Sei sulla pagina 1di 69

Università degli Studi Roma Tre

Dipartimento di Lingue, Letterature


e Culture Straniere
Corso di Laurea in Lingue e Mediazione Linguistico-Culturale

Tesi di Laurea in
Lingua e Letteratura Araba

La ḥisba nelle realtà medievale e contemporanea

Relatore Candidato
Dott.ssa Francesca Romana Romani Daniele Martiri
Matricola 470295

Anno Accademico 2015/2016

1
A Sensei

2
When, in a society, the sovereignty
belongs to God alone, expressed in
its obedience to the divine Law, only
then is every person in that society
free from servitude to others, and
only then does he taste true freedom.

(Sayyid Qu b, The America That I Have Seen)

3
INDICE

INTRODUZIONE 1

1. CAPITOLO PRIMO
Il significato della ḥisba
trasformare il caos del mondo in un sistema di realtà ordinate 5
1.1 Le parole per “bene” e “male” 9

2. CAPITOLO SECONDO
La ḥisba nel Medioevo: teoria e pratica 14
2.1 Il percorso dell’etica sunnita dalle origini ad al- az lī 14
2.2 La isba nell’Impero ottomano 24
2.3 L’etica sciita duodecimana e la isba nella Persia musulmana 27

3. CAPITOLO TERZO
La ḥisba nel mondo contemporaneo: Arabia Saudita, Iran e Dā‘iš 34
3.1 Arabia Saudita: l’ufficio della Mu awwi‘a 42
3.2 Iran: i Pasdaran della Rivoluzione 47
3.3 D ‘iš: la rinascita della isba 52

CONCLUSIONI 59

BIBLIOGRAFIA 62

SITOGRAFIA 64

4
INTRODUZIONE

La tesi si propone di analizzare l’ufficio della isba1 all’interno del mondo arabo-islamico
d’età medievale e contemporanea. La scelta è ricaduta su questo argomento in seguito alla
scoperta dell’esistenza di tale istituzione fra i vari organi che il neonato Stato Islamico
(noto anche come IS, ISIS, ISIL o, nella versione più corretta, D ‘iš) ha fondato nei propri
territori, scoperta avvenuta visitando la pagina del “Clarion Project”, un’organizzazione
non-profit nata a Washington D. C. nel 2006, dedicata alla pubblicazione, a fini puramente
scientifici, delle riviste ufficiali dello Stato Islamico, prima della quali fu “Dabiq”,
sostituito ora da “Rumiyah”, la cui etimologia esprime ancor più chiaramente il senso
profondo dell'obiettivo da raggiungere, ovvero il cuore dell'Occidente: Roma. Leggendo
la pagina dedicata a uno dei numeri, ho incontrato la parola isba, che era definita come
una sorta di polizia religiosa. L’idea di un corpo di ufficiali che si occupassero di
mantenere l’ordine nel contesto islamico ha suscitato il mio interesse e mi ha portato a
prendere la decisione di sapere di più sulla tematica. Tuttavia, cercando informazioni al
riguardo ho scoperto che si tratta in realtà di un istituto, quello appunto della isba, che
esiste nel mondo arabo-islamico sin dal Medioevo. Ciò sembrerebbe perfettamente in
linea con l’ideale del Califfato di restaurare un modello medievale di vita e di condotta
pubblica nei territori conquistati. Ma, proseguendo le mie ricerche, ho scoperto
dell’esistenza di istituzioni simili alla isba medievale non solamente nei territori di
D ‘iš, bensì anche in aree e paesi del mondo musulmano di formazione molto meno
recente rispetto all’autoproclamato Stato Islamico, e queste sono il Regno dell’Arabia
Saudita e la Repubblica Islamica dell’Iran.
Ho ritenuto interessante approfondire l’argomento poiché, in un mondo prevalentemente
laico e focalizzato sulla affermazione e la difesa dei diritti individuali quale è l’Occidente,
si è disabituati a pensare che la religione - che nel caso dell’Islam si configura in realtà in
modo profondamente diverso da come la intendiamo noi, giacché si tratta di una Legge,

1
isba: termine non coranico usato per indicare, da un lato, il dovere di ogni musulmano di “ordinare il
bene e proibire il male” e, dall’altro lato, il ruolo di una persona effettivamente incaricata, in una città, di
applicare questa regola nella supervisione della condotta morale dei cittadini nei luoghi pubblici e degli
esercizi commerciali. La persona incaricata della isba viene chiamata mu tasib (Claude Cahen, Mohamed
Talbi, “ isba”, The Encyclopaedia of Islam, vol. III, E. J. Brill, 1986, p. 485).

1
più che di una religione in senso stretto - possa essere a tutt’oggi elemento fondante per
le istituzioni pubbliche di uno Stato. La figura del mu tasib non fu sempre ben definita:
questi doveva aver recuperato, in qualche misura, la preesistente figura dell’agoranòmos
- l’incaricato del buon funzionamento dell’agorà nelle città ellenistiche - e doveva
assomigliare per lo più ad un ispettore dell’annona 2. Il ruolo del mu tasib, e più in
generale l’obbligo di “ordinare il bene e proibire il male” che ne è il fondamento
ideologico, saranno l’oggetto di studio che ci accompagnerà lungo tutta la ricerca, per
scoprire come questo dovere, che si traduce poi in un mestiere vero e proprio, sia ancora
vivo, perché è vivo l’Islam. L’Islam infatti non è semplice religione, ma un modus vivendi
che trova la propria realizzazione in una profittevole gestione della società secondo i
precetti che Dio ha rivelato e che possono essere applicati ovunque nel mondo, poiché,
stando a quanto affermato dai dotti musulmani, “ogni uomo nasce predisposto all’Islam” 3.
Altra domanda fondamentale cui cercherò di rispondere riguarda quanto le suddette
espressioni del principio di “ordinare il bene e proibire il male” siano effettivamente
variate nel tempo e, ancor di più, quanto siano rimaste fedeli al loro originario ideale
islamico, con particolare attenzione alla realtà dello Stato Islamico. Lo studio si propone
di cominciare operando, nel primo capitolo, un excursus di tipo linguistico sui termini
che nella lingua araba assumono le connotazioni antonime, opposte, di “bene” e “male”.
Questi termini, che trovano la propria giustificazione nel Corano, sono vari e non
condividono mai, o quasi mai, un ambito di applicabilità univoco, ma fungeranno
soprattutto da confronto con i due termini che ci interessano più di tutti in questa
trattazione: ma‘rūf e munkar, tradotti spesso anch’essi come bene e male. Si proseguirà,
nel secondo capitolo, intraprendendo un viaggio nel vasto mondo dell’etica islamica
medievale: l’etica è gemmazione del diritto e da questa origina la dottrina della
proibizione di ciò che è malvagio e contrario alla Legge di Dio. A tal fine, si passeranno
in rassegna le più rilevanti realtà storico-politico-geografiche che hanno scandito il
percorso delle società del mondo musulmano, ossia: la fase medievale dell’Islam, con
un’analisi dell’etica del proibire il male per come fu intesa dalle quattro scuole classiche
di diritto; l’Impero ottomano e, infine, la Persia, con uno sguardo speciale rivolto all’era
che seguì l’avvento dei Safavidi, la dinastia che convertì allo sciismo in maniera

2
Ivi, p. 487.
3
Giorgio Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Piccola Biblioteca Einaudi, 2002, p. 8.

2
totalizzante quei territori. Tutti i passaggi saranno utili per esaminare come le tre realtà
contemporanee che ho scelto di presentare (Arabia Saudita, Iran e Stato Islamico),
possano condividere, in parte o in tutto, le medesime caratteristiche di quelle che le hanno
precedute. Nel terzo e ultimo capitolo saranno dunque presi in analisi proprio i paesi che
svolgono un ruolo cruciale in questo elaborato sulla isba. Prima di esaminare la versione
dell’istituto in ciascuno di essi, è utile però vedere come il mondo musulmano non sia
mai stato, e questo è ancor più vero oggi, una realtà monolitica, ma sfaccettata e come
esso affrontò e sta affrontando il contatto traumatico con l’Occidente. Espressione di ciò
è il movimento modernista, definito da Bausani, come a giocare su un ossimoro,
“passatismo”4, che promuove un ritorno ai fondamenti dell’Islam primigenio. Una volta
contestualizzato l’argomento, poiché anche i modernisti si esprimono, ovviamente, in
merito alla dottrina di “ordinare il bene e proibire il male”, passeremo allo studio del
mondo saudita e di come il movimento wahhabita, che ha profondamente influito sulla
politica interna del Regno, abbia nuovamente acceso la fiamma della isba, nota qui come
Mu awwi‘a, nome con cui è ufficialmente attestata la presenza dell’istituzione nel paese.
Di essa saranno descritte le mansioni degli ufficiali che ne compongono il corpo attivo e
anche le critiche che essi hanno ricevuto e le restrizioni loro applicate in tempi recenti. Si
passerà poi all’Iran post-rivoluzionario, paese ove il regime dello scià aveva portato ad
una modernizzazione dei costumi coatta, e la cui storia letteraria in materia di isba non
brillava per esaustività. Quest’ultima verrà ampliata e rinnovata dal nuovo regime
clericale. Ciò che ci interessa dell’Iran sono i Pasdaran, le guardie della Rivoluzione
islamica avvenuta negli anni Settanta, braccio destro del nuovo regime anche nel campo
della proibizione del male nei modi più disparati. Osserveremo in che termini questi
guardiani della Rivoluzione islamica hanno trovato posto nell’ordinamento giuridico
statale e in che modo lo stanno, forse, ancora acquisendo. Il capitolo si concluderà poi
con una sezione dedicata allo Stato Islamico. Di questo ci preme sottolineare il
rivendicato legame col passato, che, almeno in apparenza, è stato soddisfatto con
l’adozione del califfato come forma di governo, oltre che con l’istituzione di un corpo
ufficiale che porta il nome di isba, insieme ad altri organi statali che ricalcano il califfato
medievale. Scopriremo fino a che punto la isba abbia effetti pervasivi nella vita delle

Alessandro Bausani, L’Islam, Garzanti, 1999, p. 176.


4

3
persone che vivono sotto il califfato di al-Ba d dī e quali sono i margini d’azione di
questo istituto.

4
1. CAPITOLO PRIMO

Il significato della ḥisba:


trasformare il caos del mondo in un sistema di realtà ordinate

Come già accennato, il presente lavoro sarà dedicato a illustrare gli sviluppi dell’etica
di matrice islamica e il ruolo che essa ebbe nella definizione dell’ufficio della isba, a
partire dalla massima “ordinare il bene e proibire il male” (al-amr bi l-ma‘rūf wa l-nahī
‘an al-munkar), nelle differenti fasi attraversate dal mondo musulmano e nell’ottica delle
principali scuole (maḏāhib) di pensiero che ha visto formarsi.
Prima di tutto, è importante sottolineare come questo principio sia profondamente legato
al fatto che l’Islam sia giunto agli uomini per volgere il caos in cosmo, il disordine in
ordine, e l’ordine per excellence è certamente quello di Dio5 che si manifesta come Verbo
nella forma del Corano 6.
Come ci dice Sayyid Qu b (1906-1966):

Quando l’islam stabilisce il proprio edificio dottrinale nella coscienza dell’uomo e


nella realtà del mondo basandosi sulla perfetta adorazione di Dio, e lui solo, e fa sì
che questa adorazione si esprima nella fede, così come nel culto e nella Legge, esso
considera che questa adorazione perfetta di Dio, l’Unico - così espressa - dia un reale
significato alla attestazione Ḫnon c’è altro dio all’infuori di Dioḫ. [...] Non vi sarà
allora conflitto fra l’essere umano e la sua natura originaria perché la Legge di Dio
con tutta facilità mette in armonia l’attività visibile e la natura originaria nascosta.
Da questa armonia ne deriva un’altra conseguenza: la corrispondenza fra gli uomini
e la loro attività globale. Insieme, essi si impegnano allora secondo una regola di
condotta unificata, che è essa stessa una parte dell’Ordine cosmico universale. [...]
Essere in armonia con l’Ordine non rimanda la felicità dell’uomo all’Aldilà. Al
contrario, questa felicità diviene effettiva e concreta nella prima tappa (la vita
terrena). In seguito si completa e raggiunge la pienezza nell’Aldilà. [...] In questa
concezione, aderire alla Legge di Dio è richiesto perché vi sia perfetta correlazione
fra la vita del genere umano e quella del cosmo; fra l’Ordine che governa la natura
originaria degli uomini e Colui che governa questo cosmo7.

5
Sayyid Qutb, “Una Legge cosmica”, Dibattito sull’Applicazione della Shari‘a, Edizioni della Fondazione
Giovanni Agnelli, 1995, p. 17.
6
Giorgio Vercellin (2002), pp. 50-51.
7
Sayyid Qutb (1995), pp. 17-21.

5
Questo principio risulta anche essere legato alla figura del califfo ( alīfa), vicario del
Profeta Mu ammad e dunque guida (imām) sia religiosa che politico-amministrativa8, che
non necessita della difesa o della forza bruta di autorità diverse da sé. Il califfo è “principe
dei credenti” (amīr al-mu’minīn), che gestisce e governa la comunità dei fedeli
(umma)9.“Il califfato/imamato era inteso come ‘mandato pubblico’ (wakāla) di origine
divina, avente per scopo l’applicazione e la difesa della šarī‘a”10.
Benché esistesse anche la figura del sultano, questa fu sempre, in apparenza, meno
legittima, tanto che a partire dagli ottomani si cercò di assimilare le due figure in una sola,
quando il sultano Selīm I (1465-1520) assoggettò l’Egitto mamelucco nel 1517, dove
risiedeva l’ultimo califfo abbaside al-Mutawakkil III (? - 1543), trasferendo a Istanbul la
sede del califfato e arrogandosi il titolo che era stato degli Omayyadi prima e degli
Abbasidi poi. Come già i Mamelucchi avevano fatto, il califfato fu usato per formalizzare
l’investitura politica dell’effettivo sovrano 11. Da questo punto in avanti, l’autorità
califfale, come avveniva giustamente nel passato dorato dei tempi del Profeta o dei Califfi
ben Guidati (al- ulafā’ al-rāšidūn) fino agli Abbasidi, non avrebbe più avuto bisogno di
autorità esterne per vedersi sostenuto politicamente.
Passiamo ora a delineare la isba, che può essere definita sia come l’atto di ordinare il
bene e proibire il male, ma anche come la concreta applicazione di questa regola nella
vita della comunità dei credenti, che si esplica soprattutto in luoghi quali il mercato 12. La
persona incaricata di svolgere tale mestiere rispondeva al nome di mu tasib13. Tutto ciò
passando anche attraverso un’analisi dei concetti di “bene” e “male” medesimi e a come
questi appaiono nel testo coranico.
Non è affatto scontato il ruolo che ricoprì il mercato (sūq) nella cultura civile e religiosa
arabo-islamica. Gli obblighi imposti da Dio agli uomini, come anche quelli ch’Egli
desidera vengano osservati fra gli uomini stessi (mu‘āmalāt, matrimonio, reputazione,
eredità, scambio di beni e servizi, riconoscimento dei leader politici) replicano la forma
di contratti vincolanti per ambo le parti in essi coinvolte. L’ideologia islamica, dunque,

8
Giorgio Vercellin (2002), p. 234.
9
Ivi, p. 16.
10
Ivi, p. 235.
11
Ivi, p. 236- 237.
12
Claude Cahen, Mohamed Talbi, “ isba - General: Sources, Origins, Duties”, The Encyclopaedia of Islam,
vol. III, E. J. Brill, 1986, p. 485.
13
Ibidem.

6
attribuisce al mercato in quanto pratica terrena un valore ultraterreno, specchio di un
archetipo divino 14. Lo stessa religiosità islamica è basata su un contratto (o patto, mī āq)
fra Dio e l’uomo, in base al quale questi sceglie liberamente di diventare Suo servo (o
schiavo, ‘abd) diventando dunque credente. Si tratta di un contratto unilaterale che Dio
concede all’uomo, e che questi accetta, impegnandosi a rispettarlo non tanto per le
caratteristiche intrinseche (come la perfezione) del suo Signore, ma perché la natura del
patto è vincolante; di fatti, dīn - la parola araba normalmente tradotta come “religione” -
non ha nulla a che vedere con la nostra religio, che si preoccupa di unire l’uomo a Dio.
Dīn non esprime una idea di unione fondata sull’amore fra Dio e la sua creatura, ma indica
un rapporto contrattuale vero e proprio, contenente obblighi precisi per l’uomo, primo dei
quali è rimettersi incondizionatamente alla Volontà di Dio. Questo tratto, che ha chiare
origini preislamiche e ci dà un’idea di quanto fosse centrale la cultura mercantile nella
società araba tribale, è alla base di altri istituti importanti della civiltà arabo-islamica,
primo fra tutti quello del califfato di cui abbiamo parlato sopra. Il riconoscimento del
califfo, come pure dei capi tribù in età preislamica, si attua attraverso la bay‘a -
giuramento di fedeltà, col significato originario di stringere le mani a convalidare un
accordo a due - che funge da suggello di un patto15.
“E si formi da voi un’unica nazione d’uomini che invitano al bene, che promuovono la
giustizia e impediscono l’ingiustizia. Questi saranno i fortunati” (Cor. III, 104)16. Si tratta
di uno dei versetti presi in considerazione quando bisogna discutere di ciò che è giusto
(ma‘rūf) e ciò che è sbagliato (munkar). In traduzione essi sono spesso definiti
semplicemente come “bene” e “male”. Nel Corano (VII, 157) il profeta dei gentili
ordinerà le azioni lodevoli e proibirà quelle biasimevoli a tutta la comunità 17. Non si tratta
mai dunque di un ammonimento diretto a singoli individui. Inoltre, in cosa tali azioni
consistano, o cosa tali rimproveri riguardino non viene mai esplicitato. Pare, dunque,
trattarsi più probabilmente di azioni ritenute etiche in quanto norme di comportamento
note e ormai consolidate18. Altrove nel Libro si possono trovare altri riferimenti al dovere

14
Thierry Bianquis, Pierre Guichard, “Sūḳ - In the traditional Arab world”, The Encyclopaedia of Islam,
vol. IX, E. J. Brill, 1986, p. 787.
15
Giorgio Vercellin (2002), pp. 8-10.
16
Alessandro Bausani, Il Corano, BUR, 2010, p. 45.
17
Michael Cook, Commanding Right and Forbidding Wrong in Islamic Thought, Cambridge University
Press, 2004, p. 14.
18
Ivi, p. 15.

7
della comunità nel portare avanti tale compito di ordinare il bene e proibire il male.

E chiedi loro di quella città ch’era sulla riva del mare, di quando laggiù violavano
il sabato, di come venivano a loro i pesci, quando essi osservavano il sabato, a fior
d’acqua, mentre non venivano il giorno ch’essi violavano il sabato: così noi li
provammo, per la loro empietà. - E quando alcuni di loro dicevano: “Perché
ammonite voi un popolo che Dio sta per distruggere, o sta per castigare di violento
castigo?” Rispondevano: “Perché serva almeno di scusa per noi di fronte al Signore
e nella speranza ch’essi temano Iddio”. - E quando ebbero dimenticato gli
avvertimenti che eran stati loro dati, Noi salvammo coloro che sconsigliavano e
colpimmo di castigo crudele gli iniqui, per le loro perversità. - E quando con proterva
insolenza si rifiutaron di desistere da quel che loro era stato proibito, dicemmo loro:
“Siate scimmie abbiette” (Cor. VII, 163-166)19.

