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Edilizia.

Diritto amministrativo
I procedimenti amministrativi in materia attengono al rilascio di un titolo edilizio e alla vigilanza e
repressione degli abusi, nel quadro degli strumenti urbanistici comunali, generali e particolareggiati, di
quelli sovracomunali e delle norme primarie, statali e regionali, che disciplinano l’attività edilizia.
Si è discusso sulla allocazione della materia alla luce del nuovo titolo V della Costituzione, poiché l’art. 117,
nella versione introdotta dalla l. cost. n. 3/2001 non elenca, tra le materie di legislazione concorrente, né
l’edilizia, né l’urbanistica, facendo invece riferimento al «governo del territorio», espressione che, secondo
un’interpretazione risalente all’entrata in vigore del d.P.R. n. 616/1977 sul completamento
dell’ordinamento regionale, si ritiene comprenda l’urbanistica. Al riguardo, la Corte costituzionale, con
sentenza n. 303/2003, ha tassativamente escluso che la materia dei titoli edilizi appartenga alle sole Regioni,
poiché essa appartiene storicamente all’urbanistica e quest’ultima materia è a sua volta ricompresa nel
«governo del territorio». Partendo da presupposti diversi (la ricomprensione dell’urbanistica nelle materie
di competenza regionale esclusiva), vi è però chi ha sostenuto che l’edilizia sia in larga misura sottratta alla
legislazione regionale, perché inscindibilmente connessa con l’ordinamento civile (il regime della proprietà),
nonché con quello penale (i reati edilizi).
La disciplina  del testo unico. - La principale fonte normativa in materia è costituita dal d.P.R. n. 380/2001,
successivamente modificato con il d.lgs. n. 301/2002, recante il testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia. Il t.u. riprende tutta la normativa edilizia e la ricompone in maniera
appropriata, peraltro sostanzialmente conservando molti aspetti delle l. nn. 765/1967, 10/1977 e 47/1985.
Sono rimaste comunque in vigore le disposizioni della l. 47/1985 dirette a disciplinare il procedimento di
sanatoria edilizia. Da ultimo, il d.lgs. 269/2003, convertito, con modificazioni, nella l. 326/2003, ha riaperto
di nuovo i termini del condono edilizio, consentendo di sanare alcuni abusi realizzati sino al 31 marzo 2003.
In forza del t.u., è attività edilizia libera quella cui è possibile dar corso in assenza di titoli abilitativi,
consistente nella manutenzione ordinaria, nell’eliminazione delle barriere architettoniche e nelle opere
temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico o siano eseguite in aree
esterne al centro edificato. Per interventi edilizi di maggiore consistenza è invece richiesto il previo
perfezionamento di un idoneo titolo edilizio. In particolare, sono titoli edilizi il permesso di costruire e la
denuncia di inizio attività.
Permesso di costruire. - Ha sostituito la concessione edilizia, anche se solo dal punto di vista meramente
terminologico. Attraverso il ricorso a tale terminologia, nel t.u. si è voluto prendere atto
della ritenuta inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà e, quindi, della correlativa improprietà del
riferimento all’istituto concessorio. L’art. 10 del t.u. individua gli interventi che richiedono il previo rilascio
del permesso di costruire. Essi consistono negli interventi di nuova costruzione (art. 3), di ristrutturazione
urbanistica, di ristrutturazione edilizia con sostanziale modifica dell’esistente (comportanti, cioè, aumento di
unità immobiliare, modifiche del volume, della sagoma, mutamento della destinazione d’uso).
Caratteri propri del permesso sono: a) realità: presupponendo il suo rilascio la titolarità di una situazione
soggettiva attiva (proprietà, diritto reale di godimento, possesso qualificato) relativa a
un bene; b) irrevocabilità: principio inderogabile posto dall’art. 11 del testo unico; c) temporaneità: il
permesso di costruire deve fissare i termini perentori di inizio e di fine lavori, il mancato rispetto dei quali
comporta l’adozione obbligatoria del provvedimento di decadenza; d) rinnovabilità: nelle ipotesi di
decadenza, può essere richiesto il rinnovo del permesso di costruire sulla base delle condizioni di fatto e di
diritto esistenti. e) onerosità: il titolare del permesso di costruire deve corrispondere una parte degli oneri di
urbanizzazione, commisurata all’incidenza dell’insediamento sulla globalità delle opere pubbliche, con
alcune eccezioni (edificazioni in zona agricola, totalmente esenti dal contributo di costruzione; interventi di
ristrutturazione e ampliamento in misura non superiore al 20% di edifici unifamiliari; realizzazione di
impianti, attrezzature, opere pubbliche o di interesse generale da parte degli enti istituzionalmente
competenti; realizzazione di opere di urbanizzazione, anche da parte di privati, in attuazione di strumenti
urbanistici; interventi in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità;
realizzazione di nuovi impianti, lavori, opere, modifiche e installazioni relativi alle fonti rinnovabili di
energia, nonché alla conservazione, al risparmio e all’uso razionale dell’energia).
Denuncia  di inizio attività (DIA). - È una delle tipologie di dichiarazione sostitutiva introdotte dall’art. 19
della l. n. 241/1990 (recentemente modificata nella Segnalazione certificata di inizio attività). Per effetto

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della l. n. 537/1993, l’ambito di applicazione della DIA ha subito un significativo ampliamento e, pertanto,
l’iniziativa economica privata è divenuta suscettibile di incondizionata e immediata esplicazione nelle
materie soggette in precedenza ad autorizzazione vincolante. Per accelerare le procedure di autorizzazione
relative agli interventi edilizi di minor impatto, l’art. 4 del d.lgs. n. 398/1993, convertito in l. n. 493/1993
(così come modificato dalla l. n. 662/1996), aveva previsto la possibilità di realizzare le opere previa
presentazione di semplice denuncia. La l. n. 443/2001 (art. 16) ha esteso la DIA agli interventi edilizi
minori, alle ristrutturazioni edilizie (comprensive della demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria
e sagoma), agli interventi sottoposti a concessione (se sono specificamente disciplinati da piani attuativi
contenenti specifiche disposizioni planovolumetriche), ai sopralzi, alle addizioni, agli ampliamenti delle
nuove edificazioni in esecuzione di idonei strumenti urbanistici attuativi. Questi interventi erano assoggettati
in alcuni casi anche al regime dell’autorizzazione edilizia e addirittura della concessione edilizia; è stato così
instaurato un regime di alternatività tra DIA e autorizzazione o concessione, rimesso alla discrezionalità del
privato. Tale innovazione è stata poi recepita dal testo unico.
Ai sensi dell’art. 22 del t.u. sono assoggettati al regime della DIA tutti gli interventi non assoggettati a
permesso di costruire, a esclusione ovviamente di tutti gli interventi ‘liberi’, non soggetti cioè ad
alcun controllo della pubblica amministrazione. A norma dell’art. 23 del t.u., il proprietario dell’immobile
deve presentare la DIA almeno 30 giorni dall’effettivo inizio dei lavori, accompagnata dagli opportuni
elaborati progettuali e da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato che asseveri la
conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico sanitarie. Il progettista abilitato deve rilasciare, inoltre,
un certificato di collaudo finale, che attesti la conformità dell’opera al progetto presentato.
La procedura della DIA è peraltro finalizzata a consentire il controllo dell’amministrazione comunale.
Spetta, infatti, al competente ufficio comunale, nei 30 giorni concessi prima dell’inizio dei lavori, verificare
d’ufficio la sussistenza dei presupposti della procedura e il rispetto delle prescrizioni di legge. Qualora
venga riscontrata l’inesistenza di tali presupposti, il Comune ordina agli interessati di non effettuare le
previste trasformazioni.
Certificato di agibilità. - Una volta ultimata l’edificazione dovrà essere richiesto il rilascio del certificato di
agibilità, strumento attraverso cui il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale attesta la
sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti
negli stessi installati. In particolare, ai sensi dell’art. 24 del t.u., co. 2 e 3, il soggetto titolare del permesso di
costruire o che ha presentato la denuncia di inizio attività, o i suoi successori o aventi causa, sono tenuti a
chiedere il rilascio del certificato di agibilità in relazione ai seguenti interventi: a) nuove costruzioni; b)
ricostruzioni o sopraelevazioni, totali o parziali; c) interventi sugli edifici esistenti che possono influire sulle
condizioni di igiene, sicurezza ecc.
Norme di vigilanza e controllo. - Le norme in tema di vigilanza e controllo sull’attività edilizia conferiscono
agli organi comunali e alla magistratura la possibilità di ricorrere a sicuri, rapidi ed efficaci strumenti
repressivi, anche di carattere penale. Il legislatore, però, dubitando della capacità dell’apparato
amministrativo di arginare l’uso improprio del territorio e di impedire le altre violazioni alla disciplina
edilizia, ha fatto ricorso a una rete di controlli che coinvolgono i notai, i funzionari del catasto, i conservatori
dei registri immobiliari, le aziende erogatrici dei servizi pubblici e che hanno una diretta incidenza sulle
contrattazioni private. Infatti, se il valore del fabbricato dipende dalla sua essenza fisica e
dalle qualità costruttive, è anche legato a una dimensione ‘giuridica’ che a volte risulta perfino più
importante di quella fisica e che consiste nella sua rispondenza alla complessa normativa urbanistica ed
edilizia.
In particolare, l’art. 10, co. 5, della l. n. 765/1967, aveva già previsto che gli atti di compravendita di terreni
abusivamente lottizzati a scopo residenziale fossero nulli, ove da essi non fosse risultato che l’acquirente era
informato della mancanza di una lottizzazione autorizzata. Allo stesso modo, l’art. 15, co. 7, della l. n.
10/1997 disponeva che gli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione
fossero nulli, ove da essi non fosse risultato che l’acquirente era informato della mancanza della
concessione. Non era, tuttavia, la mancanza della concessione o di una lottizzazione autorizzata a
determinare l’invalidità dell’atto, quanto, piuttosto, la mancanza della dichiarazione dell’abuso da parte
dell’acquirente, il che ha condotto la giurisprudenza ad affermare che dovesse riconoscersi carattere
‘relativo’ a tale nullità, essendo la medesima rilevabile soltanto dall’acquirente e non da chiunque vi avesse
interesse, come invece prevede, in linea generale il c.c. all’art. 1421.

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La limitatezza di tali previsioni, che rimettevano esclusivamente al privato l’accertamento di circostanze
utili anche alla soddisfazione dell’interesse generale all’osservanza della disciplina urbanistica ed edilizia,
ha determinato un nuovo, più organico, intervento del legislatore. Con la l. n. 47/1985 si è voluto così
mutare il carattere dell’invalidità che colpisce gli atti di trasferimento di beni immobili. L’art. 17, co. 1, di
tale legge (il cui contenuto è stato oggi trasfuso nell’art. 46 t.u.) prevedeva la nullità di alcuni atti tra vivi
aventi a oggetto edifici o loro parti se dagli stessi non fossero risultati, per dichiarazione dell’alienante, gli
estremi della concessione a edificare o della concessione in sanatoria. Allo stesso modo, l’art. 40, co. 2,
ancora in vigore, prevede, che tali atti siano nulli se dagli stessi non risultino, sempre per dichiarazione
dell’alienante, gli estremi della licenza o della concessione a edificare o della concessione rilasciata in
sanatoria (l. n. 47/1985, ex art. 31, ora abrogato), o, in luogo di detti estremi e con riferimento alle opere
iniziate prima del 15 settembre 1967, non venga prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con la
quale il proprietario o altro avente titolo attesti che l’opera è iniziata anteriormente al 1° settembre 1967.
Disposizioni particolari riguardano, infine, sempre a pena di nullità dell’atto in caso di inosservanza, la
circolazione provvisoria dei beni condonati. L’art. 18 della l. n. 47/1985, il cui contenuto è confluito quasi
integralmente nell’art. 30 del t.u., ha poi stabilito che gli atti tra vivi, sia in forma pubblica sia in forma
privata, aventi a oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali relativi a
terreni, sono nulli e non possono essere stipulati né trascritti nei pubblici registri immobiliari ove agli atti
stessi non sia allegato il certificato di destinazione urbanistica, che contenga le prescrizioni urbanistiche
concernenti l’area interessata.

Segnalazione certificata di inizio attività


A partire dagli anni novanta, sotto l’influenza della politiche di liberalizzazione promosse
dal diritto europeo, si è avvertita l’esigenza di introdurre forme semplificate di controllo delle attività
economiche private da parte dei pubblici poteri. E ciò, soprattutto al fine di favorire la libera circolazione di
beni e servizi tra gli Stati membri.
L’art. 19 della l. n. 241/1990 ha previsto la Dichiarazione di inizio attività, quale strumento alternativo
all’emanazione di atti espressi di assenso, abilitazioni, autorizzazioni, concessioni non costitutive, aventi
comunque un basso contenuto di discrezionalità. In queste ipotesi il potere amministrativo non viene
esercitato preventivamente (non condiziona quindi l’avvio dell’attività economica), ma solo
successivamente (ed in via eventuale) alla notifica di una dichiarazione con cui il privato manifesta
l’intenzione di avviare una determinata attività: i pubblici poteri possono vietare l’attività qualora rilevino
l’assenza o la violazione dei requisiti di legge per l’esercizio dell’attività medesima. Decorso tuttavia un
dato termine da tale dichiarazione, l’attività può essere avviata senza che si debba attendere un assenso
espresso dell’amministrazione.
La l. n. 80/2005 ha introdotto numerose modifiche all’art. 19 della l. n. 241/1990.
Innanzitutto la Denuncia di Inizio di Attività (DIA), da istituto eccezionale, è divenuto un istituto di carattere
generale. Il termine per l’esercizio dell’attività è stato fissato in 30 giorni dall’invio della dichiarazione.
Decorsi quindi 30 giorni dalla comunicazione, l’attività può essere avviata dopo averne dato notizia
all’autorità stessa; quest’ultima nei successivi 30 giorni, dopo aver verificato l’esistenza dei requisiti
richiesti dalla legge, può eventualmente vietarne il proseguimento, oppure ordinare la rimozione degli effetti
prodotti, a meno che l’interessato non riesca a conformare la propria attività ai requisiti di legge entro il
termine fissato dall’amministrazione medesima.
La modifica del 2005 ha inoltre introdotto la possibilità per l’amministrazione di esercitare i poteri generali
di autotutela di cui agli artt. 21 quinquies (Revoca. Diritto amministrativo) e 21 nonies (Annullamento
d’ufficio) della legge sul procedimento amministrativo anche decorsi i termini per vietare l’attività (30
giorni).
La previsione ha acceso un ampio dibattito in dottrina che ha investito soprattutto la questione della natura
giuridica della dichiarazione: a fronte di un contesto normativo e di una ratio che lasciavano propendere per
la natura privatistica della dichiarazione in esame (stante le molteplici differenze con l’istituto del silenzio-
assenso, su cui v. Silenzio della pubblica amministrazione), da più parti è stato evidenziato che la previsione
di un potere generale di autotutela avrebbe necessariamente dovuto presupporre l’esistenza di un potere
(ancorché silenzioso) già esercitato, e su cui si poteva intervenire in secondo grado. In realtà come precisato
dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (in particolare n. 717/2009), tale potere di autotutela

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rappresenterebbe un generale potere di verifica dei presupposti per l’esercizio dell’attività che
prescinderebbe totalmente dall’esistenza di un’autorizzazione implicita e preventiva dell’amministrazione:
la dichiarazione, in quanto concepita come strumento di semplificazione alternativo al tradizionale regime
autorizzatorio, rimarrebbe un atto di natura privatistica.
Recentemente, anche su impulso della cd. “Direttiva Servizi” (CE n. 123/2006), è stato ulteriormente
modificato il regime dell’istituto. L’art. 49, comma 4 bis del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con
modificazioni nella l. 30 luglio 2010, n. 122 ha sostituito l’art. 19 della l. 241/1990 introducendo la
Segnalazione certificata di inizio attività, in luogo della precedente Dichiarazione di inizio attività.
La modifica ha investito anche il regime sostanziale dell’istituto. È stata eliminata la cd. “struttura bifasica”
che prevedeva l’invio di due comunicazioni nel rispetto di un termine dilatorio. È stato invece previsto che
l’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla stessa data di presentazione della segnalazione
(co. 2), fatta salva la possibilità per l’amministrazione di intervenire nei successivi 60 giorni per vietare la
prosecuzione dell’attività e, in ogni caso, di esercitare i propri poteri di autotutela in via generale (co. 3).
Viene infine confermato che la previsione non può trovare applicazione in presenza di rilevanti interessi
pubblici, quali quelli concernenti, l’ambiente, la pubblica sicurezza, l’amministrazione della giustizia, i
mercati finanziari (co. 1 e 5).

Scia
Il Governo ha dato attuazione alla delega conferitagli dalla l. 7.8.2015, n. 124 per l’individuazione e la
disciplina delle attività soggette a SCIA con due decreti delegati (“SCIA1” e “SCIA2”), che, se hanno
segnato un’ulteriore importante tappa nell’evoluzione dell’istituto, presentano ancora molte incoerenze e
criticità e, come rilevato anche dal Consiglio di Stato in sede consultiva, lasciano aperte e gravemente
irrisolte diverse rilevanti questioni interpretative.
LA RICOGNIZIONE
Uno dei più importanti interventi del “pacchetto” di riforme della pubblica amministrazione avviato dalla l.
n. 124/2015 (cd. “legge Madia”) è costituito dalla riscrittura della disciplina della segnalazione certificata di
inizio attività (cd. SCIA), sulla quale sono significativamente intervenuti già due decreti delegati: 30.6.2016,
n. 126 e 25.11.2016, n. 222).
La politica di semplificazione dell’azione amministrativa in vista di una riduzione della spesa pubblica e di
una ripresa dell’economia trova invero una delle sue più importanti manifestazioni nella sostituzione di un
sempre più imponente numero di provvedimenti lato sensu autorizzatori con una mera segnalazione (già
denuncia e, poi, dichiarazione) di inizio dell’attività da parte dello stesso interessato, di cui la p.a. è chiamata
solo a controllare ex post la coerenza con il quadro normativo. La graduale inversione di tendenza rispetto
alla progressiva introduzione di strumenti di controllo preventivo sull’esercizio delle attività economiche
impattanti su interessi pubblici (ambiente, governo del territorio, sanità pubblica, commercio, istruzione,
ecc.), in nome delle finalità generali indicate dall’art. 41 ha trovato una forte spinta nei principi di libertà di
stabilimento e di libera prestazione dei servizi all’interno dell’UE tradotti nella direttiva Bolkenstein n.
2006/123/CE (cd. direttiva servizi o direttiva).
Il nuovo modello di “controllo semplificato” dell’attività privata è stato introdotto nel testo originario
dell’art. 19 della l. n. 241/1990, che, prima di estendere (art. 20) l’ambito di applicazione dell’ormai
tipizzato strumento “semplificatorio” del silenzioassenso, disegnò quello, parzialmente “liberalizzatorio”,
della “denuncia di inizio dell’attività” (DIA), devolvendo ad apposito regolamento governativo il compito di
individuare i casi in cui, in considerazione del carattere sostanzialmente vincolato dell’atto di assenso e
dell’assenza di limiti o contingenti complessivi e di rischi di pregiudizio per la tutela dei valori
storicoartistici o ambientali, l’esercizio di un’attività privata, subordinato ad autorizzazione o altri atti di
consenso comunque denominati, poteva essere intrapreso con mera DIA all’amministrazione competente,
cui residuava il potere/dovere di «verificare d’ufficio la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge
richiesti e disporre, se del caso, con provvedimento motivato, il divieto di prosecuzione dell’attività e la
rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia possibile, l’interessato non provveda a conformare alla
normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro il termine prefissatogli» 1. La l. 24.12.1993, n. 537,
riscrivendo integralmente l’art. 19, riconobbe poi diretta operatività allo strumento e dispose che, ad
esclusione dei casi in cui i titoli dovevano essere rilasciati previa valutazione tecnica o previo
apprezzamento discrezionale (e al di fuori di peculiari materie, ritenute “sensibili”), tutte le attività già

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soggette al rilascio di un titolo abilitativo dovevano essere avviate su “mera” denuncia del privato (fermo
restando il controllo successivo da parte dell’amministrazione, da esercitare entro 60 giorni dalla sua
presentazione). Il modello, ripreso e ridefinito (per lo specifico settore) dall’art. 22 del t.u. edil. 2, è andato
progressivamente definendosi e rafforzandosi, modificando anche la denominazione, dapprima (l. 14.5.2005,
n. 80) in quella di “dichiarazione di inizio attività” (con il medesimo acronimo DIA) e, successivamente, in
quella di “segnalazione certificata di inizio attività – SCIA”. Quest’ultima modifica si deve alla l. 30.7.2010,
n. 122, di conversione del d.l. 31.5.2010, n. 78, che, all’art. 49, co. 4-bis, ha integralmente sostituito il testo
dell’art. 19 l. n. 241 (già sensibilmente modificato, in linea con gli obiettivi della direttiva Bolkenstein, dalla
l. 18.6.2009, n. 69), con l’espressa, importante, precisazione, al co. 4-ter, che la disciplina della SCIA,
direttamente sostitutiva di quella della DIA contenuta in ogni normativa statale o regionale, attiene «alla
tutela della concorrenza ai sensi dell’articolo 117, secondo co., lettera e), della Costituzione, e costituisce
livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi della lettera m) del medesimo
comma». Il comma è stato abrogato dal d.lgs. n. 126/2016, che ha trasposto nell’art. 29, co. 2-ter, l. n. 241
l’affermazione di attinenza ai l.e.p. delle disposizioni della medesima legge concernenti «la presentazione di
istanze, segnalazioni e comunicazioni, la dichiarazione di inizio attività e il silenzio assenso e la conferenza
di servizi».
Il co. 1 dell’art. 19, ulteriormente modificato dalle l. 12.7.2011, n. 106, 4.4.2012 n. 35 e 7.8.2012, n. 134 e
rimasto inalterato nelle ultime, richiamate, riforme del 2015 e 2016, dispone dunque che «ogni atto di
autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese
le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o
artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o da
atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o
specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una
segnalazione dell’interessato con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla
pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia,
all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche
derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli
imposti dalla normativa comunitaria».
Con il riferito radicale passaggio di responsabilità dal pubblico al privato, viene rimesso all’interessato il
compito di corredare la segnalazione, che lo abilita all’immediato esercizio dell’attività, delle dichiarazioni,
attestazioni e asseverazioni necessarie, nonché dei relativi elaborati tecnici, con l’espressa precisazione (da
leggere alla luce delle surrichiamate esclusioni dall’ambito di operatività della SCIA delle attività
condizionate dai cd. interessi sensibili) che «nei casi in cui la normativa vigente prevede l’acquisizione di
atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque
sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve
le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti».
I co. 3 e 4 disciplinano il controllo (meramente successivo), nelle forme della verifica immediata (nel
termine di 60 giorni, ridotto a 30 per la SCIA edilizia) e di quella postuma (rigorosamente limitata dalla l. n.
124 alle condizioni previste dall’art. 21-nonies per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio) sul legittimo
utilizzo dello strumento e sono stati oggetto, prima dei decreti delegati del 2016, di continue modifiche
anche da parte delle ultime riforme (in particolare, dopo quelle del d.l. 12.9.2014, n. 133, conv. nella l.
11.11.2014, n. 164, la stessa l. n. 124/2015), sollevando non poche questioni interpretative, non ancora del
tutto risolte, sulle quali, per quanto non toccato dai suddetti decreti e non trattato infra, sia consentito il
rinvio alla voce Autotutela, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016.
Dal tradizionale sistema “autorizzatorio”, si è dunque passati, per le attività non totalmente liberalizzate o
soggette a mera “comunicazione”, a un sistema di controllo “misto”, che, accanto al modello di assenso
preventivo, di cui è stata peraltro progressivamente ampliata la possibilità di ottenimento implicito, ha visto,
prudentemente (e, come vedremo, non sempre opportunamente) estendere la sostituzione del provvedimento
(esplicito o implicito) di legittimazione preventiva dell’attività con uno strumento di sostanziale
“liberalizzazione” della medesima, assurto ormai a «paradigma generale dell’azione amministrativa di
controllo sull’iniziativa economica privata»3, che tuttavia, dopo oltre un quarto di secolo e nonostante gli
sforzi interpretativi e rielaborativi compiuti dalla dottrina, dalla giurisprudenza e dallo stesso legislatore

