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Autonomie locali e

federazione sovranazionale -
Fabio Zucca
Storia Contemporanea
Università degli Studi dell'Insubria
37 pag.

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AUTONOMIE LOCALI E FEDERAZIONE SOVRANAZIONALE
La battaglia del Conseil des Communes et Régions d’Europe per l’unità europea
PREFAZIONE: Il CCRE : cinquant’anni al servizio degli enti locali e regionali europei – di Valery Giscard d’Estaing
Fondando, il 28 gennaio 1951, il Consiglio dei comuni d’Europa (CCE), i 60 eletti locali presenti condividevano la
convinzione di Edouard Herriot, allora sindaco di Lione, secondo cui “Tout divise les Etats, et tout unit les communes”
e auspicavano la ricostruzione dell’Europa devastata partendo dal livello più vicino ai cittadini, il comune.
Trasformatosi nel 1984 in Consiglio dei comuni e delle Regioni d’Europa (CCRE) per accogliere le regioni, che stavano
diventando enti territoriali con pieno esercizio in certi Stati, il CCRE a seguito della sua fusione con l’International
Union of Local Authorities (IULA), costituisce l’associazione dei poteri locali e regionali più rappresentativa in Europa.
Dopo Fernand Cottier, sindaco di Ginevra, i presidenti successivi, col sostegno dei segretari, hanno promosso la
crescita e il rafforzamento del CCRE.
Il CCRE sta all’origine della Carta dell’Autonomia Locale, diventata una convenzione del Consiglio d’Europa. Il CCRE è
legato al principio di sussidiarietà secondo cui, dal cittadino all’Europa, ogni livello delega al livello superiore solo ciò
che non riesce a far bene.
Il CCRE è diventato un’organizzazione al servizio dei suoi membri, gli enti territoriali, e ha proposto l’unione degli enti
locali e regionali europei al fine di:
1. Operare in favore di una Unione Europea democratica e vicina al cittadino;
2. Sviluppare in tutta Europa i valori della democrazia e della solidarietà locali e regionali;
3. Favorire l’attuazione della sussidiarietà e della partnership con e nell’Unione Europea, nel Consiglio d’Europa e
nelle organizzazioni mondiali;
4. Facilitare lo scambio di esperienze utili fra gli enti locali e regionali europei e nel mondo.
Il CCRE procede su due fronti:
- La riforma del modo di governare a livello europeo mediante la decentralizzazione e l’associazione effettiva
degli enti territoriali per la preparazione e la messa in atto delle decisioni che li riguardano;
- Il miglioramento e il rafforzamento del governo dell’Europa.
Il Professor Zucca ricostruisce il percorso utilizzando gli archivi della Segreteria Generale dell’Organizzazione. 1

INTRODUZIONE
Questo libro stimola un approfondimento generale sulla storia del processo di integrazione europea, nonché sulla
riorganizzazione degli Stati nazionali accentrati sovrani europei in forme decentrate e federali. La storia
dell’integrazione europea è il tentativo di costruire, senza ricorrere alla guerra, una struttura politica sovranazionale
con caratteristiche statali federali. La 2° GM segna una crisi dello stato nazionale sovrano europeo. È sempre più
evidente che va riformata l’architettura istituzionale dell’UE. In questo senso il ruolo degli enti territoriali e in
particolare del Comitato delle Regioni (CdR) va definito per costruire i nuovi assetti istituzionali in grado di
rispondere ai bisogni dei cittadini europei.
Degli studi evidenziano che alcuni precursori del moderno europeismo e federalismo si possono individuare già alla
fine del 1700. Questi studi hanno messo in luce come, nelle vicende italiane vi fossero aspetti importanti per la storia
dell’europeismo e del federalismo e dell’integrazione europea collocabile in un quadro di riferimento regionale (in
particolare in Lombardia l’azione federalista ha trovato un impatto più rilevante rispetto ad ogni altra regione). La
conferenza europea delle autonomie locali, il congresso dei poteri locali e regionali, il CdR, il Gruppo Europeo di
cooperazione territoriale e la United Cities and Local Governments sono istituzioni che non sono nate casualmente,
ma grazie al lavoro di enti territoriali, uomini politici e movimenti che hanno tratto il loro agire da riflessioni antiche
interpretando però esigenze del loro tempo (un primo confronto scientifico sul tema tra collettività locali e
costruzione dell’UE ebbe luogo durante il Convegno per il centenario dell’Unità d’Italia svolto a Torino e Stresa nel
1961). Nel libro verranno valutate e analizzate alcune correnti di pensiero che, a partire dagli anni Trenta, hanno
provocato la crisi dello stato nazionale sovrano e proposto soluzioni teoriche e politiche. L’adozione di questo punto
di vista permette di considerare in una nuova luce le tracce della storia. L’evoluzione degli stati nazionali europei
verso un’unità fa parte del processo di aggregazione, ancora incompiuto, necessario per rispondere alla dimensione
sovranazionale dei problemi della crisi economica della fine degli anni Venti. Nello stesso momento gli stessi Paesi
hanno dovuto rispondere a domande di autonomia e affermazione della diversità. Il CCRE fu costituito all’inizio degli
anni Cinquanta grazie all’incontro di diverse forze federaliste, europeiste, comunaliste che avvertivano l’esigenza di
portare in Europa il dibattito sulla necessità di ancor più decentramento all’interno degli stati nazionali. Il CCRE fu

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una terra di frontiera in cui le varie forze dei partiti e governative trovarono una sede di confronto. Il tema
dell'impegno per la costruzione di una statualità europea democratica, fondata sul suffragio universale diretto e
dotato di una propria costituzione, è il filo rosso che lega l'analisi dell'atteggiamento tenuto dal CCRE nei confronti
del faticoso processo di costruzione europea dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Ottanta.
I. IPOTESI FEDERALISTE INFRANAZIONALI E SOVRANAZIONALI DAGLI ANNI TRENTA AL PRIMO DOPO GUERRA
1. Il pensiero federalista in Svizzera di fronte all’avvento dei fascismi in Europa
Nell’Europa degli anni ‘20 e ‘30, si assiste alla caduta delle democrazie liberali per favorire quella che sembrava la
costruzione di un nuovo ordine in cui la libertà individuale passa in secondo piano rispetto agli interessi nazionali. La
dinamica degli avvenimenti spinse alcuni uomini ad elaborare delle soluzioni e a creare dei movimenti che ponevano
al centro della loro azione la riconquista della libertà personale. Fu la critica allo Stato accentratore e livellatore che li
portò a meditare sulla necessità di un profondo cambiamento istituzionale degli Stati europei, mirato alla
salvaguardia di quelle forme di autonomia locale che essi giudicavano fondamentali per la difesa della libertà.
Nel primo quarto del 900 erano nati in Svizzera numerosi movimenti pacifisti e internazionalisti. Nella
Confederazione furono costituite associazioni come la Societè suisse de la Paix, L’Association nationale suisse pour la
Societé des Nations e il Comité d’action pour l’entrée de la Suisse dans la Societé des Nations. La loro attività favorì
l’esito positivo del referendum con cui il 16 maggio 1920 la Svizzera, rinunciando alla neutralità integrale, decise di
aderire alla Società delle Nazioni (SdN). Fu elaborata la formula della neutralità differenziata per cui la
Confederazione si impegnava ad adottare solo sanzioni economiche e non militari nei confronti degli Stati che
avessero violato l’ordine internazionale. Tuttavia, il governo federale dimostrò di considerare ben più importante la
difesa del principio della neutralità rispetto a quello della solidarietà. In seguito all’annessione dell’Austria da parte
della Germani nazista, la Confederazione chiese alla SdN di poter restare nell’associazione internazionale e
contemporaneamente di tornare alla neutralità integrale. A livello internazionale, dopo l’avvento al potere di Hitler,
il Consiglio federale cercò una via di compromesso. Internamente, invece, fu varata un’operazione che tendeva a
contenere l’azione dei movimenti filofascisti quindi motivava la popolazione alla resistenza armata contro
un’eventuale aggressione. 2
In mancanza dei miti nazionalisti, come l’unità linguistica o religiosa, gli storici (a cui venne affidato il compito di
divulgare le peculiarità della tradizione democratica elvetica) misero in evidenza le profonde differenze della società
svizzera nei confronti dei totalitarismi. In questo contesto si situo la formazione culturale e politica di Adolf Gasser
(storico svizzero).
Nell’ottobre 1932 ci fu a Basilea il terzo Congresso dell’Unione Paneuropea (UPE) del Conte Coudenhove-Kalergi; i
delegati (provenienti da buona parte da Paesi europei) lanciarono un appello affinché l’iniziativa di Aristide Briand in
favore di un’unione federale europea, fosse almeno posta all’attenzione pubblica. Sulla spinta di questa importante
evento internazionale fu fondata, l’anno successivo, la sezione basilese dell’UPE. L’iniziativa fu promossa da membri
del Jungliberale Partei che coinvolsero nel comitato organizzatore anche Adolf Gasser.
Fra il 1933 e il 1934 lo storico svizzero divenne consapevole della necessità di un impegno civico volto ad
approfondire i temi della democrazia in Europa per dare una risposta ai fascismi dilaganti che potevano portare alla
rovina di uno Stato come la Svizzera, plurietnico e liberoscambista. Gasser abbandona gli studi giuridici-costituzionali
per dedicarsi ad una riflessione storica sull’origine della democrazia in Europa, il tutto sempre con l’ideale dell’unità
europea.
La sua azione coincise con la scissione della sezione svizzera dell’UPE dal resto dell’organizzazione di Coudenhove-
Kalergi, giudicata, per il carattere elitario, inadatta a svolgere un’efficace azione di propaganda.
Nel giugno 1934 i fuoriuscititi dell’UPE diedero vita al movimento federalista dell’Europa-Union: Schweizerische
Bewegung für die Einigung Europas. Nonostante l’intensa attività, Europa-Union non riuscì a diffondere in modo
decisivo la propria immagine nei cantoni italiani e romandi.
Europa-Union aveva lo scopo di mobilitare l’opinione pubblica a favore di una federazione europea in cui ogni Stato
potesse mantenere le proprie peculiarità culturali e politiche. Venne nominato presidente Hans Bauer e Gasser
rivestì il ruolo di membro del Comitato centrale e di teorico del movimento. Egli fornì a Europa-Union la coscienza di
una interpretazione storica che poneva l’esperienza dei cantoni svizzeri come base per la ricostruzione di un’Europa
democratica.

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A partire dal 1936 Gasser inizia tenere lezioni presso l’Università di Basilea, iniziò una collaborazione con il mensile
Der Europaer e ricevette l’incarico di redigere settimanalmente l’articolo di fondo della National Zeitung.
Nel ‘38-’39 tiene sedici lezioni in cui espose per la prima volta il suo pensiero. Le propulsioni vennero raccolte in un
volume edito con il titolo “Geschichte der Volksfreiheit und der Demokratie”.
Le idee di Gasser furono sintetizzate in un opuscolo che gli servi per redigere il preambolo alle Unsere Leitsätze für
das neue Europa, suddivise in 18 articoli. In questo breve scritto, riassunto delle sue idee, divideva i popoli europei
in due gruppi:
1. Il primo formato dalle masse dell’Europa dell’Est → prive di libertà personale e intellettuale, il cui governo non
poteva che essere autocratico.
2. Il secondo costituito dai popoli dell’Europa occidentale → caratterizzato dall’unione volontaria della Comunità,
alla cui base si trovano i valori della libertà individuale e dell’amore cristiano. Questo gruppo minacciato dal
diffondersi delle dittature nazionaliste avrebbe trovato la sua unica salvezza nella costituzione di una
federazione europea che si sarebbe dovuto basare sul modello della confederazione elvetica.
Nei restanti 18 punti il movimento federalista svizzero limitava la propria proposta ai soli Paesi dell’Europa
occidentale. Il testo indicava anche gli organismi federali che dovevano essere costituiti, le competenze del futuro
governo europeo e alcune precise indicazioni in campo economico.
Il limite oggettivo di questo documento era nell’assoluta mancanza di indicazioni relative ai mezzi per raggiungere
questi obiettivi.
Nel 1942, in un articolo, Gasser analizza la storia europea sostenendo che lo scoppio della 2° GM era stato causato
dalla balcanizzazione dell’Europa. Per evitare una nuova catastrofe Gasser individuava l’unione degli Stati europei in
una “federazione libera di stati” come l’unica soluzione attuabile. Il governo federale doveva avere “potere di agire
in modo effettivo contro i disturbatori della pace” e doveva formare “alleanze perenni con altre potenze mondiali
amanti della pace”. Il potere federale non doveva però intervenire nella politica interna dei singoli Stati eccetto che
per specificare azioni volte a prevenire atti che potessero mettere in discussione la pace.
Il suo itinerario intellettuale giunse a pieno sviluppo dopo queste riflessioni.
3
Per Gasser nella storia ci sono due forme fondamentali di organizzazione statuale:
- una basata sul principio di amministrazione comandata, in cui la costruzione dello Stato avviene dall’alto verso il
basso, attraverso un’azione di subordinazione.
- l’altra su quello dell’amministrazione autonoma, la costruzione dello stato avviene dal basso verso l’alto,
attraverso la libera unione delle Comunità.
In sostanza sono le forme di Stato accentrato, che per Gasser è sinonimo di Stato autoritario, e di Stato decentrato
che si sono scontrate e a volte sovrapposte nella storia occidentale.
Sulla base di questi principi Gasser appoggia la critica allo Stato assolutista e accentratore di Tocqueville. Per
Gasser il processo che portò all’affermarsi dello Stato nazionale in Francia, Spagna, Italia e Germania distrusse le
possibilità per creare una base per la nascita del liberalismo.
La Comunità locale era considerata l’unico luogo nel quale le libertà personali, coniugate con lo spirito del
cristianesimo, potevano trovare completa e libera espressione. Il concetto di comune non era però indentificato in
una precisa unità amministrativa, ma in ogni cellula di organizzazione sociale in cui si fosse sviluppato lo spirito di
solidarietà decentralizzato.
Nei Paesi nei quali si era attuata la costruzione dello Stato accentrato, i comuni furono assoggettati all’apparato
burocratico statale e le ammirazioni locali ottennero come attribuzioni solamente quelle che i vari governi centrali
ritenevano opportuno affidare loro. Così facendo gli individui venivano abituati ad attendere ogni salvezza solo
dall’autorità centrale, perdendo la capacità di autogoverno. Si venivano così a creare le basi delle dittature che
governavano l’Europa.
Per Gasser la questione dei poteri non era riassumibile nella contrapposizione tra piccola struttura (democratica) e
grande struttura (autoritaria). A suo avviso il vero spartiacque stava nella struttura amministrativa degli Stati:
▪ Si possono definire democratici gli Stati in cui la struttura amministrativa è articolata in più poteri autonomi → è
in vigore il principio dell’autogoverno: magistrati, funzionari, rappresentanti del popolo sono d’estrazione locale
e generalmente eletti. Si formano così Comunità fiduciarie si uomini liberi.

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▪ Si possono definire autoritari gli Stati in cui la struttura amministrativa è accentrata → il governo ha la facoltà di
nominare a piacimento i suoi rappresentanti, che non vengono selezionati tra i gruppi dirigente locali ma sono
volutamente estranei e facilmente revocabili. In questo caso, vengono meno la parteci0pazione e la fiducia tra
cittadini e istituzioni.
Gasser individuava nel principio di sussidiarietà uno degli elementi fondamentali della struttura democratica degli
Stati ad amministrazione decentrata che si identificavano sempre più con gli Stati federali.
Per Gasser il federalismo era un principio strutturale da realizzarsi a ogni livello di governo: dalla realtà socio-
amministrative di base fino alla Comunità mondiale. Egli affrontava anche il problema delle minoranze entiche o
linguistiche e sosteneva che il sistema amministrativo burocratico degli Stati accentrati aveva contribuito a rendere
“particolarmente malcontente le minoranze nazionali”. Questo era causato dalla scelta di affidare il potere di
comando a una burocrazia regionale estranea al luogo. Lo scopo di questa scelta era garantire al “popolo-Stato una
posizione di predominio sopra le minoranze nazionali”.
Per Gasser l’umanità poteva avanzare solo se le persone avevano la possibilità di esprimersi in una vita comunitaria
all’interno di uno Stato decentrato.
Il suo era un richiamo all’unità organica del continente, che partendo dall’autonomia delle Comunità locali,
attraverso un’organizzazione regionale e statale decentrata, creasse i presupposti per scongiurare la politica di
potenza. L’Europa sarebbe diventata un “mondo di generale decentramento, fornito di un’ampia libertà comunale”.
Gasser ha saputo contestualizzare i “valori” svizzeri offrendo ai suoi contemporanei un modello di riorganizzazione
statale per l’Europa.
2. Una risposta alla crisi politica e morale degli anni Trenta in Francia: il federalismo personalista
Secondo il pensiero federalista personalista il vero obbiettivo non può essere raggiunto senza un rinnovamento che
va a modificare le strutture fondamentali della società. Secondo Alexandre Marc (promotore del pensiero
federalista) la “rivoluzione sarà totale o non sarà niente”.
La Francia alla fine degli anni 20 viveva nell’illusione generata dalla vittoria del 1918, la situazione economica era 4
florida e la crisi americana sembrava lontana. L’economia francese era però basata sulla ricostruzione delle immense
distruzioni causate dalla guerra, il mercato interno non era in grado di autosostenersi.
La crisi mondiale si abbate sulla Francia alla fine del 1930 e il cambiamento fu drammatico. Per fronteggiarla i partiti
del governo scelsero la via della difesa del valore internazionale della moneta. Questa scelta spinge l’economia
verso il baratro. Nel Paese dilagano le proteste delle fasce sociali più colpite dalla recessione, protesta alla quale i
settori conservatori risposero con la creazione di organizzazioni eversive di estrema destra che giunsero a minacciare
lo stesso ordine costituzionale. I partiti non seppero imporre al Paese una coerente politica economica e sociale,
causando uno stato di perenne crisi governativa e parlamentare. La posizione internazionale della Francia era a sua
volta messa in discussione.
Aristide Briand (politico e diplomatico francese) vedeva sfumare, nel settembre del ‘26, l’ingresso della Germania
nella SdN come primo passo per la riconciliazione e aveva promosso nel ‘28 il Patto Briand-Kellog → trattato di
rinuncia alla guerra. Ma l’incapacità degli Stati europei di cogliere le potenzialità della proposta francese, la morte di
Briand la crisi economica, l’incapacità della Germania di pagare i suoi debiti di guerra e l’avventi Hitler al potere
fecero crollare il sistema della SdN. Inizia un periodo di decadenza durante il quale il Paese non riuscì ad
immaginare una politica estera in grado di stare al passo con i cambiamenti geopolitici.
Fu naturale per i giovani intellettuali, che fondarono ne ‘30 il movimento Ordre Nouveau , porsi il problema del
cambiamento rivoluzionario di una società in crisi profonda.
Fra il ‘28 e il ‘30 due giovani, Aron e Dandieu, iniziarono un lavoro comune che cercava di rispondere “ad un
presentimento e un desiderio comune di raggiungere nuove forme di pensieri e azione”. Alexandre Marc aveva
costituito un altro gruppo di riflessione ecumenico, club du Mulin vert, i cui dibattiti mettevano in discussione
l’insieme della civiltà e la sua organizzazione.
Dall’incontro di questi due gruppi di giovani intellettuali si costituì il gruppo di lavoro dell’Ordre Nouveau , che
cercarono di elaborare risposte sul piano politico e d’azione. In un primo tempo tentarono di diffondere il loro

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pensiero attraverso bollettini e collaborando con riviste come Esprit. In un secondo momento si doteranno di una
testata propria.
Gli aderenti al gruppo iniziarono ad analizzare le esperienze politiche del tempo, dal fascismo al bolscevismo russo.
Il fascismo fu giudicato in modo negativo perché, pur partendo dal presupposto di “liberare l’uomo dalla schiavitù
del materialismo”, fece dello “Stato l’espressione suprema della vita materiale e spirituale”. La stessa posizione
veniva assunta nei confronti del nazismo.
Il 15 novembre venne pubblicata sulla rivista del movimento una Lettre à Hitler in cui, oltre a riconoscergli alcuni
“meriti” come l’aver combattuto la dittatura occulta dell’economia o la distruzione del regime parlamentare liberale
irrispettoso della persona, venivano condannati i metodi violenti, il razzismo e l’ignorare la Persona. Ordre Nouveau
rimproverava a Hitler l’aver scelto una via che lo avrebbe condannato. I redattori della lettera prevedevano una
nuova guerra catastrofica, quindi non potevano condividere la politica di chi voleva instaurare in Francia un
“national-socialisme française” modellato sul regime tedesco.
Però la Lettre segnò la fine della collaborazione tra la rivista Esprit e gli aderenti a Ordre Nouveau , perché i redattori
della rivista percepirono lo scritto come un’apertura verso destra del movimento che non poteva essere condivisa.
Il La Révolution nécessaire, Aron e Dandieu, partendo dalla critica al capitalismo e marxismo, sottolineavano come la
posizione rispetto a queste forme di organizzazione non significasse adesione al fascismo.
Gli aderenti al movimento avvertivano l’esigenza di cambiare sistema parlamentare. Per i federalisti personalisti la
democrazia parlamentare era ricca di ambiguità come la divisione in partiti-fazioni, non rappresentativi dei reali
interessi o il principio del governo di maggioranza, anche se il vero ostacolo si aveva quando il parlamentarismo si
univa alla struttura centralizzata dello Stato.
La critica allo stato accentratore portò il movimento a compiere un lavoro di ricerca volto a precisare i concetti di
patria, nazione e Stato.
I federalisti personalisti facevano proposte concrete affinché la rivoluzione necessaria si realizzasse, a loro avviso
l’Ordre Nouveau sarebbe stato fondato “sulla decentralizzazione, dove l’organo centrale, ridotto all’inerzia non sarà
che controllore e bilanciere”. Questa concezione era però minacciata dallo statalismo dei regimi nazifascisti. 5

In quel momento l’Europa era agonizzante, per il movimento era necessaria una battaglia che doveva prendere le
mosse in Francia la cui struttura doveva modificarsi radicalmente. La rottura dell’organizzazione statale non sarebbe
stata imposta dall’alto ma sarebbe partita dal basso. La nuova società doveva essere costituita intorno all’uomo,
ristabilendo la gerarchia dei veri valori per cui l’aspetto spirituale avrebbe dovuto prevalere su quello economico,
anche se questo non andava tralasciato. Lo stato federale sarebbe nato grazie all’impulso e all’iniziativa degli
organismi locali che dovevano riappropriarsi del potere a loro sottratto. Questa concezione di comune si ispirava al
pensiero di Proudhon e Tocqueville. Per Ordre Nouveau il comune era la cellula base dell’organizzazione
federalista, comune inteso come l’organizzazione territoriale più vicina alla persona in cui trovare le soluzioni alle
esigenze sociali ed economiche.
Se l’organizzazione dello Stato fu ampiamente dibattuta, così non fu per un possibile assetto dell’Europa. Infatti i
federalisti personalisti contestavano la natura dello stato nazione destinato a scomparire in una riorganizzazione
complessiva dell’Europa. Alcuni membri del movimento però credevano che la realizzazione di una federazione
europea fosse un rimedio contro la guerra.
La disfatta della Francia, l’esperienza bellica e le possibilità offerte dalla ricostruzione dell’Europa stimolarono il
gruppo ad approfondire il tema.
Alcuni punti toccare dal movimento Ordre Nouveau sono analoghi al pensiero di Gasser, ma ci sono delle differenze
tra i due: diverso era il modello statale a cui si ispiravano. Per Gasser doveva essere la Confederazione elvetica
l’esempio di statualità basata sulle autonomie locali, i federalisti personalisti non si ponevano nella prospettiva di
una soluzione precostituita, il loro obiettivo era liberare l’uomo dalle sovrastrutture.

