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Ettore Panizon
Indice
Prefazione 3
Prologo: la parola nel suo contesto 4
Prima parola: non avere altri dèi oltre a me 9
Seconda parola: non ti fare immagini e non le adorare 14
Terza parola: non portare il Nome invano 22
Quarta parola: ricordati del sabato per santificarlo 29
Quinta parola: onora tuo padre e tua madre 39
Sesta parola: non commettere omicidio 44
Settima parola: non commettere adulterio 53
Ottava parola: non rubare 66
Nona parola: non calunniare 81
Decima parola: non desiderare i beni del tuo prossimo 92
Epilogo: una parola per noi 102
1
Prefazione
Quanto segue raccoglie una serie di articoli sui dieci comandamenti come
anticipazione dell'insegnamento di Gesù pubblicati sul mio blog Dvar
Eloheynu tra il settembre del 2014 e il marzo del 2020.
Di professione non faccio il teologo, né l'esegeta biblico, e non ho pensato
neanche per un momento di affrontare l'immensa letteratura sulla legge e la
grazia di Dio che è stata prodotta nel corso dei secoli, sia in ambito cristiano
sia, soprattutto, nell'universo ebraico. Sono pienamente convinto del fatto
che, se avessi appena iniziato a studiare il tema come si deve, non avrei mai
osato profferire verbo su nessuno di questi argomenti. Siccome però sono
altrettanto convinto che la Bibbia non sia un libro solo per specialisti e che la
coerenza e la pregnanza di senso che la parola di Dio mostra - sia rispetto a
se stessa sia rispetto ai fatti della nostra vita - meriti senz'altro di essere
riconosciuta e apprezzata pubblicamente, ho deciso di non lasciarmi
intimidire dalla mia ignoranza sull'altrui cultura e di rendere note, a bene cio
spero almeno di amici e fratelli, le cose che mi sono venute in mente
meditando su questi temi senza preoccuparmi troppo di evitare di "scoprire
l'acqua calda" e di insistere su luoghi comuni.
Dopo aver studiato loso a del linguaggio e semiologia, da una trentina
d'anni lavoro come comunicatore di scienza. Sono perciò abbastanza
abituato a trattare argomenti di cui non sono per niente esperto e a non
indirizzarmi agli esperti dei temi che affronto nelle mie pubblicazioni.
A ogni modo, nella mia seppur scarsa frequentazione di testi teologici, non
ho mai trovato un libro che tratti speci camente l'argomento dei Dieci
comandamenti dal punto di vista dell'insegnamento del Padre nostro. Non
l'ho neanche cercato, però. Ho viceversa trovato un accenno ai dieci
comandamenti in un libro sul Padre nostro. L'idea di questo confronto mi è
infatti venuta leggendo un libretto in cui mi sono imbattuto quasi per caso:
God Centred Praying, del pastore evangelico indiano Zac Poonen nel quale si
accenna all'omologia tra la tradizionale suddivisione dei dieci comandamenti
nelle due tavole e i due gruppi di richieste in cui può essere suddivisa la
preghiera insegnata da Gesù.
Ma questo collegamento non costituiva il messaggio centrale di quel libretto
e ho quindi pensato che valesse la pena svilupparlo. Dio ci guardi però
dall'indugiare nella contemplazione teorica. La parola di Dio è pratica e la si
capisce solo praticandola. Come ha detto lo stesso Gesù: solo se le vorremo
applicare alla nostra vita, sapremo che le cose insegnate - dai profeti prima, e
da Gesù e dai suoi apostoli poi - non sono teorie, ma appunto le parole
dell'unico vero Dio che ci parla. In modo da rispondere anche noi come
Israele nel deserto: "tutto ciò che ha detto il SIGNORE noi lo faremo e [poi] lo
sentiremo (na'aseh venishma' )נֲַע ֶשׂה וְנִ ְשׁ ָֽמע." (Esodo, 24:7).
2
La Parola nelle Dieci parole
“Allora Dio pronunciò tutte queste parole” (vayedabber ‘Elohiym ‘eth khol-
haddevariym ha’elleh )וַיְַד ֵבּר ֱאלִֹהים ֵאת כָּל־ ַה ְדּ ָב ִרים ָה ֵא ֶלּהletteralmente andrebbe
tradotto “Dio parlò tutte quelle parole”. Il verbo e il suo oggetto hanno
infatti la stessa radice: daleth+beth+resh. Davar (“parola”) è un termine che
si riferisce all’azione del dire. La parola di Dio è Dio stesso che parla e che,
attraverso la sua parola, agisce, crea (Giovanni 1:1-3). In realtà, davar serve
per indicare sia una parola nel senso di un discorso, sia una cosa dotata di
una sua articolazione, un fatto.
Il testo ebraico aggiunge l’in nito costrutto le’mor אמֹר ֽ ֵל, che signi ca
letteralmente “per dire”, un'espressione che viene regolarmente usata per
introdurre il discorso diretto. Le dieci "parole" che seguono esprimono
quindi fedelmente, parola per parola, la volontà e il pensiero di Dio. Sono
state da lui pronunciate per formare noi, suo popolo, a sua immagine e
somiglianza.
Dio è amore (1 Giovanni, 4:8 e 16) e l’argomento delle parole che Dio ha
rivolto a Israele attraverso Mosè è appunto l’amore, cioè cosa fare e cosa
non fare per dimostrare amore. Qui, in Esodo, innanzitutto cosa non fare.
Nei successivi libri di Mosè e nelle altre Scritture, Dio dirà anche cosa fare.
Le parole che Dio dice al suo popolo sono certamente degli ordini, ma
sono innanzitutto un insegnamento. Questo è per altro il signi cato
originario della parola ebraica Torah ()תּוֹ ָרה, che traduciamo con Legge. La
Legge di Dio è un insegnamento, che ci fa sapere come comportarci con
Dio e con il nostro prossimo. Le dieci parole si suddividono in due parti: le
prime cinque de niscono il rapporto verticale (con Dio le prime quattro, e
con i nostri genitori, la quinta), le altre cinque quello orizzontale, con il
nostro prossimo, cioè i nostri fratelli (nella carne e nello spirito) e i nostri
amici, le persone che ci sono vicine e che possiamo avvicinare.
Esodo, 20:2-3 Io sono il SIGNORE, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese
d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me
All’inizio del suo servizio, Mosè aveva chiesto a Dio di fargli sapere il suo
nome, per poterlo riferire ai gli di Israele ai quali veniva mandato. “Dio
disse a Mosè: Io sono colui che sono (‘ehyeh asher ‘ehyeh ) ֶֽא ְהיֶה ֲא ֶשׁר ֶֽא ְהיֶה. Poi
disse: Dirai così ai gli d’Israele: l’IO SONO mi ha mandato da voi. Dio disse
ancora a Mosè: Dirai così ai gli d’Israele: Il SIGNORE, il Dio dei vostri padri, il
Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi.
Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in
generazione” (Esodo, 3:14-15). Dio si presenta come il SIGNORE. Questa
espressione tutta in maiuscolo, nella Versione Riveduta che stiamo
utilizzando, traduce il tetragramma YHWH, un nome che gli ebrei da molti
secoli non osano pronunciare (ne riparleremo presto) e che per questo
non si sa con certezza come debba essere vocalizzato. Il senso di questo
Nome è certamente connesso al verbo “essere” (la radice del verbo, data
dalla terza persona singolare del passato, è hayah ) ָהיָה, ma non è affatto
chiaro in che forma sia coniugato.
È proprio perché potessimo avere una buona coscienza davanti a lui che
Dio ci ha rivolto la sua parola e ha preparato un piano per il nostro
recupero. Perché il peccato non può durare in eterno, solo la parola di Dio
dura in eterno.
