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Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern è un romanzo autobiografico che racconta l’esperienza

dell’autore, sergente maggiore degli alpini, durante la ritirata, nella seconda guerra mondiale, degli
Alpini dalla Russia, attraverso le gelide steppe.

L’autore Mario Rigoni Stern ha scritto il libro Il sergente nella neve nel 1944 mentre si trovava
prigioniero in un lager tedesco, dove era finito dopo l’8 settembre 1943 perché aveva rifiutato di
aderire alla Repubblica di Salò.
In questo romanzo narratore, protagonista e autore coincidono.
Mario Rigoni Stern racconta quindi i fatti vissuti, l’atrocità della guerra, in prima persona senza
retorica. Il linguaggio è semplice, con l’utilizzo di termini colloquiali e tecnici militari.
Sono presenti molti dialoghi, descrizioni e riflessioni dello stesso narratore di fronte ai fatti visti e
vissuti. Spesso ricorda le sue montagne, l’altopiano di Asiago, che se da una parte gli evoca
serenità dall’altra gli provoca nostalgia e paura di non tonare a casa.

Il romanzo può essere diviso in due parti.


La prima è incentrata sulla vita che gli Alpini conducono nella trincea, in condizioni igieniche
disumane. I soldati in trincea si raccontano tradizioni e avvenimenti che accadono nei rispettivi
paesi; durante la notte poi sono impegnati a rispondere al fuoco nemico.
Nella seconda parte viene invece descritta la ritirata degli Alpini dalla Russia. L’esercito russo,
infatti, li sta respingendo e comincia ad avere la meglio. L’unico scopo rimasto è tornare a casa, in
Italia.
Durante la marcia, i soldati soffrono e patiscono la fame e il freddo, in tanti muoiono.
Finalmente, dopo lunghe e difficili marce, intervallate da battaglie con le truppe russe, Rigoni e i
suoi compagni sopravvissuti giungono a una postazione tedesca. Qui si lava, si medica il piede
ferito e dorme per due giorni.
Poi riprende il cammino verso casa e arriva in Bielorussia. La strada per tornare in Italia è ancora
lunga, ma dalle ultime frasi del racconto si avverte un senso di serenità e speranza: la primavera è
alle porte e questo renderà tutto più semplice.

Mi ha molto colpito un episodio narrato dall’autore (pag 176-177)


Durante la ritirata dalla Russia, bussa alla porta di un’isba (tipica abitazione della campagna
russa), per chiedere un po’ di cibo. All’interno ci sono già dei soldati russi che mangiano, la
giovane donna russa porge anche a lui un po’ di minestra. Condividono insieme lo stesso pasto.
L’autore dice “Anche i russi erano come me, lo sentivo”. In quel momento, davanti al freddo e alla
fame, erano tutti essere umani, non nemici.
Ed è questa una particolarità che mi ha fatto molto riflettere. Nel Sergente nella neve la parola
nemico non c’è: Stern parla di “russi”, mai di “nemico”.
Secondo Stern, infatti il nemico è uno che ti ha offeso o fatto del male. I russi invece non gli
avevano fatto niente, non lo avevano mai offeso.

E poi è triste il racconto dell’amico d’infanzia Rino che, ferito in battaglia, non tornerà mai casa: la
gioia di Stern quando lo incontram (pag. 148), la sensazione di sentirsi un po’ a casa, e la sua
tristezza quando racconta che la madre, al paese, vive solo nella speranza che lui torni (pag. 186)

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