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MICHELE TARUFFO

Ordinario dell'Università di Pavia

Cultura e processo(*)

SOMMARIO:1.Introduzione.-2.Qualche considerazione
sulle culture.-3.Cultura processuale «tecnica» e
ideologia del processo.-4. Alcune implicazioni culturali
del processo civile.-4.1.La funzione del processo.-
4.2.II giudice. Caratteri e funzione.- 4.3. La struttura
del procedimento.-5. Le prove.-6.Altre implicazioni.-7.Il
processo civile nel contesto culturale.

1.-Una relazione nazionale non è certamente il luogo adatto per discutere in termini
generali una definizione di ciò che si intende per «cultura», soprattutto se l'autore è un giurista
che non pretende di essere né antropologo né filosofo. D'altra parte, antropologi e filosofi non
hanno raggiunto-ed è ovvio-una definizione comune e generale del significato di 《 cultura»,
termine del quale esistono dozzine di definizioni. Neppure opere recenti, che hanno affrontato in
modo molto informato il problema dei rapporti tra cultura e processo(1), o hanno disegnato i
contenuti e i metodi dell'antropologia giuridica (2), hanno approfondito il problema di una
definizione generale di «cultura». Si è fatto piuttosto riferimento ad una definizione semplice, per
la quale la cultura include le idee, i valori e le norme che sono ampiamente condivise in un
gruppo sociale (3).

D'altra parte, il termine «cultura» è spesso usato in una varietà di significati che è
impossibile ricondurre ad unità: la cultura filoso-fica, la cultura giuridica, la cultura processuale,
la cultura musicale, la cultura femminile, la cultura cattolica, la cultura tecnologica... sfuggono a
qualunque definizione. È già molto se il significato d'uso di questi termini si può dedurre-e non
sempre accade-dal contesto in cui vengono usati.

Se è irriducibile ad unità il problema della cultura, le cose sono un po' più semplici quando
si fa riferimento all'altro termine che il titolo della relazione pone in relazione con la cultura, ossia
il pro-cesso. In proposito si impongono però varie delimitazioni preliminari: in seguito si parlerà
essenzialmente di cultura e processo ci-vile, per la buona ragione che il processo penale e il
processo amministrativo hanno implicazioni culturali, oltre che istituzionali, politi-che e sociali,
completamente diverse ed autonome. Inoltre, per ragioni di spazio si potrà parlare soltanto del
processo civile «ordinario», poiché i numerosi procedimenti speciali che esistono
nell’ordinamento italiano richiederebbero una analisi dettagliata che non è possibile svolgere in
questa sede. Un'altra limitazione non può che riguardare i procedimenti esecutivi e cautelari,
che a loro volta richiederebbero uno studio apposito. Ancora, ci si occuperà del processo come
strumento giurisdizionale di risoluzione delle controversie, limitando a pochi cenni il discorso,
che andrebbe svolto in modo assai più ampio, sul complicato problema dei metodi di ADR.
Infine, non sarà possibile dedicare la stessa attenzione a tutti i numerosi aspetti del processo
civile che presentano significative implicazioni culturali. Si concentrerà dunque l'analisi su alcuni
soltanto di questi temi, dedicando a qualche altro tema solo rapidi cenni di carattere
prevalentemente informativo.

2. - Pur evitando una discussione di ordine generale su che cosa sia la cultura, pare
tuttavia opportuno svolgere qui alcune con-siderazioni preliminari, suscitate dalla lettura
dell'interessante argumentaire proposto dal professor Loïc Cadiet.
Anzitutto, non trovo convincente la distinzione tra culture nazionali e cultura universale.
Riferendomi soltanto alla cultura che ha relazioni con il diritto, e specificamente a quella sub-
cultura che si occupa del processo, e del processo civile in particolare, ho dei dubbi su entrambi
i termini della distinzione.

Da un lato, non credo che esista una cultura universale, né che esista una cultura giuridica
universale, né-tanto meno-che esista una cultura processuale universale. Pur senza essere un
multi-culturalista radicale, constato, nella prospettiva della comparazione giuridica, che esistono
molte culture che non sono nazionali perché sono piuttosto sovranazionali (o regionali), ma non
sono certa-mente universali. Tre esempi possono bastare a giustificare i miei dubbi in proposito.
a) La cultura confuciana sta da più di due millenni al fonda-mento del favore per la
conciliazione come metodo «armonioso» di soluzione delle controversie, e del
corrispondente sfavore per il ricorso ai procedimenti giudiziari. Essa non è certamente
qualifica-bile come «nazionale», dato che ha condizionato la storia e la struttura di tutti
gli ordinamenti asiatici, ma non è neppure qualificabile come universale, benché abbia
avuto e abbia tuttora una grande importanza in aree molto vaste del mondo.
Incidentalmente si può osservare che essa non ha nulla in comune con la cultura della
mediation nata- per ragioni diverse e contingenti- negli Stati Uniti negli anni '70, e non
ha neppure nulla in comune con la moda dei metodi di ADR che si è andata
diffondendo-per ragioni an-cora diverse, e soprattutto per l'incapacità di molti legislatori
di introdurre processi civili efficienti-in vari sistemi di civil law. Sotto il profilo culturale,
dunque, la tendenza a deviare la soluzione delle controversie su tecniche di ADR esiste
un po' dappertutto, ma non ha fondamenti omogenei, e quindi è difficile riconoscere in
essa il connotato dell'universalità. Peraltro, poiché è presente in molti ordinamenti, essa
non può neppure essere ricondotta entro ambiti soltanto nazionali, benché-ovviamente-
ogni legislatore nazionale la traduca in metodi ed istituzioni particolari.
b) Il mito della giuria, che resiste-sia pure con qualche im-portante cedimento, come
nel processo civile inglese-nei sistemi processuali di common law, e che esprime una
importante componente culturale di quei sistemi (4), è connesso alla storia e alla cultura
di tutti quegli ordinamenti, anche se risale alla comune origine costituita dal jury inglese.
Quindi non si può dire a questo riguardo che si tratti di un fattore culturale di dimensione
nazionale. Però non si può neppure dire che siamo di fronte ad un dato culturale
universale, per la buona ragione che gli ordinamenti continentali - e lo stesso vale per
quelli latino-americani e per quelli asiatici -non hanno mai conosciuto- dopo il fallimento
del tentativo fatto da Robespierre-la giuria nel processo civile.

c)È noto che la cultura islamica ha profonde implicazioni nella concezione del
diritto, ed anche nel modo di concepire la risoluzione delle controversie. Anche a questo
proposito, però, non si può certamente parlare di una cultura di dimensione
«nazionale», dato che tutto l'Islam si riconosce in questa cultura, ma altrettanto
certamente non si può parlare di una cultura universale.
Mi pare dunque che a proposito di molti aspetti dell'amministrazione della giustizia
vi siano numerosi fattori culturali che non hanno una dimensione soltanto nazionale, ma
non ve ne sia nessuno che possa davvero definirsi come universale. Quindi non credo si
possa parlare di una cultura universale, e neppure di una cultura giuridica universale, e
tanto meno di una cultura universale del processo, se non in modo puramente formale,
ossia immaginando di far riferimento alla somma di tutte le culture «regionali» e
nazionali che di fatto esistono nel panorama attuale. Nella migliore delle ipotesi, si può
riconoscere che può verificarsi un certo grado di convergenza di varie culture nazionali e
sovranazionali nell'accettazione di alcuni princìpi generali relativi al processo civile (5).
Non si può dire, tuttavia, che ciò dimostri l'esistenza di una cultura universale della giustizia
civile. In realtà la globalizzazione sta portando ad una rilevante omogeneizzazione di alcuni
settori del diritto- soprattutto nell'area dei contratti commerciali e, forse, della c.d. lex mercatoria
-, ma non si sta verificando, almeno finora, nulla di paragonabile nel settore della giustizia civile.
Lo di-mostra il fallimento della conferenza dell'Aja, che non è riuscita a produrre regole
generalmente accettabili in materia di giurisdizione e di riconoscimento delle sentenze straniere.
L'unica tendenza significativa all'omogeneizzazione dei metodi di risoluzione delle controversie
è quella che riguarda il ricorso all'arbitrato commerciale internazionale, che tende a seguire
schemi procedimentali abbastanza simili, come quello pubblicato alcuni anni fa da Uncitral. Va
peraltro sottolineato che si tratta di un fenomeno quantitativamente modesto, relativamente poco
conosciuto (per la regola della riservatezza che circonda l'arbitrato), e probabilmente omogeneo
solo per alcuni aspetti, come la scelta degli arbitri e la redazione del lodo, oltre a qualche regola
procedimentale.

