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“Imparai così la mia prima grande lezione durante l’indagine dei campi della conoscenza

ancora oscuri, non prender in alcun peso l’incredulità di uomini famosi nè le loro accuse di
impostura o di imbecillità, quando si oppongono alla ripetuta osservazione di fatti operata da
altri uomini che siano assennati e onesti. L’intera storia della scienza ci mostra che qualvolta
studiosi e scienziati di ogni età abbiano rigettato a priori, tacciando come assurdi o
impossibili, fatti osservati da altri studiosi, i primi hanno sempre avuto torto.”

Alfred Wallace (1823 - 1913)

“La nozione che l’essenza di cosa significhi l’essere umani si riveli nei caratteri della cultura
umana che sono universali piuttosto che distintivi di ogni singola cultura è un pregiudizio che
non siamo obbligati a condividere… potrebbe essere che le caratteristiche più rivelatrici di
cosa voglia dire essere umani si trovino nelle particolarità culturali, nelle loro stranezze.”

Clifford Geertz (1926 - 2006)

Prefazione

La scienza non è fatta solo di squadre di ricercatori in camice sotto la guida di un eminente
scienziato. Essa è fatta anche di individui solitari che passano attraverso mille difficoltà,
solitudine e incertezza, col solo scopo di portare un poco di nuova conoscenza nel mondo.
Questo libro racconta uno lavoro scientifico di quest’ultimo tipo, una crescita intellettuale
avvenuta tra le difficoltà del vivere immersi in una cultura amazzonica, quella degli indios
Piraha del Brazile. Questo libro parla di loro e di quello che mi hanno insegnato, sia dal
punto di vista scientifico che umano, e come questi insegnamenti abbiano cambiato
profondamente la mia vita e spinto a viverla in un modo diverso.
Questi sono i miei insegnamenti. Qualcun’altro ne avrà senza dubbio degli altri. Studiosi
futuri avranno le loro storie da raccontare. In fin dei conti, ognuno fa del suo meglio per
raccontare i fatti come stanno.

Prologo

“Guarda! Eccolo li, Xigagaì, lo spirito.”


“Si, lo vedo. Ci sta minacciando.”
“Venite tutti a vedere Xigagaì. Presto! È sulla spiaggia!”

Mi svegliai da un sonno profondo, incerto se queste parole che avevo sentito fossero reali o
solo un sogno. Erano le 6:30 di un sabato mattina di agosto, la stagione secca del 1980. Il
sole splendeva, ancora non troppo caldo. Una brezza leggera soffiava dal fiume Maici di
fronte alla mia capanna, situata in un spiazzo sulla sponda del fiume. Aprii gli occhi e vidi il
tetto di foglie di palme sopra di me, il giallo delle foglie sbiadito da anni di polvere e fuliggine.
Il mio rifugio si trovava di fianco a due capanne Piraha più piccole, di simile costruzione,
dove vivevano Xahoabisi, Kohoibiiihiai, e le loro famiglie.
La mattina tra i Piraha, di solito, sentivo un leggero fumo che veniva dal fuoco che usavano
per cucinare, e il calore del sole brasiliano sul mio viso, mitigato dalla zanzariera. I bambini
stavano di solito ridendo, rincorrendosi o piangendo perchè avevano fame, e le loro grida

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riverberavano per tutto il villaggio. I cani abbaiavano. Spesso appena aprivo gli occhi,
ancora intontito dal sonno, mi ritrovavo un bambino Piraha, o a volte persino un adulto, che
mi fissava attraverso lo steccato di corteccia di palma che costituiva le mura della mia larga
capanna. Questa mattina era diversa.
Eccomi completamente in me, svegliato dal rumore e le dalle grida dei Piraha. Mi misi
seduto e guardai intorno. Una folla si stava radunando a circa 10 metri dal mio letto sull’alta
sponda del fiume Maici, e ognuno di loro stava energicamente gesticolando e gridando.
Tutti fissavano la spiaggia dall’altro lato del fiume rispetto a dove era la mia capanna. Saltai
fuori dal letto per guardar meglio - e poi non c’era modo di dormire con tutto quel rumore.
Presi i miei pantaloncini sportivi e mi assicurai che non ci fossero tarantole, scorpioni,
millepiedi, o nessun altro pericoloso insetto in essi. Con i pantaloncini addosso, infilai le
ciabatte ai piedi ed ero fuori dalla capanna. I Piraha stavano alla rinfusa sulla sponda del
fiume, a destra della mia capanna. La loro agitazione cresceva. Vedevo mamme che
correvano su e giù lungo il sentiero, mentre i loro bebe cercavano di tenersi aggrappati alle
mammelle.
Le donne indossavano gli stessi abiti senza maniche, senza colletto, di lunghezza media,
con i quali lavoravano e dormivano, di un colore marron scuor a causa dello sporco e del
fumo. Gli uomini indossavano pantaloncini o delle specie di perizomi. Nessuno di loro aveva
con se l’arco con le freccie. Questo fatto mi sollevò. I bambini non portavano alcun vestito, e
la loro pelle temprata dagli elementi. Il didietro dei bambini era calloso dal loro continuo
trascinarsi per terra, un modo di muoversi che per qualche motivo preferivano al gattonare.
Tutti erano sporchi di cenere e polvere accumulata dormendo e oziando intorno al fuoco.
La temperatura era ancora sui 20 gradi e, anche se era umido, si era lontani dai 40 gradi
circa di mezzogiorno. Mi stropicciavo gli occhi per cacciar via il sonno. Mi voltai verso Kohoi,
che praticamente era il mio insegnante di lingua, e chiesi, “Che succede?” Lui stava alla mia
destra, il suo agilo corpo scuro teso mentre fissava qualcosa.
“Non lo vedi laggiu?” mi chiese impaziente. “Xigagai, uno degli esseri che vive oltre le
nuvole, è li in piedi sulla spiaggia e ci grida contro, dice che ci ucciderà se andiamo nella
giungla.”
“Dove?” Chiesi. “Non lo vedo.”
“Proprio lì!” Kohoi gridò, fissando attentamente nel mezzo della spiaggia apparentemente
vuota.
“Tra la vegetazione dopo la spiaggia?”
“No! Lì sulla spiaggia. Guarda!” replicò esasperato.
Nella giungla coi Piraha accadeva regolarmente che io non riuscissi a vedere la selvaggina
che loro invece vedevano. I miei occhi semplicemente non erano allenati come i loro.
Questa volta però era diverso. Persino io vedevo che non c’era chiaramente nulla sulla
spiaggia bianca e sabbiosa, un centinaio di metri più in la. E nonostante fossi certo di non
vedere niente, i Piraha erano allo stesso modo certi che ci fosse qualcosa laggiù. Forse
qualcosa era passato di la e io me l’ero perso, ma loro insistettero che ciò che stavano
vedendo, Xigagai, fosse ancora lì.
Tutti continuavano a fissare la spiaggia. Sentii Kristene, mia figlia di sei anni, accanto a me
che diceva
“Cosa stanno guardando, papà?
“Non lo so. Non vedo niente.”
Kris si sollevò in punta di piedi e guardò la sponda del fiume. Poi guardò me. Poi i Piraha.
Era confusa quanto me.

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Io e Kristene lasciammo i Piraha dov’erano e ce ne tornammo alla nostra capanna. Che
cosa stava succedendo? Per più di due decenni fino a quel mattino d’estate, avevo cercato
di capire come fosse possibile che due culture, la mia occidentale e quella dei Piraha,
vedessero la realtà in modo così diverso. Non sarei mai riuscito a convincere i Piraha che
non c’era nessuno sulla spiaggia. Allo stesso modo loro non mi avrebbero mai convinto che
c’era qualcosa laggiù, tantomeno uno spirito.
Da scienziato quale sono, l’oggettività è uno dei valori di cui non posso fare a meno. Se solo
ci impegnassimo di più, pensai un giorno, di sicuro riusciremmo a vedere il mondo da una
diversa prospettiva e impareremmo a rispettarci l’un l’altro.
Imparai con i Piraha però che le nostre aspettative, la nostra cultura e le nostre esperienze
possono dar vita a una percezione del mondo intorno a noi intraducibile da una cultura
all’altra.
I Piraha usano varie espressioni quando si accomiatano dalla mia capanna la sera per far
ritorno alla loro. Alcuni dicono solo “Me ne vado”. Ma spesso usano un’espressione che,
nonostante all’inizio trovassi piuttosto strana, è diventata uno dei modi che preferisco per
augurare la buona notte: “Non dormire, ci sono i serpenti.” E dicono questo per due motivi.
Primo, credono che dormendo meno “rafforzino se stessi”, cosa a cui tengono molto.
Secondo, sanno che nella giungla i pericoli sono tutt’intorno e dormire profondamente può
lasciare un uomo indifeso e in balia dei numerosi animali selvaggi che circondano il villaggio.
I Piraha ridono e chiaccherano per buona parte della notte. Non dormono molte ore di fila.
Raramente il villaggio è del tutto silenzioso e raramento ho visto un Piraha dormire per molte
ore di fila. Ho imparato tantissimo dai Piraha durante gli anni, però forse questa è
l’insegnamento che apprezzo di più. Certo la vita è dura e i pericoli non si contano, e le
preoccupazioni a volte possono tenerti sveglio la notte. Però devi godertela. La vita
continua.
Andai a vivere in mezzo ai Piraha quando avevo 26 anni. Adesso sono abbastanza vecchio
da ottenere gli sconti per anziani. Ho dato la mia giovinezza a questa gente. Ho preso la
malaria un sacco di volte. Ricordo parecchie occasioni in cui la mia vita è stata messa a
repentaglio dai Piraha e non solo. Ho trasportato sulla schiena più casse, sacchi, e barili di
quanti ne voglia ricordare. Però tutti i miei nipoti conoscono i Piraha. I miei figli sono quel
che sono in parte grazie ai Piraha. E alcuni di quei vecchi uomini, vecchi quanto me, che
una volta hanno messo in pericolo la mia vita ora sono i miei più cari amici - uomini che oggi
rischierebbero la vita per me.
Questo libro racconta quel che ho appreso in più di tre decenni di studio e di vita coi Piraha,
in cui ho fatto del mio meglio per capire come essi vedono, capiscono, e parlano del mondo
intorno a loro e il mio tentativo di comunicare ai miei colleghi studiosi ciò che ho appreso.
Questo viaggio mi ha portato in posti di una bellezza incredibile e attraverso situazioni che
avrei preferito evitare. Però sono felice di averlo fatto - mi ha dato inestimabile conoscenza
di ciò che è la vita, il linguaggio, e concetti che non avrei mai potuto imparare in altre
maniere.
I Piraha mi hanno insegnato la dignità e la profonda soddisfazione di una vita affrontata
senza il conforto del paradiso e senza la paura dell’inferno, e veleggiare verso il grande
abisso con un sorriso. Ho imparato tutto questo dai Piraha, e ne sarò loro sempre grato
finchè vivo.

Parte Prima VITA

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1 Scoprendo il mondo dei Piraha

Il 10 dicembre 1977 era una soleggiata mattina brasiliana e noi aspettavamo il decollo su un
aereo sei posti messo a disposizione dalla mia missione, la Summer Institute of Linguistics
(SIL). Il pilota, Dwayne Neal, ispezionava come da prassi il velivolo. Girò tutt’intorno
all’aereo e controllo che il carico di peso fosse bilanciato. Cercò eventuali segni esterni di
danneggiamento. Spillò una piccola quantità di carburante in una boccetta e controllò che
non ci fosse acqua nel carburante. Fece rotare l’elica. Col tempo questa routine è diventata
per me normale quanto lavarsi i denti prima di andare a lavoro, allora però era la prima volta
che assistevo a tutto ciò.
Quando stavamo per decollare, i miei pensieri andarono ai Piraha, la tribù di Indios
dell’amazzonia tra la quale mi accingevo a vivere. Che avrei fatto? Come mi sarei dovuto
comportare? Pensavo a come gli indios avrebbero reagito al vedermi per la prima volta, e
come io avrei reagito vedendo loro. Stavo per incontrare persone molto diverse da me, in
modi che già conoscevo e altri sconosciuti. In realtà il mio compito era più che il semplice
incontrali. Andavo dai Piraha come missionario. Il mio vitto e alloggio sarebbero stati pagati
dalle chiese evangeliche degli Stati Uniti, affinchè io potessi “convertire il cuore dei Piraha”
al Dio e alla fede in cui io credevo, affinchè accettassero la morale e la cultura che il Dio
cristiano porta con se. Nonostante io non conoscessi affatto i Piraha, credevo di poterli e
doverli convertire. Questo è il fulcro del lavoro del missionario.
Dwayne sedette al suo posto di pilota, poi insieme pregammo affinchè il volo andasse a
buon fine. Poi Dwayne gridò “Livre!” (“Libera!” , prepararsi al decollo…?, in portoghese),
sporgendosi dal finestrino e accese il motore. Mentre il motore saliva di giri parlò via radio
colla torre di controllo di Porto Velho e iniziammo a muoverci verso la pista. Porto Velho, la
capitale dello stato brasiliano del Rondonia, sarebbe stata il base operative per tutti i miei
viaggi tra i Piraha. Giunti alla fine della pista in terra battuta, voltammo a U e Dwayne
preparò il motore al decollo. L’aereo prese velocità, la terra rosso ruggine della pista
passava veloce sotto di noi e poi velocemente diventava sempre più piccola in lontananza.
Guardai la giungla prendere il posto degli spazi aperti intorno alla città. Porto Velho
diventava sempre più piccola mentre gli alberi crescevano. Una volta sorpassato il possente
fiume Madeira la trasformazione era completa - un mare alberi verdi, come i broccoli, che si
spandeva in tutte le direzioni oltre l’occhio umano poteva vedere. Pensai agli animali che
stavano sotto di noi, tra la giungla. Se il nostro aereo si schiantasse, pensai, probabilmente
finirei divorato da un giaguaro - un sacco di storie raccontano di sopravvissuti a incidenti
aerei nella giungla che finirono divorati da animali selvaggi.
Stavo per visitaro una delle meno studiate popolazioni del mondo, che parlavano una delle
lingue più inusuali - a giudicare dal disappunto di numerosi lingusti, antropologi e missionari
prima di me. La lingua Piraha non sembra essere correlata a nessun’altra lingua conosciuta.
Io pure non sapevo molto di questa lingua, a parte alcune registrazioni di cassette che
avevo ascoltato, cassette dei vari linguisti e missionari che vennero prima di me e che ne
abbandonarono lo studio. Essa aveva una sonorità completamente nuova per me.
Sembrava inverosimilmente intricata.
La piccola ventola del Cessna sopra la mia testa incominciò a soffiare l’aria fredda fuori
dall’abitacolo mentre salivamo di quota. Cercai di mettermi più comodo. Mi distesi sul sedile
mentre pensavo come questo viaggio aveva un significato diverso per me rispetto a gli altri
passeggeri dell’aereo. Per il pilota era un lavoro come un altro e sarebbe tornato a casa in
tempo per la cena. Suo padre si era unito a noi come turista. Don Patton, il meccanico
missionario che mi accompagnava, si era preso una piccola vacanza dal duro lavoro di

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manutentore del parco macchine della missione. Io, invece, volavo verso il progetto della
mia vita. Stavo per incontrare le persone con cui avrei passato il resto della mia vita, e che
speravo di riuscire a portare in paradiso con me. Avrei dovuto imparare la loro lingua
fluentemente.
Mentre l’aereo veniva scosso dalle correnti ascensionali mattutine - tipiche dell’ amazzonia
durante la stagione delle piogge - il mio fantasticare venne bruscamente interrotto da ben
più pressanti sensazioni. Mi era venuto il mal d’aria. Passai il resto dei 105 minuti del viaggio
con la nausea, mentre i venti ci spingevano, sopra la foresta. Proprio ora che il mio stomaco
chiedeva pietà, Dwayne si girò verso di noi con in mano un sandwich al tonno, strapieno di
cipolla. “Avete fame?” chiese gentilmente. “No grazie,” risposi io, con in bocca un sapore
strano che mi saliva dallo stomaco.
Volammo poi in tondo sopra la pista vicino al villaggio dei Piraha, Posto Novo, cosicchè il
pilota potesse studiare dove atterrare. Questa manovra peggiorò la situazione del mio
stomaco, mentre cercavo con tutte le mie forze di non vomitare. Per qualche momento prima
dell’atterraggio pensai che avrei preferito che l’aereo si schiantasse piuttosto che sopportare
ancora questa terribile nausea. Ammetto che non fosse un pensiero molto lungimirante, ma
che ci vuoi fare.
Quella pista in mezzo alla giungla sotto di noi era stata fatta due anni fa da Steve Sheldon,
Don Patton, e un gruppo di teenagers americani di varie chiese. Per costruire un pista del
genere bisogna prima abbattere più di mille alberi. Poi bisogna tirar fuori dal terreno tutti i
tronconi con le radici, altrimenti il legno marcisce e si formano le buche nella pista, col
pericolo che il carrello d’atterraggio degli aerei si danneggi, e i passeggeri pure. Dopo aver
sradicato tutte le radici, che sono quasi un metro in diametro, bisogna riempirne di terra le
buche. Poi bisogna far si che la pista sia più piatta possibile, senza l’uso di macchinari
introvabili da queste parti. Se infine riesci nell’impresa, ti ritrovi con una pista larga una
decina di metri e lunga seicento o settecento. Queste erano all’incirca le dimensioni della
pista dei Piraha dove stavamo per atterrare.
Quel giorno, l’erba sulla pista era alta fino alla vita. Non potevamo sapere se ci fossero
tronchi, animali, o chissà cos’altro tra l’erba che avrebbe potuto danneggiare l’aereo - e noi
passeggeri - quando saremmo atterrati. Dwayne volò a zero sulla pista, sperando che i
Piraha capissero, come Steve aveva cercato di spiegar loro, che avrebbero dovuto venire
fuori dal fitto degli alberi e controllare che non ci fossero detriti tra l’erba della pista (una
volta qualcuno costruì la sua capanna al centro della pista e dovemmo farla abbattere per
atterrare). Finalmente alcuni Piraha vennero fuori dalla giungla a controllare la pista, e li
vedemmo correr via con un piccolo tronco - piccolo, ma grande abbastanza da far ribaltare
l’aereo su cui eravamo. Alla fine tutto andò per il meglio e Dwayne fece un atterraggio da
manuale.
Quando infine l’aereo si fermò, l’umidità e il caldo stagnante della giungla mi colpirono con
tutta la loro forza. Mentre venivo fuori dall’aereo, confuso e frastornato, i Piraha mi
circondavano, parlando rumorosamente, sorridendo, e indicando con familiarità verso
Dwayne e Don. Don cercò di comunicare in portoghese ai Piraha che io volevo imparare la
loro lingua. Nonostante i Piraha parlassero ben poco portoghese, alcuni di loro capirono che
io ero li per sostituire Steve Sheldon. Sheldon già aveva spiegato ai Piraha nella loro lingua,
durante la sua ultima visita, che un uomo basso e coi capelli rossi sarebbe venuto a vivere
tra loro. Disse loro che io volevo imparare la lingua.
Mentre percorrevamo il sentiero che dalla pista porta al villaggio, mi sorpresi di trovare
paludi di acqua alta fino al ginocchio. Trasportare provviste tra l’acqua tiepida e torbida, non

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sapendo chissà quale animale potesse mordermi i piedi o le gambe, fu la mia prima
esperienza con le inondazioni del fiume Maici nella stagione delle piogge.
Quello che mi colpì di più dei Piraha la prima volta che li incontrai, fu che tutti sembrevano
felici. Ogni viso era decorato da un sorriso raggiante. Nessuno sembrava accigliato o
imbronciato, come spesso accade quando due culture diverse s’incontrano. Indicavano qua
e la e parlavano entusiasti, cercando di attirare la mia attenzione su cose che pensavano
potessero interessarmi - uccelli che volavano nel cielo, sentieri di caccia, le capanne nel
villaggio, cuccioli. Alcuni di loro indossavano berretti con slogan e nomi di politici brasiliani,
magliette dai colori sgargianti e pantaloncini da ginnastica portati dai commercianti che
risalivano il fiume. Le donne indossavano tutto lo stesso tipo di vestito, con maniche corte,
che arrivava appena sopra il ginocchio. Si poteva intuire come i vestiti delle donne, in origine
molto colorati, fossero col tempo diventati di un marrone indefinito, un misto di terra e
sporcizia. I bambini più piccoli, dai dieci anni in giù, correvano nudi. Tutti ridevano. La
maggior parte di loro mi toccava gentilmente, passandomi vicino, come fossi una specie di
animale domestico. Non avrei potuto chiedere un benvenuto più caloroso di così. Ognuno mi
disse il proprio nome, ma riuscii a memorizzarne ben pochi.
Il primo uomo di cui riuscii a capire e ricordare il nome fu Koxoi (Ko-oE). Lo vidi accovacciato
in una radura alla destra del sentiero. Stava di fianco al fuoco, indaffarato con qualcosa.
Indossava dei pantaloncini stracciati ma niente maglietta ne scarpe. Era magro e non
particolarmente muscoloso. La sua pelle color marrone scuro sembrava cuoio finemente
lavorato. I piedi larghi, incredibilmente callosi, davano un’impressione di forza. Si girò verso
di me invitandomi ad avvicinarmi allo spiazzo sabbioso, incredibilmente caldo, dove lui stava
accovacciato mentre strinava quello che mi parve una specie di ratto gigante. Il viso di Koxoi
era gentile, con un grande sorriso che risaltava più degli occhi e la bocca, dandomi un senso
di comforto in questa giornata di nuove esperienze in un posto nuovo. Mi parlò gentilmente,
anche se io non capii una sola parola. Ero ancora nauseato, e l’odore pungente della
carcassa dell’animale mi fece quasi vomitare. La lingua dell’animale pendeva tra i canini,
toccando il terreno, mentre del sangue scorreva su di essa.
Mi toccai il petto e dissi “Daniel.” Capii che mi stavo presentando e subito si toccò il petto a
sua volta e rispose col suo nome. Poi indicai il roditore che stava sul fuoco.
“Kaixihi” (KYE-i-HEE), egli rispose intuendo la mia domanda.
Ripetei subito la parola ad alta voce (mentre pensavo, cacchio un ratto di 10 chili!). Sheldon
mi aveva detto che la lingua Piraha era tonale, come il cinese, il vietnamita, e centinaia di
altre lingue. Questo significava che oltre le normali vocali e consonanti, avrei dovuto
prestare attenzione al tono con cui ogni sillaba veniva pronunciata. Ero appena riuscito,
comunque, a pronunciare la mia prima parola Piraha.
Poi mi chinai e raccolsi un pezzo di legno. Lo indicai e dissi “Ramoscello”.
Koxoi sorrise e disse, “Xii”.
Ripetei, “Xii”. Poi lasciai cadere il pezzo di legno e dissi, “Il xii mi è caduto”.
Koxoi osservò pensante, poi disse veloce, “Xii xi bigi kaobii”.
Ripetei ciò che lui aveva detto. Tirai fuori dalla tasca penna e taccuino che avevo portato
con me da Porto Velho prevedendo questa circostanza e annotai queste poche parole
apprese, usando l’alfabeto fonetico internazionale. Tradussi l’ultima frase come “ramo cade
a terra” o “ti è caduto il ramo”. Raccolsi poi due pezzi di legno e li feci cadere insieme.
Lui disse, “Xii hoihio xi bigi kaobii”, “Due ramoscelli cadono a terra,” immaginavo fosse
questa la traduzione, allora. Imparai in seguito che la frase in realtà significasse “Una
leggermente maggiore quantità di ramoscelli cadono a terra”.

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Raccolsi poi una foglia e rifeci tutto da capo. Provai nuovi verbi, come saltare, sedersi,
colpire, e così via, mentre Koxoi rispondeva sempre più divertito.
Avevo già ascoltato alcune registrazione della lingua datemi da Steve Sheldon,
accompagnate da qualche sintetico elenco di parole egli stesso aveva scritto. Non ero quindi
completamente all’oscuro dei suoni della lingua Piraha, anche se Sheldon mi consigliò di
non basarmi sui suoi appunti, perchè non era sicuro della loro esattezza, e in effetti a senire
la lingua parlata era molto diverso dal vederla scritta.
Per mettere alla prova la mia abilità di riconoscere i vari toni della lingua, chiesi di
pronunciare alcune parole in cui sapevo il tono fosse distintivo. Chiesi di poter ascoltare la
parole “coltello”.
“Kahaixioi”, disse Koxoi.
Chiesi poi la parola che significava “asta di freccia”.
“Kahaixioi” (utilizzando un tono differente), rispose al mio indicare l’asta delle frecce che
stavano di fianco alla sua capanna.
Avevo frequentato degli ottimi corsi di linguistica base presso il SIL prima di partire per il
Brasile, e scoprii un inaspettato talento per la linguistica. In circa un’ora di colloquio con
Koxoi e altri Piraha (che nel frattempo si erano avvicinati incuriositi), confermai le teorie di
Sheldon e il suo predecessore, Arlo Heinrichs, che ipotizzavano la presenza di solamente
una dozzina di fonemi nella lingua Piraha, che la struttura del periodo fosse prevalentemente
SOV (soggetto, oggetto, verbo) - la struttura più comune tra le lingue - e che i verbi fossero
molto complicati ( adesso so con certezza che ogni verbo della lingua Piraha ha almeno 65
000 possibili forme). Cominciai a sentirmi più ottimista. Ce la potevo fare!

Oltre a imparare la lingua, volevo anche conoscere le usanze di questo popolo. Rivolsi la
mia attenzione innanzitutto alla disposizione spaziale delle capanne ( l’urbanistica del
villaggio ndt). L’urbanistica del villaggio non sembrava aver nessun senso in un primo
momento. C’erano gruppi di capanne raggrupate in ordine sparso lungo il sentiero dalla pista
alla capanna di Steve Sheldon, divenuta nel mentre la mia capanna. Realizzai in seguito che
tutte le capanne si trovavano sul lato del sentiero più vicino al fiume. E da ognuna di essa si
poteva vedere il fiume in tutta la sua lunghezza. Erano tutte costruite il più vicino possibile
alla sponda del fiume, non più di venti passi di distanza, parallelamente a esso. La giungla e
il sottobosco circondavano ogni capanna. In totale contavo dieci capanne. Tra fratelli di
sangue si viveva l’uno vicino all’altro ( in altri villaggi, scoprii più in la, le sorelle di sangue
viveva vicine l’una a l’altra, mentre in altri villaggi ancora nessuna di queste due usanze
prevaleva).
Dopo aver scaricato le provviste, Don e io inziammo a far un po di spazio per le nostre cose
nella dispensa di Sheldon (non avevamo con noi molte cose, olio da cucina, zuppa
liofilizzata, carne in scatola, caffe istantaneo, crackers salati, una pagnotta, del riso e fei
fagioli). Dopo che Dwayne e suo padre diederono un occhiata intorno al villaggio e fecero
qualche fotografia, li riaccompagnammo all’aereo. Don e io li salutammo mentre
decollavano. I Piraha gridavano gioiosi mentre l’aereo si staccava da terra, urlavano “Gahioo
xibipioo xisitoaopi” (L’aereo si è sollevato verticalmente)!
Erano all’incirca le due di pomeriggio. E sentii per la prima volta l’energia e il brivido
dell’avventura che stare coi Piraha sul fiume Maici provocava. Don andò a rimettere in
acqua la barca da pesca di Steve (una larga, stabile, barca di alluminio con una capacità di
carico di quasi una tonnellata) per testarne il motore. Io sedetti tra un gruppo di Piraha
all’interno della capanna di Steve, la quale era più grande di una tipica capanna Piraha. Era
una palafitta con pareti che arrivavano solo a mezza altezza - niente porte nè privacy,

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eccetto per la stanza dei bambini e la stanza adibita a dispensa. Tirai fuori il taccuino e la
penna per riprendere lo studio della lingua. Ognuno dei Piraha era in eccellente forma fisica,
slanciato e vigoroso - solo muscoli, ossa e cartilagine. Avevano tutti un sorriso a 32 denti sul
viso, anzi sembrava quasi facessero a gara a chi sembrasse più felice. Ripetei il mio nome,
Daniel, più volte. Uno degli uomini, Kaaboogi, si alzò dopo essersi consultato col gruppo e
mi parlò in un portoghese piuttosto rudimentale: “Piraha, chamar voce Xoogiai” ( I Piraha ti
chiameranno OO-gi-Ai). Ricevetti il mio nome Piraha.
Sapevo che mi avrebbero dato un nome Piraha, infatti già Don mi aveva detto che tutti i
forestieri ne ricevono uno, perchè ai Piraha non piace pronunciare i nomi stranieri. Appresi in
seguito che il nome viene assegnato in base alla somiglianza che i Piraha percepiscono tra
lo straniero e qualcuno del villaggio. Tra il gruppo di uomini che si trovavano nella mia
capanna ve n’era uno chiamato Xoogiai, e devo ammettere che una certa somiglianza si
notava tra lui e me. Xoogiai sarebbe stato il mio nome per i prossimi dieci anni, finchè
proprio Kaaboogi, che ora risponde al nome di Xahoapati, mi disse che il nome assegnatomi
era ormai troppo vecchio e che bisognava cambiarlo in Xaibigai. (Circa sei anni dopo il nome
cambiò nuovamente in quello che ancora oggi porto, ossia Paoxaisi - il nome di un uomo
molto anziano). Come imparai, i Piraha cambiano nome di quando in quando, di solito dopo
che alcuni individui ricevono nuovi appellativi dagli spiriti che incontrano nella foresta.
Imparai i nomi degli altri uomini presenti - Kaapasi, Xahoabisi, Xoogiai, Baitigii, Xaikaibai,
Xaaxai. Le donne ci osservavano dall’esterno della capanna, in piedi, senza parlare,
ridacchiando se rivolgevo loro la parola. Traducevo sul mio taccuino frasi come Mi è caduta
la matita, Scrivo sulla carta, Mi alzo, Mi chiamo Xoogiai, e così via.
Poi Don riuscì a far partire il motore della barca e in un attimo tutti i Piraha corsero al fiume
per raggiungerlo mentre lui girava in tondo con la barca proprio di fronte alla capanna. Mi
guardai intorno e convenni che ero rimasto solo nel villaggio. Notai che non vi era una
piazza centrale, ma le capanne erano sistemate alla rinfusa tra la vegetazione, collegate da
piccoli sentieri. Sentivo il fumo provenire dai focolari nelle altre capanne. I cani abbaiavano. I
bambini piangevano. Faceva molto caldo a quest’ora del pomeriggio. E c’era pure molta
umidità.
Ora che mi trovavo finalmente tra i Piraha, ero determinato ad acquisire nozioni linguistiche
più in fretta e con più precisione possibile. Però tutte le volte che chiedevo ad un Piraha se
potessi “segnare la carta” (studiare) con lui, nonostante tutti accettassero di buon grado,
ognuno di loro mi spiegava che avrei fatto meglio a studiare con un tale Piraha, più
propenso all’insegnamento. Cominciai a capire. Un tale di nome Kohoibiiihiai mi sarebbe
stato di grande aiuto nell’apprendimento della lingua. Chiesi al mio collega missionario se lui
fosse a conoscenza di un Piraha dal nome Kohoibiiihiai.
“Si, i brasiliani lo chiamano Bernardo.”
“Perchè Bernardo?” Chiesi.
“I brasiliani chiamano i Piraha con nomi portoghesi perchè non riescono a pronunciare i
nomi Piraha.” Continuò, “Penso sia lo stesso motivo per cui i Piraha chiamano gli stranieri
con nomi locali.”
Aspettai dunque per tutto il giorno che Bernardo tornasse dalla caccia. Mentre il sole iniziava
a tramontare i Piraha presero a parlare tra loro a gran voce mentre indicavano l’ultima ansa
del fiume in lontananza. Attraverso il crepuscolo, distinguevo solo la silhouette di una canoa
e di un rematore che si avvicinavano verso il villaggio, stando vicino alla sponda del fiume
Maici per evitarne la forte corrente. I Piraha del villaggio urlavano parole all’uomo in canoe, il
quale replicava. Tutti ridevano, non riuscivo a capire il perchè di tanta eccitazione. Quando
l’uomo tirò a secco la canoa sulla sponda del fiume capii di cosa si trattava: un mucchio di

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pesce, due scimmie morte, e un grande cracide (tipo di volatile ndt) stavano sul fondo della
canoa.
Discesi la sponda fangosa fino alla canoa e parlai al cacciatore appena arrivato, mettendo in
pratica una frase imparata quello stesso pomeriggio: “Tii kasaaga Xoogiai” (Il mio nome è
Xoogiai). Kohoi ( che è la forma abbreviata del nome Kohoibiihiai) mi guardò con le braccia
incrociate sul petto, e grugnì senza emozione. La fisionomia di Kohoi era chiaramente più
africana che asiati, come quella invece della maggiorparte degli altri Piraha, quali Kaaboogi,
che sembrava un Cambodiano. Kohoi aveva i capelli crespi, pelle marron chiaro, e una
barba corta sul mento. Nonostante fosse seduto nella canoa, la tonicità dei suoi muscoli
facevano intendere come fosse pronto a saltare all’attacco, mentre mi guardava con leggero
sospetto. Appariva senza dubbio più forte degli altri Piraha, anche se non era nè più alto nè
più grosso degli altri uomini del villaggio, per quanto potevo vedere. La sua mascella
squadrata e la fermezza del suo sguardo gli davano un’aria di sicurezza e controllo. Quando
i Piraha corsero a vedere il bottino di caccia, lui distribuì parti di animali con precise
indicazioni su chi avrebbe dovuto ricevere quale parte. Indossava dei pantaloni arancioni,
senza scarpe nè maglietta.
Il mio secondo giorno tra i Piraha, iniziai a lavorare ogni mattina con Kohoi nella grande
stanza della capanna di Sheldon. I pomeriggi gironzolavo per il villaggio, interrogando i
Piraha a proposito di questioni lilnguistiche. Continuai a seguire il metodo di indagine che si
utilizza quando non vi è la possibilità di utilizzare una lingua di mezzo conosciuta da
entrambe le parti in causa, ossia il metodo del puntare agli oggetti, domandarne il nome
nella lingua locale, e poi annotando qualsivoglia fosse la risposta data dal locale interrogato,
sperando fosse il nome dell’oggetto indicato. Poi interrogavo subito un altro Piraha sullo
stesso oggetto per controllare che le risposte combaciassero.
Una delle cose che più mi affascinò della lingua Piraha è che non vi era presenza in esse di
ciò che i linguisti chiamano comunicazione “fàtica” - un tipo di comunicazione che serve
principalmente a mantenere canali sociali e intrapersonali tra i soggetti, a riconoscere e
individuare, se cosi si vuol dire, l’interlocutore. Espressioni come salve, arrivederci, come
stai?, mi dispiace, sei il benvenuto, grazie non trasmettono effettivamente nuove
informazioni a proposito del mondo quanto piuttosto convogliano un messaggio di
benevolenza e mutuo rispetto. La cultura Piraha non ricorre a questo tipo di comunicazione.
L’enunciato nella lingua Piraha ha solo una funzione e ben precisa, ossia una richiesta di
informazioni (domande), o una comunicazione di nuove informazioni (asserzioni), o
comandi, e questo è tutto. Non ci sono parole che traducono il nostro grazie, mi dispiace, e
così via. Col tempo mi sono abituato a questo aspetto della lingua ma ancora oggi mi
sorprende come possa risultare incredibile per un non iniziato alla cultura Piraha. Ogni volta
faccio da guida a visitatori stranieri, la prima cosa che mi vien chiesta è come tradurre quelle
parole. E quasi non mi credono quando dico che quel tipo di comunicazione non esiste tra
questa gente. Quando un Piraha arriva al villaggio, potrebbe annunciarsi dicendo “Sono
arrivato”. Però, nella maggior parte dei casi, egli non dirà un bel niente. Se dai qualcosa a
qualcuno, egli potrebbe dire “Va bene” o “Questo è OK”, volendo significare qualcosa come
“transazione registrata” piuttosto che “grazie”. La dimostrazione di gratitudine avverrà tramite
gesti pratici nel futuro prossimo, come il donarti un regalo, o aiutarti nel trasporto di un
oggetto pesante. Lo stesso principio si manifesta nel caso di un’offesa o un danno materiale.
Essi non hanno parole per dire Mi dispiace. Potrebbero invece dire, “Ho agito male”, o simili,
ma questo accade raramente. Di nuovo la dimostrazione di pentimento avverrà non tramite
parole ma tramite gesti pratici. Ad esser precisi, anche all’interno della civiltà occidentale vi
sono numerose differenze nell’utilizzo della comunicazione fàtica. Quando studiavo

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portoghese, ad esempio, i brasiliani mi dicevano continuamente che gli americani ripetevano
“grazie” troppo spesso.

Il mio secondo pomeriggio nel villaggio Piraha, dopo una lunga giornata a studiare la lingua,
mi feci una tazza grande di caffè nero e bollente, di quello istantaneo, mi sedetti sull’orlo
della ripida sponda del fiume Maici ad ammirarne la bellezza. Alcuni uomini Piraha erano
andati a pescare con Don e la sua barca, e il villaggio perciò era più silenzioso del solito.
Erano più o meno le 5:45, il tratto più bello della giornata, quando il sole splende di
arancione e il l’opacità dell’acqua del fiume si accentua contro il color ruggine del cielo e il
lussureggiante verde spinacio della giungla. Mentre sedevo assorto nei miei pensieri
sorseggiando il caffè, fui sorpreso dalla vista di due piccole focene grigie che saltavano
all’unisono fuori dall’acqua. Quasi immediatamente, due canoe Piraha sbucarono da dietro
l’ansa del fiume, i due uomini a bordo pagagliando con tutte le loro forze, rincorrendo le
focene, cercavano di toccarle con le pagaglie. Giocavano a rincorrersi, con le focene.
Apparentemente alle focene piaceva il gioco e continuavano a saltar fuori dall’acqua
fuggendo le pagaglie dei due uomini. Il gioco continuò per circa una mezz’ora, finchè arrivò
l’oscurità della sera. I Piraha sulle canoee e quelli sulla riva (si era riunita nel mentre una
piccola folla) ridevano a crepapelle. Appena smisero di inseguire le focene, esse
scomparirono alla vista. (In tutti gli anni che assistetti a questo gioco, ancora nessun Piraha
è riuscito nell’intento di acchiappare una focena).
Pensai a quanto fossi fortunato a poter essere parte di questo meraviglioso mondo Piraha.
In questi due giorni avevo già fatto una miriade di nuove esperienze, come ascoltare il verso
stridulo e metallico dei tucani e il pianto rauco dei pappagalli. E tali odori intorno a me, che
provenivano da alberi a piante mai visti prima.

Nei giorni seguenti osservai la routine giornaliera dei Piraha, mentre continuavo a studiarne
la lingua. I Piraha iniziano la loro giornata presto, di solito intorno alle 5 nella mattina, però
considerando che dormono molto poco durante la notte, più che iniziare la giornata presto si
potrebbe dire che non la finiscono mai. Venivo svegliato solitamente dalle donne del
villaggio che parlavano nelle loro capanne. Raccontavano gli avvenimenti della giornata a
nessun in particolare, quasi gridando. Qualche donna poteva annunciare, ad esempio, che
questo o quell’uomo era in procinto di andare a pesca o a caccia, per poi annunciare al
mondo quale carne ella desiderasse. Altre donne rispondevano da altre capanne, e si
iniziava una discussione sui modi migliori di cucinare tale selvaggina o pescato.
Una volta iniziata la giornata, l’attività più comune tra gli uomini è la pesca. Si parte prima
dell’alba, in modo da raggiungere zone di pesca che possono essere ore di navigazione a
monte o a valle nel fiume. Se la sessione di pesca è progettata per durare tutta la notte, gli
uomini portano le loro famiglie con se. Ma di norma gli uomini vanno a pesca da soli o con
un paio di amici. Se un piccolo stagno si è formato a causa della sabbia distaccatasi dalla
sponda del fiume, di sicuro più uomini si troveranno in quel luogo, perchè sarà ricco di pesce
intrappolato. La pesca avviene per la maggiorparte con arco e frecce, ma occasionalmente
anche lenza e amo sono utilizzati, quando si riesce a procurarseli tramite commercio. Gli
uomini solitamente si allontanano con le loro canoe nella tenue luce dell’alba, ridendo
sonoramente e sfidandosi a gare di velocità con le canoe. Almeno un uomo deve rimanere
al villaggio per assicurarne la sorveglianza.
Dopo che gli uomini si sono allontanati, è il turno delle donne e i bambini che vanno a
raccogliere manioca - chiamata anche cassava, il tubero della vita - nei loro punti di raccolta
tra la giungla. Questa attività impiega molte ore e molte energie, ma le donne (non

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diversamente dagli uomini) si dedicano ad essa ridendo e scherzando. Le donne sono di
ritorno solitamente nel primo pomeriggio. Se gli uomini non sono ancora tornati, esse
iniziano a raccogliere e sistemare della legna per i fuochi che serviranno a cucinare il pesce
raccolto dai mariti.

Questa prima visita presso i Piraha durò appena pochi giorni. Nel dicembre del 1977 il
governo brasiliano ordinò a tutti i missionari di lasciare le riserve Indios. Dovemmo fare i
bagagli. Ad ogni modo non rientrava nei miei piani stare a lungo, ma solo il tanto di avere
una prima impressione di quello che la cultura e la lingua Piraha fossero. In quei dieci giorni
di permanenza, ebbi il mio primo contatto coi Piraha.
Lasciare il villaggio in tali circostanza mi fece dubitare della possibilità di poter ritornare in
seguito. Il Summer Institute of Linguistics cercò di trovare un modo di aggirare le proibizioni
del governo brasiliano contro i missionari. Mi indicarono quindi di iscrivermi al corso di laurea
specialistica in linguistica presso la State University of Campinas (UNICAMP), presso lo
stato di San Paolo, Brasile. Pensavamo in questo modo che UNICAMP potesse assicurarmi
un permesso governativo per visitare i Piraha per periodi di tempo prolungati, a dispetto del
divieto contro i missionari. Nonostante la mia presenza presso l’università fosse nient’altro
che un escamotage, UNICAMP si rivelò la più importante esperienza di crescita accademica
ed intellettuale della mia vita.
La mia permanenza presso l’università si rivelò fruttuosa, come il SIL aveva sperato. Il
presidente della Fondazione Nazionale Brasiliana Indios, il Generale Ismarth de Araujo
Oliveira, mi autorizzò a ritornare tra i Piraha, con la mia famiglia, per un periodo di sei mesi
al fine fare ricerca per la mia tesi presso UNICAMP. Mia moglie, Karen; la nostra figlia più
grande, Shannon, che allora aveva 7 anni; la nostra seconda figlia Kris, di quattro anni;
nostro figlio Caleb, un’anno; e infine me stesso, partimmo da Sao Paulo su un autobus,
direzione Porto Velho, nel mese di dicembre, per la nostra prima visita di famiglia ai Piraha.
Impiegammo tre giorni per arrivare a Porto Velho, dove un gruppo di missionari del SIL era
di base e ci avrebbe aiutato a raggiungere il villaggio Piraha. Rimanemmo una settimana
presso Porto Velho, preparandoci logisticamente e mentalmente per la nostra imminente
avventura.
Non è facile per una famiglia occidentale prepararsi a quello che sarà la vita nella giungla
Amazzonica. Le preparazioni iniziarono varie settimane prima che ci mettessimo
effettivamente in viaggio. Acquistammo a Porto Velho, o PV, come la chiamano i missionari,
tutto ciò di cui avevamo bisogno. Li, io e Karen dovemmo organizzarci e prepararci a restare
nella giungla, isolati dal mondo occidentale, per un periodo che poteva raggiungere i sei
mesi. Ogni più piccola cosa, dal detergente per il bucato ai regali di Natale e compleanno
per i bambini dovette essere minuziosamente pianificato in anticipo. Durante tutti i nostri
viaggi tra i Piraha infatti, a partire dal 1977 sino al 2006, eravamo noi stessi quasi
interamente responsabili delle eventuali necessità mediche della nostra famiglia e anche dei
Piraha, il che ci costò centinaia di dollari in medicine, dalle aspirine agli antidoti per i serpenti
velenosi. I vari anti malarici - Daraprim, chloroquine, e quinin- erano però la nostra priorità.
Avremmo dovuto portare con noi materiale scolastico per i nostri figli, per potergli permettere
di continuare gli studi dell’obbligo tra la giungla. Ogni volta che facevamo ritorno dal villaggio
presso il centro del SIL in Puerto Velho, i bambini venivano sottoposti ad un esame
scolastico dal SIL stesso, esame che era accreditato dallo stato delle California. I libri
scolastici (inclusa un’enciclopedia in vari volumi e un dizionario) e il resto del materiale
scolastico si andavano ad aggiungere al nostro vasto inventario di utensili ed
equipaggiamento domestico per la nostra casa nella giungla - centinaia di litri di gasolio

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[benzina ndt], kerosene, e propano, un frigorifero a propano, dozzine e dozzine di carne in
scatola, latte in polvere, farina, riso, fagioli, carta igienica, oggetti vari da scambiare coi
Piraha, e altro ed altro ancora.
Dopo che tutto fù pronto, decisi di partire in aereo una settimana prima della mia famiglia,
insieme al missionario del SIL Dick Need, per preparare la nostra futura casa nel villaggio
all’arrivo dei bambini. Io e Dick lavorammo dalle 6 del mattino sino alle 6 di sera tutti i giorni,
nutrendoci quasi interamente di noci brasiliane (avremmo potuto chiedere del pesce ai
Piraha, ma giacchè al tempo non ero sicuro del fatto che i Piraha avrebbero considerato la
nostra richiesta di cibo garbata, preferimmo sostenerci di sole noci brasiliane, che ci
venivano procurate dai Piraha spontaneamente). Non avevamo provviste con noi perchè gli
attrezzi da lavoro avevano occupato tutta la stiva dell’aereo col quale arrivammo.
Riparammo il tetto e il pavimento della capanna/casa di Sheldon e costruimmo un nuovo
piano cucina. Passammo inoltre alcuni giorni utilizzando i machete, aiutati da un paio di
Piraha volenterosi, per tagliare l’erba della pista d’atterraggio, cosichè il Cessna potesse
atterrare con facilità. Sapevo che una buona prima impressione della casa avrebbe aiutato i
bambini a vivere la permanenza nel villaggio con meno sofferenza. Dopotutto stavo
chiedendo loro grandi sacrifici, lasciare i loro amici e la vita di città per passare mesi nella
giungla, con persone a dir poco sconosciute, circondati da un linguaggio che nessuno di noi
parlava.
Il giorno programmato per l’arrivo della mia famiglia mi svegliai prima dell’alba. Alla prima
luce del mattino mi diressi verso la pista, a cercare eventuali buche. Ve n’erano sempre di
nuove. Cercai anche eventuali grossi pezzi di legno, o tronchetti, che potessero essere
sfuggiti ai Piraha. Ero eccitato. Era veramente l’inizio della nostra missione tra i Piraha, e
sapevo che senza la mia famiglia non avrei mai potuto farcela. Avevo bisogno del loro
supporto. Era anche la loro missione. Stavano facendo il loro ingresso in un mondo lontano
dall’intrattenimento occidentale, senza elettricità, senza dottori, dentisti, e telefoni - stavano
per compiere qualcosa simile a un viaggio indietro nel tempo. Sopportare una cosa simile
poteva essere molto duro per dei bambini, ma ero convinto che Shannon, Kristene, e Caleb
ce l’avrebbero fatta. Sapevo che Keren aveva più esperienza di me in questo tipo di vita ed
ero sicuro che avrebbe trasmesso la sua determinazione e la sua esperienza ai bambini.
Dopo tutto Keren era cresciuta con la tribù indios dei Sateré-Mawé, nella foresta
amazzonica, dall’età di 8 anni. E le era piaciuto un sacco. Nessun aspetto della vita del
missionario la spaventava. In molti modi io stesso mi sentivo rassicurato dalla sua
determinazione. Lei era la missionaria più dedita che avessi mai conosciuto.
Cinque minuti prima dell’arrivo dell’aereo i Piraha presero a gridare e si precipitarono verso
la pista d’atterraggio. Io riuscii a sentire l’aereo che arrivava solo qualche minuto dopo di loro
e corsi anch’io alla pista, non vedendo l’ora di dare il benvenuto nella giungla alla mia
famiglia. Keren e i bambini ci salutavano con gioia mentre atterravano. Quando l’aereo si
fermò e il pilota aprii il suo portellone, mi avvicinai a lui e gli strinsi vigorosamente la mano.
Keren venne fuori dall’aereo, estasiata, sorridendo, e subito provò a comunicare coi Piraha.
Shannon, col suo cane, Glasses, Kris, e Caleb uscirono dal portello per i passeggeri. I
bambini sembravano provati, ma erano contenti di vedermi. E sorrisero di cuore ai Piraha. Il
pilota si preparava a fare ritorno a Porto Velho e Dick si rivolse a me mentre saliva
sull’aereo, “Penserò a te, Dan, mentre mangio una bella bistecca stasera a Porto Velho.”
Trasportammo tutte le nostre cose alla capanna con l’aiuto dei Piraha, poi riposammo
qualche minuto. Keren e i bambini ispezionarono quella che sarebbe stata la nostra nuova
casa. C’erano ancora molte cose da organizzare. Ma in un paio di giorni saremmo riusciti a
costruire una routine tra lavoro e vita di famiglia.

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Dopo aver traspostato le nostre cose, le sistemammo per la casa. Keren aveva fatto delle
reti anti zanzare e delle cassettiere portatili in tessuto per i nostri vestiti, le stovaglie, e tutto il
resto. I bambini studiavano a casa, Keren si prendeva cura della casa, e io mi immersi nello
studio della lingua a tempo pieno. Cercammo di tenere una vita da normale famiglia cristiana
americana, però in un villaggio nel mezzo della giungla. Ognuno di noi avrebbe dovuto
adattarsi.
Nessuno di noi, neppure Keren, avrebbe potuto anticipare quel che la vita nella giungla
avrebbe implicato. Una delle prima notti passate insieme nel villaggio, stavamo cenando al
lume di una lampada a gas. Nel salotto vidi Glasses, il cane di Shannon, che cercava di
acchiappare qualcosa che saltava nell’oscurità, ma non riuscivo a distinguere cosa fosse
quella cosa che saltava come una cavalletta nell’oscurità. Qualunque cosa fosse mi accorsi
che saltava nella mia direzione. Smisi di mangiare e scrutai l’oscurità. In un attimo, la cosa
misteriosa atterrò sulla mia coscia. La illuminai con la mia torcia elettrica. Era una tarantola
nera brasiliana, almeno venti centimetri di diametro. Tuttavia ero preparato all’evenienza.
Tenevo infatti una mazza di legno sempre vicino a me, pronta all’uso contro serpenti, insetti
e tutto il resto. Senza toccare la tarantola con le mani, mi alzai più improvvisamente che
potei e con un movimento brusco del bacino riuscii a far cadere la tarantola dalla mia coscia
sul pavimento di legno. La mia famiglia guardava pietrificata. Agguantai la mazza e
spiaccicai il povero ragno contro il pavimento. I Piraha nella stanza d’ingresso si voltarono
incuriositi dal baccano. Appena uccisi il ragno mi chiesero cosa avessi appena colpito.
“Xoooi” (Tarantola), dissi.
“Noi non uccidiamo le tarantole” loro risposero “Le tarantole mangiano gli scarafaggi, non
sono pericolose.”
Ci abituammo a certe cose solo tempo dopo. E nel mentre, eravamo convinti che Dio si
sarebbe preso cura di noi e che in futuro avremmo potuto raccontare queste storie alla gente
e riderne.

Anche se ero un missionario, i compiti assegnatimi dal SIL erano innanzitutto linguistici.
Dovevo innanzitutto capire come la grammatica della lingua Piraha funzionasse e
trasmetterne i risultati al SIL, e solo dopo sarei stato autorizzato a procedere con la
traduzione della Bibbia.
Imparai presto come le ricerche linguistiche richiedono allo studioso ben oltre il mero sforzo
intellettuale. Il linguista deve immergersi completamente in una cultura estranea, imparando
a sopportare lo stress di situazioni delicate in luoghi inospitali, con il pericolo di finire per
alienarsi dal mondo circostante a causa dell’inabilità di affrontare tale compito. Il corpo, la
mente, le emozioni del ricercatore sul campo, e ancor di più la propria percezione di sè, tutto
ciò è duramente messo alla prova dai lunghi periodi di permanenza presso genti di culture
sconosciute, e più la cultura che si va a studiare sarà diversa dalla nostra più pesanti
saranno le pressioni e lo stress.
Consideriamo il dilemma del ricercatore sul campo: egli si ritrova a vivere in un luogo dove
tutto intorno a lui appare nascosto e camuffato, dove ciò che vede, ciò che sente e ciò che
prova destabilizzano la sua concezione del mondo. È un po come ritrovarsi dentro un film
dell’orrore, dove non riesci proprio a capire che ti sta succedendo, perchè è tutto talmente
inaspettato e fuori dai tuoi schemi di riferimento.
Mi approcciai al lavoro di ricerca sul campo con determinazione. I miei studi di linguistica mi
avevano preparato bene al lavoro di raccolta dati sul campo, dell’analisi e della
conservazione degli stessi. Ero in piedi tutte le mattine alle 5:30. Dopo aver trasportato

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almeno 200 litri d’acqua in contenitori da 20 litri da utilizzare per lavare i piatti e per
dissetarci, preparavo la colazione per la famiglia. Per le 8 mi trovavo seduto alla mia
scrivania a compiere il mio lavoro di “informatore”. Seguivo diversi metodi guida e stabilivo
un piano studi con degli obbiettivi misurabili per l’apprendimento della lingua. I primi giorni di
permanenza nel villaggio, disegnai delle primitive mappe del villaggio con tutte le capanne e
una lista dei loro occupanti. Volevo sapere come passavano la giornata, quali cose erano
importanti per loro, quali fossero le attività dei bambini e in che modo differissero da quelle
degli adulti, di cosa parlavano tra loro, perchè passassero il tempo facendo quel che
facevano, e molto di più. Ed ero infine determinato a imparare la loro lingua.
Cercai di memorizzare dieci parole o frasi nuove ogni giorno, in differenti “campi semantici” (
gruppi di parole imparentate, come ad esempio parti del corpo, o parole usate per descrivere
lo stato di salute, nomi dei volattili, etc.) e anche le diverse costruzioni sintattiche (ad
esempio costruzione passiva e attiva della frase, tempo passato e tempo presente,
affermazioni e domande, e così via). Scrivevo le parole nuove sopra dei biglietti di carta da
schedario. Oltre a scrivere ogni nuova parola nell’alfabeto fonetico, registravo anche il
contesto in cui l’avevo sentita usare e cercavo di intuire quale fosse il suo uso primario.
Bucavo poi il biglietto nell’angolo superiore sinistro. Infilavo dai dieci ai venti bigliettini in un
anello da schedario, di quelli che si aprono e che avevo staccato da un raccoglitore, e li
attaccavo invece alla mia cintura. Mi mettevo sempre alla prova nella pronuncia e la
comprensione dei vocaboli del mio schedario portatile con lunghe conversazioni coi Piraha.
Rifiutai di farmi demoralizzare dal costante beffarsi, da parte dei Piraha, della mia pronuncia
e dell’uso sbagliato delle parole. Sapevo che il mio primo obbiettivo era di capire quali suoni
pronunciati dai Piraha fossero funzionali e cardinali nella trasmissione del messaggio
linguistico. Questi suoni sono chiamati dai linguisti “fonemi del linguaggio”, e sono la base
dello sviluppo di un eventuale sistema di scrittura.
La prima svolta nel capire come i Piraha percepiscono se stessi rispetto agli altri avvenne
durante una escursione nella giungla con alcuni uomini del villaggio. Indicai un ramo di un
albero. “Come chiamate questo?” chiesi.
“Xii xaowi,” essi risposero.
Indicai di nuovo il ramo, più precisamente la parte dritta dello stesso, senza calli o storture, e
ripetei “Xii xaowi.”
“No.” Ridettero all’unisono. “Questo è il xii xaowi,” e indicavano il punto di giuntura tra il ramo
e il tronco e pure il punto di giuntura tra un ramo più piccolo e un ramo più grande. “Questo”
(riferendosi alla parte di ramo che avevo indicato lontana dal punto di giuntura col tronco)
“invece si chiama xii kositii.”
Sapevo già che xii voleva dire “legno”. Ero piuttosto sicuro che xaowi significasse “storto” e
che kositii fosse invece “dritto”. Dovevo però verificare queste intuizioni.
Mentre percorrevamo il sentiero di ritorno verso il villaggio alla fine della giornata, notai che
un lungo tratto del sentiero procedeva rettilineo. Conosceva la parola per “sentiero”, xagi,
perciò azzardai “Xagi kositii,” mentre indicavo il sentiero che procedeva dritto.
“Xaio!” fu la loro immediata risposta (Esatto!). “Xagi kositii xaaga” (Il sentiero è dritto).
Quando il sentiero virò bruscamente verso destra provai a dire “Xagi xaowi.”
“Xaio!” risposero loro, con un gran sorriso. “Soxoa xapaitiisi xobaaxai” (Già vedi la lingua
Piraha bene). Poi aggiunsero “Xagi xaagaia piaii,” il che più tardi capii voler dire “Il sentiero è
anche tortuoso.”
Tutto ciò era fantastico. Con poche difficoltà avevo imparato le parole “storto” e “dritto”. A
quel tempo avevo già imparato quasi tutte le parole che indicavano le parti del corpo. Mentre
proseguivamo per il sentiero, ricordai le parole con le quali i Piraha chiamavano loro stessi,

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ossia la gente Piraha(Hiaitiihi), la lingua Piraha (xapaitiisi), uno straniero (xaooi), una lingua
straniera (xapai gaisi). Il termine “lingua Piraha” era chiaramente una combinazione di xapai
(testa) e tii (dritto), più il suffisso -si, il quale indica che la parola a cui si attacca è un nome
comune o un nome proprio: “testa dritta”. Il termine “gente Piraha” è costituito da hi (lui), ai
(è, verbo essere terza persona sing.), e tii (dritto), più -hi, un’altra particella grammaticale
simile a -si: “lui è dritto.” Il termine “straniero” si traduce letteralmente come “biforcazione”,
come in “biforcazione di un ramo dal fusto di un albero.” Infine “lingua straniera” si traduce
letteralmente come “testa storta”.
Stavo facendo progressi! La strada era ahimè ancora lunga.
Ciò che rende la lingua Piraha così difficile da imparare e analizzare sono i piccoli particolari
che non vengono alla luce nei primi periodi di studio, nonostante l’apparente facilità dei primi
successi nell’apprendimento faccia gioire lo studioso. La parte più difficile nell’imparare la
lingua Piraha non è la lingua in se, ma il fatto che le circostanze in cui l’apprendimento
avviene sono “monoglossia”. Le ricerche sul campo in un ambiente monoglottico o
monolinguistico, il che è una circostanza rara negli studi linguistici, il ricercatore e il parlante
nativo non hanno in comune nessuna seconda lingua. Questa era la mia situazione con i
Piraha, visto che loro non parlano nè portoghese nè inglese, di fatto non parlano nessun
altra lingua oltre Piraha, a parte pochissime e limitate frasi. Perciò per poter imparare la loro
lingua, devo prima imparare la loro lingua (gioco di parole ndt). Un paradosso. Non posso
chieder loro di tradurre in nessun’altra lingua nè chiedere spiegazioni di nessun tipo in altri
idiomi oltre che Piraha. Vi sono però alcuni approcci che si possono tentare in circostanze
come questa. Non sorprenderà che le mie peripezie linguistiche abbiano aiutato a sviluppare
alcuni di questi approcci. Tuttavia la maggior parte di essi era già nota agli addetti ai lavori
ben prima della mia comparsa.
Nonostante ciò, non è un compito facile. Ecco riportato un piccolo scambio linguistico,
avvenuto quando già avevo imparato a chiedere “Come si dice _____ in Piraha?”:
“Come si dice questo?” (indicando un uomo che risaliva il fiume nella sua canoa.)
“Xigihi hi piibooxio xaaboopai” (L’uomo risale il fiume).
“Lo dico correttamente: Xigihi hi piibooxio xaaboopai?”
“Xaio. Xigihi piiboo xaaboopaitahasibiga” (Esatto. L’uomo risale il fiume.)
“Qual’è la differenza tra Xigihi hi piibooxio xaaboopai e Xigihi piiboo xaaboopaitahasibiga ?”
“Nessuna differenza, sono la stessa cosa.”
Chiaramente, dal punto di vista del linguista, deve esserci una differenza tra le due frasi. Ma
sino a chè non imparai da solo la lingua, non potevo sapere che la prima frase significa
“L’uomo risale il fiume”, mentre la seconda “Sono testimone oculare del fatto che l’uomo sta
risalendo il fiume.” Ciò complica enormemente l’apprendimento della lingua.
Un’altra cosa che rende questa lingua particolarmente ostica è un’aspetto a cui già ho
accennato - la lingua Piraha è tonale. Per ogni vocale, bisogna sapere se il tono con cui
viene pronunciata è alto o basso. Molte altre lingue intorno al mondo sono tonali, e la quasi
totalità di esse sono lingue non europee. L’inglese ad esempio non è una lingua tonale.
Avevo già deciso di annotare le vocali che avevano un tono alto con un accento acuto (é),
mentre quelle con un tono basso le avrei riportate semplicemente senza nessun accento. A
titolo di esempio si prenda in considerazione le parole per “Io” ed “Escrementi”:
Tii’ [accento acuto sulla seconda i ndt] significa “Io”, si pronuncia con un tono basso sulla
prima i ed un tono alto sulla seconda i. Figurativamente si potrebbe rappresentare così “tiI”.
Ti’i [accento acuto sulla prima i ndt] significa “escremento”, e si pronuncia con un tono alto
sulla prima i e uno basso sulla seconda i, “tIi”.

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Il fatto che ci siano solo tre vocali (i,a,o) e otto consonanti (p,t,h,s,b,g, una occlusiva
glottidale, e la k) complica ulteriormente le cose. Questo ristretto numero di fonemi si
traduce in una maggiore lunghezza delle parole Piraha rispetto ad una lingua con più
fonemi. La lunghezza delle parole di una lingua è inversamente proporzionale al numero di
fonemi presenti nella lingua stessa, i quali permettono la differenziazione delle parole
stesse. Perciò se una lingua possiede pochi fonemi, come la lingua Piraha, le parole
saranno necessariamente più lunghe in modo da potersi differenziare l’una dall’altra. La
prima impressione è che tutte le parole Piraha sembrano quasi uguali.
Infine la lingua Piraha risulta particolarmente difficoltosa all’apprendimento perchè manca di
alcune costruzioni sintattiche tipiche di altre lingue. Per esempio, nel Piraha la costruzione
sintattica del comparativo è assente, non vi è una costruzione del tipo “questo è più grande
di quello”. Non vi sono parole che traducano letteralmente i nostri colori, come rosso, verde,
blu, e così via, si utilizzano invece delle forme descrittive, come “questo è come il sangue”
per descrivere il colore rosso, oppure “questo non è ancora maturo” per descrivere il colore
verde. Non riuscivo poi a farmi raccontare storie del passato. Quando non riesci a trovare
qualcosa, ma pensi che debba esistere per forza, puoi sprecare mesi e mesi cercando
qualcosa che semplicemente non c’è. Molte delle cose che mi avevano insegnato a cercare
durante i corsi di linguistica sul campo semplicemente non c’erano nella lingua Piraha. Tutto
ciò non solo rese le cose più difficili, ma anche terribilmente scoraggianti. Tuttavia,
mantenevo il mio ottimismo convinto che con la perseveranza e la determinazione sarei
infine riuscito nel mio obbiettivo di imparare la lingua.
Ma non sempre ci è dato di scegliere il nostro futuro, e i nostri piani sono presto stravolti dal
caso. Ero un pazzo a credere che la mia la mia permanenza laggiù si sarebbe limitata ad un
semplice periodo di ricerca linguistica. Eravamo nell’Amazzonia.

2 L’Amazzonia

Una volta abituatisi all’Amazzonia, il villaggio Piraha diviene un luogo piuttosto rilassante. Il
primo passo da compiere per ambientarsi nella giungla è imparare a ignorare, se possibile
persino apprezzare, il caldo. Dopotutto non è così difficile. Il corpo umano, indossati gli
indumenti adeguati, può sopportare facilmente temperature tra i 35/40 gradi, sopratutto
considerando che la giungla fornisce molte zone d’ombra e nel caso dei Piraha anche il
fiume Maici, il quale è sempre fresco, gonfio d’acqua e rilassante. L’umidità invece è più
difficile da sopportare. La traspirazione - che in climi più miti si rivela un importante
strumento per la regolazione della temperatura corporea - spesso causa nell’Amazonia
inconvenienti infezioni quali il piede d’atleta e eczemi inguinali, a meno che la tua pelle non
sia fatta per sopportare il sole, come quella dei Piraha, la quale rimane sempre asciutta e
raramente suda.
Mettendo da parte questi inconvenienti minori, l’Amazzonia si rivela non un semplice luogo;
essa è una prodigiosa forza. La foresta amazzonica copre quasi 8 milioni di km quadrati:
ossia il due percento della superficie terrestre totale e il 40 per cento della superficie del sud
america. La foresta è quasi grande quanto gli interi Stati Uniti. Se ti capitasse di volare da
Porto Velho, presso il confine con la Bolivia, verso Belém alla foce del Rio delle Amazzoni,
un volo di 4 ore, in una giornata di bel tempo vedresti la foresta estendersi fino all’orizzonte
in ogni direzione: un tappeto verde, fin dove arriva la vista, con strisce di acqua blu che si
allungano da nord a sud, fluendo verso il “mare che scorre”, come gli indios Tupi chiamano il
grande fiume Amazzone.

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Il Rio delle Amazzoni scorre per oltre seimila chilometri dal Perù sino all’Atlantico. Esso
raggiunge una larghezza di oltre 300 chilometri alla foce, e il suo delta, che costituisce l’isola
di Marajò, è più grande della Svizzera. C’è abbastanza terra inesplorata e sconosciuta nella
foresta da consumare la fantasia di mille uomini. E in effetti non è solo un modo di dire - la
bibliografia relativa alla foresta, al suo sistema ecologico, alla sua storia, ai suoi abitanti, e
alla sua politica è quasi infinita. L’Amazzonia ha eccitato l’immaginazione e lo spirito
d’avventura degli Europei e i loro discendenti sin da quando spagnoli e portoghesi per la
prima volta sbarcarono qui nel sedicesimo secolo. Due dei miei scrittori americani preferiti,
Mark Twain e Willima James, cedettero al richiamo della foresta.
Mark Twain lasciò l’Ohio nel 1857 con la speranza di imbarcarsi da New Orleans verso il Rio
delle Amazzoni, apparentemente con l’intenzione di arricchirsi col commercio del cacao.
Chissà quali libri e racconti sarebbero potuti nascere da tale avventura, perchè invece
abbandonò i suoi piani di commercio e si imbarcò come allievo pilota di un battello sul
Mississippi. Avremmo potuto avere “Vita sul Rio delle Amazzoni” invece che “Vita sul
Mississippi”?.
William James invece raggiunse la foresta e riuscì a visitare una significante porzione del
fiume e dei suoi affluenti. James viaggiò per circa otto mesi attraverso il Brasile, lungo il
fiume e i suoi affluenti durante una spedizione scientifica con il biologo Louis Agassiz della
università di Harvard alla ricerca di campioni zoologici nel 1865. Dopo la sua esperienza
nell’Amazzonia James abbandonò la sua idea di diventare un naturalista - si potrebbe dire
che dopo la foresta amazzonica non rimane molto altro da vedere dal punto di vista di un
naturalista. (Più di un terzo di tutte le specie conosciute sulla terra vive nella foresta
amazzonica). James decise invece di dedicarsi alla filosofia e alla psicologia, divenendo
l’autore principale nella fondazione e nello sviluppo della scuola filosofica conosciuta col
nome di pragmatismo americano.
La maggior parte della foresta amazzonica, compreso il rio delle amazzoni e il suo bacino
fluviale, è parte del territorio del Brasile. Il Brasile è la quinta nazione al mondo per
superficie, più grande dei 48 stati che costituiscono gli Stati Uniti. La popolazione di 190
milioni di abitanti è molto eterogenea, ed è costituita in larga parte da portoghesi, tedeschi,
italiani, altre nazionalità europee ed asiatiche, tra cui la più numerosa comunità giapponese
al di fuori del Giappone. Per la maggior parte dei brasiliani che risiedono nelle zone urbane,
l’Amazzonia è una cosa distante e fantastica, come lo è per gli europei o gli americani. E
nonostante la bellezza e la maestosità della foresta siano motivo di grande orgoglio tra la
popolazione brasiliana, la maggior parte di essi non ha mai effettivamente visitato la giungla.
La foresta Amazzonica si trova a tremila chilometri dai grandi centri abitati del sud-est del
Brasile, dove risiede il 60 per cento della popolazione. Questo non impedisce a molti
brasiliani di provare sconcerto e indignazione al solo accenno di una qualsivoglia possibile
gestione internazionale nella preservazione del patrimonio che rappresenta la foreste
amazzonica. Come dicono in Brasile, “A Amazonia è nossa” - “L’Amazzonia è nostra!”. A
volte i timori di possibili interventi stranieri sfiorano la paranoia, come potei constatare nella
convinzione di alcuni colleghi brasiliani del fatto che i libri di testo statunitensi riferiscano alla
foresta amazzonica come territorio appartenente al governo degli Stati Uniti.
Nel loro ruolo di responsabili nella preservazione della più grande riserva di storia naturale al
mondo, i brasiliani sono largamente favorevoli alla conservazione della diversità geologica,
acquatica, della flora e della fauna della foresta. Non accettano però nessun intervento nè
americano ne europeo - considerando che questi ultimi due distrussero in passato aree della
foresta ben più grandi di quelle in pericolo di distruzione ai giorni nostri. Conflitti locali
riguardo le modalità di preservazione della foresta sono ben noti e generalmente attraggono

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molta copertura mediatica. (Un caso celebre è quello di Chico Mendes. Mendes fu un
sindacalista assassinato perchè spingeva per un sfruttamento sostenibile ed ecologico delle
risorse di lattice della foresta, cosa che andava contro i progetti di sfruttamento intensivo
delle compagnie produttrici.) Episodi simili non rappresentano il sentimento comune. La gran
parte dei brasiliani concorda sul fatto che l’Amazzonia debba essere preservata.
Forse il miglior esempio della volontà dello stato Brasiliano di voler preservare la foresta è
costituito dall’agenzia IBAMA, Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais
Renovaveis ( Istituto Brasiliano per l’Ambiente e le Energie Naturali Rinnovabili). L’IBAMA
ha una diffusione capillare sul territorio amazzone, ben equipaggiato, con uno staff
professionale e un genuino interesse nel preservare le risorse naturali e la bellezza
dell’Amazzonia.
Il sistema fluviale del Rio delle Amazzoni è costituito da due tipi di terreno e due tipi di corsi
di acqua, generalmente parlando: corsi di acque bianche (o fangose) o corsi acque scure.
Entrambi sono considerati corsi d’acqua “antichi”; ossia, le loro acque hanno uno
scorrimento lento, perchè le loro sorgenti si trovano ad un’altitudine di poco maggiore
rispetto alla foce del fiume. Al contrario dei corsi d’acque scure, i corsi di acque bianche o
fangose, come sono il rio delle amazzoni e il Madeira (ma lo sono anche il Mississippi e il
Mekong), sono ricchi di flora e fauna e hanno più alte concentrazioni di nutrienti utili alla vita
nell’ecosistema fluviale. Sono anche ricchi di insetti, i quali si trovano in tutti i fiumi anche se
in minori quantità.
Durante i miei primi giorni tra i Piraha feci conoscenza del flagello delle piccole mosche a
forma di V, che durante il giorno si posano sulla pelle scoperta. Queste mosche, chiamate
mutucas, succhiano il sangue, causando col loro morso un prurito intenso, insieme a delle
irritazioni non da niente qualora il malcapitato abbia una pelle delicata, come nel mio caso.
Non bisogna però odiare le mutucas, e neanche i vari tipi di tafani (mosche cavalline ndt)
che colpiscono col loro morso irritante nelle zone dell’interno coscia, delle orecchie, delle
guance, e del sedere. Non bisogna odiarle neanche quando, nella loro malizia - colpiscono
solo parti dove non batte il sole - ti sorprendono quando meno te l’aspetti. Perchè non
bisogna odiarle? Perchè la frustrazione ti ucciderebbe più velocemente dei loro morsi.
Ammetto di aver spesso desiderato che questi insetti avessero un sistema nervoso più
sviluppato, così da poterli torturare in un perverso tentativo di vendetta. Ma il rancore passa
- il più delle volte.
Ci sono insetti pure durante la notte. Provare a dormire senza la protezione di una
zanzariera lungo le sponde di uno dei citati fiumi, come io provai a fare lungo il Madeira,
risulterebbe in una delle più lunghe e miserabili notti della tua vita, circondato da nere nuvole
di zanzare sciamanti, che svolazzano sin dentro le tue narici, nelle orecchie, e ti mordono
attraverso i vestiti, attraverso l’amaca, addirittura attraverso i jeans più pesanti, su tutto il
corpo. E nel caso che, dio non voglia, ti tocchi andare al bagno durante la notte, le zanzare
sciameranno su ogni centimetro di pelle esposto.
Tradizionalmente il sistema fluviale del fiume Madeira è sotto il controllo dei Piraha e della
tribù parente dei Muras (che non parlano più la loro lingua locale). Il fiume Madeira è quinto
al mondo per portata (volume d’acqua ndt). E il secondo affluente al mondo per lunghezza
(dopo il Missouri). Il bacino del Madeira è tre volte la superficie della Francia. Tra le
centinaia di affluenti del Madeira vi è il Rio dos Marmelos, corso d’acque scure, con una foce
di circa 700 metri, una larghezza media di forse 300 metri e una profondità di 10 metri circa
in agosto. Il maggiore affluente del Marmelos è il fiume Maici, che è la casa dei Piraha.
Nessun’altro vive sul Maici. La sua foce è larga quasi 200 metri. Per la maggior parte del

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suo corso, ha una larghezza di circa 30 metri. La profondità può variare dai 15cm prima
della stagione delle piogge agli 80 metri dopo della stagione delle piogge.
Il Maici è un corso d’acque scure, un flusso d’acqua coloro thè che scorre insieme ai pesci e
al fogliame alla velocità di 20 nodi verso il fiume Marmelos. Durante la stagione delle piogge
l’acqua diventa torbida. Durante la stagione secca l’acqua prende una colorazione più
chiara, diventa più cristallina e meno profonda, tanto che il suo fondo sabbioso è facilmente
visibile. Einstein ipotizzò che la distanza tra due punti lungo il corso di un fiume maturo sia
approssimativamente la distanza di una linea retta tra i due punti moltiplicata per Pi greco. Il
Maici segue questa ipotesi. Dall’alto il fiume sembra un serpente gigante che zigzaga per la
foresta. Se lo si risale su di una barca dopo la stagione delle piogge, alcune delle curve sono
talmente strette che le onde generate dalla barca attraversano i tronchi degli alberi
sommersi che formano l’interno della curva più in fretta della barca stessa, la quale si ritrova
così a dover affrontare, compiuta la curva, le curve che essa stessa ha generato. Il Maici è
incredibilmente bello. Navigandolo, ci sono volte che penso di esso sia l’Eden: una brezza
gentile, acqua chiara, sabbia bianca, alberi verdeggianti, pappagalli dal piumaggio
fiammante, meravigliose aquile arpie, scimmie schiamazzanti, i richiami piangenti dei tucani,
e l’occasionale ruggito dei giaguari.
I Piraha popolano le sponde del Maici dalla sua foce fino al punto in cui il fiume è
attraversato dalla Autostrada Transamazzonica, circa 80 chilometri più a monte. Arrivare da
un punto all’altro risalendo il fiume su una barca a motore si traduce in 240km di
navigazione. Il villaggio Piraha dove compii la maggior parte dei miei studi, Forquilha
Grande, si trova sul tratto di fiume vicino all’Autstrada Transamazonica. Il fiume si interseca
con l’autostrada circa 90km a est della città di Humaita (Oo-my-TA), Amazonas. Il primo
vero utilizzo che feci del mio GPS portatile fu di registrare le coordinate del villaggio dove
vivevo. Esse sono: S 7° 21.642’ by W 62° 16.313’.
Esistono due principali teorie che ipotizzano come la foresta amazzonica fosse in origine
abitata, e sono rappresentate da archeologi quali Betty Meggers e Anna Roosevelt. Molti, tra
i quali Meggers, credono che il potenziale agricolo del suolo amazzonico, almeno per quanto
riguarda la tecnologia preistorica, non fosse sufficiente per la sostentazione di popolazioni
numerose e, dunque, l’amazzonia sia stata da sempre la casa di piccole popolazioni di
cacciatori raccoglitori. In accordo con questa ipotesi è l’idea di alcuni linguisti, specialmente
il dr. Joseph Greenberg della Stanford University, per cui vi furono tre ondate migratorie
verso le americhe attraverso il ponte di terra detto Beringia, che oggi riposa sotto le acque
dello stretto di Bering. Il primo gruppo ad attraversare lo stretto, qualcosa come 11 mila anni
fa, fu spinto verso sud dall’arrivo del secondo gruppo migrante, che a sua volta fu spinto
verso sud dall’arrivo dell’ultimo gruppo migratorio che attraversò lo stretto, ossia gli Inuit o
Eskimos. Il primo gruppo migratorio si stabilì nel Sud America, popolazioni di cacciatori
raccoglitori, a parte note eccezioni quali furono gli Incas.
Secondo Greenberg, prove di queste migrazioni sono presenti nel tipo di parentele che le
lingue delle Americhe, lingue sia morte che vive, hanno tra loro. Egli afferma, ad esempio,
che le lingue sud messicane, in linea di massima, sono più strettamente imparentate di
quelle del centro o del nord america. Secondo la teoria di Greenberg, la lingua Piraha
sarebbe dovuta essere più vicina alle altre lingue sud americane piuttosto che ad altre
lingue, qualunque esse fossero. Tuttavia, la lingua Piraha non è stata ancora provata
imparentata con nessuna lingua ancora in vita. Le affermazioni, espresse da Greenberg, che
vogliono la lingua Piraha imparentata con la famiglia di lingue da lui chiamata Macro-
Chibcha sono quasi impossibili da dimostrare, e le prove che io sono riuscito a portare alla
luce durante questi anni suggeriscono che la lingua Piraha e il defunto dialetto di essa

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parente, Mura, formino una famiglia singola e isolata, non imparentata con nessun’altra
lingua conosciuta. Tuttavia, è allo stesso modo impossibile dimostrare che, in antichità, la
lingua Piraha non fosse imparentata con altre lingue morte dell’amazzonia. I metodi della
ricerca linguistica storica (glottologia ndt), semplicemente non ci permettono di risalire
abbastanza indietro nel tempo da poter dire con certezza che due lingue non si siano
sviluppate da un antenato comune. Un’alternativa alle teorie di Megger e Greenberg ci viene
da Roosevelt e i suoi colleghi, incluso il mio precede dottorando, adesso professore Michael
Heckenberger dell’Università della Florida. Secondo Roosevelt, la foresta Amazzonica era
ed è ancora un habitat capace di sostenere popolazioni e civiltà di grandi dimensioni,
inclusa, se Roosevelt non sbaglia, la civiltà dei Marajoara dell’isola di Marajò. Sempre
secondo Roosevelt, l’Homo Sapiens è stato presente nel sud america molto prima di quanto
Meggers e Greenberg ipotizzano.
L’esistenza di lingue isolate come la lingua Piraha e il dialetto Mura (conosciuto dai primi
esploratori, quando ancora il dialetto Mura era parlato, semplicemente come Mura-Piraha,
due dialetti molto simili della stessa lingua) può indicare la validità delle idee della Roosevelt,
giacchè ci vuole molto tempo per cancellare le similarità tra lingue imparentate e produrre
quindi una lingua isolata. D’altra parte però, se i Piraha sin dalla loro origine fossero stati
isolati dalle altre popolazioni e quindi dalle altre lingue delle americhe, le unicità linguistiche
e culturali della lingua Piraha potrebbero essere spiegate sia dalle teorie della Meggers che
da quelle della Roosevelt. La cosa più probabile è che non sapremo mai da dove i Piraha e
la loro lingua siano originati - a meno che qualche deposito segreto contenente registrazioni
di antiche lingue imparentate tra loro non venga alla luce. In quel caso, potremmo finalmente
usare le metodologie standard di linguistica comparativa e storica per venir a capo
dell’origine dei Piraha.
Alcune prove già indicano che i Piraha non sono originari della zona della foresta che
attualmente abitano, vi è infatti una mancanza di vocaboli nativi per indicare alcune specie di
scimmie che vivono intorno al fiume Maici. La scimmia brasiliana paguacu (nome che origina
dalla famiglia delle lingue Tupi-Guarani) viene indicata dai Piraha con quello stesso
vocabolo, ad esempio. Questo fa del termine paguacu un prestito linguistico, ossia preso in
prestito dal portoghese o una delle due lingue del gruppoTupi-Guarani, che sono la lingua
Parintintin e Tenharim, con i quali i Piraha hanno contatti da tempi molto lunghi. Sicchè non
c’è niente che faccia ipotizzare che i Piraha abbiano abbandonato l’uso di uno dei loro
vocaboli natii per poi sostituire lo stesso con un vocabolo di un’altra lingua, si può sostenere
che la lingua Piraha non avesse nessun vocabolo per indicare quella particolare specie di
scimmia perchè essa non era presente nel luogo d’origine dei Piraha, qualunque esso sia.
Dato che la lingua Piraha non è imparentata con nessun’altra lingua vivente conosciuta,
realizzai che ci era stato assegnato il compito di studiare una lingua non solo difficile, bensì
unica. Come famiglia ci dovemmo adattare alla vita nell’Amazzonia, contando solo su noi
stessi, non avevamo nessuno a cui poterci rivolgere. Diventammo più uniti di quanto non
fossimo mai stati, traendo grandi soddisfazioni e grande appagamento da questa nuova
unità famigliare. Sentivamo di avere il controllo delle nostre vite come mai prima. Ma
l’Amazzonia stava per ricordarci che era lei che comandava laggiù.

3 Il Costo di essere discepoli

Arrivammo tra i Piraha come discepoli di Cristo. E la Bibbia ammonisce i discepoli che il
proselitismo è pieno di pericoli. Questo avremmo presto scoperto. Un pomeriggio Keren

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iniziò a lamentarsi del fatto che i Piraha la facevano sentire inquieta. Stava friggendo la
carne di un formichiere che Kohoi aveva ucciso. Era circondata come al solito da una
dozzina di Piraha, curiosi delle nostre abitudini culinarie (e in cerca di un succulento
boccone di carne di formichiere). Mi chiese di accompagnarla alla vicina pista d’atterraggio.
La pista era praticamente il nostro parco personale, dove andavamo a fare due passi, una
corsetta, o semplicemente prendere una pausa dalla vita del villaggio quando necessario.
“Non ce la faccio più”, Keren confessò con voce tremante.
“Cosa c’è che non va?” Chiesi. Io mi lamentavo spesso di quanto i continui sguardi curiosi e
indagatori dei Piraha fossero difficile da sopportare. Keren invece non sembrava soffrirne. E
quando notava di essere al centro dell’attenzione, circondata da Piraha curiosi, non
sembrava risentirne affatto; anzi ci chiacchierava in modo amichevole.
Le dissi che avrei finito io di cucinare e che lei poteva andare a riposarsi un po. Mentre
tornavamo alla nostra capanna, lei accennò al fatto che la schiena le prudeva e che sentiva
un forte malditesta in arrivo. Non capimmo il significato di questi sintomi, al momento, e
semplicemente ascrivemmo al nervosismo.
Quella stessa notte, il malditesta di Keren peggiorò. Il dolore aumentava tanto da spingerla a
inarcare la schiena di continuo. Poi iniziò a sentirsi accaldata e febbricitante. Tirai fuori il
manuale medico e cercai di trovare i sintomi che Keren mostrava. Mentre leggevo, anche la
nostra figlia più grande, Shannon, iniziò a lamentare un malditesta. Le toccai la fronte con la
mano. Era molto calda.
Abbiamo tutte le medicine necessarie a risolvere gli inconvenienti della giungla amazzonica,
pensai. Era sicuro che non avrei dovuto far altro che trovare i sintomi del caso nel mio libro
medico da missionario e la diagnosi sarebbe stata facile. Analizzando il libro medico,
conclusi che Keren e Shannon soffrivano di febbre tifoide. La diagnosi era avvalorata dal
fatto che io stesso avevo sofferto di febbre tifoide durante il nostro addestramento nella
giungla del Messico e i sintomi combaciavano.
Iniziai quindi un trattamento di antibiotici per la febbre tifoide. Non ci fù nessun
miglioramento. Entrambe stavano peggiorando a vista d’occhio, e la situazione di Keren in
particolare peggiorava pericolosamente in fretta. Smise di mangiare. Non voleva più bere
niente, solo raramente mandava giu pochi sorsi d’acqua. Cercai di misurarle la febbre col
termometro ma la barra di mercurio schizzava sino in cima e non tornava più giù, tutte le
volte che effettuai la misurazione. La temperatura di Shannon invece era stazionaria tra i 39
e i 40 gradi.
Il caldo sole tropicale non aiutava certo. Mentre cercavo (maldestramente) di prendermi cura
di Keren e Shannon, dovevo inoltre cucinare e prendermi cura di Caleb (al tempo aveva solo
2 anni) e Kris, che ne aveva quattro. Non potevo dormire. Keren e Shannon avevano la
diarrea, e io dovevo aiutarle col vaso da notte durante la notte, svuotare e pulire il vaso, e
rimettere a letto le ragazze.
Avevamo creato un po di privacy intorno al nostro letto con dei paravento fatti di stecche di
palma paxiuba. I Piraha si affollavano attorno alla nostra capanna e sbirciavano attraverso i
paravento. Sapevano che c’era qualche problema. Seppi tempo dopo che tutti tranne me nel
villaggio avevano già capito che Keren e Shannon avevano la malaria.
La mancanza di privacy, le preoccupazioni riguardo la salute di mia moglie e mia figlia, e lo
sfinimento dovuto al costante lavoro e alla mancanza di sonno, aggravarono i miei timori
tanto che, dopo cinque giorni, avevo disperatamente bisogni di aiuto. Keren si trovava in uno
stato quasi comatoso. Entrambe gemevano dal dolore, e Keren mostrava segni di delirio, si
metteva seduta e gridava contro persone invisibili, dicendo cose insensate, colpendo me,
Kris, e Caleb quando ci avvicinavamo.

