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1 – La circolazione del sapere nell‟Islam classico

 Il Corano come archetipo

Il Corano costituisce per i musulmani la trascrizione letterale della Parola di Dio. Dalle origini
dell‟Islam e per i successivi 1400 anni, la trasmissione del sapere nel mondo musulmano, il cui
oggetto principale era proprio il Corano, avvenne attraverso l‟insegnamento orale. Allo stesso
modo, fu orale la modalità di trasmissione delle rivelazioni che Muhammad aveva ricevuto da Dio
per tramite dell‟Arcangelo Gabriele. Anche nelle successive generazioni, l‟insegnamento del
Corano rimase ancorato all‟apprendimento orale, mentre il testo scritto rappresentò più che altro un
supporto. Nonostante circolassero già ai tempi del Profeta delle copie trascritte del Corano,
quest‟ultimo consisteva essenzialmente in una recitazione e non in una trascrizione. Fu soltanto con
il terzo califfo ben guidato, „Uthman, che si procedette ad una vulgata ufficiale del testo coranico,
con l‟ordine di eliminare le preesistenti non ufficiali. Questa decisione, seppur soggetta a resistenze,
nasceva dalla necessità di fornire un‟unica versione del testo sacro a tutti i musulmani. Ciò
nonostante, le caratteristiche difettive dell‟arabo antico, inizialmente privo di punti diacritici e
vocalizzazioni, fecero sì che si affermassero diverse letture del Corano, di cui solo sette oggi
ritenute canoniche. La trascrizione del libro sacro divenne supporto di un insegnamento appreso
mnemonicamente o con il cuore, considerato nella tradizione islamica sede dell‟intelletto e centro
della sensibilità umana. Il cuore diverrà simbolo per eccellenza della dottrina sufi classica.

 Insegnamento orale e sapere

L‟importanza della trasmissione orale ebbe risvolti significativi nella visione dell‟Islam classico
riguardo il rapporto diretto tra discepolo e maestro. Chi aspirava all‟acquisizione di una scienza
religiosa si metteva alla ricerca del suo esponente più famoso allo scopo di essere annoverato tra i
suoi discepoli. Alla disponibilità di affrontare anche lunghi viaggi per raggiungere il proprio shaykh
viene associato il detto “andate alla ricerca della conoscenza quand’anche fosse in Cina”. Questo
ḥadīth viene comunemente attribuito al Profeta per accrescerne l‟autorevolezza, nonostante in realtà
sia considerato ḍaʻīf, poco attendibile; tuttavia, ve ne sono altri con significati analoghi considerati
ṣaḥīḥ, autorevoli, tra questi uno tramandato da Abū Hurayra, uno dei più celebri compagni del
Profeta, che recita “Colui che intraprende la strada per la ricerca della conoscenza, Dio gli
garantisce il sentiero del Paradiso”. Una volta raggiunto lo shaykh, il discepolo ne seguiva gli
insegnamenti in mezzo alla cerchia più esterna dei discepoli e, solo in un secondo momento, egli
sarebbe stato ammesso a quella più vicina. Alla fine del percorso, il maestro gli avrebbe concesso
un‟iğāza, ovvero un‟autorizzazione a insegnare la scienza appresa, la quale consisteva nella
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conoscenza di alcuni testi specifici di varia complessità e diffusione. Il valore dell‟autorizzazione


era strettamente connesso all‟autorità del maestro che l‟aveva conferita, il quale aveva cura di
annotarvi i nomi dei maestri e garanti della catena di trasmissione. Dopo averla ottenuta, il
discepolo teneva una lezione in presenza del maestro. Le lezioni avvenivano all‟interno di sessioni
di studio (mağālis) e in circoli (ḥalaqāt) inizialmente presenti in moschee, poi in altre sedi. Ancora
una volta, il fondamento del sapere rimaneva ancorato all‟insegnamento orale ricevuto durante una
lezione tenuta dal maestro, e all‟abilità dell‟allievo nel divulgarlo fino a divenire egli stesso uno
shaykh riconosciuto e apprezzato. Il miglior modo per acquisire la conoscenza di un testo o una
disciplina era, dunque, quello di apprenderla direttamente dalla fonte, unico modo per far sì che il
rapporto diretto maestro-discepolo venisse assicurato. Del resto, questo è ciò che avveniva già
nell‟Islam classico tra il Profeta e i Ṣaḥāba, la cui etimologia del termine indica proprio l‟esistenza
di un rapporto orizzontale fra i membri di una scuola di pensiero e un legame verticale fra questi e
un maestro. La geografia del sapere della civiltà arabo-islamica medievale era caratterizzata da una
concezione stanziale  perché derivante dalla relazione strutturale tra città e diffusione del sapere,
nonché garantita dalla presenza di istituzioni culturali quali biblioteche e madāris; e, al contempo,
errante  perché la città in cui era sorta una scuola legata alla figura di un maestro autorevole
diventava centro di attrazione per coloro che aspiravano ad apprenderne l‟insegnamento. Dato
imprescindibile della formazione intellettuale di ogni dotto diventa, dunque, il ṭalab fī’l-‘ilm. A tal
proposito, emblematica è la figura del sufi andaluso Ibn al-„Arabī (1165-1240), il quale partì da
Murcia e si diresse verso Siviglia, Tunisi, Fez, Cordova, Almeria, per poi spostarsi nuovamente a
Tunisi e al Cairo, Gerusalemme, Mecca, Baghdad ecc fino a Damasco, dove morì e in cui fu eretto
il suo mausoleo, ancora oggi meta di pellegrinaggio. Vi era, inoltre, una vera e propria selezione
nella trasmissione del sapere, consistente anche nella capacità di leggere tra le righe, non
concentrandosi solo su ciò che era scritto ma anche sul non detto. Quest‟abilità rimandava
all‟insegnamento tramandato oralmente dallo shaykh. Il “clima culturale” che dovettero
fronteggiare alcune scuole di pensiero sufi resero la trasmissione orale lo strumento più adatto alla
preservazione del proprio insegnamento: la necessità di evitare critiche e condanne da parte degli
ʿulamāʾ, così come le interpretazioni errate di chi non fosse adeguatamente preparato, fece sì che si
utilizzasse un linguaggio volutamente criptico, accessibile ai soli discepoli scelti, nonché
destinatari dell‟insegnamento orale del maestro. La silsila, ovvero la catena di maestri attraverso
cui si sono diffusi insegnamenti e dottrine attribuiti al Profeta, conferma la presenza di un vincolo
spirituale ininterrotto e il ricollegamento con la ṭarīqa. Inoltre, la silsila rappresenta il corrispettivo
spirituale dell‟isnād, ovvero la catena di trasmettitori di un ḥadīth.

