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Giorgio Pannunzio

Ciminna nella storia e nella letteratura


Tre Saggi di Geografia Culturale Siciliana
Alla memoria di mio suocero,
ciminnita d’atri tempi.
A MODO D’INTRODUZIONE…

I tre saggi qui proposti corrono, grosso modo, lungo il filo


di tre secoli (il Sedicesimo, il Diciottesimo e – ultimo, ma non
meno importante – Il Diciassettesimo). In essi il dato
geografico, cioè la collocazione degli eventi culturali narrati
all’interno di una piccola cittadina dell’agro palermitano, si
compenetra con la dimensione storica, a tentare finalmente
(almeno per lo scrivente) un impossibile connubio tra
geografia storia della letteratura italiana e storia letteraria
propriamente detta. Se da questa unione incestuosa (ché tale
essa risulta, avendo come base parentale la letteratura
medesima e le sue infinite estrinsecazioni), venga a nascere un
mostruum o un semidio, credo che al lettore importi poco. La
cosa veramente interessante, invece, dovrebbe consistere nel
fatto che un paese attualmente popolato da quasi quattromila
abitanti (ma certamente non molto più grande in passato) possa
aver prodotto una diversificata e notevole congerie di fatti
storici e letterari tali da destare la curiosità dello studioso più
accorto. Questo fatto, che per me ha qualcosa di straordinario,
è l’elemento di preziosità più evidente che permea questi tre
lavori qui raccolti e dovrebbe essere meditato e ben soppesato
da chi ritiene che la storia e la letteratura borghiggiana non
rivestano più alcun ruolo nelle complesse dinamiche su cui si
muovono oggi la critica e la storia della letteratura.

GIORGIO PANNUNZIO
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11
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«A CHI RISALTO DI GIOIA, A CHI PRELUDIO DI STRAGGE»: LE


GLORIE DI SANTA ROSALIA DI FRATE MICHELANGELO AFFRUNTI
TRA ESEGESI BIBLICA E FONTI LETTERARIE

Accingersi a rivisitare, sia pure con brevità, un testo


come le Glorie di Santa Rosalia di Michelangelo Affrunti (o
Affronto o D’Affrunti, secondo altre grafie) non è cosa di poco
costrutto1. La santa palermitana, onorata non solo in Sicilia ma
1
Cfr. Le Glorie di S. Rosalia v.p. Acclamate da’ Sassi nel Tremuoto
dell’Anno 1693. Orazione Panegirica recitata nel Duomo di Palermo dal
Sac. d. Michel’Angelo Affronti per la Solennità Anniversaria della
liberazione di Palermo dal Medesimo Tremuoto Occorrente a 11
Gennajo dell’Anno 1739 etc. In Palermo, nella Regia Stamperia
d’Antonino Epiro, 1739, ma cfr. anche, anche presso diversi stampatori
e con titolo variante, le precedenti versioni del 1719 e del 1726 (Le
Rovine di Palermo Portate in Vita, in Morte, e nella Eternità da S.
Rosalia Vergine Palermitana. Orazione Eucaristica per la Liberazione
del Tremoto Universale della Sicilia del 1693. Recitata nel Duomo di
Palermo dal Sac. D.D. Michelangelo d’Affrunti all’11 di Gennaro 1719
etc. In Palermo, per Gaspare Bayona, 1719; e Le Rovine Occorse in
Palermo, Argomento della Più Valorosa, ed Amorev[o]le Protezione di
S. Rosalia v. p. a Favore della Sua Patria. Orazione Eucaristica, per la
Liberazione dal Tremoto del 1 di Settembre del 1726 etc. Dal Sac. D.D.
Michelangelo D’Affrunti etc. In Palermo, nella regia stamperia
d’Antonino Epiro stampatore dell’eccellentissimo Senato, 1726). Si è
scelto di citare i passi dell’orazione affruntiana dall’edizione del 1739,
perché essa è l’ultima stampata sotto la diretta sorveglianza
dell’autore ed evidentemente nel rispetto delle sue definitive volontà
testuali. Tutte le citazioni, ovviamente, derivano da tale testo, con
minime mende di punteggiatura e di normalizzazione verbale
segnalate tra parentesi quadre e con il mantenimento dei
13

anche in altre parti della penisola e perfino all’estero, ha


suscitato l’interesse di studiosi afferenti alle più svariate
discipline, per cui la fatica dell’esegeta può trovare molti
ostacoli al suo compimento. Come che sia, un fatto è
indubitabilmente certo: non siamo di fronte ad una ripetizione
di elementi già affrontati, pur nella corposa bibliografia sulla
santa che già il Collura definiva tale da non potervisi cercare,
se non per brevi tratti, qualche elemento che ne tratteggiasse
con certezza i confini biografici e storici 2. Il punto è che, se

raddoppiamenti d’evidente origine dialettale


2
Cfr. P. COLLURA, Santa Rosalia nella storia e nell’arte, Palermo,
Flaccovio, 1977, pp. 117-122. I testi citati dal Collura sono soltanto uno
“specimen” (lo ammette l’autore stesso) e ad essi – a puro livello di
genere letterario e perché sostanzialmente omonimi, nel titolo, rispetto
a quello dell’Affrunti – vanno di certo aggiunti i numerosi volumi
presenti in
http://www.cattedrale.palermo.it/rosalia/2017bibliografiasantarosalia.
pdf, ult. cons. 29 maggio 2021 (è la più aggiornata bibliografia sulla
santa palermitana, benché essa si fermi al 2004). Appare inoltre
necessaria la consultazione di C. PASTENA, A. PERNICIARO, E. ZACCO
(a cura di), L’Angelo del Monte Pellegrino: saggio bibliografico sulla
Santuzza, Palermo, Assessorato ai beni culturali e ambientali e della
pubblica istruzione della Regione Siciliana, 1997, che contiene – a p.
242 – anche le notizie più aggiornate sulle opere a stampa superstiti
dell’Affrunti. Oltre questi riferimenti bibliografici devono
necessariamente esser visti, almeno, V. NOTO, Santa Rosalia, Torino,
Paoline, 2008; T. PIRROTTA, Santa Rosalia. La storia di Rosalia
Sinibaldi, Palermo, Navarra, 2018; C. MUSCATO DAIDONE (a cura di),
Vita di Santa Rosalia, scritta da Padre Pietro Sanfilippo della
Compagnia di Gesù (1840), Siracusa, CMD Edizioni, 2017; A.
CUSIMANO, G. CORDARO, R. MICCIANCIO, Il cammino di Santa
Rosalia. In Sicilia sulle orme della «Santuzza», Manfredonia (FG),
Pacilli, 2018; U. SANTINO, I giorni della peste. Il festino di Santa
14

non sono rare le opere parenetiche o panegiristiche le quali


mettano in relazione la capacità salvifica della protettrice di
Palermo con i fenomeni tellurici da cui spesso la Sicilia
occidentale venne funestata e distrutta3, quella composta
dall’Affrunti possiede alcuni tratti stilistici e contenutistici su
cui pure vale la pena soffermarsi, anche per definire una
cornice nuova – tanto a livello esegetico, quanto in un’ottica

Rosalia tra mito e spettacolo, Trapani, Di Girolamo, 2006; R. LA


DUCA, F. ARMETTA, Monte Pellegrino e il festino di Santa Rosalia,
Caltanissetta, Sciascia, 2013. I volumi or ora citati, ovviamente,
contengono ulteriore bibliografia, ma altri ne verranno menzionati in
seguito. Si tenga altresì conto che numerosi sono i testi che, in
titolatura, sono nomati allo stesso modo di quello dell’Affrunti e a lui
precedenti (ricorderei, a titolo d’esempio, le opere del Giovino [1678],
del Bezzi [1688], del Manfredi [1688], del Loredano [1690], del Baiani
[1691], del Pantani [1693], del Mustaccio [1694], del Poggi [1700] del
Del Vio [1704], del Vitale [1707], ed altre, anche anonime, tutte
reperibili in G. MIRA, Bibliografia siciliana ovvero Gran dizionario
bibliografico delle opere edite e inedite, antiche e moderne di autori
siciliani o di argomento siciliano stampate in Sicilia e fuori etc., 2 voll.,
Palermo, Gaudiano, 1881, passim), ma nessuno di questi richiama gli
eventi sismici rimembrati dal prete ciminnita, fatta eccezione di un testo
anonimo del 1698 (e cfr. MIRA, Bibliografia siciliana, p. 530) che però
si interessa di fatti storico-artistici e non di teologia. Infine, un elenco di
orazioni sacre, a dir poco critico sulle questioni stilistiche, trovasi in C.
PARDI, Su la sacra Oratoria, in Scritti vari, 3 voll., Palermo, Tipografia
del Giornale di Sicilia, 1871, in part. vol. 2, pp. 72-131, alle pp. 81-86.
3
Nella titolatura del suo testo, l’Affrunti – e non sappiamo se il refuso
sia da imputare a lui o al tipografo, ma propenderei per la seconda
ipotesi – fa riferimento ad un terremoto avvenuto l’11 gennaio 1739.
Evidentemente, in questa occasione, vengono confusi due distinti
sismi: uno si verificò il 10 maggio 1739 e l’altro accadde appunto l’11
gennaio, ma del 1693 (ed è considerato uno dei più catastrofici subiti
nell’isola). Quest’ultimo è sì menzionato nella parte altra del titolo, ma
15

puramente contenutistica – su cui basare l’analisi critica della


produzione encomiastica relativa a Rosalia Sinibaldi. La prima
cosa da chiedersi, tuttavia, è: chi era Michelangelo Affrunti?
Che ruolo ha rivestito all’interno delle gerarchie religiose della
sua epoca e che connessione, tale figura, possiede con la
cultura religiosa e la dimensione filosofica ed esegetica del suo
tempo? Secondo il Graziano, che ne ha tracciato un breve ma
non del tutto invecchiato profilo (anche se leggermente
impreciso), l’Affrunti4
senza altri dettagli se non il solo anno. Su tali fatti, cfr., ad esempio, S.
VAN RIEL, L’edificato storico e la sua vulnerabilità sismica e statica, in F.
FARNETI, S. VAN RIEL (a cura di), Ficarra: studi e analisi per la
riqualificazione del centro storico, Firenze, Altralinea, 2020, pp. 195-
286, in part. p. 279, n. 7. Sull’influenza degli eventi sismici nelle
vicende letterarie siciliane, cfr. C. DOLLO, Vulcanismo e terremoti nei
neoterici siciliani del XVII secolo, in G. GIARRIZZO (a cura di), La Sicilia dei
terremoti. Lunga durata e dinamiche sociali, Maimone, Catania, 1996,
pp. 199-223, poi ristampato in G. BENTIVEGNA, G. BURGIO, G. MAGNANO
SAN LIO (a cura di), Filosofia e medicina in Sicilia, Soveria Mannelli (CT),
Rubettino, 2005, pp. 293-330 (da me consultato), con citazione del
testo affruntiano del 1719 alla p. 327.
4
Cfr. V. GRAZIANO, Ciminna: memorie e documenti, Ciminna,
Amministrazione Comunale, 1987 (originariamente stampata a
Palermo, per i tipi del tipografo Lao, nel 1911), pp. 155-156. Sempre
secondo il Graziano, nella Chiesa Matrice di Ciminna, nota per aver
ospitato alcune scene del Gattopardo di Luchino Visconti, esisterebbe
un ritratto dove sarebbe posta la seguente iscrizione: «S. T. D. D.
Michaelangelus Affrunti Ciminnensis beneficialis Divae Rosoliae intus
M. Ecclesiam, seminarii clericorum olim studiorum praefectus, et
sacrosantae metropolitanae ecclesiae canonicus. orator disertissimus,
qui ob ingenii acumen, et fandi copiam, in omnium praesertim
praesulum, et magnatum summa fuit existimatione. In eadem
metropolitana praedicans per quadragesimale curriculum,
16

«[n]acque in Ciminna il 10 luglio 1686 da Domenico


Affrunti e Maria Lo Cascio e fu fratello dell’arciprete D.
Onofrio Affrunti. Studiò nel seminario arcivescovile di
Palermo, e, compito il corso degli studii. Ottenne la
laurea in sacra Teologia. Fu professore nel detto
seminario e l’8 febbraio 1743 fu eletto canonico del
Porto nella cattedrale di Palermo, per la rinunzia del
canonico Bertone D. Stefano da Messina, che si fece
frate cappuccino nel Novembre del 1742. Passo al
canonicato centenario il 24 febbraio 1747, e a 18
maggio 1758 adottò la prebenda millenaria. Fu anche
deputato di monasteri. Ma egli si distinse in modo
particolare nell’arte oratoria, per la quale divenne in
grande stima presso i dotti del suo tempo. Predicò la
quaresima nel duomo di Palermo, nelle chiese
dell’Olivella e della Magione e in quelle primarie della
Sicilia, sempre con universale stima di tutti i letterati,
dottori e capi di religione. Di questo oratore ci resta
un’Orazione eucaristica in onore di S. Rosalia, recitata il
10 ottobre 1726 nel duomo di Palermo alla presenza
dell’Eccellentissimo Senato per la liberazione del
tremuoto del 1 settembre di quell’anno, e stampata nello
stesso anno nella Regia Stamperia di Antonino Epiro,
per cura del Canonico D. Paolo Pennisi, il quale la
dedico all’Ecc. Senato con un sonetto in lode del Sac.

primoribusque ecclesiis regni, ita erat in thematum delectu mirabilis, in


persuasione industrius, in allocutione gratus, et in animorum
commotione, etiam usque in lacrimas efficax, ut eius sacra eloquia,
ingenti populi frequentia, ac communi omnium plausu exciperentur.
Occubuit Panormi anno sulutis 1763. Aetatis suae 77. Eiusque corpus in
eadem cathedrali tumulatum est».
17

Affrunti. Mori in Palermo il 13 giugno 1763, e fu


sepolto nella cattedrale».

A queste notizie5, bisogna senz’altro aggiungere che


l’orazione menzionata dal Graziano e che qui andiamo da
analizzare ebbe tale risalto da esser menzionata anche nei
Diari palermitani curati dal Di Marzo, dove si legge che6

«[a] 10 Ottobre 1726 [v]enne il senato al duomo, e fece


la comunione nella cappella del ss. Sagramento. Venuto
l’arcivescovo, si cantò messa solenne da ciantro, colla
stessa assistenza dell’arcivescovo e senato. E dopo il
vangelo fece un nobil panegirico D. Michelangelo
Affrunti di Ciminna, udito con plauso universale, che
poi si diede alle stampe».

Il Narbone, peraltro, daterebbe l’orazione affruntiana al


1719 (con ripetizione nel 1739, forse per giustificare la
seconda edizione dell’orazione medesima), ma senza portare
nessuna testimonianza in appoggio del suo assunto 7.
L’Affrunti, quindi, era un predicatore ed un teologo e anche di
5
Van rilevato che, del sonetto menzionato dal Graziano, non si è
trovata, allo stato, nessuna traccia.
6
Cfr. G. DI MARZO (a cura di), Diari della Città di Palermo dal secolo
XVI al XIX pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale, 10
voll., Palermo, Luigi Pedone Lauriel, 1839-1916, in part. vol. IX,
[1871], p. 111. Si tenga presente che, sempre secondo il Di Marzo, gli
eventi commemorati dall’Affrunti avevano trovato una spiegazione
considerando l’interessamento di San Giuseppe («[a] 9 detto [i]l senato
fece festa di s. Giuseppe, nella sua chiesa de’ padri Teatini, avendosi
saputo, che il Santo, colla sia intercessione pregò la divina bontà per la
liberazione della città nel terremoto»), e vedi ivi, p. 109.
18

stretta osservanza, come peraltro emerge senz’ombra di dubbio


esaminando il suo testo8. Come ha efficacemente notato
Gaetano Zito9,

«nonostante le prescrizioni sancite dai decreti di riforma


del concilio di Trento, persisteva tra i preti secolari una
maggiore propensione all’attività cultuale e una marcata
impreparazione culturale, che li rendeva inabili alla
predicazione. Eppure, il Settecento registra alcuni
segnali di inversione di tendenza tra il clero diocesano:
si riscontra una maggiore sensibilità pastorale, promossa
e sostenuta soprattutto da alcuni “vescovi illuminati”.
Nella predicazione, nondimeno, l’impronta dominante
continua ad appartenere agli ordini religiosi, e ad alcuni
di essi in particolare. A loro, più che al clero secolare, è
da attribuire una capillare attività di evangelizzazione e
7
Cfr. A. NARBONE, Bibliografia sicola sistematica o apparato metodico
alla storia letteraria della Sicilia, 3 voll., Palermo, Stamperia dei fratelli
Pedone Lauriel, 1850-1855, in part. vol. 3 [1855], p. 518.
8
Per uno squarcio – parzialissimo – sull’oratoria religiosa siciliana nel
tempo in cui l’Affrunti visse, cfr. P. DE SALVO, «L’influenza del clero
nella Sicilia a cavallo dei secoli XVIII e XIX», in Cuadernos de
Historia del Derecho, 26 (2019), pp. 77-90 (soprattutto riguardo gli
ultimi anni del ‘700). Ma cfr. soprattutto, per una precisa descrizione
dello stato in cui versava il clero siciliano nello stesso periodo, G. ZITO,
Religiosi siciliani missionari tra Seicento e Settecento, in G. MARTINA,
U. DOVERE (a cura di), Il cammino dell’evangelizzazione: problemi
storiografici. Atti del XII Convegno di Studio dell’Associazione
Italiana dei Professori di Storia della Chiesa (Palermo 19-22
settembre 2000), Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 163-208, in part. pp.
166-173, con esauriente bibliografia riguardo alla condizione dei
predicatori siciliani nel Secolo dei Lumi.
9
Cfr. ZITO, Religiosi siciliani, p. 170.
19

di costruzione della religione popolare nell’isola, e non


solo per il Seicento e il Settecento. In pieno clima di
controriforma, la conoscenza della dottrina cattolica ma
specialmente l’impianto di devozioni e pratiche di pietà,
di confraternite e associazioni laicali, di modelli e di
mediazioni culturali e spirituali dell’evangelo cristiano,
possono sicuramente ricondursi all’attività predicatoria
dei francescani, tra i quali dominano i cappuccini, dei
gesuiti, dei redentoristi, ma anche dei domenicani,
carmelitani di antica osservanza e scalzi, agostiniani,
teatini, solo per fare qualche esempio».

A parte la smilza testimonianza del Graziano, da altre


fonti sappiamo pure che Michelangelo Affrunti apparteneva
all’ordine dei Cappuccini, filiazione diretta del
francescanesimo ma senz’altro su livelli diversificati e/ o
diversamente complessi; egli, dunque, ci appare come una
felice eccezione tra quei sacerdoti secolari che non
possedevano alcuna educazione religiosa e che pure
popolavano le campagne siciliane (e palermitane, in
particolare). Il suo testo, per tale somma di ragioni, deve essere
certamente visto nella prospettiva sì di un racconto edificante,
ma anche come testimonianza di una cultura religiosa e laicale
che sembra latitare nel clero siciliano almeno fino alla fine del
secolo XVIII. Si tenga presente che l’esaltazione italica della
religiosità femminile, nei secoli in questione, si nutriva di
repertori agiografici e modelli biografici abbastanza fissi:
questi ultimi – pur tenendo la donna in una posizione
subalterna rispetto alla cultura maschile (e maschi, nella quasi
totalità dei casi, erano gli estensori delle bibliografie e dei
panegirici) – proponevano una visione medievistica per cui
20

l’unico esempio da portare agli occhi dei lettori era la mulier


amicta soli di medievale memoria, lasciando ad altre
letterature (e segnatamente al picarismo spagnolo e al nascente
romanzo realistico inglese) il compito di descrivere fanciulle di
minore valenza sociale e religiosa10. Per quel che riguarda il
caso di Ciminna, non può essere sottaciuto il nome di Paolo
Amato, che – tra i suoi lavori architettonici – non mancò di
dedicarsi alla costruzione di edicole votive dedicate alla santa,
il che testimonia, con assoluta chiarezza, come il suo culto
fosse diffuso anche nel circondario palermitano o, quanto
meno, che i chierici e gli studiosi ciminniti facevano ampio
riferimento alla città capoluogo anche per strutturare la
dimensione più propriamente localistica delle loro fatiche
intellettuali11. Ma perché Affrunti (in compagnia d’altri, prima
e dopo) utilizza una titolatura del genere per definire l’ambito
contenutistico a cui la sua opera afferisce? Il concetto di gloria
Christi (e tanto si deve notare per l’accostamento, già
menzionato, della santa palermitana alle vicende cristologiche)
ha ovviamente un riscontro di tipo squisitamente dottrinale.
Ma lasciamoci guidare, al proposito, da una riflessione di
Giovanni Cavalcoli12:

10
Su tali questioni più generali, cfr. anche G. ZARRI (a cura di), Donna,
disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo: studi e testi a
stampa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996, passim, con
bibliografia (sulla santa palermitana, in particolare, cfr. F. BIANCHINI,
Regola del vivere, regola del convivere, pp. 189-204, in part. pp. 192-
194; e M. DONI GARFAGNINI, Autorità maschili e ruoli femminili: le
fonti classiche degli “economici”, pp. 237-251, in part. pp. 248-250).
11
Su questo, cfr. M.C. RUGGIERI TRICOLI, Paolo Amato, la corona e il
serpente, Palermo, EPOS, 1983, pp. 122-124.
21

«La gloria di Cristo ha un duplice aspetto fondamentale:


è la gloria del Figlio, la quale, in quanto gloria divina,
esiste infinita dall’eternità ed esisterà infinita per
l’eternità, e quindi non è suscettibile di incrementi; ed è
anche la gloria del Figlio in quanto incarnato, in quanto
uomo, nato da Maria duemila anni fa e morto sotto
Ponzio Pilato. La gloria di Cristo, sotto questo secondo
profilo, è andata crescendo a iniziare dalla nascita a
Betlemme, in occasione della quale una schiera di
angeli ha inneggiato alla gloria divina, per tutto il corso
della sua vita terrena, col battesimo da Giovanni al
Giordano, con i miracoli, con la manifestazione delle
sue virtù, con l’insegnamento improntato a divina
sapienza, con la trasfigurazione sul monte Tabor, e
soprattutto, anche qui secondo l’insegnamento
giovanneo, con la sua beata passione e morte
redentrice».

Cavalcoli propone, in chiave cristologica e cristocentrica,


una visione oltremondana legata non soltanto all’onnipresente
figura della Vergine (acme della femminilità biblica e
neotestamentaria), ma anche al riconoscimento del Battista e
nella trasfigurazione taboriana. Quest’ultima è fenomeno
certamente fisico, ma connesso alla cosmicità, un lampo di
luce proveniente direttamente da Dio. Tale interpretazione –
certamente balthasariana, ma mediata tramite l’estetica
teologica di Giovanni Della Croce – suggerisce che i contrasti

12
Cfr. G. CAVALCOLI, La gloria di Cristo. Risurrezione-Ascensione-
Pentecoste-Parusia, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2002, p.
19. Su ciò, cfr. soprattutto H.U. VON BALTHASAR, Gloria: una estetica
teologica, 7 voll., trad. it., Milano, Jaca Book, 20122, con bibliografia.
22

qui evocati vogliano mostrare come sia forte e decontaminante


l’amore di Rosalia nei confronti dei suoi conterranei13:

«Quando questo amore ha purificato l’anima come fa il


fuoco che prima annerisce e dissecca il legno e ne
spreme l’umidore e l’avvolge di fumo, e poi lo permea
dall’interno con la fiamma e lo rende simile al fuoco,
quando cioè l’anima ha così toccato la sua meta, la viva
fiamma d’amore in cui l’anima allora arde, è quello che
sarà un giorno il cielo. Anzitutto “paradiso terrestre”
nello stato di purificazione dei sensi e dello spirito fino
all’innocenza battesimale e alla totale sottomissione a
Dio, ma inoltre caparra della stessa eterna beatitudine,
dal cui definitivo possesso un velo sottile soltanto la
divide, ma che già la “inonda di gloria”. Nella
rappresentazione di simili sperimentate irradiazioni
della gloria di Dio dal fuoco dell’amore unificante
culmina l’opera. Queste protuberanze del sole divino,
“esplosioni di fiamme e di scintille”, emanazioni della
realtà dell’amore in atto invadono l’anima d’un “amore
pieno di dolcezza e di forza divina” […]. È il tocco di
Dio sull’anima […], ed essa morirebbe se la mano che
la consuma insieme non la ravvivasse […]».

L’intento del canonico ciminnita è chiaro: la gloria di


Cristo (e di Rosalia Sinibaldi) coniuga le due sostanze di cui
anche la santità si compone e che la accomunano alla divinità
del Salvatore, cioè il corpo e lo spirito. La trasfigurazione del
Tabor, indiscutibilmente, è prova e conferma del fatto che
esiste una dinamica metamorfica connessa alla trasfigurazione
stessa. Essa è fenomeno divino ma anche naturale e configura
13
Cfr. VON BALTHASAR, Gloria cit., vol. III, p. 103.
23

le vicende raccontate come una catechesi svolta tramite i


fenomeni naturali, per un’evangelizzazione popolare, forse non
sufficientemente complessa, ma basata su eventi talmente
manifesti da non poter essere fraintesi in alcun modo.

II
24

La struttura della predica in questione, che si inserisce


nel vasto campo dell’oratoria sacra sei-settecentesca 14, è
piuttosto semplice. Come sostiene giustamente il Pozzi15,

«Chiunque osservi il posto che l’eloquenza sacra occupa


via via nel corso dei secoli nell’assieme della
produzione letteraria, noterà di primo acchito, che,
mentre in ogni altro tempo le prediche tengono delle
14
Su tali questioni, cfr., esemplificativamente, F. GIUNTA,
Un’eloquenza militante per la Controriforma Francesco Panigarola
tra politica e religione, Milano, FrancoAngeli, 2018; M. COLOMBO,
Oratoria sacra e politica in volgare dal Medioevo a oggi. Profilo
critico e antologico, Milano, Educatt, 2012; S. DE CAMPAGNOLA,
Oratoria sacra. Teologie, ideologie, biblioteche nell’Italia dei secoli
XVI-XIX, Roma, ISC, 2003; R. MERIDA, «Aspetti del parlato
nell’oratoria sacra secentesca: tra retorica e pragmatica», in Rhetorica,
38/2 (2020) pp. 180-199; S. VENTO, Le condizioni della oratoria sacra
del Seicento. Ricerche e critica, Milano-Roma-Napoli, Società Editrice
Dante Alighieri, 1916; V. COLETTI, Parole dal pulpito: Chiesa e
movimenti religiosi tra latino e volgare nell’Italia del Medioevo e del
Rinascimento, Casale Monferrato (AL), Marietti, 1983; G. DA
LOCARNO, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra nel Seicento
esemplificata sul p. Emanuele Orchi, Roma, ISC, 1954; A. BONFATTI,
Oratoria sacra, Brescia, Morcelliana, 1964; M.T. GIRARDI, «L’arte
compiuta del viver bene». L’oratoria sacra di Cornelio Musso (1511-
1574), Pisa, ETS, 2012; F. MEROI, «La Potentia Dei nell’oratoria sacra
del secondo Cinquecento», in Divus Thomas, 115/2 (2012), pp. 308-
330; M.L. DOGLIO, C. DELCORNO C. (a cura di), La predicazione nel
Seicento, Bologna, Il Mulino, 2009, con bibliografia e in part. G.
BAFFETTI, Teoria e prassi dell’oratoria sacra nella Compagnia di
Gesù, pp. 149-168; B. MAJORANA, «Lingua e stile nella predicazione
dei gesuiti missionari in Italia (XVI-XVIII secolo). Alcune riflessioni»,
in Mélanges de la Casa de Velazquez, 45/1 (2015), pp. 133-151 (il testo
è apparso un collettaneo intitolato Langues indiennes et empire dans
l’Amérique du Sud Coloniale ed è interamente leggibile in
25

posizioni periferiche di fronte alle rispettive iniziative


letterarie, nel Seicento invece la prosa di predicazione è
l’espressione più genuina e più violenta del movimento
specifico del secolo, il concettismo. Il fatto è certamente
da spiegarsi con l’ufficialità mondana, secolare che la
predica, soprattutto il panegirico ed il quaresimale,
assumono nella vita seicentesca: non per altro è stato
possibile un fatto, mai prima verificatosi nella nostra
letteratura, come quello delle Dicerie, simili prediche
scritte per puro esercizio letterario dal massimo scrittore
del tempo. Che l’eloquenza del pulpito occupasse nella
repubblica delle lettere un posto ufficiale, lo provano i
sonetti ed epigrammi encomiastici, dovuti a volte a
penne famose, che spesso precedono le stampe delle
prediche, e, viceversa, la fortuna incontrata dal Marino
in quanto finto oratore. Certo la predicazione sacra del
Seicento sarebbe stata concettista anche senza del
Marino: e lo fu difatti in Spagna, ed in altro modo in
Germania, e perfino in Francia: ma in Italia, nelle sue
manifestazioni più estreme, il concettismo ecclesiastico
si tinse di marinismo, accettò e sviluppò, non osiamo
dire se con un’insensibilità oppure con un’incoscienza
https://journals.openedition.org/mcv/6163, ult. cons. 4 luglio 2022); G.
CALTAGIRONE, «Le rappresentazioni al vivo». Tecniche e strategie
persuasive nell’oratoria sacra del ‘600, in G. LEDDA (a cura di),
Ragioni retoriche di discorsi letterari: retorica e letteratura tra
narrativa, poetica, oratoria sacra e politica, Roma, Bulzoni, 1990, pp.
59-77 ss.gg.; e infine S. GIOMBI, «Francesco Panigarola nel quadro
dell’oratoria sacra di età tridentina: aspetti storiografici, in margine ad
un recente libro», in Rivista di storia della Chiesa in Italia, 70/2 (2016),
pp. 561-570, quest’ultimo (parimenti rispetto agli altri, ma più
aggiornata) con abbondante bibliografia.
15
Cfr. DA LOCARNO, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra cit., pp. 13-
14.
26

morale, quello che nel Marino era esercizio letterario


non privo di cinismo».