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La quarta notte della sua malattia, durante una tempesta così violenta che era quasi
impossibile udire nient’altro che vento, tuoni e pioggia, Keren si sollevò e rimase seduta sul
letto, e mi disse che Caleb era caduto dall’amaca nella stanza affianco.
Io risposi con sicurezza, “No, sta BENE. è tutta la notte che son sveglio e l’avrei sentito. Non
ho sentito niente cadere.
Keren si agitò e disse, “Vai ad aiutare Caleb! Sta sul pavimento che è sporco e pieno di
scarafaggi.”
Per farla stare tranquilla mi alzai e mi diressi nella stanza dei bambini, affianco alla nostra,
divise solo da un parapetto. La loro stanza aveva pareti esterne alte un metro, e il restante
metro tra le pareti e il tetto della capanna era chiuso da un telo di plastica. Caleb e Kristene
condividevano la stessa zanzariera. Caleb dormiva su un amaca e Kristene in un letto
singolo proprio sotto di lui. Avevamo messo nella loro stanza pure un bagno chimico da
campeggio, coperto da tende scure per la privacy. C’era nella stanza pure una lampada al
cherosene. Tutte le sere dopo aver fatto il bagno nel fiume e aver mangiato la cena, ci
ritiravamo tutti nella stanza dei bambini, godendo della relativa comodità e privacy della
stessa, e io leggevo ad alta voce alla famiglia - pagine da libri quali Le Avventure di Narnia,
Il Buio oltre la siepe, oppure il Signore degli anelli.
Entrai nella stanza con in mano la mia torcia elettrica. Caleb era davvero sul pavimento, gli
scarafaggi non lontani. Cercava di addormentarsi ma sembrava frastornato e agitato. Lo
sollevai e lo abbracciai, posandolo di nuovo nella sua amaca. L’istinto materno di Keren
aveva prevalso sulla malaria per avvertirla che suo figlio aveva bisogno d’aiuto.
La mattina seguente era chiaro che avrei dovuto fare qualcosa. Keren and Shannon erano
ormai troppo malate perchè potessi stare a guardare senza far niente. Non sapevo però
come raggiungere Porto Velho senza aiuto. Eravamo arrivati qui con l’aereo della missione,
e non avevo mai navigato sul fiume. Senza l’aereo eravamo persi. E a quel tempo il governo
brasiliano non permetteva agli stranieri di portare con sé radio ricetrasmittenti, lasciandoci
senza la possibilità di contattare il mondo esterno. Non avevo una barca capace di affrontare
la navigazione, e non avevo neanche abbastanza benzina da compiere il viaggio sul fiume.
Vi era, però, un missionario laico Cattolico, Vicenzo, in visita ai Piraha, e aveva con se una
piccola canoa di alluminio con un motore fuoribordo nuovo Johnson da 6.5 cavalli e circa 50
litri di carburante. Gli chiesi l’enorme favore di prestarmi la sua canoa per un periodo
indefinito di tempo. Ciò comportava che lui rimanesse bloccato li tra i Piraha. Vicenzo
acconsentì senza indugi, anche se garantiva, erroneamente, che qualsiasi malattia Keren e
Shannon avessero, dovevano averla portata con se da fuori perchè non vi erano malattie fra
i Piraha. (Appena due settimane dopo che lasciai il villaggio, Vicenzo quasi morì di malaria,
contratta li tra i Piraha). Gli chiesi poi di spiegarmi come arrivare all’insediamento più vicino
dove avrei potuto trovare un dottore e un ospedale. Vicenzo mi spiegò che dovevo andare a
Humaità oppure a Manicoré (ma-ni-ko-REH), due piccoli paesi lungo il fiume Madeira. Mi
suggerì di recarmi a Humaita perchè vi era una strada che collegava il paese a Porto Velho,
la capitale dello stato di Rondonia e, all’insaputa sua, il luogo ove il quartier generale della
mia missione si trovava. Per raggiungere Humaita, disse, avrei dovuto discendere il fiume
Maici e poi il Marmelos per circa 12 ore, fino a un luogo chiamato Santa Luzia, che lui
pronunciò “SANta loo-CHEE-a”. Lì avrei potuto trovare delle persone così da aiutarmi a
trasportare la mia famiglia per un sentiero tra la giungla che collegava il fiume Marmelos con
il Madeira. Presso il fiume Madeira avrei raggiunto un insediamento chiamato Auxiliadora
(dal nome “Nostra Signora dell’Aiuto), un piccolo paese fondato circa una ventina d’anni
addietro dai preti salesiani. Da li avremmo dovuto imbarcarci su un grande battello diretto a

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Humaita, un posto di cui non avevo mai sentito parlare sino ad ora. In quel momento però mi
sembrava fosse la Mecca.
Andai alla capanna e iniziai a fare i bagagli per il viaggio, anche se non avevo idea di cosa ci
sarebbe servito. Vicenzo non era sicuro di quanto il viaggio in barca da Auxiliadora a
Humaita sarebbe durato, non avendolo egli stesso mai affrontato. Non sapevo se avrei
dovuto portare con me del cibo. C’era a malapena posto sulla canoa per noi cinque e per il
carburante, avrei quindi potuto trasportare ben poco altro.
Ora come ora era troppo tardi per partire. Avremmo dovuto aspettare alle prime luci del
mattino seguente. Rischiare di rimanere bloccati sul fiume nell’oscurità era troppo
pericoloso. Mise nel bagaglio della carne in scatola e delle pesche in scatola, cucchiai, e un
paio di piatti di latta rivestita. Radunai un machete, fiammiferi e candele, due cambi di vestiti
per ognuno di noi, un contenitore per l’acqua. Misi queste cose da parte e pregai. Poi andai
a letto. Il mattino dopo, appena il sole spuntò, portai la canoa di Vicenzo di fronte alla nostra
capanna e cominciai a caricare il tutto. Il sole era già splendente verso le 7 e il cielo era blue
cobalto. Una brezza mattutina mi teneva fresco mentre mi davo da fare.
Quando i bagagli furono caricati, trasportai Shannon e la misi sdraiata nella canoa.
L’imbarcazione ondeggiò un poco sotto il suo peso. I Piraha si allineavano sulla sponda del
fiume guardandoci. Poi accompagnai Caleb e Kristene alla canoe e dissi loro di aspettare li.
Poi tornai alla casa e sollevai Keren, pensando quanto fosse diventata leggera (pesava 45
chili prima che si ammalasse e doveva aver perso, calcolai, forse 5 chili negli ultimi 5 giorni).
Era a malapena in se quando uscimmo dalla capanna. Quando arrivammo alla sponda del
fiume e cautamente percorrevamo la ripida discesa verso la canoa, Keren si risvegliò e iniziò
a gridare e ad agitarsi.
“Cosa stai facendo?! Stai scappando via? Non credi in Dio? Non hai fede? Dobbiamo stare
qui e far conoscere Gesù a queste persone!”.
Tutto ciò rese la situazione molto difficile e considerai di non intraprendere il viaggio. Era già
molto stanco, incerto ed esitante. Se qualcosa fosse andato storto, e qualcuno si fosse fatto
male o peggio, sarebbe stata colpa mia. Però sapevo di non avere altra scelta. Keren, e
forse Shannon, sarebbero morte se non avessi tirato dritto e portato la mia famiglia fuori di
qui. Perdipiù, cosa preoccupante, ero allo stremo delle forze. Ero troppo stanco per riuscire
ad assistere una famiglia malata nel villaggio.
Per varie ragioni, non fu facile per me prendere la decisione di partire. Affrontare i pericoli e
le difficoltà del viaggio, le complicazioni e lo stress di dover badare a tutti da solo, mentre
ero già esausto. Ero sicuro che gli altri missionari al campo base avrebbero condiviso il
punto di vista di Keren e mi avrebbero considerato un codardo senza fede. (Furono invece
del tutto comprensivi e collaborativi.) Sapevo inoltre che in poco più di una settimana un volo
di rifornimento sarebbe dovuto arrivare al villaggio. Quell’aereo avrebbe potuto trasportare la
mia famiglia a Porto Velho. Ma se avessi aspettato, ero convinto che probabilmente Keren
sarebbe morta. Il rischio di partire adesso era minore dei rischi dell’aspettare il volo di
rifornimento. Dopotutto semplicemente non volevo aspettare, diventando sempre più
esausto dopo ogni notte passata senza dormire, fino a che non sarei stato in grado di
aiutare più nè la mia famiglia nè me stesso. Dovevo fare qualcosa.
Mentre trasportavo verso la sponda, Xabagi, un anziano Piraha, si avvicinò e mi chiese se
potesso portare dei machete, coperte ed altre cose di ritorno dalla città. Gli risposi con
rabbia, “Keren sta male. Shannon sta male. Non comprerò niente in città” (se avessi saputo
dire le parolacce in Piraha le avrei dette). “Sto andando in città per portare la mia famiglia a
prendere dell’acqua [medicine in Piraha] per farli star meglio.”

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Ero arrabbiato, e non cercavo di nasconderlo. Eccomi qui, tutta la mia famiglia in pericolo, e
tutto quello a cui i Piraha pensavano era loro stessi? Tirai la cordicella e il motore Johnson
ritornò in vita. La canoa ondeggiò, mettendoci in pericolo prima ancora che partissimo,
l’opera morta della canoa era appena 10cm al di sopra dell’acqua, e il fiume era molto
profondo, oltre 15 metri quasi dappertutto in questo periodo dell’anno. Se ci fossimo ribaltati
a causa della mia inesperienza, sarebbe stato un disastro. Non avevo nessun salvagene
mentre vi eran con me due bambini piccoli e due passeggeri molto malati che non sarebbero
riusciti a nuotare sino a riva. Non sarei riuscito a salvarli tutti tra la forte corrente del Maici.
Però non avevo scelta.
Ok, Dio. Ora sono dentro una di quelle storie di missionari che furono di grande ispirazione
per me. Portaci in salvo, Dio, pensai.
Ci staccammo dalla riva. I Piraha gridavano: “Non dimenticare i machete! Non dimenticare le
coperte! Portaci la farina di tapioca. E la carne in scatola!” E la lista continuava. Sopra il
rumore del motore doppia elica, sentivo il gracchiare di un paio di macai rossi che volavano
sopra di noi, indifferenti a noi, di ritorno ai loro nidi. Il sole splendeva. La temperatura
raggiungeva quasi i 30 gradi e non erano neanche le 8 di mattina.
Una piccola brezza ci rinfrescava grazie alla velocità di crociera della canoa, 9 miglia all’ora.
I visi di Keren e Shannon si arrossavano sotto i raggi del sole. Eravamo partiti da circa
un’ora quando Kristene disse di aver fame. Rallentai la barca e aprii una scatola di pesche.
Dissi a Kristene di lavarsi le mani nel fiume, e poi di prendere semplicemente le pesche dal
barattolo con le mani. Caleb fece lo stesso. Kristene si voltò verso Keren e chiese, “Mamma,
vuoi un po di pesche?” Keren mi sorprese, mettendosi a sedere e tirando uno schiaffo a
Kristene sul viso. Le disse di chiudere la bocca. Poi Keren collassò di nuovo. Kristene non
pianse. Mi diede un’occhiata piena di dolore e confusione. Io dissi, “Mamma sta male,
piccolina. Non sa quello che sta facendo.” Kristene lo sapeva già. E anche Caleb. Shannon
non voleva niente. Finimmo dunque le pesche e lasciai bere il succo del barattolo a Kristene
e Caleb.
La giungla ci fiancheggiava da entrambi i lati, un impassibile muro verde. Non c’erano altre
barche sul fiume. L’acqua era alta e dovevo stare attento a seguire il corso principale e non
imbucarmi in falsi canali che portavano in acquitrini senza uscita. Fortunatamente il corso
d’acqua principale era di solito facile da seguire. Non sempre però. Quando il corso d’acqua
s’allargava d’improvviso in ciò che sembrava una palude invece di un fiume, oppure si
divideva in vari corsi d’acqua divisi l’uno dall’altro, perdevo l’orientamento.
Dopo circa un’ora, Keren si mise a sedere e chiese dell’acqua. Cercai di versargliene un po
ma lei mi strappò via di mano la borraccia e agguanto una tazza. Poi tenendo la tazza
lontano da se iniziò a svuotarsi la borraccia sulle gambe. Io cercai di riprendergliela dicendo
“Amore, fatti aiutare. Stai rovesciando tutta l’acqua.”
Lei mi guardò con sguardo rabbioso e rispose, “Questo viaggio sarebbe stato molto più
divertente senza di te.” Avvicinò poi la borraccia alla bocca e fece un sorso. Diedi un po
d’acqua anche a Shannon e poi continuammo la navigazione.
Alcune ore dopo vidi una casa nel mezzo di una radura sulla sponda alla mia sinistra.
Accostai la canoa. Potevamo essere già arrivati al sentiero che collegava il Maici con il
Madeira? Il mio portoghese era ancora elementare, ma risalii comunque la sponda e battei
le mani di fronte alla casa finchè una donna si affacciò a una finestra. Chiese se quel posto
non fosse Santa “Loo-CHEE-a”.
La donna disse, “Non ho mai sentito di un tal luogo.”
“C’è qualcun’altro che potrebbe aiutarmi?” Quasi implorai.

24
Erano più o meno le due del pomeriggio e avevamo meno di un quarto di serbatoio rimasto
di corburante, sarebbe bastato per non più di un’altra ora o due. Se non avessi trovato Santa
Luzia in fretta, avrei dovuto iniziare a pagagliare. Avremmo forse dovuto passare la notte
nella canoa.
La donna indicò a monte del fiume e disse, “Lassù a Pau Queinado potrebbero sapere dov’e
il luogo che stai cercando.”
“Vengo da quella direzione e non ho visto nessun insediamento.”
Lei chiarì, “Si trova lunga la prima insenatura alla tua sinistra.”
La ringrazia e corsi indietro alla barca. C’era caldo ed il sole mi stava bruciando la pelle.
Anche la mia famiglia si stava bruciando. Mentre tornavo alla canoa, diedi un’altra occhiata
alla casa di quella donna, notando per la prima volta in che modo quella famiglia vivesse. La
casa era imbiancata - il che non deve essere stato nè facile nè economico per una famiglia
povera. Perchè allora si son presi la briga di imbiancare la la casa? Per riflettere il calore?
No, volevano che la loro casa fosse bella, anche se si trovava nel mezzo della giungla, dove
persone ne passano di rado. Vi erano alberi di jambu che producevano frutti rossi, succulenti
e dolci, simile a mele. Vi erano piante di papaya. Un campo con manioca, canna da
zucchero, patate dolci, e si intravvedevano delle piante di cara (un tipo di patata ndt), lungo il
sentiero che portava alla casa. L’area intorno alla casa era pulita e sgombra, alcune parti di
erba verde falciata a machete, altre di terreno sabbioso. La casa era fatta di tavole tagliate a
mano, senza dubbio, dal marito della donna. Vicino alla mia canoa, vidi una fila di testuggini
punteggiate dell’Amazzonia legate a una stecca fissata su un piccolo molo nell’acqua bassa.
Quelle testuggini sono preziosa merce di scambio per i caboclos dell’Amazzonia (come sono
chiamati gli abitanti portoghesi delle zone interne del paese). Mentre puntavo la canoa
controcorrente pensai che non deve essere facile sopravvivere catturando e commerciando
testuggini.
La vita non è semplice per questa gente. Eppure cercano di vivere come se lo fosse,
accogliendo le persone con garbo, buon umore, e disponibilità. Certo io avevo molti più beni
materiali di loro, eppure ripensando al mio comportamento realizzai che ero più teso, meno
accogliente, meno ospitale di queste persone. Ed io ero un missionario. Avevo molto da
imparare.
Ma avrei dovuto impararlo in un altro momento. Al momento dovevo trovare aiuto. Feci
partire il motore. Pensai un’altra preghiera: “Dio, sono venuto nell’Amazzonia per Te. Sono
venuto con la mia famiglia per servire Te e aiutare le persone. Perchè lasci che mi perda?
Ho quasi finito il carburante, Dio. Che bene ne verrebbe se mia moglie morisse perchè non
ho più carburante e son perso? Su Dio. Aiutami.”
Guardai intorno a me la bellezza del paesaggio. Dal fiume si potevano vedere alberi di
tabebuia, che torreggiavano a più di trenta metri sopra il fiume, almeno un metro di diametro,
i loro fiori gialli e viola spiccavano tra il verde che li circondava. I brasiliani di quella regione
chiamano gli alberi di tabebuia passar bem (alberi della guarigione). Provai una debole
speranza che la vista di quegli alberi ci potesse portare fortuna. Il sole splendeva, la brezza
era rinfrescante. La foresta era verde, e oggi sembrava accagliente. Il terreno li, appena
poco più in alto della foce del fiume Marmelos, era collinoso, con sponde ripide su entrambi i
lati e numerose insenature, che i miei occhi non esperti difficilmente distinguevano dal corso
principale del fiume.
Più in là scorgevo anche alcuni possenti alberi di noce del Brasile che svettavano sopra la
foresta. Guardai tutto con occhi nuovi. La natura rimane bella anche se la tua famiglia vi
muore senza trovare aiuto? Conclusi che la bellezza della natura è solamente la nostra
percezione di essa. No, non sarebbe bella senza nessun uomo che la proclamasse tale.

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Però, mio Dio, come era bella. Qualunque fosse l’origine della brezza che increspava le
onde, dell’ondeggiare degli alberi, del cielo azzurro, della salute e della forza delle mie
braccia, della chiarezza dei miei occhi, della determinazione del mio cuore - in tutte queste
cose vi era bellezza e io mi sentii uno con la natura nella onnipresente lotta per la vita.
Trovai finalmente l’insenatura per Pau Queimado e vi diressi la mia canoa splendente. Dopo
circa un minuto, mentre le sponde ripide di questo fiordo in miniatura si stringevano ai nostri
lati, vidi una radura, un campo di manioca, e una capanna dal tetto di canne. La sponda
aveva una pendenza di circa 60 gradi, e un altezza di circa 30 metri. Era di un colore
marrone intenso, e dell’erba in cima. I Brasiliani lungo il fiume tengono le loro case il
perimetro dei villaggi puliti e sono notevolmente industriosi, apprezzano la pulizia e l’ordine
intorno alle loro abitazioni. Corsi su per gli scalini che la gente del posto aveva scavato nella
sponda, ogni scalino era rinforzato da tavole di legno spesso. Raggiunsi la radura senza
fiato e mi guardai intorno. C’era un gruppetto di persone che sedevano sul pavimento della
capanna, sembrava stessero pranzando.
“Sapete come si arriva a Santa Loo-CHEE-a?” mi affrettai a domandare, senza curarmi delle
formalità cobloco, dei convenevoli del caso e cercando di ottenere informazioni il più infretta
possibile.
Una madre allattava un bambino in un angolo. Un uomo sedeva mescolando un porridge di
pesce e farinha (farina di manioca) dentro una zucca scavata. Alcune amache erano
ordinatamente arrotolate intorno alle basse travi della capanna. Nonostante fosse ben al di
sopra del livello del fiume, la capanna poggiava su pali di 50 cm, con un pavimento di tavole,
muri di tavole e persiane di tavole. I Cablocos chiudono per bene le loro capanne durante la
notte, nonostante il caldo, per paura degli animali, degli spiriti e dei ladri.
“Nao existe por aqui nenhum lugar por esse nome” (Non esiste nessun luogo con quel nome
da queste parti), un uomo rispose, mentre tutti mi fissavano, uno straniero dalla pelle
arrossata e dagli occhi di un pazzo.
“Ma Vicenzo, il tizio che lavora con Padre José - conoscete Padre José? - mi ha detto che
c’era un sentiero a Santa Loo-CHEE-a che portava dal Marmelos fino al Madeira”, cercai di
spiegare.
Una donna sul fondo suggerì, “Forse intende Santa Loo-ZIa. C’è un sentiero li.”
“Oh, certo, dev’essere quello,” gli altri risposero all’unisono.
Speranza! Mi dissero che il paese era a circa trenta minuti lungo il fiume, appena dopo la
casetta con le tartarughe. Dissero che una striscia di terra parallela al fiume impediva la
vista del villaggio dal fiume ma che sarei riuscito a vederlo continuando la navigazione e
guardando verso sinistra. Gridai in risposta “Muito obrigado!” (Molte grazie) mentre correvo
giù per la scala. Kristene e Caleb sedevano ancora tranquillamente nella canoa, parlando tra
loro. Shannon si lamentò del sole che le bruciava la pelle. Keren disse che si sarebbe tuffata
nel fiume per cercare sollievo dalla febbre. Partii a tutta velocità, il motore da 6.5 cavalli
lasciava dietro di noi una scia pateticamente tenue.
Dopo trenta minuti di navigazione mi pareva di poter vedere un’insenatura a babordo. Per
poco non la mancai ma infine ecco, un’altra radura in cima a una ripida sponda, questa volta
alta più di 50 metri, con la stessa scalinata scavata nel terreno. Fermai la barca e ormeggiai
proprio davanti alla scalinata. Sollevai Kristene con un braccio e Caleb con l’altro. Dissi a
Shannon e Keren che sarei subito tornato a prender loro. Corsi in cima alla scalinata, il
cuore a mille, e guardai intorno cercando un qualcuno adulto.
Il piccolo insediamente era anch’esso molto pulito e ordinato, con ampi sentieri spiazzi ben
spazzati tutt’intorno alle case dipinte con colori accesi. Una chiesa stava al centro di un
piccolo gruppo di sei case, sulla sponda del fiume Marmelos. Delle panchine di legno

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tagliato a mano erano state collocate sotto un paio di alberi. Il Marmelos era largo quasi
trecento metri in quel tratto, e aveva un colore nero bluastro da quest’angolazione. Vi era un
leggera brezza, e le panchine sotto l’ombra fornivano un ottimo punto di riposo, ma non
c’era tempo.
Notai alcune donne che chiacchieravano al riparo di un albero da ombra circa 50 metri più in
la e mi diressi rapidamente verso di loro. Stavano già guardando nella mia direzione e
discutevano senza dubbi dell’arrivo di noi gringos dal fiume più a monte - luogo in cui
potevamo essere giunti solo tramite aereo, visto che per arrivare al territorio Piraha via fiume
si deve per forza passare davanti a Santa Luzia.
Di nuovo, non sprecai neanche un secondo con i convenevoli, rivolgendo loro la mia
domanda non appena fui abbastanza vicino da poter essere sentito.
“é aqui que tem um varador para o Rio Madeira?” (è qui che si trova un sentiero che porta al
fiume Madeira?)
“Sim tem um caminho logo ali” (Si, c’è un sentiero proprio laggiù), una delle donne rispose.
Le dissi che c’erano due persone molto malate nella mia canoa e chiesi se fosse possibile
trovare qualcuno che mi aiutasse a trasportarle sino al Madeira. La donna mandò una
bambina a chiamare il padre. Io corsi giù alla canoa e trasportai Shannon tra le mie braccia.
Quando risalii di nuovo la sponda mi si presentò alla vista uno spettacolo bellissimo. Una fila
di uomini che mi raggiungevano lungo il sentiero, uomini con braccia e schiene vigorose,
uomini che venivano in mio aiuto, un gringo inetto e senza speranza che non aveva mai fatto
niente per questa gente. Ma chiaramente un uomo con una famiglia bisognosa di aiuto.
Imparai così che i coblos verranno sempre in aiuto di persone nel bisogno, anche a scapito
della loro incolumità.
Prima che potessi proferire parola, però, sentimmo tutti un forte splash e una donna gridò,
“O meu Deus! Ela pulou na agua!” (O mio Dio! è saltata nel fiume!)
Keren era in acqua, e cercava di tirarsi di nuovo sulla canoa. Corsi da lei.
Lei disse, “L’acqua è così fresca. Avevo troppo caldo.”
La sollevai e corsi per la terza volta in cima alla sponda. Keren sembrava coerente. Forse
era ritornata in se finalmente, pensai mentre la poggiavo sotto un albero da ombra insieme a
Shannon, Kris, e Caleb.
Mentre sedeva su una radice, al riparo di questo bellissimo albero di mango, Keren si rivolse
in portoghese alle persone che ci circondavano, “Mi ricordo questo posto. Ci sono elefanti
laggiù e leoni da quest’altra parte. Mio padre mi portava spesso qui quando ero piccola.”
Tutti i brasiliani guardarono verso di me, poi di nuovo lei. Realizzarono che stava delirando.
Nessuno disse niente, eccetto “Pobrezinha” (Povera piccola).
Degli uomini si inoltrarono nella foresta e ne vennero fuori dopo pochi minuti portando con
se due tronchi spessi circa 10 cm e lunghi 2 metri ognuno. Fissarono un amaca ad ognuno
dei due tronchi. Poggiammo Keren sopra un’amaca e Shannon sull’altra. Quattro uomini
partirono spediti, due per ogni amaca, per il sentiero.
Caricai sulle spalle tutti i nostri bagagli e chiesi a un uomo che stava li di prendersi cura della
barca di Vicenzo (qualcuno li a Santa Luzia usò la barca senza miscelare l’olio col gas e
rovinò il motore prima che io tornassi). Chiesi agli uomini di dire a Padre José che Vicenzo
aspettava che qualcuno gli mandasse una barca a prenderlo e portarlo via dal villaggio. Le
mie borse pesavano all’incirca 20 chili. Presi in braccio Caleb e dissi a Kristene di seguirmi.
Ci incamminammo per lo stesso sentiero che avevano preso gli uomini con le amache.
Kristene ci rallentò un poco perchè raccoglieva fiori tra la giungla lungo il sentiero,
saltellando e cantando tra se “Gesù mi ama.” Aveva i capelli parzialmente infilati nei chignon
che Keren le aveva fatto giorni addietro. Indossava dei pantaloncini, un piccola maglietta, e

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scarpe da tennis. Annusava i fiori e sorrideva compiaciuta del loro profumo. Anche se le mie
braccia quasi non ce la facevano più, tra il peso di Caleb e i bagagli, non potei non sorridere.
Parlavo sempre di Kris come il mio raggio di sole e quel giorno la sua luce mi salvò dalla
disperazione. Caleb chiedeva dove gli uomini stessero portando sua madre e sua sorella.
Caleb era ed è una persona sensibile, e sua madre è sempre stata la persona più
importante nella sua vita.
Dopo 45 minuti di camminata nella giungla lungo il sentiero fresco e ricoperto di fogliame,
arrivammo a una radura. C’erano dozzine di case di legno pitturate, delle palafitte, una
grande chiesa, che i locali chiamavano “la cattedrale”, piccoli negozi, e larghi viali di terra
che si estendevano l’uno parallelo all’altro. Questa era Auxiliadora, un piccolo centro, non un
semplice villaggio sorto ieri. Gli uomini mi chiesero dove stendere Keren e Shannon. Questo
insediamento era troppo piccolo per poterci essere stanze in affitto. Dissi agli uomini di
stenderle laggiù all’ombra e andai a informarmi. Trovai la casa molto modesta di un
commerciante fluviale del Maici di nome Godofredo Monteiro e di sua moglie, Cesaria.
Sapevo che vivevano li perchè durante un escursione lungo il Maici, dopo poco che io la mia
famiglia eravamo arrivati nell’Amazzonia, ci invitarono a far loro visita presso la loro
abitazione in Auxiliadora. La casa rifletteva la loro fortuna. Aveva pareti e pavimento fatte di
tavole come da tipica casa caboclo, ma vi era anche una scalinata di legno molto ben tenuta
e un tetto in parte di canne, in parte di alluminio. Era pitturata di bianco con delle finiture
verdi; le parole Casa Monteiro erano dipinte in verde a caratteri cubitali sulla facciata. Si
riusciva a notare una cabina per la toilette nel giardino della casa, nel retro, il che indicava
un’attenzione per l’igiene sopra la norma per il luogo in cui eravamo, dato che gli indigeni
normalmente usavano la giungla come toilette.
Godo e Cesaria ci diedero il benvenuto nella loro piccola casa, così io e gli uomini di Santa
Luzia portammo Keren e Shannon all’interno. Dato che ormai era sera e noi tutti eravamo
chiaramente stanchi, Cesaria si offrì di aiutarmi a fissare le amache per la mia famiglia.
“Amache?” chiesi confuso. Avevo ingenuamente pensato che avremmo dormito su dei letti o
sul pavimento.
“Qui dormiamo solo sulle amache, signor Daniel, perfino il prete. La gente qui non usa letti,”
rispose Cesaria. Continuò a raccontarmi come tutti da quelle parti, persino quando si
trovavano a viaggiare su un’imbarcazione lungo il fiume, dormissero sulle amache.
“Non abbiamo amache.” La situazione e le mancanze nella mia pianificazione stavano
iniziando a deprimermi. Le amache con cui Shannon e Keren erano state trasportate
appartenevano alla gente di Santa Luzia, che io non conoscevo neanche.
Cesaria ci lasciò all’improvviso e circa mezz’ora dopo tornò con cinque amache che aveva
preso in prestito dai vicini. Si mise a cucinare e disse che avrebbe badato lei a Keren mentre
io avrei potuto portare i bambini a lavarsi nel Madeira. Ora, il fiume Madeira non è come il
piccolo, pulito Maici. è un gigante fangoso, rivaleggia col Mississippi, largo forse più di un
chilometro e mezzo, nel periodo di piena, nel punto dove Auxiliadora era situata. La sponda
del fiume distava un trecento metri dalla casa di Godofredo, e dalla cima della sponda
all’acqua vi erano 50 metri di ripida discesa. Mi immersi fino alle ginocchia e mi sciacquai.
Non mi preoccupai del fatto che il fiume era abitato da alligatori (caimani neri) e che fosse
impossibile individuarli tra l’acqua fangosa del fiume. Non mi preoccupai dei candirù, piccoli
pesci parassita che penetrano all’interno di ogni orifizio del corpo umano. Non mi importava
neanche dei piranha, degli ananconda, delle razze, delle anguille elettriche, e di tutti gli altri
abitanti del torbido Madeira, perchè ero sudicio. Però riconoscendo i pericoli del fiume, lavai
Caleb e Kristene versandogli dell’acqua addosso e insaponandoli, e immergendoli poi molto
velocemente nel fiume. Eravamo dopo il bagno approsimativamente puliti, ma sudammo e ci

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sporcammo di fango nel risalire la ripida sponda sino alla casa. Era quasi notte. Al contrario
del Maici, le sponde del Madeira sono infestate di zanzare. Ronzavano attraverso la casa di
Godo. Non avevamo con noi insetticida, ne pantaloni lunghi, niente con cui proteggerci.
Cesaria però si fece prestare una zanzariera formato famiglia per noi, e la fisso nel
soggiorno, così che potemmo sedere all’interno di essa (il che fece la stanza molto più calda
bloccando la brezza che veniva da fuori). Non potei però usufruire della zanzariera perchè
Godo voleva parlare con me. Sedemmo sui gradini della scala e parlammo, mentre io
cercavo di apparire tranquillo e rilassato. Scacciavo le zanzare senza tregua, la mia pelle
s’irritava ad ogni morso.
“Le zanzare sono terribile da queste part,” mi lamentai.
“Davvero? Ce ne sono pochissime stanotte” fu la risposta di Godo, quasi cercando di
difendere il suo villaggio. Stringeva però la sua maglietta tra le mani e se la tirava sulla
schiena, sul petto e anche sui fianchi, scacciando le zanzare.
Ci sedemmo a mangiare una cena a base di fagioli con abbondante cipolla, olio e
coriandolo, accompagnati dal riso e un po di pesce. Avevo davvero pochi soldi con me, non
abbastanza per tutto questo cibo. Stavamo soppravivendo grazie alla carità dei poveri.
Degli uomini chiesero in giro e mi fecero sapere che la prossima barca per Humaita sarebbe
passata tra due o tre giorni. Questa notizia ci sconfortò. Eravamo bloccati in questo posto.
Almeno Keren e Shannon potevano riposare e qualcuno ci aiutava col mangiare e lavare i
vestiti. Eravamo fiduciosi che saremmo riusciti a raggiungere un dottore.
“Come farò a sapere quando la barca arriva?” chiesi.
“A gente vai escutar de longe, seu Daniel” (Lo sentiremo da qui, Mr. Daniel) fu l’enigmatica
risposta.
Come potevano sentire la barca arrivare con un anticipo tale che mi permettesse di
preparare la mia famiglia e le nostre cose e raggiungere la sponda del fiume in tempo per
segnalare alla barca di fermarsi? Mi chiesi di nuovo se avessi preso la decisione giusta a
lasciare il villaggio e non aspettare invece l’aereo.
Keren mi chiamò dall’amaca e mi disse che voleva tornare al villaggio e aspettare li l’aereo.
Sembrava così decisa e lucida che considerai davvero di ritornare al villaggio dopo la notte.
In ogni caso, prima che la mattina arrivasse e io potessi prendere qualsivoglia decisione,
Godofredo mi svegliò. Erano le due del mattino circa.
“O recreio ja vem, sei Daniel” (La barca divertimenti - nome che ancora non son riuscito a
spiegarmi - sta arrivando).
Subito iniziai a svegliare la mia famiglia e preparare i bagagli, ma Godofredo disse,
“Rilassati. Ci vorrà un po. Abbiamo tempo per un caffè prima.”
Bevemmo un caffè, ma io diventavo sempre più ansioso al pensiero che potessimo perdere
la barca, il che avrebbe significato rimanere bloccati qui per almeno un’altra settimana.
Mentre finivamo il caffè però, sentivo delle voci provenire dall’esterno della casa. Degli
uomini arrivavano spontaneamente ad aiutarmi a trasportare la mia famiglia alla barca. Dopo
che conversammo per circa un quarto d’ora, gli uomini fissarono le amache a dei pali e io
misi insieme le nostre cose. Keren e Shannon furono adagiate di nuovo sulle amache.
Cesaria prese Caleb, Io portavo Kris in braccio, qualcun’altro prese le nostre borse, e
cominciammo a camminare in processione verso il porto, illuminati da lampade al cherosene
e torce elettriche, attraverso nuvole nere di zanzare nella notte umida. Non c’erano luci in
vista. Ma mentre ci avvicinavamo alla sponda del fiume, a grande distanza come fosse un
astronave, il faro della nave ispezionò a intermittenza la sponda e il fiume, in cerca di tronchi
galleggianti che avrebbero potuto danneggiare lo scafo, controllando la distanza della barca
dalla sponda, cercando banchi di sabbia che l’avrebbero potuta affondare. Iniziammo una

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incerta discesa della ripida sponda nell’oscurità, aguzzando gli occhi per orientarci alla luce
delle torce elettriche. Improvvisamente sentii qualcuno cadere e rotolare per qualche metro.
Era l’uomo che trasportava l’amaca di Keren dalla parte dei piedi. Ma ancor prima che
l’uomo cadesse per terra, subito un’altro ne prese il posto, tanto prontamente che Keren non
sembrò notare l’episodio.
Facemmo lampeggiare le nostre torce verso la nave per segnalare che volevamo salire a
bordo. Mentre la barca si avvicinava nell’oscurità della notte senza stelle e senza luna, altra
più di sei metri e lunga venti, il suo enorme faro si posò su di noi che aspettavamo sulla riva
del fiume. Il farò ci scrutò, come fossimo minuscoli esseri terrestri su una riva Marziana.
Gli uomini trasportarono Shannon e Keren sul ponte più in basso dei tre da cui la nave era
costituita. Portai tutto il resto a bordo, inclusi Kristene e Caleb, e la barca lasciò la riva.
All’improvviso gli amici di Auxiliadora non c’erano più, inghiottiti dall’oscurità dell’Amazzonia.
Li avrei rivisti prima o poi? Cosa sarebbe successo ora? Fissai tutt’e cinque le amache che
la gente di Auxiliadora ci aveva prestato quasi preso dalla follia, preoccupato che Kristene e
Caleb potessero cadere nel fiume, o che qualcuno inciampasse su Keren e Shannon mentre
erano distese inermi sul ponte, o che qualcuno potesse rubare le nostre poche cose. Dopo
aver appeso le amache, portai anche i bagagli e la famiglia sul secondo ponte. Poi
ammucchiai tutte le nostre cose sotto la mia amaca, sistemai ognuno sulla sua amaca, e
cercai di dormire. Posizionai tutte le amache molto vicine di modo che potevo sentire se
qualcuno si svegliava o aveva bisogno di me.
Il ponte superiore della barca era l’area bar. Sotto il ponte più basso c’era la stiva. La barca
era sporca, i ponti erano coperti di una vernice spessa e marrone, i parapetto erano bianchi
e alti circa un metro, lo scafo era verniciato di blu. Tutto il resto era verniciato di bianco.
Conoscevo questo tipo di imbarcazioni dalle mie letture, ma questa era la prima volta che ne
vedevo una da vicino. C’erano forse un centinaio di passeggeri sull’imbarcazione.
Attraverso tutto il sistema fluviale del Rio delle Amazzoni, sia che ci si trovi in Brasile, Perù,
o Colombia, o qualsiasi altra nazione che comprende zone di foresta Amazzonica, le
imbarcazioni per il trasporto dei passeggeri sono costruite tutte allo stesso modo. Si inizia
con una massiccia ossatura per lo scafo, fatta di tavole spesse 5-10 cm di un legno solido e
impermeabile, come l’itauba. L’ossatura per un’imbarcazione di ridotte dimensioni sarà
approssimativamente 10 metri in lunghezza e 3 in larghezza. Il resto della resistente
struttura dello scafo è fatta da tavole di legno robusto di 5-7cm di spessore, mentre gli spazi
tra le tavole sono riempiti con della corda o altro materiale fibroso e del materiale sigillante,
poi il tutto ricoperto di stucco e vernice. Le corde o il materiale fibroso sono inseriti tra le
tavole utilizzando una mazzuola da calafato (n.d.t. operaio specializzato che si occupava un
tempo del calafataggio, ossia di impermeabilizzare lo scafo delle navi) e un particolare
scalpello da calafato. Lo scafo (batelao in portoghese) deve essere in grado di resistere
colpi inflitti da tronchi galleggianti, alcuni dei quali più lunghi dell’imbarcazione stessa,
durante la stagione delle piogge, e resistere all’eventuale arenarsi su banchi di sabbia o tra
le rocce durante la stagione secca.
Il ponte più in basso è usato come stiva a prua mentre a poppa vi si trova il motore e l’albero
di trasmissione. Sopra questo vi è un secondo ponte e sopra ancora, molto spesso, un
terzo. Il soffitto tra un ponte e l’altro era di due metri. I ponti per i passeggeri spesso non
hanno pareti, almeno nelle imbarcazioni più grandi, a causa del caldo - solo parapetto
abbastanza bassi, come una staccionata, e dei pali di supporto. Dal soffitto sporgono dei
piccoli rettangoli di 3x7 cm per fissare le amache. In caso di pioggia dei teloni di plastica
possono essere srotolati tra un ponte e l’altro. Di solito imbarcano acqua ma sono
comunque in generale imbarcazioni affidabili e pratiche. E siccome il design, i motori e le

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modalità di costruzione utilizzate sono le stesse in tutta l’area dell’Amazzonia, i pezzi di
ricambio e la manodopera sono abbondanti - sempre che si segua questo standard. Deviare
da questi standard di costruzione e operatività o usare motori poco comuni voldire cercarsi
dei guai, perchè un qualsiasi guasto potrebbe rivelarsi irreparabile. Sarebbe sconveniente
ritrovarsi bloccati per la mancanza di parti di ricambio e di assistenza tecnica necessaria.
Una volta che l’imbarcazione è pronta, viene consegnata a l’acquirente, di solito qualche
commercianti relativamente benestante. Vengono usate sia per il trasporto passeggeri che
per il trasporto merci. Le imbarcazioni dei commercianti trasportano prodotti della giungla
venduti dagli Indios e dai brasiliani che vivono tra la giungla, i quali ricevono in cambio beni
di manifattura quali fiammiferi, latte in polvere, carne in scatola, lime, maceti, zappe, vanghe,
aghi, fili, tabacco rollato, liquore, ami da pesca, munizioni, pistole, e canoe. Molti
commercianti possiedono flotte di imbarcazioni simili. I principali porti base per queste flotte
di imbarcazioni da commercio sono Porto Velho, Manaus, Santarem, Parintins, e Belem - le
città principali del sistema fluviale dell’Amazzonia. Le barche sono responsabili della
continua fornitura di kopaiba, noci del Brasile, legno massello, lattice, e altri prodotti della
giungla. Gli equipaggi delle imbarcazioni acquistano tali materie prime della giungla
direttamente dagli Indios quali i Piraha, i Tenharim, gli Apurinas, Nadeb, e decine di altre
tribù, oltre che dai coboclos.
Gli equipaggi stessi sono composti da coboclos di solito. L’equipaggio tipico è costituito dai
due ai quattro uomini che operano il motore, manovrano la barca, riparano lo scafo e così
via. Durante le ore di navigazione, l’equipaggio può rilassarsi. Finchè il motore lavora
normalmente, loro possono poltrire sulle amache o sedersi a chiaccherare. Quando la barca
fa scalo durante l’orario di lavoro l’equipaggio carica e scarica le merci, ripara il motore, si
immergono sott’acqua per riparare le falle, riparare l’albero di trasmissione o l’elica, o
qualsiasi altro compito. è un tipo di vita alla Huckleberry Finn, con sprazzi di duro lavoro.
C’è una intrinseca contraddizione nella vita di questi equipaggi di caboclo. Nonostante la
loro generosità e la loro affabilità, molti di essi vengono da ambienti pieni di violenza. Alcuni
di essi fuggono da una vita di città a cui non sono riusciti ad adeguarsi - matrimoni falliti,
debiti, nemici, la polizia. Avere la pelle dura è necessario per sopravvivere isolati tra gli
affluenti del grande fiume, un territorio violento abitato da uomini violenti.
Appena presi sonno, Keren disse che doveva usare il bagno. Lei e Shannon avevano
ancora una forte diarrea. Durante la navigazione le dovetti aiutare innumerevoli volte ad
usare il vaso da notte (che avevo fortunatamente pensato di portare con noi), coprendole
con una coperta per creare un po di privacy, trasportando poi il vaso e il suo contenuto tra la
folla che si era radunata sul ponte per osservare a questa famiglia di americani malati, fino a
poppa dove svuotavo e pulivo il vaso nel bagno della barca.
Quando tornai dal pulire il vaso, Shannon disse, “Mi dispiace, papà, mi discpiace”.
“Per cosa?” chiesi io.
Mi avvicinai a lei e capii dall’odore che se l’era fatta addosso. Vidi che la sua amaca e lei
stessa erano coperti di diarrea. Shannon era tremendamente imbarazzata e dispiaciuta.
Avrei dovuto tenerla d’occhio con più attenzione. Trovai un secchio d’acqua e appesi una
coperta davanti alle amache per creare un po di privacy. Poi la lavai e la aiutai a cambiarsi i
vestiti. Lavai l’amaca meglio che potei e diedi a Shannon una coperta di modo che potesse
stenderla sopra l’amaca e dormirci senza che l’amaca bagnata le desse fastidio. Era ancora
dispiaciuta. Poi lavai i suoi vestiti e li stesi ad asciugare lungo il parapetto della nave.
Il giorno dopo, Caleb e Kristene dissero di aver dormito bene. All’ora di pranzo cercai di far
mangiare tutti. Feci sedere Caleb e Kristene sui sedili contro il parapetto della nave. Poi
portai ad ognuno di loro una piccola porzione di riso e fagioli che veniva servita a tutti i

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passeggeri. Mi voltai per agguantare qualcosa per me e sentii il rumore di un piatto che
cadeva al suolo e di un bicchiere che si rompeva. Caleb, che aveva solo due anni, aveva
fatto cadere il suo piatto. Era molto dispiaciuto. Gli portai un altro piatto di riso e fagioli e
spinsi a calci il cibo rovesciato ed il bicchiere nel fiume. Poi chiesi a Keren se volesse
qualcosa. Voleva una coca cola fresca, così gliene comprai una dal bar della barca, che
stava un ponte più su. Dopo che tutti mangiarono, tornai a stare in pensiero.
La mattina dopo che ci imbarcammo su quel recreio (ndt come viene chiamata quel tipo di
imbarcazione in caboclo), approcciai il proprietario della barca, un uomo con un solo braccio,
di nome Fernando. Indossava delle ciabatte infradito, diffusissime, e stava a petto nudo. Alto
all’incirca uno e ottanta, di costituzione esile e un pancione prosperoso da tipico brasiliano,
non era certa una figura intimidatoria. Però sulla barca era la legge.
Cesaria e Godofredo mi avevano parlato di Fernando. Era uno senza pietà, con poca
compassione per i disgraziati, così mi avevano detto. Non avrebbe aiutato il prossimo
neanche a pagarlo. Dissero che molti lo temevano e che il suo equipaggio, circa venti uomini
che sapevano il fatto loro, avrebbero fatto qualsiasi cosa lui avesse ordinato. Pensai a come
avrei dovuto approcciare quest’uomo. Volevo essere persuasivo parlando in portoghese e
convincerlo a farmi un grande favore.
“Salve”, dissi. “Mia moglie è molto malata e devo portarla da un dottore il prima possibile. Ti
pagherò quanto vuoi se ci porti a Humaita con il motoscafo che hai al traino”.
“Non affitto il motoscafo”, rispose burbero, guardandomi appena.
“Ok, allora pagherò quanto vuoi se ci porterai con questa stessa barca direttamente a
Humaita, senza fermarti a imbarcare nessun’altro”. Non m’importava che tante persone
dipendessero da quella stessa barca per le loro necessità mediche o di rifornimento, e che
magari stessi condannando alla morte altre persone che come Keren avevano bisogno di
aiuto, qualora Fernando accettasse la mia offerta.
Fernando replicò, “Senti, camerata, se tua moglie deve morire, morirà. Tutto qui. Non andrò
più in fretta perchè me lo chiedi tu.”
Se non avesse avuto il suo equipaggio a difenderlo, avrei probabilmente reagito
violentemente. Tornai dalla mia famiglia. Ero teso e impaziente - più di quanto non lo fossi
mai stato. Mentre pensavo e pregavo che qualcuno ci aiutasse, la barca rallentò. Poi,
mentre osservavo, si fermò del tutto vicino a delle case, per imbarcare altri passeggeri,
pensai. Invece il motore si spense. Silenzio. Pensai che forse c’era qualche problema col
motore. Poi, incredulo, guardai l’intero equipaggio e Fernando che lasciavano la barca con
indosso delle uniformi da squadra di calcio. In cima a una collina riuscivo a vedere una
radura. Un’altro gruppo di uomini con una diversa uniforme da squadra di calcio stava
aspettando. Anche la maggior parte dei passeggeri scese a terra. Per due cazzo di ore
pensai a come avrei potuto uccidere l’equipaggio che giocava a calcio mentre mia moglie e
mia figlia morivano sulla loro barca. Volevo rubare la barca lasciarli tutti li, ma non sapevo
come far funzionare il motore da solo. I pensieri più crudeli e malvagi mi occupavano la
mente. Non erano affatto i pensieri di un missionario pieno di spirito cristiano, devo
ammettere. Erano pensieri più adatti a quel cowboy attaccabrighe da bar che era mio padre.
Alla fine tornarono tutti sulla barca, ridendo, scherzando, allegri, pronti a riprendere il viaggio
verso Humaita. Che problema aveva questa gente? Mi domandavo. Erano privi di qualsiasi
sentimento di umanità? Anni dopo, quando il trauma di questo viaggio in barca era quasi
superato, iniziai a capira il punto di vista dei brasiliani.
Le avversità che io stavo affrontando, così fuori dall’ordinario per me, erano la vita normale,
le sfortune di tutti i giorni per i passeggeri di quella barca. Non si cadeva nel panico
nell’affrontare la vita, per quanto difficile essa potesse essere. Si affrontava qualsiasi

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sciagura e la si affrontava da soli. Malgrado l’inclinazione dei brasiliani ad aiutare gli altri, vi
è anche una forte credenza di fondo, almeno tra i caboclo, che ognuno debba affrontare le
avversità contando solo su se stesso. Qualcosa del tipo, “Anche se sarò sempre disponibile
ad aiutarti, non voglio chiederti aiuto”.
I giorni passati sul recreio furono i più lunghi della mia vita. Era come trovarsi su una
prigione galleggiante. Cercai di tranquillizzarmi sedendo su una panca vicino all’amaca di
Keren e osservando la flora e la fauna che si sfilavano lentamente sulle sponde, mentre
risalivamo il fiume ad una velocità di sei nodi. La mancanza di privacy per Keren e Shannon,
il costante fissarci degli altri passeggeri, era molto duro da sopportare. Anche se tutti si
comportavano per la maggior parte cordialmente, era duro sentir costantemente parlare le
persone come se noi non fossimo li.
“Finirà per morire, non credi?” una donna chiese ad un’altra.
“Di sicuro. Quel gringo è stato stupido a portare la sua famiglia quaggiù. Si son presi la
malaria”.
Quando sentivo le persone diagnosticare a Keren e Shannon la malaria, provavo un senso
di superiorità e di disprezzo per loro perchè ignoravano il fatto che le ragazze avessero la
febbre tifoide.
“La sua faccia è orribilmente bruciata dal sole.”
“Guarda quanto sono bianchi!”
“Scommetto che lui è ricco.”
E così via, per ore e ore sino allo sfinimento.
Poi, la terza notte dopo che lasciammo Auxiliadora, dopo una improvvisa curva del fiume
Madeira vidi una luce comparire a dritta. Per settimana non si erano viste luci elettriche. Le
luci di Humaita squarciarono il buio della giungla e mi fecero ricordare che c’era un mondo
intero lontano dai Piraha, lontano dal fiume Maici. Ma più importante, erano segni di
civilizzazione, della presenza di dottori. Iniziammo a rallentare e ad attraversare il fiume
verso la sponda opposta, dove stava la città. Erano più o meno le tre di notte. La barca si
accostò alla sponda. C’erano degli scalini di cemento sgretolato, resi inutilizzabili dalla
continua erosione della sponda provocata dal costante scorrere del fiume marrone. Una
stretta passerella piegabile fu lanciata oltre il metro e mezzo che divideva la barca dalla
sponda. Nessuno si offrì di aiutarmi coi miei bagagli o coi bambini. Ma ero instancabile vista
l’urgenza. Raccolsi delle borse e insieme Kristene e Caleb e li portai oltre la passerella, fino
a una struttura abbandonata in cima alla sponda, vicino alla strada. Vedevo dei taxi che
aspettavano i clienti.
Dissi a Kris, che aveva solo quattro anni, “Aspetta qui. Non ti muovere. Siediti sulle borse.
Non lasciarle prendere a nessuno. Vado a prendere Mamma e Shannon. Tieni d’occhio
Caleb. Hai capito?”
Kristene stava dormendo profondamente quando la barca aveva raggiunto la città. Erano le
tre e mezza di notte.
“Si, papà” disse lei, stropicciandosi gli occhi e guardandosi attorno cercando di capire dove
si trovava.
Risalii la passerella e tirai giù tutte le amache. Poggiai Keren su una panca a bordo della
barca e trasportai in fretta Shannon in cima alla sponda dove si trovava Kris. Shannon
tremava e gemeva dal dolore. Ritornai alla barca e presi Keren tra le braccia; era ancora più
leggera di quando eravamo partiti. La portai su per la sponda, fin dentro un taxi. L’autista mi
aiutò a mettere le borse nel bagagliaio della macchina mentre io feci stringere i bambini e
Keren sul sedile posteriore. In pochi minuti ci stavamo dirigendo verso l’ospedale.

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L’ospedale, ancor oggi, si trova al limite della città. Al tempo era dipinto di bianco, con
pavimenti di mattonelle e semplici mura di mattoni e intonaco. Portai tutto dal taxi sino alla
sala d’attesa. Le lampade penzolavano attaccate a dei cavi sul soffitto. Non c’era nessuno
alla ricezione. Il posto sembrava deserto. Era piccolo, forse cinquanta letti. Però era un
ospedale! Corsi per i corridoi cercando aiuto. Trovai un uomo con un uniforme bianca che
dormiva su un lettino da visita.
Dissi, “Mia moglie è malata. Penso che abbia la febbre tifoide.”
Quello si sollevò lentamente e rispose, “Tifoide? Non capita spesso da queste parti.”
Camminò con me fino a dove la mia famiglia stava aspettando. Esaminò Keren e vide che
aveva la febbre, lo stesso per Shannon. “Allora” disse, “Penso che abbiamo la malaria. Ma si
vedrà. Farò degli esami.”
Prelevò del sangue dalle dita di Shannon e Keren e lo analizzò. Osservandoli al
microscopio, prese a ridacchiare.
“Perchè stai ridendo?” Domandai sdegnato.
“Elas tem malaria, sim. E nao è pouco, nao” (Hanno la malaria. E non solo un pò).
Rideva della mia ignoranza. E rideva perchè il livello di malaria nel sangue di Shannon e
Kere, mi disse, era più alto di quanto avesse mai visto in vita sua, e trattava casi di malaria
ogni santo giorno. Non c’era dubbio che la colpa fosse mia perchè ero stato stupido e non
avevo iniziato il trattamento per la malaria già nel villaggio, pensai. Il dottore trovò una
stanza libera per Keren e Shannon e iniziò un trattamento di clorochina per endovenosa.
Krissy, Caleb, e me dormimmo nella stessa stanza dove Keren e Shannon erano ricoverate.
Keren si svegliò la mattina dopo e chiese debolmente dell’acqua, apparentemente era
migliorata un poco. Pure Shannon sembrava stare un poco meglio e chiese se fosse
possibile avere una coca cola. Keren poi disse che le sarebbe piaciuto aver qualcosa che
impedisse ai capelli di coprirle la faccia. A quel tempo aveva i capelli lunghi sino alla vita, e
io non avevo pensato di portare con me niente per legarglieli. Andai nella sala d’attesa, dove
due suore lavoravano alla ricezione, essendo l’ospedale una collaborazione tra la diocesi
cattolica locale e il governo. Chiesi a una delle suore se avessero qualcosa con cui legare i
capelli a Keren.
“Olha, gente,” disse a voce così alta che tutti nella sala d’attesa potevano sentirla, “esse
gringo acha que somos uma loja aqui. Ele quer algo para o cabelo da mulher dele”
(Guardate gente, questo gringo pensa che siamo un negozio. Vuole qualcosa per legare i
capelli della moglie.)
Non venendo io stesso da una famiglia religiosa non ero a conoscenza dell’odio che alcuni
cattolici provano per i protestanti e viceversa. Quella risposta fu un colpo basso, ero stanco
e disorientato. Sapevo che la povertà può far diventare i poveri sospettosi di chi non è
povero. Agli occhi di questa suora io ero ricco. E tutti quanti presumevano che essendo io
americano doveva quindi essere razzista. Avevo letto nei libri storie di stereotipi sociali. Ma
non avevo mai vissuto niente del genere sulla mia pelle. Non ero mai stato io stesso vittima
di pregiudizi, come invece lo ero adesso e lo sarei stato sporadicamente nel corso dei
prossimi dieci anni. Non avevo nessuno con cui parlare qui a Humaita. Ironicamente, anche
se tutti pensavano fossi ricco, avevamo quasi finito i soldi. Kris, Caleb, e me non avevo un
posto dove dormire, non vi erano letti per noi nell’ospedale. Ci riposammo un po, sedendo
vicino ai letti di Keren e Shannon, ma sapevo che al nostro risveglio avremmo dovuto
spostarci a Porto Velho.
Scoprii che c’era un bus per Porto Velho alle 11 di mattina. Decisi di portare Kris e Caleb
nella capitale dello stato e poi ritornare da Keren e Shannon la mattina successiva il prima
possibile. Portare Keren e Shannon sul bus era fuori questione. Keren a malapena riusciva a

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muoversi ed era piena di dolori causati dalla malaria, e pure Shannon soffriva molto. Qui
davano loro da mangiare, somministravano loro l’endovena e le medicine per la malaria.
Dissi a Keren e Shannon che stavo partendo ma che sarei tornato la mattina seguente.
“Ti prego non andartene papà”, Shannon singhiozzò. “Ho paura a stare qui senza di te”.
Keren era d’accordo che sarebbe stato meglio trasferire tutti a Porto Velho, un città molto più
grande, il prima possibile. Da li avremmo persino potuto tornare negli Stati Uniti, se
necessario, dato che c’era un aeroporto internazionale. Sapevamo entrambi che non potevo
chiedere aiuto via telefono, perchè la sede della missione non aveva una linea telefonica.
Nel 1979 era quasi impossibile procurarsi un telefono in Brasile. Una linea fissa per una
casa in città poteva costare più di 10mila dollari. Non vi era modo dunque di mettersi in
contatto con il centro dei missionari SIL, tredici miglia fuori città.
Uscii dall’ospedale e camminai lungo la strada in cerca della stazione degli autobus. Senza
l’ombra della vegetazione della giungla, a Humaita faceva un caldo terribile sotto il sole
diretto dei tropici. Era un posto polveroso e deprimente, appena poco più che una radura
sulla sponda del fiume Madeira. La “stazione” degli autobus, scoprii, non era altro che una
casa appena dietro la strada principale, con una biglietteria nel soggiorno dove una famiglia
guardava la tv. Usai quasi tutti i soldi che ci erano rimasti per tre biglietti per Porto Velho.
Ritornai all’ospedale a prendere Kris e Caleb e salutammo Shannon e Keren.
A questo punto avevo dormito forse solo 15 ore in una intera settimana. Era completamente
sfiancato, sia emotivamente che fisicamente, allo stremo delle forze. Non riuscivo neanche a
pensare lucidamente. Kristene, Caleb, e me salimmo sul vecchio autobus arruginito che al
tempo faceva spola tra Humaita e Porto Velho e ci mettemmo comodi come potevamo per il
viaggio di quasi 5 ore. Mi erano rimasti abbastanza spiccioli da comprare dell’acqua e degli
snack alla prima fermata, poi cercammo di riposare. Quando arrivammo a Porto Velho erano
quasi le quattro del pomeriggio. Chiamai un taxi e ci infilammo spossati nell’auto per
quest’ultimo tratto del nostro viaggio. L’autista, come tutti gli altri, ci fissò - tre bianchi sporchi
con dei borsoni dell’esercito americano come bagaglio. Gli chiesi di portarci alla colonia
americana, nome con cui era conosciuto il complesso dei missionari del SIL (ndt Summeri
Institute of Linguistic, un’organizzazione cristiano americana non profit).
Percorremmo una strada circondata da una vegetazione fitta quanto quella sulle sponde del
Maici - avevo visto io stesso un giaguaro in agguato al limite della strada durante una visita
precedente mentre facevo jogging. Quando arrivammo al centro del SIL, mi recai subito
presso la casa più vicina all’ingresso della base. I missionari della base pagarono il taxi per
me, poi fecero delle chiamate nella linea interna del campo (la base aveva un set di telefoni
donatogli dalla Bell che serviva però solo per le chiamate interne al campo). Poco dopo tutti i
missionari offrirono il loro aiuto e le loro preghiere per Keren e Shannon. Un uomo si offrì di
portarmi in macchina a prenderle. Gli dissi che stavano troppo male (e avevo bisogno di
dormire; stavo davvero per crollare). Mi accordai con un’infermiera, Betty Kroeker, e un
pilota, John Harmon, entrambi del SIL, per tornare insieme in aereo presso Humaita
l’indomani mattina.
Noi tre decollammo dall’aeroporto di Porto Velho alle sette di mattina, era un volo di un’ora.
John si comportava come se fosse un volo di routine, dando l’idea che pensasse io stessi
esagerando l’emergenza. Betty cercò di rassicurarmi. Aveva lavorato nei pronto soccorso
dei più importanti ospedali degli Stati Uniti e sapevo che era qualificata per questo incarico.
Mentre completavamo la discesa verso l’asfaltata pista d’atterraggio di Humaita, John volò
basso sopra la stazione dei taxi nel centro città, un segnale che indicava che vi era bisogno
di un taxi presso la pista fuori città. Quando atterrammo, il taxi era già li ad aspettarci con le
portiere aperte e l’autista pronto ad aiutarci coi bagagli, con un gran sorriso. John aspettò

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alla pista per tener d’occhio l’aereo mentre io e Betty ci dirigemmo verso l’ospedale. Era
estremamente ansioso e nervoso, non sapevo cosa aspettarmi. Non credevo che sarei
potuto andare avanti se fosse successo qualcosa a Shannon e Keren. Dovetti forzarmi di
non pensare al peggio o sarei potuto impazzire. Ero teso, sentivo tutti i muscoli del mio
corpo come tirati, e a più riprese lottavo per trattenere le lacrime.
Quando il taxi si fermò davanti all’ospedale, pagai l’autista e corsi dritto alla stanza di Keren,
Betty dietro di me. Keren e Shannon sembravano OK, anche se ancora molto deboli e,
stranamente, ancora febbricitanti nonostante tutta la clorochina somministrata loro durante
la notte. Per la prima volta mi accorsi di quanto i loro visi fossero bruciati dal sole a cui erano
state esposte durante il viaggio. La pelle era rossa e veniva via. Chiesi se l’ambulanza
poteva trasportarle sino alla pista. L’amministratore in servizio disse che certo avrebbero
messo subito a disposizione l’ambulanza, a patto che pagassi per il carburante. Mentre
caricavamo mia figlia e mia moglie sull’ambulanza, mi accorsi che il viso di Betty si era fatto
molto serio e teso. Parlò poco. Fece subito sia a Keren che a Shannon delle iniezioni di
Plasil, un farmaco antinausea, e a somministrare gocce di Novalgina per il dolore e la
febbre. Mentre l’ambulanza si avvicinava alla pista, vedevo John che noncurante leggeva
qualcheccosa. L’ambulanza si accostò al portellone cargo sul lato del Cessna 206. Aprimmo
gli sportelli dell’ambulanza e Betty saltò giù. John ci guardava. Poi incominciammo a tirar
fuori Keren dall’ambulanza. Quando John vide in che stato si trovava Keren, all’improvviso
cambiò atteggiamento e si diede subito da fare, come non lo avevo mai visto, per aiutarci,
tirando giù i sedili posteriori dell’aereo. Caricammo Keren, poi Shannon. John e Betty
trovarono un modo di appendere le flebo all’interno dell’aereo. John disse che non potevamo
usare le cinture di sicurezza per Keren e Shannon, avrebbero dovuto rimanere distese nei
sedili posteriori. E Betty sarebbe rimasta con loro, anche lei senza la cintura di sicurezza.
Ciò andava contro ogni procedura di sicurezza, cosa che John non avrebbe mai fatto in altre
circostanze. In pochi minuti avevamo decollato.
Arrivati a Porto Velho, portammo Keren a casa di Betty e la sistemammo proprio nel letto di
Betty. Betty volevo poter controllare Keren ventiquattrore su ventiquattro. Portammo
Shannon presso un’altra casa nella base, dove un’altra infermiera missionaria ci aspettava.
Persino mentre scrivo queste righe, lacrime di gratitudine mi salgono agli occhi pensando
alla generosità e alla professionalità di questi missionari piloti, infermiere, amministratori, e
tutti gli altri. Non ho incontrato mai persone più buone. E sospetto che mai ne incontrerò.
Betty mandò suo marito Dean e me in città alla ricerca di un dottore.
“Cercate Dr. Macedo,” Betty insistette. “è bravo, mi han detto”.
Io e Dean trovammo Dr. Macedo esattamente dove Betty ci aveva detto di cercarlo, nel suo
ufficio in una stradina secondaria.
Spiegai a Dr. Macedo, “Minha esposa tem malaria. O senhor foi recomendado como um
medico muito bom” (Mia moglie ha la malaria. Lei ci è stato raccomandato come un ottimo
dottore).
Dr. Macedo era di carnagione marron scuro, molto magro, e dal suo modo di parlare
traspariva chiaramente intelligenza e sicurezza. Mi disse che era stato il segretario alla
sanità responsabile di tutto il territorio della Rodonia fino recentemente (questo accadeva
prima che Rodonia diventasse uno stato a se stante). Disse che ci avrebbe seguito
immediatamente. Guidammo talmente svelti che il tragitto che normalmente richiedeva
trenta minuti lo percorremmo in meno di venti, nonostante la pessima condizione delle
strade in terra battuta durante la stagione delle piogge. Come entrammo a casa di Betty, Dr.
Macedo si recò subito da Keren. Ci annunciò che la sua pressione sanguigna era

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pericolosamente bassa e che la malaria era chiaramente troppo forte per lasciare Keren in
quella casa.
“Dobbiamo portarla subito all’ospedale,” disse.
Betty era chiaramente molto preoccupata sin dal momento che entrammo nella stanza. Il
dottore disse che Keren aveva urgentemente bisogno di sangue. Visto il suo gruppo
sanguigno 0 positivo, trovare donatori non sarebbe stato un problema. In molti si offrirono
volontari al centro quando seppero che Keren aveva bisogno di sangue. Dovettero seguire
Dr Macedo in città mentre io dovevo aspettare con Betty e Keren l’ambulanza che il dottore
ci avrebbe mandato dall’ospedale.
“Senti, la situazione è molto grave”, Macedo mi disse dopo avermi preso da parte. “Tua
moglie è arrivata troppo tardi. Pesa circa 35 chili. La malaria nel suo sangue è ancora molto
forte. Penso che potrebbe non farcela. Se ha dei parenti, dovresti informarli.”
Rimasi li a fissarlo. Lui se ne andò. Mi voltai verso l’infermiera. “Come sta per davvero,
Betty?”
“La stiamo perdendo, Dan”, Betty mi disse con le lacrime agli occhi.
Le dissi che quando saremmo andati in città, avrei chiamato i genitori di Keren, Al e Sue
Graham, che vivevano a Belém, dove erano stati missionari per decenni.
L’ambulanza arrivò in un’ora e Betty saltò sul retro con Keren. Io li seguii con una macchina
della missione dopo aver controllato la situazione di Shannon, che aveva ancora dolori e
febbre, ma stava migliorando. Ero stordito. Non riuscivo a credere che Keren stava
morendo. Avevo perso mia madre quando avevo undici anni, e lei ne aveva venti nove; mio
fratello era annegato quando aveva sei anni e io ne avevo quindici - non era ancora
abbastanza? Come poteva morire pure mia moglie? Arrivati in città sistemarono Keren in
una stanza male illuminata presso una malandata clinica privata al centro della città. Le
infermiere cercavano di trasfondere il sangue donato. Lo avevano sistemato in un vecchio
freezer nella sala d’attesa della clinica e appena il sangue ghiacciato entrò nel sistema
circolatorio di Keren, lei gridò dal dolore. Iniziarono pure a farle delle endovenose di chinino,
il che la portò ad aver bisogno pure di ossigeno. Rimasi con lei per un paio d’ore, poi lasciai
Betty con Keren e tornai da Shannon, Kris e Caleb.
I genitori di Kerem arrivarono da Belém il giorno dopo. Sua madre rimase con noi per sei
settimane per aiutarci durante la dura convalescenza di Keren. Dopo un paio di settimane di
terapia intensiva, il dottore mi assicurò che Keren ce l’avrebbe fatta, e che sarebbe forse
addirittura tornata in perfetta salute. La presenza di Sue Graham fu cruciale; si diede da fare
senza sosta per aiutare Keren e per fornire ai bambini un ambiente più familiare durante la
permanenza al centro dei missionari del SIL. La convalescenza di Shannon fu un poco più
rapida, ma non senza ricadute.
Un pomeriggio che Shannon si sentiva forte abbastanza, le permisi di fare un giro in
bicicletta con degli amici intorno alla base. Appena si misero a pedalare sentii una bici
cadere e la voce di Shannon, “Ahia”, poi scoppiò a piangere. Tornò a casa con un taglio
sulla fronte che richiese i punti, e guardando le sue braccia e gambe esili realizzai che era
ancora troppo debole per qualsiasi attività che non fosse una breve camminata.
Dopo che la madre di Keren se ne andò, mi accorsi che Keren aveva ancora bisogno di lei.
Così quando Keren e Shannon furono in condizioni migliori, le feci trasferire, insieme a
Kristene e Caleb, a Belém per continuare la convalescenza in tranquillità insieme a Sue e Al.
Io ritornai da solo tra i Piraha.
Dopo quasi sei mesi di riposo e di miglioramenti, Keren e Shannon stavano abbastanza
bene da poter tornare insieme a Kris e Caleb nella giungla. Avevano ripreso peso ed erano

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di nuovo in perfetta forma fisica. Keren era impaziente di riprendere la sfida della lingua
Piraha.
Così cominciò il nostro impegno trentennale presso i Piraha.

4 A volte si fanno degli errori

Quando Keren e Shannon stavano quasi per morire di malaria realizzai che c’erano aspetti
importanti dei Piraha che non stavo capendo e comprendendo con successo. Ero ferito dal
fatto che i Piraha non avessero mostrato nessuna empatia verso me e la mia situazione.
Non mi venne mai in mente, mentre affrontavo le recenti avversità, che i Piraha affrontavano
costantemente pericoli come quello che la mia famiglia stavo passando. Anzi loro
affrontavano situazione ben peggiori della mia. Ogni Piraha ha visto un familiare stretto
perdere la vita. Hanno visto e toccato i corpi dei loro familiari amati e li hanno sepolti tra la
foresta vicino alle loro case. Non vi era nessun ospedale o dottore a cui rivolgersi. Quando si
diventa così malati da non riuscire più a lavorare, non importa quanto facilmente una
malattia potrebbe essere curata dalla medicina occidentale, c’è un’alta probabilità che la
persona muoia. E i vicini e la famiglia non portano con se casserole a un funerale Piraha
(ndt in america è usanza offrire un buffet alla veglia funebre di un morto, casserole di patate
è un piatto tipico della veglia funebre). Se tua madre muore, se tuo figlio muore, se tuo
marito muore - devi comunque andare a caccia, o a pesca, e procurarti da mangiare.
Nessuno lo farà al posto tuo. La vita distribuisce morte senza pietà. Nessun Piraha potrebbe
prendere in prestito una barca a motore per cercare aiuto per la sua famiglia. E nessuno
probabilmente s’offrirebbe d’aiutare una famiglia Piraha quando questi piombassero nel
paese più vicino in cerca di assistenza. Ma d’altrocanto la maggior parte dei Piraha non
accetterebbe nessun aiuto da uno sconosciuto.
I Piraha non possono sapere che gli Occidentali si aspettano di vivere quasi il doppio più a
lungo dei Piraha stessi. E non solo ci aspettiamo di vivere più a lungo, lo consideriamo pure
un nostro diritto. Gli americani in particolare mancano dello stoicismo dei Piraha. Non è che i
Piraha siano indifferenti alla morte. Un padre Piraha remerebbe per giorni interi in cerca di
aiuto se pensasse di poter salvare la vita ad un figlio. Fui svegliato nel mezzo della notte da
uomini Piraha disperati che mi imploravano di aiutare un loro figlio o un coniuge malato. Il
dolore e la preoccupazione sul loro volto sono profondi quanto quelli di chiunque altro. Non
vidi mai però un Piraha comportarsi come se il resto del mondo avesse il dovere di aiutarlo o
che fosse necessario sospendere le normali attività quotidiane solo perchè qualcuno era
malato o stava morendo. Questa non è indifferenza. è piuttosto pragmatismo. Tuttavia non
lo avevo ancora capito.
Durante la stagione delle piogge, i commercianti fluviali risalivano il fiume dal Marmelos su
fino al Maici ogni giorno in cerca di noci del brasile, sorva (il frutto dolce degli alberi di couma
[ndt boh?]), palissandro, e altri prodotti della giungla. La routine era sempre la stessa.
Sentivo in distanza il putt-putt-putt del motore diesel. A volte passavano senza fermarsi, non
accadeva spesso però. Temevo il loro arrivo perchè interrompevano le mie ricerche. E
spesso si portavano via i miei insegnanti migliori, a lavorare per loro a volte per giorni o per
settimane intere, rallentando considerevolmente i miei progressi. Sapevo che si sarebbero
fermati perchè appena passavano la nostra casa, sentivo il ding della campanella di
segnalazione, con cui il pilota segnalava all’operatore del motore di rallentare la barca. Poi
seguivano un’altro paio di ding per fermare la barca, mentre sfruttavano la corrente contraria
del Maici per ottenere l’angolo e la velocità perfetti per attraccare di fronte alla nostra casa

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presso il mucchio di tronchi che avevo legato insieme per creare una combinazione tra un
piccolo molo e una piattaforma per lavarsi nel fiume.
Di solito quando una di queste barche arrivava, aspettavo che attraccasse mentre i Piraha
correvano verso la riva per vedere che tipo di mercadorias i commercianti trasportavano.
Sapevo che ad un certo punto qualche uomo Piraha sarebbe venuto a cercarmi dicendo che
i brasiliani volevano parlare con me.
Avevo subito imparato che declinare un invito del genere era considerato scortese -
nonostante in una giornata piena potevano attraccare dalle tre alle sei barche e gli equipaggi
di ognuna di esse si fermavano a parlare con me dei loro affari e del più e del meno per
almeno mezz’ora. Non è che mi dispiacesse conversare con queste persone. Al contrario,
mi divertivo a conversare con queste persone e le loro famiglie, le quali spesso
accompagnavano gli uomini durante questi viaggi di commercio. Erano dei pionieri
coraggiosi, uomini duri sotto ogni aspetto, con nomi quali Silverio, Godofredo, Bernar,
Machico, Chico Alecrim, Romano, Martinho, Darciel, e Armando Colario.
A loro piaceva parlare con me per varie ragioni. Primo, ero l’uomo più bianco che molti di
loro avevano mai potuto vedere, e avevo pure una barba rossa e piuttosto lunga. Secondo,
parlavo in modo divertente. Il mio portoghese era più simile al dialetto di San Paolo che al
dialetto amazzonico di quegli uomini, in più peggioravo le cose facendo uso qua e la di
vocali americane tra le parole portoghesi. Terzo, avevo con me un sacco di medicine, e loro
sapevano che non chiedevo soldi nel caso qualcuno di loro fosse malato e ne avesse avuto
bisogno. Infine, pensavano che io fossi il patrao (ndt il capo) dei Piraha. Dopotutto, ero
bianco e parlavo la lingua Piraha. E questo era prova bastante per questi commercianti che
io fossi il capo, e questi commercianti, nonostante fossero piacevoli conversatori, erano
nettamente razzisti - consideravano i Piraha subumani.
Cercavo sempre di convincerli che i Piraha erano umani come loro.
“Questa gente venne qui prima di voi, dal Peru, forse un cinquecento anni fa.”
“Che vuoi dire, vennero qui? Credevo fossero semplicemente creature della foresta, come le
scimmie,” i commercianti di solito replicavano.
Era cosa ricorrente per loro comparare i Piraha alle scimmie. Apparentemente degradare
certi Homo sapiens e considerarli allo stato di scimmie è abitudine diffusa tra i razzisti di
tutto il mondo. Per i commercianti del fiume, i Piraha comunicavano come le galline e si
comportavano come le scimmie. Cercai davvero di convincerli altrimenti, ma senza
successo.
Visto che pensavano fossi il boss dei Piraha, accadeva spesso che i commercianti mi
chiedessero di usare i Piraha come forza lavoro. Ma ovviamente io non ero certo il patrao, e
rispondevo loro che se volevano i Piraha avrebbero dovuto convincerli essi stessi.
I Piraha comunicavano coi commercianti usando i gesti, alcune frasi base imparate in
portoghese, e alcune parole entrambi conoscevano della Lingua Geral - “Lingua Generale”,
anche conosciuta come “Lingua Buona” (Nheengatu), una lingua basata sul portoghese e il
tupinamba (una lingua indigena ora estinta ma nel passato molto diffusa e parlata lungo tutta
la zona costiera del Brasile).
Una sera verso le nove, quando i bambini erano già addormentati e pure io e Keren
eravamo andati a letto, una barca che non avevo mai visto arrivò al villaggio. I Piraha
urlarono fin dentro la mia stanza che il nome del proprietario era Ronaldinho. Ovviamente
voleva vedermi, perciò mi alzai e salii a bordo per parlarci. In un primo momento, la sua
attività sembrava sospetta. Non vi era nessun bene da commercio in vista. Eppura la barca
era relativamente grande - oltre 15 metri in lunghezza e 3 in larghezza, con un ponte di
legno che copriva la stiva.

39
Sedetti ad un’estremità dell’imbarcazione. Ronaldinho sedette all’altra estremità, e i Piraha
sedevano lungo i lati del ponte.
“Voglio sapere se posso portare otto uomini con me per risalire il fiume e raccogliere noci
brasiliane,” disse lui.
“Non devi chiederlo a me. Non mi occupo io di questi affari. Chiedi ai Piraha.”
Mi fece l’occhiolino come se entrambi sapessimo che le mie parole erano solo per far scena.
Poi aggiunsi qualcosa che il direttore dell’ufficio di Porto Velho della Fondazione Nazionale
Brasiliana Indios (FUNAI), Apoena Meirelles, mi aveva chiesto di dire a questi commercianti.
“L’unica cosa che la legge richiede è che gli Indios accettino di lavorare per te e che tu paghi
loro il prezzo di mercato per i loro servizi, o perlomeno un salario minimo per il loro lavoro.”
“Ma io non ho soldi,” replicò Ronaldinho.
“I soldi non sarebbero comunque appropriati per i Piraha. Li puoi pagare in beni di
commercio,” suggerii.
“OK,” mormorò, poco convinto.
Mi guardai di nuovo intorno. Forse la merce stava sotto il ponte, nella stiva che viene
chiamata porao in portoghese.
“Però non puoi pagarli in cachaca” ( rum di canna da zucchero, pronunciato ka-SHA-sa), lo
avvertii. “Il direttore del FUNAI ha detto che se vendi loro alcolici, potresti essere punito con
fino a due anni di prigione.”
“Oh, non gli darei mai dell’alcol, Mr. Daniel,” Ronaldinho promise. “Altri commercianti lo
fanno, ma grazie a Dio io non sono uno di quei disonesti.”
Palle, pensai, ma dissi solo che dovevo tornare a letto.
“Boa noite,” dissi andandomene.
“Boa noite,” quello replicò.
Tornai a casa e mi riaddormentai in un attimo, però il mio sonno veniva disturbato a intervalli
da risate provenienti dalla barca. Ero piuttosto sicuro che il portoghese stesse facendo bere
cachaca ai Piraha, ma non volevo fare il poliziotto.
Ero stanco, e sentivo che il tutto fosse un po fuori dalle mie responsabilità.
Poi, verso mezzanotte, il mio sonno profondo venne interrotto da delle grida. Le prime parole
che i miei sensi riuscirono ad afferrare furono “Non ho paura di uccidere gli americani. Il
brasiliano dice che se li ammazziamo ci darà un fucile nuovo.”
“Li vuoi uccidere, allora?”
“Si, gli sparerò mentre dormono.”
Questa discussione avveniva tra l’oscurità della giungla a meno di trenta metri dalla nostra
capanna. Quasi tutti gli uomini del villaggio erano ubriachi a causa del rum di canna da
zucchero di Ronaldinho. Ma Ronaldinho non aveva solo dato loro cachaca. Li aveva incitati
ad uccidere me e la mia famiglia, offrendo un fucile nuovo di zecca a chiunque avesse
compiuto il tutto. Sedetti sul letto, Keren era completamente sveglia accanto a me.
Questa era solamente la nostra seconda visita tra i Piraha. Eravamo rimasti nel villaggio per
sette mesi consecutivi. Adesso parlavo la loro lingua bene abbastanza da capire che
discutevano l’ucciderci. Capivo che si stavano incoraggiando l’un l’altro. E sapevo che
qualcosa sarebbe successo presto se non avessi agito. I bambini dormivano nelle loro
amache. Shannon, Kristene, e Caleb ignoravano in quale pericolo i loro genitori li avessero
cacciati.
Tirai via la zanzariera intorno al letto e, cosa molto insolita, uscii di casa nell’oscurità, senza
torcia per non attirare attenzione, indossando solo le mutande e le ciabatte che stavano ai
piedi del letto. Camminai con cautela tra la giungla fino alla capanna dove gli uomini si
stavano facendo coraggio per ucciderci. Come se la tensione non fosse abbastanza, dovevo

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stare attento a non calpestare un serpente nel buio, anche se la distanza da percorrere era
solo di qualche decina di metri.
Non sapevo cosa aspettarmi dai Piraha. Ero così scioccato dai loro discorsi che sentivo di
non conoscerli più come pensavo. Magari mi avrebbero ucciso appena mi avessero potuto
vedere. Ma non potevo lasciare che la mia famiglia stesse li in attesa che i Piraha venissero
ad ucciderci.
Capii dove si erano radunati - nella piccola casa costruita in origine da Vicenzo. Osservando
dalla giungla attraverso le stecche di palme della casa, vidi che sedevano intorno alla luce
tremolante di una lamparina - una piccola lampada a benzina, comune nell’Amazzonia, che
contiene pochi centilitri di cherosene e uno stoppino di stoffa che vien fuori da una sottile
apertura, il tutto somigliando alle illustrazioni della lampada di Aladino nelle Mille e una
Notte. Queste lamparinas emettono una luce tenue e arancione che da alle persone un
aspetto inquietante nel buio, le loro facce appena illuminate si confondono quasi
indistintamente con l’oscurità attorno.
Ripresi fiato silenziosamente all’aperto, cercando di decidere come presentarmi nel modo
meno aggressivo possibile. Alla fine, semplicemente entrai nella capanna con un gran
sorriso e dissi nel mio miglior Piraha, “Hey, ragazzi! Come va?”
Continuai a parlare del più e del meno mentre camminavo per la capanna raccogliendo
frecce, archi, due fucili, e un paio di macete. I Piraha mi fissavano con occhi spenti e
assonnati dall’alcol, in silenzio. Prima che potessero reagire, avevo preso tutto. Uscii dalla
capanna svelto e senza nessun avviso, nell’oscurità, avendoli con successo disarmati. Non
m’illusi che ciò bastasse a mettere me e la mia famiglia al sicuro. Però ridusse la minaccia
nell’immediato. Portai le armi nella nostra casa e le chiusi nello sgabuzzino. Il commerciante
di fiume che aveva dato il cachaca ai Piraha dormiva nella sua barca, ancora attraccato al
pontile di fronte alla mia casa. Decisi di cacciarlo via. Prima, pensai, dovevo mettere al
sicuro la mia famiglia.
Chiusi Keren e i bambini nello sgabuzzino, l’unica stanza ad avere muri interi e una porta.
Era una stanza buia in cui ci era capitato di dover uccidere più di un serpente, alcuni ratti, e
un sacco di millepiedi, scarafaggi, e tarantole. I bambini non erano al corrente di ciò che
stava succedendo e quando li svegliammo erano intontiti e appena coscienti. Si sdraiarono
sul pavimento senza protestare. Keren chiuse la porta dall’interno.
Poi m’incamminai lungo la riva verso la barca, che la rabbia che cresceva ad ogni passo.
Lungo il tragitto però, tornai a riflettere sul fatto che non avevo visto ne il mio insegnante,
Kohoi, ne il suo fucile. Quasi nello stesso istante sentii la vocce di Kohoi provenire dai
cespugli sulla riva proprio dietro di me. “Adesso ti sparo, ti uccido.”
Mi voltai verso la voce, aspettandomi di sentire l’esplosione del suo fucile colpirmi in faccia o
sul petto. Si avvicinò a me, uscendo dai cespugli, vacillando. E vidi con sollievo che non era
armato.
Chiesi, “Perchè vuoi uccidermi?”
“Perchè il brasiliano ha detto che non ci paghi abbastanza, e poi dice che tu gli hai detto che
poteva anche non pagarci se lavoravamo per lui.”
Parlavamo in Piraha, anche se per la prima minaccia aveva usato un portoghese
rudimentale - “Eu maTA boSAY” (Ti uccido).
Se non avessi saputo parlare Piraha, probabilmente non sarei sopravvissuto alla notte. Io e
Kohoi continuammo a parlare in Piraha con la tipica pronuncia discontinua (ha questo suono
a causa di una consonante, lo stop di glottide, che è presente nel Piraha ma non
nell’inglese). Mi sforzai e mi concentrai come non mai per trasmettere ogni pensiero in

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maniera chiara a Kohoi. Dissi, “Xaoi xihiabaihiaba. Piitisi xihixoihiaaga” (Lo straniero non
paga. Il whisky [che vi da] non costa niente).
Kohoi rispose, “Xumh! Xaoi bagiaikoi. Hiatiihi xogihiaba xaoi” (Wow. Lo straniero ci deruba. I
Piraha non lo vogliono).
“é il brasiliano che non vuole pagarvi,” continuai. “Tutto quello che voleva darvi era acqua
amara” (come i Piraha chiamano il cachaca). “E questo perchè a lui non costa niente. Gli
costerebbe di più se vi pagasse con la farinha, i proiettili, lo zucchero, il latte, o qualsiasi
altra cosa, come io gli ho detto di fare.”
La comprensione che i Piraha avevano del commerciante brasiliano era distorta anche dalla
loro estremamente limitata conoscenza del portoghese. Pochi di loro conoscevano più di
una manciata di parole. Si poteva dire che nessuno sapesse parlare portoghese oltre
qualche frase di convenevoli.
Avevamo continuato a scendere lungo la sponda del fiume mentre parlavamo. A questo
punto Ronaldinho ci guardava dalla cabina della sua barca. Mi fissava sorpreso.
Improvvisamente, Kohoi gridò verso di lui, “Piraha maTA boSAY.”
L’espressione di Ronaldihno cambiò e lui sparì momentaneamente. Poi il motore della barca
si azionò. Cercò di salpare. Ma nel panico aveva dimenticato di togliere gli ormeggi. Non
andava da nessuna parte. Un Piraha dormiva sul ponte sulla nave. Ronaldinho spinse
l’uomo in acqua e tagliò con un macete la corda che teneva ormeggiata la barca. Senza dire
una parola si voltò e la sua barca s’immerse nell’oscurità del fiume Maici.
Toucan, l’uomo che Ronaldinho aveva spinto giù dalla barca, emerse in superficie fradicio e
ancora mezzo addormentato. Poi sentii la voce di Keren. Mi aveva raggiunto sulla sponda
per controllare cosa stessi facendo. Alcuni uomini, incluso Xahoabisi, quello che più degli
altri aveva espresso l’intenzione di ucciderci, la strattonavano da una parte all’altra,
spingendola sempre più vicino alla sponda del fiume. Corsi su lungo la sponda verso Keren.
In quel momento non ero più un missionario, un linguista, e neanche una persona per bene.
Ero pronto a far del male se necessario. Gli uomini indietreggiarono, borbottando parole
incoerenti frutto del cachaca, e s’incamminarono nell’oscurità verso la capanna più vicina.
Notai che il villaggio era completamente al buio. Le donne avevano spento colla terra i
fuochi che normalmente illuminvano costantemente le capanne e si erano rifugiate tra la
vegetazione della giungla, per nascondersi dai loro mariti.
Dissi a Keren di tornare nello sgabuzzino e lei fu prontamente d’accordo. La accompagnai a
casa, e mentre lei rientrava nella stanzetta io raccolsi uno dei fucili che avevo poco prima
sequestrato ai Piraha. Mi assicurai che fosse scarico e, nonostante la stanchezza, sedetti su
una panca nel nostro soggiorno per far guardia alla mia famiglia.
Più di un uomo si avvicinò alla nostra casa durante la notte, ma mentre approcciavano la
capanna, potevo sentire gli altri che li avvertivano, “Dan ha tutte le armi adesso”. A quel
punto gli uomini si avvicinavano non per farci del male ma per chiedermi beni da poter
commerciare o carne in scatola. Sapevano che noi eravamo spaventati e cercavano di
sfruttare la situazione per ottenere del cibo da noi. Avevano comunque un atteggiamento
aggressivo - ora non solo verso di me, ma anche tra di loro.
D’improvviso persero interesse in noi e andarono andarono avanti a litigare tra di loro.
Xahoapati, un altro dei miei insegnanti soliti, venne da me per scusarsi del fatto che gli altri
ci avessero minacciati. Parlava biascicando e in modo confuso a causa dell’alcol: “Ko Xoo.
Hiaitiihi hi xaaapapaaaai baaaaaabikoi. Baia...baia....baia...baia, baiaisahaxa. Ti xaaoo
pihiabiiiiiga” (Hey Dan. I Piraha hanno la testa confusa ora. Non, uh, non, uh, non aver
paura. Non sono arrabbiaaaato).

