini che urlano».
Prendo un respiro profondo e cerco di non mettermi a urlare io.
«Non vivrai qui e non darai ordini a mia figlia, domani firmerai le carte del
divorzio e sparirai di nuovo dalle nostre vite».
Karla scoppia a ridere e si toglie gli occhiali da sole, il trucco pesante la
rende volgare e fuori luogo in questo posto. «Tesoro, Lillibeth è mia figlia.
Sono sua madre, non è tua».
Veniamo interrotti proprio dalla diretta interessata che si infila tra di noi e
spinge sua madre così forte da farla inciampare sugli scalini della veranda.
Afferro Lilli per le spalle e fermo Ronald che è pronto a saltare addosso a Karla
per difendere la sua piccola padrona. Che diavolo sta succedendo?
«Tu non sei la mia mamma, io non ti voglio!» urla. «Io non voglio stare con
te in casa mia, nessuno può togliermi Mrs. Bennet e Mr. Bingley, Ronald, Theo
e Dora! Nessuno mi toglierà Mr. Snowflakes! Non ti voglio qui, vai via!» urla.
Le lacrime le scorrono sulle guance mentre il respiro affannoso crea piccole
nuvolette nell’aria. Mi inginocchio e la stringo al mio petto, Ronald ringhia a
Karla ma si rilassa quando lo chiamo e gli ordino di sedersi vicino a me.
Avvicino le labbra all’orecchio di mia figlia e cerco di parlare con tono deciso.
«Tesoro, nessuno ti toglierà i tuoi amici e tua madre non vivrà qui. Mi senti?
Nessuno si metterà tra di noi» sussurro. «Adesso calmati, Ronald si spaventa
vedendoti piangere così».
Si morde il labbro inferiore e lancia uno sguardo a Ronald, poi annuisce.
«Mandala via, papà. Non voglio vederla mai più».
Annuisco e mi alzo, Karla ci guarda con disprezzo e punta un dito contro
Lilli.
«Sono tua madre, Lillibeth! Tua madre, maledizione. Ti ho partorita io e ho
anche scelto quel ridicolo nome che porti» sbotta.
«Io ho già una mamma! Non è di sangue e non ha scelto il mio nome, ma è
bravissima e per colpa tua è andata via. Non ti voglio qui!» sbraita Lilli.
Corre in casa e si sbatte la porta alle spalle, Laurel si precipita da lei per
cercare di calmarla e io devo trattenermi dal gettarmi addosso a quella stronza
di Karla. La afferro per un gomito e la trascino fino al taxi, apro lo sportello e
la spingo sul sedile.
«Domani ti presenterai dall’avvocato e poi ci lascerai in pace» sibilo.
«Ma non so dove andare, Lachlan».
«Non me ne frega un cazzo, anch’io non sapevo dove andare sei anni fa e
avevo anche una bambina di tre mesi da crescere. Fatti venire un’idea che non
sia fare la parassita. Se rispondi di nuovo in quel modo a mia figlia, la prossima
volta non starò in silenzio».
Chiudo lo sportello e mi allontano di corsa. L’unica cosa che mi interessa è
Lilli, quindi entro in casa e corro in camera sua dove la trovo seduta sul
pavimento tra le gambe di Laurel. Piange e picchia i pugni sul pavimento. Mi
inginocchio davanti a lei e afferro le sue manine tra le mie, la attiro tra le mie
braccia e la stringo forte.
«L’ho mandata via».
«Non la voglio vedere mai più, è cattiva!» urla.
«Non la vedrai più, te lo giuro».
«Voglio Theo» piagnucola. «L’ha mandata via e ora non tornerà più. Mi
manca tanto».
Sospiro e la stringo più forte, mi sta spezzando il cuore.
«Manca tanto anche a me, tesoro» sussurro. «Ma Theodora non è la tua
mamma, lo sai. So che la ami e che ti manca, ma non è la tua mamma».
Lei tira su con il naso e si strofina gli occhi.
«Perché non ho avuto il tempo di chiederglielo, ma avrebbe detto di sì. Mi
ha chiamata la sua bambina e mi vuole bene, vuole bene anche ai miei animali
e a te!»
Mi alzo e mi siedo sul letto, la posiziono sulle mie gambe e prendo le sue
guance umide tra i palmi.
«Ti prometto che cercheremo Theo fino alla fine del mondo, d’accordo?».
Annuisce e si asciuga le guance.
«Ti voglio bene, Lillibeth Anna» sussurro. «La troveremo».
Non sono convinto di poter mantenere la promessa che le ho fatto.
Theodora è sparita nel nulla ed è come se non volesse farsi trovare. Ma mi
inventerò qualcosa perché non manca solo a Lilli, manca anche a me.
35
 
Eleanor
 
 
Los Angeles mi sfreccia accanto attraverso il vetro oscurato della Mercedes di
Conrad. Smith, il nostro autista, mi sta portando alla Miller Enterprises e io
vorrei solo chiedergli di fuggire in Ohio e di portarmi da una dolce bambina
bionda con gli occhi azzurri, dal suo scorbutico padre e dai loro animali.
Vorrei fuggire dalla mia vita e tornare da Lilli e Lachlan più di ogni altra cosa
al mondo, ma so di non poterlo fare se voglio proteggere Lilli. Conrad è fuori
controllo e provocarlo non è una buona idea, so che non si farebbe problemi a
ferire qualcuno per ottenere ciò che brama da anni. Ci ha provato con mio
padre, con mia madre e ora con me, nel modo più malato possibile.
Conrad era un socio della Miller quando mio padre la fondò subito dopo
l’università. Contribuì ai primi anni di crescita economica con grandi progetti
di successo, ma a causa dei suoi problemi con le sostanze stupefacenti, mio
padre fu costretto a rilevare la sua quota. All’epoca Conrad accettò di buon
grado, con l’obiettivo di ricomprare la sua quota una volta disintossicatosi e
tornato alla normalità, ma uscito dal tunnel della droga il suo patrimonio era
ridotto a poche migliaia di dollari appena sufficienti a consentirgli di
ricomprare la casa in cui viveva e che aveva perso. Continuò a lavorare alla
Miller come architetto e restò sempre fedele a mio padre, io non ero mai a mio
agio quando girava in casa nostra. Guardava i miei genitori con un tale astio da
mettermi i brividi e capii il motivo quando mio padre si ammalò e mia madre
ereditò l’intera fortuna dei Miller. Ci ritrovammo Conrad tra i piedi,
continuamente.
Mamma era così fragile e ingenua che gli permise di avvicinarsi, cedette alle
sue lusinghe dopo qualche anno e divenne la sua fedele compagna. Ma non lo
sposò mai. Forse, dentro di lei, conosceva la verità e aveva solo bisogno di due
braccia che la stringessero in assenza di quelle di papà. Non ho mai saputo per
quale motivo lo abbia fatto, so solo che quando mamma è venuta a mancare un
anno fa, la mia vita è diventata un inferno. Ho ereditato la fortuna della mia
famiglia e sono diventata una delle donne più ricche della California, ma
Conrad era ancora in casa mia. E aveva un piano: sposarmi per riprendersi
quello che mio padre gli aveva tolto, con tutti gli interessi. Una follia bella e
buona! Ho progettato la mia fuga in attesa di capire come raccogliere prove e
potermi rivolgere a qualcuno per avere protezione. Ho raccolto alcune delle
minacce che mi ha rivolto con delle registrazioni, ma non ero sicura che fosse
sufficiente. Così, quando ho capito che avrebbe fatto qualunque cosa per
mettere le mani sul mio patrimonio, sono fuggita. Se non mi sposa, devo
morire. Mio padre lo aveva stabilito nel suo testamento in modo che un
giorno, dopo la sua morte e quella di mia madre, se mi fosse successo qualcosa,
lui avrebbe ereditato tutto. Mi chiedo che diavolo pensasse papà in quel
momento, ma è per questo che so di essere in pericolo. Per ora è fissato con la
storia del matrimonio, ma so che non esiterebbe a togliermi di mezzo.
Devo fare qualcosa, elaborare un piano.
L’auto si ferma sotto il palazzo della compagnia e scendo. Indosso un
completo nero e una camicia di seta bianca, tacchi vertiginosi e gioielli che
costano più del pick-up di Lachlan. Ecco chi sono davvero, cosa si nasconde
dentro di me. Una donna piena di soldi e che non assomiglia per niente alla
persona che lui ha conosciuto. Mi scosto una ciocca ramata dal viso e mi dirigo
verso l’ascensore. Ho lavorato da casa nelle ultime tre settimane, chiedendo a
Cynthia, la donna che ho assunto prima della mia partenza, di aggiornarmi su
quello che è successo negli ultimi mesi. Mi fido di lei perché era la segretaria di
mio padre e odia Conrad quasi quanto me. Salgo al ventesimo piano e, quando
l’ascensore si ferma, prendo un respiro profondo. Esco da quel cubicolo con
passo deciso, sfoggiando il mio nuovo colore di capelli che fa incazzare
Conrad a morte, e un sorriso sfrontato. Saluto Eliza alla reception e percorro il
corridoio sotto lo sguardo attonito di tutti. Entro nel mio ufficio e rilascio il
respiro che avevo trattenuto.
«Vaffanculo» borbotto.
Lascio la valigetta sulla scrivania e mi slaccio la giacca, mi viene da
soffocare.
«Ben detto, ragazza».
Sussulto e mi volto, ritrovandomi davanti Cynthia con un sorriso enorme
sulle labbra. Seduta sul divano, sorseggia un caffè e mi fissa con la testa
inclinata di lato.
«Questo colore di capelli ti sta divinamente» afferma.
«Mi hai spaventata».
«Mai quanto quella serpe del tuo patrigno, immagino» mugugna.
Rabbrividisco e mi lascio cadere sulla scrivania. Vorrei prendere il primo
volo per Cincinnati, ma devo stare qui e risolvere questo dannato problema.
«Tu sarai la mia segretaria, vero? Anzi, la mia collaboratrice, il mio braccio
destro…»
Lei scoppia a ridere e si alza. È una donna quasi sessantenne con un fisico
ancora asciutto, bellissimi capelli color miele e caldi occhi azzurri. Da piccola
credevo fosse la sosia di Nicole Kidman, oggi sono convinta che qualcuno
potrebbe davvero scambiarla per lei. Cynthia mi raggiunge e si siede di fronte
alla mia scrivania dal ripiano in vetro. Il mio ufficio è meraviglioso, arredato
con cura e senza troppi fronzoli, è perfetto per me. Ho scelto un arredamento
in contrasto con il pavimento nero, per questo le sedie e il divano sono bianchi
e la scrivania è in vetro, peccato che stare qui ora mi faccia venire la nausea.
«Tesoro io, pur di sbattere fuori da qui quel pezzo di merda, ti faccio anche
da governante».
Scoppio a ridere le stringo la mano. «Dobbiamo riunire il personale e
spiegare loro che non devono obbedire a nessuna delle parole che uscirà dalle
sue labbra. Prometterò un aumento a chi mi sarà fedele, in caso contrario
dovranno lasciare la Miller per sempre».
Cynthia annuisce e incrocia le gambe, la gonna del completo le si solleva e
lei gioca con l’orlo. Mi ricorda mia madre, il modo in cui si occupa di me è
altrettanto amorevole.
«Sono d’accordo, ma dobbiamo avere occhi dappertutto. Conrad ha cercato
di scavalcarmi spesso in questi mesi e molti di loro si sono lasciati intimidire
da quell’idiota» borbotta.
«Beh, se si faranno intimidire da lui, riceveranno un bel calcio in culo dalla
sottoscritta. La Miller è mia, lui è solo uno schifoso parassita di cui dobbiamo
liberarci. Sto raccogliendo delle prove, vivo con lui e faccio la brava per
proteggere Lilli, ma intanto lavoro per liberarci tutti quanti. Se ho abbastanza
prove delle sue minacce, lo potrò denunciare» mormoro.
Lo sguardo di Cynthia si addolcisce quando nomino Lilli e il mio cuore si
stringe. Vorrei tanto telefonare a casa e sentire la sua voce, ma non posso
metterla in pericolo. Ho parlato a questa donna di Lilli, Lachlan e il posto
incantato in cui vivono e non vede l’ora di conoscerli. Dentro di me so che il
mio piano funzionerà, che tornerò da loro e che Karla se ne sarà andata, ma
temo che Lachlan non mi aspetterà. E questo pensiero mi uccide. L’idea di
tenere Lilli al sicuro, però, mi conforta.
«Tesoro…»
Sorrido e le stringo le mani.
«Sto bene, davvero. Ora facciamo quella riunione e pensiamo a liberarci di
Conrad, poi andiamo a visitare quel cantiere di cui mi hai parlato ieri».
Questa parte del mio lavoro mi è mancata da morire, per questo forse non
sono ancora crollata. Lavorare mi aiuta a restare lucida.
«D’accordo, ma se vuoi…»
«Sto bene, ho delle idee per quel progetto e non vedo l’ora di parlartene».
Lei si alza e mi strizza un occhio, raccoglie alcuni fogli dalla scrivania poi mi
indica la porta invitandomi a precederla.
«Bentornata a casa, Eleanor Miller. Facciamo il culo a quel pallone gonfiato
e andiamo a conoscere la tua bambina dagli occhi azzurri!»
Sorrido e le strizzo l’occhio di rimando, mentre prego che Lilli non mi odi
per averla lasciata sola. E nemmeno suo padre. Mi mancano da morire, tutti e
due.
 
 

