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GUIDO ALPA

Il metodo nel diritto civile

Sommario: Sezione I – Introduzione: 1. Il problema e il significato del metodo – 2. La tradizione


civilistica e la questione del metodo. – Sezione II – Cenni storici sul metodo: 1. Premessa – 1.1. La
topica e le teorie dell’argomentazione – 1.2. La giurisprudenza dei concetti e la costruzione del
"sistema" – 1.3. La giurisprudenza degli interessi e il diritto libero – 2. Il diritto naturale nella
prospettiva storica, il diritto positivo e il diritto "puro" – 3. Il metodo assiomatico o il diritto dei
"valori", il metodo formalistico e sistematico – 4. Il metodo giusrealistico – 5. Il metodo normativo
dei principi – 5.1. Considerazioni preliminari – 5.2. Concetto e natura dei principi generali del
diritto – 5.3. L’importanza dei principi costituzionali positivi nella creazione giurisprudenziale –
5.4. Tentativi di classificazione dei principi. La classificazione funzionale e comparatistica – 5.5.
Segue: la classificazione secondo le forme di pensiero (assiomatiche, problematiche) – 5.6. La
relazione tra principio, norma, fonte del diritto – 5.7. Il ruolo della dottrina – 6. "Diritto e
letteratura" – 6.1. Binomio, dilemma o altro? – 6.2. Alcune definizioni stipulative – 6.3. I caratteri
distintivi dei testi – 6.4. L’interpretazione dei testi – 6.5. Le differenze residuali – 6.6. Tentativi di
risposta – 7. Il metodo gius-economico – 7.1. Creazione della norma – 7.2. Effetti economici della
norma – 7.3. Le scuole dell’analisi economica del diritto – 7.4. L’economia normativa: la norma
deve mimare il mercato –7.5. L’analisi economica del diritto. Un prodotto difettoso? – 8. Il metodo
comparativo – 8.1. Le ragioni della comparazione – 8.2. Le finalità della comparazione – 8.3. Le
cause della comparazione – 8.4. La comparazione al servizio delle scienze – 8.5. La classificazione
degli ordinamenti giuridici (sistemi e famiglie di sistemi) – 8.6. Macrocomparazione e
microcomparazione – 8.7. La comparazione e l’armonizzazione degli ordinamenti: il ricorso ai
principi generali – 8.8. La comparazione e l’unificazione del diritto europeo – 8.9. La comparazione
e la difesa dei diritti della persona – 8.10. L’ordine del discorso – 8.11. Nazionalismi vecchi e nuovi
– 8.12. Qualche ulteriore osservazione sul metodo comparativo – 9. Il metodo casistico. L’analisi
civilistica della giurisprudenza – 9.1. Premessa – 9.2. Il primo modello: interpretazione e stili – 9.3.
Il secondo modello: il ragionamento – 9.4. Il terzo modello: la sentenza e il ruolo del precedente –
9.5. Il quarto modello: la creatività della giurisprudenza e il diritto giurisprudenziale – 9.6. Il quinto
modello: il ruolo politico dell’interprete e le tavole di valori. – Sezione III – Gli indirizzi
interpretativi: 1. Oltre il formalismo – 2. L’indirizzo analitico-realista – 3. La teoria dei "diritti
morali" – 4. L’indirizzo ermeneutico.

Sezione I
Introduzione
1. – È bene chiarire dapprima il significato di "metodo" e di "metodo giuridico", e poi verificare
come esso viene applicato al diritto civile. Nelle scienze sociali il metodo è definito come un "modo
di procedere ragionato determinato in funzione degli obiettivi di una ricerca e codificato da regole
ordinanti le sue fasi diverse, in particolare la scelta di tecniche adeguate"; per contro la metodologia
è lo studio critico del metodo fatto a posteriori (1). Applicando il metodo al diritto, e la metodologia
al diritto (c.d. metodologia giuridica) si ottiene il chiarimento del significato di "metodo del diritto":
lo studio dei processi e dei metodi che i giuristi sono portati a praticare nelle loro attività di ricerca,
di creazione e applicazione del diritto, e, più generalmente, per pervenire alla soluzione di problemi
giuridici (2). Proprio perché la conoscenza del diritto presuppone metodi fondati sulla logica, su
strumenti tecnici, su classificazioni, su qualificazioni, su una terminologia "tecnica" (3) è necessario
che il giurista, e il civilista in primis, ne sia consapevole e rifletta su questo processo. Uno dei
maggiori epistemologi del Novecento, François Gény per l’appunto scriveva che "ogni elaborazione
giuridica è dominata da operazioni intellettuali e da una metodologia basata sulla logica comune
adattata all’oggetto di studio, cioè le regole giuridiche".
L’Esegesi e la Pandettistica – i metodi di cui fino ad ora si è parlato più diffusamente perché
collegati con la tradizione codicistica e la tradizione concettuale che hanno segnato la nostra cultura
negli ultimi due secoli – costituiscono per l’appunto i due indirizzi metodologici per noi più
rilevanti. Da essi nasce quel metodo, del modo di pensare, ragionare, praticare il diritto oggi ancora
imperante che è il formalismo giuridico, sub specie di formalismo interpretativo, che si fonda, per
dirlo sinteticamente, sul presupposto che il testo normativo sia oggettivamente esterno
all’interpretazione, che questa consista nella attribuzione di significato al testo, che essa non possa
discostarsi dalla lettera e dallo scopo del testo, che non possa utilizzare elementi extratestuali, che il
testo sia coerente e completo, che ogni addizione al testo possa avvenire ricorrendo, ove possibile,
ad altre disposizioni.
Tra molti giuristi italiani è diffusa la convinzione che lo studio del metodo sia materia propria delle
speculazioni filosofiche e di teoria generale del diritto, quasi che l’interpretazione e l’applicazione
del diritto positivo – in primis il diritto civile – implicassero solo questioni di natura tecnica la cui
soluzione debba essere raggiunta sulla base di un processo logico, di un ragionamento coerente,
condotto secondo regole fissate dallo stesso legislatore, e che lo studio del diritto civile trovi ogni
giustificazione in sé e per sé, indifferente essendo il metodo adottato da chi lo studia; insomma, che
il metodo consista nella sua pratica ma non necessiti di teorizzazioni. Questa constatazione (4) è
tanto più vera se si considera che rari sono i corsi di formazione del giurista che comprendano
insegnamenti sulla storia del metodo o sulle tecniche metodologiche, anche se non mancano
prestigiose eccezioni (5). Chi volesse approfondire il discorso può però ricorrere a monografie o a
singoli saggi; nelle enciclopedie giuridiche si rinvengono voci relative ai più rilevanti indirizzi
metodologici, come la voce "esegesi", o la voce "formalismo", o la voce "dogmatica giuridica" e
così via, mentre sono più rare le voci dedicate al metodo, o al metodo giuridico tout-court (6). Non
mancano, inoltre, trattazioni inerenti i diversi indirizzi culturali o gli stili che hanno pervaso la
storia della cultura giuridica, e si registrano trattazioni organiche del metodo o del metodo del
diritto civile come concepito e praticato nel nostro Paese, sono diffuse anche traduzioni di testi
stranieri, in cui si sconta la indifferenza delle elaborazioni tecniche straniere rispetto alla nostra
esperienza.
È confortante notare come molte delle opere più significative oggi disponibili nella nostra
letteratura in materia siano il prodotto della riflessione di civilisti: forse motivate dalla antica
tradizione che affidava al diritto romano-civile la formazione del giurista, forse dovute al
perpetuarsi del genere letterario delle "parti generali" del diritto civile, forse generate dagli interessi
culturali dei loro autori, queste opere si collocano a buon diritto tra i contributi più significativi che i
giuristi italiani abbiano dato allo studio del metodo giuridico.
A onor del vero, questa propensione dei civilisti per lo studio del metodo non costituisce un tratto di
originalità della cultura giuridica italiana. Nei Paesi dell’Europa continentale è frequente rinvenire
opere di metodologia scritte da giuristi di formazione civilistica: si pensi a Jean Carbonnier, a
Jacques Ghestin e a Christian Atias, per la Francia; a Karl Larenz per la Germania, per citare solo i
più illustri. Analoga situazione si trova anche in quelle esperienze in cui il diritto civile ha una
struttura assai diversa da quella continentale, come nel common law inglese: in questa esperienza le
orme metodologiche più interessanti riguardano l’analisi casistica comparata.
2. – Se si tiene conto della augusta tradizione medievale e rinascimentale, delle dispute sulla
superiorità o inferiorità del mos italicus sul mos gallicus, delle riflessioni critiche sulla casistica,
delle aperture storicistiche di Giambattista Vico, e di tutta la problematica sottostante alle
codificazioni, si può agevolmente constatare che la prospettiva oggi da noi chiamata
"metodologica" è stata una componente essenziale, inevitabile, degli studi del diritto, e in
particolare del diritto civile.
Anche la tradizione civilistica italiana moderna presenta una radicata propensione agli studi
metodologici, quanto meno a partire dalla fine dell’Ottocento: gli studi e le opere di Emanuele
Granturco, di Francesco Filomusi Guelfi e di Pietro Cogliolo ne sono il più fulgido esempio, e i
corsi e quindi le dispense o i manuali di "Enciclopedia giuridica" prodotti per lo più da civilisti
contribuiscono a perpetuare questa tradizione.
Questa tradizione è conservata e arricchita da alcuni fondamentali contributi degli anni Trenta del
Novecento, che corrispondono ai due contenuti che, secondo Norberto Bobbio, sono ormai divenuti
tipici della metodologia, cioè la teoria della scienza giuridica, da un lato, e la teoria
dell’interpretazione, dall’altro (7): si tratta della Metodologia del diritto di Francesco Carnelutti (8)
e degli studi di Emilio Betti sul diritto romano (9).
Gli studi metodologici sono poi ripresi, tra i civilisti, da Tullio Ascarelli (10), e, in tempi più vicini
a noi, da Angelo Falzea, Rodolfo Sacco, Luigi Mengoni, Pietro Rescigno e Natalino Irti (11).
Negli ultimi anni l’analisi del metodo si è sviluppata parallelamente negli studi di civilisti e filosofi-
teorici generali del diritto, essendo più rare le occasioni di dialogo interdisciplinare: i filosofi-teorici
generali del diritto amano riferirsi alla grande tradizione tedesca o anglo-americana, piuttosto che
non alle opere dei giuristi italiani (12).
Le ragioni di questo atteggiamento misto di indifferenza e di antica attrazione per la metodologia
possono essere molteplici. Essendo imperante ancor oggi nel nostro Paese uno tra i metodi
praticabili, il "formalismo", molti ritengono ancora che non sia necessario riflettere sul metodo
perché il formalismo, in quanto metodo universalmente ed esaustivamente praticato, non
richiederebbe né una riflessione critica né una indagine su metodi alternativi. Molti ritengono
ancora che non sia opportuno scandagliare la praticabilità di altri metodi, perché ciascuno di essi
porterebbe incertezza sul metodo da applicare, o difformità nella cognizione e nella applicazione del
diritto. Molti ritengono, in conclusione, che non esistano altri metodi praticabili, data la
coessenzialità di formalismo e diritto.
Tutte queste ragioni, che sono state sostenute, o spesso si sono condivise acriticamente, oggi non
riescono però più a fronteggiare il progresso degli studi giuridici.
In ambito civilistico la prima riflessione collettiva sul metodo è stata organizzata nel nostro Paese
una decina d’anni fa (13); in altri convegni, sulla civilistica, si è anche tentato di allestire una
"mappa" degli indirizzi metodologici osservati dalle diverse "scuole".
Le opere di Karl Larenz (14) e di Walter Wilhelm (15), hanno suscitato grande attenzione, anche se
non si devono trascurare le opere di François Gény, e ovviamente, la letteratura che appartiene al
"filone" gius-analitico e a quello ermeneutico. Larenz e Wilhelm sono fortemente influenzati
dall’ambiente culturale nel quale vivono e quindi le loro opere sono rivolte soprattutto – se non
esclusivamente – ad un pubblico di lingua e mentalità tedesca. Ed infatti Larenz muove dalla
metodologia di Savigny, poi procede a descrivere la giurisprudenza dei concetti, con il pensiero di
Puchta, Jhering, Windscheid; si occupa della concezione positivista della scienza, della
giurisprudenza degli interessi e della dottrina pura del diritto di Kelsen; dall’idealismo e della teoria
dei valori, della teoria fenomenologica del diritto, del neo giusnaturalismo e della teoria sistematica.
Per parte sua Wilhelm tratta solo dell’Ottocento e approfonditamente di Savigny, Puchta, Gerber e
Jhering. Nella medesima collana italiana di traduzioni è stata pubblicata l’opera di Theodor Vieweg
su Topica e giurisprudenza (16) sulla quale si tornerà tra poco.
Come si diceva, una accurata per molti versi straordinaria analisi del metodo si deve ad Angelo
Falzea, che, nel 1975, pubblica l’Introduzione alle scienze giuridiche, oggi alla quinta edizione (17).
Qui si succedono la trattazione del concetto di diritto, sulla base di una definizione assiologica, le
principali concezioni del diritto, quali il giusnaturalismo, il giusformalismo, il volontarismo, lo
storicismo, il sociologismo, le teorie giuridiche dell’interesse, e poi la trattazione del positivismo
giuridico. Intorno agli anni Settanta Natalino Irti scrive pagine meditate sul metodo (18). Qui, sulla
base dei riferimenti filosofici più rilevanti, egli distingue lo stile, il modello di tecnica, la scelta
metodologica (19). Il discorso sul metodo è prospettato in senso storico, in quanto "va ribadita
l’inderogabile esigenza di storicizzare il problema del metodo" (20). Irti poi distingue tra operazioni
interpretative, metodi, metodologie, tra metodo dell’interpretazione e metodo della scienza
giuridica, e teorizza il "nesso di circolarità logica", condividendo la tesi di Emilio Betti secondo la
quale l’interpretazione dei testi normativi procede sempre con l’ausilio di strumenti dogmatici.
Quanto alla metodologia, egli distingue tra metodologia descrittiva, storiografica, direttiva; procede
poi alla periodizzazione delle scelte metodologiche proprie della letteratura giuridica italiana,
dall’esegesi alla scuola storica, al metodo dogmatico di Filomusi Guelfi, di cui si è detto.
Rigore scientifico e necessità di ricerca impongono che il discorso sul metodo sia sempre tenuto
presente, e sia anche suscettibile di verifiche per autori, per settori, per indirizzi. A questo punto il
discorso allora può organizzarsi su due versanti: da un lato, l’analisi della storia del metodo,
dall’altro, le teorie dell’interpretazione.

Sezione II
Cenni storici sul metodo
1. – La storia del metodo è intesa, normalmente, come la storia delle tecniche con cui si è concepito,
interpretato e applicato il diritto. Ciò che qui rileva non è tanto la ricostruzione dei percorsi seguiti
dalla metodologia nelle diverse epoche, quanto la rilevanza di questi metodi sulle tecniche oggi
applicate. Ciascuno di essi ha lasciato tracce, ciascuno di essi costituisce un tassello fondamentale
dell’attuale pluralismo metodologico.
1.1. – Per quanto riguarda il diritto civile, la storia inizia dalle elaborazioni romane. Mentre nelle
fonti pre-giustinianee non si parla di metodo, essendo il diritto per i Romani un’arte pratica, retorica
da un lato, e topica, dall’altro lato, nelle fonti giustinianee si trovano alcuni indirizzi fondamentali,
quali quelli relativi alla individuazione del significato dei termini giuridici, alle tecniche di
risoluzione delle controversie, e alle tecniche di applicazione di enunciati generali quali le regulae
iuris (21). Nello studio della retorica il giurista si rifaceva alla logica aristotelica, e quindi ai Topici,
in cui si esaminano le regole della deduzione, l’arte di trarre conclusioni da enunciati verosimili. Per
poter contenere il ragionamento entro limiti accettabili, cioè verificabili, si procede per tòpoi. Per
poter formulare un giudizio occorre ordinarlo secondo canoni esterni di osservazione (tòpoi):
l’esame del fatto, l’esame delle regole da applicare, la sussunzione del fatto nella regola. Nella
elaborazione secolare dei tòpoi si sono formati alcuni criteri-concetti, quali conformità alla
fattispecie, colpevolezza, antigiuridicità, etc. Occorre arrivare al Settecento, e a Giambattista Vico,
in particolare per trovare una trattazione approfondita dei tòpoi. La scienza del diritto, l’operare
della giurisprudenza, diviene allora una scienza che controlla i passaggi logici, lo sviluppo
argomentativo, per trovare la soluzione del caso. Si trasforma, in altri termini, nella "teoria
dell’argomentazione".
Il metodo topico è stato rivalutato nell’opera tradotta qualche anno fa che si deve a Theodor Vieweg
(22). La sua marginalità nella nostra cultura è determinata dal fatto che la topica esaurisce il suo
fine nel rigore logico, essendo indifferente ai valori espressi dalle norme. Movendo dal pensiero di
Aristotele, Vieweg si richiama a Leibniz e a Wolff, e trova il fondamento delle regole giuridiche
nella logica, nel metodo razionale e sistematico.
Alla teoria dell’argomentazione si è dedicata soprattutto la scienza giuridica tedesca. Una recente
opera di Alexy, calata nel pensiero filosofico attuale, cerca di trovare risposte al problema della
giustificazione degli enunciati normativi, e sviluppa una teoria dell’argomentazione giuridica,
movendo dal presupposto che il discorso giuridico è un caso particolare del discorso pratico
generale. Ne deriva una tavola delle regole e delle forme del discorso giuridico che salda la
prospettiva metodologica con quella ermeneutica (23).
Nella nostra esperienza recente lo studio dell’argomentazione è proprio della filosofia giuridica
analitica. Giovanni Tarello ha dedicato pagine illuminanti agli argomenti utilizzati dal giurista per
persuadere il giudice e dal giudice per persuadere della bontà della motivazione della sentenza; su
queste pagine si ritornerà tra poco.
1.2. – Si deve a Savigny l’origine della giurisprudenza dei concetti. Secondo Savigny – e poi
secondo i Pandettisti – il diritto che nasce dallo "spirito del popolo" si può ridurre in formule
razionali esenti da contraddizioni e riunite in forma sistematica. Per mezzo di operazioni logiche si
possono ricavare dai concetti, dagli istituti, le regole per la soluzione del caso. La regola
dell’interpretazione non si desume perciò da regole imposte dal legislatore (e così doveva essere in
una esperienza come quella tedesca dell’inizio dell’Ottocento, in cui si applicava il diritto romano
attualizzato) bensì dalla logica sistematica.
Depurato delle convezioni ideologiche di Savigny e della Pandettistica, arricchito dalle correnti
ermeneutiche, il pensiero sistematico ha avuto grande spazio nella cultura giuridica degli anni
Venti e Trenta, ed oggi è considerato una acquisizione ormai indiscutibile.
Spetta a Luigi Mengoni il merito di aver riproposto ai civilisti l’analisi del pensiero sistematico.
Mengoni precisa che vi sono, nel succedersi delle teorie nel corso dei secoli, due diversi significati
di "sistema": l’uno designa "un insieme di verità universali tra loro connesse", ed è fondato sul
pensiero deduttivo e assiomatico, l’altro designa un modo scientifico di pensare mettendo le cose
nuove in relazione a quelle già conosciute, rimanendo a contatto con i problemi (24). I concetti
sistematici hanno "una funzione regolativa dell’interpretazione ai fini dell’applicazione della legge
ai casi previsti"; la fattispecie normativa è infatti una connessione di concetti, e l’analisi delle norme
giuridiche avviene sotto la guida delle categorie sistematiche, applicando le quali si perviene alla
"comprensione del testo come parte organica della totalità".
1.3. – Con l’avanzare del positivismo giuridico, l’analisi sistematica del diritto diviene analisi
sistematica delle norme, cioè la connessione logica tra regole riferite a singoli istituti e la
connessione logica tra le regole che compongono l’intero ordinamento. Ihering avvia la sua
riflessione proprio muovendo dalle norme positive per risalire ai concetti, i quali non sono perciò
precostituiti e poi applicati alle norme, ma dalle norme traggono la loro origine e il loro significato.
Poiché l’analisi logica è indifferente agli interessi incisi, questo sistema non poteva che essere
astratto, e quindi richiedeva un "rovesciamento". Occorre individuare le finalità del legislatore nella
posizione della norma per risolvere il caso. Il legislatore nel porre la norma risolve conflitti di
interessi; gli scopi della norma, cioè del legislatore, servono a colmare le lacune della legge; non si
ricorre solo alla interpretazione teleologica per assegnare significato alla disposizione e per
applicarla alla fattispecie; si può ricorrere anche all’interpretazione estensiva o restrittiva, alla
interpretazione analogica e alle regole logiche, ma solo là dove il testo non sia sufficiente a dare la
risposta desiderata. Di qui la connessione del diritto con le altre scienze sociali (sociologia,
economia, politica). L’ampliamento degli orizzonti implica il superamento del testo normativo, la
formulazione di giudizi che tentarono di pervenire alla soluzione "giusta", anche al di fuori del dato
positivo, da cui l’interprete è libero (25).
2. – L’apprezzamento dal punto di vista giusfilosofico del diritto naturale è strettamente collegato
con la sua concezione relativa. Concezione che emerge con poderoso rigore nell’opera di Leo
Strauss, Diritto naturale e storia (26).
La traduzione italiana del 1957 – un testo limpido, elegante e corretto, che nella riedizione è rimasto
inalterato – sopraggiungeva in un momento di grande fervore intellettuale: si stava ricostruendo una
cultura laica e liberale, e chi parlava di diritto naturale negli ambienti colti finiva per essere
scambiato per codino o per bigotto; chi si faceva corifeo delle critiche era dalla parte avversa
considerato uno statalista e un cinico spregiatore dei valori essenziali della persona. Le divisioni
erano nette e i due mondi, quello dei fautori e quello dei critici del diritto naturale, sembravano
incomunicabili. Il diritto naturale era la tendenza dei pensatori cattolici; il clima politico era assai
pesante; le contrapposizioni nette ed irriducibili. Era difficile poter pensare al diritto naturale in
modo laico: positivismo e storicismo ne predicavano l’irrilevanza, l’incongruenza, l’ingenuità. Di
questa sordità era ben consapevole lo stesso Strauss, che continuò a combattere questo pregiudizio
per anni: la sua voce "Diritto naturale" (27) si apre proprio con la considerazione che "il diritto
naturale ai giorni nostri è rifiutato da quasi tutti gli studiosi della società che non siano cattolici
romani".
Allora questo assunto era attendibile anche per l’ambiente dei giuristi. Senza pretendere di
dipingere in modo preciso e analitico i caratteri dell’epoca, non si deve dimenticare che
l’espressione "diritto naturale" aveva fatto eco nella discussione delle norme fondamentali
all’Assemblea Costituente: la nuova Costituzione, che doveva rappresentare il fondamento della
nuova società democratica e pluralista, si apriva con l’art.2, secondo il quale la Repubblica
"riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Come è noto le espressioni usate si prestavano
(e tuttora si prestano) a questa connessione. Anzi, qualcuno ha sostenuto senza esitazioni che la
norma fu pensata come un riflesso del diritto naturale, anche se l’espressione "diritti naturali", al
pari delle espressioni "diritti imprescindibili, insopprimibili, irrinunciabili, incancellabili,
fondamentali, essenziali, eterni, sacri, originari, naturali" fu scartata non perché troppo filosofica o
poco giuridica, ma proprio per l’opposta ragione: "la sottocommissione fu unanime nell’attribuire
all’articolo un significato più filosofico, storico (...) che giuridico" (28).
In altri termini, non vi era dubbio che i Costituenti volessero codificare nei primi articoli della legge
fondamentale principi ispirati al diritto naturale, inteso come complesso di situazioni soggettive
immutabili, eterne ed insopprimibili. Ma essi ritennero di non usare l’espressione "diritti naturali"
perché troppo connotata tecnicamente e giuridicamente, non perché ideologicamente troppo
implicante (29).
L’anno successivo si pose all’attenzione dei giuristi il significato della "Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo" che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva adottato a Parigi il 10
dicembre 1948; e poi quello della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4
novembre 1950. Anche quelle formulazioni, allora erano parse più enunciazioni di programma, più
riconoscimenti universali di principi etici che non norme a tutti gli effetti, provviste di vincolatività,
di coattività e di sanzione.
Si era anche operato un raffronto con la costituzione della Germania di Bonn, posteriore a quella
italiana e, ad essa (a quanto si dice) di molto debitrice; qui l’art. 2 aveva ben altro tenore, essendo
ispirato per comune opinione, al più tradizionale e spiccato diritto naturale.
Da allora anche tra i giuristi si è radicata la contrapposizione esistente tra i filosofi.
Fin dalla sua vigenza, l’art. 2 Cost. it. è suscettibile di una duplice lettura. In sintesi, o è norma che
"riconosce" il diritto naturale, o è norma che imprime il crisma positivo ai diritti fondamentali della
persona, rilevanti in quanto posti dall’ordinamento statuale. Come è ben noto ai giuristi, questa
dicotomia si è perpetuata sino ad oggi.
Insomma parlare di diritto naturale in quel tempo significava schierarsi: e Strauss, ancorché laico e
di matrice ebraica, fu ascritto alla schiera di coloro che muovevano un "continuo vilipendio" allo
storicismo, e mostravano di essere "ignoranti e puerili". Il giusnaturalismo di Strauss fu bollato di
"ingenuo e banale" e l’A. stesso "pieno di preoccupazioni totalitarie". Fu poi considerato "blasfemo,
pieno di livore contro Kelsen" perché aveva "osato" segnalare che nella versione inglese del 1949 il
giurista austriaco aveva astutamente emendato il testo dell’Allgemeine Staatslehre del 1925. Si
trattava di un passo in cui Kelsen ammetteva che anche l’arbitrio del despota desse luogo ad un
"ordine del comportamento umano" e quindi emanasse norme provviste di fondamento giuridico
vincolante. I giuristi e i filosofi italiani, accecati dai bagliori dell’intelligenza e della coerenza
kelseniane non vollero accorgersi di quanto fosse pericolosa una teoria che, attribuendo alla norma
posta dall’autorità il crisma della legittimazione, finisse per legittimare anche la norma posta dal
tiranno.
Anziché ispirata all’amore per la verità e alla correttezza filologica, quella segnalazione fu
presentata come una meschina malignità destinata ad infangare la figura del filosofo e pubblicista
tanto amato in Italia. Non si può dire quali fossero i motivi di quel rilievo; dopotutto, sia Strauss che
Kelsen erano emigrati illustri, e già famosi, forse in competizione; certo Strauss poteva nutrire
avversione verso chi con tanta perizia e tanta coerenza si era battuto contro il diritto naturale; e gli
orrori del nazismo – cioè dell’apparato politico-statale più afferrato ed anti-umano, potevano anche
accendere di furore l’animo del nostro; ma è innegabile che quell’emendamento non era né casuale
né trascurabile. Kelsen gli rispose (30) ribadendo la sua concezione positivista dell’ordinamento
giuridico e precisando che il mutamento delle leggi generali e lo stabilirsi delle esenzioni da queste
norme (immunità, privilegi) "in una autocrazia sono lasciati alla discrezione di un solo individuo,
l’autocrate, la cui volontà è legge". Cercò anche di giustificare la modificazione dei due testi, ma
forse fingendo di non accorgersi della maliziosa osservazione di Strauss oppure confermandoli
entrambi (come risulta anche dal passo sopra riportato) – lo fece in un modo formale: la risposta è
che la "General Theory of Law and State" non è la traduzione della mia "Allgemeine Staatslehre" e
che quindi non si può parlare di "omissione". E più oltre, a proposito della nuova opera, sottolinea:
"presento la democrazia e l’autocrazia come due forme di stato ugualmente legittime, e lo Stato, sia
esso democratico o autocratico, come un ordinamento giuridico".
Certo Strauss non meritava le critiche feroci che uno dei più noti filosofi del diritto dell’epoca,
Guido Fassò (31) gli aveva rivolto; né si comprende se esse fossero dirette più alle proposte
interpretative di Strauss che non al giusnaturalismo laico tout court come indirizzo di pensiero.
Fassò scriveva in quella occasione che "il giusnaturalismo laico è morto da un pezzo; i residui che
ancora affiorano nel moralismo popolare e nella retorica politica americana non corrispondono
neppure in America (...) a una base culturale reale (...). Quello che è unico in Italia e fuori, ed anche
e soprattutto in America, è il giusnaturalismo cattolico, o comunque a base teologica (...)".
Perentorie affermazioni che sarebbero state smentite dai fatti, oltre che dalle idee: come risulta
dall’imponente letteratura di cui tra poco si dirà.
In una recensione più meditata e pacata, Fassò ritornerà sull’argomento (32) ponendosi due
interrogativi che ancor oggi possono considerarsi attuali: quale sia la differenza tra "diritto naturale"
e i "diritti naturali" (natural law, natural rights) e quale accezione, soggettiva od oggettiva,
propugnasse Strauss.
Le questioni sono attuali perché, prima ancora di leggere le pagine di Fassò, mi ero accorto, nel
raffronto tra versione inglese e versione italiana che Strauss è consapevole della distinzione e mi
chiedevo se il traduttore si fosse mantenuto fedele all’impiego delle diverse accezioni. Compito
impervio perché, come si sa, filologicamente, la lingua inglese offre al filosofo (ed al giurista) in
questo caso, una varietà lessicale utile, in quanto mette a disposizione due espressioni diverse (law,
right) di contro alla lingua francese (droit), tedesca (Recht) e italiana (diritto) che hanno un unico
lemma e pertanto sono costrette ad aggettivarlo (diritto oggettivo, soggettivo) o a volgerlo al plurale
(diritto, diritti) per rendere i due diversi significati. Si deve osservare ancora che nella lingua inglese
l’espressione right indica anche ciò che è "giusto" (right contrapposto a wrong) sia come aggettivo
sia come avverbio. Quindi nella traduzione in genere si può dare rilevanza a "ciò che è giusto per
natura" (natural right).
Ma Strauss oltre ad essere competente, era di origine tedesca e nel trasporre Recht in right oppure in
law non poteva ignorare la distinzione, né usare indifferentemente le due espressioni senza farlo con
intenzione.
Che la distinzione tra diritto e diritti naturali (individuali) gli fosse presente, e che usasse in modo
proprio law e right è fatto che si può documentare con facilità. Ad esempio, nella prefazione alla
settima edizione del libro sul diritto naturale (1971) Strauss dice, quasi ripensando ai suoi critici:
"nulla di quanto ho appreso (scil. dopo la prima edizione, ed in particolare studiando Hobbes, Locke
e Vico) è riuscito a scuotere la mia inclinazione a preferire "il diritto naturale" (natural right)
specialmente nella sua forma classica, al relativismo, al politicismo o allo storicismo imperanti. Per
evitare un frequente fraintendimento, vorrei aggiungere il rilievo che l’appello ad un diritto (law)
superiore, se questo diritto è inteso nei termini della "nostra" tradizione così come distinto dalla
"natura" è storicistico nella sostanza, se non nell’intenzione. Diverso è il caso se si fa appello al
diritto divino (divine law); infatti, il diritto divino non è diritto naturale in senso oggettivo (the
natural law) e tanto meno diritto naturale in senso soggettivo (individuale) (let alone natural right,
ma anche: cioè ciò che è giusto per natura)" (33).
Ma non mancano altri esempi illuminanti. In questo stesso libro discutendo dell’origine dell’idea di
diritto naturale Strauss osserva: "in origine la risposta ai problemi delle cose prime e della "via"
giusta era data innanzi ancora che essi sorgessero: ed era data dall’autorità. Giacché l’autorità, in
quanto diritto (right) degli esseri umani a ricevere ubbidienza, deriva principalmente dalla legge
(law), e questa altro non è, in origine, che il costume di vita della comunità".
E ancora, nella voce cit. sul diritto naturale, l’A. precisa: "Per diritto naturale (natural law) si
intende la norma che stabilisce ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e che è dotata di effettività o è
valida per natura, per se stessa, perciò in ogni luogo e in ogni tempo. Il diritto (law) naturale è un
"diritto superiore" ma non ogni diritto superiore è diritto naturale". E più oltre egli sottolinea: "la
natura fu scoperta dai Greci in contrapposizione all’arte (la conoscenza come guida della creazione
degli artefici) e, soprattutto in contrapposizione a nomos (legge, costume, convenzione, accordo,
opinione autorevole).
Alla luce del significato originario di "natura", la nozione di "diritto naturale" (natural law) – nomos
tés physeòs – è una contraddizione in termini, piuttosto che un’espressione concreta. La questione
fondamentale concerne di meno il diritto naturale oggettivo (natural law) che non il diritto naturale
soggettivo (natural right), "cioè ciò che è per natura giusto o sbagliato..." (34).
E Strauss prosegue: "il diritto (ma si potrebbe anche dire, ciò che è giusto) deriva dalla convenzione
(di origine umana) o c’è qualche diritto (nel senso di ciò che è giusto) che è naturale (physei
dìkaion)? La questione fu sollevata muovendo dall’assunto che vi sono cose buone per natura
(salute, forza, intelligenza, coraggio ecc.). Il convenzionalismo (a prospettiva che ogni diritto [right]
sia convenzionale) deriva il proprio fondamento in primo luogo dalla varietà delle nozioni di
giustizia (justice), una varietà incompatibile con la supposta uniformità di un diritto (right: cioè
senso di giustizia, ma anche complesso di leggi) che è naturale". Essendo anticonvenzionalista,
volendo combattere il totalitarismo e la soppressione dei valori della persona, Strauss non distingue
e non vuole distinguere, se non per bollarlo, il diritto naturale dal senso naturale di giustizia, o il
diritto oggettivo dal diritto naturale che è in sé giusto. Proprio per questo Strauss usa
indifferentemente – e intenzionalmente – in questo libro l’espressione law e l’espressione right per
designare il diritto naturale; e correttamente Pierri ha mantenuto, questa indifferenziazione,
traducendo le due espressioni law e right con l’uniformante "diritto".
Ma proprio contro questa uniformità si scagliava Fassò: una uniformità che, a suo dire, in modo
troppo semplicistico esprimeva l’esigenza "della salvaguardia della persona umana, della
sottrazione dell’individuo all’arbitrio dello Stato, della rivendicazione dell’originario valore
dell’uomo: in breve, della affermazione della priorità del diritto soggettivo (naturale) su quello
oggettivo (positivo)". E soggiungeva: "Penso che sia stata appunto tale esigenza ad indurre lo
Strauss a riaffermare, di contro al preteso relativismo, law, il diritto naturale soggettivo, right, con
tanta naturalezza e spontaneità da non rendersene forse neppure conto, dato che, come ho detto, non
si trova nel suo volume uno sviluppo esplicito del motivo adombrato nel titolo". Di qui la
conclusione che "il giusnaturalismo dello Strauss non è quello cattolico, né ha comunque
fondamenti o presupposti teleologici; il suo è uno degli esempi, rari anche all’estero, e che in Italia
mi sembra si possano dire inesistenti, di giusnaturalismo laico, dalle premesse illuministiche, non
teleologiche; anche se egli dice di sentirsi "sulla stessa nave" con i tomisti, il suo autore è il Locke,
non è S. Tommaso; il testo dal quale egli prende tatticamente le mosse non è un’enciclica pontificia,
ma la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America" (35).
Fassò nega poi che sia necessario finire nella plaga del giusnaturalismo (cattolico) per farsi assertori
delle libertà individuali; che possa esercitarsi un diritto (soggettivo) naturale prima di un diritto
oggettivo (naturale); che nelle Scritture si possa riconoscere l’affermazione di un diritto naturale. Ed
affonda la stoccata finale: "questo famoso diritto naturale oggettivo nessuno in concreto sa
esattamente che cosa prescriva, e quindi quali specifici diritti soggettivi instauri e tuteli, all’atto
pratico chi lo interpreterà?" E ancora: "il diritto naturale è stato la bandiera della rivoluzione e
quella della reazione, del liberalismo e della teocrazia".
Con intenti meno polemici, con maggior riflessività e con ben altre armi si rivolge a Strauss negli
stessi anni Norberto Bobbio. Due sono i saggi che qui conviene, tra gli altri, citare, proprio perché si
situano nello stesso periodo (36). Si poneva così la parola fine al giusnaturalismo (salvo pochi
superstiti, come Sergio Cotta e altri) a tutto vantaggio del gius-positivismo.
Nel primo saggio cit. Bobbio enumera argomentandole, talune obiezioni al diritto naturale (37). Le
trascriverò senza commento: il diritto naturale è fondato sopra una teologia difficilmente
controllabile con l’esperienza; il diritto naturale è un modello vago e indeterminato; il termine
"bene" è indefinibile perché è una nozione semplice; la teoria del diritto naturale deriva da una
confusione tra leggi naturali in senso descrittivo (le leggi scientifiche che derivano tali osservazioni
dai fatti) e leggi naturali in senso prescrittivo (le leggi o meglio norme, che derivano
dall’assunzione di certi valori); la dottrina del diritto naturale è fondamentalmente conservatrice e
opposta ad ogni progresso sociale; come tale ha avuto un’influenza reazionaria nella storia. Bobbio
condivide queste obiezioni e ne da una giustificazione razionale. E conclude: "i valori non si
fondano immediatamente (...) sui fatti, ma neppure i fatti derivano immediatamente dai valori" (38).
Le conclusioni del secondo saggio cit. sono ancora più drastiche (e persuasive): a) il diritto naturale
non è diritto alla stessa stregua del diritto positivo, perché manca dell’attributo dell’efficacia; b) il
diritto naturale non riesce a raggiungere lo scopo che viene attribuito ai sistemi giuridici positivi,
perché non garantisce né la pace né la sicurezza; c) il diritto positivo ha invaso a poco a poco tutti i
campi che venivano assegnati al diritto naturale; d) la nozione di "natura" è così equivoca, che sono
stati considerati come naturali diritti diametralmente opposti; e) anche se l’accordo su ciò che è
naturale fosse stato unanime, ne sarebbe derivato necessariamente l’accordo unanime su ciò che è
giusto e ciò che è ingiusto; f) anche se l’accordo su ciò che è giusto perché naturale fosse stato
unanime, ciò non implica la validità di questo accordo per il tempo presente.
Proprio in quegli anni si era tenuto un convegno (39) nel quale i due schieramenti si erano
fronteggiati; e il dibattito era stato alimentato da un libro di A. Passerin d’Entrèves (40) in cui lo
studioso aveva precisato come il diritto naturale rileva per la sua funzione, piuttosto che non come
dottrina in se stessa.
Si parlò allora di "ordine naturale", cui si deve uniformare il diritto positivo (41) e di diritto naturale
come "ordine razionale" (42). Il diritto naturale integrerebbe il diritto positivo, anzi, ne costituirebbe
un limite (43). Larga eco aveva avuto anche la traduzione francese del libro di H. Rommen (44).
Non si deve poi trascurare la traduzione di Otto v. Gierke (45), autore curiosamente ignorato da
Strauss, che di questo stesso autore ha invece ben presente Natural Law and the theory of Society
(46). Il dibattito, come si vede, era acceso. E al di là degli schieramenti si procedette alla
individuazione dei diversi significati di "diritto naturale", relativizzandone contenuti e accezioni
(47) con la contrapposizione tra (diritto naturale inteso come) etica della legge ed etica della libertà
(48). Fu proprio Piovani a sostenere che il diritto naturale era il vero "cane morto" della filosofia del
diritto.
Bobbio riprendeva però il discorso, con il suo tono pacato e lineare, precisando che il
giusnaturalismo non è una morale; che è una teoria della morale; che come tale è insostenibile; che
ciò che conta è la sua funzione storica; che come tale è assorbito da altre correnti di pensiero, e
soprattutto è superato dalle dichiarazioni dei diritti individuali nelle Costituzioni e nella Carta delle
Nazioni Unite con cui "si è mosso il primo passo verso la tutela giurisdizionale interna dei diritti dei
cittadini entro il proprio stato" (49).
A proposito di questo libro di Strauss, Bobbio scriveva: "recentemente, in occasione della
traduzione del libro di Leo Strauss, Natural Right and History, sono apparse due stroncature del
Fassò, in cui la teoria del diritto naturale è data come esaurita e se ne mostrano gli aspetti deteriori
(...); l’appello al diritto naturale da parte dei giuristi ha spesso valore meramente propiziatorio" (...).
"Ma non sembra che i giuristi si siano lasciati travolgere dalle conseguenze cui l’ammissione di un
diritto naturale, superiore al diritto positivo, dovrebbe condurre, e cioè che una norma per essere
valida debba essere anche giusta. La distinzione tra diritto e morale è pur sempre dominante: e se
questo è indizio di positivismo, bisogna concludere che i giuristi continuano ad essere positivisti".
L’influsso di Kelsen sulla filosofia del diritto italiano del tempo era preponderante. La fortuna di
Kelsen nel nostro ambiente culturale era (ed è) radicata, duratura, inossidabile, e la sua critica al
diritto naturale così coerente e logica (nell’ambito del suo sistema giuspositivista) da lasciare poco
spazio a ritorni, anche se, del tutto originali e penetranti, all’antico.