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I suoi pantaloncini erano fradici di diarrea, che gli gocciolava lungo le gambe. La parte
destra del viso era ricoperta di muco gelatinoso. Xabagi in quel momento stava cercando di
azzuffarsi con un giovane ragazzo, proprio al di fuori della nostra capanna, brandendo un
machete.
Vidi una freccia volare proprio di fronte alla nostra casa, era un Piraha non identificato che
cercava di colpire un altro Piraha il cui volto non riuscii a riconoscere nel buio, ma lo mancò.
L’uomo bersaglio della freccia stava in piedi proprio all’angolo della casa di Kohoi, a circa sei
metri dalla nostra casa. Nessuno scagliò frecce verso di me.
Alla fine fui troppo stanco. Nonostante il pericolo, verso le 4 di mattina, mi ritirai anch’io nello
stanzino, dove speravo di poter dormire un’ora o due. Sentivo i Piraha entrare nella nostra
casa e azzuffarsi, nella stanza principale, nella stanza del retro, e anche davanti alla porta
dello stanzino. Ma ero troppo stanco per far qualcosa. Volevo dormire.
All’alba venimmo fuori dallo stanzino con cautela. Eravamo tutti doloranti e irrigiditi dal
dormire sulle tavole del pavimento. Alla luce del mattino potevamo vedere spruzzi di sangue
sui muri e piccole pozze di sangue sui pavimenti di ogni stanza della casa. Le lenzuola
bianche del nostro letto erano macchiate anche loro di sangue in più punti. Vedevo uomini
che vagavano per il villaggio con i pantaloncini sporchi dei loro stessi escrementi, le facce
insanguinate, lividi, occhi neri, e altri effetti del testosterone e dell’alcol. Shannon e Kristene
si spaventarono quando videro il sangue; Caleb era troppo piccolo per capire che
succedeva. Ma nessuno si avvicinò a noi. Gli uomini camminavano barcollando, tenendosi
volutamente lontano dalla nostra casa.
Più tardi quel giorno, dopo che tutti fecero una bella dormita e la sbronza passò, gli uomini
Piraha vennero alla nostra casa per scusarsi, con le donne alle loro spalle che suggerivano
loro ad alta voce le scuse da rivolgerci.
Kohoi parlò per gli uomini: “Ci scusiamo. Le nostre teste non funzionano quando beviamo e
facciamo cose sbagliate.”
“Ma dai?!” , pensai.
Dopo quello che avevamo passato, non sapevo se fidarmi o no. Ma sembravano sinceri. E
le donne ora si rivolsero a Keren e me gridando, “Non ve ne andate. I nostri bambini hanno
bisogno delle medicine. State qui con noi. C’è tanto pesce e tanta selvaggina da mangiare
qui e il Maici ha un bel clima.”
Alla fine fummo tutti d’accordo con la ragionevole argomentazione che fosse meglio non
ucciderci, perchè eravamo amici.
“Allora, voi potete bere o fare quel che volete,” dissi. “Questa è la terra dei Piraha. Questa
non è la mia giungla. Io non sono il capo qui. I Piraha comandano qui. Questa è la vostra
terra. Ma avete spaventato i miei bambini. Se volete che resti qui, non potete minacciare di
uccidermi e spaventare i miei bambini. OK?”
“OK!” loro replicarono in coro. “Non vi spaventeremo ne vi uccideremo.”
Nonostante le scuse e le rassicurazioni dei Piraha che tutto ciò non sarebbe mai più
successo, sapevo che dovevo risolvere le incomprensioni di fondo che erano emerse la
notte prima. Dovevo capire come fosse possibile che venisse loro in mente addirittura di
uccidere la mia famiglia. Ero un ospite presso i Piraha. Se li avevo in qualche modo offesi al
punto da contemplare la mia uccisione, avrei dovuto capire quale fosse questo
comportamento offensivo da me tenuto, in modo da evitarlo in futuro.
Decisi di parlare dell’incidente più in dettaglio con alcuni uomini. Xahoabisi sembrava
arrabbiato con me e si accigliava ogni volta che mi avvicinavo alla sua casa. Avevo bisogno
di parlargli, per capire dove avessi sbagliato.

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Un giorno presi un termos con del caffè dolce, due tazze, dei biscotti e mi recai alla capanna
di Xahoabisi.
“Hey, dì ai cani di non attaccarmi!” gridai seguendo il modo tradizionale Piraha di avvicinarsi
presso la capanna degli altri. “Vuoi del caffè? Ci ho messo un sacco di zucchero! E ho pure
dei biscotti.”
Xahoabisi sorrise e disse che potevo entrare nella capanna. Borbottò ai cani, sei piccoli
bastardini simili a ratti che erano però ferocissimi e senza paura (ho visto questi cani di 5
chili attaccare gatti selvatici e cinghiali per proteggere i loro padroni), e loro si accucciarono
ai suoi piedi. Ringhiando e latrando, si trattennero dall’azzannarmi, almeno per il momento.
Diedi a Xahoabisi del caffe e un paio di biscotti.
“Sei arrabbiato con me?” chiesi.
“No”, rispose, dopo aver sorseggiato il suo caffè. “I Piraha non sono arrabbiati con te.” (è
comune tra singoli Piraha esprimere le loro opinioni come se provenissero dall’intera
comunità, anche se magari erano solo le loro personali opinioni.)
“Beh, l’altra notte sembravi molto arrabbiato.”
“Ero arrabbiato. Non sono arrabbiato adesso.”
“Perchè eri arrabbiato?”
“Hai detto ai brasiliani di non venderci il whisky.”
“Si”, ammisi. “Il FUNAI ha detto che nessuno dovrebbe vendere whisky qua. Le vostre
donne mi hanno detto di far si che nessuno vi venda del whisky.” (I Piraha sapevano più o
meno cosa fosse il FUNAI, perchè alcuni rappresentanti si recavano qui di tanto in tanto.
Avevano capito che il FUNAI esercitava un qualche tipo di autorità sopra i brasiliani della
regione.)
“Tu non sei un Piraha,” lui dichiarò. “Tu non mi dici che non posso bere. Io sono un Piraha.
Questa è la giungla dei Piraha. Questa non è la tua giungla.” Xahobisi iniziava a scaldarsi un
poco.
“OK,” risposi, desiderando che ci fosse un modo nella lingua Piraha per dire letteralmente
“Mi dispiace”. Continuai, “Non ti dirò cosa fare. Questa non è la mia giungla. Ma i miei
bambini erano impauriti quando i Piraha si sono ubriacati. Anche io avevo paura. Non
rimarrò qui se voi volete che me ne vada.”
“Voglio che tu rimani,” Xahoabisi rispose. “I Piraha vogliono che tu rimanga. Ma non dirci
cosa dobbiamo fare!”
“Non vi dirò cosa fare,” promisi, imbarazzato per aver dato quell’impressione.
Parlammo ancora un po di argomenti più leggeri, come la pesca, la caccia, i bambini, e i
commercianti fluviali. Poi mi alzai e tornai con le mie tazze da caffe e il termos vuoto alla mia
capanna, circa sei metri più in la. Mi sentii imbarazzato e rammaricato. Realizzai che avevo
quasi disastrosamente frainteso la percezione che i Piraha avevano del mio ruolo tra la loro
gente. Pensavo che mi vedessero come un protettore e una figura autorevole, ero il
missionario. Le mogli degli uomini che avevano bevuto di più, Xibaihoixoi (moglie di
Kohoibiiihiai), Xiabikabikabi (moglie di Kaaboogi), Baigipohoai (moglie di Xahoabisi), e Xiako
(moglie di Xaikaibai), mi avevano detto che i missionari precedenti, Arlo Heinrichs e Steve
Sheldon, non permettevano che si vendesse whisky.
In seguito, quando verificai con Arlo e Steve, loro ridacchiarono e mi dissero di non aver mai
suggerito ai Piraha o ai commercianti fluviali brasiliani cosa fare e cosa non fare.
Apparentemente le donne mi riferirono il contrario perchè non volevano che i loro mariti
bevessero e pensavano che io fossi l’unico in grado di impedire ciò. Ma ovviamente questi
non erano alla fin fine affari miei. Non ero lo sceriffo del villaggio. Cedendo facilmente alle
richieste delle donne, avevo messo in pericolo la mia vita e quella della mia famiglia. E

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avevo anche messo a rischio il buon rapporto che avevo con gli uomini Piraha. Non capivo
questa gente ancora fino in fondo.
Qualche settimana più tardi, un altro commerciante fluviale diede ai Piraha una grossa
quantità di cachaca. Me ne accorsi solo dopo che il commerciante aveva lasciato il villaggio,
perchè tutti gli uomini scomparsero. Dopo qualche ora iniziai a sentire gli uomini che
ridevano, e poi gridavano vantandosi di quanto fossero coraggiosi e forti, si dicevano l’un
l’altro cose del tipo “Ti prendo a schiaffi”. Si comportavano come gli uomini ubriachi fanno in
tutto il mondo. Il comportamento di quel cowboy che era mio padre era non diverso da quello
dei Piraha.
Non ero del tutto a mio agio però. Non avrei potuto sopportare essere per un’altra volta
bersaglio delle bravate di uomini ubriachi. Visto che era pomeriggio presto, io e Keren
decidemmo di caricare delle provviste sulla nostra barca e passare la notte a casa di
Aprigio, più a monte sul fiume, a circa 15 minuti di navigazione. Aprigio e la sua famiglia
erano Indiani Apurina. I loro genitori erano stato portati sul Maici più di sessant’anni fa dal
governo brasiliano per iniziare un contatto coi Piraha. Mentre facevamo i bagagli, Kohoi
improvvisamente entrò nella nostra capanna con tra le braccia dei fucili, archi, e frecce.
“Ecco,” disse sorridendo, biascicava a causa dell’alcol. “Adesso non c’è bisogno che vi
spaventate. Avete le armi.”
In un certo senso apprezzai il gesto. Ma i Piraha quando bevevano provavano chiaramente
sentimenti contrastanti riguardo la nostra presenza tra loro. Decidemmo comunque di recarci
presso Aprigio per ridurre la tensione tra i Piraha e il pericolo per noi. La violenza alcolica dei
Piraha era un problema che non avevamo anticipato, un problema recente, così sembrava -
i missionari precedenti ci dissero tempo dopo che non avevano mai notato i Piraha ubriachi
o violenti. Ma il villaggio era rimasto per quasi tre anni senza la presenza di un missionario
prima del nostro arrivo, quasi quattro senza contare la prima esperienza non positiva della
mia famiglia nel 1979 o il mio soggiorno di dieci giorni un paio di anni prima. Quindi le cose
erano cambiate senza la presenza inibitoria dei missionari.
Avevo evitato di approfondire lo studio della loro cultura, credo, perchè ne ero stato
inizialmente deluso. I Piraha non indossavano piume, non avevano elaborati rituali, non
pitturavano i loro corpi, ne mostravano avere altre esotiche e stravaganti manifestazioni di
cultura come invece molti altre tribù dell’Amazzonia avevano. Non avevo ancora realizzato
quanto inusuali fosseri i Piraha dal punto di vista culturale, ed anche linguistico. La loro
cultura era più discreta ma trasmetteva potenti valori conservativi e influenzava fortemente
la loro lingua. Ma siccome ancora non l’avevo capito, mi rifugiai nell’autocommiserazione,
pensando che stavo pur sempre lavorando con “gente interessante”. Molte giornate gli
uomini non facevano altro che sedere attorno alle braci di un fuoco a parlare, ridere,
scorreggiare, e tirare fuori patate arrosto da sotto il carbone. Occasionalmente,
aggiungevano a questa routine una spiritosa tirata di genitali reciproca e via a ridere come
se fossero i primi sulla terra a fare una cosa così simpatica. Speravo di vedere villaggi come
quelli che avevo studiato durante i corsi di antropologia, come i villaggi Yanomami con le
loro capanne aperte costruite intorno una piazza centrale, i villaggi Ge disposti a ruota di
carro, cone le case posizionate alla fine dei raggi. Mi sembrava che i villaggi Piraha non
avessero nessuna organizzazione. Essi erano perennemente ricoperti di erbacce, il che
attirava gli insetti e i serpenti. Perchè non potevano almeno dare una ripulita al posto e
liberarsi della spazzatura nel loro villaggio? Ho visto Piraha dormire ricoperti di centinaia di
scarafaggi brulicanti e li ho sentiti russare con soddisfazione mentre le tarantole strisciavano
sui loro corpi.

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Doveva esserci qualcosa di più oltre la superficialità di questo stile di vita che le mie ricerche
non riuscivano a rivelare. Ero determinato a procedere nell’analisi della loro cultura nel modo
più professionale che potessi. Mi affidai all’osservazione e al fare domande. Prima osservai
la loro vita quotidiana, le relazioni familiari, la costruzione delle capanne, l’urbanistica del
villaggio, l’educazione dei bambini, la socializzazione, e così via, seguendo le guide di studi
antropologici a mia disposizione. Poi, decisi di indagare più a fondo le loro credenze e il loro
mondo spirituale, i loro miti, e la loro religione. Dopo ancora volli osservare la loro gerarchia
sociale. Infine, volli costruire una teoria basata sulle mie osservazioni che spiegasse
l’identità Piraha. A quel tempo avevo solo una conoscenza minima delle teorie
antropologiche, quindi mi muovevo più o meno alla ceca.

5. Cultura Materiale e Assenza di Rituale

Fin dalla prima volta che incontrai i Piraha volli capirne meglio la cultura. Pensai che fosse
meglio iniziare dalle cose più semplici, come la loro cultura materiale, piuttosto che, invece,
le loro credenze e i loro valori morali. Dato che la maggior parte del tempo nel villaggio lo
spendevano all’interno delle loro capanne, volevo vedere come venivano costruite. Ne ebbi
l’occasione un giorno, quando Xaikaibi decise di costruirne una. Il tipo di capanna che stava
costruendo era quello più solido dei due tipi di capanne che si costruiscono tra i Piraha,
chiamato kaii-ii (figlia-cosa).
Le case Piraha sono notevolmente semplici. Oltre alla “figlia-cosa” vi è anche il tipo xaitaii-ii
(palma-cosa), una costruzione meno solida. La “palma-cosa”, usata principalmente per
fornire ombra sulla spiaggia, consiste semplicemente di stecche che supportano un tetto
coperto di qualsivoglia tipo di grandi foglie, anche se di solito si usano foglie di palma.
Queste costruzioni servono unicamente per creare zone d’ombra per i bambini. Gli adulti
dormono sulla sabbia e siedono sotto il sole tutto il giorno, occasionalmente piazzando nella
sabbia singole foglie di palma in verticale per ripararsi un poco dai forti raggi solari. La “figlia-
cosa” è più robusta, anche se entrambi i tipi di costruzioni vengono abbattuta dai venti di una
tempesta. Mentre per abbattere una “figlia-cosa” ci vuole una forte tempesta, una semplice
raffica di vento è sufficiente a rovesciare varie “palma-cosa”.
Le case Piraha rivelano importanti differenze tra la loro cultura e la nostra. Quando penso
alle case Piraha, spesso torna in mente il suggerimento che Henry David Thoreau da
nell’opera Walden, ossia che tutto quello di cui una persona ha veramente bisogno è una
grande scatola da potersi portare appresso per proteggersi dagli elementi. I Piraha non
hanno bisogno di muri per difendersi, il villaggio stesso è una difesa - tutti gli abitanti del
villaggio si aiuteranno a vicenda. Non necessitano case per dimostrare la loro ricchezza,
perchè i Piraha sono tutti uguali in ricchezza materiale. Non hanno bisogno di case per la
loro privacy, perchè essa non è una necessità particolarmente sentita - e qualora la privacy
fosse necessaria per il sesso, espletare una necessità, o qualsiasi altra cosa, l’intera giungla
era disponibile, oppure ci si può allontanare dal villaggio in canoa. Le case non necessitano
di riscaldamento o aria condizionata, perchè la giungla fornisce un clima quasi perfetto per
uomini e donne che siano vestiti in modo leggero. Le case sono solo luoghi dove dormire
moderatamente al riparo dalla pioggia e dal sole. Sono luoghi dove tenere i cani e i pochi
possedimenti che una famiglia necessita. Ogni casa è solo un rettangolo formato da tre file
di tre pali ognuna, con la fila centrale più alta delle due laterali per permettere la forma
spiovente del tetto.

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Xaikaibai iniziò a costruire il kaii-ii dai supporti che tengono il tetto e la piattaforma sulla
quale si dorme. Tagliò per prima cosa sei pali di legno imputrescibile della lunghezza
approssimativa di tre metri. I Piraha conoscono parecchie specie di alberi; questa in
particolare è chiamata quariquara in portoghese e xibobiihi kohoaihiabisi (formiche non
mangiano) in Piraha. Poggiò i pali presso il luogo dove voleva che la casa sorgesse, poi
scavò una buca usando il suo macete e le mani e infilò tutti i pali a mani nude a circa mezzo
metro di profondità nel terreno. Poi pose altri pali in orizzontale all’estremità di quelli piazzati
nel terreno, collegando gli uni agli altri. I pali orizzontali erano legati a quelli verticali con
delle corde di fibre vegetali, tagliate a metà in lungo così da renderle più elastiche.
I pali verticali piazzati nel terreno erano di due lunghezze diverse. Quattro di loro avevano la
stessa lunghezza. Mentre quelli centrali di ogni lato della struttura erano oltre un metro più
alti degli altri. I pali erano a una distanza di mezzo metro o un metro gli uni dagli altri. I pali
del perimetro esterno erano intagliati all’estremità superiore in modo da poter supportare
meglio i lunghi pali orizzontali che percorrevano il perimetro.
Poi Xaikaibai iniziò a sistemare il tetto di foglie di palma. Raccolse le foglie da zone della
giungla distanti alcune miglia oltre la sponda opposta del fiume. Le foglie vengono dai
germogli giovani e gialli di una specie di palma che i Piraha chiamano xabiisi. Diversi faticosi
viaggi furono necessari per tagliare, legare insieme, e trasportare le foglie alle canoe e poi al
villaggio. Quando le foglie furono raggruppate presso la struttura della capanna, lui le “aprì”.
Durante questo processo le giovani foglie di palma, lunga circa due metri e mezzo, vengono
tirate fino a formare una superficie piatta. Poi vengono posate sui pali orizzontali in gruppi di
tre o quattro foglie e fissate ai pali da corde di fibre o di corteccia. Poi Xaikaibai fissa questi
mazzi di foglie di palma a distanza di 15 cm l’uno dall’altro partendo dalla parte bassa del
tetto e arrivando sino alla parte più alta e centrale. Il risultato di questi sforzi fu un tetto a
prova di pioggia e a prova di caldo. Le foglie di palma attenuano anche il rumore della
pioggia. Tuttavia queste foglie presentano anche degli svantaggi. Quando sono secche,
sono particolarmente infiammabili. Costituiscono inoltre un habitat perfetto per i parassiti. Le
foglie devono essere sostituite ogni pochi anni.
Xaikaibai aveva quasi finito la sua capanna. Per ultima cosa, costruì una piccola piattaforma
rialzata ad una estremità all’interno della casa. La struttura per la piattaforma era fatta di
solidi pali di legno. La piattaforma invece era fatta di fusti di piccole palme paxiuba, ogunono
tagliato a metà in lungo, con la parte interna e piatta che poggiava sulla struttura di pali di
legno, e fissati con corde di corteccia.
Quello sarebbe stato il suo letto ed era circa un metro e mezzo. Le capanne Piraha sono
fresche, relativamente solide, e - quando le braci di un fuoco brillano all’interno di esse -
accoglienti. Sedevo spesso su quelle piattaforme per dormire, con uno o più Piraha al mio
fianco, a parlare della giornata passata a pescare o di altri lavori, sempre cercando di
imparare nuove parole o nuovi costruzioni grammaticali in quell’ambiente rilassante. è
difficile non assopirsi mentre si chiacchiera tra i Piraha, sono così rilassati, persino quando si
conversa di cose come un giaguaro avvistato da qualcuno mentre era a caccia.
Sapevo già che la loro cultura materiale era tra le più semplici conosciute. Costruiscono
veramente pochi utensili, quasi nessun tipo di arte, e pochissimo artigianato. Probabilmente i
loro utensili più degni di nota sono i larghi, potenti archi (quasi due metri in lunghezza) e
frecce (lunghe dai due ai tre metri). Per fare un arco si impiegano circa tre giorni - un giorno
per trovare uno tra la dozzina di tipi di legno adatti e due giorni per modellare e intagliare
l’arco vero e proprio. Mentre l’uomo lavoro all’arco, sua moglie, sua madre, o sua sorella
ricava la corda da della morbida corteccia d’albero, arrotolata sottilmente usando le cosce
come piano di lavoro. Poi ogni per fare ogni freccia si impiegano all’incirca tre ore - trovare il

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materiale per la stecca della freccia, riscaldarlo sul fuoco e raddrizzarlo, fare poi la punta dal
bamboo (per la caccia grossa), oppure dal legno duro affilato (per le scimmie), oppure un
lungo, sottile pezzo di legno con la punta affilata a forma di ago (per il pesce). Le piume e la
punta sono legate con del cotone tessuto a mano. Ho visto cinghiali trafitti come uno spiedo
- la freccia che entrava dal di dietre fino a spuntare dalla gola dell’animale.
Dei pochi artefatti prodotti dai Piraha, nessuno è permanente. Per esempio, se necessitano
di un cesto per trasportare qualcosa, semplicemente intrecciano qualche foglia di palma
bagnata sul momento. Dopo uno o due utilizzi le foglie si essicano e il cesto diventa fragile,
alchè viene semplicemente abbandonato. Utilizzando le stesse abilità artigiane mostrate nel
fare questi cesti usa e getta, ne potrebbero fare di altri molto più durevoli, semplicemente
selezionando del materiale più durevole (come il vimini). Ma non lo fanno, conclusi, perchè
semplicemente non vogliono. Il che è interessante. Tutto ciò indica un interesse nel fare le
cose sul momento.
Altri oggetti di artigianato includono le collane. I Piraha le usano per tenere lontani gli spiriti
ed anche per gli ovvi fini estetici. Donne, ragazze, e bambini di entrambi i sessi le
indossano. Le donne fanno le collane utilizzando semi e fili di cotone tessuto a mano,
decorandole ulteriormente con denti, piume, perline, levette per aprire le lattine di birra, e
altri oggetti. Le collane raramente mostrano un qualche tipo di simmetria e sono molto
rudimentali e non attraenti rispetto all’artigianato simile di altre tribù della regione, come i
Tenharim e i Parintintin, famosi per i loro bellissimi copricapi di piume, le collane di zanne di
giaguaro, cesti e setacci finemente intrecciati, e utensili per la lavorazione della manioca.
Per i Piraha invece, la funzione decorativa delle collane è solo secondaria, esse servono
infatti prima di tutto per tenere lontano gli spiriti maligni che i Piraha vedono quasi tutti i
giorni. Le piume e i colori sgargianti delle collane servono per rendersi facilmente visibili
dagli spiriti cosicchè questi non vengano colti di sorpresa - come gli animali selvatici, gli
spiriti sono più propensi all’attacco quando colti di sopresa. Gli ornamenti Piraha hanno una
funzione pratica nell’immediato e comportano poca se non nessuna pianificazione o
preoccupazione per i canoni classici dell’estetica quali la simmetria. Chiaramente potrebbero
creare ornamenti più durevoli ma scelgono di non farlo.
I Piraha sanno costruire le canoe con un tipo di corteccia - chiamata kagahoi - ma raramente
lo fanno, preferendo rubare o barattare per ottenere le più solide piroghe e canoe fatte dai
brasiliani, chiamate xagaoas. Nonostante i Piraha dipendano enormemente da queste canoe
più solide per praticare la pesca, per il trasporto, per le attività di svago sul fiume, mi ha
sempre affascinato come non si disturbino a costruirsele da soli. Tuttalpiù che non ce ne
sono mai abbastanza per tutte le famiglie nel villaggio. Anche se le canoe hanno dei
proprietari individuali e quindi non sono, tecnicamente parlando, proprietà comune, in pratica
i proprietari delle canoe le prestano sia ai figli, ai parenti più stretti, o ad altre persone del
villaggio. Usare la canoa di qualcun altro implica che il pesce catturato utilizzando quella
canoa debba essere diviso col proprietario dell’imbarcazione. Comprare nuove canoe per il
villaggio è sempre cosa difficile a farsi per i Piraha, non mi sorprese dunque quando un
giorno si rivolsero a me per dell’aiuto.
“Dan, puoi comprarci una canoa? Le nostre canoe stanno marcendo,” gli uomini mi dissero
un giorno di punto in bianco, mentre sedevano in casa mia a bere caffè.
“Perchè non ne costruite una?” chiesi.
“I Piraha non fanno canoe. Non sappiamo come farle.”
“Ma io so che sapete fare delle canoe di corteccia; vi ho visto farne alcune,” ribattei.
“Le canoe di corteccia non possono trasportare cose pesanti. Un uomo, un poco di pesce,
niente di più. Solo le canoe brasiliane sono buone. Le canoe dei Piraha non sono buone.”

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“Chi fa canoe da queste parti?” chiesi loro.
“A Pau Queimado ne fanno,” gli uomini risposero, quasi all’unisono.
A quanto pare non costruivano canoe di tronchi solidi perchè non sapevano come farle,
decisi quindi di aiutarli a imparare. Visto che i migliori costruttori di canoe della zona
vivevano nel villaggio di Pau Queimado, a qualche ora di navigazione sul fiume Marmelos,
decisi di provare a ingaggiare uno di questi costruttori per venire circa una settimana qui al
villaggio Piraha ad insegnar loro come fare le canoe alla maniera brasiliana. Il miglior
costruttore di canoe di Pau Queimado, Simpricio, accettò l’offerta.
Quando arrivò, i Piraha si riunirono entusiasti pronti a imparare la sua arte. Come ci
eravamo messi d’accordo, Simpricio lasciò ai Piraha la costruzione vera e propria, mentre lui
faceva da supervisore dando precise istruzioni agli uomini che lavorano. Dopo circa cinque
giorni di sforzi intensi, costruirono finalmente una bella canoa scavata in un tronco e con
orgoglio me la mostrarono. Comprai gli attrezzi necessari per costruirne altre. Poi pochi
giorni dopo che Simpricio se ne andò, i Piraha mi chiesero nuovamente di comprare un’altra
canoa. Dissi loro che adesso potevano costruirsela da soli. Loro dissero, “I Piraha non
costruiscono canoe” e si allontanarono. Che io sappia nessun Piraha ha mai più costruito
un’altra canoa da allora. Questo mi insegnò che i Piraha non assorbono facilmente la
conoscenza straniera ne le abitudini lavorative straniere, sempre che non le rifiutino del
tutto, non importa quanto utili quelle conoscenze possano essere.
I Piraha sanno come conservare la carne - quando partono per un luogo dove presumono di
incontrare dei brasiliani, i Piraha salano la carne (se hanno del sale a disposizione) oppure
la affumicano, per preservarla. Ma quando stanno nel villaggio non conservano mai la carne.
Non ho mai visto altre tribù non interessate a conservare la carne come invece sono i
Piraha. I Piraha consumano il cibo appena è stato cacciato o raccolto. Non conservano
niente (gli avanzi vengono consumati finchè c’è n’è, anche a costo di mangiare carne che
inizia ad imputridire). I cesti e il cibo sono progetti a breve termine.
Una delle ragioni per cui trovo curiose le attitudini dei Piraha verso il cibo è la poca
importanza che essi danno all’argomento cibo rispetto alla cultura occidentale. Ovviamente
devono mangiare per vivere. E provano piacere nel mangiare. Qualora vi sia del cibo a
disposizione nel villaggio, loro ne mangiano sino a finirlo. Ma la vita è fatta di pirorità, e il
cibo ha una importanza diversa tra genti e culture diverse. I Piraha mi hanno spiegato come
mai certi giorni non vanno ne a pesca ne a caccia nonostante abbiano fame. Invece
passano la giornata a giocare a rincorrersi o giocano con la mia carriola, oppure
semplicemente stanno sdraiati a parlare.
“Perchè non pescate” ho chiesto.
“Oggi staremo a casa,” qualcuno rispose.
“Non avete fame?”
“I Piraha non mangiano tutti i giorni. Hiatiihi hi tigisaaikoi” (I Piraha sono duri). “Americano
kohoibaai. Hiaitiihi hi kohoaihiaba” (Gli americani mangiano molto. I Piraha mangiano poco).
I Piraha vedono il digiuno come un esercizio per fortificarsi. Saltare un pasto o due, o
persino stare un giorno intero senza mangiare, è visto come una cosa normale. Ho visto
persone ballare per tre giorni di fila facendo solo brevi pause, senza andare cacciare, o a
pesca, o senza raccogliere frutta o altro - e senza alcun cibo messo da parte.
Quanto cibo i non-Piraha mangino in più rispetto ai Piraha è osservabile dalla reazione dei
Piraha quando visitano la città. I Piraha che visitano la città per la prima volta sono sempre
sorpresi dalle abitudini alimentari occidentali, specialmente dal fatto che si facciano tre pasti
al giorno.

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Durante il primo pasto di una giornata in città un Piraha di solito si abbuffa - consumando
grandi quantità di proteine e amidi. Durante il secondo pasto della giornata in città fanno la
stessa cosa, si abbuffano. Arrivati al terzo pasto della giornata iniziano a mostrare segni di
frustrazione. Sembrano confusi. Spesso chiedono, “Stiamo mangiando di nuovo?”. La loro
pratica di mangiare fino a che vi sia del cibo disponibile ora è in conflitto con le circostanze
della città, in cui il cibo è sempre a disposizione e non finisce mai. Spesso, dopo una
permanenza in città di tre o sei settimane, un Piraha torna al villaggio pesando fino a
quindici chili in più di quando era partito, con rotoli di grasso sulla pancia e sulle cosce. Ma
nel giro di un mese o anche meno, ritornano al loro peso abituale. L’uomo o donna media
Piraha pesa tra i 45 e i 55 chili ed ha un’altezza tra il metro e cinquanta e il metro e
sessanta. Sono magri e tonici. Alcuni mi ricordano nel loro fisico i ciclisti del tour de France.
Le donne tendono a pesare un poco più degli uomini, ma sono anch’esse in forma e agili.
I Piraha mangiano pesce, banane, selvaggina, larve, noci brasiliane, anguille elettriche,
lontre, caimani, insetti, ratti - qualsiasi forma di proteine, olio, amido, zucchero, o qualsiasi
altra cosa che possano cacciare, pescare, o raccogliere nel loro ambiente - anche se per la
maggior parte evitano rettili e anfibi. La loro dieta consiste forse di un 70 per cento di pesce,
pescato nel Maici, spesso misto a farihna (che i Piraha hanno imparato a fare negli anni di
contatti con i forestieri) e acqua pulita del fiume Maici.
Siccome pesci diversi possono essere pescati ad orari diversi del giorno e della notte, gli
uomini Piraha possono essere visti pescare ad ogni ora. Questo significa che vi è una
separazione meno netta tra il giorno e la notte, a parte l’ovvio problema della visibilità. Un
Piraha potrebbe andare a pescare alle 3 del mattino così come alle 3 del pomeriggio o alle 6
del mattino. Ho navigato molte volte su e giu per il fiume durante la notte e, illuminando col
mio faretto i luoghi preferiti dai pescatori, ci trovavo uomini Piraha seduti sulle canoe intenti a
catturare il pesce. Uno dei metodi di pesca notturna è di puntare una torcia elettrica
sull’acqua per attrarre i pesci e poi colpirli con le frecce. Quattro o sei ore di pesca
giornaliera di solito soddisfano il fabbisogno di una famiglia per 24 ore. Ma se nella famiglia
vi sono figli maschi di un’età sufficiente, essi si alternano nell’attività della pesca giornaliera.
Se qualcuno pesca del pesce alle 3 del mattino, a quell’ora stessa il pesce verrà consumato.
Tutta la famiglia si sveglierà per mangiare non appena il pescatore avrà fatto ritorno col
pesce.
La raccolta (ndt di cibo), che è sopratutto attività delle donne, impiega forse 12 ore alla
settimana per una famiglia di quattro persone, ossia una tipica famiglia tra i Piraha. Dunque
la pesca e la raccolta insieme impiegano circa 53 ore alle settimana, divise tra padre, madre,
e bambini (e occasionalmente nonni), cosicchè nessuno spende più di 15 o 20 ore alla
settimana a lavorare - nonostante queste attività vengano considerato piacevoli dai Piraha e
difficilmente verrebbero considerate lavoro nella società occidentale.
I Piraha inoltre dipendono dai macete importati per attività come la macelleria, la
costruzione, fare gli archi e le frecce, tirare fuori la manioca dal terreno, e così via. Quando
possibile barattano per avere i macete. Si procurano macete, lime, zappe, e accette all’inizio
della stagione secca così che possono darsi alla coltivazione della manioca. La manioca,
uno degli alimenti più consumati nel mondo, è indigena nell’Amazzonia ed è una ideale fonte
di amido. Cresce finchè è lasciata nel terreno, il che significa che un campo abbandonato da
qualche anno può covare tuberi di manioca lunghi più di un metro. La manioca contiene
cianuro, perciò consumare il tubero crudo è fatale, infatti gli insetti e gli animali la evitano.
Solo gli umani la mangiano perchè richiede un elaborato processo in cui il tubero viene
immerso in acqua, asciugato, e spremuto per liberarsi della quasi totalità del cianuro.

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Preparare e coltivare i campi è una innovazione piuttosto recente tra i Piraha, ed è una
pratica che Steve Sheldon ha introdotto con molta fatica. Però per arare i campi è
necessario avere strumenti forestieri, che i Piraha non hanno modo di acquistare nei villaggi
della zona. Ho notato che nonostante l’importanza che questi strumenti hanno per la loro
sussistenza, i Piraha non si preoccupano di tenerli in buoni condizioni. I bambini lanciano
utensili nuovi nel fiume; uomini adulti dimenticano gli utensili nei campi; e spesso barattano
gli stessi strumenti per pasti a base di manioca quando commercianti forestieri arrivano al
villaggio.
Emergevano dei comportamenti ricorrenti: i Piraha non praticavano nessun metodo di
conservazione del cibo, non si prendevano cura degli utensili, e costruivano solo cesti usa e
getta. Questo sembrava indicare che il non preoccuparsi del futuro fosse un valore culturale.
Di certo non era pigrizia, perchè i Piraha lavoravano molto duramente.
Ero affascinato dal fatto che cose così importanti e difficili da procurarsi come gli attrezzi da
lavoro erano invece tenuti in nessuna considerazione dai Piraha. Dopotutto, l’unico modo
che loro hanno di procurarsi beni del mondo esterno è raccogliere prodotti della giungla e
barattare con i commercianti fluviali. Solo pochi villaggi hanno la possibilità di commerciare,
perchè nessun commerciante arriva fino alle zone più lontane lungo il Maici - non ci sono
prodotti naturali tali da giustificare tale viaggio. Dunque una diversa tribù di Piraha
commercia con la tribù Piraha che possiede gli attrezzi cosicchè questi strumenti alla fine
vengono distribuiti a tutti i villaggi lungo il Maici.
Vi erano molti altri aspetti della cultura materiale dei Piraha che supportavano la mia
crescente convinzione che pianificare il futuro fosse meno importante per i Piraha di quanto
non fosse godersi il presente. Come risultato di ciò i Piraha impiegano le loro energie in
qualcosa solo il tanto necessario per il funzionamento minimo ed essenziale di tale cosa.
(ndt questa frase va formulata meglio…)
I Piraha fanno dei riposini (dai quindici minuti alle due ore massimo) sia durante il giorno che
durante la notte. Vi è un costante parlare ad alta voce nel villaggio a tutte le ore della notte.
Di conseguenza, è spesso molto difficile per chi viene da fuori riuscire a dormire bene tra i
Piraha. Sembr che il suggerimento che Piraha danno di non dormire perchè serpenti
possono trovarsi nei paraggi sia seguito da loro stessi alla lettera - lasciarsi andare ad un
sonno troppo profondo può essere pericoloso nella giungla. I Piraha mi misero in guardia dal
russare, ad esempio. “I giaguari penseranno che un maiale è nei paraggi e verranno a
mangiarti,” mi dissero allegramente.
Quando racconto la semplicità della cultura materiale dei Piraha, spesso la gente si mostra
curiosamente preoccupata. Dopo tutto, nelle società industrializzate definiamo in parte il
successo come il continuo miglioramento della tecnologia. Ma tra i Piraha non vi è segno di
tale miglioramento, nè mostrano il desiderio di migliorare.
Come mai la cultura Piraha è così materialmente semplice? Alcuni hanno suggerito che la
loro cultura possa essere il risultato traumatico dell’incontro con le culture europee avvenuto
nel 18esimo secolo. è vero che il contatto tra europei e le genti native delle americhe, sia
che sia stato un contatto indiretto (come sono ad esempio la trasmissione di malattie o
l’acquisizione di beni di commercio) o diretto (faccia a faccia), fu traumatico per la maggior
parte delle popolazioni indigene. In molti casi questo trauma ha portato alla disintegrazione
di intere culture indigene e alla perdita di conoscenze e culture specializzate e alla
marginalizzazione di intere popolazioni. Sarebbe un grave errore considerare un tratto
culturale artificiale prodotto da questo tipo di “trauma da contatto” come un tratto naturale
della cultura considerata.

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Dall’altra parte, anche se questo trauma fosse responsabile di qualche cambiamento
culturale, dopo un certo tempo tale cambiamento, se persiste, verrà considerato parte
integrante della cultura stessa. La cultura odierna inglese, ad esempio, è indubbiamente il
risultato di fasi precedenti, ma non condivide più i valori passati del codice cavalleresco. Le
testimonianze che abbiamo dei Mura e dei Piraha durante i 300 anni passati dal primo
contatto con gli europei nel 1714 sino ad oggi supportano fortemente la conclusione che la
cultura Piraha è cambiata di poco. Curt Nimuendaju, per esempio, nel suo scritto “I Mura e i
Piraha”, conclude:

[La tribù Piraha] ha evidentemente da sempre occupato il suo habitat attuale compreso tra la
latitudine 6°25’ e 7°10’ Sud, lungo la parte bassa del fiume Maici… I Piraha sono rimasti la
meno acculturata tra le tribù Mura, ma li si conosce solo attraverso una corta lista di vocaboli
e degli appunti non pubblicati dall’autore ottenuti durante brevi contatti nel 1922, quando
vennero fatti degli sforzi per appacificare i Parintintin. (Giornale degli Indiani del Sud
America [Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e Cooper Square Editore,1963], pp. 266-67)

Nimuendaju continua discutendo alcuni aspetti della cultura materiale Piraha, citando anche
fonti più antiche, le quali corroborano le sue conclusioni, che sono quasi del tutto identiche
alle mie.
Non tutto però deve essere fatto risalire per forza a specifici valori culturali. I vestiti dei
Piraha - qualora ve ne siano - sono pure semplici, ma naturalmente considerato il caldo
dell’ambiente amazzonico, non vi è necessità di spiegare come mai queste persone coprano
minimamente il loro corpo con indumenti.
Oltre ai possedimenti e gli artefatti menzionati più su, una famiglia Piraha avrà di solito una o
due pentole di alluminio per cucinare, forse un cucchiaio, un paio di coltelli, qualche altro
piccolo oggetto dal mondo esterno, e un fuso indigeno manuale per filare il cotone.
Questo libro avrebbe potuto chiamarsi La Gente dell’Acqua, dato che il fiumo è così
essenziale per la vita fisica e sociale dei Piraha. I villaggi Piraha vengono costruiti più vicini
possibile al fiume. Durante la stagione secca (piiaiso, “acqua bassa”), quando larghe
spiagge di sabbia bianca emergono dalle acque del fiume Maici che si ritrae,, i Piraha
muovono le loro capanne su queste nuove spiagge, dove dormono direttamente sulla sabbia
senza curarsi di ripararsi, eccetto un xaitaii-ii o due che tengono li affinchè i bambini abbiano
un po di ombra durante il giorno. In questo periodo dell’anno, quando il cibo è abbondante e
le notti sono più fresche che durante la stagione delle piogge, la comunità intera (dalle
cinquanta alle cento persone su una stessa spiaggia) dorme e mangia insieme, anche se i
membri di una stessa famiglia dormono vicini tra loro la notte.
I villaggi Piraha possono sostentare un numero maggiore di persone durante la stagione
secca perchè vi è meno acqua e dunque una concentrazione maggiore di pesce in quel che
rimane del fiume. Per gli Indiani che vivono più in profondità nella giungla invece, la stagione
secca è periodo di digiuno perchè la selvaggina abbandona il centro della foresta in cerca di
acqua. Per gli Indiani come i Piraha che vivono sulle sponde dei fiumi più grossi, la stagione
secca è periodo di abbondanza.
Ricordo un giorno quando mi imbattei in un gruppo di Piraha sulla spiaggia. Appena più
lungo il fiume vi era un albero che si inclinava sopra il fiume, ancorato alla sponda tramite le
poche radici che ancora non avevano ceduto. Il tronco dell’albero era forse a mezzo metro
dall’acqua. Un uomo Piraha, Xahoaogii, si trovava li vicino. Notai che le foglie dell’albero
davano l’impressione che qualcosa di pesante vi fosse poggiato sopra. Ebbi un’idea.
“Chi è che dorme qui?” domandai.

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“Io,” quello rispose imbarazzato.
Apparentemente non aveva nessuna paura di cadere nel fiume dal suo letto largo solo una
ventina di centimetri. Nessuna paura di anaconda, caimani, o altri animali che avrebbero
potuto facilmente raggiungerlo e azzannarlo o trascinarlo giu dall’albero e nel fiume.
Durante la stagione delle piogge (piioabaiso, “acqua profonda”), la gente del villaggio si
separano in nuclei familiari, ogni famiglia occupando una singola casa. Come notai il mio
primo giorno nel villaggio, durante la stagione delle piogge le case sono allineate lungo il
fiume, ben nascoste tra la vegetazione della giungla, distanziate di dieci o quindici passi
l’una dall’altra. Questi villaggi della stagione delle piogge sono più piccoli che i villaggi della
bella stagione, solitamente consistendo di un’intera famiglia, ossia una coppia avanti negli
anni accompagnata dai figli o le figlie adulte, insieme ai relativi mariti o mogli e bambini. Le
case del villaggio non devono per forza trovarsi sulla stessa sponda e occasionalmente le
case di parenti stretti possono trovarsi su rive opposte del fiume.

Il rituale è una serie di azioni prestabilite di significanza simbolica per una cultura. La cultura
Piraha è degna di nota secondo alcuni occidentali, così come lo era anche per me nel primo
periodo della mia vita tra di loro, per la sua relativa mancanza di rituali. Vi sono circostanze
in cui ci si aspetterebbe un comportamento rituale, ma non troviamo invece niente di
prestabilito e ricorrente.
Quando qualcuno muore, lui o lei viene sepolta. I Piraha non abbandonano mai i corpi dei
deceduti alle intemperie, ma li seppelliscono sempre. Questa è una di quelle circostanze
dove ci si aspetterebbe di trovare un rituale, ma invece vi è ben poco da esaminare. Ho
assistito a parecchi decessi tra i Piraha. Vi sono delle tradizioni seguite molto
arbitrariamente che riguardano la sepoltura, ma nessun rituale. Occasionalmente, i deceduti
vengono sepelliti in una posizione seduta circondati da molti dei loro oggetti personali (non
più di una dozzina di piccoli oggetti, data la poca propensione dei Piraha ad accumulare beni
materiali durante la loro vita). Spesso i deceduti vengono seppelliti a pancia in giù. Molto
raramente, se vi è disponibilità di tavole e chiodi (lasciati da qualche commerciante fluviale o
da me), i Piraha potrebbero provare a costruire una bara in stile occidentale. Ho assistito
solamente ad un tentativo di costruire una bara da parte dei Piraha, la bara era per un
bambino, quando un commerciante brasiliano si trovava per caso nel villaggio.
Se il deceduto è grosso, lui o lei verrà più probabilmente seppellito in posizione seduta
perchè in questo modo si dovrà scavare di meno (a quanto dicono i Piraha stessi). I morti
vengono seppelliti quasi immediatamente. Uno o due parenti stretti maschi scaveranno di
solito la fossa, preferendo un punto vicino alla sponda del fiume, con l’effetto che in un paio
di anni la tomba sarà portata via dall’erosione del fiume. Il corpo viene posate nel fosso. Poi,
dopo che si sono aggiunti gli oggetti personali, stecche verdi vengono intersecati sopra il
corpo, assicurando il corpo dentro il fosso. Sopra le stecche vengono poggiate foglie di
banana o simili foglie larghe. Poi la buca viene ricoperta di terra. Raramente, imitando le
sepolture brasiliane che hanno avuto modo di vedere, viene posta una croce, con delle
incisioni che imitano le inscrizioni viste sulle croci brasiliane.
La maggior parte delle fasi della sepoltura è soggetta a variazioni, comunquesia, e io stesso
non ho mai assistito a due sepolture fatte allo stesso modo. Il carattere variabile di ogni
sepoltura, più il fatto che esse costituiscono soluzioni logiche a problemi pratici quale sia il
lasciare un corpo in putrefazione in piena vista, mi porta ad evitare un’interpretazione
ritualistica di queste sepolture, anche se altri potranno non essere d’accordo.
Il sesso e il matrimonio inoltro sembrano non comportare nessun rituale a mio avviso. Anche
se i Piraha sono riluttanti nel discutere i particolare della loro vita sessuale nel dettaglio,

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occasionalmente abbiamo discusso di ciò in termini generici. Si riferiscono al cunnilingus e
alla fellatio col termine “leccare come cani”, nonostante questo paragone con un
comportamento animale non è inteso in modo denigratorio in alcun modo. Essi considerano
gli animali un esempio riguardo a come vivere. Il rapporto sessuale viene descritto come
l’atto di mangiare l’altro. “L’ho mangiato” o “L’ho mangiata” significa “Ho avuto rapporto
sessuale con lui o lei.” I Piraha trovano l’attività sessuale una cosa piuttosto piacevole e ne
parlano liberamente.
L’attività sessuale non è limitata al matrimonio, anche se è la norma. I Piraha maschi e
femmine non sposati fanno sesso liberamente. Avere rapporti sessuali con lo sposo o la
sposa di qualcun’altro è disapprovato e può essere rischioso, tuttavia succede. Se una
coppia è sposata, i due si allontaneranno semplicemente all’interno della foresta per avere
un rapporto. Lo stesso accade quando due amanti non sono sposati. Se uno o entrambi gli
amanti sono sposati non l’un l’altro, però, solitamente si assenteranno dal villaggio per
qualche giorno. Se al loro ritorno i due continuano a stare insieme, i vecchi partner vengono
considerati come divorziati e la nuova coppia viene sposata. All’inizio il matrimonio viene
riconosciuto tramite coabitazione temporanea. Se la coppia cambia idea e decide di non
restare insieme, allora i vecchi partner possono decidere se voler riprendere la vecchia
relazione oppure no. In entrambi i casi, non vi è ulteriore menzione del fatto ne nessuna
rimostranza, almeno non pubblicamente, una volta che la coppia inoltratasi nella foresta
faccia ritorno al villaggio. Tuttavia, mentre gli amanti sono assenti dal villaggio, i loro relativi
sposi li cercano, piangono, e si lamentano sonoramente con chiunque. è capitato che gli
sposi lasciati al villaggio mi chiedessero di portarli a bordo della mia barca a motore in cerca
dei partner fedifraghi ma io ho sempre rifiutato.
Forse l’attività che più si avvicini ad un rituale tra i Piraha è la danza. Le danze riuniscono il
villaggio. Esse spesso sono caratterizzate da promiscuità, divertimento, risate, e allegria.
Non vi sono coinvolti strumenti musicali, solo canti, battere le mani, e battere i piedi.
La prima volta che assistetti ad una danza fui impressionato da come tutti si divertissero a
cantare, a parlare, e a camminare in tondo. Kohoi mi invitò a ballare con loro.
“Dan, vuoi ballare con noi stanotte?”
“Non so ballare come i Piraha,” dissi io, sperando di scamparmela. Sono un terribile
ballerino.
“Steve e Arlo hanno ballato insieme a noi. Non vuoi ballare come un Piraha?” Kohoi
insistette.
“Ci proverò. Ma non ridere.”
Durante la danza, una donna Piraha mi chiese, “Ti sdrai solo con una donna? O vuoi
sdraiarti anche con altre?”
“Mi sdraio solo con una. Non voglio altre.”
“Non vuole altre donne,” lei annunciò.
“A Keren piacciono altri uomini?”
“No, lei vuole solo me,” io risposi da bravo marito Cristiano.
Le relazioni sessuali sono relativamente libere tra individui non sposati e perfino tra individui
sposati non tra loro, durante le notti di danze e canti, solitamente nelle notti di luna piena. Le
aggressioni avvengono di tanto in tanto, gravi e non (Keren ha assistito allo stupro di gruppo
di una giovane donna nubile da parte di quasi tutti gli uomini del villaggio). Comunque le
aggressioni non sono mai tollerate e sono molto rare.
I Piraha mi hanno raccontato di una danza particolare in cui serpenti velenosi vivi sono usati,
però non ho mai assistito a tale danza (vi sono però dei testimoni oculari di tali danze, ed
essi sarebbero gli abitanti Apurina di Ponto Sete, prima che i Piraha li allontanassero).

54
Durante questa danza, prima di ballare vi è l’apparizione di un uomo che indossa solo una
fascia sulla testa fatta di foglie di palma buriti e una cintura, con delle strisce verticali che
pendono da essa, fatta interamente gialle e sottili foglie di palma paxiuba. L’uomo Piraha
così vestito proclama di essere Xaitoii, uno spirito (solitamente) maligno il cui nome significa
“dente lungo”. Il personaggio così vestito viene fuori dalla vegetazione della giungla, fino al
centro della radura dove la gente si è riunita per danzare, poi annuncia al pubblico di essere
forte, di non aver paura dei serpenti, spiega in che parte della foresta vive, e come abbia
passato la giornata. Tutto questo avviene cantando. Mentre canda, lancia serpenti vivi ai
piedi del pubblico, il quale indietreggia con prontezza.
L’uomo che impersona lo spirito in realtà proclama di essere stato posseduto dallo spirito
stesso dopo averlo incontrato nella giungla. Gli spiriti Piraha hanno tutti nomi e personalità
diverse, e il loro comportamento è in qualche modo prevedibile. Queste danze potrebbero
essere classificate come un qualche tipo di rituale, nel senso che la gente vi assiste e le
imita e chiaramente hanno un qualche valore e significato per la comunità. Il significato
rituale va probabilmente inteso come un incoraggiamento all’essere forte, al conoscere la
giungla, e così via.
La relativa mancanza di rituali tra i Piraha è in accordo con il principio di immediatezza
dell’esperienza. Questo principio afferma che linguaggio e azioni formulaiche (ossia i rituali)
che fanno riferimento ad eventi non vissuti in prima persona siano evitate. Perciò un rituale
in cui l’uomo che impersona lo spirito dicesse di non aver nè visto nè incontrato tale spirito
sarebbe proibito. Lasciando da parte questo carattere proibitivo, comunque, l’idea dietro al
principio di immediatezza dell’esperienza è che i Piraha evitano la codificazione formulaica
di valori morali, e invece trasmettono valori e informazioni tramite azioni e parole composte
in maniera originale dalla persona che recita, le quali azioni e parole però devono essere
state vissute in prima persona da colui che recita, oppure gli devono essere state raccontate
da qualcuno che le ha vissute in prima persona. Perciò non c’è spazio per i rituali e per una
tradizionale letteratura orale.

6 Famiglie e Comunità

I Piraha ridono di tutto. Ridono delle loro stesse sfortune: quando una capanna viene
spazzata via dall’uragano, il proprietario ne ride più di tutti. Ridono quando pescano un
sacco di pesce. Ridono quando non pescano niente. Ridono quando sono sazi e ridono
quando sono affamati. Quando sono sobri non sono mai insistenti o sgarbati. Sin dalla prima
notte nel villaggio rimasi impresso dalla loro pazienza, la loro allegria, e la loro gentilezza.
Questa felicità pervasiva è difficile da spiegare, ma io credo che i Piraha siano
estremamente sicuri della loro capacità di poter affrontare qualsiasi dura prova che la vita
mette loro davanti, riuscendo così a rimanere allegri qualsiasi cosa accada. E questo non
perchè la loro vita sia facile, ma perchè sono molto bravi ad affrontarla.
Ai Piraha piace toccarsi l’un l’altro per mostrare il loro affetto. Anche se non ho visto
nessuno baciarsi, vi è una parola per l’atto del baciarsi, perciò devono pur farlo. Ma si
toccano l’un l’altro frequentemente. La sera, mentre inscuriva, provavano gusto a toccare
anche me, specialmente i bambini Piraha, accarezzavano le mie braccia, i capelli e la
schiena. Nel mentre di ciò non li dovevo guardare, perchè gurdarli li metteva in imbarazzo.
I Piraha sono pazienti con me. Sono stoici verso se stessi. Sono premurosi verso gli anziani
e gli handicappati. Avevo notato un vecchio uomo nel villaggio, Kaxaxai (Alligatore), che
camminava storto e non era in grado ne di pescare ne di andare a caccia. Raccoglieva un
poco di legna da ardere tutte le sere per la gente del villaggio. Chiesi ad un uomo come mai

55
dava da mangiare a Kaxaxai, il quale non gli dava niente in cambio. “Mi ha dato da mangiare
quando ero giovane. Ora gliene do io.”
La prima volta che i Piraha mi portarono qualcosa da mangiare, del pesce arrosto, mi
chiesero, “Gixai soxoa xobaaxaai. Kohoaipi?” (Sai già come mangiare questo?). è una
ottimo approccio, perchè se per caso non volessi mangiare niente, ti lascia la possibilità di
rifiutare l’offerta in modo cortese. Tutto ciò che devi dire è “No, non so come si mangia
questo.”
I Piraha sembrano pacifici. Non sentii nessun tipo di aggressività rivolta a me ne agli altri
stranieri, al contrario di molte altre tribù che visitai nel corso degli anni. Non ho visto
aggressioni interne tra i membri della tribù. Anche se, come in tutte le società, vi erano
eccezioni alla regola, questa rimane la mia impressione dei Piraha dopo tutti questi anni.
Gente pacifica.
Come accade nel villaggio Xagiopai, conosciuto dai brasiliani come Forquilha Grande -
“Grande Biforcazione”- perchè il Maici forma una ramificazione senza uscita che termina in
un lago a forma di U in quel punto, le sorelle portano spesso i mariti a vivere tra i loro
genitori. In altri villaggi, invece, come il villaggio Pentecoste vicino alla sorgente del Maici, gli
uomini portano le mogli con se al villaggio dei genitori. Dunque un villaggio è matrilocale,
mentre un’altro patrilocale. Ma anche nessuno dei due - in alcuni villaggio non vi è nessuna
prassi. Questa flessibilità è dovuta probabilmente alla natura laissez-faire della società
Piraha e al sistema di parentela minimalista.
I Piraha hanno solo i seguenti termini per descrivere una parentela, il che costituisce uno dei
più semplici sistemi di parentela del mondo:

baixi - genitore, nonno/a, o qualcuno verso cui si vuole esprimere una posizione di
sottomissione temporanea o permanente. I Piraha si rivolgono a me col termine baixi
quando vogliono ottenere qualcosa da me; a volte si rivolgono ai commercianti fluviali col
termine baixi; gli adulti possono rivolgersi ad altri adulti col termine baixi quando vogliono
ottenere qualcosa, come ad esempio del pesce. Anche i bambini possono usare il termine
baixi verso altri bambini quando vogliono ottenere qualcosa. Questo termine ha genere
neutro. A volte l’espressione ti xogii (mio grande) è usata al posto di baixi. è usato anche
come termine che esprime affetto verso gli anziani. Nel caso sia necessario distinguere tra
un padre o una madre, si può dire baixi xipoihii (il mio genitore femmina) e così via. Il
contesto spesso chiarirà se ci si riferisce ad un padre a ad una madre. Quando questo non
succede, probabilmente non è necessario determinare quale sia il sesso della persona
indicata.

xahaigi - sia fratello che sorella (ndt “sibling” nel testo originale, intraducibile in italiano).
Questo termine può essere rivolto a qualsiasi Piraha di un’età simile a chi parla, e in contesti
particolari, può riferirsi ad ogni Piraha, come ad esempio quando si vuole differenziare un
membro della tribù in opposizione ad un estraneo, ad esempio “Cosa ha detto il xahaigi al
brasiliano?”

hoagi oppure hoisai - figlio. Hoagi è un verbo, “venire”, e hoisai significa “colui che è venuto”.

kai - figlia.

Vi è un ultimo termine, piihi, che ha un spettro di signifacati più ampio, i quali includono
“bambino con almeno un parente deceduto”, “figliastro”, e “bambino preferito”.

56
Questo è tutto. Nonostante alcuni antropologi che non parlano la lingua Piraha abbiano
proposto altri termini di parentela, tutte le proposte di cui sono a conoscenza sono risultato
della errata analisi della frase intera. L’errore più comune è analizzare le forme possessive
dei termini sopracitati come fossero vocaboli indipendenti che si riferiscono a tipi di
parentela. Per esempio, un antropologo ha proposto la traduzione della frase ti xahaigi come
“zio”, ma in realtà significa solamente “mio fratello/sorella”.
Gli antropologi affermano da tempo che la presenza di un sistema di parentele complesso si
rifletta in un sistema di compatibilità matrimoniale basato sulla parentela il quale decide chi
si possa sposare, vicino a quale e con quale parente si possa vivere, e così via. Ma è vero
anche l’opposto - minore il numero dei vocaboli che definiscono rapporti di parentela, minori
saranno le restrizioni basate sulla parentela che si troveranno nella società. Questo
comporta interessanti risultati tra i Piraha. Dato che non hanno nessun termine che definisce
il concetto di “cugino/a”, di conseguenza non vi è nessuna restrizione verso il sposare un
cugino o una cugina. E, forse perchè la parola xahaigi è ambigua, ho persino visto degli
uomini sposare le proprie sorellastre.
L’apparente universale tabù contro le pratiche incestuose viene applicato tra i Piraha solo
alle unioni tra fratelli e sorelle (ma non fratellastri e sorellastre) e tra nonni o genitori e figli.
Tuttavia vi è più di quanto appare alla vista dietro questo sistema di parentela. Alcuni termini
che indicano parentela ricoprono anche concetti più ampi della semplice parentela.
Il concetto dietro alla parola xahaigi è un caso interessante. Sembra esprimere qualcosa di
più che una semplice parentela. Esprime un concetto di comunità. Siccome questa parola è
neutra e non numerabile, si può riferire ad un uomo, una donna, più donne, più uomini, o
gruppi eterogenei. Anche se i Piraha perlopiù vivono in famiglie nucleari, vi è un forte senso
di comunità e mutua responsabilità verso il benessere della comunità intera. Xahaigi
definisce e rafforza questo senso di comunione potendo riferirsi ad ogni membro della
comunità.
La connotazione principale che il termine xahaigi trasmette è quella del senso di
appartenenza, di familiarità e fratellanza. Questo sentimento è particolarmente presente tra i
circa 300 Piraha in vita. Nonostante possono essere lontani molte miglia, ogni persona in
ogni villaggio si preoccupa di avere notizie degli altri villaggi e dei loro abitanti Piraha. è
impressionante la velocità con cui le notizie corrono tra i quasi 400 chilometri di fiume lungo
cui i Piraha sono sparpagliati. La parte principale del concetto del xahaigi è che ogni Piraha
è importante. Un Piraha prenderà sempre le difese di un altro Piraha piuttosto che di uno
straniero, non importa chi quest’ultimo sia. E nessuno straniero, nemmeno io, può aspettarsi
di essere chiamato xahaigi dall’intera tribù (alcuni individui si rivolgono a me col termine
xahaigi, ma la maggior parte non lo fa, persino alcuni tra i miei più cari amici Piraha).
Un altro esempio del concetto xahaigi si può notare nel modo in cui vengono trattati i
bambini e gli anziani. Un padre darà da mangiare e si prenderà cura del bambino di
qualcun’altro, almeno temporaneamente, qualora quel bambino sia stato abbandonato,
anche fosse solo per un giorno. Una volta un anziano si perse tra la giungla. Per tre giorni
l’intero villaggio lo cercò, rinunciando quasi a dormire e mangiare. Erano tutti molto
emozionati quando finalmente lo trovarono, illeso ma stanco e affamato, con in mano un
palo appuntito come arma di difesa. Continuavano a chiamarlo il loro baixi e ad abbracciarlo
sorridendo, dandogli cibo non appena tornarono al villaggio. Anche questa storia da un’idea
del senso di comunità tra i Piraha.
I Piraha sembrano tutti essere amici intimi, non importa da che villaggio vengano. I Piraha
parlano come se tutti si conoscessero estremamente bene. Sospetto che questa possa
essere collegato alle connessioni fisiche. Data la mancanza di stigma e la frequenza dei

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divorzi, data la promiscuità che accompagna le danze e ai canti, data la diffusione di
esperienze sessuali post e pre adolescenziali, non sarebbe troppo scorretto ipotizzare che
molti Piraha hanno avuto rapporti sessuali con un’alta percentuale del resto dei membri della
tribù. Questo significa che le loro relazioni personali si baseranno su un livello di intimità
sconosciuto alle società più larghe (la comunità che condivide il letto condivide tutto il
resto?) Immaginiamo di avere avuto rapporti sessuali con la gran parte dei residenti del
nostro quartiere e che questo comportamento sia giudicato dalla società in maniera nè
positiva nè negativa, solamente come una normale occorrenza della vita - come dire che si
abbiano assaggiato molti gusti di gelato.

La mia famiglia notava ogni giorno la considerevoli differenze tra il concetto di famiglia dei
Piraha e il nostro. Un mattino notai un bambino piccolo camminare incerto verso un fuoco.
Appena fu vicino al fuoco, sua madre, poco distante, lo richiamò con un brontolio. Tuttavia
non si preoccupò di tirarlo via da li. Il bambino piccolo barcollò e poi cadde a terra, proprio
accanto ai carboni ardenti. Si scottò la gamba e il sedere ed emise un gemito di dolore. La
madre lo tirò su per un braccio e lo sgridò.
Osservai la scena e mi chiesi come mai la madre, che io sapevo amare il suo bambino,
sgridasse il bambino perchè si era fatto male, specialmente visto che lei non si era
preoccupata di avvertirlo del pericolo del carbone ardente. Ciò mise alla luce una questione
più grande: che concezione avevano i Piraha della infanzia? Quali erano i loro insegnamenti
verso i bambini? Cominciai una riflessione più profonda richiamando alla memoria il fatto
che i Piraha non parlano ai bambini in modo infantile. I bambini sono semplicemente delle
persone piccole nella società Piraha, meritevoli di rispetto come qualsiasi adulto. Non si
cerca di viziarli ne di dar loro un tipo speciale di protezione. Sono trattati equamente con
delle ovvie concessioni dovute alla loro taglia e alla debolezza fisica, ma in generale non
sono considerati qualitativamente differenti rispetto ad un adulto. Questo porta ad assistere
a episodi che agli occhi di un occidentale sembrerebbero strani o persino duri. Dato che la
mia personale concezione del ruolo genitoriale coincide in qualche modo con quella dei
Piraha, spesso non mi accorgo neanche di comportamenti genitoriali che gente non del
posto troverebbe scioccanti.
Come esempio, ricordo come un mio collega fu sorpreso dal trattamento quasi-adulto
riservato ai bambini Piraha. Peter Gordon, psicologo alla Columbia University, e io ci
trovavamo insieme in un villaggio Piraha ad intervistare un uomo a proposito del mondo
degli spiriti. Mentre parlavamo, avevamo preparato una telecamera per registrare le nostre
interazioni con la gente del posto. Quella sera, mentre riguardavamo i filmati della giornata,
notammo che un bambino di circa due anni sedeva nella capanna proprio dietro all’uomo
che stavamo intervistando. Il bambino giocava con un coltello da cucina affilato, lungo una
ventina di centimetri. Agitava il coltello intorno a se, spesso portandolo la lama vicino agli
occhi, al petto, al braccio, e ad altre parti del corpo delicate. Quello che ci stupì di più però,
fu che quando lasciò cadere il coltello per terra, la madre - mentre parlava con qualcun’altro
- si chinò a terra con nonchalance senza interrompere la conversazione, raccolse il coltello,
e lo diede di nuovo al bambino. Nessuno avvertì il bambino del pericolo di potersi tagliare o
farsi male col coltello. E lui non si fece del male. Ho visto tuttavia altri bambini tagliarsi anche
gravemente con i coltelli. Molte volte io e Keren dovemmo applicare della polvere
disinfettante sopra le ferite nel tentativo di ridurre le probabilità di infezione.
Ogni volta che un bambino si taglia, si brucia, o in generale si fa male egli viene sgridato (e
anche curato). Una mamma reagirà spesso al pianto del bambino in simili circostanze con
un verso di disgusto, un basso e gutturale “Ummm!”. Il bambino viene di solito tirato su per

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un braccio dalla mama arrabbiata (ma non in modo violento) e messo a sedere lontano dal
pericolo. Ma i genitori non abbracciano il bambino, ne dicono cose come “Poverino, mi
dispiace, lascia che mamma ti dia un bacino e faccia passare la bua.” I Piraha rimangono
molto sorpresi quando assistono a scene del genere di genitori non Piraha. Trovano
addirittura la cosa divertente. “Non vogliono che i loro bambini imparino a badare a se
stessi?” i Piraha mi chiedono.
C’è qualcosa di più che il semplice volere insegnare ai bambini a diventare adulti autonomi.
Si può intravvedere nella filosofia genitoriale dei Piraha un sottofondo darvinista. Questo
stile di genitorialità produce adulti molto forti e resistenti, i quali credono che nessuno debba
loro niente. I cittadini della nazione Piraha sanno che la sopravvivenza quotidiana dipende
dalle individuali capacità ed abilità del singolo.
Quando una donna Piraha partorisce, essa potrebbe sdraiarsi all’ombre vicino al suo terreno
oppure ovunque venga colta dal travaglio, molto spesso lasciata a se stessa. Durante la
stagione secca, quando si formano le spiagge lungo il Maici, la cosa più comune per una
donna in procinto di partorire è recarsi da sola o con una parente femmina presso il fiume e
nell’acqua fino alla vita, poi accovacciarsi e partorire, così che il bambino viene partorito
direttamente nel fiume. In questo modo tutto risulta più pulito e più sano, secondo loro, sia
per la madre che per il bambino. Occasionalmente, la madre della partorente o le sorelle la
accompagnano al fiume. Ma se una donna non ha parenti femmine nel villaggio, dovrà
partorire da sola.
Steve Sheldon mi raccontò di una donna che ha partorito da sola sulla spiaggia. Qualcosa
non andò per il verso giusto. Un parto podalico. La donna era agonizzante. “Aiuto, ti prego! Il
bambino non esce,” piangeva. I Piraha sedevano passivamente, alcuni erano evidentemente
agitati, altri chiaccheravano normalmente. “Sto morendo! Fa male. Il bambino non esce!”
gridò. Nessuno rispose. Era il tardo pomeriggio. Steve fece per avvicinarsi a lei. “No! Lei non
vuole te. Vuole i suoi genitori,” gli dissero, implicando che non doveva avvicinarsi alla donna.
Ma i genitori della donna non erano nei paraggi e nessun’altro la voleva aiutare. La sera
arrivò e la donna continuava a lamentarsi e chiedere aiuto, con sempre meno forza.
Finalmente, i lamenti cessarono. Il mattino Steve seppe che lei e il suo bambino erano morti
li sulla spiaggia, senza che nessuno li aiutasse.
Steve annotò una storia riguardo questo incidente, ripetuta qui sotto. Questo testo ha valore
per due motivi. Primo, racconta un tragico incidente che ci da una visione più profonda della
cultura Piraha. In particolare ci dice che i Piraha lasciarono morire una giovane donna, da
sola e senza aiuto, a causa della loro credenza per cui una persona deve essere forte e
affrontare le difficoltà senza l’aiuto di nessuno.
Secondo, aiuta la nostra comprensione della grammatica Piraha. Si noti la relativa semplicità
della struttura del periodo (non del contenuto), con la mancanza di qualsiasi tipo di
proposizioni subordinate.

La morte della moglie di Xopisi, Xaogioso


Documentata da Steve Sheldon

Sinossi: Questa storia racconta la morte della moglie di Xoipi, Xaogioso. Ella morì nel primo
mattino, mentre partoriva un bambino. Era stata lasciata da sola a partorire sulla riva del
fiume quando è morta. Sua sorella, Baigipohoasi, non la aiutò in alcun modo. Xabagi (un
uomo anziano del villaggio che occasionalmente aiuta le partorienti) andò a chiamare
qualcuno (il genero della partoriente), ma il genero non rispose alla richiesta di aiuto nè si
recò ad assistere la partoriente prima che ella morisse. Xopisi, il marito della donna, era

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lontano a pescare sul fiume quando la donna morì, cosicchè non vi era nessuno ad
assisterla.

1. Xoii hiaigiagasai. Xopisi hiabikaahaaga.


Xoii parlò. Xopisi non è qui.

2. Xoii hiaigiagaxai Xaogiosohoagi xioaakaahaaga.


Xoii allora parlò. Xaogioso è morta.

3. Xaigia hiaitibii.
Dunque, lui fù chiamato.

4. Ti hi giaitibiigaoai Xoii. Hoihiai.


Io chiamai Xoii. L’unico.

5. Xoii hi aigia ti gaxai. Xaogiosohoagi ioabaahoihoi, Xaogioso.


Parlai dunque a Xoii. Xaogioso è morta, Xaogioso.

6. Xoii xiboaipaihiabahai Xoii.


Xoii non andò a vederla sul molo galleggiante.

7. Xaogiosohaogi xioaikoi.
Xaogioso è morta veramente.

8. Ti xaigia aitagobai.
Sono molto preoccupato.

9. Xoii hi xaigiagaxaisai. Xitaibigai hiaitisi xaabaha.


Xoii poi parlò. Xitaibigai non parlò di ciò.

10. Hi gaxaisi xaabaha.


Lui disse lei non avvisò.

11. Xaogiosohoagi xihoisahaxai.


Xaogioso, non morire!

12. Ti xaigiagaxaiai. Xaogiosohoagi xiahoaga.


Dunque, poi parlai. Xaogioso è diventata morta.

13. Xaabaobaha.
Lei non è più qui.

14. Xoii hi xi xobaipaihiabaxai.


Xoii non andò a vedere lei sul molo galleggiante.

15. Xopisi hi Xiasoaihi hi gixai xigihi.


Xopisi, tu sei il marito ti Xiasoaihi.

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16. Xioaixi Xaogioso.
Xaogioso è morta.

17. Ti xaigiai hi xaitibiigaopai. Xoii xiobaipapai.


Dunque, Io chiamai Xoii. Vai vedere lei.

18. Xaogiosogoagi xiahoagai.


Xaogioso è diventata morta.

19. Xaabaobaha.
Lei non è più qui.

20. Xaogiosohoagi hi xaigia kaihiagohaaxa.


Xaogioso ha partorito il suo bambino.

21. Xoii ti xaigiagaxaiai. Xoii hi xioi xaipihoaipai. Xoii hi xobagataxaihiabaxai.


Ho detto a Xoii. Xoii diede lei medicina. Xoii non andò vedere lei di nuovo.

22. Xoii hi xaigiagaxai. Hoagaixoxai hi gaxisiaabaha Hoagaixoxai.


Xoii poi parlò. Hoagaixoxai disse niente, Hoagaixoxai.

23. Xaogioso xiaihiabahioxoi.


Xaogioso è molto, molto malata.

24. Xi xaipihoaipaati xi hiabaha.


La medicino non fu data a lei.

25. Hi xai hi xahoaihiabaha gixa pixaagixi.


Lui non disse a nessuno, il più giovane.

26. Xaogioso hi xabahioxoisahaxai.


Xaogioso, non peggiorare.

27. Hi gaaisiaabaha.
Lui non disse niente.

28. Hi xabaasi hi gixai kaisahaxai.


Tu non hai fatto niente per la gente.

29. Xabaxai hoihai.


Tutta sola se ne andò.

Questo racconta,di nuovo, è interessante a vari livelli. In una prospettiva linguistica, la


caratteristica più rilevante è la semplicità della struttura del periodo. D’altra parte, questo
racconto Piraha, come molti altri, mostra una relativa complessità di relazioni tra le idee
all’interno dei periodi. Alcune idee del racconto si presentano all’interno di altre idee, anche
se nè il periodo nè la grammatica ce lo mostrano. Per esempio, vi è una divisione in quattro
ampi sottotemi nel testo. Le linee dalla uno alla cinque introducono il racconto e i

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partecipanti. Le linee dalla sei alla quattordici discutono la negligenza del marito nei confronti
della donna deceduta. Le line 15 fino alla 19 ripetono la negligenza di altri individui. Ed
un’altra serie di lamentazioni su come sia stata trascurata la donna avviene dalla line venti
sino alla fine. E ovviamente tutte le linee formano un singolo racconto in cui ogni linea ha
una sua parte. Dunque tutte i periodi del racconto si trovano all’interno del racconto stesso
sia per quanto riguarda la posizione nella pagina sia per quanto riguarda il raggruppamento
cognitivo - cioè, il parlante pensa che tutte i periodi appartengano alla storia e organizzino la
storia per riflettere questa percezione.
Questi raggruppamenti di più periodi non sono raggruppamenti grammaticali nel senso che
gli esperti di sintassi accetterebbero, ma sono piuttosto raggruppamenti di idee. Essi
rivelano i processi di pensiero. Questa tecnica fondamentale di sistemare dei pensieri
all’interno di altri pensieri riflette una tecnica che molti linguisti considerano essere una
funzione grammaticale - la ricorsività. Eppure i raggruppamenti del testo Piraha non sono
parte grammaticale, anche se si ritrovano in tutte le storie Piraha. Dunque la tecnica in
questione, mettere oggetti dentro altri oggetti, come frasi dentro altre frasi o periodi dentro
altri periodi, è indipendente dalla grammatica, contrariamente a quanto molti, ma non certo
tutti, linguisti affermano.
Mentre a molti non linguisti ciò possa sembrare un qualche arcano aspetto teorico, è in
realtà il cuore di una delle maggiori faide (ndt parola più adatta…?) della linguistica
moderna. Se la ricorsività non si trova nella grammatica di tutte le lingue, ma è presente nei
processi di pensiero di tutti gli umani, allora essa è parte della intelligenza umana comune e
non parte di un “istinto linguistico” o di una “grammatica universale” come Noam Chomsky
ha affermato.
Culturalmente il racconto è interessante perchè colui che parla sembra cercare di apparire
privo di colpe. L’aver abbandonato la donna a se stessa è presentata come cosa non buona,
come molti occidentali concorderebbero, eppure nè colui che racconta la storia nè nessun
altro è corso in aiuto della partoriente. Questo suggerisce che il valore culturale di lasciare
che ognuno badi a se stesso, anche in circostanze molto rischiose, sia mostrato
apertamente nei fatti anche quando non è ben visto a parole. Come membri di molte altre
culture, i Piraha spesso distinguono tra valori espressi a parole e valori manifestati nella
pratica.
Una mia esperienza personale fu persino più scioccante. Una giovane madre di nome Poko
partorì una bella femminuccia. Poko e la bambina stavano entrambe bene. Io e la mia
famiglia lasciammo il villaggio per Porto Velho, ritornando due mesi più tardi. Al nostro
ritorno Poko ed alcuni altri Piraha, come al solito, stavano vivendo nella nostra capanna.
Poko però era emaciata. Aveva chiaramente qualche malattia, ma non sapevamo quale. Era
vicina alla morte, quasi scheletrica. Le guance erano scavate, le gambe e le braccia erano
ormai solo ossa, ed era così debole da potersi muovere appena. Dato che non produceva
latte, anche la bambina era molto malata. Le altre madri non allattavano la bambina di Poko
perchè avevano bisogno del loro latte per i loro bambini, così dissero. Poko morì appena un
paio di giorno dopo il nostro ritorno. Dato che non avevamo nessuna radio con noi, non
potevamo chiamare nessuno in suo aiuto. Ma la sua bambina sopravvisse.
Chiedemmo chi avrebbe badato alla bambina di Poko.
“La bambina morirà. Non ha una madre che la allatterà,” fu la risposta.
“Keren e io ci occuperemo della bambina,” proposi.
“OK,” i Piraha risposero, “ma la bambina morirà.”
I Piraha riconoscono la morte e capiscono quando qualcuno sta per morire. Ora lo capisco.
Ma ero deciso ad aiutare quella bambina.

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Il nostro primo problema fu allattare la bambina. Facemmo dei pannolini con delle vecchie
lenzuola e degli asciugamani. Cercammo darle da mangiare con un biberon (ne tenevamo
sempre qualcuno nel villaggio per aiutare i bambini che si ammalavano) ma la bambina non
addentava succhiava il latte. Era quasi in uno stato comatoso. Ero determinato a non farla
morire. Pensai ad un modo per farle bere il latte. Mischiammo del latte in polvere con dello
zucchero e un poco di sale e lo scaldammo. Avevo un paio di bottiglie spray di deodorante
Right Guard (il deodorante è comunemente venduto in bottiglie spray di plastica in Brasile).
Le svuotai e le lavai. Tirai fuori anche i tubicini di plastica e lavai pure quelli. Poi riempii una
delle bottiglie con la nostra “formula” di latte. Connessi due tubi l’uno all’altro con del
bendaggio medico così che formassero un singolo tubetto lungo. Poi inserii una parte del
tubetto nella bottiglia con il latte. Poi con attenzione e molto lentamente infilammo l’altra
parte del tubetto nella gola della bambina. La piccola si lamentò appena. Con eguale
attenzione spremetti la bottiglia di Right Guard e riuscii a far ingerire alla bambina una
quantità decente di latte.
Nel giro di un’ora la bambina sembrava più energica. La allattammo ogni quattro ore, giorno
e notte. Per tre giorni quasi non dormimmo cercando di salvare la bambina. Sembrava che
tutto andasse per il meglio. Con ogni pasto la bambina diventava più energica, piangeva più
forte, ed aveva persino dei movimenti intestinali. Eravamo estasiati. Un pomeriggio
pensammo di poter lasciare la bambina ed andare a fare un poco di jogging lungo la pista
d’atterraggio. Chiesi dunque al padre della bambina di tenerla d’occhio finchè non fossimo
tornati. Facemmo una corsetta, sentendo che stavamo facendo un contributo importante e
concreto per migliorare la vita di almeno un Piraha.
Ma i Piraha erano certi che la bambina sarebbe morta per tre ragioni. Primo, era già sul
punto di morte. Essi credono che quando una persona arrivi ad un tale stato di
malnutrizione, stato in cui la bambina già si trovava, per essa non ci sia più niente da fare.
Secondo, credevano che una bambina in tale stato non sarebbe sopravvissuta senza l’aiuto
di una madre Piraha - una che potesse allattarla. E questa non era una cosa che sarebbe
accaduta, perchè la mamma della bambina era morta e nessun altra madre avrebbe privato i
propri figli del proprio latte per allattare una orfana. Infine, essi non credevano che le nostre
cure potessero compensare per la mancanza delle prime due cose elencate, perciò i miei
sforzi di nutrire la bambina erano per i Piraha solamente un prolungare la miseria della
bambina e causarle dolore senza motivo.
Quando tornammo dalla nostra corsa, alcuni Piraha erano accalcati in un angolo della nostra
casa, e vi era un forte odore di alcol nell’aria. Alcuni di quelli accalcati sembravano cospirare
qualcosa, e ci fissavano. Alcuni sembravano arrabbiati, altri sembravano vergognarsi. Altri
ancora semplicemente avevano lo sguardo fisso a terra, come se guardassero qualcosa che
giaceva sul terreno all’interno del cerchio che avevano creato. Come mi avvicinai, si
scansarono. La figlia di Poko era a terra, morta. Le avevano fatto ingerire a forza del
cachaca uccidendola.
“Cosa è successo alla bambina?” chiesi, quasi in lacrime.
“è morta. Soffriva. Voleva morire,” loro risposero.
Raccolsi la bambina da terra e la tenni in braccio, mentre le lacrime cominciavano a rigarmi
il volto.
“Per quale motivo dovrebbero voler uccidere una neonata?” chiesi a me stesso preso dalla
confusione e dal dolore.
Costruimmo una piccola bara di legno da alcune cassette che avevo. Poi io e il padre della
bambina scavammo un fosso a circa cento metri lungo la sponda del Maici, accanto a dove
Poko era stata seppellita. Posammo la bimba nella buca, la ricoprimmo di terra, davanti a tre

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o quattro altri Piraha che erano venuti ad assistere alla sepoltura. Poi facemmo un bagno nel
fiume, per rimuovere il fango e la terra che ci si era appiccicata addosso. Tornai a casa e mi
misi a pensare.
Più pensavo all’incidente, più iniziavo a realizzare che i Piraha, dal loro punto di vista,
avevano fatto quel che ritenevano più giusto. Non erano semplicemente crudeli o avventati.
La loro concezione della vita, della morte, della malattia era radicalmente differente rispetto
alla mia concezione occidentale. In una terra senza dottori, dove la regola di vita è solo chi è
forte sopravvive, dove la morte è un’esperienza comune e quotidiana e non distante come
nel mio mondo, i Piraha potevano vedere la morte negli occhi e nel fisico di qualcuno molto
prima di me. Loro erano sicuri che quella bambina sarebbe morta. Sentivano che lei soffriva
terribilmente. Ed erano sicuri che il mio stratagemma del tubo per il latte stesse
danneggiando la bambina e prolungandone la sofferenza. Per questo avevano deciso di
sopprimere la bambina. Lo stesso padre diede la morte a sua figlia, forzandola a ingerire
l’alcol. Sapevo di altri bambini che erano sopravvissuti alla morte delle madri, ma erano tutti
bambini in ottima salute al momento del decesso delle donne.
La cultura Piraha che considera i bambini eguali cittadini della società si traduce nel fatto
che non vi sia nessun proibizione riguardo i bambini che non si possa applicare anche agli
adulti e viceversa. Di sicuro non vi è alcun pregiudizio basato sull’età che fa si che i bambini
si debbano “vedere ma non ascoltare”. I bambini Piraha sono rumorosi e indisciplinati e
possono essere testardi quanto vogliono. Essi devono decidere da soli se fare o non fare
quello che la società si aspetta da loro. Col tempo imparano che è nel loro interesse dare
ascolto ai genitori, almeno un poco. Un giovane ragazzo, Paita, a cui era particolarmente
legato, era il figlio del mio buon amico Koxoi - un uomo così rilassato e tranquillo che trovavo
difficile rimanere sveglio intorno a lui, un uomo sorridente, mai di malumore, persino quando
stava per morire di quel che sembrava essere tubercolosi. Il figlio di Koxoi illustra al meglio
la condizione generale dei giovani Piraha.
Un pomeriggio vidi Paita venir giù per il sentiero. Aveva circa tre anni al tempo. Paita era
sempre sporco, mi ricordava Pig Pen, il personaggio del fumetto Peanuts. Inclinava la testa
quando guardava qualcuno, e sorrideva e rideva liberamente. Aveva le braccia e le gambe
ricoperte di fango, dato che il sentiero era fradicio. Ma quel che attirò la mia attenzione fu
che questo bambino di tre anni stava fumando una grossa sigaretta, rollata a mano. Suo
padre senza dubbio l’aveva rollata per lui - un forte e pesante tabacco rollato con della carta
di quaderno. E Paita stava indossando un vestito da donna.
Quando il padre arrivò lungo il sentiero, poco dopo Paita, gli chiesi, ridendo, “Cosa sta
facendo tuo figlio?” E mi riferivo alla sigaretta.
Koxoi rispose, “Oh, mi piace vestirlo con abiti da ragazza.”
Per Koxoi, la cosa inusuale dell’aspetto di suo figlio non era affatto il fumare. Anche se i
Piraha avessero saputo degli effetti a lungo termine del fumo di tabacco, non avrebbero
comunque smesso di lasciare che i loro bambini fumassero. Primo, nessun Piraha fuma così
tanto da far si che il fumo rappresenti un rischio effettivo per la salute - riescono a procurarsi
del tabacco solo ogni due o tre mesi e mai in quantità maggiori di quel che potrebbe
considerarsi una provvista giornaliera. Secondo, se un adulto può arrischiarsi a fumare,
anche un bambino può farlo. Ovviamente, il vestito da ragazza era prova che ai bambini
viene riservato in qualche modo un trattamento diverso rispetto agli adulti. Ma questa
differenza non include la proibizione di alcune attività che per lo più sarebbero considerate
esclusiva degli adulti nella società occidentale.
Una volta un commerciante diede alla tribù abbastanza cachaca da far ubriacare tutti nel
villaggio. E così accadde . Ogni uomo, donna, e bambino nel villaggio si ubriacò da non

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reggersi. Ora, ai Piraha non serve molto alcol per ubriacarsi. Ma vedere bambini di sei anni
barcollare e farfugliare era un esperienza per me nuova. Per i Piraha, però, tutti devono
condividere le difficoltà della vita, e allo stesso modo tutti hanno il diritto di godere dei piaceri
della vita.
Un bambino nato in una famiglia Piraha eredita una serie di relazioni non troppo differenti da
quelle di un bambino nato in una società europea. La differenza maggiore, ovviamente, è
che i bambini Piraha vagabondano per il villaggio e sono considerati legati a tutto il villaggio
e, parzialmente, responsabilità di tutti. Ma nella realtà quotidiana, la maggior parte dei
Piraha fanno parte di un nucleo familiare che include la presenza stabile di un padre, una
madre, fratelli e sorelle (fratelli, fratellastri, o bambini adottati). I genitori trattano i loro
bambini con molto affetto, parlano loro frequentemente e con rispetto, e raramente li
puniscono.
Come nella maggioranza delle società di cacciatori-raccoglitori, vi sono delle specializzazioni
tra i genitori Piraha e tra i due sessi. Le donne sono le principali raccoglitrici dei prodotti della
giungla, tuberi, e altri cibi che vengono dai loro giardini. Gli uomini cacciano, tagliano gli
alberi, e mantengono gli orti nella giungla. Le madri di regola si occupano dei bambini, ma i
padri spesso stanno a casa e badano ai bambini mentre le madri vanno nel campo e tra la
giungla in cerca di frutti, o a caccia di piccola selvaggina insieme ai cani, a raccogliere legna,
o a pescare. (Curiosamente, le donne pescano solo con lenza e ami e cacciano solo con
l’aiuto dei cani, mentre gli uomini usano anche archi e frecce sia per pescare che per
cacciare. Archi e frecce sono strumenti unicamente maschili.)
Il ruolo genitoriale per i Piraha non include le punizioni fisiche, almeno in teoria. Il mio
metodo genitoriale invece prevedeva le punizioni fisiche. Vale la pena comparare i due
metodi perchè sono infine arrivato a credere che l’attitudine dei Piraha verso i bambini fosse
più salutare della mia al tempo. Ero un giovane padre - Shannon era nata quando avevo
diciannove anni. Ed a causa della mia immaturità e il tipo di educazione cristiano, pensavo
che le punizioni corporali fossero appropriate e utili, secondo il precetto biblico che
risparmiare la verga al bambino voldire viziarlo. Shannon, essendo la nostra figlia più
grande, spesso subì il peggio di questa mia fase educativa. Nel villaggio un giorno, disse
qualcosa che pensai meritasse uno sculacciamento. Mi procurai una specie di frustino e le
dissi di raggiungermi nella camera da letto. Lei iniziò a gridare di non meritare una
sculacciata. I Piraha ci raggiunsero dopo poco, come facevano sempre quando ci sentivano
litigare in famiglia.
“Cosa stai facendo, Dan?” un paio di donne chiesero.
“Sto per, uh, ecco…” Hmm. Non sapevo cosa rispondere. Cosa diavolo stavo facendo?
Comunque, sentii il richiamo della bibbia e così dissi a Shannon, “OK, niente sculacciate qui.
Incontriamoci alla fine della pista d’atterraggio e procurati nel tragitto un altro frustino. Ci
incontriamo li tra cinque minuti!”
Appena Shannon uscì di casa, i Piraha le chiesero dove stesse andando.
“Mio padre vuole picchiarmi alla pista d’atterraggio,” lei rispose con un misto di seccatura e
soddisfazione, sapendo quale effetto le sue parole avrebbero avuto.
Bambini e adulti Piraha mi vennero dietro correndo quando poco dopo uscii di casa anch’io.
Ero stato sconfitto. Niente più sculacciate presso i Piraha. Le usanze Piraha avevano vinto.
Shannon fu compiaciuta e deliziata della sua vittoria.
Che effetto ha l’educazione Piraha su di un bambino? Gli adolescenti Piraha, come tutti gli
adolescenti, sono ridacchioni e possono essere molto scemotti e maleducati.
Commentarono che il mio sedere era largo. Scorreggiarono vicino alla tavola proprio mentre

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ci sedevamo a mangiare, e poi si misero a ridere come Jerry Lewis. Apparentemente la
profonda strambezza degli adolescenti è universale.
Però non ho mai visto gli adolescenti Piraha depressi, dormire sino a tardi, rifiutarsi di
prendersi la responsabilità delle proprie azioni, nè provare approcci radicalmente nuovi alla
vita. Essi sono in realtà membri altamente conformisti e produttivi della loro comunità, nel
senso Pirah di produttività (ottimi pescatori, contribuiscono alla sicurezza collettiva, al
bisogno di cibo, e ad altri aspetti della sopravvivenza fisica della comunità). Non vi è segno
però di rabbia adolescenziale, depressione, o precarietà tra la gioventù Piraha. Essi non
sembrano cercare risposte. Le hanno già. E nuove domande raramente sorgono.
Ovviamente, questa condizione di omeostasi può non incoraggiare la creatività e la
individualità, due valori molto importanti nell’occidente. Se si considera l’evoluzione culturale
come una cosa buona, allora i valori Piraha sembrerebbero non adatti, dato che l’evoluzione
culturale presumibilmente necessità qualche tipo di conflitto, angoscia, o sfida. Ma se la vita
dell’individuo non è minacciata e tutti nella società sono soddisfatti, perchè qualcuno
dovrebbe desiderare il cambiamento? Come potrebbero le cose migliorare? Specialmente
se i forestieri con cui si venga a contatto sembrassero più irritabili e meno soddisfatti della
loro vita. Una volta durante i miei primi anni da missionario chiesi ai Piraha se sapessero
perchè mi trovavo li. “Sei qui perchè questo è un bel posto. L’acqua è bella. Ci sono cose
buone da mangiare qui. I Piraha sono brave persone.” Questa era ed è tutt’oggi la
prospettiva Piraha. La vita è bella. La loro educazione, ognuno avendo imparato presto a far
da se, produce una società di persone soddisfatte. E questo è difficile da criticare.