 La formazione delle confraternite sufi


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Il sufismo trovò una forma organizzativa definitiva nel periodo storico dell‟Islam classico (622-
1598). Nato da un impulso presente nel Corano e nell‟insegnamento di Muhammad, fino al XII
secolo il sufismo rimase un movimento spirituale legato ad alcune figure di maestri che posero
l‟accento su temi ricorrenti nell‟Islam, quali la taqwà (timore di Dio), il takawwul (l‟abbandono in
Dio) e la muḥabba (l‟amore spirituale). Il rapporto tra maestro e discepolo nacque all‟interno delle
prime ṭā’ifa: lo shaykh è il murshid, ovvero la guida in grado di fornire una corretta direzione
spirituale (irshād); il discepolo è, invece, il murīd, cioè colui che desidera/l‟aspirante, o sālik,
l‟iniziato/colui che percorre la via. Il discepolo sarà, inoltre, indicato come faqīr per sottolineare la
povertà ontologica dell‟essere umano di fronte alla ricchezza di Dio. Significato analogo ha il
termine “derviscio” dal persiano darwish, mendicante/colui che sta alla porta. Il rapporto maestro-
discepolo è suggellato da un patto di affiliazione (‘ahd/bay’a) che ne sancisce la validità e prende
ispirazione da quello stipulato dal Profeta e i Ṣaḥāba. In origine, il patto di affiliazione era
affiancato dalla trasmissione della khirqa (mantello sufi), vale a dire dal passaggio simbolico
dell‟influsso spirituale dal maestro al discepolo mediante l‟investitura di quest‟ultimo con un
mantello, un turbante o un pezzo di stoffa. La khirqa poteva essere di due tipi:

1. Dell‟aspirante (khirqa al-irāda)  Implicava un grado d‟istruzione spirituale tale da


consentire al discepolo di diventare erede spirituale del proprio maestro;
2. Della benedizione (khirqa al-tabarruk)  Aveva la funzione di trasmettere un influsso
spirituale, per questo poteva essere ricevuta da diversi maestri senza comportare un reale
legame tra shaykh e discepolo.

Con l‟evoluzione dei primi raggruppamenti informali e l‟investitura dei discepoli, si completò il
processo di strutturazione e cristallizzazione di vere e proprie scuole di pensiero sufi, ovvero le
confraternite, le quali sorgevano intorno alla figura di un maestro eponimo. L‟affiliazione ad una
confraternita poteva nascere da motivazioni sociali, come nel caso di relazioni familiari
(l‟appartenenza ad una determinata ṭarīqa poteva essere tramandata di generazione in generazione);
oppure da motivazioni spirituali, come nel caso di adesione dettata dalla ricerca di un maestro che
accompagnasse il discepolo lungo il cammino iniziatico. Il rito primario è quello del wird (litania;
pl. awrād), il quale consiste nella recitazione, al mattino e alla sera, di una serie di formule, versetti
del Corano e nomi di Dio. Il wird, la cui etimologia rimanda al termine “abbeverata”, altro non è
che il nutrimento spirituale giornaliero del discepolo, sostiene la vita del sufi come la ṣalāt
scandisce la vita di ogni singolo musulmano. Il wird è solitamente tripartito:

1. Istiġfār  Formula di richiesta di perdono;


2. Al-ṣalāt ‘alā ‘l-nabī  Preghiera rivolta al Profeta;
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3. Tahlīl  Affermazione dell‟unità divina.

Queste formule, nel loro insieme, riassumono un cammino spirituale compiuto: la purificazione
dell‟anima, l‟identificazione con il Profeta (al-insān al-kāmil) e l‟annullamento del proprio ego
mediante l‟estinzione in Dio (fanā’). Le tre formule sono accompagnate dalla recitazione di sure o
particolari passi del Corano, e dalla ripetizione di alcuni dei 99 nomi di Dio. Il numero di volte in
cui deve essere ripetuta la litania è stabilita dal maestro, sotto la cui sorveglianza spirituale è fatta
seguire la pratica. In alcune confraternite, il maestro prescrive una litania specifica a ciascun
discepolo, al-wird al-khāṣṣ, in aggiunta alla litania comune, al-wird al-’āmm. Nella pratica sufi,
centrale è il concetto di dhikr (ricordo, menzione, invocazione), termine di derivazione coranica che
nel sufismo viene utilizzato per indicare la recitazione delle formule che costituiscono il wird e
consistono nella ripetizione di uno dei nomi di Dio secondo le modalità della confraternita di
appartenenza. Il conteggio di queste formule viene praticato con un rosario sufi (sibḥa, tasbīḥ). Vi
sono due tipi di dhikr:

1. Dhikr ğahrī o ğalī, ovvero sonoro o palese;


2. Dhikr khafī o qalbī, cioè occulto o del cuore.

Il dhikr è, al contempo, rito individuale giornaliero e alla base delle sessioni rituali collettive delle
confraternite, chiamate anche ḥaḍra (presenza) o ‘imāra (pienezza). Si tratta di celebrazioni tipiche
di ogni ṭarīqa, le cui modalità differiscono ma il cui scopo è sempre lo stesso: avvicinarsi a Dio
tramite il suo ricordo (dhikr). Le sessioni dell‟invocazione del nome di Dio si accompagnano al
canto di componimenti poetici sacri e da movimenti del corpo variabili e strettamente legati a
precisi esercizi respiratori. In alcuni casi, vengono coinvolti anche strumenti musicali e battito di
mani. Il termine ḥaḍra sta ad indicare la presenza di Dio, accanto a quella dei maestri della silsila o
dei murīd che partecipano alla cerimonia. Il termine samā’ fa, invece, riferimento all‟audizione
spirituale, ovvero all‟ascolto di poemi sacri salmodiati dai cantori sufi (munshidūn), in grado di
rapire il murīd e di fargli assaporare (dhawq) uno stato spirituale (ḥāl) temporaneo, definito estasi
mistica. Le ḥaḍra possono essere eseguite a cadenza fissa, oppure in occasione di alcune ricorrenze
del calendario religioso musulmano, come la celebrazione del mawlīd al-nabī o della nascita di
santi sufi. Alcuni rituali sufi, per esempio quello dei dervisci roteanti, impressionarono i
viaggiatori europei nei territori dell‟impero ottomano tra il XVIII e il XIX secolo. Altra pratica
distintiva del sufismo classico era la siyāḥa, cioè una forma di isolamento, una sorta di
peregrinazione senza fine da effettuare in solitudine per meditare sulla creazione alla ricerca di un
maestro, oppure in compagnia del proprio shaykh per fortificare il legame di affiliazione spirituale.
Diversa è, invece, la khalwa (isolamento), cioè una pratica di ritiro spirituale che consente di
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raggiungere un‟apertura spirituale (fatḥ) o illuminazione attraverso un dhikr ininterrotto e


interiorizzato. I sufi sono soliti far risalire l‟origine della khalwa ai frequenti ritiri compiuti da
Muhammad nella grotta di Ḥirāʾ sul Jabal al-Nūr, prima di ricevere la rivelazione coranica.
Tuttavia, solo in rari casi i maestri sufi si dedicarono a una vita ascetica. Al contrario, vita
comunitaria e attività sociale furono fattori di grande importanza per la diffusione delle dottrine e
pratiche sufi. Nel corso del XX secolo, a causa della difficoltà di praticarla in una società dai ritmi
ormai più vivaci o per necessità di difendersi dalle accuse di quietismo, la khalwa venne abolita da
molte confraternite oppure sostituita. La diffusione e il consolidamento del sufismo portò alla
formazione di diverse istituzioni sufi:

- La zāwiya  edificio destinato all‟insegnamento dottrinale e alla residenza del maestro


spirituale;
- La khānqāh e il ribāṭ  ostelli destinati ai sufi che si mettevano in viaggio, muniti di sale
per la preghiera comune e di celle per la khalwa. Il ribāṭ nel corso dei secoli si trasformò in
un luogo di ritiro spirituale, aperto anche alla presenza femminile e successivamente
convertito in ospizio per i poveri e per gli anziani. La khānqāh, di origine persiana, venne
introdotta nel mondo arabo dagli Ayyubidi. Per secoli svolse una funzione analoga a quella
della madrasa, cioè di un‟istituzione in cui venivano insegnate teorie e pratiche del sufismo,
sotto il controllo di ‘ulama retribuiti dallo stato. Il sultano Saladino si mostrò
particolarmente aperto al sufismo, infatti, nel 1173 promosse la diffusione delle
confraternite e fondò al Cairo la prima khānqāh con funzione di ostello, la quale divenne
presto il fulcro del sufismo egiziano. Ayyubidi e Mamelucchi attuarono una politica
d‟accoglienza nei confronti dei maestri sufi; il periodo finale dell‟epoca mamelucca (1250-
1517) rappresentò il vertice della fusione delle discipline teologico-giuridiche con le dottrine
del sufismo, tanto da poter parlare di una complementarietà della funzione sociale e
spirituale dei più celebri ‘ulama e dei maestri sufi.

Di queste istituzioni, solo la zāwiya ha conservato fino ad oggi la sua funzione originaria; spesso, la
zāwiya madre sorgeva nei pressi del maqām (mausoleo) del maestro fondatore della confraternita,
ed è per questo meta della ziyāra (visita pia), tappa essenziale del culto dei santi. La vitalità di tale
culto è testimoniata dal continuo sorgere di nuovi maqām, con la conseguente fioritura di pratiche di
devozione legate al loro culto, come le preghiere volte a ottenere l‟intercessione presso Dio e la
celebrazione di cerimonie commemorative legate alla vita del santo stesso. I pellegrinaggi presso le
tombe degli awliyā rappresentavano delle forme di contatto con il sacro alla portata di tutti, il che
era molto significativo se pensiamo che fino all‟epoca moderna non tutti i musulmani potevano

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permettersi di ottemperare all‟obbligo del pellegrinaggio alla Mecca. Erede del Profeta, il santo sufi
è un modello esemplare di condotta e spiritualità del mondo musulmano contemporaneo, nonché
messaggero di una baraka sull‟intera comunità. Il maestro è il simbolo vivente del Profeta stesso.
Dal momento in cui stringe il patto con il proprio maestro, al murīd sono richieste lealtà, sincerità e
‘aqīda, ovvero il fondamento dottrinale, quest‟ultima indispensabile per proseguire lungo il
cammino spirituale. Generalmente, il fondamento del rapporto tra murīd e shaykh viene individuato
in Corano, 18:60-82, in cui si narra l‟incontro tra Mosè e Khiḍr, detentore di un sapere nascosto a
cui Mosè viene iniziato. Khiḍr è un essere immortale che si manifesta a esseri privilegiati in
circostanze particolari; rappresenta l‟archetipo del maestro sufi, colui che è in grado di condurre il
discepolo a un livello di conoscenza precluso alla maggior parte dei musulmani. Questo passo
coranico illustra in maniera esemplare un tema fondamentale del sufismo: la contrapposizione tra
exoterico (ẓāhir), dunque l‟aspetto esteriore delle cose, ed esoterico (bāṭin), l‟aspetto celato della
realtà. Ciò che viene descritto nella sura 18 rappresenta per i sufi la prova dell‟esistenza delle
karamāt (miracoli) dei santi, accanto al disvelamento delle verità celate attraverso un‟ispirazione
diretta chiamata ilhām, diversa dal waḥy, l‟ispirazione profetica. L‟adab, sin dal IV secolo
dell‟egira, regolò i rapporti tra discepolo e maestro sul modello offerto dai Compagni verso il
Profeta e da Mosè verso Khiḍr. Tuttavia, la venerazione mostrata dal discepolo verso il proprio
maestro è stata, spesso, interpretata come una forma di shirk. Nel caso di confraternite che abbiano
conosciuto una grande diffusione geografica, si è resa necessaria da parte del maestro l‟adozione di
un sistema di deleghe, tramite la nomina di propri rappresentanti, muqaddam. Al muqaddam viene
conferita un‟ijāza a trasmettere il wird della propria ṭarīqa a nuovi discepoli, mentre a coloro i quali
sono ritenuti più adatti a svolgere una funzione di guida spirituale, il maestro affida l‟incarico di
murshid. Un maestro può nominare o meno il proprio khalifa; nei casi di mancata investitura
formale, uno dei suoi muqaddam può assumere il ruolo di successore esclusivo, anche se più volte è
capitato che questi dessero vita a ramificazioni indipendenti. Chi si limita a diffondere un influsso
spirituale e una pratica spirituale viene definito shaykh al-baraka o shaykh al-tabarruk, mentre chi
assume l‟effettiva guida dei propri discepoli viene chiamato shaykh al-sālikīn. Più raramente, è
accaduto che alla morte del maestro la confraternita si estinguesse. La germinazione di nuove
ramificazioni sufi da una via originaria trova la propria rappresentazione nel cerchio:

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 Le confraternite dell‟Islam classico

Nel corso della sua esistenza, solo ai Ṣaḥāba il Profeta riservò un insegnamento esoterico. Egli era,
infatti, solito ripetere che bisognasse adattare i discorsi all‟interlocutore, per questo motivo usava
rispondere in maniera diversa ad una stessa domanda a seconda del grado spirituale della
controparte. Tra i suoi compagni, coloro che svolsero un ruolo fondamentale nella trasmissione
della sapienza sufi furono Abu Bakr al-Ṣiddīq (573-634) e „Ali ibn Abī Ṭālib (599-634). La via di
Abu Bakr prese il nome di Bakriyya, quella di „Ali prese il nome di ‘Alawiyya. Le confraternite sufi,
dunque, sono rami di uno stesso albero genealogico, talvolta intrecciati tra loro, ma con le radici
nell‟insegnamento impartito dal Profeta. La maggior parte delle confraternite prende il nome da un
maestro eponimo, iniziatore reale o ideale degli insegnamenti dottrinali e delle pratiche rituali
specifiche di ciascun ordine.

- La prima confraternita, in termini cronologici, a costituirsi fu la Qādiriyya. Il fondatore


eponimo fu ʿAbd al-Qādir al-Gīlānī (m. 1161) che, nato nella regione persiana del Gīlān, si
era recato a Baghdad all‟età di diciassette anni al fine di studiare la scienza degli aḥādīth e il
fiqh. Ricevette la khirqa da al-Mukharrimī, giurista hanbalita e fondatore della prima scuola
hanbalita di Baghdad. Dopo aver passato 25 anni nel deserto, al-Gīlānī ebbe una vita sociale
attiva a Baghdad e il suo insegnamento attirò numerosi discepoli. Le numerose ramificazioni
germinatesi nel corso dei secoli fanno ancora oggi di questa una delle confraternite più
diffuse.
- Sempre a Baghdad ebbero origine altre due confraternite: la Suhrawardiyya, da al-
Suhrawardī, (1155-1191) destinata a diffondersi verso Oriente e soprattutto nel
Subcontinente indiano, e la Rifā‟iyya, da al-Rifā‟ī (m. 1118-1182). Gli adepti della
Rifā‟iyya vengono definiti dervisci urlanti, a causa del dhikr pronunciato con grande forza.
Si distinguevano, inoltre, per alcune pratiche diffusesi alla morte di al-Rifā‟ī, che divennero
aspetto caratterizzante di tale ṭarīqa nonostante non fossero mai stato prescritte dal maestro:
camminare sui tizzoni ardenti, ingerire serpenti e trafiggere il proprio corpo con coltelli.
Questi esercizi avevano lo scopo di mettere in evidenza lo stato spirituale (ḥāl) raggiunto dal
discepolo, al punto da non fargli avvertire alcun dolore fisico.
- La confraternita di origine anatolica Mevleviye richiama gli insegnamenti di Jalāl al-Dīn al-
Rūmī e all‟appellativo di Mevlānā (nostro signore) conferitogli dai discepoli. I suoi
discepoli vengono chiamati dervisci roteanti, per la popolarità della complessa cerimonia
del sema (samā’).

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- In Africa settentrionale continua a rivestire grande popolarità la Shādhiliyya del maestro


marocchino Abu l-Ḥasan al-Shadhilī (1196-1258), che viaggiò in oriente alla ricerca del
quṭb, il polo spirituale del tempo. „Abd al-Salām ibn Bashīsh (m. 1228) fu il suo maestro.
Al-Shadhilī si stabilì in Ifrīqiya e successivamente ad Alessandria d‟Egitto, da dove diffuse
il proprio insegnamento viaggiando attraverso l‟Egitto e praticando il ḥajj quasi
annualmente.
- La confraternita Naqshbandiyya, dal maestro eponimo Naqshband (1318-1389), prese il
suo nome (incidere il nome di Dio nel proprio cuore), dalla pratica dell‟invocazione del
cuore (qalbī/khafī). Fu una confraternita turca d‟espressione persiana, sparsa tra i popoli di
lingua turca e persiana e nel Subcontinente indiano.
- La Bektāshiyya fu la confraternita di appartenenza del corpo di fanteria dei giannizzeri,
fulcro della potenza militare turca fino alla loro soppressione avvenuta nel 1826 per mano di
Mahmut II.
- Nel Subcontinente indiano la confraternita Cishtiyya si richiama a Muʿīn al-Dīn Chishtī
(1141-1236), il cui mausoleo ad Ajmer, in India, continua a essere tra i più celebri e visitati.