Dall'altro lato, ho forti dubbi che si possa davvero parlare di culture «nazionali» come
uniche alternative alla ipotizzata cultura universale. Capisco che nell'àmbito di una associazione
«des amis de la culture juridique française » l'esistenza di una culturae specificamente di una
cultura giuridica-nazionale sia un presupposto ovvio ed indiscutibile. Osservo però che non tutti i
paesi sono così fortunati come la Francia. Si possono richiamare molti esempi al riguardo: se
consideriamo gli Stati Uniti come una nazione-e non come un agglomerato di minoranze etniche
e linguistiche-vediamo che in essa non esiste una sola cultura, e neppure una sola cultura
giuridica. L'esempio della Louisiana viene a proposito, ma anche il caso del Quebec in rapporto
al Canada è significativo. Inoltravi sono molti ordinamenti statali nei quali sono presenti diverse
culture, e ne derivano numerose conseguenze giuridiche: si va dalle giurisdizioni speciali
indigene riconosciute in Colombia e in Perù, alla situazione di compresenza di culture originarie
e di culture importate che si verifica in numerosi paesi africani anche dopo la fine delle
dominazioni coloniali.
Infine, e in una prospettiva diversa, si può dubitare che anche in paesi politicamente e
culturalmente meno eterogenei esista davvero una cultura, ed in particolare una cultura
giuridica, che si possa sensatamente far coincidere con i confini dello Stato-nazione, nel senso
che passando quei confini ci si troverebbe in culture nazionali sostanzialmente diverse. Non mi
sembra, ad esempio, che oggi si possa parlare di una cultura «italiana» del diritto e del
processo, anche se molti giuristi e processualisti italiani conoscono soltanto il diritto
«nazionale». La stessa cosa si può dire-credo-a proposito della Germania, della Spagna, e di
molti altri paesi. Anche senza essere europeisti radicali, non si può infatti tra-scurare che sono in
atto importanti fenomeni di armonizzazione del diritto, e quindi di evoluzione della cultura
giuridica, su scala europea. Ovviamente ciò non significa la fine del diritto «nazionale», ma
bisogna constatare che si sta verificando una interessante e mutevole fusione tra diritto
nazionale e diritto europeo.
Per quanto riguarda specificamente il diritto processuale, non mi pare però realistico
ipotizzare la redazione e l'accettazione di un codice processuale europeo, destinato ad essere
applicato in modo omogeneo e uniforme in tutti i Paesi membri dell'Unione. Le tradizioni storiche
locali, ed anche le dimensioni strutturali ed organizzative, così come le prassi applicative, sono
così varie e frammentate che non è possibile immaginare che tutte le differenze vengano
superate e che una sola disciplina del processo (e-cosa ancora più improbabile dell'ordinamento
giudiziario) possa es-sere introdotta su scala europea. Certamente è possibile, e ne sono prova
i vari regolamenti comunitari che riguardano materie processuali, concordare sull'applicazione di
alcune regole comuni (soprattutto in materia di giurisdizione e di riconoscimento delle sen-tenze
straniere). È anche possibile, come accade nel caso del titolo esecutivo europeo e
dell'ingiunzione europea, introdurre meccanismi che - per così dire - facilitano la circolazione su
scala europea di particolari forme di tutela. Tutti questi istituti sono di grande utilità pratica e
sono segno di un apprezzabile livello di integrazione degli ordinamenti processuali degli Stati
membri. E dubbio, tutta-via, che essi dimostrino con chiarezza l'emergere di una cultura
processuale comune a tutte le aree dell'Unione, ed è ancora più dubbio che si sia sulla strada di
una unificazione legislativa. Nella migliore delle ipotesi si può riconoscere che le peculiarità
nazionali o locali non sono più un ostacolo particolarmente forte all'individuazione di alcuni
settori e di alcuni princìpi sui quali si verifica una significativa convergenza (6). In questo senso
ha rilevanza il discorso sulla presenza di culture «nazionali»: esse sono, in realtà, l'ostacolo più
forte, e-per quanto risulta finora-non facilmente superabile, ad una effettiva integrazione delle
singole discipline in un diritto processuale europeo.

3.- Venendo a parlare direttamente della relazione tra cultura e processo, farei una
considerazione relativa alla «cultura tecnica». Esiste certamente una cultura tecnica del
processo civile, che si oc-cupa-appunto-di costruire, interpretare ed applicare i meccanismi del
processo. Si tratta di una cultura che spesso raggiunge li velli notevoli-talora anche eccessivi-
di sofisticazione, nel senso che tutti gli aspetti del processo, anche di dettaglio (di cui si
occupano i «giuristi del secondo comma», o «del combinato disposto»), sono oggetto di
studio e di elaborazione. A questo livello si può forse parlare di culture nazionali, nel
senso che i giuristi «dome-stici» solitamente si occupano soltanto del «loro» diritto
processuale ed ignorano l'esistenza del diritto processuale straniero. In proposito si
potrebbe discutere dei limiti e delle chiusure culturali che caratterizzano la cultura
processuale tecnica che esiste all'in-terno dei singoli contesti nazionali: questa cultura
spesso rimane soltanto nazionale per ragioni culturali - appunto - che vanno
dall'ignoranza di qualunque lingua straniera allo sciovinismo nazionalistico ed autarchico
per il quale «non vale la pena di sapere che cosa fanno gli altri perché noi siamo capaci
di fare tutto da soli» (7). Il panorama, però, non è sempre così desolato e nazionalistico:
in Italia esistono importanti scuole di diritto comparato che da tempo si occupano anche
del processo civile. In questa direzione emerge una cultura processualistica che non è
meno tecnica di quella che si occupa solo del diritto processuale italiano, ma che
include la conoscenza di altri ordinamenti processuali e il confronto del sistema
processuale italiano con altri sistemi. Esistono dunque almeno due tipi di cultura tecnica
nazionale: quella che è nazionale perché si occupa solo di problemi domestici, e quella
che è tecnica e nazionale perché prodotta da giuristi italiani, ma che estende il suo
oggetto di studio a tutti gli ordinamenti processuali più importanti.
Si può dunque dire che esistano una o più culture《tecniche》del processo civile, ma non
credo che sia possibile dire che ciò accade perché il processo civile è in se stesso una tecnica,
e null'altro. È certamente vero che esiste una dimensione tecnica del processo civile, e che
questa dimensione è assai importante per il funziona-mento dei meccanismi processuali e per
l'amministrazione della giustizia in generale. È anche vero, di conseguenza, che se un processo
è tecnicamente mal congegnato funziona male ed è inefficiente (in Italia vi sono numerosi
esempi di ciò, dovuti allo scarso livello tecnico del legislatore), mentre un processo
tecnicamente ben congegnato tende a funzionare bene e ad essere efficiente(fuori dall'Italia ve
ne sono vari esempi, come in Germania, in Austria e in Spagna). Tuttavia ciò non implica che il
processo possa essere ridotto sol-tanto ad una tecnica, e che quindi la sua conoscenza possa
esaurirsi semplicemente all'interno di una cultura tecnica.
Il problema può porsi, infatti, in una prospettiva diversa e-mi sembra-culturalmente più
interessante. Il processo è essenzialmente uno strumento, particolarmente complesso e
tecnicamente sofisticato, ma pur sempre uno strumento. Sorge allora il problema di stabilire a
che cosa serve questo strumento, ossia quali siano le finalità e gli scopi per i quali esso viene
costruito e viene usato. Si intuisce che sarebbe razionale costruire lo strumento in un modo o
nell'altro a seconda della funzione che esso dovrebbe svolgere e dei risultati che dovrebbe
conseguire: se voglio dipingere un quadro è opportuno che mi serva di un pennello e non di un
caccia-vite, e se voglio vincere il gran premio di formula 1 sarà meglio che costruisca un
macchina che supera i 300 km all'ora e non una Fiat 500. Le conoscenze tecniche mi potranno
dire come si fabbrica un pennello e come si fabbrica una macchina di formula 1,e ciò è del tutto
ovvio, ma il problema non è questo. Il problema consiste nello stabilire qual è lo scopo che
intendo raggiungere, perché solo dopo aver preso questa decisione potrò decidere
razionalmente di quale strumento ho bisogno. È certamente possibile costruire strumenti senza
prevedere a che cosa debbono o possono servire, ma ho il sospetto che in questo caso si
costruiscano «macchine inutili» invece che strumenti efficienti. Anche questo può accadere
nell'àmbito del processo (ed infatti il processo societario italiano asso-miglia più ad una
macchina inutile che ad uno strumento per fare alcunché), ma si tratta evidentemente di una
prospettiva non molto vantaggiosa.
Il punto, che vorrei qui sottolineare, è che, se ci si pone il problema di stabilire quali sono gli
scopi che il processo civile dovrebbe perseguire, ci si colloca su di un piano sul quale la cultura
tecnica non è utile, se non in minima parte, e certamente non fornisce i criteri secondo i quali
bisogna decidere. Si tratta, infatti, di scelte che si collocano sul piano della politica del diritto e
della cul-tura sociale prevalente nel sistema giuridico in questione. In altri termini, queste scelte
sono essenzialmente ideologiche, essendo influenzate dai valori che si ritengono dominanti e
degni di essere attuati in un determinato contesto socio-politico, prima che giuridico.
Stabilire che il processo civile deve essere finalizzato a risolvere controversie sulla base
della libera competizione delle parti individuali private, come accadeva nei codici processuali
«liberali》dell''800,e come qualcuno sostiene ancora oggi, non è il frutto di una scelta tecnica: è
il risultato di una opzione ideologica. Decidere, invece, che il processo civile deve essere
finalizzato alla produzione di decisioni giuste in quanto fondate su una corretta applica-zione
della legge e sull'accertamento della verità dei fatti, non è-ancora una volta-il frutto di una scelta
tecnica: è il frutto di una opzione ideologica. Ne dà conferma l'analisi comparatistica: essa
mostra infatti che non solo esistono diversi modelli processuali, ossia diversi modi di concepire e
di configurare lo strumento processuale, ma anche che ognuno di questi modelli è coerente con
una specifica ideologia della giustizia civile, e si colloca in un contesto politico e culturale, oltre
che economico e persino etico, diverso (8).
Dunque, la scelta di costruire uno strumento processuale per-ché sia idoneo al
conseguimento di finalità che si vogliono raggiungere nell'amministrazione della giustizia non
sarebbe neppure comprensibile o spiegabile se si rimanesse soltanto entro i confini della cultura
tecnica. Se si vuole comprendere perché esistono diversi modelli processuali, e perché alcuni
ordinamenti scelgono un modello mentre altri ne scelgono un altro, bisogna collocarsi nel conte-
sto delle ideologie relative all'amministrazione della giustizia in generale, e in particolare in
quello delle ideologie che riguardano la giustizia civile.
In sostanza, il processo non è pura tecnica e la sua conoscenza non si esaurisce nella
cultura tecnica. La tecnica serve a fabbricare lo strumento processuale, mentre l'ideologia
determina gli scopi che il processo dovrebbe conseguire. Entrambe sono congiuntamente
necessarie e disgiuntamente insufficienti: la tecnica senza l'ideologia è vuota, mentre l'ideologia
senza la tecnica è impotente.
4.-Un modello processuale-e ciò vale per tutti i modelli di processo-nasce dunque dalla
combinazione di scelte ideologiche e di strumentazioni tecniche. Combinazione variabile
soprattutto in funzione della varietà delle scelte ideologiche, dato che la tecnica, in sé
considerata, è neutra oltre che vuota. Ciò implica che l'analisi di un modello processuale debba
tener conto anzitutto della sua dimensione ideologica, essendo la dimensione tecnica
importante ma non decisiva. Faccio questa precisazione preliminare per spie-gare la prospettiva
nella quale esaminerò alcuni aspetti del modello processuale italiano, prendendo in
considerazione più l'aspetto ideologico che non l'aspetto tecnico, il quale richiederebbe discorsi
assai più dettagliati ma anche assai più noiosi.

