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A tu per tu con

Corrado
Malanga

SPAZIOINTERIORE
CORRADO
MALANGA
Inseguire l’Alieno e trovare l’Anima
.....................

di Nicola Bonimelli

A Gli dei sono diventati malattie, dice Hillman con Jung. E se le malattie diventano
alieni?
Sappiamo che il mondo occidentale, lì dove un tempo si scovavano dèmoni e
demòni, ha iniziato a vedere manie e disturbi: l’indemoniato ha cambiato nome, è di-
ventato un malato. Ma come dice Cocteau: il diavolo cacciato dalla finestra rientra dalla
porta come raggio di sole. Non c’è bisogno di leggere la Storia della follia di Foucault per
capire che i nomi possono imprigionare l’essenza delle cose. Allo stesso modo, però,
non possono annientarla. Ogni prigioniero è potenzialmente Edmond Dantès, conte
di Montecristo, che bramando la sua vendetta, aspetta il momento della sua evasione
e della sua rivincita. Forse gli alieni sono una variante estrema di quelle potenze altre
dall’umano – aliene appunto – che l’uomo ha rinchiuso nei trattamenti sanitari, obbli-
gatori o volontari.
Dunque gli alieni esistono? Fino a qualche tempo fa avremmo potuto chiederlo a
Corrado Malanga. Con il suo accento metà ligure – è nato a La Spezia – metà pisano
– vive a Pisa da più di trent’anni, dove è ricercatore di chimica organica presso la cat-
tedra di Chimica e Chimica Industriale della facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche
e Naturali – ci avrebbe raccontato storie non di indemoniati, men che meno di schi-
zofrenici, ma di addotti, migliaia di addotti, ovvero persone visitate, possedute, rapite
dagli alieni. Probabilmente ci avrebbe convinto che quanto la fantascienza racconta
degli alieni è più vero di quanto siamo solitamente disposti a ritenere: le sue ricerche,
infatti, non sono frutto di sprovveduti amanti dell’ignoto, ma sono condotte da uno
stimato ricercatore di chimica di fama internazionale con strumenti scientificamente
riconosciuti quali l’ipnosi regressiva e la Programmazione Neuro Linguistica. Qualche
tempo fa Corrado Malanga, il più esperto alienologo italiano, avrebbe risposto: sì, gli
alieni esistono.
Oggi, se vogliamo una risposta alla nostra domanda, non possiamo rivolgerci a lui,
sebbene sia certamente tra le persone più informate dei fatti. La questione infatti è un
po’ più complicata e anche molto più interessante di quella che indaga semplicemente
la presenza aliena sul nostro pianeta o, peggio, dentro di noi. Se siamo a casa, abbiamo
freddo e decidiamo di accendere il fuoco, prima di preoccuparci della legna dobbiamo
chiederci se abbiamo un camino, a meno di non voler bruciare il salotto accendendo

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il fuoco sul pavimento, creando cioè dei
danni irreparabili. Ecco, potremmo dire
che Corrado Malanga, dopo aver lunga-
mente girato nei boschi delle anime degli
addotti per cercare legna – gli alieni – ha
capito di non aver mai pensato al camino,
al suo camino, e forse nemmeno pensava
al vero motivo del suo cammino. Questo
camino o cammino che sia oggi lo chiama
Anima, quella parte di lui che lo scienzia-
to, preoccupato di capire i fenomeni (de-
gli) altri da sé – o alieni! – ha per troppo
tempo trascurato. Non deve essere stato Corrado Malanga • www.corradomalanga.vacau.com
facile dire a se stesso e al mondo: «Mi
sono sbagliato». Non perché la questione
degli alieni abbia del tutto perso valore o perché semplicemente non esistano. Il punto
è che esiste qualcosa di più importante, l’Anima: parola di scienziato! Così questo ca-
mino è davvero anche l’inizio di un nuovo cammino, una rinascita, una nuova genesi.
Non a caso Genesi (Spazio Interiore 2013) è il titolo del libro in cui Malanga tenta
una nuova impostazione del problema, una nuova mappa del territorio, un’indagine
che concilia fisica quantistica, ricerche ufologiche e mitologie universali. D’altro can-
to, come dice Malanga, «è giunto il momento di fare chiarezza sulla genesi dell’intero
Universo». Intero Universo sta anche per Universo Interiore. L’Universo, infatti, non
è solo quello lì fuori, che si può vedere e studiare con un telescopio o con un microsco-
pio. L’Universo è soprattutto Universo Interiore, ossia la nostra Anima, e Corrado Ma-
langa, dopo anni di indagini aliene, è stato costretto a fermarsi a seguito della perdita
della vista e a iniziare a guardare dentro di sé, mettendo umilmente in discussione,
rielaborandole, le sue ricerche ventennali.
Se gli dei, o i demoni, sono diventati malattie che successivamente si sono ritra-
sformate in esseri alieni, è il momento di comprendere che possono davvero rapirci se
non ci mettiamo in ascolto di Anima, di quella parte di noi che è la nostra straniera per
eccellenza. Anima ci abita e più di ogni altra potenza oscura ha bisogno di parlarci di sé,
ovvero del nostro Sé, il nostro più illustre sconosciuto, per quanto familiare esso sia:
Unheimliche, sosterrebbe Freud, Ombra, direbbe Jung.

Il film 6 giorni sulla Terra di Varo Venturi, in cui fai un piccolo cameo, è ispirato
alle tue ricerche. Il protagonista che indaga questioni aliene è un professore uni-
versitario di biochimica che viene ostacolato dal mondo accademico. Qual è stato,
negli anni, il tuo rapporto con l’ambiente universitario e scientifico rispetto alle
tue indagini?
Mi occupo di questioni aliene da quando avevo quindici anni, da quando iniziai a leg-
gere i libri di Peter Kolosimo. Non ho mai fatto mistero di questo mio interesse, nem-
meno quando sono entrato all’Università. Man mano che facevo carriera, iniziando a
tenere lezioni e diventando ricercatore, sono cominciate pure le mie partecipazioni

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in televisione per parlare di alieni. Alcuni colleghi mi dissero che non potevo espor-
mi in quel modo parlando di questi argomenti. Fui anche richiamato dal direttore del
dipartimento, ma io feci finta di niente e proseguii le mie ricerche. L’impressione è
che fossero invidiosi della mia popolarità. Mi rinfacciavano inezie, come la dicitura di
professore che compariva in televisione, essendo io invece un ricercatore. Era insomma
un problema di ego. Di nascosto, però, quasi tutti mi chiedevano come proseguissero
i miei esperimenti.

Ti è mai capitato di avere difficoltà nella divulgazione delle tue scoperte?
Era evidente che stessi procedendo contro i poteri forti, pienamente consapevoli di
quanto emergeva dai miei studi. Il tenore delle mie informazioni poteva essere tolle-
rabile solo se fosse stato assolutamente incredibile. Ma io ero e sono uno scienziato.
All’epoca avevo più di cinquanta pubblicazioni scientifiche su giornali stranieri e non
volevo scrivere di fantascienza: ciò che dicevo doveva essere credibile, plausibile. Que-
sto mi rendeva pericoloso. Il mio telefono è stato ripetutamente messo sotto controllo
fin dal 1991. Arrivarono a tagliarmi con il laser il volante dell’automobile, lasciandolo
attaccato solo in un punto. Se me ne fossi accorto in corsa, magari sull’autostrada inve-
ce che parcheggiando, mi sarei sfracellato. A questa intimidazione risposi pubblicando
Alien Cicatrix, che precedeva Alieni e Demoni.

Tu chiami svolta animica ciò che ti ha portato a rivedere le tue posizioni non tanto
sull’esistenza aliena in sé ma sull’influenza di questa sugli esseri umani. Dici che
tale svolta trae origine da un’esperienza personale. Vuoi raccontarcela?
Ho condotto per oltre vent’anni esperimenti di ipnosi regressiva in cui venivano fuori
cose assurde. Al confronto Profondo rosso di Dario Argento è una cenciata! Andavo a
letto distrutto, il mio fisico era esausto. Pensavo che fosse solo stanchezza per il troppo
lavoro. Per anni, dunque, non ho capito ciò che realmente veniva coinvolto di me in
quelle sedute di ipnosi: da figlio unico tendenzialmente incapace di comunicare con
gli altri, stavo comunicando con Anima. Eppure non me ne rendevo conto. Inizial-
mente, infatti, non prestavo attenzione al mio essere animico: volevo fare lo scienzia-
to, colui che sta fuori, che osserva le cose convinto di stare in una posizione neutra-
le. Pensavo di potermi occupare degli addotti senza essere coinvolto personalmente.
Evidentemente non era così, non perché io sia stato addotto, ma perché quanto stava
succedendo aveva un senso per me che dovevo ancora comprendere. Quando iniziai a
perdere quasi del tutto la vista, fui costretto a chiedermi il perché. Doveva essere una
risposta del corpo a un’esigenza dell’anima. Così ho usato su di me tutte le tecniche che
avevo usato sugli addotti per fare un’introspezione. Fu come se la mia parte animica mi
dicesse: «Ho dovuto accecarti per farti guardare dentro di te». Ho dovuto rivalutare,
anzi valutare per la prima volta l’importanza della mia parte animica, potrei dire del
mio lato femminile, quello creativo, il sentire. Scherzando, dico che sono diventato un
po’ femmina. Ciò significa innanzitutto che la mia estrema razionalità ha finalmente
incontrato la mia sensibilità. L’incontro con Anima ha cambiato tutta la mia visione
della mappa del territorio.