 Sufismo e anti-sufismo nelle società islamiche premoderne

Le confraternite sufi svolsero un ruolo centrale nello sviluppo della cultura islamica. I maestri sufi
erano annoverati nella categoria generica di ‘ulama: lo shaykh spesso era contemporaneamente un
muḥaddith, un faqīh e un mutakallim. Tra il XII e il XIV secolo il consolidamento delle
confraternite all‟interno dell‟impero arabo-islamico coincise con l‟islamizzazione dei Paesi
conquistati da imperi e dinastie musulmane in Nord Africa, Asia e Subcontinente indiano; lo stesso
accadde tra il XIV e il XVI secolo con la seconda ondata di islamizzazione di massa in Africa
subsahariana e il Sud-est asiatico. Le confraternite si schierarono, a volte, contro il potere costituito,
altre invece vi si aggregarono, come nel caso dell‟impero ottomano. I casi più emblematici della
diatriba tra sufi e oppositori sono quelli che ruotano intorno alle figure di al-Ḥallaj (857-922) e Ibn
ʿArabī (1165-1240). Il processo intentato contro al-Ḥallaj viene considerato un vero e proprio
spartiacque, giacché le generazioni sufi successive si sarebbero comportate con maggiore cautela,
cercando di non rivelare in pubblico dottrine esoteriche di loro stretta pertinenza. La dichiarazione
estatica attribuita ad al-Ḥallaj che, secondo la tradizione popolare, gli avrebbe valso la condanna a
morte fu “ana al-Ḥaqq”, ovvero “io sono Dio”, essendo al-ḥaqq uno dei 99 nomi di Dio. In realtà,
egli fu condannato per un‟altra asserzione estatica con la quale invitava a compiere la
circumambulazione (ṭawāf) intorno al proprio cuore, piuttosto che intorno alla Ka‟ba. Secondo
l‟interpretazione letterale di questa affermazione, egli avrebbe giudicato superfluo uno dei cinque
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pilastri dell‟Islam. La vicenda di al-Ḥallaj si colloca in periodo abbaside (750-1258), durante il


quale il sufismo era emerso quale prova di una religiosità islamica contraria sia alle tendenze
mondane della vita di corte, sia al rigido letteralismo dei giuristi. In tal senso, al-Ḥallaj rappresenta
il più alto esponente della corrente del sufismo ebbro, tesa al superamento della lettera e alla
conoscenza delle verità interiori per il tramite di shaṭḥāt, ovvero affermazioni estatiche, proprie
della corrente sufi dei malāmatī, la gente del biasimo, sufi che nascondevano il proprio grado
spirituale agendo in modo ordinario o andando contro le regole esteriori della legge religiosa, così
da suscitare il biasimo (malāma) altrui. Al-Ḥallaj fu un predicatore girovago, il suo notevole seguito
popolare gli procurò la fama di agitatore e venne arrestato per la prima volta all‟età di 30 anni.
Trascorse due anni alla Mecca pregando e meditando, durante i quali predisse il suo destino di
martire e l‟estinzione (fanā’) del proprio ego di amante, mediante l‟estinzione dell‟Amato (“[…]
non c’è più differenza, perché Tu sei me.”). Dopo il suo ritorno a Baghdad, i suoi antagonisti
istituirono un processo contro di lui che non produsse alcun esito, poiché Ibn Surayj sentenziò che
le dottrine interiori dell‟accusato non erano giudicabili secondo la giurisprudenza esteriore. Al-
Ḥallaj, però, fu trattenuto nel palazzo del califfo per nove anni affinché gli fosse impedita la
predicazione pubblica fino al 922, anno in cui venne messo al patibolo. Il 26 marzo 922, dopo che
gli vennero amputati mani e piedi, al-Ḥallaj fu issato su una croce da cui sarebbe stato deposto il
giorno dopo per venire decapitato. Le sue spoglie furono bruciate e le sue ceneri gettate al vento da
un minareto. La passione di al-Ḥallaj presenta molte similitudini con quella cristiana, tanto da
meritargli, in occidente, l‟appellativo di “Cristo dell‟Islam”. Nei paesi islamici, invece, venne
ricordato come “il cardatore di cuori”, richiamo al suo stesso nome (Ḥallaj=cardatore) e al mestiere
del padre che fu un cardatore di cotone. Ibn ʿArabī, al contrario, fu vittima di una sentenza postuma:
mentre era in vita godette dell‟appoggio di numerosi dotti, e solo dopo la sua morte Ibn Taymiyya
(1263-1328) pose le basi per una polemica giunta fino ai giorni nostri. Gli Ottomani incoraggiarono
lo studio delle dottrine sufi all‟interno delle madrasa dell‟impero e istituirono la figura di shaykh al-
Islam, la massima autorità religiosa e muftī della capitale, Istanbul. Ibn Kamal Pascià (1468-1534),
portatore di questa carica, emise una fatwa che dichiarava l‟ortodossia della dottrina della waḥdat
al-wujūd di Ibn ʿArabī, cioè dell‟unicità dell‟esistenza. I sultani Selim I, Solimano il Magnifico e i
loro successori salvaguardarono, dunque, il pensiero del maestro andaluso e repressero le opinioni
dei suoi nemici. Dopo la conquista di Damasco nel 1516, Selim I edificò un nuovo mausoleo per
Ibn ʿArabī.

 L‟anomalia wahhabita e il “neo-sufismo”