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(supportato, per gli ultimi decreti delegati, da elaborati e complessi pareri del Consiglio di Stato) 4, lascia
tuttora aperti una serie di problemi, di natura sostanziale e processuale5.
In particolare, in un quadro normativo tutt’altro che scevro da incertezze sull’individuazione delle “regole”
di esercizio di una determinata attività, i problemi posti dalla SCIA concernono, dalla parte del segnalante,
la garanzia dell’effettività e della stabilità del titolo e, da quella dell’amministrazione e dei terzi
controinteressati, la tutela contro l’improprio utilizzo dello strumento.
LA FOCALIZZAZIONE. LE NUOVE “GARANZIE” DEL TITOLO
Nell’ottica di incentivazione delle attività economiche, la “riforma Madia” si è preoccupata innanzi tutto di
offrire maggiori garanzie al segnalante. La l. n. 124/2015 è dunque, per un verso, direttamente intervenuta
sulla disciplina del potere di controllo successivo dell’amministrazione, ridefinendone i confini in coerenza
con i nuovi limiti al potere di autotutela caducatoria (art. 6)6 e, per l’altro verso, ha delegato il Governo alla
«precisa individuazione dei procedimenti oggetto di segnalazione certificata di inizio attività o di silenzio
assenso, ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché di quelli per i quali è
necessaria l’autorizzazione espressa e di quelli per i quali è sufficiente una comunicazione preventiva», in
una con la definizione della «disciplina generale delle attività non assoggettate ad autorizzazione preventiva
espressa»7, ivi compresa quella delle modalità di presentazione e dei contenuti standard degli atti degli
interessati e delle modalità di svolgimento della procedura, anche telematica, e con la regolazione degli
strumenti per documentare o attestare gli effetti prodotti da tali atti (art. 5). Il richiamo, nella delega, ai
“princìpi del diritto dell’Unione europea relativi all’accesso alle attività di servizi” e ai “princìpi di
ragionevolezza e proporzionalità” esterna, sotto altro profilo, il più ambizioso obiettivo di razionalizzazione
e di rivisitazione dei rapporti tra poteri delle pubbliche amministrazioni e attività private, in un’ottica di
tendenziale liberalizzazione di quelle che non necessitano di previ controlli pubblici8.
Il legislatore delegato, pur chiamato a un compito estremamente complesso, ha cercato di assolvere, per
quanto possibile, almeno con riferimento alla SCIA, ad entrambe le finalità, ma la novella è ancora lontana
dall’aver risolto ogni profilo di criticità dello strumento.
Confermando il carattere evidentemente utopistico del disegno di completa ricognizione e ridefinizione dei
diversi regimi delle attività private potenzialmente confliggenti con l’interesse pubblico, il primo decreto
delegato (d.lgs. n. 126/2016: cd. “SCIA1”) ha fallito l’obiettivo e il Governo è stato costretto a
ridimensionarne drasticamente l’oggetto, precisando, all’art. 1, che «reca la disciplina generale applicabile ai
procedimenti relativi alle attività private non soggette ad autorizzazione espressa e soggette a segnalazione
certificata di inizio di attività», con rinvio a «successivi decreti legislativi» (ad oggi solo il cd. decreto
“SCIA2”, su cui v. infra) per la catalogazione delle «attività oggetto di procedimento [termine
evidentemente improprio: n.d.r.] di mera comunicazione o segnalazione certificata di inizio di attività ... od
oggetto di silenzio assenso, nonché quelle per le quali è necessario il titolo 9 espresso». L’articolo aggiunge
peraltro che, «allo scopo di garantire certezza sui regimi applicabili alle attività private e di salvaguardare la
libertà di iniziativa economica, le attività private non espressamente individuate ai sensi dei medesimi
decreti o specificamente oggetto di disciplina da parte della normativa europea, statale e regionale, sono
libere». La regola è all’evidenza dirompente (e, considerata la difficoltà di censimento delle diverse attività,
estremamente rischiosa) se si considera che, nel parere n. 1784/2016, sullo schema di decreto “SCIA2”, il
Cons. St. ha affermato che, stante l’effetto innovativo che la delega ha attribuito all’individuazione dei
diversi regimi, alla luce dei principi eurounitari di accesso alle attività di servizi, proporzionalità e
ragionevolezza, la disgiuntiva «o» implicherebbe che la salvezza delle discipline vigenti è limitata ai settori
estranei a quelli che abbiano già costituito oggetto di catalogazione (ad oggi, commercio, edilizia e
ambiente), mentre in questi ultimi le attività non espressamente individuate devono considerarsi comunque
effettivamente “libere”. La soluzione prospettata dal parere non convince, ponendosi peraltro in contrasto
con la previsione, accettata dallo stesso organo consultivo (pur con l’invito al Governo a meglio definirne i
criteri), che le singole amministrazioni possono ricondurre «le attività non espressamente elencate nella
tabella A, anche in ragione della loro specificità territoriale a quelle corrispondenti 10, dandone pubblicità sul
proprio sito istituzionale» (art. 2, co. 6, decreto SCIA2).
Per quanto concerne la disciplina generale, il decreto n. 126 ha innanzitutto regolato le modalità di
presentazione delle istanze, segnalazioni, comunicazioni (art. 2) e la documentazione da allegare a tali atti,
facendo obbligo alle amministrazioni competenti di predisporre e pubblicare sul proprio sito istituzionale
moduli standardizzati e – per ciascuna tipologia di procedimento – l’elenco degli stati, qualità personali e

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fatti oggetto di dichiarazione sostitutiva, di certificazione o di atto di notorietà, nonché delle attestazioni e
asseverazioni dei tecnici abilitati
o delle dichiarazioni di conformità dell’Agenzia delle imprese, necessari a corredo della segnalazione,
indicando le norme che ne prevedono la produzione. Si segnala a tale proposito che l’art. 2, co. 5, dispone
che la richiesta di integrazioni documentali non corrispondenti alle informazioni pubblicate e/o la mancata
pubblicazione delle stesse costituiscono illecito disciplinare («punibile con la sospensione con privazione
della retribuzione da tre giorni a sei mesi»). La previsione desta varie perplessità. Come già rilevato 11 e
ripreso nel parere n. 839/2016, sarebbe stato opportuno sostituire le parole «costituiscono illecito
disciplinare» con “sono valutabili ai fini dell’illecito disciplinare”, in quanto – ferma piuttosto l’opportunità
di chiarire che (almeno secondo quello che appare l’intentum legis) le richieste di integrazioni documentali
non incidono comunque sul termine di conclusione del procedimento e, dunque, non possono pregiudicare il
consolidamento della SCIA – a fronte di richieste “logiche”, non è giusto punire chi le ha effettuate, ma, al
più, chi non ha inserito i documenti negli elenchi.
A garanzia dei suddetti obblighi di pubblicità, l’art. 2, co. 3, disciplina un doppio potere sostitutivo (che
costituisce un’ulteriore costante della riforma Madia, tradotta nel d.P.R. 12.9.2016, n. 194, affidato,
rispettivamente, alle Regioni nei confronti degli enti locali – «anche su segnalazione del cittadino», «nel
rispetto della disciplina statale e regionale applicabile nella relativa materia» e allo Stato nei riguardi delle
Regioni (ex art. 8 l. n. 131/2003).
Sono fatti in ogni caso espressamente salvi gli obblighi di trasparenza, le sanzioni e i rimedi del d.l.
n. 33/2013 (cd. Decreto trasparenza), con cui peraltro il parere n. 839 aveva invano rappresentato
un’esigenza di coordinamento.
Aggiungendo un nuovo art. 18-bis (Presentazione di istanze, segnalazioni o comunicazioni) nella l. n.
241/1990, il d.lgs. n. 126 fa espresso obbligo alle amministrazioni di rilasciare «immediatamente, anche in
via telematica, una ricevuta che attesta l’avvenuta presentazione dell’istanza, della segnalazione e della
comunicazione e indica i termini entro i quali l’amministrazione è tenuta, ove previsto, a rispondere, ovvero
entro i quali il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento dell’istanza». La novella precisa
peraltro che, qualora contenga le informazioni di cui all’art. 8 della l. n. 241 (eventualità che appare
illogicamente rimessa alla scelta discrezionale dell’amministrazione), la ricevuta costituisce anche
comunicazione di avvio del procedimento (di verifica dei presupposti, nel caso di SCIA e di rilascio del
titolo nel caso di istanza). È specificato, inoltre, opportunamente, che la data di protocollazione dell’istanza,
segnalazione o comunicazione non può comunque essere diversa da quella della sua effettiva presentazione
e che la ricevuta non è condizione di efficacia della SCIA, dell’istanza o della comunicazione, ferma
restando la responsabilità (evidentemente, in mancanza di specifiche previsioni, secondo le norme generali)
del soggetto competente.
Come precisato dal co. 2 dello stesso art. 18-bis, in caso di presentazione a un ufficio diverso da quello
competente, i termini di cui agli articoli 19, co. 3 (per l’esercizio dei poteri inibitori/conformativi/repressivi),
decorrono dal ricevimento della SCIA da parte dell’ufficio competente.
L’art. 3, co. 1, lett. c), del decreto n. 126 introduce a sua volta un nuovo art. 19-bis nella l. n. 241, rubricato
«Concentrazione dei regimi amministrativi», volto a regolare le ipotesi di attività soggette a SCIA, che per il
loro svolgimento necessitano di «altre s.c.i.a., comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e notifiche» (cd.
“SCIA – pura – unica”) o sono condizionate all’acquisizione di atti di assenso comunque denominati, a
pareri di altri uffici e amministrazioni, o all’esecuzione di verifiche preventive (cd. “SCIA impura”).
Nel primo caso, il co. 2 del nuovo articolo stabilisce che «l’interessato presenta un’unica SCIA» allo
sportello dell’amministrazione indicata nei decreti di cui all’art. 1, che ha il compito di trasmetterla
“immediatamente” alle altre amministrazioni interessate per l’esercizio dei relativi controlli. La disposizione
sembra tuttavia confondere i casi in cui per intraprendere un’attività sono necessarie più SCIA con quelli in
cui sono, semplicemente, necessarie asseverazioni, attestazioni, notifiche “a corredo” di una medesima,
unica, SCIA (art. 19, co. 1 e 6), per i quali non ha ovviamente senso (ed è fuorviante) parlare di (e disporre
la) presentazione, semplificata e concentrata, di “un’unica SCIA” 12. Non sembra inoltre logico, quando
effettivamente occorrano più SCIA, lasciare al segnalante la scelta sull’amministrazione a cui affidare la
gestione della pratica, anche e soprattutto perché il ruolo e il tempo lasciato alle altre amministrazioni
competenti per i necessari controlli è incomprensibilmente ridotto, dal momento che, per un verso, il decreto
non fissa un termine chiaro e certo (non potendo ritenersi tale l’avverbio “immediatamente”, soprattutto alla
luce della sua traduzione negli art. 76, co. 2 e 5, del nuovo codice dei contratti pubblici) entro il quale

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l’amministrazione prescelta deve trasmettere loro la pratica e, per altro verso, esse non hanno un potere
diretto di intervento, ma devono presentare a quest’ultima le loro “eventuali proposte motivate” almeno 5
giorni prima della scadenza di quelli concessi alla medesima per la chiusura del procedimento di verifica. In
attuazione della descritta disciplina, l’art. 2, co. 3, del decreto “SCIA2” stabilisce che «Per lo svolgimento
delle attività per le quali la tabella A indica il regime amministrativo della SCIA si applica il regime di cui
all’articolo 19 della legge n. 241 del 1990. Ove la tabella indica il regime amministrativo della Scia unica, si
applica altresì quanto previsto dall’articolo 19-bis, co. 2, della stessa legge n. 241 del 1990»: si chiarisce
così il rapporto di specialità tra le due discipline, di talché quella della SCIA ordinaria si applica anche alla
SCIA unica (coerentemente ricondotta nel parere n. 1784 alla medesima categoria della cd. “SCIA pura”),
che è regolata “altresì” da una disposizione particolare.
Il co. 3 del nuovo art. 19-bis regola invece le ipotesi definite di “SCIA impura”, disponendo che, «nel caso
in cui l’attività oggetto di SCIA è condizionata all’acquisizione di atti di assenso comunque denominati o
pareri di altri uffici e amministrazioni, ovvero all’esecuzione di verifiche preventive, l’interessato presenta
allo sportello di cui al co. 1 la relativa istanza», dalla quale fa decorrere il termine di convocazione della
conferenza di cui all’art. 14. Recependo le indicazioni del Cons. St., la disposizione precisa subito dopo che
(diversamente da quanto avviene per la “SCIA pura”), «l’inizio dell’attività resta subordinato al rilascio
degli atti medesimi, di cui lo sportello dà comunicazione all’interessato». Siamo dunque di fronte a un
meccanismo procedimentale del tutto diverso dalla SCIA vera e propria (anche “unica”), nel quale si innesta
una fase prodromica di tipo autorizzativo classico, totalmente estraneo e anzi antitetico al modello SCIA:
tanto che significativamente non si parla di “segnalazione”, ma di “istanza” e si avvia il percorso della
conferenza di servizi. Il vantaggio per l’interessato è che la richiesta di autorizzazione (e, soprattutto, il suo
ottenimento) grava direttamente sull’amministrazione, che si deve attivare con la conferenza di servizi. Il
modello, richiamato dal decreto “SCIA2”, crea tuttavia, come si vedrà infra, notevoli problemi applicativi e
interpretativi, per i quali si rinvia anche alla lettura del parere n. 1784.
Il decreto n. 126 non introduce invece particolari modifiche al sistema dei poteri di controllo disegnato dagli
artt. 19 e 21 della l. n. 241, omettendo altresì di risolvere le criticità evidenziate dalla dottrina e dallo stesso
Cons. St. (in entrambi i pareri) in riferimento al rapporto con la nuova disciplina dell’autotutela. Anche il
decreto “SCIA2”, purtroppo, non affronta tutti i profili attenzionati dall’Organo consultivo, se non per
l’individuazione del dies a quo del termine di 18 mesi per la verifica postuma sulla utilizzabilità dello
strumento, che individua, privilegiando il criterio logico, nella scadenza del termine per la verifica ordinaria
(art. 2, co. 4), e per la precisazione, nella Relazione illustrativa, che, la conferma di quanto stabilito dall’art.
21, co. 1, della l. n. 241/1990, ribadita dal medesimo comma, sta a significare che il divieto di
conformazione delle attività avviate sulla base di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni riconducibili
all’art. 483 c.p. opera senza limiti di tempo solo quando la relativa fattispecie penale sia stata accertata con
sentenza di condanna passata in giudicato. Il decreto n. 126 ha però ulteriormente circoscritto il potere di
sospensione dell’attività nelle more della definizione del procedimento di controllo. L’art. 6 della l. n.
124/2015 – nel confermare la vigenza, in capo all’amministrazione competente, di un potere/dovere di
intervento, in senso conformativo, inibitorio e/o repressivo in caso di riscontrata carenza dei presupposti e
dei requisiti previsti dal co. 1, esercitabile entro 60 giorni dal ricevimento della segnalazione (ridotti a 30 per
la SCIA edilizia: co. 6-bis) – stabiliva infatti che essa, con atto motivato, avrebbe dovuto, ove possibile,
invitare il privato a «conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente», «disponendo [al
contempo: n.d.r.] la sospensione dell’attività intrapresa e prescrivendo le misure necessarie con la fissazione
di un termine non inferiore a 30 giorni per l’adozione di queste ultime», decorso inutilmente il quale
«l’attività si intende [come logico: n.d.r.] vietata». Nel riferito spirito di favore per il segnalante, il d.lgs. n.
126 ha invece limitato il potere di sospensione alle ipotesi in cui la SCIA contiene attestazioni non veritiere
circa i requisiti posseduti o l’attività comporta pericoli «per la tutela dell’interesse pubblico in materia di
ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale», consentendo, in ogni altro
caso, la prosecuzione dell’attività illegittimamente avviata nelle more della “regolarizzazione” (sempre che,
naturalmente, questa avvenga nei termini stabiliti). A parte l’incomprensibilità del riferimento alle sole
“attestazioni” (e non anche alle asseverazioni, notifiche, comunicazioni, o altre dichiarazioni/segnalazioni),
sembra però incongruo limitare il potere di sospendere l’attività in sede di prima verifica dell’abuso se, a
prescindere dalla sussistenza di un “pericolo per l’interesse pubblico” legato a materie circoscritte, mancano
comunque i presupposti o i requisiti per l’utilizzo della SCIA (e magari il segnalante, astutamente o per
ignoranza, non ha fatto “attestazioni” al riguardo).

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In sintesi, ai sensi dell’art. 19, co. 3, l. n. 241/1990, come modificato dall’art. 3, co. 1, lett. b), d.lgs. n. 126,
in caso di carenza dei presupposti e dei requisiti previsti dall’art. 19, co. 1, entro 60 giorni dalla
presentazione della segnalazione (ridotti a 30 per la SCIA edilizia), l’amministrazione competente (ovvero,
in caso di più SCIA, quella cui è stata presentata la segnalazione) «adotta motivati provvedimenti di divieto
di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa». Peraltro, «qualora sia
possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l’amministrazione
competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere prescrivendo le misure necessarie con la
fissazione di un termine non inferiore a 30 giorni per l’adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle
misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata. Con lo stesso atto
motivato, … l’amministrazione dispone la sospensione dell’attività intrapresa» (solo nei casi appena
esaminati). Il decreto precisa poi che il medesimo “atto motivato” (di conformazione e di eventuale
sospensione) «interrompe il termine di cui al primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui il
privato comunica l’adozione delle suddette misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso
termine, cessano gli effetti della sospensione eventualmente adottata». Se può essere coerente far decorrere
ex novo il termine di verifica, non appare altrettanto giusto tenere fermi gli effetti della sospensione durante
il suo decorso, creando di fatto un’anomala ipotesi di efficacia differita del titolo.
Il d.lgs. n. 222 del 2016 (cd. “SCIA2”), di più lunga e complessa gestazione, ha, invece, intrapreso
l’individuazione dei “regimi amministrativi delle attività private” (SCIA, SCIA unica, silenzio assenso,
comunicazione, autorizzazione), prendendo le mosse da quelle in materia di edilizia, ambiente e commercio,
che ha inquadrato in un’apposita tabella A, allegata al testo normativo e parte integrante dello stesso, che
indica il regime amministrativo applicabile a ciascuna attività, con rinvio agli artt. 19 e 19-bis della l. 241 e
con la conseguente specificazione che «nei casi in cui la tabella indica il regime della SCIA condizionata ad
atti di assenso, comunque denominati» si applica quanto previsto dal co. 3 di quest’ultimo articolo (e dunque
l’anomalo regime della cd. SCIA impura).
Come anticipato, nel parere n. 1784, il Cons. St. ha rilevato che l’individuazione dei diversi regimi è stata
correttamente intesa dal Governo come una individuazione attiva e non meramente ricognitiva dell’esistente,
proprio per adeguare la (più onerosa) disciplina vigente ai (più semplici) standard europei sull’accesso alle
attività di servizi, nonché ai principi di ragionevolezza e proporzionalità (che spingono anch’essi verso una
riduzione degli oneri esistenti), in linea con i criteri direttivi della delega.
La tabella è suddivisa in tre sezioni:
1) la I (Attività commerciali e assimilabili), ricomprende le attività di commercio su area privata, su area
pubblica, l’esercizio di somministrazione di alimenti e bevande, strutture ricettive e stabilimenti balneari,
attività di spettacolo o intrattenimento, sale giochi, autorimesse, distributori di carburante, officine di
autoriparazione, acconciatori ed estetisti, panifici, tintorie, lavanderie, arti tipografiche, litografiche,
fotografiche e
di stampa, per un totale di 81 attività;
2) la II (Edilizia) ricomprende gli interventi edilizi e i relativi regimi amministrativi, altri adempimenti
successivi all’intervento edilizio e gli interventi relativi a impianti alimentati da fonti rinnovabili, per un
totale di 105 attività;
3) la III (Ambiente) ricomprende le autorizzazioni integrate ambientali (AIA), le valutazioni di impatto
ambientale (VIA), le autorizzazioni uniche ambientali (AUA), nonché le attività relative alle emissioni in
atmosfera, alla gestione rifiuti, all’inquinamento acustico, agli scarichi idrici, alle dighe, alle bonifiche e altri
procedimenti in materia di tutela dei corpi idrici, per un totale di 37 attività.
Appare alquanto utopistica la previsione (art., co. 3) che le amministrazioni procedenti forniscano
consulenza gratuita agli interessati per l’istruttoria relativa alle attività indicate nella tabella.
Ai fini che qui interessano, il co. 4, con disposizione che, per la sua ampiezza e genericità, si pone in dubbia
coerenza con le finalità di riordino e certezza della delega e con le modifiche all’art. 29 l. n. 241, stabilisce
peraltro che «il comune, d’intesa con la Regione, sentito il soprintendente, può adottare deliberazioni volte a
individuare zone o aree aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico in cui è
vietato, o subordinato ad autorizzazione, l’esercizio di una o più attività» contemplate dal decreto, in quanto
incompatibili con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale.
Come già visto il co. 6 dello stesso articolo, nonostante le preoccupazioni espresse nel parere del Cons. St.
(che aveva giustamente segnalato l’eccessiva genericità della previsione) riconosce peraltro alle singole