La parola che è dal principio Dio (il logos λόγος di Giovanni 1:1) si era già
presentata agli uomini con parole comprensibili, riconoscendoli come
persone capaci di riconoscerlo. Ma con Mosè, ancora di più che con Noè o
con Abramo, Dio si presenta rivelandosi come Colui che è e che rimane
sempre lo stesso, ma che, ciononostante, anzi proprio per questo, non è
insensibile al grido di dolore del suo popolo in schiavitù. Perché ciò che
non viene mai meno è l’amore (1 Corinzi, 13:8) e l’amore non può rimanere
insensibile al dolore dell’amato.
“Io sono colui che sono” è il nome dell’Eterno Dio che non può mentire e
non può cambiare (Numeri, 23:19; 1Samuele, 15:29), perché è la somma
simmetria, cioè la realtà che per de nizione non cambia mai, o anche ciò
che non cambia nella realtà.
Dio si rivolge qui a tutti i gli di Israele e, come si è rivolto a Mosè e agli
ebrei prima, oggi anche a noi gentili (dall’ebraico, goyim גֹּויִםletteralmente
“genti”, “popoli”, cioè “non ebrei”), che siamo stati innestati nell’olivo
(Romani, 11:17-24). A tutti dice che è lui che, non cambiando mai, dà unità e
senso alla nostra vita. Nell’ultimo libro della Legge, in cui tutto
l’insegnamento di Dio è ripetuto e riassunto per essere ricordato e
osservato, questa istruzione ritorna con maggiore chiarezza “Ascolta,
Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE” (Deuteronomio, 6:4).
Non c’è nessun altro vero Dio oltre al nostro Dio, perché solo il SIGNORE è
colui che raduna tutte le molteplicità nella sua perfetta permanente
unità. Dopo la caduta nella disobbedienza e la cacciata dal giardino dove
godevamo della presenza di Dio e di tutte le sue benedizioni, ci siamo
trovati travolti da numerose passioni, spesso scambiando per il nostro dio
questa o quell’altra esigenza. Abbiamo quindi perso l’integrità, la coerenza,
la verità, il senso stesso di molte delle nostre azioni, entrando in una realtà
confusa e incoerente. Diventando incapaci di fedeltà anche verso il nostro
prossimo, i nostri stessi amici, le persone che abbiamo amato e ci amano.
Ma Dio ha visto tutto questo ed è venuto a farci ritrovare la via della
coerenza e dell’integrità.
“Ama il tuo Dio” e “ama il tuo prossimo come te stesso” sono, come
abbiamo già visto nel prologo e come continueremo a ricordare, due
comandamenti strettamente collegati. Anche perché Dio è stato il nostro
primo prossimo (re’a ֵר ַע, il termine ebraico che spesso traduciamo con
prossimo, signi ca anche “coniuge, compagno, amico”). Si è presentato a
Israele e oggi anche a tutti noi come Colui che ha visto la nostra af izione,
ha sentito il nostro grido e ha risposto al nostro bisogno. Dio è stato il
prossimo di Israele perché è venuto a liberarlo dalla “casa di schiavitù”. Ora
il suo popolo deve essere fedele a Dio e non vivere più per conto suo,
abbandonandosi alle sue passioni come tutti gli altri popoli della terra
(1Pietro, 4:3).
Per liberare Israele, il SIGNORE ha fatto giustizia di tutti gli dèi degli
Egiziani (Esodo, 12:12), Israele deve dunque amare il SIGNORE con tutto il
cuore, con tutta l’anima sua e con tutte le sue forze (Deuteronomio, 6:5),
non avendo più altri dèi, non seguendo più altre passioni.
La parola di Dio è per il suo popolo in viaggio. Israele era uscito dalla casa di
schiavitù, potremmo anche dire “dalla casa del servizio a se stessi”. Il
Faraone, re che non conosce il SIGNORE e non gli vuole ubbidire (Esodo,
5:2), è infatti una chiara gura della nostra carne che, come scrive Paolo,
brama ciò che “è inimicizia contro Dio, perché non è sottomessa alla legge
di Dio e neppure può esserlo” (Romani, 8:7). Dio ha visto questa condizione
in cui ognuno poteva contare solo sulle proprie forze, dove ci sentivamo
continuamente minacciati e non avevamo nessuna reale speranza,
perché potevamo solo sforzarci di sopravvivere ma non sapevamo bene a
che scopo. Il SIGNORE vede anche oggi questa angoscia e manda la sua
parola perché il suo popolo possa uscire dalla casa di schiavitù.
Tutte assieme, le dieci parole danno una guida per camminare lungo la via
della liberazione dalla schiavitù, cioè dal servizio a noi stessi, dalla paura
della morte, dal regno delle tenebre, dalla solitudine in cui ci sembra di
poter fare quello che vogliamo e nella quale invece diventiamo facilmente
schiavi del peccato e di svariati vizi, per entrare nel regno di Dio e nella
libertà dei suoi gli. Il SIGNORE ha visto la nostra af izione e ha mandato la
sua parola, perché non fossimo più soli e nel buio, ma potessimo vivere
sempre nella sua meravigliosa luce.
Esodo, 20:4-6 Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono
lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti
prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio,
sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei padri sui gli no alla terza e alla
quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà, no alla millesima
generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei
comandamenti.
Nell’elenco delle cose che la nostra carne tende a fare quando è lasciata a
se stessa, tra le prime che Paolo menziona ci sono la fornicazione e
l’idolatria (Galati, 5:19-20), due peccati tra loro strettamente collegati, da cui
mettono in guardia le prime due parole. “Avere altre dèi davanti al
SIGNORE”, è infatti ciò che in molti libri della Bibbia è chiamato
metaforicamente “prostituirsi” (cf. per es Esodo 34:15-16). Adorare e servire
la creatura invece del Creatore (per usare l’espressione di Paolo in Romani,
1:25) è una forma di impurità spirituale che assomiglia alla fornicazione,
perché consiste nella scelta di un piacere (o di un vantaggio) materiale, a
discapito della fedeltà che è costitutiva di un rapporto personale. Il
SIGNORE è Colui che rimane sempre lo stesso, “il Dio fedele”
(Deuteronomio, 7:9) che non cambia mai ed è per questo nascosto alla
nostra vista materiale. Le cose che si vedono e che attraggono il nostro
sguardo, dando – o, piuttosto, promettendo – soddisfazione ai nostri sensi,
sono invece necessariamente solo per un tempo (2 Corinzi, 4:18).
Con dare nelle ricchezze visibili è esattamente l’opposto della fede che
Dio considera giustizia. Infatti è scritto che per mezzo di questa fede
“comprendiamo che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio; così le
cose che si vedono non sono state tratte da cose apparenti” (Ebrei, 11:3). Se
ci appoggiamo solo su ciò che si vede, necessariamente rintracceremo
l’origine delle cose in qualche aspetto della vita materiale, facendo di
questi elementi i nostri dèi.
Quando scrive che noi credenti “camminiamo per fede e non per visione”
(2 Corinzi 5:7), Paolo usa il termine greco eidos (εἶδος), che in greco si
riferisce alla forma essenziale delle cose visibili. Fissando il nostro sguardo
su ciò che si vede, possiamo a volte cogliere qualche struttura più stabile;
queste gure, però, per quanto più simmetriche di quelle da cui
emergono, non manifestano la vera immagine di Dio. Si tratta piuttosto di
immagini che ci facciamo noi, conferendo un’apparenza di stabilità e di
vita a ciò che non ne ha davvero, perché basta guardare da un altro punto
di vista, o un’altra dimensione perché ciò che sembrava stabile riveli la sua
instabilità.
Abbiamo già visto che il rapporto che Dio vuole stabilire con il suo popolo
è un rapporto personale, basato sulla reciproca ducia. Il nome profetico di
Cristo è Emmanuele, “Dio con noi” (Isaia, 7:14; Matteo, 1:21-23), dove la
preposizione “con” è ‘im ִעם, non be ְבּ, ed esprime compagnia, non
locazione o strumentalità (sono le stesse lettere che formano la parola ‘am
עַם, che signi ca “popolo”). Il rapporto che il SIGNORE ci offre è un rapporto
d’amicizia, il rapporto che si rinsalda guardandosi in faccia. “Il mio cuore mi
dice da parte tua: Cercate il mio volto! Io cerco il tuo volto, o SIGNORE”
(Salmi, 27:8). Questo è il desiderio di Dio per noi: che anche noi lo
desideriamo, e non per quello che ci può dare, ma per conoscerlo e cibarci
del suo amore per noi.