Qui, coloro che non osservarono i precetti furono puniti da Dio, mentre coloro che
ammonirono gli empi furono salvati. Tuttavia nell’episodio in questione sono presenti
anche membri della comunità che non si preoccuparono della condotta dei loro compagni,
e di loro non si sa cosa sia stato dal punto di vista della grazia o della punizione divina 20.
A chi spetti il compito di proibire il male e rimproverare coloro che lo commettono è
altrettanto incerto. Pare infatti trattarsi inizialmente di un farḍ ‘alā l-kifāya, un dovere
collettivo. Tuttavia tale ipotesi viene presto scartata dagli esegeti in quanto molti
individui, a parte coloro che non sono ritenuti capaci per natura, come donne e invalidi,
non sarebbero adatti a svolgere un tale onere in quanto non in possesso della giusta
conoscenza. Il dovere sembra dunque restringersi ad una élite di intellettuali,
affermazione dalla quale essi si dissociano. Lo scopo del rimprovero e
dell’allontanamento dall’errore è spesso identificato nelle prime esegesi coraniche con il
credere nell’unicità di Dio e nel suo Profeta. Ci si riferisce dunque, secondo Abū al-‘ liya
(VIII secolo), alla semplice conversione all’Islam e all’abbandono dell’adorazione degli
idoli. Ma abarī (839-923) è in disaccordo e non ritiene tutto ciò corretto, poiché
significherebbe che non ha senso rimproverare i musulmani per ciò che normalmente non
è considerato lecito. Importante è notare come nemmeno le basi ontologiche da cui
muovono i concetti di giusto e sbagliato siano del tutto chiare; infatti talune definizioni
di ma‘rūf e munkar (i vocaboli che più spesso si incontrano nel discorso sull’etica
islamica, soprattutto poiché presenti nella massima fondamentale stessa: ordinare il

19
Alessandro Bausani (2010), pp. 120-121.
20
Michael Cook (2004), p. 16.

8
ma‘rūf e proibire il munkar), trovano fondamento tanto nella ragione (‘aql) quanto nella
Rivelazione (šar‘)21. Ciò è dovuto al fatto che il concetto di ma‘rūf ha origini più antiche
di quello di šar‘; affonda, infatti, le proprie radici nella moralità tribale di epoca
preislamica, essendo questo un carattere comune a tutte le civiltà parallele a quella araba:
rifiutare ciò che è estraneo ai propri usi e costumi22. Di contro, munkar indica qualunque
comportamento o azione aberrante per le norme già in vigore presso la società e, per
estensione, non conforme alla volontà divina; ma‘rūf assumerà dunque il significato di
(giuridicamente) accettato, mentre munkar quello di (giuridicamente) riprovevole 23.

1.1 Le parole per “bene” e “male”

Appare opportuno, a questo punto, introdurre altre dicotomie presenti nel lessico
islamico, assimilabili ai principi di “bene” e “male”. Analizziamo per primi ayr e šarr.
Interessante è notare come ayr sia una parola impiegata sia in ambito religioso che
mondano. Per esempio:

Ed egli disse: “Ho amato più forte questo bene terreno ( ayr) che la menzione del
Nome del Signore, fino a che il sole s’avvolse nel velo della notte!” (Cor. XXXVIII,
32)24

Qui, come anche altrove nel Testo Sacro, è evidente come ayr assuma il significato di
māl (ricchezza materiale) 25. Di fatto, ayr dà prova più volte di essere un vocabolo di
ampio utilizzo e si dimostra tale anche per quanto riguarda la fede in Dio, indicando talora
la Sua generosità nel ricompensare gli uomini,

O mio Dio! Padrone del Regno! Tu dai il Regno a chi vuoi, e strappi il Regno a
chi vuoi, esalti chi Tu vuoi, umilii chi Tu vuoi: in mano Tua è il Bene ( ayr) e Tu sei
sopra tutte le cose potente! (Cor. III, 26)26

21
Ivi, pp. 18-26.
22
Toshihiko Izutzu, Ethico-Religious Concepts in the Qurʼān, McGill-Queen’s University Press, 2002, p.
213.
23
Ivi, p. 215.
24
Alessandro Bausani (2010), p. 336.
25
Toshihiko Izutzu (2002), p. 217.
26
Alessandro Bausani, p. 38.

9
talora la fede sincera di un credente,

O Profeta! Dì ai prigionieri caduti nelle vostre mani: “Se Dio riconosce qualcosa
di buono ( ayr) nei vostri cuori, vi darà cose migliori di quelle che vi son state prese
e vi perdonerà, ché Dio è indulgente e clemente” (Cor. VIII, 70)27

o, ancora, le opere pie.

Eseguite la Preghiera, pagate la Dècima, e il bene ( ayr) che opererete per le anime
vostre lo troverete presso Dio, ché Iddio vede ciò che voi fate (Cor. II, 110)28

Appare chiaro, dunque, come ayr faccia riferimento a qualunque cosa di valore
considerata dal punto di vista della religione rivelata; sia che si tratti delle opere compiute
dall’uomo che di ciò che scaturisce dalla Volontà divina.
La dicotomia di ayr e šarr assume, inoltre, le connotazione di prosperità e disgrazia,
entrambe riservate da Dio all’uomo per mettere alla prova la sua fede, come possiamo
vedere in:

No! Ché ogni anima gusterà la morte, e Noi vi proviamo col male (šarr) e col bene
( ayr), e poi sarete a Noi ricondotti. (Cor. XXI, 35)29

Di conseguenza, šarr assume automaticamente il significato di male, miseria in ogni


ambito della vita umana, anche come espressione della onnipotenza divina30.
Altrettanto vasta è la gamma di significati attribuita a alle parole derivate dalle radici
SN e SW ’.
Infatti la prima, proprio come ayr denota un tipo di bene materiale, con l’accezione di
lucrativo31, come in:

Chi è colui che vorrà fare a Dio un prestito bello ( asan), un prestito che gli sarà
restituito raddoppiato di molti doppi? (Cor. II, 245-246)32.

27
Ivi, p. 131.
28
Ivi, p. 13-14.
29
Ivi, p. 235.
30
Toshihiko Izutzu (2002), pp. 217-221.
31
Ivi, p. 222.
32
Alessandro Bausani (2010), p. 29.

10
Ma è altrettanto in grado di veicolare il senso di qualcosa di piacevole o semplicemente
bello 33.

E il Signore l’accettò, d’accettazione buona ( asan), e la fece germogliare, di


germoglio buono ( asan) (Cor. III, 37)34.

Il suo opposto, ossia la radice SW’ non lascia però trasparire altro significato se non quello,
piuttosto generico, di malvagio, riferito prevalentemente a persone 35.

E lo soccorremmo (Noè) contro il popolo che tacciava di menzogna i Nostri Segni.


Erano un popolo turpe (saw’, aggettivo di radice SW’), e tutti li affogammo
nell’acque (Cor. XXI, 77).36

Ai fini di tale analisi risulta interessante la coppia ayyib- abī ; il primo termine, infatti,
descrive tutto ciò che per propria qualità colpisce o delizia i sensi dell’uomo (in
particolare gusto e olfatto). Più avanti verrà evidenziato come, in questo caso, ayyib
risulti simile a un altro aggettivo che fa riferimento alla bontà del cibo e delle bevande,
ossia alāl37.

Ti domanderanno che cosa sia lecito mangiare. Rispondi: “Vi sono lecite le cose
buone ( ayyibāt, nome plurale di radice WB) e quel che avrete insegnato a prendere
agli animali da preda portandoli a caccia a mo’ di cani (ché del resto non avete fatto
che insegnare a loro ciò che Dio ha insegnato a voi). Mangiate dunque ciò che loro
avranno preso per voi, menzionandovi sopra il nome di Dio; e temete Iddio, ché Dio
è rapido al conto!” (Cor. V, 4)38.

Quanto detto sopra riguardo il parallelismo fra ayyib e alāl vale anche per abī , che ha
una denotazione speculare a quella di arām39.

33
Toshihiko Izutzu (2002), pp. 221-222.
34
Alessandro Bausani (2010), p. 39.
35
Toshihiko Izutzu (2002), pp. 230-231.
36
Alessandro Bausani (2010), p. 237.
37
Toshihiko Izutzu (2002), p. 235.
38
Alessandro Bausani (2010), p. 75.
39
Toshihiko Izutzu (2002), p. 236

11
Coloro che seguiranno il Mio Messaggero, il Profeta dei Gentili che essi
troveranno annunciato presso di loro nella Tōr h e nell’Evangelo, che ordinerà loro
azioni lodevoli e le biasimevoli proibirà, che dichiarerà loro lecite le cose buone e
illecite le immonde ( abā’i , nome plurale con radice B ) e li allevierà dei legami
e delle catene che pesano si di loro; e coloro che crederanno in lui,che lo onoreranno,
che lo assisteranno, e che seguiranno la Luce scesa con lui dal cielo: quelli saranno
i fortunati” (Cor. VII, 157).40

Tuttavia non mancano, questi due termini, anche di una propria denotazione etico-
religiosa41:

Nei giardini di Eden entreranno, là dove scorrono i fiumi e quel che vorranno ivi
avranno. Così ricompensa Iddio coloro che Lo temono, - ai quali gli angeli che li
faran morire da buoni ( ayyibīn) diranno: “Pace a voi! Entrate nel Giardino, in
premio di quel che avete operato!” (Cor. XVI, 31-32)42.

In verità coloro che rifutan Fede spendono le loro ricchezze per stornare gli uomini
dalla Via di Dio: le spenderanno, poi li coglierà rimpianto, poi saranno sconfitti. E
coloro che rifutan Fede saranno, poi, raunati nella gehenna, - perché Dio possa
scegliere il malvagio ( abī ) dal buono ( ayyib), e mettere i malvagi gli uni sugli altri,
ammucchiarli tutti e tutti gettar nella gehenna: quelli saranno i perduti (Cor. VIII,
36-37)43.

Si giunge così all’ultima coppia di termini, per l’appunto: arām e alāl. Essi hanno
origini molto antiche che risalgono all’antica idea semitica di purezza rituale, con
allusioni a cose, luoghi, persone e azioni, tutti suscettibili di essere toccati da tale tabù.
La sacralità o impurità di concezione pagana rientra nell’Islam grazie all’introduzione
della libera Volontà divina44:

With absolute freedom God forbids anything and removes the ban from anything;
and anything He has forbidden will be henceforward arām, and the contrary alāl.
Thus age-old ideas of arām and alāl have become most intimately connected with
God as immediate expressions of His Will45.

40
Alessandro Bausani (2010), p. 120.
41
Toshihiko Izutzu (2002), pp. 235-236.
42
Alessandro Bausani (2010), p. 193.
43
Ivi, p. 128.
44
Toshihiko Izutzu (2002), p. 237.
45
Ibidem.

12
Ovviamente, ricopre un ruolo centrale, fra gli usi di questa coppia di antonimi, il
riferimento al cibo e alla sua conformità alle prescrizioni divine:

O uomini! Mangiate quel che di lecito ( alāl) e buono v’è sulla terra e non seguite
le orme di Satana, ch’è vostro evidente nemico (Cor. II, 168)46

Ogni cibo era lecito ( illa, verbo di radice LL) ai figli d’Israele, eccetto quelli
che Israele si interdisse ( arrama, verbo di radice RM) prima che fosse rivelata la
Tōr h. Dì: “Portate dunque la Tōr h, e leggetela, se siete sinceri!” (Cor. III, 87-93) 47.

Resta il fatto che ciò che in questo lavoro ci interessa osservare è il percorso che hanno
fatto, attraverso la storia dell’etica islamica, i primi due termini analizzati: ma‘rūf e
munkar.

46
Alessandro Bausani (2010), p. 19.
47
Ivi, p. 44.

13
2. CAPITOLO SECONDO

La ḥisba nel Medioevo: teoria e pratica

2.1 Il percorso dell’etica sunnita dalle origini ad al-Ġazālī

Ai fini dell’analisi prevista, questa sezione prenderà in esame lo sviluppo del pensiero
delle maggiori scuole giuridiche islamiche sunnite: anbalita, anafita, š fi‘ita e m likita.
Cominceremo da un excursus sull’etica di matrice anbalita. I primi anbaliti appaiono
più preoccupati delle faccende di ordine quotidiano, come risulta evidente dalla raccolta
di responsi forniti da Ibn anbal (780-855) e trasmessaci da Abū Bakr al- all l (848-
923)48. Solo per fare alcuni esempi, i casi più frequenti riportati nella raccolta di al- all l
riguardano la musica. Ovviamente vengono più spesso incontrati casi in cui gli strumenti
sono effettivamente in uso, ma anche altri in cui il rimprovero concerne la loro vendita o
fabbricazione. Sono presenti nella raccolta anche vari, sebbene meno frequenti, casi di
rimprovero indirizzati al consumo di alcolici, ma anche alla loro, come sopra, produzione,
compravendita o stoccaggio. Altrove nei responsi di Ibn anbal incontriamo vari casi di
mala condotta sempre meno frequenti, come i casi di uomini e donne che convivono
illecitamente o altre azioni intraprese in strada e dunque di pubblico dominio (risse tra
ragazzi, linguaggio sconcio, passeggiare troppo vicino alle donne, l’esposizione di
immagini). 49 Per quanto riguarda il compito di proibire il male, attività fondamentale, vi
sono pochi riferimenti a chi dovrebbe o, meglio ancora, può esercitare tale diritto. Non vi
sono nella raccolta limitazioni per quanto riguarda lo svolgimento della isba da parte di
donne o schiavi. Si può dedurre che ogni musulmano giudicato legalmente capace
(mukallaf) sia, dunque, tenuto ad agire in tal senso.
Analizziamo come debba essere attuata la isba: esistono, secondo la tradizione, tre
modalità, che si ricollegano alla sunna attraverso un detto del Profeta 50.

48
Michael Cook (2004), pp. 87-89.
49
Ivi, pp. 90-93.
50
Ivi, p. 33.

14
Whoever sees a wrong and is able to put it right with his hand, let him do so; if
he can’t, then with his tongue; if he can’t, then with his heart, which is the bare
minimum of faith51.

Rispettivamente queste modalità indicano l’agire, in ordine gerarchico di preferibilità,


con azioni fisiche in primo luogo (con la mano), le più giuste, verbali in secondo luogo
(con la lingua) e, infine, che costituisce la modalità sempre meno consigliata dagli
anbaliti, poiché troppo accomodante, con il cuore (bi l-qalb), ovvero limitarsi a
disapprovare intimamente. Infatti, tranne che in caso di controindicazioni, bisognerebbe
sempre mostrarsi attivi nei confronti del male 52.
Come lascia intendere il termine “ordinare”, l’azione intrapresa da colui che incorre in
una contravvenzione è di tipo, quantomeno, verbale; si passa così alla seconda modalità,
quella operata con la lingua (bi l-lisān). Viene sempre intimato, a chi debba trovarsi a
rimproverare un errore, di fare ciò nella maniera più civile possibile; si incontra, infatti,
un certo numero di vocaboli utilizzati per descrivere tale azione: “ordinare” (amara),
“proibire” (nahā), “dire” (qāla), “esortare” (wa‘aẓa), “consigliare” (naṣa a),
“richiamare” (wabba a), “sgridare” (ṣā a)53.
Il gradino finale di questa gerarchia si trova, come già detto, nella modalità del proibire
con la mano (bi l-yad). Questa espressione non indica un’azione di tipo necessariamente
violento (il ricorso alle armi è sempre sconsigliato). Esistono azioni di questo tipo rivolte
a persone, come separare gli avversari di una rissa, ma anche a oggetti offensivi; è questo
il caso in cui gli strumenti musicali vengono non solo sequestrati ma anche distrutti, così
da renderli inutilizzabili, oppure bottiglie contenenti alcolici che vengono svuotate o nelle
quali viene versato del sale così da rovinarne il contenuto54.
Ovviamente, esistono anche casi in cui l’azione contro un malfattore sia ritenuta
sconsigliabile; nello specifico, se l’individuo in questione può rappresentare un pericolo
alla propria vita, se appare pericoloso o se è in possesso di armi.
Anche nel caso in cui l’offensore sembri non stare ascoltando, o non dimostra la minima
volontà di fare ciò, si può tentare di ripetere che si sta commettendo un’offesa per un

51
Ibidem.
52
Ivi, p. 95.
53
Ivi, p. 96.
54
Ivi, p. 97.

15
numero limitato di volte, massimo due o tre55, dopodiché si può agire affinché quel che
sta operando diventi inefficace (svuotare una bottiglia di alcol, rompere uno strumento
musicale), o, addirittura, chiamare a raccolta altri fedeli così da incutergli timore.
Tuttavia, se il trasgressore non presta ascolto e non mostra segni di rettifica delle proprie
azioni, si consiglia, a questo punto, di desistere56.
Un altro fattore che può vanificare l’azione riprensiva è la rivendicazione di privacy da
parte del malfattore. Ibn anbal non contempla l’investigazione (taftīš) come modus
operandi. Non è lecito, ad esempio, introdursi nelle case altrui al fine di ricercare le loro
malefatte. Tuttavia la situazione cambia se, invitati in casa d’altri, si dovesse scoprire,
anche curiosando, un qualche tipo di vizio che l’abitatore della casa tentava di nascondere.
Sentire il suono della musica ma non sapere da dove proviene è un caso analogo, che
annulla la validità dell’azione contro il malvagio 57, poiché cercare la fonte della musica
significherebbe investigare.
Tratto caratteristico dei primi anbaliti è il non ricercare assolutamente di includere le
autorità statali nei loro rimproveri, poiché significherebbe esporsi al loro potere. Il
governante (sul ān), la cui condotta è spesso palesemente riprovevole, non deve essere
oggetto di attacco per questa scuola giuridica 58.
La scuola anbalita ha attraversato tre fasi principali, distinte geograficamente, in cui
ha subito variazioni sostanziali: una fase in cui la città dominante fu Baghdad, una fase
in cui tale ruolo fu ricoperto da Damasco e, infine, nel Na d con la nascita dello stato
saudita. Quest’ultima fase non sarà discussa in questo capitolo, bensì nel prossimo, in
concomitanza con la descrizione del movimento wahhabita nella suddetta regione.
Dopo Ibn anbal non abbiamo più un corpus normativo legato, com’era, alla vita
quotidiana, grazie ai responsi del fondatore della scuola. A cominciare dal periodo in cui
Baghdad fu la città anbalita per eccellenza, non abbiamo più documentazione riguardo
la politica del proibire il male come compito attinente esclusivamente l’ambito
giornaliero. Scopriamo invece un rilevante slittamento di questa pratica verso l’ambito
politico, fenomeno probabilmente dovuto alla presenza di una nuova guida nel

55
Ivi, p. 99.
56
Ibidem.
57
Ivi, p. 100.
58
Ivi, pp. 101-104.

16
movimento: il predicatore e demagogo Barbah rī (X secolo)59, nonché alla presenza della
dinastia abbaside con la quale eminenti studiosi anbaliti intrattennero rapporti stretti 60.
Si può riscontrare una maggior attitudine nel confronto diretto con la politica sia perché,
a differenza dei responsi di Ibn anbal, l’eroismo di fronte al potere corrotto è ora
contemplato dalla scuola, sia perché vi è una maggior disposizione a collaborare col
potere per assolvere meglio al dovere di ordinare il bene e proibire il male 61.
A Damasco, città in cui predominava la scuola š f‘ita, era presente un discreto numero
di seguaci di quella anbalita, che riuscì ad attirarsi, nel tempo, una certa solidarietà da
parte dei regnanti Mamelucchi; se non altro per l’incitamento, ormai divenuto la norma
nell’etica anbalita, all’impegno armato e, per estensione, al ǧihād contro gli invasori
infedeli62. Proprio nel XIII secolo gli anbaliti di Damasco diverranno il ramo trainante
della scuola, che vedrà nascere il proprio primo manuale giuridico, composto da
Muwaffaq al-Dīn ibn Qud ma (1147-1223)63. Fra gli illustri anbaliti presenti sulla scena
di Damasco, spicca Ibn Taymiyya (1263-1328). Questi fu, come vari predecessori, molto
attivo in politica, ma il suo interesse maggiore non verteva sull’attirare l’attenzione del
popolo; Ibn Taymiyya appare spesso collegato, infatti, all’élite mamelucca, intrattenendo
rapporti con governanti, per i quali era disponibile per consultazione e ai quali inviava
ammonimenti, caratterizzando così la propria come una situazione di cooperazione più
che di conflitto64. Come studioso Ibn Taymiyya va ricordato per l’interesse riposto nel
tema del ǧihād, il quale, come proibire il male, è un dovere collettivo (‘alā l-kifāya)65.
Altro suo tratto saliente è uno spiccato utilitarismo; ossia, quando si deve operare il bene,
bisogna sempre tener a mente i pro (maṣāli ) e i contro (mafāsid) delle situazioni e, in
base alla categoria preponderante, operare una scelta. Nella pratica della isba, ciò vuol
dire optare per il bene maggiore o il male minore66.
Altro punto d’interesse per Ibn Taymiyya fu quello dell’ordine gerarchico di chi deve
portare avanti il dovere della isba, prescindendo dal fatto che esso ricada, comunque,

59
Ivi, p. 138.
60
Ivi, p. 114.
61
Ivi, p. 139.
62
Ivi, p. 164.
63
Ivi, pp. 145-146.
64
Ivi, p. 150.
65
Ivi, p. 152.
66
Ivi, p. 154.

