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Kati Hirschel è una Berlinese

trapiantata a Istanbul da una quindicina


d’anni. Gestisce una libreria spe-
cializzata in gialli, per il resto il suo
tempo è preso a occuparsi di una
quantità di piccoli affari pratici che la
sballottano da un estremo all’altro
della sconfinata città che abbraccia il
Bosforo. E parla, conversa continua-
mente e con chiunque, di ogni ceto
occupazione e risma, amiche e vicini,
amori, e personaggi con cui viene in
contatto per il lavoro o per le altre in-
combenze: storie, particolari, vicende,
incontri che finiscono per sommergerla
di atmosfere metropolitane e, con lei,
chi la segue nella sua giornata. E il
ritmo di questa spericolata città (ultimo
pezzo probabilmente di un cosmo-
politismo orientale che non può so-
pravvivere che nell’Europa in cui
l’Oriente è diventato mito) che la attra-
versa e i delitti in cui si lascia
coinvolgere da investigatrice involon-
taria funzionano inconsciamente come
ottimi pretesti per tuffarsi nel ribollente
miscuglio di vizio affari e politica su
cui galleggia la città. Un affarista è
stato ucciso, un uomo che controllava
lucrosamente un numero di posteggi in
centro e speculava in aree edificabili.
Caso vuole che il delitto sia avvenuto
poco dopo un alterco con Kati, per via
di un appartamento che la libraia vor-
rebbe comprare. Facile, per la polizia,
sospettare di lei, ma è soprattutto l’in-

In copertina:
Olio su tela di David Hockney, 1978 (particolare).
La memoria

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DELLA STESSA AUTRICE

Hotel Bosforo
Divorzio alla turca
Tango a Istanbul
Esmahan Aykol

Appartamento a Istanbul

Traduzione di
Emanuela Cervini

Sellerio editore
Palermo
2004 © Diogenes Verlag AG, Zürich
2011 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo
e-mail: info@sellerio.it
www.sellerio.it

Questo volume è stato stampato su carta Palatina prodotta dalle


Cartiere di Fabriano con materie prime provenienti da gestione
forestale sostenibile.

Aykol, Esmahan <1970>

Appartamento a Istanbul / Esmahan Aykol ; traduzione di


Emanuela Cervini. - Palermo : Sellerio. 2011.
(La memoria ; 849)
Tit. orig.: Bakschisch
EAN 978-88-389-2554-2
1. Cervini, Emanuela
894.3534 CDD-22

CIP – Biblioteca centrale della Regione siciliana «Alberto Bombace»

Titolo originale: Bakschisch


Appartamento a Istanbul
Sempre per Ö.
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Eravamo seduti in macchina, fuori scorrevano le luci


di Esentepe. Selim non parlava.
«Certo che sono proprio strani. E i discorsi che
fanno… ». Mi riferivo ai suoi amici avvocati e alle loro
compagne ossigenate. Stavamo tornando da una
terribile cena in un ristorante italiano di lusso. Gli
avvocati e le rispettive compagne mi avevano odiato fin
dal primo istante e io avevo odiato loro. Selim era
rimasto seduto in silenzio per quasi tutta la sera, con il
medio della destra che tamburellava sul tavolo. Anche
dopo che eravamo saliti in macchina non aveva detto
una parola.
«Per loro gli argomenti seri sono tabù» continuai.
Selim non replicò.
«E tutti quei soldi per un chianti di pessima
qualità…».
Nessuna risposta. Lo guardai con la coda dell’occhio.
Teneva lo sguardo fisso sulla strada e guidava senza
espressione. All’improvviso tutti gli odori che
aleggiavano nell’auto mi invasero le narici: il suo
dopobarba, il mio profumo, l’odore dei sedili in pelle, il
lieve aroma di tabacco delle mie mani… Mi venne il

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voltastomaco. Non solo per gli odori, ma anche per la
piega che il nostro rapporto stava prendendo. Per tutto
quello che non si poteva dire. Per tutte le cose di cui non
potevamo parlare, per cui non potevamo litigare. Per
tutto quello che ciascuno di noi, secondo l’altro, doveva
capire da solo. Per la lingua degli orientali, basata su
allusioni, gesti e mimica facciale.
Selim era ancora chiuso nel suo silenzio.
Il suo atteggiamento mi fece uscire dai gangheri.
Avrei voluto avventarmi sul suo viso con gli artigli
sfoderati. Infrangere il parabrezza con un calcio.
Ficcargli in bocca tutti i mozziconi che si trovavano nel
posacenere.
Dio! Mi irritavo da sola. Ma lui mi irritava ancora di
più.
«Fermati, voglio scendere».
Quell’idiota di Selim obbedì ancor prima che finissi
di parlare. Che roba! Sembrava un film di serie B. La
giovane coppia litiga. Lei scende dalla macchina
sbattendo la portiera. Poi fa l’autostop e viene violentata.
Oppure le capita qualcos’altro.
Avrei voluto seppellirlo sotto una valanga di insulti.
In due lingue: tedesco e turco.
Ma mi trattenni. Non mi andava di bestemmiare.
Nello stomaco avevo una spigola che costava diversi
milioni di lire turche. Spigola in crosta di non so che su
letto di salsa di non so cosa. Sul menu era presentata
così, in modo altisonante. L’aveva pagata il mio uomo,
legale specializzato in diritto commerciale e «primo
contribuente di Istanbul» dell’anno. Presi un fascio di

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banconote dalla borsetta «la lira turca ha un qualche
valore solo a fasci «e uscendo dall’auto lo posai sul
sedile. No, non avrei sbattuto la portiera. La cosa era già
abbastanza drammatica, terribile e dolorosa.
Prima che potessi chiudere lo sportello, lui si piegò
sul sedile del passeggero, mi afferrò per un braccio e
sussurrò: «Dai, non fare la stupida».
Le sue parole mi arrivarono con la forza di un ceffone.
Mi colpirono come uno schiaffo in pieno viso.
Avrebbe potuto dire: «Non renderti ridicola». Oppure:
«Sei impazzita?». Invece no.
Chiusi la portiera.
Come succede in simili momenti, di colpo tutti gli
altri problemi persero importanza. La ricerca di un
nuovo appartamento. La tassa sui rifiuti che da anni
dimentico di pagare. I tacchi altissimi e ridicoli che
ultimamente vanno di moda. E tutto il resto.

«Ti dispiacerebbe risalire?». Selim era accanto a me.


Aveva riaperto la portiera e stava aspettando che
entrassi in macchina. Il fascio di banconote era ancora
sul sedile. Se fossi rientrata, avrei dovuto prendere i
soldi e rimetterli nella borsetta.
Solo per questo «per non dover prendere le
banconote e infilarle in borsa «chiamai con un cenno il
taxi che stava passando.

Appena tornata a casa, cominciai a tormentarmi. Era


colpa mia se avevamo litigato? Avevo scatenato una
tempesta in un bicchiere d’acqua perché avevo perso la

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pazienza?
Devo ammettere che sono cambiata non poco
dall’ultima volta che ci siamo incontrati, cari lettori.
Adesso ho il doppio mento, i capelli arancioni, un
telefono cellulare (un modello vecchio, però) e una
cerchia di amiche che fanno uso di antidepressivi. Sono
sempre nervosa, ma non so perché. Forse per la
faccenda dell’appartamento.
Ah, l’appartamento! Alcuni di voi ricorderanno che
ne ho uno enorme e bellissimo a Cihangir, il quartiere
più amato dagli intellettuali di Istanbul. Beh, ormai devo
usare il passato: avevo. All’inizio del mese scorso il
proprietario mi ha aumentato l’affitto di centocinquanta
euro. Se ora vi state chiedendo perché parlo di euro per
un appartamento in Turchia, lasciate che vi dica che non
avete la minima idea di come funzionano le cose a
Istanbul.
Sono quattordici anni che vivo qui, in questa città che
si estende tra Europa e Asia, che conta ufficialmente
otto milioni di persone ma in realtà ne ospita circa
tredici milioni, che fissa le proprie regole ed è piena di
padroni di casa che, per proteggersi dall’inflazione,
vogliono solo affittuari disposti a pagare in dollari o
euro.
C’è poco da fare: o mangi questa minestra o salti
dalla finestra. O paghi centocinquanta euro in più o ti
cerchi un altro posto.
Mi trasferirò. Ammesso che riesca a trovare un altro
appartamento. Fino al litigio con Selim avrei potuto
decidere di andare a vivere con lui, eliminando dalla

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mia vita il problema dei padroni di casa. Avrei potuto.
Come vedete, un altro verbo al passato. Per di più
condizionale.

Il mattino dopo, quando aprii gli occhi, il mio primo


pensiero non andò alla ricerca dell’appartamento, ma
alla terribile frase pronunciata da Selim. Se devo dirla
tutta, non mi sembrò un buon segno. Ero una donna con
un lavoro e degli obblighi, non potevo fare la ragazzina
che cade in depressione per amore. Infilai un paio di
scarpe con tacco vertiginoso e uscii di casa per
riprendere la ricerca dell’appartamento.
Percorrere le vie accidentate di Istanbul non è mai
facile, ma camminare con i tacchi alti è una vera e
propria tortura. Per fortuna non dovevo andare lontano,
l’agenzia immobiliare Rüstem si trova proprio dietro
l’angolo, al numero 26 di via Akarsu.
Non ne posso più, mi basta sentire la parola
«immobile» o «agente immobiliare» e vedo rosso. Da
due settimane trascorro le mie giornate visitando
appartamenti, come se mi pagassero per farlo. È vero,
ho trovato il tempo per tingermi, ma questo conferma il
vecchio detto che le donne affrontano i periodi di crisi
cambiando colore o taglio di capelli. È un cliché, ma
non arricciate il naso. Se lo dico io, dev’esserci per forza
qualcosa di vero. Sono sempre la prima a condannare i
pregiudizi dei turchi nei confronti dei tedeschi. D’altra
parte i cliché tratti dalla vita reale non sono poi così
assurdi. Conosco i tedeschi meglio di chiunque altro, so
quanto siano avari, tristi e pedanti. Obbediscono

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ciecamente all’autorità e odiano tutti quelli che non
sono come loro.

Non appena varcai la soglia, Rüstem, l’agente


immobiliare, si alzò dalla poltrona. Non c’era da stupirsi:
se avessi deciso di trasferirmi in uno dei suoi scalcinati
appartamenti, avrebbe preso il dodici per cento
dell’affitto annuale come commissione.
Uscii dall’agenzia con il suo assistente, che doveva
mostrarmi un trilocale in via Özoğul.
«Dall’appartamento si gode una vista spettacolare»
disse. «Bisogna fare solo qualche piccolo lavoro».
Annuii.
L’idea di dover sistemare l’appartamento non mi
spaventava. Ormai sono mezza turca. Però sono anche
tedesca e per spendere un po’ meno preferisco
tinteggiare le pareti da sola. Il trilocale che dovevo
vedere era molto più piccolo dell’appartamento in cui
vivevo, ma neanche questo mi disturbava. Mi sarei
sbarazzata di alcune cose. Semplice.
La fama della strada di Cihangir in cui si trovava
l’appartamento, però, mi metteva una certa ansia. Via
Özoğul è una strada senza uscita con vista sul mare.
Lunghe scale scendono da lì fino in via Fındıklı. Il
luogo non è famoso per il bel panorama, bensì per i
borseggiatori che lo infestano. Si parla di donne che non
hanno mollato la borsa e sono state trascinate sul
selciato. Di sera le donne che abitano in via Özoğul non
possono tornare a casa da sole. Perfino i tassisti si
rifiutano di entrare in questo vicolo cieco.

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Se avessi trascorso la mia vita in uno di quei terribili
quartieri piccolo borghesi di nuova costruzione sulla
sponda asiatica del Bosforo, in uno di quei casermoni
dove bisogna stare piegati per non battere la testa contro
il soffitto, probabilmente avrei fatto salti di gioia alla
vista di via Özoğul. No, non probabilmente. Senza
dubbio. Invece da quando avevamo imboccato la strada
non facevo altro che immaginare i borseggiatori che
scappavano giù per le scale in direzione di via Fındıklı.
Il fatto che conoscessi Cihangir come le mie tasche non
mi era di grande aiuto nella ricerca di un nuovo
appartamento. Anzi.

Immersa nei miei pensieri, mi avviai verso Kuledibi e


il mio adorato negozio. Da un po’ di tempo Selim
(Seliiim!!!) e i miei amici tentano di convincermi che a
Istanbul ci sono altri quartieri dove si può vivere.
Dicono che dovrei ampliare i miei orizzonti. Purtroppo,
per quanto riguarda la zona di residenza sono
decisamente conservatrice. Non solo per Istanbul. Se
per esempio vivessi a Berlino, di sicuro non abiterei a
Zehlendorf, quartiere verde e «nobile», e neanche a
Prenzlauer Berg, dove si stabiliscono tutti gli
intellettuali. Senza dubbio rimarrei a Kreuzberg, in
mezzo a turchi dalle folte sopracciglia che sputano per
terra e fanno le curve a tutta velocità sgommando
sull’asfalto con le loro auto nuove.
Vivo a Cihangir, ma questo non significa che il
quartiere mi entusiasmi in modo particolare.
Sinceramente non so cosa potrebbe esserci di

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entusiasmante in un posto del genere. Forse
l’intellighenzia turca che si pavoneggia ascoltando
Bach.
Abito a Cihangir solo perché non ho alternative.
Dovrei forse vivere a Nişantaşı, dove le donne si
dividono tra il parrucchiere e il centro commerciale? O
a Moda, dove probabilmente crollerà tutto al prossimo
grande terremoto? I quartieri affacciati sul Bosforo sono
talmente cari che non li prendo nemmeno in
considerazione. E poi ho bisogno di un appartamento
che non sia troppo lontano dal negozio. Non sono più
giovanissima ed è più salutare che la mattina vada al
lavoro a piedi invece che in macchina. Secondo gli
scienziati, una passeggiata mattutina a stomaco vuoto
aiuta l’organismo a bruciare il grasso.

Mentre mi dirigevo verso Kuledibi, mi abbandonai a


pensieri tutt’altro che allegri. Le possibilità di trovare un
appartamento decente erano scarse. Entrando in libreria
vidi la mia aiutante Pelin seduta dietro il bancone con
aria abbattuta. Da quando aveva litigato ferocemente
con il suo ragazzo, tre giorni prima, era caduta in
depressione. Avevo giurato a me stessa che anche in
caso di violenta arrabbiatura non avrei detto niente che
potesse ferirla. Non c’era nulla che potessi dire senza
correre il rischio di peggiorare la situazione, quindi
rimasi in silenzio. Del resto non ero la persona più
adatta a darle buoni consigli. Forse qualcuno avrebbe
dovuto consigliare me.
Preparai una tisana per tutte e due. Aspetto e odore

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non erano certo gradevoli, ma l’importante era che ci
facesse bene. Con la tazza in mano mi sedetti sulla sedia
a dondolo e oscillando avanti e indietro fissai un punto
sopra la vetrina. Mi dondolavo e bevevo la tisana.
Seduta al bancone, Pelin ignorava la sua tazza.
Questa era la situazione quando sulla porta del
negozio apparve una donna: la mia amica Candan.
Indossava un paio di pantaloni neri e una maglietta dello
stesso colore. Ai piedi aveva scarpe eleganti con tacco
robusto. Scarpe che non rispecchiavano la moda
dell’estate, ma che già da lontano sembravano molto
comode. Sul retro della maglietta spiccava la scritta
young at heart, ma non la vidi subito, dovetti aspettare
che Candan si girasse.
«A cosa dobbiamo questo onore?» domandai.
L’ironia era più che giustificata; dopo la festa di
inaugurazione, quattro anni prima, non aveva più messo
piede nel mio negozio.
«Cerco un libro di Barbara Vine» rispose lei. «Forse
tu ce l’hai».
Scoppiai a ridere. Candan ha una grande libreria a
Beyoğlu, libreria dove, fra parentesi, ha lavorato anche
Pelin. Era assurdo che si rivolgesse a qualcun altro per
avere un’opera particolare.
«Sapete che Barbara Vine è lo pseudonimo di Ruth
Rendell?».
No, queste parole non uscirono dalla mia bocca, ma
da quella di Pelin, la mia aiutante saputella. Con
un’occhiataccia la costrinsi a tacere.
Candan sorrise e molto gentilmente ci chiese come

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stavamo. Rimango sempre affascinata dall’autocontrollo
delle vere donne d’affari.
Lasciammo l’inopportuna Pelin in negozio e
andammo al Ceneviz, un bel locale non lontano dalla
piazza principale di Kuledibi dove si può gustare un tè
molto più buono del mio. Parlammo di tante cose, ma
incredibilmente riuscii a non farmi scappare neanche
una parola su Selim e sul nostro litigio. Per qualche
motivo non avevo voglia di affrontare l’argomento.
Cominciai a lamentarmi delle difficoltà incontrate nella
ricerca dell’appartamento. Non è facile spiegare a
un’amica facoltosa che ci si deve trasferire solo perché
l’affitto mensile è aumentato di centocinquanta euro.
All’inizio Candan ascoltò in silenzio, forse per non dire
qualcosa di sbagliato. A un certo punto, però, non riuscì
più a trattenersi. «Comprati una casa».
Mi controllai a fatica. Avrei voluto rispondere: «Cosa?
Con quali soldi? Ti ho appena detto che devo trasferirmi
perché non posso pagare un affitto più alto. Non
prendermi in giro!». Finché si tratta di libri, scrittori,
politici e altra gente, io e Candan siamo in perfetto
accordo. Ma quando si parla di denaro viviamo in due
mondi completamente diversi. Per me centocinquanta
euro sono un motivo per cambiare casa, per lei possono
essere la mancia da dare al parrucchiere.
«Trovati un appartamento che costi poco» si affrettò
ad aggiungere Candan vedendo la mia espressione.
Invece di rimproverarla risposi: «Voglio rimanere in
zona. Devo trovare un posto che non sia troppo lontano
dal negozio».

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«È proprio quello che sto dicendo: devi trovarti un
appartamento a buon mercato in questa zona. Sai che la
casa di Cihangir in cui abito appartiene a una
fondazione per le minoranze, no? Kuledibi e Cihangir
sono piene di edifici e appartamenti del genere. Gli
alloggi si possono comprare o prendere in affitto.
Conosco una persona che lavora per la Direzione
generale. Mi ha detto che in questa zona ci sono diversi
spazi da affittare. Sono venuta proprio per vedere un
edificio». Mi strinse un braccio e rise. «Sto pensando di
aprire una libreria a Kuledibi e di farti concorrenza».
Ignorai l’ultima frase. «Quindi la Direzione generale
per le fondazioni ha degli appartamenti da vendere?».
«Sì. In realtà la Direzione generale ha affittato diversi
edifici, ma quelli in vendita sono del ministero delle
Finanze».
«Un attimo. Fammi capire meglio».
Candan mi spiegò che in Turchia ci sono molti
immobili abbandonati da membri di minoranze etniche
che hanno lasciato il paese. Quando un tribunale
stabilisce che il proprietario di un determinato immobile
non è più rintracciabile, l’edificio viene assegnato alla
tesoreria del ministero, che può decidere di venderlo o
di affittarlo. Nella maggior parte dei casi si opta per la
vendita. L’immobile viene messo all’asta e ceduto per
una somma ben al di sotto del suo valore effettivo. Il
ricavato finisce nelle casse della tesoreria. Per comprare
casa in questo modo bisogna solo sapere dove si
trovano gli alloggi in vendita e quale giorno vengono
messi all’asta. Per avere simili informazioni è

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necessario conoscere qualcuno dell’ufficio del catasto.
In altre parole bisogna dare un po’ di soldi «nemmeno
Candan sapeva quanti «a un impiegato dell’ufficio in
questione. La mia amica promise che avrebbe
agganciato qualcuno per farmi avere tutte le
informazioni sugli appartamenti in vendita.

Anche se dopo settimane avevo finalmente un


motivo per dormire tranquilla, continuai a girarmi e
rigirarmi nel letto. Non riuscivo a togliermi dalla testa
Selim. Quando si sarebbe deciso a chiamare per farmi le
sue scuse?

Il weekend successivo mi sembrò interminabile. Non


mi godetti né l’incontro del sabato con il mio caro
amico Yılmaz né il sushi della domenica in compagnia
di Lale. Aspettavo con ansia che arrivasse il lunedì. Per
due motivi. Primo, perché l’ultima volta che avevamo
litigato Selim aveva lasciato passare quattro giorni
prima di chiamarmi. Se aveva intenzione di fare la
stessa cosa, mi avrebbe telefonato lunedì. Secondo,
perché proprio lunedì mattina Candan mi avrebbe dato
il numero di telefono dell’impiegato che doveva
procurarmi un appartamento a buon mercato.

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Lunedì mattina, andando al negozio, esaminai gli


edifici lungo la strada con occhio da compratrice. Non
mi ero mai chiesta sul serio in quale periodo fossero
state costruite quelle splendide case né chi ci avesse
abitato nel corso del tempo. Kuledibi è un quartiere
cosmopolita, ma non ne so molto.
Fino agli anni Cinquanta nella zona vivevano gli
ebrei della piccola borghesia. Dopo la creazione dello
stato di Israele la maggior parte di loro abbandonò la
Turchia e le case furono occupate da contadini
provenienti dall’Anatolia. In seguito anche gli ebrei che
erano rimasti lasciarono Kuledibi e si stabilirono in altre
zone di Istanbul.
È rimasto ben poco dei vecchi abitanti del quartiere:
oltre a Neve Shalom, la sinagoga più importante di
Istanbul, ci sono un’altra sinagoga più piccola e più
bella e una macelleria che vende carne kasher. E poi,
naturalmente, negozi e appartamenti «senza
proprietario» di cui prima ignoravo l’esistenza.
Oggi a Kuledibi vivono soprattutto povere famiglie di
immigrati anatolici con tanti figli. Di giorno ci sono
anche numerosi grossisti di lampade e apparecchi

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elettrici. Da alcuni anni, però, è visibile un cambiamento.
Molte case sono state vendute e sistemate; a poco a
poco il quartiere si sta trasformando. Fino a poco tempo
fa la mia libreria era l’unico negozio di Kuledibi che
non vendesse lampade, ma ultimamente hanno aperto
bar, pub, ristoranti e addirittura alberghi di lusso. C’è un
bar de tapas – gestito da una vera spagnola – che una
volta al mese offre la paella. È un locale jazz per gli
intellettuali.
Verso mezzogiorno telefonai a Candan nella
speranza di ottenere le informazioni che mi servivano.
Pelin non era ancora arrivata; non era facile resistere alla
tentazione di chiamarla. Ecco cosa succede a lavorare
con i giovani: partecipi agli alti e ai bassi della loro vita.
A differenza della mia aiutante, io ero una donna
abbastanza matura e riuscivo ad andare avanti come se
niente fosse anche dopo aver litigato con il mio uomo.
Candan si rivelò ancora una volta la migliore: mi
aveva trovato un nome e un numero di cellulare. Kasım
Arslan, 0538 318 44 54. Varol Kara della Direzione
generale per le fondazioni gli mandava i suoi saluti.
Composi il numero con il cuore in gola.
Parlammo il minimo indispensabile. Di certe cose è
meglio non discutere per telefono. Ci saremmo
incontrati quella sera, dopo il lavoro, nel quartiere di
Sultanahmet. Precisamente nel giardino da tè Duvardibi.
Quando mi accorsi che avevamo dimenticato un
particolare «come ci saremmo riconosciuti «era ormai
troppo tardi: avevo già interrotto la comunicazione. Non
ero sicura di poter individuare un impiegato corruttibile

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semplicemente dall’aspetto. Sarebbe stato un buon test;
avrei scoperto quanto conoscevo i turchi.

Che ci crediate o meno, dopo un attimo di esitazione


tra una dozzina di tavoli riuscii a trovare quello di
Kasım Arslan. Il risultato del test era inequivocabile:
ormai i turchi e la Turchia non avevano più segreti per
me. Devo però ammettere di essere stata aiutata da
alcuni fattori esterni. Buona parte dei tavoli era occupata
da coppie di ragazzi per cui passare una serata
romantica evidentemente significava stare seduti in un
giardino da tè e ascoltare a tutto volume quella musica
orrenda che in Turchia chiamano arabesk.
Altri tavoli erano occupati da intere famiglie turche –
padre, madre e almeno quattro figli – che stavano
facendo una sosta durante la passeggiata serale.
Alcuni turisti nordeuropei si erano sistemati
comodamente lontano dall’ombra e con le maniche
delle magliette e i pantaloni arrotolati si godevano gli
ultimi deboli raggi di sole guardando con infinito
stupore i fondi di caffè nelle tazze. Ero praticamente
sicura che i tedeschi si sarebbero fatti portare un
cucchiaio dal cameriere e avrebbero mangiato tutto. I
miei connazionali sono gli unici che in età adulta
rimpiangono ancora gli avanzi che hanno lasciato nel
piatto da bambini.
Rimanevano quattro tavoli, ognuno con un uomo
solo. Quello giovane e bello intento a leggere un libro di
certo non era Arslan. In vita mia non ho mai avuto tanta
fortuna.

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Quello al secondo tavolo aveva raggiunto l’età
pensionabile da un pezzo.
Quello al terzo tavolo, invece, poteva essere Arslan.
Come l’uomo al quarto tavolo.
Avete presente la domanda preferita dalle riviste
femminili? Qual è la prima cosa che guardi in un uomo?
Vorrei che qualcuno la facesse a me. Dei due uomini al
terzo e al quarto tavolo guardai subito… No, sbagliato.
Si vede che non mi conoscete. Guardai le scarpe.
Arslan era quello con le calze bianche e i sandali
marroni.
Indossava una camicia blu su cui erano visibili le
pieghe della stiratura.
Solo quando gli fui vicina mi accorsi che puzzava di
sudore.
Lui si alzò e ci stringemmo la mano.

Martedì mattina mi svegliai con i nervi tesi come


corde di violino. Erano passati quattro lunghi giorni dal
nostro litigio e Selim non si era ancora fatto vivo. Mi
misi seduta sul letto e mi massaggiai le spalle.
Poi andai davanti allo specchio e mi spalmai una
crema che avrebbe dovuto sgonfiare gli occhi. Non
ottenni alcun risultato, quindi inforcai i miei occhiali da
sole neri alla Jackie Onassis e infischiandomene della
cellulite raggiunsi il bar all’angolo, il Firuzağa, per
prendere un caffè senza zucchero. Feci anche un altro
strappo alla regola: mandai al diavolo la passeggiata
mattutina bruciagrasso e chiamai un taxi.
Con la sua guida veloce il tassista mi diede un buon

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motivo per litigare. I turchi guidano tutti come pazzi.
Devono sempre correre da qualche parte, hanno sempre
qualcosa di molto importante da fare, non possono mai
perdere neanche un secondo. Come se la fretta bastasse
a colmare il divario che li separa dal mondo civile.
Hanno addirittura installato dei display digitali sui
semafori in modo che tutti possano sapere dopo quanto
scatterà il rosso o il verde. Il display mostra il conto alla
rovescia: 20, 19, 18… 9, 8, 7… Viviamo in un paese
dove i secondi sono di vitale importanza. Terribile!
Quando le casalinghe corpulente e i vecchi barbuti si
accorgono di averne solo sette prima che il semaforo
pedonale diventi rosso, cominciano a correre per non
dover aspettare il verde successivo. Mi domando a cosa
possano servire i cinquantuno secondi che guadagnano
affrettando il passo.
L’autista del mio taxi era peggio dei pedoni. I tassisti
sono tutti fuori di testa. All’inizio alcuni sono solo
mezzi matti, ma dopo aver guidato per un anno in una
città come Istanbul anche i più normali impazziscono.
Comunque ero contenta di aver preso un taxi invece
della mia macchina. Litigare con i tassisti mi rilassa.
Come un massaggio shiatsu. O l’aromaterapia. Si
prendono due o tre oli essenziali, se ne mettono alcune
gocce nella jacuzzi e si rimane per un quarto d’ora
nell’acqua tiepida, poi si friziona il corpo con gli stessi
oli. Alla fine la pelle è tutta profumata e ci si sente
completamente rilassati.
Non avevo l’abitudine di dare la mancia ai tassisti,
ma feci un’eccezione.

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Verso le due del pomeriggio la crema che avevo
applicato intorno agli occhi cominciò a fare effetto e
recuperai una parvenza umana. Ero seduta in negozio
insieme a Pelin. Fumavamo una sigaretta dietro l’altra,
ognuna chiusa nel suo silenzio. Era una giornata fiacca.
Avevamo venduto solo tre libri. Decisi che se entro
mezz’ora non fosse successo un miracolo avrei
chiamato Lale. Il lato destro della mia testa era quasi
anestetizzato dal dolore. Avevo appena buttato giù due
aspirine. Dato che non mangiavo niente dalla sera prima,
mi venne anche il mal di stomaco.
Per un attimo invidiai intensamente tutte le donne che
dovevano preoccuparsi solo di far entrare la figlia di
quattro, cinque anni in un buon asilo, come quello
abbinato al liceo tedesco di Istanbul, e che si davano un
gran daffare telefonando a tutti per ottenere una
raccomandazione. Anch’io volevo preoccupazioni di
questo tipo. Preoccupazioni adatte alla mia età.
Volevo amiche ossigenate che abitassero in
complessi residenziali con piscina, che si lamentassero
dei mariti che russavano, che portassero ballerine
argentate e votassero per i socialdemocratici.
Volevo avere obiettivi come quello di perdere un
chilo, un solo chilo. Volevo fumare sigarette lunghe e
sottili con il filtro a fiorellini e leggere Danielle Steel.
Volevo lamentarmi con le amiche perché facevo poco
sesso con mio marito. Volevo ascoltare Mariah Carey e
piangere.
Mi squillò il cellulare. Una volta sola, poi di nuovo

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silenzio.
Agitata come durante una caccia al tesoro, tanto da
essere ridicola, presi il telefono con le mani tremanti e
scorsi il menu fino alla voce Chiamate senza risposta.
Trovai un numero. Ma non era quello di Selim. Non era
il suo numero riservato. Il display indicava un numero
normalissimo.
Lo chiamai, battendo i denti per l’agitazione.

Chi mi aveva chiamato? Arslan, l’impiegato del


catasto disposto a farsi corrompere.
Che lo si voglia o meno, il telefono lega le persone
alla vita reale. Dopo aver parlato con Arslan mi sentii
meglio. Aveva una buona notizia per me, dovevamo
incontrarci nello stesso luogo e alla stessa ora della
prima volta. Avevo un appuntamento con qualcuno, il
che bastava a farmi stare meglio. Mangiai un doppio
toast al ormaggio e bevvi un tè, poi andai in farmacia a
comprare delle pastiglie per il mal di testa. Evitai di
chiamare Lale. Era già abbastanza depressa, non potevo
scaricare le mie preoccupazioni su di lei. E poi non ne
avevo più bisogno. Amavo di nuovo i miei amici. Ero
contenta di non essere la madre di una bambina di
cinque anni e di non usare continuamente prodotti
cosmetici che costavano un occhio per questa o quella
parte del mio corpo. Ero contenta di non avere un
marito e di non essere responsabile della vita sessuale di
altri.
Feci tutto il tragitto da Kuledibi a Sultanahmet a piedi,
percorrendo strade dove, grazie alla pioggia torrenziale

29
di qualche giorno prima, si sentiva una certa frescura.
Sultanahmet e la Yerebatan Sarnıcı, la Cisterna Basilica,
sono i miei luoghi preferiti. C’è stato un periodo in cui
ci andavo spesso, un periodo in cui ero molto avvilita.
Le gocce che si staccavano dal soffitto e mi cadevano in
testa avevano un effetto calmante. Eppure esiste un
metodo di tortura molto simile. Significa forse che
qualunque cosa può diventare una tortura? Anche ciò
che normalmente dà piacere?

Mentre ci gustavamo un tè, io e Arslan


cominciammo a parlare delle elezioni imminenti. Cercai
di indovinare per quale partito avrebbe votato, ma mi
guardai bene dal formulare la domanda ad alta voce. I
turchi affrontano certi argomenti con estrema
disinvoltura, non hanno difficoltà neanche a dirsi quanto
guadagnano. Arslan continuava a lamentarsi perché il
costo della vita era troppo alto e lo stipendio degli
impiegati statali troppo basso. Era chiaro che voleva
arrivare al motivo del nostro incontro. Alla fine mi disse
una cifra. Il denaro non era solo per lui; al buon esito
dell’operazione avrebbero contribuito anche altre
persone. Doveva dividere i soldi con loro. Per qualche
motivo presi la cifra che mi aveva indicato e nella mia
mente la convertii in euro. Beh, in realtà so perché lo
feci: per confrontarla con l’aumento mensile che mi
aveva chiesto il proprietario dell’appartamento. Era più
o meno il doppio. Circa trecento euro. Poco. Un vero
affare. In ogni caso gli avrei dato tutto ciò che voleva; in
cambio avrei avuto la possibilità di comprare un

30
appartamento e di cancellare per sempre dalla mia vita i
padroni di casa. Se l’affare non fosse andato in porto,
avrei avuto la prova che ero davvero sfortunata.
Andai allo sportello automatico per prelevare il
denaro. Arslan rimase nel giardino da tè. Quando tornai
mi diede un foglio con quattro indirizzi. Erano
appartamenti di Kuledibi e dintorni che presto sarebbero
stati intestati alla tesoreria.
«Ci sono ancora delle formalità da sbrigare. Quando
la procedura sarà conclusa, gli appartamenti verranno
messi all’asta» mi spiegò. «Vada a vederli. Se ne trova
uno di suo gusto, ci concentreremo su quello».

Sulla via del ritorno mi fermai al Kaktüs Kahvesi. In


fondo a casa non c’era nessuno che mi stesse aspettando,
nessuno con cui potessi dividere la gioia per l’esito della
trattativa con Kasım Arslan. Mi sedetti sullo sgabello
più vicino all’uscita e sola soletta mangiai l’insalata
mediterranea che misero sul bancone davanti a me. È la
mia insalata preferita. Ha lo stesso effetto di un
tranquillante.
Purtroppo il piacere dell’insalata mediterranea non
durò a lungo. Come tutti i piccoli piaceri, fu breve.

Prima che Selim entrasse nella mia vita, quando ero


sola, le cose andavano meglio. Perché potevo sperare.
Sperare in un rapporto che durasse fino alla fine dei
miei giorni. E ogni tanto avevo un flirt. Non stavo così
male, non mi sentivo così lacerata. Non soffrivo come
un animale ferito.

31
Mi premetti una mano sul petto. Non soffriva solo la
mia anima, ma anche il mio corpo. Forse perché le pene
d’amore sono in realtà qualcosa di fisico. Durante il mio
lungo periodo da single avevo dimenticato questo tipo
di dolore. Avevo dimenticato come ci si sente quando
un’unica parola sbagliata rimane impressa nella mente;
non riesci più a liberartene, continua a risuonarti in testa
come un vecchio disco inceppato. Spalancai la bocca e
lanciai un urlo silenzioso. Come facevo sempre da
bambina. Nella mia camera, sotto la coperta.
Perché l’ultimo litigio era così grave? Non era stato
neanche un vero e proprio litigio.
Basta, non starò qui a raccontarvi per filo e per segno
come ho superato quella sera. Mi hanno insegnato che i
momenti difficili vanno affrontati senza l’aiuto di altre
persone. Non bisogna mostrare a nessuno la propria
debolezza. È una lezione che ho imparato. Una schifosa
mentalità da borghesi che però fa parte di me. Forse è
una cosa genetica. Forse borghesi si nasce, non si
diventa.

Il mattino seguente mi sentivo già molto meglio. Fu


una vera sorpresa. Ma lo sapete anche voi, la vita è così.
Quando vai a dormire, non hai la minima idea di come
sarà il tuo umore al risveglio. Non è fantastico? Mi
sentivo leggera come una piuma, come se avessi vissuto
per anni in un tempio buddista tra monaci dalla testa
rasata. Mi ero ripresa, avevo ricomposto i pezzi del mio
io, almeno in gran parte.
Mi vestii in modo appariscente. Camicetta azzurra un

32
po’ troppo piccola per il mio seno, gonna color sabbia
con spacchi e sandali rossi dal tacco improponibile. Ero
di nuovo pronta per andare a caccia, se così si può dire.
E in più avevo i capelli arancioni. Rispetto a prima
avevo molte più possibilità di trovare un uomo con cui
passare il resto della vita.

Entrai in macchina e partii a tutta velocità. Avevo


quattro posti da visitare. Dovevo concentrarmi sui miei
affari, sugli appartamenti. Forse tra gli indirizzi che
Arslan mi aveva dato il giorno prima c’era anche quello
della mia futura casa. Se però non mi fosse piaciuto
neanche uno dei quattro appartamenti, non avrei perso il
denaro già sborsato. Arslan avrebbe cercato in altri
quartieri e mi avrebbe proposto altri appartamenti.
Finché non ne avessi trovato uno di mio gusto.
«Non imbrogliamo nessuno» mi aveva detto con
convinzione. Ma potevo fidarmi di un impiegato che si
faceva corrompere? In realtà non ne ero sicura. Non
sono abituata a corrompere gli impiegati statali. Non mi
occupo di cose per cui può essere necessario dare
bustarelle. Perché mai la proprietaria di una minuscola
libreria dovrebbe corrompere qualcuno?
Contrariamente a quanto mi aspettavo, pagare Arslan
non mi aveva dato il voltastomaco. Gli avevo
consegnato il denaro e non mi era sembrata una cosa
così terribile. Forse perché conosco tante persone che lo
fanno abitualmente.
Certo che è strano. Avevo mai pensato anche solo
lontanamente di comprarmi un appartamento? Non ne

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stavo cercando uno in affitto? È incredibile che nel giro
di pochi giorni mi sia appassionata tanto all’idea di
comprare una casa, indebitarmi fino al collo e mettere
radici in questa città.
Non avevo voglia di perdere ore cercando un posto
per la macchina. Se volevo evitare questa seccatura,
dovevo pagare il parcheggio. Lasciai l’auto a Kuledibi,
vicino al mio locale preferito. Avrei raggiunto i quattro
indirizzi a piedi. I primi due edifici mi delusero molto
già dall’esterno. Il primo, comunque, era meglio del
secondo. Si trattava di un edificio a sé stante con una
facciata stretta e, a quanto pareva, un giardino sul retro.
Era una vera e propria casa, non un appartamento. Ci
viveva una famiglia con tanti figli, talmente tanti che
occupavano anche parte della strada. Se avessi
comprato la casa, avrei dovuto mettere tutti alla porta.
Il terzo indirizzo si trovava subito dietro, in via
Papağan, una delle strade che portano a piazza Kule. Ci
ero passata decine di volte. Non solo avevo percorso la
via, ero anche passata davanti all’edificio in questione.
E ogni volta ero rimasta affascinata da quella
costruzione, non mi sarei mai stancata di guardarla.
Com’era possibile che non mi fossi accorta che uno
degli indirizzi di Arslan corrispondeva proprio a quella
casa? Arrivata davanti all’edificio, sentii il bisogno di
scoppiare in lacrime.
La vita è davvero piena di sorprese.

Dieci minuti dopo ero di nuovo davanti all’ingresso.


Non avevo potuto vedere il mio futuro appartamento (di

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proprietà!) perché nessuno mi aveva aperto, ma ero
riuscita a visitare quello al piano di sotto. All’uomo che
era apparso sulla porta avevo raccontato una storia
improbabile cercando di usare un tono credibile. Vorrei
comprare un appartamento in zona, sa mica se qui ce
n’è uno libero?
L’uomo aveva fattezze mongole; era chiaramente un
tartaro. La mia storia non gli sembrò tanto stupida.
Rispose tutto serio: «Mi dispiace, signora, è arrivata
troppo tardi. Questo appartamento è stato venduto un
mese fa».
«Cosa? Sta scherzando?».
«Perché mai dovrei scherzare? Questo appartamento
era in vendita. L’hanno comprato per trentaduemila
dollari. I nuovi proprietari mi hanno dato tre mesi di
tempo per svuotare il laboratorio. Non so cosa faranno
con questi locali. Forse verranno a vivere qui.
Ultimamente il quartiere sta attirando tanta gente. Ma
questo lo sa già, no? Anche lei sta cercando un
appartamento».
«Posso dare un’occhiata? Vorrei farmi un’idea dei
prezzi».
L’uomo aveva spalancato la porta e prima che potessi
mettere un piede oltre la soglia mi aveva confessato che
il mio viso gli era familiare.
«Forse perché in un certo senso siamo vicini. Sono la
proprietaria della libreria in via Lokum».
«Dov’è via Lokum?» aveva chiesto lui. I turchi sono
così: non conoscono neanche le strade a un tiro di
schioppo da dove vivono o lavorano. Neanche quelle

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con un bel nome. È anche per questo che si usa sempre
un punto di riferimento – una moschea, una farmacia,
una drogheria, una scuola o un ospedale nelle vicinanze
– quando si parla di una via.
«È la strada che porta al liceo austriaco» gli avevo
spiegato.
«Ah, quella! E c’è una libreria? Non me ne sono mai
accorto. Strano. Mi piace leggere. Purtroppo non ho
molto tempo per farlo. Sa, con il lavoro e tutto il resto…
».
La casa aveva la stessa posizione di un camion in una
curva stretta. Tutte le finestre del retro offrivano una
vista del Bosforo. Come potete immaginare, è una cosa
rara. Dal secondo piano – l’edificio ne aveva quattro – si
godeva un panorama stupendo. Anche dal bagno. In
linea retta, oltre il Bosforo c’erano Sarayburnu e il
Topkapı Sarayı. Guardando a destra e allungando un
po’ il collo si riconoscevano invece l’edificio giallino
della storica stazione Sirkeci, dove un tempo arrivava
l’Orient Express, e i minareti che avevano trasformato
la basilica bizantina di Santa Sofia in una moschea. Più
lontano, a completare il quadro, un traghetto che aveva
già raggiunto la riva, un battello carico di persone che si
avvicinava velocemente all’attracco di Karaköy, una
petroliera nera come la pece e minuscole barche da
pesca. A sinistra, in lontananza, si vedeva il ponte
Bosforo con il suo brulichio di auto. Dalla finestra
potevo ammirare tutta la bellezza di Istanbul.
L’appartamento che presto avrebbero messo in
vendita offriva probabilmente una vista ancora più bella

36
perché si trovava al piano superiore. Stiamo parlando di
appartamenti da duecentoventi metri quadrati. Sì, avete
letto bene: duecentoventi metri quadrati! Soggiorno e
sei camere da letto. Niente bagno, naturalmente; la casa
aveva almeno centocinquant’anni. Però i soffitti erano
alti. L’edificio era ridotto piuttosto male, ma non mi
interessava. Per il momento era l’ultimo dei miei
pensieri.

37
3

Appena tornata in negozio, chiamai Arslan. Mi


assicurò che non c’erano problemi, l’affare era
praticamente concluso. Avrebbe raccolto altre
informazioni e consultato il legale dell’ufficio, poi mi
avrebbe ricontattato.
«Non sono riuscita a visitare l’appartamento giusto.
Non mi ha aperto nessuno. Non potrebbe fare
qualcosa?».
«Deve avere un po’ di pazienza» rispose lui. «Non
affrettiamo le cose. Presto e bene non vanno insieme».
Purtroppo la pazienza non è il mio forte. Non lo è mai
stata. Volevo vedere subito il mio nuovo appartamento.
Subito o al più tardi la mattina dopo. Ero agitatissima.
Volevo cominciare a organizzarmi. Come avrei
sistemato le mie cose? Di quale colore avrei dipinto le
pareti? Quale stanza avrei sacrificato per realizzare il
bagno?
Negli ultimi due anni avevo avuto tutto il tempo per
capire che non serve a niente stare in negozio a pregare
che i turchi sofferenti per la crisi economica decidano di
investire i loro ultimi spiccioli in libri.
Mi precipitai fuori.

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Se potessi tornare indietro, mi comporterei
diversamente. Non litigherei con Selim e non mi
butterei nella ricerca di un appartamento per
dimenticare questa lite. Manterrei la calma e aspetterei
con pazienza una telefonata di Arslan.
Ma forse non doveva andare così.
La sventura non si è fatta annunciare.
È arrivata senza preavviso.

Per prima cosa girai intorno all’edificio. Mio Dio, era


davvero impressionante! Solo a guardarlo veniva il
batticuore. Cercando di non dare nell’occhio misurai a
passi la facciata. In lunghezza erano circa quaranta metri.
Incredibile!
Entrai e salii la scala di marmo per visitare il mio
futuro appartamento. La porta era ancora chiusa. Il fatto
che un appartamento sia senza proprietario non significa
che debba rimanere aperto a tutti. Io ne so qualcosa. A
Berlino, quando ancora studiavo, ho vissuto in diverse
case occupate. Per me era quindi normale presumere
che nell’appartamento ci fossero degli occupanti.
Probabilmente una famiglia con sette o otto bambini.
Rispetto alla prima volta bussai con più decisione.
Accostai un orecchio alla porta, aspettandomi di
sentire i passi lenti e stanchi di una madre con il velo in
testa e sette figli. Poi feci un passo indietro, bussai di
nuovo e mi guardai intorno in cerca del campanello. Se
solo avessi chiesto all’uomo del piano di sotto chi
abitava nell’appartamento che mi interessava! Feci
ancora un tentativo, bussando con entrambe le mani

39
strette a pugno.
«E piantala!» gridò qualcuno dall’interno. «Non mi
dai neanche il tempo di arrivare».
La porta si aprì di colpo e apparve un uomo. Ci
guardammo in silenzio. Non sapevo cosa dire. Perché
avevo bussato? Era chiaro che anche lui non sapeva
come comportarsi. Mi squadrò da capo a piedi, partendo
dal collo della mia camicetta blu; allungandosi
leggermente cercò di vedere cosa c’era sotto la stoffa.
Aveva il naso a patata e la carnagione molto scura,
quasi color melanzana. Nel suo genere era piuttosto
affascinante.
«Buongiorno. Ho sentito che qui c’è un appartamento
in vendita. Per caso è questo?».
«No, non è questo». L’uomo fece per chiudere la
porta.
«È lei il proprietario?».
«Sì». A giudicare dal tono, il significato della risposta
era: vattene via, lasciami in pace!
Misi una mano sulla porta per fermarlo.
«Posso dare un’occhiata all’interno?».
Lui si picchiettò l’indice sulla fronte per farmi capire
che ero matta.
«Ti ho già detto che l’appartamento non è in vendita.
Perché vuoi vederlo?».
Se mi lasciassi intimidire da uomini del genere, a
quest’ora sarei a casa a fare copriletti all’uncinetto.
«Osman! Ho fretta!». Nell’appartamento c’era un
altro uomo.
«Vengo» rispose Osman con voce vellutata, così

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vellutata da sembrare quella di un castrato. Spinse la
porta verso di me.
Non faccio body building e non sono neanche una di
quelle persone che rompono venti mattoni con il taglio
della mano. Non potevo impedirgli di chiudermi fuori.
Avevo una sola possibilità: mettere il mio corpo tra la
porta e lo stipite. Non esitai a farlo.

«Ehi!». La dolcezza che un attimo prima avevo


sentito nella sua voce era completamente scomparsa.
«Si può sapere che vuoi?».
Era arrabbiato. Ma anch’io lo ero. Avevo voglia di
azzuffarmi con qualcuno.
«Aspetta, io ti conosco…».
Non dissi niente. Stavo pensando alla mia prossima
mossa. Ero consapevole del fatto che mi stavo
comportando malissimo.
«Voglio vedere l’appartamento». Avevo i nervi a fior
di pelle, ma la mia voce era abbastanza ferma.
«Allora cerchi rogne, stupida che non sei altro!».
Mi afferrò per il braccio e tentò di sbattermi fuori.
Il tipo che aspettava all’interno non era ancora venuto
a controllare cosa stava succedendo.
«Vorrei dare un’occhiata all’appartamento» ripetei.
«Ho detto che non è in vendita». Osman si toccò un
orecchio con l’indice. «Sei sorda?».
«No, non sono sorda. Come fai a sapere che non è in
vendita, brutto idiota?».
«Come mi hai chiamato?».
«Idiota. Anzi, brutto idiota».

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Lui mi mise una mano intorno alla gola e strinse. Non
faceva sul serio. Non voleva uccidermi. Ciò nonostante,
appena mollò la presa cominciai a urlare con tutto il
fiato che avevo.
«Polizia! Polizia! Aiuto!».
Doveva essere una scena abbastanza comica. Io che
gridavo a squarciagola e Osman, con le mani alzate, che
mi ripeteva: «Calma! Calma!».
Ignorando tutto il rumore e la confusione che
stavamo facendo, l’altro uomo rimase ben nascosto
nell’appartamento. Li per lì mi sembrò strano.
Più tardi ci ripensai e mi sembrò ancora più strano.

L’uomo del piano di sotto, quello con le fattezze da


tartaro, venne subito in mio aiuto. Anche gli operai
romeni che stavano lavorando all’ultimo piano
arrivarono di corsa, ma fu proprio il tartaro a salvarmi.
Mi portò nel suo indefinibile laboratorio e ordinò del tè.
Aspettò che fumassi mezza sigaretta, poi mi chiese:
«Allora, cos’è successo?».
«Volevo vedere l’appartamento, ma quell’uomo è
diventato sempre più sgarbato».
«Perché voleva vedere il suo appartamento? Ha già
visto il mio. Quelli sopra e sotto sono uguali. Perché
voleva entrare? Perché… ».
«L’appartamento di sopra verrà presto messo in
vendita. Non ha un proprietario. Apparteneva a uno dei
tanti ebrei che un tempo vivevano qui a Kuledibi. Dopo
un certo tempo gli immobili senza proprietario
diventano del ministero delle Finanze, che poi li vende».

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«Povera signora». Il tartaro fece una risata. «Crede
davvero che le lasceranno l’appartamento? Non sa
com’è fatta certa gente? Quelli non sono come noi. Eh
no! Pensa davvero che riuscirà ad avere
quell’appartamento?».
«Che significa “non sono come noi”?».
Lui prese i pantaloni all’altezza dell’inguine e li tirò
su, poi si sedette sulla poltrona che avevo davanti.
«Conosce il parcheggio vicino alla drogheria di
piazza Kule, vero? Da quanto tempo sta a Kuledibi?».
«Poco più di quattro anni».
«Allora non lo può sapere. Dove adesso c’è solo la
piazza un tempo c’era un edificio. Parlo di circa sei anni
fa. Vuole un altro tè? Lo ordino subito. Le farà bene,
poco fa era molto agitata. Mi scusi un attimo, vado a
ordinarlo».
A quanto pareva ero seduta in un vecchio
appartamento-laboratorio in compagnia di un efendi
stambuliota di origine tartara dai modi particolarmente
raffinati.
Quando tornò, si tirò su un’altra volta i pantaloni per
evitare che si sformassero sulle ginocchia e si sedette di
nuovo sulla poltrona.
«Dove eravamo?».
«Al parcheggio».
«Ah, sì». Arricciò le labbra e dondolò leggermente la
testa.
«Fino a sei anni fa al posto di quel parcheggio c’era
un bell’edificio antico. Non so se aveva un proprietario.
Se una volta apparteneva a qualcuno. Certa gente non

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va tanto per il sottile. Lei ha avuto fortuna, se l’è cavata
con uno spavento. Ha sentito cos’è successo a Ortaköy?
Hanno bruciato un’intera scuola. Non le stesse persone,
naturalmente. Qualche loro collega. Incendiano le case e
poi fanno un bel parcheggio. Quelli di Ortaköy si sono
arrabbiati con il preside della scuola perché lui non
voleva che usassero il cortile. E così hanno bruciato
tutto. Lo sapeva, no?».
«No. Non leggo i giornali».
Il tartaro annuì. Non disse altro sull’argomento. Passò
l’indice sul tavolo che aveva vicino come per
controllare che non ci fosse troppa polvere. Si guardò il
dito per alcuni istanti, poi lo sfregò contro il pollice.
«Scusi, posso farle una domanda?» chiese tutto
imbarazzato, senza staccare lo sguardo dalle mani.
«Oddio» pensai, «cosa vorrà sapere? Perché si
vergogna così?».
«Certo, cosa vuole sapere?».
«Ho notato che ha un leggero accento. È straniera?».
Tirai un sospiro di sollievo.
«Sì».
«Perdoni la curiosità, viene dai Balcani?».
«Dalla Germania».
«Ah! È figlia di emigranti, vero? Allora non è proprio
straniera». Sembrava un po’ deluso.
«I miei genitori sono tedeschi, non turchi».
«Non mi dica!». Il tartaro alzò le braccia, entusiasta, e
per un attimo pensai che mi volesse abbracciare. Ma
non fece niente del genere. «Anche se la sua lingua
madre è il tedesco, parla turco in maniera impeccabile.

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Lo parla meglio di tanti turchi. Davvero. Però, adesso
che me l’ha detto… in effetti ha un aspetto vagamente
straniero. Ma sa com’è, ci sono turchi di tutti i tipi».
Lui lo sapeva bene.
«Ha ragione» risposi, cercando di trovare un modo
per mettere fine alla conversazione il più velocemente
possibile. «Devo tornare in negozio. Se ha tempo, venga
a trovarmi».
«Non può andarsene, ho appena ordinato il tè. Sarà
qui a momenti. Rimanga ancora un po’ e se lo gusti.
Non posso lasciarla andare. Quello che è successo l’ha
sconvolta, sono sicuro che non si è ancora ripresa del
tutto».
Preferisco non chiedermi quante tazze di tè avrei
dovuto bere se Pelin non mi avesse chiamato sul
cellulare. Come potete immaginare, pian piano sto
diventando una vera sostenitrice del telefonino. Presto
comincerò a chiamarlo «cell». Già mi sento: «Fammi
uno squillo sul cell».
Orribile!

Andai al lavoro con il morale a terra e i vestiti tutti


stropicciati. Non ero molto elegante. Ancora una volta
Pelin non c’era, ma non sentii la sua mancanza. Prima
di mezzogiorno entrarono solo due clienti. Uno fece
acquisti per le ferie. In vacanza leggeva solo gialli
perché lo aiutavano a «liberare la mente». Avevo
l’impressione che anche durante il resto dell’anno la sua
testa non fosse stracolma di pensieri, ma non dissi
niente. Non posso attaccare briga con tutti quelli che mi

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rivolgono la parola, soprattutto se sono clienti.
Il telefono squillò tre volte. So per esperienza che i
turchi hanno l’abitudine di riavvicinarsi all’amata
chiamandola e riagganciando subito, senza parlare. Solo
per rinfrescare il ricordo della loro esistenza. Purtroppo
tutte e tre le volte sentii la voce di qualcuno.
Evidentemente Selim non credeva di dovermi
rinfrescare la memoria. E aveva ragione.
Seduta sulla sedia a dondolo, cercai di ingannare il
tempo truccandomi. Quando la porta del negozio si aprì
con un colpo, per lo spavento quasi mi infilai lo
spazzolino del mascara in un occhio.
Era l’uomo del giorno prima. Il gestore di parcheggi
che mi aveva afferrato alla gola.
Mi alzai di scatto e gridai: «Che c’è?». Ero così
agitata che feci cadere lo spazzolino e lo calpestai, ma
me ne accorsi solo quando fu tutto finito.
«Che cosa vuoi?» sibilò lui.
«Guarda che questa non è la tua stalla, asino!».
«Attenta a quello che dici!». In certe situazioni mi
stupisco sempre della mia stessa audacia. Nel caso
specifico, però, non ci voleva molto coraggio: dietro
Recai, il proprietario della vicina sala da tè, era arrivato
mezzo quartiere. Erano tutti riuniti davanti alla mia
vetrina per vedere che cosa stava succedendo.
Probabilmente sarebbero intervenuti se le cose si
fossero messe male.
Mi domandai se fosse il caso di gridare di nuovo
«Polizia!» per scoraggiare l’uomo che avevo di fronte.
No, c’era il rischio che la polizia arrivasse davvero. Non

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sopporto i poliziotti, così come non sopporto i gestori di
parcheggio e gli agenti immobiliari.
L’uomo si avventò su di me con un braccio alzato.
Voleva sicuramente afferrarmi alla gola come il giorno
prima. Ma la situazione era ben diversa: se gli avessi
permesso di mettermi una mano al collo davanti a tutti,
non avrei più potuto lavorare nel quartiere. Dovevo fare
qualcosa. Subito.
Beh… non ha senso girarci intorno, no? Presi il
posacenere di ceramica che stava sul tavolino e glielo
tirai in testa.
Si sentì un toc. Come se due pietre avessero sbattuto
l’una contro l’altra.
Strano. Molto strano.
Il posacenere l’aveva colpito sopra l’orecchio sinistro.
La ferita gocciolava sangue.
No, in realtà non stava proprio «gocciolando». Il
sangue usciva abbondante, tanto che aveva già
macchiato di rosso la sua maglietta gialla. Recai e gli
altri si erano fiondati nel negozio; inorriditi,
continuavano a spostare lo sguardo da me a lui e
viceversa. L’uomo si era portato la mano all’orecchio e
con espressione di autentica sorpresa si stava guardando
le dita insanguinate. Rimasi ferma e muta. D’altronde,
cosa potevo dire? Avrei dovuto augurargli una pronta
guarigione?
Forse dipendeva da tutti i film d’azione che avevo
visto. Forse Fight Club, Matrix e James Bond avevano
influito negativamente sulla mia personalità. O era colpa
dei gialli? Possibile che Ruth Rendell e Patricia

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Highsmith mi avessero fatto diventare così? Non potevo
leggere Désirée, Via col vento e I cercatori di conchiglie
come tutte le donne normali e avere un debole per gatti,
uccellini, coccinelle e bambini? Non potevo aprire una
libreria specializzata in romanzi d’amore?
Quando l’uomo si riebbe dalla sorpresa, mi rivolse un
paio di minacce e sparì. Il mio vicino di negozio, il
falegname Veysel, corse in cucina e tornò con un
bicchiere d’acqua. Gli altri mi fecero sedere e mi
accesero una sigaretta. A giudicare dalle pacche che mi
davano sulle spalle, la considerazione che avevano per
me era come minimo raddoppiata.
Recai fu il primo a non trattenere più la curiosità.
«Cos’è successo, Kati?».
«L’hai visto anche tu cos’è successo».
«Ma che problema hai con quel tipo?».
«Dovresti chiederlo a lui, Recai».
«Direi che a questo punto possiamo tornarcene al
lavoro» intervenne Veysel.
«Okay» risposi. «Grazie».
Uno dietro l’altro se ne andarono.
Dopo pochi minuti Gaffar, l’uomo dei toast, era di
nuovo da me.
«Non mi fraintenda, Kati. Sono venuto a dirle una
cosa. Mi sembra doveroso, visto che da anni siamo
vicini e clienti…».
In verità, solo io ero cliente. Lui non aveva mai
comprato niente nella mia libreria.
«Nessun problema, Gaffar».
«Certi uomini sono pericolosi. Probabilmente lo sa

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anche lei. Sarebbe meglio se per qualche tempo non
lasciasse il negozio incustodito. Dopotutto è la sua unica
fonte di reddito. I soldi non fanno la felicità, ma senza è
difficile vivere. Mi sembrava giusto metterla in guardia.
Per me è come una figlia».
«Grazie, Gaffar. Grazie mille».
Non c’era bisogno che mi mettesse in guardia. Non
sono mica stupida. Sapevo di essere una donna
normalissima e vulnerabile. La sera tornavo a casa da
sola, la strada non era illuminata, in negozio non c’era
nessuno…
Sì, il negozio sarebbe rimasto incustodito, ma era
coperto da una bella assicurazione. Contro attentati
terroristici, furti con scasso, rapine, danni causati
dall’acqua, cortocircuiti, terremoti, incendi e ogni altro
possibile sinistro. Che ci fossi o meno, l’assicurazione
per cui da anni non badavo a spese avrebbe protetto la
mia libreria.