All’inizio, l’Affrunti pone un’introduzione dedicatoria in


cui egli offre la sua orazione panegirica ad Ignazio IV, principe
Lanza di Trabia, appartenente a una casata nobiliare in ascesa e
uno dei più ascoltati consiglieri di Carlo VI di Borbone 16. In
tale introduzione, Affrunti fa menzione di «altri tre discorsi
con egual benignità da V.E. uditi, e poi commessi alle
stampe», ma di tali composizioni non si ha alcuna traccia
nominalmente definibile. Tuttavia, a livello congetturale, va
certamente notato che la copertina dell’orazione affruntiana
possiede numerosi punti di contatto con quella presente in
un’altra opera, I Sacri Sponsali della Vergine Santa Rosalia
con Gesù Cristo, che risulta anonima e che tuttavia farebbe
pensare a una qualche relazione con il sermone dell’Affrunti 17.
Tornando alla parte dedicatoria, si dirà che il Lanza non è
l’unico nobile menzionato in antigrafe: vi si reperiscono infatti,

16
Ignazio IV, principe di Trabia (1693-1753), fu capitano di giustizia
nel 1717 e pretore di Palermo nel 1739. Deputato del Regno di Sicilia
intorno al 1723, è appunto ricordato per aver ricoperto l’incarico di
consigliere aulico dell’imperatore Carlo VI dal 1720, essendo anche –
data la sua psizione, per molti anni Senatore della medesima Città di
Palermo. Queste notizie in V. SPRETI ET AL. (a cura di), Enciclopedia
storico-nobiliare italiana: famiglie nobili e titolate viventi riconosciute
dal R. governo d’Italia compresi: città, comunità, mense vescovili,
abazie, parrocchie ed enti nobili e titolati riconosciuti, 8 voll., Bologna,
Forni, 1981, in part. vol. 4, pp. 49-58, con bibliografia.
17
Si potrebbe supporre, in via di pura ipotesi, che l’autore degli
Sponsali e quello delle Glorie coincidano, ma occorrerebbe una
dettagliata comparazione esegetica e citazionale che esula dai limiti di
questo studio.
27

tra gli altri, anche i nomi dei senatori palermitani Giovanni


Zappino18, Lorenzo Gallego, Luca Antonio di Laredo
(segretario – come si legge nel titolo medesimo – del Tribunale
dell’Inquisizione nella Sicilia Ulteriore) e, dulcis in fundo,
Ottavio Opezzinghi di Villalta, appartenente ad una nobile
famiglia già legata, per altre vie, alla tradizione letteraria di
Ciminna19. In seguito, egli – con uno stile vicino al seicentismo
e che denota chiaramente la qualità della sua formazione
intellettuale – procede con l’esaltazione delle virtù
taumaturgiche della Santa, nella classica prospettiva degli
scritti agiografici d’ogni tempo. All’interno del testo, in senso
generale, si assiste ad un fenomeno non privo d’interesse, già
accennato, vale a dire la definizione cristologica di Rosalia
tanto a fini di predicazione popolare, quanto di sottile ipotesi

18
Sulla nobile famiglia Zappino, originaria di Cosenza e poi trapiantata
Mazara del Vallo nel 1454, cfr. V. PALIZZOLO GRAVINA, Il blasone in
Sicilia ossia Raccolta araldica, Palermo, Visconti e Huber, 1871-’75, p.
383; G.B. DI CROLLALANZA, Dizionario storico-blasonico delle
famiglie nobili italiane, 3 voll., Pisa, Giornale Araldico, 1890, in part.
vol. III, p. 120; A. MANGO DI CASALGERARDO, Il Nobiliario di Sicilia,
2 voll., Palermo, Reber, 1912, in part. vol. 2, pp. 262-263 (e variamente
citata in altri testi araldici e genealogici).
19
Su tale connessione (intercorrente tra l’erudito palermitano d’epoca
manierista Geronimo Opezzinghi e il frate ciminnita Bonaventura
Battaglia autore di un trattato di metrica contenuto nel Rosario di G.A.
Brandi), cfr. G. PANNUNZIO, «Semasiologia d’un sonetto seicentesco:
frate Bonaventura Battaglia da Ciminna coma poeta encomiastico», in
Analecta TOR, 202 (2020), pp. 267-282, in part., p. 271, n. 6, con
bibliografia. A parte le poche notizie sugli Zappino e sulla famiglia
Opezzinghi, gli altri personaggi sono menzionati raramente soltanto in
cronache e scritti araldici dell’epoca.
28

nel campo della dogmatica e della teologia 20. La forma


linguistica utilizzata dal cappuccino ciminnita, formalmente
nutrita di circonvoluzioni retoriche, metafore analogie e sottili
simbolismi, sembra proporsi come una ripetizione di temi e
motivi presenti all’interno della tradizione predicatoria del
secolo precedente, in cui l’oratoria sacra è gremita di arguzie
barocche, d’ingegnosità iperboliche, di ossimori concettosi e
solenni che si osservano perfino nei titoli delle più celebri
omelie del tempo21. Sottolinea efficacemente la Majorana che22

«[a]ll’interno della Compagnia di Gesù, il confronto tra


oratoria cittadina e oratoria missionaria, cioè tra i due
diversi ministeri gesuitici, si era fatto costante e a ben
vedere è qui che converge la maggior parte delle
riflessioni inerenti allo stile e alla lingua della
predicazione rurale. Gli stessi missionari interni, infatti,
contestavano ai confratelli che andavano a predicare
nelle campagne occasionalmente, e senza la necessaria
esperienza, di non cogliere la specificità di quell’ufficio
presso i poveri e gli ignoranti e di compiere esibizioni
20
In riferimento a queste problematiche, cfr. G. ZITO, L’influsso della
predicazione religiosa sull’immagine popolare del Cristo nel Settecento in
Sicilia, in Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Milano 2000, pp. 11-151,
con bibliografia. Sulla questione dell’accostamento tra agiografia e
cristocentrismo, cfr. G. MOIOLI, Cristocentrismo, in S. DE FIORES, T.
GOFFI (a cura di), Nuovo Dizionario di Spiritualità, Paoline, Roma 1979,
pp. 354-366; e soprattutto F.M. LÉTHEL, Connaître l’amour du Christ qui
surpasse toute connaissance. La théologie des saints, Venasque, Éditions
du Carmel, 1989, parimenti con bibliografia.
21
Sono elementi messi in luce, in particolare, in C. DELCORNO, M.L.
DOGLIO, La predicazione nel Seicento, Bologna, il Mulino, 2009,
passim, con esaustiva bibliografia.
22
Cfr. B. MAJORANA, «Lingua e stile», cit., ad locum.
29

oratorie come quelle che offrivano al pubblico di


intenditori curiosi e plaudenti della città, col risultato di
mostrarsi superbi, indifferenti alle vere esigenze e
capacità dei destinatari, e per di più di riuscire
incomprensibili, dissuadendo l’uditorio dall’ascolto
attento e partecipe della predica».

Il problema, dunque, consisteva nella possibilità o meno


di conciliare modelli d’oratoria culta (e dunque fonti erudite
e/o profane ad essa eventualmente collegabili) e uditorio
popolare. Nel caso dell’Affrunti, bisogna immaginare una
chiesa gremita di popolo e, nelle prime file della navata
centrale, i nobiluomini che avevano commissionato il
panegirico in questione. È del tutto ovvio che il chierico
ciminnita si rivolgesse essenzialmente ai suoi ascoltatori più
istruiti, ma la potenza delle immagini evocate nel suo scritto
lascerebbe pensare ad un pubblico – benché meno disponibile
allo stimolo di riconoscimento delle fonti letterarie –
certamente preso dalle potenti visioni tratteggiate, tanto
direttamente quanto sub specie allegoriae, dall’Affrunti
medesimo. La descrizione di tale processo comunicativo che
emerge dalle parole della Majorana è chiara:

«Si trattava di un procedimento suscettibile di variazioni


e di incrementi, secondo l’occasione o la necessità e lo
stile personale, ma sempre contrassegnata dalla tensione
verso un’acme visiva e verbale che s’imponesse ai sensi
degli astanti su più piani (la vista e l’udito), rendendo
inevitabile la comprensione del nucleo istruttivo e
compuntivo di ogni intervento missionario nella sua
interezza. Era breve e intensa, concepita e compiuta in
modo tale che il significato si potesse interamente
30

riassorbire nel suo segno. Il quale doveva rendere


evidente l’intenzione – spirituale, morale e pastorale –
secondo cui il sacerdote missionario lo produceva, non
meno che la competenza che egli doveva applicarvi per
rendere presente quel segno in mezzo al popolo».

Il tentativo di unificare l’oratoria di livello alto con


quella rivolta agli strati più umili, non sempre riuscito, ma
spesso difficoltoso e quanto mai pieno d’insidie, si pone
dunque su due livelli: uno formale, dove la riconoscibilità delle
fonti è riservata a chi avesse le basi culturali per poterle
intuire; e uno sostanziale, in cui le immagini, fortemente
metaforizzate e dense di allegorie e di “exempla” parabolici,
hanno la funzione di attrarre gli intelletti più semplici, che si
troveranno esposti alla loro forza fatica e potranno
comprenderle molto più facilmente. Del resto, anche Affrunti
sembra non sottrarsi a quello che il Bentivegna nota essere il
più grande limite dell’oratoria siciliana di quel periodo, ossia il
rifiuto delle nascenti istanze illuministiche anche all’interno
della Chiesa. Michelangelo Affrunti, come molti predicatori
siciliani del suo tempo23,

23
Cfr., su ciò, G. BENTIVEGNA, Dal riformismo muratoriano alle
filosofie del Risorgimento. Contributi alla storia intellettuale della
Sicilia, Napoli, Guida, 1999, pp. 42-44, da cui la citazione. Seguendo il
Bentivegna, si può ipotizzare che anche Affrunti metta in campo «una
sostanziale intolleranza verso il “tribunale della ragione critica” e del
rigore filologico nell’analisi delle fonti, in quelle regole, cioè, che
costituiscono per i maurini e i loro emuli siciliani, gli elementi
fondamentali di una sana ricerca storica. Mancuso accentua il suo
atteggiamento di sfida, forte della convinzione che l’esaltazione di santa
Rosalia, per le sue risonanze fideistiche e popolari, dà forza alle sue tesi
più che a quelle dotte ed élitarie dei maurini e del “buon gusto” […]».
31

«[a]lla histoire critique oppone la fede nei miracoli,


l’intervento salvifico e provvidenziale di Dio per
intercessione di santa Rosalia nel liberare Palermo dalle
malattie e dalle calamità naturali. In realtà, lo scritto non
è affatto una ricostruzione documentata della vita della
santa, ma un’apologia fondata su un’acritica e
strumentale utilizzazione delle fonti e pertanto non
poteva non scontrarsi con la intelligenza storica degli
accademici del “buon gusto”, con la regolata devozione
muratoriana e con l’interiorismo giansenista, che sono
in fondo i tre obiettivi contro cui si concentra tutta la
politica culturale dei Gesuiti fino a tutti gli anni
Cinquanta e oltre».

Questa contrapposizione, che nella predica affruntiana è


assolutamente non dichiarata ed implicita, si nutre di modelli
retorici e creativi del tutto legati alla produzione letteraria
precedente: a siffatte madrine barocche e manieriste, di certo,
lo scrittore si era abbeverato nella fase giovanile della sua
esistenza, tanto che esse avevano certamente costituito la base
– forse perfino nascosta e sottoposta a divieto, se si
considerano le rigide regole dei seminari del tempo – su cui si
reggeva la sua originaria preparazione culturale. Peraltro, alla
facile obiezione secondo cui il sacerdote ciminnita era un
cappuccino e non un gesuita, si può facilmente rispondere
tenendo presente una prospettiva cara alla geografia della
letteratura, vale a dire che il contesto ambientale era
assolutamente il medesimo e permeava tutte – o quasi tutte – le
dimensioni culturali espresse dall’intellettualità regionale del
periodo.
32

III

A sostanziale comprensione delle tematiche trattate


dall’Affrunti, ho deciso di analizzare alcuni conglomerati
verbali presenti nell’incipit e tra i più significativi della sua
orazione, nel tentativo di definire la cornice qualitativa e
culturale in cui il chierico ciminnita si muove e per cercare di
delineare, con qualche cognizione di causa, le sue fonti. Il
primo consiste – e non poteva essere altrimenti – in un
binomio verbale che suona quasi come un’antitesi:

«Non ogni volta, che palpitante si riscuote la Terra[,] si


riscuote affin di recare, almeno a tutti[,] egualmente
desolazione, e stermini: ma talor accordando discordi
affetti, in un movimento medesimo, a chi è ribbrezzo
d’orrore, a chi risalto di gioja, a chi preludio di stragge,
a chi pronostico di salute. Due scotimenti in un triduo
agitarono il Mondo a cagione di Cristo, com’è noto già
dal Vangelo. Il primo, in quel punto, ch’egli spasimante
pendea da un vergognoso patibolo. Il secondo in
quell’atto, ch’egli risorgea trionfante da un glorioso
Sepolcro. E pur se furono entrambi formidabile intima
della sua sconfitta all’Abisso[,] entrambi furono
felicissimo annunzio del suo riscatto alla Chiesa».

Qui, come peraltro già evidenziato, Affrunti finisce per


amplificare in modo sostenuto e iterativo le tematiche
cristologiche connesse al contesto agiografico in cui il testo si
muove, ma utilizzando (ed è significativo) anche una serie di
rimandi che con la religione sembrano avere poco a che fare. Il
concetto richiamato dal sacerdote siciliano è, al contempo,
semplice e complesso: i terremoti, per taluni, possono essere
33

motivo di sofferenza e di dolore, per altri ragione di gioia e


fomite di nuove prospettive esistenziali. Il testo, nutrito di
ossimori e di palesi richiami alla retorica classica. Nel caso di
specie (e ci si riferisce all’abbinamento ossimorico «discordi
affetti», con l’avvertenza che la chiostra significativa in cui
esso si colloca deve necessariamente essere racchiusa in un
periodo di tempo di soli due secoli, ossia dal Sedicesimo al
Diciottesimo), siamo di fronte ad un utilizzo quasi
esclusivamente relativo a contesti poetici per la più parte
antimarinisti, in sostanza epici, tra cui spicca quello del Testi 24.
24
Si vedano, ad esempio, le seguenti occorrenze: «Fan diverse proposte
i vari ingegni/ Innanzi al Re; che provido misura/ Il tempo, e ‘l loco; e
fra discordi affetti/ Con maturo parere pesa i lor detti […]» (e cfr. Il
Conquisto di Granata etc. Poema Heroico del Signor Girolamo
Gratiani etc. Con gli Argomenti del Signor Flaminio Calvi. In Modena.
Appresso Bartolomeo Soliani, MDCL, p. 41). Sul Graziani /1604-
1675), autore seicentesco di opere epiche nel solco del Tasso, cfr. – ad
esempio – G.P. MARAGONI, L’onda e la spira. Saggio di ricerca
sull’artificio anacronico nel “Conquisto di Granada” di Girolamo
Graziani, Bulzoni, Roma, 1989. Si veda poi: «[…] In cotal guisa/
Giove il Re de le Sfere,/ Di cui Voi sete emulator in terra/ Raccolto in
pioggia d’oro/ cadde nel sen de la Donzella Argiva;/ Ma di giust’ira
acceso/ Con diluvj di foco/ Tempestò de’ Giganti/ Le mal sensate, e
temerarie fronti,/ Così la virtù vostra/ Ne l’arti di Bellona, e di
Minerva,/ E con discordi affetti/ Sempre eguale a se stessa; e il vostro
nome/ Di doppia gloria adorno/ Fia del secol presente eterno fregio
[…]» (cfr. Poesie Liriche del Conte D. Fulvio Testi. Con le Aggiunte
delle Poesie Liriche dell’Abbate Francesco Dini etc. In Venetia, Per
Domenico Lovisa, MDCL, p. 282. Sulla produzione lirica del poeta
ferrarese Testi [1593-1646], che fu ambasciatore e autore di trattati, cfr.
ora la voce di M. LEONI, in Dizionario Biografico degli Italiani Online,
d’ora in poi DBIO, 95 [2019], con ampia bibliografia). Si tengano
anche presenti: «Chi è che possa in un tempo sodisfare a gli uomini, et
a Dio, che habbia cuore sì vasto, che possa far gli uffizi del cuore, ed
34

Successivamente, tale lemma riscosse qualche consenso anche


esser in mille, vari, e discordi affetti distratto?» (cfr. Prencipe Morale.
Autore Tomaso Roccabella. Parte Seconda etc. In Venetia, MDCXLV.
Presso Gio. Pietro Pinelli Stampator Ducale, p. 102. Sul Roccabella
[1591-1642], religioso e trattatista politico marchigiano, cfr., a livello
esemplificativo, P.G. NONIS, Religione, politica, etica in Tomaso
Roccabella, in F. VITO [a cura di], Studi di filosofia e di storia della
filosofia in onore di Francesco Olgiati, Milano, Vita e Pensiero, 1962,
pp. 282-320); «Et a provar seguia delle proposte/ Con ragion varie i
commodi, e i rispetti./ Ma qual ragione è d’uopo ove disposte/ Sono le
menti in non discordi affetti?/ Queste, che voleano i duci, hor chiedea
l’oste:/ Sì che approvando ad una voce i detti,/ Fu Bonifacio a nominar
primiero/ Baldovin Duce del Romano impero […]» (cfr. L’Imperio
Vendicato, Poema Heroico d’Antonio Caraccio etc. Con gli Argomenti,
e Chiave dell’Allegoria del Conte Giulio di Montevecchio. E con le
Dichiarazioni Historiche del Marchese Gregorio Spada. In Roma,
presso Gio. Battista Bussotti. MDCLXXIX, p. 16. Sul Caraccio [1630-
1702], versificatore eroico neritino anch’egli d’ispirazione tassiana,
vedasi ora S. CALÌ, L’Imperio vendicato di Antonio Caraccio: dalla
prima (1679) alla seconda (1690) edizione, in G. ARBIZZONI, M. FAINI.
T. MATTIOLI (a cura di), Dopo Tasso: percorsi del poema eroico. Atti
del Convegno di Studi, Urbino, 15-16 giugno 2004, Padova-Roma,
Salerno, 2005, pp. 249-265); «Io, per fare i miei pregi,/ Per due discordi
affetti,/ In Cielo, in Terra, in Mar vie più famosi;/ Nel mio petto
disposi,/ Ch’al dolce ardor di Zeffiro, rubella/ Fusse Cloride bella […]»
(cfr. La Flora, o vero, il Natal de’ Fiori. Favola d’Andrea Salvadori,
Rappresentata in Musica Recitativa etc. In Firenze, per Pietro
Cecconcelli, 1628, p. 32. Sul Salvadori [1588-1634], poeta e librettista
amico del Chiabrera, cfr. ad esempio D. SARA, in DBIO, vol. 89 [2017],
con bibliografia; «Quai di discordi affetti aspri litigi/ Tregua non danno
a un combattuto seno,/ Se d’Arpa, o Cetra, o di Liuto Ameno/ La
portentosa man desta i prodigi?» (cfr. Poesie di Agostino Giordani da
Zara Accademico Ricovrato etc. In Venetia, MDCLXX. Per Niccolò
Pezzana, p. 107. Sul Giordani [?-1668/1669], poeta zaratino
d’ascendenza veneta, cfr. Ž. NIŽIĆ, «Agostino Giordani: poeta barocco
zaratino», in La battana, 34/123 [1997], pp. 108-117); «Se l’amor’ e il
35

nell’Ottocento, ritrovandosi persino – sottovoce e con


successivo rinnegamento – nel Carducci delle Juvenilia25, a
dimostrazione di una sostanziale letterarietà del medesimo.
Sempre nello stesso luogo, segnalerei una sottile elencatio in
quater («[…] a chi è ribbrezzo d’orrore, a chi risalto di gioja, a
chi preludio di stragge, a chi pronostico di salute»). La prima
coppia semantica – che potremmo definire sinonimica – è

dolore camminano co’ medesimi passi, militan agli stessi stipendi,


ritendon uguali agli stessi de’ loro benché discordi affetti, crederei che
il cuore di Maddalena reggia dell’Amore verso Cristo vivente,
diventasse steccato del dolore verso il medesimo estinto; però [se] a lei
sola applicarono gli Angioli i balsami di un generoso compatimento,
[...] che risponderà un dolore tutto a more, un amore tutto gelosia?»
(cfr. Le Gare della Giustizia, e della Misericordia nel Purgatorio
Bilanciate con l’Atrocità delle Pene, col Valor de’ Suffragi, col Premio
de’ Benemeriti, col Castigo degl’Ingrati verso i Purganti. Discorsi
Composti dal Padre D. Vittorio Amadeo Barralis etc. Opera Postuma
etc. In Venezia, MDCCV. Appresso Antonio Bortoli, p. 288. Sul
Barralis, che fu chierico teatino e che visse alla fine del XVIII secolo,
cfr. – essenzialmente – il contributo di A. MAGGI,
Prayer around his body. Vittorio Amedeo Barralis’s Anotomia Sacra
per la novena della Santa Sindone (1685), in A. ARDISSINO, E. SELMI
(a cura di), Visibile Teologia. Il libro sacro figurato in Italia tra
Cinquecento e Seicento, Roma, ESL, 2012, pp. 149-161, in part. p. 149,
n. 1, con bibliografia); «O d’infelice amore/ Troppo Discordi affetti;
Amar chi non ha spirto,/ E poscia disprezzar chi vive, ed ama […]»
(cfr. L’Amorosa Costanza. Favola Tragicomica Boschereccia del Co.
Andrea Barbazzi (sic!) etc. In Bologna, MDCXLVI. Per Giacomo
Monti, p. 78. Sul Barbazza [1399-1480], giurista e poeta messinese
d’epoca umanistica, cfr., esemplificativamente, la voce di F. LIOTTA, in
DBIO, vol. 6 [1964], con bibliografia).
25
Il sonetto carducciano in cui si trova la menzione è dedicato a
Vincenzo Monti. In esso, nella prima versione del 1857, il poeta di
Bolgheri si chiede per quale ragione al Monti «il ciel […] invidiò soave
36

piuttosto rara: essa si trova esclusivamente in ambiti di


trattatistica politica e di mariologia e suggerisce una
conoscenza, oltre che di tipo squisitamente teologico (ed è
ovvio), anche d’impianto legittimista e classicista, sulle orme,
almeno formalmente, d’un senechismo spagnoleggiante in via
di definitivo superamento26. La seconda, che trovasi in due
forme contigue dipese dalla variante grafica «j» presente nella

e pura / ma ne’ discordi affetti anima accesa» (nella seconda edizione,


trasformando il probabile influsso del Testi in una casuale suggestione
tassiana, Carducci modificò il suo testo in un «negaro a te culto e
natura, / o buona a’ vari affetti anima accesa», vv. 7-8), con un chiaro
riferimento all’ingratitudine del mondo letterario nei confronti dello
scrittore romagnolo. Su tali questioni, e con esplicativa bibliografia, cfr.
V. COLOMBO, Le «macchine potenti» della lingua e dell’elocuzione:
Vincenzo Monti fra De Sanctis e Carducci, in C. ALLASIA, L. NAY, C.
TAVELLA, La militanza della critica da Francesco De Sanctis alla
contemporaneità, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2019, pp. 63-96, in
part. p. 80; e C. MARRANCHINO, Gli Juvenilia di Giosuè Carducci.
Edizione critica e commentata (libri I-III), Università di Parma-
Università di Losanna, Dottorato di Ricerca in Scienze Filologico-
Letterarie-Storico-Filosofiche e Artistiche. Ciclo XXXI (2015/2018), p.
243.
26
Peraltro, i testi in questione sono sostanzialmente contemporanei e
presentano il lemma in grafia moderna, senza il raddoppiamento
arcaicizzante utilizzato dall’Affrunti: «Nel mirarlo non si
esperimentava quel ribrezzo d’orrore, che naturalmente suol causare la
vista degli umani cadaveri, ma più tosto sensi di un non so che di
riverenza, che palesava essere stato quel corpo il carcere d’un’Anima
grande» (cfr. Memorie de’ Grandi Principi, Signori, ed Illustri
Guerrieri Estinti in Quest’Ultime Guerre etc. Raccolte da Don Pio La
Croce etc. In Milano, MDCCXVI. Nella Regia Ducale Corte, per
Marc’Antonio Pandolfo Malatesta Stampatore Regio Camerale, p. 413.
Su Pio La Croce, religioso ed erudito milanese operante nella prima
metà del Diciottesimo secolo e noto per esser stato una delle fonti del
37

parola «gioia»27, sembrerebbe invece attestare una conoscenza


linguistica risalente ad esempi di narrativa seicentesca
d’impianto picaresco e avventuroso28, nonché a testi epistolari
rimontanti alla ben nota allegoria parnassica, la cui invenzione,
«in forma di viaggio fantastico o di notiziario dal monte febeo
ebbe un’immediata e durevole fortuna nella letteratura italiana

Manzoni riguardo la figura di padre Cristoforo, nessuna notizia


notevole oltre quelle inferibili dalle sue opere); «Et à chi non è nota la
vostra Clemenza, che riguardo sempre con ribrezzo d’orrore, e di
ripugnanza le più gravi colpe de delinquenti sul timore, ch’avesse un
giorno a punirle la vostra Giustizia, avvertita dai continui rimorsi della
sua delicatezza, che ancor le rimprovera la morte d’un reo da voi
meritatamente condannato ne[‘] vostri feudi di Germania» (si veda Del
Principe. Orazione Panegirica in Lode del Glorioso Regimento di S.E.
il Sig. Conte Carlo Zenobio Capitanio Grande di Bergamo. Detta a
Nome Pubblico da Ottavio Furietti etc. In Bergamo, per li Fratelli
Rossi. MDCCXV, p. 12. Sul Furietti, nessuna notizia di rilievo se non
che appartenne alla famiglia che aveva dato i natali al cardinale
bergamasco Giuseppe Alessandro Furietti, sul quale – ad esempio – cfr.
G. FAGIOLI VERCELLONE, in DBIO, vol. 50 [1998], pp. 763-765, con
conlimitanea bibliografia); «[…] e chi può dubitare che, a quel
racconto, ella non fosse presa da un ribrezzo d’orrore, pel pericolo in
cui si trovò sì vicina (e vi avrebbe dato, se non l’havesse in quel modo
frastornato la Vergine) e che non le scendesse insieme una dolce
tenerezza nel cuore, vedendosi in tanto benigna, e gratiosa maniera
protetta dall’Imperatrice dell’Universo, degnatasi di prendere, per sua
salvezza, il suo sembiante, e ‘l suo abito […]» (cfr. Esempi e Miracoli
della SS. Vergine Madre di Dio Maria Detti nella Chiesa del Giesù in
Roma, dal P. Carlo Bovio etc. In Venezia, MDCCIV. Appresso
Antonio Bortoli, pp. 50-51. Sul Bovio [1614-1705], teologo e poeta
astigiano, cfr., molto indicativamente, A. DE BACKER ET AL.,
Biblioteque des écrivains de la Compagnie des Jesus et notices
bibliographiques, 11 voll., Lieges-Paris, s.n.e., 1869-18762, in part. vol.
38

del Cinque-Seicento»29. Il terzo lemma, venato da un marcato


dialettalismo, trova qualche affinità nei soliti volumi
agiografici che costituivano la base della cultura religiosa del
tempo30, ma anche – con il richiamo ad una «fortuna» di vago
sapore machiavelliano – nei romanzi d’impianto storiografico
e classicheggiante la cui presenza è stata già esperita in

I, coll. 841-843). Sul senechismo, iniziato a partire dall’Alto Medioevo


ed imperante almeno fino alla fine del XVIII secolo nella cultura
europea, ha detto parole interessanti M. MCLUHAN, La galassia
Gutenberg [1962], trad. it., Roma, Armando, 2011 2, pp. 173-174; in
particolare, sulla sua versione spagnola, di chiara impronta tacitista, cfr.
E. NUZZO, Vico, Tacito il Tacitismo, in S. SUPPA, (a cura di), Tacito e
tacitismi in Italia da Machiavelli a Vico: atti del Convegno, Napoli,
18-19 dicembre 2001, Napoli, Archivio della Ragion di Stato, 2003, pp.
149-199, in part. p. 175, n. 37, con esauriente bibliografia.
27
«Ben io riconobbi voi, non già, che, a prima vista mi sovvenisse di
chi fosse quel sembiante, che nuovo non mi pareva; ma non si tosto udij
essere voi Cleonte, che mi si rappresentarono incontanente le belle idee
del vostro volto a farmi prestare a’ vostri detti interamente la fede, e
con istrano risalto di gioia, per rivedermi d’improviso innanzi, a capo di
tanti anni, quella persona, che ancora giovanetta cotanto amai, et ora
cresciuta con l’età, e resa per tutto il mondo così famosa» (cfr. Nuovi
Scherzi di Fortuna a Prò dell’Innocenza. Opera di Gio. Ambrosio
Marini Nobile Genovese. Ora da Lui Nobilmente Accresciuta di
Avvenimenti in Questa Nuova Impressione etc. In Genova, per Pietro
Giovanni Calenzani. 1666, p. 132. Su Marini, o De Marini [1596-1668],
romanziere genovese d’epoca baroca, cfr. ora C.A. GIROTTO, in DBIO,
vol. 70 [2008], con bibliografia); «Non ricevo senza gran risalto di
gioja l’invito di V.S. di portarmi al godimento de’ suoi giardini,
poich[é] mi fa comprendere l’affetto sempre più sviscerato del suo buon
cuore» (cfr. Il Segretario in Parnaso, Overo Lettere Sparse di Diversi
Componimenti Poetici di Carlo Giuseppe Cornacchia etc. Parte
Seconda etc. In Milano, MDCCXVII. Nella Regia Ducal Corte, per
39

precedenza31 (ma non mancano, qui pure, allusioni


all’epistolografia di stampo odeporico che pare esser ben
conosciuta dall’Affrunti32). Il quarto, infine, trova il suo uso
peculiare in opere di medicina o di veterinaria 33, ma
l’espressione non è certamente discara, soprattutto in senso
metaforico, ad ambienti d’estrazione teologica 34 e di tipo

Marc’Antonio Pandolfo Malatesta Stampatore Reg. Cam., p. 330. Sul


sacerdote casalese Cornacchia, scrittore e membro di varie Accademie,
attivo fino al 1750, cfr. M. BENEDETTI, Musiche per Pio V nelle
solennità della canonizzazione, in F. CERVINI, C. SPANTIGATI (a cura
di), Il tempo di Pio V, Pio V nel tempo: atti del Convegno
internazionale di studi, Bosco Marengo, Alessandria, 11-13 marzo
2004, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 355-400, in part. p.
364).
28
Su tali questioni, cfr. ora l’aggiornatissimo P. STOCKBRUGGER, Il
romanzo seicentesco tra Francia e Italia. Indagini intorno all’Accademia
degli Incogniti, Pisa, FSE, 2020, con bibliografia.
29
Cfr. ad esempio, su ciò, F. CAPPELLI, «Parnaso bipartito nella satira
italiana del ‘600 (e due imitazioni spagnole)», in Cuadernos de
Filología Italiana, 8 (2001), pp. 133-151, con buona bibliografia.
30
Si veda, ad esempio, questo breve argumentum: «Per via d’un Mago,
suscitò in Demonio contro i seguaci di Cristo in Alessandria, ed in fra
questi, contro la Beata Apollonia, una popolar sedizione, che [fu]
preludio della crudele strage fattane dipoi dall’Imperator Decio in
quella Città» (in Istoria di S. Apollonia Vergine e Martire Alessandrina
etc. Scritta da Anton Maria Bonucci etc. In Roma, nella Stamperia di
Giorgio Placo. 1712, p. 7. Sul gesuita Bonucci [1651-1728], agiografo e
predicatore seicentesco, si veda G. PIGNATELLI, in DBIO, vol. 12
[1971], con appendice bibliografica); ma anche un riferimento di tipo
storiografico in Degli Annali Sacri della Città di Como Raccolti e
Descritti dal P.D. Primo Luigi Tatti etc. Decade Prima etc. In Como.
MDCLXIII. Per gli Heredi di Nicolò Caprani Stampatori della Città, p.
40

antiquario35. A voler tirare le conclusioni, dunque, la cultura


del nostro autore non si limitava a sostanziarsi soltanto ad un
puro livello teologico o di letteratura sacra, ma spaziava in
ambiti che potremmo definire più generali. Sarebbe dunque
giusto definire l’Affrunti come un intellettuale poliedrico ed un
lettore onnivoro, non tetragono rispetto ad istanze che, sia pure
relative ad una cultura leggermente arretrata rispetto agli esiti
più recenti, erano certamente indice di un’apertura mentale
162: «Quasi in tutto il tempo, nel quale Diocletiano, e Massimiano
tiranneggiarono l’Imperio, dissetarono le sue spade nel sangue
innocente de’ Christiani; la maggior rabbia loro però avanti l’Editto,
che pubblicarono generale contro [a] tutti i fedeli l’anno 302, f[u]
contro [a] quei soldati, che ritrovarono seguaci del Crocifisso; e questa
loro barbara crudeltà contro [a] buoni guerrieri di Christo, f[u], come un
preludio di quell’horrenda strage, che contro alla Chiesa universale
andavano machinando» (sul semisconosciuto padre somasco Tatti
[1616-1687], erudito e storico locale d’area lariana, cfr., per esempio, F.
CATENAZZI, B. BEFFA, «Un corrispondente luganese di L.A. Muratori:
p. Giampietro Riva, somasco», in Studi e problemi di critica testuale,
34 (1987) pp. 125-143, in part. p. 139).
31
Cfr. il seguente escerto: «Infonde alto spavento, il veder tutto il
Campo nemico ardere di notturni fuochi; ma con un silenzio così
grande, che altro non s’ode in quella densa oscurità, se non lo stridore
delle mute fiamme, che co’ lampi aggiungono splendori alla
moltitudine de’ ferri ostili. Ingombra il petto d’ogn’uno, un non so che
d’interno orrore, che non si sapendo da che cosa nasca, [è] sicuro
preludio della strage, che in breve dee seguire […]» (in Giuochi di
Fortuna Successi d’Astiage e di Mandane Monarchi della Siria. Descritti
in Cinque Libri da Luca Assarino Con li Argomenti in Fine dell’Opera. In
Questa Terza Impressione Riveduti et Emendati dall’Istesso Autore etc.
Venetia, MDCLXI. Presso Combi [e] la Noù, p. 114. Sull’Assarino [1602-
1672], curiosa figura di storiografo e cronachista seicentesco, cfr.,
essenzialmente, il ritratto che ne offre A. ASOR ROSA, in DBIO, vol. 4
[1962], con bibliografia).
41

abbastanza fuor dal comune per l’epoca in cui egli scrisse. E


questo va detto pur nella consapevolezza che egli non era certo
un duttile abate attivo nell’epoca dell’Illuminismo maturo,
come un Parini o un Galiani, ma un religioso assolutamente
integrato all’interno dell’ambiente socio-culturale in cui egli
venne a trovarsi. Sicché la sua preparazione linguistica, che si
potrebbe definire a 360 gradi, ne fa un esempio abbastanza
raro di attenzione a sollecitazioni esterne che appaiono
32
«[…] a’ 5 di agosto giungemmo a Salanchemen, luogo, che non
sapevamo noi per anco, che dovesse farsi così famoso nel mondo, e di
là nei giorni seguenti s’avanzammo verso Semelin, dove dicevasi
trincierato il Visire. A’ 10 ci trovammo a fronte con lui, e i Volontarj
dall’una, e l’altra parte si mescolarono, con preludio della strage futura
di là a pochi giorni» (vedi Lettere di Raguaglio di Monsieur
L’Heremitage a Madama Argenide etc. Trasportate dal Francese. In
Vienna. Ad Istanza d’Andrea Poletti Libraro in Venezia all’Insegna
dell’Italia, p. 484. Il testo, originariamente scritto in francese e
pseudonimo, «descrive ciò, che di più singolare è accaduto
nell’Ungheria dall’anno 1685 fino al 1692»: non è datato ma può
essere ascritto proprio al 1692 e il traduttore può essere individuato
nel teologo ed agiografo italo-greco Tommaso Cattaneo [1660-1725],
per il quale si veda S. CASELLATO, L. SITRAN REA, Professori e scienziati a
Padova nel Settecento, Treviso, Antilia, 2002, p. 137. Sul De
l’Hermitage, letterato attivo nel circolo ugonotto di Saint-Evremond
durante la seconda metà del secolo XVII, cfr. le poche notizie presenti
in D.C. AGNEW, Exiles from France in the reign of Louis XIV: the
Huguenots refugees and their descendants in Great Britain and Ireland,
London-Edinburgh, Paterson-Reeves-Turner, 18712, p. 149).
33
Cfr. ad esempio I Discorsi di M. Pietro And. Matthioli etc. Ne i Sei
Libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Della Materia Medicinale etc.
In Venetia, Appresso Vincenzo Valgrisi. MDLIX 2, p. 54, dove si parla
di un «[p]ronostico di salute ne i morsi del cane rabbioso» (sul toscano
Mattioli [1501-1578] medico e botanico italiano d’epoca
42

sostanzialmente lontane dal provincialismo evocabile per un


canonico palermitano operante nei primi anni del secolo
XVIII.