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3. La divulgazione del pensiero comunalista
Fra il 1943 e il 1946 le idee di Gasser furono diffuse in un’Europa che stava per impegnarsi in una difficile
ricostruzione. Le forze Alleate avevano ormai preso il sopravvento su quelle dell’Asse e i contrasti fra le potenze
occidentali e l’Unione Sovietica non erano ancora pienamente emersi.
I volumi di Gasser sull’autonomia comunale, pubblicati nel 1939 e nel 1943 in tedesco, vennero tradotti in italiano, in
francese e nuovamente in italiano.
In Francia il percorso delle opere fu semplice: se ne occuparono le case editrici come La Baconnière di Neuchâtel.
Il percorso che fecero in Italia le opere di Gasser è meno chiaro. Il ritrovamento, in lingua italiana, di una recensione
al saggio sulla Gemeindefreheit als Rettung Europas (Gioia della Comunità per salvare l’Europa), datata 7 luglio 1944,
può portare a ipotizzare la conoscenza dei saggi di Gasser negli ambienti dei rifugiati italiani in svizzera. Sul numero
settembre-ottobre 1944 dell’“Unità europea”, foglio clandestino del Movimento Federalista Europeo (MFE),
,apparve un’altra traduzione italiana di un articolo scritto per la rivista romanda Servir. L’interessamento dimostrato
da questi ambienti potrebbe aver favorito la decisione di tradurre e diffondere in Italia le due maggiori opere di
Gasser. Un articolo apparso sul bollettino bibliografico “La vetrina libraria” auspicava la diffusione del pensiero di
Gasser tra il popolo perché potesse aiutarlo ad autoeducarsi alla libertà.
Nonostante queste iniziative non sembra che le teorie di Gasser abbiamo avuto particolare influenza sul pensiero
federalista in Italia, almeno fino agli anni ‘50.
La diffusione in Germania del pensiero comunalista fu facilitata dal fatto che gran parte della produzione storico-
politica inerente al federalismo era in tedesco. Il particolare impegno editoriale e politico di Gasser in Germania (dal
1949 al 1961 lo storico tenne 250 conferenze su temi legati al federalismo interno) era fondato sulla convinzione che
la vicinanza della Confederazione all’ex Reich e la comunanza di lingua potessero facilitare l’azione mirata a
influenzare il pensiero politico tedesco in vista della riorganizzazione dello Stato su basi federali.
Contemporaneamente Gasser proseguì l’attività europeista all’interno di Europa-Union, partecipò alla riunione
Hertenstein, nell’agosto 1946, in cui i movimenti federalisti iniziarono il comune percorso che li doveva portare alla
fondazione dell’Union européenne des fédéralistes (UEF). Su queste basi si sarebbe potuta costituire un’unione 6
europea democratica.
4. Il contributo dei federalisti personalisti alla fondazione della Fédération e il confronto con il comunalismo
svizzero
Nelle loro prime opere gli aderenti a Ordre Nouveau si erano definiti rivoluzionari e davanti alla crisi totale della
società, si erano volutamente distinti, dedicandosi a una riflessione in vista non di facili soluzioni immediate “ma di
accelerare le soluzioni necessarie”. Durante la guerra maturarono sempre più la convinzione che il continente
europeo non poteva essere unito con la forza che i trattati e le alleanze fra Stati sovrani non sarebbero stati
sufficienti a garantire la pace. I membri elaborarono una proposta di riforma federale della società che avrebbe
permesso di costruire un ordine nuovo federale in luogo del disordine internazionale che si stava affermando in
Europa. Il progetto provvederà la creazione di una società e di una forma statale in cui i principi del federalismo
sarebbero stati applicati a tutti i livelli territoriali.
Secondo la testimonianza di Alexandre Marc, all’indomani della liberazione era sua intenzione ricostituire il gruppo
di studio che 15 anni prima aveva dato vita a Ordre Nouveau. Lo scopo era creare un movimento federalista global
che fosse “comunalista, regionalista, francese, europeo e mondiale, allo stesso politico, economico, sociale e
culturale”.
L’azione di Marc si sovrappose e coincise per certi aspetti con quella del cattolico Voisin (insegnate elementare), che
nel luglio 1944 con Bareth, Bassot e altri amici, legati agli ambienti cattolici tradizionalisti, aveva fondato La
Fédération. Centre d’études institutionnelles pour l’organisation de la société française. La Fédération era un centro
studi che doveva fornire i mezzi politico-teorici per la riorganizzazione dello stato e della società francese. Per il
gruppo di cattolici la società francese doveva basarsi sulla famiglia, su questo nucleo dovevano essere ricostruire
tutte le altre strutture sociali.
Bareth promosse un incontro fra Marc, Voisin e Bassot. Marc avvertì la vicinanza della sua posizione di matrice
proudhoniana con La Fédération e aderì al nuovo movimento federalista. Insieme a Marc entrarono nella Fédération
Aron, Daniel-Rops e più tardi Denis de Rougemont cioè il nucleo pensante di Ordre Nouveau.

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Tra la fine del 1944 e il 1945 La Fédération promosse una Commissione di studio che doveva elaborare proposte
rendere concreti e realizzabili i principi federalisti. Queste riflessioni riaffermarono la dignità la dignità e il primato
della persona umana a cui la politica e l’economia dovevano essere subordinate. Il movimento propose una
struttura federale fondata sui gruppi “naturali e storici a misura d’uomo”. Per realizzarla occorreva:
▪ Trasformare i Consigli municipali in Consigli rappresentativi delle “attività reali della località”;
▪ Creare presso ogni Consiglio una Commissione consultiva rappresentava dei “gruppi vivi della località e motore
del comune”;
▪ Promuovere la federazione dei comuni che si dovevano riappropriare dei poteri che lo Stato accentratore si era
attribuito.
All’inizio del 1946, grazie ai contatti intervenuti tra Brugmans e Voisin, il gruppo di militanti della Fédération fu
sensibilizzato ai temi dell’unità europea. Da quel momento per gli aderenti alla Fédération la costruzione di una
federazione doveva andare “du quartier ou du village” all’Europa.
Il connubio che si stava realizzando tra le tematiche del federalismo personalista e quelle legate alla costruzione
dell’unità europea portarono Aron e Marc a precisare il loro pensiero attraverso la pubblicazione dei primi saggi
completamente dedicati al federalismo. Da questi scritti si capisce che per i federalisti personalisti, come per i
membri della Fédération, la costruzione europea non era il fine supremo, ma un mezzo per liberare l’uomo dalla
proletarizzazione e dalla massificazione. Il vero fine era la realizzazione della società federale.
Il costante lavoro intellettuale e l’attenzione verso ogni tema vicino al federalismo fecero sì che Bareth si
interessasse al pensiero comunalista e nel ‘46 lesse i saggi di Gasser. Le teorie di Gasser influenzarono Bareth tanto
da indurlo a pubblicare un articolo e un opuscolo ispirati al suo libro e un terzo scritto nel quale Bareth sottolineava
l’importanza del ruolo del comune per costruire una società democratica.
Gli scritti di Bareth scatenarono un dibattito all’interno della Fédération e portarono Marc a studiare le opere di
Gasser e a precisare la posizione del federalismo integrale rispetto al comunalismo. In un volume del ‘48 Marc
sottolineava gli aspetti positivi del pensiero comunalista, ma ne evidenziava alcuni limiti rispetto al federalismo
integrale. 7
 Marc condivideva le critiche allo stato accentratore e al regime parlamentare ma erano insufficienti a garantire
una vera democrazia.
 Era convinto anche del ruolo positivo che i comuni avrebbero potuto avere in una riorganizzazione degli Stati
europei, ma avvertiva il pericolo che la libertà comunale fosse intesa quale semplice decentramento delle
funzioni amministrative.
 Per Marc l’alleanza fra diritto e libertà non si realizzava solamente in ambito comunale, come sosteneva Gasser,
ma in una moltitudine di aggregazioni.
 Secondo Marc il fatto che questo pluralismo giuridico era insufficientemente trattato da Gasser era un segnale
della debolezza delle sue teorie.
 Egli sottolineava come il pensiero di Gasser fosse viziato da un conservatorismo elvetico che lo portava verso un
provincialismo pieno di illusioni, moralismo e ipocrisia.
Il comunalismo si giustificava solo in funzione del federalismo integrale che prevedeva la liberazione totale
dell’uomo.
Un giudizio meno polemico veniva espresso da Max Richard (scrittore importante de La Fédération), collaboratore di
Voisin. Richard, pur riconoscendo a Marc il merito di aver evidenziato la differenza tra vita comunale e vero
federalismo, sottolineava l’importanza di pensare a un’organizzazione federalista dello Stato che partisse dal libero
comune, accogliendo così il pensiero di Gasser e introducendo un nuovo elemento di discussione all’interno della
Fédération.
5. Il federalismo hamiltoniano dalla teoria alla lotta politica
Un’altra corrente di pensiero federalista, definito costituzionale o hamiltoniano, aveva raggiunto, attraverso la lotta
al nazifascismo, un diverso punto di elaborazione politica.
Questi federalisti ponevano l’obiettivo di una federazione europea come premessa indispensabile per l’affermazione
della democrazia e il raggiungimento della pace nel continente e nel mondo. Il vero problema non era una riforma in
senso federale della struttura statale o della società, ma la costruzione di uno Stato sovranazionale in Europa.

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Questa linea politica era avvertita come l’unica ragionevole soluzione contro il ritorno a un sistema di Stati sovrani e
a forme di governo autoritarie che avrebbe comportato il pericolo di nuove guerre.
I governi nazionali, dopo delle riflessioni sugli aspetti strategici e organizzativi di questa lotta, venivano individuati
sia come strumenti sia come ostacoli.
- Strumenti → perché la federazione europea poteva essere raggiunta solo in seguito a libere decisioni dei
governi.
- Ostacoli → perché chi deteneva il governo a livello nazionale sarebbe stato spinto a lottare per impedire il
trasferimento irreversibile di tale potere ad altri organismi.
Questa teoria federalista hamiltoniana fu un fenomeno recente rispetto a quella personalista o comunalista. Trovò la
sua più consapevole elaborazione nelle pagine che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero nel 1941, durante il
confino sull’isola di Ventotene, divenendo poi il programma politico di questa corrente del federalismo con il nome
di Manifesto di Ventotene (titolo esatto: Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto).
Bisogna ricordare che nel periodo tra le due guerre mondiali cominciarono a chiarirsi le linee teoriche fondamentali
di questa posizione politica grazie alle riflessioni di Luigi Einaudi, Giovanni Agnelli e Attilio Ciabatti, Carlo Rosselli,
nonché dei federalisti inglesi raccolti attorno a Lord Lothian e successivamente al movimento Federal Union. In
particolare
- l’analisi einaudiana che individuava nella sovranità assoluta degli Stati e quindi nell’anarchia internazionale le
cause della guerra;
- quella dei federalisti inglesi che evidenziava il “pervertimento politico ed economico” cui portava il nazionalismo
presentando in forma “ragionata” l’alternativa federale
influenzarono in modo diretto Rossi e Spinelli.
È solo tra il luglio 1941 e l’agosto 1943, anno di fondazione del MFE a Milano, che si può iniziare a parlare di
federalismo europeo militante, identificando con questa espressione coloro i quali cominciavano ad anteporre alla
lotta politica nazionale quella per la realizzazione della federazione europea. Durante la riunione costitutiva del
movimento furono approvate le sei tesi politiche che avrebbero guidato l’azione dei federalisti costituzionali sino ai 8
giorni nostri. Nelle tesi il MFE non si presentava come un’alternativa ai partiti politici, anzi il movimento doveva
essere formato esclusivamente da uomini seguaci di quei principi. Il compito del movimento era di convincere le
correnti progressiste europee della necessità di non occuparsi esclusivamente dei problemi interni ai loro Stati,
perché altrimenti l’indipendenza nazionale sarebbe tornata a convertirsi in nazionalismo e socialismo. L’obiettivo
della federazione europea doveva essere raggiunto attraverso la soppressione del sistema delle sovranità nazionali
assolute.
I membri del movimento credevano che alla fine della guerra sarebbe seguito un breve periodo di grave crisi; la
federazione europea si sarebbe potuta realizzare solo in quel periodo rivoluzione. Se si fosse lasciato sfuggire quel
momento decisivo, gli interessi nazionali si sarebbero di nuovo consolidati e la prospettiva dell’unità europea
allontanata. Il movimento doveva agire a livello internazionale per collegare le forze favorevoli a una federazione
europea e a livello nazionale per portare i partiti sulle posizioni federaliste.
Per questo Spinelli e Rossi lasciarono l’Italia per la Svizzera con l’obiettivo di allacciare i contatti con i federalisti
europei. I due riuscirono a stabilire numerosi e importanti contatti e ad avviare una serie di iniziative. La loro azione
internazionale portò all’elaborazione della Dichiarazione federalista dei Resistenti europei, il documento più
significativo di quegli anni sul tema dell’unità europea. Nel testo si indicava chiaramente la necessità di creare una
federazione europea come unica risposta possibile al problema della pace in Europa e nel mondo.
L’unione federale:
→ Doveva essere dotata di un governo responsabile non verso i governi dei singoli Stati ma verso i loro popoli dai
quali doveva essere eletto e sui quali doveva esercitare una giurisdizione diretta nei limiti delle sue attribuzioni.
→ Il governo doveva disporre di una forma armata federale al posto degli eserciti nazionali.
→ Un tribunale federale avrebbe giudicato tutte le questioni relative all’interpretazione della costituzione federale
e risolto i conflitti tra Stati membri e tra questi e la federazione.
Dall’analisi del documento emerge un limite di interpretazione storico politica: quello di affrontare il tema della pace
come essenzialmente europeo, cioè come un problema la cui soluzione sarebbe stata quasi esclusivamente in mani
europee.

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La dichiarazione di Ginevra venne diffusa fra i movimenti di Resistenza e influenzò la parte dedicata alla politica
estera nel programma elaborato nel settembre ‘44 dal Mouvement de libération national (MLN) che raccoglieva una
parte importante dei movimenti della Resistenza francese. In quel testo si affermava sia la necessità di costruire
un’unione europea “aperta, a tutti i popoli europei, compresi l’Inghilterra e l’U.R.S.S.”, sia il carattere federale
dell’unione e il suo ruolo per il conseguimento del benessere economico, della democrazia e della pace nel mondo.
Il MLN invitò i vari movimenti di Resistenza a Parigi per partecipare alla conferenza federalista europea. Spinelli
venuto a conoscenza di questa proposta francese, lasciò l’Italia e andò a Parigi. A Parigi Spinelli venne investito dei
compiti organizzativi della conferenza federalista (che si tenne a Parigi dal 22 al 25 marzo ‘45). L’evento fu un
successo per la qualità dei dibattiti, per le posizioni federaliste del documento finale e perché diede vita a un Comité
international pour la fédération européenne, che aveva il compito di attuare le linee politiche decise durante la
conferenza, ma questo Comitato non fu vitale. Gli uomini politici e di cultura che avevano aderito al Comité
abbandonarono immediatamente l’impegno europeista per dedicarsi alla concreta lotta politica, l’organismo quindi
sopravvisse fio a maggio per poi cessare la sua attività.
Durante il periodo bellico i rapporti tra federalisti e i partiti clandestini italiani furono caratterizzati da alterne
vicende legate sia alle posizioni ideologiche delle varie formazioni politiche, sia alla capacità di convincimento e
penetrazione dei federalisti negli organi dirigenti stessi.
Nel maggio ‘43 si registrarono alcune adesioni programmatiche agli obiettivi federalisti, mentre nel ‘44 il ricostituito
Partito liberale fece propri i principi del Manifesto, grazie a Einaudi. Di rilievo fu la presenza delle idee federaliste
all’interno del Partito d’Azione (PdA). L’adesione al PdA di gran parte dei fondatori del MFE portarono a fusioni sia
politiche che organizzative. Lo stesso Spinelli, dopo qualche esitazione aveva aderito al PdA per “compenetrarlo
della visione federalista”.
Durante la Resistenza, la Democrazia Cristiana (DC) e il Partito comunista italiano (PCI) assunsero sul tema dell’unità
europea posizioni opposte.
▪ Nel programma di Milano la DC auspicava alla creazione di una federazione di stati europei “retti a sistema di
libertà”, una “rappresentanza diretta dei popoli accanto a quella dei governi”, la creazione di forze armate 9
internazionali, e l’adozione di una cittadinanza “europea” accanto a quella nazionale.
▪ I membri del PCI recepirono il Manifesto di Ventotene come un documento antimarxista e reazionario.
A partire dalla diffusione delle idee federaliste a Ventotene, il Manifesto ebbe come sostenitori solo intellettuali
marxisti al limite dell’eresia.
Maggiormente articolati furono i rapporti tra federalisti e socialisti:
i socialisti marxisti e convinti del patto d’unità d’azione con i comunisti, stipulato nel settembre ‘43, rifiutarono il
programma federalista; nonostante ciò, ci furono adesioni di singoli militanti o di gruppi come quello di Zurigo
guidato da Ignazio Silone. La posizione di questo gruppo era partita dall’esperienza del Centro estero del Partito
socialista che, nella ricerca di una via al socialismo, aveva individuato nel federalismo e nell’autonomia possibili
risposte per la ricostruzione della democrazia in Italia e in Europa.
Nel novembre ‘44 il PSIUP (partito socialista italiano di unità proletaria) avrebbe adottato una mozione in cui si
auspicava la realizzazione di un’organizzazione federale degli Stati europei.
I socialisti si impegnavano a dare il loro appoggio ai movimenti che operavano a favore di “una Federazione dei
popoli europei, fondata sull’esigenza popolare di stabilire un’unità economica e politica superiore agli Stati”.
L’adesione era condizionata da due questioni espresse dal partito che condizioneranno per anni i rapporti tra il
futuro Partito socialista italiano (PSI) e il MFE:
1. L’omogeneità politica, economica e sociale dei popoli e degli Stati che avrebbero partecipato alla federazione.
2. L’inderogabile necessità che agli Stati Uniti d’Europa aderisse l’U.R.S.S.
Il confronto sul problema dell’unità europea stimolò il dibattito politico e ideologico all’interno dell’area socialista e
permise un reciproco arricchimento intellettuale.
Fra queste “occasioni” occorre ricordare l’incontro con Adriano Olivetti che, colpito da un mandato di cattura, si era
rifugiato in Svizzera nel febbraio ‘44. Olivetti aveva portato dall’Italia il suo memorandum sullo stato federale delle
Comunità. Sui contenuti del testo aprì un confronto con alcuni interlocutori, tra cui Spinelli e Rossi. Lo scambio di

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opinioni tra Olivetti e Spinelli non si limitò al federalismo e alle forme di organizzazione delle Comunità annunciate
da Olivetti, ma spaziò anche sulla realtà politica italiana e sulle azioni da intraprendere nell’immediato dopoguerra.
Olivetti percepisce l’importanza del livello europeo per la piena realizzazione del principio di sussidiarietà in uno
Stato democratico. Egli auspicava l’avvento di una struttura federale alla cui base ci fosse il comune. Per Olivetti
l’integrazione europea è l’unica risposta democratica coerente ai vari nazionalismi e l’unica strada perché le nazioni
d’Europa riacquistino il ruolo di soggetti della storia.
Il movimento olivettiano si opporrà però a una federazione di stati accentrati e nazionalisti che poteva “bloccare lo
status quo sociale esistente, anziché essere un elemento di innovazione”.
L’organizzazione federale era vista non solo come garanzia per un superamento degli stati nazionali, ma come
fondamento per la creazione di un sistema adeguato a risolvere i problemi dal livello comunale a quello
continentale. In quest’ottica alcuni militanti del MFE, membri anche PdA, avevano firmato il 19 marzo ‘43, la “Carta
di Chivasso”. Il documento sarà una delle più importanti prese di posizione della Resistenza rivendicanti
l’autonomia politico-amministrativa nel quadro di una struttura federale dello Stato Italiano.
In questo contesto è necessario parlare anche di Umberto Serafini che nel dopoguerra avrà il grande merito storico
di contribuire in modo determinante a portare la lotta per la costituzione federale dell’Europa fra gli enti locali
europei. Serafini aveva radicate convinzioni libertarie e antifasciste; l’esperienza in guerra e il lungo periodo di
prigionia gli consentirono di imbattersi, idealmente in alcuni federalisti inglesi e pensatori politici indiani, leggere o
rileggere saggi in cui il pensiero di Cattaneo, Ferrari, Salvemini, Lippmann veniva da lui riconsiderato in una
prospettiva kantiana. Il sodalizio con Ludovico Quaroni, nel campo di prigionia, fu molto proficuo perché indusse
Serafini a riflettere sui nessi tra “civic and regional planning, interaction between people, their environments and
their activities”. Rientrato in Italia nell’aprile del ‘46 Serafini, insieme ad altri ex compagni di prigionia, partecipò a
movimenti civili e sociali, per poi collaborare, dal’47 al’49, a “Italia Socialista” e scegliere una prospettiva europea
come linea di discriminazione politica tra i diversi movimenti socialisti.
Serafini entrò in contatto con Olivetti, di cui divenne un principale collaboratore. Serafini incontrò anche Spinelli,
anche lui collaboratore di Italia Socialista, e il MFE trovandovi una “casa”. 10
Serafini e Olivetti rappresenteranno il punto di contatto tra il federalismo sovranazionale degli hamiltoniani e le
prospettive federaliste infranazionale. Spinelli si dimostrò poco attento all’aspetto infranazionale del federalismo,
ma fra i tre uomini si stabilì un comune sentire che si rafforzò nel tempo fino a formare un fronte comune.
II. LA FONDAZIONE DEL CONSEIL DES COMMUNES D’EUROPE
1. La controversia per il decentramento amministrativo in Francia premessa per la costruzione di un Conseil des
Communes d’Europe
Fra il 28 e il 30 gennaio 1951 veniva fondato a Ginevra il CCE. All’assemblea costitutiva parteciparono 59 persone, in
maggioranza sindaci e amministratori locali di 9 Paesi dell’Europa occidentale legati ai movimenti federalisti,
comunalisti e all’internazionalismo socialista e cattolico.
Analizzando la composizione delle diverse delegazioni che parteciparono alla riunione di fondazione, risulta evidente
la prevalenza numerica di quella francese, ma anche le personalità francesi presenti erano rilevanti. Fra i
partecipanti vi erano infatti due presidenti e un segretario, Andrè Voisin (segretario della Fédération) e Jacques
Chaban-Delmas (futuro uomo di Stato).
Le altre delegazioni, pur contando personalità politiche di primo piano, non erano in grado, con l’eccezione dei
lussemburghesi, di garantire, attraverso il sostegno di organizzazioni già ampiamente strutturate a livello nazionale,
un’immediata massiccia adesione di Comunità locali al nuovo progetto.
La qualificata presenza francese è comprensibile solo ricostruendo le vicende che portarono alla riunione di Ginevra.
Il punto di partenza è la crisi strisciante che già all’indomani della fondazione della Quarta Repubblica caratterizzò la
società e la struttura amministrativa francese. Dopo la liberazione, nel ‘45, i francesi erano stati chiamati a esprimere
il loro parare in un referendum e a eleggere un’Assemblea. Ai cittadini era chiesto di conferire un mandato
costituente e approvare un’organizzazione provvisoria dei poteri dello Stato, in attesa che la stessa Assemblea
elaborasse un progetto di carta costituzionale. Tutte le forze politiche, tranne comunisti e radicali, si espressero a
favore dei quesiti. I francesi chiedevano ai loro uomini politici nuove istituzione per il Paese, ma quando tra il ‘45 e il
‘46 furono elaborate e sottoposte a referendum furono respinte.