Volevo trascorrere la serata a casa riempiendomi di


gelato alla fragola e immaginando tutto quello che avrei
fatto con i soldi dell’assicurazione. Ero stufa di cercare
un nuovo appartamento, stufa degli uomini turchi, stufa
di vivere in un paese in grave crisi economica e di voler
vendere qualcosa di diverso dal pane e dalle patate,
qualcosa di non indispensabile. Potevo anche tornare a
Berlino. La mia vita non sarebbe stata peggiore.
O sì?
Davvero la mia vita non sarebbe stata peggiore in una
città dove l’inverno dura otto mesi, dove la neve

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comincia a cadere a ottobre, dove per strada si vedono
poche persone e la gente è sempre di malumore, infelice
e insoddisfatta?
Ero ancora immersa in questi strani pensieri quando
qualcuno suonò con forza il campanello.
Era Pelin. Sembrava sconvolta. Prima di entrare mi
chiese se potevo ospitarla. Aveva con sé due enormi
borse da viaggio, quindi era ovvio che non voleva stare
da me solo una notte. Comunque, anche se mi avesse
detto che voleva fermarsi qualche mese, non avrei avuto
il coraggio di mandarla via. Non siamo mica fatti di
pietra.
Dato che lei non parlava, lo feci io. Le raccontai
quello che era successo e le lasciai intendere che forse.
le cose sarebbero andate diversamente se fosse stata
tanto gentile da presentarsi in negozio.
«Bene, non ho più né il ragazzo né il lavoro» fu il suo
commento. Ma vi pare possibile? La libreria che avevo
realizzato con tanto impegno e fatica rischiava di fare
una brutta fine e la mia aiutante, invece di consolarmi,
se ne usciva con una cosa simile.
«Se ti può sollevare, anche Selim e io abbiamo
litigato».
«Farete pace».
Fui felice di sentirglielo dire. Forse aveva capito che
Selim mi amava davvero.
«Come lo sai?».
«Non è la prima volta che litigate. Avete sempre fatto
pace nel giro di una settimana».
Alzai gli occhi al cielo. «Questa volta è una cosa

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seria».
«È sempre una cosa seria, ma ci si lascia solo quando
c’è di mezzo una terza persona. Altrimenti si fa pace».
Ah, queste giovani che credono di sapere tutto sui
rapporti di coppia! Sono così irritanti.
«Stai dicendo che Deniz ha un’altra?».
«Si chiama Nurten, è la cantante del suo gruppo.
Naturalmente lui continua a negare. Gli uomini sono
fatti così: mentono anche se li cogli in flagrante».
«Magari nega perché tra loro due non c’è niente».
«Ho chiamato Nurten».
«Cosa? Come ti è venuto in mente?».
«L’ho chiamata poco fa».
«E allora?».
«È stato orribile».
«Che significa? Che cosa le hai detto?».
«Le ho chiesto se sapeva che Deniz aveva una
ragazza».
«Tu sei pazza. Cosa ti ha risposto?».
«Che tra di loro non c’è niente di serio. Solo sesso».
Sentii una fitta al cuore. Non sono abbastanza
moderna per certe cose.
«È disgustoso».
«Già».
«E adesso? Cosa pensi di fare?».
«Niente. Tra me e lui è finita. Ti chiedo solo di
ospitarmi per un po’. Devo cercarmi un appartamento.
Andrò a casa di Deniz e porterò via le mie cose, poi
comincerò una nuova vita». Si arrotolò i capelli. «Devo
trovarmi anche un nuovo lavoro».

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«Vuoi un po’ di gelato alla fragola?».

52
4

Il negozio aveva l’aspetto di sempre. Era intatto. Non


sapevo se ridere o piangere. L’idea di intascare i soldi
dell’assicurazione mi aveva conquistato. Ero pronta a
fare le valigie e a prendere un aereo per le Bahamas, la
Repubblica Dominicana o almeno Antalya. Invece no,
dovevo rivedere i miei piani. Non potevo far altro che
rimettermi a cercare una casa e un uomo. Dovevo
prendere le distanze dall’appartamento che mi
interessava e chiedere ad Arslan di prepararmi un’altra
lista. Forse avrei anche trovato un modo per
riconciliarmi con Selim. E poi dovevo pagare la tassa
sui rifiuti. Sulle mie deboli spalle pesavano i mille
problemi della vita.
Mentre ero in cucina a fare il tè sentii la porta del
negozio che si apriva. Sulle prime pensai che Pelin
avesse finalmente deciso di tornare al lavoro. Mi
sembrava poco probabile che fosse un cliente. I turchi
erano troppo impegnati a seguire l’andamento della
borsa per avere il tempo di leggere qualche libro.
Feci capolino dalla cucina.
È proprio vero, piove sempre sul bagnato.
Era Batuhan Önal, commissario capo della squadra

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omicidi.
Non riuscii a nascondere la mia sorpresa.
«Ma guarda!» esclamai d’istinto.
«Di che ti meravigli? Era ovvio che sarei venuto
subito a bussare alla tua porta. Non ti è venuto in mente
che avrebbero assegnato il caso a me?».
Lo guardai imbambolata. Di cosa stava parlando?
Non ci capivo niente. Si riferiva forse all’incidente del
giorno prima? Da quando i commissari della squadra
omicidi si occupavano di reati come le lesioni personali?
Cosa diavolo voleva?
«Quale caso? Perché sei qui?». Stavo cercando una
scusa per arrabbiarmi. Finalmente ne avevo una.
«Possibile che non ci arrivi? Sei la principale
sospettata dell’omicidio di Osman Karakaş».
«È uno scherzo, vero? Dov’è la telecamera
nascosta?».
Chi diavolo era Osman Karakaş?
Batuhan fece una risata sinistra. Davvero sinistra.
«C’è poco da scherzare. Devi venire subito in
questura con me».
«Tu sei matto!».
«No, sono terribilmente serio. Osman Karakaş è stato
ucciso ieri sera. Un sacco di gente ti ha visto litigare con
lui. E i suoi fratelli dicono che eri la sua unica nemica».
«Tu sei matto!» ripetei.
Nel frattempo avevo capito che Osman Karakaş era il
gestore di parcheggi.
«Se mi dai ancora una volta del matto, aggiungerò
all’accusa di omicidio quella di oltraggio a pubblico

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ufficiale. Quello che c’è stato tra noi non mi impedirà di
fare il mio dovere. Dovresti saperlo».
«Basta! Smettila!» avrei voluto gridare. Era uno
stupido. Credeva davvero che tra noi ci fosse stato
qualcosa? Se lo credeva, «stupido» era una definizione
fin troppo gentile. Comunque non volevo fare la figura
della maleducata.
«Non puoi credere che abbia ucciso qualcuno. No, è
sicuramente uno scherzo».
«Non è uno scherzo. Osman Karaka è stato trovato
questa mattina nel suo ufficio in via Papağan 3. Con una
pallottola nella gamba». Fece un’altra delle sue risate
inquietanti. «Sono sicuro che sai meglio di me in quali
condizioni era».
Non dissi più: «Tu sei matto!».
«Perché non ti siedi?».
«Dobbiamo andare in questura. Devi fare una
dichiarazione».
«Va bene. Prima di andare, però, siediti un attimo».
Batuhan si sedette.
Nello stesso momento la porta del negozio si aprì ed
entrò una cliente.
«Siamo chiusi» la informai.
«Come sarebbe a dire? È chiaro che siete aperti.
Altrimenti non sarei entrata!». In certi casi non posso
fare a meno di odiare le donne. Per gli uomini, invece, è
da un pezzo che provo una forte avversione.
«Siamo aperti, ma non vendiamo niente. Stiamo
facendo l’inventario. Mi dispiace. Se vuole può tornare
questo pomeriggio». Come avevo fatto a parlare tanto,

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per di più senza essere scortese?
La donna uscì e si chiuse la porta alle spalle.
Mi lasciai cadere sulla sedia a dondolo e mi presi la
testa fra le mani.
«Fammi capire bene. L’uomo con cui ho litigato ieri
è stato ucciso, e fin qui ci siamo. Apparteneva alla mafia
dei parcheggi, vero?». Batuhan annuì.
«E i suoi fratelli dicono che non aveva nessun altro
nemico oltre a me».
«Esatto».
Mi conficcai le unghie nella carne per non tirare un
posacenere anche a lui.
«Ti sembra possibile che un uomo appartenente alla
mafia dei parcheggi abbia come unica nemica una
libraia?».
Il commissario si alzò e prese le sigarette che teneva
nella tasca dei pantaloni. Me ne offrì una.
«Non lo so. È troppo presto, non mi sono ancora fatto
un’opinione. Non ho prove per un’accusa formale. Mi
baso solo sugli indizi».
Nei cinque minuti successivi provai a contattare Pelin.
A casa non c’era, quindi la chiamai sul cellulare e le
dissi di venire in negozio senza perdere tempo. Poi
chiesi a Batuhan di avere pazienza e aspettare la mia
aiutante.

In questura mi offrirono del tè. Un agente di polizia


scrisse a macchina la mia dichiarazione e alla fine mi
pregò di leggerla e firmarla. Il testo era pieno di errori di
ortografia. Misi comunque la mia firma.

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Fecero entrare i fratelli di Osman per un confronto.
Uno accennò a colpirmi. Un altro, un ragazzo che non
poteva avere più di quindici o sedici anni, parlò per tutti.
«È questa la donna che ha aggredito mio fratello? Gli ha
fatto sanguinare l’orecchio. Non siamo abituati ad alzare
le mani sulle signore, Osman le ha solo detto di sparire.
Poi è successo quello che è successo. Ieri sera, quando
non è tornato a casa, abbiamo subito pensato al peggio.
Questa donna è pazza».
Quello che voleva mettermi le mani addosso si
avvicinò e con un filo di voce, per non farsi sentire dai
poliziotti, disse: «Brutta troia, credi di farla franca?».
Mi venne la nausea.
«Proprio così, razza di idiota. Mio padre è il ministro
degli Interni tedesco» sussurrai di rimando. Lui
spalancò gli occhi per l’orrore.
Due ore dopo, quando mi comunicarono che potevo
andare, feci fatica ad alzarmi. Le forze mi avevano
abbandonato.
Batuhan mi stava aspettando fuori dalla porta. Mi
prese delicatamente per il braccio e spostò una ciocca
che mi era scivolata sul viso. Si comportava in modo
piuttosto ambiguo. Quella stessa mattina mi aveva
trattato come un’assassina!
«Va un po’ meglio?».
«Sì» risposi. «È tutto così assurdo».
«Vorrei portarti a mangiare qualcosa in ricordo dei
vecchi tempi. Conosco una buona kebaberia a Laleli».
Parlava come se avessimo avuto una relazione. Ma vi
posso assicurare che la verità è un’altra. Io e Batuhan ci

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siamo conosciuti più di un anno fa, mentre cercavo di
fare luce su un omicidio in cui era coinvolta una mia
amica. È vero, tra noi è successo qualcosa, ma non è
stato neanche un vero flirt. E comunque è stato
deludente. Se una come me, allergica ai poliziotti, si
mette a flirtare con un commissario, quale può essere il
risultato? Una delusione. Come minimo.

I poliziotti turchi provano una gioia immensa nello


sfruttare fino in fondo i loro privilegi. Batuhan non
faceva eccezione. Percorse contromano diverse strade a
senso unico e alla fine sbucammo proprio davanti alla
kebaberia. Non avevo nessuna voglia di kebab. Forse
non sarei riuscita a mandar giù neanche una minestra.
«Quindi è stato ucciso nel suo ufficio» dissi. Nessuno
dei due aveva aperto bocca durante il tragitto.
Lui mi guardò con espressione beffarda. Come sapete,
sono una che si infiamma facilmente. A stento riuscii a
reprimere l’impulso di allungare un braccio sopra il
tavolo e colpirlo in pieno viso. Dovrei leggere solo Via
col vento e cose simili.
«Senti, se credi davvero che abbia ucciso quell’uomo,
non dovremmo mangiare insieme. Raccogli tutte le
prove di cui hai bisogno e fammi arrestare. Punto e
basta. Sai dove trovarmi». Presi la borsa e mi alzai.
Batuhan mi afferrò il braccio e fece un sorriso
ossequioso. Maledizione! Non poteva comportarsi da
persona coerente e mantenere un atteggiamento deciso?
Naturalmente no, non ne era capace.
«Per favore, siediti. Non te la prendere. Perché sei

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così nervosa?».
Non sopporto che mi si dica che sono nervosa.
Soprattutto se ho appena scoperto di essere sospettata di
omicidio. Sentii una palla di rabbia formarsi all’altezza
dello stomaco. In un attimo mi arrivò in gola. Tentai di
rimandarla giù per evitare che mi scappasse di bocca.
Deglutii più volte. Secondo gli esperti, quando ci si
arrabbia bisogna inspirare profondamente. Feci quattro
bei respiri e un intenso odore di kebab mi penetrò nelle
narici.
Non servì a niente. Era tutto inutile. Mi alzai di nuovo
e andai alla toilette. Cosa mi stava succedendo? Perché
ero così irritabile? Se non cambiavo, in dieci giorni
avrei fatto scappare tutti quelli che mi stavano intorno. Il
mio telefonino aveva già smesso di squillare. Forse era
arrivato il momento di prendere degli antidepressivi.
Quando tornai al tavolo ero un po’ più controllata.
Batuhan stava divorando la porzione di baklava che
aveva ordinato dopo il tipico kebab di Adana. Certa
gente è insaziabile! Voleva assolutamente infilarmi in
bocca un pezzo di dolce. Gli spiegai che ero a dieta e
non potevo. Di fronte a una donna che vuole dimagrire,
gli uomini si sentono sempre autorizzati a dire la loro. Il
commissario non si lasciò sfuggire l’occasione.
«Ah, ora capisco perché sei così nervosa. È colpa
della dieta».
Cercai di ignorare la parola «nervosa». Lui continuò
allegramente.
«Non hai bisogno di perdere peso, sei già abbastanza
magra. Non vorrai mica diventare uno stecchino. Lo sai,

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ai turchi piacciono le donne con le curve».
«Magari non mi interessa piacere agli uomini turchi».
No, non lo dissi. Lo pensai e basta.
Sorrisi.

All’improvviso, in un modo difficile da capire per


qualunque persona dotata di buonsenso, ero diventata
una sospettata di omicidio, il che poteva anche essere un
bene. Nella situazione in cui mi trovavo, infatti, avevo
un motivo più che valido per chiamare Selim.
Evidentemente anche le catastrofi hanno i loro lati
positivi.
Per attaccarmi al telefono andai a casa, non in
negozio. Quando arrivai, però, avevo già abbandonato
l’idea di chiamare Selim. Non gli sarei corsa dietro.
Poco ma sicuro. In caso di bisogno avrei pagato a peso
d’oro un altro avvocato. E poi, se avessimo fatto pace,
avrei potuto rinfacciargli continuamente di avermi
lasciata sola nel periodo più difficile della mia vita. Non
volevo rinunciare a questa possibilità.
Cercai di abbozzare un piano. Non sarei rimasta a
casa buona buona ad aspettare che la polizia turca
concludesse le indagini. Dopotutto avevo già dimostrato
di essere piuttosto brava nel risolvere i delitti. Mi sarei
trasformata di nuovo in detective e avrei trovato
l’assassino di Osman Karakaş.
Dopo aver fatto la doccia mi vestii in modo adeguato
e avvertii subito tutta l’importanza della mia missione.
Uscii di casa galleggiando a mezz’aria per questa
consapevolezza.

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Suonai il campanello del tartaro che abitava sotto il
defunto Osman Karakaş. A questo punto potrei anche
chiamarlo per nome, visto che nel frattempo è entrato a
far parte della mia vita. A me darebbe fastidio se
qualcuno mi chiamasse semplicemente «la tedesca».
Yücel şahin rimase molto sorpreso nel vedermi.
Dovette addirittura appoggiarsi alla parete per non
barcollare.
«Allora è stata rilasciata! Ho sentito che la polizia è
venuta a prenderla. Ma come si fa? Non si può
trascinare una signora come lei in commissariato! Prego,
si accomodi. Scusi il disordine. Ho trovato dei nuovi
locali per la mia attività. Dobbiamo ancora firmare il
contratto, ma sto già sistemando le mie carte. Vuole un
tè? O preferisce qualcosa di freddo?».
Non ero ancora riuscita a dire una parola, quindi presi
la palla al balzo.
«Non voglio niente, grazie. Se ha tempo, però, vorrei
fare quattro chiacchiere».
«Per una signora come lei si ha sempre tempo. I
raccoglitori possono aspettare fino a domani mattina.
Sono a sua disposizione. Di cosa vuole parlare?».
«Ha visto la scena del crimine? Sa com’è stato
trovato il cadavere?».
«Sì. Purtroppo ho visto tutto. Naturalmente avrei
preferito non vedere niente. Quando ho sentito gridare,
sono corso di sopra e ho cercato di capire cosa stava
succedendo. Sa, dopo quello che è capitato a lei… Non
sono un tipo curioso, non mi piace mettere il naso nei

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fatti degli altri. Ma qui le liti sono piuttosto rare. Due in
due giorni sono un evento eccezionale. Per questo mi
sono stupito. E poi credevo che ci fosse di mezzo lei».
«Può raccontarmi cos’ha visto?».
«L’uomo era steso per terra. Morto ammazzato. Si
chiamava Osman, ma forse questo lo sa già. Aveva
diversi fratelli, tutti minori di lui. Io ne conosco cinque,
ma sono praticamente sicuro che ce ne siano altri. La
famiglia viene dalla Turchia orientale. Non so
esattamente da dove. Comunque possiamo dire che
ormai sono di Istanbul. Vivono a Kuledibi da più di
quindici anni. Non vuole proprio niente da bere? Guardi
che così non va bene. Ordino un tè. Uno per ciascuno,
d’accordo?».
Annuii per non offenderlo. Lui andò al telefono
vicino alla porta d’ingresso e fece l’ordine. Poi si sedette
sulla poltrona davanti a me, naturalmente dopo aver
tirato su i pantaloni. Era un uomo piuttosto alto, sulla
sessantina, ma con i capelli già radi. Aveva un aspetto
robusto. Dove poteva abitare un tipo del genere? In
quale zona di Istanbul?
«Vive in questo quartiere, Yücel?».
«No. Non potrei mai vivere qui!». Mi lanciò
un’occhiata. «Voglio dire, questa zona non è fatta per
persone come noi. Abito in viale Vatan. Prima avevamo
una casa a un piano con giardino. L’abbiamo ceduta a
un imprenditore edile che ci ha costruito sopra un
palazzone. Oggi non gliela darei più. Avere un giardino
è una vera fortuna. Purtroppo bisogna diventare vecchi
per capire quanto siano importanti certe cose. A Silivri

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abbiamo un’altra casa con giardino. Un piccolo paradiso.
Possiamo coltivare le nostre verdure. Adesso mangiamo
i pomodori del nostro orto. Il più grande dei miei figli è
ingegnere agrario. È lui che… ». Si interruppe per
andare ad aprire la porta.
Tornò con il ragazzo del tè, che mi salutò allungando
leggermente il collo. Era molto giovane. Evidentemente
Recai non si occupava della zona in cui mi trovavo.
«Le è andata bene» disse il ragazzo.
«Cosa?».
«Le è andata bene. Abbiamo saputo che è stata
portata via dalla polizia».
Dopo aver salutato con un altro cenno del capo, uscì
dall’appartamento.
«Wow, a quanto pare sono diventata famosa!».
Yücel sembrava innervosito dal fatto che il giovane
mi avesse visto e riconosciuto. Si stava asciugando la
fronte con un enorme fazzoletto preso dalla tasca.
«Forse è meglio che vada».
Lui non sentì. Si toccò il neo che aveva su un lato del
naso e continuò a riflettere.
«Forse è meglio che vada» dissi ancora.
Yücel sbatté le palpebre e mi guardò.
«Perché?».
«Non voglio crearle problemi. Se non può parlare
con me, tolgo subito il disturbo».
«Ma no! Perché dovrebbe crearmi problemi?». Ci
pensò su un attimo, poi, con voce ferma, aggiunse:
«Non si preoccupi. Non c’è nessun bisogno che se ne
vada».

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«Bene. Comunque non le voglio rubare troppo
tempo». Indicai i raccoglitori sparsi sul pavimento.
«Le racconterò tutto quello che so, sperando che le
possa essere utile».
Mi accese una sigaretta.
«Vengo qui tutti i giorni alle otto e mezzo. In questo
periodo, con la crisi economica, gli affari vanno male.
Non arrivano ordini. Come può vedere, qui non lavora
più nessuno. Quando gli ordini non mancavano, avevo
dieci dipendenti. Sto addirittura pensando di chiudere
bottega».
«Che lavoro fa?».
«Produciamo imballaggi. Posso mostrarle qualcosa,
se le interessa. Delle scatole per camicie, per esempio».
Si alzò e da un armadio tirò fuori una pila di scatole di
plastica.
«Guardi». Ne prese una e me la diede. Sopra c’era
una scritta: «Chi sceglie una camicia Kenzö sceglie la
qualità». Per poco non scoppiai a ridere.
«Abbiamo prodotto anche scatole da regalo. Questo è
un modello da cravatta».
Dallo stesso armadio tirò fuori una confezione stretta
e lunga di plastica trasparente e me la mise in mano. Era
la scatola delle cravatte cK.
«Venderò una parte delle macchine. Uno spazio più
piccolo di questo andrà benissimo. Mi basterebbe
ricevere qualche ordine. Ho una piccola pensione. E i
nostri figli ci danno qualcosa. Preferiremmo non pesare
sulle loro spalle, ma non possiamo evitarlo.
L’appartamento in cui viviamo è di nostra proprietà. Per

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fortuna da vecchi non si ha più bisogno di tanto denaro.
Io e mia moglie ce la caveremo».
«Ne sono sicura. Le dispiace se prendo appunti
mentre mi racconta quello che è successo? Non posso
tenere tutto a mente». Speravo così di riportarlo
all’argomento di partenza.
«Ma sì, certo! La sto annoiando, vero? Mi scusi, sono
un vecchio chiacchierone. Quando ci si trova a parlare
con una signora giovane e bella come lei, si vorrebbe
continuare all’infinito».
Lo ringraziai con un sorriso. Un sorriso di fronte al
quale nessuno avrebbe immaginato che il giorno prima
avevo tirato un posacenere in testa a Osman.
«Come ho già detto, che ci sia o meno del lavoro da
sbrigare, alle otto e mezzo sono qui. Stamattina sono
arrivato alla stessa ora. Ho preso i raccoglitori dagli
scaffali e ho cominciato a sistemare le carte. Se non
sbaglio, erano passate da poco le nove quando ho
sentito dei passi al piano di sopra. Poi qualcuno si è
messo a gridare al telefono. Ho riconosciuto la voce.
Era quella di Musa, uno dei fratelli di Osman.
Naturalmente le finestre erano aperte. Non riuscivo a
sentire cosa stava dicendo, però sembrava molto agitato.
Subito dopo ho visto altri due fratelli salire di corsa le
scale». Un po’ imbarazzato spiegò: «Avevo aperto
leggermente la porta perché era chiaro che stava
succedendo qualcosa di strano».
Con un cenno del capo gli feci capire che dal mio
punto di vista non aveva infranto in alcun modo le
regole turche di buon vicinato.

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«Poi ho sentito delle urla e mi sono precipitato di
sopra».
«Continui» lo esortai in preda all’emozione.
«Osman era per terra vicino alla porta d’ingresso. Era
riuscito a trascinarsi fin lì. Sul pavimento c’erano tracce
di sangue. Anzi, un vero e proprio lago. Rosso scuro,
come se fosse già secco». Yücel si mise una mano
davanti alla bocca e scosse la testa. Aveva le lacrime
agli occhi.
«Per me era come un figlio. Eravamo amici da tanti
anni». Distolse lo sguardo e cercò di ricomporsi.
Dopodiché proseguì il racconto.
«I nostri appartamenti sono uguali. Credo che sia
stato colpito da una pallottola nella stanza sul retro e che
poi si sia trascinato fino alla porta d’ingresso. A volte
nei film le vittime usano il loro sangue per scrivere il
nome dell’assassino, quindi ho seguito le tracce per
vedere se Osman aveva fatto qualcosa del genere. Con
tutto il sangue che ha perso avrebbe potuto scrivere
facilmente un nome. I suoi fratelli erano davvero
sconvolti. Özcan, il più piccolo, era accasciato sul
pavimento. Si aggrappava piangendo a Musa, che stava
accovacciato al suo fianco e fumava. Pensavo che non
mi avessero visto andare nella stanza sul retro, invece
Nevruz se n’è accorto e mi è corso dietro. Non sono
rimasto molto nella stanza, ma sono quasi sicuro che ci
sia stato un violento litigio. C’era un gran disordine.
Poltrone rovesciate, documenti sparsi per terra, un vero
caos».
«Quindi non è riuscito a vedere se Osman aveva

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scritto il nome dell’assassino con il suo sangue?». Nella
mia domanda c’era un pizzico di ironia, ma la scritta col
sangue non era un’ipotesi da escludere.
«Come avrei potuto? Dieci minuti dopo è arrivata la
polizia e nessuno è più riuscito a mettere piede
nell’appartamento. I vicini erano entrati in massa, ma i
poliziotti hanno sbattuto fuori tutti. Cosa credevano? Di
essere su un set? Tutti i negozianti del quartiere si sono
precipitati qui. Possibile che non abbiano niente di
meglio da fare?».
«Qualcuno della polizia è venuto a parlare con lei?».
«Sì, un ragazzo. Gli ho raccontato tutto quello che
sapevo. Che non è molto, come vede».
«Però conosce la famiglia da tanto tempo».
«È vero, quindici anni non sono pochi. Osman l’ho
visto crescere. Lavorava come cameriere in un caffè di
Tophane che frequento ancora oggi. Era così giovane.
Conoscevo anche il padre. Faceva il facchino. Qualche
volta ha lavorato anche per me. Pover’uomo, è morto
giovane. I suoi figli sono diventati grandi senza padre.
Quand’è successo abitavano in questa zona. Poi si sono
trasferiti a Bağcılar. Per raggiungere dei conoscenti,
persone del loro stesso paese. Così mi ha raccontato
Osman. Ah sì, ancora una cosa: una volta rimasta
vedova, la madre ha sposato uno dei fratelli del marito.
“Certo che avete proprio delle strane usanze!” ho detto a
Osman. Il patrigno era suo zio, ma aveva più o meno la
sua età. Anche lui era solo un bambino, non aveva
ancora quindici anni. Neanche un anno dopo Osman si è
sposato con una cugina. A quanto pare si sposano solo

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tra di loro. Ci hanno invitato al matrimonio, ma non
siamo potuti andare. A mia moglie non piace stare in
mezzo alla gente. Se poi sono persone che non conosce,
non c’è modo di convincerla. A dire il vero, neanch’io
avevo voglia di andare. Non so perché. Sono brave
persone. Sì, tutto sommato è gente perbene. Gentile e
educata. I turchi orientali sono così: hanno rispetto per
gli anziani. Questo laboratorio me l’hanno trovato loro.
Prima avevo dei locali in affitto a Tophane. Parlo di
dieci anni fa. Osman è sempre stato un gran lavoratore.
Come cameriere si dava un gran daffare. E il
proprietario se n’è accorto. Il proprietario del caffè,
intendo. Il signor Abdül. Era un uomo già anziano.
Ormai se n’è andato». Yücel fece un profondo sospiro.
«Il signor Abdül aveva un figlio eroinomane. Anche
lui è morto. Un giorno, quando avevo ancora il vecchio
laboratorio, l’ho trovato in cantina. Aveva un fazzoletto
legato intorno al braccio e si stava iniettando la droga.
“Vuoi dare un dispiacere a tuo padre?” gli ho chiesto.
“Così finirai per ucciderti”. Aveva uno sguardo… Mio
Dio, se ci ripenso mi vengono i brividi! È morto poco
tempo dopo. Era un ragazzo alto e magro. Sempre
pallido per quella schifezza che si iniettava. Poveretto.
Si diceva che avesse picchiato il padre per farsi dare dei
soldi. Io però non c’ero, non l’ho visto con i miei occhi.
Dopo aver sepolto il figlio, il signor Abdül ha adottato
Osman e gli ha affidato il locale. In fondo, cos’altro
poteva fare? Osman l’ha ripagato lavorando sodo. Mi
ripeteva sempre: “Non ho più debiti, Yücel”. All’epoca
era ancora un bravo ragazzo. Poi è entrato in un brutto

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giro ed è cambiato. Chi si espone al pericolo, nel
pericolo cade. Si dice così, no? Gli affari loschi non
portano niente di buono. Gli ho detto: “Ci conosciamo
da tanti anni, per te sono come un padre. Non
fraintendermi”. E lui ha risposto: “Cosa dovrei fare,
Yücel? Devo sfamare quindici persone”. Aveva bisogno
di soldi. Nel frattempo suo zio era rimasto senza lavoro.
Non ha avuto scelta, è stato costretto a entrare in un
brutto giro».
«C’entra il parcheggio qui vicino?».
«Ha cominciato con cose più piccole. Il parcheggio è
venuto dopo. Ci ha messo le mani sei anni fa, quando
hanno bruciato la casa che sorgeva in quel punto. Una
mattina siamo arrivati e quel grosso edificio non c’era
più. Naturalmente non ho capito cos’era successo. Chi
mai penserebbe che si possa bruciare un intero edificio
per fare posto a un parcheggio? Una volta Istanbul era
diversa, non era un covo di delinquenti. Io vengo da
Salihli. Sono arrivato qui da bambino, più o meno
sessant’anni fa. So com’era prima. Quelli sì che erano
bei tempi! A Beyoğlu si vedevano solo persone tirate a
lucido. Povera Istanbul, cos’è diventata!».
«Quindi Osman è cambiato dopo aver ereditato il
locale?».
«Dopo due o tre anni si è comprato una macchina.
Nei suoi affari c’era già qualcosa di poco chiaro. Diceva
di essere un imprenditore edile, ma non aveva senso.
Sapeva a malapena leggere e scrivere. È un tipo
intelligente, ma…». Si fermò di colpo. «O Signore!»
esclamò, battendosi una mano sulla fronte. «Povero

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Osman. Non riesco ancora a credere che sia morto. Non
voglio parlar male di lui. Ci mancherebbe altro! Le sto
solo dicendo come sono andate le cose, no?».
«Certo» risposi. «E poi quello che mi sta raccontando
sarà senz’altro utile. Queste cose le ha dette anche alla
polizia?».
«No. Non me le hanno neanche chieste. Crede
davvero che possano essere utili?».
«Assolutamente sì».
«E la vostra, ehm, lite… com’è cominciata? Osman è
venuto da lei in negozio?».
Annuii. «Voleva minacciarmi».
«Non era disposto a lasciar correre. Non era cattivo,
ma non sapeva perdere. È normale. Dopotutto era solo
un uomo».
Annuii di nuovo con aria comprensiva.
«In che tipo di affari era coinvolto?».
«Ah, questo non lo so neanch’io. Ne ho sentite di tutti
i colori. Prima hanno detto che – perdoni la franchezza
– gestiva un traffico di ragazze. Poi che vendeva hashish
nel suo locale. Poi che aveva trasformato la cantina del
caffè in una bisca. Alla fine mi è giunta voce che
controllava un parcheggio a Beyoğlu, in una via laterale
che porta a Tarlabaşı. Naturalmente non so se è tutto
vero. Ah sì, ho sentito anche che estorceva denaro ai
negozianti e finanziava un’organizzazione terroristica.
Ma sto solo riportando quello che diceva la gente, io
non ho mai visto né ragazze né hashish né altro. In ogni
caso Osman si è arricchito. Oggi nessuno vuole più
sapere come guadagni i tuoi soldi. Conta solo se li hai o

70
meno. Il morto aveva una scritta sul retro della
macchina: “Stupido ma ricco” ».
«Chi? Osman?».
«Proprio lui. Si era comprato una BMW così grossa
che non riusciva neanche a entrare in questa via.
Doveva scendere all’inizio della strada. Ho chiesto al
più piccolo dei miei figli quanto costa un’auto del
genere. Mi ha risposto: “Tanto, papà”. E dietro c’era
quella scritta. Incredibile, no? Anche questo quartiere
non è più come prima».
«Come fa a sapere che Osman è venuto da me in
negozio?».
Yücel agitò un braccio in aria. «Pensava che non se
ne sarebbe accorto nessuno? Aveva un orecchio che
grondava sangue. Qui le notizie si diffondono in un
battibaleno. E poi lei si tiene un po’ in disparte, il che
rende la gente ancora più curiosa. Ho saputo subito
cos’era successo. Beh, posso solo farle i miei
complimenti. A volte le persone vanno rimesse in riga.
Non siamo mica nel far west. Dico bene?».
«Sì. Non siamo nel far west».
«Il suo negozio è proprio davanti alla falegnameria di
Veysel. E lui sta qui a Kuledibi da tanti anni. Ah, che
bei tempi! Quante ne abbiamo passate! Non si lasci
ingannare dal mio aspetto, una volta maneggiavo tanti
soldi. Ma sa come si dice: tanti presi, tanti spesi. Ho
perso tutto al tavolo da gioco. Tanto per darle un’idea,
certe sere sono arrivato a perdere una cifra con cui mi
sarei potuto comprare dieci o quindici case. Alla fine ho
giurato a me stesso di smetterla con il gioco. Sono più di

71
dieci anni che non tocco una carta. Purtroppo ho
sprecato i miei anni migliori. Avrei potuto mettere via
un po’ di soldi, invece… Grazie a Dio i miei figli hanno
studiato. Tutti e due. Il primo è ingegnere agrario, l’altro
fa il commercialista. Siamo fortunati. Basta guardarsi un
po’ in giro per capirlo. I nostri sono venuti su bene».
Stava di nuovo parlando dei suoi figli. Non mi piace
essere scortese, ma dovetti interromperlo.
«Le viene in mente qualcun altro che conosceva bene
Osman?».
Yücel guardò fuori dalla finestra e ci pensò un attimo,
giocherellando con il grosso neo che aveva in faccia.
«Può chiedere a quelli che vivono qui da anni, a
Kuledibi lo conoscono tutti. Ma non credo che ne
sappiano più di me. Mi lasci riflettere ancora un attimo».
Si rimise a giocherellare con il neo.
«Aveva un’amica. Ma non ho la minima idea di dove
possa trovarla. Per un po’ è venuta spesso. Un giorno sì
e uno no la incontravo di sotto, vicino al portone. Però
sono già passati cinque anni. Forse di più. Osman era
davvero innamorato di lei».
«Sa come si chiama?».
«Lo sapevo. Sì, perché poi ha inciso una cassetta.
Una sera l’ho vista in televisione. Aveva una
scollatura…». Mi mostrò il petto.
«Comunque si capiva che sarebbe andata a finire così.
Un’altra non si sarebbe messa con un uomo con moglie
e figli. Non le sembra?».
«Come si chiamava?».
«È quello che sto cercando di ricordare». Si

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tamburellò un polpaccio con le dita di entrambe le mani.
«Rüya, Hülya… qualcosa di simile. Le persone di
quel tipo usano quasi sempre uno pseudonimo.
Probabilmente non è il suo vero nome. Ah, ora ricordo.
Si è presentata vestita da sirena. Indossava un abito con
la coda. E aveva i capelli biondi. Quando veniva qui
non era ancora bionda. Però l’ho riconosciuta subito.
Ricordo anche la canzone. Era vestita in quel modo
perché cantava:
Dalle profondità del mare
Sono arrivata fino a te.
Stringimi, scaldami, ho tanto freddo,
Tienimi tra le braccia, ho tanto freddo,
Così oppressa dalla nostalgia».

Dopo aver canticchiato queste parole mi guardò con


un certo imbarazzo.
«Mi dispiace, non ho una bella voce. La canzone era
più o meno così. Credo che questa donna potrebbe
esserle utile, se riuscisse a trovarla. Sono passati tre o
quattro anni da quando l’ho vista in tv. Naturalmente
non so cosa fa adesso. Come potrei? Osman aveva un
sacco di amiche. Questa, però, l’ha frequentata per tanto
tempo».
Si zittì di colpo.
«Tra vicini è impossibile non notare certe cose».
«Ha ragione» dissi. Mi ero scritta il testo della
canzone. Speravo di trovare qualcuno che se la
ricordasse.

73
5

La settimana era finita. Speravo ardentemente che nel


weekend i commercianti della zona avrebbero
dimenticato quello che era successo. Evitai di andare in
negozio e tornai subito a casa. Chiamai Lale. Nella mia
cerchia di amicizie era l’unica che poteva conoscere
qualcuno che forse ricordava una canzone vecchia di
quattro anni.
Non ci vedevamo da quattro o cinque giorni. Prima
che potessi raccontarle anche solo la metà di quello che
mi era capitato, mi interruppe e disse: «Presto anche tu
farai parte della famiglia dei Prozac-dipendenti. Credimi,
dopo sarà tutto più bello». Lale e la metà delle sue
amiche si tengono in piedi proprio grazie al Prozac.
L’altra metà, invece, ricorre ad antidepressivi di origine
vegetale.
Dopo un’ora di chiacchiere avevo il braccio destro
addormentato. Tenendo il ricevitore con la sinistra le
chiesi: «Per caso conosci qualcuno che si intende di
musica turca?».
«Conosco un vero esperto. Può dirti anche il nome
della casa discografica che ha prodotto un certo album.
Ci vediamo stasera da questa parte del Bosforo, okay?

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Andiamo a mangiare a Çengelköy. L’orata
d’allevamento costa come il caviale, ma non importa. È
il nostro ultimo incontro prima che ti sbattano in
prigione».
Mi trattenni dal replicare per non offenderla, ma non
riuscii a ridere per la battuta.
Lale mi diede il numero di cellulare di Erdinc Sariak,
il più grande produttore musicale di tutti i tempi. Lo
chiamai subito.
«Pronto».
«Buongiorno, sono un’amica di Lale Çağtan…».
Non mi lasciò neanche terminare la frase.
«Ah, Lale! Come sta? Sono secoli che non ci
vediamo. È una mia vecchia amica. Una donna
fantastica. Davvero fantastica. Noi non ci conosciamo,
vero? Vuole registrare una cassetta? Prima dovrei
sentirla cantare. Per Lale farei qualunque cosa, ma qui si
tratta di affari. Siamo due professionisti, no? Tra l’altro
non possiamo più contare sul potere mediatico di Lale».
L’uomo scoppiò in una risata. Lale aveva lavorato come
caporedattrice del «Günebakan», il più importante
quotidiano di Turchia, fino all’anno precedente. Da
quando l’avevano mandata via era disoccupata.
«Non voglio registrare una cassetta…».
«Ah no? Non vuole registrare una cassetta, ma se
insistessi ci farebbe un pensierino?». Scoppiò di nuovo
a ridere. Fu l’unico, naturalmente. Non volevo unirmi
alle risate di nessuno.
«No, non farei una cassetta neanche se insistesse».
«Scusi, allora perché mi ha chiamato?».

75
«Volevo chiederle se ricorda una cantante di tre o
quattro anni fa».
«Okay, me lo chieda».
Gli lessi il testo della canzone.
«La cantava con un vestito da sirena. Mi hanno detto
che si chiamava Rüya o Hülya».
Lui rise ancora una volta. «No, cara, non si chiamava
né Rüya né Hülya. Da qui si capisce cosa ricordano i
nostri connazionali. Non hanno una gran memoria. Si
chiamava Eftalya».
Era un nome che avevo già sentito.
«Si presentava come la sirenetta. Peccato che la
canzone fosse orribile. L’idea, secondo me, non era
malvagia. Ma la produzione lasciava a desiderare. La
canzone era davvero penosa. E così l’idea è andata a
farsi benedire. Si capiva fin dall’inizio che non avrebbe
funzionato. In realtà lei si chiamava… Ce l’ho qui sulla
punta della lingua. So anche dove abita. Gestisce una
pensione sul monte Ida. Un posto in mezzo alla natura.
Immagino che sappia dov’è. Accidenti, come si
chiamava? Un attimo, Rauf se lo ricorda senz’altro».
Coprì il ricevitore, o almeno questa fu la mia
impressione. Lo sentii parlare con un altro uomo, ma
non riuscii a capire cosa dicevano.
«Si chiamava Habibe Büyüktuna. Rauf è proprio in
gamba. Memorizza tutto e non dimentica mai niente. Ha
una memoria da elefante. È incredibile».
«Già, davvero incredibile. È sicuro che gestisca una
pensione sul monte Ida?».
«Sicurissimo. Habibe non è male. Almeno in

76
confronto a quelli sul mercato».
«Come si chiama la pensione?».
«Pretende un po’ troppo, cara. Provo a chiederlo a
Rauf, magari sa anche questo. Io ho una pessima
memoria per i nomi. A proposito, qual è il suo? Se non
sbaglio, non gliel’ho ancora chiesto».
«Kati».
«Kati?». Mi aspettavo un commento. O almeno una
domanda.
Niente. Consultò per la seconda volta Rauf, ma senza
coprire il ricevitore. Alla fine si rivolse di nuovo a me.
«Ha sentito, cara?».
«Sì. La ringrazio, mi è stato molto utile».
«È stato un piacere». L’ultima cosa che sentii fu
un’altra delle sue terribili risate.

Chiamai il servizio informazioni e parlai con una


donna dalla voce sofferente. Non c’era nessun numero
di telefono per la pensione Zeus.
«Potrebbe fare un’altra ricerca? Con il nome Habibe
Büyüktuna. Devo dirle com’è scritto?».
«No. Sempre a Burhaniye?».
Speravo di sì.
«Ah, eccolo. Prenda nota».
Una voce registrata mi dettò il numero.
Chiamai immediatamente.
Sarebbe stato bello se avessi trovato la persona giusta
al primo tentativo…
Non successe. Negli ultimi giorni avevo avuto solo
spiacevoli sorprese.

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Contattai di nuovo il servizio informazioni e chiesi a
un’altra operatrice se a Istanbul c’era un’abbonata di
nome Habibe Büyüktuna.
Sì, c’era. Dall’altra parte. Per chi non lo sapesse, la
città di Istanbul è divisa in due dal Bosforo. Ha una
parte asiatica e una parte europea. Io sono europea,
quindi vivo sulla sponda che appartiene all’Europa. Per
me i quartieri asiatici sono «dall’altra parte».
Ancora una volta composi subito il numero. Non mi
aspettavo che rispondesse qualcuno.
Ma la vita è sempre piena di sorprese.

Per fortuna, dopo un lungo periodo in cui nessuno


aveva potuto indossare un paio di jeans e dare
l’impressione di seguire la moda, il denim era tornato in
auge.
Intrecciai i capelli, trascurati e pieni di nodi, poi
indossai pantaloni e giubbino di jeans e uscii di casa. Mi
bloccai davanti alla macchina, indecisa. Cos’era meglio?
Prendere o non prendere l’auto? Ero talmente nervosa
che mi facevo paura da sola. Avrei potuto perdere la
pazienza e investire qualche pedone. Prendendo il taxi,
però, avrei corso il rischio di azzuffarmi con il
conducente. Tutti quelli che usano il taxi a Istanbul
corrono questo rischio. Una zuffa avrebbe potuto avere
gravi conseguenze per me.
Non c’erano molte possibilità di movimento. Presi in
seria considerazione l’idea di andare a piedi fino a
Beşiktaş per poi raggiungere l’altra sponda con un
traghetto veloce. Andare a piedi fino a Beşiktaş non è

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poi così difficile, bisogna solo camminare in mezzo ai
gas di scarico.
Alla fine abbandonai quest’idea assurda e mi misi al
volante. Dopotutto sono una persona civile, no?
Mi comportai molto civilmente. Guidai giù per la
collina di Akyol e attraverso Fındıklı, superai Beşiktaş,
presi il raccordo per il ponte Bosforo, raggiunsi la
sponda asiatica e imboccai l’uscita di Üsküdar. Tutto
questo senza litigare una sola volta. A Kuzguncuk
parcheggiai davanti alla casa di Lale, sempre
mantenendo la calma. Avevo ritrovato la fiducia in me
stessa. Dovevo ringraziare la mia amica. Senza di lei
non avrei mai pensato di lasciare Cihangir per stare in
mezzo a tanta gente.
Lale mi stava aspettando. Si era messa in ghingheri.
Anche se negli ultimi tempi ci eravamo un po’
allontanate, ci abbracciammo forte.
«Ho prenotato un tavolo. Me ne hanno promesso uno
con vista sul mare, ma è meglio che ci sbrighiamo. Il
venerdì sera c’è sempre il pienone».
«Okay, andiamo. No, aspetta, devo fare una
telefonata. Ho già provato da casa, ma non rispondeva
nessuno. Magari nel frattempo è tornata. Parlo della
cantante che stavo cercando. Ho avuto il nome dal tuo
amico Erdinç».
Chiamai il numero di Istanbul di Habibe Büyüktuna.
Dopo neanche uno squillo sentii una voce femminile.
«Buonasera, vorrei parlare con la signora
Büyüktuna».
«Lei chi è?».

79
«Mi chiamo Kati Hirschel. Non ci conosciamo…».
Non sapevo cos’altro dire. Rimasi in silenzio.
«Di che si tratta?».
«Preferirei parlarne direttamente con la signora».
Pensavo che facendo la misteriosa avrei avuto più
possibilità di raggiungere il mio obiettivo.
«Sono io Habibe Büyüktuna».
«Buonasera, signora Büyüktuna» dissi come se la
conversazione fosse appena cominciata. «Mi chiamo
Kati Hirschel. Ho una libreria a Kuledibi. Qualche
giorno fa ho incontrato un suo vecchio amico, Osman
Karakaş…».
Sentendo il nome Osman, la signora emise un
gridolino. Beh, forse non proprio. Comunque un verso
strano.
«Il mio Osman è morto» spiegò.
Fu una sorpresa. Non credevo che le brutte notizie si
diffondessero così velocemente.
«Le faccio le mie condoglianze» balbettai. «È anche
per questo che l’ho chiamata. Pare che la famiglia di
Osman mi ritenga responsabile della sua morte». Per un
attimo restammo entrambe in silenzio. «Beh, forse non
in senso stretto. Comunque credono che sia colpa mia».
La signora continuò a tacere. Solo quando tirò su col
naso capii che non aveva ancora riagganciato.
«Come avrebbe potuto uccidere Osman?» domandò.
Dalla voce non si avvertiva che poco prima aveva
pianto.
«Infatti! È chiaro che non c’entro niente. Ma bisogna
farlo capire alla polizia. E ai suoi fratelli».

80
«Dove si trova?».
«A casa di un’amica, a Kuzguncuk». Se avessi
mandato all’aria la nostra cena, Lale mi avrebbe
strozzato.
«Perfetto. Io abito a Kosuyolu. Si scriva l’indirizzo».
Non potei far altro che obbedire. Aveva un tono
molto deciso.

Me ne andai dopo aver promesso e ripromesso alla


mia amica che sarei tornata entro mezz’ora, un’ora al
massimo. Presi un taxi alla fermata di Kuzguncuk.
Rispetto a quelli che girano continuamente per la città, i
taxi che aspettano in luoghi precisi sono un po’ meglio.
Gli interni puzzano meno e i conducenti non sono così
determinati nel disturbare i passeggeri esponendo nei
minimi dettagli le loro idee su politica e Unione europea.
Inoltre vanno un po’ più piano degli altri. Ciò significa
che chi prende un taxi del genere non mette
automaticamente a repentaglio il proprio futuro.
«Siamo arrivati» mi informò il tassista una volta
raggiunto uno squallido quartiere di recente costruzione
formato da una ventina di palazzi. I balconi venivano
usati come ripostiglio. Vidi una lavatrice ancora in
buono stato, contenitori di plastica, cassette di legno,
carrozzine con cuscini sbiaditi dal sole, una coppia di
poltrone in stile nordico (mancavano i cuscini, che
senza dubbio avevano trovato un altro utilizzo), un
tavolo da cucina per dodici persone con il piano in
formica… Immersi nella luce arancione del tramonto,
tutti questi oggetti aspettavano di essere riportati in casa.

81
Habibe Büyüktuna abitava nel condominio E, al
numero 24. Sul campanello c’era solo il cognome. Non
è una cosa molto comune in Turchia. Se una donna dice
che sul suo campanello c’è solo il cognome, è chiaro
che vive da sola e non vuole farlo sapere ai vicini. Non
in tutti i quartieri le single sono benaccette come a
Cihangir.
Salii al sesto piano con l’ascensore.
La porta di uno dei quattro appartamenti era
socchiusa. Suonai il campanello e avvicinando la bocca
allo spiraglio chiamai: «Signora Büyüktuna?».
«Entri pure, sono in cucina» rispose la voce
femminile che avevo già sentito per telefono.
Aprii la porta e mi fermai in corridoio.
«Non c’è bisogno che si tolga le scarpe. Sono stata
via per due mesi, l’appartamento è tutto sporco» mi
gridò dalla cucina, che si trovava subito a sinistra, vicino
all’ingresso.
La raggiunsi e in silenzio la guardai tirare fuori la
spesa dai sacchetti di plastica e riempire il frigorifero.
Ogni volta che entro in una casa turca mi sento un po’ a
disagio. Mi sembra di essere una ficcanaso, di invadere
la sfera privata delle altre persone. Ma non dipende da
me; il problema sta nel significato che i turchi
attribuiscono alla casa e nel modo molto personale in
cui la arredano. Le case turche sono stracolme di oggetti
misteriosi che indicano chiaramente i gusti di chi ci
abita. L’idea di posare gli occhi su qualcosa che non
dovrei vedere, qualcosa che poi dovrei sforzarmi di
dimenticare, ha su di me un effetto paralizzante. Quando

82
mi trovo in una casa che non conosco rimango
immobile finché il padrone non mi dice che cosa devo
fare.
Ecco perché restai impalata vicino alla porta della
cucina e aspettai che la signora Büyüktuna, impietosita,
mi dicesse: «Prego, si accomodi».
«Vuole un caffè?» mi chiese.
«È troppo tardi. Se lo bevo a quest’ora, poi non
dormo».
«Allora qualcosa di rinfrescante. Un tè freddo?».
Dovete sapere che in Turchia il tè freddo va di moda.
Personalmente, da quando ho letto cosa contiene lo
considero una schifezza. Ma se un’ospite ti offre da bere
non puoi certo rifiutare. Soprattutto se siete all’inizio del
vostro rapporto. E se vuoi stabilire un contatto.
«Sì, un tè freddo lo berrei volentieri».
La signora mise due lattine e due bicchieri su un
vassoio e mi condusse in soggiorno. Non fu un grande
spostamento: le due stanze erano confinanti.
Il soggiorno era ingombro di mobili. C’erano un
enorme tavolo da pranzo, una vetrina piena di ninnoli
messi ordinatamente in fila, tavolini di diversa
grandezza con il piano di marmo e un divano con
poltrone abbinate dall’aria tutt’altro che comoda. Mi
sedetti su una poltrona. Lei, invece, prese posto sul
divano e accese subito una sigaretta.
«Mi racconti tutto».
«Veramente…».
«Per prima cosa vorrei sapere come mi ha trovato».
«Osman…». Mi sembrava stupido chiamarlo per

83
nome, ma dicendo «il morto» avrei potuto turbare la
signora Büyüktuna. Non sapevo cosa fare.
«Continui, per favore». Mi fissò con i suoi occhi
piccoli ma belli e aspettò con impazienza che
proseguissi. Avevo l’impressione che non le importasse
se chiamavo Osman per nome o in altro modo. Era
strano. In fondo aveva pianto quando per telefono avevo
pronunciato il nome del suo ex amante.
«Allora?».
«Nell’appartamento sotto quello di Osman c’è un
piccolo laboratorio che produce imballaggi. Il titolare si
chiama Yücel Şahin. Non so se lo conosce. Un uomo
alto, piuttosto anziano».
Lei scrollò il capo. Beh, la mia descrizione non era un
granché.
«Continui» disse ancora. Sembrava un ordine. Se
avessi condotto io la conversazione, avrei rotto il
ghiaccio con un argomento più «soft», per esempio
l’affitto, le spese di riscaldamento o la pensione sul
monte Ida. Ma era chiaro che non mi avrebbe dato
questa possibilità. Il bicchiere pieno di tè freddo alla
pesca mi scivolò di mano come un pesce bagnato e
cadde su un orrendo tappeto fatto a macchina.
Mi alzai di scatto.
«Ci penso io, non si preoccupi. Dove sono gli
stracci?».
La signora non sembrava minimamente agitata.
«La prego, si sieda. Domani deve venire la donna
delle pulizie». Mi indicò la poltrona. «Si è bagnata i
vestiti?».

84
Mi tastai i pantaloni: erano completamente asciutti.
Ma in caso contrario non sarebbe stato un problema.
Erano jeans.
«No, è andato tutto sul tappeto».
«Non fa niente. Le porto un altro tè».
Andò in cucina. Non volevo un altro bicchiere di
quella terribile miscela di tè in polvere e aromi artificiali,
ma non c’era modo di evitarlo.
Quando tornò in soggiorno, agitò la lattina che aveva
in mano e la posò sul tavolino con un colpo.
«Che cosa le ha detto l’uomo che lavora sotto
l’ufficio di Osman?».
«Mi ha parlato di lei. In realtà non mi ha detto molto.
Si è ricordato del pezzo che cantava vestita da sirena
quando ancora si faceva chiamare Eftalya. L’ha vista in
televisione».
Piegandosi all’indietro, lei scoppiò a ridere. Aveva
una risata molto bella, piena di allegria. Una risata che
non si addiceva né all’appartamento in cui mi trovavo
né al tappeto tessuto a macchina che copriva il
pavimento. Non sembrava la risata di una donna capace
di avere una relazione con quel buzzurro di Osman.
«Che bello! A quanto pare c’è gente che se ne ricorda
ancora». Abbassò un po’ la voce. «Mi fa piacere. È
passato tanto tempo».
Doveva avere una decina d’anni meno di me. Per
questo quattro o cinque anni le sembravano «tanto
tempo». Io, invece, ero entrata nella fase in cui certe
cose si ricordano come se fossero successe ieri. Che
tristezza.

85
«Una come lei non si dimentica facilmente». Speravo
che un complimento la sciogliesse un po’.
«Strano che questa cosa esca dalla bocca di una
donna».
«Beh, se la dice una donna dev’essere per forza
vera».
Se mi impegno, sono piuttosto brava a parlare. Solo
che le chiacchiere mi annoiano velocemente. Non riesco
a raggiungere l’obiettivo con lunghi discorsi. Le mie
parole, però, avevano sortito un certo effetto. Büyüktuna
sbatté il suo bicchiere sul tavolino. Il liquido che ne uscì
si sparse rapidamente, minacciando di diventare un lago
appiccicoso.
«Perché dobbiamo bere questa schifezza?».
Aprì il mobiletto sotto il televisore.
«Cosa preferisce?».
«Non potremmo darci del tu?» chiesi.
«Ottima idea! Non sopporto le formalità. Cosa vuoi?
Scegli pure». Si spostò di lato in modo che potessi
vedere cosa c’era nel mobile. Presi un whisky e soda
con ghiaccio.
Passò un po’ di tempo prima che tornassimo a parlare
di Yücel. Ormai la cena con Lale era saltata. Ma che ci
potevo fare? Era questione di vita o di morte.

A notte fonda, quando tornai a Kuzguncuk, Lale era


ancora in piedi. Con il lavoro aveva perso anche
l’abitudine di alzarsi presto e andare a letto presto. Era
seduta in giardino a fumare.
«Che tipo è?».

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«All’inizio è stata piuttosto fredda» risposi. «Volevo
alzarmi e tornare a casa. Ma poi…».
«Poi hai dato fuoco a una poltrona con la sigaretta e
la distanza che c’era tra voi è scomparsa».
Non mi piace neanche un po’ avere intorno qualcuno
che conosce così bene sia me che i miei trucchetti.
«Mi è scivolato di mano il bicchiere».
«Meno male, ti sei inventata qualcosa di nuovo!»
esclamò lei. Poi, con espressione soddisfatta, andò a
dormire.

Habibe mi aveva detto ben poco che non sapessi già.


Però era stata tanto gentile da darmi nome e numero di
telefono della nuova amica di Osman. La mia visita non
era stata del tutto inutile. Habibe conosceva la donna
che aveva preso il suo posto. Mentre parlava di lei era
diventata tutta rossa e aveva cominciato a farsi aria con
un vecchio giornale.
Il giorno dopo, verso mezzogiorno, chiamai la donna.
«Potrei parlare con İnci Ürün?».
«La signora Ürün sta dormendo. Sono la sua
assistente. Se mi lascia il suo nome…».
«Mi chiamo Kati Hirschel, ma la signora non mi
conosce. Proverò a telefonare più tardi. Quando
dovrebbe svegliarsi?».
«Fra tre o quattro ore» rispose l’assistente e
riagganciò.
Tre ore dopo richiamai. Non avevo niente di meglio
da fare, quindi non correvo il rischio di dimenticarmene.
Taccuini e agendine sono stati inventati per chi ha tanti

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impegni; le persone come me si affidano alla memoria.
Fu un’altra donna a rispondere. Doveva essere İnci
Ürün.
«La signora Ürün?».
«Sì».
«Mi chiamo Kati Hirschel. Ho chiamato questa…».
«Sì, lo so, ha chiamato mentre dormivo. Hafıze mi ha
informato. Glielo dico subito: se vuole vendermi
qualcosa, lasci perdere. Non mi interessano neanche i
sondaggi telefonici».
«No, no, non vendo niente». Non sapevo che
esistessero anche i sondaggi telefonici. «Vorrei solo
parlare con lei. Si tratta di Osman. Karakaş».
«Osman? Le deve dei soldi? Mi dispiace, ma io non
c’entro. Dovrebbe parlare con i suoi fratelli. Se non sa
come contattarli, le posso dare i loro numeri di
telefono».
Per lo meno non si era messa a piangere appena
avevo nominato Osman.
«Non mi deve dei soldi. È una questione – come
posso dire? – piuttosto complicata. Ho litigato col signor
Karakaş poco prima che morisse. Ho un negozio a
Kuledibi». Erano sufficienti queste informazioni per una
persona che non conosceva tutta la storia?
«E allora? Si può sapere cosa vuole?».
«Il signor Karakaş è stato ucciso dopo la nostra lite e
così ora sono sospettata di omicidio» le spiegai.
«Sospettano di lei? Chi?».
«La polizia. E i suoi fratelli».
«La polizia può pensare quello che vuole, ma mi

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sembra strano che i fratelli credano che sia stata lei».
Seguì un breve silenzio.
«Mi sta prendendo in giro?». La signora Ürün non
era affatto stupida.
«Crede che potrei prenderla in giro su una cosa come
questa?».
Di nuovo silenzio. Mi mordicchiai le labbra.
Un’abitudine che odio.
«Come mi ha trovato? Cosa vuole da me?» chiese
infine la mia interlocutrice.
«Potrebbe aiutarmi a scoprire il vero assassino. Ho
avuto il suo numero da Habibe». Avevo dimenticato il
cognome.
«Habibe?» ripeté lei, poi fece una pausa.
All’improvviso il cognome mi tornò in mente.
«Büyüktuna».
«Sì, ho capito di chi sta parlando. Siete amiche?».
«Ci siamo conosciute in questo frangente».
Un’altra pausa, più lunga delle precedenti.
«Signora Ürün…». Non riuscii a terminare la frase.
«Trovare l’assassino è più importante per me che per
lei. Ma non so niente, non credo di poterla aiutare. Mi
dispiace». Fece un gran sospiro. «Ha detto di avere un
negozio a Kuledibi. Che cosa vende? Lampadari?».
«Libri gialli» risposi, pensando che avrebbe trovato la
cosa piuttosto strana.
«Non ci credo! Adoro i gialli. Il mio personaggio
preferito è il ladro di Lawrence Block. Il suo qual è?».
Parlava con voce carica di emozione. Solo una grande
appassionata di gialli poteva avere una voce così. Mi

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stavo sognando tutto? O avevo davvero a che fare con
l’amante di un mafioso che adorava i gialli?
«Beh, in questo periodo mi piace molto Minette
Walters. Ma le mie preferenze cambiano di continuo».
«Minette Walters? Di suo non ho ancora letto niente».
Poi, con voce da bambina viziata, aggiunse: «Mi porti
uno dei suoi libri. Voglio vedere se piace anche a me».
Prima di riagganciare disse, anzi predisse
qualcos’altro.
«Sa una cosa? Ho la sensazione che riuscirà a
risolvere questo caso. Lo sento chiaramente. Quando ci
vediamo le leggo i tarocchi».