36
 
Lachlan
 
 
La disperazione nella quale mi ha gettato la scomparsa di Theodora, mi ha
portato a fare cose che non avrei mai pensato di poter fare. Ho passato anni
chiuso in questa fattoria, lontano dalle relazioni per proteggere mia figlia.
Sono stato così attento da aver creato una corazza impenetrabile. Tenevo tutti
oltre il viale d’accesso, mi dicevo di non avere bisogno di nessuno e lavoravo
sodo per dimostrarmi che avevo ragione. Ci ho messo anni per reprimere il
bisogno di sentire una persona accanto, il calore di un corpo da amare e la
sensazione di non essere solo… Poi è arrivata lei: Theodora Sanders. Ha preso
in affitto il cottage di mia madre e la mia vita è precipitata in una spirale di
scelte azzardate e fottutamente idiote per uno come me. Togliere i freni e
lanciarsi a tutta velocità sul viale delle emozioni mi ha portato qui.
Se n’è andata da più di un mese e non riesco a dimenticarla, la sua presenza è
ovunque in questo posto e non posso neanche più girare per casa mia senza
vederla mezza nuda con quel sorriso malizioso. Lilli ogni giorno sale gli scalini
della veranda del cottage e prova ad aprire la porta, sperando che lei sia
tornata. Lo fa lo stesso anche se sa che non servirà a niente, non perde la
speranza e la aspetta, mentre io sto perdendo la voglia anche di continuare a
cercarla. Tutto quello che ho fatto è stato un buco nell’acqua e odio non averle
posto più domande sulla sua vita in California, non so nemmeno dove viveva
prima di arrivare qui. Los Angeles, ma dove? Sono stato così concentrato su
me stesso e ora eccomi qui, senza indizi.
Una cosa buona è successa però: Karla ha accettato di firmare le carte del
divorzio e ha smesso di venire qui tutti i giorni. Non si è arresa, ma forse ha
capito che non sono disposto a farmi una camminata sul viale dei ricordi. Quei
ricordi sono sbiaditi, chiusi in un baule con un lucchetto enorme e non ho
intenzione di tirarli fuori. Mi chiedo come io abbia potuto pensare di amarla
ancora. Tutto di lei mi irrita e non riesco a pensare di poter stare ancora
insieme. Nonostante questo, però, è ancora a Cedar e mi scrive ogni giorno.
Cerca di parlarmi quando vado in città e quando sono solo, chiedendomi
un’altra possibilità. Se Lilli fosse stata d’accordo, le avrei permesso di
avvicinarsi a lei, ma mia figlia non vuole averci niente a che fare. E nemmeno
Karla sembra volerlo, a dire il vero.
Tutto ciò mi confonde. Se non vuole sua figlia, allora cosa vuole?
Sbuffo e affondo le mani nelle tasche del giubbotto. Natale è passato e i
pochi turisti di passaggio hanno lasciato Cedar, la neve è ancora accumulata ai
lati delle strade e i marciapiedi sono ricoperti di lastre di ghiaccio. Si muore di
freddo, ma l’atmosfera di questo posto in inverno è sempre unica. Saluto il
signor Kipling e cammino fino all’angolo tra la banca e la stazione di polizia, è
così piccola che a stento si nota, ma anche a Cedar abbiamo uno sceriffo. Non
ha molto lavoro da fare, a parte sedare le liti sulla gestione dell’organizzazione
delle feste a tema, ma c’è. Spingo la porta in vetro e mi tolgo la neve dai capelli,
sta nevicando fottutamente forte e ho dovuto lasciare il pick-up al parcheggio
comunale perché le strade fino a qui non sono ancora state ripulite. Lancio
uno sguardo al bancone vuoto e mi schiarisco la voce.
«Sceriffo Dornan?»
Non ricevendo risposta, mi incammino verso il suo ufficio. Busso due volte
alla porta ed entro, trovandolo seduto alla scrivania con il telefono incollato
all’orecchio. Jenks Dornan è un trentenne dal fisico atletico con capelli biondi
e occhi azzurri, uno degli scapoli di questo posto. Laurel aveva una cotta per
lui da adolescente. Da quando è tornato per occuparsi della sicurezza della
città non li ho mai visti insieme e lei se ne tiene bene alla larga. Credo che tra i
due sia successo qualcosa, ma non posso affermarlo con certezza. Laurel riesce
a estorcere informazioni a chiunque, ma di se stessa non parla mai.
Mi avvicino alla scrivania e mi siedo sulla sedia rivestita in pelle malconcia
che mi indica Jenks, attendo che finisca di parlare al telefono e lancio
un’occhiata al piccolo ufficio ricoperto di scartoffie su ogni superficie.
L’amministrazione comunale potrebbe anche concedergli uno spazio più
grande e adatto al suo lavoro, sembra di stare in uno scantinato. Prendo la
tazza di caffè che mi versa e lo osservo sospirare di sollievo quando
interrompe la telefonata e mi lancia uno sguardo esausto.
«Scusami, Lachlan» borbotta. «C’è gente che non ha ancora capito che io
non posso risolvere ogni dannato problema di questo posto».
Sollevo la mano come a scacciare le sue parole e accenno un sorriso.
«Nessun problema, non ho fretta».
In realtà ho fretta, ma sono sicuro che nemmeno Jenks possa fare qualcosa
per la fuga di Theodora quindi resto calmo.
«Che succede? Cosa posso fare per te?»
Non sono mai stato qui, perciò cerco le parole giuste per chiedere una cosa
del genere a uno sceriffo. È Jenks, lo conosco da anni e non devo preoccuparmi
troppo di come parlerò, è vero, ma non so come chiederglielo. Distolgo lo
sguardo e mi torturo il labbro tra i denti, lui sembra avere la pazienza
necessaria ad attendere per giorni, ma non mi sento affatto più calmo. Prendo
un respiro profondo e mi gratto la testa.
«Ho bisogno di un favore, ma non so se puoi aiutarmi» mormoro.
«Prova a chiedere».
Annuisco e mi abbandono contro lo schienale della poltrona. «Penso che
non sia necessario spiegarti che avevo una relazione con una donna».
Lui scoppia a ridere e intreccia le dita sulla scrivania. Dannata Cedar.
«Theodora, giusto?»
«Theodora Sanders».
Mi sento così in imbarazzo…
«Cosa vuoi, Lachlan?» domanda.
Prendo coraggio e decido di farla finita. Sono un uomo adulto e sono venuto
qui con un obiettivo preciso, non mi tirerò indietro solo perché mi sembra
tutto folle e insensato. Potrei aiutare una persona, riavere la donna che amo e
restituire il sorriso a mia figlia e tutto grazie a Jenks. Tirerò fuori la testa dal
culo.
«Theodora è scomparsa» confesso.
Lui sgrana gli occhi e si sistema meglio sulla sedia, afferra un blocco e una
penna e inizia a pensare a cosa fare. Glielo leggo negli occhi.
«Quando è stata l’ultima volta che l’hai vista? Come ti è sembrata? Cosa
indossava?»
Sbuffo perché non è quel genere di scomparsa.
«Non è scomparsa in quel senso» chiarisco, guadagnandomi uno sguardo
confuso. «Mia moglie si è presentata qui improvvisamente e lei è sparita. So
che mi dirai che l’ho ferita e che ora sta cercando di non farsi trovare, ma sono
preoccupato. È sparita nel nulla, Jenks. Non risponde nemmeno a Laurel, non
si è licenziata prima di andarsene e non mi ha lasciato le chiavi del cottage. C’è
qualcosa che non va, so che è così. Non so come trovarla, mi serve aiuto. Non
ha lasciato nessuna traccia».
Rilascio un respiro e mi sento più leggero. So che il pensiero più logico è
quello di un allontanamento volontario con il fine di chiudere la nostra
relazione, ma il fatto che non si sia neanche licenziata mi lascia il sospetto che
possa esserci qualcosa che non va. E Laurel mi ha raccontato che Theo voleva
essere sempre pagata in contanti. Ora che ci penso non l’ho mai vista usare una
carta di credito.
«Hai provato a cercarla sui social media?»
La voce di Jenks mi riporta alla realtà.
«Nessuna Theodora Sanders che sia lei».
Annuisce e si gratta il polso.
«Senti, per quello che ne sappiamo, potrebbe aver avuto una specie di crollo
emotivo ed essere scappata pur di non doverti vedere con tua moglie…»
«Non si fa viva da più di un mese, il suo numero di telefono non è più attivo
e l’unico contatto che abbiamo è un indirizzo e-mail che ha lasciato a Laurel.
Indovina? Zero risposte».
«Questo è strano» borbotta.
Fottutamente strano. Jenks digita qualcosa sulla tastiera e punta lo sguardo
sullo schermo, aggrotta la fronte e sbatte le palpebre.
«Che c’è?» sbotto.
«Non lo so» risponde. «Ho pensato di fare solo una rapida ricerca tanto per
vedere se risulta l’ultimo indirizzo prima di Cedar, ma non mi esce nessun
risultato».
Sembra sorpreso, ma io non lo sono per niente. Sono abituato a sbattere
contro un muro da qualche settimana ormai.
«Come se non esistesse?»
Jenks annuisce e si gratta il mento mentre continua a fissare lo schermo.
«Potrebbe trattarsi di un errore» chiarisce. «Dammi qualche giorno, faccio
alcune ricerche e ti faccio sapere cosa scopro. Deve esserci una motivazione, la
gente non sparisce nel nulla senza lasciare traccia. Quella è roba da film,
qualche traccia ci deve essere».
Annuisco e mi alzo, prendo il suo biglietto da visita e me lo infilo in tasca.
«Grazie, Jenks».
Fa un cenno del capo e mi promette di richiamarmi non appena avrà
qualcosa da dirmi. Mentre esco dall’ufficio dello sceriffo e torno al mio pick-
up, un brivido mi striscia dentro. Si confonde con quelli causati dal freddo, è
subdolo e veloce, ma lo sento. Theodora sembra non essere mai esistita, ma lei
era reale. È reale. È in ogni cosa che guardo in questo maledetto paese, nel
granaio che non riesco più ad aprire, è dentro di me e sulla mia pelle. Non può
essere sparita.
Devo trovarla, non posso continuare a vederla ovunque io vada senza che lei
sia davvero qui. Anche se non vuole essere trovata io devo vederla almeno
un’ultima volta. Mi sento male all’idea di averla lasciata andare via così.
 
37
 
Eleanor
 
 
Quando devi ideare un piano in poco tempo, la possibilità che questo faccia
acqua da più parti è decisamente alta e, forse, è quello che sta succedendo al
mio.
Non ho mai pensato di poter fuggire in eterno, e nemmeno di poter vivere
per sempre con una falsa identità, pensavo solo di poter guadagnare del tempo.
Ma quel tempo l’ho perso in due occhi azzurri come il cielo in una giornata di
sole, e mi sono distratta.
Penso a Lachlan tutti i giorni. Leggo le sue e-mail e quelle di Laurel di notte,
quando le lacrime che mi strisciano sulle guance silenziose sembrano stridere
come gessetti su una lavagna. Non oso rispondere e mantengo fede alle mie
promesse, ma dentro mi sento vuota e sola. Cynthia mi sta accanto e mi aiuta
ad affrontare l’incubo in cui sono piombata dal mio ritorno, ma ho bisogno
che questa situazione finisca presto. Devo tornare a Cedar, parlare con
Lachlan e spiegargli tutto. Devo dirgli la verità sulla mia identità e su quello
che ho fatto, glielo devo. Anche se non potrò restare, anche se non mi odierà,
devo vederlo un’ultima volta.
Mi sento così sporca, macchiata di tutte le bugie che ho dovuto dirgli per
lasciarmi amare come desideravo. E per amarlo. Perché lo sento, il nostro
amore è ovunque io vada. Me lo porto dentro e non importa se io sono Nellie
o Theo, è reale.
Mi strofino il viso e mi infilo il completo che ho preparato per oggi. Il mio
lavoro mi era mancato ed è l’unico motivo per cui non sono ancora impazzita
in questa casa. La villa dei miei genitori è diventata una prigione e il posto in
cui mi sento più in pericolo al mondo. Se penso a casa mia immagino una
fattoria in un terreno sperduto dell’Ohio, distese di campi e al confine con un
paese popolato da abitanti impiccioni, ma incredibilmente gentili. Mi chiedo
come se la passi Laurel, i suoi bambini e la giovane Kipling. Mi chiedo come se
la passi Lilli, se sia riuscita a convincere suo padre a comprarle un alpaca… Mi
chiedo anche come stia Ollie, pronto a vendermi a un mostro pur di salvare la
sua officina e vendicarsi di Lachlan. So che l’ha fatto anche per quello, non ho
bisogno di sentirmelo dire. I soldi possono muovere anche le coscienze
peggiori, ma è la vendetta quella che acceca le persone che di solito una
coscienza ce l’hanno. Ollie forse non è a posto, ma credo che una coscienza ce
l’abbia.
Conrad deve avermi studiata per bene, ha capito quale anello debole della
catena colpire per arrivare a me. E ora mi ricatta, minaccia di fare del male a
Lilli e di rovinare Lachlan se non lo sposo. Minacce e urla, minacce e rabbia.
La stessa rabbia che mi sta infettando ora. Ne sono piena e non so come
liberarmene, vorrei solo che sparisse dalla mia vita.
Una cosa per volta, mi ripeto.
Infilo le mie Amina Mauddi argentate e lancio uno sguardo al mio riflesso
nello specchio: completo di Gucci viola, scarpe da migliaia di dollari e una
Birkin che potrei vendere per pagare un anno di college a Lilli. Cosa
penserebbe Lachlan di me? Di Theodora non è rimasto più niente, solo i
capelli ramati e lo sguardo pieno di speranza sotto quella facciata
d’indifferenza, ed è a quello che devo aggrapparmi. Io non sono quello che
indosso, io sono quello che sono quando sono con lui. Un corpo fragile e pieno
di segreti che voglio condividere solo con lui, contro il suo petto caldo e
dentro il suo cuore puro. Io sono quello che lui vede, non quello che vedo nello
specchio.
Esco dalla mia stanza e percorro il corridoio fino alla scalinata circolare che
sbuca nell’atrio della casa. I miei tacchi picchiettano sul pavimento di marmo e
il cuore romba forte nel petto. Sbatto le palpebre per scacciare lacrime di
rabbia e mi dirigo verso il salone per la colazione. Conrad è seduto a capo del
lungo tavolo da pranzo che mio padre fece realizzare su misura quando
comprò questo posto. La rabbia mi fa venire voglia di lanciargli contro una
sedia, o qualunque cosa possa ferirlo. Mi verso una tazza di caffè ed evito di
sedermi, lui mi lancia un’occhiata e si alza.
Mi vengono i brividi quando mi si avvicina e cerca di toccarmi.
«Non ti irrigidire così, Nellie» sussurra.
Sbatto le palpebre e mi sposto, ma lui mi blocca contro il muro con il suo
corpo e posa le labbra sotto al mio orecchio. Mi viene da vomitare, mi tremano
le mani e so che sentirlo lo fa impazzire.
«Non voglio farti del male».
«Toglimi le mani di dosso, Conrad».
Lui sorride e mi slaccia il bottone della giacca, sotto indosso un corsetto in
pizzo lilla e vorrei morire. I suoi occhi sfiorano la curva del mio seno mentre
pensa le cose più ignobili. È il mio maledetto patrigno!
«Sei davvero sexy, Nellie».
«Vaffanculo» sbotto. Mi sposto dal muro e gli pianto il tacco delle mie
costose scarpe nel polpaccio, mi riallaccio la giacca e prendo la borsa.
«Toccami un’altra volta e non ti colpirò sul polpaccio, maledetto figlio di
puttana». E non aggiungo che potrei non usare una scarpa ma qualcosa di più
letale. Mi scosto i capelli dalla fronte e chiudo gli occhi, prendo un respiro
profondo e li riapro.
«Il tempo sta per scadere, Eleanor» mormora. «O fai quello che devi fare, o
la tua amichetta dagli occhi azzurri potrebbe pagare per questa tua
testardaggine».
«Se tocchi Lilli…»
Sogghigna e incrocia le braccia al petto.
«Io non voglio farle del male. Per chi mi hai preso? È una bambina
adorabile, non le farei mai del male. Ma sai bene che se non farai quello che
devi sarò costretto a farlo».
Stringo un pugno e sento le unghie affondare nel palmo, cerco di
concentrarmi su quel dolore e calmarmi. «Io non ti sposerò, Conrad» affermo.
«Mi caverei gli occhi piuttosto di sposarti. Cosa farai? Mi ucciderai?» La mia è
una provocazione, ma voglio davvero conoscere la sua risposta. Lui sembra
soppesare l’opzione, poi scoppia a ridere.
«Non direttamente» risponde. «Ti conviene iniziare ad accettare che presto
sarai mia moglie, mi ridarai tutto quello che quel bastardo di tuo padre mi ha
tolto. Che tu lo voglia o no, Nellie».
Rabbrividisco e decido di andarmene il più in fretta possibile da questa casa.
Cosa diavolo vuole fare? Inscenare un suicidio e liberarsi di me senza che
possa essere accusato? Un brivido di puro terrore mi attraversa lo stomaco.
Devo fare qualcosa per andarmene da qui prima che quel folle mi faccia fuori,
ma Lilli è sempre la mia priorità.
La terrò al sicuro.
 
