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La Parola

nelle Dieci parole


la legge vista attraverso la grazia

Ettore Panizon
Indice

Prefazione 3
Prologo: la parola nel suo contesto 4
Prima parola: non avere altri dèi oltre a me 9
Seconda parola: non ti fare immagini e non le adorare 14
Terza parola: non portare il Nome invano 22
Quarta parola: ricordati del sabato per santificarlo 29
Quinta parola: onora tuo padre e tua madre 39
Sesta parola: non commettere omicidio 44
Settima parola: non commettere adulterio 53
Ottava parola: non rubare 66
Nona parola: non calunniare 81
Decima parola: non desiderare i beni del tuo prossimo 92
Epilogo: una parola per noi 102

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Prefazione
Quanto segue raccoglie una serie di articoli sui dieci comandamenti come
anticipazione dell'insegnamento di Gesù  pubblicati sul mio blog Dvar
Eloheynu  tra il settembre del 2014 e il marzo del 2020.
Di professione non faccio il teologo, né l'esegeta biblico, e non ho pensato
neanche per un momento di affrontare l'immensa letteratura sulla legge e la
grazia di Dio che è stata prodotta nel corso dei secoli, sia in ambito cristiano
sia, soprattutto, nell'universo ebraico. Sono pienamente convinto del fatto
che, se avessi appena iniziato a studiare il tema come si deve, non avrei mai
osato profferire verbo su nessuno di questi argomenti. Siccome però sono
altrettanto convinto che la Bibbia non sia un libro solo per specialisti e che la
coerenza e la pregnanza di senso che la parola di Dio mostra - sia rispetto a
se stessa sia rispetto ai fatti della nostra vita - meriti senz'altro di essere
riconosciuta e apprezzata pubblicamente, ho deciso di non lasciarmi
intimidire dalla mia ignoranza sull'altrui cultura e di rendere note, a bene cio
spero almeno di amici e fratelli, le cose che mi sono venute in mente
meditando su questi temi senza preoccuparmi troppo di evitare di "scoprire
l'acqua calda" e di insistere su luoghi comuni.
Dopo aver studiato loso a del linguaggio e semiologia, da una trentina
d'anni   lavoro come comunicatore di scienza. Sono perciò abbastanza
abituato a trattare argomenti di cui non sono per niente esperto e a non
indirizzarmi agli esperti dei temi che affronto nelle mie pubblicazioni.
A ogni modo, nella mia seppur scarsa frequentazione di testi teologici, non
ho mai trovato un libro che tratti speci camente l'argomento dei Dieci
comandamenti dal punto di vista dell'insegnamento del Padre nostro. Non
l'ho neanche cercato, però. Ho viceversa trovato un accenno ai dieci
comandamenti in un libro sul Padre nostro. L'idea di questo confronto mi è
infatti venuta leggendo un libretto in cui mi sono imbattuto quasi per caso: 
God Centred Praying, del pastore evangelico indiano Zac Poonen nel quale si
accenna all'omologia tra la tradizionale suddivisione dei dieci comandamenti
nelle due tavole e i due gruppi di richieste in cui può essere suddivisa la
preghiera insegnata da Gesù.
Ma questo collegamento non costituiva il messaggio centrale di quel libretto
e ho quindi pensato che valesse la pena svilupparlo. Dio ci guardi però
dall'indugiare nella contemplazione teorica. La parola di Dio è pratica e la si
capisce solo praticandola. Come ha detto lo stesso Gesù: solo se le vorremo
applicare alla nostra vita, sapremo che le cose insegnate - dai profeti prima, e
da Gesù e dai suoi apostoli poi - non sono teorie, ma appunto le parole
dell'unico vero Dio che ci parla. In modo da rispondere anche noi come
Israele nel deserto: "tutto ciò che ha detto il SIGNORE noi lo faremo e [poi] lo
sentiremo (na'aseh venishma' ‫)נֲַע ֶשׂה וְנִ ְשׁ ָֽמע‬." (Esodo, 24:7).

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Prologo: la parola nel suo contesto

Esodo, 20:1 Allora Dio pronunziò tutte queste parole

“Allora”: in realtà l’ebraico (vayedabber ‘Elohiym ‫ )וַיְַד ֵבּר ֱאלִֹהים‬dice soltanto “e


Dio disse”. Anzi, nell’ebraico della Bibbia, usata come pre sso di un verbo,
la cosonante   vav   (che altrimenti traduciamo con e o con  ma), più che
come congiunzione vera e propria, può essere usata per trasformare il
senso temporale del verbo a cui è attaccata. All’inizio della frase, questa
caratteristica forma verbale (che i grammatici chiamano vayqtol) viene
normalmente usata per indicare che ci si trova all’interno di una
narrazione. E potrebbe anche essere omessa nella traduzione.

Per quanto ci riguarda, è importante ricordare che l’enunciazione delle


parole che seguono – e che conosciamo come “i dieci comandamenti” –
avviene in un preciso momento della storia di Israele. L’evento si svolge
anche in un luogo preciso. Tempo e luogo indicano infatti l’adempimento
della promessa che il SIGNORE aveva fatta a Mosè il giorno del loro primo
incontro sul monte Oreb, quando gli apparve nel roveto ardente e gli
af dò la missione di liberare Israele dalla schiavitù in Egitto. “E Dio disse:
Va’, perché io sarò con te. Questo sarà il segno che sono io che ti ho
mandato: quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, voi servirete Dio su
questo monte” (Esodo 3:12). Queste dieci parole, che esprimono
l’insegnamento base del SIGNORE al suo popolo Israele, vengono qui
pronunciate da Dio dopo che, grazie al suo stesso intervento, la missione
di Mosè è stata compiuta. Il momento e il luogo in cui vengono
pronunciate indicano quindi che la missione veniva proprio dall’alto dei
cieli.

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“Allora Dio pronunciò tutte queste parole” (vayedabber ‘Elohiym ‘eth khol-
haddevariym ha’elleh ‫ )וַיְַד ֵבּר ֱאלִֹהים ֵאת כָּל־ ַה ְדּ ָב ִרים ָה ֵא ֶלּה‬letteralmente andrebbe
tradotto “Dio parlò tutte quelle parole”. Il verbo e il suo oggetto hanno
infatti la stessa radice: daleth+beth+resh. Davar (“parola”) è un termine che
si riferisce all’azione del dire. La parola di Dio è Dio stesso che parla e che,
attraverso la sua parola, agisce, crea (Giovanni 1:1-3). In realtà, davar serve
per indicare sia una parola nel senso di un discorso, sia una cosa dotata di
una sua articolazione, un fatto.

Il testo ebraico aggiunge l’in nito costrutto le’mor ‫אמֹר‬ ֽ ‫ ֵל‬, che signi ca
letteralmente “per dire”, un'espressione che viene regolarmente usata per
introdurre il discorso diretto.  Le dieci "parole" che seguono esprimono
quindi fedelmente, parola per parola, la volontà e il pensiero di Dio. Sono
state da lui pronunciate per formare noi, suo popolo, a sua immagine e
somiglianza. 

Dio è amore (1 Giovanni, 4:8 e 16) e l’argomento delle parole che Dio ha
rivolto a Israele attraverso Mosè è appunto l’amore, cioè cosa fare e cosa
non fare per dimostrare amore. Qui, in Esodo, innanzitutto cosa non fare.
Nei successivi libri di Mosè e nelle altre Scritture, Dio dirà anche cosa fare.

Il grande comandamento di Dio, da cui Gesù ha detto che dipende tutta


la Legge (d’accordo in questo con l’insegnamento dei farisei, cf. Matteo
22:34-40 e Luca 10:25-28), è infatti un comandamento positivo. Dice:
“Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE. Tu amerai
dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e
con tutte le tue forze”. (Deuteronomio, 6:4-5, poco dopo la seconda
formulazione dei dieci comandamenti, che si trova in Deuteronomio 5:6-
21).

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Anche quello che Gesù ha chiamato “il secondo comandamento” è un


comandamento positivo: “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Levitico
19:18). Di questo secondo comandamento Gesù ha detto che è simile al
primo (Matteo 22:38) ed effettivamente è solo amando Dio con tutto il
nostro cuore che possiamo imparare ad amare gli altri come noi stessi e,
viceversa, solo amando gli altri come noi stessi (e cioè non considerandoli
né degli dèi né degli schiavi, ma trattandoli come vorremmo essere
trattati noi), possiamo imparare ad amare Dio con tutto il nostro cuore. Né
possiamo dire di amare veramente Dio se non amiamo anche i suoi gli,
nostri fratelli. Come spiega l’apostolo Giovanni, “se uno dice: Io amo Dio,
ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha
visto, non può amare Dio che non ha visto. Questo è il comandamento
che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello” (1
Giovanni, 4:19-21).

Le parole che Dio dice al suo popolo sono certamente degli ordini, ma
sono innanzitutto un insegnamento. Questo è per altro il signi cato
originario della parola ebraica Torah (‫)תּוֹ ָרה‬, che traduciamo con Legge. La
Legge di Dio è un insegnamento, che ci fa sapere come comportarci con
Dio e con il nostro prossimo. Le dieci parole si suddividono in due parti: le
prime cinque de niscono il rapporto verticale (con Dio le prime quattro, e
con i nostri genitori, la quinta), le altre cinque quello orizzontale, con il
nostro prossimo, cioè i nostri fratelli (nella carne e nello spirito) e i nostri
amici, le persone che ci sono vicine e che possiamo avvicinare.

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Nell’esaminare più in dettaglio il senso di ciascuna di queste parole non


dobbiamo dimenticare che questo insegnamento (e tutto ciò che lo
segue e che lo spiega nel libro dell’Esodo, e negli altri libri della Legge data
attraverso Mosè) è solo la prima parte dell’insegnamento di Dio, che
precisa al suo popolo quali siano le cose da non fare e le cose da fare. Sul
come mettere in pratica davvero queste parole, Mosè non dà alcuna
istruzione. Nei libri storici, sapienziali e profetici che compongono il resto
delle Scritture ebraiche viene indicata la necessità di una profonda
trasformazione. Dio conosce il nostro cuore e sa che “è ingannevole più di
ogni altra cosa, e insanabilmente maligno” (Geremia, 17:9). Nei libri profetici
in particolare, Dio ci mostra l’incapacità dell’uomo naturale di regnare
secondo giustizia e promette che avrebbe tolto via il nostro cuore di
pietra e ci avrebbe dato un nuovo cuore di carne perché potessimo
nalmente adempiere la Legge insegnata da Mosè (Ezechiele, 11:19 e
36:26-27). Promette anche che avrebbe stipulato con noi un patto nuovo,
non più di lettera, fatto di comandamenti esteriori, ma di spirito,
comandamenti che diventeranno esigenze interiori: “Ecco, i giorni
vengono, dice il SIGNORE, in cui io farò un nuovo patto con la casa
d’Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il
giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d’Egitto: patto
che essi violarono, sebbene io fossi loro signore, dice il SIGNORE; ma
questo è il patto che farò con la casa d’Israele, dopo quei giorni, dice il
SIGNORE: io metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore,
e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo” (Geremia 31:31-33). Questo
nuovo patto (bryit chadashah ‫ ) ְבּ ִרית ֲח ָד ָֽשׁה‬di cui parla Geremia 31:31, è quello
che siamo abituati a chiamare Nuovo Testamento.
Possiamo amare perché Dio ci ha amati per primo (1 Giovanni 4:19). Perché
la sua Legge potesse essere adempiuta anche nelle nostre vite, Dio stesso
ha mandato la sua parola fatta carne (in ebraico “carne” – basar ‫ָשׂר‬ ָ‫ – בּ‬e
“vangelo” – besorah ‫ – ְבּשָֹֽׂרה‬hanno signi cativamente la stessa radice),
mostrandoci tutto il suo amore nel sacri cio di Gesù.

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Noi da soli non riusciamo a metter in pratica i comandamenti di Dio, ma se


apriamo il cuore all’amore della verità (come ci viene indirettamente
consigliato in 2 Tessalonicesi 2:10), allora il comandamento dell’amore verrà
compiuto in noi. L’amore della verità è anche la verità dell’amore, cioè la
verità che ci ama, o, meglio ancora, Dio stesso che ci ama in verità. Perché
abbiamo creduto all’amore di Dio (1 Giovanni 4:16), i suoi comandamenti
oggi, in Cristo, non sono più gravosi (1 Giovanni 5:3). Quello che sul monte
Oreb in Sinai è stato ordinato al popolo di Israele, oggi noi come discepoli
di Gesù impariamo a desiderarlo con tutto il cuore, al punto di chiederlo in
preghiera, perché Dio stesso lo faccia in noi, e attraverso di noi.

In questo commento ai dieci comandamenti torneremo perciò a più


riprese su questo passaggio dalla Legge al Regno di Dio, perché è in vista
del regno del Mashiach che è stata data la Legge ed è così che vogliamo
intendere oggi le dieci parole, come un’esortazione a cercare il regno di
Dio con tutto il nostro cuore.

Infatti, se nell’antico patto la partecipazione richiesta al piano di Dio era


quella dell’obbedienza ai suoi ordini, nel nuovo ci viene chiesto di
impegnarci attivamente perché il regno dei cieli venga sulla terra. Non
sono ammesse acchezza, pigrizia o nostalgia (“nessuno che abbia messo
la mano all’aratro e poi volga lo sguardo indietro è adatto per il regno di
Dio”, Luca 9:62). “La legge e i profeti hanno durato no a Giovanni [che
altrove è descritto come il più grande dei profeti, cf. Matteo, 13:11], da quel
tempo è annunciata la buona notizia del regno di Dio, e ciascuno vi entra a
forza.” (Luca, 16:16). A forza, cioè con forza: perché nel Regno possiamo
entrare solo se lo desideriamo con tutte le nostre forze.

Ma se insisteremo sul passaggio da una legge data inizialmente come un


ordine esteriore a una legge ricevuta nel cuore e compresa come una
propria personale necessità non è certo per leggere il secondo patto
come una correzione del primo, ma per mostrare piuttosto come anche il
primo sia stato stabilito in vista del secondo e ne contenga perciò tutta la
profondità e il valore.

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Prima parola: non avere altri dèi oltre a me

Esodo, 20:2-3 Io sono il SIGNORE, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese
d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me

All’inizio del suo servizio, Mosè aveva chiesto a Dio di fargli sapere il suo
nome, per poterlo riferire ai gli di Israele ai quali veniva mandato. “Dio
disse a Mosè: Io sono colui che sono (‘ehyeh asher ‘ehyeh ‫) ֶֽא ְהיֶה ֲא ֶשׁר ֶֽא ְהיֶה‬. Poi
disse: Dirai così ai gli d’Israele: l’IO SONO mi ha mandato da voi. Dio disse
ancora a Mosè: Dirai così ai gli d’Israele: Il SIGNORE, il Dio dei vostri padri, il
Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi.
Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in
generazione” (Esodo, 3:14-15). Dio si presenta come il SIGNORE. Questa
espressione tutta in maiuscolo, nella Versione Riveduta che stiamo
utilizzando, traduce il tetragramma YHWH, un nome che gli ebrei da molti
secoli non osano pronunciare (ne riparleremo presto) e che per questo
non si sa con certezza come debba essere vocalizzato. Il senso di questo
Nome è certamente connesso al verbo “essere” (la radice del verbo, data
dalla terza persona singolare del passato, è hayah ‫) ָהיָה‬, ma non è affatto
chiaro in che forma sia coniugato.

Questo misterioso nome, comunque, già utilizzato n dai tempi di


Abramo, è stato interpretato per la prima volta per Mosè come “Io sono
colui che sono”, dove “Io sono” ('ehyeh ‫ ) ֶֽא ְהיֶה‬è coniugato all’imperfetto (un
tempo che in ebraico serve anche da futuro, perché è una sorta di tempo
dell’eternità). Il sintagma di Esodo, 3:14 può essere tradotto anche come
“io ero quello che sarò”, o “io sarò quello che ero”. Nel greco dell’Apocalisse,
il nome del Signore viene infatti reso come “Colui che era, che è, e che
viene” (Apocalisse, 1:4, 1:8 e 4:8).

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Fatto sta che Dio, eterno e onnipresente, si presenta a Mosè in un punto


preciso della storia e della geogra a con un nome proprio, un nome che
non può essere usato da nessun altro e che non può indicare nessun altro,
ma il cui senso copre la totalità dell’essere. Si tratta di un paradosso che la
mente umana non riesce ad accettare. Come può la totalità dell’essere
diventare un soggetto parlante dotato per giunta di un nome? Come può
ciò che è eterno e non cambia mai entrare nel nostro divenire dove niente
rimane uguale? E non solo entrare nelle nostre storie, ma anche
intervenire e volerle cambiare?

In realtà, se questo paradosso s da la logica del nostra mente intelettuale,


non disturba quella del nostro cuore, perché anche in noi c’è qualcosa che
nel tempo conserva una certa identità e che si immerge nel divenire e lo
modi ca senza esserne totalmente travolto. Qualcosa che sparisce ogni
volta che ci addormentiamo, ma che non riusciremmo a immaginare che
non riapparisse e che di fatto più o meno lentamente riappare sempre,
no a che siamo vivi, perché questo qualcosa – che la scienza non si è
ancora riuscita a spiegare e considera tuttora il problema più duro da
risolvere – è ciò che dà unità e coerenza a tutte le nostre svariate
esperienze e le raduna sotto un unico soggetto come “nostre esperienze”.
È grazie a questa facoltà che possiamo usare le parole e altri segni per
indicare ai nostri simili un’intenzione coerente e, similmente, attribuirla al
loro comportamento.

Negli scritti degli apostoli (Giovanni, Pietro e, soprattutto, Paolo), questa


capacità mentale di orientarsi tra le varie esperienze viene chiamato
coscienza (il termine greco syneidesis συνείδησις – come il latino conscientia,
da cui deriva quello italiano – signi ca “conoscenza condivisa”). La
coscienza è il ricordo di quello che abbiamo fatto e anche il rimorso per
quello che non abbiamo fatto di bene o che abbiamo fatto di male
(Giovanni, 8:9). Per questa coscienza, Adamo si nascondeva davanti a Dio
dopo avergli disobbedito (Genesi, 3:10).

È proprio perché potessimo avere una buona coscienza davanti a lui che
Dio ci ha rivolto la sua parola e ha preparato un piano per il nostro
recupero. Perché il peccato non può durare in eterno, solo la parola di Dio
dura in eterno.

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La parola che è dal principio Dio (il logos λόγος di Giovanni 1:1) si era già
presentata agli uomini con parole comprensibili, riconoscendoli come
persone capaci di riconoscerlo. Ma con Mosè, ancora di più che con Noè o
con Abramo, Dio si presenta rivelandosi come Colui che è e che rimane
sempre lo stesso, ma che, ciononostante, anzi proprio per questo, non è
insensibile al grido di dolore del suo popolo in schiavitù. Perché ciò che
non viene mai meno è l’amore (1 Corinzi, 13:8) e l’amore non può rimanere
insensibile al dolore dell’amato.

“Io sono colui che sono” è il nome dell’Eterno Dio che non può mentire e
non può cambiare (Numeri, 23:19; 1Samuele, 15:29), perché è la somma
simmetria, cioè la realtà che per de nizione non cambia mai, o anche ciò
che non cambia nella realtà.

Ma non è una realtà astratta e impersonale. La parola di Dio ci invita anzi a


un rapporto intimo e personale perché ci fa sapere che ci conosce
personalmente e intimamente. Come abbiamo già visto, la legge (torah
‫ )תֹּו ָרה‬non è soltanto normativa, ma anche, innanzitutto, istruzione,
insegnamento. Dio si presenta rivelandoci il suo Nome.

Dio si rivolge qui a tutti i gli di Israele e, come si è rivolto a Mosè e agli
ebrei prima, oggi anche a noi gentili (dall’ebraico, goyim ‫ גֹּויִם‬letteralmente
“genti”, “popoli”, cioè “non ebrei”), che siamo stati innestati nell’olivo
(Romani, 11:17-24). A tutti dice che è lui che, non cambiando mai, dà unità e
senso alla nostra vita. Nell’ultimo libro della Legge, in cui tutto
l’insegnamento di Dio è ripetuto e riassunto per essere ricordato e
osservato, questa istruzione ritorna con maggiore chiarezza “Ascolta,
Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE” (Deuteronomio, 6:4).
Non c’è nessun altro vero Dio oltre al nostro Dio, perché solo il SIGNORE è
colui che raduna tutte le molteplicità nella sua perfetta permanente
unità. Dopo la caduta nella disobbedienza e la cacciata dal giardino dove
godevamo della presenza di Dio e di tutte le sue benedizioni, ci siamo
trovati travolti da numerose passioni, spesso scambiando per il nostro dio
questa o quell’altra esigenza. Abbiamo quindi perso l’integrità, la coerenza,
la verità, il senso stesso di molte delle nostre azioni, entrando in una realtà
confusa e incoerente. Diventando incapaci di fedeltà anche verso il nostro
prossimo, i nostri stessi amici, le persone che abbiamo amato e ci amano.
Ma Dio ha visto tutto questo ed è venuto a farci ritrovare la via della
coerenza e dell’integrità.

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“Ama il tuo Dio” e “ama il tuo prossimo come te stesso” sono, come
abbiamo già visto nel prologo e come continueremo a ricordare, due
comandamenti strettamente collegati. Anche perché Dio è stato il nostro
primo prossimo (re’a ‫ ֵר ַע‬, il termine ebraico che spesso traduciamo con
prossimo, signi ca anche “coniuge, compagno, amico”). Si è presentato a
Israele e oggi anche a tutti noi come Colui che ha visto la nostra af izione,
ha sentito il nostro grido e ha risposto al nostro bisogno. Dio è stato il
prossimo di Israele perché è venuto a liberarlo dalla “casa di schiavitù”. Ora
il suo popolo deve essere fedele a Dio e non vivere più per conto suo,
abbandonandosi alle sue passioni come tutti gli altri popoli della terra
(1Pietro, 4:3).

Per liberare Israele, il SIGNORE ha fatto giustizia di tutti gli dèi degli
Egiziani (Esodo, 12:12), Israele deve dunque amare il SIGNORE con tutto il
cuore, con tutta l’anima sua e con tutte le sue forze (Deuteronomio, 6:5),
non avendo più altri dèi, non seguendo più altre passioni.

La parola di Dio è per il suo popolo in viaggio. Israele era uscito dalla casa di
schiavitù, potremmo anche dire “dalla casa del servizio a se stessi”. Il
Faraone, re che non conosce il SIGNORE e non gli vuole ubbidire (Esodo,
5:2), è infatti una chiara gura della nostra carne che, come scrive Paolo,
brama ciò che “è inimicizia contro Dio, perché non è sottomessa alla legge
di Dio e neppure può esserlo” (Romani, 8:7). Dio ha visto questa condizione
in cui ognuno poteva contare solo sulle proprie forze, dove ci sentivamo
continuamente minacciati e non avevamo nessuna reale speranza,
perché potevamo solo sforzarci di sopravvivere ma non sapevamo bene a
che scopo. Il SIGNORE vede anche oggi questa angoscia e manda la sua
parola perché il suo popolo possa uscire dalla casa di schiavitù.

In molti passi di Esodo e di Deuteronomio, Mosè parla della mano potente


di Dio come autrice della liberazione dall’Egitto. I comandamenti sono
stati spesso paragonati alle dieci dita delle mani, perché non sono in realtà
separati l’uno dall’altro ma, come la preghiera insegnata da Gesù (in cui
tutte le richieste sono intimemente interconnesse), sono un’unica parola
che si speci ca in due gruppi di cinque parole.

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Tutte assieme, le dieci parole danno una guida per camminare lungo la via
della liberazione dalla schiavitù, cioè dal servizio a noi stessi, dalla paura
della morte, dal regno delle tenebre, dalla solitudine in cui ci sembra di
poter fare quello che vogliamo e nella quale invece diventiamo facilmente
schiavi del peccato e di svariati vizi, per entrare nel regno di Dio e nella
libertà dei suoi gli. Il SIGNORE ha visto la nostra af izione e ha mandato la
sua parola, perché non fossimo più soli e nel buio, ma potessimo vivere
sempre nella sua meravigliosa luce.

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Seconda parola: non ti fare immagini e non le adorare

Esodo, 20:4-6 Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono
lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti
prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio,
sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei padri sui gli no alla terza e alla
quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà, no alla millesima
generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei
comandamenti.

La maggior parte delle dieci parole sono comandamenti negativi, si tratta


di cose che bisogna evitare o smettere di fare. Il popolo di Israele era stato
portato fuori dall’Egitto, dove per secoli era rimasto esposto all’esempio e
all’in uenza di una cultura pagana e idolatra. Anche noi credenti che
ascoltiamo la parola di Dio siamo stati portati fuori dal nostro personale
Egitto e, prima di poter iniziare a fare delle cose nuove nella nuova terra
promessa in cielo (e anche in questa terra, grazie all’anticipo dello Spirito
Santo), dobbiamo smettere di fare le cose che facevamo prima, dato che
quelle cose sono espressamente incompatibili con le cose nuove che
possiamo fare entrando nella volontà di Dio. “Perché la carne ha desideri
contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose
opposte tra loro, di modo che non potete fare ciò che vorreste” (Galati,
5:17).

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Nell’elenco delle cose che la nostra carne tende a fare quando è lasciata a
se stessa, tra le prime che Paolo menziona ci sono la fornicazione e
l’idolatria (Galati, 5:19-20), due peccati tra loro strettamente collegati, da cui
mettono in guardia le prime due parole. “Avere altre dèi davanti al
SIGNORE”, è infatti ciò che in molti libri della Bibbia è chiamato
metaforicamente “prostituirsi” (cf. per es Esodo 34:15-16). Adorare e servire
la creatura invece del Creatore (per usare l’espressione di Paolo in Romani,
1:25) è una forma di impurità spirituale che assomiglia alla fornicazione,
perché consiste nella scelta di un piacere (o di un vantaggio) materiale, a
discapito della fedeltà che è costitutiva di un rapporto personale. Il
SIGNORE è Colui che rimane sempre lo stesso, “il Dio fedele”
(Deuteronomio, 7:9) che non cambia mai ed è per questo nascosto alla
nostra vista materiale. Le cose che si vedono e che attraggono il nostro
sguardo, dando – o, piuttosto, promettendo – soddisfazione ai nostri sensi,
sono invece necessariamente solo per un tempo (2 Corinzi, 4:18). 

Se scegliamo di dare importanza a ciò che appare, non possiamo


contemporaneamente dare importanza a Colui che rimane veramente
stabile e che per questo non possiamo vedere, il Dio fedele che può
essere conosciuto solo per fede. 
È la stessa scelta di cui parla Gesù quando ci dice che “nessun domestico
può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà
riguardo per l’uno e avrà disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e
Mammona” (Luca, 16:13). Mammonàs μαμωνᾶς  è una parola greca
traslitterata dall’aramaico (alcuni ipotizzano venga dall’ebraico matmown
‫) ַמ ְטמוֹן‬, che signi ca “mucchio, tesoro”: la ricchezza che possiamo vedere e
mostrare agli altri, il potere che possiamo avere (o credere di avere) per
organizzare la nostra vita come vogliamo noi. Le ricchezze ci appaiono
come qualcosa di stabile e concreto, ma sono invece la cosa più ef mera e
volatile che esista. “Non ti affannare per diventar ricco, smetti
dall’applicarvi la tua intelligenza. Vuoi ssare lo sguardo su ciò che
scompare? Poiché la ricchezza si fa delle ali, come l’aquila che vola verso il
cielo.” (Proverbi, 23:4-5). L’avidità di queste ricchezze visibili è la forma
generale dell’idolatria (Colossesi, 3:5), e la radice di ogni specie di male (1
Timoteo, 6:10).

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La Parola nelle Dieci parole

Con dare nelle ricchezze visibili è esattamente l’opposto della fede che
Dio considera giustizia. Infatti è scritto che per mezzo di questa fede
“comprendiamo che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio; così le
cose che si vedono non sono state tratte da cose apparenti” (Ebrei, 11:3). Se
ci appoggiamo solo su ciò che si vede, necessariamente rintracceremo
l’origine delle cose in qualche aspetto della vita materiale, facendo di
questi elementi i nostri dèi.

Quando scrive che noi credenti “camminiamo per fede e non per visione”
(2 Corinzi 5:7), Paolo usa il termine greco eidos (εἶδος), che in greco si
riferisce alla forma essenziale delle cose visibili. Fissando il nostro sguardo
su ciò che si vede, possiamo a volte cogliere qualche struttura più stabile;
queste gure, però, per quanto più simmetriche di quelle da cui
emergono, non manifestano la vera immagine di Dio. Si tratta piuttosto di
immagini che ci facciamo noi, conferendo un’apparenza di stabilità e di
vita a ciò che non ne ha davvero, perché basta guardare da un altro punto
di vista, o un’altra dimensione perché ciò che sembrava stabile riveli la sua
instabilità.

I termini che vengono usati nel testo originale di questo comandamento,


e che abbiamo tradotto con scultura e immagine, sono pesel ‫ ֶפּ ֶסל‬e
temunah ‫ ְתּמוּנָה‬, ben diversi da quelli usati nel testo del primo capitolo della
Genesi (1:26), dove Dio si propone di fare l’uomo a sua “immagine” (tzelem
‫ ֶצ ֶלם‬, che c’entra con l’ombra) e “somiglianza” (dmuth ‫ ְדּמוּת‬che ha a che fare
con il sangue). Mentre questi ultimi esprimono un rapporto diretto tra
l’uomo e Dio, come di liazione (in Genesi 5:3, gli stessi termini sono infatti
usati per descrivere il rapporto tra Adamo e suo glio Set), quelli per le
immagini da non farsi si riferiscono al taglio della materia (pasal ‫ָפּסַל‬
signi ca “incidere, tagliare”), alla ricerca di una somiglianza esteriore (
temunah viene da miyn ‫ ִמין‬che vuole dire anche “specie”). L’immagine
prodotta dall’uomo funziona grazie a un’illusione che dipende da una
separazione dalla realtà, richiede una cornice che de nisce uno spazio di
rappresentazione. Sappiamo che tutto quello che c'è dentro quel quadro
non si collega a ciò che lo circonda sicamente  ma vuole farci
immaginare una realtà che non è lì.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Guardando la volta celeste o la forma delle nuvole, i rami o le foglie di un


albero, i rilievi delle rocce o le rugosità di un muro, il uire della corrente o
l’ondeggiare delle alghe, forme che persistono nel tempo possono
apparire al nostro sguardo e assomigliare a volti o a gure di uomini o di
animali (fenomeno percettivo che va sotto il nome scienti co di
pareidolia).

Frutto dell’ispirazione (artistica o religiosa), le gure prodotte dall’uomo


per rappresentare queste “apparizioni” sono state normalmente oggetto
di devozione o di culto presso tutti i popoli della terra, come se in esse si
potesse scoprire o riassumere l’essenza delle cose che vi appaiono. Queste
immagini sono state infatti spesso considerate manifestazioni di quegli
"altri dèi" che il SIGNORE ha detto a Israele di non avere davanti a lui.
Comandamento che ripeterà ancora molte volte, attraverso Mosè e altri
suoi profeti. “Siccome non vedeste nessuna gura il giorno che il
SIGNORE vi parlò in Oreb dal fuoco, badate bene a voi stessi, af nché non
vi corrompiate e non vi facciate qualche scultura, la rappresentazione di
qualche idolo, la gura di un uomo o di una donna, la gura di uno degli
animali della terra, la gura di un uccello che vola nei cieli, la gura di una
bestia che striscia sul suolo, la gura di un pesce che vive nelle acque
sotto la terra; e anche af nché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole,
la luna, le stelle, tutto l’esercito celeste, tu non ti senta attratto a prostrarti
davanti a quelle cose e a offrire loro un culto, perché quelle sono le cose
che il SIGNORE, il tuo Dio, ha lasciato per tutti i popoli che sono sotto tutti
i cieli. Quanto a voi il SIGNORE vi ha presi, vi ha fatti uscire dalla fornace di
ferro, dall’Egitto, per farvi diventare il popolo che gli appartiene, come oggi
difatti siete” (Deuteronomio, 4:15-20).