Le gure che appaiono nel mondo attorno a noi possono avere dei volti,
ma non ci guardano mai veramente negli occhi. Non gli interessa di noi e
non desiderano che noi conosciamo quello che hanno in mente. Gli idoli
che ce ne possiamo fare (e che vi si sostituiscono a pieno diritto) “hanno
bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non
odono e non hanno respiro alcuno nella loro bocca.” (Salmi, 135:16-17).
Queste gure hanno solo un’apparenza di vita, sono in realtà cose morte
che ci portano alla morte spirituale, perché rispondono alla nostra volontà
di rimanere da soli, cioè di non stabilire nessun vero rapporto personale,
né con Dio, né con il nostro prossimo.
Mosè aveva incontrato il Dio vivente, lo aveva ascoltato e gli aveva creduto.
L’aveva ubbidito e attraverso la sua ubbidienza aveva portato il suo popolo
fuori dalla casa di schiavitù. Prostrandoci davanti a una scultura o a
un’immagine che ci siamo fatti noi con le nostre mani o con la nostra
immaginazione stiamo personi cando un oggetto. Diamo vita a ciò che
non ne ha.
Ma la vita che diamo alle cose non è in realtà nostra. La vita è Dio che ce
l’ha data, sof ando il suo alito vitale su una creatura di fango.
Analogamente a quanto ha fatto Dio, anche noi uomini possiamo cercare
di dare vita alle cose inanimate. Ma mentre la vita in nita di Dio ha
prodotto vera vita in noi, la nostra vita comunque limitata può produrre
solo “dèi di legno e di pietra, che non vedono, non odono, non mangiano e
non annusano” (Deuteronomio 4:28).
Queste dieci parole che stiamo leggendo non sono quindi solo per i
discendenti cromosomici di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe, ma per tutti
coloro che Dio ha chiamato – da tutte le estremità della terra – a formare il
suo popolo Israele nel suo Cristo e glio unigenito Gesù, che è nato nella
tribù di Giuda, discendente di Abramo, Isacco e Giacobbe, ma che ha
indicato i suoi veri parenti in tutti quelli che desiderano ubbidire al Padre:
“Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre”
(Marco, 3:35).
Veniamo, per concludere, ai due verbi che il testo di Esodo 20:5-6 usa per
distinguere i soggetti dei due diversi destini: il peccato che non rimarrà
impunito no alla terza o quarta generazione di quelli che odiano il
SIGNORE e la carità che raggiungerà coloro che lo amano no alla
millesima.
Amare e odiare nelle lingue moderne hanno preso il signi cato di affetti
che coinvolgono forti passioni. Da quello che ci fa capire il contesto del loro
uso, nelle lingue della Bibbia questi due verbi (rispettivamente 'ahav
אָ ַהב e saneh ָשֵׂנא in ebraico; agapáō ἀγαπάω e miséō i μισέω in greco) hanno
invece un senso più preciso e spirituale, che ha a che fare con le nostre
scelte, decisioni e preferenze.
In Genesi è scritto che Giacobbe amò Rachele più di Lea, e che “il
SIGNORE vide che Lea era odiata” (29:31a). Ora, sappiamo che Giacobbe
non odiava Lea nel senso di non poterla vedere o pensare a come
ucciderla, ma piuttosto nel senso che, come è appunto scritto, “amava di
più Rachele” (Genesi, 29:30). Nello stesso senso, Gesù ha dichiarato che
dobbiamo odiare i nostri cari: “Se uno viene a me e non odia suo padre, e
sua madre, e la moglie, e i fratelli, e le sorelle, e nanche la sua propria vita,
non può esser mio discepolo” (Luca. 14:26).
L’uso biblico dei verbi “amare” e “odiare” signi ca insomma che, come
abbiamo ricordato anche prima, parlando della scelta tra Dio e Mammona,
l’uomo, anche se a volte non vorrebbe, di fronte al SIGNORE si trova a
dover prendere posizione. Così, anche per “odiare Dio” non occorre
essergli attivamente ostili, basta preferire alla vita con lui la solitudine delle
immagini e dei tesori che esse rappresentano e ci fanno sognare.
Le ultime due parole del testo (ulshomrey mitzvotay "e che osservano i
miei comandamenti") de niscono concretamente chi siano coloro ai quali
si riferisce il SIGNORE quando dice "quelli che mi amano".
Anche Gesù ha detto espressamente: "Se voi mi amate, osserverete i miei
comandamenti." (Giovanni 14:15). In questo, quindi, le cose non sono per
niente cambiate dal Vecchio al Nuovo Testamento: non c'è amore di Dio
senza obbedienza a Dio.
La differenza è che, mentre una volta poteva stare solo con una scelta
minoranza di un piccolo popolo scelto tra tutte le nazioni, oggi, con Cristo,
il SIGNORE rimane sempre con tutti coloro che lo cercano. Sapendo
questo, oggi possiamo obbedire la sua parola per amore e non più per
forza.
Esodo, 20:7 Non pronunciare il nome del SIGNORE, Dio tuo, invano; perché
il SIGNORE non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.
In questo testo (che è quello da cui partono anche le traduzioni cristiane)
il nome del SIGNORE è stato arbitrariamente vocalizzato come YeHoWaH
יְהֹוָה. Non però per essere letto in questo modo, come alcuni hanno
erroneamente creduto e insegnato, ma per ricordare le vocali del nome
che si legge in sua sostituzione Adonay ) ֲאדֹנָי. Tutt’oggi gli ebrei, anche i
non ortodossi, stanno ben attenti a vocalizzare il tetragramma YHWH, in
qualsiasi maniera questo possa essere vocalizzato e usano espressioni
come HaShem (“Il Nome”) o appunto ‘Adonay (“miei Signori”).
Dobbiamo quindi fare attenzione non solo a non pronunciare alla leggera
il nome del SIGNORE, ma a non comportarci in generale in modo leggero,
ingiusto o anche soltanto sciatto, perché il Signore Gesù ci ha avvisato che
nel giorno del giudizio gli uomini dovranno rendere conto di ogni parola
oziosa che avranno detta (Matteo, 12:36).
Dio è luce e in lui non ci sono tenebre (1 Giovanni 1:5). Nella sua divina luce
(che non si limita solo a quella che possiamo vedere con i nostri occhi)
ogni cosa è meravigliosamente collegata a tutte le altre, senza soluzione
di continuità. Questa in nita rete di eventi copre lo spazio e il tempo di
tutto l’universo. La parola di Dio è pronunciata a partire da questa eterna e
completa conoscenza.
C’è solo un modo in cui tutte le cose possono stare assieme. I loso
parlavano di in niti mondi possibili e oggi i sici teorici parlano di un
fantomatico Pluriverso, ma altri scienziati hanno anche osservato che in
realtà, nel nostro Universo, le cose non potrebbero essere diverse da
quelle che sono, almeno non se tra queste cose vogliamo mettere la vita
di noi uomini che ci stiamo affacciando al cosmo. Parlano infatti di un
universo nemente regolato, in cui ogni costante e ogni rapporto non
potrebbero essere diversi da quello che sono.
“Il cuore del re, nella mano del SIGNORE, è come un corso d’acqua; egli lo
dirige dovunque gli piace” (Proverbi, 21:1). Questa realtà spirituale di
comunione con Dio corrisponde a quel regno e quella giustizia che Gesù
ha detto di cercare prima di ogni altra cosa (Matteo, 6:33), desiderando
cioè innansitutto di essere guidati non dai nostri desideri carnali ma dal
desiderio dello Spirito di Dio che è vita e pace (Romani, 8:6). Perché dal
cuore, cioè dall’uomo interno, procedono le nostre azioni e le nostre parole
(Proverbi, 4:23; Luca 6:45).