Le implicazioni culturali del processo civile oggi vigente in Ita-lia si possono cogliere in
modo sufficiente, anche se ovviamente non completo, prendendo in considerazione alcuni
aspetti, ossia: gli scopi che vengono assegnati al processo civile, la distribuzione dei ruoli tra le
parti e il giudice, la struttura del procedimento e la disciplina delle prove.

4.1.-Come ho già accennato, vi è stata un'epoca in cui anche in Italia, come nel resto
d'Europa, l'ideologia prevalente era nel senso che il processo fosse essenzialmente il luogo in
cui si manifestavano l'autonomia e la libertà delle parti private. Esse, quindi, dovevano avere a
disposizione tutti gli strumenti processuali necessari per svolgere di loro iniziativa una
competizione individuale, di fronte ad un giudice-arbitro la cui funzione era solamente quella di
assicurare la correttezza dello scontro. Da ciò derivavano varie conseguenze «tecniche», come
ad esempio la netta prevalenza della scrittura, la frammentazione del procedimento in un
numero indeterminato di udienze, l'impugnabilità delle sentenze interlocutorie e la natura
devolutiva dell'appello. Nella cultura liberale dell''800, e nella società italiana dell'epoca, un
processo lungo, formalistico e costoso come quello regolato dal c.p.c. del 1865 era tutto
sommato coerente ed accettabile, dato il tipo di contenzioso civile che veniva prodotto dalla
stratificazione economica e sociale (va però ricordato che una proporzione grandissima di
questo contenzioso era costituita da liti «povere» che venivano risolte dai giudici conciliatori, e
cioè fuori dal modello processuale-tipo)(9).
Anche in Italia, come nel resto d'Europa, questa ideologia del processo civile andò in crisi-
per effetto delle profonde trasforma-zioni economiche e sociali intervenute in quell'epoca-negli
anni tra la fine dell''800 e l'inizio del '900. La cultura giuridica, ed in parti colare quella
processualistica, interpretarono questi mutamenti parlando di una funzione sociale del
processo civile (Franz Klein) ed assegnando al processo la finalità di attuare il diritto
sostanziale (Giuseppe Chiovenda). Si cominciò così a parlare della natura pubblicistica,
e non più privatistica, del processo civile, e si cominciò a porre il problema della
efficienza e della funzionalità del processo rispetto ai suoi scopi, che non si esaurivano
più nella garanzia della libera competizione delle parti private. Rimaneva evidente che il
processo civile era essenzialmente finalizzato a fornire la risoluzione delle controversie
individuali tra privati, ma si cominciò a ritenere che il con-tenuto e la qualità della
decisione non fossero più indifferenti, e fosse necessario risolvere le controversie con
decisioni giuste e legittime.

In epoca a noi più vicina, la « cultura delle garanzie»(un'altra cultura, non solo
processualistica ma anche processualistica, e non solo italiana) investì anche il processo civile,
sia costituzionalizzando la garanzia dell'azione e della difesa, sia dando luogo ad una
elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, che rappresenta, ormai da qualche decennio, il frutto
più importante della conce-zione del processo come strumento fondamentale di garanzia dei
diritti riconosciuti dalla legge. La giurisdizione costituisce uno dei poteri fondamentali dello Stato
ed è finalizzata all'attuazione del di-ritto. In questo contesto le parti vedono garantiti tutti i loro
«diritti processuali», ma non sono più le protagoniste esclusive della competizione processuale.
Piuttosto, esse si servono della garanzia rap-presentata dalla giurisdizione per ottenere la tutela
delle loro situa-zioni giuridiche sostanziali (10).
In un contesto di questo genere, determinato dalla evoluzione sociale e culturale, il
compito della cultura tecnica dovrebbe essere quello di costruire strumenti processuali
efficienti e funzionali al raggiungimento della finalità consistente nella tutela dei diritti dei
cittadini. Come dice la «cultura costituzionalistica», anzi, questa tutela deve essere
effettiva, e quindi non può essere affidata solo alle enunciazioni di principio contenute
nella Costituzione: è dunque necessario fare in modo che il processo civile sia
accessibile a tutti, rapido, semplice, poco costoso e capace di soddisfare in modo
adeguato i bisogni di tutela dei cittadini.

È su questo livello, però, che la cultura tecnica «nazionale» dimostra di non essere
all'altezza del compito. Il processo civile italiano è da tempo il più lungo, complicato ed
inefficiente, su scala europea. Questa situazione, che dura tuttora, è in larga misura il
frutto della incapacità del potere politico di affrontare seriamente il problema di una
riforma radicale della giustizia civile, ma è an-che il frutto delle insufficienze della cultura
processualistica ita-liana, o almeno della maggior parte di essa (che è quella più
ascoltata dai politici). In larga misura ciò deriva dall'autarchia culturale di molti
processualisti, che da un lato trascurano l'essenziale componente ideologica del
problema, e quindi non si chiedono quali sono le finalità del processo, e dall'altro lato
non sanno (e non in-tendono sapere) come altri ordinamenti europei (Germania,
Francia, Spagna) abbiano affrontato - e in larga misura superato-le stesse difficoltà. Da
questo punto di vista la <cultura tecnica> si presenta come un limite piuttosto che come
una risorsa. In Italia la cultura tecnica del processualista medio ha prodotto finora-ma
non vi sono segni di miglioramento l ‘incapacità di risolvere il problema fondamentale
costituito dalla durata eccessiva e intollerabile del processo civile. I rimedi proposti dai
tecnici vicini al potere si sono infatti rivelati del tutto inutili, non perché questi tenici siano
tecnicamente incapaci (non tutti, almeno), ma perché non hanno chiari gli scopi che il
processo civile dovrebbe perseguire.