38
 
Lachlan
 
 
Gennaio è finito e di Theo non c’è ancora traccia. Ho chiamato Jenks diverse
volte nelle ultime settimane, ma non è riuscito a trovare niente e io sto
cercando di continuare ad ascoltare quella voce che sento dentro e che mi
ripete che lei è da qualche parte e pensa ancora a noi. Che non può essere
scomparsa e basta. Me lo ripeto da due mesi ormai, ma passano i giorni e la
mia speranza sbiadisce. È una nuvola sempre più piccola e fumosa, sta per
dissolversi in una primavera che arriverà senza di lei.
Lilli corre nel cortile sul retro con Ronald mentre cerca di insegnargli a
seguire un percorso a ostacoli che ha creato nei giorni scorsi. Ci sarà una gara
a Finnik il mese prossimo e le ho promesso che potrà partecipare solo se
smetterà di essere così arrabbiata con me. Vuole trattare male Karla? Mi sta
bene, ma io non ce la faccio più a scontrarmi con la mia bambina.
Mi accendo una sigaretta e mi appoggio al muro, la osservo dare ordini al
povero Ronald e mi scappa una risata.
«Prova a premiarlo quando riesce a eseguire un ordine» propongo.
«Secondo me non funzionerà».
«Funzionerà, tesoro. Vedrai che Ronald imparerà in fretta».
Lei sospira e corre a prendere un biscotto dalla scatola sulla veranda, lo
tiene nella mano mentre impartisce ordini e incoraggia il suo piccolo amico a
quattro zampe. Sto per farle notare che dovrebbe rivedere il tono della voce,
quando il rumore di pneumatici che affondano nella ghiaia del viale d’accesso
mi fa voltare. L’idea che Karla sia di nuovo qui, mi fa venire un nodo allo
stomaco.
«Piccola, vado a vedere chi c’è alla porta. Se hai bisogno, urla» dico a Lilli.
Lei agita una mano senza distogliere lo sguardo da Ronald.
«Sì, papà, io e Ronald continuiamo ad allenarci».
La lascio alla sua impresa e faccio il giro della casa, svolto sul vialetto
davanti alla fattoria e il cuore salta un battito quando vedo l’auto dello sceriffo.
Accelero il passo e lo raggiungo mentre lui si sistema sul divanetto della mia
veranda, tiene in mano il suo telefono e mi saluta con un cenno della mano.
Salgo gli scalini e butto la sigaretta nel portacenere.
«Dimmi che hai novità» lo prego.
Jenks solleva lo sguardo e arriccia le labbra in una smorfia.
«Lachlan, amico, non so come dirtelo…»
Il cuore mi schizza in gola e il pensiero che le sia successo qualcosa, mi fa
venire da vomitare. «Che succede?»
Lui sospira e si gratta la mascella ricoperta da un sottile strato di barba,
lancia uno sguardo al cottage e poi mi fissa negli occhi. «Non esiste nessuna
Theodora Sanders, Lachlan. Ho cercato bene, ho chiesto aiuto al dipartimento
di Cincinnati perché mi sembrava veramente assurdo, ma è così. Theodora
Sanders non esiste. Non la tua, almeno».
Lo fisso come se fosse fuori di testa e rimango in silenzio per qualche
minuto mentre elaboro quello che mi ha appena detto, poi scoppio a ridere.
«Che diavolo dici, Jenks? Lei esiste, ha vissuto qui. Ti ho mandato il
contratto d’affitto del cottage, lo aveva stipulato con mia zia. Lei esiste».
Lui annuisce e si accende una sigaretta.
«Esiste, ma quello non è il suo nome. Ti ha mai parlato della sua vita a Los
Angeles? È possibile che fosse in fuga da qualcosa o qualcuno?»
Scuoto la testa, la confusione che mi schiaccia i pensieri.
«Theodora Sanders non è il suo nome e se non conosciamo il suo vero nome
o qualche altra informazione che potrebbe aiutarci, non possiamo
rintracciarla. Mi hai detto che è un ingegnere edile, ma non basta…» continua.
Theodora non esiste. Registro quell’informazione e impreco. Come ho potuto
non accorgermi che era in fuga da qualcosa? Mi ha mentito così bene, senza
mai vacillare… Se Theodora non è il suo nome, allora come si chiama? Come
diavolo faremo a trovarla? Cerco di darmi una calmata mentre cammino sulle
assi di legno sconnesse, poi mi viene un’idea.
«Un investigatore privato potrebbe aiutarci?» chiedo.
Jenks scrolla le spalle.
«Potrebbe, ma non sappiamo da dove partire».
«Brooks» borbotto, guadagnandomi uno sguardo confuso. «Chiamo
Brooks».
«Senza offesa, ma quel figlio di puttana è sempre fatto e nel letto di qualche
star di Hollywood, pensi che possa aiutarci?»
Non rispondo perché lo sto già chiamando, penso davvero che potrebbe
aiutarci. Jenks sospira e si scompiglia i capelli, mi lancia un’occhiata di
disapprovazione e resta in silenzio mentre io cammino avanti e indietro fino a
consumare il pavimento della veranda. Ricompongo il numero quattro volte
prima di ottenere una risposta e, quando succede, riconosco il mio migliore
amico in tutto e per tutto.
«Ma che cazzo hai, Lachlan? Non puoi aspettare che io ti richiami?» esclama
Brooks.
Forse Jenks aveva ragione… «No, amico, ho bisogno del tuo aiuto, e in
fretta».
Brooks dice qualcosa a qualcuno, poi sento un rumore forte che potrebbe
essere quello di una porta.
«Lilli sta bene?» domanda.
«Lilli sta benissimo» lo rassicuro. «Senti, sono qui con Jenks…»
Brooks conosce la storia, l’ho chiamato qualche settimana fa per confidargli
il casino che avevo combinato e da quel momento ci siamo sentiti
regolarmente con la promessa di tenerlo aggiornato nel caso in cui Jenks
scoprisse qualcosa. Lo sceriffo ha ragione, da quando Brooks è diventato una
star di Hollywood, non è più il ragazzo affidabile che è cresciuto a Cedar, ma
lui ha qualcosa che noi non abbiamo: i soldi.
«Non ha trovato niente? Ehi, Jenks!»
Jenks riesce a sentirlo e solleva la mano, roteando gli occhi.
«Non ha trovato niente perché Theodora Sanders non esiste» spiego.
Brooks resta in silenzio per qualche istante, poi cerca di venirne a capo.
«Fammi capire, ci hai scopato per mesi e ora non esiste? Senti, Lachlan, non
è possibile. Non è che ti fai di qualcosa?»
«Non stiamo parlando di te» ringhio.
«Touché» borbotta. «Okay, Theodora non esiste, presumo che significhi che
ha una falsa identità. Cosa vuoi fare?»
«Devo scoprire la sua vera identità e mi chiedevo…» mi interrompo per
prendere un respiro. «Ti ricordi dell’investigatore privato che hai assunto per
tenere d’occhio Olivia?»
Impreca così tanto che se fossimo in televisione, l’intero discorso sarebbe da
censurare.
«Cristo, Lachlan, non nominare Olivia» mugugna. «Ci penso io alla tua
Theodora, mandami tutto quello che hai su di lei e io lo contatterò. Puoi dire a
Jenks di mandarmi quello che ha trovato, metteremo insieme i pezzi».
Sospiro di sollievo e mi lascio cadere accanto a Jenks che mi fissa con
disapprovazione.
«Grazie, dico sul serio» dico a Brooks.
«Dovere, amico. Quando hai bisogno, basta che mi chiami».
«Magari se rispondessi…» interviene Jenks.
Scoppio a ridere e scuoto la testa.
«Quando torni a casa?» indago.
Di solito torna almeno una volta all’anno, ma con tutta questa faccenda di
Theo mi sono dimenticato di non averlo visto per le vacanze di Natale. Brooks
si schiarisce la voce.
«Non lo so, al momento non muoio dalla voglia di tornare».
«Olivia non vive più a Cedar da anni ormai» gli ricordo.
«Lo so e, onestamente, non me ne frega un cazzo».
Alzo gli occhi al cielo e stavolta concordo con Jenks quando mima testa di
cazzo con le labbra.
«Devo andare, Brooks» taglio corto, intravedendo Lilli che si incammina
verso di me. «Tienimi aggiornato e valuta l’idea di tornare a casa, giusto per un
po’».
«Ci penserò. Da’ un bacio alla mia piccola Lilli».
39
 
Lachlan
 
Sto impazzendo. Sul serio, il mio cervello è sul punto di esplodere e inizio a
chiedermi se abbia senso stare qui a cercarla ancora. Febbraio si è portato via
due mesi di porte sbattute in faccia e buchi nell’acqua e non so cos’altro fare
per ritrovarla. La vita sta andando avanti, Lilli ha smesso di schiacciare il naso
contro la finestra della cucina del cottage e Karla si fa vedere sempre meno da
queste parti, forse l’unico che non riesce ad andare avanti sono io. Non riesco a
smettere di pensare alla sua pelle, al suo sorriso e a quello che sentivo quando
era qui e mi provocava, mi spingeva a uscire dall’angolo in cui mi ero rifugiato.
Forse è sparita e basta, come un sogno che al mattino si dissolve. E io me ne sto
qui a cercarla con ostinata insistenza, senza il coraggio necessario ad accettare
il fallimento. Non credo che la troverò mai, è passato troppo tempo e non ho
un indizio da mesi. Ho continuato a scriverle nella speranza che potesse
rispondere, prima o poi, ma non è successo. Brooks dice che il suo
investigatore privato non ha ancora una pista, quindi cosa diavolo dovrei fare?
Sospiro e finisco di bere la tazza di caffè, ormai lo uso per nascondere le
occhiaie provocate da un’altra notte di merda. Non che funzioni. Lancio uno
sguardo all’orologio sulla parete e mi abbasso per riempire la ciotola di Ronald.
«Lilli, siamo in ritardo!»
«Arrivo papà, solo un minuto!»
Gratto le orecchie di Ronald e lo fisso come se lui potesse avere tutte le
risposte alle mie domande. Il poveretto mi lancia uno sguardo infastidito
mentre cerca di affondare il muso nella ciotola, mi sposto e lo lascio mangiare.
Sto per andare in camera di Lilli a controllare che si stia davvero vestendo,
quando il campanello mi interrompe. È sabato e dobbiamo andare a casa di
Laurel per un pranzo con i bambini, ma dobbiamo aiutarla a cucinare e Lilli
sembra ci stia mettendo tutta la calma del mondo. Scuoto la testa e mi
incammino verso la porta, abbasso la maniglia e rimango immobile come un
idiota quando mi rendo conto di chi c’è dall’altra parte. Sbatto le palpebre in
preda alla confusione e apro la bocca per dire qualcosa, ma non mi viene
niente di intelligente.
«Si saluta così un amico?»
«Brooks…» mormoro. «Ma che diavolo ci fai qui?»
Lui mi supera ed entra in casa come se non avessi parlato, chiudo la porta
alle sue spalle e lo osservo come se avessi un fantasma in salotto. È un po’ così,
in fondo. Io e Brooks siamo stati amici per anni, ci chiamavano “Gli
inseparabili”, e avevano ragione: mai un giorno lontani, mai in giro uno senza
l’altro e tutte quelle stronzate da liceali. Eravamo le star del liceo, poi però
siamo andati al college e la nostra vita si è incasinata. Io ho avuto una figlia
troppo presto e sono dovuto tornare qui per poterla crescere, mentre lui è
diventato un attore di fama internazionale. Vederlo qui dopo aver guardato
quella sua faccia da idiota sullo schermo della mia televisione giusto qualche
sera fa è surreale. Sbatto le palpebre e mi schiarisco la voce.
«Ti senti bene? Cosa ci fai qui?» chiedo di nuovo.
«Non posso tornare a casa?»
Aggrotto la fronte. No, non è decisamente tipo da tornare a casa per un giro
di saluti. Una volta lo faceva, prima che questa merda lo inghiottisse e quando
aveva ancora Olivia ad aspettarlo, poi è cambiato.
«Beh, sono felice di vederti. Quanto è passato?»
Restiamo in silenzio perché sappiamo entrambi che la risposta è troppo.
Brooks si guarda intorno e si scompiglia i capelli scuri, fissa le foto di Lilli
appese alle pareti e si abbassa per accarezzare Ronald quando lui smette di
mangiare e si accorge che abbiamo un ospite.
«Hai un aspetto di merda, Lachlan».
Grugnisco e gli verso una tazza di caffè che accetta di buon grado. «I primi
mesi senza Olivia eri ridotto uguale» gli ricordo.
«Possiamo non parlare di lei?»
Si innervosisce sempre quando la nomino, ma io lo faccio apposta. Voglio
vederlo reagire, trasformarsi per una volta di nuovo in se stesso, nel ragazzo
che conoscevo solo io e che a volte temo non esista più. È stato inghiottito
dalla fama come un maledetto cliché già scritto, alcol e droghe sono state il
centro della sua vita per un po’ di tempo e mi sento uno schifo nel sapere che
non ho potuto fare molto per aiutarlo. Tornare a Cedar mi ha allontanato da
lui, il suo lavoro ha fatto il resto.
«D’accordo» convengo. «Che ci fai qui, allora?»
Sua madre si è trasferita a Cincinnati quando lui ha smesso di tornare a casa,
c’è ancora la casa in cui è cresciuto qui, ma oltre a quella non c’è nient’altro che
lo leghi a questo posto. Chi è intelligente se ne va da qui e non ci ritorna.
«Ho delle novità e ho pensato di portartele di persona. Devo ripartire subito
ma tanto tu verrai con me».
Sgrano gli occhi e lo fisso come se fosse fuori di testa. «Sei impazzito per
caso?»
Lui finge di non avermi sentito e indica il corridoio. «Dov’è la mia
principessa?»
Non faccio in tempo a rispondere che Lilli entra nella stanza correndo e
inizia a urlare quando se lo ritrova davanti. Brooks la solleva come se non
avesse affatto sei anni e la fa girare in tondo, ho sempre pensato che se la gente
potesse vederlo ora, impazzirebbe. Non so perché le star debbano per forza
puntare sull’autodistruzione per essere apprezzate dal pubblico. Forse se fossi
diventato un giocatore professionista l’avrei capito, ma penso che questo
Brooks sia più autentico che mai.
«Zio Brooks, sei a casa!» urla mia figlia. «Mi hai portato un regalo?»
Sbatte le ciglia con fare civettuolo e io arriccio le labbra indignato.
«Lilli, santo cielo, che cosa ti prende?» sbotto.
Il mio amico ride, ma io non lo trovo affatto divertente. Mi ha ricordato
Karla in modo inquietante. Scaccio quel pensiero e sospiro quando Brooks
prende un piccolo sacchetto di velluto dalla tasca della sua giacca e lo porge a
Lilli. Lei lancia un grido eccitato e lo apre senza perdere tempo. Estrae un
braccialetto con quelli che sembrano dei piccoli ciondoli.
«Sono i miei animali!» esclama. «Guarda papà, c’è Mrs. Bennet e Mr.
Bingley, Ronald e Mr. Snowflakes. Ci sono anche Theo e Dora!»
«Ringrazia zio Brooks» borbotto.
Lui sorride e si inginocchia con le braccia aperte, Lilli ci si tuffa dentro e lo
riempie di baci, poi si mette il braccialetto e corre a infilarsi gli stivali. Scuoto
la testa e controllo il telefono, Laurel ha già iniziato a mandarmi messaggi
pieni di minacce.
«Odio guastare la festa, ma dobbiamo andare da Laurel».
«Portiamo Lilli da Laurel, ma io e te dobbiamo parlare».
«Laurel si arrabbierà…»