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Hai scritto che il problema alieno ti appare oggi sfumato per importanza, mentre
assume una rilevanza più grande quello della Coscienza Umana. Cosa c’è di nuovo,
se c’è, nel tuo modo di impostare tale questione rispetto alle tradizioni filosofiche
e spirituali?
Forse di nuovo c’è la conclusione, ma credo che il punto non sia la novità. Non sono
l’unico a dire queste cose, per fortuna. Il mio intento è far comunicare i due emisferi
cerebrali, quello destro e quello sinistro, e ampliare così la mappa del territorio. Vo-
glio costruire una chiave di lettura che tenga insieme razionalità – fisica, linguistica,
pnl, analisi comportamentale – e mito, archetipo, il sentire. Ripeto, non sono l’unico: si
pensi, per esempio, a Maharishi Mahesh, l’inventore della meditazione trascendenta-
le, anche lui grande studioso di fisica quantistica. Se dovessi indicare un punto parti-
colarmente importante delle mie convinzioni attuali, direi che è l’accento finale: tutti i
santoni, i guru improvvisati che hanno fatto fortuna soprattutto con la diffusione della
New Age e in generale tutte le chiese, esplicitamente o implicitamente parlano di buo-
ni e cattivi, demoni o alieni che siano; ripetono, insomma, il ritornello della dualità,
anche quando professano il contrario. Tutto ciò non m’interessa. Preferisco insistere
sul fatto che noi siamo Dio, la nostra coscienza è Dio, essendo colei che crea l’universo
virtuale che vediamo, fatto di spazio, tempo ed energia. Diventare consapevoli di que-
sto è un processo personale. La nostra cecità è determinata dall’ego che crea barriere,
livelli e dislivelli. Mentre in realtà tra te e me non c’è separazione reale, così come in
fisica quantistica non c’è distinzione tra onda e particella. Come dice Penrose [fisico,
matematico e filosofo britannico, n.d.r.], il secondo principio della termodinamica,
secondo cui l’entropia dell’universo aumenterebbe continuamente, non è vero. È vero
che l’entropia aumenta, ma non è una misura dell’energia: è bensì una “misura” della
coscienza, detto tra virgolette perché la coscienza, la realtà reale, non si lascia misura-
re. Allo stesso modo l’entropia è impropriamente definita come il grado di disordine
di un sistema. Come si vede, il mio tentativo è di utilizzare le scoperte della fisica quan-
tistica per capire anche e soprattutto ciò che è dentro di noi.

Nell’immaginario collettivo l’alieno non è soltanto un predatore d’anime di un’al-


tra dimensione, ma anche, più semplicemente, un abitante di un altro pianeta che
viene a rapirci o liberarci. Cosa hai da dire su questa visione letteralmente extra-
terrestre che fa dell’alieno un problema più “materiale” che animico? Penso anche
ai tuoi primi esperimenti per il cun (Centro Ufologico Nazionale) con la risonanza
magnetica nucleare e la spettroscopia infrarossa trasformata.
A quei tempi cercavo di capire com’era fatto l’alieno dal punto di vista tecnologico:
cosa fa, cosa mangia, che sangue ha. Nemmeno mi chiedevo se fosse buono o cattivo.
Ero uno scienziato e lavoravo solo con il mio emisfero sinistro. Poi scoprii che l’alieno
viene a prenderci perché vuole una parte nostra: la parte animica, che è un gruppo
di vettori, di tensori. Anima, da un punto di vista fisico-quantistico, è un gruppo di
quark. Perché vogliono questa parte? Perché è una parte che non conosce il tempo.
È immortale. L’alieno vuole questa parte per diventare esso stesso immortale, per-
ché ha paura di morire. Questa paura in lui è dovuta proprio alla mancanza d’anima:
questa parte di noi, infatti, sa che non si muore, sebbene sia incarnata in un conte-

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nitore, il corpo, che fa esperienza di inizio
e fine, e dunque anche della morte. L’alie-
no ha una coscienza spirituale e anche una
coscienza mentale, che sono altri gruppi
di quark, entrambi informati del tempo.
Mentre, come dicevo, l’anima non conosce
il tempo. L’alieno non riesce a convincer-
si che nessuno muore e che della morte si
deve fare esperienza; cosa che noi, invece,
possiamo capire. Ha tanta tecnologia, ma
è fesso! L’evoluzione non sta infatti nella
tecnologia, ma nella consapevolezza: ciò
che ci distingue dall’alieno. Inoltre demoni
e dei sono l’immagine del duale: l’universo
pensato in questo modo è prodotto dall’a-
lieno, inteso come colui che ha necessità di
separare per comandare: divide et impera!
Ha bisogno del duale, poiché ha paura della consapevolezza, ha paura di morire, non
capisce l’importanza della morte come esperienza di sé e insieme non capisce che non
si muore nella realtà reale. Questo è anche il contenuto più profondo della Pistis Sophia,
il vangelo gnostico in cui una figura animica, grazie alla sua sapienza, è colei che scon-
figgerà gli Arconti, le potenze che vogliono possederla. È quanto noi pure oggi siamo in
grado di fare ascoltando la nostra anima.

Tu dici che gli alieni sono coscienzialmente inferiori a noi, ma hanno una tecno-
logia più sviluppata. È difficile pensare a un essere umano che non si serva della
tecnica, dalla prima ruota agli strumenti per il bosone di Higgs. Che cos’è la tecnica
per l’uomo se ciò che lo rende così prezioso è tutt’altro, ovvero l’anima? Che rap-
porto c’è tra sviluppo animico o di coscienza e la tecnologia?
Al di là di uno sviluppo organico e naturale, la nostra tecnologia non è né organica né
naturale. Si potrebbe dire che l’alieno ha spruzzato un po’ di tecnologia sul pianeta per
rallentare il nostro sviluppo di coscienza, il vero processo evolutivo. Noi abbiamo biso-
gno del telefonino per parlare tra di noi, ma questo ci rende anche sotto controllo. Se
sviluppassimo altre parti, altre potenzialità, magari ci parleremmo attraverso la mente,
non avremmo bisogno del telefonino e saremmo più liberi. La tecnologia fa per noi delle
cose, ma sostanzialmente non ci aiuta. Ciò che ci aiuta è sviluppare l’anima. La tecnologia
è un prodotto della dualità. Più la utilizziamo, più restiamo stupidi, incoscienti.

Lutero, nel De servo arbitrio, scrive che la volontà umana è nel mezzo come una be-
stia da soma: se la cavalca Dio va dove va Dio, se la cavalca Satana va dove va Satana.
L’uomo non può scegliere il suo cavaliere. Tu invece sostieni un’alternativa: sapere
che siamo nel mezzo di una battaglia per la nostra anima ci renderebbe liberi, per-
ché ci permetterebbe di estraniarci da una lotta non nostra e prendere coscienza di

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Satvat, Illustrazione
per la copertina di
Genesi di Corrado
Malanga

noi stessi, ovvero di ciò per cui “gli altri” – gli alieni – combattono. Ma che senso ha
parlare di libertà o liberazione se, come vediamo nell’atemporalità del mito, l’uomo
e la sua storia sono un prodotto alieno?
Se non sbaglio, fu proprio Lutero a dire che neanche Dio ha la libertà di scegliere chi si
salva o che comunque non sceglie chi salvare in base ai suoi meriti; per questo parla di
predestinazione: la salvezza avviene senza un rapporto equo di causa ed effetto. La giu-
stizia divina non salva tutti né si mette a guardare, secondo i canoni della giustizia uma-
na, i buoni e i cattivi. Lutero ebbe grandissime intuizioni ma restò vittima del suo tem-
po, ripetendo la dualità tra Dio e Satana che faceva comodo alla Chiesa, il cui messaggio
è questo: «Io posso salvarti, se stai con me ti salvi, ma in cambio di questa possibilità
voglio il controllo della tua anima». La Chiesa è sempre stata e sarà una grande organiz-
zazione New Age! La Chiesa si pone come sbarramento tra il popolo – le anime – e Dio.
Non vuole far capire che Dio è dentro di noi. Nel momento in cui ci rendessimo conto
che non c’è bisogno del medio, dell’intermediario, scopriremmo infatti che la Chiesa,
tutte le chiese, hanno un ruolo inutile. Per questo s’insiste sulla dualità, sull’esistenza
di un demone cattivo. Vale anche in altre mitologie, si pensi a Shiva e Vishnu. Troppo
influenzato da questo schema duale, Lutero non poteva sbarazzarsi della Chiesa e nello
stesso tempo pensare alla libertà dell’arbitrio. Che la coscienza crei l’universo per fare
esperienza della vita e della morte, significa anche che forma un universo duale, fatto
di spazio, energia e tempo. Abbiamo bisogno dell’illusione del tempo per fare questa
esperienza, ma, appunto, è un’illusione. L’anima, di cui pure siamo fatti, non conosce
il tempo, può andare avanti e indietro nel tempo. Se questo non rientrasse nelle nostre
facoltà, se potessimo andare solo avanti nel tempo, non avremmo il libero arbitrio. For-
tunatamente, da un punto di vista quantistico, possiamo dimostrare e comprendere che
esiste solo il presente: passato e futuro sono due equazioni d’onda che collassano con il
presente, come dice Bohm [fisico e filosofo statunitense, n.d.t.]. È un’altra visione ri-

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spetto alla meccanica classica. Noi decidiamo cosa fare in ogni istante, non siamo con-
dizionati da niente, ma nella nostra realtà virtuale, dove il tempo sembra che scorra a
senso unico, ce ne accorgiamo con fatica. Noi abbiamo la scelta: possiamo andare avanti
e indietro nel tempo. Abbiamo dunque la responsabilità delle nostre azioni e delle no-
stre scelte: noi scegliamo la nostra esperienza, così come Dio sceglie di fare esperienza
di sé creando l’universo.

Ci puoi dire che cos’era per te un’adduzione e cos’è invece adesso alla luce delle tue
più recenti scoperte?
Si trattava di un’operazione meccanica: arriva l’alieno che ha bisogno dell’essere uma-
no, lo prende, lo rincoglionisce. È necessario infatti che l’uomo abbassi il suo livello di
coscienza, altrimenti si ribellerebbe. L’alieno agiva come in un’operazione chirurgica:
di noi gli serviva tutto, ci copiava, ci replicava. Un po’ come il ritratto di Dorian Gray:
l’uomo apparentemente restava quello che era, ma in realtà il diavolo si prendeva la
sua anima e lo distruggeva. Ciò che accadeva era anche simile a un’operazione militare.
Nell’ipnosi regressiva appariva tutto meccanico, una sorta di protocollo sempre ugua-
le. Non ne capivamo il senso profondo. Invece adesso sappiamo che l’alieno è come un
allievo che, invece di studiare ed essere promosso, decide di prendere il tuo compito,
darlo alla maestra e far finta che sia il suo. Adesso sappiamo interrompere davvero
quell’operazione meccanica di adduzione facendo riconoscere al soggetto – non c’è più
neanche bisogno di chiamarlo addotto – che in lui vive una maestra, la Pistis Sophia,
l’Anima, che gli può insegnare a non avere paura e a prendere consapevolezza della sua
essenza divina. La parte animica, insomma, riesce a scacciare l’alieno.