Trovo interessante il fatto che nonostante il forte senso di comunità, non vi è quasi nessuna
circostanza in cui la comunità approvi pratiche di coercizione verso i membri del villaggio. è
inusuale per un Piraha ordinare qualcosa ad un altro Piraha, persino nel caso di un genitore
nei confronti del proprio figlio. Ciò avviene occasionalmente, ma generalmente è un
comportamento mal visto e scoraggiato, come rivelano i commenti, le espressioni, e i gesti
di chi si trova ad assistere. Non ricordo di aver mai visto un adulto intervenire per impedire
che un altro adulto violasse le norme comunitarie.
Un giorno decisi di chiedere ad uno dei miei insegnanti , Kaaboogi, se volesse lavorare con
me. M’incamminai verso la sua casa. Lungo il sentiero, notai che il fratello di Kaaboogi, di
nome Kaapasi, stava bevendo del cachaca. Sentii Kaapasi che gridava al cagnolino bianco
di Kaaboogi, ordinandogli di smetterla di abbaiare. Dopo pochi passi, a pochi metri dalla
capanna di Kaapasi, lo vidi sollevare il suo fucile e sparare nello stomaco al cane di suo
fratello. Il cane guaì e fece un balzo, sanguinando copiosamente, mentre le viscere gli
pendevano dal buco apertosi nel suo addome. Cadde a terra contorcendosi e piangendo.
Kaabogi arrivò correndo e sollevò il cane da terra. Si mise a piangere mentre il cane gli
moriva tra le braccia. Temevo che avrebbe sparato ad uno dei cani di Kaapasi o che
avrebbe attaccato Kaapasi stesso.
Il villaggio si era radunato ad osservare Kaapasi e Kaaboogi - in silenzio interrotto solo dai
guaiti del cane. Kaabogi semplicemente sedette tenendo tra le braccia il suo cane,
piangendo.
“Farai qualcosa a Kaapasi?” chiesi.
“Cosa vuoi dire?” disse Kaabogi, confuso.
“Voglio dire, farai qualcosa a Kaapasi perchè ha sparato al tuo cane?”

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“Non farò niente. Non farò del male a mio fratello. Lui ha agito come un bambino. Ha fatto
una cosa cattiva. Ma è ubriaco e la sua testa non sta funzionando bene. Non doveva fare
del male al mio cane. Il cane era come un figlio per me.”
Anche quando provocati, come nel caso di Kaaboogi, i Piraha erano in grado di reagire con
pazienza, amore, e comprensione, in una maniera quasi sconosciuta a molte altre culture. I
Piraha non sono pacifisti. Non sono per niente perfetti. Ma la pace è molto apprezzata tra
loro, almeno la pace tra i Piraha stessi. Essi si vedono come una famiglia - una famiglia in
cui ogni membro è obbligato a proteggere e preoccuparsi per gli altri membri. Questo non
significa che non violino mai le loro stesse norme. Succede in tutte le comunità. Questo
semplicemente mette in evidenza la norma dell’aiutarsi l’un l’altro e la sua relativa rarità in
altre culture.
Allo stesso tempo, i Piraha sono individualisti per quanto riguarda la loro soppravvivenza e
quella della loro famiglia. L’individuo e la sua famiglia vengono prima del resto. Essi non
lasceranno un altro Piraha morire di fame se possono aiutarlo, ma la persona che chiede
aiuto deve effettivamente averne bisogno - ossia soffrire di qualche impedimento fisico o
essere troppo giovane o troppo vecchio per provvedere a se stesso e non essere
considerato eleggibile a tale aiuto (cioè non essere considerato in condizioni troppo gravi per
essere aiutato, per esempio.) Altrimenti, ognuno bada a se stesso. Se un uomo non può
provvedere a sua moglie e ai suoi bambini, la sua famiglia probabilmente lo abbandonerà
per qualcuno che garantirà una condizione migliore. Se una donna è pigra e non raccoglie
legna per il fuoco, o manioca dall’orto nella foresta, o noci dalla giungla, la donna verrà
abbandonata, perlomeno quando la sua età la renderà non più bella nè fertile.
Ma vi è comunque un senso di appartenenza che permea i valori morali di tutti i Piraha. I
Piraha si accorgono subito che i forestieri non hanno questa qualità. Vedono i brasiliani
raggirare e maltrattare gli altri brasiliani. Vedono i genitori americani sculacciare i propri
bambini. E cosa che li sorprende ancor di più, hanno sentito che gli americani fanno grandi
guerre per uccidere grandi numeri di persone e che sia gli americani che i brasiliani si
uccidono anche tra loro stessi.
Kohoi un giorno disse, “Mio padre mi ha detto di aver visto suo padre andare ad uccidere
altri indiani. Ma non lo facciamo più adesso. Non è buono.” Ci sono altri concetti interessanti
nella cultura Piraha, anche se potrebbero essere meno importanti della loro concezione
della violenza e della guerra.
Per esempio, il matrimonio e altri tipi di relazioni nella cultura Piraha sono parzialmente
incorporati col concetto di kagi. Fu molto difficile per me definire con precisione questo
termine. Se un Piraha vede un piatto di riso e fagioli (sia che esso sia stato portato nel
villaggio da me o da un commerciante brasiliano o da un impiegato del governo, visto che i
Piraha non coltivano fagioli), potrebbero riferirsi al piatto come riso col kagi. Se andassi
presso un villaggio Piraha con i miei bambini, i Piraha potrebbero dire, “Ecco Dan con kagi.”
Oppure i Piraha potrebbero dire la stessa cosa fossi stato con mia moglie: “Dan è arrivato
con kagi.” Se una persona va a caccia con i suoi cani, i Piraha direbbero, “Lui è andato a
caccia con kagi.” Quindi cosa diavolo significa kagi? E in che modo è collegato al
matrimonio? Nonostante nessuna traduzione semplicistica sia possibile, significa qualcosa
come “associazione che ci si aspetta/che si prevede”. La previsione e l’associazione sono
determinati da familiarità culturali e valori culturali. La tua sposa è la persona che per
consuetudine ci si aspetta sia con te. Come il riso coi fagioli, il cacciatore e il suo cane, il
genitore con il figlio, allo stesso modo il matrimonio è una correlazione tra persone legate
culturalmente. Non vi è pressione culturale, tuttavia, ad avere sempre lo stesso kagi.

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Di nuovo, le coppie iniziano la coabitazione e la procreazione senza cerimonia. Se non sono
vincolati da precedenti legami, semplicemente inizieranno a vivere insieme nella stessa
casa. Se sono sposati, prima scompaiono dal villaggio per non più di due o quattro giorni,
mentre i loro relativi partner li cercano. Al loro ritorno, i nuovi amanti cercano una nuova
dimora oppure, nel caso fosse solo una “avventura”, ritornano ai loro precedenti partner.
Non c’è quasi mai nessun tipo di ritorsione da parte dei partner traditi nei confronti del nuovo
amante del partner. Le relazioni tra donne e uomini, ragazzi e ragazze, sposati o no, sono
sempre cordiali e spesso caratterizzate da un flirting più o meno sfrontato.
Sessualmente parlando è la stessa cosa. Fintanto che i bambini non siano costretti o feriti,
non vi è proibizione che vieti attività sessuali con gli adulti. Ricordo che una volta parlavo
con Xisaoxoi, un uomo Piraha sui 40anni, e una bambina di nove o dieci anni stava in piedi
affianco a lui. Mentre parlavamo, la bambina accarezzò con le sue mani il petto dell’uomo in
maniera sensuale e poi proseguì accarezzando l’area genitale dell’uomo attraverso i suoi
sottili e stracciati pantaloncini di nylon. Entrambi sembravano divertiti.
“Cosa sta facendo?” chiesi non curante.
“Oh, sta solo giocando. Noi giochiamo insieme. Quando crescerà sarà mia moglie” rispose
con non chalance - e, infatti, dopo che la ragazza attraversò la pubertà, si sposarono.
Il matrimonio stesso tra i Piraha, come in tutte le culture, è accompagnato da un insieme di
usanze che vengono applicate in diversi modi. Le persone spesso mi chiedono, per
esempio, come i Piraha affrontano la infedeltà coniugale. In questo caso, come
affronterebbe questa coppia, un uomo relativamente vecchio e una ragazza giovane,
l’infedeltà coniugale? La affronterebbero come fanno gli altri Piraha, in quel che a mio parere
è una maniera piuttosto civile di affrontare l’infedeltà.
La soluzione o la risposta ad un eventuale episodio di infedeltà può essere addirittura
spiritosa. Una mattina andai a trovare il mio amico Kohoibiiihiai per chiedergli di insegnarmi
altre cose riguardo la lingua. Mentre mi avvicinavo alla sua capanna, tutto sembrava
normale. Sua moglie, Xibaihoixoi, era seduta sul letto mentre lui era sdraiato con la testa
sulle cosce di lei.
“Hey, mi puoi aiutare a imparare altre parole Piraha oggi?” Io domandai.
Lui cominciò ad alzare la testa per rispondermi. Poi notai che Xibaihoixoi lo teneva per i
capelli. Come lui cercò di alzare la sua testa, lei lo tirò indietro per i capelli, afferrò un
frustino che stava al suo fianco e cominciò a frustarlo sulla fronte, occasionalmente
colpendolo al volto. Lui rideva, ma non troppo, perchè ogni volta che si muoveva lei lo
strattonava per i capelli.
“Mia moglie non mi lascia andare da nessuna parte,” lui disse, ridacchiando.
Sua moglie sorrise debolmente, ma solo per un attimo, poi il sorrisò sparì e lei riprese a
frustarlo ancora più forte. Alcuni di quei colpi sembravano davvero dolorosi. Kohoi non era
nel suo momento migliore, così me ne andai e trovai Xahoabisi, un’altro buon insegnante.
Lui poteva lavorare con me, disse.
Mentre tornavamo verso la mia casa, chiesi, “Allora, che succede a Kohoibiiihiai? Xibaihoixoi
lo tiene fermo per la testa e lo picchia con un frustino.”
“Oh, stava scherzando con un’altra donna ieri notte,” Xahoabisi ridacchiò. “Così stamattina
sua moglie è arrabbiata con lui. Non può andare da nessuna parte oggi.”
Il fatto che Kohoi, un uomo forte e un cacciatore intrepido, lasciasse che sua moglie lo
trattasse così per tutto il giorno, colpendolo a suo piacimento (tre ore dopo visitai la loro
casa di nuovo ed erano nella stessa posizione) era in parte una penitenza volontaria. Era in
parte anche un modo culturalmente raccomandato di farsi perdonare il misfatto. Ho visto
molti uomini da allora essere sottoposti allo stesso trattamento.

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Il giorno dopo, tutto sembrava risolto. Non senti più storie a proposito di Kohoi che
scherzava con altre donne per un bel po. Un modo molto originale di risolvere i problemi
matrimoniali, pensai. Ovviamente non funziona sempre. Ci sono anche divorzi (senza
cerimonia) tra i Piraha. Ma questa forma di punizione è efficace. La donna può esprimere la
sua rabbia in maniera concreta e il marito può dimostrare di essere dispiaciuto lasciando che
la donna lo colpisca sulla testa a piacimento per un giorno intero. è importante notare che
questo comportamento non implica nè urlare nè una rabbia eccessiva. Il ridacchiare,
sorridere, e pure ridere sono componenti necessari del processo, dato che la rabbia è il vizio
capitale tra i Piraha. L’infideltà femminile è pure piuttosto comune. Quando ciò accade il
marito cerca sua moglie. Potrebbe minacciare in qualche modo l’uomo che lo ha reso
cornuto. Ma la violenza contro chiunque, bambini o adulti, è inaccettabile tra i Piraha.
Altre osservazioni riguardo la sessualità tra i Piraha furono un po scioccanti a causa della
mia sensibilità cristiana, specialmente nel momento in cui le usanze delle due culture sono
in conflitto. Un pomeriggio durante la nostra seconda venuta tra i Piraha, passai dalla stanza
di dietro della nostra casa, fatta di legno e foglie di palme, alla stanza centrale della casa,
che non aveva pareti ed in pratica apparteneva più ai Piraha che a noi. Shannon osservava
due uomini Piraha che erano sdraiati sul pavimento di fronte a lei. I due uomini stavano
ridendo, avevano i pantaloncini tirati giù all’altezza delle caviglie, si afferravano a vicenda i
genitali e poi si schiaffeggiavano a vicenda sulla schiena, rotolandosi sul pavimento.
Shannon sogghignò verso di me quando entrai nella stanza. Seguendo la cultura
sessofobica americana, ero scioccato. “Hey, non fate queste cose di fronte a mia figlia!”
gridai indignato.
Loro smisero di ridacchiare e mi guardarono. “Non fare cosa?”
“Quello, ciò che state facendo, toccarvi a vicende il pene.”
“Oh,” dissero loro, sembrando piuttosto confusi. “Non gli piace vedere noi che ci divertiamo
l’uno con l’altro.” Si tirarono su i pantaloncini e, adattandosi velocemente alle nuove
circostanze, cambiarono argomento e mi chiesero se avessi delle caramelle.
Non dovetti mai davvero spiegare a Shannon ne a gli altri figli cosa fossero la riproduzione
umana, la morte, e gli altri processi biologici. Tutti loro si fecero una idea piuttosto chiara di
tutto ciò osservando i Piraha.

Le famiglie Piraha sono più convenzionali ed assomigliano a quelle occidentali. Genitori e


figli sono apertamente affettuosi tra loro - si abbracciano, si toccano, sorridono, giocano,
chiaccherano, e ridono tra loro. Questo è uno dei tratti immediatamente percepibili della
cultura Piraha. Sono sempre stato spronato a diventare una persona più paziente,
guardando i Piraha. I genitori non picchiano i loro bambini e non li comandano a bacchetta,
a meno che non siano veramente obbligati. Gli infanti e i bambini (fino a circa i quattro anni
di età o fino a quando non siano svezzati - cioè quando la vita attiva inizia) sono coccolati e
oggetto di tanta affettuosità.
Le madri svezzano i loro bambini quando partoriscono un altro bambino - solitamente
quando il resto della progenie raggiunge l’età di tre o quattro anni. Lo svezzamento è
traumatico per il bambino per almeno tre ragioni: perdita delle attenzioni degli adulti, fame, e
lavoro. Tutti devono lavorare; tutti devono contribuire alla vita del villaggio. Il bambino da
poco svezzato dovrà presto entrare nel mondo del lavoro adulto. Oltre che le chiacchere e le
risate, la notte si sentono spesso i pianti e le urla dei bambini. Questo è quasi sempre causa
dello svezzamento. Una volta, un dottore era venuto a vedere il villaggio dei Piraha insieme
a me, e mi svegliò durante la notte.

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“Dan, quel bambino che piange sembra stia soffrendo molto e sia molto malato.”
“É tutto a posto,” lo rassicurai, e cercai di riaddormentarmi.
“No, non è tutto a posto! É malato. Se non vieni con me, andrò da solo,” insistette.
“Va bene,” dissi, “andiamo a vedere.” Ma pensai che quel dottore stesse dandosi troppo da
fare quando invece avrebbe dovuto essere addormentato.
Uscimmo e giungemmo alla capanna dove il bambino strillava. Il dottore illuminò l’interno
con la sua torcia elettrica. Un bambino di circa tre anni sedeva li, strillando, mentre i suoi
genitori e i suoi fratelli sembrava dormissero.
“Come possono dormire con tutto questo chiasso?” chiese il dottore.
“Stanno solo facendo finta di dormire,” risposi. “Non vogliono parlare con noi a proposito di
questo bambino.”
“Beh, voglio assicurarmi che il bambino sia OK,” il dottore insistette. “Chiedi loro se il
bambino sta bene.”
Mi rivolsi a Xooi, il padre. “Xooi, il bambino sta male?”
Nessuna risposta.
“Non vogliono parlare,” dissi.
“Chiediglielo di nuovo, per favore!” il dottore insistì. Stava iniziando a infastidirmi.
“Xooi, il bambino sta male?” ripetei.
Con esasperazione evidente nei suoi gesti e nelle sue parole, Xooi finalmente aprì gli occhi
e mi guardò e disse in modo burbero, “No, vuole succhiare il latte dal seno di sua madre.”
Io tradussi.
“Non è malato?” il dottore chiese, incerto se credere a Xooi o no.
“No, non è malato. Torniamo a dormire.”
Tornammo alle nostre amache.
Il ragazzo svezzato non è più un bambino, non è più trattato in maniera speciale come gli
altri bambini più piccoli. Invece di dormire con la mamma, il ragazzo dormirà con i fratelli
qualche metro più in la, lontano dai genitori. I bambini da poco svezzati affrontano
l’inconveniente di avere fame, come tutti i Piraha eccetto i bambini allattati. Ma, di nuovo, la
fame non è considerata un problema eccessivo per i Piraha. Quando i bambini per la prima
volta si affacciano al mondo adulto però, sono scioccati.
Il bambino non è più imboccato e coccolato dai genitori. In soli pochi anni, ci si aspetta che i
ragazzi imparino a pescare mentre i padri, le madri, e le figlie lavorano nell’orto o vanno a
raccogliere o a cacciare.
La vita dei bambini non è spiacevole. Giocano coi giocattoli, se ne hanno, e specialmente
apprezzano palloni da calcio e bambole (anche se nessuno nel villaggio sa come si gioca a
calcio - semplicemente gli piacciono i palloni). Koxoi e Xiooitaohoagi mi colpirono perchè
erano gli unici genitori che chiedevano continuamente giocattoli per i loro bambini quando
dicevo loro che andavo in città. I Piraha sanno costruire trottole, fischietti, canoe giocattolo, e
bambole intagliate, ma non lo fanno mai a meno che un forestiero non lo richieda. Non è
chiaro, dunque, se questi oggetti siano davvero indigeni per i Piraha o no. Potrebbero
essere prestiti culturali o semplicemente tracce di pratiche più antiche ormai in disuso.
Tuttavia vi è un’eccezione a tutto ciò. Spesso, dopo che qualcuno ha visitato il villaggio con
un aereo, i ragazzi si procurano del legno di balsa e fanno dei modellini di aeroplani.
Tutti adorano gli aeroplani che di tanto in tanto arrivano al villaggio. Che io sappia gli abitanti
del villaggio hanno visto atterrare tre tipi diversi di aerei: un aereo anfibio, un idrovolante a
galleggianti, e un Cessna 206. L’aereo anfibio atterra sulla sua pancia sul fiume e il suo
motore singolo è posizionato sopra la cabina. Gli altri due hanno motori singoli installati nella
parte anteriore dell’aereo. Quando gli aerei arrivano i ragazzi ne fanno dei modellini,

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intagliati a mano con i macete e a volte dipinti di rosso col colorante tratto dalla pianta
urucum (un bacello con all’interno dei semi rossi pieni di olio rosso) o, più raramente, il
bambino pittura con il suo stesso sangue il modellino che ha costruito, procurandosi un
taglio sul pollice o su un altro dito.
Ho osservato ragazzi di altri villaggi che senza aver effettivamente visto l’aereo, presentarsi
un paio di giorni dopo con dei modellini, avendo saputo dell’aereo da ragazzi che
assistettero coi loro occhi alla visita dell’aeroplano, basando i loro modellini su quelli dei
ragazzi testimoni oculari dell’avvenimento. Questi modellini, dai 30 ai 60 cm di lunghezza e
tra i 12 e i 15 cm di larghezza, sono costruiti in accordo ad una curiosa esperienza
accumulata. I modellini solitamente hanno due eliche, invece della singola elica degli aerei
monomotore, l’unico tipo di aerei che visita il villaggio. Una elica è piazzata sopra l’abitacolo
e l’altra in punta all’aereo. Questa rappresentazione è un incrocio dei due tipi di aerei che i
Piraha hanno visto al villaggio.

Le mie investigazioni riguardo al cultura Piraha richiedevano che io passassi lunghi periodi
di tempo tra loro. Forse la nostra visita più lunga fu nel 1980, quando spendemmo quasi un
intero anno nel villaggio. All’inizio di questo periodo, vidi che il tetto di foglie di palma della
nostra larga capanna e il nostro pavimento di legno di palma avevano bisogno di essere
sostituiti. Il pavimento era in brutte condizioni perchè mentre eravamo via ai Piraha piaceva
dormire nella stanza che era il mio studio. Gli piaceva stare li e guardare le stelle, e per fare
ciò fecere dei buchi attraverso il tetto, rovinandolo.
Ma il problema del tetto segnò l’inizio del mio addentrarsi nel vero mondo dei Piraha, la
giungla, dove il mio giudizio riguardo i Piraha divenne più positivo. Presi a considerarli come
uno dei gruppi survivalisti più ingegnosi e pieni di risorse del mondo. Dopo averli visti
all’opera nella giungla, realizzai che il villaggio era per loro nient’altro che il loro salotto, un
posto dove rilassarsi. E non si può capire le persone solo osservandole nei loro momenti di
svago. La giungla e il fiume sono l’ufficio dei Piraha, la loro officina, il loro laboratorio, e il
loro parco giochi.
Vista la condizione del mio tetto, chiesi ai Piraha se volessero aiutarmi a raccogliere altre
foglie di palma per il tetto e altro legno di palma paxiuba per tappare i buchi nel mio
pavimento (dove i buchi erano serviti ai Piraha come focolari all’interno della casa). Non ero
mai stato in profondità nella giungla, nonostante fossi tra i Piraha da mesi. Avevo perso
senza saperlo molte occasioni di conoscerli molto meglio di quanto non li conoscessi al
tempo.
Essere un bravo linguista non richiede solo stare alla scrivania ma anche molte ore tra la
gente. Decisi così di andare con i Piraha all’interno della giungla in cerca di materiale per il
tetto, per aiutarli, imparare da loro, e partecipare alle loro attività.
Così mi preparai per la spedizione. Agganciai due borracce militari piene d’acqua alla mia
cintura militare, insieme ad un lungo macete messicano “Acapulco”. I cinque uomini Piraha,
che portavano con se nient’altro che un’ascia e qualche macete, risero del mio
equipaggiamento di camicia a maniche lunghe, pantaloni lunghi, stivali, cappello, borracce, e
un enorme macete. Ma partimmo comunque, lungo il sentiero, i miei compagni ridendo e
chiaccherando, io che facevo un rumore metallico ad ogni passo, quando le borracce e il
macete sbattevano tra loro, inoltre cercavo di non colpirmi da solo nelle mie parti private con
il manico del macete quando rimbalzava su un tronco d’albero.
Dopo circa trenta minuti, la giungla divenne più alta e più scura, il sottobosco meno denso.
L’aria divenne più fresca. Le mosche iniziarono a ronzare. E sentii il mio suono preferito

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nell’intera Amazzonia, il falsetto hwehwioo degli uccelli urlanti Piha. A quel punto notai un
cambiamento nei miei compagni di viaggio. Le braccia dei Piraha erano piegate sul petto, a
formare una X, anche mentre camminavano ad un passo svelto che richiedeva che io ogni
tanto mi mettessi a correre per non perderli. Non occupavano spazio inutile con i loro corpi.
Camminavano con leggerezza e sicurezza.
Quando arrivammo a un ruscello, l’unico modo di attraversarlo era un tronco d’albero
ricoperto di lichene. I Piraha vi camminarono sopra senza un attimo di esitazione. Io feci due
passi sul tronco, scivolai, e caddi nel ruscello. Venendone fuori alla stessa velocità con cui ci
cascai dentro (questi ruscelli sono l’habitat di molte creature, come le razze, anaconda, e
piccoli caimani), arrampicandomi sulla sponda in modo sgraziato, ritrovai il sentiero e
raggiunsi i miei compagni. I Piraha si comportarono come se avessero notato appena la mia
caduta - in ogni caso ero molto imbarazzato e loro furono molto cortesi a non aggravare il
mio imbarazzo non offrendosi di aiutarmi. Risero quando li raggiunsi, solo per dare l’idea che
non fosse niente di grave, niente di cui vergognarsi (ovviamente, loro non sarebbero mai
caduti nel ruscello, nè sarebbe successo ad alcun bambino Piraha, ne ai loro cani, i loro
nonni, e neanche i disabili tra i Piraha). Arrivammo infine ad una macchia di palme paxiuba.
Aiutai a tagliare i tronchi di palma. Notai subito che nonostante la mia taglia, i Piraha
penetravano i tronchi più in profondità di me ad ogni colpo d’accetta. Erano più bravi con
l’accetta, più efficienti nei loro movimenti. Era fradicio di sudore e aveva già finito una della
mie borracce. I corpi dei Piraha erano completamente asciutti. Non avevano ancora bevuto
neanche un goccio d’acqua.
Dopo che gli uomini furono d’accordo col fatto ti aver raccolto abbastanza materiale quanto
potevamo trasportarne in un unico viaggio, legammo il legno di palma e il fogliamo in fasci.
Ognuno poi raccolse un fascio o due e iniziammo il tragitto di qualche chilometro per
ritornare al villaggio. La via da seguire era sembrata ovvia all’andata, ma adesso mi sentivo
piuttosto incerto riguardo la direzione da prendere e non presi l’iniziativa, osservavo invece i
Piraha con attenzione. Loro sorrisero fermandosi. “Vai tu in testa”, ridevano sotto i baffi.
“Portaci tu indietro al villaggio.” Ci provai. Ma continuavo a sbagliare direzione, infilandomi in
qualche vicolo cieco di cespugli. Ciò divertiva molto i Piraha. Nonostante i ritardi che stavo
causando, erano contenti di lasciarmi alla guida. Nessuno aveva fretta. Quando trovai un
sentiero principale più ovvio, incominciammo davvero la marcia e il peso del mio carico iniziò
a farsi sentire. Ad ogni passo il legno di palma sulla mia schiena sbatteva e rimbalzava su
rami sporgenti o su tronchi di alberi lungo il sentiero, e io inciampavo sulle radici sporgenti
degli alberi e scivolavo sopra le foglie lungo il sentiero. Ero stanco e spossato. Ero sorpreso
di come i Piraha non sembrassero affatto stanchi, invece. Nel villaggio gli uomini Piraha
evitano di trasportare cose pesanti. Quando chiedevo loro di aiutarmi a trasportare scatoloni
o barili o cose del genere, erano sempre riluttanti nell’acconsentire alle mie richieste.
Quando poi decidevano di aiutarmi, sembrava che a malapena riuscissero a sollevare cose
che io riuscivo a trasportare con facilità da solo. Ero giunto a conclusione che fossero
semplicemente deboli e mancassero di resistenza fisica. Ma mi sbagliavo. Non capitava
spesso che mettessero le mani su oggetti stranieri e non gli piaceva far vedere che non
sapevano come trasportali. Neppure erano entusiasti del fatto che io chiedessi loro aiuto in
quello che era considerato lavoro che avrei dovuto fare per conto mio. Ne la forza nè la
prestanza avevano niente a che fare con la loro svogliatezza.
Mentre camminavamo, realizzai che stavo veramente faticando tanto e sudando di nuovo
profusamente. Incomincia a dubitare di potercela fare fino al villaggio con quel carico sulla
schiena. I miei pensieri furono interrotti di Koxoi, che mi si affiancò, sorrise, e poi allungò la
mano e prese le mie fascette di legna e se le caricò sulla sua schiena, aggiungendole al suo

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carico. “Non sai come trasportarle” fu tutto quello che disse. Si era messo sulle spalle forse
venti chili extra. Venti chili sono un carico molto pesante quando si cammina per parecchi
chilometri lungo uno stretto sentiero tra la giungla, circondati da vegetazione che blocca la
via. Ma adesso Koxoi stava trasportando almeno 50 chili. E sapevo che 50 chili dovevano
essere pesanti anche per lui. Lavorando e sudando insieme, ridendo delle nostre difficoltà e
dei nostri errori, i Piraha e me cosolidammo la nostra amicizia attraverso queste spedizioni
tra la giungla.

Un altro aspetto della cultura Piraha che volevo comprendere sin dal mio primo tentativo di
abbozzare quali fossero i loro principali valori culturali, era il valore della coercizione - ossia
come la società Piraha spingeva i suoi membri a fare ciò che ci si aspettava da loro.
Una credenza molto comune è che la maggior parte delle popolazioni di Indiani d’America
hanno capi tribù o altri tipi di figure indigene di comando. CIò non è corretto. Molte società
indiane d’america sono per tradizione egalitarie. La vita di tutti i giorni in queste società, che
sono molte di più di quel che si pensa, è libera dall’influenza di qualsiasi tipo di leader. Vi
sono numerose ragioni causa dell’errata credenza per cui le tribù indigene d’America
avrebbero naturalmente una struttura monarchica.
Primo, si tende a proiettare i valori ed i meccanismi della nostra società sopra le altre
società. E visto che è difficile per noi immaginare la nostra società senza alcun tipo di leader
di sorta, e specialmente leader con il potere di applicare le regole sociali, forse è anche
difficile per noi immaginare che vi siano società antiche e perfettamente funzionanti che non
abbiano regole di questo tipo.
Secondo, le idee di molti occidentali sono pesantemente influenzate dai film di Hollywood e
altre rappresentazioni fantasiose di queste società indigene. I film raramente dipingono le
società di indiani d’america senza la presenza di un qualche tipo di capo.
Infine, e forse più importante, le società occidentali preferiscono che gli Indiani d’America
abbiano dei leaders con cui si possa fare affari. É quasi impossibile, per esempio, ottenere
l’accesso a terre di Indiani o persino cedere loro della terra legalmente senza un
rappresentante. Ciò che spesso accade, come nella regione Xingu del Brasile ed in altri
luoghi delle americhe, è che i capi sono stati inventati e dati loro, in molti casi, diritti e poteri
artificiali come rappresentanti legali della “loro” gente, in modo da facilitare l’accesso
economico alle terre Indiane.
Una delle ragioni per la diffusione dell’idea che tutte le tribù hanno un capo è il fatto che
universalmente le società implicano un certo tipo di controllo - ed un controllo centralizzato è
più facile da capire rispetto al tipo di controllo più attenuato presente in molte comunità
indiane americane. Emile Durkheim, il pioniere francese della sociologia a cavallo del
19esimo secolo e l’inizio del ventesimo, descrisse in modo convincente come la coercizione
è fondamentale per la costituzione delle società. I membri di ogni società sono legati tra loro
da valori e limiti di gruppo e la maggioranza dei membri rimane entro i limiti imposti dai valori
(i criminali e i pazzi sono due dei più ovvi controesempi - i membri marginalizzati della
società, i trasgressori).
Comunque, i Piraha costituiscono una società. Dunque, se Durkheim e gli altri sociologi
hanno ragione, allora deve esserci un modo di tenere la gente in riga, una qualche maniera
di assicurarsi un’uniformità di comportamento. Il comportamento accettato, dopotutto, è
benefico per la società e per gli individui che costituiscono la società. Esso porta, tra le altre
cose, la sicurezza di un avvenire. Allora in che modo la società Piraha manifesta la
coercizione?

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Non vi è una coercizione “ufficiale” nella società Piraha - niente polizia, tribunali, o capi. Ma
la coercizione è comunque presente. I principali modi di coercizione osservati sono
l’ostracismo e gli spiriti. Se il comportamento di qualcuno è anormale in modo tale da dare
fastidio alla maggioranza della tribù, lui o lei sarà gradualmente ostracizzato. Un uomo
anziano, Hoaaipi, che conobbi all’inizio della mia carriera tra i Piraha, era inusuale nel senso
che lui e sua moglie vivevano da soli, separati dagli altri Piraha da una considerevole
distanza. Quando remò sino al villaggio per incontrarmi la prima delle due volte che ebbi
occasione di incontrarlo, arrivò senza oggetti occidentali, in una kagahoi invece che in una
canoa brasiliana, indossando solo un perizoma. Ciò significava che egli non partecipava alle
normali relazioni commerciali e sociali che la maggior parte dei Piraha teneva tra loro e col
mondo esterno. Quando arrivò, la gente lo fissò molto più di quanto solitamente fissasse me.
Inoltre aveva una ferita fresca procuratagli dalla freccia di un altro Piraha, Tiigii. Non voleva
medicine per la ferita di freccia, voleva invece del caffè e dello zucchero, che io gli diedi con
piacere, come giusta ricompensa per l’occasione di poterlo incontrare. Anche se sembrava
un gentile uomo anziano, i Piraha non lo volevano intorno. Dicevano che era cattivo. Ancor
oggi non ho idea a cosa alludessero, ma so che quell’uomo fu il primo Piraha, ma non
l’ultimo, che potei conoscere e che era stato ostracizzato dalla tribù.
Un’altra forma effettiva di ostracismo, molto meno drammatica ma più comune, è quella di
escludere un individuo dalla divisione del cibo per un po. Questa esclusione può durare per
un giorno o addirittura qualche giorno, raramente di più. Molti uomini vennero da me a
lamentarsi che questo o quel Piraha erano arrabbiati per qualsivoglia ragione e quindi
qualcuno non poteva usare la canoa per andare a pesca, o che nessuno dividesse il cibo
con loro. Poi solitamente chi veniva a lamentarsi chiedeva il mio intervento, cosa che io
rifiutavo sempre, oppure mi veniva chiesto del cibo, che io davo spesso, cercando di tirarmi
fuori dalle dispute interne del villaggio.
Gli spiriti possono dire al villaggio intero cosa si dovrebbe esser fatto o cosa non dovrebbe
esser fatto. Gli spiriti possono rivolgersi sia agli individui o semplicemente parlare al gruppo
intero. I Piraha ascoltano attentamente e spesso seguono le esortazioni dei kaoaibogi. Uno
spirito potrebbe dire qualcosa del tipo “Non voglio Gesù. Lui non è Piraha,” oppure “Non
andate a caccia lungo il fiume domani”, oppure cose che rappresentano valori comuni, come
“Non mangiate serpenti.” Attraverso gli spiriti, l’ostracismo, le regole della condivisione del
cibo, e così via, la società Piraha disciplina se stessa. Vi è molta poca coercizione rispetto
ad altre società, ma sembra ce ne sia abbastanza a prevenire un comportamento erratico
dei Piraha.

L’esperienza dei miei bambini nel vivere come una minoranza all’interno di una cultura
amazzonica ha insegnato loro a “vedere” il mondo in maniera diversa e ha contribuito alla
loro crescita. Quando per la prima volta videro i Piraha, tutti i miei bambini dissero che i
Piraha erano le persone più brutte che avessero mai visto. I Piraha raramente si lavano col
sapone (non ne hanno), le donne non spazzolano i loro capelli (non hanno spazzole), e la
pelle del bambino Piraha medio è incrostata di terra, muco, e sangue. Ma dopo che fecero
conoscenza con i Piraha, l’attitudine dei miei bambini cambiò. Quasi un anno dopo, quando
un ufficiale militare brasiliano in visita al villaggiò commentò che i Piraha erano brutti, i miei
bambini si arrabbiarono tantissimo. “Come può chiamare i Piraha brutti?” si chiedevano.
Avevano dimenticato di aver espresso la stessa opinione in passato e adesso pensavano
che i Piraha fossero bella gente. Impararono a pensare simultaneamente come Americani,
Piraha, e Brasiliani. Shannon e Kristene fecero amicizia in fretta ed iniziarono a andare in

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giro presto la mattina con le altre ragazze Piraha della loro età, quando non avevano compiti
scolastici da fare, e andare in canoa su e giù per il fiume, ritornando solo nel tardo
pomeriggio con frutti di bosco, noci, e altre delicatezze della giungla.
I miei figli impararono anche come i Piraha affrontavano il pericoli della natura. Io e Shannon
una volta andammo con gli uomini a cacciare un anaconda. Kohoibiiihiai, un buon amico
oltre che un buon insegnanti linguistico, ci chiese di andare con lui e suo fratello, Poioi, fino
ad un punto a circa quattro minuti di barca lungo il fiume. Quando arrivammo al punto
stabilito, mi disse di spegnere il motore così da poter remare fino presso alla riva. Feci ciò
che mi chiese ed entrambi Kohoi e Poioi remarono silenziosamente fino ad un punto proprio
sotto alcuni alberi sporgenti sulla riva destra del fiume. Kohoi si voltò verso me e Shannon e
chiese, “Vedete quel buco li appena sotto il livello dell’acqua?”
“No,” rispondemmo noi. Non vedevo niente.
“Guardate!” disse lui.
Subito Kohoi prese il suo arco, come tutti gli archi Piraha lungo circa due metri, e lo agitò
sott’acqua per qualche secondo.
“Questo lo farà arrabbiare.” Ridacchiò. “Lo vedete?” chiese.
“No,” risposi. Ne io ne Shannon riuscivamo a vedere nulla attraverso l’acqua fangosa, come
è l’acqua del fiume durante la stagione delle piogge.
“Guarda il fango!” Kohoi esclamò. “Si sta muovendo.”
Vidi in effetti un piccolo vortice di fango increspare la superficie. Prima che potessi aprire
bocca, Kohoi balzò in piedi sulla barca e tese il suo arco. Thwang! Thwang! Due frecce
partirono attraverso l’acqua l’una un secondo dopo l’altra.
Quasi immediatamente un anaconda di tre metri saltò fuori dalle acque del fiume e atterrò
sulla sponda, dimenandosi, mentre le lunghe frecce Piraha lo trafiggevano sulla testa e sul
corpo.
“Aiutatemi a tirarlo su,” Kohoi disse a me e Poioi, che sorrideva contentissimo.
“Cosa ne facciamo con questo?” gli chiesi, mentre afferravo il serpentone, cercando di
prenderlo per la coda così da poterlo trascinare sulla barca, mentre Shannon era rimasta
senza parole. Sapevo che i Piraha non mangiano gli anaconda, perciò non riuscivo a capire
perchè avevamo acchiappato questo serpentone gigante.
“Lo useremo per spaventare le donne,” disse Kohoi, ridendo.
Lo portammo fino al villaggio. Una volta arrivati, notai che il serpente si muoveva ancora.
Così lo colpii sulla testa con un remo per assicurarmi che morisse, rompendo il remo nel
processo. Questo fece ridere di gusto Kohoi e Poioi. Immaginati essere spaventati di un
serpente con una freccia conficcata nella testa. Poi, dopo aver rimosso le frecce,
sistemammo il serpente vicino alla sponda dove le donne andavano a fare il bagno.
“Questo le spaventerà!” Kohoi e Poioi ridevano risalendo la sponda.
Io ormeggiai la barca e staccai il motore, poi io e Shannon risalimmo la sponda fino al
villaggio. Shannon corse a raccontare alla madre e ai fratelli quello che aveva appena visto.
Il tentativo di spaventare le donne non andò a buon fine però. Ci avevano visto arrivare con
il seprente, e appena risalimmo la sponda, le donne corsero giù e tirarono il serpente fuori
dall’acqua, tenendolo in braccio e ridendo.
Questo tipo di umorismo Piraha funziona grazie al loro forte senso di comunità. Possono
mostrare sarcasmo, fare scherzi pratici come l’anaconda in riva al fiume, e così via, perchè
sono legati tra loro saldamente e hanno molta fiducia l’un l’altro (non fiducia cieca - vi sono,
dopotutto, ladri e tradimenti - ma principalmente vi è fiducia riguardo al fatto che vi è
comprensione tra i membri della comunità e che si condividono gli stessi valori).

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E questo senso di comunità, xahaigi, si basa sul nucleo familiare, dove la maggior parte dei
valori e del linguaggio sono insegnati. Le famiglie sono centrali nella società Piraha. Ogni
Piraha è, in un certo senso, fratello o sorella di tutti gli altri membri della tribù. Ma il legame
più importante è di gran lunga quella tra il nucleo familiare.

7. Natura e l’Immediatezza dell’Esperienza

La relazione dei Piraha con la natura è fondamentale se si li vuole comprendere. Capire


come funzione questa relazione è importante per ottenere una visione totale dei loro valori e
della loro cultura allo stesso modo in cui è necessario capire la loro cultura materiale e il loro
senso di comunità. Quando iniziai a studiare più in dettaglio la relazione dei Piraha con la
natura, scoprii che i concetti e le parole relative all’ambiente circostante aiutano a definire la
loro idea di come la natura funzionasse e di come essa sia connessa all’essere umano. Due
termini, bigi e xoi, sono rivelatori in questo senso e ci aiutano a comprendere come i Piraha
vedono il mondo.
Imparai a proposito del bigi un giorno che aveva appena smesso di piovere. Primo, registrai
la frase bigi xihoixaaga in quanto descrizione del terreno umido o fangoso. Poi indicai il cielo
annuvolato in modo da ottenere il termine corrispondente a cielo nuvoloso. La persona con
cui parlavo semplicemente ripetè bigi xihoixaaga - la stessa frase che mi era stata detta
riferendosi al terreno fangoso. Pensai ci fosse qualcosa che mi sfuggiva. Terra e cielo sono
due cose ben diverse. Perciò provai a chiedere le stesse cose a vari interlocutori. Tutti mi
diedero la stessa risposta. É possibile, ovviamente, che stessi avendo problemi ad ottenere
una risposta adeguata da tutti i miei insegnanti, e che quello che mi veniva detto fosse
qualcosa del tipo “Sei un idiota” o “Stai indicando.” Ma era piuttosto convinto non fosse
questo il caso.
Questi concetti sono importanti per vari motivi. Specialmente interessante è il loro contributo
alla nostra comprensione del concetto di malattia tra i Piraha. Imparai questo piuttosto
presto quando un giorno io e Kohoibiiihiai stavamo parlando di sua figlia, Xibii. Cercavo di
spiegargli come mai sua figlia avesse la malaria. Stavo iniziando a parlargli delle zanzare e
del sangue.
“No, no,” Kohoi mi interruppe a metà frase. “Xibii sta male perchè ha calpestato una foglia.”
“Come? Anche io ho calpestato una foglia. Non sto male,” risposi, confuso dalla sua
opinione sulle cause della malattia di sua figlia.
“Una foglia che viene da sopra,” disse lui, accrescendo il mistero.
“Quale foglia che vien da sopra?”
“Un senza sangue dal bigi di su è venuto al bigi di giù e ha lasciato una foglia. Quando i
Piraha calpestano foglie che vengono dal bigi di su, si ammalano. Sono come le nostre
foglie. Ma ti fanno ammalare.”
“Come sai che è una foglia del bigi di su?” chiesi io.
“Lo sai perchè quando ne calpesti una ti ammali.”
Interrogai Kohoi ulteriormente e poi ne parlai anche con altri Piraha. Scoprii che per i Piraha
l’universo è come una torta, ogni strato è suddiviso dagli altri da una linea di divisione
chiamata bigi. Ci sono mondi sopra il cielo e mondi sotto la terra. Riconobbi la similitudine,
non identica, con le credenze dei Yanomami, i quali pure credono ad un universo stratificato.
Allo stesso modo per cui bigi è un concetto più ampio e generale di quanto avessi
immaginato possibile, così accade anche per un altro termine ambientale molto importante,
xoi. Originariamente credevo xoi significasse semplicemente “giungla,” perchè questo è il
suo uso più comune. Poi realizzai che di fatto indica la totalità dello spazio tra i bigi. Perciò

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può riferirsi alla “biosfera” o “giungla”, più o meno come capita al nostro termine terra, che
può riferirsi sia al nostro pianeta sia al suolo su cui camminiamo. Se si va nella giungla si
dice, “Vado nel xoi.” Se si dice a qualcuno di rimanere immobile, come quando si siede in
una canoa o quando un insetto velenoso si poggia su un braccio, allora si dice, “Non
muoverti nel xoi.” Se è una giornata senza nuvole si può dire, “Il xoi è bello.” Perciò la parola
non indica solo la giungla.
Questi termini furono per me rivelatori dei diversi modi di concepire l’ambiente che ci
circonda. Ma vi erano altre sorprese in serbo per me.
Una prima sorpresa fu l’apparente mancanza di numeri e di modi di contare. All’inizio
pensavo che i Piraha avessero i numeri uno, due, e “molti”, un sistema piuttosto comune in
vari parti del mondo. Ma realizzai che ciò che io e altri studiosi pensavamo fossero numeri,
erano in realtà solo quantità relative. Me ne accorsi la prima volta quando i Piraha mi
chiesero quando l’aereo sarebbe tornato al villaggio, una domanda che sembrava
provassero gusto a farmi di continuo, e realizzai più tardi, perchè ai Piraha sembra quasi
magico come io sappia con certezza il preciso giorno in cui l’aereo ritornerà.
Tenendo in aria due dita, dicevo, “Hoi giorni,” usando quel che credevo fosse il termine per il
numero due. Mi guardavano confusi. Dopo osservazioni più attente, notai che i Piraha non
usavano mai le loro dita o nessun’altra parte del corpo, nè oggetti esterni, per contare o per
fare dei calcoli. Notai anche che potevano usare il termine che io pensavo designasse il
numero “due” per due piccoli pesci oppure per un solo pesce relativamente grande,
contraddicendo la mia supposizione che quel termine volesse dire “due” e supportando la
mia nuova idea dei “numeri” come indicazioni relative al volume - due piccoli pesci e un
pesce di medie dimensioni sono grosso modo uguali in volume, ma entrambi avrebbero un
volume minore di un pesce più di taglia grande, e ciò richiederebbe l’utilizzo di un diverso
“numero”. In seguito molti esperimenti, poi pubblicati, furono condotti da me e da una serie
di psicologi che dimostrarono definitivamente che i Piraha non hanno affatto numeri e
nessun tipo di conteggio.
Prima di condurre questi esperimenti, comunque, avevo degli indizi pratici che supportavano
la mancanza del conteggio (ndt o del contare) nella lingua.
Nel 1980, sotto pressione dei Piraha, io e Keren ci dedicammo ad una serie di lezioni serali
per insegnare a contare e a leggere e scrivere ai Piraha. La mia intera famiglia partecipò,
con Shannon, Kristene, e Caleb (avevano nove, sei, e tre anni al tempo) che sedevano tra
gli uomini e le donne Piraha mentre li facevano esercitare. Ogni sera per otto mesi
provammo a insegnare ai Piraha come contare fino a dieci in portoghese. Volevano
imparare perchè non capivano come funzionasse il denaro e volevano essere in grado di
capire quando venivano fregati (a detta loro) dai commercianti fluviali. Dopo otto mesi di
lezioni giornaliere, senza dover mai costringere i Piraha ad assistere alle lezioni (ognuna di
esse veniva organizzata molto entusiasticamente proprio dai Piraha), gli alunni conclusero
che non fossero in grado di imparare tali nozioni e abbandonarono il progetto. Neanche un
solo Piraha imparò a contare fino a dieci in otto mesi. Nessuno di loro imparò come
addizionare 3+1 o neanche 1+1 (se consideriamo prova di aver imparato la lezione scrivere
con regolarità la risposta esatta alla questione). Solo occasionalmente alcuni davano la
risposta esatta.
Qualunque sia la ragione dietro all’incapacità di imparare la nozione del contare da parte dei
Piraha, io personalmente credo che un fattore cruciali sia il fatto che essi non hanno stima
per la cultura o civiltà portoghese (o americana). Di fatto, si oppongono attivamente
all’adozione di alcuni aspetti della nostra cultura. Fanno domande a proposito delle culture
straniere principalmente per curiosità ma niente di più. Se si prova a suggerire, come noi

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provammo, durante una lezione di matematica, che ci sia una risposta più giusta delle altre
ad una precisa domanda, ciò verrà accolto con disapprovazione e risulterà probabilmente in
un cambio del soggetto della conversazione o con palese semplice irritazione.
Come ulteriore esempio, pensai che i Piraha riuscissero a “scrivere delle storie” su dei fogli
di carta, che avevo dato loro a tale scopo dopo che essi stessi ne avevano chiesto. Queste
iscrizioni consistevano usualmente di una serie di identici, ripetuti, segni circolari. Ma gli
autori del testo “leggevano” ciò che avevano scritto, raccontandomi qualcosa della loro
giornata, o a proposito della malattia di qualcuno, e così via - il tutto facendo finta di leggere i
segni circolari. A volte facevano dei segni sulla carta e ripetevano i numeri portoghesi,
mentre tenevano in aria il foglio con i segni così che io potessi vederlo. Non gli importava
che i simboli scritti fossero tutti uguali, nè che ci fossero modi corretti e incorretti di scrivere.
Quando chiedevo loro di riscrivere lo stesso simbolo due volte, esso non veniva mai
replicato uguale. Essi consideravano i loro segni non diversi dai segni che facevo io.
Durante le lezioni, non fummo mai capaci di fare disegnare a un Piraha una linea dritta
senza un sacco di “indirizzamento”, e non riuscivano mai a replicare il disegno in prove
seguenti senza il nostro aiuto. Principalmente questo accade perchè loro si divertono nel
processo e trovano divertente l’interazione alunno insegnante, ma anche perchè l’idea di
una maniera “corretta” di disegnare qualcosa è profondamente assente.
Iniziai a ipotizzare che questi interessanti aspetti fossero collegati a caratteri più
fondamentali della cultura Piraha. Non avevo però ancora idea di quali fosse questi caratteri
fondamentali.
Notai in seguito, discutendone con Keren e con Steve Sheldon e Arlo Heinrichs, che i Piraha
non avevano parole singole per i colori, ossia, non vi erano termini per i colori che non
fossero composti da altre parole. All’inizio accettai semplicemente l’analisi di Steve Sheldon
per cui vi erano termini che indicavano i colori nella lingua Piraha. La lista dei colori di
Sheldon consisteva di termini per il nero, bianco, rosso (usato anche per il giallo), e verde
(usato anche per il blu).
Però, questi termini non erano semplici parole, come si scoprì. Erano frasi. Traduzioni più
accurate mostrarono che le parole delle frasi significavano: “il sangue è sporco” per il colore
nero; “si vede” o “è trasparente” per il colore bianco; “è sangue” per il colore rosso; ed “è
temporaneamente immaturo” per il colore verde.
Sono convinto che i termini per i colori condividano almeno una proprietà con i numeri. I
numeri sono generalizzazioni che raggruppano entità in insiemi che condividono proprietà
aritmetiche generali, piuttosto che proprietà particolari e uniche di un oggetto. Allo stesso
modo, come hanno dimostrato numerosi studi di psicologi, linguisti e filosofi, i termini che
indicano i colori non sono come gli altri aggettivi perchè prevedono generalizzazioni
particolari che impongono limiti artificiali allo spettro della luce visibile.
Questo non significa che i Piraha non percepiscono i colori o non possano indicarli.
Percepiscono i colori intorno a loro come chiunque altro. Ma non codificano la loro
esperienza visiva con paroli singole che sono rigidamente utilizzate per categorizzare
l’esperienza visiva dei colori. Usano frasi.
Nessun numero, nessun modo di contare, e nessun termine che indichi il colore. Ancora non
riuscivo a comprendere il tutto, ma l’accumularsi dei dati iniziava a darmi un’idea più precisa,
specialmente attraverso lo studio delle conversazioni Piraha e dei racconti più lunghi.
Poi scoprii che i Piraha non possiedono ancora un’altra categoria di parole che molti linguisti
credono sia universale, ossia i quantificatori, come tutto, ogni, e così via.

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Per apprezzare tale caratteristica, è utile osservare le espressioni Piraha che più si
avvicinano ai quantificatori (le espressioni che fungono da quantificatori in Piraha e i
quantificatori veri e propri in inglese sono evidenziati in grassetto):

Hiaitiihi hi ogixaagao pio kaobii


“La maggior parte delle persone è andata a nuotare/sta nuotando/facendo il bagno, etc.”
(Letteralmente, “la grandezza delle persone…”)

Ti xogixaagao itii isi ogio xi kohoaibaai, koga hoi hi hi Kohoi hiaba


“Mangiammo la maggior parte del pesce.” (Letteralmente, “La mia grandezza mangiò [a] la
grandezza del perse, tuttavia c’era una piccolezza che non mangiammò.”)

Quest’ultimo periodo è la cosa più vicina ad un sostituto quantificatore come ogni, ad


esempio Ogni uomo è andato al campo.

Xigihi hi xogiaago xoga hapii.. Xaikaibaisi, Xahoaapati pio, Tiigi hi pio, ogiaagao
(Letteralmente, “La grandezza/maggioranza degli uomini sono tutti andati al campo,
Xaikaibaisi, Xahoaapati, Tiigi la loro grandezza è andata.”)

Gatahai hoihii xabaxaigio aoaaga xagaoa koo


“C’erano alcuni barattoli nella canoa del forestiero.” (Letteralmente, “Piccolezza di barattoli
rimaneva nello stomaco della canoa.”)

Tuttavia, ci sono due parole, che di solito si riferiscono ad una quantità di cibo mangiato o
desiderato, la cui forma più vicina di traduzione potrebbe essere “intero” (baaiso) e “parte”
(giiai), facendoli apparire come dei quantificatori:

Tiobahai hi baaiso kohoaisoogabagai


“Il bambino vuole/voleva mangiare la cosa intera.” (Letteralmente, “Bambino
interezza/pienezza mangiare desidera.”)

Tiobahai hi giiai kohoaisoogabagai


“Il bambino vuole/voleva mangiare un pezzo della cosa.” (Letteralmente, “Bambino quello li
mangiare desidera.”)

Tralasciando i significati letterali, ci sono ragioni per non interpretare queste due parole
come quantificatori. Primo, essi possono essere utilizzati in modi in cui i quantificatori non
possono essere utilizzati. Il contrasto negli esempi seguenti lo mostra. Qualcuno aveva
appena ucciso un anaconda. Kohoi pronuncia la prima frase. Poi qualcuno prende un pezzo
del serpente prima che venga venduto a me. Kohoi pronuncia la seconda frase, in cui baaiso
(intero) viene utilizzato nella lingua Piraha, dove invece non sarebbe possibile usarlo in
inglese (ndt italiano?).

Xaooi hi paohoa ai xisoi baaiso xoaboihai


“Il forestiero probabilmente comprerà l’intera pelle di anaconda.”

Xaio hi baaiso xoaobaha. Hi xogio xoaobaha


“Si, lui ha comprato tutta la cosa.”

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Perca capire la ragione dell’importanza di questo dialogo nel mostrare che la lingua Piraha
non ha quantificatori, compariamo prima la frase con un equivalente in italiano.
Immaginiamo che qualcuno, magari un negoziante, ci dica, “Certo, ti venderò tutta la carne.”
Poi lo si paga l’ammontare per tutto il pezzo di carne.
Ma poi il negoziante si prende un pezzo di carne per se proprio davanti ai nostri occhi, prima
di impacchettare il resto e darcelo. Il commerciante ha fatto qualcosa di disonesto? Se
pensiamo di si lo si pensa perchè la parola tutto in italiano, quando usata precisamente,
significa che non si lascia niente, ogni parte del tutto fa parte dell’accordo. I parlanti italiani, e
di tutte le lingue in cui vi è la parola tutto, non direbbero che la carne venduta sia veramente
tutta - ma solo, forse, la maggior parte di essa. I linguisti e i filosofi chiamano le proprietà di
questi quantificatori “condizioni di verità”. Le condizioni di verità sono le circostanze nelle
quali il parlante riconoscerà che una parola sia usata correttamente o no. É vero che queste
circostanze possono variare. Infatti un bambino potrebbe dire, “Tutti i bambini verranno alla
mia festa,” ma nessuno crederà di fatto che tutti i bambini del mondo, della nazione, dello
stato, o della città verranno alla festa - solo un certo gruppo di amici del bambino. In questo
senso, il bambino non usa la parola tutto nella sua accezione più precisa e letterale, ma la
usa in un modo comunque accettabile. Il punto è che le condizioni di verità nella lingua
Piraha non si attengono mai al significato quantificatore della parola tutto ( dove tutto
significa “ogni singola parte di un insieme”).
Ciò lo si può notare nell’esempio sopra, dove un Piraha ripeterà sempre, nonostante aver
preso per se una parte della pelle dell’anaconda, che “lui ha comprato tutta la pelle
dell’anaconda”. Se la parola significasse davvero “tutto”, ciò non sarebbe possibile. Perciò i
Piraha non possiedono i quantificatori.

Questo accumularsi di scoperte riguardo la cultura Piraha mi spronò ad approfondire lo


studio di alcuni valori meno evidenti della loro società. Cercai di far ciò principalmente
attraverso lo studio dei loro racconti.
I racconti e le conversazioni Piraha occupavano la maggior parte del mio tempo al villaggio,
dato che chiaramente racchiudevano in se le credenze e i valori della società, rivelandone
l’esistenza, cosa che sarebbe stata piuttosto difficile da fare tramite la semplice
osservazione quotidiana. Anche i temi dei loro racconti erano rivelatori - le persone non
parlano di eventi di cui non hanno fatto esperienza, come ad esempio storie di un passato
antico o di un futuro distante, o storie di fantasia.
Un racconto che ho sempre trovato piacevole è quello raccontatomi da Kaaboogi, il giorno
che uccise una pantera (un giaguaro nero), che pesava forse sui 150 chili (la mia stima si
basava sulla dimensione della sua testa e sul fatto che quattro Piraha non riuscirono a
trasportarne il corpo al villaggio). Kaaboogi portò la testa e le zampe dell’animale al villaggio
in un cesto per mostrarmele.
Il racconto originale, narratomi immediatamente dopo avermi mostrato la testa e le zampe,
aveva molti più dettagli. Mi disse che era fuori a caccia e che il suo cane fiutò qualcosa e
corse avanti. Poi sentì il cane guaire e d’improvviso zittirsi. Corse a vedere cosa fosse
successo e vide una metà del suo cane da un lato di un tronco che stava a terra e l’altra
metà dall’altro lato del tronco. Come si avvicinò all’animale, vide un ombra nera con la coda
dell’occhio alla sua destra. Portava con se un fucile a colpo singolo calibro 28 che aveva
comprato l’anno prima. Si voltò e sparò con quel fucile pateticamente minuscolo ed alcuni
dei pallettoni colpirono la pantera nell’occhio. La pantera cadde a sul suo fianco e provò a
rialzarsi. Dato che il fucilo non espelleva le cartucce automaticamente, Kaaboogi

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velocemente tirò fuori la cartuccia usata per mezzo di un bastoncino e ricaricò l’arma - aveva
tre cartucce con se. Sparò di nuovo e ruppe la gamba alla pantera. Sparò ancora una terza
volta e uccise l’animale. La testa di questa pantera era molto più grande della mia e le sue
zampe erano grandi abbastanza da coprire completamente le mie mani. Gli artigli erano
lunghi più o meno la metà delle mie dita. I canini, quando furono estratti dalla bocca
dell’animale, erano lunghi quasi dieci centimetri, solido avorio.
Quando convinsi Kaaboogi a sedersi e raccontarmi la storia in modo da poterla registrare su
un nastro, la raccontò così come la si legge nelle pagine seguenti. Nel presentare il racconto
su queste pagine, ho rimosso la maggior parte dei dettagli linguistici tecnici così da risultare
più scorrevole. Dialogare con persone di culture radicalmente differenti, come mostra questo
racconto, implica molto più che semplicemente capire il significato corretto delle singole
parole. Si potrebbe tradurre ogni parola correttamente eppure avere difficoltà a comprendere
il racconto. Ciò accade perchè i nostri racconti hanno dei presupposti riguardo il mondo in
cui viviamo determinati dalla nostra cultura. Ho numerato i periodi per semplificare la lettura.

Uccidendo la Pantera

1. Xaki, xaki ti kagaihiai kagi abaipi koai.


Ecco il giaguaro è balzato sul mio cane, uccidendolo.

2. Ti kagaihiai kagi abaipi koai. Xai ti aia xaia.


Ecco il giaguaro è balzato sul mio cane, uccidendolo. É accaduto con rispetto di me.

3. Gai sibaibiababaopiia.
Ecco il giaguaro ha ucciso il cane balzando su di lui.

4. Xi kagi abaipisigiai. Gai sii xisapikobaobiihai.


Con rispetto a lui, il giaguaro balzò sul cane. Pensai di averlo visto.

5. Xai ti xaia xaki Kopaiai kagi abaipahai.


Poi io, così la pantera, balzai sul mio cane.

6. Xai Kopaiai kagi abaipa haii.


Poi la pantera balzò sul mio cane.

7. Xai ti gaxai. Kopaiai xaaga haia.


Poi parlai. Questo [è il lavoro di] una pantera.

8. Xai kopai ti gai. Xaki xisi xisapi kobabaopiihai.


Poi parlai con rispetto alla pantera. Ecco dove è andata. Penso di vedere [dove è
andata].

9. Mm ti gaxaia. Xaki xisaobogaxaia xai.


Uh, dissi. Il giaguaro poi saltò sopra il tronco.

10. Giaibai, kopaiai kagi abaipahaii.


Il cane invece, la pantera balzò su di lui.

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11. Kopaiai xibaikoaisaagahai.
La pantera uccise il cane colpendolo.

12. Xai kapagobaosobaibaohoagaixiiga xai.


Poi quando ho fucile il giaguaro iniziò a cadere.

13. Kaapasi xai. Ti gai kaapasi kaxaowi kobaaatahai.


A Kaapasi io parlai. Tira un cesto [a me].

14. Xi kagihoi xobaaatahai. Kagi abaipi.


Tirami un cesto. Per metterci il cane dentro.

15. Sigiaihi xai baohoipai. Xisao xabaabo.


Il gatto è uguale. É balzato sul cane.

16. Kopaiai xisao xabaabahataio. Xai xabaabaataio.


La pantera balzò sul cane. Così facendo lui non essere.

17. Xi kagigia xiowi hi aobisigio. Kagigia xiowi.


Metti il giaguaro nello stesso cesto insieme al cane.

18. Hi aobisigio xabaabatao. Hi agia soxoa.


Mettilo insieme al cane, lui causò il cane non essere più. Lui è perciò già morto.

19. Xisagia xiigaipao. Kagihoi xoaobaha xai.


Tu hai le parti del giaguaro nel cesto. Metti il cesto sulla tua testa.

20. Giaibaihi xai xahoao xitaogixaagaha xai.


Il cane poi la notte sentì il suo odore di sicuro.

21. Kagi xi gii bagaihi kagi ababoitaa hiaba.


É proprio sopra il cane. Balzò sopra il cane e lo uccise.

22. Kagi aboiboitaasogabaisai. Xooaga.


Voleva balzare sul cane. Voleva davvero.

23. Xai ti gaxaia xai Kaapasi hi isi hi...


Poi io stavo parlando, poi Kapasi lui, animale, lui…

24. Kaapi xoogabisahai. Kapaobiigaati.


Non sparare da lontano. Sparai verso il basso.

25. Xi ti boitaobihai. Xikoabaobahataio xisagia.


Mi mossi velocemente verso l’azione sopra il tronco, lo uccisi, così cambiò [morì].

26. Xi koabaobiigahataio. Xikahapii hiabahataio.


Stava morendo. Non riusciva ad andarsene quindi.

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27. Xigixai xi koabaobaataio. Xai koabaobiiga.
OK, poi, così andò a morire. Poi stava andando a morire.

28. Xai Kaapasi, xigia xapaobisaihi.


Poi Kaapasi, OK, lui sparò l’animale.

29. Xai sagia koabaobai. Xisagia sitoaopao kahapita.


Poi l’animale così cambiò e stava morendo. L’animale si alzò. Se ne andò di nuovo.

30. Koabaobaisai.
La sua morte indugiava.

31. Ti xagia kapaigaobitahai. Xitoihio xiaihixai.


Io perciò gli sparai di nuovo, rompendo il suo gomito.

32. Ti i kapaigaobitahai. Xai ti gia kapaobiso.


Poi gli sparai di nuovo. Poi gli sparai di nuovo ancora.

33. Koabai. koabaigaobihaa xai. Xisaitaogi.


Arrivò a morire. Arrivò a morire. Aveva pelliccia spessa [un modo Piraha di dire che
era un animale forte].

34. Xi koaii. Hi abaataiogiisai. Xisaitaogi.


Voleva poi morire. Non si mosse. É veramente forte.

35. Koai hi abikwi. Gai xaowii, xaowi gixai, kobaihiabikwi.


Non era morto. [Io dissi] “Quello straniero, tu [Dan] lo straniero, non ha visto [un
giaguaro] morto.”

36. Xai pixai xi kaapikwi pixaixiiga.


Poi subito dopo, lo mossi, subito dopo.

37. Xai baohoipai so Xisaitaogi sowa kobai.


Poi gatti, Xisaitaogi [Steve Sheldon] ha già visto.

38. Xaki kagaihiai, so kopaiai, Xisaitaogi hi i kobaihiabiiga.


Ecco giaguari ha visto, solo pantere Steve Sheldon non ha ancora visto.

39. Pixai soxoa hiaitiihi kapikwi pixaixiiga.


Ora, i Piraha hanno appena sparato [un giaguaro], proprio ora.

40. Xai hiaitiihi baaiowi. Baohoipai Kopaiaihi. Xigiai.


Poi i Piraha hanno intensamente paura delle pantere. OK, ho finito.

Questo racconto di come Kaaboogi ha ucciso una pantera è interessante per vari motivi.
Sappiamo che è un racconto completo perchè il carattere principale viene introdotto al
principio, il giaguaro. E si finisce con xigiai, una parola Piraha che letteralmente significa “è

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messo insieme”, e generalmente è usata come la parola “OK”. In questa situazione indica
che il racconto è finito. Agli ascoltatori non Piraha, la storia può sembrare incredibilmente
ripetitiva in varie occasioni, come le numerosi frasi all’inizio del racconto dove si ripete più
volte che la pantera ha ucciso il cane. Questa ripetizione ha una funzione retorica, però. Per
prima cosa, esprime uno stato di eccitazione. Ma ha anche la funzione di assicurarsi che
l’ascoltatore possa comprendere quel che si dice, dato che vi è molto rumore tutt’attorno, ad
esempio molti altri Piraha che parlano tra loro. E la ripetizione è anche una scelta di “stile”
per i Piraha - apprezzano i racconti che contengono molte ripetizioni.
“Uccidere la Pantera” è un tipico testo che racconta di un’esperienza nell’immediato. Questo
aspetto è molto importante quando si prendono in esame i racconti Piraha. Dopo aver notato
che le storie Piraha riguardano sempre esperienze concrete, imparai una nuova parola che
si rivelò la chiave per la comprensione di molti aspetti misteriosi della cultura Piraha.
La parola è xibipiio (i-bi-PEE-o). Ricordo che la prima volta che sentii questa parola fu
durante la descrizione del ritorno di un cacciatore dalla giungla. Come Xipoogi, forse il
miglior cacciatore tra i Piraha, camminò fuori dalla giungla fino al villaggio, alcuni Piraha
esclamarono, “Xipoogi hi xibipiio xaboopai” (Xipoogi lui xibipiio arriva).
Notai di nuovo la parola quando Kohoibiiihiai arrivò a casa sulla sua canoa dopo aver
pescato lungo il fiume, proprio dopo la bocca del Maici, sul fiume Marmelos. Avendolo visto
arrivare in lontananza, un bambino gridò contento, “Kohoibiiihiai sta xibipiio arrivando!”
Ma sentivo usare questa espressione per la maggior parte quando gli aerei atterravano o
ripartivano dal villaggio. La prima volta che sentii la parola usata in questo contesto, ero
sveglio dall’alba, eccitato di vedere l’aereo dopo molte settimane con la mia famiglia nel
villaggio. Gridai a Kohoibiiihiai, “Hey Ko! L’aereo sarà qui quando il sole sarà dritto sopra di
noi.” Quando arrivò il pomeriggio, tutti i Piraha stavano con le orecchie tese aspettando di
sentire il rumore dell’aereo. Ci furono alcuni falsi allarmi, causati da alcuni bambini. “Eccolo!”
avevano gridato, per poi mettersi a ridacchiare ed ammettere di non aver sentito un bel
niente. Finalmente, qualche minuti prima che io potessi sentire qualcosa, quasi l’intero
villaggio gridò all’unisono: “Gahioo, hi soxoa xaboopai” (L’aereo arriva). Poi corsero alla
radura più vicina e spalancarono gli occhi per osservare per primi l’aereo che sarebbe
spuntato da dietro le nuvole. Tutti insieme strillarono all’unisono, “Ecco l’aereo! Gahioo
xibipiio xaboopai.”
Quando poi l’aereo se ne andò, urlarono una simile frase, “Gahioo xibipiio xopitaha,” mentre
l’aereo scompariva all’orizzonte, diretto verso Porto Velho.
Queste osservazioni mi diedero una prima idea di cosa questa parola significasse. Voleva
dire qualcosa come “proprio ora”, come nella frase “Lui sta arrivando proprio ora,” oppure
“L’aereo sta partendo proprio ora.” Questa ipotesi sembrava funzionare piuttosto bene, e
iniziai ad usare la parola anch’io. I Piraha sembravano capire quel che dicevo.
Poi una notte Xaikaibai e Xabagi, un uomo anziano che si era di recente trasferito nel
villaggio da un’altro villaggio più su lungo il fiume, vennero a casa mia. Avevo spento pochi
minuti prima che arrivassero la mia lampada al cherosene e non volevo riaccenderla. Allora
accesi invece la mia torcia elettrica. Ma mentre stavamo parlando, le batterie della torcia
iniziarono a scaricarsi. Andai in cucina e presi dei fiammiferi, mentre la torcia si spegneva.
Nella notte completamente buia, continuai a conversare con Xaikaibai e Xabagi. Xabagi di
colpo fece cadere un paio di ami da pesca che gli avevo appena dato in mano. Usai i
fiammiferi per ritrovare i preziosi ami caduti a terra. La fiamma iniziò a tremolare (ndt a
estinguersi?). Gli uomini commentarono, “Il fiammifero sta xibipiio.” Avevo già sentito quella
parola usata in un contesto simile un’altra notte a proposito di un fuoco che stava iniziando a
spegnersi. In questi contesti, i Piraha non stavano usando la parola come fosse un avverbio.

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Whoa! Non significa “proprio ora”, realizzai un pomeriggio. É usata per descrivere la
situazione in cui un entità appare alla vista o scompare alla vista! Così, pensai, quando
qualcuno compare in lontananza sul fiume, essi compaiono alla vista. E questo spiega come
mai i Piraha usano la parola quando le cose spariscono dal campo visivo, come era
successo all’aereo che scomparve all’orizzonte.
Sentivo ancora che qualcosa mi sfuggiva però. Dev’esserci un concetto culturale più
generale che includa sia l’idea di apparire alla vista e il suo opposto, scomparire alla vista.
Ricordai che xibipiio poteva essere usato per descrivere il momento in cui la voce di una
persona diventava udibile in lontananza oppure il momento contrario quando non fosse più
udibile, come succedeva quando comunicavo attraverso la mia ricetrasmittente con qualche
membro del SIL in Porto Velho, informandoli che la mia famiglia stava bene, ordinando
provviste, e così via.
I Piraha che mi sentivano parlare avrebbero potuto descrivere la voce che proveniva dalla
radio e con cui io parlavo la mattina come “L’uomo straniero sta xibipiio parlando.”
Quando una canoa compariva in lontananza, quale che fosse il Piraha che si trovava più
vicino, correva alla riva del fiume per capire chi fosse colui che arrivava con la canoa. Ciò
sembrava un atto di normale curiosità. Ma una mattina mentre Kohoibiiihiai andava a
pescare, notai che un gruppo di bambini stava ridacchiando osservandolo mentre remava.
Nel momento preciso in cui l’uomo scomparì alla vista dietro la curva del fiume, i bambini
strillarono all’unisono “Kohoi xibipiio!” (Kohoi è scomparso!) Questa scena si ripetè ogni volta
che qualcuno arrivava al villaggio o partiva - qualche Piraha non mancava mai di
commentare, “É scomparso!”. L’apparire e lo scomparire in se era ciò che interessava i
Piraha, non l’identità di colui che scompariva o appariva.
La parola xibipiio sembrava imparentata con un concetto culturale che non aveva un preciso
corrispondente inglese (ndt italiano?). Certo, un parlante inglese potrebbe dire, “John è
scomparso,” oppure “Billy è apparso proprio ora,” ma non sarebbe lo stesso. Innanzitutto,
noi useremmo parole diverse, e quindi concetti diversi, per indicare l’apparire e lo
scomparire. Per di più, i parlanti inglesi si concentrano di più sull’identità della persona che
compare o scompare, non il fatto che egli sia scomparso o comparso.
Alla fine, realizzai che questo termine fa riferimento a quello che io chiamo liminalità
empirica, l’atto di entrare o uscire dal campo della percezione, o in altre parole, trovarsi al
limite dell’esperienza (ndt della percezione?). Una fiamma tremolante è una fiamma che
ripetutamente entra ed esce dalla nostra possibilità di esperienza o percezione fisica.
Questa traduzione “funzionò” - spiegò efficacemente quando fosse appropriato usare la
parola xibipiio (ed una traduzione utile e che funzioni è il miglior risultato che un ricercatore
possa sperare di ottenere in un contesto del genere).
La parola xibipiio dunque rinforzò e diede nuova luce positiva a questo pervasivo valore
Piraha su cui avevo lavorato indipendemente. Questo valore sembrava limitare la possibilità
di conversazione a ciò che si ha visto con i propri occhi o ciò che è stato raccontato da un
testimone oculare.
Se la mia ipotesi fosse corretta, allora la conoscenza dei bigi, esseri di un’altra dimensione,
e tutto il resto, deve venire da informazioni pervenute da testimoni viventi. Nonostante possa
sembrare illogico in un primo momento, esistono dei presunti testimoni oculari dell’universo
a strati. Gli strati di per se sono visibili ad occhio nudo - e sono la terra e il cielo. E gli abitanti
degli strati sono anch’essi visibili, perchè questi esseri vengono giù dallo strato superiore,
dal cielo, e camminano per la giungla. I Piraha vedono le loro impronte di tanto in tanto. I
Piraha vedono persino gli esseri stessi, che si nascondono tra la giungla come ombre di
fantasmi, sempre a quanto riferiscono i testimoni oculari.

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E i Piraha possono attraversare i bigi nei loro sogni. Per i Piraha, i sogni sono una
continuazione dell’esperienza reale e immediata. Forse quegli altri esseri viaggiano mentre
sognano anch’essi. In ogni caso, attraversano i confini. I Piraha li hanno visti.
Una notte verso le 3 un gruppo di Piraha stava dormendo, come solito, nella stanza frontale
della nostra casa. Xisaabi, uno del gruppo, improvvisamente si mise a sedere e iniziò a
cantare riguardo a cose che aveva appena visto nella giungla, nel suo sogno. “Tii hioxiai
kahapii baaxaixaagaha” (Sono andato su in alto. É bello) e così via, raccontando un viaggio
nel mondo di su, il cielo, e oltre. Il canto mi svegliò ma non mi diede fastidio perchè era
davvero bello, e un eco arrivava dalla riva opposta del Maici, e la luna piena era splendente,
e illuminava Xisaabi. Mi alzai e andai dove Xisaabi stava cantando e sedetti pochi passi
dietro di lui. C’erano uomini, donne e bambini, forse venti o più, che dormivano tutt’intorno a
noi sul pavimento di paxiuba. Nessuno si muoveva eccetto Xisaabi. La luna era argentata e
stava proprio sopra la linea degli alberi, illuminando con la sua luce d’argento la superficie
dell’acqua del Maici. Xisaabi era rivolto verso la luna, e guardava verso il fiume,
ignorandomi, nonostante mi avesse chiaramente sentito prendere posto dietro di lui.Era
avvolto in una vecchia coperta che gli copriva la testa, ma non il volto, e cantava a voce alta,
senza preoccuparsi del fatto che ci fossero persone addormentate, o che forse facevano
finta di dormire, tutt’intorno a lui.
Il giorno dopo parlai con Xisaabi a proposito del suo sogno. Cominciai chiedendogli, “Perchè
cantavi ieri notte?”
“Io xaipipai,” lui rispose.
“Cosa è xaipipai?”
“Xaipipai è ciò che è nella tua testa quando dormi.”
Capii infine che xaipipai è sognare, ma con un'eccezione: è classificata come una
esperienza reale. Si è testimoni oculari dei propri sogni. I sogni non sono finzione per i
Piraha. Si vede il mondo in due maniere, quando si è svegli e quando si dorme, ma
entrambe le esperienze sono reali. Imparai anche che Xisaabi usò una forma di discorso
cantato per raccontare il suo sogno perchè esso era una nuova esperienza e le nuove
esperienze sono spesso raccontate con un discorso cantato, che utilizza i vari toni presenti
nelle parole Piraha.
I sogni non violano il principio del xibipiio, ossia non violano il valore culturale di raccontare
solo avvenimenti di cui si è fatta esperienza immediata. Di fatto i sogni confermano questo
valore. Trattando sia i sogni che l’essere svegli come avvenimenti di esperienza immediata, i
Piraha potevano occuparsi di questioni e problemi che per noi comporterebbero la credenza
in mondi di finzione o di religione. Se io sognassi uno spirito che mi dicesse come risolvere
certi problemi ed il mio sogno fosse considerato tanto reale quanto il mio stato coscente,
allora lo spirito sarebbe parte delle mie esperienze immediate, ossia del mio xibipiio.
Mentre cercavo di assorbire tutte le implicazioni di ciò, mi chiedevo se fosse possibile
trovare altre applicazioni del concetto di xibipiio nella cultura o nel linguaggio.
Specificamente, cominciai a ripensare ad alcuni degli aspetti inusuali della cultura Piraha e
mi chiesi se questi potessero essere spiegati dal concetto della esperienza immediata che
xibipiio rappresenta. Mi occupai prima dei termini di quantità nella lingua Piraha.
Credevo che il concetto di immediatezza dell’esperienza potesse spiegare le varie differenze
e le insolite caratteristiche della lingua Piraha che si erano ormai accumulate nei miei
pensieri e nel mio taccuino durante quei mesi. Avrebbe potuto spiegare la mancanza di
numerali e del contare, perchè queste sono cose utilizzate nelle generalizzazioni che vanno
oltre l’esperienza immediata. I numeri e il contare sono per definizione cose astratte, perchè
implicano una classificazione di oggetti in termini generali. Dato che le astrazioni che vanno

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oltre l’esperienza immediata violano tale principio, tali astrazioni sarebbero proibite nel
linguaggio. Ma anche se questa ipotesi sembra promettente, necessitava ancora di essere
perfezionata.
Nel frattempo, ricordai altri fatti che sembravano supportare il concetto dell’esperienza
immediata. Per esempio, ricordai che i Piraha non conservano il cibo, essi non pianificano
più di un giorno alla volta, e non parlano nè del futuro distante nè del passato distante -
sembrano concentrarsi sull’adesso, sulla loro esperienza immediata.
Ecco! Pensai un giorno. Il linguaggio e la cultura Piraha sono connesse da un vincolo
culturale che non permette di parlare di niente che vada oltre l’esperienza immediata. Tale
vincolo, può essere descritto come segue:

Le proposizioni principali (enunciative) dei Piraha contengono solo enunciati connessi


direttamente al momento del discorso, di cui il parlante abbia fatto esperienza o di cui il
parlante abbia conosciuto un testimone vivente.

In altre parole, i Piraha pronunciano solo frasi che sono ancorate al momento in cui parlano,
piuttosto che altri momenti nel tempo. Questo non voldire che una volta che qualcuno
muore, i Piraha che lo conoscevano si dimenticheranno di lui. Ma raramente ne parleranno.
Occasionalmente mi raccontano storie che hanno sentito e di cui qualcuno già morto aveva
fatto esperienza, ma ciò è raro, e generalmente solo gli insegnanti di lingua Piraha con più
esperienza fanno ciò, perchè sono coloro che hanno sviluppato l’abilità di astrarre se stessi
dall’uso soggettivo della lingua e di commentare la lingua da un punto di vista oggettivo -
qualcosa di raro tra i parlanti di tutte le lingue del mondo. Perciò questo principio ha delle
occasionali eccezioni, ma solo in circostanze molto rare. Nella vita di tutti i giorni esso non è
mai violato dalle persone.
Questo significa che le persone useranno il presente semplice, il passato semplice, e il
futuro semplice, dato che questi tempi sono tutti definiti in relazione al momento in cui il
discorso avviene, ma non si useranno i cosiddetti tempi composti e nessuna frase che
manchi di esprimere un asserzione, ossia nessuna proposizione incidentale.
In una frase inglese, ad esempio, Quando sei arrivato, avevo già mangiato, il verbo arrivato
è situato in relazione al momento del discorso - più precisamente lo precede. Questo tipo di
tempo verbale è perfettamente compatibile con il principio di immediatezza dell’esperienza.
Ma il verbo avevo mangiato non si riferisce al momento del discorso ma si riferisce all’azione
arrivato. Precede un evento che si riferisce al momento del discorso. Potremmo allo stesso
modo dire Quando tu arriverai domani, avrò già mangiato, nel cui caso mangiato avviene
sempre prima del tuo arrivo, però tu arriverai dopo il momento del discorso, ossia dopo che
noi abbiamo parlato. Perciò, secondo il principio dell’immediatezza dell’esperienza, i Piraha
non hanno tempi verbali del genere, ossia i tempi composti della nostra lingua.
Allo stesso modo, i Piraha non faranno uso di frasi come L’uomo che è alto è nella stanza,
perchè che è alto non è una proposizione principale enunciativa, ed inoltre non si riferisce al
momento del discorso.
Il principio di immediatezza dell’esperienza definisce anche il semplice sistema di parenele
dei Piraha. I termini di parentela non si estendono oltre la durata di vita del parlante e sono
quindi per principio osservabili - un nonno è normalmente osservabile durante una vita
media di un Piraha di 40-45 annni, ma un bisnonno invece no. Capita di avere dei bisnonni,
ma non rientrano nell'esperienza di tutti (tutti i Piraha conoscono almeno un nonno, ma non
tutti i Piraha hanno fatto conoscenza di un bisnonno), perciò il sistema di parentela,
riflettendo l’esperienza comune, non ha termini per descrivere la parola bisnonno.

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Il principio spiega anche l’assenza della storia, della creazione, e del folklore tra i Piraha. Gli
antropologi spesso presumono che tutte le culture abbiano racconti a proposito dell’origine
dell’uomo, noti come miti della creazione. Credevo perciò che anche i Piraha avessero
racconti che spiegavano chi avesse creato gli alberi, i Piraha, l’acqua, le altre creature
viventi, e così via.
Così chiedevo ai Piraha domande come Chi ha fatto il fiume Maici? Da dove vengono i
Piraha? Chi ha fatto gli alberi? Da dove vengono gli uccelli? e così via. Avevo preso in
prestito e comprato vari libri di antropologia linguistica che spiegavano i metodi di ricerca sul
campo e ne seguii le istruzioni alla precisione per cercare di documentare questi tipi di
racconti e miti che pensavo ogni cultura avesse.
Ma non ebbi molta fortuna. Chiesi anche a Steve e Arlo. Chiesi a Kere. Nessuno aveva mai
documentato nè sentito un mito della creazione, un racconto della tradizione, un racconto
fittizio, o di fatto nessun tipo di narrazione che andava oltre l’esperienza immediata del
parlante o di qualcuno che aveva assistito all’evento e l’aveva poi raccontato al parlante.
Ciò sembrava avere senso tenendo in considerazione il principio di immediatezza
dell’esperienza. I Piraha possiedono dei miti nel senso che raccontano si storie che aiutano
a tenere la società legata, infatti raccontano storie di eventi osservati quasi tutti i giorni. Le
ripetizioni nelle storie documentate in questo libro rientrano in questo senso nella categoria
di miti. Ma i Piraha non possiedono racconti del folklore. Perciò le “storie di tutti i giorni”
giocano un ruolo primario nella coesione della società. Non vi è alcuna forma di finzione. E i
miti non possiedono le caratteristiche comuni ai miti della maggior parte delle società, ossia,
non raccontano eventi di cui non vi sia un testimone vivente. Questa è una piccola ma
profonda differenza. É una differenza piccola perchè si i Piraha hanno delle storie che
aiutano la società a rimanere coesa, come tutte le società umane. Ma è una differenza
profonda a causa della particolarità imposta dalla cultura Piraha - ossia deve esserci un
testimone vivente al tempo del racconto.
Un giorno sedevo con Kohoi e mi chiese, dopo avergli spiegato del mio dio, “Cos’altro sa
fare il tuo dio?”
Io risposi, “Ecco, lui ha fatto le stelle, e ha fatto la terra.” Poi chiesi, “Cosa dicono i Piraha?”
E lui rispose, “Beh, i Piraha dicono che queste cose non furono fatte.”
I Piraha, imparai, non possiedono il concetto di un creatore supremo o di un dio creatore. Ci
sono degli spiriti individuali, ed essi credono di poter vedere questi spiriti, e credono di
vederli con regolarità. Quando indagai la faccenda, vidi che questi spiriti non sono invisibili.
Sono entità che prendono la forma di cose dell’ambiente circostante. I Piraha possono dire
che un giaguaro è uno spirito, oppure un albero è uno spirito. Spiritio non significa per loro
esattamente quello che significa per noi, ed essi devono misurare empiricamente ogni cosa
che dicono.
Come esempio, consideriamo il seguente racconto riguardo l’incontro con un giaguaro, un
racconto documentato originariamente da Steve Sheldon. Alcuni Piraha interpretano la
storia come un semplice incontro con un animale. Ma la maggior parte di essi pensa invece
che sia un incontro con uno spirito giaguaro.

Xipoogi e il Giaguaro
Fonte: Kaboibagi
Registrata e trascritta da Steve Sheldon

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Sinopsi: Xitihoixoi, colui che viene attaccato dal giaguaro, viene menzionato col suo nome
solo una volta, ma tutti sanno chi lui sia. Il giaguaro lo attaccò e lo graffiò ma a parte ciò
l’uomo ne uscì incolume.

1. Xipoogi xahaiga xobabiisaihiai.


Xipoogi sentì un fratello chiamare.

2. Hi gaxaisai Xitaha. Xibigai soooxiai xisoi xaitisai.


Lui parlò, il padre di Xitaha. Cosa ha gridato il padre?

3. Xipoogi parlò. Andare a vedere.

4. Lui parlò, Xipoogi. É un giaguaro.

5. Lui parlò, Xipoogi. Tira il tuo arco.

6. Il giaguaro ha già afferrato Xitihoixoi.

7. Lei parlò. Boai, tu vai [pure].

8. Tu vai a vedere.

9. Il giaguaro ruggì.

10. Lei parlò. Il giaguaro è andato lontano.

11. Lo ha già afferrato.

12. Forse ha mangiato il cane partner [kagi]. Lui ha portato il cane con se.

13. La donna parlò. Andiamo; il giaguaro potrebbe allontanarsi.

14. Potrebbe aver visto il cane partner. Il cane partner se n’è andato. Il cane è andato
nella giungla.

15. Lui parlò. Porta il tuo machete. Affila le frecce.

16. La donna aveva paura.

17. Lui era stanco.

18. L’animale lo colpì in faccia poi.

19. Lo morse.

20. Graffiò le sue braccia.

21. Graffiò le sue spalle.

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22. Lui [Itahoixoi] disse, le frecce sono tutte andate.