Abbiamo già visto che il rapporto che Dio vuole stabilire con il suo popolo
è un rapporto personale, basato sulla reciproca ducia. Il nome profetico di
Cristo è Emmanuele, “Dio con noi” (Isaia, 7:14; Matteo, 1:21-23), dove la
preposizione “con” è ‘im ‫ ִעם‬, non be ‫ ְבּ‬, ed esprime compagnia, non
locazione o strumentalità (sono le stesse lettere che formano la parola ‘am
‫עַם‬, che signi ca “popolo”). Il rapporto che il SIGNORE ci offre è un rapporto
d’amicizia, il rapporto che si rinsalda guardandosi in faccia. “Il mio cuore mi
dice da parte tua: Cercate il mio volto! Io cerco il tuo volto, o SIGNORE”
(Salmi, 27:8). Questo è il desiderio di Dio per noi: che anche noi lo
desideriamo, e non per quello che ci può dare, ma per conoscerlo e cibarci
del suo amore per noi.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Alla ne dell’ultima lettera dello Spirito di Dio alle sette chiese


dell’Apocalisse è scritto: “Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta
la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con
me. Chi vince lo farò sedere presso di me sul mio trono, come anch’io ho
vinto e mi sono seduto con il Padre mio sul suo trono.” (Apocalisse, 3:20-21).

Le gure che appaiono nel mondo attorno a noi possono avere dei volti,
ma non ci guardano mai veramente negli occhi. Non gli interessa di noi e
non desiderano che noi conosciamo quello che hanno in mente. Gli idoli
che ce ne possiamo fare (e che vi si sostituiscono a pieno diritto) “hanno
bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non
odono e non hanno respiro alcuno nella loro bocca.” (Salmi, 135:16-17).
Queste gure hanno solo un’apparenza di vita, sono in realtà cose morte
che ci portano alla morte spirituale, perché rispondono alla nostra volontà
di rimanere da soli, cioè di non stabilire nessun vero rapporto personale,
né con Dio, né con il nostro prossimo.

Gli idoli, le immagini che oggi la tecnologia ha imparato a moltiplicare


illimitatamente, ci chiamano come sirene, attirandoci con la loro promessa
di stabilità e la loro illusione di immortalità. Ma quello che ci attira
innanzitutto è il nostro desiderio di non dover rendere conto delle nostre
azioni né al nostro Dio, né al nostro prossimo, di essere cioè padroni di fare
quello che vogliamo. Il desiderio di starcene da soli con qualcosa che non
ci impegna e non limita la nostra vita. Anche per questo l’idolatria è
assomigliata alla fornicazione, cioè allo sfruttamento (o, reciprocamente,
alla vendita) del corpo umano per il proprio piacere (e per il proprio
guadagno). In molti passi delle Scritture il rapporto di amicizia e di amore
che il SIGNORE offre al suo popolo è invece illustrato dal rapporto
matrimoniale. Per questo il SIGNORE chiama se stresso “il Geloso” (Esodo,
34:14).

Mosè aveva incontrato il Dio vivente, lo aveva ascoltato e gli aveva creduto.
L’aveva ubbidito e attraverso la sua ubbidienza aveva portato il suo popolo
fuori dalla casa di schiavitù. Prostrandoci davanti a una scultura o a
un’immagine che ci siamo fatti noi con le nostre mani o con la nostra
immaginazione stiamo personi cando un oggetto. Diamo vita a ciò che
non ne ha. 

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Ma la vita che diamo alle cose non è in realtà nostra. La vita è Dio che ce
l’ha data, sof ando il suo alito vitale su una creatura di fango.
Analogamente a quanto ha fatto Dio, anche noi uomini possiamo cercare
di dare vita alle cose inanimate. Ma mentre la vita in nita di Dio ha
prodotto vera vita in noi, la nostra vita comunque limitata può produrre
solo “dèi di legno e di pietra, che non vedono, non odono, non mangiano e
non annusano” (Deuteronomio 4:28).

Anche se oggi l’uomo è riuscito a costruire manufatti molto più complessi


e intelligenti degli idoli di una volta, nessuno dei nostri manufatti è dotato
di vita e tanto meno di una coscienza. Solo Dio è il Creatore, solo lui è il Dio
vivente e perfettamente coerente con se stesso. Solo lui può dare (e
togliere) la vita e la coscienza. Chi vuole usurpare la posizione di Dio,
mettendosi al suo posto (o mettendoci qualcun altro), pecca più o meno
volontariamente contro la verità.

Abraamo ha creduto alla parola di Dio e per questo Dio lo ha considerato


giusto (Genesi, 15:6). Per questo Dio ha benedetto lui e la sua discendenza.
Il popolo di Israele assieme ad altri popoli semiti gode tuttora della
benedizione di Dio (perché, fossero pure stati tutti infedeli da allora in poi,
oggi non sono ancora passate mille generazioni…), ma lo stesso Dio che ha
promesso di benedire Abraamo, benedice anche tutti coloro che, come
Abraamo, gli credono prima di avere visto il compimento delle sue parole
(“Ora la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che
non si vedono” Ebrei, 11:1). Difatti sia a lui che a suo glio Isacco, Dio non
solo ha promesso benedizioni per loro e per la loro discendenza, ma anche
per tutti coloro che avrebbero creduto attraverso di loro, generazione
dopo generazione. “Moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del
cielo e darò alla tua discendenza tutti questi paesi; tutte le nazioni della
terra saranno benedette nella tua discendenza, perché Abraamo ubbidì
alla mia voce e osservò quello che gli avevo ordinato: i miei
comandamenti, i miei statuti e le mie leggi” (Genesi 26:4-5).

Isacco ha generato Giacobbe che è diventato Israele. A Israele Dio ha


confermato le sue promesse dicendo “… tu, Israele, mio servo, Giacobbe
che io ho scelto, discendenza di Abraamo, l’amico mio, tu che ho preso
dalle estremità della terra, che ho chiamato dalle parti più remote di essa,
a cui ho detto: Tu sei il mio servo, ti ho scelto e non ti ho rigettato” (Isaia,
41:8-9).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Queste dieci parole che stiamo leggendo non sono quindi solo per i
discendenti cromosomici di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe, ma per tutti
coloro che Dio ha chiamato – da tutte le estremità della terra – a formare il
suo popolo Israele nel suo Cristo e glio unigenito Gesù, che è nato nella
tribù di Giuda, discendente di Abramo, Isacco e Giacobbe, ma che ha
indicato i suoi veri parenti in tutti quelli che desiderano ubbidire al Padre:
“Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre”
(Marco, 3:35).

Veniamo, per concludere, ai due verbi che il testo di Esodo 20:5-6 usa per
distinguere i soggetti dei due diversi destini: il peccato che non rimarrà
impunito no alla terza o quarta generazione di quelli che odiano il
SIGNORE e la carità che raggiungerà coloro che lo amano no alla
millesima. 
Amare e odiare nelle lingue moderne hanno preso il signi cato di affetti
che coinvolgono forti passioni. Da quello che ci fa capire il contesto del loro
uso, nelle lingue della Bibbia questi due verbi (rispettivamente 'ahav
‫אָ ַהב‬ e  saneh ‫ ָשֵׂנא‬  in ebraico; agapáō  ἀγαπάω  e  miséō i μισέω in greco) hanno
invece un senso più preciso e spirituale, che ha a che fare con le nostre
scelte, decisioni e preferenze.  
In Genesi è scritto che Giacobbe amò Rachele più di Lea, e che “il
SIGNORE vide che Lea era odiata” (29:31a).  Ora, sappiamo che Giacobbe
non odiava Lea nel senso di non poterla vedere o pensare a come
ucciderla, ma piuttosto nel senso che, come è appunto scritto, “amava di
più Rachele” (Genesi, 29:30).  Nello stesso senso, Gesù ha dichiarato che
dobbiamo odiare i nostri cari: “Se uno viene a me e non odia suo padre, e
sua madre, e la moglie, e i fratelli, e le sorelle, e nanche la sua propria vita,
non può esser mio discepolo” (Luca. 14:26).  

L’uso biblico dei verbi “amare” e “odiare” signi ca insomma che, come
abbiamo ricordato anche prima, parlando della scelta tra Dio e Mammona,
l’uomo, anche se a volte non vorrebbe, di fronte al SIGNORE si trova a
dover prendere posizione. Così, anche per “odiare Dio” non occorre
essergli attivamente ostili, basta preferire alla vita con lui la solitudine delle
immagini e dei tesori che esse rappresentano e ci fanno sognare.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Le ultime due parole del testo (ulshomrey  mitzvotay    "e che osservano i
miei comandamenti") de niscono concretamente chi siano coloro ai quali
si riferisce il SIGNORE quando dice "quelli che mi amano".  
Anche Gesù ha detto espressamente: "Se voi mi amate, osserverete i miei
comandamenti." (Giovanni 14:15). In questo, quindi, le cose non sono per
niente cambiate  dal Vecchio al Nuovo Testamento: non c'è amore di Dio
senza obbedienza a Dio. 
La differenza è che, mentre una volta poteva stare solo con una scelta
minoranza di un piccolo popolo scelto tra tutte le nazioni, oggi, con Cristo,
il SIGNORE rimane sempre con tutti coloro che lo cercano. Sapendo
questo, oggi possiamo obbedire la sua parola per amore e non più per
forza. 

Osservare i suoi comandamenti è diventato oggi per tutti i credenti il


nostro modo per stare con il SIGNORE e sviluppare così il frutto del suo
Spirito (Giovanni, 15:5), che "è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza,
bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo" (Galati, 5:22). Poco più avanti
Gesù ha infatti aggiunto: "Se osservate i miei comandamenti, dimorerete
nel mio amore; come io ho osservato i comandamenti del Padre mio, e
dimoro nel suo amore" (Giovanni, 15:10).

Il salto di scala tra la durata della punizione per le iniquità lungo due o tre


generazioni e quella del prolungarsi dell'amore di Dio per mille
generazioni  sui gli dei gli  di coloro che lo amano e osservano i suoi
comandamenti mostra già, in prospettiva, quel rinnovamento del patto
che sarà annunciato dal profeta Geremia nel passo che abbiamo già citato,
passo che è preceduto proprio dalla promessa che i peccati dei padri non
peseranno più sui loro gli: "In quei giorni non si dirà più: I padri hanno
mangiato uva acerba e i denti dei gli si sono allegati, ma ognuno morirà
per la propria iniquità; chiunque mangerà l'uva acerba avrà i denti allegati
(...) Nessuno istruirà più il suo compagno o il proprio fratello, dicendo:
Conoscete il SIGNORE!, poiché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al
più grande, dice il SIGNORE. Poiché io perdonerò la loro iniquità, non mi
ricorderò del loro peccato" (Geremia, 31:29-30 e 34). 

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Terza parola: non portare il Nome invano

Esodo, 20:7 Non pronunciare il nome del SIGNORE, Dio tuo, invano; perché
il SIGNORE non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.

La preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli (Matteo 6:9-13 e Luca 11:2-


4) comincia proprio con la richiesta che il nome del Padre sia santi cato.
Questa richiesta in qualche modo riassume tutte e tre le prime parole del
Decalogo che abbiamo letto n qui.

Abbiamo già visto  (e ci torneremo ancora) come il senso del passaggio


dalla legge mosaica alla predicazione del regno di Dio possa essere
adeguatamente descritto come passaggio da un insieme di imposizioni
da parte di Dio a un insieme di richieste fatte in preghiera dal credente.
Vedremo infatti come i Dieci comandamenti vengano ripresi dalla
preghiera che chiamiamo il Padre nostro. Questa trasformazione esprime
infatti molto bene il senso del compimento (o perfezione, in greco i due
termini si equivalgono) della Legge da parte di Gesù. Secondo quanto
promesso nel passo del profeta Geremia che abbiamo citato (“ma questo
è il patto che farò con la casa d’Israele, dopo quei giorni, dice il SIGNORE: io
metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro
Dio, ed essi saranno mio popolo”, Geremia, 31:33), la Legge è stata scritta
nei nostri cuori e, da Cristo in poi, siamo noi stessi che chiediamo a Dio che
sia adempiuto ciò che, prima, attraverso Mosè, Israele aveva ricevuto
l’ordine di fare.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Torniamo ora al comandamento di non profanare il nome del SIGNORE.

Il nome è la parte del discorso che aggancia il verbo a un soggetto o a un


oggetto, qualcosa di più o meno stabile e complesso che viene
comunque considerato nella sua permanenza. I nomi comuni si
riferiscono a una classe di persone o di cose che normalmente
comprendono innumerevoli individui. I nomi propri servono invece a
riferirisi a un singolo individuo (anche se possono essere molto comuni,
perché il contesto normalmente aiuta a superare l’ambiguità generata
dall’omonimia). Quando Mosè scrive “Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro
Dio, è l’unico SIGNORE” (Deuteronomia 6:4), intende certamente anche
sottolineare l’unicità del soggetto a cui si riferisce il nome del SIGNORE.

Ma si riferisce anche all’unità di questo soggetto, cioè alla sua personalità,


alla sua coscienza.

Come abbiamo già considerato (esaminando la prima delle dieci parole), il


fatto di essere eterno non toglie personalità al SIGNORE. È anzi proprio la
sua eternità che rende il SIGNORE quello che è: incapace di menzogna e
infedeltà, di azioni inutili e di parole oziose. Ogni re ha una sua precisa
personalità, anche se non può permettersi di indulgere nei suoi personali
capricci, anzi la sua personalità è tanto più forte quanto meno si lascia
in uenzare da ciò che è passeggero e inin uente. “I re hanno orrore di fare
il male, perché il trono è reso stabile con la giustizia” (Proverbi, 16:12). Il re è
re proprio perché non può dire o fare stupidaggini, perché ogni sua parola
e ogni sua azione deve essere pesata in vista del governo di un intero
popolo. La regalità di un comportamento si misura in base alla sua stabilità
e coerenza, al fatto cioè che rimanga lo stesso nel tempo. L’eternità è la
prerogativa del comportamento dell’unico vero SIGNORE. Colui che in
Apocalisse è per questo chiamato “il Signore dei signori e il Re dei re”
(Apocalisse, 17:14).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

D’altra parte, il termine ebraico per “unico” utilizzato in Deuteronomio 6:4


(‘echad) deriva da una radice che ha anche il senso di “insieme”. L’identità
di Dio corrisponde anche al fatto che in lui e solo in lui tutte le cose sono
raccolte e collegate, perché Dio e solo Dio conosce tutte le schiere in cui si
articola l’intero Universo, visibile e invisibile. Tutte insieme e una per una.
Anche noi il SIGNORE ci conosce uno a uno per nome, e per questo a
volte lo consideriamo alla nostra stessa stregua. Ma lui, a differenza di
alcuni di noi (e del nemico che ci spia e che raccoglie informazioni sulle
nostre vite), non solo conosce i nostri nomi e tutto quello che abbiamo
detto e fatto nella nostra vita (conosce per no i capelli del nostro capo,
com’è scritto in Matteo 10:30), ma anche i nostri pensieri, le nostre
emozioni e i nostri sentimenti. Davide ha scritto “La conoscenza che hai di
me è meravigliosa, troppo alta perché io possa arrivarci” (Salmi 139:6).

Anche il nome del SIGNORE è meraviglioso, come ha detto l’angelo ai


genitori di Sansone (Giudici, 13:18). La parola ebraica usata sia nel salmo 139
sia nel racconto dell’annunciazione di Sansone è pil’iy (‫) ִפּ ְל ִאי‬, e deriva da una
radice che ha il senso di qualcosa che non possiamo comprendere.
Mentre ciò che è profano è comune, in qualche modo scontato, ciò che è
santo ha una natura nuova, che supera le nostre attuali capacità di
conoscere e capire. Le cose sante di Dio sono “le cose che occhio non vide,
e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo” (1 Corinzi,
2:9), cose totalmente nuove, che non possiamo riportare alla nostra realtà.
“Infatti i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le
mie vie, dice il SIGNORE. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così
sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri
pensieri.” (Isaia, 55:8)

Il nome di Colui che è e che governa tutte le schiere (YHWH tzevaoth) è


tre volte santo (Isaia, 6:3; Apocalisse, 4:8). Il comandamento di non
pronunciare il nome del SIGNORE invano esprime la responsabilità che
comporta il fatto di conoscere questo nome. In realtà “pronunciare” è una
traduzione piuttosto libera del verbo ebraico usato nel testo originale, che
signi ca primariamente “sollevare, portare”: letteralmente l’espressione
andrebbe tradotta come  sollevare a vanità. O anche come portare per
niente. Poco più avanti, sempre in Esodo, lo stesso verbo è usato a
proposito dei nomi dei patriarchi di Israele incisi sulle pietre che il sommo
sacerdote portava sulle spalline dell’efod. “Aaronne porterà i loro nomi
davanti al SIGNORE sulle sue due spalle, come memoriale” (Esodo, 28:12).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Ciò che rendiamo con pronunciare invano può quindi essere


tradotto  anche  con portare invano. Cosa che facciamo inevitabilmente
con il nome del SIGNORE quando non ci rendiamo conto di quale
altissima autorità vi sia collegata e viviamo la nostra vita come chi non lo
conosce e si lascia condizionare dalle cose che durano solo un momento.
Conoscere il nome del SIGNORE dà quindi all’uomo anche un’altissima
responsabilità. “A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto
è stato af dato, tanto più si richiederà” (Luca 12:48).

Tantomeno possiamo usare il nome del SIGNORE per i nostri scopi


quando questi non sono in vista della verità. “Non giurerete il falso, usando
il mio nome; perché profanereste il nome del vostro Dio. Io sono il
SIGNORE” (Levitico, 19:12).

Nella Legge di Mosè il giuramento è quindi comunque previsto come


strumento legale per dirimere una possibile contesa (cf. anche per es.
Esodo, 22:10-11). Ma solo come una concessione a una natura carnale
ancora tutta da educare. Le richieste di santità che Gesù pone ai suoi
discepoli, rispetto a quelle poste attraverso Mosè, sono infatti più avanzate
nell’astenersi dall’usare il nome del SIGNORE: “… fu detto agli antichi: Non
giurare il falso; dà al Signore quello che gli hai promesso con giuramento.
Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio; né
per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme,
perché è la città del gran Re. Non giurare neppure per il tuo capo, poiché
tu non puoi far diventare un solo capello bianco o nero. Ma il vostro parlare
sia: “Sì, sì; no, no”; poiché il di più viene dal maligno.” (Matteo, 5:33-37). Il
maligno vuole usare la verità per i suoi scopi, e noi non siamo diversi da lui
quando la usiamo per manipolare la volontà altrui. Per questo anche
Giacomo ci dice la stessa cosa: “Soprattutto, fratelli miei, non giurate né
per il cielo, né per la terra, né con altro giuramento; ma il vostro sì, sia sì, e il
vostro no, sia no, af nché non cadiate sotto il giudizio” (Giacomo, 5:12).

Viceversa, lo scrupolo di non pronunciare sicamente il nome del


SIGNORE, maturato nell’ebraismo soprattutto in epoca post-biblica, ha
portato all’attuale ignoranza sulla sua originaria vocalizzazione. In origine,
le Scritture ebraiche erano totalmente senza vocali (oltre che senza
interpunzioni). Il testo attuale con i puntini e i segni diacritici che ne
guidano la lettura è stato de nito vari secoli dopo la venuta di Cristo.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

 In questo testo (che è quello da cui partono anche le traduzioni cristiane)
il nome del SIGNORE è stato arbitrariamente vocalizzato come YeHoWaH
‫יְהֹוָה‬. Non però per essere letto in questo modo, come alcuni hanno
erroneamente creduto e insegnato, ma per ricordare le vocali del nome
che si legge in sua sostituzione Adonay ‫) ֲאדֹנָי‬. Tutt’oggi gli ebrei, anche i
non ortodossi, stanno ben attenti a vocalizzare il tetragramma YHWH, in
qualsiasi maniera questo possa essere vocalizzato e usano espressioni
come HaShem (“Il Nome”) o appunto ‘Adonay (“miei Signori”).

Ma il senso di questo terzo comandamento, come abbiamo visto, va oltre


il divieto di usare invano il nome del SIGNORE, soprattutto in imprecazioni
o in illegittimi giuramenti (e, per noi cristiani, come abbiamo visto,
nemmeno in giuramenti “legittimi”). Si riferisce piuttosto a tutta la nostra
condotta di vita, in parole e in opere, se e quando ci dichiariamo credenti.
Come parte del popolo di Dio, diventiamo infatti portatori del suo nome;
af nché, attraverso di noi, altri possano conoscere Dio e la sua gloria,
secondo l’esortazione positiva di Cristo: “Così risplenda la vostra luce
davanti agli uomini, af nché vedano le vostre buone opere e glori chino il
Padre vostro che è nei cieli” (Matteo, 5:16); stando bene attenti che non
accada invece che il nome di Dio sia per caso bestemmiato per causa
nostra tra i non credenti (Romani, 2:24-25). Ricordandoci che siamo
chiamati a essere “una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente
santa” un popolo che Dio si è acquistato, perché fossero proclamate le
virtù di Colui che ci ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa
(1Pietro, 2:9).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Dobbiamo quindi fare attenzione non solo a non pronunciare alla leggera
il nome del SIGNORE, ma a non comportarci in generale in modo leggero,
ingiusto o anche soltanto sciatto, perché il Signore Gesù ci ha avvisato che
nel giorno del giudizio  gli uomini dovranno rendere conto di ogni parola
oziosa che avranno detta (Matteo, 12:36).

Dio è luce e in lui non ci sono tenebre (1 Giovanni 1:5). Nella sua divina luce
(che non si limita solo a quella che possiamo vedere con i nostri occhi)
ogni cosa è meravigliosamente collegata a tutte le altre, senza soluzione
di continuità. Questa in nita rete di eventi copre lo spazio e il tempo di
tutto l’universo. La parola di Dio è pronunciata a partire da questa eterna e
completa conoscenza.

C’è solo un modo in cui tutte le cose possono stare assieme. I loso
parlavano di in niti mondi possibili e oggi i sici teorici parlano di un
fantomatico Pluriverso, ma altri scienziati hanno anche osservato che in
realtà, nel nostro Universo, le cose non potrebbero essere diverse da
quelle che sono, almeno non se tra queste cose vogliamo mettere la vita
di noi uomini che ci stiamo affacciando al cosmo. Parlano infatti di un
universo nemente regolato, in cui ogni costante e ogni rapporto non
potrebbero essere diversi da quello che sono.

La parola di Dio è santa perché deve governare in eterno, e non può


indulgere in nessun errore o falsità. “Ogni cosa è stata fatta per mezzo di
lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta” (Giovanni, 1:3). È
la parola (davar, logos) che determina come tutte le cose sono collegate
tra di loro, su tutte le scale (le particelle negli atomi, gli atomi nelle
molecole, le molecole nelle cellule, sù sù no alle stelle nelle galassie e alle
galassie nelle gerarchie di ammassi di galassie dell’universo). “Poiché la
parola del SIGNORE è retta e tutta l’opera sua è fatta con fedeltà” (Salmi,
33:4).

“Il solido fondamento di Dio rimane fermo, portando questo sigillo: Il


Signore conosce quelli che son suoi, e: ritraggasi dall’iniquità chiunque
nomina il nome del Signore.” (2 Timoteo 2:19)

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Gesù ci ha fatto conoscere il nome del Padre (Giovanni, 17:6), facendoci


capire quanto profonda sia la conoscenza che Dio ha di noi e quanto sia
grande l’amore che lo ha spinto a mandare il suo diletto e unigenito glio
a morire per noi, perché lo temessimo del giusto timore (“Se tieni conto
delle colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono,
perché tu sia temuto”, Salmi, 130:4) e comprendessimo quanto ci
convenga imparare da lui per diventare mansueti e umili di cuore (Matteo,
11:29) ed essere trasformati interiormente, in modo da non desiderare più
che sia fatta la nostra volontà, ma piuttosto la “buona, gradita e perfetta
volontà” di Dio (Romani, 12:2).

Il nome del Padre è il nome di Colui che raduna in sé la conoscenza di


tutte le cose e che è tre vole santo perché, come abbiamo detto, cura
ogni minimo dettaglio in vista della totalità dell'Universo e la totalità
dell'Universo in vista di ogni minimo dettaglio di ognuna delle sue
creature.

Tale deve tendere ad essere anche la nostra parola e la nostra condotta.


“Siate santi, perché io, il SIGNORE vostro Dio, sono santo” (Levitico, 19:2).
Sforzo che possiamo fare solo presentando umilmente a Dio il nostro
cuore, come lui stesso ci chiede (Proverbi, 23:26); non rassegnandoci a
seguire i nostri pensieri e i nostri sentimenti come se fossero l’ultima
frontiera della verità, ma af dandoli piuttosto a Dio, possiamo avviarci
anche noi a toccare la sua santità. 

“Il cuore del re, nella mano del SIGNORE, è come un corso d’acqua; egli lo
dirige dovunque gli piace” (Proverbi, 21:1). Questa realtà spirituale di
comunione con Dio corrisponde a quel regno e quella giustizia che Gesù
ha detto di cercare prima di ogni altra cosa (Matteo, 6:33), desiderando
cioè innansitutto di essere guidati non dai nostri desideri carnali ma dal
desiderio dello Spirito di Dio che è vita e pace (Romani, 8:6). Perché dal
cuore, cioè dall’uomo interno, procedono le nostre azioni e le nostre parole
(Proverbi, 4:23; Luca 6:45).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Quarta parola: ricordati del sabato per santificarlo

Esodo, 20:8-11 Ricordati del giorno del riposo per santi carlo. Lavora sei
giorni e fa’ tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al
SIGNORE Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo
glio, né tua glia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo
straniero che abita nella tua città; poiché in sei giorni il SIGNORE fece i
cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno;
perciò il SIGNORE ha benedetto il giorno del riposo e lo ha santi cato.

Il testo ebraico gioca sulla vicinanza tra il nome del “giorno del riposo”
(shabath ‫)שׁבָּת‬,
ַ il numerale “settimo” (sheviy’y ‫)שׁ ִבי ִעי‬,
ְ la cui radice ha il senso
di “completezza, soddisfazione” e anche “giuramento”,  il verbo che
signi ca “cessare, smettere, desistere” (shavath ‫)שׁבַת‬, ָ e forse anche quello
che signi ca "sedere" (yashav ‫ָשׁב‬
ַ ‫)י‬.

Il comandamento di santi care il settimo giorno com’è espresso nel libro


dell’Esodo (diversamente dall’enunciazione di Deuteronomio, 5:12-15, che
insiste piuttosto sul lasciare riposare anche i propri servi), fa esplicito
riferimento al riposo di Dio dopo il compimento della creazione, secondo il
testo di Genesi 2, dove lo stesso gioco di parole appare in forma più
completa.

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La Parola nelle Dieci parole

Il passo a cui allude il testo si trova all’inizio del secondo capitolo del libro
della Genesi, dove è scritto “Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto
l’esercito loro. Il settimo giorno, Dio compì l’opera che aveva fatta, e si
riposò il settimo giorno (vayshboth bayom hasheviy’y ‫ִשׁבֹּת בַּיֹּום ַה ְשּׁ ִבי ִעי‬
ְ ‫ )וַיּ‬da
tutta l’opera che aveva fatta. Dio benedisse il settimo giorno e lo santi cò,
perché in esso Dio si riposò da tutta l’opera che aveva creata e fatta
[mikhol melakhtò asher-ba’rà Elohyim la’asòth, letteralmente: “da tutta
l’opera che Dio aveva creato per fare].” (Genesi, 2:2-3).

Nell’enunciazione di questa quarta parola appaiono i due principali termini


che si usano in ebraico per parlare del lavoro.

Quando viene comandato di lavorare sei giorni compiendo in essi le


nostre opere, il verbo usato nella prima occorrenza del termine
nell’originale è ‘avad (‫) ָעבַד‬, una radice molto importante che viene usata
per riferirsi in generale al servizio, sia quello per Dio, sia quello per qualche
altro padrone (“schiavitù”).

Mela’khah (‫) ְמלָאכָה‬, il termine che si usa per “lavoro ordinario” è anche quello
usato nel passo del secondo capitolo di Genesi che abbiamo appena
citato, dove è scritto – traducendo più letteralmente – che il SIGNORE si
riposò “da tutta la sua opera” (mikhol mela’khto ‫) ִמכָּל־ ְמלַא ְכתֹּו‬. Con questa
parola, che ha la stessa radice della parola che signi ca “angelo” (mala’kh
ְ ‫) ַמ ְל‬, si intende un’opera che è nalizzata a uno scopo, com’è nalizzato a
‫אָך‬
uno scopo l’incarico di un angelo per una certa missione. Difatti, alla ne
del passo, abbiamo letto che il testo dice proprio che l’opera era stata
creata “per fare” (Genesi, 2:3).

È a questo secondo senso del “lavoro” che si riferisce il quarto


comandamento con l’ordine di sospenderlo. Ed è in questa prospettiva
che vogliamo esaminare questa parola, come un invito a contemplare il
compimento dell’opera della creazione, considerandone la totalità e la
perfezione, e distogliendo per fede il nostro sguardo dalla fatica
quotidiana sempre imperfetta e incompleta, e sempre nalizzata a
qualche imperfetto e parziale obiettivo.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Questo non perché non sia giusto impegnarci nel nostro lavoro
quotidiano  (al contrario, abbiamo letto che è scritto “lavora sei giorni e fa’
tutto il tuo lavoro”), né perché crediamo che Dio intenda causarci
frustrazione o disperazione, ma al contrario per riconoscere che con
questo comandamento Dio ha dato al suo popolo un anticipo del vero
riposo che godremo alla ne. Perché possiamo avere una vera speranza,
cioè una vera meta. E riceviamo gioia e incoraggiamento per l’opera di
ogni giorno.

La discesa del cielo nella nostra vita è il senso profondo del sabato ebraico.
Lo spiega chiaramente l’ultima parte del comandamento, da cui stiamo
partendo per comprenderne il valore.

Gli insegnamenti di Dio sono tutti per il nostro bene e la nostra felicità,
come ha scritto Mosè, avviandosi verso la ne del suo servizio, nell’ultimo
libro della Torah: “Sappi dunque oggi e ritieni bene nel tuo cuore che il
SIGNORE è Dio lassù nei cieli, e quaggiù sulla terra; e che non ve n’è alcun
altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandamenti che oggi ti do,
af nché siate felici tu e i tuoi gli dopo di te, e af nché tu prolunghi per
sempre i tuoi giorni nel paese che il SIGNORE, il tuo Dio, ti dà.”
(Deuteronomio, 4:39-40).

La preghiera che ci ha insegnato il Signore Gesù, a cui abbiamo già fatto


riferimento per rileggere i primi comandamenti e in particolare il terzo,
dopo la richiesta che sia santi cato il nome del Padre che è nei cieli,
continua chiedendo “venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà anche in
terra come è fatta in cielo” (Matteo, 6:10). Abbiamo già intravisto – e
vedremo meglio dagli altri passi che stiamo per considerare – come la
celebrazione del sabato abbia precisamente questo stesso senso:
anticipare qui in terra il Regno dei cieli.