17
sulla collettività. Egli ricorre a un appellativo coranico, ulū l-’amr, ovvero coloro che
hanno l’autorità; costoro sono: gli studiosi (‘ulamā’), le alte cariche militari (umarā’) e
gli anziani di ogni comunità (mašāyi ). Loro compito è quello di guidare la collettività
nell’adempimento di questo dovere e ed è dovere dei loro sottoposti obbedire (quando ciò
non significhi contravvenire palesemente alla Legge divina). Ibn Taymiyya fornisce una
semplice giustificazione all’obbedienza imposta al popolo 67:

Successful performance of the duty is obviously and critically dependent on having


the power (qudra) to execute it, and power is something of which those in authority
naturally possess the lion’s share68.

Ibn Taymiyya definisce anche quale sia lo standard della moralità politica: fare del
proprio meglio. Ad esempio, se vi fosse necessità di nominare qualcuno che svolga un
compito pubblico, l’autorità deve unicamente preoccuparsi che l’uomo che sta scegliendo
per fare ciò sia l’uomo migliore, il più indicato 69.
Con Ibn Taymiyya si è completamente perso quel senso iniziale di repulsione per la
politica che aveva contraddistinto i primi anbaliti. Nella sua opera troviamo, a conferma
di ciò, un passaggio che distingue tre gruppi di persone: quelle che sostengono che non
vi può essere moralità in politica, il che significa optare per una politica senza moralità;
il secondo, che condivide la premessa del primo, ma sceglie la moralità e si allontana
dalla politica; il terzo, che l’autore lascia intendere sia quello in cui risiede il giusto, rifiuta
la premessa dei primi due e qualunque posizione estrema 70, di modo che la politica
rimanga oggetto di interesse dell’etica e della isba.
Verrà ora affrontata la questione relativa al “proibire il male” all’interno della scuola
anafita, la più antica delle scuola sunnite. Prende il nome da Abū anīfa (699-767),
studioso originario di Kufa. La sua dottrina si diffuse ampiamente nell’angolo nord-
orientale dell’Impero abbaside, specialmente nella Transoxiana, donde si estese alle
popolazioni turche che migrarono verso ovest, rendendo possibile, in tempi successivi,
l’adozione da parte dei sultani ottomani della dottrina anafita come quella ufficiale del
loro impero. Tuttavia, l’esperienza ottomana degli intellettuali anafiti sarà discussa solo

67
Ivi, p. 155
68
Ibidem.
69
Ivi, p. 156.
70
Ivi, pp. 156-157.

18
nel successivo sottocapitolo. Bisogna precisare che come tutte le scuole sunnite, neanche
gli anafiti affrontarono apertamente la questione di proibire il male nei propri testi.
Abbiamo, dunque, solo alcune testimonianze nell’opera dello stesso Abū anīfa. Questi
afferma che proibire il male è un dovere collettivo e incoraggia la ribellione verso i
sovrani ingiusti, anche a costo del martirio, giustificando ciò con un adī che promuove
il rimprovero verso costoro71.
Come gli anbaliti sotto gli Abbasidi, anche gli anafiti divennero, col dominio dei
Samanidi nella regione (IX-XI secolo), più ben disposti nel confronto col potere politico,
differentemente da come fu quando si trovavano sotto il governo abbaside.
Abū Man ūr al-M turīdī (853-944), studioso anafita, commenta le posizioni di Abū
anīfa dicendo che non è più possibile, nel tempo in cui scrive, ribellarsi ai sovrani
ingiusti, poiché, ormai, una tale azione non sarebbe più dettata da una qualche virtù
morale (come poteva essere ai tempi del Profeta), bensì da motivi puramente egoistici.
Ad ogni modo, proibire il male, se se ne è in grado, è un dovere assoluto 72.
Abū l-Lay al-Samarqandī (944-983) commenta, invece, aggiungendo che avere la
possibilità di proibire il male è la sola condizione necessaria per attivare il dovere;
definisce ma‘rūf ciò che è in accordo con la Rivelazione e con la ragione, e munkar ciò
che non lo è; che bisognerebbe portare a termine tale dovere in privato e, qualora non
bastasse, in pubblico, con l’ausilio di altri fedeli; cita la tripartizione del dovere, ossia che
la riprensione eseguita con la mano sia destinata ai sovrani, quella con la lingua agli
studiosi e quella con il cuore alla gente; che bisogna essere in possesso di conoscenza,
intenzioni pure, empatia e perseveranza per portare a termine il compito; e infine
aggiunge che, in una terra ove non sia possibile riprendere chi è nell’errore, poiché terra
di infedeli (come già avevano fatto notare altri intellettuali), è necessario emigrare,
giustificando questa azione con l’esempio di Abramo e il Profeta Mu ammad che
lasciarono le loro città. Resta ammissibile rimanere dove si è solo se è possibile adempiere
ai propri doveri di musulmano 73.
Passando agli š fi‘iti, bisogna distinguere due fasi della loro dottrina: una precedente
al- az lī (1058-1111) e una ad egli successiva. Nella prima di queste due, incontriamo
autori come: Abū Bakr al-Qaff l al-ṣ šī (904-976), che invita all’impegno armato (qitāl)

71
Ivi, pp. 307-310.
72
Ivi, pp. 310-312.
73
Ivi, pp. 312-313.

19
e il suo discepolo Abū ‘Abdall h al- alīmī al- ur nī (X secolo-1012). Quest’ultimo
sancisce che il dovere minimo sia quello di stare lontani dai malfattori. Ma la cerchia di
persone abilitate a esercitare la isba è molto ristretta: si tratta solamente del sovrano e
dello studioso retto. Il sovrano dovrebbe nominare un censore (mu tasib) per ogni luogo
abitato. Ma potrebbe venire a mancare lo studioso dotato delle giuste virtù; per risolvere
questo problema, al- alīmī equipara lo studioso virtuoso con il comune musulmano
virtuoso, solo nel caso in cui il male che debba essere punito sia palesemente un male 74.
Altro grande autore di questa prima fase fu Abū l- asan al-Ba rī l-M wardī (972-1058).
La sua importanza risiede nell’aver definito il ruolo del mu tasib, definendolo per
contrasto con ciò che la isba rappresenta per l’individuo comune. Il mu tasib non può
essere distratto dal lavoro perché la isba è il suo lavoro e per fare questo percepisce uno
stipendio; il dovere del mu tasib è individuale, quello dei musulmani non incaricati è
collettivo; il mu tasib ha la facoltà di chiamare a raccolta i fedeli a sostenerlo contro un
trasgressore, mentre il musulmano generico non ha tale diritto 75.
Incontriamo poi ‘Abd al-Malik ibn Yūsuf al- uwaynī (1028-1085). Questi conferma il
dovere collettivo che ricade sulla comunità, anche per gli stessi trasgressori, ma aggiunge
che, una volta che un distretto ottiene il proprio mu tasib, il dovere decade. Continua
dicendo che è, comunque, giusto che i musulmani tutti contemplino tale obbligo almeno
verbalmente, lasciando le decisioni più gravose alle autorità 76.
La fase successiva ad al- az lī, sarà caratterizzata dalla preminenza della teologia come
area di discussione. Troviamo esponenti come Sayf al-Dīn al- midī (XII secolo-1233)
che compose un trattato di teologia in cui predomina una visione aš‘arita dell’Islam, in
cui l’autore afferma che, quando il Profeta venne a mancare, la comunità non cercava
un’autorità cui fare riferimento, bensì operava autonomamente.
L’altra eminente figura di questa fase è al-Nawawī (1234-1278), che nel proprio trattato
adotta i medesimi presupposti teologici e affronta le stesse tematiche, con risonanze sciite
e mu‘tazilite, ma senza rinnegare l’Aš‘arismo; infatti viene più volte citato con
ammirazione al- uwaynī. Inoltre, al-Nawawī parla anche dell’inconsistenza del principio
per cui proibire il male dovrebbe portare ad azioni calibrate in base alla presunta riuscita
o al temuto fallimento delle azioni stesse; al contrario, secondo lo studioso, rimproverare

74
Ivi, pp. 340-343
75
Ivi, pp. 344-345
76
Ivi, pp. 345-346.

20
gli errori è un dovere cui adempiere prescindendo dalle condizioni più o meno
favorevoli77.
A differenza delle altre scuole, i m likiti hanno conservato attraverso i secoli un gran
quantitativo di materiale di tipo non giuridico. Di loro sappiamo che adottarono in toto la
teologia aš‘arita e che il loro nome deriva dal fondatore M lik Ibn Anas (715-796),
giurista medinese. Della sua dottrina originale, per come è riportata, sappiamo che fu una
persona che contemplava costantemente il compito di proibire il male e che apprezzava
chiunque vi si dedicasse. Afferma che è compito di ogni musulmano, non solo erudito, di
farsi carico di rimproverare il male, a prescindere dal presunto fallimento o da eventuali
rischi per la propria incolumità, anche qualora il male fosse commesso da un
governante78.
Con Abū l-Walīd al-B ī (1013-1081) vediamo l’introduzione dell’Aš‘arismo nella
Spagna musulmana. La dottrina di al-B ī raccomanda che la perfomance del dovere sia
eseguita con garbo a patto che la persona oggetto del rimprovero non sia particolarmente
difficile da smuovere. Anche il trasgressore ha la facoltà di proibire il male se lo dovesse
incontrare. Egli elenca due condizioni per cui si è autorizzati ad avanzare sulla strada
della riprensione: saper distinguere il bene dal male e sapere che le proprie azioni non
porteranno a generare un male uguale o maggiore. Ma queste ultime non bastano a rendere
il dovere obbligatorio; è necessaria una terza condizione: sapere che il malfattore
asseconderà ciò che gli verrà detto79.
Negli scritti di Abū l-Walīd Mu ammad Ibn Rušd (XII secolo), qaḍī di Cordova e nonno
di Abū al-Walīd Mu ammad ibn A mad ibn Rušd, noto alle fonti latine come Averroè
(1126-1198), non viene fatto altro che commentare quanto aveva già affermato al-B ī.
Egli aggiunge, però, che gli unici che hanno il diritto di proibire il male sono le autorità.
Dunque un mu tasib può essere solo nominato da un governante e solo egli avrà piena
facoltà d’azione su ogni male commesso. Il comune musulmano deve rispettare le tre
condizioni già elencate da al-B ī. Asserisce, inoltre, che si tratta di un dovere individuale
e che i fedeli dovrebbero guardare alle proprie colpe, piuttosto che ai misfatti degli altri80.
Altro grande autore fu Ibn al-‘Arabī (1076-1148). Ci ha trasmesso un breve resoconto

77
Ivi, pp. 349-356.
78
Ivi, pp. 357-360.
79
Ivi, pp. 362-363.
80
Ivi, pp. 363-364.

21
di quanto detto precedentemente, confermando anche che, se le condizioni lasciano
prevedere un esito negativo per il benessere di chi si adopera per proibire il male, il dovere
decade. Tuttavia, è apprezzabile che, se le intenzioni individuali sono pure, si proceda
nonostante i rischi81.
Nella letteratura m likita è riportata anche la pratica. Si parte con lo svolgimento della
isba da parte del fondatore stesso. Si racconta di come non si preoccupasse di dover
riprendere anche i governanti; di come il califfio al-Man ūr (712-775) gli abbia chiesto
di riferire i misfatti dei suoi funzionari e governatori, o di come abbia rimproverato il
successore di questi, Harūn al-Rašīd (766-809), dopo averlo sorpreso a giocare a
scacchi82. Sempre nell’aspetto pratico, i testi parlano di un contesto squisitamente urbano;
l’offesa più comune è certamente la musica, mentre altre contravvenzioni sono molto
meno presenti in letteratura, e si tratta sempre di atti commessi in luoghi pubblici. La
pratica veniva portata a termine individualmente e il modo in cui più spesso viene
eseguito il rimprovero è con gentile insistenza; di fatti, tale pratica viene equiparata alla
predicazione (wa‘ẓ). In Nord Africa, donde la maggior parte delle testimonianze
provengono, traspare, a differenza di ciò che viene orgogliosamente asserito nella teoria,
un rapporto con le autorità prevalentemente conflittuale83. Nel tempo, notiamo una
sempre maggiore discontinuità nei testi m likiti, forse dovuta alla diffusione su una vasta
area di territorio della scuola stessa (Nord Africa, Spagna, Africa subsahariana), cosa che
ha impedito il formarsi di una pratica unitaria, dati i vari contesti socio-culturali che si
trovò ad affrontare84.
Arriviamo così al più fulgido esempio della secolare tradizione dell’etica islamica: al-
az lī. La sua opera più grande fu “La vivificazione delle scienze religiose” (I yā’ ‘ulūm
al-dīn), nella quale al- az lī ripercorre le tappe attraversate dall’etica e le commenta e
integra con le proprie opinioni. Cominciando dall’obbligatorietà della isba, egli
definisce dove essa diventa un obbligo stricto sensu, ossia quando il mu tasib è un
musulmano mukallaf (legalmente idoneo, il che vuol dire pubere e sano di mente, tenuto
agli obblighi giuridico-religiosi che Dio impone all’uomo, suo schiavo, che li accetta e
diventa quindi credente), in grado di metterla in atto (qādir); ed è valida anche per

81
Ivi, pp. 365-366.
82
Ivi, p. 381.
83
Ivi, pp. 382-384.
84
Ivi, p. 392.

22
individui non ufficialmente investiti di autorità, inclusi donne, schiavi e peccatori.
Al- az lī conferma concetti chiave come quello per cui bisogna agire solo se si è in
grado di correggere efficacemente l’errore e solo se non si mette a repentaglio la propria
vita. L’autore integra le scienze etiche operando una distinzione fra i tipi di peccato in
base ad una temporalità tripartita: peccati passati, presenti e futuri. Nel primo caso spetta
ai governanti punire i peccatori; nel secondo sta a tutti, nessuno escluso, adoperarsi per la
rettificazione degli errori, individualmente; nel terzo caso si può solo esortare alla
rettitudine. Anche al- az lī nega la liceità del curiosare in casa d’altri in cerca di un
munkar o investigare in generale. Altro merito da attribuirgli fu la distinzione tra
discordanze di tipo giuridico, per le quali è sensato affermare che ogni studioso di diritto
islamico possa aver ragione, dalle questioni di tipo teologico, che permettono di accusare
di eresia (mu‘tazilismo, antropomorfismo, filosofia). In quest’ultimo caso, quello
dell’eresia, i singoli individui non sono tenuti a prendere iniziative ma piuttosto a lasciare
che sia il governante a pronunciarsi al riguardo. Sul come si dovrebbe proibire il male, lo
studioso distingue otto tappe per il rimprovero: 1) assicurarsi che ci sia effettivamente un
munkar; 2) informare dell’errore con cortesia, partendo dal presupposto che non tutti i
peccatori commettono errori deliberatamente, ma che a volte ciò sia dovuto a ignoranza;
3) esortare, soprattutto chi, pur sapendo che commette peccato, rimane nell’errore,
riportando aneddoti e adī (plurale a dā ), comunque in maniera cortese ed empatica; 4)
linguaggio duro, per chi si dimostra poco incline a correggersi; 5) azione fisica, da non
attuarsi se si riesce a far ragionare il peccatore; 6) minaccia di violenza; 7) violenza
concreta, agire per spaventare senza fare veramente del male; 8) procurarsi aiutanti
armati (quest’ultimo punto fu molto discusso poiché un tale modus operandi potrebbe
creare anarchia, fitna, all’interno della società)85 . Nel trattato di al- az lī figurano anche
casi molto più inerenti alla sfera pubblica. Fra questi i mali operati in moschea, al mercato,
per strada e nei bagni pubblici. I primi riguardano la scorretta esecuzione della preghiera
e una cattiva recitazione del Corano, ostentazione nel vestiario, predicazione eretica. Il
secondo gruppo contempla la truffa commerciale (vendita di beni difettosi, discrepanze
in pesi e misure), la frode (contratti fallaci), vendita di beni proibiti (strumenti musicali,
animali giocattolo, vesti di seta). Il terzo gruppo concerne la strada, luogo di pubblico
utilizzo, che non deve essere ostruita, sporcata, o resa pericolosa per disattenzione o

85
Ivi, pp. 427-441.

23
noncuranza. L’ultimo caso, che è, per sua natura, il più discusso, tocca i bagni pubblici.
In essi potrebbero essere raffigurate immagini scandalose, ma è quanto avviene
all’interno che desta problemi: nudità, palpeggiamento, impurità; in aggiunta, le superfici
scivolose possono costituire un pericolo per gli utenti86. Non manca, nelle disquisizioni
di al- az lī, anche un riferimento al rimprovero dei potenti. Informarli ed esortarli è
permesso. Additarli severamente, se non mette in pericolo nessuno, è persino
ammirevole87.
Peculiare è come al- az lī non sia particolarmente interessato a definire pienamente il
ruolo del censore ufficialmente nominato, il mu tasib, a differenza di al-M wardī, che
distinse le due figure del mu tasib, il censore a tutti gli effetti, e del muta awwi‘, ossia il
comune fedele che si arroga il diritto di proibire il male nonostante sia già presente una
figura ufficiale a questo predisposta88. Il muta awwi‘ è autorizzato ad agire solo in
presenza di un male palese e che richiede soluzione immediata89.

2.2 La ḥisba nell’Impero ottomano

Passando all’analisi dell’istituto della isba nell’Impero ottomano, appare necessario


ricapitolare quali fossero stati, finora, i tratti distintivi del mu tasib. La denominazione
inizia ad apparire piuttosto tardivamente, probabilmente sotto il dominio abbaside, a
seguito dell’islamizzazione della Persia. Pare, infatti, trattarsi di un caso in cui ad una
figura ufficiale furono successivamente associati compiti di ordine etico-religioso. Questa
figura doveva essere il cosiddetto ṣā ib al-sūq, il quale, in origine, doveva garantire
l’osservanza delle buone norme solo nel mercato. Il mu tasib diventa invece colui che,
da uomo che esercitava liberamente la virtù della isba, deve essere ufficialmente
nominato da un’autorità al fine di supervisionare la buona condotta etico-religiosa e
sociale della comunità dei credenti90. Il mu tasib aveva, però, solamente la facoltà di

86
Ivi, pp. 443-444.
87
Ivi, p. 446.
88
Ivi, p. 448.
89
Ahmed Abdelsalam, “The Practice of Violence in the isba-theories”, Iranian Studies, vol. XXXVIII, n.
4, aprile 2011, p. 550.
90
Claude Cahen, Mohamed Talbi, “ isba - General: Sources, Origins, Duties”, The Encyclopaedia of Islam,
vol. III, E. J. Brill, 1986, p. 487.

24
sanzionare atti flagranti e pubblici, a differenza del qāḍī che, invece, conduceva le azioni
legali. A fianco a queste due figure appariva anche quella del capo della šur a, il quale si
occupava, apparentemente, “di reprimere crimini che esigessero […] l’intervento della
forza pubblica in maniera del tutto avulsa da regole sciaraitiche. Tanto più che l’ufficio
del mu tasib, al pari di quello del qāḍī, era indebolito dal fatto di essere legato ad altri
funzionari preposti a farne eseguire decreti e decisioni” 91.
Passando all’etica di epoca ottomana ci sia accorge di due cose: la tendenza
accomodante dell’ anafismo ottomano, le cui radici tornano all’ anafismo samanide del
nord-est che aveva anche perduto il carattere politico della corrente originale, e la
prevalenza nella letteratura ottomana di commentari di testi precedenti piuttosto che di
opere innovative. Esempi di ciò sono i lavori di ‘Alī l-Q rī l-Harawī (XVII secolo), il
quale raccolse fonti prevalentemente š fi‘ite, soprattutto al-Nawawī. Tuttavia sono
presenti punti oscuri; temi dottrinali che non sembrano appartenere a qualche scuola
diversa da quella anafita, ma la cui appartenenza a quest’ultima non è certa; ad esempio,
l’atto di proibire il male che viene ricompensato; il misticismo come alibi per ignorare la
isba; la proibizione attuata con il cuore che avrebbe una propria efficacia, tramite
l’influsso di una energia mentale (himma), che per intervento divino ottiene l’effetto
desiderato92.
Di chiare origini anafite è, invece, la divisione gerarchica della facoltà di esercitare la
isba, con l’aggiunta di qualche estensione: gli studiosi (‘ulamā’) includono anche i santi
(awliyā’), mentre i funzionari di Stato (umarā’) comprendono i potenti lato sensu
(aqwiyā’)93.
Successivamente, incontriamo Ism ‘īl aqqī Brūsevī (1652-1725), che fa ampio uso
del commentario del sopracitato al-Q rī, con vari prestiti da al- az lī (soprattutto il suo
commentario del Corano e la Vivificazione della scienze religiose). Così facendo, Brūsevī
mette in mostra un tratto che aveva e avrebbe toccato tutti i letterati anafiti ottomani
successivi: quello dei prestiti, se non quando vere appropriazioni, dell’opera di al- az lī.
Esempio di ciò si trova anche in ašköprīz de (XVI secolo), il quale si distaccò solo
lievemente da al- az lī nella definizione di mu tasib, poiché, secondo l’autore turco, era
solo la figura nominata ufficialmente a poter esercitare la isba.