Il fatto che i Piraha dichiarino di vedere gli spiriti non è più incredibile di simili credenze tra
molti americani, che ad esempio credono che qualcuno risponda alle loro preghiere, oppure
che possano parlare con Dio, o che abbiano visioni. Le persone che proclamano di aver
avuto contatti con il divino sono una ricorrenza regolare in tutto il mondo. Per coloro di noi
che non credono all’esistenza di tali spiriti, è assurdo pensare che li si possa vedere. Ma
questa è semplicemente la nostra prospettiva.
In tutti i periodi della storia vi sono persone che affermano di poter vedere entità
sovrannaturali. I Piraha non sono così diversi, se non del tutto uguali. Nel prologo, ho dato
un esempio di come gli avvistamenti di questi spiriti hanno luogo, e ho suggerito che questi
incontri seguono il principio dell’immediatezza dell’esperienza. Ma i Piraha incontrano molti
tipi di spiriti.
Il tipo di spiriti più comune è il kaoaibogi (bocca veloce). Questo spirito è responsabile di un
certo numero di cose buone e cattive che accade ai Piraha. Essi possono venire uccisi dallo
spirito oppure possono ricevere utili consigli, a seconda del suo umore. Lo spirito kaoaibogi
appartiene ad uno dei due tipi di creature animate ed umanoidi che popolano il mondo
Piraha. Il primo tipo di entità è quello dei xibiisi (sanguigni), entità che hanno sangue - come
gli stessi Piraha, o gli stranieri, anche se non sempre i Piraha sono certi del fatto che gli
americani abbiano il sangue, per via di quanto sono bianchi. Tutti gli spiriti però, incluso il
kaoaibogi, sono esseri xibiisihiaba (senza sangue; letteralmente, “no sangue”).
Gli altri tipi di spiriti hanno nomi diversi, ma il termine generico con cui ci si riferisce a loro è
kapioxiai (è altro). Di nuovo, le persone col sangue nelle vene sono i xibiisi. Si può
riconoscere un xibiisi generalmente dal colore della sua pelle - il sangue fa la pelle scura.
Coloro senza sangue, tutti gli spiriti, sono generalmente di carnagione chiara e biondi. Così
la gente con la pelle scura è umana mentre la gente con la pelle chiara sono
tradizionalmente non umani, anche se i Piraha riconoscono che alcune persone con la pelle
chiara siano xibiisi - principalmente perchè hanno visto me ed alcune altre persone bianche
sanguinare.
Ma ci sono dubbi persistenti che a volte vengono in superficie. Dopo aver lavorato con loro
per venticinque anni, una notte un gruppo di uomini Piraha, sorseggiando del caffe con me
alla sera, mi chiese senza preavviso, “Hey Dan, gli americani muoiono?”
Risposi loro in modo affermativo e sperai che nessuno di loro volesse le prove. La ragione di
tale domanda sembra essere il fatto che l’aspettativa di vita di un americano è molto più
lunga di quella di un Piraha. Arlo Heinrichs ancora spedisce delle fote di lui e sua moglie Vi
ai Piraha, di tanto in tanto. Entrambi sembrano forti, in salute, e vibranti, nonostante siano
ormai settantenni. Ciò affascina i Piraha.
I Piraha occasionalmente parlavano di me, quando io venivo fuori dalle acque del fiume
dopo il mio bagno serale. Li sentii chiedersi l’un l’altro, “É lui lo stesso che è entrato nel
fiume o questo è kapioxiai?”
Quando li sentii discutere di cosa sembrava cambiato in me rispetto a prima che facessi il
bagno, mi ricordai di Eraclito, che si occupava del concetto di identità nel tempo. Eraclito si
chiese se si potesse metter piede due volte nello stesso fiume. L’acqua in cui si immerge il
piede la prima volta non è più li. Le rive del fiume sono state alterate dallo scorrere
dell’acqua cosicchè non sono più le stesse di prima. Così apparentemente mettiamo i piedi
in un fiume diverso. Ma questa non è una risposta soddisfacente. Di sicuro il fiume è lo
stesso. Allora cosa significa affermare che qualcuno o qualcosa sia la stessa persona o la

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stessa cosa di pochi minuti fa? Cosa significa affermare che siamo le stesse persone di
quando eravamo dei neonati? Nessuna delle mie cellule è la stessa. Pochi se non nessuno
dei miei pensieri sono uguali. Per i Piraha, le persone non sono le stesse durante le diverse
fasi della vita. Quando uno spirito da un nuovo nome a un Piraha, cosa che può accadere
ogni volta che si vede uno spirito, non si è più esattamente gli stessi di prima.
Una volta, arrivato a Posto Novo, andai da Kohoibiiihiai e gli chiesi di lavorare con me, come
faceva sempre. Nessuna risposta. Così chiesi di nuovo, “Ko Kohoi,
kapiigakagakaisogoxoihi?” (Hey Kohoi, vuoi segnare la carta con me?”) Ancora nessuna
risposta. Allora gli chiesi perchè non stesse parlando. Lui rispose, “Parlavi con me? Il mio
nome è Tiaapahai. Non c’è nessun Kohoi qui. Una volta mi chiamavo Kohoi, ma ora lui non
c’è più e Tiaapahai è qui”
Così, normalmente, i Piraha si chiedevano se io fossi diventato una persona diversa. Ma nel
mio caso la loro preoccupazione era maggiore. Perchè qualora si fosse scoperto che io non
ero un xibiisi, contrariamente a quanto l’evidenza suggeiva, allora avrei potuto trasformarmi
in una entità completamente diversa e, dunque, essere una minaccia per loro. Li assicurai
che ero ancora Dan. Non ero kapioxiai.
Durante molte notti senza pioggia, una voce in falsetto può essere udita venire dalla giungla
vicino al villaggio Piraha. Questa voce falsetto è esattamente quello che mi aspetterei da
uno spirito. Infatti, tutti i Piraha del villaggio pensano sia un kaoaibogi, anche chiamati bocca
veloce. La voce da suggerimenti e consigli agli abitanti del villaggio, riguardo a cose da fare
il giorno seguente, oppure li mette in guardia da possibili pericoli (giaguari, altri spiriti,
attacchi di altri Indiani). Questo kaoaibogi apprezza anche il sesso, e parla frequentemente
del suo desiderio di accoppiarsi con le donne del villaggio, andando addirittura nei dettagli.
Una notte volevo vedere il kaoaibogi con i miei occhi. M’incamminai attraverso la
vegetazione a circa 30 metri in profondità nella giungla nella direzione della voce. L’uomo
che parlava in falsetto era Xagabi, un Piraha del villaggio Pequial, un uomo conosciuto per il
suo interesse nel mondo degli spiriti. “Ti dispiace se ti registro?” chiesi, non sapendo come
avrebbe reagito, ma essendo fiducioso che non gli sarebbe dispiaciuto.
“Certo, fa pure,” rispose immediatamente con la sua voce normale. Registrai circa dieci
minuti di quel discorso kaoaibogi e poi ritornai a casa.
Il giorno dopo, andai a casa di Xagabi e gli chiesi, “Xabagi, come mai parlavi come fossi un
kaoaibogi ieri notte?”
Lui si sorprese. “C’eran un kaoaibogi ieri notte? Non l’ho sentito. Ma, comunque, non ero
qui.”
Molto strano, pensai.
Io e Peter Gordon ci trovavamo tra i Piraha a fare esperimenti sulla numerosità Piraha (il
modo di esprimere e controllare linguisticamente e psicologicamente i concetti numerici).
Peter voleva chiedere ai Piraha a proposito dei loro spiriti perchè era interessato a accertarsi
di una sua teoria sulla cultura Piraha. Xisaooxoi, l’uomo con cui stavamo parlando, suggerì,
“Venite stanotte dopo il tramonto. Ci saranno degli spiriti qui.” Io e Peter accettammo l’invito
e continuammo il nostro lavoro.
Dopo ciò tornammo al nostro campo base di fronte al villaggio ma sull’altra sponda del
fiume. Avevamo pianificato di fare un bagno, poi cenare con della carne in scatola. Ma
fummo piacevolmente sorpresi da un uomo che tornava con la sua canoa dopo aver
pescato, che ci offrì un grande pesce pavone in cambio di una scatola di sardine, al che noi
accettammo senza indugiare.
Peter ricoprì il pesce in una pastella di uova e farina d’avena e poi lo arrostì su una griglia di
legno verde sopra il fuoco del nostro campo. Dopo un bagno e una bella cena di farina

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d’avena bruciata mischiata a pelle e carne bianca di pesce (la ricetta di Peter non venne
molto bene) attraversammo di nuovo il fiume verso il villaggio per vedere gli spiriti. Non
sapevo cosa aspettarmi, perchè non ero mai stato invitato ad osservare gli spiriti.
Era buio, il cielo riluceva di stelle e si aveva una chiara vista della via lattea. Grandi rane di
fiume gracidavano. Alcuni Piraha sedevano su dei tronchi, rivolti verso la giungla. Io e Peter
prendemmo posto vicino a loro e Peter sistemò il suo registratore Walkman Sony
professionale, con un microfono esterno ad alta qualità. Alcuni minuti passarono. I bambini
Piraha ridacchiavano e facevano le smorfie. Le bambine si voltavano a guardare noi e poi la
giungla, attraverso le fessure delle dita con cui si coprivano il volto.
Dopo un po di attesa, che non resistetti ad attribuire alla teatralità degli spiriti, Io e Peter
sentemmo allo stesso momento una voce in falsetto e vedemmo un uomo vestito da donna
venire fuori dalla giungla. Era Xisaooxoi vestito come una donna Piraha recentemente
deceduta. Usava una voce in falsetto per indicare che era la donna a parlare. Aveva un
pezzo di stoffa sulla testa a rappresentare i lunghi capelli della donna, acconciati all’indietro
come le tradizionali trecce delle donne Piraha. “Lei” indossava un abito.
Il carattere rappresentato da Xisaooxoi raccontò quanto fosse freddo e buio sottoterra dove
era stata seppellita. Lei raccontò cosa si provasse a morire e del fatto che ci fossero altri
spiriti sotto terra. Lo spirito Xisaooxoi stava “trasmettendo” le parole con un ritmo diverso da
quello del normale modo di parlare Piraha, dividendo le sillabe a gruppi di due (ritmo binario)
invece che a gruppi di tre (ritmo ternario) usato nel linguaggio di tutti i giorni. Io pensavo a
quanto ciò sarebbe risultato interessante per la mia analisi dei ritmi Piraha, quando la
“donna” si sollevò e se ne andò.
Dopo pochi minuti Peter e io sentimmo di nuovo la voce di Xisaooxoi, ma questa volta
parlava con un tono basso e rauco. Il pubblico iniziò a ridere. Uno spirito ben conosciuto e
simpatico stava per apparire. Improvvisamente, dalla giungla, Xisaooxoi emerse, nudo, e
colpendo il terreno con un pesante tronco d’albero. Mentre colpiva il terreno, diceva che
avrebbe colpito chiunque gli si fosse parato davanti, diceva di non aver paura, e altre cose
del genere da sbruffone pieno di testosterone.
Scoprii, con Peter, una forma di teatro Piraha! Ma ciò era solo la mia personale
classificazione dello spettacolo a cui avevamo assistito. I Piraha non classificherebbero
questi spettacoli come una forma di teatro, anche se poteva svolgere esattamente quella
funzione. Per i Piraha ciò che vedevano erano spiriti. Non si rivolsero mai a Xisaooxoi con il
suo nome, ma solo con il nome dei vari spiriti.
Ciò che vedemmo era diverso dallo sciamanesimo, perchè non vi era nessun uomo tra i
Piraha che potesse parlare a nome degli spiriti o con gli spiriti. Alcuni uomini facevano questi
spettacoli più spesso di altri, ma ogni uomo Piraha avrebbe potuto farli, e durante gli anni
passati tra loro quasi tutti gli uomini parlarono come fossero degli spiriti, in tale maniera.
La mattina dopo quando Peter e io cercammo di dire a Xisaooxoi quanto ci era piaciuto
vedere gli spiriti, egli, allo stesso modo di Xagabi, rifiutò di riconoscere qualsiasi tipo di
coinvolgimento da parte sua, dicendo di non essere stato presente allo spettacolo.
Questo mi portò ad approfondire il mio studio delle credenze Piraha in modo più deciso. I
Piraha, incluso Xisaooxoi, intepretavano ciò che avevano visto come una finzione o come
fatti veri, come veri spiriti o come interpretazione teatrale? Tutti quanti, inclusi i Piraha che
ascoltarono in seguito la registrazione dell’evento, e anche i Piraha di altri villaggi,
affermarono categoricamente che quello che parlava era uno spirito. E mentre io e Peter
osservavamo lo “spettacolo” dello spirito, un giovane uomo accanto a me mi assicurava che
quello che vedevamo era uno spirito e non Xisaooxoi. Perdipiù, in base a episodi precedenti
in cui i Piraha dubitarono che io fossi la stessa persona e il fatto che credessero che altri

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uomini bianchi fossero in realtà spiriti che cambiavano forma a loro piacimento, l’unica
conclusione a cui potessi arrivare fu che per i Piraha quegli spettacoli erano incontri reali con
gli spiriti - simili alle sedute spiritiche nella civiltà occidentale.
I Piraha vedono letteralmente gli spiriti nella loro mente. Essi parlano agli spiriti,
letteralmente. Qualsiasi cosa si pensi di queste affermazioni, tutti i Piraha dicono di aver
fatto esperienze del genere con gli spiriti. Per questa ragione, gli spiriti Piraha incarnano il
principio dell’immediatezza dell’esperienza. Ed anche i miti delle altre culture devono
obbedire a questo principio, altrimenti non vi è modo di comunicarli nella lingua Piraha.
Ci si potrebbe legittimamente chiedere se si possa fare esperienza di qualcosa che secondo
gli standard occidentali sia considerato irreale. Vi è ragione per credere che ciò possa
accadere. Quando i Piraha affermano di aver fatto esperienza degli spiriti, essi hanno fatto
esperienza di qualcosa, e chiamano quel qualcosa spirito. Sono le proprietà quali l’esistenza
e la mancanza di sangue vere? Sicuramente no. Ma sono anche certo che noi attribuiamo
proprietà non vere a molte esperienze quotidiane. Un uomo potrebbe affermare che la
persona barbuta che ha visto al centro commerciale sia Ringo Starr, quando invece quella
persona potevo essere io. Oppure discutiamo dei desideri e delle credenze dei nostri cani
come se avessimo prova che esse siano cose che esistono. Quando il mio cane mi vede
alzarmi e andare nella dispensa alle 4:30 pomeridiane, egli scondinzola. Potrei affermare
che egli sa che io tengo il suo cibo li e crede che io stia per dargli da mangiare. Ma il suo
comportamento potrebbe essere niente di più che una risposta ad un certo stimolo, piuttosto
che una credenza o una conoscenza particolare (nonostante io sia personalmente convinto
del contrario).
Ma se tutti i miti Piraha devono seguire il principio d’immediatezza dell’esperienza, allora le
scritture di molte religioni del mondo, come la Bibbia, il Corano, i Veda, e così via, non
possono essere tradotte nè discusse con i Piraha, perchè raccontano storie per cui non vi è
nessun testimone vivente. Questa è la principale ragione per cui i missionario in trecento
anni non hanno avuto alcun impatto sulla religione Piraha. I racconti delle religioni
Abriamitiche mancano di testimoni viventi, almeno per quanto ne sappia.

8 Un adolescente chiamato Tukaaga: Omicidio e Società

Joaquim, come gli altri abitanti dell’insediamento indiano Apurina di Ponto Sete sul Maici, si
svegliò presto ed iniziò la sua giornata - curare il suo orto tra la giungla e il suo piccolo
campo di manioca, cercare possibili tracce di selvaggina in vista di una possibile seduta di
caccia pomeridiana, e pescare nell’acqua chiara del Maici più in su lungo il fiume. Come altri
nel villaggio “Sete”, Joaquim aveva un aspetto più forte e più robusto rispetto ai Piraha. La
sua discendenza Tupi e Apurina gli donavano una muscolatura che contrastava con la
magrezza slanciata dei Piraha. I piedi erano larghi e forti, grazie ad una vita senza indossare
scarpe, le sue forti dita dei piedi si trovavano a loro agio sui sentieri selvaggi, dandogli una
stabilità maggiore di quanto gli occidentali potessero ottenere con qualsiasi costosa
calzatura da escursione. Era un uomo timido, molto riservato, di circa trent’anni, che
sorrideva spesso, ma che quando lo faceva teneva sempre una mano davanti alla bocca per
nascondere gli incisivi mancanti. Ogni tanto prendeva di nascosto i miei bicchieri ( di
plastica, infrangibili, sono un oggetto molto richiesto e difficile da procurarsi tra la giungla)
quando pensava non me ne sarei accorto. Rideva dei Piraha come se fossero inferiori. Ma
era dopotutto un uomo che aveva affrontato le stesse difficoltà e la stessa giungla dei
Piraha, accumulando molti più beni materiali dei Piraha - cosa che, irrilevante ai Piraha, era

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invece molto importante per lui. Ma sia lui che gli altri abitanti di Ponto Sete si consideravano
buoni amici dei Piraha. Gli Apurina di Sete avevano sempre trattato bene i Piraha.
Quel che Joaquim non poteva sapere era che un particolare villaggio dei Piraha non
considerava ne lui ne qualsiasi abitante di Sete amico ne pensava che gli abitanti di Sete
avessero nessun diritto di occupare la terra che occupavano. La differenza materiale tra lo
stile di vita di Joaquim e dei Piraha li distanziava ancora di più, e questo villaggio
considerava Joaquim un intruso.
Gli Apurina fecero la tragica scoperta dei reali sentimenti di questi Piraha in una maniera
molto indiretta. Tutto iniziò con un disaccordo creatosi tra gli Apurina e la famiglia Colario, un
gruppo di commercianti che commerciava sia con gli Apurina che con i Piraha.
I Colario,chiaramente cristiani evangelici facenti parte della confessione dell’ Assemblea di
Dio, avevano piacere a fare affari con i Piraha, che non sapevano ne contare, nè leggere o
scrivere, e i quali accettavano beni di valore molto inferiore rispetto alla quantità di noci
brasiliane, lattice, sorva, kopaiba, e altri prodotti della giungla che vendavano. Ma i Colario
scoprirono che gli Apurina erano a conoscenza del reale valore di mercato dei beni che
compravano per niente dai Piraha, perchè gli Apurina seguivano i prezzi che venivano
annunciati alla radio ogni giorno dal canale brasiliano Radio Nacional.
Un giorno gli Apurina intimarono i Colario, i quali operavano tre barche, di non tornare a
Ponto Sete, accusandoli di essere degli imbroglioni. Quando Darciel Colario non seguì
questo avvertimento e ritornò a Sete, gli Apurina spararono con i loro fucili verso la sua
barca. Distrussero molta della sua merce e fecero parecchi buchi tutt’intorno alla barca.
Colario sfuggì ai colpi riparandosi dietro la cucina con i fornelli. Riuscì a far compiere alla
sua barca una inversione senza esporsi agli spari e scappò giù lungo il Maici. Gli Apurina
pensarono che avesse imparato la lezione.
Ma i Colario non erano diventati commercianti fluviali di successo facendosi mettere i piedi
in testa. Non avrebbero subito senza controbattere. Armando Colario chiamava tutti gli
indiani bichinhos, piccoli animali, e avrebbe certamente cercato vendetta contro questi
subumani che avevano attaccato suo figlio. E suo figlio Darciel la pensava allo stesso modo
del padre. Io stesso avevo minacciato Darciel perchè aveva fatto ubriacare i Piraha e li
aveva istigati a derubarmi. Era salito sulla sua barca durante la sua visita successiva e gli
avevo detto che se si fosse ripresentato li ancora l’avrei gettato nel fiume, bruciato la sua
barca di fronte ai suoi occhi, e avrei lasciato che se ne tornasse a casa a nuoto (parole
molto minacciose e spavalde per un missionario 27enne). Dopo che lasciai il Maici e ritornai
alla UNICAMP, i Colario misero in moto il loro piano di vendetta.
Darciel e Armando decisero di usare l’aiuto dei Piraha per insegnare una lezione agli abitanti
di Sete. Trovarono alcuni Piraha disposti a collaborare, alcuni adolescenti testecalde guidati
da Tukaaga (un nome che viene direttamente dal portoghese tocandeira, una grande
formica pungente), figlio di Xopisi, il Piraha più rinomato nel villaggio di Coata, appena più
giu lungo il fiume rispetto al villaggio Sete. Darciel sfruttò il desiderio d’avventura di questi
adolescenti e il loro desiderio di mostrare quanto fossero forti, dando loro un nuovo fucile in
modo che scacciassero via gli abitanti di Sete. Darciel e la sua famiglia desideravano un
accesso illimitato alle noci brasiliane, al legno massello, e altri prodotti della giungla che si
trovavano vicino all’insediamento degli Apurina, e molti Piraha volevano liberare quella zona
di terra da potenziali competitori per il pesce e per la selvaggina. I Colario volevano anche
vendetta.
Quel fatidico giorno, Armando Apurina, insieme a suo figlio maggiore, Tome, e le loro mogli,
si trovavano lungo il fiume, a meno di un giorno di navigazione in canoa, a pescare e a
cacciare selvaggina. Joaquim e i suo cognato Piraha Otavio (Toibatii in lingua Piraha, l’unico

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Piraha che sposò al di fuori della tribù), era rimasti al villaggio. Mentre Otavio pescava,
Joaquim e sua moglie andarono a raccogliere manioca e legna da ardere. Questo è un
lavoro pesante. I tuberi della manioca sono saldamente ancorati al terreno e possono
allungarsi per quaranta centimetri in profondità nel terreno. A volte bisogna tirare con molta
forza per estrarre le radici dalla terra. Le radici vengono poi raccolte in un largo cesto di
vimini intrecciato. Quando il cesto contiene dai 13 ai 18 chili di manioca, esso viene
sollevato e riposto sulla testa dove viene assicurato in posizione tramite una cinghia. Oltre al
carico di manioca, Joaquim raccolse una decina di chili di legna da ardere, che trasportò tra
le braccia, stringendola tra le braccia e l’addome. Tornando indietro al villaggio era così
carico che non riusciva a guardarsi intorno per eventuali pericoli come chi cammina tra la
giungla farebbe. Tutto andava comunque bene, Joaquim pensò, perchè conosceva bene il
sentiero e c’erano poche possibilità che dei grossi predatori si trovassero così vicini al
villaggio.
Non poteva sospettare che lungo il sentiero, acquattato tra la giungla, ad aspettarlo ci fosse
Tukaaga, con il suo nuovo fucile calibro 20, accompagnato dal suo amico Xowagaii e Bixi,
due altri adolescenti del villaggio Coata. Nessuno di quei ragazzi aveva mai ferito un altro
essere umano. Ma erano tutti cacciatori esperti e sapevano come uccidere gli animali.
Mentre Joaquim e sua moglie si avvicinavano, decidendo se andare a pesca o a caccia
dopo aver sistemato la manioca a bagno nel fiume, Tukaaga aspettava in tensione. La
moglie di Joaquim passò davanti ai ragazzi, poi dal sentiero apparve Joaquim. Quando si
trovava a circa tre metri di distanza, Tukaaga gli sparò nel torso.
Il sangue spruzzò fuori dall’inguine di Joachim, dalle cosce, e dall’addome. La forza dello
sparo, combinata con il peso del cesto che portava e il legname che aveva tra le braccia, lo
scaraventarono violentemente al suolo. Mentre Joaquim gemeva agonizzante, sua moglie e
sua sorella, la moglie di Otavio, Raimunda, lo raggiunsero correndo appena sentito lo sparo.
Raimunda osservò un attimo Joaquim e corse via a cercare l’aiuto di Otavio, mentre la
moglie di Joaquim fece quel che poteva per fermare l’emorragia, premendo fango e foglie
sulle ferite. Otavio aiutò a trasportare Joaquim fino alla sua capanna, a riparo dal sole, poi
remò più veloce che potè lungo il fiume in cerca di Tome e il suo suocero.
Joaquim era agonizzante durante tutto ciò, il colpo del calibro 20 gli aveva trapassato il
fianco e il fronte del torso e gli aveva portato via lembi di carne. Non morì fino a quella sera.
Tome, Armando, e le loro mogli ricevettero da Otavio la notizia che Joaquim era stato
sparato da assalitori sconosciuti intorno all’ora in cui Joaquim moriva. Tome e Armando si
precipitarono al villaggio con due canoe separate. Essi pensavano che gli assalitori fossero
probabilmente i Colario oppure gli Indiani Parintintin, ma non avevano alcun sospetto
riguardo i Piraha. Tome era più forte e più aggressivo di chiunque altro lungo il fiume Maici,
inclusi tutti i Piraha e i commercianti fluviali. Chiunque lo conoscesse si comportava in modo
pacato intorno a lui. I muscoli delle sue gambe e delle sue braccia erano grandi e definiti
quanto quelli di un bodybuilder professionista. Poteva lavorare tutto il giorno con l’ascia,
cacciare tutta la notte, e pescare il giorno seguente, senza nessun segno di stanchezza. Egli
remò giu lungo il fiume furiosamente, senza pause. A mezzanotte circa stava raggiungendo
Sete. Voleva prima vedere Joaquim, non sapendo che egli fosse già morto, per poi andare
subito a dar la caccia ai codardi che avevano sparato a suo cognato senza avvertimento.
Boom! Lo sparo esplose ed echeggiò tra le sponde del Maici. Mentre Tome e sua moglie
percorrevano l’ultima curva del fiume prima del villaggio, il fiume era illuminato solo dalla
luce delle stelle che si rifletteva tenue sulla superficie dell’acqua, qualcuno gli aveva sparato.
Tome venne colpito dalla maggior parte dei pallettoni sulla spalla e sulla schiena. Fu
scaraventato fuori dalla canoa nell’acqua del fiume, insieme ai remi che stava adoperando.

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Mentre incominciava ad annegare nelle profondità del Maici, sua moglie, Nazare, colpita
solo da pochi pallettoni, lo afferrò rapidamente per i capelli e gli tenne la testa fuori
dall’acqua. Poi afferrò una padella di alluminio dal fondo della canoa e, sporgendosi
mantenendo solidamente Tome per la testa, riuscì a utilizzare la padella come remo ed
arrivare a riva. Di nuovo, gli adolescenti Piraha guidati da Tukaaga non rimasero nei paraggi
a vedere i risultati delle loro azioni. Ma se ne andarono immediatamente dopo aver sparato,
correndo nell’oscurità fino al loro villaggio, Coata.
Armando, che seguiva di poco lungo il fiume, trascinò suo figlio fuori dall’acqua. Dei quattro
uomini che vivevano a Sete, uno era stato assassinato e uno era gravemente ferito. Non
sapendo cosa fare, i sopravvissuti subito dopo aver seppellito Joaquim si diressero giu lungo
il fiume, verso il villaggio Coata, per cercare la protezione della gente di Otavio, ossia i
Piraha. Per tre giorni Armando, Otavio, Tome e le loro mogli stettero al villaggio Coata con i
Piraha, non sapendo di essere ospiti delle famiglie dei loro assassini. Nemmeno avevano
capito che i Piraha di Coata di fatto disprezzassero Armando, Tome, e le donne Apurina.
Mesi più tardi, Xopisi, l’uomo più importante di Coata, mi disse, ridendo, che non avevano
sterminato gli uomini Apurina di Sete perchè essi si trovavano proprio nel mezzo del
villaggio e altri uomini Piraha sarebbero potuti rimanere feriti. E non volevano ferire Otavio, a
meno che non capitasse senza volerlo.
Tome era in condizioni molto gravi, ma un commerciante arrivato a comprare noci brasiliane
fu persuaso a trasportarlo all’ospedale a Manicore, un viaggio di circa due giorni lungo il
fiume. Nonostante le sue ferite e il fatto che fossero infette, Tome sopravvisse e si riprese
completamente. Mentre era in ospedale, però, la sua famiglia, tutti i sopravvissuti di Sete,
scoprì che erano stati i Piraha ad assalirli e che i Piraha non volevano che essi rimanessero
lungo il Maici. Persino il fratello Apurina di Armando, Aprigio, che viveva più giù lungo il
fiume a Terra Preta (Terra Nera), fu costretto ad andarsene, con sua moglie Diarroi e i loro
due figli.
Dopo oltre cinquant’anni, i Piraha stavano cacciando gli Apurina dal Maici. Fu uno shock
terribile. Gli Apurina dovettero intraprendere una vita di servitù debitoria quando si
spostarono presso gli insediamenti di brasiliani lungo il fiume Marmelos, più giù lungo il
fiume ad un giorno di viaggio in canoa dalla bocca del Maici. Fu loro permesso di stabilirsi li
a patto di lavorare tutto il giorno, ogni giorno, senza paga per i proprietari brasiliani della
terra dove si stabilirono. Tome giurò vendetta contro i Piraha e mandava loro minacce
tramite i commercianti fluviali. La famiglia di Tome cercava di convincerlo a lasciar stare. I
Piraha lo aspettavano e lo avrebbero certamente ucciso se fosse tornato sul Maici. Tome
sapeva ciò. Nessuno poteva introdursi nel territorio dei Piraha senza che loro lo sapessero.
Allo stesso tempo, i Piraha temevano Tome. Sapevano che egli conosceva il Maici e la
foresta bene quanto loro. E non avevano dubbi che Toma sarebbe stato un temibile nemico.
Aprigio e gli altri ex abitanti di Sete sapevano di non poter più considerare il Maici la loro
piacevole e accogliente casa. Nel giro di due anni, la maggior parte degli Apurina erano
morti, eccetto Tome, sua moglie, il figlio di Aprigio (e cugino di Tome) Roque, e la moglie di
Otavio, Raimunda. Otavio rimase solo per poco tempo con sua moglie e la sua famiglia
lungo il fiume Maici. Alla fine Otavio tornò a vivere da solo tra i Piraha, come essi
desideravano. Armando morì, forse avvelenato. Nessuno seppe esattamente come morì,
eccetto il fatto che fu un avvenimento improvviso. Sua moglie e sua figlia si suicidarono
avvelenandosi. Parecchi anni dopo, anche Aprigio morì.
Gli eventi capitati agli Apurina illustrano il lato oscuro della cultura Piraha. Mentre essi sono
molto tolleranti e pacifici tra loro, possono essere violenti nel mantenere gli estranei fuori
dalle proprie terre. Si mostra inoltre ancora una volta che la tolleranza e la coesistenza con

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un gruppo di stranieri non significhi un’accettazione a lungo termine. Gli Apurina avevano
creduto che una vita intera passata tra quella gente diversa da loro avesse ormai obliato le
differenze culturali e sociali che separavano i due gruppi. Impararono a loro spese che
queste differenze sono quasi impossibili da superare, nonostante le apparenze che periodi
di tregua possono suggerire - allo stesso modo in cui nel corso della storia gli abitanti della
ex Yugoslavia, del Rwanda, e di moltri altri luoghi impararono.
Ma c’è un’altra lezione da apprendere da questo racconto. E riguarda la sorte di Tukaaga
stesso. Appena pochi mesi dopo aver assassinato Joaquim e aver provato ad uccidere
Tome, Tukaaga viveva da solo, lontano da ogni villaggio Piraha. Un mese circa dopo il suo
isolamento forzato, egli morì in circostanze misteriose (il che significa che i Piraha non
volevano parlare di lui e di cosa gli fosse accaduto - alcuni dicono che morì di “influenza”, il
che è possibile). Io penso che possa esser stato ucciso da altri Piraha. Tutti i Piraha
sentivano che le azioni di Tukaaga avevano messo loro in pericolo, dopo che la polizia arrivò
ad investigare la morte di Joaquim. E i Piraha erano venuti a conoscenza dell’intenzione di
abitanti di insediamenti vicini di organizzare una spedizione punitiva nei loro confronti.
Inizialmente i Piraha mi dissero di non temere ciò, anche se era ovvio ai miei occhi che
avessero in realtà paura, nonostante la loro apparente noncuranza.
Discutendo finirono per realizzare che un eventuale azione punitiva contro di loro avrebbe
comportato la morte di molti Piraha. Questa potrebbe essere la ragione dell’ostracismo nei
confronti di Tukaaga. L’ostracismo è una forma estrema di punizione nell’Amazzonia, dove
la cooperazione sociale è necessaria per la protezione dell’individuo, per la buona riuscita
della caccia e della raccolta del cibo, e così via.
Sappiamo già che i Piraha per esercitare il controllo sui membri del loro gruppo non hanno
bisogno nè di un capo, nè di leggi o regolamenti. Il senso di sopravvivenza e l’ostracismo
sono tutto ciò di cui hanno bisogno. Tukaaga imparò una dura lezione. I suoi due compagni
di misfatti non furono mai puniti, per quanto ne so. Entrambi sono miei amici, anche se non
faccio loro più domande riguardo Tukaaga o la morte di Joaquim.

9 Terra Dove Vivere Liberamente

I pericoli più comuni che i Piraha affrontano sono le malattie e le incursioni nei loro territori
da parte di persone di altri parti del mondo - specialmente subaquei, pescatori, e cacciatori
provenienti da varie nazioni, incluso il Brasile. Pescatori sportivi giapponesi e pescherecci
brasiliani vengono avvistate frequentemente lungo il Marmelos, i visitatori ripagano i Piraha
con rum di canna da zucchero, vestiti, farina di manioca, e anche oggetti di un certo valore
come canoe, in cambio dell’aiuto dei Piraha per localizzare il pesce, attraverso un
intermediario caboclo. Il commercio con i caboclo ha anche degli effetti negativi, perchè i
caboclo solitamente pagano i Piraha solo con rum di canna da zucchero per i prodotti della
giungla che acquistano. Piuttosto che rischiare di offendere qualcuno di questi stranieri i
Piraha spesso regalano loro tutto il cibo che hanno a disposizione per ingraziarseli.
I Piraha avevano bisogno dell’aiuto degli stranieri principalmente per due cose: la
demarcazione del proprio territorio, per prevenire incursioni, e per procurarsi medicinali
contro le malattie. Io e Keren li aiutavamo regolarmente con le medicine. Ma io sentivo una
forte responsabilità ad aiutarli anche con i confini. Il bisogno di istituire una riserva divenne
palese quando una volta arrivammo al villaggio viaggiando via fiume, venendo meglio a
conoscenza della cultura caboclo che circondava i Piraha. Dopo che la prima volta

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arrivammo tra i Piraha via aereo, visita interrotta dalla malaria, nel nostro viaggio successivo
arrivammo via barca fino al Maici.
Intendevamo sostare più a lungo questa volta, un’anno circa, e il viaggio in barca era più
economico di quello in aereo dovendo noi trasportare una grossa quantità di provviste.
Avevo anche delle ragioni più personali per preferire il viaggio in barca - evitare il mal d’aria.
Arrivammo al molo di Porto Velho per imbarcarci con i nostri beni stivati in fusti in metallo da
200 litri di volume, avevamo dei contenitori per il carburante, casse di legno, borsoni da
viaggio, e scatoloni di cartone. Gli scaricatori del molo corsero in nostro “aiuto”. Ma altri mi
avevano avvertito che gli scaricatori avrebbero voluto grosse somme di denaro in cambio dei
loro servigi. Così li scacciai via e trasportai tutti i bagagli da solo, giu lungo la sponda
fangosa e molto ripida, poi risalendo una instabile passerella larga 1 metro, fino a bordo di
un recreio (ndt la barca fluviale) che sembrava imbarcasse acqua. Tutte le nostre provviste
durante il viaggio dovettero essere trasportate numerose volte, attraverso lunghi tratti di
sentieri fangosi e inondati di acqua in cui impronte fresche di grossi animali della giungla
erano evidenti.
Ripensando a quel viaggio, mi chiedo se fossimo coscienti del possibile impatto che vedere
tutti quelle provviste insieme avrebbe potuto avere sui Piraha. Penso che per noi fosse
scontato che una tale quantità di provviste, necessarie a soddisfare i bisogni di una famiglia
californiana per un anno, non avrebbe dato alcun fastidio ai Piraha. Non avevamo mai
considerato a questo punto della nostra carriera di poter vivere in alcun altro modo.
Fortunatamente per noi e per i Piraha, le nostre supposizioni si rivelarono corrette. I Piraha
non mostrarono mai molto interesse per i nostri bagagli, e mai cercarono di rubarli (eccetto
del cibo), e mai ci chiesero di darglieli. Sembravano pensare che le nostre cose non fossero
in alcun modo importanti nella loro vita.
In ogni caso, il viaggio via fiume divenne la nostra via preferita per raggiungere il villaggio
durante i seguenti anni. Potevamo portare più provviste, estendendo perciò la durata delle
nostre permanenze, e potevamo fare brevi fermate in insediamenti più piccoli lungo la strada
e conoscere meglio i brasiliani che vivevano vicino ai Piraha. Molte di queste genti si
recavano spesso tra i Piraha per commerciare con loro.
Conoscendo meglio queste persone, imparai una cosa che mi allarmò: molti di loro erano
interessati alle terre dei Piraha. Spesso mi chiedevano perchè ai Piraha dovessero essere
garantite quelle terre così ricche di pesce e di selvaggina. “Mas, Seu Daniel, porque aqueles
bichinhos tem direito a toda aquela terra bonita e os civilizados nao?” (Ma, Mr. Daniel,
perchè quelle piccole creature hanno diritto a quella bella terra ma la gente civilizzata invece
no?) Questo tipo di discorsi mi preoccupava perchè era facile immaginare queste genti
spostarsi nei territori Piraha e prendere possesso di parti piccole o grandi di esso. Sapevo di
dover aiutare i Piraha ad ottenere una riserva di territorio riconosciuta legalmente, ma non
sapevo in che modo procedere.
A questo punto io e la mia famiglia eravamo ormai nel Brasile da molti anni. Dopo che
terminai il mio dottorato decidemmo di passare un anno negli Stati Uniti così che io potessi
fare delle ricerche post dottorato presso il dipartimento di linguistica e filosofia del
Massachusetts Institute of Technology, a Cambridge, nel Massachusetts - il dipartimento di
Noam Chomsky, la cui teoria della grammatica universale era diventata molto influente nella
mia vita professionale.
Dopo che passammo presso il MIT cinque mesi, tuttavia, ricevetti notizia tramite il Dr. Waud
Kracke, un antropologo dell’università dell’Illinois, Chicago Circle, che la Fondazione
Nazionale Indiana Brasiliana (FUNAI) voleva che mi unissi a loro in una spedizione con
l'obiettivo di identificare i confini di una riserva ufficiale per i Piraha. Io accettai entusiata.

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Avrei dovuto viaggiare tutta la notte da Boston sino a Rio de Janeiro e poi fare altre sette ore
di volo sino a Porto Velho. Il FUNAI mi aveva invitato ad aiutarli a determinare l’estensione
di quella che sarebbe stata la riserva dei Piraha. Il rappresenttante del FUNAI che mi aveva
invitato mi era noto semplicemente come Xara (shaRA). Egli occupava una posizione senior
nel FUNAI. Xara aveva passato un paio di anni a viaggiare tra le terre dei Piraha, dei
Mundurucus, e dei Parintintins, e voleva che si riuscisse ad istitutire per ognuno di essi una
propria riserva in modo da permetter loro di mantenre il proprio stile di vita tradizionale. Xara
era di media altezza e di media corporatura, di bell’aspetto, portava un folta barba nera e i
capelli lunghi, e viaggiava con la sua bella e bionda compagna brasiliana, Ana. Allo stesso
tempo seri e rilassati, sempre vestiti casual, mi ricordavano una coppia di hippy preoccupati.
Ma passavano il tempo cercando di dare il loro aiuto nel garantire che gli Indiani del Brasile
potessero continuare a vivere nel modo in cui avevano sempre fatto, mantenendo almeno la
terra dei loro antenati.
Io e Xara diventammo amici durante la sua visita al villaggio Piraha di Posto Novo, dove io
lavorai trai il 1977 e il 1985. Avevamo discusso a lungo la necessità dei Piraha di una
riserva. Xara era andato avanti nella sua carriera all’interno del FUNAI fino ad arrivare ad
una posizione che gli permise di organizzare una spedizione per identificare una riserva per i
Piraha e i Parintintin (il primo passo di un processo a tre fasi di demarcazione della terra
Indiana). Egli chiese a Waud, che aveva studiato la cultura Parintintin, e a me se potessimo
andare in Brasile in qualità di interpreti, dato che eravamo gli unici stranieri di cui si avesse
notizia capaci di parlare queste lingue. Il FUNAI, disse Xara, avrebbe pagato le spese in
Brasile, ma avremmo dovuto coprire noi stessi il costo del nostro viaggio internazionale.
Waud mi chiamò e suggerì che Cultural Survival (ndt Sopravvivenza Culturale), una
organizzazione dall’ex antropologo di Harvard David Mayberry-Lewis per la preservazione
degli stili di vita tradizionali dei gruppi a rischio di sparizione, potesse esser interessata a
pagare per il mio viaggio fino in Brasile. Maybarry - Lewis rispose immediatamente alla mia
richiesta e mi assicurò che la sua organizzazione avrebbe con piacere pagato il mio biglietto
per il Brasile per una missione di tale importanza.
Avevo tentato sin dal 1979, invano, di coinvolgere le autorità preposte nel proteggere il
territorio dei Piraha dalle crescente minaccia delle incursioni estranee. Mi ero appellato a
quattro diversi direttori del FUNAI a Porto Velho (i fratelli Delcio e Amaury Vieira, i quali
coprirono l’incarico in sucessione; Apoena Meirelles, il quale in realtà venne a farmi visita nel
villaggio per discutere della questione; e un direttore di cui conoscevo solo il nome
Benamor), praticamente pregandoli di istituire una riserva. Amaury mandò un impiegato del
FUNAI per due settimane a fare un sopralluogo della zona alla fine degli anni ottanta, ma poi
il suo incarico finì. Benamor semplicemente mi disse, “Nessuno vuole andare a vivere laggiù
tra i Piraha e la loro lingua. Sembra che stiano sempre a piagnucolare.”
Ero eccitato di aver l’opportunità di poter percorrere l’intero Maici, cosa che non avevo mai
fatto, e di poter visitare tutti i villaggi dei Piraha. C’erano così tante cose che volevo vedere e
capire, come scoprire se tutti i villaggi Piraha fossero uguali ai villaggi che avevo già visitato
, oppure scoprire se tutti i Piraha parlassero lo stesso dialetto e avrebbero dunque capito il
linguaggio Piraha che io parlavo. Durante i miei primi anni tra i Piraha, avevo passato quasi
tutto il tempo in Posto Novo, che si trova alla bocca del fiume. Dovevo ancora visitare gli altri
villaggi Piraha che si trovavano in posti più remoti e difficili e costosi da raggiungere.
Il FUNAI mi aveva invitato ad unirmi alla spedizione in qualità di interprete. Avrei dovuto
tradurre ciò che dicevano i Piraha ad un antropologo del FUNAI che era interessato alle
tradizionali modalità e località con cui ed in cui i Piraha sfruttavano il loro territorio. Il suo
lavoro sarebbe stato quello di intervistare tutti i Piraha di cui si era a conoscenza lungo il

99
Maici a proposito del loro territorio e poi registrare quali aree del territorio essi utilizzavano e
quali aree avrebbero potuto reclamare come loro proprietà come da tradizione.
Dopo ore di viaggio, arrivai a Humaita. Dovevo trovare una barca che mi portasse fino al
Maici, così presi un taxi e chiesi all’autista di portarmi fino alle sponde del Madeira, distanti
due miglia. Avrei potuto camminare fino a li, ma la temperatura raggiungeva ormai i 40 gradi
ed ero accaldato e stanco. Dozzine di barche dallo scafo di legno, per la maggior parte
senza verniciatura e dall’aspetto instabile erano ormeggiate al molo. Non conoscendo
nessuno e non sapendo se il FUNAI mi avrebbe rimborsato il noleggio di una barca, chiesi
quale barca fosse disponibile, sperando di riuscire a ottenere il prezzo più basso possibile.
Mi avvicinai a due fratelli proprietari di una bagnarola di legno dall’aspetto precario lunga
circa sette metri. Uno dei fratelli si trovava sotto la poppa, dove spesso si trovano i
proprietari di barche dell’Amazzonia, cercando di riparare qualche infiltrazione d’acqua.
L’altro fratello mi stava pigramente osservando sdraiato sulla sua amaca mentre mi
avvicinavo alla sponda, battendo le mani nel modo in uso in Brasile che equivale al bussare
dove non ci sono porte.
“Ola” (Hello), chiamai cercando di sovrastare il rumore dei motori della barca, i meccanici
che schiamazzavano, e i bambini che correvano intorno sulla sponda giocando e gridando.
“Ola” replicò lui impassibile.
“Mi chiedevo se fosse possibile noleggiare la vostra barca per portarmi fino al fiume Maici. il
FUNAI vi pagherà quando arriviamo al Maici.”
“E se il FUNAI non è li?” il tipo sull’amaca mi domandò scettico.
“In tal caso pagherei di tasca mia,” promettei.
Non conoscevo quest’uomo, ma egli disse, “Ok, ti porteremo.”
“Benissimo. Lasciami pranzare e poi partiremo.”
“Va bene,” rispose lui.
Corsi un po più in la lungo il fiume e mi fermai ad una delle dozzine di piccole tavole calde
che si trovavano li.
“Quero um prato feito, por favor” (Vorrei un piatto composto, per favore), annunciai alla
robusta donna dietro il largo bancone che fungeva da bar. Un piatto composto è di solito un
grande piatto colmo di carne, fagioli, riso, e spaghetti, il tutto coperto di farina di manioca
gialla e dalla stessa consistenza dei cereali.
“Voce quer carne ou peixe ou frango?” (Volete la carne, pesce, o il pollo?), la donna
domandò.
“Todos” (Tutti quanti), risposi affamato.
In meno di dieci minuti un piatto fumante di cibo olioso mi fu sistemato davanti insieme ad
una bottiglia di plastica piena di tucupi, una salsa gialla fatta da succo di manioca e
peperoncino. Mangiai il piatto intero in circa cinque minuti, lo buttai giu con un litre circa di
birra lager brasiliana ghiacciata, Brahma, e pagai circa tre dollari per il tutto.
“Obrigado,” dissi automaticamente, dirigendomi fuori dalla porta e verso il molo.
“Pronto?” il proprietario della barca mi chiese.
Suo fratello ora era tornato sulla riva e stava riempendo il serbatoio.
“Si, andiamo,” risposi.
Camminai su per la stretta passerella e lanciai le mie due piccole borse a bordo. Tirai fuori la
mia amaca e la appesi nella cabina principale (molto piccola). Poi mi diressi a prua.
“Quanto ci vorrà ad arrivare?” chiesi, senza motivo - ci avrebbe voluto il tempo che ci
avrebbe voluto, e quella era l’unica barca disponibile.
“Se navighiamo tutta notte, saremo li domani pomeriggio.”
Erano circa le tre del pomeriggio. Il motore tornò in vita con un botto.

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“Embora!” (Via!) si sentì un urlo.
Mentre cominciavamo a prender velocità, dirigendoci giù lungo il possente Madeira, l’aria
calda e ferma lasciò il posto ad una brezza rinfrescante che veniva su dall’acqua del fiume.
La stanchezza del mio viaggio, il pranzo, la birra e il sollievo di essermi imbarcato mi fecero
improvvisamente prender sonno. Mi diressi alla mia amaca. Il caldo, la brezza, e la comodità
dell’amaca fecero si che io dormissi quasi tutto il viaggio, eccetto per alcuni minuti di lucidità
qua e la di cui approfittai per fare una colazione di cracker duri, caffe nero dolce, burro in
barattolo, e del latte. Durante un periodo di tre ore nel quale ci trovavamo sul fiume
Marmelos, potei guardare le belle acque scure fluire lentamente sotto di noi, pensando di
nuovo a quanto fossi fortunato a poter essere in questo parte di mondo da sogno. Le altre
sponde del Marmelos, fatte di terra sabbiosa, contrastavano con le sponde di fango spesso
del Madeira.
Arrivammo a destinazione circa ventiquattr’ore più tardi, in accordo con le previsione del
proprietario della barca. Mi sveglia da un ultimo sonnellino tra le voci animate di alcuni
Piraha sulla riva. Era impossibile non riconoscere i Piraha quando erano eccitati - erano
chiassosi e ridenti. La mia amaca ondeggiava dolcemente mentre la barca rallentava e si
accostava di fianco ad un altra barca vicino al sentiero che portava dalla riva sino ad un
villaggio Piraha alla bocca del Maici. L’altra barca, già ormeggiata, era più grande. Mi
aspettavo forse due impiegati del FUNAI ad attendermi, ma in piedi sul ponte ad osservarmi
c’erano i rappresentanti di due agenzie governative brasiliane, un natropologo ed un
cartografo del FUNAI, e uno specialistà in diritto territoriale dell’ INCRA (Istituto Nazionale
per la Colonizzazione e la Riforma Agraria).
Appena fui visibile sul ponte della piccola imbarcazione, i Piraha iniziarono a gridare il mio
nome. I fratelli che mi avevano trasportato fin li chiesero se attraccare fosse sicuro per loro.
“Finchè state con me,” scherzai (ma mi presero sul serio).
“Hey, Dan. Dov’è Keren?” chiesero i Piraha.
“La barca su cui era Keren è affondata e sta sul fondo del Maici. Lei è affogato, purtroppo.”
Per circa mezzo secondo tutti i Piraha mi fissarono sbigottiti. Poi scoppiarono a ridere. Tutti i
brasiliani che assistevano alla scena guardavano meravigliati.
“All’inizio quando ci fu ordinato di attendere un linguista americano alla bocca del Maici ero
arrabbiato,” mi confessò l’antropologo del FUNAI, Levinho. “Perchè dei brasiliani dovrebbero
aspettare in gringo che faccia da traduttore in Brasile? Ma ora capisco. Siamo qui da tre
giorni e non siamo riusciti ne a capire ne a comunicare niente ai Piraha.”
Intervistammo i Piraha presso ogni villaggio riguardo il loro concetto di terra sul quale
vivevano, come la usavano, se pensavano che i Piraha fossero proprietari di tale terra, e
così via. Levinho faceva le domande e io traducevo. Poi risalimmo lentamente il fiume,
fermandoci ad ogni insediamento Piraha che incontravamo. Portammo con noi Kohoibiiihiai
come guida, perchè il suo portoghese era quasi decente, in modo da evitare di mancare
insediamenti nascosti e più lontani dalla riva. Per ogni insediamento Piraha (che fosse una
singola famiglia o più famiglie insieme), la barca sorpassava il villaggio risalendo il fiume, poi
spegneva i motori per avvicinarsi sfruttando la corrente, mentre io stavo in piedi a prua,
gridando alla gente del villaggio in lingua Piraha, “Sono Dan con alcuni amici non Piraha.
Siamo qui per parlare con voi.” Poi Kohoi aggiungeva che nessuno aveva cattive intenzioni,
che avevamo ami da pesca in regalo, e in qualche maniera rassicuravamo la gente del
villaggio. Quando Piraha che non avevo mai incontrato salivano sulla barca, alcuni di loro mi
parlavano molto emozionati. Le donne e i bambini mi osservavano dalla riva o dalle loro
capanne mentre risalivo la sponda fino al villaggio.

101
Dopo una settimana passata con la squadra del FUNAI a delineare la riserva Piraha, il mio
lavoro di interprete era giunto a conclusione. Avevamo raggiunto l’Autostrada
Transamazzonica, che vedevo in quel momento per la prima volta. Dato che non vi erano
villaggi Piraha oltre l’autostrada, il FUNAI mi diede una scelta: rimanere con la barca per
altre due settimane facendo il viaggio indietro attraverso il Madeira e fino al Manaus, oppure
fare autostop sulla Transamazzonica fino a Porto Velho. Decisi di fare autostop, così la
barca mi lasciò a terra sul ponte che attraversava il Maici, una piccola struttura di legno che
sembrava assolutamente inadeguata a sosenere il peso dei pesanti camion che
regolarmente la attraversavano pieni di tronchi o minerali, provenienti dalla compagnia
mineraria Mineracao Taboca, a circa trecento chilometri più a est.
Avevamo imparato molte cose durante la spedizione. Il cartografo del FUNAI scoprì il quinto
giorno della nostra spedizione che la mappa dell’area fatta dal governo brasiliano, prodotta
tramite fotografia aerea, era sbagliata. Una mattina mentre bevevamo il caffe egli ci disse
che non saremmo arrivato al prossimo villaggio prima di due o più giorni alla velocità attuale.
Questo ci preoccupò perchè iniziavamo ad essere a corto di provviste e carburante. Mi voltai
e chiesi a Kohoi se il prossimo villaggio era vicino o lontano. Egli disse che il prossimo
villaggio era quello di Toitoi e che saremmo arrivati li nel pomeriggio. Ripetei ciò al
cartografo del FUNAI. Lui disse, “Beh, non contraddirò un Piraha riguardo alle distanze sul
suo stesso fiume, ma se lui ha ragione, allora la mappa dell’esercito è sbagliata.” Nel
pomeriggio arrivammo al villaggio di Toitoi. Il cartografo osservò la mappa attentamente. Poi
realizzò che la sezione centrale della sua mappa, il tratto che rappresentava il Maici tra il
villaggio di Kohoi e quello di Toitoi, era stata inavvertitamente duplicata da colui che fece la
mappa per l’esercito. Quella fu una lezione molto importante per il governo brasiliano.
Per i Piraha e per me i risultati furono ancora maggiori. I Piraha ora avevano una riserva
ufficialmente identificata. Il lungo processo burocratico necessario all’approvazione di una
riserva poteva adesso avere inizio. Levinho e io parlammo per ore ed ore riguardo la cultura
Piraha. Lui era affascinato dall’assenza di miti della creazione. Provò molto a lungo ad
farsene raccontare qualcuno dai Piraha, ma senza successo. Era anche affascinato
dall’assenza di storia orale e di letteratura orale. Levinho fu probabilmente la prima persona
che mi fece accorgere di quanto inusuale ciò sembrava essere. Il suo entusiasmo era
contagioso. Alla fine un suo amico, Marco Antonio Goncalves, un ricercatore in antropologia
di Rio, iniziò a studiare la cultura Piraha.
Incontreai, e potei fare la conoscenza, di quasi ogni Piraha in vita. Erano affascinati da me.
Avevano sentito dell’uomo bianco che parlava la loro lingua, ma la maggior parte di loro non
mi aveva mai visto. I bambini e le donne in particolare mi guardavano increduli quando
rivolgevo loro la parola in Piraha. Ad ogni villaggio, venivo invitato a ritornare cone la mia
famiglia per vivere tra loro. Quella era una possibilità attraente, perchè notai che i Piraha
nella parte alta del fiume che stavo incontrando non facevano alcun utilizzo di parole in
pidgin portoghese quando parlavano. I Piraha nella parte bassa del fiume spesso erano a
conoscenza dei verbi portoghesi, e quando parlavano Piraha con me, cercavano di usare
questi verbi, senza dubbio tentando di aiutarmi. Ma il loro uso di perfino piccole parole
portoghesi danneggiò la mia possibilità di imparare un Piraha puro. Notavo che spostandomi
nei villaggi nella parte a monte incontravo molte meno “interferenze” portoghesi.
Così questo viaggio sembrò risultare positivo per tutti i coinvolti: i Piraha, il governo
brasiliano, la scienza, e me.

10 Caboclos: Vignette di Vita nell’Amazzonia Brasiliana

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I Caboclos sono in linea di massima discendenti delle genti indigene dell’Amazzonia che ora
parlano portoghese, sono integrati nell’economia regionale, e si considerano brasiliani
piuttosto che membri di una tribù. I Piraha chiamano i caboclos xaoo-gii (stranieri autentici; il
suffisso -gii significa “autentico” o “reale”). Gli americani e gli altri stranieri, inclusi i brasiliani
della città, sono semplicemente xaooi. I Piraha hanno un rapporto migliore con i caboclo
perhè li vedono più spesso e perchè condividono lo stesso ambiente e molte delle tecniche
di caccia, pesca, metodi di lavorazione delle canoe, e conoscenza della giungla.
La cultura caboclo ha influenzato i Piraha quasi giornalmente per più di duecento anni. É
una cultura machista, non molto differente dalla cultura cowboy tra cui sono cresciuto. Ma vi
è un’altro aspetto, una sfumatura stoicista, quasi fatalista, che è invece difficile trovare tra le
subculture americane.
La conoscenza del mondo esterno dei Piraha è basata quasi esclusivamente sui loro contatti
con i caboclo. Gli americani e i caboclo hanno valori molto diversi. E i Piraha riconoscono
queste differenze, trovandosi di solito più vicini ai valori caboclo piuttosto che a quelli
americani.
Per esempio, gli americani e i caboclo concepiscono il corpo umano in maniera differente. I
caboclo sono unanimamente più critici riguardo alla pigrizia e all’obesità rispetto agli
americani. In generale, i caboclo credono che lavorare duramente sia un segno di salute,
buon temperamento, buone capacità gestionali, e grazia divina. Se si è in condizioni buone
abbastanza da poter lavorare, Dio non mancherà di proteggerti. Essere grassi significa
corrotti agli occhi della maggior parte dei caboclo. Le persone sovrappeso sono pigri
nullafacenti che consumano più di quanto necessitino per se stessi. Dunque, perfino tra
caboclo benestanti (e ve ne sono alcuni), c’è una forte etica del lavoro. É comune trovare
caboclo che non avrebbero bisogno di lavorare pulire i propri campi, tagliando erbacce col
macete, o andare tra la giungla con i propri dipendenti a cercare prodotti. Questi valori sono
in parte condivisi con i Piraha - efficienza, conoscenza della giungla, cacciare, pescare, e
autonomia.
Per capire come i Piraha vedono gli stranieri ed il mio posto nella loro società, realizzai che
era necessario che io capissi i caboclo. Ma dato che non avevo intenzione di costruirmi una
casa e vivere tra i caboclo, la mia conoscenza doveva basarsi sugli occasionali contatti
personali che avevo con loro. E le occasioni più frequenti di venire in contatto con i caboclo
si presentavano durante i viaggi fluviali.

Un viaggio in particolare spicca tra gli altri. Stavo portando un dentista e mio cugino, che era
abilitato a condurre visite oculistiche ed a prescrivere occhiali, a visitare i Piraha, per offrir
loro assistenza dentistica e occhiali da vista (gratis). Al molo in Porto Velho, vidi una barca
che non avevo mai notato prima. Era un vascello grande e di aspetto come nuovo con un
cartello che pubblicizzava viaggi per Manaus e Manicoré, quest’ultima era una piccolo
centro vicino alla bocca del Madeira. Tali barche erano di solito l’unico mezzo di trasporto
conosciuto e utilizzato dalla popolazione caboclo per i viaggi di lunga distanza tra il sistema
fluviale del Rio delle Amazzoni.
Discesi la sponda del fiume, ripida durante il mese di luglio nella stagione secca, e percorsi
la stretta passerella fin sulla barca. Chiesi del dono (proprietario).
Un uomo calvo, a petto nudo, di circa 45 anni, alto circa 1e80, venne avanti e annunciò, “Eu
sou o dono” (Io sono il proprietario).
Come tutti gli uomini che lavoravano tra i fiumi dell’Amazzonia, era forte, e la sua pelle era
come indurita dagli elementi e dall’abbronzatura. Come la maggior parte dei dono, il suo

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corpo mostrava che egli apprezzava il buon cibo e il bere. Indossava dei bermuda bianchi e
sporchi e delle ciabatte infradito - la calzatura più diffusa nell’Amazzonia.
“Quando partite per Manaus?” io domandai.
“A gente vai sair la pelas cinco horas da tarde” (Partiremo verso le 5 pomeridiane circa),
rispose lui con rispetto e con sicurezza.
Mentre ci dirigevamo verso la città, raccontai i piaceri del viaggiare in barca sul fiume
Madeiro ai miei compagni di viaggio.
“Vi piacerà un sacco! La brezza che sale dal fiume, gli uccelli e gli animali selvaggi, la
giungla, uno dei fiumi più grandi del mondo, e la cucina brasiliana!”
Verso le 3:30 di pomeriggio circa, grazie alle mie esortazioni, tornammo alla barca e
salimmo la passerella, entusiasti e scherzanti. Avevamo notato che alcuni camion stavano
ancora caricando le loro merci sulla nostra barca, ma pensammo che avrebbero finito presto
il processo di carico e che saremmo partiti per le cinque come promesso. Dopo aver appeso
le nostre amache, comprammo del cocco fresco e freddo, con delle cannucce che
permettevano di berne il dolce liquido. Rinfrescati e rilassati, parlammo del viaggio che ci
aspettava, guardando gli stivatori affacendarsi sotto il sole calante, trasportando scatoloni,
bombole di butano, e banane (tonnellate di banane), tutto diretto al mercato di Manaus. Ci
aspettavamo che finissero presto, essendo ora le cinque. Sembrava ci fossero ancora molti
camion, però - troppi, pensai, da poter scaricare in un ora, ma non era un problema. Un
ritardo di un ora o due era cosa comune nell’Amazzonia. Le sei del pomeriggio arrivarono e
passarono. Andai dal dono e chiesi quando prevedeva di partire.
“Daqui a pouco” (A breve), fu la gioviale risposta.
Informai i miei compagni di viaggio. Il dono disse che ci avrebbe offerto una cena gratis. Il
che era un buon affare, pensai, considerando che in questi battelli non vi era solitamente
nessun pasto offerto la prima notte di viaggio. Poi notai qualcosa di curioso: nessun altro
passeggero si era imbarcato durante tutto questo tempo, eccetto per un uomo slanciato,
muscoloso e piuttosto ubriaco, che indossava un cappello da cowboy a coprirgli il volto
mentre russava nella sua amaca.
Dopo cena, merce di vari camion veniva ancora caricata nei ponti inferiori dell’imbarcazione.
Era quasi comico. Quanta merce poteva trasportare quella barca? Avevano già caricato più
del doppio di quel che avrei pensato fosse possibile trasportare su una barca del genere. Le
sette arrivarono, poi le otto. Alle nove e mezza chiesi che succedeva.
“Oh, mi dispiace. Non possiamo partire stanotte; sto ancora aspettando della merce,” replicò
il dono andando dritto al dunque.
Non c’era nessun'altra barca in partenza. Non vi era alcuna macchina che ci potesse
riportare al centro SIL. La missione aveva già riportato alla base il kombi (un minibus
Volkswagen) che avevamo noleggiato. Dovevamo rassegnarci. Gli insetti riempivano ormai
l’aria, specialmente le zanzare. Ci infilammo nelle nostre amache e passammo una notte
non sorprendemente poco piacevole. Ricordai allora, troppo tardi, che i brasiliani che
viaggiano via fiume evitano le barche che non conoscono. Dato che questa barca era nuova
della tratta Porto Velho - Manaus, la gente la stava evitando fino a che non avessero avuto
conferme che fosse sicura, affidabile, economica, che servisse buon cibo, e così via. O così
pensai.
Quando finalmente arrivò il mattino, notai che altri passeggeri si erano imbarcati - come se
tutti eccetto noi gringo sapessero che la nave sarebbe partita quel mattino. Non ero stato
molto accorto nonostante la mia esperienza. Alle dieci circa di mattina, dopo una colazione
di caffe dolciastro e estremamente forte, crackers duri, e burro in scatola (mi piace un
sacco), finalmente partimmo. Il nostro piccolo gruppo salì sul ponte e godemmo della

104
brezza, chiaccherando rialssati due ponti sopra i rumorosi motori della barca. Eravamo in
viaggio! Poi ci sistemammo sulle nostre amache a leggere rilassati all’ombra e alla brezza
rinfrescante.
Alle 4 di pomeriggio circa, però, la barca si fermò improvvisamente. Gli altri passeggeri mi
informarono che ci eravamo arenati in un banco di sabbia - di nuovo l’inesperienza
dell’equipaggio fu evidente. Per le successive 24 ore il capitano lavorò per disincagliare la
barca. Dopo ore di tentativi per cercare di muovere la barca tramite una combinazione di
motori della barca e spinta del motoscafo di riserva, il domo lasciò la barca con molta fretta
nel tardo pomeriggio. Alle 3 del mattino circa ritornò accompagnato da due larghe barche,
anche se entrambe erano più piccole dell’imbarcazione su cui eravamo a bordo. I miei
compagni di viaggio mi svegliarono.
“Dan, siamo in pericolo!”
Mi fecero segno di seguirli. Andai sul primo ponte e guardai tramite una fessura nel
pavimento il dono e il capitano che cercavano di riparare il timone. Acqua riempiva
lentamente la barca nel punto dove loro si affacendavano (perchè avevano danneggiato le
guarnizioni). “Affonderemo, Dan”, i miei amici esclamarono.
“Siamo già affondati,” risposi. “Siamo appoggiati su di un maledetto banco di sabbia. Non
possiamo andare più a fondo.”
I nuovi passeggeri che si erano imbarcati dopo di noi erano poveri. Chiunque con un poco di
soldi, avrebbe piuttosto volato fino a Manaus oppure avrebbe evitato direttamente di
viaggiare, a meno che non andasse a visitare i Piraha. Nonostante i volantini per i turisti
descrivevano questi tipi di viaggi in barca come piacevoli crociere, una semplice occhiata ad
una di queste barche sarebbe bastata per capire che si trattava di una bugia. Questi battelli
erano tutti in condizioni precarie, consumati e abusati. I poveri li adoperavano solo per
mancanza di alternative. I passeggeri indossavano ciabatte infradito, con poche eccezzioni
di stivali da cowboy e scarpe da ginnastica Nike o Reebok qui e la. La maggior parte delle
donne indossava calzoncini corti e top scollati sulle spalle, qualche jeans e camice. Molti
degli uomini indossavano pantaloni lunghi, anche se la maggior parte aveva calzoncini;
alcuni erano a petto nudo, altri indossavano magliette o polo, o camicie a maniche corte di
colori sgargianti. Sembravano tutti in buona forma fisica e parlavano animatamente l’un
l’altro. I brasiliani sono chiaccheroni e sempre una compagnia divertente per questo tipo di
viaggi, il piacere del viaggio e la libertà dalle loro routine fanno si che il loro umore sia
allegro e che trovino piacere ad interagire con gli stranieri, persino con gruppi di gringos
inusulai come noi.
Chiaccherammo con alcuni dei passeggeri, anche se l’uomo con il cappello da cowboy della
notte prima incominciava ad infastidirmi. Era ancora ubriaco. Aveva una cinquantina d’anni,
ma era molto in forma. Continuava a cercare di parlare in spagnolo con me (molti brasiliani
sanno che gli americani hanno più esperienza con lo spagnolo che con il portoghese).
Nonostante gli rispondessi in fluente portoghese e nonostante gli avessi detto di aver fatto
quel tragitto già molte volte, continuava a darmi colpetti aggressivamente sul petto e a dire
cose del tipo “Questa barca va a Manicore; bisogna dormire sulle amache su questa barca;
tutti qui parlano portoghese,” e altre stupidaggini. Cercavo di allontanarmi ma quello
continuava a venirmi dietro. Il tutto andò avanti per alcune ore - estremamente irritanti. La
gente che molesta gli stranieri è un fenomeno in crescita nel nord del Brasile.

Un’esperienza rivelatrice fino a un certo punto dell’essenza dei caboclo avvenne durante
una visita sul Marmelos parecchio tempo fa. Viaggiavamo lungo il fiume sotto la pioggia con
la mia famiglia. Stavamo lasciando il villaggio Piraha dopo parecchi mesi. Il nostro viaggio ci

105
avrebbe portato prima ad Auxiliadora dove ci saremmo imbarcati per Porto Velho, li
avremmo preso un aereo per Sao Paulo così che avrei potuto riprendere i miei studi per il
dottorato presso la UNICAMP. Questa rotta, che avevamo già percorso quando trasportai
d’emergenza Keren e Shannon quando si presero la malaria, era diventata ora parte della
nostra routine di ogni anno e trovavamo il viaggio piacevole. Le persone che ci erano
sembrata bizzarra durante quel primo viaggio d’emergenza con Keren erano ora diventate
nostri cari amici della cui conoscenza ci rallegravamo.
Mentre ci avvicinavamo all’insediamento di Pau Queimado, vidi una donna sulla riva che ci
faceva segno di fermarci. Io non volevo davvero fermarmi a causa della pioggia, ma sapevo
che gli Amazonensi (i brasiliani dello stato dell’Amazonas) non disturbavano i viandanti a
meno che non vi fosse un serio motivo. Così indirizzai la barca nella sua direzione; in un
paio di minuti, il motore era stato spento e noi remavamo fino a riva.
“Cosa succede?” chiesi.
“Mio padre è molto malato. Per favore vieni a visitarlo.”
Legammo la barca alla riva. Quella era la stessa ripida sponda che risalii fino alle case in
cima quando ero stato disperato ed in cerca di aiuto qualche tempo prima. Ora era il nostro
turno di restituire l’aiuto ricevuto. Keren prese il nostro kit medico, e con i nostri bambini che
ci seguivano, ci incamminammo fino alla casa.
La casa era scura all’interno, le mura erano una combinazione di tavole e pali di alberi della
giungla. Il tetto era di foglie di palma, come quasi tutti i tetti della zona. Il pavimento era in
legno, con larghi spazi tra le tavole, larghi abbastanza da permettere agli insetti ed ai rettili di
strisciare dentro la stanza. Come previsto, gli onnipresenti scarafaggi dell’Amazzonia
potevano essere visti negli angoli bui della stanza, scarafaggi lunghi fino a 10 cm - del tipo
che spruzzava della schifezza bianca quando li calpestavi.
Cosa non comune, dato che quasi tutti i caboclo dell’Amazzonia dormono sulle amache, vi
era un letto matrimoniale fatto a mano e sopra esso una zanzariera appesa appesa al
soffitto, che veniva abbassata la notte. Il letto era fatto di tavole e pali di legno di palma, con
un semplice materasso di gommapiuma sopra le tavole, con delle macchie che sembravano
vecchie di parecchi anni e che non ero per niente curioso di scoprire cosa fossero. Sul letto
stava un vecchio uomo che tutti conoscevano come Seu Alfredo (Mr. Alfredo).
Alfredo era un mastro costruttore di canoe, e i suoi figli avevano imparato l’arte da lui. Tutti
nell’area si rivolgevano a lui quando necessitavano di una canoa. Egli costruiva larghe
canoe con una solida base in legno itauba e tavole laterali di 10x2 centimetri, calafate (ndt
sigillate?) alla stessa maniera delle navi più grandi. E costruiva anche cascos (gusci) -
canoe scavate di solido legno itauba. Nessuno faceva canoe come le sue. I Piraha lo
avevano in simpatia e dicevano che egli non aveva mai provato a rubare le loro donne, cosa
inusuale per un caboclo di quell’area, a detta dei Piraha.
Arlo Heinrichs aveva persuaso Alfredo a diventare cristiano, e dal allora, più di venti anni fa,
aveva vissuto come tale. Era conosciuto in tutta l’area come un uomo di cui ci si poteva
fidare, un uomo buono che visitava i malati, cantava inni, ed era amico di tutti.
Lo avevo visto qualche volta ormeggiare la sua canoa sulla riva presso qualche
insediamento di primo mattino, e saltare fuori dalla canoa con il suo ukulele in mano.
Risaliva la sponda e cominciava a suonare qualche inno, poi cantava e sorrideva alle
persone che si recavano a lavoro - donne che portavano vestiti da lavare al fiume, uomini
che preparavano la loro attrezzatura per la caccia. Tutti sorridevano e interrompevano quel
che stavano facendo quando sentivano Alfredo cantare, con un tono di voce alto, più
energico che delicato, cantava dicendo di non aver paura del domani perchè oggi
conosceva Jesù. Dopo aver cantate per un pò, faceva una visita ai malati e girava un po per

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il villaggio, raccontando barzellette e parlando di come Jesù avesse cambiato la sua vita.
Era una intera organizzazione missionaria racchiusa in un solo uomo.
Era raro che i caboclo si fidassero di altri caboclo, ma tutti si fidavano e rispettavano Alfredo.
Era l’unico uomo della zona di cui nessuno parlava male o di cui nessuno spargesse gossip
e sospetti.
Mi avvicinai al letto dove giaceva ammalato e gli chiesi, “Stai male?”
“Si, sto molto male. Avvicinati. Non riesco a vederti,” lui sussurrò con voce rauca.
Mentre mi facevo più vicino vidi che le sue braccia erano molto magre e la sua faccia aveva
una smorfia di dolore, e tremava.
“Ah, è Seu Daniel!” (Ah, è il sig. Daniel!) lui mi riconobbe.
L’aria odorava di diarrea e vomito.
“Hai dolore? Vuoi che ti porti all’ospedale a Porto Velho?”
Ero un ammiratore di Alfredo. Era sempre stato molto solidale con me, il missionario
protestante bianco, e non mi trattò mai come se fossi un estraneo.
“No, sto morendo. Ho detto a mia figlia che non c’era bisogno di chiamarti. Sarò morto a
breve.”
Guardando i suoi occhi scuri, e il suo corpo smagrito e scuro, indebolito dalla malattia,
immobile nel letto che aveva costruito egli stesso, sentivo come un groppo in gola. Keren
aveva lacrime agli occhi. I bambini stavano sulla porte, osservandoci.
“Lascia che ti aiuti, Alfredo. Di sicuro i dottori a Porto Velho hanno medicine che possono
aiutarti.”
“No, Daniel” rispose lui. “Si sa quando è giunta la propria ora. Ma non c’è ragione di esser
tristi. Sono felice che questo dolore vada via con la morte. E posso dirti di non aver paura
della morte. So che andrò a stare con Jesù. E sono grato di aver avuto una vita lunga e
molto bella. Sono circondato dai miei figli e dai miei nipoti. Tutti loro mi amano. Sono tutti qui
per me. Sono così grato per la mia vita e la mia famiglia.”
Nel suo dolore e nella sua malattia e nonostante il dolore di tutti, Alfredo portava serenità e
mostrava maturità e coraggio di fronte alla morte come mai avevo visto prima e mai vidi in
seguito. Tenni stretta la sua mano destra. Sua figlia gli accarezzava la fronte con un panno
umido mentre piangeva. Essa ci ringraziò di esser venuti. Alfredo ci ringraziò per esser
venuti.
“Andiamo, bambini,” dissi. “Andiamo.”
“Che succede papà? Sta morendo?” Shannon domandò.
Kristene e Caleb guardarono la stanza, poi me.
“É sicuro di stare per morire, si,” risposi, a malapena trattenendo le lacrime. “La gente qui
sembra sapere quando è arrivata la loro ora. Ma spero che tutti abbiate fatto attenzione ad
Alfredo. Lui non ha paura. Egli ha fede in Gesù. Lui sa che andrà in Paradiso. Così è come
voglio morire.”
Sentii come fossi stato in presenza di un santo.
Rifiutammo l’offerta della famiglia di Alfredo di fermarci per del caffe e dei biscotti, dicendo
che dovevamo recarci ad Auxiliadora per incontrare delle persone prima che una barca ci
prendesse a bordo. Mentre azionavo il motore e dirigevo la barca giu lungo il fiume,
cominciai di nuovo a pensare, come spesso mi capitava, a proposito del carattere di questi
caboclo. Avevo imparato tramite le mie avversità che ognuna di queste case lungo il fiume
era un rifugio sicuro in tempi di necessità. Queste famiglie, persone mai incontrate prima,
sarebbero venuto in tuo soccorso nel tempo del bisogno. Ti avrebbero fatto rimanere con
loro. Ti avrebbero dato da mangiare. Se necessario ti avrebbero trasportato sino al punto
sicuro più vicino. Ti avrebbero dato i loro ultimi beni.

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Tutto ciò è un codice di condotta dell’Amazzonia. Aiuti chi ha bisogno oggi, perchè domani
potresti essere tu ad aver bisogno. Non avevo mai visto un esempio più chiaro di questa
regola d’oro.
C’è una cosa, tuttavia, che non riuscii mai a capire del tutto a proposito dei caboclo ed è il
loro razzismo verso gli indiani. Mi dicevano frequentemente, “Daniel, noi siamo Indiani che
hanno imparato a lavorare. Non siamo pigri. Nessuno ci regala niente. Non ci piacciono gli
Indiani perchè chiedono l’elemosina e ottengono sempre più aiuto di quel che otteniamo
noi.”
Interessante notare che i caboclo stessi chiamano gli Indiani caboclo. I caboclo raramente
riferiscono a se stessi come caboclo. Preferiscono definirsi ribeiribhos (persone che vivono
lungo il fiume) o, più comunemente e semplicemente, brasiliani.
Questo tipo di attitudine caboclo verso gli Indiani deve essere presa in considerazione
quando si vuole trovare degli Indiani che abbiano avuto poco o nessun contatto con
l’esterno. Spesso i caboclo sono gli unici ad essere a consocenza di un eventuale presenza
di Indiani nella regione. Ma non chiederesti mai a un caboclo, “Ci sono Indiani qui intorno
che parlano ancora la propria lingua?”. Se si volesse scoprire la presenza di tali indiani, la
cosa migliore da chiedere, almeno in alcune zone dell’Amazzonia, sarebbe: “Tem caboclo
por aqui que sabem cortar a giria?” (Ci sono caboclo qui che sanno “tener fuori” il gergo?)
La ragione dietro una tale perifrasi è facile da scoprire quando si ha parlato con un caboclo
abbastanza a lungo: essi non pensano che la lingua degli Indiani sia una vera lingua, e
neanche credono che le varie lingue Indiane siano effettivamente lingue diverse l’una
dall’altra.

I caboclo credono di essere poveri, e sono disposti a fare grandi sacrifici, persino a rischiare
le loro vite, per migliorare la propria situazione finanziaria. Come molte persone nelle
economie occidentali, vogliono avere successo. Percepiscono disperatamente la loro
povertà. I Piraha, invece, anche se possiedono meno beni materiali rispetto ai caboclo, non
possiedono il concetto di “povertà” e sono soddisfatti dal punto di vista materialistico. Il
desiderio del denaro dei caboclo divenne a me evidente durante i giorni della corsa all’ora in
Porto Velho, nei primi anni del 1980. In quegli anni, fu scoperto l’oro nel fiume Madeira e nei
suoi affluenti. Fu un periodo di boom economico per gli insediamenti lungo il Madeira,
specialmente Porto Velho. Molti caboclo si diedero alla ricerca dell’oro e diventarono ricchi,
almeno per qualche tempo. Fare il cercatore d’oro era un lavoro estremamente pericoloso
ed anche estremamente duro. Molti caboclo senza nessun addestramento di immersione si
offrivano volontari per spedizioni subacquee indossando caschi da immersione e
discendendo senza nessuna luce, nella totale oscurità sottomarina, a 15 metri di profondità
tra l’acqua fangosa e turbinante, sul fondo del Madeira, tra anaconda, caimani, e razze, al
fine di manovrare larghi tubi aspiranti e setacciare lentamente il letto del fiume.
La chiatta in superficie forniva loro l’aria. Altri caboclo sulla chiatta si occupavano del
sistema di filtraggio che usava una combinazione di mercurio e forza di gravità per separare
l’oro dalla terra, dalle rocce, e da tutti gli altri detriti aspirati dal letto del fiume.
L’inquinamento da mercurio nel fiume Madeira divenne un serio problema.
Se il sommozzatore mandava su dell’oro, quelle della chiatta strattonavano il tubo aspirante
in modo da segnalare al sommozzatore di fermarsi in quel punto dove si trovava. Ciò era
estremamente pericoloso. Se i caboclo di una chiatta vicina notavano che la chiatta di fianco
a loro aveva trovato dell’oro, le cose potevano degenerare in violenza fisica. Più di un
equipaggio fu assassinato da equipaggi di altre chiatte nella stessa area. Poi l’equipaggio

108
invasore tagliava il cordone dell’aria del sommozzatore e mandavano il proprio
sommozzatore ad uccidere quello rimasto senz’aria, sempre che non fosse già morto.
Il mio amico Juarez, figlio di Godofredo Monteiro, divenne sommozzatore. Egli mi raccontò
che la prima volte che si immerse, il sangue venne fuori dalle sue orecchie a causa della
pressione. “Ma devi comunque andare avanti se vuoi diventare ricco,” mi spiegò.
A dir la verità fece qualche soldo. Riuscì a trovare abbastanza oro da ripagare i debiti del
padre, comprare una casa in città, e iniziare una attività di carretto dei gelati per se ed una
pianola per il duo musicale di cui faceva parte. Alla fine l’oro si esaurì, ma il contributo che
diede all’economia dell’Amazzonia fu possibile solamente grazie all’industriosità dei caboclo
e degli altri poveri brasiliani. I benestanti possedevano le chiatte ma i poveri cercavano l’oro.
Oltre alla loro forte etica del lavoro, la corsa all’oro mi fece scoprire che i caboclo hanno un
incredibile senso dell’umorismo. Durante la corsa all’oro, vidi un caboclo che camminava per
le strade di Porto Velho con dei vestiti nuovi e dei rotoli di soldi appiccicati alla schiena che
svolazzavano.
“A che servono quei soldi?” gli chiesi.
“Filho de Deus” (Figlio di Dio), incominciò la sua risposta (una comune espressione vocativa
nell’Amazzonia - da intendersi in modo ironico). “Ho passato tutta la mia vita rincorrendo i
soldi. Adesso che ho trovato l’oro, i soldi possono rincorrere me per qualche tempo.”
Assistetti ad un altro esempio dell’umorismo caboclo una notte lungo le sponde del Madeira
nella città di Humaita. Si era appena fatta sera, le 7:30 circa, era ancora ora del passear,
quando cioè è usanza fare due passi con la propria sposa, fidanzato o findanzata, o un
amico. Era una sera calda e umida, ma non in modo fastidioso, più come una piacevole
sauna. Alcune persone si erano riunite nella piccola piazza. Il pavimento della piazza era di
grigio cemento crepato, circondato da bassi muretti imbiancati coperti in cima da mattonelle
rosse e lucide di argilla su cui la gente poteva sedere. C’erano coppie vestite di abiti puliti,
freschi ed eleganti, spesso con pantaloni bianchi e camicie di colori accesi che coprivano
parzialmente i corpi scuri dei locali. La gente sedeva intorno alla piazza, mangiando gelato,
popcorn, e panini. Insetti di tutti i tipi, comprese zanzare, moscerini, vespe, e coleotteri,
volavano verso le luci ovunque esse fossero. Carretti a due ruote erano posizionati nei punti
strategici intorno alla piazza, come i carrelli di venditori di hot-dog a New York, con luci
elettriche e il carbone che bruciava luminoso nelle griglie affianco ai carretti. I carretti
avevano tutto l’essenziale per fare dei panini chiamati x-baguncas (pasticci di formaggio - la
lettera x nel portoghese è pronunciata “shees,” il che corrisponde alla pronuncia brasilinana
della parola inglese cheese). Ad una estremità della piazza un donna più anziana vendeva i
panini, mentre il nipotino della donna giocava con un camion giocattolo sul pavimento della
piazza, li vicino. All’altra estremità della piazza era il padre. Entrambi i carretti stavano
facendo begli affari. I loro panini erano molto buoni - prosciutto, purè di patate, piselli,
mayonese, salsicce, e formaggio, tutto insieme.
Il bambino chiese qualcosa a sua nonna. Lei disse di no. Lui corse attraverso la piazza fino
a raggiungere il padre e piangendo disse, “Papà, Nonna dice che non posso avere una
Coca Cola.”
Il bambino era molto arrabbiato con sua nonna.
Suo papà lo guardò e dopo un momento di silenzio offrì la sua soluzione: “Andiamo a
ucciderla allora,” disse, apperentemente sincero.
Il bambino guardò suo papà, confuso. Poi rispose emozionato, “No, papà. Non possiamo
ucciderla. É mia nonna.”
“Non vuoi ucciderla?”
“No! É Nonna!”

109
“OK, beh, allora ho da lavorare.”
“OK.”
E il bambino corse dietro da sua nonna. Potevo vedere il padre che rideva tra se.

L’aspetto della vita caboclo che più degli altri esercita un’influenza sui Piraha è costituito
dalle credenze caboclo riguardo il soprannaturale, illustrato tramite frasi spezzate e parole
prese in prestito dalla Lingua Geral (la “lingua generale” parlata in tutta l’Amazzonia durante
i primi tempi di vita dello stato brasiliano). I Piraha parlano frequentemente delle credenze
dei caboclo e mi interrogano spesso riguardo ad essi.
Queste credenze sono un amalgama di insegnamenti Cristiani, Tupi e altri racconti e miti
popolari indigeni, e di macumbe - una forma di spiritismo afro-brasiliana simile al voodoo.
Essi credono nel curupira, un elfo della giungla (alcuni dicono che sia una bella donna) che
guida la gente fino al centro della giungla perchè i suoi piedi sono rivolti al contrario e le
anime perdute pensano quindi che lei stia invece dirigendosi verso l’esterno della giungla. I
caboclo credono il delfino rosa del Rio delle Amazzonia si trasformi in uomo durante la notte
per sedurre le giovani vergini.
Ricordo che Godofredo mi raccontò delle trasformazioni di questo delfino. Egli raccontò una
elaborata storia che narrava come il delfino, trasformatosi in un uomo dalla pelle pallida, ma
ancora in posseso del suo enorme e lungo pene da delfino, aveva impregnato una
sfortunata ragazza presso Auxiliadora. Dopo aver raccontato la storia, mi chiese, “Tu ci
credi, Daniel?”
“Beh sono sicuro che in molti ci credono,” risposi.
“Io ci credo,” disse lui, cercando di farmi pressione nel credere al racconto usando il mio
rispetto per la nostra amicizia come leva.
Godofredo aveva due figlie quando lo conobbi, Sonia e Regina. Sonia aveva circa l’età di
Shannon e Regina aveva più o meno l’età di Kristene. Quando Sonia aveva dodici anni,
durante un periodo in cui io e la mia famiglia vivevamo nello stato di Sao Paulo, durante i
miei studi per il dottorato alla UNICAMP, lei e una sua amica morirono improvvisamente con
terribili crampi addominali. Dalla descrizione che ricevemmo via lettera ( Godo dettò una
lettera e un amico di lui la portò via barca fino ad Humaita per imbucarla), che includeva
sintomi quali aver vomitato materia fecale e l’inabilità a defecare, pensammo si trattasse di
blocco intestinale, anche se sarebbe potuto essere botulismo o tante altre cose.
La diagnosi di Godo era tipica della gente della regione: “Ela mixturou as frutas” (Lei mischiò
la sua frutta). I caboclo, al contrario dei Piraha, sono molto superstiziosi riguardo a ciò che
mangiano - mischiare certi cibi, essi credono, può portare ad una morte veloce e dolorosa.
Per esempio, non si deve mai bere latte e allo stesso tempo mangiare agrumi come il
mango.
Una volta visitai Godofredo quando suo figlio, Juarez, si stava riprendendo dopo un quasi
mortale episodio di malaria falciparum. Godo aveva guardato per giorni Juarez contorcersi
sul pavimento in preda alle febbri, al dolore, e alla nausea, eppure non cercò nessun aiuto
medico.
“Perchè non lo hai portato dal dottore in città?” chiesi, turbato dall’accaduto. “Posso portarlo
io dal dottore se preferisci. Pagherò per tutte le spese.”
“Senta, Mr. Daniel. Tutti dobbiamo morire quando arriva la nostra ora. Per questo motivo i
dottori muoiono tra le braccia di altri dottori. Non è forse vero? I dottori non possono
controllare la morte,” fu la sagace risposta del caboclo.