L’apostolo Paolo ha infatti scritto che il regno di Dio consiste in “giustizia,


pace e gioia nello Spirito Santo” (Romani, 14:17). E altrove ha precisato che
la volontà di Dio è che questa gioia celeste sia anche per noi che siamo
ancora sulla terra: “Siate sempre gioiosi; non cessate mai di pregare; in
ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù
verso di voi.” (1 Tessalonicesi, 5:16-18).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Come in cielo Dio è lodato e ringraziato da tutte le schiere celesti che lo


adorano e lo servono nella sua gloria eterna, anche per noi qui in terra la
cosa migliore (la buona, gradita e perfetta volontà di Dio, come la chiama
Paolo in Romani 12:2) è che lasciamo il nostro giudizio carnale –
condizionato dalla nostra situazione nello spazio e nel tempo – e, per fede,
ringaziamo Dio qualsiasi cosa stia succedendo, sapendo “che tutte le cose
cooperano al bene di quelli che amano Dio” (Romani, 8:28) e che quindi
l’unica cosa veramente importante è imparare ad amare Dio con tutto il
cuore in tutte le situazioni, perché da tutte le situazioni Dio può fare
scaturire del bene per il suo popolo. Pensiamo a Giuseppe e ai suoi fratelli,
per fare solo un esempio, sul quale torneremo ancora. O pensiamo al libro
di Ester, nel quale il Nome di Dio è nascosto (è l’unico libro della Bibbia in
cui Dio non è mai nominato), ma in cui la sua potenza si rivela perfetta
nella capacità di trasformare in vittoria la più terribile tragedia.

Nell’eternità ogni cosa è stata già compiuta e per ogni cosa c’è uno scopo.
Come ha scritto il re Salomone, “Il SIGNORE ha fatto ogni cosa per uno
scopo; anche l’empio, per il giorno della sventura.” (Proverbi 16:4). Il sabato
è il tempo per riconoscere questa verità già in questa vita, mentre siamo
ancora dentro il tempo. Per questo fermarsi dal lavoro ordinario è il dono di
Dio, non un obbligo ingrato. Un dono che ha in sé il suo stesso valore.

“Se tu trattieni il piede dal violare il sabato, facendo i tuoi affari nel mio
santo giorno; se chiami il sabato una delizia e venerabile ciò che è sacro al
SIGNORE; se onori quel giorno anziché seguire le tue vie e fare i tuoi affari
e discutere le tue cause, allora troverai la tua delizia nel SIGNORE; io ti farò
cavalcare sulle alture del paese, ti nutrirò della eredità di Giacobbe tuo
padre, poiché la bocca del SIGNORE ha parlato.” (Isaia, 58:13-14).

Su questo punto Gesù ha insistito sempre con i farisei, che arie volte lo
hanno attaccato per le sue supposte violazioni del sabato.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

“In quel tempo Gesù attraversò di sabato dei campi di grano; e i suoi
discepoli ebbero fame e si misero a strappare delle spighe e a mangiare. I
farisei, veduto ciò, gli dissero: Vedi! i tuoi discepoli fanno quello che non è
lecito fare di sabato. Ma egli rispose loro: Non avete letto quello che fece
Davide, quando ebbe fame, egli insieme a coloro che erano con lui? Come
egli entrò nella casa di Dio e come mangiarono i pani di presentazione che
non era lecito mangiare né a lui, né a quelli che erano con lui, ma
solamente ai sacerdoti? O non avete letto nella legge che ogni sabato i
sacerdoti nel tempio violano il sabato e non ne sono colpevoli? Ora io vi
dico che c’è qui qualcosa di più grande del tempio. Se sapeste che cosa
signi ca: Voglio misericordia e non sacri cio, non avreste condannato gli
innocenti; perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato.” (Matteo, 12:1-7).

Proclamando l’uomo signore del sabato, Gesù ha chiarito che “il sabato è
stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Marco, 2:27). Il che non
abolisce il comandamento del sabato, perché l’uomo che regna sul sabato
è l’uomo nuovo, cioè l’uomo che è entrato nel regno di Dio, l’uomo che
non lavora più per se stesso e per la sua preoccupazione, ma perché vuole
ubbidire alla volontà del Padre.

In questo riposo noi entriamo quando crediamo che è Dio che compie
l’opera nostra (“SIGNORE, tu ci darai la pace; poiché ogni opera nostra la
compi tu per noi.” Isaia, 26:12). Perché, se viviamo in questa ducia, non
siamo più noi che facciamo delle cose per ottenere qualcos’altro: siccome
Dio ha compiuto ogni cosa in Cristo, noi, cercando la sua gloria, parliamo e
operiamo nel suo nome, facendo quello che facciamo senza ansie, senza la
preoccupazione di fare bella gura, ma nella pace, nella gioia e nella
gratitudine. Soprattutto, sapendo che stiamo facendo soltanto il nostro
dovere, in modo da restare in piedi dopo aver fatto tutto quello che
dovevamo fare (Efesini, 6:13).

Queste sono le “opere della fede” di cui parla l’apostolo Paolo. Perché la
fede è innanzitutto ubbidienza e umiltà, come ha spiegato Gesù quando i
discepoli gli hanno chiesto di aumentare la loro fede e ha detto loro di
comportarsi come servi che, anche se hanno fatto tutto quello che
dovevano fare, non pensano di avere fatto qualcosa di speciale, ma
appunto solo quello che era il loro dovere. E difatti, dice Gesù, un servo
quando torna a casa dai campi non si aspetta di essere servito dal suo
padrone ma anzi gli prepara la cena e aspetta a mangiare quando il
padrone avrà nito (Luca 17:7-10).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Nella Lettera ai Romani e in quella ai Galati, Paolo contrappone a più


riprese le opere della fede a quelle della Legge. “Opere della Legge” (érga
nòmou ἔργα νόμου) era un termine tecnico utilizzato ai tempi di Paolo
anche nella letteratura rabbinica per indicare le opere che si compiono
per adempiere la legge di Mosé. In particolare l’opera della Legge di cui
Paolo scrive di più ai Galati è la circoncisione. Il problema, dibattuto da
tempo, era se la circoncisione dovesse o non dovesse essere applicata
anche ai Gentili adulti che avevano creduto in Cristo. Paolo dice
chiaramente e ripetutamente che ssarsi su cose esteriori come la
circoncisione signi ca snaturare completamente il vangelo della grazia di
Dio, e che attraverso le opere della legge nessuno può essere considerato
giusto davanti a Dio (Romani, 3:20 e Galati, 2:16).

Lo scopo della Legge infatti non è portarci a una nostra giustizia, ma


piuttosto a riconoscere che con le nostre forze non possiamo raggiungere
la giustizia richiesta da Dio per potere rimanere in sua presenza. La Legge
ci chiede innanzitutto di amare Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la
nostra anima e le nostre forze, e di amare il nostro prossimo come noi
stessi. Ma queste cose non le riusciamo a fare senza l’intervento di Dio. E
concentrarci sui modi dell’espressione di questo amore per Dio e per il
nostro prossimo è un’inutile fatica, se il Dio dell’amore non è con noi.

La Legge è buona e spirituale (Romani, 7:14-16). Speci ca quali sono le


azioni che si devono compiere per piacere a Dio, servendolo nel suo
santuario, e non servendo alcun altro Dio, alcun altro interesse, alcun altro
idolo. Ci insegna come amare il nostro prossimo nella stessa misura in cui
lo ama Dio: come Dio ama e provvede per noi, così anche noi dobbiamo
provvedere per gli altri in modo da essere strumenti di Dio e della sua
provvidenza.

Queste cose possiamo e dobbiamo sforzarci di fare, ma se non è Dio che


opera dentro di noi mettendo in noi questo desiderio, ci affatichiamo
invano. Per questo Paolo dice che la Legge è il nostro pedagogo per
arrivare a Cristo (Galati, 3:24).

Come esclama il salmo 127, invano si affaticano gli edi catori se non è Dio
che edi ca la casa. È lo Spirito Santo che edi ca la casa, come è scritto nel
libro del profeta Zaccaria  “non per potenza [militare, che è il principale
senso del termine usato nell’originale: chayil ‫] ַחיִל‬, né per forza ma per lo
spirito mio dice il Signore degli eserciti” (Zaccaria, 4:6).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Le opere della fede sono le opere che compiamo per fede e sono
esteriormente indistinguibili da quelle che Paolo chiama “opere della
legge”: predicare, insegnare, fare l’elemosina, pregare, digiunare, osservare
il sabato, o la domenica… Solo Dio, che guarda al cuore e non all’apparenza
(1Samuele, 16:7), può riconoscerle e apprezzarle come gesti d’amore. E Dio
lo fa.

Come chiarisce Paolo, se non la compiamo per amore, nessuna opera è


veramente buona davanti a Dio: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli
angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante
cembalo. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la
scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi
amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri,
se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe
a niente.” (1 Corinzi 13:1-3). Per questo Paolo conclude che “in Cristo Gesù
non ha valore né la circoncisione né l’incirconcisione; quello che vale è la
fede che opera per mezzo dell’amore” (Galati, 5:6).

La fede deve operare (altrimenti è morta, Giacomo 2:17 e 26), ma le sue


opere non sono opera nostra. Le nostre opere, per quanto buone, utili ed
encomiabili in sé, diventano inutili e infruttuose quando ci ostiniamo a
compierle da soli, senza l’intervento di Dio.

Inutili e dannose, perché ci portano a prendere atteggiamenti


completamente sbagliati agli occhi del SIGNORE (“Due uomini salirono al
tempio per pregare; uno era fariseo, e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in
piedi, pregava così dentro di sé: O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli
altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri; neppure come questo pubblicano. Io
digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che
possiedo. Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure
alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: O Dio, abbi pietà di
me, peccatore!. Io vi dico che questo tornò a casa sua giusti cato,
piuttosto che quello; perché chiunque s’innalza sarà abbassato; ma chi si
abbassa sarà innalzato.” Luca, 18:10-14). 

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

D'altra parte, concentrarci sulle nostre opere ci portano a trascurare le


cose veramente importanti, dando invece importanza a dettagli
insigni canti (“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché pagate la decima
della menta, dell’aneto e del comino, e trascurate le cose più importanti
della legge: il giudizio, la misericordia, e la fede. Queste sono le cose che
bisognava fare, senza tralasciare le altre.” Matteo, 23:23). Per questo, Paolo
insiste nel dire che la circoncisione o l’incirconcisione non sono nulla, ma
che davanti a Dio quello che conta è che noi possiamo diventare nuove
creature (Galati 6:15).

“Nuove creature” diventiamo proprio e soltanto quando entriamo nel


sabato del Signore. Quando crediamo cioè che è stato Gesù che ha
compiuto l’espiazione per noi. E ci riposiamo per questo dalle nostre opere
(“Rimane dunque un riposo sabatico per il popolo di Dio; infatti chi entra
nel riposo di Dio si riposa anche lui dalle opere proprie, come Dio si riposò
dalle sue.” Ebrei 4:9-10), come è stato ordinato nella celebrazione del
giorno dell’espiazione (Yom Kippur), in cui gli ebrei tuttora si astengono da
ogni lavoro ordinario (khol-mela’khah ‫)כָל־ ְמלָאכָה‬, come per un sabato
particolarmente santo.

“In quel giorno non farete nessun lavoro; poiché è un giorno di espiazione,
destinato a fare espiazione per voi davanti al SIGNORE, che è il vostro Dio.
Poiché, ogni persona che non si umilierà in quel giorno, sarà tolta via dalla
sua gente. Ogni persona che farà in quel giorno un lavoro qualsiasi, io la
distruggerò dal mezzo del suo popolo. Non farete nessun lavoro. È una
legge perenne, di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove
abiterete. Sarà per voi un sabato, giorno di completo riposo, e vi umilierete;
il nono giorno del mese, dalla sera alla sera seguente, celebrerete il vostro
sabato.” (Levitico 16:28-32).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Oggi Yom kippur è ancora celebrato con un solenne digiuno (né cibo, né
acqua, da tramonto a tramonto). Il digiuno, anche in vari altri passi dei libri
storici (per esempio, Esdra 8:21, o Ester 4:16), esprime la via dell’umiliazione
delle proprie forze per confessare la nostra incapacità di risolvere il nostro
problema e af darci perciò totalmente a Dio per la sua soluzione. Sabato e
digiuno sono infatti spesso strettamente collegati anche nei libri dei
profeti, come per esempio nel capitolo 58 di Isaia, che abbiamo citato
prima a proposito del sabato, e che parla diffusamente anche del digiuno.

Abbiamo già visto che il comandamento del sabato, nella preghiera del
Padre nostro, corrisponde alla richiesta che venga il regno di Dio e che sia
fatta in terra la sua volontà come è fatta in cielo. Come nuove creature,
preparate per il regno di Dio, noi non operiamo più con un ne egoistico,
cioè non facciamo più le nostre opere (andare in chiesa, pagare la decima,
rispettare la legge e le autorità, visitare i malati, essere fedeli ai nostri
coniugi, aiutare i poveri, ecc.) come opere della legge, cioè per non essere
puniti, o per fare bella gura e accumulare meriti, ed essere forse un
giorno ringraziati da Dio: stiamo operando per gratitudine e per
obbedienza, perché amare Dio e il nostro prossimo è il dovere che
sentiamo nell’intimo del nostro cuore, perché la nostra espiazione è stata
compiuta da Dio, e la nostra salvezza è costata la vita di Gesù, che, prima di
essere arrestato, ha detto proprio: “Padre, se vuoi, allontana da me questo
calice! Però non la mia volontà, ma la tua sia fatta”. (Luca 22:42). E ci ha dato
così un esempio di perfetta e totale arresa alla volontà del Padre, aprendo
per noi in questo modo la via al riposo del sabato e alla giustizia che viene
dalla fede.

Questo è il regno di Dio nel quale siamo invitati a entrare, e che possiamo
invitare dentro di noi. Lo Spirito Santo ci incoraggia a coltivare questo
desiderio e questa speranza, perché queste cose ci possono dare la spinta
giusta a operare nel modo giusto, ed essere graditi al Padre nostro che è
nei cieli. Il sabato che c’è stato dato perché non compissimo in esso
nessun lavoro nostro, ma partecipassimo all’opera perfetta di Dio, cioè al
compimento del suo regno eterno.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

L’uomo nuovo dentro di noi è Cristo, solo lui opera in modo perfetto,
perché solo lui è il Figlio amato del Padre. Paolo scrive infatti, sempre ai
Galati: “Sono stato croci sso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo
vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di
Dio il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me.” (Galati, 2:20).

Ecco l’altissima vocazione dell’uomo: riposarsi come Dio si è riposato.


Santi care il giorno del riposo non solo come il settimo giorno della
settimana, ma come lo scopo ultimo di tutta la creazione dell’Universo.

Riposare anche noi dalle nostre opere: dalla fatica di essere valutati per la
riuscita delle opere che dobbiamo fare per guadagnarci un nome e uno
stipendio, e perché ce le siamo preposte come obbiettivi da raggiungere
nella nostra vita (per il nostro regno, cioè, o per il regno – la causa – che ci
siamo scelti), riposare sapendo che ci sono invece delle opere che sono
state preparate da Dio per noi e nelle quali possiamo entrare (come si
entra in un vestito, secondo la metafora di Apocalisse 19:8) solo per fede,
cioè solo se, come gli amorevoli e ubbidienti, vogliamo che la gloria non
vada a noi ma a Colui che ce le ha preparate (Giovanni, 7:18).

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La Parola nelle Dieci parole

Quinta parola: onora tuo padre e tua madre

Esodo, 20:12 Onora tuo padre e tua madre, af nché i tuoi giorni siano
prolungati sulla terra che il SIGNORE, il tuo Dio, ti dà.

La quinta parola collega le prime quattro, che ci istruiscono riguardo al


nostro rapporto con Dio, con le seguenti, che si riferiscono ai rapporti che
intratteniamo con il nostro prossimo. Abbiamo visto come a questi due
gruppi di comandamenti (raggruppati tradizionalmente nella prima e
nella seconda tavola della Legge) corrisponda anche una divisione tra il
primo e il secondo gruppo di richieste nella preghiera al Padre celeste che
ci ha insegnato Gesù.

Il regno di Dio, che è stabilito dagli ordini espressi dalle precedenti parole
e in particolare dalla  quarta parola (la cui venuta è il centro della prima
parte delle richieste del “Padre nostro”), non può realizzarsi in una società
in cui i rapporti tra gli uomini non sono fondati sull’amore e sul rispetto.

Il comandamento di amare Dio con tutto il nostro cuore (espresso in


Deuteronomio, 6:5) è infatti strettamente collegato a quello di amare il
nostro prossimo come noi stessi (espresso in Levitico, 19:18). Abbiamo già
visto come lo attesti il Vangelo di Matteo, riportando le parole di  Gesù che
de nisce  questo secondo comandamento simile –  hòmoios ὅμοιος –  al
primo (Matteo 22:39). E come anche l’apostolo Giovanni affermi che “se
uno dice: Io amo Dio, ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama
suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto. Questo è il
comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche
suo fratello.” (1 Giovanni 4:20-21).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Amare il nostro prossimo come noi stessi signi ca amare il nostro


prossimo come lo ama il Padre, che non ha riguardi personali quando si
tratta di venire incontro alle nostre necessità. Se amiamo il Padre e
vogliamo servirlo, ameremo e serviremo anche i suoi gli, nostri fratelli,
perché il Padre li ama e si cura di loro come si cura di noi. E ameremo
anche tutti gli uomini, anche quelli che non riconoscono Dio come Padre,
sapendo che Dio non si compiace nella morte del peccatore, ma vuole
che tutti conoscano la verità e possano essere salvati (Ezechiele, 18:32; 1
Timoteo, 2:4).

Aspettare il regno di Dio osservando il suo sabato sarebbe solo una falsa
formalità se non desiderassimo anche l’ordine che Dio ha stabilito tra gli
uomini e tra le diverse generazioni. E il collegamento tra la quinta e la
quarta parola è esplicitato proprio nello stesso capitolo di Levitico in cui ci
è comandato di amare il nostro prossimo come noi stessi. Difatti è scritto:
“Rispetti ciascuno sua madre e suo padre, e osservate i miei sabati. Io sono
il SIGNORE vostro Dio.” (Levitico 19:3).

Osservare l’ordine di Dio di astenersi dalle nostre opere nel suo sabato,
credendo al fatto che la nostra opera è stata compiuta nella sua, signi ca
anche riconoscere in Dio Colui che ha organizzato la nostra nascita e che si
prenderà cura della nostra vecchiaia, e che ha anche perciò stabilito che le
generazioni siano legate da rapporti di reciproca assistenza: un’assistenza
e una considerazione dei bisogni dell’altro non solo tra le famiglie più e
meno bisognose, ma anche, all’interno della stessa famiglia, tra i più
maturi e i più piccoli e tra i giovani e gli anziani.

Poco più avanti, sempre nello stesso capitolo di Levitico è scritto “Alzati
davanti al capo canuto, onora la persona del vecchio e temi il tuo Dio. Io
sono il SIGNORE.” (Levitico, 19:32).

La considerazione per gli anziani, per le persone cioè non più produttive, è
anche rispetto per quello che rimane eterno – ancorché sempre fragile –
nell’uomo e nella donna, e nell’ordine eterno che ha disposto le
generazioni una dopo l’altra: “Dà retta a tuo padre che ti ha generato, e
non disprezzare tua madre quando sarà vecchia.” (Proverbi, 23:22).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Il rispetto produce rispetto, ingrediente fondamentale dell’amicizia e


dell’amore; e l’amore tra le diverse generazioni è fondamentale per la
giustizia e la pace che devono regnare nel popolo di Dio.

Gli ultimi versi del libro del profeta Malachia (alla ne della versione greca e
dell’edizione cristiana dell’Antico Testamento) parlano proprio
dell’importanza agli occhi del SIGNORE del rapporto tra le generazioni.
“Ecco, io vi mando il profeta Elia, prima che venga il giorno del SIGNORE,
giorno grande e terribile. Egli volgerà il cuore dei padri verso i gli, e il
cuore dei gli verso i padri, perché io non debba venire a colpire il paese di
sterminio.” (Malachia, 4:5-6).

Nel caso di questo quinto comandamento, non si tratta solo dei pensieri e
dei sentimenti del cuore, ma anche e soprattutto del risvolto pratico dei
nostri sentimenti e dei nostri pensieri. Mentre il comandamento di
Levitico 19:3 parla di rispetto, o timore (la radice del verbo usato
nell’originale è la stessa che traduciamo con il verbo temere, lo stesso del
timore che dobbiamo a Dio e che è il principio della sapienza), il
comandamento in Esodo 20:12 e in Deuteronomio 5:16 è di onorare i
genitori. Il verbo che qui traduciamo con il nostro onorare – khavad ‫ – ָכּבַד‬ha
la stessa radice della parola che signi ca “gloria” (khavod ‫)כָּבוֹד‬, e ha ache
fare con il peso, l’importanza che diamo a una persona.

Mentre in greco la parola che traduciamo con gloria – dòxa δόξα – è


collegata all’apparenza e all’opinione (dokéo δοκέω signi ca “ritengo”) e al
credito che ne consegue, khavod c’entra di più con l’ospitalità e
l’alimentazione (in ebraico moderno, un rinfresco si chiama khybbud ‫)כיבוד‬.

Gesù chiarisce questo senso pratico dell’onore dovuto ai genitori quando


rimprovera farisei e sadducei di aver alterato la Legge di Mosè
introducendo la clausola che permetteva di non assistere i propri genitori
dichiarando di devolvere in offerta al Tempio quello che sarebbe dovuto
essere speso per loro (Marco, 7:11-13).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Assieme, ma ancora di più, dell’osservanza del sabato, questo


comandamento ha la peculiarità di essere positivo: mentre le altre parole
istruiscono su cosa non fare, questa richiede la nostra attiva
collaborazione. Mostra così la direzione dell’insegnamento di Dio, verso
una sempre maggiore responsabilizzazione e un più intimo
coinvolgimento del credente nell’opera della giustizia.

Anche la regola aurea del giudaismo, espressa da Hillel il Vecchio come


“non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, viene girata da
Gesù in un comandamento positivo: “tutte le cose dunque che  voi volete
che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge
e i profeti.” (Matteo, 7:12).

Infatti, nell’insegnamento di Cristo, non si tratta più di domandarsi chi sia il


nostro prossimo, ma piuttosto di essere noi il prossimo di chi ha un
bisogno (Luca, 10:36). Per farcelo amico, anche nel caso non lo fosse già
(Matteo, 5:43-44; Luca, 16:9).

I genitori sono invero un prossimo molto particolare, perché


dipendevamo da loro in tutto e per tutto quando eravamo piccoli e loro
dipendono da noi in tutto e per tutto quando diventano vecchi. La
reciprocità del rapporto, per manifestarsi, richiede cioè il tempo di una vita.
Ma il passaggio di ruolo non è sempre lineare e completo. Ci si incontra
anche alla pari, in questo scambio, e assieme al rispetto si può stabilire un
importante legame d’amicizia oltre che d’amore.

L’apostolo Paolo, ricordando i doveri della chiesa e delle famiglie verso le


vedove anziane, parla espressamente di un contraccambio, dicendo che
“se una vedova ha gli o nipoti, imparino essi per primi a fare il loro dovere
verso la propria famiglia e a rendere il contraccambio ai loro genitori,
perché questo è gradito davanti a Dio.” (1 Timoteo, 5:4).

Per poter obbedire a questo comandamento nel modo giusto che è


gradito a Dio, occorre lasciare l’atteggiamento di obbligo e divieto che
proviene dall'uomo naturale.
Per mettersi un abito nuovo bisogna prima spogliarsi del vecchio (cf.
Colossesi, 3:8-10; Matteo, 9:16:17). Ma questo cambiamento, questa morte
alle cose vecchie, non avviene spontaneamente. Proviene dalla bontà di
Dio e da ciò che le sue promesse ci fanno sperare della realtà futura
(Romani, 2:4; 1 Giovanni, 3:3).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

E riguardo a questo quinto comandamento, Paolo dice proprio che è il


primo comandamento con una promessa: “Figli, ubbidite nel Signore ai
vostri genitori, perché ciò è giusto.  Onora tuo padre e tua madre (questo
è il primo comandamento con promessa) af nché tu sia felice e abbia
lunga vita sulla terra. E voi, padri, non irritate i vostri gli, ma allevateli nella
disciplina e nell’istruzione del Signore.” (Efesini, 6:2).

Questo rapporto tra il presente e il futuro, cioè tra l’oggi della nostra azione
e il domani della nostra vita, ci aiuta anche a rileggere la prima del
secondo gruppo di richieste delle preghiera insegnata da Gesù: “Dacci
oggi il nostro pane quotidiano”.

L'aggettivo che traduciamo con "quotidiano" - epioùsios ἐπιούσιος -  appare


collegato al pane solo nei passi in cui è insegnata la preghiera del Padre
nostro (Matteo 6:11 e Luca 11:3), e letteralmente vuole dire "sopravvenente".
Mettendo l'accento su questo aggettivo, la richiesta diventa "dacci oggi il
pane che ci serve giorno per giorno" e prende il senso di chiedere la grazia
di non preoccuparsi accumulare cibo per l'indomani. Come è scritto poco
più avanti: "non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il
domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno."
(Matteo 6:34).

Quando Gesù parla di cibo spirituale si riferisce infatti al compiere la


volontà di Dio (Giovanni, 4:34). Inteso così, il senso del pane che ci viene
insegnato di chiedere al Padre, più coerentemente con Giovanni 6:27,
consiste quindi anche nella grazia necessaria per compiere oggi il nostro
dovere e fare ai nostri genitori quello che, per il loro stesso bene, vogliamo
che i nostri gli facciano a noi domani. Senza preoccuparci cioè di
accumulare oggi per noi e per loro un tesoro materiale perché ci possa
essere da mangiare nei giorni futuri, ma dando piuttosto loro l'eredità
spirituale di un esempio di ducia in Dio e di rispetto per i genitori. Questo
è l'ordine di Dio, che provvede per ogni generazione. Il regno eterno del
SIGNORE che non dimentica né padri, né gli o nipoti.

La garanzia di questa continuità viene infatti dallo stesso Dio che ha


creato noi e tutti loro, e che provvede anche materialmente per chi
osserva la sua parola e si ricorda del sabato, per onorare e santi care il
nome del SIGNORE, nostro Padre celeste. Come ha scritto Davide: "Sono
stato giovane e son anche diventato vecchio, ma non ho visto il giusto
abbandonato, né la sua progenie accattare il pane." (Salmi, 37:25).

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La Parola nelle Dieci parole

Sesta parola: non commettere omicidio

Esodo, 20:13 Non uccidere

Sei è il numero dell’uomo, che è stato creato alla ne del sesto giorno. E
sei è anche il numero dei giorni del suo operare, secondo quanto si legge
nella quarta parola. Si riferisce esplicitamente all’uomo anche questo sesto
comandamento, il primo di quelli che regolano le relazioni tra noi e i nostri
pari.

Piuttosto che con non uccidere, questo comandamento andrebbe più


correttamente tradotto con non commettere omicidio,  perché,  nel testo
originale, quest’ordine (in ebraico, lo’ tirtzach ‫ )לֹא ִתּ ְר ָֽצח‬utilizza un verbo
(ratzach ‫ ) ָרצַח‬che si riferisce esclusivamente all’omicidio. La sesta parola
non vieta cioè genericamente di uccidere un essere vivente, ma più
precisamente proibisce l’atto di disfarsi di un altro uomo.

L’omicidio è la soluzione che ci suggerisce l’odio, quando la vita di un altro


essere umano diventa un problema per noi. È un atto di egoismo e di
evidente disamore, ed è questa natura contraria a quella divina che rende
l’omicidio un peccato, qualcosa cioè che allontana l’uomo dal suo ultimo
scopo: essere formato a immagine e somiglianza del suo Creatore.

Non è l’atto in sé a costituire il peccato, ma la sua intenzione. Infatti,


uccidere per legittima difesa, o, in guerra, per difendere la propria terra e la
propria nazione, non è considerato omicidio. Anche uccidere un criminale,
o una persona potenzialmente lesiva dell’incolumità degli altri, nel
linguaggio della Bibbia non è omicidio in senso stretto. In certi casi
diventa addirittura un dovere, anche molto dif cile da compiere (vedi, per
esempio, Deuteronomio, 13:6).

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La Parola nelle Dieci parole

L’omicidio premeditato, come sfogo dell’odio, è il primo peccato dell’uomo


di cui ci parla la Bibbia dopo quello che ha causato la nostra cacciata dal
giardino dell’Eden. Vale la pena di considerare da vicino la storia di questo
primo crimine fuori dal paradiso terrestre, e soprattutto vedere quali ne
sono state le ragioni.

La Bibbia ci racconta che al SIGNORE piaceva Abele – secondogenito di


Adamo ed Eva – e il suo sacri cio, mentre non gli piaceva Caino, loro
primogenito, né il suo sacri cio (la Lettera agli Ebrei ci spiega che Abele
offriva un sacri cio migliore perché il suo era fatto per fede, e aggiunge
poco più avanti che senza fede nessuno può piacere a Dio; Ebrei, 11:4 e 6).
Così Caino era molto irritato e certamente invidioso del fratello, e deve
aver cominciato a pensare di farlo fuori. Allora, “il SIGNORE disse a Caino:
Perché sei irritato? Perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene, non
rialzerai il volto? Ma se agisci male, il peccato ti sta spiando alla porta, e i
suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!” (Genesi, 4:6-7).

Il racconto biblico ci parla di rabbia e di un volto abbattuto (“il suo volto


cadde” è scritto letteralmente in Genesi, 4:5), un volto che guarda per
terra probabilmente anche perché vuole nascondere i suoi pensieri. Le
parole che il SIGNORE rivolge a Caino servivano a fargli cambiare idea, ma
purtroppo Caino non le ascolta e prosegue per la sua strada.

Come la Bibbia ci ricorda anche in tante altre occasioni, compito


dell’uomo è dominare il peccato, cioè vincere il male con il bene (Romani,
12:21). C’è infatti un combattimento spirituale che dobbiamo concludere
vittoriosamente (Efesini, 6:13). E questa vittoria, in quel modello di
preghiera che chiamiamo il Padre nostro, è uno dei possibili sensi della
prima del secondo insieme di richieste che Gesù ci ha insegnato a fare a
Dio (“Dacci oggi il nostro pane quotidiano!”), e che, nella serie, corrisponde
ai primi comandamenti della seconda tavola (cioè il quinto, “onora tuo
padre e tua madre”, e il sesto, di cui stiamo parlando).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

  Come abbiamo promesso  e mantenuto, stiamo esaminando i Dieci


comandamenti alla luce del Padre nostro, riscontrando una stretta
corrispondenza tra i due insiemi di enunciati e i sottoinsiemi in cui si
suddividono (le due tavole della Legge e le due parti della preghiera, che
in entrambi i casi concernono il rapporto prima con Dio e poi con il
prossimo), e ravvisando nella loro trasformazione da ordini a richieste il
senso profondo del passaggio tra il primo e il secondo dei patti che Dio ha
stabilito con il suo popolo, il primo dichiarato sul Sinai e il secondo siglato
sul Calvario.

Concludendo la meditazione sulla quinta parola, dicevamo che chiedere al


Padre celeste il pane quotidiano signi ca anche chiedergli il nostro pane
spirituale, la capacità cioè di mettere in pratica la sua parola nei nostri
rapporti quotidiani, con i nostri simili. Come Gesù stesso ha spiegato ai
suoi discepoli, il cibo spirituale, di cui ha parlato in varie occasioni (cfr.
Giovanni 4:34 e 6:27), consiste infatti nel compiere la volontà di Dio.