4.2.-Per quanto riguarda il giudice, vale la pena di parlare di due aspetti principali:
a) quello che attiene alla sua figura, e b) quello che attiene al ruolo che egli svolge nel
corso del processo.
a) Secondo una tradizione storica molto risalente, il giudice del processo civile
italiano è un giudice professionale, esperto di diritto e selezionato mediante un concorso
pubblico nel quale si valuta la sua preparazione tecnico-giuridica. È noto che questo
modello di giudice come burocrate e funzionario dello Stato è presente in tutti gli
ordinamenti dell'Europa continentale, ed in molti altri ordina-menti di civil law, che si
sono ispirati fondamentalmente alla ri-forme francesi dei primi anni dell''800. Si può
dunque dire che la figura del giudice funzionario e professionista del diritto fa parte
integrante-e da molto tempo - della cultura della giurisdizione che si è andata
consolidando in Italia come in molti altri paesi.
È da sottolineare che questa configurazione del giudice segna una delle differenze
più forti tra i sistemi europei e i sistemi di common law, in funzione dell'assenza della
giuria nel processo civile da un lato dell'Oceano Atlantico, e della perdurante vitalità del
mito del jury trial negli Stati UJniti (mentre in Inghilterra la giuria civile non esiste più
ormai da molto tempo). Vero è che il modello del giudice-giurista non è assoluto (e che
importanti eccezioni sono rap-presentate ad esempio dalle juridictions d'exception
francesi), ma esso continua comunque ad essere largamente prevalente. Ciò vale in
particolare in Italia, ove solo in pochi casi esistono sezioni specializzate composte, oltre
che da giudici togati, anche da laici esperti in particolari materie (come nel caso delle
sezioni specializzate agra-rie). Il modello del giudice-giurista è così influente che anche
quando sono stati istituiti i giudici di pace si è stabilita la condizione che questi giudici-
pur non essendo magistrati in senso proprio siano tuttavia laureati in giurisprudenza.
b) Quanto al ruolo che il giudice svolge nell'àmbito del processo, va detto che
anche l'Italia segue la tendenza, da tempo radicata nell'àmbito della cultura europea, a
configurare il giudice come dotato di poteri managerial relativamente allo svolgimento
del pro-cesso (v. in particolare gli artt. 175, 183, 188,202 c.p.c.), ed anche di poteri
istruttori autonomi (su cui v. infra). Questo modo di con-figurare il ruolo del giudice
nell'àmbito del processo è direttamente connesso con l'ideologia «pubblicistica» del
processo civile di cui si è fatto cenno in precedenza, e rappresenta quindi uno dei temi
nei quali si vede con particolare chiarezza l'influenza della cultura (e dell'ideologia) del
processo sulla configurazione tecnica di esso. Che tocchi al giudice, e non in via
esclusiva alle parti, il compito di governare il funzionamento del processo appare
piuttosto ovvio in tutti gli ordinamenti moderni di civil law. Ciò che può variare,
eventualmente, è l'intensità o l'ampiezza con cui il giudice puiò svolgere questa sua
funzione di direzione. Nel processo italiano si riconosce che essa spetta al giudice, ma
finisce col prevalere in certa misura una concezione formalistica del procedimento (frutto
di una cultura tecnica conservatrice), in funzione della quale si tende a disciplinare in
maniera dettagliata tutti i passaggi del procedi-mento, riducendo in proporzione l'àmbito
della discrezionalità che il giudice può esercitare (si veda ad es. l'art. 183 c.p.c., nel
quale viene regolato, con analiticità eccessiva, lo svolgimento della trattazione
preliminare della causa).
Quanto ai poteri di iniziativa istruttoria autonoma, anche l'Italia si è allineata con la
tendenza-pure prevalente in quasi tutti gli ordinamenti europei (con la sola, apparente,
eccezione della Spagna) - favorevole ad attribuire al giudice un ruolo attivo nella
scoperta della verità dei fatti, e quindi con la tendenza a conferirgli il potere di disporre
d'ufficio l'acquisizione di prove rilevanti che non siano state dedotte dalle parti(11). Non
si può dire - come molti erroneamente dicono-che si tratti di un modello processuale
inquisitorio, per la buona ragione che un modello inquisitorio non è mai esistito nella
storia e nella cultura europea del processo civile(con la sola eccezione della Prussia del
secondo '700). Va in-vece sottolineato che la figura del giudice che può e deve rendersi
attivo nella ricerca della verità, colmando le lacune che possono es-sere lasciate dalle
iniziative probatorie delle parti, è a sua volta una conseguenza della svolta ideologica
che ha caratterizzato la conce-zione del processo civile, della quale pure si è parlato più
sopra. In-fatti, nel momento in cui si configura il processo come orientato al
conseguimento di decisioni giuste, e ci si rende conto del fatto che la giustizia della
decisione dipende anche dall'accertamento della verità dei fatti, e inoltre si considera
che tutto ciò è incompatibile con il mantenimento di un monopolio rigoroso delle parti sui
mezzi di prova che vengono acquisiti al processo, non si può evitare di far carico al
giudice del compito di assicurare-con proprie iniziative istruttorie-che tutte le prove
rilevanti vengano acquisite al giudizio. In questo modo la figura del giudice attivo nella
ricerca della verità dei fatti, e quindi dotato di poteri istruttori autonomi, viene a far parte
del modello di processo che appare largamente domi-nante nella cultura processuale di
civil law.
Per quanto riguarda l'Italia, vi è semmai da segnalare che si è adottata una
versione particolarmente debole di questo modo di configurare i poteri del giudice. Solo
il giudice del lavoro, infatti, ha il potere di disporre d'ufficio l'acquisizione di ogni mezzo
di prova (anche oltre i limiti del codice civile, dice l'art. 421,comma 2°,c.p.c.),mentre il
giudice ordinario ha solo il potere di disporre d'ufficio alcuni mezzi di prova, tra i quali
non rientrano le testimonianze, la confessione, il giuramento decisorio e l'esibizione di
documenti. In queste limitazioni si può vedere con ogni probabilità una perdurante
influenza della ideologia «privatistica» del pro-cesso civile, secondo la quale solo le parti
dovrebbero avere il potere di produrre in giudizio le prove che ritengono opportuno pro-durre:
non a caso l'art. 115 c.p.c. dice che il giudice deve fondare la propria decisione sulle prove
dedotte dalle parti e dal pubblico ministero, e configura come eccezionali i casi in cui il giudice
dispone di poteri istruttori autonomi (12). Ulteriore influenza di quella ideo-logia si riscontra
d'altronde nel comportamento di molti giudici, i quali non fanno uso di questi poteri neppure nelle
situazioni in cui potrebbero e dovrebbero servirsene per accertare la verità dei fatti(13).

4.3.-Per quanto riguarda la struttura del procedimento, è utile tener presente che attualmente il
panorama europeo è domi-nato da due modelli. Uno di essi, che trova le principali manifesta-
zioni in Germania e in Austria, e dal 2000 anche in Spagna, ha una struttura bifasica, essendo
composto da una fase preliminare nella quale la causa viene preparata e discussa dalle parti
con il giudice (e nella quale non di rado la controversia viene risolta), e da un fase istruttoria
nella quale vengono assunte le prove, di solito in una sola udienza orale e concentrata, alla
quale fa séguito la pro-nuncia della sentenza. Il secondo modello, che è presente in Francia, ed
in larga misura in Italia, è strutturato secondo una sequenza di udienze nelle quali si svolgono le
varie attività processuali, senza che vi sia una netta distinzione del procedimento in due fasi. Il
modello italiano è storicamente derivato da quello francese, benché nel secolo scorso sia
prevalsa in Italia una cultura processualistica di influenza tedesca (mentre l'influenza
francese è stata determinante nel corso dell''800).

L'organizzazione del procedimento lungo una serie omogenea di udienze risaliva in