91
Giorgio Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, 2002, p. 395.
92
Michael Cook (2004), pp. 316-318.
93
Ivi, pp. 318-319.

25
Autore che invece non mutuò quasi nulla dall’opera di al- az lī fu Birgili Me med
Efendi (1525-1573). La sua opera resta, comunque, pesantemente condizionata dalle
tradizioni: il dovere è collettivo e va esercitato anche preventivamente; il peccatore non è
esonerato; non bisogna socializzare coi peccatori; il linguaggio duro è da usarsi solo
laddove quello educato potrebbe non bastare. Birgili dimostra, però, anche una visione
entusiastica del martirio, qualora si dovesse proibire un male che potrebbe nuocere
pericolosamente al proibente94.
Uno dei suoi commentatori, ‘Abd al- nī l-N bulusī (1641-1731), non conferma tale
entusiasmo. Distingue tra “proibire il male” e “ isba”. Il primo è un dovere collettivo, ma
da operarsi solo verbalmente e senza obbligare le persone ad ascoltare 95: “Non vi sia
costrizione nella Fede” (Cor. II, 256)96. La seconda è, invece, destinata alle autorità.
Inoltre, ‘Abd al- nī lamenta la presenza di persone che, nei suoi tempi, sarebbero
interessate solo a proibire il male per farsi notare o per altri motivi egotistici. Interessante
è come questi attinga persino dal sufismo per spiegare che, grazie al percorso mistico che
si compie, si può meglio comprendere la strada verso la lotta al male 97.
Ultimo autore anafita di spicco nei secoli dell’Impero ottomano fu Osman Nuri Ergin
(1883-1961), che cercò di restituire un’idea di quale fosse il compito del mu tasib.
Nonostante fosse anch’egli un prodotto dell’occidentalizzazione ottomana, scelse di
basarsi su degli articoli pubblicati su un settimanale, il cui autore fu aydarīz de Ibr hīm
Efendi (1863-1933), e nei quali è evidente il riferimento ad al- az lī. Unico punto in cui
differisce dall’opinione di quest’ultimo è che solo le autorità possono dare il permesso di
procedere all’attuazione della isba. Questo è, probabilmente, risultato della naturale
inclinazione degli anafiti a non creare caos e lasciare le situazioni con cui devono
convivere così come sono 98.
È ora necessario illustrare come funzionasse la isba nella vita di tutti i giorni sotto il
dominio ottomano, riscontrabile in apposite liste di regole destinate al mu tasib, dette
i tisāb qānūnnāmeleri, le prime delle quali risalgono al regno del sultano B yazīd II
(1481-1512). Si trattava, come già detto in precedenza con riferimento alla realtà pre-

94
Ivi, pp. 323-324.
95
Ivi, pp. 325-326
96
Alessandro Bausani (2010), p. 30.
97
Michael Cook (2004), pp. 326-328.
98
Ivi, pp. 330-332.

26
ottomana, di una pratica svolta presso il mercato. Il mu tasib si occupava della qualità
dei beni in vendita, della verifica dei margini di profitto legali e delle penalità per chi
contravvenisse alla legge, così come delle tasse, dei debiti e dei pagamenti. Sono anche
presenti articoli di queste liste che parlano di come sia suo dovere far rispettare la morale
in luoghi pubblici o sacri99.

2.3 L’etica sciita duodecimana e la ḥisba nella Persia musulmana

Si passeranno ora in rassegna i cambiamenti dell’istituto della isba in Persia, con tutte
le caratteristiche conferitele dallo sciismo duodecimano, dalle sue origini fino al dominio
safavide, quando questo verrà innalzato a religione di Stato.
Per prima cosa, è importante notare come i duodecimani abbiano sempre considerato
una buona pratica quella di includere nella loro letteratura delle sezioni riguardanti il
proibire il male100. Sembra scontato sottolineare come i duodecimani abbiano acquisito
molte caratteristiche mu‘tazilite nella loro definizione di isba, essendo il mu‘tazilismo
il fondamento della teologia sciita.
Cominceremo dall’analisi delle più antiche testimonianze duodecimane, pervenuteci da
due autori in particolare: al-Kulaynī (864-941) e Abū Ja‘far al- ū ī (996-1067).
Peculiarità dei loro testi è la grande importanza, appunto, attribuita all’opera di proibire
il male, e delle conseguenze disastrose che il non praticarla potrà far ricadere sulla
comunità. Traspare una certa ascendenza sunnita nella loro etica, con aneddoti però fatti
risalire a Ja‘far al- diq (702-765) o ad ‘Alī ibn Abī lib (599-661). In generale, queste
tradizioni affermano che proibire il male è un dovere, ma non è ben vista l’esposizione
alla spada dei potenti, che andrebbero redarguiti solo se apparentemente disposti ad
ascoltare e accettare il monito; ma più genericamente, nessuna azione della cui efficacia
non si sia certi è sconsigliata; Dio sa che il credente, in cuor suo, disapprova il male
commesso dagli altri. A conferma di ciò, anche le tradizioni trasmesse da Mu ammad al-
B qir (676-731), che parlano di un dovere assoluto e nobile per il credente, contemplando
anche il martirio, sembrano in realtà non avere alcuna ascendenza sciita nella propria

99
Robert Mantran, “ isba - Ottoman Empire”, The Encyclopaedia of Islam, vol. III, E. J. Brill, 1986, p.
489.
100
Michael Cook (2004), p. 252.

27
catena di trasmettitori. Lo stesso al- diq asserisce che l’obbligo di proibire il male non
sia prerogativa della gente comune, bensì dei potenti, che richiedono obbedienza e sanno
distinguere il bene dal male, e che sacrificarsi non adduce alcuna gloria o ricompensa 101.
Allargando la ricerca e includendo materiale dell’epoca safavide, si può notare la
penetrazione di altre idee già presenti nell’etica sunnita, fatte provenire dalle bocche del
Profeta, di ‘Alī, o di al- diq, contrarie alla presa di posizione contro i governanti102.
Ovviamente, dall’altro lato, non possono mancare riferimenti alla figura di usayn
ibn‘Alī (626-680), martire per eccellenza e figura cardine dell’ideale di ribellione ai
potenti103.
Tuttavia, al-B qir afferma anche che, stando ad una tradizione, il Profeta avrebbe
esortato i fedeli a proibire il male, ma non senza la guida di un imam giusto, implicando
che, fino a quando non se ne avrà uno, proibire il male non dovrà essere preoccupazione
di nessuno nello specifico 104.
Andiamo ora a considerare la tradizione e la letteratura duodecimane classiche. Si
passeranno in rassegna sei argomenti che ricorrono costantemente in testi di questo
periodo, tenendo presente che, spesso, non possono essere ricondotti ad un’origine
puramente sciita:
1) Le tre modalità: Ibn B bawayh (918-991) scrive che l’uomo deve tentare di
correggere il male con il cuore, con la lingua e con la mano; ma anche solo il cuore è
sufficiente se non fosse possibile andare oltre. Anche al-Mu aqqiq (1205-1277) e al- illī
(1250-1325) adottano un modello crescente, ovvero: proibire con il cuore, con la lingua,
laddove non fosse sufficiente il primo, e, se fosse necessario, con la mano. Variazioni sul
significato di queste modalità si ritrovano già negli ultimi due autori citati, che
considerano il non agire come un atto di cuore, mentre al- ūsī lo vede come un’azione, e
quindi nella categoria della mano, come anche dare il buon esempio 105.
2) Il permesso dell’imam: non esiste concordanza nel discutere tale punto. Molti
degli autori sopracitati pensano che sia necessario il permesso dell’imam, o di chi ne fa
le veci, per procedere in casi in cui si debba uccidere o si possano infliggere ferite; ma

101
Ivi, pp. 253-257.
102
Ivi, pp. 258-259.
103
Ivi, p. 260.
104
Ibidem.
105
Ivi, pp. 263-266.

28
c’è chi, come al- illī e al-Murtaḍ (966-1044), ritiene che esso non sia necessario. Tutto
questo non sorprende se si pensa che, essendo l’imam in occultamento (ġayba), nessuno
poteva permettersi di praticare alcuna violenza, elemento che riflette la tendenza quietista
del periodo. Tuttavia, da dove l’affermazione di al-Murtaḍ provenga non è chiaro. Una
simile tendenza si era già riscontrata nel mu‘tazilismo di Baghdad; ma sappiamo che al-
Murtaḍ era fermamente allineato con la corrente di Bassora. Potrebbe dunque essere
stato merito di al-Mufīd (948-1022) l’importazione di un elemento della corrente rivale
106
nel pensiero di al-Murtaḍ .
3) Ragione e Rivelazione: di derivazione attribuibile alla scuola di Bassora è il
quesito sulla natura della isba. Gli studiosi di Baghdad, ci dice Rumm nī (X secolo),
optarono per la natura razionalistica, appoggiata anche da studiosi del calibro di al- ūsī
e al- illī, mentre la visione standard che prevalse fu quella degli intellettuali di Bassora,
che videro la ragion d’essere dell’atto di proibire il male nella Rivelazione 107.
4) La dottrina delle divisibilità: si tratta dell’idea per cui il bene si possa dividere in
obbligatorio e supererogatorio; ne consegue che è obbligatorio ordinare di compiere il
bene obbligatorio, mentre risulta eccessivo ordinare il bene eccessivo. Al contrario, lo
stesso non è vero per il male, che resta un concetto monolitico. La dottrina viene accettata
da tutti i maggiori esponenti dell’etica già citati sopra, facendo la sua prima apparizione
con al-Murtaḍ . M nkdīm (XI secolo) fa risalire la divisione del bene alla scuola di
Bassora108.
5) Individuale e collettivo: una volta che il dovere viene portato a termine da
qualcuno, gli altri sono sollevati dall’obbligo; questa è la visione, che affonda le proprie
radici nella corrente mu‘tazilita di Bassora, adottata dalla maggior parte degli studiosi
duodecimani, fossero essi in linea con la corrente di Bassora stessa o con quella di
Baghdad. Soltanto al- ūsī si distaccò, prediligendo la visione individualistica, che, dato
il suo prestigio, finì per venire accettata da molti importanti suoi successori. La disputa,
ad ogni modo, andò avanti evolvendosi in maniera sempre più complessa. I collettivisti
affermavano che in certi casi l’onere della isba diventasse individuale, e gli individualisti
non negavano che, se l’azione avesse sortito l’effetto sperato, non vi sarebbe stato motivo

106
Ivi, pp. 266-270.
107
Ivi, pp. 270-272.
108
Ivi, pp. 272-273.

29
per gli altri di sentirsi obbligati109.
6) Le condizioni per l’obbligo: una lista stilata dallo stesso al-Murtaḍ .
a) Colui che si propone di proibire il male deve esser certo che l’azione da punire sia
effettivamente un male.
b) Deve essere in possesso di prove per cui l’errore continuerà in futuro.
c) Deve credere che il suo tentativo di correzione possa essere efficace.
d) Non deve esporsi a pericoli mortali.
e) Né deve mettere a rischio i propri averi.
f) Il suo tentativo di proibire il male non deve dare adito ad altri errori.
L’origine di tali precetti è da ricercarsi nel mu‘tazilismo di Bassora, passando attraverso
M nkdīm110.
Ma c’è un ultimo punto riguardo l’obbligatorietà dell’onere: come procedere se nessuna
delle condizioni è soddisfatta? Si tratterebbe di eroismo, che, almeno per la corrente
mu‘tazilita di Bassora, è positivo nell’ottica della gloria delle Fede, ma nessuno studioso
concorda con essa, nemmeno per la gloria dell’Islam. Questo pensiero potrebbe esser fatto
risalire a Ja‘far al- diq, nonostante questi non venga mai citato111.
Passando agli studiosi più tardi, ossia dal XIV al XX secolo, ci si accorge della
stagnazione delle idee, rappresentata dalla loro ripresa per come furono già elaborate dai
giurisperiti classici. Analizziamo ora la stessa lista di punti vista sopra e le differenze e
similitudini sorte in seno alla scienza etica duodecimana attraverso i secoli.
1) Le tre modalità: evidentemente classici sono sia la lista che l’ordine crescente
(cuore, lingua, mano) con cui viene elaborato questo argomento. Viene però aggiunta una
differenza nel già dibattuto punto della proibizione col cuore: proibire nel cuore, oppure
per mezzo del cuore. Il primo è un atto invisibile, il secondo esterno e riconoscibile tramite
linguaggio del corpo. Ma si incontrano anche affermazioni tali per cui il proibire tramite
il cuore non rientri affatto nella categoria di ordinare o proibire in alcun modo, o che,
dall’altra parte, si tratti invece di una forma persino più severa di disapprovazione
dell’atto di rimproverare verbalmente ma con gentilezza 112.
2) Il permesso dell’imam: in generale, la maggior parte degli intellettuali successivi

109
Ivi, pp. 273-275.
110
Ivi, pp. 276-278.
111
Ivi, pp. 280-281.
112
Ivi, pp. 283-284.

30
al periodo classico ha ripreso la stessa idea per cui, in assenza dell’imam o di chi ne faccia
le veci, non è possibile procedere ad ordinare il bene e proibire il male. Ma hanno dato
anche un loro contributo alla questione, che si può far risalire all’era dei Safavidi,
aggiungendo che anche un giurista ben formato e sapiente possa avere voce in capitolo.
Ma non solo; ci fu anche chi, come al-ṣahīd al- nī (1506-1558), asserì che l’atto di ferire
non fosse di competenza, e dunque non richiedesse il permesso, dell’imam, mentre
uccidere sì; oppure chi, come al-Ardabīlī (1500-1585), parlò delle due azioni del ferire e
dell’uccidere come di atti che non rientravano assolutamente nel dovere di ordinare e
proibire113.
3) Ragione e Rivelazione: la questione non viene granché ampliata dagli studiosi più
tardi, che si limitano a riprendere la visione maggioritaria, quella rivelazionista, adottata
dai grandi del passato. Durante il regno dei Safavidi, tuttavia, la dottrina ebbe anche delle
tendenze ad accettare la versione razionalista, ma fu una breve fase, alla quale fece seguito
una totale adozione dell’opinione già consolidata presso la maggioranza. Solo al-Ardabīlī
rigettò l’intera questione definendola esclusivamente accademica, poiché, essendo ormai
giunta la Rivelazione, è inutile interrogarsi sulla possibilità, a questo punto persa, di
conoscere o meno il dovere della isba tramite la ragione114.
4) La dottrina della divisibilità: si iniziò a percepire un bisogno di simmetria
all’interno di questa dottrina elaborata nel periodo classico. Se esisteva una categoria di
bene considerato eccessivo da ordinare (mandūb), doveva esservi un corrispettivo nel
male, un male di grado inferiore, che fosse anche eccessivo proibire (makrūh). Gli
intellettuali non ignorarono il problema come in passato, perciò, così come il ma‘rūf
includeva sotto la propria semantica ombrello anche il mandūb, si optò per inserire la
categoria del makrūh sotto quella del munkar115.
5) Individuale e collettivo: l’antica disputa continuò in maniera piuttosto equilibrata
fra le due parti, con un’inclinazione maggiore verso l’opinione degli antichi che la isba
fosse un dovere collettivo. Abbiamo però chiare dimostrazioni di come il pensiero
duodecimano fosse divenuto più sofisticato grazie alla testimonianza di Bah ’ al-Dīn al-
‘Amilī (1547-1621). Egli porta l’esempio di un male che debba ancora essere corretto e
che più persone stiano assistendo alla scena; se nessuna interviene, allora l’obbligo grava

113
Ivi, pp. 285-287.
114
Ivi, pp. 287-288.
115
Ivi, pp. 288-289.

31
su tutti quanti, ma in tal caso non serve a nulla chiedersi se esso sia collettivo o
individuale, poiché, per il momento, sarebbero tutti colpevoli. Nel momento in cui
qualcuno agisce, per il collettivista gli altri sono sollevati dall’onere, se non credono che
il loro contributo possa migliorare le cose, mentre per l’individualista esso è ancora
valido. Una volta che il male è stato eliminato, chiedersi chi abbia ragione perde
totalmente di importanza e il quesito svanisce.
6) Le condizioni per l’obbligo: sono le medesime indicate dagli studiosi classici, ma
si aggiungono nuovi dubbi, come il grado di certezza necessario perché le condizioni
entrino in vigore, e se sia lecito proseguire laddove anche una sola non fosse soddisfatta.
La risposta al primo dubbio viene fornita non tanto per quanto concerne la sicurezza di
saper riconoscere il bene dal male, quanto per la presunta efficacia dell’azione. Se vi è
anche una minima possibilità di successo è obbligatorio agire, così come il minimo segno
che l’errore non verrà perpetuato basta a far decadere l’obbligo. Se anche una condizione
non viene soddisfatta, si è comunque tenuti a procedere. Il rischio per se stessi è
contemplato in minima parte. Anche laddove si rischi un danno, soprattutto se tocca
solamente i propri averi, si dovrebbe procedere. Lo spirito di allontanamento dalla perdita
personale e dal sacrificio viene, dunque, qui confermato 116.

L’impressione generale che quindi si ha dell’etica duodecimana successiva ai classici è


quella di un’agile ripresa di tutti i concetti già elaborati, con minore attenzione alle catene
di trasmissione117.
Interessante è notare come, proprio con l’avvento dei Safavidi e di un nuovo regime,
che peraltro rese lo sciismo duodecimano religione ufficiale, si affermi l’idea che, essendo
l’imam in occultamento, le decisioni in merito a materie che lo competevano potessero
essere prese anche da un giurista illustre118. Ma l’etica duodecimana fu tutt’altro che una
disciplina confinata alla teoria; Mirz -yi Qummī (1738-1815) fornì una serie di responsi
alla società sciita su temi che gli accademici neanche prendono in considerazione, e gli
stessi Safavidi avevano ben chiaro quali fossero gli obiettivi della loro riprensione verso
il male (taverne, stabili che ospitassero oppiomani, cantastorie, prostitute e giocatori

116
Ivi, pp. 292-295.
117
Ivi, p. 298.
118
Ivi, p. 299.

32
d’azzardo, la musica) 119.
Nella pratica quotidiana, il mu tasib si occupava della supervisione del mercato e delle
corporazioni di mercanti e artigiani, con la possibilità di punire anche sommariamente i
trasgressori. In epoca safavide, era presente almeno un mu tasib in ogni grande città ed
era quasi sempre un membro della classe religiosa che esercitava le classiche funzioni già
discusse sopra (soprattutto la prevenzione dell’alcolismo e del gioco d’azzardo) ma che
si occupava anche dell’esazione delle tasse, dell’amministrazione della zakāt, del
mantenimento di moschee e scuole, della fruibilità delle strade, della supervisione delle
corporazioni di lavoratori. Veniamo poi a sapere che esisteva un mu tasib capo, nominato
direttamente dallo Stato, detto mu tasib al-mamālik, che nominava i suoi sottoposti, così
da tenere sotto controllo i prezzi, in modo che ogni bene avesse un costo fisso in tutto il
regno. Dopo i Safavidi, il ruolo del mu tasib perse le proprie prerogative religiose,
secolarizzandosi progressivamente, finché i suoi compiti furono ristretti al controllo di
pesi e misure. Durante il XIX secolo, la sua figura svanì dalla maggior parte delle città,
finché, alla fine dello stesso secolo, non si estinse del tutto120.

119
Ivi, p. 300.
Ann K. S. Lambton, “ isba - Persia”, The Encyclopaedia of Islam, vol. III, E. J. Brill, 1986, pp. 490-
120

491.