Il problema è che, siccome la volontà di Dio non coincide più con la nostra
(da quando ha mangiato dall’albero della conoscenza del bene e del male
che era in Eden, l’uomo spontaneamente pensa di conoscere con
certezza cosa sia bene e cosa sia male per lui, anche se non può vedere
oltre il suo ristretto orizzonte spazio-temporale), per rendere operativa
nella nostra vita questa divina volontà (che è in realtà l’unica buona),
occorre resistere contro la nostra volontà, andare cioè nella direzione
opposta a quella nella quale ci porterebbe la nostra natura. Cosa per
niente facile, anzi impossibile per noi. Ma non per Dio, perché ogni cosa è
possibile a Dio (Matteo, 19:26). Da qui, però, la necessità della preghiera.

Una delle tante illuminanti omogra e che ritroviamo nel lessico della
lingua ebraica è proprio quella tra le lettere della parola che signi ca
“pane” (lechem ‫ ) ֶל ֶחם‬e della parola che signi ca “guerra” e “vittoria”
(lacham, ‫) ָל ַחם‬. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano!” si collega quindi
anche etimologicamente alla vittoria su noi stessi (e sul nemico che n
dall’inizio ha utilizzato la nostra volontà), di cui abbiamo bisogno per non
seguire i desideri della carne che, nella fattispecie, ci spingerebbe a far
fuori chi ci dà fastidio. Ubbidire all’ordine di dominare la nostra natura
iraconda che ci istiga a trovare il modo di farci giustizia con le nostre mani
è una grande vittoria di cui abbiamo quotidianamente davvero un grande
bisogno.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Mentre il buon pastore (che, come abbiamo visto altrove, grazie a un’altra
omogra a ebraica, può anche essere inteso come il buon amico) dà la sua
vita per le pecore, il nemico cerca solo il proprio interesse e viene per
rubare, distruggere e uccidere (Giovanni, 10:10-11). Fin dall’inizio, il vero
omicida è lui, ha-Satan (“il nemico” per eccellenza), ed è a lui stesso che ci
invita a unirci, quando ci tenta a desiderare la morte di un nostro simile.

Come aveva fatto il SIGNORE con Caino, Gesù, nel suo insegnamento sul
sesto comandamento, richiama la nostra attenzione sulla radice spirituale
dell’omicidio, cioè sulla rabbia e sul disprezzo che lo anticipano. “Voi avete
udito che fu detto agli antichi: non uccidere, chiunque avrà ucciso sarà
sottoposto al tribunale; ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello
sarà sottoposto al tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: Raca [scemo]
sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: Pazzo! sarà condannato alla
gheenna del fuoco.” (Matteo, 5:21-22).

Anche in altre occasioni, Gesù ha insegnato che, prima ancora della


manifestazione esteriore della trasgressione, quello che conta è il nostro
cuore, perché è da lì che scaturiscono le azioni ed è lì che si svolge il
combattimento. Perché, come ha detto apertamente, “ciò che esce dalla
bocca viene dal cuore, ed è quello che ospitiamo nel cuore ciò che
contamina l’uomo. Poiché dal cuore vengono pensieri malvagi, omicidi,
adultèri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni. Queste sono le
cose che contaminano l’uomo…” (Matteo, 15:18-20).

La rabbia e le maledizioni che ne scaturiscono sono considerati gravi


crimini in quanto forme immateriali dell’omicidio. Agli occhi di Dio, che
vede ciò che è nascosto (Matteo 6:4, 6 e 18), non sono manifestazioni di
egoismo e di arroganza meno gravi o meno dannose. Infatti, se lasciamo
uscire dalla nostra bocca parole di condanna e di disprezzo per i nostri
simili, o anche se solo ci associamo a queste parole quando vengono
pronunciate da altri, il nostro cuore inizia a contaminarsi e si contamina
sempre di più; perché, quando agiamo così, non stiamo cercando la verità,
ma solo il nostro potere. E, prima o poi, la nostra brama di potere
manifesterà qualche azione esteriore ancora più violenta e distruttiva
dell’insulto o della diffamazione, no all’omicidio, civile, sociale o anche
sico.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Per questo, la sapienza di Dio, attraverso Salomone, ci insegna


innanzitutto a stare attenti ai nostri pensieri, dicendoci: “Custodisci il tuo
cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso provengono le sorgenti della
vita. Rimuovi da te la perversità della bocca, allontana da te la falsità delle
labbra. I tuoi occhi guardino bene in faccia, le tue palpebre si dirigano
dritto davanti a te.” (Proverbi, 4:23-25).

Ma, rispetto a quello delle Scritture dell’Antico Testamento,


l’insegnamento di Gesù, oltre a indicare con ancora maggiore chiarezza
l’origine spirituale dell’azione vietata dalla Legge, offre anche una via
d’uscita dall’agguato del peccato. E questa via è proprio il pane celeste
che Gesù ci ha insegnato a chiedere e a cercare (Giovanni, 6:27), il pane
che ci permette di fare la volontà di Dio anziché la nostra, ricevendo così
l’autorità necessaria per diventare gli di Dio (cfr. Giovanni, 1:12 e Romani,
8:14; del pane come vittoria e come appannaggio dei gli, Gesù parla
anche alla donna cananea che gli chiedeva di liberare sua glia dai
demoni, come leggiamo in Matteo, 15:26).

Questo pane viene dal sapere, per esperienza (Romani, 12:2), che quella
che ci possiamo fare con le nostre mani non è vera giustizia, “perché l’ira
dell’uomo non compie la giustizia di Dio” (Giacomo, 1:20). Che Gesù è
dovuto morire perché le nostre opere non potevano salvare nessuno, anzi;
e che, siccome Cristo è morto per noi, anche noi possiamo essere morti
alla nostra vita egoistica (2 Corinzi, 5:14). Possiamo e quindi dobbiamo. Ne
parleremo ancora.

Che questa conoscenza debba derivare da un’esperienza diretta e quanto


più possibile continua è una necessità che non si può mai sottolineare
abbastanza. La conoscenza che possiamo avere della verità non è un
sapere teorico, ma pratica e personale, una familiarità che si può acquisire
soltanto stando quotidianamente con Cristo. Anche in questo senso,
Gesù ci ha insegnato a chiedere al Padre il nostro pane quotidiano. È
stando con lui tutti i giorni che possiamo portare del frutto (Giovanni, 15:5),
il frutto dello Spirito che è appunto “amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, temperanza” (Galati, 5:22).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Oltre a permetterci di non agire secondo i nostri impulsi, il pane celeste ci


dà anche la possibilità di operare positivamente. Se impedirsi di
commettere omicidio signi ca innanzitutto impedirsi di pensare e di
parlare male di qualcuno, l’ordine positivo che ci viene dall’alto (assieme
all’autorità di metterlo in pratica) è quello di parlare bene del nostro
prossimo, agli altri e soprattutto a Dio. Cioè non solo non maledire gli altri,
ma anche benedirli, e intercedere per loro. E Gesù ha infatti detto ai suoi
discepoli: “benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi
oltraggiano.” (Luca, 6:28). E i suoi discepoli l’hanno a loro volta ripetuto ai
loro discepoli, come ha fatto Pietro, per esempio, che scrive: “non rendete
male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite;
poiché a questo siete stati chiamati af nché ereditiate la benedizione.”
(1Pietro, 3:8-9). E come ha fatto Paolo, che ha anche lui scritto: “Benedite
quelli che vi perseguitano. Benedite e non maledite.” (Romani, 12:14).

Benedire è un’azione che ci accomuna a Dio. In effetti, in ebraico la radice


del verbo che signi ca “benedire” (barakh ‫ ) ָבּ ַר ְך‬è molto vicina a quella del
verbo che signi ca “creare” (bara’ ‫) ָבּ ָרא‬, un verbo che nella Bibbia ha Dio
come unico possibile soggetto. La benedizione, come la creazione, porta la
vita. E la benedizione di Dio porta la vita eterna (Salmi, 133:3). Anche noi
siamo chiamati a essere di benedizione, portando vita con le nostre parole,
e non morte.

Mentre l’accusa e la condanna sono opera del diavolo (diàbolos viene


dal  verbo diaballō διαβάλλω, che signi ca proprio “accusare”, “diffamare” e
“calunniare”), le opere di Dio sono creazione e rigenerazione, benedizione
e perdono. Il che non signi ca che Dio non metta a morte nessuno – anzi
Gesù ci ha detto di temere Dio e non gli uomini, proprio perché può
distruggere, e non solo il corpo ma anche l’anima (Matteo, 10:28). Lo scopo
ultimo di Dio, però, è la vita e non la morte. Perché Dio non si fa temere
con le minacce, ma con la sua misericordia. Come scrive il salmista: “presso
di te è il perdono, perché tu sia temuto.” (Salmi 130:4).

Chi crede in Dio e riconosce l’opera della sua salvezza e le insondabili vie
della sua misericordia, riesce anche lui a perdonare, come ha fatto
Giuseppe con i suoi fratelli che, per invidia, l’avevano venduto ai mercanti
e spacciato per morto. Ma alla ne ha potuto dire loro: “Voi avevate
pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene
per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo
numeroso.” (Genesi, 50:20).

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La Parola nelle Dieci parole

Nell’Antico Testamento, anche l’azione di perdonare, come quella di


creare, è prerogativa di Dio. Tant’è vero che quando Gesù ha detto a un
paralitico che i suoi peccati erano perdonati, molti attorno a lui hanno
pensato che stesse bestemmiando (Matteo, 9:3). Ma Dio non intendeva
tenere per sé la sua capacità di perdonare chi si ravvede. Solo anticipato
dall’Antico Testamento, con il Nuovo Patto il perdono dell’uomo verso
l’uomo diventa un dono per tutti i credenti, che oggi hanno quindi una
molto maggiore responsabilità.

Nel modello di preghiera che Gesù ci ha insegnato a rivolgere al Padre che


è nei cieli, il nostro perdono verso gli altri che hanno peccato verso di noi è
dato per scontato, quasi una precondizione della nostra preghiera:
“rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri
debitori” (Matteo, 6:12).

Questo proprio perché il Padre ha dato al Figlio ogni autorità (Giovanni,


17:3) e, credendo nel Figlio, anche noi uomini riceviamo da Dio autorità
(Giovanni, 1:12), anche su noi stessi e sui nostri sentimenti. E questo vale
innanzitutto riguardo al perdonare. Infatti, dopo la sua risurrezione, Gesù
ha sof ato sui discepoli dicendo loro che ricevessero lo Spirito Santo, e ha
aggiunto: “a chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete,
saranno ritenuti.” (Giovanni, 20:23).

La parola di Dio non ci dice di perdonare tutti i peccati e neanche di


perdonare tutti i peccatori, indiscriminatamente. Ci dice però di non
essere noi a condannare, e di intercedere, piuttosto, per quelli che hanno
peccato. E anche per quelli che hanno peccato contro di noi, anzi in
particolare per loro.

Quando i suoi discepoli gli hanno chiesto se voleva che facessero


scendere fuoco dal cielo per fulminare quei samaritani che non avevano
voluto riceverli, Gesù li ha sgridati duramente (Luca, 9:54-55). Gesù infatti
non è venuto a condannare noi peccatori, ma a salvarci, pagando con la
sua vita per coprire i nostri peccati. Per questo ha raccontato la parabola
del co improduttivo, che il padrone della vigna aveva deciso di tagliare.
“Ma l’altro gli rispose: Signore, lascialo ancora quest’anno; gli zapperò
intorno e gli metterò del concime. Forse darà frutto in avvenire; se no, lo
taglierai.” (Luca, 13:8-9).

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La Parola nelle Dieci parole

Intercederemo davvero, però, solo se non ci faremo l’idea di un Dio


buonista, che alla ne non condannerà nessuno. Anche perché, se
pensiamo questo di Dio, in certe occasioni potremmo facilmente
cominciare a ritenere di dover diventare noi i giustizieri dei malvagi che
comandano nel mondo, considerandoci più giusti o meglio informati di
Dio. Come ha fatto per esempio Giona, che si è arrabbiato con Dio perché
lo aveva mandato a Ninive con lo scopo di risparmiarla (Giona, 4:1-4).

Ed è proprio questa la vera origine del peccato: mettersi al posto di Dio,


pensando di sapere meglio di lui cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.
L’apostolo Paolo ci mette in guardia da questo atteggiamento, scrivendo
ai Romani: “Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all’ira
di Dio; poiché sta scritto: A me la vendetta; io darò la retribuzione, dice il
Signore.” (Romani, 12:19).

Solo il sacri cio e il sangue di Gesù possono fermare l’ira di Dio, ma Gesù
non impedirà che quest’ira si compia su coloro che si ostinano a peccare
contro Dio e contro il loro prossimo. Sarà anzi lui stesso a giudicare tutti gli
uomini, e non solo per le loro azioni, ma anche per le loro parole e per no
per i loro pensieri segreti (Matteo, 12:26; Luca, 12:2; Romani, 2:16). E il giudizio
contro chi non ha usato misericordia sarà altrettanto senza misericordia
(Giacomo, 2:13).

Non è che, a un Dio sanguinario e vendicativo, con il nuovo patto si sia


sostituito un Dio indulgente e permissivo. Dio è sempre lo stesso, ed è
sempre stato e sempre sarà ugualmente misericordioso e ugualmente
giusto. C’è un unico SIGNORE, e ha sempre aborrito e condannato la
calunnia e la violenza dell’uomo sull’uomo. Non ha mai incitato alla
vendetta. Anche la famosa “legge del taglione” che richiede “occhio per
occhio, dente per dente, ecc.” (Esodo, 21:24-25) non è affatto una
legittimazione della regolazione dei conti, ma, al contrario, una specie di
calmiere della escalation di rappresaglie che può partire da una singola
offesa, perché la nostra natura ci porterebbe a volere quanto meno morto
chiunque arrechi il benché minimo danno a noi e alla nostra famiglia.

Sempre per questo scopo, la legge di Mosè prevedeva delle “città di


rifugio”, dove potessero trovare scampo coloro che si erano resi colpevoli
di un omicidio colposo o preterintenzionale (Numeri, 35). Per lo stesso
motivo, il SIGNORE ha assicurato a Caino che chiunque l’avesse ucciso
sarebbe stato punito sette volte peggio di lui (Genesi, 4:15).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Ma ripetiamo, tutto questo non signi ca che Dio sia indulgente verso gli
omicidi, tutt’altro. A differenza dei comandamenti contenuti nella prima
tavola, quelli contenuti nella seconda tavola, e soprattutto questo sesto
comandamento, sono leggi che Dio promulga per tutta l’umanità, anzi per
tutto il regno animale. A Noè e ai suoi gli, da cui discendono tutti i popoli
della terra, Dio, dopo averli benedetti, ha infatti dichiarato: “Certo, io
chiederò conto del vostro sangue, del sangue delle vostre vite; ne
chiederò conto a ogni animale; chiederò conto della vita dell’uomo alla
mano dell’uomo, alla mano di ogni suo fratello. Il sangue di chiunque
spargerà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto
l’uomo a sua immagine.” (Genesi, 9:5-6).

Il che, di nuovo, va inteso non come un’istigazione alla vendetta, ma tutt’al


contrario come deterrente per le faide che hanno comunque insaguinato
la storia dell’umanità. Una dichiarazione dell’amore e della cura di Dio per
l’uomo, e un’indicazione della sua “buona, gradita e perfetta volontà”
(Romani, 12:2), perché sia fatta la quale siamo chiamati a pregare sempre,
senza stancarci mai.

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La Parola nelle Dieci parole

Settima parola: non commettere adulterio

Esodo, 20:14 Non commettere adulterio.

Dopo il sesto comandamento (“non commettere omicidio”), anche questo


settimo è molto breve. In ebraico è ancora più breve che in italiano. Come
il sesto e l’ottavo, è composto da due sole parole: lo’ thin’af (‫)לֹא ִתּנְ ֽאָף‬, la
particella negativa lo’, che si usa per i divieti di legge, e l’imperfetto/futuro
di na’af , un verbo la cui radice ha a che fare con il volgersi da un’altra parte,
e che signi ca speci camente “commettere adulterio”.

Tra l’uno e l’altro comandamento sembra che la parola di Dio faccia un


salto molto grande, passando da un crimine che è riconosciuto come tale
in ogni tempo e in ogni cultura a un altro che oggi in Italia, legalmente,
non è neanche più un reato. Ma non è successo per caso che questo
comandamento abbia perso di valore legale per la nostra società; è
accaduto, piuttosto, perché, dal punto di vista di quello che riusciamo a
capire, può davvero sembrare che con l’adulterio non sia successo niente
di grave: “Tale è la condotta della donna adultera: mangia, si pulisce la
bocca, e dice: Non ho fatto nulla di male.” (Proverbi, 30:20).

Certamente non è così per Dio. Nella Legge data a Israele attraverso Mosè,
l’adulterio era punito con la morte (Levitico, 20:10). E contro questo
peccato il Nuovo Testamento non è più indulgente dell’Antico. Nella
Lettera agli Ebrei troviamo infatti scritto: “Sia il matrimonio tenuto in
onore da tutti, e sia il talamo incontaminato; poiché Dio giudicherà i
fornicatori e gli adulteri.” (Ebrei, 13:4). Anche Paolo tratta questo peccato
alla stregua degli altri: “Non v’illudete; né fornicatori, né idolatri, né adùlteri,
né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né oltraggiatori,
né rapinatori erediteranno il regno di Dio.” (1 Corinzi, 6:9).

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La Parola nelle Dieci parole

Anzi, mentre la Legge mosaica permette il divorzio, Gesù ha negato


questa possibilità ai suoi discepoli, insegnando che si rende colpevole di
adulterio sia chi ripudia la moglie, sia chi sposa una moglie ripudiata da un
altro (“Fu detto: Chiunque ripudia sua moglie le dia l’atto di ripudio. Ma io
vi dico: chiunque manda via sua moglie, salvo che per motivo di
fornicazione, la fa diventare adultera e chiunque sposa colei che è
mandata via commette adulterio.” Matteo, 5:31-32).

Con il Nuovo Testamento, il matrimonio riceve insomma uno statuto


ancora più sacro e inviolabile di quello che aveva con l’Antico. In un’altra
occasione, i discepoli a quest’affermazione di Gesù hanno detto: “Se tale è
la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene prender moglie.”
(Matteo, 19:10). Il ripudio infatti doveva essere un fondamentale strumento
di controllo sulle mogli, oltre che un facile modo di disfarsene quando
diventavano vecchie.

Gesù ci ricorda che il ripudio è un gesto che viene dalla durezza del cuore
dell’uomo, cioè dal nostro egoismo, non dal SIGNORE. Infatti così era
considerato già negli scritti dell’Antico Testamento: “Poiché io odio il
ripudio, dice il SIGNORE, Dio d’Israele; chi ripudia copre di violenza la sua
veste, dice il SIGNORE degli eserciti. Badate dunque al vostro spirito e non
siate sleali.” (Malachia, 2:16).

A maggior ragione, anche l’adulterio è, in sé, un atto di violenza. La storia


dell’adulterio di Davide con Batsheba è una chiara illustrazione di come
questo peccato sia strettamente collegato all’omicidio (oltre che ai
peccati vietati dai tre comandamenti che seguono sulla stessa tavola della
Legge: non rubare, non dire bugie e non desiderare le cose del tuo
prossimo). Lo dicono molto bene le terribili parole che il profeta Natan
rivolge a Davide, dopo avergli raccontato una parabola che lo ha aiutato a
capire cosa aveva fatto: “Perché dunque hai disprezzato la parola del
SIGNORE, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai fatto uccidere Uria,
l’Ittita, hai preso per te sua moglie e hai ucciso lui con la spada dei gli di
Ammon. Ora dunque la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, perché
tu mi hai disprezzato e hai preso per te la moglie di Uria, l’Ittita” (2Samuele,
12:9-10).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Come con l’omicidio, anche con l’adulterio c’è infatti qualcosa che muore
e c’è qualcuno che causa questa morte. Anche se, nel caso dell’adulterio,
normalmente a morire non è una persona sica. Muore comunque una
realtà personale: il rapporto di ducia tra i due coniugi, la loro unione, che
è una realtà complessa e vivente, superiore a quella della somma delle
due vite che si sono unite in matrimonio.

Discutendo con i farisei che erano venuti a metterlo alla prova per
dimostrare che insegnava cose diverse da Mosè, Gesù si è riferito a questa
unità, e all’importanza che le è data proprio nell’insegnamento di Mosè, in
particolare all’inizio del libro della Genesi. Infatti “egli rispose loro: Non
avete letto che il Creatore, da principio, li creò maschio e femmina e che
disse: Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà con sua moglie, e
i due saranno una sola carne? Così non sono più due, ma una sola carne;
quello dunque che Dio ha unito, l’uomo non lo separi. Essi gli dissero:
Perché dunque Mosè comandò di scriverle un atto di ripudio e di
mandarla via? Gesù disse loro: Fu per la durezza dei vostri cuori che Mosè
vi permise di mandare via le vostre mogli; ma da principio non era così.”
(Matteo, 19:4-8).

Come recita “il grande e primo comandamento” (secondo le parole usate


dallo stesso Gesù per de nire, in Matteo 22:38, quello che gli ebrei tuttora
chiamano lo Shem’à), il SIGNORE, il nostro Dio, è uno. Dio è cioè un
individuo, una realtà personale e indivisibile. Per questo lo possiamo e lo
dobbiamo amare con tutto noi stessi, essendo anche noi indivisi nel
nostro amore per lui (Deuteronomio, 6:4-5). Perché siamo a immagine e
somiglianza di Dio proprio in quanto dotati dal nostro Creatore di questa
unità personale e indivisibile. È nell’integrità della persona che sta la
possibilità per l’uomo di avere comunione con Dio.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Infatti, come abbiamo già approfonditamente considerato in un altro libro,


il testo di Genesi 1:27 (“Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a
immagine di Dio; li creò maschio e femmina”), uno dei passi a cui si
riferisce Gesù quando insiste sull’unità tra l’uomo e la donna, ci suggerisce
che noi uomini siamo a immagine di Dio proprio perché siamo stati creati
maschio e femmina, cioè, come possiamo comprenderlo oggi, perché la
natura umana, a somiglianza di quella di Dio, è un delicato equilibrio tra
maschile e femminile. Un equilibrio e un’unità che nel matrimonio si
incarnano nella reciproca fedeltà tra marito e moglie. Per questo non sta a
noi di rompere il legame matrimoniale, come non sta a noi di togliere la
vita.

È in questo senso, profondo e misterioso, che l’adulterio si avvicina


all’omicidio. Il tradimento della promessa matrimoniale è la rottura di
un’unità che corrisponde a una condivisione non solo sica, ma anche e
soprattutto di conoscenza: una nuova coscienza, una nuova persona. E
questo peccato è innanzitutto un peccato contro Dio e contro il suo piano
per l’uomo.

L’uomo naturale di cui parla Paolo (psychikòs ànthrōpos ψυχικὸς ἄνθρωπος, 1


Corinzi, 2:14) rischia sempre di scivolare nell’adulterio, anche per semplice
ignoranza; perché, senza l’aiuto di Dio, non si riesce a comprendere il
valore e la portata del matrimonio, che è la via creata da Dio perché noi
uomini potessimo realizzare il secondo grande comandamento, che Gesù
dichiara simile al primo: “ama il tuo prossimo come te stesso.” (Matteo
22:39).

Paolo approfondisce questo tema in un passo della Lettera agli Efesini, in


cui il rapporto tra marito e moglie è ricondotto a quello tra Cristo e la
Chiesa, cioè tra il Re dell’Universo, che raggiunge ogni luogo e ogni era, e il
suo popolo, i cui membri sono sempre con nati in una precisa regione
spazio-temporale, ma sono anche invitati a guardare in alto, verso
l’eternità di Cristo (Colossesi, 3:1-2), il quale a sua volta si prende cura di
tutto quello che avviene nel tempo, perché vive sempre per intercedere
per noi (Ebrei, 7:25). Queste nozze tra l’eternità e il tempo sono il Regno
preparato dalla fondazione del mondo per coloro che gli saranno stati
fedeli e avranno amato il loro prossimo come se stessi (Matteo, 25:34-46).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

“Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, come al Signore; il marito infatti è


capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa, lui, che è il
Salvatore del corpo. Ora come la chiesa è sottomessa a Cristo, così anche
le mogli devono essere sottomesse ai loro mariti in ogni cosa.
Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha
dato se stesso per lei, per santi carla dopo averla puri cata lavandola con
l’acqua della parola, per farla comparire davanti a sé, gloriosa, senza
macchia, senza ruga o altri simili difetti, ma santa e irreprensibile. Allo
stesso modo anche i mariti devono amare le loro mogli, come la loro
propria persona. Chi ama sua moglie ama se stesso. Infatti nessuno odia la
propria persona, anzi la nutre e la cura teneramente, come anche Cristo fa
per la chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Perciò l’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diverranno una
carne sola. Questo mistero è grande; dico questo riguardo a Cristo e alla
chiesa. Ma d’altronde, anche fra di voi, ciascuno individualmente ami sua
moglie, come ama se stesso; e altresì la moglie rispetti il marito. ” (Efesini,
5:22-33).

La Bibbia in sostanza ci dice che il matrimonio è una realtà in nitamente


più grande di quanto gli stessi coniugi possano capire, perché è
innanzitutto un’incarnazione del rapporto tra Dio e il suo popolo, tra Cristo
e la sua Sposa, nella quale siamo chiamati ad amarci gli uni gli altri per
amore dello Sposo, che ci ha detto di amarci dello stesso amore con cui lui
ha amato noi (Giovanni 13:34).

Il nome profetico di Gesù è Emmanuele “che tradotto vuol dire: Dio con
noi” (Matteo, 1:23), perché è nello stare con noi che Dio ci salva dai nostri
peccati (Gesù, Yeshu’a signi ca appunto “Il SIGNORE è salvezza”). Per
quanto numerosi possano essere i nostri amici, la vita senza Dio è vita da
soli, e, viceversa, la vita da soli, la vita per i nostri interessi, è vita senza Dio. Il
matrimonio è una rinuncia a noi stessi e ai nostri comodi, per vivere
sempre con un altro. Lo stesso è – o dovrebbe essere – la vita nella Chiesa,
che è vita con gli altri perché è vita con Dio.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La triste vicenda di Davide e Batsheba ci mostra anche da dove e come


nasca l’adulterio: “L’anno seguente, nella stagione in cui i re cominciano le
guerre, Davide mandò Ioab con la sua gente e con tutto Israele a
devastare il paese dei gli di Ammon e ad assediare Rabba; ma Davide
rimase a Gerusalemme. Una sera Davide, alzatosi dal suo letto, si mise a
passeggiare sulla terrazza del palazzo reale; dalla terrazza vide una donna
che faceva il bagno. La donna era bellissima.” (2Samuele, 11:1-2).

Davide era diventato re, aveva compiuto abbastanza imprese da


rimanersene a casa, mentre i suoi uomini erano alla guerra. Aveva tutto
quello che un uomo poteva desiderare. Ma tutto ciò, evidentemente, non
lo appagava, o non sempre, almeno. L’adulterio viene dalla solitudine e
dall’insoddisfazione di quello che si ha, cioè dal desiderio di avere di più di
quello che Dio ci ha dato, perché ciò che abbiamo non ci emoziona più. O,
forse meglio, perché la nostra sete più profonda non può essere
soddisfatta da niente e da nessuno se non da Dio stesso. E non sempre lo
si capisce in tempo.

Comunque sia, il desiderio che ha portato Davide all’adulterio appare


rientrare nella categoria di peccati che Paolo chiama cupidigia e identi ca
con l’idolatria  (cf. Colossesi 3:5, dove il termine greco per “cupidigia” –
pleonexìa,  πλεονεξία – ha proprio il senso di “voler avere di più”). Era un
desiderio che, partito da piaceri che Davide aveva già provato, lo ha
portato ad agire per provarne ancora.

Nel caso dell’adulterio, normalmente, si vogliono riprovare le emozioni che


si sono provate la prima volta che ci si è innamorati (e poi magari anche la
seconda, ecc.), e che con il coniuge non si provano più, o non si sono mai
provate. In cerca di qualcosa che possa appagare il nostro bisogno
insoddisfatto, ci rivolgiamo altrove, fuori del matrimonio. Cosa che la
sapienza di Dio ci consiglia caldamente di non fare. “Sia benedetta la tua
fonte, e trova gioia nella sposa della tua gioventù. Cerva d’amore, capriola
di grazia, le sue carezze t’inebrino in ogni tempo, e sii sempre rapito
nell’affetto suo. Perché, glio mio, ti innamoreresti di un’estranea, e
abbracceresti il seno della donna altrui?” (Proverbi, 5:18-20).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

L’adulterio nasce dall’immaginazione, che cerca una via di fuga da una


realtà che appare come una prigione (e a volte lo è davvero). La “donna
estranea” è qualcuno che non conosciamo ancora, ma che immaginiamo
possa emozionarci di più e meglio di colei che crediamo di conoscere già.
Un’illusione che viene anche dal fatto che ci appoggiamo sulle nostre idee
e sui nostri sentimenti più che sulla realtà della parola (quella di Dio e
anche la nostra, che abbiamo dato come promessa di fedeltà quando ci
siamo sposati). Il ché è del tutto naturale, ma proviene appunto dalla
durezza dei nostri cuori, e non è come era in principio e come sarà alla ne.
Cioè non è secondo la buona e perfetta volontà di Dio.

Davide, parlando a Dio di quello che aveva fatto, l’ha confessato


apertamente: “Ho peccato contro di te, contro te solo…” (Salmi 51:4). Perciò
l’adulterio non è soltanto la scelta di un altro coniuge, ma innanzitutto la
scelta di non considerare il progetto di Dio. La scelta di seguire i propri
sogni e le proprie immaginazioni, piuttosto che la realtà della vita così
come ci è stata donata.

La decisione, anche, di lasciare la vita a due (che è anche la vita in


comunità, perché dove ci sono separazione e adulterio, la vita sociale non
ha la stessa armonia che si forma quando le famiglie sono unite), per
camminare da soli con le proprie fantasie, seguendo i propri interessi,
piuttosto che un progetto comune. Perché, come è scritto, “chi si separa
dagli altri cerca solo il proprio interesse e si oppone a tutto ciò che è
giusto” (Proverbi 18:1).

Invece, dal secondo capitolo della Genesi impariamo che il progetto del
matrimonio è in vista della benedizione dell’uomo, perché nasce dalla
considerazione, fatta dallo stesso SIGNORE, che “non è bene che l’uomo
rimanga da solo.” (Genesi, 2:18). Dio ha voluto dare all’uomo qualcuno con
cui potesse confrontarsi (letteralmente: quello che la nostra traduzione
rende con “un aiuto che fosse adatto a lui”, in ebraico è ‘ezer khenegdò ‫ֵעזֶר‬
‫ ְכּנֶגְ ֽדֹּו‬, cioè “un aiuto che gli stia di fronte”). Il progetto di Dio è quello di fare
dell’uomo ( nel senso di Homo sapiens, maschio e femmina) una creatura
in grado di amare, cioè di formare un’unità. E non si può costituire una
vera unità (un’unità non banale, direbbero forse i matematici) se non si è
almeno in due.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Certo, l’adulterio non è solitario come la fornicazione, perché, almeno


inizialmente, mira a formare un’altra coppia. Ma un’altra unità viene
distrutta, quando non due. E quell’omicidio rischia di diventare seriale…
Perché il bisogno che lo genera non è facilmente soddisfatto da un’altro
essere umano. Il problema rimane sempre quello: in nome di chi si forma
la nuova unione? Quando è vero amore? Salomone ha scritto: “Due
valgono meglio di uno solo, perché sono ben ricompensati della loro fatica.
Poiché, se uno cade, l’altro rialza il suo compagno; ma guai a colui ch’è solo,
e cade senza avere un altro che lo rialzi! Così pure, se due dormono
assieme, si riscaldano; ma chi è solo, come farà a riscaldarsi? E se uno tenta
di sopraffare colui che è solo, due gli terranno testa; una corda a tre capi
non si rompe così presto.” (Ecclesiaste, 9:12). Dove il terzo capo della corda
è da intendere appunto come il vero amore, quello del SIGNORE.