Brooks mi interrompe e abbassa la voce.
«Ha trovato qualcosa» sussurra. «L’investigatore privato ha trovato
qualcosa».
Mi irrigidisco e sento il cuore iniziare a tamburellare come un folle nel mio
petto. Ha trovato qualcosa di importante? Abbiamo una pista? Lei sta bene?
Quelle domande si accalcano nella mia mente, ma nessuna raggiunge le labbra.
Sono troppo codardo per chiedere, ho paura di una risposta che mi
ucciderebbe. Annuisco in silenzio e prendo il cappotto di Lilli, la chiamo e
aspetto che si mi raggiunga con Ronald. Usciamo in silenzio e io guido fino a
casa di Laurel, lasciamo Lilli con lei e i bambini dopo una gran scenata. Mi
spiace dare un fastidio a Laurel, ma non ho altri se non lei. Tornati alla fattoria
parcheggio nel vialetto e mi volto verso Brooks, che se ne sta in silenzio sul
sedile del passeggero del mio pick-up con lo sguardo fisso oltre il finestrino e
le mani in grembo. È una giornata di sole e in auto fa caldo, ma io sto
tremando.
«Cos’ha trovato?» trovo il coraggio di chiedere.
Lui continua a fissare i campi al limitare della priorità.
«Non aveva niente, perciò è partito da questo posto dove c’erano delle
tracce di Theodora. Si è concentrato su quello che poteva trovare qui per
capire se ci potesse essere un indizio che a te è sfuggito. Ha avuto una
relazione con Ollie, vero?»
Storco il naso e trattengo un’imprecazione.
«Non proprio. Lui aveva una strana ossessione per lei e per questo, dopo
esserci uscita due volte, lei si è allontanata. Insomma, una volta le ha fatto del
male…»
Ripensare al livido sulla schiena di Theo, mi fa infuriare come se lo stessi
guardando in questo momento.
«Senti, non so come mai Jenks non ci sia arrivato, ma abbiamo una cosa
veramente strana» borbotta.
«Parla, Brooks».
Lui preme il pulsante della chiusura centralizzata e sfila le chiavi dal quadro,
se le infila in tasca e mi guarda negli occhi. Direi che si tratta di qualcosa che
mi farà incazzare di brutto.
«Il pick-up di Theodora è a casa di Ollie» sputa fuori. «L’ha tenuto d’occhio
per un po’ e quell’ammasso di ferraglia è nel suo garage, ma di lei sembra non
esserci traccia. Sono sicuro che se scavasse più a fondo la troveremmo, ma ci
vorrebbe tempo. Quindi, penso che dovremmo andare da Ollie e farlo parlare,
ci risparmierebbe tempo e soldi».
Sbatto le palpebre in preda alla confusione e picchio un pugno sul volante,
Brooks rotea gli occhi e fa tintinnare le chiavi in tasca. Che diavolo di
problemi ha Ollie per fare una cosa del genere? Questo va oltre a una stupida
vendetta per una donna, questa è follia. Lancio uno sguardo di rabbia a Brooks
e apro il palmo della mano.
«Le chiavi, Brooks».
Lui agita un dito davanti al mio viso.
«Te le do solo se prometti di tenere le mani a posto. Dovremmo chiamare
anche Jenks».
L’idea che Theo sia in casa di Ollie da tutti questi mesi mi fa venire da
vomitare. Sbatto le palpebre e prendo il telefono, avviso Jenks della situazione
e gli do appuntamento a casa di Ollie. È sabato e oggi quel bastardo non lavora
all’officina, sono sicuro che lo troveremo lì.
Prendo un respiro profondo e cerco di controllare il tono della mia voce.
«Ho avvisato Jenks, non alzerò un dito su quel bastardo. Ora dammi le chiavi»
rispondo.
Brooks sospira e le lascia cadere nel mio palmo, rassegnato al fatto che forse
non riuscirò a tener fede alle mie parole. Metto in moto e lascio il viale della
fattoria a una velocità troppo elevata, percorro le piccole strade di Cedar con il
cuore in gola e la testa incasinata mentre cerco di reprimere le peggiori ipotesi
che cercano di farsi strada nella mia testa. Arriviamo a casa di Ollie poco dopo.
È una villetta di mattoni bianchi con un cortile ben curato e vasi di fiori alle
finestre, vive ancora con i suoi genitori e forse la colpa è mia. È tornato a casa
dopo il tradimento e da allora se ne sta qui, fingendo di vivere la vita che ha
sempre voluto. Proprio come me. Scaccio quel pensiero e scendo dal pick-up
quando l’auto di Jenks si ferma dietro di noi. Lo sceriffo ci raggiunge e lancia
uno sguardo sorpreso a Brooks.
«I giornali ti fanno sembrare più basso» commenta.
«Idiota».
«Dico sul serio, Brooks. Sei un armadio dal vivo».
Lui rotea gli occhi e lascia cadere il discorso.
«Lachlan ti ha aggiornato, perciò entriamo e facciamola finita. Questo idiota
ha il pick-up di Theodora in garage, faglielo aprire».
Jenks annuisce e ci chiede di restare indietro e di non interferire, non penso
di riuscirci ma posso provarci giusto il tempo necessario a farci aprire quel
maledetto garage. Percorriamo il vialetto e raggiungiamo la porta, Jenks suona
il campanello e ci lancia un’occhiataccia di avvertimento. Aspettiamo qualche
istante e poi Ollie apre la porta, all’inizio sembra sorpreso da questa visita di
gruppo, ma io lo vedo nel suo sguardo. Capisce che sappiamo e io vorrei urlare
e chiedergli cosa diavolo dovremmo sapere visto che non sappiamo niente.
Lancia uno sguardo oltre le spalle di Jenks e incontra i miei occhi, inarco un
sopracciglio e lascio che lo sceriffo faccia il suo lavoro.
«Sceriffo Dornan, Lachlan e Brooks…» esordisce lo stronzo.
«Ciao, Ollie. Tutto bene?»
Lui annuisce e si limita a fissare Jenks con la fronte aggrottata.
«Devo chiederti un favore».
«Io… certo» borbotta.
«Stiamo cercando un’auto che è stata spesso nella tua officina e che risulta
scomparsa, è stata presentata la denuncia proprio qualche giorno fa. Ho
bisogno di vedere il tuo garage, solo per sicurezza».
Vorrei dire a Jenks che questa patetica scusa fa schifo, ma resto in silenzio.
Ollie si irrigidisce e si lascia andare a una risata graffiante, così fastidiosa che
vorrei prenderlo a pugni.
«Il mio garage? Di che auto si tratta? Forse posso aiutare».
A quel punto, non ci vedo più.
«Si tratta di un pick-up di merda, rosso e pieno di ruggine, con i sedili
sfondati. La proprietaria la conosci, le hai fatto un livido grande come un
pugno sulla schiena solo perché lei non voleva quelle tue luride mani addosso»
ringhio.
Brooks mi stringe un braccio e Jenks mi spinge indietro, entrambi mi
fulminano con lo sguardo ma capisco di aver smosso la situazione perché Ollie
sta tremando. Ha la sua cazzo di auto. Ollie ha l’auto di Theodora e lei
potrebbe essere qui, quella consapevolezza mi manda fuori di testa.
«Dov’è lei?» urlo. «Dimmelo o giuro che mi scrollo di dosso questi due
stronzi e ti spacco la faccia, Ollie».
Jenks mi ricorda che parlare così di uno sceriffo può essere punito dalla
legge, ma me ne frego. Ollie rabbrividisce e distoglie lo sguardo, poi afferra il
telecomando del garage e indica il vialetto.
«Lei non è qui» ci avvisa. «Ho solo la sua auto».
Lo seguiamo mentre Brooks mi arpiona il braccio così forte che temo non
mi circoli più il sangue. La saracinesca di solleva lentamente e mi manca il
respiro quando lo vedo. È davvero il suo pick-up, sembra non avere nessun
segno a parte i soliti a causa dell’incuria. Sbatto le palpebre confuso e mi
avvicino.
«Non toccarlo, Lachlan. Lo devo mettere sotto sequestro» mi avvisa Jenks.
Faccio un passo indietro e mi volto verso Ollie, la mano di Brooks sempre
stretta intorno al mio braccio.
«Dov’è lei? Cosa le hai fatto?»
Lui scuote la testa e si scompiglia i capelli ricci.
«Non le ho fatto niente e non è qui. Io non… Non posso parlarne, va bene?
Mi stanno controllando».
Ollie è agitato, sembra impazzito, quasi paranoico. Chi lo sta controllando e
dov’è Theodora?
«Porca puttana, parla!» sbraito.
«Theodora non è il suo vero… nome».
«Lo so» ringhio. «Ma tu come lo sai?»
Sbuffa e si lascia andare su una sedia malconcia posizionata davanti a degli
scaffali ricolmi di attrezzature da lavoro.
«Perché la sua famiglia mi ha contattato per tenerla d’occhio e riportarla a
casa» confessa.
Il mio battito si impenna così tanto che mi si spezza il respiro. Mi avvicino e
spingo Brooks con tanta forza da farlo barcollare, non ho bisogno di essere
tenuto a bada come un moccioso.
«Parla, Ollie. Parla, cazzo. Cosa le hai fatto?»
«Ho manomesso il pick-up, poi l’ho caricata sulla mia auto mentre aspettava
un taxi e l’ho portata all’aeroporto dove l’aspettava il suo patrigno. Cristo,
Lachlan, non hai idea di che razza di gente sia. Sono pericolosi, pieni di soldi…
Mi hanno offerto un mucchio di soldi per ripagare i debiti dell’officina e in
cambio ho dovuto solo consegnargliela. Ho il suo pick-up perché se me ne
fossi sbarazzato, qualcuno lo avrebbe di sicuro notato e mi avreste scoperto.
Non le ho fatto del male, te lo giuro».
Registro rapidamente quello che mi ha detto e sento la rabbia montare
dentro.
«L’hai rapita, quindi» conclude Jenks.
Ollie arriccia le labbra in una smorfia. «Ho fatto quello che dovevo. Se non
avessi accettato avrebbe fatto del male alla mia famiglia».
«Come si chiama? Qual è il suo vero nome?» Bramo questa informazione
come un disperato da mesi.
Ollie temporeggia, ma quando capisce di non avere scelta, decide di dircelo.
«Eleanor Miller. Theodora è Eleanor Miller, l’erede dell’impero della Miller
Enterprises. È una delle donne più ricche della California, ha ereditato tutto il
patrimonio dei suoi genitori».
Quell’informazione mi lascia senza fiato. Ho vissuto per mesi con una
milionaria e non me ne sono nemmeno reso conto. Mi lamentavo dei miei
debiti e lei mi ascoltava senza battere ciglio. Per un istante mi sento un idiota,
ma mi riscuoto subito dai miei pensieri perché quel nome non mi è affatto
nuovo.
«Porca puttana» esclama Brooks. Digita qualcosa sul telefono e me lo passa.
«Questa è Nellie Miller, la riconosci?»
Osservo le foto di Theo, o Nellie, o come diavolo dovrei chiamarla e resto
senza fiato. È bionda, con il sorriso che sogno ogni notte da settimane
stampato sul volto e indossa vestiti che costano quanto la mia auto. Che
diavolo ci faceva qui? Annuisco e ripasso il telefono al mio amico, ma ho un
nodo in gola e non riesco a parlare.
«Lo stronzo ha ragione. È piena di soldi, Lachlan, a Los Angeles tutti sanno
chi è. A questo punto, non sarà difficile trovarla».
Resto in silenzio e sento il tradimento strisciarmi dentro. La mia Theodora è
solo una bugia, quello che abbiamo avuto non è nemmeno reale. Mi viene da
vomitare e devo prendere un respiro profondo per non crollare.
«Fate attenzione, il patrigno è uno psicopatico» ci avvisa Ollie.
Questo attira la mia attenzione, perciò mi avvicino a lui.
«Cosa sai di questo tizio?»
«Non molto, solo che si chiama Conrad e che vuole costringerla a sposarlo».
Sussulto e sento Brooks gemere di disgusto accanto a me.
«Conosci questo uomo?» chiedo, rivolgendomi alla nostra star.
«Ne ho sentito parlare. Un bel figlio di puttana».
Bene, proprio quello che ci serve a questo punto della storia. Torno a fissare
Ollie negli occhi e porgo qualche altra domanda, ma sembra non sapere
davvero molto oltre a queste poche informazioni.
«Ti giuro che non so altro, però se fossi in te starei attento alle persone che
sono tornate nella tua vita ultimamente. Non è un caso».
Lo fisso senza capire a cosa si riferisca, poi realizzo. Karla. Quello
psicopatico l’ha cercata per farla tornare qui? Lo chiederò direttamente a lui,
perché Brooks ha ragione stavolta: partirò con lui. Mi alzo ed esco dal garage,
torno alla mia auto e chiamo Laurel per chiederle di occuparsi di Lilli per
qualche giorno, le spiego la situazione e lei sembra scioccata quanto me. Parlo
anche con mia figlia e mi invento un’emergenza di zio Brooks, poi riattacco. Il
nome Eleanor Miller continua a ronzarmi nella testa e non riesco a capire
dove io possa averlo sentito.
«Voi due non fate cazzate» ci intima Jenks.
«Tu occupati di Ollie, l’ha rapita e non importa se ora ci ha dato una pista,
deve pagare».
«Me ne occuperò» mi rassicura. «Ma voi due non fate idiozie».
Brooks inforca gli occhiali da sole e scrolla le spalle.
«Abbiamo un aereo per Los Angeles che ci aspetta, ti terremo aggiornato».
Torniamo alla fattoria e io guido come se fossi disconnesso dal mio corpo,
con quel nome che mi martella nella testa. Parcheggio nel vialetto ed entriamo
in casa, mentre preparo un borsone con qualche cambio confesso quello che
sto pensando.
«Io quel nome l’ho già sentito».
«Lachlan, sono dei magnati, certo che l’hai già sentito».
«Io non avevo idea di chi fossero fino a oggi, perciò è molto strano. Edilizia,
eh?»
Brooks annuisce e io mi sforzo di capire cosa diavolo ci sia sotto. Theodora
mi ha detto di essere un ingegnere edile quindi non mentiva, ma quel nome…
Lo sguardo mi cade su un faldone posizionato sullo scaffale più alto della
libreria del soggiorno, ci sono dentro i documenti della proprietà che ho
archiviato dopo la vendita del cottage. L’ho ripreso la settimana scorsa, quando
ho fatto valutare l’intera proprietà e ho archiviato il documento. Aggrotto la
fronte e apro il fascicolo, scorro i documenti e trattengo il fiato quando trovo
quello che stavo cercando.
«Cazzo…»
«Che succede?»
Brooks si avvicina e mi fissa come se fossi fuori di testa, un po’ mi ci sento in
questo momento. Sollevo l’atto di vendita del cottage e glielo metto in mano.
«Eleanor Miller è la persona che ha comprato il cottage» spiego. «Ecco
perché il suo nome mi sembrava così familiare, ha comprato il cottage di mia
madre!»
Fissiamo quell’atto di vendita come se fosse fatto di fiamme incandescenti,
poi il mio amico decide di prendere in mano la situazione.
«Io questa donna non la conosco, ma dobbiamo andare a Los Angeles e
trovarla. Se lei è la tua Theodora devi riportarla a casa».
Annuisco e infilo quel foglio al suo posto, poi prendo il borsone da terra e lo
seguo. Non so cosa sto facendo, ma so che se resto qui con le mani in mano,
perderò la ragione. Che sia Theodora o Eleanor, una donna d’affari o la mia
vicina di casa, resta colei che ha riacceso il mio cuore. Senza di lei non voglio
più stare. Posso accettare una bugia, ma la sua assenza… La sua assenza mi sta
uccidendo.
40
 