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Fu necessario eleggere una nuova Assemblea in cui il Parti communiste française (PCF) perdeva il ruolo di partito di
maggioranza relativa a favore del Mouvement républicain populair (MRP). Le istituzioni elaborate dalla seconda
Assemblea costituente, nel ‘46, indicavano la volontà dei costituenti di reagire sia contro il potere personale
identificato nel regime di Vichy, sia contro l’instabilità governativa della Terza Repubblica. Se il primo obiettivo era
stato ampiamente raggiunto, il secondo poteva esserlo solo se l’accordo tripartito (comunisti, socialisti e
repubblicani) avesse retto permettendo così l’attuazione di un corretto gioco democratico.
Ma già l’anno seguente, nel 1947, il tripartitismo scomparve in Francia con la ghettizzazione politica dei comunisti
che vennero considerati come cittadini di un altro Stato. I socialisti e i cattolici furono costretti a governare
attraverso la loro forzata alleanza e quando questo non fu più numericamente sufficiente dovettero coinvolgere nel
governo i raggruppamenti politici della Terza Repubblica.
I progetti di riforma che vennero tentati non furono in grado di modificare il quadro politico. In sostanza in Francia
giungeva a conclusione la crisi iniziata negli anni ‘30: si stava realizzando, fra contraddizioni e ripensamenti, il
passaggio dal primato del Parlamento al potere di Stato.
Per difendere le autonomie locali il movimento La Fédération si pose quale obiettivo nell’immediato dopoguerra
una riforma della struttura statale francese in senso federalista. Il programma della Fédération trovo un sufficiente
seguito fra gli amministratori locali. È innegabile la costante pressione esercitata almeno su alcuni partiti a livello
locale e nazionale. In questo modo l’organizzazione federalista seppe inserirsi nel dibattito politico sulla forma dello
Stato.
All’ indomani dell’uscita ufficiale dei comunisti dal governo, il 5 maggio ‘47, La Fédération avvia una campagna
contro la centralizzazione e lo statalismo. Il movimento propose la costituzione dei Consigli di quartiere come unico
mezzo per avvicinare i cittadini delle grandi città ai problemi della municipalità. Chiese la fine della tutela che
l’amministrazione centrale esercitava su quella locale. L’azione della Fédération fu affidata un’apposita Commissione
municipale che doveva sensibilizzare i sindaci raccogliendone le adesioni.
Contemporaneamente veniva pubblicato, dalla casa editrice del movimento, il libro di Jean Francois Gravier Paris et
le désert français che costituì una delle più importanti riflessioni sui rapporti tra Stato, risorse, popolazione e 11
sviluppo dell’immediato dopoguerra francese. Queste attività non produssero immediatamente gli effetti, servirono
però all’organizzazione federalista per convogliare l’attenzione del mondo politico comunale verso i suoi obiettivi.
Il movimento organizzò, nel giugno ‘49, un incontro fra amministratori locali, politici nazionali e i responsabili delle
organizzazioni dei sindaci e dei consiglieri generali.
Durante la riunione fu elaborato un documento di rivendicazioni e fu presa la decisione di costruire un Comité
national pour la défense des libertés communales et dèpartementales.
Nel documento si reclamava la necessità di procedere al decentramento amministrativo, accompagnato dalla
concessione dell’autonomia finanziaria agli enti locali, di annullare la tutela amministrativa da parte dei prefetti sugli
atti dei sindaci e infine di attuare una riforma del Consiglio della Repubblica che attribuisse all’istituzione maggiori
poteri legislativi.
Di particolare importanza sulla presenza di Claudius-Petit che si impegnerà immediatamente in un tentativo di
decentramento programmato attraverso il primo piano nazionale di aménagement du territoire della storia francese.
Durante l’incontro Jean Bareth nella veste di delegato ai problemi comunali della Fédération, mise in evidenza come
l’Europa non potesse essere costruita “solidamente su Stati centralizzati”.
Per propagandare il documento programma, il movimento organizzò delle Journées des maires de France a cui
parteciparono migliaia di sindaci di piccoli comuni rurali e alcuni personaggi di rilievo. Particolare rilievo ebbe la
journée organizzata a Bordeaux dal presidente dell’Association des maires de la Gironde, Jaques Chaban-Delmas.
Il sindaco di Bordeaux, in stretta collaborazione con Voisin, riuscì a coinvolgere nell’iniziativa numerosi parlamentari
del Sud ovest della Francia. In questa occasione si verificò una comunanza di intenti e d’azione fra Jaques Chaban-
Delmas e Voisin destinata a consolidarsi e sviluppate nel tempo. Delegazioni del Comité National furono ricevuti
dalla Commissione per gli affari nazionali del consiglio della Repubblica e dal ministro degli interni ottenendo inoltre
l’ adesione del presidente dell’assemblea nazionale Herriot. Le Figaro dedico alle tematiche proposte dal comité una
serie di articoli. Obiettivo di questo attivismo era il superamento della fase di studio legati ai comité d’études e
l’inizio di una campagna diretta contro “lo stato centralista, contro la tirannia burocratica, per la difesa delle libertà

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locali e regionali”. Per realizzare la rivoluzione il movimento doveva abolire le barriere di partito che dividevano i
diversi politici, concentrandoli intorno all’ unico scopo di una riforma che partendo dal decentramento
amministrativo favorisce la costruzione di una società federale.
L’attività della Fédération corse anche il rischio di un eccessiva strumentalizzazione da parte delle forze di destra.
Contro questa impostazione il movimento reagì con fermezza portando il livello del dibattito sull’autonomia a livello
europeo. In un articolo del ‘49 veniva infatti chiaramente indicato come l’unità europea dovesse essere realizzata
attraverso il progressivo abbandono della sovranità da parte degli Stati nazionali. Nell’attività di sensibilizzazione
un ruolo determinante ebbe anche quello dell’anticomunismo. La Fédération giudicava la politica degli
amministratori locali del PCF (Partie Communiste Française) come antilibertaria.
Secondo queste riflessioni il federalismo doveva contribuire alla formazione di una società fondata sulla
complementarietà organizzata di imprese, professioni e lavoratori. Questi forze dovevano concorrere alla
formulazione ed esecuzione di un piano i cui obiettivi dovevano essere definiti sulla base di due criteri fondamentali:
benessere minimo garantito e optimum sociale. L’economia federale doveva fondarsi sulla libera iniziativa dei
singoli e dei gruppi guidati e coordinati da consigli economici sociali. Il federalismo respingeva quindi il liberalismo
sfrenato e il dispotismo pianificatore dei regimi collettivisti. Il pensiero federalista non poteva quindi coniugarsi con il
marxismo perché i marxisti erano degli “anti statalisti incoerenti”.
Ancora più netta era la posizione di Voisin, segretario della Fédération, il quale affermava che i federalisti non
potevano porre sullo stesso piano gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ma anzi dovevano adoperarsi affinché i sovietici
non potessero mai arrivare a imporre il loro modello statale a Parigi. Le iniziative promosse dalla Fédération
culminarono nell’organizzazione degli Etats généraux des communes de France che si svolsero a Versailles nel ‘50.
Già l’espressione Etats généraux voleva introdurre un elemento rivoluzionario nel quadro amministrativo francese.
Alla manifestazione parteciparono i rappresentanti delle tre maggiori organizzazioni dei poteri locali, ovviamente con
l’esclusione dei comunisti.
Al dibattito partecipò anche Gaston Monnerville , presidente del Consiglio della Repubblica, che dalle ‘48 era
formalmente il Grand conseil des communes et départements de France. Nel suo discorso egli sostenne la tesi di una 12
riforma dell’amministrazione francese nel senso di una maggiore autonomia finanziaria e di intervento delle
collettività locali. Dall’intervento di Monnerville risulta evidente come la Fédération fosse riuscita a porre in modo
politicamente costruttivo il problema del decentramento riuscendo a collegarlo al tema delle riforme istituzionali
necessarie alla sopravvivenza della Repubblica.
Un altro intervento particolarmente significativo fu quello del senatore socialista Joseph Lasalarié. Dopo aver
affermato che gli Stati nazionali erano nati dalla necessità di un potere centrale sufficientemente forti per superare
uno stato d’anarchia, egli ne metteva in evidenza i difetti. Lasalarié si soffermava sullo strapotere della burocrazia
centrale. Secondo il senatore occorreva che i poteri locali ritornassero ad avere un ruolo attivo
nell’amministrazione non solo francese, ma di tutti gli Stati europei. L’unica Europa democratica accettabile per i
socialisti sarebbe stata uno Stato che partendo dalla cellula base della libertà, cioè il comune, giungesse a livello
sovranazionale. La posizione del senatore era chiaramente influenzata dalla dottrina della Fédération e conteneva
alcuni elementi peculiari del pensiero comunista di Gasser. È necessario sottolineare come, nel suo discorso, fosse
contenuta per la prima volta una proposta operativa di attivazione di poteri locali a favore di un’entità
sovranazionale europea ancora non ben definita.
Occorre notare che fra le mozioni approvate dall’assemblea degli États généraux appaiono alcuni temi che
caratterizzeranno le future battaglie del CCE ma non vi è nessuna traccia del problema dell’unità europea.
Probabilmente la presenza di uomini politici legati al generale de Gaulle e ad ambienti conservatori poco inclini alla
realizzazione di una Federazione europea rendeva inopportuna la presentazione di una mozione apertamente
favorevole all’idea di una possibile unificazione europea.
Di diversa impostazione risultano alcune considerazioni contenute in un documento della Fédération. Il testo
evidenziava il successo della manifestazione che aveva permesso per la prima volta di portare all’attenzione
dell’opinione pubblica l’importanza di una riforma amministrativa. Per continuare, veniva proposta la costruzione
di un Comité d’études et d’action. Il Comité doveva svolgere un’azione di lobby nei confronti dell’assemblea

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nazionale per la promulgazione di una legge organica per la riforma amministrativa, organizzare manifestazioni di
sindaci e sensibilizzare l’opinione pubblica. Segretario del Comité veniva nominato Jean Bareth.
Importante in questo documento è una riflessione che poneva in evidenza il timore diffuso nella Fédération che, se si
fosse costruita un’Europa seguendo il modello di aggregazione degli stati nazionali Ottocenteschi, la democrazia
sarebbe stata in serio pericolo. Era necessario tentare strade diverse per costruire un unità europea organica e
rispettosa delle libertà.
Dalla testimonianza di Alain Poher (politico francese) risulta chiaramente come per buona parte dei politici coinvolti
negli États généraux fosse evidente che uno degli scopi della manifestazione era la costruzione di un’associazione
di Comunità locali a livello europeo. I tempi e i modi non erano ancora ben definiti, ma l’operazione era necessario.
2. L’iniziativa: due socialisti per l’Europa
Jean Bareth avviò una corrispondenza con Gasser allo scopo di approfondire il tema della necessità di un nuovo
modello statuale. Lo scambio di opinioni però sarebbe rimasto probabilmente circoscritto nell’ambito di una
riflessione sulla forma della struttura statale degli Stati accentrati, se Alida de Jager, socialista tedesca residente in
Svizzera, non avesse percepito la necessità di coniugare il problema dell’autonomia locale con quello della pace in
Europa e nel mondo.
De Jager si rese conto della necessità di costruire una società federale basata sul più ampio decentramento. Si recò
quindi a Parigi per avviare contatti diretti con la Fédération al preciso scopo di creare un’organizzazione
internazionale che si battesse per l’autonomia comunale e la collaborazione internazionale degli enti locali. La sua
idea trovò la massima disponibilità da parte degli uomini della Fédération.
Alexandre Marc, in una testimonianza, fece riferimento all’incontro avvenuto a Parigi fra de Jager, Bareth e altri
uomini della Fédération . L’importanza dell’evento parigino è sempre stata sottaciuta, ma si deve ritenere, che
l’avvio dell’operazione politica che porterà alla nascita del CCE si debba a questa riunione in cui la Fédération
decise di impegnare i suoi uomini e le sue strutture per la nascita di un’associazione dei poteri locali chi potesse in
qualche modo riproporre le tematiche degli Etats généraux des communes et départements de France a livello
13
europeo.
L’iniziativa non poteva però essere ufficialmente presa dal movimento federalista francese perché è già impegnato
nel Ue F che avrebbe potuto ostacolarne o comunque condizionarne lo sviluppo. Quindi la responsabilità
organizzativa e politica dell’operazione fu lasciata interamente ad Alida de Jager.
A causa degli rimediabile perdita degli archivi di Alida de Jager non è possibile ricostruire con precisione l’itinerario,
si può solo supporre la sua partecipazione ai dibattiti che le numerose organizzazioni internazionaliste, pacifiste,
mondialiste, federaliste presenti a Ginevra seppero produrre.
Queste organizzazioni, pur partendo da diverse posizioni, erano comunque concordi nell’auspicare una qualche
forma di Unione Europea. Se de Jager potrebbe non aver fruito della mediazione culturale offerta dalle associazioni
europeiste, era probabilmente a conoscenza delle tesi del Mouvement socialiste pour les Etats-Unis d’Europe
(MSEUE). Il MSEUE non era un’organizzazione ufficiale dell’internazionale socialista, ma un movimento
fiancheggiatore cui le singole persone potevano aderire. Scopo del movimento fu quello di formare una sinistra
europea non marxista favorevole alla costruzione di un’Europa socialista. Solamente in questo quadro possiamo
comprendere come de Jager concepisse l’idea di una grande associazione di comuni europei, operanti a favore della
pace e per la costruzione di un’Europa democratica.
De Jager si avvalse in questa fase anche dell’apporto intellettuale di un altro socialista, il francese Milhaud che,
aveva collaborato con vari gabinetti governativi francesi sia come esperto, sia come consigliere economico, facendo
anche parte del Comité Economique National. Il suo ruolo sarebbe stato fondamentale per i contatti che il direttore
delle Annales de l’économie collective poteva vantare nei confronti dell’ internazionalismo socialista. I due
organizzarono una prima riunione In Svizzera, a Seelisberg. Il luogo era un esplicito segnale politico per chi voleva
fondare l’unità europea sulla libera Unione dei comuni. La riunione di Seelisberg , presieduta da Gasser , fu
preceduta da studi preliminari che portarono al l’individuazione del nome dell’associazione. L’apertura dei lavori di
Seelisberg fu preceduta anche da un rapporto di Milhaud sulla collocazione del CCE nel contesto delle organizzazioni
internazionali. Al termine della riunione fu deciso di costituire un comitato di iniziativa europea che doveva
organizzare la conferenza costitutiva del movimento. Il progetto era gestito da de Jager e Milhaud; il Bureau del

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comitato di iniziativa , per la parte internazionale, da Ladebeck per la Germania e da Bareth per la Francia. Si
ottennero, le adesioni di personalità politiche di notevole rilievo e delle organizzazioni nazionali degli eletti locali
francesi. Il comité si ampliò con l’ingresso ufficiale di Berrurie, Chaban-Delmas, Hamilius, Lasalarié, Merlot,
Trémintin. Da un documento confidenziale stilato prima dell’assemblea che vedrà la costituzione del CCE
apprendiamo che nella delegazione francese era stato incluso anche Herriot.
È importante notare che in Francia la seconda più alta carica dello Stato si schierava a favore dei progetti della
Federazione. Herriot Favorì il successivo sviluppo del CCE divenendo presidente del AFCCE (Association française
pour le Conseil des communes d’Europe).
Al termine della riunione di Seelisberg, Milhaud fu incaricato di redigere una dichiarazione. Il testo fu stampato e
venne usato come manifesto programmatico. Nel documento veniva chiaramente indicato come l’obiettivo del
conseguimento dell’autonomia comunale dovesse costituire il perno della futura azione del movimento.
Il CCE doveva anche svolgere un ruolo di razionalizzazione fra le diverse attività delle organizzazioni nazionali degli
enti locali. Doveva promuovere la cooperazione fra comuni nell’ambito della realizzazione di servizi sociali ed
economici e fornire consulenze ai vari governi sugli stessi temi . Nella dichiarazione i promotori non ritennero
opportuno pronunciarsi a favore di una qualche forma di unità europea. Il campo d’azione dell’organizzazione
doveva essere il continente europeo, benché in questa fase, obiettivo del CC non fosse la costruzione di un’Europa
unita.
3. Il dibattito politico e il contesto internazionale
Dopo il discorso di Harvard del segretario di Stato americano George Marshall del 5 giugno ‘47 e il rifiuto dell’URSS e
dei Paesi dell’Europa orientale di aderire al piano di aiuti statunitensi, i movimenti federalisti europei scelsero di
operare a favore di un’unione federale europea che raggruppasse i soli paesi democratici.
L’iniziativa americana aveva aperto il primo varco a favore di una possibile unificazione europea. Il Piano Marshall
dava due importanti indicazioni:
1. La prima riguardava la necessità di una qualche riforma di Unione fra i paesi europei.
14
2. La seconda delimitava l’area geopolitica interessata alla possibile Federazione ai soli paesi dell’Europa
occidentale.
Due aspetti colti dai movimenti federalisti, che percepirono la possibilità di concretizzare le aspirazioni all’
unificazione del continente maturati durante la 2°GM e sfumate nell’immediato dopoguerra.
Grazie al contesto politico internazionale vennero creati alcuni organismi internazionali:
- L’organizzazione Europea di Cooperazione Economica (OECE), attraverso la quale 16 paesi dell’Europa
occidentale si impegnavano a gestire gli aiuti americani.
- Il Patto di Bruxelles firmato dai paesi del Benelux dalla Francia e dalla Gran Bretagna, che prevedeva l’assistenza
militare in caso d’aggressione, la cooperazione economica, culturale e sociale.
Con il blocco di Berlino e la possibilità che anche l’URSS si dotasse di armamenti atomici, i paesi dell’Europa
occidentale cercarono stretti contatti militari con gli Stati Uniti. I negoziati portarono alla creazione della NATO il cui
trattato, firmato nel ‘49, univa 10 stati dell’Europa a USA e Canada in un patto di mutua difesa.
Gli organismi creati in questo periodo si svilupparono basandosi sulla cooperazione internazionale, ineguale, fra stati
sovrani. Fu così che i movimenti europeisti riuscirono a promuovere la costituzione del Movimento Europeo nel ‘48
e quella del Consiglio d’Europa nel ‘49.
Il Consiglio d’Europa era formato da un’Assemblea consultiva e da un Comitato di ministri. Alla sua fondazione
parteciparono 10 stati dell’Europa occidentale, a cui si aggiunsero in breve altri 5. La presenza britannica e
scandinava condizionò il ruolo dell’Assemblea, cui furono negati poteri efficaci, mentre il Comitato dei ministri si
rivelò il custode della sovranità assoluta degli stati nazionali.
L’assemblea svolse comunque un ruolo di chiarificazione delle diverse posizioni governativi, partitiche e nei
movimenti favorevoli o meno a un effettiva Unione europea. Una mozione presentata dal deputato federalista
MacKay, affermava che scopo e obiettivo del Consiglio doveva essere la creazione di un autorità politica europea
dotata di funzioni limitate, ma di poteri reali. Con la mozione si dava mandato alla Commissione Affari Generali di
stilare un progetto di patto europeo che definisse i poteri del Consiglio d’Europa.