La disobbedienza dell’uomo in Eden lo ha portato a cadere nell’egoismo,


perdendo l’innocenza e la gioia con cui aveva ricevuto il dono di essere
stato moltiplicato per due, e che ha espresso esclamando: “questa
nalmente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne!” (Genesi, 2:23).
Infatti poi, quando il SIGNORE gli ha chiesto chi gli avesse dato da
mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male,
l’uomo non ha esitato ad accusare sua moglie: “La donna che tu mi hai
messa accanto, è lei che mi ha dato del frutto dell’albero, e io ne ho
mangiato.” (Genesi, 3:12). Da allora, il matrimonio è un’istituzione precaria,
come è instabile il nostro rapporto con Dio.

E anche oggi la nostra natura egoista rimane sempre lì, sullo sfondo
(quando non emerge con prepotenza). Per questo Gesù non solo è
dovuto morire lui, ma ci ha anche detto che dobbiamo farlo pure noi,
quotidianamente. Perché l’unica soluzione al problema del nostro
egoismo è la nostra croce, da prendere ogni giorno, ogni giorno
riconoscendo cioè che questa nostra natura deve morire, perché ha
desideri morti, che non hanno futuro davanti a Dio, e va quindi messa a
morte assieme a tutte le opere che compie, più o meno
automaticamente (Romani, 8:12-13).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La nostra tendenza a calcolare, a pensare cioè in termini di ciò che


accresce la nostra immagine, i nostri punti, il nostro valore, i nostri soldi, il
nostro mucchio (la “Mammonà” di Matteo 6:24 e Luca 16:13), corrisponde in
fondo al desiderio di far fare agli altri quello che vogliamo noi. Il desiderio di
vivere con qualcosa con cui non dobbiamo realmente interagire, come le
immagini che, sse o in movimento che siano, non ci impegnano in un
rapporto vivo, non mettono in questione la nostra vita.

Ma noi sì che la compromettiamo, quando passiamo il nostro tempo con


loro, dando loro la nostra vita, il nostro tempo e le nostre emozioni, come
accade quando ci identi chiamo con delle immagini, che sono realtà
morte, che non possono veramente interagire con noi. Degli idoli Davide
ha scritto che “hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono, hanno naso e non odorano, hanno mani e
non toccano, hanno piedi e non camminano, la loro gola non emette
alcun suono”. E ha aggiunto: “come loro sono quelli che li fanno, tutti
quelli che in essi con dano.” (Salmi, 115:5-8). Se guardiamo un essere
vivente sappiamo di essere anche guardati, ci mettiamo in qualche modo
in comunicazione con lui, e tanto più lo conosciamo quanto più sappiamo
di essere conosciuti.

Gesù ha detto che la lampada del corpo è l’occhio, ma che per vedere
veramente avere l’occhio non basta, perché la sua luce può essere anche
tenebre, e noi possiamo illuderci di vedere la realtà, mentre vediamo solo
quello che ci interessa. “La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo
occhio è limpido [il termine greco haplous ἁπλοῦς signi ca “non piegato,
diretto”], tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è malvagio,
tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è
tenebre, quanto grandi saranno le tenebre!” (Matteo, 6:22-23).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La nostra luce diventa tenebre quando quello che facciamo lo facciamo


pensando di essere soli, lontani da Dio, e lo facciamo quindi per noi stessi;
cosa che accade automaticamente quando agiamo non per dare, ma per
prendere. Anche quando guardiamo soltanto , se guardiamo per
prendere. Il nostro sguardo diventa torbido, le nostre azioni quasi
automatiche. Come è successo a Davide, che ha visto una bellissima
donna che faceva il bagno, e se l’è voluta prendere per sé, come se fosse
una cosa. Per quanto fosse bella proprio perché pulsava di vita, l’ha presa
come qualcosa di morto. Ha dimenticato tutto ciò che sapeva essere
giusto e santo, e anche il fatto che quella donna aveva una sua vita, una
famiglia, delle persone care, un marito.

Nel nostro raffronto tra le “dieci parole” e la preghiera del Padre nostro,
questo settimo comandamento corrisponde bene alla richiesta di “non
esporci alla tentazione” (Matteo, 6:13), la quale, oltre a essere una richiesta,
è anche una confessione della nostra debolezza spirituale e della nostra
sostanziale mancanza di sapienza, del fatto cioè che siamo sempre molto
più sensibili a quello che vediamo e che possiamo giudicare e apprezzare
con i nostri occhi, che al giudizio e alla realtà di Dio, che ancora non
vediamo e che non capiamo quanto ci tocchino. Veniamo cioè facilmente
tentati a non ascoltare la parola di Dio, prestando piuttosto attenzione alle
nostre sensazioni e ai nostri sentimenti.

È così che il peccato comincia il suo lavoro, nel nostro cuore. Come scrive
Giacomo nella sua lettera alle dodici tribù di Israele: “Nessuno, quand’è
tentato, dica: Sono tentato da Dio; perché Dio non può essere tentato dal
male, ed egli stesso non tenta nessuno; invece ognuno è tentato dalla
propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce. Poi la concupiscenza,
quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è
compiuto, produce la morte.” (Giacomo, 1:13-15).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La tentazione viene a causa del nostro desiderio, che è innescato


soprattutto dallo sguardo. Anche all’inizio, “la donna vide che l’albero era
buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l’albero era desiderabile
per acquistare conoscenza.” (Genesi, 3:6). È quello che vediamo, e che
giudichiamo con la nostra limitatissima conoscenza del bene e del male,
che ci porta sulla strada della morte. Per questo Gesù insegna a stare
attenti a come si guarda, a quali sono cioè le nostre motivazioni quando
guardiamo qualcosa o qualcuno: “Voi avete udito che fu detto: Non
commettere adulterio. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.” (Matteo
5:27-28).

La tentazione infatti non è solo quella di unirsi alla “donna estranea” per il
momentaneo piacere che possiamo trarre dal suo corpo. Di nuovo, il
punto non è solo l’atto sico, ma anche, e soprattutto, le ragioni che lo
motivano. Non pecchiamo solo contro il nostro coniuge o contro il
coniuge della persona sposata con cui desideriamo unirci, pecchiamo
contro l’amore e la pace di Dio, perché ci lasciamo guidare dal nostro
desiderio carnale, che non è mai quello dello Spirito Santo (Galati, 5:16-17).

Fin dai tempi antichi, gli uomini, per quanto fossero stati generati da Dio
sono andati dietro ai loro sguardi e alle loro immaginazioni. Per questo Dio
ha distrutto la terra con il diluvio (Genesi, 6), e per questo, molti secoli
dopo, ha bruciato Sodoma e Gomorra, facendo piovere fuoco e zolfo su
quelle città (Genesi, 19:24). E per queste cose distruggerà ancora questo
mondo (Luca, 17:26-32). Come anche Paolo ha scritto, per ben due volte:
“per queste cose l’ira di Dio viene sugli uomini ribelli.” (Efesini, 5:6; Colossesi
3:6).

Gesù, parlando dei suoi connazionali, li ha più volte chiamati “generazione


malvagia e adultera” (Matteo 12:39 e 16:4; Marco 8:38). Lo stesso, in diversi
modi, avevano fatto vari profeti, a cominciare da Mosè. Ma le cose non
vanno certo meglio oggi. Se il popolo di Israele ha peccato di adulterio
contro il SIGNORE che l’aveva danzato a sé (Geremia, 2:2), gli altri popoli
non hanno mai smesso di fornicare con i diversi idoli che il diavolo li ha
indotti a formarsi. E l’idolatria, in un modo o nell’altro, è entrata n
dall’inizio anche nella Chiesa, i cui membri non saranno risparmiati dal
giudizio solo perché si ammantano del nome di Cristo (Matteo, 7:22-23).
Tutt’al contrario, infatti “il giudizio deve cominciare dalla casa di Dio”
(1Pietro, 4:17)

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Gesù certo è venuto per salvare gli uomini e non per condannarli, ma,
anche se ha spesso sgridato chi si sentiva abbastanza giusto da
condannare i peccati degli altri, non ha mai incoraggiato nessuno a
peccare. Conosciamo bene la storia dell’adultera colta in agrante
adulterio e portata da Gesù, per poterlo accusare di insegnare cose
diverse da quelle insegnate da Mosè. “Ma Gesù, chinatosi, si mise a
scrivere con il dito in terra. E, siccome continuavano a interrogarlo, egli,
alzato il capo, disse loro: Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la
pietra contro di lei. E, chinatosi di nuovo, scriveva in terra. Essi, udito ciò, e
accusati dalla loro coscienza, uscirono a uno a uno, cominciando dai più
vecchi no agli ultimi; e Gesù fu lasciato solo con la donna che stava là in
mezzo. Gesù, alzatosi e non vedendo altri che la donna, le disse: Donna,
dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata? Ella rispose:
Nessuno, Signore. E Gesù le disse: Neppure io ti condanno; va’ e non
peccare più.” (Giovanni, 8:3-11).

Questo episodio ci fa vedere, tra le altre cose, quanto generalizzato sia il


peccato che il settimo comandamento ordina di non commettere. E che
se anche ci sforziamo di nasconderlo agli occhi degli uomini, non
possiamo riuscirci davanti agli occhi del SIGNORE, che “sono in ogni luogo,
e osservano i cattivi e i buoni” (Proverbi, 15:3).

Ci mostra anche che, se Gesù perdona la peccatrice, non è però


indulgente verso il peccato. Perché è venuto a prendere su di sè l’ira di Dio
e a berne no in fondo la coppa, ma non af nché potessimo restare stolti
come prima, continuando a peccare impunemente. Piuttosto perché
potessimo scegliere di non peccare più, decidendo per la vita
matrimoniale, cioè per la fedeltà verso Dio e verso il nostro prossimo.

Ravvedimento e consolazione in ebraico si esprimono con la stessa radice,


quella del verbo nacham ‫נָ ַחם‬, che si riferisce a un “cambiamento interiore”.
Perché è la bontà di Dio che ci spinge al ravvedimento (Romani, 2:4). E fa sì
che acquistiamo sapienza, e non siamo troppo esposti alle trappole del
tentatore.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Prima di chiedere di non essere esposti a tentazione, Gesù ci ha insegnato


a chiedere perdono per i nostri peccati. Come il perdono dei peccati altrui
è una precondizione per essere perdonati dal Padre (Matteo, 6:13-14), il
ravvedimento, necessario per chiedere e ottenere il perdono dei nostri
peccati contro Dio (Salmi, 51:4), è anche la condizione necessaria per
richiedere e ottenere di essere protetti dalla tentazione.

La risposta a questa richiesta, la vera cura e protezione contro la


tentazione di tradire lo Sposo celeste (e il nostro coniuge nella vita
terrena) è data all’angelo della chiesa di Efeso nella prima delle lettere alle
sette chiese dell’Apocalisse: “… ho questo contro di te: che hai
abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto,
ravvediti, e compi le opere di prima; altrimenti verrò presto da te e
rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi.” (Apocalisse,
2:4-5).

Dice un proverbio che “al cuore non si comanda”, intendendo con ciò che
non si può decidere se e quando amare qualcuno. Questo perché per
amore in italiano normalmente si intende quel particolare affetto
reciproco che dall’amicizia può passare al bacio (phìlēma φίλημα),
spingendosi poi no all’unione sessuale. L’amore di cui parla quella lettera,
e di cui in generale parla la legge di Dio, è l’amore che guarda ai bisogni
dell’amato e trova piacere nel soddisfarli (l’amore che nel greco del Nuovo
Testamento è espresso dal termine agàpē ἀγάπη). L’amore che Gesù ci dice
di avere anche per i nostri nemici (Matteo, 5:44).

Certamente, anche questo orientamento non può essere raggiunto


senza l’aiuto di Dio, ma, come vedremo meglio considerando la prossima
parola, dipende fondamentalmente dal riconoscere la nostra mancanza, e
da una disposizione interiore ad operare in una prospettiva diversa da
quella del nostro egoismo, cioè non più orientati a prendere, ma piuttosto
a dare, considerando non solo i nostri bisogni, ma anche e innanzitutto
quelli del nostro prossimo (Filippesi, 2:4).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Ottava parola: non rubare

Eso 20:15 Non rubare.

I divieti della Legge sembrano andare diminuendo in quanto a gravità o,


almeno, in quanto a eccezionalità dell’azione criminosa che viene vietata.
In realtà, con la generalità aumenta anche la profondità del peccato a cui
si riferisce la proibizione.

La radice del verbo usato nel testo originale di questo ottavo


comandamento (lo’ thignov ‫)לֹא ִתּגְנֹֽב‬, ha il senso di “portar via”, “stornare”. Un
senso molto ampio, che copre una vasta gamma di azioni che il nostro
egoismo ci ha portato a compiere, n da quando eravamo piccoli.

Ma il fatto che sia un male comune non ne diminuisce certo la gravità, né


allevia il danno che il furto arreca al tessuto sociale, dimostra piuttosto
quanto a fondo questo peccato sia riuscito a penetrare nell’anima
dell’uomo e quanto abbia intaccato la nostra mente, e la società in cui
viviamo. Con il furto (in tutte le diverse forme che può prendere
l’appropriazione indebita di ciò che appartiene ad altri: dal peso falso, no
al cybercrime, dallo sfruttamento della prostituzione a quella degli operai
e dei dipendenti in genere, dallo spostamento dei con ni al plagio
intellettuale, …), esprimiamo infatti la nostra mancanza di rispetto per la
persona dell’altro, per i suoi diritti, pensieri e sentimenti. Perpetriamo
l’ingiustizia, insegnandola alle future generazioni.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Quando derubiamo qualcuno, mentre affermiamo il nostro io, ben lungi


dall’amare il nostro prossimo come noi stessi, neghiamo l’io della persona
che stiamo derubando: come con il dono diamo più importanza alla
persona a cui lo offriamo che alla cosa che le stiamo donando, con le
nostre ruberie, simmetricamente, stiamo dimostrando che la persona che
stiamo derubando ci importa meno della cosa che le stiamo portando via.

Il furto è insomma una chiara e assai diffusa manifestazione di quello che


gli ebrei chiamano “l’istinto cattivo” (yetzer hara’, ‫ )יֵ ֶצר ַה ַרע‬e noi cristiani “il
vecchio uomo”. Un’azione decisamente negativa.

Partendo dall’inizio, il primo furto è stato quello perpetrato in Eden dal


serpente, che ha rubato la ducia dell’uomo (maschio e femmina; anzi,
prima la femmina e poi il maschio). Dalla parola di Dio, questa ducia è
stata stornata verso le parole dell’astuto animale, rinforzate dalle
sensazioni e dai desideri suscitati dal perdurante effetto di quel frutto
proibito.

Oltre che un cattivo esempio, quell’azione di guerra contro Dio e contro di


noi, sua ultima creatura, è stata anche un modo per aprire la via alla
disseminazione di quello stesso crimine. Con quel primo invisibile furto è
stata infatti impiantata in noi uomini la radice dei futuri furti visibili e di
tutti gli altri peccati, ed è questa radice che i comandamenti cercano di
estirpare.

Scopo della legge, però, non è tanto compiere questa operazione, quanto
piuttosto mostrarci che non riusciamo a portare a termine da soli questo
espianto, che pure abbiamo il dovere, anzi la necessità di compiere. Infatti
la legge mosaica “dà soltanto la conoscenza del peccato” (Romani, 3:20).
Solo una legge perfetta (o “legge compiuta”: nomos téleios νόμος τέλειος,
come scrive Giacomo, 1:25) ci può aprire la via, af nché i nostri sforzi non
siano vani, e possiamo vincere il nostro combattimento che è anche
quello di Dio.

La Parola nelle Dieci parole


66
La Parola nelle Dieci parole

Collegare, come stiamo facendo in questa serie di meditazioni, le “dieci


parole” della legge mosaica alla preghiera del “Padre nostro” ha il senso di
constatare come Gesù, secondo quanto ha lui stesso affermato, non sia
venuto ad abolire la legge mosaica, ma piuttosto a compierla (Matteo,
5:17), aprendo così anche per noi la strada per osservarla, senza peraltro
cadere nella diabolica trappola del legalismo, cioè dell’orgoglio di chi crede
di poter essere giusto con le proprie forze e, dall’alto della sua supposta
giustizia, disprezza chi non riesce ad osservare i dieci comandamenti e le
centinaia di altri precetti che più o meno direttamente ne derivano.

Innanzitutto, come ci insegna il “Padre nostro”, dobbiamo tutti essere


perdonati. Come per l’omicidio e per l’adulterio, anche per la liberazione
dall’istinto di appropriarci di ciò che non ci appartiene, l’unica via per
ottenerla è il perdono di Dio. E l’unico modo per ottenere il perdono di Dio
è riconoscersi bisognosi di perdono, e chiederlo pentiti.

Apriamo qui una parentesi, per trattare più da vicino un tema di carattere
generale, che non è collegato speci camente con il furto. Ma torneremo
presto sulla nostra via, solo apparentemente smarrita.

Il ravvedimento non è solo il rimorso per aver commesso un certo


peccato. È anche, e soprattutto, la trasformazione del rapporto che
intratteniamo con Dio che comporta ( e consegue a) un cambiamento del
nostro modo di pensare. Il termine per “ravvedimento” usato negli scritti
del Nuovo Testamento è metànoia (μετάνοια), che letteralmente signi ca
proprio “trasformazione della mente”, un’azione che certamente richiede
anche l’intervento di Dio, oltre che la nostra partecipazione. Siamo
perdonati solo se ci ravvediamo, ma ci ravvediamo solo se siamo
perdonati.

La Parola nelle Dieci parole


67
La Parola nelle Dieci parole

Si tratta, come sempre nel Signore, di una processo non lineare, ma


dinamico e complesso: senza l’espiazione dei nostri peccati coperti dal
sangue versato da Gesù, non ci sarebbe possibile pentirci davvero, e
rimarremmo inesorabilmente schiavi delle nostre azioni passate e delle
nostre cattive abitudini in cui queste si sono facilmente trasformate;
d’altra parte, l’opera di liberazione non può essere compiuta se noi non la
riteniamo necessaria (Giovanni, 9:41); ma anche questa convinzione è a sua
volta opera di Dio e del suo Spirito Santo, perché è lui che ci convince del
nostro peccato e del bisogno di essere perdonati (Giovanni, 16:9). Ma, di
nuovo, anche quest’opera di convincimento non può essere compiuta
senza la nostra attiva partecipazione, perché se resistiamo allo Spirito
Santo non succede niente: siamo noi che dobbiamo lasciarci convincere
del nostro bisogno di essere salvati, e del fatto che il sacri cio di Cristo è
stato necessario per la nostra salvezza, che quindi riceviamo con piena
gratitudine.

Per questo il nemico, che rema con tutte le sue forze contro la nostra
salvezza (ma che non può fare niente contro l’opera di Dio), cerca
continuamente di convincerci del fatto che per noi è impossibile essere
salvati, o che non è affatto necessario. Lo fa in moltissimi strumenti, tra i
quali, non ultimo, anche la religione, incluso quella cristiana.

Gesù ha infatti spiegato chiaramente (ai farisei che dicevano di non avere
bisogno di essere liberati) che si può credere di essere liberi senza esserlo
davvero, ma che c’è chi può liberarci veramente: “In verità, in verità vi dico
che chi commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non
dimora per sempre nella casa: il glio vi dimora per sempre. Se dunque il
Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi.”(Giovanni, 8:34-36). Lo schiavo è
sotto il potere della morte e di questo tempo fatto di scadenze: non abita
per sempre la creazione di Dio e cerca per questo di impossessarsene,
incurante del vero bene (del proprio, come di quello del resto della
creazione).

Il progetto di impadronirsi di quanto più spazio (e quanto più tempo, cioè


denaro, che signi ca lavoro altrui) è il compito che il principe di questo
mondo insegna a coloro che imparano da lui. Per questo, Gesù è venuto,
come uomo: “per distruggere, con la sua morte, colui che aveva il potere
sulla morte, cioè il diavolo, e liberare tutti quelli che dal timore della morte
erano tenuti schiavi per tutta la loro vita.” (Ebrei, 2:14-15).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Anche se in teoria sappiamo bene che quando moriamo non possiamo


portare via con noi i nostri averi, è proprio il fatto di avere un tempo
limitato da spendere in questa vita che ci porta ad ammassare ricchezze
terrene anche a scapito del nostro prossimo.

Non ci sarebbe nessuna speranza per noi, se l’insegnamento del primo


patto non puntasse verso quello del patto nuovo annunciato dal profeta
Geremia (Geremia, 31:31-34, dove si fa riferimento a un brith chadashah, ‫ְבּ ִרית‬
‫ ֲח ָד ָֽשׁה‬, espressione con cui oggi è denominato il Nuovo Testamento) e
rati cato da Gesù durante la sua ultima cena pasquale (Luca, 22:20) e sulla
croce (Ebrei, 9:15 e 12:24).

Questo nuovo patto corrisponde a un nuovo livello di intimità con il


SIGNORE (“io metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro
cuore…” Geremia, 31:33), un rapporto di reciproca ducia attraverso il quale
possiamo conoscere per esperienza personale e diretta quanto sia buona
la volontà di Dio (Romani, 12:1-2) e riconoscere dal di dentro che è meglio
servire che essere serviti, perché “è cosa più felice il dare che il prendere”
(Μακάριόν ἐστιν διδόναι μᾶλλον ἢ λαμβάνειν makariòn estin didònai è
lambanein, parole di Gesù che non sono state trascritte nei Vangeli, ma
che Paolo ha esortato a ricordare quando, lungo il suo ultimo viaggio verso
Gerusalemme, ha preso commiato dagli anziani delle chiesa di Efeso).

Per perdonare chi ci ha derubato, e non accarezzare più l’idea di derubare


qualcuno a nostra volta, dobbiamo cioè acquisire un cuore secondo il
cuore di Dio, un cuore che trova più piacere nel donare che nel prendere,
ed è capace di guardare oltre la momentanea soddisfazione del desiderio
di appropriarsi di qualcosa (o di conquistare qualcuno), in vista della verità.

Il punto è che, perché tutto ciò avvenga, è necessaria una vera e propria
guerra di liberazione. Parlando di demoni e della necessità di combatterli,
Gesù ha spiegato che non possiamo ottenere nessun vero risultato senza
una battaglia spirituale, per riconquistare quello che ci era stato rubato.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Si tratta di un’azione divina a cui la Bibbia fa spesso allusione, sia nei libri
dell’Antico Testamento (Salmi e libri profetici, soprattutto) che in quelli del
Nuovo, quando parla di “imprigionare la prigionia”, come intendevano già i
Settanta, che traducono con questa espressione il sintagma shavita
sheviy (‫)שׁ ִבי ָת ֶשּׁ ִבי‬
ָ nello stesso verso dei Salmi (68:18) che Paolo cita per
parlare dei ministeri della chiesa, cioè degli strumenti di Dio per
combattere le forze del nemico, nella difesa e nell’educazione dei credenti
(Efesini, 4:7-14).

Il principale uso di questa divina operazione di doppia negazione lo


troviamo nelle parole di Gesù, che parla espressamente di spogliare il ladro
(“l’uomo forte”) del suo bottino umano.

“Come può uno entrare nella casa dell’uomo forte e spogliarlo della sua
roba, se prima non lega l’uomo forte? Allora soltanto gli saccheggerà la
casa. Chi non è con me è contro di me; e chi non raccoglie con me,
disperde.” (Matteo, 12:29-30). Siccome siamo in guerra, no a che il nemico
non sarà totalmente scon tto ogni nostra azione, per quanto mossa da
buone intenzioni, compiuta per conto nostro risulta inutile se non
addirittura nociva. È necessario che l’uomo forte sia vinto da uno più forte
di lui, qualcuno che, come Davide non con da nell’armatura visibile ma in
quella spirituale (“Quando l’uomo forte, ben armato, guarda l’ingresso della
sua casa, ciò che egli possiede è al sicuro; ma quando uno più forte di lui
sopraggiunge e lo vince, gli toglie tutta l’armatura nella quale con dava e
ne divide il bottino.” Luca, 11:21-22).

Il serpente, la più furba di tutte le creature, rubando la nostra ducia in


Dio, ha anche malvagiamente messo in noi il desiderio di appropriarci di
ciò che ci sembra buono e desiderabile. E questa è stata solo la prima di
una lunga sequenza di azioni volte a distruggerci. Non basta quindi che ci
tratteniamo dal seguire l’istinto cattivo che è stato impiantato in noi.
Dobbiamo essere liberati non solo da quella “radice”, ma anche da chi ce
l’ha impiantata, perché l’ha fatto con un piano, che cercherà di portare a
termine anche in altri modi e con altri mezzi.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Difatti, attraverso i duraturi effetti del frutto di quell’albero, è il malvagio


animale che continua a istigarci a guardare alle cose che abbiamo attorno
come alla possibile sorgente del bene che ci manca. E alla ne,
all’equivalente generale di tutte le merci, cioè il denaro, che ci appare lo
strumento più ef cace per farsi servire dagli altri e ottenere quello che
vogliamo. È il diavolo che mette in noi un sicuro e insaziabile desiderio per
quest’anonima, inodore e incolore sostanza, fatta apposta per essere
ammassata e diventare una misura pura del nostro potere. Un amore che
“è radice di ogni specie di mali.” (1 Timoteo, 6:10).

Le opere del diavolo che Gesù è venuto a distruggere (1 Giovanni, 3:8)


rimangono ancora ef caci n quando non crediamo completamente alla
parola di Dio, e mirano sempre a farci dimenticare la storia completa, e
farci concentrare invece sul dettaglio del momento. Il combattimento si
svolge nel nostro cuore, cioè nella nostra mente, nei nostri pensieri e tra i
nostri sentimenti. E, ripetiamo, non possiamo combattere da soli.

Per evitare di rubare, come per riuscire a perdonare chi ci ha defraudato di


qualcosa (o di qualcuno), abbiamo bisogno dell’intervento e della
liberazione di Dio. Solo Dio può mettere a tacere i nostri rovelli e farci
trovare il silenzio e il riposo necessari alla guarigione. Solo Dio può
scon ggere l’antico serpente.

Nel parallelo che stiamo tracciando tra i dieci comandamenti e il modello


di preghiera insegnato nel “Padre nostro”, con questo ottavo
comandamento, entriamo perciò in pieno nella parte dedicata all’ultima
richiesta che Gesù ci ha insegnato a rivolgere al Padre: “liberaci dal
malvagio [o anche: dalla malvagità]”.

Dicevamo che la via di questa liberazione è stata aperta dal perdono di


Dio, condizionato, come ricordavamo, dal nostro perdono verso chi ci ha
insultati, traditi o derubati del nostro tempo e delle nostre energie
(“Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste
perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il
Padre vostro perdonerà le vostre colpe.” Matteo 6:14-15). Ma il perdono di
Dio ci è anche necessario per riuscire noi stessi a perdonare. Perché solo
mediante questo perdono siamo di nuovo ammessi alla presenza del
SIGNORE e possiamo avere la nostra mente rinnovata dalla santità del suo
amore.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Quando il nostro cuore è di nuovo davanti a quello del SIGNORE e ci


possiamo cibare del pane della sua presenza, l’acquisto (o la perdita) delle
cose visibili perde gran parte della sua forza. Possiamo allora diventare
capaci di vincere il tentatore, perché riusciamo a non dare più tanto valore
a quello che ci è stato tolto, o a quello che potremmo togliere ad altri.

Solo dopo essere stati liberati possiamo comprendere che, davanti a Dio,
quelle ruberie che non riuscivamo a dimenticare perché ci venivano
presentate come perdite irrimediabili erano in realtà dei guadagni, e quelli
che ci ci venivano presentate come imperdibili occasioni di guadagno
costituivano in realtà degli ostacoli per la nostra salvezza (Filippesi, 3:7-8).

Certo il nemico (ha-satàn) è colui che ci ispira tutti i peccati, a cominciare


dall’omicidio, per continuare con l’adulterio, il furto e la menzogna. È lui,
anche, colui che induce l’uomo ad adorare le creature anziché il Creatore e
a farsi altri dèi diversi dall’unico vero Dio. Ma il furto è una sua specialità, e
per noi è la prima manifestazione del regno delle tenebre e del
materialismo che vi domina. E, come abbiamo già detto, è anche il
peccato più comune e più insito nella nostra natura, tanto che in molte
culture è visto come una destrezza, e molte persone ne hanno anche
fatto un mestiere. Rimane comunque una grave offesa e una grave
mancanza di rispetto.

Il serpente è venuto a sedurre la donna in Eden, mancando totalmente di


rispetto innanzitutto per la persona del SIGNORE, e poi per la persona
dell’uomo (inteso come umanità), creato a immagine e somiglianza di Dio,
che ha trattato come una cosa da sottrarre al suo Creatore. Ma Gesù è
appunto venuto a distruggere quest’opera.

Se l’azione di prendere per sé quello che non ci appartiene dimostra il


nostro egoismo, cioè la nostra solitudine, e la nostra fondamentale
empietà (“l’empio prende a prestito e non rende” come è scritto in Salmi,
37:21; se non stiamo attenti, ci comportiamo tutti da empi),
l’insegnamento e l’esempio di Cristo restaurano in noi l’originale
immagine di Dio. Gesù, infatti, non è venuto a prendere, ma a dare: “il
Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare
la sua vita come prezzo di riscatto per molti.” (Matteo, 20:28).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Per un profondo quanto immeritato rispetto che nutre verso le nostre


persone, il Padre ha mandato Gesù nel mondo a ridarci la vita e la libertà
che avevamo perso quando ci era stata rubata l’amicizia con lui. Per
questo Gesù ha detto: “Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato,
entrerà e uscirà, e troverà pastura. Il ladro non viene se non per rubare,
ammazzare e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e
l’abbiano in abbondanza.” (Giovanni, 10:9-10).

Se non cerchiamo la verità, ma l’uso di questo mondo, allora niremo per


rubare, almeno in qualcuno dei molti sensi del termine. Succede negli
ambienti dove uno meno se l’aspetta: nel mondo della scienza, per
esempio, dove per sete di gloria vengono spesso sottratte informazioni a
gruppi di lavoro rivali o si utilizza il lavoro di altri senza citare la fonte. E
succedeva anche tra loso , teologi e per no tra sedicenti profeti (“Perciò,
ecco, dice il SIGNORE, io vengo contro i profeti che rubano gli uni agli altri
le mie parole.” Geremia, 23:30).

Se invece cerchiamo davvero la verità, lasciamo anche il mantello a chi ci


vuole prendere la tunica (Matteo, 5:40). E sopportiamo in silenzio torti e
ruberie (Matteo, 5:39; Ebrei, 10:34). Ma se non crediamo completamente
alla parola di Dio e viviamo ancora per noi stessi, il primo bersaglio dei
nostri furti è proprio il SIGNORE, Colui che è. Infatti, quando ci vogliamo
appropriare di qualcosa, facciamo innanzitutto torto a Dio e alla verità della
sua parola, che ci dice chiaramente che “al SIGNORE appartiene la terra e
tutto quel che è in essa, il mondo e i suoi abitanti.” (Salmi, 24:1).

Se ammassiamo tesori sulla terra, lo facciamo perché stiamo dando più


importanza alle cose che possiamo ammassare che al conoscere
personalmente il nostro Padre che è in cielo e che è il vero padrone della
terra e di tutto ciò che vi si trova. Continuiamo nella disobbedienza di
Adamo, che ha portato all’atteggiamento di Caino (il cui nome in ebraico
ha la stessa radice del verbo che signi ca “acquistare” o “possedere”), che
faceva i suoi sacri ci al SIGNORE non per fedeltà o riconoscenza, come
Abele (Ebrei, 11:4), ma per ottenere il suo favore e i vantaggi che ne
sarebbero derivati. Similmente, anche Giuda Iscariota, che prendeva dalla
borsa comune quello che vi si metteva dentro (Giovanni, 12:6), lo faceva
covando il progressivo distacco da Gesù che è culminato con il suo
tradimento.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La foga di ammassare è infatti da considerarsi idolatria (Colossesi, 3:5) e


l’idolatria di Israele è il peccato che i profeti hanno spesso dipinto come
l’adulterio del popolo di Israele verso il SIGNORE, loro Dio e loro Sposo.