Proprio l’inizio della Dottrina pura del diritto (50) è costituito da un ampio studio su diritto e natura,
e il secondo capitolo riguarda i rapporti tra diritto e morale: vi si teorizza la separazione del diritto,
inteso come ordinamento della condotta umana, per sua "natura" coercitivo dalla morale. E un
amplissimo studio della storia del diritto naturale è oggetto di un suo saggio comparso nel 1960
(51). Di Kelsen si conosceva anche What is justice? (52), in cui egli discuteva l’idea di giustizia
nelle Sacre Scritture, la dottrina della giustizia di Aristotele, la teoria dinamica del diritto naturale,
la teoria del diritto naturale davanti al tribunale della scienza.
Anche qui, due diverse, contrapposte linee di pensiero, quella di Strauss, situata nell’ambito della
filosofia della politica e quella di Kelsen, situata nell’ambito della filosofia giuridica, destinate a
procedere parallele e a non incontrarsi mai (53).
Non so se sono riuscito a ricreare il clima effervescente e pieno di tensioni in cui viene accolta la
traduzione del libro di Strauss in Italia.
L’esito della sua battaglia, allora, era già segnato: il libro non poteva che essere aprioristicamente
criticato o aprioristicamente apprezzato; ma sempre con sospetto: nel primo caso, perché colpiva
per la solidità delle argomentazioni e l’acutezza dell’esegesi; nel secondo, perché si trattava di una
prospettiva laica affinata da una coscienza ebraica (54).
Oggi più di ieri l’espressione "diritto naturale", riceve una rinnovata attenzione, sia per il
moltiplicarsi delle convenzioni internazionali sui "diritti umani" sia per le aspirazioni di quanti si
propongono di riformulare secondo il moderno sentire i principi di etica sui quali si regge la
comunità; il diritto naturale resta una formula da decodificare, che riaccende gli animi e le
polemiche: sulla giustizia, sul valore dell’uomo, sui limiti all’autorità, sul pactum societatis,
insomma sui temi e sui valori che da Platone ad Agostino, da Tommaso a Hobbes e Grozio, da
Rousseau a Kant, a Weber, fino ai contemporanei sono stati oggetto di meditazione e di discussione.
Ecco perché anche al giurista positivo interessa riprendere il discorso di Strauss.
Esso costituisce un referente fondamentale per due ragioni concorrenti: la riscoperta dell’etica
politica e dell’etica della persona; l’affermarsi dei diritti umani.
In entrambi i casi la costruzione di un diritto naturale astorico (ovvero di un senso innato di
giustizia) e di un fondamento positivo alla protezione della persona in quanto tale sono fattori
ineliminabili del modo di sentire il diritto e la giustizia oggi, quale aspirazione ad attingere un
modello di diritto razionale ed umano, rispettoso della dignità della persona e delle libertà
individuali.
Nel panorama degli studi gius-filosofici il filone del diritto naturale ha superato le procelle degli
anni Cinquanta e Sessanta, e non si è mai disseccato (55).
È lo stesso Viano che riscopre Strauss e i suoi studi su Hobbes, indicando come proprio il nostro
Autore abbia considerato per l’appunto Hobbes il vero fondatore della filosofia politica moderna,
sostituendo alla nozione di "legge" la nozione di "diritto", inteso come "pretesa soggettiva". Questa
valutazione di Strauss (56) fu corretta – prosegue Viano – nell’edizione americana (57) anticipando
la primogenitura a Machiavelli.
Le parole che Viano riserva a questo libro sul diritto naturale mi sembrano il migliore commento al
pensiero di Strauss: "Dopo la seconda guerra mondiale Strauss diede forma sistematica a
un’interpretazione globale del pensiero politico moderno, alla quale le riflessioni su Hobbes e sul
diritto naturale lo avevano condotto. La contrapposizione tra la concezione classica della legge
naturale e quella moderna rimase centrale, ed egli vide nello storicismo tedesco e nel suo
relativismo l’estrema espressione della crisi alla quale era giunto il soggettivismo inaugurato da
Hobbes. Per Strauss il relativismo storicistico tedesco aveva infettato la stessa cultura americana,
facendole perdere la fede religiosa nella legge naturale, che aveva ispirato la costituzione degli Stati
Uniti; e agenti dell’infezione erano state le scienze sociali. Strauss formulava un’astiosa critica al
positivismo giuridico di Kelsen, ma soprattutto conduceva un violento attacco contro Weber, che
effettivamente esercitava un’influenza determinante sulle scienze sociali americane. Nel quadro
storico disegnato da Strauss, S. Tommaso diventava una figura decisiva nella fondazione del
pensiero politico moderno, anche se a Machiavelli era riservato l’onore di esserne il vero iniziatore.
Ma ora Locke acquistava una posizione di grande rilievo. Questi aveva formulato una teoria della
legge naturale assai vicina a quella classica e scolastica, e aveva citato molto spesso Hooker, che di
quella teoria era stato importante sostenitore nella cultura anglicana".
In fin dei conti, scrive ancora Viano, "Strauss faceva propria la contrapposizione del
giusnaturalismo moderno alla concezione tradizionale della legge di natura; ma rifiutava qualsiasi
tentativo di trovare una risposta ai problemi posti da questa frattura nel recupero di tradizioni
storiche o in edifici artificiali. Tutto questo era storicismo dal quale, soprattutto per opera di Max
Weber, derivava il peggior "nichilismo": il fondamento della società non poteva esser ricercato
appiattendo i valori su una realtà storica data o catturandoli in prodotti di ingegneria politica o
sociale".
Perché Strauss privilegia la concezione "antica", "classica" del giusnaturalismo rispetto alla
concezione moderna? La radice è nella contrapposizione fra filosofia politica e scienza politica; la
filosofia politica offre un criterio per scegliere il migliore o il meno dannoso fra i regimi politici, la
cui classificazione tuttora in vigore risale al pensiero antico, e soprattutto a Platone. Secondo
Strauss, infatti, la scienza politica moderna risale a Machiavelli. Il criterio non è più il
riconoscimento di diritti naturali, ma semplicemente quello della virtus, non più intesa in senso
etico, ma come "energia".
Insomma si riafferma la distinzione tra diritto e giustizia; ma nel pensiero antico il diritto deve
essere intrinsecamente giusto e quindi esprimere un precetto morale.
Oggi, l’ambiente dei giuristi – ma anche dei filosofi della politica – è più "preparato" a ricevere il
messaggio di Strauss. Le sue idee non sono più considerate scandalose.
Norberto Bobbio è tornato sulla distinzione fra legge naturale e legge civile in Hobbes (58). Anche
chi segue John Rawls e il suo contrattualismo non può non misurarsi con le nuove concezioni del
diritto naturale (59). Persino chi proviene da una formazione marxista, ancorché eterodossa, come
Agnes Heller, sembra dialogare con Strauss (60). In apparenza, Heller considera il diritto naturale
come un "espediente"; cita il Croce storicista:
"il problema del diritto naturale e dei diritti naturali è che essi non esistono e non sono mai esistiti,
anche se ricorriamo ad essi come se ci fossero e ci fossero sempre stati" (61); ma finisce poi per
teorizzare l’esistenza di un "senso della giustizia" in ogni uomo, in ogni gruppo, in ogni cultura, e
per la rettitudine, nel riconoscimento di doti e talenti, nella profondità emotiva, nei legami
personali, le condizioni della "vita buona".
Una conclusione che sembra risentire proprio dell’inizio del libro di Strauss sul diritto naturale: i
valori espressi nella Dichiarazione d’indipendenza nord-americana sono i diritti inalienabili della
vita, della libertà e della ricerca della felicità. Proprio questo "pronunciamento" è stato ripreso nella
riflessione critica che l’anno scorso si è coralmente dedicata alla Rivoluzione francese (62). Anzi,
proprio l’occasione del bicentenario ha riportato in auge le idee di Edmund Burke, l’"anti-
rivoluzionario" illuminato, di cui Strauss indica, in chiusura del libro, l’importante ruolo nella crisi
del giusnaturalismo e nel passaggio dai modelli ideali ai diritti dei singoli (63).
Nell’introduzione a Diritto naturale e storia Strauss spiega le ragioni della ricerca: il bisogno del
diritto naturale come "metro" del diritto positivo, attraverso l’idea archetipica di "giusto" o
"ingiusto", l’obbligo di mirare ad un superiore criterio, che consenta di vagliare gli ideali della
nostra società come di ogni "altra"; l’opportunità di approfondire gli studi storici del diritto naturale
per studiare "la storia delle idee". Di qui la sua battaglia contro l’interpretazione storicistica e contro
la distinzione weberiana di fatti e valori. Sul primo versante, Strauss osserva che non vi può essere
diritto naturale "se tutto ciò che l’uomo può conoscere circa il diritto si riduce al problema del
diritto"; anche l’impostazione storicistica può giungere ad ammettere che in un determinato
momento l’uomo possa costruirsi una rete di principi di giustizia universali e autentici. E quanto a
Weber, nella pur ampia dissertazione, colpisce una considerazione icastica: "l’interdire alla scienza
sociale l’uso di giudizi di valore porterebbe a questa singolare conseguenza: che ci sarebbe
permesso di descrivere fedelmente le azioni manifeste che si osservano in un campo di
concentramento ma non ci sarebbe permesso parlare di crudeltà".
Strauss trascura sia la ricostruzione storica offerta da Weber sul giusnaturalismo, sia il rilievo che il
grande sociologo tedesco riconosce a questo indirizzo di pensiero. In Economia e società (64), si
può leggere: "tutti i dogmi del diritto naturale hanno influenzato, in misura più o meno rilevante, sia
la legislazione che la giurisdizione". Il che, per chi abbia sensibilità od interesse per il diritto, non è
davvero poco.
Non essendo giurista, egli trascura il movimento culturale che ha portato alle codificazioni della
fine del Settecento e del primo Ottocento; cita invece le due dichiarazioni dei diritti nordamericana
e francese, riconoscendo soprattutto alla prima una matrice giusnaturalistica. In ogni caso, Strauss è
interessato alle idee e più alle idee in sé che non al loro cammino nella storia dei popoli e dei fatti
istituzionali, dai quali sono attratti invece il giurista e soprattutto il sociologo.
Scavando nelle origini del diritto naturale, Strauss trova risposte ai relativisti: la distinzione tra
giusto ed ingiusto "è una mera ipotesi o convenzione umana", e non ci può essere "diritto naturale
se i principi del diritto sono mutevoli".
Ma questo non significa che il diritto naturale sia svuotato di significato: prova solo che "le diverse
società hanno nozioni diverse della giustizia, o dei principi della giustizia".
Vi è una differenza profonda tra diritto naturale classico e diritto naturale moderno: il primo
identifica il diritto con la giustizia; il secondo ne accentua le differenze. Di qui la crisi del diritto
naturale moderno. Il diritto naturale moderno è trattato in sé e per sé, tolto dal contenuto teleologico
e dal diritto positivo; si trasforma in diritto pubblico naturale con la dottrina della sovranità di
Hobbes, quella di rappresentanza di Locke, quella della volontà generale di Rousseau; è inteso
come preesistente alla società civile; oggi si trasforma nei diritti dell’uomo ed è essenzialmente
rivoluzionario. Kant ha trasformato il senso di giustizia e il diritto di natura (natural right and
natural law) in ciò che è razionale, ma non più naturale; Burke, opponendosi ai principi affermati
dalla Rivoluzione francese, che in certo senso costituivano la versione moderna del diritto naturale,
ritorna alla concezione pre-moderna. Ma così facendo, ha preparato la strada ai diritti positivi e alla
scuola storica.
Non è mio compito discutere il modo nel quale Strauss interpreta le concezioni del diritto naturale
nel pensiero greco e medievale; né osservare come (essendo filosofo della politica e non giurista)
abbia pressoché ignorato le fonti giusnaturalistiche del diritto romano, nelle sue diverse fasi, nella
compilazione giustinianea e nelle interpretazioni medievali e moderne. Forse Strauss pensava che le
citazioni delle fonti romane di Hobbes, Locke, Grozio fossero un mero orpello, un comodo schermo
per mascherare idee rivoluzionarie fittiziamente ancorate alla tradizione (vetustas pro lege semper
habetur, egli dice ad un certo punto, nel trattare l’origine dell’idea di diritto naturale).
Strauss, en passant accenna all’influsso dell’idea di diritto naturale sul diritto romano, manifestatosi
attraverso la penetrazione dello stoicismo nelle opere di Panezio e di Cicerone. Ma forse si sarà
chiesto quale rilevanza assumeva allora la teorizzazione dello jus naturae: e la "risposta", a quanto
sembra di capire dagli attuali esegeti delle fonti, è che essa aveva più una funzione sistematica e
ideale che non una funzione pratica. Il che, per la mentalità del giurista romano, che aveva eretto la
casistica a sistema interpretativo, era ben poca cosa (65).
Il giurista positivo, abituato per lunga data a considerare il jus positum come dato da interpretare,
da manipolare, da criticare, da riformare, ma anche come unico enunciato autenticamente
normativo, assume di solito un atteggiamento disincantato verso il diritto naturale. Ma non può che
registrarne la rinascita sub specie di "diritti umani".
Nella celebrazione del quarantesimo anniversario della Dichiarazione universale si è sottolineato
come proprio per effetto di queste disposizioni "i diritti dell’uomo costituiscono per la prima volta
oggetto di regole internazionali convenzionali" (66); è però certo che "la Carta non definisce con
precisione il contenuto dell’obbligo internazionale degli Stati" (67). In ogni caso queste regole,
come le regole della Convenzione europea, sono vero e proprio jus cogens, "acquisiscono nella
gerarchia delle fonti del diritto il rango proprio delle norme costituzionali e possono essere abrogate
soltanto da altre norme di pari forza" (68).
Si discute ancora se l’art. 2 Cost. sia norma "chiusa", che rinvia ai diritti fondamentali riconosciuti
nella Costituzione e solo ad essi o piuttosto norma aperta, che lascerà penetrare nell’ordinamento i
diritti naturali (69).
La giurisprudenza interpreta in modo estensivo l’art. 2 della Cost.; e nel diritto privato si
moltiplicano le posizioni soggettive che proprio in questa norma troverebbero il loro fondamento
(diritto alla vita, diritto alla riservatezza, all’identità personale, alla salute, ecc.).
Il problema è diventato pressante con l’acuirsi del dibattito sulla bio-etica: i "diritti" dell’embrione,
del feto, del malato fisico e del malato di mente, la conservazione del patrimonio genetico, il living
will e il diritto a non essere oggetto di accanimenti terapeutici, e finanche i diritti degli animali e
dell’ambiente sono le nuove immagini dei diritti dell’uomo, la versione moderna del diritto
naturale.
In fin dei conti il giurista positivo reagisce alle aggressioni della società moderna con diversi
espedienti e con tecniche formali, come è sua abitudine fare: moltiplicando le figure dei diritti
soggettivi, tagliando in modo orizzontale, secondo i bisogni e le diverse caratterizzazioni sociali le
situazioni della persona (le categorie sociali, i consumatori, i risparmiatori, gli emarginati),
conferendo alle corti sovranazionali autorità diretta nell’ordinamento interno attribuendo
all’interpretazione una carica additiva che viene alimentata di volta in volta dalla c.d. Costituzione
materiale, dalla "coscienza sociale" e finanche dall’equità. Il fatto che si sia formata un’opinione,
accreditata dalle corti internazionali secondo la quale i diritti inviolabili, se formulati in modo
sufficientemente preciso, sono validi e immediatamente tutelabili anche dinanzi al giudice
nazionale, è emblematico dell’ansia di proteggere l’individuo e spia della nuova versione del
giusnaturalismo. Certo, si passa attraverso il riconoscimento formale, attraverso enunciati normativi
e provvedimenti giudiziali. Ma il risultato è questo.
Il diritto positivo non è sempre sufficiente a soddisfare l’esigenza di giustizia: l’effettività delle
norme è chiaro indice dello scacco che talvolta esse registrano. Le sacche di schiavitù ancora
esistenti, la violenza sessuale, la tortura, le persecuzioni razziali sono segno che i modelli del diritto
positivo sono ancora distanti dagli ideali che si ipostatizzano nell’espressione "diritto naturale".
D’altra parte il diritto naturale non è una panacea. Il diritto naturale, immaginario o reale che sia,
storicizzato e ideologizzato, continua però a costituire un referente, un’aspirazione, un fine.
La profezia di Piovani non si è avverata; anzi sembra che il diritto naturale abbia sconfitto la storia:
realizzato, decodificato, svuotato nei contenuti, ha continuato il suo cammino passando indenne
attraverso due millenni di riflessioni di filosofi, di ideologi e di giuristi.
E sta conoscendo una nuova stagione, che succede a quella dei diritti umani: si è trasformato in
un’arma di difesa dell’ambiente contro le aggressioni dell’uomo. Dall’universo antropocentrico
qualcuno lo ha trasportato in un universo geocentrico e ha teorizzato il diritto naturale come
complesso dei diritti della natura, alla sopravvivenza e alla conservazione delle risorse, rivendicati
contro l’opera distruttiva dell’uomo. Gli animali, le piante, gli stessi minerali hanno il loro "diritto
naturale". P. Singer ne parla nella sua Etica pratica (70); e H. Jonas teorizza l’etica della
responsabilità (dell’uomo) verso la natura (71). La letteratura in materia sta diventando imponente
(72). Accanto alla bio-etica si è poi aperto un fronte del tutto nuovo, l’etica degli affari, in cui si
cerca di codificare regole di comportamento dell’homus oeconomicus (73).
Insomma, per dirla con Weber (74), "è difficile pensare che l’influenza latente di inconfessati
assiomi giusnaturalistici sulla prassi giuridica possa venir eliminata completamente".
3. – La giurisprudenza degli interessi e la scuola del diritto libero non hanno avuto fortuna in Italia
all’epoca in cui si radicarono in altre esperienze, poiché si può rinvenire qualche traccia
metodologica di questi indirizzi solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento.
(a) La giurisprudenza dei valori.
Anche la giurisprudenza dei valori, in un imperante clima formalista, ha avuto poco spazio nella
nostra cultura. Tuttavia, ai valori – in particolare ai valori costituzionali (politici e giuridici
insieme) – ci si deve rifare per apprezzare le tecniche interpretative oggi praticate dai civilisti.
Per i civilisti che non accettano il diritto naturale, i valori sono solo quelli riconosciuti nelle tavole
della legge fondamentale, la Costituzione. La legge diviene quindi una "concretizzazione di
valutazioni generali" (75). La giurisprudenza dei valori, in questo senso, è una giurisprudenza
normativa di valori in quanto i valori non sono estrinseci al sistema giuridico, ma da esso derivano.
Nella individuazione dei valori e nella loro applicazione interpretativa il giurista non può
prescindere dall’arbitrio: il problema allora diviene quello della costruzione di limiti all’arbitrio
dell’interprete. I valori soggettivi dell’interprete debbono cedere ai valori sociali, cioè ai valori
riconosciuti dalla maggioranza dei cittadini. Di qui allora il conflitto tra l’orientamento della
maggioranza e le richieste della minoranza, tra la collettività e l’individuo.
Oggi nella nostra esperienza è ancora prevalente il metodo formalista.
È appena il caso di sottolineare che con questo termine, talvolta usato in senso spregiativo, si allude
ad formalismo interpretativo che è il complesso dei metodi che "nel ricavare da una norma un
significato ai fini della soluzione di un problema giuridico si affidano ad elementi che si assumono
essere intrinseci alla norma (o al sistema di norme) in questione trascurando fattori storici,
teleologici, economici, ambientali o, in una parola, fattori (che si assumono) intrinseci" (76).
Compito del giurista è dunque quello di enucleare i significati impliciti nelle norme.
I due metodi di cui si è parlato, quello esegetico e quello pandettistico, finiscono così –
semplificando il discorso – per convergere: quello esegetico perché ricerca nella disposizione (cioè
nel diritto positivo) il significato intrinseco della norma che l’interprete deve esplicitare; quello
pandettistico perché ricerca nei concetti ordinanti del diritto il sistema: la coerenza interna di
concetti, istituti e quindi regole.
A questo indirizzo si sono opposti via via la giurisprudenza degli interessi, il diritto libero,
l’ermeneutica, il realismo giuridico, il pragmatismo, l’analisi economica del diritto etc.
La concezione del diritto come sistema porta alla dogmatica, nel nostro caso alla dogmatica
giuridica, che non ha più come un tempo la pretesa di considerare il diritto come un grande sistema
autosufficiente, ma continua non solo a prevalere nella nostra cultura, ma anche a svolgere un ruolo
essenziale nella ricerca giuridica. I concetti sistematici, ha scritto uno dei massimi esponenti di
questo indirizzo, Luigi Mengoni, "hanno una funzione regolativa dell’interpretazione ai fini
dell’applicazione della legge ai casi previsti, tenuto presente che, essendo il giudizio un rapporto tra
concetti, sotto una fattispecie normativa, costituita da una connessione di concetti (normativi), si
sussumono non tanto dai fatti, quanto concetti (rappresentativi) di fatti" (77). In tal modo si
soddisferebbero due esigenze fondamentali, l’una riguardante la eguale applicazione della legge
(che discende dalla applicazione dei medesimi concetti alle fattispecie), l’altra riguardante la
certezza del diritto (che discende dalla prevedibilità delle decisioni raggiunte con quel metodo).
La concezione dogmatica del diritto non è però sufficiente a soddisfare le esigenze epistemologiche
e pratiche oggi poste dal diritto: essa deve tener conto dei valori che stanno alla base delle
disposizioni e della loro interpretazione. I valori contenuti nelle tavole costituzionali che risultano
fondative dell’intero ordinamento (78).
L’indirizzo formalista – sistematico è quello praticato dalla dottrina prevalente e dalla
giurisprudenza e non è quindi il caso di spendervi troppe parole per farlo meglio conoscere. Si
riprenderà però il discorso a proposito della metodologia di analisi della giurisprudenza.
4. – Altre tecniche di lettura dei fenomeni giuridici appaiono ricche di suggestioni di utili
indicazioni per meglio comprendere la realtà del fenomeno "diritto".
La concezione formalista non può circoscrivere l’orizzonte del sapere giuridico. Vi sono altre
dimensioni da considerare.
Il diritto è, in primis, un fatto politico: se ordinamento significa complesso di regole di
comportamento, ciò presuppone l’esistenza di una aggregazione sociale e l’esigenza, per tale
aggregazione, di darsi delle regole. Per lungo tempo si è ritenuto indiscutibile che questa esigenza
fosse connaturale alla stessa esistenza di una società, secondo l’antico broccardo "ubi societas, ibi
ius". La storia di Robinson Crusoe è emblematica al riguardo.
Il diritto quindi è un fenomeno sociale, che si esprime nella realtà e deve essere apprezzato con
metodi realistici.
La concezione giusrealista del diritto nasce all’inizio di questo secolo e deve essere distinta nella
versione scandinava e in quella nord-americana.
(i) La versione scandinava.
La prima risale a diversi autori, tra i quali, Axel Hägerström, Karl Olivecrona, Alf Ross. Il primo
muove dalla distinzione tra diritto e magia (fenomeni indistinti nei primordi delle società
occidentali). Nella psiche umana, nei comportamenti collettivi, diritto e magia continuano ad
influenzarsi reciprocamente: il diritto è ciò che l’immaginario collettivo qualifica come complesso
di regole di comportamento; i singoli osservano tali regole convinti che il diritto sia qualcosa di
reale, oggettivo, esterno da sé. Il contenuto delle norme viene definito da Olivecrona come un
insieme di rappresentazioni di azioni immaginarie da parte di persone determinate, come i giudici,
che si rappresentano situazioni immaginarie; applicare il diritto significa quindi riguardare quelle
situazioni immaginarie come modelli di condotta per valutare i comportamenti reali; la funzione
delle norme è di contribuire alla rappresentazione delle situazioni in cui le azioni desiderate devono
essere compiute. Pertanto, le norme non sono comandi e non esprimono la volontà di un mitico
legislatore, ma sono imperativi che per convenzione si ritengono vincolanti. Allo stesso modo, i
diritti delle persone esistono soltanto nella immaginazione delle persone, nel tempo e nello spazio,
in quanto nozioni elaborate dalla mente umana.
Secondo Ross un sistema giuridico razionale è un insieme di regole che determinano le condizioni
alle quali la forza fisica sarà esercitata nei confronti di una persona; esso predispone l’autorità cui
spetta fare uso della forza; insomma è l’insieme delle regole per l’organizzazione ed il
funzionamento dell’apparato coercitivo dello Stato.
(ii) La versione nord-americana.
Un po’ più distanti dai modelli concettuali con cui siamo abituati a riflettere sono i giusrealisti nord-
americani, che non si possono neppure considerare appartenenti ad una scuola vera e propria.
Tuttavia essi presentano alcuni punti in comune, che, muovendo dalla concezione del diritto tipica
dei paesi di common law come diritto fondato sui precedenti giurisprudenziali, si possono
identificare (a detta di Karl Llewellyn) nella concezione del diritto come: processo in continuo
movimento inteso non come un fine in sé ma come un mezzo per realizzare scopi sociali; come un
sistema meno veloce di quello che domina una società, cosicché è necessario verificare ad ogni
momento la corrispondenza del secondo al primo sistema. Jerome N. Frank definisce perciò il
diritto come l’insieme delle concrete e specifiche decisioni passate e delle congetture su concrete e
specifiche decisioni future: come un sistema di cui è necessario valutare gli effetti.
(iii) La versione italiana.
La scienza del diritto diviene in tal modo una scienza sociale: è palese in ciò la concezione
sociologica del diritto propria di Max Weber e di Eugen Ehrlich.
Dal punto di vista funzionale, il diritto può essere descritto, secondo Giovanni Tarello, come:
l’insieme delle regole che disciplinano in ciascuna società individuata la repressione dei
comportamenti socialmente pericolosi; la istituzione e la assegnazione dei poteri pubblici; la
allocazione a individui e collettività di beni e servizi. La prima delle funzioni corrisponde
esattamente alla concezione giuspositivistica; la seconda alla concezione giusrealistica; la terza è
propria delle letture sociologiche del diritto, e, in quanto si ricollega anche ai meccanismi
economici, è propria della analisi economica del diritto (79).
(iv) Diritto e sistemi di allocazione del potere e delle risorse.
In questo senso si possono distinguere sistemi di allocazione generali e sistemi di allocazione non
generali. Questi ultimi interessano di meno perché riguardano il caso, il bisogno, il desiderio.
Tra i primi troviamo il sistema di allocazione fondato sugli status, tipicamente feudale e
tramandatosi fino all’Ancien Régime; successivamente, in epoca liberista, il sistema di allocazione
è identificato con il mercato: il mercato riflette la libertà economica individuale, l’incremento di
produzione di beni, la concorrenza leale quali meccanismi motori di sussistenza e sviluppo del
benessere collettivo.
I sistemi di allocazione richiamano la problematica della "giusta" distribuzione e quindi il rapporto
tra diritto e giustizia: tema oggi particolarmente vivo, come risulta dall’interesse suscitato dalle
opere di Rawls, Nozick, Dworkin, Walzer, Ackerman, Sen.
Dovendosi considerare il diritto fatto per l’uomo e non l’uomo per il diritto, occorre menzionare due
altre funzioni: la tutela della persona (intesa nel senso di tutela dei diritti fondamentali) e la
promozione sociale. A questi valori si ispira il moderno diritto privato.
5. – Josef Esser pubblica nel 1956 a Tubinga (80) un’imponente opera su "principio e norma nella
formazione giurisprudenziale del diritto privato" (81). L’opera è divisa in cinque parti: principi e
teorie giuridiche generali, e forme che essi assumono nel diritto privato; i principi nel diritto e loro
distinti tipi; tentativi di classificazione e definizione; ruolo dei principi giuridici nella costruzione
del diritto privato codificato e nella judgemade law; formulazione dei principi giuridici generali da
parte del giudice continentale; importanza nel futuro dei principi universali del diritto nelle
istituzioni giuridiche sovranazionali.
5.1. – Lo scopo di Esser enunciato in apertura (cap. 1), consiste nel dare significato e razionalità
d’uso ai concetti generali per loro natura vaghi e suscettibili di ogni sorta di abuso (o arbitrio)
interpretativo. In altri termini, Esser muove dalla considerazione che il giurista continentale, posto
di fronte al problema dell’interpretazione e dell’adattamento di una normativa spesso risalente, è
incapace ideologicamente di dare fondamento e limiti all’autorità giuridica del suo "atto di
creazione"; una semplice rilevazione dell’impiego dei principi generali lascia trasparire la
compresenza di principi aventi diversi significati e funzioni di principi didascalici: si registrano
principi costruttivi, idee dominanti in un sistema giuridico nazionale, di principi astratti, principi
che si ricavano come ratio dei fondamenti del diritto vigente, principi introdotti dalla tradizione, di
principi introdotti dalla prassi, principi considerati vincolanti dal sistema politico, principi
sostanziali e principi euristici o tecnici, finalmente principi "supremi" che per definizione
informano il diritto nella sua "totalità". Ne risulta che:
(i) non è possibile dare una risposta unitaria alla natura di questi principi; sicché alla fine del secolo
scorso, poco prima della redazione del codice civile tedesco la Corte Suprema (Reichsgericht)
aveva rilevato che "al legislatore non si può chiedere di esporre tutti i principi generali in articoli di
tale chiarezza che da essi possano derivarsi, per semplice deduzione, le conseguenze applicabili a
tutti i casi pratici che ricadano sotto la loro operatività" (82);
(ii) il problema del significato e del ruolo dei principi si registra in tutti i sistemi giuridici di cultura
affine;
(iii) i principi trovano diversa collocazione in un sistema "funzionale", piuttosto che non in un
sistema "dottrinale" o teorico;
(iv) se si parla di "sistema", si presuppone che i principi siano inscrivibili in uno schema di logica
gerarchica, in cui i principi siano espressi secondo una scala assiologica, e siano riducibili ad un
comune minimo denominatore di assiomi universalmente utilizzabili e ricavabili per via di
deduzione.
In realtà, questo modo di concepire il sistema viene costruito more geometrico sulla base di una
concezione delle fonti ormai interessato da una profonda crisi, perché non tiene conto del potere
creativo della giurisprudenza (ed. giurisprudenza di principi). Già il Duden (83) aveva messo in luce
che molte sono le regole di creazione giurisprudenziale in materia di causalità, di presunzione di
colpa, di responsabilità per rischio d’impresa e per attività personali, di doveri generati di
protezione, etc.
L’attività del giudice, spesso intrisa di convinzioni tratte dalla terra incognita del diritto naturale, o
dalla "coscienza giuridica", è fertile: al punto che negli anni Cinquanta, di fronte alla posizione
intransigente e sbrigativa di Nipperdey, volta ad escludere la giurisprudenza dal novero delle fonti
del diritto (84) si erano sollevate forti critiche (85); di qui l’esigenza di compiere una ricerca sul
laboratorio giurisprudenziale assistita da rigore scientifico.
Esser sottolinea (nel cap. II) che la giurisprudenza costituisce il terreno naturale dei principi
generali: gli studi di comparazione del diritto hanno infatti mostrato come la giurisprudenza
continentale esprima una forza creatrice in cui i principia iuris assolvono il ruolo di "guide" per la
creazione del diritto da parte del giudice: ciò obbliga il giurista a riflettere sulla duplice funzione dei
principi nel processo creativo e nella costruzione di "sistemi" giuridici. Il Boehmer ha parlato, a
questo proposito, dei principi generali nella prospettiva della creazione giurisprudenziale del diritto
praeter legem e della interpretazione correttiva del diritto (86) in una concezione della legge e del
potere giudiziario sviluppata a partire dalla realtà del diritto. Egualmente è accaduto in common
law, ove Roscoe Pound ha distinto la law in books dalla law in action e questo spunto è stato
sviluppato ulteriormente dall’indirizzo giusrealistico (ad es., da parte di Karl Llewellyn),
dall’indirizzo sociologico (da parte di Eugen Ehrlich), dall’indirizzo analitico. La prospettiva
empirica del common lawyer ha agevolato la considerazione della costruzione del diritto positivo
attraverso le regole giurisprudenziali, e la considerazione del diritto come "il complesso dei
pronostici sul modo in cui agiranno i tribunali" (87).
In questa prospettiva, appare chiaro come già da più di un secolo divergano le concezioni del diritto
quali professate dalla Scuola storica, in cui la giurisprudenza è considerata una appendice
deformante della legge, e quelle professate dai common lawyers e di poi da alcuni giuristi
continentali dell’inizio di questo secolo, secondo cui la giurisprudenza è considerata una fonte
funzionalmente normale e necessaria per la creazione di precetti giuridici generali. Correttamente il
giurista spagnolo Herzog (88) ha distinto, seguendo Gény, tra il "potere pretorio" del giudice nel
senso antico di potere suppletivo o correttivo del diritto sostanziale, e "forza normativa" di tutta la
giurisprudenza giudiziale, che non ha nulla a che vedere con il diritto consuetudinario
giurisprudenziale (prassi giuridica). Si è in altri termini registrato un regresso della interpretazione
concettuale deduttiva (89).
Esser dimostra (nel cap. III) come l’indagine comparatistica sia di estrema utilità per chiarire
significato e ruolo dei principi del diritto. Si aprono così tre diverse prospettive di indagine:
(i) i principi giuridici nella costruzione degli ordinamenti di diritto privato;
(ii) l’evoluzione dei principi giuridici ad opera dell’attività giudiziale;
(iii) lo spazio dei principi giuridici nei sistemi distinti, quale base della comparazione.
5.2. – Svolte queste osservazioni generali, Esser dà di piglio alla costruzione teorico-sistematica dei
principi, e appunto (nel cap. IV) elabora nozioni preliminari su "concetto" e "natura" dei principi.
Questa operazione di nazionalizzazione e sistemazione dei principi si contrappone alla concezione
sociologico-realistica, propria dei common lawyers, che non ne avvertono la necessità,
considerando i principi come espressione di idee naturali, quali imperativi morali, di cui non è
necessario decodificare la forza vincolante attraverso le forme storicamente da essi assunte. Non si
tratta, avverte Esser, di negare ai principi – (le norme che "stanno dietro le altre norme") – il ruolo
di "guide" del giurista nell’interpretazione e nella applicazione del diritto, cioè nella risoluzione di
casi pratici, ma piuttosto di capire come avviene il processo di positivizzazione e di efficacia
normalizzante dei principi. In altri termini, è pure possibile una concezione ontologica del diritto
che si basi su valori universali (90): ma non è possibile negare che tali valori siano esposti alla
mutevolezza storica.
Per questo Esser distingue tra principi di diritto vigente e principi che diventano generali perché
ripetutamente applicati da una giurisprudenza uniforme riguardo alla soluzione di casi simili.
In prospettiva di comparazione, si distinguono: sistemi "chiusi" come vengono presentati i sistemi
codificati, e sistemi "aperti", come vengono presentati gli ordinamenti di common law (91). Occorre
però diffidare dalle generalizzazioni: un sistema chiuso può essere problematico, e quindi aperto, e
un sistema aperto può non essere suscettibile di evoluzione e non è necessariamente "progressivo".
Il sistema chiuso procede secondo la logica aristotelica: il principio si ricava per deduzione, o per
tòpoi della giustizia materiale. Tuttavia, il sistema chiuso è aperto là dove il legislatore costruisce
regole contenenti clausole generali, norme in bianco, istituti di creazione recente. Si possono così
distinguere:
(i) principi assiomatici (ad es. libertà contrattuale, oppure relatività del vincolo obbligatorio);
(ii) principi problematici, o idee basiche nel senso retorico (ad es., l’arricchimento, oppure
l’affidamento);
(iii) principi dogmatici, o meglio, dogmatizzati (ad es., la distinzione tra negozi causali e negozi
astratti, oppure l’accessorietà delle garanzie).
In tal modo, molti tòpoi moderni si sono trasformati in elementi concettuali di un complesso
deduttivo che funziona logicamente: ciò vale, ad es., nel diritto tedesco per il "rischio d’impresa",
per la "violazione positiva del contratto", per la "base negoziale"; per il diritto anglosassone, per
concetti storici quali torts e negligence, mistake e misrepresentation, etc. E vi sono affinità
sistematiche: si consideri, nel diritto tedesco, la sequenza "base negoziale-dissenso-errore nella
dichiarazione"; e l’affinità tra la frustration nel common law e la teoria della impossibilità-base
negoziale, oppure tra la consideration e il sinallagma-causa, tra la nuisance e la responsabilità da
fatto illecito e i rapporti di buon vicinato. Esser precisa, procedendo per approssimazioni
successive, che:
(i) non esiste una gerarchia di principi, come per contro sostiene Simonius (92);
(ii) il principio non è un precetto giuridico, né una norma nel senso tecnico tradizionale, perché non
esprime un comando;
(iii) l’opera della giurisprudenza trasforma i principi pre-positivi in principi e istituti di diritto
positivo; nella case law il principio non fa parte dell’autorità del precedente, non forma parte della
regola vincolante, ma dirige la ratio decidendi. Il lavoro giurisprudenziale rinnova continuamente
l’osmosi tra valori etici sostanziali (valori del diritto naturale) in valori formali o istituzionali del
diritto.
Di qui la classificazione dei principi, a seconda della loro origine, in:
(i) principi etici (ad es., autonomia contrattuale, buona fede, etc.);
(ii) principi logici (pubblicità, numerus clausus);
(iii) principi dogmatici o tecnici;
(iv) principi di politica del diritto.
5.3. – La modernità della prospettiva di Esser si rivela anche nell’impiego che l’A. fa
dell’interpretazione costituzionale, a pochi anni dalla approvazione della Legge fondamentale: la
sua ricerca è del 1956, la costituzione tedesca è del 1949; modernità tanto più rimarchevole in
quanto il ricorso alla normativa costituzionale da parte dei privatisti italiani prende corpo solo alla
fine degli anni Sessanta.
Esser ha chiara la distinzione tra positivismo giuridico e positivismo sociologico: pur apprezzando i
risultati del realismo giuridico, non apprezza il suo "behaviorismo" giudiziale. Considerando la
funzione dei principi, egli distingue ancora tra (i) principi "immanenti" (che i giusnaturalisti
vogliono intravedere nelle disposizioni fondamentali di un ordinamento) e (ii) principi "informativi"
(che sono guide per l’interprete).
E sottolinea che:
– tra i principi, pur di diversa origine e funzione, vi è una tensione polare, sicché principi-valori si
trasformano in principi-dogmi o strumenti tecnici, e così via;
– i principi possono esprimere valori antinomici;
– i principi possono non essere scritti.
5.4. – A questo punto Esser, che già ha anticipato alcuni raggruppamenti dei principi, si propone di
individuarne una classificazione razionale. Egli perciò distingue:
(i) principi istituzionalmente efficaci, che sono i principi che si sono materializzati in istituti
positivamente riconosciuti, come il principio di arricchimento, la responsabilità per colpa, l’obbligo
di collaborazione, l’inversione dell’onere della prova;
(ii) principi costruttivi, che servono per la formazione di nuove regole giudiziali nel traffico
giuridico; si tratta di principi informativi, o guide, come l’abuso del diritto, possesso vale titolo, il
rischio nella responsabilità civile. Questa distinzione può essere formulata anche in altri termini e
cioè in:
(iii) principi del diritto (in senso sostanziale) e principi giuridici (od orientativi).
Esser ci avverte dei rischi in cui può incorrere l’interprete che ragioni in termini assiomatici, e cioè
di ritenere che ad ogni norma corrisponda un principio, che sia principio solo quello che emerge dal
testo normativo, che ogni principio abbia un ambito di operatività ben circoscritto. La realtà
smentisce questi assunti, perché le massime possono avere natura logica (nemo transferre potest
quam ipse non habeag genera non pereunt), oppure riflettere sentimenti di equità (ubi
emolumentum, ibi onus), oppure avere funzione euristica, di sistemazione scientifica o giudiziale
(condictio).
Anche se i principi non si possono considerare "regole giuridiche" in senso proprio, tuttavia essi
costituiscono, come ratio legis, un diritto positivo possibile.
Esser apprezza perciò la classificazione assai simile di Sperduti (93) che distingue: principi
scientifici, principi normativi, principi informativi, regole dell’arte, assiomi di logica, massime e
regulae iuris; apprezza altresì la classificazione di Pound (94), in rules (o regole di diritto in senso
stretto, cioè normative), princìples (o principi di diritto materiale, o patterns), legal conceptions (o
concetti giuridici), doctrines, standards, e tuttavia rileva che questa distinzione non è generalizzabile
a tutti i sistemi giuridici, essendo condizionata dalla struttura tipica del common law; critica invece
la classificazione di Hedemann (95), che isola regole aderenti ad un supposto di fatto, clausole
generali e principi giuridici.