Per il nostro incontro mi aveva pregato di scegliere


un locale con i tavolini all’aperto perché non voleva
respirare il fumo delle sigarette altrui. Le avevo chiesto
dove viveva. Nella sua zona conoscevo un solo locale
che offriva la possibilità di sedersi fuori: il Bebek Kahve.
Ci avevo fatto colazione con Selim. Non avevo molta
voglia di rimetterci piede perché temevo che mi
sarebbero tornati in mente i giorni felici trascorsi con lui.
Tuttavia era il luogo ideale per l’incontro con İnci Ürün.
Il locale si trova a Bebek, che secondo me è il più
bello tra i quartieri situati sulla sponda europea del
Bosforo. Se avessi tanti soldi o gli affitti fossero più
bassi, sceglierei senz’altro di vivere in questa zona.
Selim abitava in una vecchia casa magnificamente
ristrutturata su una delle colline sotto Bebek. Non che
mi piaccia parlare di lui al passato, ma bisogna guardare
in faccia la realtà. Non faceva più parte del mio presente.

90
E probabilmente non ne avrebbe più fatto parte. Tutta
colpa della mia testardaggine.

Non mi andava di tornare in negozio, alzare


faticosamente la saracinesca di ferro e abbassarla di
nuovo solo per Minette Walters. Ma non volevo portare
all’amica di Osman uno dei volumi che avevo a casa.
Magari non amava i libri usati. A me piacciono i libri
appartenuti ad altre persone. Tra le pagine si possono
trovare cose romantiche e non troppo stupide, come un
fiore secco, ma anche piccole macchie di tè e briciole di
biscotti. È divertente. Soprattutto se è stato un
conoscente a leggere il libro prima di voi.
Andai nella libreria di Candan. Anche a lei piacciono
i gialli, quindi nel suo negozio ce n’è una vasta offerta.
Non poteva certo mancare Minette Walters. In effetti
trovai subito uno dei suoi romanzi.
Mi recai all’appuntamento con largo anticipo. A dirla
tutta, mi affrettai verso il luogo dell’incontro nella
speranza di poter fumare una sigaretta e bere un tè
prima che arrivasse la signora Ürün. Ci sono persone
incredibilmente ostili verso il fumo. D’altronde, se
aveva perso la mamma per un tumore ai polmoni, era
comprensibile che non sopportasse qualcuno che le
fumava accanto. Nella mia vita ne ho viste di tutti i
colori.
Quando İnci Ürün arrivò, avevo già fumato non una
ma due sigarette. Non perché fosse in ritardo, ma perché
sono una fumatrice professionista che ne accende una
dietro l’altra. Non ho ancora capito bene se è una cosa

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di cui vantarsi con amici e lettori, comunque è meglio di
niente.
Le avevo dato una descrizione di me stessa, invece lei
non aveva detto una parola sul suo aspetto. In realtà
sarebbe bastata una frase: «Sono incinta».
Evidentemente era per questo che evitava le sigarette,
non perché la madre era morta di cancro. Nonostante la
gravidanza – o proprio perché incinta? – aveva un
aspetto fantastico. Se la memoria non mi inganna
riguardo alla protagonista del Grande sonno, Ürün
somigliava molto a Lauren Bacall.
Lanciò subito un’occhiata al pacchetto di sigarette sul
tavolo.
«Prima ne fumavo tante. Smettere non è stato facile.
È incredibile che con tutte le cose successe negli ultimi
tempi non abbia ricominciato». Si mise a giocherellare
con il collo della camicetta, su cui spiccavano enormi
fiori rossi e rami verdi. Sotto aveva un paio di pantaloni
neri. Mi sembrò l’abbigliamento ideale per una donna
incinta.
«Per un po’ ho accarezzato anch’io l’idea di un figlio.
Sapevo che smettere di fumare sarebbe stata una cosa
molto difficile. Come trovare un uomo che potesse
essere un buon padre».
«Ha ragione». Rise, mostrandomi tutti i denti. «Io ho
cercato di accontentarmi». Alzò le spalle. «Ma ora non
posso fare neanche questo perché non ho più nessuno».
Non sembrava triste. La sua era un’affermazione
concreta basata su una situazione altrettanto concreta.
Sembrava una persona capace di guardare le cose in

92
modo distaccato.
«È di Osman?» chiesi, indicando il pancione con il
mento.
Lei annuì.
«Oggi avevo appuntamento con l’avvocato. Vengo
proprio dal suo studio. Eh sì, il corpo di Osman è ancora
caldo e io penso a queste cose». Inarcò le sopracciglia.
«Guardi che non è stato facile. Ma devo difendere i
diritti di mio figlio. Non ho intenzione di rinunciare
all’eredità».
«Eravate sposati?».
«No, per questo sono andata subito dall’avvocato.
Voglio essere sicura che mio figlio abbia la sua parte di
eredità».
«Ma lui aveva una moglie, no?».
İnci Ürün spalancò le braccia. «Lo sa solo il cielo. In
effetti era sposato con una parente, ma a sentir lui non
hanno mai celebrato un vero matrimonio. Quando si
sono sposati era ancora minorenne e in seguito non si è
preoccupato di ufficializzare l’unione. Non lo so.
Magari mi ha raccontato questa storiella solo per
portarmi a letto…».
«Sta dicendo che era sposato solo dal punto di vista
religioso?».
Lei fece spallucce.
«Non è poi così strano. I sobborghi di Istanbul sono
pieni di coppie del genere». Mi scrutò per un attimo.
«Beh, è ovvio che non può sapere come vanno le cose
in periferia».
Come se le coppie sposate solo davanti all’imam non

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abbondassero anche a Cihangir e negli altri quartieri di
Istanbul…
«Quindi la moglie non ufficiale e i suoi figli non
erediteranno niente?».
«È proprio questo il punto. Stando all’avvocato, se
Osman ha riconosciuto i figli, cioè se è indicato come
padre nei documenti, loro sono eredi a tutti gli effetti. Se
il matrimonio non era valido dal punto di vista giuridico,
lei non prende niente. Come me». Si passò le dita tra i
capelli fonati. «Comunque non m’importa. Voglio solo
che mio figlio abbia la sua parte».
Rimasi colpita dal modo in cui lo disse.
Probabilmente İnci Ürün se ne accorse dalla mia
espressione.
«Non mi fraintenda. Ho amato Osman a tal punto da
fare un figlio con lui. Non è poco. Ma di grandi
promesse ne ho sentite troppe. Ora cerco di limitare le
mie aspettative per non restare delusa. Tutto qui».
«Quando vi siete conosciuti?».
«Habibe non gliel’ha detto?».
«In realtà non mi ha raccontato molto. So che questa
storia non mi riguarda, voglio solo uscirne sana e
salva».
«Ha ragione, non dovrebbe immischiarsi. Ma a
questo punto… Se penso a quello che mi ha fatto
Habibe, mi viene una rabbia… Non so che cosa le ha
raccontato, comunque non è vero che le ho soffiato
l’uomo».
«Ah no?».
«Ecco, ci avrei scommesso. Accidenti a lei! Se solo

94
sapessi cosa vuole… Racconta sempre la stessa storia.
L’ha fatto anche stavolta, no?».
«Mi ha detto che per un po’ è stata con Osman e che
vi ha presentato lei». Forse avevo parlato troppo. «Cose
senza importanza» aggiunsi.
«Quindi non c’è motivo di arrabbiarsi?».
«In un certo senso».
«Il problema è che non c’è niente di vero in quello
che dice. Non ci siamo conosciuti tramite Habibe.
Osman mi ha visto ed è rimasto colpito. Andavo ancora
alle superiori. Ero un’ottima studentessa. Abitavo vicino
a lui e alla sua famiglia, praticamente nello stesso
quartiere. Osman mi ha visto proprio mentre andavo a
scuola. Non si faccia un’idea sbagliata: non ero il tipo di
ragazza che si lascia impressionare dal denaro e dalle
auto di lusso. Però devo ammettere che la nostra povertà
era un peso. Dopo la scuola cucivo paillette sulle maglie
e le vendevo per portare a casa un po’ di soldi. Pensavo
che Osman avrebbe cambiato la mia vita. Quando ho
capito che era un’idea stupida e che da certe situazioni si
può uscire solo con le proprie forze, era già troppo tardi.
I giovani sono così ingenui. Mi sembrava di essere
caduta in un pozzo. Da un certo punto in poi la luce
diventa sempre più fioca. Si cade sempre più giù, è
inevitabile».
«Che tipo era Osman?».
«Non era cattivo. Altrimenti non sarei rimasta con lui
per tanto tempo. Naturalmente, a livello culturale
eravamo molto diversi. La cosa dava fastidio più a lui
che a me. Per esempio non sopportava che fossi una

95
lettrice. In casa non potevo tenere libri. Li leggevo di
nascosto e poi li buttavo nella pattumiera. Per una come
me è un vero delitto. Appena ho saputo che Osman era
morto, ho preso il secchio della spazzatura e me ne sono
liberata. Ma ci pensa? Mi dava fastidio solo a guardarlo.
Come se fosse colpa del secchio…». Seguì un breve
silenzio.
«Posso prendere una sigaretta?» domandò.
Non mi piace fare prediche agli altri.
«Se vuole» risposi. İnci Ürün non disse niente per la
durata di mezza sigaretta.
«Dopo aver parlato con lei per telefono, ho chiamato
Özcan, il fratello più piccolo di Osman. Un ragazzo con
la testa sulle spalle».
«Ho avuto il piacere di conoscerlo. Se devo essere
sincera, non mi è sembrato un tipo molto ragionevole».
«Senta, posso farle una domanda? Lei è davvero
tedesca?».
«Beh, sono più che altro una cittadina di Istanbul.
Però vengo dalla Germania».
İnci Ürün sorrise.
«Non mi fraintenda, gliel’ho chiesto solo perché il
suo turco è perfetto. Usa i termini vecchi nel modo
giusto e parla quasi senza accento. Sì, ogni tanto si sente
qualcosa, ma solo quando pronuncia certe parole. Sono
molto pignola da questo punto di vista. A scuola ero la
più brava in turco».
«Come fa a sapere che sono tedesca?». Possibile che
l’avesse capito dai miei capelli tinti di rosso arancio?
«Me l’ha detto Özcan. Il fratello minore di Osman.

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Mi ha detto anche che suo padre è il ministro degli
Interni tedesco».
«Cosa?».
«Suo padre…».
«Mio padre è morto diversi anni fa. Chi ha inventato
questa storia del ministro?».
Lei alzò le spalle e all’improvviso fu come se non
avesse il collo. D’un tratto mi venne in mente: ero stata
io a inventare la storia del ministro, dopo
l’interrogatorio in questura, quando uno dei fratelli di
Osman mi aveva aggredito. Era chiaro che se l’erano
bevuta. Ma cosa sarebbe cambiato se mio padre fosse
stato davvero il ministro degli Interni? La gente dà
valore a cose assurde.
«Ha lasciato la scuola per Osman?». Mi sembrava
che parlasse volentieri di quando era una studentessa.
«No, non ci ho neanche pensato! Frequentavo
l’ultimo anno quando ci siamo conosciuti. Sono arrivata
fino alla fine. Era un istituto professionale. Una di quelle
scuole dove le persone povere mandano i figli nella
speranza che poi guadagnino in fretta. Magari ne ha
sentito parlare. Gli studenti imparano a tenere la
contabilità, a scrivere a macchina, a fare cose simili.
Andare all’università è un sogno per chi esce da una
scuola del genere. Io volevo continuare a studiare.
Volevo far parte di quell’ambiente culturale. Adesso
potrei iscrivermi a un’università privata. Ci vogliono
solo i soldi. Le università private non richiedono voti
altissimi, è più facile entrare».
«I sogni si possono realizzare, basta volerlo».

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Lei si morse il labbro.
«Non è strano? Una persona muore, un’altra nasce e
un’altra ancora si sente libera per la prima volta nella
sua vita…».
«E una quarta viene sospettata di omicidio».
İnci Ürün fece una risata e mi mostrò di nuovo tutti e
trentadue i denti.
«Andiamo, nessuno crede che sia un’assassina».
«Gliel’ha detto Özcan? Soltanto ieri, davanti agli
uomini della squadra omicidi, ha puntato il dito contro
di me e si è fatto venire un attacco isterico».
«Il sospettato principale è lo zio. Musa avrà tirato
fuori questa bella idea per deviare i sospetti su qualcun
altro».
«Chi è Musa?».
«Il primo fratello minore di Osman. Gestisce il
parcheggio di Kuledibi. Beh, in realtà è il parcheggio
che gestisce lui. È un vero idiota. Doveva farsi venire
un’idea migliore. Secondo Özcan, neanche la polizia ha
preso sul serio le sue accuse. Non capisco perché lo fa
lei».
«Ho dovuto prendere la cosa sul serio. Mi hanno
interrogato e fatto firmare la dichiarazione».
İnci Ürün rispose con un’alzata di spalle.
«Qui la gente viene interrogata anche per un banale
incidente d’auto».
«Sì, ma non senza motivo. Si interrogano le persone
che hanno visto l’incidente».
«Ha consultato un avvocato?».
«La prego, non parliamo di avvocati».

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«Perché? Ha preso qualche fregatura?».
«Come le viene in mente?».
«Non lo so. Così. Si sa che gli avvocati ti fregano
sempre».
Mi accesi una sigaretta e chiamai con un cenno il
cameriere per ordinare altri due tè.
«Sto con un avvocato» confessai. «O meglio, stavo.
Abbiamo rotto una settimana fa».

99
6

Osman era morto per una ferita d’arma da fuoco alla


gamba. Anzi, era morto per la perdita di sangue; la ferita
in sé non era letale. Forse qualcuno voleva dargli una
lezione. «C’è stata una lite» aveva detto İnci.
Nell’ufficio di Osman regnava un gran disordine. Erano
volati tavoli e sedie. Chiunque fosse l’altra persona,
durante la lite aveva sicuramente estratto la pistola e
sparato un colpo. Alla gamba. Un colpo solo. Un
avvertimento. Nessuno dei due pensava che quel colpo
sarebbe stato fatale.
Perché Osman non aveva sparato al suo aggressore?
Non aveva un’arma?
Secondo İnci, andava sempre in giro con una pistola.
Forse in ufficio, come a casa, la riponeva.
Quando era venuto da me in negozio, però, doveva
essere armato. Mi sforzai di ricordare il momento in cui
era entrato in libreria. Non avevo notato se portava
addosso una pistola. Non avevo fatto caso a eventuali
rigonfiamenti all’altezza dei fianchi. Ma di una cosa ero
sicura: in futuro avrei dovuto riflettere bene prima di
tirare un posacenere in testa a qualcuno. Non si sa mai
chi si ha davanti. Yücel aveva ragione: non era un bel

100
quartiere.
İnci mi aveva invitato a cena a casa sua, ma negli
ultimi giorni avevo già passato troppo tempo in
compagnia. E poi non riesco a dare subito confidenza
alle persone che non conosco bene. Era anche probabile
che volesse leggermi i tarocchi.

Il giorno seguente era domenica. Al risveglio, quando


me ne resi conto, desiderai prendermi a schiaffi. Prima
della domenica viene sempre il sabato. Avevo
dimenticato l’incontro settimanale con il mio amico
Yılmaz, il nostro appuntamento del sabato mattina nel
giardino da tè di Firuzağa. Queste cose succedono
perché non voglio fare la classica tedesca e portarmi
sempre dietro un’agenda!
Corsi al telefono. La sera prima, quando ero tornata,
la segreteria telefonica non lampeggiava. In un certo
senso era normale: ora in casa c’era qualcuno che
rispondeva alle chiamate. Al mio ritorno, però, Pelin
non c’era. Non mi aveva lasciato alcun messaggio;
evidentemente Yılmaz non si era fatto sentire. Se non
mi aveva chiamato né sul cellulare né a casa, c’era solo
una spiegazione: era davvero arrabbiato con me. Dopo
tanti anni lo conoscevo abbastanza bene. Preparai una
serie di scuse e composi il suo numero.
«Ma hai guardato l’orologio? È domenica» fece lui.
Era chiaro che l’avevo svegliato. Se si potesse uccidere
qualcuno per telefono, senza dubbio oggi non sarei qui a
scrivere.
«Volevo scusarmi per ieri».

101
«Ne parliamo più tardi» tagliò corto Yılmaz.
Grattandomi la testa andai in cucina. Avevo voglia di
un buon caffè. Con un po’ di latte. Insomma, un
cappuccino. Nel mobile avevo una cosa che mescolata
con l’acqua sapeva proprio di cappuccino. Tirai fuori il
grosso barattolo in cui tenevo la polvere, confezionata in
bustine monodose. Mancavano tre mesi alla data di
scadenza. Questa era la buona notizia. Quella cattiva
arrivò nel momento in cui il mio sguardo fu catturato
dalla lista degli ingredienti. Il prodotto conteneva uno
stabilizzante chiamato E339. Se anche mi avessero
garantito al cento per cento che non era dannoso per la
salute, non avrei rovinato una bella mattina di settembre
bevendo qualcosa contenente una sostanza indicata con
un numero. Raggiunsi la finestra del soggiorno per
chiamare Hamdi, l’aiutante del bottegaio, e ordinare una
confezione di caffè turco. A Istanbul si fa così: il
bottegaio si chiama gridando dalla finestra. Si potrebbe
anche usare il telefono, ma se l’altro metodo funziona…
Cinque minuti più tardi Hamdi e il caffè erano
davanti alla mia porta. Ecco un altro motivo per cui è
impossibile non amare Istanbul e i turchi; a Berlino
avrei dovuto girare mezza città per trovare un negozio
aperto di domenica.
Svegliai Pelin – cosa tutt’altro che facile – e mi
sedetti sul balcone della camera per sorseggiare il mio
caffè turco.
«Come mai ti sei alzata così presto?» domandò lei,
raggiungendo il balcone a occhi chiusi.
«Guarda che non è presto. Sono già le nove».

102
Poco dopo sentii il rumore dello sciacquone e una
porta che sbatteva. Pelin si era rimessa a letto. Rimasi
seduta fuori, da sola, finché non suonò il telefono.
Era İnci, la mia nuova amica.
«Buongiorno! Ti ho svegliato?».
«No, tranquilla. Sono in piedi da almeno due ore».
«Anch’io mi sono svegliata presto stamattina. Di
solito dormo fino a tardi. Ho appena parlato con Özcan.
Sai, il fratello più piccolo di Osman. Per me è quasi un
amico. Non capisce come mai ti interessa ancora questa
storia. Non è un appassionato di gialli come noi due».
Scoppiò a ridere. Sicuramente stava mostrando i suoi
denti bianchi come perle.
«Ieri ho iniziato uno dei libri che mi hai portato. È
piuttosto forte. Forse sarebbe meglio leggerlo dopo la
nascita del bambino, ma ho l’impressione che non
riuscirò ad aspettare».
«Non leggerlo di notte. Non vedi l’ora di arrivare alla
fine e non ti rimane più tempo per dormire».
«Hai già letto il giornale di oggi?».
«No».
«Con due giorni di ritardo, tre quotidiani hanno
messo la notizia in terza pagina. Non so come, ma si
sono procurati una fototessera di Osman. Sono anche
riusciti a scoprire che aveva litigato con lo zio per soldi.
In pratica hanno scritto solo questo».
«Hai detto di aver parlato con Özcan».
«Ah, sì. Per questo ti ho chiamato. Oggi pomeriggio
Özcan sarà qui da me. Non volevi fargli un paio di
domande?».

103
«Quando posso venire?».
«Presto. Anche subito, se vuoi. Ne approfitteremo per
leggere i tarocchi. Non ho ancora fatto colazione. Se ti
va, possiamo farla insieme».
«Okay».

Come ogni turca, İnci aveva un appartamento


pulitissimo. È così in tutta Istanbul: gli interni delle case
e i vetri delle finestre sono tirati a lucido, ma i balconi e
le strade sono talmente sporchi da risultare sgradevoli a
chiunque ci metta piede. Di conseguenza non me la
presi quando İnci mi chiese di togliere le scarpe
all’ingresso. Mi diede un paio di ciabatte con tacco alto
e decorazione di piume. Misura 36. Naturalmente non
mi andavano bene. Dovetti usare le pantofole del morto,
abbandonate in corridoio. Appena le misi, sentii una
mano gelida accarezzarmi il piede e salire velocemente
lungo il corpo fino alla testa. Come se, infilando le
pantofole, fossi morta anch’io. Quasi che la morte fosse
una malattia contagiosa, una specie di lebbra. Non
riuscii neanche ad arrivare in soggiorno; mi tolsi le
pantofole e le rimisi al loro posto, sul ripiano per
cappelli dell’attaccapanni.
Mentre, con la coscienza sporca, bevevo il secondo
caffè della giornata, İnci mi lesse i tarocchi. Scoprì il
Carro. Significava che avrei fatto un bel salto in avanti.
Nella mia vita ci sarebbe stato un grande cambiamento.
La carta indicava una novità positiva e piacevole.
«Troverai un altro uomo e sarai più felice di prima»
disse.

104
In realtà sarei stata molto più contenta se nella mia
vita fosse entrato un nuovo appartamento invece di un
altro uomo. Non vi sembra un po’ strano?
Mancavano tre mesi al parto, ma İnci aveva già
preparato tutto. Mi mostrò con orgoglio la stanza del
bambino. Voleva chiamarlo Osman Emir. Non potei
fare altro che prendere in mano una decina di indumenti
da neonato e fingermi interessata.
Parlammo un po’ di Habibe. Secondo İnci le sue
canzoni non avevano avuto successo perché si era
presentata come sirena.
«Le sirene non hanno sesso. Voglio dire, non hanno
organi sessuali. Credi che gli uomini possano provare
interesse per una donna che non ha le gambe né quella
cosa che sta in mezzo alle gambe? Alle donne, poi, la
cassetta non interessava proprio. Sulla copertina c’era il
suo seno! Prova a immaginare: uno vede in televisione
una sirena asessuata, non riesce più a levarsela dalla
mente e quindi va a comprare il suo album. No,
impossibile! Infatti l’album non è andato esattamente a
ruba. In questi casi non si vendono canzoni, si vende
sesso».
Le feci notare che la sirenetta era uno dei personaggi
più belli e affascinanti delle fiabe. Non a caso era uscita
dalla penna di Andersen, un raccontastorie geniale.
«Appunto, così confermi quello che ho appena detto.
Una creatura senza sesso può esistere solo nelle fiabe.
Non puoi usare un personaggio del genere per una
cantante che deve vendere le sue cassette a uomini e
donne».

105
Forse aveva ragione. A chi può interessare un
cantante senza sesso?
Appena entrato, Özcan si precipitò sulla mia mano.
Una cosa terribile. I turchi hanno l’abitudine di salutare
così le persone più grandi: prendono la mano, la baciano
e poi la portano alla fronte. In segno di rispetto. Lui
voleva baciare la mia mano, io volevo impedirglielo. Ci
fu una piccola zuffa, ma alla fine, grazie a İnci, ebbi la
meglio.
Özcan disse di essere molto dispiaciuto per quello
che mi era successo. Lo scrutai in viso, chiedendomi se
si stesse prendendo gioco di me. No, era serio. Ma se gli
dispiaceva tanto, perché aveva cercato di convincere la
polizia che ero un’assassina?
Come se mi avesse letto nel pensiero, tentò di
giustificarsi. «Musa ha detto: “Deve essere stata quella
donna”. E noi abbiamo preso per buone le sue parole.
Lei non c’entra niente, vero? Non si uccidono tutti
quelli con cui si litiga».
Annuii. In fondo era solo un ragazzo di quindici,
sedici anni. Faceva quello che gli dicevano di fare.
«E tuo zio?».
«È scappato martedì sera con i soldi di mio fratello. Il
mattino dopo Osman doveva saldare un conto. Per
evitare contrattempi ha portato il denaro a casa.
Evidentemente lo zio l’ha trovato e ha deciso di sparire.
Sapevamo che non c’era da fidarsi. Siamo sempre stati
attenti. Infatti è scappato mentre dormivamo. Abbiamo
informato parenti e amici nella speranza di recuperare i
soldi prima che potesse spenderli. Ma nessuno sa dov’è.

106
La polizia non l’ha ancora trovato. Alcol, gioco, donne:
lo zio non si fa mancare niente. Magari era dispiaciuto
per quello che aveva fatto. È andato da Osman, hanno
litigato ed è partito un colpo».
«Gira sempre armato?».
«Ma no, è un poveraccio! Siamo noi che ci
prendiamo cura di lui, anche se la cosa non gli piace
tanto. Osman gli ha trovato lavoro diverse volte, ma lui
non ha mai resistito per più di due giorni. Se lo
mettessimo a confronto con un vagabondo preso per
strada, di sicuro vincerebbe il vagabondo. Ci occupiamo
di lui solo per rispetto verso nostro padre, che riposi in
pace».
«Se tuo zio non ha un’arma, con che cosa ha ucciso
tuo fratello?».
Özcan mi guardò come se fossi un panda in via di
estinzione.
«Ma dove vive? Qui in Turchia non è mica difficile
procurarsi un’arma. Basta pagare. Se mi dà un po’ di
soldi, in mezz’ora le porto quello che vuole. Roba di
prima scelta».
«Di cosa vi occupate?».
«Non abbiamo niente a che fare con le armi. Stavo
dicendo che gliene posso procurare una, non che gliene
porto una delle mie».
«Non ci siamo capiti. Volevo sapere cosa fate oltre a
gestire parcheggi».
«Tante cose».
«Quanti parcheggi avete?».
«Vediamo…». Si mise a contare con le dita.

107
«Abbiamo due strade intere a Beyoğlu e altre due a
Tarlabaşı. Poi ci sono il parcheggio di Kuledibi, quello
che conosce già, e un altro grosso a Cihangir».
«I parcheggi si trovano spesso nelle zone a traffico
limitato. È così anche per i vostri a Beyoğlu?».
«Sì. Controlliamo completamente la İmam Adnan
Sokak e la Büyük Parmakkapı Sokak».
«A chi bisogna chiedere l’autorizzazione?».
Era una domanda dettata dalla curiosità.
«Bisogna rivolgersi al comune. Guardi che paghiamo
tutte le tasse, fino all’ultimo centesimo. Forniamo un
servizio alla collettività. Come farebbero i cittadini se
non ci fossero i nostri parcheggi? Dove lascerebbero la
macchina? Lei ha un’auto?».
«Sì».
«Ammettiamo che voglia uscire e passare la serata a
Beyoğlu. Dove mette l’auto? Non può certo lasciarla in
un posto qualsiasi, non starebbe tranquilla. La città è
piena di ladri e vagabondi. In più ci sono i ragazzini che
sniffano colla. Uno inspira profondamente e nello stesso
tempo prende un chiodo lungo come il mio braccio».
Per farmi capire meglio posò la mano sinistra sulla
spalla destra e allungò il braccio. «Con quel chiodo riga
tutta la macchina. Secondo lei se ne accorge qualcuno?
La polizia non ha tempo per queste cose. Allora, mi dica:
coi tempi che corrono crede davvero di poter lasciare la
macchina per strada e andare a bere qualcosa?».
Sinceramente non capisco perché i turchi mi credano
così stupida. Forse perché sono tedesca? O perché ho i
capelli arancioni?

108
Lo sanno anche i bambini che sono proprio i gestori
dei parcheggi di Istanbul a graffiare le auto e a rompere
gli specchietti retrovisori per costringere i proprietari dei
veicoli a usufruire dei loro servizi.
«Allora, cos’altro fate?».
«Tante cose» ripeté Özcan. Era chiaro che non ne
voleva parlare.
«Osman aveva anche un caffè, no?».
Lui abbassò lo sguardo.
«Dal caffè è passato ai parcheggi. Ha cominciato con
quello di Tarlabaşı. Poi, uno alla volta, si sono aggiunti
gli altri».
«Tu cosa fai?».
«Faccio il giro dei parcheggi. Non è mica facile
assicurarsi che i dipendenti lavorino. Bisogna tenerli
d’occhio, sennò battono la fiacca. Musa controlla il
parcheggio di Kuledibi e io mi occupo degli altri. Come
può immaginare, sono in giro da mattina a sera».
«Chi ha trovato Osman?».
«Cos’è questo? Un interrogatorio di polizia?».
Nonostante fossimo in casa, aveva ancora indosso la
giacca. Infilò una mano in tasca, tirò fuori una corona di
grani neri e cominciò a farla scorrere tra le dita.
«Vado a fare il caffè» disse İnci.
«No, non ti disturbare» rispose Özcan, alzandosi di
scatto dalla poltrona non appena lei si mise in piedi. «Va
bene così, non c’è bisogno del caffè». İnci andò
comunque in cucina e lui si risedette.
«La donna di mio fratello è rimasta sola con un
bambino che deve ancora nascere». Cacciò fuori la

109
lingua e per un attimo sembrò che volesse sputare in
mezzo alla stanza. «Che schifo! Mi scusi, ma quando ci
penso non riesco a controllarmi. Sono cresciuto senza
padre. O meglio, è stato Osman a farmi da padre. Ora,
se Dio vuole, io farò da padre a suo figlio. Voglio che a
mia cognata non manchi niente».
Mi toccai la punta del naso con un dito. Avevo
l’impressione che i piani di İnci e quelli di Özcan non
coincidessero.
«Di dove siete?».
«Van».
«C’è il lago» mormorai. Di Van sapevo solo che si
trovava sul lago più grande di tutta la Turchia. «Sei
curdo?».
«Sì, la mia famiglia è curda».
«Conosci la lingua?».
«Più o meno. Sono nato e cresciuto a Istanbul. Il
curdo lo capisco, ma non lo parlo. Osman sì, lo parlava
bene. Mia madre ha imparato il turco guardando la
televisione. Adesso lo capisce e lo parla come me. È
una donna molto intelligente. Come dico sempre, se
fosse andata a scuola, sarebbe diventata primo ministro
e avrebbe governato la Turchia meglio di tutti gli altri».
«Sai che ora si possono fare corsi di curdo?». Con il
pacchetto di leggi di adeguamento alle norme europee,
approvato dal parlamento durante l’estate, le lezioni di
lingua curda erano diventate legali.
«Sì, lo so. Ma vorrei imparare l’inglese. Oggi come
oggi è indispensabile conoscerlo, sennò sei tagliato fuori
dal mondo».

110
«In che senso?». Forse era una domanda un po’
stupida.
«Non se ne può più fare a meno. In Internet è scritto
tutto in inglese. Chi non lo conosce è svantaggiato. Il
curdo è la nostra lingua madre, okay, perfetto, ma è
come il turco. Fuori da questo paese non serve a
niente».
«Vuoi andare all’estero?».
«Oh no, sto benissimo qui. Perché dovrei andare
all’estero? Come turista sì, ma altrimenti… In Germania
vivono molte persone della mia zona. Ci sono anche due
miei zii. Dicono che dovrei andare da loro, ma non mi
interessa. Perché dovrei andare in un posto pieno di
curdi e di turchi? Tanto vale rimanere a Istanbul, non le
pare? Tra l’altro i tedeschi si trovano anche qui». Mi
indicò con il dito. «Perché dovrei trasferirmi in
Germania?».
«Hai ragione. Dove vorresti andare?».
«In America. Vorrei vedere il paese. Se sono i
padroni del mondo ci sarà un motivo, no?».
«Hai già cominciato a studiare l’inglese?».
«Se non fosse successo quello che è successo, mi
sarei iscritto a un corso a metà mese. Ora ci devo
rinunciare. Devo occuparmi degli affari di famiglia.
Non ci si può aspettare niente di buono dai miei
fratelli».
«Quanti anni hai?».
«Sedici appena compiuti. Ma ne dimostro di più,
vero?».
«Sì». Cos’altro avrei potuto dire?

111
«Le responsabilità fanno crescere in fretta».
«Quanti siete tra fratelli e sorelle?».
«Cinque maschi e sette femmine. Io sono il più
giovane. Tutti gli altri sono già sposati. Mia madre
pensa ancora come una donna di paese, quindi ha fatto
in modo che tutti i suoi figli si sposassero presto. Voleva
fare la stessa cosa con me, ma mi sono opposto. I tempi
sono cambiati. Non voglio sposare una perfetta
sconosciuta. I miei fratelli si sono sposati con delle
cugine. Credo che non le abbiano mai portate neanche
al cinema. A casa quasi non aprono bocca. “Hai fame?
Vieni, è pronto”. Tutto qui. Io voglio una moglie che
lavori. Una che si veda con le amiche e non passi tutto il
suo tempo a casa a guardare la televisione».
İnci tornò con il caffè e Özcan scattò di nuovo in
piedi. Era un segno di rispetto. Lei mi offrì subito il
vassoio. Era il terzo caffè della giornata, ma non potevo
rifiutare.
«Perché hai detto che non ci si può aspettare niente di
buono dai tuoi fratelli?» domandai, sperando che non si
facesse intimidire dalla presenza di İnci.
«Perché ognuno pensa ai fatti propri» spiegò lui,
arrossendo leggermente. Si vergognava di aver parlato
male della sua famiglia.
«Tranquillo, con Kati puoi parlare liberamente». İnci
si girò verso di me e mi fece l’occhiolino. «Siamo
amiche da tanto tempo. Questa conversazione rimarrà
tra di noi».
«Vi conoscevate già?». Özcan spostò lo sguardo
dall’una all’altra, sorpreso.

112
«Sì, ci siamo conosciute prima che incontrassi
Osman. Quanti anni sono, Kati?». Mi guardò in attesa di
una risposta.
«Almeno sette» mentii. «Andavi ancora alle
superiori».
Se Özcan credeva a una storia simile, io potevo anche
credere che avesse sedici anni.
«Poteva dirlo subito» protestò lui e si diede una pacca
sul ginocchio.
Poi si alzò e fece un movimento nella mia direzione,
come se volesse di nuovo baciarmi la mano.
Fortunatamente si fermò.
«Mi scusi, non potevo saperlo». Si rimise seduto.
«Osman lo sapeva?».
«No. Sai che non voleva che vedessi altre persone.
Ho dovuto troncare i rapporti con tutti i miei amici». Era
vero. A parte la sua domestica Hafıze, İnci non aveva
neanche un’amica. Per questo vedeva in me una specie
di salvagente cui aggrapparsi.
«E cosa fa una tedesca come lei in Turchia?».
«A Istanbul» lo corressi. Voglio essere considerata
una stambuliota.
«Mi piace questa città».
«Come fa a piacerle? È rumorosa e superaffollata».
Non risposi. C’era bisogno che gli parlassi della
Cisterna Basilica, della Moschea Blu, della torre di
Galata, del quartiere di Tahtakale e della cordialità che
caratterizzava turchi e curdi?
«Se non sbaglio, hai detto che è stato Musa a trovare
Osman» intervenne İnci.

113
«Mmh. Sì, è stato lui. La sera prima lo zio non era
rientrato. Sa, viviamo tutti nella stessa casa. L’ha fatta
costruire Osman. Ogni fratello ha il suo appartamento.
Io abito con mia madre e mio zio perché non sono
ancora sposato».
«Da loro è normale che una donna rimasta vedova in
giovane età venga data a uno dei fratelli minori del
marito. In pratica la madre si è sposata con lo zio dei
suoi figli. E lo zio ha la stessa età di Osman. Più o meno
trent’anni. Vero, Özcan? Potrebbe essere suo figlio».
«Sono cose che oggi non succedono più. Allora la
mia famiglia si era appena trasferita a Istanbul. Seguiva
ancora le usanze del paese».
«A proposito di usanze, non ne avete una che vi
impone di trovare e uccidere l’assassino di vostro
fratello?». La mia era una domanda innocente, ma
vedendo la sua faccia paonazza capii di aver commesso
un errore.
«Si chiama vendetta di sangue, ma è una cosa di cui
faccio volentieri a meno. Va avanti in eterno. Qui non
siamo in campagna, abbiamo poliziotti, gendarmi e
tribunali. Ognuno sconta la sua pena». Giocherellò
nervosamente con la catena di grani.
«Certo, qui non si può fare» confermò İnci.
All’improvviso mi suonò il cellulare. Era Pelin.
«Dove sei?» mi chiese.
«Da un’amica. Perché?».
«Batuhan ti sta cercando. È il tuo amico poliziotto, no?
Volevo lasciarti un messaggio ieri, prima di uscire, ma
me ne sono dimenticata. Continua a telefonare. Credo

114
che si tratti di una cosa importante, per questo ti ho
chiamato. È ovvio che non ha il tuo numero di cellulare.
Non volevo darglielo senza il tuo permesso. Cosa faccio
se richiama? Glielo do?».
«No. Fatti dare il suo, lo chiamo io. A dire il vero ce
l’ho già, ma magari l’ha cambiato. Mi raccomando,
scrivilo. Ha telefonato qualcun altro?».
«Yılmaz e Lale. Niente di importante. Volevano solo
parlare».
Selim stava tenendo duro. Proprio come me.
Mentre rimettevo il cellulare in tasca, Özcan guardò
l’orologio.
«Devo andare. Ho mollato tutto per venire appena
mia cognata mi ha chiamato».
«Ancora un attimo, per favore. Raccontami
velocemente come avete trovato Osman».
«È stato Musa a trovarlo. Eravamo preoccupati
perché la sera prima non era tornato a casa e non
rispondeva neanche al cellulare. Abbiamo chiamato
İnci». Dopo questa frase arrossì leggermente e per un
momento abbassò gli occhi. «Purtroppo non era da mia
cognata. Il mattino dopo Musa è andato in ufficio e l’ha
trovato lungo disteso vicino alla porta. Ha chiamato
subito me e Nevruz. Poi è arrivata anche la polizia.
Hanno scattato diverse foto e messo una corda per
tenere lontane le persone. Credo che vogliano aprirlo
per vedere se è morto davvero per quella pallottola. Non
ci hanno ancora restituito il corpo».
«Avete detto alla polizia che ero stata io?».
«No. La polizia ci ha chiesto se Osman aveva

115
qualche nemico e noi abbiamo risposto che il giorno
prima aveva litigato con la proprietaria di un negozio.
Forse quella donna ha qualcosa contro di lui, abbiamo
detto. Insomma, ci siamo limitati a raccontare la verità.
Anche perché, esaminando il corpo, avrebbero
senz’altro visto la ferita sull’orecchio. Che altro
potevamo dire?».
«Avete parlato anche di vostro zio e dei soldi che
sono spariti?».
«Sì, ieri. I poliziotti hanno costretto Musa a vuotare il
sacco. Poi hanno chiamato me e Nevruz per avere una
conferma e noi abbiamo confermato tutto. Stia
tranquilla, ormai sanno che lei non c’entra».

Appena arrivata a casa, telefonai a Batuhan. Ci avevo


messo tempo e fatica per liberarmi dalla stretta di İnci.
«È da ieri che ti cerco» disse lui.
«L’amica che in questo periodo vive a casa mia si è
dimenticata di avvertirmi» spiegai.
«Volevo solo congratularmi con te. Forse sappiamo
chi è stato. In pratica sei scagionata».
«Pensavi davvero che fossi stata io? Credi che sia
capace di uccidere qualcuno?».
«Qui se ne vedono di tutti i colori. Le persone non
sono come i meloni, non si possono giudicare
dall’odore».
«Avete trovato lo zio?».
«Quale zio?» chiese Batuhan. Mi diedi una manata in
fronte. Come potevo sapere dello zio?
«Come sai dello zio?» domandò lui.

116
«Quale zio?» chiesi a mia volta, tentando inutilmente
di confondere le acque.
Batuhan fece finta di non aver sentito la mia
domanda. «Come sai dello zio?».
Non riuscii a trovare una bugia logica e convincente.
«Ho parlato con Özcan, il fratello più piccolo di
Osman».
«Ah, la nostra investigatrice dilettante si è rimessa
all’opera. Non ti è bastata l’altra volta? Lascia perdere,
tesoro, dimentica questa storia o non potrò più
proteggerti».
La parola «tesoro» mi irritò a tal punto che quasi non
sentii il resto della frase.
«Non credo che mi serva la tua protezione». In realtà
avrei dovuto dire esattamente il contrario. Non perché le
donne che sono appena state lasciate dovrebbero tenersi
stretti tutti gli uomini di bell’aspetto che conoscono. No,
non per questo. Avrei dovuto dire il contrario perché
speravo che dalla bocca di Batuhan uscissero tante
informazioni sull’omicidio di Osman.
«Allora restane fuori» ordinò lui con voce gelida.
«No, aspetta. Mi sono espressa male».
«Davvero?».
«Volevo solo dire che non puoi proteggermi. Non
stiamo insieme ventiquattr’ore su ventiquattro».
«Potremmo anche farlo» rispose Batuhan. «Dipende
da te».
Aiuto!

Era giorno di pulizie. La settimana prima Fatma era

117
andata al matrimonio di un parente, quindi non era
potuta venire. Ormai il mio appartamento somigliava
alle strade di Istanbul. Svegliai Pelin e la mandai in
negozio, poi io e Fatma ci mettemmo a fare colazione.
«Secondo te ci faranno entrare in Europa?» chiese lei,
spalmando la marmellata sulla margarina senza
colesterolo e assumendo un’espressione fin troppo seria.
«Boh, perché lo chiedi a me?».
«Perché sei europea! Non puoi non saperlo». Visto
che non rispondevo, proseguì. «Io credo di no. Siamo
governati da una massa di imbroglioni. Hai visto il
telegiornale ieri sera?».
«No». Con dovizia di particolari mi raccontò del
ministro dell’Ambiente, che aveva sistemato molti
amici dando loro un posto di lavoro proprio all’interno
del ministero. Fatma non sa né leggere né scrivere, ma
non si perde neanche un telegiornale.
«L’Europa ci prende per il naso. Sì, è solo l’opinione
di una donna delle pulizie, ma vedrai se non ho ragione.
Non ci faranno entrare».
Il mio telefonino emise uno squillo, poi tornò
silenzioso. Era Arslan. Lo chiamai subito.
«Perché fa così? Perché interrompe sempre la
chiamata dopo uno squillo?». Sono davvero ingenua. È
normale che i turchi mi prendano per una sprovveduta.
«Volevo informarla che sta andando tutto bene. Non
chiamo mai senza motivo». All’improvviso capii che
faceva solo uno squillo perché voleva che fossi io a
pagare la telefonata.
«C’è qualche novità?».

118
«Ho inoltrato la pratica e consultato un legale.
Secondo lui ci vorranno al massimo due mesi. Non
abbiamo trovato né il proprietario né parenti che
possano vantare diritti sull’eredità. Ormai è fatta».
«C’è un affittuario?».
«No, l’appartamento è vuoto. Lo metteranno
direttamente in vendita. Se vuole posso fare in modo
che adesso lo affittino a lei. Ma non è necessario. Non
ne vale la pena per un periodo così breve. Tra un paio di
mesi potrà comprarlo».
«È sicuro che non ci sia un affittuario, Kasım?».
«Senta, ho davanti il computer. Crede che una
macchina possa mentire? Non l’abbiamo affittato».
«Sarà, comunque non è vuoto. Ci sono delle
persone».
«Ah, se è così, non voglio immischiarmi. Compri
l’appartamento e si metta d’accordo con quelli che lo
occupano. Li paghi e li mandi via. Può anche decidere
di sfrattarli, ma dovrebbe tirare fuori un sacco di soldi
per gli avvocati. È meglio trovare un accordo. Se vuole,
in questo posso aiutarla. Una donna non dovrebbe
occuparsi di certe cose. Quando sarà il momento,
penserò a tutto io. Non si preoccupi per queste
quisquilie».
«Allora tocca a lei» conclusi.
«Sì, lasci fare a me».

Uscii di casa. Non potevo rimanere: Fatma stava


pulendo le finestre del soggiorno cantando a
squarciagola canzoni popolari. I turchi sono fissati con

119
le finestre, le puliscono continuamente anche nella
stagione più piovosa. Non capisco perché, ma
immagino che ci sia una ragione.
Presto avrei dovuto dire al proprietario
dell’appartamento se intendevo rimanere per un altro
anno oppure se volevo andarmene entro due mesi. Con
un aumento di centocinquanta euro al mese, in un anno
avrei dovuto sborsare milleottocento euro in più. Potevo
provare a convincere il proprietario che in un periodo di
crisi economica non avrebbe trovato nessuno disposto a
pagare un affitto così alto. In questo modo me la sarei
cavata a buon mercato. Se invece avessi deciso di
comprare l’appartamento a Kuledibi, avrei dovuto usare
tutti i miei risparmi e probabilmente anche accendere un
mutuo. Poi avrei dovuto trovare i soldi per la
ristrutturazione. A parte il fatto che non ero sicura di
poter vivere in un appartamento dove era stata uccisa
una persona che conoscevo, dovevo ammettere che la
cosa andava ben oltre le mie possibilità economiche.
Invece di passare come sempre da Çukurcuma e
Galatasaray, decisi di raggiungere il negozio
attraversando il quartiere di Tophane. Lungo la strada,
su entrambi i lati, c’erano numerosi caffè con uomini
che giocavano a carte e a backgammon. Mi rivolsi a un
vecchio che fumava seduto all’aperto e gli chiesi qual
era il caffè di Osman. Così, per curiosità; non credevo
che questa informazione potesse essermi utile.
Con le sue dita storte e callose il vecchio mi indicò
uno dei locali affacciati sulla strada. Entrai, mi sedetti su
una sedia e ordinai un tè. Non so come vadano le cose

120
nei sobborghi, ma in centro, se una donna si siede in un
locale per uomini, nessuno si gira più a guardarla.
Quindici anni fa, quando mi sono trasferita a Istanbul,
nessuna donna sana di mente avrebbe avuto il coraggio
di fare una cosa simile. Se qualcuna ci avesse provato, si
sarebbe trovata in una situazione poco piacevole: tutti
gli uomini presenti avrebbero smesso di giocare a carte
e le avrebbero piantato gli occhi addosso. Con che
velocità cambiano certe cose!
Anche le regole di abbigliamento sono cambiate.
Quindici anni fa erano solo gli stranieri a indossare
camicette scollate e calzoncini. I turchi si giravano a
guardare tutte le turiste che mostravano gambe e braccia.
Oggi, invece, le turche del ceto medio indossano
tranquillamente pantaloncini, minigonne e camicette
che a ogni movimento minacciano di lasciar scoperto il
seno. Anche gli uomini si vestono in modo diverso. Una
volta, in estate, i turchi portavano pantaloni lunghi e
mocassini e non mostravano a nessuno le dita dei piedi,
mentre adesso vanno in giro in calzoncini e sandali. Per
Lale questi cambiamenti sono dovuti al fatto che negli
ultimi anni a Istanbul il caldo ha raggiunto livelli
tropicali. Non sono una sociologa come lei, ma
personalmente credo che le temperature non c’entrino.
È la mentalità dei turchi che è cambiata, non il clima.
Percorrendo una delle ripide strade che da Tophane
portano a Kuledibi si passa davanti all’appartamento dei
miei sogni. Mentre sedevo nel locale sorseggiando il tè
che avevo ordinato mi dissi che era meglio abbandonare
l’idea di una casa tutta mia, dimenticare i soldi che

121
avevo dato a Kasım e riprendere la ricerca di un
appartamento da affittare. Decisi tuttavia di passare
un’ultima volta davanti alla casa che mi piaceva per
vedere a cosa stavo rinunciando e farmene una ragione.
Chiamai il cameriere e pagai. Il ragazzo – di
bell’aspetto, con la testa pelata e due grandi occhi – mi
fece pensare a Osman. Il morto doveva avere più o
meno la stessa età quando era arrivato a Istanbul: undici
o dodici anni, al massimo tredici. Che nessuno venga a
dirmi che tutte le persone che lasciano il paese per la
città in cerca di una «vita migliore» riescono davvero a
realizzare questo desiderio. Per un paio di generazioni
non se ne parla proprio.

Mentre bevevo il tè non mi ero limitata a prendere


una decisione riguardo all’appartamento. Avevo anche
stabilito che in futuro non avrei più ficcato il naso in
faccende che non mi riguardavano. Per di più quando
mi andava già tutto storto. In altre parole: non avevo
niente a che vedere con l’omicidio di Osman e mi stava
bene così. Non ci guadagnavo nulla a fare domande
noiose agli altri e ad ascoltare le loro storie ancora più
noiose. Non volevo diventare un’investigatrice
professionista. Avevo già un lavoro che amavo. Era
forse cosa di poco conto gestire l’unica libreria di
Istanbul specializzata in gialli?

Purtroppo la vita non va sempre come vogliamo.


Ancora prima di raggiungere la casa dei miei sogni capii
che era successo qualcosa: davanti all’edificio c’era un

122
gruppo di persone che gridavano, piangevano e si
disperavano.
Sulle prime pensai che fosse arrivata la salma di
Osman. Alcuni hanno bisogno di un segno concreto,
una bara, per accettare la morte. Dopo un attimo, però,
mi accorsi che era un’idea stupida. Perché mai
avrebbero dovuto portare Osman, o meglio il suo
cadavere, in ufficio?
Mi sembrava impossibile che si fosse radunata tanta
gente per una banale lite tra vicini. Forse c’era stato un
incidente. Forse.
Mi avvicinai e chiesi informazioni a una ragazza con
la testa coperta da un velo rosso decorato con paillette
dorate. Invece di rispondere, lei mi squadrò da capo a
piedi.
«Hai una sigaretta?».
Tirai fuori il pacchetto che avevo in borsa. La ragazza
prese due sigarette e scostando il velo ne infilò una
dietro l’orecchio. Evidentemente si aspettava che le
accendessi l’altra. Dopo averla accontentata non mi
rimase molto da fare.
«Allora, posso sapere cos’è successo?».
«Pensavo fosse una turista» rispose lei.
Dissi addio alle sigarette che mi aveva scroccato e mi
rivolsi a un uomo.
«Cos’è successo?» chiesi.
«Non ne ho idea. Ci sono bambini e donne che
gridano. Immagino sia morto qualcuno. Tra un attimo
arriverà di sicuro la polizia».
Esistono due diversi modi di dire che si usano in

123
situazioni molto simili. Se una persona sgradita arriva
proprio nel momento in cui si sta parlando di lei, si dice:
«Parli del diavolo e spuntano le corna». Ma se ad
arrivare è una persona gradita, allora si dice: «Ha sentito
fischiare le orecchie». Sinceramente non so quale delle
due espressioni si adatti meglio al mio contesto. Fatto
sta che appena l’uomo ebbe parlato mi sentii afferrare
per un braccio. Mi voltai di scatto e vidi Batuhan.
«Un altro omicidio?» domandai subito.
«Buongiorno, Kati. Che bella sorpresa!». Anche una
persona con una conoscenza del turco molto inferiore
alla mia avrebbe capito che stava facendo dell’ironia.
«Come sai, il mio negozio si trova qui vicino». Non
ero tenuta a dargli altre spiegazioni.
«Una donna anziana…». Batuhan indicò l’edificio
con un cenno del capo. «Pare che abitasse nello
scantinato con il figlio e la nuora. Stamattina loro due
sono andati al lavoro e la vecchia è rimasta a casa da
sola. I nipoti sono fuori città».
«Quindi? L’hanno uccisa?».
«Una rapina. Probabilmente qualcuno che voleva
rubarle i braccialetti d’oro. Lei si è messa a gridare, l’ha
mandato nel panico e si è presa una coltellata».
Furti e rapine sono aumentati notevolmente a Istanbul
da quando è arrivata la crisi economica. Secondo me,
però, i turchi sopportano abbastanza bene questa
situazione. Si sa che con la miseria aumenta la
microcriminalità. La miseria mette in risalto gli aspetti
peggiori di una società. D’altra parte, in certi casi la
ricchezza non porta alcun beneficio. Prendiamo per

124
esempio i tedeschi. Provate a salire su un autobus di
Berlino che viaggia con cinque minuti di ritardo.
Provateci se ne avete il coraggio. Vedrete una massa di
disgraziati che pur avendo in tasca i soldi per prendere
un taxi si fanno largo a gomitate per trovare posto
sull’autobus. Davanti a una scena del genere vi
convincerete subito del fatto che la pace nel mondo
potrà durare solo se nessuno toglierà ai tedeschi il
sussidio di disoccupazione e l’assistenza sociale.
«Se qui hai finito, potremmo andare a prendere un
tè» azzardai.
«Devo aspettare il procuratore. Ma non ci vorrà
molto. Ti raggiungo in negozio».
«No, vieni al giardino da tè. Non quello in piazza,
quello più giù. Fatti indicare l’ufficio del capo quartiere,
il Ceneviz è lì vicino».
Mentre mi dirigevo verso il luogo dell’appuntamento
ricevetti una chiamata sul cellulare. Era İnci. Il giorno
prima aveva dimenticato di chiedermi il segno zodiacale.
Di solito non le capitava, ma al momento era un po’
sottosopra.
«Sono dello Scorpione».
«Lo sapevo!» gridò lei. «Io sono del Cancro. Due
segni d’acqua».
Non le dissi che a ventun anni mi ero innamorata di
un uomo dei Pesci. I nostri due segni sarebbero dovuti
andare molto d’accordo, invece ero rimasta scottata. Da
allora avevo perso ogni interesse nelle stelle. Con
l’aumentare dell’età, comunque, le cose in cui una
persona crede diventano sempre meno. Non voglio che

125
qualcuno invecchi prima del tempo per colpa mia.
Sapevo che con Pelin il negozio era in mani sicure,
quindi bevvi un tè, fumai una sigaretta e aspettai
tranquillamente Batuhan. A un certo punto squillò di
nuovo il cellulare. A volte capita: rimane in silenzio per
giorni e poi, quando comincia, non la smette più di
suonare. Sul display non apparve il numero, ma la cosa
non mi preoccupò. Ormai avevo abbandonato la
speranza che Selim mi chiamasse.
«Come va?». Parlava come se stesse camminando a
piedi nudi su dei vetri rotti.
Avrei tanto voluto rispondere: «Mi va di merda.
Proprio di merda». Ma non potevo. Alla mia età non si
possono fare drammi per una separazione.
Volevo comunque dare una risposta sensata alla sua
domanda, sempre che si possa rispondere in modo
sensato a un uomo che sparisce per giorni e poi, quando
si fa sentire, ti chiede semplicemente come va.
«Così» dissi.
«Che significa “così”?».
«Significa quello che significa».
«Hai ancora la luna storta?».
«Per questo hai chiamato? Per sapere se ho la luna
storta?».
«Forse è meglio se ci sentiamo in un altro momento.
Stammi bene».
Prima che potessi rispondere «Anche tu», Selim
interruppe la telefonata. Lo richiamai immediatamente.
«Hai interrotto la comunicazione. Non si fa così!».
«Dobbiamo parlare, Kati. Se siamo tutti e due

126
dell’umore giusto, possiamo farlo ora». Era chiaro che,
nonostante il plurale, si riferiva al mio umore.
«Guarda che fino a un attimo fa ero calmissima. Non
ti è mai venuto in mente che forse sei tu a irritarmi?».
«Se è così, non abbiamo nient’altro da dirci».
«Giusto, hai ragione. Ciao». Come aveva fatto lui
poco prima, interruppi la telefonata.
Mi mordicchiai il pollice per non piangere. Poi contai
mentalmente fino a dieci. In realtà, anche se avessi
contato fino a mille, non sarebbe servito a niente. È una
cosa stupida. Per prendere sonno bisogna contare le
pecore, per mantenere il controllo bisogna contare fino a
dieci…
Andai alla toilette e mi sciacquai il viso, poi guardai
la mia immagine riflessa nello specchio. Come se la mia
bocca fosse dotata di vita propria e potesse prendere
decisioni, le domandai perché aveva rovinato tutto.
Naturalmente non ottenni risposta.
Mi sentivo come se di colpo avessi preso trenta chili.
Il mio peso varia di continuo, a seconda dell’umore. Mi
sembrava di essere uno di quegli sportivi che mettono i
pesi alle caviglie per andare a correre. Non essendo una
vera sportiva, però, non riuscivo nemmeno ad alzare i
piedi. Batuhan stava per arrivare, dovevo ricompormi.
Non avevo scelta. Non potevo tornare a casa e
rannicchiarmi tra le lenzuola, nell’appartamento c’era
Fatma che cantava a squarciagola. Non potevo neanche
rifugiarmi da Lale. Non è giusto lamentarsi dei propri
problemi di cuore con una persona che sta in piedi solo
grazie agli antidepressivi.

127
Vi sembrerà incredibile, ma all’arrivo di Batuhan
avevo di nuovo il pieno controllo di me stessa.
Invecchiare non è sempre una cosa negativa. Una donna
che ha già sofferto di mal d’amore sa che in fondo può
superarlo. E se «in fondo» può superarlo, perché non
farlo subito? Ovviamente non è così facile. Purtroppo.
Ho conosciuto un uomo che diceva di aver diviso la sua
vita in scompartimenti. Quando ne lasciava uno per
entrare in un altro, si chiudeva la porta alle spalle. Se
devo essere sincera, però, tutte queste considerazioni
non c’entrano col fatto che all’arrivo di Batuhan avevo
di nuovo il pieno controllo di me stessa. In realtà avevo
capito una cosa: Selim aveva ceduto prima di me.
Avevo vinto!
Se è vero che ormai sono troppo vecchia per tante
cose, di certo non lo sono per le piccole lotte di potere
all’interno della coppia.
All’arrivo di Batuhan non ero più dell’umore adatto
per i tentativi di avvicinamento. E allora? Non ero
comunque disposta a subire delle avance.
«Sai quanto sangue c’è in un corpo umano?»
domandò lui.
Non ne avevo la più pallida idea.
«Quanto?».
«Quattro litri, quattro litri e mezzo».
«Quindi?».
«Niente. L’appartamento della vecchia era pieno di
sangue, mi sono chiesto quanto ne avesse perso.
Sembrava non gliene fosse rimasta neanche una
goccia».