IV

rinascimentale, cfr. C. PRETI, in DBIO, vol. 72 [2009], con


bibliografia); o anche, con testo corrotto da refusi pur in opera a
stampa, Tesoro di Chirurgia di Gio. Battista Soris etc. In Pavia, per
Gio. Andrea Magri. 1632, pp. 151-152: «[…] Vico […] corobora il
detto d’Albuc, dicendo, che se non apaiono i sudetti (sc. sintomi), n[è
spasmo] ma anzi vi è miglioramento, che è da fare pronostico di salute»
(il passo si riferisce alle ferite infette e dell’autore non si reperisce
nessuna notizia in fonti coeve o successive); o, infine, in un volume
relativo alle malattie equine, e cfr. Dell’Infirmità del Cavallo di Carlo
Ruini etc. In Bologna, Presso gli Heredi di Gio. Rossi. MDXCVIII, p.
350: «[p]ronostico di salute è, che giacendo il cavallo, da se si levi, et
che non giaccia tutto abbandonato senza lamentarsi». Sul Ruini (1530-
1598), politico ed anatomista bolognese, cfr. soltanto, a livello
scientifico, F. SMITH, Early History of Veterinary Literature: and its
British development, 2 voll., London, Bailliere, Tindall and Cox, 1919,
in part. vol. 1, p. 209; e D. LAURENZA, Art and Anatomy in
Renaissance Italy. Images from a Scientific Revolution, New Haven-
London, Yale University Press, 2012, p. 19.
34
Cfr. Giardino Fiorito di Varii Concetti Scritturali, e Morali Sopra le
Feste di Tutti i Santi Principali, che si Celebrano nel Corso dell’Anno.
Composti e Raccolti dal Padre Pietro da Martinengo etc. Tomo
Secondo etc. In Milano, MDCLXXII. Nella Stampa di Antonio
Malatesta, p. 313: «[o]sservate, come il Coppiero del r[e] Faraone
descrivendo quella misteriosa Vite da lui veduta in sonno, e che gli f[u]
felice pronostico di salute, assegna di quella due cose singolari, la
prima, che [a] poco [a] poco produceva, e gli crescevano li palmiti, le
fronde, et i fiori […]. Appresso poi, che maturate l’[uve] raccolte, e
43

Appare peraltro indubbia, come si può facilmente


notare leggendo sia il corpo del testo che le glosse a margine,
la volontà dell’Affrunti di collocare la sua opera all’interno di
una più generale analisi religiosa e teologica. Questo,
ovviamente, anche ad un livello simbolico, direi allegorico ed
anagogico, il quale proponesse le vicende di Santa Rosalia
come segnacolo di diversità rispetto alla sola religiosità

spremute molto bene gli diedero quel dolce vino che gli f[u] pronostico
di salute […]» (il passo si riferisce a Genesi, 40.10, anche se il testo
originale – rovinato da molti refusi – riporta l’errato Genesi, 49.10. Sul
Martinengo, nessuna certezza, se non che il nome ricorre spesso nella
schiatta nobiliare a cui egli apparteneva, e cfr. P. GUERRINI, Una
celebre famiglia lombarda: i Conti di Martinengo. Studi e ricerche
genealogiche, Brescia, Geroldi, 1930, passim. Molto più conosciuto il
dedicatario dell’opera, il barone Giovanni Andrea Giovanelli di
Telvana [1618-1673], insigne condottiero seicentesco, su cui cfr. R.
BECKER, in DBIO, vol. 55 [2001], con esaustiva bibliografia); e Il
Sacro Cuore di Maria Vergine Onorato per Ciascun Giorno della
Settimana etc. Operetta Spirituale Data in Luce da Giovan Pietro
Pinamonti etc. In Firenze, et in Modona, 1699, p. XII: «[p]ertanto,
come tutta la cura del medico si volge a promovere tutte quelle
operazioni della natura, che recano qualche pronostico di salute, così è
giusto di promovere quest’affetto verso la Vergine madre, da cui
possiamo attendere un giorno la riforma de’ costumi e di presente
possiamo sperare un argine insuperabile alla piena di tanti mali». Sul
gesuita toscano Giovanni Pietro Pinamonti [1632-1703], cfr. ad
esempio C.E. O’NEILL, J.M. DOMINGUEZ (a cura di), Diccionario
Histórico de la Compañía de Jesús, 4 voll., Madrid, Pontificia
Università Comillas, 2001, in part. vol. IV, pp. 3136-3137
35
Si veda Il Trionfo di San Domenico Protettore della Città di Napoli,
e di Tutt’il Suo Regno. Composto dal P. Maestro F. Paolo Caracciolo
etc. In Napoli. Per Gio. Cola Vitale, 1644, p. 87: «[a]ncora in questo
giorno solevano in Roma celebrarsi i spettacoli de’ Sacerdoti Salij,
instituiti da Numa Pompilio, per occasione, c’havendo una mortal
44

popolare. Intendiamoci: la sua vena retorica non è quella di un


Segneri, di un Savonarola o di un Bernardino da Siena.
Affrunti rientra all’interno delle coordinate che già due secoli
addietro il Pardi – portando numerosissimi esempi proprio
tratti dalle biografie e dagli elogia di Santa Rosalia – aveva

pestilenza occupata tutta l’Italia, e principalmente Roma, mentre il


Popolo stava tutto timoroso, ed afflitto, dal Cielo cadde nelle sue mani
uno scudo, di bronzo, con pronostico di salute, se fusse quello scudo
conservato, onde da Eccellentissimi artefici ne fe lavorare undici altri
del l’istessa maniera, i quali da dodeci Sacerdoti dedicati [a] Marte
Gradivo, erano ogn’anno nelle calende di Marzo con suoni, e canti
portati solennemente per la Città […]». Sul Caracciolo, vissuto tra la
fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, quasi nessuna notizia certa all’infuori
della precedente. Si noti, di sfuggita, che questo personaggio ebbe fama
molto controversa nell’800 perché designato autore di un preteso
Racconto delle dissolutezze dei monasteri e specialmente di quello di
Sant’Arcangelo a Bajano. Il testo in questione, detto risalire al 1610 (e
cfr. B. CAPASSO, La Vicaria Vecchia. Pagine della storia di Napoli
studiata nelle sue vie e nei suoi monumenti, Napoli, Giannini, 1889, p.
68, n.1), ma l’opera – per cui si veda per esempio Cronaca del
convento di Sant’Arcangelo a Bajano estratta dagli archivii di Napoli,
Parigi, s.n.e, 1848, p. 4, dove il Caracciolo stesso è definito «potente
per nascita e per fortuna» – sembra configurarsi come un falso
anticlericale d’epoca romantica. Su tali questioni, cfr. anche B. CROCE,
«Le Couvent de Bajano e un romanzo di Girolamo Brusoni», in Nuovi
saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, G. Laterza & figli,
1931, pp. 172 ss.gg., con citazione del Caracciolo a p. 174. La presenza
dell’opera da cui si riscontra la menzione affruntiana ha, se non altro, il
risultato di rendere certa l’esistenza di tale autore nel periodo di
riferimento e di gettare almeno qualche dubbio sulla veridicità delle
confutazioni del Capasso e di Croce, che andrebbero comparativamente
approfondite.
45

usato per definire i contorni dell’oratoria sacra siciliana dei


primi anni del Settecento36:

«[g]li oratori del secento (sic!) sfrenavansi


viemmaggiormente ne’ panegirici, poich[é] l’indole di
siffatto componimento ammette maggiore libertà, e qui
brillavano codesti giullari con ispiritosaggini sguaiate,
segnatamente ne’ titoli e nell’esordio. […] E pure […]
gli oratori di simil risma erano ammirati ed encomiati, e
le loro prediche erano dedicate a principi e a signori, e
spesso stampate a spese dell’eccellentissimo Senato».

Anche il religioso ciminnita non si sottrae a tali


caratteristiche, utilizzando tutto l’armamentario retorico che la
cultura del suo tempo (e dell’epoca precedente) poteva
proporgli. Tuttavia – e paradossalmente – quest’uso non
appare palesato attraverso immagini troppo ardite, da metafore
ridicole o da elementi d’origine barocca che ne appesantiscono
la lettura, bensì si palesa come una sorta di rumore di fondo,
una cornice stilistica sì presente ma soltanto come contesto
secondario e non come struttura primaria. Ma andiamo a
vedere un primo passo:

«Quel Tremuoto peraltro altro non fu verso voi che un


presaggio faustissimo di Rosalia, a nuove acclamazioni
del mondo ritrovata, e risorta. In questo ritrovamento, o
vogliam dire risorgimento felice, [ho] ritrovato io
l’argomento del dire, e sarà appunto, che fu il Tremuoto
un Proclamatore divino delle glorie di Rosalia, ed un
Panegirista, benché infacondo, sì valoroso, che non fu

36
Cfr. PARDI, Su la sacra oratoria cit., pp. 81 e 86.
46

mai prima di lui Orator più connatural, più condegno,


n[è] dopo lui vi sarà più convincente, più chiaro».

In questo punto, l’Affrunti vuol significare al suo


pubblico che il terremoto è stato quasi come una sorta di
pretesto, mandato da Dio per far sì che i fedeli tornassero a
venerare Rosalia: la sua affermazione è sostenuta,
linguisticamente, da un tacito richiamo ad un precedente
volume encomiastico del Manfredi37, ma presenta soltanto una
estroflessione metaforica, quando cioè il terremoto è
paragonato ad un «Panegirista, benché infacondo»: in altre
parole il nostro chierico non intesse con altre sottigliezze
retoriche la sua prosa, lasciando al lettore la discussa
immaginazione di quanto fossero legati i destini dei fedeli
palermitani con quelli occorsi alla loro santa (e implicitamente
– lo dico a margine – paragonando la congerie degli zelatori
della santa medesima ad una specie di sciame sismico).
Altrove, adoperando la figura retorica della personificazione,
Affrunti sostiene che soltanto le rocce dove la santa si
ricoverava ebbero la discutibile fortuna di essere i testimoni
involontari, e in qualche modo non del tutto graditi, del suo
patimento:
37
Già menzionato (e cfr. supra, la n. 2), ma si veda – per il lemma
«presaggio faustissimo», che in entrambi i testi si trova dialettalizzato e,
dal solo Affrunti, citato con inversione attributiva – La Rosa d’Oro etc.
Sagro Discorso per le Glorie di Santa Rosalia Vergine Palermitana dal
P. Antonio Manfredi etc. In Napoli. Nella Nuova Stampa di Dom.
Antonio Parrino, e di Michele Luigi Mutii, 1688, p. 23. Sul Manfredi
(1626-1713) gesuita pugliese attivo nell’ambiente napoletano, cfr. il
breve profilo biografico di L. ROCCO, «Giunte e correzioni al
Sommervogel», in La Bibliofilia, 5/6 (1909), pp. 199-212, in part. pp.
204-205.
47

«I soli sassi, e le rupi Ella soffrì testimonj, e compagni


del celeste suo vivere, e del suo beato morire. A questi
soli confidò un giorno i riposti arcani del cuore là nel
profondo più cupo della Quisquina. E glieli confidò
sotto l’obbligo natu[r]ale[,] indispenzabile sigillo; anzi,
s[u] la certezza, che sordi, e mutoli, né udir giammai gli
potrebbero, né ridire. I sassi, dunque, e le rupi, che
furono gli unici Osservatori delle gesta di Rosalia, ne
siano i Proclamatori ancor unici […] Così dispose l’alto
consiglio della Provvidenza, che tutto regge. Ma da che
questi per tenacità di natura ripugnavano fortemente a
frangere l’incarito silenzio, Iddio (dirò così) li sottopose
ad un’acerba violenta tortura con quell’orribil
Tremuoto, l’agitò, lo commosse, li sospinse, ed in parte
li sconquassò. Finché tratti che l’ebbe sufficientemente
al disegno, con man pietosa rammarginò gli squarci alla
terra impressi, e ne riunì le scissure […] E fu di
giustizia, se ben si riflette, Signori, che così proclamasse
il Tremuoto le glorie di Rosalia. Imperciocch[è] quelle
pietre, che furono come appestate da[‘] fiati velenosi de’
Peccatori disveleranno all’Universo l’estremo giorno le
loro più occulte malvaggità».

A tutta prima, la presenza contigua dei due concetti di


testimonianza e proclamazione sembra essere legata –
pareneticamente – alla catechesi del fedele e parrebbe potersi
connettere anche ad esempi di teologia militante (esattamente
nella maniera preconizzata dall’oratoria a sfondo popolare cui
l’Affrunti si richiama qui)38: l’accostamento della teologia

Cfr., ad esempio, L. NEGRI, L’insegnamento di Giovanni Paolo II,


38

Milano, Jaca Book, 2005, p. 64: «[p]erché la proclamazione sia


48

medesima alla retorica, dunque, assume un valore di chiave


interpretativa. In altre parole, Affrunti utilizza i preziosismi
della retorica tardo-seicentesca per spiegare e sostanziare
concetti teologici e dogmatici che altrimenti sarebbero assai
ardui da comprendere per il lettore comune. Parafrasando
Huizinga39, la metafora sembra essere piegata, in questa
occasione, alla necessità della semplificazione di un assunto
filosofico o ideologico che, altrimenti, potrebbe non essere
compreso dagli spiriti più semplici o primitivi (e lo studioso
olandese richiama proprio, a tale proposito, il concetto di
«sapienza del selvaggio»). Il che rende totalmente ragione – va
ribadito senz’altro – a chi volesse inserire il panegirico del
prete ciminnita all’interno di un’oratoria popolareggiante, o
meglio, strutturata in modo tale da poter esser fruita non solo
dalle persone colte, ma anche da quelle meno aduse alla
frequentazione dei testi vetero e neotestamentari. Si noti, a
margine, l’utilizzo del termine «incarito»: ritrovandosi
soltanto, molti anni dopo, in un saggio d’economia bancaria
che però non ha nulla a che vedere con le tematiche di cui ci si
occupa qui40, esso apparirebbe come una sorta di hapax del
tutto disgiunto dal contesto: ciò sarebbe certamente vero, ma
solo se non si considerasse l’onnivora cultura di un prete che si
veramente una testimonianza occorre l’ossequio dell’intelligenza e del
cuore al magistero, perché esso è garanzia indefettibile della
trasmissione della verità divina. La teologia non può infatti essere
ridotta ad un semplice confronto di opinioni personali diverse tra loro.
La proclamazione della Verità divina è autentica se il cristiano
percepisce di appartenere alla chiesa come ad un luogo da cui impara
continuamente».
Cfr. J. HUIZINGA, L’autunno del Medioevo [1919, 19212], trad. it.,
39

Roma, Newton Compton, 1992, p. 235.


49

dimostra informato rispetto a questioni non religiose, stavolta


con un accenno ad un discorso finanziario che avrebbe avuto
maggiore fortuna in futuro. Altrove, accanto al solito uso
baroccheggiante delle antitesi e della personificazione, che
però – addirittura – nasconde la conoscenza della letteratura
teatrale e della poesia tardo-cinquecentesca («[n]el punto
stesso, che la sovrana Giustizia sfoga verso d’ogni altro il più
acerbo colmo de’ suoi furori, sparge s[u] del tuo capo il più
caro nembo de’ suoi favori la dolce Misericordia […]») 41, si
40
Trattasi di una recensione anonima a Des Crises Financières et de la
Reforme du Système Monetaire par Chitti, Bruxelles, Meline, Cans et
Comp., 1839, che trovasi ne Il Politecnico del giugno 1839 (poi in Il
Politecnico. Repertorio Mensile di Studj Applicati alla Prosperità e
Coltura Sociale. Volume I. Anno Primo. Semestre Primo, Milano, per
Luigi di Giacomo Pirola, MDCCCXXXIX, p. 545): «[u]na banca
spalleggia un nuovo fabricatore e col suo credito lo abilita a incettare in
piazza le materie prime, e attende ad esserne rimborsata quando esso
potrà smerciare le manifatture che ne avrà ricavate. Avviene allora che
le persone solite a provedersi a contanti quelle materie prime, sono
astrette per l’accresciuta dimanda a pagarle più caro. Ne proviene
dunque un incarimento fattizio delle derrate, e un eccitamento febrile
degli organi della produzione, la quale in questo suo sviluppo non ha
seguito la legge della dimanda. Nasce allora l’ingorgo, ossia una
produzione intempestiva, nella quale l’incarito prezzo delle materie
prime e delle mercedi, congiungendosi alla soverchia offerta delle
manifatture ed al loro avvilimento, priva il fabricatore dello sperato
compenso, e dei mezzi di compiere verso la banca il nolo e il rimborso
dei capitali». Sulla figura dell’economista calabrese Luigi Chitti (1784-
1853), cfr., ad esempio, G. CRIFÒ, in DBIO, vol. 25 (1981), con
bibliografia.
41
«[…] Ahi misera regina, ah noi meschine:/ Questa del nostro mal
l’acerbo colmo./ […]/ O come a l’intelletto il lume toglie/ Ira crudele, et
ove l’huom non deve/ Sovente tragge, e cieca, al cieco è guida […]» (e
cfr. Cratasiclea. Tragedia di Paolo Bozi Veronese. Nuovamente Data
50

reperisce una vaga reminiscenza di rimatori petrarchisti


cinquecenteschi, a segnare anche un’intromissione della poesia
e della panegiristica precedente 42. E che dire dell’inciso
antifrastico «appestate da[’] fiati velenosi»? Mi permetto di
porre qui, onde dimostrare la palmare evidenza della sua
icasticità, un primo testo, appartenente al semisconosciuto
agiografo seicentesco frate Ignazio Del Nente – già biografo di

in Luce. In Venetia. Appresso Ricciardo Amadino. MDXCI, p. 108). Si


noti, qui, l’accostamento tra il lemma in questione e l’ira, esattamente
uguale a quanto leggiamo nell’Affrunti e tale da marcare una prova non
trascurabile della filiazione tra i due testi. Si noti, ex post, l’utilizzo che
ne fece anche il Cesarotti, ma in contesto apparentemente molto diverso
(«Tristo conforto, che rimembra il peso/ Della perdita mia: cari al mio
core/ Sette fratelli avea, sette un sull’altro/ Cadder dal braccio di
quell’empio, in vita/ Restò la madre onde di rio servaggio/ Sentisse il
giogo desolata schiava/ Del distruttor della sua stirpe, alfine/
Quell’alma avara per immenso prezzo/ La rese a questo seno, ahi che
ben tosto/ L’arciera Diva, o dei sofferti affanni/ L’acerbo colmo
all’amor mio la tolse», e cfr. L’Iliade d’Omero Tradotta ed Illustrata
dall’Ab. Melchior Cesarotti. Tomo Terzo. In Padova. Nella Stamperia
Penada, MDCCLXXXVIII, p. 408). Sul Bozi (1550 ca.-1628 ca.),
sacerdote veronese con fama di drammaturgo e compositore, cfr. le
scarnissime notizie contenute in J. FETIS, Biographie universelle des
musiciens et bibliographie génerale de la musique, 8 voll., Paris, Didot,
1867, in part. vol. II, p. 51 (dove però trovasi sotto il cognome Bozio);
M. MATERASSI, La musica sotto il torchio: il Giardino dei Madregali
prima stampa musicale veronese, in M. MATERASSI, P. RIGOLI (a cura
di), Musica a Verona: studi in ricordo di Carlo Bologna, Vicenza, Neri
Pozza, 1998, pp. 23-44, in part. p. 30; R. EITNER, Biographis-
bibliographiscem Quellen-Lexicon der Musiker und Musikgelherten
Mitte des neunzehnten Jahrhunderts, 10 voll., Leipzig, Breitkopf &
Haertel, 1900, in part. vol II. pp.165-166; e infine il lemma di D.
NUTTER in https://www.oxfordmusiconline.com/grovemusic, ult. cons. 6
luglio 2022. Ovviamente, la figura di questo semisconosciuto
51

Domenica Narducci43 – e che sembra trovare talune ma assai


forti consonanze con il testo dell’Affrunti 44. Esso si configura
come un lungo squarcio descrittivo e vuole dipingere, con toni
accesi, quali possano essere i molteplici tormenti infernali che
attendono i peccatori:

«Questa è una grotta oscura di serpenti, di vipere,


d’idre, di bitoni, di basilischi, e di draghi velenosi, che
intellettuale – anche tenendo conto della diffusione delle sue opere in
area non veneta – andrebbe maggiormente approfondita. Sul Cesarotti
(1730-1808), in questo caso nelle vesti di traduttore omerico, cfr. da
ultimo, M. LA ROSA, «Cesarotti traduttore e la traduzione del greco», in
Ticontre, 12 (2019), pp. 429-447, con bibliografia.
42
Cfr. Rime di Diversi Signori Napolitani, e d’Altri. Nuovamente
Raccolte et Impresse. Libro Settimo etc. In Vinegia, Appresso Gabriele
Giolito de’ Ferrari e Fratelli. MDLVI, p. 123 («Vago amoroso augello/
Con voce alma e gentile/ Volando scese in parte dal suo lembo;/
Quando da un caro nembo/ Subito fu coverto/ Del pastor Androgeo/ De
la rete, che feo/ Vulcano alhor, che la sua donna certo/ Vid’ al suo
amante in braccio,/ Onde gli strinse intorno il forte laccio». L’escerto è
in una lirica della poetessa lucchese Chiara Matraini, per cui si veda, da
ultimo, D. MARCHESCHI, Chiara Matraini poetessa lucchese e la
letteratura delle donne nei nuovi fermenti religiosi del ‘500, Lucca,
Pacini Fazzi 2008, con bibliografia); I Grandi Apparati, e Feste Fatte
in Melano da[l] S. Duca di Sessa Governatore dello stato di Melano
etc. et S. Marchese di Pescara etc. in casa dell’Illustr. S. Gio. Battista
Castaldo Marchese di Cassano. In Melano. Appresso di Giovann’
Antonio de gli Antonij. MDLIX, p. 18 («Ove l’April sempre rinverde e
infiora/ L’alma e celeste Flora,/ Et ove il lieto il caro nembo piove/
D’alte virtuti Giove,/ Quivi venemo d’ogni pianto prive,/ Spargendo [a]
l’aura i sacri e dolci accenti,/ Sol per condure ne’ nostri ombrosi Mirti,/
Fr[a] gli divini spir[t]i/ Costei, ch’[a] mill’Amanti aspri tormenti/
Gustar si fece, il cui errore in morte/ Tosto la spinse, et il pentir’ in vita
[…]». Sull’autore, Ascanio Centorio degli Ortensi, vissuto pressappoco
nello stesso periodo della Matraini, cfr. essenzialmente N. LONGO in
52

sibillando fischiano per queste atre, e spaziose caverne,


e vomitando nelle viscere mie velenosi fiati, et appestate
fiamme, m’empiono di pene, di tormento, e di morte.
Questo è un cieco abisso di dense tenebre, che non vede
mai Aurora, o Sole, ove non arriva mai cortese influsso
di Stella, o di Pianeta, n[é] splende raggio di pietà,
fuggito dalle nubi, e dalle pioggie, ove non spira mai
zeffiro d’aura celeste, ove non stilla, n[é] cade rugiada

DBIO, vol. 23 [1979], con appendice bibliografica). Si veda anche,


infine e in contesto encomiastico, Le Glorie Immortali del Serenissimo
Prencipe di Vinegia Marino Grimani Descritte in Dodici
Singolarissime Orationi, etc. Da Agostino Michele Consacrate. In
Venetia, Appresso Francesco Bariletti, MDXCVI, p. 31 («Beata nova,
al suon della quale parve, che a lei s’aprisse dolcemente il Cielo, e gli
versasse nel seno un caro nembo di dolcezza beatrice: [r]ise l’aria
d’intorno, corsero argento i fiumi, s’indorarono i colli, [o] certo
divennero serene le fronti[,] più che lieti gli occhi, gioiosissimi i cuori,
e certissime le speranze d’ogni suo bene». L’orazione in questione
venne composta dal diplomatico orobico Niccolò Besuccio, operante
alla fine del ‘500 e su cui si vedano le poche notizie riportate in Gli
Scrittori di Bergamo o sia Notizie Storiche, e Critiche Intorno alla
Vita, e alle Opere de’ Letterati Bergamaschi Raccolte, e Scritte dal
P.L.F. Barnaba Vaerini etc. Tomo primo. In Bergamo,
MDCCLXXXVIII. Nella Stamperia di Vincenzo Antoine, p. 205).
43
Cfr. Vita e costumi et intelligenze spirituali della gran serva di Dio e
veneranda madre suor Domenica dal Paradiso, fondatrice del
monasterio della Croce di Firenze. In Venezia. Presso li Molochi,
1662. Sulla Narducci, meglio conosciuta come Domenica del Paradiso
(1453-1553), suora domenicana fiorentina contraria alle idee del
savonarola, cfr. ora R. Argenziano, «Suor Domenica da Paradiso:
l’eredità figurativa cateriniana nell’iconografia di una mistica di primo
Cinquecento», in A. BARTOLOMEI ROMAGNOLI, L. CINELLI, P.A.
PIATTI (a cura di), “Virgo digna coelo”. Caterina e la sua eredità.
Raccolta di studi in occasione del 550° anniversario della
canonizzazione di santa Caterina da Siena (1461-2011), Roma, LEV,
53

di grazia, n[é] di misericordia, ove non alberga bellezza,


o ordine alcuno, ma fumo teterrimo, oscura nebbia,
grave caligine, vampa di face, impressioni maligne, fiati
crudeli, vapori sanguinosi, travi di fuoco, onde di
fiamme, ardori mortali, arse et assetate lingue, cuori
infocati, voragini profonde, ombre di morte, e
sempiterni orrori. Questo è un basso centro di fiamme,
che nelle sue grotte, e caverne divampate tutto si crolla,
e trema, scosso dalle bestemmie, e da gli stridi, et urli
orrendi de miseri dannati dove io ardo et abbrucio senza
speranza mai d’una stilla d’acqua per refrigerio di tanta
arsura, e dove mi trovo cinta da diavoli principi di
quest’ombre, che per aggravar le mie pene mi stanno
intorno in varie forme di mostri d’orrore, e di spavento,
pieni d’orrida maestà, con i crini di vipere, e d’aspidi
avvolti in testa, e d’altri diversi, e velenosi serpenti, che
con un misto suono di fischi, e sibili riempiono di
terrore questo tenebroso speco, con gli occhi gravidi di
veleno, e rosseggianti come infauste comete, con una
bocca aperta quasi voragine profonda piena d’atro, e
puzzolente sangue, con le faci accese in mano, e con un
2013, pp. 619-638
44
Cfr. Stimoli di Conversione a Dio. Solitudini di Dolori Affetti Intorno
Alle Ultime Pene, e Morte del Peccatore. Opera Parenetica, o Vero Es-
ortatoria. Divisa in Discorsi, Meditazioni, et Affetti. Del Molto Rev-
erendo P.M.F. Ignazio del Nente etc. In Fiorenza, per Amador Massi,
MDCXLVI, p. 180. Su Del Nente, Ignazio del Nente, «morto nel 1648
in odore di santità» e figura che andrebbe comparativamente approfon-
dita, cfr. soltanto L. AFFONI, La devozione del S. Cuore di Gesù nel
p. Ignazio Del Nente, Roma, Pontificia Universitas S. Thomae in Urbe,
1961 (trattasi di tesi di laurea, che non ho visto); e M.A. VANNIER, M.
VANNINI (a cura di) I mistici renani. Eckhart, Taulero, Suso, Milano,
Jaca Book, 2013, p. 27 (la citazione precedente è nella premessa del
Vannini).
54

petto che sembra un mongibello di fumo, e di fuoco, che


da ogni parte mi vomita al cuore caligine velenosa,
fiamme sulfuree, et arsure sempiterne».