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Venne anche approvato un progetto, sempre proposto da MacKay, in cui si prevedeva la trasformazione del
Comitato dei ministri e dell’Assemblea consultiva rispettivamente in Camera alta e Camera bassa. Questa
risoluzione avrebbe dato vita alle istituzioni politiche fondamentali su cui perfezionare la costruzione della
Federazione europea.
La presa di posizione dell’assemblea si scontrò ancora una volta con il veto dei comitato di ministri. Da quel
momento i movimenti federalisti abbandonarono la speranza di realizzare l’unità del continente attraverso l’opera
dell’assemblea di Strasburgo puntando invece sulle potenzialità contenute sia nel piano proposto da Schuman nel
1950, sia nella proposta che Renè Pleven illustrò all’assemblea nazionale nel 50 Sulla Comunità europea di difesa
(CED).
Entrambi i piani furono ispirati da Monnet per rispondere alle necessità di uno sviluppo economico ed un riarmo
della RFdG (Repubblica federale di Germania). Creare la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA)
significava infatti stroncarli alla base le possibilità di ricreare il complesso militare-industriale che per ben due volte
aveva contribuito a mettere a ferro e fuoco l’Europa. Dare vita alla CED aveva posto in primo piano la questione del
riarmo tedesco, significava risolvere il problema della difesa dell’Europa senza permettere la ricostruzione di un
esercito nazionale tedesco.
Per Monnet il senso delle due iniziative travalicava la situazione contingente; a suo avviso l’Europa aveva ancora un
compito morale da assolvere. Il continente doveva guidare il pacifico sviluppo mondiale e dovevano essere eliminate
le cause della guerra. Monnet trovò una comunanza di posizioni con due uomini: Adenauer e Schuman, la cui
collaborazione permise l’avvio dei progetti di integrazione.
Le due iniziative ebbero il grande merito di porre il problema dell’unificazione europea all’attenzione dell’opinione
pubblica, nonché quello di dare a Spinelli l’occasione per aprire concretamente una via verso una possibile Unione
federale europea. Era ormai stata accettata dalla grande maggioranza dei movimenti federalisti componenti l’UEF
l’ipotesi per cui “la mutilazione forzata dell’Europa a est e il rifiuto di certi paesi occidentali di lasciare ad una
autorità politica comune una parte della loro sovranità” avrebbero inizialmente limitato a pochi paesi la Federazione
europea. In questo contesto favorevole ai movimenti che in qualche modo propugnavano idee di collaborazione a
livello europeo, i promotori del CCE decisero, dopo la riunione di Seelisberg, di raccogliere adesioni all’assemblea 15
costitutiva e di diffondere il loro manifesto.
L’Assemblea federalista aveva il compito di spingere il Consiglio d’Europa a trasformarsi nell’Assemblea costituente
degli Stati Uniti d’Europa. Il consiglio europeo di vigilanza svolse i propri lavori contemporaneamente al congresso
dell’UEF a Strasburgo e a quello del MSEUE sempre nella città di Strasburgo. Questa coincidenza, non casuale,
permise di organizzare una riunione comune tra UEF, MSEUE e NEI (Nouvelles équipe internationales) che fu
all’origine di una nuova assise: il Consiglio dei popoli d’Europa. I promotori dell’assemblea costitutiva del CCE
cominciarono a cercare adesioni al loro progetto fra i partecipanti all’assise di Strasburgo. Gli amministratori locali
che partecipavano al congresso dell’UEF e alle manifestazioni del MFE erano decisamente schierati a favore di una
Federazione europea e avrebbero aderito a un movimento dei poteri locali solo se questa nuova associazione avesse
recepito le proposte federaliste. In questo contesto fu coinvolto nella Fondazione del CCE Celeste Bastianetto.
Insieme a Bastianetto parteciparono alle riunioni federaliste di Strasburgo Clément, Gasser, Lasalarié, Marc, Spinelli
e Voisin.
I sindaci francesi organizzarono una riunione per discutere insieme ai promotori del CCE la validità del progetto.
Anche in altri paesi era stata percepita la funzione positiva che i poteri locali avrebbero potuto svolgere a favore
della costruzione europea.
Fra i congressi di Strasburgo e la riunione costitutiva del CCE il movimento, La Fédération avviò al suo interno un
dibattito, alla Fédération premeva soprattutto determinare una rigorosa linea di condotta per contrastare
l’influenza che altri movimenti esterni potevano avere sulle scelte di indirizzo dell’organizzazione. Le riflessioni
terminarono alla vigilia dell’assemblea costitutiva del CCE fornendo così agli uomini della Fédération indirizzi
organizzativi e culturali. Questi si distinguevano sostanzialmente dalla percezione che altri movimenti federalisti
europei avevano del ruolo che le amministrazioni locali potevano svolgere nel processo di unificazione europea.
Per i federalisti italiani gli amministratori comunali dovevano essere utili strumenti di pressione. L’obiettivo
prioritario per i federalisti italiani era la costruzione di uno stato europeo democratico la cui struttura doveva essere
certamente federale, ma l’idea federalista non doveva necessariamente essere applicata all’economia o alla

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struttura sociale. Il punto di vista della Fédération era esattamente opposto, poiché la ricerca dell’unificazione
europea era conseguente alla coscienza che lo Stato-Nazione dovesse essere profondamente modificato nella sua
struttura e nella sua organizzazione economica e sociale. Aron era arrivato ad affermare che la sola autentica
riforma doveva essere contro lo Stato e non per lo Stato, anche uno Stato Federale Europeo, per essere
democratico, doveva superare il livello nazionale e affondare le proprie radici in una nuova società federale.
Le discordanti posizioni culturali non impediranno al MFE e alla Federazione di collaborare nel promuovere la nascita
del CCE. In vista dell’assemblea costitutiva del CCE, il comitato organizzativo presi di nuovo contatto con Adriano
Olivetti che, pur impegnato nella sua battaglia, colse l’occasione di collaborare alla Fondazione di un’associazione
europea di collettività locali , sia per portare la sua battaglia a livello europeo, sia perché apprezzava la chance
offerta da un proficuo scambio di esperienze fra amministratori locali.

L’amicizia e la stima reciproca portavano Olivetti a collaborare con Spinelli. Olivetti coinvolse perciò nell’iniziativa
Spinelli e fu la comune decisione dei due federalisti di aderire alla richiesta di De Jager e Milhaud che permise la
costituzione di una DELEGAZIONE ITALIANA per l’assemblea costitutiva del CCE.
Il nome della persona che si doveva occupare della composizione della delegazione italiana fu quello di Umberto
Serafini. Serafini fu affiancato da Magda da passano e da Alberto Cabella, da poco vice di Spinelli. La delegazione
inviata a Ginevra fu integrata dal sindaco socialcomunista di Ivrea Umberto Rossi, da studiosi vicini al movimento
olivettiano e da pochi altri amministratori. In Italia l’iniziativa rimase per il momento circoscritta. Un’importante
segnale di apertura del mondo cattolico fu dato da una lettera che Luigi Sturzo scrisse a Bastianetto in occasione
dell’assemblea costitutiva e che fu divulgata a livello internazionale. Sturzo sosteneva che solo l’affermazione
dell’autonomia locale era in grado di contribuire alla creazione di una vita nazionale armoniosa e di un’Unione
internazionale efficace e democratica.

Le altre DELEGAZIONI NAZIONALI furono formate principalmente da politici locali o da persone legate ai movimenti
federalisti. In Svizzera De Jager e Milhaud acquisirono l’adesione di Cottier. Grazie a lui i promotori ottennero dalla
città e dal Cantone di Ginevra il necessario appoggio organizzativo e finanziario che permise lo svolgimento della
manifestazione. La sua presenza poteva garantire l’adesione massiccia delle città svizzere. L’UIV aveva inviato a tutte 16
le sue sezioni europee una lettera in cui deplorava l’iniziativa dell’annunciata assemblea costitutiva del CCE che
considerava come un pericoloso attentato all’unicità della rappresentazione municipale. Il comitato per il CCE replicò
inviando una serie di lettere promuovendo iniziative personali. I problemi però erano altri: all’UIV aderivano anche
alcuni comuni dell’est europeo e la linea dei fondatori del CCE era assolutamente contraria ad accettare adesioni di
municipalità a guida comunista.

La composizione della DELEGAZIONE TEDESCA fu condizionata dalla posizione della SPD (socialisti democratici) nei
confronti dell’unità europea. I socialisti tedeschi non erano contrari all’idea di un’Europa unita, la loro adesione ai
progetti era subordinata al conferimento della piena sovranità e pari dignità politica alla Germania di Bonn, nonché
alla riunificazione delle due Germanie. Il problema di una ridefinizione delle autonomie locali era dunque
sicuramente avvertito dalla classe politica tedesca, ma questo sentimento urtava, nel caso della proposta costitutiva
del CCE, contro la posizione ufficiale della SPD. Bisogna considerare però come in Germania Gasser avesse
cominciato a svolgere una capillare opera di propaganda. Il suo pensiero era conosciuto ma riuscì solo parzialmente
a controbilanciare quelli negativi.

La totale assenza di una DELEGAZIONE BRITANNICA può essere attribuita alla posizione ufficiale antieuropea del
partito laburista e del governo di Londra, occupati a boicottare ogni iniziativa che potesse portare all’unità europea.
Inoltre i comuni inglesi aderivano all’UIV. La coincidenza di questi fattori portò al fallimento il tentativo di
coinvolgere gli enti locali inglesi.

Condizioni profondamente diverse si verificarono in Lussemburgo dove Clément mise a disposizione di promotori la
propria influenza nei confronti dei movimenti federalisti ed europeisti lussemburghesi. Clement aveva compreso che
per evitare nuove disastrose avventure nel continente europeo bisognava ricostruire l’Europa su basi diverse.
Clement organizzò una sorta di gemellaggio tra la sua città e quella olandese di Amersfoort al fine di promuovere
l’idea del Benelux non solo come associazione economica, ma anche dal punto di vista politico, culturale e sociale.
Secondo Clément gli Stati europei dovevano percorrere le nuove strade al cui crocevia stava la convocazione di una
Assemblea costituente Europea. Clément, dopo aver appreso dell’iniziativa di De Jager e Milhaud, diramò una

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circolare agli amministratori lussemburghesi in cui rifletteva sul ruolo dei comuni, affermando che solo gli enti locali
avevano un contatto diretto con la popolazione europea e con le sue necessità quotidiane. Per Clément riunire gli
amministratori locali in un Consiglio dei comuni d’Europa (CCE) significava “promuovere e servire, sul piano
concreto, l’idea europea e quindi contribuire a realizzarla”. Alla circolare fece seguito una prima opera di
coinvolgimento che portò alla formazione della DELEGAZIONE LUSSEMBURGHESE.
4. L’assemblea costitutiva del Conseil des Communes d’Europe
L’ordine del giorno provvisorio dell’assemblea costitutiva del CCE:
▪ Prevedeva due relazioni introduttive tenute da Gasser e Lasalarié.
▪ Successivamente si sarebbero dovuti discutere i problemi dei comuni e delle collettività territoriali: autonomia
amministrativa e finanziaria, lotta contro la centralizzazione amministrativo-economica, equilibrio tra lo sviluppo
urbano e rurale, partecipazione dei comuni agli organismi europei e delle Nazioni unite, cooperazione economica
intercomunale.
▪ Si sarebbe infine proceduto alla vera e propria costituzione del CCE.
Relazioni introduttive → Entrambi i discorsi indicavano nel comunalismo svizzero e nel federalismo della Fédération
le matrici culturali sotto la cui protezione sarebbe dovuta nascere la nuova organizzazione.
Gasser affermò la speranza che l’assemblea costitutiva cogliesse la necessità di sviluppare lo spirito comunale che si
basava sulla “corresponsabilità negli affari amministrativi del popolo”. Questa corresponsabilità non coincideva con il
diritto di voto ma dipendeva dal grado di partecipazione collettiva alla gestione della cosa pubblica. Quindi il vero
problema non era l’unità europea ma l’affermazione del principio della libertà comunale che avrebbe reso “possibile
una collaborazione dei popoli basata sulla fiducia reciproca”. L’analisi di Gasser si dimostrava ancora una volta poco
sensibile al tema della costituzione di una struttura statale europea. Egli era convinto che la trasformazione delle
strutture interni di tutti gli Stati europei avrebbe di fatto impedito nuove guerre o l’ascesa al potere di dittature di
destra o di sinistra (secondo l’analisi federalista era la sovranità assoluta degli Stati la vera causa delle guerre e non la
loro struttura interna).
Lasalarié si differenzia dalle posizioni di Gasser. Egli evidenziava la situazione politica internazionale: la guerra 17
fredda, il rifiuto della Gran Bretagna di aderire a qualsiasi tentativo di costruire un’Europa unita, l’incapacità del
Consiglio d’Europa di diventare qualcosa di più di un’associazione di stati; e indicava nella costruzione di un’Europa
unita l’unica via di salvezza economica e politica per le democrazie occidentali. Lasalarié era convinto che un diverso
sforzo fosse necessario, fece proprie le elaborazioni del comitato di studi della Fédération per cui l’Europa si sarebbe
più facilmente realizzata se l’iniziativa fosse partita dagli amministratori locali. Nel discorso veniva anche abbozzata
per la prima volta a livello internazionale l’ipotesi che i sindaci potessero agire nei confronti delle classi politiche
nazionali in funzione di lobby per indirizzarle verso la costruzione europea.
Il dibattito sulle due relazioni e sugli scopi del CCE si sviluppò durante i giorni successivi. In questo confronto
emersero diverse posizioni a livello di delegazioni nazionali ma va evidenziato il ruolo predominante di indirizzo che
ebbe Chaban-Delmas.
Una prima comune reazione da parte di tutte le delegazioni e da parte di Chaban-Delmas si ebbe nei confronti della
relazione di Gasser. Nessun uomo politico era disposto ad accettare l’analisi dello storico svizzero che considerava
non democratici i paesi dove le libertà comunali non fossero sviluppate sul modello svizzero, inglese o scandinavo. Al
contrario Chaban-Delmas fece una lunga disquisizione sulle libertà personali e amministrative della Repubblica
francese che considerava come patria della moderna democrazia. I risentimenti nazionalisti provocati da Gasser e il
fatto che gli interventi dei delegati italiani sottolineassero la loro partecipazione a titolo personale all’Assemblea
rischiarono di allungare i tempi della discussione. Questa difficoltà era aggravata dal fatto che i sindaci presenti non
disponevano di un mandato formale. Inoltri i rappresentanti olandesi non erano disposti ad accettare incarichi negli
organi di gestione del CCE.
Con queste premesse era difficile attendersi la nascita di un movimento che avesse una dimensione europea.
L’incontro si concluse positivamente grazie alla ferma posizione dei partecipanti belgi e lussemburghesi. I primi
intervennero nel dibattito per mezzo di una breve dichiarazione e affermarono di essere venuti a Ginevra “per
prendere il contatto a proposito della creazione del Consiglio dei comuni d’Europa”. Dalle successive dichiarazioni
risulta evidente come per gli amministratori locali del Belgio il problema prioritario fosse favorire il processo di

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unificazione. Sulla stessa linea si espresse la delegazione lussemburghese che con Clément propose una risoluzione
per cui i comuni europei, tramite il CCE, si sarebbero impegnati a operare in favore dell’integrazione europea. Dal
discorso di Clément emerse anche la necessità di svolgere un’azione di sensibilizzazione nei confronti delle
popolazioni sulle tematiche europee. La riflessione inseriva negli obiettivi del CCE l’idea della mobilitazione degli
europei per mezzo dei loro sindaci. La proposta di Clément andava a completare quella di Lasalarié per cui i sindaci
potevano svolgere anche un’opera di pressione sui governi.
Dopo questi interventi, Chaban-Delmas, dando per scontata la costituzione del CCE, si sentì legittimato a esporre gli
obiettivi del movimento che erano due:
- Il primo era quello di permettere il confronto fra i comuni sui problemi concreti e aiutarli a risolverli.
- Il secondo era la costruzione europea.
Chaban-Delmas non dava però indicazioni precise sul tipo di istituzione europea che il CCE avrebbe dovuto favorire.
Le tesi del sindaco di Bordeaux (Chaban-Delmas) furono sostanzialmente accettate e lo stesso Chaban- Delmas
venne nominato presidente e relatore della Commissione speciale incaricata di redigere lo statuto. La discussione
sulla carta costituzionale del CCE avvenne in seno alla Commissione speciale. Particolare rilievo ebbe il problema
della rappresentanza degli enti locali a livello europeo. Nella stesura proposta da Chaban-Delmas il CCE si proponeva
come scopo quello di integrare una futura assemblea consultiva dei poteri locali al Consiglio d’Europa. Contro questa
ipotesi si schierarono sia Voisin, sia Bastianetto. Voisin fece notare l’impossibilità giuridica di integrare il CCE nel
Consiglio d’Europa. Bastianetto sottolineava l’inutilità dell’assemblea del Consiglio d’Europa perché non aveva
nessuna capacità di influenza reale.
Dopo una lunga discussione furono adottati i due testi che accoglievano le osservazioni avanzate. Il CCE si dava come
obiettivo, al paragrafo IV dello statuto, di “assicurare la partecipazione e la rappresentazione dei comuni e delle
collettività locali agli organismi europei e internazionali” e al paragrafo V “di integrare alle future istituzioni europee
l’assemblea rappresentativa dei comuni e delle collettività locali”. Lo statuto accolse comunque i temi comunalisti,
federalisti, integrali, europeisti e del socialismo comunalista. Era inoltre fatto specifico riferimento alla necessità che
il CCE si adoperasse anche per aiutare i comuni a risolvere i propri problemi gestionali attraverso la costituzione di 18
organismi intra comunali.
La discussione organizzativa fu complessa perché occorreva adeguare le strutture del CCE alle varie esigenze
nazionali. Al CCE vennero ammessi come membri solo i comuni, le amministrazioni intermedie e le loro
organizzazioni; altri enti, gruppi politici o istituzioni potevano aderire al movimento come corrispondenti.
L’organizzazione dei comuni europei si apriva agli altri enti locali ma relegava al ruolo marginale di “esperti ” alcuni
promotori dell’organizzazione come Milhaud e Gasser, il primo perché non era mai stato amministratore locale, il
secondo perché non era amministratore comunale della sua città. Venivano esclusi anche alcuni italiani come
Giannini e Quaroni. La gravità di questi esclusioni risulterà evidente quando si tratterà di formare le commissioni di
lavoro del CCE.
Al termine dei lavori il Consiglio dei comuni ebbe comunque una sua struttura organizzativa che si articolava in:
▪ un’Assemblea generale,
▪ un Comitato esecutivo eletto dall’Assemblea,
▪ un Bureau eletto dal comitato.
▪ Venne anche costituito un comité d’action alla cui presidenza fu nominato Chaban-Delmas e aveva il compito di
sovrintendere all’organizzazione delle commissioni di lavoro e studio e in pratica di rendere operativo il CC.
Per la composizione del Comitato esecutivo e del Bureau il presidente del comité propose di applicare i medesimi
criteri adottati dal Consiglio d’Europa. Per il comitato esecutivo, le delegazioni dei paesi maggiori: Francia, Italia,
RFDG sarebbero state rappresentate da 18 delegati, Belgio e Olanda da sei, Danimarca e Svizzera da quattro,
Lussemburgo da tre.
Per il Bureau furono applicati criteri in parte diversi, si privilegiarono le delegazioni che erano in grado di procurare
un certo numero di adesioni. Francia, Italia E RFDG avevano quattro posti, due Belgio e Svizzera, uno Olanda,
Lussemburgo, Danimarca e Saar (uno dei 16 länder federati della Germania).

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Durante la designazione dei membri dell’organo esecutivo del CCE i francesi occuparono quattro posti, i tedeschi
furono in grado di indicare quattro commissioni locali ma gli italiani poterono disegnare due soli rappresentanti,
Bastianetto e Rossi, perché in quel momento non vi erano altri sindaci disposti ad accettare l’incarico.
Durante la discussione era più volte emerso il problema dei rapporti fra la nuova delegazione e l’UIV. Fu per questo
che la presidenza venne offerta a Cottier che accettò l’incarico consapevole che la sua posizione di presidente
dell’Union Des Ville Suisses e vicepresidente dell’UIV gli avrebbe permesso di svolgere un’utile opera di mediazione
fra le due organizzazioni. La nomina di Cottier aveva anche un altro significato: l’assemblea aveva deciso di stabilire
la sede provvisoria a Ginevra e ciò avrebbe agevolato la ricerca di una sede nonché i rapporti con l’amministrazione
cittadina.
Durante la riunione del comité d’action, Chaban-Delmas propose la costituzione di tre commissioni: autonomia
amministrativa e finanziaria, equilibrio urbano e rurale, sicurezza e assistenza. Solo il decisivo intervento di Clément
e Bastianetto, indusse il comité a creare la quarta Commissione per l’azione europea. Ogni Commissione aveva un
presidente e un segretario che dovevano risiedere nel medesimo Paese. Questi organismi dovevano presentare al
comité rapporti su diversi argomenti. Sulla base delle conclusioni raggiunte si sarebbero programmate le diverse
azioni del CCE.
I primi anni di vita del CCE saranno caratterizzati da gravi problemi finanziari. L’organizzazione verrà perciò gestita da
Paesi in grado di esprimere una linea politica accompagnata da un supporto finanziario.
III. L’AVVIO DELLA COSTRUZIONE EUROPEA. DALLA COMUNITÀ EUROPEA DI DIFESA AI TRATTATI DI ROMA
1. La guerra fredda e l’unità europea
Tra la fine del 1950 e la prima metà del ‘51, l’improrogabile necessità del riarmo occidentale stava provocando la
fine prematura degli aiuti ERP (European Ricovery Plan) agli Stati dell’Europa “americana”. Per gli Stati Uniti la
priorità era contribuire ad accrescere il potenziale bellico del mondo occidentale. I paesi europei si adeguarono alla
nuova linea politica d’oltre Atlantico anche perché si trovavano in una condizione di dipendenza nei confronti degli
Stati Uniti. Il ‘51 fu un anno di transizione in cui mancò una seria programmazione degli aiuti statunitensi destinati
19
all’economia, mentre quelli per la difesa vennero vincolati a concreti sforzi per realizzare i programmi di riarmo.
Quando gli Stati europei non si dimostrarono affidabili rispetto alle aspettative o agli impegni presi, gli Stati Uniti
ridussero i loro aiuti.
Il piano Pleven fu la risposta francese al problema del riarmo europeo. Per discutere del piano fu convocata una
conferenza a Parigi nel febbraio ‘51. I negoziati procedettero attraverso notevoli difficoltà sino a quando grazie
all’iniziativa di Monnet , l’amministrazione americana si dichiarò favorevole al progetto. La presa di posizione
statunitense favorì un nuovo clima in seno alla conferenza di Parigi, così i delegati nazionali furono in grado di
elaborare un documento unitario denominato Rapport Intérimaire . Nel testo non veniva superata la contraddizione
fondamentale insita nei progetti sino allora discussi, pareva politicamente impossibile dare vita a un esercito
europeo senza prevedere la costituzione di un potere politico a cui esso avrebbe dovuto rispondere. Spinelli mise in
evidenza questa contraddizione in un memorandum inviato a De Gasperi e Schumann. Nel documento si avanzava
la proposta che gli Stati aderenti dessero mandato a un’assemblea costituente di definire gli organi e i poteri di
un’Unione europea. L’iniziativa di Spinelli ebbe un peso nella definitiva conversione federalista di De Gasperi e quindi
sull’atteggiamento assunto dallo stesso De Gasperi durante la seduta dei ministri degli affari esteri dei sei Paesi della
piccola Europa.
In questa battaglia lo statista italiano trovò sostegno in Adenauer. L’atteggiamento dei due uomini fece sì che nella
convenzione transitoria per lo studio di un esercito europeo fosse inserito l’articolo 7H in cui si affidava all’assemblea
della nuova istituzione un mandato sostanzialmente costituente. La strada per una possibile unione politica
europea era aperta. Saranno le mutate condizioni politiche, la morte di Stalin, l’evoluzione della situazione interna in
Francia e in Italia, a impedire la realizzazione del primo concreto tentativo.
 La Francia in particolare dovette affrontare una delle periodiche crisi di instabilità che portò il Paese a una
sostanziale modifica delle alleanze di governo. Nel 1951 si dovevano tenere le seconde elezioni politiche della quarta
Repubblica. Nonostante i due partiti antieuropei, il PCF e il RPF, fossero in calo, la troisième force non aveva nessuna
speranza di conquistare la maggioranza. Non era pensabile coinvolgere nel governo i comunisti o i gollisti, per le loro
concezioni dello Stato alternative. Per evitare una crisi strutturale, i partiti di governo modificarono la legge

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elettorale. Il nuovo sistema prevedeva la possibilità di apparentare liste diverse a livello circoscrizionale. Se le
coalizioni così realizzate avessero ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ad esse sarebbero stati assegnati tutti i
seggi del collegio. Il nuovo sistema elettorale funzionò egregiamente perché i partiti di governo ottenere un’ampia
maggioranza all’Assemblea nazionale. La vittoria si rivelò però effimera. Dalle elezioni usciva particolarmente
rafforzata la destra conservatrice di governo. Dal ‘52 le maggioranze non ottennero più l’appoggio diretto dei
socialisti e si costituirono intorno all’area di centrodestra in cui anche il MRP andava diminuendo la sua influenza. Si
stava formando una coalizione di forze nazionaliste e anti-europeiste che affosserà in Francia, la CED e il CPE.