realtà alla storia del processo comune, poi passò nella codificazione francese per
influire successivamente su tutte le codificazioni europee del secolo XIX, ed in
particolare su quella italiana del 1865. Questo modello era ancora presente nel codice
processuale del 1940-1942, e divenne ancora più evidente dopo la riforma del 1950: il
processo italiano si svolgeva in una se-rie di udienze di numero indeterminato, spesso
assai lontane nel tempo l'una dall'altra, senza termini prefissati e senza preclusioni
capaci di imporre un ordine alle attività delle parti. Inoltre, le parti avevano la possibilità
di introdurre novità nel processo (eccezioni nuove, prove nuove, ed anche domande
nuove) per tutta la durata di esso, e le attività di trattazione si mescolavano e si
sovrappone-vano con quelle di istruzione probatoria, fino a che la causa non era pronta
per essere decisa. Questo modello risultò inadeguato ed inefficace nella sua prevalente
applicazione pratica: tempi lunghi, complicazioni inutili, manovre dilatorie, abusi di vario
genere determinarono la crisi della giustizia civile fino a far precipitare l'Italia, come già
si è detto, all'ultimo posto della graduatoria europea. A partire dal 1990, e in varie
riprese sino al 2005, si sono introdotte varie riforme parziali, tutte con lo scopo principale
di abbreviare i tempi del processo. Si è trattato però di una serie di fallimenti, come
dimostra il fatto che oggi il processo civile non è affatto più breve di quanto fosse negli
anni '80.
Le ragioni del fallimento sono varie, ma le più importanti sono di carattere culturale, ed è
per questa ragione che ne parliamo qui. Benché il codice affermi che la trattazione della causa è
orale (art. 180), la realtà è completamente diversa: di regola le udienze (salvo quelle in cui si
ascoltano testimoni) servono soltanto a fissare ter-mini e a decidere la data delle udienze
successive; la discussione orale della causa è ridotta al minimo. In questa direzione sono an-
date anche le riforme recenti: la modifica dell'art. 183, introdotta nel 2005, fa in modo che la
trattazione preliminare della causa avvenga essenzialmente fuori udienza attraverso lo scambio
di memo-rie scritte, mentre in udienza il giudice si limita solitamente a fissare i termini per il
deposito di queste memorie. Si tratta dunque di un tipo di procedimento quasi totalmente scritto,
frammentato in di-verse fasi e in varie udienze: evidentemente prevale, anche con il supporto
del legislatore, una concezione burocratica del procedi-mento civile. Di essa approfittano gli
avvocati per elaborare una quantità di memorie scritte, spesso ripetitive, che rappresentano la
vera trattazione della causa fino alla conclusione di essa. Ciò dimostra che anche la professione
forense condivide con il legislatore una concezione essenzialmente burocratica del processo
civile.
In queste vicende la cultura meramente tecnica della maggior parte dei processualisti civili
ha mostrato tutti i suoi limiti: evitando di guardare alle riforme introdotte con successo in altri
paesi, e cercando di trarre dal proprio interno le soluzioni, questa cultura ha introdotto nella
disciplina del processo modifiche che non sono ser-vite quasi a nulla. In particolare, si è evitato
di guardare a quegli ordinamenti che, adottando il modello bifasico di tipo tedesco, sono riusciti,
come è accaduto in Spagna con la Ley de Enjuiciamiento Civil del 2000, a ridurre drasticamente
i tempi della giustizia civile, così rendendo efficiente un sistema processuale che prima era
quasi peggiore di quello italiano. Il risultato è che ora, a seguìto delle ultime riforme, il modello
italiano è un ibrido incoerente: si è introdotta una fase preparatoria teoricamente concentrata,
ma in pratica articolata in una sequenza di memorie scritte; non si è però riformata tutta la fase
del processo che riguarda la disciplina delle prove, che mantiene norme in gran parte superate e
che, per quello che riguarda l'assunzione delle prove orali, continua ad articolarsi in una serie di
udienze distribuite nel tempo e spesso assai lontane l'una dall'altra. È ancora presto per dire
quali saranno gli effetti di queste ultime riforme sulla efficienza e sulla rapidità del processo, ma
è facile prevedere che la situazione non migliorerà.
Per altro verso, è risultata evidente l'ambiguità ideologica del legislatore, che non è stato in
grado di determinare con chiarezza le finalità del processo civile, come premessa indispensabile
per la configurazione più idonea degli strumenti processuali che occorrono per conseguire tali
finalità. L'ambiguità ideologica del legislatore non nasce però da sola e non cade dal cielo: essa
non è altro che una manifestazione dell'ambiguità che caratterizza più in generale la cultura
processualistica italiana, che è a sua volta il riflessi O della mancanza di chiarezza che esiste
oggi nel panorama politico e culturale del Paese. In Italia molti sono al contempo statalisti e
privatisti, individualisti e collettivisti, liberali e socialisti, riformatori e conservatori, progressisti e
reazionari, laici e cattolici, in un miscuglio in cui la sola cosa chiara è che le idee chiare fanno
difetto.
5.-Il tema delle prove è forse quello che presenta più pro-fonde e più numerose implicazioni
culturali.
Una di queste implicazioni è direttamente connessa all'ideologia del processo civile e delle
sue finalità. Se infatti si adotta una ideologia del processo nella quale il valore fondamentale
consiste nell'attuazione della completa autonomia delle parti, e lo scopo esclusivo è quello di
porre comunque fine ala controversia, prescindendo dal contenuto e dalla qualità della decisione
che conclude il processo, l'accertamento della verità dei fatti diventa irrilevante, un by-product
che può anche non esserci. In un contesto di questo genere la prova tende ad essere concepita
non come uno strumento per accertare la verità dei fatti-che non interessa-ma in senso
ritualistico, nel senso-cioè-che le modalità di assunzione delle prove tendono a mostrare, a far
credere al pubblico, che i fatti vengono accertati. Ciò è evidente in quei tipi di processo - come il
trial by jury nordamericano-in cui l'aspetto teatrale del procedimento è particolarmente
importante. Non a caso, nella cultura adversarial che permea l'intera società statunitense, la ri-
cerca della verità non viene tenuta in alcun conto, e la cross-examination dei testimoni è una
forma di spettacolo molto popolare, an-che se si riconosce che essa non è affatto uno strumento
funzionale per la scoperta della verità (14).
La situazione è completamente diversa se si adotta una ideologia del processo nella quale
ci si aspetta che esso termini con decisioni giuste, e si ritiene che la decisione sia giusta se ed in
quanto si fondi su un accertamento veritiero dei fatti della causa. Si tratta di una concezione
piuttosto radicata nella cultura giuridica ed anche nella cultura sociale dell'Europa continentale,
come è dimostrato sia dal fatto che la prevalente dottrina processualistica concorda su di essa,
sia dal fatto che alcuni legislatori processuali-come quello tedesco (v. ad esempio il § 286 della
Zivilprozessordnung) -dicono espressamente che nel processo deve essere accertata la verità
dei fatti. In un contesto culturale di questo genere, alla prova viene attribuita la funzione di
strumento euristico, ossia di un mezzo di cui ci si serve per accertare la verità. Bisogna
d'altronde considerare che non vi è nulla di meno ritualistico e di meno teatrale di un'udienza in
cui si assumono le prove davanti ad un giudice civile, soprattutto in Italia, sicché sarebbe
impossibile ravvisare nell'udienza istruttoria alcunché di simile ad una pubblica
rappresentazione.

Una seconda implicazione culturale del tema della prova è di carattere epistemico. Se si
muove dalla premessa appena stabilita, secondo la quale la prova è uno strumento per la
ricerca della verità, emerge il problema del metodo, ossia di come la prova funziona per la
scoperta della verità. In proposito possono darsi risposte molto diverse a seconda che si adotti
l'una o l'altra delle diverse prospettive epistemologiche. Per un verso, esistono molteplici
concezioni della verità proposte da filosofi ed epistemologi(15),e quindi si verifica una
corrispondente varietà nei modi di configurare la verità che nel processo dovrebbe essere
accertata sulla base delle prove. In proposito si può osservare che almeno in Italia-ma forse
anche altrove-la cultura giuridica, ed in particolare la cultura processualistica, è particolarmente
povera per quanto riguarda i problemi filosofici ed epistemologici relativi alla verità, sic-ché
spesso si incontrano definizioni generiche e poco significative. Spesso si ammette che il
processo debba accertare la verità, ma poi non si sa bene che cosa sia la verità che dovrebbe
essere accertata.
Esistono, inoltre, varie concezioni del modo in cui la verità potrebbe essere scoperta, ed
anche qui entrano in gioco diverse implicazioni culturali di carattere generale. Così, ad esempio,
in una prospettiva fondamentalmente psicologistica e irrazionalistica si può pensare che la verità
derivi semplicemente dalla intime conviction dei giurati o del giudice, escludendo quindi che
essa venga individuata applicando un metodo controllabile. Se invece si adotta una prospettiva
razionalistica - che oggi sembra prevalere in varie aree culturali e in alcuni ordinamenti di
common law inclusi gli Stati Uniti, nonché in alcuni ordinamenti di civil law come Italia e
Spagna(16) - ciò implica di discutere il metodo attraverso il quale le prove vengono assunte e le
relative informazioni vengono analizzate e valutate. Emerge così una dimensione epistemica del
fenomeno probatorio, nella quale si analizzano le prove dal punto di vista della loro capacità di
funzionare come strumenti finalizzati all'accertamento della verità(17).

Una terza implicazione culturale del tema della prova riguarda la disciplina normativa delle
prove. Essa include essenzialmente tre gruppi di norme: quelle che stabiliscono l'inammissibilità
di determinate prove, quelle che stabiliscono le modalità con cui le prove - soprattutto le prove
orali - vengono assunte nel processo, e quelle che si occupano della valutazione delle prove.
Per quanto riguarda le norme che riguardano l'inammissibilità delle prove, le implicazioni
culturali sono soprattutto legate alla tra-dizione storica: è in questa direzione, infatti, che si
possono spie-gare da un lato le profonde differenze tra la law of evidence angloamericana e il
diritto delle prove di tipo continentale, nonché le differenze che si riscontrano all'interno degli
stessi sistemi probatori di civil law. Va anzitutto osservato che non si tratta di differenze
«nazionali»: la law of evidence è stata per molto tempo sostanzialmente comune al sistema
inglese e al sistema statunitense, ed anche ad al-tri ordinamenti della stessa «famiglia», e solo
di recente la law of evidence civile inglese se ne è differenziata (soprattutto abolendo la hearsay
rule nel processo civile). Nell'àmbito dell'Europa continentale vi sono varie differenze tra i singoli
sistemi probatori, ma anche qui esse non sono riconducibili a peculiarità nazionali: basta
considerare che le regole italiane di inammissibilità della prova testimoniale (artt. 2721 ss. c.c.)
sono quasi completamente identiche a quelle francesi, dalle quali-infatti-sono direttamente
derivate. Soprattutto, però, pare impossibile ricondurre a varianti pura-mente nazionali il modo di
concepire le prove: tra un testimone italiano e un testimone tedesco, francese o spagnolo non vi
è alcuna differenza di rilievo. Se leggo i §§ 373 ss. della Zivilprozessordung tedesca o gli artt.
205 ss. del code de procédure civile francese, che riguardano la prova testimoniale, non ho
l'impressione di trovarmi di fronte a fenomeni ontologicamente diversi tra loro, e diversi dalla
prova testimoniale regolata dagli artt. 244 ss. del c.p.c. italiano. Naturalmente vi sono numerose
peculiarità «nazionali»: ad esempio, l'incapacità a testimoniare dei soggetti che potrebbero
intervenire in giudizio (art. 246 c.p.c.) esiste solo in Italia, mentre in Italia non vi sono
norme che prevedano l'equivalente delle attestations francesi(18).Non si può tuttavia
ritenere che la testimonianza sia un fenomeno sostanzialmente diverso in Germania, in
Francia e in Italia, o in altri paesi ancora. Analogamente, non si constatano differenze
sostanziali nei modi «nazionali» di concepire un documento pubblico, una scrittura
privata o una consulenza tecnica, anche se vi sono variazioni nella specifica disciplina
locale dei vari mezzi di prova. Anche a questo proposito sembra più appropriato parlare
di «famiglie» o di «gruppi» di ordinamenti che mostrano rilevanti tratti comuni, piuttosto
che di varianti nazionali.