Eleanor
 
 
Quanto dura un incubo?
Il mio sembra non essere destinato ad avere fine, a ripetersi in eterno e con
lo stesso crudele e doloroso schema. Ancora e ancora, fino a quando non lo
accetterò e mi farò risucchiare dall’oscurità. Avrei dovuto studiare meglio il
mio piano, ma la moglie di Lachlan dietro quella porta ha fatto precipitare
tutto quanto. Ecco perché avrei dovuto viaggiare spesso e tenermi lontana
dalle relazioni, perché i sentimenti ci rendono deboli, ci portano a commettere
errori che nessuno potrà sistemare e le conseguenze non sono un gioco.
Cammino per casa mia e ogni singola superficie di questo posto mi disgusta,
mi fa sentire prigioniera e frivola, assurdamente ricca e attaccata a oggetti che
non hanno nessun valore se non quello economico. So che considerare il mio
status sociale in questo modo è un privilegio che posso permettermi perché
sono nata con un fondo fiduciario a sei zeri, ma sono stata più felice nel
granaio di Lachlan quella notte di pioggia, che tutta la mia vita qui. Pavimenti
di marmo italiano, arredamento di legno pregiato e altre idiozie che mio padre
reputava importanti, non contano niente adesso. Mi ricordano solo che per
colpa di quei soldi sono prigioniera, sono l’ossessione di un uomo che
potrebbe essere mio padre e che vuole che io lo sposi. Mi tocca, mi guarda
lascivo e mi provoca repulsione tutte le volte. Quel bastardo mi ha dato l’anello
che aveva regalato a mia madre, me l’ha infilato al dito e mi ha ordinato di non
toglierlo, poi mi ha fatto sapere che chiamerà la stampa domani per
comunicare il nostro fidanzamento. Lo ufficializzeremo all’inizio della
primavera con una festa alla quale saranno presenti membri dell’alta società, a
quel punto organizzeremo delle nozze da favola dopo le quali lui sarà
ufficialmente in grado di mettere mano sul mio patrimonio.
Non succederà mai. Non gli permetterò nemmeno di farmi del male come
ha promesso, per questo ho preso delle precauzioni. Cynthia mi ha definita
folle, ma farei di tutto per tenere a freno l’avidità di quel bastardo. Non è stato
difficile capire cosa fare, in cuor mio lo sapevo già.
Mi rigiro l’anello intorno al dito e rabbrividisco quando sento Conrad
scendere le scale. Sento il suo profumo costoso aleggiare nella stanza e i passi
rimbombare tra le pareti. Lo stomaco mi si stringe e devo deglutire più volte
per non vomitare sul pavimento. Gli lancio un’occhiata e mi verso una tazza di
tè. Conrad mi raggiunge e si china per baciarmi l’angolo delle labbra.
Mi. Viene. Da. Vomitare.
«Cosa ci fai ancora in pigiama, Nellie?»
Sporco bastardo malato.
«Mi sento poco bene».
E non ho voglia di affrontare un mondo che mi sta risucchiando senza le
giuste armi. Ho raccolto poche prove, non posso denunciarlo e non posso
nemmeno andarmene perché potrebbe fare del male a Lilli. Sono bloccata in
questa casa, con lui.
«Devo chiamare un medico? Dobbiamo organizzare il fidanzamento, non
inventare scuse per sottrarti un’altra volta al nostro destino. Sarai mia, che tu
lo voglia o no» replica.
«Voglio solo stare a casa. In casa mia, Conrad. Posso o devo chiedere il
permesso?» lo sfido.
Questa è casa mia. Il terreno su cui cammina ogni giorno e sul quale sputa le
sue patetiche minacce dalla mattina alla sera è mio. Tengo la sua vita in un
pugno, eppure si comporta come se fosse il contrario.
«Ritira gli artigli, tesoro».
Sbuffo. «Avrei dovuto visitare un cantiere oggi, ma non mi sento veramente
bene. Dovresti andare con Cynthia» propongo.
Non dovrebbe, ma abbiamo pensato che potrebbe farsi scappare qualcosa
con lei e so che non esiterebbe a registrarlo. E poi sto male veramente,
maledizione. Cynthia non ha alcun problema a prendere il mio posto e io mi
fido di lei, sa che non lo voglio intorno e mi fa questo favore con piacere. Lo
odia, ma adora stuzzicarlo e fargli sapere che non conta niente alla Miller. Il
potere è tutto nelle mie mani e in quelle di Cynthia, per lui deve essere terribile
rendersene conto. Conrad solleva le sopracciglia e controlla il suo costoso
orologio, poi annuisce e si alza.
«D’accordo, vado subito alla Miller. Tu riposati, ci aspettano giorni
importanti e impegnativi».
«Ma vaffanculo» borbotto.
«Lillibeth Anna Willow» canticchia. «Ricordati che sarà lei a pagare per quel
caratteraccio che ti ritrovi».
Esce senza darmi la possibilità di rispondere. Sento l’auto lasciare il viale
d’accesso alla villa e mi lascio scappare un urlo di frustrazione. Ho dato la
giornata libera al personale appositamente per starmene da sola e, per una
volta, non c’è nemmeno la sicurezza di Conrad a controllarmi.
Prendo la bottiglia che contiene il pregiato whisky di Conrad e la lancio per
terra, il vetro si frantuma in mille pezzi e il rumore riecheggia sulle pareti
vuote, ma non sono soddisfatta. Passo ai bicchieri e lancio un calcio al carrello
degli alcolici che si ribalta, mi asciugo le guance e impreco. Mi viene da
vomitare e mi gira la testa, non mi sento affatto meglio e vorrei scappare.
Stringo il nodo della vestaglia e bevo un sorso del mio tè, sembro una
squilibrata ma non me ne frega niente. L’idea di dover sposare quel verme mi
manda fuori di testa.
Raccolgo un pezzo di vetro e me lo rigiro tra le mani, guardo la luce
riflettercisi contro e lanciare lampi in varie direzioni e desidero essere uno di
quei lampi. Di poter fuggire, dirigermi verso nuove direzioni ogni volta che la
luce mi colpisce. Lo desidero così tanto che un singhiozzo mi sfugge dalle
labbra e il suono del campanello mi spaventa a morte, il vetro mi scivola di
mano e mi taglio. Un rivolo di sangue sgorga dalla mia mano e scivola verso il
polso, lo guardo per un istante e rimango immobile fino a quando il
campanello non suona di nuovo. Maledetto Conrad, avrà lasciato il cancello
aperto dimenticandosi che oggi non c’è alcun personale in servizio. Mi alzo e
avvolgo un lembo della vestaglia intorno al palmo della mano, poi mi dirigo
alla porta. Apro senza timore, viviamo in una zona in cui il massimo del
pericolo è incontrare un paparazzo, perciò non ho paura. Ma capisco che avrei
dovuto averne quando realizzo chi c’è dall’altro lato. Sbatto le palpebre in
preda alla confusione e fisso l’uomo davanti a me.
«Io…»
«Ciao, ti disturbo?»
«Sei… Brooks Spencer?» borbotto.
Lui annuisce e sfodera uno dei suoi sorrisi in grado di scogliere ghiacciai e
neve, lo fisso di nuovo e cerco di capire cosa voglia da me.
«Credo tu abbia sbagliato casa, non sono un’attrice e in questa zona non…»
farfuglio.
Insomma, è una zona esclusiva e vivono diverse persone importanti, ma le
star di Hollywood tendono a vivere tutte negli stessi quartieri, non si
mescolano con le persone d’affari.
«No, è la casa giusta. Ho accompagnato un amico».
Non fa in tempo a terminare quella frase e il mio cuore impazzisce, va in tilt
e rischia di far collassare il mio corpo. Lachlan entra nel mio campo visivo e
mi fissa con una tale intensità che sento di nuovo il bisogno di vomitare la
colazione.
«Lachlan!»
«Brooks è il mio migliore amico».
Perché diavolo non me l’ha detto? Certo che lo è, è cresciuto in quel buco di
paese. Ecco dove l’avevo già sentito nominare, non me n’ero mai resa conto
fino a questo momento. Mi sposto e li invito a entrare, la confusione che mi
offusca ancora la mente. Chiudo la porta e il terrore che Conrad torni a casa
prima del previsto, mi fa venire il mal di testa. Lachlan si guarda intorno e
sembra irritato, come se quello che vede lo disgustasse. Disgusta anche me, io
stessa non mi sopporto. Indico i due grandi divani bianchi al centro del salone
e arrossisco quando Brooks lancia uno sguardo al disastro sul pavimento.
«Oh, sono inciampata e ho combinato un disastro. Posso offrirvi qualcosa?».
Lachlan si avvicina e afferra la mia mano, il contatto con la sua pelle mi
provoca una scarica di brividi così feroce che tremo.
«Stai sanguinando» sussurra.
Tolgo la mano dalla sua e mi allontano.
«Non è niente, davvero».
Non è niente, sto solo impazzendo all’idea che tu non sia mai stato mio. Ma non
ho il diritto di dire niente.
«Come mi hai trovata?» domando.
Sapevo che avrebbe potuto farlo, è così testardo che risolvere un piccolo
rompicapo non è difficile per lui. E poi gli ho lasciato un indizio, sono stata
poco furba.
«Eleanor Miller, la proprietaria del cottage» risponde.
Esatto, per niente furba. Annuisco e prendo un respiro profondo, non so
come diavolo spiegare a Lachlan il casino che è la mia vita in questo momento
e non ne ho neanche la forza. Vorrei solo scomparire, lasciarmi inghiottire da
questa casa e cancellare tutto quello che sono stata, rinascere a Cedar. Tra le
sue braccia. Brooks si alza e mi chiede di poter fare un giro della casa, annuisco
e accolgo con sollievo la privacy che ci sta dando. Lachlan non distoglie lo
sguardo da me, mi fissa come se cercasse di capire se sono io o meno. Mi sento
nuda, esposta e più viva che mai.
«Quindi Theodora chi è?»
Sorrido e scrollo le spalle. «La donna che vorrei poter essere. Era il nome di
mia nonna, l’ho sempre adorato e ammiravo lei».
«Che diavolo è successo, Theo?»
Adoro il fatto che non mi chiami Nellie, mi fa sentire ancora la sua Theo,
quella che ha amato anche se solo per un istante.
«Niente, solo la mia vita. Sono scappata da qui con una falsa identità per
salvarmi, ma lui mi ha trovata e ha minacciato di fare del male a Lilli se non
avessi obbedito ai suoi ordini. Non avevo scelta, ma avevo un piano. Sto
aspettando il momento giusto per liberarmi di lui…»
Lachlan mi afferra i polsi e mi trascina sul divano, tampona la ferita sulla
mano con la mia vestaglia e ne rimuove un lembo per creare una fasciatura di
fortuna.
«Spiegami tutto. Lui chi è?»
«Il mio patrigno. Era il socio di mio padre quando fondò la Miller, alla sua
morte si avvicinò a mia madre per poter riprendere quello che aveva perso ma
mamma non lo sposò mai. Quando si è ammalata lui ha visto in me l’ultima
possibilità di riavere tutto. Vuole che lo sposi oppure sarò costretto a
eliminarmi dato che nel testamento di mio padre c’è scritto che in quel caso la
Miller tornerebbe nelle sue mani».
Tiro su con il naso e cerco di reprimere le lacrime, ma non ci riesco. Lachlan
non ha bisogno di sentire questo schifo, sembra uscito da una telenovela di
bassa lega e non ha niente a che fare con i suoi problemi che sono reali. Mi
vergogno così tanto… mi asciugo le guance e trovo il coraggio di guardarlo. I
suoi occhi sono così profondi e pieni di parole non dette, che mi manca il fiato.
«Ha riportato lui Karla a Cedar, ma non è servito. Abbiamo firmato le carte
del divorzio» mi informa. «Senza contare che ha ricattato un coglione. Ollie ha
vuotato il sacco quando l’investigatore privato di Brooks ha trovato il tuo pick-
up nel suo garage».
Sapere che non sta insieme a sua moglie mi fa saltare un battito.
«Hai assunto un investigatore privato per me?»
«Sei sparita nel nulla, cazzo. Ho passato dei mesi infernali. Perché non mi
hai detto la verità? Non posso combattere contro uno stronzo ricco e spietato,
ma avrei fatto qualunque cosa per tenerti al sicuro a Cedar» sbotta.
Sussulto e mi mordo il labbro. «Non potevo metterti in pericolo, ma ho
commesso un errore enorme comprando il cottage e lui mi ha trovata. Lo
rifarei però, per aiutarti farei qualunque cosa».
Lachlan scuote la testa e si scompiglia i capelli, un gesto di frustrazione che
riconosco.
«Come sta la mia bambina?» sussurro.
«Bene, ma le manchi. Non è stato facile».
Vorrei scoppiare a piangere, ma cerco di trattenermi.
«Quello cos’è?» domanda, indicando il mio dito.
Mi irrigidisco e tolgo l’anello, lo lancio sul divano e mi alzo per mettere
della distanza tra noi. Aspetta una risposta, qualcosa di sensato e che possa
aiutarlo a capire il mio comportamento, ma non ce l’ho.
«Conrad pensa che dare una festa di fidanzamento…»
«Cristo».
«Non succederà, d’accordo? Ho un piano. Non ho ancora abbastanza prove,
ma non mi interessa. Ho un piano per andarmene da qui» lo rassicuro.
«Quell’uomo è disposto a ucciderti, Eleanor!»
Il fatto che abbia usato il mio vero nome mi colpisce come se mi avesse
tirato uno schiaffo. Faccio un passo indietro e prendo un respiro profondo.
«Non succederà e non mi sposerà. Ho un piano, okay? Non volevo dirtelo,
ma visto che sei qui…»
Si arrabbierà così tanto che non mi parlerà mai più, però non mi interessa. È
un modo per prendere tempo, io devo sparire per Conrad, ma solo il tempo
necessario a fargli credere che trovarmi non servirebbe a niente. Trovare
qualcun altro, però, sì. A quel punto, avremo risolto il problema per sempre.
«Cosa vorresti fare?»
«Ho trasferito le mie azioni a un’altra persona, ho tenuto solo il mio conto
personale e il fondo fiduciario al quale non potrò comunque accedere fino ai
trent’anni».
«In che modo questo dovrebbe aiutarci?»
Mi avvicino e gli stringo una mano, vorrei posarci sopra le labbra e poi
mettermela sul cuore. Vorrei che mi toccasse, sentirmi sua come se lo fossi da
sempre…
«Perché andrà a cercare quella persona e troverà me, minaccerà tutti e due e
lo faremo arrestare» spiego.
Lachlan mi fissa come se fossi pazza, la fronte corrugata e lo sguardo
perplesso.
«E chi sarebbe questa persona?»
La domanda che romperà definitivamente il nostro rapporto. Chiudo un
occhio e mi mordo il labbro, stringo la sua mano più forte e decido di
confessare tutto.
«Tu» mi lascio scappare. «Tu possiedi le mie quote della Miller al
momento».
L’espressione che gli si dipinge sul viso è impagabile, se non fosse tutto un
maledetto casino lo fotograferei. Ma so che si arrabbierà a morte, lo vedo dal
modo in cui mi guarda.
 
41
 
Lachlan
 
 
La guardo come guarderei una persona ubriaca in preda ai vaneggiamenti
indotti da una sbornia epocale. La guardo e cerco un sorriso che mi dica che è
uno scherzo, che è impazzita e sta cercando di confondermi più di quanto non
abbia già fatto. Cerco quei segnali disperatamente, ma non li trovo. Il semplice
fatto di non sapere che nome dovrei usare per riferirmi a lei mi manda fuori di
testa e ora lei mi intesta un patrimonio di milioni di dollari? È impazzita.
Mi alzo e inizio a camminare avanti e indietro. I miei jeans logori e la mia
felpa sbiadita cozzano con il lusso di questa proprietà, i miei stivali calpestano
il vetro senza che io mi preoccupi che il marmo sul quale sto camminando si
rovini. Non posso possedere e gestire milioni di dollari, io sono uno
squattrinato di Cedar. Mi volto verso di lei e allargo le braccia.
«Tu hai fatto cosa?»
«Ti ho intestato le mie quote della Miller» ripete.
«Sei pazza per caso?»
Scrolla le spalle e si guarda i piedi nudi. «Non le dovrai gestire tu, ci penserò
sempre io. E poi è una cosa temporanea».
«Abbiamo solo scopato per qualche mese, maledizione. Come puoi fidarti di
me al punto da intestarmi un patrimonio di milioni di dollari?» urlo. Se fossi
una persona intenzionata solo a fregarla? In fondo, sono pieno di debiti.
«Mi fido di te» risponde. «Io mi fido solo di te, Lachlan. Ti prego, tu fidati di
me».
Mi fido di lei, ma tutto è così surreale che non so come comportarmi.
«Cosa vuoi fare, quindi?»
«Tornerò a Cedar con te e quando lui scoprirà che sei tu a possedere le mie
quote, verrà a cercarci. A quel punto, mi minaccerà o minaccerà te e potremo
incastrarlo. Avremo un servizio di sorveglianza altamente qualificato e non ti
dovrai preoccupare di niente, Lilli sarà al sicuro».
Scuoto la testa e fisso il giardino all’inglese oltre la finestra a bovindo del
soggiorno, sembra uscito da un catalogo del lusso e mi viene la nausea. Volevo
che tornasse a casa più di ogni altra cosa, ma questo è troppo.
«E quando lui sarà fuori dalla tua vita, che ne sarà di noi? Io non lascerò
Cedar per trasferirmi qui, non faccio parte del tuo mondo e non voglio
iniziare ora. Non voglio i tuoi soldi» sussurro.
L’idea di portare via Lilli da Cedar mi fa stare male, non potrei mai farla
vivere in un posto del genere. Impazzirebbe e io con lei. Theo, Nellie, o come
diavolo si chiama, si avvicina e mi sfiora un braccio.
«Non voglio che tu venga a vivere qui, voglio vivere a Cedar con voi. Non
sono mai stata felice come quando ero con te e Lilli, non mi sono mai sentita
così amata e importante… Non mi interessa tutto quello che ho qui, mi
interessi solo tu».
Mi volto verso di lei e le scosto i capelli dal viso, le accarezzo le guance e
premo le mie labbra sulle sue. Le sfioro con la lingua e invado la sua bocca,
divoro i suoi respiri e la spingo contro il muro mentre la bacio ancora e
ancora. Mi è mancata così tanto che non riesco a trattenere un gemito di
dolore, come se riaverla qui e sentirla di nuovo respirarmi addosso mi stesse
uccidendo. La sollevo da terra e stringo i suoi fianchi, intrufolo una mano
sotto il suo pigiama di seta e la sento gemere quando sfioro il bordo del suo
reggiseno. Vorrei spogliarla e prenderla qui e vorrei che quel malato del suo
patrigno tornasse in tempo per vedere che non la possiede come vorrebbe e
mai lo farà, ma mi trattengo. Mi scosto da quelle labbra calde e gonfie e la
guardo negli occhi.
«Come dovrei chiamarti?» bisbiglio.
Lei scoppia a ridere e mi stringe di più. «Come vuoi, io sono quello che sono
quando sono con te. Il mio nome non è importante».
Sorrido e premo di nuovo le labbra sulle sue per un rapido bacio. «Eleanor»
sospiro. «Ti amo, Eleanor Miller».
E non capisco come io sia riuscito ad amare di nuovo dopo tutto quello che
mi è successo, ma è così. Questa donna incredibilmente forte è arrivata nella
mia vita e ha buttato giù tutte le porte chiuse, le ha sfondate a calci e senza
ascoltare le mie proteste. Mi ha amato in silenzio, senza dirmelo. Ho dovuto
solo riconoscere in lei quello che avevo dentro. Mi sorride e gioca con i miei
capelli.
«Lo dici solo perché ti ho reso milionario» mi prende in giro.
«Puoi bruciare i tuoi cazzo di soldi. Non me ne frega proprio niente di chi
sei, io amo la tizia svitata che mi spiava da dietro la tenda della sua cucina,
quella che si prendeva cura di mia figlia e giocava con lei e i suoi animali».
«La me più vera quindi» constata.
«Quella svitata?»
Mi dà un pizzicotto sul braccio e io scoppio a ridere.
«Possiamo tornare a casa?» bisbiglia. «Voglio solo tornare a casa».
Annuisco e la stringo più forte mentre le lacrime iniziano a rigarle le
guance. La riporterò a casa e ci libereremo di quel pezzo di merda, poi
rifletterò sul fatto che Theo è una delle donne più ricche degli Stati Uniti e che
vuole stare con me, in una fattoria che cade a pezzi e circondata da animali e
distese di campi.
Ma se è lì che si sente a casa, se è con me che vuole stare, troveremo una
soluzione. Io senza di lei non vado da nessuna parte.
 