 In Italia la situazione presentava analogie con quella francese. Le elezioni amministrative avevano messo in luce una
tendenza negativa per la democrazia cristiana. Il movimento sociale italiano (MSI) e il partito nazionale monarchico
(PNM) crescevano vistosamente a spese della democrazia cristiana. L’analisi della situazione spinse De Gasperi a
ripensare alla linea politica. La strategia adottata si basò su due proposte chiave: CED e legge elettorale
maggioritaria, due scelte tese a ridare credibilità e forza ai governi centristi. La proposta del premio di maggioranza
suscitò forti opposizioni. La battaglia che l’opposizione impegno contro la “legge truffa” fu aspra tanto in
Parlamento, con l’ostruzionismo, quanto nel Paese, con numerosi scioperi. Nonostante queste iniziative la legge fu
approvata e non consentì la vittoria della coalizione di governo alle elezioni politiche del ‘53. Si aprì infatti una crisi
della linea centrista degasperiana che non aveva più sufficienti basi politiche. L’altra importante conseguenza della
sconfitta subita dalla DC fu il declino politico di De Gasperi, che venne sostituito alla guida dell’esecutivo. I governi
che si succedettero non ebbero forza e volontà politica sufficienti ad affrontare la ratifica del trattato sulla CED
perché l’attenzione fu indirizzata verso il problema di Trieste e delle ex colonie. La situazione politica contingente
impedire approvazione della CED da parte del Parlamento italiano.
2. L’organizzazione del Conseil des Communes d’Europe. La costituzione delle sezioni nazionali
Intanto il progetto di associazioni fra le associazioni comunali continuava il suo cammino. Fra il ‘51 e il ‘53 vennero
costituite 8 sezioni nazionali nell’ambito delle quali persistevano però profonde diversità . La scelta di creare una
Federazione di organismi nazionali era stata presa durante l’assemblea costitutiva. I membri francesi del CCE
preferivano inoltre avere completa libertà d’azione. All’indomani della fondazione, gli aderenti francesi del CCE, fra
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cui spiccavano i nomi di Chaban-Delmas, Lasalarié, Voisin, decisero nel corso della riunione di iniziare una vasta
campagna per sensibilizzare gli amministratori locali agli scopi del CCE. In questo modo si intendeva proseguire
sulla linea politica adottata dalla Fédération prima della fondazione del CCE. In quei mesi erano infatti in discussione
progetti di riforma elettorale e istituzionale della Repubblica.
Dai verbali della prima riunione precostituente della sezione francese risulta chiaramente come i suoi membri si
sarebbero fatti carico anche dello sviluppo internazionale del movimento. Bareth e Voisin avrebbero avviato rapporti
con le organizzazioni comunali dei paesi non rappresentati alla riunione costitutiva di Ginevra.
Gli stretti rapporti esistenti tra la Fédération e l’area politica moderata che sosteneva il governo fecero sì che la
preoccupazione principale per i promotori della sezione francese fosse quella di ottenere l’appoggio delle
istituzioni. L’autorità centrale poteva infatti creare non poche difficoltà. L’opzione adottata non era certo la più
coerente per un movimento che faceva della lotta per la conquista dell’autonomia locale in ambito nazionale ed
europeo la ragione stessa della sua esistenza. L’organizzazione sarebbe stata facilmente influenzabile dagli stessi
partiti a cui chiedeva aiuto per il proprio sviluppo. Fu quindi chiesto al ministro agli interni di appoggiare la
costituzione della sezione francese il cui statuto fu ufficializzato nel marzo ‘51. Venne diramata a tutti i prefetti della
Francia e agli Inspecteurs Généraux De L’Administration En Mission Extraordinaire la circolare ministeriale numero
153. In questo documento si informavano i rappresentanti dello Stato dell’avvenuta creazione del AFCCE
(Association française pour le Conseil des communes d’Europe). Alla circolare venne allegata una nota informativa
che ricostruiva la breve storia del CCE ma soprattutto metteva in rilievo il ruolo della Fédération.
In questo modo la Fédération finiva per assumere “un’importanza particolare non solamente sul piano nazionale ma
sul piano europeo” .
Ebbe inizio la campagna di propaganda del AFCCE, coordinata da un centro nazionale, e si avvalse di veri e propri
missi Dominici: i Delegati Del Consiglio Dei Comuni D’Europa. Essi avevano l’incarico di render visita ai sindaci definiti
democratici nei dipartimenti a loro assegnati, di sensibilizzarli ai temi del decentramento amministrativo e dell’unità
europea e di creare i comitati dipartimentali della CCE.

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Secondo l’AFCCE veniva così realizzata “la decentralizzazione” che costituiva “uno dei suoi obiettivi istituzionali”. I
vari delegati compilarono periodici rapporti da cui si deduce che i sindaci di orientamento MRP, radicale e
monarchico si dichiararono generalmente favorevoli all’adesione dei loro comuni all’AFCCE. Alcuni tra di loro
subordinarono la loro adesione all’“accord du préfet”. Gli amministratori gollisti e socialisti si dimostrarono invece
più cauti nell’accordare la loro adesione, i socialisti non si sentivano sufficientemente rappresentati all’interno
dell’organizzazione.
L’attività capillare fu accompagnata da una serie di appelli lanciati da Pier Trémintin, presidente dell’Association des
maires de France, affinché i comuni associati alla vecchia organizzazione degli amministratori locali francesi
aderissero al AFCCE. L’opera di Trémintin giunse al suo culmine durante il 36° congresso dell’associazione, su
proposta del presidente venne approvata una mozione, il cui testo indicava come scopo dell’Association des maires
de France quello di “assicurare una rappresentazione dei collettivi locali presso le istituzioni europee”. Qualche mese
dopo anche l’Association Des Présidents De Conseils Généraux guidata da Lasalarié invitava i suoi membri ad
iscriversi al AFCCE. La sezione francese poté così raggiungere 10.000 adesioni sulle complessive 20.000.
L’importanza dei risultati raggiunti fu posta in luce al primo Congresso Nazionale Delle Associazioni. L’evento ebbe
ampio risalto nella stampa, gli articoli esaltavano il ruolo dei comuni nella vita politico-sociale francese. Herriot, in
un intervento apparso su Le Figaro, attaccava duramente il regime comunale della Quarta Repubblica definito “un
insulto permanente al buon senso” perché sotto posto al controllo dei prefetti e a quello dei “tesorieri generali”.
Herriot affermava che il comune era “la cellula essenziale della patria” ed era attraverso il sentimento di solidarietà
tra comuni che doveva essere costruita la pace in Europa e nel mondo. In questo modo il presidente dell’Assemblea
Nazionale esprimeva il pieno sostegno all’AFCCE e l’adesione al pensiero federalista della Fédération . “L’Humanité”,
organo del PCF, mise in evidenza le contraddizioni delle dichiarazioni di Herriot. I comunisti non perdevano
l’occasione per attaccare il processo di unificazione europea, ma la loro posizione era momentaneamente isolata. Il
congresso dell’AFCCE votò all’unanimità una risoluzione in cui i sindaci francesi, compresi Chaban-Delmas e Herriot
oppositori della CED, chiedevano al governo “di prendere le iniziative necessarie, quanto prima” perché fosse
“convocata un’assemblea costituente” che doveva fondare “un’ autorità politica sopra-nazionale”.
21
L’attivismo e la capacità organizzativa dell’AFCCE fecero assumere alla sezione francese un ruolo propulsore rispetto
a quello svolto dalle altre realtà nazionali.
 I francesi svolsero un ruolo importante rispetto alla costituzione della sezione tedesca. Dopo la riunione di Ginevra,
l’incarico di sviluppare un’azione di coinvolgimento della RFDG fu affidato a Ladebeck, che era fermamente convinto
della necessità di realizzare la più ampia decentralizzazione dei poteri statali e in questo senso aveva operato a livello
nazionale. Il suo atteggiamento fu però spesso criticato dal partito socialdemocratico di cui faceva parte. Egli si
trovava a difendere posizioni comunaliste ed europeiste senza avere un appoggio concreto all’interno della SPD.
Ladebeck costituì nella sua città la segreteria del RGE (consiglio dei comuni europei) a cui aderirono alcuni sindaci
d’area socialdemocratica della regione. Ladebeck si scontro sia con l’ostilità delle organizzazioni comunali tedesche,
sia con la diffidenza degli enti locali. Così il RGE non riuscì a diffondersi in modo capillare sul territorio.
L’AFCCE ritenne perciò utile intervenire e secondo l’associazione il RGE avrebbe contribuito a propagandare nella
RFDG i “principi del federalismo interno”. L’associazione doveva anche promuovere “relazioni cordiali e
comprensioni reciproche” tra i popoli francesi e tedeschi. Da queste considerazioni traspare l’importanza strategica
attribuita al RGE ai fini del successo del progetto comunalista e federalista. L’azione dell’AFCCE ebbe un parziale
successo, fu possibile convocare un’importante riunione politico-organizzativa a Bad Durkheim durante la quale
venne chiesta e ottenuta la collaborazione del movimento federalista Europa Union Deutschland che delegò a Roser
il compito di favorire il coinvolgimento del RGE. Il RGE non riuscì a coinvolgere le maggiori organizzazioni comunali
tedesche e secondo l’AFCCE, l’organizzazione del movimento nella RFDG era costituita da un piccolo gruppo
socialista che non sembrava avere nemmeno “il sostegno del suo partito”. Questa situazione creava un profondo
squilibrio all’interno del CCE . Nella RFDG, il CCE riuscirà a conquistarsi una certa visibilità politica solamente quando
potrà organizzare i suoi Terzi Stati Generali a Francoforte nell’ottobre ‘56.
Le situazioni e gli avvenimenti che caratterizzarono lo sviluppo del CCE in Lussemburgo e in Italia furono diversi.
 Il Lussemburgo per promuovere il movimento Clément inviò una lettera circolare ai sindaci del Granducato, in cui
evidenziava come obiettivo primario del movimento quello di “elargire le libertà comunali e di spingere per una
costituzione di un’Europa basata sulle libertà” in modo che il CCE diventasse “un’istituzione permanente

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dell’organizzazione europea”. Si ottenne l’appoggio della sezione lussemburghese del movimento europeo che aveva
raccolto 33 adesioni tra cui quella della città di Lussemburgo, caso unico che permetterà ai lussemburghesi di avere
un peso determinante nella scelta dei futuri presidenti del CCE.

 In Italia la situazione era più complessa. Il MFE non aveva ancora individuato la linea politica da tenere nei confronti
della nuova organizzazione. Per i federalisti italiani, in particolare Spinelli, gli amministratori comunali potevano
essere utili strumenti di pressione nei confronti dei partiti nazionali di appartenenza e dei governi, non che
testimoni nei confronti dell’opinione pubblica per propagandare l’idea dell’unità europea. In quest’ottica i candidati
alle elezioni amministrative italiani del ‘51 erano stati sensibilizzati sui temi europeisti.
Nel luglio ‘51 Bolis, segretario del MFE ligure, scriveva a Serafini come “anche per il Consiglio dei comuni d’Europa si
stesse perdendo del tempo prezioso”. Bolis aveva tentato di avere da Spinelli delle indicazioni politiche rispetto
all’atteggiamento da tenere nei confronti del nuovo movimento. Egli si dichiarava comunque d’accordo con le
finalità del CCE. La stessa posizione era stata assunta da Usellini, segretario della stessa UEF. Secondo le indicazioni
di Usellini il MFE avrebbe dovuto inviare una lettera circolare a tutte le amministrazioni locali affinché aderissero alla
futura sezione italiana del movimento.
L’importanza di portare i federalisti a condividere o almeno ad appoggiare il progetto del CCE è evidente se si pensa
che tra il ‘49 e il ‘54 il MFE conobbe una crescita esponenziale di sezioni ed aderenti. Si erano inoltre costituiti due
gruppi parlamentari per l’unione europea a cui aderivano di Gasperi, La Malfa, Rumor e Bastianetto. Il MFE era un
movimento in fase di grande espansione e con importanti legami politici con i partiti di governo. Bolis, consapevole
che il MFE avrebbe cominciato ad operare a favore del CCE solo quando la sua segreteria nazionale si fosse convinta
ad appoggiare l’operazione, chiedeva a Spinelli Serafini di definire i rapporti tra le organizzazioni interessate al
problema. Egli si dichiarava pronto ad aiutare Serafini a “porre la prima pietra per il nuovo edificio”. Il chiarimento
auspicato si realizzò e fu positivo per le sorti del movimento delle autonomie locali in Italia. I federalisti italiani
coglievano gli elementi innovativi dell’associazione comunale e inserivano la sua creazione nelle iniziative
promosse dal MFE. Il coinvolgimento degli amministratori locali avrebbe fornito un importante supporto politico-
organizzativo alla battaglia. Dall’azione di propaganda furono esclusi anche in Italia gli amministratori comunisti, che
22
aderiranno al CCE solamente nel dicembre ‘71, e i socialisti.
Serafini si era già messo all’opera per costituire una sezione del CCE in Italia in stretta collaborazione con Cabella,
segretario generale del MFE, stava lavorando per formare il “comitato promotore del CCE – sezione dei comuni
d’Italia”. Serafini avvertiva l’urgenza di conseguire gli stessi risultati dei federalisti d’oltralpe che stavano “lavorando
assai più celermente”. La debolezza italiana era però la mancanza di interlocutori qualificati ed era emersa alla
costituzione del CCE, quando Bareth, si era rivolto a Bastianetto per concertare la scelta dell’uomo a cui affidare
l’organizzazione del movimento in Italia. Bastianetto diede il proprio “intero sostegno” a Serafini ritenuto,
successivamente anche dai francesi, adatto al ruolo. Fu così che l’iniziativa rimase nelle mani dei federalisti italiani e i
promotori si avvalsero del prestigio personale di Bolis che fu invitato a contattare il sindaco di Genova, Pertusio, che
nell’agosto ‘51 dava la propria adesione personale al CCE. Bolis suggeriva di usare il nome di Pertusio e della città di
Genova per ottenere l’adesione degli altri sindaci italiani.
Per promuovere le adesioni all’assemblea costitutiva della sezione italiana fu sviluppata una campagna che si
avvalse dell’appoggio del MFE e del Movimento Comunità. Accogliendo i suggerimenti di Bolis venne inviata una
lettera circolare ad alcuni sindaci d’area centrista noti per la loro militanza europeista, venne anche svolta un’azione
mirata utilizzando esponenti politici vicino al MFE.
Fra il 26 e il 27 gennaio ‘51 si tenne a Roma la riunione costitutiva dell’Associazione Italiana Per Il Consiglio Dei
Comuni D’Europa (AICCE). L’assemblea nominò presidente il senatore socialdemocratico Schiavi e segretario
generale Serafini. Nello statuto veniva indicato che lo scopo dell’AICCE era quello di “organizzare in Italia un’azione
europea, in collaborazione con le associazioni interessate dei diversi paesi, nonché promuovere una Federazione
degli stati europei basata sulle autonomie locali”.
Dopo la riunione costitutiva i membri del comitato direttivo dell’AICCE si posero il problema dell’allargamento della
base associativa e in una riunione si decise di chiedere ai segretari nazionali della DC, PSDI, PRI e PLI di sollecitare gli
amministratori locali dei rispettivi partiti ad aderire all’AICCE. Per impedire inoltre alle sinistre di discutere nei
consigli comunali temi di politica internazionale, i partiti di governo avevano impostato la loro propaganda

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elettorale locale sul principio che gli unici dibattiti ammessi dovevano riguardare l’attività “puramente
amministrativa del comune”. Se gli amministratori democristiani si fossero attenuti a questa linea politica, i comuni
gestiti dalle forze centriste non avrebbero potuto aderire al AICCE. Ancora l’inizio del ‘53 la maggior parte dei fondi
raccolti dal movimento era stata versata dai piccoli comuni, l’AICCE sopravviveva grazie ai finanziamenti del “centro
culturale di Comunità e del MFE”.
 La situazione negli altri paesi europei ebbe un’evoluzione positiva (in Austria e in parte del Belgio) o negativa (Gran
Bretagna) sia per l’incerto interesse che i singoli governi dimostrarono verso le operazioni ma anche verso
l’unificazione europea sia per il tipo di opposizione sviluppata dalle sezioni nazionali dell’UIV. Il movimento non riuscì
a consolidarsi in Svizzera, motivo che porterà alle dimissioni di Cottier dalla presidenza e al trasferimento della
segreteria da Ginevra a Parigi.
3. L’attività internazionale e la questione socialista
I promotori del CCE si posero il problema della sua visibilità internazionale. La questione era particolarmente sentita
all’interno della Fédération e fu lo stesso Voisin, segretario del movimento federalista francese, a ottenere per il CCE
il riconoscimento politico europeo. Voisin contattò Spaak, presidente dell’assemblea consultiva del Consiglio
d’Europa e del movimento europeo, mettendolo al corrente dell’avvenuta Fondazione del CCE. Spaak ne fu
impressionato e assicurò tutto il suo appoggio, egli accettò di ricevere una delegazione del CCE durante la Sessione
Del Consiglio d’Europa che si sarebbe tenuta a maggio. L’incontro a Strasburgo e la conferenza stampa furono un
indubbio successo politico e di immagine per il CCE.
Il presidente dell’assemblea si impegno a favorire “il riconoscimento del Consiglio dei Comuni D’Europa come
organismo qualificato per fornire al Consiglio d’Europa i suggerimenti sugli effetti nei problemi europei nelle
collettività locali”.
Se questi avvenimenti ponevano all’attenzione del mondo europeo il CCE, l’organizzazione si poneva di raggiungere
un ulteriore risultato attraverso l’elaborazione di un documento di rivendicazione autonomista che sarebbe servito
ad affermare i cardini della democrazia di uno stato che non dovevano essere solamente il godimento reale da parte
di tutti i cittadini dei diritti della persona umana, la divisione dei poteri, il suffragio universale, ma anche la creazione 23
di un giusto equilibrio fra l’autorità centrale e quelle periferiche. Per ottenere un forte impatto sull’opinione
pubblica, il documento avrebbe dovuto essere presentato e approvato nel corso di una grande riunione di sindaci
europei. L’aspetto culturale di questo progetto venne affidato ad Alexandre Marc che convocò la “sessione di studi
municipali” a Bad Durkheim. Nel corso del dibattito Marc affermò che l’unità europea avrebbe avuto senso solo se
fosse stata federale e per realizzarla occorreva partire “dalle cellule più semplici e più fondamentali della città: la
famiglia, laboratorio, comune”. Mancando questo processo si sarebbe rischiato “di tradire l’Europa”.
Durante i lavori Ladebeck presentò una prima bozza della “Carta Dei Comuni D’Europa”. Venne approvato un
documento in 8 punti con cui si definiva il principio della libertà comunale, ma non si affrontava il problema
dell’unità europea. Sul testo della carta europea si sviluppò all’interno del CCE un ampio dibattito a cui
parteciparono tutte le componenti politico-culturali confluite nel movimento. La sezione italiana sostenne la
necessità di aggiungere un preambolo in cui si affermava che “le Comunità locali d’Europa erano fermamente
decise a creare nell’interesse dei loro cittadini un’Europa libera e pacifica”. La versione definitiva della carta venne
approvata durante le riunioni dell’Esecutivo Internazionale del movimento e in questa occasione Serafini e la
delegazione italiana riuscirono a portare il movimento su posizioni favorevoli alla costituzione di uno stato federale
europeo. Il segretario dell’AICCE avvertiva che era possibile una Federazione europea insensibili alle istanze delle
Comunità locali, e chi tale prospettiva era particolarmente pericolosa in uno Stato di dimensioni continentali.
A Palermo venne anche deliberata la convocazione a Versailles dei primi Stati Generali Dei Comuni D’Europa. La
manifestazione fu preceduta da un serrato confronto fra la sezione italiana e quella francese, secondo Serafini la
riunione doveva avere “aperta intenzione federalista”. “La carta europea delle libertà locali doveva essere
presentata nel suo aspetto federalista radicale” un aspetto, secondo Serafini, nuovo ma anche “suggestivo per i
popoli oppressi”. Il riferimento ai Paesi dell’est europeo e la critica anticomunista sono evidenti in questo caso
perché secondo Serafini questi elementi sarebbero serviti a rafforzare i veri federalisti nel CCE e a “scoraggiare i
falsi federalisti”, tra i quali indicava Chaban-Delmas. Serafini giunse a minacciare di sfasciare il CCE e di ricostruire il
movimento su nuove basi se le richieste italiane non fossero state accolte. Il movimento La Fédération esprimeva