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Il wahhabismo fu il primo movimento religioso islamico antisufi, nonché pioniere del radicalismo
islamico contemporaneo. Ibn „Abd al-Wahhāb (1703-1796), originario del Najd, fu il suo ideatore e
fautore di una versione teologicamente e dottrinalmente semplificata dell‟Islam che si poneva
l‟obiettivo primario di abolire le pratiche e le dottrine islamiche consolidatesi nei secoli,
sostituendole con un‟interpretazione letterale del Corano e della sunna. Al-Wahhāb e i suoi
discepoli erano considerati colpevoli di aver lanciato un takfīr (da kāfir, cioè un‟accusa rivolta a
qualcuno di essere un miscredente) contro coloro che non si attenevano alla loro interpretazione
rigorista. I sufi, in particolare, venivano accusati di avere introdotto delle innovazioni riprovevoli
(bid’a), prova di una deviazione dalla corretta dottrina dell‟unicità di Dio. Prima della diffusione
delle teorie wahhabite, le critiche antisufi avevano riguardato soltanto particolari pratiche o dottrine
adottate da singole confraternite ed esponenti, senza mai tradursi in una condanna generale del
sufismo. Il XVIII secolo rappresentò un periodo di rinnovamento per il mondo musulmano, le
ricerche su questo periodo giungono alla definizione di “neo-sufismo”, coniato dagli studiosi
orientalisti impregnati dell‟ideologia coloniale dell‟inizio del XX secolo. Il termine veniva
utilizzato per definire le innovazioni organizzative di alcune confraternite sufi in specifiche regioni
del mondo musulmano. Il neo-sufismo si diffuse tramite le zāwiya e le altre varie forme di
aggregazione sociale. Aḥmad Ibn Idrīs ( 1749/50-1837), uno dei maggiori esponenti del cosiddetto
movimento neo-sufi, era considerato uno tra i più eminenti maestri sufi del Marocco, celebre per le
sue lezioni su sufismo e dottrina in cui criticava alcune pratiche eccessive nella venerazione dei
santi. Il suo insegnamento raccolse un gruppo numeroso di discepoli da egli definito al-ṭarīqa
Muḥammadiyya al-Aḥmadiyya, per sottolineare il legame diretto con il Profeta. Con il wahhabismo
condivise un giudizio negativo sul fanatismo delle scuole giuridiche. A differenza del wahhabismo,
però, non condannava Ibn ʿArabī e, inoltre, i suoi discepoli si dedicavano a pratiche rituali proprie
del sufismo, come il dhikr e la ḥaḍra. Differivano anche le loro visioni riguardo il ruolo del Profeta:
per Ibn Idrīs il Profeta si sarebbe manifestato attraverso una visione a coloro che procedevano lungo
la via spirituale per guidarne i passi; per i wahhabiti, invece, non era contemplata alcuna possibilità
di essere ispirati da Muhammad. Alla morte di Ibn Idrīs, i suoi discepoli costituirono delle
confraternite autonome.

2 – Sufismo e modernità

 Il sufismo attraverso colonialismo e orientalismo

Nella rappresentazione dell‟Altro elaborata dall‟orientalismo, necessaria per legittimare e rafforzare


il progetto imperialista e coloniale, il sufismo e le confraternite vengono visti come restii

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all‟assimilazione del mito europeo del progresso. Tale legittimazione avvenne tramite la narrazione
di una leggenda nera delle confraternite sufi o tramite la coniazione dell‟espressione neo-sufismo.
Ciò che successe è che le confraternite sufi rappresentarono una resistenza alla penetrazione
coloniale. L‟Altro, nella raffigurazione orientalista, era figurato come primitivo, superstizioso,
legato indissolubilmente alle proprie tradizioni, dunque incompatibile con l‟opera “civilizzatrice”
degli imperi coloniali. Gli orientalisti riconobbero il sufismo come una corrente spirituale distinta
dalla religione islamica, il che avrebbe avuto delle ripercussioni non solo sulle ricerche
accademiche successive, ma anche sui movimenti del riformismo islamico, i quali arrivarono a
stigmatizzare il sufismo come qualcosa di estraneo alla religione islamica, nonché causa della
decadenza in atto nel mondo musulmano. Il sufismo venne descritto dagli orientalisti nei suoi tratti
più stravaganti, così da risultare esempio dell‟incompatibilità fra la spiritualità orientale e il
razionalismo europeo. Le manifestazioni sufi più estreme – i fachiri, i marabutti, i pazzi di Dio –
alimentarono fantasie occidentali su un Oriente ancora associato a tradizioni superstiziose. Il
sufismo venne scoperto da degli orientalisti britannici legati alla Compagnia delle Indie. La visione
orientalista identificava nel sufismo una corrente mistica profondamente influenzata dall‟induismo,
i cui adepti avrebbero preferito ai principi e alle pratiche religiose delle poesie inneggianti al vino. Il
vino d‟amore costituì un tema ricorrente della poesia sufi in lingua persiana di Rumi (1207-1273),
di Ḥāfeẓ (1315-1390) e di molti altri. In Rumi, l‟ebrezza causata dal vino allude a un grado di
conoscenza esoterica cui si può accedere non attraverso un‟investigazione razionale, bensì mediante
un disvelamento spirituale (kashf), modalità privilegiata del sufi lungo il cammino spirituale. Le
ricerche attuali sul sufismo si concentrarono sul confronto tra potenze coloniali europee e
confraternite del mondo arabo. L‟invasione dell‟Egitto da parte di Napoleone Bonaparte nel 1798 fu
essenziale per lo scontro tra valori occidentali e quelli della civiltà islamica. Mehmet Ali mostrò
interesse per le opere di carattere scientifico e tecnologico pubblicate in Europa, al punto da
commissionarne la traduzione in arabo. Nel 1826 una delegazione di studiosi egiziani si recò a
Parigi, tra loro vi fu pure al-Tahtāwī, il quale annoverava tra i propri antenati vari santi sufi e il
quale a partire dal 1836 avrebbe diretto la Scuola di lingue. Nella sua Descrizione di Parigi emerse
la sua ammirazione per l‟elevato livello tecnologico raggiunto dalla Francia e per le sue istituzioni
politiche e amministrative a cui l‟Egitto avrebbe dovuto ispirarsi. Nel XIX secolo in Egitto gli
‘ulama erano ancora impregnati di cultura sufi, fu solo alla fine del secolo che vi sarà un
ripensamento al riguardo: non sarebbe stato più considerato un elemento su cui basare la rinascita
del mondo islamico, bensì elemento determinante della sua decadenza. Fu nel clima della crescente
penetrazione coloniale europea nei territori dell‟Impero Ottomano che si sviluppò il dibattito sul
sufismo e le sue confraternite e sulla loro adattabilità alle teorie sociali europee. I lavori