110
Un paio di anni più tardi, quando Juarez si avvicinava al suo diciassettesimo compleanno,
volevo dargli un’opportunità di migliorare la sua condizione finanziaria. Sedetti con Godo
durante un viaggio attraverso Auxiliadora per raggiungere i Piraha.
“Godo, sappiamo entrambi che Juarez è un ragazzo molto intelligente. Ho notato che gli
piace darsi da fare con i registratori e le radio. Penso che col giusto addestramento, con i
giusti attrezzi, e un poco di aiuto finanziario, potrebbe iniziare un’attività e fare dei bei soldi.
Ho un amico a Porto Velho, un tecnico radio americano di nome Ricardo, e lui ha accettato
di insegnare a Juarez il mestiere, di prenderlo con se e sua moglie nella loro attività, e poi
fornirgli gli strumenti necessari quando l’educazione di Juarez sarà terminata. Io sono
disposto a pagare per tutto ciò. Cosa ne pensi, Godo? Mi piacerebbe portare Juarez con me
quando lascio il villaggio.”
Godo evitò temporaneamente la questione. “Lasciamici pensare, Daniel. Quando sarà ora
che tu parta per Porto Velho, ti darò la mia risposta.”
Qualche settimana dopo, durante una visita di Godo tra i Piraha per commerciare noci
brasiliane, salii sulla sua barca per chiaccherare e bere del caffe.
“Daniel, ho pensato molto alla tua offerta,” Godo incominciò. “Non posso accettarla. Vedi, ho
bisogno del lavoro di mio figlio qui con me. Sono troppo povero per assumere qualcun’altro
per aiutarmi. Ma se lui se ne va e impara tutte queste cose nuove, sono sicuro che rimarrà in
città e non tornerà più quaggiù. Rimarrà in città, a Porto Velho o a Humaita, a fare soldi e
non aiuterà suo padre.”
“Ma Godo,” lo pregai, intromettendomi senza freno nei suoi affari di famiglia perchè ero
scioccato dal suo egoismo, “stai rovinando il futuro di Juarez per il tuo interesse personale.”
Ero molto turbato. Notai che Juarez e la sua matrigna, Cesaria, ci stavano guardando di
sbieco dal fondo della barca, con la testa bassa.
“Forse sto rovinando il suo futuro. O forse no. Solo Dio può saperlo, Daniel. Ma so di aver
bisogno di Juarez qui con me, ora.”
Completamente esasperato, tracannai il resto del mio cafezinho ( una piccola tazza di caffe
forte e nero), mi congedai da loro e risalii le sponde del fiume Maici fino a casa. Sapevo che
l’atteggiamento di Godo era tipico dei caboclo. I figli erano un mezzo di aiuto economico per
i genitori. La gente non sprecava il loro assetto primario, i loro figlio. Erano di proprietà dei
genitori, i quali potevano farne ciò che più piaceva loro, e di solito questo significava aiutare
finanziariamente i genitori.
Anni dopo Godo mi chiese se potesse ancora accettare la mia offerta. Juarez era ormai a
metà tra i venti e trenta anni. “No, Godo. Ricardo non vive più a Porto Velho, e non conosco
nessuno che potrebbe insegnare a Juarez.”
Ultimamente, la storia di Juarez divenne una tragedia, cosa abbastanza comune tra i
caboclo. Mentre completavo la prima stesura di questo capitolo, venni a sapere che Juarez
morì in un incidente in moto sull’Autostrada Transamazzonica. Anche io rischiai la morte più
di una volta con la mia motocicletta su quell’autostrada. Pensai tristemente a lungo a Juarez
e alla misera fine di una giovane e promettente vita che non potè mai esprimere il suo
potenziale.
Riassumere la cultura caboclo non fa giustizia al loro ricco sistema di credenze e alla loro
concezione della vita. Negli ultimi tempi, i caboclo giocarono un ruolo importante quanto i
Piraha nella mia vita, perchè mi immergevo sempre più a fondo nel mondo dell’Amazzonia.
Come i Piraha, i caboclo sono stati tra i miei più cari amici e tra le mie conoscenze più
esasperanti.
Ma non potrei concludere questa breve panoramica della cultura caboclo senza menzionare
la loro prontezza al combattimento. I caboclo vivono secondo un codice simile a quello di

111
John Bernard Books, il personaggio dell’ultimo film di John Wayne, intitolato Il Pistolero:
“Nessuno mi farà torto, nessuno mi insulterà, e nessuno mi metterà le mani addosso. Non
faccio queste cose agli altri e mi aspetto dagli altri lo stesso verso di me.” Gli Amazoniani ti
aiuteranno se lo chiederai loro. Ti daranno la loro ultima provvista di cibo se ne hai bisogno.
Ma prendono terribilmente sul serio qualsiasi sgarbo o qualsiasi segno che dia l’idea che tu
pensi di esser superiore a loro.
A volte addirittura la mia pelle bianca e il mio essere straniero urtavano la loro sensibilità.
Questo perchè molti brasiliani credono che gli americani siano razzisti e che si sentano
superiori alle altre popolazione. A volte quelli offesi dalla mia sola presenza sentono il
bisogno di provare ad intimidirmi di fronte ai loro amici.
Molte volte mi fu chiesto, “O que è voce?” (Cosa sei tu?) oppure “Cosa ci fai in Brasile?” o
“Cosa stai cercando di rubare dalla nostra nazione?”
Saper equilibrare il mostrarsi forte e usare il buon senso è una capacità essenziale per chi
vuole viaggiare tra l’amazzonia. I Piraha hanno imparato ciò. E così pure i caboclo. Nessuno
dei due indietreggerebbe da uno scontro alla pari. Ma entrambi eviterebbero uno scontro se
le condizioni sono ovviamente in loro sfavore. Ci volle del tempo perchè imparassi io stesso
questa lezione, dopo aver commesso molti errori che avrei potuto pagare a gran prezzo.
Una volta quando la mia famiglia stava vivendo con la tribù, una barca enorme, di una taglia
che di solito si vedeva sul Madeira, sul Rio delle Amazzoni, o sul Rio Negro, alta tre ponti e
lunga trenta metri, arrivò su per il Maici sino al nostro villaggio. C’era l’alta marea, così la
barca sembrava fosse ormeggiata proprio di fronte alla nostra casa sulla sponda del fiume.
L’acqua del fiume era a solo mezzo metro dalla cima della sponda al tempo, mentre nella
stagione secca l’acqua scende anche a dodici metro sotto la cima della sponda. La barca
era così vicina e il fiume così alto che l’equipaggio della barca poteva sbirciare dentro la
nostra casa. L’equipaggio era numeroso, forse addirittura 35 uomini. Potevo vedere che
fissavano Keren e le mie figlie, che erano appena diventate adolescenti. Io reagii
istintivamente e salii sulla barca, un gringo di trent’anni, alto 1e75 di 70 chili.
“Cosa fate in terra indiana?” domandai al proprietario, un uomo enorme di nome Romano.
“Cerchiamo legno duro,” lui rispose tranquillamente.
Mi guardai intorno. Un uomo dell’equipaggio aveva una palla bianca e luccicante dove
sarebbe dovuto essere il suo occhio. Un altro aveva una cicatrice che andava dalla fronte
fino alla gola, chiaramente opera di un coltello. Un altro ancora aveva una cicatrice che gli
attraversava la pancia. Notai che tutti loro erano fisicamente messi meglio di me, con
muscoli definiti e allenati che davano l’idea di potenza. Ma essendo un padre e marito
indignato, ordinai loro di lasciare la terra dei Piraha.
“Chi sei per dirci di andarcene?” Romano chiese. “Un americano che ordina a dei brasiliani
di lasciare il suolo brasiliano?”
“Il delegato del FUNAI in Porto Velho, Apoena Meirelles, mi incaricò di assicurarmi che
nessuno mettesse piede su queste terre senza il suo permesso,” risposi io senza mentire
ma in modo ingenuo, semplicemente non rendendomi conto di quanto ciò poteva risultare
offensivo ad un brasiliano nativo. Non avevo realizzato anche che il FUNAI non aveva
nessuna importanza per i caboclo, anche se senza l’aiuto della fondazione il mio lavoro non
sarebbe stato possibile. Questo incidente risale ai primi anni della mia carriera e non sapevo
come stavano le cose.
Ero pronto ad agire. Non sapevo però cosa avrei dovuto fare se le cose avessero preso una
brutta piega. Non avevo piani. Ma con grande sollievo, dopo un silenzio durante il quale
l’equipaggio continuava ad osservare la mia casa e Romano osservava me, egli
improvvisamente ordinò ai suoi uomini di mettere in moto la barca e prepararsi a partire. Mi

112
offrì del caffè e lo bevemmo, espresso dolce come sciroppo. Romano mi salutò cordialmente
e lasciarono la riva. Un’altra lezione imparata: le persone dall’aspetto cattivo possono in
realtà essere cordiali.
I caboclo, come i Piraha, si trovano isolati rispetto agli altri brasiliani, cosa che i Piraha
notano quando dei brasiliani o degli altri stranieri arrivano sulla loro terra. Potei rendermi
conto di ciò anni fa attraverso le reazioni dei caboclo verso i membri del Projeto Rondon.
Questo progetto era un’iniziativa finanziata dal governo al fine di migliorare le condizioni di
salute della popolazione del Brasile del nord e stimolare la sensibilità a questo problema
delle privilegiate popolazioni del sud Brasile, portando gruppi di studenti universitari per brevi
visite nelle regioni più remote e primitive del nord al fine di fornire supporto medico e
odontoiatrico. Una volta, quando arrivai ad Auxiliadora, dove Godofredo e Cesaria ancora
vivevano, alcuni uomini chiamarono il mio nome mentre passavo affianco agli alberi sotto i
quali loro sedevano all’ombra. Bevevano birra ghiacciata Antarctica, vestiti di calzoncini e
infradito, senza maglietta.
“Seu Daniel, como è que vai? Sabe rapaz, na semana passada tinha um grupo de
estrangeiros do seu pais aqui. Falavam portugues enrolado que nem voce!” (Mr Daniel,
come va? L’altra settimana c’era un gruppo di stranieri qui della tua nazione. Parlavano
portoghese male proprio come te!)
“Un gruppo della mia nazione?” chiesi io, sorpreso che un qualsiasi gruppo di americani
potesse intraprendere un viaggio fino ad Auxiliadora. “Di dove erano?”
“Erano qui col Projeto Rondon. Erano tutti di Sao Paulo.”
Me ne andai divertito dal fatto che per i caboclo c’erano poche differenze tra un gringo degli
Stati Uniti e un brasiliano di Sao Paulo.

Parte Due LINGUAGGIO

11 Canali Fonologici Variabili della Lingua Piraha

I caboclo, i viaggi, e tutte le altre esperienze nell’Amazzonia erano ultimamente passaggi


che dovevano portare al raggiungimento di un fine. Le mie esperienze nella regione erano
inconvenienti imposti dalla mia missione di comprendere la grammatica Piraha. Mentre
progredivo in tale compito, in modo dolorosamente lento, realizzai che questa lingua era
inusuale - profondamente inusuale. Inizialmente riconobbi tale inusualità analizzando i modi
in cui i suoni sono organizzati in parole. Le mie conclusioni riguardo l’unicità della lingua
erano basate sulle ricerche sul campo di Tzeltales nel sud del Messico, sulle esperienze con
parlanti Comanche e Cherokee in Oklahoma, sull’aiuto che davo ai missionari ad analizzare
altre lingue amazzoniche, e su numerose letture.
Usualmente facevo la parte seria del lavoro sulla lingua nel loft della nostra casa tribale. La
casa era costruita parallela al corso del fiume per acchiapparne la brezza. La casa aveva
uno sgabuzzino ed un soffitto fatto di tavole che copriva la nostra zona letto (per prevenire
forme di vita che strisciavano, balzavano e si arrampicavano dal caderci addosso mentre
dormivamo e anche per rinfrescare un poco di più la stanza).
lo spazio triangolare che si trovava tra il tetto di foglie di palma e il soffitto di tavole era
aperto da entrambi i lati, e vi era abbastanza spazio da poterci mettere un tavolo e un paio di
sedie dove dedicarmi al mio lavoro. Chiamavo questo spazio il mio studio. Faceva
estremamente caldo in questo spazio semi chiuso, e c’erano serpenti, rane, tarantole e altre
creature striscianti tra le foglie di palma del tetto, ma lo spazio mi dava un poco di

113
isolamento dal villaggio, così che i miei insegnati di lingua e me non avessimo distrazioni.
L’accesso a questo spazio avveniva tramite una scala fatta da noi inchiodata alla parete
della sala che stava sotto la mia scrivania.
Quando lavoravo nel mio studio, faceva così caldo che la mia maglietta aderiva
completamente al mio corpo e miei capelli si appiccicavano ai lati della testa. Ma imparai ad
ignorare il calore. Era la presenza dei vari animali che mi teneva allerta e sveglio. Ogni tanto
dovevo interrompere il lavoro quando piccole rane saltavano fuori dalle palme del tetto
fuggendo da un serpente che strisciava loro dietro. Questi serpenti non erano molto grandi,
ma alcuni erano velenosi. Essi vivevano tra il fogliame del tetto, il quale a quanto pare era
una perfetta zona di caccia. Presi l’abitudine di tenere ai miei piedi o sulla sedia accanto a
me una mazza di legno. Quando sentivo qualcosa muoversi nel tetto sopra di me, spingevo
indietro all’istante la mia sedia, afferravo la mazza, e aspettavo. Per prima cosa, una rana
spaventata saltva fuori dal fogliame. Cercavo di uccidere anche loro (non volevo nessun
animale tra il fogliame del mio tetto). Ma esse erano troppo veloci e piccole. Poi sapevo che
qualsiasi cosa avesse spaventato le rane sarebbe presto apparsa dalle foglie. Spesso la
testa di un serpente spuntava fuori dal fogliame. Dato che adesso ero pronto ed in attesa,
l’animale strisciante solitamente ci lasciava le penne. Wham! La mazza colpiva la testa del
serpente spiaccicandola contro il tetto o i pali di supporto. Gettavo il serpente fuori nella
giungla e tornavo al lavoro.
Vivevo e respiravo la lingua Piraha mentre vivevo nel villaggio. Ma il mio ottimismo iniziale
riguardo l’analisi della lingua scomparve via via che incominciavo ad accorgermi della sua
complessità.
Abbiamo tutti visti i film Hollywoodiani dove qualche esploratore o scienziato impara una
lingua tribale fluentemente in un brevissimo periodo di tempo. Tutto ciò mi sembrava ridicolo
ora che lottavo per imparare quella lingua e come esprimermi utilizzandola. Non c’erano libri
di testo. Non c’era nessuno che potesse tradurre il Piraha in portoghese. Persino dopo sei
mesi, non ero sicuro di capire niente di quello che i miei insegnanti mi dicevano. A volte fui
preso dallo scoraggiamento. Ma vedevo che i bambini di tre o quattro anni imparavano la
lingua e continuavo a credere che un giorno sarei riuscito a parlare bene quanto un bambino
di tre anni.
Anche se la linguistica era il mio obiettivo di studio tra i Piraha, non dimenticavo il fatto che
la mia permanenza tra loro era finanziata dalle chiese e da singoli cristiani perchè potessi
infine tradurre la Bibbia in lingua Piraha. Tuttavia, per fare ciò necessitavo di una solida e
completa conoscenza della struttura della lingua. I due obiettivi erano per il momento
compatibili tra loro.
La lingua Piraha ha un numero di suoni della lingua o fonemi tra i meno numerosi del
mondo, con solo tre vocali (i,a,o) e appena otto consonanti (p,t,k,s,h,b,g, e l’occlusiva
glottidale x) per gli uomini e tre vocali e sette consonanti (p,t,k,h,b,g, x) per le donne (le
donne utilizzano la consonante h laddove gli uomini utilizzano la consonante s). Le donne
utilizzano meno consonanti che gli uomini. Questo è un fenomeno conosciuto, ma inusuale.
Il termine occlusiva glottidale non sarà familiare a molti lettori dato che è un suono che non è
presente tra i fonemi della maggior parte delle lingue europee, incluso l’inglese. Ma è un
fonema importante nella lingua Piraha. In inglese si utilizza occasionalmente uno stop
glottidale nelle esclamazioni, come uh-uh (no). Mentre una consonante come la t ferma il
flusso d’aria fuoriuscente dalla bocca appena dietro i denti, e la k taglia il flusso d’aria con la
parte posteriore della lingua che si innalza fino al palato, lo stop glottidale (ndt occlusiva
glottidale) invece è prodotto contraendo le corde vocali e interrompendo il flusso d’aria prima
che arrivi nella porzione superiore della gola (la faringe).

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Per apprezzare quanto ridotto sia il numero dei fonemi della lingua Piraha, si può prendere
in considerazione che l’inglese ha circa 40 fonemi, a seconda del dialetto. E il numero dei
fonemi inglesi non è per niente considerato elevato in maniera inusuale. La lingua Hmong
del Vietnam ne possiede oltre 80. All’altra estremità, solo il Rotokas (Nuova Guinea) e
l’Hawaiano competono con il Piraha per il minor numero di fonemi - entrambi ne possiedono
11, come la lingua Piraha, la variante degli uomini.
Alcuni si sono chiesti se una lingua sia in grado di comunicare concetti complessi utilizzando
solo undici fonemi. Un ingegnere informatico sa, però, che i computer possono comunicare
qualsiasi cosa noi programmiamo loro di comunicare, e lo fanno utilizzando solo due
“lettere” - 1 e 0 (ndt il linguaggio binario), i quali potrebbero essere paragonati a due fonemi.
Anche il codice morse possiede solo due “lettere”, segnale lungo e corto.
E questo è tutto ciò di cui una lingua necessita. Di fatti, una lingua potrebbe svolgere la sua
funzione con un singolo fonema. In questa lingua le parole potrebbero essere a, aa, aaa,
aaaa, e così via. Non deve sorprendere che non vi sia alcuna lingua conosciuta
comprendente solo uno o due suoni, dato che più piccolo il numero dei fonemi, più lunghe le
parole devono essere per potersi differenziare l’una dalle altre (altrimenti sembrerebbero
tutte uguali) e diventerebbe più difficile per il nostro cervello distinguere una parola dall’altra
(le parole troppo lunghe richiederebbero troppo sforzo mnemonico per poter essere distinte
dalle altre). Quindi se ci fosse un linguaggio umano simile al linguaggio binario dei computer,
gli umani necessiterebbero di avere cervelli che funzionassero come un computer per usare
e riconoscere le molto lunghe parole che tale lingua produrrebbe. Immaginiamo l’arduo
compito di dover riconoscere una parola di 50 a consecutive da un’altra parola di invece 51
a consecutive.
Vi è perciò una sorta di tensione tra l’imparare un grande numero di fonemi per rendere le
parole di una lunghezza moderata, e imparare pochi fonemi e lasciare che le parole si
allunghino un poco. Alcune lingue possono essere complicate sotto entrambi i punti di vista.
Il tedesco per esempio possiede sia parole lunghe che un grande numero di fonemi.
Qualche esempio nella lingua inglese potrebbero aiutare ad imparare come i fonemi sono
utilizzati nella distinzione tra le parole. Nelle parole pin e bin, per la maggior parte dei
parlanti l’unico modo di distinguere quale delle due parole si riferisce ad una spilla (ndt pin,
spilla) e quale invece ad un cesto (ndt bin, cesto, bidone) è che una parola ha il fonema p e
l’altra il fonema b; oltre questa differenza, le due parole sono identiche. Questo significa che
p e b sono suoni separati e distinti portatori di significato, al contrario dei due tipi di
pronuncia della p in pin e spin.
In queste due ultime parole, la p di pin è aspirata, il che significa che un piccolo soffio d’aria
viene emesso quando si pronuncia tale lettera, mentre la p di spin non è aspirata. Per
questa ragione, nell’alfabeto inglese facciamo distinzione tra p e b, una distinzione che serve
a riconoscere una parola dall’altra, ma non tra i due diversi tipi di pronuncia della p in pin e
spin, dato che possiamo riconoscere la diversità tra le due parole sia con che senza
l’aspirazione. (Audrey Hepburn, influenzata dal fatto di essere parlante nativa olandese,
tendeva a non aspirare le consonanti ma poche persone notano questa particolarità.)
Questa distinzione tra dei suoni a seconda della loro posizione nella sillaba è importante per
i linguisti ma non per un normale parlante madrelingua - qualunque inglese riconoscerà le
parole pin e spin sia che la p sia aspirata o no.
Nelle parole sheet (ndt foglio, lenzuolo) e shit (ndt merda), per un parlante nativo la
differenza sonora è costituita dalla tensione con cui la lingua produce le vocali. Tuttavia,
dato che la seconda parola utilizza una vocale che non è presente nelle lingue romanze,
come il portoghese o lo spagnolo, i parlanti di queste lingue possono incorrere in momenti di

115
imbarazzo tentando di distinguere queste due parole, dato che i due suoni sono fonemi
distinti nella lingua inglese ma non nel portoghese o nello spagnolo.
Dato il numero dei fonemi della lingua Piraha, le parole non sono così lunghe come ci si
aspetterebbe, grazie a due strumenti addizionali: il contesto e la tonalità menzionata nei
capitoli precedenti.
Il contesto aiuta nella distinzione del significato in tutte le lingue. Consideriamo gli omonimi
inglesi to e two. Se io chiedessi, “Quanto hai detto?” e il mio interlocutore rispondesse tuu
(trascritto foneticamente), sapremmo che in questo contesto solo two avrebbe senso e non
to. Di fatto la maggior parte delle potenziali ambiguità è viene risolta dal contesto.
Sedevo un giorno con Koxoi alla mia scrivania sotto il tetto di foglie di palma ad approfondire
la mia comprensione della struttura dei suoni delle parole Piraha. Keren fece capolino con
una tazza di caffè. Fece segno a Koxoi per domandare se anche lui volesse del caffè. Koxoi
sorrise e disse, “Ti piai,” il che immediatamente ipotizzai significasse “Anche io”.
Per confermare la mia ipotesi, organizzai alcune frasi esempio che avrebbero confermato il
mio sospetto, frasi come “Koxoi beve il caffè, Dan piai”, “Koxoi beve il caffè, io piai,” e così
via.
Registrai le frasi esempio e isolai le parti che significavano anche io, anche tu, anche lei, e
così via. Poi chiesi a Koxoi di ripetere queste frasi così che potessi verificarne la corretta
pronuncia.
Le risposte che ricevetti furono sorprendenti e confondenti.
Egli ripetè, “Ti piai.”
Io ripetei.
Lui disse, “Giusto, ki piai.”
“Cosa hai detto?” chiesi frustato e sorpreso. Perchè stava cambiando la pronuncia? C’era na
frase più semplice di quel che avevo ipotizzato?
“Ki kiai,” egli ripetè.
A quel punto incominciai a chiedermi se stessi avendo le allucinazioni. Tre diversi tipi di
pronuncia in tre ripetizioni. Ero sicuro che il suono k, il suono t, e il suono p fossero unità
distintive del discorso - fonemi - della lingua Piraha. I fonemi non dovrebbero essere
interscambiabili! Se cambiamo Kim con Pim in inglese, per esempio, si formano due parole
diverse.
“Ki kiai?” chiesi.
“Esatto, pi piai” fu la esasperante risposta.
In altre ripetizioni, Koxoi diede anche altre pronunce (ricordiamo che la x rappresenta lo stop
glottidale del Piraha): “xi piai,” “xi xiai.”
Considerai se fosse il caso che la pronuncia di Koxoi fosse semplicemente “sballata” rispetto
alla pronuncia degli altri Piraha oppure non fosse piuttosto che queste variazioni illustrassero
qualche più profondo principio linguistico. Poteva essere che la parola cambiasse significato
in modi sottili che io non riuscivo a percepire. Oppure poteva essere un esempio di
“variazione libera” - una variante fonetica non distintiva, come la mia pronuncia alternativa
sud californiana della parola economics, pronunciata da me sia “eeconomics” che
“ehconomics”, senza distinzione di significato. Alla fine conclusi che fosse proprio una
variazione libera.
Osservai numerosi altri esempi di questa variazione con altri parlanti. Alcune persone
davano diverse pronunce per una singola parola, come xapapai, kapapai, papapai, xaxaxai,
e kakakai, traduzione della parola testa. Oppure xisiihoai, kisiihoai, pisiihoai, pihiihoai e
kihiihoai, traduzione della parola carburante liquido (kerosene, benzina, butano, etc).

116
Notai che la lingua Piraha permette un sorprendente numero di varianti nelle consonanti. Ciò
mi sorprese, specialmente essendo il Piraha una lingua con così pochi fonemi. Ma allo
stesso tempo scoprii che il Piraha fa un uso così esteso del sistema dei toni, dell’accento, e
del peso delle sillabe che la lingua può essere fischiata, mormorata, cantata o gridata.
Per esempio, la frase Kaixihi xaoxaaga, gaihi (C’è una paca [ndt un roditore] laggiù), ha una
forma musicale. Ed è questa forma musicale che viene sibilata o mormorata o cantata.

[ndt c’è un’immagine con delle note musicali nel testo originale a pagina 182]

Le linee verticali nell’esempio indicano le interruzioni tra le parole. Le note tra le linee sono
la rappresentazione musicale di una parola. L’accento sotto alcune note indica che la sillaba
è più forte [ndt nel senso di volume sonoro] delle altre sillabe della stessa parola. La nota
semibreve rappresenta il tipo di sillaba più lungo nella lingua Piraha (consonante + vocale +
vocale) e la semiminima rappresenta la sillaba più corta nella lingua (consonante + vocale).
Le altre note e i punti di valore che le accompagnano rappresentano sillabe di altre
lunghezze - la lingua Piraha ha sillabe di cinque diverse lunghezze. L’altezza relativa delle
note, ossia delle sillabe, ne indica il tono. Una nota più alta è una sillaba con un tono alto.
Una nota più bassa è una sillaba con un tono basso. Una linea di connessione tra due note,
una legatura di valore, indica che c’è un movimento tra un tono basso verso un tono alto o
viceversa, senza pausa tra le due note. Nella rappresentazione musicale di kaixihi, il primo
gruppo di note ha un tono discendente, seguito da un breve tono basso, con una
interruzione prima del sibilo (dove è lo stop glottidale x nella parola kaixihi), seguito da
un’altra breve interruzione (dove è la lettera h) e una breve nota alta, e così via. La parola,
senza consonanti o vocali, è accentata (il volume viene calibrato) in accordo col peso della
sillaba. Dunque, i confini delle sillabe sono chiaramente presenti nel canale del sibilo, della
parlata a bocca chiusa, e del grido, i quali tutti sono rappresentati in questa trasposizione
musicale anche se i fonemi stessi sono assenti.
Non c’è pentagramma in questa analogia musicale perchè i toni nella lingua Piraha non
hanno un'intonazione precisa come le note musicali, ma sono relativi. Un tono alto nella
lingua Piraha, e anche in tutte le altre lingue tonali, non ha un preciso numero di hertz, ma è
semplicemente realizzato con una frequenza maggiore di un tono basso.
Iniziai a intuire che ci fosse una connessione tra il ridotto numero di fonemi e la presenza di
questi “canali dei discorso”. Ipotizzai che questi canali fossero la chiavi per capire sia il
ridotto numero delle consonanti e vocali nella lingua Piraha e le incredibili variazioni tra le
consonanti. Dato che tutti questi canali si fondano sul fatto che le parole Piraha possono
essere rappresentate musicalmente, dovremmo cercare di capire un poco più da dove
proviene questa musicalità.
Prima di tutto ci sono i toni. Ogni vocale in ogni parola ha un tono alto o basso, in una
maniera simile al cinese e ad altre lingue tonali.
I toni linguistici derivano da una proprietà onnipresente in tutte le lingue del mondo,
l’intonazione, ossia la relativa frequenza delle vibrazioni delle corde vocali. Tutte le lingue
usano l’intonazione per la distinzione tra significati. Nell’inglese, per esempio, una
intonazione ascendente alla fine della frase genericamente indica una domanda, mentre un
intonazione discendente indica una affermazione.

[ndt bisogna inserire le lineette che indicano l’intonazione nel testo]

John sta arrivando. (Affermazione, il tono è discendente.)

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John sta arrivando? (Domanda, il tono è ascendente.)

Nella punteggiatura inglese, il punto è utilizzato per indicare un intonazione discendente,


mentre il punto interrogativo indica un intonazione ascendente. Quando l’intonazione è usata
per indicare la differenza di significato in questo modo, viene chiamata intonazione. Ci sono
molte varianti possibili di intonazione. Per avere solo un’idea della complessità del ruolo
dell’intonazione e dell’accento nell’inglese, consideriamo uno dei miei esempi preferiti,
conosciuto tra i linguisti come “annullamento dello scontro tra accenti” [ndt stress clash
override]. Quando pronunciata da sola, la parola thirteen ha un tono più alto nell’ultima
sillaba - “thirTEEN”. E la parola women ha un tono più alto nella prima sillaba, “WOmen.” Ma
se si mettono insieme le due parole cosa si ottiene? Non si ottiene “thirTEEN WOmen,”
invece si ottiene “THIRteen WOmen.” Perchè? Perchè l’inglese, come molte altre lingue,
non gradisce due sillabe di tonalità alta, o accentate, una subito dopo l’altra. Un andamento
alternato è preferito - del tipo [ndt sillaba] ACCENTATA nonaccentata ACCENTATA
nonaccentata, e così via. Così i parlanti inglesi cambiano l’accento in parole come thirteen
quando esse precedono altre parole, per ottenere quel risultato di accenti alternanti mentre
allo stesso tempo mantenere l’accento invariato nella parola principale della frase, in questo
caso women, nella frase nominale THIRteen WOmen. E nessun bambino nativo inglese ha
mai avuto il bisogno che qualcuno gli spiegasse come gestire questi accenti! Lo fanno e
basta. Cercare di capire come tutto ciò sia possibile è uno degli aspetti per cui la linguistica
è interessante.
Tutte le lingue, che siano parlate nei deserti australiani, tra le strade di Los Angeles, o nella
giungla del Brasile, fanno uso dell’intonazione. Ma molte lingue usano l’intonazione in modi
diversi. Anche se l’inglese utilizza il tono per cambiare il senso di una frase, non usa però il
tono per cambiare il significato delle parole, con alcune eccezioni che possono aiutarci a
capire quel che succede in una lingua tonale come il Piraha o il cinese.
Consideriamo cosa distingue coppie di nomi e verbi quali CONtract (nome) e conTRACT
(verbo), PERmit (nome) e perMIT (verbo), e CONstruct (nome) e conSTRUCT (verbo). In
queste coppie, il sostantivo ha un tono più alto sulla prima sillaba, mentre il verbo ha un tono
più alto sulla seconda sillaba.
Ma mentre l’inglese usa il tono per distinguere il significato di solo alcune coppie di parole,
nelle lingue tonali invece, ogni sillaba o vocale o parola è legata ad un tono distintivo.
Imparai in principio questa differenza, come imparai altre cose della lingua, commettendo un
oltraggioso errore. Io e Kohoi stavamo lavorando su alcune parole che io pensavo fossero
necessarie per tradurre la Bibbia, tra le altre cose.
Gli chiesi, “Quando ti piace qualcuno davvero tanto, come ti riferisci a questo qualcuno?”
“Bagiai,” Kohoi rispose.
Cercai di usare la parola in una frase immediatamente. “Tu sei il mio bagiai,” dissi,
sorridendo.
“No!” lui rispose, ridendo.
“Cosa,” chiesi io, “non ti sto simpatico?”
“Si mi stai simpatico,” lui disse, ridacchiando. “Sei simpatico. Sei il mio bagiai. Ma ci sono
bagiai che non ci piacciono,” lui chiarì.
Per aiutarmi a comprendere quel che intendeva, Kohoi sibilò le parole per me, lentamente.
Poi per la prima volta riuscii a sentire la differenza! La parola per amico è bagiai, con un
unico tono alto sull’ultima a: “ba-gi-Ai.” Ma la parola per nemico ha due toni alti, uno per ogni
a: “bA-gi-Ai.” Questa piccola differenza è ciò che separa l’amico dal nemico nella lingua

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Piraha. Le parole sono legate al mondo Piraha perchè bagiai (amico) letteralmente significa
“che si tocca” - qualcuno che si tocca con affetto - e bagiai (nemico) significa “causare un
incontro”. Culturalmente, però, bagiai ha un significato idiomatico - un nemico è colui il quale
fa si che cose non sue si incontrino. Gli idiomi trovano la loro radice in qualcosa di più
profondo del significato letterale delle parole, il quale può difatti essere del tutto irrilevante,
come l’espressione inglese kick the bucket [ndt dare un calcio al secchio], che significa
“morire”, completamente disconnessa dal significato letterario delle singole parole della
frase.
Chiaramente, dovevo scrivere i toni come parte del linguaggio. Così adottai una
convenzione linguistica piuttosto comune e usai l’accento acuto per indicare un tono alto.
Quando non vi è nessun segno sopra una vocale, la vocale ha invece un tono basso.
Qui c’è un altro esempio di parole Piraha, ognuna di esse si distingue dalle altre dal diverso
tono relativo delle vocali:

xaooi (aoOI) “pelle”


xaooi (aoOi) “straniero”
xaooi (AoOi) “orecchio”
xaooi (aOoI) “guscio di noce brasiliana”

Siccome i Piraha usano i toni in modo così diffuso, ciò fornisce opzioni di canali di
comunicazione che la maggior parte delle lingue europee non ha. Io mi riferisco a tali canali
come canali del discorso, seguendo il lavoro pionieristico del sociolinguista Dell Hymes. Ci
sono cinque di tali canali nella lingua Piraha, oguno di questi ha una unica funzione
culturale. I canali sono la parlata sibilata o fischiata, parlata a bocca chiusa [humming], la
parlata musicale, la parlata gridata, e la parlata normale - tutto ciò, usando le consonanti e le
vocali.
Per conoscere i Piraha, bisogna conoscere questi canali e le loro funzioni. Avevo già sentito
parlare di questi canali prima di recarmi tra i Piraha. E sapevo che altre lingue avevano modi
simili di espressione (come i linguaggi dei tamburi africani o il linguaggio fischiato delle isole
Canarie). Ma quando per la prima volta ne sentii un esempio il lingua Piraha, fu una
esperienza nuova per me.
Ciò accadde un pomeriggio dopo che avevo tirato fuori dei vecchi giornali del National
Geographic da fare sfogliare ai Piraha. Loro vanno pazzi per le immagini degli animali e
delle persone, che siano dell’Amazzonia o di altri parti del mondo. Xiooitaohoagi (i-owi-taO-
hoa-gI) sedeva sul pavimento, sfogliando il giornale, con il suo bambino che succhiava il
latte dal suo seno. Sedeva con le gambe distese e il vestito abbassato fino alle ginocchia,
alla solita maniera Piraha, e parlava con la bocca chiusa ritmicamente al bambino, che era
seduto sulla sua coscia, mentre lui succhiava il latte energicamente. Osservai la scena per
un poco prima di realizzare che ciò che la donna stava dicendo a bocca chiusa era una
descrizione della balena e degli eskimo nella foto che stavano guardando. Il bambino
spostava il suo sguardo dal seno alla foto sul giornale di tanto in tanto, e lei indicava la foto e
parlava più forte.
Come tutti i veri canali di comunicazione, la parlata a bocca chiusa può “dire” tutto ciò che
può esser detto con le consonanti e con le vocali. Ma anche come gli altri canali, il canale
cantato a bocca chiusa ha una specifica serie di funzioni. Esso è usato per nascondere ciò
che si sta dicendo o nascondere nascondere la propria identità. E riesce a compiere questa
funzione perchè persino per un Piraha che non sia attentamente concentrato ad ascoltare, è
difficile capire quel che viene detto in questo modo [ndt parlando a bocca chiusa]. Ed il

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parlato a bocca chiusa avviene ad un volume molto basso. Così viene usato anche quando
si necessita di riservatezza, come nel caso del nostro sussurrare. (I Piraha non sussurrano,
essi parlano a bocca chiusa invece. Mi domandai a lungo come mai finchè un linguista
tedesco Manfred Krifka mi ricordò della ovvia ragione di tale comportamento. Sussurrando,
le corde vocali non riescono a produrre i vari toni necessari alla lingua Piraha, così la lingua
sarebbe incomprensibile.) Il parlato a bocca chiusa è anche usato per parlare quando si ha
la bocca piena. Infine, è usato frequentemente dalle madre quando parlano ai loro bambini.
La parlata gridata consiste nell’uso della vocale a oppure, occasionalmente, delle vocali
originali delle parole più una delle due consonanti k oppure x (stop glottidale), per gridare la
forma musicale della parlata, che consiste del tono, delle sillabe e degli accenti. La parlata
gridata è comunemente usata nei giorni di pioggia quando la pioggia e i tuoni sono molto
rumorosi. Viene usata per comunicare tra Piraha divisi da lunghe distanze. É una parlata
forte come un grido, ma senza consonanti. Può essere occasionalmente in falsetto.
Koobio vive a Xagiopai, a sette giorni di viaggio in canoa risalendo il fiume da Posto Novo.
Un giorno di pioggia mi trovai in visita presso Xagiopai, e Koobio si trovava dall’altra parte
del fiume a casa di suo padre Toitoi. Sua moglie, Xiaisoxai, era tornata a casa di Koobio, e
si apprestava ad attraversare il fiume per raggiungere il marito a casa di Toitoi. Koobio iniziò
a gridare in questa maniera.
“Ka, Kaaakakaa, kaakaa.”
Nella normale parlata Piraha questa frase sarebbe “Ko Xiaisoxai. Baosai” (Hey Xiaisoxai.
Indumento.)
Sorprendentemente, nonostante la pioggia attenuò la maggior parte dei suoni, questa
parlata risuonò in modo impressionante. Poco dopo sentimmo Xiaisoxai gridare in risposta,
“OK, porterò la tua maglietta quando venendo li.”
E poi vi è la parlata musicale, uno dei due canali di comunicazione per cui i Piraha hanno
nomi speciali. Essi si riferiscono alla parlata musicale con il nome “mascella che va” o
“mascella che parte”. Tale parlata è pronunciata esagerando la differenza tra i toni relativi
alti e bassi e cambiando il ritmo delle parole e delle frasi fino a produrre una specie di
melodia. Questo canale ha forse la gamma più interessante di funzioni nel linguaggio. Viene
usato per comunicare importanti nuove informazioni. Viene usato per comunicare con gli
spiriti (e spesso è usato dai kaoaibogi, o spiriti, stessi). Ma viene usato principalmente
durante le danze. Curiosamente, nonostante non abbia alcuna spiegazione del perchè ciò
avviene, quando chiedo ai Piraha di ripetere qualcosa nella parlata musicale, le donne
riproducono tale parlata in modo più naturale di quanto facciano gli uomini.
La parlata fischiata, a cui i Piraha rifericono come “parlare con la bocca amara” oppure
“bocca corrugata” - la stessa descrizione che utilizzano della sensazione che si ha in bocca
quando si mangia un limone - viene utilizzata esclusivamente dagli uomini. Per qualche
ragione, questa restrizione avviene anche nella maggior parte delle altre lingue che
utilizzano la parlata fischiata. Tale parlata viene utilizzata durante la caccia e durante giochi
aggressivi tra i ragazzi.
La mia prima intensa esperienza della parlata fischiata la ebbi quando un giorno i Piraha mi
avevo concesso di andare a caccia con loro. Dopo aver camminato per circa un’ora, essi
decisero che la mancanza di selvaggina quel giorno fosse attribuibile alla mia presenza, a
causa delle mie borracce tintinnanti e la mia goffagine, che producevano troppo rumore.
“Tu aspetta qui e noi torneremo a prenderti più tardi,” Xaikaibai disse gentilmente ma con
decisione.
Guardai gli uomini allontanarsi. Ero in piedi affianco ad un largo albero. Non avevo idea di
dove mi trovassi ne di quando gli altri sarebbero tornati a prendermi. La giungla era resa

120
scura dall’ombra della vegetazione e degli alberi. Le zanzare mi svolazzavano intorno. Tenni
in mano il mio machete in caso qualche animale decidesse di farmi un agguato. Mi
domandai se i Piraha sarebbero mai tornati a prendermi. (Se non fossero tornati a
prendermi, probabilmente il mio scheletro sarebbe ancora li.)
Mentre cercavo di passare il tempo, sentii che gli uomini stavano fischiando l’uno a l’altro.
Stavano dicendo, “Io vado di qua; tu vai di la,” e altre cose simili che si dicono durante la
caccia. Ma chiaramente stavano comunicando. Era incredibile perchè quei suoni erano così
diversi da qualsiasi cosa avessi mai sentito. I fischi riecheggiavano lunghi e chiari tra la
giungla. Potei immediatamente osservare l’importanza e l’utilità di questo canale, che
avrebbe probabilmente spaventato la selvaggina molto meno che le frequenze più basse
delle normali voci degli uomini.
Questi canali mostrano come la cultura può influenzare il linguaggio. Se non avessi
conosciuto i canali del discorso, non avrei potuto sapere la maniera culturalmente
appropriata di comunicare diversi tipi di informazioni per cui questi canali vengono utilizzati.
Una completa descrizione della cultura Piraha deve includere una spiegazione di come si
comunicano informazioni spirituali, informazioni intime, e così via. La funzione dei canali è
culturale. Per questo le caratteristiche linguistiche, il ridotto numero di fonemi e il grande
numero di variazioni libere tra le consonanti, che mi avevano procurato così tante difficoltà
all’inizio del mio lavoro, non possono essere spiegate senza le informazioni culturali.
Per farla semplice, la lingua Piraha potrebbe avere così pochi suoni perchè non ne
necessita altri. L’importanza che ricoprono questi differenti canali del discorso fa si che le
consonanti e le vocali siano meno importanti per i Piraha di quanto lo siano per l’inglese, il
francese, il navajo, l’hausa, il vietnamita, e altre lingue. Ciò mette in discussione le moderne
teorie del linguaggio perchè tali teorie non prevedono che la cultura penetri nella struttura
dei suoni.
Alcuni hanno suggerito una visione alternativa di ciò che ho esposto sopra, e cioè che il
ridotto numero di consonanti e vocali sia ciò che facilita i canali appena discussi. Questo
ribalterebbe le mie spiegazioni e significherebbe che sia la lingua ad influenzare la cultura,
piuttosto che la cultura ad influenzare in questo caso la lingua. Ma ci sono molte lingue con
diversi canali, come la parlata fischiata, le quali però hanno un grande numero di consonanti
e di vocali. Due di queste lingue sono il Lalana Chinantec del Messico del sud, e lo Yoruba
dell’Africa occidentale. Una ragione per cui queste due lingue possono avere sia grandi
numeri di consonanti e vocali sia la parlata fischiata è che le consonanti e le vocali sembrino
essere usate più frequentemente (ma molta più ricerca sarebbe necessaria su questo tipo di
confronto tra varie lingue prima che si possa esprimere teorie con confidenza) e dunque
possiedono un ruolo comunicativo più importante rispetto alle consonanti e alle vocali della
lingua Piraha. Inoltre, sembrano utilizzare un numero minore di canali prosodici ( di fatti non
hanno canali come la parlata a bocca chiusa e la parlata gridata) rispetto al Piraha e sembra
che i canali vengano comunque utilizzati con minore frequenza. Vi è molta ricerca da fare
per capire la relazione tra la cultura e il sistema fonologico, perciò dubito che le mie
spiegazioni siano lontanamente esaurienti e complete per ora. Ma le spiegazioni che
propongo non sono solo promettenti; esse affrontano una serie di fenomeni che i linguisti
Chomskyniani, per esempio, ignorano totalmente.
Nel 1984 pubblicai il mio primo articolo riguardo la struttura dei suoni Piraha, una “paginetta”
sulla rivista Linguistic Inquiry. Fece la sua figura, pensai, e correggeva un comune errore
teoretico della letteratura linguistica a proposito della natura del sistema degli accenti e della
teoria della struttura delle sillabe. Quando l’articolo apparve nella rivista, ero un professore
invitato presso il Massachusetts Institute of Technology, e avevo un ufficio proprio di fronte a

121
quello di Chomsky, e venivo supportato finanziariamente dalla National Science Foundation
e dalla American Council of Learned Societies. Pensai di avercela “fatta” come accademico.
Dopo che l’articolo fu pubblicato, ricevetti inaspettate lettere emotive (ciò accadeva prima
delle email). Ellen Kaisse, un professore alla Università di Washington, mandò una cartolina
per informarmi che l’articolo l’aveva colpita come una “bomba” e che aveva rimandato il
normale programma delle sue lezioni per discutere con gli studenti la struttura dei suoni
Piraha.
Alcuni altri linguisti mandarono delle lettere. Qualche lettera diceva che chiaramente non
sapevo di cosa stessi parlando - nessun sistema fonologico poteva funzionare in tale modo.
Qualche altra lettera era incoraggiante. Date che questo era il mio primo articolo di portata
internazionale, ero impreparato alle reazioni che avrebbe suscitato. Penso che credessi che
nessuno avrebbe fatto caso a quel piccolo articoletto e che avrebbe semplicemente fatto da
ornamento al mio curriculum vitae.
Nel 1995, dopo che pubblicai in maniera dettagliata e approfondita i miei studi sulla
fonologia Piraha, i Piraha diventarono conosciuti e venivano citati in parecchie controversie
teoretiche riguardo la natura della struttura dei suoni. Al cuore di queste controversie
riguardo il suono vi è il conflitto tra la deduzione e la induzione. I teorici linguisti credevano di
aver stabilito con successo i parametri entro i quali il sistema fonologico delle lingue umane
potesse variare - nessuna variazione era possibile all’infuori di questi parametri. Questi
parametri, a loro volta, erano stati dedotti attraverso assiomi teorici più generali ed erano
considerati una realtà necessariamente vera ed anche elegante. Ma il lavoro induttivo nella
lingua Piraha rivelò un sistema che andava oltre questi parametri, qualora i miei studi
fossero corretti.
La controversia attrasse l’attenzione di colui che sarebbe diventato il più importante visitare
da me mai ospitato in Brasile, il Professor Peter Ladefoged dell’Università della California in
Los Angeles. Peter ottenne una grossa sponsorizzazione dalla National Science Foundation
[ndt Fondazione Nazionale di Scienze] per documentare i suoni di lingue poco comuni e in
pericolo di estinzione intorno al mondo. Aveva chiesto se fosse possibile visitare i Piraha con
me per sentire egli stesso il sistema di accenti che avevo descritto nelle mie pubblicazioni.
Io mi trovavo già in Brasile e guidai fino all’aeroporto di Porto Velho per incontrare Peter.
Mentre arrivavo all’aeroporto mi sentivo come se stessi per venir interrogato dalla agenzia
delle entrate. Avevo fatto delle affermazioni controverse a proposito del sistema fonologico
Piraha, e ora il più importante linguista fonetista del mondo stava arrivando a controllare le
mie affermazioni. Avevo fatto del mio meglio, ero stato onesto, ed ero convinto di aver
ragione. Ma ero comunque nervoso.
Peter, il quale morì nel 2006, era un uomo alto, dall’aspetto nobile. Aveva una voce
profonda, influenzata dal dialetto dell’alta società inglese, conosciuto come Received
Pronunciation [ndt pronuncia ricevuta], o RP - l’inglese della Regina. Era stato consulente
per My Fair Lady, il film che mi aiutò a decidere che sarei diventato un linguista dopo averlo
visto al Teatro Egizio a Hollywood l’anno in cui uscì nei cinema, 1962. É la voce di Peter che
può essere ascoltata fuoriuscire dai grammofoni nell’ufficio di Henry Higgins (Rex Harrison)
ed è la scrittura di Peter quella nelle piccole note che Higgins teneva con se e mostrava a
Eliza Doolittle (Audrey Hepburn) in una delle prime scene di fronte ai Covent Gardens di
Londra.
Dopo aver raccolto il suo bagaglio, Peter emerse dall’area raccolta bagagli e salutò. Io lo
raggiunsi e gli dissi quanto fossi lieto che fosse venuto, cercando di nascondere la tensione
nella mia voce.

122
“Sono scettico riguardo le affermazioni che hai fatto sul sistema fonologico Piraha” furono le
prime parole che uscirono dalla sua bocca. “Anche Bruce e Donca sono scettici e mi hanno
chiesto di controllare,” Peter aggiunse, riferendosi a due suoi ben noti colleghi della UCLA.
Durante i giorni passati al villaggio, Peter fece delle registrazioni ad alta qualità della lingua
Piraha che, in conclusione, supportavano l’analisi che avevo pubblicato e contribuirono
all’impatto che la lingua Piraha ebbe nelle teorie e nelle ricerche riguardo la struttura dei
suoni.
Ma gli esperimenti a volte richiedevano molta pazienza per i Piraha. Per misurare le cose a
dovere, dovemmo metter su un laboratorio fonetico alimentato ad energia solare. I Piraha
dovettero indossare delle cuffie con dei microfoni a 2 centimetri dalla loro bocca, e,
occasionalmente, tollerare dei tubi infilati nei loro nasi che misuravano la pressione
sovraglottidale (il flusso d’aria sopra le corde vocali). I Piraha furono pazienti e sedettero
composti per tutta la durata di questi esperimenti, sorprendentemente. Ancora una volta, la
scienza doveva qualcosa ai Piraha.
Le registrazioni che producemmo furono archiviate al laboratorio di fonetica della UCLA e
sono state usate da molti ricercatori, come Matthew Gordon dell’università della California in
Santa Barbara, per continuare a sviluppare teorie sulla struttura dei suoni del linguaggio
umano. Grazie a tale lavoro, qualsiasi ricercatore può avere accesso ai dati sui suoni Piraha
e non basarsi solo sulla mia analisi, ma usare invece i dati sulla lingua Piraha, come fece
Gordon, per approfondire la nostra conoscenza di fenomeni simili in una varietà di altre
lingue.

12 Le Parole Piraha

La ricerca sul campo richiede una costante attenzione ai dettagli. E può risultare difficile tra
la giungla mantenere una attenzione costante giorno dopo giorno, che si tratti del linguaggio
o di qualsiasi altra parte importante della vita. Ogni giorno è necessario attenersi con
disciplina ad un programma.
Durante la stagione delle piogge, ci sono frequenti nubifragi che durano tutta la notte.
Imparai che in solo un paio di ore una forte pioggia riusciva ad affondare la mia barca. Il mio
motore era bullonato alla poppa della barca e pesava circa 70 chili, così non potevo
rimuoverlo ogni giorno e portarlo sulla terraferma. Il motore rimaneva sulla barca. Ma
quando pioveva, il peso del motore tirava la barca verso il basso giusto il tanto che tutta
l’acqua piovana si ammassava a poppa. In una tempesta amazzonica, non ci vuole molto
prima che l’acqua accumulata sulla barca spinga la poppa sott’acqua affondando la barca -
nonostante la mia barca avesse una capacità di carico di una tonnellata.
Così quando sentii la pioggia arrivare intorno alla mezzanotte, sapevo che nel caso fosse
stata pioggia pesante e forte, avrei dovuto alzarmi verso le 3 della notte e camminare fino
alla barca per svuotarla dell’acqua piovana accumulatasi. Anche questo faceva parte
dell’attenzione ai dettagli, della vita disciplinata a cui cercavo di attenermi. Ma era così
difficile balzare fuori dalla calda e confortante amaca alle tre di notte e uscir fuori sotto la
pioggia scrosciante, preoccuparsi dei serpenti e degli altri animali, inclusi i cani dei Piraha, e
camminare attraverso il villaggio giù fino alla barca. Sapevo che tutto ciò era parte dei miei
doveri che non evitai mai - eccetto una volta.
La pioggia era torrenziale, ma quando mi svegliai non riuscivo a forzarmi a mettermi in piedi
ed a camminare fino al dove la barca era ormeggiata, nonostante fosse solo a una trentina

123
di metri di distanza. Dissi a me stesso che la pioggia non era poi così forte e che la barca,
probabilmente, avrebbe resistito a più di una tonnellata di acqua prima di affondare.
Come sempre, verso le 5 di mattina, mi alzai per iniziare la mia giornata. Notai un odore di
benzina. Inconsciamente penso sapessi che qualcosa non andava, ma non volevo affrontare
il mio inconscio. Così mi dedicai alla mia solita routine e incominciai a preparare un caffe
quando Xioitaohoagi gridò, “Hey Dan! Vieni a vedere la tua barca!” Corsi fuori di casa e giù
per il sentiero fino al fiume. Della benzina galleggiava sulla superficie dell’acqua. Camminai
sino all’orlo del fiume e guardai giù. Legata ancora alla corda, sotto dieci metri d’acqua,
potevo vedere la mia barca, col tendalino ancora in piedi.
Mi trovavo a cento chilometri di distanza via fiume dalla Autostrada Transamazzonica. La
mia barca era il mio unico mezzo per andarmene. Non avevo idea se sarebbe stato possibile
tirare la barca fuori dall’acqua, ne se il motore avrebbe ancora funzionato, ne sapevo cosa
avrei fatto qualora non fossi riuscito a farlo funzionare. Un gruppo di uomini e donne Piraha
corsero ad aiutarmi. Prendemmo delle tavole di legno ferro lunghe 3 metri, grosse 5cm e
larghe 10, che erano avanzate dalla costruzione della mia casa e pensai ad un piano.
Tirammo la barca fino a muoverla di qualche metro fino ad un ripiano sommerso vicino alla
sponda. Poi, con facce rosse e tese, trascinammo la barca fino ad un area ancora meno
profonda, a solo pochi metri sotto la superficie. Diede a degli uomini le tavole di legno e
spiegai loro che avremmo dovuto usare le tavole come leve per riportare piano piano sulla
sponda. Dopo un paio di ore, eravamo riusciti a spingerla su per la sponda tanto che gli orli
della barca erano appena sopra la superficie dell’acqua. In quel momento, senza nessun
incoraggiamento da parte mia, le donne saltarono in acqua con dei secchi e cominciarono a
gettare l’acqua fuori dalla barca. Finalmente riuscimmo a gettar fuori due terzi dell’acqua
dalla barca. Io legai la prua e la poppa della barca alla riva e inserii una pompa all’interno del
serbatoio. Riuscii ad aspirare fuori la maggior parte dell’acqua che era entrata nel serbatorio.
Dato che l’acqua è più pesante della benzina, continuai ad aspirare il mix di acqua e benzina
fino a che pura benzina iniziò a venir fuori. Mi era rimasta circa un quarto della benzina.
Forse sarebbe bastata per raggiungere la strada. Ma il problema più urgente era controllare
che il motore funzionasse ancora. Altrimenti, non avrei comunque avuto bisogno della
benzina.
Il primo passo era rimuovere entrambi i carburatori e disassemblarli, asciugarli e ricoprirne
l’interno con dell’alcol etilico. Poi rimossi e asciugai la candela d’accensione. Dopo presi una
siringa ed iniettai tre centimetri cubici di alcol in ciascuno dei cilindri del motore. Infine, tirai la
corda e cercai di accendere il motore. Si accese alla terza tirata. L’alcol nei cilindri, anche se
comporta un piccolo rischio di esplosione, può veramente far si che la benzina s’incendi.
Partii e velocemente spinsi la barca alla massima velocità, attento a rimanere a vista
d’occhio dal villaggio, in caso il motore morisse. Una volta che il motore si scaldò sapevo
che avrebbe fatto evaporare tutta l’acqua rimasta al suo interno. Ero piuttosto soddisfatto di
me stesso.
Eccetto che in quel momento realizzai che se mi fossi semplicemente alzato per una
quindicina di minuti di lavoro leggero durante la notte, niente di tutto ciò sarebbe stato
necessario. Dettagli. Leggendo le biografie degli esploratori ho realizzato che il successo
dipende dal lavoro duro, dalla pianificazione, e dall’attenzione ai dettagli. Questa attenzione
ai dettagli sarebbe diventata una vera sfida una volta aver iniziato lo studio delle parole
Piraha, un compito ben più esigente che il ripulire un paio di carburatori Johnosn.
E l’analisi della lingua Piraha era più importante che sistemare la mia barca, anche se al
momento non così urgente. L’importanza della lingua Piraha per la comprensione del
linguaggio umano va ben oltre i suoi suoni. É nella grammatica che risiedono le difficoltà più

124
profonde per le più moderne teorie sulla natura, le origini, e l’uso del linguaggio umano.
Iniziavo ora a realizzare che la grammatica Piraha era particolarmente difficile da spiegare
con le ipotesi di Chomsky per cui dei specifici principi grammaticali siano innati, e lo stesso
accadeva per la sua teoria che spiegava come i componenti della grammatica funzionano
insieme. Dato che le implicazioni delle nostre conclusioni riguardo questo problema sono
così importanti per la nostra comprensione del linguaggio umano e della mente umana, è
importante che tutto ciò venga spiegato con cura.
Il punto di inizio, almeno se si vuole seguire la tradizione linguistica riguardo l’analisi della
grammatica di una lingua, sono le parole. Le frasi sono costituite da parole e le storie sono
costituite da frasi. Così gli studi linguistici tendono a seguire questo ordine quando si
affrontano grammatiche di lingue differenti.
Uno dei primi gruppi di parole che ero interessato a registrare, a causa della sua utilità e
perchè pensavo fosse un punto d’inizio semplice, era il gruppo di parole che indicano le parti
del corpo: mano, braccio, occhio, piede, sedere, e così via.
Come al solito, stavo lavorando con Kohoibiiihiai.
“Cosa è questo?” chiesi, indicando il mio naso.
“Xitaooi.”
“Xitaooi,” ripetei perfettamente, così credevo.
“Xaio, xitaopai,” lui disse.
Aargh, pensai. Cosa è quel -pai e cosa fa alla fine della parola?
Cosi, ingenuamente, chiesi, “Perchè ci sono due parole per naso?”
“C’è solo una parola, xitaopai,” fu la esasperante risposta.
“Solo xitaopai?”
“Esatto, xitaooi,” disse lui.
Mi ci volle molto tempo per capire cosa stava succedendo, ma il -pai alla fine di una parola
che indica una parte del corpo (e può trovarsi solo su parole che indicano le parti del corpo)
significa qualcosa come “il mio”. Così xitaooi significa solo “naso” ma xitaopai significa “il mio
naso.” I Piraha non potevano spiegarsi più di così, nello stesso modo per cui un comune
parlante inglese potrebbe spiegare ciò che to significa nella frase I want to go. Perchè non è
semplicemente I want go? I linguisti devono risolvere questi problemi da soli.
A parte ciò, i sostantivi Piraha sono per la maggior parte molto semplici. Non ci sono altri
prefissi ne suffissi, non hanno forma plurale o singolare, e non hanno nessuna particolarità
spinosa, come forme irregolari e cose del genere.
La mancanza di numeri grammaticali nel Piraha è una cosa unica tra le lingue del mondo, in
base all’indagine lunga un libro del linguista britannico Greville Corbert riguardo il numero
grammaticale nelle lingue del mondo, anche se lingue ora estinte o fasi antiche di lingue
parlate ancora oggi sembra mancassero il numero grammaticale come il Piraha. Perciò non
vi è distinzione nel Piraha tra cane e cani, uomo e uomini, e così via.
Dunque una frase come Hiaitiihi hi kaoaibogi bai -aaga è ambigua in vari modi. Potrebbe
significare “I Piraha hanno paura degli spiriti malvagi,” oppure “Un Piraha ha paura di uno
spirito malvagio,” oppure “I Piraha hanno paura di uno spirito malvagio,” oppure “Un Piraha
ha paura degli spiriti malvagi.”
Questa singolare mancanza di numeri grammaticali potrebbe scaturiere dal principio
d’immediatezza dell’esperienza allo stesso modo in cui la mancanza di modi di contare ne
deriva. I numeri grammaticali comportano una violazione dell’immediatezza dell’esperienza
in molti modi - come categoria generalizza oltre quello che è l’immediato, stabilendo
generalizzazioni più ampie.

125
Anche se i sostantivi Piraha sono semplici, i verbi sono invece molto più complicati. Ogni
verbo può avere fino a sedici suffissi - ossia, fino a sedici suffissi uno dietro l’altro. Non tutti i
suffissi sono sempre necessari, però. Dato che un suffisso può essere presente o assente,
questo ci da due possibilità per oguno dei sedici suffissi - 2 alla sedicesima, o 65.536
possibili forme per ogni verbo Piraha. Il numero non è così grande nella realtà perchè alcuni
dei significati dei suffissi sono incompatibili l’uno con l’altro e non potrebbero venire utilizzati
simultaneamente. Ma il numero è comunque di gran lunga più grande di quello di qualsiasi
lingua europea. L’inglese ha solo circa cinque forme per ogni verbo - sing, sang, sung,
sings, singing. Lo spagnolo, il portoghese ed alcune altre lingue romanze hanno quaranta o
cinquanta forme di uno stesso verbo.
Forse i suffissi più interessanti, anche se questi non sono esclusiva della lingua Piraha, sono
quelli che i linguisti chiamano suffissi di evidenza, elementi che rappresentano la valutazione
del parlante del grado di conoscenza che egli stesso ha di ciò che egli stesso sta dicendo. Ci
sono tre tipi di suffissi d’evidenza: sentito dire, osservazione, e deduzione.
Per vedere come questi agiscono, usiamo un esempio. Se io chiedessi, “Joe è andato a
pecare?” tu potresti rispondere, “Si, almeno ho sentito che lui è andato a pescare,” oppure,
“Si, so che è andato perchè l’ho visto partire,” oppure “Si, almeno credo che sia andato
perchè la sua barca non c’è più.” La differenza tra l’inglese e il Piraha è che ciò che l’inglese
fa con una frase, la lingua Piraha lo fa con un suffisso.
Attaccare tutti i vari suffissi al verbo base è un aspetto grammaticale. Ci sono sedici di questi
suffissi. Il significato gioca almeno un ruolo parziale in come questi suffissi vengono
posizionati. Per esempio, i suffissi d’evidenza si trovano proprio alla fine perchè
rappresentano un giudizio riguardo l’intero evento che viene descritto.
Il ruolo di un verbo nella frase è cruciale. Così la struttura delle parole è importante per la
struttura della frase. Il significato di ogni verbo determina ciò che è necessario sia presente
nella frase. Si pensi al verbo morire. Il significato di questo verbo fa si che la frase John morì
Bill suoni scorretta. “Morire” [ndt To die nell’originale] è qualcosa che accade al singolo
individuo. Se si conosce il significato del verbo morire, si saprà che ci sono troppi nomi di
persona nella frase John morì Bill, perchè morire non è un'azione che si fa a qualcun altro.
Ma possiamo dire che “John causò la morte di Bill” oppure, più semplicemente, “John uccise
Bill”; aggiungendo al significato di morire il significato di causare la morte. Dunque John
diviene responsabile per la morte di qualcuno nella frase con uccise o causò la morte
(entrambi i verbi includono il campo semantico del causare la morte), così che John morì Bill
è sgrammaticato ma John uccise Bill è corretto. Cambiare la struttura del significato [ndt
struttura significante? boh], seguendo l’opzione dell’italiano di aggiungere altre parole, come
causò la morte, oppure selezionare una forma imparentata ma non identica, come uccidere,
altera il significato dell’intera frase. Studiando il ruolo dei verbi nella formazione della frase
più approfonditamente, vediamo che la maggior parte della sintassi di una frase è poco più
che una proiezione del significato del verbo (alcune teorie linguistiche includono
esplicitamente questa affermazione nel loro apparato teorerico).
Anche se inizialmente inserii la mia discussione riguardo la grammatica Piraha all’interno
della teoria della grammatica generativa di Chomsky, divenne più chiaro durante gli anni che
questa teoria non appariva spiegare la lingua Piraha, specialmente riguardo il ruolo che la
cultura gioca nella grammatica.
Certamente dobbiamo sapere come mettere insieme le frasi e estrapolare il significato delle
frasi che sentiamo o che diciamo - una certa quantità di conoscenza grammaticale è dunque
vitale per il linguaggio umano. Ma dato che gli umani non sono le uniche creature che

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comunicano tra loro, la grammatica non può essere di per se cruciale nella comunicazione.
Vivere è comunicare. Tutte le cose viventi, piante e animali e batteri, comunicano.
Cosa rende possibile la comunicazione di informazioni tra specie diverse e all’interno della
stessa specie? Cosa rende possibile la comunicazione? C’è una risposta di due sole parole:
significato e forma. Questo è essenzialmente ciò che il grande linguista svizzero, Ferdinand
de Saussure, mise in rilievo con il suo concetto del segno linguistico - le unità linguistiche
sono composte di forma e significato.
Un’ape comunica il significato che il cibo è vicino attraverso la forma del danzare. Una
formica comunica il significato che un picnic è in corso (anche se potrebbe non utilizzare
queste esatte parole) secernendo delle sostanze chimiche, la forma di comunicazione tra le
formiche. Un cane comunica l’assenza di aggressività attraverso specifiche forme -
scodinzolando, abbaiando, leccando, e così via. Gli umani comunicano i significati tramite le
forme dei suoni e dei gesti.
Ma ci sono altri fattori in gioco nella comunicazione umana oltre la forma. Sicuramente la
comunicazione umana differisce da quella di altre specie non solo a causa di un maggiore
numero di suoni, di gesti, e di parole. Deve esserci qualcosa di più che distingue la
comunicazione umana dalle altre. Siamo capaci di discutere concetti molto più complessi e
un numero di argomenti molto più grande di tutte le altre specie. Come è possibile? In due
modi. Il primo e più ovvio è che noi siamo più intelligenti delle altre specie. Il cervello umano
è il miglior risultato dal punto di vista cognitivo che la natura abbia prodotto su questo
pianeta, per ora. Esprimere la grande complessità del pensiero umano e della
comunicazione umana richiede strumenti ben più avanzati di quelli di ogni altra specie. I
linguisti non sono completamente d’accordo riguardo quali siano questi strumenti, anche se
c’è un ampio consenso su alcuni di essi. La mia opinione personale su quale sia il più
importante di questi strumenti è ciò che lo scomparso linguista Charles Hockett chiamò
“dualità organizzazionale”. Ci sono diversi modi di illustrare la questione. Ma in sostanza gli
umani organizzano i loro suoni in schemi e poi organizzano questi schemi di suoni in schemi
grammaticali di parole e frasi. Questa organizzazione a strati del linguaggio umano è ciò che
ci permette di comunicare molto più di qualsiasi altra specie, tenendo in considerazione che
il nostro cervello è più grande, ma comunque limitato.
Si può illustrare l’organizzazione dei suoni analizzando un esempio simile (ma non identico)
a quello che già abbiamo visto, usando le semplici parole pin, pan, bin, spin. Pin è formata
dalla sequenza p + i + n. Pensiamo ad ognuna di queste posizioni delle lettere come a delle
“finestre” e alle lettere stesse come (p,i,n) come “riempitori” delle finestre. Queste finestre
rappresentano l’organizzazione orizzontale, o lineare, della parola da sinistra a destra nella
pagina o dalla prima all’ultima in ordine di suoni emessi dalla bocca. I riempitori sono
l’organizzazione verticale della parola. Se aggiungiamo una unità alla organizzazione
lineare, otteniamo una parola più lunga, come spin, aggiungendo una s prima di pin. Se
cambiamo l’ordine nella organizzazione verticale, otteniamo parole diverse della stessa
lunghezza, come pan da pin, quando sostituiamo una a al posto della i in pin, e così via.
Tutto ciò è più complesso di quel che potrebbe sembrare, però, perchè non è possibile
qualsiasi rimpitore o estensione della parola. Possiamo aggiungere una s in pin per ottenere
spin, per esempio, ma non possiamo aggiungere una t, per ottenere tpin. Possiamo
sostituire i con e per ottenere pen, ma non possiamo usare una s ed ottenere psn, almeno
non se si voglia formare una parola di senso in inglese. Questa organizzazione linguistica
basata sui suoni è chiamata fonologia. La natura fisica dei suoni individuali usati
nell’organizzazione è, grossomodo, fonetica. Questa è la prima parte della dualità -
l’organizzazione dei suoni in parole.

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Dovrei aggiungere immediatamente, tuttavia, che gli umani sono pieni di risorse, e che nel
caso non siano in grado per qualsiasi ragione, o per scelta, di usare i suoni del linguaggio
parlato, un altro canale di comunicazione, il linguaggio dei segni, è a disposizione. Nel
linguaggio dei segni le forme che corrispondono ai suoni del linguaggio parlato sono gesti o
segni. I linguisti hanno scoperto che nonostante la natura fisica dei gesti sia ovviamente
differente dalla natura fisica dei suoni, l’organizzazione di questi elementi in parole ed unità
più larghe, come le frasi e i periodi, segue dei principi simili. Perciò possiamo avere una
concezione della fonologia che include sia i gesti che i suoni.
Sia che utilizziamo i gesti o i suoni, avremo bisogno di più di una parola per formare una
grammatica. Dato che la grammatica è essenziale alla comunicazione umana, i parlanti di
tutte le lingue umane organizzano le parole in unità più larghe - frasi, periodi, storie,
conversazioni, e così via. Questa forma di composizionalità è chiamata grammatica da
alcuni e sintassi da altri. Nessuna altra creatura possiede niente di lontanamente simile alla
dualità organizzazionale o composizionalità. Eppure tutti gli umani la possiedono.
Certamente anche i Piraha la possiedono. Perciò si consideri la frase Kohoi kabatii kohoaipi
(Kohoi mangia il tapiro). I Piraha posizionano l’oggetto prima del verbo, una organizzazione
che si trova in molte lingue, quindi kabatii significa “tapiro” e kohoaipi significa “mangiare”.
Ciò ci mostra che i Piraha organizzano i loro fonemi in parole e le parole in frasi. Così la
lingua Piraha possiede la dualità organizzazionale e la composizionalità. É difficile
immaginare una lingua umana che non possieda queste due caratteristiche.
Il componente più cruciale in una lingua, secondo me, però, è il significato. Il significato è il
giroscopio della grammatica. Mi piace la metafora del giroscopio perchè esprime la
credenza di un gran numero di linguisti, incluso me, percui una sottile differenza nel
significato, come un minimo movimento di un giroscopio, può portare ad una grande
differenza nella rotta di un razzo o nella forma di una frase.
In altre parole, il linguaggio riguarda il significato. Si inizia con un significato e lo si racchiude
nella grammatica. Tutta la grammatica è guidata dal significato. Ma cosa è il significato?
Questa domanda ha afflitto i pensatori per millenni. Col rischio di addentrarmi in questioni
oltre la mia possibilità di discussione, ecco il mio riassunto della questioni principali.
I filosofi e i linguisti parlano del significato in termini delle sue due parti, senso e riferimento.
Il riferimento è l’utilizzo della lingua da parte del parlante e dell’ascoltatore per mettersi
d’accordo a proposito di uno specifico oggetto di cui essi stanno parlando. Così quando due
persone in una conversazione usano, ad esempio, i sostantivi ragazzo, Bill, you, queste
parole si riferiscono ad entità nel mondo reale. Conosciamo il ragazzo o la persona di nome
Bill o il “tu” di cui parliamo (altrimenti ci sarebbero gravi miscomunicazioni fino a che il
parlante e l’ascoltatore non siano d’accordo su chi o cosa sia l’oggetto della loro
conversazione).
D’altra parte, ci sono sostantivi che non si riferiscono a niente. Quando dico che “John
cavalcò l’unicorno,” è piuttosto chiaro che unicorno non si riferisce a qualcosa nel mondo
reale. Allo stesso modo, se dico che “Ti terrò d’occhio” [ndt I will keep tabs on you
nell’originale], occhio [ndt tabs] non si riferisce in realtà a nessun oggetto della frase - è
parte di un modo di dire. E ci sono altre cose oltre ai sostantivi che fanno riferimento a
oggetti; per esempio, nella frase Avevo costruito una casa, avevo costruito include un
riferimento ad un punto nel passato compiuto. Nella frase La casa è gialla, gialla si riferisce
ad una particolare qualità di colore. C’è disaccordo riguardo a quel che significhi fare
riferimento a qualcosa (alcuni linguisti negano che i verbi e gli aggettivi possano riferirsi a
qualcosa) o riguardo quanto questa proprietà sia importante nel definire le parti del discorso.

128
L’altra componente base del significato è il senso. Possiamo capire il senso in quanto
possiede due sottoparti. Primo, il senso include la maniera in cui il parlante giudica le entità,
le azioni, e le qualità - usiamo tutte queste cose quando parliamo. (Cosa ho in mente
quando dico “grande”, per esempio, nella frase grande farfalla, piuttosto che grande perdita
o grande elefante?) Secondo, il senso riguarda le relazioni tra le parole e il modo in cui esse
vengono utilizzate.
Si pensi a quel che rompere significa negli esempi John si ruppe il braccio, John ruppe il
ghiaccio nella conversazione frigida, John ruppe la frase in parti per me, oppure John
s’introdusse in casa [ndt John broke into the house nell’originale, phrasal verb senza
corrispettivo italiano]. L’unico modo in cui possiamo sapere ciò che rompere significa è
sapere come viene usato. E usare una parola significa selezionare un particolare contesto,
una serie di assunzioni contestuali condivise dal parlante e dall’ascoltatore, incluso come
parole particolari dovrebbero essere usate, e le altre parole con cui la parola in questione è
usata.
Ciò è il significato in poche parole: il modo in cui una parola o una frase è usata, il modo in
cui si relaziona alle altre parole e alle altre frasi, e l’accordo dei parlanti riguardo a cosa si
riferisca nel mondo una parola o una frase. E i Piraha, come tutti gli umani, dicono cose
sensate quando parlano. Ma ciò non significa che tutti usino gli stessi significati. Come tutti
gli umani, ciò che i Piraha vogliono significare quando parlano è rigidamente circoscritto ai
loro valori e alle loro credenze.
Impariamo, perciò, quando studiamo parole di qualsivoglia lingua, che si deve capire ogni
parola a vari livelli simultaneamente. Dobbiamo capire come la parola è usata nel contesto,
nella frasi specifiche e nelle storie. La maggior parte dei linguisti sono d’accordo riguardo
questi tre livelli di comprensione della parola. Ma la lingua Piraha ci ha insegnato
qualcos’altro. Ci ha insegnato che non solo il significato delle parole individuali può essere il
risultato della cultura, come il caso delle parole strettamente imparentate amico e nemico,
ma anche che i suoni stessi delle parole, che siano esse fischiate, dette a bocca chiusa, e
così via, possono essi stessi essere determinati dalla cultura - e questa ultima lezione, la
quale è illustrata abbondantemente in altre lingue, non è stata ancora discussa a fondo nella
letteratura linguistica. La lingua Piraha ci da un esempio estremamente chiaro dei futuri studi
linguistici.

13 Di quanta grammatica si ha bisogno?

Nel film Mrs. Doubtfire, il personaggio di Robin Williams telefona il personaggio di Sally Field
e dice, riferendosi ad un annuncio di offerta lavoro, “Io...sono...lavoro?” Oltre ad essere
divertente nel contesto del film, entrambi i personaggi e il pubblico sanno immediatamente
che ciò che il parlante vuol dire è “Io sono interessato al lavoro che avete pubblicizzato.”
Come fa il pubblico a sapere ciò? Non è specificato nelle parole nè nel modo in cui esse
sono messe insieme a formare la frase, almeno non completamente. Il significato pertinente
in cui qualcuno vuole un certo lavoro viene piuttosto dal contesto, in un film come nella vita,
e la cultura in cui la frase è parlata. Perciò, la grammatica è un componente della
comunicazione ma non è tutto ciò che la comunicazione ha da dire. Nell’esempio di Mrs.
Doubtfire, la grammatica è quasi completamente sbagliata eppure il giusto significate riesce
ad essere comunicato.
Quando impariamo a trasmettere il significato in un’altra lingua, il nostro primo passo, come
Robin Williams, non è la grammatica ma la cultura. Per comprendere come la cultura può

129
influenzare il linguaggio (anche dargli senso in alcuni casi), si pensi al processo di
apprendimento di una lingua straniera.
Cosa implica questa sfida? Se si impara a pronunciare le vocali francesi perfettamente e si
arriva a comprendere e controllare appieno il significato di ogni parola francese, puoi
legittimamente affermare di saper parlare francese? Sarebbero la pronuncia e la
conoscenza delle parole tutto ciò di cui si ha bisogno per sapere quale frase sia più
appropriata in un particolare contesto sociale? Sarebbe questa conoscenza sufficiente a
leggere Voltaire in lingua originale come un intellettuale francese? La risposta a queste
domande è no. La lingua è più che la somma delle sue parti (parole e suoni e frasi), non solo
- essa è da sola insufficiente ad una piena comunicazione e comprensione senza la
conoscenza della cultura che la circonda.
La cultura ci guida tra i significati che percepiamo nel mondo intorno a noi, e il linguaggio è
parte del mondo intorno a noi. Un americano è improbabile che parli del comportamento del
cane selvaggio dell’Amazzonia (Speothos venaticus) - questi cani sono sconosciuti alla
stragrande maggioranza degli americani. Questo è un esempio ovvio del modo in cui la
cultura e l’esperienza restringono il nostro “universo del discorso”, gli argomenti di cui
parliamo. Ma ci sono maniere meno ovvie, e più interessanti, in cui la cultura influenza il
nostro linguaggio. Nel contenuto delle nostre storie, la cultura gioca il ruolo maggiore par
quanto riguarda la comprensione.
Per esempio, comparando i Piraha con gli americani, questi ultimi di solito parlano dei
fantasmi solo nella finzione. Ciò succede non perchè gli americani non abbiano sentito storie
di fantasmi, ma perchè non credono alla loro esistenza. E persino tra quegli americani che
dicono di credere all’esistenza dei fantasmi, molto pochi affermano di averne visto uno.
Questo è un fenomeno piuttosto recente nella storia della lingua inglese. Durante i giorni
coloniali, gli americani spesso parlavano di eventi sovrannaturali a cui avevano assistito -
come rivelano le trascrizioni dei processi per stregoneria. La cultura modifica il modo in cui
parliamo in alcuni casi. La maggior parte di noi sarà d’accordo su questo.
Allo stesso modo degli americani, i Piraha restringono la loro conversazione in conformità
alle loro esperienze e valori culturali.
Uno di questi valori è la non-importazione di argomenti di conversazione esterni. I Piraha,
per esempio, non converseranno su come costruire una casa in mattoni, perchè i Piraha non
costruiscono case in mattoni. Potrebbero descrivere perfettamente una casa in mattoni che
hanno visto, in risposta ad una domanda di uno straniero o di un altro Piraha appena dopo
esser tornati dalla città. Ma oltre ciò, la casa in mattoni non sarà argomento spontaneo di
conversazione.
In linea di massima, i Piraha non importano idee, filosofie, o tecnologie straniere. Essi
apprezzano l’uso di strumenti che alleggeriscono il lavoro, come le macine meccaniche per
la manioca e i piccoli motori fuoribordo per le loro canoe, ma essi vedono queste cose come
elementi “messi insieme” dagli stranieri, e di cui gli stessi stranieri rimangono responsabili
per il carburante, la manutenzione, e la riparazione eventuale. I Piraha hanno rigettato in
passato qualsiasi congegno che avrebbe richiesto un cambiamento della loro conoscenza o
nelle loro usanze. Se tali congegni semplicemente non si adattano al modo in cui
tradizionalmente i Piraha fanno le cose, allora vengono rigettati.
Per esempio, un motore potrebbe essere usato se si attacca facilmente alla canoa e se
aiutasse i Piraha a continuare la pratica delle attività tradizionali, perchè i Piraha hanno visto
i caboclo utilizzare i motori. E i Piraha considerano la cultura caboclo come una sottoclasse
della propria; i caboclo sono semplicemente un’altra parte del mondo intorno a loro. Una
canna da pesca, d’altra parte, non verrebbe utilizzata perchè richiede un modo di pescare

130
che i Piraha non praticano nè nella loro tribù nè tra il gruppo dei caboclo. I verbi piraha per
“pescare” letteralmente significano “trafiggere un pesce” e “tirare fuori il pesce con le mani”.
Non c’è parola che indichi tirare fuori il pesce con una canna. Essi non sono interessati
nell’abilità mostrata dagli americani. Gli americani non sono parte del loro normale ambiente.
Essi hanno conosciuto solo sei americani, tutti missionari, ed alcuni visitatori che si sono
trattenuti pochissimo, negli ultimi cinquant’anni. Si potrebbe sentire i Piraha discutere di
come installare il motore che gli è stato regalato, per esempio: “Lo straniero ha detto di
attaccare l’elica dopo che il motore è stato sistemato nella canoa.” Ma non li si sentirà
discutere di come usare una canna da pesca e un mulinello, anche nel caso gli americani
avessero regalato loro questi strumenti e gli avessero mostrato come usarli.
Parlare di cose che non sono presenti nella loro cultura, come altre divinità, l’idea
occidentale dei germi, e così via, richiederebbe che i Piraha adottassero un cambiamento
nel loro modo di vivere e di pensare. Così essi evitano di parlare di queste cose. Ci sono
alcune eccezioni apparenti. Per esempio, i Piraha parlano occasionalmente delle credenze
dei caboclo - ma queste credenze sono a lungo state parte del loro stesso ambiente, dato
che i caboclo raccontano delle loro credenze frequentemente. Queste credenze sono
diventato oggetto di conversazione dopo secoli di contatto, divenendo gradualmente parte
dell’ambiente dei Piraha.
In questo senso, il discorso Piraha è più esoterico che essoterico, più diretto verso
argomenti che non contrastano le credenze Piraha. Ovviamente, tutte le persone si
comportano in questo stesso modo, in vari gradi. La differenza è nella rigidità con cui i
Piraha applicano questo comportamento rispetto alle società occidentali, dove la
discussione di nuove idee ed idee straniere non è comunque tenuta in gran considerazione.*

*Il concetto della comunicazione esoterica viene da un lavoro di Carol Thurston e George
Grace e Alison Wray. La sua rilevanza nell’analisi della lingua Piraha fu per la prima volta
suggerita negli studi di Jeanette Sakel e Eugenie Stapert, della università di Manchester,
Inghilterra. La comunicazione esoterica è la comunicazione utilizzata all’interno di un ben
definito gruppo, e parzialmente contribuisce a definire il gruppo stesso. La comunicazione
esoterica facilita la comprensione perchè gli ascoltatori sono più probabilmente in grado di
anticipare ciò che il parlante dirà in situazioni differenti. Il linguaggio non si limita a vecchie o
prevedibili informazioni, ma ciò è la condizione di partenza. Di fatto, nella lingua Piraha vi è
un canale speciale, come abbiamo visto, il parlato musicale, che viene usato per le nuove
informazioni. Questo potrebbe spiegare la relativa ricchezza sia della prosodia che dei
fonemi nella parlata musicale - le nuove informazioni potrebbero richiedere una frequenza
più bassa di informazione e una maggiore percettibilità in un gruppo esoterico nel senso
inteso qui. Il linguista Tom Givon fa riferimento ad un concetto simile alla comunicazione
esoterica nella sua frase società di intimi. Con questa azzeccata espressione, Givon fa
riferimento a piccoli gruppi di persone che parlano tra loro frequentemente e formano tra loro
un gruppo culturale. Questi gruppi condividono un maggior numero di informazioni implicite
rispetto ad altri gruppi, persino rispetto a gruppi che parlano la stessa lingua.

[ndt questa è una nota a fondo pagina, si trova a pag. 204 nel testo originale]

Non c’è un esempio singolo che illustri la comunicazione esoterica contrapposta alla
comunicazione essoterica. Piuttosto, la comunicazione esoterica è un prodotto di una
ristretta gamma di modi culturalmente accettabili di conversare e di argomenti di cui
conversare. L’informazione trasmessa è nuova, ma non innovativa, nel senso che si adatta

131
alle aspettative gnerali. Un americano può dire alla radio, “I marziani stanno atterrando in
fondo alla strada,” e altri americani possono reagire scioccati davanti a questa minaccia
completamente nuova.
Ma non solo gli americani possono dire che i marziani stanno arrivando, essi fanno cose del
genere tutti i giorni. I Piraha potrebbero dire che i marziani stanno arrivando, se ne avessero
visto uno, ma non lo diranno a meno che non ne vedano davvero uno. I Piraha parlano di
pesca, caccia, altri Piraha, spiriti che hanno visto, e così via - riguardo esperienze che
vivono tutti i giorni. Questo succede non perchè essi non siano creativi ma perchè questo
comportamento è un valore culturale. É una cultura molto conservativa.

Cosa porta con se la grammatica ultimamente, oltre la cultura, la generale intelligenza


umana, e il significato? Di quanta grammatica ha bisogno l’individuo? Una grossa parte della
grammatica, di nuovo, è costituita dal proiettare il significato di un verbo sopra una frase.
D’altra parte, formare le frasi è più complicato che semplicemente riempire il verbo della
frase di un significato. Uno degli strumenti addizionali che molte grammatiche utilizzano è la
modificazione.
La modificazione riduce il significato di una parola o di una frase. Complica il significato e la
forma aggiungendo parole e significati che non sono richiesti dal verbo. Così si può dire,
“John diede il libro al ragazzo”, oppure “John diede il libro al ragazzo grasso”, oppure “Ieri,
John diede il libro al ragazzo”, oppure “John diede il libro al ragazzo nel club.”
Le porzioni in italico delle frasi non sono richieste dal significato del verbo. Essi non fanno
altro che limitare ulteriormente il significato di ciò di cui si parla. Questa è la modificazione
nella sua essenza.
Un altro aspetto del linguaggio che può influenzare la grammatica è ciò che Chomsky
spesso chiama spostamento, pronunciare una frase che sia grammaticale, ma dove le
parole non sono nell’ordine che ci si aspetta - sono invece in posizioni diverse nella frase col
risultato pragmatico di alterare la relazione tra le informazioni nuove e vecchie o quelle
importanti rispetto a quelle meno importanti o di sfondo in una storia.
Se osserviamo un paio di frasi inglesi possiamo farci un'idea migliore dello spostamento e di
come funzioni. Se dico “John vide Bill”, uso l’ordine delle parole che ci si aspetta essendo
parlanti inglesi. Il soggetto, John, viene per primo, seguito dal verbo, e poi direttamente
dall’oggetto, Bill. Se io dico, però, che “Bill fu visto da John,” il verbo vedere perde il suo
oggetto diretto. Bill è il soggetto in questa frase, e il soggetto precedente, John, è ora
l’oggetto della preposizione da. Il contrasto tra la prima, frase a voce attiva e la seconda,
frase a voce passiva, è collegato, secondo la maggior parte degli studi, alla funzione delle
due frasi nelle storie inglesi. Per esempio, potremmo usare la voce passiva quando Bill è il
protagonista della nostra storia e la voce attiva quando John è il protagonista.
Un altro esempio di spostamento si trova nelle diverse modalità di una frase, come ad
esempio dichiarativa, interrogativa, e imperativa. Se si dice, “The man is in the room,”
[L’uomo è nella stanza] l’ordine è nuovamente quello che ci aspetteremmo in una frase del
genere. Ma se trasformo la frase in una domanda, il verbo, is, viene posizionato all’inizio
della frase, come “Is the man in the room?” In questo tipo di domande, il verbo precede il
soggetto, mentre normalmente il verbo segue il soggetto. Oppure possiamo trasformare
questa frase in un tipo di domanda diverso, una domanda che chieda maggiori informazioni,
e dica, “Where is the man?” [Dove è l’uomo?] In questo tipo di domanda, sia il verbo che
l’avverbio interrogativo precedono il soggetto - essi sono spostati dalla loro posizione usuale.