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pesanti perplessità sulle procedure adottati per redigere la carta costituzionale della Federazione europea.
Considerando il ruolo determinante giocato dai movimenti federalisti nello sviluppo del CCE, l’organizzazione rischiò
seriamente di sfaldarsi. Voisin iniziò infatti un operazione che doveva portare alla nascita del MNEL (movimento
nazionale dei rappresentanti locali), mentre i federalisti italiani pensarono di costituire un autonomo movimento di
amministratori locali federalisti costituzionalisti. Queste iniziative non ebbero un esito dirompente sul CCE perché
l’organizzazione si era sufficientemente radicata in diversi paesi.
In questo clima politico gli Stati Generali di Versailles registrarono un notevole successo e vennero affrontati i temi
dell’autonomia comunale e dell’europeismo. Nelle mozioni finali emerse chiaramente la linea europeista indicata da
Serafini. Un’altra importante affermazione delle posizioni italiane si ebbe grazie all’opera congiunta del presidente
dell’AICCE Schiavi e del sindaco di Torino Peyron: Schiavi presentò una mozione in cui auspicava la creazione di un
“Istituto Di Credito Internazionale Dei Comuni D’Europa”, questo istituto doveva assicurare un’abitazione ai
cittadini europei usciti dalla disastrosa esperienza bellica. Dopo una discussione, l’assemblea decise di costituire una
Commissione di studio che avrebbe dovuto presentare un progetto dettagliato. Si avviava così il primo tentativo di
istituire un ente finanziario a livello europeo che avrebbe anticipato e integrato le funzioni di alcune delle attuali
istituzioni dell’unione europea.
A Versailles il CCE adottò definitivamente la carta europea delle libertà locali. Nel corso della riunione venne anche
affrontato il problema della presidenza e i federalisti italiani sostennero la necessità di eliminare la preminenza
Svizzera nel CCE, dato il disimpegno della federazione elvetica nei confronti della costruzione europea e lo scarso
numero di adesioni raccolte fra i comuni svizzeri. In questa occasione al posto di Cottier venne eletto Hamilius e
anche Alida De Jager rassegnò le dimissioni da segretaria generale del CCE.
Secondo i federalisti costituzionalisti il CCE era stato gestito dalla sezione francese e in minor parte da quella
Svizzera, “perché erano le sole in grado di organizzare manifestazioni collettive e mantenere finanziariamente
un’organizzazione stabile”.
I federalisti italiani speravano inoltre di portare l’AFCCE su posizioni più vicine al federalismo costituzionale perché
erano in procinto di ottenere l’adesione in massa “dei sindaci francesi della SFIO (Partito socialista)” al AFCCE. in 24
realtà l’operazione si rivelerà più complessa. Nel CCE si rifletteva infatti la contraddittoria posizione dei partiti
socialisti e socialdemocratici europei. Se alla fondazione dell’organizzazione avevano contribuito numerose
personalità di area socialista (Milhaud, De Jager, Clément, Serafini, …) nessuno di questi aveva una reale influenza
sulle segreterie dei rispettivi partiti. Lo sviluppo del movimento delle autonomie locali aveva indotto la SFIO a
diramare una circolare ai partiti dell’internazionale socialista volta a conoscere l’esistenza nei diversi paesi “di una
organizzazione dipendenti dal Consiglio Dei Comuni d’Europa”. La segreteria del partito socialista francese
proponeva inoltre “di stabilire delle linee di coordinazione tra le organizzazioni socialiste di eletti municipali” che si
sarebbero concretizzati nella costituzione di un’organizzazione internazionale socialista degli amministratori locali.
Contro l’ipotesi della SFIO si schierò Clément che sottolineo l’inutilità “di mettere in piedi una nuova organizzazione,
dato che nel CCE l’influenza socialista era molto importante”.
Gli equilibri interni al CCE stavano cambiando. Dopo una lunga trattativa coordinata da Mollet, gli amministratori
locali socialisti decisero di aderire all’AFCCE. La SFIO ottenne precise garanzie di visibilità politica all’interno della
sezione francese che si concretizzarono nella nomina a presidente delegato dell’AFCCE del sindaco di Marsiglia
Deferre, di cui era noto il coerente europeismo.
4. Dagli Stati Generali di Venezia all’Appello di Esslingen am Neckar: Un progetto per l’Europa
A questo punto è necessario comprendere se il CCE fu uno strumento nelle mani dei partiti o piuttosto parte attiva
nel processo di adesione dell’opinione pubblica all'idea dell’unità europea.
È necessario partire dall’analisi dell’atteggiamento che gli amministratori locali della piccola Europa tennero dopo il
voto dell’Assemblea nazionale francese che rinviava a tempo indefinito l’approvazione del trattato per la
costituzione della CED.
Possiamo affermare che gli amministratori comunali francesi aderenti al CCE erano consapevoli di aver partecipato
all’affossamento del primo tentativo di costruzione dell’unione europea. La bocciatura della CED corrispondeva
quindi ai desideri degli esponenti di maggiori prestigio dell’associazione. Tuttavia, sulla base di un memorandum
inviato all’AFCCE dal vicesindaco di Versailles, è possibile affermare che fra gli amministratori locali francesi era

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diffuso il timore che il voto dell’Assemblea nazionale potesse provocare un’incrinatura nei rapporti con i loro colleghi
europei e in particolar modo con i tedeschi.
Le diverse sensibilità sul tema di una possibile unità europea si confrontarono durante il secondo grande raduno di
sindaci aderenti al movimento organizzato a Venezia nel ‘54. In questa occasione, la componente federalista
costituzionalista aveva pianificato un’azione attraverso la quale intendeva sia rafforzare la propria presenza
all’interno del CCE, provocando il confronto “fra integralisti, federalisti e semplici pasticcioni”, sia offrire “in un
momento delicato” una tribuna internazionale alle forze federaliste così che potessero reclamare “l’elezione a
suffragio universale di un’assemblea costituente”. Il CCE doveva successivamente fornire pieno appoggio all’iniziativa
mobilitando i comuni aderenti.
Nel discorso di Chaban Delmas a Venezia, egli affermò che la sua presenza era indicativa della volontà che “il
governo francese il suo presidente Pier Mendes France” avevano di proseguire sulla via della costruzione europea.
Secondo Delmas il percorso politico-istituzionale da seguire doveva essere fondato “su una formulazione politica che
consenta precisamente di procedere verso l’unificazione dei sistemi attualmente esistenti”. Delmas affidava ai
comuni i compiti di propaganda per avvicinare l’idea dell’Europa ai cittadini. Le proposte formulate indicano
chiaramente come all’interno di una parte importante del mondo politico-amministrativo si fosse ben lontani dal
concepire un’azione europea vicina alle speranze dei federalisti.
Solo attraverso un confronto in sede di Commissione le diverse componenti del CCE giunsero a elaborare un
documento di sintesi che fu approvato dall’assemblea plenaria. Nella mozione si affermava che scopo prioritario del
CCE era “l’istituzione di una Comunità politica europea con dei poteri limitati ma effettivi, sui piani politici, economici
e sociali, che è soggetto al controllo democratico a suffragio universale diretto”. Inoltre si aggiungeva la richiesta
dell’applicazione integrale del trattato istitutivo della Ceca. Le posizioni assunte furono significative se si considera
che a Venezia era presente una folta delegazione di sindaci francesi, fra cui spiccavano numerosi parlamentari che
avevano partecipato in prima persona alla bocciatura della CED.
Il CCE sviluppo un’azione volta a ottenere la rappresentanza esclusiva dei poteri locali. Questa scelta trovava le sue
origini nella relazione introduttiva tenuta da Bareth che aveva affermato che nel momento in cui si fosse giunti a 25
elaborare un nuovo progetto di Comunità europea si sarebbe dovuto tener conto del diritto delle Comunità locali a
esservi rappresentato. In particolare aveva illustrato un progetto molto dettagliato nel quale si auspicava un
Parlamento bicamerale in cui “il corpo elettorale incaricato di progettare la Camera dei popoli fosse formato da
elettori locali” o in alternativa che il Senato fosse “formato per metà da rappresentanti eletti dal Parlamento, per
metà da rappresentanti eletti dalle collettività”.
Tra l’agosto e l’ottobre ‘54 il CCE ebbe il merito di riproporre il tema dell’integrazione europea in un’assise
internazionale. Le risoluzioni adottate a Venezia segnarono la politica futura dell’organizzazione . il movimento
mantenne costante nel tempo le sue richieste di procedere alle elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento
europeo e di godere di una specifica rappresentanza presso le future istituzioni democratiche europee.
Nel corso degli Stati Generali Di Venezia, Chaban Delmas aveva fatto approvare la proposta “di rivolgere un appello
ai capi di Stato per una rimessa in ordine delle istituzioni europee”. Il testo approvato fu lo strumento che consentì ai
federalisti presenti nel CCE di iniziare un attività di propaganda a favore dell’unità europea. Sulla base della proposta
del sindaco di Bordeaux, Bareth e Serafini fecero approvare, durante la IV sessione del comitato esecutivo dei CCE
del ‘55, gli appelli di Esslingen am Neckar:
1. Il primo doveva essere indirizzato ai capi di governo dei sei paesi della Ceca perché riprendessero in un qualsiasi
modo il cammino comune verso “la creazione di istituzioni sopranazionali i soprattutto verso gli Stati Uniti
d’Europa”. Il testo era redatto in termini generici per non suscitare reazioni negative.
2. Il secondo era diretto a tutti i responsabili delle collettività locali europee e costituiva un invito agli
amministratori municipali perché trasformassero i loro comuni in centri di propaganda federalista. In questo
appello si faceva riferimento alla necessità di convocare un’assemblea costituente per dare vita agli Stati Uniti
d’Europa. Nell’appello era presente anche l’idea di unificare le monete e creare un mercato comune come
condizione preliminare per lo sviluppo economico e il benessere sociale.
Durante il ‘55 il CCE attraversò una profonda crisi organizzativa e finanziaria che assorbì buona parte delle energie
dei vertici del movimento. La situazione fu risolta chiarendo un ruolo prevalente del duo Bareth-Serafini nella

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gestione della segreteria politica del CCE collocata nella capitale francese, mentre la sede della presidenza venne
portata a Lussemburgo.
Nonostante le difficoltà, l’appello di Esslingen am Neckar fu inviato ai sindaci aderenti, invitandoli a portare il
documento in sede consigliare perché vi fosse dibattuto e possibilmente ratificato.
Il CCE tentò di sensibilizzare l’opinione pubblica che ormai era poco attenta alle tematiche europee. A livello
governativo, le istanze del CCE suscitarono un riscontro da parte dei capi di governo o dei ministri degli esteri dei
paesi dell’Europa occidentale.
5. Gli enti locali, il “rilancio” europeo di Messina e i Trattati di Roma
Durante il periodo che va dalla conferenza di Messina ai trattati di Roma, il CCE assunse a livello internazionale una
posizione articolata. Non venne mai meno il tentativo di far accettare all'interno delle nuove e vecchie istituzioni il
principio della necessità di una rappresentanza degli enti locali.
L’AFCCE aveva assunto posizioni più sensibili a soluzioni integrazioniste, ma proprio per il ruolo della SFIO all’interno
del governo francese l’associazione non poteva discostarsi troppo da una linea di sostegno politico che già al suo
interno trovava parecchi oppositori.
La sezione tedesca era in fase di riorganizzazione.
La sezione belga e lussemburghese, pur essendo indipendenti, non potevano non tener conto del ruolo dei rispettivi
Paesi nell’elaborazione dei Trattati.
La sezione francese e tedesca ritenevano quindi che la “firma di progetti di trattati che istituiscono un Mercato
Comune Europeo rappresentasse una risposta agli sforzi fatti dal CCE da 6 anni per la creazione di un vasto mercato
europeo unificato e più tardi di una Comunità Politica Europea”.
L’AICCE si dimostrò più sensibile alle tesi dei federalisti che cominciavano a porsi come obiettivo la mobilitazione
rivoluzionaria delle masse europee. La sezione italiana criticò quindi la conferenza di Messina sottolineando la
necessità di “arrivare alla Comunità politica europea” attraverso le lezioni di un’assemblea costituente.
Il segretario generale dell’AICCE Serafini cercò di rendere consapevole Gaetano Martino (ministro degli affari esteri)
della necessità che il Trattato Istitutivo Della Comunità Economica Europea (CEE) prevedesse un preciso obbligo 26
rispetto alle elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento europeo. Durante un incontro tra Serafini e
Martino, il primo suggerì di proporre la modifica dell’art. 21 della CECA rendendo obbligatoria la seconda parte che
già contemplava la possibilità di procedere a elezioni dirette per la nomina dei rappresentanti dei singoli Paesi
dell’Assemblea dell’Alta Autorità. Martino accolse il suggerimento di Serafini e presentò il tema in sede negoziale.
Invece la proposta di indicare con precisione la data entro la quale i comizi europei dovevano essere convocati urtò
contro l’opposizione della Francia, il cui ministro non volle assumere impegni precisi sulla data di svolgimento delle
elezioni. Gli altri partner accettarono la posizione francese perché pensavano che l’entrata in vigore dei Trattati
avrebbe impresso alla storia un’accelerazione integrazionista.
Il successo dell’iniziativa relativa alle elezioni diretta del Parlamento europeo non portò il CCE a una posizione
unanime. La sezione italiana collaborò alla realizzazione del Congresso Permanente Del Popolo Europeo (CPE) che si
proponeva di suscitare la coscienza di una negata legittimità democratica del popolo europeo per mezzo di elezioni
primarie. In questo modo i cittadini favorevoli alla convocazione di una costituente erano chiamati a esprimere i
delegati a un’unica Assemblea Europea, il Congresso.
L’aspetto innovativo e antigovernativo dell’operazione spinse il CCE ad adottare una linea ufficiale molto cauta per
evitare rotture tra le sezioni nazionali. In un editoriale attribuibile a Bareth si affermava che il CPE non era
appoggiato a livello internazionale, ma il CCE autorizzò le singole sezioni e rispettivi aderenti a comportarsi come
meglio credevano nei confronti dell’iniziativa federalista.
Agli amministratori locali venne riconosciuto un particolare ruolo politico come “settore d’azione” per mobilitare il
popolo europeo. Essi riuscirono a far inserire nei “documenti di rivendicazione del CPE” le tesi che erano alla base
della costituzione del CCE, realizzando per la prima volta una vera unità tra poteri locali e lotta per la Federazione
europea.
A livello internazionale il CCE accettò ufficialmente i Trattati di Roma, di cui chiese l’immediata applicazione.
L’organizzazione ribadiva che lo scopo prioritario della sua azione nei confronti del futuro Parlamento europeo era

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“di assicurare la partecipazione e la rappresentazione dei comuni e delle regioni nelle istituzioni europee esistenti
e future”.
Se a Messina furono poste le premesse di metodo attraverso le quali le forze politiche e gli uomini favorevoli a un
rilancio europeo poterono agire, è indubbio che i dibattiti sui temi europei, suscitati da movimenti come il CCE,
favorirono un clima di aspettativa che difficilmente poteva essere disatteso.
A livello governativo, l’azione fu perseguita sia ufficialmente (attraverso l’invio di appelli e l’organizzazione di grandi
riunioni) che per mezzo di interventi compiuti direttamente su singole personalità affinché le istanze europeiste
fossero accolte.
IV. LA RAPPRESENTANZA DEGLI ENTI LOCALI PRESSO LE ISTITUZIONI EUROPEE, L’ELEZIONE DIRETTA DEL
PARLAMENTO EUROPEO E LA SUA AZIONE COSTITUENTE
1. Un’Europa democratica in formazione
Nell’opuscolo del ‘52 “Europa in cantiere” il MFE faceva osservare come fra i politici britannici fosse diffuso un
atteggiamento ambiguo, da un lato consideravano la “federazione parziale/limitata” dei Paesi della piccola Europa
come un colpo mortale, dall’altro gli stessi inglesi si dichiaravano a favore della collaborazione intergovernativa. Per i
federalisti questo doppio atteggiamento aveva come unico obiettivo quello di impedire ogni forma di integrazione.
Occorreva rispondere all’azione anglosassone con la linea politica indicata da Dehousse nella riunione del Comitato
Internazionale del Movimento Europeo del maggio ‘52:
La politica che noi proponiamo non è dettata da alcuna prevenzione … nei confronti del Consiglio d’Europa. Il Consiglio d’Europa ha la sua
ragione di essere e la conserverà ancora a lungo. Fino a quando l’organizzazione supernazionale, se prenderà forma, si limiterà a sei paesi, il
Consiglio d’Europa rimarrà il punto di incontro di questi e degli altri.

Quella di Dehousse era una precisa opzione a favore di una Federazione europea che indicava anche un possibile
ruolo per il Consiglio d’Europa. L’Assemblea Consultiva era passata da un’atmosfera di fiducia e speranza a
un’insoddisfazione per il proprio ruolo e ad accuse nei confronti del Comitato Dei Ministri che avevano trovato eco
le parole con cui Philip (presidente del MSEUE e membro della Commissione Affari Generali Dell’Assemblea) aveva
confutato il rapporto presentato dallo stesso Comitato durante la seconda sessione dell’Assemblea di Strasburgo. 27
Philip aveva affermato che il testo proposto era una sorta di verbale delle riunioni interministeriali senza idee,
principi o indicazioni di possibili linee d’azione.
La tesi espressa da Philip non trovava però consensi. Lo testimonia un rapporto della Commissione Affari Generali,
in cui si affermava che non si poteva dar vita ad una Federazione politica europea senza la Gran Bretagna. I politici
inglesi sembravano avvertire il bisogno di rispondere e il governo inglese, durante la X sessione del Comitato dei
ministri del Consiglio d’Europa, presentò il Piano Eden, fra i cui obiettivi vi era quello di creare un’opinione pubblica
europea attraverso l’azione dell’Assemblea Consultiva. Rimaneva però aperto il dibattito sulle forme e i poteri di
questa rappresentanza.
Gli enti locali europei si inserirono in questo dibattito solo dopo la costituzione del CCE.
2. La Commissione speciale per gli Affari comunali e regionali del Consiglio d’Europa e la rappresentanza dei poteri
locali presso le istituzioni europee
Nel ‘57 veniva convocata a Strasburgo la prima Conferenza Europea dei Poteri Locali (CEPL). La riunione doveva
permettere ai rappresentanti degli enti locali di partecipare all’attività dell’assemblea consultiva quando
quest’ultima avesse affrontato temi relativi alle competenze comunali o regionali. Veniva accettato il principio per
cui le istituzioni internazionali non erano legittimate a prendere provvedimenti che riguardavano le amministrazioni
decentrate senza che i comuni o i loro rappresentanti venissero consultati. La CEPL costituiva un’affermazione del
CCE che nell’assemblea costitutiva aveva posto fra gli scopi dell’associazione quello di assicurare la partecipazione e
la rappresentanza degli enti locali nelle istituzioni europee.
Però la CEPL era un organismo consultivo creato per esprimere pareri a un’assemblea consultiva priva di qualsiasi
potere reali. Essa era solo una pallida immagine dell’Assemblea Rappresentativa Dei Comuni Delle Collettività Locali
che i promotori del CCE avrebbero voluto affiancare a un Parlamento europeo liberamente eletto.
L’idea della CEPL era stata avanzata da Chaban-Delmas, probabilmente per guadagnarsi un ruolo politico a livello
europeo. Tra il ‘50 e il ‘53 l’Europa sembrava infatti avviata verso l’unificazione e a Delmas restava solo la scelta dei

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modi e dei tempi per entrare in questo processo. Delmas, sfruttando la sua posizione, cerco così di indirizzare le
energie del movimento comunale verso la ricerca di una rappresentanza presso l’Assemblea.
L’Assemblea di Strasburgo, fino alle dimissioni di Spaak nel ‘51, sembrava ancora una sede possibile per il confronto
e il dibattito politico. Dopo tale data, i movimenti federalisti e parte delle forze di governo iniziare una non attribuirle
più questo ruolo. Alcuni paesi come la Gran Bretagna e i politici scarsamente interessati alla costruzione federale
europea tentarono di delegare all’assemblea alcuni ruoli politici anche allo scopo di rallentare la conclusione del
processo di integrazione. Dopo la caduta della CED e il faticoso riavvio del processo di unificazione, avvenuto grazie
alla firma dei Trattati di Roma, fu avanzata la proposta di unificare le varie assemblee in un unico Parlamento
europeo che poteva essere l’Assemblea di Strasburgo.
In questo quadro Delmas, a pochi mesi dalla Fondazione del CCE, aveva domandato all’Assemblea consultiva di
iscrivere all’ordine del giorno una proposta volta a favorire la creazione di una Commissione speciale per gli affari
comunali e regionali. A suo avviso, il fatto che i comuni si fossero dati un organizzazione a livello europeo
dimostrava la volontà dei poteri locali di partecipare attivamente al processo di integrazione. La sua richiesta ebbe
l’appoggio della presidenza dell’Assemblea, ma la domanda di Delmas venne rinviata alla Commissione Regolamenti
(di cui facevano parte Delmas e Bastianetto) e dopo un anno di lavoro espresso un parere favorevole. L’assemblea
consultiva poteva così discutere e approvare nel ‘52 la risoluzione n° 20, presentata sempre da Delmas, con cui
veniva costituita la Commissione speciale per gli affari comunali e regionali, che aveva il compito di studiare
l’impatto che le decisioni prese a livello europeo avevano sulle realtà locali.
Questa vittoria di Delmas fu accolta con un certo disappunto da una parte del CCE. Durante l’Assemblea costitutiva
era stato deciso di operare affinché i poteri locali europei ottenessero la rappresentanza presso le istituzioni
europee. Delmas aveva invece agito solamente nei confronti del Consiglio d’Europa. Le divergenze emersero però
in assenza di Delmas, durante la seconda sessione del comitato esecutivo del movimento, tenutosi a Palermo nel ‘53.
In questa occasione furono presentati quattro risoluzioni sui rapporti fra CCE, Commissione speciale per gli affari
comunali e regionali e Assemblea di Strasburgo:
- La prima accettava l’operato di Delmas;
- Mentre le altre ne disapprovavano l’azione basandosi sullo statuto e sui documenti programmatici. 28