In effetti, in un senso astratto, anche l’adulterio potrebbe essere


considerato una specie di furto. Così come la fornicazione, o la
prostituzione che dir si voglia, è certamente imparentata con lo
sfruttamento. Ma, mentre l’adulterio, come abbiamo visto, colpisce il
legame di fedeltà e di reciproca appartenenza tra due persone (“Il mio
amico è mio, e io sono sua” Cantico, 2:16a), il furto tocca il rapporto tra
persone e cose: tra la proibizione dell’adulterio e quella del furto cambia
insomma il soggetto centrale, in quanto nel primo si parla di rapporti
interpersonali mentre nell’altro di rapporti di proprietà con degli oggetti, e
la Bibbia ci insegna a non confondere cose e persone.

Ma la Bibbia ci insegna anche a riconoscere il peccato nelle sue diverse


manifestazioni. E una caratteristica generale del peccato, come vedremo
più approfonditamente parlando dell’ultimo comandamento, consiste
proprio nel far confusione tra persone e cose, nel trattare cioè le persone
come cose e le cose come persone. In questa luce, furto, idolatria,
fornicazione, e sfruttamento diventano sostanzialmente lo stesso
peccato. Amare il proprio tesoro invece delle persone che ci servono per
accumularlo signi ca scambiare ciò che è eterno per ciò che dura solo un
momento, rinunciare all’eterno amore di Dio e del nostro prossimo per
amore di ciò che è per de nizione uttuante e relativo (non per niente i
soldi si chiamano anche liquidi).

Per questo, Gesù ha spesso messo in guardia dal fare af damento sulle
ricchezze materiali. E anche suo fratello Giacomo ha scritto parole molto
dure rivolgendosi a chi ne aveva accumulate a spese degli altri: “A voi ora, o
ricchi! Piangete e urlate per le calamità che stanno per venirvi addosso! Le
vostre ricchezze sono marcite e le vostre vesti sono tarlate. Il vostro oro e il
vostro argento sono arrugginiti, e la loro ruggine sarà una testimonianza
contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato
tesori negli ultimi giorni. Ecco, il salario da voi frodato ai lavoratori che
hanno mietuto i vostri campi grida; e le grida di quelli che hanno mietuto
sono giunte agli orecchi del Signore degli eserciti.” (Giacomo, 5:1-4).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Non si tratta di un insegnamento diverso da quello della Legge mosaica,


che diceva chiaramente di rispettare chi lavora per noi e di essere
premurosi nei nostri pagamenti: “Non opprimerai il tuo prossimo, e non gli
rapirai ciò che è suo; il salario dell’operaio al tuo servizio non ti resti in mano
la notte no al mattino.” (Levitico, 19:13).

Ma, naturalmente, il furto non è un peccato solo dei ricchi e dei padroni. E
non solo perché anche i poveri non devono derubare i ricchi, e i lavoratori
non devono imbrogliare chi li ha ingaggiati. Se non amiamo il SIGNORE e il
nostro prossimo, ruberemo comunque, sia all’Uno che agli altri. Agli altri
perché li stiamo comunque derubando della loro vita, se non li amiamo.
All’unico vero Dio, perché è lui la fonte di ogni nostro bene (Giacomo, 1:17).
Infatti il SIGNORE ha fatto ricordare al suo popolo: “L’uomo può forse
derubare Dio? Eppure voi mi derubate. Ma voi dite: In che cosa ti abbiamo
derubato? Con le decime e con le offerte.” (Malachia, 3:8).

Sappiamo bene, anche da altri libri profetici, che a Dio non interessano i
nostri soldi e i nostri sacri ci. Tutto l’oro, l’argento e gli animali che esistono
gli appartengono già. A Dio interessa che conosciamo la verità e che la
mettiamo in pratica. Quello che gli interessa cioè è che siamo
riconoscenti, perché questo ci mette nella posizione giusta davanti a lui.
Se contrattiamo su quanto gli spetta, stiamo già derubandolo di quello
che gli dobbiamo, perché glielo dobbiamo per il nostro stesso bene, cioè
per la nostra salvezza. E gli dobbiamo tutto, non solo la decima parte dei
nostri introiti.

In questa direzione, allude alle decime e alle offerte anche l’episodio dei
dieci lebbrosi raccontato nel vangelo di Luca. “Nel recarsi a Gerusalemme,
Gesù passava sui con ni della Samaria e della Galilea. Come entrava in un
villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, i quali si fermarono lontano da
lui, e alzarono la voce, dicendo: Gesù, Maestro, abbi pietà di noi! Vedutili,
egli disse loro: Andate a mostrarvi ai sacerdoti. E, mentre andavano, furono
puri cati. Uno di loro vedendo che era puri cato, tornò indietro,
glori cando Dio ad alta voce; e si gettò ai piedi di Gesù con la faccia a terra,
ringraziandolo. Or questo era un Samaritano. Gesù, rispondendo, disse: I
dieci non sono stati tutti puri cati? Dove sono gli altri nove? Non si è
trovato nessuno che sia tornato per dare gloria a Dio tranne questo
straniero?” (Luca, 17:11-18).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

I nove lebbrosi che non tornarono a ringraziare Gesù corrispondono in


qualche modo ai nove decimi della nostra vita che ci teniamo per noi,
quando crediamo che con la nostra religiosità abbiamo dato a Dio quello
che gli era dovuto.

Se glielo permettiamo, Dio ci libera dal nemico e dalla sua tirannia, ma poi
dobbiamo stare con Lui, altrimenti la nostra tenda vuota e pulita attirerà di
nuovo il malvagio, e sarà anche peggio di prima (Matteo, 12:45). Se non
riconosciamo che la liberazione viene solo da Dio e non impariamo a
camminare in umiltà con lui, nirà che ci prenderemo di nuovo la gloria
delle nostre buone azioni, e queste diventano un ostacolo alla nostra
stessa salvezza, perché cadremo di nuovo nel laccio del diavolo, vivendo
per la nostra vana gloria. Finiremo così anche per derubare gli altri della
conoscenza di Dio che avremmo dovuto trasmettere loro.

A chi più è stato dato, più sarà ridomandato (Luca, 12:48), come qualcosa
che abbiamo portato via a coloro a cui era destinata. “Guai a voi, dottori
della legge, perché avete portato via la chiave della scienza! Voi non siete
entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito.” ( Luca, 11:52).

La chiave della conoscenza, forse la stessa chiave che l’Apocalisse chiama


“la chiave di Davide” (Apocalisse, 3:7), è con ogni probabilità il “sacri cio
della lode” (zevach todah ‫)זֶבַח תֹּו ָדה‬, meglio tradotto come “sacri cio di
ringraziamento”.

La parola ebraica che esprime gratitudine e riconoscenza (todah ‫ )תֹּו ָדה‬ha la


stessa radice di quella che si usa per riferirsi alla confessione (viduy ‫)וִדּוּי‬.
Ringraziare infatti signi ca anche ammettere di avere avuto un bisogno
(oltre che esprimere gratitudine per la sua soddisfazione), riconoscendo
perciò il proprio debito. Se ringraziamo veramente Dio per aver perdonato
i nostri peccati pagando direttamente per la nostra salvezza, rinunciamo
alla nostra vita per ricevere la sua, e rinunciamo anche al nostro giudizio
per accogliere quello di Dio.

“È preziosa agli occhi del SIGNORE la morte dei suoi fedeli. Sì, o SIGNORE,
io sono il tuo servo, sono tuo servo, glio della tua serva; tu hai spezzato le
mie catene. Io t’offrirò un sacri cio di ringraziamento e invocherò il nome
del SIGNORE.” (Salmi 116:15-17).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Il sacri cio del ringraziamento è la salvezza preparata per noi da Dio, come
ci ha rivelato l’apostolo Paolo esortando a compierlo sempre: “in ogni cosa
rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di
voi.” (1 Tessalonicesi, 5:18). Questo sacri cio si presenta infatti come
l’antidoto al veleno contenuto nel frutto dell’albero della conoscenza del
bene e del male, il veleno che ha portato l’uomo ai furti, agli adulteri, e agli
omicidi di cui ci parla la Legge con i suoi divieti. Come è scritto anche nella
Lettera agli Ebrei: “Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a
Dio un sacri cio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo
nome.” (Ebrei, 13:15). Perché, attraverso il ringraziamento, non esprimiamo
più il nostro giudizio sulle cose che accadono e sui beni che possiamo
acquisire o perdere, ma piuttosto dichiariamo la nostra fede in Dio,
riconoscendo che ogni cosa coopera per il nostro bene quando amiamo il
Signore (Romani, 8:28). È un punto di cruciale importanza, ci ritorneremo
ancora.

Se il peccato deriva dal cercare ciò che è bene ai nostri occhi ma è male
agli occhi del SIGNORE, la giustizia (in ebraico tsedeq ‫ ) ֶצ ֶדק‬signi ca cercare
quello che piace al SIGNORE anche quando è contrario ai desideri della
nostra carne (“elemosina”si dice tsedaqah ‫) ְצ ָד ָקה‬.

La parola di Dio mette in tutti i modi in guardia dal desiderio di diventare


ricchi, e d’altra parte, positivamente, ci incoraggia ad essere contenti dello
stato in cui ci troviamo (Filippesi, 4:11-12, 1 Timoteo, 6:6) e a condividere con
gli altri i nostri averi quando ne abbiamo l’opportunità.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Gesù ha infatti dichiarato: “Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno


dei cieli.” (Matteo 5:3 ). Ora, i poveri in spirito, ovviamente, non sono i poveri
di spirito, i “sempliciotti”, come si tende a pensare. Sono piuttosto coloro
che non vogliono diventare ricchi e perciò non servono le ricchezze di
questo mondo, ma semmai se ne servono, usandole per fare del bene.
Non importa se sono materialmente ricchi (come Giobbe, Abramo o
Zaccheo) o materialmente poveri (come la vedova che non aveva altri
soldi oltre a quello spicciolo che ha messo nella cassa delle offerte, della
quale è scritto in Marco, 12:43), i poveri-in-spirito sono quelli che sanno che
la loro vita non dipende dalle loro ricchezze e per questo donano
generosamente, perché non si fondano sul mucchio di cose che hanno
accumulato e possono ancora accumulare, ma sul rapporto personale con
Dio e con il loro prossimo. E sanno che “chi ha pietà del povero presta al
SIGNORE, che gli contraccambierà l’opera buona.” (Proverbi, 19:17). Questi
poveri erediteranno il regno di Dio.

L’abitudine a donare è la vera cura per il desiderio di arricchire che


contamina e consuma il nostro cuore. “Voi farisei pulite l’esterno della
coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di malvagità.
Stolti, Colui che ha fatto l’esterno, non ha fatto anche l’interno? Date
piuttosto in elemosina quello che è dentro il piatto; e ogni cosa sarà pura
per voi.” (Luca, 11:39-41).

“Date, e vi sarà dato; vi sarà versata in seno buona misura, pigiata, scossa,
traboccante; perché con la misura con cui misurate, sarà rimisurato a voi.”
(Luca, 6:38). Chi dà agli altri non manca di niente e può quindi dimenticare
il bisogno di accumulare per se stesso riserve per il suo futuro: “L’uomo
dallo sguardo benevolo sarà benedetto, perché dà del suo pane al
povero.” (Proverbi, 22:9)

Ma, come abbiamo già detto, questa cura per l’avarizia funziona solo per
l’uomo nuovo, l’uomo che vive con Dio e si da di Lui. Altrimenti, se manca
il rinnovamento prodotto dalla rivelazione di Dio, anche l’elemosina sarà
fatta per interesse, “suonando la tromba” davanti alla propria azione per
riscuotere l’ammirazione degli altri uomini, e non procurerà nessun vero
bene cio da parte del SIGNORE (Matteo, 6:2).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Scrivendo ai credenti di Efeso, dopo aver trattato dell’imprigionamento


della prigionia per la costruzione del corpo di Cristo (la Chiesa), Paolo
prosegue il suo discorso parlando dell’uomo nuovo, riassumendo quanto
abbiamo visto n qui e introducendoci anche alla prossima meditazione
sul nono comandamento: “Se pure gli avete dato ascolto e in lui siete stati
istruiti secondo la verità che è in Gesù, avete imparato per quanto
concerne la vostra condotta di prima a spogliarvi del vecchio uomo che si
corrompe seguendo le passioni ingannatrici; a essere invece rinnovati
nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo che è creato a
immagine di Dio nella giustizia e nella santità che procedono dalla verità.
Perciò, bandita la menzogna, ognuno dica la verità al suo prossimo perché
siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi e non peccate; il sole non
tramonti sopra la vostra ira e non fate posto al diavolo. Chi rubava non rubi
più, ma si affatichi piuttosto a lavorare onestamente con le proprie mani,
af nché abbia qualcosa da dare a colui che è nel bisogno.” (Efesini, 4:21-28).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Nona parola: non calunniare

Eso 20:16 Non attestare il falso contro il tuo prossimo.

Il testo ebraico di questo comandamento è abbastanza complesso. Si


compone di tre parti: “non risponderai” (lo’-tha’nah ‫;)לֹא־ ַת ֲענֶה‬ ֽ “contro il tuo
prossimo” (be:re’aekha ‫“ ;) ְב ֵר ֲע ָך‬falsa testimonianza” (a’d shaqar ‫) ֵעד ָֽשׁ ֶקר‬.

Cominciamo dalla parte centrale: “contro il tuo prossimo”, letteralmente


“nel tuo prossimo”, ma be è una particella multivalente (come peraltro in
ebraico quasi tutte le preposizioni) e, oltre che “in”, può signi care anche
“con” (strumentale) e anche “contro”. Che il signi cato in questo passo sia
quest’ultimo lo si capisce chiaramente anche da un altro testo, in cui
l’ottavo e il nono comandamento sono, peraltro, similmente collegati. Il
testo si trova in Levitico, dove, nello stesso capitolo in cui è scritto di amare
il nostro prossimo come noi stessi, poco prima è anche scritto: “Non
ruberete, e non userete inganno né menzogna gli uni a danno degli altri.”
(Levitico, 19: 11).

Ma chi è questo “prossimo” che la Legge (Levitico, 19:17) ci dice di amare


come noi stessi e di non danneggiare con le nostre bugie?

Un giorno alcuni farisei hanno rivolto questa stessa domanda a Gesù. La


sua risposta, dopo aver raccontato la parabola del buon samaritano, è stata
in sostanza: non domandatevi chi sia il vostro prossimo, ma siate piuttosto
voi il prossimo degli altri (Luca, 10:36-37).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Rea’, la parola che traduciamo con prossimo, nei testi biblici scritti in
ebraico, ha spesso il senso di “amico” (colui che consideriamo appunto
come la nostra stessa persona, cf. per es. Deuteronomio, 13:6). Le Sacre
Scritture ci insegnano a farci degli amici, e a mantenere queste amicizie.
L’insegnamento della parola di Dio, ha detto Gesù, ci indirizza all’amicizia e
alla reciprocità dei rapporti con i nostri simili (“Tutte le cose dunque che
voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa
è la legge e i profeti.” Matteo, 7:12).

Ora, non diventiamo certo amici di qualcuno contro il quale lanciamo delle
calunnie. “L’uomo che dichiara il falso contro il suo prossimo [le parole sono
proprio le stesse del testo originale di Esodo 20] è un martello, una spada,
una freccia acuta.” (Proverbi, 25:18). L’amicizia ha un nemico, che è, per
logica de nizione, il nemico per eccellenza.

Nel parallelo che stiamo tracciando con la preghiera del Padre nostro,
siamo chiaramente nel pieno dell’ultima richiesta: “Liberaci dal maligno”.
Anche del peccato vietato da questo comandamento troviamo infatti
l’origine nel terzo capitolo della Genesi, dove il nemico (ha-satan ‫ ) ַה ָשּׂטָן‬fa la
sua prima comparsa. A commetterlo è sempre lui, il serpente, “il più astuto
di tutti gli animali del campo” (Genesi, 3:1). Quando la donna
ingenuamente gli ha spiegato che non potevano mangiare del frutto
dell’albero che era in mezzo al giardino dell’Eden perché il SIGNORE aveva
detto loro che se l’avessero fatto sarebbero certamente morti, il serpente
le ha risposto: “Voi non morireste affatto. Ma Dio sa che, nel giorno che voi
ne mangereste, i vostri occhi si aprirebbero; onde sareste come Dio,
avendo conoscenza del bene e del male.” (Genesi, 3:4-5).

Il serpente non ha dato alla donna delle informazioni totalmente false


(infatti sarebbero morti solo dopo molto tempo), ma nemmeno ha detto
tutto quello che sapeva e, soprattutto, con le sue parole ha insinuato che
Dio avesse un’intenzione malevola nel proibire loro quel frutto. Ha
ritagliato cioè dalla realtà la parte che gli interessava presentare per
arrivare al suo scopo. Non per niente, in molte culture le azioni di
pettegolare e calunniare sono simboleggiate dall’uso delle forbici. Con le
nostre parole “ritagliamo” la realtà secondo come pensiamo ci convenga
mostrarla. È quella sapienza terrena che Giacomo chiama “animale e
diabolica” (Giacomo, 3:15) e che forse è più giusto chiamare appunto
astuzia.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La vera differenza tra noi e gli animali, riguardo al linguaggio, è infatti che
noi uomini possiamo usarlo per conoscere e fare conoscere la verità, che è
fuori del tempo e fuori dalla portata dei sensi. Purtroppo, però, possiamo
anche usare le parole e gli altri segni per i nostri scopi temporali, come
fanno le bestie. Anche Salomone parla con disprezzo di questo uso del
linguaggio: “L’uomo da nulla, l’uomo iniquo, cammina con la falsità sulle
labbra; ammicca con gli occhi, parla con i piedi, fa segni con le dita; ha la
perversità nel cuore, trama del male in ogni tempo, semina discordie…”
(Proverbi, 6:12-14 ).

Diavolo (diàbolos διάβολος), la versione greca del termine ebraico con cui
viene indicato “il nemico”, è un sostantivo che viene proprio dal verbo che
signi ca “scagliare accuse, calunniare” (diaballō διαβάλλω). Del diavolo, Gesù
ha detto che “è stato omicida n dal principio e non si è attenuto alla
verità, perché non c’è verità in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è
suo, perché è bugiardo e padre della menzogna.” (Giovanni, 8:44).

La radice della parola ebraica per “falsità, menzogna” (sheqer ‫)שׁ ֶקר‬
ֶ è molto
vicina a quella della parola che signi ca “ricompensa” (shecher ‫)שׂ ֶכר‬.
ֶ Dietro
alla bugia si nasconde infatti sempre un piano, un interesse. La bugia
presuppone e produce una distanza tra chi la proferisce, la persona che la
riceve e anche la persona o il fatto a cui si riferisce. Nonostante sembri
creare intimità, il pettegolezzo divide, porta morte. “Le parole del
maldicente sono come ghiottonerie, e penetrano no all’intimo delle
viscere.” (Proverbi 18:8). La radice shin+qof+resh che produce questa parola
che abbiamo tradotta con “il falso” ha anche il senso dello sguardo scuro
che serve per sedurre. L’inganno delle ricchezze e del potere. La sapienza
di Dio ci mette in guardia da questa seduzione. “Non mangiare il pane di
chi ha l’occhio maligno, non desiderare i suoi cibi delicati; poiché,
nell’intimo suo, egli è calcolatore; ti dirà: Mangia e bevi!, ma il suo cuore
non è con te. Vomiterai il boccone che avrai mangiato, e avrai perduto le
tue belle parole.” (Proverbi, 23:6-8).

Ma il male lo si può vincere solo con il bene: per scon ggere la menzogna
occorre la verità. Alla ne della meditazione sull’ottava parola, abbiamo
visto che l’esortazione di Paolo a non rubare (e a condividere piuttosto ciò
che si ha con chi è nel bisogno) è preceduta da un altro comando,
positivo: “ognuno dica la verità al suo prossimo perché siamo membra gli
uni degli altri” (Efesini, 5:26).

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La Parola nelle Dieci parole

Ma cos’è la verità? Certamente non intendiamo (né possiamo) darne qui


una de nizione. Ma nemmeno vogliamo ripetere la domanda nel senso in
cui l’ha posta Pilato, che – nella sua breve conversazione con Gesù – ha
usato come scusa la sua umana ignoranza, quando il Cristo gli ha detto di
essere venuto per essere re, e per rendere testimonianza della verità.

Il relativismo, come atteggiamento loso co, non ci scusa dalla colpa di


non aver accettato l’invito di Dio ad acquistare verità. E non possiamo
capire cosa la Bibbia intenda per “menzogna” se non cerchiamo di capire
cosa sia la verità.

In ebraico, la parola che signi ca “verità” è ‘emet (‫) ֱא ֶמת‬, molto vicina alla
radice del verbo che signi ca “credere” (e che è la stessa del termine
amèn ‫אָ ֵמן‬, che – accentata in un modo o nell’altro – è entrato nel lessico di
tutte le principali lingue in cui è stata tradotta la Bibbia). Si tratta di
qualcosa che ha a che fare con la certezza, con l’in nito e con l’eternità,
cioè con la totalità dei fatti. Qualcosa che non può essere rappresentato,
perché sta alla base di ogni rapporto e rappresentazione: è la parola stessa
di Dio, che è anche la via, e la vita (Giovanni, 14:6).

Parlando del termine ebraico che signi ca “parola”, davar (‫) ָדּבָר‬, abbiamo
già visto che la lingua della Bibbia non distingue tra parole e cose. Anzi
diciamo meglio che non distingue tra discorsi e fatti. A differenza delle
teorie loso che classiche che consideravano la verità come
corrispondenza tra proposizioni e fatti, nella visione ebraica del mondo la
realtà appare costituita di collegamenti tra fatti, e i discorsi e le azioni degli
uomini e delle altre creature si intrecciano a formarne il tessuto. La verità,
in senso ebraico, non è un discorso vero su come stanno delle cose che
sussisterebbero anche senza le parole, ma piuttosto è la rete di viventi
connessioni che collega tutti i fatti gli uni con gli altri. Un fatto viene
stabilito da almeno due testimoni (Deuteronomio, 17:6 e 19:15). La verità
non solo è l’accordo esterno tra i fatti, ma è la vita che intesse questo
accordo e che dura mantenendo la sua identità nello spazio e nel tempo:
Colui che era, che è e che sarà.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Anche la parola che traduciamo con testimonianza ha che fare con la rete
delle connessioni tra i fatti e con la loro ripetibilità nel tempo. È infatti
scritta con le stesse consonanti della congiunzione che signi ca “ancora”
(‘owd ‫עוֹד‬, o ‘od ‫)עֹד‬. Un fatto, un rapporto, è vero se rimane tale,
indipendentemente dalle circostanze. Cambiano il modo e il tempo in cui
può essere rappresentato ma non cambia la sua verità, né gli effetti che
ha prodotto e ancora produce.

“Testimonianza” in greco si dice martyrìa (μαρτυρία), parola che richiama con


forza la capacità della verità di resistere al tempo e di vincere contro la
menzogna. Può farlo proprio grazie all’in nito inestricabile tessuto di
connessioni che collega tutti i fatti che accadono davvero, su tutte le scale
dell’Universo, dalle particelle subatomiche ai super-ammassi di galassie
(connessioni che la scienza moderna, da Galilei in poi, si sta sforzando di
descrivere in termini matematici, restando però sempre all’interno di una
delle diverse scale; la parola di Dio invece governa anche i rapporti tra tutti
gli strati della realtà, cioè di quello che avviene su ciascuna scala con ciò
che avviene su tutte le altre).

Come i tralci, per produrre frutto, devono essere connessi alla vite
(Giovanni, 15:5-6), i fatti sono veri (e veritiere le persone che li esprimono)
no a che non perdono il loro rapporto con il tessuto della realtà. La
testimonianza ci collega al passato e rimane per il futuro: è ciò che rimane
vero, oltre il cambiamento causato dal tempo, e persino oltre la morte. Le
Sacre Scritture raccolgono queste testimonianze e ci incoraggiano a
portarle avanti no agli ultimi giorni della storia, come ha detto Gesù: “E
questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo, af nché ne sia
resa testimonianza a tutte le genti; allora verrà la ne.” (Matteo, 24:14).

Mentre le immagini creano delle realtà illusorie e ci fanno pensare a mondi


alternativi che sono scollegati dal nostro, le testimonianze della Bibbia
sono rimaste viventi e sono attorno a noi. Prima tra tutte, il popolo di
Israele, nonostante tutti i tentativi di eliminarlo. Un popolo che ci ha
portato no ad oggi la testimonianza millenaria di una parola che ha
annunciato la verità all’uomo e ancora oggi ci dice di non diffondere la
bugia.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Quello che fa l’immagine, infatti, come abbiamo già visto anche parlando
del secondo comandamento, è ritagliare una fetta di realtà scelta o
forgiata in modo da assomigliare a qualcosa che non c’è, suscitando una
sensazione simile a quella che produrrebbe l’oggetto rappresentato. Ma
l’immagine è appunto un oggetto, una cosa morta e vuota,
necessariamente separata dal tessuto della vita, anche se rappresenta
una persona vivente. È un oggetto che può essere preso e spostato,
acquistato e venduto, usato a proprio piacere, per decorare o arredare,
come non si può fare con le persone, a meno di non riuscire a manipolarle,
imprigionarle, o anche ucciderle.

Il ché è precisamente quello che facciamo con la calunnia o


semplicemente con il nostro giudizio (cf. la meditazione sulla sesta parola),
o anche quando ci facciamo un idolo di qualcuno, e non ci importa più la
sua vita ma solo l’immagine che quella persona è per noi o per gli altri.

Certamente, anche la menzogna ha una sua realtà storica, perché avviene


nella realtà ed è proferita da persone reali, ma i suoi effetti sono
confusione e incertezza (per questo va ri utata e denunciata, come è
scritto in Efesini, 5:11-13). Prende dei fatti e ce li presenta isolati dagli altri
fatti, in modo da farceli apparire per quello che non sono. Mentre lo Spirito
della verità che ci comunica la parola di Dio ci dà il quadro delle
connessioni reali tra i fatti della nostra vita, la bugia serve a dare
l’impressione che le cose non siano come sono in realtà, ma piuttosto
come noi vorremmo che fossero, o, peggio ancora, come pensiamo che ci
convenga che appaiano.

In particolare, il signi cato ultimo dei pettegolezzi (che in ambiente


ecclesiastico prendono spesso la sfacciata forma di richieste di preghiera)
è che noi siamo migliori delle persone di cui stiamo parlando. Ma se quello
che vogliamo dire agli altri è che noi siamo buoni, stiamo dichiarando il
falso contro il nostro prossimo, facendo per altro discorsi di nessuna utilità.
Pur sapendo che Gesù ci ha detto che “di ogni parola oziosa che avranno
detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio” (Matteo, 12:36 ).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Lo scopo della formulazione di giudizi, di critiche e di pettegolezzi, per


quanto comune e quotidiana sia questa forma di comunicazione sugli
assenti (eppure Gesù ha dato chiare istruzioni per evitarla, dicendo: “Se
tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e convincilo fra te e lui solo. Se ti
ascolta, avrai guadagnato tuo fratello.” Matteo, 18:15), è chiaramente la
guerra. Chi sparla degli altri lo fa per farsi degli alleati a detrimento del
rapporto con la persona che viene denigrata o comunque classi cata
dalle nostre parole, che non la presentano nella sua totalità, ma dal lato
che la condanna o la ridicolizza.

La bugia, come abbiamo già visto, cerca una ricompensa, e la ricompensa


che cercano la maggior parte della nostre parole bugiarde è di essere
considerati buoni, o spirituali. E proprio per questo le parole che mirano a
farci apprezzare come autorevoli giudici degli altri sono parole bugiarde,
perché, oltre che testimoniare il falso contro gli altri inchiodandoli al male
che hanno fatto come se non potessero pentirsene, testimoniano il falso
su noi stessi, come se non avessimo mai fatto niente di male. E generano
così molto danno e confusione.

La fatica che facciamo per dare di noi un’immagine migliore di quello che
siamo in realtà partecipa e contribuisce alla generalizzazione della
menzogna che prende la forma dell’ipocrisia, uccidendo l’amicizia. Questa
menzogna contagiosa e generalizzata impedisce inoltre l’unica
espressione della verità, cioè la confessione dei propri peccati,
l’ammissione della necessità di perdono e della remissione delle nostre
colpe. Non che questa debba essere l’unico tema delle nostre
comunicazioni, ma, se non vogliamo parlare contro la verità, deve
certamente esserne il presupposto. Quando, invece, in un gruppo
abbondano le chiacchiere di auto-celebrazione, tutti si sentono giudicati
da tutti e si sforzano, perciò, di apparire buoni e senza peccato, o
quantomeno spirituali e autorizzati a criticare.

Il ché, a sua volta, è una calunnia nei confronti di Dio: “Se diciamo che
siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se
riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i
peccati e ci puri cherà da ogni colpa. Se diciamo che non abbiamo
peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.” (1
Giovanni, 1:8-10).

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La Parola nelle Dieci parole

Dire la verità al nostro prossimo signi ca anche ammettere la nostra


personale distanza dal modello di giustizia che ci è stato presentato da
Dio, e quindi non cercare la nostra gloria, ma quella dell’unico vero Dio,
come peraltro ha fatto quello stesso modello, che ha sempre insegnato
solo quello che gli veniva mostrato dal Padre, e in un’occasione ha anche
aggiunto: “Chi parla di suo cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di
colui che l’ha mandato è veritiero, e non vi è ingiustizia in lui.” (Giovanni,
7:17). Difatti, quando lo chiamavano “maestro buono”, Gesù rispondeva
“Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.”
(Marco, 10:17).

Lo spirito della verità è quello che ci convince di essere dei peccatori e che
possiamo essere resi giusti solo dalla fede in ciò che Dio ha fatto attraverso
Gesù (Giovanni, 16:8-9). E che, nella misura in cui non crediamo alla parola
di Dio, o ci accontentiamo di crederci solo limitatamente, non siamo
ancora nella verità. Se invece ci sforziamo di credere alle parole che Gesù ci
è venuto a portare da parte del Padre, e di metterle in pratica, allora
conosceremo la verità, e sarà questa verità che ci renderà liberi (Giovanni,
8:32).

Questo è insomma il modo in cui possiamo collaborare con il Padre


celeste prima e dopo avergli chiesto di liberarci dal padre della menzogna:
facendo conoscere la verità che ci è stata detta e mostrata dalla venuta di
Cristo. Noi uomini non siamo giusti, nessuno di noi lo è, né lo può
diventare senza il sacri cio di Gesù, “Dio con noi” (Isaia, 7:14; Matteo, 1:23).
La verità che dobbiamo dire al nostro prossimo è questa confessione. “Dio
ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo
amato Figlio. In lui abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. Egli è
l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura…” (Colossesi,
1:13-15). Gesù è l’immagine vivente e veritiera della misericordia di Dio.
Grazie al suo sacri cio non solo vengono coperti i peccati che abbiamo
commesso veramente, ma vengono anche vani cati tutti i nostri possibili
vanti. Che bontà potremmo vantare noi, visto che il Figlio di Dio è dovuto
morire per colpa nostra?