Hai dichiarato che solo chi compie un’esperienza di matrice sciamanica può real-
mente descrivere l’universo e rendersi conto che il duale è un aspetto della Matrix.
Puoi specificare che cosa intendi con esperienza sciamanica e dirci se le esperienze
“ultra-antropologiche” di Carlos Castaneda si avvicinano a ciò cui fai riferimento?
Lo sciamano si fa guidare dall’emisfero destro, lo scienziato dal lobo sinistro. Io penso
che si debba essere un po’ sciamani, ovvero maghi, e un po’ scienziati. Mago Merlino
è entrambe le cose: per questo incappa nella paura, nell’invidia e nella condanna delle
gerarchie politiche e spirituali. Queste temono che l’unione di sapere scientifico e sa-
pere magico dia a Merlino troppo potere, una conoscenza troppo vasta della mappa del
territorio. Così ristabiliscono il divide et impera, separando la magia dalla scienza. Con
ciò che chiamo esperienza sciamanica, condotta con tecniche di simulazione menta-
le, sono riuscito a connettermi in modo più profondo con le mie facoltà percettive. Il
messaggio giungeva in modo archetipico e io ero pronto ad ascoltarlo con un’atten-
zione diversa, più sottile; solo in seguito lo trasformavo in immagini, fonemi, suoni,
e lo modellavo attraverso il vissuto, ovvero lo razionalizzavo. Il film che mi facevo in
quelle situazioni passava dunque all’emisfero sinistro: la ragione mi faceva capire cosa
quelle immagini potessero significare, ma prima di questa comprensione mi dispone-
vo a una percezione diversa. Si trattava, in definitiva, di un lavoro di squadra tra i due
emisferi. Trovavo risposte a domande difficilissime, che prima non m’interessavano,
ma che dovevo indagare. Integrando la mia parte femminile, non ho più visto il duale,

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ho capito me stesso e anche gli altri. Ma l’esperienza sciamanica va vissuta, parlar-
ne è limitante: si può raccontare cosa vuol dire prendere una martellata sul piede, ma
sarà sempre diverso dall’averla vissuta. Castaneda, a livello di antropologia culturale,
è molto importante. Lo stregone/sciamano Don Juan lavora col suo emisfero destro,
sente l’universo e percepisce anche le presenze aliene, i voladores: quelle che per noi,
nell’ipnosi regressiva, sono le macchie nere bidimensionali che succhiano l’energia.
Castaneda, a seguito di un vissuto sciamanico, proietta con la sua mente e col suo vo-
cabolario delle immagini che noi, a cinquanta anni di distanza, possiamo ora descri-
vere in modo molto più scientifico e capirne la reale portata. L’esperienza sciamanica
va fatta. Le sostanze psicotrope, agendo chimicamente sulla ghiandola pineale, fanno
acquisire un diverso livello di consapevolezza: squarciato il velo di Maya, si vede l’u-
niverso come solitamente non appare o non si comprende. Il problema è che finito
l’effetto della sostanza, questo terzo occhio (come possiamo definirlo per comodità)
si richiude e per riaprirlo si è costretti a fare nuovamente uso della sostanza. Se in-
vece si acquisisce la coscienza con la meditazione mentale o con altri strumenti – per
esempio il tct, Triade color test, che ho inventato insieme alla mia equipe – non si viene
più aiutati dall’esterno, dalla sostanza, bensì da noi stessi. E la consapevolezza che si
acquisisce non la si perde più.

Se tutta la realtà è storicamente ed essenzialmente influenzata, se non addirittura


determinata dagli alieni, che cos’è l’arte? Nello specifico: c’è distinzione tra un’o-
pera d’arte aliena e una non aliena? Come si possono distinguere? C’è un libro, un
quadro, una musica, un film, insomma un’opera d’arte o un movimento artistico,
a cui Corrado Malanga è legato animicamente?
Ho sempre trovato il film L’attimo fuggente molto toccante. Il maestro insegna all’al-
lievo, ma non per rafforzare i ruoli e la separazione. La classe è un unicum: ognuno è
allievo e maestro dell’altro. et racconta invece ciò che saremo fra qualche tempo. Per-
sonaggi del film sono il bambino, l’extra-terrestre e la mamma. La mamma rappre-
senta la parte animica che deve gestire il rapporto tra il me di ora (il bambino) e il me
del futuro (et). Ci sono i cattivi, però: il film, infatti, ancora non esce dal modello della
dualità. Nella musica scelgo il jazz, il tentativo di sconvolgere le regole. E poi L’urlo di
Munch. C’è qualcosa che vogliamo cacciare da noi stessi, senza saperne il motivo. Come
nell’ipnosi regressiva: c’è qualcosa che vuole uscire. Chi urla è un po’ come il folle che
parla con dio. Abbiamo bisogno di far uscire ciò che abbiamo dentro, il nostro fiato,
che in greco è anemos, per riconoscerlo. Ma non è vero che gli alieni controllano l’uni-
verso. Noi abbiamo deciso di incarnarci su questo pianeta: decidiamo in continuazione
di entrare in un contenitore per comprendere l’esperienza della vita. Quando vorremo
andare a giocare da un’altra parte, capiremo che dobbiamo portare tutti con noi, anche
gli alieni e gli alienati, anche coloro che volevano distruggerci. La nostra vita è anche la
loro vita. La nostra salvezza è la loro salvezza. Loro – gli alieni – ancora non lo sanno.
Noi sappiamo di doverli aspettare, ma senza pensare per questo di essere i buoni. Q

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L’ETERNITÀ
DELL’EVIDEON
Intervista a Corrado Malanga
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di Elio Bortoluzzi

Ricercatore presso la cattedra di Chimica all’Università di Pisa e già consigliere del

A Centro Ufologico Nazionale, Corrado Malanga è fondamentalmente uno scienziato e


un ricercatore a tutto campo che, negli ultimi anni, ha ampliato gli orizzonti dell’u-
fologia contemporanea, portandola a livelli in precedenza soltanto sfiorati. Massimo
esperto italiano del fenomeno dei rapimenti alieni – le cosiddette abduction – non si è
fermato ai risultati ottenuti in questo campo ma, in coerenza con la sua natura di vero
ricercatore, si è spinto oltre e più a fondo nei suoi studi e osservazioni, sperimentando
in prima persona il ruolo della Consapevolezza nella creazione della realtà, interna ed
esterna. La sua sete di conoscenza e la passione per la ricerca l’hanno poi spinto ad
approfondire il campo della fisica quantistica, elaborando la concezione di Universo
Reale – che egli chiama Evideon – come matrice eterica dell’Universo dualistico e vir-
tuale, ovvero modificabile, da noi abitato. «Siamo i creatori di questo Universo virtua-
le» dice il Professore, e ne deriva che, per prendere in mano le redini della nostra vita
– e perciò anche della nostra morte – l’atto fondamentale da compiere è una effettiva
presa di consapevolezza di questa realtà in modo da giungere a una piena conoscenza
del proprio essere.

Con le tue ultime ricerche hai ridefinito la concezione di realtà del nostro uni-
verso, affermando l’esistenza dell’Universo come unico oggetto geometrico, l’E-
videon, a partire dal quale vengono creati tutti gli oggetti dell’Universo virtuale,
ovvero l’Universo modificabile. Come viene definito l’aldilà secondo il tuo model-
lo di universo? Che ruolo ha nell’universo evideonico? Fa comunque parte dell’o-
logramma non locale che tu consideri l’Universo frattalico?
Il concetto di aldilà è un chiaro concetto duale, perché se esiste l’aldilà deve esistere
anche l’aldiquà. Se noi abitiamo nell’aldiquà ci chiediamo innanzitutto se esiste l’al-
dilà, e la risposta è affermativa. Nel concetto dell’universo evideonico tutto ha simme-
tria: se esiste una zona in cui c’è la materia, l’energia con il segno meno, ci deve essere
una zona dell’universo in cui, in modo speculare, c’è dell’energia positiva. Al posto
della luce bianca, dice il mito, ci sarà la luce nera, mentre in fisica si parla di fotoni e
anti-fotoni: ci sarà dunque una parte di universo in cui l’entropia diminuisce mentre
qui invece aumenta. Ciò vuol dire che l’entropia dell’universo in realtà rimane sempre

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costante e ha un unico valore: zero. L’entropia, cioè l’ordine o il disordine – o la co-
scienza di sé, come la definisce il mondo di Evideon – è sempre la stessa.
L’universo evideonico si divide in due categorie: l’Universo reale, immutabile, quello
che è sempre stato e sarà, e l’Universo virtuale, espressione dell’Universo reale come
sua immagine speculare. È evidente che la misura dell’entropia, essendo una misura
della coscienza, è anche un descrittore che si avvicina alla realtà reale, che non cambia;
pertanto l’entropia dell’universo, proprio perché esistono un universo e un antiuni-
verso, dev’essere sempre la stessa, cioè zero, ossia consapevolezza massima. Che dif-
ferenza c’è tra la consapevolezza dell’Universo reale e la consapevolezza dell’Universo
virtuale? Secondo i chimici termodinamici non è possibile misurare l’entropia, ma
soltanto stabilirne la differenza tra un momento prima e un momento dopo, consta-
tando che in questo universo l’entropia – cioè la nostra coscienza – aumenta sempre.
Nell’anti-universo, l’aldilà, l’entropia invece diminuisce sempre, ma ciò non vuol
dire che si vada verso il caos, come potrebbe sembrare a prima vista; ciò vuol dire che
nell’aldilà, dove l’energia ha un valore differente, tutto sostanzialmente procede come
nell’aldiquà. Anche nell’aldilà la coscienza aumenta, ma con segno contrario, in una
dimensione apparente geometricamente opposta a quella dell’aldiquà. L’entropia ri-
mane pertanto costantemente zero in tutto l’universo.