33
3. CAPITOLO TERZO

La ḥisba nel mondo contemporaneo: Arabia Saudita, Iran e Dā‘iš

In questo capitolo verranno prese in analisi le trasformazioni che l’istituto della isba
ha subito in età contemporanea, con particolare attenzione agli sviluppi intercorsi nelle
realtà saudita, iraniana e, infine, nei territori controllati dallo Stato Islamico.
È scontato dire come la letteratura dedicata alla proibizione del male sia continuata
anche in tempi recenti. È facile anche immaginare come il contatto con l’Occidente abbia,
quantomeno, ampliato i margini di tale pratica, mettendo alla prova la capacità di
convivenza e di sopravvivenza delle tradizioni islamiche medievali121, trovatesi,
all’indomani dell’invasione napoleonica dell’Egitto, dall’inizio dell’Ottocento, e per tutto
il secolo, a subire e dover fronteggiare una civiltà che non ne condivideva né le premesse,
né la moralità.
È proprio questo il contesto in cui prende piede l’ideologia modernista: corrente che si
contrappone fermamente all’Occidente, che ha battuto sul tempo il mondo arabo-islamico
attraverso il progresso tecnico-scientifico, cosa che ha portato, come scrive Jacques
Berque, ad una “radiosa volontà di vivere, di rivivere; da ciò la lotta patetica che questi
uomini (gli arabi) conducono per realizzarsi nel mondo dei tempi moderni, colpevole di
essersi formato senza di essi122”. Il modernismo vede la via del progresso passare
attraverso una restaurazione di quello che si percepisce come tempo mitico, delle origini
dell’Islam - l’età dell’oro, quella del Profeta e dei suoi Compagni - di cui si ha nostalgia:
questo è lo stesso approccio che nutre l’ideologia di tutti i fondamentalismi islamici - in
primis i Fratelli Musulmani - che hanno le loro radici nel pensiero modernista. La via del
recupero dell’Islam originario passa attraverso la liberazione dalle incrostazioni della
storia - percepita come successione di fratture e allontanamento dal modello originario
perfetto - che si manifesta attraverso la negazione dell’elaborazione giuridica medievale
dei commentari del Corano e dei trattati di diritto, per fare ritorno ad una diretta opera

121
Michael Cook (2004), p. 509.
122
Jacques Berque, Gli arabi, Piccola Biblioteca Einaudi, 1978, p. 4.

34
interpretativa del Libro e della sunna, così da rispondere alle domande di una civiltà che
non era più la stessa di tredici secoli prima, a partire direttamente dalle fonti 123.
La isba fu rivisitata in chiave moderna. Esempio ne fu Rašīd Riḍ (1865-1935),
direttore della rivista al-Manār (il Faro), la quale contribuì per prima alla diffusione
dell’ideologia nota col nome di Salafiyya124. Costui individua in Corano III, 104125126, la
giustificazione alla creazione nel mondo arabo-islamico di Stati gestiti da un’assemblea
rappresentativa, così com’era in uso nelle repubbliche o nelle monarchie costituzionali
occidentali, basandosi sull’interpretazione che ne aveva dato Mu ammad ‘Abduh (1849-
1905), suo maestro e Gran Muftī d’Egitto dal 1899 fino all’anno della sua morte, che si
batté sempre per una riforma dell’Islam che partisse dall’ambito teologico, senza mai
ricorrere a strategie di tipo politico. Ma quello che ci interessa qui è che vi sono anche
interpretazioni per cui questo stesso versetto sarebbe un invito alla libertà d’associazione
e d’opinione, con lo scopo di perseguire la virtù. Brillante esempio delle innovazioni
nell’ufficio della isba fu Mu ammad al-Muwayli ī (1868-1930), scrittore
importantissimo nel panorama letterario egiziano dell’Ottocento, che attribuì ai giornalisti
il ruolo di voci che avrebbero dovuto occuparsi di comandare e proibire. Afferma, inoltre,
che la isba necessita di libertà d’opinione, senza la quale non la si potrebbe esercitare.
Questa libertà è riconoscibile, secondo al-Muwayli ī, nel versetto coranico
menzionato127.
Cionondimeno, vi fu chi criticò tale visione, poiché ricalcava troppo idee occidentali.
In effetti, proibire il male è una pratica per cui è previsto che ci si informi gli uni gli altri
riguardo il male commesso, mentre, in Occidente, fa notare Sayyid Qu b, fondatore dei
Fratelli Muslmani (al-i wān al-muslimūn) e critico della influenza britannica sull’Egitto,
nonché dei costumi occidentali in sé, è considerato un affare personale: nessuno ha la
libertà di intromettersi nella vita degli altri. Bisogna qui ricordare che, al contrario, nelle
società musulmane, chi commette peccato lo commette contro tutta la comunità, essendo

123
Alessandro Bausani (1999), pp. 174-176
124
La Salafiyya (o Salafismo) è una corrente neo-ortodossa del riformismo islamico, nata in Egitto nel XIX
secolo, con l’obiettivo di restaurare le modalità dell’Islam dei “Pii Antenati” (al-salaf al-ṣāli ), rifacendosi
ad un glorioso passato del mondo arabo-islamico (Pessah Shinar, “Salafiyya”, The Encyclopaedia of Islam,
E. J. Brill, vol. VIII, 1986, p. 900).
125
Michael Cook (2004), p. 511.
126
Vedi nota 16.
127
Michael Cook (2004), p. 511-513.

35
essa un corpo unico. Egli addita come caratteristica della modernità occidentale, nemica
della civiltà musulmana, non tanto il libertinismo, quanto l’individualismo 128.
Si assistette anche, però, ad un certo cambio di rotta dell’antica idea di isba, che da
espressione del dovere di proibire il male passò ad essere concepita come opera di
propagazione dei valori islamici. Il potere di ordinare e proibire non sarà più, dunque, in
mano a qualche classe dominante, bensì ai predicatori. Com’è ovvio pensare, vi furono
delle opposizioni a tali prese di posizione a favore del popolo. Per ovviare a tutto questo,
viene argomentato che una tale pratica non era affatto estranea all’epoca d’oro dell’Islam.
Al- az lī fu fra i primi ad ammettere la pratica delle bande armate come forma di
opposizione al male. Ma chi è, allora, tenuto ad esercitare la isba? In passato un simile
ruolo veniva attribuito, come abbiamo visto, alle eminenti figure degli studiosi di diritto
e nella modernità tale idea viene anche recuperata, se non altro per il timore che nessun
candidato fosse migliore, nonostante la bassa opinione che se ne poteva avere 129.
Grande pensatore musulmano in materia del secolo scorso fu Abū l-A‘l Mawdūdī
(1903-1979), fondatore nell’allora India britannica del partito “Jamaat-e Islami”, che
promuoveva l’adozione dei valori islamici in politica e che è, ad oggi, il partito islamico
più antico del Pakistan. Con la sua visione religiosa della storia dichiara che quest’ultima
non è altro che una continua lotta tra Vera Fede e miscredenza, concetto che si ritroverà,
come vedremo, nella lotta wahhabita agli ultimi residui di politeismo presenti nei territori
che costituiranno l’Arabia Saudita. L’obiettivo del pensatore pakistano era di dimostrare
che130:

Islam represented a distinctive set of principles rooted in eternal, divine truth as


opposed to democracy, capitalism and socialism, which he deemed western
ideologies and as such, modern manifestations of unbelief131.

Mawdūdī, inoltre, parla della costituzione di uno Stato islamico, e ne auspica una
formazione graduale e che la diffusione dei valori da esso elevati a modello venga attuata
attraverso l’educazione e la persuasione 132; rientra dunque anch’egli in quella maniera di

128
Ivi, p. 514-515.
129
Ivi, p. 515-518.
130
David Commins, The Wahhabi Mission and Saudi Arabia, I.B. Tauris, 2006, pp. 146.
131
Ibidem.
132
Ivi, p. 147.

36
pensare predicativa e missionaria di cui si è parlato sopra. Dal suo pensiero riguardo un
sospirato Stato in cui vigesse la Legge di Dio fu certamente influenzato Qu b. Questi,
però, non vedeva il processo di formazione dello Stato come un percorso lento e
cadenzato, ma come frutto di un’azione rivoluzionaria. Altro punto nel quale Qu b fu
condizionato da Mawdūdī fu l’idea per cui le stesse società un tempo davvero musulmane
avessero smarrito la retta via e fossero ricadute nella ǧāhiliyya (‘ignoranza’, ‘barbarie’, il
lemma indica l’età prima dell’avvento dell’Islam) 133.
Meno affrontato fu il tema della divisione del compito per generi. Il lavoro più
autorevole che ci è giunto al riguardo è forse quello di ‘Abd al-Karīm Zayd n (1917-
2014). Egli dichiara che le donne andrebbero incluse nella vita pubblica, ma non in
politica. Sono autorizzate a mettere in pratica la isba verso gli uomini, purché si tratti di
membri della loro famiglia oppure di vicini. Enfatizza anche la necessità di creare aree di
competenza esclusivamente femminili, cosicché le donne possano proibire il male alle
altre donne, e dipartimenti di studio destinati a formare figure ufficiali (mu tasibāt)134.
In molti paesi sunniti oggi, questa pratica del proibire il male è divenuta effettivamente
parte della politica di Stato. La messa in essere del dovere è tuttavia riservata, come anche
fu spesso ritenuto più giusto in passato, alle autorità. Idea questa particolarmente radicata
negli scritti di autori contemporanei, appare evidente nell’opera di asan al-Bann (1906-
1949), fondatore insieme a Qu b dei Fratelli Musulmani e vero militante politico,
coinvolto nei fermenti dell’Egitto dell’epoca e oggetto di repressioni da parte del governo
egiziano. Questi, non consigliò mai che il rimprovero, finalizzato al risanamento della
morale islamica in Egitto, fosse eseguito con la forza, nonostante la presenza all’interno
della fratellanza di chi riteneva giusto che venisse rispettato l’antico costume delle tre
modalità, senza divisione gerarchica dei poteri. Al-Bann si rifà, per avvalorare la sua
posizione, a un versetto in particolare 135:

Chiama gli uomini alla Via del Signore, con saggi ammonimenti e buoni, e discuti
con loro nel modo migliore, ché il tuo Signore meglio di chiunque conosce chi dalla
Sua via s’allontana, meglio di chiunque conosce i diritti (Cor. XVI, 125)136.

133
Ivi, p. 148.
134
Michael Cook (2004), p. 520-521.
135
Ivi, p. 522-523.
136
Alessandro Bausani (2010), p. 200.

37
L’idea rimase quella dominante in Egitto soprattutto in ambienti, com’è chiaro, vicini
al potere statale. L’ultimo Gran Muftī del paese, Mu ammad Sayyid an wī (1928-
2010), conferma che se la proibizione per mezzo della mano fosse concessa a tutti,
regnerebbe l’anarchia137.
Sembra paradossale come una corrente di pensiero fra le più fondamentaliste del mondo
musulmano abbia negato alla comunità la possibilità di proibire il male liberamente,
svuotando quasi completamente la isba del suo significato di dovere collettivo. Lo stesso
Qu b giunge a dire che, pur essendo vero che la comunità invita ogni membro di essa a
farsi fautore della isba, soltanto chi è dotato di autorità (ḏū l-sul ān), può esercitarla in
maniera efficace, vista la corruzione in cui, ormai, versa la società, occupandosi di una
rettifica del popolo in senso più ampio e trascurando le malefatte di piccola portata 138.
Per quanto riguarda la realtà sciita duodecimana, possiamo vedere, nei primi anni di
contaminazione occidentale, un certo fenomeno di sincretismo simile a quello verificatosi
nell’Islam sunnita. Ci giungono, per esempio, le parole di Mīrz Yūsuf n Mustaš r al-
Dawla (1813-1895), il quale mette in luce come la legge (qānūn) che ha permesso la
libertà di ribellione e, in special modo, d’espressione e di stampa siano state lo strumento
attraverso il quale l’Europa (Farangistān) ha raggiunto la prosperità e come, soprattutto
l’ultima, possa essere un tramite per portare avanti l’ideale della isba. Ciò verrebbe
affermato anche nel Corano (III, 104)139, e per conferire un’ascendenza sciita all’idea,
egli la fa risalire ad al- ūsī. Lo stesso pensiero modernizzatore verrà seguito da Mīrz
Malkum n (1833-1908), che parlerà di tali libertà come di idee, sì europee, ma che
l’Islam ha cristallizzato nella singola espressione “ordinare il bene e proibire il male” 140.
Tuttavia, laddove nel sunnismo la modernizzazione in campo etico-giuridico-religioso,
passa attraverso la rievocazione di un passato dorato, nella Persia sciita il ruolo di
innovatori fu sempre, e a maggior ragione dallo scoppio della Rivoluzione islamica,
ricoperto dal clero sciita, che conferì continuità e vitalità allo sviluppo della visione
duodecimana della isba141, ma con un sentimento sempre più avanguardista rispetto agli
intellettuali sunniti. È ovvio che il merito di un’impresa così riuscita sia da attribuirsi

137
Michael Cook (2004), p. 524.
138
Ivi, p. 528.
139
Vedi nota 16.
140
Michael Cook (2004), pp. 531-532.
141
Ivi, pp. 532-533.

38
prevalentemente alla guida stessa della Rivoluzione, Ruhollah Khomeini (1902-1989),
Grande yatoll h e Guida Suprema dell’Iran dal 1979 fino all’anno della sua morte. Di
lui e della sua opera di diffusione del pensiero rivoluzionario, raggiunta nei primi anni
Settanta prevalentemente per mezzo di lettere indirizzate ai più giovani142, Gilles Kepel
afferma che:

quest’opera [...] portava a compimento una rivoluzione culturale che non ha


equivalenti nel mondo musulmano sunnita della stessa epoca: un alto ecclesiastico
sciita riprende una serie di idee elaborate da intellettuali islamisti di formazione
moderna, dando loro il beneplacito di un dottore della legge. Mawdudi e Qutb,
invece, privi di una formazione propriamente religiosa, si erano dovuti scontrare con
l’ostilità degli ulema, a cui peraltro non avevano risparmiato le critiche. E
l’islamismo militante sunnita che, a partire dalla metà degli anni settanta, diventerà
un movimento sociale, risulterà così viziato da un rapporto conflittuale con gli
ulema, che si rivelerà un ostacolo decisivo per il suo sviluppo. In Iran, invece, fin
dall’inizio degli anni settanta, una figura religiosa, nella persona di Khomeini, si fa
portavoce di una strategia di rottura radicale con l’ordine costituito. E riesce a
mobilitare reti di sostenitori e di proseliti più efficacemente di quanto possano fare
gli intellettuali di formazione moderna. Il che costituirà una delle ragioni del
successo della rivoluzione islamica in Iran, un successo che non ha eguali nel mondo
arabo sunnita143.

Proprio con l’avvento della Rivoluzione, lo sciismo duodecimano dovette confrontarsi


con comportamenti e prese di posizione che andavano oltre l’agire tradizionalmente
contemplato dalla dottrina del periodo classico; se questo insegnamento, appunto,
prevedeva che l’obbligo della proibizione venisse meno nel momento in cui esso avesse
messo a rischio l’incolumità dell’individuo, con i caratteri rivoluzionari è ovvio che
nessuno sarebbe più stato al sicuro.
Il punto di partenza per un’analisi di questo tipo appare essere proprio Ruhollah
Khomeini. Per quanto riguarda il pericolo di subire un danno (ḍarar), egli si attiene alla
tradizione medievale, confermando che in caso di un’ipotetica perdita grave, l’obbligo
decade. Ad ogni modo, andando oltre questo tradizionalismo, scopriamo che Khomeini
stilò quattordici punti di confronto fra il proprio governo e quello dello scià. I primi sei
di questi punti parlano di casi in cui nemmeno il pericolo può fermare il credente,

142
Marcella Emiliani, Marco Ranuzzi de’ Bianchi, Erika Atzori, Nel nome di Omar. Rivoluzione, clero e
potere in Iran, Odoya, 2008, p. 100.
143
Gilles Kepel, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, 2016, p. 37.

39
specialmente il sapiente. Per adottare questa dottrina non è, tra l’altro, fatto riferimento a
nessuna sua applicazione o menzione precedente. Ma Khomeini non fu da solo ad
affermare tale visione del dovere della isba. Kazem Shariatmadari (1905-1986),
anch’egli partecipe della Rivoluzione e vicino ai vertici del clero sciita iraniano, afferma
che ogni male fa decadere il dovere, ma solo quel male che non sia scontato attendersi
nel mettere in pratica la isba (essere insultati, ad esempio, non rientra fra questi, poiché
è prevedibile) 144. Anche i pupilli di Khomeini, ovviamente, mal accettarono la penuria di
riflessioni fatte durante tutto il Medioevo da studiosi illustri, i quali preferirono lasciare
intoccata la questione. Uno di questi fu Morteza Motahhari (1919-1969), che accettò che
solo se l’agire avrebbe potuto arrecare offesa più grande all’Islam allora l’obbligo sarebbe
stato invalidato. Ma, com’è ovvio, viene anche portato l’esempio di usayn ibn ‘Alī, che
aveva subito il martirio nel 680 e che, quindi, non permetteva che solo per timore di danni
personali si potesse prescindere dal dovere della isba. Altra voce, meno condizionata dal
passato classico e dall’influenza khomeinista, fu quella di Hossein-Ali Montazeri (1922-
2009). Costui afferma che l’obbligo decade solo paragonando la gravità del danno che
potrebbe verificarsi per l’esecutore al peso del peccato in questione e giudicando quale
dei due sia più grave. Opinioni più estreme arrivano invece dalla penna di usayn al-Nūrī
l- amad nī e A mad ayybī ṣabistarī (XX secolo), i quali, forse in preda al fervore
rivoluzionario, rigettano in toto la condizione della paura per una perdita di qualsivoglia
tipo, mettendo al primo posto la rettifica degli errori145.
È interessante osservare come l’altra grande caratteristica del quietismo duodecimano
di epoca classica, ovvero la concessione del permesso conferito dall’imam ai credenti per
agire in maniera violenta contro un peccatore, abbia visto la propria rilevanza scemare.
Infatti, se i giureconsulti del periodo medievale erano stati piuttosto refrattari ad accettare
qualunque soluzione che fosse diversa da questa, i contemporanei scelsero di recuperare
e ampliare un’opinione minoritaria dello stesso pensiero classico, sviluppatasi sotto i
Safavidi: qualunque giurista ritenuto meritevole poteva essere portavoce dell’imam in
occultamento.
Avendo sempre Khomeini come punto di partenza, questi ci dice che ferire e uccidere
sono atti che richiedono la concessione dell’imam, di cui, appunto, un buon giurista

144
Michael Cook (2004), pp. 533-535.
145
Ivi, pp. 536-539.

40
predesignato può fare le veci. Un’opinione più estrema si affermò però più tardi: quella
per cui solo la Guida Suprema, dunque lo Stato, aveva tale diritto, escludendo anche
giuristi di grado inferiore alla guida della Repubblica Islamica, ai quali Khomeini avrebbe
voluto, al contrario, concedere voce in capitolo. Nel 1992, per l’appunto, la nuova Guida
Suprema Ali Khamenei (1939-) dichiarò in un discorso che proibire con la violenza è
prerogativa delle autorità più elevate, mentre il popolo deve limitarsi a proibire per mezzo
della parola146.
Un altro tratto in comune con il sunnismo è quello della necessità di organizzazione: ci
vuole cooperazione, afferma Motahhari già nel 1960. Negli anni a seguire si sentiranno
voci che ridefiniranno cosa ciò significhi: il bisogno di uno Stato islamico, la necessità di
una pianificazione tanto all’avanguardia quanto lo sono le forze del male. A tal proposito,
viene detto dell’epoca presente che la causa della decadenza non risiede tanto nel non
essere stati in grado di proibire il male poiché fino ad allora le condizioni necessarie
esplicitate dagli studiosi non erano soddisfatte, bensì che ora ci si trova impreparati ad
affrontare il male: sarebbe stato necessario imparare a distinguere il giusto dall’errato,
procurarsi gli strumenti necessari per mettere in pratica la isba, mettere una toppa alle
debolezze laddove c’erano per non avere successivamente limiti nel mettere in pratica
quest’obbligo. Questo tipo di pensiero volto a rimediare agli errori passati si manifesta
anche nell’analisi di Shariatmadari, che parla della necessità di agire senza pensare alla
possibile riuscita o fallimento dell’azione stessa, perché solo così si può sapere se avrà
effetto o meno. Inoltre egli attua una distinzione moderna tra dovere individuale e
collettivo. Quest’ultimo deve essere operato da un gruppo di persone organizzato e deve
essere volto a fare della società un luogo dove queste azioni possano seriamente avere
effetto147.
Con un occhio rivolto alla questione per come viene codificata nella Costituzione,
l’obbligo va eseguito “by the people with respect to one another, by the government with
respect to the people, and by the people with respect to the government” 148.
Un ultimo punto interessante nel discorso sullo sciismo duodecimano è il ruolo che
viene attribuito alle donne nella contemporaneità, non essendo stato toccato affatto dagli

146
Ivi, pp. 540-541.
147
Ivi, pp. 542-544.
148
Ivi, p. 545.

41
esperti del passato. Quei pochi che l’hanno fatto, oggi, si avvalgono di un passo
coranico149:

“Ma i credenti e le credenti sono l’un l’altro amici e fratelli, invitano ad atti
lodevoli e gli atti biasimevoli sconsigliano, e compiono la Preghiera e pagano la
Dècima e obbediscono a Dio e al Suo Messaggero: di questi Dio avrà misericordia,
ché Egli è potente sapiente” (Cor. IX, 71)150.