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Né i profeti, né i dodici apostoli, né Paolo hanno mai presentato se stessi


come brave persone, anche se certamente mettevano da parte loro ogni
impegno nel mantenere pulita la loro coscienza (cf. per es. Atti, 23:1). Paolo
lo ha scritto molto chiaramente, citando genericamente le Scritture: “Chi
si vanta, si vanti nel Signore” (1 Corinzi, 1:31). Altrove aveva infatti scritto: “…
io sono carnale, venduto schiavo al peccato. Poiché, ciò che faccio, io non
lo capisco: infatti non faccio quello che voglio, e faccio quello che odio.”
(Romani, 7:14b-15). Una confessione non ne a se stessa, ma scritta per
dichiarare la verità, cioè la bontà di Dio e della sua legge: “Sappiamo infatti
che la legge è spirituale…” (Romani, 7:14a).

Il passaggio dalla Legge rivelata attraverso Mosè al vangelo del regno di


Dio annunciato da Gesù non è di rottura, ma di continuità e progresso. Nel
nuovo patto, non solo dobbiamo evitare di attestare il falso contro il nostro
prossimo, ma anche possiamo – e quindi dobbiamo – essere testimoni
della verità, per il bene e la vita degli altri. Per questo è venuto Gesù, e per
questo anche noi siamo stati mandati lì dove ci troviamo. “Le parole degli
empi insidiano la vita, ma la bocca degli uomini retti procura la
liberazione.” (Proverbi, 12:6).

Dobbiamo benedire e non maledire (Romani, 12:14). Il ché non signi ca


certo che dobbiamo chiamare bene ciò che è male per farci accettare da
tutti, spacciando il vizio come normalità (“Guai a quelli che chiamano bene
il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in
tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!” Isaia, 5:20), ma
nemmeno siamo chiamati a insistere sugli sbagli degli altri (“Chi copre gli
sbagli si procura amore, ma chi sempre vi torna su, disunisce gli amici
migliori.” Proverbi, 17:9), pensando di dimostrarci così più spirituali (la
parabola del fattore infedele in Luca, 16:1-13 ci mostra invece che Dio
apprezza quando ci dimostriamo misericordiosi e indulgenti verso i
peccatori). Ciò su cui dobbiamo insistere, invece, è sul bisogno che tutti
abbiamo di essere salvati, e salvati da Dio. Senza preoccuparci troppo di
quello che dobbiamo dire o delle conseguenze che dovremo sopportare.
Se ci sforziamo di dire la verità, lo spirito della verità parlerà per noi (Luca,
21:14-15).

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La Parola nelle Dieci parole

Venendo quindi, per concludere, alla prima parte del testo di questa nona
parola (lo’-tha’nah ‫לֹא־ ַת ֲענֶה‬,
ֽ letteralmente “non risponderai”), consideriamo il
verbo ebraico che viene usato per de nire l’azione vietata dal
comandamento. La radice ayn+nun+he ha i signi cati più diversi. Nelle
sue varie forme e accezioni, può intendersi come: “essere af itto”, “essere
umile” e anche “rispondere” (in certi contesti addirittura “cantare”). Il
signi cato generale è quello di un’espressione spontanea, conseguenza
di una certa pressione.

La scienza oggi ci spiega che, normalmente, prima parliamo e poi


pensiamo a quello che abbiamo detto. Gesù l’aveva già dichiarato: “la
bocca parla di quello che abbonda nel cuore” (Matteo, 12:34; Luca, 6:45). Ne
segue che possiamo rispondere secondo verità solo se l’abbiamo nel
cuore, cioè solo se viviamo secondo la verità, guidati dallo spirito della
verità.

In altre parole, possiamo dire la verità al nostro prossimo solo se il vero e


ultimo scopo della nostra vita è conoscere e comunicare la verità. Infatti,
solo vivendo con questo scopo, possiamo non essere preoccupati di noi
stessi (della nostra immagine, della gura che facciamo, di quello che
diranno o penseranno gli altri di noi) ed evitare quindi che la menzogna
esca dalla nostra bocca in risposta ai diversi tipi di pressione che gli altri
possono esercitare su di noi. A cominciare dalla pressione esercitata dal
ricatto dell’accettazione, dei nostri pari, della nostra famiglia, della società
civile…

Per questo, valgono ancora (anche per quelli di noi che viviamo in paesi
liberi e almeno nominalmente cristiani) le parole che Pietro ha rivolto ai
credenti dispersi dalla prima persecuzione: “Se doveste soffrire per la
giustizia, beati voi! Non vi sgomenti la paura che incutono e non vi agitate;
ma santi cate anzi il Signore Dio nei vostri cuori, e siate sempre pronti a
rispondere a chiunque vi domandi spiegazione della speranza che è in voi,
con mansuetudine e timore, avendo una buona coscienza af nché,
quando vi accusano di essere dei malfattori, vengano svergognati coloro
che calunniano la vostra buona condotta in Cristo.” (1Pietro, 3:16).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Pietro sapeva bene di cosa stava parlando, perché, sotto questa stessa
pressione, lui stesso aveva negato di conoscere Gesù. Ma se ne era
sinceramente pentito, e Gesù l’aveva perdonato e reintegrato al servizio
della verità, af nché, come gli altri discepoli, e anche più degli altri,
sapesse come rispondere rendendone testimonianza. Perché ora che
possiamo rispondere agli altri dicendo loro la verità per il loro eterno bene,
diventiamo colpevoli se non lo facciamo: “… chi sa fare il bene e non lo fa,
commette peccato.” (Giacomo, 4:17).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Decima parola: non desiderare i beni del tuo prossimo

Esodo, 20:17 Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la
moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il
suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo.

Parlando del settimo comandamento, abbiamo già ricordato come Gesù


insegnasse secondo uno standard di santità più elevato di quello della
tradizione farisaica, che si concentrava sulle azioni da compiere o non
compiere, più che sul cuore con cui venivano compiute (anche se,
certamente, non mancava quelli che leggevano correttamente le
Scritture). Gesù aveva infatti insegnato: “Voi avete udito che fu detto: Non
commettere adulterio. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. ” (Matteo,
5:27-28).

Gesù non aveva alcun bisogno di mostrarsi originale o trasgressivo


rispetto all’insegnamento di Mosè (lui stesso è l'origine della Legge, come
ha avuto occasione di ricordare ai farisei : "Infatti, se credeste a Mosè,
credereste anche a me; poiché egli ha scritto di me" Giovanni, 5:46).
Spiegava piuttosto quale fosse il senso spirituale della Legge, e di tutte le
Scritture. Né la Legge, né i Profeti, o gli Scritti sapienziali avevano infatti
mai insegnato qualcosa di diverso da quello che era venuto a insegnare.
Aveva infatti dichiarato “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha
mandato” (Giovanni, 7:16).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Allo Spirito santo non è mai interessato altro se non il nostro cuore, cioè la
nostra vita interiore. E, quando sgrida il formalismo dei farisei, Gesù cita
proprio le Scritture: “Ipocriti! Ben profetizzò Isaia di voi quando disse:
Questo popoo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me.”
(Matteo, 15:7-8). Il cuore è infatti riconosciuto dalle Scritture come la
sorgente delle nostre azioni e di tutta la nostra vita. “Custodisci il tuo
cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso provengono le sorgenti della
vita.” (Proverbi, 4:23). Salomone insegna anche che se amiamo veramente
noi stessi, cerchiamo di sviluppare la nostra vita interiore: “Chi acquista
cuore (qoneh-lev ‫)קֹנֶה־ ֵלּב‬
ֽ ama se stesso” (Proverbi, 19:8a). Così, se amiamo il
nostro prossimo come noi stessi, lo consideriamo come qualcuno che
deve crescere interiormente. Ma questo è esattamente ciò che non
facciamo quando desideriamo le sue cose. Quando cioè, anziché il suo
bene, desideriamo i suoi beni.

È in questo senso che possiamo leggere quest’ultimo comandamento,


ricollegandolo così a tutti i precedenti.

Abbiamo visto che i comandamenti di questa “seconda tavola”, quella che


– come abbiamo detto – regola i rapporti con il nostro prossimo (i nostri
“pari”), trattano reati che vanno dai più rari ai più comuni, i quali però,
anche questo l’abbiamo già detto, non sono per questo i meno gravi.
Sono soltanto i peccati meno appariscenti, o, se vogliamo, i più nascosti.
Quelli che è più dif cile scovare, ma che non sfuggono certo a Dio, che,
secondo l’annuncio che l’apostolo Paolo chiama il suo vangelo, “giudicherà
i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo.” (Romani, 2:16). Nemmeno
sono i meno dannosi, ma anzi, essendo peccati più profondi, sono in realtà
quelli che portano le più disastrose e generalizzate conseguenze.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Questo decimo e ultimo comandamento riprende e riassume in modo


abbastanza evidente i precedenti comandamenti della tavola. Desiderare
le cose del prossimo anziché il prossimo stesso signi ca infatti
trasformarlo nel nostro cuore in una cosa, equivale quindi a ucciderlo,
operazione che l’invidia talvolta porta a compiere anche sicamente,
come nel prototipico caso di Caino (sesta parola). Desiderare sua moglie è
il primo passo per commettere adulterio (settima parola). Invidiargli i servi,
gli animali e le cose che possiede signi ca desiderare di rubargli i suoi beni
(ottava parola). In ne, ospitare nel cuore tutti questi desideri non è certo
la via per dirgli la verità, né su di lui o per lui, né tanto meno su di noi (nona
parola), appunto perché non ci importa tanto di lui e del nostro rapporto
con lui, ma piuttosto della sua roba.

Ora, nella Bibbia le ripetizioni non sono mai irrilevanti o sprovviste di senso,
ci invitano anzi a una più approfondita ri essione sul tema su cui insistono.
Consideriamo dunque questa decima parola più da vicino. Vediamo che ci
dice di non desiderare qualcosa. Il verbo usato per esprimere l’azione di
desiderare – chamad ‫ – ָחמַד‬signi ca “provare piacere”, e ha in sé la radice
del “calore” chet+mem, con probabile riferimento al calore generato dal
desiderio. Vediamo anche che, in realtà, l’oggetto del desiderio proibito è
costituito sia da cose che da persone. Come se l’autore del
comandamento ne volesse confondere la natura. Cosa che però non può
certo accadere agli occhi di Dio.

La mescolanza, piuttosto, è da collegarsi al fatto che cose e persone


tendono a confondersi proprio agli occhi di chi può (e non deve)
commettere il peccato, cioè noi uomini. Infatti, se la consideriamo con
maggiore attenzione, vediamo che questa parola, come la precedente, è
centrata sul nostro prossimo (quello stesso prossimo che siamo chiamati
ad amare come noi stessi), e il divieto riguarda proprio la confusione che
facciamo noi, quando non pensiamo al nostro prossimo come a qualcuno
da amare e rispettare come abbiamo bisogno di essere amati e rispettati
noi, ma lo vediamo piuttosto come un detentore di oggetti che
vorremmo fossero nostri piuttosto che suoi. Per questo anche sua moglie
e i suoi servi sono persone che vengono considerate come oggetti del
nostro desiderio, diventando così in ultima analisi delle cose. E lui stesso, il
nostro “amico”, non ci interessa più per quello che è, ma per quello che ha
e che noi potremmo prendergli.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

In realtà, se ci ri ettiamo ancora, vediamo che il materialismo che si


esprime nel desiderare le cose e le persone che appartengono al nostro
prossimo è all’origine di tutti i peccati, anche di quelli evidenziati dalle
parole della prima delle due tavole della Legge. A cominciare dal disprezzo
dei genitori quando diventano vecchi e non ci possono più dare niente
ma hanno loro bisogno di ricevere da noi aiuto e sostentamento (quinta
parola). È questo stesso materialismo a ingenerare poi la nevrosi che ci fa
considerare il riposo sabbatico come un’assurda perdita di tempo e di
denaro (quarta parola). Se pensiamo alle cose e non alle persone, non
potremo nemmeno dare la giusta importanza al Nome di Colui che è
nell’eternità, perché se è nell’eternità non può essere visto, e se ci
importano le cose che si vedono non possiamo che disprezzare e
disonorare il nome del Dio che non si vede (terza parola).

Soprattutto, essere interessati alle cose piuttosto che alle persone è l’altra
faccia dei peccati a cui si riferiscono entrambi i due primi comandamenti,
cioè: avere altri dei diversi dal SIGNORE (prima parola) e adorarli in forma di
immagini (seconda parola). Due peccati e due comandamenti
intimamente e logicamente legati, visto che il SIGNORE non può essere
rappresentato e che, quindi, colui che rappresentiamo e veneriamo deve
per forza essere un altro dio.

Ma tradire il SIGNORE per un altro dio non signi ca necessariamente


forgiarsi (o scegliere) un idolo davanti al quale inchinarsi sicamente.
Quando non cerchiamo il Dio vivente, cioè la vita eterna, stiamo
automaticamente cercando il nostro interesse terreno, cioè ci stiamo
facendo un altro dio e lo stiamo servendo come tale. E il più delle volte si
tratta, direttamente o indirettamente, di quella entità che chiamiamo io.

Non ce ne rendiamo quasi mai conto, ma di fatto scegliendo di vivere


senza Dio e piuttosto per noi stessi e per quello che meglio ci appartiene
e ci de nisce, stiamo scegliendo in ultima analisi la nostra stessa morte;
oltre a quella del nostro prossimo, con il quale prima o poi entreremo in
con itto. Gesù lo ha detto chiaramente: “Chi ama la sua vita, la perde, ma
chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna.” Giovanni,
12:25). Il nostro interesse terreno diventa infatti più o meno rapidamente il
nostro padrone, un padrone che ci impedirà di conoscere e servire il Dio
vivente e di avere con lui la vita eterna.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Per questo ci conviene odiarlo, per cercare Dio. “Nessun domestico può
servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo
per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona”.
(Luca, 16:13). Nessuno può servire Dio e il Capitale (il nome moderno di quel
dio che Gesù chiama  mammonà, da una parola aramaica che signi cava
probabilmente “mucchio”, come abbiamo già detto parlando della
seconda parola).

Nella parabola del “fattore infedele”, che Gesù racconta poco prima di
dichiarare questo aut-aut tra servire Dio e Mammona, il padrone, che
rappresenta Dio, loda la sapienza del suo domestico imbroglione: per farsi
degli amici, ha preso su di sé debiti che corrispondono a una certa
quantità di determinati beni. Ha scelto la qualità dell’amicizia dei suoi
conservi, rispetto alla quantità del bene commerciabile, che ha
considerato meno importante delle loro “dimore eterne” (Luca, 16:9).

Mentre chi accumula considera innanzitutto le quantità (per


l’accumulatore di beni anche la qualità entra in una graduatoria, perché
riceve un punteggio nel confronto con altre qualità), la conoscenza che
Dio ha di noi – e che Lui ci porta ad avere degli altri – è una conoscenza
personale, individuale, quindi indivisibile, non quanti cabile. Non come le
conoscenze che su di noi accumula il “Grande fratello”, per proporci
un’offerta sempre più “personalizzata” e convincente, e per inchiodarci alla
nostra realtà numerica di prigionieri/consumatori. Il SIGNORE nostro Dio è
un Dio personale. Il dio di questo mondo – e il materialismo che diffonde
per nascondersi meglio – si manifesta invece innanzitutto come la
massi cazione dei suoi sudditi.

Se una volta infatti prevaleva l’idolatria magica e religiosa che trasforma le


cose in persone, divinizzando gli oggetti forgiati dall’uomo, oggi – dalle
nostre parti almeno – prevale una forma secondaria e più occulta di
idolatria, che ci porta a trattare il nostro prossimo come un oggetto, e che
ci rende prevedibili come altrettanti automi.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Inoltre, sentendoci trattati come oggetti, siamo anche noi portati a


concentrarci sull’apparenza, della nostra persona, del nostro corpo e della
nostra vita. E quindi sulla possibilità di usare le cose che abbiamo (quelle
che ci siamo guadagnati, ma anche quelle di cui ci siamo impossessati più
o meno surrettiziamente) per ottenere un certo grado di favore. Lo
facciamo con gli altri, giudicandoli secondo certi standard (e
dimenticando spesso che con la misura con cui avremo misurato gli altri
saremo anche noi misurati da Dio: Matteo, 7:2; Giacomo, 2:13). E lasciamo
che gli altri lo facciano con noi, preoccupandoci a nostra volta delle altrui
misurazioni, pur sapendo che sia i nostri che i loro giudizi sono basati
sull’apparenza e che non hanno alcun valore davanti a Dio, e al suo Cristo
“che non darà sentenze stando al sentito dire.” (Isaia, 11:3).

Questa idolatria di massa si manifesta in forme diverse nella nostra vita


quotidiana: non solo quando sfruttiamo il nostro prossimo o ne siamo
sfruttati, ma anche, più letteralmente, nel nostro rapporto con le
immagini, con le quali, nell’epoca della loro in nita “riproducibilità tecnica”,
passiamo di fatto una sempre più signi cativa parte del nostro tempo.
Attraverso le immagini, che vediamo e facciamo vedere, invidiamo gli altri
e ci facciamo invidiare: le case, le donne, le macchine, i cellulari, i viaggi, il
nostro corpo e quello altrui…

Cosa che non avviene soltanto nella nostra piccola vita quotidiana, con
quella che abbastanza ipocritamente oggi si chiama condivisione, ma
anche su scala planetaria e industriale, nel cui funzionamento però siamo
più o meno tutti coinvolti, se non altro come complici spettatori.
Pensiamo al mondo dello spettacolo, agli attori del cinema o alle
personalità della politica e della cultura, alla loro vita considerevolmente
divorata dalla fatica di produrre convincenti immagini di sé (dentro e fuori
dal “set”), cioè dal fatto di essere diventate “ gure pubbliche”. E
ricordiamoci che il pubblico, i carne ci, siamo proprio noi.

Queste persone, o meglio, appunto, queste personalità non sono in realtà


importanti se non per l’immagine che danno di se stesse. Diventano,
letteralmente, delle icone, degli idoli, e niscono per passare il loro tempo
davvero al servizio della loro immagine, perché altri desiderino avere la vita
che in realtà loro stessi non hanno: un’immagine di vita. E difatti molti di
loro muoiono presto e/o miserabilmente, e non solo per l’abuso di alcool e
altre droghe che assumono per dimenticare l’assurdità della loro
esistenza.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Ma il divismo non è un fenomeno limitato al mondo governato


dall’industria dell’intrattenimento, o a quello della politica, o della cultura
di massa. Come abbiamo già visto, entra anche nella nostra vita
quotidiana, quando, più o meno consciamente, dedichiamo il nostro
tempo alla nostra immagine. E questo atteggiamento mentale ci porta a
desiderare le cose del nostro prossimo e quindi il nostro prossimo come
una cosa, uno strumento per i nostri scopi, soprattutto per i nostri show.

La Legge ci è data per la vita e la trasgressione della Legge porta alla


morte, innanzitutto quella spirituale. Come ha detto chiaramente Mosè,
mettendo in guardia il popolo di Dio dal peccare andando dietro agli idoli
delle altre nazioni. “Vedi, io metto oggi davanti a te la vita e il bene, la
morte e il male” (Deuteronomio, 30:15).

E da questi peccati non siamo immuni neanche noi cristiani evangelici,


anzi. Il divismo entra pesantemente nelle nostre chiese, persino all’interno
dello stesso culto, non solo con la musica e il canto, ma anche, per
esempio, quando raccontiamo le nostre testimonianze o innalziamo le
nostre preghiere per essere ammirati dagli altri. O quando, ancora più
colpevolmente, vogliamo essere ammirati come “servi di Dio” e non
pensiamo più alle persone che siamo stati mandati a servire, perché la
nostra attenzione è completamente presa da noi stessi e dalla bella gura
che stiamo facendo con gli uomini. Le anime degli altri fedeli diventano
un numero che dà lustro alla nostra immagine, uno strumento per la
nostra grandezza. Quando non addirittura semplicemente, come accade
nel mondo dello spettacolo, una fonte diretta di incasso monetario e di
potere.

Tutto questo accade quando, anche dentro la chiesa, cominciamo a


guardare al nostro fratello non per i bisogni che ha e a cui provvedere ma
per le cose che ha (una casa, una moglie, una macchina, dei conservi, o
anche un dono spirituale, un bel ministero, una orente e numerosa
comunità, …) e che più o meno inconsciamente tendiamo a invidiare.

Per questo, Gesù ha messo ripetutamente in guardia i suoi discepoli


contro ogni sete di possesso e di potere. “State attenti e guardatevi da
ogni avidità (pleonexìa πλεονεξία, termine che abbiamo già incontrato
parlando dell’adulterio, e leggendo che Paolo in Colossesi 3:5 lo identi ca
all’idolatria); perché non è dall’abbondanza dei beni che uno possiede, che
egli ha la sua vita.” (Luca, 12:15).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Ma per questo, soprattutto, l’insegnamento sulla preghiera che


chiamiamo il “Padre nostro” – e che stiamo collegando alla Legge data sul
Sinai al popolo di Israele – è preceduto da un lungo insegnamento
sull’ipocrisia e sul non dare spettacolo della propria devozione per essere
ammirati dagli uomini: “Quando pregate, non siate come gli ipocriti;
poiché essi amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe e agli angoli
delle piazze per essere visti dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il
premio che ne hanno. Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e,
chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre
tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa.”(Matteo, 6:5-6).

Ora, come abbiamo già detto e ripetuto in altre occasioni, il nuovo patto
che è stato sigillato dal sangue di Gesù non solo ci mostra la malattia, ma
ce ne dà anche la cura. Che non è diversa da quella data a Mosè e agli altri
profeti, ma che a quel tempo era solo per pochissimi privilegiati all’interno
di un unico popolo, altamente privilegiato tra tutte le nazioni della Terra;
oggi invece questa cura è stata data a ogni essere umano che la cerchi
con tutto il cuore, maschio o femmina, piccolo o grande che sia. E consiste
nel regno di Dio, che, come ha detto Gesù, non è un regno esteriore,
visibile, ma piuttosto segreto e interiore: “Il regno di Dio non viene in
modo da attirare gli sguardi; né si dirà: Eccolo qui, o: Eccolo là; perché,
ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi” (Luca, 17:20-21, dove il nostro in
mezzo a voi traduce il greco entòs hymōn ἐντὸς ὑμῶν, che vuole dire sia “tra
di voi” che “dentro di voi”).

All’ultima delle dieci parole scritte sulle tavole della Legge, nella versione
neo-testamentaria dell’insegnamento di Dio, corrispondono bene le
ultime parole del “Padre nostro”. Strutturata come quella che i teologi
chiamano una dossologia (“discorso sulla gloria”), questa frase non è
riportata in tutti i manoscritti (e per questo non appare in tutte le
traduzioni), ma conclude signi cativamente il modello della preghiera
insegnato da Gesù, mostrando la via d’uscita dalla nostra dif coltà:
“liberaci dal maligno, perché tuo è il regno e la potenza e la gloria in
eterno. Amèn”. (Matteo, 6:13b).

“Il regno di Dio e la sua giustizia” che Gesù consiglia di cercare prima di
ogni altra cosa (Matteo, 6:36) producono una meravigliosa luce che
soppianta le tenebre del male (1Pietro, 2:9). “Il regno di Dio consiste in
giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Romani, 14:17).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Mentre l’aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male
ha messo nell’uomo il sentimento di insoddisfazione che ha portato Caino
a invidiare e uccidere suo fratello Abele, la conoscenza dell’amore di Dio
non lascia spazio per l’invidia, perché porta felicità e soddisfazione. “Tu
m’hai messo in cuore più gioia di quella che essi provano quando il loro
grano e il loro mosto abbondano.” (Salmi, 4:7).

Paolo di se stesso ha scritto: “ho imparato ad accontentarmi dello stato in


cui mi trovo. So vivere nella povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e
per tutto ho imparato a essere saziato e ad aver fame; a essere
nell’abbondanza e nell’indigenza. Io posso ogni cosa in colui che mi
forti ca.” (Filippesi, 4:11-13). Ma questo vale per tutti noi. Tutti possiamo e
quindi dobbiamo imparare la stessa cosa, per il nostro immenso
vantaggio. La conoscenza del SIGNORE ci porta infatti a vincere sugli
effetti del frutto di quell’albero, realizzando la volontà di Dio che, per noi in
Cristo, è che diventiamo capaci di ringraziare Dio in ogni circostanza (1
Tessalonicesi, 5:18). “La pietà, con animo contento del proprio stato, è un
grande guadagno.” (1 Timoteo, 6:6).

L’avere spostato la nostra attenzione dalle cose materiali al rapporto


spirituale con il SIGNORE (YHWH, Colui che le fa il cielo e la terra, che
forma la luce e crea le tenebre e anche tutti problemi) ci mette nella
posizione giusta di fronte alla vita, che possiamo considerare non più solo
per spremerla, accumulando beni per goderceli in un tempo di riposo che
non arriverà (Luca, 12:13-20), ma per imparare la mansuetudine e l’umiltà di
cuore del vero e unico Re, che Dio ci ha dato come esempio.

“Ora sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano
Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.” (Romani, 8:28).
Sappiamo: questa è la conoscenza che ci aiuta a non invidiare. Perché
l’amore del SIGNORE che produce l’amore per il SIGNORE ci dà la vera
conoscenza (1 Corinzi, 8:3). In questa conoscenza sappiamo per esperienza
che la volontà di Dio è perfetta per noi (Romani, 12:2). Cioè che quello che
abbiamo ricevuto è esattamente quello che possiamo portare, il nostro
incarico e la nostra responsabilità.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La volontà di Dio è perfetta per ciascuno e questa differenziata perfezione


determina la varietà che è necessaria alla vita. La varietà delle membra del
corpo di cui Paolo scrive poco più avanti (Romani, 12:4-12), ma oggi
avrebbe potuto trovare esempi ancora più eloquenti considerando la
varietà dei tessuti e delle cellule nei tessuti, che possiamo ammirare
ingranditi e colorati al microscopio, o le varietà delle specie in un
ecosistema, o degli ecosistemi all’interno di un bioma…

La bellezza e la diversità della natura è ripresa dalla bellezza e dalla varietà


spirituale interna a Israele, e oggi da quella ancora più grande del popolo
dei credenti di tutte le razze e di tutte le culture. Dio ci conosce tutti
personalmente. Per ciacuno di noi ha un progetto diverso, che è perfetto
per lui, ed è anche pensato per benedire gli altri attraverso di lui.

Il ringraziamento che suscita la conoscenza della perfetta volontà di Dio in


coloro che sono in Cristo – come abbiamo già visto anche meditando
sull’ottava parola – è l’unico vero antidoto al veleno contenuto nel frutto
dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ne abbiamo già parlato,
e ne parleremo ancora nel prossimo e ultimo capitolo, considerando il
perdono di Dio, e il frutto dell’albero della vita, che i cherubini hanno
vietato all’uomo e alla donna dopo il loro peccato, e di cui potremo cibarci
di nuovo nella Gerusalemme celeste, essendo nalmente e
completamente ritornati a vivere sempre nell’eterno amore di Dio.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Epilogo: una parola per noi

Esodo, 20:18-19 Ora tutto il popolo udiva i tuoni, il suono della tromba e
vedeva i lampi e il monte fumante. A tal vista, tremava e stava lontano. E
disse a Mosè: Parla tu con noi e noi ti ascolteremo; ma non ci parli Dio,
altrimenti moriremo.

Come un sol uomo, all’udire il suono dei tuoni che si univa a quello dello
shofar, e alla vista dei lampi e del fumo in vetta al monte, il popolo di
Israele trema (la radice verbale nun+vav+ayin, che ha il senso primario di
“oscillare”, ci fa capire che si trattava di qualcosa di più di un intimo
tremore: piuttosto di uno sgomento, se non di un vero e proprio
scompiglio). È ben felice quindi di delegare a Mosè il compito di interagire
con il SIGNORE, per tenersi alla larga dalla presenza di Dio. Nel racconto
dello stesso episodio che troviamo in Deuteronomio, l’ultimo libro della
Torah, è scritto che il popolo ha esclamato: “abbiamo visto che Dio ha
parlato con l’uomo e l’uomo è rimasto vivo. Ma ora perché dovremmo
morire? Questo gran fuoco ci consumerà!” (Deuteronomio, 29:24-25).

Poco più avanti, Mosè aggiunge che il SIGNORE ha commentato


positivamente questa reazione del popolo, dicendo: “Io ho udito le parole
che questo popolo ti ha rivolto; tutto quello che hanno detto sta bene. Oh,
avessero sempre un simile cuore da temermi e da osservare tutti i miei
comandamenti, af nché venga del bene a loro e ai loro gli per sempre!”
(Deuteronomio, 29:28-29).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Per volontà del popolo e anche di Dio, Mosè con Aaronne e la sua famiglia
diventano quindi gli intermediari uf ciali del rapporto (cioè del patto) tra il
SIGNORE e Israele. L’autore della Lettera agli Ebrei ci parla di quest’incarico
di mediatore tra Dio e il popolo come del “punto essenziale” di tutto il suo
discorso (Ebrei, 8:1). E ci ricorda che, nel primo patto, l’Antico Testamento, il
sommo sacerdote, che continuava il servizio di mediazione inaugurato da
Mosè e da suo fratello Aaronne, era colui che il “giorno dell’espiazione”
(Yom Kippur, della quale festa solenne abbiamo già parlato considerando il
comandamento di osservare il sabato) entrava nel luogo santissimo per
coprire con il sangue di capri e di torelli “i peccati suoi e del popolo” (Ebrei,
9:7; curiosamente, la radice del verbo coprire si è conservata identica a
quella del verbo ebraico chaf+pe+resh da cui deriva il nome della festa).

L’idea che non si possa vedere Dio e rimanere in vita è ripresa


insistentemente nei libri dell’Antico Testamento, e il timore che deve
incuterci la conoscenza del Dio vivente non è attenuato dalle parole che
Gesù ci è venuto a dire da parte del Padre, né da quelle degli apostoli.

Paolo ha detto che Dio giudicherà tutti gli uomini per mezzo di Cristo, e
l’Apocalisse ci parla di terribili agelli che stanno per colpire l’umanità
ribelle e di un lago di fuoco pronto per il diavolo e tutti coloro che non
avranno ricevuto la salvezza di Dio. L’anonimo autore della Lettera agli
Ebrei ci ricorda infatti che “il nostro Dio è anche un fuoco consumante”
(Ebrei, 12:29). Gesù stesso aveva detto apertamente “Io vi mostrerò chi
dovete temere. Temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare
nella gheenna. Sì, vi dico, temete lui.” (Luca, 12:5).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Il timore di Dio ci deve essere mostrato da Gesù e rammentato dai suoi


discepoli perché, per nostra natura, temiamo solo ciò che vediamo. Ma il
timore di Dio è di vitale importanza per la nostra vita, per la vita presente
oltre che per la futura. Già qui in terra infatti il timore di Dio è il principio
della sapienza (Proverbi, 9:10), un bene più prezioso dell’oro (e che occorre
cercare a costo di tutti gli altri sforzi, come Salomone scrive della sapienza
in Proverbi, 4:7), e anche estremamente raro: il proponimento di non
temere più l’uomo e il suo giudizio basato sull’apparenza, ma di sforzarci
invece di “camminare nella verità”, per usare un’espressione cara
all’apostolo Giovanni.