Come si definisce la morte umana all’interno della dualità? È il passaggio tra l’u-
niverso e l’anti-universo?
Oserei dire che una definizione di “morte umana” non ha grande senso perché in que-
sto universo la morte non esiste, esiste solo il cambiamento. Quindi è un po’ come
avrebbe detto Lavoisier: tutto si trasforma ma nulla si distrugge, mediante leggi fisse.
Sostanzialmente questa idea fu accettata fino a quando in fisica atomica ci si accorse
che alcune particelle non avevano le loro contro-particelle dal comportamento specu-
lare. C’è una particella che si chiama mesone zeta, il mesone zeta zero, che è composto
da due formule ai limiti di risonanza che sono lo z1 e lo z2. Lo z1 quando è messo da-
vanti a uno specchio e fa qualcosa non viene rispettato dalla sua immagine speculare.
Pensate, è come se voi davanti allo specchio vi alzaste e andaste in bagno, e la vostra
immagine speculare si alzasse e andasse in bagno anche lei, ma dopo. È qualcosa di in-

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credibile... e il mondo evideonico spiega che si tratta di un istante in cui sembra che la
simmetria non venga rispettata mentre in realtà ci sono dei parametri pseudo-nasco-
sti e non visibili, per cui tutto deve essere sempre simmetrico: le cose cambiano, ma
non finiscono, non scompaiono. Per comprendere questo principio bisogna capire
come nasce l’universo: l’universo è la coscienza e la coscienza è reale; dall’universo
reale – del quale, pur non potendolo vedere, abbiamo consapevolezza in quanto noi
stessi ne siamo i creatori – sono nate una cosa e un’anti-cosa. È come se io avessi dato
cento euro a una persona e contemporaneamente avessi preso cento euro da un’altra
persona: potrebbe sembrare che ho sempre gli stessi cento euro di prima, ma in realtà
c’è stata una partita di giro, cioè qualcosa è cambiato pur non cambiando nulla. L’uni-
verso funziona così, è a costo zero.
Ilya Prigogine, premio Nobel per la Chimica, studiando gli equilibri irreversibili si è
interrogato sulla stranezza della vita e della nascita. Quando scaturisce la vita e le cel-
lule si aggregano in una complessità maggiore, l’entropia dell’universo in quell’istante
sembra apparentemente diminuire; il vero momento dell’ordine sarebbe dunque la
morte, in quanto tutto torna a un’energia più bassa. Allora perché c’è la vita? Prigo-
gine ammise in una conferenza che qualcosa non tornava, perché se le cose stanno
così l’universo non sarebbe simmetrico. Eppure, deve esistere la ragione che ci spiega
come mai questi processi avvengano con una variazione di entropia non possibile. Da
qualche parte dell’universo deve accadere il contrario ma, poiché non lo vediamo, ci
appare incredibile. Ciò che Prigogine non aveva capito è l’esistenza dell’anti-fotone,
che ti mostra che l’esistenza è in realtà la somma di una cosa e di un’anti-cosa di cui
noi abbiamo solo una consapevolezza parziale, ossia ne vediamo solo metà. In tal modo
si può spiegare il fatto che uno nasce e muore in un processo di cambiamento legato
a un altro cambiamento che però accade in una qualche parte dell’universo talmente
lontana da noi – coscienzialmente lontana, non spazialmente e temporalmente – da
non poterla percepire.
Per dirla in un modo più semplice, la vita è la necessità della coscienza di comprendere
se stessa attraverso un’esperienza che si può fare solamente vivendo. Una volta che hai
compreso ciò che volevi comprendere, il tuo corpo – che è sempre stato morto, dall’i-
nizio alla fine, ma che si è consumato – non ti serve più e lo lasci. Nell’istante in cui tu
come coscienza lasci il contenitore, esso, non essendo più consapevole di sé, diventa
un golem e muore. In tale contesto la differenza tra una cosa viva e una cosa morta di-
venta banale. Tu sei coscienza? Sì, allora sei vivo. No, dunque sei morto.

Come si fa a capire se si ha o non si ha consapevolezza, se si è o non si è coscienza?


Da un punto di vista sperimentale, la consapevolezza si ha quando si reagisce alla pre-
senza dei fotoni. Facciamo un esempio: se io sono colpito dalla luce, mi accorgo del
fotone che colpendomi mi illumina; se un bicchiere viene colpito da un fotone, lui non
se ne accorge. Io mi accorgo che il bicchiere è stato colpito da un fotone, perché io ho
consapevolezza e coscienza, mentre lui no. Quindi essere coscienza vuol dire essere in
grado di interagire con le cose che io stesso ho creato, i fotoni, perché all’interno della
creazione dell’universo non c’è altro. Pertanto l’istante in cui si muore è l’istante in cui
la propria esperienza si è conclusa e la coscienza non ha più bisogno del contenitore. Il
contenitore scompare, ma la coscienza farà qualcos’altro.

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Ne La geometria sacra in Evideon parli dei diversi piani di esistenza, o livelli esi-
stenziali, in cui opera l’essere umano, affermando che la nostra esistenza terrena
avviene nell’ultimo livello energetico, l’unico in cui la dualità è totale. Una volta
terminata la vita nella materia, in quale o quali livelli esistenziali proseguiamo il
nostro viaggio?
Questa è una domanda dinamica, nel senso che, di solito, una domanda prevede una
risposta. Quanto fa due più due? Quattro. La vera domanda in questo contesto è: quanto
potrebbe fare la somma di due numeri che io decido prima di sommare? E la risposta
sarebbe: i due numeri saranno una somma x che io stabilirò in base alla decisione che
ho preso in ordine alla scelta dei due numeri di partenza. In altre parole, nell’istante
in cui ho acquisito coscienza e consapevolezza perché ho finito la mia malattia – la vita
– e sono guarito, quindi non ho più bisogno del corpo, la mia idea è che a quel punto
ci rendiamo conto di avere costruito una giostra e che questa giostra ci è servita per
comprendere le cose. Ma buttare via tutto e tornare a dormire non sarebbe un grande
risultato, soprattutto ora che abbiamo capito che è divertente giocare. Perché è vero
che durante il gioco questo ci appare duro, difficile, tremendo, e spesso non abbiamo
voglia di giocare: alla fine, però, avendo acquisito consapevolezza, comprendiamo che
il gioco si mostrava duro, difficile e tremendo solo perché non sapevamo giocare... Ora
che sappiamo come giocare perché spegnere tutta la giostra? Quindi la mia idea è che
dopo costruiremo gli universi che vorremo e giocheremo con la nostra giostra, con la
nostra creazione. Ciò non produrrà tuttavia una differenza di visione: il tuo mondo in-
fatti sarà uguale al mio, perché tutti e due nell’universo – avendo conseguito una con-
sapevolezza elevata, massima, cioè entropia zero – la penseremo nello stesso modo.
Quindi non ci sarà una vera scelta, perché tutti saremo in grado di dire e di volere la
stessa cosa.

Cosa consigli di fare in vita per arrivare in qualche modo preparati al passaggio
nell’aldilà?
Dal mio modesto punto di vista l’unica cosa che si può fare è acquisire la consape-
volezza di sé attraverso un processo di integrazione, di unificazione. Noi viviamo qui
per imparare che cos’è la separazione, e una volta che l’abbiamo imparato viviamo nel
tentativo di riunificare noi stessi dentro; infatti, poiché il fuori è lo specchio di ciò
che siamo dentro, una volta che saremo uniti sarà unito anche il fuori che noi stessi
produciamo. Quindi non devo fare alcuna battaglia contro tizio o a favore di caio, non
ci deve essere alcun partito politico, alcun tipo di religione... devo solo mettermi d’ac-
cordo con me stesso. Quando l’avrò fatto, scoprirò che, facendo parte di un universo
olografico, anche le altre parti dell’ologramma stanno tentando di fare la stessa cosa.
Per dirla con altre parole, che ognuno si lavi i panni sporchi a casa sua!

I cosiddetti angeli, che secondo te hanno paura di fare l’esperienza umana e per-
ciò non si incarnano, sono quindi situati in quello che noi consideriamo aldilà,
nell’anti-universo? Vale la stessa cosa per gli alieni?
In realtà non è del tutto corretto: bisognerebbe piuttosto dire che esistono diversi aldi-
là. Se io sono comunista, il mondo dei fascisti è un aldilà. In realtà il vero aldilà dell’u-
niverso è un aldilà preciso, è tutto ciò che è composto da anti-materia e che lavora in un

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sistema anti-entropico. Gli angeli del piano di sopra, invece, fanno parte di un piano
universale che ha il suo di qua e il suo di là. Di questi piani ce ne sono sostanzialmente
sette, perché la fisica quantistica prevede che ci siano sette livelli quantizzati. A dire il
vero ci sono infiniti livelli quantizzati, ma dopo il settimo la differenza tra l’ottavo e il
nono è talmente piccola che c’è un continuum che noi non vediamo. Noi ci troviamo in
un livello energetico, l’ultimo, in cui la separazione è veramente totale. È per questo
che quelli al piano di sopra – che eravamo noi prima di scendere qui – non hanno tanta
voglia di scendere, perché hanno paura che la separazione totale, il distacco, sarebbe
per loro troppo traumatico. Noi siamo quelli che inconsapevolmente sono scesi e stan-
no tentando di comprendere. Quelli del piano di sopra, gli angeli, al massimo cerca-
no di utilizzare la nostra esperienza. Loro sono davanti alla televisione e guardano che
cosa facciamo noi giù, e credono, guardando noi, di fare l’esperienza che in realtà non
possono fare, perché un conto è guardare uno che si ammazza in televisione, un conto
è trovarsi in strada quando vedi che ti sparano un colpo di pistola. Quindi l’angelo del
piano di sopra sostanzialmente è un videodipendente, ha paura di uscire di casa perché
uscendo di casa c’è la vita vera, e lui preferisce stare a guardare davanti alla televisione
una vita finta: specchio, in questo contesto, della società moderna. L’angelo non scen-
de, al massimo siamo noi che saliamo. L’angelo non ha alcun voglia di scendere e non
lo farà fino a quando non sarà costretto a farlo. Quindi, quando ti appare l’angelo, per
esempio in una meditazione, e ti dice delle cose, non è lui a essere venuto da te ma sei
tu a essere andato da lui.

Cosa ne pensi dell’incontro con anime di defunti durante le esperienze fuori dal
corpo? Robert Monroe, per esempio, ha delineato una cartografia dell’aldilà viag-
giando in dimensioni sottili nelle quali incontra gruppi di individui che vivono in
differenti luoghi con differenti scopi.
La questione è abbastanza complessa. Leggendo alcuni dei libri di Robert Monroe ci si
rende conto che spesso quelli che lui incontra sono agenti manipolatori del piano di so-
pra, che gli si mostrano in modo confuso, non sempre chiaro. Non hanno voglia di mo-
strare se stessi, rifiutano di rispondere ad alcune delle sue domande e cercano sovente di
pilotarlo facendogli comprendere, alla fine, in uno dei suoi ultimi libri, che lui è qui per
fare un’esperienza che serve a loro. Mi fiderei poco...