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monografici di questo periodo costituirono una duplice fonte di informazione giacché, pur trattando
il sufismo da un punto di vista dottrinale e storico, avevano l‟obiettivo primario di censire le
confraternite esistenti secondo la dislocazione e il ruolo politico esercitato. Tali opere, però,
presentavano una serie di stereotipi che avrebbero condizionato per più di un secolo gli studi sulle
società islamiche contemporanee, influenzando anche gli esponenti del riformismo islamico. Uno
dei cliché più comuni riguardava la dicotomia Islam rurale, tipico delle confraternite, e Islam
urbano, appartenente ai dotti. In Marabouts et Khousans, Louis Rinn descrive l‟Algeria come un
Paese dove a un “clero religioso” senza autorità si contrappongono marabutti e santi sufi. Il termine
marabutto, termine con cui si definivano i santi sufi, dall‟arabo murābiṭ, abitante del ribāṭ, finì con
l‟acquisire una valenza negativa perché associata al “marabuttismo”, una forma religiosa
oscurantista, basata su superstizioni popolari sfruttate politicamente. Secondo Rinn, la presenza del
sufismo nella società algerina era dovuta all‟ignoranza propria di discepoli superstiziosi (khwān)
che venivano sfruttati dai maestri per i propri giochi di potere. Egli, oltre a mostrare una prospettiva
favorevole alla penetrazione coloniale tipica della letteratura di sorveglianza, proponeva di creare
in ogni città algerina una moschea ufficiale con un imām salariato dal governo così che si potesse
realizzare la trasformazione della società musulmana, portando alla progressiva scomparsa dei
discepoli sufi. Depont e Coppolani, nel loro volume, descrivono le istituzioni delle confraternite sufi
come uno Stato nello Stato, i cui rappresentanti sono interessati solo esclusivamente ai propri
interessi materiali. L‟autorità dei marabutti avrebbe permesso l‟accumulo di ricchezze grazie alle
donazioni dei discepoli, le zāwiya erano focolai di fanatismo. Esistevano, però, anche dei maestri
sufi accondiscendenti al potere coloniale. Le confraternite censite furono più di quaranta e non
avevano nulla in comune. Queste rappresentavano un vero e proprio governo occulto, in cui il
simbolo della fede si sostituiva a un‟idea di patria assente. Nella letteratura di sorveglianza spiccava
l‟urgenza di trasformare la spiritualità delle masse ignoranti, in questo progetto le autorità coloniali
francesi avrebbero aiutato un clero secolare distribuito in nuove madrasa, con nuovi imām,
imbevuti delle loro idee. Anche Ernest Renan giudicava la religione islamica incompatibile con la
civiltà moderna, perché vincolata a tradizioni religiose accolte passivamente e acriticamente.
Secondo Renan, i più celebri filosofi e scienziati arabo-musulmani non erano né arabi né
musulmani. Questa visione scatenò un dibattito con al-Afgani (1838-1897), che si produsse in una
difesa della compatibilità tra Islam e scienza. Il filosofo britannico Herbert Spencer, influenzato da
Darwin, elaborò una teoria evoluzionista in campo sociale, secondo cui la civiltà occidentale
incarnava il livello più elevato di evoluzione sociale. In questo quadro rientra anche Louis Petit, il
quale sosteneva che i sufi avessero un ruolo subalterno nel mondo musulmano, per cui dervisci e
confratelli sufi rappresentavano una religiosità primordiale, scandita dalla ripetizione monotona di

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litanie. I sufi potevano esercitare un‟influenza solo sulle masse illetterate, dunque in contesto
nomadico. La nascita di alcune confraternite durante l‟invasione coloniale fu fatta derivare
dall‟urgenza di creare delle organizzazioni di resistenza, per cui queste erano guardate con sospetto.
Al contrario, i movimenti riformisti sorti tra la fine del XIX secolo e l‟inizio del XX secolo gli
avanzarono l‟accusa di tolleranza e tacito consenso al potere coloniale. In realtà, movimenti di
ispirazione sufi diedero vita a veri e propri jihâd difensivi. L‟imām shaykh Mansur, già a partire dal
1785, aveva trasmesso un‟impronta sufi ai movimenti di resistenza contro le incursioni russe nel
Caucaso settentrionale. I comandanti della resistenza caucasica furono affiliati alla confraternita
Naqshbandiyya Khalidiyya, il più noto dei quali fu Shāmil. La figura più eminente della resistenza
anticoloniale algerina fu „Abd al-Qādir, affiliato sia alla confraternita Shādhiliyya che alla
Naqshbandiyya. Egli fu anche un esperto di esegesi coranica, più volte dedito al commento di testi
dottrinali e orazioni sufi. Nonostante alcune confraternite funsero addirittura da protezione contro i
colonizzatori, ad esempio la Tijāniyya, vennero mosse delle accuse di condiscendenza nei confronti
degli occupanti francesi contro alcuni ordini sufi. Ve ne furono alcune, però, che intrattennero
rapporti ambivalenti con il potere coloniale, ad esempio le confraternite fondate dai discepoli del
sufi marocchino Ibn Idris; altre assunsero una posizione di collaborazionismo; altre ancora si posero
alla testa della resistenza, come nel caso della ṭarīqa somala Sālihiyyah, di cui il khalifa Mad
Mullah guidò la resistenza somala fino al 1920, subendo la sconfitta per mano dei britannici. Anche
durante la guerra italo-turca del 1911-1912 fu la Sanūsiyya a condurre la resistenza contro
l‟invasione italiana della Cirenaica e della Tripolitania. Infine, nel corso della seconda guerra italo-
senussa (1923-1932) la guerriglia anti-italiana fu guidata dalle zāwiya e dai capi tribali, tra i quali
emerse al-Mukhtār, impiccato dagli italiani nel 1931.

 La trasmissione del sapere tradizionale e l‟avvento della stampa

Un‟altra critica anti-sufi riguardò il loro atteggiamento di conservatorismo nei confronti delle
Tanzimât, politica attuata dall‟Impero Ottomano. Nel corso del XIX secolo, molti paesi islamici
avevano subito dei profondi mutamenti sul piano economico, sociale e culturale. I cambiamenti in
ambito economico favorirono l‟ascesa di una nuova élite di mercanti europei, i quali gestivano il
commercio transnazionale a scapito dei piccoli commercianti locali e dei nomadi. La innovazioni
tecnologiche importate dall‟Occidente furono cruciali nella trasformazione dei sistemi educativi e
nell‟evoluzione di nuovi modelli sociali. Sul piano culturale, le principali modifiche riguardarono
l‟istituzione di scuole ispirate a modello europeo, l‟introduzione della stampa, la traduzione di libri
dall‟inglese e dal francese e i viaggi in Europa da parte delle classi sociali più agiate. Nacque un
élite di intellettuali legati agli ambienti europei o, in alcuni casi, formatisi proprio in Europa.