128
Possibile che la vittima avesse perso una quantità di
sangue tale da scioccare un commissario della squadra
omicidi? Batuhan continuò a parlare tra sé e sé.
«L’assassino ha lasciato l’arma vicino al cadavere.
Magari ci sono delle impronte. No, impossibile. Ormai
lo sanno anche i bambini che esistono le impronte
digitali. Chissà perché ha lasciato il coltello sul luogo
del delitto. Forse perché era coperto di sangue. Sì, ma
gli schizzi? Si deve essere sporcato almeno le mani. La
porta era aperta. Senza dubbio sapeva che non c’era
nessun altro in casa. Non è arrivato nessuno quando la
donna si è messa a gridare. Se ci fosse stato qualcuno…
Non ci sono solo le impronte digitali, bisogna
controllare tante altre cose. Se ha lasciato qualche
impronta sul coltello, deve essere un po’ ritardato. Se
invece non troviamo niente, beh, sarebbe molto strano.
Non può essere un omicidio premeditato. Una donna
anziana…».
«Magari il coltello è stato pulito» osservai. Batuhan
trasalì.
«Cosa?».
«Ho detto che magari il coltello è stato pulito. Sai, per
cancellare le impronte».
«No, non credo che l’abbia fatto. C’era ancora del
sangue sull’impugnatura. Se avesse pulito il coltello,
avrebbe eliminato ogni traccia. Oggi anche un ciglio
può essere utile per trovare un assassino. Forse la
maggior parte della gente non conosce gli ultimi
progressi tecnologici, ma le impronte digitali… Non lo
so, forse ci sono ancora persone che non ne hanno mai

129
sentito parlare. Non sappiamo che tipo sia il nostro
assassino. Gli abitanti di Kuledibi non sono certo
paragonabili a quelli di Manhattan». A quanto pareva,
gli abitanti del quartiere non erano tenuti in grande
considerazione neanche dai poliziotti. Avrei dovuto
riflettere bene prima di decidere di trasferirmi a
Kuledibi.
«Magari l’assassino aveva i guanti».
«Credi che abbia escluso questa possibilità? È chiaro
che può aver usato un paio di guanti. In questo caso,
però, la nostra prima ipotesi non avrebbe più senso.
Perché mai un ladro dovrebbe portarsi dietro i guanti
per rubare due bracciali a una vecchia? Sempre che si
tratti di questo. Sul braccio della vittima non ci sono
segni. Niente che si noti a prima vista. Non abbiamo
prove che lui abbia tentato di toglierle i bracciali senza
riuscirci. E poi i bracciali in questione sono talmente
larghi che avrebbe potuto sfilarli senza problemi. La
vittima aveva un cancro e negli ultimi tempi era
dimagrita molto. Ce l’ha raccontato sua nuora. Se
avesse voluto i bracciali, l’assassino avrebbe potuto
sfilarli quasi senza toccarla. Qui c’è qualcosa che non
va».
«E questo dove ci porta?».
«Ci porta a pensare che la vecchia sia stata uccisa dal
figlio o dalla nuora. O magari da tutti e due».
Non potevo aspettarmi niente di più da un poliziotto.
Quando qualcuno viene ucciso, i sospetti della polizia si
concentrano sempre sui familiari. Se la vittima è una
donna, si sospetta del marito; se è un uomo, si sospetta

130
della moglie. Probabilmente hanno anche delle
statistiche che giustificano questo modo di procedere. Io
che sono un’accanita lettrice di gialli, invece, penso
subito che l’omicidio sia legato a una relazione segreta o
a qualche punto oscuro nel passato della vittima. E
raramente mi sbaglio.
Solo un poliziotto poteva credere che la vecchia fosse
stata uccisa dal figlio o dalla nuora. I miei sospetti
andavano in tutt’altra direzione.
Devo ammettere che non mi stanco mai di parlare
con Batuhan, soprattutto se la conversazione ruota
intorno a un delitto. Per quel che riguardava l’omicidio
di Osman l’avrei ascoltato in eterno. Sì, avevo deciso di
non ficcare più il naso negli affari degli altri, ma
ascoltando un commissario della squadra omicidi che
brancolava nel buio non mi sarei impicciata di niente.
«Non ho ancora capito com’è possibile che un uomo
muoia per una ferita alla gamba. Nei film, quando
sparano alle gambe è solo per dare un avvertimento. E
nella scena seguente si vede sempre il ferito che zoppica
da una parte all’altra dello schermo con una bella
fasciatura, non un gruppo di persone che piangono su
una tomba».
«Qui passa un’arteria» spiegò Batuhan, toccandomi
una gamba per indicare il punto esatto (beh, speravo
fosse solo per questo). «La pallottola l’ha perforata. Se
avesse colpito il ginocchio o un altro punto della gamba,
sarebbe andata come dici tu. Non sarebbe morto».
«L’assassino ha mirato proprio lì?».
«Coscia. Si chiama coscia».

131
«L’assassino ha mirato proprio alla coscia?».
«Non possiamo saperlo. Secondo me è stata solo
sfortuna. Non credo che il famoso zio abbia grandi
conoscenze di anatomia. A proposito, adesso mi devi
dire perché hai parlato con Özcan».
«Ero sospettata di omicidio! Stavo cercando qualcosa
che mi scagionasse».
«Se avessi saputo che l’avresti presa così seriamente,
non mi sarei permesso di scherzare con te. Sei venuta in
commissariato a rendere una dichiarazione».
«Esatto. Non credevo si trattasse di uno scherzo».
«E tu vorresti fare la detective? In quale veste ti
abbiamo interrogato?».
«Non ne ho idea. Nessuno me l’ha detto».
«Nessuno te l’ha detto? È anche nella dichiarazione
che hai firmato. In alto c’è scritto se sei stata interrogata
in veste di sospettata o testimone».
«Mi avete interrogato come testimone?».
Batuhan ripeté la frase in un modo che lui stesso
probabilmente trovò ridicolo. Forse stava cercando di
flirtare.
«Non hai una buona opinione di poliziotti e
procuratori, vero? Credi di essere l’unica persona
intelligente di questo paese. Se un tipo losco che
gestisce parcheggi viene ammazzato, per di più con un
colpo di pistola, ti sembra impossibile che la polizia non
concentri i suoi sospetti su una libraia che lavora poco
lontano, eh?».
«Non tentare di convincermi che ci sapete fare»
replicai. «Ho seri dubbi riguardo alle capacità della

132
polizia turca. L’anno scorso, quando è stato ucciso un
tranquillo uomo d’affari, siete stati voi ad arrestare un
piccolo lustrascarpe con l’accusa di omicidio, no?
Questa volta potevate benissimo mettere in prigione la
libraia “che lavora poco lontano”».
Batuhan si oscurò. A dire la verità era già scuro in
volto, ma si fece ancora più scuro. Perfino io che in una
settimana non leggo neanche un giornale ero in grado di
menzionare almeno una decina di errori commessi dalla
polizia. Ma a cosa sarebbe servito? La colpa era delle
istituzioni, non delle singole persone. E nell’uomo che
avevo di fronte non vedevo il rappresentante di
un’istituzione.
Tra noi si era creato il silenzio. Speravo ardentemente
che uno dei nostri cellulari si mettesse a suonare, così
avremmo superato l’impasse. Per giustificare certi
momenti mia madre dice: «È passato un angelo». Ma io
sono convinta che se esistesse un angelo del silenzio
non si avvicinerebbe mai e poi mai a Istanbul. Questa
città è talmente rumorosa da tenere ad almeno duecento
chilometri di distanza qualunque angelo. Tanto più uno
del silenzio.
Accesi una sigaretta.
«La pistola con cui gli hanno sparato è registrata?».
«Di solito i criminali non ci rendono il lavoro così
facile» rispose lui in tono sarcastico. «Dobbiamo usare
il cervello».
«Comunque sapete da che tipo di pistola è stato
esploso il colpo».
«Sì».

133
«Da che tipo di pistola?».
«Perché ti interessa?».
Alzai le spalle. In realtà non lo sapevo neanch’io.
«Abbiamo trovato un bossolo calibro 9. Il colpo è
stato esploso da una rivoltella. Adesso dimmi perché ti
interessa».
«Così». Non avevo motivo di fare certe domande, ma
questo non significava nulla. Anche se il mio cervello si
è sempre rifiutato di immagazzinare informazioni
riguardanti le armi, sono e rimango una grande lettrice
di gialli.

I miei rapporti con Batuhan diventavano ogni giorno


più difficili. Non riuscivo a capire perché continuasse a
ronzarmi intorno. Fino al venerdì precedente credevo
che non avrei più avuto a che fare con lui. In più di un
anno non si era fatto sentire neanche una volta. Eppure,
quando ci eravamo rivisti, aveva ripreso esattamente da
dove aveva mollato. Complimenti!
Arrivata in negozio, chiamai Lale. «Ti va di uscire
con me stasera? Dobbiamo recuperare la cena di
venerdì».
«Offri tu?».
«No, facciamo alla tedesca. Ognuno paga per sé».

«Sicura di non essere in menopausa?» domandò lei.


Sinceramente credevo che frasi così stupide e sessiste
potessero uscire solo dalla bocca di un uomo. Chi pensa
certe cose, qualunque sia il motivo, farebbe meglio a
tacere e a tenere tutto per sé.

134
Se qualcuno non riesce proprio a tenere la bocca
chiusa, l’unica soluzione è fare finta di niente. In fondo,
come dice un vecchio adagio, «verba volant, scripta
manent».
Adottai questa soluzione e feci finta di non aver
sentito.
«Selim ha interrotto la comunicazione!».
«Hai le mestruazioni irregolari?» insistette lei.
Come sapete, sono una che scatta facilmente.
All’improvviso sentii una voce che mi gridava di
rompere la bottiglia posata sul tavolo e dare una bella
lezione alla mia amica.
«Vuoi capirlo che ho solo quarantaquattro anni?».
«Guarda che non c’è un’età precisa per la menopausa.
E poi quarantaquattro anni non sono pochi. Secondo me
hai proprio l’età giusta».
«Voi giovani siete davvero spietati» dissi, usando un
tono scherzoso per evitare fraintendimenti. Lale ha solo
cinque anni meno di me. Anche lei non è più una
ragazzina. Comunque la mia sete di vendetta non si era
ancora placata.
«Soprattutto voi giovani senza prospettive di lavoro»
aggiunsi. Era un colpo basso. La mia cara amica era
disoccupata da un anno e trascorreva le sue giornate a
casa in attesa di un nuovo impiego.
«Ah, sì, dovevo parlarti anche di questo».
No! Possibile che gli antidepressivi avessero
funzionato?
«Cos’è successo?».
«Ho ricevuto un’offerta. Sono un po’ indecisa perché

135
non si tratta di lavorare per un giornale. D’altronde temo
che nessuno mi offrirà più un posto come caporedattrice.
O come corrispondente».
«Di che lavoro si tratta?».
«Pubblicità. Un’agenzia nuova, ma che punta in
alto».
Stando ai racconti di Yılmaz, che non è solo un
amico ma anche un esperto del settore, quello
pubblicitario è un ambiente spietato. E spietate sono le
persone che ci lavorano. Immagino sia così anche
altrove, non solo in Turchia, ma dal momento che non
ho amici che mi raccontano come funziona negli altri
paesi devo fidarmi di quello che si legge nelle
autobiografie delle ex star della pubblicità.
«Dovresti parlare con Yılmaz. Forse non è il lavoro
che fa per te».
«Ho usato quasi tutti i miei risparmi. Non voglio
finire sul lastrico. Con questa crisi che non finisce più,
cos’altro potrei fare?» chiese Lale, triste e pensierosa.
Poi, inaspettatamente, sorrise.
«Se i tedeschi non fossero venuti qui a rubarci il
lavoro, avrei aperto una bella libreria specializzata in
gialli». E scoppiò a ridere.

136
7

In Turchia le visite di condoglianze si possono fare


anche se non si conosceva bene il defunto. Se si abita
nelle vicinanze, poi, far visita alla famiglia è una
gentilezza che viene apprezzata da tutti. Per questo
motivo non provai la minima vergogna entrando
nell’edificio dove il giorno prima era stata uccisa la
vecchia.
L’appartamento nello scantinato aveva la porta
spalancata. Vidi numerose paia di scarpe vecchie e
sformate lasciate in modo disordinato davanti
all’ingresso. Era lo stesso disordine che regnava nella
mia testa e nelle strade di Istanbul, lo stesso disordine
che caratterizzava la situazione politica, economica e
sociale della Turchia. Aggiunsi al mucchio i miei
sandali all’ultima moda, nuovissimi e costosi, rendendo
l’insieme di scarpe davanti alla porta davvero
rappresentativo. Fra tante calzature – una ventina di paia
– ne spiccavano due; non erano fondi di magazzino, ma
sandali eleganti che probabilmente valevano più di tutte
le altre scarpe messe insieme. Anche la distribuzione del
reddito in Turchia è così: i più fortunati, che
rappresentano circa il cinque per cento della

137
popolazione, guadagnano come tutti gli altri messi
insieme.

Entrai in una stanza piena di donne sedute che, oltre


al velo, indossavano vestiti, gonne e camicette a fiori. I
musulmani non hanno abiti da lutto; si vestono come in
ogni altra occasione, con fantasie fiorate e colori vivaci.
Le donne stavano bisbigliando tra loro. Appena si
accorsero della mia presenza, si zittirono e mi fissarono.
Un’anziana seduta su un tappeto batté il palmo per terra
e disse: «Vieni, ragazza, mettiti qui accanto a me».
Obbedii. Devo ammettere che è piuttosto sgradevole
avere addosso tanti occhi curiosi. Una delle presenti si
alzò e venne a stringermi la mano.
«Benvenuta».
Dovevo dire qualcosa, spiegare chi ero.
«Sono una vicina. Ho un negozio non lontano da qui.
Condoglianze».
«Grazie» risposero tutte in coro.
Una giovane donna con la testa velata mi domandò:
«È la proprietaria di quel negozio in cui si vendono
libri?».
Il velo non era certo un particolare che la distingueva
all’interno del gruppo. Nella stanza non si vedeva una
sola ciocca di capelli.
«Sì, il negozio in via Lokum».
«Ci ho mandato mia figlia a comprare i libri per la
scuola, ma una ragazza le ha detto che non vendete libri
del genere» raccontò un’altra donna.
«Esistono diversi tipi di libri?» chiese una terza.

138
«Non teniamo libri scolastici» spiegai. «Vendiamo
romanzi».
«Certo» intervenne una ragazzina. «Ci sono libri di
romanzo e libri di poesia, no? E non si possono
comprare tutti nello stesso posto».
Annuii. Era una conversazione piuttosto strana. Mi
rivolsi alla donna che mi aveva dato il benvenuto. «Era
sua suocera?».
«No, io sono la figlia. Mia cognata è andata al lavoro
per chiedere qualche giorno di ferie. È successo tutto
così in fretta…». Cominciò a piangere. Altre due si
alzarono subito da terra e le sussurrarono qualcosa per
calmarla. Le loro labbra si muovevano come se stessero
pregando.
L’anziana seduta al mio fianco mi prese per il braccio
e mi tirò a sé.
«Era mia sorella maggiore. Purtroppo era molto
malata. Il Signore ha messo fine alle sue sofferenze…
Ma il fatto che sia successo così… Che Allah ci
perdoni… Il fatto che la morte sia arrivata in questo
modo ci riempie di dolore».
Una donna aveva trovato una bottiglietta di acqua di
Colonia vicino al televisore. Mentre ne versava una
goccia in mano a ciascuna delle presenti, disse: «La
nuora della defunta tornava spesso dopo mezzanotte.
Una donna deve rientrare prima che il muezzin inviti
alla preghiera serale, altrimenti a casa non ci sono né
ordine né giustizia. Possibile che debbano essere solo le
donne a lavorare per il partito?». Per un attimo regnò il
silenzio. Evidentemente nessuna di noi sapeva come

139
rispondere. Fu la ragazzina che aveva parlato di «libri di
romanzo» a sbloccare la situazione.
«Mia nonna aveva il cancro».
«Quindi lei è la nipote. Potrei avere un bicchiere
d’acqua?» chiesi gentilmente.
La ragazzina si alzò e io la seguii. Non vi nascondo
che fu un vero sollievo uscire da quella stanza.
«Abita qui, in questo appartamento?».
«Sì. Siamo arrivati ieri sera. Io e mio fratello
maggiore abbiamo trascorso le vacanze estive nel paese
della nostra famiglia. Ci siamo resi utili. I nostri genitori
non sono potuti venire. Sa, lavorano tutti e due».
«Com’è successo?».
Gli occhi della nipote si riempirono di lacrime.
Singhiozzando si portò una mano davanti alla bocca.
Mi sarei dovuta vergognare. La ragazzina mi posò la
testa su una spalla e scoppiò in lacrime. Non potei far
altro che accarezzarle i capelli o, più precisamente, il
velo.
«Era malata» le ricordai. «In un certo senso è stata
una liberazione. Andando avanti avrebbe sofferto molto.
Il Signore ha voluto risparmiarle tanto dolore…».
«Non è vero! L’appartamento era pieno di sangue. Le
hanno ficcato un coltello nella pancia e l’hanno…». Con
un movimento della mano mi fece capire che l’avevano
sventrata.
«Perché l’hanno fatto?». Aveva smesso di piangere.
«Non lo so! Forse per i bracciali, anche se non valevano
niente. Erano sottilissimi. La nonna diceva sempre: “Li
darò a mia figlia quando diventerà un’insegnante”».

140
Dall’altra stanza giunse una voce. «Figen! Nurten se
ne sta andando!».
Era chiaro che in una situazione del genere non avrei
ottenuto risposte utili.
«Vado anch’io».
«Posso chiederti una cosa?» domandò la ragazzina.
«Certo!» risposi tutta emozionata. Se lei chiedeva una
cosa a me, io avrei potuto chiederne una a lei.
«Rimani ancora un po’, non andartene subito».
«Okay».
«Aspettami qui» aggiunse, poi corse a salutare
Nurten.
Rimasta sola, come ogni investigatore che si rispetti
diedi un’occhiata in giro. Vicino al tavolo della cucina
erano posati dei sacchi. Provviste per l’inverno arrivate
dal paese, senza dubbio. Il tavolo di legno era ingombro
di pentole piene di cibo. Alla parete era attaccato un
grande manifesto elettorale del partito «Uniti per un
futuro radioso». Vi era raffigurata una bambina vestita
di verde con un velo di mussola bianca intorno alla testa
e le mani aperte come per pregare. Dagli occhi azzurri,
puntati su un libro, sgorgavano delle lacrime. Proprio
sopra la testa della bambina spiccava il simbolo del
partito: una Turchia verde erba e una mezzaluna
candida che si levava nel cielo blu. Non bisogna certo
leggere due giornali al giorno per sapere che la
mezzaluna è il simbolo dei partiti islamici e che «Uniti
per un futuro radioso» ha un vasto seguito in Turchia.
Sopra il frigorifero c’era un piccolo forno elettrico e
vicino un altro manifesto dello stesso partito con la

141
scritta «Di’ NO agli sfruttatori del paese! Di’ SÌ a Futuro
radioso! Uniti per una Turchia migliore!». La solita
Turchia verde, emblema del partito, spuntava da un
suolo spaccato dalla siccità.
Al suo ritorno Figen mi trovò seduta su uno sgabello
con una sigaretta accesa.
«Devo assolutamente uscire di qui» mi sussurrò
all’orecchio con fare misterioso.
«Perché?». Se dovevo aiutarla a scappare, avevo tutto
il diritto di sapere come stavano le cose.
«Devo incontrare un mio amico. Negli ultimi due
mesi sono stata via e non ci siamo potuti vedere».
«È il tuo ragazzo?». Sono curiosa, che ci posso fare?
«In realtà è il mio fidanzato. Ci siamo messi insieme
in gran segreto. Non ci vorrà molto, tornerò subito. Il
problema è che in questo momento non è facile uscire.
Non potremmo fingere che tu voglia darmi un libro?
Usciamo insieme e andiamo a prenderlo. Tra due ore
sarò di nuovo a casa, te lo giuro».
Con me non aveva bisogno di giurare, ma non sapevo
se dirglielo.
«Credi che si berranno questa storia?».
«Se gliela racconti tu sì».
«Cioè, se gliela racconti tu non se la bevono, se
invece gliela racconto io sì?».
«Certo». A me sembrava che non avesse molto
senso.
«Con chi devo parlare?».
«Con mia zia. La porto qui in cucina e tu le dici: “La
ragazza è sconvolta. La morte della nonna l’ha toccata

142
profondamente. Vorrei darle un libro per aiutarla a non
pensarci troppo”. Io piangerò per tutto il tempo».
Secondo me era un’idea assurda. Feci una smorfia.
«Dai, le basterà sentire la parola “libro” per credere
che sia una cosa importante. Un paio d’ore e sarò di
nuovo qui. Te lo giuro su Dio».
I suoi giuramenti e gli strani manifesti alle pareti mi
mettevano a disagio. «Va bene, vai a prenderla». Non
riuscivo a credere che mi stessi prestando a un simile
gioco. Ma in fondo non avevo niente da perdere.
Entrando in cucina la zia si asciugò gli occhi con il
velo.
«Vuole già andarsene? Mi scusi se l’ho trascurata, ma
abbiamo la casa piena di parenti. Grazie a Dio non ci
lasciano soli in questo brutto momento».
«Non si preoccupi, ho solo fatto un salto».
Probabilmente avrei dovuto aggiungere qualcosa, ma
era una situazione in cui il mio turco non bastava.
«Figen è sconvolta per la morte della nonna. Vorrei
darle uno dei miei libri, così potrà leggere un po’».
Avevo l’impressione di recitare nel film sbagliato. Forse
perché era proprio quello che stavo facendo. «Se
potesse accompagnarmi fino al negozio, le farebbe
bene».
Figen piangeva a calde lacrime, scossa dai singulti.
«Non lo so. Cosa diranno i suoi genitori?».
Sentendo le parole della zia, la ragazzina cominciò a
singhiozzare ancora più forte e a tirare su col naso. «La
mia povera nonna! Come farò senza di lei? Voglio
morire».

143
Battendosi il petto e il ginocchio con il pugno,
continuò a chiamare: «Nonna! Nonna!».
Ripetei la mia parte: il libro da leggere, il negozio
dove andare… Terribile.
«D’accordo, vai pure. Di che libro si tratta? Che cosa
devo dire a tua madre?».
«Dille che sono andata a prendere un libro per la
scuola. L’insegnante vuole che ce lo procuriamo, ma
non potevo certo trovarlo in paese. E le lezioni
ricominciano la prossima settimana. La nostra vicina ne
ha una copia e vuole prestarmela. A lei non serve. È una
donna adulta e non sa che farsene, quindi vuole dare la
sua copia a me. Se non accetto, il libro lo dovrò
comprare. Costa un sacco di soldi. Almeno cinque
milioni, non è vero?». Se avesse continuato ancora per
molto, sarei morta di noia.
«Sì. Ormai sono vecchia, non so che farmene di quel
libro». Non riuscivo a deglutire; dovetti chiedere un
bicchiere d’acqua. Come mi era venuta l’idea di far
visita ai parenti della defunta? Volevo davvero
conoscere da vicino i sostenitori di Futuro radioso?
Figen scomparve in un’altra stanza. Quando tornò
non era più elegante di prima, ma indubbiamente aveva
addosso molta più stoffa. Come facevano a coprirsi così?
A parte la metà inferiore della fronte, il naso, la bocca e
le mani, il suo corpo era completamente nascosto.
D’istinto diedi una tirata alla mia maglietta. Ma era
inutile: potevo tirare quanto volevo, accanto a lei
sembravo comunque nuda.
Uscimmo insieme. Una volta raggiunta la strada, feci

144
un respiro profondo.
«Andiamo di qui. Mia madre arriva dall’altra parte.
Se mi vede per strada, mi obbliga a tornare a casa» disse
Figen, tirandomi per un braccio.
«Okay, vai dove vuoi. Ci separiamo qui». Ero stufa.
Non volevo nemmeno provare a ottenere altre
informazioni.
«No, così non va bene. Mahmut e io dobbiamo
incontrarci nel tuo negozio. Se mia madre ci vede
insieme qui nel quartiere, mi riempie di botte. Posso
chiamarlo?».
Stavo per esplodere! La ragazzina mi guardò come se
volesse scoppiare in lacrime. Sapevo che era in grado di
piangere a comando, non avevo bisogno di un’altra
dimostrazione.
Tirai fuori il cellulare.
«Dagli appuntamento da qualche parte, ma non nel
mio negozio. Non è il luogo adatto per parlare con
calma».
«Per favore, non fare così! Ti prego! Non posso
rischiare che qualcuno mi veda con lui per strada».
Mi stava venendo l’emicrania.
«Va bene, andiamo in negozio».

Pelin era occupata con due clienti che non riuscivano


a decidersi e le facevano prendere e rimettere a posto un
libro dopo l’altro. Ero contenta di essere tornata nel
mondo civile. Accesi una sigaretta e aspettai che i clienti
se ne andassero. Figen era attaccata al telefono e
chiacchierava allegramente col suo fidanzato.

145
Non appena l’ultimo cliente uscì dal negozio, le
chiesi: «Allora, viene?».
«Cercherà di liberarsi. Gli ho detto che lo richiamo
tra dieci minuti. Per te va bene, vero? Lui non può
telefonare dal lavoro».
«Siete sostenitori di Futuro radioso?» domandai con
voce dura.
Sentendo il nome del suo partito, Figen si illuminò.
«Oh sì, lo siamo tutti in famiglia. Non si può essere
buoni musulmani senza sostenere Futuro radioso!».
Avrei voluto strapparle prima il velo e poi i capelli,
ma mi controllai. Avevo deciso di non immischiarmi in
cose che non mi riguardavano.
«Contribuite in modo attivo?».
«Sì, soprattutto mia madre. Va a casa della gente e
organizza riunioni femminili».
«Ma non ha un lavoro?».
«Certo. Fa le pulizie allo sport club Corno d’Oro. E
dopo le pulizie lavora per la vera fede. Si dedica alle
opere pie. Tu per chi voti?».
Un paio di mesi e ci sarebbero state le elezioni.
«Non lo so ancora» risposi.
Figen annuì. «Vota per Futuro radioso. Gli altri non
hanno nessun senso dell’onore. Hanno portato questo
paese alla rovina. Oggi i musulmani vengono umiliati.
Donne e ragazze devono comportarsi come prostitute».
«Tua madre lavora fino a tardi per il partito?».
«A volte non torna a casa prima di mezzanotte. Ce la
mette tutta. Mio padre non ha niente in contrario. In
fondo non va in giro a perdere tempo, si dà da fare per

146
la vera fede. Se riesce a ottenere anche un solo voto per
il partito, può dire di aver compiuto un’opera pia».
«Cosa fa tuo padre?».
«Prepara il tè in municipio».
«A Beyoğlu?».
Figen rispose di sì. Il primo cittadino di Beyoğlu
apparteneva allo stesso partito della sua famiglia.
«E tua nonna? Anche lei era una sostenitrice di
Futuro radioso?».
«Ma certo! Tutti quelli della mia famiglia percorrono
la via tracciata dal Signore».
«Credi che l’abbiano uccisa per i bracciali?».
Non sentì la mia domanda. Stava guardando
l’orologio.
«Scusa, dovrei richiamare Mahmut».
Pelin ci stava osservando con gli occhi spalancati. Mi
diressi verso la nicchia che usavamo come cucina e le
feci cenno di seguirmi. Le dovevo una spiegazione.
Quando uscii dalla cucina vidi che Figen si era
rabbuiata.
«Non può venire, non è riuscito a liberarsi. Hanno
troppi clienti oggi. È stato tutto inutile. È meglio che
torni subito a casa».
«No, un momento» dissi. «Volevo farti qualche
domanda».
«Mia madre mi sta aspettando».
«Una brava musulmana non si comporta così.
Eravamo d’accordo che ci saremmo aiutate a vicenda».
Sicuramente Pelin credeva che mi fossi bevuta il
cervello.

147
«Va bene, ma fai in fretta. Abbiamo la casa piena di
persone. Devo aiutare mia madre».
«Tua nonna era molto malata, vero?».
«Non mostrava nessun sintomo, però era molto
debole. Non usciva mai. Avrebbe dovuto farsi visitare,
ma nel nostro paese non c’è neanche un medico. E
comunque là i dottori non sono come quelli di
Istanbul».
«Non ha sempre abitato con voi?».
«No. È venuta da noi quando si è ammalata. Se non
fosse successo, non avrebbe mai abbandonato i suoi
campi e gli animali. Quando la nonna è venuta qui, io e
mio fratello siamo andati là per aiutare nostro zio».
«Credi che l’abbiano uccisa per rubare qualcosa?».
«Da noi non ruba nessuno. Mio fratello maggiore
dice che comunque i ladri vivono tutti nel nostro
quartiere. Non possono prendere di mira i loro stessi
vicini. E poi, cosa potrebbero rubare in casa nostra? Sì,
mia nonna aveva due bracciali, ma non li hanno portati
via. D’altra parte… non riesco a immaginare nessun
altro motivo per una cosa del genere. Perché qualcuno
dovrebbe avercela con noi?».
«Forse per il vostro impegno a favore del partito»
suggerii.
«Cosa? Come ti viene in mente? Perché qualcuno di
un altro partito avrebbe dovuto prendersela proprio con
mia nonna?».
«Un motivo deve esserci. Che ne pensa tuo
fratello?».
«Neanche lui riesce a trovare una spiegazione».

148
«Hai detto che tua nonna stava in casa tutto il giorno.
Che cosa faceva?».
«Niente, passava gran parte del suo tempo a letto.
Non aveva nessun dolore, ma era debolissima. Prima
era piena di energia e faceva di tutto… Negli ultimi
tempi, però, non aveva più forze».
«Non si annoiava a rimanere in casa tutto il giorno?».
«Certo che si annoiava. Era abituata a lavorare. Anzi,
a sgobbare. In paese si comincia alle cinque di mattina e
ci si ferma solo quando fa buio. Non c’è tempo per
riposare. La nonna non aveva più niente da fare, è
normale che si annoiasse. Aiutava mia madre con i
lavori di casa, cucinava e faceva calzini. Usava cinque
ferri. Poi mio fratello vendeva i calzini al mercato. Sai,
sono proprio quello che ci vuole in inverno. E lei era
molto brava a fare la maglia. Te ne porterò un paio».
Mentre pronunciava l’ultima frase si alzò dalla sedia.
«Quando non era impegnata nei lavori di casa
guardava fuori dalla finestra, vero?».
«Sì. È una cosa che fanno tutti. Perché me lo
chiedi?».
«Volevo sapere se stava seduta proprio vicino alla
finestra. Mentre ero a casa vostra ho notato che sulla
panca c’era un posto vuoto».
«Sì, quello nell’angolo. Era il posto di mia nonna. Da
lì osservava tutto quello che succedeva fuori. Non ha
mai guardato la televisione. “Non ci sono abituata”
ripeteva sempre. Mia zia ha proibito a chiunque di
occupare il posto di sua madre. “Deve rimanere libero”
ha detto».

149
«Tua nonna leggeva il giornale?».
Figen scoppiò a ridere.
«Ma che domanda! Faresti meglio a chiedermi se
sapeva leggere e scrivere».
«Magari aveva l’abitudine di guardare le immagini».
«No. In paese non ci sono giornali. E nemmeno a
casa nostra. Non abbiamo mica soldi da buttare!».

Cominciavo a pensare che la vecchia fosse stata


uccisa perché aveva visto l’assassino di Osman. Era una
testimone perfetta. Il colpevole correva un grave rischio
e così aveva deciso di commettere un secondo omicidio.
Evidentemente era sicuro che la vecchia potesse
riconoscerlo. Forse perché era famoso. O perché si
faceva vedere spesso da quelle parti. Poteva essere lo
zio. Non l’avevo ancora eliminato dalla mia lista dei
sospetti.
Poteva anche essere una persona importante che
apparteneva alla cerchia di conoscenze di Osman.
Sempre che il morto conoscesse gente famosa.
Non avevo scelta: per saperlo dovevo chiamare İnci.
Le telefonai e ricevetti un invito a cena. Avrebbe
preparato le verdure ripiene.
Dopo aver chiuso il negozio, Pelin e io ci avviammo
insieme verso casa. A un certo punto la mia aiutante mi
domandò se era per colpa sua che uscivo tutte le sere.
«Se ti do fastidio, posso andare da un’altra amica»
aggiunse.
Pelin è turca. Ogni tanto me lo dimentico. E lei
dimentica che io sono tedesca. O forse il problema è che

150
non ci conosciamo abbastanza.
«Ma per favore! Per certe cose sono ancora tedesca.
Se mi dessi fastidio, ti direi chiaro e tondo che te ne devi
andare».
«Diresti davvero una cosa simile?».
«Sì».
«Oh, io non potrei mai».

Osman si era goduto la vita. Non conoscevo sua


moglie, ma quello che aveva messo in tavola la sua
amante era più che sufficiente per giudicare.
«Non posso trattenermi molto» dissi. Dopo aver
mangiato, naturalmente. «Sono uscita anche ieri sera e
la stanchezza comincia a farsi sentire. Volevo chiederti
una cosa».
Le raccontai dell’omicidio della vecchia e le esposi la
mia teoria. İnci mi ascoltò attentamente. Forse troppo
attentamente. Cominciavo a sentirmi importante.
«Oggi è venuta la polizia. Finalmente hanno scoperto
che esisto. Come vedi, sei più veloce di loro». Wow,
che complimento! Ero più veloce della polizia!
«Che cosa ti hanno chiesto?» domandai con un tono
da bambina viziata.
«Un sacco di cose. Per esempio dove sono stata
giovedì sera dalle sette e mezza alle nove e mezza. Ho
risposto che ero a casa da sola a guardare la
televisione».
«Ti hanno chiesto che programma hai guardato?».
Il suo sguardo si fece penetrante.
«No. Mi hanno chiesto solo se c’era qualcun altro».

151
Di colpo mi venne in mente il doppio mento. I
massaggi ritmici aiutavano anche la riflessione.

Grazie a İnci avevo scoperto che nella vita di Osman


c’erano due persone che si potevano definire «famose».
La prima era un ex calciatore. Aveva giocato in una
squadra di serie A e nel 1989 era stato capocannoniere.
Negli anni Ottanta, però, il calcio non godeva ancora di
grande popolarità. E comunque dubitavo che la vecchia
potesse riconoscere un calciatore.
La seconda «celebrità» era un attore che per un po’
era stato anche deputato di centrodestra. Era un ex
beniamino del pubblico turco. Un indimenticabile eroe
del cinema. Le ragazzine tappezzavano le pareti con i
suoi poster. L’anatolico di fuoco con la pelle scura e i
baffoni veniva dallo stesso paese di Osman e si
chiamava İsmet Akkan.
Secondo İnci, i due si conoscevano già prima di
arrivare a Istanbul. Avevano entrambi un debole per il
gioco e quindi erano rimasti in contatto. Negli ultimi sei
anni, dopo che il gioco d’azzardo era stato vietato in
Turchia, avevano visitato insieme diversi casinò
all’estero. All’inizio erano andati spesso in Bulgaria, poi
avevano cominciato a frequentare la parte turca di Cipro.
Possibile che dietro l’omicidio di Osman ci fossero
debiti di gioco? Non mi venivano in mente altri motivi.
İsmet Akkan era abbastanza famoso, anche una
signora anziana avrebbe potuto riconoscerlo. Un turco
medio ricordava senza dubbio almeno tre o quattro dei
suoi film. Perfino io ne conoscevo un paio a memoria.

152
Venivano trasmessi in televisione tutte le settimane, ma
non bisognava essere fanatici del piccolo schermo per
conoscere Akkan.
Avrei voluto liberarmi in fretta, ma İnci non me lo
permise. Quando tornai a casa era ormai troppo tardi per
chiamare Lale. Volevo sapere se poteva aiutarmi ad
avvicinare Akkan.
Mentre scaldavo l’acqua per il tè verde mi preparai
spiritualmente ad ascoltare le ultime novità di Pelin.
Volenti o nolenti, ogni tanto dobbiamo dedicare un po’
di tempo a chi ci sta intorno. In fondo l’uomo è un
animale sociale.

Il mattino seguente ebbi l’impressione che le rughe


intorno agli occhi fossero diminuite. Una bella dormita
può avere simili effetti. Davanti allo specchio, misi la
crema e la feci penetrare con piccoli movimenti circolari,
poi mi truccai con un’attenzione che non usavo da
giorni. Non mi rimaneva che andare dal parrucchiere.
Presto avrei recuperato l’aspetto fantastico di un tempo.
Prima di uscire chiamai Lale. Mi disse che avrebbe
provato a contattare un amico che conosceva İsmet
Akkan. L’appuntamento con quelli dell’agenzia
pubblicitaria era fissato per il pomeriggio del giorno
dopo, quindi aveva tutto il tempo necessario per una
telefonata.
Dal parrucchiere dietro l’angolo feci messa in piega,
manicure e pedicure. Dopo tanti anni, ogni volta che per
strada vedevo una donna ben curata non potevo fare a
meno di pensare che era una vera fortuna vivere in una

153
città dove i parrucchieri avevano prezzi accessibili.

La libreria era piena di clienti che sgomitavano. La


situazione si era animata perché con l’avvicinarsi delle
elezioni sia i partiti che i deputati avevano tirato fuori
molti soldi. Non c’era da stupirsi che sopra le strade
sventolassero bandierine di plastica con simboli politici.
Trascorsi la giornata servendo clienti e consigliando
libri.
A causa del lavoro fu solo verso sera che riuscii a
raggiungere l’edificio in cui avevano ucciso Osman.
Stando sui gradini di marmo che dalla strada portavano
all’ingresso si scorgeva l’angolo dove sedeva sempre la
vecchia. Come supponevo, era molto probabile che la
donna avesse visto l’assassino. Mi sedetti su un gradino,
sbirciai attraverso la finestra dello scantinato e provai a
immaginare com’erano andate le cose. Non conoscevo
la presunta ora del delitto. Però sapevo che la polizia
aveva chiesto a İnci dove era stata giovedì sera dalle
sette e mezza alle nove e mezza. Quasi sicuramente
pensavano che l’omicidio fosse avvenuto in questo
lasso di tempo.
Non avendo altra scelta, chiamai Batuhan. Mi disse
che era al volante e che non poteva parlare. Poi
aggiunse che aveva qualcosa per me. Dovevo aspettare,
però. Era vietato passare informazioni relative a
un’indagine in corso.
Ormai ero abituata ai suoi modi ambigui, perciò non
mi arrabbiai.

154
Pelin mi invitò a uscire e a trascorrere la serata con lei
e i suoi amici in un locale per rockettari dove si beveva
birra a buon mercato. Probabilmente lo fece solo per
cortesia. Sapeva benissimo che non ero dell’umore
adatto per ascoltare musica rock e bere birra da quattro
soldi. Non mi andava neanche di indossare un paio di
jeans e raccogliere i capelli in una coda. Avevo altri
programmi per la serata.
Mangiai uno yogurt con müsli. Non che il müsli sia la
cosa migliore per una cena solitaria a casa propria. È
solo che vivere in modo sano, almeno ogni tanto, non fa
certo male. Con la ciotola in mano mi sedetti davanti al
computer e aprii il sito web di Superonline. Non mi
vergogno assolutamente di raccontarvi cosa feci a quel
punto. Qualcuno potrebbe dire: «Se una cosa ti
imbarazza, non la fare». Ma io non provavo alcun
imbarazzo. Perché mai avrei dovuto?
Volevo tentare di scoprire la password di Selim per
accedere alla sua casella di posta elettronica. In fondo
avevo il diritto di sapere che cosa stava succedendo.
Senza dubbio.
Il problema era proprio scoprire la password. Non
essendo una hacker, dovevo procedere per tentativi.
Avrei cominciato con i numeri, poi sarei passata alle
parole.
Avevo in mente diverse combinazioni a quattro cifre.
La prima era l’anno di nascita di Selim: 1950.
La seconda l’anno della sua laurea: 1976.
La terza combinazione, invece, era l’anno
dell’avvenimento storico che più lo affascinava e su cui

155
leggeva un libro dopo l’altro: 1789.
Nessun risultato. Avendo a che fare con un avvocato
appassionato di storia, cercai l’anno della Magna Charta
e quello del Bill of Rights in un’enciclopedia, ma non
servì a niente. Quando, per disperazione, tentai con il
cognome del suo regista favorito, cioè Tarkovskij, era
ormai passata la mezzanotte e mi fumava il cervello.
Continuai a provare: diabolo, diabolos, veritas, vino,
justitia… Da Kant, il suo filosofo preferito, passai a
Stephen King, l’autore che amava di più. Inserii nome e
cognome dello scrittore, poi digitai il nome della madre,
del padre, dei fratelli e delle sorelle, giurando a me
stessa che non gli avrei più rivolto la parola se avessi
scoperto che usava il nome di un familiare come
password. Provai anche con la sua marca di sigarette e
sigarilli e con quella del dopobarba. Mi si chiudevano
gli occhi. Ero partita dal presupposto che un uomo come
Selim, con mille cose per la testa, avesse scelto una
password facile da ricordare. Evidentemente avevo
commesso un errore. Non era certo il primo. Mi
spremetti di nuovo le meningi per trovare qualcosa che
Selim potesse ricordare con facilità. Di sicuro non la
data del nostro primo incontro. Se fossimo stati sposati,
avrei potuto tentare con il giorno del matrimonio. Il mio
compleanno era da escludere, visto che l’anno prima se
l’era dimenticato.
Mentre bevevo un altro sorso di tisana puzzolente mi
accorsi che non avevo ancora inserito il mio nome. Una
cosa che di sicuro lui non aveva ancora dimenticato.
Poteva anche essere la soluzione giusta. Digitai «Kati».

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La sua casella di posta si aprì davanti ai miei occhi.
La password era proprio il mio nome. Le quattro
lettere del mio nome.
Caro, caro, carissimo Selim!
Non potete immaginare la mia commozione. Quanti
uomini usano come password il nome della fidanzata?
Avrei dovuto vergognarmi in eterno per tutto quello che
gli avevo fatto passare. Povero turco dall’animo
romantico. Principe del mio cuore. No, imperatore del
mio cuore!
Le lacrime mi scendevano lungo le guance e
cadevano sulla tastiera con colpi leggeri. Gli avevo
attribuito una password come diabolo, invece usava il
mio nome, il nome del suo angelo. Un uomo del genere
non meritava una come me, una vera strega.
Dovevo chiamarlo subito e cercare conforto tra le sue
braccia. Dovevo posare il capo sulla sua pancia e
sperare che questo bastasse a purificarmi. Dovevo
essergli fedele per tutta la vita ed evitare accuratamente
di ferire il suo animo delicato. Dovevo sposarlo e
imparare a cucinare, non solo le verdure ripiene ma
anche le polpette di grano, per poterlo poi imboccare
con le mie stesse mani. Dovevo svegliarlo ogni mattina
con teneri baci e sussurrargli all’orecchio: «La colazione
è pronta». Dovevo stirargli le mutande. Non dovevo
indignarmi per gli alimenti che passava alla ex moglie.
Dovevo farmi bionda, aggiungendo magari qualche
mèche, e bere il tè con le mogli dei suoi amici. Dovevo
aspettarlo sulla soglia quando tornava a casa e salutarlo
con un sorriso raggiante. Dovevo massaggiargli le

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spalle contratte e amare con tutto il cuore gatti, uccelli,
fiori, insetti, bambini, uomini e donne, ma soprattutto lui,
il mio caro Selim. Cos’avevo fatto per meritare tanto
amore? Tremavo. Il suo nome mi bruciava le labbra, il
cuore mi batteva forte.
Andai in soggiorno e mi versai un po’ di whisky, poi
girai per l’appartamento facendo tintinnare i cubetti di
ghiaccio. Vuotai il bicchiere d’un fiato e lo riempii di
nuovo. Non correvo certo il rischio di diventare alcolista
in una sera. Senza pensarci buttai giù anche il secondo
whisky.
Dovevo cercare di essere un po’ più realista. Non
avrei mai imparato come si facevano le verdure ripiene.
Stirare le mutande non era nel mio stile. E di sicuro non
avrei aspettato nessuno sulla soglia. Riempii per la terza
volta il bicchiere.
Potevo cambiare la mia password e usare «Selim»,
così saremmo stati pari. Nei rapporti internazionali si
parlava sempre del «diritto di reciprocità».

Fui svegliata dal suono del telefono.


Nell’appartamento c’era un solo apparecchio telefonico
e si trovava nel mio studio. Corsi a rispondere, anche se
è un po’ difficile correre quando ci si è appena svegliati.
Era Batuhan. Il giorno prima era in macchina e non
aveva potuto parlare. Voleva chiedermi scusa.
All’improvviso mi domandai se non fosse sposato.
Magari il giorno prima, quando l’avevo chiamato, la
moglie era seduta in auto proprio accanto a lui. Cosa
non viene in mente a una persona che si è appena

158
svegliata! Chi poteva pretendere che una donna del mio
calibro riempisse pomodori e stirasse mutande? Era
assurdo.
Batuhan parlava senza sosta. Dammi almeno due
minuti di tregua, per favore. Mi stai facendo una testa
così con tutte queste chiacchiere di prima mattina.
Doveva venire nel mio quartiere. A Kuledibi, intendo.
Voleva mangiare con me. Ma dove li trova tutti questi
soldi? Mi invita continuamente a pranzo, la sua fonte
sembra inesauribile. Non dicono sempre che gli stipendi
dei funzionari statali sono troppo bassi? Un
commissario di polizia non è un funzionario?
«Certo che possiamo mangiare insieme, ma a una
condizione: pago io». Volevo fare qualcosa per la
polizia del mio paese. In fondo, non solo vivo in
Turchia, ma ho anche il passaporto turco. Dovevo
dimostrare che ci tenevo.
Mi vengono sempre idee strane quando mi sveglio.
Selim lo sa bene.
«Vieni un po’ prima» dissi. «Se arriviamo così tardi
nel posto dove ti voglio portare, non troviamo più
niente».
Era una giornata buia, non c’era neanche un po’ di
luce. Il cielo minacciava pioggia. Evidentemente
stavano tornando le nubi che due settimane prima
avevano scaricato una gran quantità d’acqua sulla città.
Pelin era rimasta fuori tutta la notte. Chiamai il negozio
per controllare se era andata direttamente al lavoro. Sì,
era in libreria. Mi informò che un giornalista tedesco
aveva telefonato per chiedere un’intervista. Voleva

159
sapere se la Turchia era pronta a entrare in Europa. Mi
facevano tutti la stessa domanda; pensavano che, da
tedesca residente in Turchia, potessi rispondere meglio
di chiunque altro. Il giornalista avrebbe richiamato
verso mezzogiorno. Voleva assolutamente incontrarmi.
Prima di lasciare l’appartamento telefonai a Lale per
la faccenda di İsmet Akkan.
«Il mio amico non è riuscito a contattarlo, sembra che
il cellulare sia spento. Comunque ha parlato con il
fratello. Non preoccuparti, entro domani ti fisseranno un
appuntamento».
Le augurai «in bocca al lupo» per il colloquio con
quelli dell’agenzia pubblicitaria.

Davanti alla porta del negozio mi imbattei in Recai.


Aveva in mano un vassoio con dei bicchieri pieni di tè e
guardava il cielo con aria preoccupata.
«Sta per piovere» disse vedendomi. «È colpa degli
americani. Hanno incasinato tutto. Il mondo sta
andando a rotoli. Hai visto il telegiornale ieri sera? Case
sommerse dall’acqua. Ho sentito che dipende dalle armi
che usano nelle loro guerre. Probabilmente hanno anche
degli apparecchi con cui si può guardare nelle grotte e
cose simili. Però bin Laden non l’hanno ancora
trovato».
Cercai di liberarmi per entrare in negozio.
«Guarda che il tè si raffredda, Recai».
«Non importa, tanto nessuno lo beve di gusto. La
gente soffre».
Mi fece un cenno di saluto e scomparve lentamente

160
in una delle viuzze che conducevano in piazza.
È impossibile evitare certi discorsi. Ognuno ha
almeno trenta opinioni importantissime che non vede
l’ora di esprimere. I turchi sono fatti così, amano parlare.
I tedeschi sono completamente diversi. C’è solo un
argomento che li interessa davvero: come sbarazzarsi
degli stranieri il più velocemente possibile.
Appena entrai in libreria, Pelin mi mise in mano il
ricevitore del telefono. All’altro capo della linea c’era
Günther Schmidt, il giornalista di «Wochenzeit» che mi
voleva intervistare.
«Adesso sono molto occupata» dissi. Mi ero stufata
da un pezzo dei giornalisti tedeschi che volevano parlare
di politica internazionale ma che ne sapevano meno di
Recai.
«Rimarrò a Istanbul ancora una settimana. Possiamo
incontrarci quando vuole».
«Allora mi richiami prima di partire».
Nel frattempo aveva cominciato a piovere. Era poco
probabile che qualcuno uscisse con un tempo del genere
per venire a comprare un libro. Non che la cosa mi
dispiacesse in modo particolare. Non mi rattristai
neanche quando Batuhan mi chiamò per disdire il nostro
appuntamento. Rimasi seduta in negozio insieme a
Pelin e leggiucchiai il giornale. Cosa non si fa per
vincere la noia!
Per cena Pelin cucinò gombo con carne. Il gombo è
un ortaggio di cui non sono ancora riuscita ad accettare
l’esistenza. Con pomodori e tanto limone non è cosa
sgradevole, ma se dovessi vivere per quarant’anni senza

161
mangiarlo di sicuro non ne sentirei la mancanza. La
maggior parte dei tedeschi non solo non conosce il
sapore del gombo ma non sa nemmeno cosa sia.
Quando lo dissi a Pelin, la lasciai sbalordita. Perché
stupirsi tanto? Perché non dovrebbero esistere persone
che non conoscono il gombo ma che mettono le
zucchine crude nell’insalata e considerano la pizza
surgelata la più grande invenzione di tutti i tempi? Certo,
la varietà della cucina turca è imbattibile. Però devo
ammettere che, secondo me, ogni tanto i turchi
esagerano un po’. Va bene cucinare la trippa, ma
mangiare le cervella è da fuori di testa!
Decidemmo di andare a letto presto. Prima di
coricarmi, però, chiamai di nuovo Lale. Il colloquio era
andato bene, avrebbe ottenuto il lavoro. Per quanto
riguardava İsmet Akkan, mi aveva dato appuntamento
per le cinque del giorno seguente nel suo ufficio. Lale
mi dettò l’indirizzo e il numero di telefono. Per
l’indomani si prevedeva bel tempo. Prima di
addormentarmi pensai a quello che avrei fatto.

Il mattino successivo fui svegliata dai raggi di luce


che entravano in camera. Decisi di brindare al sole con
un caffè. Per riparare, dopo la doccia mi sarei messa la
crema anticellulite. Sulla confezione si leggeva che
doveva essere usata con regolarità per avere effetto, ma
io avevo una mia teoria al riguardo. Se la crema agiva
positivamente sul mio stato d’animo, questo avrebbe di
certo influito in modo altrettanto positivo sulla cellulite.
Scrollai Pelin finché non si svegliò e le dissi di andare

162
al lavoro. Lei si lamentò a gran voce perché, da quando
si era trasferita a casa mia, la costringevo ogni mattina
ad andare in negozio prima di me. Le risposi che avevo
già il mio bel daffare, che a più di quarant’anni dovevo
combattere contro rughe e cellulite, che il mio uomo
non si faceva più sentire, che non avevo amici pronti a
farmi dimenticare i dispiaceri portandomi nei locali per
rockettari a bere birra a buon mercato, che la vita era
davvero difficile per le donne della mia età e che le
nostre due situazioni non erano assolutamente
paragonabili. Tutto questo la convinse a uscire
svogliatamente di casa per andare al lavoro. Io andai dal
parrucchiere a tingermi i capelli.

Dopo il parrucchiere, invece di raggiungere Pelin in


negozio, feci un salto a Karaköy. Le strade del quartiere
erano piene di ambulanti che vendevano di tutto, dalle
pastiglie di vitamina E ai preservativi. Dietro le
bancarelle, seminascosto, c’era un negozio di armi
sportive e da caccia. O almeno speravo che fosse ancora
lì; l’avevo visto due o tre mesi prima, l’ultima volta che
ero passata.
Sì, era ancora lì. Vedendo armi e cartucce in vetrina
tirai un sospiro di sollievo. All’interno c’erano tre
venditori e quattro clienti. Mentre guardavo la merce
esposta, due persone uscirono dal negozio e arrivò il
mio turno.
«Vorrei una rivoltella» dissi al venditore con lo stesso
tono che avrei usato per un pullover nero girocollo. Il
giovane rimase un po’ stupito.

163
«Ha già un’idea precisa?».
Evidentemente servivano conoscenze un po’ più
approfondite per fingersi clienti.
«In realtà vorrei solo qualche informazione. Vorrei
sapere quali sono le caratteristiche principali di una
rivoltella». Regalai al venditore un sorriso che avrebbe
risuscitato un morto. Se a questo aggiungiamo i capelli
arancioni…
«Prego, si accomodi» rispose lui, indicandomi uno
sgabello vicino al bancone.
Tirò fuori una pistola e la posò sul piano di vetro. Era
una di quelle che nei film vengono usate per la roulette
russa. Aveva una parte mobile in cui infilare i proiettili.
«Ecco, questa è una rivoltella. Che cosa voleva
sapere?».
«Con questa pistola si possono usare proiettili da
nove millimetri?». Probabilmente era una domanda
ridicola. Dal punto di vista tecnico, ma non solo. Il
venditore si grattò la nuca e sorrise. Se non avesse
temuto di offendermi, senza dubbio sarebbe scoppiato a
ridere.
«Signora, posso sapere come mai…».
«Sto leggendo un libro. Un giallo. A un certo punto
compare una rivoltella. Passando qui davanti mi sono
detta… Beh, ho pensato di entrare e… Ma se adesso
non ha tempo posso tornare più tardi». Se mi fossi
preparata un po’, sarei riuscita a finire almeno una frase.
«Anche a me piacciono i gialli, ma non ho tempo per
leggere. Più che altro guardo i film. Ho visto tutti quelli
di James Bond. Diverse volte. Nel weekend, quando

164
tutti gli altri vanno allo stadio, io vado al cinema».
«Allora sono sicura che mi capisce» dissi, esultando.
«Mi creda, sarebbe difficile trovare qualcuno che la
capisca meglio di me. Vuole qualcosa da bere? Tè o
caffè?».
«Tè, grazie».

Quando lasciai il negozio di armi erano quasi le


quattro. Non volevo arrivare tardi all’appuntamento
delle cinque con İsmet Akkan, quindi mi fermai al
chiosco all’angolo e mangiai un pezzo di pasta sfoglia
incredibilmente unta e ripiena di formaggio. Sapevo che
mi sarei odiata per almeno una settimana, ma non avevo
altra scelta. Non posso mica girare tutto il giorno con lo
stomaco che brontola. Mi rimisi al volante e con Tanita
Tikaram come sottofondo musicale guidai verso
Mecidiyeköy.
Non frequento quel quartiere, ci vado solo se non
posso farne a meno, comunque mi orientai senza
difficoltà. Alle cinque meno dieci, dopo aver
parcheggiato la macchina, stavo già cercando l’indirizzo
che mi ero scritta su un biglietto. Il numero 123
corrispondeva a un brutto edificio con l’intonaco che si
sgretolava e i climatizzatori che spuntavano dalla
facciata. Premetti il pulsante del citofono con
l’indicazione «Akkan Import-Export». Nessuno mi aprì,
quindi, dopo una breve attesa, suonai di nuovo e più a
lungo.
Sentii il rumore di una finestra che si spalancava.
Dall’interno fece capolino una donna. «Chi è?».

165
Indietreggiai di qualche passo per farmi vedere.
«Mi chiamo Kati Hirschel. Ho appuntamento col
signor Akkan alle cinque».
La donna tirò indietro la testa senza dire una parola,
poi richiuse la finestra. Aspettai un attimo, ma la porta
non si aprì. Suonai per la terza volta. Non successe
niente. Presi il cellulare e chiamai il numero che mi
aveva dato Lale.
Rispose una voce femminile. «Akkan
Import-Export».
«Mi scusi, continuo a suonare, ma la porta non si apre.
Ho appuntamento col signor Akkan alle cinque».
«L’apriporta non funziona. Stavo scendendo, ma ho
dovuto rispondere al telefono. Sono qui da sola. Suoni a
qualcuno dei piani bassi».
«Io? Non vorrei disturbare. Aspetterò finché non può
scendere».
«İsmet dovrebbe arrivare da un momento all’altro.
Lui ha la chiave. Mi dispiace, ma, come le ho già detto,
sono qui da sola e il telefono continua a suonare».
«Potrebbe buttarmi giù la sua chiave» azzardai. Mi
sembrava una buona soluzione.
«Oh, non ci avevo mai pensato. Un momento».
Interruppe la telefonata e un secondo dopo si affacciò
di nuovo alla finestra.
L’edificio non aveva l’ascensore. Era più che
comprensibile che la povera signora non volesse
scendere ad aprire la porta.
Mi fece accomodare nella stanza che fungeva da
segreteria e mi indicò una delle sudicie poltrone di

166
velluto sistemate proprio davanti alla sua scrivania. Il
rivestimento era talmente sporco e consumato da
sembrare una pelle scamosciata unta e bisunta. Il
pavimento era ricoperto da una moquette che un tempo,
forse, aveva un colore marrone. Cercai di trattenere il
fiato per non inalare l’odore di tabacco che impregnava
l’aria. Temevo che al primo respiro avrei assorbito tutta
la sporcizia che mi circondava. Avevo il voltastomaco.
Dovevo assolutamente controllare la nausea, altrimenti
sarei stata costretta a vedere anche il bagno. Mi sforzai
di pensare a qualcos’altro: prati verdeggianti, mucche e
agnelli al pascolo, ciliegi e famigliole italiane che
mangiavano spaghetti. Mi vengono sempre in mente gli
italiani quando penso al prototipo di famiglia felice.
Forse perché conosco turchi e tedeschi abbastanza bene
da sapere che le loro famiglie non sono affatto felici.
Non avevo mai visto un posto più sporco dell’ufficio
in cui mi trovavo. La segretaria non solo era sporca, ma
era anche strana. Tutta pelle e ossa. Sicuramente non
pesava più di quaranta chili. I capelli scendevano in
ciocche grigie e unte. Mi stava tornando la nausea. Mi
concentrai nuovamente sui prati verdeggianti.
Prima che potesse offrirmi qualcosa da bere, la porta
si aprì.
La donna scattò in piedi. «İsmet».
Me lo ricordavo molto più giovane, come nei suoi
film. Anche invecchiato, però, mi sembrò subito un
bell’uomo. Stava benissimo con i baffi. E poi aveva un
atteggiamento incredibilmente virile, da vero macho.
Queste cose, comunque, non mi interessavano. Non

167
dovevo passare il resto della mia vita con lui, ma
rimanere un’ora, al massimo due, nel suo ufficio. Non si
trattava di trascorrere insieme la serata. Non l’avrei mai
fatto. Avevo il mio Selim. Inoltre İsmet Akkan era nella
mia lista dei sospetti. Poteva essere un assassino.
Avvicinandosi, mi squadrò con i suoi grandi occhi
neri. Ci salutammo con una stretta di mano.
«Mi dispiace di averla fatta aspettare. Purtroppo è
impossibile muoversi più in fretta di venerdì. Vengo
dall’altra parte della città e sul ponte c’erano dei lavori
in corso…».
«Non importa». Aspettare cinque minuti non era
certo una tragedia, anche se bisognava farlo in un posto
così disgustoso. O meglio, non era una tragedia se si
trattava di aspettare uno come lui.
«Devo prendere dei documenti, per questo le ho dato
appuntamento in ufficio. Se vuole possiamo andarcene
subito. Sarebbe un peccato non approfittare di questa
bellissima giornata. Che ne dice? Andiamo sul Bosforo?
Mi sembra il posto ideale per una chiacchierata».
Era chiaro che non sapeva quale sarebbe stato
l’argomento della nostra conversazione. Se l’avesse
saputo, di sicuro non mi avrebbe fatto una proposta del
genere. Probabilmente avrebbe tentato di liquidarmi il
più velocemente possibile.
«È un’idea fantastica» risposi. Non vedevo l’ora di
andarmene, anche perché non volevo associare Akkan
al suo ufficio.
«L’aspetto di sotto, davanti alla porta».
Mi raggiunse che avevo già fumato un’intera

168
sigaretta. In Turchia le donne che fumano per strada
vengono guardate male, quindi solitamente mi trattengo.
Ogni tanto, però, si può anche fare un’eccezione. In
fondo, dopo più di cinque minuti nell’orrendo ufficio
della Akkan Import-Export mi meritavo una sigaretta.
«La inviterei volentieri a cena, ma è ancora presto»
disse lui, posandomi una mano sul gomito. Si stava
prendendo delle libertà, ma, se devo essere sincera, a me
non dispiaceva affatto.
«Se l’avessi saputo, le avrei dato appuntamento più
tardi».
La mia reazione fu immediata. A volte sono proprio
ingenua. Solo a volte, però.
«Se avesse saputo cosa?».
«Che dovevo incontrare una donna così giovane e
bella».
Volevo ridere in modo elegante. Cercai di
controllarmi per non essere sguaiata, ma il risultato fu
una specie di nitrito.
«Forse dovremmo cominciare a salire in auto. Poi
penseremo a dove andare».
«Anch’io sono venuta in macchina». Per un motivo o
per l’altro, usare la macchina a Istanbul è sempre un
problema. Non solo non si trova parcheggio, ma non si
possono nemmeno accettare passaggi da maschi
automuniti.
«Non si preoccupi, può lasciarla qui. Chiederò a
qualcuno di venire a prenderla».
Così si comportano i veri uomini! Ne conosco alcuni
che dimostrano una certa intelligenza e a casa ti aiutano

169
a sgusciare i fagioli, ma che in casi simili direbbero:
«Non ti preoccupare per la macchina, poi ti riporto qui».
Ma vi sembra possibile? È per questo che abbiamo
lottato tanto per la nostra indipendenza? Per sentirci dire
cose del genere?
La sua mano era ancora posata sul mio gomito.
«Va bene, andiamo».
Invece di lasciarlo fare all’autista, Akkan aprì
personalmente la portiera della sua gigantesca jeep nera.
Devo ammettere che una jeep con autista è già una cosa
strana per me. Viaggiare sul suo sedile posteriore lo è
ancora di più. Ma in quel momento ero troppo
emozionata per badare a certi dettagli. Mi sentivo
attratta da un macho. Fino a poco tempo prima avrei
assicurato a chiunque che gli uomini del genere non mi
facevano alcun effetto. All’improvviso, però, provavo
l’incontenibile desiderio di inspirare il delizioso odore
maschile dell’uomo che mi sedeva accanto, di
abbandonarmi tra le sue braccia muscolose, di affondare
il viso tra i peli del suo petto e di spingere la sua testa tra
le mie gambe. Difficile dire se fosse una cosa positiva o
negativa. In ogni caso, da anni avevo imparato a seguire
il mio istinto e ad accettare le eventuali conseguenze.
Raggiungemmo un bar sul Bosforo.
«Beviamo uno o due bicchieri qui e poi andiamo a
cena da un’altra parte» propose Akkan, aiutandomi a
scendere dalla jeep. Probabilmente non mi avrebbe
chiesto se avevo già altri programmi, comunque non mi
sembrava necessario far sapere a tutti che trascorrevo le
mie serate insieme a Pelin davanti al televisore.