Esodo, 20:8-11 Ricordati del giorno del riposo per santi carlo. Lavora sei
giorni e fa’ tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al
SIGNORE Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo
glio, né tua glia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo
straniero che abita nella tua città; poiché in sei giorni il SIGNORE fece i
cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno;
perciò il SIGNORE ha benedetto il giorno del riposo e lo ha santi cato.
Il testo ebraico gioca sulla vicinanza tra il nome del “giorno del riposo”
(shabath )שׁבָּת,
ַ il numerale “settimo” (sheviy’y )שׁ ִבי ִעי,
ְ la cui radice ha il senso
di “completezza, soddisfazione” e anche “giuramento”, il verbo che
signi ca “cessare, smettere, desistere” (shavath )שׁבַת, ָ e forse anche quello
che signi ca "sedere" (yashav ָשׁב
ַ )י.
Il passo a cui allude il testo si trova all’inizio del secondo capitolo del libro
della Genesi, dove è scritto “Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto
l’esercito loro. Il settimo giorno, Dio compì l’opera che aveva fatta, e si
riposò il settimo giorno (vayshboth bayom hasheviy’y ִשׁבֹּת בַּיֹּום ַה ְשּׁ ִבי ִעי
ְ )וַיּda
tutta l’opera che aveva fatta. Dio benedisse il settimo giorno e lo santi cò,
perché in esso Dio si riposò da tutta l’opera che aveva creata e fatta
[mikhol melakhtò asher-ba’rà Elohyim la’asòth, letteralmente: “da tutta
l’opera che Dio aveva creato per fare].” (Genesi, 2:2-3).
Mela’khah () ְמלָאכָה, il termine che si usa per “lavoro ordinario” è anche quello
usato nel passo del secondo capitolo di Genesi che abbiamo appena
citato, dove è scritto – traducendo più letteralmente – che il SIGNORE si
riposò “da tutta la sua opera” (mikhol mela’khto ) ִמכָּל־ ְמלַא ְכתֹּו. Con questa
parola, che ha la stessa radice della parola che signi ca “angelo” (mala’kh
ְ ) ַמ ְל, si intende un’opera che è nalizzata a uno scopo, com’è nalizzato a
אָך
uno scopo l’incarico di un angelo per una certa missione. Difatti, alla ne
del passo, abbiamo letto che il testo dice proprio che l’opera era stata
creata “per fare” (Genesi, 2:3).
Questo non perché non sia giusto impegnarci nel nostro lavoro
quotidiano (al contrario, abbiamo letto che è scritto “lavora sei giorni e fa’
tutto il tuo lavoro”), né perché crediamo che Dio intenda causarci
frustrazione o disperazione, ma al contrario per riconoscere che con
questo comandamento Dio ha dato al suo popolo un anticipo del vero
riposo che godremo alla ne. Perché possiamo avere una vera speranza,
cioè una vera meta. E riceviamo gioia e incoraggiamento per l’opera di
ogni giorno.
La discesa del cielo nella nostra vita è il senso profondo del sabato ebraico.
Lo spiega chiaramente l’ultima parte del comandamento, da cui stiamo
partendo per comprenderne il valore.
Gli insegnamenti di Dio sono tutti per il nostro bene e la nostra felicità,
come ha scritto Mosè, avviandosi verso la ne del suo servizio, nell’ultimo
libro della Torah: “Sappi dunque oggi e ritieni bene nel tuo cuore che il
SIGNORE è Dio lassù nei cieli, e quaggiù sulla terra; e che non ve n’è alcun
altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandamenti che oggi ti do,
af nché siate felici tu e i tuoi gli dopo di te, e af nché tu prolunghi per
sempre i tuoi giorni nel paese che il SIGNORE, il tuo Dio, ti dà.”
(Deuteronomio, 4:39-40).
Nell’eternità ogni cosa è stata già compiuta e per ogni cosa c’è uno scopo.
Come ha scritto il re Salomone, “Il SIGNORE ha fatto ogni cosa per uno
scopo; anche l’empio, per il giorno della sventura.” (Proverbi 16:4). Il sabato
è il tempo per riconoscere questa verità già in questa vita, mentre siamo
ancora dentro il tempo. Per questo fermarsi dal lavoro ordinario è il dono di
Dio, non un obbligo ingrato. Un dono che ha in sé il suo stesso valore.
“Se tu trattieni il piede dal violare il sabato, facendo i tuoi affari nel mio
santo giorno; se chiami il sabato una delizia e venerabile ciò che è sacro al
SIGNORE; se onori quel giorno anziché seguire le tue vie e fare i tuoi affari
e discutere le tue cause, allora troverai la tua delizia nel SIGNORE; io ti farò
cavalcare sulle alture del paese, ti nutrirò della eredità di Giacobbe tuo
padre, poiché la bocca del SIGNORE ha parlato.” (Isaia, 58:13-14).
Su questo punto Gesù ha insistito sempre con i farisei, che arie volte lo
hanno attaccato per le sue supposte violazioni del sabato.
“In quel tempo Gesù attraversò di sabato dei campi di grano; e i suoi
discepoli ebbero fame e si misero a strappare delle spighe e a mangiare. I
farisei, veduto ciò, gli dissero: Vedi! i tuoi discepoli fanno quello che non è
lecito fare di sabato. Ma egli rispose loro: Non avete letto quello che fece
Davide, quando ebbe fame, egli insieme a coloro che erano con lui? Come
egli entrò nella casa di Dio e come mangiarono i pani di presentazione che
non era lecito mangiare né a lui, né a quelli che erano con lui, ma
solamente ai sacerdoti? O non avete letto nella legge che ogni sabato i
sacerdoti nel tempio violano il sabato e non ne sono colpevoli? Ora io vi
dico che c’è qui qualcosa di più grande del tempio. Se sapeste che cosa
signi ca: Voglio misericordia e non sacri cio, non avreste condannato gli
innocenti; perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato.” (Matteo, 12:1-7).
Proclamando l’uomo signore del sabato, Gesù ha chiarito che “il sabato è
stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Marco, 2:27). Il che non
abolisce il comandamento del sabato, perché l’uomo che regna sul sabato
è l’uomo nuovo, cioè l’uomo che è entrato nel regno di Dio, l’uomo che
non lavora più per se stesso e per la sua preoccupazione, ma perché vuole
ubbidire alla volontà del Padre.
In questo riposo noi entriamo quando crediamo che è Dio che compie
l’opera nostra (“SIGNORE, tu ci darai la pace; poiché ogni opera nostra la
compi tu per noi.” Isaia, 26:12). Perché, se viviamo in questa ducia, non
siamo più noi che facciamo delle cose per ottenere qualcos’altro: siccome
Dio ha compiuto ogni cosa in Cristo, noi, cercando la sua gloria, parliamo e
operiamo nel suo nome, facendo quello che facciamo senza ansie, senza la
preoccupazione di fare bella gura, ma nella pace, nella gioia e nella
gratitudine. Soprattutto, sapendo che stiamo facendo soltanto il nostro
dovere, in modo da restare in piedi dopo aver fatto tutto quello che
dovevamo fare (Efesini, 6:13).
Queste sono le “opere della fede” di cui parla l’apostolo Paolo. Perché la
fede è innanzitutto ubbidienza e umiltà, come ha spiegato Gesù quando i
discepoli gli hanno chiesto di aumentare la loro fede e ha detto loro di
comportarsi come servi che, anche se hanno fatto tutto quello che
dovevano fare, non pensano di avere fatto qualcosa di speciale, ma
appunto solo quello che era il loro dovere. E difatti, dice Gesù, un servo
quando torna a casa dai campi non si aspetta di essere servito dal suo
padrone ma anzi gli prepara la cena e aspetta a mangiare quando il
padrone avrà nito (Luca 17:7-10).