Lo stesso discorso vale, anzi a maggior ragione, a proposito delle tecniche che si
impiegano per l'assunzione delle prove orali. Da un lato, come è noto, tutti i sistemi di common
law usano il me-todo dell'interrogatorio incrociato svolto dai difensori delle parti. Questo metodo
fa parte integrante della cultura sociale e giuridica angloamericana, e soprattutto statunitense:
già Roscoe Pound aveva sottolineato come esso trovasse fondamento nell'etica protestante.
Per contro, è lecito dubitare che esso trovi fondamento ade-guato nell'etica cattolica, sicché
sarebbe interessante verificare come esso funziona in paesi non protestanti - come la Spagna -
che lo hanno recentemente adottato. In Italia l'interrogatorio in-crociato è stato introdotto con il
c.p.p. del 1988, ma è assai dubbio che esso funzioni bene (e certamente non corrisponde a ciò
che accade negli Stati Uniti), principalmente per ragioni legate alla cultura degli avvocati e dei
giudici.
Dall'altro lato, il metodo di assunzione delle prove testimoniali che viene adottato in
quasi tutti i paesi di civil law è quello che si fonda sull'interrogatorio condotto dal giudice,
con i difensori delle parti ridotti ad un ruolo pressoché nullo. Anche qui non si tratta di
varianti nazionali: con la sola recente eccezione della Spagna tutti i paesi di civil law
impiegano, praticamente da sempre, questo metodo. È chiaro che questo fenomeno si
spiega sia con una tradizione storica comune che risale agli ordines iudiciarii medievali,
sia-in epoca attuale-con la concezione complessiva secondo la quale il fulcro del
processo è il giudice, ed è il giudice-non le parti-che ha il compito di accertare la verità
dei fatti. Non oc-corrono lunghe argomentazioni per sottolineare che ciò è coerente con
la cultura europea che vede l'amministrazione della giustizia come un compito dello
Stato, che determina la struttura degli ordinamenti giudiziari, e che si affida al giudice
per la formulazione di valutazioni neutrali ed attendibili sulla credibilità dei testimoni.
Infine, ma il discorso potrebbe continuare a lungo, vi sono implicazioni culturali che
riguardano il modo come viene concepita la valutazione delle prove. Da un lato, negli
ordinamenti di common law - e in particolare negli Stati Uniti - torna in evidenza il mito della
giuria, e l'idea - profondamente radicata in quella cultura sociale, oltre che giuridica-che un
verdetto non motivato reso da un gruppo di cittadini comuni esprima la verità dei fatti (19). In
realtà, nella stessa cultura nordamericana viene detto che la giuria rappresenta essenzialmente
una istituzione di carattere ordalico (20),invece che un trier of fact dal quale ci si possa aspettare
l'accertamento della verità. Dunque l'opzione in favore della giuria sembra dipendere da vari e
profondi motivi storici, etici e politici, che però hanno ben poco a che fare con l'accertamento
della verità e con la valuta-zione razionale delle prove.
Dall'altro lato, in tutti gli ordinamenti di civil law il crollo del sistema delle prove legali
determinato dall'emersione del principio del libero convincimento del giudice ha
significato l'abbandono di una tradizione culturale plurisecolare, caratterizzata sia dalla
sfiducia nelle facoltà di giudizio dei giudici dell'ancien regime, sia dalla tendenza a
tradurre in regole probatorie i pregiudizi e le discriminazioni che percorrevano la società
europea dell'epoca(21).Il principio del libero convincimento implica il passaggio da una
cultura formalistica della prova ad una cultura tendenzialmente razional-stica della
prova. Dico «tendenzialmente», perché nella cultura europea non mancano-come ho
accennato in precedenza-concezioni irrazionalistiche del convincimento del giudice,
secondo le quali egli trarrebbe la verità dei fatti non da una valutazione ra zionale delle
prove, ma dall'interiorità imperscrutabile del proprio.

Dove non operano queste concezioni, a loro volta legate a precise opzioni culturali, si apre
il problema della razionalizzazione della valutazione delle prove. Ancora una volta, si tratta di un
problema essenzialmente culturale, che riguarda la scelta dei modelli di razionalità, ossia dei
modelli di ragionamento e di argomentazione, che si ritengono appropriati per una
giustificazione razionale del convincimento del giudice. A seconda delle opzioni di metodo che si
ritengono preferibili, allora, si potrà ricorrere ai modelli del calcolo probabilistico fondato sul
teorema di Bayes piuttosto che ai modelli inferenziali della probabilità logica (23), o ad altri
modelli ancora. A questo livello, però, non ci si sta occupando delle varianti nazionali del
principio del libero convincimento, poiché si tratta evidentemente di problemi metodologici che si
pongono-in termini sostanzialmente analoghi-in tutti gli ordinamenti.
Le varianti nazionali emergono invece dal punto di vista delle deroghe che vengono
apportate all'applicazione del principio del libero convincimento. Su questo terreno l'Italia si
segnala come un esempio negativo perché non solo mantiene varie norme che determinano
l'efficacia di prova legale di documenti pubblici e privati (artt. 2700,2702,c.c.), ma soprattutto
perché mantiene prove le-gali ormai da tempo obsolete e superate dall'evoluzione culturale
generale, come il giuramento decisorio e la confessione (artt. 2733,2735,2738 c.c.).Si tratta di
un ritardo storico che il legislatore processuale italiano non è ancora riuscito a superare. D'al-
tronde, in Italia il diritto delle prove costituisce senza dubbio il settore dell'ordinamento più
obsoleto, più legato ad una cultura della prova che oggi non ha più fondamento, e quindi più
bisognoso di una riforma completa e radicale.

6.-Come si è detto all'inizio, nei limiti di questa relazione non si possono certamente
passare in rassegna tutti gli aspetti culturalmente rilevanti del processo civile. Tuttavia,
l'argumentaire proposto dal professor Cadiet suggerisce altri temi molto impor-tanti. Sembra
allora il caso di aggiungere, su alcuni di questi temi, notazioni sintetiche che possono servire
ad un fine essenzialmente informativo per chi intenda guardare «dal di fuori» al pro-
cesso civile italiano, senza pretese di completezza né di approfondi-mento dell'analisi in
prospettiva culturale. Ognuno di questi temi richiederebbe in realtà una relazione ad
hoc, ma una relazione nazionale non può superare limiti ragionevoli.

a) Sul tema complesso e variegato dei metodi di ADR si può aggiungere, ai brevi
cenni fatti in precedenza, una duplice considerazione che riguarda specificamente
l'Italia. Da un lato si può osservare che, benché la conciliazione abbia in Italia una lunga
tradizione (più recente e meno importante è stato, storicamente, il ricorso all'arbitrato),
non si può dire che essa abbia avuto una frequenza e una importanza particolari (salvo
il fenomeno, durato qualche decennio a cavallo tra l''800 e il '900,dei giudici concilia-
tori). Soprattutto, però, non è mai stata presente una vera e pro-pria «cultura della
conciliazione». Al contrario, ha sempre domi-nato una «cultura della controversia»,
incardinata sull'idea per cui il soggetto è titolare di diritti e deve avere la possibilità di farli
valere di fronte ad un giudice. Questa cultura è un aspetto impor-tante della «cultura dei
diritti» che si è tradotta anche in garanzie costituzionali: il riconoscimento dei diritti
soggettivi in capo a tutti i cittadini non può non comportare la possibilità che questi diritti
siano fatti valere davanti agli organi di giustizia. Per così dire, l'italiano non è mai stato
confuciano, e raramente assume un atteggiamento di compromesso o di accordo con
chi vede come suo avversario.
Anche in Italia è però giunta, in questi ultimi anni, la moda dell'ADR. In parte si
tratta di un fenomeno di mera imitazione culturale dei modelli nordamericani, scoperti
con qualche decennio di ritardo rispetto al momento della loro miglior fortuna (24). In
parte, e questo è l'aspetto più rilevante, ciò deriva dall'incapacità del legislatore-di cui si
è già discusso-di apprestare strumenti rapidi ed efficaci di tutela giurisdizionale, e di
governare il carico di lavoro -spesso eccessivo-dei tribunali. Ne deriva che in questi
ultimi anni il legislatore va tentando in tutti i modi di indurre i cittadini a servirsi dei
metodi alternativi (soprattutto la conciliazione, ma an-che l'arbitrato) e ad evitare di
rivolgersi alla giustizia ordinaria.