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«Accetterei molto volentieri il suo invito a cena, ma
ho già un appuntamento» mentii.
«Annullalo».
Un vero macho, come ho già detto più di una volta.
Non ne avevo mai incontrato uno più maleducato e
sicuro di sé. Evidentemente all’interno della categoria
esistono diverse fasce. Strano ma vero, mi piaceva
anche la sua maleducazione. Non devo certo spiegarvi
come avrei reagito in caso contrario. Gli avrei insegnato
le buone maniere.
«Okay, vedo se posso annullare l’altro
appuntamento» dissi dopo che ci fummo seduti a un
tavolo che dava proprio sull’acqua. Chiamai Pelin e
scambiai qualche parola con lei sottovoce. Alla vista del
mio cellulare İsmet aveva fatto una smorfia che non mi
era sfuggita. Appena smisi di parlare, me lo strappò di
mano.
«E questo cos’è? Un residuato bellico?».
«Ridammelo!». Di colpo passai anch’io al tu.
«Che razza di telefono! Sembra un pezzo
d’antiquariato». Scoppiò a ridere.
«Lo diventerà presto» replicai, recuperando il
cellulare e rimettendolo nella borsa. Non era la serata
ideale per una conversazione con Selim, quindi decisi di
spegnerlo.
Sentendomi ordinare un whisky on the rocks, İsmet
mi diede due o tre pacche sul braccio, tutto allegro. Gli
piacevano le donne che bevevano cose da uomini. Non
se ne trovavano tante. Tutte quelle di sua conoscenza
avrebbero chiesto del vino bianco perché meno calorico.

171
E ne avrebbero bevuto solo un bicchiere in tutta la sera.
Io non ero certo a dieta. In giro si vedevano fin troppe
aguglie. L’aguglia è un pesce con pochissima carne e
tante lische, ma è anche una donna tutta pelle e ossa. Ah
già, di cosa gli volevo parlare?
Il mio whisky arrivò proprio al momento giusto.
Buttai giù il primo sorso della serata e l’emozione lasciò
lentamente il posto al disincanto. Avevo l’impressione
che non sarebbe stato facile sopportare un uomo del
genere a mente lucida. Forse il successo più grande del
movimento femminista consisteva nell’aver reso gli
uomini un po’ più sopportabili. Con un uomo che
sgusciava i fagioli non era cosa difficile intavolare una
discussione.
«Conosci un certo Osman Karakaş?» domandai.
«Sì, lo conoscevo. È stato ucciso». Dopo aver
risposto, İsmet chiamò il cameriere e ordinò a gran voce
del formaggio di pecora.
«Quindi hai saputo cos’è successo» continuai.
«Ovvio. Ieri sono andato a dargli l’ultimo saluto.
Veniva dal mio stesso paese. Quando l’hanno ucciso,
ero in vacanza a Kemer. Vado sempre nello stesso posto.
Non sono stato vicino alla sua famiglia, ma sono andato
al funerale». Dondolò il capo con aria pensosa. «Non
era il più vecchio della famiglia, ma di sicuro era il più
saggio. Un uomo tutto d’un pezzo». Inarcò le
sopracciglia. «Che c’entri tu con Osman?».
«Hai presente l’appartamento che usava come
ufficio?». La domanda mi uscì con estrema noncuranza
e per un attimo pensai di essere più brava di lui a

172
recitare.
«So che si trova da qualche parte vicino alla torre di
Galata. Ci sono stato un paio di volte. Perché?».
«Volevo comprarlo e andarci a vivere».
«Ma non è un quartiere residenziale!» mi interruppe
İsmet. «Devi cercare una zona più adatta. Posso
chiedere se c’è qualche appartamento libero dove abito
io. Il panorama è stupendo, si vede tutta Istanbul. Non
manca niente: abbiamo un guardiano all’ingresso, una
piscina, un campo da tennis… Una donna non può
vivere a Kuledibi!».
«È un quartiere dove non si spende tanto. E poi non
mi piacciono le zone più moderne» spiegai. Lui mi
guardò come se avessi due lunghe orecchie verdi.
«Vuoi giocare a fare la bohémienne?».
«Non è un gioco». Mi sembrava che di colpo si fosse
allontanato. Se avesse potuto, forse avrebbe chiesto il
conto e sarebbe andato via.
«Hai avuto a che fare con Osman per via
dell’appartamento. Okay, questo l’ho capito. Ma cosa
vuoi da me?».
«La polizia crede che l’abbia ucciso io». Capii subito
di aver commesso un errore. Se İsmet era andato al
funerale, senza dubbio sapeva chi era il sospettato
principale.
«Che sciocchezza! È ovvio che non sei stata tu.
Osman è stato ucciso da quella sanguisuga di suo zio. I
fratelli sanno che la polizia sospetta di te? Aspetta…».
Tirò fuori il cellulare.
«Hai ragione» dissi in fretta. «Il sospettato numero

173
uno è lo zio. Ma io sono il numero due». Mi sembrava
una vera stupidaggine. Ero sicura che dalle mie parole
emergesse chiaramente che stavo mentendo.
«Okay, tesoro, raccontami tutto. Cos’è successo?».
Gli raccontai l’episodio del posacenere, il che mi fece
riguadagnare qualche punto. İsmet mi ascoltò in silenzio
fino alla fine.
«Quindi, che cosa vuoi da me?».
«Sai con chi faceva affari Osman? Chi può averlo
ucciso?».
«Perché ti immischi? Hanno ucciso un uomo che
conoscevi appena, non hai motivo di preoccuparti.
Pensa ai fatti tuoi. Non ti hanno mica arrestato, tesoro».
«Ma la sera del delitto ero a casa da sola» risposi tutta
seria. «Non ho testimoni. Se venisse fuori che lo zio non
c’entra, la polizia…». Fui interrotta un’altra volta.
«Testimoni? Guarda che non ti servono, non sei
accusata di niente».
«Sono sicura che tu haí almeno un testimone per
quella sera. Io non ho nessuno».
«Ero in vacanza, perché mai dovrebbe servirmi un
testimone? Che c’entro con l’omicidio?». Sembrava
davvero confuso.
«Non capisci? Se non riescono a chiarire la faccenda,
interrogheranno tutti e ci chiederanno dove eravamo
quella sera».
Lui fece spallucce. Se non avessi saputo che era un
attore, non avrei avuto il minimo dubbio riguardo alla
sua estraneità ai fatti. Ma ci si poteva fidare di un attore?
«Sono andato in vacanza il 12 agosto. Possono

174
chiedere a tutti quelli del posto dove sono stato. Avevo
appena finito le riprese di una serie estiva, dovevo
riposarmi. Non ho messo neanche un piede fuori dal
villaggio vacanze». Si era drizzato sulla sedia come un
gallo.
«Perché mai la polizia dovrebbe chiedermi dov’ero e
cosa stavo facendo? Solo perché conoscevo il morto?
Sai quanti milioni di persone conosco in questo paese?
Se a uno succede qualcosa, che c’entro io?».
«Con chi lavorava Osman?».
İsmet si fece sospettoso.
«Devi proprio sforzare la tua bella testolina con
queste domande? Dai, andiamo a mangiare».

Tornammo alla jeep in mezzo alla confusione. I


camerieri si erano radunati davanti alla porta del locale
per salutarci, o meglio, per salutare lui. Era chiaro che
per il resto della serata non avremmo più parlato di
Osman. Andare a cena con İsmet non sarebbe servito a
niente. Avrei dovuto prendere un taxi, tornare alla mia
macchina e guidare fino a casa, subito, prima che ci
spingessimo oltre, prima che fosse troppo tardi. Questo
mi suggeriva il buonsenso. Con la voce di Selim.
Le emozioni incontrollabili che provavo, invece, mi
dicevano di andare con İsmet. Nella mia vita mi sono
trovata più di una volta a dover scegliere tra ragione e
istinto e devo dire che ho sempre deciso di seguire il
secondo.
Quella sera non fece eccezione.

175
Seduti sul sedile posteriore della jeep, con le gambe
strette come se non ci fosse spazio sufficiente, ci
dirigemmo verso Ortaköy. Si procedeva a passo d’uomo,
c’era un traffico infernale.
«Meglio evitare che i giornalisti ci vedano insieme»
disse lui.
«Cosa?».
«Di sicuro stanno già aspettando davanti al ristorante.
Ti conviene scendere e prendere un taxi».
«Non è necessario. È qui vicino, no?».
«Preferisci camminare?». Scoppiò in una risata.
«Sì, credo che verrò a piedi». In fondo camminare era
l’unica attività fisica che facevo. Non che a Istanbul si
possa camminare tanto. Comunque, rispetto a prima
usavo molto meno la macchina. Con l’avanzare dell’età
bisogna cercare di cambiare il proprio stile di vita.
«Come vuoi» rispose İsmet, ma dalla sua espressione
capii che l’idea non gli andava a genio.
Aveva scelto un ristorante italiano. I paparazzi erano
assiepati davanti all’ingresso, in attesa di persone
importanti da fotografare. A me non diedero neanche
uno sguardo.
Al cameriere che mi sbarrò la strada dissi: «Ho
appuntamento con İsmet Akkan».
Lui si allontanò a passo svelto.
Poi si girò verso di me. «Prego, mi segua».

Durante la cena İsmet mi tempestò di domande.


Alla seconda portata avevo già l’impressione che la
mia vita non avesse più segreti. Forse dipendeva dal

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fatto che gli attori sono particolarmente bravi ad
avvicinarsi alle altre persone. Forse era colpa mia, che
avevo bevuto troppo. Non lo sapevo e non ero neanche
più in condizione di scoprirlo.
Dopo aver ordinato il dolce, all’improvviso mi posò
una mano sulla gamba. Vi ho già detto che indossavo
una gonna? Sì, un modello all’ultima moda, con volant
e taglio asimmetrico. İsmet mi toccò la gamba nel punto
in cui la gonna era più corta. Prima di far scivolare la
mano verso l’alto mi lanciò uno sguardo furtivo per
vedere la mia reazione. Non sapevo come comportarmi,
quindi rimasi immobile e aspettai che dentro di me
scattasse qualcosa.
In certi momenti lascio che le cose seguano il loro
corso. O meglio, mi lascio trasportare. Quando c’è di
mezzo il desiderio, la ragione va messa da parte. Sono
già tante le situazioni in cui è giusto usare la testa.
Perché dovremmo farlo anche per controllare le
emozioni? Sarebbe una cosa negativa da ogni punto di
vista. La testa va usata per il matrimonio, nei rapporti di
coppia…
Selim!
Di colpo diventai tutta rossa, o almeno così mi
sembrò. Avevo un gran caldo.
Lasciarsi trasportare dalle emozioni, dai desideri…
Qualunque cosa fosse, non potevo abbandonarmi così
facilmente all’emozione che si era impadronita di me.
Ero ancora legata a Selim. Dovevo essergli fedele,
prendere parte alle cene con i suoi amici e le rispettive
compagne, chiedergli di accompagnarmi al gabinetto,

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ma senza pronunciare la parola «gabinetto».
Se solo fosse arrivata una cartomante e mi avesse
detto cosa sarebbe successo se non avessi spostato
subito la mano di Akkan o ritirato la gamba!
Non si poteva leggere il futuro per sapere una cosa
del genere? Allora la cartomante poteva dirmi almeno
che cosa sarebbe successo il giorno dopo. Avrei fatto
colazione con l’uomo che avevo accanto? Avrei cercato
di tagliare la corda prima che si svegliasse? Me la sarei
svignata nel cuore della notte? Come mi sarei sentita?
Spero di essermi spiegata.
Ho detto che in certe situazioni non bisogna usare la
testa? Beh, che lo si voglia o meno, la ragione riesce
comunque a intromettersi. Non ti dà mai pace. Nel mio
caso funziona così, magari per altri è diverso.
Allora, qual era la situazione? La riassumo in tre
punti, cari lettori. Non solo per voi, ma anche per me.

1) Ero impegnata da tempo con lo stesso uomo.


2) Ne avevo abbastanza di tutto e di tutti.
3) Una volta equivaleva a nessuna volta.
Cominciai ad accarezzare la mano posata sulla mia
gamba.

Capiamoci: eravamo ancora seduti sulle scomode


sedie del ristorante. Tutt’intorno brulicavano camerieri e
clienti e l’uomo accanto a me era un personaggio
famoso.
Ero completamente bagnata per l’eccitazione.
«Andiamo via» dissi con voce soffocata, leccandogli

178
un orecchio.
«Non possiamo lasciare il ristorante insieme» mi fece
notare lui. Una frase stupida quanto la mia, che
pronunciò leccandomi il collo. In effetti non capii bene.
«Cosa?».
«Davanti alla porta ci sono i paparazzi. Non
possiamo uscire insieme ed entrare nella stessa
macchina».
Ovviamente trascorrere una notte di sesso con un
personaggio famoso non è così facile.
Non ero affatto sicura di voler affrontare certe
difficoltà solo perché non ero soddisfatta della mia vita.
Farlo o non farlo?
«Esci prima tu. Prendi un taxi e fatti portare a casa
mia».
«Va bene» risposi con una docilità che non mi
apparteneva. Avrei voluto che succedesse come nei film.
Saremmo andati alla toilette a un minuto di distanza
l’uno dall’altra e poi saremmo tornati in sala. Devo
ammettere che alla mia età non ho ancora capito come
facciano a fare certe cose nei film. Tra l’altro le toilette
sono quasi sempre sporche; non bisogna certo essere
maniaci della pulizia per accorgersene. Come si fa a fare
sesso in un bagno? Quale posizione bisogna adottare?
Me ne vengono in mente almeno un paio, ma una più
scomoda dell’altra. Veri e propri esercizi di ginnastica.
Non riesco a immaginare come si possa provare piacere.
Come si fa con una gamba vicino al collo? E poi, che
senso ha? Esistono posizioni molto più civili che si
possono provare a letto, sul divano in soggiorno, sul

179
tavolo della cucina o sul tappeto dell’anticamera.
Per non parlare della paura che possa arrivare
qualcuno con una necessità impellente, qualcuno che
possa prendere a pugni la porta, piegarsi, sbirciare da
sotto e vedere due paia di piedi. Non è molto eccitante.
Se avessi bisogno di certe cose per eccitarmi, lascerei
perdere.
Piuttosto che andare alla toilette, meglio alzarsi e
lasciare il ristorante separatamente.

Naturalmente non potevo sapere cosa sarebbe


successo nella mia testa una volta preso il taxi. La
sensazione della sua mano sulla mia gamba era già
scomparsa.
A questo punto temo che la mia volubilità stia
cominciando a irritarvi. Vi prego, non fraintendetemi:
volevo una notte d’amore almeno quanto la volete voi
ora. Volevo che durasse fino al mattino, e İsmet Akkan
era senz’altro l’uomo adatto. Un uomo capace di
suscitare certi desideri in una donna, o almeno capace di
suscitarli in me.
Però dovete ammettere che le cose possono anche
cambiare quando ci si trova da soli in un taxi.
Seduta sul sedile posteriore, mi chiesi se volevo
davvero raggiungere la sponda asiatica del Bosforo,
cercare l’indirizzo scritto sul biglietto che avevo in
mano, entrare in un appartamento che non conoscevo e
trascorrere la notte con un uomo di cui sapevo
pochissimo e che fino a sei, sette ore prima era per me
un possibile assassino. Non ero più così eccitata. Il

180
buonsenso, il ricordo di Selim e tutto il resto avevano
preso il sopravvento.
Alla mia età potevo anche avere un’avventura di una
notte, ma non così.
No, non così.
Mi rivolsi all’autista. «Ho cambiato idea. Non vada
dall’altra parte, mi porti a Mecidiyeköy».
Dopo essere scesa dal taxi, rimasi ferma dov’ero e
accesi una sigaretta. Escludendo le poche auto di
passaggio, la strada era deserta. Guardai l’orologio:
mezzanotte e venti. Presi il cellulare e chiamai Selim.
«Sei ubriaca» osservò.
«Sì, e allora?».
«Non puoi guidare così. Vengo a prenderti».
«Lo so che non posso guidare. Non sono mica turca.
Prendo un taxi e vengo da te».
«Lascia perdere il taxi, risparmia i soldi».
«Per favore, non sono mica tedesca».
«Sai una cosa?» fece il caro Selim, che usava il mio
nome come password. «Credo di aver sentito la tua
mancanza».
«Credi?».

181
8

All’improvviso urtai qualcuno con il braccio. Presa


dal panico, mi alzai di scatto. Il materasso a molle si
mise a ondeggiare. Scambiando per un terremoto il
movimento che io stessa avevo provocato, mi sforzai di
aprire gli occhi e mi guardai intorno in cerca di un
tavolo. Ma nella stanza non c’era niente di simile, niente
che potesse offrirmi riparo. D’altronde, chi avrebbe
messo un tavolo in camera da letto? La camera in cui mi
trovavo aveva un aspetto familiare, ma non era la mia.
Sentivo la testa pesantissima. Non capii dov’ero finché
il mio sguardo non si posò sull’uomo che avevo urtato
col braccio. Vedendo la calvizie di Selim ricordai di
colpo tutto quello che era successo la sera prima.
Quando ero arrivata, quasi non riuscivo a reggermi in
piedi. Tra le lacrime avevo cominciato a parlare a ruota
libera, avevo raccontato cose sicuramente imbarazzanti,
cose che da sobria non avrei mai raccontato. Feci uno
sbadiglio talmente ampio che per poco non mi slogai la
mandibola, poi mi coricai di nuovo accanto a Selim.
Non potevo riaddormentarmi! Era sabato, giorno di
riposo, ma per me non faceva alcuna differenza, avevo
degli impegni da rispettare. Dovevo trovare un

182
assassino. E dovevo incontrare un amico. Che ore
erano?
Mi appoggiai su un gomito per guardare la sveglia
alla testa del letto. Il materasso ricominciò a ondeggiare.
Le otto e trentaquattro. Svegliarsi così presto il sabato
mattina non era certo piacevole. Sbadigliai ancora a
bocca spalancata, per di più senza mettere la mano
davanti. Dovevo alzarmi e preparare la colazione per
entrambi? O era meglio fare la doccia? No, non sarebbe
servita a niente. Quando bevo troppo, poi sto da cani.
Davvero da cani.
Con uno sforzo riuscii ad alzarmi. Selim continuò a
dormire profondamente. Andai in cucina, misi un po’
d’acqua in un bicchiere e aggiunsi una di quelle
pastiglie effervescenti che si prendono dopo una
sbronza. Aveva un sapore disgustoso. Mi sedetti su una
sedia e aspettai che l’acqua sul fuoco bollisse. Quando
finalmente bollì, mi accorsi che in casa mancava il caffè.
Forse era un segno divino. Qualcuno stava cercando di
dirmi: «Anche se hai assolutamente bisogno di un caffè,
non dimenticare la cellulite». O almeno questa fu la mia
impressione. Poteva anche essere un invito a chiamare il
bottegaio per farsi portare quello che mancava. O
magari dovevo preparare il tè anziché il caffè.
Mi spostai in bagno. La mia intenzione era quella di
fare la doccia, ma non ero sicura di potermi reggere in
piedi per tutto il tempo necessario. Decisi di riempire la
vasca da bagno. Sulla mensola trovai un flacone di
bagnoschiuma al lampone. Strano che il mio Selim
usasse una cosa dal profumo così dolce, no? Di solito

183
gli uomini preferiscono gli odori pungenti, talmente
forti da bruciare il naso. Versai una bella dose di
bagnoschiuma nell’acqua, poi mi sedetti sul coperchio
del water e aspettai che la vasca si riempisse.
Continuavo a sbadigliare. Mi sentivo uno straccio.
All’improvviso scoppiai in lacrime, come se mi fossi
schiacciata un dito chiudendo la finestra. Cercai di
rannicchiarmi sul water, ma caddi e mi feci male a una
gamba. Cominciai a piangere ancora più forte. Soffrivo,
piangevo e singhiozzavo, rotolandomi sul pavimento.
Selim non poteva sentirmi dalla camera da letto, quindi
ero libera di sfogarmi.
In realtà, se non si vogliono rughe precoci bisogna
evitare di piangere, ridere e fare smorfie. Quando me ne
ricordai avevo già versato quasi tutte le mie lacrime. In
ogni caso, a volte non se ne può proprio fare a meno. È
necessario sia piangere che ridere.
Uscita dal bagno, chiamai mia madre. «Sto
diventando vecchia» dissi. «Dormi abbastanza?» chiese
lei. «Forse no, ma non soffro di insonnia» risposi.
«Mangi le verdure?». Beh, mi cibavo più che altro di
toast al formaggio. Ma a ogni morte di papa buttavo giù
un po’ di gombo. «Ogni tanto» mentii. «Fai sport?»
domandò lei. «No» ammisi. «Allora ci credo che stai
invecchiando!». Le mamme sono davvero terribili.
Sinceramente sono contenta di non far parte della
categoria. Una madre non è capace di rassicurarti
dicendo: «Sei ancora così giovane, non hai motivo di
preoccuparti». No, una madre ti tempesta di domande e
poi se ne esce con qualche stupido commento.

184
«Presto entrerai in menopausa. Allora sì che capirai
cosa significa invecchiare» continuò lei. Vi pare
possibile che una madre si comporti come una nemica?
«Mamma, non si entra in menopausa a questa età!».
«Nella nostra famiglia sì. Sono sicura che presto
succederà anche a te».
«Come vanno i tuoi reumatismi?». Volevo cambiare
argomento e per fortuna ci riuscii. Nel successivo quarto
d’ora l’ascoltai mentre mi parlava dei suoi reumatismi e
mi raccontava che la signora Hellersdorf, la sua
migliore amica nella casa di riposo per tedeschi a
Maiorca, era caduta dal letto e si era rotta un braccio.
Alla fine, quando cominciò a dire che il tempo era
splendido, le promisi che a ottobre sarei andata a
trovarla. Se non l’avessi fatto, avrebbe potuto decidere
di venire da me a Istanbul. Mia madre odia questa città.
Per lei è inconcepibile che una persona – sua figlia, per
esempio – possa vivere qui per scelta e non per
necessità. I vicoli sono troppo affollati, le strade troppo
strette e la gente troppo calorosa. Mia madre non è il
tipo che entra subito in confidenza con una persona
appena conosciuta. Se fosse venuta a Istanbul, si
sarebbe lamentata senza sosta degli uomini turchi che
sputavano per terra, delle persone che buttavano i loro
rifiuti ovunque e dei troppi cani randagi. Avrebbe reso
la mia vita un inferno.

Non volevo mettere la gonna e la camicetta che


avevo indossato il giorno precedente da mattina a sera,
quindi tornai in camera per vedere cosa avevo lasciato

185
da Selim. L’insensibile stava ancora dormendo. Quando
chiusi l’anta dell’armadio, forse un po’ troppo forte, si
rigirò nel letto. Un attimo dopo, mentre strattonavo il
cassetto del comodino, mi accorsi che era sveglio. Mi
sedetti al suo fianco a gambe incrociate. Lui mi
accarezzò i capelli.
«È un bel colore» disse.
«Ieri sera ero davvero ubriaca».
«Sì, lo so».
«Che cosa ti ho raccontato?».
«Hai parlato di un certo Osman e di un altro di nome
İsmet. Se non ho capito male, uno dei due è stato ucciso.
Stai leggendo un giallo turco?».
Che tesoro! Nascosi il viso tra il suo collo e la spalla.
Era uno spazio perfetto, sembrava fatto apposta. Gli
misi una mano sul sedere.
«Allora, come te la sei cavata?».
«Ho mentito a tutti. Ho detto che eri in vacanza, ma
avevo una paura terribile che qualcuno ti incontrasse per
strada».
«Cos’hai fatto?».
«Ho guardato la televisione. E ho letto uno dei libri
che hai lasciato qui».
Il mio caro Selim, che non leggeva mai un libro e se
ne vantava, aveva preso in mano uno dei miei romanzi e
l’aveva letto?
«Quale?».
«Magic Hoffmann di Arjouni. Se non l’hai ancora
letto, devi assolutamente rimediare. Cos’hai fatto tu in
questo periodo?».

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«Te lo racconto più tardi. Sai che ho appuntamento
con Yılmaz. Non posso mancare, la settimana scorsa
non ci siamo visti».
«Quindi mi lasci solo?».
Gli posai un bacio sul lobo dell’orecchio.
«Lale ha trovato un lavoro. In un’agenzia
pubblicitaria».
«Ci vediamo stasera?».
«Ti chiamo. Ho il cellulare acceso. Se vuoi, puoi
chiamare tu. Adesso Pelin sta da me».

Presi un taxi e mi feci portare a Mecidiyeköy, dove


avevo lasciato l’auto la sera prima. Tornata a Cihangir,
parcheggiai proprio davanti a casa. Nel weekend è più
facile trovare un buco per la macchina, almeno di giorno.
Avrei voluto cantare a squarciagola, ballare la salsa con
l’aiutante del bottegaio, improvvisare una danza del
ventre (se solo ne fossi stata capace!). Oppure suonare
un bel tamburo. Ta ta taratatà.
Schiacciai il pulsante del citofono e Pelin si sporse
dalla finestra fin quasi ai fianchi.
«Hai dimenticato le chiavi?» gridò.
«No, ho appuntamento con Yılmaz a Firuzağa. Vuoi
venire anche tu?».
La mia aiutante fece una smorfia. Non sopportava
Yılmaz, ma era troppo gentile per dirmelo in faccia.
«Non posso, ho un po’ da fare».

Dopo aver salutato Yılmaz, che voleva andare a


vedere un nuovo film, chiamai Batuhan.

187
«Abbiamo trovato lo zio» mi informò. «È tornato al
suo paese. Con tutti i soldi che aveva in tasca, non è
riuscito a trovare niente di meglio che scappare al paese.
Lo stanno riportando a Istanbul. Il caso è praticamente
chiuso».
«Complimenti! Si vede che è il nostro giorno
fortunato». Come le sventure, anche le fortune non
arrivano quasi mai da sole.
«Dobbiamo festeggiare».
«Aspetta a cantare vittoria. Non può essere così
facile».
«Credimi, nella vita reale le cose non sono
complicate come nei tuoi libri. Lavorare nella squadra
omicidi non è poi così emozionante».
«Forse hai ragione, ma mi aspettavo qualcosa di
meglio. Avete scoperto chi ha ucciso la vecchia?».
«Credi che ci sia un collegamento tra i due delitti?».
«Puoi venire a Kuledibi? Ti devo mostrare una cosa».
Non volevo che mi accusassero di aver nascosto
informazioni importanti. So bene quali sono i miei
doveri di cittadina. Tra l’altro, ero decisamente di
buonumore.
«No, non posso. Ti ho detto che stanno portando qui
lo zio. Hanno già lasciato Van. Possiamo vederci
domani a mezzogiorno, nel solito giardino da tè».
«Okay». Un po’ controvoglia, tornai a casa.

«Secondo lo zio si tratta di una vendetta di sangue.


Dice che è in corso una faida e che sono stati quelli
dell’altra famiglia a uccidere Osman».

188
Batuhan e io eravamo seduti nel giardino da tè di
Kuledibi. Era domenica e secondo gli standard turchi
faceva troppo freddo per stare all’aperto.
«Non ti sembra strano che i fratelli non abbiano
parlato di questa faida?».
«Certo. Perché non informare la polizia che c’è
qualcuno che li vuole far fuori? Comunque pare che
negli ultimi trent’anni non sia stato ucciso nessuno, né
da una parte né dall’altra. Avranno pensato che la faida
fosse finita».
«Queste cose possono finire?».
«Sì, si può fare la pace».
«In effetti, dopo tanto tempo era logico pensare che
fosse finita. Non conosco le loro usanze, ma… Mio
padre ha fatto una perizia sulla vendetta di sangue tra gli
immigrati turchi in Germania. L’ho letta».
«Tuo padre?».
«Era un esperto di diritto penale. Scriveva perizie per
i processi in cui erano coinvolti cittadini turchi. Avendo
vissuto per tanti anni in Turchia, conosceva anche la
lingua».
Batuhan mi guardò stupito e dondolò leggermente la
testa.
«Nella perizia che ho letto si diceva che in Turchia
vengono concesse delle attenuanti per i delitti di questo
tipo. Se uccidi qualcuno per una vendetta di sangue, ti
riducono la pena. È assurdo».
«E qual era il parere di tuo padre?».
«Secondo lui bisognava concedere le attenuanti
anche in Germania».

189
Il commissario si portò una mano davanti alla bocca e
scoppiò a ridere.
«Quindi, se adesso vado in Germania e uccido
qualcuno per una vendetta di sangue, mi danno una
pena più lieve?».
«Non so come funziona adesso, ma quel processo,
quello per cui mio padre ha fatto la perizia, si è concluso
con una riduzione della pena».
«Spesso sono i figli minori a uccidere, proprio perché
possono contare su pene più lievi».
«Ma come comincia? Come parte una vendetta di
sangue?».
«Con un affronto. Magari nel delimitare un terreno.
Uno occupa un pezzo di terra che non gli appartiene e il
proprietario lo uccide. Poi i parenti del morto uccidono
qualcuno della famiglia dell’assassino e così via».
«E la faida finisce quando non c’è più nessuno da
uccidere».
«C’è sempre qualcuno da uccidere. Si nascondono i
bambini o ci si trasferisce in città per salvare la pelle. La
famiglia che sa di dover perdere qualcuno scappa e gli
altri la inseguono».
«In questo caso toccava alla famiglia di Osman
perdere qualcuno, giusto?».
«Sì, per questo si sono trasferiti a Istanbul».
«Ma una parte della famiglia è rimasta a Van, no?».
«Se ne sono andati quasi tutti. Due o tre stanno a
Adana. Qualcuno, però, vive ancora a Van».
«Cosa farete adesso?».
«Li interrogheremo tutti. Anche i fratelli di Osman».

190
«Non è strano che abbiano usato una rivoltella?».
«Come fai a saperlo? Chi ti ha parlato della
rivoltella?». Socchiuse gli occhi e mi fissò.
«Sei stato tu».
«Davvero? Non me lo ricordo. Comunque non vedo
dov’è il problema».
«Credi che lo zio di Osman o i nemici della famiglia
userebbero una rivoltella?».
Batuhan si tastò la giacca con il palmo della mano in
cerca delle sigarette. Oltre al pacchetto, dalla tasca
interna tirò fuori una fotografia.
«Questo è lo zio» disse, posando la foto sul tavolo e
spingendola verso di me.
Era un uomo con la pelle molto scura, guance
incavate, occhi grandi e baffoni. In pratica
corrispondeva all’idea di turco che ha il tedesco medio.
Restituii la foto a Batuhan.
«Anch’io mi sono chiesto se persone così userebbero
una rivoltella».
Mi guardò di nuovo con gli occhi socchiusi.
«Sei un’esperta di armi?».
«No, tutt’altro. Però so cos’è una rivoltella. È
un’arma molto costosa, un oggetto per appassionati. Ed
è piuttosto difficile trovare le munizioni giuste. Un
poveraccio non può permettersi una pistola del genere».
«Hai ragione. Quindi?».
«La vecchia».
«Vuoi dire la donna che è stata accoltellata?».
«I due delitti sono sicuramente collegati. Pare che la
vecchia passasse gran parte del suo tempo seduta vicino

191
alla finestra a guardar fuori. Se Osman è stato ucciso
quando non era ancora buio, tra le sette e mezza e le otto,
è molto probabile che la signora abbia visto l’assassino.
Ed è anche probabile che l’assassino si sia accorto di lei
uscendo dall’edificio e abbia deciso di farla fuori alla
prima occasione. La signora era una testimone».
Batuhan giocherellò per un attimo con l’accendino,
riflettendo sulle mie parole.
«Certo che hai una bella fantasia!».
Dovetti fare uno sforzo per non ricoprirlo di insulti.
Che razza di poliziotto è uno che si rifiuta di seguire
nuove piste solo per chiudere il caso il prima possibile?
«Se vuoi te lo dimostro. La vecchia si sedeva sempre
nello stesso punto, su una panca proprio davanti alla
finestra. Da lì si vedono bene i gradini d’ingresso. Per
questo dico che può aver visto l’assassino».
«Okay, ammettiamo che abbia visto qualcuno. Non
poteva sapere che si trattava di un assassino. Il
colpevole, o la colpevole, non ce l’aveva scritto in
fronte».
«La colpevole?». All’improvviso capii che in effetti
non potevo fissarmi sull’idea che fosse stato un uomo.
«Credi che l’assassino sia una donna?».
«È una possibilità. Anche le donne uccidono, lo sai.
Nei libri i colpevoli sono sempre uomini?».
Era chiaro che non aveva parlato tanto per parlare.
Era davvero convinto che dietro l’omicidio potesse
esserci una donna.

Dopo aver parlato per telefono con qualcuno, mi

192
disse che doveva scappare. Dovetti riflettere a lungo
prima di decidere cosa fare.
La domenica non è consigliabile girare per la città in
auto. In realtà la cosa migliore qui a Istanbul sarebbe
non usare mai la macchina per spostarsi da un luogo
all’altro, a meno che non sia proprio necessario.
A piedi raggiunsi la strada dove, a breve distanza
l’uno dall’altro, erano stati commessi due delitti. Di
domenica Kuledibi si trasforma in modo incredibile.
Come tutti i quartieri non residenziali sprofonda nel
silenzio più totale. Se solo fosse sempre domenica!
La porta d’ingresso del palazzo che ospitava l’ufficio
di Osman era spalancata. Mi fermai davanti al
laboratorio di Yücel e dopo una breve esitazione suonai
il campanello. Nessuna risposta. Salii al piano di sopra.
La spessa porta di legno era chiusa con un sigillo
rosso da cui penzolava un biglietto giallo. Non mi
azzardai a toccarlo. DNA, impronte digitali… Di questi
tempi non si sa mai cosa può succedere. Mi sedetti sulla
scala e chiamai Selim.
«Che cosa succederebbe se rompessi un sigillo della
polizia per entrare in un appartamento?».
«Ma sei impazzita? Dove sei?».
«Qual è la pena per chi rompe un sigillo?».
«Kati!». Sembrava un padre che sgrida la figlia.
«Tranquillo, non ho intenzione di farlo. Voglio solo
sapere che cosa si rischia».
«Qual è la pena per chi rompe un sigillo della
polizia?» lo sentii chiedere a qualcun altro. «Sono un
esperto di diritto commerciale, tesoro, te lo sei scordata?

193
Come faccio a sapere qual è la pena per una cosa del
genere? Un attimo. No, non ha precedenti. Ho capito.
Beh, non è molto».
«Allora?».
«La pena non è molto alta. Da uno a tre mesi, che
naturalmente vengono commutati in multa. Sette
milioni al giorno. Puoi fare quello che vuoi con quel
sigillo, tanto ti ho già trovato un avvocato. È seduto qui
vicino a me».
Ovviamente mi stava prendendo in giro.
«Dove sei?» domandai.
«Al lavoro. Domani ho due trattative importanti,
devo prepararmi. Ma stasera potremmo uscire insieme.
Se ti va, puoi raggiungermi in ufficio». Ci
comportavamo come se non fosse successo niente. Le
persone interagiscono seguendo dei modelli. Finché non
succede qualcosa di molto grave, questi modelli non
cambiano. O almeno credo che sia così.
«Va bene, ti richiamo più tardi. Ora sono a Kuledibi».
«Promettimi che non toccherai quel sigillo. Non
dicevo sul serio un attimo fa».
«Non lo toccherò, promesso. Sarebbe inutile, la porta
è senz’altro chiusa a chiave».
Ci sono persone capaci di far scattare una serratura
con una forcina per capelli o cose simili. Non solo nei
film, anche nella realtà. Avrei tanto voluto essere una di
loro. Se fossi stata in grado di aprire la porta, non mi
sarei certo preoccupata dei sette milioni al giorno.
Se solo fossi riuscita a dare un’occhiata
nell’appartamento! Di sicuro avrei avuto

194
un’illuminazione su chi poteva essere l’assassino.
Mi sedetti di nuovo sui gradini di marmo, accesi una
sigaretta e aspettai. Come i poeti che aspettano il bacio
della loro musa, anch’io, con una mano sotto il mento,
aspettavo l’ispirazione. Speravo che aspettando in un
luogo nuovo, e precisamente davanti a un appartamento
cui mi sentivo legata, sarebbe successo qualcosa.
In effetti l’ispirazione arrivò. Non mi servì a
identificare l’assassino, ma mi aiutò a comporre questa
poesia:

Una pistola da roulette russa,


un proiettile calibro 9,
nella gamba l’arteria
si strappa e si squarcia,
si squarcia e si strappa.
Strisci fino alla porta,
lunga
lunga
la scia di sangue.
Il grido risuona acuto,
nessuno corre in tuo aiuto.

Gettai il mozzicone di sigaretta solo dopo aver


lasciato l’edificio. La prudenza non è mai troppa.

Avevo parcheggiato la macchina in strada vicino a


Neve Shalom. Come potete immaginare, la domenica
non ci sono problemi di parcheggio a Kuledibi. Mi
diressi verso la grande sinagoga, giocherellando con le

195
chiavi. Dovevo parlare con i familiari dell’anziana
uccisa. Avevo la sensazione che mi sarebbe servito, o
meglio, ci speravo. Però non volevo intromettermi di
nuovo nella loro vita senza un valido motivo. Se solo
fossi stata un commissario! Avrei potuto interrogare
chiunque. Purtroppo non avevo né agenti da
sguinzagliare nel quartiere, né laboratori da cui ricevere
rapporti dettagliati, né testimoni a cui fare domande. Ero
bloccata.
Imprecando sottovoce avviai il motore.
Le cose si stavano mettendo male.
In tutti i sensi.
Osman era stato ucciso dallo zio.
O per una vendetta di sangue.
L’omicidio della vecchia non c’entrava niente.
Non riuscivo a crederci.
Ma era così.
Forse.
Comunque non erano fatti miei.
Non ero un commissario.
Non ero un bel niente.
No, non era il caso di buttarsi giù così.
Ero una libraia specializzata in gialli.
Dovevo occuparmi delle mie cose.
L’appartamento, per esempio. A che punto era l’iter?

Spensi il motore e telefonai a Kasım Arslan.


«Ha fatto bene a chiamare. Ho buone notizie. La cosa
è stata discussa venerdì e il giudice ha spezzato la
matita».

196
«Ha spezzato la matita?». Era un’espressione che si
usava quando il giudice emetteva una condanna a morte.
Ma la pena di morte non era stata abolita? E poi, chi
doveva essere condannato?
«Significa che il procedimento è stato completato. Si
dice così: spezzare la matita».
Avrei voluto dargli una bella lezione di turco, ma mi
trattenni.
«Allora, cos’ha deciso il giudice?».
«Visto che non ci sono eredi, ha deciso di trasferire la
proprietà alla tesoreria. Adesso tocca a me. Farò in
modo di velocizzare le cose, l’appartamento verrà
messo subito in vendita. Si procuri i soldi. Appena
fisseranno la data dell’asta, la informerò. Comunque
può stare tranquilla. C’è solo un piccolo problema. Sa,
un collega…».
Mi stava chiedendo altro denaro. Negli anni ho
imparato a decifrare i messaggi in codice dei turchi.
«Quanto?».
«Cosa?».
«Quanto vuole?».
«Io? Io non voglio niente, il problema è il mio
collega».
«Va bene, quanto vuole questo collega?».
«Non parliamone per telefono. La chiamo più avanti,
così fissiamo un incontro».
«Mi faccia uno squillo, poi la chiamo io». Arslan non
mi piaceva. E non ero sicura che i fratelli di Osman
avrebbero rinunciato così facilmente all’appartamento.
Però non c’era motivo di scoraggiarsi. Almeno una cosa

197
stava andando bene: la mia vita sentimentale.

«Stai scherzando, piccola, vero?». Per fortuna Selim


era l’unico nei paraggi a chiamarmi «piccola».
«Sono serissima» risposi, guardando da un’altra parte.
«Come potrei scherzare su una cosa del genere?».
«Sì, lo so, su certe cose non scherzi. L’ho detto così,
tanto per dire».
Chissà perché quelli che mi stanno intorno devono
dar voce a ogni pensiero che gli passa per la mente.
«Ho pagato un impiegato del catasto di nome Kasım
Arslan per poter comprare un appartamento».
«Non ci credo… Non è possibile che tu abbia
davvero corrotto qualcuno».
«Perché? Tu dai soldi agli impiegati del tribunale. È
la stessa cosa».
«Le mie non sono mazzette, piccola, sono mance.
Come quelle che si danno ai camerieri nei locali
pubblici. Nient’altro che mance».
«Non dire sciocchezze, anche tu corrompi gli
impiegati».
«No, io li pago perché facciano cose che altrimenti
non farebbero. In pratica li pago perché facciano il loro
dovere. Se dessi loro dei soldi per spingerli a fare cose
che non dovrebbero fare, cioè cose illegali, allora si che
sarebbe corruzione».
«Okay, ma io non ho chiesto a quell’impiegato di
fare qualcosa di illegale, gli ho chiesto di aiutarmi nei
limiti della legge, solo per comprare un appartamento
che altrimenti non potrei permettermi. Perché se lo fai tu

198
è una mancia e se lo faccio io è corruzione?».
«Va bene, come vuoi, anche la tua era una mancia.
Cosa dovrei dire? Non me lo sarei mai aspettato da te.
Com’è andata? Hai messo i soldi in una busta?».
«Piantala! Ho fatto esattamente quello che fai tu. E
non ne vado fiera».
Avevo raccontato tutta la storia a Selim perché
volevo che partecipasse per me all’asta o trovasse
qualcuno disposto a farlo. Se non fosse stato per questo,
probabilmente avrei evitato di fargli sapere che ero
capace di tutto.
«Va bene, troverò un avvocato che vada al posto
tuo».
Sdraiato sul divano, fece scrocchiare le dita dei piedi.
Mi sedetti al suo fianco, gli posai una mano sulla
pancia e la accarezzai. «Sei unico» dissi. Ne ero davvero
convinta.

I primi due giorni della settimana seguente fui così


impegnata da non avere neanche un attimo di respiro.
Pagai gli arretrati della tassa sui rifiuti per non dover più
sentire gli strilli del padrone di casa, parlai con il
commercialista, aggiornai almeno in parte la contabilità
del negozio e già che c’ero tentai di mettere pace tra
Pelin e il suo ragazzo. Quest’ultima cosa non mi riuscì a
causa della cocciutaggine della mia aiutante, ma tutto il
resto filò liscio come l’olio.
Mercoledì, mentre fuori pioveva a dirotto e dentro
fioccavano rimproveri da parte di Pelin per la mia
insensibilità, arrivò Batuhan. Avevo cancellato Osman,

199
lo zio e la vendetta di sangue dalla mia mente, ma nel
momento in cui mi trovai davanti il commissario mi resi
conto che erano passati alcuni giorni dall’ultima volta
che avevo chiamato İnci. Oltre a non prendere sul serio
la mia attività di investigatrice, dimenticavo anche di
coltivare le nuove amicizie.
Pelin stava così male che approfittò della comparsa di
Batuhan per schizzare via e uscire nonostante la pioggia.
Sapevo che cosa pensava: era convinta che volessi
mettere pace tra lei e il fidanzato per riavere
l’appartamento tutto per me. Naturalmente si sbagliava.
Il fatto è che so quanto sia difficile trovare un compagno
decente. Come dico sempre, mai mollare il proprio
uomo prima di averne trovato uno migliore. Se i giovani
seguissero i miei consigli, le cose andrebbero molto
meglio. Purtroppo nessuno mi dà retta.
«Disturbo?» chiese Batuhan.
«Ma no, figurati!».
«Beh, ho visto che la ragazza è scappata via appena
sono entrato».
I turchi sono fatti così, credono che il mondo ruoti
intorno a loro. A volte è davvero stancante. Con i
tedeschi è tutto molto più facile.
«Tu non c’entri, voleva già andare via» spiegai.
«Allora, la pista della vendetta di sangue?».
«Finora non è emerso niente. Nell’ufficio di Osman
abbiamo trovato una ventina di impronte diverse, ma
neanche una appartenente allo zio. In effetti lui sostiene
di non aver mai messo piede in quel posto. Forse è la
verità. Ha ancora i vestiti che indossava quando è

200
scappato con i soldi, ce l’ha confermato la moglie. Sono
piuttosto sporchi, ma non abbiamo trovato tracce di
polvere da sparo».
«E sulle mani?».
«Sulle mani?».
«Con cosa si spara secondo te?».
«Sono passate due settimane dall’omicidio. Credi che
dopo tanto tempo si possano ancora trovare tracce di
polvere da sparo su una mano?».
«Non è possibile?».
«No».
«Che mi dici della famiglia che si vuole vendicare?».
«Abbiamo preso le impronte a tutti quelli che siamo
riusciti a trovare, ma non c’è nessuna corrispondenza
con quelle rilevate nell’ufficio».
«Hai riflettuto sulla possibilità che ci sia un
collegamento tra l’omicidio di Osman e quello della
vecchia?».
«Sinceramente non so più cosa pensare, tesoro.
Vengo proprio dall’appartamento dove è stata uccisa la
vecchia. Forse hai ragione. Mi sono seduto al posto
della signora, sulla panca di legno vicino alla finestra, e
devo dire che, in effetti, da lì si può vedere chi entra ed
esce dall’edificio. Ho chiesto a un agente di mettersi
davanti all’ingresso mentre ero seduto sulla panca. L’ho
visto chiaramente. Dal posto della signora è possibile
distinguere chi sta sui gradini d’ingresso, anche perché
la distanza non è molta. Ho parlato con il medico legale
riguardo all’ora del delitto. Pare che il nostro uomo sia
stato ucciso tra le sette e mezza e le nove e mezza. Più

201
verso le sette e mezza, secondo il medico. Considerando
a che ora è tramontato il sole il ventinove agosto, è
molto probabile che la donna avrebbe visto l’assassino
anche se fosse uscito dall’edificio alle otto.
Naturalmente ci stiamo basando sull’ipotesi che
l’assassino abbia lasciato l’edificio quando era ancora
chiaro. Col buio la donna non avrebbe potuto vederlo».
«È fantastico!» esclamai. «Sembra proprio che la mia
ipotesi ti abbia convinto».
«Per forza, la storia dello zio e quella della vendetta
di sangue non hanno portato a niente».
«Ora devi trovare qualcun altro su cui concentrare i
sospetti» osservai, ridendo. «Ma prima di tutto devi
scoprire se la vecchia ci vedeva bene».
«Esatto! È un punto molto importante. Stando a
quello che dice il nipote, da vicino non vedeva tanto
bene. Il ragazzo è un tipo sveglio, uno studente. Sua
nonna aveva gli occhiali, ma per vedere da lontano non
le servivano. Ora li ho io, voglio far misurare le lenti. Se
quello che ha detto il nipote è vero, la signora può
senz’altro aver visto l’assassino mentre usciva dal
palazzo. In questo caso dovremo capire chi ha visto. Chi
poteva insospettirla? Di sicuro non uno dei fratelli di
Osman, loro passavano di lì tutti i giorni, a qualunque
ora. Nell’edificio sono in corso dei lavori. Uno dei tuoi
cari intellettuali ha comprato l’appartamento all’ultimo
piano e lo sta ristrutturando. Ci sono persone che
entrano ed escono continuamente: l’architetto,
l’intellettuale, gli operai… Chiunque lavori lì o le abbia
dato l’impressione di lavorare lì non avrebbe suscitato

202
alcun sospetto nella signora. Probabilmente l’assassino
è qualcuno che lei conosceva e che non si aspettava di
vedere in quella strada. Dobbiamo tener presente che si
era trasferita a Istanbul da poco, non conosceva
praticamente nessuno, solo quelli della sua famiglia e i
vicini. Farò prendere le impronte a tutti, sperando che ci
serva a qualcosa. Se non troveremo corrispondenze tra
le loro impronte e quelle nell’ufficio di Osman, dovrò
spremermi ancora le meningi».
«Ma l’assassino come si è accorto che la donna
l’aveva visto? E perché si è spaventato? Forse lei l’ha
chiamato dalla finestra? Ha incrociato il suo sguardo?
Gli ha detto qualcosa?».
«Ho fatto sedere uno dei nostri agenti al posto della
vecchia e mi sono messo sui gradini. Lei poteva vedere
chiaramente l’assassino, ma l’assassino non poteva
vederla bene attraverso la finestra dello scantinato.
Credo che la donna abbia aperto la finestra e gli abbia
gridato qualcosa. Potrebbe esserci un testimone,
qualcuno che l’ha vista parlare con l’assassino».
«Beh, se qualcun altro del quartiere verrà ucciso,
sapremo che c’era davvero un testimone oculare».
Batuhan mi fulminò con lo sguardo.
«In questo momento i miei uomini stanno girando
per case e negozi chiedendo a tutti se il ventinove
agosto dopo le sette di sera hanno visto la vecchia
parlare con qualcuno».
«Dovrebbero chiedere anche se quel giorno qualcuno
ha sentito uno sparo».
«Questa domanda l’abbiamo già fatta. Nessuno ha

203
sentito niente. È un quartiere rumoroso, può darsi che
nessuno ci abbia fatto caso». In effetti era più che
probabile che nella confusione di Istanbul nessuno
facesse caso a uno sparo.
«Il colpevole dev’essere una vera celebrità, altrimenti
la vecchia non l’avrebbe riconosciuto».
«Una celebrità?» ripeté lui.
«Sì, un attore, un cantante, qualcuno del mondo dello
spettacolo».
«Non credo che tra le conoscenze di Osman ci
fossero tanti vip» replicò Batuhan, corrugando le labbra
e guardandomi come se volesse farmi capire quant’era
spiritoso.
«Perché devi sminuirlo così? Chiunque può avere
conoscenze importanti».
«Non un gestore di parcheggi».
«Ma Osman era un uomo fuori dal comune. Quanti
sono i poveracci che si trasferiscono a Istanbul e in dieci,
quindici anni riescono a mettere insieme diversi
parcheggi, un ristorante, un caffè e una società di
autobus?».
«Wow, sai un bel po’ di cose sulla vittima. Cos’altro
hai scoperto? Ti hanno detto che aveva trasformato la
cantina del suo caffè in una bisca e che gestiva un
traffico di ragazze? Ti hanno detto che quelli di Futuro
radioso gli avevano offerto un posto in lista per le
prossime elezioni?».
«Futuro radioso?». Mi era entrato del fumo di
sigaretta in un occhio. Per evitare sbavature di mascara
non potei far altro che sbattere la palpebra un paio di

204
volte.
«Sì, volevano candidarlo. Per la gente di Van. Sai,
Osman era piuttosto conosciuto nella sua zona. Mettere
in lista qualcuno che la gente conosce e apprezza è un
buon modo per prendere un sacco di voti. All’inizio lui
ha mostrato un certo interesse, poi però ha cominciato a
preoccuparsi. Aveva paura che venisse fuori il suo
passato».
«Con tutti i delinquenti che abbiamo in parlamento,
lui sarebbe sembrato un angioletto. Una bisca e un giro
di ragazze. Cosa vuoi che siano di questi tempi?».
«Non dimenticare l’incendio doloso di un palazzo
d’epoca per far posto a un parcheggio e la detenzione
abusiva di un’arma. Se scavassimo un po’ più a fondo,
sicuramente troveremmo qualcos’altro».
Si accese una sigaretta. «Mi devi ancora un pranzo»
osservò, come se gli fosse appena venuto in mente.
«Davvero? Beh, in ogni caso, finché non torna Pelin
non posso muovermi da qui. E poi, con quest’acqua…
Se vuoi mi faccio portare un paio di toast».
Non avevo voglia di andare al ristorante di pesce di
Karaköy.
«Okay, io prendo due toast con formaggio e salsiccia.
Da bere un ayran».1
Mentre mangiavamo, il mio cellulare emise uno
squillo. Solo uno, poi tornò silenzioso. Anche senza
guardare il display capii che si trattava di Kasım Arslan.
Parlare con un impiegato statale corrotto in presenza di

1
Bevanda tipica turca a base di yogurt, acqua e sale.

205
un commissario di polizia non mi sembrava una buona
idea, quindi decisi di aspettare che Batuhan se ne
andasse.

«Come mai non ha chiamato subito?» domandò


Kasım. Gli uomini turchi sono fatti così. Se li tratti con
gentilezza, poi pensano che tu gli debba rendere conto
di qualunque cosa.
«Avevo da fare» risposi in tono seccato. Non devo
mica trasformarli tutti in uomini perbene, mi basterebbe
riuscirci con Selim.
«C’è un problema con l’appartamento che le
interessa. Ci siamo andati oggi per fare una stima e
abbiamo scoperto che è stato occupato e trasformato in
ufficio. Due settimane fa proprio lì è stato ucciso un
uomo. La polizia ha sigillato la porta, quindi non siamo
potuti entrare. Farò rimuovere il sigillo, ma mi
sembrava giusto informarla. Magari non le va di
comprare un appartamento in cui hanno ammazzato
qualcuno».
«Per me non fa nessuna differenza». Non sono un
tipo particolarmente sensibile, chi mi conosce lo sa bene.
«Quando verrà fissata la data dell’asta?».
«Una volta stimato l’appartamento, farò in modo che
venga messo subito in vendita. Se oggi fossimo riusciti
a entrare, probabilmente sarebbe andato all’asta già la
prossima settimana. Comunque non si preoccupi, ci
penserò io».
«E riguardo al suo collega? Sa, quello di cui mi ha
parlato l’ultima volta». Volevo semplicemente sapere

206
quanti soldi avrei dovuto ancora sborsare.
«Ci penseremo più avanti. Per il momento
occupiamoci del resto. Una cosa, però, gliela dico subito,
così si può organizzare: per partecipare all’asta deve
avere a disposizione una somma pari al venti per cento
del valore dell’immobile. La cosa migliore è rivolgersi a
una banca. Apre un conto, ci mette i suoi soldi in dollari
e chiede un fido. Così ci guadagna due volte, non solo
per gli interessi, ma anche per il dollaro in ascesa».
Quelli per Kasım non erano certo soldi sprecati.
«Quanto sarà il venti per cento?».
«Cercheremo di evitare cifre troppo alte. Poi ci
metteremo d’accordo tra di noi».
«Una mano lava l’altra, eh?».
«Cosa?».
Non ero sicura che in turco esistesse un proverbio del
genere.
«No, niente».

Pelin non solo era scomparsa, ma aveva anche spento


il cellulare. Dovevo resistere in negozio fino a sera.
Cominciai a leggere un libro, ma dopo tre pagine mi
stavo già annoiando. Preparai il tè verde e lo lasciai da
parte. Non riuscivo a fumare le sigarette fino in fondo
ed ero sgarbata con i clienti. Mi sembrava di aver
lasciato un lavoro a metà o di aver dimenticato qualcosa
che invece avrei dovuto fare. Una sensazione terribile.
Era come se avessi dimenticato di chiedere qualcosa
a qualcuno, come se avessi sorvolato su una risposta o
avessi trascurato un indizio.

207
Il colpevole poteva essere un vicino, come sosteneva
Batuhan. Ma poteva anche essere una persona
importante, come dicevo io. Una persona talmente
famosa da essere riconoscibile anche per una donna
anziana. Il mio pensiero andò a İsmet Akkan; all’origine
delle mie riflessioni c’era proprio lui. Aveva detto che la
sera del delitto si trovava in un villaggio vacanze, ma
questo non lo liberava automaticamente da ogni
sospetto.
Ecco il motivo del mio malessere. Chiamai Batuhan.
La polizia doveva interrogare İsmet Akkan e l’ex
calciatore Yalçin Tektas, l’altro amico famoso di
Osman.