Come esclama il salmo 127, invano si affaticano gli edi catori se non è Dio
che edi ca la casa. È lo Spirito Santo che edi ca la casa, come è scritto nel
libro del profeta Zaccaria “non per potenza [militare, che è il principale
senso del termine usato nell’originale: chayil ] ַחיִל, né per forza ma per lo
spirito mio dice il Signore degli eserciti” (Zaccaria, 4:6).
Le opere della fede sono le opere che compiamo per fede e sono
esteriormente indistinguibili da quelle che Paolo chiama “opere della
legge”: predicare, insegnare, fare l’elemosina, pregare, digiunare, osservare
il sabato, o la domenica… Solo Dio, che guarda al cuore e non all’apparenza
(1Samuele, 16:7), può riconoscerle e apprezzarle come gesti d’amore. E Dio
lo fa.
“In quel giorno non farete nessun lavoro; poiché è un giorno di espiazione,
destinato a fare espiazione per voi davanti al SIGNORE, che è il vostro Dio.
Poiché, ogni persona che non si umilierà in quel giorno, sarà tolta via dalla
sua gente. Ogni persona che farà in quel giorno un lavoro qualsiasi, io la
distruggerò dal mezzo del suo popolo. Non farete nessun lavoro. È una
legge perenne, di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove
abiterete. Sarà per voi un sabato, giorno di completo riposo, e vi umilierete;
il nono giorno del mese, dalla sera alla sera seguente, celebrerete il vostro
sabato.” (Levitico 16:28-32).
Oggi Yom kippur è ancora celebrato con un solenne digiuno (né cibo, né
acqua, da tramonto a tramonto). Il digiuno, anche in vari altri passi dei libri
storici (per esempio, Esdra 8:21, o Ester 4:16), esprime la via dell’umiliazione
delle proprie forze per confessare la nostra incapacità di risolvere il nostro
problema e af darci perciò totalmente a Dio per la sua soluzione. Sabato e
digiuno sono infatti spesso strettamente collegati anche nei libri dei
profeti, come per esempio nel capitolo 58 di Isaia, che abbiamo citato
prima a proposito del sabato, e che parla diffusamente anche del digiuno.
Abbiamo già visto che il comandamento del sabato, nella preghiera del
Padre nostro, corrisponde alla richiesta che venga il regno di Dio e che sia
fatta in terra la sua volontà come è fatta in cielo. Come nuove creature,
preparate per il regno di Dio, noi non operiamo più con un ne egoistico,
cioè non facciamo più le nostre opere (andare in chiesa, pagare la decima,
rispettare la legge e le autorità, visitare i malati, essere fedeli ai nostri
coniugi, aiutare i poveri, ecc.) come opere della legge, cioè per non essere
puniti, o per fare bella gura e accumulare meriti, ed essere forse un
giorno ringraziati da Dio: stiamo operando per gratitudine e per
obbedienza, perché amare Dio e il nostro prossimo è il dovere che
sentiamo nell’intimo del nostro cuore, perché la nostra espiazione è stata
compiuta da Dio, e la nostra salvezza è costata la vita di Gesù, che, prima di
essere arrestato, ha detto proprio: “Padre, se vuoi, allontana da me questo
calice! Però non la mia volontà, ma la tua sia fatta”. (Luca 22:42). E ci ha dato
così un esempio di perfetta e totale arresa alla volontà del Padre, aprendo
per noi in questo modo la via al riposo del sabato e alla giustizia che viene
dalla fede.
Questo è il regno di Dio nel quale siamo invitati a entrare, e che possiamo
invitare dentro di noi. Lo Spirito Santo ci incoraggia a coltivare questo
desiderio e questa speranza, perché queste cose ci possono dare la spinta
giusta a operare nel modo giusto, ed essere graditi al Padre nostro che è
nei cieli. Il sabato che c’è stato dato perché non compissimo in esso
nessun lavoro nostro, ma partecipassimo all’opera perfetta di Dio, cioè al
compimento del suo regno eterno.
L’uomo nuovo dentro di noi è Cristo, solo lui opera in modo perfetto,
perché solo lui è il Figlio amato del Padre. Paolo scrive infatti, sempre ai
Galati: “Sono stato croci sso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo
vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di
Dio il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me.” (Galati, 2:20).
Riposare anche noi dalle nostre opere: dalla fatica di essere valutati per la
riuscita delle opere che dobbiamo fare per guadagnarci un nome e uno
stipendio, e perché ce le siamo preposte come obbiettivi da raggiungere
nella nostra vita (per il nostro regno, cioè, o per il regno – la causa – che ci
siamo scelti), riposare sapendo che ci sono invece delle opere che sono
state preparate da Dio per noi e nelle quali possiamo entrare (come si
entra in un vestito, secondo la metafora di Apocalisse 19:8) solo per fede,
cioè solo se, come gli amorevoli e ubbidienti, vogliamo che la gloria non
vada a noi ma a Colui che ce le ha preparate (Giovanni, 7:18).
Esodo, 20:12 Onora tuo padre e tua madre, af nché i tuoi giorni siano
prolungati sulla terra che il SIGNORE, il tuo Dio, ti dà.
Il regno di Dio, che è stabilito dagli ordini espressi dalle precedenti parole
e in particolare dalla quarta parola (la cui venuta è il centro della prima
parte delle richieste del “Padre nostro”), non può realizzarsi in una società
in cui i rapporti tra gli uomini non sono fondati sull’amore e sul rispetto.
Aspettare il regno di Dio osservando il suo sabato sarebbe solo una falsa
formalità se non desiderassimo anche l’ordine che Dio ha stabilito tra gli
uomini e tra le diverse generazioni. E il collegamento tra la quinta e la
quarta parola è esplicitato proprio nello stesso capitolo di Levitico in cui ci
è comandato di amare il nostro prossimo come noi stessi. Difatti è scritto:
“Rispetti ciascuno sua madre e suo padre, e osservate i miei sabati. Io sono
il SIGNORE vostro Dio.” (Levitico 19:3).
Osservare l’ordine di Dio di astenersi dalle nostre opere nel suo sabato,
credendo al fatto che la nostra opera è stata compiuta nella sua, signi ca
anche riconoscere in Dio Colui che ha organizzato la nostra nascita e che si
prenderà cura della nostra vecchiaia, e che ha anche perciò stabilito che le
generazioni siano legate da rapporti di reciproca assistenza: un’assistenza
e una considerazione dei bisogni dell’altro non solo tra le famiglie più e
meno bisognose, ma anche, all’interno della stessa famiglia, tra i più
maturi e i più piccoli e tra i giovani e gli anziani.
Poco più avanti, sempre nello stesso capitolo di Levitico è scritto “Alzati
davanti al capo canuto, onora la persona del vecchio e temi il tuo Dio. Io
sono il SIGNORE.” (Levitico, 19:32).
La considerazione per gli anziani, per le persone cioè non più produttive, è
anche rispetto per quello che rimane eterno – ancorché sempre fragile –
nell’uomo e nella donna, e nell’ordine eterno che ha disposto le
generazioni una dopo l’altra: “Dà retta a tuo padre che ti ha generato, e
non disprezzare tua madre quando sarà vecchia.” (Proverbi, 23:22).
Gli ultimi versi del libro del profeta Malachia (alla ne della versione greca e
dell’edizione cristiana dell’Antico Testamento) parlano proprio
dell’importanza agli occhi del SIGNORE del rapporto tra le generazioni.
“Ecco, io vi mando il profeta Elia, prima che venga il giorno del SIGNORE,
giorno grande e terribile. Egli volgerà il cuore dei padri verso i gli, e il
cuore dei gli verso i padri, perché io non debba venire a colpire il paese di
sterminio.” (Malachia, 4:5-6).
Nel caso di questo quinto comandamento, non si tratta solo dei pensieri e
dei sentimenti del cuore, ma anche e soprattutto del risvolto pratico dei
nostri sentimenti e dei nostri pensieri. Mentre il comandamento di
Levitico 19:3 parla di rispetto, o timore (la radice del verbo usato
nell’originale è la stessa che traduciamo con il verbo temere, lo stesso del
timore che dobbiamo a Dio e che è il principio della sapienza), il
comandamento in Esodo 20:12 e in Deuteronomio 5:16 è di onorare i
genitori. Il verbo che qui traduciamo con il nostro onorare – khavad – ָכּבַדha
la stessa radice della parola che signi ca “gloria” (khavod )כָּבוֹד, e ha ache
fare con il peso, l’importanza che diamo a una persona.