L’impiego di un riferimento di tal fatta (e si noti anche la


citazione del termine «mongibello», qui riferito genericamente
ad un vulcano ma universalmente conosciuto come sinonimo
dell’Etna) sembra suggerire – da parte del frate cimminita –
una sostanziale conformazione in senso propagandistico delle
proprie fonti, nel tentativo di giustificare (con il ricorso a
stilemi risalenti alla catabasi infernali d’epoca medioevale) la
lunga tirata che egli costruisce riguardo il valore salvifico
rappresentato dalla stessa esistenza di Rosalia Sinibaldi 45. Da
ultimo, sempre in relazione all’escerto predetto, segnalerei il
lemma «occulte malvaggità»: una prima sua apparizione – con

45
Su tali questioni, suggerirei, in modo ovviamente non esaustivo, M.
P. CICCARESE (a cura di), Visioni dell’Aldilà in Occidente: fonti,
modelli, testi, Firenze, Nardini–Centro internazionale del libro, 1987,
passim; J. AMAT, Songes et visions. L’au-delà dans la littérature latine
tardive, Parigi, Études augustiniennes, 1985; C. CAROZZI, Le voyage de
l’âme dans l’au-delà d’après la littérature latine (Ve – XIIIe siècle),
Roma, École Française de Rome, 1994; J. LE GOFF, L’immaginario
medievale, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1998 e La nascita del
Purgatorio, trad. it. Torino, Einaudi, 1982; P. RAINA, La materia e la
forma della “Divina Commedia”. I mondi oltraterreni nelle letterature
classiche e nelle medievali [1891], Firenze, Le Lettere, 1998 (il volume
è a cura di C. Fonzo e con premessa di F. Mazzoni); G. LEDDA, «Dante
e la tradizione delle Visioni medievali», in Letture Classensi 37 (2007),
pp.119-142; P. DINZELBACHER, Vision und Visionsliteratur im
Mittelalter, Stuttgart, Hiersemann, 1981; J. BASCHET, I mondi del
Medioevo: i luoghi dell’Aldilà, in E. CASTELNUOVO, G, SERGI (a cura
di), Arti e storia nel Medioevo, 2 voll., Torino, Einaudi, 2002, in part.
vol. I, pp. 317-347.
55

il solito raddoppiamento dialettalizzante e sempre in ambiente


parenetico – appare in un testo coevo a quello dell’Affrunti e
vergato da padre Ferdinando Zucconi, dove la connessione con
il concetto di reiterazione del peccato non sembra priva
d’importanza46. Secondariamente, lo stesso binomio verbale
emerge soltanto in due sermoni dell’Oliva47 e del Bambacari48,
sempre d’epoca contemporanea a quella del nostro scrittore e

46
Cfr. Lezioni della Scienza de’ Santi, Ovvero Questioni Sopra i Principi e
le Verità più Notabili della Divina Scrittura, Composte e Dette dal Padre
Ferdinando Zucconi etc. Tomo Quinto, Ovvero Corso Terzo. Venezia,
MDCCXXIX. Nella Stamperia Baglioni, p. 495: «Già in vostra morte, fu
fatto di voi il giudizio particolare della vostra eterna dannazione; ma fin
che il Mondo tutto sappia, perch[é] siete condannati, al Mondo tutto
palesate le vostre occulte malvaggità. Voi, quand’era tempo,
co[n]fessar non le voleste a me in segreto colla penitenza; confessatele
ora per forza in pubblico, e nel vostro rossore imparate, che fia quel
peccare, di cui tanto vi compiaceste […]» (il testo – a tutta prima –
sembrerebbe connettersi alla pratica dell’autodafé). Sul gesuita
marchigiano Ferdinando Zucconi (1647-1732), operante in ambiente
fiorentino a cavallo dei secoli Diciassettesimo e Diciottesimo, cfr.
unicamente A. CONTI, Camerrino e i suoi dintorni, Camerino, Borgarelli,
1872, pp. 261-262 (il Conti dice basarsi su un’altrimenti introvabile
biografia inclusa ad un’edizione delle Lezioni Sacre, che egli sostiene
stampata dal Baglioni nel 1762 ma che purtroppo mi è stato
impossibile reperire).
47
Cfr. Sermoni Domestici Detti Privatamente nelle Case Romane della
Compagnia di Giesù da Gian Paolo Oliva etc. Divisi in Due Tomi. Tomo
Secondo. In Venezia, Presso, Paolo Baglioni, pp. 465-466: «[n]on ho
tempo! Or come l’hanno quei tanti pubblici Lettori di tutte le Scienze
nel Collegio Romano, che in ogni mese impiegano tant’ore, per
assolvere chi, nelle Comunioni generali de’ rioni, lascia a’ loro piedi le
avvelenate squame di mesi e di anni, passati nello scandalo di non
56

provenienti dallo stesso ambiente gesuita entro cui gravitava lo


Zucconi. Il primo, a tutta prima, consiste in un discutibile ed
equivoco rimprovero ai sacerdoti della Compagnia di Gesù
affinché prestino assistenza spirituale ai loro confratelli
anziché ai traviati; il secondo – strettamente connesso con i
concetti predicati dallo Zucconi – sostiene che la punizione del
peccato deve essere necessariamente accompagnata dalla
pubblica vergogna rispetto al peccato stesso. Il conglomerato
stilistico posto in essere dall’Affrunti, dunque, rimonterebbe
non solo alla necessità di glorificare la fanciulla della
occulte malvagità? Chi vive sommerso nell’immenso mare di sì
malaggevoli dottrine, trova tempo, e di udire chi si accusa, e di
predicare a chi ode, e di sollevare chi giace, e d’invigorire a spirar
l’anima contrita chi agonizza, presentandosi, anche non di rado, nelle
pubbliche carceri ad istruire gentame condannato: e a voi, tanto meno
in questa Casa aggravato da faccende, e forse forse sgravato da ogni
altra cura, fuorch[é] di salvare peccanti, manca tempo o di
ammaestrargli o di prosciorgli?». Sull’Oliva (1600-1681), preposito
generale dei gesuiti dal 1664, cfr. F. RURALE, in DBIO, vol. 79 (2013), con
bibliografia.
48
Si vedano, per tale occorrenza, le Prediche Quaresimali del P. Abate
D. Cesare Nicolao Bambacari etc. Tomo Primo. In Lucca,
MDCCXVIII. Per Leonardo Venturini, p. 370: «[h]anno a sapersi
l’occulte malvagità, perch[é] tutte le Creature si vendicheranno della
forzata schiavitudine a’ vostri capricci con la libera accusa de’ vostri
errori: e ciò perch[é] al peccato non si dee solo la pensa, si dee di più la
confusione: è un certo che di dovuto condimento al gastigo il pubblico
rossore per esser conosciuto come reo: ciò vorrà la Giustizia di Dio,
come vediamo, che Dio l’ha ispirato anche alle leggi del mondo, che
per aggiunger in supplicio de’ condannati al dolor della pena il rossore
della vergogna comandano […]». Sul sacerdote lucchese Bambacari,
(1647-1728), noto predicatore lateranense d’epoca quietista, cfr. F.
TRANIELLO in DBIO, vol. 5 (1963), con appendice bibliografica.
57

Quisquina, ma avrebbe anche l’intento di mettere in evidenza


un sottile legame tra mancato rispetto dei dettami della Chiesa
(e ovviamente dei biblici comandamenti) e punizione divina,
qui rappresentata dal terremoto. Quest’ultima, stando al
ragionamento del prete siciliano, viene a verificarsi quando
l’essere umano non si pente realmente dei propri peccati, ma li
ripete con diabolica e costante pervicacia e deve dunque essere
ricondotto sulla buona strada da un colpo di briglia
provvidenziale e risanatore. Il secondo testo a cui faccio
riferimento, e che sembra essere – in tutta evidenza – la fonte
dell’Affrunti per questo specifico passo, rimonta al ben noto
Quaresimale di Paolo Segneri49:

«Non accade però stancarsi in opporre, che la vita


spirituale è tutta austera, tutt’orrida, tutta mesta;
perch[é] come tale apparisce, ma non è tale: e i sensi
vostri non sono in ciò quei testimoni fedeli, che voi
pensate. Anzi sapete voi ciò che accade in questa
materia? Ciò che succedeva a Mosè. Voi ben sapete,
come già Dio comparve a questo inclito Personaggio su
la cima del monte Sina[i], per dargli di sua bocca la
legge, che si doveva promulgare al suo Popolo. Ma
quanto spaventoso fu l’apparato, con cui comparvegli!
Parea che tutte le tempeste, chiamate da quartieri delle
nuvole, e degli abissi, fosser venute a generale rassegna
sopra quel Monte. Il campo della battaglia era l’aria, la
quale per rendere la battaglia ancor più ferale, haveva,
ad onta del Sol presente, recata una folta notte; se non
49
Si veda, ad esempio, (e cito da un’edizione coeva all’Affrunti, nella
probabilissima forma in cui egli vide il testo), Quaresimale del Padre
Paolo Segneri della Compagnia di Giesù. In Venezia, MDCCXVI. Presso
Paolo Baglioni, pp. 350-351.
58

che di tratto in tratto veggendosi apparire alcune, come


fiaccole accese, o fanali ardenti, folgorava pur qualche
luce; ma luce s[ì] spaventosa, che rendea tosto
desiderabili l’ombre, e cara la notte. Rispondevano
d’ogni lato frattanto, con formidabile concerto, al
muggir de’ tuoni lo strepitar delle trombe, ed allo
strepitar delle trombe il muggir de’ tuoni, Non potevi
sapere, se fossero questi segni, che incitassero alla
battaglia, [o] sonassero a ritirata: anzi vedevi, che per
rendere anche maggiore la confusione, nel medesimo
punto, che usciva il lampo, scoppiava col lampo il
tuono; e nel medesimo ancora, che scoppiava il
tuono, volava col tuono il fulmine. Fumava il Monte
agli squarci, ed alle scissure, che gli formavano i
fulmini nelle viscere; e vomitando, e vibrando fiamme,
havresti creduto dover tutt’ardere in brieve lo stesso
Cielo di un funestissimo incendio».

La presenza degli stessi termini adoperati dal canonico di


Ciminna (in particolare l’utilizzo contiguo dei vocaboli
«squarci» e «scissure», nonché – e non pare una semplice
coincidenza – la menzione del locativo «Sina» al posto del
corretto «Sinai» e l’impiego del predicativo «muggire», sia
pure in forma scempiata) si unisce ad una contemporanea
affinità di contenuti e di concetti teologici (la positività delle
disposizioni elargite da Dio agli uomini con la rivelazione dei
Dieci Comandamenti e, nel contempo, la tempesta di tuoni e
fulmini a tale episodio legata e leggibile nel testo biblico di
riferimento50).

V
50
In part., Deuteronomio, 4:13 e 5:22.
59

Per concludere il nostro viaggio all’interno


dell’orazione affruntiana, val la pena presentare questo pur non
breve escerto:

«Senza di ci[ò] osservate, Signor[i], che fa egli sempre


ammirabil costume del nostro Iddio, fra circostanze di
strepiti e di terrori svelare al Mondo e nuovi arcani, ed
inauditi misterj. Così dettando la prima legge a Mos[è]
s[u] le vette del Sina[i], fè d’ogn’intorno mugire i toni,
squillar le trombe, fiammeggiar le saette, fremere i
venti, imperversar le procelle, a guisa, che il Popolo
sbalordito ad ogni tratto s’aspettava la morte, quando
che ricevea massime di salute. Cosi discuoprendo la
nascosta divinità del suo Figliuol diletto a Discepoli su’l
Taborre, ingombrò questi in tal guisa con una nuvola
folta, bench[é] sfavillante, e gli sgomentò col Tuono
della maestosa sua voce, che caddero tutti a terra simili
a morti, più tosto, che a tramortiti. Così poi nel
Cenacolo diffondendo sul Concistoro Apostolico del
divino suo Spirito un grazioso diluvio; col rimbombo
come d’un turbine non men improviso, che impetuoso
prima riempì loro di spavento l’orecchio, che il cuor
d’amore. In breve non manifestò giammai un solo
raggio del suo bel volto, n[é] pur d’un Angelo; né mai
discuoprì una verità ignota a Patriarchi o a Profeti, o a
chiunque altro si fosse, senza che precedesse al diletto
l’orrore, al piacer la paura, e lo sbalordimento al
conforto. Gran Mistero egli dunque volle in quel dì
appalesare, ricolmando la Sicilia tutta di fracassi, di
fremiti, di rovine. Volle fuor d’ogni dubio all’Universo
svelare la Santità fino a quell’ora men nota di Rosalia.
Tanto più, che questa usanza egli serbò ogn’altra volta,
60

che a glorificare si pose la stessa Vergine. In doppio


senso, dobbiam noi dire, che restò, anzi volle restar
sepolta l’ammirabile Solitaria. Nella spoglia del Corpo,
nella Santità dello Spirito. Nella spoglia del Corpo restò
sepolta a cagion di quelle alte rupi del Pellegrino, che
s[ì] gelosamente custodivano ignoto il di lei sacro
Deposito [...] Restò sepolta nella Santità dello Spirito, a
motivo di quel le denze caligini della iscienza, che si
profondamente sosteneano incognite le di lei pregiate
virtù […]. Con due flagelli atrocissimi s’impegnò Dio a
dissepelir la sua Sposa, che era rimasta in doppia forma
sepolta. Ed ammirate con qual saggia proporzione! A
dissepelire la spoglia del Corpo di Rosalia si valse del
contagio, che fu infezione de’ Corpi. A dissepelire la
Santità dello Spirito di Rosalia, si valse del Tremuoto,
che fu soprasalto de’ Cuori».

Qui, con una complessa tessitura fatta di antitesi e di


parallelismi, l’autore cerca di dimostrare l’impossibile, cioè
che il terremoto e la pestilenza (eventi a cui è tradizionalmente
collegata Rosalia Sinibaldi) sono avvenimenti di taglio
positivo, perché avrebbero consentito: 1) l’emergere della
figura della Santa; 2) l’associazione della santa medesima alle
vicende biografiche del Cristo (con quell’accostamento
teologico di cui s’è parlato in precedenza). Secondo il canonico
siciliano, Dio utilizzerebbe con il genere umano il metodo – ci
si passi il termine – del bastone e della carota, come se, al suo
cospetto, gli uomini si mostrassero talmente imperfetti e
passibili di scelte peccaminose da dover essere sempre e
comunque puniti, anche quando vi sia anche la necessità di
attribuire loro qualche merito. Si tenga conto, per amor di
chiarezza, che sovente l’Affrunti si rivolge al suo pubblico con
61

l’appellativo di «Signori», vale a dire con l’utilizzo della


maiuscola, a definire in modo conchiuso il suo pubblico
d’elezione e riservando l’allegoresi e la metafora huizinghiana
soltanto agli eventuali uditori meno provveduti. Interessante,
per quel che concerne l’ambito delle fonti, il caso del lemma
«denze caligini» (con la sostituzione dialettalizzante della
costrittiva fricativa solcata con l’affricata alveolare sorda). I
due casi esaminati, veri e propri hapax cronologici, ci
mostrano, da un lato, l’esaltazione della figura della Vergine,
che viene contrapposta all’oscurità notturna e che sembra
essere qui, in tutta evidenza, il punto di riferimento linguistico
dell’Affrunti51; dall’altro, ma con evidentissimi collegamenti di
tipo parenetico ed oratorio (tali da far sospettare un riutilizzo di
qualche testo panegiristico precedente), una concione fittizia di
San Pietro agli abitanti del Capo di Leuca, dove l’apostolo
rimprovera il suo uditorio di aver per troppo tempo adorato
divinità pagane52. Da un lato, dunque, il solito utilizzo di una
chiostra retorica e metaforica assolutamente forte,
51
Cfr. Fiori del Carmelo che Intrecciano la Corona delll’Imperadrice
degli Angioli. Panegirici Sagri Recitati nelle Feste Ordinarie, e
Straordinarie di Maria Vergine dal P.F. Emanuele di Giesù Maria etc. In
Napoli, per Novello de Bonis Stampatore Arcivesc. 1668, p. 26
(«Ver’Aurora è la Vergine nella sua purissima Concettione, di cui stupiti
gli Angioli esclamano in questo giorno, curioso di sisapere, chi sia costei,
che dalla stirpe contaminata di Adamo spuntar si vede al mondo con
cotanto fasto, e gloria, come dalle denze caligini della Notte spunta
pomposa l’Aurora? […] Aurora dunque è Maria, da i cui benigni influssi, e
rugiadosi Nembi il Nettare raccoglie la dolcezza, l’odor soave il Balsamo,
le Perle la vaghezza, il valore le Gemme, il pregio l’Oro»). Su Emanuele di
Gesù Maria, teologo seicentesco e vicario generale emerito dell’Ordine dei
Carmelitani Scalzi, si veda A. L’AFFLITTO, Maria regina nel pensiero di
Emanuele di Gesù Maria, Ocd (1621-1692), Roma, LEV, 2022, con
bibliografia.
62

rappresentata dai complessi simbolismi che intrecciano la vita


della Santa con quella di Cristo e con gli eventi sismici ed
epidemiologici ad essa culturalmente connessi; dall’altro, il
tentativo – forse non del tutto riuscito, ma certamente
rilevabile e, in certo qual modo, apprezzabile – di proporre una
sintesi che rendesse più semplice l’accessione dei fedeli a
concetti di tipo teologico forse non chiari se espressi
utilizzando i freddi stilemi della filosofia e della dogmatica. Il
tentativo di proporre un discorso religiosamente alto attraverso
conglomerati semantici vicini alla poesia e alla narrativa
sembra essere l’elemento più rilevante a cui può essere
52
Cfr. Antichità di Leuca. Città già Posta nel Capo Salentino. De’ Luoghi,
delle Terre, e d’Altre Città del Medesimo Promontorio, e del Venerabile
Tempio di Santa Maria di Leuca etc. Opera del M.R.P. Luigi Tasselli di
Casarano etc. In Lecce. Appresso agli Eredi di Pietro Micheli, 1693, pp.
86-87: «Voi Sempre inchinati [a] Deità mendaci v’imbrogliaste per tali
superstitiosi inchini in tutti li peccati, e vitj, per cui poi, di voi alcuni
ingannati dalle Ninfe Nereidi, marciti, giacevino nelle lascivie: Altri
acciecati in tutto dalli Demonj, arrivavano in dentro una grotta ad adorar
per Dio un Dragone; Ed accioch[é] il mare ondoso , non vi impedisse da
tali indegnissime superstitioni, apriste anche per terra una strada, ed una
porta altra in quella grotta (che pur si vede[)]. Onde siano per quella
sempre lesti [a] venerar in quel troppo schifo, e sozzo Animale il Demonio,
che vi opprimeva. Altri in vite obbrobriose, altri in rapine, altri in
dissolutioni inimaginabili fracassati gemenino. Altri in fine sbalzati nel
profondissimo abisso dell’Atteismo, negavano esser Deità al Mondo che
sovrasta, in tanti abissi, e miserie per tanti secoli sepolti, voi, e li vostri
Progenitori; Ecco, che sfavillando luce amica sopra le vostre troppo denze
caligini, la benignità del Cielo vi h[a] per la mia bocca cacciati, e con tanti
miracoli, da tante indegnità, tante miserie […]». Sul Tasselli (1622-1694),
religioso ed erudito pugliese, cfr. soltanto l’opuscolo di A. PRIMALDO
COCO, Il P. Luigi Tasselli da Casarano, Roma, Edizioni de L’Italia
Francescana, 1938 (uscito precedentemente in L’Italia Francscana, III
[1938], pp. 188 ss.gg.), con un minimo di bibliografia.
63

ricondotta la predica dell’Affrunti. In essa, gli elementi


tematici e quelli relativi alla divisio si riconnettono ad un
formulario esegetico il cui destino finale è quello di richiamare
l’attenzione dello spettatore sulla struttura della predica
medesima. Va sottolineato, a questo scopo, che la prima
preoccupazione affruntiana consiste nell’operare uno sviluppo
tematico forte, nel solco di un modus cogitandi tipico dei
predicatori sacri sei-settecenteschi: egli, infatti, utilizza
la partium declaratio della sua orazione (posta proprio
all’inizio, in positio princeps) per descrivere gli intendimenti
ed i motivi che si andranno a sviluppare nella predica. Tale
costruzione retorica nasce a fini per lo più mnemonici, senza
però che tale memorizzazione possa adulterare in alcun modo
l’obiettivo ultimo, vale a dire la glorificazione continua della
santa palermitana. In altre parole, il panegirico dell’Affrunti si
muove su due direttrici, una di tipo esegetico e letterario,
l’altra di matrice puramente comunicativa, proponendo al
lettore-uditore una riqualificazione dell’ormai consueta
tematica dei fatti relativi a Santa Rosalia attraverso una serie di
contaminazioni retoriche atte a mostrarla come tale a tutti,
popolo minuto compreso. Il che, vista l’epoca ed il luogo, è già
abbastanza.
64

UN BRIGANTE GENTILUOMO A CIMINNA: QUALCHE APPUNTO


D’ESEGESI COMPARATA

I
65

Nei miei vagabondaggi letterari, mi sono trovato di


fronte a numerosi esempi di salgarismo, tanto postumi quanto
antecedenti, come peraltro ho avuto modo di segnalare in altra
sede53. Ma non avevo mai riscontrato la presenza – in
antigrafe, per così dire – di descrizioni che facessero risalire
più indietro (e in contesti nostrani) la caratterizzazione
letteraria della figura del bandito gentiluomo, che avrebbe
popolato più di un romanzo del secondo Ottocento. Questo era
lo status questionis, fatta salva ogni considerazione relativa
alla geografia letteraria di tipo dionisottiano, almeno fino a
quando mi sono imbattuto in una descrizione siffatta54:
53
Cfr. il mio «Il fakiro multiforme e la bella addormentata: appunti sul
razzismo terzomondista di Emilio Salgari», in I. POZZONI (a cura di),
Frammenti di filosofia contempranea XIII, Villasanta (MB),
LiminaMentis, 2016, pp. 1-10.
54
Cfr. MARQUIS DE SALVO, «Souvenirs de Sicile. IIIe et Derniere», in
Revue de Paris. Nouvelle Série. - Année 1834. Tome Septième. Paris.
Au Boureau de la Revue de Paris etc. 1834, pp. 52-62, in part. p. 57:
«[…] En Sicile, les Testa Longa, les Spazza Montagne, les Grillo, etc.,
étaient aussi illustres que les héros spartiates, et les traits de générosité,
d’humanité même, qu’on racontait de ces hommes, rendaient leurs
noms populaires. Une chose remarquable, c’est que ces voleurs en
voulaient au gouvernement et rarement aux seigneurs; ils en voulaient
aux petits propriétaires et bien peu aux riches châtelains, et leurs
négociations étaient des traités qu’ils signaient avec les fermiers et les
propriétaires. A la tête de la compagnie des voleurs de Ciminna était un
certain Fragali, dont la chronique faisait presque un héros des Vies de
Plutarque. Bravoure, grandeur d’ame, talent, beauté, jeunesse, rien ne
manquait à ce personnage. Aucun meurtre, aucun acte de cruauté
n’avait signalé sa présence aux environs de Ciminna. Si par hasard une
femme tombait entre ses mains, elle était traitée avec tous les égards
qu’elle aurait pu attendre d’un gentilhomme; elle pouvait même
66

«[…] In Sicilia, il Testa Longa, lo Spazza Montagne, il


Grillo, etc., erano illustri come gli eroi spartani, e i tratti
di generosità, di umanità stessa, di cui abbondano le
descrizioni di questi uomini, hanno reso i loro nomi
popolari. Una cosa notevole è che questi ladri
derubavano raramente il governo e i signori; colpivano
invece soprattutto i piccoli proprietari e i loro accordi
erano come trattati firmati con i contadini e i proprietari
medesimi. A capo della compagnia di ladri di Ciminna
c’era un certo Fragali, che la cronaca ha quasi
trasformato in un eroe uscito fuori direttamente dalle
Vite di Plutarco. Coraggio, grandezza d’animo, talento,
bellezza, giovinezza, nulla mancava a questo
personaggio. Nessun omicidio, nessun atto di crudeltà è
mai stato segnalato quando lui si trovava nelle vicinanze
di Ciminna. Se per caso una donna fosse caduta nelle
sue mani, essa sarebbe stata trattata con tutti i riguardi
che avrebbe potuto aspettarsi da un gentiluomo. Ci si
può rammaricare che tale squisitezza di modi si
ritrovasse soltanto in un brigante: ma chi può dire se
costui agisse così per puro interesse? Non ho mai visto
questo Fragali. Un giorno, trovandomi a Ciminna, il
regretter que des formes aussi pleines d’aménité, qu’une galanterie
aussi délicate, ne se rencontrassent pas ailleurs que chez un brigand;
mais qui peut dire si l’intérêt eût survécu à l’antithèse? Je n’ai jamais
vu ce Fragali. Un jour que j’étais à Ciminna, le curé de cette petite ville
m’apprit que ce digne chef n’avait pu voir sans admiration et peut-être
sans convoitise le sabre que je portais à mon côté. Je ne voulais pas être
en reste avec ce redoutable voisin, qui m’avait fait assurer de son
respect et de ses bonnes intentions, quand il lui eût été facile de trancher
du seigneur avec moi. Je détachai donc mon sabre du ceinturon , et je
priai l’ecclésiastique de le remettre à Fragali , en lui faisant jurer de ne
jamais s’en servir que dans le cas d’une légitime défense […]».
67

parroco di questa piccola città mi disse che questo


degno condottiero non riusciva a staccare gli occhi dalla
sciabola che indossavo al mio fianco e che egli
ammirava e concupiva. Non volevo certamente rimaner
da solo con questo terribile vicino, benché il prete mi
avesse assicurato la sincerità del suo rispetto e le sue
buone intenzioni, quando invece sarebbe stato facile per
lui tagliarmi a fette. Per tale ragione, staccai la mia
spada dalla cintura, e pregai il sacerdote di consegnarla
a Fragali, facendogli giurare di non usarla mai se non in
caso di autodifesa […]».

Il testo in questione, originariamente vergato in lingua


d’oltralpe e che traduco personalmente e con minime libertà
lessicali, è dovuto alla penna d’uno scrittore poco noto,
Vincenzo Salvo, un poligrafo ed agente segreto borbonico, ma
a cui qualcuno ha voluto assegnare arbitrariamente la
cittadinanza francese55. Costui era invece sicuramente
55
Sul Salvo, erudito siciliano di dubbia fama operante in Francia nella
prima metà del secolo XIX, cfr. R. DE CESARE, Vincenzo Salvo: un agente
segreto al servizio degli ultimi Borboni di Napoli, in Archivio Storico
per le Province Napoletane, CXI (1993), pp. 475-530 (parte prima) e
CXII (1994), pp. 277-349 (parte seconda); e «Un corrispondente
siciliano di Balzac: il marchese Vincenzo Salvo», in Aevum, 3 (1994), pp.
699-712. Si vedano anche le poche notizie contenute in S. DI MATTEO,
Viaggiatori stranieri in Sicilia dagli Arabi alla seconda metà del XX
secolo. Repertorio, Analisi, Bibliografia, Palermo, ISSPE, 1999, pp. 91-
92, con scarna bibliografia (il Di Matteo – con un errore
incomprensibile e di palmare evidenza – lo dice appunto francese,
nomandolo addirittura Charles e negandogli qualsivoglia biografia). Il
testo riprodotto nella Revue potrebbe essere un rifacimento di
«Quelques mots sur la Sicile au moix de September 1831», in
Mélanges, Marsiglia, s.a., pp. 249-268 (citato in DI MATTEO, Viaggiatori,
68

siciliano, precisamente di Termini Imerese, e la palese ironia


esercitata nei confronti del brigante ciminnese appare del tutto
ingiustificata, dal momento che il Salvo (come sostiene, con
qualche ragione, De Cesare) fu uomo di «discutibile probità,
ostinato calcolatore, disposto, per acquistare la benevolenza
dei Potenti o rimanere nelle loro grazie, ad ogni maneggio e
forse anche, ma ciò è meno sicuro […] ad esercitare i più bassi
uffici polizieschi»56. E tuttavia, benché le sue opere letterarie
siano forse di scarso valore (ma non si comprenderebbe la
stima che ne aveva Balzac, il legame con il quale – sono parole
dello stesso De Cesare – non si sarebbe «limitato allo scambio
di quelle cortesie formali che accompagnano di solito una
presentazione in società, ma abbia coinvolto in qualche modo
sentimenti umani più intensi e più prolungati nel tempo» 57),
qualche affidamento bisogna forse dare alle sue narrazioni
odeporiche e alle osservazioni folkloriche ed antropologiche in
esse contenute, pur essendo codeste da maneggiarsi con una
certa cura a fronte di un doveroso e futuro approfondimento

p. 91 e in DE CESARE, «Un corrispondente», p. 710), ma di esso non si fa


nessuna menzione né nel controverso lemma del Di Matteo, né nei più
precisi studi del De Cesare.
56
Cfr., per la citazione, DE CESARE, «Un corrispondente», p. 707.
57
Cfr. ivi, p. 700. Nell’articolo del De Cesare viene riportato lo scarno
epistolario (tutto conservato nelle carte di Balzac, ché quelle
appartenute al Salvo sono andate tutte disperse, e cfr., parimenti, ivi,
p. 699, n. 1), anche sottolineando che «il tono familiare delle lettere
del Salvo è quello di chi si rivolge ad un corrispondente, ammirato e
frequentato da tempo, che si può trattare senza eccessive cerimonie e
con il quale ci si può anche abbandonare a confidenze personali […]».
69

dei loro contenuti58. Certamente la disistima che il Salvo si era


conquistato all’epoca sua (si veda ad esempio il caso – invero
abbastanza peloso, a causa di un risentimento squisitamente
personale – di Alexandre Dumas59), non depone bene rispetto
alla ricezione delle sue descrizioni, anche per il fatto che,
stando al De Cesare, i nostri storici più avveduti del periodo
Risorgimentale non ne avevano grande considerazione neppure
58
Il De Cesare, che lo dice amico di Balzac, sostiene che, «[s]e si
eccettuano taluni degli scritti politici, alle cui tesi reazionarie si può
rifiutare l’assenso, ma dei quali non si possono negare né la passione
che li anima né, talora, l’acume della diagnosi storica, gran parte della
sua opera di natura memorialistica, critico-letteraria, sociale, di analisi
psicologica o di storia dei costumi o del folklore, è contrassegnata da
un carattere superficiale, corsivo, giornalistico che ignora ogni serio
approfondimento dei fatti, ogni meditativo intervento del pensiero. E
la valutazione diventa ancora più severa se si esaminano le sue prose
d’invenzione, racconti, novelle, leggende, apologhi che, purtroppo,
sono fra le cose peggiori che egli abbia scritte e che difficilmente
resistono oggi alla lettura […]» (vedi ivi). Questa stroncatura del Salvo
scrittore appare però eccessiva, almeno per quel che riguarda i lavori
odeporici, visto – ad esempio – l’interesse nei suoi confronti nutrito da
Maria Pitrè, figlia del più noto Giuseppe e prosecutrice del lavoro
antropologico e folklorico del padre (e cfr. DI MATTEO, Viaggiatori, p.
91, dov’è menzionata la curatela della medesima alla descrizione della
festa palermitana di Santa Rosalia edita in francese dal Salvo nel 1834),
59
Si tenga presente che anche la disistima del Dumas è, in realtà, un evento
accaduto a posteriori e dovuto alla probabilmente errata convinzione –
maturata dallo stesso Dumas alla fine di un viaggio da lui compiuto nel
1835 in Sicilia, in Calabria e a Napoli (peraltro con un passaporto falso) –
che egli fosse stato denunciato alle autorità e in seguito espulso proprio per
opera del Salvo. Su tali questioni, cfr. De Cesare, «Un corrispondente», p.
707, citando anche un tagliente giudizio, evidentemente poco obiettivo
(perché forse anch’esso non del tutto disinteressato e segnacolo di una
70

loro60. Ma tant’è: l’oggettività del testo in questione, un


racconto troppo preciso per dare adito a soverchi dubbi, ci
pone di fronte ai soliti quesiti di tipo strutturale.

II

La struttura del testo appare abbastanza lineare. Dopo


una prima contestualizzazione degli eventi, che si esplica –
all’inizio dell’escerto – con la menzione dei tre malviventi
famosi, il brano continua rappresentando il fuorilegge
ciminnese. Il vero e minimo plot si ha nel finale, quando il
parroco, personaggio che funge da tramite tra il Marchese
Salvo e Fragali, rivela implicitamente che il marchese
medesimo era tenuto d’occhio dal bandito, il quale voleva
appropriarsi della sua sciabola. Il sacerdote ha qui una vera e
propria funzione d’ambasciatore occulto tra due mondi, una
sorta di Caronte che mette in comunicazione due dimensioni
tra di loro inconciliabili, quella della nobiltà di sangue (ma non
di meriti, come già visto) e quella romantica e affascinante
rappresentata dal bandito. Da un lato, ci troviamo di fronte ad
un uomo che ha lo stesso comportamento d’un antico re,
cavalleresco e coraggioso quant’altri mai; dall’altro, abbiamo
un nobile decaduto che si aggira – come un viaggiatore
esotico, straniero in terra straniera – tra le campagne dell’agro
palermitano in cerca d’emozioni forti. Il finale, abbastanza
prevedibile, consiste nel dono, chiamiamolo così, della
sciabola al bandito, con l’unica condizione che essa venga
conoscenza superficiale) espresso da Prosper Merimée, che lo definisce
come «una specie di spione austriaco [sic!] pessimo soggetto e marito di
una delle donne più belle di Parigi».
60
Cfr. DE CESARE, «Vincenzo Salvo» (parte prima), p. 478, n. 10.
71

usata per difendersi (cioè, par di capire, a fin di bene). Quanto


al Fragali, va subito detto che non è dato sapere chi fosse 61. Di
lui, allo stato, non si conoscono dati biografici d’alcuna sorta,
al punto che si potrebbe perfino dubitare che egli sia realmente
esistito62: per sua stessa ammissione, il termitano Marchese
Salvo sostiene di non averlo mai visto di persona e dunque si
può ritenere che le parole da lui usate per farne il ritratto
61
Qualora il personaggio fosse dovuto alla penna del Salvo (e di certo
non si può negare che esso ondeggia tra finzione e realtà), si potrebbe
trovare qualche riscontro onomastico solo ricordando la sorte di un
certo Diego Fragali, condannato a Palermo nel 1655 per omicidio e
impiccato il 7 luglio dello stesso anno: «[…] Fu appicato Diego Fragali
nel mezzo delle Quattro Cantoniere, convinto d’avere ucciso nel
cemiterio della chiesa di s. Nicolò Tolentino un suo nemico. Onde per
esempio degli altri, a por tare il dovuto rispetto alle chiese, morto gli fu
troncato il capo e posto in una gabbia di ferro alla cantoniera presso la
detta chiesa. Questo caso successe con altri, e si disse che colui che
ferì il morto non fu quello di Fragali condannato, ma altri […]». Cfr., per
la citazione, Diari della Città di Palermo dal Secolo XVI al XIX Pubblicati
Manoscritti della Biblioteca Comunale per Cura di Gioacchino Di
Marzo. Volume V. Palermo. Luigi Pedone Lauriel, Editore. MDCCCLXX,
p. 31. Tali diari, benché apparentemente adespoti nella loro forma
editoriale, appartengono al palermitano Vincenzo Auria (1625-1710),
poeta e storico su cui si veda – ad esempio – il lemma di R. ZAPPERI, in
DBIO, 4 (1962), con bibliografia. Sul Di Marzo (1839-1916), bibliografo
e storico dell’arte palermitano, cfr. il lemma di G. FAGIOLI VERCELLONE,
nel medesimo DBIO, 40 (1991), parimenti con bibliografia. Il caso di
Diego Fragali è ricordato anche da R. LA DUCA, La corda e la mannaia:
Delitti e pene nella Sicilia del “buon tempo antico” (XVI-XVIII secolo),
Palermo, Sellerio, 2012, p. 58 (il La Duca si limita, per così dire, a
tradurre in linguaggio moderno la fonte). Si noti, a margine, che
l’esposizione della testa del Fragali in una gabbia di ferro costituisce un
evidente parallelismo rispetto a quello che, come si vedrà in seguito, fu
72

fossero dovute alla vox populi, in questo caso rappresentata


probabilmente dal parroco. L’elemento di contraddizione,
invero, sta nel fatto che il brigante si fosse invaghito della
sciabola del Salvo avendola vista, ma è probabile che –
sapendo chi fosse – lo scrittore franco-siciliano lo abbia
casualmente incontrato senza riconoscerlo. Quello da cui
indubbiamente si può partire è il fatto che, nel corso
dell’Ottocento, e in particolare nel periodo post-unitario,
Ciminna fu sicuramente paese di brigantaggio. Gli stessi
cittadini ciminnesi – in una lettera riportata all’interno del
resoconto pubblicato dal generale La Masa sui fatti di Sicilia
del 1860 – ebbero a descrivere all’amministrazione
garibaldina, con toni allarmati se non orripilati, le nefandezze

il destino del bandito Pasquale Bruno (e cfr., più avanti, le nn. 20-21).
62
Sembra curioso che il cognome Fragali abbia – rispetto all’epoca in
cui scrisse il Salvo – un solo antecedente veramente illustre, il poeta
seicentesco Leonardo Fragali di Termini Imerese (cioè concittadino del
Salvo), autore di un Breve Ristretto della Vita del B. Agostino Novello
Termitano Allievo dell’Alma Religione Heremitana di Santo Agostino.
Composto in Versi, e Dato in Luce per Opera del Devoto Fratello della
Sua Compagnia. Leonardo Fragali da Termine. In Palermo. Appresso
Giuseppe Bisagni, 1655. Su costui, nessuna notizia biografica di rilievo,
se non il cenno lapidario contenuto in Nuovo Dizionario Geografico
Statistico, Storico, e Biografico della Sicilia Antica e Moderna etc.
dell’Avvocato Giuseppe Emanuele Ortolani. Palermo. Presso Francesco
Abbate etc. 1819, p. 147 (con numerose discendenze successive).
Sull’Ortolani (1758-1828), medico e scrittore erudito d’area
palermitana, cfr. adesso il breve cenno di C. BAJAMONTE, Due
periodici palermitani dell’800: L’Iride e L’indagatore in R. CIOFFI-A.
ROVETTA (a cura di), Percorsi di critica: un archivio per le riviste
d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, Milano, Vita e Pensiero,
2007, p. 150.
73

delle bande brigantesche di Santo Meli, con un’accorata


missiva che invocava il ritorno alla legge e all’ordine da parte
dei capi garibaldini 63:

«[…] I furti, le private vendette sono stati in tutti i tempi


di intoppo al compimento delle rivoluzioni. Qualunque
proprietario, ogni buon Cittadino volonteroso concorre
o con denaro, o con altri mezzi alla rivoluzione; ma
l’idea di essere assassinato, rubato, scoraggia tutti; e
forse contro i suoi naturali principii, il maggior numero
dei proprietari e dei buoni cittadini si mostrano contrari
alle più giusto e sante rivoluzioni. I furti, gli omicidii,
gl’incendi in più case commessi in Ciminna dalla
squadra diretta da Santo Meli e fratelli nella notte del 28
al 29 aprile ultimo portarono il più possibile
scoraggiamento, non solo ai proprietari, e cittadini di
quella Comune, ma a tutti quelli dei paesi dell’Isola, e
con ragione la maggior parte di essi si sono mostrati
restii al concorso della presente rivoluzione. Qualunque
ordine infatti dell’E.V. non è stato né verrà eseguito, se
pria la tranquillità non faccia restituire al loro posto le
autorità ed i buoni cittadini. Fu ordinato dall’E.V. di
63
Cfr. Alcuni Fatti della Rivoluzione dell’Italia Meridionale del 1860
Riguardanti i Siciliani e La Masa. Torino. Tip. Scolastica Sebastiano
Franco e Figli, 1861, pp. 176-177. La lettera non ha estremi cronologici,
pur riportando un accenno alle violenze perpetrate dai briganti una
settimana prima dello sbarco dei Mille in Sicilia (il che ne rende difficile
la datazione precisa). Il cenno alla «memoranda squadra di Meli» che
si sarebbe trasformata in «guardia municipale a custodia del paese»
sembra un primo assaggio di lampedusiano gattopardismo. La squadra
del Meli, stando sempre ai resoconti di La Masa, era stata disarmata e
arrestata nei pressi di Corleone – e il Meli medesimo ferito – qualche
tempo dopo (e cfr. ivi, pp. 72 e 80).
74

esigersi la tassa fondiaria. Chi la esigerà se l’esattore ha


dovuto lasciare il posto per il timore. di perdere la vita?
Ove sono i proprietari, ed i pacifici cittadini per
soddisfarla? Fu stabilita in Ciminna una guardia
municipale a custodia del paese, ma la stessa dovette
comporsi dal rimasuglio della memoranda squadra di
Meli; questa, lungi di mantenere la tranquillità ed
evitare i furti, tutta è dedita al saccheggio, agli omicidii,
che giorno per giorno senza riguardo si verificano. I
buoni cittadini di Ciminna intanto fiduciosi dei suoi
sublimi sentimenti, la pregano perché negli alti suoi
poteri ripari tanto sconcio, o spedendo una squadra ad
arrestare e fucilare questo sparuto numero di assassini
(unico mezzo di tranquillare l’Isola tutta, e
principalmente Ciminna), o per lo meno cercare altro
modo, che dall’alta sua saggezza può essere suggerito
[…]».