Di solito per far luce su un delitto non basta riflettere


con la testa appoggiata a una mano. Per risolvere un
omicidio bisogna andare sul posto e parlare con la gente.
Bisogna indagare sul passato della vittima e sui suoi
progetti per il futuro. Un investigatore ben informato,
cioè un investigatore che sa cosa ha fatto il morto, cosa
ha lasciato e cosa ha tentato di nascondere, è senz’altro
più vicino alla verità. Le vie che conducono
all’omicidio sono lastricate con le azioni della vittima.
Prendiamo per esempio l’ultimo romanzo che ho letto,
in cui un anziano uccide il vicino di casa perché vuole
vendere il suo giardino a un’impresa edile. Il
pover’uomo teme che non riuscirà a sopportare il
rumore e che i lavori di costruzione nel giardino accanto
renderanno i suoi ultimi anni di vita un vero inferno, per
questo arriva a commettere un omicidio. Se nessuno

208
sapesse del contratto con l’impresa edile, il caso
rimarrebbe irrisolto.. Tra l’altro, un movente come
questo è più che comprensibile, soprattutto per me che
vivo a Istanbul. È un miracolo che non abbia ancora
ucciso nessuno. Forse, molto semplicemente, mi manca
il gene dell’assassino.
Nel DNA dei turchi, invece, c’è senza dubbio la
poesia. Dovunque vai, trovi qualcuno che si diletta a
comporre. Anche dietro le persone più normali si
nascondono poeti che non vedono l’ora di essere
scoperti e capiti e che alla prima occasione ti mettono
sotto il naso enormi quaderni pieni di schifezze. Il bello
è che sono tutti orgogliosi delle loro opere. Come se ciò
non bastasse, anche le altre persone, quelle che non
hanno il gene della poesia ma vivono in questo paese di
poeti, dopo un po’ si mettono a comporre. Prendete me.
Non ho forse scritto una poesia mentre sedevo davanti
all’appartamento del defunto Osman? Il fatto che mi
venga naturale assumere una posa da pensatrice e
scrivere qualcosa in versi significa chiaramente che sto
diventando sempre più turca.
Questa trasformazione non riguarda solo la mia
tendenza a scrivere poesie. Per non ferire gli altri, per
non rovinare i rapporti di amicizia, per non mettermi nei
guai, ho imparato a non dire la verità. Se vedo un’amica
che sembra sia stata leccata da una mucca, le faccio i
complimenti per la pettinatura, se ne vedo una con una
pancia che non finisce più, le dico: «Ma no, non sei
grassa!».

209
Restituendo a İnci il quaderno pieno di schifezze che
lei presuntuosamente chiamava «poesie», mentii
dicendo: «Brava, sono bellissime».
Dopo aver telefonato a Batuhan avevo chiuso il
negozio. Ero giunta alla conclusione che senza indagini
sul posto non avrei mai risolto il caso. Per questo mi
trovavo da İnci.
«Ti sono piaciute davvero? Sii sincera» fece lei.
I turchi non sopportano la verità e io, come ho già
detto, sono diventata meno scortese degli altri tedeschi,
o almeno dei berlinesi.
«Davvero, sono molto belle. Le hai fatte leggere a
qualcun altro?».
«No, sei la prima. Ho perso tutte le mie amiche per
colpa di Osman. Non c’è nessun altro che possa leggere
le mie poesie».
«Ma che uomo era? Un tipo insopportabile,
immagino. Se non voleva che vedessi altre persone…».
Avevo cambiato argomento in modo magistrale.
«No, non era insopportabile. Era solo un po’ geloso».
«Un po’?».
«Non mi ha segregato. Potevo uscire quando e come
volevo. Diceva sempre: “Non mi fido di nessuno, ma di
te sì. Sono sicuro che se ti lasciassi qui con un gruppo di
soldati non faresti niente di male”. In fondo aveva
ragione. Sappiamo tutti che le persone possono essere
molto cattive. Guarda che cosa gli hanno fatto. L’hanno
ucciso».
Evidentemente İnci stava cominciando a sentire la
sua mancanza. Al nostro primo incontro avevo avuto

210
un’impressione diversa.
«Può darsi, ma il fatto che non volesse farti leggere
e…».
«Senti, io ho la maturità, lui non aveva neanche la
licenza media. La sua famiglia era troppo povera per
mandarlo a scuola. E dato che non aveva la licenza
media, non poteva prendere la patente. Però sapeva
leggere e scrivere, ovvio. Ha provato comunque a
combinare qualcosa. “Ho frequentato la scuola della
vita” diceva. Ed era vero. Era un uomo saggio…».
«Per questo ha rifiutato di candidarsi per Futuro
radioso? Perché non aveva finito la scuola
dell’obbligo?». Per quanto ne sapevo, per presentarsi
alle elezioni era necessaria almeno la licenza media.
«Doveva candidarsi per Futuro radioso? Davvero?
Non ne avevo idea. Osman non aveva niente a che fare
con quei religiosi. Mi sembra assurdo. Chi ti ha detto
questa cosa?».
«Il proprietario della sala da tè di Kuledibi. Ha
orecchie dappertutto». Un’altra bugia. Terribile. Ma
cos’altro potevo dire? Che il commissario capo era un
mio amico e che era stato lui a parlarmi dell’offerta di
Futuro radioso?
«Osman non mi parlava mai dei suoi affari. Le poche
cose che so le ho scoperte sentendolo parlare al telefono
quand’era qui a casa mia. Comunque era molto diverso
da come te lo immagini. Istruzione e cultura erano
molto importanti per lui. I suoi quattro figli frequentano
scuole private. Voleva far studiare anche Özcan, ma non
c’è riuscito. Suo fratello ha preferito abbandonare gli

211
studi. Osman aveva un grande rispetto per i laureati. Era
un uomo speciale. Persone così si incontrano
raramente». Sì, senza dubbio stava cominciando a
sentire la sua mancanza.
«Cos’hai capito dalle sue telefonate? Di che cosa si
occupava?».
«Ci manteneva tutti col suo lavoro. Gestiva parcheggi,
non faceva niente di illegale. Non violava nessuna legge.
Aveva anche un ristorante dalle parti di Aksaray. A
Laleli. Io non ci sono mai stata. Mi diceva sempre:
“Non è un posto per donne oneste”. Probabilmente ci
fanno la danza del ventre. E poi aveva una società di
autobus. Te l’ha detto anche Özcan, no? Coprono la
tratta Van-Istanbul. Non so quanti autobus avesse
Osman, ma credo che nella società ci fossero anche altre
persone con i loro mezzi. Lavoravano con il suo nome e
poi dividevano gli utili. Però non so come funzionava di
preciso».
«Quindi erano questi i suoi affari? Si occupava di
cose molto diverse tra loro».
«Gli piaceva rischiare. Se voleva fare una cosa, la
faceva. Negli ultimi tempi, per esempio, aveva in mente
di entrare nel settore edilizio. Voleva creare posti di
lavoro per tante persone. Aveva un sacco di parenti,
anche loro nel settore edilizio. Operai, credo. Con
un’impresa di costruzioni avrebbe potuto guadagnare
soldi e dare lavoro ai parenti. Purtroppo non ci è
riuscito».
Non potendo più trattenere le lacrime, scoppiò a
piangere. A questo punto molti idioti di sesso maschile

212
diranno che le donne che piangono e si disperano sono
insopportabili. Io la penso in modo leggermente diverso.
Odio tutti quelli che scoppiano in lacrime in mia
presenza, indipendentemente dal sesso. Mi danno ai
nervi. Non so cosa dire, non so cosa fare per consolarli.
Il pianto di İnci mi mandò nel pallone.
«Dio lo amava e l’ha chiamato a sé. Ormai è fatta».
«Cosa? Che significa “ormai è fatta”?». İnci aveva
smesso di piangere e mi stava guardando con le
sopracciglia inarcate.
Colpa del mio turco, naturalmente. In certe situazioni
mi capita sempre di confondere parole ed espressioni.
«Volevo dire che è morto senza soffrire troppo».
Un’altra frase da insensibile.
İnci era di nuovo in lacrime.
«Senza soffrire? Si è trascinato fino alla porta per
chiedere aiuto. Com’è possibile che non abbia sofferto?
È morto sul pavimento!». Il suo pianto si era ormai
trasformato in un singhiozzare incontrollabile. Andai in
cucina per prendere un bicchiere d’acqua.
Dopo aver dato un’occhiata nel frigorifero, decisi di
tornare in soggiorno con una lattina di birra e due
bicchieri. Anche se era incinta, un po’ di alcol non le
avrebbe certo fatto male.
Mentre beveva la birra, mi chiese se avevo una
sigaretta. Di solito non si può fumare in casa, quindi fui
ben felice di accontentarla e di accendere una sigaretta
anche per me.
«Come farai ad andare avanti finché non sarà risolta
la questione dell’eredità?». Credevo che stesse così

213
male anche per problemi economici.
«Osman aveva aperto un conto a mio nome. Non ci
sono molti soldi, ma mi basteranno per tre o quattro
mesi. E la casa è mia. Özcan ha detto che non vuole
rendermi le cose ancora più difficili, ma non sa che suo
fratello aveva comprato questo appartamento per me.
Ho paura che ci saranno problemi quando lo scoprirà».
«E cosa crede?».
«Che l’appartamento sia affittato».
«Allora lasciaglielo credere».
«E quando mi dirà di prenderne uno più economico
perché qui le spese sono troppo alte?».
«Ti trasferirai. In fondo non c’è niente che ti leghi a
questo quartiere». Non volevo offenderla, tuttavia
percepii una certa irritazione da parte sua.
«Voglio dire che ci sono quartieri più belli dove le
case costano meno. Questo appartamento lo puoi dare in
affitto».
«Tu non capisci». Aveva ancora le lacrime agli occhi.
«Che cosa non capisco?».
«Vengo da una famiglia molto povera. Ho trascorso
tutta la mia infanzia nella miseria. So cosa significa
vivere di stenti, lo so meglio di chiunque altro. Mia
madre usciva di casa tutte le mattine prima che facesse
chiaro e andava al lavoro a piedi perché non poteva
permettersi l’autobus. Anche noi bambini lavoravamo,
ma i soldi non erano mai abbastanza. Non voglio più
vivere così. Ora so cosa vuol dire avere i soldi. Ho una
domestica e una macchina. Mi vesto nelle boutique più
costose. Le persone che un tempo non mi volevano

214
come commessa oggi mi trattano con rispetto e mi
chiamano “signora”. Non voglio tornare nella miseria.
Non voglio più vivere in posti come Bağcılar e
Güngören. E poi devo aiutare i miei. Sai quanto do alla
mia famiglia ogni mese? La metà di quello che prendo».
«Okay, ammettiamo che tu vinca la causa e che tuo
figlio ottenga una parte dell’eredità. Che cosa aveva
Osman? Non possedeva né fabbriche né ville. Gestiva
una società di autobus e dei parcheggi. Doveva lavorare
per guadagnare. Non riuscirai a mantenere questo stile
di vita, neanche con una parte dell’eredità e una certa
somma mensile da parte di Özcan».
«Infatti, è quello che dico anch’io».
«Cosa?».
«L’assassino di Osman ha colpito soprattutto me! Me
e il bambino che porto in grembo! Sono rovinata!».
Ricominciò a singhiozzare. «La mia vita è distrutta!».
Di certo non vi stupirete se vi confesso che, ancora
una volta, non sapevo come comportarmi. Per un po’
rimasi seduta e la guardai senza fare niente. Poi capii
che la birra non sarebbe servita a molto in una
situazione del genere, mi alzai per raggiungere il
mobiletto degli alcolici e cercai una bottiglia di whisky.
Dopo averla trovata, andai in cucina e preparai due
drink. Con ghiaccio.
Quando tornai in soggiorno, İnci sembrava un po’ più
calma. In silenzio bevve un sorso di whisky.
«Credo che il commissario di polizia che si occupa
delle indagini mi consideri un’assassina» disse. «Come
se non bastasse tutto quello che ho passato! Ora devo

215
pure sopportare che mi si accusi dell’omicidio di
Osman».
«Perché credi che sospetti di te?».
«Mi ha preso le impronte. Evidentemente Özcan gli
ha raccontato qualcosa. Ha messo il commissario contro
di me. Sai, quella sera mi ha chiamato. Doveva chiedere
una cosa a Osman e si stava preoccupando perché non
era ancora tornato a casa. Non lo so, probabilmente era
tutta una balla. Non ho idea del perché mi abbia
chiamato, ma non credo che stesse cercando suo fratello.
Osman passava da me almeno quattro sere alla
settimana e non ha mai avvisato nessuno. E nessuno si è
mai preoccupato. Allora perché quella sera si sono
messi in allarme?».
«Forse perché non rispondeva al cellulare». Era
quello che aveva detto Özcan.
«Sì, forse, ma è strano che abbiano provato a
contattarlo. Certo, magari si trattava di una cosa urgente.
Magari è stata solo una coincidenza. Però mi sembra
decisamente strano».
«Mmh…». Ci pensai un attimo. «È un problema il
fatto che Özcan ti abbia chiamato?».
«Beh, così ha capito che non ero a casa».
«Non eri a casa? Quella sera non eri a casa?».
Più copiose di prima, le lacrime le rigarono di nuovo
le guance.
«Puoi stare zitta un momento?» chiese con voce
soffocata.
Cosa rispondereste voi a una domanda del genere?
No, non posso?

216
«Certo» dissi.
«È vero, quella sera non ero a casa».
All’improvviso sentii il bisogno di massaggiarmi la
nuca. Girai la testa da una parte e dall’altra, cercando di
sciogliere i muscoli contratti, ma non servì a molto.
Massaggiare il proprio corpo è un po’ come masturbarsi.
Due cose in cui non sono molto brava. O meglio, due
cose che non mi aiutano molto. Ci provo e ci riprovo,
ma il risultato non è un granché.
«Hai un altro uomo?».
«Non è come pensi» rispose İnci tra un singulto e
l’altro.
«Guarda che non penso proprio niente. Stai calma.
Non credo che tu sia un’assassina. E poi, chi sono io per
poterti giudicare?». In effetti sono sempre stata una
traditrice. Per poco non ho tradito anche Selim.
«Che cosa hai detto alla polizia quando ti hanno
chiesto dov’eri quella sera?».
«Ho detto che stavo guardando la televisione qui a
casa». Era la stessa risposta che aveva dato a me.
«Özcan era presente quando l’hai detto alla polizia?».
«No, però mi ha chiesto la stessa cosa».
«E tu cos’hai risposto?».
«Che ero a casa a guardare la televisione». Stava
piangendo a dirotto.
«İnci!» esclamai con tono autoritario, scrollandola
per una spalla. «Devi stare calma. Cerca di controllarti.
Su, vai a sciacquarti la faccia».
Tirando su col naso, si alzò e andò in bagno.
Mi accesi un’altra sigaretta.

217
Forse dovevo rinunciare a fare la detective e tornare
dai miei amici di ceto medio, educati e sicuri di sé.
«Non sapevo che Özcan mi avesse chiamato quella
sera, non me l’aveva ancora detto. Se l’avessi saputo, mi
sarei inventata qualcos’altro. Quando mi ha chiesto
dov’ero, ho risposto: “A casa”. In fondo poteva anche
essere la verità. Comunque, a quel punto non potevo più
cambiare versione. Gli ho detto: “Probabilmente hai
chiamato mentre ero in bagno, per questo non ho sentito
il telefono”. Non potevo immaginare che avesse provato
fino all’alba».
«Ha provato a chiamarti fino all’alba?».
«Sì, almeno a sentire lui».
«Avresti potuto dire che la sera tardi non rispondi più
a nessuno».
«Non mi è venuto in mente. Mi ha colto alla
sprovvista. Özcan ha fatto finta di niente, ma senza
dubbio ha sentito puzza di bruciato. È stato sicuramente
lui a puntare il dito contro di me. Sennò perché mi
avrebbero preso le impronte?».
«Non ti hanno dato nessuna spiegazione?».
«Mi hanno raccontato che le stanno prendendo a tutti.
Se mi fossi opposta, avrebbero chiesto un’ordinanza del
giudice. “Se collabora, sarà meglio per tutti” hanno
detto. Ci ho pensato un attimo e ho capito che sarei
sembrata ancora più colpevole se mi fossi rifiutata di
collaborare. Non ho avuto scelta. Spero che poi le
cancellino tutte».
«Non è poi così strano che ti abbiano preso le
impronte. Comunque, secondo me puoi dire

218
tranquillamente alla polizia che quella sera non eri a
casa. Non mi sembra un problema. Il tuo amico ti
fornirà un alibi. Alla polizia non interessa se sei stata
con un altro uomo, vogliono solo risolvere il caso».
«E Özcan?».
«Credi che andranno a raccontargli che hai tradito
suo fratello?».
«Non lo so… Se viene fuori?».
«Beh, direi che ora stai correndo un rischio molto più
grave. Preparati qualcosa da dire a Özcan e racconta la
verità alla polizia. Devono poter chiamare il tuo amico,
se necessario».
«Non possono chiamarlo» replicò İnci, mordendosi le
labbra per non scoppiare di nuovo a piangere.
«Perché?».
«Mi ucciderà».
«È sposato?».
Mi guardò inorridita. Santo cielo, di che si stupiva?
Pensava che a quarantaquattro anni non sapessi quale
motivo può spingere una donna a tenere nascosta
l’identità del suo amante? Non serviva un’appassionata
di gialli per capire cosa c’era sotto.
«È stato uno dei miei primi amori. Eravamo
compagni di classe alle elementari. Suo padre faceva
l’insegnante e l’ha mandato all’università. Ha preso una
laurea in ingegneria, l’anno scorso, e ha sposato la figlia
del capo. Ma non la ama. L’ho vista e ti assicuro che è
bruttissima. Però è la figlia del capo. Credo che il padre
sia molto ricco. Se questa cosa venisse fuori, se si
sapesse che abbiamo una storia…».

219
Buttai giù un sorso di whisky che mi bruciò la gola.
«Un attimo» dissi. «Aspetta un attimo!». İnci si zittì e
mi guardò con aria assente. Stava ancora pensando a
quello che mi aveva raccontato. Tamburellai con le dita
sul vetro del tavolino. Tic tic tic tic… La faccenda non
era poi così complicata. Una donna aveva tradito il suo
compagno con un uomo sposato. Succede spesso. Se ci
si incontra di sera, gli uomini possono dire di essere
andati a una cena d’affari, se ci si incontra di giorno,
possono usare la scusa della banca o inventare un
appuntamento di lavoro. Possono dire di aver pagato la
bolletta del telefono. E le donne? Che scusa può
inventare una donna che non ha nessun collegamento
con il mondo esterno? Come può giustificare le sue
uscite serali non avendo alcuna cena di lavoro? Una
donna che non ha motivo di uscire neanche durante il
giorno…
«Come hai fatto a ingannare Osman?».
«Ci siamo sempre incontrati quando ero sicura che
lui non sarebbe venuto».
«Di sera?».
«Solo qualche volta. All’inizio non sapevamo
assolutamente dove vederci. Poi, sei mesi fa, lui ha
parlato con un amico, uno scapolo che ha un
appartamento qui vicino. Questo amico gli ha dato una
stanza a patto di poter dividere l’affitto. Di sera ci
saremo incontrati al massimo sei o sette volte. Lui aveva
sua moglie, io Osman… Era troppo pericoloso. Poi,
però, sua moglie è andata via per un mese. Per fare una
vacanza nella seconda casa di famiglia, credo…».

220
«Come sapevi che quella sera Osman non sarebbe
venuto?».
«L’ho chiamato».
«Osman?».
«Sì, certo, chi sennò?».
«A che ora?».
«Non lo so. Un attimo! Credi che sia stata l’ultima
persona a parlare con lui?».
Annuii. Avrei voluto socchiudere gli occhi e scrutarla,
ma c’era un problema: le rughe. Le famose zampe di
gallina si formano proprio socchiudendo e strizzando gli
occhi. Preferii inarcare le sopracciglia. Una scelta poco
felice, visto che così si corruga la fronte.
«Vuoi sapere che ore erano? Allora, Alp ha chiamato
me e subito dopo io ho chiamato Osman. Non lo vedevo
da una settimana. Alp, intendo. Era andato in vacanza
con la moglie e mi era mancato terribilmente…».
Cercai di non pensare al fatto che era incinta. I piccoli
borghesi provano sempre fastidio per questi particolari
insignificanti.
«Ho un cellulare di cui solo Alp conosce il numero.
Lo lasciavo acceso quando Osman non era in casa. Per
noi era una specie di codice segreto. Se il cellulare era
acceso significava che ero sola. Aspetta un momento».
Di colpo aveva riacquistato energia e vivacità.
Sembrava un’altra persona.
«Il cellulare ha memorizzato l’ora della chiamata.
Credo fossero più o meno le sette. Forse un po’ prima.
Posso prenderlo e controllare. Da quel giorno non l’ho
più usato. Non era più necessario. Adesso uso il

221
telefono normale».
Aspettammo pazientemente che il telefonino si
accendesse. Le dita di İnci si mossero agilmente sui tasti.
Forse un giorno imparerò anch’io a usare il cellulare in
modo così professionale, pensai.
«Era il ventinove agosto. Quel giorno ci siamo parlati
più di una volta, ma la chiamata che ci interessa
dovrebbe essere la penultima. Il telefono memorizza le
ultime dieci». All’improvviso lanciò un urlo che mi fece
trasalire. Non ne potevo quasi più di grida, piagnistei e
chiacchiere.
«Eccola!».
Mi mise il display davanti al naso. Rimasi un po’
interdetta.
«Allora?» chiesi in tono spazientito. «Che ore
erano?».
«Le diciannove e quattordici. Grazie a Dio!». Fece un
respiro profondo. «Significa che ho parlato con Osman
poco prima che venisse ucciso. Dieci, quindici minuti
prima. La polizia mi ha chiesto dov’ero tra le sette e
mezza e le nove e mezza, quindi è probabile che
l’omicidio sia avvenuto proprio alle sette e mezza.
Come ho già detto, Alp ha chiamato me e io, subito
dopo, ho chiamato Osman. Saranno state le sette e un
quarto».
«L’hai chiamato sul cellulare?».
«Sì. Özcan dice che il telefonino di suo fratello era
spento, ma se ho parlato con lui alle sette e un
quarto…».
«Significa che l’ha spento dopo».

222
«Già». Silenzio.
«Gli ho chiesto: “Che facciamo stasera?”. E lui ha
risposto: “Mi dispiace, non posso venire. Sono qui con
uno stimato collega. Dobbiamo parlare di affari”. Usava
sempre il termine “stimato collega” per indicare una
persona importante. Comunque, in quel momento non
era solo». Si fece prendere di nuovo dall’agitazione e mi
posò una mano sul ginocchio. «Credi che sia stato
ucciso dalla persona che era con lui?».
Mi limitai a dondolare la testa. «Concentrati. Ti ha
detto qualcos’altro sull’uomo con cui era?».
«È stata una conversazione brevissima. Se mi avesse
detto altro, di certo me ne ricorderei».
«Se fosse stato con una persona che conosci anche tu,
avrebbe comunque usato il termine “stimato collega”?».
«Che vuoi dire?».
«Se per esempio fosse stato con İsmet Akkan…».
«Credi che sia lui l’assassino?».
Alzai le spalle.
«Non lo so. Forse avrebbe detto “il mio amico İsmet”,
ma non ne sono sicura. Se dovevano parlare in segreto e
non voleva farmi sapere con chi…».
«Però eri sicura che non sarebbe venuto da te. Come
mai?».
«L’ho capito dal suo tono di voce. Sembrava un po’
scombussolato. Quand’era così, totalmente assorbito dal
lavoro, non veniva mai. “Con te mi sento come in
vacanza” diceva sempre. E non era il tipo che si prende
una vacanza quando c’è tanto da fare o ci sono
problemi».

223
«E qual era il settore che gli creava più problemi?».
«Quello edilizio. Da qualche mese viveva con il
cellulare attaccato all’orecchio. A volte parlava al
telefono e poi schizzava via. Di sicuro aveva problemi
finanziari. Una volta non badava a spese. Era un uomo
molto generoso. Mi portava in vacanza all’estero;
l’anno scorso siamo stati a Parigi e a Londra. Potevo
comprare tutto quello che volevo. Ma quest’anno,
all’inizio dell’estate, gli ho chiesto un po’ di soldi per
comprare dei vestiti nuovi e ha fatto storie. Ultimamente
non mi portava neanche più a mangiare fuori».
«Forse aveva un’altra e…». Lasciai la frase a metà.
Anche un uomo infedele non immaginerebbe mai che la
sua compagna lo possa tradire.
«Ci ho pensato anch’io. Ma sono sicura che me ne
sarei accorta se avesse avuto un’altra. E poi, quando non
era qui, era a casa sua. Le sere in cui non veniva da me
chiamavo Özcan per controllare. Lui sapeva sempre
dov’era Osman e cosa stava facendo».
Non ebbi il coraggio di farle notare che Özcan poteva
anche mentire.
«Tra l’altro, il suo interesse nei miei confronti non era
diminuito. No, non aveva un’altra. Aveva problemi
finanziari. Una volta, mentre parlava al telefono, l’ho
sentito dire che era nei guai per la crisi economica.
Addirittura gli dispiaceva di aver comprato un’auto
nuova. Io volevo una jeep, ma ci ho rinunciato. Aveva
già avuto da ridire per un paio di magliette Sisley, non
mi sembrava proprio il caso di chiedere una jeep.
Bisogna usare il buonsenso, no?».

224
«Quando sono cominciati i problemi?».
«All’inizio diceva di non sentire la crisi. E in effetti
era vero. L’anno scorso siamo andati comunque in
Europa. Ma quest’anno…».
«Quando ha deciso di entrare nel settore edile?».
Mentre rifletteva sulla domanda, fece un gesto con
indice e medio per chiedermi un’altra sigaretta.
Le porsi il pacchetto.
«Non ci avevo mai pensato, però hai ragione,
potrebbe esserci un legame tra le difficoltà economiche
di Osman e la decisione di entrare nell’edilizia. Sì, ora
che me lo dici… Probabilmente ci ha investito un sacco
di soldi. In ogni caso non riusciva a mettere da parte
niente. Doveva pensare a tutti i suoi parenti. Sai, i turchi
dell’est sono diversi da noi… Hanno famiglie molto
numerose. Quelli che hanno perso la casa durante la
guerra si sono trasferiti a Istanbul. E sono andati da
Osman a chiedere lavoro. Anche alcuni nemici della
famiglia hanno chiesto aiuto a lui. Quando la gente ha
fame, le faide e le vendette di sangue passano in
secondo piano. Alcuni volevano lasciare il paese, ma
non avevano i soldi per farlo. Te lo immagini? A
Istanbul sono venuti solo i più ricchi. Gli altri si sono
dovuti accontentare di Diyarbakır o Adana. Abitano
vicino alle discariche e per vivere frugano nella
spazzatura. Una cosa inimmaginabile. Per questo
Osman ha deciso di dedicarsi all’edilizia. Per dare
lavoro ai parenti e alle persone del suo paese».
«Hai parlato anche di nemici della famiglia».
«Sì. Anche loro si sono rivolti a Osman per avere

225
lavoro o soldi. Gli hanno chiesto di fare la pace. Lui li
ha aiutati come poteva, dando a ciascuno un po’ di soldi.
Non aveva abbastanza lavoro per tutti. E poi stiamo
parlando di contadini. Persone abituate a coltivare
campi e ad allevare bestiame. Che cosa avrebbero
potuto fare in città? Anche per lavorare in un
parcheggio bisogna saper almeno guidare la macchina».
«Quindi Osman ha investito gran parte dei suoi soldi
nel settore edilizio».
«Credo di sì. Adesso che mi ci fai pensare…».
«Ha comprato un terreno su cui costruire?».
«Ne aveva trovato uno dalle parti di Kasımpaşa, ma
non so se l’ha comprato. Come ti ho già detto, non
parlava di certe cose con me. Ogni tanto, però, lo
sentivo parlare con gli altri. Ha nominato Kasımpaşa.
Non mi risulta che avesse altri interessi in quella zona.
Forse aveva rilevato un altro parcheggio. O forse no,
non lo so. Personalmente credo che avesse a che fare
con i suoi progetti edilizi».
«Parlando al telefono ha fatto qualche nome che ti è
sembrato familiare?».
«Non chiamava nessuno per nome, diceva sempre
“collega”». Fece una breve pausa, poi si strinse nelle
spalle. «Magari mi sbaglio». Si mise una mano davanti
alla bocca e rifletté un attimo, lo sguardo puntato sul
soffitto.
«Sì, un nome l’ha fatto. Temel. Un nome strano,
tipico del Mar Nero. Credevo si usasse solo nelle
barzellette. Sono rimasta molto sorpresa quando l’ho
sentito uscire dalla bocca di Osman. Per questo me lo

226
ricordo bene. A dire il vero, negli ultimi tempi l’ho
sentito spesso. Osman doveva dei soldi a questo Temel.
A volte evitava di rispondere quando vedeva il suo
numero sul cellulare».
«Il cognome non lo saí, vero?».
«No. Ma sono sicura che c’entrasse con l’affare
edilizio. E anche con i parcheggi. Una volta ho sentito
Osman che per telefono gli diceva: “In questo momento
ho grossi problemi, ma presto le cose miglioreranno. Mi
dia un po’ di tempo”».
Seguì un lungo silenzio. Agitai il bicchiere vuoto,
facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio. Sapevo che era
meglio non bere a stomaco vuoto, ciò nonostante andai
in cucina e mi versai dell’altro whisky. Poi tornai in
soggiorno. Avrei vuotato il bicchiere e me ne sarei
andata.
İnci stava giocherellando con la camicetta.
«Che c’è?» domandai.
«Mi è venuta in mente una cosa che riguarda l’ultima
telefonata tra me e Osman, ma non so se… Beh, ecco,
mi è sembrato di sentire il campanello mentre
parlavamo. Osman mi ha salutato in fretta e furia. Non
credo di essermi sbagliata. La conversazione è durata
pochissimo ed è stato lui a interromperla, il che mi fa
pensare che ci fosse davvero qualcuno alla porta».
«Sei sicura?».
«Abbastanza. Non ci avevo più pensato. Me ne ero
proprio dimenticata, ma adesso che mi è tornato in
mente… A volte succede: noti qualcosa, poi te ne
dimentichi… Magari questo particolare mi è tornato in

227
mente proprio adesso perché mi sto sforzando di trovare
qualche indizio in quella telefonata…».
«Certo, magari non significa niente. Può darsi che gli
abbiano portato il tè».
Lei ci pensò su.
«Sì, può darsi che fosse il tè».
«Conosci lo zio di Osman?».
«Non l’ho mai incontrato. Lui lo descriveva come un
tipo un po’ matto. Un fannullone buono a nulla».
«Sai che i fratelli di Osman hanno cercato di
addossargli l’omicidio?».
«Davvero?».
«Sì, ma è chiaro che non è un assassino. E poi l’arma
del delitto non è alla sua portata, è un oggetto da
appassionati».
«Come lo sai?».
«Me ne intendo abbastanza di armi». Ah ah, la
battuta del secolo!
«No, come fai a sapere con quale arma è stato ucciso
Osman».
Mi sfregai il naso. «L’ho chiesto al commissario che
si sta occupando del caso».
«Önal?».
«Mmh».
«È un bell’uomo, eh? Mi piacciono i tipi scuri, forse
perché sono bionda. Anche tu hai la pelle chiara. Di che
colore sono i capelli?». Evidentemente si capiva che
l’arancione non era il mio colore naturale.
«Biondo scuro».
«Sono sicura che stai benissimo anche con la tua

228
tinta». Guardò di nuovo il soffitto, pensierosa.
«Questo Önal mi sembra un tipo molto serio. Non ci
ha provato minimamente. Se è vero che gli uomini con
il nasone ce l’hanno grosso, quello del commissario
dev’essere così». Allungò un braccio per farmi vedere
cosa intendeva.
Non avevo mai prestato attenzione al naso di Batuhan,
ma lo conoscevo abbastanza bene da poter confermare
la teoria di İnci sul rapporto tra naso e pene. Tuttavia
non dissi niente, mi limitai a tossicchiare per farle capire
che era meglio cambiare argomento. Non so come
funzioni nelle altre culture, ma con i turchi si fa così.
Non sono abituati a parlare liberamente, quindi usano
una gran quantità di segnali nascosti.
«Cos’hai?». Era un rimprovero.
«Niente» risposi.
Per un attimo regnò di nuovo il silenzio. Buttai giù il
whisky in un sorso.
«Hai detto che hanno cercato di addossare l’omicidio
allo zio. Beh, magari hanno ragione. Non mi sono
ancora fatta un’idea precisa della situazione, ma è stato
lui a rubare i soldi, no?».
Stupida, stupida, stupida! Mi ero dimenticata di
chiedere a Batuhan dov’era andato a finire il denaro.
Non mi aveva più detto niente al riguardo. O sì? Era
irritante: non ricordavo più di cosa avevo parlato e con
chi. Forse dovevo cominciare a registrare le mie
conversazioni.
«Può darsi che sia stato lui» dissi. «Comunque, la
prossima volta che vedi Özcan prova a chiedergli che

229
fine hanno fatto quei soldi».
Mezza ubriaca, presi la macchina e andai da Selim.
Di solito non guido in certe condizioni, ma non avevo
nessuna voglia di tornare nel quartiere la mattina dopo
per recuperare l’auto.
Selim mi aprì la porta con un sorriso radioso. A
quanto pare i consigli delle riviste femminili per un
buon rapporto di coppia – mantenere una certa distanza,
fare vacanze separate e cose simili – servono davvero a
qualcosa. «Dieci modi per ravvivare il rapporto».
Generalmente non sopporto queste ricette. Se una donna
è talmente abitudinaria e priva di fantasia da seguire i
consigli delle riviste per vivacizzare un rapporto,
probabilmente non sa nemmeno cosa sia un «rapporto»
vivace. Chi invece conosce abbastanza bene queste cose
non ha certo bisogno di consigli, tanto meno se arrivano
dalla redazione di un femminile. E poi, perché le riviste
maschili non dispensano consigli del genere? Perché
sono le donne a doversi preoccupare che il rapporto resti
vivo e duri a lungo e che i partner raggiungano
l’orgasmo nello stesso momento?
Se vogliamo partire dal presupposto che il mondo è
fatto così e che certe cose spettano proprio alle donne,
devo dire che il rapporto tra me e Selim costituisce
un’eccezione. O almeno così mi sembrò quella sera.
Appena varcai la soglia, lui mi posò una mano sulla
coscia e con la bocca mi esplorò la nuca, compiendo
due grandi passi in direzione di un orgasmo simultaneo.
Lentamente, con tutta l’attenzione necessaria per non
ferirlo, allontanai il suo corpo dal mio. Avevo altre cose

230
per la testa. Per fare sesso non basta un corpo sano, ci
vuole anche una mente sgombra. Io ero ossessionata da
un paio di delitti. Non era proprio il momento adatto.
Andai subito al frigorifero. Selim ne ha uno
incredibilmente lussuoso, non so perché. Forse è una
delle cose che è riuscito a portare via quando ha lasciato
l’appartamento in cui viveva con la moglie. Comunque
sia, non ho nessuna intenzione di indagare. Non voglio
sapere niente delle sue vecchie storie. È comprensibile,
no? Purtroppo in ogni rapporto, soprattutto all’inizio, si
parla di certe cose. Sono specialmente gli uomini a farlo.
Le donne vogliono dare al nuovo compagno
l’impressione che nella loro vita non ci sia mai stato
nessun altro, quindi, nella maggioranza dei casi, evitano
di parlare del passato. E gli uomini credono davvero di
essere i primi o fanno finta di crederlo, e comunque non
vogliono sapere cos’è successo con chi li ha preceduti.
Le donne, però, devono ascoltarli mentre raccontano
entusiasticamente delle loro ex e di tutte le esperienze
che hanno avuto.
Aprii il frigorifero. Era vuoto, o almeno lo era per me.
Oltre a un vasetto di senape francese – la mia preferita
contenente tanti piccoli semi, c’erano due uova che si
trovavano lì chissà da quanto, un cartone già aperto di
latte a lunga conservazione, una banana dalla buccia
completamente annerita e una gran quantità di alcolici.
«Cos’hai mangiato?» gridai in direzione del
soggiorno.
Selim mi stava raggiungendo; mentre rispondeva, la
sua voce si fece sempre più vicina.

231
«Anch’io ho fame. Ordiniamo una pizza?» chiese,
facendo scorrere le dita su e giù lungo la mia spina
dorsale.
«Una pizza?». Contrassi il viso in una smorfia. «Non
mi piace».
«Se preferisci il kebab, conosco un locale che fa
anche consegne a domicilio».
Che scelta: pizza o kebab! Una cosa peggio dell’altra.
«Pizza».
Il lato negativo delle consegne a domicilio è che, una
volta fatta l’ordinazione, la fame aumenta fino a
raggiungere livelli insopportabili. Per reprimerla accesi
una sigaretta. Non potevo continuare così, altrimenti
l’invecchiamento precoce sarebbe diventato una realtà.
«Se ti do il nome di una persona, puoi scoprire come
si chiama la sua impresa?» domandai. Selim stava
guardando uno stupido film in televisione ed era
chiarissimo che non voleva essere disturbato.
«Sì» rispose. «Hai ordinato anche la coca?».
In fondo era come se fossimo già sposati.

Lo chiamai il pomeriggio seguente. Mi aveva detto


che avrebbe passato tutta la mattina in tribunale e che
quindi non avrebbe avuto tempo per informarsi
sull’impresa di Osman.
«Allora? Cos’hai scoperto?».
«A che proposito?».
«Dovevi dirmi chi sono i soci di Osman Karakaş!»
risposi stizzita.
«Ah, è vero. Hai fatto bene a chiamare e a

232
ricordarmelo. Puoi ripetermi il nome? Chiedo subito a
qualcuno di controllare. Ti richiamo appena so
qualcosa».
Avrei voluto rosicchiarmi tutte le unghie per il
nervosismo, invece mi limitai a mordicchiare la punta
delle dita.
Per ingannare il tempo mi concentrai su Pelin e sul
suo ragazzo. La mia aiutante non era più così
irremovibile. D’altronde, che scelta aveva? Non poteva
rimanere da me a vita.
Sentendo lo squillo del telefono mi precipitai a
rispondere. Era Selim.
«Tesoro, quest’uomo non ha nessuna impresa. Ho
chiesto alla mia praticante di controllare. È una in
gamba, se ci fosse stato qualcosa l’avrebbe senz’altro
trovato. So che me l’hai già detto, ma in quale settore
lavora questo Karakaş?».
Dovevo sempre ripetere le cose, non ascoltava mai
quando parlavo.
«Nel settore edilizio».
«Mmh… Ha già costruito qualcosa?».
«Non lo so. Credo che abbia comprato un terreno a
Kasımpaşa».
«A Kasımpaşa?».
«Sì».
«È nel distretto di Beyoğlu. Avrà chiesto una
concessione edilizia all’amministrazione locale. Per
costruire una casa non è necessario creare un’impresa,
però bisogna sempre chiedere la licenza. Manderò Asu
all’ufficio tecnico del comune. Ci lavora una persona

233
che conosco. Se quest’uomo ha chiesto una concessione
edilizia, lui ce lo dirà».
«È uno di quelli a cui dai la mancia?».
Selim scoppiò a ridere.
«A quanto pare le mie mance non aiutano solo me,
ma anche te».
Quando ha ragione ha ragione, bisogna ammetterlo.
Mezz’ora dopo mi suonò il cellulare. Dall’altra parte
c’era una donna.
«Signora Hirschel?».
«Sì, chi parla?».
«Mi chiamo Asu Ketenci, lavoro nello studio di
Selim Öztürk. È stato proprio Selim a dirmi di
chiamarla. Sono appena stata in comune per quella
faccenda che la riguarda. Possiamo incontrarci da
qualche parte? Così le racconto cos’ho scoperto».
«Vediamoci a Tünel. È più vicino al comune rispetto
al mio negozio. Arriverò tra una decina di minuti».
Mi diressi subito verso il luogo dell’appuntamento.
Tünel è la seconda metropolitana più antica del
mondo dopo quella di Londra. Purtroppo è molto corta:
ha solo due stazioni. Collega viale İstiklal al mare,
partendo da una collina abbastanza alta vicino a
Kuledibi e correndo sottoterra verso il basso. La fine di
İstiklal Caddesi, ovvero la zona in cui si trova la
stazione superiore di questa piccola metropolitana, si
chiama anch’essa Tünel. Negli ultimi anni si è riempita
di bar e caffè, tra cui il locale che avevo scelto per
l’incontro con Asu.
La riconobbi non appena entrai nel locale. Con i

234
capelli di media lunghezza sapientemente fonati e la
camicetta abbottonata fino al collo, si distingueva da
tutti gli altri. Sembrava una persona molto ambiziosa;
probabilmente in un futuro non troppo lontano avrebbe
rubato a Selim il titolo di «primo contribuente tra gli
avvocati». Si alzò per darmi la mano; evidentemente
conosceva le buone maniere. Era naturale che volesse
comportarsi bene, dopotutto aveva davanti «la fidanzata
del capo».
«Il comune ha concesso un terreno a Osman
Karakaş». Fosse dipeso da me, per cominciare
avremmo parlato un po’ del più e del meno, ma lei andò
dritta al punto.
«Che significa?».
«Il comune possiede dei terreni e li può vendere a chi
vuole per un prezzo che sta al di sotto del loro reale
valore di mercato. Per farlo bisogna riunire il consiglio
comunale. La vendita di cui stiamo parlando è stata
autorizzata dal consiglio lo scorso giugno».
«E c’è un singolo beneficiario?».
«No. Il signor Karakaş ha creato o stava per creare
una cooperativa edilizia. Queste cose possono richiedere
molto tempo. Per fondare una cooperativa bisogna
ottenere l’autorizzazione del ministero dell’Industria e
del Commercio. Però i fondatori della cooperativa
possono comprare un terreno edificabile e accogliere
nuovi soci prima che la procedura sia conclusa. È
perfettamente legale. Non sapendo perché le interessa
questa storia…».
«Come ha saputo della vendita autorizzata a

235
giugno?».
«Selim mi ha mandato all’ufficio tecnico di Beyoğlu.
A volte abbiamo a che fare con loro per i nostri clienti,
quindi conosciamo un paio di impiegati. Sono andata là
e ho chiesto di Irf an Akintürk. Lui ha capito subito di
chi stavo parlando. Sapeva anche che il comune aveva
assegnato un terreno alla cooperativa edilizia Nesekent,
quella di Osman Karakaş. Se vuole posso procurarmi il
fascicolo del ministero».
«Immagino che la cooperativa abbia un indirizzo».
«Certo che ce l’ha. Via Papagan 3, appartamento 4,
Kuledibi».
«Sa chi sono gli altri soci fondatori?».
«Sì. Se mi concede un attimo…». La formalità con
cui si espresse mi lasciò allibita.
Dopo aver armeggiato nella cartella portadocumenti,
estrasse un foglio scritto a mano. Diedi un’occhiata ai
sette nomi che vi erano elencati. Il cognome era lo
stesso per tutti: Karakaş. Mancavano sia Özcan che
Temel. Il secondo potevo anche dimenticarlo, ma
perché Özcan non era tra i soci fondatori della
cooperativa?

Tornata in libreria, chiamai Selim.


«È raro che il comune conceda uno dei suoi terreni.
Di solito non vendono a persone dalle intenzioni poco
chiare… Artisti, avvocati e simili possono ottenere un
terreno se creano una cooperativa, questo sì, ma gente
come quella… Secondo me c’è sotto un bel passaggio
di denaro».

236
«Si può acquistare un terreno attraverso il comune
centrale di Istanbul?».
«No, bisogna sempre passare per il comune del
distretto. Certo, per concedere un terreno ci vuole anche
il permesso dell’amministrazione centrale, ma direi che
non è un problema. Il sindaco di Beyoğlu e quello della
Grande Istanbul sono dello stesso partito. Non si
pestano i piedi a vicenda. I problemi sorgono quando i
sindaci sono di partiti diversi. Non so che cosa sta
succedendo in questo periodo. Non ho casi che
richiedano una visita in comune. Irfan Akintürk l’ho
conosciuto l’anno scorso, quando ho chiesto e ottenuto
una concessione edilizia. Comunque conosco qualcun
altro che sa bene come funzionano le cose nel comune
di Beyoğlu. Nessuno conosce quell’ambiente meglio di
lui. Può dirti chi bisogna pagare, quanto, come e perché.
Ha una decina di ristoranti proprio a Beyoğlu. Fa il
miglior tonno sott’olio di tutta la città».
«Siamo andati a mangiare il tonno. Stai parlando del
Chios, no?».
«Esatto, quello al mercato del pesce. Avevo
dimenticato che ci siamo stati insieme. Baki viene da
Chio, o meglio, la sua famiglia viene da là. Si sono
trasferiti a Istanbul tanti anni fa. Quello che guadagna
con i ristoranti sarà al massimo un decimo del suo
reddito totale. Tutto il resto gli viene dal municipio.
Posso provare a chiamarlo e a fissarti un appuntamento.
Sei disposta a incontrarlo anche subito, se ha tempo?».
«Certo!». Non potevo farmi scappare un’occasione
del genere.

237
Pelin era andata a mangiare. Rimasi in negozio da
sola, in attesa di una telefonata. Un camion traballante
stava cercando di percorrere la nostra stradina, urtando
qua e là. Accesi una sigaretta e attraverso la vetrina
guardai l’autista tribolare al volante. Da quando ero
passata alle super light fumavo più di prima. Forse
dipendeva anche dal fatto che ero sempre nervosa. Forse
era la menopausa. Al solo pensiero mi spaventai. Anzi,
inorridii. A che età si entrava in menopausa? Se devo
essere sincera, escludendo una breve fase della mia vita,
non ho mai sentito il bisogno di fare un figlio. Quando
vedo un bambino, mi capita raramente di pensare: «Oh,
che amore!». Ciò nonostante non riuscivo ad accettare
l’idea di entrare in menopausa. Non sopportavo neanche
il termine: menopausa. Lo associavo all’immagine di
una donna con gli occhi infossati, il volto prosciugato
dalla rabbia e il collo venato di blu. Tirai fuori il
portacipria che avevo nella borsa. Non per incipriarmi il
naso, ma per guardarmi nello specchietto. Cercai di
osservare il mio viso come se fosse la prima volta,
esaminando centimetro per centimetro. Avevo l’aspetto
di una donna che sta entrando in menopausa? La pelle
era straordinariamente luminosa. Non poteva essere
altrimenti, dato che investivo tutti i miei soldi in creme e
sieri contenenti DNA, RNA e uova di salmone. Arrivai
addirittura a cacciar fuori la lingua. Ero davvero
un’idiota. Solo una persona completamente fuori di
testa poteva pensare che stessi entrando in menopausa. I
miei accessi di rabbia erano dovuti unicamente a Selim.
Questa conclusione, però, non mi soddisfaceva in

238
pieno. Se dipendeva tutto da Selim, perché stavo ancora
così dopo che avevamo fatto pace? Colpa degli omicidi,
ovvio. Non ero ancora riuscita a districare la matassa.
Per questo prendevo molto seriamente la mia attività di
investigatrice. In fondo non c’era altro motivo per cui
avrei dovuto interessarmi alla morte di due sconosciuti.
Davvero, che cosa mi stava succedendo?

239
9

Un’ora dopo ero seduta davanti al ciccione più


grande che avessi mai visto. Si era accomodato su una
sedia speciale, un modello di dimensioni straordinarie.
D’altronde una seduta normale sarebbe stata troppo
piccola per lui. Parlava ansimando per la fatica di
prendere aria. Doveva portare come minimo la 70,
ammesso che esista una taglia del genere. La camicia
tirava sulla pancia come se mani potenti cercassero di
aprirla. Tra un occhiello e l’altro si vedeva la pelle rosa
come quella di un maialino. E qualche pelo all’altezza
del petto. Più che disgustoso era interessante. Una bestia
rara da osservare con curiosità da ogni lato. Respirava a
bocca aperta facendo uscire leggermente la lingua,
come i cani. La testa sembrava troppo piccola rispetto al
corpo, eppure era il doppio della mia.
Puntellandosi al tavolo con le dita, ciascuna del
diametro di una banana, cominciò a parlare.
«Allora, perché vuole sapere come funziona?».
Intorno a noi c’era un gran viavai di camerieri;
stavano preparando il locale per la sera. Uno si avvicinò
al nostro tavolo.
«Vi porto un tè, capo?».

240
Il ciccione si rivolse a me. «Le va uno spuntino?
Abbiamo degli antipasti freschissimi. Le faccio portare
qualcosa?».
«Prendo volentieri il tè» risposi, «ma non ho fame».
L’ultima cosa che avevo mangiato era la pizza della sera
prima, ma davanti a tanta ciccia mi era scappato
l’appetito.
Anche lui prese un tè.
«Mi sono messo a dieta su consiglio del mio medico»
spiegò. «Ho già perso tre chili». Era come se avesse
tolto tre cucchiaini d’acqua a un oceano. Sorrisi e feci
un cenno di assenso.
«A ingrassare non ci vuole niente, ma dimagrire non
è così facile» continuò, indicando il suo pancione.
Tentai di ignorare la pelle rosa tra gli occhielli e sorrisi
di nuovo.
«Come mai conosce Selim?».
«Sono la sua fidanzata».
«Per me è un buon cliente, un uomo degno di rispetto.
Mi ha aiutato molto. Mio fratello era un buono a nulla.
Un tipo piuttosto intelligente, ma… Si è lasciato
coinvolgere nella lotta tra destra e sinistra…».
«Se è davvero intelligente, immagino che si sia
schierato con la sinistra».
Il ciccione si passò una mano sulla guancia ed evitò
qualunque commento. Disse solo: «È chiaro che Selim
non si interessa di politica…».
«Infatti. Si occupa di diritto commerciale».
«Anch’io mi occupo solo delle mie cose. Sono un
esperto di pesce, quindi ai miei clienti offro pesce. Se

241
ciascuno di noi facesse solo quello che sa fare, sarebbe
meglio per tutti. Io capisco da venti metri di distanza se
un pesce è fresco, quindi ho un ristorante di pesce. Non
avrebbe senso se aprissi una kebaberia solo perché si
può guadagnare bene. Sarebbe una cosa assurda».
Si piegò faticosamente in avanti e lasciò cadere nel tè
due piccole pastiglie di dolcificante.
«Perché vuole sapere come funzionano le cose in
comune?» chiese di nuovo.
Durante il tragitto dal mio negozio al suo ristorante
mi ero preparata una risposta.
«Ho una libreria a Kuledibi. Gli affari vanno
abbastanza bene…».
«Che Dio li moltiplichi».
«Un amico mi ha proposto di aprire un bar in questa
zona. Stiamo ancora cercando il luogo adatto, ma
quando Selim mi ha parlato di lei ho pensato che mi
sarebbe servito sapere come funzionano le cose in
municipio».
«Ha fatto bene a venire da me prima di affittare un
locale. In effetti ci sono due o tre cose che deve sapere.
Il locale non deve distare meno di cento metri da luoghi
di culto, scuole e altri istituti di formazione. E per luoghi
di culto intendo moschee, chiese e sinagoghe. Questa
regola si applica nella totalità dei casi. Quando avrà
trovato un posto adatto, me lo faccia sapere. Darò
un’occhiata in giro per verificare che non ci siano
problemi. Se decidesse di rinunciare al locale dopo
averlo affittato, le verrebbe a costare un bel po’».
«Ma a Beyoğlu si incontrano scuole e luoghi di culto

242
ogni due passi. Se devo rispettare la regola dei cento
metri, non riuscirò mai ad aprire un bar».
«Ha ragione, non è facile trovare un luogo adatto. La
soluzione migliore sarebbe rilevare un locale che ha già
la licenza, ma i costi aumentano. Parliamo di circa
centomila dollari. Purtroppo funziona così in questo
settore. Aprire un locale e gestirlo sono due cose molto
difficili. Bisogna accontentare tutti: l’amministrazione
comunale, la polizia, la mafia e Dio solo sa chi altro.
Quello dei locali notturni è un settore non facile,
soprattutto per una donna. Dovrebbe andare al lavoro di
sera, quando Selim torna a casa. Con un bar ci si può
anche dimenticare la famiglia».
Buttai giù un sorso di tè. «Se le condizioni sono
queste, immagino che non sia facile ottenere la licenza».
«Diciamo che una volta era più difficile. Purtroppo ci
sono anche persone che agiscono in modo illegale. Si
aprono bar nei posti più assurdi. Poi i giovani ci vanno
ad ascoltare musica spaccatimpani, a bere birra e a usare
ogni tipo di droga. Se arriva un poliziotto, basta
mettergli in mano qualcosa e lui si gira dall’altra parte.
È così che funziona: cane non mangia cane. Ho un
appartamento qui in viale İstiklal. Un giorno hanno
aperto illegalmente un bar nel seminterrato dell’edificio
e hanno cominciato a fare casino. Bum bum bum, tutta
la notte. Una vera rottura di pa… ehm, scatole. Ho
provato per un anno a farli chiudere. Il problema è che i
poliziotti sono corrotti e quelli del comune non fanno
niente perché dicono che non spetta a loro. È scandaloso!
Non c’è nessuno a cui rivolgersi. Io lo affitto

243
quell’appartamento. Ha una splendida vista sul Bosforo
ed è completamente ristrutturato. Gli inquilini, però, non
resistevano per più di un mese. Scappavano a gambe
levate perché non sopportavano il rumore. Tra l’altro la
birra veniva venduta a un prezzo ridicolo. Come
facevano a guadagnarci? Ovviamente vendevano altre
cose, ma come dimostrarlo? In certi casi le prove sono
comunque inutili, visto che è coinvolta anche la polizia.
Senza di loro i traffici di droga non funzionano.
Vogliono solo riempirsi le tasche, tutti quanti. Mi creda,
fanno schifo. Alla fine ho vinto la causa e sono riuscito
a farli chiudere».
«Scusi la domanda, ma se adesso le licenze non sono
più un problema, che cosa fa in comune?».
«Crede che non ci sia altro da fare? Per esempio, se
uno mette la musica a volume troppo alto, gli chiudono
il locale. Allora viene da me e mi chiede di aiutarlo a
risolvere il problema. Sono in buoni rapporti anche con i
vigili del fuoco. Se qualcuno ha bisogno di un
documento che attesti il rispetto delle norme
antincendio, cerco di rendermi utile. Insomma, faccio
quello che posso…».
«E se qualcuno volesse comprare un terreno del
comune?».
«Beh, qui parliamo di una cosa grossa. Bisogna
rivolgersi a chi sta in cima».
«Al sindaco di Beyoğlu?».
«Mmh, non credo che basti. Ci vuole qualcuno
dell’amministrazione centrale. Non vendono mica i loro
terreni al primo arrivato. Bisogna avere tanti soldi e

244
conoscenze importanti. È possibile ottenere un terreno
per la costruzione di una casa di riposo o di un centro
sportivo, ma per quelli che vogliono costruire casa
d’abitazione è molto difficile».
«E per le cooperative?».
«Non voglio dire che è impossibile. A volte succede.
Tanto per fare un esempio, l’ordine degli avvocati ha
creato una cooperativa che è riuscita ad avere un terreno
dal comune di Şişli. Ma c’erano delle costruzioni
abusive e mandare via le persone che ci vivevano non è
stato facile. I costi sono aumentati tanto che la
cooperativa non ha ancora cominciato a costruire. E
sono già passati sei o sette anni dall’acquisto del terreno.
Questi affari non sono sempre convenienti. E comunque
i cittadini normali, quelli come noi, non hanno nessuna
possibilità. I comuni favoriscono sempre certe persone».
«Se uno volesse comprare un terreno pubblico a
Beyoğlu, a chi…».
«Ma non voleva aprire un bar?».
«Sì, lo chiedo solo per curiosità».
«Come ho già detto, si tratta di una cosa grossa. Non
so esattamente a chi bisogna rivolgersi. Credo che si
debba andare dal sindaco o per lo meno dal suo vice.
Adesso a Beyoğlu ci sono i religiosi. Prima, quando in
comune c’erano i socialdemocratici, funzionava
diversamente. Si andava da un incaricato e si trovava un
accordo, bastava tirare fuori i soldi ed era fatta. Sa
perché non ci sono più i socialdemocratici? Perché
ognuno pensava alle sue tasche. I religiosi sono diversi.
Intascano una parte di quello che prendono e danno il

245
resto al partito. Ma non direttamente. Hanno uno sport
club, probabilmente il più ricco di tutto il paese. I soldi
vanno a finire là. Ti dicono: “Dona questa cifra allo
sport club Corno d’Oro e poi torna qui”. È questo il loro
metodo. Quando torni, gli mostri la ricevuta del
versamento e ti accontentano. Se non fai la donazione, ti
bloccano anche per una cosa da nulla. Se ti arrabbi e ti
metti a protestare, non ottieni niente. Tra l’altro non
prendono denaro da chiunque, solo alle persone di cui si
fidano dicono: “Dona questa cifra e poi torna qui”.
Sennò qualunque idiota tenterebbe di risolvere i suoi
problemi con una piccola donazione. Non vogliono che
questa storia si sappia in giro. Di me, però, si fidano. Per
questo gli altri mi chiedono aiuto quando hanno un
problema da risolvere in comune».
«Lo sport club Corno d’Oro, eh?». Non dovetti
riflettere a lungo per ricordare dove avevo già sentito
questo nome.
«Avranno anche un sacco di soldi, ma la loro squadra
di calcio fa schifo. Sembra una squadretta di periferia.
Sono andato a vedere i loro impianti. Oltre a due piscine
separate per uomini e donne, hanno anche un campo da
tennis. Non rinunciano proprio a niente. Fanno sport,
studiano… Vogliono che le ragazze indossino il velo
per entrare all’università. Ma non hanno sempre detto
che le donne devono rimanere a casa con i bambini
invece di andare a lavorare? Naturalmente hanno una
spiegazione anche per questo: dato che le madri devono
occuparsi dell’istruzione dei figli, devono essere a loro
volta istruite. Vede, hanno pianificato tutto: stanno

246
formando le madri della prossima generazione.
D’altronde, quella attuale è fatta di stupidi e ignoranti. È
una generazione di bifolchi. La gente che li vota
appartiene al ceto basso. Sono persone arrivate l’altro
ieri dalla campagna, persone che non sanno niente del
mondo. E perché li votano? Perché qui sono dei
perdenti e sperano di rifarsi nell’altro mondo. Ad alcuni
hanno promesso un pezzetto di terra in paradiso, ad altri
lavoro, soldi e oro. E così sono arrivati al potere. Hanno
distribuito pezzetti di paradiso con tanto di certificato,
l’ho visto con i miei occhi. Ti danno un foglio e ti fanno
giurare sul Corano che voterai per loro. Anche mia
moglie, che è una musulmana devota e un po’ ingenua,
voleva votare per loro. Non è stato facile farle cambiare
idea. La nostra famiglia si è sempre schierata con
Atatürk. Il mio povero padre ci raccontava tutto quello
che abbiamo dovuto subire da parte degli infedeli. A
Chio, luogo d’origine della mia famiglia, vivevamo con
i greci. Atatürk ci ha liberati. E adesso dovremmo
votare per i suoi nemici? No, non se ne parla neanche».
«Se la pensa così, come fa a svolgere certe attività in
comune?».
«Sanno tutti che tipo sono. Vendo alcolici nel mio
locale e amo la vita notturna. Grazie a Dio non ho niente
da nascondere. Perché dovrei fingere? Sono loro che si
comportano in modo falso. Sono un branco di ipocriti.
Io sono un uomo sincero e come musulmano li batto
tutti. L’ho detto anche a mia moglie. Quando verrà il
giorno del giudizio, io me la spasserò con le vergini del
paradiso e loro bruceranno tra le fiamme dell’inferno.