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amministrazioni il potere di ricondurre le attività non espressamente elencate nella tabella A, anche in
ragione delle loro specificità territoriali, a quelle corrispondenti, pubblicandole sul proprio sito istituzionale.
Il co. 7 affida poi al Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, previa intesa
con la conferenza unificata di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 281 del 1997, il potere/dovere di procedere
«periodicamente all’aggiornamento e alla pubblicazione della tabella A con le modifiche strettamente
conseguenti alle disposizioni legislative successivamente intervenute».
Apposite disposizioni di coordinamento sono finalizzate ad adeguare la disciplina vigente ai regimi
individuati nella suddetta tabella. Altre sono dirette a rendere più immediatamente comprensibile quanto
graficamente rappresentato in tabella, ossia gli adempimenti delle pubbliche amministrazioni in ragione del
regime giuridico generale individuato.
Gli artt. 3 e 4 si occupano rispettivamente della semplificazione in materia edilizia e della semplificazione in
materia di pubblica sicurezza.
L’art. 3 merita speciale attenzione, perché interviene in modo significativo sul t.u. edil., riducendo il numero
dei titoli edilizi e introducendo ulteriori elementi di semplificazione anche in riferimento alle ulteriori
certificazioni connesse all’utilizzo delle opere edilizie. In particolare, sotto il primo profilo, viene eliminata
la Comunicazione inizio lavori (CIL) e gli interventi che vi erano soggetti sono sottratti a qualsiasi controllo
sotto il profilo edilizio; il regime “residuale” applicabile, oggi indivudato nella SCIA, diventa quello della
Comunicazione asseverata di inizio lavori (CILA), cui viene ricondotto anche il restauro e risanamento
conservativo che non riguardi parti strutturali dell’edificio; è abolita la cd. Super DIA, sostituita da una
SCIA con efficacia differita.
Sotto il secondo profilo, si segnala la semplificazione del modello procedimentale per l’ottenimento del
certificato di agibilità, sostituito con una SCIA, corredata dalla documentazione specificamente indicata dal
co. 5 dello stesso articolo.
Si lascia peraltro alle Regioni la facoltà di estendere la disciplina della CILA ad interventi ulteriori rispetto a
quelli individuati dalla disciplina statale. Nonostante il decreto non lo dica espressamente, vale
evidentemente anche in questo caso la regola, sancita dall’art. 20, co. 4, che l’estensione non incide sul
regime penale disegnato dall’art. 44.
L’art. 4 introduce semplificazioni dei regimi amministrativi in materia di pubblica sicurezza, intervenendo
su alcune disposizioni del TULPS relative a locali ed impianti di minore impatto e, risolvendo, un’annosa
questione, chiarisce che per le attività soggette ad autorizzazione della pubblica sicurezza per le quali la
tabella prevede un regime di SCIA, questa produce gli effetti anche a fini ispettivi, della predetta
autorizzazione. Prevale dunque la vocazione commerciale dell’attività, nel rispetto però delle esigenze di
pubblica sicurezza, che giustificano – ai sensi dell’art. 16 t.u.l.p.s. – il potere dell’Autorità di controllare
luoghi potenzialmente attrattivi di pluralità di utenti.
I PROFILI PROBLEMATICI
Molti ancora, come anticipato, i profili problematici dell’istituto, per una più completa ricognizione dei quali
si invita a un’attenta lettura dei pareri resi dal Cons. St. sugli schemi dei due decreti. Compatibilmente con i
limiti di spazio del presente contributo, se ne evidenziano i principali.
La portata dell’art. 21, co. 1, l. n. 241/1990
Superato il problema dell’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di esercizio
dell’intervento “postumo” (v. supra), il primo problema interpretativo è legato al rapporto tra l’art. 21nonies
e l’art. 21, co. 1, l. n. 241/1990, sul quale il legislatore del 2015 si è limitato a un mero intervento
di drafting, consistente nella sostituzione formale del termine “denuncia” con quello “segnalazione”. La
disposizione, nel richiamare l’obbligo del segnalante di dichiarare (sotto la propria responsabilità) «la
sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti» stabilisce pertanto ancora oggi che «In caso di
dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a
legge (omissis) ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo
che il fatto costituisca più grave reato».
Il Cons. St., recependo le perplessità, in realtà eccessive, avanzate da alcuni primi commentatori13, ha dunque
rilevato l’esigenza di chiarire se la previsione debba considerarsi come un’ulteriore deroga al limite
temporale massimo di intervento postumo previsto dall’art. 21-nonies, aggiuntiva rispetto a quella prevista
dal co. 2-bis dello stesso articolo. Lo spirito della riforma, l’abrogazione dell’art. 21, co. 2, e il chiaro
disposto dell’art. 21-nonies, co. 2-bis, consentono però agevolmente di circoscrivere la portata dell’art. 21,
co. 1, alla verifica ordinaria che l’amministrazione deve compiere nei primi 60 o 30 giorni. Gli stessi pareri
hanno del resto giustamente sottolineato che nella seconda ipotesi prospettata (per garantire il rispetto del
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principio di legalità sostanziale: cfr. C. cost., 7.4.2011, n. 115) il legislatore dovrebbe specificare «quali
siano i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, co. 1, rispetto a quelli di intervento ex post alle condizioni
dell’art. 21-nonies … ».
Il decreto “SCIA2” si limita a un generico richiamo al suddetto articolo (art. 2, co. 4), che in coerenza con la
riforma, la Relazione illustrativa ha peraltro precisato significare che la conformazione non è mai possibile –
e la norma risulta speciale e applicabile senza limiti di tempo – nei casi di dichiarazioni mendaci o di false
attestazioni riconducibili alla fattispecie penale di cui all’art. 483 c.p. accertata con sentenza passata in
giudicato.
La portata dei limiti generali al potere di autotutela
Come segnalato in entrambi i pareri del Cons. St., anche (e considerate le caratteristiche e la valenza dello
strumento, soprattutto) con riferimento alla SCIA è inoltre importante chiarire l’esatta portata dei nuovi
limiti al potere di autotutela introdotti dalla l. n. 124 e in particolare quale sia la esatta delimitazione della
(unica) fattispecie di deroga ai 18 mesi prevista dall’art. 21-nonies, co. 2-bis (ad esempio, se tra le “false
rappresentazioni dei fatti” in deroga ai 18 mesi rientri anche la difettosa indicazione del sistema normativo
di riferimento; ovvero se si possa aggiungere la possibilità di superare i 18 mesi, al di là delle condanne
penali passate in giudicato, in tutti i casi in cui il falso è immediatamente evincibile dal contrasto con
pubblici registri, come nel caso di percezione di pensione a nome di persona defunta; ovvero ancora quale
sia l’esatta portata del riferimento alle «sanzioni penali, nonché» alle «sanzioni previste dal capo VI del testo
unico di cui al d.P.R. 445 del 2000», che più d’uno tra i primi commentatori ha considerato come il frutto di
un errore di drafting).
Il parere n. 1784 evidenzia invece che erano state già risolte in via interpretativa nel parere n. 839 e «a
fortiori nel silenzio dell’amministrazione interessata – non richiedono ulteriori chiarimenti» – la questione
dell’immediata applicabilità del termine generale dell’art. 21-nonies a tutti i provvedimenti, anche
precedenti all’entrata in vigore della legge n. 124, «dovendosi ritenere priva di fondamento l’interpretazione
– che pure taluno, poco convincentemente, ha sostenuto – secondo cui vi sia stata una sorta di ‘rimessione in
termini’ dell’amministrazione per gli atti emanati prima di 18 mesi dall’entrata in vigore della riforma»; e –
la questione «che la regola generale dell’art. 21-nonies si applica anche a provvedimenti che non sono
formalmente definiti “di annullamento”», in quanto «alcune disposizioni utilizzano infatti, impropriamente, i
termini “revoca”, “risoluzione”, “decadenza” (dai benefici) o simili per indicare, oltre all’abusivo utilizzo
del titolo, la reazione dell’ordinamento all’illegittimo conseguimento del titolo, utilizzando forme che sono
state definite di “annullamento travestito”». E il silenzio del decreto “SCIA2” sul punto conferma la
condivisione della suddetta chiave di lettura.
Il regime della “SCIA impura”
Come evidenziato anche nel parere n. 1784, il nuovo art. 19-bis, co. 3, lett. c), l. n. 241, nel riportare sotto il
regime della cd. “SCIA impura” (rinvio degli effetti della SCIA all’avverarsi delle richieste condizioni) le
attività soggette a SCIA per le quali sia richiesta l’acquisizione di «pareri di altri uffici e amministrazioni,
ovvero [al]l’esecuzione di verifiche preventive» pone un problema di coordinamento con quanto previsto
nell’art. 19, co. 1, terzo periodo, che, sempre con riferimento alla «acquisizione di atti o pareri di organi o
enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive», dispone che essi sono – più semplicemente –
«comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni» di cui allo stesso
comma. Il suddetto parere risolve peraltro l’antinomia nel senso che le esigenze di semplificazione sottese
all’art. 19-bis ne implicano l’applicazione solo in presenza di atti autorizzatori, con conseguente prevalenza
del procedimento già semplificato dall’art. 19, in caso di pareri o verifiche non accompagnate da atti
autorizzatori. Il problema sembra però a ben vedere risolvibile, anche alla luce dell’art. 23 t.u edil. (cui la
disposizione chiaramente si ispira), considerando che l’art. 19-bis, co. 3, si riferisce in realtà ai casi che l’art.
19 esclude dall’ambito della SCIA, in quanto le attività sono condizionate dall’esistenza di vincoli
o di atti finalizzati alla tutela di interessi “sensibili”. Da ciò l’ibrido strumento della cd. “SCIA impura” con
l’anomalia della sua conciliabilità con la procedura della conferenza di servizi, che, evidentemente, si
conclude con la determinazione espressa dalla amministrazione procedente (posto che il riferimento
generico all’art. 14, il carattere obbligatorio e i presupposti per l’indizione della conferenza la fanno
chiaramente inquadrare in quella decisoria).
La tutela del terzo
La “nuova” attenzione per la posizione del segnalante ripropone però soprattutto in tutta la sua complessità e
delicatezza la questione della difficoltà di conciliare la garanzia di stabilità del titolo con le esigenze di

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effettiva tutela del terzo che affermi di subire una lesione nella propria sfera giuridica per effetto dell’avvio
dell’attività.
Il carattere perentorio del termine di cui all’art. 19, co. 1 e i nuovi limiti imposti dalla riforma all’intervento
“postumo” dell’amministrazione contrastano invero con i tempi di instaurazione del giudizio ex art. 31
c.p.a., che, in base al co. 6-ter dello stesso art. 19 (introdotto nell’estate 2011 in polemica con la costruzione
– di matrice dottrinaria e giurisprudenziale14 – di una tutela di accertamento, con possibilità di immediata
tutela soprassessoria e caducatoria dell’implicito diniego di adozione di misure
conformativo/repressivo/inibitorie), costituisce l’unico strumento di tutela contro l’omesso esercizio del
potere di verifica del legittimo utilizzo della segnalazione.
Alcuni Tribunali15 hanno tentato di risolvere la questione affermando che i nuovi limiti all’intervento
“tardivo” sulla SCIA operano solo per l’attività di autotutela (rectius, di controllo “postumo”) “d’ufficio” e
non a fronte di una denuncia del terzo, che, in forza del citato art. 19, co. 6-ter, avrebbe tuttora titolo a
contestare, senza limiti di tempo, con l’azione avverso il silenzio inadempimento, il mancato esercizio del
potere inibitorio/repressivo o conformativo. La soluzione non sembra tuttavia coerente con la ratio della
riforma, volta a garantire, in una con l’autoresponsabilizzazione del segnalante, le esigenze di certezza
dell’operatore che si avvale della SCIA 16, rendendo pertanto necessario un sollecito intervento del legislatore
per la costruzione di un modello idoneo a coniugare entrambe le esigenze, delimitando il lasso temporale
entro il quale il terzo può contestare l’inerzia della p.a. controllante. Una valida prospettiva sembra quella
accolta da TAR Lombardia, Milano, sez. II, 15.4.2016, n. 735 (e 5.4.2014, n. 585), che, già in una fattispecie
antecedente all’entrata in vigore della l. n. 124/2015, invocando anche la parità di trattamento con chi si
duole di un titolo espresso, ha ritenuto che «il soggetto titolare di una situazione giuridica qualificata e
differenziata che lamenti un pregiudizio derivante da una denuncia o segnalazione certificata di inizio
attività possa ottenere il pieno e doveroso esercizio dei poteri inibitori, senza i limiti propri dell’autotutela,
soltanto laddove abbia sollecitato l’intervento dell’amministrazione entro 60 giorni dal momento in cui ha
avuto conoscenza della lesione». La stessa sentenza rilevava però che, oltre tale termine, il terzo potrebbe
sollecitare l’intervento dell’amministrazione (e dunque agire avverso la sua eventuale inerzia) «al fine di
invocare non già il pieno esercizio dei poteri inibitori, bensì il riscontro della sussistenza dei – diversi –
presupposti normativamente previsti per l’intervento in autotutela»: si ripropone, quindi, il tema della
compatibilità con i nuovi limiti fissati all’autotutela dalla riforma dell’art. 21-nonies. Il problema è
attenzionato ma non è risolto neppure dalla sentenza Cons. St., sez. VI, 3.11.2016, n. 4610, che a fronte di
una diffida successiva alla scadenza del termine per la verifica immediata, afferma il diritto del terzo ad
agire – a decorrere dalla conoscenza dell’avvio dell’attività – contro il mancato esercizio del potere di
verifica postuma, senza però chiarire cosa accade se la sentenza interviene dopo i 18 mesi, nè se il terzo
possa riproporre la diffida se l’amministrazione non interviene entro l’anno. Da ciò l’imprescindibilità di
una chiara (e possibilmente definitiva) presa di posizione del legislatore 17, auspicata anche dal più volte
richiamato parere del Cons. St.
Conclusioni
In conclusione, il percorso evolutivo della l. n. 124/2015 e dei d.lgs. 126 e 222/2016 sulla liberalizzazione
delle attività economiche presenta ancora diverse criticità e contraddizioni, rendendo pertanto necessario un
nuovo e, per certi profili, più consapevole e meditato, intervento legislativo, anche per chiarire i rapporti con
la legislazione regionale e per risolvere, come auspicato dal Consiglio di Stato, «la questione
dell’applicabilità della presente lex posterior, ritenuta di natura ‘generale’, anche ai casi disciplinati da leggi
‘speciali’ anteriori», come il t.u. edil.18 (in primis quello del rapporto con il potere regionale di annullamento
dei titoli abilitativi entro dieci anni dalla relativa formazione19).
Note
1
 Il regolamento doveva altresì indicare le ipotesi in cui all’attività potesse darsi inizio immediatamente dopo
la presentazione della denuncia (cd. DIA immediata), ovvero dopo il decorso di un termine prestabilito per
categorie di atti, parametrato alla complessità degli accertamenti richiesti (cd. DIA differita). Il regolamento,
approvato con d.P.R. 26.4.1992, n. 300, individuò quindi, rispettivamente, le attività a legittimazione
immediata e quelle cui poteva darsi inizio solo una volta decorsi i termini ivi indicati. Per una critica a tale
tendenza cfr. Sandulli, M.A., Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della pubblica
amministrazione, in Giust. civ., 1994, II, 485.
2
 Sandulli, M.A., Denuncia di inizio di attività, in Riv. giur. edil., 2003.
3
 Cfr. Cons. St., parere 4.8.2016, n. 1784 (sul decreto “SCIA 2”).

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4
 Commissione speciale del Cons. St. 30.3.2016, n. 839 e 4.8.2016, n. 1784. Nel parere n. 839, il Consiglio
di Stato sottolinea, sul piano dogmatico, come «L’innovatività del modello e l’emancipazione dell’attività
segnalata da un ‘titolo amministrativo’ di natura pubblicistica è confermata dalla generalizzazione del
meccanismo della dichiarazione immediatamente legittimante, fatto salvo e anzi rafforzato dalla l. n. 124,
che riduce e razionalizza l’interferenza amministrativa sull’esplicarsi del modulo privatistico sul piano degli
interventi successivi in autotutela (come si evince anche dalle modifiche degli articoli 21 e 21-nonies della l.
n. 241) e dalla bozza di decreto delegato, che consolida e chiarisce la regola dell’immediata efficacia
legittimante della segnalazione».
5
 Sandulli, M.A., La segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.), in Sandulli, M.A., a cura
di, Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2015.
6
 Sul punto – e in particolare sulle incongruenze dell’art. 21, co. 2 della l. n. 241/1990, significativamente
abrogato dall’art. 5 l. n. 124 – si rinvia a Sandulli, M.A., Autotutela, in Libro dell’anno del Diritto 2016,
Roma, 2016 e Sandulli, M.A., Le novità in tema di silenzio, in Libro dell’anno del Diritto 2014, Roma,
2014; Strazza, G., La s.c.i.a. e il controllo successivo esercitato dalla pubblica amministrazione:
problematiche non solo definitorie, in Riv. giur. ed., 2, 2014, 376.
7
 Il parere n. 839 del Cons. St. ha giustamente sottolineato a questo proposito che «l’ampiezza dell’oggetto
della delega … (significata proprio dall’espressione “disciplina generale”) non può non implicare anche la
potestà di novellare la disciplina legislativa vigente».
8
 Vesperini, G., Quale riforma per le autorizzazioni amministrative?, in Giorn. dir. amm., 2, 2016, 154 ss.
9
 Correttamente, recependo le indicazioni del Cons. St., la versione finale del decreto ha sostituito il termine
“titolo” a quello “autorizzazione”.
10
 Come invano sottolineato nel parere del Cons. St., la previsione è eccessivamente generica e rischia facili
eccessi da parte delle amministrazioni locali.
11
 Sandulli, M.A., Semplificazione e certezza delle regole nel rapporto tra Amministrazione e amministrati:
il caso della SCIA, Corso monografico Spisa su “Forma e riforma dell’amministrazione pubblica tra
crescita economica e servizio ai cittadini: la l. n. 124/2015 e la sua attuazione”, 5.3.2016.
12
 Nei pareri sugli schemi dei due decreti, il Cons. St. ha coerentemente osservato che il co. 2 dell’art. 19-
bis va interpretato nel senso che le «comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e notifiche» cui esso fa
riferimento sono comunque connesse con una seconda SCIA ‘a monte’, altrimenti si ricade semplicemente
nel regime ‘puro’ dell’art. 19, rispetto alla quale la “scia unica” si colloca in rapporto di specialità.
13
 Lipari, M., La SCIA, cit.; diversamente, Sandulli, M.A., Semplificazione e certezza delle regole, cit., nel
senso che la disposizione, chiaramente a favore della stabilità dei titoli, rende impossibile «sostenere che
l’art. 21 comma 1 ponga problemi di coordinamento: dopo i 18 mesi o c’è un reato accertato con sentenza
passato in giudicato oppure il titolo non può più essere “toccato”».
14
 Greco, G., La SCIA e la tutela dei terzi al vaglio dell’Adunanza Plenaria: ma perché, dopo il silenzio
assenso e il silenzio inadempimento, non si può prendere in considerazione anche il silenzio diniego?,
in Dir. proc. amm., 2011, 1, 359 ss.; Cons. St., A.P. 29.7.2011, n. 15. La sentenza è stata evidentemente
oggetto di numerosi commenti, tra i quali sia consentito il rinvio a Sandulli, M.A., Brevi considerazioni a
prima lettura di Adunanza plenaria n. 15 del 2011, in www.giustamm.it, 2011.
15
 TAR Veneto, sez. II, 12.10.2015, n. 1038 e n. 1039, rispettivamente, in Foro amm., 2015,10 e
in www.iusexplorer.it, che ha richiamato i principi affermati, prima dell’entrata in vigore della cd. legge
Madia, dal TAR Campania, Napoli, sez. III, 5.3.2015, n. 1410, in www.giustizia-amministrativa.it e dal TAR
Piemonte, sez. II, 1°.7.2015, n. 1114, in Foro amm., 2015, 78, 2025.
16
 Botteon, F., Scia, titoli abilitativi e principio di libertà nelle attività economiche (note a margine dello
schema di decreto legislativo attuativo dell’art. 5 della l. 124/15 approvato “in esame preliminare” il 20
gennaio 2016), in www.lexitalia.it, 2016, ha affermato che «la provenienza dal terzo della sollecitazione non
esonera affatto la p.a. dal rispetto del termine di 60 giorni e che è impedito al giudice ordinare
all’amministrazione di agire in tal senso pure dopo il predetto termine. Fondamentale il fatto testuale che
non sono previste eccezioni al termine»; in argomento, si veda anche Nicodemo, G.F., Tutela del terzo in
edilizia – SCIA edilizia: i poteri di verifica della P.A. possono essere esercitati in ogni tempo?, in Giur. it.,
2015, 11, 2478.
17
 Cfr. Sandulli, M.A., Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche, le novità in
tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in www.federalismi.it, 2015, cit.
18
 Sul punto, cfr. TAR. Veneto, sez. II, 23.2.2016, n. 205, in www.ratioiuris.it.

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19
 Sul punto, cfr. TAR Umbria, sez. I, 7.11.2016, n. 691.

Condono edilizio
Provvedimento amministrativo di sanatoria, che consente ai proprietari di costruzioni di sottrarsi, previo
pagamento di somme a titolo di oblazione, oneri concessori, diritti e indennità risarcitorie, alle misure penali
e amministrative tese a combattere il fenomeno illegale dell’abusivismo edilizio, vale a dire la costruzione o
la successiva modificazione (anche soltanto funzionale) di edifici e manufatti edilizi non conformi
alla legge e agli strumenti urbanistici vigenti.
La normativa prevede quattro tipi di sanzioni rivolte alla repressione dell’abusivismo edilizio. Alle sanzioni
amministrative dirette a rimuovere gli effetti conseguenti all’offesa arrecata all’interesse pubblico (sanzioni
pecuniarie per le ipotesi di minore gravità, quali la difformità parziale, le costruzioni
su concessione annullata, la ristrutturazione in mancanza di concessione, sospensione dei lavori per le
costruzioni e le lottizzazioni abusive, demolizione, per casi più gravi di difformità parziale, per difformità
totale e per assenza di permesso di costruire, confisca e acquisizione al patrimonio comunale per immobili
giudicati di prevalente interesse pubblico) e alle sanzioni penali per la punizione delle inosservanze di norme
urbanistico-edilizie (la l. n. 380/2001, t.u. in materia, all’art. 44 raggruppa i reati urbanistico-edilizi in
distinte previsioni, alle quali correla sanzioni penali di diversa entità), si aggiungono le cosiddette condono
sanzioni civili, finalizzate a limitare (se non proprio a impedire) la circolazione di edifici e parti di essi
illegittimamente costruiti, e alcune condono sanzioni accessorie (per es., quelle fiscali). Si tratta, in
particolare, di un complesso di norme, di prevalente natura civilistica per la loro incidenza su atti conclusi da
privati (che abbiano a oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali di godimento su edifici o loro
porzioni, con l’esclusione del diritti di servitù), finalizzate comunque, mediante la previsione di nullità,
vincoli di circolazione e responsabilità personali, a limitare la circolazione di edifici e parti di essi
illegittimamente costruiti.
In questo quadro, il condono edilizio costituisce un procedimento amministrativo eccezionale e limitato nel
tempo, non potendo essere utilizzato come procedimento «a regime» e dovendo riguardare esclusivamente il
passato. A fronte dell’incapacità delle amministrazioni comunali di impedire l’abusivismo edilizio, si è
pensato di sanare il passato, acquisendo, nel contempo, al patrimonio dello Stato e dei Comuni, ingenti
risorse finanziarie. Poiché il provvedimento di sanatoria riveste il carattere di atto dovuto, non potendo il
Comune negarlo pure se l’opera abusiva sia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti, si è inteso
privilegiare tale interesse finanziario, a discapito dell’interesse generale a una perfetta
conformazione urbanistica del bene. Sono così state disposte varie sanatorie edilizie, a partire dalla l. n.
47/1985, che ha introdotto tale procedimento, relativamente ad abusi commessi entro il 1° ottobre 1983. I
termini del condono edilizio sono stati riaperti nel 1994 e nel 2003.
Ai sensi dell’art. 31 della l. n. 47/1985, erano legittimati a proporre la domanda di condono i proprietari di
costruzioni, coloro che avevano titolo a richiedere la concessione o l’autorizzazione edilizia in base all’art. 4
della l. n. 10/1977 e ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria (usufruttuari, usuari,
titolari del diritto di abitazione, superficiali, enfiteuti, conduttori miranti a impedire la sanzione della
demolizione, congiunti e rappresentanti degli assenti, emigrati, malati, minori, creditori interessati a rendere
commerciabile un bene del debitore, soci di cooperative di abitazione, assegnatari provvisori, detentori del
bene a titolo precario, rappresentanti legali o volontari di soggetto legittimato). In ogni caso, se il primo
condono non prevedeva limiti quantitativi, il secondo e, poi, il terzo c. hanno stabilito limiti qualitativi e
quantitativi alla sanabilità degli abusi (in base al dettato del d.lgs. n. 168/2004, convertito in l. n. 191/2004,
spetta alle Regioni la determinazione concreta delle opere sanabili, pur nel rispetto dei dettami di principio
della disciplina nazionale). I termini per il compimento dell’abuso facevano poi riferimento non all’inizio
della costruzione, ma al suo completamento. Al riguardo, si riteneva che una costruzione dovesse intendersi
ultimata laddove ne fosse stato eseguito il rustico e completata la copertura, anche se la Cassazione penale
riteneva necessaria la realizzazione, in aggiunta, della tamponatura perimetrale.