5.5. – È su questo piano – precisa Esser nel cap. VII – che si possono distinguere i principi "del
diritto", tanto formale quanto sostanziale, dai principi "giuridici", che sono i principi di applicazione
tecnica (techne, ars legis). L’indirizzo storico vede nei principi la base per la nascita stessa del
diritto oggettivo a partire dalla esperienza giurisprudenziale; la concezione sociologica vede nelle
regole applicate l’espressione di una tecnica processuale, un fattore di carattere costitutivo che si
concreta nella creazione di regole oggettive, di disposizioni positive soggette al mutamento. Ancora
differente è la distinzione tra principi di giustizia e principi giuridici (96). Tuttavia, quest’ultima
classificazione si riferisce ad un problema affatto diverso, perché investe i rapporti tra diritto e
giustizia; qui invece, Esser sottolinea che sia i principi di diritto sia i principi della tecnica
applicativa debbono considerarsi unitariamente, come principi generali di egual valore e di eguale
dignità. Anche i principi tecnici sono principi di diritto, né più né meno immanenti e genuini come i
principi espressi da un codice civile. In altri termini i principi tecnici, interpretativi, anche se si
presentano come regole di routine, create dai pratici, sono sempre principi di diritto. Si deve cioè
abbandonare il pregiudizio secondo il quale solo le norme sono regole di condotta e non anche
principi per la elaborazione e la creazione del diritto. Sono principi interpretativi universalmente
riconosciuti:
– il principio di rispetto del testo;
– il principio della remissione alla volontà delle parti;
– il principio della interpretazione secondo lo scopo (della legge, del contratto, dello statuto);
– il principio di indipendenza e unità, con le possibilità e i limiti della interpretazione sistematica;
– il principio di integrazione del testo mediante il ricorso ai principi generalmente riconosciuti, agli
usi del traffico giuridico, alla buona fede;
– il principio del rispetto dei diritti quesiti.
5.6. – I principi del diritto sono regole di diritto positivo o solo guide interpretative? Si deve a
Vittorio Scialoja il primato della qualificazione dei principi di diritto come norme di diritto positivo
(97); Esser osserva che i principi del diritto esplicano sia l’una sia l’altra funzione: sono regole di
diritto positivo, ancorché non siano regole precise e indipendenti, sia le concezioni, giuridiche
generali, sia le rationes legis, sia i principi di valore e costruttivi di un sistema, sia i principi di etica
e di giustizia; ma sono anche principi informatori degli organi che creano il diritto. E perciò sono
anche fonti del diritto, perché appartengono al corpus iuris. Se per fonte del diritto si intende il
processo di positivizzazione di una regola, essi sono più esattamente fonti di cognizione del diritto.
A questo punto, diviene necessaria una precisazione sul modo di essere dei principi negli
ordinamenti codificati e negli ordinamenti non codificati.
Negli ordinamenti codificati (cap. IX) i principi acquistano, agli occhi del legislatore e
dell’interprete che si fa mero esegeta, un ruolo marginale: il sistema giuridico è concepito come un
sistema costruito con procedimenti deduttivi sulle regole di codice; tipica di questo atteggiamento è
l’ostilità nei confronti dell’attività interpretativa del giudice. I principi sono considerati strumento
complementare, per colmare le lacune dell’ordinamento; perciò lo stesso legislatore si preoccupa di
disciplinarli (98).
Questo modo di intendere i principi trascura sia il ruolo della giurisprudenza, che crea regole
proprie, sia la gerarchia e la molteplicità dei fattori che entrano nel corpus iuris (capp. X-XIII).
Ma la seconda breccia nel sistema deduttivo è data dalla presenza nel testo normativo di clausole
generali, di norme in bianco e di standards. Solo la casistica ci dice che cosa è il diritto. Sono
innumerevoli gli esempi (che lo stesso Esser porta, nei diversi ordinamenti) di creazione giudiziale
di principi e regole, come l’arricchimento, il patrimonio separato, etc. Nei sistemi di common law i
principi sono principi di protezione giuridica, pratici, sviluppati induttivamente dalla soluzione del
caso e del problema, e concretati in massime e dottrine secondo lo stile della tecnica retorica (99).
Mancano quindi principi costruttivi e nessi concettuali nel senso assiomatico: il sistema giuridico è
aperto, come quello proprio dei Romani. I principles del common law assolvono perciò ad una
triplice funzione:
(i) sono punto di partenza del ragionamento giuridico, che è necessariamente problematico, e sono
tòpoi nel senso della casistica retorica;
(ii) sono la regola del caso concreto;
(iii) sono la ricapitolazione di natura euristica della ratio iuris, cioè la constatazione del diritto
positivo.
Vi è un punto di contatto tra sistema problematico e sistema assiomatico: il principio domina
l’interpretazione della norma e della rule, ossia orienta la preselezione e il riconoscimento dei fatti
giuridicamente rilevanti nella situazione data, e la tradizione del precedente. Anche in common law
– sottolinea Esser – i principi non sono solo guide, ma sono parte costituente del diritto positivo.
Allo stesso modo, sia nel modello di sistema assiomatico sia nel modello di sistema problematico la
regola in quanto tale non è una "disposizione indipendente" dell’ordinamento, bensì il suo
contenuto normativo è sempre fissato dai principi dell’ordinamento generale e dalla giurisprudenza.
Anche nei sistemi chiusi rileva la creazione giudiziale del diritto, a dispetto della concezione
tradizionale secondo la quale il giudice non crea ma applica una regola già esistente: non è possibile
distinguere i principi di interpretazione applicativa dai principi generali: anche nel procedimento di
sussunzione si presuppone sempre una precomprensione della norma; la legge positiva esige un
lavoro complementare della giurisprudenza che parte dai principi; la giurisprudenza assolve il
compito di dar forma alla regola. Vi è dunque una correlazione stretta tra principio di un sistema
assiomatico e precedente di un sistema problematico.
Contro i giusrealisti, che considerano la casistica come un "puntiglismo decisionista" Esser osserva
che la casistica è data dal distacco frammentario di regolarità costanti che il caso consente di
conoscere; la legge è solo un documento il cui contenuto è conoscibile attraverso la casistica.
Vi è quindi una evoluzione parallela dei sistemi chiusi e dei sistemi aperti, verso il riconoscimento
del pluralismo delle fonti (cap. XIV).
5.7. – In questo processo che ruolo svolge la dottrina? Esser (nel cap. XV) precisa che anche la
dottrina esprime una forza legislativa: però essa non si esplica nella creazione diretta degli elementi
di un ordinamento, bensì si limita ad offrire al legislatore e al giudice gli elementi formativi di
norme, di principi, di concetti, di categorie e idee sistematiche e di metodo (c.d. leges artis):
funzione assolta sia nei sistemi continentali sia nei sistemi di common law. La dottrina costruisce
quel che la concezione tradizionale definisce il "substrato del diritto": ma sarebbe grave errore
ritenere che il substrato non sia, esso stesso, diritto. La dottrina non è solo un fattore di
realizzazione di principi e norme latenti: con le sue teorie, con i suoi concetti e con il suo metodo la
dottrina offre l’inquadramento delle idee e del modo di pensare nella pratica.
Inoltre, la dottrina crea il "sistema", con il coordinamento degli istituti e con i suoi concetti
dogmatici. Ma gli istituti e i concetti sono relativi, storicamente e geograficamente.
I principi del diritto non si possono codificare, né sono immutabili, né possono isolarsi in principi
supremi, né si possono sublimare. Si possono però individuare principi comuni ai diversi
ordinamenti (cap. XVI-XVII). Ne sono esempio i principi del diritto internazionale privato e i
principi applicati dalle corti arbitrali internazionali (e il tentativo di codificazione dei principi del
commercio internazionale compiuto l’Unidroit proprio nel 1994-1995 ne è piena prova).
Il diritto comparato serve perciò ad identificare principi comuni o universali, isolati secondo la loro
funzione (con i metodi della interpretazione teleologica). La comparazione registra le affinità: non è
necessario che si tratti di affinità di struttura, ma è necessario che si tratti di affinità di scopi, cioè di
affinità funzionali (cap. XVIII); anche le categorie concettuali possono essere diverse; ciò che rileva
è registrare, là dove sia possibile, concezioni identiche occultate dall’eterogeneità delle forme
mentali. Le concezioni giuridiche generali, in un diritto universale, sono prive di struttura positiva,
ma costituiscono l’essenza, la differenza essenziale, la comparabilità di istituti di diversa origine e
configurazione.
Questa continuità si registra soprattutto nei postulati etico-giuridici: la diffusione della teoria
dell’abuso del diritto, della mora accipiendi, della esigibilità del sacrificio ne sono espressione. Allo
stesso modo, il principio dell’affidamento, i limiti di ordine pubblico all’autonomia contrattuale,
l’attenuazione del rigore della certezza giuridica da parte della buona fede, indicano, nel campo
contrattuale, linee convergenti nei diversi sistemi. Non ci si deve quindi sorprendere del fatto che si
possa parlare di principi universali conosciuti dalle nazioni civili. Queste concezioni giuridiche
parallele, che evolvono nel tempo, sono le linee della costruzione dei diritti privati nazionali che
diventeranno, grazie al coordinamento delle giurisprudenze nazionali, e allo sviluppo di una
giurisprudenza fondata su leggi sovranazionali, il corpus di un diritto universale.
6. – 6.1. – I titoli come i nomi, sono premonitori: non solo creano aspettative nel lettore o
nell’ascoltatore, ma sono il frutto delle scelte dell’ordine del discorso. Ora, se si sceglie di
giustapporre il diritto alla letteratura, così facendo si lascia trasparire una concezione di fondo,
secondo la quale per l’appunto il diritto e letteratura sono due entità (nozioni, categorie) tra loro
distinguibili; questa distinzione è accolta acriticamente dai più, e sembra così appartenere al senso
comune. Ma alla contrapposizione si può pervenire quale risultato di un processo cognitivo e
valutativo; nel nostro caso invece, siamo ancora all’inizio del percorso, perché vogliamo porre
l’interrogativo se il diritto sia una forma o un tipo di letteratura, e quali effetti conseguano alla
interpretazione dei testi giuridici con i criteri propri della critica letteraria (100).
Questo aspetto della problematica enunciata dall’endiadi "diritto/letteratura", sul quale di recente si
è raccolta una imponente produzione nell’ambito della cultura giuridica statunitense (101) non è
nuovo per la dottrina italiana. In questo settore non si è verificato quel ritardo culturale che ha
contrassegnato un altro settore, in qualche modo interferente con questo, che si usa denominare
"analisi economica del diritto", o, più frequentemente, economic analysis of law. Pur avendo Pietro
Trimarchi rivestito un compito di pioniere nell’augurare l’indirizzo gius-economico nell’analisi del
diritto civile già all’inizio degli anni Sessanta, si è formato un vuoto di quasi tren’anni, e l’interesse
per l’indirizzo gius-economico si è rinverdito a seguito della discussione diffusasi negli Stati Uniti,
ad opera di Ronald Posner, e quindi oggi si tratta di un indirizzo per così dire importato da quella
esperienza.
Per contro, l’indirizzo ermeneutico, inaugurato in Italia nel secondo dopoguerra da Emilio Betti,
Gino Gorla, Rodolfo Sacco, e poi coltivato da Luigi Mengoni e, più di recente da Pietro Rescigno e
Natalino Irti, oltre che da filosofi come Giuseppe Zaccaria, non ha mai cessato di essere vitale,
anche se, per l’imperante indirizzo giuspositivista (inteso da noi nell’accezione più rigida, che
portava ad un arido formalismo), per più di un trentennio ha occupato una posizione del tutto
marginale nel panorama degli indirizzi interpretativi più accreditati.
Analogo destino ha segnato l’indirizzo gius-realista, inaugurato da Giovanni Tarello, Silvana
Castignone ed Enrico Pattaro.
Il versante ermeneutico, anche grazie al successo che questo indirizzo ha meritato presso le scuole
filosofiche, tra i seguaci di Heidegger, tra i "costruttori del pensiero debole", in particolare ad opera
di Gianni Vattimo e di Maurizio Ferraris, oggi si è rafforzato.
Negli ultimi anni si sono registrati i contributi di Emilio Betti, Hans-Georg Gadamer, Paul Ricoeur
e Ronald Dworkin, ponendosi a raffronto testi letterari, testi storici e testi giuridici (102). In questo
senso, ciò che accomuna testi aventi natura ed oggetto diverso, come un testo di fantasia (fiction),
un testo storico o un testo giuridico, è l’approccio ermeneutico, cioè la riappropriazione di ciò che è
estraneo al testo, in una lotta contro la distanza nello spazio e nel tempo. Ciò che si persegue è la
"riproduzione creativa della produzione originaria, tramite un’attualizzazione critica del senso entro
le condizioni poste da una situazione culturale nuova" (103). Così rappresentata, la problematica
inerisce alla scelta del metodo dell’analisi che non diverge da un testo ad un altro, in ragione dei
suoi contenuti e dei suoi scopi, anche se tra i testi giuridici si prestano più facilmente a questo tipo
di indagine non tanto le disposizioni, ma piuttosto le sentenze, quale precipitato di un procedimento
cognitivo, valutativo e dispositivo nell’ambito del quale occorre individuare i fatti, interpretarli e
qualificarli per assumere la decisione (104). Lo stile dei giuristi, l’impiego dei molteplici generi
letterali, la rappresentazione del diritto nell’immaginario collettivo, il ricorso ai simboli e ai riti
della giustizia sono stati oggetto di numerose analisi. Proprio le sentenze, per l’esercizio del
ragionamento giuridico, per l’uso del "precedente", per il tramonto del ruolo di nomofilachia
esercitato dalla Corte di Cassazione, hanno costituito il terreno di elezione delle analisi dei giuristi
positivi, civilisti e processualisti in primis. Francesco Galgano, e la redazione di questa rivista, ha
costruito proprio sul "dialogo con la giurisprudenza" un autentico programma di politica del diritto,
da un lato contribuendo a qualificare la giurisprudenza in termini di fonte, ancorché non primaria,
del diritto, dall’altro richiamando l’attenzione sulle aporie insite nel ragionamento dei giudici. Il
diritto giurisprudenziale è divenuto uno dei capisaldi dello studio del diritto positivo, e il metodo
casistico, inaugurato da Gino Gorla e proseguito da Mario Bessone e dalla sua scuola, è ormai uno
dei metodi didattici seguiti nell’insegnamento universitario.
Il dibattito su "diritto e", in particolare il dibattito su "diritto e letteratura" ha assunto anche una
intonazione ideologica, dal momento che l’esame del testo giuridico ha valenza normativa
effettuato alla stregua di un testo letterario appare a molti atto a svilire la sua natura sostanziale,
minarne il prestigio, tradirne il significato e, soprattutto, a legittimare l’arbitrio dell’interprete, che,
al contrario, dovrebbe prevenire l’incertezza del diritto (105).
Sempre la dottrina recente ha segnalato i risultati della discussione svoltasi negli Stati Uniti, anche
ad opera della reazione provocata dall’analisi economica del diritto applicata nelle sue forme più
estremiste.
L’interpretazione letteraria è stata oggetto, infatti, di tesi riduttive ad opera di Posner, riassumibili in
alcune proposizioni (assunte con toni quasi provocatori) che conviene tenere a mente per
comprendere anche le finalità dei cultori della concezione "letteraria" del diritto. Ribadendo le sue
opinioni nella seconda edizione del volume su Law and Literature, originariamente pubblicato nel
1988, e rivisto a dieci anni di distanza, Posner ha sostenuto che:
(i) i valori forti della letteratura possono essere d’ausilio per i giudici nel pensare in modo più
efficace e nel redigere in modo più accurato i loro scritti;
(ii) l’interpretazione giuridica e l’interpretazione letteraria non hanno nulla di utile in comune;
(iii) gli sforzi dei cultori dell’indirizzo riassunto nell’endiadi "law and literature" sembrano produrre
effetti incoerenti, ed essere destinati ad ottenere risultati modesti, quali un minimo, e circoscritto
comune denominatore tra la critica letteraria e la critica giuridica.
Gli indirizzi maturati nell’esperienza statunitense, a cui si possono coniugare quelli maturati
nell’esperienza italiana dimostrano – al contrario – che l’approccio letterario al diritto non solo è
scientificamente corretto ed affidabile, ma può produrre risultati cospicui.
6.2. – Per muovere dall’interrogativo di base occorre procedere ad alcune definizioni stipulative:
cosa si intende, o meglio, che cosa intende il parlante per "diritto" e per "letteratura"?
In sintesi, si può dire che l’espressione "diritto", in questo contesto, comprende sia la legge scritta,
sia la legge interpretata e applicata dai giudici, cioè la giurisprudenza, sia la legge come descritta e
interpretata dai giudici, cioè la dottrina. Già così descrivendolo, ci allontaniamo dalla concezione
kelseniana, e da quella – se possibile ancor più formalista – dei molti che ancora oggi configurano il
diritto come un rigido sistema di comandi. Noi siamo dalla parte del "diritto mite", secondo
l’accezione di Gustavo Zagrebelsky, o "flessibile", secondo l’accezione di Jean Carbonnier: un
diritto che si forma ed è imposto non solo dall’alto, ma con il concorso dei singoli, dell’autonomia
privata, delle prassi, e così via; un diritto quindi non solo costituito dalle fonti scritte, ma anche
dalle fonti "non scritte" (106).
I paradigmi della critica letteraria si possono applicare tendenzialmente solo al diritto scritto, mentre
quelli della critica teatrale si possono applicare al diritto come è celebrato nei tribunali, o ai riti della
giustizia, come ci ha illustrato Antoine Garapon (107). Ancor più facile è la loro applicazione agli
scritti dei giuristi di cui si osservano le capacità stilistiche; tra le analisi più famose si segnala quella
di Benjamin Cardozo. Nella letteratura sull’ermeneutica giuridica si considerano documenti
giuridici rilevanti ai fini interpretativi anche gli atti processuali, sia come categoria a sé, quale può
essere la confessione (108), sia i fascicoli inerenti a processi celebri, quale il processo alla Monaca
di Monza, a Galileo, ai neri dell’Amistad, il processo di Norimberga, e così via, che colpiscono
ancor oggi l’immaginario collettivo.
Il terreno dell’indagine sulle forme espressive dei giuristi allora si estende a comprendere non solo
le sentenze e gli atti processuali, ma anche gli scritti dei giuristi (accademici, giudici, avvocati) oltre
che i testi normativi, cioè le costituzioni, i codici, le leggi speciali, etc.
Con l’espressione "letteratura", in questo contesto, si vuol alludere sia alla fiction, sia all’epopea,
alla prosa, alla poesia, sia alle altre forme espressive che si riconducono alla narrazione; ad essa,
dunque, si possono ascrivere anche la letteratura economica, la letteratura sociologica, la letteratura
storica, la letteratura religiosa e così via (109). Non vi sono dubbi che anche i testi giuridici siano
testi letterari in senso ampio: la monografia, il saggio, il commento, la recensione, appartengono
alla letteratura giuridica; ma anche le sentenze sono prodotti letterari, il cui pregio segnala la
grandezza del loro estensore: si pensi alle sentenze di Benjamin Cardozo, a quelle di Lord Denning,
a quelle del buon giudice Magnaud; e pure i testi normativi possono essere apprezzati come testi
letterari, come accade per il Codice di Hammurabi, la legge delle XII Tavole, i Dieci
Comandamenti, le venerabili dichiarazioni dei diritti e le costituzioni francesi e statunitensi della
fine del Settecento, e così via.
Per circoscrivere i confini del discorso, occorre restringere le accezioni di letteratura e diritto: per
letteratura, dunque si intenderà d’ora in poi la semplice narrativa; per diritto si intenderà soprattutto
il testo normativo, e quando occorra, la sentenza. L’indagine si condurrà mediante raffronto di testi:
testi di fantasia (TF), testi religiosi o sacri (TS) e testi afferenti il diritto, cioè testi giuridici (TG).
L’essere la narrazione raccolta in un testo costituisce il minimo comun denominatore di questi
differenti oggetti. Anche un testo normativo implica una narrazione: spesso si apre con
l’enunciazione degli scopi perseguiti dal legislatore, contiene un "cuore" in cui si articolano le
disposizioni, e un "finale" in cui si fissano le regole di applicazione temporale e le regole transitorie.
Gli esempi che si possono addurre sono molteplici: si pensi alle disposizioni di apertura della
disciplina dell’aborto, con cui il legislatore italiano si preoccupa di precisare che le disposizioni
sono ispirate al principio della tutela della vita umana fin dal suo inizio e a favorire le nascite;
oppure alle disposizioni di apertura della disciplina delle banche di dati personali, in cui si richiama
il valore della dignità della persona e i principi volti a tutelare la riservatezza e l’identità personale
dell’individuo; oppure ancora alle direttive comunitarie, precedute da una teoria di "considerando"
in cui si esplicitano gli scopi dell’intervento della Comunità, e così via.
Ciò che vorremmo scoprire è in cosa differiscano questi oggetti (essendo essi trattati tutti come testi
narrativi, nell’accezione indicata) e a quali risultati si può approdare trattando un testo a contenuto
giuridico (qual è o) come se fosse un testo di letteratura.
Che cosa sia un testo è presto detto. Mutuando la definizione di Ricoeur, testo è ogni discorso
fissato dalla scrittura (110). Più complicato è descrivere le operazioni che si fanno sul testo:
spiegare, comprendere, applicare, etc. In ogni caso, il testo, di per sé, non dice nulla, in quanto
occorre collocarlo nel suo contesto, anche storico, e trattarlo in modo dialettico, con gli apporti del
lettore (111). Ancora più complicato è spiegare perché si scrive un testo: il letterato addurrà la forza
dell’ispirazione, il redattore o il traduttore del testo sacro addurrà la forza di uno spirito superiore, il
redattore del testo giuridico dovrebbe rispondere candidamente "per comandare" (112). Testo,
contesto, co-testo, interpretazione in ambito giuridico sono da tempo strumenti cognitivi di cui si
avvalgono anche i cultori del diritto positivo (113).
6.3. – L’individuazione dei caratteri distintivi dei testi è affidata all’arbitrio, alla fantasia e alla
competenza dell’interprete. Generi, stili, modelli e così via sono alcuni dei capisaldi di
catalogazione e distinzione dei testi. In ogni caso, i caratteri distintivi che subito vengono alla mente
riguardano aspetti assai diversi tra loro. Eccone qualcuno.
(i) L’individuazione del testo.
Il testo narrativo è ricostruito attraverso i manoscritti, le diverse edizioni, le lezioni esaminate e
proposte dai filologi, le revisioni dell’autore, la tradizione, le traduzioni, etc.; il testo di religione è
un testo sacro, e discende, oltre che dalla rivelazione (per i credenti) dalla formazione progressiva,
stratificata di parti, versi, libri etc.; il testo normativo, come potrebbe essere una costituzione o un
codice civile, nella sua originaria composizione è il testo come approvato dall’autorità che lo ha
emanato, ma anch’esso costituisce il risultato della stratificazione, della tradizione di testi anteriori,
della definizione di modelli: si pensi alla trasposizione delle regole del code civil dalle pagine di
Domat e Pothier, e alle successive versioni di quel "code impossibile", oppure alle diverse redazioni
del BGB, da quella più teorica coordinata da Windscheid a quella più pratica redatta dai funzionari
ministeriali.
Più oltre si dirà che ogni testo, a qualunque categoria esso appartenga, è di per sé muto, come ci ha
insegnato Rodolfo Sacco, e può vivere solo se interpretato. Esso dunque presuppone un lettore,
presuppone un lettore con un proprio universo concettuale, presuppone un prima (il processo che ha
portato alla redazione del testo) e un dopo (il processo che ha portato alle successive interpretazioni
del testo); presuppone inoltre un contesto storico, politico, economico, sociale; l’analisi strutturale
del code civil di Arnaud documenta in modo sorprendente come quel codice fosse originariamente
lo specchio della società dalla quale era stato creato e a governare la quale era destinato.
Una volta identificato, cioè fissato nel tempo, il testo può assumere caratteri di sacralità, anche se
non ha contenuto religioso: si pensi alla Divina Commedia, oppure al code civil, o al Bill of Rights
statunitense o alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’ONU, e così via. Fissato nel tempo, può
essere cambiato dal suo autore o da altri: il TF solo dal suo autore, il TS è immutabile, il TG solo da
un’autorità avente pari grado rispetto all’autorità che lo ha emanato. Anche il TG, come gli altri
testi, può divenire un feticcio (114), un mostro sacro, un monumento, o rappresentare la totalità
delle cose terrene ("voilà le firmement, tout le reste c’est procedure!").
(ii) La lingua.
Nel TF la lingua è creazione dell’autore: si pensi all’italiano di Manzoni, che diviene il modello
della lingua dell’Italia unita, oppure alla lingua inventata da Garcia Marquez in Cent’anni di
solitudine, per non parlare dell’influenza dell’Iliade e dell’Odissea per il greco antico, delle orazioni
di Cicerone per il latino, della Divina Commedia per la lingua volgare. Nel TS la lingua talvolta
diviene il nerbo della lingua volgare, come è accaduto per il tedesco della Bibbia luterana o per
l’inglese della versione autorizzata di Giacomo I, ma normalmente la lingua del testo sacro è una
lingua che presenta codici particolari (si pensi all’ebraico della Bibbia, al greco del Vangelo) ed in
ogni caso per i credenti è la creazione, il messaggio, la rivelazione della divinità. Nel TG la lingua è
scelta dall’autorità, che può utilizzare quella parlata dai sudditi, oppure la propria, se diversa (si
pensi alla lingua dell’esercito di occupazione) oppure altra lingua propria della cancelleria (si pensi
al francese usato in Inghilterra nel Medioevo). La lingua dei testi giuridici può anche essere
disciplinata per legge, come accade per quegli ordinamenti nei quali la presenza di minoranze
linguistiche impone il bi- o trilinguismo, o può essere bersaglio di istanze censorie o scioviniste,
come è accaduto in Italia in epoca fascista per la soppressione dei termini (oltre che dei cognomi e
dei nomi) stranieri, e di recente in Francia, ove si sono banditi persino dalle insegne dei negozi tutti
i termini non francesi.
(iii) Le parole.
Le parole usate dall’autore di un TF sono anch’esse scelte con fantasia, con competenza, con gusto
etc., nell’ambito di un vocabolario usuale oppure astruso (si pensi al vocabolario di Virginia Woolf,
così ricercato da risultare poco comprensibile ai lettori non anglofoni); le parole usate dal TS sono
per l’appunto sacrali (si pensi, per le preghiere, al Padre nostro), ma, come per il TF, esprimono la
mentalità dell’autore, e risentono dell’epoca e del luogo in cui sono create; allo stesso modo per il
TG. In questo però le parole hanno una loro accezione propria, che può coincidere o può divergere
dal senso comune, usuale, del linguaggio abituale.
(iv) I destinatari.
Il TF ha per destinatari l’intera umanità; il TS i credenti, ma mentre per la Bibbia ebraica i
destinatari sono solo coloro che sono nati ebrei, cioè il popolo eletto, per la Bibbia cristiana i
destinatari sono anche i non cristiani, in quanto la religione cristiana è volta al proselitismo; per il
Corano i destinatari sono quelli che Allah ha chiamato a sé, e quindi solo ad essi è riservato lo
studio del Libro; in ogni caso, sia TF sia TS sono destinati a rimanere per l’eternità; questi caratteri
di universalità, e di perennità, non sono presenti nel TG, in quanto il TG è destinato ai sudditi, ai
regnicoli, ai cittadini, e non sempre a tutti, ma ha confini territoriali ben definiti, anche se i modelli
giuridici circolano volentieri, ed ha confini temporali fatalmente limitati, anche se la vocazione
dell’autorità è per la perennità del testo (si pensi alla vita dei codici civili o delle costituzioni).
Nelle diverse epoche, e in diversi settori, i destinatari dei testi sono distinti per etnie, per caste, o per
sesso. Ad esempio, la Bibbia, secondo la Mekhilta e il Midrach, è destinata, per le teste di capitolo,
alle donne, e per il testo dettagliato agli uomini (115). I testi normativi sono destinati a tutti, ma non
sono creati da tutti (in Italia, fino al 1948 le donne non avevano diritto di voto e quindi non
potevano essere elette in parlamento) né interpretati da tutti (in Italia, fino al 1964, le donne non
potevano accedere alla magistratura).
Il ruolo marginale riservato alle donne nell’area dell’interpretazione religiosa e nell’area
dell’interpretazione giuridica si è a poco a poco rafforzato, spesso dando luogo a reazioni strane che
hanno portato alla inaugurazione di una teologia femminista, e a una interpretazione femminista del
diritto, bandiera dei c.d. radical lawyers.
(v) La intellegibilità.
Il TF può essere ermetico, ed è una scelta dell’autore rendere poco accessibile il suo messaggio;
anche il TS può essere ermetico: si pensi alla tradizione ebraica della kabbalà; sicché sia nel primo
sia nel secondo caso la sua interpretazione ha il significato di "disvelamento" (116). Spetta al
destinatario del messaggio saper risalire i diversi livelli di lettura e quindi di comprensione, via via
superando gli ostacoli che l’autore ha frapposto tra il testo e il lettore per riservare ai più capaci il
risultato di cogliere il messaggio più riposto; ma poiché non si saprà mai se si è arrivati alla fine
della scala, si può dubitare che vi sia sempre un livello in più al quale non si sa attingere; di qui la
necessità di studiare e meditare il testo, per poterne disvelare tutti i messaggi; talvolta, però,
l’oscurità è una forma di difesa dell’autore, perché l’autore non è libero di esprimersi apertamente e
vuol evitare ogni forma di persecuzione (117).
Anche il TG può offrire, anzi, molto spesso offre difficoltà interpretative, anche se non dovrebbe
essere così, in quanto la situazione in cui il destinatario si trova è qui ben diversa da quella in cui si
trova il lettore di un TF o di un TS: nel primo caso, il lettore poco attento o poco dotato non coglierà
il rigoglioso frutto estetico dell’autore; nel secondo caso, non coglierà il messaggio della divinità.
Nel caso del TG i destinatari hanno l’obbligo di conoscere il testo (ignoratia legis non exusat) per
poter uniformare il proprio comportamento ad esso e non incorrere in sanzioni per l’inosservanza;
ma per conoscere il testo debbono poterlo comprendere; di qui il problema dello stile di scrittura dei
testi, il problema del livello di cultura assunto a modello dal legislatore (i due punti di maggior
distanza sono dati dall’aristocratico BGB tedesco e dal popolare codice civile svizzero). Per il TG
però l’interpretazione è obbligatoria e vincolata. Obbligatoria, in quanto tutti sono tenuti ad
osservarlo, mentre il TF o il TS possono essere (e in larga parte sono) ignorati mentre il TG si
presume noto; vincolata, in quanto l’interprete – lo si dirà tra breve – non può "tradirne" il
significato.
(vi) Le tecniche espositive.
Ogni autore ha la sua cifra, con la quale rende riconoscibile il proprio testo; il TS, come il TF,
ricorrono a tutti i generi letterari; il TG presenta una uniformità che varia solo nelle epoche; il testo
di una legge del secolo scorso si riconosce dai termini impiegati, ma non è molto diverso nello stile
dal testo di una legge redatta oggi. Se il testo normativo si esprime attraverso comandi, la loro
formulazione è univoca; ma oggi il testo normativo si esprime anche mediante atti ostativi,
mediante preamboli, mediante definizioni e così via (118). Il problema dell’interprete, allora,
consiste – una volta isolato il testo giuridico – nello stabilire se la formula contenuta nel testo abbia
natura giuridica, se abbia vigore, se sia conforme ai principi costituzionali e comunitari, etc.
Come il testo di fantasia e il testo sacro anche il testo normativo ricorre alla finzione, alla metafora,
alla sineddoche e così via.
(vii) La costruzione del testo.
Il contenuto del TF è l’"intrigo" (119). Anche il TS ha alla sua base l’intrigo come dimostrano il
libro di Ester, il libro di Giuditta, il libro dei Re, etc. Nel TG l’intrigo può essere interno ed esterno;
interno, quando si deve sciogliere il nodo degli scopi perseguiti dal legislatore, e l’interprete si
sforza di riconoscere tali scopi nel testo da interpretare; esterno, perché l’intrigo si svolge prima
della redazione del testo, durante la redazione e dopo la redazione; prima, ad opera delle lobbies,
durante, ad opera dei parlamentari, e dopo ad opera dei giudici e degli interpreti laici.
I fatti oggetto del TF possono essere reali o immaginari; e così pure quelli del TS; quelli del TG
possono essere solo reali, ma l’immaginazione sta nella proiezione nel futuro di comportamenti
assunti dal destinatario. In ogni caso, essi sono oggetto di normazione e di interpretazione, secondo
regole che variano da epoca ad epoca e da ordinamento a ordinamento (120).
I valori stanno alla base del messaggio etico (ove esista) dell’autore del TF e così pure del TS; nel
TG i valori sono relativi, variano da epoca a epoca, da regione a regione (121); ma la relatività
connota anche il TF e il TS. In un’opera che ha contenuti giuridici e filosofici, ma ha anche notevoli
pregi letterari, Guido Calabresi ha illustrato e commentato gli ideali, le convinzioni, i modi di
pensare nel loro rapporto con il diritto, e ci ha insegnato che anche di questi fattori si intesse il testo
giuridico (122).
La prescrizione di comportamenti è estranea al TF, mentre è tipica del TS e del TG, e così pure la
sanzione.
6.4. – I criteri di interpretazione dei testi sono spesso identici o simili: l’interpretazione letterale,
storica, strutturale, ambientale, economica, politica, è propria di tutti i testi; ma anche quella
teleologica, tipica del TG, non è estranea né al TS (ove si disvelano le finalità dell’autore). Per i
testi di fantasia si distinguono il testo filologico e il contesto culturale, i criteri linguistici da quelli
stilistici, lo statuto semiologico e il contenuto psicologico, l’analisi letteraria da quella sociale,
l’afflato politico da quello realistico, e così via (123). Per i testi religiosi si distinguono i criteri
letterali, quelli simbolici, quelli storici, quelli antropologici, e così via (124), e si registra una
sostanziale uniformità di indirizzi sia in campo protestante e cattolico, sia in ambito ebraico. Per i
testi religiosi si distinguono i criteri di interpretazione propri dei testi normativi, criteri di
interpretazione per le sentenze, criteri di interpretazione per gli atti privati, ciascuno di essi essendo
riconducibile, per il civilian ad un altro testo normativo, per il common lawyer alla tradizione (125).
L’impressione che si riceve esaminando i manuali che si occupano di interpretazione dei testi è che
i criteri di interpretazione siano più liberi per i testi fantasia e via via si restringano quando si passa
ad esaminare i testi religiosi e i testi giuridici. Per i testi religiosi, tuttavia, da tempo oramai si sono
affermati indirizzi pluralistici di analisi, linguistici, semiotici, filologici, gnoseologici, che
considerano il testo come un’opera aperta (126). Questi indirizzi, trapiantati dalla critica letteraria a
quella del testo religioso, non solo sono consentiti dalle autorità, ma addirittura promossi; è
significativo il fatto che la Pontificia Commissione biblica elenchi, tra i metodi e gli approcci per
l’interpretazione della Bibbia, il metodo storico-critico, l’analisi retorica, l’analisi narrativa, l’analisi
semiotica, l’approccio sociologico, psicologico, antropologico, l’approccio liberazionista e quello
femminista, nonché quello fondamentalista.
Ma chi stabilisce i criteri di interpretazione?
Per il TF i critici letterari; per il TS o l’autorità religiosa che indica l’interpretazione ufficiale (si
pensi alle encicliche o ai documenti pontifici), o l’interprete riconosciuto dalla comunità come tale
(il rabbino) o ciascun credente (il cristiano protestante); per il TG vi sono o regole scritte in un testo
apposito, come accade per le disposizioni preliminari al codice civile italiano, o per la legge sulle
disposizioni generali tedesca, oppure regole emergenti dalla prassi giudiziaria e dalla tradizione,
come accade per il common law. Ma la comunità dei giuristi, costruendo un linguaggio ad hoc e
formule espressive, oltre che regole di ragionamento giuridico, si è appropriata di questo compito, e
lo tratta in termini monopolistici.
Per tutti i testi, siano essi di narrativa, di religione, di diritto, si istituisce il "circolo ermeneutico",
cioè il passaggio dal testo all’autore e dall’autore al lettore e così via. La precomprensione è propria
di ogni testo, e il metodo ermeneutico è sperimentato con successo per i testi narrativi, per i testi
sacri, per i testi giuridici.
Per il diritto, oltre ai criteri interpretativi presenti nelle leggi, dobbiamo tener conto dei criteri
interpretativi utilizzati consapevolmente o inconsapevolmente dall’interprete: la vicenda dei
principi generali del diritto, relegati sub specie di analogia iuris all’ultimo gradino della gerarchia
nel disposto dell’art. 12 preleggi hanno riguadagnato terreno, e si sono ormai collocati al primo
posto della scala gerarchica dei criteri, grazie all’opera della giurisprudenza e ad alcune correnti
della dottrina.
6.5. – Da quanto fin qui detto ci si avvede che non vi sono differenze determinanti tra un testo di
narrativa, di religione o di diritto. L’uno differisce dall’altro perché nell’immaginario collettivo
l’uno è classificato come testo di fantasia, l’altro come testo di religione, l’altro ancora come testo
giuridico. Spesso, questi testi sono per così dire intercambiabili: un testo sacro può divenire un testo
giuridico (si pensi al diritto divino che è una branca del diritto canonico, oppure alla rilevanza
giuridica della Bibbia nel diritto israeliano o nei diritti nazionali in cui rilevi lo status di ebreo, o del
Corano nel diritto dei Paesi islamici); un testo giuridico può presentare spiccati caratteri letterari
(per i testi normativi si pensi, alla chiarezza e all’eleganza del code civil, come riconosciuto da
Stendhal; per le sentenze, si pensi al colore delle decisioni inglesi o statunitensi, rispetto alla
piattezza delle decisioni italiane o alla corposità delle decisioni tedesche; per le opere accademiche,
si pensi all’Acient Law, di Maine, oppure al Common Law di Holmes, o alla Jurisprudence di
Austin); un testo sacro può presentare spiccati caratteri letterari (come il Cantico dei Cantici), un
testo letterario può acquisire rilevanza religiosa (si pensi al Profeta di Gibran, ai libri sullo Zen, e
almeno fino a qualche tempo fa, ai libri di Hesse).
Permangono tuttavia alcune differenze residuali:
(i) la strumentalità del testo, la sua vincolatività e la sua sindacabilità;
(ii) la correlazione tra testo e sanzione;
(iii) la libertà o la coattività che connota e gradua i processi formativi dei testi.
(i) Il TF non ha finalità specifiche, se non quella di trasmettere il messaggio dell’autore; per contro
il TS può avere finalità prescrittive; il TG (se normativo) ha solo finalità prescrittive, in quanto
l’autorità che lo emana vuol raggiungere un determinato risultato e per raggiungerlo impone ai
destinatari l’osservanza di determinati comportamenti; la sentenza ha un contenuto dispositivo; sia
il testo normativo sia la sentenza sono sindacabili; il primo, se sia in contrasto con la costituzione o
il diritto comunitario, la seconda se non si sono osservati i precetti stabiliti dalla legge. In ogni caso,
il testo normativo deve essere osservato, il dispositivo della sentenza deve essere ottemperato nella
"regola del caso".
(ii) Il TF non può essere violato, se non attraverso il plagio, la mutilizzazione, la riproduzione non
autorizzata, la lesione del diritto morale del suo autore; in questi casi saranno comminate sanzioni,
il cui risultato andrà a beneficio dell’autore. Per contro, la violazione del TS comporta sanzioni di
natura religiosa, e di natura anche giuridica se il TS è anche un TG, ma il risultato della sanzione
non porta vantaggi all’autore del testo. La violazione del TG comporta sanzioni di natura afflittiva o
di natura pecuniaria, ed anche qui il vantaggio derivante dalla sanzione non va a beneficio
dell’autore del testo, ma dell’aggregato sociale nell’ambito del quale il testo deve essere osservato,
oppure a vantaggio della parte la cui domanda è stata accolta in giudizio. Il rapporto tra autore e
testo è configurato in termini di proprietà (temporanea) per il TF, di paternità per il TS (la legge di
Dio o di Mosè o gli ammaestramenti di Gesù, o i detti del Profeta di Allah), di fonte per l’autorità
laica che ha elaborato e approvato il testo giuridico.
(iii) Vi è una progressione tra TF, TS e TG: dalla libertà alla costrizione, dall’ampiezza alla
finitezza, dalla causalità alla necessità, dalla futilità alla strumentalità.
Va da sé che i criteri con cui si analizza un testo normativo tengono conto dello scopo del testo, e
quindi sono calibrati proprio in questo senso funzionale: il lettore si deve porre nell’ottica dello
scopo perseguito dal testo, che ha una funzione specifica propria, certamente diversa dalla funzione
del testo di fantasia
6.6. – Ai due interrogativi di apertura si può dunque tentare di dare risposta: non si può
contrapporre il diritto alla letteratura, perché il diritto è letteratura; la separazione tra testi letterari e
testi giuridici è interna, non esterna, alla categoria dei testi, anche se il diritto, ovviamente, non è
solo interpretabile mediante criteri letterari.
I benefici derivanti dal considerare il diritto alla stregua della letteratura sono molteplici, sia dal
punto di vista metodologico, sia dal punto di vista ermeneutico, sia dal punto di vista politico. La
risposta a questi interrogativi, perciò, dà la cifra dell’interprete, è una cartina di tornasole che si può
usare per predire il risultato dell’interpretazione.