247
Spetta forse a loro decidere chi finirà in cielo e chi no?
Non è portando la barba o coprendo la testa con un velo
che si diventa bravi musulmani, bisogna comportarsi in
modo onesto e rispettabile».
«È sicuro che si fidino di lei?».
«Sì, ne sono sicuro. Devono fidarsi di me perché non
si fidano l’uno dell’altro. Non si fidano di chi sotto sotto
è uguale a loro. Sanno benissimo che cosa passa per la
testa dei loro amici, corrono tutti dietro ai soldi. Le
persone perbene si tengono alla larga, con loro non
resisterebbero neanche un giorno. Non può nemmeno
immaginare che cosa combinano. Se avessi delle prove,
non starei certo a guardare. I soldi non mi interessano,
denuncerei tutto. Il problema è che non ho niente in
mano. Non a caso si dice che la corruzione non lascia
tracce. Eppure, grazie a me, lo sport club Corno d’Oro
ha già ricevuto tantissimi soldi».
Gemendo si piegò verso il tavolo e strinse le dita
carnose intorno al bicchiere. «Lo sapevo, ci siamo persi
in chiacchiere e il tè si è raffreddato. Ehi ragazzo,
portacene altri due!». Si rivolse di nuovo a me. «A
essere sinceri, questo tè non è per niente buono.
Preferisce un caffè?».
«No, va benissimo così».
«Ho molta fiducia in Selim. Qualunque cosa le serva,
la aiuterò volentieri. Se il suo fidanzato mi chiedesse in
prestito un milione di dollari, glielo darei subito senza
fargli firmare nessun documento. Sa, quando mi
arrabbio perdo completamente il controllo. Ho la
pressione alta, il diabete e un sacco di altre cose. Il

248
medico mi ha detto: “Devi assolutamente dimagrire.
Quei fagottini che ti piacciono tanto sono puro veleno”.
Ma se uno lavora bene deve anche mangiare bene.
Direbbe mai a un uomo che deve rinunciare a fare le
porcherie? Comunque è più forte di me, non riesco a
trattenermi. Sono capace di mangiarmi un chilo di
fagottini in una volta sola, senza problemi. Bastano
appena a stuzzicarmi l’appetito. Per questo ho vietato a
mia moglie di fare certe cose. Lei è albanese e prepara
dei fagottini ai porri che sono la fine del mondo. Dopo
averli mangiati ti lecchi tutte e dieci le dita. E poi c’è la
kaymaçina, sa, quella torta di latte… La conosce? No,
probabilmente no. Ah, è buonissima! Adesso che mia
moglie non cucina più queste cose, sa cosa faccio?
Mando i miei figli a comprarmi i dolci!». Indicò con
disprezzo il suo pancione. «Più sono grasso e più
aumento di peso. Il medico mi ha dato una dieta, ma per
rispettarla a colazione dovrei mangiare venti grammi di
formaggio. In realtà ne mangio almeno un chilo. Che
me ne faccio di venti grammi? Siamo così poveri da
dover pesare il formaggio col bilancino? In ogni caso
sto mangiando e bevendo meno del solito, e infatti ho
perso tre chili in tre settimane».
Chiacchierare con i turchi è un’attività che mette
sempre a dura prova il mio cervello.
«Potremmo tornare ai terreni del comune?».
«Ma certo, mi scusi. Come ho già detto, bisogna
avere conoscenze importanti. Qualcuno deve fare in
modo che la vendita venga approvata dal consiglio
comunale. Dato che a Beyoğlu i religiosi hanno la

249
maggioranza, l’approvazione non è un problema. Il
consiglio comunale si riunisce due volte all’anno, in
ottobre e in giugno. La seduta del mese prossimo è
troppo vicina, non credo che si possa fare qualcosa, ma
se vuole comincio a informarmi. Posso scoprire dove
sono i terreni del comune e con chi bisogna parlare per
averne uno. Vediamo a che punto arrivo per il prossimo
giugno. Glielo ripeto: è poco probabile che rinuncino a
spartirsi un terreno decente per venderlo a noi».
«Andrà a parlare col sindaco?».
«No, non si va subito dal sindaco. E poi non è lui che
si occupa di queste cose».
La risposta mi incuriosì.
«Allora di che cosa si occupa?».
«Mah, pare che abbia formato una piccola squadra
con Fevzi, il capo dell’ufficio per le antichità, e un
imprenditore amico di tutti e due. Lavorano insieme. Si
accaparrano gli edifici migliori, quelli in zone dove si
possono fare tanti soldi. Qui in viale İstiklal, per
esempio, c’era un vecchio edificio universitario di epoca
ottomana. L’ufficio per le antichità ha deciso che al suo
posto si poteva realizzare un albergo e il sindaco ha
approvato. È assurdo distruggere un’antica sede
universitaria per fare un albergo, ma loro se ne fregano!
E chi si occupa dei lavori di costruzione? Naturalmente
Tarik, l’amico imprenditore. Poi si spartiscono i
guadagni. È così che funziona. Quell’edificio è stato
costruito dagli ottomani e ha resistito per quasi seicento
anni, adesso lo stanno distruggendo. È una cosa che fa
male al cuore, un danno enorme per tutti i cittadini.

250
Siamo governati da persone disoneste e senza scrupoli».
«Posso sapere chi è il suo referente in comune?».
Mio Dio, che razza di domanda era?
«Si chiama Temel Ekşi. È il braccio destro del
sindaco, il suo vice. Viene dal Mar Nero. È lui il mio
contatto».
Credo che in quel momento il mio viso abbia
cambiato colore. Probabilmente ero tutta gialla. O tutta
rossa. O di una sfumatura intermedia, magari arancione.
«Temel?» ripetei con un filo di voce. Ero senza fiato,
come se avessi appena corso i millecinquecento in tre
minuti e cinquantaquattro.
«Sì, Temel Ekşi. È un uomo molto importante,
prende lui tutte le decisioni. Il sindaco gli dà carta
bianca. È un ex imprenditore. Per questo dico che, se
c’è un terreno di pregio, non lo vendono certo ad altri.
Cercherò comunque di scoprire se è prevista qualche
vendita».
«Non è necessario, ero solo curiosa. Preferisco
concentrarmi sul bar, di edilizia capisco ben poco. Che
tipo è questo Temel?».
«Prima del 1980 andava sempre in giro armato. Con i
suoi amici dava la caccia a quelli di sinistra. Poi, dopo il
colpo di stato, ha passato un po’ di tempo in galera. È
più vicino ai nazionalisti che ai religiosi, per questo ci
capiamo. È la persona migliore con cui parlare, di
qualunque cosa si tratti».
«Gira ancora armato?».
«Certa gente non rinuncia mai a un’arma. Vanno tutti
in giro col fucile. Segano via le canne e lo fanno

251
diventare talmente corto che può stare tranquillamente
nella tasca dei pantaloni. Le munizioni, poi, sono a buon
mercato. Il fucile a canne mozze è l’arma preferita dai
religiosi. Ma Temel è diverso, è un vero appassionato.
A casa ha un’intera collezione di armi e si porta sempre
dietro una magnum con l’impugnatura dorata. Un
bell’oggetto. Una volta, mentre era nel mio locale, è
scoppiata una rissa. Ha tirato fuori la pistola e l’ha
mostrata a quelli che stavano litigando. L’ha solo
mostrata e ha detto: “Se prendo la mira, sparo”. È fatto
così, è un uomo di carattere. A differenza dei religiosi,
ama bere. Dice sempre: “Non è peccato, l’importante è
non esagerare”. E ha perfettamente ragione: il profeta ha
imposto questo divieto solo a chi non sa bere».
Mi stava venendo il mal di schiena. Ovviamente la
causa era psicologica. Guardai l’orologio.
«Devo andare» dissi. «Ci risentiremo quando avrò
preso una decisione per il bar».
«Ma non ha mangiato niente! Doveva permettermi di
offrirle qualcosa» protestò il ciccione. Non mi stupii: era
un tipico esempio di ospitalità turca. I tedeschi sono
diversi, non insistono per far mangiare qualcosa agli
ospiti. Anzi, cominciano a sudare freddo se devono
offrire un semplice caffè.
«No, grazie, ho appena mangiato».
«Va bene, mi saluti tanto Selim. È un po’ che non lo
vedo. Gli dica che un giorno o l’altro dobbiamo farci un
bicchierino insieme».

252
10

Invece di tornare in negozio comprai una porzione di


döner kebab con la salsiccia, l’ultima invenzione
culinaria dei turchi, e mi diressi verso casa. Quando
arrivai, il grasso arancione aveva ormai intriso il pane e
il kebab si era completamente raffreddato. Buttai tutto
nella spazzatura, poi preparai un tè verde, mi sedetti alla
scrivania e feci una lista delle domande che mi
tormentavano. Al primo posto misi quella che mi dava
più da pensare, anche se a prima vista non c’entrava
niente con tutto il resto.
Chi era il padre del bambino di İnci?
A proposito della mia nuova amica, c’erano altri due
o tre punti da chiarire. Uno riguardava Hafıze, la donna
che la aiutava con i lavori domestici. Come mai non
avevo ancora avuto l’onore di incontrarla? Ero stata a
casa di İnci più di una volta, eppure non l’avevo mai
vista.
E poi, che cos’era successo tra Habibe Büyüktuna e
İnci? Osman aveva lasciato la prima per mettersi con la
seconda, ma com’era andata veramente? Una delle due
mentiva riguardo alle circostanze, ma quale? E perché?
Ci pensai un attimo e giunsi alla conclusione che

253
rispondendo a queste domande non avrei certo risolto il
caso. Stavo cercando un assassino, non una bugiarda.
Cancellai le domande inutili.
Per quanto riguardava l’amante di İnci, ricordavo che
aveva un nome di tre lettere, ma avevo dimenticato
quale. Beh, comunque si chiamasse, avevo immaginato
uno scenario in cui aveva un ruolo importante: forse
Osman aveva saputo della sua relazione con İnci,
l’aveva invitato in ufficio e durante la lite era partito un
colpo. Questa ricostruzione, però, non mi convinceva.
L’uomo che aveva descritto İnci, ingegnere e figlio di
insegnante, non si adattava al ruolo. Un detective
dev’essere anche un po’ sociologo. E poi c’era un’altra
cosa: se anche gli ingegneri con un padre insegnante
avevano cominciato a uscire di casa con una magnum in
tasca, allora, senza che me ne accorgessi, il paese era
scivolato davvero in basso e forse non c’era più nulla
che mi trattenesse. Se le cose stavano così, potevo anche
continuare la mia carriera di libraia-detective negli Stati
Uniti, senza alcuna differenza.
Il mio scenario aveva un altro punto debole: la
vecchia testimone oculare. Se anche l’amante sposato si
fosse accorto che la signora l’aveva visto, perché
avrebbe dovuto spaventarsi tanto da ammazzarla?
E perché mai un uomo avrebbe dovuto uccidere il
compagno di una donna che vedeva di tanto in tanto?
Poteva immaginare che per lei sarebbe stata la rovina. In
realtà erano tutti concordi nel dire che la ferita non
avrebbe dovuto uccidere Osman. Ciò significava… Beh,
ciò significava che l’ingegnere figlio di insegnante

254
voleva solo lanciare un avvertimento: “Stai attento,
posso renderti la vita molto difficile”. Non poteva
sapere che la pallottola sarebbe andata ben oltre.
Altra domanda: perché Özcan non figurava tra i soci
fondatori della cooperativa? Forse questa esclusione
aveva incrinato i rapporti col fratello. Forse era
scoppiata una lite e Özcan aveva tirato fuori la pistola…
Tra l’altro aveva ricavato un vantaggio dalla morte
del fratello maggiore, aveva preso il suo posto negli
affari di famiglia. Poteva essere un buon movente.
C’era un altro particolare che dovevo tener presente:
era molto probabile che la vecchia conoscesse Özcan.
Magari il giorno del delitto l’aveva visto uscire dal
palazzo con la pistola in mano e l’aria sconvolta e così
aveva firmato la sua condanna a morte. Sì, era possibile
che Özcan fosse corso in strada con la pistola ancora in
mano. Aveva paura. Dopotutto aveva appena sparato al
fratello. Pensandoci e ripensandoci, non riuscivo a
trovare altro motivo per cui la vecchia potesse vedere in
Özcan un assassino.
Nella lista inserii anche il vicesindaco Temel Ekşi.
Aveva fatto in modo che Osman ottenesse un terreno,
ma in cambio non aveva ricevuto niente, non c’era stata
nessuna donazione. I capi del partito facevano pressione
su di lui e lui faceva pressione su Osman, gli telefonava
continuamente, lo cercava anche in ufficio. La voce
sconosciuta che avevo sentito il giorno in cui avevo
litigato con Osman, o meglio, il giorno in cui avevo
rischiato di essere strangolata, poteva benissimo
appartenere a Temel Ekşi. Aveva paura che lo

255
riconoscessi, per questo non si era affacciato alla porta
per vedere che cosa stava succedendo.
Il giorno del delitto si era accorto che la vecchia stava
guardando fuori dalla finestra e il pensiero che ci fosse
una testimone aveva cominciato a tormentarlo.
Quanto al movente, dovevo ancora lavorarci. Che
cosa sperava di ottenere ferendo (non uccidendo)
Osman? Se avesse voluto i soldi, non gli avrebbe certo
sparato a una gamba. Gliele avrebbe lasciate tutte e due
in modo che potesse continuare a lavorare e a
guadagnare per pagare il suo debito. All’improvviso
ricordai che gli uomini turchi non sono così razionali;
questo eliminò ogni mio dubbio. Temel Ekşi aveva
impugnato la pistola in un accesso di rabbia e a quel
punto era stato costretto a sparare. Non poteva mettere
via l’arma senza esplodere almeno un colpo. Era un
uomo, un vero uomo. Un turco.
Alle domande riguardanti İsmet Akkan, l’ex star del
cinema, avrebbe senz’altro risposto Batuhan. Mi limitai
ad aggiungere il nome alla lista.
Non scrissi il nome dell’ex calciatore famoso. A volte
bisogna fidarsi del proprio intuito. In realtà durante le
indagini per l’omicidio di Kurt Müller2 avevo già avuto
una dimostrazione del fatto che le mie capacità intuitive,
quando si tratta di assassini piuttosto che di uomini, non
sono molto sviluppate. Ero comunque decisa a fare un
altro tentativo. Fin dall’inizio avevo avuto la sensazione
che il calciatore non c’entrasse niente.

2
Vedi Hotel Bosforo, Sellerio, Palermo, 2010.

256
Accesi una sigaretta e diedi un’occhiata alla lista.
Non era molto lunga.
Dopo aver fatto la doccia, sentendo lo stomaco
brontolare per la fame, decisi di fermarmi al chiosco di
Bambi per mangiare qualcosa. Poi sarei andata a parlare
con il portinaio del palazzo di İnci.

Mangiai un kumru, un panino con carne insaccata


cotta alla griglia, ma non rimasi molto soddisfatta. Anzi,
se lo volete sapere, avrei fatto meglio a non prenderlo.
Non c’è niente che batta un bel toast con doppia dose di
formaggio. Avevo però deciso di alimentarmi in modo
più equilibrato e il kumru, con la sua quantità di carne,
era ricco di vitamina B12. L’avevo scelto solo per
questo. Esistono diverse vitamine B, ognuna identificata
da un numero. Sinceramente la cosa mi confonde un po’.
Invece di aggiungere un numero dopo la B, non sarebbe
meglio cambiare la lettera e chiamarle vitamina T,
vitamina Z e così via? Non riesco proprio a capire: da
una parte vogliono che ci alimentiamo in modo corretto,
dall’altra rendono questa cosa più complicata del
necessario.
Nella piazza di Taksim mi fermai a tutti i semafori
rossi, che mostravano quanto tempo mancava al verde.
Non avevo nessuna fretta, quindi, con la pazienza di una
santa, aspettai che dopo quaranta secondi cambiassero
colore. Non sapevo se esisteva un momento della
giornata più adatto degli altri per fare quattro
chiacchiere con un portinaio. Dove abitavo io non c’era
nessun portinaio. Per i turchi del ceto medio è

257
assolutamente inconcepibile. Yılmaz, per esempio, la
considera una cosa stranissima. Una volta mi ha chiesto:
«Chi porta via la spazzatura?». Gli ho risposto: «Ci
penso io. Il cassonetto è all’inizio della strada». Lui è
rimasto a bocca aperta. Un po’ di tempo dopo è tornato
sull’argomento e con il tono di chi non riesce a credere
alle proprie orecchie mi ha domandato: «Siete ancora
senza portinaio?». Ma che senso ha assumere qualcuno
solo perché porti via la spazzatura e lavi le scale una
volta alla settimana?
È vero, ho una donna delle pulizie, ma non è la stessa
cosa, no? Quando ero ancora di sinistra, naturalmente
ero contraria. Nessuno doveva occuparsi della mia
sporcizia in cambio di soldi. E poi, dato che anche mia
madre aveva una donna delle pulizie, escludevo questa
possibilità a priori. Ricordo che per un certo periodo mi
sono addirittura fatta tagliare i capelli dalle amiche per
non somigliare a lei.

Non volevo lasciare l’auto dietro il palazzo di İnci,


quindi continuai a guidare finché non trovai un
parcheggio più adatto. Una detective non può rischiare.
Se İnci avesse guardato giù dal balcone e mi avesse
visto uscire dalla macchina, sarebbe stato un problema.
Volevo fare qualche domanda al portinaio senza che lei
lo sapesse.
In occasione delle mie visite precedenti avevo notato
che vicino all’ultimo pulsante del citofono c’era la
scritta «Portinaio». Ma non potevano mettere un nome?
Qualcosa come Ahmet Efendi o Mehmet Efendi? I

258
turchi aggiungono sempre Efendi al nome del portinaio,
mentre per gli altri uomini usano Bey. Per quanto ne so,
non è un problema di classe. Altrimenti userebbero
Efendi anche per il giardiniere, il bottegaio, il gestore
della sala da tè… È così e basta: Efendi per il portinaio,
Bey per tutti gli altri.
Schiacciai il pulsante del citofono. La porta si aprì
subito, non ebbi neanche il tempo di staccare il dito.
Aprire la porta è uno dei compiti principali dei portinai,
per questo sono i più veloci.
Scesi con il cuore in gola. Il portinaio vive sempre
nello scantinato; lo sanno tutti, anche quelli che a casa
non ne hanno uno. Non ero sicura che l’uomo e la sua
famiglia conoscessero Hafıze. Non sapevo nemmeno
come presentarmi.
Arrivata nello scantinato, dovetti suonare il
campanello. Ovviamente non avevano pensato che
stessi cercando proprio loro. Non c’era nessuno ad
attendermi sulla soglia.
Quando la porta si aprì, fui investita da una zaffata di
povertà. Odore di cipolle arrosto, grasso rancido, tè nero
andato a male, calze bucate, ciabatte di nylon, gonne
fantasia con l’elastico e mutande di lana da due soldi
comprate al mercato. Cercai di non respirare col naso,
ma naturalmente non resistetti a lungo.
Sulla porta c’era un giovane uomo con due occhi blu
che spiccavano in un viso dalla pelle scura.
«È lei il portinaio?» domandai, infastidita dal fatto
che non avesse ancora un nome.
«Sì» rispose lui, facendo un piccolo cenno col capo,

259
una specie di saluto.
«Sto cercando Hafıze. Lavorava per qualcuno del
palazzo, ma credo che abbia smesso».
«Kadriye, puoi venire un attimo? C’è una persona
che cerca Hafıze». L’uomo pronunciò la K nel nome
della moglie come se fosse una G, ma credo che questo
non vi interessi. Meglio non divagare.
Kadriye venne alla porta aggiustandosi il velo. Non
mi avevano ancora invitato a entrare, una cosa
abbastanza strana per dei turchi. I flussi migratori dalle
campagne stavano cancellando le buone abitudini.
«Sta cercando Hafıze?» chiese la ragazza. Definirla
«donna» sarebbe troppo, era giovanissima. La sua pelle
aveva quella luminosità che da un certo punto in poi si
ottiene solo usando creme arricchite con DNA e RNA.
«Sì, sto cercando Hafıze».
«Non abita qui».
«Lo so. Volevo chiedervi dove posso trovarla».
«Non lavora più nel nostro palazzo».
Non sapevo cos’altro dire, quindi la guardai in
silenzio.
«Potremmo darle il numero di telefono» intervenne
l’uomo.
«Giusto» fece lei.
Okay, fuori il numero!
«Che cosa vuole da Hafıze?» domandò la ragazza.
«Cerco una domestica» mentii.
«L’ho vista andare un paio di volte al numero 13»
disse ancora l’uomo. Come potete immaginare, il
numero 13 era l’appartamento dell’amichetta di Osman.

260
«È parente di İnci?» chiese la moglie, illuminandosi
in viso. Forse İnci le passava i vestiti di Escada che non
metteva più.
«No» risposi, senza dare spiegazioni.
L’uomo scrisse il numero su un pezzo di carta e me
lo diede.
«Anche il marito di Hafıze fa il portinaio. Abitano da
queste parti».
Li ringraziai e tornai in strada.
Probabilmente nel quartiere di İnci le cose
funzionavano come a Cihangir: i portinai venivano tutti
dallo stesso paese ed erano imparentati tra loro. Succede
così: un portinaio trova lavoro e si stabilisce con la
famiglia in un certo quartiere, poi, uno dopo l’altro, i
suoi parenti occupano gli scantinati dei palazzi vicini.
Nei paesi più piccoli della Turchia sono quasi tutti
parenti. E anche dove non c’è parentela i legami sono
molto stretti e ci si definisce «compaesani». I
compaesani sono quelli che vengono dallo stesso paese,
dalla stessa zona o dalla stessa città. Quando si
trasferiscono nella stessa metropoli, si aiutano e si
sostengono a vicenda. A Istanbul, proprio con questo
scopo, sono state create tantissime associazioni: per la
gente di Malatya, Sivas o Erzurum, per la tutela e la
valorizzazione di Igdir, per la diffusione della cultura
azera… Tutta questa solidarietà tra compaesani sta
influenzando anche i tedeschi. Ho sentito che le donne
del mio paese sposate con un turco hanno fondato una
loro associazione. Non chiedetemi a quali attività si
dedichino le signore, non ne ho la minima idea.

261
D’altronde non mi sono ancora sposata con un turco.
Non mi sono ancora sposata con nessuno.

Mentre tornavo a casa dopo aver fatto visita a Hafıze


sentii squillare il telefono. Era Selim. Voleva
informarmi che il giorno seguente era il compleanno di
sua madre; aveva paura che mi sarei arrabbiata se me
l’avesse detto più tardi e così mi aveva chiamato sul
cellulare. Evidentemente non sapeva che mi arrabbio
anche quando mi suona il telefono mentre sono al
volante.
Come se non bastasse tutto il resto, dovevo anche
trovare un regalo di compleanno per la madre del mio
compagno. È già abbastanza difficile trovare un regalo
per un’amica che si conosce bene, quando a compiere
gli anni è una vecchia criticona diventa una tragedia. A
dire il vero la madre di Selim non è una criticona. La
mia sì. Il regalo dev’essere come minimo un anello di
diamanti, sennò lei arriccia il naso. Naturalmente io
nuoto nei diamanti e non gliene faccio vedere neanche
uno. La madre di Selim sembrava il tipo che si
accontenta anche di un fiore, ma non ero sicura che
fosse davvero così. Non le avevo mai fatto un regalo,
quindi non potevo sapere come reagiva in certe
situazioni. Personalmente cerco di mostrarmi contenta
anche quando ricevo CD di musica etnica o cose simili.
E mi aspetto che gli altri facciano altrettanto.
Non è mica facile trovare qualcosa da regalare alla
madre del proprio compagno. Se si sceglie un oggetto di
valore, la signora potrebbe pensare che lo scopo sia

262
quello di catturare suo figlio. Se invece si compra un
oggetto qualsiasi, si rischia di trasmettere questo
messaggio: «Chi credi di essere? Tuo figlio ama me, tu
non hai nessuna importanza». A lei non farebbe certo
piacere. Bisogna quindi trovare una cosa che abbia un
valore ma non sia preziosa.
Mi lambiccai il cervello per tutta la sera. In momenti
simili vorrei tanto essere una pittrice, così non avrei più
problemi. Potrei disegnare una civetta su un foglio e
voilà, il regalo sarebbe bell’e pronto. Naturalmente
dovrebbe essere una civetta come quelle di Picasso, in
grado di toccarti nel profondo. Purtroppo non riesco
neanche a tracciare una linea retta, ogni volta che ci
provo ottengo una specie di lombrico.
Sarebbe più facile anche se fossi una compositrice. In
quattro e quattr’otto potrei comporre una bella canzone
di compleanno. Però come pittrice farei una figura
migliore. Chi riceve in regalo un quadro lo può
appendere alla parete. Una composizione, invece, ha
senso solo nel momento in cui qualcuno si mette alla
tastiera; per il resto del tempo non è altro che carta sul
pianoforte.
Anche come ceramista o designer di gioielli avrei
avuto meno difficoltà a trovare una soluzione creativa,
ma la realtà era che possedevo una libreria specializzata
in gialli e non potevo fare miracoli.
Alla fine scelsi un libro che faceva parte della mia
biblioteca personale: un’antologia in inglese di Lord
Byron pubblicata nel 1946. Mi sembrava il regalo
adatto per diversi motivi:

263
1. Non valeva molto perché non conteneva incisioni e
non era una prima edizione.
2. Aveva comunque un valore perché era un volume
ben fatto e rilegato con cura.
3. Era un regalo degno di una libraia.
4. Durante il nostro ultimo incontro avevamo parlato
di Lord Byron e dei motivi per cui non amava i turchi,
quindi non era un dono a caso.

La mattina dopo, svegliandomi e vedendo il libro


accanto a me, provai una certa soddisfazione. Per lo
meno non avrei trascorso la giornata in cerca di un
regalo. Svegliai Pelin e la mandai in negozio. Se non
avessi avuto tante cose da fare l’avrei lasciata molto
volentieri a letto e sarei andata personalmente in libreria.
Non ne potevo più. La cara Pelin, un tempo così
diligente, era diventata un’altra da quando aveva litigato
col suo ragazzo. Solo per farla alzare dal letto ci voleva
una gru.
Senza perdere tempo mi attaccai al telefono e
chiamai Batuhan. Da una parte volevo sapere se aveva
scoperto qualcosa di nuovo su İsmet Akkan, dall’altra
volevo informarlo a mia volta delle novità. A
quarantaquattro anni mi trovavo improvvisamente a
collaborare con la polizia; probabilmente le persone che
mi conoscono almeno un po’ farebbero fatica a crederci.
La verità è che non siamo del tutto padroni della nostra
vita; le passioni sono incontrollabili. Io sono
un’appassionata di investigazioni.

264
Batuhan rispose dopo il primo squillo.
«Possiamo vederci?» domandai.
«Sì, ma non adesso. Passo a prenderti stasera e
andiamo a mangiare insieme?».
Non volevo dirgli che dovevo andare alla festa di
compleanno della madre del mio fidanzato. A volte è
meglio lasciare un po’ di speranza alle persone,
soprattutto se questo può aiutarci a ottenere qualcosa
che ci sta a cuore.
«Ho già un appuntamento. Vado al cinema con
un’amica».
Andare al cinema è l’unica cosa innocua che possono
fare due donne, almeno secondo gli uomini. In
alternativa potete dire che guarderete la televisione
bevendo cioccolata calda; penseranno subito che in
programma ci sia una seduta spiritica.
«A che ora inizia il film?» chiese Batuhan.
«Alle otto meno un quarto». Non sapevo se a
quest’ora ci fosse davvero una proiezione, ma ero sicura
che non lo sapesse neanche lui.
«Allora vengo a prenderti alle cinque» concluse.

Non erano ancora le nove. Avevo davanti parecchie


ore ed ero intenzionata a sfruttarle per le mie indagini.
Prima di uscire di casa tirai fuori quello che avrei
indossato per la serata. Scegliere la mise è una cosa
importante, non si può fare all’ultimo minuto.

Un’ora dopo la telefonata con Batuhan ero davanti


all’appartamento in cui, una decina di giorni prima,

265
avevano ucciso la vecchia. Durante il tragitto mi ero
inventata delle altre bugie. Provai a suonare il
campanello, ma era rotto. Bussai.
La donna che mi aprì la porta doveva essere per forza
la madre di Figen. Si somigliavano come due gocce
d’acqua. Mi augurai che fosse una cosa limitata
all’aspetto esteriore; non avrei sopportato un’altra turca
in grado di piangere a comando.
«Chi cerca?» domandò bruscamente la donna. Che
modi! Possibile che l’ospitalità fosse un concetto ormai
vuoto utile solo per attirare turisti in Turchia?
«Sono una vicina, ho un negozio da queste parti. Le
faccio le mie condoglianze».
«Grazie» rispose lei, ma non mi invitò a entrare.
«Ho prestato un libro a Figen».
La donna si aggiustò gli occhiali e sistemò il velo
dietro le orecchie. Non si aspettava che conoscessi la
figlia.
«Figen è a scuola. Non so qual è il libro che le ha
prestato. Entri pure e lo cerchi».
Non me lo feci ripetere due volte. Tolsi le scarpe ed
entrai in fretta, come se in un minuto potesse cambiare
idea e decidere di lasciarmi fuori dalla porta. Mi ritrovai
nella stessa stanza della volta precedente e mi
accomodai davanti alla finestra, nel punto dove prima
sedeva sempre la vecchia. La panca era più alta dei
divani; ci si trovava alla stessa altezza della finestra e si
poteva vedere benissimo la strada.
«Mia suocera si sedeva sempre lì» disse la donna, che
mi aveva seguito attraverso la stanza.

266
«Si può guardare fuori. Così non ci si annoia».
«Ora non c’è più. È passata a miglior vita. D’altronde,
prima o poi tocca a tutti» mormorò lei, lo sguardo fisso
nel vuoto. Dopo un attimo si riscosse:
«Posso offrirle un tè? Abbiamo anche il Nescafé, se
vuole».
«No, non si disturbi». Una risposta da vera turca.
Quando un ospite dice così significa che berrebbe
volentieri qualcosa.
«Nessun disturbo» replicò la donna. «Tè o
Nescafé?».
«Preferirei il tè, se non è un problema».
La madre di Figen andò in cucina e io la seguii.
Dalla mia ultima visita non era cambiato niente. Alle
pareti c’erano gli stessi manifesti.
«Ha un ruolo attivo nel partito?». Era chiaro che mi
riferivo a Futuro radioso.
«In questo periodo non posso contribuire come vorrei.
Non vado neanche al lavoro. Quando mia suocera ci ha
lasciato… Beh, era malata. Sapevamo che prima o poi
se ne sarebbe andata, ma il modo in cui è successo…
Che Dio mi perdoni, è stato difficile da accettare.
Probabilmente, se fosse rimasta con noi, avrebbe
sofferto molto. Il Signore ha voluto chiamarla a sé».
Dondolò il capo.
«Torniamo di là. Può cercare tra i libri di Figen per
vedere se c’è quello che le ha prestato…».
«Non importa. Sua figlia può fare un salto da me e
riportarmelo».
La donna mi guardò con espressione interrogativa. Se

267
non è venuta per il libro, che cosa vuole? Questo si
stava chiedendo. Per fortuna non è necessario
rispondere alle domande che si leggono negli occhi.
In soggiorno mi sedetti di nuovo al posto della
vecchia.
Mentre mi voltavo verso la madre di Figen per
chiederle qualcosa, notai una fotografia appesa al muro.
L’immagine raffigurava quattro uomini in posa davanti
al bel municipio rosa di Beyoğlu. Sotto c’era una scritta
a lettere cubitali: «Il nostro sindaco, l’ingegnere Hayri
Tokcan, e i suoi collaboratori. Uniti per un futuro
radioso». L’emozione fu tale che una delle mie palpebre
cominciò a tremare nervosamente.
«Chi sono quegli uomini?».
«Il nostro sindaco e i suoi collaboratori» rispose la
mia ospite. Come se non sapessi leggere!
«C’è anche Temel Ekşi?».
«Sì». Con il dito mi indicò uno dei quattro. «Lo
conosce? È un uomo fantastico. Che Dio lo protegga! È
stato lui a trovare un lavoro in municipio per mio
marito». Prese un’altra fotografia, incorniciata e posata
sul televisore, e me la diede.
«Sono loro due. Temel è molto affezionato a mio
marito. Dice che le brave persone sono sempre utili».
Mi sentivo la lingua impastata. Per un po’ guardai le
foto in silenzio, poi ritrovai la parola.
«Lo conosce anche lei?».
«Andiamo a casa della gente per far conoscere il
partito. Andiamo in un appartamento e le donne che ci
abitano fanno venire tutte le musulmane del quartiere,

268
poi ci sediamo insieme, chiacchieriamo e parliamo dei
nostri problemi. Le donne fanno domande sul partito e
noi rispondiamo. Spieghiamo quello che faremo quando
il nostro partito andrà al governo. Di giorno siamo tutte
donne, ma la sera ci sono anche i mariti. Agli incontri
serali partecipa anche Temel. A volte, quando si tratta di
compaesani, viene anche di giorno e fa un discorso per
le donne».
«Qui a casa vostra è mai venuto? Sua suocera l’ha
incontrato a qualche riunione?».
La madre di Figen inarcò le sopracciglia. Ero troppo
emozionata per porre le domande in modo che non
notasse niente di strano.
«So che è un ottimo oratore. Pensavo che la vostra
famiglia avesse beneficiato almeno una volta di questo
suo dono».
Era una spiegazione assurda, eppure la donna la prese
per buona. Basta usare parole di lode e nessuno si
accorge che il discorso non ha senso.
«Sì, certo, a volte ci riuniamo qui a casa nostra. E di
solito Temel ci onora con la sua presenza. Quando mia
suocera si è ammalata, è stato lui il primo a sostenerci.
Che Dio lo protegga! Ogni tanto vedo anche sua moglie.
Temel è un uomo molto istruito e sa un sacco di cose
sulla nostra religione. Se tutti i servi di Dio
percorressero la retta via come fa lui… A proposito, lei
non è credente, vero?». Forse l’aveva capito dal mio
abbigliamento. E sì che per la visita avevo indossato
apposta una maglietta girocollo a maniche lunghe e un
paio di jeans.

269
«No, in effetti non credo in niente».
«Non può essere! Tutti credono in qualcosa».
Non avevo voglia di litigare.
«Beh, io non sono turca».
«Non fa nessuna differenza. Chiunque può diventare
musulmano. Nell’Islam non esistono discriminazioni di
razza o lingua».
Dato che ormai avevo saputo quello che mi
interessava, avevo un solo desiderio: andarmene al più
presto. Dal momento che le donne non si devono
circoncidere, mi sarei anche potuta convertire pur di
mettere fine alla nostra conversazione.
Ma non ero disposta a cedere di fronte alla madre di
Figen, che come politica era decisamente brava.
«Mi dispiace, ma non sono credente e non lo sarò
mai» dissi in modo un po’ sgarbato.
Evidentemente la donna capì che stava solo
sprecando tempo. Dondolò leggermente la testa e mosse
le labbra come se stesse pregando. Non valeva la pena
di fare certi discorsi con quelli come me. Con un
cristiano o un ebreo avrebbe potuto discutere per ore e
ore, cercando di stabilire quale fosse la religione
migliore, ma come poteva fare la stessa cosa con una
persona che non aveva nessuna fede?
Nonostante non avessimo argomenti di discussione,
bevemmo un tè insieme. Alla fine, mentre mi infilavo le
scarpe davanti alla porta, si decise a parlare:
«Chi non crede in Dio può fare qualunque cosa. Può
rubare, fornicare… Non ha niente che lo trattenga. Mi
permetta di farle conoscere l’Islam. Quando ne saprà un

270
po’ di più, potrà decidere».
«Grazie per il tè».
«L’Islam è la religione della tolleranza. C’è posto per
tutti…» continuò lei mentre mi allontanavo.
«Sfaticata» bisbigliai salendo le scale. I missionari
cristiani attraversano interi continenti. In questo modo in
un paese buddista come la Corea del Sud sono riusciti a
convertire più della metà della popolazione. Sono un
esempio di diligenza. Cosa fanno invece i musulmani?
Vanno a casa di altri musulmani per ottenere voti, ma si
accorgono di vivere vicino a un non credente solo
quando quest’ultimo bussa alla loro porta. Così sono
capaci tutti di fare proselitismo. Bene, siediti e aspetta
che arrivi il prossimo. È il colmo!

Le cinque erano ancora lontane. Ero così impaziente


che per poco non chiamai Batuhan per anticipare
l’appuntamento. Avevo un motivo più che valido per
essere agitata: avevo appena risolto il caso! Le mie
erano solo congetture, ma potevo lasciare
tranquillamente l’onore della prova alla polizia turca,
che disponeva di laboratori e medici legali. Andando dal
parrucchiere nel nuovo Tower Oteli di Kuledibi riuscii a
rilassarmi un po’.
C’era ancora un punto da chiarire riguardo a Özcan, il
che mi disturbava molto e mi impediva di gioire
appieno per il successo. Perché il fratello più serio e
capace non era tra i soci fondatori della cooperativa di
Osman?
Affidai il negozio a Pelin e andai in un locale con

271
Batuhan. Forse stavo diventando come quei capi
eternamente insoddisfatti dei loro collaboratori. Non
perdevo occasione per lamentarmi di Pelin e della sua
pigrizia, ma in fondo, se potevo lasciare la libreria in
qualunque momento, era solo grazie a lei. Però era
anche vero che usava il mio appartamento come un
albergo. Quanti capi danno ospitalità a un collaboratore
che si presenta alla loro porta con le valigie?

Se alle otto e mezzo volevo fare un ingresso


sfolgorante a casa della madre di Selim, a Nişantaşı, non
potevo perdere neanche un minuto. Senza aspettare che
ci portassero il tè, andai dritta al punto.
«So chi è l’assassino».
Batuhan si mise una mano davanti alla bocca e rise.
«Ma dai! E chi sarebbe?».
Mi stava prendendo in giro. Fosse stato un turco
qualsiasi, non ci avrei pensato due volte e gli avrei
spaccato la testa. Ma con un poliziotto forse era meglio
evitare certe reazioni. Feci tre profondi respiri, cercando
di reprimere la rabbia che mi stava montando dentro.
«Il vicesindaco di Beyoğlu, Temel Ekşi» dissi per
rispondere alla domanda.
Le narici di Batuhan ebbero un fremito. Dalla bocca
gli uscì un suono indistinto.
«Oh baby!» esclamò. Iiihhh, che parola orrenda!
Sopportai con rassegnazione.
«Che c’entra il vicesindaco?».
Se alla polizia avessero consegnato una medaglia
d’oro per meriti straordinari, con il mio aiuto l’avrebbe

272
senz’altro vinta l’uomo che mi sedeva di fronte, anche
se lui era troppo stupido per rendersene conto. Forse
grazie a me gli avrebbero dato anche una promozione.
Poteva diventare addirittura questore!
No, stavo esagerando.
«Allora, tesoro, che c’entra Temel Ekşi?».
Volevo continuare a comportarmi da persona civile.
«Visto che io ti chiamo sempre Batuhan, tu potresti
fare la stessa cosa. Quando parli con me, usa il mio
nome».
«Eh?». Il deficiente fingeva di non aver sentito quello
che avevo detto. Stava tentando di infilarmi l’orecchio
in bocca.
A volte è meglio parlare chiaro e tondo, così gli altri
capiscono subito.
«Usa il mio nome. Chiamami Kati, non baby, tesoro
e cose simili».
Lui piegò bruscamente la testa da una parte e
dall’altra, facendo scrocchiare il collo.
«Okay, Kati. Ti dispiacerebbe spiegarmi che c’entra
il vicesindaco con l’omicidio di Osman?».
«Non si tratta di un solo omicidio, ma di due».
«D’accordo. Adesso spiegati, per favore».
Lo accontentai.
Batuhan ascoltò in silenzio.
«È una buona teoria» disse infine. «Ma è solo una
teoria».
«Certo, se avessi a disposizione uomini, laboratori e
cose del genere…».
«Ho capito, oggi ce l’hai con me».

273
Iiihhh! «Ma no, tesoro, non ce l’ho con te».
«Cos’altro hai scoperto?». Il commissario incaricato
delle indagini che faceva questa domanda a me!
«Prima voglio sapere di chi sospetti tu. Hai
controllato l’alibi di İsmet Akkan?».
«Ha almeno quattro testimoni attendibili. Senza
contare i dipendenti del villaggio vacanze».
«E la sera del delitto è rimasto per tutto il tempo con
queste persone?».
Batuhan annuì.
«Allora chi è stato secondo te?».
Scoppiò di nuovo a ridere.
«Avevo diversi sospettati. Adesso non ne ho più
neanche uno». Davvero divertente! Ah ah ah!
«E l’amica di Osman?».
«İnci?». Pronunciò il nome con un sorrisetto
beffardo.
«Mmh».
«Okay, preparati a rimanere a bocca aperta». Con un
cenno chiese altri due tè al cameriere.
«La cara İnci se la faceva con un altro – il genero di
un uomo importante – e Osman l’aveva scoperto. Due
settimane prima di morire ha chiamato Musa, il fratello
che si occupa del parcheggio qui vicino, e gli ha chiesto
di pedinarla. E Musa l’ha fatto, l’ha seguita notte e
giorno. Adesso capisci con chi abbiamo a che fare?
Giocano ai detective. Chi può farsi venire un’idea del
genere? Comunque İnci non si è accorta di niente. A un
certo punto hanno cominciato a seguire anche l’amante
e hanno scoperto chi è. Osman non è riuscito a

274
occuparsi della faccenda, è stato ucciso prima».
«Chi ti ha raccontato questa storia?».
«Il più piccolo. Özcan».
«E perché non te l’ha raccontata subito?».
«Non importa. La sera del delitto İnci non era a
casa…».
«Fammi indovinare: proprio quella sera Musa non
l’ha seguita. In fondo era chiaro che stava tradendo
Osman, non c’era più bisogno di pedinarla» dissi, un
po’ innervosita.
«Probabilmente è andata così».
«Come sai che quella sera İnci non era a casa?».
«L’ha ammesso lei. Stamattina, in questura. Ci ha
raccontato tutto per filo e per segno. Solo una cosa non
ha voluto dire: il nome del suo amante. Crede che non
lo conosciamo. Sa che potremmo incriminarla, ma non
vuole assolutamente rivelarci come si chiama.
“Dimostraci che quella sera non è andato da Osman” le
abbiamo detto. “Non posso” ha risposto lei. Poteva
almeno provarci. Comunque c’è una cosa che forse non
sai».
«Quale?».
«Poco prima dell’omicidio, alle diciannove e
quattordici, qualcuno ha chiamato Osman proprio dal
telefono di İnci».
«Se hai l’elenco delle chiamate, di sicuro sai anche se
Osman ha parlato con Temel Ekşi».
«Ci arrivo tra un attimo. Un po’ di pazienza, per
favore».
Non potevo pazientare, non avevo tempo. La madre

275
del mio fidanzato compiva gli anni.
«Sbrigati, devo andare al cinema».
«Chiama la tua amica e dille che non puoi» replicò
lui, tirando fuori il telefonino e mettendomelo in mano.
«No, non posso chiamarla. È a un appuntamento di
lavoro. Poi verrà direttamente al cinema».
«Potremmo cenare tutti insieme».
«Meglio di no».
«Dai, ho scoperto un’ottima kebaberia. Tolgono
addirittura i nervi dalla carne. E usano le loro bestie.
Hanno anche il succo di rapa di Adana. Roba da far
venire l’acquolina in bocca».
«Meglio di no» ripetei. «Lascia perdere la cena,
torniamo alle chiamate di Osman».
Lui mi prese la mano che avevo posato sul tavolo.
Non la ritrassi.
«Dobbiamo parlare».
Oh merda, pensai.
«Che mi dici di noi due?».
«Cosa dovrei dirti?» domandai.
Batuhan mi scoccò un’occhiataccia.
«Se devi andare, vai! Non puoi certo arrivare tardi
per colpa mia». Si era offeso. Sempre la stessa storia.
Sono una specie di calamita per gli uomini ipersensibili,
li attiro tutti io. Eppure il mondo è pieno di buzzurri.
Vorrei che una volta tanto fosse un uomo così a
innamorarsi di me, almeno non dovrei usare mille
riguardi.
Il commissario si era alzato.
«Dai, rimettiti seduto».

276
Non se lo fece ripetere. Era un tipo molto suscettibile,
ma non riusciva a fare il sostenuto. Mi conosceva
abbastanza bene da sapere che non l’avrei pregato.
«Sei sposato?» chiesi di punto in bianco.
«Ma che domande mi fai? Perché vuoi sapere se sono
sposato?».
«Se non lo sei, possiamo cenare insieme un altro
giorno. Domani, magari».
«No, domani non posso».
Annuii. Evidentemente aveva detto alla moglie che
doveva lavorare fino a tardi. Non poteva raccontarle la
stessa storia due sere di fila.
«Allora la prossima settimana» proposi.
«Okay» rispose lui, abbassando la testa.
«Sospetti davvero di İnci?».
Batuhan rialzò il capo. «Mi faccio solo delle
domande».
«Che tipo di domande?».
«Tanto per cominciare, chi è il padre del bambino?».
Scoppiai in una risata fragorosa e tutti quelli seduti
agli altri tavoli si girarono verso di noi.
«Non è Osman».
«Davvero?» fece lui. «Come l’hai saputo?».
«Sono andata a trovare l’ex domestica di İnci. Se
vuoi parlare con lei, posso darti il suo indirizzo. Ti
racconterà tutto senza problemi».
«Che cosa dovrebbe raccontarmi?».
«Qualcosa della vita privata di İnci. Pare che il
genero del riccone non fosse il suo unico amante».
«Ah! Ma com’è possibile? Come si fa a gestire tanti

277
amanti?».
«Si usa un cellulare diverso per ognuno» spiegai.
«Cioè?».
«İnci si è comprata un telefonino per ogni amante.
Ciascuno di loro conosceva solo un numero. Se un certo
giorno voleva vedere l’amante X, accendeva il
telefonino corrispondente e lasciava tutti gli altri spenti.
Il giorno dopo accendeva solo quello abbinato
all’amante Y e così via. Aveva tanti cellulari quanti
erano i suoi amanti. O forse dovrei parlare di schede
telefoniche. Non lo so, non me ne intendo. Comunque
non fa differenza. Sfruttava le conquiste della tecnologia
moderna».
«Aspetta un attimo. Tenendola d’occhio Musa
avrebbe sicuramente scoperto che aveva più di un
amante».
«Sì, lo penso anch’io».
«E allora? Qual è la tua teoria?».
«Musa non l’ha pedinata».
«Continua».
«I fratelli di Osman hanno fatto pressione su İnci
perché confessasse. Forse le hanno anche promesso del
denaro o qualcos’altro. E lei ha pensato che ammettendo
l’esistenza di un solo amante avrebbe risolto il problema.
Fossi in voi, insisterei ancora un po’. Sono sicura che vi
dirà anche il nome e l’indirizzo. Non vuole andare in
prigione per omicidio». La mia mente fu attraversata da
un pensiero improvviso.
«Non avrete mica intenzione di torturarla».
«Stai scherzando, vero? Come puoi pensare una cosa

278
del genere? Usare la tortura proprio ora che vogliamo
entrare nell’Unione europea! E poi il nostro è uno stato
di diritto. Non si usano più certi metodi. Che idea
assurda!».
«Hai ragione, è proprio un’idea assurda». Socchiusi
comunque gli occhi e lo scrutai in volto. Non ci si può
mai fidare del tutto di un poliziotto.
«Quindi? Di chi è il bambino?».
«La domestica ha detto solo che non è di Osman.
Naturalmente non so se è vero. Nessuno può saperlo».
«Come mai è convinta che non sia di Osman?».
«Le è capitato di sentire alcune telefonate. Pare che
İnci abbia rinunciato all’azione per il riconoscimento
della paternità. Ha consultato un avvocato, ma alla fine
non ha fatto niente».
Disgustato, Batuhan fece finta di sputare sul tavolo.
Era chiaro che voleva sputare su İnci o sui suoi amanti.
«Mio Dio, certa gente non sa proprio cos’è la
decenza!».
Risposi con un’alzata di spalle.
«Ho parlato con Temel Ekşi» continuò lui, facendo
una smorfia. Sembrava che avesse appena mangiato un
limone.
«Perché?» domandai.
«Dall’elenco delle chiamate è emerso che Osman gli
aveva telefonato spesso. Sono andato in comune e
abbiamo chiacchierato un po’. Ma lui non ha fatto
neanche un accenno al terreno assegnato alla
cooperativa del morto. Mi ha detto: “Conosco Osman,
ha un paio di parcheggi qui a Beyoğlu. Stava cercando

279
un terreno per farne un altro a Kasımpaşa, per questo ci
siamo sentiti spesso negli ultimi tempi”. Mi è sembrata
una spiegazione logica, quindi non ho insistito. Non
potevo immaginare che…». Si prese la testa tra le mani.
«Ci siamo, è quasi finita».
«Non ne sono così sicura. Avete trovato qualche
impronta sul coltello con cui è stata uccisa la vecchia?».
«Ecco, questo è importante. Brava!».
«Allora?».
«No, nessuna impronta». Dal modo in cui lo disse
capii che c’era dell’altro.
«Che cosa avete trovato?».
«La signora aveva in mano un capello. Deve averlo
strappato all’assassino. Probabilmente l’ha afferrato per
i capelli mentre veniva colpita».
«Di chi è?». Non potete neanche immaginare quanto
fossi agitata.
«Ancora non lo sappiamo. Lo stiamo confrontando
con i campioni».
«I campioni di chi?».
«Di tutti. Non abbiamo escluso nessuno dalla lista dei
sospetti».
«Avete un campione di Temel Ekşi?».
«No. Fino a questo momento non sapevo… E non
credo che ci darà un campione di sua spontanea volontà.
Ci vorrà un ordine del giudice. Ma, a parte le telefonate,
non abbiamo niente contro Ekşi. Non sarà facile
convincere il procuratore. Vedremo».
Diedi un’occhiata all’orologio. Il tempo era volato.
Dovevo scappare.

280
«Ancora una cosa» dissi. «Özcan non è tra i soci
fondatori della cooperativa. Osman ha coinvolto tutta la
famiglia tranne lui. Non ti sembra strano?».
«Sì, in effetti è strano» rispose Batuhan, facendo
scrocchiare le dita. «Molto strano».
«All’inizio hanno accusato lo zio, adesso vogliono far
ricadere la colpa su İnci… I fratelli di Osman cercano
continuamente di dirigere i sospetti verso qualcun altro.
Ci hanno provato anche con me. Volevano far credere
che fossi stata io».
«Ma nel tuo caso non hanno ottenuto niente».
«Niente? Mi avete interrogato!».
«Non metterla giù dura. Se non ricordo male, te la sei
cavata dicendo che tuo padre è il ministro degli Interni
tedesco».
«Mio padre è morto».
«Sì, ma loro non lo sanno. Gli hai messo paura».
Avevo le gambe accavallate e muovevo il piede a
mezz’aria. L’idea di far paura a qualcuno mi era sempre
piaciuta.
«Che farai quando me ne sarò andata?» chiesi.
«Cercherò di dimenticare i problemi tra le braccia di
mia moglie».
Senza volerlo spalancai gli occhi e smisi di muovere
il piede.
«Non c’è nessuna moglie» aggiunse lui. «Non sono
sposato. Se non mi credi, ti faccio vedere la carta
d’identità».
Che me ne importava? Perché mi impicciavo della
sua vita coniugale? O meglio, perché volevo sapere se

281
era sposato o no?
«Okay, fammela vedere».
Batuhan frugò nelle tasche dei pantaloni e tirò fuori
un portafoglio, un mazzo di chiavi, un pacchetto di
fazzoletti di carta mezzo vuoto, una biro e un taccuino
con diverse orecchie. Il cellulare, le sigarette e
l’accendino si trovavano sul tavolo fin dall’inizio.
«Dov’è la carta d’identità?».
«Mi sa che non l’ho presa».
«Ma fammi il piacere! Guarda nel portafoglio».
Il commissario aprì uno scomparto dopo l’altro.
Niente. Solo una misera quantità di denaro. I funzionari
statali non se la passano bene in Turchia.
«Va be’, me la farai vedere la prossima volta».

La serata andò benissimo. Primo: Belkış, la madre di


Selim, si mostrò molto contenta per il mio regalo.
Secondo: alla festa era presente tutto il parentado, ma
nessuno si aspettava che parlassi. Aprii bocca solo per
rispondere alle domande, facendo così un’ottima
impressione. Mi giudicarono una donna seria, riservata
e degna di rispetto. Proprio il tipo di persona che piace
ai turchi.
Naturalmente Selim si insospettì per il mio
comportamento e appena entrammo in ascensore mi
domandò perché avessi recitato la parte «dell’usignolo
che ha mangiato le more». Gli chiesi che cosa
significava. Era un’espressione che non avevo mai
sentito, però la trovavo interessante. Ora so che viene
usata per indicare una persona che di solito non sta zitta

282
un attimo e all’improvviso, come me quella sera,
diventa taciturna.
«È che in testa ho una gran confusione» spiegai.
«Tohuwabohu».
«Cosa?».
«Il caos. È un termine dell’Antico Testamento: tohu
wavòhu. Compare nella seconda frase del primo libro.
Nell’originale ebraico è usato per descrivere lo stato in
cui versava il mondo prima che Dio facesse ordine. In
sostanza significa proprio caos, confusione. Esistono
diverse traduzioni: la terra era buia e vuota, la terra era
informe e deserta, la terra era vuota e il cielo non aveva
forma… Ma il senso è lo stesso: la terra era un caos».
«E la mia caotica fidanzata parla come
un’enciclopedia» osservò lui. «Com’era? Tohutu?».
«Tohuwabohu. Comunque non sono caotica. Non
come il tuo paese, per lo meno».
Spostando i capelli, Selim mi posò un bacio sulla
nuca. Perché gli uomini non prendono mai sul serio le
riflessioni politiche e intellettuali di una donna?
«Sentiamo, Frau Hirschel, che cosa c’è di caotico nel
mio paese?». Mi aveva abbracciato e mi stava
stringendo a sé.
«Questo omicidio, per esempio».
Mi passò le dita tra i capelli.
«Hai ragione» disse.
Eravamo arrivati al parcheggio, quindi uscimmo
dall’ascensore.

In macchina gli raccontai una parte dei fatti e lui mi

283
ascoltò senza emettere suono. Poi, arrivati a casa, mi
sedetti sul divano con un cognac e terminai il resoconto.
«Allora, dov’è il problema?» chiese alla fine.
«Che significa “dov’è il problema”?».
«Cos’è che non ti dà pace?».
«Forse Temel Ekşi non c’entra niente, forse gli unici
colpevoli sono i fratelli di Osman. Magari hanno
incaricato dell’omicidio il più piccolo perché è ancora
minorenne e può contare su una pena più lieve. Poi la
vecchia ha capito di aver visto l’assassino ed è stato
necessario uccidere anche lei. È anche possibile che
Özcan si sia infuriato per l’esclusione dalla cooperativa.
Magari è andato dal fratello maggiore per parlare, è
scoppiata una lite… E gli altri sanno tutto, ma non
vogliono denunciare Özcan. Sì, questa mi sembra
l’ipotesi più logica».
«Ti sbagli» rispose Selim. «Se l’unico motivo che
riesci a trovare per una lite tra fratelli è l’esclusione di
Özcan dalla cooperativa, allora la tua ipotesi non è per
niente logica».
«Perché?».
«Se Özcan è minorenne, non può essere socio
fondatore di una cooperativa. Bisogna avere almeno
diciotto anni. Può farsi rappresentare da qualcun altro,
ma non può essere un socio fondatore».
Mi bruciavano gli occhi come se qualcuno ci avesse
buttato del pepe.
«Puoi ripetere?».
Me lo spiegò un’altra volta.
Avere un compagno avvocato è una cosa fantastica.

284
Gli avvocati sono persone utilissime. E quelli che usano
il nome della loro amata come password sono senz’altro
i migliori. Anche nella vita privata. A volte le risposte
che cerchiamo non sono così difficili. Amate e onorate i
vostri avvocati. A volte sono proprio le cose più facili
che ci sfuggono. Possibile che Özcan non avesse niente
contro il fratello maggiore? Con la mia esperienza non
potevo capire che non c’era rancore tra i due? Rimaneva
una domanda: di chi era il capello trovato nella mano
della vecchia?

Al mio risveglio era di nuovo sabato mattina. Uscii


senza disturbare Selim. Personalmente non riesco a
capire come una persona che durante la settimana si
sveglia tutti i giorni alle sette possa dormire fino a
mezzogiorno quando non deve andare al lavoro.
Nell’appartamento di Selim non c’era niente che potessi
indossare per l’incontro con Yılmaz a Firuzağa, quindi
dovetti tornare a casa per cambiarmi. Pelin era ancora a
letto. Andai nello studio e controllai la segreteria
telefonica. Lampeggiava. Il padrone di casa voleva
ricordarmi che dovevo pagare la tassa sui rifiuti. Roba
da matti! Avevo pagato quel che dovevo già da un
pezzo. Anche l’arretrato dell’anno prima.
Non c’erano altri messaggi.
Mentre mi infilavo i pantaloni suonò il cellulare.
Capii subito chi era. Batuhan.
«Ho i risultati di laboratorio» mi annunciò.
Deglutii.
«Chi è stato?» riuscii a chiedere dopo un attimo.

285
Dall’altro capo della linea giunse il rumore di un
accendino.
«Nessuna corrispondenza con i nostri campioni».
«C’era anche quello di Özcan?».
«Sì. Stanotte non ho chiuso occhio e ho riflettuto
sulla tua teoria. Mi sembra plausibile, anche se in questi
casi non si sa mai. Dovremo procedere per tentativi.
Non abbiamo neanche una prova. Speriamo che Temel
ci dia un campione senza fare storie. Ho parlato con
alcuni colleghi di Beyoğlu. Pare che il tuo sospettato sia
un tipo molto particolare. Gira sempre armato e ha una
magnum con l’impugnatura d’oro di cui va molto fiero.
Fa su e giù per viale İstiklal come un vero cowboy.
Inoltre ha dei precedenti. Ha aggredito un poliziotto
davanti all’istituto di cultura francese».
«E l’arma non è registrata?».
«Quella con l’impugnatura d’oro? Certo che è
registrata. Ho fatto controllare il porto d’armi. Risulta
una sola pistola a suo nome e non è quella con cui
hanno sparato a Osman. Però certa gente non si
accontenta. Quelli del Mar Nero vanno pazzi per le armi.
Ti ho telefonato per questo, per dirti che forse è la pista
giusta. Potrei essere in debito con te».
«Non preoccuparti, ho fatto solo il mio dovere di
cittadina». Non riuscii a trattenere un’ultima domanda.
«Hai scoperto chi è il padre del bambino?».
«Ne parliamo a tavola» fu la risposta.

286
11

Mercoledì sera, prima di andare a cena con Batuhan,


m’inventai una bugia per Selim. Dovevo uscire con un
poliziotto, anzi con il capo della squadra omicidi, ma
non c’era bisogno che lo dicessi a qualcuno. Tanto
meno al mio fidanzato.
Batuhan mi fece salire sulla sua auto rossa fiammante
e si diresse verso la kebaberia che aveva scoperto da
poco, percorrendo una serie di strade secondarie nel
quartiere di Aksaray e sbucando infine vicino al mare.
Per me fu una totale sorpresa. D’altronde Istanbul è una
città enorme, non ci si può aspettare che i suoi abitanti la
conoscano tutta. Di sicuro quelli come me, che sono
diventati stambulioti in un secondo momento, non
possono conoscere ogni quartiere. E poi io sono
un’esteta, perché dovrei frequentare Aksaray? L’unica
attrazione del quartiere è una bella moschea. Una
bellissima moschea, in realtà. Fra tutte quelle di Istanbul
è la più ricca di ornamenti. Inoltre è dedicata a una
donna, Pertevniyal Valide Sultan. Se però mi chiedete
qual è la mia preferita, quella che mi tocca più nel
profondo, non ho dubbi: è la moschea di Süleymaniye,
progettata dall’architetto Sinan e costruita su una delle

287
sette colline della città. Il suo profilo domina la storica
penisola dove sono concentrate quasi tutte le
testimonianze architettoniche di Bisanzio, di
Costantinopoli e dell’Impero ottomano. Insieme agli
altri edifici storici della zona, tra cui l’Università di
Istanbul, forma un insieme di impareggiabile armonia.
Per me, la moschea di Süleymaniye è un elemento
fondamentale della città.