Autorizzazione. Diritto amministrativo


L’autorizzazione è una tipologia di atto amministrativo discrezionale con cui un’autorità rimuove i limiti
che, per motivi di pubblico interesse, sono posti in via generale ed astratta dalla legge all’esercizio di una

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preesistente situazione giuridica soggettiva. A differenza della concessione, l’autorizzazione non attribuisce
nuovi diritti ma permette l’esercizio di un diritto già esistente.
Lo svolgimento di talune attività private è subordinato al rilascio di un’autorizzazione ossia di un atto
positivo di accertamento, con cui l’amministrazione verifica la compatibilità di tali attività con un
determinato interesse pubblico (come la tutela del paesaggio e l’assetto del territorio, la sicurezza dei
cittadini, l’incolumità pubblica ecc.). L’autorizzazione segue dunque la richiesta del privato di poter
esplicare un diritto rientrante nella propria situazione giuridica (per es., la costruzione o la ristrutturazione di
un immobile, la guida di un autoveicolo o motoveicolo, il possesso di un’arma ecc.).
A partire dagli anni 1990, sotto l’influenza della politica di liberalizzazione del diritto europeo, si è avvertita
l’esigenza di introdurre forme semplificate di controllo da parte della pubblica amministrazione. In
alternativa all’autorizzazione, la l. n. 241/1990 (art. 19, modificato dalla l. n. 80/2005) ha quindi esteso la
possibilità di avvalersi della Denuncia di Inizio di Attività (DIA), già in uso nel settore edilizio, in base alla
quale il privato comunica all’autorità competente, mediante autocertificazioni, l’avvio di una determinata
attività (per il regime attualmente in vigore, si rinvia alla voce Segnalazione certificata di inizio attività che
ha sostituito l’istituto della DIA).
Per tutelare il privato dall’inerzia dell’amministrazione, l’articolo 20 della medesima legge (modificato
anch’esso dalla l. n. 80/2005) ha previsto l’applicazione della disciplina del silenzio-assenso come regola nei
procedimenti a istanza di parte. In questi casi il silenzio dell’amministrazione competente equivale
all’accoglimento della domanda, senza la necessità di ulteriori istanze o diffide se, la medesima
amministrazione, non comunica il provvedimento di diniego entro i termini di legge (art. 2, co. 2 e 3),
oppure non indice la conferenza di servizi entro i 30 giorni successivi. La regola del silenzio-assenso
prevede tuttavia alcune importanti eccezioni (procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico o l’ambiente), in cui il silenzio dell’amministrazione va qualificato come silenzio-
inadempimento (su cui silenzio della pubblica amministrazione).
In linea con la politica di semplificazione degli strumenti di controllo sulle attività private, l’art. 20 della l. n.
59/1997 (sostituito dall’art. 1, co. 1 della l. n. 229/2003) ha previsto il ricorso all’autorizzazione a. generale
di a. in determinati settori. In particolare, in quello delle comunicazioni elettroniche, il d.lgs. n. 259/2003
(art. 25 e ss.), l’inizio dell’attività dell’operatore è subordinata alla presentazione di una semplice richiesta
notificata al Ministero competente. L’attività può essere tuttavia interrotta dall’amministrazione in ogni
momento, per l’insussistenza o il venir meno delle condizioni cui è sottoposta l’autorizzazione, condizioni
che devono essere presenti sia al momento della notificazione della richiesta al ministero sia
successivamente. L’autorizzazione generale ha durata di 20 anni, può essere rinnovata e ceduta a terzi.
L’ordinamento prevede anche la peculiare forma di autorizzazione a. plurima, che consiste nella somma di
tutti gli atti di consenso richiesti dalla legge. Ne sono esempio lo sportello unico delle attività produttive
(d.lgs. n. 112/1998, art. 23 e ss.), e l’autorizzazione integrata ambientale (d.lgs. n. 59/2005), lo sportello
unico per l’edilizia presso le amministrazioni comunali (D.p.r. n. 380/2001, art. 5).

Concessione amministrativa
La concessione è l’atto amministrativo con cui la pubblica amministrazione consente al concessionario l’uso
di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili da parte dei privati e riservate ai pubblici poteri.
Si distinguono, come tipi principali: la concessione di bene pubblico (v. Beni pubblici e di interesse
pubblico); la concessione di servizio pubblico; la concessione di opera pubblica. La concessione di bene
pubblico conferisce, per es., diritti d’uso del demanio marittimo (spiagge, arenili) per lo svolgimento di
attività quali la gestione di stabilimenti balneari, o di complessi turistici, o di impianti di raffinazione di
idrocarburi; oppure diritti d’uso del demanio idrico (acque dei fiumi) a fini di irrigazione o di conduzione di
attività industriali.
La concessione di servizio pubblico consente lo svolgimento di attività economiche quali la distribuzione
dell’energia elettrica o del gas.
La concessione di opera pubblica attribuisce il diritto di costruire e di gestire opere quali strade o autostrade.
In taluni casi si ha una concessione mista, come nel caso della concessione aeroportuale, che consente l’uso
di un bene demaniale (il cosiddetto sedime aeroportuale), la costruzione dell’aeroporto e la gestione dei
servizi e delle altre attività aeroportuali.

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Vi sono anche concessioni che consentono l’esercizio di funzioni fortemente autoritative, come l’esazione
dei tributi.
Aspetti contrattuali. - L’atto di concessione, nei casi meno complessi, è un provvedimento amministrativo
unilaterale (v. atto amministrativo). Vi può essere il provvedimento amministrativo, che concede, e
un contratto collegato (cosiddetto ‘contratto accessivo alla concessione’), che regola il rapporto patrimoniale
che si viene a instaurare fra l’amministrazione concedente e il concessionario.
Nei casi più complessi – soprattutto in materia di servizi pubblici e di opere pubbliche – la concessione è un
contratto che ha la doppia finalità di concedere e di regolare gli aspetti patrimoniali.
L’affidamento delle concessioni è regolato da diverse procedure e modalità. Talora è
la legge che disciplina in estremo dettaglio i requisiti del concessionario, tanto da consentirne
l’individuazione (è il caso di alcune concessioni aeroportuali). Spesso l’affidamento è lasciato alla scelta
largamente discrezionale dell’amministrazione concedente. In altri casi vi sono procedure di gara o a
evidenza pubblica, che consentono la competizione fra diversi aspiranti concessionari. La Commissione
europea ha raccomandato l’affidamento con gara delle concessioni, proprio per tutelare la concorrenza e
la trasparenza nel conferimento di diritti e di poteri così delicati ai concessionari. Tale prassi, tuttavia, è
ancora scarsamente diffusa, non soltanto in Italia.
La concessione costituisce un rapporto fra amministrazione concedente e concessionario. Il concessionario
ha il diritto di utilizzare il bene, di gestire il servizio, o di realizzare l’opera. Diviene spesso titolare di
privilegi, di esclusive, o di posizioni economicamente dominanti, poiché la concessione consente la
disponibilità di risorse scarse (come le spiagge), o l’esercizio di attività in situazione di monopolio (come la
distribuzione del gas a unica impresa concessionaria in un comune). Il concessionario deve rispettare una
serie di obblighi nello svolgimento delle attività oggetto di concessione, di regola stabiliti dal contratto di
concessione e spesso molto dettagliati nel contenuto (per es., standard e criteri nella realizzazione degli
impianti costruiti sul demanio), e deve versare all’amministrazione concedente un canone o altri
corrispettivi.
Talora il concessionario può esercitare poteri amministrativi: la giurisprudenza configura come
provvedimenti amministrativi alcuni atti adottati dal concessionario di servizi o di opere, come gli atti di
aggiudicazione di contratti di appalto per l’esecuzione di lavori. Di regola, l’amministrazione concedente è
titolare di poteri molto penetranti. Può controllare l’attività del concessionario e adottare direttive; può
sostituirsi al concessionario nei casi di inerzia di quest’ultimo; ha un potere di sanzione, che consiste nel
dichiarare la decadenza della concessione in caso di inadempimento grave del concessionario; può, ove
previsto dalla legge o dal contratto di concessione, esercitare il diritto di riscatto, che comporta la risoluzione
del medesimo contratto e il trasferimento degli impianti all’amministrazione; può revocare la concessione
per ragioni di pubblico interesse (in tal caso, è dovuto un indennizzo al concessionario se vi è un pregiudizio
economico: art. 21 quinquies, l. 241/1990, modificata dalla l. 15/2005).
Il rapporto fra concedente e concessionario è ampiamente disciplinato dal diritto privato e dal codice civile.
Si applicano le regole previste consensualmente nelle clausole contrattuali. In via integrativa si applicano,
salvo eccezioni, norme e principi del codice civile, per es. in materia di eccessiva onerosità sopravvenuta o
di risoluzione contrattuale. La disciplina sostanzialmente paritaria e consensuale delle concessioni si
converte spesso in una posizione di maggiore forza del concessionario – talora un’impresa di organizzazione
e dimensioni rilevanti – nei confronti dell’amministrazione concedente, non sempre attrezzata a sufficienza a
esercitare la vigilanza e i poteri di controllo sullo svolgimento delle attività del concessionario.
L’impiego di tale strumento si è esteso notevolmente nel corso del 20° secolo. Sul finire del secolo, tuttavia,
si è registrata una tendenza di segno contrario, a seguito del rafforzamento del principio della libera
concorrenza attuato sia dal diritto comunitario sia da quello nazionale. La concessione, infatti, consentendo
privilegi o esclusive alle imprese concessionarie e, al tempo stesso, prevedendo poteri di controllo e di
direzione della pubblica amministrazione sulle attività economiche dei concessionari, può comportare
distorsioni o restrizioni della libera concorrenza. Per tali ragioni al posto delle concessioni sono subentrati,
in diversi casi, altri strumenti e misure, come le autorizzazioni, che permettono lo svolgimento dell’attività
economica a un maggior numero di operatori e prevedono controlli e poteri discrezionali meno penetranti da
parte dell’amministrazione pubblica.

Sanatòria

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In diritto, atto che interviene a carico di situazioni giuridiche passibili di nullità, ripristinandone la piena
validità formale; nel diritto privato, il termine è usato soprattutto nei casi in cui la causa di annullamento non
può esser fatta valere per effetto dell’esecuzione data al negozio da parte del soggetto cui sarebbe spettata
l’azione di annullamento; nel diritto amministrativo, atto con cui viene tolta l’efficacia negativa a un vizio
che inficia un atto amministrativo precedente.

Abilitazione
L’abilitazione è il provvedimento che costituisce l’esito di un riscontro di idoneità da parte della
pubblica amministrazione competente, chiamata a compiere valutazioni di carattere esclusivamente tecnico e
non discrezionale, e il cui rilascio condiziona l’esercizio di un’attività o l’utilizzazione di un bene. Si tratta
di provvedimento a carattere vincolato e generalmente permissivo, essendo illegittima l’eventuale presa in
considerazione di elementi relativi alla convenienza amministrativa. Esso risponde altresì a esigenze
di accertamento e di certezza, potendo discendere dalla sua adozione l’attribuzione a carattere dichiarativo di
una qualità o di una qualifica giuridica (dalla quale la legge può far discendere, per es., la legittimazione a
svolgere un’attività lavorativa). Le fattispecie di abilitazione sono numerosissime e sono destinate a un
progressivo incremento in conseguenza del moltiplicarsi, approfondirsi e specializzarsi delle conoscenze.
Possono essere ad personam (e riferirisi a situazioni particolarmente qualificate dal punto di vista
costituzionale, come la libertà di insegnamento, la libertà professionale, la libertà di circolazione) oppure ad
rem. In alcuni casi (si pensi, per es., alle libere professioni, per l’esercizio delle quali è prevista l’iscrizione
in un apposito albo), l’atto considerato come abilitazione non coincide con l’effettiva possibilità di esercizio
dell’attività.

Il silenzio nel rilascio del permesso di costruire


Divenuto la regola nei procedimenti ad istanza di parte (art. 20 l. 7.8.1990, n. 241), il modulo di
semplificazione dell’azione amministrativa designato come «silenzio-assenso» è stato previsto, da ultimo,
per il rilascio del permesso di costruire (art. 20 d.P.R. 6.6.2001, n. 380, come sostituito dall’art. 5, co. 2, n. 3,
d.l. 13.5.2011, n. 70, convertito con modificazioni nella l. 12.7.2011, n.106), con una disciplina che ha
tenuto conto, risolvendole, anche di alcune questioni applicative sorte per altri istituti propri del settore
edilizio-urbanistico.
Il d.l. 13.5.2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia, cd. «decreto-
sviluppo»), convertito con modificazioni nella l. 12.7.2011, n.106, nel riscrivere alcune disposizioni del
d.P.R. 6.6.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) ha
introdotto, per il rilascio del permesso di costruire, la previsione generale del silenzio-assenso (art. 20 d.P.R.
n. 380/2001) e riformulato la disposizione sull’intervento sostitutivo della Regione, in caso di inerzia del
Comune nell’emanazione del titolo, affidando alla legislazione regionale la determinazione di forme e
modalità per l’esercizio del potere sostitutivo (art. 21 d.P.R. n. 380/2001). La novità di maggior interesse è
senz’altro quella in materia di rilascio del permesso di costruire, venendo perciò archiviato il modello
procedimentale, delineato dal previgente dettato normativo dell’art. 20 d.P.R. n. 380/2001, che prevedeva,
alternativamente, quali possibili esiti procedimentali, il rilascio del titolo in forma espressa o la formazione
di un silenzio-rifiuto: ai sensi del co. 7 della norma non più in vigore, era previsto che il provvedimento
finale dovesse essere adottato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio, entro quindici giorni dalla
proposta di provvedimento formalizzata dal responsabile del procedimento nel termine di sessanta giorni
dalla presentazione della domanda, salva l’eventuale interruzione del termine per adempimenti istruttori,
ovvero dall’esito della conferenza di servizi, indetta per l’acquisizione di «atti di assenso, comunque
denominati, di altre amministrazioni». In mancanza dell’adozione del provvedimento finale, l’istanza
doveva ritenersi denegata: «decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo,
sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto». Peraltro, quest’ultimo,
nonostante dal punto di vista letterale la norma sembrasse avere riguardo ad un’ipotesi di silenziodiniego,
veniva interpretato dalla prevalente giurisprudenza amministrativa come una fattispecie di silenzio non
significativo1, contrariamente a quanto avvenuto per l’analoga disposizione di cui all’art. 36, d.P.R. n.
380/2001 sull’istanza di permesso di costruire in sanatoria o accertamento di conformità2.
1.1 Il contenuto del testo novellato dell’art. 20 d.P.R. n. 380/2001

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L’art. 20 d.P.R. n. 380/2001, è stato completamente riscritto dall’art. 5, co. 2, n. 3, d.l. n. 70/2011, convertito
con modificazioni in l. n. 106/2011, con l’introduzione del modulo di semplificazione del silenzio-assenso
(con l’esclusione delle ipotesi in cui sussista un vincolo paesaggistico, ambientale e culturale) nel rilascio
del permesso di costruire: «Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove
il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di
costruire si intende formato il silenzio- assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui ai co. 9 e 10»3. Quanto alle modalità
di presentazione della domanda, è previsto che questa, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi
dell’art. 11 d.P.R. n. 380/2001 (a tenore del quale «il permesso di costruire è rilasciato al proprietario
dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo »), debba essere «corredata da un’attestazione concernente
il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti dal regolamento edilizio, e quando ne ricorrano
i presupposti, dagli altri documenti previsti dalla parte II del d.P.R. n.380/2001». Essa deve essere
accompagnata, in particolare, da «una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del
progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative
di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non comporti
valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative all’efficienza energetica». Il termine ordinario per il
rilascio del permesso di costruire è di 90 giorni, risultante dalla sommatoria del termine per la formulazione
della proposta e di quello successivo previsto per l’adozione del provvedimento: l’adozione del
provvedimento conclusivo deve avvenire, infatti, nel termine di 30 giorni dalla proposta del responsabile
dell’ufficio, la quale, a sua volta, deve essere formulata nel termine di 60 giorni dalla presentazione della
domanda. In particolare, il primo termine (quello per la formulazione della proposta) può essere sospeso o
interrotto: la sospensione è prevista nel caso in cui il responsabile dell’ufficio ritenga di sollecitare, ai fini
del rilascio del titolo, modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario; l’interruzione del termine,
invece, può essere disposta, una sola volta ed entro il termine di 30 giorni dalla presentazione della
domanda, «esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la
documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non
possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della
documentazione integrativa». È, inoltre, previsto il raddoppio dei termini per i comuni con più di 100.000
abitanti e il termine più breve di 75 giorni per il rilascio del premesso di costruire in relazione ad interventi
assentibili anche con denuncia di inizio attività (art. 22, co. 7, d.P.R. n. 380/2001). Qualora l’immobile
oggetto dell’intervento sia sottoposto ad uno dei vincoli indicati al co. 1 (vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali), se la tutela del vincolo in questione compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione
comunale, il termine di cui al co. 6 (il termine di adozione del provvedimento finale, pari a 30 giorni
decorrenti dalla proposta) decorre dal rilascio del relativo atto di assenso; se, invece compete ad una diversa
autorità, ove l’interessato non abbia provveduto a produrre il parere favorevole del soggetto preposto alla
tutela del vincolo, il competente ufficio comunale acquisisce il relativo assenso nell’ambito della conferenza
di servizi di cui all’art. 5, co. 4, e il termine di cui al co. 6 decorre dall’esito della conferenza. In entrambe le
ipotesi, qualora l’atto non sia favorevole, una volta decorso il termine per l’adozione del provvedimento
conclusivo, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto (co. 9 e 10).
Trattandosi di materia di legislazione concorrente, ai sensi dell’art.117, co. 3 e 4, Cost., sono fatte salve le
disposizioni contenute nelle leggi regionali che prevedono misure di ulteriore semplificazione e ulteriori
riduzioni di termini procedimentali (co. 12). La formazione del silenzio-assenso è impedita dalla circostanza
che il dirigente o il responsabile dell’ufficio abbia «opposto» motivato diniego al rilascio (co. 8). Vi è,
infine, la previsione di uno specifico illecito penale per il caso di falsità nelle dichiarazioni, attestazioni o
asseverazioni di cui al co. 1: «ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o
attestazioni o asseverazioni di cui al co. 1, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei
presupposti di cui al medesimo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni. In tali casi, il
responsabile del procedimento informa il competente ordine professionale per l’irrogazione delle sanzioni
disciplinari».
LA FOCALIZZAZIONE. LA RATIO ISPIRATRICE DELLE NUOVE DISPOSIZIONI
La riforma dell’art. 20 d.P.R. n. 380/2001 si ispira ad un’inequivoca ratio di liberalizzazione
delle costruzioni private, secondo la rubrica dell’art. 5 d.l. n. 70/2011. Quest’ultimo si apre, infatti, con
l‘elencazione delle diverse modifiche apportate alla legislazione vigente «per liberalizzare le costruzioni

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private», e prevede come prima misura, alla lett. a) del co. 1, l’«introduzione del ‘silenzio assenso’ per il
rilascio del premesso di costruire ad eccezione dei casi in cui sussistono vincoli ambientali, paesaggistici e
culturali». È stato osservato che la nuova disciplina può essere ricondotta a due principi-guida: la
semplificazione dell’azione amministrativa e la responsabilizzazione del privato4. Al primo va ascritta
l’innovazione del modulo procedimentale mediante la previsione di una fattispecie silenziosa, cui il
legislatore as- segna il valore legale tipico di provvedimento di accoglimento, secondo la fattispecie-modello
del silenzio-assenso, la cui regolamentazione di carattere generale è contenuta nell’art. 20 l. 7.8.1990, n. 241
(a seguito della novella intervenuta con d.l. 14.3.2005, n. 35, convertito in l. 14.5.2005, n. 80), alla cui
stregua, salvi i casi di applicazione dell’art.19 (relativo, dapprima all’istituto della dichiarazione di inizio
attività, cd. d.i.a., e, a seguito della riforma di cui al d.l. 31.5.2010, n. 78, convertito in l. 30.7.2010, n.122,
alla segnalazione certificata di inizio attività, cd. SCIA), nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di
provvedimenti amministrativi, «il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di
accoglimento delle domande senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione
non comunica all’interessato, nel termine di conclusione del procedimento di cui ai co. 2 o 3 dell’art. 2 della
medesima l. 7.8.1990, n. 241, il provvedimento di diniego ovvero non procede all’indizione, nel termine di
trenta giorni, dalla presentazione dell’istanza, ad indire una conferenza di servizi». Al principio di
responsabilizzazione del privato va ascritta, invece, l’introduzione della specifica fattispecie penale del co.
13 del nuovo art. 20 d.P.R. n.380/2001. Questo principio opererebbe come contrappeso della
semplificazione nel senso che, al fine di compensare la scelta del legislatore di privilegiare, tra le esigenze in
conflitto (controllo pubblico del territorio e interesse a costruire), quella alla concessione del bene della vita,
collegando all’inerzia della p.a. il significato di un assenso anziché di un diniego, si sarebbe introdotta, al co.
13 dell’art. 20 in parola, una fattispecie di reato che sanziona le false attestazioni, dichiarazioni o
asseverazioni contenute nell’istanza di rilascio del permesso di costruire, con l’effetto di equiparare, in tal
modo, la disciplina con la d.i.a., ora s.c.i.a., ove, all’art.19 l. n. 241/1990, è previsto che chiunque attesti
false dichiarazioni o attestazioni è soggetto a sanzione penale5.
2.1 Il rapporto con la previsione generale del silenzio assenso di cui all’art. 20 l. n. 241/1990
La nuova disciplina delle modalità di rilascio del permesso di costruire si risolve nell’introduzione di un
modulo di semplificazione del procedimento amministrativo, cui si dà il nomen juris di silenzio-assenso.
Questo ricorre in tutte le ipotesi nelle quali il legislatore attribuisce, in virtù di una fictio juris, all’inerzia
dell’Amministrazione protratta per un determinato periodo di tempo, il significato di espressione
provvedimentale di assenso-accoglimento all’istanza del privato; al silenzio-assenso va ricononosciuta,
secondo l’opinione dottrinale e giurisprudenziale prevalente, la natura di comportamento concludente a cui è
stato attribuito in via legislativa, un valore legale tipizzato6. La disciplina dell’istituto è contenuta all’art. 20
l. n. 241/1990 e, a seguito della novella intervenuta con d.l. n. 35/2005, convertito in l. n. 80/2005, denota il
silenzio-assenso come fattispecie di generale applicazione, dalla quale sono espressamente esclusi gli atti e i
procedimenti elencati al co. 4 dell’art. 20 e cioè quelli riguardanti «il patrimonio culturale e paesaggistico,
l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la
pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti
amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto
dell’istanza, nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio
dei Ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti». Una
volta venuta in essere la fattispecie silenziosa, l’Amministrazione, qualora ritenga che il provvedimento di
accoglimento «tacito» sia illegittimo o inopportuno, può procedere in via di autotutela, rispettivamente, al
suo annullamento o alla sua revoca sempre che ricorrano i presupposti di cui agli artt. 21 quinquies e
21 nonies l. n. 241/1990, introdotti dalla l. 11.2.2005, n. 15 e, segnatamente, l’attualità dell’interesse
pubblico7, anche in considerazione del tempo trascorso e dell’affidamento ingenerato nel privato. Tale
disposizione deve ritenersi de plano applicabile anche al silenzio-assenso di cui al nuovo testo dell’art. 20
d.P.R. n. 380/2001. Quanto al profilo della giurisdizione, mentre le controversie relative all’applicazione
dell’art. 20 l. n. 241/1990 sono espressamente devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, secondo quanto previsto ora dal co. 5 del medesimo art. 20, aggiunto con d.l. 5.8.2010, n.
125, convertito nella l. 1.10.2010, n. 163, quelle inerenti il rilascio del permesso di costruire ricadono, a
cagione della pertinenza alla materia ivi descritta, nella previsione della giurisdizione esclusiva di cui all’art.
133, co. 1, lett. f), c.p.a. Dovrebbe , invece escludersi l’applicabilità della fattispecie di silenzioassenso al
procedimento di accertamento di conformità di cui all’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, trattandosi di fattispecie