42
 
Eleanor
 
 
Avrei dovuto riflettere più a fondo prima di intestare le quote della Miller a
Lachlan, magari consultarlo o prendere anche solo in considerazione l’idea che
avrebbe dato di matto, ma ero così nel panico che mi è sembrata la sola cosa da
fare. Se le avessi intestate a Cynthia, Conrad l’avrebbe trovata subito e non
avrei ottenuto una reazione violenta come invece potrebbe succedere con
Lachlan. Non sono ingenua, so che provocare un uomo come quello
squilibrato è pericoloso, soprattutto se di mezzo c’è una bambina di sei anni
che il male non sa nemmeno cosa sia, ma ho preso delle precauzioni. Un
sistema di sicurezza perfetto, in grado di non farsi notare da Lilli e di tenerla al
sicuro. Guardie del corpo a Cedar… Mi viene da ridere solo a pensarci, eppure
so che sono necessarie. Per Lilli farei qualunque cosa, il pensiero che quella che
è la sua madre biologica non sia disposta a fare lo stesso mi rattrista.
Cerco di non pensare a Karla e al fatto che il mio patrigno fuori di testa l’ha
pagata per sabotare la mia relazione e mi concentro su Lachlan. Brooks ci ha
messo a disposizione un jet privato per tornare a casa in modo da poter
guadagnare qualche ora prima che Conrad ci trovi. Sappiamo perfettamente
che sarà il primo luogo in cui verrà a cercarmi, ma almeno non dovrà seguire
una pista banale come due biglietti aerei. Sbircio l’uomo seduto accanto a me,
rigido come un fuso, e mi mordo il labbro. Mi è mancato così tanto e vorrei
così tanto toccarlo che mi prudono le mani, ma da quando ci siamo baciati nel
mio soggiorno dopo che ha scoperto la verità è stato freddo e scostante. Vorrei
che smettesse di pensare alla faccenda delle quote e che la vedesse per quello
che è: un modo per ottenere la nostra libertà.
Cynthia ha promesso di raggiungermi a Cedar quando ci saremo liberate di
Conrad. Mi aiuterà a organizzare un piccolo ufficio dal quale gestire il lavoro a
distanza in modo da dover viaggiare il meno possibile. So che è possibile. Io,
Lachlan e Lilli… si può fare. Sfioro il dorso della sua mano con un dito e lo
vedo sussultare, i suoi occhi chiari incontrano i miei e io cerco di capire cosa
gli passi per la testa.
«Possiamo parlare?» chiedo.
Lui sospira e abbandona la testa contro il sedile, stringe i braccioli imbottiti
e mi lancia uno sguardo contrito.
«Del fatto che attualmente sono miliardario?»
«Lachlan…»
«Non voglio far parte di queste stronzate, d’accordo? Io sono una persona
semplice e sì, sono anche povero, ma sono felice così. Mi hai messo in una
situazione che non so gestire» sibila.
Maledizione, perché deve essere tutto così difficile?
«Sei solo il proprietario, gestirò tutto io! Non devi fare niente, non ti sto
chiedendo di controllare la Miller» ribadisco. Se avessi voluto lasciare il
controllo della Miller a qualcun altro avrei scelto Cynthia, ma non è quello che
voglio e non credevo che potesse provocargli tanto fastidio.
«Mi stai dando così tanta fiducia che non so gestire… E se faccio una
stronzata e il piano salta? E se quello psicopatico non abbocca? E se ci succede
qualcosa? Non so che pensare, sono confuso e non mi piace esserlo per via dei
soldi. Prima non ne avevo, adesso scopro che mi hai intestato un patrimonio
da milioni di dollari solo per liberarti di quell’idiota. Non volevo niente del
genere, volevo solo trovarti e riportarti a casa. Volevo solo stare insieme a te».
Fisso il suo sguardo tormentato e sento un brivido strisciarmi dentro.
Lachlan mi desidera, ma non credo che sia solo una questione fisica, tra di noi
c’è qualcosa di molto più profondo e so che l’ultimo momento che abbiamo
trascorso insieme prima che Karla tornasse nella sua vita, era reale. Le parole
che ci siamo detti sono qui e non hanno bisogno di essere ripetute per essere
vere, aleggiano tra di noi e si riflettono nei nostri occhi. Sono in tutto ciò che
abbiamo fatto per poter stare di nuovo insieme, nei compromessi che abbiamo
accettato. Afferro la sua mano e intreccio le nostre dita, stringo con forza e lo
obbligo a riportare lo sguardo su di me.
«Non succederà niente di tutto ciò, il piano funzionerà. Ci libereremo di lui
e andremo avanti».
«E poi?» sussurra. «E poi che ne sarà di noi? Pensi che basti liberarti di lui
per poter vivere con me come prima? Tu non sei più Theodora, non lo sei mai
stata».
Prendo un respiro profondo e mi mordo il labbro per soffocare un urlo di
frustrazione. Non sono mai stata qualcuno che non esiste con Lachlan,
Theodora non era un’invenzione ed Eleanor non è così diversa da lei. Quando
ero Theodora ero solo più libera di vivere senza il timore di poter sbagliare,
senza guardarmi le spalle con il terrore di dover fuggire a causa della persona
che sono. Theodora ed Eleanor sono due facce della stessa persona.
«Io sono la persona che hai conosciuto, Lachlan. Ho usato un nome falso,
ma rifarei tutto quello che ho fatto con te e per te. Non mi sono mai sentita
così viva come quando ero tra le tue braccia, in casa tua e con tua figlia. Io
sono Theo, Nellie e chiunque tu voglia che io sia. Sono quello che sono».
Non posso cancellare né Theo né Nellie, posso solo far sì che lui mi creda.
«Come lo spieghiamo a Lilli?»
Questo è decisamente più complicato. «Lei potrà chiamarmi sempre Theo,
io amo quel nome» mormoro.
Accenna un sorriso e intreccia le dita alle mie, si porta la mano alle labbra e
deposita un piccolo bacio sul dorso. Rabbrividisco e sbatto le palpebre, gli
occhi fissi nei suoi.
«Tutto questo è una follia» bisbiglia.
«Lo so».
«E tu sei folle, dal primo giorno in cui hai messo piede nella mia proprietà
ho pensato che fossi una tipa stramba e un po’ svitata» ridacchia.
Gli do una gomitata e faccio una smorfia.
«Ma sei la mia svitata» conclude.
«Molto romantico, Lachlan Willow» borbotto.
«Mai detto di esserlo».
«E comunque non sono svitata, mi facevi saltare i nervi per ogni cosa» mi
giustifico.
Lachlan ha un carattere così difficile che farebbe perdere la pazienza anche a
un santo.
«E quanto lo adoravo».
Scoppio a ridere e scuoto la testa. Non lo ammetterò mai davanti a lui, ma
adoravo anch’io discutere con lui come un’adolescente con la sua cotta. Era
come avere alle calcagna il bambino più dispettoso della classe e dover
nascondere le trecce nel maglione per non farsele tirare da lui.
«Come mi chiamerai?» sussurro.
So che è solo uno stupido nome e che la maggior parte delle coppie usa
nomignoli e soprannomi, ma so che lui non lo farebbe mai. Non ce lo vedo
proprio a chiamarmi solo con uno stupido nome affettuoso, e poi potremmo
anche litigare o doverci chiamare in pubblico e sarebbe strano non usare mai il
mio nome. Lo fisso in attesa di una risposta e non so cosa aspettarmi, ho
incasinato tutto quanto.
«Eleanor» risponde. «Voglio dire, è il tuo nome e non posso fingere che non
sia così. Ma per me sarai sempre Theo ed è così che ti chiamerò in alcuni
momenti».
Muove le sopracciglia in modo allusivo e io scoppio a ridere senza controllo,
mentre sento un peso abbandonare le mie spalle. Va bene così, è giusto che lui
usi il mio nome e che io accetti di raccontare a tutti chi sono davvero.
 
***
 
A Cedar mi sento come un animale di una qualche specie esotica
scandagliato da sguardi curiosi. Brooks ci ha messo a disposizione una sua
auto che definire vistosa è un eufemismo, mi sembra di non aver affatto
lasciato Los Angeles. Lachlan ha guidato verso casa con un’imprecazione
sempre sulle labbra. Più l’auto percorreva le strade di Cedar, più mi sentivo a
casa. Non mi ci sono mai sentita nemmeno a Los Angeles ed è curioso che sia
successo qui in così poco tempo, con persone che ho ingannato e che mi hanno
permesso di essere spontanea per una volta nella vita. Eppure le cose stanno
così: Cedar è casa, Lachlan e Lilli sono casa, anche i suoi animali con nomi
improbabili occupano un posto nel mio cuore e non posso più lasciarli andare.
Ho passato tutto il tragitto con il naso appiccicato al finestrino come se fosse la
prima volta in questo posto, ma quando siamo arrivati alla fattoria mi sono
ricordata del casino che è la nostra vita. Le guardie che ho assunto per la
sicurezza di Lilli erano già lì ad aspettarci e l’idea di aver preso la scelta più
sbagliata per lei mi ha fatto stringere lo stomaco. E ora sono qui che cerco il
coraggio di scendere dall’auto e affrontare quella bambina piena di sorrisi e
amore per una me che non esiste davvero, una me che vorrei tanto poter essere
sempre. Lachlan mi stringe la mano e si schiarisce la voce.
«Va tutto bene» mi rassicura.
«Non so come comportarmi con lei».
So che potrebbe essere arrabbiata con me e il pensiero di dovermi fare
perdonare mi spezza il cuore, ma ho sbagliato e non posso fingere che Lilli non
abbia il diritto di serbarmi rancore. Perché ce l’ha.
«Lilli sarà al settimo cielo, c’è anche Laurel con lei».
Un’altra persona che ho riempito di menzogne e che con me è stata buona
con me. Mi sistemo una ciocca di capelli dietro all’orecchio e annuisco, lo
sguardo fisso sulla porta d’ingresso. Stare qui a commiserarmi non sistemerà
di certo gli errori che ho commesso, affrontare le persone che ho ferito invece
mi darà una possibilità. Lascio la sua mano e apro lo sportello, scendo dall’auto
e inspiro l’aria frizzante dell’Ohio con un piccolo sorriso sulle labbra. Il sole
non riesce a rendere calda questa giornata nemmeno sforzandosi e c’è
parecchia neve accumulata nel cortile principale. Il comignolo della fattoria
libera una nuvola bianca e densa nell’aria e il mio cuore si riempie. Mi volto
verso Lachlan che mi sta fissando con uno sguardo strano e lo raggiungo, poi
afferro la sua mano.
«Bentornata a casa, piccola vicina ficcanaso. Ora sarai davvero la mia
vicina» sussurra.
Ridacchio e gli mostro la lingua come una bambina, facendolo scoppiare a
ridere.
«A te l’onore di aprire la porta».
Mi spinge in avanti e io sento lo stomaco chiudersi su se stesso,
accartocciarsi in un groviglio di emozioni che non so gestire. Prendo un
respiro profondo e abbasso la maniglia, apro piano la porta e il calore del
caminetto mi investe. La casa è in ordine, un po’ troppo silenziosa per essere
quella che ho imparato a conoscere, ma non è cambiato niente. Entro e mi
guardo intorno, Lachlan mi segue in silenzio e mi osserva come se avessi una
qualche prova da superare, perciò mi decido a farmi avanti. Mi tolgo il
cappotto e lo lascio sul divano, poi mi incammino verso la zona notte.
«Lillibeth Anna?» chiamo.
Percorro il corridoio lanciando sguardi curiosi qua e là, raggiungo la sua
camera da letto e busso piano prima di schiudere la porta e lanciare uno
sguardo all’interno della stanza. Lilli e Laurel sono sedute sul tappeto con un
paio di cuffie alle orecchie, guardano qualcosa su un cellulare e ridacchiano.
Mi danno le spalle e non mi hanno sentita entrare; perciò, mi schiarisco la
voce e mi faccio avanti.
«Scusate» esclamo. «Si può?»
Il momento in cui si voltano, me lo ricorderò per il resto della mia vita. Lilli
si toglie le cuffie dalle orecchie e lancia un urlo di gioia così acuto da farmi
sobbalzare. Mi inginocchio e lei mi si lancia addosso così forte che quasi
cadiamo sul pavimento. Laurel mi guarda con un sorriso enorme sulle labbra e
aspetta di potermi parlare, ma al momento sono prigioniera di una bambina di
sei anni.
«Sei tornata!» urla. «Lo avevo detto a papà che saresti tornata!»
Sorrido e la stringo più forte. «Certo che sono tornata. Mi sei mancata
tantissimo».
«Papà non mi ha regalato un alpaca per Natale» mi informa.
Scoppio a ridere e mi scosto per poterla guardare negli occhi azzurri, mi
perdo nell’innocenza di quello sguardo e le accarezzo le guance.
«Possiamo sempre rimediare» sussurro. «Voglio che mi racconti tutto quello
che è successo negli ultimi mesi. Dove sono i tuoi amici?»
Ronald entra nella stanza in quel momento e mi lecca la guancia per
salutarmi, ridacchio e osservo Lilli impartire ordini a quel poveretto che è
pazzo di lei. Quanto mi è mancata. E come mi è mancato questo posto! Mi alzo
e mi avvicino a Laurel mentre Lilli accarezza Ronald.
«Vado a prendere Mr. Bingley e Mrs. Bennet, li ho spostati stamattina per
fargli prendere un po’ di sole in veranda».
Corre fuori dalla stanza e io scoppio a ridere. Laurel mi getta le braccia al
collo e mi stringe così forte che mi manca il fiato. Non ho mai avuto una vera
amica, ma credo che lei ci si avvicini molto. Sbatto le palpebre per ricacciare
indietro le lacrime e la stringo anch’io.
«Io non so perché hai fatto quello che hai fatto, ma sono felice che tu sia qui.
Non scappare più in quel modo» ordina.
«Laurel, io…»
«Va tutto bene» mi rassicura.
Scuoto la testa e mi allontano per riordinare le idee.
«Non va bene. Non avevo altra scelta e vorrei tanto poter rimediare».
Vorrei tanto essere sua amica, ma so che la fiducia delle persone costa cara e
di non poter avanzare pretese dopo che mi sono comportata in quel modo.
Laurel mi lancia uno sguardo carico di compassione e mi stringe le mani nelle
sue.
«Tesoro, io non conosco i motivi che ti hanno spinta a fare quello che hai
fatto, ma non sono nessuno per giudicare la tua vita. Sono sicura che la donna
che ho conosciuto io non sia così diversa dalla vera te, altrimenti una bambina
pura come Lilli non potrebbe amarti in quel modo. Che tu sia Theo o meno, io
lo accetto».
«Il mio nome è Eleanor» le confesso. «Ma puoi chiamarmi Theo se Nellie ti
sembra strano. Era il nome di mia nonna e lo amo».
Laurel sorride e mi trascina fuori dalla stanza di Lilli con un braccio intorno
alle spalle. Lachlan ci aspetta in soggiorno con Lilli che sta liberando i conigli
sotto il suo sguardo carico di rimprovero, scoppio a ridere e mi guadagno
un’occhiataccia da parte sua.
«Credo che ti chiamerò con tutti e due i nomi, a seconda dell’umore»
conclude Laurel.
Mi lascia sola vicino a Lachlan e raggiunge Lilli. Li osservo e per un attimo il
mio cuore è intero, pieno d’amore e gratitudine. E io sono felice, in pace come
lo si può essere solo quando si torna a casa.
43
 