La kebaberia di Batuhan si trovava vicino ad Aksaray,


in un quartiere chiamato Samatya. In quasi quindici anni
di vita a Istanbul c’ero stata solo un paio di volte,
sempre di domenica, per una passeggiata. Samatya è un
quartiere molto bello e antico e il locale gli faceva
grande onore con i suoi antipasti e le pizze alle nocciole.
Purtroppo, però, l’argomento di discussione mi fece
passare l’appetito ancor prima di arrivare al kebab.
Non c’erano più dubbi, Temel Ekşi aveva ucciso la
vecchia. Il capello trovato nella mano della signora e il
campione prelevato dal vicesindaco contenevano lo
stesso DNA. Per un po’ Temel aveva provato a negare,
ma alla fine aveva confessato.
Mi ci volle un attimo per metabolizzare la notizia.
Avevo risolto il caso! Non c’era spazio per la falsa
modestia, era tutto merito mio. Lanciai un’occhiata
all’uomo che mi sedeva di fronte, intento a spalmare la
pasta di peperoni piccanti su un pezzo di pane. Senza il
mio aiuto avrebbe mai visto un collegamento tra i due
omicidi? Sarebbe mai giunto alle stesse conclusioni?
Forse sì.

288
Ma che differenza faceva?
Dovevo essere meno orgogliosa di me stessa?
Assolutamente no!
Avevo risolto il caso!
«Osman» disse Batuhan, mettendo in bocca il pane.
Eh sì, rimaneva l’omicidio di Osman… Temel Ekşi
aveva parlato di una lite che si era fatta via via più
violenta. Aveva sparato solo per legittima difesa,
ferendo Osman alla gamba. Dopodiché aveva lasciato di
corsa l’ufficio e aveva saputo dell’omicidio leggendo il
giornale.
«Quindi lo accuserete dell’omicidio della vecchia e di
lesioni personali a Osman?».
«Probabilmente sarà accusato di gravi lesioni
personali con conseguenze mortali».
«Mmh». La risposta di Batuhan mi sembrava un po’
troppo complicata.
«Però, tutto sommato, Osman è morto per il colpo
esploso dalla pistola di Temel».
«Non hai capito» replicò lui, la testa tra le mani e la
bocca che si muoveva. Stava ancora masticando il pane.
Vidi il boccone scivolare giù per la gola.
«Allora?» lo pungolai.
Evidentemente c’era qualcosa che non voleva
raccontarmi.
«Che cosa non ho capito?».
«Se Osman avesse chiamato aiuto, non sarebbe
morto. Un’operazione avrebbe potuto salvarlo».
Mi strinsi nelle spalle.
«Può darsi, ma non l’ha fatto. Forse non conosceva il

289
numero del pronto intervento. O forse ha picchiato la
testa contro qualcosa ed è svenuto. Magari non è
riuscito a raggiungere il telefono…».
Batuhan mi interruppe.
«Nella stanza non c’era nessun telefono».
Bevvi un sorso di vino bianco. Forse il vino non è la
cosa più adatta da bere in una kebaberia, ma in fin dei
conti sono tedesca e non posso rinunciare a tutte le mie
abitudini per adottare quelle dei turchi.
«Vuoi dire che non c’era un telefono fisso?».
«No, non c’era nessun tipo di telefono».
Devo ammettere che lì per lì non mi sembrò una
questione da approfondire.
«E cosa avrebbe dovuto fare Osman? Gridare dalla
finestra? È questo che dice Temel?».
Il commissario rimase un po’ sorpreso.
«Temel? Perché dovrebbe dire una cosa del
genere?».
«Per tirarsi fuori da questo guaio» spiegai.
«Dimentica Temel Ekşi». Come se non desiderassi
altro che parlare del vicesindaco!
«Ma è lui l’assassino, no?».
Batuhan buttò giù una sorsata di rakı.
«Zitta e ascolta. Temel e Osman litigano. Ah, no,
prima è successa un’altra cosa». Sembrava che stesse
parlando da solo.
«Suona il cellulare. Osman risponde e parla con İnci.
Lei dice di averlo chiamato più o meno a quell’ora e
Temel conferma che c’è stata una breve telefonata.
Mentre Osman parla con la sua amichetta, qualcuno

290
suona alla porta. Qui abbiamo la conferma di İnci, che
ha sentito il campanello».
Erano cose che sapevo già.
«Okay, vai avanti».
«Osman mette fine alla telefonata e apre la porta.
Temel lo sente parlare con una donna, o meglio,
gridare».
«Vai avanti» dissi ancora. Poi, di scatto, mi raddrizzai
sulla sedia.
«La donna vede Temel? Se lo vede, perché non va
alla polizia?».
«No, non lo vede. Comunque non è questo il
problema. Posso continuare? Se mi dai un secondo, ti
spiego tutto».
Con un cenno della mano gli feci capire che doveva
essere breve.
«Osman non invita la donna a entrare. La lascia fuori
dalla porta e dopo un po’ la manda via. Temel capisce
che è molto arrabbiata, la sente urlare e imprecare.
Anche Osman alza la voce e alla fine lei se ne va».
Vi giuro che fin qui non avevo ancora capito niente.
Ero tranquillissima. «A questo punto scoppia la lite tra
Osman e Temel, giusto?».
Batuhan annuì. «Il seguito più o meno lo conosci.
Litigano, parte un colpo e Temel scappa. Quando esce
dalla stanza, però, il cellulare di Osman è sul tavolo».
«Ma non c’era un telefono fisso?» domandai di
nuovo.
«Prima c’era, ma nessuno pagava la bolletta e alla
fine hanno tagliato i fili. Pare che Osman facesse tutto

291
con il cellulare».
«Stai dicendo che qualcuno l’ha portato via?».
Fece di sì con la testa.
«Qualcuno che voleva impedire a Osman di chiedere
aiuto per telefono. Qualcuno abbastanza sveglio da
capire che senza soccorsi sarebbe morto».
L’aveva detto come se volesse lusingarmi.
Guardandomi di traverso con occhio scrutatore.
E aria bramosa.
Per un attimo rimasi disorientata.
Poi capii tutto e mi portai una mano al petto come se
non riuscissi a respirare. «Io? Credi che sia stata io?».
Pensava che avessi portato via il cellulare di Osman?
Che gli avessi impedito di chiedere aiuto?
Nel suo sguardo non c’era più traccia di ironia.
Sembrava addirittura più serio del giorno in cui mi
aveva interrogato.
«Sì, potresti essere tu la donna che ha suonato alla
porta mentre Temel si trovava in quell’ufficio».
«Aspetta un attimo». Per fortuna il mio cervello
aveva ripreso a funzionare. «Può darsi che sia stato
proprio Temel a portare via il cellulare».
«Sì, è possibile. Senza dubbio».
«Magari si è inventato tutta la storia».
«Può essere».
«Quindi?».
«Temel è convinto di aver ucciso Osman. Dice che
non voleva farlo, che qualcosa è andato storto. Non è
stato lui a farmi notare la mancanza del telefono».
«Ci credo! Se ha preso lui il cellulare, perché avrebbe

292
dovuto attirare la tua attenzione su questo punto?».
«Temel ha confessato di aver sparato a Osman. Non
sa di preciso a che ora, ma dovevano essere più o meno
le sette e mezza. Quando è uscito dal palazzo non era
ancora buio. Ha sentito qualcuno che lo chiamava, si è
girato e ha visto la vecchia. Aveva aperto la finestra per
invitarlo a cena. Temel ha dovuto scambiare qualche
parola con lei, per rifiutare l’invito. Poi si è diretto a
piedi verso Karaköy».
«E la pistola?».
«Che vuoi sapere della pistola?».
«L’ha buttata in mare una volta arrivato a Karaköy?».
«No. Stiamo parlando di una superpistola. Una
magnum. Uno come lui non butterebbe mai un’arma del
genere! Ha cambiato la canna e limato il numero di serie,
poi l’ha nascosta in casa. L’abbiamo già trovata. Se non
ci fossero state le sue impronte nell’ufficio di Osman e
avessimo avuto solo la pistola come prova, non sarebbe
stato facile incastrarlo. Per fortuna ha confessato senza
crearci troppi problemi».
«È una cosa che si fa spesso? Cambiare la canna,
intendo».
«Beh, le pistole costose non si buttano neanche se
sono bruciate. La gente preferisce adottare metodi meno
drastici».
«In che senso “bruciate”?».
«Se un’arma viene usata per commettere un reato,
poi si dice che è bruciata». Ridendo mi mostrò i denti
bianchissimi. «Vedi quante cose impari grazie a me?».
«Oh sì, cose utilissime. Perché ha ucciso la vecchia?

293
Vi ha detto anche questo?».
«Il motivo è quello che hai intuito tu fin dall’inizio».
Mi guardò di nuovo con aria di approvazione. «Aveva
paura che nel corso delle indagini avremmo fatto
qualche domanda anche alla signora».
«Non aveva nulla da temere. La polizia preferisce
interrogare le libraie, non ha tempo per fare domande ai
vicini».
Batuhan si grattò la nuca, poi inclinò la testa da una
parte e dall’altra, producendo lo scricchiolio che già
conoscevo.
«Ci sarebbe un’altra cosa» disse, ma invece di
continuare mi scrutò in silenzio.
«Quale cosa?» domandai.
«L’appartamento che Osman usava come ufficio sarà
presto messo in vendita. Se non sbaglio lo volevi tu».
«Sì, e allora?».
«Niente».
«Guarda che l’ho detto anche in questura. Ero
interessata a comprare l’appartamento, quindi volevo
dare un’occhiata all’interno. Per questo ho litigato con
Osman».
Lui annuì.
Mi trovavo in una brutta situazione, lo devo
ammettere.
Il giorno prima dell’omicidio Osman e io avevamo
litigato davanti alla porta dell’ufficio ed eravamo
addirittura arrivati alle mani. Lo stesso giorno del delitto,
quando lui era venuto a cercarmi in negozio, l’avevo
colpito in testa con un posacenere. Era possibile che

294
quella sera, per scaricare la rabbia, fossi tornata al suo
ufficio e avessi litigato un’altra volta con lui. Ma non
me n’ero andata dopo che mi aveva sbattuto la porta in
faccia. Mi ero fermata sulla scala e mentre ero seduta lì
avevo sentito uno sparo, poi avevo visto Temel correre
via, ero entrata nell’appartamento e avevo impedito a
Osman di chiamare aiuto… Era possibile. Avevo anche
un movente: volevo l’appartamento. Sarei riuscita ad
averlo con Osman in vita? Forse non ci sarei riuscita
neanche dopo la sua morte. Non ero sicura che i fratelli
me l’avrebbero lasciato senza fare storie.
«Temel ha lasciato la porta aperta?» chiesi.
«Non se lo ricorda. Ma è possibile».
«E la mattina dopo… Chi ha trovato il cadavere? È
stato uno dei fratelli di Osman, ma… ho dimenticato
quale».
«Musa».
«Giusto, Musa. Quando è arrivato, la porta era
chiusa?».
«Sì».
«E tu credi che dopo la fuga di Temel e prima
dell’arrivo di Musa una donna sia entrata
nell’appartamento e abbia preso il cellulare dal tavolo,
uccidendo di fatto Osman?».
«Sì, credo che sia andata così».
«Ma Osman avrebbe potuto aprire la finestra e
gridare». Avevo già sollevato la questione della finestra,
senza però ottenere una risposta soddisfacente.
Batuhan inspirò profondamente ed espirando emise
un lungo «Pfff».

295
«Chi l’avrebbe sentito? Prova a gridare da una
finestra che dà sul Bosforo. Dubito che i pescatori di
Karaköy verrebbero di corsa in tuo aiuto. E nel palazzo
non c’era nessun altro».
«Quindi l’ufficio di Osman non si affaccia sulla
strada?».
Lui socchiuse gli occhi e mi fissò.
«Vuoi farmi credere che non ci sei mai stata?».
«Non voglio farti credere proprio niente. È la verità,
non sono mai entrata in quell’ufficio. Sono stata nel
laboratorio al piano di sotto e ti assicuro che lì c’è una
stanza che si affaccia sulla strada».
Batuhan si appoggiò allo schienale.
«Un attimo» feci all’improvviso. «Puoi ripetere
quello che hai detto?».
«Cosa?».
«A proposito del palazzo. Hai detto che non c’era
nessun altro. Dov’erano gli operai che stanno
ristrutturando l’ultimo piano?».
«Sono tutti lavoratori in nero» rispose il commissario.
Ma che c’entrava?
«Non hanno sentito niente?».
«Proprio quel giorno l’amministrazione comunale ha
fatto mettere i sigilli all’appartamento dell’ultimo piano
perché i lavori non sono stati autorizzati. Trattandosi di
un edificio storico, quindi protetto, prima di modificare
qualunque cosa bisogna chiedere il permesso.
Evidentemente il nuovo proprietario non l’ha fatto. Se
potessimo dimostrare che dietro questa storia c’è Temel
Ekşi, che è stato lui a far mettere i sigilli perché voleva il

296
palazzo vuoto, potremmo affermare che ha ucciso
Osman in modo premeditato. Però ho i miei dubbi».
«Sul fatto che possiate provarlo? O sul fatto che sia
stato lui a interrompere i lavori?».
«Sembra che Temel non c’entri con i sigilli.
L’amministrazione comunale è intervenuta in seguito
alla denuncia di un vicino. Uno dei tanti intellettuali
eccentrici che vivono a Kuledibi. Ha visto qualcosa e si
è lamentato».
«Chi è questo vicino?».
«Uno che vuole difendere il quartiere. Un tizio con
l’hobby dell’architettura». Batuhan fece una risatina.
«In questo paese mancheranno tante cose, ma di certo
non mancano gli svitati».
«Hai parlato con lui?».
«Certo, e in effetti si è lamentato. È uno che passa più
tempo in comune che a casa sua. Basta che qualcuno
pianti un chiodo e lui corre a denunciarlo».
«Secondo me fa bene».
Non pensate che mi piacciano le spie. Non mi
piacciono per niente, ma non si può fare di ogni erba un
fascio. C’è una bella differenza tra quelli che in epoca
nazista hanno denunciato le famiglie di ebrei che si
nascondevano nelle cantine e quelli che vogliono
salvare la città o il quartiere in cui vivono dalle brutture
moderne.
Basta fare un giro a Kuledibi per capire di quali
brutture sto parlando. Negli anni Settanta e Ottanta sono
stati aggiunti illegalmente uno o due piani a tutti i
bellissimi edifici che si affacciano sulla piazza

297
principale. Quasi in ogni casa è stato abbattuto un muro
portante, ignorando colpevolmente i numerosi terremoti
già registrati a Istanbul. Poi, attraverso passaggi poco
chiari, sono state ottenute tutte le autorizzazioni
necessarie per questi piani abusivi, costruiti senza
alcuno stile, e così oggi non si può demolire niente.
«Quindi gli operai non erano nel palazzo al momento
del delitto».
«No, hanno preso tutte le loro cose e sono spariti
prima che mettessero i sigilli».
«Le loro cose?».
«Vivevano nell’appartamento che stavano
ristrutturando. Per non spendere soldi».
«Li hai rintracciati?».
«Sai quante persone lavorano in nero in questo
paese?».
«Non ne ho idea» ammisi.
«Beh, si stima che siano più di un milione. Un
milione di lavoratori di cui non sappiamo niente, né il
nome né l’indirizzo. E sono quasi tutti concentrati a
Istanbul».
Ve lo dico chiaro e tondo: questi discorsi non mi
interessano. In passato mi sono data da fare perché le
persone potessero circolare liberamente come le merci.
«Ho capito, non li hai trovati».
«Non li ho trovati perché non ho neanche provato a
cercarli. I sigilli sono intatti, non c’è motivo di pensare
che qualcuno abbia trascorso la notte in
quell’appartamento».
Arricciai il naso. «Non c’è neanche motivo di pensare

298
che una donna abbia portato via il cellulare di Osman».

Non mi ero mai trovata in una situazione simile. Era


una cosa tutt’altro che normale. Accanto a me, in
macchina, era seduto un uomo che mi riteneva
un’assassina o quanto meno una possibile assassina, un
uomo che teneva una mano sul volante e
contemporaneamente cercava di infilare l’altra tra le mie
cosce. Premetti le gambe contro la portiera, in modo che
il suo braccio non potesse raggiungerle.
«Sono ancora una sospettata, no?».
Batuhan picchiò il palmo della mano sul volante, ma
non disse niente.
Avevamo superato la moschea di Valide Sultan e ci
stavamo dirigendo verso Unkapani.
«Da quella sera il cellulare non è stato più usato?».
Nessuna risposta.
«Da quella sera il…». Mi interruppe prima che
potessi rifare la domanda.
«Ho una moglie, ma siamo separati. Abbiamo deciso
di divorziare».
Alzai gli occhi e guardai il tetto dell’auto. Cosa
dovevo dire?
«Mi dispiace».
«Ti dispiace?».
«È triste che due persone decidano di divorziare.
Avete figli?».
Lui accese una sigaretta e dondolò il capo con aria
pensierosa.
«Ho capito» dissi. «Ho capito perfettamente».

299
Per un po’ nell’abitacolo regnò il silenzio, poi,
quando non ne potevo quasi più, Batuhan si decise a
parlare. «No, il cellulare non è stato più usato.
Probabilmente si trova da qualche parte sul fondo del
Bosforo».
«Prima non ti eri accorto che mancava il telefono?».
Sembrava fosse tornato completamente in sé. «Certo
che me n’ero accorto, ma non si trovava neanche la
pistola da cui Osman non si separava mai e quindi
pensavo che l’assassino avesse portato via tutte e due le
cose. Solo dopo abbiamo capito che i fratelli di Osman
hanno fatto sparire la pistola prima dell’arrivo della
polizia perché si trattava di un’arma acquistata
illegalmente. Per quanto riguarda il telefono,
brancoliamo ancora nel buio».
«Può darsi che Temel abbia mentito dicendo di non
aver preso il cellulare. Magari è stato proprio lui a
portarlo via».
«È possibile» rispose lui con un sibilo. «Ma se lo
vedessi capiresti perché secondo me non è stato lui».
«Perché?».
«È un uomo molto semplice, anche se non è stupido.
Lo definirei un sempliciotto con tanti soldi. Non è il tipo
che pensa: “Porto via il cellulare, così non può chiedere
aiuto”. Se avesse voluto uccidere Osman, gli avrebbe
sparato un altro colpo. Non avrebbe dato nessuna
importanza al telefonino».
«Di certo non l’ha preso per venderlo, non ne ha
bisogno» osservai.
«Già. Non credo proprio che l’abbia preso lui, non si

300
incastra nel puzzle».
«Cosa?».
«Stona con il resto».
«Magari qualcuno che passava di là in quel momento
è entrato nell’ufficio, ha preso il cellulare dal tavolo ed è
uscito. Poi ha tolto la scheda, l’ha buttata via e ha
venduto il telefono». Stavo pensando agli operai
clandestini che vivevano nell’appartamento al piano
superiore.
«Anche questo è possibile, ma c’è una cosa che non
mi convince. Osman è stato trovato vicino alla porta
d’ingresso. Evidentemente si è trascinato fin lì. Se il
telefono fosse stato al suo posto, non si sarebbe diretto
verso la porta, ma avrebbe strisciato fino al tavolo per
chiamare i soccorsi. Il fatto che sia andato verso la porta
significa che era l’unico modo per chiedere aiuto.
Quindi Osman era ancora vivo quando la persona
misteriosa è uscita dall’appartamento con il telefonino».
«E allora?».
«Primo: se il cellulare fosse stato ancora sul tavolo,
Osman avrebbe potuto usarlo per chiedere aiuto e non si
sarebbe trascinato fino alla porta. Secondo: nessuno
entra in un appartamento e scavalca un cadavere solo
per rubare un telefonino. Osman aveva il portafoglio in
tasca, l’orologio al polso e una pistola nel cassetto della
scrivania. Un ladro avrebbe preso tutto».

301
12

Quando Batuhan mi fece scendere sotto casa, vidi


che in soggiorno la luce era accesa. Doveva esserci
Pelin. Invece di aprire la porta con la chiave, per pura
cortesia suonai il campanello.
La mia aiutante mi fece entrare con le guance in
fiamme. Stravaccato sul divano, i piedi infilati in due
enormi stivali, c’era un ragazzo che non conoscevo. Il
fatto che una persona porti ospiti in una casa dove è a
sua volta ospite mi sembra già abbastanza strano. Se poi
qualcuno ha anche il coraggio di mettere due scarpe
grosse così su un divano griffato, c’è solo una parola da
usare: scandalo!
Tutta imbronciata salutai Pelin e mi avviai verso lo
studio. Mentre mi allontanavo, sentii il maleducato con
gli stivali che diceva: «Però, mica male il tuo capo».
Avevo chiaramente raggiunto quell’età in cui una
donna piace molto ai ragazzi. Purtroppo la cosa non era
affatto piacevole.
Neanche mi cambiai; mi sedetti subito alla scrivania e
presi in mano la lista di domande della settimana prima.
Avevo cancellato una frase: Chi mente: Habibe o İnci?
Mi alzai per chiudere la porta e non sentire le voci

302
che arrivavano dal soggiorno. Tornata alla scrivania mi
accorsi di avere sete, quindi andai in cucina. Presi un
grosso bicchiere d’acqua, un altro pieno di cubetti di
ghiaccio e una bottiglia di whisky; così rifornita mi
spostai di nuovo nello studio. Per fortuna
l’appartamento era abbastanza grande da permettere a
tre persone di non incontrarsi.
Mi risedetti alla scrivania.
Rimasi lì a fumare, bere whisky e fissare il mobile
pieno di libri.

Non avevo voglia di struccarmi e di applicare la


crema da notte con piccoli movimenti circolari, quindi
ero andata a letto senza fare niente. Al risveglio,
tentando di aprire l’occhio destro persi un paio di ciglia.
Non mi ero neanche lavata i denti. Mi sentivo uno
straccio.
Andai in bagno e vedendo gli occhi iniettati di sangue
riflessi nello specchio mi sentii ancora peggio. Riempii
la vasca ed entrai in acqua.
Dopo un quarto d’ora infilai l’accappatoio, avvolsi un
asciugamano intorno alla testa e tornai un’altra volta
nello studio. La stanza era ancora piena del fumo caldo
della sera precedente. Mi accesi una sigaretta. Pelin era
già sveglia; il ragazzo se n’era andato. Facendo capolino
dalla porta mi salutò con un allegro «Buongiorno!».
«Vai tu ad aprire il negozio?» domandai.
Una richiesta simile non poteva certo rovinare il suo
buonumore.
E infatti la risposta fu: «Okay, capo, vado subito».

303
Aprii la portafinestra per arieggiare l’ambiente,
spensi la sigaretta e andai a vestirmi.

Dopo un po’, con una tazza di tè verde in mano,


rientrai nello studio per chiamare Habibe. Era ancora
molto presto per chi non aveva un orario di lavoro fisso.
Il telefono squillò a lungo, ma alla fine una voce
assonnata disse: «Pronto».
«Buongiorno, sono Kati». Feci una breve pausa
durante la quale mi chiesi quale fosse il modo migliore
per ricordarle chi ero.
«Buongiorno, come va?» domandò lei.
«Ti ricordi chi sono?».
«Certo. Non sei un tipo che si dimentica facilmente».
Scoppiamo a ridere. Evidentemente Habibe era una
di quelle rare persone che riescono a ridere subito dopo
il risveglio.
«Non sei ancora partita, eh?».
«No, in questo periodo basta la mia socia per
mandare avanti la pensione. Gli ospiti sono pochissimi».
«Ti ho svegliato?».
«No, no, ero già sveglia. Però ero ancora a letto. Hai
fatto bene a chiamare».
«Senti, vorrei sapere se possiamo vederci… Avrei
bisogno di parlarti di una certa cosa».
«Stai sull’altra sponda, vero?».
«Sì».
«Ho un appuntamento a Teşvikiye. Se vuoi,
possiamo incontrarci verso sera da quelle parti. Di che si
tratta? Sospettano ancora di te?».

304
«In un certo senso, sì».
«Facciamo alle cinque?».
«Va bene. Dove?».
«Dimmelo tu. Sono sicura che conosci la zona
meglio di me».
Devo ammettere che per certe cose non sono
particolarmente fantasiosa.
«Vieni a casa mia» proposi e le dettai l’indirizzo.

Per tutto il giorno non feci altro che andare su e giù


come un leone in gabbia, riflettendo con la sigaretta in
mano. Non avevo il problema di Batuhan, i pezzi del
mio puzzle si incastravano alla perfezione. Era proprio
questo a mettermi in agitazione: forse mi stavo
sbagliando.
Mi preoccupo sempre quando le cose – amore, lavoro
e tutto il resto – filano lisce come l’olio. Sento di non
aver fatto abbastanza per meritare tanta felicità, tanta
soddisfazione, tanto amore… Allora comincio a pensare
che succederà per forza qualcosa di brutto, qualcosa che
mi farà soffrire terribilmente. Se nella mia vita è tutto
perfetto, non riesco a essere davvero felice. Se non ci
sono problemi, se gli affari vanno a gonfie vele, se ho
accanto un uomo fantastico che mi soddisfa anche dal
punto di vista sessuale, comincio a complicarmi la vita
da sola. Indosso scarpe troppo strette. Smetto di fumare
e mi alleno tre volte alla settimana con i pesi. Rinuncio
totalmente al caffè. O, peggio ancora, al tè. E mi privo
del piacere di un buon toast al formaggio.
Per farla breve, la cosa più brutta che mi possa

305
capitare è non avere problemi.
Risolvere un caso di omicidio in modo rapido e
preciso non è forse un successo incredibile? Non è un
trionfo immeritato per una detective dilettante?
Sicuramente c’era qualcosa di sbagliato.
Non vorrei mai accusare una persona innocente di un
crimine che non ha commesso. Non sono una feroce
poliziotta, ma un’innocua libraia. Non è compito mio
indagare sui delitti e dare la caccia agli assassini per
consegnarli alla giustizia. Non punto il dito contro
nessuno, non gli grido in faccia: «Sei un assassino!».
Tra l’altro, tutto questo non giova in alcun modo al mio
lavoro. Se risolvo un omicidio non ottengo un aumento
di stipendio, non mi danno dieci giorni in più di vacanza,
non mi assegnano una medaglia per meriti straordinari.
La faccenda non mi riguardava. La persona che
aveva preso il telefono mentre Osman si contorceva per
il dolore poteva anche essere una donna. Poteva anche
essere Habibe. Forse aveva agito per vendetta. Forse
aveva un motivo per fare quello che aveva fatto. Oppure
no.
Non mi riguardava.
Se Habibe fosse arrivata subito, non avrei fatto
congetture, non avrei lanciato accuse.
E comunque non avevo nessuna intenzione di
accusarla, volevo solo parlare.
Habibe avrebbe potuto confermare o negare le mie
ipotesi. E se si fosse rifiutata di affrontare la questione,
l’avrei lasciata andare. Di certo non l’avrei obbligata ad
ascoltarmi.

306
Mi raggomitolai sul divano e presi sonno.
Fui svegliata da un suono acuto. Corsi a schiacciare
l’apriporta, ma il suono non cessò. Mi precipitai nello
studio per rispondere al telefono. Il suono si fece più
debole. Sempre di corsa tornai in soggiorno e afferrai il
cellulare, che nel frattempo aveva smesso di squillare.
Mi lasciai cadere sul divano e armeggiai con la
tastiera per scoprire chi mi cercava. Numero riservato.
Selim.
Non avevo la forza di parlargli.
Alle cinque in punto, quando suonarono alla porta,
mi ero ormai ripresa. Devo dire che i turchi non sono
mai puntuali. A Istanbul perfino un tedesco fa fatica ad
arrivare puntuale. Il traffico è sempre congestionato ed è
difficile valutare guanto tempo ci vorrà per andare da un
luogo all’altro. È inevitabile arrivare in ritardo.
Schiacciai di nuovo l’apriporta.
Habibe salì le scale con una tunica nera che le
fluttuava intorno al corpo. Era molto più elegante della
prima volta che ci eravamo incontrate. Aveva anche una
nuova pettinatura.
«Complimenti per i capelli, stai molto bene» dissi.
Poi ci salutammo con dei bacetti sulle guance.
«Li ho appena tagliati. Vengo proprio dal
parrucchiere». Mi consegnò una scatola.
«Ho portato dei pasticcini. Spero che tu non sia a
dieta». Borbottai una risposta che poteva essere
interpretata in entrambi i modi.
Ci accomodammo in soggiorno, ma dopo un po’

307
capii che non era la soluzione migliore. Se ci si mette a
gambe incrociate su una bella poltrona, non si avrà mai
voglia di affrontare argomenti poco piacevoli.
Avremmo potuto continuare così per due giorni interi,
mangiando dolcetti al cioccolato e parlando di cose
come la moda invernale, le pasticcerie di Nişantaşı, i
parrucchieri di Etiler e la nuova boutique di Yamamoto,
senza pensare minimamente a Osman, al suo cellulare o
a İnci.
«Ti va di andare sul balcone?» chiesi. «Fa ancora
caldo, sarebbe un peccato non approfittarne».
Il balcone dà su un giardino che viene sfruttato non
solo da quelli della mia casa ma anche dai vicini. Non si
vede il Bosforo, ma si possono ammirare alcuni degli
ultimi alberi di Istanbul. Inoltre, essendo sul retro della
casa, il giardino è anche protetto dai rumori della strada.
Uscimmo sul balcone passando dallo studio.
«Che bello!» esclamò Habibe.
Misi tè e dolcetti sul tavolino e posai i talloni sulla
ringhiera.
«Vorrei parlarti di una cosa».
«Ah, è vero! Me l’hai detto anche stamattina per
telefono».
Mi mordicchiai le labbra.
«Allora?» fece lei.
«Beh, ecco, la notte che hanno ucciso Osman…». Mi
interruppi e inspirai profondamente. «La sera». Ero
piuttosto agitata. «Per caso sei andata da lui quella
sera?».
Gli occhi di Habibe, di un bellissimo verde mela, si

308
strinsero fino a diventare due fessure.
All’improvviso si era irrigidita.
«Come ti viene in mente?».
Tolsi i piedi dalla ringhiera e incrociai le gambe.
«Senti» dissi piegandomi verso di lei, «non sono una
poliziotta e non ho intenzione di collaborare con la
polizia». Come avevo imparato dal mio primo caso, con
le persone che accusavo di qualche crimine dovevo
chiarire subito che ero solo una detective dilettante
mossa dalla curiosità.
«Perché mi hai chiesto se sono andata da lui?»
domandò Habibe, gli occhi ancora socchiusi.
«Perché ho una teoria che forse puoi confermare. È
solo una teoria, niente di più. Se la confermi, non si
trasformerà in qualcos’altro».
Lei spinse al centro del tavolino il piatto di dolcetti
che aveva davanti.
«Stai dicendo che non andrai alla polizia?».
Annuii.
Habibe si passò la lingua sui denti.
«Perché?».
«Perché cosa?».
«Perché non andrai alla polizia?».
«Non ne ho motivo». Una risposta tutt’altro che
convincente.
«Perché vuoi che confermi la tua teoria? Che ci
guadagni?».
Come si fa a spiegare a qualcuno che non legge gialli
che l’importante è risolvere il caso? Certo, ci si può
provare, ma non è detto che l’altra persona capisca.

309
Volevo comunque fare un tentativo.
«Sai che vendo libri gialli».
«Sì, a Kuledibi».
«Beh, non solo li vendo, sono anche una lettrice
accanita».
«Io non ne ho mai letto uno. İnci, invece, li ha sempre
amati, fin da piccola».
Mi schiarii la voce. Non aveva senso girarci intorno.
«İnci è tua cugina?». Meglio verificare subito questa
informazione che avevo ottenuto da Hafıze.
«Sì, è la figlia di mia zia da parte di padre». In turco
c’è una definizione precisa per ogni possibile grado di
parentela, quindi normalmente non si parla di cugini e
cugine, ma di figlia di zia da parte di padre, figlio di zio
da parte di padre…
«Mmh, la figlia di tua zia».
«Era come una sorella per me. Volevo più bene a lei
che alla mia vera sorella».
«Finché non si è messa con Osman».
«Finché non me l’ha portato via» replicò Habibe,
fissandomi negli occhi. «Secondo lei non è andata così,
vero? So che nega ogni responsabilità. Dice che non è
stata colpa sua».
«Non lo so, non ho mai affrontato questo argomento
con İnci». Non era proprio una bugia. Per lo meno non
ne avevamo mai parlato in modo approfondito.
Lei si guardò le unghie laccate di rosa. «E come sai
che è la figlia di mia zia?».
«Ho parlato con la sua domestica».
«Ah, la famosa domestica!». Scrollò la testa come si

310
fa davanti a un avvenimento di cui si conoscono già le
conseguenze. «È chiaro che quella donna sa tutto di noi.
Lo dicevo sempre a İnci. “Mandala via, ascolta tutti i
nostri discorsi”. Se stavamo in soggiorno, si metteva a
pulire le finestre. Se andavamo in cucina, veniva anche
lei per rigovernare. Ci seguiva dappertutto».
«Quindi andavi a casa di İnci?».
Habibe fece una risatina. «Come, la domestica non te
l’ha detto? All’inizio andavo spesso a casa sua. Speravo
che rinsavisse».
«Volevi spingerla a lasciare Osman? Perché?».
Lei inarcò le sopracciglia e mi rivolse un’occhiata
penetrante, come se avessi fatto una domanda
stranissima.
«Amavo Osman. Ero anche incinta. Volevo vivere
con lui, avere dei figli». Abbandonò la testa tra le mani.
«E mi chiedi perché volevo che lei lo lasciasse?».
«Non era per il bene di İnci?».
«Certo, era anche per il suo bene. Aveva tutta la vita
davanti. Sarebbe potuta andare all’università. Le avrei
pagato io gli studi. Era ancora una bambina, non aveva
bisogno di trovarsi un uomo. Una con la sua
intelligenza…».
Mi accesi una sigaretta.
«Hai detto che eri incinta quando Osman ti ha
lasciato».
Habibe fissò i vetri delle case di fronte.
«Che ne è stato del bambino?» domandai con la voce
incrinata dall’emozione.
«È morto nella mia pancia. Mi sono suicidata con le

311
pastiglie. Il bambino non ce l’ha fatta, non sono riusciti
a salvarlo».
«Hai tentato di suicidarti. Altrimenti ora non saresti
qui».
Il suo sguardo era perso nel vuoto.
«Osman è venuto a trovarmi in ospedale…». Fece un
respiro profondo. «İnci era attratta da lui per i soldi. Lui,
invece, si sentiva attratto da lei perché era bella e
giovane».
«Da quel momento non sei più andata a casa di İnci».
«Non potevo fare altro. Erano tutti contro di me. İnci
è riuscita dove io ho fallito. Ha fatto in modo che
Osman le comprasse un appartamento, che si prendesse
cura di tutta la sua famiglia. L’ha spolpato come un
pollo. In questo modo è riuscita a tirare tutti dalla sua
parte: mia madre, mia zia, i miei fratelli… Ogni mese
andava da loro con un mucchio di soldi, in pratica li ha
comprati. Nessuno voleva più avere a che fare con me.
Perfino mia madre mi ha voltato le spalle. E mia zia,
che è sempre stata una seconda madre… Io e İnci siamo
cresciute insieme. Pensavo di conoscerla bene…».
«Alla fine ti sei rassegnata».
«Beh, non ho avuto scelta. Ho deciso di lasciar fare al
tempo. Prima o poi ognuno riceve la giusta punizione.
Mi sono messa a cantare».
«Eftalya, la sirena».
«Già. Un vero flop. Dopo la prima cassetta non sono
più riuscita a trovare un produttore e così ho preso la
decisione di lasciare Istanbul. Non ce la facevo più,
dovevo allontanarmi da tutti i luoghi dove ero stata con

312
Osman».
«Sì, a volte bisogna proprio partire» dissi con voce
roca. Avevo le lacrime agli occhi. La capivo benissimo.
«Quel che è stato è stato. La mia vita avrebbe potuto
prendere una piega completamente diversa. Eravamo
molto poveri, tu non puoi neanche immaginare quanto,
però non abbiamo mai abbandonato la speranza.
Volevamo farcela, per questo siamo andati tutti a scuola.
İnci è riuscita a finire le superiori, io no, ho dovuto
interrompere gli studi prima».
«Ho sentito diverse storie come la tua. Qui in Turchia
ci sono tanti bambini poveri ma ambiziosi che vedono
nella scuola una via d’uscita».
«Purtroppo non è più così. Oggi i figli dei poveri
vogliono diventare cantanti o calciatori».
«Anche tu hai fatto la cantante».
Habibe rispose con un leggero sbuffo.
«Comunque non devono andare tutti all’università»
aggiunsi.
Mi chiese una sigaretta; il suo pacchetto era vuoto.
«Come sai che sono andata da Osman la sera in cui è
morto?».
«In realtà non lo so, è una supposizione».
«Quando si vive in un posto dimenticato da Dio si ha
molto tempo per riflettere» spiegò lei.
«Ti riferisci alla pensione?».
Sbatté le palpebre per farmi capire che avevo
indovinato.
«Lassù ho capito che non potevo accettare quello che
mi era successo». Indicò il cuore. «Era come se

313
qualcuno mi avesse fatto un buco qui. Mi bastava
vedere un bambino, una coppia felice o una donna
incinta per stare male… Malemalemalemalemale».
«Ma perché proprio adesso, dopo tanti anni?».
«Vuoi sapere perché?». Una lacrima le scivolò lungo
la guancia e cadde sul tavolino, seguita da un’altra e
un’altra ancora.
«Ho chiamato mia madre. Non è una cosa che faccio
spesso. Sai, mio padre ci ha lasciati che eravamo ancora
piccoli. È andato a lavorare in Germania e non è più
tornato. Per un po’ ci ha mandato dei soldi, poi ha
smesso. Siamo venuti a sapere che là aveva un’altra
donna. Vivevano insieme, ma lui non ha mai chiesto il
divorzio da mia madre».
Un’altra storia che avevo già sentito diverse volte.
«La figlia di mio padre e di quest’altra donna ha
deciso di cercarci. Si è rivolta a un consolato turco in
Germania e loro, non so come, sono riusciti a trovare il
mio numero».
«E tuo padre?».
«È morto. Sua figlia mi ha telefonato e ha detto:
"Vorrei venire in Turchia a conoscervi". Non spettava a
me rispondere: "Vieni, vieni pure". Per questo ho
chiamato mia madre».
«E allora?».
«Parlando con lei ho saputo che İnci aspettava un
bambino. Non ho chiuso occhio per una settimana».
«İnci è riuscita ad avere tutto quello che volevi tu».
«Non è questo il punto. Non ho pensato: "Perché lei
sì e io no?". Mi sono solo chiesta: "Perché sono così

314
sfortunata?"». Un’altra lacrima sul tavolino.
Evidentemente il mio destino è quello di consolare le
donne che piangono.
«Vuoi bere qualcos’altro?» domandai. Habibe annuì.

315
Una vasca da bagno con i piedi,
una stufa e un nuovo vicino

Di solito noi stambulioti non possiamo goderci


l’autunno. E neanche la primavera. Abbiamo solo due
stagioni: estate e inverno. Ogni tanto, però, si verifica
un’eccezione. L’autunno di cui parlo in questo libro è
stato praticamente infinito. Come l’inverno che l’ha
seguito, purtroppo. Non finiva mai, non finiva mai…
Spero solo che la primavera sia altrettanto lunga.
Naturalmente con le stagioni è cambiata la moda.
Non penso che potrò indossare le stesse cose dell’anno
scorso. Bisogna procurarsi nuovi tagli e nuovi colori, e
anche in fretta! Tute, colletti alla coreana, top di rete…
Eh sì, bisogna rinnovare il guardaroba anche se
mancano i soldi. Ho usato quasi tutto quello che avevo
in banca per comprare il mio nuovo appartamento e non
sono ancora riuscita a rimpinguare il conto. Devo
ammettere che mi sembra un po’ strano chiedere prestiti
a destra e a manca per investire in abiti e scarpe. Alla
mia età… Povera me, a che punto sono arrivata! Tutto
per una casa di proprietà!
Come avrete già capito, ora il fantastico
appartamento in via Papagan è ufficialmente mio. Lo
sto ristrutturando poco per volta, ma ci sono due o tre

316
cose per cui non ho badato a spese. Tanto per fare un
esempio, non avrei mai e poi mai rinunciato a una vasca
da bagno con i piedi.
Purtroppo senza soldi non posso permettermi un
impianto di riscaldamento. Selim ha promesso che lo
farà installare a sue spese come regalo per la mia nuova
casa. Vedremo se manterrà la parola. Avendo vissuto a
Berlino, non ho comunque problemi a usare la stufa.
Sono quasi una professionista. Se è come nuotare e
andare in bicicletta, una volta imparato non si dimentica
più. Speriamo.
Lale si lamenta a più non posso del nuovo impiego.
Per ora le basta pensare al periodo in cui è rimasta senza
lavoro per abbandonare l’idea delle dimissioni, ma tra
un po’, quando avrà dimenticato o quasi quella brutta
esperienza, di sicuro si licenzierà. Sogna di trasferirsi in
campagna, in una zona non sismica, e di mantenersi
facendo la traduttrice. Secondo me è una cosa
irrealizzabile, come andare a vivere a Cuba.
Ovviamente non gliel’ho detto.
Pelin non è tornata dal suo ex ragazzo ed è rimasta da
me per tutto l’inverno. In un modo o nell’altro mi sono
abituata alla sua presenza. Dato che non sono riuscita a
prendere l’aereo per Maiorca, mia madre e la signora
Hellersdorf sono venute a farmi visita qui a Istanbul. Ci
siamo dovute stringere un po’, ma ce l’abbiamo fatta. E
poi preferisco avere intorno altre persone quando c’è
mia madre.
A maggio mi trasferirò nel nuovo appartamento.
Pelin mi ha assicurato che nel frattempo troverà

317
un’altra sistemazione. Adesso sta con il maleducato che
ha messo gli stivali sul mio divano, anche se cerca di
nascondermelo. Probabilmente andrà a vivere con lui.
A proposito di uomini, la settimana scorsa ho
conosciuto quello che ha comprato l’appartamento
sopra il mio. Un tipo con la barba molto simpatico.
Siamo andati insieme a scegliere le piastrelle per la mia
cucina. Devo dire che se ne intende. Lo inviterò alla mia
festa di inaugurazione.

318
Ringraziamenti

Quella dello scrittore è un’attività solitaria. Vorrei


quindi ringraziare i miei amici Canan, Tugrul, Arzu e
Sahika, che durante la stesura di questo libro mi hanno
ricordato che l’uomo è un animale sociale. Grazie a mio
padre Ergül, che mi ha aiutato con la sua eccezionale
conoscenza del diritto, alle mie due madri, Ayse ed Esin,
che hanno arricchito la mia vita, al dottor Onder
Özkalipçi, che mi ha ripetuto con pazienza tutte le
informazioni sulle armi che il mio cervello si rifiutava di
memorizzare, grazie a Nail, Ismail, Bilge e Aynur e
naturalmente a tutti voi, cari lettori.

319
Indice
Appartamento a Istanbul
1 11
2 23
3 38
4 53
5 74
6 100
7 137
8 182
9 240
10 253
11 287
12 302
Una vasca da bagno con i piedi,
una stufa e un nuovo vicino 316
Ringraziamenti 319
Questo volume è stato stampato
su carta Palatina
delle Cartiere Miliani di Fabriano
nel mese di aprile 2011
presso la Leva Arti Grafiche s.p.a. - Sesto S.Giovanni (MI)
e confezionato
presso IGF s.p.a. - Aldeno (TN)
La memoria

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548 Giulia Alberico. Il gioco della sorte
549 Angelo Morino. In viaggio con Junior
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558 Santo Piazzese. Il soffio della valanga
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574 Roberto Bolano. Notturno cileno
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576 Alessandro Perissinotto. Treno 8017
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585 Andrea Camilleri. La presa di Macallè
586 Guillaume Prévost. I sette delitti di Roma
587 Margaret Doody. Aristotele e l’anello di bronzo
588 Guido Gozzano. Fiabe e novelline
589 Gaetano Savatteri. La ferita di Vishinskij
590 Gianrico Carofiglio. Ad occhi chiusi
591 Ana Maria Matute. Piccolo teatro
592 Mario Soldati. I racconti del Maresciallo
593 Benedetto Croce. Luisa Sanfelice e la congiura dei Baccher
594 Roberto Bolaño. Puttane assassine
595 Giorgio Scerbanenco. La mia ragazza di Magdalena
596 Elio Petri. Roma ore 11
597 Raymond Radiguet. Il ballo del conte d’Orgel
598 Penelope Fitzgerald. Da Freddie
599 Poesia dell’Islam
600
601 Augusto De Angelis. La barchetta di cristallo
602 Manuel Puig. Scende la notte tropicale
603 Gian Carlo Fusco. La lunga marcia
604 Ugo Cornia. Roma
605 Lisa Foa. È andata cosi
606 Vittorio Nisticò. L’Ora dei ricordi
607 Pablo De Santis. Il calligrafo di Voltaire
608 Anthony Trollope. Le torri di Barchester
609 Mario Soldati. La verità sul caso Motta
610 Jorge Ibargüengoitia. Le morte
611 Alicia Giménez-Bartlett. Un bastimento carico di riso
612 Luciano Folgore. La trappola colorata
613 Giorgio Scerbanenco. Rossa
614 Luciano Anselmi. Il palazzaccio
615 Guillaume Prévost. L’assassino e il profeta
616 John Ball. La calda notte dell’ispettore Tibbs
617 Michele Perriera. Finirà questa malìa?
618 Alexandre Dumas. I Cenci
619 Alexandre Dumas. I Borgia
620 Mario Specchio. Morte di un medico
621 Giorgio Frasca Polara. Cose di Sicilia e di siciliani
622 Sergej Dovlatov. Il Parco di Puškin
623 Andrea Camilleri. La pazienza del ragno
624 Pietro Pancrazio Della tolleranza
625 Edith de la Héronnière. La ballata dei pellegrini
626 Roberto Bassi. Scaramucce sul lago Ladoga
627 Alexandre Dumas. Il grande dizionario di cucina
628 Eduardo Rebulla. Stati di sospensione
629 Roberto Bolaño. La pista di ghiaccio
630 Domenico Seminerio. Senza re né regno
631 Penelope Fitzgerald. Innocenza
632 Margaret Doody. Aristotele e i veleni di Atene
633 Salvo Licata. Il mondo è degli sconosciuti
634 Mario Soldati. Fuga in Italia
635 Alessandra Lavagnino. Via dei Serpenti
636 Roberto Bolaño. Un romanzetto canaglia
637 Emanuele Levi. Il giornale di Emanuele
638 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. Roseanna
639 Anthony Trollope. Il Dottor Thorne
640 Studs Terkel. I giganti del jazz
641 Manuel Puig. Il tradimento di Rita Hayworth
642 Andrea Camilleri. Privo di titolo
643 Anonimo. Romanzo di Alessandro
644 Gian Carlo Fusco. A Roma con Bubù
645 Mario Soldati. La giacca verde
646 Luciano Canfora. La sentenza
647 Annie Vivanti. Racconti americani
648 Piero Calamandrei. Ada con gli occhi stellanti. Lettere 1908-1915
649 Budd Schulberg. Perché corre Sammy?
650 Alberto Vigevani. Lettera al signor Alzheryan
651 Isabelle de Charrière. Lettere da Losanna
652 Alexandre Dumas. La marchesa di Ganges
653 Alexandre Dumas. Murat
654 Constantin Photiadès. Le vite del conte di Cagliostro
655 Augusto De Angelis. Il candeliere a sette fiamme
656 Andrea Camilleri. La luna di carta
657 Alicia Giménez-Bartlett. Il caso dellituano
658 Jorge Ibargüengoitia. Ammazzate il leone
659 Thomas Hardy. Una romantica avventura
660 Paul Scarron. Romanzo buffo
661 Mario Soldati. La finestra
662 Roberto Bolano. Monsieur Pain
663 Louis-Alexandre Andrault de Langeron. La battaglia di Austerlitz
664 William Riley Burnett. Giungla d’asfalto
665 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. Un assassino di troppo
666 Guillaume Prévost. Jules Verne e il mistero della camera oscura
667 Honoré de Balzac. Massime e pensieri di Napoleone
668 Jules Michelet, Athénaïs Mialaret. Lettere d’amore
669 Gian Carlo Fusco. Mussolini e le donne
670 Pier Luigi Cellio Un anno nella vita
671 Margaret Doody. Aristotele e i Misteri di Eleusi
672 Mario Soldati. Il padre degli orfani
673 Alessandra Lavagnino. Un inverno. 1943-1944
674 Anthony Trollope. La Canonica di Frarnley
675 Domenico Seminerio. Il cammello e la corda
676 Annie Vivanti. Marion artista di caffè-concerto
677 Giuseppe Bonaviri. L’incredibile storia di un cranio
678 Andrea Camilleri. La vampa d’agosto
679 Mario Soldati. Cinematografo
680 Pierre Boileau, Thomas Narcejac. I vedovi
681 Honoré de Balzac. Il parroco di Tours
682 Béatrix Saule. La giornata di Luigi xiv. 16 novembre 1700
683 Roberto Bolaño. Il gaucho insostenibile
684 Giorgio Scerbanenco. Uomini ragno
685 William Riley Burnett. Piccolo Cesare
686 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. L’uomo al balcone
687 Davide Camarrone. Lorenza e il commissario
688 Sergej Dovlatov. La marcia dei solitari
689 Mario Soldati. Un viaggio a Lourdes
690 Gianrico Carofiglio. Ragionevoli dubbi
691 Tullio Kezich. Una notte terribile e confusa
692 Alexandre Dumas. Maria Stuarda
693 Clemente Manenti. Ungheria 1956. Il cardinale e il suo custode
694 Andrea Camilleri. Le ali della sfinge
695 Gaetano Savatteri. Gli uomini che non si voltano
696 Giuseppe Bonaviri. Il sarto della stradalunga
697 Constant Wairy. Il valletto di Napoleone
698 Gian Carlo Fusco. Papa Giovanni
699 Luigi Capuana. Il Raccontafiabe
700
701 Angelo Morino. Rosso taranta
702 Michele Perriera. La casa
703 Ugo Cornia. Le pratiche del disgusto
704 Luigi Filippo d’Amico. L’uomo delle contraddizioni. Pirandello visto da vicino
705 Giuseppe Scaraffia. Dizionario del dandy
706 Enrico Micheli. Italo
707 Andrea Camilleri. Le pecore e il pastore
708 Maria Attanasio. Il falsario di Caltagirone
709 Roberto Bolaño. Anversa
710 John Mortimer. Nuovi casi per l’avvocato Rumpole
711 Alicia Giménez-Bartlett. Nido vuoto
712 Toni Maraini. La lettera da Benares
713 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. Il poliziotto che ride
714 Budd Schulberg. I disincantati
715 Alda Bruno. Germani in bellavista
716 Marco Malvaldi. La briscola in cinque
717 Andrea Camilleri. La pista di sabbia
718 Stefano Vilardo. Tutti dicono Germania Germania
719 Marcello Venturi. L’ultimo veliero
720 Augusto De Angelis. L’impronta del gatto
721 Giorgio Scerbanenco. Annalisa e il passaggio a livello
722 Anthony Trollope. La Casetta ad Allington
723 Marco Santagata. Il salto degli Orlandi
724 Ruggero Cappuccio. La notte dei due silenzi
725 Sergej Dovlatov. Il libro invisibile
726 Giorgio Bassani. I Promessi Sposi. Un esperimento
727 Andrea Camilleri. Maruzza Musumeci
728 Furio Bordon. Il canto dell’orco
729 Francesco Laudadio. Scrivano Ingannamorte
730 Louise de Vilmorin. Coco Chanel
731 Alberto Vigevani. All’ombra di mio padre
732 Alexandre Dumas. Il cavaliere di Sainte-Hermine
733 Adriano Sofri. Chi è il mio prossimo
734 Gianrico Carofiglio. L’arte del dubbio
735 Jacques Boulenger. Il romanzo di Merlino
736 Annie Vivanti. I divoratori
737 Mario Soldati. L’amico gesuita
738 Umberto Domina. La moglie che ha sbagliato cugino
739 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. L’autopompa fantasma
740 Alexandre Dumas. Il tulipano nero
741 Giorgio Scerbanenco. Sei giorni di preavviso
742 Domenico Seminerio. Il manoscritto di Shakespeare
743 André Gorz. Lettera a D. Storia di un amore
744 Andrea Camilleri. Il campo del vasaio
745 Adriano Sofri. Contro Giuliano. Noi uomini, le donne e l’aborto
746 Luisa Adorno. Tutti qui con me
747 Carlo Flamigni. Un tranquillo paese di Romagna
748 Teresa Solana. Delitto imperfetto
749 Penelope Fitzgerald. Strategie di fuga
750 Andrea Camilleri. Il casellante
751 Mario Soldati. ah! il Mundial!
752 Giuseppe Bonarivi. La divina foresta
753 Maria Savi-Lopez. Leggende del mare
754 Francisco García Pavón. Il regno di Witiza
755 Augusto De Angelis. Giobbe Tuama & C.
756 Eduardo Rebulla. La misura delle cose
757 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. Omicidio al Savoy
758 Gaetano Savatteri. Uno per tutti
759 Eugenio Baroncelli. Libro di candele
760 Bill James. Protezione
761 Marco Malvaldi. Il gioco delle tre carte
762 Giorgio Scerbanenco. La bambola cieca
763 Danilo Dolci. Racconti siciliani
764 Andrea Camilleri. L’età del dubbio
765 Carmelo Samonà. Fratelli
766 Jacques Boulenger. Lancillotto del Lago
767 Hans Fallada. E adesso, pover’uomo?
768 Alda Bruno. Tacchino farcito
769 Gian Carlo Fusco. La Legione straniera
770 Piero Calamandrei. Per la scuola
771 Michèle Lesbre. Il canapé rosso
772 Adriano Sofri. La notte che Pinelli
773 Sergej Dovlatov. Il giornale invisibile
774 Tullio Kezich. Noi che abbiamo fatto La dolce vita
775 Mario Soldati. Corrispondenti di guerra
776 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. L’uomo che andò in fumo
777 Andrea Camilleri. Il sonaglio
778 Michele Perriera. I nostri tempi
779 Alberto Vigevani. Il battello per Kew
780 Alicia Giménez-Bartlett. Il silenzio dei chiostri
781 Angelo Morino. Quando internet non c’era
782 Augusto De Angelis. Il banchiere assassinato
783 Michel Maffesoli. Icone d’oggi
784 Mehmet Murat Somer. Scandaloso omicidio a Istanbul
785 Francesco Recami. Il ragazzo che leggeva Maigret
786 Bill James. Confessione
787 Roberto Bolaño. I detective selvaggi
788 Giorgio Scerbanenco. Nessuno è colpevole
789 Andrea Camilleri. La danza del gabbiano
790 Giuseppe Bonaviri. Notti sull’altura
791 Giuseppe Tornatore. Baarìa
792 Alicia Giménez-Bartlett. Una stanza tutta per gli altri
793 Furio Bordon. A gentile richiesta
794 Davide Camarrone. Questo è un uomo
795 Andrea Camilleri. La rizzagliata
796 Jacques Bonnet. I fantasmi delle biblioteche
797 Marek Edelman. C’era l’amore nel ghetto
798 Danilo Dolci. Banditi a Partinico
799 Vicki Baum. Grand Hotel
800
801 Anthony Trollope. Le ultime cronache del Barset
802 Arnoldo Foà. Autobiografia di un artista burbero
803 Herta Müller. Lo sguardo estraneo
804 Gianrico Carofiglio. Le perfezioni provvisorie
805 Gian Mauro Costa. Il libro di legno
806 Carlo Flamigni. Circostanze casuali
807 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. L’uomo sul tetto
808 Herta Müller. Cristina e il suo doppio
809 Martin Suter. L’ultimo dei Weynfeldt
810 Andrea Camilleri. Il nipote del Negus
811 Teresa Solana. Scorciatoia per il paradiso
812 Francesco M. Cataluccio. Vado a vedere se di là è meglio
813 Allen S. Weiss. Baudelaire cerca gloria
814 Thornton Wilder. Idi di marzo
815 Esmahan Aykol. Hotel Bosforo
816 Davide Enia. Italia-Brasile 3 a 2
817 Giorgio Scerbanenco. L’antro dei filosofi
818 Pietro Grossi. Martini
819 Budd Schulberg. Fronte del porto
820 Andrea Camilleri. La caccia al tesoro
821 Marco Malvaldi. Il re dei giochi
822 Francisco Garía Pavón. Le sorelle scarlatte
823 Colin Dexter. L’ultima corsa per Woodstock
824 Augusto De Angelis. Sei donne e un libro
825 Giuseppe Bonaviri. L’enorme tempo
826 Bill James. Club
827 Alicia Giménez-Bartlett. Vita sentimentale di un camionista
828 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. La camera chiusa
829 Andrea Molesini. Non tutti i bastardi sono di Vienna
830 Michèle Lesbre. Nina per caso
831 Herta Miiller. In trappola
832 Hans Fallada. Ognuno muore solo
833 Andrea Camilleri. Il sorriso di Angelica
834 Eugenio Baroncelli. Mosche d’inverno
835 Margaret Doody. Aristotele e i delitti d’Egitto
836 Sergej Dovlatov. La filiale
837 Anthony Trollope. La vita oggi
838 Martin Suter. Com’è piccolo il mondo!
839 Marco Malvaldi. Odore di chiuso
840 Giorgio Scerbanenco. Il cane che parla
841 Festa per Elsa
842 Paul Léautaud. Amori
843 Claudio Coletta. Viale del Policlinico
844 Luigi Pirandello. Racconti per una sera a teatro
845 Andrea Camilleri. Gran Circo Taddei e altre storie di Vigàta
846 Paolo Di Stefano. La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956
847 Carlo Flamigni. Senso comune
848 Antonio Tabucchi. Racconti con figure
vincibile curiosità che spinge Kati a
occuparsi delle strane circostanze di
una morte che non avrebbe dovuto
avvvenire così facilmente. I parenti
della vittima, le sue passate fidanzate;
e mentre Kati scorre come i grani di
un rosario l’intera catena di cono-
scenze e contatti, piomba un secondo
omicidio. Stavolta è immediato orien-
tarsi verso i soci del morto e verso i
circoli di politici fondamentalisti che
univano la prima vittima con la seconda.

Esmahan Aykol, nata nel 1970 a


Edirne, Turchia, vive tra Berlino e
Istanbul. Durante gli studi universitari
in giurisprudenza ha lavorato come
giornalista per radio e giornali turchi.
Oggi, dopo una parentesi come
barista, si dedica completamente alla
scrittura. Della serie con protagonista
Kati Hirschel questa casa editrice ha
pubblicato Hotel Bosforo (2010), il
primo romanzo della serie con
protagonista Kati Hirschel.

Prezzo Euro 14,00

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