Questo rapporto tra il presente e il futuro, cioè tra l’oggi della nostra azione
e il domani della nostra vita, ci aiuta anche a rileggere la prima del
secondo gruppo di richieste delle preghiera insegnata da Gesù: “Dacci
oggi il nostro pane quotidiano”.
Sei è il numero dell’uomo, che è stato creato alla ne del sesto giorno. E
sei è anche il numero dei giorni del suo operare, secondo quanto si legge
nella quarta parola. Si riferisce esplicitamente all’uomo anche questo sesto
comandamento, il primo di quelli che regolano le relazioni tra noi e i nostri
pari.
Il problema è che, siccome la volontà di Dio non coincide più con la nostra
(da quando ha mangiato dall’albero della conoscenza del bene e del male
che era in Eden, l’uomo spontaneamente pensa di conoscere con
certezza cosa sia bene e cosa sia male per lui, anche se non può vedere
oltre il suo ristretto orizzonte spazio-temporale), per rendere operativa
nella nostra vita questa divina volontà (che è in realtà l’unica buona),
occorre resistere contro la nostra volontà, andare cioè nella direzione
opposta a quella nella quale ci porterebbe la nostra natura. Cosa per
niente facile, anzi impossibile per noi. Ma non per Dio, perché ogni cosa è
possibile a Dio (Matteo, 19:26). Da qui, però, la necessità della preghiera.
Una delle tante illuminanti omogra e che ritroviamo nel lessico della
lingua ebraica è proprio quella tra le lettere della parola che signi ca
“pane” (lechem ) ֶל ֶחםe della parola che signi ca “guerra” e “vittoria”
(lacham, ) ָל ַחם. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano!” si collega quindi
anche etimologicamente alla vittoria su noi stessi (e sul nemico che n
dall’inizio ha utilizzato la nostra volontà), di cui abbiamo bisogno per non
seguire i desideri della carne che, nella fattispecie, ci spingerebbe a far
fuori chi ci dà fastidio. Ubbidire all’ordine di dominare la nostra natura
iraconda che ci istiga a trovare il modo di farci giustizia con le nostre mani
è una grande vittoria di cui abbiamo quotidianamente davvero un grande
bisogno.
Mentre il buon pastore (che, come abbiamo visto altrove, grazie a un’altra
omogra a ebraica, può anche essere inteso come il buon amico) dà la sua
vita per le pecore, il nemico cerca solo il proprio interesse e viene per
rubare, distruggere e uccidere (Giovanni, 10:10-11). Fin dall’inizio, il vero
omicida è lui, ha-Satan (“il nemico” per eccellenza), ed è a lui stesso che ci
invita a unirci, quando ci tenta a desiderare la morte di un nostro simile.
Come aveva fatto il SIGNORE con Caino, Gesù, nel suo insegnamento sul
sesto comandamento, richiama la nostra attenzione sulla radice spirituale
dell’omicidio, cioè sulla rabbia e sul disprezzo che lo anticipano. “Voi avete
udito che fu detto agli antichi: non uccidere, chiunque avrà ucciso sarà
sottoposto al tribunale; ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello
sarà sottoposto al tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: Raca [scemo]
sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: Pazzo! sarà condannato alla
gheenna del fuoco.” (Matteo, 5:21-22).
Questo pane viene dal sapere, per esperienza (Romani, 12:2), che quella
che ci possiamo fare con le nostre mani non è vera giustizia, “perché l’ira
dell’uomo non compie la giustizia di Dio” (Giacomo, 1:20). Che Gesù è
dovuto morire perché le nostre opere non potevano salvare nessuno, anzi;
e che, siccome Cristo è morto per noi, anche noi possiamo essere morti
alla nostra vita egoistica (2 Corinzi, 5:14). Possiamo e quindi dobbiamo. Ne
parleremo ancora.
Chi crede in Dio e riconosce l’opera della sua salvezza e le insondabili vie
della sua misericordia, riesce anche lui a perdonare, come ha fatto
Giuseppe con i suoi fratelli che, per invidia, l’avevano venduto ai mercanti
e spacciato per morto. Ma alla ne ha potuto dire loro: “Voi avevate
pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene
per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo
numeroso.” (Genesi, 50:20).
Solo il sacri cio e il sangue di Gesù possono fermare l’ira di Dio, ma Gesù
non impedirà che quest’ira si compia su coloro che si ostinano a peccare
contro Dio e contro il loro prossimo. Sarà anzi lui stesso a giudicare tutti gli
uomini, e non solo per le loro azioni, ma anche per le loro parole e per no
per i loro pensieri segreti (Matteo, 12:26; Luca, 12:2; Romani, 2:16). E il giudizio
contro chi non ha usato misericordia sarà altrettanto senza misericordia
(Giacomo, 2:13).
Ma ripetiamo, tutto questo non signi ca che Dio sia indulgente verso gli
omicidi, tutt’altro. A differenza dei comandamenti contenuti nella prima
tavola, quelli contenuti nella seconda tavola, e soprattutto questo sesto
comandamento, sono leggi che Dio promulga per tutta l’umanità, anzi per
tutto il regno animale. A Noè e ai suoi gli, da cui discendono tutti i popoli
della terra, Dio, dopo averli benedetti, ha infatti dichiarato: “Certo, io
chiederò conto del vostro sangue, del sangue delle vostre vite; ne
chiederò conto a ogni animale; chiederò conto della vita dell’uomo alla
mano dell’uomo, alla mano di ogni suo fratello. Il sangue di chiunque
spargerà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto
l’uomo a sua immagine.” (Genesi, 9:5-6).
Certamente non è così per Dio. Nella Legge data a Israele attraverso Mosè,
l’adulterio era punito con la morte (Levitico, 20:10). E contro questo
peccato il Nuovo Testamento non è più indulgente dell’Antico. Nella
Lettera agli Ebrei troviamo infatti scritto: “Sia il matrimonio tenuto in
onore da tutti, e sia il talamo incontaminato; poiché Dio giudicherà i
fornicatori e gli adulteri.” (Ebrei, 13:4). Anche Paolo tratta questo peccato
alla stregua degli altri: “Non v’illudete; né fornicatori, né idolatri, né adùlteri,
né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né oltraggiatori,
né rapinatori erediteranno il regno di Dio.” (1 Corinzi, 6:9).
Gesù ci ricorda che il ripudio è un gesto che viene dalla durezza del cuore
dell’uomo, cioè dal nostro egoismo, non dal SIGNORE. Infatti così era
considerato già negli scritti dell’Antico Testamento: “Poiché io odio il
ripudio, dice il SIGNORE, Dio d’Israele; chi ripudia copre di violenza la sua
veste, dice il SIGNORE degli eserciti. Badate dunque al vostro spirito e non
siate sleali.” (Malachia, 2:16).
Come con l’omicidio, anche con l’adulterio c’è infatti qualcosa che muore
e c’è qualcuno che causa questa morte. Anche se, nel caso dell’adulterio,
normalmente a morire non è una persona sica. Muore comunque una
realtà personale: il rapporto di ducia tra i due coniugi, la loro unione, che
è una realtà complessa e vivente, superiore a quella della somma delle
due vite che si sono unite in matrimonio.
Discutendo con i farisei che erano venuti a metterlo alla prova per
dimostrare che insegnava cose diverse da Mosè, Gesù si è riferito a questa
unità, e all’importanza che le è data proprio nell’insegnamento di Mosè, in
particolare all’inizio del libro della Genesi. Infatti “egli rispose loro: Non
avete letto che il Creatore, da principio, li creò maschio e femmina e che
disse: Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà con sua moglie, e
i due saranno una sola carne? Così non sono più due, ma una sola carne;
quello dunque che Dio ha unito, l’uomo non lo separi. Essi gli dissero:
Perché dunque Mosè comandò di scriverle un atto di ripudio e di
mandarla via? Gesù disse loro: Fu per la durezza dei vostri cuori che Mosè
vi permise di mandare via le vostre mogli; ma da principio non era così.”