Quindi tutte le volte che persone dichiarano di avere avuto dei contatti con defunti,
familiari, ecc., si tratta sempre di agenti manipolatori del piano di sopra o è effet-
tivamente possibile fare questi incontri?
Non esiste il tempo, esiste solo il presente. In questo contesto, quando uno non è più
qui, potrebbe trovarsi da un’altra parte, in un altro spazio-tempo, in un altro universo,
oppure essere ancora qui ma in una forma non visibile. In tal caso io posso acquisire
consapevolezza del morto, e parlare con lui, per il motivo fondamentale che il trapas-
sato sono sempre io! Il “trapassato” è quella parte di me che ha una consapevolezza diffe-
rente e con la quale io posso parlare in qualsiasi istante. Ciò che non mi convince è che
quando i soggetti parlano con i morti questi fanno sempre discorsi duali. Nell’istante
in cui il morto fa un discorso duale, non è chi dice di essere, perché il morto è colui che
ha acquisito consapevolezza e quindi è al di fuori del mondo duale e non può fare un

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discorso del tipo: «Comportati bene, perché se ti comporti bene verrai dove abito io».
No, non funziona così. «Dove ci troviamo adesso si sta meglio, voi non potete capire».
Capire? Stare meglio? È un discorso duale, non va bene.

Delle opere cinematografiche sul tema dell’Aldilà, quali sono secondo te le più
rappresentative?
Ne ho vista una in televisione proprio l’altro giorno, Al di là dei sogni con Robin Wil-
liams, che è veramente brutta. Quel film è basato sul modello americano di società, pu-
ritano e cattolicheggiante, in cui vi è un aldilà in cui sembrerebbe che possiamo fare
tutto ciò che vogliamo, se non fosse che questo aldilà è stato fatto da un creatore che
divide tutti tra buoni e cattivi, premiati e castigati, e deciderà se mandarti all’inferno. Le
cose non stanno così. Noi siamo i creatori dell’universo, e quindi ci creiamo quello che
sarà il nostro paradiso. Coloro che hanno avuto esperienze fuori dal corpo e sono tornati
hanno descritto l’universo in cui si trovavano a immagine e somiglianza della loro men-
te. Perché? Perché lo hanno creato loro. Un ingegnere informatico russo, per esempio,
durante un’esperienza fuori dal corpo ha visto che si trovava dentro un immenso com-
puter e ha compreso che l’universo era un computer. Ma certo che è un computer! La sua
mente è un computer e quindi ha creato l’universo su questa base.

Cos’è l’inferno per te?


C’è l’inferno creato dall’autorità, dalla chiesa, e c’è l’inferno che tu stesso ti crei. La chie-
sa ha un bisogno fisiologico di gestire il proprio potere e lo fa utilizzando concetti duali.
L’inferno serve perché esiste il paradiso. Il paradiso è il luogo dove andranno i buoni,
quindi è fondamentale che esista un posto dove andranno i cattivi. La chiesa non vuo-
le che i propri discepoli acquisiscano consapevolezza. Il potere, qualsiasi esso sia, non
vuole che la gente comprenda. L’inferno che tu stesso ti costruisci è invece legato all’idea
egoica di istinto di colpa. Ti hanno detto che sei stato cattivo e allora probabilmente an-
drai all’inferno: tu ti stai costruendo il tuo inferno e mentre lo stai costruendo lo stai già
vivendo. In tale contesto mi ricordo una cosa fondamentale. Studiando l’aspetto alieno-
logico e il problema delle abduction, venne fuori che c’erano tre figure di alieni che erano
apparse anche nel mito. Mi riferisco alla figura dell’alieno Serpente, dell’alieno Lux e
dell’alieno Ringhio, che chiamavamo affettuosamente così perché, quando si mostrava
nelle ipnosi, il soggetto ringhiava con la bava alla bocca. Il Serpente è l’incarnazione del
mito di Naesh, il nemico del popolo ebraico, e quindi è Satanael. Il Lux era l’incarnazione
di Lucifero, il portatore di luce, colui che ti convince a parole, che ha la dialettica della
bugia, il politico di turno. E infine c’è colui che viene dall’altra parte, dove non c’è la luce
bianca ma solo la luce nera, colui che può venire di qua solo con tremendi stratagemmi
perché, come dice il mito, è stato relegato di là. Si tratta di Ra, l’essere senza corpo, che
vive in un mondo nero, dove non esiste la musica, dove non c’è né creazione né creatività,
dove la parte animica non può entrare. Ecco, in questo contesto, l’inferno nel mondo
delle abduction è l’anti-universo. Q

15
LA LIBERTÀ ESISTE
SOLO PER CHI NE È
CONSAPEVOLE
.....................

di Corrado Malanga

A
Libertà è solo una parola, sul significato della quale sembra ci sia molta confusione.
Prima di definire il concetto di libertà dovremmo convenzionalmente metterci
d’accordo su quelli che sono i parametri che servono a definire quel concetto e cioè
lavorare sia sull’aspetto epistemologico che sull’attuale significato che si dà a un’idea
che viene espressa dal “Verbo”.
Il significato delle parole, infatti, appare storicistico, cioè mutevole con la storia e a
seconda del luogo in cui esso è utilizzato. Il significato della parola va dunque conte-
stualizzato in base a tre fondamentali requisiti: il come, il dove e il quando.
Libertà come, libertà dove, libertà quando.
Si scopre così che se il concetto di libertà risponde a queste tre semplici domande,
che ne riflettono l’aspetto energetico (come), l’aspetto spaziale (dove) e l’aspetto tem-
porale (quando) – che poi sono gli unici tre aspetti che definiscono totalmente l’uni-
verso in cui siamo immersi – ecco che ci rendiamo conto che il termine libertà viene
assoggettato a dei limiti spaziali, temporali ed energetici.
Ci accorgiamo allora che per definire una parola che definisce un concetto che non
sia astratto, dobbiamo inserirlo in un contesto di coordinate cartesiane. Tali coordi-
nate ne determinano i limiti esistenziali al di fuori dei quali quel termine perde di
significato e, con esso, tutto ciò che rappresenta.
Ora, se per definizione iniziale al contorno del nostro problema esiste l’assioma
per cui la parola libertà rappresenta un concetto astratto, che si caratterizza per il fatto
di descrivere qualcosa che non ha nessun limite, ecco che ci rendiamo conto di non
poter identificare la libertà nel nostro universo costituito da parametri che ne deter-
minerebbero, in ogni caso, dei limiti.
La libertà dunque, qualsiasi cosa questa parola voglia indicare, descrive qualcosa
che non è del nostro universo ma lo trascende: è cioè in qualche modo svincolata dalle
sue regole. Se le cose stanno così la libertà è una parola che descrive un concetto che
trascenderebbe l’universo se esso fosse illimitato fisicamente nello spazio, nel tem-
po o nei valori dell’energia. Questa riflessione porta a concludere che la libertà non
sarebbe all’interno dell’universo perché esso la limiterebbe; non sarebbe nemmeno
all’esterno di esso perché l’esterno non esiste e dunque non esisterebbe in nessuno
spazio e in nessun tempo, né qui né altrove.

16
La fisica quantistica prevede che il nostro universo sia un sistema isolato termodi-
namicamente, cioè sia un posto (luogo di punti) che non scambia con l’esterno nessu-
na informazione. I sistemi isolati sono sistemi che per definizione non permettono il
passaggio al loro esterno né di massa né di energia, mentre i sistemi chiusi permettono
il passaggio solo di energia. Si capisce subito che un sistema isolato puro non può esi-
stere perché esso avrebbe una barriera che lo dividerebbe e lo isolerebbe dal “fuori”:
ma siccome il fuori non esisterebbe, ecco che l’unico modo per costruire un universo
isolato sarebbe quello di immaginarlo infinito. Un sistema infinitamente pieno dove il
fuori, infinitamente vuoto (nullo), sarebbe l’unico sistema isolato esistente.
In questa sede vorrei ricordare che in fisica quantistica esiste un problema chia-
mato pib e cioè Particle In a Box (problema della particella in una scatola). Se esiste
una particella subatomica chiusa in una scatola le cui pareti sono infinitamente alte
(potenziale infinito), ecco che possiamo verificare come i differenti livelli energetici
della particella sono quantizzati; ma possiamo anche verificare che essi abbassano la
loro energia quando la lunghezza della scatola aumenta. Cioè, in altre parole, quando
la scatola assume una lunghezza infinita, allora e solo allora, le pareti della scatola
non esistono più e la particella potrebbe uscire dalla scatola. Purtroppo però, quan-
do la scatola ha raggiunto lunghezza infinita, non esiste più il fuori ma esiste solo il
dentro della suddetta scatola.
Ecco: l’universo è come una scatola. Si potrebbe uscire da esso solo se fosse infini-
to, ma allora uscire dall’universo non porterebbe da nessuna parte. Il non poter uscire
dall’universo sarebbe da identificarsi come una limitazione e, per definizione, la li-
bertà non può avere limiti. La libertà non troverebbe spazio nell’universo né se esso
fosse finito né se fosse infinito.
Dunque un concetto espresso da una parola che non trova posto nell’universo non
potrà nemmeno essere collocato fuori, cioè sarà identificato semplicemente con l’ag-

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gettivo inesistente. Ma qui sorge purtroppo un altro problema perché se le cose stessero
così potremmo concludere semplicemente che la libertà non esiste e dunque non ag-
giungere altro.
Secondo l’articolo dal titolo “Libertà” senza significato? Concetti astratti, cognizione
e determinismo linguistico di Sara Dellantonio e Luigi Pastore,1 il concetto di “libertà”
descrive uno dei valori fondamentali della società occidentale contemporanea. Tut-
tavia, sebbene tutti concordino circa la necessità di difendere la libertà, persone che
incarnano convinzioni politiche, morali e sociali diverse tra loro interpretano la li-
bertà in maniere differenti, se non perfino contrapposte. Nonostante queste evidenti
divergenze, è opinione diffusa che questo concetto si caratterizzi alla sua base per una
sorta di denominatore comune, a proposito del quale sussiste un’unanimità pervasiva
e che delinea l’orizzonte di una comune battaglia. Tale studio investiga questa opinione
da un punto di vista cognitivo allo scopo di determinare come sia costituito e di quale
informazione si componga il concetto astratto di “libertà”. La ricerca di questi autori
identifica un nucleo cognitivo comune concreto del concetto e chiarisce come questo si
contamini ideologicamente nel corso del suo sviluppo da concreto e solido a concetto
astratto.
Le conclusioni di questo studio evidenziano come il nucleo universale del concetto
sia eccessivamente indeterminato per costituire un denominatore comune politica-
mente rilevante che fornisca una base di accordo a proposito di un valore condiviso, ed
evidenzia alcuni limiti di questo approccio solamente linguistico.
Il nostro approccio al problema cerca invece di bypassare le difficoltà linguistiche
prendendo comunque spunto da esse per ottenere un risultato che soddisfi tutte le
modellistiche di pensiero attuali. La geometria è una grande maestra e la fisica quanti-
stica ne è l’espressione più alta.
Se il termine libertà non può descrivere nulla che sta dentro il nostro universo, esso
non può descrivere nemmeno nulla che abiti fuori da esso e dunque il termine stes-
so, essendo privo di significato, non può che descrivere qualcosa senza significato. E
qui saremmo a un punto morto a meno di non considerare il termine libertà come il
descrittore di qualcosa non di tangibile ma di astratto, cosa che collocherebbe questo
concetto non nell’ambito del virtuale ma comunque nel campo del reale.
In altre parole quando si parla di astratto non si parla di inesistente, ma semplice-
mente di qualcosa di cui non possiamo stabilire un punto di applicazione (così direb-
bero i fisici). Ma se linguisticamente il termine astratto continua ad avere una collo-
cazione, da un punto di vista fisico esso non appare, non è misurabile, è sfuggente, e
non si ha mai la certezza che esso possa esistere, a meno di non misurare qualche suo
effetto su altri parametri.
Il concetto di campo di forza è assolutamente astratto secondo la fisica di Feynman,
ma se elimini il campo di forze ti accorgi che la realtà muta. La libertà sarebbe parago-
nabile a un fotone: tutti ne parlano, tutti sanno come è fatto ma nessuno lo ha mai visto,