7. – "Interpretazione economica del diritto", "analisi economica del diritto", sono formule omologhe
per tradurre, nella lingua italiana, una espressione inglese da tempo invalsa nell’uso, anche corrente,
della nostra dottrina: economic analysis of law. Con tale espressione si allude non a qualsivoglia
indagine operata sul dato giuridico nella prospettiva delle scienze economiche, ma, propriamente, a
una nuova metodologia di studio dei fenomeni giuridici avviata intorno agli anni Sessanta, negli
Stati Uniti, e, quasi contemporaneamente, talvolta anche senza apparenti interferenze o influenze, in
altri Paesi.
L’espressione con la quale tuttavia si denomina la nuova prospettiva, nella traduzione italiana di
"economic analysis of law", appare assai generica e certo meno significativa della sua omologa
inglese. In prima battuta, lascia intendere soltanto come questo tipo di analisi sia orientata ed
indirizzata ad apprezzare gli aspetti economici del diritto. Ma una valutazione più consapevole pone
in luce numerosi e complessi problemi: già la traduzione di "law" con "diritto" non è del tutto
propria, dal momento che con questa espressione ci si vuol riferire (nell’accezione più generale) a
norme giuridiche, a decisioni giudiziali, ad atti e prassi dell’Amministrazione, alle stesse
consuetudini: insomma, a tutte le fonti giuridiche e agli atti che, avendo effetti giuridici,
costituiscono principio ordinante dei comportamenti del singolo, creano aspettative nella collettività
in ordine alla loro osservanza, consentono di operare previsioni (e quindi compiere operazioni
economiche) in considerazione della loro efficacia vincolante.
Ma il margine di equivoco che può racchiudersi in questa espressione non è ancor dato dal "diritto",
quanto piuttosto dalla sua prima parte, quella di "analisi economica", applicata al diritto. Con una
serie di approssimazioni successive se ne debbono allora precisare i confini semantici e individuare
i contenuti obiettivi. Essa può infatti voler dire che in questa prospettiva analitica si apprestano
strumenti economici per esaminare nel loro concreto operare gli strumenti giuridici nelle due fasi
fondamentali della loro vita: la fase della "creazione" e la fase della "effettività". In altri termini,
intento comune a chi si accinge ad esaminare economicamente il diritto è tanto quello di accertare la
rispondenza tra esigenze economiche e strumenti giuridici, tra operare del mercato libero e operare
del mercato regolato, quanto quello di accertare il costo degli strumenti giuridici, i loro effetti
indotti, l’alterazione che essi producono nella situazione di mercato, i caratteri che imprimono al
mercato stesso, i fattori complessi di cui si fanno tramite per poter determinare un particolare
"gioco" del mercato.
7.1. – La prima fase è quella della creazione degli strumenti giuridici. Gli storici del diritto, insieme
con i filosofi, hanno indagato le diverse anime del sistema giuridico, i fattori che spingono
collettività, rappresentanti, lo stesso demiurgo a dettare norme di comportamento: fattori politici,
religiosi, sociali, economici, e così via. L’aspetto economico è certamente uno dei fattori prevalenti.
L’introduzione di norme destinate a regolare il prezzo di determinate categorie di prodotti o di
servizi può rispondere a finalità fiscali (benzina) o sociali (pane, equo canone); può tutelare
categorie di interessi organizzati (salari); può tutelare interessi storicamente fondamentali
(indennizzo per gli espropri). Lo stesso strumento economico si fa tramite di quei fattori politici,
religiosi, sociali, che operano attraverso il diritto. Spesso, anzi, più che tramite ne è divenuto lo
schermo. Nelle fasi storiche, in cui lo spirito del capitalismo ha pervaso quasi completamente le
strutture dell’ordinamento giuridico, le finalità economiche "hanno dettato legge", in senso letterale.
Se si considera che ancora alla fine del secolo scorso e agli inizi di questo il rapporto di lavoro
subordinato era assoggettato alle leggi del mercato libero, che il contratto di lavoro era qualificato
come "locazione di opere", alla stessa stregua di qualsiasi altro contratto stipulato per effetto della
egual libertà negoziale delle parti, si può facilmente intendere come la legge (magari quella ferrea
dei salari) fosse codificata per obbedire a esigenze economiche espresse da un mercato
tendenzialmente libero, insofferente di controlli che avrebbero potuto ostacolare la nascita o il
rafforzamento della società industriale fondata sul capitale. Al riparo da una presupposta, quanto
falsa parità di potere contrattuale, le leggi dell’economia affidavano appunto all’operatore
economicamente più forte il compito di disciplinare il rapporto. Ne derivava "la possibilità, per il
più potente – in questo caso, normalmente, l’imprenditore – di fissare a suo arbitrio quelle
condizioni e di offrirle al lavoratore in cerca di lavoro perché questi le accettasse o le rifiutasse".
Altro esempio sintomatico è costituito da principi (in astratto neutri e distanti dalla dinamica del
mercato) che regolavano, e regolano tuttora, il diritto civile. Si pensi al principio "nessuna
responsabilità senza colpa" con il quale si imputavano al singolo obblighi di risarcimento dei soli
danni provocati con dolo o con colpa. La regola non voleva soltanto affermare il principio di libertà
di agire del singolo, costretto ad accollarsi obblighi e oneri solo nella misura in cui ciò
corrispondesse ad una sua libera scelta (atto di volontà, comportamento illecito), ma traducendosi
sul piano delle attività imprenditoriali in un incentivo alla produzione, ancorché rischiosa poneva al
riparo l’impresa da qualsiasi richiesta di risarcimento che non fosse cagionata da danni provocati
dolosamente o colposamente. L’impresa non rispondeva del rischio creato se non in minima parte;
non rispondeva, di solito, dei danni cagionati ai lavoratori per infortuni sul lavoro, dei danni
cagionati ai vicini, dei danni cagionati ai consumatori, dei danni cagionati all’ambiente (127).
E perfino ovvio sottolineare il rapporto tra diritto ed economia, e la dipendenza, se così si può dire,
del diritto dall’economia, nella fase della creazione del diritto. Da secoli i giuristi ne sono
consapevoli, anche se spesso, nell’assumere le loro decisioni, o nel raccomandare soluzioni a chi
quelle decisioni deve prendere, preferiscono dimenticarlo.
7.2. – Meno ovvia è, l’analisi dei rapporti tra economia e diritto nella seconda fase, quella che
esamina non tanto perché è nato uno strumento giuridico, ma come esso opera e quali effetti
produce: in altri termini, qual è il suo costo per la collettività, o, se si tratta di operazione singola,
per le parti interessate. Alcuni esempi. Con la 1. n. 10 del 1977 si è introdotta una riforma
fondamentale nel governo del territorio e nella disciplina delle attività edilizie. La riforma (almeno
nel suo intento originario) voleva sottrarre al proprietario la facoltà di edificare liberamente sulla
propria area, per attribuire il potere di concedere la edificabilità alla collettività, e riversare su chi ne
diventava poi assegnatario il costo sociale della urbanizzazione. In tal modo, si voleva contenere il
fenomeno della edificazione incontrollata, dell’abusivismo edilizio, dell’irrazionale distribuzione
delle zone edificate nell’area urbana. La legge si è discostata dalle direttive di mercato che
avrebbero invece presunto una libera contrattazione delle aree, una rapida circolazione dei beni,
l’assunzione di oneri da parte della collettività a garanzia dei poteri del privato (128). Come ha
funzionato la legge? quali costi ha indotto? quali distorsioni (se è lecito parlare di distorsioni, con
un termine negativamente connotato) ha comportato nel mercato delle aree fabbricabili, degli
alloggi, dell’edilizia?
Si considerino ancora due esempi. Parallelo al mercato dei suoli edificabili è il mercato delle
abitazioni. Un mercato da quasi un secolo controllato e regolato dal regime della proroga legale
delle locazioni data infatti dal 1915. Nel 1978 è entrata in vigore la legge che introduce una parziale
riforma del sistema, proponendo una durata minima del contratto di locazione, e un limite massimo
del canone da corrispondere al proprietario (129). Che costi (privati e) sociali ha avuto la legge?
Quali effetti ha provocato nel mercato? e quali altri effetti indotti? Ancora. È ormai diffuso in modo
irreversibile il fenomeno dell’inquinamento ambientale. Le risorse (idriche, termiche, e naturali in
genere) sono in via di graduale estinzione; l’attività imprenditoriale crea prodotti e servizi, ma
distrugge risorse, non solo quelle che sono necessarie al processo produttivo, ma anche quelle che
vi sono collegate. Nel 1976 si è introdotta una normativa che impone all’impresa di operare
controlli sugli scarichi industriali, al fine di prevenire nelle sue forme più gravi l’inquinamento delle
acque (130). Controllo degli scarichi significa riduzione degli scarichi, significa riduzione dei
composti chimici dannosi per l’ambiente, significa quindi modificazione del processo produttivo e
adozione di costosi sistemi di depurazione.
Che effetti ha causato il provvedimento? quale il suo impatto sui costi di produzione, quali i
benefici sociali?
Ma consideriamo ancora un esempio, tratto, in questo caso, non dalla legislazione speciale, ma dal
Codice civile. In una sua norma, il Codice dispone che "è nullo qualsiasi patto che esclude e limita
preventivamente la responsabilità per dolo o colpa grave" (art. 1229). Ne discende che in ogni altra
ipotesi in cui le parti concludano patti di esonero da responsabilità non derivante da dolo o colpa
grave, le pattuizioni così concluse sono valide. Nella contrattazione di massa, l’impresa si avvale in
ogni settore di moduli che contengono clausole di esonero (attualmente, senz’altro lecite) che
trasferiscono il rischio sul consumatore, sul distributore, sul dettagliante, e così via (è il cosiddetto
argomento economico che spesso si adduce ad ostacolo di qualsiasi riforma della disciplina delle
condizioni generali di contratto, e comunque di ogni limitazione alla libertà contrattuale delle parti
(131). Quali potrebbero essere gli effetti economici di una riforma della disciplina, così come è
prevista dalla direttiva comunitaria, tendente a impedire la inserzione di clausole di esonero da
responsabilità nei contratti con i consumatori?
A tutti questi interrogativi l’analisi economica del diritto dà (o dovrebbe dare) risposte precise,
operando un confronto tra la situazione concreta e quella in astratto determinabile con la correzione
del sistema, indagando il costo privato e il costo sociale di nuovi e vecchi strumenti giuridici.
Esemplificati alcuni settori in cui l’analisi economica viene applicata al diritto, adombrati i suoi
limiti, forse si è fatto un progresso nella decodificazione della formula, ma i suoi confini rimangono
ancora troppo ampi.
7.3. – Tentativi di applicare i principi della economia del benessere e del neomarginalismo agli
istituti giuridici si sono consumati in ogni esperienza, in tempi recenti; ma le "scuole", se così si può
dire, o i centri intorno ai quali si raccolgono gli studiosi più noti o dai quali si sono prospettate le
soluzioni più interessanti sono essenzialmente due, di ambiente nord-americano: il centro
dell’Università di Yale e il centro dell’Università di Chicago.
Esistono poi altri centri, a Berkeley, a Miami, ove si riprendono e si discutono le tesi qui elaborate;
e molti sono gli studi che i docenti della London School of Economics hanno preparato. I modelli
più radicali, i riferimenti più immediati, le pagine più lette e più commentate sono connessi tuttavia
con i primi due centri che si sono indicati.
Proprio a Chicago Ronald Coase ha scritto il saggio sui costi sociali che dà l’avvio al dibattito e
rende familiari anche ai giuristi i problemi collegati con le esternalità, con i costi transattivi, con le
decisioni alternative sulla allocazione delle risorse (132). È ancora da Chicago che proviene la
proposta interpretativa più radicale, intesa cioè nel senso di "estremista" nella applicazione dei
principi dell’economia del benessere al diritto, alle decisioni del legislatore o del giudice: la
proposta di Richard Posner, che vanta il merito di estendere il metodo interpretativo a tutti i settori
dell’ordinamento perseguendo un intento sistematico che invece difetta ad altri cultori (133).
Non è un caso che proprio a Chicago nasca l’analisi economica del diritto nella sua versione più
radicale: è la scuola economica di Chicago che vanta alcuni fra gli economisti contemporanei più
illustri, da Henry Simons a Coase, a Stigler, a Becher: è da questa scuola che trae origine una delle
pubblicazioni più prestigiose, il Journal of Law and Economics, fondato nel 1958, sede di
importanti studi di economia e di diritto, letto, forse più dagli economisti che dai giuristi. E a
Chicago che Richard Posner pubblica il suo manuale, Economic Analysis of Law, la cui prima
edizione risale al 1973, e da Chicago si diffonde il metodo tanto dibattuto, sullo studio del diritto
con gli strumenti offerti dalla scienza economica. Recensioni, commenti, antologie hanno via via
diffuso le tesi sostenute dalla scuola, conferendo allo stesso Posner una posizione di leadership che
molti gli contestano. È ancora da Chicago, ad opera di Posner, che si pubblica, dal 1972, una rivista
appositamente dedicata alla "analisi economica del diritto" (Journal of Legal Studies).
I capisaldi delle tesi di Coase, di Posner e degli altri esponenti della scuola costituiscono, in oggi,
forse l’aspetto più noto e criticato del nuovo metodo. Contrapposta, non solo per tesi e soluzioni
proposte, ma per gli stessi suoi fondamenti culturali, a questa ricerca di Chicago è la ricerca
condotta, quasi sempre personalmente, da Guido Calabresi, giurista ed economista di origine
italiana, docente alla Università di Yale. A Yale insegna anche Bruce Ackerman, altro acuto gius-
economista, studioso della proprietà (134).
Nel centro di Yale l’analisi economica è organizzata per settori del diritto: Guido Calabresi ha
scritto alcuni tra i saggi più acuti in materia di responsabilità civile (parte di essi è stata tradotta e
utilizzata per questa antologia). Studi non solo teorici, ma documentati nella prassi (135).
7.4. – Della scuola di Chicago, la ricerca di Richard Posner è quella che ha segnato, come si diceva,
il successo più clamoroso. Ed ha ottenuto, tuttavia, anche le critiche più serrate. Oltre che in alcuni
importanti saggi, le linee della ricerca sono espresse con chiarezza nel manuale, oggi alla sua terza
edizione; nel 1972 Posner aveva preparato anche un manuale per i docenti, autentica chiave di
lettura dei problemi dell’analisi economica del diritto. Nei capitoli introduttivi, Posner traccia
propositi e significato dell’analisi economica del diritto, per illustrare quella che con felice
espressione si è definita l’economia normativa, l’economia che "detta legge" al legislatore, al
giudice, all’interprete e ne controlla l’operato. I principi da cui muove la ricerca si possono
sintetizzare con parole dello stesso Posner. E indicano che in oggi l’economista non è più provvisto
di una scala di valori, ma l’economia, anzi che derivarla dalla politica, dalla morale, dal diritto, se
ne fa essa stessa portatrice. Fondamento di questa scala di valori, è l’efficienza economica , con
l’assunto che l’uomo "è razionale massimizzatore degli scopi della sua vita e delle sue
soddisfazioni". Suoi strumenti concettuali sono appunto la nozione di prezzo, di costo delle
opportunità, di gravitazione delle risorse verso il loro uso più vantaggioso. Efficienza significa
dunque nella ricerca di Posner "sfruttamento delle risorse economiche in modo che il valore, cioè la
soddisfazione umana commisurata alla volontà di pagare per prodotti o servizi, raggiunga il
massimo livello". E questione importante dell’analisi economica diventa allora "se e in quali
circostanze un mutamento involontario può esser considerato fattore di incremento dell’efficienza".
In una prospettiva economica, funzione fondamentale del diritto è dunque la modificazione degli
incentivi. "Questo significa, sostiene Posner, che il diritto non dà ordini impossibili, dal momento
che un ordine impossibile non altera affatto gli incentivi rivolti alla persona che deve eseguirlo".
In tal modo, l’ordinamento giuridico assume la funzione di strumentario di ordini "possibili", cioè
compatibili con le leggi dell’economia: il diritto ha una funzione di mimesi del mercato: non si
debbono dare (ed è qui che nasce l’economia normativa, ed è ancora qui che si scopre la scala di
valori che Ackerman imputa a Posner) norme in contrasto con il mercato, ma solo norme che ne
traducano in comportamento coatto le esigenze obiettive.
Poiché l’analisi di Posner abbraccia tutti i settori del diritto, appare impossibile, in queste pagine,
riassumere in modo compiuto le tesi, e i risultati. Per semplicità, si può fare riferimento ad un
settore specifico, che è quello più noto alla nostra letteratura e che, forse, meglio illustra il
significato delle sue tesi: la responsabilità civile. Il discorso deve quindi proseguire: lo si svolge a
proposito della responsabilità civile.
7.5. – Quasi nello stesso momento, intorno al 1960, nasce, in Italia, con gli studi di Pietro Trimarchi
(136), e in nord-America, con gli studi di Ronald Coase (137) e Guido Calabresi (138), la nuova
accezione di interpretazione economica. Di questi nuovi aspetti si offre, nella letteratura specifica
(139), ora una ampia documentazione, e non è necessario in questa sede illustrarne i contenuti. Se è
possibile operarne una summa, si può dire che gli intenti che muovono i giuristi, diversi per
formazione culturale e per posizioni ideologiche, sono orientati a ottenere una rispondenza tra la
situazione di mercato e il dettato legislativo , apportando al mercato, attraverso la riforma, o la
creazione, di norme giuridiche, quei correttivi che sono necessari per soddisfare esigenze sociali.
Ed è in questa prospettiva che l’espressione "analisi economica del diritto" trova, ora, una sua
connotazione precisa, e una accezione particolare. Si tratta della applicazione delle teorie della
economia del benessere al sistema del diritto nel suo complesso; sulla base della teoria della
efficienza si studiano i modi nei quali le norme giuridiche si devono modellare o interpretare, gli
effetti sul mercato, sulla razionale distribuzione delle risorse.
E i vecchi istituti, quali la responsabilità civile, la proprietà, il contratto, acquistano una nuova luce,
se così si può dire, ora dimostrandosi la razionalità economica dei principi della tradizione, ora
l’esigenza di apportarvi modifiche e correzioni (140).
"Diritto ed economia sono branche così diverse che i giuristi e gli economisti sono costretti a
ricambiare difficoltà nel comprendere gli approcci di ciascuno all’una o all’altra materia. Il
problema non consiste soltanto nel fatto che non abbiamo ancora approfondito le rispettive
discipline; il fatto è che fin dal principio si impostano i problemi in modi assai diversi e in vista di
scopi differenti (...). Nel prendere le (sue) decisioni, il giurista deve tener conto di molte
considerazioni, e in particolare deve applicare i modelli etici e di giustizia e valutare gli obblighi
reciproci disciplinati dalla legge. L’economista non ha nulla a che fare con il prendere decisioni
(...). Suo dovere è quello di descrivere come opera il mondo, e, possibilmente, di descriverlo con
tale maestria e con tale approfondimento da poter desumere in qualche modo come il mondo
opererebbe se le condizioni mutassero in un certo grado (...). L’economia non è fornita di una scala
di valori. Così l’economista deve fermarsi al punto in cui può prevedere, con deboli o forti
argomentazioni, quali conseguenze potranno derivare dall’adozione di misure o politiche
alternative. Il politico, il moralista, il giornalista o il giurista sono forniti della necessaria scala di
valori, così che essi possono prendere o raccomandare una decisione" (141). Questa,
nell’intendimento di Dorfman, certamente da condividere, dovrebbe essere la premessa (e non certo
la conclusione) di un discorso sull’analisi economica del diritto ancora da fondare (142).
8. – 8.1. – Molte opere di diritto comparato sono introdotte da pagine in cui gli studiosi avvertono
l’esigenza di giustificare la loro ricerca e il loro metodo, illustrando gli scopi, per l’appunto, di
questa branca di diritto (143): discutono se il diritto comparato sia soltanto un metodo, ovvero una
scienza in sé, e discutono i risultati a cui tale metodo o scienza vogliono pervenire. Vi sono Autori
che, correttamente, contestano questa posizione; in apertura alla monografia intitolata "Introduzione
al diritto comparato" (144) che costituisce al tempo stesso l’introduzione al suo Trattato di diritto
comparato, Rodolfo Sacco ha modo di osservare che il problema degli scopi delle scienze è un falso
problema (145). D’altra parte, è sufficiente aprire un manuale qualsiasi di diritto privato, di diritto
commerciale, di diritto amministrativo, di diritto penale, per trovarvi pagine che riguardano la
ripartizione della materia, la denominazione e i contenuti dalla materia, ma non, certamente, pagine
che giustifichino l’esistenza e lo studio di quella materia. E tuttavia, gli studiosi del diritto
comparato avvertono questa necessità. Credo che le ragioni siano molteplici, ma tra le tante, si può
pensare, da un lato, al fatto che nell’opinione comune al diritto comparato, inteso come metodo,
come scienza, come materia di insegnamento, si assegna un’origine recente, e, dall’altro, al fatto
che nei piani degli studi fino a qualche anno fa gli si era riservata una posizione di "complemento":
trattamento deteriore, oggi, fortunatamente abbandonato (146). Sì che si avvertiva da molti
l’esigenza di illustrarne i meriti, e quindi anche l’eccellenza dei risultati (147).
Anche se si condivide l’opinione di Rodolfo Sacco, meditare e rimeditare le ragioni della
comparazione non è inutile: serve a confermare o a smentire assunti, opinioni, convinzioni, quindi a
far critica e autocritica.
Quando si parla di "ragioni" della comparazione si debbono considerare però due diversi ordini di
problemi, afferenti alle diverse accezioni del termine "ragione": (i) le ragioni intese come le finalità
della comparazione; (ii) le ragioni intese come le cause della comparazione. Ovviamente, tra le due
categorie vi possono essere interferenze, intersezioni, sovrapposizioni; tuttavia una delle singolarità
dei metodi del diritto comparato e della scienza del diritto comparato sta proprio in ciò: che il loro
studio e la loro applicazione, anziché essere oggetto di elezione (anche arbitraria) da parte dei
giuristi, come avviene per molte altre branche del diritto, è talvolta un atto necessitato.
Ma andiamo con ordine.
8.2. – Secondo Arthur von Mehren (148) la comparazione: si deve effettuare (i) non solo sui testi
(di legge, di sentenze, di saggi dottrinali) ma considerando il diritto così come praticato (law in
action); (ii) rispettando i metodi e le mentalità diversi del civilian e del common lawyer, e
ricordando che il civilian si è formato nella secolare esegesi del Corpus iuris, a cominciare dalle
lezioni tenute da Irnerio a Bologna nel 1095 e il common lawyer è di formazione più tardiva e non
romanistica; (iii) tenendo conto del fatto che regole, princìpi, teorie sono da apprezzare in modo
realistico e che (iv) le regole sono incise dai fenomeni politici, economici e sociali. Quanto al
proposito, egli segnala l’utilità dell’esame di concetti, astrazioni. Soluzioni elaborati in altri
ordinamenti per risolvere questioni domestiche; la possibilità, nel raffronto e nella contrapposizione
degli ordinamenti, di conoscere meglio "la foresta del proprio sistema giuridico"; la possibilità di
scoprire la forza o la debolezza di una soluzione; l’opportunità di sbrigliare la fantasia data dallo
studio di altri sistemi; la potenzialità riformatrice che scaturisce dagli ordinamenti stranieri.
L’esempio adotto riguarda la formazione del contratto; mentre negli ordinamenti di derivazione
francese vige il principio della "battaglia delle forme" (ogni divergenza tra offerta e accettazione
esclude la formazione dell’accordo), nell’ordinamento statunitense e in quello tedesco si privilegia
la coincidenza di alcuni elementi e quindi il vincolo delle parti, dovendosi ricorrere alle norme per
definire i punti che sono rimasti inevasi se le parti avevano orientamenti diversi.
Queste considerazioni si possono integrare con quelle di Basil Markesinis, che si è dedicato alla
comparazione dei modelli di decisione inglesi e tedeschi (149). La tendenza a non considerare la
giurisprudenza straniera è del tutto ingiustificata, a suo dire, perché falsa e impoverisce i risultati
della comparazione: molti casi in materia di privacy, di trapianti di organi, di fatti illeciti sono stati
risolti dalle Corti di diversi paesi e quindi conoscere in anteprima quelle soluzioni può portare
argomenti di riflessione, se non di soluzione, agli avvocati e ai giudici di un altro paese. La
comparazione può portare invece a risultati inutili, può essere foriera di incomprensioni e di
interpretazioni fuorvianti se si trascurano lo studio della giurisprudenza, gli usi del foro e il quadro
complessivo del sistema giuridico (150). Ecco qualche esempio. La giurisprudenza francese ha
capovolto il principio di relatività del contratto; la giurisprudenza tedesca ha attenuato la
responsabilità per inadempimento; si è assistito nei paesi di common law alla costituzionalizzazione
del diritto privato; il contrasto nella giurisprudenza inglese concernente la responsabilità
dell’amministrazione locale per omesso controllo di un edificio igienicamente difforme dalle
prescrizioni regolamentari si sarebbe potuto appianare considerando l’orientamento negativo della
giurisprudenza tedesca in materia. In altri termini, il diritto comparato "non è una lista di
somiglianze e differenze" né "può affermarsi attraverso generalizzazioni" (151); "il diritto
comparato serve a superare i dogmi e a ridurre le assurdità che spesso si annidano negli
ordinamenti". Questa posizione è condivisa da altri illustri studiosi: ad es., dal canadese L.
Baudouin (152).
Comparare significa perciò individuare gli stili, cioè i caratteri formanti di un ordinamento (153).
Nel loro accurato manuale (154) K. Zweigert e H. Kötz distinguono l’essenza, le funzioni e gli
scopi del diritto comparato. Questa branca al tempo stesso indica un settore di indagine e un
metodo: è un processo intellettuale, in altri termini, che opera seguendo la tecnica della
comparazione. Le sue finalità cambiano con le fasi storiche, dal momento che in periodi di
cosmopolitismo e di aneliti solidaristici si affida al diritto comparato il compito di superare le
barriere nazionali; si propone così di avvicinare i paesi semplificando e unificando i loro sistemi
giuridici; realizzare il progresso del diritto seguendo l’evoluzione dei rapporti sociali in un piano
planetario; promuovere gli scambi commerciali superando le differenziazioni dei modelli normativi;
agevolare la circolazione di merci e servizi e la realizzazione di affari; individuare valori e princìpi
comuni sui quali costruire una uniformità di normazione.
Dal punto di vista della ricerca scientifica, il diritto comparato consente un avvicinamento delle
diverse prospettive, la relativizzazione della dogmatica, l’abbandono dell’unità e centralità di ogni
singolo sistema giuridico.
Con la macrocomparazione si osservano le affinità e le divergenze di sistemi, la loro struttura
costituzionale, l’organizzazione della giustizia, la tutela degli interessi; con la microcomparazione si
osserva il funzionamento dei singoli istituti.
Le funzioni odierne sono quindi molteplici; la conoscenza del diritto comparato: (i) è un serbatoio
di soluzioni; (ii) è il veicolo di materiali per i legislatori; (iii) è strumento di interpretazione; (iv) è
strumento di educazione giuridica; (v) è strumento di unificazione giuridica.
Quanto al metodo, Zweigert e Kötz ritengono che si possa comparare solo ciò che adempie alla
medesima funzione: il principio metodologico basilare è la funzionalità; i confini dell’indagine sono
vastissimi, assumendosi quale fonte del diritto "tutto ciò che organizza e coordina la vita giuridica
del sistema considerato". Questo lavoro deve essere fatto senza falsi preconcetti. Ad esempio, si
ritiene che il diritto continentale sia dedito ad astrazioni e il common law invece l’espressione di un
empirismo minuto. Ciò può essere vero per qualche fattispecie: tanto per esemplificare, la soluzione
dei problemi creati dalla partecipazione di un minore al traffico giuridico, è data, nei sistemi
giuridici continentali, dallo strumento della rappresentanza legale; in common law è il giudice che
per ogni singola questione assegna al minore un rappresentante. Ma non è vero per altre fattispecie;
ad es., per l’istituto del trust, in cui la dissociazione tra titolo del diritto di proprietà e
amministrazione del patrimonio è frutto di una acutissima intuizione del common law oggi in fase
di trapianto negli ordinamenti continentali (155).
Secondo Sacco, infine, occorre muovere da alcuni punti fermi: tutti i sistemi sono comparabili
perché la "comparazione non ha paura della differenza" (156); la comparazione non deve andare
solo alla ricerca dei dati comuni (common core); né deve dare rilievo soltanto al diritto statuale; la
comparazione non deve cadere nella trappola della traduzione letterale; né nella trappola della
considerazione dei soli termini formali, avulsi dal contesto socio-politico; né nella trappola della
sovrapposizione dei concetti peculiari ad un sistema ai termini e ai concetti del sistema più familiari
a chi fa la comparazione.
Nella voce "Comparazione" del Digesto IV (157), A. Gambaro, P.G. Monateri e R. Sacco
prospettano le finalità della comparazione, intesa come metodo e come scienza giuridica, sotto
forma di cinque tesi, di cui danno ampia ed esaustiva dimostrazione. Innanzitutto, precisano gli
AA., (i) compito della comparazione giuridica è l’acquisizione di una migliore conoscenza del
diritto; (ii) la comparazione, poi, considera gli avvenimenti del passato come fatti reali, e quindi ha
lo stesso criterio di validazione delle scienze storiche; (iii) la comparazione non è né scambio
culturale né esposizione parallela di soluzioni esplicitate nelle diverse aree, ma consiste nella
misurazione delle differenze tra i diversi sistemi (ciò non significa, ovviamente che l’esposizione di
un diritto straniero non sia atto di comparazione, dal momento che già l’introduzione terminologica,
concettuale, sistematica di segni linguistici e di formule coniate in un sistema e trasposte in un altro
codice linguistico e semantico è atto di comparazione); (iv) il risultato della comparazione consiste
anche nella verifica dell’esistenza e dello svolgimento di regole operazionali, che possono divergere
dalla descrizione dottrinale di un settore o dell’intero sistema; (v) la conoscenza di un sistema non è
monopolio dei giuristi che operano nell’ambito di quel sistema (158).
Da questo punto di vista, a conferma ulteriore di questa tesi, è sufficiente menzionare tre opere
rilevanti: scritta la prima da un civilian, ma riguardante il common law (159), la seconda scritta da
un common lawyer inglese, ma riguardante gli ordinamenti continentali (160), la terza da un
common lawyer statunitense (161). Più di recente, Basil Markesinis ha documentato l’utilità della
comparazione per comprendere meglio il proprio ordinamento (162).
La comparazione dei modelli di organizzazione e amministrazione della giustizia è strumento di
integrazione: la monumentale ricerca di Mauro Cappelletti (163) ci ha insegnato anche questo.
Uno dei risultati della comparazione degli ordinamenti è il loro ravvicinamento, e quindi il
ravvicinamento dei popoli; la scoperta di radici comuni, di trapianti e di acquisizioni di modelli non
può che giovare alla fondazione di una civiltà comune (164).
Da questo punto è stata determinante l’opera di uno dei più grandi maestri del diritto comparato,
Gino Gorla (165).
8.3. – Perché i giuristi si occupano di comparazione? Ecco, vi sono cause che non coincidono con le
finalità sopra indicate; vi sono cause che dipendono dai fatti politici, etnografici, economici, ecc.
che spingono, sollecitano, obbligano i giuristi a fare comparazione. Qualche esempio emblematico
può giovare.
(i) Invasioni, unificazioni, rivoluzioni
Poiché il diritto civile tende a svolgersi con continuità, piuttosto che con brusche cesure, le opere di
Domat e Pothier continuano ad essere studiate e utilizzate in Francia anche dopo la caduta
dell’Ancien Régime; molte regole sono approvate riprendendo alla lettera passi di questi Autori; per
contro, il diritto costituzionale registra brusche modifiche; ma anche qui l’esperienza pregressa non
è ignorata: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e le prime costituzioni francesi sono
modellate sulla Dichiarazione d’indipendenza e sulla Costituzione degli Stati Uniti; l’apparato
giuridico della Rivoluzione francese, motivata da ragioni ben diverse da quelle che ispirarono la
rivoluzione nord-americana, trova legami e assonanze con regole scritte in una lingua diversa, per
scopi diversi, in un ambiente diverso.
Con la conquista napoleonica di alcune regioni italiane, e la proclamazione del Regno d’Italia
(1805), si estende alle regioni conquistate il code civil; in esse si applica il testo tradotto in italiano;
nelle scuole, all’Università, diviene obbligatorio non solo conoscere il nuovo codice ma effettuarne
la comparazione con il diritto romano. Ne è documento prezioso il commento predisposto da O.
Taglioni in osservanza del decreto 15 novembre 1808 che prescrive l’insegnamento del codice con
il confronto con il diritto romano (166).
L’attribuzione al Regno di Sardegna del territorio appartenente alla dissolta Repubblica di Genova,
decisa al Congresso di Vienna del 1815, non comporta l’immediata estensione anche a questa
regione del sistema giuridico sardo-piemontese; il monarca preferisce mantenere in vigore
l’ordinamento napoleonico (cioè il code civil tradotto in italiano) fintanto che non sia approntato un
nuovo codice unificato; si tratterà del codice civile albertino, del 1837. La comparazione è
d’obbligo, dovendo i giuristi assistere all’interno del medesimo Stato sudditi che osservano leggi
diverse.
Anche qui non si deve indulgere a frettolose, quanto incaute, semplificazioni. La reazione
all’invasore non comporta, automaticamente, una reazione alle innovazioni e ai valori di cui questi
si fa interprete e veicolo. Il Code Napoleon continua ad essere modello di codificazione negli Stati
italiani anche dopo la caduta dell’Imperatore. E la cultura francese continua a dominare in Italia
quasi alla fine dell’Ottocento. Tra gli innumerevoli esempi si consideri quello più elementare: l’uso
dei manuali destinati ai giuristi in formazione. Tra gli altri, riscuote grande successo il Manuale
degli studenti di diritto e dei giovani avvocati di A.M.J.J. Dupin, docente all’Università di Parigi; il
manuale è tradotto in italiano da N. Vinacci a cura di N. Comerci, ed è pubblicato a Napoli dallo
Stabilimento dell’Ateneo nel 1831. Il piano dell’opera riflette lo stile della formazione universitaria
dell’epoca insieme con l’immagine che allora si aveva del giurista, inteso come avvocato: i singoli
capitoli si riferiscono infatti a diverse partizioni quali la retorica, la storia del diritto (romano), la
sistematica, la discussione dei principi generali, le tecniche redazionali e l’uso delle decisioni
(arresti).
(ii) Coesistenza, nella medesima area geografica, di Stati diversi e quindi di ordinamenti diversi
I due esempi emblematici sono la Germania, prima dell’unificazione del 1870, e l’Italia della prima
metà dell’Ottocento.
È ammirevole per attualità di vedute la prefazione predisposta dall’editore al volume che reca la
Collezione completa dei moderni codici civili degli Stati d’Italia secondo l’ordine cronologico della
loro pubblicazione (Torino, 1845, per i tipi della Libreria della Minerva subalpina, Stamperia eredi
Botta). Quindi si raccolgono, giustapponendoli, con i provvedimenti che li promulgano, i codici
civili dei diversi Stati preunitari, da quello del cessato Regno d’Italia al codice austriaco vigente nel
Regno Lombardo-Veneto, al codice del Regno delle due Sicilie, al codice per gli Stati di Parma,
Piacenza e Guastalla, al codice per gli stati di terraferma del Re di Sardegna, alle leggi civili l’Isola
di Sardegna, al codice estense, alle leggi dello Stato Pontificio, alle leggi del Granducato di
Toscana, alle leggi civili del Ducato di Lucca, e finanche al codice civile della Repubblica e
Cantone del Ticino. L’editore avverte che la raccolta serve a far conoscere agli abitanti di ciascuna
provincia italiana la disciplina civile vigente e ai giureconsulti e magistrati offre il mezzo di
estendere i loro studi; la finalità non è solo pratica, non consiste solo nell’agevolare gli scambi tra le
persone, i traffici e i commerci, ma è anche scientifica: "lo studio comparativo delle diverse
legislazioni che reggono le nazioni incivilite è per consenso universale uno de’ più efficaci sussidi a
scoprirne le ragioni filosofiche e civili che si scorgono sicuramente nella difficile arte
dall’applicazione". In più, la comparazione non è vista solo come tecnica di raffronto di formule
giuridiche, ma anche come modo per comprendere gli ordinamenti costituiti per "indole di abitanti,
per condizioni economiche, civili e politiche, per costumi, per credenze e per civiltà".
Ma ammirevoli sono anche le opere, umili e pazienti, di professori e di avvocati che espongono il
diritto patrio con riferimenti al diritto romano e al diritto vigente negli Stati vicini: ne sono
luminoso esempio gli Elementi delle leggi civili romane dell’abate Dall’Olio (167), il Corso di
diritto commerciale del prof. Marré, docente dell’Università di Genova, le Lezioni di diritto civile
novissimo dell’avv. Giordano (168).
(iii) Coesistenza nell’ambito del medesimo Stato di ordinamenti giuridici diversi
Storicamente, si pensi agli Stati del Re di Sardegna, ove, fino all’unificazione del codice albertino
del 1837, vigevano in Piemonte le leggi civili confermate da Carlo Felice, in Liguria il code civil di
importazione napoleonica, in Sardegna leggi speciali. Ed oggi si pensi al Canada, ove accanto al
common law inglese vige, per la provincia del Québec, un diritto di matrice francese, ed è stato
introdotto un codice civile del Québec bilingue (inglese e francese), in cui, oltre alla terminologia,
che pone di per sé problemi di comparazione, vi sono istituti tratti dall’una e dall’altra esperienza.
Vi sono poi ragioni di carattere scientifico, che tuttavia dipendono anche da motivazioni di carattere
politico: basti pensare a quel fenomeno imponente e stupefacente della recezione del diritto romano
nella Germania del Seicento e del Settecento (169) al trapianto del common law in Sudafrica (170)
e in Israele (171), al cosmopolitismo diffusosi nel primo dopoguerra, di cui è esempio la
progettazione di un codice italo-francese delle obbligazioni (ora ristampato).
Si pensi alla traduzione delle opere giuridiche francesi e tedesche effettuata in Italia per tutto
l’Ottocento e il primo trentennio di questo secolo, con frequenti riferimenti alla legislazione italiana
vigente, al diritto romano, ai codici preunitari.
E si pensi ancora alla circolazione dei modelli giuridici, che porta a rendere sistematica la
costruzione giuridica (172) o a colmare grandi lacune di un ordinamento: in Italia, il settore della
tutela del consumatore, prima ancora del recepimento delle direttive comunitarie, è stato costruito
dalla dottrina tenendo conto delle esperienze più progredite, inglese, francese e tedesca (173).
Infine, la comparazione è il terreno quotidiano nella edificazione del diritto comunitario e nella
realizzazione di progetti di unificazione di settori del diritto, quali la vendita internazionale di merci
(174), il diritto dei contratti commerciali internazionali (175) e il diritto contrattuale europeo (176).
Il cammino verso l’unificazione del diritto, o di settori del diritto, è lungo e accidentato. Accanto
alle molte assonanze e simiglianze si contano le divergenze e le contrapposizioni: esse si possono
cogliere con tutta evidenza là dove sono riprodotte visivamente, come nell’Atlante di diritto privato
comparato predisposto da F. Galgano con l’assistenza di F. Ferrari (177).
8.4. – La comparazione dei sistemi giuridici non è terreno di caccia riservato ai comparatisti o, in
senso lato, ai giuristi. Essa è impiegata dagli storici puri come dagli storici del diritto (178). Il
confronto tra "sistemi" caratterizza quindi la produzione scientifica degli economisti come Roger
Bowles e Pierluigi Chiassoni (179) e dei filosofi, tra i quali occorre ricordare Roscoe Pound (180).
Alla comparazione ricorrono inoltre teorici generali e i metodologi e tra questi in particolare Hans-
Martin Pawlowski (181).
L’approccio viene infine condiviso da importanti antropologi – si pensi ad es. all’opera di Norbert
Rouland (182) – e soprattutto dai sociologi come il grande Max Weber (183) e Jean Carbonnier
(184).
8.5. – Il criterio più semplice – ma più inaffidabile – per distinguere e raggruppare gli ordinamenti è
il formale, che poggia sulle fonti del diritto: è il criterio largamente seguito da H.G. Gutteridge
(185) e, sostanzialmente, da Mario Losano (186) e da Max Rheinstein (187).
Molti comparatisti sogliono illustrare similitudini e diversità degli ordinamenti giuridici ripartendoli
per raggruppamenti e "famiglie"; i criteri di classificazione variano da autore ad autore. Si tratta di
un approccio consolidato, ma oggi si discute se tale procedimento sia adeguato o se, oltre a finalità
didascaliche, esso possa costituire una linea obbligata di esposizione dei sistemi, e se possa portare
a qualche acquisizione dal punto di vista scientifico; si mette in discussione finanche l’attendibilità
stessa della classificazione.