132
La maggior parte della carriera da ricercatore di Chomsky è stata occupata dal comprendere
come i costituenti della frase possano essere spostati in questa maniera. Non si è mai
interessato del perchè essi vengono spostati (eccetto per dire che le ragioni sono
“pragmatiche” o cose simili), solo nella meccanica dello spostamento e del suo
funzionamento.
Ma in società esoteriche di intimi come la società Piraha, lo spostamento può essere raro o
non esistente. Non ce n’è quasi traccia nella lingua Piraha. La storia e il contesto
comunicano le cose che in inglese lo spostamento comunica. E moltre altre lingue fanno lo
stesso.
Una possibilità, esaminata attentamente nella teoria di Chomsky, è che anche quando non
sentiamo lo spostamento, esso è comunque presente, ad un livello astratto della
grammatica che Chomsky chiama “forma logica”, e che la grammatica di tale lingua non sia
diversa da quella dell’inglese, eccetto che lo spostamento sia udibile nell’inglese e non
invece, per esempio, nel Piraha. Ma potremmo legittimamente criticare la teoria di Chomsky
per essere più elaborata del necessario. Se c’è un modo per capire le frasi senza
spostamento a qualsiasi livello, astratto o reale, allora forse la grammatica è meno
importante di quanto immaginiamo.
E di fatto ci sono molte teorie che accettano lingue come il Piraha, lingue senza
spostamento e con modificazioni molto ridotte, senza bisogno di “forma logica” o altre
astrazioni.
Suggerirei di andare avanti con la nostra discussione riguardo la lingua Piraha senza tenere
conto dell’assunzione di livelli astratti e senza un senso esagerato dell’importanza della
grammatica nel linguaggio e nella cognizione e vediamo fin dove possiamo spingerci.
Forse non abbiamo bisogno di molta grammatica in una cultura esoterica. Se ciò fosse vero,
allora saremmo in possesso di un concetto che ci aiuterebbe a capire meglio la relativa
semplicità della grammatica Piraha. Se i miei suggerimenti culturali sono plausibili, allora
non c’è niente di primitivo nelle abilità cognitive dei Piraha. Non c’è niente di bizzarro in loro
o nel loro linguaggio. Piuttosto, la loro lingua e la loro grammatica calzano perfettamente la
loro cultura esoterica. E se questa è la strada giusta, incominciamo a vedere la necessità di
un nuovo e fresco approccio alla comprensione della grammatica umana.
Con questo approccio la grammatica non sarebbe nè così necessaria nè così autonoma
come Chomsky ha affermato per più di quaranta anni. Per fare un esempio, Robert Van
Valin della Università di Dusseldorf ha sviluppato un'alternativa alla teoria Chomskiana in cui
il concetto della grammatica indipendente dal significato di Chomsky gioca un ruolo molto
ridotto nella comprensione complessiva del linguaggio umano ed in cui la grammatica è
largamente guidata dal significato. Egli chiama la sua teoria “Grammatica Ruolo e
Riferimento”. C’è una posizione naturale nella teoria di Van Valin per l’uso della cultura per
spiegare aspetti della grammatica. Così, anche se ancora niente è stato messo a punto, la
teoria potrebbe risultare uno spazio adatto alle idee che sto proponendo qui.
Van Valin non è l’unico ad aver sviluppato una ben articolata alternativa alla teoria della
grammatica universale. William Croft della Università del New Mexico ha sviluppato una
teoria in cui si afferma che tutte le cose in comune tra le lingue umane sono in realtà cose in
comune nella cognizione umana tra specie diverse e non richiedono niente di così barocco
come la grammatica universale Chomskyana. Croft fa riferimento alla sua teoria come alla
“Grammatica a Costruzione Radicale”.
Uno studio della lingua Piraha supporta questi approcci alternativi persino quando
suggerisce che essi non siano ancora completi. Quando esamineremo più lingue simili al
Piraha, dovremmo essere in grado di sviluppare una teoria più forte, basata sulle

133
fondamenta che sono questi importanti studi pioneristici. Una tale teoria potrebbe fornire una
fonte più probabile della grammatica umana piuttosto che la grammatica universale di
Chomsky (che Pinker chiama “l’istinto linguistico”). L’ipotesi della grammatica
universale/istinto linguistico semplicemente non ha niente di interessante da dirci riguardo a
come la cultura e la grammatica interagiscono, cosa che ora sembra essere vitale ad una
completa comprensione del linguaggio.

14 Valori e discorsi: la cooperazione tra linguaggio e cultura

Una delle conversazioni più interessanti che abbia mai avuto a proposito di cibo avvenne
con un Piraha. Ebbe luogo quanto mangiai una insalata nel villaggio per la prima volta.
Riso, fagioli, pesce, e selvaggina, affogati in copiose quantità di salsa al tabasco, possono
soddisfare le papille gustative fino ad un certo punto. Ma se ti piace la croccante e fresca
lattuga, allora dopo pochi mesi inizi a sognare di mangiare un’insalata.
L’aereo della missione veniva a farci visita nella giungla ogni otto settimane per portarci la
posta e le provviste. Era il nostro unico contatto con il mondo esterno. Una volta, mandai
con l’aereo un messaggio ad un collega missionario chiedendo se potesse fare il grande
favore di mandarmi tutto il necessario per fare un insalata con il prossimo aereo. Due mesi
dopo, la nostra insalata arrivò.
Quella sera sedetti a gustare il primo pasto di lattuga, pomodori e cavolo in sei mesi.
Xahoapati si avvicinò a guardarmi mangiare. Sembrava confuso.
“Perchè stai mangiando foglie?” chiese. “Non hai carne?”
I Piraha hanno usanze molto particolari per quanto riguarda il cibo, e credono, come in un
certo grado anche noi facciamo, che ciò che si mangia determina che tipo di persona si
diventi.
“Si, ho un sacco di carne in scatola,” lo rassicurai. “Ma mi piacciono queste foglie! Non ne ho
avute in molte lune.”
Il mio amico piraha mi guardò, poi guardò le foglie, poi di nuovo me. “I Piraha non mangiano
le foglie,” mi informò. “Questo è il motivo percui non parli bene la nostra lingua. Noi Piraha
parliamo bene la nostra lingua e non mangiamo foglie.”
Se ne andò, apparentemente credendo di avermi svelato il segreto per apprendere la lingua
Piraha. Ma trovai la correlazione tra mangiare lattuga e parlare la lingua piraha
incomprensibile. Che diavolo voleva dire? Una connessione tra ciò che mangiavo e la
lingua? Ridicolo. Le parole continuavano ad annoiarmi, però, come se l’osservazione di
Xahoapati avesse qualcosa di utile in se, se solo avessi potuto capire cosa.
Poi notai un altro fatto misterioso. I Piraha conversavano con me e poi si voltavano, in mia
presenza, a parlare di me tra di loro, come se io non fossi li con loro.
“Di un po, Dan, potresti darmi dei fiammiferi?” Xipoogi mi chiese un giorno in presenza di
altri.
“OK, certo.”
“OK, ci da due fiammiferi. Adesso gli chiedo dei vestiti.”
Perchè avrebbero dovuto parlare di me in questo modo, come se non potessi capirli? Avevo
appena dimostrato di poterli comprendere rispondendo alla richiesta di fiammiferi. C’era
qualcosa che mi sfuggiva?
La loro lingua, dal loro punto di vista, emerge dalle loro vite di Piraha e dalle loro relazioni
con gli altri Piraha. Anche se io potevo rispondere in modo appropriato alle loro domande,
questo non era prova per loro che io parlassi la loro lingua, come un messaggio nella
segreteria telefonica del mio telefono non prova che il mio telefono sia un parlante

134
madrelingua inglese. Ero come uno di quei macachi o pappagalli intelligenti così comuni
lungo il Maici. Il mio “parlare” era solo un simpatico trucco per alcuni di loro. Non era
davvero parlare.
Anche se non posso affermare ne che i Piraha abbiano nè che non abbiano una teoria sulla
relazione tra linguaggio e cultura, le loro domande e azioni fungevano da catalizzatore per le
mie idee riguardo tale relazione.
Come la maggior parte delle cose inusuali che osservai o sentii tra i Piraha, realizzai
dopotutto che Xahoapati mi stava dicendo più di quel che avevo in un primo momento
realizzato: ossia che parlare la loro lingua è vivere la loro cultura. Pochi linguisti al giorno
d’oggi, nella tradizione dei pionieri del ventesimo secolo Edward Sapir e Franz Boas,
credono che la cultura incida sulla grammatica in maniera non superficiale. Ma le mie ragioni
sono differenti persino da quelle di questa minoranza di linguisti. La mia difficoltà nel tradurre
con successo la Bibbia era dovuta largamente al fatto che la società e la lingua Piraha sono
interconnesse in una maniera che fa si che persino comprendere la grammatica, che è un
sottocomponente del linguaggio, sia impossibile senza studiare la lingua e la cultura
contemporaneamente. E credo che questo sia vero per tutte le lingue e per tutte le società.
La lingua è il prodotto di una sinergia tra i valori di una società, della teoria della
comunicazione, della biologia, della fisiologia, della fisica (delle inerenti limitazioni del nostro
cervello come della nostra fonetica), e del pensiero umano. Credo che questo sia vero
anche riguardo alla grammatica, il motore di una lingua.
I moderni linguisti e il grosso della filosofia del linguaggio hanno entrambi scelto di separare
la lingua dalla cultura nella loro ricerca verso la comprensione della comunicazione umana.
Ma facendo ciò essi non riescono nella comprensione della lingua nel suo aspetto di
“fenomeno naturale”, per usare le parole del filosofo John Searle. Molti linguisti e filosofi sin
dal 1950 hanno caratterizzato la lingua quasi esclusivamente in termini di logica matematica.
É come se il fatto che la lingua abbia un significato e sia parlata da esseri umani sia
irrilevante al fine di comprenderla.
Il linguaggio è forse il nostro traguardo più importante come specie. Una volta che un popolo
stabilisce una lingua, esso avrà una serie di accordi su come definire, caratterizzare, e
categorizzare il mondo intorno a se, come anche Searle ha fatto notare. Questi accordi
servono poi come fondamenta per tutti gli altri accordi nella società. Il contratto sociale di
Rousseau non è il primo fondamento contrattuale della società umana, dunque, almeno non
come egli lo aveva pensato. Il linguaggio lo è. Il linguaggio, d’altra parte, non è solo fonte di
valori sociali. La tradizione e la biologia giocano un ruolo importante, non linguistico. Molti
valori della società sono trasmessi senza il linguaggio.
Biologi come E.O. Wilson hanno mostrato che alcuni dei nostri valori emergono dalla nostra
biologia quali primati ed entità biologiche. Il nostro bisogno di compagnia, il nostro bisogno
del cibo, di vestiti, di un rifugio e così via sono significativamente connessi alla nostra
biologia.
Altri valori emergono dalle tradizioni culturali personali o familiari. Per esempio, si prenda la
propensione al poltrire. Alcune persone preferiscono stare sdraiati sul divano, mangiando
cibo grasso, e guardando la tv, specialmente i programmi di cucina. Tutto ciò è poco
salutare. Eppure, ad alcuni piace. Perchè? Be, una parte del motivo è biologica.
Apparentemente, le nostre papille gustative amano la sensazione e il sapore dei cibi grassi,
ai nostri corpi piace conservare energia (l’attrazione di un comodo divano), e alle nostre
menti piacciono le stimolazioni sensoriali (uomini che inseguono una palla, donne che
saltellano in bikini, la vista di grandi dessert, o l’ultima creazione di Emeril Lagasse).

135
Ma la ragione di tale malsano comportamento non è esclusivamente biologica. Dopo tutto,
non tutti sono dei pigroni. Allora perchè alcune persone soddisfano le proprie inclinazioni
biologiche in un certo modo mentre altre soddisfano i loro bisogni differentemente, forse
persino in modi più salutari? Questo tipo di comportamento non è appreso tramite il
linguaggio. Piuttosto, è acquisito attraverso l’esempio nelle singole famiglie o in altri gruppi.
La vita del pigro da divano è solo uno dei tanti esempi dell’apprendimento di valori culturali
non tramite il linguaggio. Valori specifici come questo, insieme ai valori direttamente biologici
(come il bisogno del rifugio, dei vestiti, del cibo, e della salute), lavorano insieme per
produrre un tutt’uno integrato di lingua e cultura, attraverso il quale interpretiamo e
discutiamo il mondo. Spesso pensiamo che i nostri valori e i nostri modi di parlare dei nostri
valori siano completamente “naturali”, ma non è così. Essi sono parzialmente il caso o
incidente di esser nati all’interno di una particolare cultura e società.
I Piraha frequentemente permettono ai loro cani di mangiare dalle stesse ciotole o dagli
stessi piatti da cui essi stessi stanno mangiando. Alcune persone sono schizzinose a
riguardo, ma ad alcune non da fastidio. Mangiare insieme a un cane non è qualcosa che io
farei. Do da mangiare ai miei cani croccantini direttamente dalle mani a volte, e poi mangio
dimenticando di lavarmi le mani. Ma questo è quanto di più simile abbia fatto al mangiare coi
cani. So che alcune persone lasciano che i propri cani lecchino il loro piatto con i resti del
pranzo, credendo che la lavastoviglie sterilizzi il piatto. Ma non permetterei al mio cane di
sedere affianco a me e mangiare dal mio piatto.
Non voglio fare ciò perchè credo nei germi, i quali possono farmi ammalare. D’altra parte,
non ho nessuna prova evidente che i germi esistano. Non sono sicuro di come potrei
provare a qualcuno che i germi esistono o come essi agiscano. Ma credo lo stesso che i
germi esitano, perchè la conoscenza dei germi e la loro connessione con le malattie è un
prodotto della mia cultura. (Se i germi dei cani possano far ammalare gli umani, non lo so.
Ma la mia paura culturalmente indotta dei germi fa si che l’idea di mangiare con un cane sia
a dir poco ripugnante per me.)
Come molte altre persone intorno al mondo, i Piraha non credono nei germi. Dunque, non
hanno nessuna avversione a lasciare che i loro cani mangino dai loro stessi piatti. I loro cani
sono i loro alleati nella lotta alla sopravvivenza nella giungla, e per questo li amano. Così,
senza credere nei germi, i Piraha non trovano ripugnante dividere il piatto con i propri cani.
I linguisti sanno queste cose, ovviamente. E lo sanno anche gli antropologi, gli psicologi, i
filosofi e molti altri. Fino ad ora, dunque, ciò che ho detto a proposito dei valori culturali e del
linguaggio non è niente di nuovo. Ma non avevo dato importanza al significato di tutto ciò
fino alla conversazione con Xahoapati riguardo l’insalata.
Come ora sappiamo, i Piraha valutano di prima importanza l’esperienza diretta e
l’osservazione. In questo senso del concetto, i Piraha sono come persone del Missouri, lo
stato del “fammi vedere”. Tuttavia, i Piraha non solo concorderebbero che “vedere è
credere”, ma anche che “credere è vedere”. Se volessi raccontare qualcosa ai Piraha, essi
vorranno sapere come sei venuto a sapere tale cosa. E specialmente vorranno sapere se
hai una diretta testimonianza per le tue affermazioni.
Dato che per i Piraha i sogni e gli spiriti sono esperienze immediate, essi ne parlano spesso.
Parlare dello spirituale per i Piraha non è parlare di qualcosa di fittizio ma è parlare di eventi
reali. Perchè il principio di immediatezza dell’esperienza possa spiegare la vita spirituale dei
Piraha, l’unica condizione cruciale è che essi credano di vedere gli spiriti di cui parlano. E
questa condizione è facilmente soddisfatta.
Ciò che segue è un breve racconto di un sogno registrato originariamente da Steve Sheldon.
Non c’è niente di specialmente particolare in esso. I Piraha non attaccano nessun significato

136
mistico ai propri sogni. I sogni sono esperienze come tutte le altre, anche se possono
avvenire in luoghi diversi dal Maici o dallo “strato” inferiore, il cosiddetto bigi.

Casimiro Sogna
Fonte: Kaboibagi
Registrato e trascritto da Steve Sheldon

Sinopsi: Questo è un testo a proposito di un sogno che il parlante nella storia ha avuto. Egli
sogna una donna brasiliana che viveva vicino al villaggio, una donna molto larga.

1. Ho sognato di sua moglie.

2. Poi ho sognato la donna brasiliana.

3. Lei parò nel sogno. Tu starai con l’uomo brasiliano.

4. Tu starai con lui.

5. Con rispetto a me dunque la larga donna brasiliana scomparì.

6. Poi, sognai di papaya e banane.

La mancanza di transizione tra le prime cinque righe e l’ultima riga potrebbe essere curiosa
se approcciassimo questo sogno come fosse una semplice storia. Ma è solo un raccontare
ciò che il parlante ha fatto. Non è che i Piraha confondono i sogni con le attività quotidiane.
Ma essi classificano i due quasi allo stesso modo: sono entrambi delle esperienze che
abbiamo avuto e testimoniato. Essi sono esempio del principio di immediatezza
dell’esperienza.
Ora la cultura e il linguaggio sono intrecciati in tutte le società in vari modi. Il fatto che la
cultura possa influenzare la grammatica, per esempio, non è incompatibile con l’idea che
anche la grammatica possa influenzare la cultura. Di fatti, isolare i diversi tipi di rapporti tra
la cultura e la grammatica è generalmente una utile priorità di ricerca per il linguisti e gli
antropologi.
Gli effetti della grammatica sulla cultura sono vari. A volte essi possono essere ovvi come la
mano destra, come scoprii durante uno degli innumerevoli giorni che passai alla scrivania
con Kohoi.
“OK. Questa mano è quella che gli americani chiamano “mano sinistra”. I brasiliani la
chiamano mao esquerda. Come la chiamano i Piraha?
“Mano”
“Si, lo so che è una mano. Ma come si dice mano sinistra?”
“La tua mano.”
“No, ascolta. Questa è la tua mano sinistra. Questa è la tua mano destra. Ecco la mia mano
sinistra. Ecco la mia mano destra. Come si dice ciò?”
“Questa è la mia mano. Quella è la tua mano. Questa è la mia altra mano. Quella è la tua
altra mano.”
Chiedere ai miei aiutanti di dirmi come distinguessero una mano dall’altra nella loro lingua
chiaramente non stava funzionando. Non riuscivo per tutto l’oro del mondo a capire perchè
fosse così difficile scoprire quale fosse il nome per la mano destra e mano sinistra.

137
Decisi che avevo bisogno di un biscotto. Feci una pausa ed io e il mio insegnante di lingua
bevemmo del caffe istantaneo e mangiammo dei biscotti. Pianificai di chiedere a Kohoi di
lavorare con me su questo argomento di nuovo. Se non fosse riuscito ad aiutarmi neanche
questa volta avrei dovuto elaborare un altro piano.
Come potrò mai tradurre la Bibbia in lingua Piraha, pensai, se non riesco neanche a capire
come si dice mano sinistra e mano destra? Aargh. Ero esasperato. Almeno Kohoi fu
d’accordo di riprovare a lavorarci su. Così riiniziai con la mia routine.
“Mao esquerda.”
Lui rispose, “La mano è su lungo il fiume.”
Che diavolo sta succedendo? Pensai, completamente frustato. Si sta prendendo gioco di
me?
Indicai la sua mano destra.
“La mano è giu lungo il fiume.”
Decisi di rinunciare. Cambiai argomento. Ma per giorni mi sentii terribilmente incompetente
nel mio ruolo di linguista.
Una settimana più tardi, andai a caccia con un gruppo di uomini. Arrivammo ad una
biforcazione nel sentiero a circa due chilometri dal villaggio. Kaaxaooi gridò dal fondo della
comitiva, “Hey Kohoi, vai a monte.”
Kohoi voltò a destra. Kaaxaooi non disse di voltare a destra, ma Kohoi voltò a destra.
Mentre continuavamo a camminare, il nostro orientamento cambiò.
Un’altra persona parlò a Kohoi, che ancora guidava la comitiva. “Volta a monte!” Questa
volta egli voltò a sinistra, non a destra, in risposta allo stesso comando di voltare a monte.
Durante il resto della caccia, notai che le direzioni venivano dato o in termini di corrente
fluviale (a monte, a valle, verso il fiume) oppure di giungla (verso l’interno della giungla). I
Piraha sapevano dove stava il fiume (Io non avrei saputo dire dove stava il fiume - ero
completamente disorientato). Essi sembravano orientarsi tramite la loro posizione geografica
piuttosto che in base al loro corpo, come facciamo noi quando usiamo mano sinistra e mano
destra per indicare una direzione.
Non avevo capito ciò. Non avevo mai trovato le parole per mano sinistra e mano destra.
Scoprire che i Piraha usassero la posizione del fiume per dare le direzioni spiegava, però,
perchè quando i Piraha visitavano le città con me, una delle loro prime domande era “Dove
è il fiume?” Essi avevano bisogno di saperlo per orientarsi nel mondo!
Solo anni dopo lessi la affascinante ricerca realizzata dall’Istituto Max Planck di
Psicolinguistica in Nijmegen, Olanda, sotto la direzione del Dr. Stephen C. Levinson. In vari
studi tra differenti culture e lingue, la squadra di Levinson scoprì due grandi divisioni nel
modo in cui le culture e le lingue comunicano le direzioni locali. Molte culture sono come le
culture americane ed europee e si orientano in termini relativi, che dipendono da
l’orientazione del corpo, come la destra e la sinistra. Questo è chiamato da alcuni
orientazione endocentrica. Altri, come i Piraha, si orientano utilizzando oggetti esterni al loro
corpo, fenomeno a cui alcuni si riferiscono come all’orientazione essocentrica.
Chiaramente il modo Piraha di trasmettere le direzioni è molto diverso da quello americano.
Ma persino nell’inglese possiamo utilizzare un sistema direzionale “assoluto” simile a quello
dei Piraha. Per esempio, potremmo naturalmente dire, “Gli Stati Uniti sono a nord del
Messico.” Oppure potremmo dire, “Quando arrivi allo stop, gira a ovest.” Le direzioni che si
basano sulla bussola sono simili all direzioni basate sulla posizione del fiume dei Piraha,
perchè entrambe sono ancorate ad un mondo esterno al parlante. Ma in inglese ed in molte
altre lingue, a differenza del Piraha, vi è anche un sistema di direzioni che si orienta in base

138
al nostro corpo. Così possiamo dire “gira a sinistra”, “vai avanti”, “gira a destra”, e così via,
tutti termini che si basano sull’orientazione del nostro corpo.
Questo sistema può essere utile, ma richiede che l’interlocutore sappia in che modo il corpo
del parlante sia orientato prima che l’interlocutore possa seguire le direzioni del parlante. Cià
è più difficile di quel che sembri in molti casi. Immaginiamo un parlante che sia in fronte a
noi. Allora la sua sinistra sarebbe la nostra destra, il suo avanti sarebbe il nostro dietro, e
così via. Oppure si immagini un parlante al telefono oppure che non sia in vista, di modo che
l’orientazione del suo corpo ci sia ignota. Questo sistema direzionale “relativo”, basato sul
corpo, può funzionare in alcune situazioni, ma è inerentemente impreciso e a volte confuso.
Così l’inglese possiede sia un sistema direzionale efficiente ed ancorato al mondo esterno,
sia un sistema basato sul corpo, occasionalmente causa di confusione. Sono sopratutto
storici e culturali i motivi per cui i popoli che parlano inglese abbiano entrambi questi sistemi.
I Piraha mancano un sistema basato sul corpo e possiedono solo un sistema ancorato
esternamente e non ambiguo (vero, i Piraha hanno il vantaggio di trovarsi sempre nelle
vicinanze del fiume, in base al quale essi si orientano). Così i Piraha hanno necessità di
pensare più esplicitamente e più consistentemente alla loro posizione nel mondo rispetto a
quanto facciamo noi. Ciò a sua volta significa che la lingua Piraha forza i Piraha a pensare
differentemente riguardo al mondo esterno.
Le implicazioni di questa scoperta sono che il linguaggio e la cultura non sono
cognitivamente isolate l’una dall’altra. Allo stesso tempo, dobbiamo guardarci dal trarre
conclusioni arbitrarie da ciò. Non vorremmo arrivare alla conclusione, per esempio, che i
brasiliani e i messicani pensino che la Coca Cola sia femmina, solo perchè nella grammatica
essa ha genere femminile. Neppure vorremmo dire che i Piraha sono incapaci di portare a
termine compiti che implichino il contare, come ad esempio tenere il conte con le loro dita,
solo perchè non possiedono parole per i numeri. Ciò potrebbe essere una applicazione
errata dell’idea che la lingua modifichi il pensiero.
Tale idea è sempre stata controversa. É conosciuta attraverso vari nomi - determinismo
linguistico, relatività linguistica, l’ipotesi di Whorf, e la ipotesi di Sapir - Whorf, tra gli altri
nomi, anche se l’ipotesi è principalmente associata a Benjamin Lee Whorf, perchè egli fu
uno dei primi linguisti a scrivere estensivamente riguardo specifici esempi di linguaggio che
modifica il pensiero.
Ma Sapir continua comunque ad essere associato all’idea che il linguaggio possa
influenzare profondamente la cultura. Sapir fu uno dei fondatori della linguistica americana.
Era anche uno studente, insieme a Ruth Benedict, Margaret Mead, e altri antropologi
americani, di Franz Boas, un fisico diventato antropologo della Columbia University,
considerato da alcuni come il padre dell’antropologia americana. Le conclusioni e le ipotesi
di Sapir riguardo l’interferenze tra lingua - cultura - cognizione erano basate sulla sua vasta
esperienza sul campo, studi sulle lingue del Nord America, e la relazione tra le loro culture e
le loro lingue. Un famoso scritto di Sapir afferma:

Gli esseri umani non vivono solamente nel mondo oggettivo, ne solamente nel mondo delle
attività sociali come solitamente si è inteso, ma essi sono in grande misura alle mercè della
particolare lingua che è diventata il mezzo di espressione per la loro società. É piuttosto una
illusione immaginare che qualcuno si adatti alla società essenzialmente senza l’uso della
lingua e che la lingua sia solamente un mezzo accidentale di risolvere specifici problemi di
comunicazione o di riflessione… Non ci sono due lingue sufficientemente simili da poter
essere considerate rappresentanti della stessa realtà sociale. I mondi in cui società diverse

139
vivono sono mondi distinti, non solamente gli stessi mondi con diverse etichette stampate
sopra. (tratto da The Status of Linguistics as a Science, Sapir [1929], p209)

Secondo Sapir, la nostra lingua influenza come percepiamo le cose. Nel suo punto di vista,
ciò che vediamo e sentiamo nella nostra esistenza giornaliera è risultato del modo in cui
parliamo del mondo. Ciò certamente ci aiuterebbe a capire come mai quando camminando
per la foresta con i Piraha, poteva capitare che dicessi di aver visto un ramo muoversi e loro
rispondevano di aver visto uno spirito muovere quello stesso ramo. Sapir arriva persino ad
affermare che il modo in cui vediamo il mondo è costruito dalla nostra lingua, e che non c’è
un “mondo reale” che noi possiamo percepire senza il filtro della lingua che ci dica cosa
stiamo vedendo e cosa esso significhi.
Se Sapir e Whorf sono nel giusto, le implicazioni per la filosofia, la linguistica, l’antropologia,
e la psicologia, tra gli altri campi di studio, sono vaste. Whorf arrivò a dichiarare che la
scienza occidentale è in gran parte il risultato delle limitazioni grammaticali delle lingue
occidentali.
Potrebbero le categorie morali a priori di Kant essere il prodotto della distribuzione di
sostantivi e verbi nella grammatica tedesca? Potrebbe la teoria della relatività di Einstein
essere lo stesso? Per quanto queste ipotesi possano sembrare improbabili, esse
scaturiscono dalle ipotesi di Whorf.
Per i linguisti e gli antropologi, l’ipotesi di Sapir - Whorf suggerisce domande di ricerca
nell’investigazione riguardo a come le nostre lingue sono causa del nostro pensare
differente riguardo al mondo.
Il punto di vista Sapir - Whorf implica una simbiosi tra linguaggio e pensiero. Nella versione
estrema di questo punto di vista (il determinismo linguistico), il quale virtualmente nessuno
accetta come fondato, il pensiero non può sfuggire i confini del linguaggio. Parlare una
particolare lingua può dare al nostro pensiero un vantaggio o svantaggio immutabile, a
seconda del compito che dobbiamo affrontare e della lingua coinvolta.
Una versione più accettata è che mentre possiamo pensare “fuori dalle barriere linguistiche”,
normalmente non lo facciamo perchè nemmeno percepiamo come la lingua influenzi il
nostro modo di pensare. Questa versione è persino osservata all’opera tra le persone che
esplicitamente rigettano le ipotesi di Sapir - Whorf.
Come esempio di come le persone intelligenti possono essere “in conflitto” riguardo all’idea
che il modo in cui parliamo influenzi il modo in cui pensiamo, si consideri le opinioni dei
membri della Società Linguistica d’America. La LSA ha delle linee guida molto rigide contro il
linguaggio sessista. Ciò significa che almeno qualche membro della LSA pensa che il modo
in cui parliamo influenzi il modo in cui pensiamo in modi identici o almeno simili alle ipotesi di
Sapir - Whorf.
Tuttavia, altri membri della LSA rifiutano quasi ogni versione di queste ipotesi. Ciò che mi
affascina è che entrambi questi gruppi sono d’accordo sul fatto che la LSA dovrebbe
promuovere l’uso di un linguaggio gender-neutral [ndt neutrale rispetto al sesso dei membri
dell’istituto]. Un membro, per esempio, potrebbe simultaneamente scrivere un articolo contro
le ipotesi della relatività linguistica ed allo stesso tempo stare molto attento ad usare solo
loro [ndt they] o forme come Lui/lei [ndt s/he nell’originale, intraducibile] nell’articolo, invece
che ricadere nell’uso di lui [ndt he] per entrambi i sessi, come nella frase “Se qualcuno vuole
il lavoro, essi lo possono avere” invece che “Se qualcuno vuole il lavoro, egli lo puo avere.”
Questo non accade solo perchè il linguaggio neutrale riguardo al sesso è più educato. Le
pressioni che spingono ad un cambiamento in questa direzione avvengono perchè le

140
persone credono che il modo in cui parliamo influenza il modo in cui pensiamo degli altri, sia
che un’offesa sia consciamente voluta o che si tratti di una questione di educazione.
Ho visto un numero sufficiente di studi psicolinguistici e ho sentito abbastanza prove
aneddotiche degli effetti del linguaggio sul pensiero da per concludere che questa versione
più temperata delle ipotesi Sapir-Whorf sia una idea sensata.
Allo stesso tempo, non penso che le ipotesi abbiano l’effetto che certe persone vogliono che
esse abbiano. Nello spiegare la mancanza di un modo di contare nella lingua Piraha, ad
esempio, non sembrano avere alcuna utilità. Se le ipotesi Sapir-Whorf venissero utilizzate
per spiegare la mancanza di un modo di contare dei Piraha (essi non contano perchè non
hanno le parole per i numeri), numerose caratteristiche rimarrebbero inspiegate.
Per esempio, molti altri gruppi intorno al mondo possedevano sistemi numerali molto
modesti, ma essi sapevano comunque come contare e avevano preso in prestito i numeri di
lingue vicine in quanto la pressione socioeconomica spinge ad essere in grado di usare i
numerali nel commercio. I Warlpiri Australiani ne sono un esempio. E i Piraha praticano il
commercio con i brasiliani da più di due secoli. Eppure non hanno preso in prestito nessun
numerale per facilitare tale commercio. Se seguissimo un’analisi Whorfiana del modo di
contare dei Piraha, essi non avrebbero ragione di prendere in prestito delle parole per
esprimere concetti potenzialmente utili, perchè i concetti non potrebbero diventare utili senza
le parole innanzi tutto. Questo tipo di analisi predirebbe, erroneamente, che senza le parole
non ci possono essere concetti. Di fatto, questa rigida analisis Whorfiana è incompatibile con
la scienza, perchè una larga parte della scienza consiste dello scoprire concetti per cui non
abbiamo parole!
Le ipotesi Sapir - Whorf non riescono ad offrire una spiegazione unitaria delle varie
caratteristiche inusuali della lingua e della cultura Piraha, come l’assenza di parole per i
colori, i quantificativi, o numerali, il semplice sistema di parentela, e così via.
La nostra ricerca di un sistema che spieghi l’interazione della lingua Piraha con la cultura
deve indirizzarsi verso il territorio intellettuale da attraversare. Dobbiamo mappare alcune
delle varie relazioni tra grammatica, cognizione, e cultura che sono state proposte durante
gli anni. Ho riassunto le idee principali nella tabella qui sotto:

Connessioni tra Cognizione, Grammatica, Cultura

Vincolo di Relazione Teoria Rappresentativa


--------------------------------------------------------------------------------------------------------
1 cognizione -> grammatica Grammatica universale di Chomsky

2 grammatica -> cognizione Relatività linguistica (Whorf)

3 cognizione -> cultura Studi di Brent Berlin e Paul Kay sui termini per i
colori

4 grammatica -> cultura Studio di Greg Urban sulla cultura centrata sul
discorso

5 cultura -> cognizione Effetti a lungo termine sul pensiero da parte


delle restrizioni culturali riguardo a certi comportamenti

141
6 cultura -> grammatica Etnogrammatica; forme individuali strutturate
dalla cultura

Sappiamo tutti che qualsiasi tentativo di capire come la cultura, la cognizione, e la


grammatica interagiscono e si influenzano l’un l’altra deve evitare soluzioni semplicistiche al
tentativo di comprensione di ciò che da forma alla “esperienza umana”. Allo stesso tempo, è
utile e necessario iniziare con alcune idealizzazioni o semplificazioni arbitrarie grazie alle
quali possiamo concentrare la nostra attenzione sui punti salienti delle connessioni tra questi
tre ambiti, allo stesso tempo ignorando temporaneamente gli altri. Questo è un modo utile di
arrivare alla comprensione di materiale così complesso.
La prima riga della tabella sopra illustra il caso in cui la cognizione, termine con il quale
indico a grandi linee la struttura cerebrale o mentale necessaria al nostro pensiero, esercita
il controllo sulla grammatica. Noam Chomsky si è concentrato esclusivamente sugli effetti
della cognizione, in questo senso, sulla grammatica per alcuni decenni, proponendo l’idea di
una grammatica universale per spiegare come la cognizione limita la grammatica umana.
La grammatica universale (UG) afferma che vi sia di fatto una sola grammatica per tutte le
lingue del mondo, con variazioni permesse da un relativamente basso numero di “principi e
parametri”. L’esperienza del crescere in un ambiente e sentire una particolare lingua parlata
attiverà dei meccanismi che richiameranno questa o quella proprietà grammaticale nella
grammatica in via di sviluppo nel bambino. Così supponiamo che qualcuno nasca in brasile
e cresca sentendo il portoghese. Secondo il ragionamento che guida la UG, il bambino
adotta un parametro detto del “soggetto - nullo”, il fatto che le frasi non devono avere
soggetti espressi apertamente. Così in portoghese l’equivalente della frase Saw me
yesterday [ndt Visto me ieri] è grammaticale, dove invece in inglese è nongrammaticale. E il
portoghese avrà più informazioni nei suoi verbi riguardo la natura del soggetto che l’inglese.
E così via. Questa è stata senza dubbio la più influente di tutte le tradizioni di ricerca che
hanno indagato la relazione tra grammatica e cognizione.
La seconda riga simbolizza la tradizione di ricerca Sapir-Whorf, che indaga l’interazione
grammatica - cognizione dalla prospettiva di come la grammatica, che è il modo in cui le
lingue sono strutturate, possa influenzare il modo in cui pensiamo.
Per la terza riga, i nomi che vengono in mente sono Brent Berlin e Paul Kay, entrambi
professori emeriti della Università della California a Berkeley. Il loro lavoro si propone di
mostrare che la classificazione dei colori di tutte le culture segue restrizioni imposte dai limiti
fisici del cervello umano nel riconoscere tonalità, colori, e relativa brillantezza dei colori. Tale
limitazione cerebro-cognitiva impone dei vincoli nella classificazione dei colori in tutte le
culture.
La quarta riga rappresenta il punto di vista di antropologi linguistici come Greg Urban
dell’Università della Pennsylvania. Il lavoro di Urban porta avanti l’idea che il linguaggio può
influenzare la cultura in modi interessanti e subdoli. Uno degli esempi che egli analizza
riguarda gli effetti della costruzione grammaticale del passivo (come nella frase John fu visto
da Bill) e dell’attivo (Bill vide John) verso concetto dell’eroe nelle varie società.
Urban afferma che in alcune lingue la proporzione di proposizioni passive può essere molto
più elevata nel discorso naturale orale o scritto delle proposizioni attive, mentre in altre
lingue le proposizioni attive sono molto più frequenti. Egli va avanti affermando che quando
le frasi passive sono il tipo di costruzione più naturalmente frequente, gli eroi discussi nei
racconti saranno percepiti più naturalmente come soggetti a cui vengono fatte delle cose
piuttosto che soggetti che danno inizio alle azioni. Questi eroi saranno percepiti come aventi

142
delle personalità più passive rispetto agli eroi di lingue dove le proposizioni attive
predominano.
Nel caso di una lingua senza costruzione passiva, incontreremo frasi come L’uomo uccise il
giaguaro e Il giaguaro uccise l’uomo, ma non L’uomo fu ucciso dal giaguaro. Quando
un’azione viene compiuta, colui che la compie è centrale alla funzione del racconto.
D’altra parte, in una lingua che preferisce la costruzione passiva colui che compie l’azione
ha un ruolo meno centrale nel racconto. Per esempio, se compariamo attentamente i
contrasti tra attivo e passivo di esempi come L’uomo uccise il giaguaro e Il giaguaro fu
ucciso dall’uomo (o, la costruzione passiva più probabile, Il giaguaro fu ucciso), frasi che
ricorrono continuamente nei racconti, realizzeremmo presto che nel passivo, il ruolo
dell’uomo è meno centrale. Ciò che diventa centrale è l’oggetto dell’azione, qui “il giaguaro”,
e non il soggetto o colui che compie l’azione. Questi contrasti possono lavorare fianco a
fianco con la cultura per produrre sia eroi che hanno una funzione centrale nel racconto, sia
racconti in cui colui che compie l’azione non ha un ruolo così cruciale, non così centrale, e
quindi, non così eroico.
Dato che la lingua Piraha non possiede la costruzione passiva, i personaggi principali nei
suoi racconti, come il racconto della pantera, sono attivi iniziatori di azioni e quindi molto più
eroici dei loro corrispettivi in lingue che favoriscono una costruzione passiva. (Non darò
esempio di una tale frase passiva, dato che presento solo un breve riassunto della teoria di
Urban. Di fatto, penso che esempi di lingue tali possano essere più complicati di quanto la
teoria sospetta). In ogni caso, ciò evidenzia quanto cruciale sia studiare lingua e cultura
insieme, piuttosto che isolati l’uno dall’altro. Come il mio stesso lavoro - anche se in
direzione opposta - ciò va contro le tradizioni sia della linguistica moderna che di una buona
parte della antropologia moderna.
La quinta riga rappresenta una ricerca che indaga come la cultura può influenzare la
cognizione. Il caso del Piraha è un buon esempio. La mancanza di modi di contare tra i
Piraha è il risultato di vincoli culturali, come abbiamo discusso in precedenza. Ma questo
sottoprodotto culturale ha effetti cognitivi - gli adulti Piraha trovano quasi impossibile
imparare a contare dopo una vita passata in un ambiente senza numeri.
Infine, l’ultima riga nella tabella rappresenta le ricerche che altri, oltre me, stanno compiendo
riguardo gli effetti locali e globali dei valori culturali sulla formazione della frase, sulla
struttura delle parole, e sulla struttura dei suoni. Questi lavori sono anche controversi e
vanno contro buona parte della conoscenza ricevuta nella linguistica. É ciò che il principio
d’immediatezza dell’esperienza, per esempio, cerca di realizzare.

15 Ricorsività: il linguaggio come una bambola matriosca

Le teoria influenzano le nostre percezioni. Esse sono parte dell’informazione culturale che
vincola il modo in cui vediamo il mondo intorno a noi. Ci sono molti esempi di connessioni
cultura-percezione che non tirano in ballo la scienza ma che illustrano il mio concetto, come
l’episodio in cui scambiai un anaconda per un tronco galleggiante. La mia cultura mi aveva
detto di stare attento ai tronchi quando si viaggia su una barca (consiglio universalmente
apprezzato!). E mi aveva dato informazioni su che aspetto avesse un tronco galleggiante nel
fiume. Ma nessuno mi aveva detto che aspetto avesse un gigantesco anaconda che
nuotasse verso di me.
Stavamo viaggiando fuori dal villaggio sulla mia barca a motore, diretti verso Humaita per
prendere il bus per Porto Velho. Keren aveva preparato dei panini al tonno e avevamo del
succo di frutta da bere. Mentre guidavo la barca giù lungo il Maici e poi il Marmelos,

143
eravamo tutti rilassati. Shannon leggeva il giornale comico brasiliano Monica mentre gli altri
dormicchiavano o guardavano il paesaggio che scorreva.
Arrivammo alla mia parte preferita del viaggio, il encontro das aguas, dove l’acqua verde
scura del Marmelos incontra le acque color cioccolato al latte del Madeira. Gridai a tutti di
guardare e insieme osservammo le acque di colore diverso che per un tratto scorrevano
l’una accanto all’altra, poi vedemmo dei mulinelli di acqua fangosa tra le acque verdi, poi
finalmente l’acqua verde fu assorbita , a circa 500 metri dalla bocca del fiume.
Volsi poi la mia attenzione a monte, mentre aggiravamo l’isola che siede alla bocca del
Marmelos, facendo rotta verso Auxiliadora, dove avremmo passato la notte. Il fiume Madeira
è chiamato così a causa degli alberi che vengono sradicati dalle sue sponde fangose e
vengono trasportati dalle acque verso il Rio delle Amazzoni. Ci sono enormi tronchi e rami
nel fiume, pericolosi specialmente quando galleggiano invisibili appena sotto la superficie
dell’acqua. A circa 200 metri a monte vidi un lungo tronco che galleggiava tra la forte
corrente. Era storto. Quando per la prima volta iniziai a viaggiare per il sistema dei fiumi del
Rio delle Amazzoni, mi aspettavo di vedere cose nuove e inusuali per me, così scambiavo
ogni tronco nel fiume per un serpente, perchè l’acqua fa si che il legno sembri ondulato.
Anche questo tronco sembrava ondulato, anche se ormai avevo abbastanza esperienza da
non scambiarlo per un serpente. E sapevo anche che i serpenti non erano grandi quanto
questo tronco. Questo tronco infatti, osservandolo più da vicino, era forse lungo 12 metri e
grosso uno.
Diressi il mio sguardo verso due pappagalli che volteggiavano e cinguettavano sopra di noi.
Poi tornai a guardare il tronco. Era più vicino adesso. Strano, pensai, il tronco sta
galleggiando verso la riva, perpendicolare rispetto alla corrente.
Poi quando si fece ancora più vicino, vidi che davvero era ondulato. All’improvviso si diresse
dritto verso il retro della nostra barca. Non era un tronco. Era l’anaconda più grande che
avesse mai visto. La sua testa era più larga della mia. Il suo corpo era molto più grosso del
mio e più lungo di 10 metri. Spalancò la bocca e nuotò dritto verso di me. Sterzai
bruscamente, facendo sbattere la mia famiglia sul lato della barca, e riuscii a colpire il
serpente con l’elica del mio motore fuoribordo con 15 cavalli, mentre cercava di passarci
sotto. Thud. Preso in pieno. Pensai di averlo colpito in testa, ma non ero sicuro.
Il serpente sparì. Poi un secondo più tardi l’intero corpo del serpente venne fuori dall’acqua
verticalmente, e si allungava più in alto della barca, ma rimaneva indietro mentre noi
acceleravamo la nostra andatura, a circa sedici chilometri all’ora. Osservai il serpente nella
sua intera lunghezza mentre mostrava la sua pancia biancastra e poi cadeva sulla schiena
con un rumoroso splash nel fiume Madeira.
Non sapevo che gli anaconda potessero fare così, pensai. Quella diavolo di creatura
avrebbe potuta saltare sulla barca insieme a noi!
Fissavo l’acqua. Shannon sollevò lo sguardo dal suo giornaletto e disse “Wow!”
Questa esperienza di percezione errata mi insegnò ciò che gli psicologi conoscono da
tempo: la percezione è appresa. Noi percepiamo il mondo, sia come teorici che come
cittadini dell’universo, secondo le nostre esperienze e aspettative, non sempre, forse mai,
percepiamo il mondo come esso è in realtà.

Quando diventai più fluente nella lingua Piraha, cominciai a nutrire il sospetto che i Piraha
cercassero di parlare in maniera semplice per farmi capire ciò che dicevano. Quando mi
parlavano, le frasi sembravano corte, con solo un verbo ognuna. Così decisi che sarebbe
stato utile ascoltare più attentamente come essi parlavano tra di loro, piuttosto che basare le

144
mie conclusioni sul modo in cui parlavano con me. La migliore opportunità, sapevo, sarebbe
venuta da Baigipohoai, la moglie di Xahoaibisi. Ogni mattina la donna parlava a voce alta,
cominciando circa alle cinque del mattino, sedendo nella sua capanna al buio, mentre
Xahoabisi rinforzava il fuoco, a soli pochi metri di distanza dalla mia capanna. La donna
parlava con l’intero villaggio a proposito di ciò che aveva sognato. Chiedeva alle persone ad
ognuno cosa avrebbe fatto quel giorno. Diceva agli uomini che partivano con le canoe quale
pesce prendere, quali erano i punti migliori per la pesca, come evitare i forestieri, e molto
altro ancora. Era il banditore e la pettegola del villaggio, tutti in uno. Era divertente da
ascoltare. C’era una certa arte nel suo parlare, con la sua voce profonda, i vari toni della sua
parlata (da molto basso a molto alto e viceversa), i modi stilisticamente differenti in cui
pronunciava le parole - come se l’aria stesse entrando nella sua bocca e nei suoi polmoni
invece che uscirne. Se mai ci sia stato un Piraha che parlava per i Piraha e non per me, il
linguista, questo era proprio Baigi. Cosa importante per me, mentre registravo e poi
trascrivevo le frasi, esse erano strutturate in modo identico a quelle frasi che Kohoi e gli altri
insegnanti mi rivolgevano durante le lezioni - un verbo per ogni frase.
Ciò era piuttosto impegnativo, dato che nella mia analisi della grammatica Piraha, cercavo
con fatica di raccogliere esempi dove una frase o proposizione si trovasse all’interno di
un’altra, come farebbe ogni linguista, visto che tali strutture dovrebbero rivelare la
grammatica meglio che le proposizioni semplici che stavo raccogliendo. Iniziai a cercare
frasi come L’uomo che ha preso il pesce è nella casa, dove una subordinata relativa (che ha
preso il pesce) è presente all’interno di una frase nominale (L’uomo…), la quale a sua volta
si trova all’interno di un’altra frase (L’uomo è nella casa). A quel tempo, credevo che le
proposizioni relative esistessero in tutte le lingue.
Cercando di capire se i Piraha avessero o no le proposizioni relative, decisi di di chiedere un
giorno a Kohoi di dirmi se stavo “parlando bene” quando dicevo, “L’uomo venne a casa mia.
Lui era alto.” Queste sono due frasi semplici. In inglese, però, preferiremmo mettere la
seconda frase all’interno della prima, ottenendo una subordinata relativa - “L’uomo che era
alto venne a casa mia.” Quando chiedevo agli uomini Piraha se il mio parlato era buono o
no, di solito mi rispondevano affermativamente, per evitare una mancanza di educazione.
Ma poi, quando mi esprimevo scorrettamente, essi ripetevano la frase in modo corretto,
senza mai dirmi che avevo sbagliato. Perciò quando feci questa domanda a Kohoi, speravo
che lui avrebbe risposto ripetendo la frase in modo corretto e dicendo qualcosa come
“L’uomo che è alto venne in casa mia.” Ma, no, Kohoi disse semplicemente che stavo
parlando bene e ripetè le frasi esattamente come le avevo dette io, qualcosa che i Piraha
raramente fanno se la grammatica è scorretta.
Sperimentai con varie frasi usando diversi insegnanti Piraha. Tutti rispondevano che stavo
parlando bene o dicevano “Xaio!” (Corretto!)
Così in una pagina di bozza della mia grammatica Piraha, riguardo alla proposizione relativa
annotai che non ve ne era presenza nella lingua. Ma poi un giorno Kohoi stava facendo una
lancia da pesca e aveva bisogno di un chiodo come punta.
Egli parlò a suo figlio, Paita: “Ko paita, tapoa xigaboopaati. Xoogiai hi goo tapoa xoaboi.
Xaisigiai.” (Hey Paita, porta indietro alcuni chiodi. Dan ha comprato quei chiodi. Essi sono
uguali).
Sentii ciò e mi fermai sui miei passi. Realizzai che queste frasi funzionavano insieme come
una singola proposizione con una subordinata relativa e che avrebbero potuto persino
essere tradotte in tale modo in inglese, ma la loro forma era significativamente diversa. Esse
erano tre frasi separate, non una frase con altre frasi all’interno di essa come accade
nell’inglese. Questa costruzione Piraha perciò non aveva una proposizione relativa nel

145
senso in cui i linguisti la intendono. In modo cruciale, l’ultima frase, Xaisigiai (Essi sono
uguali), equivaleva alla parola chiodi nelle due frasi precedenti. In inglese diremmo, “Porta
indietro i chiodi che Dan ha comprato” (Ho italicizzato la proposizione relativa). Stavo
assistendo dunque alle due proposizioni che venivano interpretate insieme anche se non
erano parte dello stesso periodo. Così c’era un modo per produrre qualcosa di simile alla
proposizione relativa nel significato, anche se non vi erano vere e proprie proposizioni
relative.
Per la maggior parte dei linguisti una frase è l’espressione in parole di una intenzione, una
unità implicita di significato che rappresenta un singolo pensiero, come Io ho mangiato, John
vide Bill, oppure un singolo stato, come La palla è rossa, Io ho un martello, e così via. La
maggior parte delle lingue non solo hanno frasi semplici come queste, ma hanno anche un
modo di inserire un periodo o una frase all’interno di una altra. Questa caratteristica simile a
una matriosca è chiamata ricorsività da gli ingegneri informatici, dai linguisti, dagli psicologi,
e dai filosofi. Questa questione sta infiammando linguisti, filosofi del linguaggio, antropologi,
e psicologi, in un dibattito sul potenziale significato della grammatica Piraha nella
comprensione degli umani e del loro linguaggio.
A questo riguardo, le testimonianze che stavo raccogliendo incominciavano a costituire un
supporto per due idee che più tardi partorii riguardo la struttura della frase Piraha. La prima
era che le frasi della lingua Piraha non avevano la ricorsività. La seconda idea era che la
ricorsività non fosse poi così importante - apparentemente, qualsiasi cosa si possa dire
utilizzando la ricorsività in una lingua, tale cosa la si può dire in un’altra lingua senza la
ricorsività. I linguisti hanno creduto a lungo, anche se non sempre usando la stessa
terminologia, che la ricorsività è molto importante nel linguaggio. Così sapevo che qualsiasi
prova che la lingua Piraha avrebbe potuto aggiungere alla discussione sarebbe stata
importante.
Chomsky fu uno dei primi a chiedersi come potessere gli umani produrre così tante frasi, un
numero illimitato, con delle menti finite. Deve esserci qualche strumento che ci permetta di
fare, come il detto famoso tra i linguisti afferma, “uso infinito di mezzi finiti” (anche se penso
che nessun linguista possa coerentemente spiegare cosa questa espressione significhi in
termini scientifici). Chomsky affermò che lo strumento fondamentale alla base di tutta questa
creatività del linguaggio umano è la ricorsività.
La ricorsività è tradizionalmente definita come l’abilità di posizionare un oggetto dentro un
altro dello stesso tipo (per quelli più a proprio agio con la matematica, è una funzione con
una procedura o una subroutine la quale implementazione ha come fonte se stessa). Una
forma visiva della ricorsività avviene quando si mantiene uno specchio di fronte ad un altro
specchio e si vede una regressione infinita di specchi nel riflesso. E una forma udibile della
ricorsività è il feedback acustico, il suono stridente che un altoparlante fa quando capta e
riamplifica i suoni che egli stesso ha emesso e così via.
Queste sono le definizioni standard della ricorsività. Nella sintassi, di nuovo, ciò si traduce
nel posizionare una unità dentro un’altra unità dello stesso tipo. Si prenda una frase come Il
figlio del fratello di John, che contiene le frasi nominali John, suo fratello, e suo figlio. E una
frase come Ho detto che sei brutto contiene la frase sei brutto.
Nel 2002, nella rivista Science, Marc Hauser, Noam Chomsky, e Tecumseh Fitch diedero
grande importanza alla ricorsività indicandola come il componente unico alla lingua umana.
Essi affermarono che la ricorsività fosse la chiave della creatività del linguaggio, in quanto
possedendo una grammatica questo strumento formale, essa potesse produrre un numero
infinito di frasi di lunghezza illimitata.

146
Tuttavia, dopo che si è sparsa voce nel mondo scientifico della mia affermazione che i
Piraha non possiedono la ricorsività nel senso matematico, come di una matriosca, qualcosa
di curioso è accaduto. La definizione di ricorsività è cambiata tra alcuni seguaci di Chomsky.
In un certo senso ciò è un esempio di qualcosa che il filosofo Richmond Thomason diceva
alle persone che cambiavano idea a proposito di un argomento: “Se in un primo momento
non hai successo, ridefinisci il successo.”
La definizione più nuova della ricorsività emersa dalla scuola Chomskyana fa della ricorsività
una forma di composizionalità. Per farla semplice, dice che si possono mettere insieme delle
parti per creare qualcosa di nuovo e questo lo si può fare all’infinito. Sotto questa nuova
nozione di ricorsività, la quale non è accettata da nessun linguista matematico o ingegnere
informatico che io conosca, se io posso mettere insieme delle parole per formare una frase,
questa è ricorsività, e se posso mettere insieme delle frasi per formare un racconto, questa è
ricorsività.
La mia personale reazione a ciò è che sbaglia nel fondere il ragionamento con il linguaggio.
Le persone chiaramente possono mettere delle frasi insieme e poi interpretarle come una
storia. Ma questa è la stessa abilità che gli investigatori di una scena del crimine utilizzano
quando interpretano pezzi di prove apparentemente senza nessun nesso e lia assemblano
fino a formare una storia di come il crimine ha avuto luogo. Questo non è linguaggio, questo
è ragionamento. Eppure ciò che attrae la maggior parte degli scienziati alla teoria
Chomskyana è che essa ha separato ragionamente e linguaggio, e in particolare che
Chomsky ha distinto la struttura delle storie dalla struttura dei periodi e delle frasi. Egli ha
affermato molte volte che le storie e i periodi sono messi insieme tramite principi molto
differenti. Così non riuscire a mantenere questa distinzione nella nuova nozione di ricorsività
è, ironicamente, inconsistente con la stessa teoria di Chomsky, ma in accordo con la mia.
Se sono nel giusto riguardo la mancanza di ricorsività nel Piraha, Chomsky e altri ricercatori
avranno una bella gatta da pelare. Essi devono suggerire come una lingua senza ricorsività
possa adeguarsi ad una teoria in cui la ricorsività è il componente cruciale del linguaggio.
Una spiegazione che Chomsky e gli altri hanno fornito in risposta alla mia affermazione
riguardo la mancanza di ricorsività nel Piraha è che la ricorsività sia uno strumento a
disposizione della mente, ma non deve per forza essere usato. Ma allora è molto difficile
conciliare ciò con l’idea che la ricorsività sia una proprietà essenziale del linguaggio umano,
perchè se la ricorsività non deve apparire in una data lingua, allora, in teoria, non deve
necessariamente apparire in nessuna lingua. Ciò mette i Chomskyani nella non invidiabile
posizione di dover affermare che la più singolare proprietà del linguaggio umano non deve
necessariamente essere trovata nelle lingue umane.
Non è così difficile, in realtà, capire se la ricorsività sia una parte funzionale della
grammatica di una specifica lingua. Semplicemente, la domanda è duplice. Primo, può la
grammatica che scriviamo senza ricorsività rendere più semplice la lingua che studiamo
della grammatica con la ricorsività? Secondo, che tipo di frasi dovremmo trovare se la
grammatica usa la ricorsività? Una lingua senza la ricorsività apparirà differente rispetto a
una lingua con la ricorsività. La principale differenza è che la lingua senza ricorsività non
avrà frasi dentro altre frasi. Se si trova una frase dentro un’altra frase, la lingua usa la
ricorsività, punto. Se non si trovano tali frasi, non è detto che la ricorsività non vi sia, ma
saranno necessarie più informazioni. La prima domanda, quindi, è se ci siano frasi dentro
altre frasi nella lingua Piraha. La risposta è che non ci sono, secondo la argomentazione
standard usata nella linguistica teorica per accertare o no la presenza di ricorsività: mancano
i contrassegni tonali, le parole, o la lunghezza dei periodi di una linua con la ricorsività.

147
Le grammatiche delle lingue del mondo utilizzano vari contrassegni per indicare che una
data struttura è ricorsiva, cioè, che una frase sia dentro un’altra. Questi contrassegni non
sono obbligatori, ma sono molto comuni. Alcuni di questi contrassegni sono parole
indipendenti. In inglese, diciamo frasi come Ho detto che lui stava arrivando. In questo
periodo, la frase lui stava arrivando è posizionata dentro la frase Ho detto…; Lui stava
arrivando è il contenuto di ciò che è stato detto. In inglese, che è un “complementatore”
frequentemente usato per indicare la ricorsività. Se guardiamo a quel complesso di
proposizione relativa che Kohoi mi mostrò, vediamo tre periodi indipendenti, interpretate
insieme, senza un minimo di prova che un periodo sia all’interno di un altro.
Un altro comune indicatore di ricorsività è l’intonazione, l’uso del tono per indicare un diverso
significato e le relazioni strutturali tra i periodi e le loro parti. Le frasi verbali delle
proposizioni principali, per esempio, spesso usa una tonalità più alta in inglese rispetto alla
frasi verbali delle proposizioni subordinate. Per esempio, nella pronuncia più comune della
frase L’uomo che hai visto ieri è qui, è qui usa un tono più alto di hai visto ieri. Questo
accade perchè hai visto ieri è la frase verbale subordinata, o incidentale, mentre è qui è la
frase verbale principale. Ma Io e Robert Van Valin, durante un progetto di tre anni per la
Fondazione Nazionale Scienze dedicato allo studio dell’intonazione e la sua relazione con la
sintassi in cinque diverse lingue amazzoniche, non abbiamo trovato prove che la lingua
Piraha usi l’intonazione come un indicatore alternativo di ricorsività. Ora, l’intonazione nella
lingua Piraha raggruppa periodi insieme in paragrafi e storie, ma ciò non è ricorsività nel
senso grammaticale, almeno non secondo la storia della grammatica Chomskyana (anche
se molti linguisti non sono d’accordo con Chomsky e posizionano i racconti all’interno della
grammatica - non ho nessun disaccordo con queste altre scuole linguistiche in questo
senso). É ricorsività nel ragionamento. Di fatto, molti specialisti del ruolo dell’intonazione nel
linguaggio umano credono che sarebbe ingenuo cercare di collegare l’intonazione
direttamente alla struttura dei periodi piuttosto che al significato dei periodi e come essi
vengano usati nei racconti. Se ciò è corretto, allora l’intonazione non ha niente di conclusivo
da dire riguardo alla presenza o assenza della ricorsività in una lingua.
Confondere linguaggio e ragionamento è, come abbiamo già visto, un errore grave. É facile
confondere i due perchè il ragionamento implica molte delle operazioni cognitive che alcuni
linguisti associano con il linguaggio, inclusa la ricorsività. Il classico articolo di Herbert Simon
del 1962, “L’architettura della complessità”, fornisce un affascinante esempio di ricorsività al
di fuori del linguaggio. L’esempio mostra persino come la ricorsività può aiutare la tua attività
commerciale! L’esempio è degno di una citazione completa:

C’erano una volta due orologiai, di nome Hora e Tempus, che realizzavano orologi molto
pregiati. Entrambi erano tenuti in grande considerazione, e i telefoni delle loro officine
squillavano frequentemente. Nuovi clienti li chiamavano in continuazione. Tuttavia, Hora
prosperava mentre Tempus diventava sempre più povero e infine perse il suo negozio.
Quale fu la ragione?
Gli orologi che gli uomini realizzavano erano costituiti ognuno di circa 1000 parti. Tempus
costruiva i suoi orologi in un modo che qualora avesse dovuto poggiarne uno parzialmente
assemblato - diciamo per rispondere al telefono - l’orologio immediatamente si sarebbe
disassemblato in mille pezzi e lui avrebbe dovuto riniziare tutto da capo. Più i clienti
apprezzavano i suoi orologi più essi continuavano a chiamarlo e più diventava difficile per lui
trovare abbastanza tempo per finire un orologio senza che venisse interrotto.
Gli orologi di Hora non erano meno complessi di quelli di Tempus, ma egli li aveva progettati
in modo che egli poteva assemblare i componenti in gruppi di dieci sottoparti alla volta. Dieci

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di questi sottoparti, di nuovo, potevano essere assemblate a formare sottoparti e un sistema
di dieci di queste sottoparti costituiva l’intero orologio. Dunque, quando Hora doveva
poggiare un orologio parzialmente assemblato per rispondere al telefono, egli perdeva solo
una piccola parte del suo lavoro, e assemblava i suoi orologi in una frazione del tempo che
invece impiegava Tempus.

Questo esempio riguardo la costruzione di orologi non ha niente a che fare con il linguaggio.
Così attraverso questo esempio, e molti altri, sappiamo che il ragionamento umano è
ricorsivo. Infatti sappiamo che molte cose al mondo oltre che gli umani sono ricorsive
(persino gli atomi manifestano gerarchie simil ricorsive nella loro costruzione tramite
particelle subatomiche). La familiare matriosca russa illustra un altro tipo di ricorsività,
conosciuto come nidificazione, dove una bambola è sistemata all’interno di un’altra dello
stesso tipo, e così via.
Una inferenza importante dovuta alla presenza della ricorsività è questa: se una lingua
possiede la ricorsività allora non dovrebbe esserci frase più lunga nella lingua. Per esempio,
in inglese qualsiasi frase pronunciata può essere resa più lunga. Il gatto che mangiò il topo
sta bene può essere estesa in Il gatto che mangiò il topo che mangiò il formaggio sta bene,
e così via.
Crucialmente, nessuno di questi diversi tipi di prove di ricorsività si trova nella lingua Piraha.
La storia a proposito della pantera che Kaaboogi mi raccontò è tipica. Nessuna prova in
nessuna di queste dimensioni si trova in questo o altri testi Piraha riguardo la presenza della
ricorsività nella grammatica.
Ancora più interessante, forse, nell’illustrare la mia teoria contro la ricorsività, è una frase
come la seguente, perchè non vi è nessun modo ovvio di allungarla nella lingua Piraha:
Xahoapioxio xigihi toioxaaga hi kabatii xogii xi mahahaihiigi xiboitopi piohoao, hoihio (Un
altro giorno un uomo vecchio lentamente macellò grandi tapiri a fianco all’acqua, due di
loro). Qualsiasi cosa aggiunta a questa frase, come la parola marrone in grandi tapiri
marroni, renderebbe la frase sgrammaticata. Le frasi possono avere un singolo modificatore
(frasi trovate in racconti naturali - ho alcuni esempi artificiali dove riuscii a far usare ad alcuni
Piraha più modificatori nella frase, ma essi non trovano la cosa naturale e non usano mai più
di un modificatore in una frase di una storia naturale). Un secondo modificatore può
occasionalmente essere inserito alla fine della frase come una riflessione ulteriore o
secondaria - come due di loro alla fine della frase riportata poco più su. Se ciò è corretto,
allora la lingua Piraha è finita e non può essere ricorsiva.
Dovrei confutare un’ultima parte di potenziali prove di ricorsività nel Piraha che sono state
suggerite da alcuni linguisti. Il primo linguista a fare ciò fu il Professor Ian Roberts, direttore
del dipartimento di linguistica alla Cambridge University, durante un dibattito tra noi due
presso un programma radio della BBC, Material World. Egli affermò che la lingua Piraha
deve avere la ricorsività se può aggiungere o ripetere parole o frasi dopo i periodi, perchè,
come disse lui, “la iterazione è una forma di ricorsività”. Logicamente ciò è corretto. Mettere
una frase dentro un’altra alla fine del periodo è matematicamente identico al ripetere
elementi dopo una frase o un periodo. Se io dico, “John dice che egli sta arrivando,” la
proposizione che egli sta arrivando è posizionata all’interno della proposizione John dice…
dopo tutto. Ciò è conosciuto come “ricorsione di coda”. Matematicamente o logicamente ciò
equivale a dire, “John corre, lui lo fa,” dove la frase lui lo fa è solo una frase ripetuta dopo
un’altra frase. La lingua Piraha può, anzi deve, avere una frase di seguito all’altra, come in
“Koxoi soxoa kahapii. Hi xaoxai hiaba” (Koxoi è già andato. Lui non è qui). Ma se una
semplice ripetizione, iterazione, o una frase che ne segue un’altra soddisfa la definizione di

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ricorsività di Hauser, Chomsky, e Fitch, allora essa può essere trovata anche in specie
diverse dall’Homo sapiens.
Il nostro ridgeback della Rhodesia [ndt una razza di cane], Bentley, è una spirito emotivo.
Tra le cose che lo fanno emozionare ci sono gli altri cani che passano vicino alla nostra casa
- egli vuole mangiarseli oppure morderli. Egli abbaia sempre quando questi cani si
avvicinano. Io personalmente non penso che i suoi abbai siano privi di senso. Penso che
egli stia comunicando con il suo abbaiare qualcosa come “Esci subito dal mio territorio”. Ma
non importa ciò che esattamente vuole comunicare - egli sta comunicando qualcosa con il
suo abbaiare. Ora ogni tanto Bentley abbaia una o due volte e poi si interrompe. Questo
accade perchè il cane a cui abbaiava si è allontanato dal prato. Altre volte egli abbaia in
continuazione, cioè, reitera il suo abbaio, e ciò indica l’accrescersi della sua rabbia/desiderio
che l’altro cane si allontani dal nostro prato (o qualsiasi altra cosa significhi). Cosa significa il
suo abbaiare continuativo? Ecco, se la iterazione di per se è una forma di ricorsività, allora
significa che Bentley utilizza la ricorsività nel suo abbaiare. Ma Bentley non è umano. Così la
ricorsività non è limitata agli umani. Oppure, più saggiamente, la iterazione non dovrebbe
essere considerata come ricorsività.
Eppure le ragioni che mi hanno portato ad affermare che la lingua Piraha non possiede la
ricorsività non sono unicamente negative. Dire che una lingua non possiede la ricorsività
indica come apparirà la sua grammatica. Vogliamo analizzare queste previsioni e vedere in
che modo si incastrano quando applicate alla lingua Piraha.
Il pervasivo principio di immediatezza dell’esperienza (IEP) potrebbe spiegare perchè il
Piraha non possiede proposizioni incidentali. Consideriamo di nuovo la proposizione relativa,
ad esempio L’uomo che è alto è sul sentiero. Questo periodo è composto da due
proposizioni più piccole: la proposizione principale, L’uomo è sul sentiero, e la proposizione
incidentale, o subordinata, che è alto. La nuova informazione, o ciò che i linguisti chiamano
l’asserzione, si trova nella proposizione principale, L’uomo è sul sentiero. La proposizione
incidentale aggiunge soltanto alcune vecchie informazioni condivise dal parlante e
l’interlocutore - c’è un uomo alto che entrambi conosciamo - e attira l’attenzione su un
particolare uomo in modo da aiutare l’interlocutore a capire chi sia l’uomo sul sentiero.
Questa non è un’asserzione. Le proposizioni incidentali raramente, se non mai, sono usate
per esprimere un asserzione. Così la IEP predice che la lingua Piraha non avrà proposizioni
incidentali perchè dice che le proposizioni dichiarative potrebbero contenere solo asserzioni.
Contenere una proposizione incidentale sarebbe come contenere una non asserzione, in
violazione della IEP.
Un altro esempio viene dalle frasi La punta della coda del cane è rotta. Questa è una frase
che i Piraha ripetevano spesso, date che molti dei loro cani avevano code danneggiate. Una
sera notai un cane nel villaggio con la punta della coda mozzata. Dissi, “Giopai xigatoi
xaoxio baabikoi,” che pensai fosse il modo giusto per dire, “La punta della coda del cane è
malformata.” Letteralmente significa “Cane punta alla fine è cattiva”. I Piraha risposero,
“Xigatoi xaoxio baabikoi” (La punta della coda è cattiva). Non presi in considerazione
l’omissione in un primo momento perchè le omissioni sono comuni in ogni lingua quando i
parlanti condividono informazioni in comune - non c’è bisogno di riaffermare che si parla di
un cane; lo sappiamo già.
Ma mentre investigavo più a fondo, l’unico modo per ottenere qualcosa come La punta della
coda del cane è rotta, è “Giopai xigatoi baabikoi, xaoxio” (La coda del cane è cattiva, sulla
punta). Ciò che scoprii è che non più di un possessore può essere presente in una frase
(cane è il possessore di coda, per esempio). Se non ci fosse ricorsività nella lingua, ciò
avrebbe senso. Si può avere un possessore senza ricorsività semplicemente avendo la

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conoscenza culturale o linguistica condivisa dai parlanti la quale indica che quando due
sostantivi sono uno affianco all’altro, il primo è interpretato come il possessore. Ma se si
hanno due possessori nella proposizione, uno di essi deve essere in una frase che si trova
all’interno di un’altra frase.
I Piraha non hanno queste strutture. É difficile per molti linguisti vedere come la cultura
potrebbe essere responsabile di ciò. E sono d’accordo che il percorso che porta da un
vincolo culturale alle frasi nominali complesse può sembrare un po tortuoso.
Iniziando dalle proposizioni subordinate, la prima cosa da ricordare è che secondo la IEP, la
proposizione incidentale non è permessa perchè non è una asserzione. La domanda che ciò
fa sorgere è come la grammatica del Piraha ha potuto eliminare le indesiderate proposizioni
incidentali al fine di obbedire ad un taboo culturale.
Ci sono tre modi in cui avrebbe potuto far ciò. Primo, la grammatica potrebbe proibire
l’emergere di regole che creano strutture ricorsive - regole che sono tecnicamente espresse
come A -> AB. Se la grammatica non contiene tale regola, non può posizionare una frase o
proposizione immediatamente all’interno di un’altra frase o proposizione dello stesso tipo.
Secondo, la grammatica potrebbe non esser riuscita a sviluppare la ricorsività. Vi è un
crescente consenso tra i linguisti riguardo al fatto che le grammatiche senza ricorsività
precedono le grammatiche con la ricorsività evoluzionisticamente e che anche nelle
grammatiche con la ricorsività, strutture non ricorsive sono usate nella maggior parte dei
contesti.
Una ultima possibilità è che la grammatica Piraha semplicemente non riesce a fornire una
struttura nelle proposizioni. Non vi sarebbe recorsività perchè in effetti non vi sarebbero
frasi, solo parole posizionate una affianco all’altra e interpretate come una proposizione.
Senza la sintassi, la grammatica Piraha non avrebbe frasi verbali, frasi nominali,
proposizioni incidentali, e così via. Di fatto sembra possibile interpretare tutte le proposizioni
Piraha come perle lungo un filo, senza bisogno di strutture più complesse del tipo quale le
strutture delle frasi predirrebbero. Una frase sarebbe semplicemente la lista di parole
necessaria a completare il significato di un verbo, più un minimo di modificazione,
solitamente non più di un modificatore per proposizione che sia un aggettivo o un avverbio.
La lingua Piraha non avrebbe la sintassi, secondo la mia tesi piuttosto estrema, per garantire
che le non asserzioni non appaiano all’interno delle proposizioni dichiarative, violando la
IEP. La IEP permette alle proposizioni dichiarative di contenere solo asserzioni. Dunque la
IEP vincola la grammatica della lingua Piraha.
Si prenda la originale proposizione relativa che sentii Kohoi pronunciare: “Hey Paita, porta
indietra alcuni chiodi. Dan comprò quei chiodi. Essi sono gli stessi.” Ci sono due asserzioni
qui, Dan comprò i chiodi e i chiodi sono gli stessi. Ma nella relativa inglese i chiodi che Dan
comprò, non vi è asserzione. Così il principio di immediatezza dell’esperienza è violato.
Se i miei ragionamenti qui sono sulla giusta strada, quali altri predizioni si possono fare
riguardo la grammatica Piraha? Esattamente le predizioni corrette, a quanto pare.
Si può predirre che il Piraha non avrà coordinazione, perchè essa usa la proprietà generale
della ricorsività, cosa che è stata eliminata dalla grammatica del Piraha, come abbiamo
discusso, al fine di evitare di avere proposizioni incidentali non assertive nelle dichiarative
assertive. Le strutture di coordinazione sono ovviamente comuni in inglese e in molte altre
lingue. La loro ricorsività è mostrata in esempi come John e Bill vennero in città ieri, dove i
sostantivi John e Bill entrambi sono posizionati nella più lunga frase nominale John e Bill. La
coordinazione dei verbi e dei periodi è pure esclusa, così la lingua Piraha non possiede frasi
come Bill corse e Sue guardò oppure Sue corse e mangiò.

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La restrizione della IEP nei riguardi della ricorsività inoltre predice correttamente che il
Piraha non avrà la disgiunzione, come in O Bob o Bill verranno, Io ho preso della carne
bianca, pollo o maiale, e così via. Il Piraha non ha la disgiunzione perchè essa, come la
coordinazione, richiede il mettere delle frasi all’interno di altre frasi - ricorsività. I Piraha
direbbero, ad esempio, piuttosto che “O Bob o Bill verranno,” qualcosa del tipo, “Bob verrà.
Bill verrà. Hmm. Non lo so.”
Ciò non esaurisce le conseguenze prevedibili della mancanza di ricorsività nel Piraha. Altre
predizioni stanno venendo verificate da numerosi psicologi e antropologi. Ciò è interessante
perchè il fatto che vi siano predizioni verificabili frutto del principio dell’immediatezza
dell’esperienza mostra che ciò non sia semplicemente una constatazione negativa riguardo
a quello che la lingua Piraha non ha, ma una constatazione positiva riguardo la natura della
grammatica Piraha e come questa grammatica differisca da molte grammatiche meglio
conosciute.
La constatazione è positiva perchè il Piraha impone e rinforza un valore culturale sulla sua
grammatica. Non è che, di nuovo, semplicemente la lingua Piraha non abbia
accidentalmente la ricorsività. La lingua Piraha non vuole la ricorsività; non la permette a
causa di un principio culturale.
Oltre la grammatica Piraha, la IEP aiuta a spiegare le altre lacune che abbiamo discusso,
come l’assenza dei numeri e dei numerali, l’assenza delle parole per i colori, la semplicità
del sistema di parentela, e così via.
La proibizione riguardo le astrazioni e le generalizzazioni da parte del principio di
immediatezza dell’esperienza è una proibizione molto stretta. Tale proibizione non comporta
in alcun modo che la cultura Piraha proibisca il pensiero astratto. Altrettanto non è una
proibizione verso tutte le astrazioni o generalizzazioni nel linguaggio. Per esempio, i Piraha
hanno parole per tipo di categorie di cose, come tutte le lingue, e queste parole, di solito
sostantivi, sono per definizione un tipo di astrazione. Come viene tollerata questa apparente
contraddizione nella lingua Piraha?
La grammatica mi sembrava una volta troppo complicata per poter derivare qualsiasi
proprietà cognitiva umana. Mi appariva bisognosa di un componente specializzato del
cervello, o ciò che alcuni linguisti chiamano organo del linguaggio o istinto. Ma tale organo
diventa implausibile se possiamo mostrare che non ve ne sia il bisogno perchè ci sono altre
forze che possono spiegare il linguaggio come fatto sia ontogenetico che filogenetico.
Come la maggior parte dei linguisti oggi, una volta credevo che la cultura e il linguaggio
fossero largamente indipendenti. Ma se è corretto che la cultura può esercitare influenze
importanti sulla grammatica, allora la teoria a cui ho dedicato la maggior parte della mia
carriera da ricercatore - la teoria percui la grammatica è parte del genoma umano e che le
variazioni nelle grammatiche delle lingue del mondo sono largamente insignificanti - è
completamente sbagliata. Non è necessario che ci sia una specifica capacità genetica per la
grammatica; le basi biologiche della grammatica potrebbero anche essere le basi della
cucina gourmet, del ragionamento matematico, e degli avanzamenti medici. In altre parole,
potrebbe semplicemente essere il ragionamento umano.
Riguardo l’evoluzione grammatica, per esempio, molti ricercatori sottolineano il fatto che i
nostri antenati dovevano parlare a proposito di cose e di eventi, di quantità relative, e a
proposito dei contenuti delle menti degli altri esemplari della specie, tra le altre cose. Se non
si può parlare delle cose e di ciò che accade loro (eventi) o di come esse appaiono (stati),
non si può parlare di niente. Così tutte le lingue hanno bisogno di verbi e sostantivi. Ma sono
stato convinto dalle ricerche di altri, e anche dalle mie, che se una lingua possiede verbi e
sostantivi, allora lo scheletro base della grammatica si attiene largamente ad essi. I

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significati dei verbi richiedono un certo numero di sostantivi, e questi sostantivi insieme al
verbo fanno le proposizioni semplici, ordinate in modi logicamente limitati. Altre modifiche di
questa grammatica fondamentale vengono dalla cultura, l’importanza constestuale, e la
modificazione di sostantivi e verbi. Ci sono altre componenti della grammatica, ma non poi
così tanti. Così, iniziavo a pensare che non sembrasse ci fosse tanto bisogno di una
grammatica che sia adatta al ruolo di essere parte del genoma umano, per così dire. Forse
c’è ancora meno bisogno della grammatica come entità indipendente di quanto avessimo
mai pensato.
Anche se una lingua può possedere forti vincoli culturali, come il principio di immediatezza
culturale del Piraha, questi vincoli non possono prevalere sulle generali forze e risultati
dell’evoluzione nè della natura di ciò che significa comunicare. I sostantivi e certi tipi di
generalizzazioni sono parte della nostra eredità evolutiva e i principi culturali non possono
prevalere su ciò, anche se essi mostrano che la cultura e la grammatica sono intimamente
connesse.
D’altra parte, la ricerca continua. Se la lingua Piraha abbia o non abbia la ricorsività è un
dibattito lontano dall’esser conlcuso. Ma le prove raccolte e interpretate da ricercatori
indipendenti sono consistenti con le mie conclusioni.
Un fenomeno che ha attratto la mia attenzione sin da quando iniziai la mia riflessione sulle
possibili connessioni tra grammatica e cultura è che le teorie, a prescindere da quanto esse
siano utili, possono impedire il pensiero innovativo. Le nostre teorie sono come le culture.
Così come vi sono delle lacune nella lingua Piraha riguardo al contare, le parole di colore, e
così via, alcune teorie possono avere lacune dove altre teorie potrebbero avere robusti
meccanismi esplicativi. In questo senso sia le teorie che le culture modificano l’abilità delle
nostre menti di percepire il mondo, a volte positivamente e a volte non tanto positivamente,
a seconda degli obiettivi che si pongono.
Quali sono le implicazioni per la grammatica Piraha non avendo essa la ricorsività? Prima di
tutto, la mancanza di ricorsività nella grammatica vorrebbe dire che la sua grammatica non è
infinita - ci sarebbe un limite al numero di frasi generabili. Ma ciò non significa che la lingua
sia finita, perchè la ricorsività è presente nelle storie Piraha - ci sono parti di storie, ci sono
sottotrame, personaggi, eventi, ed ogni sorta di relazione tra essi. Ciò è interessante perchè
significa che il ruolo della grammatica nell’infinità di una lingua non è importante - si possono
avere lingue non finite con una grammatica finita, qualcosa che la recente teoria di Chomsky
sull’importanza della ricorsività non permette nè chiarisce. Ciò comporterebbe che si possa
specificare la dimensione superiore di una frase in tale lingua, anche se non la dimensione
superiore di un discorso. Ciò sembra bizzarro per una lingua. Alcuni linguisti o scienziati
cognitivi potrebbero persino saltare alla conclusione che un assenza di ricorsività potrebbe
lasciare una lingua carente in un certo modo. Ma ciò non sarebbe corretto.
Anche se una la grammatica di una lingua è finita, ciò non significa che la grammatica non
sia ricca o interessante. Si pensi a qualcosa come gli scacchi, i quali pure hanno un numero
finito di mosse. Questa finitezza delle mosse degli scacchi non ha particolari effetti pratici
però. Gli scacchi sono un gioco incredibilmente produttivo che può ed è stato giocato per
secoli. Il fatto che gli scacchi siano finiti ci dice molto poco riguardo la sua ricchezza o la sua
importanza. Il discorso Piraha è ricco, artistico, e capace di esprimere qualsiasi cosa essi
vogliano dire all’interno dei parametri autoimposti.
Così se vi fosse una grammatica finita, ciò non significherebbe che tale grammatica sia
parlata da umani abnormi, e neanche che sia una cattiva fonte di comunicazione. Non
vorrebbe neanche dire che la lingua che possiede tale grammatica sia finita. Se ci fossero
tali lingue, però, dove e sotto quali condizioni dovremmo aspettarci di trovarle?

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Se si include tra le basi della tua teoria il vincolo percui tutte le grammatiche sono non finite
e che perciò esse devono essere ricorsive, l’assenza della ricorsività ti sfuggirà. La tua teoria
ti ostacolerà, così come la mia mancanza di esperienza con gli animali selvaggi al di fuori
dello zoo potrebbe rendermi facile preda di un caimano.
D’altra parte, se la tua teoria non richiede che la ricorsività sia un componente cruciale del
linguaggio, da dove viene la ricorsività? Nessuno può negare che essa si trovi nella maggior
parte delle lingue umane. Neanche si può dubitare che essa si trovi in tutto il pensiero
umano. Il mio punto di vista è che la ricorsività viene dai poteri cognitivi generali del cervello.
É parte di come tutti gli umani pensano - persino quando non è parte della struttura delle
loro lingue. Gli umani possiedono la ricorsività perchè sono più intelligenti delle specie che
non la possiedono, anche se la ricorsività potrebbe essere una causa o un effetto di questa
grande intelligenza - nessuno lo sa al momento, nonostante ciò che si affermi nella
letteratura al riguardo.
Di fatto, come abbiamo visto precedentemente, Herbert Simon affermò quasi la stessa
identica cosa in “Architettura della Complessità”. Come ho indicato, in questo articolo egli
sosteneva che le strutture ricorsive sono fondamentali per processare le informazioni e che
le usiamo non solo nel linguaggio, ma anche nell’economia e nel risolvere i problemi.
E la ricorsività è cruciale in quasi tutte le storie che raccontiamo. Sorprendemente, i discorsi
umani non sono mai stati oggetto di studi delle ricerche Chomskyane. Ma come abbiamo
appena visto, questa è una grossa svista, dato che la ricorsività può essere trovata all’infuori
della grammatica, riducendo tremendamente l’importanza della grammatica nella
comprensione della natura del linguaggio e della comunicazione. I discorsi sono
intenzionalmente ignorati da Chomsky come costrutti sociali o almeno non linguistici. Eppure
quando esaminiamo le storie che i Piraha raccontano, troviamo la ricorsività, non nelle frasi
individuali, ma nel fatto che le idee sono costruite all’interno di altre idee - alcune parti della
storia sono subordinate ad altre parti della storia. Questo tipo di ricorsività non è
propriamente parte della sintassi, ma è parte del modo in cui essi raccontano le storie.
Potremmo proporre, seguendo Simon, che la ricorsività è assolutamente essenziale al
cervello umano, e che deriva dal fatto che gli umani abbiano cervelli più grandi o cervelli con
più connessioni rispetto alle altre specie. Infine, però, non è chiaro se la ricorsività sia unica
degli umani. E certamente non è chiaro che la ricorsività sia parte della grammatica,
piuttosto che uno strumento cognitivo preesistente utilizzato dal linguaggio perchè utile.
La cruciale applicazione delle teorie di Simon sugli studi del linguaggio è che le strutture
gerarchiche trovate nelle lingue che sono state per così a lungo oggetto delle ricerche
Chomskyane siano proprietà “emergenti”, piuttosto che proprietà di base del linguaggio.
Ossia, esse appaiono nel linguaggio in risposta all’interazione tra l’abilità cerebrale di
pensare ricorsivamente e i problemi o situazioni in una cultura o società che sono più
efficientemente comunicate con la ricorsività.
Se la ricorsività viene proposta, come Chomsky e molti dei suoi seguaci preferirebbero,
come la facoltà essenziale della capacità del linguaggio umano, e se la ricorsività è assente
in una o più lingue, allora la tesi Chomskyana è falsa. Ma se la ricorsività non è la facoltà
essenziale, allora il Piraha suggerisce che la teoria del linguaggio di cui abbiamo bisogno
non è quella in cui il linguaggio è un istinto. Invece, potremmo trovare una via migliore
guardando alla sintassi, insieme agli altri componenti del linguaggio, come una parte della
soluzione al problema della comunicazione, cioè, il bisogno di comunicare appropriatamente
in uno specifico contesto.
Dubito che il Piraha sia l’unica lingua che sfiderà la nostra conoscenza riguardo la ricorsività,
riguardo il linguaggio umano, e riguardo l’interazione tra cultura e grammatica. Se

154
guardiamo ad altri gruppo - gruppi in Nuova Guinea, Australia, e Africa - è probabile che
troveremo casi simili di comunicazione esoterica e di società di intimi che potrebbero portare
alla mancanza di ricorsività. La comunicazione esoterica potrebbe contribuire alla nostra
spiegazione di alcuni degli aspetti più controversi della grammatica Piraha.
L’utilità del concetto della comunicazione esoterica nella comprensione del Piraha è
dimostrata in parte nell’attuale studio degli psicologi Thomas Roeper dell’Università del
Massachusetts e Bart Hollebrandse dell’Università di Groningen. Questo studio suggerisce
che la ricorsività potrebbe essere uno strumento che è utile per impacchettare frasi con
molte informazioni in società con un grado più alto di comunicazione essoterica dove
informazioni più complesse sono la regola, come le società moderne industrializzate. Ma in
società come quella dei Piraha, le natura esoterica delle loro comunicazioni rende la
ricorsività meno utile, mentre il principio di immediatezza dell’esperienza è incompatibile con
tale ricorsività.
Quel che dobbiamo cercare sono gruppi che sono rimasti isolati, per varie ragioni, dalle
culture più estese. L’isolamento dei Piraha è dovuto al loro forte senso di superiorità e
disprezzo per le altre culture. Non pensando affatto a se stessi come inferiori a causa delle
mancanze della loro lingua o della loro cultura, essi considerano il loro stile di vita il migliore
possibile. Non sono interessati nell’assimilare altri valori. Così vediamo piccole infiltrazioni di
altre culture o lingue nel Piraha. E questi sono i tipi di abbinamenti lingua-cultura che
dobbiamo studiare.
Un modo per descrivere l’uso creativo del linguaggio è che il linguaggio umano, senza
referenza alla ricorsività, è libero dal controllo dell’ambiente e non è ristretto da funzioni
meramente “pratiche”. Il linguista americano Charles Hockett ha chiamato ciò la
“produttività” del linguaggio. Possiamo parlare di qualsiasi cosa, in principio, come la
saggezza ricevuta ci dice.
Ovviamente, nella pratica ciò è falso. Non possiamo parlare di qualsiasi cosa. Ignoriamo la
maggior parte delle cose che esistono. Non sappiamo nemmeno che esistano. Per di più,
molte cose che facciamo o che incontriamo tutti i giorni, come i volti delle persone che
abbiamo visto, la direzione verso un ristorante, e così via, possono essere argomenti molto
difficili. É per questo che troviamo mappe e immagini e altri aiuti visivi così utili.
Nonostante ciò, l’idea della creatività nel linguaggio è stata giustamente influente per quasi
quattro secoli. Vi è un qualcosa di ovviamente allettante nella nozione che gli umani siano
speciali e che siano, almeno nelle loro menti, sciolti dalle limitazioni affliggono il resto del
regno animale. Il filosofo francese René Descartes, che Chomsky ha reso popolare tra i
linguisti, credeva che ci fosse una essenza creativa mentale che distingue gli umani dagli
animali. E intorno a questa idea si trova il concetto per cui gli uomini hanno un’essenza
spirituale oltre la loro struttura fisica. Questo dualismo porta con se un’idea di “respiro
Divino”, cioè, che il linguaggio umano sia profondamente “speciale”, l’idea che qualcosa
animi la forma fisica dell’uomo, il mero involucro che funge da casa alle nostre coscienze.
Invece di questo dualismo quasi religioso e simil mistico che sta alla base di molto del lavoro
di Descartes e, in alcuni studi, di Chomsky, io proporrei una comprensione più concreta del
linguaggio. Il linguaggio è un sottoprodotto delle proprietà generali della cognizione umana,
piuttosto che una speciale grammatica universale, in congiunzione con i vincoli della
comunicazione che sono comuni ai primati evoluti (come il bisogno per le parole di venir
fuori dalla bocca in un certo ordine, il bisogno di unità come le parole per oggetti e eventi, e
così via), e i vincoli globali delle specifiche culture umane sul linguaggio che si evolve da
loro. É chiaro che le originali circostanze culturali possono essere perdute. Per esempio, un
Piraha che si trasferisca e che si adatti alla vita di Los Angeles perderebbe molti dei vincoli

155
culturali dei Piraha che vivono nel Maici. La sua lingua potrebbe cambiare. Ma se così non
fosse, almeno inizialmente, ciò mostrerebbe ce le lingue sono si separate dalle culture.
Ciò che sto suggerendo qui è il cercare di comprendere il linguaggio in una situazione più
vicina possibile al contesto culturale originario. Se ciò è corretto, non si può fare ricerca
linguistica sul campo senza questi contesti culturali - così non potrei sperare di capire il
Piraha attraverso un parlante Piraha a Los Angeles, o capire il Navajo studiando un parlante
Navajo a Tucson. Avrei bisogno di studiare una lingua nel suo contesto culturale. Potrei
studiare una lingua fuori dal suo contesto culturale ovviamente, e scoprire comunque molte
cose interessanti. Ma pezzi fondamentali del puzzle della sua grammatica mancherebbero.