1. S. Dellantonio e L. Pastore, “Libertà” senza significato? Concetti astratti, cognizione e deter-


minismo linguistico, in Rivista internazionale di Filosofia e Psicologia, vol. 2 (2011), n. 2, pp.
164-186.

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se non per gli effetti secondari che produce sull’universo intero. Così il fotone non
viene definito per quello che è, ma per il cosa la sua esistenza comporta. Se i fotoni non
esistessero non ci sarebbe l’universo, ed ecco che ci si accorge che il fotone è qualcosa
di non tangibile ma la cui assenza provoca effetti devastanti.
Così, se a un individuo togli la libertà ecco che esso si accorge che qualcosa, nel suo
intorno, viene drasticamente mutato.
Da un punto di vista fisico dunque la libertà esiste perché la sua assenza produce
modifiche dei parametri spazio-temporali: ma saperla collocare, dargli un punto di
applicazione, identificarla con un colore, un sapore (come si fa persino con i quark,
le note particelle subatomiche che costruiscono neutroni e protoni) o una qualsiasi
sensazione diviene impossibile, a meno di non soggettivare tali sensazioni.
Ognuno ha un concetto di libertà tutto suo ma nessuno può mettersi d’accordo su
una visione comune.
Ciò non deve stupire poiché se la libertà rappresentasse l’idea di assenza di rego-
le, tutto questo potrebbe essere interpretato come presenza di tutte le regole assieme,
permettendo a ognuno di noi di usare una regola a piacere per definirne il concetto. In
effetti tutto ciò non è affatto un controsenso ma finirebbe per identificare il concetto
di libertà come un qualcosa che ognuno determina liberamente come gli pare. Il con-
cetto di libertà non si potrebbe pertanto mai identificare con una definizione, dato che
esso conterrebbe nello stesso momento la definizione di non identificabile; del resto,
non appena esso viene identificato, viene delimitato dalla sua stessa definizione e in
quell’istante la libertà scompare.
La ricerca della libertà quindi comporta le stesse difficoltà che avrebbe il fisico
Heisenberg nel determinare la posizione di un fotone: anche se si sa che si trova da
qualche parte, la fisica pensa che una delle principali caratteristiche del fotone sia pro-
prio che la sua stessa natura limita la sua definizione e quindi se si cerca di identificare
una delle sue caratteristiche ecco che le altre non possono essere identificate. Se lo
definisci, esso smette di essere tale e si trasforma in un altro oggetto.
Allo stesso modo, nell’istante in cui qualcuno riuscisse a definire la libertà, ecco
che essa gli evaporerebbe tra le mani.
Siccome la natura elusiva del fotone e dell’idea di libertà sembrano avere compor-
tamenti comuni, per comprenderne la natura ci dobbiamo chiedere come il primo si
comporti e a quel punto avremo compreso anche la natura della seconda.
La libertà non ha limitazioni ma è la nostra consapevolezza di essa che ce la fa ve-
dere in modo offuscato, così come da un attento esame della letteratura scientifica si
potrebbe evincere che non esiste nessun principio di indeterminazione di Heisenberg
ma solo una limitazione cognitiva del modello matematico che la descrive.
Studiare il fotone per capire la libertà può essere un approccio nuovo che nessuno
ha mai sottolineato e oggi sta a noi proporre questa strada.
La fisica moderna, con la sua teoria dello Zero Point Energy (zpe), non prevede l’e-
sistenza di un principio di indeterminazione, peraltro frutto di un premio Nobel dato
al fisico Heisenberg. In parole povere Heisenberg sostiene con le sue ricerche, erro-
neamente appellate come “principio”, che se si cerca di trovare l’energia di un fotone
si faranno grossi errori nel determinarne la sua posizione temporale e viceversa. Nella
teoria dello zpe si sostiene che il concetto di vuoto e di pieno sono la stessa cosa.

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In un punto dell’universo dove non c’è niente, non appare niente perché niente
esiste? Oppure in quel punto esistono tutto e il contrario di tutto che si annichiliscono
a vicenda, con lo stesso risultato finale? Se è vera la seconda ipotesi, in quel punto
perfettamente identificato, l’energia ha un valore calcolabile facilmente – cioè zero – e
dunque il principio di indeterminazione sarebbe stato superato.
La teoria dello zpe racchiude in sé il concetto di inesistenza dell’aspetto duale dell’u-
niverso: infatti dire pieno e dire vuoto è la stessa cosa. La dualità sarebbe un’idea che la
nostra consapevolezza avrebbe del mondo che la circonda. Pertanto l’universo appari-
rebbe duale solo perché noi stessi crediamo che lo sia.
Noi dunque percepiremmo l’universo non come esso è ma come noi crediamo che
debba essere.
Del resto, la teoria dell’universo olografico di Bohm (fisico) e Pribram (neurofisio-
logo) sottolinea proprio quest’intrigante aspetto della questione. Noi dunque sarem-
mo portati a credere che esiste un’indeterminazione non perché esiste realmente ma
perché essa rappresenterebbe la limitazione della nostra consapevolezza a compren-
derne l’inesistenza. Inoltre la moderna fisica quantistica (interpretazione di Winberg)
sostiene che esista un’interazione tra l’universo osservabile e l’osservatore stesso, e
questa interazione provocherebbe una sorta di “effetto Larsen” tra osservatore e os-
servabile. Tale interazione darebbe all’osservatore una visione distorta dell’osserva-
bile stesso. Ciò sostanzialmente perché il circuito di informazioni tra analizzatore e
analizzato si chiuderebbe mandando in risonanza tutto il sistema, che oscillerebbe tra
due valori limite non permettendo di ottenere un unico valore di un’unica variabile in
quell’unico momento.
In elettronica ciò accade quando la parte immaginaria del circuito elettrico diviene
eguale alla parte reale. Un microfono di fronte a un altoparlante a cui è collegato, va
in risonanza e trasmette solo un fischio acuto. Questo aspetto della questione prevede
soprattutto che l’osservatore sia anche il creatore della realtà che lo circonda e questo
aspetto della fisica contemporanea viene messo in evidenza da molteplici lavori scien-
tifici recentemente pubblicati su riviste internazionali.
Noi dunque saremmo i creatori inconsapevoli dell’universo e questa inconsapevo-
lezza darebbe vita al principio di indeterminazione come manifestazione volta a farci
comprendere il grado di incertezza che abbiamo della nostra stessa creazione.
L’indeterminazione sarebbe quindi il simbolo della non comprensione che l’uni-
verso non è duale, anche se ci appare tale. Così il fisico poco consapevole di sé non cre-
derebbe all’esistenza dell’antifotone solo perché esso rappresenterebbe la prova che il
duale e il primale sono esattamente la stessa cosa, vissuta a due livelli di consapevolezza
differenti. Il fotone e l’antifotone si interconvertirebbero l’uno nell’altro facendo col-
lassare la doppia visione della realtà in un’unica apparente realtà ma costituita da due
estremi in rapida risonanza tra loro.
In una più ampia accezione, noi che siamo i creatori del nostro universo creerem-
mo la manifestazione, che dunque è la rappresentazione di noi stessi. Noi ci manife-
steremmo attraverso la manifestazione da noi creata e che sarebbe, ancora una volta,
una proiezione sempre di noi stessi. Non potremmo definire correttamente il fotone
perché tra esso e noi ci sarebbe il limite della nostra consapevolezza. Ma se così fosse
noi saremmo ciò che creiamo quale semplice nostra inconsapevole manifestazione.

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Così come per il fotone, questo concetto può essere agganciato al concetto di libertà.
Noi non potremmo identificare il concetto di libertà perché già il tentativo di de-
scriverla ci porterebbe di fronte a uno specchio nel quale riflessi ci saremmo di nuovo
noi. Da questo osservatorio vedremmo noi stessi estroiettati fuori da noi e la mancanza
totale di consapevolezza, che distingue la razza umana, ci farebbe vedere quella cosa
confusa, che a noi apparirebbe tale solo per inconsapevolezza: e quella cosa confusa
saremmo proprio noi stessi.
Noi stessi – cioè la nostra coscienza – è ciò che sta dietro al concetto di libertà: un tutto
e un nulla contemporaneamente, come duale e primale, come onda e particella, come
vuoto e pieno, come tutto e nulla assieme, cioè come libertà assoluta.
Si comprende ora che la coscienza è la libertà di scegliere come apparire a se stessa.
Questo concetto prevede che la persona libera sia anche cosciente di sé.
Tale coscienza prevede l’assunzione di comportamenti specifici caratterizzati da
assenza di dualità.
Colui che è libero non conosce compromessi, non può essere categorizzabile e
quindi non può appartenere a nessuna religione, nessun partito politico, nessun mo-
vimento di alcun tipo. Non usa ragionamenti convergenti o divergenti ma tutti e due
allo stesso momento; non ha interesse a giudicare nessuno o a sentenziare le sue opi-
nioni; non ha alcuna necessità di dire alla gente cosa pensa di questo o quell’evento.
La persona libera è sostanzialmente libera dai vincoli che la sua consapevolezza
incompleta gli proponeva ogni attimo della vita. Come sostiene Umberto Galimberti,
l’individuo libero non possiede identità. Galimberti infatti sostiene che l’identità non è
qualcosa che il singolo si dà da solo ma è qualcosa che la società gli incolla addosso:

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tu sei quello che gli altri ti dicono di essere, tu reciti un ruolo che la società ti affida e,
quasi sempre, questo non è quello che volevi ma quello che gli altri ti impongono di
recitare.
Così quando la società ti fa diventare professore universitario ecco che tu, il giorno
dopo che hai vinto il concorso, cambierai comportamento e comincerai a recitare il
tuo nuovo personaggio. Tu non sei libero di manifestarti, ma reciti il personaggio che
la società ti chiede di essere.
L’unico modo per essere libero è dunque non avere ruoli e quindi perdere l’identità.
Dietro a questo aspetto esiste ancora una volta il concetto di primale e duale che
deve essere ulteriormente chiarito.
L’unico modo di essere veramente chi sei è quello di riconoscerti nell’unica cosa
che realmente esiste: il Tutto.
Quando l’individuo comprende di essere tutto acquisisce la sua vera identità di
creatore e rifiuta l’identità che la società gli affida. Innanzitutto io non sono quello
che faccio ma sono di più. Io non sono un panettiere, un idraulico, un professore uni-
versitario, un maestro: io sono e basta. Quella è l’unica identità che esiste, ed è nel
riconoscersi in essa che noi acquisiamo la libertà. Ma nell’istante in cui acquisiamo
tale libertà usciamo dalla società intesa come gruppo chiuso di soggetti caratterizzati da
un comportamento comunemente e tacitamente accettato: quello di avere un ruolo che
altri ti hanno affidato e che devi recitare per tutta l’esistenza terrena.
La libertà si acquisisce solo se non hai un’identità in questa società ma sei l’unica
identità che esiste, quella della coscienza, che ti permetterà di recitare nella commedia
della vita duale il ruolo che tu ti vuoi dare e non quello che ti dà il Regista.
In realtà non è corretto dire che la libertà si acquisisce poiché essa non si ha, ma si
è. In effetti tutti noi siamo liberi ma, non sapendo di esserlo (consapevolezza), credia-
mo di non esserlo. Ci si accorge che siamo liberi solo se abbiamo il coraggio di esserlo
attraverso le azioni di tutti i giorni.
La libertà si esercita con l’essere: e l’essere si esprime esperienzialmente con il fare.
Tutto questo porta l’uomo a credere che l’essere liberi si esprima contestando il
potere attraverso il fare la rivoluzione. La contestazione non è la rappresentazione
dell’esercizio democratico della libertà, perché essa sarebbe interpretabile in modo
duale. Contestare qualcuno o qualcosa obbligando l’altro a comportarsi di conseguenza
genera un’incongruenza, cioè che non si riconosca nell’altro la parte di noi che ha una
consapevolezza differente dalla nostra. Sarebbe come se io volessi costringere il mio
braccio a piegarsi in modo opposto a quello proposto dal mio gomito.
Dunque obbligare un altro significa semplicemente che sto obbligando una parte di
me; chi ti obbliga è il primo a non essere libero pur essendo convinto di essere l’unico
a esserlo veramente. In una qualsiasi contestazione tra soggetti che stanno credendo di
combattere per la propria libertà e i propri diritti non c’è nessuno dei due contendenti
che è realmente libero; tra loro v’è un rapporto identico a quello che esiste tra carcera-
to e carceriere, che sono sostanzialmente le due facce di un’unica medaglia.
La libertà oggi viene così interpretata, ossia come la possibilità di fare quello che
si vuole; ma questa interpretazione manifesta tutta la dualità del concetto in sé. Fare
quello che si vuole significa anche non fare quello che non si vuole. La persona consa-
pevole di sé non vuole niente ed è al di fuori della dualità.

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Molti credono di essere liberi solo perché trasgrediscono le regole della società e
non si rendono conto che in quell’istante si sono dati altre regole – pur opposte alle
prime – e stanno così recitando un anti-ruolo sociale: essi si sono autocategorizzati,
perdendo la propria consapevolezza e continuando a essere strumenti dello stesso po-
tere che cerca di limitarne le libertà.
Dunque il “fare” a cui mi riferisco, nel sottolineare quest’azione come un mani-
festarsi della coscienza, è un fare che si dirige verso il nostro interno e non verso l’e-
sterno. È un fare teso a comprendere fino in fondo chi siamo e non a obbligare gli altri
ad agire come vogliamo noi né tantomeno a opporsi alla volontà altrui ove in rotta di
collisione con la nostra. Questi atteggiamenti non hanno nulla a che vedere con la li-
bertà ma con la sopravvivenza.
La libertà si è, non si ha, e nessuno dunque può toglierla ad altri.
Il problema quindi non è nell’avere o non avere libertà, né nel poterla esercitare.
Essendo una manifestazione della propria coscienza, la libertà non si esercita: essa si
constata.
L’atto della manifestazione è un atto passivo, non è un’azione ma un principio.
«Io sono» e non «Io agisco».
Il mostrarsi sarebbe un atto collocabile nello spazio e nel tempo, mentre la libertà
è al di fuori di questi concetti e dunque non può né mostrarsi né produrre atti identi-
ficabili in un comportamento.
La libertà è quella cosa che fa dire alla coscienza: non c’è bisogno che faccia nulla
perché io sono già tutto.
Ma la mancanza di consapevolezza della gente mette in atto un processo attraverso
il quale l’individuo ha bisogno di comprendere cosa sia la libertà. Egli non sa cosa sia
ma percepisce di non possederla. Va dunque alla ricerca di essa in molte direzioni a lui
esterne e non si guarda dentro, dove scoprirebbe che prima di manifestarsi la libertà
ha bisogno di riconoscersi nella coscienza, altrimenti si corre il rischio che ai nostri
occhi essa sia invisibile.
Potremmo ora chiederci quale sia allora il rapporto tra libertà e democrazia.
Si pensa che la democrazia sia sinonimo di libertà. Questo pensiero però è assolu-
tamente inconsistente poiché il significato etimologico della parola “democrazia” vie-
ne dal greco antico e indica solo “governo del popolo”: non accenna affatto alla libertà.
Chiunque ti governi infatti ti impone le sue regole, e l’unica regola della libertà, come
abbiamo visto, è quella di non avere regole. Ed è per questo che la libertà è l’espressione
della coscienza e non della democrazia.
Dunque democrazia e libertà non hanno nulla a che vedere tra loro. Ci sono stati
governi popolari che hanno eseguito nella storia stragi di persone, ecatombe di ne-
mici, genocidi razziali pur essendo governi del popolo o forse fintamente identificati
come tali. Le rivoluzioni popolari russe, cinesi, francesi solo per citarne tre, o le guerre
sante islamiche, cristiane o di qualsivoglia religione in cui il popolo in nome di dio
manifesta la sua volontà, non sono certo esempi di manifestazioni di libertà.
Il bisogno di libertà non va scambiato con quello di democrazia. E pensare che in-
vece molte rivoluzioni popolari vengono fatte sulla spinta del bisogno di libertà dei
singoli, convinti che con la democrazia potranno ottenerla. Ma ricordiamo che la li-
bertà non si ha, non si acquisisce né si conquista: essa si è ed è una conquista della

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consapevolezza. Certo, dove non esiste la democrazia non esiste nemmeno la libertà
ma l’una non è legata all’altra in alcun modo.
Bisogna ancora una volta sottolineare come il concetto di libertà sia assolutamente
astratto, mentre la democrazia può essere definita come quella serie di comportamenti
che porteranno il popolo a governare. È assolutamente evidente, allora, come non esista
su questo pianeta alcun luogo in cui esista la democrazia. Per esempio la maggior par-
te degli italiani è straconvinta di vivere in un paese democratico. Allora ci si dovrebbe
chiedere perché il Governo non fa mai ciò che vuole il popolo ma tutt’altro. E se il popo-
lo si ribella ecco che il Governo risponde con le manganellate, come durante le manife-
stazioni contro la tav. Se ci fosse la democrazia essa avrebbe deciso che la tav non deve
essere fatta (a torto o a ragione la cosa qui non ci interessa). Il Governo dovrebbe rispet-
tare il volere dei propri elettori e invece appare del tutto insensibile alla voce popolare.
La presenza o l’assenza di comportamenti da seguire non ha nulla a che fare con la
presenza o assenza di libertà. Il concetto viene tuttavia misinterpretato dai più. Faccia-
mo subito un esempio. Se il Governo mi impone di stare a casa perché fuori c’è un’e-
pidemia di coronavirus e io obbedisco chiudendomi in casa e non uscendo, la gente
può credere che il potere mi abbia tolto la libertà di uscire, limitando i miei diritti. Io
sono rimasto a casa perché penso autonomamente che ciò che mi suggerisce il Governo
sia condivisibile e non che il Governo mi obbliga a fare qualcosa; in quel frangente,
quindi, io la penso come il Governo: in alternativa nessuno mi terrebbe chiuso in casa
per volontà di un altro. Molti invece stanno a casa pensando che la loro libertà sia stata
limitata e questo fatto mette in evidenza solo una mancata consapevolezza di sé.
Qualcuno potrebbe contestare questa mia visione delle cose dicendo che se non fac-
cio ciò che vuole il Governo esso ha i mezzi per obbligarmi a farlo; ma l’unico modo reale
che il Governo ha di impedirmi di fare qualcosa è legarmi a una sedia o eliminarmi fisi-
camente. Sta dunque sempre a me scegliere se continuare a manifestare il mio dissenso e
farmi eliminare oppure obbedire. Ma va osservato che, per quanto detto sopra, la libertà
non si manifesta e non ha nessun bisogno di essere palese. Dunque il Potere può, più o
meno agevolmente, limitare o bloccare del tutto la possibilità di agire e di pensare come
la tua testa vorrebbe, ma non può alterare la volontà, che rimane la stessa.
In altre parole la libertà che si manifesta attraverso l’essere consapevoli non può
scendere mai a compromessi. Durante le sedute di ipnosi profonda non si può obbligare
nessuno, con la tecnica degli ordini post-ipnotici, a fare qualcosa che la parte animica
non vuole eseguire. Nel contesto di tutti giorni, però, il Potere può convincere l’indi-
viduo ad abbassare la testa e fargli fare ciò che lui non vuole; ma ci dobbiamo chiedere
perché esista questa differenza comportamentale tra questi due stati di coscienza.
In realtà, quando è in uno stato ipnotico profondo, il soggetto parla attraverso la
sua parte animica oppure attraverso una coscienza integrata, cioè un insieme di parte
spirituale, animica e mentale. Le tre parti – che la psicanalisi junghiana chiamerebbe
parte femminile, parte maschile e parte androgina, oppure emisfero destro, sinistro e
corpo calloso o ancora sensazione, razionalità e valutazione – non sono unificate nella
maggior parte degli esseri umani e ognuna di esse ha una coscienza personale.
L’individuo è non tale, se non in apparenza. Un individuo è infatti per definizione
una cosa sola, indivisibile, mentre oggi ci troviamo a essere frammentati nelle nostre
tre essenze vitali. Tale frammentazione ci vieta fortemente di assumere un’unica posi-