Il Meli, peraltro, si configura come uno di quei banditi


che cercano di trarre profitto, in ogni epoca, dalla confusione
generata dalle lotte di liberazione nazionale, come accaduto –
ad esempio – in epoca resistenziale64:
64
Cfr. G. PORTALONE GENTILE, Un democratico siciliano: Luigi La Porta,
Caltanissetta, ISRI, 1980, p. 33. Il fenomeno della delinquenza comune
che si produce durante i periodi di guerra civile è ben noto e di
vastissima dimensione bibliografica e non è questa la sede scientifica
per discutere dei dati dialettici ad esso sottintesi. Per quel che
concerne la Resistenza, basterà citare, a puro titolo d’esempio, C.
PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella
Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, dove si pone l’accento
anche sulla duplicità inversa del fenomeno (pur non paragonabile).
Sulla dimensione liminare dei due eventi, cfr. invece F. PAPPALARDO, Dal
banditismo al brigantaggio. La resistenza allo Stato moderno nel
75

«[…] Uno dei più fedeli “squadriglieri” di La Porta, un


certo Santo Meli da Ciminna, dopo la battaglia di
Carini, deluso dall’incalzare degli eventi e convinto di
poter almeno approfittare della confusione incontrollata
del momento, si mise a capo di un gruppo di sbandati e
cominciò a scorrazzare per i paesi dell’entroterra
palermitano eleggendo a suo centro d’azione Ciminna,
saccheggiando e compiendo ogni genere di infamità e
gettando fango sulla rivoluzione, essendo egli stesso un
ex rivoltoso. La polizia. D’altra parte, approfittando del
non richiesto favore che le veniva fatto dal Meli, non
faceva niente per disturbare l’opera di quei “benemeriti”
delinquenti che screditavano agli occhi di tutti la
rivoluzione e permetteva, dunque, che scorrazzassero
impunemente seminando violenza e terrore […]».

Il La Porta menzionato dalla Portalone Gentile


nell’escerto precedente è un uomo politico d’epoca
risorgimentale, prima mazziniano e in seguito garibaldino: egli
aveva preso parte ai moti che avevano insanguinato l’isola a
partire dal 1853, formando una serie di bande partigiane che si
erano ripromesse di sovvertire in tutti i modi il regime
borbonico (con scarso successo, almeno fino all’arrivo
dell’Eroe dei Due Mondi)65. Il Meli, dunque, era un brigante un
po’ particolare, al punto che, come visto, gli stessi Ciminnesi
gli avevano affidato, benché di malavoglia, il comando della

Mezzogiorno d’Italia, D’Ettoris, Crotone 2014.


65
Oltre al testo della Portalone Gentile, cfr. adesso, per un ragguaglio
bio-bibliografico più completo, il lemma di F. ZAVALLONI, in DBIO,
vol. 63 (2004), con bibliografia.
76

locale Guardia Municipale. Sicché, va detto, le riflessioni della


storica palermitana sembrano affidarsi troppo alla narrazione
del Graziano (e probabilmente, di seconda mano, alle
geremiadi dei Ciminnesi riportate dal La Masa), quando invece
le azioni del Meli potrebbero anche configurarsi come atti
rivoluzionari e non soltanto come atti delinquenziali puri. A
prescindere da altre occorrenze specifiche d’ambito letterario 66,
nonché penale e militare67, la figura di Santo Meli spicca
anch’essa in tutta evidenza, al punto da impressionare perfino
il già citato Dumas, che lo tratteggia proprio come un uomo
«dai venticinque ai ventotto anni, biondo, con gli occhi azzurri,
ben tagliato nella statura mediana» 68. Anche il Meli, nelle
sparute descrizioni che ne rimangono, sembra appartenere alla
66
La frase «[i] buoni cittadini di Ciminna intanto fiduciosi dei suoi
sublimi sentimenti, la pregano perché negli alti suoi poteri ripari tanto
sconcio, o spedendo una squadra ad arrestare e fucilare questo sparuto
numero di assassini […]» sembrerebbe richiamare l’eco dei fatti di
Bronte descritti da Verga nella novella Libertà, con i «buoni cittadini»
che altro non sono se non i borghesi e i possidenti di Ciminna
(esattamente come quelli trucidati nel racconto verghiano). Questo
passo potrebbe finalmente costituire almeno un terminus post quem per
la lettera dei Ciminnesi a La Masa citata precedentemente, dato che gli
eventi di Bronte si verificarono nell’agosto del 1860.
67
Rivista di discipline carcerarie in relazione con l’antropologia, col
diritto penale, con la statistica. Anno 1879. Italia, Direzione Generale
delle Carceri, 1879, p. 582. La nota in questione è anonima e si riferisce
all’uccisione, da parte di un distaccamento di bersaglieri appartenente
al 4° Reggimento e comandato dal tenente Gaetano Del Grosso, dei
briganti Salpietra e Ferraro in Ciminna il 2 settembre di quell’anno (per
cui il Del Grosso ricevette la medaglia d’argento al valor militare, e cfr.
pp. Bollettino Ufficiale delle Nomine, Promozioni e Destinazioni negli
Ufficiali dell’Esercito Italiano e nel Personale dell’Amministrazione
Militare. 1879. Carlo Voghera etc. Roma, 1879, pp. 400-401).
77

stessa schiatta di Fragali, almeno nelle linee generali. Eccone


un’indignata menzione da parte del poco noto medico
agrigentino Ettore Felice Caratozzolo, uomo di fiducia di
Garibaldi nella Sicilia Occidentale, che non appare affatto
lontana – almeno nei toni, perché sostanzialmente antifrastica
– da quanto scrive il Marchese Salvo69:

«[…] ll famoso brigante Santo Meli fu ieri sera in


Ciminna e si trova questa mane in Ventimiglia con
pochi uomini di squadra. Ci scrivono da colà, che si
avvicina a coloro che fuggirono per le sue rapine ed
incendii, che li rassicura a tornare in patria, che oblia
tutto e dà completa amnistia! Veramente è più generoso
del defunto Ferdinando! Allo scopo di non veder
rimescolate quelle infami orgie, andrà imponendo
certificati di buona condotta […]».

68
Cfr., per la citazione e per la menzione di entrambi i nomi in oggetto, S.
LUPO, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile,
Roma, Donzelli, 2001, p. 51.
69
Cfr. Alcuni Fatti della Rivoluzione cit., pp. 175-176. Quanto al
Caratozzolo, di cui non ho reperito dati biograficamente probanti (a
parte la pubblicazione, da parte sua, dei due opuscoli Sui Colerosi delle
Grandi Prigioni. Cenno del Metodo Curativo e Risultato pel Dr. Ettore
Felice Caratozzolo. Palermo. Tipografia di Gaetano Priulla. 1866; e Le
Nuove Elezioni e l’Avvenire d’Italia per Dottor Ettore Felice
Caratozzolo. Palermo. Stamperia di Antonio Russiano etc. 1867,
quest’ultimo assai critico contro le decisioni prese dal governo centrale
nei confronti della Sicilia nel periodo post-unitario), si veda soltanto la
brevissima menzione che ne offre F. BRANCATO, La Sicilia nel primo
ventennio del Regno d’Italia, Bologna, C. Zuffi, 1956, p. 391. Se ne
può inferire, con qualche certezza, che fosse il Direttore Sanitario del
Carcere di Palermo, ma nulla più.
78

In questo caso, il Meli, insomma, si accredita come una


sorta di paladino della legalità borbonica distrutta (e questo è
del tutto comune ed ovvio), ma ponendosi come salvatore della
patria e defensor populi, in una sorta di revanchismo sociale
alla Robin Hood che in effetti non poteva non impressionare il
vecchio e malcelato conoscente del Marchese Salvo,
Alexandre Dumas, il quale, del mito dell’arciere di Sherwood,
sarebbe divenuto un convinto, benché postumo, propagatore70.

III

Appare del tutto evidente come, nel menzionare almeno


il bandito Antonino Di Blasi71, soprannominato appunto Testa
70
Sul testo dumasiano che parla dell’eroe inglese e che fu pubblicato
postumo (per cui vedi, Le Prince des Voleurs-Robin Hood le Proscrit,
Paris, Lévy, 1872-’73, entrambi i volumi pubblicati un due tomi), cfr.
anche la breve menzione contenuta in S. KNIGHT (a cura di), Robin
Hood. Anthology of scholarship and criticism, Cambridge, Brewer,
1999, p. 179. Si veda anche, s. ulla mitologia sherwoodiana, G.
PHILLIPS, M. KEATMAN, Robin Hood: The Man Behind the Myth,
London, Michael O’Mara Books, 1995 (per l’edizione italiana, cfr. La
leggenda di Robin Hood, Sulle tracce dell’eroe fuorilegge e delle sue
generose imprese, Casale Monferrato [AL], Piemme, 1996).
71
Non mi è stato possibile appurare chi fosse il primo degli altri due
capobanda citati dal Salvo. Egli li dice siciliani, ma è probabile che,
invece, si riferisca genericamente a briganti attivi in Italia. Per quel che
concerne il secondo, si potrebbe azzardare – in prima ipotesi e
tralasciando altre occorrenze minori – che si tratti di un bandito
piemontese operante tra il tardo XVIII secolo e l’inizio del XIX (e vedi la
minima menzione contenuta in M. RUGGIERI, Briganti del Piemonte
Napoleonico, Torino, Le Bouquiniste, 1968, p. 186), ma non si
comprenderebbe la ragione per cui il Salvo lo citi in contesto siciliano.
Più convincente la possibilità che si tratti di un brigante operante nel
79

Longa (o Testalonga, a seconda delle fonti) 72, il poligrafo


termitano volesse, ad uso del pubblico straniero ma del tutto
illecitamente, accostare la figura del ciminnese Fragali ad
antecedenti già all’epoca notissimi, tanto da esser divenuti
famosi anche all’estero. Mi riferisco ai famigerati Beati Paoli,
il cui mito è avvolto nella leggenda e che pure seppero
affascinare il pittoresco mondo dei viaggiatori d’oltralpe e oltre

Cilento, e cfr. l’anonimo Istoria di Un Orribile e Crudelissimo Bandito


Chiamato Bruno Grillo e Suoi Compagni, Napoli, Avallone, 1849 (ma la
prima edizione risale al 1825), che non ho visto, ma su cui cfr. G.
MORELLI, «Bibliografia dei poemetti e canti popolari sui briganti (secc.
XVI-XX)», in Lares, 4 (1994), pp. 503-560, in part. pp. 511, con
bibliografia specifica. In questo caso, la menzione sarebbe giustificata
dal tenore letterario che aveva assunto la vicenda biografica di questo
brigante (su cui infatti si veda anche C. CAMPBELL BURY, “Alla Giornata”;
or, To The Day. In Three Volumes. Vol. III. London. Saunders and Otley
etc., 1826, passim, per una sua diffusione extra-italica a livello
romantico). Sulla Campbell-Bury (1775-1861), scrittrice primo-
ottocentesca, cfr. il breve ritratto che ne regala C. VIVEASH, «Lady
Charlotte Bury and Jane Austen», in Persuasion. Journal of The Jane
Austen Society, 19 (1997), pp. 29-30.
72
Sul Testa Longa, cfr., ad esempio, la narrazione dettagliata di V.
CONSOLI, Amori e tromboni. Briganti siciliani tra storia e leggenda,
Acireale (CT), Bonanno, 19882, pp. 33-40 (ma, per un resoconto ancor
più dettagliato, cfr. da ultimo A. MAROTTA, Il bandito Testalonga. La
resistenza di un vinto, Terme Vigliatore [ME], Giambra, 2018, passim).
Qualche notizia su questo famigerato brigante (?-1767) trovasi anche in
N. PISCIOTTA, «Banditi e briganti nella storia della Sicilia del ‘700»,
che leggo in
http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Altre/SICILIA/0005_
Sicilia_del_700.PDF, non numerato, ult. cons. 17 marzo 2019. Secondo
il Pisciotta, «[…] i primi briganti […] rubavano e ricattavano i ricchi e i
potenti per donare ai poveri e le ragazze prive di dote. Il famigerato
80

Manica. Ecco, ad esempio, una loro descrizione in un testo


straniero che, a mia saputa unico, connette stranamente la
figura del mentovato Testa Longa all’organizzazione
medesima73:

«[…] I membri di una seconda setta siciliana, quasi


sconosciuta al resto d’Europa, si chiamavano Beati
Paoli. Le loro azioni e le loro motivazioni somigliavano
brigante Antonino Di Blasi, detto Testalonga, si diede al brigantaggio
perché il bargello gli uccise la madre, trascinandola per terra facendole
sbattere la testa, per intimarle lo sfratto a causa del debito nei confronti
del principe Branciforti. Il Testalonga, che aveva assistito alla scena, si
vendicò uccidendo il bargello con una pugnalata al petto, dandosi dopo
alla latitanza. […]». Alcuni briganti, addirittura, assunsero il ruolo di
procacciatori di dote e di marito esclusivamente per le donne nubili in
età matura, come il famigerato Antonio Catinella, per cui vedi
CONSOLI, Amori e tromboni, pp. 23-27.
73
Cfr. Memoirs of The Secret Societies of The South of Italy,
Particularly The Carbonari. Translated from The Original Ms. London.
John Murray etc. 1821, pp. 38-39: «[…] The members of a second
Sicilian Society, almost unknown to the rest of Europe, called
themselves the Beati Paoli. Their actions and their motives perfectly
resembled those of the Free Knights in Germany. Persons of all ranks
united themselves secretly, and proceeded especially against the great
barons and the tribunals, whose power was such that they were not to
be reached openly. This institution, vicious and horrible in itself, did,
however, produce some partially salutary effects, restraining the
arbitrary licentiousness of the great, by the terror with which it inspired
them. The punishments inflicted by the Beati Paoli were death by
poison or the dagger, mutilation, destruction of property by fire, and for
the slightest crimes or faults, the severest beating. The ramifications of
this Society were spread over the whole island. The most formidable
companies were those of Messina and Trapani. It is said that papers
relating to the Society still exist in the archives of the two cities; and
though it was most powerful in the middle ages, traces of its existence
81

perfettamente a quelle dei Liberi Cavalieri in Germania.


Persone di ogni estrazione sociale si unirono
segretamente e procedettero specialmente contro i
grandi baroni e i tribunali, il cui potere era tale da non
poterli attaccare apertamente. Questa istituzione, viziosa
e orribile di per sé, ha tuttavia prodotto alcuni effetti
parzialmente salutari, frenando l’arbitrarietà del potere,
a causa del terrore che essi incutevano. Le pene inflitte

are to be found as late as the eighteenth century. A cavern is shown at


Palermo, in a street called de’ Canceddi, near the church of Santa Maria
di Gesu, where they held their meetings, and the grandfather of the
present Prince of Trabia caused one of their most daring chieftains,
surnamed Testa Longa, to be executed […]». Sull’arcinoto romanzo di
William Galt, alias Luigi Natoli, cfr. U. ECO-R. LA DUCA (a cura di), I
Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano [1909], Palermo,
Flaccovio, 20032 (si tenga presente che il romanzo è ambientato nel
1713 e che l’edizione curata da Eco e La Duca vide la sua prima luce
nel 1971). Sulla setta, a parte l’introduzione di Eco (poi ripubblicata
con il titolo di «I Beati Paoli e l’ideologia del romanzo popolare», in Il
superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare;
Milano, Bompiani, 19782), cfr. F. RENDA, I Beati Paoli. Storia,
letteratura e leggenda. Palermo, Sellerio, 1988; e G. MONTEMAGNO,
Luigi Natoli e I Beati Paoli. Palermo, Flaccovio, 2002. Si ricordi poi
che il romanzo di Natoli era stato preceduto, circa cinquant’anni prima,
da un racconto del Linares pubblicato a puntate sulla rivista palermitana
Il Vapore nel 1836 e che, originariamente riunito in volume in Racconti
popolari, Palermo, Tipografia di Bernardo Virzi, 1840, pp. 47 ss.gg. (da
cui si cita), ora trovasi in V. LINARES, Novelle e Racconti popolari
siciliani, cur. S. PEDONE, Palermo, Antares, 2003, pp. 23 ss.gg. Ma si
veda anche la bibliografia da me raccolta in “Bellezza e orror, caosse
ed armonia”. Religiosità e melodramma nella Trilogia Drammatica di
Giuseppe Nicola D’Agnillo, Raleigh (NC), Lulu Press, 2014 (poi
parzialmente rielaborato in «Il dramma storico ottocentesco nel
Meridione d’Italia: il caso di Giuseppe Nicola D’Agnillo», in E. DE
SIMONE-M.F. GIORDANO-M. STEVANELLA (a cura di), Scuola e
82

dai Beati Paoli consistevano nella morte per veleno o


per pugnale, nella mutilazione, nella distruzione di
proprietà con il fuoco, e, per minimi crimini o colpe, nel
pestaggio più severo. Le ramificazioni di questa società
si diffusero su tutta l’isola. Le compagnie più
formidabili erano quelle di Messina e Trapani. Si dice
che i documenti relativi alla società esistano ancora
negli archivi delle due città; e anche se era più potente
nel Medioevo, tracce della sua esistenza si trovano nel
tardo XVIII secolo. A Palermo c’è una grotta, in una
strada chiamata de’ Canceddi [in corsivo nell’originale],
vicino alla Chiesa di Santa Maria di Gesù, dove essi
tenevano i loro incontri, e dove il nonno dell’attuale
Principe di Trabia avrebbe catturato uno dei loro capi
più audaci, soprannominato Testa Longa, per farlo poi
condannare a morte […]».

Al di là di queste osservazioni (la seconda setta di cui si


parla nel testo è, evidentemente, la Carboneria), va comunque
rilevato come il tenore del passo tratto dalla missiva del
Caratozzolo sembri essere una sorta di anticipazione di temi
cari proprio al Dumas, che avrebbe trattato del brigantaggio

Ricerca, IV, Lecce, Edizioni Grifo, 2018, pp. 67-87), pp. 111-112, n.
111, a cui vanno aggiunti G. MONTEMAGNO, L’uomo che inventò i
Beati Paoli, Palermo, Sellerio, 2017; C. DI FRANCO, Il Mistero
Vetusto: I Beati Paoli, Palermo, Lapademi, 2014; e, di B. Naselli, A.
SQUATRITO-I.T. GINEVRA (a cura di), I Beati Paoli o La famiglia del
giustiziato [1863], Palermo, Ed. I Buoni Cugini, 2016 (sulla produzione
del Naselli, su cui non si hanno notizie biografiche rilevanti, cfr. ora
D.BOMBARA, «I misteri di Palermo di Benedetto Naselli: la tragedia del
proletariato siciliano fra povertà, oppressione nobiliare, corruzione», in
Transalpina. Études Italiennes, 25 (2022), pp. 33-50).
83

siciliano in un romanzo pubblicato qualche anno dopo, il


Pasquale Bruno74. Il che, implicitamente, testimonierebbe che
– fatta la tara delle schermaglie politiche e dei pettegolezzi
pubblici – un qualche legame letterario occulto tra il Salvo e
Dumas potrebbe certamente postularsi, al di là dei negativi
giudizi riportati dal De Cesare75.

IV

Ma torniamo al Fragali. La dimensione letteraria (e


leggendaria, ma non rocambolesca) su cui viene costruita
l’immagine del personaggio citato dal Salvo appartiene a un
74
Si tenga conto che Dumas, nel 1838, si era occupato di brigantaggio
siciliano proprio in questo romanzo, che descrive le vicende di un
personaggio realmente vissuto (e cfr. A.D. BONACCORSO, Pasquale
Bruno. Le fortune di un bandito gentile, Vasto [CH], &MyBook, 2011,
nonché il solito CONSOLI, Amori e tromboni, pp. 41-44) e a cui assegna
le fattezze di un Robin Hood nostrano.
75
Il Consoli (in Amori e tromboni, p. 43) ricorda che l’idea di scrivere un
romanzo dedicato alla figura di Pasquale (o Pascal) Bruno fosse stata
data al Dumas da Vincenzo Bellini (come sostiene lo stesso Dumas
nella prefazione al suo romanzo), ma io non escluderei che le prime
notizie sul brigante di Villafranca Tirrena gliele avesse potute fornire
proprio il Salvo, che conosceva bene Palermo e il suo circondario. Si
noti, infatti che Bellini era catanese e che era morto tre anni prima che
il Dumas concludesse la stesura del suo romanzo (cioè nello stesso
anno in cui costui aveva compiuto il suo viaggio nel Regno di Napoli).
Credo più probabile che, vista l’inimicizia recentemente creatasi tra lo
scrittore francese e il Marchese termitano, il Dumas abbia creduto più
opportuno rendere omaggio al defunto compositore (che – si noti –
aveva lo stesso nome del Salvo), piuttosto che ad un personaggio
screditato a cui egli, tra l’altro, attribuiva una sorta di tradimento.
84

territorio già indagato, una categoria tipologica ben nota,


almeno nelle sue particolarità generali 76. E tuttavia, senz’ombra
di dubbio, vi sono delle caratteristiche peculiari
nell’avvenimento narrato dal Salvo, come – ad esempio – il
dono della sciabola da parte del Salvo medesimo al brigante; o
il fatto che il bandito non torcesse un capello alle donne da lui
catturate nel corso delle sue scorribande malavitose. Per quel
che concerne il primo dei due comportamenti cavallereschi, va
subito detto che esso, pur essendo indice anche di alterigia e
superiorità, mostra come, di buono o di cattivo grado, il Salvo
considerasse implicitamente Fragali alla stregua di un suo pari.
Esempi di un tale contrasto interiore, sia pure mascherato da
qualche forma di sottile ironia, se ne trovano anche altrove,
come in questo passo riferito a un condottiero quattrocentesco,
l’albanese Giorgio Castriota, e al sultano Maometto II che gli
chiese in dono la sua spada77:

«[…] Se ne citano dei tratti quasi incredibili; avrebbe, a


quanto dicono, tagliata con un solo colpo di sciabola la
testa di tori selvaggi e furiosi e di cinghiali enormi, e di
frequente avrebbe spaccati per mezzo al primo colpo
76
Cfr., Su tale argomento, A. ALTOMONTE, Mafia, briganti, camorra e
letteratura, Milano, Pan, 1979, passim.
77
L’uso del dono della sciabola come attestazione onorifica di coraggio
nei confronti di un re e/o di un capo militare è testimoniato da
innumerevoli esempi. L’episodio riferito al Castriota, meglio
conosciuto con il nome di Skanderbeg, è – a quanto ne so – il primo
che si conosca e trovasi in Biografia Universale Antica e Moderna etc.
Volume LI. Venezia. Presso Gio. Battista Missiaglia. MDCCCXXIX, p. 309,
n. 2. La costruzione di tale evento mitografico, ovviamente, ha
numerose filiazioni successive
85

uomini armati da capo a piedi. Siccome alcuni volevano


che ciò provenisse dalla buona tempera della sua
scimitarra, Maometto mentre era in pace con lui, lo
pregò di fargli un dono della sciabola che portava. Ma
quando il sultano si fece sicuro che cotesta scimitarra,
provata da gente robustissima, non produceva nessun
dei prodigi che raccontavano, la rimandò, dicendo che
ne aveva moltissime altrettanto buone e migliori di
quella. Scander-Beg si contentò di rispondere
all’emissario di Maometto: Dite al vostro padrone, che
mandandogli la scimitarra, non gli ho mandato il
braccio […]».

Quest’ultimo evento appare in contrasto con quanto


facevano e dicevano altri capi briganti anche in periodi
successivi a quello in cui visse il Fragali78:

«[L]a violenza sessuale sulle donne è stata una pratica


diffusa durante le incursioni dei briganti, assetati di
tutto, di ricchezze e di piaceri proibiti, talvolta in
ossequio ad un principio di disprezzo del prossimo che
neppure i comandanti più morigerati riuscivano a
calmare. Lo stupro di massa ha molto spesso
accompagnato le azioni militari dei briganti, e non
sempre si è trattato di sole donne borghesi talvolta in
grado di fuggire per tempo, ma anche di figlie del
popolo, di contadini più o meno benestanti, o di mogli
78
Le osservazioni di cui sopra, relative al famoso brigante lucano
Carmine Crocco, operante nel periodo successivo all’Unità, in T.
PEDIO, M. PROTO, (a cura di), Come divenni brigante [1903], Manduria
(TA), Lacaita, 1995, p. 7 (scritto, con l’aiuto di E. Massa, dallo stesso
Crocco). Si vedano anche le riflessioni di Consoli, Amori e tromboni
cit., passim.
86

stuprate alla presenza di mariti, come avverrà nei


conflitti etnici di più recente e tragica memoria. Le
dichiarazioni di Crocco su questo punto appaiono
sfumate o reticenti. In sede d’interrogatorio al processo
penale, presso la Corte di Potenza nel 1872, [il brigante]
Crocco, alla domanda sulla violenza alle donne risponde
con la metafora del beccafico, cioè di un uccello in
libertà che becca dove gli pare e piace […]».