Lachlan
 
 
Gli ultimi giorni sono stati strani. Nellie e Lilli sono state sempre insieme per
recuperare il tempo perduto. Le ha spiegato quello che è successo, riferendosi
a se stessa con il suo vero nome. Ha chiesto a Lilli di scegliere quale nome
utilizzare e lei ha optato per il vecchio. Io stesso fatico a ricordarmi che non è
il suo nome, ce l’ho sempre sulle labbra.
Conrad non si è presentato a Cedar, come sospettavamo. Eleanor ha
allestito un piccolo studio nel soggiorno del cottage e passa lì le sue giornate
per poi dormire in casa mia. Mesi fa mi preoccupavo tanto che Lilli potesse
soffrire la nostra relazione e che noi potessimo metterla in difficoltà e mi
rendo conto di quanto ridicole fossero quelle preoccupazioni. Mia figlia ha
dato per scontata la presenza di Nellie in casa nostra e non ho dovuto
nemmeno spiegarle come stanno le cose. Sono piuttosto chiare ai suoi occhi
come a quelli di tutti: Lachlan e la nuova, strana e ricca vicina di casa stanno
insieme. È sulla bocca di tutti mentre attraversiamo le vie della città ed
elargiamo sorrisi forzati ai nostri concittadini. Odio doverlo fare, ma lei lo
trova divertente. Dobbiamo raggiungere Jenks nell’ufficio dello sceriffo per
alcune novità, avrei voluto farlo in auto ma c’è ancora della neve e la mia
donna californiana adora camminarci in mezzo come lo adorerebbe una
bambina. Stringo la sua mano nella mia e sbuffo quando il signor Kipling ci
saluta fingendo di sollevarsi un cappello che non indossa.
«Che c’è?»
«Ci guardano tutti» borbotto. «E siamo in mezzo alla strada, quello
psicopatico del tuo patrigno potrebbe saltare fuori da un momento all’altro e
farti del male».
Sono nervoso e non mi piace esserlo in quello che ho sempre considerato il
posto più sicuro del mondo.
«Va tutto bene, Lachlan. Non ci succederà niente, non devi preoccuparti».
«Non capisco perché non puoi riprendere il tuo patrimonio» mugugno.
Sono ancora il proprietario delle sue quote della Miller e non lo sopporto, la
cosa mi infastidisce così tanto che vorrei vedere Conrad spuntare fuori da
dietro l’angolo solo per potermene liberare. Nellie rotea gli occhi e salta per
schivare un mucchietto di neve sciolta e sporca di terra. La afferro per
proteggerla da una caduta e sospiro sulle sue labbra quando mi bacia.
«Sei davvero strano, c’è chi ucciderebbe per quelle quote».
«Amo la mia povertà».
Scoppia a ridere e stringe la mia mano.
«Conrad si farà vivo, non sarai ricco per sempre».
«Grazie al cielo».
«Tua zia lo sapeva, sai?» sussurra. «Lo sapeva e non ho idea di come abbia
fatto a scoprirlo, forse mi ha riconosciuta da qualche fotografia o ha fatto
qualche ricerca… Mi ha chiesto di comprare il cottage».
Le sue parole mi fanno irrigidire. Scoprire che era stata lei ad acquistare il
cottage di mia madre mi ha lasciato senza parole, ma sapere che l’ha fatto
perché mia zia l’ha pregata di farlo mi fa arrabbiare. Distolgo lo sguardo e fisso
un’auto rossa procedere verso di noi a velocità ridotta, alcuni fiocchi di neve
iniziano a danzarci intorno e il maledetto freddo mi penetra nelle ossa con
prepotenza.
«Hai comprato il cottage per questo motivo?» esclamo.
Mi fermo e la strattono, costringendola a voltarsi nella mia direzione e a
guardarmi negli occhi. Sembra sconvolta dalle mie parole, ma ho bisogno di
capire cosa diavolo stiamo facendo. Mi sembra di essere finito in un incubo,
non riesco più a vedere niente delle persone che eravamo qualche mese fa, nel
mio granaio e in ogni angolo di casa mia. La guardo e non so nemmeno perché
sia qui, forse sono solo un piano per liberarsi di quel folle di Conrad e poi si
libererà anche di me. Nellie ringhia qualcosa tra i denti e io la fisso negli occhi
azzurri, pieni di segreti che vorrei scoprire e tenere al sicuro dentro di me, se
solo me lo permettesse.
«Cosa?»
«Hai comprato il cottage solo perché te l’ha chiesto mia zia? Ti facevo pena,
vero?»
Grazie a lei ho potuto tirare un sospiro di sollievo e andare a dormire senza
avere paura che mi portassero via il tetto da sopra la testa, ma sapere di essere
stato il suo atto di carità mi fa arrabbiare.
«No, l’ho comprato perché volevo aiutarti e perché voglio trasferirmi qui.
Non è stata lei a convincermi, l’ho fatto perché lo volevo».
Sbuffo e mi volto per prendere un respiro profondo.
«Non capisco più un cazzo di questa storia, sei come una maledetta casa
piena di porte. Cammino per questo corridoio e apro la prima, poi ne trovo
un’altra e un’altra ancora e non ho neanche una fottuta chiave» sbotto.
Non voglio fare una scenata per strada, ma non riesco a stare zitto.
«Tutto quello che c’è stato fra noi era reale, Lachlan. Quello che sentivamo
era vero e l’ho comprato per te, ma non per il motivo che pensi tu».
«Non ti facevo pena?» la provoco.
Allarga le braccia e sgrana gli occhi, come se avesse di fronte un bambino
che non vuole capire quello che sta dicendo. Forse è davvero così, non capisco
niente di questa storia.
«Non era quello il motivo!» urla. «L’ho comprato perché volevo avere una
scusa per restare anche quando tu mi avresti mandata via».
Le sue parole mi colpiscono con violenza. Cerco qualcosa di sensato da dire,
ma non riesco a trovarlo e credo di sapere perché. Mi sono sempre comportato
in modo ambiguo con lei, mi avvicinavo e poi mi tiravo indietro, non le ho mai
fatto capire davvero quello che provavo e non le ho fatto credere di volerla qui.
«Io non…»
«Sarebbe successo. Mi avresti allontanata e avresti usato Lilli come scusa».
Accorcio la distanza tra di noi e infilo una mano tra i suoi capelli, sono
ancora ramati e mi fanno impazzire. Trascino le sue labbra sulle mie e la bacio.
Non me ne frega un cazzo delle persone che ci stanno guardando. Che
guardino pure. Circondo le sue guance fredde con le mie mani e rabbrividisco
quando mi lascia la cerniera del giubbotto per intrufolarci una mano dentro, la
posa sul mio cuore bastardo e si alza sulle punte dei piedi per baciarmi con più
forza. Sono costretto ad allontanarmi solo perché so che se non lo facessi,
potrei far parlare questo paese di me per i prossimi cinque anni.
«Non ti voglio da nessun’altra parte che non sia accanto a me».
Sorride e si mordicchia il labbro inferiore, gli occhi brillano come fari nella
notte.
«D’accordo, Lachlan Willow».
«D’accordo».
Sto per trascinarla lontano da questo marciapiede, quando qualcuno si
schiarisce la voce e ci obbliga a voltarci. Quello che ci troviamo davanti, ci
lascia senza fiato.
«Davvero commovente» esordisce Conrad, le mani che producono un
applauso scrociante e fastidioso. «Sembrate due protagonisti di un film
drammatico, dico sul serio. Peccato che il dramma non lo abbiate ancora
vissuto».
«Cosa vuoi, Conrad?»
Lui la guarda e il disprezzo che vedo nel suo sguardo mi mette i brividi. La
mano di Nellie sguscia nella tasca del giubbotto, a questo punto avrà già
avviato la registrazione.
«Cosa voglio?» sibila. «Voglio tutto quello che quel bastardo di tuo padre mi
ha portato via, voglio la mia società e sono stanco di farmi prendere in giro da
una ragazzina».
Si avvicina così tanto che riesco a sentire la sua nauseante acqua di colonia,
Nellie cerca di superarmi per raggiungerlo e ci riesce quando mi distraggo per
respingere questo idiota. Ringhio un’imprecazione tra i denti e ringrazio il
cielo che Lilli sia a scuola, al sicuro.
«Credevi davvero che ti avrei fatto prendere quello che appartiene alla mia
famiglia?»
«Lo avrò lo stesso, in un modo o nell’altro» le ricorda.
«Uccidermi non ti servirà a niente, le quote della Miller non sono più mie».
Conrad si irrigidisce e la osserva come se avesse davanti un’estranea. Vorrei
dirgli che in un certo senso è così, ma sono troppo concentrato sul suo sguardo
per poter parlare. Credevamo che sarebbe venuto qui dopo aver scoperto che
Nellie ha intestato le quote della Miller a me, ma sembra non avere idea di cosa
stia succedendo.
«Che diavolo stai dicendo, Eleanor?» ringhia.
Lei mi lancia uno sguardo che lui intercetta.
«Tu non…» borbotta. «Cos’hai fatto, Eleanor?»
Sembra disperato, ha un tono sconfitto.
«Ti presento il nuovo proprietario della Miller».
Resto immobile perché c’è qualcosa che non va, lui dovrebbe già saperlo. A
questo punto della storia, Conrad dovrebbe minacciare Nellie, dandoci la
possibilità di denunciarlo. Dovremmo essere vicini a liberarci di lui, invece
questo tizio sembra non sapere niente. Ne ho la conferma quando riprende a
parlare.
«Che cos’hai fatto?» farfuglia di nuovo.
«Ho intestato le mie quote della Miller a Lachlan, così sposarmi o uccidermi
non farà alcuna differenza. Ora non sono più sola, non puoi più manipolarmi a
tuo piacimento!»
Capisco che il nostro piano è stato avventato e creato senza prendere in
considerazione tutti i possibili risvolti, quando lui estrae una pistola e la punta
verso Nellie. Lei sgrana gli occhi e mi cerca con lo sguardo. Bel colpo di scena.
«Puttana ingrata» sbotta. «Dopo tutto quello che ho fatto per la tua famiglia,
dopo tutto quello che ho perso… Come diavolo hai potuto fare una cosa del
genere?»
Mi avvicino lentamente a Nellie. Non capisco se questo bastardo sparerà
davvero, sembra fuori di sé. I passanti si irrigidiscono alla visione della pistola
e scappano via, cosa che vorrei tanto poter fare con Nellie.
«Quello che hai fatto per me è stato manipolarmi e minacciarmi per far sì
che ti dessi tutto quello che la mia famiglia ha costruito con sacrifici» gli
ricorda Nellie.
«Io ho contribuito a tutto quanto, tu non hai diritto a niente!»
«Abbassa quell’arma, Conrad. Non otterrai altro che miseria facendo una
cosa del genere».
Mi metto tra di loro e fisso la canna della pistola, la mano non gli trema
nemmeno. Come se minacciare qualcuno con una pistola sul suolo pubblico
fosse qualcosa che è abituato a fare.
«Metti giù quella pistola, smettila di comportarti da psicopatico. Ha
venticinque anni, potrebbe essere tua figlia».
«E tu chi cazzo credi di essere per dirmi cosa devo fare?»
«Lachlan…» mormora Nellie. La ignoro e continuo a parlare con lui.
«Il padre della bambina che hai minacciato di ferire, ti conviene non
provocarmi ancora perché la mia pazienza ha un limite» sibilo.
Questo stronzo ha minacciato di fare del male a Lilli e ora se ne sta qui con
quella pistola puntata verso di noi, con aria fiera come se fosse il maledetto
padrone del mondo.
«A proposito, tua moglie è tornata per qualche migliaio di dollari. Non
proprio quello che definirei amore».
Ridacchio. «Ex moglie, Conrad. Tanta fatica per niente».
Si irrigidisce e mi fulmina con lo sguardo. «Nellie, da te mi aspettavo
qualcosa di meglio» la rimprovera. «Ma so che tu sei la persona che
subentrerebbe alla Miller se al tuo fidanzato succedesse qualcosa».
Ora sono io a diventare un pezzo di legno perché le cose stanno esattamente
come ha appena detto.
«Cosa vuoi fare?» sussurra.
«Visto che tieni tanto a quella bambina, spero che abbiate pensato a tutto e
che tu sia pronta a farle da madre. Ricordati che le tue decisioni hanno un
prezzo».
Non realizzo nemmeno quello che sta succedendo, sento solo un rumore
assordante ronzarmi nelle orecchie e un dolore lancinante da qualche parte.
Potrebbe essere nel petto, nello stomaco o altrove. Non riesco a capirlo, brucia
così forte che è come essere all’inferno. Ci poggio le mani sopra e il sangue
ricopre la mia pelle. Sento Nellie urlare e altre persone fare lo stesso, ma non
riesco a capire niente. Mi accascio a terra e sbatto le palpebre per cercare di
restare sveglio. Nellie si inginocchia davanti a me e mi preme le mani sullo
stomaco.
«Guardarmi» piagnucola. «Guardami, Lachlan. Mi senti? Stai con me».
«Lilli…»
«Ci penso io, ma tu resta sveglio. Jenks ha chiamato i soccorsi».
«Theo…» sussurro.
Lei mi stringe le guance con una mano e poggia la fronte sulla mia, lo
sguardo determinato di chi vuole conquistare il mondo e sconfiggere un
nemico.
«Io sono incinta, Lachlan. Perciò resta vivo perché stiamo per avere un figlio
e questa cosa non posso farla da sola».
Forse sto sognando e ho le allucinazioni ma non riesco a capirlo perché, per
quanto io ci provi, non riesco a tenere gli occhi aperti. Il buio è seducente e
confortante e le sue mani non riescono a sconfiggerlo.
 
 
44
 
Eleanor
 
 
Percorro il corridoio del General Hospital di Cincinnati ininterrottamente da
ore, le mie scarpe hanno consumato il pavimento e i miei occhi bruciano per le
lacrime che ho versato. Ho ancora le unghie sporche di sangue e i pantaloni
macchiati. E ho freddo, nelle ossa e nel cuore. Mi asciugo le guance e fisso la
porta in fondo al corridoio, mi mordo le labbra così forte che sento il sapore
metallico del sangue sulla lingua, ma non riesco a nascondere i singhiozzi.
Jenks ha chiamato i soccorsi immediatamente, ma l’ospedale è troppo
lontano da Cedar e abbiamo dovuto richiedere l’intervento di un elisoccorso.
Vedere Lachlan inerme e ricoperto di sangue mi ha ucciso. Vederlo ferito e
immobile mi ha tolto il respiro. Lilli potrebbe perdere l’unica persona al
mondo che ama e io sarei la sola colpevole. Conrad ha sparato, ma il mio piano
folle e avventato è la causa di tutto. Io ho portato così tanti problemi ai Willow
da quando sono arrivata, non ho fatto altro che complicare le loro vite.
Mi asciugo le guance e mi appoggio al muro, scostandomi i capelli umidi
dalla fronte. Mi gira la testa e ho la nausea, ma non riesco nemmeno a pensare
di sedermi insieme agli altri. Laurel ha chiesto al suo ex marito di tenere i
bambini e Lilli, ora è qui con Jenks. Lui la guarda in modo così profondo che se
non fossi impegnata a pregare che Lachlan si salvi, potrei fantasticare su loro
due. Ho avvisato zia Shirley e sta arrivando, non so nemmeno con quale
coraggio la guarderò negli occhi.
«Ti prego» mormoro. «Punisci me. La colpa è mia, lui non c’entra niente. Ti
prego, non portare via a Lilli il suo papà». Fisso il cielo scuro oltre la finestra e
tiro su con il naso.
«Posso?»
Mi volto di scatto e fisso Brooks negli occhi, deve aver preso un volo di tutta
fretta perché ha un aspetto orrendo. Annuisco e mi sposto per fargli spazio
davanti alla finestra.
«Non è colpa tua. Lo sai, vero?» sussurra.
Trattengo un singhiozzo e mi copro il viso, nascondo il rimorso e la
vergogna. «Gli ha sparato per colpa mia, avrebbe dovuto colpire me».
«Così avrebbe fatto del male a due persone».
Mi volto di scatto e gli lancio uno sguardo interrogativo, lui si morde il
labbro e sorride.
«Jenks ti ha sentita mentre glielo dicevi» spiega. «Sei incinta, Eleanor. Pensi
che Lachlan vorrebbe mettere in pericolo te e suo figlio? Ce la farà, non
sottovalutarlo».
Ho mantenuto il segreto sulla gravidanza per settimane, avevo paura che
Conrad lo scoprisse e tentasse di farmi del male quando c’era solo Cynthia a
proteggermi, ma avevo deciso di dirlo a Lachlan non appena la questione della
Miller fosse stata risolta. Non era programmato e fino a quando non sono
arrivata qui alla fine dell’estate non ero nemmeno sicura di volere un figlio in
futuro. Mi vedevo come una solitaria donna in carriera impegnata a gestire un
impero che non desiderava nemmeno, ma Lilli e Lachlan mi hanno fatto
cambiare idea. Sono rimasta incinta l’ultima notte che abbiamo trascorso
insieme prima dell’arrivo di Karla, lo so, e da quando l’ho scoperto ho sentito
di volerlo. Volevo questo bambino, questa famiglia. Lo voglio come non ho mai
voluto nient’altro nella mia vita.
«Lo amo così tanto» farfuglio. Se me ne fregasse qualcosa della mia dignità,
mi vergognerei di piagnucolare in questo modo con una star di Hollywood, ma
le ultime ore mi hanno resa debole e patetica. Ho perso tutto quello che avevo,
sono alla deriva e ho bisogno che Lachlan torni a salvarmi. Brooks mi circonda
le spalle con un braccio e sospira.
«Tu fidati di me e vedrai che andrà tutto bene. Riavrai Lachlan sano e salvo».
Annuisco e mi asciugo di nuovo le lacrime.
«Raccontami qualcosa di te, ho bisogno di pensare a qualcos’altro» lo
imploro.
Rischio di singhiozzare fino a quando non mi verranno a dire se sta bene e
sento di non averne più le forze, ho bisogno di pensare a qualcosa che non sia
la morte almeno per cinque minuti. Brooks resta in silenzio per qualche
istante, lo sguardo fisso sulle luci della città oltre la finestra e la mano che mi
stringe la spalla un po’ troppo forte per essere un gesto di conforto.
«Nella mia vita ho fatto entrare nel mio cuore solo due persone e con tutte e
due sono stato uno stronzo. Ora una rischia di morire e l’altra mi odia»
confessa.
Sollevo la testa per guardarlo meglio e noto una ruga solcargli la fronte.
«L’altra è una donna?» indago.
«Olivia» conferma.
Sto per chiedergli qualcosa in più, ma lui riprende a parlare cogliendomi di
sorpresa.
«L’ho ferita, sai? Tanto. Credo che mi odi, non è solo un modo di dire. Ma i
soldi ti cambiano, forse tu mi capisci» borbotta.
Non so rispondere perché io con i soldi ci sono nata, ma credo di capire
cosa intenda.
«Potresti provare a scusarti con lei, non credi?»
Brooks accenna un sorriso e scuote la testa, poi mi stringe la mano e mi
trascina verso le sedie in fondo al corridoio. «Ci penserò, ora però sediamoci.
C’è mio nipote lì dentro, comportati bene».
Roteo gli occhi per il suo tentativo di cambiare discorso e faccio come mi
chiede. Sono così stanca che quando mi spinge la testa sulla sua spalla chiudo
gli occhi e crollo, aspettando quella che potrebbe essere la notizia peggiore
della mia vita.
 
***
 
Mi sveglio quando sento il rumore della porta in fondo al corridoio
penetrare i miei sogni oscuri. Sbatto le palpebre e mi allontano da Brooks per
raggiungere il medico che cammina nella nostra direzione. L’uomo si toglie gli
occhiali e legge qualcosa su una cartellina che tiene tra le mani, poi mi lancia
uno sguardo incuriosito.
«C’è qualcuno per Lachlan Willow?» chiede.
«Sono la sua fidanzata».
Lui annuisce e mi indica un angolo appartato vicino alla finestra, faccio un
cenno a Brooks che ci raggiunge per sentire quello che il medico deve
comunicarci. Sono così tesa che potrei vomitare da un momento all’altro,
vorrei solo svegliarmi e rendermi conto di essere precipitata in un incubo.
«Lachlan ha superato l’intervento ed è stabile, anche se le prossime
ventiquattro ore saranno critiche. Il proiettile ha perforato lo stomaco e ha
perso molto sangue, quindi abbiamo dovuto lavorare molto per fermare
l’emorragia» spiega.
Sussulto e stringo i pugni, le unghie affondano nei palmi ma non basta.
Vorrei più dolore, quello che merito per tutto ciò che ho causato.
«Possiamo vederlo?» domanda Brooks.
Il medico mi lancia un’occhiata incuriosita e annuisce.
«Potete vederlo per pochi minuti, poi dovete lasciarlo riposare. È sedato e
non lo sveglieremo prima di domani, quindi tornate a casa».
Annuisco e lo seguo quando ci fa cenno di raggiungere la stanza in cui
potremo indossare il camice per poterlo vedere. Mi cambio in silenzio, un
nodo in gola che mi impedisce anche solo di respirare come dovrei. Brooks mi
lancia un’occhiata preoccupata e sospira.
«Non andiamo a casa, usciamo da qui e andiamo al pronto soccorso» mi
informa.
Lo guardo come se fosse fuori di testa, ma non mi permette di porre
domande.
«Sei incinta e guarda come stai, devi farti visitare».
«Sto bene» lo rassicuro.
«Andiamo al pronto soccorso, Nellie. Non era una proposta».
Non mi interessa molto di me stessa al momento, ma Brooks ha ragione.
Sono incinta e devo occuparmi del mio bambino, devo essere in forze per
aiutare lui e suo padre. Seguo il medico e ascolto con attenzione le istruzioni
che da per poter accedere alla stanza in cui si trova Lachlan, dopodiché mi
lascia sola. Ho cinque minuti. Cinque ridicoli minuti per chiedere perdono,
pregare che si svegli e fargli sentire che sono qui per lui e che non vado da
nessuna parte. Mi avvicino al letto e gli sfioro la mano fredda con l’indice, la
paura di toccarlo e fargli del male mi fa tremare, mentre le lacrime mi
strisciano silenziose sulle guance. Lo guardo e mi sento morire, assorbo il suo
dolore e vorrei fuggire da qui per non dover memorizzare questa immagine.
Ma resto immobile, mi faccio forza e rimango.
«Sono qui» sussurro. «So che scusarmi per il modo in cui ti ho ferito non è
abbastanza, ma sono qui. Non vado da nessuna parte senza di te, non voglio
vivere una vita in cui tu non ci sei ed è folle perché fino a qualche mese fa lo
facevo. Non sapevo nemmeno che esistessi e vivevo, esistevo anch’io. Posso
rifarlo, sai? Posso esistere ancora senza di te, esisterò ancora senza di te, ma
non voglio. Sono qui, Lachlan. Sono qui e non voglio esistere senza di te,
perciò torna».
Mi asciugo le lacrime e sollevo lo sguardo verso il medico che bussa alla
porta e mi intima di uscire dalla stanza, fisso le sue palpebre abbassate
un’ultima volta e poi mi volto.
Sono qui, Lachlan. Dimostrami che ci sei anche tu.
45
 