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zione coscienziale e dunque ci mette nelle mani di chi
ci comanda, che invece lavora sulla nostra separazio-
ne per mantenerci in questo stato.
L’idea della paura è un’ottima strategia per evitare
che le tre parti di noi si unifichino per divenire una
sola coscienza integrata. È in quell’istante che l’indi-
viduo si forma realmente. E ha la caratteristica di non
essere mai ricattabile; si fa piuttosto ammazzare, sen-
za neanche tanto clamore, ma non farebbe mai ciò che
non vuole fare. È gioco forza del potere evitare dun-
que che gli individui diventino realmente tali perché
si dimostrerebbe che la libertà è l’espressione più alta
all’interno della realtà virtuale, della Coscienza, ed
essa non si fa comandare da nessuno.
La Coscienza integrata non si oppone mai a chi
la vuole imprigionare perché sa perfettamente che
ciò non è possibile; si gira dall’altra parte e sempli-
cemente lascia che il potere faccia ciò che vuole fare.
La Coscienza manifesta la libertà non facendo nulla
per impedire ad altri di limitarla poiché sa che questa
operazione è impossibile e dunque è inutile difen-
dersi da un nemico che non esiste. La Coscienza pensa che il Potere non sia un nemico
ma solo un ignorante, totalmente inconsapevole di sé, che deve attendere all’esperien-
za della dualità per comprendere alla fine che essa non esiste. Così il Potere, prima
o poi, comprende che per millenni ha creduto di usare il popolo mentre alla fine ha
nociuto solo a se stesso.
La morale dell’intera storia è la seguente: in questa fase storica, dove il coronavi-
rus ha prodotto una serie di eventi che hanno lasciato basita la popolazione mondiale,
quello che si può constatare è che quasi più nessuno crede alle versioni ufficiali del
Governo sull’andamento reale dei fatti e, a mezza bocca, molti stanno portando alla
luce le loro idee che sono sostanzialmente opposte a quelle ufficiali.
Chi più, chi meno, in tanti hanno il coraggio di esporre le proprie idee nonostante
le intimidazioni da parte dei Governi, le ridicolizzazioni dei debunker, le asserzioni degli
esperti. Il semplice popolo comincia a esprimersi e a dubitare. Questo atteggiamento è la
prima cosa che si sta verificando e ci fa capire come la coesione tra parte animica, spiri-
tuale e mentale nella popolazione abbia cominciato a compiersi (seppur limitatamente
e ancora con una velocità ridotta). Ma questo è il primo passo verso il raggiungimento
dello stato di libertà.
Una volta ottenuto questo risultato, siccome noi stessi siamo i creatori della realtà,
ecco che, a fronte di un’integrazione interiore delle nostre tre parti di coscienza, cre-
eremo automaticamente una realtà esteriore in armonia con il nostro essere. In quel
momento tutti saremo coscienti di essere sempre stati liberi, di non averlo mai saputo
e di conseguenza di non aver mai avuto il coraggio di recitare quel ruolo. Solo allora
nessuno potrà più impedirci di manifestarci per quello che siamo, perché saprebbe
che tutti i suoi sforzi per limitare la libertà sarebbero entropicamente del tutto inutili.

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Il concetto di libertà viene sovente messo in relazione con quello di libero arbitrio.
Il libero arbitrio si distingue dalla presenza di libertà perché mentre quest’ultima è
caratterizzata dall’essere e non dal fare, il libero arbitrio si manifesta con la possibilità
di essere manifestato attraverso una presa di posizione, una scelta duale. Io decido se
andare a destra o a sinistra: lo posso decidere e dimostrare con il farlo.
Il fare è qualcosa che appartiene all’universo virtuale e duale. In questo contesto il
fare è dunque l’espressione della virtualità stessa, mentre la realtà è statica. La realtà,
lo ripetiamo, è il non-luogo non-tempo dove la libertà esiste, mentre la realtà virtuale,
cioè duale, è il luogo dove il libero arbitrio, nel fare, si manifesta. È dunque chiaro che
il libero arbitrio ha ragione di esistere solo nella dualità, cioè dove ancora la consape-
volezza di sé non ha raggiunto il massimo valore della coscienza.
Dove la coscienza è massima non esiste la necessità di decidere cosa fare perché
la coscienza è tutto in un unico istante e in quell’istante è anche il contrario di tut-
to, e non si pone il problema della scelta. La presenza del libero arbitrio allora è una
misura della propria consapevolezza di sé. Più il libero arbitrio ha la necessità di ma-
nifestarsi e più siamo lontani dalla consapevolezza. Ciò porta a concludere che più la
democrazia ha necessità di manifestarsi e meno consapevoli siamo. Più ci sentiamo
schiavi di qualcuno e meno consapevoli di noi siamo. Questo atteggiamento popolare
viene messo in evidenza quando gli individui chiedono al Potere la libertà. Ma se uno
chiede al Potere la libertà sta affermando che il Potere ha la capacità di dare o non dare
la libertà alle persone e, così facendo, crea automaticamente i presupposti perché tutto
ciò diventi reale.
La libertà non si chiede a nessuno.
La libertà si è dentro di noi.
Questo concetto di libertà mette in crisi il concetto stesso di democrazia, un concet-
to che, come abbiamo visto, esiste solo nell’accezione di un insieme di regole e quindi
in grado di stabilire una barriera sociale tra gli individui che le seguono e quelli che
non le seguono, i quali ultimi si troveranno automaticamente fuori dalla democrazia.
Dunque la democrazia prevede di ghettizzare chi non segue le regole? Ma quella
non era la dittatura?
La sottile differenza tra democrazia e dittatura sta solo nel numero di persone che
la seguono e la perseguono. Infatti la democrazia è la dittatura della maggioranza, men-
tre la dittatura è la democrazia della minoranza. La stessa problematica si esplica nel-
la definizione di torto e ragione. La ragione è quella serie di idee che appartiene alla
maggioranza e che, a sua volta, stabilisce anche statisticamente chi sta dalla parte della
ragione. In questo contesto la democrazia sta dalla parte della ragione e la dittatura
dalla parte del torto solo su una base di definizione statistica basata sui grandi numeri.
Tutto ciò per sottolineare come i concetti di buono/cattivo, giusto/ingiusto, demo-
cratico/antidemocratico hanno solo un ipotetico senso nel mondo duale, e tutto ciò
non ha alcun senso nella definizione dello stato di libertà. Dunque una persona che si
sente libera potrebbe non esserlo.
Chi è la persona che si sente libera? Forse quella che può fare quello che vuole sen-
za rispondere delle sue azioni a nessuno?
La risposta evidentemente è no!
L’individuo libero è colui che non fa nulla ma è tutto, è colui che può fare tutto

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ma che proprio per questo non ne ha la necessità. Egli sa che se attorno a lui ci sono
milioni di persone che lo vorrebbero costringere ad assoggettarsi a un mare di regole,
non ha bisogno di opporsi alla società che lo vessa in continuazione. Egli lascia che gli
altri facciano ciò che vogliono ma sa anche che tutto quel trambusto non lo perturberà
minimamente. Dunque l’espressione “esercizio di libertà” non ha alcun senso perché
la libertà non si esercita, anzi quando siamo in presenza di un esercizio di libertà qual-
cuno si sta assoggettando a delle regole ben precise che sono il contrario, l’antitesi, del
concetto stesso di libertà.
Riportiamo ora tutti questi concetti nella nostra quotidianità. Sappiamo che la li-
bertà assoluta è qualcosa che non esiste nel mondo virtuale, cioè duale, ma esiste solo
nella realtà reale, cioè immutabile, della coscienza universale.
Per essere liberi bisogna trasformare questa società duale in una società primale
e ciò si ottiene non facendo le rivoluzioni, le guerre o fondando movimenti e parti-
ti politici di destra o sinistra, ma semplicemente essendo in armonia con se stessi. In
quell’istante, noi che siamo i creatori di tutto l’universo, creeremo al di fuori di noi
una società armonica e non più duale automaticamente. Ciò implica assumere un at-
teggiamento passivo nel fare ma attivo nell’essere di fronte a chi ci vuole governare
senza il nostro consenso. Quando il tuo governante di turno ti dirà che ti devi presen-
tare alla caserma più vicina perché devi arruolarti come soldato per fare una guerra
contro qualcuno, tu semplicemente non gli risponderai nemmeno, continuando a fare
quello che facevi, senza alzare nemmeno un sopracciglio. Il potere così comprenderà
che non può più niente contro di te e che in verità si era illuso di poterti pilotare a
suo piacimento solo perché inconsapevolmente avevi accettato questo stato de facto,
credendo che le cose dovessero andare in quella direzione, in quel momento, creando
quella realtà.
Non bisogna infatti dimenticare che il Potere sa che tu sei il creatore del Tutto; ma
sa anche che tu non ne sei pienamente consapevole e gioca sul fatto che tu credi che sia
lui che comanda. Il rendere credibile ai tuoi occhi tutto questo ti porta a creare incon-
sapevolmente proprio questa realtà, quella che il Potere vuole che tu crei, non essendo
lui in grado di farlo.
Fino ad oggi noi siamo stati gli inconsapevoli artefici di una realtà voluta da altri;
ma tutto ciò è legato al concetto di libertà e alla consapevolezza di cosa questo termine
significhi veramente. Sostanzialmente noi siamo stati sempre liberi anche se è come
se non lo fossimo mai stati, in quanto non ne avevamo consapevolezza. E per coloro che
questa consapevolezza ancora non la possiedono... ebbene essi continueranno a essere
schiavi facendo in modo che esista ancora l’esercizio di un Potere, a sua volta schiavo
inconsapevole dei suoi prigionieri.
Il Potere è una cosa che si ha, la libertà è una cosa che si è. Q

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