René David, il massimo dei comparatisti francesi (188), usa la categoria concettuale delle
"famiglie". Egli muove dall’assunto della molteplicità degli ordinamenti giuridici; ogni
ordinamento giuridico è un fenomeno complesso, che non si esaurisce in un aggregato di regole, ma
costituisce di fatto un "sistema": utilizza un certo vocabolario, che corrisponde a determinati
concetti; raggruppa le regole in certe categorie; implica l’uso di certe tecniche per formulare regole
e di certi metodi per interpretarle; è legato ad una determinata concezione dell’ordine sociale, che
determina il modo di applicazione e la funzione stessa del diritto (189). Alla differenza delle regole
secondo David si contrappone un limitato numero di tipi di interpretazione, di ragionamento, di
tecniche. Queste costanti costituiscono i caratteri delle famiglie di sistemi, al pari di quelle che i
naturalisti hanno inventato per classificare le credenze dei popoli o i linguisti per classificare
animali, vegetali, minerali, gli studiosi delle religioni per classificare le credenze dei popoli o i
linguisti per classificare le lingue. Egli propone di seguire, per i sistemi giuridici, non solo criteri
formali, quali le fonti o la struttura concettuale, ma anche la tradizione, le ideologie, la filosofia
sottostante ai sistemi. Di qui la distinzione fondamentale tra i sistemi della famiglia romano-
germanica, la famiglia del common law, la famiglia socialista, la famiglia a base religiosa (diritto
musulmano, diritto indù, diritto ebraico), la famiglia dei sistemi dell’estremo Oriente e dei sistemi
africani. Le linee-guida della sua illustrazione sono dunque: (i) la formazione storica del sistema,
(ii) la struttura del diritto, (iii) le fonti del diritto (190).
Tito Ravà (191) non usa la categoria delle famiglie, ma si affida soprattutto alla formazione storica
e culturale degli ordinamenti: di qui la prima grande partizione tra formazioni giuridiche
extraeuropee e formazioni giuridiche europee, per quanto riguarda la storia e la collocazione
geografica. Ma i caratteri distintivi sono anche altri: in primis, la laicità o la confessionabilità degli
ordinamenti. Da questo punto di vista, si segnalano gli ordinamenti europei per essere laici e
autosufficienti, a differenza degli ordinamenti musulmani e induisti, a formazione finalistica e
asseritamente di origine rivelata. Degli ordinamenti europei si segnala in particolare quello francese,
a base codificata, quello inglese, contrassegnato dalla formazione eminentemente giurisprudenziale
e fondato sulla vincolatività del precedente, e quello tedesco, a base teorico-dogmatica.
I giuristi operanti nei paesi socialisti (oggi ex-socialisti) hanno preferito un diverso tipo di
classificazione. Gyula Eörsi (192) e Viktor Knapp (193), insistono soprattutto sulle origini
ideologiche e sugli scopi del diritto quali caratteri portanti della sua formazione e quindi della
classificazione dei sistemi. Eörsi si preoccupa di distinguere i sistemi sulla base dei rapporti di
produzione esistenti nei singoli paesi, della proprietà dei mezzi di produzione e della distribuzione
dei beni all’interno di una società; di qui la distinzione tra "tipo capitalista" e del "tipo socialista".
Knapp contesta l’omogeneità degli ordinamenti appartenenti alle famiglie romano-germaniche e di
common law proposta da David, e preferisce operare attraverso la distinzione delle concezioni del
diritto, da cui derivano le differenze tra ordinamenti (di qui la distinzione tra ordinamenti borghesi e
ordinamenti socialisti.).
In ogni caso, anche questi giuristi si preoccupano di verificare la possibilità di una "convergenza"
dei diversi sistemi (194).
Konrad Zweigert e Heinz Kötz (195) si muovono dal campionario delle classificazioni, tenendo in
conto soprattutto la suddivisione proposta da Arminjon, Nolde, Wolff (196): una proposta che
rifiuta criteri esterni di classificazione, preferendo piuttosto considerare i caratteri interni ai singoli
ordinamenti. A questo riguardo, Zweigert e Kötz osservano che due sono i fattori da considerare per
identificare e classificare gli ordinamenti giuridici contemporanei: (i) il settore prevalente o
esclusivo di comparazione; la gran parte dei comparatisti, infatti, elegge a campo di indagine il
diritto privato; ma le analogie e le differenze dei sistemi, da questo punto di vista, possono anche
non corrispondere e quelle esistenti e rilevabili da un altro punto di vista, o in un altro laboratorio,
quale è dato, ad es., dal diritto costituzionale; nella teoria dei sistemi giuridici vale dunque il
principio della "relatività delle materie"; (ii) il periodo storico, la legislazione positiva o altri
avvenimenti; in altri termini, occorre aggiungere il principio della "relatività temporale" (197).
Ma questi criteri non sono sufficienti e non sempre soddisfacenti. Di qui la proposta di indagare
sullo stile degli ordinamenti, e seguire questo come criterio per la loro classificazione. Lo stile è
composto dai seguenti fattori: (i) l’origine storica e l’evoluzione di un ordinamento giuridico; (ii) il
predominante e caratteristico modo di pensare dei giuristi; (iii) gli istituti giuridici particolarmente
caratterizzanti; (iv) le fonti del diritto e la loro interpretazione; (v) i fattori ideologici. Pertanto, i
sistemi sono classificati secondo un ordine più ampio di quelli fin qui esaminati: il sistema
romanistico, il sistema germanico, il sistema scandinavo, il sistema di common law, il sistema
socialista, il sistema dell’estremo Oriente, il sistema islamico, il sistema induista.
Finalmente Rodolfo Sacco (198) si chiede quali siano i criteri tassonomici utilizzati dai giuristi e
quali siano le regole non verbalizzate. In altri termini, non ci si può attestare soltanto sul diritto
scritto, né riprendere pedissequamente le classificazioni tradizionalmente accettate. Non è solo
l’analisi formale, ma anche quella (antidogmatica) realistica che deve assistere il giurista nella
identificazione e nella classificazione dei sistemi. Di qui la distinzione tra sistemi a potere diffuso,
sistemi a potere centralizzato, sistemi con o senza legislatore, sistemi con o senza giuristi.
Da questo breve excursus si evince che la distinzione degli ordinamenti in famiglie, in indirizzi, in
aggregazioni più o meno ampie è una convenzione. Come tutte le convenzioni soffre al tempo
stesso di genericità e di finzione: tutti gli Autori fin qui citati ne sono consapevoli, e concludono per
una classificazione che non indulga ad apriorismi e che si esaurisca in un intento meramente
didascalico. Si deve considerare che le regole giurisprudenziali possono alterare profondamente il
significato che un testo può avere; basti considerare le differenze riscontrabili nel diritto
contrattuale tra l’esperienza francese e quella belga, che pure erano partite nel medesimo testo del
code civil; la circolazione dei modelli non riguarda infatti solo i testi normativi, ma anche i modelli
giurisprudenziali: Basil Markesinis lo ha ampiamente dimostrato (199), sottolineando che
muovendo da testi o da regole differenti, quali quelle operanti in Gran Bretagna e in Germania,
molti casi sono stati risolti in modo identico. Si deve ancora considerare che gli indirizzi culturali,
anche se spesso dominanti sono molteplici, e spesso trasversali, sicché esperienze tra loro
apparentemente distanti si rivelano per contro assai vicine e viceversa; gli apparentamenti, dunque,
sacrificano orientamenti, stili, contraddizioni, tendenze minoritarie. Massimo Severo Giannini ha
avuto buon gioco nel sostenere che "né i giuristi né i giurisperiti di una delle "famiglie" giuridiche,
né quelli di uno dei c.d. "sistemi" formano entità unitarie, per formazione mentale, aderenza a teorie
o ad ideologie, appartenenza a tendenze" (200).
È dunque per questa elementare ragione che in queste pagine non si insisterà più di tanto sulla
distinzione in famiglie.
8.6. – Nel loro accurato manuale (201) Zweigert e Kötz distinguono l’essenza, le funzioni e gli
scopi del diritto comparato. Questa branca al tempo stesso indica un settore di indagine e un
metodo: è un processo intellettuale, in altri termini, che opera seguendo la tecnica della
comparazione. Le sue finalità cambiano con le fasi storiche, dal momento che in periodi di
cosmopolitismo e di aneliti solidaristici si affida al diritto comparato il compito di superare le
barriere nazionali; si propone così di avvicinare i paesi semplificando e unificando i loro sistemi
giuridici; realizzare il progresso del diritto seguendo l’evoluzione dei rapporti sociali in un piano
planetario; promuovere gli scambi commerciali superando le differenziazioni dei modelli normativi;
agevolare la circolazione di merci e servizi e la realizzazione di affari; individuare valori e principi
comuni sui quali costruire una uniformità di normazione.
Dal punto di vista della ricerca scientifica, il diritto comparato consente un avvicinamento delle
diverse prospettive, la relativizzazione della dogmatica, l’abbandono della unità e centralità di ogni
singolo sistema giuridico.
Con la macrocomparazione si osservano le affinità e le divergenze di sistemi, la loro struttura
costituzionale, l’organizzazione della giustizia, la tutela degli interessi; con la microcomparazione si
osserva il funzionamento dei singoli istituti.
Le funzioni odierne sono quindi molteplici; la conoscenza del diritto comparato: (i) è un serbatoio
di soluzioni; (ii) è il veicolo di materiali per i legislatori; (iii) è strumento di interpretazione; (iv) è
strumento di educazione giuridica; (v) è strumento di unificazione giuridica.
Quanto al metodo, Zweigert e Kötz ritengono che si possa comparare solo ciò che adempie alla
medesima funzione: il principio metodologico basilare è la funzionalità; i confini dell’indagine sono
vastissimi, assumendosi quale fonte del diritto "tutto ciò che organizza o coordina la vita giuridica
del sistema considerato" (p. 39). Questo lavoro deve essere fatto senza falsi preconcetti. Ad
esempio, si ritiene che il diritto continentale sia dedito ad astrazioni e il common law invece
l’espressione di un empirismo minuto. Ciò può esser vero per qualche fattispecie: tanto per
esemplificare la soluzione dei problemi creati dalla partecipazione di un minore al traffico giuridico,
è data, nei sistemi giuridici continentali, dallo strumento della rappresentanza legale; in common
law è il giudice che per ogni singola questione assegna al minore un rappresentante. Ma non è vero
per altre fattispecie; ad es. per l’istituto del trust, in cui la dissociazione tra titolo del diritto di
proprietà e amministrazione del patrimonio è frutto di una acutissima intuizione del common law
oggi in fase di trapianto negli ordinamenti continentali.
Il diritto comparato può dunque essere utile anche nell’esercizio della professione forense (ed oggi
vieppiù con la realizzazione del mercato unico europeo). Per meglio difendere gli interessi del
cliente, al fine di modificare l’orientamento della giurisprudenza domestica che dovesse esser
contraria alle sue pretese, l’avvocato può ricorrere al diritto comparato non per inseguire la
soluzione più razionale ma semplicemente per individuare la soluzione più utile al suo cliente, e gli
è pertanto d’ausilio conoscere le soluzioni offerte da altri ordinamenti e prospettarle al giudice
perché‚ le imiti o le tenga in conto.
La medesima ricerca è effettuata da ciascun contraente quando si deve scegliere la legge regolatrice
del contratto o il giudice competente.
Il giudice che, avvalendosi degli atti di difesa degli avvocati, tiene conto delle soluzioni offerte dal
diritto comparato, può essere indotto: a cambiare la giurisprudenza domestica (ricerca del modello
migliore); ad affidarsi alle soluzioni straniere perché‚ non sa come risolvere il caso (ricerca di una
qualsiasi soluzione); ovvero a corroborare con riferimenti giurisprudenziali stranieri la propria
decisione di cui intravede la debolezza (ricerca di sostegno).
Di qui l’invito di molti comparatisti ad approfondire le tecniche della comparazione, cioè il discorso
sul metodo.
Secondo Sacco, infine, occorre muovere da alcuni punti fermi: tutti i sistemi sono comparabili
perché‚ "la comparazione non ha paura delle differenze" (202); la comparazione non deve andare
solo alla ricerca dei dati comuni (common core); né, deve dare rilievo soltanto al diritto statuale; la
comparazione non deve cadere nella trappola della traduzione letterale; né‚ nella trappola della
considerazione dei soli termini formali, avulsi dal contesto socio-politico; né‚ nella trappola della
sovrapposizione dei concetti peculiari ad un sistema ai termini e ai concetti del sistema più familiari
a chi fa la comparazione.
Le diverse "famiglie" in cui si raggruppano i sistemi giuridici presentano origini ed evoluzione
simile. I diversi istituti si possono anche rappresentare, graficamente, nella loro diffusione per aree
geografiche (203).
8.7. – Nella ricerca della convergenza degli ordinamenti un ruolo fondamentale è assolto dai
principi generali del diritto: dalle regole e dai valori che costituiscono il fondamento degli
ordinamenti e che registrano singolari coincidenze, a qualunque famiglia gli ordinamenti possano
essere ascritti. Quando si fa riferimento alla libertà economica e alla libertà contrattuale, alla
sanzione per l’atto illecito, alla tutela dei diritti fondamentali della persona, alla tutela della
proprietà, alla certezza dei rapporti giuridici; oppure si richiamano i broccardi – o adagi – della
tradizione romana (nihil in aliud transferre potest, nemo loclupletari potest aliena iactura, ecc.) ci si
avvede che si parla una koinè, una lingua comune, percepita e utilizzata, in ogni esperienza
occidentale. L’identificazione dei principi e la loro armonizzazione divengono il passaggio
obbligato delle armonizzazioni degli ordinamenti giuridici (204). Ciò in quanto questi ultimi sono
permeabili (205).
8.8. – Con la istituzione delle Comunità europee – ora Unione Europea – si è dato impulso notevole
agli studi di diritto comparato, e si è rafforzata l’utilità della comparazione. Ciò sotto due profili
essenziali: (i) la creazione del diritto comunitario come diritto comune ai Paesi membri; (ii) la
circolazione dei modelli giuridici dei singoli Paesi membri all’interno dell’Unione e la formulazione
delle scelte normative comunitarie sulla scorta dei modelli dei singoli Paesi. Si tratta di un
fenomeno oggi all’attenzione dei giuristi europei, e in particolare dei cultori del diritto comparato.
Ma ormai ogni giurista – per essere europeo – deve formarsi una cultura comparatistica (206).
A questo scopo sono da segnalare tre nuove riviste: Contratto e Impresa/Europa, F. Galgano e M.
Bin, quindi la European Private Law, a cura di E. Hondius e G. Howells e la Zeitschrif für
Europäïsches Privatrecht, curata da J. Basedow, U. Blaurock, A. Flessner, R. Schulz e R.
Zimmermann.
Tra le diverse ricerche delle radici comuni, oltre allo studio di Maurizio Lupoi, sopra cit. si
segnalano i recenti lavori di H. P. Mansel e R.Knutel (207).
In questo processo di avvicinamento val la pena di enfatizzare le affinità e attenuare le
contrapposizioni. A questo riguardo, è significativo lo sforzo compiuto da Basil Markesinis,
dell’Università di Oxford, per studiare le modalità della "convergenza" dei diversi sistemi verso
nuclei uniformi (208). La contrapposizione tra civil law e common law, tra "famiglia" romano-
germanica e ordinamenti fondati sul precedente, tra mentalità del civilian e mentalità del common
lawyer è uno dei capi-saldi della comparazione, e a molti appare ancora oggi un solco incolmabile
nel percorso verso l’unificazione del diritto. Ma fino a quando il sistema inglese, prototipo di
modello alternativo e capostipite degli ordinamenti di common law, manterrà i caratteri di
"alterità"? La convivenza nell’ambito delle compagnie comunitaria, ha inciso sulle differenze? In
che forme e modi avviene la circolazione di valori e ideali, tecniche e metodi, soluzioni e questioni
tra il diritto insulare e il diritto continentale?
A queste domande gli AA. di "The Gradual Convergence" danno risposte meditate e corroborate da
ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza. Basil Markesinins, uno dei maestri del diritto
comparato, assai noto in Italia per i saggi e le opere di maggiori dimensioni, già nella prefazione
precisa l’importante risultato dell’opera: "tra i diversi sistemi si sta concretando una graduale
convergenza". Anziché ragionare in termini di grandi sistemi, di giustapposizioni tanto ovvie
quanto semplificanti, egli ha raccolto sulla base dei materiali inerenti a seminari organizzati dal
Centre for Commercial Law Studies, diretto da Roy Goode e Ross Cranston, una serie di saggi che
riguardano tematiche variegate incidenti su alcuni gangli nevralgici dell’evoluzione dei diversi
sistemi.
Essi riguardano, via via, le differenze tra la procedura penale francese e quella inglese (209), la
disciplina del contratto a favore di terzo in Germania e in Inghilterra (210), l’influenza delle
convenzioni internazionali sul diritto interno (211), il rapporto tra l’Unione Europea e la
convenzione europea sui diritti umani (212), l’evolvere del diritto ambientale (213), il diritto
scozzese (214).
Il raffronto è interessante innanzitutto dal punto di vista metodologico. In altri termini, si muove,
certamente, dal presupposto che ogni sistema costituisca un modello in sé, ma si considera anche
che all’interno delle c.d. famiglie vi sono differenze intrinseche, e per certi aspetti similitudini con il
common law da rintracciarsi ordinamento per ordinamento. Ancora. La presentazione della
situazione dei singoli ordinamenti relativamente all’area trattata è fatta a più voci: anche qui non si
tratta di assemblare monadi ma di verificare come il linguaggio, i concetti, le soluzioni di un
ordinamento siano avvertiti negli altri, assunti a comparazione. Non solo si registra, per l’appunto,
una graduale convergenza, ma si documenta come la conoscenza degli altri ordinamenti sia
profittevole per ogni giurista: il civilian può imparare dal common lawyer, e viceversa.
Il filo conduttore e l’impostazione metodologica sono l’impronta che Markesinis ha impresso
all’opera. Gli scopi che ne hanno animato l’iniziativa editoriale sono esposti con acume nel suo
saggio introduttivo (215). In particolare, Markesinis sottolinea come il diritto comparato non possa
più considerarsi una branca del diritto riservata agli specialisti, un gruppo eletto che però tende ad
essere in sé conchiuso (216), ma costituisca il terreno di lavoro di ogni giurista. Ma proprio questa
estensione dell’interesse e dell’impegno di giuristi che provengono da altri settori della cultura
giuridica richiede in una revisione dei luoghi topici che hanno alimentato i comparatisti. Di qui la
lezione metodologica che, con garbo, intelligenza e cultura, ci offre Markesinis in apertura del
volume. Un compito difficile, perché oggi non si dànno più le ragioni estrinseche che avevano
creato le premesse per i fasti della comparazione prima e dopo l’ultima guerra, prima fra tutte
l’emigrazione dei giuristi tedeschi in Inghilterra e negli Stati Uniti (da Rabel a Rheistein, da Kessler
a Ehrenzweig a Kahn-Freund).
Vi sono però fattori che soccorrono in questa impresa.
La comparazione dei modelli di decisione è divenuta più agevole: sia perché il metodo casistico si è
diffuso anche in continente, sia perché il ruolo della giurisprudenza, nell’interpretazione,
adattamento o creazione del diritto si è fatto assai più rilevato anche in continente (Rodolfo Sacco
ne parlerebbe in termini di "formante giurisprudenziale"). Da questo punto di vista, lo studio dei
caratteri originari del common law sono stati d’aiuto per il giurista continentale. Ma anche lo studio
del diritto di origine legislativa straniero è stato – e può essere ancora – d’aiuto per il giurista
inglese, che dovrebbe superare la tentazione di una redazione minuziosa e dispersiva, per
apprendere l’arte della formulazione dei principi generali. Si tratta delle questioni trattate
magistralmente dal manuale di Zweigert e Kötz, in termine di "stili" degli ordinamenti, e che qui
sono riflesse nelle pagine di Lorenz, Lord Goff e altri.
Si può anche ricorrere a qualche espediente per avvicinare mentalità e per ottenere buoni risultati:
ad es., esporre il diritto mediante casi, anziché mediante teorie.
Ma si deve anche avere il coraggio di dissolvere i miti: uno di questi – osserva Markesinis – è il
mito che riguarda le tecniche interpretative delle leggi (statutes) in common law. Inizialmente, è
vero, prevaleva l’interpretazione letterale, mentre quella teleologica apparteneva al bagaglio tecnico
dei civilians; ma oggi non è più così, come dimostra l’interpretazione del diritto comunitario e dei
provvedimenti a carattere sociale, come la disciplina dei contratti dei consumatori.
Soprattutto lo studio comparativo dei casi ha dato eccellenti risultati, essendo sempre più inclini le
corti inglesi a seguire anche le soluzioni straniere (e il volume sulla responsabilità civile sopra cit.
ne è persuasiva prova).
Markesinis finisce così per sostenere che stiamo assistendo ad una sorta di europeizzazione del
common law inglese, specie ad opera della giurisprudenza della Corte di giustizia di Lussemburgo.
Ecco perché i diversi tipi di sistemi stanno convergendo verso una meta comune: (i) perché vi si
registrano problemi simili (ad es., in materia di diritto contrattuale il problema della impossibilità
sopravvenuta, della presupposizione e della frustration); (ii) perché si stanno attenuando i vincoli
familiari, religiosi, autoritari, che si oppongono alla convergenza; (iii) perché si sta diffondendo e
rafforzando la consapevolezza delle proprie pretese, con l’incremento della litigiosità e con
l’estendersi delle tecniche di soluzione stragiudiziale.
8.9. – La comparazione può svolgere un ruolo determinante per segnalare tecniche e pratiche
esperite nei diversi sistemi per tutelare i diritti della persona. Se il diritto è fatto per l’uomo e non
l’uomo per il diritto, è necessario accertare quali siano i diritti fondamentali riconosciuti e tutelati
nei diversi ordinamenti, quali siano gli orientamenti giurisprudenziali in atto, quali siano le lacune e
così via. È questo un tema affascinante e al tempo stesso preoccupante, specie in quei casi in cui si
registrano ancora atti discriminatori, incomprensioni o peggio violazioni palesi dei diritti della
persona anche negli ordinamenti considerati "civili" (217). È una linea che procede con fasi alterne,
con progressi e regressi, già a partire dal secolo scorso: ne sono esempi luminosi l’opera di Terenzio
Mamiani (218) e l’opera del Mayer (219). Essi trovano eco nell’opera monumentale di Koschaker
(220).
8.10. – Una ragione pratica ci ha assistito nell’allestimento delle dispense: la predominanza, un
tempo di natura culturale, oggi di natura anche politica ed economica, del modello francese, tedesco
e inglese in ambito europeo e soprattutto in ambito comunitario. Di qui l’attenzione privilegiata a
questi ordinamenti. L’assenza di riferimenti ai sistemi socialisti è dovuta a ragioni diverse: dopo la
caduta del muro di Berlino, e la sostanziale sparizione dell’ordinamento giuridico della Germania
orientale (DDR), e dopo la caduta dei regimi socialisti, nei paesi dell’Europa orientale i giuristi
stanno attendendo, anche con l’aiuto dei colleghi occidentali, alla edificazione di nuovi
ordinamenti; i lavori sono in corso e la loro ultimazione appare complessa e distante nel tempo; per
l’omissione di riferimenti ai paesi afro-asiatici soccorre una ragione ben più sostanziale (certo non
commendevole), quella della ignoranza delle lingue extraeuropee da parte di ciascuno di noi;
sarebbe stato improprio affidarsi alle descrizioni esistenti in lingua italiana, o in altra lingua
comprensibile, perché si sarebbe offerto un lavoro di seconda mano, mediato attraverso lo schema
di materiali non sostituibili alle fonti dirette. Quanto poi alla scelta dei temi, già è difficile rinvenire
manuali che ambiscano a descrivere comparativamente tutti gli istituti di tutti gli ordinamenti
considerati; si è fatta una scelta dovuta a ragioni di congenialità, sia a ragioni di ampiezza del
lavoro.
Mi preme però richiamare l’attenzione dei lettori su un aspetto che mi pare, oggi, assai
preoccupante: mentre il diritto straniero è studiato in Italia con tanta attenzione, tanta perizia e tanta
dedizione dai Colleghi che si occupano professionalmente del diritto comparato, non accade lo
stesso fenomeno all’estero per quanto riguarda il diritto italiano. Salvi gli ambienti dei giuristi
spagnoli, portoghesi, latino-americani, nelle altre culture il diritto italiano è pressoché ignorato. Il
che fa meditare, non solo per il depauperamento della nostra cultura, ma anche per le conseguenze
che questo fatto può avere per la circolazione dei modelli giuridici negli ambienti, come quello
comunitario, ove ai modelli giuridici sono collegate decisioni, distribuzione delle risorse,
attribuzioni di funzioni e così via.
Alla comparazione si può allora assegnare un ulteriore compito, rispetto a quelli fino ad ora
illustrati e discussi: contribuire al superamento dei nazionalismi. Si tratta di una proposta affatto
risalente (221).
8.11. – Tra gli argomenti dibattuti al convegno organizzato da Luigi Moccia a Macerata (27-28
aprile 1995) sulla formazione del diritto europeo e sulla formazione del giurista europeo, è emersa
una questione di fondo: come funzionano i processi di armonizzazione e di unificazione o di
progressiva uniformità dei diversi orientamenti dei Paesi membri che si stanno attuando nell’ambito
della Unione Europea e la circolazione dei modelli (legislativi, giurisprudenziali, prassi, schemi
dottrinali), nell’ambito dei paesi membri e in ambito comunitario? Come funzionano dal punto di
vista del giurista italiano, e cioè del giurista che ha un bagaglio concettuale, culturale,
terminologico, sistematico, di tipo sincretico, perché derivato dalla cultura francese, tedesca e
autoctona? Danno luogo ad una sorta di osmosi nel senso che i diversi sistemi giuridici che
compongono questo complesso e articolato mondo comunitario si traducono in influssi reciproci,
oppure lo scambio è ineguale? Ebbene all’apparenza lo scambio sembra funzionare tendenzialmente
più "in entrata" che "in uscita": le importazioni superano le esportazioni.
Anziché pensare ad una sorta di diritto comune europeo in cui il giurista italiano, i modelli italiani,
le idee e i concetti italiani hanno una qualche presenza e un qualche influsso sulle altre esperienze e
sul diritto comunitario in particolare, mi sembra di registrare una sorta di occlusione, di
impenetrabilità degli altri ordinamenti e del diritto comune europeo al diritto italiano. Se questa
premessa è verificata, e quindi affidabile, ci si deve chiedere quali siano gli ostacoli che incidono su
questo processo (non di reciproca ma) di unilaterale influenza.
Alcuni ostacoli sono facili da individuare. Ad es., (i) il fattore linguistico: la nostra lingua è ignota
ai più, salvo felici eccezioni; (ii) il fattore dell’apparato concettuale, che tendenzialmente è più
simile ai Paesi e quindi agli ordinamenti della famiglia romano-francese-germanica piuttosto che a
quello dei sistemi common law; (iii) anche il fattore economico ha il suo peso; (iv) all’influsso dei
modelli economici forti diventando essi stessi modelli forti.
Se guardiamo all’influsso che altri modelli, attraverso la formazione del diritto comunitario,
possano aver esercitato sul nostro, dobbiamo registrare fatti straordinari; per es.: (i) lo
sconvolgimento della gerarchia delle fonti normative, con riguardo alla applicazione diretta delle
norme previste dai regolamenti, oppure con riguardo al processo di adattamento che avviene
mediante l’applicazione diretta delle direttive ancorché in un senso verticale e non ancora in un
senso orizzontale, o ancora con riguardo alla disciplina del recepimento; (ii) le innovazioni dovute
all’ingresso nella nostra cultura giuridica e quindi anche nelle nostre regole interne di modelli,
terminologie, istituti a noi poco familiari.
Faccio solo un esempio. L’uso dell’espressione "ragionevole", che non troviamo in alcuna delle
disposizioni di codice o di legge speciale a poco a poco sta penetrando nella nostra terminologia
anche nel nostro apparato normativo (222).
Questo per quanto riguarda le fonti. Ma si considerino ancora i principi generali, che possono
ricavarsi sia dai valori comuni sia dalla interpretazione dottrinale e giurisprudenziale del diritto
comunitario, e che influiscono anche sul nostro diritto interno: oltre alla tutela del consumatore, si
pensi alla modificabilità del contratto, al jus poenitendi, ecc.
Vi sono poi problemi attualmente irrisolti di grande rilevanza per l’ordinamento italiano: la
distinzione delle situazioni giuridiche soggettive comprende oltre ai diritti soggettivi, potestativi,
alle potestà, anche gli interessi legittimi e gli interessi diffusi. Mentre per gli interessi diffusi vi è un
favor (perché concerne i consumatori e l’ambiente), fuori d’Italia è difficile trovare un ordinamento
nel quale gli interessi legittimi abbiano una qualche rilevanza o abbiano una loro configurazione
autonoma rispetto ad altre situazioni giuridiche soggettive.
Accentua questo influsso che proviene dall’esterno una dottrina articolata, curiosa, estesa, che si
dedica a traduzioni di monografie e di saggi, ad organizzazioni di convegni, seminari e tavole
rotonde in cui il giurista italiano si dimostra, molto più di altri colleghi europei, consapevole
dell’importanza del diritto comunitario, della necessità di conoscere i modelli stranieri, sia in sé e
per sé, sia in prospettiva di comparazione.
Che cosa troviamo "in uscita"? Purtroppo troviamo molto poco: abbiamo l’ostacolo della nostra
lingua, abbiamo l’ostacolo della nostra codificazione, abbiamo l’ostacolo dei nostri modelli
concettuali, abbiamo l’ostacolo della debolezza del nostro sistema economico, abbiamo l’ostacolo
delle immagini stereotipe del giurista o del cittadino italiano, considerato incolto, furbo, inaffidabile
e impreciso.
In altri termini, lo sforzo che è richiesto per questo processo di potenziale ma non effettiva osmosi,
ad un giurista francese, ad un giurista di lingua tedesca o ad un giurista di lingua inglese è molto
inferiore a quello richiesto al giurista italiano.
Lo dimostra il fatto che questa opera di armonizzazione e di unificazione che avviene in ambito
comunitario molto spesso è egemonizzata da terminologie e da culture giuridiche riferibili
soprattutto a modelli francesi, tedeschi, inglesi. Tutto ciò non accade per caso. C’è una ragione per
tutte le cose. Per l’influsso francese, l’autorevolezza di modelli assistiti da una risalente tradizione e
da una vivace esperienza, unito al fattore linguistico, dato dalla quasi totale utilizzazione del
francese negli uffici di Bruxelles, di Strasburgo e del Lussemburgo; per l’influsso tedesco,
l’autorevolezza di modelli assistiti da una precisa sistematica oltre che da una determinazione
pervicace di esperti e funzionari, corroborata dal "peso" politico ed economico della Repubblica
Federale Tedesca in ambito comunitario; per l’influsso inglese, l’esigenza di coordinare un sistema
asseritamente diverso od opposto a quelli continentali, unitamente alla opportunità di favorire un
Paese di volontà comunitaria debole e comunque instabile.
Più che di armonizzazione o di osmosi, si può allora parlare di riduzione ad un modello dominante
pregresso (che non è mai l’italiano) oppure di crisi di modelli dominanti pregressi (tra i quali non
figura mai l’italiano). In ogni caso, si registrano, in questo processo, tra gli altri, questi caratteri: (i)
alterità; (ii) semplificazione; (iii) "sciovinismo".
Ciò si riscontra in particolare nella prassi comunitaria di elaborazione delle direttive.
Le direttive nascono sulla base di testi redatti in francese o in inglese, sulla base di discussioni che
sono fatte in inglese e in francese; testo e discussioni sono teatro di terminologie più o meno affini
alla nostra cultura: spesso, l’impiego dell’inglese non implica l’impiego di modelli culturali inglesi
ma solo una koinè che crei propri referenti; l’armonizzazione e l’unificazione procedono spesso per
semplificazioni, ma certamente non si avvicinano come noi desidereremmo alla nostra cultura.
Ma se dovessimo verificare come si comportano gli altri giuristi, i giuristi degli altri Paesi membri,
riscontreremmo una sorta di amor patrio, di "sciovinismo" talvolta, che dal nostro punto di vista può
apparire addirittura curioso e anacronistico; non dobbiamo dimenticare che esistono associazioni
sorte con l’intento di diffondere nel mondo intero il diritto nazionale di appartenenza; un simile tipo
di associazioni nessuno di noi ha mai pensato o concepito di poterla costituire nel nostro Paese; ciò
perché non siamo sciovinisti, siamo cosmopoliti, e siamo forse anche poco convinti dei valori insiti
nella nostra cultura giuridica.
L’influsso che può avere l’uso della lingua è straordinario per la circolazione di modelli e per
l’apprezzamento del valore delle culture giuridiche; in Italia però sono marginali le iniziative di
insegnamento del diritto italiano agli stranieri e di insegnamento del diritto italiano all’estero; in più
sono numerosissime le iniziative offerte agli studiosi stranieri, invitati in Italia, per corsi,
conferenze, congressi; raro è il reciproco, salvo i contatti e i rapporti personali. In altri Paesi c’è
un’attenzione al proprio diritto e alla utilizzazione del proprio diritto come modello culturale che
noi italiani non abbiamo.
È un merito o un demerito?
Secondo me è un grosso merito, perché la nostra cultura giuridica non è provinciale come quella
francese o inossidabile come quella inglese, ma è aperta, curiosa, disponibile, elastica, come quella
spagnola, quella portoghese, quella belga, e, forse, quella tedesca. Tra le tante iniziative promosse
dai Colleghi, basti menzionare la Collana "Civiltà del diritto" di Francesco Calasso e Francesco
Mercadante e la Collana "Giuristi stranieri d’oggi", diretta da Cosimo Mazzoni e Vincenzo Varano;
le Cardozo Lectures organizzate dalla Scuola torinese-trentina; le iniziative fiorentine assunte da
Anna De Vita, Vincenzo Varano e Vincenzo Vigoriti, quelle maceratesi di Luigi Moccia, quelle
sassaresi di Vincenzo Zeno-Zencovich, quelle salernitane di Gabriella Autorino Stanzione. Per non
parlare dell’opera svolta da Joachim Bonell all’Unidroit o da Diego Corapi all’Istituto Latino-
Americano di Roma, da Antonio Gambaro all’Università Statale di Milano, da Gianguido Scalfi e
ora da Gianni Iudica all’Università Bocconi di Milano, da Paolo Zatti e Renato Pescara
all’Università di Padova.
Questo merito purtroppo diventa una forma di debolezza e quindi un fattore, diciamo così,
"perdente" nel momento della discussione, nel momento della circolazione del modello, nel
momento della soluzione per singoli problemi in sede comunitaria: il problema di armonizzazione,
di osmosi e di unificazione che si viene costruendo vede emarginato il modello italiano.
Eccezione di rilievo è l’iniziativa di Erik Jayme di pubblicare in lingua tedesca una collana
concernente l’esperienza italiana (223). Tale iniziativa è coordinata da una associazione per gli
scambi culturali e giuridici tra Italia e Germania: la Vereinigung für den Gedankenaustausch
Zwischen italienischen und deutchen Juristen e., ora presieduta dal prof. Herbert Kronke
dell’Università di Heidelberg.
La cultura giuridica italiana è nota infatti, soprattutto, nei Paesi che per affinità linguistiche o per
affinità concettuali sono più vicini a noi (come Spagna e Portogallo), ma altrove è misconosciuta o
addirittura ignorata. Un esempio basti per tutti: nel bellissimo manuale di Zweigert e Kötz –
ovviamente tradotto in italiano, ovviamente in modo molto accurato – le citazioni di autori italiani
si contano sulle dita di una mano così come modesti sono i riferimenti al modello giuridico italiano.
Insomma il modello italiano non è considerato come uno dei punti di riferimento che normalmente
il comparatista di altri Paesi prende in considerazione, salvo per i colleghi spagnoli e portoghesi.
Appare dunque davvero apprezzabile l’iniziativa di pubblicare gli Italian Studies Law, ad opera
dell’Associazione italiana di diritto comparato, sotto la direzione di Alessandro Pizzorusso.
È chiaro che non possiamo ora armarci di sciovinismo per far penetrare nelle altre esperienze
influssi, indicazioni, orientamenti e direttive che provengono dalla nostra cultura e dalla nostra
esperienza giuridica. Ma devono essere evidenziati due fatti importanti: la necessità di alimentare la
conoscenza e la circolazione del modello italiano, abbandonando la lingua italiana, e la necessità di
essere consapevoli del processo di emarginazione progressiva di cui il modello italiano è fatto
oggetto. Lo sforzo culturale che tutti stiamo sostenendo deve essere dunque moltiplicato e
coordinato.
8.12. – L’espressione "sistema giuridico" – oggetto di comparazione con altri sistemi giuridici –
trova omologhi nel francese système juridique, nel tedesco Rechtssystem, nell’inglese legal system,
e si avvicina a quello di "ordinamento giuridico" (ordre juridique, Rechtsordnung, law); tuttavia,
allude anche al modo di descrizione e sistemazione di un ordinamento, con riguardo alle sue fonti,
alle sue formanti, ecc.
È anche un’espressione di comodo, perché sintetica e plastica: a differenza di "esperienza giuridica"
che è più duttile ma necessariamente e intenzionalmente, più aerea e frammentaria.
Tuttavia, la comparazione non può limitarsi al raffronto di testi, non può circoscriversi al raffronto
tra modelli di sentenza, dovendo piuttosto penetrare nella elaborazione dei concetti, delle idee, degli
indirizzi interpretativi, e scendere a contemplare le prassi contrattuali, commerciali, ecc.; e tutto ciò
in senso sincronico e in senso diacronico.
In sintesi (i) la comparazione di sistemi giuridici non può che essere comparazione di esperienze
giuridiche né può essere autosufficiente.
Il concetto di "ordinamento giuridico" è un’astrazione come ogni altro concetto.
Può essere inteso in senso positivistico-kelseniano come complesso delle norme vigenti in un paese
in un determinato momento storico; può essere inteso come "l’insieme delle strutture
organizzatorie, comunque esistenti, che costituiscono il tessuto vivo di una determinata formazione
storica" (224).
Più ampio e comprensivo di "ordinamento giuridico" è il concetto di "esperienza giuridica", che è il
complesso non solo dell’ordinamento (scientia iuris) oltre che del suo svolgimento storico. La
concezione del diritto come "esperienza giuridica" affonda le sue radici nella concezione
istituzionale del diritto, e quindi nel pensiero di Gierke (225), di Hauriou (226), di Santi Romano
(227) e di Capograssi (228).
Anche la nozione di esperienza giuridica è un’astrazione, ma consente di esprimere meglio la
complessità dei fenomeni giuridici di quanto non possa fare l’espressione "diritto", ormai così
invalsa nell’uso con una accentuazione formalista tale da rendere difficile la separazione di diritto
dalla norma astratta. Esperienza giuridica invece è espressione più duttile perché consente di
ricomprendere l’attività giuridicamente rilevante (i fatti, i comportamenti), le regole (legislative,
giurisprudenziali, consuetudinarie), i modi di pensare il diritto.
È chiaro che anche "diritto" può alludere ai fatti giuridicamente rilevanti, alla scienza giuridica,
ecc.; ma l’espressione "esperienza giuridica" è più connotante, perché indica immediatamente un
modo di concepire il diritto (istituzionale, sociologico, empirico, storico, realistico), che invece
sfuggirebbe se si facesse impiego del termine più neutro "diritto".
Proprio perché l’esperienza giuridica è legata alla storia e alla realtà effettuale, non si può utilizzare
questa nozione in termini generali: non esiste una generale esperienza giuridica ma singole,
determinate "esperienze giuridiche".
Ancora. Poiché "diritto" o "esperienza giuridica" si fanno cogliere nella loro complessità solo
registrandone l’evoluzione, l’involuzione, i progressi e i regressi che li contrassegnano, la
comparazione si deve fare carico dell’analisi storica. Esempi emblematici di questo assunto sono,
sul piano macroscopico, l’esperienza francese e l’esperienza belga: partite dal medesimo testo, sono
approdate a risultati spesso divergenti; sul microscopico, la vicenda della lesione del credito,
dapprima osteggiata e poi ammessa quale causa di risarcimento del danno extracontrattuale, in
Italia, e tuttora figura assai discussa in common law e in Germania.
Sinteticamente (ii), la comparazione non può che essere sincronica e diacronica.
Non si può neppure prescindere nella illustrazione di ogni singola esperienza, e delle esperienze
comparate, dall’indirizzo scientifico-culturale del "descrittore-interprete". Per riflettere e meglio
esprimere la vitalità e la complessità di una esperienza giuridica conviene essere eclettici, saper
modellare e comporre, senza confondere o fare commistioni, metodi diversi: quello formalista,
quello sociologico-realista, quello antropologico ed economico, e così via, di volta in volta
offrendo, quanto all’argomento, le sfaccettature che ciascuno di essi consente di scolpire.