Eleanor
 
 
Le ultime ventiquattro ore sono state le più lente, esasperanti e terribili della
mia vita. Aspettare di poter tornare da Lachlan e guardare continuamente il
telefono con il terrore di sentirlo squillare, mi ha sfinita. Brooks mi ha
convinta a farmi visitare poi, accertatosi delle mie buone condizioni di salute.
Mi ha costretta a mangiare e riposare, ma la mia mente è sempre con Lachlan.
La notte l’ho trascorsa a casa, ma non veramente. In realtà ero in quella stanza,
vicino al suo letto, con la mano stretta nella sua. Ero sul marciapiede dove
qualche ora prima Conrad ha trasformato la mia vita in un incubo. Ero altrove,
con il cuore in gola e le lacrime trattenute a fatica. Il senso di colpa mi sta
scavando una voragine nel petto e dover parlare con Lilli e spiegarle che suo
padre non sta bene e che deve restare per un po’ con Laurel, mi ha tolto tutte le
forze. Non dimenticherò mai i suoi occhi sgranati, la raffica di domande per le
quali non avevo risposte e il senso di colpa.
Maledetto senso di colpa.
È tutto a causa mia, delle mie scelte avventate e del nome che porto. È tutto
a causa del denaro della mia famiglia e mi odio per questo. Brooks si è rivelato
un ottimo amico, ha ascoltato i miei deliri per tutta la notte e si è preso cura di
me nonostante non ci sia un grande rapporto tra di noi. Ma c’è solo una
persona che potrebbe porre fine a questo strazio che sento nel cuore ed è oltre
la porta che sto fissando da venti minuti. Ci hanno avvisato che lo avrebbero
svegliato qualche ora fa, poi ci hanno richiamato chiedendoci di venire a
visitarlo. I medici dicono che è ancora confuso e dolorante, ma cosciente.
Certo, non sempre, ma sta bene.
È vivo, continuo a ripetermi. Non ho spezzato la linea della sua vita, quella di
Lilli e la mia. È qui.
Brooks mi dà una gomitata e io mi riscuoto dai miei pensieri, mi volto verso
di lui e cerco di trarre forza dal suo sorriso rassicurante. Se mi avessero detto,
qualche mese fa, che oggi sarei stata qui con una star di Hollywood, non ci
avrei mai creduto.
«Puoi entrare, hai sentito il medico. Lui è sveglio».
È proprio questo il problema, vorrei dire.
«Io…»
«Non è stata colpa tua e solo lui può fartelo capire, perciò entra in quella
stanza».
Annuisco, prendo un respiro profondo e decido di porre fine a tutte queste
paure. Mi incammino verso la stanza di Lachlan e apro la porta. Lo riporto a
casa.
Quando entro, lo sguardo mi cade immediatamente sul letto e il cuore quasi
mi schizza in gola quando lo vedo sveglio. È sdraiato, gli occhi sono fissi sul
soffitto e le mani sono strette in due pugni sulle lenzuola pallide. Non ha
ancora il solito aspetto, ma non vederlo più inerme mi toglie il fiato. Mi
avvicino e mi chino per posargli un bacio sulla fronte. Lui chiude gli occhi e mi
afferra una mano, la stringe così forte che quasi gemo.
«Stai bene?» sussurra.
«Sei in un letto d’ospedale e mi chiedi se io sto bene?» quasi scoppio in
lacrime.
«Io sto bene, d’accordo?»
Tiro su con il naso, mi siedo e intreccio le mie dita alle sue.
«È tutta colpa mia, avrei dovuto ascoltarti e tenerti fuori dai miei casini. Ti
ho messo in pericolo e se penso che avresti potuto non essere qui…»
Lachlan mi stringe più forte e mi fulmina di nuovo con quegli occhi
incredibilmente chiari.
«Non voglio sentire queste stronzate. Non è stata colpa tua, ma di quello
psicopatico. A proposito, cosa gli hanno fatto?»
«Jenks l’ha arrestato, è stato trasferito alla prigione di Cincinnati» lo
informo.
«Ora ti riprenderai il tuo patrimonio?»
Scoppio a ridere. «Sei così testardo! Provvederò al più presto a sollevarti da
questo peso» prometto.
«E poi mi sposerai?» sussurra. «Posso solo amarti, lo so. Non ti posso offrire
altro, conosci la mia situazione. Ma se ti può bastare, allora lo farò come se
fosse la mia missione su questa terra».
Stavolta non riesco più a trattenermi, lascio che le lacrime mi bagnino le
guance e poggio le mie labbra sulle sue. Strofino il naso contro il suo e
annuisco, sorridendo come una ragazzina.
«Io voglio solo essere amata» gli ricordo. «Perciò siamo d’accordo».
Stringe di nuovo le mie dita e sbatte le palpebre pesanti.
«E poi credo di aver sognato una cosa strana» farfuglia. «Mi dicevi di essere
incinta, ma non ne sono sicuro. Non vedo l’ora che tu lo sia davvero, i bambini
sono una delle poche cose che mi riescono bene» dice ammiccando. Non
cambierà mai…
Trattengo a stento una risata. Appena si sarà ripreso, glielo dirò. Per ora
immagino una famiglia felice che vive in una fattoria meravigliosa, un uomo
che ama sua moglie come se fosse la sola cosa importante su questo pianeta e
serate trascorse a baciarsi in un granaio. Sto immaginando tutto questo con un
sorriso sulle labbra e il cuore in subbuglio. Lo vedo nei suoi bellissimi e
confusissimi occhi.
Lo vedo con l’impazienza di viverlo.
Epilogo
 
Lachlan
 
 
Spalanco la porta di casa e attraverso il vialetto di corsa, raggiungo il cottage
ed entro senza preoccuparmi di bussare e chiedere il permesso. Cammino fino
a quello che era il vecchio salotto e mi fermo sulla soglia, fulminando Nellie
con lo sguardo. La scrivania è colma di scartoffie e fascicoli, disegni e altre
cose che non so identificare, mentre lei analizza dei documenti con Cynthia.
Da quando a Conrad è stato accusato di tentato omicidio e io sono stato
dimesso dall’ospedale, abbiamo ripreso a vivere. È ancora in prigione, quel
bastardo. Tutti i soldi che possedeva erano di Nellie, non ha potuto pagare la
cauzione ed è lì, in attesa del processo. Dubito che uscirà tanto presto,
comunque. Lilli ha passato qualche settimana difficile: anche se non le
abbiamo detto quello che mi è successo, viviamo sempre in un paese dove
nessuno si fa i fatti suoi e ha sentito delle strane voci a scuola. Ha voluto
dormire con noi per un mese, poi deve aver realizzato che sono ancora qui e
che non andrò da nessuna parte. Non le regalerò un alpaca nemmeno stavolta,
ma credo che ce la caveremo lo stesso. Dopotutto, è in arrivo un fratellino e lei
è più eccitata che mai. Non vede l’ora di prendersi cura di lui e di insegnargli
tutto quello che sa sugli animali.
Intanto, Nellie ha creato una sede della Miller nel cottage dove ha allestito
un ufficio operativo al massimo delle sue possibilità. Segue diversi progetti a
distanza e sta iniziando a prenderne di nuovi in carico in zona. Sono felice che
riesca a fare il suo lavoro anche qui, ma non oggi. Fisso le due donne con
disappunto e indico il punto in cui all’esterno dovrebbe esserci il granaio.
«Cosa diavolo state facendo?» domando.
Mia moglie si morde il labbro e lascia che sia Cynthia a fare il lavoro sporco
per lei.
«Stavamo solo controllando dei documenti, ora arriviamo».
«Tu ora chiudi questo dannato posto a chiave e vieni con me. Mancano due
settimane al parto, che cosa vuoi fare? Partorire qui?» sbotto.
Sbuffa e si alza. Il vestito che indossa tira così tanto sulla sua pancia che
sembra doversi rompere da un momento all’altro. Siamo a fine estate e la data
presunta del parto si avvicina, ma si ostina a non voler smettere di lavorare.
«Andiamo a fare quella cosa» mi incoraggia, intreccia la mano alla mia e
trascinandomi verso l’esterno.
«E Cynthia?»
«Vi raggiungo dopo!»
È venuta a trovarci per qualche giorno, ma anche lei sembra non riuscire a
smettere di lavorare. Forse è un qualche problema comune che affligge la
popolazione californiana. Usciamo dal cottage e ci incamminiamo verso il
granaio dove ci aspettano già Laurel, Brooks, Jenks e qualche altro dei pochi
concittadini che sopportiamo. Avrebbe potuto esserci anche Ollie, se solo fosse
stato più leale nei confronti di mia moglie. È agli arresti domiciliari ancora per
qualche mese. Entriamo e Lilli ci corre incontro con Ronald che le trotterella
dietro.
«Possiamo mangiare la torta e aprire i regali, papà?»
«Lo sai che non sono tuoi, vero? Sono del tuo fratellino».
Abbiamo organizzato una piccola festa per il nuovo arrivato, ma c’è
comunque un regalo per lei. Uno che spero possa gradire più di qualunque
altra cosa.
«Magari c’è qualcosa anche per me!» esclama, poi corre via.
Scoppiamo a ridere e mia moglie, Eleanor Miller Willow, mi regala uno dei
suoi sorrisi rassicuranti. Uno di quelli che mi hanno salvato ogni giorno da
quando l’ho conosciuta. Non parliamo, non abbiamo bisogno di dire ad alta
voce quello che stiamo pensando. C’è così tanta emozione sul viso di entrambi
che se solo provassimo a parlare, ci tremerebbe la voce. La trascino fino al
centro della stanza e salutiamo gli altri. Lilli apre i regali per suo fratello con
entusiasmo nella speranza che prima o poi salti fuori qualcosa per lei. E
quando succede, sono più emozionato di mia figlia. Mi avvicino e le porgo una
scatola, la invito a sedersi e mi inginocchio vicino a lei.
«Questo è un regalo molto speciale, ok? Aprilo con attenzione» sussurro.
Annuisce e rompe la carta con calma, quando si ritrova davanti la scatola di
cartone rosa con scritto sopra il suo nome, vedo la curiosità montarle sul viso.
La apre e tira fuori un foglio ripiegato con cura, lo dispiega e aggrotta la
fronte.
«Non capisco, papà» borbotta.
«Cosa c’è scritto?»
«Lillibeth Anna Miller Willow e Theodore Miller Willow» risponde. «Il mio
nome e quello del mio fratellino».
Nellie che ci si avvicina, si siede vicino a lei e attira la sua attenzione.
«Sai, Lilli, io e il tuo papà abbiamo pensato a un regalo speciale per te»
inizia.
«Non capisco, mamma».
Mi riempie sempre di gioia sentirla chiamare Nellie mamma. Lilli non ha
avuto una madre per sei anni e ora sembra che quel tempo non sia mai esistito,
è come se queste due anime fossero da sempre connesse e si fossero solo
ritrovate fisicamente.
«Hai visto quei nomi? Noti qualcosa di strano?» sussurra.
Lilli abbassa lo sguardo sul foglio e inclina la testa.
«Il cognome!» esclama. «Il mio è sbagliato, mentre quello di Theo è giusto».
«No, tesoro, il tuo non è sbagliato. Da oggi non sei più solo Lillibeth Anna
Willow, ma sei Lillibeth Anna Miller Willow e io sono ufficialmente la tua
mamma».
Per riuscire ad arrivare qui sono stati mesi infernali. Dopo il matrimonio
abbiamo dovuto ottenere la rinuncia a qualsiasi diritto a esercitare il suo ruolo
di madre da parte di Karla e poi procedere con l’adozione. Abbiamo avuto un
matrimonio intimo, davanti a poche persone di fiducia e con obiettivo il
benessere di Lilli. Però ne è valsa la pena. Mentre guardo mia figlia trattenere
le lacrime, capisco che ne è fottutamente valsa la pena. Le accarezzo i capelli e
mi avvicino al suo orecchio, le trema il mento, non credo che riuscirà a parlare
ma non c’è bisogno che dica niente. È tutto scritto sul suo viso, nei suoi occhi
attraversati da infinite emozioni.
«Sei felice, amore?» bisbiglio.
Lei annuisce e due lacrime le rigano le guance. «Posso abbracciarti,
mamma?»
Nellie annuisce e allarga le braccia e Lilli si tuffa con forza, facendomi
soffocare un’imprecazione. Le fisso e sono la cosa più bella che io abbia mai
visto, tutto l’amore del mondo in un groviglio di braccia e sorrisi.
«Theo, mi senti? Sono davvero tua sorella ora!» urla Lilli. «E ho una
mamma, ho davvero una mamma! E due cognomi! E uno sembra un nome da
maschio, sono così felice!»
Poi si alza e sfreccia via. Noi scoppiamo a ridere e la osserviamo saltellare
con Roland per la gioia.
«Ne è valsa la pena, vero?» mi chiede mia moglie.
«Decisamente».
«Ora siediti, c’è un regalo anche per te, Lachlan».
Abbasso lo sguardo e la fisso, confuso. Mi spinge sulla sedia e mi mette in
mano una busta.
«Se mi hai intestato di nuovo tutto il tuo patrimonio…» comincio.
«Tecnicamente sei ricco anche tu, e ormai è troppo tardi» gongola,
mostrandomi la fede nuziale.
Apro la busta, tiro fuori una serie di documenti e li esamino con attenzione.
Ci metto qualche minuto, ma più capisco quello che ho in mano e più penso
che reagirò come Lilli. Mi volto nella sua direzione e sospiro.
«Perché sei così pazza?»
Lei scoppia a ridere e si massaggia la pancia pronunciata. «Perché ti piaccio
così» replica.
«Hai pagato tutti i miei debiti e mi hai comprato un edificio?» sbotto. «Cosa
ci dovrei fare poi? Abbiamo una proprietà enorme!»
Lei rotea gli occhi e mi dà un’altra busta, la apro e mi lascio andare contro lo
schienale. È piena di soldi!
«Fottutamente pazza» mi correggo.
«Non sei felice? Io sono felice».
«Non sto insieme a te per questo» protesto.
«E io lo so, ma voglio veramente che termini gli studi e che apri il tuo
ambulatorio veterinario. Prendi quei soldi e iscriviti al college, poi fammi
felice».
«Ti odio» borbotto.
«Ti odio anch’io».
«Bene» mormoro.
«Bene».
Ci fissiamo con determinazione, poi cedo e mi abbasso per baciarla sulle
labbra.
«Ma non odio nessuno come odio te e non penso a nessuno come penso a
te. Credo di non aver nemmeno mai amato nessuno come amo te».
Ed è così. Con lei ho provato ogni emozione e so che è l’unica persona al
mondo con cui questa cosa succederà. Perché eravamo destinati a trovarci, ci
siamo incastrati nei punti giusti e ora non riusciamo più a esistere senza l’altro.
Esisto perché lei esiste e sono quello che sono perché lo sono con lei.
Oggi, più che mai, lo so.
Ringraziamenti
 
Anche questa nuova avventura si è conclusa ed è doveroso ringraziare chi
mi è stato vicino in questo viaggio. Grazie a Ester, prima di tutto, per aver
lavorato sul testo e aver creato la grafica giusta, come sempre. Grazie a
Roberta, Valeria e Silvia per avermi spronata a scrivere una nuova storia
quando pensavo di non riuscire più a scrivere e grazie a te lettore per aver dato
una possibilità a Theo e Lachlan.
Spero di ritrovarti a Cedar prossimamente, perché c’è un altro personaggio
che ha una storia da raccontare anche se solo sentire un certo nome lo irrita da
morire. Secondo me, hai capito di chi si tratta! Nel frattempo, lascia una
recensione e seguimi sui miei social per restare aggiornato.
Alessia.
Della stessa autrice
 
Serie Columbia:
Con un battito di ciglia (Vol. 1)
Per ogni battito del cuore (Vol. 2)
Anche quando mi fai male (Autoconclusivo)
 
Imperfetti (Autoconclusivo)
 
Serie Noi due:
Dammi tutto il tuo amore (Vol. 1)
Fino a quando resterai con me (Vol. 2)
Amami ancora, nonostante tutto (Vol. 3)

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