Con questo essi affermano che le donne sono obbligate a ordinare e proibire. Fra di loro
troviamo ṣabistarī e lo stesso Khomeini, il quale, interrogato da un’infermiera che gli
domandò il da farsi se i suoi pazienti feriti non avessero pregato a causa della loro
invalidità fisica, risponde che ella li avrebbe dovuti giustamente redarguire 151.

3.1 Arabia Saudita: l’ufficio della Muṭawwi‘a

Si passerà ad illustrare gli sviluppi che ha avuto l’istituto della isba in Arabia Saudita.
La pratica di ordinare il bene e proibire il male non rimase estranea al Regno; anzi, ne
accompagnò la nascita.
Il periodo di formazione del regno saudita rappresenta la fase più vistosa della
trasformazione dell’area di interesse della scuola anbalita, nel passaggio dal quotidiano
al politico. Non abbiamo molte testimonianze per quanto riguarda la storia della regione
prima dell’avvento del wahhabismo. Mu ammad ibn ‘Abd al-Wahh b (1703-1792),
studioso anbalita, fu uno dei leader dell’alleanza che vide la nascita della società saudita
per come la conosciamo oggi, stringendo legami politici con Mu ammad ibn Sa‘ūd, capo
dell’oasi di Dir‘iyya152. Il wahhabismo in quanto movimento politico si rivelò essere
precisamente uno di quelli che, a differenza di quanto disposto dall’originale
insegnamento anbalita, andava a ricercare il munkar al fine di denunciarlo. Ad ogni
modo, la battaglia che più di tutte stette a cuore ai wahhabiti, tradottasi poi nella

149
Ivi, p. 548.
150
Alessandro Bausani (2010), p. 139.
151
Michael Cook (2004), p. 548.
152
Ivi, pp. 165-166.

42
formazione di uno Stato, fu quella contro la realtà del politeismo (širk), ancora diffuso fra
gli arabi della Penisola153.
La fonte da cui ci giungono più informazioni sul Primo Stato Saudita (1745-1818) è
certamente Ibn Bišr (XIX secolo). Ci viene detto che i primi l Sa‘ūd furono dei devoti
promotori della isba e lo stesso egli dice del nipote di Ibn ‘Abd al-Wahh b. Riporta
anche alcuni esempi di come fosse portato a termine tale dovere a Mecca, meta del
pellegrinaggio: venivano inviati uomini a pattugliare i mercati negli orari della preghiera
affinché le persone osservassero il loro sacro dovere e il fumo sparì dalla pubblica
piazza154.
Dagli scritti di Ibn ‘Abd al-Wahh b, benché non sia questa la sua area di interesse,
troviamo anche passaggi che toccano la tematica del proibire il male; in particolare egli
afferma che il rimprovero non dovrebbe essere di pubblico dominio, ma essere, piuttosto,
effettuato privatamente e con garbo, senza dare nell’occhio, soprattutto quando si tratti di
governanti. Ma ancor più rilevante è un passaggio in cui conferma la lotta al politeismo e
invita gli intellettuali a dedicarvisi al massimo delle loro opportunità secondo la tradizione
delle tre modalità155. Resta però il fatto che la missione wahhabita contemplava
limitatamente, all’epoca, le questioni diverse dalla egemonia militare nelle regioni in cui
dominava il politeismo, tanto da dimostrare una certa apertura alle innovazioni nelle vita
sociale, purché non fossero di matrice politeista 156.
Con l’avvento del Secondo Stato Saudita (1823-1887), si può notare un aumento della
documentazione riguardante la isba. Gli stessi sovrani Turkī ibn ‘Abdall h (1755-1834)
e Fay al ibn Turkī (1785-1865) sottolinearono l’importanza di proibire il male come
dovere collettivo, anche inviando missive ai sudditi al fine di esortarli a compiere tale
dovere. Si assiste a una crescente istituzionalizzazione della proibizione; vengono
ufficialmente nominati uomini che si occupino di investigare (tafaqqada) sul sospetto
consumo di tabacco, sul corretto svolgimento della preghiera, nonché sulla partecipazione
agli incontri religiosi; la punizione per chi ostacola la giustizia è l’esilio 157. Siamo giunti
a una fase in cui la simbiosi tra lo stato saudita e il movimento wahhabita sta

153
Ibidem.
154
Ivi, pp. 166-168.
155
Ivi, p. 170.
156
Ivi, pp. 172-174.
157
Ivi, pp. 175-177.

43
condizionando la società; ora è la proibizione del male internamente alla società saudita
la priorità dei wahhabiti, che va sostituendo la lotta al politeismo sui confini dello Stato158.
Nel 1902 vede la luce il Terzo Stato Saudita, la cui storia è scandita dalla conquista
dell’ i z, tappa ultima della sua espansione. Importante per questa fase storica del
wahhabismo è la nascita dei moderni “Comitati per Ordinare il Bene e Proibire il Male”
(che verranno successivamente conosciuti anche col nome di Mu awwi‘a), la cui culla
pare esser stata proprio il i z. Scarseggiano le fonti interne al territorio che possano
testimoniare precisamente cosa avvenga nella regione in tale periodo. Una è l’autore
Mu ammad ibn ‘Abd al-La īf, che ci ha lasciato una lettera aperta indirizzata alla
popolazione dell’Arabia occidentale, in cui richiama all’esercizio della isba come
dovere collettivo da eseguire nelle tre modalità. Numerose sono, però, le fonti esterne,
come Amin al-Rihani (1876-1940) e St John Philby (1885-1960), che testimoniano la
riprensione fisica applicata dai Comitati e la gerarchia costituitasi fra i discepoli di Ibn
‘Abd al-Wahh b presso Riyad159. Testimonianza interna è quella di un diplomatico
egiziano presso la corte di Ibn Sa‘ūd (1875-1953), di nome fiz Wahba (1889-1969), il
quale ci dice che il bersaglio principe di questi Comitati erano gli I w n (una fazione
estremamente violenta del movimento che operava arbitrariamente)160, al fine di tenerli
sotto controllo, soprattutto così da regolare il loro temperamento aggressivo verso i
pellegrini e i meccani appena soggiogati161. Al tal fine, Ibn Sa‘ūd stesso nominerà un
giudice (qadī) che si prenda cura delle loro esagerazioni. Ci sono giunte testimonianze
anche più recenti che decretano l’ufficialità dell’istituto, come articoli pubblicati sul
giornale “Umm al-qurā” che riportano l’approvazione regia di un comitato finalizzato a
proibire il male162.
Sono poche le opere recenti che descrivono cosa succedesse nei fatti o quali fossero i
casi puniti più frequentemente. Una di queste è l’opera di ‘Alī ibn asan al-Quranī (XIX

158
Ivi, pp. 178-179.
159
Ivi, pp. 180-181.
160
Gli I w n erano beduini wahhabiti che perseguitavano e minacciavano tanto le tribù pagane, quanto i
cittadini sauditi residenti nelle grandi città (Ivi, p. 183), nonché i gruppi sciiti ai confini del territorio saudita.
Nel 1927, a Riyad, riconobbero Ibn Sa‘ūd come loro leader, il quale riuscì a farli desistere dall’attaccare
anche i territori iracheni e della Transgiordania. Con l’istituzione dei Comitati, Ibn Sa‘ūd fu anche in grado
di tenere a bada le loro iniziative violente nel milieu saudita e non solo in politica estera (David Commins,
2006, pp. 76-77).
161
Ivi, p. 95.
162
Michael Cook (2004), pp. 182-183.

44
secolo), che racconta casi di sodomia e spaccio di alcolici 163.
In piena decolonizzazione l’Arabia Saudita conobbe un’ondata di modernizzazione, nel
senso che lo Stato promosse lo sviluppo tecnologico, centralizzò il potere e concepì un
sistema amministrativo su scala nazionale. Ovviamente però, i sovrani non potevano
cancellare l’impronta che il wahhabismo aveva lasciato nella società saudita, e dunque
essi si dimostrarono sempre devoti sostenitori delle politiche religiose wahhabite. Questa
tendenza alla secolarizzazione continuò a crescere dal momento che nessuna delle
neonate istituzioni saudite (ministeri, uffici e agenzie che avessero per oggetto il petrolio)
avesse fondamenti nel pensiero wahhabita. Per di più, sotto il regno di Sa‘ūd (1953-1964)
e quello di Fay al (1964-1975), accedettero alle cariche ministeriali uomini istruiti fuori
dal Regno e la stessa famiglia reale inviò i propri membri più giovani a studiare all’estero
in vista del loro futuro ruolo di funzionari e governatori164.
Affermare che però tali istituzioni avrebbero oscurato l’influenza religiosa wahhabita
sulla scena politica saudita è ancora prematuro. Di fatti, un’importante figura di stampo
religioso, in questi anni, è presente, e si tratta di Mu ammad ibn Ibrahīm l al-
ṣay 165
(1893-1969). Questi fu il responsabile della nascita dei primi istituti scolastici
improntati all’Islam e fu paladino nel difendere i Comitati per Ordinare il Bene e Proibire
il Male dalle accuse di abuso di potere. Alla morte del Gran Muftī, l’organismo statale
dell’Arabia Saudita andò complicandosi, con l’aggiunta di un Ministero della Giustizia166.
Ma, contrariamente a quanto aspettato, l’inserimento degli ‘ulamā’ nelle istituzioni
ufficiali non diminuì affatto la loro influenza nella vita quotidiana dei cittadini sauditi 167.
A metà del secolo scorso, infatti, se molti giovani tecnocrati avevano abbracciato la
modernità e l’avevano trasmessa, o così avevano cercato di fare, alle istituzioni
musulmane dello Stato, molti altri si dimostrarono restii verso questa modernizzazione.
Conseguenza di ciò fu un generale irrigidimento dei costumi che si tradusse nell’adozione
di standard di pubblica moralità più ristrettivi da parte della Mu awwi‘a. La monarchia
saudita si trovò così tra due fuochi: da un lato gli estremisti religiosi costituivano un

163
Ivi, pp. 190-191.
164
David Commins (2006), pp. 105-107.
165
Gli l al-ṣay sono la famiglia dominante in Arabia Saudita nell’ambito religioso. Sono discendenti di
Ibn ‘Abd al-Wahh b e il loro casato ha dato i natali alla quasi totalità dei Gran Muftī del paese fino ai giorni
nostri (Federal Research Division, Saudi Arabia A Country Study, Library of Congress, 2004, pp. 232-233).
166
David Commins (2006), pp. 112-113.
167
Ivi, p. 129.

45
ostacolo alle implementazioni dello Stato in materia di progresso culturale, nonché una
minaccia per la stabilità intestina, ma dall’altro lato il governo doveva legittimarsi, in
quanto custode delle città sante di Mecca e Medina, come un governo islamico168.
Si verificò un revival religioso, a partire dagli anni Ottanta, per cui anche gli organi
statali, primo fra tutti, chiaramente, la Mu awwi‘a, inasprirono le proprie misure; le
sovvenzioni statali ad essa destinate crebbero e dal semplice compito di preoccuparsi che
i sudditi osservassero l’orario delle preghiere quotidiane, i mu awwi‘ūn (gli agenti della
Mu awwi‘a) videro le loro mansioni ampliarsi e includere anche la verifica dell’astinenza
da cibo, bevande e fumo nelle ore diurne nel mese di Ramaḍān. I mu aww‘ūn sono anche
incaricati di provvedere alla chiusura degli esercizi commerciali nel suddetto orario della
preghiera, nonché della modestia nell’abbigliamento negli spazi pubblici; uomini e donne
non imparentati sono passibili di arresto se avvistati in macchina assieme e persino gli
stranieri furono, almeno fino a poco tempo fa, soggetti alle regole della polizia
religiosa169.
La Mu awwi‘a assunse il ruolo di corpo ufficiale d’investigazione dello Stato, essendo
dotata della facoltà di ascoltare informatori e testimoni; se un comitato si trova in possesso
di prove sufficienti di colpevolezza, può arrestare i sospettati, anche senza che il reato sia
flagrante e pubblico; gli agenti, una volta arrestato l’accusato, possono perquisirlo e
sequestrarne gli effetti personali, nonché ispezionarne la dimora 170, abbandonando
totalmente lo spirito originale dell’ anbalismo. Al fine di formare questi agenti e
sull’onda del revival religioso degli ultimi anni, fu fondato nel 2004 il “Higher Institute
for Enjoining Good and Forbidding Evil” (al-ma‘had al-‘ālī lil-’amr bi l-ma‘rūf wa al-
nahī ‘an al-munkar) presso l’Università Umm al-Qura171, con sede a Mecca. Non sono
stati rari casi di abuso di potere: la Mu awwi‘a aveva la facoltà di detenere per ventiquattro
ore i sudditi accusati di aver contravvenuto alla šarī‘a prima di consegnarli alla polizia
ufficiale, tempo nel quale gli agenti estorcevano confessioni agli accusati e mettevano in
atto punizioni corporali (solitamente fustigazione) 172.

168
Federal Research Division, Saudi Arabia A Country Study, Library of Congress, 1993, pp. XXIII- XXIV
169
Ivi, p. 88.
170
Franck E. Vegel, “The public and private in Saudi Arabia: Restrictions on the Powers of the Committees
for Ordering the Good and Forbidding the Evil”, Social Research, Political Science Database, vol. LXX, n.
3, autunno 2003, p. 762.
171
Cfr. https://uqu.edu.sa/hisbah/AboutUs, 16/10/2016.
172
Federal Research Division (1993), p. 281.

46
Nel 1990 la condotta dei mu awwi‘ūn era diventata anacronistica. Il governo punì più
di una volta i mu awwi‘ūn eccessivamente zelanti nei confronti dei cittadini stranieri, a
seguito di varie rimostranze da parte dei rispettivi governi. Così, nel 1990, si optò per
nominare un capo dell’organo che fosse più accondiscendente verso le linee guida del
governo saudita173.

3.2 Iran: i Pasdaran della Rivoluzione

Analizzeremo ora il ruolo, estremamente diverso da quelli fin qui illustrati, che hanno
avuto i Pasdaran iraniani (Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica o sepāh-e
pāsdārān-e enghelāb-e eslāmi) nell’ottica del “proibire il male”. Costoro differiscono
profondamente dalle altre manifestazioni della isba in un contesto contemporaneo,
poiché legati fin dalla nascita ad una funzione politica più che prettamente etico-giuridica.
Le forze armate ereditate dall’ormai caduto regime dello scià non sarebbero state adatte
a implementare la rivoluzione appena messa in atto, così nacquero nuove istituzioni, come
delle nuove forze armate votate a sostenere Khomeini 174. Bisogna però specificare che i
Pasdaran non costituiranno mai un esercito regolare, nonostante nessuna mossa politica
volta a trasformali in ciò sia stata lasciata intentata.
Come afferma Kenneth Katzman “a professional armed force is loyal to the regime in
power and to the nation, regardless of its policies”175. Raramente, infatti, si incontrano
forze armate talmente coinvolte dall’ideologia (in questo caso religiosa) dell’élite che ha
condotto il paese alla Rivoluzione, da appoggiare quest’ultima ed esserne appoggiate così
apertamente anche a scapito del governo eletto ufficialmente.
Quando la Rivoluzione cominciò a volersi salvaguardare comparvero le prime pattuglie
stradali, scelte e formate da membri dei comitati rivoluzionari (che si dettero il nome di
pāsdārān, ovvero guardie). Si autofinanziavano, usavano mezzi di locomozione privati
ed erano muniti di carta d’identità rilasciata da uno dei comitati istituiti nelle moschee del

173
Ibidem.
174
Bayram Sinkaya, The Revolutionary Guards and the Iranian Politics: Causes and Outcomes of the
Shifting Relations Between the Revolutionary Guards and the Political Leadership in Post-Revolutionary
Iran, Middle East Technical University, 2011, p. 57.
175
Kenneth Katzman, “The Pasdaran: Institutionalization of Revolutionary Armed Force”, Iranian Studies,
vol. VI, n. 3-4, gennaio 1993, p. 401.

47
luogo presidiato. Giravano armati e le loro mansioni spaziavano dalla direzione del
traffico, alla protezione dei leader rivoluzionari, alla persecuzione dei
controrivoluzionari. I Pasdaran furono ufficialmente inseriti fra le istituzioni della nuova
repubblica grazie ad una legge provvisoria del 22 aprile 1979 emanata dal Consiglio
Rivoluzionario Islamico, unificando così i vari comitati che avevano, fino ad allora,
operato indipendentemente dallo Stato, anche al fine di disciplinarne le azioni. Poco dopo
nello stesso anno, nel dicembre 1979, anche la Costituzione della Repubblica Islamica
avrebbe reso i Pasdaran una realtà ufficiale nel paese. L’articolo 105 della Costituzione
recita come segue176:

The Islamic Revolution Guards Corps, organized in the early days of the triumph
of the Revolution, is to be maintained so that it may continue in its role of guarding
the Revolution and its achievements 177

Tuttavia, il ruolo e gli obiettivi dei Pasdaran non sono specificati nell’articolo.
Questi guardiani della Rivoluzione erano incaricati, secondo la legge provvisoria, “to
safeguard the Islamic Revolution in Iran and its expansion based on original Islamic
ideology, and to fulfill the demands of the Islamic Republic” 178.
Per come sono state esposte nella legge provvisoria, i compiti dei guardiani possono
essere divisi in tre categorie principali: 1) proteggere il paese da forze militari straniere e
da poteri estranei alla Rivoluzione all’interno del territorio. 2) contrastare i
controrivoluzionari e altre forze che potrebbero turbare la pace interna, salvaguardare
beni comuni, sequestrare armi in mano a persone non autorizzate, fornire assistenza
nell’esecuzione di decisioni giudiziarie. 3) intervenire a sostegno dei movimenti di
liberazione dei popoli oppressi.
Proprio in questa stessa ottica missionaria, i Pasdaran hanno anche intrapreso un’opera
di promozione della cultura, attraverso la pubblicazione di riviste e giornali, distribuendo
film e persino aprendo teatri. Tutta questa attività in aree così diverse del milieu iraniano
è dovuta alle varie interpretazioni che le mutevoli priorità del governo imposero agli
stessi. Nel giugno 1979 infatti, il portavoce dei Pasdaran affermò che la Rivoluzione fosse
pensata per espandersi su tutti i livelli, supervisionando ogni attività svolta nella neonata

176
Bayram Sinkaya (2011), pp. 59-62.
177
Ivi, p. 62.
178
Ibidem.

48
società musulmana179. Inoltre, benché nell’articolo 105 non fosse specificato che i
guardiani della Rivoluzione dovessero la propria fedeltà a Khomeini, essi si votarono
ugualmente alla causa della velāyat-e faqīh180. Inoltre, i comandanti in carica del Corpo
delle Guardie della Rivoluzione argomentarono che, nonostante questo andasse oltre i
propositi originali dei Pasdaran, rientrasse fra le loro mansioni quella di ordinare il bene
e proibire il male181.
Soltanto nel maggio 1982, la legge conferì specificità alle Guardie. La loro prima
mansione doveva essere quella di salvaguardare quanto realizzato dalla Rivoluzione. In
secondo luogo, dovevano adoperarsi costantemente per far prevalere i principi divini e
farli rispettare in base alle prescrizioni della Repubblica Islamica dell’Iran. Terzo,
cooperare con le forze armate regolari al fine di difendere i confini del paese, nonché
preparare i corpi volontari della loro milizia (i Basij 182)183.
Ad ogni modo, l’orientamento politico e le priorità attribuite ai Pasdaran sono sempre
variate in base agli obiettivi politici di chi li ha gestiti, smascherando la complessità della
coalizione che si era formata durante le rivolte contro lo scià184.
Anche l’ yatoll h Ali Khamenei si preoccupò, quando assurse al potere nel 1989, di
ridefinire il loro ruolo, insinuando che i Pasdaran erano andati ben oltre il loro scopo
iniziale, ossia quello di difendere i valori della Rivoluzione, e stavano sfociando nel
militarismo. Sulla stessa linea si poneva l’ yatoll h Mahmoud Hashemi Shahroudi

179
Ivi, pp. 62-64.
180
Per velāyat-e faqīh si intende il “governo islamico” descritto da Khomeini nella sua opera omonima,
pubblicata nel 1971 e nota inizialmente solo presso i circoli religiosi. Si tratta di una raccolta di lezioni
tenute da Khomeini stesso l’anno precedente che furono la base dell’ideologia politica post-rivoluzionaria.
Nell’opera Khomeini si preoccupa principalmente di far capire che la propria idea di governo islamico era
già stata discussa nella tradizione sciita ma poi finita nell’oblio. Khomeini troverà il fondamento della
velāyat-e faqīh nell’istituto dell’imamato, che conferisce al giureconsulto il diritto di governare in attesa
del ritorno dell’unico Imam: il Mahdī. Assumersi tale compito spetta al faqīh-e ‘asr, il “giurista del tempo”,
il migliore fra i sapienti di un determinato periodo storico. È scontato dire che Khomeini dipinge se stesso
come il candidato in pectore per ricoprire tale carica (Marcella Emiliani, Marco Ranuzzi de’ Bianchi, Erika
Atzori, 2008, pp. 99-103).
181
Bayram Sinkaya (2011), p. 65.
182
Per l’esattezza i Basij erano formazioni di volontari, mossi da profondo idealismo, chiamati al fronte
con poco preavviso per unirsi a formazioni fisse di Pasdaran e per rimanere all’incirca tre mesi al servizio
degli ufficiali del Corpo delle Guardie della Rivoluzione, per poi fare ritorno ai loro luoghi di provenienza
(Kenneth Katzman, Iranian Studies, 1993, p. 396).
183
Bayram Sinkaya (2011), pp. 65-66.
184
Kenneth Katzman, The Warriors of Islam: Iran’s Revolutionary Guard, Westview Press, 1993, p. 34.