L’impeto cavalleresco di Fragali, che Salvo definisce


«une galanterie aussi délicate», dunque, appare
sostanzialmente ultronea rispetto al comportamento portato
avanti dai briganti d’ogni tempo (nel caso precedente, il
fuorilegge lucano Crocco) e sembra essere – essa sì – una
creazione letteraria tesa ad inserire il personaggio all’interno di
una ben precisa categoria. Il dato dell’onore femminile,
peraltro, appare in controluce nella vita di molti briganti. Farò
due soli esempi: il già citato Testalonga «si diede al
brigantaggio perché il bargello gli uccise la madre,
trascinandola per terra facendole sbattere la testa, per intimarle
lo sfratto a causa del debito nei confronti del principe
Branciforti. Il Testalonga, che aveva assistito alla scena, si
vendicò uccidendo il bargello con una pugnalata al petto,
dandosi dopo alla latitanza»79; e d’altra parte, sempre riguardo
al Crocco, «un galantuomo di Rionero, che aveva tentato
d’insidiare l’onore della sorella Rosina, cadrà sotto il pugnale
di Carmine»80. Non sembrerebbe errato postulare che il Salvo
volesse dare al suo brigante una qualche origine nobiliare,
79
Per la notizia, cfr. PISCIOTTA, Banditi e Briganti cit., s.n.p.
80
Le parole sono del Proto, in PEDIO, PROTO, Come divenni brigante, p.
6.
87

come se costui si ritenesse figlio di un nobile o di un re, perché


la cavalleria da lui dimostrata nei confronti delle donne non
sarebbe congruente con l’anelito conservatore e, talvolta,
reazionario sovente dimostrato dal Salvo laddove il Fragali non
avesse – in ipotesi – qualche goccia di asserito sangue blu
(almeno agli occhi di chi lo descrisse). In effetti, riprendendo
un concetto espresso dal Lacché 81, «[p]er certi versi il
banditismo è una chiara inversione degli status sociali: il
bandito nobile (c.vo dell’autore) idealizza, attraverso il
crimine, i valori di violenza che l’hanno caratterizzato lungo i
secoli di maggiore riconosciuta libertà da parte degli altri
poteri […]». Tale interpretazione non tralascia di mostrare la
differenza che intercorre tra lui e i tagliagole da strada
attraverso una serie di azioni che connotino il suo rango e
facciano capire che egli appartiene a una categoria superiore
d’individui. La figura del brigante divenuto tale perché – a suo
dire – ingiustamente perseguitato è presente anche in altre zone
d’Italia82, ma con caratteristiche talvolta difformi rispetto alla
tipologia del brigante-nobile e comunque con un reiterato e
diffuso utilizzo della violenza che invece, nell’escerto del
81
Cfr, per la citazione, L. LACCHÉ, Latrocinium: giustizia, scienza penale
e repressione del banditismo in Antico Regime, Napoli, Giuffré, 1988, p.
15.
82
Citerei il caso, ad esempio, del sardo Giovanni Tolu, per cui si veda
E. COSTA, Giovanni Tolu. Storia di un bandito narrata da lui
medesimo preceduta da cenni storici sui banditi del Logudoro, Sassari,
Dessì, 1897 (ora ristampata in ID., Giovanni Tolu, Nuoro, Ilisso, 2003.
Il testo del Costa è una sorta di autobiografia scritta per interposta
persona sul tipo di quella del Crocco). Si noti che anche il Tolu, come il
Testa Longa e il Crocco, divenne brigante a causa di un evento che
coinvolse indirettamente una donna.
88

Salvo, appare indistinta, sullo sfondo, come se essa non


appartenesse al sostrato originario della figura descritta. Il
brigante ciminnese di Vincenzo Salvo è una sorta di capo
militare e politico che addirittura mette in atto delle
«négociations [que] étaient des traités» 83 veri e propri, come se
egli fosse il garante di un’autorità opposta a quella costituita,
autorità della quale egli – come una sorta di plenipotenziario –
deve rappresentare gli esclusivissimi interessi. Questo re
brigante (mi si passi il neologismo) viene descritto dal Salvo
con caratteristiche tanto più singolari quanto facilmente
riconoscibili: «[…] la chronique faisait presque un héros des
Vies de Plutarque. Bravoure, grandeur d’ame, talent, beauté,
jeunesse, rien ne manquait à ce personnage […]». Il campo
semantico a cui appartengono questi termini (quello della
laudatio e dell’esaltazione retorica) li ricondurrebbe tutti alla
figura di Alessandro Magno, così come essa viene appunto
esaltata nell’opera plutarchea. Il fatto curioso, tuttavia, è un
altro: i vocaboli utilizzati per mettere in scena il personaggio di
Fragali si ritrovano tutti non in un’opera coeva o precedente,
ma in una fonte sostanzialmente indiretta, vale a dire la
traduzione delle Vitae di Plutarco fatta da Alexis Pierron, che
però risale a circa trent’anni dopo 84. Che vi possa essere un
83
Tali termini si trovano coalizzati, oltre che in questo luogo, anche in
Romans Illustrées par Honorée de Balzac. Vol. X. Paris. F. Schneider,
Libraire-Éditeur etc. 1829, p. 102 (che, in modo convincente vista
l’amicizia tra i due autori, sembra la paredra più vicina
all’accostamento salviano): «[…] aux Anglais ce que font nos
ambassadeurs; quelles négociations sont commencées, quels traités
vont se conclure […]».
84
Cfr. Vies des Hommes Illustres de Plutarque. Traduction Nouvelle
par Alexis Pierron, Professeur au Lycée Luis-Le-Grand. Quatrième
89

qualche antigrafo a fungere da fonte comune è – per lo meno –


una solida ipotesi: fatto sta che la dimensione quasi eroica, si
direbbe superomistica, che il Salvo attribuisce al brigante,
nasce in modo automatico e del resto essa è dichiarata in modo
palese, ma affatto casualmente, come si potrebbe inferire ad
una lettura superficiale. E ci si può stupire che, in tale
caratterizzazione, il Salvo abbia anche voluto tirare una
sotterranea e nazionalistica stilettata al pubblico francese, che
era abituato a considerare se stesso come l’unico possessore di
queste auguste virtù85.
Édition Entiérement Revue et Corrigée. Tome Troisième. Paris.
Charpentier, Libraire-Éditeur etc. 1861, p. 242 («bravoure»), p. 238
(«grandeur d’âme»), p. 293 («talent», nel senso di attitudine,
predisposizione, altrove con significato monetario), p. 249 («beauté»),
p. 225 («jeunesse»).
85
I termini utilizzati dal Salvo per descrivere Fragali sono infatti tutti
presenti, in vari loci, all’interno di F. MOREAU, «Caractère et Moeurs
des Français», in Journal des Travaux del la Société Française de
Statistique Universelle etc. Volume IV etc. IV Année. Juillet 1833, p. 30:
«[…] Si l’on reproche à la jeunesse française sa pétulance, son
étourderie, son ton avantageux, ses airs évaporés, que l’on considère
aussi le Français bien élevé, mûri par l’âge, par l’expérience, par
l’usage du monde; est-il un homme plus aimable […] On ne connut
guère le nom de Français, dit Voltaire, que vers le dixième siècle. Le
fonds de la nation étant de familles gauloises, les traces du caractère des
anciens Gaulois ont toujours subsisté: la source et le principe de cette
ancienne grandeur d’âme, souvent cachée sous la faiblesse, n’a pas
encore diminué. […] C’est aussi sous le règne de ce même roi, qu’elle
commença à se distinguer par la galanterie et la politesse. Cette nation
fut déjà taxée de légèreté par César et par tous les peuples voisins; c’est
ce qui fait que le grand caractère est bien plus rare parmi les Français
que l’homme d’esprit. Ils sont plus susceptibles de galanterie que
d’amour, de plaisir que de bonheur, et de bravoure que de courage. La
taille des Français est en général la moyenne; mais ils sont bien
90

Del resto, va anche segnalato il portato quasi


ossimorico della descrizione salviana se essa viene comparata
con quella che, del già citato Pasquale Bruno, il Dumas offre
nel romanzo omonimo. Ma lasciamo spazio a una
comparazione esegetica coinvolgente un famoso esempio
dovuto alla penna di E. Salgari86:

proportionnés, très-actifs, et moins sujets que les autres nations aux


difformités corporelles. Les femmes sont aussi renommées pour la
beauté que pour la vivacité, la gentillesse, les grâces et les charmes
qu’elles savent si bien mettre dans toutes leurs démarches et leurs
actions. […] La gloire de leurs armes, le talent de leurs poètes,
l’éloquence de leurs orateurs, la magnificence de leurs fêtes, l’activité
de leur commerce, la politesse de leur langage, l’urbanité de leurs
mœurs, leur donnent une supériorité réelle sur tou tes les autres nations
de l’Europe […]». La coincidenza appare quanto meno singolare, vista
la breve consistenza dell’articolo in questione.
86
Cfr., per la traduzione dell’escerto dumasiano, Pasquale Bruno.
Romanzo Storico Siciliano di A. Dumas. Prima Versione Italiana.
Palermo. Stabilimento Poligrafico Empedocle. 1841, pp. 19-20 (per
l’originale, cfr. Pauline et Pascal Bruno par Alexandre Dumas.
Nouvelle Édition. Paris. Michel Lévy Frères, Libraires Éditeurs etc.
1867 [trattasi del primo volume delle Oeuvres Complètes], p. 223:
«[…] C’était un jeune homme de vingt-cinq à vingt-six ans, qui
paraissait appartenir à la classe populaire: il portait le chapeau
calabrais, entouré d’un large ruban qui retombait flottant sur son épaule,
une veste de velours à boutons d’argent, une culotte de même étoffe et à
ornements pareils; sa taille était serrée par une de ces ceintures en soie
rouge avec des broderies et des franges vertes comme on en fabrique à
Messine, en imitation de celles du Levant. Enfin, des guêtres et des
souliers de peau complétaient ce costume montagnard, qui ne manquait
pas d’élégance et quisemblait choisi pour faire ressortir les heureuses
91

TESTO DUMAS

«[…] Era un giovine di venticinque a ventisei anni, che


sembrava appartenere alla classe del popolo: portava un
cappello calabrese legato da una striscia di velluto che
ricadeva ondeggiante sulla sua spalla, un abito di velluto
con bottoni di argento, un calzone della stessa roba con
ornamenti compagni, stretto alla vita da una di quelle
cinture di seta rossa con ricami e frange verdi, che si
fabbricano a Messina ad imitazione di simili la vori del
levante; finalmente burzacchini e scarpe di pelle erano il
compimento dell’abito montanaro, non privo di
eleganza, e che parea scelto a bella posta a dar risalto
alle belle proporzioni del corpo di colui che lo
indossava. Quanto al suo aspetto, era di una beltà
selvaggia, i suoi contorni fortemente risentiti,
annunciavano l’uomo del mezzogiorno, avea gli occhi
arditi e fieri, barba e capelli neri, naso aquilino, e denti
bianchi e compatti […]».

TESTO SALGARI

«[…] In quella stanza così stranamente arredata, un


uomo sta seduto su una poltrona zoppicante: è di statura

proportions de la taille de celui qui l’avait adopté. Quant à sa figure,


elle était d’une beauté sauvage: c’étaient ces traits fortement accentués
de l’homme du Midi, ses yeux hardis et fiers, ses cheveux et sa barbe
noirs, son nez d’aigle et ses dents de chacal […]»). Esso trova una
singolare (ma in realtà facilmente spiegabile) somiglianza con il passo
riportato del Salgari, che è tratto dalle Tigri di Mompracem del Salgari
(e cfr. E. SALGARI, Tutte le avventure di Sandokan [1884-1908], cur. S.
CAMPAILLA, Roma, Newton Compton 20104, pp. 40 e 44).
92

alta, slanciata, dalla muscolatura potente, dai lineamenti


energici, maschi, fieri, e d’una bellezza strana. Lunghi
capelli gli cadono sugli omeri: una barba nerissima gli
incornicia il volto leggermente abbronzato. Ha la fronte
ampia, ombreggiata da due stupende sopracciglia
dall’ardita arcata, una bocca piccola che mostra dei
denti acuminati come quelli delle fiere e scintillanti
come perle; due occhi nerissimi, d’un fulgore che
affascina, che brucia, che fa chinare qualsiasi altro
sguardo. […] Era abbigliato da guerra: aveva calzato
lunghi stivali di pelle rossa, il suo colore favorito, aveva
indossata una splendida casacca di velluto pure rosso,
adorna di ricami e di frange e larghi calzoni di seta
azzurra […]».

Come si può vedere, in entrambi i brani sono presenti, da


un lato, la descrizione fisica a fattezze meridionali del
personaggio, e, dall’altro, l’accento sulla sgargiante e colorata
tonalità dell’abbigliamento. Questa duplicità è assente nel testo
del Salvo, il quale preferisce mettere in evidenza le doti
interiori possedute dal brigante ciminnese, sia dando per
scontato che egli fosse comunque fisicamente affascinante
(essendo qui l’esteriorità, peraltro, soggetta a un facile
processo di καλοκαγαθία87), sia sottolineando la cortesia
nobiliare del personaggio. Andando invece ad esaminare la
caratterizzazione di Fragali effettuata dal Salvo, il narratore
87
Su tale concetto, che qui è richiamato implicitamente e che però ha
una forte valenza ereditaria (viste anche le origini greche della civiltà
sicula), cfr. F. BOURRIOT, Kalos kagathos – kalokagathia. D’un terme
de propagande de sophistes à une notion sociale et philosophique.
Étude d’histoire athénienne, 2 voll., Hildesheim, Georg Olms, 1995,
con bibliografia.
93

francese mette in evidenza soprattutto le fattezze fisiche del


brigante settecentesco da lui descritto, mentre lo scrittore
termitano pone invece l’accento su tutta una serie di
caratteristiche di tipo temperamentale, che – come visto –
riconducono la figura di questo brigante alla tipologia del
bandito gentiluomo piuttosto che a quella del masnadiero
d’ignobili natali.

VI

Il finale regalo della spada, che il Salvo consegna al


Fragali per interposta persona, è anch’esso un atto
significativo. Si è già visto che tali donativi erano fatti tra
condottieri di pari valore, o presunti tali. Ciò che però non si è
ancora detto è che, in genere, la consegna della sciabola
rappresenta, nelle usanze militari e universalmente, anche un
atto di resa. Gli episodi in cui tale gesto si verificò sono
davvero tanti. Per testimoniarne uno, non del tutto coevo ma
posto in essere da un uomo totalmente differente rispetto al
Salvo e senza alcuna macchia palese sul suo onore (a parte
Bronte), citerei un evento accaduto al garibaldino Nino Bixio
quand’era già diventato generale dell’esercito italiano 88:

«[…] A quest’ultimo periodo della lotta si riferisce un


brillante episodio. Un ufficiale degli Ulani cadeva
offeso da vari colpi sotto le baionette dei bersaglieri;
vedendo da vicino un uffiziale generale elevò verso di
lui la sciabola in segno di resa. Bixio accorse a salvarlo,
88
Cfr., per la citazione, Otto Anni di Storia Militare in Italia (1859-1866)
di Armando Guarnieri. Firenze. Tipografia Galletti. 1868 p. 587
(l’evento si sarebbe verificato durante la IIIa Guerra d’Indipendenza).
94

e rendendogli l’arma gli diceva: “Tenete la vostra spada


perché siete degno di portarla” Di ciò non contento lo
fece trasportare all’ambulanza. L’uffiziale austriaco
tornato in patria si affrettò a pubblicare la bella condotta
del generale italiano […]».

C’è dunque da chiedersi: il dono della sciabola così


com’è descritto nel passo del Salvo non potrebbe essere, in
realtà, una mitizzazione postuma di un gesto d’arrendevolezza
preteso dal Fragali medesimo e accettato poi dal Marchese per
aver salva la vita? Il tono ironico che permea l’intero brano
salviano sembrerebbe suggerirlo e forse questa sarebbe la vera
motivazione della coloritura eroicizzante di quanto il Salvo
andava scrivendo. In altre parole, l’autore non poteva
raccontare all’universo mondo quale fosse la reale dinamica
dell’accaduto, a meno di esser tacciato di vigliaccheria e di
accettazione prona dei dettati e delle volontà d’un noto
brigante, nonché correndo il rischio fare una figuraccia con i
suoi conterranei di Termini (e forse l’origine del Salvo stavolta
andrebbe sottolineata con maggior forza89) per essersi fatto
89
Si tenga presente che Salvo, come detto, era nativo di Termini
Imerese e che, sin dal passato, i rapporti tra Ciminnesi e Termitani non
erano proprio idilliaci. Il Graziano riporta un detto ciminnese per cui
«Termini Imerisi porcu paisi, livannu li santi su tutti briganti», con un
singolare, se non paradossale, capovolgimento dei termini della
questione. Astio campanilistico? Per la menzione paremiografica, cfr.
V. GRAZIANO, Canti e leggende. Usi e costumi di Ciminna [1935], cur. S.
BONANZINGA, Ciminna [PA], Comune di Ciminna-Biblioteca Comunale,
1987, p. 15. Questo specifico volume riproduce anastaticamente, ma
con difformità dovute alla riedizione del 1935 e non al curatore
moderno, il testo che il Graziano aveva già pubblicato nel 1911. Tali
difformità incidono molto sulla parte storiografica, sicché non è
95

mettere i piedi in testa da un ciminnese. Questo, per un


nobiluomo geloso delle sue prerogative come certamente si
considerava il Marchese Vincenzo Salvo, sarebbe stato
interpretato come un gesto codardo o quanto meno del tutto
riprovevole e avrebbe finito con lo squalificarlo del tutto a
fronte di un ambiente – quello dell’intellettualità francese
coeva – che invero già lo stimava molto poco.

consigliabile consultare il secondo testo in assenza del primo.


96
97

DI POLIMETRI E D’ALTRE IMMAGINAZIONI: VERSI INEDITI DEL


TASSO E DI BONAVENTURA BATTAGLIA NEL ROSARIO DI G.A.
BRANDI

Semisconosciuto: questo termine pauroso ed ambiguo


lascia sempre, nell’immaginazione di chi opera una ricerca di
tipo semasiologico, un certo timore e talun tremore (per
parafrasare il Kierkegaard). Soprattutto se poi, in modo
abbastanza anodino, le fonti confondono l’autore che fosse
oggetto di tale – a dir il vero poco simpatica – denominazione
con un altro, curiosamente omonimo. Ma tant’è: appare
improbabile che si possano superare le interdizioni antiche (per
intenderci, quelle tra minor e maius) quando ci si trova di
fronte ad un personaggio diafano ed incerto come Bonaventura
Battaglia. Il Graziano, con implicito orgoglio cittadino, lo dice
di Ciminna90; ma altre fonti aspirano a creare nello studioso

90
Bonaventura Battaglia (ante 1595-1627) terziario francescano, “fu pure
dotto nelle severe discipline e nelle amene lettere e maestro in sacra
Teologia» (e vedi V. GRAZIANO, Ciminna: memorie e documenti [1911],
Amministrazione Comunale-Biblioteca Comunale, Ciminna, 1987, p. 146
e n. 1). Su di lui, cfr. Bibliotheca Sicula, Sive de Scriptoribus Siculis, Qui
Tum Vetera, Tun Recentiosa Secula illustrarunt etc. Auctoris ac
Theologiae Doctore Antonio Mongitore Presbytero Panormitano. Tomus
Primus. Panormi. Ex Typographia Didaci Bua. MDCCVIII, p. 112, dove
appunto lo si dice «[n]on minus gravioribus disciplinis, qu[a]m
amœnioribus insigniter excultus»; Fortsetzung und Ergänzungen zu
Christian Gottlieb Jöchers. Allgemeinen Gelehrten-Lexico, Worin die
Schriftsteller Aller Stände nach Ihren Vornehmsten Lebensumständen und
Schriften Beschrieben Werden, 4 voll., Leipzig, In Yohann Friedrich
98

qualche lecito dubbio, nominando un altro Bonaventura


Battaglia, quello nativo di Capizzi, altrimenti ignoto ma che
avrebbe esercitato l’ufficio di frate all’incirca nello stesso
periodo in cui operò il monaco ciminnita91. Verrebbe fatto di
domandarsi a cosa si debba questa strana, curiosa identità
nominale tra due personaggi vissuti in epoca coeva.
Personalmente ritengo che, data la non rara frequenza del

Bleditschens Bandlung, 1784, in part. vol. 1, col. 1507; Biografia Serafica


degli Uomini Illustri che Fiorirono nel Francescano Istituto per Santità,
Dottrina e Dignità Fino a’ Nostri Giorni. Del Padre Fr. Sigismondo da
Venezia, Minore Riformato della Provincia Veneta. Volume Unico.
Venezia, Dalla Tipografia di G.B. Merlo. MDCCCXLVI, p. 631;
Bibliografia Siciliana Ovvero Gran Dizionario Bibliografico delle Opere
Edite e Inedite, Antiche e Moderne di Autori Siciliani o di Argomento
Siciliano Stampate in Sicilia e Fuori etc. Per Giuseppe M. Mira etc.
Palermo. Ufficio Tipografico Diretto da G.B. Gaudiano, 1875, p. 89.
Modernamente, si veda S. CORRENTI, La Sicilia del Cinquecento: il
nazionalismo isolano, Milano, Mursia, 1980, p. 145, n. 15. Tutti questi
brevi profili bio-bibliografici, compreso quello del Graziano (che lo
dichiara esplicitamente a p. 146, n. 1), fanno riferimento alla Bibliotheca
Sicula del Mongitore. Per queste notizie e per quelle relative al Rosario di
Brandi, si veda il mio «Spigolature seicentesche: una stanza inedita del
Tasso nel Rosario di G.A. Brandi», in Scuola e Ricerca, V (2020), passim.
91
Su questo frate (1552-1618), quasi coetaneo del nostro e
successivamente dichiarato venerabile, cfr. l’appendice a F. SARRA
MINICHELLO, Storia di Capizzi e dei suoi Santi. Un cammino lungo
secoli, Avola (SR), Libreria Editrice Urso, 2008, con tutte le notizie che
lo riguardano. Una menzione di questo beato in Annales minorum seu
trium ordinum a s. Francisco institutorum: ab anno MDCXII usque ad
annum MDCXXII. 1612-1622, 32 voll., Assisi, Ad Claras Aquas, 1934, in
part vol. XXV, p. 299 (il volume è curato da L. Wadding e J.M.R. Da
Fonseca), e – da ultimo – Leggendario Francescano, Overo Storie de’
Santi, Beati, Venerabili, ed Altri Uomini Illustri etc. Di Padre F.
Benedetto Mazzarra Minore Riformato e in Questa Terza Impressione
99

nome Battaglia nelle contrade sicule, qui si venga posti


dinanzi, appunto, ad un’omonimia, ma la cosa – in fin dei conti
– appare di non grande rilievo. Quello che invece interessa, in
questa sede, è che l’unica opera poetica letterariamente
definibile come tale ed ascrivibile al Battaglia è un sonetto:
certo, egli scrisse un trattato di metrica, ma un conto è contar
sillabe altrui, un altro è scrivere quelle stesse sillabe
computandole in un proprio testo. E quest’ultima cosa non è
sempre facile, ovvero è assolutamente complessa, se non si è
dotati della medesima ispirazione che ci avesse consentito di
scrivere un trattato dalla forte connotazione logico-formale
come si configura uno studio metrico.

II

Va subito detto che il trattato del Battaglia altro non è


che un’analisi approfondita, da un punto di vista schiettamente
prosodico, d’un opera a cui il trattato medesimo è posto in
appendice assieme ad altre dissertazioni consimili (di teologia,
retorica, di logica e via citando), ossia il poema sacro di
Giovanni Antonio Brandi Il Rosario di Maria Vergine
Santissima, pubblicato per la prima volta a Palermo dallo
stampatore veneto Carrara nel 159592 e poi riedito – con le

più Corretto, e per l’Aggiunta di Nuove Vite Ridotto in Dodici Tomi dal
Padre Pietr’Antonio Venezia dello Stesso Ordine, e Riforma. Tomo
Settimo. In cui Si Riferiscono le Vite, che Corrono nel Mese di Luglio. In
Venezia, MDCCXXII. Per Domenico Lovita, pp. 234-240, con minima
bibliografia.
92
Cfr. Rosario di Maria Vergine santissima. Poema Sacro del R.P.F.
Gio. Antonio Brandi, Salemitano, Theologo. Della religione de’ Padri
Tertiarij Regolari di San Francesco, Detti in Sicilia i Padri Scalzi. In
100

aggiunte di cui s’è detto – per i tipi del Vullietti a Roma nel
160193. Del volume brandiano si dirà maggiormente in seguito:
per ora, basti dire che il trattato or ora citato sembra avere un
ruolo centrale all’interno del volume in oggetto, anche tenendo
conto delle testimonianze di chi, con il Battaglia, lo aveva

Palermo. Per Gio. Francesco Carrara. 1595. Questa edizione è


menzionata anche in Bibliografia Sicola Sistematica o Apparato
Metodico alla Storia Letteraria della Sicilia di Alessio Narbone della
Compagnia di Gesù etc. Volume Terzo. Palermo. Stamperia dei Fratelli
Pedone Lauriel. 1854, p. 413, riprendendo una notizia che emerge in
Bibliotheca Sicula, Sive de Scriptoribus Siculis, Qui Tum Vetera, Tum
Recentiora Secula illustrarunt etc. Auctoris ac Theologiae Doctore
Antonio Mongitore Presbytero Panormitano. Tomus Primus. Panormi.
Ex Typographia Didaci Bua. MDCCVIII, p. 319. Su Giovan Francesco
Carrara (morto proprio nel 1596 e su cui – con bibliografia – cfr. M.
VESCO, «Librai-editori veneti a Palermo nella seconda metà del XVI
secolo», in Mediterranea, 10, 2007, pp. 271-298, in part. pp. 274-282,
ma senza far alcun cenno al poema del Brandi).
93
Cfr. Il Rosario di Maria Vergine Santissima: poema Sacro, et Heroico
del R.P.M. Gio. Antonio Brandi, Salernitano etc. Con gli Argomenti [a]
ciascun canto di Carlo Vullietti. In Roma. Appresso Carlo Vullietti. 1601.
Modernamente, ma utilizzando soltanto l’edizione del Carrara e
trascurando totalmente, invece, quella definitiva del Vullietti, cfr. S.
CALABRÒ, Il Rosario di Maria Vergine Santissima di Giovanni Antonio
Brandi TOR (1555-1608), Roma, Franciscanum, 2003 (il volume, oggi
del tutto irreperibile, è un estratto da Analecta TOR, 31/166 [2000],
pp. 367-449). Codesto articolo risulta essere sostanzialmente un
commento interpretativo dell’opera brandiana, ma in modo
curiosamente pedissequo rispetto ai trattati seicenteschi
d’accompagnamento e nel quale inoltre sono quasi del tutto assenti e
quelle poche esposte confusamente e con errata trascrizione dal
punto di vista onomastico, quasi tutte le notizie qui di seguito
101

arricchito con disamine che pure partivano da una diversa ma


consonante prospettiva94:

«Havendo io letto il trattato dell’Arte Metrica fatto dal


R.P.M. Bonaventura Battaglia, di Ciminna, sopra il
Libro del R.P.M. Gio. Antonio Brandi, di Saleme, certo
me ne son grandemente compiacciuto: et in modo

riportate. C’è da augurarsi che, riguardo detto poema, venga presto


messo in piedi uno studio strutturato sopra basi più solide. Sul Brandi
(1555-1608), prelato siciliano autore di versi d’intonazione religiosa e
che il Crescimbeni chiama erroneamente Bernardino (cfr. Comentarj
del Canonico Gio. Mario Crescimbeni Custode d’Arcadia, Intorno alla
Sua Istoria della Volgar Poesia. Volume Quarto etc. In Venezia.
MDCCXXX, Presso, Lorenzo Basegio, p. 305), si vedano anche – benché
largamente incomplete – le notizie raccolte dal Calabrò nell’articolo
citato (pp. 383-389). Pure il Quondam si è marginalmente occupato del
Brandi, e cfr. A. QUONDAM, Note sulla tradizione della poesia spirituale
e religiosa (parte prima), in ID. (a cura di), Paradigmi e tradizioni,
Roma, Bulzoni, 2005, p. 205-206, ma dicendolo – chissà perché –
messinese. L’edizione del Carrara menzionata in precedenza è del
tutto priva della parte trattatistica e sonettistica, che invece è presente
in quella del Vullietti e dunque quest’ultima, in sede di edizione critica,
si configurerebbe come la preferibile per il principio dell’ultima volontà
dell’autore. Un accenno alle due stampe del poema di Brandi si trova
anche in F. AUDISIO, «Carducci, la “Poesia barbara” e gli umanisti
dell’area meridionale (con appendice di lettere e testi e Tavola di
collazione)», in Rassegna della Letteratura Italiana, 2 (2001), pp. 423-
458, in part. p. 433, che – a proposito d’una saffica di Leonardo
Orlandini sita alla fine del volume brandiano e citando l’antecedente
del Carducci in G. CARDUCCI (a cura di), La poesia barbara nei secoli XV e
XVI, Bologna, Zanichelli, 1881, p. 352 – riporta le stesse notizie. Detto
dell’accenno presente in Storia Tipografico-Letteraria del Secolo XVI in
Sicilia con un Catalogo Ragionato delle Edizioni in Essa Citate. Pel Rett.
102

bellissimo h[o] trovata aperta la strada; per la quale io


(col divin favore) seguendo a caminare, potrò con
alcuna agevolezza trattare qualche cosa della Poetica di
esso nobilissimo Libro».

Le parole di Geronimo Opezzinghi, autore del trattato di


poetica che segue ed è concatenato a quello metrico del

Filippo Evola etc. Palermo. Stabilimento Tipografico Lao. 1878, p. 184


(si riferisce all’edizione vulliettiana), una menzione del nostro si
reperisce anche nell’articolo (apparentemente non utilizzato dal
Quondam) di H. VAGANAY, Le Rosaire dans la Poésie: Essai de
Bibliographie, in Compte rendu du Congres Marial tenu a Lyon les 5, 6,
7 et 8 septembre 1900, sous le patronage de son éminence le Cardinal
Archevêque de Lyon, 2 voll. Lyon, Vitte, 1901, in part. vol. II, pp. 621-
32, con doppia citazione alle pp. 626 e 631 (il testo venne poi rifuso in
Le Rosaire dans la poésie. Essai de Bibliographie, Macon, Imprimerie
Protat, 1907, pp. 36-37. Vaganay attesta sparsamente una diffusione
europea del volume brandiano). Bisogna infine dire che, a differenza di
quanto stampato dal Vullietti, il Brandi non era salernitano ma siciliano
di Salemi, nel trapanese, come si può leggere nella già citata
Bibliografia Siciliana del Mira (e cfr., in polemica con vari autori ivi
citati, p. 128, n. 1. Lo stesso Mira, sempre in codesta nota, si premura
di confutare anche un’erronea notizia propalata dal Toppi secondo cui
egli fosse napoletano). Il curioso equivoco, a cui accenna
nebulosamente anche il Calabrò alle pp. 384-385 del suo studio,
potrebbe esser nato per la confusione tra i due termini «salemitano
[e] salernitano», facilmente scambiabili se si tien conto delle
scritture e dei caratteri tipografici in voga all’epoca (l’ipotesi, salvo
errore, si deve primieramente al Mazzucchelli, e cfr. Gli scrittori d’Italia
cioè Notizie Storiche, e Critiche Intorno alle Vite, e agli Scritti dei Letterati
Italiani del Conte Giammaria Mazzucchelli Bresciano. Volume II Parte IV.
In Brescia. MDCCLXIII. Presso a Giambattista Bossini, pp. 2010-2011, in
part. n. 1. Si tenga conto che l’aggettivo è presente nel frontespizio della
103

Battaglia95, mostrano, in realtà, il desiderio di collocare in


senso catalogico la metrica battagliana, in una dinamica
d’analisi del poema epico e sacro che, ligia agli esempi del
tempo, preveda prima il dato formale e poi quello teoretico 96.
Ed è appunto alla fine del suo opus metricum, il Battaglia
appose il componimento che è oggetto della mia disamina
(seguito da un breve epigramma latino dello stesso tenore) e
prima edizione). Queste difettose attribuzioni di cittadinanza, come s’è
visto nel caso del Quondam, sembrano protrarsi ancor’oggi. Qualche
ragguaglio sul Brandi trovasi anche B. SERIO, «Discorso sulla letteratura
italiana del secolo decimosesto in Sicilia (seguito e fine)», in Giornale di
Scienze Lettere e Arti per la Sicilia, 47/12 [1834], pp. 53-75, in part. p. 55.
Di poca importanza, infine, i rapidi cenni contenuti in G. SANTANGELO,
Letteratura in Sicilia da Federico II a Pirandello, Palermo, Flaccovio,
1975, p. 46; e S. MUGNO, Novecento letterario trapanese: integrazioni ed
approfondimenti, Palermo, ISSPE, 2006, p. 17. Sul web, invece, si può
leggere – con una bibliografia seicentesca e settecentesca, che peraltro
attiene esclusivamente alle vicende biografiche dell’autore e che è
sparsamente contenuta anche nei volumi citati in precedenza – il lemma
anonimo contenuto in https://library.
brown.edu/projects/rome/people/0176, ult. cons. 21 dicembre 2021.
94
Cfr. Il Rosario, p. 497 (sono i periodi iniziali del trattato di Girolamo
Opezzinghi dedicato alle fondamenta poetiche su cui si basa il testo
brandiano e contenuto nello stesso volume).
95
Su Geronimo Opezzinghi (ante 1550-post 1595), nobiluomo della
zona di Corleone, qualche impalpabile testimonianza puramente
storiografica soltanto in G. NANIA, Toponomastica e topografia storica
nelle valli del Belice e dello Jato, Palermo, Barbaro, 1995, pp. 224-225.
C’è solo da aggiungere, in via d’ipotesi, che forse egli era imparentato
con il più noto Attilio, poeta di stampo tassiano operante nello stesso
periodo. su cui V. DI GIOVANNI, Palermo Restaurato [1627], Palermo,
Sellerio, 1989 (riedizione a cura di M. Giorgianni e A. Santamaura), p.
104

che si inserisce completamente – e prematuramente, se è


possibile dirlo – nella temperie manieristica e barocca, sia per
il tenore che per l’uso smodato di paragrammi retorici tipici di
quell’età. In entrambi i casi, questo e l’altro riportato succes-
sivamente, si è preferito dare conto delle fonti in nota, per la
loro sovrabbondanza e per non appesantire il testo97:

«Polle vermiglie [e] rose in verde alloro 98/ Fanno al tuo


degno crin vaga corona99/ E dal Gange à l’Hiber 100

229.
96
Sulla trattatistica del tempo e, in particolare, sulle opere dedicate
all’analisi dell’Orlando furioso ariostesco e della Gerusalemme
tassiana, cfr. ora. F. SBERLATI, Il genere e la disputa. La poetica tra
Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni, 2001. Per inciso, la struttura del
trattato dell’Opezzinghi or ora menzionato è sostanzialmente
conforme a quelli di cui si è occupato lo Sberlati.
97
Cfr. Rosario, p. 496.
98
Cfr. il verso tassiano «e le vermiglie rose e ‘l verde alloro», in T.
TASSO, Corona di stanze in lode della signora Laura Peperara, v. 12. La
canzone era apparsa nel 1586 con il titolo Vaghe ninfe del Po, ninfe
sorelle (l’informazione trovasi in E. DURANTE, A. MARTELLOTTI, in DBIO, 82
[2015], nel bibliograficamente ricco lemma riguardante la Peperara).
Cfr., ancora del Tasso ma stavolta dal giovanile Rinaldo, il verso
99

«mentre una volta, al crin vaga corona» (e vedi Rinaldo, IX.78.1)


100
Il binomio verbale, accostato in tal modo tipico, pare rimontare al
Diluvio Romano di Luigi Alamanni («[…] l’Indo, il Gange. l’Hiber, la
Tana e l’Istro […]». Su detta opera del toscano Alamanni, si veda F.
BAUSI, «La nobilitazione di un genere popolaresco. Il Diluvio Romano di
Luigi Alamanni», in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, LIV
[1992], pp. 23-42). Sull’Alamanni (1495-1556), poeta toscano d’area
105

pregiato suona/ Lo stile101 ch’à te vien dal sommo


choro102// Pel suo fervente canto, alto, e sonoro103;/
Molto s’infiamma il cor d’ogni persona 104:/ E se del bel
ROSARIO altri ragiona105,/ Tu tieni ([o] BRANDI mio)
maggior decoro.// Angel, Donna, Pastor, Profeta, e
Istrutti/ Sudor, Flagelli, Spine106, Incarco, e Monte;/
Sorgere, Ascesa, Lume, Assunto, e Frutti.// Poich’ [a] sì

medicea, cfr., ad esempio, L. ALAMANNI, Lettere (1519-1555), Roma,


ESL, 2022 (il volume è curato da V. Bramanti), passim, con
bibliografia.
101
Si veda uno stilema similare («[…] in Palermo da lui pregiato stile/
Ch’or si suona […]») in Palermo Liberato del Cavalier Tomaso Balli
Gentil’huomo Palermitano etc. In Palermo. Appresso Gio. Battista
Maringo. MDCXII, p. 283 (in part. XXV.70.3-4). Si noti che l’opera in
questione fu dedicata dal Balli al granduca di Toscana Cosimo II e che il
Balli medesimo viene accostato cronologicamente e tematicamente al
Brandi almeno da una fonte (cfr. Nuove Effemeridi Siciliane. Studi
Storici, Letterari, Bibliografici in Appendice alla Biblioteca Storica e
Letteraria di Sicilia, Compilati da V. Di Giovanni, G. Pitrè, S. Salomone-
Marino. Serie Terza. Vol. III. Palermo. Luigi Pedone Lauriel Editore.
1876, pp. 251 sg). Sul Balli, che fu rimatore siciliano del secolo XVI e
che ebbe frequenti contatti con l’ambiente letterario toscano della sua
epoca, cfr. il lemma di E.N. GIRARDI, in DBIO, 5 (1963), con bibliografia.
102
L’espressione «sommo choro», rimontante ai Trionfi del Petrarca (e
cfr. Triumphus Eternitatis, 43) ha una sua precisa derivazione in
edizioni o commentari d’epoca rinascimentale, come si deduce
facilmente dal nesso consonantico «ch-». La fonte potrebbe essere
trovata – in ipotesi – o nell’Espositione del Vellutello del 1525 (e per lui
si veda la voce curata da C. DIONISOTTI, in Enciclopedia Dantesca, 1970,
con bibliografia) o nelle Osservationi di Francesco Del Bailo Alunno (su
cui si veda A. PISCINI, in DBIO, 36 [1988], pure con bibliografia) del
1539.
106

gran MISTERI alzi la fronte/ Con bontà, con saper, con


gradi tutti;/ Ben sei di piene rime unico fonte107».