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del tutto peculiare nella quale al privato, resosi comunque responsabile della realizzazione di un intervento
edilizio in assenza di titolo, è eccezionalmente concesso di acquisire a posteriori il permesso di costruire.
I PROFILI PROBLEMATICI. IL COMPUTO DEL TERMINE PER LA FORMAZIONE DEL
PROVVEDIMENTO SILENZIOSO
La nuova disciplina del silenzio-assenso sull’istanza di rilascio del permesso di costruire risolve
espressamente una questione interpretativa che si era posta in sede di rilascio dell’autorizzazione paesistica8
ovvero il problema del computo del termine complessivo per il rilascio del titolo in caso integrazioni
istruttorie e documentali (co. 4 e 5, art. 20 d.P.R. n. 380/2001). Il termine è sospeso, allorquando il
responsabile del procedimento ritenga che, ai fini del rilascio del titolo, sia necessario apportare modifiche
di modesta entità rispetto al progetto originario; in tal caso, può farne richiesta all’interessato entro il
termine previsto dal co. 3 per la formulazione della proposta di provvedimento e tale richiesta «sospende,
fino al relativo esito, il decorso del termine di cui al co. 3». Nel diverso caso in cui il responsabile del
procedimento ritenga necessario acquisire «documenti che integrino o completino la documentazione
presentata e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire
autonomamente», il termine è interrotto e «ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della
documentazione integrativa ». La formazione del provvedimento silenzioso è, poi, impedita dalla
«opposizione di motivato diniego» da parte del dirigente o del responsabile dell’ufficio: ci si è chiesto se con
tale espressione debba intendersi la mera adozione della determinazione negativa, come di recente
affermato, in tema di autorizzazione paesistica, rilasciata secondo il regime vigente sino al 31.12.2009, di
cui all’art. 159, d.lgs. 22.1.2004, n. 42, dal Consiglio di Stato9, oppure sia necessario che tale
determinazione sia anche comunicata all’interessato. La seconda opzione interpretativa è senza’altro da
preferirsi ove si tenga conto delle prescrizioni di cui alla richiamata disciplina generale del silenzio assenso
(art. 20, co. 1, l. n. 241/1990): «Fatta salva l’applicazione dell’art. 19, nei procedimenti ad istanza di parte
per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a
provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima
amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’art. 2, co. 2 o 3, il provvedimento di
diniego, ovvero non procede ai sensi del co. 2»10. Tale effetto impeditivo non andrebbe, peraltro,
riconosciuto alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza ex art. 10 bis l. n.
241/1990, trattandosi di un mero «preavviso di diniego», laddove la norma sembra avere riguardo all’atto di
diniego in senso proprio11.
IL SILENZIO DEVOLUTIVO. L’INTERVENTO SOSTITUTIVO DELLA REGIONE
L’art. 5 d.l. n. 70/2011 ha riscritto anche l’art. 21, d.P.R. n. 380/2001: «Le regioni, con proprie leggi,
determinano forme e modalità per l’eventuale esercizio del potere sostitutivo nei confronti dell’ufficio
dell’amministrazione comunale competente per il rilascio del permesso di costruire». Il legislatore nazionale
ha, in tal modo, rinunciato a regolare una fattispecie di cd. silenzio devolutivo. Con tale espressione si
designa l’ipotesi in cui la legge dispone che, qualora un’autorità non provveda al compimento di un atto di
sua competenza, generalmente richiesto da un privato, entro un termine prefissato, tale atto sia adottato, in
via sostitutiva, da una diversa autorità, di regola un ente superiore rispetto al primo. Il silenzio devolutivo
attiene perciò ai rapporti intersoggettivi tra enti e determina un trasferimento di competenza, relativamente
ad una determinata fattispecie, del potere di provvedere da un ente minore ad uno maggiore12.
NOTE
1 TAR Campania, Salerno, sez. II, 7.2.2011, n. 194: «l’art. 20, d.P.R. 6.6.2001, n. 380, secondo il quale le
domande di permesso di costruire devono essere esaminate e definite entro termini ben definiti, trascorsi i
quali, sulla domanda si intende formato il silenzio-rifiuto, va interpretato nel senso che, trascorso tale
termine, non si è di fronte ad un silenzio reso significativo dalla legge in termini di diniego implicito della
pretesa avanzata, ma ad un silenzio- inadempimento coincidente con la mera inerzia dell’amministrazione;
in tal senso depone anche l’art. 21 del decreto che, qualificando implicitamente il comportamento omissivo
dell’amministrazione quale inerzia procedimentale, prevede la possibilità dell’intervento sostitutivo
regionale; lo stesso art. 20, inoltre, prescrive che l’amministrazione competente, pur dopo lo spirare del
termine legalmente assegnatole per la conclusione del procedimento, non solo non perde il potere di
determinarsi espressamente sulla domanda di permesso di costruire, ma addirittura permane nell’obbligo di
doverlo fare, soprattutto quando l’istante insista formalmente per l’ottenimento di un provvedimento
espresso di conclusione del procedimento medesimo».
2 Cfr. Cons.St., sez. IV, 13.1.2010, n. 100: «premesso che l’art. 36 del testo unico sull’edilizia ha previsto
che ‘sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si
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pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata’, il
decorso del termine di sessanta giorni equivale all’emanazione di un provvedimento di rigetto dell’istanza,
tenuto conto del tenore letterale dell’originario art. 13, l. 28.2.1985, n. 47 e dei lavori preparatori del testo
unico sull’edilizia n. 380 del 2001 (dovendosi intendere l’espressione “la richiesta si intende rifiutata” non
dissimilmente da quella originariamente prevista dal medesimo art. 13)»; TAR Campania, Napoli, sez. III,
27.1.2010, n. 327: «a fronte di un’istanza di sanatoria ex art. 36, d.P.R. 6.6.2001, n. 380, il silenzio
dell’Amministrazione costituisce un’ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di
un provvedimento di rigetto dell’istanza, così determinandosi una situazione del tutto simile a quella che si
verificherebbe in caso di un provvedimento espresso. Va dunque affermato che il silenzio serbato dal
Comune sulla domanda di sanatoria ex art. 13, l. n. 47/1985, modificato dall’art. 36, d.P.R. n.380/2001, è
qualificabile come silenzio provvedimentale, con contenuto di rigetto, e non come silenzio-inadempimento
all’obbligo di provvedere impugnabile ex  art. 2, l. 21.7.2000, n. 205».
3 Urbani, Le innovazioni in materia di edilizia privata nella legge 106/ 2011 di conversione del DL n. 70 del
13 maggio 2011. Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia, in www.giustamm.it, 2011.
L’A. rammenta che il silenzio-assenso per il rilascio del permesso di costruire era già stato introdotto
temporaneamente dal cd. decreto Nicolazzi (l. n. 94/1982) ed era stato soppresso dalla l. n. 174/1992, non
avendo riscosso molto favore, per la scarsa disponibilità degli istituti di credito a concedere mutui dietro
semplice presentazione della richiesta di concessione, mancando il titolo abilitativo a garanzia del
finanziamento concesso.
4 Urbani, Le innovazioni in materia di edilizia privata, cit.
5 Urbani, Le innovazioni in materia di edilizia privata, cit., in www.giustamm.it, 2011. L’A. discorre di
norma «tremontiana», intesa a ridurre i carichi di spesa che il bilancio statale deve sopportare annualmente
per risarcire i danni da ritardo, soprattutto alla luce degli indirizzi giurisprudenziali protesi ad ampliare il
novero dei danni risarcibili in presenza di un colpevole ritardo della Pubblica amministrazione nel condurre
e nel concludere i procedimenti. Eliminando la necessità per l’Amministrazione di adottare il provvedimento
richiesto in un certo termine, l’eventuale comportamento inerte o dilatorio di questa non può più dar luogo
ad alcun danno, mancandone il presupposto principale ovvero la lesione dell’interesse del privato.
6 Giovagnoli, I silenzi della pubblica amministrazione dopo la legge 80/2005, in Il nuovo diritto
amministrativo, diretto da Caringella-De Marzo, Milano, 2005, 292.
7 Nel caso della revoca, l’art. 21 quinquies l. 7.8.1990, n. 241 richiede la sussistenza di «sopravvenuti
motivi di pubblico interesse» ovvero il «mutamento della situazione di fatto» o una «nuova valutazione
dell’interesse pubblico originario»; nel caso dell’annullamento, l’art.21 nonies discorre genericamente di
sussistenza di «ragioni di interesse pubblico».
8 Cfr. Cons. St., sez. VI , 3.5.2011, n. 2611.
9 Cfr. Cons. St., sez. VI , 1.12.2010, n. 8379.
10 Botteon, Il “decreto sviluppo” e l’edilizia, in www.lexitalia, 2011.
11 Botteon, Il “decreto sviluppo”, cit.
12 Nella legge sul procedimento amministrativo (art. 17, l. 7.8.1990, n. 241), vi è la previsione di carattere
generale dell’istituto in tema di valutazioni tecniche nell’ambito dell’istruttoria procedimentale: «ove per
disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l’adozione di un provvedimento
debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed
enti non provvedano o non rappresentino esigenze istruttorie di competenza dell’amministrazione
procedente nei termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal
ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche
ad altri organi dell’amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità
tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari».

La decadenza dal permesso di costruire


La giurisprudenza del giudice amministrativo è divisa sul punto se la decadenza del permesso di costruire
costituisce un effetto che discende automaticamente dal decorso dei termini di inizio e/o completamento dei
lavori ovvero se la sua operatività richiede un provvedimento, ancorché solo dichiarativo e con efficacia ex
tunc. Si tratta di contrasto interpretativo risalente nel tempo e non superato da Cons. St., sez. IV, 18.5.2012,
n. 2915, per il quale la decadenza della concessione edilizia opera di diritto, sicché il provvedimento che la

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dichiara, ove adottato, ha carattere dichiarativo di un effetto già verificatosi in conseguenza del decorso del
termine prefissato. In effetti le argomentazioni addotte a supporto di tale conclusione ripropongono quelle
che da decenni adduce una parte della giurisprudenza e che continuano ad essere contestate da un
orientamento contrario. Con il t.u. 6.6.2001, n. 380 si è persa l’occasione per risolvere il contrasto; con la
sentenza n. 2915/2012 per affidarne la definizione all’Adunanza plenaria.
LA RICOGNIZIONE. LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18.5.2012, N. 2915
La IV sez. del Consiglio di Stato, chiamata a definire una controversia avente ad oggetto una contestata
decadenza del permesso di costruire, si è preoccupata, con la sentenza 18.5.2012, n. 2915, innanzitutto di
chiarire quali sono i presupposti che devono sussistere perché tale evenienza possa ritenersi verificata. Con
puntuale richiamo sia alla disciplina in materia, compresa quella anteriore all’entrata in vigore del t.u
dell’edilizia (d.P.R. 6.6.2001, n. 380), sia al contributo chiarificatore offerto nel corso del tempo dalla
giurisprudenza del giudice amministrativo, ha precisato quali sono le condizioni che devono ricorrere perché
un lavoro edile possa ritenersi iniziato entro un anno dal rilascio del titolo abilitativo e completato al termine
del successivo triennio. Ha quindi preso in esame il problema di fondo che le parti in causa avevano
sottoposto al suo giudizio, e cioè se l’inosservanza di dette condizioni da parte del costruttore comporta
automaticamente la decadenza del permesso di costruire, che gli era stato rilasciato e che fissava anche i
termini di inizio e completamento dei lavori, ovvero se a questo effetto è richiesto un apposito
provvedimento da parte del competente organo comunale. Ha motivatamente dichiarato di optare per la
prima soluzione. La tesi svolta, come meglio si vedrà in seguito, è che, ai sensi dell’art. 15, co. 2, t.u.
dell’edilizia, la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio e
completamento dei lavori opera di diritto e il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto già verificatosi. La conclusione è condivisibile, ma le argomentazioni addotte a
supporto della stessa non sembrano in grado di neutralizzare le controdeduzioni di un’ampia parte della
giurisprudenza, preoccupata soprattutto di assicurare il contraddittorio fra ente locale e privato in ordine alla
sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto della decadenza. Di qui la necessità di ricostruire il quadro
normativo in materia, anche nella lettura che delle sue prescrizioni ha finora dato la giurisprudenza del
giudice amministrativo.
LA FOCALIZZAZIONE
Parametro prioritario di riferimento, nella disamina delle problematiche proprie della materia de qua, è l’art.
15, t.u. dell’edilizia, il quale premette che nel permesso di costruire devono essere indicati i termini d’inizio
e ultimazione dei lavori. I primi non possono essere superiori ad un anno dal rilascio del titolo abilitativo; i
secondi ai tre anni dall’inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, ma con provvedimento
motivato adottato prima della loro scadenza e per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del
permesso ovvero in ragione della mole dell’opera da realizzare e delle sue particolari caratteristiche tecnico-
costruttive ovvero ancora se si tratta di opere pubbliche con finanziamento diluito in più esercizi finanziari.
Decorsi i suddetti termini «il permesso decade di diritto per la parte non eseguita». Ciascuna di queste
prescrizioni normative ha dato luogo in sede applicativa a contrasti interpretativi, che il giudice è stato
chiamato a definire con conclusioni non sempre univoche, anche nei giudizi d’appello1.
2.1 Il termine per l’inizio dei lavori
Il primo problema che a questo riguardo si è posto all’attenzione del giudice riguarda l’individuazione
del dies a quo di decorrenza del termine annuale per l’inizio dei lavori. L’art. 15, co. 2, t.u. dell’edilizia lo
identifica in quello del “rilascio” del permesso di costruire al privato che lo aveva chiesto, che è locuzione di
non univoco significato e comunque tale da provocare ripetuti interventi da parte della giurisprudenza. È
stato da essa affermato che in questo caso «rilascio» non può essere inteso come «adozione» del permesso
da parte dell’ente locale, ma come “consegna” dello stesso al suo destinatario. Alla base di questa
conclusione è la considerazione, del tutto condivisibile, che l’interesse della parte istante è di natura
pretensiva, attenendo all’acquisizione di una specifica utilità, che può derivarle solo da un provvedimento
espresso, debitamente portato a sua conoscenza2. La riprova della ragionevolezza di tale interpretazione è
stata individuata negli artt. 31, co. 6, l. 17.8.1942, n.1150, nel testo sostituito dall’art. 10 l. 6.8.1967, n. 765 e
4 l. 28.1.1977, n. 10, i quali prevedevano l’obbligo di notificazione da parte del sindaco del permesso di
costruire. Devono invece ritenersi superate alcune decisioni risalenti nel tempo, che individuavano il dies a
quo in quello del materiale “ritiro” dell’interessato del documento autorizzativo da lui richiesto, in tal modo
lasciandogli libera scelta del momento dal quale iniziare la realizzazione del manufatto progettato e
assentito3.

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Altro problema che, sempre a questo riguardo, è stato sottoposto nel corso del tempo all’esame del giudice è
quando i lavori di costruzione possono dirsi effettivamente iniziati e quindi idonei ad impedire la decadenza
del titolo abilitativo. La risposta ricorrente nella giurisprudenza è che gli stessi devono essere di spessore
tale da comprovare l’effettiva volontà del titolare del permesso di realizzare quanto da lui progettato, e non
meramente simbolici, fittizi ovvero solo preparatori a quelli necessari a fini edificatori. Di qui la
conclusione, da parte del giudice4, che ad evitare la decadenza non sono sufficienti la presentazione nel
corso dell’anno della denuncia d’inizio dei lavori, lo spianamento del terreno, un modesto sondaggio dello
stesso, la recinzione del cantiere, la collocazione al suo interno della baracca degli attrezzi e la realizzazione
dell’impianto elettrico, l’installazione della cartellonistica di cantiere, ecc. Osservazione ricorrente nelle
pronunce giurisprudenziali è che si tratta di circostanze che, oltre ad esaurirsi in un limitato arco temporale,
non sono ex se significative di un effettivo inizio dei lavori. Ma la tesi di fondo è che l’esistenza dei
presupposti, necessari perché i lavori possano ritenersi effettivamente iniziati entro l’anno, non deve essere
valutata in via generale ed astratta, ma con specifico riferimento all’entità e alle dimensioni dell’intervento
edificatorio autorizzato, onde evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori
nient’affatto significativi di una reale intenzione del costruttore di procedere alla realizzazione dell’opera
assentita5. Per quanto riguarda la prova del mancato inizio dei lavori entro l’anno la giurisprudenza
largamente prevalente è nel senso che essa incombe sull’Amministrazione, deve essere inequivoca ma non
necessariamente emergente da una materiale verifica effettuata nel cantiere, potendo anche essere desunta da
documenti in suo possesso.
2.2 Il termine per l’ultimazione dei lavori
Alcune premesse appaiono necessarie affinché sia chiaro il discorso che segue. La previsione legislativa di
un termine massimo di tre anni per l’ultimazione dei lavori non priva l’ente locale della possibilità di
prescrivere, nel permesso di costruire, una durata inferiore al triennio, ove giustificata dalle ridotte
dimensioni ovvero dalle particolari caratteristiche dell’intervento edificatorio. Il termine massimo risulta
rispettato anche se costituisce la sommatoria di più periodi lavorativi intervallati fra di loro, ma tutti svolti
nel corso del triennio. La ratio sottesa all’imposizione legislativa, a pena di decadenza, di un termine
massimo per l’ultimazione dei lavori assentiti è stata individuata dalla giurisprudenza nella necessità di
garantire la certezza dell’assetto urbanistico del territorio comunale, evitando al tempo stesso intenti
speculativi da parte di privati che, una volta ottenuto il titolo abilitativo all’edificazione, non lo utilizzano in
atteso che si verifichino condizioni migliori per lo sfruttamento a fini edificatori dell’area 6. Altra questione,
che in effetti ha interessato non solo il giudice amministrativo, ma anche quello penale, è quando i lavori
assentiti possono ritenersi effettivamente ultimati alla scadenza del triennio. La regola fissata dalla
giurisprudenza è che, perché questa situazione possa ritenersi verificata, non è sufficiente che il manufatto
risulti materialmente realizzato nelle sue strutture portanti, ma occorre che risulti funzionalmente idoneo allo
scopo per il quale era stato progettato 7. Con riferimento a tale regola si è ritenuto necessario che il fabbricato
risulti dotato di porte, finestre, impianti elettrici e idrici e collegato al sistema fognante esterno; più in
particolare, nel caso di immobile da destinare ad uso abitativo, si è ritenuto che le opere interne possono
considerarsi completate dal punto di vista funzionale quando siano stati ultimati anche i lavori di
intonacatura e rifinitura, non essendo sufficiente al suddetto scopo la mera predisposizione dei servizi
igienici, dell’impianto di riscaldamento e delle attrezzature. Non è invece necessaria l’avvenuta acquisizione
del certificato di agibilità, atteso che, ai sensi del successivo art. 25, co. 1, detto documento viene rilasciato
solo dopo la completa ultimazione dei lavori.
2.3 Elusione dei termini d’inizio e ultimazione lavori per factum principis e/o cause di forza maggiore.
La proroga dei termini
Come già anticipato (v. §§ 1 e 2), l’inosservanza dei termini per l’inizio e l’ultimazione dei lavori comporta
la decadenza del permesso di costruire. Peraltro lo stesso art. 15, co. 2, t.u. dell’edilizia prevede due
eccezioni a questa regola, che riguardano il caso in cui i termini in questione sono stati superati per factum
principis o per cause di forza maggiore, cioè in conseguenza di fatti sopravvenuti ed estranei alla volontà del
titolare del permesso di costruire, e che comportano il prolungamento degli stessi. A questo riguardo è stato
sostenuto8, ma si tratta di conclusione quanto meno dubbia, che l’ente locale, che sia venuto a conoscenza di
fatti estranei alla volontà del titolare della concessione edilizia, che gli hanno impedito di ultimare i lavori
nel termine prefissato, non può adottare un provvedimento di decadenza, ma deve procedere alla proroga dei
termini anche in mancanza di una specifica richiesta da parte dell’interessato. Fatti obiettivamente impeditivi
del rispetto dei termini sono stati individuati dalla giurisprudenza (ma la segnalazione ha carattere

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meramente esemplificativo) nel sequestro giudiziario dell’area sulla quale sarebbe dovuto essere realizzato
l’intervento edificatorio; nell’avvenuto disconoscimento da parte del Comune degli effetti del permesso di
costruire da essa rilasciato; nell’ordine di sospensione dei lavori impartito dalle Autorità preposte alla tutela
dei vincoli di inedificabilità gravanti sul terreno; nel mancato rilascio del fondo oggetto dell’intervento
edificatorio da parte dell’occupante coltivatore diretto, ecc. Diversa è invece la posizione assunta dalla
giurisprudenza maggioritaria relativamente ai fattori soggettivi addotti dal titolare del permesso di costruire
a giustificazione del ritardo o della mancata esecuzione nei termini dell’intervento edilizio. L’orientamento
prevalente è nel senso di ritenerli inidonei ad evitare la decadenza del titolo abilitativo posseduto, specie se
si tratta di difficoltà di carattere tecnico e/o economiche incontrate dal soggetto interessato alla realizzazione
dell’opera ovvero di dichiarati malanni fisici intervenuti dopo il rilascio del titolo abilitativo. Ancora più
rigoroso è l’orientamento del giudice penale9, il quale ha ravvisato nella prosecuzione dei lavori oltre il
termine fissato per la loro ultimazione il reato di cui all’art. 44, co. 1, lett. b), t.u. dell’edilizia.
2.4 La decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio e/o
completamento dei lavori
Nel giudizio di appello, conclusosi con la sentenza n. 2915/2012, oggetto di contestazione da parte
dell’appellante era innanzi tutto l’affermazione del giudice di primo grado secondo cui la decadenza del
titolo edilizio per mancato inizio e/o ultimazione dei lavori non discende da un provvedimento
amministrativo ma, in via automatica, dall’inutile decorso dei termini a tali fini assegnati. La tesi svolta era
che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto già verificatosi ex se.
Data la premessa, il Tar faceva da essa discendere la duplice conseguenza che: a) l’eventuale provvedimento
di decadenza è sufficientemente motivato con richiamo al termine ultimo previsto per l’inizio o il
completamento dei lavori, senza che sia necessaria una comparazione tra l’interesse del privato e quello
pubblico, essendo quest’ultimo ope legis prevalente sul primo; b) non è necessaria la comunicazione di
avvio del procedimento, essendo la decadenza un effetto ipso iure del mancato inizio dei lavori e non
residuando all’Amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale. La decadenza della
concessione edilizia si materializza, pertanto, anche in assenza di un’espressa dichiarazione da parte
dell’Amministrazione competente.
Al tempo stesso il Tar dava però atto che una notevole parte della giurisprudenza era invece orientata nel
senso che la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed ultimazione nei termini dei lavori
non è automatica, ma deve essere necessariamente dichiarata con apposito provvedimento, nei cui riguardi il
privato vanta una posizione di interesse legittimo; di conseguenza, perché la concessione edilizia perda, per
decadenza, la propria efficacia occorrerebbe un atto formale dell’Autorità emanante che renda operanti gli
effetti della decadenza accertata; più precisamente un provvedimento comunale che ne accerti i presupposti,
rendendone operanti gli effetti, come richiesto per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie,
considerato che la perdita di efficacia della concessione è subordinata all’esplicazione di una potestà
provvedimentale10.
Il Consiglio di Stato ha dichiarato di condividere la tesi del Tar in quanto rispettosa della “lettera della
legge”, la quale fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal
semplice fatto dell’inutile decorso del tempo. Proseguendo in questa ottica ha richiamato innanzi tutto l’art.
4 l. n. 10/1977 che al co. 3 stabiliva che «nell’atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di
ultimazione dei lavori»; nel successivo co. 4 che «il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore
ad un anno» e «il termine di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile o agibile, non può
essere superiore a tre anni», e si definivano le ipotesi di proroga della concessione; nel co. 5 che, «qualora i
lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere
una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata». Infine, nel co. 6
era stata introdotta una norma di chiusura del sistema, in forza della quale la concessione era «irrevocabile,
fatti salvi i casi di decadenza ai sensi della presente legge» e le sanzioni previste dall’art. 15 della stessa.
Tale essendo il quadro normativo di riferimento, in ragione dell’epoca alla quale risale la controversia in
esame, il Consiglio di Stato ha osservato che in esso non era ravvisabile la presenza di una norma che
imponesse l’emanazione di un provvedimento al riguardo, posto che la legge stessa disciplinava in via
diretta la durata della concessione e, in via tassativa, le ipotesi per ottenerne la proroga. Con la conseguenza,
quindi, che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori
opera di diritto e che il provvedimento pronunciante la decadenza, ove adottato, ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto già verificatosi con l’infruttuoso decorso del termine prefissato.