Chaban-Delmas fu invitato ad agire anche nei confronti dell’Assemblea ad hoc ma egli scelse di operare ancora
una volta nell’ambito del Consiglio d’Europa, allungando così i tempi dell’intervento. Fu infatti solamente dopo
avere ottenuto un mandato formale che Delmas scrisse una lettera al presidente della Commissione Costituzionale
dell’Assemblea ad hoc invitandolo a considerare la possibilità di studiare le forme per assicurare la rappresentanza
“delle collettività locali nelle future istituzioni europee e in particolare in quelle della Comunità europea”. Le modalità
dell’intervento di Delmas erano ineccepibili proprio perché l’azione era stata condotta in grave ritardo rispetto a
quanto gli era stato richiesto nel mandato di Palermo.
3. L’istituzione della Conferenza europea dei poteri locali. Un possibile modello di rappresentanza politica
Fra il ‘52 e il ‘54 Chaban-Delmas portò, sia in sede di dibattito presso l’Assemblea Consultiva, sia nell’ambito della
Commissione da lui presieduta, i temi peculiari del CCE. Continuando la sua opera, volta legare il CCE al Consiglio
d’Europa, Delmas organizzò anche la partecipazione di un gruppo di lavoro della Commissione speciale agli Stati
Generali di Versailles e successivamente convocò una seduta della Commissione durante lo svolgimento dei secondi
Stati Generali Dei Comuni D’Europa. Grazie a queste iniziative furono inviate ufficialmente al Consiglio d’Europa le
relazioni e le risoluzioni degli Stati Generali. Fra queste, particolare rilievo politico aveva la risoluzione con cui gli
Stati Generali di Venezia chiedevano al Consiglio d’Europa la trasformazione della Commissione speciale in
“Commissione di pieno esercizio” e la costituzione di “un gruppo di lavoro permanente dove i delegati delle
organizzazioni comunali e internazionali potrebbero collaborare reciprocamente”. La proposta della Commissione
speciale era quindi circoscritta anche se il suo accoglimento avrebbe sancito il principio della rappresentanza nei
poteri locali presso l’Assemblea di Strasburgo. Il comitato dei ministri respinse la raccomandazione almeno per ora
ufficialmente per non favorire la proliferazione di organismi internazionali.
Fra il ‘54 e il ‘55 si poteva assistere a un intenso scambio di memorandum fra la Commissione speciale, la quale
sosteneva la necessità di un organismo di collaborazione permanenti con gli enti locali, e il comitato dei ministri che
rifiutava questa ipotesi. Ancora una volta su proposta di Delmas, l’assemblea consultiva prese l’iniziativa per uscire
dalla situazione di stallo. Usando il proprio diritto di consultare esperti, deliberò di procedere alla convocazione di

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“una conferenza di rappresentanti di tutte le associazioni nazionali qualificate come autorità locali dei paesi
membri”.
L’ordine del giorno della conferenza sarebbe stato stabilito dalla Commissione speciale, mentre le decisioni prese
durante i lavori dovevano essere sottoposte all’assemblea consultiva.
Nonostante la presa di posizione formale dell’assemblea, il comitato dei ministri continuò nella sua politica di
rifiuto e aveva trovato alleati anche fra alcune organizzazioni degli enti locali. Risulta infatti che l’UIV aveva espresso
scetticismo riguardo all’idea di una rappresentanza diretta dei comuni negli organismi europei. Associazioni nazionali
come quella danese, inglese e svedese ritenevano l’iniziativa prematura o poco interessante, mentre quella
norvegese faceva dipendere la sua posizione dall’ atteggiamento del governo.
I più decisi sostenitori della necessità di una rappresentanza degli enti locali furono:
▪ l’Associazione dei sindaci di Francia → che si limitava a richiedere una rappresentanza presso il Consiglio
d’Europa che doveva essere assicurata per mezzo di “un’assemblea speciale di comuni e collettività locali”.
▪ e l’AFCCE → che oltre a porre la questione della rappresentanza presso il Consiglio d’Europa, non dimenticava il
tema dell’unità politica e indicava la necessità “che nel caso in cui venga costituita una Comunità politica
europea, la rappresentazione dei comuni e delle regioni viene prevista nella forma di un’assemblea destinata a
quelle collettività e dotata di poteri definitivi”.
In entrambi i casi non veniva più domandata la costituzione di una Commissione del lavoro composta da 20 esperti,
ma la convocazione di un’assemblea dei poteri locali europei.
Il CCE in stretta collaborazione con Delmas impegnò la sua organizzazione internazionale e le sue sezioni nazionali
per far mutare l’atteggiamento dei governi europei. Nel ‘56 furono esercitate pressioni su Spaak, Bech, Martino, il
governo tedesco e quello francese. Grazie a quest’azione, Delmas fu ricevuto dai comitato dei ministri a Strasburgo
e in questa sede ottenne un radicale cambiamento nell’atteggiamento del comitato che abbandonò la precedente
posizione negativa . Il clima politico internazionale, favorevole ad accordi fra gli Stati in campo europeo, agevolò il
lavoro di lobby che il CCE svolse nei confronti dei governi i cui rappresentanti approvarono il principio della
convocazione di una “conferenza di rappresentanti delle associazioni nazionali dei poteri locali dei Paesi membri”.
29
Anche in questo caso ci furono delle opposizioni, gli atteggiamenti sfavorevoli fecero sì che la conferenza non avesse
carattere permanente e l’ordine del giorno fosse vincolato.
La conferenza tenne la sua prima sessione a gennaio del ‘57 e alla presidenza venne eletto Delmas. Il significato
politico della CEPL superò quello originariamente assegnatoli di gruppo di lavoro permanente. La conferenza
ufficialmente aveva il compito di occuparsi delle problematiche relative agli enti decentrati, ma nessuno poteva
impedire all’assemblea dei poteri locali di affrontare le questioni relative all’unità europea. Nel primo ordine del
giorno vennero iscritti: la necessità di creare un istituto di credito comunale a livello europeo, i rapporti fra enti
locali e CECA, la difesa e sviluppo dell’autonomia comunale e la partecipazione dei poteri locali alla propaganda a
favore dell’integrazione europea. Alle istanze avanzate dalla CEPL, l’assemblea di Strasburgo avrebbe dovuto dare
risposte concrete, cosa assai difficile a realizzarsi considerando l’impotenza dell’assemblea consultiva. Dopo la
convocazione della prima sessione, la sua azione si fece meno decisa. Fu compito del federalista italiano Santero
proporre e ottenere l’istituzionalizzazione della CEPL che, dotata di un proprio statuto nel settembre ‘61, ha
continuato fino a oggi i suoi incontri.
E indubbio che la costituzione della CEPL, la sua trasformazione in organo permanente di consultazione, i rapporti
che essa permise fra il CCE e le altre istituzioni europee (CECA, CEE, EURATOM) abbiano nel tempo favorito la
percezione della necessità di non escludere le amministrazioni locali dalle strutture europee.
4. Una scelta storica: l’elezione a suffragio universale diretto di un Parlamento europeo
Le prime elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento europeo si svolsero nel giugno ‘79. Il lungo percorso
che portò all’elezione di un Parlamento europeo è contraddistinto da difficoltà che risentirono del clima politico
internazionale, nei rapporti fra i Paesi europei aderenti alle Comunità e delle diverse situazioni nazionali.
È indubbio come l’Assemblea europea rappresenti un’istituzione essenziale nel processo di costruzione di una
Federazione europea, essa svolse un importante ruolo nella formazione di una classe politica europea e nel definire i
compiti di una Comunità politica collegando i cittadini alle istituzioni europee. Il Parlamento eletto è inoltre il luogo
dove è stato possibile condurre una battaglia per dare sostanza a un’unione politica europea.

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Rispetto al processo che ha portato all’elezione del Parlamento, il CCE svolse un ruolo che risentiva sia delle
ricordate posizioni delineatesi al momento della formulazione dei trattati di Roma, sia della consapevolezza che gran
parte delle questioni irrisolte riguardavano interessi regionali e locali.
L’iniziativa del CCE coincideva con l’avvio delle attività dell’Assemblea parlamentare europea che aveva tenuto la
sua seduta costitutiva nel marzo ‘58 eleggendo alla propria presidenza Schumann. Sulla base dei Trattati,
l’Assemblea provvedeva con sollecitudine alla formazione di un gruppo di lavoro, alla cui guida venne nominato
Dehousse, che doveva definire un progetto per le elezioni a suffragio universale diretto del futuro Parlamento
europeo.
A conferma del ruolo svolto dal CCE in questo periodo, bisogna considerare come del gruppo di lavoro facessero
parti anche Poher e Faure, membri del direttivo dell’AFCCE. Fra le personalità consultate figuravano Cravatte,
presidente del CCE, e Chaban-Delmas, favorevole a un Parlamento europeo composto da due camere.
L’attenzione del gruppo di lavoro nei confronti del CCE venne confermata dal rapporto che lo stesso Dehousse
presentò ai V Stati Generali Dei Comuni D’Europa, a Cannes, nel marzo ‘60. Dehousse affermava che il suo scopo era
stato quello di creare le premesse legislative per giungere a una “Comunità politica europea completa, che
comprendeva un Parlamento a due camere”.
L’Assemblea parlamentare europea adottò il progetto di convenzione sulla propria elezione a suffragio universale
diretto nel maggio ‘60. Tale progetto fu trasmesso ai capi di Stato e di governo nel giugno ‘60. Il contesto storico di
riferimento era completamente mutato, perché in Francia si era costituita la Quinta Repubblica e De Gaulle era
tornato al potere . De Gaulle non tardò a esprimere le proprie critiche nei confronti delle Comunità che considerava
come strutture tecniche senza valenza politica. Egli non tardò a proporre il suo progetto di Europa che prevedeva:
▪ La creazione di una collaborazione organizzata fra Stati che riportasse sotto lo stretto controllo dei governi la
burocrazia di Bruxelles.
▪ Ila “nuova Europa” doveva concretizzarsi in periodiche riunioni dei capi di Stato che avrebbero affrontato i
problemi economici e politici.
▪ I vertici dovevano essere preceduti dal lavoro svolto da organismi specializzati e posti sotto lo stretto controllo 30
governativo.
▪ Il generale prevedeva anche la costituzione di un’assemblea parlamentare formata dai delegati dei parlamenti
nazionali di cui però non specificava i compiti.
▪ L’operazione doveva essere completata da un referendum popolare che avrebbe dato legittimità al nuovo
impianto istituzionale.
De Gaulle sperava di creare un gruppo omogeneo di Paesi che, sotto la guida francese, sarebbe divenuto la terza
forza mondiale svincolandosi dalla tutela americana e senza cadere sotto il controllo sovietico. Per realizzare questo
obiettivo egli non era contrario a un’integrazione economica, mentre per l’energia nucleare al generale bastò
continuare il piano di sviluppo dell’atomo a scopi militari già avviato dalla Quarta Repubblica.
In un primo tempo gli altri Paesi della piccola Europa sembrarono sensibili alle proposte francesi; un vertice dei capi
di Stato e di governo tenuto a Parigi nel ‘61 affidò a una Commissione presieduta da Fouchet, il compito di redigere
una proposta istituzionale. Questa Commissione elaborò due piani. De Gaulle tentò di convincere i partner ad
adottare la sua linea, ma il timore dell’esclusione della Gran Bretagna da una futura Comunità politica egemonizzata
dalla Francia e la necessità di tener conto del grande disegno kennediano spinsero 4 dei 5 paesi a dissociarsi
apertamente da disegno francese. La Germania, condizionata dalla necessità dell’ appoggio militare economico
americano e dalla scelta politica della riconciliazione Franco tedesca, tenne un atteggiamento ambivalente.
Nessuno degli altri Paesi voleva rompere apertamente con la Francia, i diversi governi infatti presentarono 5
controprogetti . Ognuno di questi prevedeva l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo che era
stata completamente ignorata nei due piani di Fouchet. Il richiamo al progetto dell’assemblea europea era però
assolutamente strumentale, infatti, una volta bocciata la domanda di adesione britannica e fallito il disegno
kennediano, i 5 paesi se ne dimenticarono.
Il Parlamento europeo ripropose all’attenzione dei governi il problema della propria elezione senza ottenere
risultati. Alcuni dei movimenti europeisti, tra cui il CCE, tentarono di coadiuvarne le iniziative. In particolare il

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movimento degli amministratori locali non abbandonò mai la richiesta di procedere all’elezione universale diretta di
un Parlamento europeo.
La posizione del CCE si esplicitò durante i VII Stati Generali di Roma nel ‘64. In quella occasione i movimenti
federalisti organizzarono quello che venne definito “il più grande congresso democratico europeo di ogni tempo”. A
Umberto Serafini, a cui in gran parte si doveva il successo della manifestazione, venne assegnato il compito di tenere
la principale relazione politica generale. Egli non deluse le attese e riflettendo sui mezzi per vincere la battaglia a
favore dell’integrazione europea e per la democratizzazione delle istituzioni comunitarie lanciava l’idea di
un’alleanza tra forze politiche, economiche e culturali capaci di esprimersi in un fronte democratico europeo unico
soggetto politico in grado di provocare una riforma che portasse all’Unione federale.
Nella risoluzione finale degli Stati Generali veniva evidenziata la carenza di rappresentatività democratica all’interno
delle istituzioni. Seguendo la linea politica indicata da Serafini, l’AICCE aderì negli anni ‘67- ‘69 alla campagna
promossa in Italia dal MFE per le elezione diretta dei delegati italiani al Parlamento europeo. I federalisti avevano
mutato il loro giudizio sull’elezione diretta del Parlamento e scelsero di battersi per la partecipazione democratica
alla costruzione dell’Europa, identificando lo strumento idoneo nell’elezione diretta del Parlamento europeo. Dato
l’atteggiamento negativo della Francia, proposero, cominciando dall’Italia, elezioni nazionali unilaterali dei delegati
al Parlamento europeo, elezioni che de Gaulle non era in grado di impedire. Se l’operazione fosse riuscita in Italia,
altri paesi ne avrebbero seguito l’esempio isolando la Francia e creando nella Comunità un clima favorevole all’
elezione generale. L’AICCE mise a disposizione dei militanti federalisti la sua organizzazione e la sua influenza sui
comuni aderenti, affinché le amministrazioni locali partecipassero in modo attivo alla raccolta delle 55mila firme
necessarie per la presentazione, al Parlamento italiano, di una proposta di legge d’iniziativa popolare per l’elezione
diretta dei rappresentanti italiane Parlamento europeo.
La questione fu affrontata nel Comitato Di Presidenza del CCE, riunito a Assmannshausen. Il comitato decise di
denunciare la situazione italiana all’opinione pubblica europea e quindi di intervenire direttamente su Giovanni
Leone, allora presidente del consiglio. Leone indirizzava a Serafini una lettera di risposta in cui affermava che “il
problema e all’ordine del giorno. Non ho mancato di ricordarlo nel mio discorso sul programma del governo. Sono 31
consapevole della necessità di non ritardare ulteriormente il rinnovo della nostra Delegazione”.
Il quadro politico europeo si era nel frattempo profondamente modificato. De Gaulle era stato sconfitto in un
referendum per la riforma regionalista della Francia e nel ‘69 aveva rassegnato le dimissioni. Dalle elezioni usciva
vincitore Pompidou che nominava primo ministro Chaban-Delmas che allora ricopriva la carica di vicepresidente
dell’AFCCE.
Venne convocata la conferenza dei capi di Stato e di governo dell‘Aja. Se la convocazione era in perfetta sintonia
con la vecchia politica gollista (→ riunioni al vertice come unico luogo in cui potessero essere prese decisioni di
suprema importanza a livello europeo), le intenzioni del governo francesi erano in linea con le precedenti
dichiarazioni di Pompidou. Per tentare di influenzare in qualche modo i lavori della conferenza, il CCE decise di
organizzare una manifestazione a Strasburgo in collaborazione con il Parlamento europeo. Una delegazione di 80
membri del CCE veniva ricevuta dal Parlamento europeo e nel documento elaborato i rappresentanti delle Comunità
locali assicuravano l’assemblea “dell’appoggio senza riserve che essi gli avrebbero apportato nel suo sforzo per
coinvolgere i governi a dare un segnale decisionale alla costruzione europea”.
Il CCE instaurò una collaborazione con il Parlamento europeo destinata a trasformarsi in alleanza politica.
La conferenza dell’Aja diede risposte sufficientemente chiare rispetto all’allargamento della Comunità e ai problemi
rimasti insoluti dopo la crisi del ‘65. I capi stato e di governo ampliarono le competenze del Parlamento europeo
ma, sull’argomento delle elezioni a suffragio universale diretto, si limitava a dichiarare che “il problema delle
modalità di elezioni diretta continuerà ad essere esaminato dal Consiglio dei ministri”.
La conferenza segnò comunque una svolta per la Comunità: con la caduta del veto francesi all’ingresso della Gran
Bretagna nel mercato comune finiva “un’Europa diretta dalla Francia”; in sostanza la Germania aveva assunto un
nuovo ruolo internazionale più autonomo e la Francia si rendeva conto della necessità di un allargamento politico
verso la Gran Bretagna. In questo modo Pompidou tentava di preservare in qualche modo la leadership francese.

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Il segretario generale del CCE Bareth aveva colto questo nuovo clima politico e indicato al movimento una direzione
operativa che doveva favorire l’ingresso britannico. Fu deciso infatti che i IX Stati Generali si tenessero a Londra nel
luglio ‘70. Il CCE offriva al governo inglese una tribuna europea proprio all’inizio dei negoziati per l’ammissione della
Gran Bretagna nella Comunità. I vertici del CCE si erano resi conto che occorreva mantenere una pressione costante
sui governi per arrivare alla costituzione di un “vero e proprio Parlamento europeo”.
L’invito del CCE al governo britannico di sfruttare gli Stati Generali di Londra come tribuna europea era stato
raccolto. Il premier inglese Heath dichiarò, nel corso della seduta di apertura, che l’ingresso della Gran Bretagna
nella Comunità avrebbe portato ad una maggior democratizzazione delle istituzioni comunitarie.
La conferenza al vertice di Parigi del ‘72 sembrò segnare un nuovo rilancio del processo di unificazione. Il
comunicato conclusivo stabiliva la realizzazione dell’unione economica e monetaria entro la fine del 1980,
prospettava la possibilità di una politica regionale, proclamava l’ambizione di attribuire maggiori poteri al
Parlamento europeo senza però specificarli. Si affermava che “Gli Stati membri della Comunità annunciavano la loro
intenzione di trasformare l’insieme dei loro rapporti in una Unione europea”. Dopo queste indicazioni, il Parlamento
europeo approvò una risoluzione in cui condannava che non fossero state assunte decisioni per il rafforzamento
democratico della Comunità e che per l’elezione dei membri del Parlamento europeo non solo non fossero state
stabilite date precise, ma nemmeno fossero stati conferiti mandati precisi per risolvere le difficoltà esistenti. La
stessa posizione veniva assunta dal CCE, mentre l’AICCE sposava le tesi del MFE secondo cui si doveva procedere a
elezioni unilaterali nei paesi in cui queste fossero state possibili.
La profonda crisi che si svilupperà negli anni seguenti vanificherà il teorema funzionalista di Parigi.
Contemporaneamente al vertice di Parigi si era svolto un controvertice europeista organizzato dalla JEF (jeunesse
européenne fédéraliste), a cui aveva aderito anche il CCE. In questa occasione le forze federaliste avevano proposto
un ordine del giorno in cui si affermava che i partecipanti al controvertice si sarebbero impegnati in un’azione
costante affinché il popolo europeo fosse associato alla costruzione dell’Europa attraverso l’elezione del Parlamento
europeo. Dopo le risoluzioni del controvertice di Parigi, il CCE avvertirà necessità di definire le proprie responsabilità
nella battaglia per la Federazione europea. Per questo l’assemblea dei delegati, riunita nel ‘73, approvò un 32
documento in cui il movimento poneva le basi per una più stretta cooperazione con le altre organizzazioni favorevoli
all’unità europea. Per portare a compimento questo progetto era richiesta una particolare collaborazione tra CCE,
UIF, AEF e il Movimento Europeo, che il CCE accusava di scarso attivismo. Per riproporre la questione dell’elezione a
suffragio universale diretto del Parlamento europeo, i delegati suggerivano agli altri movimenti europeisti
l’attivazione di una vasta campagna di propaganda.
Nonostante le notevoli potenzialità della proposta essa ebbe un esito limitato. Sul lungo periodo, il movimento riuscì
ad attivare significative sinergie solo in alcune occasioni. Le cause di questo parziale successo sono attribuibili anche
alla mancanza di una reale e generale condivisione dell’iniziativa tra gli amministratori locali aderenti al movimento.
Dal punto di vista organizzativo fu deciso di aprire a Bruxelles un ufficio di collegamento presso le Comunità
europee, che doveva fornire servizi di consulenza agli enti locali aderenti per utilizzare i fondi comunitari.
5. Il contributo del Conseil des Communes d’Europe alla prima elezione del Parlamento europeo
Nel corso della seduta del ‘73, al Parlamento europeo decise di procedere all'elaborazione di un nuovo rapporto
relativo alle elezioni europee a suffragio universale diretto. La Commissione incaricata fu guidata da
Lautenschlanger, a cui successe l’olandese Patijn. Il CCE coadiuvò il lavoro del Parlamento europeo appoggiando
contemporaneamente le iniziative promosse dai movimenti federalisti.
Questa duplice posizione aveva portato la direzione nazionale dell’AICCE a chiedere a tutte le regioni italiane
aderenti all’organizzazione di presentare alle camere una proposta di legge per l’elezione unilaterale a suffragio
universale diretto dei delegati italiani al Parlamento europeo. Per spingere le regioni a partecipare all’iniziativa,
l’AICCE chiedeva alle province e alle amministrazioni comunali di votare un ordine del giorno in cui si dichiaravano
favorevoli alla proposta. L’operazione riscosse un notevole successo e furono inviate delle delibere attuando in
questo modo una notevole pressione che portò alla presentazione al Senato di tre disegni di legge di iniziativa
regionale identici a quello depositato dai federalisti nel giugno ‘69.