Alla stregua di quanto afferma anche l’Opezzinghi in


riferimento al poema brandiano108,

103
Chiara citazione da un capitolo del poeta accademico d’origine
croata, nonché petrarchista dissidente, Savino Bobali («[…] Al qual si
converrebbe il vostro canto/ Alto e sonoro […]» e cfr. Rime Amorose, e
Pastorali et Satire del Mag. Savino de’ Bobali Sordo, Gentil’huomo
Raguseo etc. In Venetia. MDLXXXIX, p. 157. Su di lui (1530-1585),
cfr. A. ZINK, Note sulla letteratura italiana in Dalmazia. Savino de
Bobali Sordo, in “La rivista dalmatica», XXV, 1953, pp. 27 ss.gg., da
integrare con J. DAYRE, «Savko Bobaljević (Savino Bobali)», in Revue
Des Études Slaves, 1-4 (1932), pp. 216-229.
104
Proporrei, come unica paredra apparente del verso in questione,
questo sonetto In lode della Madonna del Mondevì, contenuto in Rime
Spirituali del Signor Fra Girolamo Pensa etc. Destinate per Voto [a] la
Sacra Colonna de la Santissima Reina de le Gratie dei Mondovì [a] Vico
etc. In Torino. Appresso Bon Manzolino. MDXCVI, p. 106: «Stupido non
si mostri il mondo errante/ Se ‘l desio ch’al miglior sempre s’apprende/
Di seguirvi qu[a] giù s’inchina, e accende/ De le vostre virtù, de l’opre
sante./ E che ‘n un punto ne divenga amante/ Di chi ‘l camin del ciel
piano gli rende,/ Poi che gli dà ciò che da Dio lei prende,/ Mostrandogli
benigno il suo sembiante./ Non s’infiamma il cor nostro d’esca
humana/ Quando al vostro bel raggio dona loco/ Nel secreto interior
del puro petto./ Ma si f[a] vago del più bel soggetto/ Che possa
riscaldar col divin foco/ Un pensier crudo, et empio in alma vana»
(pongo qui, come altrove, le parentesi quadre a segnalare le correzioni
per gli errori tipografici). Su Girolamo Pensa di Cigliaro, poeta
piemontese vissuto alla fine del secolo XVI ed anche autore di una
raccolta di Epigrammi Toscani stampata nel 1570 (in cui imitava
107

«Io scrivo, e canto fronde, spine, e fiori, che sono in


un’alto Giardino; ma ben diſſe. L’alto Giardin, c’h[a]
fronde, spine, e fiori. Cioè il Giardino delle Rose
piantate, e feconde; [o] vero il Roseto, adorno nel tempo
della primavera: et questo è il Santissimo Rosario pieno,
che ha tre cinquine di Misteri. […] Et di questo
Giardino di Rose parlando l’istesso Padre Brandi […]
pose in un verso tutte le cose predette, dicendo. Continet

consimili componimenti dell’Alamanni), si veda – dopo i brevissimi


accenni contenuti in Storia della Letteratura Italiana del Cavaliere
Abate Girolamo Tiraboschi etc. Prima Edizione Veneta, dopo la
Seconda di Modena[,] Riveduta, Corretta ed Accresciuta dall’Autore.
Tomo VII. Dall’Anno MD fino all’Anno MDC. Parte Terza. In Venezia.
MDCCXCVI, p. 1173 – la striminzita nota di in A. MERLOTTI (a cura di),
Nobiltà e Stato in Piemonte. I Ferrero d’Ormea, atti del convegno
Torino-Mondovì, 3-5 ottobre 2001, Torino, Zamorani, 2003, p. 85, n.
296. La figura del Pensa, ad ogni modo, andrebbe degnata di un
diverso interesse.
105
La presenza del verbo “ragionare» in connessione con la parola
«ROSARIO» critta in maiuscolo, trovasi in Grandezze del Verbo
Ristrette ne’ Misteri del Rosario del S. Gio. Dom. Montefuscoli di
Napoli. Con l’Annotazioni del R. Fra Ludovico di Civita S. Angelo dei
Min. [O]ss. Et Argomenti del Sig. Pompilio Rossi etc. Ex Officini Horatij
Salviani Neapolis. Apud Io. Iacobum Carlinum et Antonium Pacem.
1593, p. 41: «[…] l’Autore in quello primo Libro, seguendo l’ordine de’
Misteri del Santissimo ROSARIO, h[a] da ragionare del Mistero
dell’Incarnatione, qual’ (sic!) in effetto è il primo de i Gaudiosi, molto
giuditiosamente con modo, e stile Poetico, ma Cristiano […]». La
locuzione si trova in una delle Annotazioni dell’altrimenti ignoto frate
abruzzese Ludovico Malfitani da Città Sant’Angelo (su cui vedi soltanto
l’inciso brevissimo contenuto in V. COX, The Prodigious Muse.
Women’s Writing in Counter Reformation Italy, Baltimore, JHUP, 2011,
volume che ho consultato in edizione elettronica, senza numeri di
pagina), il quale – si noti – era un minore osservante come il Battaglia.
108

hoc frondes, pinas, floresque vire[n]tum. Volse altresì


con gran Regola mettere quell’Epiteto, alto, per darci ad
intendere, che è Giardino, non di Rose basse, ma alte:
non di Rose materiali, ma mistiche: non di Rose
caduche, ma incorruttibili».

L’antecedenza cronologica di questo testo lo rende una probabile fonte


del sonetto del monaco ciminnita.
106
Un’eco precisa di questa elencazione battagliana, la quale
ovviamente concerne la Passione di Cristo, può ritrovarsi all’interno
del dramma allegorico La Spada della Misericordia. Rappresentatione
XIII. Del Severo Flagello della Peste, che [A]fflisse la Città, e Regno di
Napoli nell’Anno 1656, in L’Echo Armoniosa delle Sfere Celesti, Cioè la
Corrispondenza de’ Santi con Le Virtù, alla Gratia Divina. Spiegata con
Rappresentationi, e Dialoghi Sacri, [F]rammezzata con [C]inquanta
Discorsi per le Feste del Signore, e de’ Santi. Divisa in Due Parti Da
Francesco Gizzio etc. Parte Prima. In Napoli, [p]er il De Bonis
Stampatore Arcivescovale, 1693, p. 216: “La mia acerba agonia, il
sangue sparso;/ Lo squarcio delle piaghe; il fianco aperto/ Sudor,
flagelli, spine, e chiodi, e lancia/ con tanti falli suoi, posti in bilancia:/
Rendono le sue colpe, infami, e ladre, Ch’ esaudirti non posso, amata
Madre […]» (a parlar, in questo caso, è lo stesso Gesù Cristo). Sul
Gizzio, (1626-1698), chierico napoletano d’origine teatina e poeta
sacro, cfr. il lemma di T. MEGALE, in DBIO, vol. 57, 2001, con
bibliografia.
107
Forse una suggestione ficiniana, mediata classicamente, tenendo
conto anche del vocabolo “bontà» che trovasi nel verso precedente (si
veda Tomo Primo delle Divine Lettere del Gran Marsilio Ficino
Tradotte in Lingua Toscana per M. Felice Figliucci Senese. In Vinegia.
Appresso Gabriel Giolito de Ferrari. MDXLVI, p. 98: “E se un salutar
liquore in ogni cosa largamente diffuso da l’unico fonte de la bontà si
spande, il qual fonte è abbondante, e ogni cosa riempie, non è dubio che
109

Come appare chiarissimo, la medesima allegoria del


giardino permea tutta la prima quartina del sonetto109,
dove il sostantivo «[p]olle» sembrerebbe riferirsi, in modo
anfibolo, sia ai germogli di fiori che sono custoditi nel
giardino medesimo, sia a vene d’acqua purissima che
nascano al suo interno, con una possibile allusione al
sangue dei martiri e della stessa Vergine110. All’elogio del
«pregiato […] stile» posseduto dal frate di Salemi – un
plauso che si nutre di terminologie d’ascendenza dantesca
e/o tassiana111 – succede, nella seconda quartina, un
complicato lusus verborum, dove il termine «BRANDI» è

noi desideriamo bere al fonte vero de la bontà»).


108
Cfr. Il Rosario, pp. 498-499.
109
Su tali tematiche esiste corposa letteratura: si veda principalmente L.
SPURIO, M. ACCIAI, La metafora del giardino in letteratura, Aosta,
Faligi, 2011, con cospicua bibliografia, alla quale vanno doverosamente
aggiunti P. CARAFFI, P. PIRILLO (a cura di), “Prati, verzieri e pomieri»
il giardino medievale. culture, ideali, società, Firenze, Edifir, 2017; e
E.D. BLOCH, Giardini di carta. Da Rousseau a Modiano, Torino, ADD,
2016. Da un punto di vista puramente estetico e in connessione con
l’architettura del paesaggio, devesi obbligatoriamente vedere F. TESTA,
Spazio e allegoria nel giardino manierista. Problemi di estetica,
Firenze, La Nuova Italia, 1991, con bibliografia. Si tenga conto che,
all’interno del volume, anche altri autori di sonetti colgono il valore
semantico dell’allegoria in questione, come nota di nuovo l’Opezzinghi
a p. 502, ma il Battaglia sembra avere la primogenitura.
110
Per tale sintomatica questione, che va vista su un livello intermedio tra
arte e letteratura (come peraltro anche quella del giardino), rimando alle
ormai classiche riflessioni di A. MOMIGLIANO, Momenti e problemi di
storia dell’estetica. Parte 1: Dall’Antichità classica al barocco, Milano,
Marzorati, 19832, pp. 150 sg., in part, per la metafora in oggetto, pp.
161 sg.
110

significativamente scritto in maiuscolo, come pure il secondo


e il terzo termine, rispettivamente le parole «ROSARIO» e
«MISTERI»: questi vocaboli vanno messi in stretta e ovvia
correlazione con l’opera Giovanni Antonio Brandi e
identificano un legame consequenziale con i temi esposti
appunto nella preghiera del Rosario. Nella prima terzina,
successivamente, i nota un evidente richiamo alla vita di Gesù
111
Per questo binomio verbale, cfr. i seguenti versi del Tasso tratti da un
sonetto – di data incerta ma sicuramente precedente al 1595, e vedi
Rime et Prose S. Torquato Tasso. Parte Quarta. Ristampate, et Corrette,
et Aggiuntovi i Discorsi dell’Arte Poetica. In Venetia, MDLXXXIX. Apresso
Giulio Vasalini, p. 175 – dedicato al Boccaccio: «[q]uesti il Boccaccio fu,
ch’ al crine avvolse/ La fronde, onor delle famose fronti:/ E chi ‘l
descrisse, a più lodati e conti,/ Col suo pregiato stile il pregio tolse» (li
leggo in T. TASSO, Opere. I Aminta. Amor Fuggitivo. Intermedi. Rime,
Milano, Rizzoli, 1963, p. 997, nell’edizione curata da B. Maier). Il lemma
giunse addirittura fino alle orecchie del tassiano Beni, il quale – volendo
egli riferirsi a Dante, Paradiso, I.36.38: «Poca favilla gran fiamma
seconda: / forse di retro a me con miglior voci / si pregherà perché Cirra
risponda» (e si veda ad esempio il Commento del Beni Sopra la
Gierusalemme Liberata del Tasso, in Il Goffredo Overo la Gierusalemme
Liberata del Tasso, col Commento del Beni etc. In Padova, per Francesco
Bolzetta, l’Anno MDCXVI, p. 248: «[…] dicendo con miglior voci, è facil
cosa ch’egli intendesse con più dolce canto e pregiato stile […]») – lo
utilizza in modo inequivocabile per segnalare come Tasso sia da
considerare un continuatore e un seguace del poeta fiorentino. Si veda
anche l’inizio d’un madrigale di Antonio Gallarati dedicato a Giovanni
Battista Manso (e cfr. I Paradossi dell’Amore. Dialogi di Gio. Battista
Manso etc. In Milano[.] Appresso Girolamo Bordoni Libraro. MDCVIII,
s.n.p.): «Già vinse Apollo il fiero/ Piton; ma l’aurea face/ D’Amor tanto ei
sprezzò, che dipoi vile/ Pianse, ridendo il Ciel suo fasto altiero./ Manso,
c’havesti il crudo Trace:/ Dolce per tuo ristoro/ D’amor cantasti il sì
pregiato stile;/ che di palma, e d’alloro,/ Festeggiandone il Cielo,/
111

Cristo, con una «elencatio in quinquies» con parallelismi


sintattici e di costruzione semantica (si noti – ad esempio – la
Tornaron Marte, e ‘l gran Signor di Delo». E infine si considerino, in
contesto artistico e parimenti coevo, questi versi tratti da una canzone di
Cesare Simonetti contenuta nella premessa a Devota Rappresentatione
dei Martirii di Santa Christina Vergine, e Martire di Giesù Cristo. Di Nuovo
Composta dal Rever. M. Francesco Dionigi da Fano. In Fano[.] Appresso
Pietro Farri. MDCXII, [p.160]: «Fra cento di Pittor’ opre lodate/ Dipinse il
grande Apelle/ Già ne l’antica etate/ Opre, che furo, e gloriose e belle;/
T[u] con più raro, e più pregiato stile/ Pingi imagin più bella, e più
gentile;/ Onde in questo, e in quel lido/ T’acquisti eterno grido». Su Paolo
Beni (1552/1553-1625/1626), critico letterario ed erudito padovano, cfr,
da ultimo, M. SANGALLI, «Di Paolo Beni e di una riforma dello studio di
Padova (1619)», in Studi veneziani, XLII (2001), pp. 57-134; e, da ultimo,
SBERLATI, Il genere e la disputa, cit., pp. 415-424, con bibliografia. Sul
Simonetti, professore di diritto civile a Padova e poeta lirico vissuto nel
sec. XVI (originario di Fano, anche se ci fu lo disse veronese), soltanto le
minime notizie contenute in Comentarj del Canonico Gio. Mario
Crescimbeni Custode d’Arcadia, Intorno alla Sua Istoria della Volgar
Poesia. Volume Quarto etc. In Venezia. MDCCXXX. Presso Lorenzo
Basegio, pp. 86 e 294. Sul Gallarati, invece, nessuna notizia di rilievo,
mentre sul più famoso Manso, a cui egli dedica il suo componimento, si
veda il lemma di F. CALITTI, in DBIO, vol. 69 (2007), con bibliografia. Si
tenga presente che la coppia di termini ha però un’origine precedente al
Tasso, quasi sicuramente ignorata dal Battaglia, in un sonetto di
Bernardo Cappello (e cfr. Libro Terzo delle Rime di Diversi Nobilissimi et
Eccellentissimi Autori Novamente Raccolte. In Vinegia. Al Segno del
Pozzo, MDL, p. 53: «Volgansi hor co[l] più colto, e più pregiato/ Stile a
lodar costei gli studi vostri […]»), poi ripresa nei sonetti del Varchi (cfr.
De’ Sonetti di Benedetto Varchi, Parte Prima. In Fiorenza. Appresso M.
Lorenzo Torrentino, MDLV, p. 251: «Ned io più caro, e più gradito dono/
Dar vi potea, n[é] voi donna gentile/ Di men leggiadro, e men pregiato
stile/ Degna eravate, e di men chiaro suono») e infine utilizzata – ma
siamo già oltre la menzione tassiana – da Giovanni Battista Fazio (in
112

virgola prima dell’ultimo termine in finale di verso). Nel finale,


a coronare a modo di Ringcomposition l’intero
componimento, si reperisce di nuovo un nesso sintattico
d’origine classica relativo alle fonti d’acqua, intese stavolta
come metafora della produzione poetica, la quale appunto –
nel Brandi – scorrerebbe copiosa come in una sorgente112.

Spiritali di Herone Alessandrino. Ridotti in [L]ingua Volgare da Alessandro


Giorgi da Urbino. In Urbino. Appresso Bartholomeo, e Simone Ragusij
fratelli. 1592, s.n.p.: «T’avanzi s’ d’alte virtù profonde,/ Che qual più
move hoggi pregiato stile/ Industr[ï]osa man, povero humile/ A si nobil
soggetto non risponde […]», il sonetto è dedicato all’autore). Sul Capello
(1498-1565), politico e poeta veneziano, cfr. ora I. TANI, (a cura di), Le
Rime di Bernardo Cappello. Edizione Critica, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari,
2018, con bibliografia. Su Benedetto Varchi (1503-1565), umanista
fiorentino d’ispirazione aristotelica, cfr. soprattutto V. BRAMANTI (a cura
di), Benedetto Varchi 1503-1565. Atti del convegno, Firenze, 16-17
dicembre 2003, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007; nessuna
notizia, invece, sull’ignoto Fazio. La paredra più probabile del Tasso
potrebbe dunque essere il Varchi, che, come lui, ebbe a che fare con
l’Accademia degli Infiammati di Padova (e vedi su ciò F. BRUNI, «Sperone
Speroni e l’Accademia degli Infiammati», in Filologia e letteratura, XIII
[1968], pp. 24-71)? Oppure va valutata una possibile influenza del
Cappello, che era amico di Bernardo Tasso e che da lui si fece addirittura
battezzare un figlio (cfr., su questo, TANI, Le Rime di Bernardo Cappello,
cit., p. 20, anche con la menzione – indiretta – di presunte influenze
cappelliane sulla lirica e sull’eloquenza del Tasso a p. 42)? Propenderei
per la seconda ipotesi.
112
Sulla metafora della fonte come scaturigine di poesia in età
classica, cfr. principalmente F. VENDRUSCOLO, «La deliziosa acqua di
Tebe (Pind. O. 6,82-87)», in Eikasmos, V (1994), pp. 53-63; e E. MERLI,
Dall’Elicona a Roma. Acque ispiratrici e lima poetica nell’Ovidio
113

IV.

La lirica del Battaglia, già di per sé abbastanza carica di


campi semantici forti, è poi seguita da un breve epigramma
latino, in distici elegiaci, sempre scritto dal medesimo113. La
struttura di tale epigramma risente indubitabilmente di
esempi consimili d’altri autori antichi114, con una probabile

dell’esilio e nella poesia flavia di omaggio, Berlin-Boston, De Gruyter,


2013, pp. 63 sg. Qualche cenno su tali situazioni allegoriche nei testi
cristiani dei primi secoli si può leggere invece in A.V. NAZZARO,
Simbologia e poesia dell’acqua e del mare in Ambrogio di Milano,
Napoli, Loffredo, 1977, passim, e in parte anche ID., «Il mare nella
letteratura patristica», in La letteratura del mare. Atti del Convegno di
Napoli, (13-16 settembre 2004), s.n.c., Roma, Salerno, 2006, pp. 93-
112.
113
Cfr., «Alta manet Domina electarum VIRGO Rosarum,/ Quis valet
electas laudere ferre ROSAS?/ Ter tenet hic HORTUS celebris
MYSTERIA quinque;/ In quibus est fructus sanctus, et omne bonum./
Illa tibi misit plenissime carmina, BRANDI;/ Das gustum, atque doces,
tunc et ad astra mones». Si veda, sempre nel Rosario brandiano, ancora
la p. 456, dove il testo è introdotto dalle seguenti parole: «Carmen
Eiusdem R.P.M. Bonaventurae Battaliae, de Ciminna, in laudem
Auctoris».
114
Sul tema cfr., ad esempio, G. CATANZARO, F. SANTUCCI (a cura di),
La poesia cristiana latina in distici elegiaci: atti del convegno
internazionale, Assisi, 20-22 marzo 1992, Assisi, Accademia
properziana del Subasio, Centro studi poesia latina in distici elegiaci,
1993.
114

allusione al ruolo salvifico della Vergine, laddove – anche


con l’uso di terminologie vicine al linguaggio medico – si
vuol forse contrapporre il cattolicesimo alle eresie allora
vigenti, vale a dire il protestantesimo, anche utilizzando una
notissima metafora d’origine medievale per cui i movimenti
eretici vanno equiparati ad un’epidemia di peste da curare
attraverso il ritorno alla vera fede. L’utilizzo di quello che il
Fontaine chiama un «vocabulaire juridique et religieux de la
fidélité» è qui testimoniato dal termine «sanctus», che lo
stesso studioso francese accosta alle classiche voci nominali
pertinenti all’elegia classica115. Il tutto viene nutrito da
frequenti allusioni naturalistiche, ovviamente collegate al
campo semantico della Madonna quale principale
efflorescenza nel vasto giardino del Cristianesimo. L’uso di
un tessuto verbale antitetico, che nasconde una sorta di
psychomachia selettiva tra bene e male nel nome del libero
arbitrio116, è il cardine su cui si basa, palesemente,
l’impianto strutturale su cui si regge l’intero sonetto, sicché
ogni riferimento letterario in esso contenuto è piegato alla
dimostrazione di questo fondamentale ma ovvio teorema
esegetico. Ma se la Madonna fornisce la materia del canto al
Brandi, sta certamente a lui solo «da[rgli] sapore, e
insegna[rla] ora, e condur[la] verso le stelle»: il Battaglia,
115
Vedi J. FONTAINE, Des thèmes préchrétiens dans l’élégie romaine
classique, ivi, pp. 37-56, in part. p. 42 per la citazione, dove si
menzionano – accanto al termine in questione – i lemmi «pius», «fides»
e «foedera».
116
Forse, prendendo spunto da un’osservazione dell’appena
menzionato Fontaine (p. 49), un motivo intessuto con chiari
antecedenti properziani, il che testimonierebbe anche la buona
preparazione culturale di base posseduta dal Battaglia.
115

scrivendo una chiusa di siffatto genere, voleva consentire al


lettore di cogliere una sottile ma palese analogia con chi –
più il sommo Dante, che il pur onnipresente Petrarca –
aveva saputo portare in propri carmi «per aspera ad
astra»117. Il verso finale, latore di un’iperbole concettuale
assolutamente emblematica, prevede dunque l’accostamento
con autori certamente assai apprezzati dal Brandi, ma
sottintende anche l’augurio di intraprendere un percorso che
– con ogni evidenza – era invece del tutto inaccessibile al
versificatore salemitano. Si entra, con questo discorso, in
una complessa teorizzazione del genere elogiativo così
come concepito in epoca manierista barocca. Come nota
efficacemente Serena Bartali118,

«[d]al punto di vista teorico, si postula nel Barocco un


passaggio dalla lode immanente del soggetto ad una
lode in cui l’argomentazione e la ricerca di concetti atti
ad encomiare il lodato, prendono il sopravvento. In altre
parole, dall’enumerazione sul piano sintagmatico degli
elementi universali del ‘paradigma del lodevole’, si
passa nel Barocco alla messa a punto di elementi nuovi
e concettosi, cioè di elementi puntuali e transitori, atti
alla giustificazione della scelta del soggetto».

Il riferimento è, ovviamente, alle terzine leggibili nel canto XXXIII


117

del Paradiso.
118
Cfr. S. BARTALI, Prìncipi, gemme, vermi e orologi: dall’encomio
rinascimentale a quello barocco nella lirica italiana, Dissertation zur
Erlangung des akademischen Grades Doktor der Philosophie in der
Philosophischen Fakultät, der Eberhard Karls Universität Tübingen,
1914, p. 66.
116

Un elogio di questo tenore, che fa sorridere l’esegeta


moderno, non poteva esser dettato se non da una grande stima
e da un’amicizia solida e dettata dalla frequentazione continua
degli stessi ambienti sociali e culturali e non ostacola
l’inserimento dei testi del Battaglia or ora studiati in una
dimensione meno che encomiastica, dov’essi trovano la loro
collocazione strutturale più corretta e coerente.

Ma torniamo all’opera del Brandi. Tra i tanti opuscoli


religiosi composti sul finire del secolo XVI, e in particolare
quelle scritte in ottava rima, si segnala indubbiamente codesto
già menzionato poema sacro. Come scrive, acutamente, Gianni
Festa119,

«[c]sono testi devozionali che si fanno poesia e


viceversa progetti letterari che si sviluppano intorno a
un soggetto devoto. Il linguaggio poetico occupa in gran
parte la liturgia, nella forma mistagogica di celebrazione
del mistero e nella forma della lode, del giubilo:
quest’ultimo riveste l’aspetto della lirica, mentre l’altra
si presenta come linguaggio epico, in quanto è
narrazione della gloria divina e dei suoi benefici».

119
Cfr. G. FESTA, Tra Arcadia e devozione domenicana: il Rosario di
Maria Vergine di Francesco De Lemene (1634-1704), in P. BAIONI (a cura
di), I domenicani e la letteratura, Pisa-Roma, Serra, 2016, pp. 143-163, in
part. p. 1 per la citazione. Si noti che il Festa, in un’elencazione di opere
consimili (ma anch’egli senza usare il fondamentale studio del Vaganay),
cita pure quella del Brandi (e vedi p. 144, n. 2).
117

Il Rosario del Brandi si inserisce proprio all’interno


d’una tipologia di tal fatta, in una visione della preghiera
mariana intesa qui – parafrasando il Mazzamuto – come
«giardino abbondante di rose incorruttibili», con la scontata ed
utopica descrizione finale di quella civitas Dei che già
Agostino aveva evocato, in «puntuale polemica verso la
società terrena»120; quanto alla sua struttura formale, esso non
si discosta molto da analoghe operazioni bibliografiche del
tempo suo, anche attraverso l’utilizzo d’un sistema metrico in
ottave che propone esempi non dissimili all’interno della stesso
filone religioso121. Secondo il Samarini, il quale offre una
lettura che si potrebbe quasi definire di genere122,

«[l]o scopo dei poemi religiosi è il docere et delectare:


le realtà spirituali vengono proposte al lettore in una
forma corporea e accattivante, sfruttando tutte le
strategie letterarie dell’epoca. Gli autori fanno poesia a
partire dalle Sacre Scritture o da testi religiosi, con il
fine di divulgare la dottrina cristiana in modo piacevole
per il lettore. Dal momento che gli eroi eponimi devono

Cfr., per tale parafrasi G. MAZZAMUTO, La scena dell’immaginario,


120

Palermo, Il Vestro, 1980, p. 88.


121
Cfr., sull’argomento, F. SAMARINI, «Poemi sacri nel Seicento italiano»,
in Verbum, 15 (2014), pp. 273-282.
122
Vedi ivi, p. 276. L’osservazione di Samarini – almeno a leggere il
poema brandiano – parrebbe contraddetta dal fatto che al suo interno non si
trova alcun componimento o trattato compilato da mano femminile, il che,
vista l’esistenza di non poche autrici religiose in epoca manierista e
barocca, appare quanto meno sconcertante (sulla presenza di autrici
d’ispirazione religiosa nella letteratura seicentesca, cfr. ora F. FUSCO,
Figure femminili e scrittura religiosa tra Cinquecento e Seicento, Bari,
Cacucci, 2017, con bibliografia).
118

fungere da esempio di eroismo cristiano, si può dedurre


che l’abbondanza di opere dedicate a personaggi
femminili (la Madonna, Maria Maddalena, sant’Agnese,
Ester, Giuditta) presupponga un numero significativo di
lettrici».

Anche il Rosario brandiano si nutre senza misura di


riferimenti neo e veterotestamentari, s’intende, sicché la sua
collocazione in un contesto dove la Bibbia è il manuale d’uso
più ricercato ed usato non può certamente essere posta in
discussione123. Incrociando i dati che emergono ad una lettura
attenta del testo, si può ipotizzare che il poema circolasse tra
gli amici del Brandi ben prima della sua pubblicazione
originaria124, il che lascerebbe pensare ad una gestazione
dell’opera abbastanza complessa, con passaggi di mano che
l’assenza d’una qualsivoglia tradizione manoscritta purtroppo
non lascia intravedere in nessun modo. Il volume vuillettiano
in cui è posto il Rosario del Brandi si configura come una sorta
di centone, dove, dopo una lettera dedicatoria dell’autore al
cardinale Girolamo Mattei125, c’è il poema principale, in
123
Cfr. su tale questione, in generale, T. PIRAS (a cura di), Gli scrittori
italiani e la Bibbia, atti del convegno di Portogruaro, 21-22 ottobre 2010,
Trieste, EUT, 2011. In particolare, si veda invece R. MORACE, L’allegoria
biblica tra “Gerusalemme Conquistata” e “Mondo Creato”, che leggesi
alle pp. 41-53 degli atti in questione.
124
Tale congettura è resa necessaria dalla costatazione che almeno uno
dei trattatisti brandiani, il teologo Stefano d’Anna di cui si dirà di
seguito, morì nel 1590, cioè in epoca palesemente anteriore alla prima
pubblicazione in volume.
La dedicazione, come nota il Vaganay (Le Rosaire, p. 37), è datata
125

«15 d’agosto 1595». Sul Mattei (1546-1603), cardinale controrifomista


nominato dal pontefice Sisto V ed estimatore del Caravaggio, cfr. S.
119

quindici canti (come i misteri), introdotto ognuno da un


argomento che ne riassume il senso e il contenuto; di seguito,
nel volume medesimo, dopo un esplicativo discorso
dell’Orlandini, è posta una serie di composizioni ascrivibili al
Brandi stesso e – in forma di tenzone poetica – ad altri
disparati, noti e meno noti autori126. Tra i vari scritti raccolti in
questo centone, ci sono anche una serie di variegate analisi del

TABACCHI, DBIO, vol. 72, 2008, con bibliografia.