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Secondo il Consiglio di Stato tale assetto permane anche nella disciplina dettata dall’art. 15, co. 2, t.u.
dell’edilizia atteso che in esso si afferma, ed in modo ancor più puntuale, che «il termine per l’inizio dei
lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l’opera
deve essere completata non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. … Decorsi tali termini il permesso
decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che anteriormente alla scadenza venga richiesta una
proroga». Ha aggiunto il Consiglio di Stato che la sua adesione all’orientamento “maggioritario” della
giurisprudenza (ma l’aggettivazione è quanto meno discutibile, come si dimostrerà in prosieguo) trova
conforto nella notazione del giudice di primo grado secondo la quale, diversamente opinando, si farebbe
dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari della concessione, ma anche della
Pubblica amministrazione, libera in taluni casi di adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con
possibile disparità di trattamento tra situazioni identiche. Invece il diretto riferimento al dettato legislativo,
per quanto attiene ai termini e alle conseguenze che derivano dalla loro elusione, elimina in radice ogni
ipotesi di disparità di trattamento; al tempo stesso la necessità dell’applicazione del regime sanzionatorio per
i lavori eseguiti dopo il decorso del termine stabilito dal titolo abilitativo è, a sua volta, conseguenza
necessitata della violazione da parte dell’interessato di puntuali obblighi a lui assegnati dalla stessa legge. La
conclusione che il Consiglio di Stato trae dal suo (breve) argomentare è che la pronuncia di decadenza del
titolo edilizio è espressione di un potere strettamente vincolato; ha natura ricognitiva, perché accerta il venir
meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell’inerzia del titolare, ovvero della sopravvenienza di
una nuova e diversa strumentazione edilizia, e assume pertanto decorrenza ex tunc; inoltre il termine di
durata del titolo edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre
necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha rilasciato il titolo edilizio e che accerti
l’impossibilità del rispetto del termine ab origine fissato, e solamente nei casi in cui possa ritenersi
sopravvenuto un factum principis, ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
I PROFILI PROBLEMATICI
Contrariamente a quanto affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza più volte richiamata, la
giurisprudenza del giudice amministrativo, pur mostrandosi concorde nell’affermare che la decadenza del
permesso di costruire costituisce un effetto che discende dall’inutile decorso del termine di inizio e/o
completamento dei lavori autorizzati, è in prevalenza orientata a richiedere, come condizione indispensabile
perché detto effetto diventi operativo, l’adozione di un provvedimento formale da parte del competente
organo comunale, ancorché meramente dichiarativo e con efficacia ex tunc, qualunque sia l’epoca in cui è
stato adottato e quindi anche se intervenuto molto tempo dopo che i termini in questione erano inutilmente
decorsi, e ancorché i suoi effetti retroagiscano al momento dell’evento estintivo. Si tratta, in effetti, di una
giurisprudenza risalente nel tempo11 e sovente riproposta con ricorso a formule stereotipe senza i necessari
approfondimenti12 e senza avvedersi della contraddittorietà nella quale incorre, rispetto alle premesse,
allorché condiziona l’operatività della decadenza ad un atto formale meramente ricognitivo di effetti già
prodottisi ex lege, che si assume essere necessario a tutela del possessore del titolo abilitativo non utilizzato
o solo parzialmente utilizzato, e trascurando il fatto che si tratta di soggetto edotto ab origine delle
conseguenze alle quali andava incontro non osservando i termini che gli erano stati assegnati, sia
perché ignorantia legis non excusat, sia perché ex lege riportati nel provvedimento autorizzativo, che deve
ragionevolmente ritenersi a lui noto.
È peraltro incontestabile che anche la giurisprudenza più recente del giudice di appello è prevalentemente
orientata nel senso che l’operatività della decadenza della concessione edilizia necessita
dell’intermediazione di un formale provvedimento amministrativo di carattere dichiarativo, che deve
intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge e da adottare previa apposita istruttoria.
Sulle stesse conclusioni è attestata anche la giurisprudenza del giudice di primo grado, per la quale la
decadenza del permesso di costruire non opera di per sé, ma deve necessariamente tradursi in un
provvedimento espresso che ne accerti i presupposti e ne renda operanti gli effetti; che, sebbene a contenuto
vincolato, ha carattere autoritativo e, come tale, non è sottratto all’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 l.
7.8.1990, n. 241; può essere adottato solo previa formale ed apposita contestazione, esplicazione di una
potestà provvedi mentale.
In una non recente decisione del Consiglio di Stato 13 la ragione, che giustificherebbe l’obbligo per l’ente
locale di adottare un atto che formalmente dichiari l’intervenuta decadenza del permesso di costruire era
stata individuata nella necessità di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine all’esistenza dei

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presupposti di fatto e di diritto che giustifichino la pronuncia stessa. Si tratta, ad avviso di chi scrive, di
argomentazione opinabile dal momento che in sede amministrativa il contraddittorio presuppone in capo
all’autorità emanante un obbligo di previo avviso di inizio del procedimento, che lo stesso Consiglio di Stato
aveva escluso, in dichiarata adesione a quanto già affermato dai giudici di primo grado proprio sul rilievo
che la decadenza è un effetto che discende direttamente ed automaticamente dal presupposto indicato dalla
legge.
Un intelligente tentativo di risolvere la questione, ancorché con una formula di compromesso volta a
neutralizzare la rilevanza dell’atto formale e soprattutto l’insidia nascosta nel proporlo come condizione di
operatività dell’effetto decadenziale, era stato effettuato sempre dalla sez. V del Consiglio di Stato con la
sentenza 23.8.2006, n. 4954, per la quale la mera dichiarazione dell’Amministrazione comunale, non
richiedendo il rispetto di particolari formalità, può anche essere inserita nel preambolo di un atto repressivo
indirizzato al titolare del permesso di costruire, quando il relativo accertamento costituisce il presupposto
logico giuridico della sanzione irrogata.
NOTE
1
 Il contributo offerto dalla dottrina nella materia de qua è piuttosto limitato e, soprattutto, datato. Fra gli
apporti più significativi Fantini, S., Sulla decadenza della concessione edilizia per mancata ultimazione dei
lavori, in Giust. civ., 1995, I, 1698; Di Lorenzo, A., Commento all’art. 15 t.u. edilizia, in Testo unico
dell’edilizia, a cura di V. Italia, Milano, 2003, 246; Mandarano, A., La decadenza del permesso di costruire
per mancato inizio dei lavori, in Urb. e app., 2004, 450; De Nictolis, R., Commento all’art. 15, in Testo
unico dell’edilizia, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2005, 215. Fra i contributi più recenti v. Ferrari,
Ge., Art.15 - Efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire, in Garofoli, R.-Ferrari, G., Codice
dell’edilizia annotato con dottrina, giurisprudenza e formule, II ed., Roma, 2011, 215; Ferrari, Ge., Il nuovo
Codice dell’edilizia – Commento analitico al Testo Unico dell’edilizia, Roma, 2012, 189.
2
 Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 1.2.2011, n. 181.
3
 Cons. St., sez. V, 26.6.2000, n. 3612. Ma sull’irrilevanza, ai sensi della legislazione statale, del mancato
ritiro del permesso di costruire, agli effetti del decorso del termine decadenziale, concordava la
giurisprudenza sia del giudice penale (Cass. pen., sez. III, 13.5.2003, n. 21022) che quella successiva del
giudice amministrativo (Tar Lazio, Roma, sez. II, 23.2.2005, n. 1447).
4
 Cons. St., sez. II, 28.4.2010, n. 4170.
5
 Tar Puglia, Bari, sez. II, 5.5.2010, n. 1731.
6
 Tar Veneto, sez. II, 3.12.2010, n. 6327.
7
 Cons. St., sez. V, 21.10.1991, n. 1239.
8
 Tar Calabria, Reggio Calabria, 20.4.2010, n. 420.
9
 Cass. pen, sez. III, 8.4.2010 n. 17971.
10
 Cons. St., sez. V, 26.6.2000, n. 3612.
11
 Cons. St., sez. V, 15.6.1998, n. 834; Cons. St., sez. V, 23.11.1996, n. 1414, per il quale l’adozione del
provvedimento dichiarativo della decadenza costituisce condizione per l’esercizio dei poteri sanzionatori
amministrativi e per l’insorgenza dell’eventuale responsabilità penale del titolare del permesso di costruire
per il caso di esecuzione dei lavori oltre il termine prescritto dalla concessione edilizia.
12
 Cons. St., sez. V, 20.10.2004, n. 5228.
13
 Cons. St., sez. VI, 17.2. 2006, n. 671.

Decreti Madia e Testo unico dell'edilizia


Il d.lgs. 30.6.2016, n. 127 (Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi), il
d.lgs. 30.6.2016, n. 126 (Attuazione della delega in materia di segnalazione certificata di inizio attività) ed il
cd. d.lgs. SCIA2 contengono disposizioni rilevanti per la materia edilizia: accanto a quelle che direttamente
modificano il t.u. edil. (d.P.R. 6.6.2001, n. 380), altre di carattere generale impongono di coordinare con
esse la disciplina di settore. Le finalità sottese alle novità sono la semplificazione dei procedimenti e dei
regimi amministrativi degli interventi edilizi, con riduzione del numero dei titoli edilizi e loro
conformazione ai modelli generali.

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LA RICOGNIZIONE
Il d.lgs. n.127/2016, all’art. 2, contiene alcune disposizioni volte a coordinare la disciplina generale della
conferenza di servizi – recata dallo stesso decreto che ha modificato la l. 7.8.1990, n. 241 – con la disciplina
settoriale dell’edilizia di cui al t.u. edil., intervenendo sugli artt. 5 (Sportello unico per l’edilizia) e 20
(Procedimento per il rilascio del permesso di costruire).
Nel dettaglio, l’elisione nel co. 3 dell’art. 5 t.u. edil. delle parole «direttamente o tramite conferenza di
servizi» comporta che la conferenza diventa strumento obbligatorio per acquisire gli assensi necessari per la
realizzazione dell’intervento edilizio.
Nel medesimo co. 3, alla lett. g) – relativa agli assensi previsti dal codice dei beni culturali e del paesaggio
(d.lgs. 22.1.2004, n. 42) per interventi su immobili vincolati – l’abrogazione delle parole «fermo restando
che, in caso di dissenso manifestato dall’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai
sensi del medesimo codice» ha lo scopo di allineare la disciplina edilizia alla nuova disciplina generale, «in
base alla quale nella conferenza di servizi nessun interesse, compreso quello posto alla tutela dei beni
culturali e del paesaggio, può, di per sé, bloccare la conclusione del procedimento»1.
Anche le modifiche all’art. 20 t.u. edil. mirano ad uniformare le regole sulla conferenza nel procedimento di
rilascio del permesso di costruire alla nuova disciplina generale dell’istituto. Viene così modificato il co. 3,
prevedendo che, qualora sia necessario acquisire ulteriori assensi resi da p.a. diverse, si procede ai sensi
degli artt. 14 ss. l. n. 241/1990, disciplinanti la conferenza di servizi. Viene quindi ribadito che il
responsabile del procedimento non può più procedere, tramite lo sportello unico, all’acquisizione diretta
degli atti di assenso necessari.
L’uso obbligatorio della conferenza e le novità relative agli atti di assenso delle p.a. preposte ad interessi
sensibili (il cui dissenso in conferenza non impedisce di assumere la determinazione finale con la regola
della prevalenza) sono alla base della modifica del co. 8 e dell’abrogazione del co. 9 dell’art. 20, che, nel
prevedere il silenzio assenso in caso di vano decorso del termine di conclusione del procedimento del
permesso di costruire, ne escludevano la formazione in presenza di vincoli relativi all’assetto idrogeologico,
ambientali, paesaggistici o culturali ed imponevano sempre, anche nel caso di rilascio dell’assenso
preliminare sul vincolo, il provvedimento espresso.
Il d.lgs. n. 126/2016 non è intervenuto sul t.u. edil., ma l’introduzione di nuove disposizioni nella l. n. 241
impone di coordinare con esse il t.u. Viene in rilievo, in particolare, l’art. 19-bis l.n.241 (Concentrazione dei
regimi amministrativi), che generalizza un modello procedimentale simile a quello previsto per la SCIA
edilizia dall’art. 23-bis t.u. edil. (inserito dal d.l. 21.6.2013, n. 69), ma apportando ad esso le modifiche
necessarie per conformarlo alla nuova disciplina della conferenza decisoria. L’art. 19-bis introduce in
termini generali l’istituto dello sportello unico, al quale presentare la SCIA, anche in caso di procedimenti
connessi di competenza di altre p.a. o di diverse articolazioni interne della p.a. ricevente. Qualora un’attività
oggetto di SCIA sia condizionata all’acquisizione di assensi o pareri di altri uffici e amministrazioni o
all’esecuzione di verifiche preventive, l’interessato presenta allo sportello la relativa istanza e l’acquisizione
avviene tramite conferenza, liberando il privato da gravosi adempimenti amministrativi. In virtù della
concentrazione, l’efficacia legittimante della SCIA è differita all’esito positivo del procedimento di
autorizzazione.
Il decreto SCIA 2, all’art. 1, co. 2, ha introdotto il glossario unico, al fine di “garantire omogeneità di regime
giuridico in tutto il territorio nazionale”, contenente l’elenco delle principali opere edilizie con
l’individuazione delle categorie di intervento cui sono riconducibili e del conseguente regime giuridico. La
relativa adozione avviene con d.m. entro 60 giorni dall’entrata in vigore del d.lgs. È inoltre prescritto alla
p.a. di fornire gratuitamente all’interessato attività di consulenza preistruttoria. È evidente che il glossario
dovrà coordinarsi con il regolamento edilizio tipo introdotto dal d.l. Sblocca Italia n. 133/2014 (art. 4, co. 1-
sexies, t.u. edil.).
Il decreto delinea poi, all’art. 3 (Semplificazione di regimi amministrativi in materia edilizia), un quadro più
semplice dei titoli necessari per gli interventi edilizi, basato su cinque ipotesi: 1) interventi di edilizia libera,
non soggetti ad adempimenti; 2) interventi di edilizia libera soggetti a CILA (comunicazione di inizio lavori
asseverata); 3) interventi soggetti a SCIA, in alcuni casi alternativa al permesso di costruire; 4) interventi
assoggettati a permesso di costruire; 5) interventi per cui è possibile chiedere il permesso di costruire in
alternativa alla SCIA. A fini di semplificazione è introdotta la segnalazione certificata di agibilità.

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LA FOCALIZZAZIONE
I temi principali che la riforma tratta sono lo sportello unico, il procedimento di rilascio del permesso di
costruire in caso di vincoli ed il regime giuridico degli interventi edilizi.
Assensi e Sportello unico
Le modifiche all’art. 5 t.u. edil. confermano il ruolo del SUE come centro di gestione unitario dei rapporti
tra cittadino, amministrazione comunale ed altre p.a. coinvolte 2. Il SUE costituisce “unico punto di accesso”
per l’interessato «in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l’intervento
edilizio oggetto dello stesso»; acquisisce gli assensi delle p.a. preposte alla tutela ambientale,
paesaggisticoterritoriale, del patrimonio storicoartistico o della salute e della pubblica incolumità; fornisce
“una risposta tempestiva in luogo di tutte le amministrazioni” coinvolte.
Le modifiche recate dal d.lgs. n. 127 all’art. 5 adeguano la disciplina del SUE alla nuova disciplina della
conferenza, eliminando la possibilità per il SUE di acquisire gli assensi “direttamente” (trasmettendo
l’istanza alla p.a. competente ed attendendo gli esiti) e rendendo obbligatoria da subito la conferenza
decisoria.
Nei casi in cui la p.a. procedente necessitasse di assensi di altre p.a., l’art. 14 l. n. 241 nel testo precedente le
modifiche recate dal d.lgs. n. 127 prescriveva l’obbligatoria indizione della conferenza solo quando gli
assensi richiesti non fossero stati ottenuti entro 30 giorni (l’indizione era facoltativa nel caso fosse
intervenuto un dissenso).
Il riscritto art. 14, co. 2, prescrive, ora, l’immediata obbligatorietà della conferenza quando la conclusione
positiva del procedimento o l’attività del privato siano subordinate all’acquisizione di “più” assensi,
comunque denominati, di competenza di p.a. diverse. La differenza tra vecchio e nuovo regime è attenuata
dalla previsione di una conferenza asincrona, passaggio obbligato prima dell’eventuale conferenza sincrona,
nella quale le p.a., cui l’istanza è inviata, procedono separatamente. Sebbene l’iter possa, a prima lettura,
non risultare diverso dal previgente (in cui era prevista una fase iniziale di richiesta degli assensi, con
acquisizione entro 30 giorni), la semplificazione procedurale consiste nella previsione di un termine comune
(di 45 giorni o 90 se sono coinvolti interessi sensibili), nella regola del dissenso costruttivo e nella
previsione del silenzio assenso in caso di risposta mancata o non adeguatamente motivata.
Le novità sono alla base dell’abrogazione del co. 5-bis dell’art. 20 t.u. edil., che sanciva l’obbligo di indire la
conferenza solo quando nel termine di 60 giorni il responsabile del procedimento non avesse acquisito
direttamente gli atti di assenso o fosse intervenuto un dissenso non basato sulla “assoluta incompatibilità”
dell’intervento.
Ferma la distinzione pocanzi evidenziata tra acquisizione diretta degli assensi e conferenza asincrona,
l’attuale disciplina della conferenza asincrona contiene una previsione simile a quella dell’abrogato co. 5-
bis dell’art. 20 in ordine al rilievo del dissenso e delle sue motivazioni: l’art. 14-bis, co. 5, l. n. 241 dispone
che la p.a. procedente adotti la determinazione di conclusione positiva della conferenza asincrona qualora
abbia acquisito solo assensi non condizionati, anche impliciti, o ritenga che le condizioni indicate ai fini
dell’assenso o del superamento del dissenso possano essere accolte senza modifiche sostanziali alla
decisione; diversamente, qualora abbia acquisito uno o più dissensi “che non ritenga superabili”, adotta la
determinazione negativa. In ogni altro caso, si passa alla conferenza sincrona ex art. 14-ter l. n. 241. Ove si
ponga mente al fatto che le prescrizioni o condizioni eventualmente indicate devono essere chiare e
analitiche e specificare se sono relative ad un vincolo derivante da una disposizione normativa o da un atto
amministrativo generale o discrezionalmente apposte per la migliore tutela dell’interesse pubblico, ne
consegue nell’edilizia che l’assoluta incompatibilità dell’intervento (per la presenza, ad esempio, di un
vincolo chiaramente ostativo) dovrebbe condurre ad un rigetto, come nella disciplina previgente.
Va peraltro considerato che gli assensi delle autorità preposte alla gestione di un vincolo sottendono di
regola valutazioni tecnico-discrezionali: salve le ipotesi in cui l’intervento contrasti chiaramente ed
irrimediabilmente con una prescrizione del provvedimento di vincolo o con una previsione di piano, la p.a.
procedente può ritenere opportuno
o possibile superare il dissenso in una riunione in presenza della conferenza sincrona. In questa trova
applicazione il criterio della prevalenza e nessun interesse, inclusi quelli sensibili, è di per sé idoneo a
bloccare, con il dissenso della p.a. cui è affidato, la conclusione del procedimento. Per tale motivo, è stato
eliso il rinvio alla disciplina del codice dei beni culturali per il caso di dissenso delle p.a. preposte alla tutela
del patrimonio culturale nella lett. g) del co. 3 dell’art. 5 t.u. edil.