49
(1948-) quando affermava che i valori, gli scopi, e gli ideali della Rivoluzione nella
regione e ovunque ve ne fosse bisogno 185 fossero la priorità del Corpo delle Guardie 186.
Al fine di sostenere la Rivoluzione in ogni suo aspetto, i Pasdaran si impegnarono nella
islamizzazione (dunque ordinando il bene e proibendo il male) di ogni attività di tipo
culturale che fosse loro raggiungibile, soprattutto al fine di ostacolare la diffusione delle
idee e dei modelli occidentali. Per prevenire questa contaminazione, i comandanti del
Corpo delle Guardie li incoraggiarono a lavorare in ogni ambito di diffusione della cultura
(arti, lettere, pubblicazioni) 187. Proprio per implementare questa funzione
culturalizzatrice dei Pasdaran, e dar loro un’adeguata istruzione, furono aperti centri di
formazione loro destinati, come un dipartimento intero della “Imam Sadiq University”,
fondata nel 1982, dove vengono istruiti nell’ambito ideologico sciita, e più tardi,
fondando una propria università, la “Imam Hossein University”, aperta nel 1986, dove
sono tenuti corsi di Laurea in ingegneria, medicina e scienze legate all’ambito militare 188.
Come accennato all’inizio, i Pasdaran furono presi di mira dal potere governativo a più
riprese. Il neoeletto presidente (il cui mandato durerà poco più di un anno, dal febbraio
del 1980 al giugno del 1981) Abolhassan Banisadr (1933-), a seguito della sua nomina da
parte di Khomeini a Comandante in Capo delle Forze Armate, tentò immediatamente di
soggiogare al potere dei moderati (la fazione politica di cui faceva parte) il Corpo delle
Guardie della Rivoluzione. Benché i moderati avessero il supporto della maggioranza del
popolo, l’élite clericale 189 gli si oppose fermamente e lo stesso fecero i Pasdaran, che
temevano che il controllo di Banisadr li avrebbe disgregati190. Con la presidenza
Rafsanjani (1989-1997) vi fu il tentativo più vistoso di amalgamare i Pasdaran alle forze
armate regolari, ma con l’appoggio della nuova Guida Suprema della Repubblica, Ali

185
Qui ci si riferisce all’interventismo dei Pasdaran fuori dai confini iraniani, come nel caso di contingenti
da essi formati presenti sul territorio libanese, nati come aiuto contro l’invasione israeliana, e tradottisi nella
nascita di Hezbollah, o come in Sudan, Bosnia e Afghanistan. Queste unità speciali rispondono al nome di
Forza Quds (Kenneth Katzman, Iranian Studies, 1993, p. 397).
186
Bayram Sinkaya (2011), pp. 66-67.
187
Ivi, pp. 69-70.
188
Kenneth Katzman, Westview Press, 1993, pp. 90-92.
189
Ricordiamo che il tratto distintivo degli sciiti, rispetto ai sunniti, è quello di riporre l’autorità religiosa
in determinati “centri-persone”, depositari di scintilla divina. Essi ritengono che non possa non essere stato
nominato un successore da parte del Profeta e credono che questi sia ‘Alī ibn Abī lib, dal quale è discesa
la dinastia degli imam, unici interpreti autorevoli dell’Islam. Fu così che andò radicandosi l’idea della
gerarchia (qualcuno dice di ascendenze iraniche) nella fede, idea sconosciuta al mondo sunnita (Alessandro
Bausani, 1999, pp. 94-98).
190
Bayram Sinkaya (2011), p. 128.

50
Khamenei, gli schemi di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani (1934-) non si realizzarono 191.
Ciò che più ci interessa della presidenza di Rafsanjani è scoprire quali fossero i piani che
il capo del governo aveva in mente per il Corpo e cosa poi si sia effettivamente
concretizzato. Il piano prevedeva l’upgrade della loro formazione militare e delle armi
date loro in dotazione, nonché l’incremento delle missioni estere (Sudan, Bosnia-
Erzegovina, Azerbaigian), aspettative che sembrano essere state esaudite. In secondo
luogo, ancora più interessante è vedere come sotto il governo di Rafsanjani i Pasdaran
(compresi, forse in maniera preponderante, i Basij) si siano progressivamente dedicati
alla censura. In questo senso, un’altra politica collaterale a quelle del Presidente, quella
della liberalizzazione dei costumi, non ebbe esito, poiché il suo stesso ministro
dell’Interno, Abdollah Nouri (1950-), supportava il tipo di misure promosse dai Pasdaran
e incoraggiava un severo rispetto delle norme islamiche 192. Gli aspri scontri col governo
si chiuderanno definitivamente con il mandato presidenziale (durato dal 2005 al 2013) di
Mahmoud Ahmadinejad (1956-). Egli infatti rese il rapporto esistente fra il Presidente
della Repubblica e le Guardie della Rivoluzione quasi simbiotico, tanto da consegnare
cariche fra le più elevate dell’amministrazione del paese ad ufficiali del Corpo dei
Pasdaran. In cambio le Guardie si impegnavano ad incrementare la ricchezza e lo sviluppo
del paese mettendo a disposizione, nelle regioni in cui ciò fosse necessario, dei fondi
derivati dalle imprese loro legate193, nonché ad esprimere apertamente appoggio al
Presidente nei momenti, se fossero pervenuti, di crisi interna 194.

191
Ivi, pp. 206-207.
192
Kenneth Katzman, Iranian Studies, 1993, pp. 398-399.
193
Bayram Sinkaya (2011), pp. 262-264.
194
Ivi, p. 266.

51
3.3 Dā‘iš: la rinascita della ḥisba

Si passerà ora all’analisi dell’ultima manifestazione nota, in ordine d’apparizione, della


isba, ossia quella istituita dall’autoproclamato Stato Islamico, conosciuto anche con gli
acronimi di IS (Islamic State), ISIS (Islamic State of Iraq and Syria), ISIL (Islamic State
of Iraq and Levant) o D ‘iš (Daesh), nella sua forma araba (al-Dawla al-Islamiyya fī l-
‘Irāq wa l-Šām).
L’alone di mistero che avvolge le origini di D ‘iš è dovuto alla scarsa attenzione
prestatagli negli anni di attività relativamente latente precedenti il 2013 195.
Appare opportuno preoccuparsi di determinare, almeno a grandi linee, l’ideologia
soggiacente lo Stato Islamico e contestualizzare la nascita di una simile organizzazione.
Essa può essere compresa nell’ottica del Salafismo jihadista (o Jihadismo). Esso trae
origine da un tipo di lettura della Scrittura e della sunna particolarmente letteralista e di
diffusione minoritaria, con una visione teologica radicata nel Medioevo, riconosciuta
solamente da una cerchia di poche autorità in materia 196.
Ovviamente il Califfato di Abū Bakr al-Ba d dī (nome di battaglia di Ibr hīm ‘Awad
Ibr hīm ‘Alī l-Badrī l-Samarr ’ī, 1971-), leader dell’organizzazione e detentore del titolo
califfale, è l’ultimo di una serie di manifestazioni del fondamentalismo islamico che
hanno interessato l’area del Vicino Oriente, dunque condivide dei tratti comuni con
talaltre espressioni estremiste. Ad esempio, i Fratelli Musulmani, il cui fondatore, asan
al-Bann , aveva preconizzato la necessità della umma islamica di riunirsi attorno ad
un’unica guida che la riunificasse al di là dei confini dei neonati Stati nazionali197.
Esistono anche legami tra lo Stato Islamico e altre organizzazioni quali al-Q ‘ida, e tratti
comuni, come l’aspetto jihadista del suo operato. Il fondatore del ramo iracheno di al-
Q ‘ida, Abū Mus‘ab al-Zarq wī (1966-2006), pare essere stato colui che ha acceso la
scintilla del jihadismo nell’ideologia di D ‘iš, se non altro indirettamente, avendo i primi
leader dello Stato Islamico studiato le sue dottrine, le quali possono farsi facilmente
risalire ad una matrice wahhabita198.

195
Cole Bunzel, From Paper State to Caliphate: The Ideology of the Islamic State, Brookings Institution,
2015, p. 4.
196
Cole Bunzel (2015), p. 7.
197
Ivi, p. 8.
198
Ivi, pp. 9-10.

52
Lo Stato Islamico enfatizza soprattutto certi aspetti del proprio agire, come l’accusa di
apostasia per chiunque rifiuti o ostacoli la crescita del movimento (takfīr199), la caccia
aperta contro lo širk (idolatria, politeismo) ovunque esso compaia. In particolare, oggetto
degli attacchi di D ‘iš sono stati, e sono tuttora, gli sciiti. Il loro astio nei confronti della
šī‘a (da loro denominata al-rāfiḍa, ossia “coloro che rifiutano”200) si può far risalire alla
seconda invasione statunitense dell’Iraq (cominciata nel 2003) finalizzata a deporre
add m ussayn (1937-2006). Al-Zarq wī espresse, in questo periodo, precisamente nel
2004, la volontà di attaccare la comunità sciita irachena così da innescare la guerra civile,
argomentando che già secondo gli autori classici del sunnismo, come Ibn Taymiyya, la
šī‘a andava oltre i limiti dell’Islam stesso, e che non vi fosse altra soluzione al problema
se non la vittoria sul campo di battaglia. Queste accuse diverranno poi uno dei fondamenti
dello Stato Islamico 201.
Gli attacchi rivolti alla šī‘a hanno reso anche l’Arabia Saudita uno dei bersagli favoriti
di D ‘iš. Infatti, se da un lato è vero che il wahhabismo incentiva fortemente la
repressione di qualunque idolatria (dunque anche la šī‘a, che ripone troppa devozione
nelle figure appartenenti alla famiglia del Profeta e negli imam 202), dall’altro gli stessi l
Sa‘ūd hanno adottato una politica moderata nei confronti degli sciiti per gli ideali di D ‘iš,
cosicché D ‘iš ha colto l’occasione per dipingersi come il paladino del sunnismo che
intende distruggere la pericolosa šī‘a, mentre gli l Sa‘ūd non sembrano far nulla a
riguardo203.
Con l’elevazione a califfo di al-Ba d dī, lo Stato Islamico ha effettivamente trovato un
escamotage, almeno apparente, per dichiarare aperto il ǧihād. Al momento della
proclamazione, al principio del mese di Ramaḍ n del 2014, nella Grande Moschea di
Mosul, il portavoce del Califfato Abū Mu ammad al-‘Adn nī (1977-2016) annunciò
anche che lo “Stato” si sarebbe chiamato da quel momento in poi semplicemente Stato
Islamico, eliminando la connotazione topografica ad esso inizialmente adiacente,
affermando come fosse destinato ad espandersi a tutto il mondo, e giurando fedeltà (ossia

199
Si tratta della pretesa di accusare arbitrariamente un qualunque musulmano del reato di apostasia
(gravissimo e passibile di pena capitale) (John Hunwick, “Takfīr”, The Encyclopaedia of Islam, E. J. Brill,
vol. X, 1986, p. 122).
200
Cole Bunzel, The Kingdom and the Caliphate: Duel of the Islamic States, Carnegie Endowment for
International Peace, 2016, p. 13.
201
Cole Bunzel (2015), p. 14.
202
Ivi, p. 8.
203
Cole Bunzel (2016), p. 13.

53
eseguendo la bay‘a) ad al-Ba d dī, noto da quel momento come califfo Ibr hīm.
Ovviamente il Califfato pretese la bay‘a da parte di tutti i musulmani sparsi nel mondo,
aggiungendo anche l’obbligo di migrare dai loro paesi verso i territori da esso
amministrati. Non solo la stragrande maggioranza del mondo musulmano non ha prestato
ascolto a tale invito, ma vi sono stati anche casi, come in Nord Africa e nella Penisola
Arabica, in cui i jihadisti hanno ribadito la propria lealtà verso i rispettivi leader,
soprattutto quelli appartenenti ad al-Q ‘ida, che hanno rinnovato la bay‘a per Ayman al-
Ẓaw hirī (1951-), successore del defunto Us ma bin L din (1957-2011). Giunto a questo,
il Califfato si è trovato delegittimato, o, perlomeno, non legittimato quanto si aspettava 204
(fatta eccezione, probabilmente, per i territori che ha conquistato), tanto da aver
pubblicato sul web una serie di registrazioni audio che hanno per oggetto vari giuramenti
rivolti al califfo Ibr hīm provenienti da aree disparate del mondo musulmano (Arabia
Saudita, Yemen, Sinai egiziano, Libia, Algeria), nonostante pochi siano provenuti da
gruppi jihadisti preesistenti205.
Passando all’argomento oggetto di questo studio, vari approfondimenti hanno
comprovato che l’ufficio della isba sia effettivamente presente nei territori controllati da
D ‘iš; è infatti vero che fra le prime istituzioni di cui le milizie dello Stato Islamico dotano
i luoghi o le città appena sottomessi vi sia proprio la isba (assieme ad una “Hudud
Square”206, una piazza ove vengono eseguite le sentenze sciaraitiche tradotte in pene quali
crocifissioni, decapitazioni, fustigazioni e tagli della mano e/o del piede, ma anche
tribunali sciaraitici e forze di polizia 207), la quale si occupa, prevalentemente nelle aree
urbane, della verifica della condotta nel mercato e nelle attività commerciali in
generale208, ma non solo, come vedremo più avanti.
Al fine di esplicitare in che modo D ‘iš dia rilevanza e spazio alla isba, e vedere come
esso si autolegittimi, sarà utile vedere come la stessa organizzazione si dipinga all’interno

204
Cole Bunzel (2015), pp. 31-32.
205
Ivi, p. 32.
206
Le pene che prendono il nome di udūd (letteralmente “limiti”) sono quei castighi “fissati” da Dio ed
esplicitamente esposti nel Corano, che rientrano negli uqūq Allāh (diritti di Dio) ai quali l’uomo non può
mettere mano, né diminuendoli né incrementandoli (Rudolph Peters, Peri Bearman, The Ashgate Research
Companion to Islamic Law, Ashgate, 2014, p. 165).
207
Bisogna ricordare che la polizia (šur a) è intesa come un corpo di guardie fedeli al califfo che si occupa
essenzialmente dell’ordine pubblico e della esecuzione delle pene udūd e del qiṣāṣ (il taglione). Questo il
suo legame con l’obbligo di ordinare il bene e proibire il male (Giorgio Vercellin, 2002, p. 317-318).
208
Michael Weiss, Hassan Hassan, ISIS: Inside the Army of Terror, Regan Arts, 2015, p. 143.

54
della propria rivista ufficiale, che porta il nome di “Dabiq”209 (fermatasi al quindicesimo
numero e sostituita con la più breve “Rumiyah”, il cui nome indica Roma210, città focale
nelle mire del Califfato211).
Come detto sopra, il Califfato tende a rappresentarsi come paladino della giustizia per
tutti i musulmani oppressi. Non mancano, infatti, anche gli attacchi nei confronti dei loro
acerrimi nemici: l’Arabia Saudita e gli sciiti. La prima viene screditata additandola come
un paese la cui monarchia si è alleata con i “Crociati” (gli Occidentali in generale) e che
governa tramite leggi create dall’uomo e non secondo quelle di Dio 212; gli sciiti si fanno
spesso coincidere geograficamente con la wilāyat urāsān (le regioni più orientali che
rientrano nelle mire del Califfato, corrispondenti agli attuali Pakistan e Afghanistan,
ignorando, apparentemente, la presenza dell’Iran), presa di mira anche a causa del
movimento nazionalista dei Talebani, accusato di non rispettare davvero i precetti islamici
ma piuttosto di assecondare tradizioni locali che poco hanno di musulmano, come anche
per colpa della presenza di altre potenze etnico-religiose nemiche confinanti con la
suddetta provincia: gli hindū politeisti che giungono dal subcontinente indiano e gli atei
provenienti dalla Cina. Proprio questa regione rientra in un ben preciso programma di
rieducazione all’insegna del Libro e della sunna, nonché di un già avviato processo di
distruzione dei luoghi di culto e di sepoltura213.
Un esempio dello spirito di restaurazione del “vero Islam” che preme al Califfato si
ritrova nel primo numero della prima rivista sopracitata, in cui viene evidenziata
l’alleanza fra lo Stato Islamico e le tribù delle zone da esso acquisite (nello specifico nella

209
La rivista prende il proprio nome da un luogo mitico e di centrale importanza nell’escatologia islamica;
qui, infatti, le milizie di Dio affronteranno e vinceranno i bizantini (al-rūm) in un’ultima gloriosa battaglia,
facendo trionfare l’Islam sulla Terra (Cfr. http://www.clarionproject.org/news/islamic-state-isis-isil-
propaganda-magazine-dabiq# , 26/10/2016).
210
Ibidem.
211
Questo obiettivo è riconducibile (oltre alla storica conquista della Roma di un tempo, ovvero
Costantinopoli) alla contrapposizione di dār al-Islām (dimora dell’Islam) e dār al- arb (dimora della
guerra), le quali rappresentano il conflitto fra i territori dove l’Islam in epoca medievale dominava e dove
invece no. Questo dualismo non è sempre stato presente, e anche la parola cui esso potrebbe essere più
facilmente associato, ǧihād, non indicava altro che la predicazione, l’invito alla conversione; solo
successivamente esso avrebbe assunto, grazie soprattutto alla tradizione giuridica, una connotazione
squisitamente bellica. Non è, tra l’altro, un principio obbligatorio. Infatti, i territori ove non vige la šarī‘a
ma non si mette in atto una repressione violenta nei confronti dell’Islam prendono il nome di dār al-ṣul
(dimora della tregua), ma ciò rimanendo sempre nell’ottica in cui il conflitto può risolversi unicamente con
il trionfo dell’Islam (Giorgio Vercellin, 2002, pp. 25-29).
212
“The Law of Allah or the Laws of Men”, Dabiq. The Law of Allah or the Laws of Men, al- ay t Media
Center, n. 10, giugno-luglio 2015, p. 59.
213
“Interview With: The W lī of Khur s n”, DabiqṬ The Rāfidah from Ibn Saba’ to the Dajjāl, al- ay t
Media Center, n. 13, gennaio-febbraio 2016, p. 49.