Si deve poi tenere presente che la tecnica di studio del diritto è binaria: assiomatica e tassonomica
(229).
Allo stesso modo, se è vero che la comparazione è un valore in sé, perché è scienza, che non
abbisogna di giustificazione, è anche vero che la ricerca può porsi finalità specifiche, e caricarsi di
valori o di ideologie: l’analisi dei diritti della personalità può certo arrestarsi al raffronto tra testi
normativi (costituzionali, codicistici, legislativi), può estendersi al raffronto tra casi
giurisprudenziali, ma può andare oltre: tanto per esemplificare, cercare di capire come nasce la
nozione di personalità, quali interessi intende tutelare e quali interessi le si contrappongono, quale
sia la cifra di democrazia nei Paesi che ignorano i diritti della persona, quale sia la effettiva
democrazia là tuttavia dove si prevedono norme a tutela della persona ma se ne dà una
interpretazione restrittiva.
Sinteticamente (iii) la comparazione non è e non può essere neutrale.
Infine, poiché il diritto è fatto per l’uomo e non l’uomo per il diritto, l’ansia di ricerca, la dedizione
allo studio, il sacrificio per ottenere un risultato congruo sono vissuti in modo apprezzabile se diretti
a tutelare gli interessi deboli, e a contrastare le prevaricazioni.
Sinteticamente (iv) la comparazione non può che essere al servizio di un diritto umano e mite.
Per quanto riguarda l’indirizzo qui privilegiato, la comparazione dovrebbe assumere il ruolo di
fonte di un nuovo umanesimo laico e solidaristico.
9. – 9.1. – L’analisi della giurisprudenza può essere ascritta a differenti modelli, che rispecchiano
l’ideologia dell’interprete e obbediscono agli scopi che l’interprete vuol perseguire: arbitrariamente,
questi modelli si possono raggruppare in alcuni filoni: il primo concerne il ruolo dell’interprete,
cioè il modo – o l’atteggiamento – nel quale l’interprete si pone dinanzi alla legge; il secondo
concerne la tecnica del ragionamento dell’interprete, cioè il modo – o l’atteggiamento – con cui
l’interprete risolve il caso sottoposto alla sua attenzione; il terzo concerne il prodotto
dell’interpretazione, cioè la sentenza; il quarto la regola espressa dalla sentenza; il quinto concerne
l’interprete come traduttore di valori.
Ogni modello è bivalente: può essere esaminato nel suo aspetto individuale e nel suo aspetto per
così dire "complessivo", cioè come risultante dal complesso di comportamenti e di atteggiamenti
propri degli appartenenti alla categoria degli interpreti "ufficiali", cioè dei giudici.
Il primo, nel senso che l’interprete di volta in volta sceglie di applicare la norma nel suo senso
letterale o teleologico, oppure secondo le regole analogiche; nella prospettiva di analisi
onnicomprensiva, questo lavoro degli interpreti si trasforma nella individuazione degli stili, degli
orientamenti, degli indirizzi, affermatisi in un determinato momento storico e in una determinata
esperienza concernenti l’interpretazione e l’applicazione delle regole, legislative o
giurisprudenziali.
Il secondo, nel senso che l’interprete per raggiungere una determinata soluzione, segue un
ragionamento; nella prospettiva complessiva, questo lavoro si trasforma nella codificazione di
regole interpretative, di logica giuridica, di sillogismo giudiziale, di operazione assiologica, imposte
dal legislatore o emergenti dalle prassi.
Il terzo, nel senso che l’interprete fabbrica la sentenza, cioè l’atto processuale finale, con cui si
conclude il procedimento; nella prospettiva complessiva, questo lavoro si trasforma nella
codificazione di regole concernenti la redazione della sentenza, imposte dal legislatore od osservate
per prassi consolidate. Nell’estendere la sentenza il giudice si rifà alle decisioni assunte in
precedenza in casi simili: in alcune esperienze, il giudice – a seconda della sua collocazione in un
determinato ordine – è obbligato a osservare i precedenti; in altre esperienze, il giudice è obbligato
a motivare le ragioni del suo discostamento dai precedenti delle corti superiori oppure è indotto, con
tecniche diverse, a seguire quei precedenti.
Il quarto, nel senso che l’interprete crea la regola del caso, e, nella prospettiva complessiva,
l’insieme delle regole dei casi divengono fonte del diritto, quel diritto "vivente" o "diritto
giurisprudenziale" tipico di ogni esperienza: nei paesi di common law si ha un diritto formato in via
strutturale, in quanto accanto al diritto legislativo strutturalmente esiste un diritto giurisprudenziale;
nei paesi di civil law il diritto legislativo è integrato dal diritto giurisprudenziale. Ed i rapporti tra le
due fonti sono o improntati alla pariteticità (nel common law) o improntati alla subordinazione (nel
civil law, la legge prevale sull’orientamento giurisprudenziale).
Il quinto, nel senso che l’interprete esprime nella sentenza i valori della società in cui opera, e
spesso introduce i propri valori come se fossero valori universalmente riconosciuti; l’insieme delle
sentenze esprime dunque un quadro di valori, i quali possono essere collocati in un ordine
gerarchico.
La letteratura in materia – per ciascun modello individuato – è amplissima, quasi inoceanica: in
common law, perché, essendo la giurisprudenza una fonte strutturale dell’ordinamento, i giuristi da
sempre si dedicano all’analisi del ruolo dell’interprete e all’analisi del suo prodotto; in civil law,
perché, con l’avvento delle codificazioni, il ruolo dell’interprete, dapprima relegato ad una funzione
ancillare, si è via via rafforzato, fino a raggiungere il ruolo di supplenza del legislatore.
Si tratta di una letteratura che, anche quando riguarda singoli aspetti di ciascun modello, non
prescinde dagli altri, perché appare ovvio che nell’esaminare il modo in cui si interpreta la legge, si
deve controllare la "correttezza" del ragionamento: un ragionamento che diventa rilevante se
condensato in una sentenza, che è un atto vincolante per le parti, e può essere diretto a creare una
norma, se questa norma non si è "rinvenuta" nell’ordinamento vigente.
I modelli si intrecciano, sono tra loro indissolubilmente legati, sicché la loro analisi è
necessariamente circolare. In più si possono esaminare in diverse prospettive, ad esempio nella
prospettiva storica, nella prospettiva politica, nella prospettiva assiologica, nella prospettiva
sociologica, nella prospettiva economica, nella prospettiva tecnica. Potrebbe essere naturale pensare
che ai civilisti sia più congeniale occuparsi solo della prima e dell’ultima prospettiva, ma non è
così: la cultura civilistica da tempo ha superato gli steccati che una tradizione formalista le aveva
imposto (230).
È evidente che queste analisi sono frutto di intersezioni e di dialoghi: dialoghi con gli storici, con i
filosofi, con i teorici generali del diritto, con i sociologi, con gli economisti; intersezioni e dialoghi
che si intrecciano anche nella prospettiva della comparazione, con i giuristi francesi, tedeschi e
spagnoli, da un lato, e con i giuristi inglesi e statunitensi, dall’altro lato.
Come si vede, il discorso di allarga via via in cerchi concentrici, e diviene pressoché impossibile
riassumerlo, sinteticamente, in poche pagine.
9.2. – (a) L’interpretazione.
Nella nostra esperienza, senza voler risalire al Settecento e alle diatribe sui "difetti della
giurisprudenza", si rinvengono almeno tre diversi sotto-modelli: il sotto-modello esegetico, il sotto-
modello pandettistico, il sotto-modello che si ispira all’interesse sociale; questi modelli sono il
frutto della inclusione nei codici (civile e processuale civile) di regole destinate all’interprete, al
quale si indicano i binari da seguire per il procedimento ermeneutico; ma sono anche il frutto della
elaborazione dei concetti da parte della Pandettistica, che sovrappone al testo legislativo le categorie
a cui uniformare quel testo, sì da ricondurlo al "sistema"; e dell’influenza del c.d. socialismo
giuridico, che per la prima volta nella storia della giurisprudenza addita all’interprete l’orizzonte
dell’interesse "sociale", per modo che la sua interpretazione non soddisfi solo gli interessi privati,
cioè della parte più forte, ma si faccia carico degli interessi della collettività e segnatamente delle
parti deboli. Si instaura pertanto quel rapporto dialettico tra dato oggettivo e spirito dell’interprete
che Rodolfo Sacco ha riassunto in pagine mirabili distinguendo l’interpretazione del testo
dall’interpretazione del diritto, l’interpretazione nella ricerca del senso, l’interpretazione nella
ricerca fuori dal testo, l’interpretazione e il diritto extratestuale (231).
Alle regole dell’interpretazione si sono dunque votati quanti hanno provveduto a commentare le
regole legislative in materia (in primis, l’art. 12 delle preleggi), e quindi non solo i civilisti, ma
anche i costituzionalisti e i teorici del diritto. Alcune pietre miliari in questo lungo e accidentato
cammino destinato a capire i limiti all’arbitrio dell’interprete sono rappresentate dalle opere di
Massimo Severo Giannini (232), di Emilio Betti (233), e più di recente dall’opera di Giovanni
Tarello (234). Quel lungo cammino documenta come dall’inizio dell’Ottocento ad oggi si sia svolta
una lotta della lettera contro lo spirito della legge, che si è risolta nella vittoria del secondo sulla
prima (235).
Ma le regole dell’interpretazione della legge sono articolate, perché dipendono dal testo a cui
l’interprete si applica: un conto sono le regole dell’interpretazione della legge civile, altre sono
quelle della legge penale, altre ancora quelle della disposizione costituzionale.
Ciò che qui rileva non è tanto l’analisi delle regole, quanto il modo nel quale quelle regole sono
conosciute, intese e applicate da parte del giudice. E, ancora, quali siano i limiti imposti alla
discrezionalità interpretativa e come li intenda, se ne avvalga o li ignori il giudice-interprete (236).
L’ambito di discrezionalità più ampia è dato – sempre dal legislatore, nelle esperienze continentali –
nell’impiego degli standard, delle clausole generali, dei principi generali.
A queste tecniche si è dato ampio risvolto in questo lavoro (237).
(b) Gli stili.
L’analisi degli stili si deve – come ognun sa – a Gino Gorla, che utilizza lo "stile" sia per ricercare il
modo nel quale il giudice interpreta il diritto, sia il modo nel quale il giudice forma la sentenza, sia
il modo nel quale il giudice ragiona sul caso. L’analisi degli stili diviene dunque, in prospettiva
storica, l’analisi del ruolo che tiene il giudice nella produzione del diritto, e in prospettiva
comparatistica, l’analisi della circolazione dei modelli di decisione (oltre che delle regole di diritto
sostanziale) (238).
9.3. – Alla descrizione e alla critica delle tecniche di ragionamento dell’interprete si sono dedicati,
più che i civilisti, i teorici generali e gli storici del diritto, sempre con l’eccezione rappresentata
dalle intuizioni geniali di Gino Gorla. Il lavoro dei civilisti è stato più oscuro e frastagliato. Si tratta
di un lavoro effettuato o caso per caso, nel commento alle tecniche di motivazione della singola
sentenza, o mediante la individuazione di indirizzi interpretativi sviluppati dalla giurisprudenza in
singoli settori. Il ragionamento giuridico impiegato dai giudici corrisponde ancora a quello
dialettico tramandato dalla tradizione, rafforzato però dal riferimento alle disposizioni del diritto
vigente e dai riferimenti alla pregressa giurisprudenza. L’attenzione degli studiosi è rivolta perciò
alla individuazione della "regola del caso" (239), alla individuazione dei casi "nuovi", che non
trovano precedenti nella giurisprudenza dell’epoca considerata (240), alla individuazione dei "casi
difficili", che implicano più esplicitamente di altri l’impiego di valori condivisi dalla collettività.
Il modello italiano presenta, a proposito del ragionamento giuridico, un forte carattere di originalità,
rispetto al modello francese, improntato alla tecnica deduttiva, al modello tedesco, improntato ad un
rigido formalismo, al modello inglese, improntato alla ragionevolezza della soluzione. L’interesse
oggi sviluppato dalla dottrina civilistica che si occupa di metodologia della giurisprudenza è rivolto
soprattutto a quest’ultimo modello, comprensivo della variante statunitense.
9.4. – Questo è il modello che, per ragioni pratiche, è stato maggiormente studiato sia dai civilisti
sia dai processualcivilisti.
(a) La sentenza.
Lo studio della sentenza inizia con l’esame delle regole per la sua formazione. Gino Gorla, nella sua
ricerca storico-comparativa, ricorda l’art. 265 del reg. gen. giudiziario del 1865, il quale prescriveva
che nella compilazione dei motivi si dovessero separare le questioni di fatto da quelle di diritto, che
si richiamassero gli articoli di legge fondativi della sentenza e i principi generali di diritto che
avessero influito sulla decisione, senza estendersi a confutare tutti gli argomenti addotti in contrario
dai patrocinatori delle parti e senza invocare l’autorità degli scrittori legali (241).
In tal modo si cercava di evitare che il giudice dovesse seguire il metodo causidico, e i rivoli in cui
si disperdevano le opinioni dei "dottori". Prescrizioni seguite anche dal legislatore nel codice di
procedura civile del 1942, il cui art. 132 prevede, tra i contenuti obbligatori della sentenza, al n.4,
"la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della
decisione", a pena di nullità. Più analiticamente l’art.118 delle norme di attuazione di detto codice
prevede che la motivazione della sentenza sia concisa nella esposizione dei fatti rilevanti della causa
e delle ragioni giuridiche della decisione, con una concisa esposizione delle questioni discusse,
nell’ordine di discussione, dal collegio e con l’indicazione delle norme e dei principi di legge
applicati; in ogni caso prescrive che sia omessa ogni citazione di autori giuridici.
È opportuno al riguardo richiamare le regole esposte a mo’ di suggerimento dal Primo Presidente
della Corte di Cassazione Antonio Brancaccio a proposito della motivazione della sentenza di
cassazione, in cui si espongono in modo più dettagliato di quanto non facciano le disposizioni sopra
richiamate le regole sulla estensione della sentenza. Vi si precisa infatti che occorre soddisfare due
requisiti perché la sentenza sia correttamente motivata sotto il profilo formale: la sentenza deve
essere completa, esaminando le questioni effettivamente rilevanti per la decisione della causa, sia
che esse siano prospettate dalle parti sia che esse siano rilevabili d’ufficio; e la sentenza deve essere
concisa, esprimendo i concetti fondamentali con poche parole; la sentenza deve in ogni caso
esternare le ragioni della scelta effettuata, perché pur essendo atto d’imperio non deve apparire
arbitraria (242).
La questione interferisce con quella, assai più complessa, della uniforme applicazione del diritto,
che dà luogo alla c.d. nomofilachia della Corte di Cassazione.
Lo stile della sentenza italiana è stato oggetto di riflessioni comparatistiche in numerose occasioni:
basti richiamare qui gli atti del memorabile convegno di Ferrara dei giorni 10-12 ottobre 1985, in
cui si sono raffrontati con il modello italiano i modelli francese, tedesco e inglese (243), e gli atti
del colloquio di Parigi dei giorni 5-6 maggio 1997 (244).
È in questo contesto che si è sviluppata una approfondita analisi dell’uso del precedente, sia
nell’esperienza anglo-americana, in cui il precedente assume una posizione strutturale, sia nelle
esperienze continentali. In particolare, nell’esperienza italiana il precedente è frutto sia
dell’esigenza di collocare la decisione assunta nell’ambito di un orientamento, sia dell’esigenza
autoreferenziale di far constare la conformità della decisione alle precedenti soluzioni, sia
dell’esigenza esornativa di integrare il ragionamento con la sua somiglianza a casi analoghi.
Sulle modalità di uso del precedente si è sbizzarrita la fantasia dei civilisti, con riguardo all’impiego
della tecnica anglosassone del distinguishing, con riguardo alla scelta del precedente, e, soprattutto
con riguardo alla qualificazione di una decisione come "precedente". A ciò si è aggiunta la
questione della massimazione delle sentenze – essendo spesso le sentenze richiamate solo per la
loro massima – sia la questione della incidenza delle tecnologie informatiche, a cui si ricorre per
diffondere e catalogare le massime, sul ragionamento e sulla motivazione della sentenza (245).
9.5. – La creatività della giurisprudenza è altro tema a cui si sono dedicati i civilisti, oggi convinti
che la giurisprudenza sia fonte di diritto. Si tratta di una convinzione che non tutti i civilisti italiani
condividono (246), ma che comincia ad essere considerata con favore anche in esperienze da
sempre aliene dal considerare il giudice creatore di norme, come l’esperienza francese (247), ove,
per dirla con Jean Carbonnier, "partita da una posizione secondaria nella tavola classica delle fonti
del diritto [la giurisprudenza] ha conquistato la parità con la legge" (248).
La creatività del giudice è esperienza diuturna del civilista ed è documentata dal laboratorio
straordinario che si offre ai suoi occhi sia nelle raccolte di sentenze di legittimità sia nelle raccolte
delle sentenze di merito. Interi settori dell’ordinamento sono ormai governati anche presso di noi
dalle regole di natura giurisprudenziale, come accade, ad esempio, per il settore della responsabilità
civile, ma a quasi sessant’anni dalla introduzione del codice civile ogni settore del diritto civile è
articolato in una miriade di regole che nascono dalla reiterata applicazione di enunciati indotti dal
giudice sulla base delle norme di codice o create ad hoc per integrare lacune o per risolvere
questioni nuove (249).
Oramai la giurisprudenza ha una sua dignità scientifica, alla cui configurazione hanno contribuito
opere di grande rilievo come gli Appunti sul diritto giudiziario di Walter Bigiavi (250) e gli studi
che via via i civilisti hanno consacrato a questo tema (251).
9.6. – Anche al ruolo "politico" dell’interprete si sono dedicate le ricerche dei civilisti, in ciò
affiancandosi a quelle dei filosofi, dei sociologi e dei comparatisti. Tra le prime riflessioni val la
pena di ricordare le pagine di Andrea Torrente sul giudice e il diritto in cui l’allora Presidente di
sezione della Corte di Cassazione (252).
Le pagine di Torrente hanno ormai un valore documentario, dal momento che la civilistica italiana
ha fatto passi da gigante nella strada che ammette la funzione creativa della giurisprudenza. E
tuttavia val la pena di rimeditarle, in quanto, per la funzione che in allora egli esercitava, e per il
momento nel quale quelle pagine furono scritte, agli occhi nostri appaiono frutto di una mentalità
aperta e brillano addirittura per modernità. Torrente assume a suoi interlocutori da un lato Tullio
Ascarelli, alla memoria del quale il suo scritto è dedicato, e Benjamin Cardozo, il giudice
giusrealista statunitense, di cui poco prima era stata tradotta in lingua italiana una raccolta di saggi
intitolata Il giudice e il diritto (253). Di Ascarelli si considera soprattutto il lavoro, assai
illuminante, su Norma giuridica e realtà sociale (254). Torrente muove dalla considerazione – non
esplicitata, ma assunta implicitamente nel suo ragionamento – che gli spazi affidati all’interprete in
un ordinamento codificato da non molto tempo sono esigui: il giudice deve inventare una soluzione
quando non trova una disposizione applicabile immediatamente al caso esaminato, quando non
trova un precedente in materia, quando i precedenti che ha trovato non sono più adatti ai tempi. Egli
esclude però che l’interpretazione e l’applicazione del diritto siano operazioni meccaniche, ma non
giunge alla conclusione propria dell’indirizzo ermeneutico secondo la quale ogni operazione
interpretativa comporta una creazione, dal momento che la disposizione è sempre muta, non
soltanto quando – come crede Torrente – non contempli la fattispecie in esame. Insomma, per
documentare la creatività della giurisprudenza egli si riferisce alla responsabilità della pubblica
Amministrazione, terreno di elezione del giudice, dal momento che ben poco si trova in materia nei
testi normativi.
L’esempio scelto è significativo, perché implicante dal punto di vista ideologico: affermare la
"responsabilità" della p.A. da parte del giudice – sia pure del giudice ordinario – involge la
considerazione del rapporto e del bilanciamento tra interesse pubblico (a escludere quanto più
possibile la responsabilità della p.A) e interesse privato (ad ammetterla in tutti i casi possibili).
Questo bilanciamento non è portato all’attenzione del lettore. Torrente rimane sul piano formale, e
si preoccupa non tanto di capire se l’affermazione della responsabilità potrebbe portare ad un
aggravio delle spese sostenute dallo Stato, né se la valutazione da parte del giudice ordinario
potrebbe portare ad una intrusione nella sfera di valutazione propria dell’Amministrazione (e quindi
di altro potere dello Stato), quanto piuttosto di capire se l’affermazione della responsabilità –
ovviamente fondata sulla colpa – della Amministrazione possa costituire un limite alla
discrezionalità amministrativa. La risposta di Torrente è negativa: anche l’Amministrazione deve
osservare il principio del neminem laedere, quanto meno nell’esercizio delle attività materiali.
Torrente non si pone il problema della responsabilità per la violazione di interessi legittimi; né
possiamo fargliene carico, dal momento che esso è stato risolto in senso positivo solo quasi
quarant’anni dopo la pubblicazione del suo scritto, con la pronuncia delle Sezioni unite della
Cassazione n. 500 del 1999.
Gli altri esempi che egli utilizza sono altrettanto significativi: l’anticipazione da parte della
giurisprudenza della normativa che estende erga omnes le previsioni dei contratti collettivi di lavoro
– ciò per ragioni di natura sociale e per assecondare "le istanze nuove della civiltà del lavoro"; la
creazione del principio di apparenza, che corrisponde ad una ampia tutela della posizione dei terzi e
di protezione della circolazione dei beni e del credito. Egli considera ancora la figura dell’arbitrato
rituale, nata per iniziativa dei commercianti e legittimata dalla giurisprudenza di inizio secolo.
Tutti gli esempi addotti documentano i modi in cui la realtà sociale si infiltra nel processo
interpretativo, in cui metodo storico e metodo logico si uniscono nella funzione creativa
dell’interprete. L’assunto di Ascarelli che scolpisce questa legge dell’evoluzione giuridica è dunque
verificato: "nella sua opera, realmente creativa – osservava l’illustre Maestro –l’interprete rinnova
perennemente la norma; costituisce perciò stesso, strumento di un perenne sviluppo del diritto. È
d’altra parte vincolato ad un criterio di continuità" (255).
A questo punto ci aspetteremmo che, nella conclusione del suo ragionamento, Torrente segnali
l’esigenza che il giudice in ogni caso proceda alla interpretazione evolutiva, essendo questo l’unico
mezzo per sottrarre il diritto alla pietrificazione: poco prima aveva per l’appunto riportato la critica
di Plucknett al sistema inglese del precedente, bollato perché troppo rigido e asfittico (256). Ma –
siamo ancora all’inizio degli anni Sessanta – non giunge sino a tanto: la funzione creativa del
giudice è riservata agli interstizi, agli esigui spazi lasciati aperti dalla norma. E, a quell’epoca,
sembra già tanto, essendo per lo più il giudice chiamato – così si riteneva quasi da tutti –
all’esercizio di una "mera esercitazione sillogistica" (257).
Ben altro messaggio, rispetto a quello di Torrente, emerge alcuni anni dopo dalla relazione di
Giovanni Tarello al convegno di Catania sull’uso alternativo del diritto, organizzato da Pietro
Barcellona: memorabile data per i civilisti, che si interrogano sul modo di superare il dato
normativo e di soddisfare le esigenze che il legislatore lascia neglette (258). Dinanzi agli occhi del
lettore scorrono le posizioni e le tecniche adottate dalla dottrina per adeguare il testo normativo alle
nuove esigenze economiche e sociali, e le posizioni e le tecniche adottate dalla giurisprudenza per
fronteggiare e per frustrare quel tentativo. Si mette a nudo così, nel periodo del ventennio
comprensivo degli anni Cinquanta e Sessanta, il conflitto tra l’interprete dottrinale e l’interprete
pratico, il primo teso a introdurre nella elaborazione delle sentenze, nella decisione dei casi,
nell’affermazione di orientamenti, i valori costituzionali (è il caso della dottrina avanzata del diritto
del lavoro), i valori economici (è il caso delle proposte di Pietro Trimarchi), i valori della persona (è
il caso di Pietro Rescigno), i valori espressi dagli interessi diffusi dei fruitori dell’ambiente e dei
consumatori (è il caso di Stefano Rodotà), il secondo, tetragono ad ogni innovazione, ligio alla
legge, o meglio, a quella teoria (fortemente ideologizzata, ma non assunta come tale) che vede
nell’interpretazione restrittiva – quasi "difensiva" – del testo la compiuta realizzazione del proprio
compito istituzionale.
Il ruolo del giudice nella traduzione nella sentenza dei valori condivisi dalla comunità è oggetto di
studio di gran parte dei civilisti di oggi; questo ruolo "politico" si avverte tanto più quando il
giudice è posto di fronte a problemi di etica o a problemi derivanti dall’impiego delle nuove
tecnologie: i saggi di Stefano Rodotà in materia di bioetica e di raccolta dei dati personali sono
emblematici al riguardo.
Il ruolo politico del giudice è tema indagato in modo si potrebbe dire ossessivo in altre esperienze:
prima di tutte, nelle esperienze inglese e statunitense, ove i saggi di John A.G. Griffith (259) e di
Ronald Dworkin sono ormai divenuti "classici". Ma particolare attenzione alla storia della
magistratura, alle modalità di applicazione della legge da parte dei giudici e alla "coscienza
europea" dei giudici è stata dedicata dai giuristi francesi (260).
Sezione III
Gli indirizzi interpretativi
1. – Il metodo formalista non esaurisce i metodi di analisi, oggi praticati che, per contro, sono
diversi, sicché versiamo in un clima di pluralismo metodologico. La riflessione collettiva promossa
un decennio fa dai civilisti ne costituisce uno specchio fedele. Si è superato il "monismo
metodologico", si sono affermati i valori costituzionali, si sono affinate le tecniche interpretative.
I civilisti – siamo arrivati agli anni Ottanta – propongono una rivisitazione radicale della teoria
giuridica sistemica, contrapponendo i concetti-sostanza della vecchia dogmatica, ai concetti-
funzione, all’autopoiesi, al superamento dell’ermeneutica con la riproposizione di un positivismo
non formalista (261). Ma si continua a sottolineare l’importanza del formalismo come linea guida di
fedeltà alla norma: il vincolo del diritto positivo è inteso come espressione del principio di efficacia
ed efficienza delle soluzioni giuridiche, come ossequio alle fonti, come limite alla creatività della
giurisprudenza (262). Si richiama l’attenzione sugli interessi tutelati e sulla necessità di piegare il
testo normativo a ricomprendere gli interessi deboli, di cui sono portatori tutti i soggetti discriminati
per sesso, età, condizione sociale, orientamenti sessuali, censo etc. (263). Si tenta di ridurre il
pluralismo metodologico ai due indirizzi, ermeneutico e dogmatico, che da soli consentono – si dice
– di spiegare il fenomeno "diritto" (264). Ma si sottolinea anche che nel mondo attuale, pluralista,
frammentato, dinamico, la reductio ad unum dei metodi interpretativi costituisce una vera e propria
illusione: essi sempre di più si trasformano in metodi costruttivi del diritto (265) sicché la
"congiunzione tra attitudine realistica, esigenza costruttiva (sistematica) e ricerca dei principi di
base (valori) propone in maniera difficilmente riconducibile agli schemi passati, anche a quelli più
aperti, il tema della trascrizione nell’ordine giuridico di una serie di dati costitutivi della realtà, ai
quali quell’ordine non è indifferente e dai quali, anzi, appare già nettamente influenzato". Il
problema del metodo dunque diviene il problema della individuazione dei valori costituzionali che
stanno alla base della interpretazione. E il sistema diviene il complesso di regole per rendere tra
loro compatibili i valori costituzionali (266).
2. – Negli anni Ottanta riemerge l’interesse per l’indirizzo giusrealistico, che alcuni studiosi
avevano cominciato ad indagare già vent’anni prima. In un’opera dedicata alla interpretazione della
legge, Giovanni Tarello distingue due accezioni di interpretazione, a seconda che essa sia
ermeneutica e a seconda che essa sia intesa come il prodotto di questa. La prima è una attività
mentale, la seconda il risultato di quella attività (267); l’attività è oggetto di discorsi giuridici
persuasivi (quando non propagandistici o ideologici), il risultato è oggetto di discorsi giuridici
descrittivi; nell’uso linguistico si distingue tra interpretazione e applicazione della legge; in parte i
due termini sono sinonimi, in parte non sono coincidenti. La unificazione dei due termini, e quindi
delle due operazioni, deriva dalla tradizione culturale europea, secondo la quale del diritto si può
dare una conoscenza teorica e una conoscenza pratica, la prima è logicamente e funzionalmente
antecedente alla seconda, in altri termini, bisogna conoscere il diritto prima di applicarlo. Secondo
la concezione di Savigny, accolta più o meno consapevolmente e più o meno acriticamente dalle
opinioni consolidate e diffuse tra i giuristi non è possibile applicare la legge senza prima averla
interpretata. Sicché i filosofi, in modo assai diversificato (da Kelsen a Hart, a Ross) distinguono
l’attività dal prodotto dell’interpretazione, l’attività dal prodotto dell’applicazione.
Conservando questa distinzione, Tarello osserva che il collegamento tra interpretazione e
applicazione è dato dalla motivazione (268). I diversi tipi di interpretazione (autentica, giudiziale,
ufficiale, dottrinale) hanno in comune il fatto che il loro prodotto è un precetto destinato agli
operatori successivi, e tendono alla convergenza. L’effetto di questo prodotto varia a seconda dello
status dell’interprete. Anche Tarello distingue tra interpretazione come atto cognitivo e
interpretazione come atto volitivo, ed esclude che il fine dell’interpretazione sia di "scoprire" il
significato recondito della disposizione. Considerando che nella storia dell’interpretazione i
processi ermeneutici di volta in volta sono stati informati alla logica e alla retorica, Tarello sviluppa
una teoria della interpretazione che muove dalle tecniche di assegnazione di significato al
documento normativo, passa per le definizioni legislative, per le prescrizioni legislative, per le
tipologie delle argomentazioni interpretative (269).
Quanto al documento normativo, Tarello segnala i problemi semantici, sintattici o grammaticali, le
presupposizioni e le regole di incompatibilità e di ridondanza che le tecniche interpretative usuali
normalmente considerano, con un esame analitico delle "tecnicizzazioni" a cui ricorrono
usualmente i giuristi. Quanto alle regole dell’interpretazione, egli si pone, innanzitutto, il problema
della vincolatività o meno delle regole contenute nelle preleggi, e poi esamina le tesi via via
elaborate da Giannini, Betti e Gorla. Sottolinea come le preleggi non siano dalla Corte
costituzionale considerate vincolanti né per l’interpretazione della Costituzione né per
l’interpretazione della legge ordinaria e quindi sviluppa un ampio discorso sul rapporto tra gerarchia
di norme e interpretazione.
Tra i limiti posti all’interprete Tarello annovera gli schemi argomentativi (270). Non si tratta di
limiti legislativi, in quanto tra i canoni fissati dalla legge non si fa riferimento ad essi, ma piuttosto
di prassi che suscitano aspettative sociali, all’interno di una organizzazione giuridica dotata di una
cultura giuridica. Per effettuare il sindacato sull’interpretazione occorre dunque raffrontare l’iter
logico, sequenziale, argomentativo seguito dall’interprete con gli schemi argomentativi usualmente
impiegati, e perciò accreditati in quanto sufficienti e corretti, dalla prassi dottrinale e dalla prassi
giurisprudenziale. Farne un censimento non è semplice, anche perché, non essendo codificati, gli
schemi argomentativi ben possono variare nel tempo, nello spazio, nei loro stessi modi d’impiego.
Tuttavia, tra gli schemi molteplici, Tarello censisce quindici argomenti: (i) l’argomento a contrario,
che fonda l’interpretazione letterale o restrittiva (ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit); (ii)
l’argomento a simili, che fonda l’interpretazione analogica (analogia legis), secondo la quale lex
minus dixit quam voluit, e pertanto tende ad accreditare l’interpretazione estensiva e l’applicazione
a casi simili; (iii) l’argomento a fortiori, che legittima l’interpretazione estensiva a classi di casi o di
interessi che la disposizione che si interpreta tende a proteggere in misura circoscritta e che per
ragioni di logica (a maggior ragione) non possono essere trascurati (l’argomento a maiori ad maius
è applicato alle situazioni vantaggiose, l’argomento a maiori ad minus a quelle svantaggiose); (iv)
l’argomento della completezza dell’ordinamento giuridico, che si usa quando si ritiene che
l’ordinamento non preveda una disposizione relativa ad una determinata fattispecie, e la si regola
facendo ricorso ad altra disposizione: è un argomento debole perché si fonda sul dogma della
completezza dell’ordinamento giuridico; (v) l’argomento della coerenza dell’ordinamento giuridico,
che impone di scegliere tra più interpretazioni quella che appare "più coerente" con l’ordinamento;
ancorché si tratti di un argomento debole, perché fondato sulla ideologia della coerenza
dell’ordinamento, è il più preferito dagli interpreti; (vi) l’argomento psicologico, o il ricorso alla
volontà del legislatore concreto: è la tecnica che tende a ricostruire la voluntas legislatoris,
ricorrendo quindi agli atti parlamentari, al processo di produzione della disposizione, alle scelte
effettuate nel definire il contenuto di essa; è impiegato soprattutto nell’interpretazione delle leggi
speciali, che per l’appunto sono destinate a disciplinare fattispecie circoscritte, particolari, spesso
derogatorie del diritto comune, e rivolte a tutelare specifici interessi di gruppo o di categoria; (vii)
l’argomento storico, o la presunzione di continuità, o l’ipotesi del legislatore conservatore: è un
argomento debole in quanto fondato sulla ideologia della continuità normativa, e della coerenza
(non solo interna, ma anche) temporale, diacronica, dell’ordinamento; (viii) l’argomento apagogico,
o ab absurdo, o reductio ad absurdum o ipotesi del legislatore ragionevole, che impone l’esclusione
del significato interpretativo meno ragionevole o più assurdo: è assai apprezzato, anche se
intrinsecamente debole, perché l’assurdità non è chiara nei suoi confini concettuali, e presuppone il
raffronto tra il modello ragionevole, costruito dall’interprete e il modello assurdo di cui l’interprete
vuole sbarazzarsi; (ix) l’argomento teleologico, o ipotesi del legislatore provvisto di fini; esso tende
alla ricostruzione della voluntas legis, è opposto all’argomento a contrario e concorrente con
l’argomento analogico, in quanto serve a motivare l’estensione del significato; (x) l’argomento
economico o del legislatore non ridondante, correlato all’argomento fondato sulla coerenza del
legislatore; non si deve confondere questo argomento con l’analisi economica del diritto, che
piuttosto tende a dare alle disposizioni il significato più coerente con la logica di mercato, e quindi
può esser fatta rientrare nella interpretazione teleologica, posto che si possa attribuire al legislatore
l’intenzione di non contrastare quella che l’interprete ritiene essere la logica di mercato; (xi)
l’argomento autoritativo o ab exemplo, che ricorre a precedenti identiche interpretazioni per fondare
nuovamente l’interpretazione proposta: è l’argomento più persuasivo e forse il più impiegato in
dottrina, ove si tesse e ritesse la medesima tela, con qualche integrazione o con qualche omissione,
ma soprattutto si crea un ordito composto dalle opinioni dei giuristi autorevoli e dalle critiche alle
opinioni dei giuristi non autorevoli o in quel particolare caso ritenute (suggestive ma) non
persuasive; è il più impiegato dalla giurisprudenza: in certi ordinamenti è una prassi vincolante (c.d.
sistema del precedente in common law) o comunque imprescindibile; presso di noi è una prassi
costante, talvolta impiegata a proposito, altra volta fittiziamente, come accade per quelle pronunce
delle Corti che richiamano i precedenti propri alterandone il significato, ma evidenziandone la
coerenza interpretativa. Mentre in altri ordinamenti (come, ad es., quello inglese) si consente al
giudice di menzionare le fonti dottrinali utilizzate per redigere la motivazione della sentenza, nel
nostro ordinamento tale riferimento diretto è vietato (art. 118, 3° co., disp. att. c.p.c.) costringendosi
così il giudice a censurare nome ed opera utilizzata e a riferirsi genericamente alla "dottrina
prevalente", a "la dottrina", ecc.; (xii) l’argomento sistematico, o ipotesi del diritto ordinato: si
fonda sull’argomento topografico o della sedes materiae, sulla costanza terminologica, sulla
coerenza dogmatica (delle nozioni, dei concetti, degli istituti, dei princìpi); è l’argomento preferito
dalla dottrina formalista e dalla giurisprudenza; (xiii) l’argomento naturalistico, o della natura delle
cose o del legislatore impotente; (xiv) l’argomento equitativo, che fa riferimento all’equità o come
fonte del diritto, o come tecnica di elasticità dell’applicazione della norma al caso singolo; (xv)
l’argomento fondato sui princìpi generali, o analogia iuris (271).
L’indirizzo gius-realista continua ad essere presente nel campionario degli indirizzi interpretativi,
specie ad opera degli studiosi del realismo scandinavo, come Silvana Castignone ed Enrico Pattaro.
Il realismo statunitense è invece coltivato dai civilisti e dai comparatisti che si dedicano all’analisi
della casistica e delle tecniche di ragionamento e della estensione della motivazione dei giudici. Un
tema sul quale si tornerà più oltre.
Val la pena però di segnalare le pagine che di recente ha pubblicato sull’argomento un filosofo del
diritto francese, Michel Troper.
Proponendosi di illustrare una teoria dell’interpretazione, Michel Troper (272) muove da una scelta
di campo: "interpretare un testo" significa descrivere il suo significato o decidere il suo significato?
Si tratta di una scelta di campo, perché ogni regola sulla interpretazione discende dal significato di
interpretazione da cui parte chi definisce quelle regole. Se si propende per il primo corno del
dilemma, si presuppone che esista un significato oggettivo, se si propende per il secondo corno si
presuppone che il significato non preesista all’interpretazione ma debba essere costruito mediante
l’interpretazione, cioè deciso. Le due scelte poggiano anche su presupposti epistemologici diversi.
Si può privilegiare la finalità pratica, di assegnare ad un testo il significato ottimale per
l’amministrazione della giustizia, oppure privilegiare la finalità scientifica, di assegnare al testo un
significato veridico. Rimanendo nel capo pratico, la teoria realista cerca di controllare o il
comportamento del giudice o il suo ragionamento. In ogni caso, secondo Troper, l’interpretazione
consiste nella decisione di un significato; l’interpretazione cioè (i) è una funzione della volontà, (ii)
non ha oggetto norme ma fatti, (iii) conferisce ad un soggetto poteri specifici. Ora, prescindendo
dalla interpretazione scientifica, elaborata dalla dottrina, e dalla interpretazione autentica, elaborata
dal legislatore, e guardando alla interpretazione pratica, quale è quella riservata al giudice, Troper
scandaglia i principi ricorrenti in materia di interpretazione giudiziale.
Egli osserva che: non vi può essere una interpretazione riconducibile alla intenzione del legislatore,
perché si tratta di una attribuzione fittizia di volontà; che non vi è un significato oggettivo,
indipendente dalle intenzioni; che non vi può essere interpretazione di una norma, ma solo di un
testo, in quanto la "norma" è essa stessa un significato. L’autore dell’interpretazione in primo luogo
deve decidere se l’enunciato da interpretare abbia i requisiti della disposizione giuridica, decide in
altri termini sulla sua validità, ma semplicemente può farlo prendendo atto che la norma è stata
prodotta nel corso del procedimento interpretativo. L’interpretazione verte non solo su enunciati,
ma anche su fatti. In altri termini, l’interprete qualifica i fatti, senza però fare apparire questa
operazione come un atto di volontà.
L’interpretazione rilevante dunque è solo quella resa dal soggetto che ne ha l’autorità, cioè dal
soggetto al quale l’ordinamento riconosce un potere interpretativo che produce effetti vincolanti. Il
discorso allora porta ad indagare chi sia il soggetto dotato di tale potere: cioè l’autorità legislativa e
il giudice.
Quali sono i limiti posti all’interprete? Troper distingue tra "libero arbitrio" e "libertà in senso
giuridico". Se interpretare significa decidere il significato di un testo, e quindi non significa
"ritrovare il significato" preordinato di quel testo, si potrebbe arguirne che il giudice sia libero di
esprimere una qualsiasi volontà, mentre i giudici – egli sottolinea – preferiscono sentirsi limitati
(nella nostra esperienza, appaiono limitati dalle regole legislative dettate per l’interpretazione,
anche se, come si sa, quelle regole sono solo procedimentali). Al fine di evitare la decisione
arbitraria, la giurisprudenza tende a formarsi un orientamento coerente per non rendere le decisioni
del tutto imprevedibili. Non per questo si deve ritenere che il giudice "applichi" e "non crei" il
diritto. Inoltre, i vincoli imposti al giudice non sono forti, ma deboli perché i suoi comportamenti se
arbitrari sono suscettibili di correzione e di sanzione, se non arbitrari sono possibili, e quindi
conformi all’ordinamento.