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Permesso di costruire e silenzio assenso
L’immediata obbligatorietà della conferenza di servizi è alla base della modifica del co. 8 e dell’abrogazione
del co. 9 dell’art. 20 t.u. edil.
Il co. 8 esclude l’operatività dell’istituto del silenzio assenso sull’istanza di permesso di costruire (introdotto
dal d.l. Sviluppo 13.5.2011, n. 70) qualora sussistano vincoli. In tali casi, il testo previgente rinviava a
quanto previsto dal co. 9, in base al quale, pur intervenuti gli assensi preventivi, il procedimento avrebbe
richiesto comunque il “provvedimento espresso”, altrimenti applicandosi la disciplina del silenzio-
inadempimento ex art. 2 l. n. 241/1990. Una forma di silenzio significativo (silenzio rigetto) era prevista (co.
9) in caso di diniego dell’atto di assenso preliminare seguito dal vano decorso del termine del procedimento
di permesso.
Le disposizioni si riferiscono all’ipotesi, possibile anteriormente al d.lgs. n. 127, in cui il responsabile del
SUE avesse chiesto “direttamente” gli atti di assenso necessari e questi fossero stati rilasciati o negati
espressamente, ma il dirigente o responsabile dell’ufficio non avesse concluso il procedimento di rilascio del
permesso nel prescritto termine.
Il d.lgs. ha abrogato il co. 9 e riscritto il co. 8, nel quale attualmente è previsto che, in presenza di vincoli,
trovino applicazione le disposizioni di cui agli artt. 14 ss. l. n. 241: resta quindi necessario il provvedimento
espresso, nella specie coincidente con la determinazione conclusiva della conferenza. Il co. 8 – stante
l’immediata obbligatorietà della conferenza – va riferito anche all’ipotesi in cui l’inerzia riguardi la p.a.
preposta al vincolo. L’inerzia di questa in conferenza (consistente nella conferenza sincrona nella mancata
comunicazione della determinazione nel termine assegnato e in quella asincrona nella assenza alle riunioni o
nella mancata espressione della propria posizione) equivale a considerarne acquisito l’assenso senza
condizioni.
Interventi edilizi e regime giuridico
Il d.lgs. SCIA2 è intervenuto in quattro ambiti: a) viene abolita la CIL (comunicazione di inizio lavori) e gli
interventi in precedenza ad essa assoggettati transitano nell’attività edilizia totalmente libera; b) la CILA
diventa il regime ordinario, salve le ipotesi espressamente assoggettate ad altri regimi; c) il restauro e
risanamento conservativo non riguardante parti strutturali è assoggettato a CILA; d) viene abolita la DIA
alternativa al permesso di costruire (superDIA), sostituita dalla SCIA con inizio posticipato dei lavori.
Ai fini sub a) viene modificato l’art. 6 t.u. edil. relativo all’edilizia libera ed inserito l’art. 6-bis rubricato
«Interventi subordinati a comunicazione di inizio lavori asseverata». La CILA diviene un istituto intermedio
tra attività edilizia libera e SCIA, il cui ambito di applicazione è residuale – comprendendo tutti gli
interventi non riconducibili agli artt. 6 (edilizia libera), 10 (permesso di costruire) e 22 (SCIA) – e la cui
mancanza comporta una mera sanzione pecuniaria. Viene riconosciuto alle Regioni il potere di estendere la
CILA ad interventi ulteriori e demandata alle stesse la disciplina delle modalità per l’effettuazione dei
controlli, anche a campione (discutibilmente, dal momento che la residualità della CILA imporrebbe che i
principi generali sui controlli siano fissati dal legislatore statale).
La soppressione della DIA e il carattere residuale della CILA hanno imposto la riscrittura degli artt. 22, 23 e
24 t.u. edil. Nel co. 1 dell’art. 22 sono ora puntualmente elencati gli interventi soggetti a SCIA: interventi di
manutenzione straordinaria riguardanti parti strutturali; interventi di restauro e risanamento conservativo
riguardanti parti strutturali; interventi di ristrutturazione edilizia leggera (ossia diversi da quelli assoggettati
al permesso di costruire ex art. 10).
Soppressi i commi dell’art. 22 relativi alla superDIA, il riscritto art. 23 disciplina gli “Interventi subordinati
a segnalazione certificata di inizio attività in alternativa al permesso di costruire”, nei quali sono inclusi – in
analogia alla previgente superDIA – ristrutturazione pesante, nuova costruzione o ristrutturazione
urbanistica disciplinati da piani attuativi dettagliati, nuova costruzione in diretta esecuzione di piani generali
recanti precise disposizioni planovolumetriche. Per effetto del co. 1, la SCIA alternativa si caratterizza per
legittimare l’inizio dei lavori dopo 30 giorni dalla presentazione, nel corso dei quali il comune può inibire
l’intervento qualora riscontri l’assenza di una o più delle condizioni stabilite (art. 23, co. 6, rimasto
invariato).
Il modello della SCIA viene poi esteso alla agibilità. Viene così riscritto l’art. 24 (e abrogato l’art. 25) t.u.
edil., sancendo l’obbligo del titolare del permesso di costruire o di colui che ha presentato la SCIA, entro 15
giorni dall’ultimazione dei lavori di finitura, di presentare al SUE la segnalazione per interventi di nuova
costruzione, ricostruzione o sopraelevazione e, in genere, interventi su edifici esistenti che possono influire
sulle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico di edifici e impianti. È confermata
l’agibilità parziale (introdotta nel 2013 e riguardante porzioni, funzionalmente autonome, di un fabbricato o

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solo alcuni edifici nell’ambito di più vasti ed articolati complessi immobiliari), anch’essa oggetto di
segnalazione diretta ad attestare le poc’anzi citate condizioni. Ai controlli sulla SCIA è esteso quanto
previsto dal co. 3 dell’art. 19 l. n. 241/1990, nonché il termine di 30 giorni ai sensi del co 6- bis del
medesimo art. 19.
I PROFILI PROBLEMATICI
Numerosi sono i profili problematici che la complessiva riforma presenta, quali in particolare l’applicabilità
dell’art. 17-bis l. n. 241 al procedimento diretto dal SUE, gli effetti della codificazione della concentrazione
dei regimi amministrativi, la rilevanza degli interessi sensibili nella conferenza e la residualità attribuita alla
CILA.
Sportello unico e silenzio assenso tra p.a.
L’art. 17-bis l. n. 241/1990, inserito dalla l. n. 124/2015, ha generalizzato il silenzio assenso tra
p.a. nei procedimenti volti all’adozione di provvedimenti che prevedano atti di assenso comunque
denominati di altre amministrazioni, prevedendo che tali assensi siano implicitamente acquisiti decorsi
vanamente 30 giorni dal ricevimento dello “schema di provvedimento” da parte della p.a. procedente.
L’istituto trova espressa applicazione anche nel caso in cui l’assenso sia richiesto ad amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini (alle
quali è però assegnato un termine maggiore, di 90 giorni, salvi i termini diversi – maggiori o minori –
previsti da disposizioni settoriali).
L’art. 17-bis attiene esclusivamente al silenzio assenso tra p.a., mentre il silenzio della p.a. procedente nei
procedimenti ad istanza di parte continua ad essere regolato dall’art. 20 l. n. 241, il cui co. 4 esclude dalla
generalizzazione del silenzio significativo gli atti ed i procedimenti riguardanti interessi sensibili.
Nei procedimenti relativi ai titoli abilitativi edilizi, il ruolo del SUE, quale unico punto di accesso nei
rapporti tra p.a. e interessato, aveva indotto a prima lettura i commentatori3 a ritenere la disposizione
applicabile anche all’inerzia delle p.a. chiamate a pronunciarsi sulle autorizzazioni preliminari
(autorizzazioni culturali, paesaggistiche ecc.) ai titoli edilizi: ciò in quanto le richieste di atti di assenso
preliminari sono indirizzate dal SUE (e, dunque, da una p.a.) alla p.a. competente. Sennonché, come
recentemente chiarito dal Consiglio di Stato in sede consultiva 4, l’art. 17-bis ha un ambito applicativo
estremamente circoscritto, evincibile dal tenore letterale e da un’interpretazione sistematica che tenga conto
degli artt. 16, 17 e 20 l. n. 241/1990, nonché della disciplina della conferenza di servizi.
In primo luogo, il silenzio assenso ex art. 17-bis interviene nella fase decisoria del procedimento: il
riferimento allo “schema di provvedimento” implica che la fase istruttoria sia chiusa e le relative risultanze
siano tradotte nello schema di decisione su cui la p.a. interpellata esprime il suo assenso con valenza
codecisoria.
L’art. 17-bis non è applicabile nei casi in cui le p.a. coinvolte sono chiamate a compiere valutazioni in un
procedimento a struttura complessa (nel corso della cui istruttoria sia necessario acquisire pareri e
valutazioni di una pluralità di amministrazioni), in tale caso trovando applicazione gli artt. 16 e 17 l. n.
241/1990.
L’istituto non è applicabile, inoltre, nei procedimenti collegati 5 relativi ad autonomi atti di assenso funzionali
ad un risultato unitario (come consentire lo svolgimento di un’attività) e che risultano essere l’esito di
distinte valutazioni delle p.a. competenti.
In secondo luogo, l’art. 17-bis non trova applicazione nei procedimenti ad iniziativa di parte che si svolgono
presso una determinata p.a., competente a ricevere la domanda, ma rispetto ai quali la competenza
sostanziale è di altra amministrazione, non potendo ravvisarsi tecnicamente un rapporto di codecisione. Si
tratta, per l’appunto, dei procedimenti curati dal SUE: se è vero che il SUE garantisce una gestione unitaria
dei procedimenti, questi rimangono, però, logicamente distinti in quanto diretti a tutelare interessi diversi6.
Qualora gli atti di assenso preliminari al titolo edilizio siano più di uno, l’applicazione dell’art. 17-bis è
esclusa per un’ulteriore ragione. L’art. 17-bis va coordinato con l’art. 14, co. 2, l. n. 241/1990, il quale
prescrive l’immediata obbligatorietà della conferenza decisoria quando la conclusione positiva del
procedimento o l’attività del privato sono subordinate all’acquisizione di “più” atti di assenso di p.a. diverse.
In mancanza di chiarimenti del legislatore delegato sul coordinamento tra le due disposizioni, è stata
prospettata la tesi secondo cui l’art. 17-bis si applichi (nei limiti comunque sopra indicati) quando la p.a.
procedente deve acquisire l’assenso di una sola amministrazione, mentre l’obbligo di indire la conferenza
sussiste quando debbano essere acquisiti assensi da parte di “più” p.a.7.

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Concentrazione dei regimi amministrativi
In relazione alla nuova disciplina generale della concentrazione prevista dall’art. 19-bis l. n. 241 per le
attività soggette a SCIA e richiedenti assensi preliminari, si segnala l’omessa riscrittura dell’art. 23-bis t.u.
edil. (non modificato neppure dal d.lgs. n. 127).
Nel disciplinare le modalità procedurali di acquisizione delle “autorizzazioni preliminari” alla SCIA e alla
CILA (ad esempio, autorizzazioni per interventi su immobili vincolati ai sensi del d.lgs. n. 42/2004), l’art.
23-bis, al co. 1, continua a fare riferimento – per l’ipotesi in cui il SUE non acquisisca nel termine di 60
giorni gli assensi necessari – al co. 5-bis dell’art. 20 t.u. edil. (comma abrogato e che prevedeva la
conferenza solo in via eventuale).
L’art. 23-bis cit., inserito dal d.l. “Del fare” n. 69/2013, ha previsto due modalità alternative per acquisire le
autorizzazioni preliminari: l’interessato può richiedere al SUE, prima di presentare la SCIA o la CILA, di
provvedere ad acquisire gli assensi necessari (allegandoli poi alla SCIA o CILA); oppure, può presentare
istanza di loro acquisizione contestualmente alla segnalazione o comunicazione (fermo restando che
l’interessato «può dare inizio ai lavori solo dopo la comunicazione da parte dello sportello unico
dell’avvenuta acquisizione» dei prescritti assensi o dell’esito positivo della conferenza).
Il testo dell’art. 23-bis va ora coordinato con le modifiche apportate dal d.lgs. n. 127 all’art. 20 t.u. edil.,
anche alla luce del neointrodotto art. 19-bis l. n. 241, che impone l’immediata convocazione della
conferenza per acquisire gli assensi presupposti e prevede come unico iter procedurale quello della
presentazione contestuale della segnalazione e delle istanze relative alle autorizzazioni preliminari
(abrogando tacitamente la modalità alternativa prevista dall’art. 23-bis).
Conferenza di servizi e interessi sensibili
Le modifiche apportate dal d.lgs. n. 127 alla lett. g) dell’art. 5 t.u. edil. – relativo agli assensi previsti dal
codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42/2004) – hanno lo scopo di allineare la disciplina
edilizia alle novità in tema di rilevanza degli interessi sensibili recate dalla nuova disciplina generale della
conferenza di servizi.
Va premesso che la tutela rafforzata riconosciuta agli interessi sensibili dall’ordinamento a fronte delle
esigenze di semplificazione procedimentale ha subito progressive e crescenti attenuazioni. Dal 2010 le p.a.
preposte ad interessi sensibili sono state incluse tra quelle il cui assenso si ritiene acquisito qualora non
venga espressa definitivamente nella conferenza la propria volontà (art. 14-ter, co. 7, l. n. 241). La
previsione si basa sul principio di leale collaborazione istituzionale ed è confermata nella vigente disciplina.
Sino al d.lgs. n. 127 permaneva, invece, una forma di maggiore tutela per gli interessi sensibili in caso di
dissenso manifestato in conferenza, impedendo esso alla p.a. procedente di assumere la determinazione
conclusiva in base al criterio della prevalenza. Il dissenso poteva essere superato solo attivando il
meccanismo previsto nel previgente art. 14-quater, co. 3, l. n. 241/1990 e, dunque, demandando la decisione
alla sede politica.
Rispetto alla precedente disciplina il d.lgs. n. 127 ha invertito il meccanismo, prevedendo un rimedio
oppositivo eventuale e successivo8: il dissenso qualificato non determina più lo spostamento del livello di
confronto degli interessi, facendo cessare il titolo della p.a. procedente a trattare il procedimento con la
rimessione della questione al Consiglio dei ministri, ma la decisione viene comunque adottata dalla
conferenza, con la sola peculiarità della sospensione degli effetti della stessa per il periodo utile ad esperire
l’opposizione ex art. 14-quiquies l. n. 241. La fase di risoluzione del conflitto ha ora natura eventuale ed è
proponibile solo in caso di motivato dissenso (non nelle ipotesi in cui si sia formato il silenzio assenso).
Il carattere eventuale e successivo del rimedio solleva perplessità sull’adeguata tutela degli interessi
sensibili: il dissenso si basa, di norma, su dati di fatto e valutazioni tecniche che non dovrebbero essere
cedevoli di fronte a considerazioni di natura politica. Inoltre, nella conferenza simultanea la nuova disciplina
del rappresentante unico (art. 14-ter) riduce ad unità posizioni e interessi distinti, affidati a p.a. diverse
(considerate unitariamente non per la materia rientrante nelle loro attribuzioni, ma per il livello territoriale di
afferenza), trascurando i valori della competenza e della specializzazione, anche tecnica, e sollevando dubbi
di compatibilità con i principi di buon andamento ed imparzialità.
Carattere residuale della CILA
La CILA ha assunto con il d.lgs. cd.SCIA2 ruolo residuale e di istituto complementare alla SCIA: entrambi
si inquadrano nel processo di liberalizzazione delle attività private, essendo il privato legittimato ad iniziare
l’attività sulla base dello schema norma-fatto-effetto. Nella SCIA, peraltro, i poteri amministrativi di
intervento in caso di irregolarità sono più ampi: mentre nella CILA viene prevista una sanzione pecuniaria
(di importo unico ed esiguo rispetto all’entità degli interventi con essa eseguibili) in caso di “mancata”

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comunicazione, nella SCIA sono previsti poteri repressivi, inibitori e conformativi. Il Consiglio di Stato
(comm. spec., 4.8.2016 n. 1784) ha evidenziato che, sebbene il diverso regime sanzionatorio sia giustificato
dai principi di proporzionalità e adeguatezza, tuttavia la sanzione per la CILA è troppo lieve in taluni casi ed
irragionevolmente limitata alle ipotesi di CILA mancante e non estesa ad altri casi di irregolarità formale
(come comunicazione incompleta) o di lavori eseguiti in difformità.
L’ampliamento dell’ambito applicativo della CILA solleva poi una questione relativa alla segnalazione
certificata prevista per l’agibilità, l’obbligo di presentare la quale viene riferito espressamente solo ai
soggetti titolari di permesso di costruire o che abbiano presentato la SCIA. In tale modo, vengono esclusi
quegli interventi che, pur soggetti a CILA, sono comunque idonei ad incidere sulle condizioni indicate
nell’art. 24 t.u. edil., come, ad esempio, il restauro e risanamento conservativo – non incidente su parti
strutturali –, che può comportare modifiche della funzionalità e della destinazione d’uso (con inserimento di
elementi accessori e di impianti indispensabili per il nuovo uso).
Inoltre, nell’art. 6-bis t.u. edil. la possibilità (co. 4) del legislatore regionale di estendere la disciplina della
CILA ad interventi edilizi ulteriori rispetto a quelli individuati – in via residuale – dal co. 1, solleva alcune
perplessità: essa dovrebbe essere interpretata alla luce di quanto già chiarito dalla Corte costituzionale in
relazione ad analoga possibilità prevista dal previgente art. 6 9, e cioè, ritenendo che essa non permetta di
sovvertire le definizioni degli interventi edilizi recate dall’art. 3 t.u. edil. e la loro espressa assegnazione alla
SCIA o al permesso di costruire ex artt. 10 e 22, ma consenta unicamente di enucleare e chiarire specifiche
tipologie di interventi, che già rientrerebbero in via residuale nell’art. 6-bis.
Note
1
 Cons. St., comm. spec., 17.4.2016, n. 890.
2
 Mari, G., La rilevanza della disciplina del silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche nei procedimenti
relativi ai titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell’edilizia, in Riv. giur. ed., 2016, 61.
3
 Inzaghi, G., Il silenzio assenso indirizza le pratiche allo sportello unico, in Il Sole 24 Ore, 31.8.2015, 24.
4
 Cons. St., comm. spec., 13.7.2016, n. 1640.
5
 Sui procedimenti collegati Clarich, M., Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2015, 256.
6
 Mari, G., La rilevanza della disciplina, cit.; Cons. St., comm. spec., n. 1640/2016.
7
 Cons. St., comm. spec., n. 1640/2016; Dipace, R., La resistenza degli interessi sensibili nella nuova
disciplina della conferenza di servizi, e Aperio Bella, F., Il silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni,
in www.dirittoamministrativo.org.
8
 Dipace, R., La resistenza, cit.
9
 C. cost., 6.7.2012, n. 171.

Glossario degli interventi di attività edilizia libera


Con il decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 2.3.2018, entrato in vigore il 22.4.2018, si
è avviata la fase conclusiva dell’opera di semplificazione delle normative applicabili nel settore edilizio e, in
particolare, dei regimi amministrativi relativi ai singoli interventi edilizi, opera di semplificazione che dovrà
proseguire con l’emanazione di ulteriori decreti relativi agli interventi edilizi sottoposti a CILA, SCIA, cd.
super-SCIA e PdC (permesso di costruire), sino alla formazione di un glossario unico dell’edilizia.
LA RICOGNIZIONE. IL GLOSSARIO UNICO DELL’EDILIZIA
Con il decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 2.3.2018 (d’ora in poi, il d.m.), pubblicato
in G.U., serie generale del 7.4.2018, n. 81 ed entrato in vigore il 22.4.2018, è stato approvato il glossario
contenente l’elenco, espressamente qualificato come non esaustivo, delle principali opere edilizie
realizzabili in regime di attività edilizia libera, ai sensi dell’art. 1, co. 2, del d.lgs. 25.11.2016, n. 222 (cd.
decreto SCIA 2)1.
L’elencazione delle opere che possono essere eseguite senza alcun titolo abilitativo, ma comunque nel
rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e di tutte le normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico,
delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. 22.1.2004, n. 42) è
contenuta, in particolare, nella tabella allegata al d.m. (designata come allegato 1).
La tabella, in dettaglio, indica:

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• il regime giuridico dell’attività edilizia libera ai sensi dell’art. 6, co. 1, lett. da a) a e-quinquies), del d.P.R.
6.6.2001, n. 380, e ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 22.2.2006, n. 128;
• l’elenco delle categorie di intervento che il d.P.R. n. 380/2001 ascrive all’edilizia libera (art. 6, co. 1),
specificato da quanto previsto dalla tabella A, del d.lgs. n. 222/2016;
• l’elenco, non esaustivo, delle principali opere che possono essere realizzate per ciascun elemento edilizio
come richiesto dall’art. 1, co. 2, del d. lgs. n. 222/2016;
• l’elenco, non esaustivo, dei principali elementi oggetto di intervento, individuati per agevolare la lettura
della tabella da parte dei cittadini, delle imprese e della amministrazione.
Con il d.m. in esame si è proceduto, pertanto, a specificare le principali opere riconducibili alle tipologie di
edilizia libera previste dall’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001, testo unico per l’edilizia (d’ora in poi, t.u.edil.) e
dalle ulteriori disposizioni in materia, predisponendo una elencazione a carattere solo esemplificativo, che
non esaurisce, quindi, il novero degli interventi edilizi riconducibili all’area dell’attività edilizia libera.
L’emanazione del glossario in commento va ricondotta ad una più ampia opera di semplificazione 2 della
normativa vigente nel settore dell’edilizia, dei relativi regimi amministrativi e, specificamente, dei diversi
titoli abilitativi edilizi, avviata dal d.lgs. n. 222/2016. Il d.m. in esame costituisce, infatti, solo il primo dei
decreti attuativi previsti per il completamento del glossario unico in materia edilizia, il quale dovrà
riguardare anche le opere realizzabili mediante CILA, SCIA, super-SCIA e permesso di costruire.
Il d.m. interviene in ritardo e in maniera parziale rispetto a quanto programmato dal legislatore. È, infatti,
passato oltre un anno dall’emanazione del d. lgs. n. 222/2016, il quale aveva, appunto, previsto
l’emanazione di un glossario unico contenente l’elenco delle principali opere edilizie, con l’individuazione
della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono
sottoposte, ai sensi della tabella A allegata al decreto.
Tale glossario, rispetto alla data dell’11.12.2016 (giorno di entrata in vigore del decreto SCIA 2) avrebbe
dovuto essere emanato entro sessanta giorni con apposito decreto dei Ministeri dei trasporti e per la
semplificazione, previa intesa con la Conferenza Unificata.
Il d.m. in esame, intervenuto ben oltre il termine indicato, concerne, però, esclusivamente gli interventi
edilizi realizzabili in regime di attività edilizia libera. Il glossario ha immediata applicazione per le regioni a
statuto ordinario e per i comuni, senza necessità di un atto di recepimento, mentre per le regioni a statuto
speciale bisognerà tener conto dell’intesa che la singola regione a statuto speciale ha raggiunto con lo Stato3.
LA FOCALIZZAZIONE
Questo primo elenco del glossario unico opera di fatto una importante semplificazione dell’attività edilizia,
perché individua in modo dettagliato e univoco le principali opere realizzabili senza titolo edilizio, ferma
restando l’osservanza delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e di tutte le normative di settore
aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia. Il glossario unico ha, infatti, lo scopo di fornire
certezza giuridica all’attività dei comuni, dei cittadini e dei professionisti nel settore edilizio e di assicurare
omogeneità del regime giuridico da applicarsi ai singoli e individuati interventi edilizi, facendo chiarezza su
alcune ipotesi che in precedenza avevano suscitato dubbi negli operatori.
L’attività edilizia libera
Con il d.lgs. n. 222/2016, avente ad oggetto l’Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione,
segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei
regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, si è data ulteriore attuazione alla
delega disposta dall’art. 5 della l. 7.8.2015, n. 124 (cd. legge Madia di riforma della p.a.), recante Deleghe al
Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche nel perseguimento dell’obiettivo di
attuare i principi di liberalizzazione e di semplificazione, garantendo nei rapporti tra il cittadino e
l’amministrazione: a) regole certe nei procedimenti amministrativi in materia edilizia; b) tempi
predeterminati di durata del procedimento; c) un unico sportello a cui rivolgersi; d) una modulistica
unificata.
L’art. 3 del d.lgs. n. 222/2016 ha inteso, in particolare, avviare la Semplificazione di regimi amministrativi
in materia edilizia, andando a completare il complessivo riassetto della disciplina applicabile ai titoli
abilitativi edilizi, scaturente dal d.lgs. 30.6.2016, n. 126 (cd. decreto SCIA) sull’Attuazione della delega in
materia di segnalazione certificata di inizio attività (a norma dell’art. 5 della l. n. 124/2015), che ha
introdotto il principio di concentrazione dei regimi amministrativi, e dal d.lgs. 30.6.2016, n. 127,
recante Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’articolo
2 della legge 7 agosto 2015, n. 124, che ha novellato in toto gli articoli della l. 7.8.1990, n. 241 sulla
conferenza dei servizi.
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A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 222/2016 e, quindi, delle più recenti modifiche al t.u.edil.
introdotte sia da quest’ultimo decreto sia da precedenti interventi normativi, i regimi amministrativi
applicabili all’attività edilizia sono i seguenti:
• l’attività edilizia libera (che può svolgersi senza necessità di alcun titolo abilitativo);
• la CILA (comunicazione inizio attività asseverata);
• la SCIA (segnalazione certificata di inizio attività);
• la super-SCIA (segnalazione certificata di inizio attività alternativa al permesso di costruire);
• il PdC (permesso di costruire).
Sono stati così eliminati alcuni titoli edilizi precedentemente in vigore, quali la DIA (denuncia di inizio
attività), la super-dIA e la CIL (comunicazione di inizio lavori).
Con l’espressione “attività edilizia libera” ci si intende riferire, in via generale, a tutti quegli interventi
edilizi che, in quanto privi di attitudine a modificare significativamente e percepibilmente l’assetto edilizio
preesistente, possono essere realizzati senza alcun titolo abilitativo e senza alcuna comunicazione all’ente
territoriale comunale.
Storicamente l’attività edilizia nasce come «iniziativa antropica interamente libera, slegata da ogni iter di
autorizzazione amministrativa e, ancora prima, da ogni preventiva regolamentazione normativa; e ciò sino
all’entrata in vigore della cd. legge urbanistica fondamentale, con la quale venne introdotta nell’ordinamento
giuridico una prima disciplina generale sul governo del territorio nonché sulla modifica del tessuto
urbanistico-edilizio esistente»4.
Fu l’art. 31 della l. 17.8.1942, n. 1150 (cd. legge urbanistica fondamentale) a disporre che per la
realizzazione di nuove costruzioni o per l’ampliamento di quelle esistenti fosse necessario acquisire in via
preventiva la cd. licenza edilizia.
In precedenza, dunque, non vi era alcun tipo di regolamentazione in base alla quale discriminare le attività
edilizie consentite ai privati; pertanto, tutto era edificabile liberamente e neppure costituivano una vera e
propria regolamentazione delle attività edilizie dei privati le norme contemplate all’art. 220 del R.d.
27.7.1934, n. 1265, che imponevano il visto del sindaco per tutte quelle costruzioni che potevano influire
sulla salubrità dei fabbricati esistenti: esse avevano una finalità, non di regolamentazione dell’attività
urbanistica ed edilizia, quanto di tutela delle minime esigenze igienico-sanitarie riconnesse agli interventi da
eseguire sugli immobili esistenti5.
Solo con l’art. 31 della l. n. 1150/1942 fu, quindi, introdotta la necessità della preventiva acquisizione della
licenza, rilasciata dal sindaco, per chi intendesse realizzare nuove costruzioni o procedere all’ampliamento
di quelle esistenti nei centri urbanizzati, mentre rimanevano libere tutte le altre attività edilizie realizzate nei
centri abitati, sempre che non comportassero una modifica in termini di ampliamento degli immobili
esistenti, ovvero una modifica dei cd. parametri edilizi essenziali, come il volume, la superficie e la sagoma.
Divenne in tal modo possibile per la prima volta distinguere giuridicamente le attività edilizie libere dalle
attività edilizie soggette a regime autorizzatorio, dovendosi senz’altro ascrivere la licenza edilizia al novero
degli atti di natura autorizzatoria.
ne risultò un assetto normativo per cui la preventiva autorizzazione doveva essere richiesta da chi volesse
edificare all’interno dei centri urbanizzati o all’interno delle cd. zone di espansione esterne ai predetti centri,
sempre che, in quest’ultimo caso, vi fosse un piano regolatore generale (p.r.g.) che recasse prescrizioni
sull’uso di quelle zone6. In assenza di strumenti urbanistici, dunque, qualsiasi attività edilizia nelle zone di
espansione, come in tutte le altre zone esterne al centro urbano (ad es. le zone agricole), era liberamente
consentita dalla l. n. 1150/19427.
Come è noto, a seguito di un’articolata evoluzione normativa e giurisprudenziale sul contenuto dello jus
aedificandi e sulla natura del correlativo titolo edilizio8, nonché di una serie di interventi legislativi
riguardanti i titoli abilitativi edilizi diversi da quello principale (ora denominato permesso di costruire e, in
passato, dapprima, come si è visto, licenza edilizia e, poi, concessione edilizia) l’attività edilizia libera è
attualmente disciplinata dal t.u.edil.
Più in dettaglio, la disciplina dell’attività edilizia libera è contenuta:
• nell’art. 6 del t.u.edil., norma quest’ultima che ha subito nel corso degli anni ripetute e significative
modificazioni, con progressivo ampliamento dell’ambito degli interventi da considerarsi di edilizia libera;
• nella tabella A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, nella quale per ciascuna delle attività espressamente indicate
viene indicato il relativo regime amministrativo applicabile; in particolare alle attività soggette al regime