Non è possibile entrare qui nei dettagli di questo fenomeno, ma è chiaro il messaggio
che il legislatore sta inviando ai cittadini: «poi-ché il processo è lento ed inefficiente, e
non si riesce a migliorare la situazione, cercate di risolvere le vostre controversie fuori
dalle aule di giustizia». In favore del ricorso ai metodi di ADR vengono fatti anche
discorsi di carattere ideologico, in base ai quali ogni forma di giustizia « privata »
sarebbe preferibile alla giustizia «pubblica», ma rimane il fatto che la ragione principale
per cui lo stesso legislatore spinge i cittadini all'uso di questi metodi consiste nella
incapacità, dello stesso legislatore, di assicurare un processo giudiziario rapido ed
efficiente (25).
b) In tema di impugnazioni, l'appello non richiede particolari osservazioni: secondo
la tradizione europea si tratta di un'impugna-zione con effetto devolutivo, nella quale -
almeno secondo le norme vigenti-non è ammesso il c.d. jus novorum, e prove nuove
sono consentite soltanto quando siano ritenute indispensabili (art. 345 c.p.c.).
Il vero punto di crisi del sistema delle impugnazioni-e del sistema processuale in
generale - è rappresentato dalla Corte di cassazione. La Corte è sommersa da un
numero elevatissimo di ricorsi, ed è contretta a pronunciare ogni anno un numero
abnorme di sentenze (circa 30.000 soltanto in materia civile nel 2007). In parte questo
fenomeno è dovuto alla presenza di una norma costituzionale che garantisce a tutti il
diritto di ricorrere in cassazione (art. 111, comma 7°), e quindi esclude, almeno secondo
l'interpretazione largamente prevalente, la possibilità di selezionare i ricorsi destinati ad
essere decisi contenendo il carico di lavoro della Corte entro dimensioni ragionevoli e
governabili. In parte esso è dovuto al numero eccessivo di avvocati abilitati a ricorrere in
cassazione (circa 50.000),e ai costi relativamente limitati del procedimento. Entra poi in
gioco un diffuso modo di pensare (una «cultura del ricorso in cassazione») secondo il
quale non si porta una controversia alla Corte suprema solo quando essa riguarda
questioni di particolare importanza, giuridica o economica, ma come ultima ratio, nella
speranza di conseguire in quella sede una vittoria che è sfuggita nei gradi inferiori di
giudizio.
Va anche detto, tuttavia, che nel corso del tempo questo fenomeno è stato incoraggiato
dalla stessa Corte. Da un lato, a partire dal 1953 essa ha interpretato la garanzia costituzionale
in maniera tale da estendere al massimo la possibilità di ricorso. Dall'altro lato, essa si è
presentata agli occhi dei ricorrenti più come un giudice del singolo caso concreto (il c.d. jus
litigatoris) che come l'organo su-premo garante della legalità (ossia del c.d. jus constitutionis).
Pur trattandosi, in realtà, di una corte di pura legittimità, derivata storicamente dal modello
francese, la Corte - nella sua prassi prevalente ha mostrato di comportarsi piuttosto come un
giudice di merito, ossia come una corte di terza istanza. Si è così verificata, nel modo in cui la
Corte ha interpretato di fatto la sua funzione, una ambiguità fondamentale (26), una oscillazione
tra due immagini diverse della Corte suprema: il giudice di mera legittimità da un lato, un giudice
di terzo grado dall'altro lato. Questa ambiguità non è stata corretta, ed è anzi stata rafforzata dal
legislatore, che a più riprese è intervenuto ampliando le ipotesi nelle quali la Corte può davvero
comportarsi come un giudice di terza istanza e decidere definitivamente la causa nel merito (art.
384 c.p.c.).
Vi è poi da menzionare l'ultima riforma del giudizio di cassa-zione intervenuta nel 2005, con
la quale il legislatore è andato nettamente in controtendenza rispetto alle possibili soluzioni dei
gravissimi problemi in cui la Corte si trova immersa. Da un lato, in fatti, non si è introdotto alcun
filtro per selezionare i ricorsi che giungono alla Corte: si può dunque pensare che prosegua
senza va-riazioni il trend di aumento progressivo del numero dei ricorsi stessi. Dall'altro lato, si è
previsto che la Corte pronunci un «principio di diritto» su ogni motivo di ricorso, anche quando
rigetta il ricorso o cassa senza rinvio, o cassa decidendo nel merito, e addirittura su richiesta
della Procura generale-anche su materie sulle quali le parti non potrebbero ricorrere alla Corte,
come accade ad esempio per i provvedimenti cautelari (artt. 363, 384 c.p.c.). In questo modo un
effetto è certo: la già eccessiva, confusa, contraddittoria giurisprudenza della Corte diventerà
ancor più eccessiva, confusa e contraddittoria, malgrado gli sforzi encomiabili che gli organi
della Corte vanno facendo per evitare il disastro. Alla base di questo intervento del legislatore,
criticabile da vari punti di vista (27), sta soprattutto un fattore di carattere culturale relativo alla
concezione della c.d. nomofilachia, intesa non come tutela della legalità da realizzare soprattutto
attraverso l'uniformità della giurisprudenza come già Calamandrei ebbe a scrivere nel 1920-, ma
come controllo analitico, specifico e pervasivo su ogni singola questione che viene risolta e
decisa nel corso di ogni processo. Si tratta di un modello culturale che è in netto contrasto con
quello che appare prevalente in molti ordinamenti (a partire da quello te-desco, per non parlare
di quello statunitense) secondo il quale le corti supreme sono, o sono diventate, soprattutto
«corti del prece-dente».

c) Anche per quanto riguarda la tutela degli interessi collettivi il discorso relativo all'Italia
può essere abbastanza breve. Questa tutela, prevista soltanto per il consumatore-e non, per
esempio, per tutti coloro che abbiano subìto un mass tort -, era stata intro-dotta qualche anno fa,
ma soltanto nella forma di un'azione inibitoria. In questi ultimi mesi è stata introdotta anche una
azione di risarcimento del danno. L'esperienza concreta della azione inibitoria è stata assai
limitata; per l'azione risarcitoria bisognerà attendere un po' di tempo per vedere se avrà
un'applicazione abbastanza frequente.
Non è il caso di addentrarci qui nei dettagli tecnici della disciplina processuale di queste
azioni (28). Va comunque osservato che -contrariamente a quello che si è spesso sentito dire
negli ultimi tempi-non si tratta di class actions. Mancano infatti molti dei caratteri che definiscono
il sistema della class action nordamericana, ma soprattutto ne manca l'aspetto fondamentale,
ossia la legittimazione concessa al singolo individuo ad agire in nome e per conto di tutti gli
appartenenti alla class. Si tratta, invece, di azioni associative, perché la legittimazione a
promuoverle spetta soltanto alle associazioni dei consumatori. In particolare, la legittimazione
spetta ad associazioni che abbiano superato positivamente controlli di carattere amministrativo.
Anche l'Italia segue così la tendenza che sembra prevalente-anche se con varie eccezioni-in
Europa e in molti ordinamenti di civil law, consistente nel rigetto del modello nordamericano e
nella previsione di controlli di carattere burocratico sulle associazioni legittimate ad agire (29).

Anche questa tendenza ha profonde implicazioni culturali: al l'individualismo


nordamericano si contrappone una visione burocratica della tutela degli interessi
sovraindividuali. Nell'immaginario europeo il «mostro di Frankenstein» della class action
statunitense ha evidentemente prevalso sul «cavaliere splendente» che tutela in modo efficace i
diritti dei singoli, che non sarebbero mai in grado di agire in giudizio individualmente (3°). Ecco
dunque lo Stato che ancora una volta interviene regolando e delimitando le possibilità di servirsi
della tutela giurisdizionale, e collocando il singolo soggetto titolare effettivo del diritto in un ruolo
del tutto marginale.

7.-Se,dopo aver esaminato alcuni aspetti sotto i quali la cultura influisce sul processo civile,
ci si pone la domanda reciproca, relativa ai modi in cui il processo civile influisce sulla cultura, il
di-scorso- per quanto riguarda la situazione italiana- può essere relativamente breve, e può
articolarsi principalmente in due punti.

Da un lato, il processo civile rappresenta una parte rilevante dell'ordinamento giuridico, e


quindi la cultura che lo riguarda-che è principalmente, anche se non soltanto, una cultura
tecnica - costituisce una parte della cultura giuridica, e quindi anche una parte della cultura
generale. Ciò è ovvio, accade in tutti i paesi e in tutte le culture giuridiche, sicché non vale la
pena di discuterne più a lungo. Si può comunque accennare ad una caratteristica tipica della
situazione italiana (anche se forse essa si presenta anche in altri paesi), costituita dalla
sostanziale marginalità di gran parte della cultura processualistica nel quadro complessivo della
cultura giuridica. Si tende a pensare - ed è una concezione non priva di qualche fondamento-
che i processualisti siano un gruppo numericamente limitato di persone che coltivano una
tecnica sofisticata e per qualche aspetto quasi esoterica, ma pressoché insignificante sotto il
profilo culturale generale. Salvo pochissime eccezioni (di cui non faccio il nome per non
offendere i molti esclusi) soltanto i processualisti leggono (quando non hanno perso del
tutto l'abitudine) ciò che scrivono gli altri processualisti. In larga misura, d'altronde, la
letteratura processualistica o è diretta a pochi altri processualisti (essenzialmente a
quelli che compongono le commissioni di concorso), o è orientata alla didattica e alla
pratica professionale. Queste finalità non assicurano però che questa letteratura abbia
un significativo valore culturale, al di là dei suoi pregi «tecnici» (che peraltro non sempre
esistono). Accade dunque rara-mente che un giurista appartenente ad altre aree della
cultura giuri-dica legga la letteratura processualistica, ed ancora più raramente (ossia:
quasi mai) che lo faccia un uomo di cultura non giurista. È dunque ovvio che la cultura
processualistica abbia una influenza assai scarsa sulla cultura giuridica generale, ed
un'influenza presso-ché nulla sulla cultura tout court.