In questo quadro, Troper sottolinea inoltre che – considerando l’attività giurisdizionale – non si può
considerare "giurisprudenza" solo il complesso delle decisioni, cioè il prodotto dell’attività
giudiziale, ma anche il complesso dei comportamenti dei giudici, cioè i metodi e i sistemi di concetti
che consentono di pervenire alle regole giurisprudenziali.
Una coerente elaborazione della teoria dell’interpretazione che si potrebbe ascrivere a questo
indirizzo è stata o è poco riformulata da Rodolfo Sacco.
Anziché parlare, come fa Troper, di interpretazione come comportamento descrittivo di un
significato e di interpretazione come comportamento volitivo, di imposizione di un significato,
Rodolfo Sacco (273) – nello schema logico consistente nell’oggetto, nel soggetto, nell’atto e nel
risultato della interpretazione – delinea l’alternativa dell’interpretazione in due opzioni: esaminare il
testo legale per riconoscergli un significato, conformare il significato del testo legale; ma le due
formulazioni, diverse nella loro espressione lessicale, si corrispondono quanto ai contenuti.
Interpretare, per il giurista, significa compiere operazioni su di un testo, nel quale si contengono due
oggetti: la dichiarazione legislativa, a cui si vuol attribuire un senso, e la norma, a cui si vuol
trovare il contenuto. La distinzione tra interpretazione e applicazione, in questo contesto, appare
fallace, perché l’interpretazione si compone di diversi momenti, in cui la ricerca del significato e la
sua concreta realizzazione nella decisione del caso sono intimamente legate. D’altra parte, la
descrizione dell’attività applicativa del giudice come attività logica fondata sul sillogismo, sostenuta
da una secolare tradizione, è stata superata già nel secolo scorso: l’interpretazione/applicazione del
diritto non è un atto astratto, perché il giudice nel ciò fare si prefigura le conseguenze pratiche della
sua attività ermeneutica. In questo senso, il sillogismo può essere omesso in quanto il giudice
decide la soluzione del caso sospinto dalla sua idea di giustizia del caso (singolo).
L’oggetto dell’interpretazione riguarda il testo, un testo al quale si possono dare molteplici
significati; il primo è quello che gli assegna l’autore; una volta distaccato dal suo autore, il testo
vive nel momento in cui viene interpretato, non ha un suo proprio significato oggettivo, non può
essere considerato "chiaro" e quindi non suscettibile di interpretazione. Per uscire dalla babele della
pluralità dei significati, tutti possibili, di un testo che, invece, per sua natura, dovrebbe dare direttive
e certezze univoche, si è costruita la finzione della volontà del legislatore, creazione illuministica
che dalla volontà dell’autorità faceva discendere il significato della norma; d’altra parte, come
stabilire quale fosse, psichicamente, orientata la volontà di coloro che hanno concorso a creare la
norma? Il soggetto dell’interpretazione è una persona umana, il giudice è l’interprete più
qualificato.
Egli può essere considerato sia individualmente, nell’atto di interpretare/applicare/decidere, sia
collettivamente, nel contesto dell’organo cui è attribuito il potere di decidere. In ogni caso, la
personalità dell’interprete si riflette sull’interpretazione.
E veniamo all’atto, cioè al procedimento ermeneutico. Il procedimento si comprende nel suo
svolgimento storico, dalla lotta allo spirito della legge e al dogma, sferrato dai giusliberisti alla fine
dell’Ottocento, e dai giusrealisti della prima metà del Novecento. Come si deve orientare
l’interprete nella scelta dei significati? Vi sono canoni che gli impongono di scegliere un significato
tecnico in alternativa a quello comune, o un significato estensivo in alternativa a quello restrittivo, o
viceversa; vi sono canoni che fanno riferimento a precetti nati fuori dal diritto, come i precetti di
ragione; vi sono canoni che gli indicano elementi tratti dal reale extragiuridico, come gli interessi,
gli scopi, i valori. Studioso della lingua qual è, Sacco si dedica in primo luogo alla analisi lessicale
del testo (274), poi all’ "arte di estrarre il senso dal testo", metodologia tipica della tradizione
bimillenaria di origine romana che credeva che il testo avesse un significato oggettivo. Di qui allora
le regole dell’interpretazione che via via si affinano nel corso delle epoche. Ma la filosofia analitica
ha ben distinto tra testo e atto linguistico con funzioni normative, anche se ha richiamato l’interprete
al testo, inibendogli di utilizzare strumenti o fattori estranei ad esso. Ma l’interprete non si
assoggetta alla tirannia del testo: la storia della interpretazione, e in particolare la storia della
interpretazione giuridica ci insegna che di volta in volta l’interprete ha interpretato il testo con
modelli razionali, con modelli analogici, con modelli economici, con modelli dogmatici, con
modelli storicistici, con modelli realistici e sociologici. Soprattutto sono emersi fattori extragiuridici
ad orientare l’interprete: la "ratio", che si presenta o come la cultura del giurista, o come lo scopo
della norma, gli interessi in gioco, il valore.
Come si regola allora l’interprete? In primo luogo, eliminati i significati assurdi, cerca di orientarsi
tra significati che darebbero luogo a un’interpretazione "corretta", e i significati che potrebbero
essere il risultato di una interpretazione "sbagliata"; è chiaro che la distinzione tra i primi e i secondi
è solo temporanea, dal momento che l’interpretazione è suscettibile di cambiamento. Nella nostra
esperienza l’interprete è vincolato ai criteri ermeneutici stabiliti dalla legge, cioè dalle preleggi e
deve tenere in conto, ovviamente, il dettato costituzionale. Tuttavia, i canoni legislativi non
esauriscono i compiti dell’interprete, sicché l’interprete, per portare a compimento il suo compito, si
affida alla propria cultura, e quindi mette in atto un processo di "precomprensione" (secondo gli
indirizzi metodologici inaugurati da Schleiermacher, Nietsche, Heidegger, Gadamer, Esser,
Ricoeur). In questa compagine degli ermeneuti figura anche il nostro Betti, il quale, tuttavia, pur
essendo considerato uno dei precursori dell’ermeneutica in Italia, propugnava un significato
oggettivo del testo, che lo isolava da tutti gli altri ermeneutici, soggettisti convinti. La
precomprensione ci aiuta a capire i due livelli del processo ermeneutico: il primo consiste nel
"fondo", da cui l’interprete estrae le sue nozioni, i suoi valori, le sue reazioni; il secondo consiste
nella tecnica finalizzata al risultato, che consiste nell’argomentazione.
Sacco richiama gli studi sulla teoria dell’argomentazione cui si sono dedicati soprattutto i teorici del
diritto, i filosofi analisti, la componente tedesca della filosofia analitica, la componente positiva
della filosofia realistica statunitense, e così via. In conclusione, l’impatto della interpretazione
avviene dunque attraverso modelli, schemi, linguaggi, che l’interprete sceglie sia a seconda
dell’indirizzo ermeneutico a cui appartiene, sia [diremmo noi] fingendo di applicare le regole
giuridiche impostegli dal legislatore. Di qui la distinzione tra interpretazione letterale, teleologica,
restrittiva, estensiva, analogica, per principi. Il risultato dell’operazione ermeneutica è dunque il
precipitato di tutte queste componenti.
10. – Tra gli autori del mondo anglo-americano più noti nel nostro Paese il giurista che ha riscosso
maggior successo –insieme con Guido Calabresi e Richard Poster – è senz’altro Ronald Dworkin,
soprattutto a seguito della traduzione in lingua italiana della sua prima monografia su I diritti presi
sul serio a cui hanno fatto seguito le traduzioni di altri contributi di notevole rilevanza. Non è questa
la sede, ovviamente, per riassumere il suo pensiero, ma val la pena di segnalare alcuni dei problemi
che egli ha posto sul tappeto, perché, pur tratti dalle esperienze di common law, possono essere
estesi alle esperienze continentali.
La prima questione riguarda la decisione dei c.d. "casi difficili" e il ruolo politico del giudice nella
loro soluzione. Dworkin segnala come molte delle decisioni dei giudici inglesi o statunitensi
abbiano un contenuto politico, nel senso di esprimere valutazioni che, pur rimanendo espressione
del giudicante, sono condivise da alcune parti politiche contrapposte ad altre. Ma il problema che si
pone non è tanto se le decisioni possano avere carattere politico (una semplice constatazione di ciò
che avviene condurrebbe comunque alla risposta affermativa) ma piuttosto se debbano o non
debbano avere contenuto politico.
L’opinione comune in Gran Bretagna è che i giudici debbano astenersi dal formulare decisioni
aventi contenuto politico, anche se molte decisioni che hanno fatto scalpore esibivano questa
connotazione. Si registrano infatti casi (Charter, Dockers) in cui si è escluso che i circoli politici
non dovessero discriminare persone di colore, casi in cui si è ritenuta la sussistenza di un reato
ancorché esso non fosse previsto per legge (ad es., nel caso Shaw a proposito della compilazione di
un annuario di prostitute). Per contro, l’opinione comune negli Stati Uniti è che i giudici
naturalmente esprimano valutazioni e quindi formino decisioni di natura politica (in primis, i giudici
della Corte Suprema), anche se non proprio tutti condividono questa posizione.
Dworkin ritiene che la contrapposizione radicale di questi due orientamenti sia rozza, e debba
quindi meritare una più articolata discussione; egli ritiene che i giudici debbano fondare la loro
decisione su argomenti di principio politico, non su argomenti di indirizzo politico.
La seconda questione riguarda l’interpretazione della legge, o, in altre parole il "principio di
legalità", e si può condensare nella domanda se il giudice sia tenuto ad interpretare la legge in modo
formalista oppure possa, mediante l’interpretazione, raggiungere risultati di giustizia sostanziale; la
questione si basa su una premessa del ragionamento di Dworkin che muove dalla esistenza di diritti
di cui sono titolari gli individui: diritti di natura giuridica e morale, nei confronti degli altri individui
e di natura politica nei confronti dello Stato. La società "giusta" non sarebbe allora solo tale perché
non viola tali diritti, ma sarebbe tale perché si conforma a quei diritti. Il punto debole della teoria –
secondo il formalista – consiste nella concezione di "diritti morali" che estende le pretese che i
singoli possono azionare nei confronti dei terzi e dello Stato.
Le due questioni sono tra loro connesse: il giudice che debba decidere un caso dubbio non può,
secondo i formalisti, esprimere una personale valutazione politica; se invece dà peso ai diritti
morali, la sua decisione non sarà più arbitraria, anche se non fondata sulle regole formali.
Dworkin aggiunge un tassello alla sua teoria: considera le regole che il giudice deve applicare come
un codice comunicativo, mentre, nella teoria formalista dell’interpretazione, la regola è una
espressione semantica che impone al giudice di risolvere la questione dubbia ricorrendo alla
semantica. Questa tecnica è diffusa in Gran Bretagna, mentre negli U.S.A. è più diffusa la tecnica
che si affida alla psicologia di gruppo. Nel caso dei circoli che escludono potenziali associati di
colore il giudice inglese deve ricamare sulle espressioni normative che riguardano le categorie degli
associati, mentre il giudice statunitense deve ragionare sugli interessi del gruppo potenzialmente
escluso.
Allora, per risolvere il problema della ammissione o meno di persone di colore in un circolo,
l’indirizzo formalista impone al giudice di andare alla ricerca della volontà del legislatore, per poter
trovare la risposta: e il giudice deve decidere non congetturando come il legislatore avrebbe dovuto
risolvere il caso, ma decidere se la soluzione individuata sia conforme al testo così come era stato
concepito dal legislatore. Per contro, accogliendo la premessa dei diritti morali, il giudice si deve
chiedere se il diritto morale fatto valere dall’attore sia fondato. Per dare risposta a questo
interrogativo, occorre ampliare la concezione di "diritto" di cui il giudice si fa portatore; volendo
includere anche i diritti morali, il giudice non è costretto ad applicare solo le regole legislativamente
poste (un codice, ad esempio) ma i diritti morali che una democrazia beneordinata riconosce ai
singoli individui. Per evitare che la ricerca dei diritti morali sconfini nel puro arbitrio, Dworkin
ricorre ai principi: essi sono fondativi di diritti morali, che si uniformano, sono coerenti, con le
regole legislative (cioè con il "codice" da applicare). In caso di contrasto tra principi, prevale il
principio che privilegia i diritti morali. In questo senso – e solo in questo senso – la decisione del
giudice è una decisione politica. Nell’ottica di Dworkin, dunque, non si viola il principio di legalità,
ma se ne propone un significato diverso rispetto a quello accolto dai formalisti. Nella sua ottica il
principio di legalità rimane intatto.
Dworkin non si nasconde che, suggerendo questa soluzione, si potrebbe sovvertire il principio
democratico di divisione dei poteri: il giudice non si può sostituire al legislatore, e determinate
decisioni non si possono affidare ai giudici, essendo per esse naturale rivolgersi al legislatore.
L’argomento democratico è però rovesciabile: chi garantisce che il legislatore sia informato, sui
fatti, di più del giudice che deve decidere il caso difficile? E chi può garantire che il legislatore sia
meno influenzabile dall’esterno di un giudice qualsiasi? Dworkin si fa poi carico di un’altra
obiezione: mentre il legislatore – cioè i parlamentari – in caso di scelta impolitica può essere
sostituito, così non è per il giudice, il quale proprio per la sua inamovibilità potrebbe essere tentato
di assumere decisioni impolitiche, perché non condivise dalla maggioranza dei consociati. La
risposta è netta: se si dovesse accogliere l’obiezione, il giudice non potrebbe mai assumere una
decisione politica, mentre, come si sa, il giudice assume (meglio, è costretto ad assumere, nei casi
dubbi) decisioni di questo tipo. E poi, è difficile prevedere con certezza la reazione della collettività,
come dimostra il favor con cui certe decisioni della Corte Suprema degli U.S.A., apparentemente
impolitiche, sono state per contro accolte dalla collettività.
Il sistema dei diritti morali è il più garantista dei diritti delle minoranze: si tratta di diritti che solo il
giudice può tutelare, perché se fossero affidati al parlamento, prevarrebbe la posizione della
maggioranza che quei diritti non riconosce. In ogni caso, la soluzione adottata dal giudice è sempre
controllabile, sia dai giudici di grado superiore, sia, là dove esiste, ed è accessibile, dalla Corte
costituzionale. Il principio di legalità così sostenuto consente di fare giustizia tenendo conto dei
diritti individuali, piuttosto che non del "bene comune".
Dworkin ha affinato il suo metodo di analisi approfondendo la nozione di "regola" e la nozione di
"principio". Ma, atteso lo scopo di queste pagine, non è possibile procedere oltre nella descrizione
della sua tesi.
Dal punto di vista metodologico, tuttavia, è significativo rilevare che questa formulazione delle
tecniche di interpretazione della legge si affianca, senza stravolgimenti, alla metodologia consueta,
propria del giurista continentale, di dare significato alle disposizioni seguendo codici semantici
regolati dalle stesse norme interpretative. È piuttosto la individuazione dei diritti "morali" che può
creare problemi al giudice continentale, il quale, seguendo le norme e i codici usuali, preferisce
ragionare manipolando fin dove è possibile il testo della legge.
11. – Ci muoviamo dunque in un contesto culturale sempre più complesso.
Per fare il punto della situazione si può muovere dal più recente compendio in materia che si deve a
Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria (275). Il punto di partenza è dato dalla concezione del diritto
come "comunità interpretativa", nel senso che "la vita di una comunità giuridica consiste in
un’incessante e instancabile prassi interpretativa" (276). Le regole interpretative sono elaborate
dalla comunità, non solo nel campo del diritto, ma anche in altri campi (religioso, estetico,
musicale, letterario, etc.): si tratta di regole legate al momento storico che la comunità vive, e
destinate dunque a cambiare, mentre l’obiettivo della comunità rimane lo stesso. Queste regole
interpretative sono legate alle fonti di ciò che deve essere interpretato; tutto dipende dunque dal
presupposto che si pone alla base delle pratiche interpretative e dai criteri identificativi della
comunità (interpretativa). La tendenza che si è radicata tra i giuristi è nel senso di dare continuità
alle regole, per assicurare certezza nei rapporti e limiti all’arbitrio. Questa prospettiva è propria
della c.d. teoria narrativa del diritto, che distingue le regole interpretative applicate ai testi normativi
dalle regole che concernono altri tipi di testi. Il carattere prescrittivo del testo non è collegato con un
significato oggettivo-reale di quel testo, né si riduce alle intenzioni soggettive del suo autore o a
quelle di chi lo interpreta, ma è interno alle pratiche interpretative stesse, che si consolidano
nell’ambito della comunità, essendo ogni atto legato ai precedenti atti interpretativi, ed ogni atto
concorre con gli altri per "partecipare insieme al valore in vista del quale si interpreta" (277).
Divengono quindi rilevanti i presidi all’interpretazione dati dalle autorità interpretative, in primis
dall’autorità politica. Poiché le comunità sono plurime, all’interno di ogni esperienza, e poiché le
esperienze debbono governare i rapporti interni che si intrecciano nel loro ambito e i rapporti esterni
che si intrecciano tra comunità, il diritto assolve il ruolo di veicolo di comunicazione; in questo
senso il diritto è il più importante linguaggio dell’interazione sociale; si tratta allora di identificare
le convenzioni dell’uso di questo linguaggio. Si tratta di un linguaggio tecnico, che non esplicita
tutto il suo contenuto, sicché si instaura un rapporto tra il "detto" e il "non detto", denominato
"circolo ermeneutico". Per procedere alla interpretazione occorre conoscere le convenzioni
linguistiche e i principi strutturali della pratica interpretativa. Consuetudine, legge, contratto,
autoregolazione [che sono poi le fonti delle regole a cui si affida la vita dei consociati] sono le
modalità principali di comunicazione giuridica (278). Per argomentare occorre interpretare, ma si
può salvare una distinzione tra interpretazione e argomentazione. L’interpretazione concerne la
relazione tra testo, soggetto-interprete e nuovo testo, quale prodotto dell’interpretazione;
l’argomentazione implica una relazione tra il soggetto che la propone, una situazione discorsiva e
un uditorio da convincere. Ogni argomentazione si basa su di un ragionamento; il ragionamento
dipende dal tipo di testo da interpretare e dalla cultura giuridica in cui si cala il processo
interpretativo.
Viola e Zaccaria propendono per la concezione semantica dell’interpretazione, cioè come processo
finalizzato alla attribuzione di un significato ad un testo (279), processo che comprende anche il
risultato dell’interpretazione; all’interno dell’interpretazione si distinguono due operazioni, cioè (i)
comprendere e (ii) spiegare il testo. Anche se l’interpretazione può avere una finalità scientifica,
nell’ambito del diritto l’interpretazione ha essenzialmente una finalità pratica, cioè la soluzione di
casi concreti originati da controversie; in questo senso l’interpretazione non può essere disgiunta
dalla applicazione e quindi dalla decisione. L’enunciato normativo è dunque il risultato del
prodotto dell’interpretazione/applicazione, cioè della funzione creativa del giudice. Non si tratta
però di una creatività completamente libera, perché l’interpretazione del testo (giuridico) muove da
quel testo, e si concreta nel significato intersoggettivo dell’intenzione del parlante e della reazione
dell’ascoltatore, sicché rimane superata la teoria imperativistica che riduce l’interpretazione alla
scoperta delle intenzioni dell’autore del testo. L’interpretazione non è solo scoperta del significato
di un testo, ma anche creatività dell’interprete: una creatività derivata, non originaria, in quanto il
legame dell’interprete al testo non può essere rescisso (280).
Nel processo storico che contrassegna le comunità interpretative si sono codificati diversi tipi di
interpretazione del testo normativo, che dipendono dai diversi soggetti, qualificati da diversi status,
che compiono l’interpretazione (il legislatore, il giudice, l’autorità amministrativa, il privato). Il
giudice filtra l’interpretazione attraverso la dogmatica.
Sulla base di queste premesse epistemologiche si può ora tentare di rispondere alle domande
cruciali dell’interpretazione: come, cosa, perché interpretare?
Come interpretare? Molteplici sono i modelli teorici dell’interpretazione, ma due sono quelli oggi
prevalenti: la teoria giuspositivistica e la teoria ermeneutica.
Il primo modello ritiene che l’interprete formi la sua pronuncia mediante semplici deduzioni di tipo
logico dai contenuti delle norme giuridiche (interpretazione esegetica ed interpretazione
sistematica); si ricade quindi nel sillogismo della sussunzione di tipo logico dei fatti nella
disposizione. Esso si basa dunque sulla univocità dei significati del testo, sulla unità delle fonti
normative, sulla autoconsistenza e sulla coerenza del diritto positivo. Tutti i criteri esposti nelle
preleggi si fondano su questo modello. Ma si tratta di un modello fallace, perché nessuno dei
presupposti sui quali esso poggia resiste alla critica.
Il secondo modello ritiene che la norma non esista al di fuori del circolo ermeneutico, la sua
comprensione è un fenomeno reale, e si svolge in una dimensione relazionale e comunicativa;
l’interprete opera sulla base della precomprensione, che non scade nella soggettività, perché si
colloca nell’ambito della comunità interpretativa, la quale sviluppa convenzioni, prassi, regole
dell’agire interpretativo. Il testo è un momento del racconto normativo: l’interprete avvia il
racconto, sulla base di ciò che già conosce, ma non sa ancora quel che scoprirà. Per giungere al
momento finale del racconto, l’interprete deve seguire regole coerenti, cioè essere ragionevole, nel
senso di impiegare argomentazioni ragionevoli. Di qui l’elaborazione del metodo interpretativo,
che dal secolo scorso ad oggi via via i giuristi hanno edificato. Di qui ancora la pluralità di metodi
interpretativi che non sono tra loro antitetici, in quanto tutti concorrono in modo complementare a
concludere il "processo di concretizzazione del diritto" (281).
Cosa interpretare? I giuristi hanno elaborato in modo quasi ossessivo le regole inerenti
l’interpretazione del testo, da quella letterale a quella teleologica, a quella sistematica, etc.
Ovviamente, è rilevante la distinzione tra tipi di testo (normativo e non normativo) e tra tipologie di
testi giuridici (ad es., legge, contratto, testamento). Le fonti del diritto giocano un ruolo essenziale
al riguardo: i giudici debbono partire dalle fonti per interpretare il testo. L’approccio ermeneutico
alle fonti del diritto muove dalla insufficienza delle fonti formali ai fini della determinazione del
diritto in concreto, ma non si spinge fino alla creazione libera del diritto, dovendosi affidare a regole
e principi, e questi ultimi, con la loro molteplice finalità, costituiscono il margine di confine tra il
diritto positivo e il mondo di valori in cui si muove l’interprete (282).
Perché interpretare? La concezione ermeneutica dell’interpretazione nasce dalla crisi della
dogmatica tradizionale, che ritiene essere il diritto un fatto oggettivo esterno all’interpretazione, che
l’interprete può solo descrivere mediante operazioni esegetiche e logico – sistematiche. Per contro
ogni interpretazione si risolve in una "trasformazione" del materiale giuridico presupponendo la
scissione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto; il testo è collocato nel suo con-testo, il
discorso normativo "deve fare i conti col fatto che è destinato a valere nella vita e nell’esperienza
concreta e perciò a misurarsi con i contesti di azione e comunicazione" (283). La teoria analitica ha
il merito di aver depurato il ragionamento ermeneutico dalle aporie, ma non va al di là dell’analisi
del testo e così pure la teoria analitica intesa come complesso descrittivo dei comportamenti
dell’interprete. L’ermeneutica si avvale della dogmatica e della teoria analitica per costruire il
rigore scientifico del processo interpretativo, ma va al di là di entrambe perché va al di là del
concetto di diritto come linguaggio normativo: essa si sforza di scoprire – per dirla con Ricoeur –
"le condizioni propriamente ontologiche del comprendere" (284) e si sforza di identificare i
procedimenti conoscitivi giuridici, attraverso la precomprensione. Interpretare è un atto umano, un
atto collocato in un contesto sociale e professionale, un atto storico. L’ermeneutica cerca di
descrivere ciò che avviene nell’atto interpretativo e di delineare un metodo "che sottoponendo la
precomprensione al controllo razionale rappresentato dal confronto con il testo, consente il
passaggio da una comprensione provvisoria ad una comprensione fondata" (285). Il diritto non è
solo interpretazione, è comprensione unita alla vita pratica. Di qui allora, una nuova concezione –
ermeneutica – del diritto.
In questa ottica il diritto è un "evento di discorso" che serve a comunicare le intenzioni dei
partecipanti ma soprattutto a tessere una forma di vita comune. Il diritto non è un’idea, non è un
valore, non è un insieme di procedure sociali, è una "impresa comune tra esseri liberi e autonomi"
(...) "bisognosi gli uni degli altri per realizzare ognuno una vita ben riuscita" (286). E la concezione
ermeneutica del diritto non ha solo un’ambizione conoscitiva, ma anche una ambizione pratica, cioè
organizzare la vita sociale secondo i canoni di una società giusta; per concludere "il diritto richiede
l’interpretazione perché tende alla giustizia, non solo e non tanto perché è il prodotto di un’autorità
legittima" (287).
Il panorama che si è sinteticamente tracciato dimostra come sia fondata l’opinione secondo la quale
oggi non solo si assista alla pratica di un pluralismo metodologico, ma che essa non sia
riconducibile ad un unico modello e che il pluralismo sia condizione necessaria per rendere
vivificante il mondo del diritto, per non astrarlo dalla realtà, per non ridurlo negli schemi asfittici
di un’arida esercitazione grammaticale e sintattica. Soprattutto, per poter comprendere i
comportamenti dell’interprete e sottoporli al vaglio critico.
(1) Voce Méthodes, De la sociologie du droit, p. 372.
(2) Voce Méthodologie juridique, p. 373.
(3) Op. cit., p. 374.
(4) Che condivido con Salvatore Mazzamuto e Luca Nivarra, per i quali "il civilista italiano, che
pure rivela una singolare propensione a riprendere in modo creativo suggestioni ed istanze
metodologiche maturate in aree culturali diverse, non sembra altrettanto incline a misurarsi con un
"discorso sul metodo" che trascenda il piano della analisi giuridica stricto sensu ancorché svolta,
talora, con strumenti di indagine assai raffinati" (Presentazione, a Pawlowski, Introduzione alla
metodologia giuridica, Milano, 1993, p. ix.).
(5) Falzea, Mengoni, Irti.
(6) V. però Bobbio, voce Metodo, in Noviss. Dig. it., Utet, 1957.
(7) Bobbio, voce Metodo, cit.
(8) Ora pubblicato a cura di Irti.
(9) Diritto romano, Milano 1935.
(10) Dispute metodologiche e contrasti di valutazione, in Riv. tri. dir. proc. civ., 1953, p. 115 ss. a
proposito del volume di Mueller-Erzbach, Die Rechswissenschaft im Umbau – Ihr Vordringen zu
den bestimmenden Elementen des Zusammenleben, Monaco, 1950 e di Klug, Jusistische Logik,
Berlino, 1951.
(11) Sui quali v. infra.
(12) Per contro, i civilisti tengono in grande considerazione – né potrebbero fare altrimenti – le
opere di Norberto Bobbio, di Uberto Scarpelli, di Giovanni Tarello, di Vittorio Frosini, di Gaetano
Carcaterra, di Luigi Lombardi Vallari, di Luigi Ferrajoli, di Riccardo Guastino tanto per citare
alcuni tra i teorici del diritto con i quali essi hanno maggior dimestichezza (di Bobbio v. soprattutto
Giusnaturalismo e giuspositivismo, Milano, ...; Teoria della scienza giuridica, Milano, 1950; di
Scarpelli, Contributo alla semantica del linguaggio normativo, Milano, 1959; Introduzione a Diritto
e analisi del linguaggio, Milano, 1976; di Tarello v. in particolare Diritto, enunciati, usi. Studi di
teoria e metateoria del diritto, Bologna, 1950, nonché il volume su L’interpretazione della legge,
Milano, 1980; di Lombari Vallari v. soprattutto il Saggio sul diritto giurisprudenziale, rist. inalt.,
Milano, 1975; di Guastini, Le fonti del diritto, Milano, 1998. Le traduzioni recenti, però, hanno
arricchito il panorama: si pensi alle opere di Hans Martin Pawlowski e di Robert Alexy, per non
parlare di Chaim Perelman, degli esponenti del realismo giuridico americano e scandinavo, e degli
esponenti dell’ermeneutica giuridica.
(13) Il metodo della ricerca civilistica, in Riv. crit. dir. priv., 1990, p. 7 ss.
(14) Storia del metodo nella scienza giuridica, Milano, 1966, trad. it. di Ventura dell’edizione
tedesca del 1960.
(15) Metodologia giuridica nel secolo XIX, Milano, 1974, trad. it. di Lucchini, dell’edizione tedesca
del 1958.
(16) Apparsa in Germania nel 1953, trad. it. di Crifò.
(17) Parte I. Il concetto del diritto, Milano, 1996.
(18) Introduzione allo studio del diritto privato. II. Profilo storico delle metodologie (saggi), Torino,
1974, p. 127 ss.
(19) Op. cit., p. 130.
(20) Op. cit., p. 134.
(21) Sul punto v. Alpa, I principi generali, Milano, 1993, ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici.
(22) Topica e giurisprudenza, a cura di Crifò, Milano, 1962 (su Vieweg v. anche Mengoni, Diritto e
valori, cit., p. 28 ss). Spiega Crifò nella pregevole introduzione che la topica, teoria dei luoghi
comuni, è una tecnica della discussione, l’arte mediante la quale è possibile trovare punti di vista ed
argomenti nel trattare problemi che non sono risolubili in modo deduttivo; questo modo di ragionare
dialettico è tipico della retorica di Aristotele e di Cicerone, ed è divenuta nei secoli tipica del
ragionamento giuridico, che non procede per sentenze apodittiche, ma, sulla base di determinate
premesse (assiomi) in via problematica e per via di tentativi giunge ad una conclusione. Merito di
Vieweg è appunto quello di illustrare in poche pagine lo sviluppo storico di questa tecnica e l’aver
richiamato l’attenzione sull’uso costante di questa tecnica – anche se spesso inconsapevole – nel
ragionamento dei giuristi; egli indaga "non tanto la misura della influenza ed efficienza della
retorica, quanto le ragioni che fondano tale fenomeno e lo rendono, appunto, un elemento strutturale
di quel ragionamento (Crifò, op. ult. cit., p. x).
Straordinari sono anche i lavori di Chaim Perelman, che, per la loro rilevanza, sono stati tradotti
nella nostra lingua: v. in particolare Logica giuridica nuova retorica (con un’utile introduzione di
Giuliani), Milano, 1979; del medesimo A. in collaborazione con Olbrechts-Tyteca v. Trattato
dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino, 1966 (rist. 1976), con prefazione di Bobbio.
Sempre a Perelman (in collaborazione con Foriers) si deve la raccolta di studi di Aa.Vv. sul tema de
Les présomptions et les fictions en droit, Bruxelles, 1974, e (in collaborazione con Vander Elst) la
raccolta di studi di Aa.Vv. su Les notions à contenu variable en droit, Bruxelles, 1984.
(23) Teoria dell’argomentazione giuridica. La teoria del discorso razionale come teoria della
motivazione giuridica, a cura e con uno scritto di La Torre e presentazione di Mengoni, Milano,
1998.
(24) Mengoni, Diritto e valori, cit., p. 92 ss.
(25) Al riguardo v. soprattutto Lombardi Vallari, Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit.
(26) Genova, 1990. Il pensiero di Strauss non è stato oggetto di studi approfonditi (fa eccezione la
monografia di Cubeddu, Leo Strauss e la filosofia politica moderna, E.S.I., Napoli, 1983; tra le
recensioni oltre a quelle di Fassò, di cui si dirà più oltre, v. Giancolti, alla traduzione francese del
saggio sulla tirannide in Rass. Fil., 1954, p. 383; Leoni, Giudizi di valore e scienza politica.
Risposta al professar Strauss, ne Il Politico, 1957, I, p. 86 ss.; Carnelutti, L’antinomia del diritto
naturale, in Riv. dir. proc., 1959, IV, p. 514; Sasso, in Giorn. crit. Fil. it., 1961, p. 51; Momigliano,
Ermeneutica e pensiero politico in Leo Strauss, in Riv. stor. it., 1967, p. 1164 ss.); ciò nonostante le
diverse traduzioni che si sono succedute negli anni recenti (mi riferisco soprattutto ai Pensieri su
Machiavelli, trad. it. di De Stefano, Milano, 1970, a Liberalismo antico e moderno, trad. it. di
Antonelli e Geraci, Milano, 1973; a La tirannide. Saggio sul. Gerone di Senofonte, a cura di
Mercadante, Milano, 1968; più recente, v. Che cos’è la filosofia politica? Scritti su Hobbes ed altri
saggi, a cura di Taboni, Urbino, 1977; e Scrittura e persecuzione, a cura di Ferrara e Profili, Padova,
1990.). Di solito è assente dal dibattito culturale ed accademico, anche se oggi si riscopre il suo
apporto all’ermeneutica (Taboni, op. cit., p. 17 ss.; ma v. il saggio di Momigliano, cit.), alla critica
dello storicismo Matteucci, Alla ricerca dell’ordine politico, Bologna, 1984, p. 20 s., all’ebraismo
tedesco (Ferrara, Leo Strauss e i silenzi della filosofia, introduzione a Scrittura e persecuzione, op.
cit.), oltre che alla critica della filosofia politica (v. più oltre l’opinione di Viano e degli studiosi
della Scuola genovese di filosofia del diritto). Qualcuno lo ha addirittura definito "uno scrittore
irritante, cui si comincia a riconoscere con ritardo la statura di capostipite di una generazione di
moralisti venuti dopo il diluvio". E la sua posizione "radicale", con toni iconoclastici, ha costituito
un impatto "duro (...), per la cultura italiana viziata da un cattivo storicismo e da troppo
sociologismo" (sono parole di Matteucci, op. cit., p. 21; Taboni, op. cit., p. 24, introduzione a Che
cos’è la filosofia politica, parla di "levata di scudi" che sollevò un "dissenso radicale").
È il suo rigore deduttivo, la sua attenzione filologica, la compattezza della sua architettura ideale o
forse la stessa rappresentazione dei pensatori greci, medievali e moderni in una luce tagliente e
fredda che alimentano queste reazioni, e che all’interno di una attenta analisi esegetica dei testi, lo
rendono lontano, arrogante, talvolta apodittico.
Fu data alle stampe nel 1953, ma i suoi contenuti erano già noti perché provenivano dalle
"Walgreen lectures", professate da Strauss all’Università di Chicago nel 1949. L’autore le aveva già
pubblicate separatamente: il saggio sulla filosofia politica di Hobbes in Rev. int. phil., 1958, p.405
ss.; il saggio sul diritto naturale e l’approccio storico, in Rev. of politics, 1950, p. 422 s.; il saggio su
Weber in Measure, 1952, p. 204 s.; il saggio sull’origine dell’idea del diritto naturale, in Social
research, 1952, p. 23; il saggio sulla teoria di Locke in Phil. Rev., 1952, p. 475. L’opera fu subito
tradotta in molte lingue e suscitò grande interesse, insieme con vivaci polemiche. In Verità e
metodo Gadamer, trattando della concezione aristotelica del diritto naturale, ricorda la recensione di
Kuhn, in "Zeitschrift fiir Politikll", 1956, fasc. 4 (a cura di Vattimo, Milano, 1983, p. 370); Aron, in
Max Weber. le savant et la politique, Parigi, 1959, p. 3 1, esamina l’acuta polemica di Strauss con
Weber; Kojève fa seguire il suo saggio, Tyrannie et sagesse, alla traduzione francese della
Tirannide, i cui contenuti sono correlati a quelli di Diritto naturale e storia. E consensi Strauss
riceve anche da Schmitt, Le categorie del "politico", Bologna, 1972, p. 138, n. 40; (lo stesso Strauss
aveva fatto una modesta recensione del concetto politico in "Arch. für social. und social Politik",
1932, p. 732).
(27) Int. Enc. of the Social Science (vol. 1 1, p. 80, 1968), ora riprodotta in Studies in Platonic
Political Philosophy, Univ. of Chicago Press, 1983, cap. 6.
(28) Falzone, Palermo e Cosentino, La Costituzione della Repubblica Italiana, 1980, Roma, p. 27.
(29) L’On. Dossetti propose perciò come risultato della discussione generale un documento in cui si
stabiliva che una dichiarazione dei diritti dell’uomo non poteva ispirarsi ad una visione soltanto
individualistica, o ad una visione totalitaria, ma doveva riconoscere "la precedenza sostanziale della
persona umana (intesa nella completezza dei suoi bisogni; non solo materiali ma anche spirituali)
rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella" (seduta del 24 marzo 1947).
(30) Foundations of Democracy, in Ethics 1955-1956, n. 1, parte II, p. 100; ora ne La democrazia,
raccolta di saggi a cura di Gavazzi, Bologna, 1955 (1984, p. 351-352, nota 2), trad. it. di questo
saggio di Castronuovo.
(31) Diritto naturale e storicismo, Bologna, 1958, p. 239.
(32) Oggettività e soggettività nel diritto naturale, in Riv. dir. civ., 1958, I, p. 265.
(33) I termini tra parentesi sono miei. Cubeddu osserva a questo riguardo che Strauss sottolinea
come Hobbes contrappone alla legge di natura un "diritto di natura che consente di fondare la
filosofia politica sull’uomo come individuo e non sullo Stato" (op. cit., p. 223).
(34) Il corsivo è mio.
(35) Oggettività e soggettività del diritto naturale, op. cit., p. 265.
(36) Ancora sul diritto naturale, in Riv. dir. fil., 1956, p. 72, e Alcuni argomenti contro il diritto
naturale, in Riv. dir. civ., 1958, p. 253 (che nel fascicolo della rivista precede immediatamente il
saggio di Fassò). Questi saggi sono riprodotti in un volume che ha avuto grande successo,
Giusnaturalismo o positivismo giuridico, Milano, 1965, e anche grande incidenza; furono seguiti a
breve distanza di tempo dal contributo di Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965.
(37) Contro le quali aveva militato Wild, Platos Modern Enemies and the Theory of Natural Law,
U. of Chi. Press, 1953, dal cui volume Bobbio trae lo spunto delle sue confutazioni.
(38) Op. cit., p. 223.
(39) 1949: Diritto naturale vigente, Atti, Studium, 1951.
(40) La dottrina del diritto naturale, Milano, 1954.
(41) Garbagnati, Il giudice di fronte alla legge ingiusta, in Jus, 195 1, p. 437.
(42) Barbero, Rivalutazione del diritto naturale, 1952, p. 491.
(43) Lener, La certezza del diritto, il diritto naturale e il magistero della Chiesa, in Scritti in onore di
F. Carnelutti, 1950, 1, p. 345.
(44) Le droit naturel, Parigi, 1945 uscito in Germania nel 1936 e tradotto in Italia nel 1965;
l’impostazione di Rommen era quella di un cattolico-ortodosso (così Ross, Diritto e giustizia, trad.
it. di Gavazzi, Torino, 1965, p. 215, n. 1).
(45) Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, a cura di
Giolitti, Torino, 1943.
(46) Cambridge 1934, citata nella prima nota della introduzione a Diritto naturale e storia.
(47) Fassò, Che cosa intendiamo con diritto naturale?, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1961, p. 168.
(48) Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, Bari, 1961.
(49) Op. cit., p. 194.
(50) V. la seconda versione, a cura di Losano, Torino, 1966.
(51) Deuticke, Das Problem des Gerechtigkeit, Vienna, trad. it. a cura di Losano, Torino, 1975.
(52) Un. of California Press, 1957.
(53) Alla storia del diritto naturale, o meglio, dell’idea del diritto naturale dedicano attenzione
anche i giusrealisti: mettono in evidenza la contrapposizione tra il diritto naturale "conservatore" di
Eraclito (il diritto positivo come emanazione di ciò che per natura è eternamente valido) e il diritto
naturale come inteso dalla filosofia liberale del Seicento, rivoluzionaria o riformistica, che insiste
sul conflitto tra diritto positivo e legge di natura: e attribuisce al diritto naturale la funzione politica
di fornire una giustificazione, richiamandosi alla sacertà di un ordinamento più alto, per la
"risoluzione delle condizioni sociali cui essa mira" (Ross, Diritto e giustizia, op. cit., p. 222). La
conclusione è che la storia del diritto naturale "rivela due punti sorprendenti: l’arbitrarietà dei
postulati fondamentali concernenti la natura dell’esistenza e dell’uomo; e l’arbitrarietà delle idee
giuridico-morali che sono state sviluppate su questa base". La ricerca dell’assoluto, di ciò che deve
rendere il diritto qualcosa di più che una creazione dell’uomo per i giusrealisti è una ricerca vana:
"l’esperienza mostra che le dottrine costruite dagli uomini su questo fondamento, ben lungi
dall’essere eterne e immutabili, sono mutate a seconda dei tempi, dei luoghi e delle persone" (Ross,
op. cit., p. 243). D’altra parte l’indifferenza per i diritti umani dei giusrealisti è proverbiale:
Hágerstróm non se ne è mai interessato e in Svezia i diritti umani sono stati per lo più considerati
come "oggetti da esporre in vetrina: ma parlarne, dal punto di vista giuridico, sembra quasi
indelicato", come senza troppa celia osservò un alto magistrato ad un congresso organizzato a
Stoccolma sui diritti umani (la battuta è riportata da Sundberg, L’irrealismo scandinavo, in
Materiali, 1984, p. 188).