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dell’edilizia libera sono dedicati i punti 1), 2), 16), 21), 23), 24), 25), 26), 27), 28), 29) del § 1 (Ricognizione
degli interventi edilizi e dei relativi regimi amministrativi) della sezione II (Edilizia) di detta tabella.
In conclusione, in base a quanto disposto dall’art. 6 del t.u.edil., nel testo attualmente vigente,
significativamente modificato dall’art. 3 del d.lgs. n. 222/2016, rientrano nel novero dell’attività di edilizia
libera i seguenti interventi:
• a) gli interventi di manutenzione ordinaria, ossia gli interventi così definiti dall’art. 3, co. 1, lett. a), del
t.u.edil. «...gli interventi edilizi riguardanti le opere volte alla riparazione, rinnovamento e sostituzione delle
finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici
esistenti»;
• a-bis) gli interventi di installazione delle pompe di calore aria-aria di potenza termica utile nominale
inferiore a 12 Kw;
• b) gli interventi volti all’eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di
ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio;
• c) le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico, ad
esclusione di attività di ricerca di idrocarburi, e che siano eseguite in aree esterne al centro edificato;
• d) i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche agrosilvo-
pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari;
• e) le serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell’attività
agricola;
• e-bis) le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente
rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni (previa
comunicazione di avvio lavori all’amministrazione comunale);
• e-ter) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute
entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la
realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali
tombati;
• e-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori della zona A) di cui
al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2.4.1968, n. 1444;
• e-quinquies)le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici.
Gli interventi sopra elencati da e-bis) (opere temporanee e contingenti) a e-quinquies) (aree ludiche) sino al
10.12.2016 erano soggetti a CIL (comunicazione inizio lavori); a partire dall’11.12.2016, per effetto del
d.lgs. n. 222/2016 (art. 3), che ha soppresso la figura della CIL, detti interventi sono stati assoggettati al
regime dell’edilizia totalmente libera (salva la necessità della previa comunicazione di avvio lavori per le
sole opere temporanee e contingenti di cui al punto e-bis).
Sono pure soggetti al regime dell’edilizia libera:
• l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere,
quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni in strutture ricettive all’aperto per la sosta ed il
soggiorno di turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto,
paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore (ossia in campeggi debitamente autorizzati),
conformemente a quanto prescritto dall’art. 3, co. 1, lett. e.5), t.u.edil. e dalla tabella A, allegata al d.lgs. n.
222/2016 (punto 16, § 1, sezione II);
• gli interventi relativi a depositi di gas di petrolio liquefatti di capacità complessiva non superiore a 13 mc e
di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 128/2006 (detta norma infatti stabilisce che «l’installazione dei depositi di gas
di petrolio liquefatti di capacità complessiva non superiore a 13 mc è considerata, ai fini urbanistici ed
edilizi, attività di edilizia libera, come disciplinata dall’art. 6 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e s.m.i.»).
Gli interventi in regime di attività edilizia libera
Il d.m. elenca in tutto cinquantotto opere, delle quali venticinque sono riconducibili alla tipologia di
intervento designata come «manutenzione ordinaria».
In dettaglio, sono individuate dodici categorie di intervento, che, per comodità espositiva, si elencano di
seguito designandole con le lettere dell’alfabeto:
A) manutenzione ordinaria, attività alla quale vanno ricondotti gli interventi edilizi che riguardano le opere
di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o
mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti (d.lgs. n. 222/2016, tabella A, sezione II
‒ Edilizia ‒ attività 1);

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b) pompe di calore di potenza termica utile nominale inferiore a 12 kW, alla quale vanno ricondotti gli
interventi di installazione delle pompe di calore ariaaria di potenza termica utile nominale inferiore a 12 kW
(d.lgs. n. 222/2016, tabella A, sezione II ‒ Edilizia ‒ attività 2);
C) depositi di gas di petrolio liquefatti di capacità complessiva non superiore a 13 mc (d.lgs. n. 128/2006,
art. 17);
D) eliminazione delle barriere architettoniche, cui vanno ricondotti gli interventi volti all’eliminazione di
barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di ascensori esterni ovvero di manufatti che
alterino la sagoma dell’edificio (d.lgs. n. 222/2016, tabella A, sezione II ‒ Edilizia ‒ attività 21);
E) attività di ricerca nel sottosuolo, cui va ricondotta la realizzazione di opere temporanee per attività di
ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi, e
che siano eseguite in aree esterne al centro edificato (d.lgs. n. 222/2016, tabella A, sezione II ‒ Edilizia ‒
attività 23);
F) movimenti di terra, intesi come movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività
agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari (d.lgs. n.
222/2016, tabella A, sezione II ‒ Edilizia ‒ attività 24);
G) serre mobili stagionali, sprovviste di struttura in muratura, funzionali allo svolgimento dell’attività
agricola (d.lgs. n. 222/2016, tabella A, sezione II ‒ Edilizia ‒ attività 25);
H) pavimentazione di aree pertinenziali, cui vanno ricondotte le opere di pavimentazione e di finitura di
spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo
strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non
accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati (d.lgs. n. 222/2016, tabella A, sezione II
‒ Edilizia ‒ attività 27);
I) pannelli fotovoltaici a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori della zona A) di cui al decreto del
Ministro per i lavori pubblici n. 1444/1968 (d.lgs. n. 222/2016, tabella A, sezione II ‒ Edilizia ‒ attività 28);
L) aree ludiche ed elementi di arredo delle aree di pertinenza, cui vanno ricondotte le aree ludiche senza fini
di lucro ed elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici (d.lgs. n. 222/2016, tabella A, sezione II ‒
Edilizia ‒ attività 29);
M) manufatti leggeri in strutture ricettive, cui va ricondotta l’installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, in
strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo
urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore (d.lgs. n.
222/2016, tabella A, sezione II ‒ Edilizia ‒ attività 16);
N) opere contingenti temporanee, cui vanno ricondotte le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze
contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro
un termine non superiore a novanta giorni (d.lgs. n. 222/2016, tabella A, sezione II ‒ Edilizia ‒ attività 26).
In via di successiva specificazione, il glossario elenca gli interventi riconducibili alle anzidette dodici
categorie di intervento, individuandone, come detto, complessivamente cinquantotto con valenza
esemplificativa:
A) manutenzione ordinaria ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «manutenzione ordinaria» come
definita dall’art. 3, co. 1, lett. a), del t.u.edil., di cui all’art. 6, co. 1, lett. a), del t.u.edil., e al punto 1, § 1,
sezione II, tabella A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
1. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento (comprese le opere correlate quali guaine, sottofondi, ecc.)
di pavimentazioni esterne e interne;
2. il rifacimento, la riparazione, la tinteggiatura (comprese le opere correlate) di intonaci interni ed esterni;
3. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di elementi decorativi delle facciate (ad es. marcapiani,
modanature, corniciature, lesene);
4. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di opere di lattoneria (ad es. grondaie, tubi, pluviali) e di
impianti di scarico;
5. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di rivestimenti interni ed esterni;
6. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di serramenti e infissi interni ed esterni;
7. la installazione, comprese le opere correlate, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di inferriate e
di altri sistemi anti intrusione;
8. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento, l’inserimento di eventuali elementi accessori, le rifiniture
necessarie (comprese le opere correlate) di elementi di rifinitura delle scale;

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9. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento, l’inserimento di eventuali elementi accessori, le rifiniture
necessarie (comprese le opere correlate) di scale retrattili e di arredo;
10. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento, la messa a norma di parapetti e ringhiere;
11. la riparazione, il rinnovamento, la sostituzione nel rispetto delle caratteristiche tipologiche e dei materiali
(comprese le opere correlate quali l’inserimento di strati isolanti e coibenti) dei mani di copertura;
12. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di controsoffitti non strutturali;
13. la riparazione, il rinnovamento di controsoffitti strutturali;
14. la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento, la realizzazione finalizzata all’integrazione impiantistica
e messa a norma di comignoli o terminali a tetto di impianti di estrazione fumi;
15. la riparazione, il rinnovamento, la sostituzione di elementi tipologici o delle cabine e la messa a norma di
ascensori e impianti di sollevamento verticale;
16. la riparazione e/o la sostituzione, la realizzazione di tratti di canalizzazione e sottoservizi e/o la messa a
norma di reti fognarie e di reti di sottoservizi;
17. la riparazione, l’integrazione, l’efficientamento, il rinnovamento e/o la messa a norma di impianti
elettrici;
18. la riparazione, l’integrazione, l’efficientamento, il rinnovamento, compreso il tratto fino
all’allacciamento alla rete pubblica e/o la messa a norma di impianti per la distribuzione e l’utilizzazione di
gas;
19. la riparazione, l’integrazione, l’efficientamento, il rinnovamento, la sostituzione e l’integrazione di
apparecchi sanitari e di impianti di scarico e/o la messa a norma di impianti igienico e idro-sanitari;
20. l’installazione, la riparazione, l’integrazione, il rinnovamento, l’efficientamento e/o la messa a norma di
impianti di illuminazione esterni;
21. l’installazione, l’adeguamento, l’integrazione, il rinnovamento, l’efficientamento, la riparazione e/o la
messa a norma di impianti di protezione antincendio;
22. l’installazione, l’adeguamento, l’integrazione, l’efficientamento (comprese le opere correlate di
canalizzazione) e/o la messa a norma di impianti di climatizzazione;
23. la riparazione, l’adeguamento, l’integrazione, l’efficientamento (comprese le opere correlate di
canalizzazione), e/o la messa a norma di impianti di estrazione fumi;
24. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento, e/o la messa a norma di antenne/ parabole
e di altri sistemi di ricezione e trasmissione;
25. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento, e/o la messa a norma di punti di ricarica
per veicoli elettrici;
B) pompe di calore ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «installazione delle pompe di calore aria-aria
di potenza termica utile nominale inferiore a 12 Kw», di cui all’art. 6, co. 1, lett. a-bis), t.u.edil., e punto 2, §
1, sezione II, tabella A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
26. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento e/o la messa a norma di pompe di calore
aria-aria;
C) depositi gas liquefatti ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «depositi di gas di petrolio liquefatti di
capacità complessiva non superiore a 13 mc», di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 128/2006, i seguenti interventi:
27. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento e/o la messa a norma di depositi di gas di
petrolio liquefatti;
D) eliminazione di barriere architettoniche ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «eliminazione di
barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di ascensori esterni, ovvero di manufatti che
alterino la sagoma dell’edificio», di cui all’art. 6, co. 1, lett. b), t.u.edil., e al punto 21, § 1, sezione II, tabella
A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
28. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento e/o la messa a norma, purché non incida
sulla struttura portante, di ascensori e montacarichi;
29. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento e/o la messa a norma, di servoscale e
assimilabili;
30. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di rampe;
31. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di apparecchi sanitari e di impianti igienici
e idro-sanitari;
32. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di dispositivi sensoriali;

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E) attività di ricerca nel sottosuolo ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «opere temporanee per attività
di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi,
e che siano eseguite in aree esterne al centro edificato», di cui all’art. 6, co. 1, lett. c), t.u.edil., e al punto 23,
§ 1, sezione II, tabella A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
33. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di opere strumentali all’attività di ricerca
nel sottosuolo attraverso carotaggi, perforazioni e altre metodologie;
F) movimenti di terra ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «movimenti di terra strettamente pertinenti
all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti
idraulici agrari», di cui all’art. 6, co. 1, lett. d), t.u.edil., e al punto 24, § 1, sezione II, tabella A, allegata al
d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
34. la manutenzione, la gestione ed il livellamento di terreni agricoli e pastorali;
35. la manutenzione e la gestione di vegetazione spontanea;
36. la manutenzione e la gestione di impianti di irrigazione e di drenaggio finalizzati alla regimazione ed
all’uso dell’acqua in agricoltura;
G) serre mobili stagionali ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «serre mobili stagionali, sprovviste di
strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell’attività agricola», di cui all’art. 6, co. 1, lett. e),
t.u.edil., e al punto 25, § 1, sezione II, tabella A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
37. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di serre compresi elementi di appoggio e/o
ancoraggio;
H) pavimentazione di aree pertinenziali ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «opere di pavimentazione
e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove
stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente
interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati», di cui all’art. 6, co. 1, lett. e-ter),
t.u.edil., e al punto 27, § 1, sezione II, tabella A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
38. la realizzazione, la riparazione, la sostituzione, il rifacimento di intercapedini;
39. la realizzazione, la riparazione, la sostituzione, il rifacimento di locali tombati;
40. la realizzazione, la riparazione, la sostituzione, il rifacimento di pavimentazioni esterne, comprese le
opere correlate, quali guaine e sottofondi;
41. la realizzazione, la riparazione, la sostituzione, il rifacimento di vasche di raccolta delle acque;
I) pannelli solari e fotovoltaici ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «pannelli solari, fotovoltaici, a
servizio degli edifici, da realizzare al di fuori della zona A) di cui al decreto del Ministro per i lavori
pubblici 2 aprile 1968, n. 1444», di cui all’art. 6, co. 1, lett. e-quater), t.u.edil., e al punto 28, § 1, sezione II,
tabella A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
42. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di pannelli solari, fotovoltaici e generatori
microeolici;
L) aree ludiche e arredi ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «aree ludiche senza fini di lucro ed
elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici», di cui all’art. 6, co. 1, lett. e-quinquies), t.u.edil., e
al punto 29, § 1, sezione II, tabella A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
43. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di opere per arredo da giardino (ad es.
barbecue in muratura, fontane, muretti, sculture, fioriere, panche) e assimilate;
44. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di gazebo di limitate dimensioni e non
stabilmente infissi al suolo;
45. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di giochi per bambini e spazi di gioco in
genere comprese le relative recinzioni;
46. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di pergolati di limitate dimensioni e non
stabilmente infissi al suolo;
47. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di ricoveri per animali domestici e da
cortile, voliere e assimilate, con relative recinzioni;
48. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di ripostigli per attrezzi, manufatti
accessori di limitate dimensioni e non stabilmente infissi al suolo;
49. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di sbarre, separatori, dissuasori e simili,
stalli biciclette;
50. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di tende, tende a pergola, pergotende,
coperture leggere di arredo;

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51. l’installazione, la riparazione, la sostituzione, il rinnovamento di elementi divisori verticali non in
muratura, anche di tipo ornamentale e similari;
M) manufatti leggeri in strutture ricettive ‒ sono riconducibili alla tipologia edilizia «installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case
mobili, imbarcazioni in strutture ricettive all’aperto per la sosta ed il soggiorno di turisti, previamente
autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative
regionali di settore», di cui all’art. 3, co. 1, lett. e.5), t.u.edil., e al punto 16, § 1, sezione II, tabella A,
allegata al
d.lgs. n. 222/2016, i seguenti interventi:
52. l’installazione, la riparazione e la rimozione di manufatti leggeri in strutture ricettive all’aperto
(roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni) e assimilati;
N) opere contingenti e temporanee (previa comunicazione avvio lavori) ‒ sono riconducibili alla tipologia
edilizia «opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente
rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni», di cui
all’art. 6, co. 1, lett. e-bis), t.u.edil., e al punto 26, § 1, sezione II, tabella A, allegata al d.lgs. n. 222/2016, i
seguenti interventi:
53. l’installazione, previa comunicazione avvio lavori, nonché interventi di manutenzione, riparazione e
rimozione, per i quali non è necessaria la comunicazione, di gazebo;
54. l’installazione, previa comunicazione avvio lavori, nonché interventi di manutenzione, riparazione e
rimozione, per i quali non è necessaria la comunicazione, di stands fieristici;
55. l’installazione, previa comunicazione avvio lavori, nonché interventi di manutenzione, riparazione e
rimozione, per i quali non è necessaria la comunicazione, di servizi igienici mobili;
56. l’installazione, previa comunicazione avvio lavori, nonché interventi di manutenzione, riparazione e
rimozione, per i quali non è necessaria la comunicazione, di tensostrutture, presso strutture e assimilabili;
57. l’installazione, previa comunicazione avvio lavori, nonché interventi di manutenzione, riparazione e
rimozione, per i quali non è necessaria la comunicazione, di elementi espositivi vari;
58. l’installazione, previa comunicazione avvio lavori, nonché interventi di manutenzione, riparazione e
rimozione, per i quali non è necessaria la comunicazione, di aree di parcheggio provvisorio, nel rispetto
dell’orografia dei luoghi e della vegetazione ivi presente.
I PROFILI PROBLEMATICI. POSSIBILI QUESTIONI APPLICATIVE
L’introduzione di un glossario unico in materia edilizia ha la evidente finalità di dissipare il più possibile le
incertezze interpretative esistenti, in sede applicativa e giurisprudenziale, nel settore dell’attività edilizia,
assicurando in tal modo maggiore fiducia, trasparenza e certezza nei rapporti tra cittadini, imprese e
amministrazione.
I punti focali dell’intervento normativo in esame sono, in primo luogo, la predisposizione di un elenco
aperto di interventi e opere edilizie, rimanendo ammissibili ulteriori interventi ed opere assimilabili a quelle
elencate e compatibili con le categorie indicate; in secondo luogo, la necessità che le opere e gli interventi
realizzati in regime di attività edilizia libera e individuati dalla tabella del glossario siano realizzati nel
rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e di tutte le normative di settore aventi
incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-
sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, delle disposizioni
contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42/2004); in terzo luogo, la necessità
di un coordinamento tra il contenuto del glossario e il contenuto dei regolamenti di quelle regioni a statuto
ordinario che, nell’esercizio del potere legislativo concorrente, abbiano esteso la disciplina dell’edilizia
libera ad ulteriori interventi o sottoposto al regime della CILA interventi ora ricompresi nel glossario degli
interventi dell’attività edilizia libera, pena l’insorgere di nuove questioni interpretative e del relativo
contenzioso.
Il d.m., peraltro, è stato già oggetto di considerazione da parte della giurisprudenza proprio in relazione ad
una delle fattispecie tra le più controverse del contenzioso in materia edilizia: la realizzazione di una tettoia.
Esaminando la vicenda portata al suo esame, il Consiglio di Stato, premettendo che sono previste «al n. 50
del glossario delle opere realizzabili senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd. pergotende, ovvero, per
comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta,
formate da montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile
formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando

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la fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne distingue
secondo logica solo per presentare una struttura più leggera» e che «al polo opposto, v’è l’art. 10 comma 1
lettera a) del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di
costruire, ‘gli interventi di nuova costruzione’ … La giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere
appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche. Si afferma
infatti in via generale che tale struttura costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il permesso di
costruire nel momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi precari, ovvero
quando modifica la sagoma dell’edificio: fra le molte, C.d.S. sez. IV 8 gennaio 2018 n. 12 e sez. VI 16
febbraio 2017 n. 694», ha concluso che «da tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è possibile
affermare in assoluto che la tettoia richiede, o non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non
assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata. In proposito,
quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa
istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i
quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera» 9. ne consegue, secondo il
Consiglio di Stato, che nel caso della tettoia, trattandosi di un elemento stabile di arredo, sono le sue
dimensioni, oltre che il suo aspetto, a dover essere, di volta in volta, apprezzate dall’amministrazione con
una congrua motivazione al fine di individuare il regime giuridico applicabile.
NOTE
1
 Sul cd. decreto Scia 2 v., da ultimo Garofoli, R.-Ferrari, G., Commento all’art. 22 d.P.R. n. 380/2001, in
Garofoli, R.-Ferrari, G., a cura di, Codice dell’edilizia, 2018, Roma, 489 ss.; Sandulli, M.A., Segnalazione
certificata di inizio attività, in Libro dell’anno del Diritto 2017, Roma, 2017, 195 ss.
2
 All’opera di semplificazione in parola va anche ricondotto il d.P.R. 13.2.2017, n. 31 avente ad oggetto
il Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti
a procedura autorizzatoria semplificata. Per un commento al d.P.R. n. 31/2017 sia consentito rinviare a
Raiola, I., L’autorizzazione paesaggistica semplificata, in Libro dell’anno del Diritto 2018, Roma, 2018,
223 ss.
3
 Garofoli, R.-Ferrari, G., Commento all’art. 10 d.P.R. n. 380/2001, in Codice dell’edilizia, cit., 217 ss.;
Marra, A., Edilizia libera: il Glossario Unico vale in tutti i Comuni, in edilportale.com, 2018.
4
 Senatore, A., L’attività edilizia libera, in Urb. app., 2017, 278.
5
 Senatore, A., op. loc. ultt. citt.
6
 TAR Sicilia, Palermo, 6.10.2011, n. 1735, in giustizia-amministrativa.it, 2011.
7
 TAR Campania, Napoli, 29.8.2016, n. 4117, in giustizia-amministrativa.it, 2016.
8
 Per una ricognizione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di diritto di proprietà, jus
aedificandi e il più importante titolo edilizio, si rinvia a Ferrari, Ge., Commento all’art. 10 d.P.R. n.
380/2001, in Garofoli, R.-Ferrari, G., a cura di, Codice dell’edilizia, Roma, 2015, spec. § 3, 166 ss.
9
 Cons. St., 7.5.2018, nn. 2701 e 2715, entrambe in giustizia-amministrativa.it, 2018.

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