Dall'altro lato, la società circostante non può fare a meno di rendersi conto
dell'esistenza della giustizia civile, e quindi se si fa riferimento alla cultura in senso lato
ci si può chiedere come essa percepisca e valuti un fenomeno socialmente così
importante come l'amministrazione della giustizia civile. In proposito, invece di for-
mulare mere illazioni personali-o di far riferimento ai media, che tuttavia non si
occupano quasi mai del processo civile-si possono utilizzare i risultati di una ricerca
sociologica condotta di recente (31). Da questa ricerca risulta che l'opinione pubblica ha
un'opinione tendenzialmente - ma non drammaticamente- negativa della giustizia civile,
soprattutto a causa della sua lentezza ed inefficienza, e del prevalere di meccanismi
burocratici (32). Quanto alla figura del giudice, nella percezione sociale prevale
l'immagine del giudice burocrate, funzionario dello Stato, ma-in modo abbastanza non
coerente-emerge anche l'immagine di un giudice non neutrale, influenzato
principalmente da fattori di carattere ideologico, ma che tuttavia svolge anche un ruolo
di garanzia, ossia di difenso-re della giustizia(33).
Tendendo conto di questi dati, si può dire sinteticamente che nella cultura sociale
prevalente in questo periodo in Italia il processo civile non è oggetto di alcuna
mitizzazione, ed è invece oggetto di una percezione piuttosto realistica. Si tratta di un
fenomeno che viene visto non nei suoi aspetti tecnici -come è ovvio -,ma nel modo in cui
si manifesta all'esterno, ossia per gli effetti che produce nell'àmbito economico e
sociale, oltre che sulle sorti dei soggetti che in esso sono coinvolti. L'immagine è dunque
quella di un servizio offerto dallo Stato attraverso suoi funzionari, che-come molti dei
servizi pubblici in Italia -è inefficiente a causa di lentezze e di formalismi burocratici. La
valutazione parzialmente positiva che l'ambiente sociale ha del giudice non serve però a
rendere generalmente positiva una percezione sociale che è chiara-mente orientata in
senso negativo.

Citazioni:

(*)Questo scritto è la versione italiana della relazione nazionalepresentata alle Journées Lousianaises della
Association Henri Capitant des amis de la culture juridique fran,aise,tenutesi a New Orleans dal 19 al 23 maggio
2008, sul tema generale«Droit et culture». La sessione processualistica, sul tema «Culture et droit processuel»,aveva
come relatore generale il professor Loic Cadiet.
L'occasione per cui questo scritto è stato redatto spiega sia la riduzione delle note al minimo, sia il riferimento ad
alcuni temi che al lettore italiano possono suonare come ovvi, ma che è parso utile trattare al fine di informarne il
relatore generale e gli altri partecipanti al congresso.
(1)Mi riferisco al recente volume di Oscar CHASE,Law, Culture and Ritual. Di-sputing Systems in Cross-cultural
Context,New York-London, 2005,passim.
(2) Mi riferisco a Rodolfo SAcco,Antropologia giuridica,Bologna, 2007,passim.
(3) Cfr. CHASE, op. cit., p.6.
(4) Con riferimento agli Stati Uniti v. ancora CHASE, op. cit., p. 54 ss.
(5) Cfr. in proposito ALI/UNIDROIT Principles of Transnational Civil Procedure, Cambridge, e.a., 2006.
(6) Su questi problemi v. più ampiamente TARUFFO, Harmonizing civl litigation in Europe?, in Making European
Private Law.Governance Design,ed.by F. Cafaggi and H.Muir-Watt,Cheltenham-Northampton, 2008,p. 46 ss.
(7) Un atteggiamento provinciale di questo genere ha dominato le riforme proces-suali italiane degli ultimi anni,
predisposte da giuristi «nazionali» nel senso appena se-gnalato. Forse non è un caso che tali riforme si siano rivelate
in larga misura sbagliate ed inefficaci.
(8) In proposito è fondamentale lo studio di DAMAŠKA, I volti della giustizia e del potere.Un'analisi comparatistica,
tr.it., Bologna, 1987,passim.
(9) In argomento v. più ampiamente TARUFFO, La giustizia civile in Italia dal '700 a oggi, Bologna, 1980, pp. 107
ss.,151 ss.
(10) Sulla giurisdizione come garanzia di attuazione dei diritti v. da ultimo FERRA-JOLI,Principia iuris. Teoria del
diritto e della democrazia.1.Teoria del diritto, Bari, 2007, p.675 ss.
(11)Per un quadro comparatistico cfr. TARUFFO, Poteri probatori delle parti e del giudice in Europa, in questa rivista,
2006,p. 451 ss.
(12) In questa norma vi è, oltre ad un evidente riflesso dell'ideologia di cui si è parlato nel testo, anche la
conseguenza di un errore storico che ha caratterizzato la pre-valente dottrina italiana, ma non solo quella, a partire
dalla fine dell''800.L'errore con-siste nel ritenere che il brocardo che parla del vincolo del giudice a giudicare in base
alle prove obbligasse il giudice a servirsi solo delle prove dedotte dalle parti.Esso è derivato dalla formulazione
sbagliata del brocardo, che invece nella formulazione vera ed origina-ria prevedeva soltanto il divieto del giudice di
decidere sulla scorta della propria scienza privata, e non faceva cenno delle prove dedotte dalle parti. Sulla storia di
questo errore,e sulla sua diffusione, cfr.la documentata ed interessante analisi di PIcó I JuNoY, El Juezy la prueba.
Estudio de la errónea recepción del brocardo iudex iudicare debet secundum allegata et probata, non secundum
conscientiam y su repercusión actual,Barcelona, 2007,passim.
(13) Va però segnalato il recente orientamento della Corte di cassazione, secondo la quale il giudice del lavoro ha il
dovere di esercitare i suoi poteri istruttori quando ciò è necessario per l'accertamento dei fatti:cfr. Cass., sez. un., 17
giugno 2004,n.11353,in Foro it.,2005,I,c.1135,con nota di FABIANI.
(14) Si dice, ad esempio, che essa è «widely regarded as an obstacle,rather than the royal road to effective forensic fact-
finding»:cfr.ROBERTS-ZUCKERMAN, Criminal Evi-dence,Oxford,2004,p.215.Cfr.anche HUNTER, Battling a Good Story: Cross-
exami-ning the Failure of the Law of Evidence,in Innovation in Evidence and Proof.Integrating theory,Research and Teaching, ed. by
P. Roberts and M. Redmayne, Oxford-Portland, 2007,pp.269 ss.,285.
(15) Per una rassegna critica delle concezioni principali cfr.GOLDMAN,Knowledge in a Social World, Oxford, 1999, p.
41 ss.
(16) In argomento v. da ultimo FERRER BELTRÁN, La valoración racional de la prueba, Madrid-Barcelona-Buenos
Aires, 2007, passim.
(17) In questa prospettiva cfr.in particolare l'importante lavoro di LAUDAN,Truth, Error and Criminal Law.An Essay in
Legal Epistemology,Cambridge,2006,passim.
(18) Una eventualità di questo genere è ora prevista nell'àmbito del procedimento arbitrale, poiché gli arbitri possono
chiedere ai testimoni di rispondere per iscritto a que-siti appositamente formulati (art. 816-ter, comma 2°, c.p.c.).
(19) Sul profondo radicamento della giuria nell'etica sociale nordamericana v. in particolare CHASE, op. cit., p. 55 ss.
(20) Cfr. ad esempio DAMAŠKA,Free Proof and Its Detractors, in 43 Am. J. Comp. L.1995,p.353;OLSON, Of
Enchantment:The Passing of the Ordeals and the Rise of the Jury Trial,in 50 Syr. L. Rev., 2000,pp. 112,175 ss.
(21) In argomento v. più ampiamente TARUFFO, La prova dei fatti giuridici. No-zioni generali, Milano, 1992,p. 361 ss.
(22) Su queste concezioni cfr.TARUFFO, op. ult. cit.,p.371 ss.
(23) Sui modelli probabilistici del ragionamento del giudice cfr., anche per altri riferimenti,TARUFFO, op. ult. cit., pp.
166 ss., 199 ss.;FERRER BELTRÁN, op. cit., p. 93 ss.
(24)In proposito cfr.in particolare,SILVESTRI,Osservazioni in tema di strumenti alternativi per la risoluzione delle
controversie, in questa rivista, 1999, p. 321 sS.
(25) La letteratura italiana sull'ADR e sulla conciliazione è ormai sterminata.Per un'analisi completa ed aggiornata cfr.
CUOMO ULLOA, La conciliazione.Modelli di com-posizione dei conflitti, Padova, 2008, passim.
(26) Donde il titolo di una mia raccolta di saggi di qualche anno fa: Il vertice am-biguo. Saggi sulla Cassazione
civile,Bologna,1991,passim.
(27) Per un approccio critico cfr. TARUFFO,Una riforma della Cassazione civile?, in questa rivista, 2006,p.755 ss.
(28) Anche su questi temi la letteratura italiana è ormai molto ampia. Per un inte-ressante approccio teorico e
comparatistico cfr.in particolare GIUSSANI,Azioni collettive risarcitorie nel processo civile, Bologna, 2008, passim; un
quadro approfondito si trova da ultimo in DONZELLI, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli,2008,
passim.
(29) In argomento cfr. GIUSSANI, op. cit., p. 161 ss.
(30) Alludo qui al titolo di un famoso saggio di uno dei massimi esperti dell'argo-mento:cfr. MILLER, Of
Frankenstein Monster and Shining Knights: Myth, Reality, and the 《Class Action Problem»,in 92 Harv. L.
Rev., 1979, p. 664 ss.
(31) Cfr. GHEZZI-QUIROZ VITALE, L'immagine pubblica dela magistratura ita-liana, Milano, 2006,
passim.
(32) Cfr.GHEZZI-QUIROZ VITALE, op. cit., pp. 49 ss., 153 ss.
(33) Cfr.GHEZZI-QUIROZ-VITALE, op. cit., pp. 177 ss., 184 ss.

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