126
Nell’edizione palermitana, stando sempre al Vaganay (e vedi
sempre ivi), «[n]euf sonnets par Dom Leonardo Orlandini, prencipe
della Academia de gli Accessi, D. Bartolo Sirillio (sic!), Don Stefano
d’Anna, Tobiolo Benfare, Manfredi Piacenza, Gi[u]seppe Lapuma,
Antonio Venetiani, Argisto Giuffredi et l’auteur lui-même précèdent les
quinze chants en 81 octaves chacun», quasi tutti accademici degli
Accessi, come l’Orlandini e il cui numero aumentò a dismisura nella
seconda edizione. Oltre al Tasso, sono infatti presenti sonetti di
monsignor Quattromani, vescovo di Nicea (p. 448); di don Domenico
Scarso (p. 449); di Domenico Trombieri (p. 450); di Giulio Cesare di
Martino (p. 451); di Giacomo Grassi (p. 452). Alla fine della raccolta, si
trovano poi alcune poesie latine dello stesso scrittore salemitano. Per
quanto concerne i poeti presenti nell’editio princeps, si può cominciare
proprio con il trapanese Orlandini (ma ci fu chi cercò di farlo passare
surrettiziamente per palermitano, e vedi Opere Storiche Inedite sulla
Città di Palermo ed Altre Città Siciliane etc. Per Cura di Gioacchino Di
Marzo. Volume I. Palermo. Luigi Pedone Lauriel. MDCCCLXXII, p. 398),
scrittore di cose sacre e poeta tra il XVI e il XVII secolo, nonché vicario
generale di quel Cesare Marullo che fu arcivescovo di Palermo tra il
1577 e il 1588. Su di lui cfr. essenzialmente, Biografia degli Uomini
Illustri delle Sicilia etc. Compilata dall’Avvocato Giuseppe Emanuele
Ortolani e da Altri Letterati etc. Tomo III. Napoli. MDCCCXIX. Presso
Niccola Gervasi, ad vocem (il volume è senza numeri di pagina ed il
contenuto del lemma venne poi sommariamente ripreso in
120

poema (da quella teologica a quella poetica, da quella retorica


a quella logica, solo per citarne alcune), dovute alla penna di
molteplici compilatori127, in uno schema peraltro non discaro
alla trattatistica del tempo 128. In appendice ad ogni trattato,
infatti, i singoli scrittori propongono a chi legge una serie di
loro invenzioni poetiche (in genere sonetti o anche versi latini),
ovviamente il tutto messo insieme per onorare ancor di più il

Bibliografia Trapanese Divisa in Due Parti ed Illustrata con Cenni


Biografico-Critici e con Varj Documenti dal P. Fortunato Mondello etc.
Palermo. Tipografia del Giornale di Sicilia. 1876, pp. 307-310); K. EUBEL,
Hierarchia Catholica Medii et Recentioris Aevi, 9 voll., Münster, Libreria
Regensbergiana, 1923, in part. vol. III, pp. 269-99; e soprattutto U.A.
AMICO, Matteo Donia e Leonardo Orlandini, umanisti siciliani del secolo
XVI, Palermo, Montaino, 1880, pp. 27 sg. Per altre notizie relative alla
sua collaborazione alla seconda edizione del Rosario, si veda anche H.
VAGANAY, Le sonnet en Italie et en France au XVI siecle: essai de
bibliographie comparée [1902], 2 voll., Genéve, Slatkine, 1966, vol. 2,
p. 1589, e AUDISIO, Carducci, cit., passim. Su Bartolo Sirillo (1545/1550-
1598), letterato, poeta e oratore d’epoca coeva, cfr. essenzialmente V.
DI GIOVANNI, Studi di filologia e letteratura siciliana, 2 voll., Palermo,
Pedone Lauriel, 1871, in part. vol. 2, pp. 234-252 (precedentemente,
sempre a cura dello stesso autore, in «Delle Rappresentazioni sacre in
Palermo nei secoli XVI e XVII [continuazione e fine]», in Il
Propugnatore. Studi Filologici, Storici e Bibliografici, I/1 [1868], pp.
273-296, con coeva bibliografia, alla quale si aggiungano –
doverosamente – L. NATOLI, Prosa e prosatori siciliani del secolo XVI,
Bologna, Sandron, 1904, pp. 147-172, originariamente apparso come
«Bartolo Sirillo», in Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere e
Belle Arti di Palermo, 3/III [1895], pp. 3 sg.; e DI MARZO, Opere Storiche,
cit., pp. 398-400). Su Stefano D’Anna (?-1590), poeta e teologo del
periodo e rettore della chiesa di Santa Croce di Palermo nonché
accademico degli Accesi, cfr. F.F. DEI DAUGNON, «La gente anniana», in
Giornale Araldico-Genealogico-Diplomatico, III (1875-1876), p. 39, n. 1,
121

carme del monaco di Salemi. Come si vede, l’eterogeneità e la


complessità della seconda edizione del poema brandiano sono
assai elevate. Probabilmente, ciò fu dovuto ai desiderata
dell’autore principale, il quale voleva apporre, alla fine della
sua opera, quelle composizioni e quei trattati commemorativi
ed elogiativi della medesima che gli erano stati offerti dai suoi
estimatori dopo la prima lettura del poema, senz’altro fine se

il quale – peraltro – fa riferimento a G. SALVO-COZZO, «Saggio di giunte e


correzioni alla “Bibliografia Siciliana” di Giuseppe M. Mira», in Archivio
Storico Siciliano, III, 1875, pp. 73-82, in part. p. 73 (poi in Giunte e
correzioni alla lettera A della bibliografia siciliana di G.M. Mira, New
York, Burt Franklin, 1881, p. 97). Sul giurista Tobiolo (in altre fonti
Tubiolo) Benfare (1540-1609), soprattutto lirico dialettale ma anche
autore di sonetti e ottave in lingua italiana, cfr. C. RUTA (a cura di),
Poesia siciliana nel Cinquecento, Palermo, Edi.Bi.Si, 2004, p. 83. Il
nome del tutto particolare di questo poeta potrebbe essere, in realtà,
uno pseudonimo: in personale ipotesi, esso attesterebbe il possesso –
da parte del Benfare – di un apografo del codice ex-Magliabechiano VII
1049 (ora II I 47) contenente le Chiose a Dante dello Ps.-Boccaccio; si
veda, a testimonianza di ciò, il seguente passo, in tutta evidenza
ispirato alla nota storia biblica di Tobia e dell’Angelo e che è una
variante alle Chiose proveniente proprio dal codice in questione: “[…]
Tobiolo gli conto e narro tutto il facto com[‘]era incontrato e in questo
modo domenedio ristor[ò] e rimuner[ò] e merit[ò] Tobia del suo ben
fare e della sua costancia e fermeça […]» (in L. RIGOLI [a cura di], Chiose
Sopra Dante. Testo Inedito Ora per la Prima Volta Pubblicato. Firenze.
Nella Tipografia Piatti. 1846, p. 841, le integrazioni sono mie. Si noti,
nello stesso passo e a sostegno dell’ipotesi, la presenza del nome
“Tobiolo» e del nesso verbale “ben fare»). Su Manfredi Piacenza, “del
terzo ordine di s. Francesco uomo dottissimo ed insigne pel candore
dei costumi e la probità della vita, il quale pubblicò in Palermo
[I]stituzioni di Grammatica, profondamente istruito nelle lettere
umane», cfr. soltanto, oltre al solito Mongitore (vol. II, p. 29, dove si
122

non quello di fare bella figura nelle cerchie intellettuali del suo
tempo e nei confronti di quanti avevano tratto ispirazione dai
suoi versi al punto da scriverne un commento.

VI.

Come s’è detto, sono molti i poeti che omaggiano il Brandi con
un loro componimento. Ma certamente stupisce che, tra gli

cita anche l’editore delle Institutiones Grammaticae, vale a dire


Giovanni Antonio De Franciscis, nel 1604), cfr. Dizionario Topografico
della Sicilia di Vito Amico. Tradotto dal Latino ed Annotato da
Gioacchino Di Marzo etc. Volume Secondo. Palermo. Tipografia di
Pietro Morvillo, 1856, anche p. 443, da cui la citazione. Su Antonio
Veneziano (1573-1593), disinvolto petrarchista siciliano, cfr., da
ultimo, T. NICOLOSI, Antonio Veneziano, poeta sensuale e religioso, in
“Agorà», IV/II, 2001, pp. 32-37 (da menzionare soprattutto perché
presenta, in nota, una completa bibliografia critica su tale poeta). Se
sul pressoché ignoto Giuseppe Lapuma – assente anche nell’erudito
catalogo del Mongitore – non è possibile dire assolutamente nulla, non
così su Argisto Giuffredi (ca. 1535-1593), poeta e notaio amico del
Veneziano, per il quale cfr. ora il lemma di B. PICICHÉ, in DBIO, vol. 56,
2001, con bibliografia. In fine, e per completezza d’informazione, non
può esser taciuto che – ma sparsamente e senza dare notizie notevoli
– degli autori sopra menzionati si parla anche nel già citato volume del
Vaganay sul sonetto cinquecentesco. Per quel che concerne gli autori
esclusivamente di sonetti, tolti gli sconosciuti Domenico Scarso,
Domenico Trombieri, Giulio Cesare di Martino e Giacomo Grassi, si può
citare soltanto Sertorio Quattromani (1541-1603), filosofo e filologo
tardocinquecentesco, su cui cfr. S. QUATTROMANI, Scritti, Arcavacata di
Rende, Centro Editoriale e Librario dell’Università della Calabria, 1999
(il volume è a cura di F.W. Lupi). Ovviamente, almeno per quel che
concerne gli autori siciliani, notizie sparse su di essi appaiono anche
nella citata silloge del Mongitore.
123

autori in questione, sia presente anche Torquato Tasso, con una


stanza a tutt’oggi rimasta criticamente inedita, almeno a
scorrere gli indici delle maggiori moderne edizioni tassiane 129.
L’ottava qui pubblicata, non apparsa nemmeno in altri contesti
non scientifici130, venne scritta in risposta a quella posta

127
Si comincia con un discorso dell’Orlandini, a cui si debbono, tra l’altro,
alcune composizioni poste tra le lettere dedicatorie iniziali e il primo canto
del poema brandiano (pp. 465-468), per continuare con le interpretazioni
del poema: l’Arte Metrica di Salvatore Battaglia, che è quella più
conosciuta (pp. 481-496); la Poetica di Geronimo Opezzinghi (pp. 497-
512); la Retorica di Orazio Fortunati; (pp. 513-530, essendo assenti i
componimenti metrici finali); la Logica di Bernardo Sabia (pp. 531-550);
la Filosofia di Benedetto Vitale (pp. 549-573); la Sacra Theologia di
Stefano D’Anna (pp. 574-601, anch’essa senza componimenti finali). Il
volume si conclude con una postfazione dell’editore (p. 602) e con un
madrigale dello stesso Brandi (p. 603), a cui segue una terminalissima
lettera d’elogio del frate trapanese Giovanni Battista Provenzano (pp. 604-
605). Se sull’Orlandini e sul D’Anna si veda quanto scritto nella nota
precedente, su Orazio Fortunati (escluderei – per ragioni squisitamente
cronologiche – che si tratti del vescovo e frate minore vissuto tra 1634 e
1707, e su cui cfr. C. CATERINI, Gens Catherina de Terra Balii, Rende
(CS), ESC, Rende 2009, passim), nessuna notizia, neppure nei testi
dell’epoca. Sul Sabia (?-1595), chierico ed erudito siciliano, cfr. le poche
notizie contenute in Biografia Serafica degli Uomini Illustri che Fiorirono
nel Francescano Istituto per Santità, Dottrina e Dignità Fino a’ Nostri
Giorni. Del Padre Fr. Sigismondo da Venezia, Minore Riformato della
Provincia Veneta. Volume Unico. Venezia, Dalla Tipografia di G.B.
Merlo. MDCCCXLVI, p. 504. Si veda anche il brevissimo riferimento in
CORRENTI, La Sicilia del Cinquecento, cit. p. 145, n. 16, dove si menziona
proprio il trattato contenuto nel volume del Brandi. Su Geronimo
Opezzinghi (ante 1550-post 1595), nobiluomo della zona di Corleone,
qualche testimonianza puramente storiografica soltanto in G. NANIA,
124

all’interno del poema del Brandi e concernente la


Gerusalemme liberata 131:

«Questa Gierusalem f[u] conquistata,/ Un tempo da


Goffredo, [a] pronto passo132:/ Il qual divoto, in
ultima giornata,/ Piegossi al divo, e benedetto
Sasso./ Rima molto sottil, molto pregiata/ Poi

Toponomastica e topografia storica nelle valli del Belice e dello Jato,


Palermo, Barbaro, 1995, pp. 224-225. C’è solo da aggiungere, in via
d’ipotesi, che forse egli era imparentato con il più noto Attilio, poeta di
stampo tassiano operante nello stesso periodo. su cui V. DI GIOVANNI,
Palermo Restaurato [1627], Palermo, Sellerio, 1989 (riedizione a cura di
M. Giorgianni e A. Santamaura), p. 229. Su Benedetto Vitale, medico
palermitano vissuto pressappoco nello stesso periodo, a parte qualche raro
accenno in testi coevi relativo alla sua attività professionale,
modernamente va menzionato soltanto un brevissimo cenno in C. DOLLO,
Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia spagnola, Napoli, Guida, 1984,
p. 62, n. 5. Il Capozzo però lo dice anche poeta, e cfr. Memorie su la
Sicilia etc. Per Guglielmo Capozzo etc. Volume III. Palermo, Tipografia di
Bernardo Virzì, 1842, p. 44 (e in tale ottica si vedano infatti le Stanze
dedicate alla Vergine, in Laudi Mariane Ovvero Rime in Onore della
Vergine Santissima de’ Più Insigni Poeti di Tutti i Secoli della Letteratura
Italiana Raccolte da Francesco Martello. In Napoli. Dalla Tipografia di G.
Cataneo. 1851, pp. 328-330). Sul Provenzano (1567-1614), che fu ministro
generale dell’ordine dei Frati Minori, si legga il ragguaglio presente in
Bibliografia degli Uomini Illustri Trapanesi dall’Epoca Normanna Sino al
Corrente Secolo del Cav. Giuseppe M. Di Febbo etc. Tomo I. Trapani.
1830. Presso Mannone e Solina, pp. 202-207, con bibliografia. Infine, su
Bonaventura Battaglia (ante 1595-1627), terziario francescano che “fu pure
dotto nelle severe discipline e nelle amene lettere e maestro in sacra
Teologia» (e vedi V. GRAZIANO, Ciminna: memorie e documenti [1911],
Amministrazione Comunale-Biblioteca Comunale, Ciminna, 1987, p. 146
e n. 1), cfr. il solito Mongitore, alla p. 112 del volume I, dove appunto lo si
dice “[n]on minus gravioribus disciplinis, qu[a]m amœnioribus insigniter
125

compose per lui, Torquato Tasso;/ Poeta, che col


dotto, e dolce stile133/ Avanza ogni Poeta alto, e
gentile134».

Ecco, di seguito, l’inedita risposta del Tasso135:

excultus»; Fortsetzung und Ergänzungen zu Christian Gottlieb Jöchers.


Allgemeinen Gelehrten-Lexico, Worin die Schriftsteller Aller Stände nach
Ihren Vornehmsten Lebensumständen und Schriften Beschrieben Werden,
4 voll., Leipzig, In Yohann Friedrich Bleditschens Bandlung, 1784, in part.
vol. 1, col. 1507; Biografia Serafica degli Uomini Illustri che Fiorirono
nel Francescano Istituto per Santità, Dottrina e Dignità Fino a’ Nostri
Giorni. Del Padre Fr. Sigismondo da Venezia, Minore Riformato della
Provincia Veneta. Volume Unico. Venezia, Dalla Tipografia di G.B.
Merlo. MDCCCXLVI, p. 631; Bibliografia Siciliana Ovvero Gran
Dizionario Bibliografico delle Opere Edite e Inedite, Antiche e Moderne di
Autori Siciliani o di Argomento Siciliano Stampate in Sicilia e Fuori etc.
Per Giuseppe M. Mira etc. Palermo. Ufficio Tipografico Diretto da G.B.
Gaudiano, 1875, p. 89. Modernamente, si veda S. CORRENTI, La Sicilia del
Cinquecento: il nazionalismo isolano, Milano, Mursia, 1980, p. 145, n. 15.
Tutti questi brevi profili bio-bibliografici, compreso quello del Graziano
(che lo dichiara esplicitamente a p. 146, n. 1), fanno riferimento
all’immancabile Bibliotheca Sicula del Mongitore.
128
Sulla trattatistica del tempo e, in particolare, sulle opere dedicate
all’analisi dell’Orlando furioso ariostesco e della Gerusalemme
tassiana, cfr. ora. F. SBERLATI, Il genere e la disputa. La poetica tra
Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni, 2001. Per inciso, la struttura dei trattati
presenti nel volume brandiano – soprattutto quelli che si occupano
della parte poetica e retorica – è sostanzialmente conforme a quella
riscontrata dallo Sberlati per opere simili.
La stanza, infatti, non risulta presente né nell’edizione di Basile
129

(Roma, Salerno, 1994), né in quella Gavazzeni-Martignoni-De Maldé


126

«Ringratio il tuo favor, che conquistata/


Gierusalemme ponesti in un bel passo,/ E prego il
sommo Dio, che tal giornata/ Si rivegga del divo, e
nobil Sasso136./ Talch[é] la rima tua dotta, e
pregiata/ Sia un profetar, siccome brama il Tasso;/
Di ciò degno ben sei, poi ch’ al tuo stile/ Ben cede
ogni Poeta alto, e gentile».
(Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006 e 2016).
130
Non si reperisce menzione del componimento neppure nelle più
conosciute raccolte dei secoli trascorsi o nei florilegi (su cui vedi
essenzialmente L. CARPANÈ, La fortuna editoriale tassiana dal ‘500 ai
giorni nostri, in “Italianistica», 24-2/3, 1995, pp. 541-557).
131
In Il Rosario, cit., p. 456 (con integrazioni mie per evidenti refusi
tipografici). L’ottava del Brandi è la cinquantottesima del canto
undicesimo nel suo poema. Sulla fama e l’utilizzo della Gerusalemme
Liberata e delle altre opere del Tasso in epoca manierista e nel Barocco,
cfr. T. ARTICO, E. ZOCCHI, La fortuna del Tasso eroico tra Sei e
Settecento. Modelli interpretativi e pratiche di riscrittura, Alessandria,
Edizioni dell’Orso, 2017, il quale però appare del tutto lacunoso per quel
che concerne l’uso dei modelli tassiani nella poesia religiosa. Per quel che
concerne il tardo Cinquecento, si veda anche R. AGNES, La Gerusalemme
Liberata e il poema del secondo Cinquecento, in “Lettere Italiane», 16/2,
1964, pp. 117-143, con bibliografia. Per quel che riguarda il poema sacro
nel Quattrocento e il suo influsso su Tasso, cfr., infine, M. CHIESA, La
tradizione quattro-cinquecentesca del poema biblico, in G. BALDASSARRI
(a cura di), Tasso a Roma, Atti della giornata di studi, Roma, 24 novembre
1999, Ferrara, Panini, 2004, pp. 3-22. A parte il testo del Baldassarri,
manca un contributo che approfondisca il legame tra il Tasso epico e i
poemi sacri scritti successivamente all’apparizione delle maggiori
creazioni del poeta sorrentino. Una menzione di questa ottava anche in
CALABRÒ, Il Rosario, cit., pp. 390-391, n.4, ma senza nessun commento.
132
La citazione ascende con ragionevole certezza ad un poemetto di
Giambattista Giraldi Cinzio posto in fondo all’edizione degli Hecatommiti
del 1574, nel quale si fa riferimento diretto a Bernardo e Torquato Tasso (e
127

In premessa, vanno fatte alcune considerazioni cronologiche.


Lo scrittore sorrentino era morto nell’aprile del 1595, sicché
delle due l’una: o la pubblicazione della prima edizione del
poema brandiano era avvenuta come minimo ai primi di
gennaio dello stesso anno, oppure – molto più ragionevolmente
– il poema medesimo era stato inviato in lettura al Tasso prima

cfr. Hecatommiti, Overo Cento Novelle di M. Giovanbattista Giraldi


Cinthio etc. Di nuovo Rivedute, Corrette et Riformate in Questa Terza
Impressione. Parte Prima. In Vinegia[,] Appresso Enea de Alaris.
MDLXXIIII, p. 233: “[…] Segue lui, chi per piani, et per pendici/ Famoso
v[a] dal uno, a l’altro polo,/ Con lieti più, che fortunati auspici,/ Bernardo
Tasso i[‘] dico, ch’amo, et colo,/ Il qual ti vien incontro allegramente,/
Compagno havendo il suo gentil Figliuolo./ Questi, per torsi dalla volgar
gente,/ Segue di quanti son buoni i vestigi,/ Con pronto passo, e con vivace
mente,/ E, ammirando del Padre l’Amadigi,/ Cerca di fargli ir presso il suo
Rinaldo,/ Sì che non tema i laghi Averni, et Stige […]», con il lemma
citato anche successivamente). Sul Giraldi Cinzio (1504-1573), narratore e
tragediografo rinascimentale, cfr., ad esempio, le notizie contenute in F.
BERTINI, “Havere a la giustitia sodisfatto»: tragedie giudiziarie di Giovan
Battista Giraldi Cinzio nel ventennio conciliare, Firenze, SEF, 2008.
133
Riguardo questo verso, segnalerei soltanto una stanza di Mario Cardoino
in risposta ad alcuni versi di Laura Terracina, che può leggersi in Rime
Quinte della Signora Laura Terracina, Detta Phebea nell’Academia
degl’Incogniti. In Vinegia[.] Appresso Domenico Farri, MDLX, p. 45:
“Quand’io gli scritti vostri e dolci, e dotti/ Leggo; mi move un gran desire
interno,/ Tutti i dì consumar, tutte le notti,/ Per farmi, andando al sacro
colle, eterno;/ Poi che partito son miei versi indotti/ Poi che partito son
miei versi indotti/ Sforzanmi, havendo [a] vil se stessi, e [a] scherno,/ Che
volga il piè, quand’io vi sia vicino,/ Ma meglio parmi a’ l’entrar del
camino». Sulla Terracina, cfr. ad esempio L. MONTELLA, Una poetessa del
Rinascimento: Laura Terracina, Salerno, Edisud, 20012, con bibliografia.
Sul Cardoino (Cardoini), poeta e commediografo d’età rinascimentale forse
riconducibile all’uomo d’arme Andrea Cardoini autore dell’anticalvinista
128

di essere dato alle stampe137 e dunque il terminus post quem per


datare la composizione della stanza andrebbe posto prima del
25 aprile 1595, giorno del decesso dell’autore della
Gerusalemme138. Quale che sia l’ipotesi più giusta, il Tasso, nel
ringraziare Brandi per la squisita cortesia e per l’evidente
devozione poetica (utilizzando – in evidentissimo controcanto
– molte delle espressioni usate dal Brandi medesimo nella

Relazione di Ginevra (e su cui vedi ora G. SCARPATO, Politica, religione e


impostura in un manoscritto della Controriforma, in “L’Acropoli», XIV/1,
2013, pp. 95-106, con bibliografia), nessuna notizia notevole se non quello
che si legge nelle Annotazioni di Gian Vincenzo Meola alle lettere del
Fascitello (e cfr. Honorati Fascitelli Aeseniensis Opera. Neapoli.
MDCCLXXVI. Excvd. Raymundii Fratres, pp. 29-30). Per un brevissimo
ragguaglio moderno, cfr. M. FIRPO, Pietro Bizzari. Esule italiano del
Cinquecento, Torino, Giappichelli, 1971, p. 32, n. 54; e soprattutto S.
TERMANINI, R. TROVATO, Teatro comico del Cinquecento: la tonaca in
commedia, Torino, Utet, 2005, pp. 527 ss.gg., con ulteriore, striminzita
bibliografia.
134
Questo verso rimonta, anch’esso con più che ragionevole certezza, alle
Satire di Luigi Alamanni (e cfr., nell’edizione curata da R. Perri, L.
ALAMANNI, Satire [1532/1533], Firenze, Franco Cesati, 2013, p. 236: “Dir
non saprei poeta alto, e gentile/ Mevio, giurando poi che tal non vide/
Smirna, Manto, e Fiorenza ornato stile […]»). Sull’Alamanni (1495-1556),
petrarchista toscano, si veda ad esempio quel che se ne legge
nell’introduzione della Perri al volume or ora citato.
135
Vedi ivi. A mia saputa, come già rilevato, l’ottava tassiana qui
pubblicata non è apparsa in nessuna altra tra le edizioni o le raccolte
successive ospitanti le Rime del Tasso. Unico riferimento palese ad
essa trovasi soltanto in un sonetto di Petronilla de Sio Galdi, in Poesie
e Prose Scelte de’ Più Illustri Accademici Sinceri Laureati dell’Arcadia
Reale etc. Edizione Seconda etc. Napoli. MDCCXCVI. Dalla Stamperia
dell’Arcadia Reale, p. 73 (ma si veda anche la ristampa del medesimo
volume, con titolo leggermente modificato, che si ebbe nello stesso
anno e in cui il sonetto della de Sio è sempre a p. 73): “[a]nzi è il primo,
129

stanza a cui il Tasso allude), si augura che il monaco


salemitano possa trasformarsi in un novello profeta,
possedendo le doti stilistiche e letterarie che potrebbero ben
renderlo tale. La stanza tassiana si configura come il consueto
ringraziamento in versi che, all’epoca ma anche più tardi, i
poeti maggiori donavano a chi, minus habens, li menzionava o
dedicava loro dei versi all’interno delle proprie opere. Da

io risposi, al Valgo in riva,/ Che per la penna sua dotta, e pregiata/


Stancherà il volo dell’alata Diva». Sulla poetessa in questione (1763-
1805), tarda arcade napoletana, cfr. soltanto le poche e vetuste righe
che le dedica la Storia della Letteratura Italiana nel Secolo XVIII. Scritta
da Antonio Lombardi etc. Tomo III. Modena. Presso la Tipografia
Camerale. MDCCCXXIX, p. 316.
136
In quest’unico lemma degno di nota presente nella stanza (gli altri
derivano tutti dal Brandi), appare assai plausibile un’indiretta e mediata
discendenza ovidiana (“Dentro, e di fuo[r] più d’una statua alloggia/
Sacrate [a] numi del divin collegio./ Vi sorge un ponte anchor d’un nobil
sasso,/ che dona per passare al tempio il passo […]», in Le Metamorfosi di
Ouidio Ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in Ottava Rima etc. Di
Nuovo dal Proprio Auttore Rivedute, et corrette; con le Annotationi di M.
Gioseppe Horologgi. Libro Primo. Appresso Francesco de’ Franceschi
senese. MDLXIII, p. 147). Meno probabili gli influssi di Cristoforo
Altissimo (“Fa pochi frutti l’arbor pien di foglie/ Spezzasi uno arco se più
d’un lo piega/ la nave oppressa da più venti anniega/ el mobil sasso poco
limo accoglie […]», che riscontro in Strambotti e Sonetti dell’Altissimo per
Cura di Rodolfo Renier, Firenze, Società Bibliofila, 1886, p. 36); o di
Antonio Fregoso (“Quel nobil sasso in vista s[ì] iocondo/ De fino et
lucente oro ha suo colore,/ Quale a s[è] tira quasi tutto il mondo […]», e
cfr. Dialogo de Fortuna del Magnifico Cavalliero Antonio Phileremo
Fregoso. Stampato in Venetia per Alessandro et Benedetto di Bendoni.
Etc. Nel[l’]Anno del Nostro Signore, MDXXI, s.n.p. Ne esiste un’edizione
moderna a cura di G. Dilemmi – e vedi A.F. FREGOSO, Opere, Bologna,
Commissione per i testi di lingua, 1976 – che però non ho visto). Su
130

questo punto di vista, la micro-tenzone tra Tasso e Brandi, a


volerla definire così, è semplicemente un botta e risposta tra un
intellettuale di provincia come il sacerdote di Salemi e il ben
più grande poeta eroico, laddove quest’ultimo si compiace
addirittura di reperire nel Brandi le doti, invero assenti, del
grandissimo autore e del cantore sommo di temi religiosi e
teologici. Questo tipo di conformazione strutturale, tipico
dell’intero volume brandiano, pone l’ottava del Tasso in una
dimensione sostanzialmente encomiastica, pur
nell’ondeggiamento che l’omaggio versificato può avere nel
momento in cui esso si pone anche come elemento esegetico.
La vexata quaestio legata all’ubicazione di versi altrui in opere
che avrebbero una diversa situabilità, è già stata peraltro

Giovanni Andrea dell’Anguillara (1517-1572), poeta e letterato


rinascimentale, cfr. ora B. PREMOLI, Giovanni Andrea dell’Anguillara:
accademico sdegnato ed etereo (1517-1572), Roma, Fondazione Marco
Besso, 2005, con bibliografia. Su Cristoforo Fiorentino detto Altissimo,
improvvisatore toscano vissuto nel secolo XV, cfr. da ultimo L. DEGLI
INNOCENTI, I “Reali» dell’Altissimo. Un ciclo di cantari tra oralità e
scrittura, Firenze, SEF, 2008, con bibliografia. Sul Fregoso (ca. 1460-ca
1530), si veda ad esempio V. DE MATTEIS, in DBIO, vol. 50 (1998),
parimenti con bibliografia.
137
Propenderei per questa seconda ipotesi, dal momento che, nell’edizione
del Carrara, la lettera dedicatoria che egli appone in premessa è datata 15
agosto 1595 (e cfr. CARRARA, Rosario, cit., 1595, p. 6). Va sottolineato che
non esiste nessun accenno al Brandi all’interno dell’epistolario tassiano, su
cui cfr. T. TASSO, Lettere, 2 voll., Torino, Einaudi, 1978 (l’edizione è a
cura di E. Mazzali).
138
Il terminus ante quem andrà forse fissato non troppo lontano dal
1590, data in cui esce la prestigiosa edizione del Bartoli proprio del
poema tassiano (cfr. La Gierusalemme Liberata di Torquato Tasso. Con
le Figure di Bernardo Castello, e le Annotationi di Scipio Gentili, e di
Giulio Guastavini. In Genova. MDLXXX).
131

affrontata da Enza Biagini: la studiosa toscana ha voluto


accennare, citando significativamente proprio l’Ariosto, a
quelle «forme di secondarietà letteraria (il pastiche, la parodia,
la contaminazione e la collazione occulta citate […] come
ipotetici generi di commento)» che danno «l’impressione
ambigua di essere nel contempo dentro la forma del commento
e fuori di essa»139. Secondo una prospettiva del genere,
collocate in un contesto in cui – prosimetricamente forse più
che polimetricamente – esse fanno da esposizione talvolta
esegetica ad un testo di consistenza più imponente, le rime
d’encomio hanno una posizione vassallatica, di completo e
feudale sostegno rispetto all’autore maggiore o preminente. In
questo caso particolare la citazione o il riecheggiamento non si
configurano come prestiti occulti o plagi, ma come il dovuto
omaggio ad un sodale letterario di cui si condividono obiettivi
e ideali in nome di una concordia ordinum che trova, nello
specifico, la religione come collante esclusivo. Il caso della
stanza del Tasso non fa eccezione, perché – anche se il poeta
ferrarese si pone certamente da un punto di vista di superiorità
morale e letteraria – il suo intervento in favore del Brandi è
palesemente elogiativo e pieno di solidaristica comprensione
degli scopi e delle finalità che il poema sacro in questione
anelava a raggiungere. Il che, benché possa suonare un po’
strano alle orecchie e agli occhi del lettore moderno, si pone
correttamente e congruentemente all’interno delle dinamiche
139
Cfr. E. BIAGINI, L’interprete e il traduttore. Saggi di Teoria della
letteratura, Firenze, FUP, 2016, p. 41, in part. n. 61, dove si menziona
un’opera della poetessa cinquecentesca Laura Terracina in cui i
componimenti, anch’essi encomiastici, “utilizzano tutti i versi
dell’Ariosto come contrappunto o commento […]». Il che accade con
quasi tutti i versi conglobati nel volume brandiano, Tasso compreso.
132

storiche in cui i due autori operarono e alle quali furono


entrambi funzionali.

VII

In conclusione, neppure la configurazione diseguale del


volume in cui è contenuto il Rosario ostacola l’inserimento dei
due testi del Battaglia (nonché dell’ottava tassiana) in una
dimensione meno che encomiastica. La questione, peraltro, è
già stata affrontata da Enza Biagini, quando ha voluto
accennare, citando significativamente proprio l’Ariosto, a
quelle «forme di secondarietà letteraria (il pastiche, la parodia,
la contaminazione e la collazione occulta citate […] come
ipotetici generi di commento)» che danno «l’impressione
ambigua di essere nel contempo dentro la forma del commento
e fuori di essa»140. Secondo una prospettiva del genere,
collocate in un contesto in cui – prosimetricamente forse più
che polimetricamente – esse fanno da esposizione talvolta
esegetica ad un testo di consistenza più imponente, le rime
d’encomio hanno una posizione vassallatica, di completo e
feudale sostegno rispetto all’autore maggiore o preminente. In
questo caso particolare la citazione o il riecheggiamento non si
configurano come prestiti occulti o plagi, ma come il dovuto
omaggio ad un sodale letterario di cui si condividono obiettivi

140
Cfr. E. BIAGINI, L’interprete e il traduttore. Saggi di Teoria della
letteratura, Firenze, FUP, 2016, p. 41, in part. n. 61, dove si menziona
un’opera della poetessa cinquecentesca Laura Terracina in cui i
componimenti, anch’essi encomiastici, “utilizzano tutti i versi
dell’Ariosto come contrappunto o commento […]». Il che accade con
quasi tutti i versi conglobati nel volume brandiano, Tasso compreso.
133

e ideali in nome di una concordia ordinum che trova, nello


specifico, la religione come collante esclusivo.
134

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA141

I.

La presente bibliografia è divisa considerando i quattro saggi che


141

compongono il presente volume.


135

INDICE

A MODO D’INTRODUZIONE… P.
****
UN BRIGANTE GENTILUOMO A CIMINNA: P.
QUALCHE APPUNTO D’ESEGESI ****
COMPARATA

«A CHI RISALTO DI GIOIA, A CHI PRELUDIO P.


DI STRAGGE»: LE GLORIE DI SANTA ROSALIA ****
DI FRATE MICHELANGELO AFFRUNTI TRA
ESEGESI BIBLICA E FONTI LETTERARIE

DI POLIMETRI E D’ALTRE IMMAGINAZIONI: P.


VERSI INEDITI DEL TASSO E DI ****
BONAVENTURA BATTAGLIA NEL ROSARIO
DI G.A. BRANDI

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA P.
****
INDICE P.
****
164

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