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Il quadro politico si era nuovamente modificato con la morte di Pompidou e l’elezione di Valery Giscard d’Estaing,
finiva quindi l’epoca gollista. Giscard d’Estaing dichiarò: “Da oggi una nuova era della politica, quella del
rinnovamento e del cambiamento della Francia” e questo si realizzò sia in politica interna che estera.
Monnet cercò di sfruttare le aperture della leadership francese e in un incontro con Giscard d’Estaing, Monnet
propose un piano organico per far avanzare la cooperazione europea.
Anche altri attori della scena politica europea erano cambiati. In Gran Bretagna i laburisti avevano preso il posto
dei conservatori e il nuovo primo ministro Wilson aveva aderito alle richieste di buona parte del suo partito di
rinegoziare la divisione britannica alla comunità.
In Germania c’era il nuovo cancelliere Schmidt. Era nato tra Schmidt e Giscard d’Estaing un rapporto di reciproca
stima che avrebbe permesso ai due leader di ricostruire un asse franco-tedesco alla guida dell’Europa.
Giscard d’Estaing cominciò un lavoro diplomatico che portò alla convocazione di un vertice dei capi di Stato e di
governo a Parigi nel ’74. Ancora prima del vertice si manifestarono pubblicamente delle riserve, il CCE ritenne di
prendere posizione mettendo in evidenza come alcuni Stati della Comunità avessero sollevato riserve sulla proposta
francese di eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale diretto. L’osservazione era rivolta al Regno Unito.
Il vertice di Parigi del ‘74 adottò decisioni importanti come l’istituzionalizzazione delle conferenze al vertice, che
venivano trasformate in Consiglio Europeo, venne affidato al primo ministro Belgio Tindemans l’incarico di preparare
una relazione di sintesi sull’Unione europea, soprattutto stabilì che l’obiettivo fissato dai Trattati di Roma relativo
alle elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo si sarebbe dovuto realizzare il più presto possibile infatti
si concludeva affermando “l’elezione a suffragio universale diretto dovrebbe essere effettuata a partire dal 1978”.
Questa dichiarazione apriva la strada alle elezioni ma non garantiva la realizzazione e neppure il successo. Insieme
alle opposizioni dichiarate, i fautori delle elezioni individuarono nel “muro del silenzio” il peggior nemico da battere
per arrivare alle elezioni. Il CCE si mosse con tempestività contro questo muro promuovendo una campagna di
informazione e dibattito sulle elezioni europee. I movimenti europeisti programmarono una serie di congressi e
incontri sovranazionali aventi come tema il futuro assetto istituzionale e politico dell’Unione europea.
A Vienna si svolsero gli Stati Generali del CCE nel ‘75 e fra i maggiori interventi bisogna ricordare quello di Ortoli, 33
presidente della Commissione delle Comunità europee, il quale riconobbe pubblicamente al CCE il ruolo di soggetto
politico capace di svolgere un’opera di propaganda nei confronti dell’opinione pubblica europea.
In una prospettiva di medio termine, ancora più importante fu la partecipazione di Spinelli, che pose come tema
centrale del suo intervento la crisi che l’Europa stava vivendo e indicava il dovere di “superarla non ricostruendo il
vecchio modello di sviluppo, ma dando se n’è uno in cui la crescita fosse al servizio dell’uomo, non viceversa”. Spinelli
sottolineava:
“così come è organizzata ora, essa non può venire a capo di queste sfide. Occorre fare un balzo in avanti e costruire un vero governo europeo,
controllato da un Parlamento europeo direttamente eletto”.
Spinelli stava maturando la decisione di abbandonare la Commissione per affrontare la battaglia politica a favore
della costituente europea. Sceglierà la via dell’azione parlamentare europea prima come membro della delegazione
italiana poi eletto direttamente dai cittadini.
Il CCE, l’appoggio di Serafini e dei federalisti presenti nel movimento permisero a Spinelli di iniziare questo percorso
politico agli Stati Generali di Vienna con l’appoggio degli enti locali europei.
La risoluzione finale degli Stati Generali espresse una coerente presa di posizione federalista. In essa il CCE
chiedeva che al Parlamento europeo democraticamente eletto fosse affidato il compito di elaborare un progetto
dettagliato dell’Unione europea. Il Parlamento si sarebbe dovuto trasformare in Assemblea costituente europea
poiché la redazione finale di uno statuto politico non poteva essere effettuata da diplomatici nel corso di negoziati
intergovernativi, ma solamente dai rappresentati nel popolo liberamente eletti. La posizione assunta rappresentò un
successo dell’iniziativa della delegazione italiana guidata da Serafini, che aveva affrontato aspre opposizioni
all’interno del movimento. Per superarle, Serafini aveva dovuto minacciare la scissione della sezione italiana. I
delegati italiani si erano anche astenuti sulla rielezione del presidente Cravatte, motivando il gesto con la
insoddisfazione per l’ adeguamento troppo lento delle scritture politico organizzative del CCE ai nuovi compiti che la
lotta per l’Europa unita imponeva.

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Il concreto rischio di una rottura fece in modo che nelle riunioni i comitati di presidenza si esprimessero sempre a
favore delle posizioni federaliste. Le opzioni politiche adottate comportarono la definizione di una strategia che
doveva svilupparsi fino alla realizzazione delle prime elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo nel
giugno ‘79. Occorreva sviluppare una pressione costante sui governi europei perché perfezionassero i dovuti
adempimenti per attuare le lezioni diretta; bisognava informare e tenere in costante mobilitazione gli
amministratori locali. Per sostenere questa complessa operazione occorrevano fondi che le casse del movimento
non potevano fornire: era necessario l’aiuto finanziario che solo la Commissione delle Comunità europee poteva
fornire.
Il primo passo dell’azione politica del CCE fu compiuto al termine degli Stati Generali di Vienna, in cui venne
approvato una risoluzione che formalizzava l’adozione dell’appello che ogni singola amministrazione locale europea
avrebbe dovuto inviare al primo ministro belga Tindermans.
Mentre i movimenti europei lanciavano la loro articolata campagna a favore delle elezioni, il Parlamento europeo
approvava il progetto di convenzione elaborato da Patijn, per l’elezione del medesimo a suffragio universale diretto.
Un articolo di fondo apparso in “Comuni D’Europa” denunciava le manovre in atto per togliere dall’ordine del giorno
del Consiglio Europeo la questione dell’approvazione del progetto dell’elezione del Parlamento, azione giustificata
con la mancanza di unanimità sul problema.
Nel tentativo di evitare questo sabotaggio, i federalisti italiani organizzarono, in occasione della conferenza al vertice
di Roma, una vasta mobilitazione dei movimenti europeisti, dell’opinione pubblica, dei partiti e delle organizzazioni
sindacali. Il CCE fu uno degli autori della mobilitazione e convocò a Roma una conferenza stampa in cui Philippovich,
segretario generali del CCE e il lussemburghese Cravatte, presidente del movimento, ribadirono che i poteri locali
europei chiedevano le elezioni dirette del Parlamento. Successivamente una delegazione di esponenti europeisti fu
ricevuta da Aldo Moro, presidente di turno del Consiglio Europeo, cui consegnò un appello votato da un’assemblea
popolare e nel documento si chiedeva che il consiglio europeo procedesse all’approvazione del progetto. Aldo Moro
assicuro che durante le discussioni del vertice si sarebbe fatto sostenitore delle posizioni espresse nel documento.
I risultati della conferenza furono estremamente positivi, il consiglio europeo convenne che l’elezione del 34
Parlamento europeo avesse luogo “in una data unica nel periodo maggio-giugno 1978”. Lo stesso documento
precisava che, se un Paese non fosse stato pronto a procedere all’elezione diretta entro tale data, esso avrebbe
avuto la facoltà di “disegnare i propri rappresentanti tra i membri eletti del Parlamento nazionale”.
Si era compiuto un passo importante ma la battaglia non era ancora vinta. Non si trattava soltanto delle possibili
resistenze inglesi e danesi, la partita decisiva in realtà si giocava in Francia. Nonostante la proposta di procedere
alle elezioni venisse da un’iniziativa di Giscard d’Estaing, la maggioranza che sosteneva il presidente francese era
profondamente divisa. I gollisti vedevano apparire dietro le elezioni a suffragio universale diretto lo spettro della
tanto temuta sovranità e il loro leader sembrava deciso a osteggiare le scelte europee del presidente restando
fedele alle posizioni di de Gaulle.
Il CCE si dimostrò consapevole del ruolo fondamentale che la Francia avrebbe giocato. Un documento confidenziale,
probabilmente diretto ai membri dell’AFCCE, affermava che in Francia era cominciato il dibattito teologico sulle
elezioni. Il documento poneva in evidenza che sarebbe stata decisiva la posizione dei socialisti. Il partito si era
espresso ufficialmente a favore delle elezioni, ma al suo interno vi era una forte componente di indifferenti, mentre
i giovani quadri erano nella loro maggioranza contrari. Bisognava evitare che un incidente di percorso importante
favorisse un’alleanza tra l’ala gollista contraria alle elezioni e queste forze socialiste. Per impedire questo connubio,
bisognava evitare che il progetto fosse sottoposto a referendum. Al contrario, il CCE riteneva che l’approvazione
della convenzione in Parlamento fosse più sicura perché il deputati socialisti erano nella loro quasi totalità favorevoli.
Durante i mesi successivi all’interno del CCE si sviluppò un ampio dibattito sul significato delle elezioni europee e sul
ruolo del movimento. Nonostante ciò, alla maggioranza aderì alla tesi secondo la quale la necessità di arrivare alle
elezioni europee poneva in secondo piano la disputa sul ruolo del futuro Parlamento e sui suoi poteri.
Il Consiglio Europeo di Bruxelles del ‘76 riuscì a ratificare, superando ostacoli pregiudiziali derivanti da difficili
situazioni nazionali, l’accordo raggiunto nel mese di giugno fra i ministri degli affari esteri circa il numero dei deputati
e la loro ripartizione tra gli Stati membri, dando così il via alle ratifiche nazionali della convenzione. In questo modo
gli europei avrebbero potuto votare per il loro Parlamento nel periodo maggio-giugno 1978.

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La sezione francese del CCE e il segretario generale Philippovich si attivarono anche sul piano politico per convincere
i parlamentari a non osteggiare l’approvazione della convenzione.
Nel Regno Unito lo scoglio dell’approvazione venne superato solo nel ‘77 quando la Camera dei comuni approvo
l’atto giuridico relativo alle elezioni europea scegliendo l’adozione del sistema maggioritario.
Il CCE aveva nel frattempo elaborato la propria piattaforma politica in vista delle elezioni. Secondo Serafini il
documento ufficiale avrebbe dovuto spiegare la logica della sovranazionalità partendo dall’analisi dei trattati di
Roma ed alla richiesta di una loro applicazione integrale. Lo scopo del documento era ambizioso in quanto
prevedeva di condizionare i programmi delle formazioni politiche che si stavano aggregando in vista delle elezioni.
Serafini propose inoltre di avviare immediatamente la campagna di supporto alle elezioni senza tener conto delle
forti opposizioni che in Europa incontrava l’idea delle elezioni diretta. Questa linea politica operativa presupponeva
l’attivazione della macchina organizzativa del CCE che si doveva valere di finanziamenti esterni. Per rimuovere
questo ostacolo il CCE trasmise al presidente della Commissione Jenkins il proprio programma d’azione speciale per
l’elezione diretta del Parlamento europeo chiedendone ufficialmente il finanziamento.
Il piano presentato a Jenkins partiva dal presupposto che l’attività di propaganda del CCE si dovesse concentrare
soprattutto in quei Paesi nei quali l’idea delle elezioni di un Parlamento europeo incontrava maggiori opposizioni o si
prevedeva l’insorgere di importanti movimenti favorevole all’ estensione. Il programma del CCE prevedeva:
- Convegni internazionali di eletti locali e regionali aperti alle altre componenti sociali e politiche,
- L’organizzazione di seminari di formazione per quadrilocali che avrebbero svolto un lavoro di propaganda,
- Riunioni di informazione nell’ambito dell’attività delle città gemellate,
- La produzione diffusione di opuscoli destinati a chiarire gli aspetti tecnici e le ragioni politiche di fondo,
- La costituzione di 500 centri regionali di propaganda.
L’ultima parte del programma esaminava le modalità di attivazione di una campagna di stampa.
Nell’ottica della propaganda a favore dell’elezione diretta del Parlamento europeo bisogna ricordare i XII Stati
Generali di Losanna nel ‘77 e quelli successivi dell’Aja nel ‘79 voluti in prossimità della data delle prime elezioni
europee. Gli Stati Generali di Losanna furono considerati dalle forze federaliste come l’inizio della campagna 35
europea di sensibilizzazione della classe politica.
Il CCE ricevette dalla Commissione i previsti finanziamenti comunitari che gli permisero di continuare l’opera di
propaganda politica. Tra le varie iniziative promosse dal movimento il convegno di 2000 città gemellate a Magonza
nel 78, si rivelò come la più significativa manifestazione organizzata dal CCE per la campagna per le elezioni
europee. Alla riunione parteciparono il presidente del Parlamento europeo Colombo, il presidente del Bundestag
Carstens e il ministro degli interni della RFDG Baum. Nella sua relazione, Serafini sottolineo come il CCE, i grandi
partiti europei e i governi dovessero affrontare tre questioni interdipendenti:
1. La prima concerneva la necessità di costituire un’unione monetaria ed economica.
2. La creazione di questa unità presupponeva la risoluzione della seconda questione cioè la presenza di un effettivo
governo politico e democratico della comunità.
3. Se lo sviluppo degli eventi fosse stato quello prospettato da Serafini, la comunità non poteva esitare ad aprirsi ai
tre nuovi Paesi (Spagna, Portogallo, Grecia) che guardavano all’Europa.
Nonostante le divergenze emerse anche all’interno del CCE con la risoluzione finale di Magonza il CCE si schierava a
fianco dei federalisti europei e in particolare del MFE.
Il Bureau internazionale del CCE, riunito a l’Aja nel ‘78, esaminò lo stato della campagna per le elezioni e risultò che
il movimento era riuscito a coinvolgere le forze sociali sulle tematiche relative all’elezione del Parlamento europeo. Il
segretario generale Philippovich fu incaricato di predisporre su Italia aumento la sua relazione politica per i XIII Stati
Generali che si dovevano tenere all’Aja nel ‘79.
Philippovich notava come le prime elezioni del Parlamento europeo avrebbero creato condizioni del tutto nuove
per la prosecuzione della costruzione europea. Particolare rilevanza all’Aja rivestì il dibattito tra il presidente
dell’Internazionale Socialista Brandt, il presidente della Federazione dei partiti liberali e democratici Thorn, il
presidente del partito popolare europeo Tindermans e il presidente del Gruppo conservatori al Parlamento europeo
Rippon. Se dal dibattito non emersero posizioni particolarmente aperte sul futuro ruolo del Parlamento europeo, il

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CCE ebbe comunque il merito riproporre all’attenzione dei partiti europei la necessità di un confronto serio sulle
prospettive di sviluppo delle istituzioni democratiche all’interno della comunità.
6. Una costituzione per l’Europa
Dopo lo svolgimento delle elezioni europee, la sezione tedesca del CCE, in una riunione svoltasi a Bonn, lanciò un
nuovo appello chiedendo l’impegno dei parlamentari tedeschi eletti al Parlamento europeo perché si giungesse a
una costituzione capace di assicurare e rafforzare l’autonomia locale in vista di una reale Unione politica con una
moneta comune. Il CCE dava così inizio a una nuova operazione politica che lo avrebbe portato a fiancheggiare
l’azione che Spinelli svolse all’interno di un Parlamento che indubbiamente il CCE aveva contribuito a far eleggere.
Il CCE non era riuscito a organizzarsi in Grecia e in Portogallo, era scarsamente rappresentato in Irlanda e in
Danimarca, infine in Inghilterra i rapporti fra enti locali e movimento rimanevano difficili poiché gli inglesi
preferivano associarsi all’UIV.
Grazie all’azione decisa di Spinelli nuove prospettive politiche si erano nel frattempo aperte. Su iniziativa dei
parlamentari aderenti al Club Del Coccodrillo, promosso da Spinelli nel luglio 1980, l’assemblea europea aveva
approvato a larga maggioranza una risoluzione che prevedeva la costituzione di una Commissione per gli affari
istituzionali incaricata di presentare proposte sullo Stato e sull’evoluzione della comunità. Questo evento passò
“sulla stampa quasi osservato”, ma la sua potenziale carica innovativa fu immediatamente colta. Le posizioni
federaliste furono recepite nella mozione politica finale degli Stati Generali in cui venne affermata la volontà del CCE
“di dare tutto l’appoggio di cui il movimento era capace al lavoro costituente del Parlamento europeo”.
Il periodo compreso tra la costituzione della Commissione e l’approvazione da parte del Parlamento europeo del
progetto di Trattato Istituente l’unione europea , fu caratterizzato dall’attività svolta dal CCE a sostegno e
integrazione del lavoro della Commissione. L’AICCE permise a Spinelli di richiamare pubblicamente Andreotti al forte
impegno a favore dell’azione europea che il governo italiano aveva avuto in passato, ma che sembrava aver smarrito
dopo la presentazione del piano Genscher-Colombo. Fra le azioni volte a promuovere le istanze delle collettività
locali va collocata la costituzione dell’Integroupe des élus locaux et régionaux des groupes politique au sein du
Parlament européen. L’Intergroupe diventò uno degli interlocutori della Commissione istituzionale e di Altiero 36
Spinelli sul tema della politica regionale.
Fu inoltre costituito un gruppo di lavoro interno al movimento degli enti locali che presento ufficialmente un
documento alla Commissione. In esso il CCE affermava la necessità di giungere a una reale Unione europea. Per
ottenere questo risultato erano indicati tre obiettivi:
1. L’istituzione di un Parlamento bicamerale in cui fossero rappresentati i popoli e gli Stati;
2. L’attribuzione alle istituzioni comunitarie di poteri decisionali adeguati ai loro compiti;
3. L’allargamento delle competenze dell’unione in materia di rapporti internazionali e sicurezza.
Le proposte del CCE in materia di politica regionale furono accolte in piccola parte. La pressione politica del CCE fece
in modo che nel preambolo al Progetto Di Trattato fosse riconosciuta la “necessità di permettere la partecipazione
degli enti locali e regionali alla costruzione europea secondo forme adeguate”. Come scrisse Serafini questa
affermazione costituì “una delle più belle vittorie del CCE” perché fu l’inizio di un inserimento stabile delle autonomie
locali nei futuri progetti istituzionali europei. Una volta approvato il progetto di trattato, il movimento degli enti
locali entrò in una delle sue ricorrenti fasi di incertezza.
Contemporaneamente Spinelli avviò un azione per convincere Mitterrand a prendere pubblicamente posizione a
favore dell’Unione europea. Secondo Spinelli, la Francia avrebbe così riconquistato la leadership nel processo di
costruzione europea. Mitterrand scelse proprio la sessione conclusiva della prima legislatura a elezione diretta del
Parlamento europeo per rivolgere uno storico discorso all’intera Europa. Mitterrand affermò come la Francia fosse
disponibile a esaminare i difendere il progetto del Parlamento europeo con la cui “aspirazione” si trovava
d’accordo. Per raggiungere l’obiettivo suggeriva di dar vita a conversazioni preparatorie che dovevano sfociare in
una conferenza degli Stati membri interessati. le basi di questo lavoro dovevano essere: il progetto di Unione
europea e la solenne dichiarazione di Stoccarda.
Il successivo Consiglio Europeo di Fontainebleau nell’84 deliberò la creazione di un comitato ad hoc per le questioni
istituzionali. Il CCE colse le grandi potenzialità del comitato e auspicò che il comitato di Dooge assumesse come base
di discussione il progetto di trattato del Parlamento europeo. Per sostenere l’adozione del progetto il CCE promosse

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un appello a favore dell’unione europea ma emersero forti resistenze che evidenziarono l’esistenza di un fronte anti
europeo.
La decisione definitiva sul futuro assetto politico-istituzionale era intanto stata demandata al Consiglio Europeo di
Milano dell’85. Il MFE propose di organizzare una grande mobilitazione popolare: “un milione di cittadini in piazza
per l’unione europea”. Il Conseil des Communes et Régions d’europe (CCRE) [il movimento aveva modificato la
propria denominazione, ampliandola, il 15 ottobre 1984] rispose all’appello federalista impegnandosi a portare a
Milano un numero significativo di eletti locali. Fu grazie all’opera dei federalisti attivi nell’AICCRE [nuova
denominazione della sezione italiana del movimento] se a Milano sfilarono più di 500 gonfaloni di comuni.
Indubbiamente la manifestazione dimostrò l’esistenza di un fronte democratico europeo che, se sollecitato, poteva
precludere a “quel risveglio popolare europeo da sempre sognato, ma soltanto per la prima volta, divenuto realtà”
(Luciano Bonolis).
L’esito politico dell’iniziativa fu però sfavorevole alle forze federaliste. Il vertice decise, a maggioranza, con il voto
contrario di Regno Unito, Grecia e Danimarca, di convocare una conferenza intergovernativa con l’incarico di
redigere un nuovo Trattato. Il metodo intergovernativo adottato sollevò forti perplessità tra i federalisti e nel
CCRE. La mancanza di una ferma volontà politica e il fatto che la RFDG si rifiutasse di compiere atti che non avessero
l’approvazione britannica, portarono al Consiglio Europeo di Lussemburgo e all’Atto Unico.
Nella storia dell’integrazione europea i movimenti federalisti ed europeisti seppero spesso cogliere le occasioni
storiche per riproporre la battaglia a favore dell’unione europea. Fu questo il caso dell’Atto Unico. Il rilancio
economico evidenziava la contraddizione di un’Unione economica senza Unione monetaria. Il trasferimento di
queste sovranità a livello europeo presupponeva la creazione di un autorità politica. Spinelli seppe indicare la via da
seguire nella battaglia per il conferimento al Parlamento europeo di un mandato costituente. Per conseguire questo
obiettivo gli europeisti iniziarono un’intensa attività. In occasione degli Stati Generali di Berlino dell’ 86, Serafini
riuscì ad affidare a Gabriele Panizzi (vicepresidente del consiglio regionale Lazio) la relazione introduttiva sul tema: I
progressi dell’integrazione europea, le incidenze delle decisioni europee sui comuni, altri enti locali e regioni. Il lavoro
in sede di Commissione fu condizionato sia dall’impostazione federalista della relazione, sia dalla presenza politica di 37
due federalisti come Pistone e Majocchi. Ne risultò una mozione in cui gli amministratori locali europei si
schieravano “a favore di un mandato costituente per il Parlamento europeo”. Questa presa di posizione consentì ai
federalisti di portare la battaglia a favore del conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo da
eleggere nel 1989 all’interno del UEF e del movimento europeo. In questa direzione si è mossa anche la
Commissione istituzionale del Parlamento facendo proprio il rapporto Herman. Nel documento veniva indicata la
necessità che il Parlamento costruisse “delle alleanze oggettive e durature con vari soggetti politico-sociali, tra cui i
poteri locali e regionali come il Consiglio dei comuni e delle regioni d’Europa” (già proposto da Umberto Serafini nel
1964).
La complessa azione federalista ottenne un relativo successo → il mandato costituente conferito ai parlamentari
europei eletti in Italia, che favorirà gli ulteriori progressi sulla via dell’unità europea.
I fatti dimostrano come un movimento politicamente composito, soggetto a diversi stimoli e condizionamenti abbia
potuto svolgere un ruolo positivo nelle battaglie a favore dell’integrazione europea grazie all’opera di alcuni convinti
federalisti che seppero indirizzare le opzioni politiche dell’associazione dei poteri locali europei. Quando il CCRE ha
trovato le necessarie sinergie ha saputo dare un contributo originale e positivo alla lotta per l’unità politica
dell’Europa.

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