Anche noi cristiani evangelici, dopo un primo momento di zelo, tendiamo


a lasciare che questo bene scarseggi nella nostra vita (come l’olio delle
cinque vergini stolte della parabola in Matteo, 25:1-13). Di fatto, ci rendiamo
per lo più ben poco conto di chi sia Colui che Giacobbe ha chiamato “il
Terrore di Isacco” (Genesi, 31:42 e 53), e spesso fantastichiamo di una nuova
“dispensazione” in cui saremmo entrati in Cristo, con nuove regole e
speciali condoni. Ma se ascoltiamo con maggiore attenzione la parola di
Dio, ci accorgiamo che l’evidente diminuzione del timore di Dio nella
nostra società è solo l’inizio del castigo a venire…

Certamente, con il nuovo patto annunciato dal profeta Geremia e


compiuto da Gesù sulla croce, possiamo tutti contare su di un
“misericordioso sommo sacerdote” (Ebrei, 2:17) grazie al cui sacri cio ci è
oggi possibile avvicinarci a Dio senza morire. Ma la bontà del SIGNORE non
ce lo deve fare immaginare come un Dio pentito e buonista. Per metterci
in guardia contro le tentazioni, Gesù non esita a citare la terribile visione
con cui si conclude il libro di Isaia: lo spettacolo dei cadaveri degli uomini
che si son ribellati al SIGNORE, il cui verme non morrà e il cui fuoco non si
estinguerà (Marco, 9:46 e 48).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Non dobbiamo dimenticare che è appunto grazie al perdono delle nostre


iniquità e dei nostri peccati (Geremia, 31:34) che, in questo nuovo patto,
tutti noi credenti (e non solo i gli di Aaronne, com’era nel primo patto)
possiamo entrare nella presenza di Dio, perché questo perdono è costato
il sangue di Gesù, necessario per coprire i nostri peccati e la nostra
ingiustizia (sia quella evidente per tutti, sia quella evidente agli occhi della
verità, che consiste nelle opere di una giustizia apparente e impura, come
ha scritto il profeta parlando della “nostra giustizia” come di un “panno
mestruale”: Isaia, 64:6). Perché era questa nostra fondamentale ingiustizia
ciò che aveva creato una barriera tra noi e il SIGNORE, come ha scritto il
profeta Isaia: “… le vostre iniquità vi hanno separato dal vostro Dio; i vostri
peccati gli hanno fatto nascondere la faccia da voi, per non darvi più
ascolto.” (Isaia, 59:2). Una barriera in entrambe le direzioni: il peccato
allontana Dio da noi, ma allontana anche noi da Dio. Infatti, “chi commette
il peccato diventa schiavo del peccato” (Giovanni, 8:34) e diventa perciò
anche insensibile alla realtà di Dio, perché non si possono servire due
padroni (Luca, 16:13).

In effetti, la realtà di Dio non può cambiare, e anche oggi, come prima di
Cristo, l’avvicinamento a Dio non può essere senza conseguenze per la
nostra vita. Nessuno può entrare in contatto con Dio e rimanere lo stesso.
A meno che non si decida di ignorarlo, come fa la maggioranza delle
persone, aiutata in questo anche dalle diverse forme della religiosità
“cristiana”. Ma se lo vogliamo ascoltare e imparare da lui, dobbiamo essere
pronti a un cambiamento radicale. Gesù infatti l’ha detto chiaramente:
“chi non rinuncia a (ouk apostàssetai οὐκ ἀποτάσσεται, lett. “non mette via in
ordine per partire”, cioè “non saluta”) tutto quello che ha, non può essere
mio discepolo” (Luca, 14:34). Per seguire Gesù dobbiamo lasciare la nostra
vecchia vita e cominciarne una nuova, con una nuova destinazione e dei
nuovi interessi.

Come spiega l’apostolo Paolo, quando crediamo a Cristo, anche se siamo


ancora vivi e la nostra vita è anzi più felice e abbondante di prima,
dobbiamo riconoscerci morti: “infatti l’amore di Cristo ci costringe, perché
siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti
morirono; e che egli morì per tutti, af nché quelli che vivono non vivano
più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro.” (2 Corinzi,
5:14-15).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Così, in questa nuova vita non si entra per caso o per sbaglio, ma occorre
anzi un considerevole sforzo cosciente, sia per entrarci sia per non uscirne.
Non si diventa cristiani solo perché si nasce in una nazione o in una
famiglia cristiana, e non si resta cristiani senza che ci costi fatica. Gesù ha
infatti esclamato: “quanto stretta è la porta e angusta la via che porta alla
vita!” (Matteo, 7:14).

Anche se, con gli editti di Costantino (313) e di Teodosio (380), il


cristianesimo è diventato la religione dell’Impero romano, i requisiti per
entrare nel regno di Dio non sono cambiati. La massi cazione della fede
ha certamente portato a importanti riformulazioni sulla natura della vita
eterna nell’immaginario collettivo, così come le istituzioni religiose sono
venute formandolo nei secoli: il paradiso è diventato un luogo per
pochissimi eletti, mentre l’accesso a questa ambitissima meta (così
lontana da non poter condizionare la vita delle persone normali) è
presentato come possibile, forse, solo grazie all’intervento favorevole di
questi santi (creature straordinarie e comunque morte) e alle loro
intercessioni, garantite da una struttura capace di preservare la memoria
e la nostra devozione a queste irraggiungibili rarità. Ma tutte queste idee
sono completamente diverse dalla verità presentata dal Vangelo:
l’apostolo Paolo, per fare solo un esempio, raccomanda infatti al giovane
Timoteo di essere molto chiaro nell’insegnare che “c’è un solo Dio e anche
un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, che ha dato se
stesso come prezzo di riscatto per tutti.” (1 Timoteo, 2:5-6).

Eppure, per no nelle chiese evangeliche che sono sorte dopo la Riforma e
che sono tutte dottrinalmente basate sul ri uto dell’idolatria e del culto ai
santi (e ai morti), rimane sempre presente la tendenza a ritenersi salvati
solo in virtù della salvezza e della guida di altri, come se l’essere salvati
dipendesse da qualcos’altro oltre che dalla fede nel sacri cio di Cristo.

La Parola nelle Dieci parole


105
La Parola nelle Dieci parole

Tendiamo sempre ad appoggiarci agli uomini e a guardare agli uomini, per


imparare da ciò che vediamo. Cosa assolutamente normale, come è
normale che i bambini seguano l’esempio dei loro genitori. Per questo “la
Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi” (Giovanni,
1:14). E anche gli apostoli e tutti i servi di Dio sono stati chiamati a dare
innanzitutto l’esempio, seguendo i comandamenti di Dio nella loro vita.
Sono infatti diventati molto conosciuti tra i credenti della loro epoca e
alcuni di loro li conosciamo abbastanza bene ancora oggi. Lo stesso è
accaduto a tutti gli uomini che Dio ha chiamato al suo servizio anche nelle
epoche ssuccessive a quella dei primi apostoli. Il Signore Gesù ha però
messo in guardia dall’appro ttare di questa necessaria visibilità, e
soprattutto dal ricercarla, dicendo ai suoi discepoli: “Ma voi non vi fate
chiamare Rabbì; perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti
fratelli.” (Matteo, 23:8).

Il punto è che, anche se il SIGNORE ha apprezzato il timore che il popolo


ha manifestato davanti alla sua apparizione, non ha per noi un progetto
migliore di quello di farsi conoscere direttamente da ciascuno, e desidera
ugualmente per tutti che lo cerchiamo personalmente con tutto il nostro
cuore (perché solo così lo possiamo trovare, come è scritto in Geremia,
29:13). La legge è stata pronunciata con parole umane perché fosse
comprensibile a tutti, e tanto più è diventata comprensibile e chiara dopo
che la parola di Dio si è fatta carne appunto perché potessimo capire
quanto bene ci conosce e ci capisce il SIGNORE. Alla ne dei libri di Mosè è
infatti scritto: “Questo comandamento che oggi ti do, non è troppo
dif cile per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi
salirà per noi nel cielo e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo
in pratica? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi passerà per noi di là dal
mare e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?
Invece, questa parola è molto vicina a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore,
perché tu la metta in pratica” (Deuteronomio, 30:11-14; passo ripreso da
Paolo come esempio di “parola della fede” in Romani, 10:6-10).

La Parola nelle Dieci parole


106
La Parola nelle Dieci parole

Eppure l’impressione che ci fa la parola di Dio è che i suoi standard siano


troppo alti per noi. Ed è infatti proprio così. Per questo, tendiamo sempre a
mandare avanti qualcun altro. Non l’hanno fatto solo gli Israeliti sul Sinai,
ma lo facciamo anche noi cristiani di oggi (agli incontri di preghiera, alle
veglie e ai digiuni…), e anche dove uf cialmente non c’è distinzione tra il
clero e i credenti laici, ci sono sempre quelli a cui viene delegato il servizio
e quelli (la stragrande maggioranza) che preferiscono mantenersi nella
loro zona di comodo. Perché la perfezione a cui ci chiama il SIGNORE (“Voi
dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste.” Matteo,
5:48) richiede una fatica che non sempre si ha voglia di fare (e, se si decide
di farla, non sempre è per dei motivi veramente buoni; di modo che,
quando decidiamo di impegnarci, rischiamo anche di nire messi peggio
di prima e totalmente fuori strada), perché di ogni nostra azione
cerchiamo sempre un ritorno immediato (in proporzione alla nostra
pigrizia e poca fede).

Gesù ha parlato esplicitamente dei dieci comandamenti una volta che un


giovane ricco gli si è rivolto chiedendogli cosa dovesse fare di buono per
ottenere la salvezza. Gli ha risposto: “Perché m’interroghi intorno a ciò che
è buono? Uno solo è il buono. Ma se vuoi entrare nella vita, osserva i
comandamenti. Quali? gli chiese. E Gesù rispose: Questi: Non uccidere,
non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso. Onora
tuo padre e tua madre, e ama il tuo prossimo come te stesso. E il giovane
a lui: Tutte queste cose le ho osservate; che mi manca ancora? Gesù gli
disse: Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai
un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi. Ma il giovane, udita questa parola,
se ne andò rattristato, perché aveva molti beni. E Gesù disse ai suoi
discepoli: Io vi dico in verità che dif cilmente un ricco entrerà nel regno
dei cieli. E ripeto: è più facile per un cammello passare attraverso la cruna
di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio. I suoi discepoli, udito
questo, furono sbigottiti e dicevano: Chi dunque può essere salvato? Gesù
ssò lo sguardo su di loro e disse: Agli uomini questo è impossibile; ma a
Dio ogni cosa è possibile.” (Matteo, 19:17-26).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Per rispondere alla richiesta di perfezione che ci viene da Dio abbiamo


bisogno di una vigorosa spinta dall’alto. Per questo, il SIGNORE ha
promesso che avrebbe mandato il suo Spirito su “ogni persona” (Gioele,
2:28; citato da Pietro – secondo il racconto di Atti 2:17 – il giorno della prima
Pentecoste dopo la resurrezione di Cristo, quando questa promessa ha
cominciato ad adempiersi). Altrove, la parola ci parla di uno “spirito di
supplica”. Lo spirito della verità, che ci fa comprendere che non abbiamo
altra possibilità di salvezza se non quella di supplicare la grazia di Dio:
“Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo Spirito di
grazia e di supplica; essi guarderanno a me, a colui che essi hanno tra tto,
e ne faranno cordoglio come si fa cordoglio per un glio unico, e lo
piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito.”
(Zaccaria, 12:10).

Per imparare la perfezione di Dio in Cristo Gesù, dobbiamo rinunciare ad


accontentarci della nostra imperfezione spirituale, dobbiamo smettere
cioè di scendere a compromessi con il nostro egoistico interesse, che ci
porta a faticare innanzitutto per la nostra immagine e per il credito che
abbiamo presso gli uomini. Un’ardua impresa che, come abbiamo già
detto e ripetuto, Dio non si aspetta che possiamo compiere senza il suo
aiuto. Ma, da parte nostra, dobbiamo mettercela tutta (2Pietro, 1:5).

Tra i nostri “possedimenti”, le cose a cui è più dif cile rinunciare sono i
meriti e i diritti che riteniamo di esserci guadagnati con le nostre fatiche, o
comunque con la nostra onestà. Ci costa moltissimo ammettere un torto,
ma ancora di più ci costa rinunciare ad avere ragione. Il libro di Giobbe è
una profonda illustrazione di questo aspetto della natura umana, e ci
mostra anche come Dio, invitandoci a rinunciare alla nostra “giustizia”, non
ci vuole affatto defraudare di ciò che ci spetta, ma piuttosto portarci a un
livello più alto di intimità con il suo cuore e la sua giustizia.

Vediamo così che ai pensieri e alle meditazioni che stiamo seguendo a


commento delle poche parole scritte immediatamente dopo
l’enunciazione dei dieci comandamenti si collega abbastanza
intimamente la breve conclusione dell’insegnamento sulla preghiera che
Gesù ha fatto ritornando unicamente sul punto del perdono,
sottolineandone così l’importanza centrale: “Perché se voi perdonate agli
uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se
voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le
vostre colpe.” (Matteo, 6: 14-15).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

C’è una parabola che illustra questo principio (e fa simmetricamente il


paio con la parabola del cosiddetto “fattore infedele” di Luca 16:1-8, della
quale abbiamo già parlato più volte). Gesù la racconta quando Pietro gli
chiede se dovrà perdonare suo fratello no a sette volte. Dopo avergli
risposto che dovrà perdonarlo non solo sette, ma no a settanta volte
sette, la aggiunge a commento e illustrazione: “Perciò il regno dei cieli è
simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Avendo cominciato a
fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E
poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che
fosse venduto lui con la moglie e i gli e tutto quanto aveva, e che il
debito fosse pagato. Perciò il servo, gettatosi a terra, gli si prostrò davanti,
dicendo: Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto. Il signore di quel servo,
mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ma quel
servo, uscito, trovò uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari; e,
afferratolo, lo strangolava, dicendo: Paga quello che devi! Perciò il
conservo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: Abbi pazienza con me, e ti
pagherò. Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, nché
avesse pagato il debito. I suoi conservi, veduto il fatto, ne furono molto
rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto. Allora il suo
signore lo chiamò a sé e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto
quel debito, perché tu me ne supplicasti; non dovevi anche tu aver pietà
del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te? E il suo signore, adirato, lo
diede in mano degli aguzzini no a quando non avesse pagato tutto
quello che gli doveva. Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di
voi non perdona di cuore al proprio fratello.” (Matteo, 18:35)

Perdonare di cuore non è affatto facile, e tanto meno facile doveva esserlo
in un paese occupato dall’esercito romano, sotto la cui pressione non tutti
riuscivano a mantenersi integri, anzi molto pochi. Ma Gesù ha ordinato di
dare il nostro perdono a tutti quelli che ce lo chiedono. Lo ha ordinato ai
suoi discepoli di allora e anche di oggi, cioè a noi. “Se tuo fratello pecca,
riprendilo; e se si ravvede, perdonalo. Se ha peccato contro di te sette
volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: Mi pento, perdonalo.
Allora gli apostoli dissero al Signore: Aumentaci la fede!” (Luca, 17:3-5). Lo
stesso dobbiamo dire anche noi: chi non ha qualche risentimento,
qualcosa (o qualcuno) che non riesce a perdonare anche e soprattutto a (o
tra) coloro che gli sono più vicini?

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La fede non è una virtù astratta. È un rapporto di ducia, che nel caso di
un superiore si esprime con l’obbedienza. La fede in Dio deriva
dall’obbedienza e si esprime con l’obbedienza verso la sua parola. In
Romani 10:17, Paolo scrive che la fede viene dall’ascolto: il testo dice ex
akoès (ἐξ ἀκοῆς), con una parola che ha la stessa radice di hypakoè (ὑπακοή),
che signi ca appunto “obbedienza”. Perché ascolta davvero chi ascolta
per mettere in pratica quello che ascolta. Ed è solo ascoltando la parola di
Dio e mettendola in pratica nella nostra vita che possiamo renderci conto
della sua verità.

Per questo la legge è stata data sì perché la mettessimo in pratica, ma


anche per mostrarci che da soli non riuscivamo ad adempierla ("mediante
la legge è data la conoscenza del peccato" Romani, 3:20b). Di fatto, la
legge è stata compiuta veramente solo da Gesù, perché, per essere
veramente compiuta, richiede la perfetta giustizia di Dio.
Ascoltando quella che Paolo chiama “la legge del peccato” - cioè la legge
espressa nel primo patto, che aveva come scopo, come abbiamo appena
visto, di farci conoscere il nostro peccato (ricordiamo che vomos, il termine
greco per "legge", traduce l'ebraico torah, che signi ca innanzitutto
"insegnamento"),  possiamo fare il nostro esame di coscienza e trovarci in
molti punti inadempienti; ma, anche se non trovassimo nessuna cosa di
cui vergognarci, questo esame non ci porterebbe comunque a essere
giusti agli occhi di Dio, perché anche se troviamo scuse che ci sembrano
suf cienti per bilanciare le accuse della nostra coscienza, sappiamo di non
essere stati con Dio e di non aver partecipato se non in minima parte alla
sua sofferenza per l’umanità. Sappiamo di essere stati e di continuare a
essere innanzitutto egoisti.
Per questo, Giacomo nella sua lettera (1:23) dice che ascoltare la legge
senza riuscire a metterla in pratica è come guardarsi allo specchio: ci
rendiamo conto delle nostre mancanze ma rimaniamo comunque da soli,
perché quello che vediamo non è realmente uno che ci possa aiutare.
L’immagine allo specchio ci dà coscienza di quello che siamo, ma non può
guidarci a un vero cambiamento.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Invece, “chi guarda attentamente nella legge perfetta, cioè nella legge
della libertà, e in essa persevera, non sarà un ascoltatore smemorato ma
uno che la mette in pratica; egli sarà felice nel suo operare.” (Giacomo, 1:25).
Come abbiamo già ricordato (sempre parlando dell’ottava parola), la legge
perfetta è la legge compiuta da Gesù Cristo sulla croce, la legge della
libertà che ci fa operare nella giustizia, se e quando ci diamo di Dio e
stabiliamo con lui un rapporto personale attraverso l’unico mediatore che
è Cristo Gesù, la parola stessa di Dio (Apocalisse, 19:13). Difatti Paolo
esclama: “la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla
legge del peccato e della morte” (Romani, 8:2).

La parola di Dio ci rivela così l’importanza della preghiera, spiegandoci che


da soli non possiamo “fare niente” (Giovanni, 15:5), ma assicurandoci anche
che chiedendo al Padre nel nome di Gesù ogni cosa diventa possibile
(Giovanni, 16). Questa è la “gloriosa libertà dei gli di Dio” (Romani, 8:21).

Pregare nel nome di Gesù signi ca pregare secondo il suo insegnamento,


non ipocritamente o super cialmente, ma con fede e sincerità,
riconoscendo la grazia che ci è stata fatta e vivendo di conseguenza.
Come raccomanda anche Paolo: “Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio,
santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di
mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a
vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha
perdonati, così fate anche voi.” (Colossesi, 3:12-13).

Gesù ha raccomandato di fare attenzione a come si ascolta (Luca, 8:18) e


ha paragonato chi ascolta senza ubbidire a un uomo che costruisce la sua
casa sulla sabbia (Matteo, 7:26). Così, alla richiesta degli apostoli di fare
crescere la loro fede per riuscire a perdonare (e poter essere quindi
perdonati a loro volta), Gesù ha risposto con un’altra similitudine che ci
parla di umiltà e obbedienza: “Ora, chi è colui tra di voi, il quale, avendo un
servo che ari, o che pasturi il bestiame, quando, tornando dai campi, entra
in casa, subito gli dica: Passa qua, mettiti a tavola? Anzi, non gli dice egli:
Preparami la cena, e cingiti, e servimi, nché io abbia mangiato e bevuto,
poi mangerai e berrai tu? Tiene egli in grazia da quel servo, ch’egli ha fatte
le cose che gli erano state comandate? Non penso proprio. Così ancora
voi, quando avrete fatte tutte le cose che vi son comandate, dite: Noi
siamo servi inutili; poiché abbiamo fatto ciò ch’eravamo in obbligo di fare.”
(Luca, 17:7-10).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La fede che ci serve per perdonare ed essere perdonati ci può venire solo
da Dio. A chi altro possiamo rivolgerci per ottenerla? Ma come facciamo a
cercarlo se non abbiamo fede in lui? Per perdonare abbiamo bisogno di
essere perdonati, ma più abbiamo bisogno di perdono, meno lo
riconosciamo. Nella nostra mente e nella nostra vita si formano così dei
circoli viziosi, delle spirali – o, meglio, dei gorghi – da cui è molto dif cile
liberarsi.

Un’episodio della vita di Gesù mette particolarmente in luce questa


molteplicità di aspetti della nostra vita spirituale. “Uno dei farisei lo invitò a
pranzo; ed egli, entrato in casa del fariseo, si mise a tavola. Ed ecco, una
donna che era in quella città, una peccatrice, saputo che egli era a tavola
in casa del fariseo, portò un vaso di alabastro pieno di olio profumato; e,
stando ai piedi di lui, di dietro, piangendo, cominciò a rigargli di lacrime i
piedi; e li asciugava con i suoi capelli; e gli baciava e ribaciava i piedi e li
ungeva con l’olio. Il fariseo che lo aveva invitato, veduto ciò, disse fra sé:
Costui, se fosse profeta, saprebbe che donna è questa che lo tocca;
perché è una peccatrice. E Gesù, rispondendo gli disse: Simone, ho
qualcosa da dirti. Ed egli: Maestro, di’ pure. Un creditore aveva due
debitori; l’uno gli doveva cinquecento denari e l’altro cinquanta. E poiché
non avevano di che pagare condonò il debito a tutti e due. Chi di loro
dunque lo amerà di più? Simone rispose: Ritengo sia colui al quale ha
condonato di più. Gesù gli disse: Hai giudicato rettamente. E, voltatosi
verso la donna, disse a Simone: Vedi questa donna? Io sono entrato in casa
tua, e tu non mi hai dato dell’acqua per i piedi; ma lei mi ha rigato i piedi di
lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; ma
lei, da quando sono entrato, non ha smesso di baciarmi i piedi. Tu non mi
hai versato l’olio sul capo; ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Perciò,
io ti dico: i suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato;
ma colui a cui poco è perdonato, poco ama. Poi disse alla donna: I tuoi
peccati sono perdonati.” (Luca, 17:36-48).

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

La realtà spirituale, come e anche più di quella naturale, è una realtà


dinamica e complessa: “piove sempre sul bagnato”, e nel deserto piove
molto raramente. Le cose non stanno mai ferme, perché quelle che noi
vediamo come posizioni sono in realtà delle vie. “A chi ha sarà dato, a chi
non ha sarà tolto anche quello che ha”, o “che crede di avere” (Matteo,
25:29; Luca, 8:18). Il fariseo che si riteneva più giusto della donna peccatrice
(e anche di Gesù) era sulla via che porta a un progressivo indurimento,
perché, non ritenendo di aver avuto una grande grazia, amava poco il suo
Dio e per questo non riceveva un vero perdono, cioè un vero ripristino del
suo rapporto con il SIGNORE: anche se aveva invitato Gesù a casa sua, non
si avvicinava davvero a Dio ma anzi si allontanava dalla presenza del
SIGNORE. Mentre quella donna che sapeva di averne avuto un grande
bisogno riceveva quel perdono con gioia e gratitudine, e più lo riceveva,
più si avvicinava a Dio, aumentando così la sue fede, la sua speranza e il
suo amore, per esserne sempre più piena. Ma Gesù parla a entrambi i
cuori, sia a quello della donna che aveva capito la grazia di Dio, sia a quello
del fariseo che ancora non aveva capito, perché anche quest’ultimo
potesse avere l’opportunità di ravvedersi.

La nostra salvezza sta nel credere all’amore di Dio e nell’ascoltare la sua


parola che ci invita a rimanere in lui (1 Giovanni, 4:16), in modo da essere
corretti (“potati”), e portare così un abbondante frutto di amore e di gioia
anche per gli altri (Giovanni, 15:1-5). Paolo ricorda che ciò che ci porta al
ravvedimento è la bontà di Dio (Romani, 2:4). Ma, di nuovo, anche noi
dobbiamo fare la nostra parte, appunto credendo a questa bontà e non
dimenticando che viviamo grazie al sacri co di Cristo. E imparando quindi
a ringraziare Dio per ogni cosa, non dimenticando di compiere cioè quello
che abbiamo visto che la Bibbia chiama “il sacri co della lode (o del
ringraziamento)”.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Ne abbiamo già più volte parlato (l’ultima delle quali meditando sull’ottava
parola), come della “chiave di Davide” per raggiungere il cuore di Dio.
Quando si ringrazia, infatti, non si ringrazia una cosa, ma qualcuno che si
riconosce come la sorgente del bene per cui lo si ringrazia e si esprime la
certezza che quel bene fosse rivolto proprio a noi. Il ringraziamento è la
base del rapporto personale. Per questo, nel ringraziamento occorre un
nome e una storia, e questa storia, per noi uomini verso il Dio di Abraamo,
di Isacco e di Giacobbe, è quella che culmina con la morte di Gesù sulla
croce, grazie alla quale “offriamo continuamente a Dio un sacri cio di lode:
cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome.” (Ebrei, 13:15).

Riconoscere l’opera di Dio in tutte le nostre vie (Proverbi, 3:6) è il modo per
ringraziarlo e per perdonare a nostra volta ogni strumento che Dio ha
voluto usare per farsi conoscere nella nostra vita, anche causandoci quello
che ai nostri occhi non poteva apparire che come un male. Abbiamo già
visto questo principio manifestarsi nel momento clou della vita di
Giuseppe (a cui abbiamo già alluso a proposito del quarto comandamento
e di cui abbiamo parlato ancora più approfonditamente meditando sul
perdono, a proposito del sesto), quando cioè Giuseppe spiega ai suoi
fratelli che il terribile male che loro avevano pensato di fargli era stato
trasformato da Dio in una immensa benedizione, perché essendo
diventato l’amministratore di tutti i beni in Egitto Giuseppe aveva ora il
potere di ospitare tutta la su famiglia estesa e di farli sopravvivere alla
carestia. Secoli dopo, quella benedizione si sarebbe però di nuovo
trasformata in una maledizione, perché il popolo di Israele da gradito
ospite nel frattempo si era trasformato in un popolo di schiavi (Esodo, 1:8-
14). Ma anche quella terribile situazione sarebbe stata l’occasione per Dio
di rivelare al suo popolo il suo Nome, così che potessero amarlo come il
loro personale salvatore (Esodo, 20:2; Deuteronomio, 6:4-5). Guardando
fedelmente alla fedeltà di Dio, le situazioni cambiano e possiamo dover
attraversare molte tribolazioni, ma possiamo anche sapere che il SIGNORE
ci libera da tutte (Salmi, 34:17-19). Possiamo cercare innanzitutto il regno di
Dio e la sua giustizia e avere da Dio in aggiunta anche tutte le cose che
non abbiamo chiesto (Matteo, 6:33), come era già successo a Salomone,
che però poi a un certo punto ha distolto lo sguardo dal SIGNORE.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Viceversa, se non amiamo Dio e sospettiamo che Dio non ci ami non
possiamo ringraziarlo per tutto quello che ci capita. Lo facciamo a stento
per le cose evidentemente buone; attribuendole, quando ci capitano,
piuttosto alla nostra bravura, educazione, naturale bontà, o al caso, o
all’opera magica o politica di qualche creatura, visibile o invisibile. Ma
certamente, se non abbiamo un vero rapporto di ducia, non riusciamo a
ringraziare Dio per le cose che ci sembrano cattive e che ci spaventano a
morte, e che ci fanno perdere quel minimo di fede in Dio che ci è rimasto.
E attraverso la nostra paura della morte ( sica o civile) il diavolo può
regnare incontrastato sulle nostre anime (Ebrei, 2:15).

Così non sia, perché tutta la parola di Dio si è realizzata nella storia ed è
stata scritta e insegnata nei secoli proprio per darci modo di reagire alle
circostanze non solo con le nostre forze o con la forza dei nostri alleati o
aiutanti, ma con la forza e il coraggio che vengono dalla fede in Dio, al
quale possiamo rivolgerci in preghiera. Per insegnarci cioè a stabilire un
rapporto intimo, sincero e profondo con il SIGNORE (questo il senso del
primo e del secondo patto: “patti chiari, amicizia lunga” dice anche il
proverbio). Il rapporto aperto per tutti da Cristo Gesù, che ha potuto
insegnare ai suoi discepoli a chiamare “Padre nostro” il Re di tutto
l’Universo.

Per pregare, non dobbiamo essere già degni di parlare con Dio, basta
essere umili e sinceri (“ecco su chi io poserò il mio sguardo: su chi è umile,
ha il cuore af itto e trema alla mia parola” Isaia, 66:2). La preghiera è un
dialogo che certamente richiede da parte nostra un passo di fede. Ma
all’inizio un solo passo è suf ciente. E in questo passo possiamo anche
chiedere che il Signore venga in aiuto alla nostra incredulità (Marco, 9:24).
La fede può essere anche minima sul nascere, perché se ne abbiamo
anche pochissima può svilupparsi e diventare sempre più forte man
mano che viene a essere esercitata e confermata dall’esperienza delle
risposte di Dio. Come un piccolo seme che può crescere e diventare
anche un grande albero (Matteo, 13:31 e 17:20).

Quando invece si interrompe il rapporto con il SIGNORE, perché si sceglie


di con dare in un idolo, cioè in un dio più accomodante e meno
invadente (ma anche morto), il cielo diventa di rame e la terra di ferro,
secondo la profezia di Mosè (Deuteronomio, 28:23). L’ambiente che ci
circonda non è più vivo, e le nostre preghiere rimbalzano su una realtà
ancora più dura del nostro cuore.

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Ma c’è ancora speranza, per tutti quelli che la vogliono trovare. Come ne è
rimasta per il popolo di Israele anche dopo tutte le trasgressioni che sono
raccontate nei libri dello stesso Antico Testamento, così anche per tutti gli
uomini di tutte le nazioni a cui la Bibbia è arrivata grazie al sacri cio di
Cristo e alle esortazioni contenute nel Nuovo. Infatti, mentre la devozione
verso un dio morto che ci siamo fatti noi per i nostri scopi (o che si è
presentato per i suoi) ci porta a vivere in una realtà morta (abbandonata
alle leggi della sica degli oggetti inanimati, o della biologia e dell’etologia;
o alla cattiveria delle creature – visibili e invisibili – che ci possono divorare
o sottomettere; o anche, in una visione meno drammatica, alle leggi del
caso e della probabilità), la fede nel Dio vivente su cui è fondata la Chiesa
(Matteo, 16:16) ci trasmette la forza e la solidità che vengono da una
“speranza viva” (1Pietro, 1:3). Ci toglie dal buio della disperazione e fa
albeggiare all’orizzonte il senso di questa nostra vita.

La realtà del regno messianico descritto negli ultimi capitoli del libro di
Isaia è al contrario caratterizzata da un contatto immediato tra Dio e il suo
popolo: “Avverrà che, prima che m’invochino, io risponderò; parleranno
ancora, che già li avrò esauditi.” (Isaia, 65:24) che ci garantirà la possibilità di
rispondere alle circostanze e di vedere trasformate le situazioni attorno a
noi in risposta alle nostre preghiere (addirittura anticipate dalla
preconoscenza di Dio), non vivendo quindi più la nostra vita come
spettatori di una tragedia, ma come gli del Re che ha autorità su ogni
cosa in terra e in cielo e che ci invita a disturbarlo per ogni cosa
importante ai nostri occhi, soprattutto quando siamo mossi dal suo
amore.

“Perciò, come dice lo Spirito Santo: Oggi, se udite la sua voce, non indurite
i vostri cuori…” (Ebrei, 3:7-8)

La Parola nelle Dieci parole


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La Parola nelle Dieci parole

Un commento al testo dei dieci comandamenti contenuto


nel libro dell'Esodo, che viene esaminato verso per verso
collegando le due tavole in cui sono suddivisi i dieci
comandamenti alle due parti di cui si raggruppano le
richieste del  Padre nostro.
Il passaggio da prescrizioni a richieste viene visto come 
segno della novità, del patto annunciato dal profeta
Geremia e compiuto da Cristo sulla croce, rispetto al patto
stabilito dalla legge mosaica consegnata sul monte Horeb.

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