(Matteo, 19:4-8).
Il nome profetico di Gesù è Emmanuele “che tradotto vuol dire: Dio con
noi” (Matteo, 1:23), perché è nello stare con noi che Dio ci salva dai nostri
peccati (Gesù, Yeshu’a signi ca appunto “Il SIGNORE è salvezza”). Per
quanto numerosi possano essere i nostri amici, la vita senza Dio è vita da
soli, e, viceversa, la vita da soli, la vita per i nostri interessi, è vita senza Dio. Il
matrimonio è una rinuncia a noi stessi e ai nostri comodi, per vivere
sempre con un altro. Lo stesso è – o dovrebbe essere – la vita nella Chiesa,
che è vita con gli altri perché è vita con Dio.
Invece, dal secondo capitolo della Genesi impariamo che il progetto del
matrimonio è in vista della benedizione dell’uomo, perché nasce dalla
considerazione, fatta dallo stesso SIGNORE, che “non è bene che l’uomo
rimanga da solo.” (Genesi, 2:18). Dio ha voluto dare all’uomo qualcuno con
cui potesse confrontarsi (letteralmente: quello che la nostra traduzione
rende con “un aiuto che fosse adatto a lui”, in ebraico è ‘ezer khenegdò ֵעזֶר
ְכּנֶגְ ֽדֹּו, cioè “un aiuto che gli stia di fronte”). Il progetto di Dio è quello di fare
dell’uomo ( nel senso di Homo sapiens, maschio e femmina) una creatura
in grado di amare, cioè di formare un’unità. E non si può costituire una
vera unità (un’unità non banale, direbbero forse i matematici) se non si è
almeno in due.
E anche oggi la nostra natura egoista rimane sempre lì, sullo sfondo
(quando non emerge con prepotenza). Per questo Gesù non solo è
dovuto morire lui, ma ci ha anche detto che dobbiamo farlo pure noi,
quotidianamente. Perché l’unica soluzione al problema del nostro
egoismo è la nostra croce, da prendere ogni giorno, ogni giorno
riconoscendo cioè che questa nostra natura deve morire, perché ha
desideri morti, che non hanno futuro davanti a Dio, e va quindi messa a
morte assieme a tutte le opere che compie, più o meno
automaticamente (Romani, 8:12-13).
Gesù ha detto che la lampada del corpo è l’occhio, ma che per vedere
veramente avere l’occhio non basta, perché la sua luce può essere anche
tenebre, e noi possiamo illuderci di vedere la realtà, mentre vediamo solo
quello che ci interessa. “La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo
occhio è limpido [il termine greco haplous ἁπλοῦς signi ca “non piegato,
diretto”], tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è malvagio,
tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è
tenebre, quanto grandi saranno le tenebre!” (Matteo, 6:22-23).
Nel nostro raffronto tra le “dieci parole” e la preghiera del Padre nostro,
questo settimo comandamento corrisponde bene alla richiesta di “non
esporci alla tentazione” (Matteo, 6:13), la quale, oltre a essere una richiesta,
è anche una confessione della nostra debolezza spirituale e della nostra
sostanziale mancanza di sapienza, del fatto cioè che siamo sempre molto
più sensibili a quello che vediamo e che possiamo giudicare e apprezzare
con i nostri occhi, che al giudizio e alla realtà di Dio, che ancora non
vediamo e che non capiamo quanto ci tocchino. Veniamo cioè facilmente
tentati a non ascoltare la parola di Dio, prestando piuttosto attenzione alle
nostre sensazioni e ai nostri sentimenti.
È così che il peccato comincia il suo lavoro, nel nostro cuore. Come scrive
Giacomo nella sua lettera alle dodici tribù di Israele: “Nessuno, quand’è
tentato, dica: Sono tentato da Dio; perché Dio non può essere tentato dal
male, ed egli stesso non tenta nessuno; invece ognuno è tentato dalla
propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce. Poi la concupiscenza,
quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è
compiuto, produce la morte.” (Giacomo, 1:13-15).
La tentazione infatti non è solo quella di unirsi alla “donna estranea” per il
momentaneo piacere che possiamo trarre dal suo corpo. Di nuovo, il
punto non è solo l’atto sico, ma anche, e soprattutto, le ragioni che lo
motivano. Non pecchiamo solo contro il nostro coniuge o contro il
coniuge della persona sposata con cui desideriamo unirci, pecchiamo
contro l’amore e la pace di Dio, perché ci lasciamo guidare dal nostro
desiderio carnale, che non è mai quello dello Spirito Santo (Galati, 5:16-17).
Fin dai tempi antichi, gli uomini, per quanto fossero stati generati da Dio
sono andati dietro ai loro sguardi e alle loro immaginazioni. Per questo Dio
ha distrutto la terra con il diluvio (Genesi, 6), e per questo, molti secoli
dopo, ha bruciato Sodoma e Gomorra, facendo piovere fuoco e zolfo su
quelle città (Genesi, 19:24). E per queste cose distruggerà ancora questo
mondo (Luca, 17:26-32). Come anche Paolo ha scritto, per ben due volte:
“per queste cose l’ira di Dio viene sugli uomini ribelli.” (Efesini, 5:6; Colossesi
3:6).
Gesù certo è venuto per salvare gli uomini e non per condannarli, ma,
anche se ha spesso sgridato chi si sentiva abbastanza giusto da
condannare i peccati degli altri, non ha mai incoraggiato nessuno a
peccare. Conosciamo bene la storia dell’adultera colta in agrante
adulterio e portata da Gesù, per poterlo accusare di insegnare cose
diverse da quelle insegnate da Mosè. “Ma Gesù, chinatosi, si mise a
scrivere con il dito in terra. E, siccome continuavano a interrogarlo, egli,
alzato il capo, disse loro: Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la
pietra contro di lei. E, chinatosi di nuovo, scriveva in terra. Essi, udito ciò, e
accusati dalla loro coscienza, uscirono a uno a uno, cominciando dai più
vecchi no agli ultimi; e Gesù fu lasciato solo con la donna che stava là in
mezzo. Gesù, alzatosi e non vedendo altri che la donna, le disse: Donna,
dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata? Ella rispose:
Nessuno, Signore. E Gesù le disse: Neppure io ti condanno; va’ e non
peccare più.” (Giovanni, 8:3-11).
Dice un proverbio che “al cuore non si comanda”, intendendo con ciò che
non si può decidere se e quando amare qualcuno. Questo perché per
amore in italiano normalmente si intende quel particolare affetto
reciproco che dall’amicizia può passare al bacio (phìlēma φίλημα),
spingendosi poi no all’unione sessuale. L’amore di cui parla quella lettera,
e di cui in generale parla la legge di Dio, è l’amore che guarda ai bisogni
dell’amato e trova piacere nel soddisfarli (l’amore che nel greco del Nuovo
Testamento è espresso dal termine agàpē ἀγάπη). L’amore che Gesù ci dice
di avere anche per i nostri nemici (Matteo, 5:44).
Scopo della legge, però, non è tanto compiere questa operazione, quanto
piuttosto mostrarci che non riusciamo a portare a termine da soli questo
espianto, che pure abbiamo il dovere, anzi la necessità di compiere. Infatti
la legge mosaica “dà soltanto la conoscenza del peccato” (Romani, 3:20).
Solo una legge perfetta (o “legge compiuta”: nomos téleios νόμος τέλειος,
come scrive Giacomo, 1:25) ci può aprire la via, af nché i nostri sforzi non
siano vani, e possiamo vincere il nostro combattimento che è anche
quello di Dio.
Apriamo qui una parentesi, per trattare più da vicino un tema di carattere
generale, che non è collegato speci camente con il furto. Ma torneremo
presto sulla nostra via, solo apparentemente smarrita.