16 Teste storte e teste dritte: prospettive su linguaggio e verità

La lingua e la cultura Piraha iniziarono ad attrarre l’attenzione di alcuni antropologi brasiliani


poco dopo la spedizione con il FUNAI per mappare la riserva Piraha. Uno studente
laureando, un giovane uomo di Rio de Janeiro, mi contattò per richiedere il mio aiuto per
lavorare con i Piraha. Per sostenere il suo progetto di stabilirsi tra i Piraha, registrai una
cassetta in lingua Piraha, presentando lo studente agli abitanti del villaggio, dicendo loro che
lo studente voleva imparare la loro lingua, e chiedendo di costruire una casa per lui. I Piraha
sentirono la mia voce fuoriuscire dal registratore audio e pensarono fosse una radio
trasmittente, uno strumento con cui hanno familiarità.
Dopo aver fatto sentire la mia registrazione e avendo iniziato le sue ricerche, chiese ai
Piraha domande riguardo la creazione del mondo. Ritornando dal villaggio in città, venne a
visitarmi un giorno a Sao Paulo per mostrarmi i suoi risultati. Sedemmo gustando dei
cafezinhos per sentire le registrazioni.
“Avevi torto, Daniel” esclamò, non riuscendo a contenere l’eccitazione, prima che potessimo
sentire le registrazioni.
Smisi di bere il mio cafezinho. “In che senso avevo torto?”
“Ho trovato un mito della creazione,” disse lui con un sorriso. “Tu avevi detto che non ce
n’erano, ma io ne ho scoperto uno. Puoi ascoltare la registrazione ed aiutarmi a tradurlo?”
Parte del motivo per cui questo studente avevo deciso di fare la sua tesi di laurea sui Piraha
era perchè aveva sentito le mie dichiarazioni riguardo all’assenza di miti della creazione tra i
Piraha, ossia, non hanno storie riguardo il passato - da dove vengono, come il mondo fu
creato, e così via.
“OK, sentiamo la registrazione,” risposi, molto incuriosito.
Mettemmo il nastro. Esso iniziò con la voce dello studente di antropologia, che paralva con
un uomo Piraha vicino al registratore, in portoghese. Lo studente non conosceva che poche
parole Piraha, così fu costretto a condurre le interviste in portoghese, anche se pochi Piraha
parlavano appena più che poche parole in portoghese.

Studente: “Chi ha fatto il mondo?”


Uomo Piraha: “Il mondo…” (ripetendo solo le ultime due parole della domanda).
Studente: “Come è stato fatto il mondo?”
Uomo Piraha: “Mondo fatto…”
Studente: “Cosa venne prima? Prima?”
Silenzio piuttosto lungo.
Voce Piraha in sottofondo, ripetuta subito dall’uomo vicino al microfono: “Banane!”
Studente: “E dopo? Secondo?”

156
Voce Piraha in sottofondo: “Papaya…”
Uomo Piraha vicino al microfono: “Papaya” - poi rumorosamente, con fare più energico:
“Hey, Dan! Mi senti? Voglio dei fiammiferi! Voglio dei vestiti. Il mio bambino sta male. Ha
bisogno di medicine.”

I Piraha nel resto della registrazione procedettero a rivolgersi a me raccontandomi del


villaggio, di chi fosse li presente, di cosa volessero, chiedendomi quando sarei tornato, e
così via. Lo studente aveva pensato che questa parte della registrazione, che era
chiaramente fluente ed animata, fosse il loro mito della creazione. Ma i Piraha sapevano
solo che io potevo sentirli utilizzando alcuni strumenti che loro avevano visto, come il
telefono e la radio, così pensarono che la comunicazione attraverso ogni strumento
elettronico, come il registratore audio, funzionasse alla stessa maniera. Essi stavano
parlando a me, non rispondendo le domande dello studente. Il ragazzo sembrò prendere la
notizia con spirito, anche se con evidente stupore per il fatto che potesse essersi sbagliato
così ingenuamente (spesso troviamo ciò che cerchiamo anche quando ciò non esiste). In
ogni caso a quel punto aveva realizzato di non avere a disposizione abbastanza tempo per
stare tra i Piraha e imparare la loro lingua e che questa ricerca sarebbe stata lavoro più
difficile di quel che aveva immaginato.
Il problema che il mio amico stava affrontando era che egli parlava “testa storta”
(portoghese) mentre cercava di comunicare con “teste dritte.” Ma non è forse questo il
problema che tutti affrontiamo nella comunicazione - andare oltre le barriere delle nostre
stesse convenzioni comunicative e provare a vedere le cose con la prospettiva di altre
convenzioni? Questo problema lo si trova nella scienza così come nelle nostre vite private e
professionali, tra mariti e mogli, tra genitori e figli, tra dirigenti ed impiegati. Spesso
pensiamo di sapere ciò di cui il nostro interlocutore sta parlando, e scoprire poco dopo
quando esaminiamo la conversazione più attentamente che abbiamo frainteso gran parte di
essa.
Cosa ci dicono questi tipi di fraintendimenti a proposito della natura della nostra mente, del
nostro linguaggio, e di chi siamo come Homo sapiens? Per scoprirlo, dobbiamo brevemente
deviare verso una discussione sulla natura della conoscenza e dell’umanità, di cui questa
falsa storia del mito della creazione è il catalizzatore. Lo scopo di questa deviazione è porre
le basi per questioni più grandi di quelle che studiare la lingua Piraha ci ha messo davanti.
Parliamo sopra uno sfondo di assunzioni che formano l’affresco della nostra cultura. Quando
il mio amico mi dice di voltare a sinistra all’incrocio, egli non ha bisogno di aggiungere,
“Fermati appena prima della linea bianca e aspetta che il semaforo diventi verde.” Egli sa
che io so ciò, essendo membro della mia cultura. Allo stesso modo, quando un padre Piraha
dice al figlio di sparare ad un pesce nel fiume, non ha bisogno di dirgli di sedere immobile in
una canoa per ore o di sparare appena sotto il pesce per compensare la rifrazione della luce
- sedere immobile e aggiustare il tiro per la rifrazione sono capacità acquisite culturalmente
e sono conosciute implicitamente tra i Piraha; esse non hanno bisogno di essere dette
apertamente.
Per i Piraha, come per tutti noi, la conoscenza è esperienza interpretata attraverso la cultura
e la psiche individuale. La conoscenza richiede testimoni oculari per i Piraha, ma essi non
assoggettano questa testimonianza ad una “revisione del popolo”. Se io tornassi al villaggio
e raccontassi di aver visto un pipistrello con un'apertura alare di sei metri, la maggior parte
dei Piraha non mi crederebbero immediatamente. Ma potrebbero andare loro stessi a dare
un’occhiata solo per curiosità. E se io raccontassi di aver visto un giaguaro trasformarsi in
uomo, essi mi chiederebbero il luogo, a che ora, e come ciò sia successo. Non c’è in linea di

157
principio autorità più in alto della mia testimonianza oculare. Ciò non significa che non si
possa mentire. Mentire è cosa comune tra i Piraha, francamente, come in tutte le società
(mentire possiede utili funzioni evolutive, come il proteggere se stessi e la propria famiglia).
Nonostante ciò, la conoscenza è la spiegazione delle esperienze personali, la spiegazione
che viene considerata più utile.
In questo senso, l’attitudine dei Piraha nei confronti della conoscenza, della verità, e di Dio è
simile alla filosofia del pragmatismo che emerge dai scritti di William James, C.S. Peirce, e
altri - essa stessa influenzata dal concetto di tolleranza delle differenze fisiche e culturali dei
popoli indigeni del Nord America. I Piraha e il pragmatismo condividono l’idea che il compito
della conoscenza non sia il fatto che essa sia vera o no ma se essa sia utile. Essi vogliono
sapere cosa devono sapere al fine di agire. E la conoscenza che serve per agire si basa
principalmente su concezioni culturali di azioni utili, delle quali le teorie sono parte. Così una
cultura ci è utile quando ci troviamo nel luogo dove la cultura si è sviluppata.
Quando ci troviamo in un territorio nuovo, però, luoghi della mente o del corpo per i quali la
nostra cultura non ci ha preparato, la nostra cultura può trasformarsi in un impedimento.
Come esempio di come la mia cultura mi ha così inadeguatamente preparato per alcuni
ambienti, ricordo una notte in cui camminavo con un adolescente Piraha, Kaioa. Stavamo
camminando dopo il tramonto dalla sua capanna fino a casa mia, circa 500 metri lungo uno
stretto sentiero di giungla che attraversava un acquitrino poco profondo. Stavo parlando a
voce alta a Kaioa e mi guidavo per il sentiero usando la torcia elettrica. Kaioa era appena
dietro di me, sena torcia. All’improvviso interruppe i miei discorsi e disse sottovoce, “Guarda
il caimano li avanti!”
Io diressi il fascio di luce lungo il sentiero. Non vidi niente. “Spegni quella cosa che illumina
che hai in mano,” Kaioa suggerì, “e guarda al buio”.
Seguii le sue istruzioni. Adesso davvero non vedevo niente.
“Di che parli?” chiesi, iniziando a credere che mi stesse prendendo in giro. “Non c’è niente li
davanti.”
“No! Guarda!” Kaioa ridacchio. La mia inabilità di vedere oltre il mio naso è fonte costante di
ilarità tra i Piraha. “Vedi quei due occhi comesangue lassù?”
Sforzai gli occhi e subito, proprio li, potevo distinguere due punti rossi a circa 30 metri più
avanti. Kaioa disse che quelli erano gli occhi di un piccolo caimano. Egli raccolse un pesante
bastone dall’oscura vegetazione della giungla e corse in avanti. Dopo un paio di secondi
potei sentire il bastone colpire qualcosa ma non riuscivo a vedere niente. Poco dopo, Kaioa
tornò indietro ridendo e trasportando per la coda un caimano di un metro, colpito fino a fargli
perdere conoscenza ma non ancora morto. Il piccolo caimano apparentemente era venuto
fuori dall’acquitrino per cacciare rane e serpenti nei cespugli li attorno. Era improbabile che
fosse un pericolo per noi. Eppure, avrebbe potuto staccarmi a morsi un dito o squarciarmi la
gamba, se avessi continuato a chiaccherare e camminare senza fare attenzione.
Persone urbane come me si aspettano di trovare macchine, biciclette, e pedoni ad intralciare
il sentiero, non rettili preistorici. Non sapevo cosa aspettarmi quando camminavo
rapidamente lungo un sentiero della giungla. Questa fu un’altra lezione a proposito della
cognizione e della cultura, anche se al momento non e ne accorsi. Tutti percepiamo il
mondo nel modo in cui la nostra cultura ci ha insegnato. Se le nostre percezioni vincolate
dalla cultura ci ostacolano, però, allora per il particolare ambiente in cui questo succede, la
nostra cultura oscurerà le nostre percezioni del mondo e sarà per noi uno svantaggio.
Un’altro giorno stavo nuotando con il mio insegnante, kohoibiiihiai, nel fiume proprio di fronte
alla mia casa. Stavamo parlando e rinfrescandoci, completamente rilassati, quando alcune
donne arrivarono al fiume appena più giu rispetto a noi. Avevano una scimmia morta che era

158
stata appena abbrustolita sul fuoco, la sua pelliccia era bruciata e la pelle annerita. Le sue
mani e i suoi piedi erano già stati rimossi per darli ai bambini come snack. Poggiando il
primate carbonizzato sulla riva, una delle donne procedette ad squartarlo dal ventre fino al
petto e senza cerimonie iniziò a tirare fuori le interiora con le mani. Quandò fini questo
lavoro, tagliò le braccia e le gambe dell’animale e lavò tutto il sangue nel fiume. Poi gettò la
grigia massa di interiora nell’acqua del fiume e fece la strada indietro sino al villaggio. Notai
poco dopo che nell’acqua si stava creando della schiuma.
“Cosa è quello?” chiesi a Kohoi.
“Baixoo” (Piranha), rispose lui. “Gli piace mangiare il sangue e le interiora.”
Ero preoccupato. Avrei dovuto nuotare vicino a quella schiuma per uscire fuori dall’acqua. E
se i piranhas avessero iniziato a mordermi?
“Non proveranno a mangiarci?” chiesi.
“No. Solo le interiora di scimmia,” Kohoi rispose mentre giocava allegro con l’acqua.
Annunciò brevemente che stava uscendo dall’acqua.
“Anch’io!” dissi, standogli più vicino possibile, sollevato quando finalmente misi piede sulla
riva.
La mia cultura sud Californiana mi aveva preparato ad avere una certa immagine dei
piranha, anche se non particolarmente accurata. Ma non mi aveva preparato a riconoscerli
nell’ambiente selvaggio della giungla. E non mi aveva preparato a rimanere calmo intorno a
loro, e rimanere calmo nella giungla può fare la differenza tra vita e morte.
Come le società urbane, le società letterarie non preparano i propri membri alla vita tra la
giungla, la cultura Piraha basata sulla giungla non li prepara ai ritmi della vita urbana. I
Piraha non riescono a percepire cose che persino un bambino nella società occidentale
percepirebbe. Per esempio, i Piraha non riescono a percepire bene oggetti bidimensionali,
come i disegni o le fotografie. Essi spesso mantengono tra le mani le fotografie a testa in giù
o di lato, e mi chiedono cosa dovrebbero riuscire a vedere su tali oggetti. Stanno migliorando
col tempo, ma ancora non è cosa facile per loro.
Recentemente una squadra del MIT e di Stanford ha compiuto degli esperimenti riguardo la
percezione dei Piraha delle rappresentazioni bidimensionali. Questi esperimenti
comprendevano l’osservare fotografie in perfette condizioni e fotografie usurate in vari modi.
La squadra poi raccontò le loro scoperte:

Mentre i Piraha riuscirono a interpretare perfettamente le fotografie inalterate, essi ebbero


difficoltà ad interpretare le immagini trasformate, persino quando esse erano di fianco alla
fotografia originale (un risultato completamente differente dal comportamento mostrato dagli
studi sul controllo con i partecipanti americani). Mentre in modo preliminare, questo studio
fornisce prove suggestive riguardo una difficile (o inesperta) capacità di astrazione visuale…

La cultura è perciò importante persino in qualcosa apparentemente così universale e


semplice come osservare delle fotografie. Quanto potrebbe essere importante allora in
attività più generali? Ho dato in precedenza alcuni esempi dell’importanza della cultura in
attività quotidiane nella mia esperienza. Ma ci sono anche numerosi esempi della sua
importanza in attività quotidiane tra i Piraha.
Nel 1979, mentre Keren si stava riprendendo dalla malaria, portai due uomini Piraha a Porto
Velho per continuare a imparare la lingua, dato che non potevo ritornare al villaggio. Questi
due uomini possedevano solo un singolo paio di calzoncini corti ognuno ed erano coscienti
della differenza tra loro e la popolazione metropolitana brasiliana. Nella giungla, i brasiliani
che i Piraha vedevano erano solitamente commercianti fluviali, i quali solitamente

159
indossavano anch’essi calzoncini corti e ciabatte, almeno durante il lavoro. Ma nella città, i
vestiti erano molto più elaborati - specialmente gli abiti con colori accesi delle donne
brasiliane.
Stando in città con me, Xipoogi e Xahoabisi mi fecero un sacco di domande a proposito
delle donne brasiliane. Poi mi chiesero se potessi comprar loro delle scarpe, dei pantaloni
lunghi, e delle camicie così da potersi sentire a proprio agio in città. Così andammo nella vià
dei negozi di Porto Velho, Sete de Setembro, a comprare dei vestiti. Chiacchieravamo
camminando. Loro mi facevano un sacco di domande sulle macchine (“Chi ha fatto quelle
case? Vanno veloce!”), sui palazzi (“Chi ha fatto quelli? Di sicuro i brasiliani sanno come
costruire le case!”), sull’asfalto (“che cos’è questo terreno dure e nero?”), e sui brasiliani in
generale (“Dove cacciano il loro cibo?”, “Chi produce tutte queste cose che vediamo?”).
I passanti fissavano questi Indiani scalzi e a petto nudo. i Piraha fissavano a loro volta i
passanti. Xipoogi e Xahoabisi pensavano che le pulite, ben profumate, donne brasiliane con
vestiti colorati fossero bellissime. Si domandarono se queste donne avrebbero voluto fare
sesso con loro. Replicai che ne dubitavo, perchè quelle donne non conoscevano i Piraha.
Entrammo in un negozio ed una gentilissima giovane donna magra e dalla pelle marrone
con dei braccialetti e i capelli neri, abiti aderenti, sandali, e un sorriso dolce venne ad
aiutarci, profumando l’aria di un piacevole profumo. I Piraha sorridevano.
Con il suo aiuto trovammo dei pantaloni, delle scarpe, e delle camicie per gli uomini. Come
tutti gli uomini Piraha, essi erano alti circa un metro e sessanta, pesavano una cinquantina di
chili, e indossavano pantaloni con la vita larga 70 cm. La commessa fece un sacco di
domande ai Piraha, che io traducevo loro. Gli uomini fecero a loro volta qualche domanda.
Indossarono i loro nuovi vestiti e ce ne andammo a comprare spazzolini da denti,
deodoranti, pettini, e dopobarba - cose di cui avevano sentito parlare e che consideravano
essenziali per la vita in città. I loro corpi magri, muscolosi e dalla pelle scura si adattavano
agli abiti occidentali rendendoli attraenti.
Pensai che le cose stessero andando piuttosto bene. Nessun problema nel portare i Piraha
in città dopotutto. Mi chiesi come mai mi fossi preoccupato prima di partire. Si, trovai curiosa
l’insistenza dei Piraha nel voler camminare in linea indiana anche in città, come facevano tra
la giungla.
Mentre giravamo per le vie della città, Xipoogi camminava dietro di me, con Xahoabisi che lo
seguiva. Rallentai il passo per lasciare che mi raggiungessero. Essi rallentarono a loro volta.
Io rallentai ancora di più. Loro fecero lo stesso. Mi fermai. Loro si fermarono. Semplicemente
non volevano camminare l’uno affianco all’altro, persino quando li pregai di farlo. Ciò ha
senso tra gli stretti sentieri della giungla. Non c’è spazio laggiù, a meno che non ti prenda la
briga di aprire un sentiero largo abbastanza per due persone. E sarebbe pericoloso
comunque. Le persone che camminano fianco a fianco nella giungla costituiscono un
bersaglio più facile per i predatori e offrono a se stessi meno protezione contro serpenti e
altri pericoli. Nella città, però, camminare fianco a fianco, mentre spazialmente inefficiente,
permette a chi cammina di conversare più facilmente e di venire percepiti come un gruppo.
Sorrisi del nostro modo di camminare e mi fermai ad un attraversamento pedonale,
aspettando il verde per attraversare la strada, la più trafficata di Porto Velho.
Dissi a Xipoogi e Xahoabisi mentre guidavo la comitiva, “Seguitemi. Andiamo a quel negozio
laggiù,” ed indicai verso un negozio di alimentari dall’altra parte della strada.
Quando stavo per raggiungere l’altro lato della strada, mi voltai e vidi Xipoogi e Xahoabisi
immobili congelati dalla paura, che guardavano le file di macchine che aspettavano che il
semaforo tornasse verde, facendo andare i motori. Feci per raggiungerli in mezzo alla strada
ma il semaforo divenne verde per le macchine. Le macchine iniziarono a muoversi verso di

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suonando i clacson ai due uomini Piraha, ora visibilmente spaventati. Erano chiaramente
vicini al farsi prendere dal panico e mettersi a correre tra le macchine, incapaci di prevedere
i movimenti delle macchine, così diversi da qualsiasi animale selvatico che avessero mai
incontrato. Li raggiunsi e li presi per mano, riportandoli sul marciapiede.
“Quelle cose ci spaventano,” essi esclamarono, ancora in piena tensione.
“Spaventano pure me,” fui d’accordo.
“Sono peggio dei giaguari,” Xipoogi concluse.

Il dibattito che si è scatenato intorno alla lingua Piraha, di nuovo, riguarda la domanda se
dobbiamo ripensare le nostre più importanti teorie a proposito del linguaggio e della cultura.
Chomsy, fondatore della più famosa e influente teoria moderna sul linguaggio, dice che le
lingue con proprietà come quelle che ho descritto riguardo la lingua Piraha non esistono -
che il Piraha è più o meno come ogni altra lingua. Ma per capire come mai la sua teoria lo
porta a rifiutare ciò, bisogna comprendere meglio la sua teoria.
Il punto di vista di Chomsky è che egli stia cercando di scoprire la “vera teoria della
grammatica universale”, in cui tale grammatica si propone essere uno specifico componente
linguistico della nostra dote biologica. Non è chiaro ciò che Chomsky intende parlando della
“vera teoria”, ma suppongo intenda quella teoria che combacia perfettamente con la realtà
(è difficile sapere quel che i filosofi e gli scienziati intendono quando usano la parola vera,
così questo problema non si affronta solo con Chomsky). Ciò è degno di maggiori riflessioni.
Ad un certo livello la grammatica universale sembra quasi essere un concetto necessario -
dopo tutto, ne le piante, ne le pietre, ne i cani parlano - solo gli umani lo fanno. Siamo tutti
d’accordo ci sia qualcosa nella biologia umana alla base del linguaggio. In questo senso,
Chomsky è superficialmente nel giusto. Ma la vera domanda è quanto tale dote genetica
risulta specifica al linguaggio (in contrasto con la proposta che la nostra capacità di
linguaggio semplicemente venga dalle proprietà generali cognitive) e quando ti questa dote
genetica determina la forma finale della grammatica di ogni specifica lingua umana. E una
domanda connessa, una domanda che potrebbe inizialmente sembrare secondaria, è come
noi scienziati possiamo trovare la conoscenza che ci permetta di testare le nostre ipotesi.
Ci sono due tipici luoghi di ricerca nella scienza - il laboratorio e il campo. Le cosìdette
scienze dure, come la fisica e la chimica, come la maggior parte delle scienze sociali, sono
fatte in ambienti dal clima controllato, in stanze confortevoli, arredate con equipaggiamenti di
cui i ricercatori necessitano per il loro lavoro. Nel modo in cui viene portata avanti in paesi
avanzati come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia, l’Inghilterra, la scienza è fatta da pochi
privilegiati per l’intera società. Almeno sulla carta, i suoi finanziatori si aspettano risultati che
beneficeranno l’intera società dove tale scienza è supportata e portata avanti. I giovani
scienziati lavorano al riparo di laeder rinomati ed affermati ognuno nel proprio campo. Nella
linguistica, Chomsky è una figura alla Daniel Boone, e la maggior parte dei linguisti sono
gente insediatasi nella sua terra.
La linguistica è cambiata nel corso dei decenni. Un tempo era più una “scienza sul campo”,
quei campi d’indagine come la geologia, l’antropologia, e la biologia, dove impararare
comporta lasciare il laboratorio per il faticoso mondo della ricerca sul campo. Ovviamente,
molti linguisti continuano a fare ricerca sul campo su lingue intorno al mondo.
Ma la crescita esplosiva della linguistica dopo l’avvento di Chomsky negli anni 1950 ha
alterato l’ethos della disciplina in modi profondi. L'attrazione di molti linguisti verso la figura
di Chomsky, incluso me, si basa sull’eleganza della sua teoria, non sulla ricerca sul campo. I
lemma e gli assiomi per la prima volta pubblicati nel suo lavoro svolta, La Struttura Logica

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della Teoria Linguistica, scritto quando era poco più che ventenne, e i seguenti libri come
Strutture Sintattiche, Aspetti della Teoria della Sintassi, Lezioni sul Governo e i Vincoli, e Il
Programma Minimalista, convinsero generazioni di linguisti che la teoria di Chomsky potesse
probabilmente portare a importanti risultati. Come molti altri, anch’io lessi ognuni di questi
libri da cima a fondo. Ho tenuto corsi universitari sulla maggior parte di essi.
La cultura della linguistica Chomskyana si diffonde anche perchè il suo dipartimento alla MIT
attrasse alcuni dei migliori studenti al mondo. Questa nuova cultura linguistica portò enormi
cambiamenti nella metodologia linguistica così come nei suoi obiettivi, un’altra distintiva
caratteristica del gruppo Chomskyano. Prima di Chosmky, essere un linguista americano
quasi obbligatoriamente comportava aver passato uno o due anni a vivere tra qualche
comunità linguistica minoritaria e lo scrivere una grammatica di tale lingua. Ciò era quasi un
rito di passaggio nella linguistica nord americana. Ma dato che lo stesso Chomsky non fece
nessuna ricerca sul campo e apparentemente imparò cose molto più interessanti riguardo il
linguaggio di qualsiasi studioso sul campo, molti studenti e futuri professori che lavoravano
seguendo l’influenza delle supposizioni Chomskyane comprensibilmente credettero che la
maniera migliore di fare ricerca potesse essere il lavorare di deduzione piuttosto che di
induzione - dall’università piuttosto che dal villaggio, incominciando con una elegante teoria
e predeterminando dove i fatti calzassero meglio.
Questo è ciò che ho capito di queste idee. Un approccio induttivo allo studio del linguaggio
significherebbe permettere ogni lingua di “parlare per se stessa”. Potremmo fare ciò
catalogando le osservazioni sulla lingua fatte dai ricercatori sul campo e poi elaborare una
narrativa che spieghi quali siano gli elementi di tale (le sue parole, le frasi, i periodi, i testi, o
in qualsiasi modo il ricercatore li voglia chiamare) e poi come questi elementi si incastrano
l’uno l’altro (come ad esempio in che modo i parlanti di tale lingua formino le frasi o i
paragrafi, oppure come usino questi per costruire le conversazione, le storie, e altre forme di
interazioni sociolinguistiche).
Un approccio deduttivo, d’altra parte, inizia con le teorie - scatole pre-etichettate - e incastra
aspetti della lingua in esse. Nuove scatole possono essere create, ma ciò è malvisto. Molto
del dibattito nelle teorie deduttive riguarda gli aspetti e i confini delle scatole. I valori culturali
che hanno preso prede nella linguistica parzialmente come risultato dell’approccio deduttivo
Chomskyano allo studio del linguaggio non dovrebbero essere ignorati. Questi includono
almeno i seguenti: la ricerca sul campo non è necessaria per essere un buon linguista; può
essere della stessa importanza studiare la propria lingua nativa tanto quanto lo è studiare
sul campo lingue mai fin prima studiate; la grammatica è un sistema formale indipendente
dalla cultura.
Nel ventunesimo secolo la nostra conoscenza della forma e del significato di parti del
linguaggio è considerata, secondo alcuni, di gran lunga superiore alla conoscenza mai avuta
precedentemente. Ciò deriva dal concetto di progresso scientifico e dalla nozione che noi
costruiamo “precetto sopra precetto” sopra la conoscenza dei nostri predecessori, in ciò che
Mortimer Adler nella sua introduzione al Grande Libro del Mondo Occidentale chiama la
“grande conversazione” della vita.
Ma c’è un concetto concorrente al quale molti scienziati credono simultaneamente: la
nozione della rivoluzione scientifica. Come sviluppata nel lavoro del filosofo Thomas Kuhn,
l’idea afferma che le teorie scientifiche possono infilarsi in un vicolo cieco e che quindi gli
scienziati saranno intrappolati finchè qualcuno non venga a scavare un’apertura per liberarli,
proclamando la libertà di fare scienza al di fuori dei vincoli dell’approccio precedente da cui
ci si è appena liberati. Lo scavare l’apertura avviene quando i fatti ricalcitranti iniziano ad
accumularsi, fatti che una particolare teoria può spiegare con un lavoro di rattoppamento e

162
di strappo e di sforzo - ciò che Kuhn chiama “ipotesi ausiliarie”. Il Piraha presenta numerosi
fatti ricalcitranti, come le altre lingue simili al Piraha - e non ho dubbi che altre ne verranno
scoperte. Questi fatti richiedono una grande apertura nel muro che porterà ad un nuovo
edificio teoretico. Questo è ciò che la lingua Piraha mi suggerisce accadrà alla teoria
prevalente.
I nostri tentativi di studiare gli altri esseri umani possono essere influenzati culturalmente
tanto quanto il mio tentativo di far camminare i Piraha di fianco a me in città. E la cultura non
influenza solo lo scienziato - osservatore, ma anche il soggetto osservato. Capire le teorie
riguardo il linguaggio umano richiede che noi consideriamo l’influenza culturale sulla
costruzione teorica così come il ruolo della cultura nel plasmare l’oggetto sotto studio.
Questo è un punto controverso. In un libro ben noto, L’Istinto Linguistico di Steven Pinker,
poca importanza è attribuita alla cultura nel dare forma alla grammatica umana. É vero che
Pinker riconosce che la cultura abbia significante responsabilità riguardo le cose di cui
parliamo (così gli americani di una certa età parleranno di Marlon Brando e Elvis Presley, o
della influenza di google nella ricerca scientifica nella moderna società americana; i Piraha,
invece, sarà più probabile che parlino degli incontri con gli spiriti della giungla o del miglior
modo per acchiappare il pesce). E le culture determinano anche i vocaboli. In Scozia
incontriamo la parola haggis. Gli ingredienti dell’haggis sono (di solito) interiora di pecora
(cuore, polmoni e fegato), macinati con cipolla, farina d’avena, spezie, grasso di rognone, e
sale, mischiato con brodo, e tradizionalmente bollito nello stomaco dell’animale per
approssivamente tre ore. A me piace. Ma non è per tutti. Ed è solamente un piazzo
tradizionale in Scozia. Non ci sorprende che gli scozzesi abbiano una parola per questa
tradizionale parte della loro cultura.
Un altro esempio è la parola brasiliana jeito (ZHAY-tu), che letteralmente significa “sdraiarsi”
o “riposare” e si riferisce al concetto brasiliano per cui i brasiliani hanno una capacità
speciale di risolvere i problemi. É comune sentire i brasiliani dire, per esempio, “Nos
brasileiros somos muito jeitosos” (Noi brasiliani siamo bravi nel jeitos). Tale abilità ed il
continuo parlarne sono un valore culturale tra i brasiliani. É un valore espresso in modo
chiaro da una singola parola dai membri della cultura brasiliana - la cultura in cui parlare di
tale concetto è così importante. É dunque un altro esempio di cultura e linguaggio che
lavorano fianco a fianco.
E, ovviamente, i Piraha hanno una parola come kaoaibogi (bocca veloce) per un tipo di
spirito unico ai Piraha.
Ma non vi è ruolo che attribuisce ne persino permette alla cultura di modificare la
grammatica nella maggior parte delle teorie linguistiche. Per questo motivo è importante
studiare lingue come il Piraha, nel quale la cultura appare modificare la grammatica in modi
che pochi teorici immaginano possibile.
Possiamo iniziare ad apprezzare la rilevanza del Piraha nel nostro obbiettivo di
comprendere la natura del linguaggio umano considerando una delle preoccupazioni
principali di Chomsky, la spiegazione delle similarità tra le lingue.
Quando guardiamo le lingue del mondo, vediamo molte similarità; così tante e così ricorrenti
che sappiamo che non possono essere mere coincidenze. Siamo obbligati come scienziati e
secondo la tradizione della cultura occidentale a offrire una spiegazione per tali coincidenze.
Chomsky ci ha incitato ad individuare il luogo responsabile di tali similarità nella genetica, ed
esso è un luogo ragionevole dove cercare spiegazioni a tali fenomeni. Dopo tutto, è il nostro
genoma comune che unisce l’Homo Sapiens all’interno di un’unica specie e produce le altre
similarità tra noi, inclusi molti dei nostri bisogni, desideri, esperienze comuni, ed emozioni.

163
Così i pigmei e gli olandesi possono apparire molto diversi, ma le loro similarità superano di
gran lunga le loro differenze, perchè, come tutti gli umani, essi vengono dalla stessa base
genetica. Senza una comprensione delle soluzioni dell’evoluzione e della genetica, la natura
della nostra specie ci sfuggirebbe. Così vale la pena pensare ad alcune delle similarità tra le
lingue che la genetica potrebbe spiegare.
Primo, potrebbe spiegare perchè le lingue hanno tutte simili parti del discorso (verbi, nomi,
preposizioni, congiunzioni, etc.). Potrebbe venir fuori che non tutte le lingue possiedono
l’intero elenco delle possibili parti del discorso, ma quel che ogni lingua possiede, è simile
alle categorie di altre lingue.
O potrebbe spiegare perchè le lingue hanno simili vincoli psicolinguistici quando si tratta di
processare le frasi (il che è il motivo per cui in qualsiasi lingua una frase grammaticalmente
perfetta con una struttura come Le ostriche che le ostriche mangiano mangiano ostriche [ndt
Oysters oysters eat eat oysters, nell’originale] può essere difficile da comprendere) . Il
problema con questo esempio è che possiede un “inciso centrale” - ossia una proposizione
(la relativa centrale che le ostriche mangiano) posizionata nel mezzo di un’altra proposizione
(la principale Le ostriche mangiano ostriche). Possiamo rendere l’esempio più semplice da
capire inserendo un indicatore che ci mostri dove la proposizione relativa inizia, come nel più
semplice all’orecchio Le ostriche che le ostriche mangiano mangiano ostriche [ndt, l’autore si
riferisce al difficile gioco di parole riportato sopra in originale, gioco di parole che non può
essere reso in italiano].
E le lingue condividono simili vincoli anche riguardo al significato. Per esempio, non vi è
verbo in nessuna lingua conosciuta che richieda più di tre sostantivi per completare il suo
significato (alcune teorie dicono non più di quattro sostantivi). Una lingua può permettere ai
verbi di comparire senza sostantivi, oppure sostantivi che non si riferiscono a niente, una
sorta di sostantivo segnaposto. Un esempio di ciò è il it della frase It rains [ndt, piove].
Oppure possono esserci verbi che appaiono con un solo sostantivo, come in John corre; o
con due sostantivi, come in Bill baciò Mary; oppure persino con tre sostantivi, come in Peter
mise il libro sullo scaffale. Ma non di più. John diede a Bill il libro che Susan non è possibile.
Per dire qualcosa con quattro o più sostantivi abbiamo bisogno di più verbi, più periodi, o
preposizioni, come in John diede il libro a Bill da parte di Susan.
Prima della teoria corrente per cui la grammatica origina in una parte del cervello ad essa
dedicata, vi fu un breve periodo in cui approcci puramente comportamentali allo studio del
linguaggio erano dominanti, come nel lavoro di B.F. Skinner.
Ma mentre il comportamentismo non riuscì a far luce su come impariamo le lingue e le
similarità tra le lingue, perchè non concepisce la cognizione, le teorie basate sulla
grammatica universale non riuscirono a fare di meglio. Ci sono varie ragioni per questo.
Primo, negli anni, eccellenti nuove idee di ricerca sono emerse, le quali non si basano ne
sulle posizioni estreme di Skinner per cui la lingua è solamente un comportamento come
ogni altro comportamento umano, ne sulle posizioni estreme di Chomsky per cui la nostra
grammatica è nei nostri geni. Ci sono altre possibili spiegazioni, che includono requisiti logici
sulla comunicazione, accoppiati con la natura della società e la cultura.
Il gruppo di ricerche psicolinguistiche di Michael Tomasello presso il Max Planck Institute for
Evolutionary Anthropology a Leipzig, Germania, è uno dei gruppi di ricerca di punta che
lavorano su linguaggio e la sua comparsa dalla appartenenza alla società. E la ricerca di
questo team è libera dalle supposizioni sia comportamentistiche che Chomskyane.
Un’altra importante ragione per il declino dell’influenza della teoria di Chomsky è la
percezione di molti che la teoria è diventata troppo vaga e non verificabile perché sia

164
considerata affidabile di questi giorni. Molti nella comunità linguistica trovano il corrente
programma di ricerca di Chomsky di poco uso nei loro lavori.
Un terzo problema per la teoria del linguaggio di Chomsky - e per la questione che voglio
affrontare qui - è il semplice fatto che le lingue sono meno simili di ciò che Chomsky aveva
immaginato, e le loro differenze sono profonde.
Se i Piraha fossero filosofi e linguisti nel senso occidentale, sarebbe improbabile che
sviluppassero una linguistica simile a quella di Chomsky. Contrariamente al concetto
cartesiano di creatività, i valori culturali Piraha limitano la portata di soggetti accettabili di cui
parlare e il numero di modi accettabili di parlare ad un numero molto stretto che sia
all’interno dell’esperienza immediata.
Allo stesso tempo, i Piraha amano parlare. Uno dei commenti più comuni che i visitatori
fanno ai Piraha è che essi sembrano parlare e ridere tra di loro costantemente. I Piraha non
sono riservati nei loro comportamenti, almeno non nel loro stesso villaggio. Mentre giacciono
intorno al fuoco sempre acceso delle loro capanne, spesso sotterrano patate o tuberi per
arrostirli lentamente. Mentre parlano della pesca, degli spiriti, dell’ultima visita di uno
straniero, del perchè gli alberi di noci brasiliane hanno prodotto meno noci quest’anno, e
così via, i Piraha si interrompono per tirare fuori dal carbone una patata, la aprono, e quasi
letteralmente ruminano mentre la conversazione progredisce.
Essi semplicemente non parlano di molti argomenti. Ma neppure faceva la mia famiglia nel
sud della California dove sono cresciuto. Parlavamo di bestiame, raccolto, pugilismo,
barbeque, bettole, film, e politica, con altre poche eccezioni. Nessuno nella mia famiglia
sarebbe interessato nella “Creatività Cartesiana”. Forse i linguisti ne hanno bisogno, però,
perchè essi parlano di un numero di argomenti molto più grande? Non penso. La maggior
parte dei linguisti che conosco, di fatto la maggior parte dei professori universitari che
conosco, possiede un numero di argomenti di conversazione esiguo quanto quello dei
Piraha. I linguisti parlano di linguistica e di altri linguisti per la maggior parte del tempo. I
filosofi parlano di filosofia e di altri filosofi e di vino. Questi sono perlopiù i parametri di
conversazione entro i quali la maggior parte di noi opera - la nostra professione e i nostri
colleghi. Ovviamente, per parlare di tutto ciò nei confini di una singola lingua, la nostra lingua
deve essere adatta a tutte le discipline accademiche, a tutte le professioni, il commercio, e
così via.
Spesso pensiamo che ciò che sappiamo sia “portatile” - come se ciò che impariamo a
proposito della percezione e della conoscenza del mondo a San Diego ci renderà possibile
percepire e comprendere il mondo competentemente a Delhi. Ma così tanto di ciò che
pensiamo di sapere sono informazioni locali, basate sulle prospettive locali, che non sono
facili da usare in un ambiente diverso che un apparecchio a 110 volt in una presa a 220 volt.
Un linguista, per esempio, che studi teoria linguistica in una moderna università e che poi
viaggi sul campo di ricerca, se egli fosse sensibile al suo nuovo ambiente, imparerà presto
che le sue teorie non calzano a pennello con le lingue che egli incontrerà. Le teorie possono
essere utili se sono adattate localmente. Se ciò non succede, esse possono essere come un
letto di Procuste, in cui i fatti sono infilati a forza.
Ciò è specialmente vero per le teorie secondo cui il linguaggio (o la grammatica, a seconda
della terminologia dell’autore) è innato. Anche se queste teorie possono sembrare molto
attraenti durante le lezioni universitarie, esse sono difficili da conciliare con i fatti delle
ricerche sul campo. Chomsky e Pinker suggeriscono che la natura (biologia) è il principale
strumento esplicativo per capire l’evoluzione e la forma corrente delle grammatiche umana.
Essi propongono una grammatica universale (Chomsky) o un istinto linguistico (Pinker),
qualsivoglia dei quali sarebbe parte del nostro genoma. Queste tesi hanno avuto per

165
decenni un enorme impatto nella ricerca sulla psicologia umana e il linguaggio. Ma ci sono
altre potenziali spiegazioni riguardo la psicologia, l’evoluzione, e la forma delle grammatiche
e delle lingue umane. Per esempio, sappiamo che la ipotesi di B. F. Skinner affermi che il
linguaggio sia semplicemente il prodotto del condizionamento ambientale - tutto
allevamento, niente natura. E sappiamo anche che la devastante revisione che Chomsky
fece della teoria di Skinner nel 1959 mostrò che il modello di Skinner non era all’altezza del
compito di spiegare formarsi del linguaggio sia filogeneticamente, nelle specie, o
ontogeneticamente, nell’individuo. D’altra parte, l’approccio di Chomsky e Pinker al
problema, individuare il nucleo del linguaggio esclusivamente nel mondo naturale, sono
pieni di problemi anch’essi. La testimonianza Piraha dell’assenza di ricorsività e della
presenza di vincoli culturali sulla grammatica sono controesempi dell’idea della grammatica
universale. La miglior spiegazione dell’origine e della natura del linguaggio è più complessa
di qualsiasi semplice dicotomia.
Se questa teoria è inadeguata, però, che cosa ci rimane?
Ci rimane una teoria in cui la grammatica - le meccanica di una lingua - è molto meno
importante dei significati e dei vincoli sul parlato basati sulla cultura di qualsiasi specifica
cultura intorno al mondo.
E se ciò è corretto, ha profonde implicazioni per la metodologia della ricerca linguistica.
Significa, di nuovo, che non possiamo studiare le lingue effettivamente separate dal loro
contesto culturale, specialmente lingue le cui culture differiscono radicalmente dalla cultura
dei ricercatori.
Ciò significa anche che la linguistica non è così tanto parte della psicologia, come la maggior
parte dei linguisti contemporanei crede, ma è più parte della antropologia, come Sapir
credeva (di fatto, ciò potrebbe che la psicologia stessa è parte dell’antropologia, come di
nuovo Sapir credeva). Separare la linguistica dall’antropologia e dalla ricerca sul campo è
come separare la chimica dagli elementi chimici e dal laboratorio.
A volte, però, mentre studiamo queste culture, le lezioni che impariamo vanno ben oltre i
nostri obiettivi scientifici. Io stavo imparando dai Piraha qualcosa della mia spiritualità che
avrebbe cambiato la mia vita per sempre.

Parte Tre CONCLUSIONI

17 Convertendo il Missionario

I missionari del SIL non predicano ne battezzano. Essi evitano ruoli pastorali. Piuttosto, il SIL
crede che la maniera più efficace di evangelizzare le popolazioni indigene sia di tradurre il
Nuovo Testamento nella loro lingua. Dato che il SIL crede anche che la Bibbia sia
letteralmente la parola Divina, allora, continua il ragionamento, la Bibbia dovrebbe esser
capace di parlare per se. Così le mie attività quotidiane tra i Pirahah erano principalmente
linguistiche, cercando di capire la lingua bene abbastanza da poter fare una buona
traduzione del Nuovo Testamento. Mentre progredivo, lavoravo alla traduzioni di sezioni del
testo e verificavo le mie traduzioni con varie persone nel villaggio. Durante il tempo libero,
spesso parlavo con la gente della mia fede e del perchè fosse importante per me. Non
c’erano altri compiti compresi nella mia attività da missionario, cosa tipica per i membri del
SIL.
Una mattina in novembre del 1983, dopo aver passato circa 14 mesi a fare vai e vieni tra i
Piraha, sedevo nella stanza frontale della nostra casa nel villaggio bevendo del caffe con

166
altri uomini Piraha. Erano circa le dieci e la giornata iniziava a farsi calda, un calore che si
sarebbe fatto più intenso fino circa alle 4 del pomeriggio, quando poi avrebbe gradualmente
iniziato ad attenuarsi. Mi trovavo di fronte il fiume e godeva della brezza di metà mattina sul
mio viso mentre parlavo coi miei compagni a proposito di barche che essi avevano sentito
navigare giù per il fiume Marmelos, ad un miglio circa dal villaggio. Kohoibiiihiai entrò ed io
mi alzai a versargli una tazza di caffe - avevamo un assortimento di tazze di plastica
economico e tutte diverse nella nostra cucina. Il caffe era leggero e molto dolce.
Quando prese la tazza dalla mia mano, Kohoi disse, “Ko Xoogiagi, ti gi xahoaisoogabagai”
(Hey Dan, ti voglio parlare). E poi continuò, “I Piraha sanno che tu hai lasciato la tua famiglia
e la tua terra per venire qui e vivere con noi. Sappiamo che fai ciò per raccontarci di Gesù.
Vuoi che noi viviamo come gli americani. Ma i Piraha non vogliono vivere come gli
americani. Ci piace bere. Ci piace più di una donna. Non vogliamo Gesù. Ma tu ci piaci. Tu
puoi stare con noi. Ma non vogliamo più sentir parlare di Gesù. OK?”
Anche se il SIL non permette mai ai suoi membri di predicare tra le popolazioni indigene
come i Piraha, Kohoi aveva sentito della mia fede numerose volte in conversazioni con me e
mentre mi aiutava a tradurre piccole porzioni del Nuovo Testamento.
Poi, riferendosi ai precedenti missionari americani che vissero tra loro, aggiunse, “Arlo ci ha
parlato di Gesù. Steve ci ha parlato di Gesù. Ma noi non vogliamo Gesù.”
Gli altri uomini presenti sembravano esser d’accordo con lui.
Io risposi, “Se non volete Gesù, non volete noi. La mia famiglia si trova qui unicamente per
parlarvi di Gesù.”
Dissi che dovevo studiare. Gli uomini si alzarono e se ne andarono a fare ognuno il proprio
turno di pesca, mentre altri uomini tornavano al villaggio, e lasciavano le canoe a chi partiva.
Questa informazione mi sconvolse. E mi presentò davanti una chiara scelta morale. Ero
andato tra i Piraha per raccontar loro di Gesù e, secondo la mia opinione al tempo, per dar
loro un’opportunità di scegliere vivere con uno scopo piuttosto che vivere senza scopo, di
scegliere la vita piuttosto che la morte, di scegliere la gioia e la fede invece della
disperazione e la paura, di scegliere il paradiso piuttosto che l’inferno.
Se i Piraha avessere prima compreso il Vangelo e poi nonostante ciò l’avessero rifiutato,
sarebbe stato diverso. Ma forse essi non lo avevano compreso. Questa era una probabilità
molto forte, dato che la mia abilità di parlare il Piraha era ancora lontana dall’essere fluente.
In un’altra occasione durante quel primo periodo tra i Piraha, sentii di capire la lingua
abbastanza bene da dare la mia personale storia del perchè accettai Gesù come il mio
salvatore. Questa è una pratica comune tra i Cristiani evangelici, chiamata “dare la tua
testimonianza”. L’idea è che peggiore fosse la vita prima di accettare Gesù, più grande
sarebbe stato il miracolo della tua salvezza e più grande la motivazione per i non credenti
del pubblico per accettare a loro volta Gesù.
Era sera, la mia famiglia aveva appena finito di cenare, erano circa le sette. Eravamo ancora
freschi dal bagno nel Maici. Quello era il momento in cui preparavamo il caffe per gli ospiti e
loro venivano e sedevano con noi nella casa a farci visita. Durante questi momenti io parlavo
della mia fede in Dio e del perchè credevo che i Piraha avrebbero dovuto convertirsi, come
anch’io feci. Siccome i Piraha non avevano parola per Dio, usavo un termine che Steve
Sheldon mi aveva suggerito, Baixi Hiooxio (Padre di Lassù).
Dissi che il nostro padre di lassù aveva reso la mia vita migliore. Una volta, dissi, bevevo
come i Piraha. Avevo molte donne (esagerando un po su questo punto), ed ero infelice. Poi
il padre di lassù entrò nel mio cuore e mi fece felice e fece la mia vita migliore. Non pensai
se tutti questi nuovi concetti, metafore, e nomi che stavo inventando sul momento avessere
alcun senso per i Piraha. Essi avevano senso per me. Quella notte, decisi di raccontar loro

167
qualcosa di molto personale riguardo la mia vita - qualcosa che pensavo avrebbe fatto
capire loro quanto importante Dio può essere nelle nostre vite. Così raccontai ai Piraha
come la mia matrigna si suicidò e come ciò portò me a credere e di come la mia vita migliorò
dopo che smisi di bere e di usare droghe e dopo aver accettato Gesù. Raccontai questa
storia molto seriamente.
Quando conclusi, i Piraha scoppiarono a ridere. Ciò era molto inaspettato, per dirla con un
eufemismo. Era abituato a reazioni più simili a “Lode al Signore!” dal mio pubblico che
solitamente reagiva colpito dalle grandi difficoltà che avevo affrontato e da come Dio mi
aveva tirato fuori da tali situazioni.
“Perchè state ridendo?” chiesi.
“Lei si è uccisa? Ha ha ha. Che stupida. I Piraha non si uccidono,” essi risposero.
Essi non erano per niente impressionati. Era chiaro per loro che il fatto che qualcuno che
amavo si fosse ucciso non era una buona ragione per cui i Piraha avrebbero dovuto credere
nel mio Dio. Infatti, ebbe l’effetto opposto, evidenziando le nostre differenze. Tutto ciò era un
contrattempo per i miei obiettivi da missionario. Passarono molti giorni in cui ragionai
profondamente a proposito dello scopo della mia presenza tra i Piraha.
Parte della difficoltà del mio compito iniziò a farsi chiaro davanti a me. Avevo comunicato più
o meno in modo corretto ai Piraha le mie credenze Cristiane. Gli uomini mi avevano
ascoltato e avevano compreso che vi era un uomo chiamato Hiso, Gesù, e che lui voleva
che gli altri facessero ciò che lui diceva.
I Piraha allora chiesero, “Hey Dan, che aspetto ha Gesù? É scuro come noi o bianco come
te?”
Io dissi, “Beh, io non l’ho mai visto in realtà. Egli visse molto tempo fa. Ma abbiamo le sue
parole.”
“Ecco Dan, come fai ad avere le sue parole se non lo hai mai sentito parlare ne lo hai mai
visto?”
Poi dissero chiaramente che se io non avevo mai visto questo tizio (e non in qualche modo
metaforico, ma letteralmente), allora essi non erano interessati ad ascoltare nessuna storia
su di lui. Punto. Questo perchè, come ora so, i Piraha credono solo a ciò che vedono. A
volte credono anche in cose che altri dicono loro, a patto che tale persona abbia visto con i
suoi occhi ciò che racconta.
Decisi che parte della difficoltà nella recettività al Vangelo veniva dal fatto che i Piraha al
villaggio di Posto Novo, dove al momento lavoravamo, avevano avuto troppi contatti con la
cultura caboclo e si erano convinti che quella cultura fosse più compatibile con la loro
rispetto alla cultura americana, che rappresentava il modo in cui percepivano il Vangelo.
Ragionai che se mi fossi spostato in un altro villaggio oltre la portata dei commercianti
fluviali, il Vangelo avrebbe avuto più successo. C’erano due villaggi adatti a tale scopo di cui
ero a conoscenza, uno affianco all’Autostrada Transamazzonica e l’altro ancora più isolato,
forse ad un giorno di viaggio sul fiume dalla Autostrada e tre giorni in barca risalendo il fiume
da dove mi trovavo al momento.
Parlari della cosa con Keren. Decidemmo che prima di fare qualsiasi decisione avremmo
preso la nostra prima “licenza”, ossia il nostro primo viaggio negli Stati Uniti in più di cinque
anni. Quella licenza sarebbe servita a fare un resoconto ad i nostri finanziatori, a riposare, e
a valutare i nostri progressi come missionari.
Durante la nostra licenza, pensai di nuovo alle sfide del missionario: convincere una
popolazione felice e soddisfatta di essere in realtà persi e bisognosi di Gesù quale loro
salvatore. Il mio professore di evangelismo alla Biola University, Dr. Curtis Mitchell, diceva,
“Devi farli perdere prima di poterli salvare”. Se le persone non percepiscono una mancanza

168
importante nelle loro vite, sarà meno probabile che abbraccino nuove credenze,
specialmente quando si tratta di Dio e della salvezza. Le sfide culturali e linguistiche sono
enormi. Ancora nemmeno parlavo Piraha tanto bene ed ero all’oscuro delle caratteristiche
che rendevano la comunicazione di messaggi del primo secolo praticamente impossibile.
Decidemmo di spostarci presso un altro villaggio, quello più isolato. Ci trasferimmo a monte
lungo il fiume per circa trecento chilometri fino al villaggio Xagiopai, a sei ora di distanza dal
Autostrada Transamazzonica. I Piraha di questo nuovo villaggio ci diedero un caldo
benvenuto. Per i primi anni in questo luogo, dormimmo in tende e raggiungemmo il villaggio
attraverso l’Autostrada, facendo autostop, affittando un veicolo, oppure viaggiando con la
nostra piccola motocicletta da cross, e poi raggiungendo il villaggio con la barca a motore
attraverso il Maici. Le nostre provviste venivano trasportate fino al fiume da dei camioncini
che venivano dal campo dei missionari del SIL.
Potevo offrire a questo gruppo di Piraha qualcosa di nuovo: il Vangelo di Marco appena
tradotto in Piraha. Avevo lavorato molto duramente a questa traduzione; l’avevo finito poche
settimane prima del nostro trasferimento definitivo nel villaggio.
Prima di portare la traduzione tra i Piraha, però, il SIL richiese che facessimo ciò che viene
chiamata una “sessione di controllo”. Convinsi Xisaooxoi (il suo nome portoghese è Doutor)
a venire a Porto Velho e a passare un paio di settimane alla base dei missionari per lavorare
a migliorare la qualità della mia traduzione. Il direttore di Traduzione della Bibbia di Wycliffe,
John Taylor, che aveva studiato lingue classiche ad Oxford, accettò di verificare i miei
risultati lavorativi. Durante la nostra prima sessione, John tenne il suo Nuovo Testamento in
greco di fronte a se e mi chiese di chiedere a Doutor, in Piraha, come avesse inteso alcune
particolari sezioni del vangelo di Marco. Doutor ascoltò la mia prima domanda, ma appena
mi guardava, concentrato invece a grattarsi un callo sul piede. Il condizionatore d’aria era
acceso. Quando perse interesse nel suo callo, Doutor indicò il condizionatore d’aria e
chiese, “Cosa è quello?” Poi fece la stessa domanda indicando le maniglie delle porte, la
scrivania, e praticamente ogni altro oggetto nella stanza. John fu inizialmente preoccupato
che Doutor non avesse capito la mia traduzione.
E io ero nervoso perchè volevo davvero che questa valutazione della mia traduzione
andasse bene. Pressai Doutor finchè finalmente rispose direttamente ad una domanda. Così
in poco tempo stabilimmo una routine di un paio di ore al giorno di valutazione della
traduzione. Alla fine di due settimane, John fu convinto che Doutor aveva capito il vangelo di
Marco. Une dei requisiti di WBT affinchè ci si possa accertare che la traduzione sia
adeguata è che il parlante nativo aiutante non deve aver avuto alcun ruolo nella traduzione
del testo, ossia, che esso sia interrogato imparzialmente, senza che egli abbia interesse che
la cosa riesca o no.
Ma la comprensione del testo che Doutor mostrò mi diede da pensare più che farmi piacere.
Se aveva compreso il testo così bene come sembrava, perchè aveva avuto un così
irrelavante impatto su di lui? Doutor non avrebbe potuto essere meno interessato dal
“messaggio” del vangelo di Marco. Quando ritornammo al villaggio, registrai il vangelo di
Marco con la mia voce per farlo ascoltare ai Piraha. Poi portai al villaggio un vecchio
registratore per utilizzare il nastro che avevo registrato, e insegnai ai Piraha come usarlo, il
che, sorprendemente, alcuni dei bambini in effetti fecero. Io e Keren lasciammo il villaggio
per tornare qualche settimana più tardi. La gente ascoltava ancora il vangelo, i bambini
facevano partire il registratore. Ero inizialmente contento di ciò, finchè divenne chiaro l’unica
parte del libro a cui davano attenzione era la decapitazione di Giovanni Battista. “Wow, gli
hanno tagliato la testa. Faccelo sentire di nuovo!”

169
Forse non volevano sentire l’intero vangelo a causa del mio accento, pensai. Per risolvere
questo problema, decidemmo di far registrare il vangelo ad un uomo Piraha. Io dicevo una
frase e lui la ripeteva, più naturalmente possibile. Quando tutto fu pronto facemmo
aggiungere da uno studio della musica di sottofondo e degli effetti sonori, in aggiunta a del
montaggio audio professionale. Pensammo che il risultato fosse fantastico.
Ne facemmo numerose copie e comprammo altri lettori di cassette. In pochi giorni i Piraha
ascoltavano la registrazione per ore e ore ogni giorno. Eravamo sicuri che con questi nuovi
strumenti avremmo finalmente avuto successo nel convertire i Piraha.
I lettori erano di dura plastica verde con delle maniglie gialle. La prima volta che mostrai ai
Piraha come usarne uno, sedevo vicino a Xaooopisi, il quale avevo conosciuto da poco, e gli
mostrai come far andare il lettore in modo che la carica elettrica durasse. Ascoltammo. Lui
sorrise e disse che gli piaceva. Io fui contento e mi alzai per lasciarlo da solo ad ascoltare il
nastro.
La sera seguente vidi un gruppo di uomini sedere intorno a un fuoco sulla spiaggia nella riva
opposta a quella del villaggio, mangiando del pesce e ridendo. Li raggiunsi con la mia barca,
con un lettore per le cassette. Chiesi loro se volessero ascoltare la cassetta. “Certo”, dissero
tutti all’unisono entusiasti. Sapevo che gli piacevano le cose nuove che rompevano la
monotonia. E non fui deluso.
Feci partire il lettore e ascoltai l’inizio del vangelo di Marco. Chiesi loro se riuscivano a capire
ciò che veniva detto. Risposero affermativamente, riuscivano a capire, e mi parafrasavano
ciò che veniva detto così che io potessi vedere che capivano. Era ormai notte e sedevamo
sulla sabbia alla luce del fuoco parlando del vangelo. Ero ciò che da sempre avevo sognato.
Ma all’improvviso, Doutor, uno dei quattro uomini, mi fece una domanda.
“Hey Dan, chi è che parla nella registrazione? Sembra Piihoatai.”
“É Piihoatai,” dissi io.
“Be, lui non ha mai visto Gesù. Ci ha detto che non conosce Gesù e che non vuole Gesù.”
E con questa semplice osservazione, i Piraha fecero intendere che queste registrazioni
avrebbero avuto poca se non nessuna influenza spirituale. Le loro menti non avevano intenti
epistemologici.
Ma piuttosto che darmi per vinto, ci procurammo registrazioni audio del vangelo di Marco
affiancare ad una presentazione di diapositive di immagini prodotte commercialmente delle
scene del Nuovo Testamento - Gesù, gli apostoli, e così via.
La mattina dopo uno “spettacolo di diapositive” serale un uomo Piraha anziano, Kaaxaooi,
venne da me per lavorare sulla lingua. Mentre lavoravamo, mi sorprese dicendo
all’improvviso, “Le donne hanno paura di Gesù. Noi non lo vogliamo.”
“Perchè no?” chiesi, immaginando cosa avesse provocato una tale affermazione.
“Perchè la notte scorsa egli è venuto al nostro villaggio ed ha cercato di fare sesso con le
nostre donne. Lui le ha rincorse per il villaggio, cercando di infilare il suo largo pene in esse.”
Kaaxaooi procedette a mostrarmi tenendo le sue mani ad una certa distanza quanto fosse
lungo il pene di Jesù - almeno un metro.
Io non sapevo proprio cosa dire. Non avevo idea se fosse stato un uomo Piraha a far finta di
essere Gesù e far finta in qualche modo di avere un pene lungo, o chi altro ci fosse dietro a
tale scherzo. Chiaramente Kaaxaooi non si stava inventando tutto. Egli stava raccontando
un avvenimento che lo aveva preoccupato. Più tardi, quando chiesi ad altri due uomini dello
stesso villaggio, essi confermarono la storia.
Ciò che rendeva problematica la ragione della mia presenza tra i Piraha era che il
messaggio su cui avevo basato la mia vita e la mia carriera professionale non andava
d’accordo con la cultura Piraha. Perlomeno, una lezione da imparare in questo contesto era

170
che la mia confidenza nell'attrazione universale del messaggio spirituale che stavo portando
si fondava su presupposti sbagliati. I Piraha non erano interessati ad una nuova visione del
mondo. E difendevano la loro visione in modo inoppugnabile. Se avessi preso del tempo per
leggere a proposito dei Piraha prima di recarmi tra loro la prima volta, avrei imparato che i
missionari stavano cercando di convertirli da più di duecento anni. Dal primo contatto
registrato con i Piraha e i Mura, una popolazione strettamente imparentata, nel diciottesimo
secolo, essi svilupparono la reputazione di “recalcitranza” - non c’è traccia ad oggi di nessun
Piraha “convertito” in tutta la storia della tribù. Non che ciò mi avesse dissuaso. Come tutti i
nuovi missionari, ero preparato a tralasciare i meri fatti ed a credere che la mia fede avrebbe
ultimamente superato ogni ostacolo. Ma i Piraha non si sentivano persi, così non sentivano
nemmeno il bisogno di essere “salvati”.
Il principio di immediatezza dell’esperienza significa che se non si ha fatto esperienza diretta
di una cosa, i tuoi racconti su di essa sono completamente irrilevanti. Ciò rende i Piraha
relativamente impermeabili agli sforzi dei missionari che si basano sui racconti del passato
antico che nessuno ancora in vita ha potuto testimoniare. E ciò spiega perchè essi siano
resistiti per così tanto tempo ai missionari. I miti della creazione non posso esaurire questo
bisogno di prove.
Sorprendentemente, tutto ciò ebbe un certo effetto su di me. Il rifiuto dei Piraha di credere a
qualcosa solo perchè io dicevo che avrebbero dovuto farlo non era completamente
inaspettato. Non avevo mai creduto che il lavoro da missionario sarebbe stato facile. Ma
c’era di più di questo nella mia reazione al rifiuto dei Piraha. Il rifiuto del vangelo da parte dei
Piraha fece si che io iniziassi a dubitare della mia stessa fede. Questo mi sorprese. Non ero
un novizio, dopo tutto. Mi ero laureato primo della classe presso l’Istituto Moody Bible.
Avevo predicato per le strade di Chicago, avevo parlato in missioni di salvataggio, ero
andato a predicare porta a porta, e avevo dibattuto con atei ed agnostici nella mia stessa
cultura. Ero ben addestrato nell’apologetica e nell’evangelismo personale.
Ma ora ero stato addestrato anche come scienziato, dove le prove erano cruciali, dove
domandavo per ogni affermazione prove simili a quelle che i Piraha ora stavano
domandando a me. Non avevo le prove che essi mi chiedevano. Avevo solo il supporto
individuale per quel che predicavo, i miei personali sentimenti.
Un’altro ostacolo alla sfida Piraha era il mio crescente rispetto per loro. C’erano così tante
cose che ammiravo di loro. Erano un popolo sovrano [ndt autonomo]. E stavano in effetti
dicendomi di tutte queste mie teorie da un’altra parte. Mi stavano dicendo che il mio
messaggio non avrebbe trovato nessuno disposto a crederci tra di loro.
Tutte le dottrine e la fede che mi erano care erano solo una irrilevante luccicanza nella loro
cultura. Esse erano superstizioni per i Piraha. Ed iniziarono a sembrare sempre più delle
superstizioni anche a me.
Iniziai a dubitare seriamente della natura della fede, l’atto del credere in qualcosa non visto. I
libri religiosi come la Bibbia e il Corano glorificavano questo tipo di fede nel non-oggettivo e
nel controintuitivo - la vita dopo la morte, il parto vergine, gli angeli, i miracoli, e così via. I
valori Piraha dell’immediatezza dell’esperienza e della necessità di testimonianze fecero
sembrare tutto ciò profondamente sospetto. Le loro stesse credenze non si basavano sul
fantastico e sul miracoloso ma sugli spiriti che erano di fatto creature del loro ambiente,
creature che facevano cose normali (sia che io ci credessi o no). Non c’era senso del
peccato tra i Piraha, nessun bisogno di “sistemare” l’umanità e nemmeno se stessi. Vi era
accettazione per le cose nel modo in cui erano, grosso modo. Nessuna paura della morte.
La loro fede era in se stessi. Questa non era la prima volta che dubitavo della mia fede. Gli

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intellettuali brasiliani, il mio stesso passato hippie, e un sacco di altre letture avevano già
fatto nascere in me dei dubbi. Ma i Piraha furono l’ultima goccia.
Così, intorno alla fine degli anni 80, iniziai ad ammettere a me stesso di non credere più in
nessuna articolo di fede o in niente di soprannaturale. Ero un ateo non dichiarato. E non ne
ero orgoglioso. Ero terrificato che qualcuno dei miei cari lo scoprisse. Sapevo che prima o
poi avrei dovuto dirglielo. Ma nel frattempo, ne temevo le conseguenze.
C’è un sentimento tra i missionari e i loro sponsor finanziari che il lavoro da missionario sia
una sfida nobile - un sentimento che si stia mettendo in pratica ciò che si predica quando si
va volontari in parti del mondo pericolose per servire Gesù. E quando il missionario arriva,
luo o lei solitamente riesce ad iniziare dal niente una vita che combina l’avventura con
l’altruismo. Ovviamente, ciò è dovuto al desiderio del missionario di convertire le persone al
suo concetto di verità, ma ci sono cose peggiori al mondo e gli effetti relativi al proselitismo
variano da popolo a popolo.
Quando raggiunsi il momento in cui ero finalmente pronto ad affrontare le conseguenze e a
far sapere agli altri della mia “deconversione”, erano passati circa due decadi dalla
comparsa dei miei primi dubbi. E, come mi aspettavo, quando finalmente annunciai il mio
cambio di credo, ciò ebbe gravi conseguenze sulla mia vita personale. É una decisione
difficile per chiunque dover dire alla propria famiglia ed agli amici più cari che non si
condividono più le loro credenze fondamentali - le credenze che fanno di loro ciò che sono.
Deve essere qualcosa di simile all’annunciare ai propri amici e alla propria famiglia di essere
gay.
Alla fine, la mia perdita della religione e la crisi epistemologica che la accompagnò porto allo
sfasciarsi della mia famiglia - quello che più avevo cercato di evitare.
Il missionario martire presso la popolazione Huaorani, Jim Elliot, una volta disse, in una riga
che ebbe un grande effetto su di me per molti anni dopo che la lessi, “Non è sciocco colui
che da ciò che non può mantenere per ottenere ciò che non può perdere.” Intendeva,
ovviamente, che rinunciare a questo mondo, che non possiamo tenere, è un piccolo prezzo
da pagare per conoscere Dio e dimorare in un paradiso che non possiamo perdere.
Io avevo abbandonato ciò che non potevo tenere, la mia fede, per guadagnare ciò che non
potevo perdere, la libertà da ciò che Thomas Jefferson chiamò “la tirannia della mente” -
seguire autorità esterno piuttosto che la propria ragione.
I Piraha mi fecero dubitare di concetti di verità a cui avevo aderito a lungo e per i quali avevo
vissuto. Il dubitare della mia fede in Dio, insieme alla vita tra i Piraha, mi portarono a
dubitare di un concetto forse ancora più fondamentale del pensiero moderno, il concetto di
verità stessa. Certo, avevo deciso di vivere dentro ad un’illusione - l’illusione della verità. Dio
e la verità sono due facce della stessa medaglia. La vita e il benessere mentale sono
ostacolati da entrambi, almeno se i Piraha hanno ragione. E la qualità della loro vita
interiore, la loro felicità e la loro contentezza, validano fortemente i loro valori.
Dal momento in cui nasciamo cerchiamo di semplificare il mondo intorno a noi. Perchè esso
è troppo complicato per noi; ci sono troppi suoni, troppe immagini, troppi stimoli perche noi
possiamo compiere anche un singolo passo senza decidere a cosa fare attenzione e cosa
ignorare. In specifiche sfere intellettuali chiamiamo i nostri tentativi di semplificazione
“ipotesi” e “teorie”. Gli scienziati spendono le loro carriere e le loro energie in tentativi certi di
semplificazione. Essi chiedono soldi alle organizzazioni finanziatrici per viaggiare o per
costruire qualche nuovo ambiente in cui testare i loro schemi di semplificazione.
Ma questa tipo di “teorizzazione elegante” (ottenere risultati che siano “belli” piuttosto che
particolarmente efficaci) iniziò a soddisfarmi sempre meno. Le persone che contribuiscono a
tali programmi solitamente si considerano come lavoratori che cercano di ottenere una

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relazione sempre più vicina con la verità. Ma come il filosofo pragmatista e psicologo
americano William James ci ha ricordato, non dovremmo prenderci troppo sul serio. Non
siamo molto più che primati evoluti. É piuttosto ridicolo pensare che l’universo sia una
vergine che si mantiene solo per noi. Siamo troppo spesso come i tre uomini cechi che
cercano di descrivere l’elefante; o l’uomo che cerca le sue chiavi dal lato sbagliato della
strada, solo perchè li l’illuminazione è migliore.
I Piraha sono fermamente devoti al concetto pragmatico di utilità. Essi non credono in un
paradiso sopra di noi, ne ad un inferno sotto di noi, o neanche che valga la pena morire per
qualche motivazione astratta. Essi ci danno una opportunità per considerare come una vita
senza assoluti, come la giustizia o la santità e il peccato, possa essere. E la visione è
invitante.
É possibile vivere una vita senza il sostegno della religione e della verità? I Piraha fanno tale
vita. Essi condividono alcune delle nostre preoccupazioni, ovviamente, dato che molte delle
nostre preoccupazioni sono dovute alla nostra biologia, indipendemente dalla nostra cultura
( le nostre culture attribuiscono significati a preoccupazioni altrimenti ineffabili, ma non meno
reali). Ma essi vivono la maggior parte della loro vita privi di queste preoccupazioni perchè
hanno indipendentemente scoperto l’utilità di vivere un giorno alla volta. I Piraha
semplicemente fanno dell’immediato il loro centro dell’attenzione, e così, in un solo colpo,
eliminano grandi fonti di preoccupazioni, di paura, e di disperazione che affliggono così tanti
nelle società occidentali.
Essi non hanno sete di verità in quanto realtà trascendentale. Infatti, il concetto di verità non
trova spazio tra i loro valori. La verità per i Piraha è acchiappare un pesce, remare su una
canoa, ridere con i propri bambini, amare il proprio fratello, morire di malaria. Questo fa di
loro esseri più primitivi? Molti antropologi suggeriscono di si, ed è il motivo per cui tali
antropologi si preoccupano così tanto di scoprire quale sia per i Piraha la nozione di Dio, del
mondo, e della creazione.
Ma c’è una interessante e alternativa maniera di vedere le cose. Forse è la presenza di
questi preoccupazioni che fa una cultura più primitiva, e la loro assenza che rende una
cultura più sofisticata. Se ciò è vero, i Piraha sono un popolo molto sofisticato. Sembra ciò
inverosimile? Chiediamo a noi stessi se sia più sofisticato guardare l’universo con paura,
preoccupazione, e credendo di poterlo comprendere del tutto, oppure godere della vita come
viene, riconoscendo la probabile futilità di cercare una verità o un Dio?
I Piraha hanno costruito la loro cultura intorno a ciò che è utile per la loro sopravvivenza.
Essi non si preoccupano di ciò che non sanno, ne pensano di poter sapere tutto. Allo stesso
modo, non bramano i frutti della altrui nè le soluzioni. Le loro idee, non tanto nella maniera in
cui le ho sterilmente riassunte qui, ma piuttosto come esse vengono vissute nella vita
quotidiana dei Piraha, sono state per me estremamente utili e persuasive, perchè mi hanno
aiutato nell’osservare la mia vita e le credenze che avevo, molte delle quali senza ragione.
Molto di quel che sono oggi, incluse le mie idee nonteistiche riguardo al mondo, le devo
almeno in parte ai Piraha.

Epilogo
Perchè interessarsi delle altre culture e delle altre lingue?

Il Hans Rausing Endangered Languages Project [ndt, il Progetto Hans Rausing per le Lingue
a Rischio] ha sede presso la Scuola di Studi Orientali e Africani (SOAS) dell’università di
Londra. Il progetto è fondato da una donazione di 20 milioni di sterline di Lisbet Rausing, la

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figlia di Hans Rausing. L’obiettivo del progetto è documentare lingue del mondo che sono in
pericolo di estinzione.
Perchè qualcuno dovrebbe donare 20 milioni di sterline per studiare lingue parlate
principalmente da inermi tribù in parti del mondo che sono, per dirlo con un eufemismo, fuori
dalle rotte del turismo? Dopo tutto, si potrebbe senza dubbio affermare che le lingue vanno e
vengono e che la loro scomparsa, o la loro diffusione, o la formazione di nuove lingue, è
governata dalle forze della selezione naturale. Una lingua morente è un’inconvenienza per
coloro che devono impararne una nuova perchè la propria non è più utile. Di fatto, se si
crede che la Torre di Babele fosse letteralmente una maledizione o solamente una metafora
dei problemi umani, ridurre il numero delle lingue parlate e omogenizzando o “globalizzare”
le lingue umane può esser vista come cosa buona.
Nella pagina web del Progetto Rausing, essi illustrano parte della motivazione per il loro
interesse nelle lingue a rischio:

Oggi, ci sono circa 6500 lingue e metà di esse sono sotto minaccia di estinzione entro i
prossimi 50 - 100 anni. Ciò costituisce un disastro sociale, culturale e scientifico perchè le
lingue esprimono la singolare conoscenza, la storia, e la visione del mondo delle loro
comunità; e ogni lingua è una variazione specialmente sviluppatasi della capacità umana di
comunicazione.

Ciò mi sembra convincente. Si pensi a ciò che la combinazione di lingua e cultura Piraha ci
ha insegnato a proposito della cognizione umana. Adesso si pensi a tutte le lezioni simili che
potrebbero essere imparate attraverso altre lingue a rischio.
Le lingue diventano a rischio per due ragioni. Esse sono a rischio di estinzione quando le
persone che le parlano sono a rischio. I Piraha sono rimasti in poco meno che 400 parlanti.
Essi sono una popolazione fragile perchè possiedono poca resistenza alle malattie esterne e
vengono esposti sempre di più al mondo esterno, spesso il governo brasilino esercita poco o
nessun controllo su chi entra nelle loro zone di riserva. Così la lingua Piraha è in pericolo
perchè la popolazione Piraha è in pericolo - la loro sopravvivenza come popolo è
minacciata.
Un’altra ragione per cui le lingue diventano a rischio è ciò che potremmo chiamare l’effetto
delle “forze di mercato” o selezione naturale. I parlanti di alcune minoranze linguistiche,
come l’irlandese, il diegueno, il banawa, e altri, iniziano ad abbandonare queste lingue in
favore di quelle nazionali (inglese,portoghese, e così via) perchè fare ciò è economicamente
vantaggioso. I parlanti banawa del Brasile abbandonano le loro terre per andare a lavorare
per i brasiliani perchè oramai dipendono dal bisogno di beni industriali. Ciò a sua volta li
inserisce in un ambiente dove parlare la loro lingua può farli diventare oggetto di derisione, e
in ogni caso, si trovano in un ambiente dove il portoghese è l’unica lingua utile per lavorare
con i brasiliani. Così il banawa ha iniziato la sua scomparsa.
In questo secondo caso, tuttavia, la lingua Piraha non è in pericolo perchè i Piraha non sono
interessati a parlare il portoghese, ne nessun’altra lingua. Certamente essi non hanno
pressioni alcune che li spinga a smettere di parlare il Piraha in favore di altre lingue.
Una domanda più generale che vale la pena farsi alla luce della nostra discussione sulla
unicità degli abbinamenti di lingue e culture è questa: quale è la perdita per noi che non
parliamo quella lingua che sta scomparendo? É veramente una perdita per noi?
Chiaramente si.
Il numero di lingue veramente parlate nel mondo in un dato momento della storia umana è
soltanto un frammento del forse infinitamente più largo numero delle possibili lingue umane.

174
Una lingua è un deposito di esperienze culturali specializzate. Quando una lingua viene
persa, perdiamo la conoscenza delle parole e della grammatica di questa lingua. Tale
conoscenza non potrà mai venir recuperata se la lingua non si è studiata o registrata. Non
tutta tale conoscenza è di immediato beneficio pratico, ovviamente, ma è vitale per
insegnarci differenti modi di pensare la vita, nuovi modi di vedere la nostra esistenza
quotidiana sul pianeta Terra.
Uno dei gruppi che ho studiato oltre i Piraha è quello dei Banawa, uno dei popoli di Indiani
dell’Amazzonia che producono il curaro, un veleno ad azione veloce ed basato sulla mortale
stricnina, utilizzato nelle frecce e nei dardi delle cerbottane. L’abilità nel produrre questo
veleno è il risultato di secoli di tradizione e sperimentazione, codificato nella lingua Banawa
attraverso i termini per le piante e le procedure utilizzate. Tutto ciò è in pericolo di venir
perduto, mentre gli ultimi 70 parlanti Banawa rimasti gradualmente passano al portoghese.
Per molte persone, come i Banawa, la perdita della propria lingua porta una perdità di
identità e di senso di comunità, una perdita di spiritualità tradizionale, e perfino la perdita
della volontà di vivere. Salvare lingue come il Banawa, il Piraha, e migliaia di altre lingue
intorno al mondo richiederà un incredibile sforzo da parte di linguisti, antropologi, e altri
individui interessati. Abbiamo bisogno, come minimo, di identificare quali lingue siano a
rischio nel mondo, per imparare di ognuna di esse abbastanza da produrre un dizionario,
una grammatica, e una forma scritta della lingua, per addestrare i parlanti nativi di tale lingue
al ruolo di insegnanti e linguisti, e da assicurarsi un sicuro supporto governativo per
proteggere e rispettare tali lingue e i loro parlanti. Questo è un compito scoraggiante, ma
vitale.
Il punto di vista che questo libro appoggia è che ogni coppia di lingua e cultura ci mostra
qualcosa di unico riguardo al modo in cui un sottogruppo della nostra specie si è evoluto per
adattarsi al mondo intorno a se. Ogni popolo risolve problemi linguistici, psicologici, sociali, e
culturali in modi diversi. Quando una lingua muore senza documentazione, perdiamo un
pezzo del puzzle dell’origine del linguaggio umano. Ma forse ancora più importante,
l’umanità perde un esempio di come si potrebbe vivere, di come sopravvivere nel mondo.
Con il terrorismo e il fondamentalismo che minacciano di rompere i legami della verità e
delle aspettative comuni che tengono le società insieme, gli esempi di lingue a rischio
diventano ancora più preziosi e la loro perdita ancora più dannosa per le nostre speranze di
sopravvivenza quale specie.
Gruppi come i Piraha offrono nuovi, profondamente utili, e alternativi esempi di come
affrontare i perenni e onnipresenti problemi quali la violenza, lo stupro, il razzismo, il
trattamento dei membri disabili della società, le relazioni genitori-figli, e così via. Il fatto, ad
esempio, che nessun gruppo dell’Amazzonia con cui abbia lavorato possegga il “madrese”,
ossia un linguaggio infantile - che è uno speciale, diluito modo di parlare ai bambini piccoli -
è interessante. La mancanza del linguaggio infantile tra i Piraha sembra basarsi sulla
credenza dei Piraha adulti che tutti i membri della società siano uguali e dunque che i
bambini non dovrebbero venir trattati differentemente dagli adulti, grosso modo. Ognuno è
responsabile per la comunità e la comunità si prende cura di ognuno.
Osservando più da vicino la cultura e la lingua Piraha, ci sono altre, ugualmente importanti
lezioni da imparare. I Piraha non mostrano segni di depressione, fatica cronica, ansia
estrema, attacchi di panico, o altri problemi psicologici comuni in molte società
industrializzate. Ma questo benessere psicologico non è dovuto, come alcuni potrebbero
pensare, alla mancanza di pressioni. Sarebbe etnocentrico supporre che solo le società
industrializzate producano pressione psicologica, o che le difficoltà psicologiche si trovino
solo in tali società.

175
Vero, i Piraha non devono preoccuparsi di pagare le bollette in tempo o quale università
scegliere per i propri figli. Ma affrontano comunque malattie che mettono la loro vita in
pericolo (come la malaria, le infezioni, i virus, leishmaniosi, e così via). E hanno anche una
vita amorosa. E devono provvedere ogni giorno alle loro famiglie. Hanno una mortalità
infantile molto alta. Affrontano regolarmente pericolosi rettili, mammiferi, insetti, e altre
creature. Essi vivono minacciati dalla violenza dei forestieri che frequentemente invadono le
loro terre. Quando mi trovo con loro, nonostante faccia una vita molto più facile di quella dei
Piraha, trovo comunque pericolosa e difficile la vita nella giungla. Il punto è, tale vita potrà
mettere in difficoltà me, ma non loro.
Non ho mai sentito un Piraha dire di essere preoccupato. Di fatto, per quanto ne so, i Piraha
non hanno una parola nella loro lingua per il termine preoccuparsi. Un gruppo di visitatori,
psicologi del Dipartimento di Scienze Cognitive del Massachusetts Institute of Technology,
commentò che i Piraha apparivano essere le persone più felici che essi avessero mai visto.
Chiesi loro come potessero verificare una tale affermazione. Essi risposero che un modo
potrebbe consistere nel misurare il tempo che il Piraha medio passa a sorridere e a ridere e
poi compararlo con il numero di minuti che membri di altre società, come ad esempio gli
americani, passano a sorridere e a ridere. Essi suggerirono che i Piraha avrebbero vinto
senza dubbio. Tra le più di venti popolazioni isolate dell’Amazzonia che ho studiato nel corso
di trent’anni, solo i Piraha manifestano questa inusuale felicità. Molti altri, se non tutti, gruppi
che ho studiato sono spesso imbronciati e riservati, divisi tra il desiderio di mantenere la
proprio autonomia culturale e quello di ottenere i beni del mondo esterno. I Piraha non
soffrono di tale conflitto interiore.
La mia personale impressione, costruita sopra la mia intera esperienza con i Piraha, è che i
mio collega del MIT avesse ragione. I Piraha sono un popolo stranamente felice e contento.
Mi azzarderei addirittura a suggerire che i Piraha siano più felici, più in salute, e meglio
adattati al loro ambiente che qualsiasi Cristiano o altra persona religiosa che abbia mai
conosciuto.

Ringraziamenti

Vorrei ringraziare le persone che hanno reso possibili le esperienze raccontate in questo
libro e la scrittura del libro stesso. Prima di tutti i Piraha. Essi mi hanno insegnato tante cose
nel corse degli ultimi decenni della mia vita. La loro genialità, la loro bellezza, la loro
pazienza, la loro amicizia fedele, e il loro amore per me e la mia famiglia hanno reso il mio
mondo un posto migliore.
Poi vorrei ringraziare gli impiegati della Fonazione Nazionale Indiana Brasiliana (FUNAI)
presso Porto Velho, specialmente Seu Osman e Seu Romulo, per il loro supporto alla mia
ricerca per tanti anni. Io e Osman iniziammo a lavorare con gli Indiani d’Amazzonia circa
nello stesso periodo. Sono sempre stato impressionato dalla sua dedizione altruista verso la
causa degli Indiani del Brasile.
La mia ex moglie, Keren, fu con me durante la maggior parte delle esperienze raccontate
qui, e la ringrazio per i molti ricordi. Shannon, Kristene, e Caleb mi aiutarono a venir fuori
sano ed in vita da ogni pericolo e da ogni prova. Senza la mia famiglia nessuna delle
esperienze raccontate in questo libro sarebbe potuta succedere. I cambiamenti raccontati
nel capitolo 17 hanno reso più tese le nostre relazioni, ma come l’apostolo Paolo
giustamente affermò, l’amore è più grande di tutti gli altri sentimenti.

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Steve Sheldon, che mi precedette come missionario tra i Piraha, mi supportò come amico e
come amministratore di missione per molti anni. Dalla prima volta in cui mi presentò ai
Piraha tanti anni fa, per poi battere a macchina la mia tesi di dottorato, e infine la
corrispondenza tra noi riguardo ogni argomento che è andata avanti per gli ultimi trent’anni,
Steve mi ha aiutato più di quanto potrò mai ringraziarlo. In particolare, voglio ringraziarlo per
l’esempio che lui e il suo predecessore, il primo missionario tra i Piraha, Arlo Heinrichs,
hanno dato attraverso la loro relazione con le “teste dritte”. Molti Piraha ancora ricordano di
come Arlo andasse a caccia per loro e li nutrisse durante l’epidemia di morbillo dei primi anni
60. Gli anziani danno il merito della sopravvivenza del popolo Piraha ad Arlo e a Steve.
Spero che l’aiuto medico da me fornito ai Piraha per questi ultimi tre decenni sia stato una
piccola ricompensa per il loro inestimabile contributo nella mia vita - spero che i bambini che
sarebbero morti ma che invece sono vissuti grazie a qualcosa così semplice come una
iniezione di clorochina o penicillina ricorderanno Paoxaisi.
Non avrei potuto scrivere questo libro senza il generoso supporto dei miei colleghi alla
Università di Stato dell’Illinois. Non riesco ad immaginare una casa accademica più
accogliente e d’aiuto. I miei colleghi al Dipartimento di Lingue, Letterature, e Culture hanno
sopportato il mio entusiasmo per questo progetto. Il presidente del ISU [ndt, università
dell’Illinois], Al Bowman, è stato d’incoraggiamento in varie occasioni. Gary Olson è stato il
capo dipartimento più d’aiuto e d’incoraggiamento che abbia mai avuto ed è un piacere
ricordare il suo supporto qui.
Voglio anche ringraziare le persone che mi hanno aiutato leggendo e commentando le prime
stesure delle varie parti del libro. Alcuni di loro hanno fornito commenti così dettagliati che
senza il loro generoso aiuto i libro sarebbe stato decisamente inferiore: Manfred Krifka,
Shannon Russell, Kristene Diggins, Linda Everett, Mitchell Mattox, Mike Frank, Heidi Harley,
Jeanette Sakel, Ted Gibson, Robert Van Valin, Geoffrey Pullum, Cormac McCarthy, C.C.
Wood, e John Searle. David Brumble, il mio precedente capo dipartimento presso
l’Università di Pittsburgh, ha dato dei contributi che vanno ben oltre gli obblighi dell’amicizia.
Con umorismo e franchezza, mi diede suggerimenti che aiutarono ad esporre certe cose con
più chiarezza.
Nel corso degli ultimi venticinque anni, le mie ricerche sulle lingue Amazzoniche sono state
supportate dalla Fondazione Nazionale di Scienze, dalla Sovvenzione Nazionale per gli
Studi Umanistici, dalla Unione Europea (tramite una borsa di studio per la Caratterizzazione
del Linguaggio Umano secondo la Complessità Strutturale), il Concilio di Ricerca per gli
Studi Artistici e Umanistici del Regno Unito, e la Fondacao de Amparo a Pesquisa do Estado
de Sao Paulo. Grazie a tutte queste istituzioni per avermi permesso di usare i soldi delle
tasse dei cittadini brasiliani, europei, britannici, e americani per lo studio delle lingue a
rischio dell’Amazzonia.
Il fotografo del The New Yorker Martin Schoeller fu incredibilmente generoso nel mettere a
disposizione le sue foto dei Piraha per questo libro. Lo scrittore del The New Yorker John
Colapinto fu indirettamente d’aiuto nell’innalzare la qualità dei miei scritti riguardo la vita tra i
Piraha. Molte volte durante la scrittura di questo libro, ho preso ispirazione dalla “prosa
senza morte” di John.
Il mio editore alla Phantom, Edward Kastenmeier, ha generosamente donato molto del suo
tempo per discutere questo libro con me in numerose occasioni, sempre cercando di
aiutarmi a descrivere i Piraha più efficacemente e lasciare che fossero giustamente loro il
centro dell’attenzione di queste pagine. John Davey, il mio editore presso la Profile Books,
allo stesso modo mi ha offerto molti commenti utili e parole di incoraggiamento attraverso la
stesura del libro.

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Infine, ma più importante, voglio ringraziare il mio agente, Max Brockman. Fu la visione di
Max che ha reso questo libro realtà. La sua fiducia mi convinse che forse avrei potuto
farcela a scrivere questo libro.

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