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L‟innovazione di maggiore impatto fu la stampa. In Paesi ancora formalmente indipendenti, ma


sotto la minaccia europea, le tipografie furono introdotte nella prima metà del XIX secolo,
raggiungendo una più larga diffusione solo nella seconda metà del secolo. L‟introduzione della
stampa nel mondo musulmano avvenne con notevole ritardo rispetto al mondo cristiano. Vi erano
vere e proprie difficoltà di natura tecnica nel riprodurre i caratteri arabi che non erano state ancora
risolte: tra il 1537 e il 1538 si tentò di pubblicare Il Corano presso la stampa Ad signum putei di
Venezia da Alessandro Paganino, tuttavia l‟impresa si risolse con un insuccesso per via degli errori
tipografici e il fallimento della stessa stamperia. La diffidenza dei musulmani nei confronti della
stampa affondava le radici nel timore che questa potesse scardinare l‟intero sistema di trasmissione
del sapere, mettendo in discussione il fondamento stesso di una conoscenza veritiera e il principio di
autorevolezza delle fonti. Con l‟avvento della stampa l‟insegnamento orale e il rapporto privilegiato
maestro-discepolo veniva meno. Gli „ulama decisero di incoraggiare la diffusione della stampa al
fine di accrescere la propria influenza sul piano religioso e compensare l‟indebolimento del proprio
potere politico. I dotti progettarono di servirsi della stampa per rafforzare il proprio controllo del
sistema educativo, evitando di restarne esclusi e ritenendo che l‟introduzione di testi stampati non
implicasse l‟abbandono delle modalità di trasmissione orale del sapere. Tuttavia, lo stesso utilizzo
della stampa minava l‟autorità degli „ulama poiché la possibilità di consultare liberamente un testo
rendeva l‟ijāza obsoleta. Divenne dunque necessario stabilire chi fossero i legittimi detentori
dell‟autorità religiosa. Le confraternite sufi furono promotrici della stampa, giacché ne intuirono le
potenzialità relative alla divulgazione di insegnamenti. Gli ordini sufi vantavano un mercato sparso
di lettori in vari Paesi islamici, il che rendeva finanziariamente poco rischiosa la pubblicazione dei
testi sufi nei principali centri urbani.

 L‟emergere del riformismo islamico e il ruolo delle confraternite nel XX secolo

Le trasformazioni avvenute tra il XIX e il XX secolo fecero emergere una nuova classe di „ulama,
definiti modernisti o riformisti, i quali posero al centro del dibattito intellettuale e religioso il tema
della compatibilità dell‟Islam con il progresso scientifico, del rinnovamento della società islamica e
di una riapertura della porta dell‟iǧtihād. Il sufismo e le sue confraternite vennero considerate alla
stregua di reliquie del passato e pronte ad essere sostituite da nuove forme associative di stampo
nazionalista. I giornali e la stampa giocarono un ruolo essenziale nella nascita di “comunità
immaginate”, ovvero delle élite culturali influenzate dal mito del progresso tecnologico e da un
nazionalismo diverso dalle pratiche d‟aggregazione del passato, nonché forgiate dalle muove scuole
coloniali dell‟Impero ottomano emerse alla fine del XIX secolo. I fattori responsabili del declino
delle confraternite sufi furono di natura economica, sociale e politica. All‟inizio del XX secolo il

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ruolo del sufismo venne messo in discussione anche dai movimenti riformisti, soprattutto dal
movimento della salafiyya. Quest‟ultimo proponeva un ritorno all‟Islam delle origini attraverso
un‟interpretazione letterale del Corano. La responsabilità del declino del mondo musulmano veniva
attribuita in egual misura alle autorità politiche e alle confraternite: le prime ritenute colpevoli di
avere imposto riforme laiche riprovevoli, le seconde di avere introdotto delle innovazioni (bid’a). In
un primo momento, la salafiyya incluse sia esponenti del riformismo (Iṣlāḥ), sia figure che
avrebbero influenzato gli sviluppi successivi del movimento, ad esempio Muhammad Abdu e
Rashīd Rida, i quali riguardo al sufismo avevano idee molto simili a quelle dei wahhabiti. Tuttavia,
il rapporto tra capo e seguaci dei movimenti riformisti ravvisava un chiaro influsso sufi. La stessa
associazione dei Fratelli Musulmani ricorreva ad una terminologia mutata dalle confraternite sufi: il
capo dell‟organizzazione era chiamato al-murshid al-’āmm, l‟adesione avveniva attraverso un patto
(bay’a) e chi aderiva era tenuto a recitare un‟orazione giornaliera (wird). Al-Bannā era affiliato alla
ṭarīqa Ḥiṣāfiyya Shādhiliyya. Persisteva, dunque, un legame ideale col sufismo. Temi chiave della
letteratura coloniale, come il culto dei santi e la dicotomia tra un Islam colto e un Islam popolare,
vennero ripresi da diversi studiosi orientalisti. Clifford Geertz tracciò un ritratto del maestro sufi
marocchino Lahsen Lyusi, descritto come un tipico marabutto, archetipo di una religiosità popolare
contrapposta all‟Islam scritturale. In realtà, Lyusi fu anche autore di trattati dottrinali sufi, dove
smentiva gli schemi dicotomici orientalisti. In quest‟ottica, il culto dei santi fu accostato a una
forma corrotta d‟Islam, che associava le figure più rappresentative del sufismo a leggende prive di
fondamento storico o, addirittura, connessi a pratiche di culto preislamiche. Si affermava ancora una
volta il pregiudizio riguardo un sufismo capace di radicarsi soltanto nelle società contadine, per le
quali le confraternite si identificavano con una forma di mediazione politica e religiosa. In realtà, il
sufismo non smise di diffondersi sia nei centri urbani che nelle aree rurali. Le ricerche hanno
evidenziato come la spiritualità tipica delle confraternite sufi sia stata l‟opzione privilegiata dalle
classi sociali medio-alte. La pratica del culto dei santi è condivisa da ampi settori di popolazione,
senza distinzione sociale; questa non si manifesta soltanto attraverso la visita pia (ziyāra) alle tombe
dei santi, ma anche mediante l‟edificazione di mausolei (maqām) in onore di maestri sufi
contemporanei.

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