55
provincia di Aleppo, o wilāyat alab) e come lo Stato inviti caldamente a “promuovere
la virtù e prevenire il vizio” 214.
In seguito, il Califfato passa a descrivere la propria lotta come un ǧihād indirizzato alla
propagazione (da‘wa) dei valori islamici, rieducando le persone, attività che lo Stato
riunisce sotto l’etichetta di isba215.
Non solo, D ‘iš si rifà negli articoli della rivista, ovviamente, anche alle tradizioni
medievali, citando, ad esempio, Ibn Qud ma ed elencando di nuovo le modalità con cui
bisogna proibire il male provocato da un compagno di fede: informare del peccato,
ammonire gentilmente, consigliare, neutralizzare l’oggetto del peccato e, in ultima
istanza, ferire il peccatore216.
Si passerà ora all’analisi di due casi specifici, ma rappresentativi di tutta l’applicazione
della isba per come viene messa in atto da D ‘iš all’interno dei propri territori nella
realtà quotidiana: quelli delle città di Mosul e di al-Raqqa.
Dopo due giorni di battaglia, il 10 giugno 2014, Mosul finisce sotto il controllo delle
milizie dello Stato Islamico (divenendo la capitale della provincia nota col nome di
wilāyat Nīnawā). Il 13 giugno, le truppe fecero circolare la wa īqat al-madīna (carta della
città) che dichiarava la serietà degli intenti del Califfato nel mettere in pratica e far
rispettare i precetti della šarī‘a. Da allora i sermoni del venerdì additarono severamente
chiunque commettese peccato. Le donne furono l’oggetto di maggior attenzione tanto nei
sermoni quanto nella wa īqa: fu consigliato loro di non uscire di casa se non per
emergenze e di indossare abiti consoni. Le boutiques femminili furono costrette a
rimpiazzare la propria merce classica con esemplari di niqāb e guanti. Altri punti centrali
della wa īqa furono la vendita di alcol e tabacco. Gli autoveicoli degli agenti della isba
iniziarono a pattugliare mercati, parchi, bar, scuole e ospedali 217.
A Mosul è stato anche fondato un diwān al- isba. Il diwān opera come un regolare
ufficio con impiegati che documentano le violazioni sciaraitiche commesse dagli arrestati
ogni giorno. Gli accusati devono seguire la pattuglia fino alla centrale e qui vengono

214
“The Concept of Imamah is from the Millah of Ibrahim”, Dabiq. The Return of Khilafah, al- ay t Media
Center, n. 1, giugno-luglio 2014, p. 13.
215
“Da‘wah and Hisbah in The Islamic State”, Dabiq. A Call to Hijrah, al- ay t Media Center, n. 3, luglio-
agosto 2014, pp. 16-17.
216
“Tawhīd and Our Duty to Our Parents”, Dabiq. The Law of Allah or the Laws of Men, al- ay t Media
Center, n. 10, giugno-luglio 2015, p. 17.
217
Rasha Al Aqeedi, Hisbah in Mosul: Systematic Oppression in the Name of Virtue, The George
Washington University, 2016, pp. 5-6.

56
catalogati i dettagli dell’accaduto: orario, luogo, violazione e pena. Esistono delle tabelle
apposite per identificare la pena appropriata per ogni crimine, redatte dal diwān al-
quda‘āt (tribunale giudiziario). Ma non sempre queste corrispondenze vengono rispettate.
Vi sono, infatti, testimonianze secondo cui le pattuglie della isba avrebbero
arbitrariamente punito alcuni malfattori colti in flagrante in maniera sproporzionata
rispetto alla pena prevista, oppure, essendo gli agenti della isba armati anche di semplici
bastoni, avrebbero abusato della loro autorità picchiando individui apparentemente senza
averne motivo218.
L’altro grande esempio pratico è quello di al-Raqqa, proclamata capitale dello Stato
Islamico. Le testimonianze riguardo il suo funzionamento ci giungono da un
documentario prodotto da “Vice News”. Il capo pattuglia che appare nel video dichiara
più volte che lui e i suoi colleghi sono la “ isba”, come è scritto anche sulla loro vettura.
Egli si propone di implementare la presenza del Califfato attraverso l’osservanza forzata
dei precetti islamici. Immagini che fanno riferimento a modelli occidentali vengono
rimosse. Traspaiono una categorica proibizione della compravendita, del possesso e del
consumo di alcol; particolare attenzione viene prestata al vestiario femminile, fosse anche
teoricamente corretto, ma che può presentare difetti (come il tessuto troppo trasparente di
un niqāb219). Il capo pattuglia conferma che il loro dovere è derivato da Dio (parlando
nello specifico dell’obbligo di far indossare alle donne il velo) e che la loro prima azione
dev’essere quella di riprendere in maniera gentile e poi, nel caso non fossero ascoltati,
costringere con la forza. Le ispezioni portate avanti negli esercizi commerciali appaiono
piuttosto sommarie e il mu tasib non manifesta la necessità di verificare più a fondo la
veridicità di quanto dichiarato dai commercianti - qualunque ruolo investigativo
dell’organo della isba sembra, dunque, decadere. Anche la corretta gestione del prezzo
dei beni alimentari viene verificata affidandosi solo alla parola del venditore. I carcerati
che vengono intervistati riportano che si trovano in galera poiché sono stati colti in
flagrante. La punizione che gli viene inflitta è unicamente, secondo le testimonianze,
quella di essere frustati. Alcuni carcerati esprimono anche le loro lodi nei confronti della

218
Ivi, pp. 6-7.
219
Indumento lungo e nero usato nella tradizione islamica dalle donne per coprirsi, formato da un abito che
copre tutto il corpo e un velo che avvolge la testa lasciando visibili solo gli occhi.

57
isba grazie alla quale hanno maturato nuovamente la fede in Dio e nella Sua Legge,
permettendogli di pentirsi e non vivere più nel peccato 220.

220
Cfr. https://news.vice.com/video/the-islamic-state-part-3, 28/10/2016.

58
CONCLUSIONI

Alla fine del nostro lavoro, siamo giunti a comprendere cosa significhi e che ruolo ricopra,
e abbia ricoperto un tempo, la isba nello sconfinato mondo musulmano e come essa sia
un’istituzione viva e vitale che non è stata affatto abbattuta dal tempo e che, con ogni
probabilità, non lo sarà mai fintanto che qualcuno tra i pensatori contemporanei in fatto
di Islam vorrà rifarsi a modelli medievali. Questa è una facoltà - quella di rifarsi a modelli
antichi - nonché, come appare evidente dai discorsi affrontati in questa sede, un’esigenza
di tutti gli intellettuali musulmani, che si è andata radicando anche nel tessuto sociale.
Nel primo capitolo abbiamo esplorato il campo semantico delle parole comunemente
tradotte come “bene” e “male” o “buono” e “cattivo”, scoprendo che ognuna delle coppie
di opposti è portatrice di riferimenti differenti dalle altre coppie prese in esame (alcune
parlano di ricchezza e miseria, altre di purità e impurità degli alimenti), e che solamente
la coppia formata da ma‘rūf e munkar è in realtà valida per procedere ad una analisi della
natura dell’etica islamica, tanto nel Medioevo quanto oggi. Infatti sono questi due
vocaboli, indipendentemente dalla traduzione che se ne vuole dare, ad apparire nella
massima “ordinare il bene e proibire il male” (al-amr bi l-ma‘rūf wa al-nahī ‘an al-
munkar). Nel secondo capitolo, grazie alla letteratura esaminata attraverso tutta la ricerca,
siamo giunti ad avere un’idea esauriente della rilevanza che il principio sopracitato ha
avuto nei testi di etica composti nei secoli in cui la cultura arabo-islamica vide la propria
massima fioritura ed espansione geopolitica. Infatti, il principio ordinativo che è stato alla
base di questo capitolo ha avuto come caposaldo la suddivisione per scuole dell’analisi
medesima. Abbiamo visto come ogni scuola abbia sviluppato una propria peculiare
coscienza riguardo l’obbligo che grava sul musulmano di ordinare e proibire. Siamo
passati attraverso il caso anbalita e il suo travagliato rapporto col potere politico, che
non doveva, stando a quanto riportato da al- all l, essere campo di indagine per lo
studioso anbalita. Abbiamo visto questa prassi andar perduta man mano che la scuola
anbalita ha conosciuto una discreta accettazione presso la società e, ancor di più, presso
le corti principesche, al che anche il potere statale è entrato a pieno titolo nelle trattazioni
anbalite sulla proibizione del male, come traspare dalle parole dedicate a ciò da Ibn
Taymiyya. Come affermava al- az lī ogni pensatore di una scuola giuridica ha
potenzialmente ragione poiché si basa su ciò che gli è fornito dalle fonti del Corano della

59
sunna. Abbiamo anche visto come proprio al- az lī sia il punto d’arrivo di tutta una
letteratura, anche e soprattutto anafita, che nei secoli a lui posteriori non farà altro che
rifarvisi, se non addirittura plagiarlo, per riprendere il discorso sull’ordinare il bene e
proibire il male. Si è potuto notare come il pensiero sciita duodecimano, a differenza di
quello sunnita, abbia dedicato una letteratura molto più specifica al discorso etico,
sebbene scarsa e che origina da fonti di dubbia matrice sciita, con il fiorire di manuali
dedicati alla isba che hanno dato alla luce una serie di riflessioni ampiamente sviluppate
nel contesto duodecimano. Abbiamo anche potuto scoprire quale sia stata la sorte del
mu tasib, in quanto figura etica e giuridica a un tempo, nelle realtà medievale, ottomana
e safavide, vedendo dapprima le sue mansioni ampliarsi, fregiandosi di basi giuridico-
religiose, per poi andar perdendo il prestigio di un tempo e vedendo i propri compiti
ridursi al semplice ispettorato. Questo fino a quando, in Persia, sparì prima nei piccoli
centri urbani e poi dal Paese, per essere rimpiazzato da figure più omnicomprensive.
Infine, il terzo capitolo è stato dedicato all’analisi della realtà contemporanea. Al
riguardo, ci interessava scoprire come e se la isba ha continuato ad essere esercitata e
che peso ha e ha avuto in paesi quali l’Arabia Saudita, l’Iran post-rivoluzionario e lo Stato
Islamico con i propri territori. Il discorso sulla funzione, o anche semplicemente
l’esistenza dell’istituto, non era affatto scontato in un mondo come quello arabo-islamico
che dal XIX secolo ha conosciuto una sempre maggiore occidentalizzazione, fenomeno,
questo, che è stato contrastato in tutti i modi per mantenere una propria identità, con la
conseguente nascita di movimenti come quello modernista, che intendono ristabilire un
ordine islamico “moderno” nella società costituitasi all’indomani della colonizzazione.
Abbiamo dunque scoperto che la isba è effettivamente presente nelle suddette realtà.
Quella saudita, dove il revival religioso ispirato dal wahhabismo e coadiuvato dal potere
degli l Sa‘ūd, è la realtà geopolitica che vanta da più tempo una storia di isba. I re
sauditi, infatti, si sono fatti per lungo tempo promotori della lotta al paganesimo e allo
sciismo nei territori originali del paese e in quelli annessi con le successive conquiste,
provvedimenti che rientrano nell’obbligo di ordinare il bene e proibire il male nella
visione wahhabita. Il regno saudita ha anche istituito un comitato specifico, la Mu awwi‘a,
che deve accertarsi che i sudditi rispettino le limitazioni imposte dalla Legge divina.
Tuttavia, lo Stato stesso si è applicato, negli ultimi anni, al fine di ridimensionare le libertà
degli agenti della Mu awwi‘a, più volte accusati di abuso di potere. In Iran i Pasdaran, i

60
guardiani della Rivoluzione, garantiscono non soltanto il rispetto delle norme religiose
nel quotidiano, ma anche attraverso, come abbiamo visto, l’avvio di attività culturali. Il
legame con la dottrina e le linee guida dello sciismo impostosi in Iran dopo l’ascesa al
potere di Khomeini è segnalato chiaramente dall’alleanza, relativamente nascosta, fra i
Pasdaran e la Guida Suprema del paese, che non è stata scalfita neanche dai molti tentativi
di sottomettere il Corpo delle Guardie al volere del governo. Infine, lo Stato Islamico,
D ‘iš, ha, per così dire, operato una vera e propria rinascita dell’ufficio della isba, che
riacquista il proprio ruolo di polizia giudiziaria. Pattuglie localizzate hanno l’obiettivo di
verificare la qualità dei beni acquistabili nei negozi delle città conquistate e di
supervisionare il pubblico pudore, che si traduce nell’adozione di un vestiario consono
specialmente da parte delle donne, mentre non viene fatto cenno ad alcuna particolare
presa di posizione da parte del mu tasib, che vada oltre il semplice sincerarsi che tutti
quanti accettino le norme fissate dalla šarī‘a. Non sono, però, mancate le accuse, anche
qui, di abusi operati dai controllori. In conclusione, possiamo affermare che le linee guida
di ciò che la isba e l’ufficio del mu tasib hanno rappresentato per il passato non siano
affatto variate nel presente. Le prerogative degli ufficiali sono le medesime, con la sola
eccezione che, essendo Stati moderni quelli di cui abbiamo parlato, l’autorità statale
influenza molto più prepotentemente il loro operato, senza mai, ovviamente, superare i
limiti imposti dalla Legge, orizzonte di riferimento sempiterno per la condotta islamica
d’ogni tempo e luogo, come abbiamo visto nel caso saudita. Tanto il caso saudita quanto
quello iraniano si dimostrano esemplari per la vastità di mezzi moderni di cui gli Stati
dispongono per la promozione della isba, come i dipartimenti universitari a tal scopo
fondati. Lo Stato Islamico è dunque l’entità oggi che più fedelmente replica le modalità
del passato. Veniamo dunque a conoscenza di un mondo, quello della isba - sia intesa
come obbligo etico-giuridico dotato di prerogative, che come professione - ancora vitale
e creativo. Questa è sicuramente una conseguenza del fatto che, come affermato all’inizio
del lavoro, la isba, in quanto concretizzazione dell’etica, è viva perché è vivo l’Islam, e
quest’ultimo è vivo poiché non è solo una fede, ma esprime un sistema giuridico-
normativo che, dal Medioevo (quando è stato codificato) ad oggi, regola in maniera
assertiva la vita della comunità come del singolo credente, un orizzonte di riferimento che
garantisce certezze agli individui e fornisce, se queste vengono rispettate, stabilità alle
società che all’Islam si richiamano.

61
BIBLIOGRAFIA

“The Concept of Imamah is from the Millah of Ibrahim”, Dabiq. The Return of Khilafah,
n. 1, giugno-luglio 2014.

“Da‘wah and Hisbah in The Islamic State”, Dabiq. A Call to Hijrah, n. 3, luglio-agosto
2014.

“The Law of Allah or the Laws of Men”, Dabiq. The Law of Allah or the Laws of Men,
n. 10, giugno-luglio 2015.

“Tawhīd and Our Duty to Our Parents”, Dabiq. The Law of Allah or the Laws of Men, n.
10, giugno-luglio 2015.

“Interview With: The W lī of Khur s n”, DabiqṬ The Rāfidah from Ibn Saba’ to the
Dajjāl, n. 13, gennaio-febbraio 2016.

Abdelsalam Ahmed, “The practice of violence in the isba-theories”, Iranian Studies,


vol. XXXVIII, n. 4, aprile 2011.

Al Aqeedi Rasha, Hisbah in Mosul: Systematic Oppression in the Name of Virtue, The
George Washington University, 2016.

Bausani Alessandro, L’Islam, Garzanti, 1999.

Bausani Alessandro, Il Corano, BUR, 2010.

Berque Jacques, Gli arabi, Piccola Biblioteca Einaudi, 1978.

Bunzel Cole, From Paper State to Caliphate: The Ideology of the Islamic State,
Brookings Institution, 2015.

Bunzel Cole, The Kingdom and the Caliphate: Duel of the Islamic States, Carnegie
Endowment for International Peace, 2016.

Commins David, The Wahhabi Mission and Saudi Arabia, I. B. Tauris, 2006.

Cook Michael, Commanding Right and Forbidding Wrong in Islamic Thought,


Cambridge University Press, 2004.

Emiliani Marcella, Ranuzzi de’ Bianchi Marco, Atzori Erika, Nel nome di Omar.
Rivoluzione, clero e potere in Iran, Odoya, 2008.

62
Federal Research Division, Saudi Arabia A Country Study, Library of Congress, 1993.

Federal Research Division, Saudi Arabia A Country Study, Library of Congress, 2004.

Gibb H.A.R. et alii, The Encyclopaedia of Islam, E. J. Brill, 1986.

Izutzu Toshihiko, Ethico-Religious Concepts in the Qur’ān, McGill-Queen’s University


Press, 2002.

Katzman Kenneth, “The Pasdaran: Institutionalization of Revolutionary Armed Force”,


Iranian Studies, vol. VI, n. 3-4, gennaio 1993.

Katzman Kenneth, The Warriors of Islam: Iran’s Revolutionary Guard, Westview Press,
1993.

Kepel Gilles, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci,
2016.

Peters Rudolph, Bearman Peri, The Ashgate Research Companion to Islamic Law,
Ashgate, 2014.

Qutb Sayyid, “Una Legge cosmica”, Dibattito sull’applicazione della Shari‘a, Edizioni
della Fondazione Giovanni Agnelli, 1995.

Sinkaya Bayram, The Revolutionary Guards and the Iranian Politics: Causes and
Outcomes of the Shifting Relations Between the Revolutionary Guards and the
Political Leadership in Post-Revolutionary Iran, Middle East Technical University,
2011.

Vegel Frank E., “The public and private in Saudi Arabia: Restrictions on the Powers of
the Committees for Ordering the Good and Forbidding the Evil”, Social Research, vol.
LXX, n. 3, autunno 2003.

Vercellin Giorgio, Istituzioni del mondo musulmano, Piccola Biblioteca Einaudi, 2002.

Weiss Michael, Hassan Hassan, ISIS: Inside the Army of Terror, Regan Arts, 2015.

63
SITOGRAFIA

https://uqu.edu.sa/hisbah/AboutUs, 16/10/2016

http://www.clarionproject.org/news/islamic-state-isis-isil-propaganda-magazine-dabiq#, 26/10/2016

https://news.vice.com/video/the-islamic-state-part-3, 28/10/2016

64
RINGRAZIAMENTI

Desidero, a questo punto, ringraziare alcune persone importanti che mi sono state vicine
nello svolgimento del lavoro qui presentato. In primis la mia relatrice, Prof.ssa Francesca
Romana Romani, per la sua attenzione, nonché tempestività, nel fornirmi indicazioni
riguardo lo svolgimento della tesi che non sono mai venute meno, per la pazienza portata
e per la gentilezza dimostrata. La ringrazio anche dei momenti di confronto davvero
preziosi in cui ha condiviso con me le sue conoscenze in materia di islamistica, delle quali
non ho mai dubitato. Ringrazio anche tutti gli altri docenti del Corso di Laurea in Lingue
e Mediazione Linguistico-Culturale che hanno saputo aggiungere nuove tessere al
mosaico della mia conoscenza personale. Ringrazio la mia amica e collega di studi Irene,
che ha indossato la doppia veste di amica, sostenitrice, e quella di collega universitaria,
consigliera in ambito accademico e sempre presente nell’affrontare le prove che questa
lunga esperienza ha presentato a entrambi. Ci siamo sostenuti in tanti modi, dall’offrirci
ospitalità reciproca, al darci consigli in fatto di studi. Un grazie anche a tutti i colleghi del
corso di Lingua e Letteratura Araba, con i quali ho condiviso un percorso di formazione
così importante. Ringrazio calorosamente anche i membri della Divisione Studenti
dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai che mi hanno ispirato con le loro parole ed
esperienze di vita universitaria, ricche di coraggio e intraprendenza nel superamento delle
sfide. Desidero rivolgere ringraziamenti speciali anche a Francesca e Giorgia, mie amiche
storiche, per la loro pazienza, avendo dovuto fare i conti con i miei frequenti sbalzi di
umore e momentanee assenze dovute agli impegni degli ultimi mesi. Mi avete sostenuto
con parole di conforto ma anche di sincero rimprovero. Ringrazio anche tutti gli amici
con cui mi sono confidato riguardo i miei dubbi e le mie ansie. Grazie alla mia famiglia,
che mi ha sopportato e supportato economicamente in questa e in altre esperienze. Un
riguardo particolare a mia madre, che è stata anch’ella, in qualche modo, protagonista del
lavoro di tesi, essendo quella del mu tasib una professione molto simile a quella da lei
esercitata. Infine, ci tengo a ringraziare me stesso, per aver imparato, non senza qualche
resistenza, a dare valore alle attività che ho portato avanti giorno dopo giorno, a
riconoscere i miei meriti, i miei traguardi e le mie capacità, ad ascoltare critiche e i
consigli, soprattutto attraverso una prova come quella che ha dato come frutto questa tesi
di Laurea, e ad affidarmi di più alla mia vita.

65

Potrebbero piacerti anche