(54) Strauss nasce infatti a Kirchhaim, nell’Assia, il 20 settembre 1899; nel 1917 è militare
nell’esercito tedesco; e giovanissimo comincia ad occuparsi di scienza della politica, filosofia della
politica e cultura ebraica. Studia nelle Università di Marburgo, Francoforte sul Meno, Berlino e
Amburgo, dove si laurea discutendo una tesi sul problema della conoscenza nel pensiero di Jacobi.
Basta scorrere l’accurata rassegna bibliografica offerta da uno dei suoi più devoti cultori, Pangle, in
appendice alla raccolta postuma di alcuni suoi saggi, Studies in Platonic Political Philosophy, (Un.
of Chicago Press, 1983, pag. 249 ss., ed. 1986) per avvedersi che Strauss è un solerte, fecondo
scrittore, che alterna studi sulla società a studi sulle topiche fondamentali dell’ebraismo. Già
dall’inizio, quindi, il "laboratorio di pensiero" di Strauss è complesso, intrecciato di storia, filologia,
religione, politica, filosofia.
Dai primi scritti egli rilegge criticamente i grandi pensatori di origine ebraica: studia Jacobi (1925),
il conflitto di sionismo e antisemitismo (1923), Cohen e Spinoza (1924), le Sacre Scritture (1925) e
soprattutto Moses Mendelssohn (1931-1932). È infatti (dal 1925 al 1932) assistente all’Accademia
di studi ebraici di Berlino, e contribuisce all’edizione nazionale degli scritti filosofici di Moses
Mendelssohn.
Questo amore, senza iattanza, senza preconcetti, senza complessi di superiorità, lo seguirà per tutta
la vita. D’altra parte, il suo colloquio con i saggi della storia sembra un fiore che si rigenera
continuamente: le pagine che dedica a Maimonide (Avviamento allo studio della "Guida degli
incerti", in Liberalismo antico e moderno, cit., pag. 177) sono così belle da apparire quasi toccanti.
Nel 1932, poco prima dell’avvento del nazismo si trasferisce dapprima in Francia come borsista
della Fondazione Rockfeller; pubblica studi su di Hobbes, Maimonide, Farabi, e poi raggiunge gli
Stati Uniti, infoltendo la schiera degli esuli colà rifugiati e fondando una vera e propria scuola di
pensiero politico-filosofico, prima a New York, presso la New School of Social Research fino al
1949, nella quale si erano raccolti i maestri più illustri, e poi all’Università di Chicago dove insegna
fino al 1968. E qui appunto approfondisce il pensiero di Socrate, Platone ed Aristotele, e ancora
Hobbes, Locke e Spinoza, esercitando, lui che aveva avuto una formazione idealistica e storicistica,
presto ripudiata, una incidenza profondissima sul pensiero nord-americano, tendenzialmente
utilitaristico e pratico. Non cessò di dedicarsi agli studi neppure in età avanzata, come dimostra la
successione dei saggi, la scoperta di Vico, il ritorno su Socrate, (come cita la prefazione a questo
libro, consegnata alle stampe dal St. John’s College, Annapolis, Maryland, nel 1970; una chiara
ricostruzione del suo pensiero si trova nella introduzione ai saggi postumi ad opera dello stesso
Pangle). Strauss non ritornerà più in Europa, e morirà nel 1973.
(55) L’indirizzo cattolico si articola in diverse versioni; di recente è comparsa la traduzione del
libro di Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, introduzione di D’Agostino, Milano,
1985 che ha una intonazione dichiaratamente tomista; ed è tornato sulla storia del diritto naturale, in
modo trasversale, Mancini, L’ethos dell’Occidente, Genova, 1990, che va alla ricerca delle "radici
morali" del diritto, con il recupero della eticità della legge, con il superamento del divario tra etica e
diritto propugnato da Grozio, Hobbes, Pufendorf e Spinoza.
Il filone laico è affollatissimo di studi. Sono comparsi i contributi dedicati a questi problemi quasi
su ogni fascicolo dei "Materiali per una storia della cultura giuridica" di Giovanni Tarello. Si pensi
agli studi di Guastini sul pensiero di Bobbio in cui la riflessione sul giusnaturalismo assume una
posizione centrale ("Materiali", 1979, p. 530 ss.); agli studi di
Rebuffa sul pensiero di Ronald Dworkin, tra costituzionalismo e giusnaturalismo (Materiali, 1980,
p. 209); ma vedi anche Il razionalismo e lo sviluppo dei sistemi giuridici moderni, ivi, 1987, p. 629;
ancora alle riflessioni di Guastini sulla metaetica di Scarpelli (Materiali, 1982, p. 545) e di
Castignone su un Hobbes "dal volto umano" (ivi, p. 533); di Comanducci su Pufendorf (Materiali,
1983, p. 191), di Chiassoni sullo stato di natura come inteso da Nosick (Materiali, 1985, p. 244); di
Becchi su diritto e natura in Hegel (Materiali, 1988, p. 343; di Viola su cinquant’anni di studi su
Hobbes (ibid., 1989, p. 42) e sempre su Hobbes la riflessione di Raphael (Materiali, 1989, p. 243) e
di Viano (Chi ha paura di John Locke?, ibid., 1990, p. 3).
(56) The Political Philosophy of Hobbes. Its Basis and its Genesis.
(57) Chicago, 1952, v. entrambe le prefazioni, con il saggio nella traduzione italiana a cura di
Taboni, op. cit., pp. 119 e 129.
(58) Torino, 1989, p. 111.
(59) Con Rawls ha fatto i conti anche Ricoeur, Etica e conflitto dei doveri, il tragico dell’azione, "Il
Mulino", 1990, p. 368, indicando i principi di giustizia fondatore di una "vita buona".
(60) Oltre la giustizia, Bologna, 1990.
(61) Op. cit., p. 199.
(62) Mi riferisco in particolare agli interventi di Rodotà e Veca.
(63) Il dibattito interno al pensiero laico è oggi riassunto in due volumi che, nel caleidoscopio delle
diverse interpretazioni, offrono una chiave di lettura determinante per la comprensione del ruolo
dell’etica nella società contemporanea: mi riferisco ad Etica e politica, Parma, 1984, e ad Etica e
diritto, Bari, 1986.
(64) Vol. III, Milano, 1980, p. 182.
(65) Per colmare questa lacuna sono fondamentali le pagine di Orestano (ora in Azione, diritti
soggettivi, persone giuridiche, Bologna, 1978, p. 132 e di Tarello, Storia della cultura giuridica
moderna, I, p. 97) il quale approfondisce, con l’ausilio delle fonti, la connessione tra diritto naturale
e status della persona, e l’origine dell’idea di diritto soggettivo; ma la bibliografia è vastissima ed
occorre menzionare, tra gli altri Schulz, I principi del diritto romano, a cura di Arangio-Ruiz,
Firenze, 1946, p. 29; Bretone, Storia del diritto romano, Torino, 1990, p. 212. Sull’idea di diritto
naturale in Agostino e Tommaso e sul raffronto tra le loro concezioni e lo storicismo, la filosofia di
Cicerone e il jus naturale romano insistono anche Villey e Mancini nelle opere citate.
(66) Pocar, ne I diritti umani a 40 anni dalla Dichiarazione universale, Padova, 1989.
(67) Ibid., p. 36.
(68) La Pergola, ivi, p. 41, citando Barile, al Convegno del 29 settembre-1 ottobre 1986 organizzato
a Roma dal CED della Corte di Cassazione.
(69) V. Grossi, Introduzione ad uno studio dei diritti inviolabili nella Costituzione italiana, Padova,
1972; Barbera, Principi fondamentali, sub art. 2 Cost., Bologna, 1975.
(70) Napoli, 1989.
(71) Il principio responsabilità, Torino, 1990.
(72) Per l’esperienza italiana, v. I diritti degli animali, a cura di Castignone e Battaglia, Centro di
Bioetica di Genova, 1986; per l’esperienza francese, L’homme, la nature et le droit, a cura di
Edelman e Hernútte; per l’esperienza inglese, Bartolommei, Etica e ambiente, Milano, 1989.
(73) Come precisa Borrie, Law and Morality in the Market Piace, J. of Bus. Law, 1987, p. 433.
(74) Economia e società, cit., p. 184.
(75) Pawlowski, Introduzione alla metodologia giuridica, cit., p. 119.
(76) Tarello, op. cit., 577.
(77) Op. cit., p. 92.
(78) Mengoni, op. cit., p. 97.
(79) Tarello, Il realismo giuridico americano, Milano, 1963; Castignone, Diritto, linguaggio, realtà,
Torino, 1996; Pattaro, Introduzione al corso di filosofia del diritto, Bologna, 1987; e i saggi sotto il
titolo Contributi al realismo giuridico, a cura di Pattaro, Milano, 1982.
(80) Ed. Mohr-Siebeck.
(81) Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung des Privatrechts; v. la versione spagnola
a cura di Valentì Fioi, ed. Bosch, Barcellona, 1961.
(82) RG I.ZS 2.2.1889, RGZ 24,50.
(83) Haftung fuer Schaedigung durch Sachen, Rel. al II Congresso int. di dir. comp. dell’Aja, 1937,
p. 216 ss.
(84) V. il commentario al B.G.B. di Enneccerus-Nipperdey, par. 42, I, 1, p. 168, ed. 1952.
(85) Less, Vom Wesen und Wert des Richterrechts, 1954.
(86) Grundlagen der buergerlichen Rechtsordnung, Tubinga, 1950-1952.
(87) Holland, Collected Legal Papers, 1921, p. 173.
(88) Le droít jurisprudentiel et le Tribunal Supreme en Espagne, Quad. 6, Etudes de dr. priv.e sp.,
Inst. dr. comp. Toulouse, 1942, seguito da Puig Brutau, La jurisprudencia corno fuente del derecho,
Barcellona, s.a., ma 1951 o 1952.
(89) Ascarelli, L’idea del codice nel diritto privato e la funzione dell’interpretazione, ora in Saggi
giuridici, Milano, 1949, pp. 41 ss., 59 ss.
(90) Valori giuridici supremi: così Coing, Die oberste Grundsaetze des Rechts. Ein Versuch zur
Neugruendung des Naturrechts, 1947.
(91) Così Schulz, Principi del diritto romano, 1934, trad. it. Arangio Ruiz, Firenze, 1946.
(92) Ueber Bedeutung, Herkunft und Wandlung der Grundsaetze des Privatrechts:Festgabe der ZSR
’100 Jahre Schweizerisches Recht, 1952, p. 240.
(93) L’individuo nel diritto internazionale, 1950.
(94) Philosophy of Law, 1943.
(95) Die Flucht in die Generalclauseln, 1933, p. 53.
(96) Del Vecchio, Ann. Phil. dr., 1934, p. 20.
(97) Camerino, 1880.
(98) Par. 7 A.B.G.B., art. 15 cod. civ. albertino, art. 3 cod. civ. it. del 1865, art. 6 del cod. civ.
spagnolo, art. 3 cod. civ. giapponese, artt. 565, 1135, 1854 code civil.
(99) Jolowiz, Roman Regulae and English Maxims, ne L’Europa e il diritto romano, vol. I, Milano,
1953, p. 213 ss.
(100) Alpa, Law & Literature: un inventario di questioni, in Nuova giur. civ. comm., 1997, II, p.
175 ss., e L’arte di giudicare, Roma-Bari, 1997, cap. I.
(101) Da ultimo, v. Cavalaglio, Literature v. Economics, ovvero Richard Posner e l’analisi
giusletteraria, in Riv. crit. dir. priv., 1997, p. 2015 ss.
(102) Zaccaria, L’arte dell’interpretazione, Padova, 1990, e già Ermeneutica e Giurisprudenza.
Saggio sulla metodologia di Josef Esser, Milano, 1984; Mengoni, Ermeneutica e doglianza
giuridica, Milano, 1996; Bussani, con la direzione di Derrida e Vattimo, Diritto, Giustizia
Interpretazione, Bari-Roma, 1998, Bussani, Choix et défis de l’herméneutique juiridique. Notes
minimes, in Rev. int. dr. comp., 1998, p. 735 ss.
(103) Zaccaria, L’arte, cit, p. 122.
(104) Anche a questo proposito i contributi sono una messe immensa; per tutti v. Ivainer,
L’interprètation en droit, Parigi, 1988.
(105) Alpa, L’arte di giudicare, cit., p. 5 ss. E v. Papadopoulos, Interpretazione artistica ed
ermeneutica giuridica. Variazioni su un tema di Ronald Dworkin, in Riv. dir. civ., 1998, p. 211 ss.
Oltre ai contributi di Dworkin e Posner, si segnalano gli interventi di Aa.Vv. ai dibattiti organizzati
su 60 Tex. L. Rev., 1982 e su South. Calif. L. Rev., 1985. Una coerente trattazione dei profili
letterari del diritto è ora svolta da Van Roermund, Law, Narrative and Reality. An Essay in
Intercepting Politics, Dordrecht, Boston, London, 1997.
(106) È questo il titolo del II volume del Tratt. di dir. priv., diretto e coordinato da Rodolfo Sacco,
in corso di preparazione per i tipi della Utet.
(107) Di questo A. v. ora Bien juger, Parigi, 1998.
(108) Brooks, Narrare storie senza timore? La confessione in diritto e letteratura, in Ann. Ermen.
giur., 1996, 1, p. 313 ss.
(109) Sul tema v. soprattutto Wellek e Warren, Teoria della letteratura, Bologna, 1959, rist. 1971, p.
9 ss.; e l’antologia curata da Raimondi e Bottoni, Teoria della letteratura, Bologna, 1975. Per una
critica alla nozione v. ora Todorov, La notion de littérature, et autres essais, Parigi, 1987, p. 9 ss.
(110) Ricoeur, Dal testo all’azione, Milano, 1989, rist. 1994, p. 134. La discussione è aperta: v.
Segre, Testo letterario, interpretazione, storia: linee concettuali e categorie critiche, in Letteratura
italiana. IV. L’interpretazione, a cura di Asor Rosa, Torino, 1985, p. 39 ss.
(111) Samonà, Sui rapporti fra storia e testo letterario (Soggettività, norma sociale, trasgressione),
in Insegnare la letteratura, Parma, 1979, p. 75 ss.
(112) Bonnan, Ecrire le droit pour commander. Technique et signification de l’écriture dans
quelques droits orientaux, in Interpréter le droit: le sens, l’interpréte, la machine, a cura di
Thomasset e Bourcier,, Bruxelles, 1997, p. 34.
(113) Belvedere, Testi e discorso nel diritto privato, in Ann. Ermen. giur., 1997, 2, p. 137; Irti,
Testo e contesto, 1998.
(114) Catta, Codification et loi fétiche, in Interprèter le droit, cit., p.63.
(115) Paperon, Exègèse des textes sacrès et interprètation juridique, in Interprétation et droit, cit., p.
73 ss.; Thomas, Issues of Biblical Interpretation, in 58 South. Calif. L. rev., 1985, p. 29 ss.; Avril e
Lenhardt, La lettura ebraica della Scrittura, Magnano, 1984, rist. 1989.
(116) Ricoeur, Dal testo, cit., p. 192.
(117) Strauss, Scrittura e persecuzione, Venezia, 1990, p. 20 ss.
(118) Belvedere, op. cit., p. 137.
(119) Ricoeur, op. cit., p. 218.
(120) Ivainer, op. cit., p. 35.
(121) Stein e Shand, I valori giuridici della civiltà occidentale, Milano, 1980.
(122) A Common Law for the Age of Statutes, Cambridge (Mass.), 1982.
(123) Un catalogo perspicuo dei criteri di lettura del testo di fantasia è offerto da Caprettini, Le
strutture e i segni. Dal formalismo alla semiotica letteraria, in Letteratura italiana, cit., p. 495 ss.
(124) A titolo esemplificativo si v. Aa.Vv., La Bibbia nel suo contesto, Brescia, 1994; Maynet,
Leggere la Bibbia, Milano, 1998; Coggins, Introduzione all’Antico Testamento, Bologna, 1998;
Aa.Vv., Letture attuali della Bibbia, Brescia, 1978; oltre, naturalmente, ai metodi interpretativi,
quali il metodo storico-critico, l’analisi retorica, l’analisi narrativa, l’analisi semiotica, l’analisi
ermeneutica, etc. (L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, a cura della Pontificia Commissione
biblica, Città del Vaticano, 1993). L’applicazione di criteri letterari all’interpretazione del testo
biblico è magistrale in Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Torino, 1986 e Il potere
delle parole. Nuovi studi su Bibbia e letteratura, Firenze, 1994.
(125) Per tutti Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980; Alpa, I principi generali,
Milano, 1993.
(126) Oltre alla comunicazione della Commissione pontificia v. Schoekel e Aragon, Appunti di
ermeneutica, Bologna, 1994.
(127) Per una rassegna delle interpretazioni via via conferite al principio "nessuna responsabilità
senza colpa", vedi Alpa e Bessone, La responsabilità civile, 1, Milano, 1981, pp. 4 ss.
(128) Una accurata analisi economica di questo fenomeno è stata compiuta da Magnani e Muraro,
Edilizia e sviluppo urbano, Bologna, 1978. Taluni aspetti della problematica sono poi ripresi da
Magnani nel saggio sul contenuto economico del diritto di proprietà privata immobiliare. "Cuius
commoda eius et incommoda" (La proprietà privata immobiliare – Atti del Convegno di Studi,
Urbino, 113-10-1979, Milano, 1981, pp. 37 ss.
(129) In argomento v. Pulitini, Alcune considerazioni sul controllo degli affitti, in Politica econ.,
1980, II, pp. 3 ss.
(130) La letteratura in materia, anche nella nostra esperienza, è ormai assai vasta: per una breve
ricognizione di campo v. Alpa, Dalla economia del "cow boy" alla economia della preservazione, in
Politica dir., 1978, pp. 767 ss.; e, segnatamente, Romani, Strumenti di politica economica per la
tutela dell’ambiente, in Note econ., II, 1974, pp. 21 ss.; Gerelli, Economia e tutela dell’ambiente,
Bologna, 1974; Bognetti, Aspetti economici di gestione delle risorse naturali (Beni pubblici.
Problemi teorici e di gestione, Milano, 1974, pp. 104 ss.
(131) Sul punto v. Roppo, Contratti standard, Milano, 1975.
(132) Coase, The Problem of Social Cost., cit. Il teorema di Coase ha suscitato ampi dibattiti: per
una applicazione alla responsabilità del produttore, vedi Symposium Products Liability: Economic
analysis and the law, 38 U. Chi., L. Rev., 1, 1970.
(133) Posner, Economic Analysis of Law, Boston-Toronto, 1972.
(134) Economic Foundations of Property Law, Boston-Toronto, 1975.
(135) Sui risultati più recenti della speculazione di Guido Calabresi v. Ferrarini, Scelte tragiche.
Nuovi sviluppi dell’analisi economica del diritto, in Politica dir., 1978, p. 457.
(136) Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961.
(137) The Problem of Social Cost, 3 J. Law and Econ., 1, 1960.
(138) Some Thoughts on Risk Distribution and the Law on Torts, 70 Yale L. J., 499, 1961.
(139) V. la rassegna di Alpa e Bessone, La responsabilità civile, cit., pp. 123 ss.; Rodotà, Prefazione
alla traduzione italiana di Calabresi, Costo degli incidenti e responsabilità civile, in Resp. civ.,
1975, pp. 382 ss.; e, in particolare, Pardolesi, Analisi economica e diritto dei contratti, in Politica
dir., 1979, pp. 699 ss.; Bessone, Il controllo sociale, l’analisi economica del diritto e il metodo dei
nuovi studi di teoria del contratto, in Nuovi saggi di diritto civile, 1980, pp. 65 ss.; particolare
rilievo assume il manuale di diritto privato scritto, in questa prospettiva da Trimarchi, Istituzioni di
diritto privato, Milano, 1973.
(140) Per una elementare esposizione di questa problematica v. ora Bowles, Diritto e economia,
Bologna, 1990; Polinsky, Analisi economica del diritto, Bologna-Roma, 1990.
(141) Dorfman, The Economics of Products Liability: A Reaction to Mc Kean, cit., p. 92.
(142) Per ulteriori approfondimenti v. Alpa, Pulitini, Rodotà, Romani, Interpretazione giuridica e
analisi economica, Milano, 1990; Trimarchi, Sull’analisi economica del diritto. Relazione
conclusiva del XVI Congresso naz. Soc. it. filosofia giur. e pol., Padova, 1987; Ackerman, Diritto,
economia e il problema della cultura giuridica, in Riv. crit. dir. priv., 1988, pp. 449 ss.; Parisi, Il
teorema di Coase trenta anni dopo, ivi, 1991, pp. 643 ss. Un’intelligente indagine della materia è
offerta da Williamson, Le istituzioni economiche del capitalismo, Milano, 1987 e da Chiassoni,
Law and Economics. L’analisi economica del diritto negli Stati Uniti, Torino, 1992; un quadro di
sintesi è tracciato da Pardolesi, voce Analisi economica del diritto, in Enc. giur. Treccani.
(143) V. ad es. Aa.Vv., Buts et méthods du droit comparé, a cura di Rotondi, Padova, 1973.
(144) Sacco, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1992.
(145) Sacco, op. cit., p. 3 ss.
(146) V. Sacco, L’enseignement du droit comparé en Italie, in Rev. int. dr. comp., 1988, p. 723 ss.
(147) V. ad. es., Aa.Vv., L’apporto della comparazione alla scienza giuridica, a cura di Sacco,
Milano, 1980; Gorla, Diritto comparato e diritto straniero, voce dell’Enc. giur. Treccani, Roma, par.
2.5.1.
(148) von Mehren, The Comparative Study of Law, in Essays in Honour of prof. Ferdinand Stone,
Tulane Law School, 1992, p. 43.
(149) Markesinis, The German Law of Torts; A Comparative Introduction, Londra, 3a ed., 1994.
(150) Markesinis, Il ruolo della giurisprudenza nella comparazione giuridica, in Contratto e
impresa, 1992, p. 1350.
(151) Op. cit., p. 1383.
(152) Baudouin, L’usage qui est fait en jurisprudence du droit comparé, Rapports généraux au VII
Congrés int. de dr. comp., Stoccolma, 1967, p. 125 ss.
(153) Markesinis, Una questione di stile, in Pol. dir., 1995, p. 209 ss.
(154) Zweigert, Kötz, Introduzione al diritto comparato, vol. I, I princìpi fondamentali, Milano,
1992; vol. II, Gli Istituti, Milano, 1995, trad. it. a cura di Di Majo, Gambaro.
(155) Morello, Fiducia e Trust: due esperienze a confronto, e Lupoi, Trust e sistema italiano:
problemi e prospettive, in Aa.Vv., Fiducia, Trust, Agency, Milano, 1991.
(156) Sacco, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1992, p. 22.
(157) Gambaro, Monateri, Sacco, Disc. Priv. Sez. civ., III, Torino, 1988, p. 48 ss.
(158) Sul punto v. già Ascarelli, Studi di diritto comparato e in tema di interpretazione, Milano,
1952.
(159) Radbruch, Lo spirito del diritto inglese, trad. it. a cura di Baratta, Milano, 1962.
(160) Watson, La formazione del diritto civile, a cura di Sarti, Chiassoni, Bologna, 1981.
(161) Merryman, La tradizione di civil law nell’analisi di un giurista di common law, trad. it. a cura
di De Vita, Milano, 1973.
(162) Markesinis, Learning from Europe and Learning in Europe, in Aa.Vv., The Gradual
Convergence, Oxford, 1994, p. 15.
(163) Cappelletti, Integration Through Law, Berlin-New York, 1986.
(164) Kohler, Über die Methode der Rechtsvergleichung (1901) ora in Zweigert-Puttfarken (a cura
di), Rechtsvergleichung, Darmstadt, 1978.
(165) Gorla, Commento a Toqueville, "L’idea dei diritti", Milano, 1948; Id., Diritto comparato e
diritto comune europeo, Milano, 1981 ed ora Lupoi, Common Law e Civil Law, alle radici di diritto
europeo, in Foro it., 1993, V. c. 431. Ma occorre guardarsi dal far carico alla comparazione di troppi
scopi e troppi risultati: v. Bognetti, Introduzione al diritto costituzionale comparato, Torino, 1994.
(166) Taglioni, Code civil di Napoleone il Grande col confronto delle leggi romane ad uso delle
Università e dei Licei del Regno d’Italia, Milano, 1809.
(167) Venezia, 1825.
(168) Palermo, 1843.
(169) Sul quale sono state scritte pagine mirabili da Wieacker, Storia del diritto privato moderno,
Milano, 1980, vol. I. p. 133 ss.
(170) Zimmermann, The Law of Obligations Roman Foundations of the Civilian Tradition, Cape
Town, 1990.
(171) Ad vocem, Dig. IV, Torino, a cura di Colombo.
(172) Cappellini, Systema juris, Milano, 1984.
(173) V. gli atti del convegno di Montpellier 10-12 dicembre 1975, pubblicati a cura di CECA,
CEE, CEEA, Les moyens judiciaires et parajudiciaires de la protection des consommateurs,
Bruxelles-Luxembourt, 1976, e ora Alpa, Il diritto dei consumatori, Bari, 1993.
(174) V. la Convenzione Vienna 11 aprile 1980, in Alpa, Zatti, Commentario breve al cod.civ..
Leggi complementari, Padova, 1995, p. 2647.
(175) V. I principi dei contratti commerciali internazionali, Unidroit, Roma, 1995, e Bonell,
"Policing" the Contract Against Unfairness under Unidroit Principles for International Commerciall
Contracts, in Dir. comm. int., 1994, p. 251.
(176) V. Towards a European Civil Code, a cura di Hartkamp, Hesselink, Hondius, Du Perron,
Vranken, Dordrecht, Boston, London, 1994.
(177) Galgano, Atlante di diritto privato comparato, 2a ed., Bologna, 1993.
(178) V. ad. es., Stein, Regualae iuris, Cambridge, 1966; Stein, Shand, I valori comuni
dell’Occidente, Milano, 1970, sui quali v. Alpa, I principi generali, Milano, 1993; Stein, I
fondamenti del diritto europeo, Milano, 1987; Cannata, Gambaro, Lineamenti di storia della
giurisprudenza europea, II, Torino, 4a ed., 1989; Van Caeneghem, I signori del diritto, Milano,
1991; nonché Introduzione storica al diritto privato, Bologna, 1995; e soprattutto, Tarello, Storia
della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna, 1976.
(179) Bowles, Diritto e economia, Bologna, 1987; Aa.Vv., Ragioni del diritto e ragioni
dell’economia, a cura di Pocar, Velicogno, Milano, 1990; Chiassoni, Law and Economics, Torino,
1992.
(180) V. ad es. Pound, Introduzione alla filosofia del diritto, trad. it. di Tarello, Firenze, 1963; Lo
spirito della "common law", Milano, 1970; Aa.Vv., La force du droit, a cura di Bourdieu, Parigi,
1991.
(181) V. ad es., Knapp, La scienza del diritto, Roma-Bari, 1978; Pawlowski, Introduzione alla
metodologia giuridica, Milano, 1992.
(182) V. Rouland, Antropologia giuridica, Milano, 1992.
(183) Weber, Economia società, vol. III, Sociologia del diritto, Milano, 1980.
(184) Carbonnier, Sociologie juridique, Parigi, 1994.
(185) Gutteridge, Comparative Law, 2a ed., Londra, 1949, rist., 1974.
(186) Losano, I grandi sistemi giuridici, Torino, 1978.
(187) Rheinstein, Einführung in die Rechsvergleichung, 2a ed., Monaco, 1987.
(188) V. ora David, Spinosi, I grandi sistemi giuridici contemporanei, 4a ed. a cura di Sacco,
Padova, 1994.
(189) David, op. cit., p. 16.
(190) David, op. cit., p. 28.
(191) Ravà, Introduzione al diritto della civiltà europea, Padova, 1982.
(192) Eörsi, in Comparative Civil (Private) Law, 1979.
(193) Knapp, ne La scienza del diritto, cit.
(194) Eörsi, Convergence in Civil Law?, in A Socialist Approach to Comparative Law, a cura di
Szabo, Péteri, Budapest, 1977.
(195) Zweigert, Kötz, Introduzione al diritto comparato, vol. I, I principi fondamentali, Milano,
1992, e vol. II, Istituti, cit.
(196) Arminjon, Nolde, Wolff, Traité de droit comparé, Parigi, 1950.
(197) Arminjon, Nolde, Wolff, op. cit., I, p. 80.
(198) Sacco, Introduzione al diritto comparato, cit., p. 190 ss.
(199) Markesinis, The German Law of Torts, Oxford, 1990.
(200) Prefazione a Knapp, La scienza del diritto, cit., p. XXV.
(201) Introduzione al diritto comparato. I principi fondamentali, trad. it. a cura di Di Majo e
Gambaro, Milano, 1992.
(202) Introduzione al diritto comparato, Torino, 1992, p. 22.
(203) V. Atlante di diritto privato comparato, a cura di Galgano e Ferrari, Bologna 2a ed., 1993.
Sull’incidenza del diritto comparato nella nostra esperienza v. Cendon, L’influsso del diritto
comparato sulla legislazione italiana, in Riv. crit. dir. priv., 1983, pp. 373 ss.
(204) Alpa, I principi generali, Milano, 1993; Toriello, I principi generali nel diritto comunitario, in
Nuova giur. civ. comm., 1993 II, p. 1 ss.
(205) Tercier, Permeabilité des ordres giuridiques, Publ. de 1° Just. Suisse de dr. comp., n. 20,
Zurigo, 1992, p. 11 ss.
(206) V. intra par. 9 e Ferri, La formazione del giurista europeo, in Atti del Convegno di Macerata,
27-28 aprile 1995, a cura di Moccia.
(207) Mansel, Rechtsvergleichung und europäïsche Rechtseinheit in Juristenzeitung, 1991, p. 529
ss. e Knütel, Rechtseinheit im Europaa un das römische Recht, in ZEuP, 1994, p. 244 ss.
(208) Markesinis, (ed.) The Gradual Convergence, cit., pp. XLIV, 275.
(209) Spencer, French and English Criminal Procedure: A Brief Comparison, in Markesinis (ed.),
The Gradual Convergence, cit. p. 33 ss. e Delmas, Marty, The Juge d’inscription, ivi, p. 46 ss.
(210) Lorenz, Contract Beneficiaries, ivi, p. 65 ss. e von Bar, Liability for Information and Opinion
Causing Pure Economic Loss to Third Parties: A Comparison of English and German Case Law,
ivi, p. 98 ss.
(211) Tallon, The Impact of International Conventions on Municipal Law, ivi, p. 133 ss. e Bonell,
The 1968 Brussels Civil Jurisdiction and Judgement Convention and the 1980 Rome Convention on
Applicable Law, ivi, p. 146 ss.
(212) Schermers, Learning from Europe – With Emphasis on the European Convention on Human
Rights, ivi, p. 169 ss. e Waytt, European Community Law and Public Law in the United Kingdom,
ivi, p. 188 ss.
(213) Francioni, From Sovereingnty to Common Governance: the EC Environmental Policy, ivi, p.
205 ss. e Bochen, Developments with Respect to Compensation for Damage Caused by Pollution,
ivi, p. 226.
(214) Edward, The Scottish Reactions –An Epilogue, ivi, p. 263 ss.
(215) Markesinis, Learning from Europe and Learning in Europe, cit., p. 1 ss.
(216) Markesinis, op. cit., p. 7.
(217) Sul punto v. ora Aa.Vv., Verso un’Europa dei diritti dell’uomo, a cura di Delmas Marty,
Padova, 1994 e Sacerdoti, Diritto e istituzioni della nuova Europa, Milano, 1995.
(218) Mamiani, D’un nuovo diritto europeo, Torino, 1859.
(219) Mayer, Delle istituzioni giudiziarie in Europa, Ridotta dall’avv. Paolo Liberatore, Napoli,
1828.
(220) Koschaker, L’Europa e il diritto romano, 1947, trad. it., Firenze, 1963.
(221) Già Kohler, Über die Methode der Rechtsvergleichung (1901), ora in Zweigert, Putt-Farken
(a cura di), Rechtsvergleichung, Darmstadt, 1978.
(222) V. l’art. 1783.2, n. 3 c.c. sulla responsabilità dell’albergatore per le cose portate in albergo (il
testo deriva dalla Convenzione di Parigi 17 dicembre 1962, ratificata con legge 10 giugno 1978, n.
316 ed entrata in vigore il 12 agosto 1979); oppure l’art. 5 del D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 sulla
definizione di prodotto difettoso, che deriva dalla Direttiva CEE n. 85/374.
(223) Jahrbücher für italienisches Recht, pubblicati con cadenza annuale a partire dal 1988 ad
Heidberg e curata da Hlinz-Peter Mansel.
(224) Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, 1987, Cap. XI, e Ordinamento
giuridico ed esperienza giuridica, in Diritto e storia, Antologia a cura di Corbino, con la
collaborazione di Milazzo, Padova, 1995, p. 15.
(225) Von Gierke, Die Genossenschaftstheorie und die deutsche Rechtsprechung, Berlino, 1887;
Deutsches Privatrecht, Voll. I-III, Lipsia, 1895-1917.
(226) Hauriou, Principes de droit administratif e de droit public, Parigi, 1924.
(227) Romano, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1918.
(228) Capograssi, Opere, Milano, 1959.
(229) Sul punto v. Kaser, Sul metodo romano di individuazione del diritto attraverso la riflessione
dei tecnici, in Diritto e storia, Antologia, cit., p. 149 ss., che riprende l’insegnamento di Schulz,
Principi del diritto romano, 1934, a cura di Arangio-Ruiz, trad.it., Firenze, 1947.
(230) Tutte queste prospettive sono ben presenti nella letteratura civilistica odierna: basti
richiamare, senza pretesa di completezza, per l’analisi storica gli studi di Gino Gorla, per quella
politica gli studi di Stefano Rodotà, per quella assiologica gli studi di Pietro Perlingieri, per quella
sociologica gli studi di Nicola Lipari, per quella economica i contributi di Pietro Trimarchi, di
Antonio Gambaro, di Pier Giuseppe Monateri, di Roberto Pardolesi, per quella tecnica i contributi
di Mario Bessone, Marino Bin, Sergio Chiarloni, Franco Galgano, Giuseppe Sbisà, Michele
Taruffo, Giovanna Visintini. E basti pensare alle riviste che si concentrano sull’analisi critica della
giurisprudenza, come Contratto e impresa o La nuova giurisprudenza civile commentata.
(231) Sacco, Interpretazione del diritto, dato oggettivo e spirito dell’interprete, in Diritto, giustizia e
interpretazione, a cura di Derida e Vattimo, e coordinamento di Bussani, Roma-Bari, 1998, p. 111
ss.
(232) L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione,
Milano, 1939.
(233) Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949 (a cui si aggiungano i saggi
raccolti nella Teoria generale dell’interpretazione, Milano, 1990).
(234) Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980.
(235) Frosini, La lettera e lo spirito della legge, Milano, 1994.
(236) Nella vastissima letteratura v. ora gli atti del convegno di Padova (24.10.1987) su Il giudice e
l’interpretazione, a cura di Simonetto, Padova, 1990; Interpretazione e diritto giudiziale. II.
Questioni di giurisprudenza costituzionale, civile e processuale, a cura di Bessone, Torino, 1999;
Chiassoni, La giurisprudenza civile. Metodi d’interpretazione e tecniche argomentative, Milano,
1999; Percorsi attuali della giustizia costituzionale, a cura di Costanzo, Milano, 1995; Regesto, Il
confronto tra "valori" e "principi" in alcuni ordinamenti costituzionali, Rimini, 1997.
(237) V. infra e comunque già fin d’ora Clausole e principi generali nell’argomentazione
giurisprudenziale degli anni novanta, a cura di Cabella Pisu e Nanni, Padova, 1998, nonché Alpa,
L’arte di giudicare, Roma-Bari, 1993.
(238) V. da ultimo Gorla, Lo stile delle sentenze: ricerca storico-comparativa, in Metodologia nello
studio della giurisprudenza civile e commerciale, Milano, pp. 83-156.
(239) V. ad es. i saggi raccolti ne La regola del caso. Materiali sul ragionamento giuridico, a cura di
Bessone e Guastino, Padova, 1995.
(240) In questo senso si orienta, ad es., La nuova giurisprudenza civile commentata.
(241) Op. ult. cit., p. 104.
(242) V. il documento denominato Appunto sulla motivazione in Cassazione, in Foro it., 1990, V, c.
482 s.
(243) Ora pubblicati con il titolo Juges et jugements: l’ Europe plurielle. L’èlaboration de la
décision de justice en droit comparé, Parigi, 1998.
(244) Ora pubblicati con il titolo La sentenza in Europa. Metodo, tecnica, stile, Padova, 1988.
(245) Al riguardo v. La giurisprudenza per massime e il valore del precedente, con particolare
riguardo alla responsabilità civile, a cura di Visintini, Padova, 1988.
(246) V. però Le fonti non scritte e l’interpretazione, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco,
Torino, 1999.
(247) In questo senso sono emblematici i saggi di diversi Aa. pubblicati sulla Rev. trim. dr. civ.,
1991 e 1992.
(248) Droit et passion du droit sous la Ve République, Parigi, 1996, p. 61.
(249) Per ulteriori ragguagli v. Alpa, La responsabilità civile, Milano, 1999.
(250) Oggi ristampati con prefazione di Bin, Padova, 1989.
(251) V. ad es. i saggi raccolti sotto il titolo La giurisprudenza forense e dottrinale come fonte di
diritto, con introduzione di Grassetti, Milano, 1985.
(252) Il giudice e il diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, p. 1261 ss.
(253) Traduzione a cura di Gueli, Firenze, 1961.
(254) Ora in Problemi giuridici, I, Milano, 1959, p. 84 ss.
(255) Ascarelli, Norma giuridica, cit., p. 73.
(256) Torrente, op.cit., p. 1262 ed ivi Plucknett, A Concise History of common law, Londra, 1956,
p. 350.
(257) Torrente, op. cit., p. 1272.
(258) Tarello, Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione politica del giurista-
interprete, ne L’uso alternativo del diritto. Scienza giuridica e analisi marxista, a cura di Barcellona,
Bari, 1973; ora in Metodologia nello studio della giurisprudenza civile e commerciale. Antologia di
saggi, a cura di Visintini, Milano, 1999, p. 17 ss.
(259) Giudici e politica in Inghilterra, Introduzione e cura di Chiti, Milano, 1980; cui adde i
contributi raccolti sotto il titolo Leggi, giudici, politica. Le esperienze italiana e inglese a confronto,
a cura di Busnelli, Milano, 1983 e i saggi raccolti sotto il titolo Cittadino e potere in Inghilterra,
Milano, 1990, a cura di Chiti e Cartei.
(260) V. nell’amplissima letteratura i contributi raccolti ne La force du droit. Panorama des débats
contemporains, sotto la direzione di Bouretz, Parigi, 1991; Rigaux, La loi des juges, Parigi, 1997;
Aa.Vv., La conscience du juge dans la tradition juridique européenne, a cura di Carbasse e
Depambour-Tarride, Parigi, 1999.
(261) Barcellona, in Riv. crit. dir. priv., 1984, p. 27 ss.
(262) Libertini, ivi, p. 119.
(263) Cendon, ivi, p. 155 ss.
(264) Castronovo, ivi, p. 191 ss.
(265) Rodotà, op. cit., p. 278 ss.
(266) Rodotà, op. cit., p. 284.
(267) L’interpretazione della legge, Milano, 1980, p. 39 ss.
(268) Op. cit., p. 49.
(269) Tarello, op. cit.
(270) Tarello, op. cit., pp. 342 ss.
(271) Op. cit., p. 385.
(272) Una teoria realista dell’interpretazione, nei Materiali per una storia della cultura giuridica,
1999, p. 473 ss. (trad. di Guastini).
(273) Nell’ampia ed acuta trattazione della problematica, inclusa ne Le fonti non scritte e
l’interpretazione, cit. p. 163 ss. Di Sacco v. già Il concetto di interpretazione del diritto, Torino,
1947.
(274) Le fonti, cit., p. 208 ss.
(275) Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 1999.
(276) Op. cit., p. 65.
(277) Op. cit., p. 73.
(278) Op. cit., p. 96.
(279) Op. cit., p. 106.
(280) Op. cit., p. 127.
(281) Op. cit., p. 229.
(282) Op. cit., p. 375. Anche sui principi si è raccolta una immensa letteratura: v. i riferimenti
bibliografici in Alpa, I principi generali, Milano, 1993.
(283) Op. cit., p. 412.
(284) Op. cit., p. 426.
(285) Op. cit., p. 429-430.
(286) Op. cit., p. 455.
(287) Op. cit., p. 463.

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