Per questo il nemico, che rema con tutte le sue forze contro la nostra
salvezza (ma che non può fare niente contro l’opera di Dio), cerca
continuamente di convincerci del fatto che per noi è impossibile essere
salvati, o che non è affatto necessario. Lo fa in moltissimi strumenti, tra i
quali, non ultimo, anche la religione, incluso quella cristiana.
Gesù ha infatti spiegato chiaramente (ai farisei che dicevano di non avere
bisogno di essere liberati) che si può credere di essere liberi senza esserlo
davvero, ma che c’è chi può liberarci veramente: “In verità, in verità vi dico
che chi commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non
dimora per sempre nella casa: il glio vi dimora per sempre. Se dunque il
Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi.”(Giovanni, 8:34-36). Lo schiavo è
sotto il potere della morte e di questo tempo fatto di scadenze: non abita
per sempre la creazione di Dio e cerca per questo di impossessarsene,
incurante del vero bene (del proprio, come di quello del resto della
creazione).
Il punto è che, perché tutto ciò avvenga, è necessaria una vera e propria
guerra di liberazione. Parlando di demoni e della necessità di combatterli,
Gesù ha spiegato che non possiamo ottenere nessun vero risultato senza
una battaglia spirituale, per riconquistare quello che ci era stato rubato.
Si tratta di un’azione divina a cui la Bibbia fa spesso allusione, sia nei libri
dell’Antico Testamento (Salmi e libri profetici, soprattutto) che in quelli del
Nuovo, quando parla di “imprigionare la prigionia”, come intendevano già i
Settanta, che traducono con questa espressione il sintagma shavita
sheviy ()שׁ ִבי ָת ֶשּׁ ִבי
ָ nello stesso verso dei Salmi (68:18) che Paolo cita per
parlare dei ministeri della chiesa, cioè degli strumenti di Dio per
combattere le forze del nemico, nella difesa e nell’educazione dei credenti
(Efesini, 4:7-14).
“Come può uno entrare nella casa dell’uomo forte e spogliarlo della sua
roba, se prima non lega l’uomo forte? Allora soltanto gli saccheggerà la
casa. Chi non è con me è contro di me; e chi non raccoglie con me,
disperde.” (Matteo, 12:29-30). Siccome siamo in guerra, no a che il nemico
non sarà totalmente scon tto ogni nostra azione, per quanto mossa da
buone intenzioni, compiuta per conto nostro risulta inutile se non
addirittura nociva. È necessario che l’uomo forte sia vinto da uno più forte
di lui, qualcuno che, come Davide non con da nell’armatura visibile ma in
quella spirituale (“Quando l’uomo forte, ben armato, guarda l’ingresso della
sua casa, ciò che egli possiede è al sicuro; ma quando uno più forte di lui
sopraggiunge e lo vince, gli toglie tutta l’armatura nella quale con dava e
ne divide il bottino.” Luca, 11:21-22).
Solo dopo essere stati liberati possiamo comprendere che, davanti a Dio,
quelle ruberie che non riuscivamo a dimenticare perché ci venivano
presentate come perdite irrimediabili erano in realtà dei guadagni, e quelli
che ci ci venivano presentate come imperdibili occasioni di guadagno
costituivano in realtà degli ostacoli per la nostra salvezza (Filippesi, 3:7-8).
Per questo, Gesù ha spesso messo in guardia dal fare af damento sulle
ricchezze materiali. E anche suo fratello Giacomo ha scritto parole molto
dure rivolgendosi a chi ne aveva accumulate a spese degli altri: “A voi ora, o
ricchi! Piangete e urlate per le calamità che stanno per venirvi addosso! Le
vostre ricchezze sono marcite e le vostre vesti sono tarlate. Il vostro oro e il
vostro argento sono arrugginiti, e la loro ruggine sarà una testimonianza
contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato
tesori negli ultimi giorni. Ecco, il salario da voi frodato ai lavoratori che
hanno mietuto i vostri campi grida; e le grida di quelli che hanno mietuto
sono giunte agli orecchi del Signore degli eserciti.” (Giacomo, 5:1-4).
Ma, naturalmente, il furto non è un peccato solo dei ricchi e dei padroni. E
non solo perché anche i poveri non devono derubare i ricchi, e i lavoratori
non devono imbrogliare chi li ha ingaggiati. Se non amiamo il SIGNORE e il
nostro prossimo, ruberemo comunque, sia all’Uno che agli altri. Agli altri
perché li stiamo comunque derubando della loro vita, se non li amiamo.
All’unico vero Dio, perché è lui la fonte di ogni nostro bene (Giacomo, 1:17).
Infatti il SIGNORE ha fatto ricordare al suo popolo: “L’uomo può forse
derubare Dio? Eppure voi mi derubate. Ma voi dite: In che cosa ti abbiamo
derubato? Con le decime e con le offerte.” (Malachia, 3:8).
Sappiamo bene, anche da altri libri profetici, che a Dio non interessano i
nostri soldi e i nostri sacri ci. Tutto l’oro, l’argento e gli animali che esistono
gli appartengono già. A Dio interessa che conosciamo la verità e che la
mettiamo in pratica. Quello che gli interessa cioè è che siamo
riconoscenti, perché questo ci mette nella posizione giusta davanti a lui.
Se contrattiamo su quanto gli spetta, stiamo già derubandolo di quello
che gli dobbiamo, perché glielo dobbiamo per il nostro stesso bene, cioè
per la nostra salvezza. E gli dobbiamo tutto, non solo la decima parte dei
nostri introiti.
In questa direzione, allude alle decime e alle offerte anche l’episodio dei
dieci lebbrosi raccontato nel vangelo di Luca. “Nel recarsi a Gerusalemme,
Gesù passava sui con ni della Samaria e della Galilea. Come entrava in un
villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, i quali si fermarono lontano da
lui, e alzarono la voce, dicendo: Gesù, Maestro, abbi pietà di noi! Vedutili,
egli disse loro: Andate a mostrarvi ai sacerdoti. E, mentre andavano, furono
puri cati. Uno di loro vedendo che era puri cato, tornò indietro,
glori cando Dio ad alta voce; e si gettò ai piedi di Gesù con la faccia a terra,
ringraziandolo. Or questo era un Samaritano. Gesù, rispondendo, disse: I
dieci non sono stati tutti puri cati? Dove sono gli altri nove? Non si è
trovato nessuno che sia tornato per dare gloria a Dio tranne questo
straniero?” (Luca, 17:11-18).
Se glielo permettiamo, Dio ci libera dal nemico e dalla sua tirannia, ma poi
dobbiamo stare con Lui, altrimenti la nostra tenda vuota e pulita attirerà di
nuovo il malvagio, e sarà anche peggio di prima (Matteo, 12:45). Se non
riconosciamo che la liberazione viene solo da Dio e non impariamo a
camminare in umiltà con lui, nirà che ci prenderemo di nuovo la gloria
delle nostre buone azioni, e queste diventano un ostacolo alla nostra
stessa salvezza, perché cadremo di nuovo nel laccio del diavolo, vivendo
per la nostra vana gloria. Finiremo così anche per derubare gli altri della
conoscenza di Dio che avremmo dovuto trasmettere loro.
A chi più è stato dato, più sarà ridomandato (Luca, 12:48), come qualcosa
che abbiamo portato via a coloro a cui era destinata. “Guai a voi, dottori
della legge, perché avete portato via la chiave della scienza! Voi non siete
entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito.” ( Luca, 11:52).
“È preziosa agli occhi del SIGNORE la morte dei suoi fedeli. Sì, o SIGNORE,
io sono il tuo servo, sono tuo servo, glio della tua serva; tu hai spezzato le
mie catene. Io t’offrirò un sacri cio di ringraziamento e invocherò il nome
del SIGNORE.” (Salmi 116:15-17).
Il sacri cio del ringraziamento è la salvezza preparata per noi da Dio, come
ci ha rivelato l’apostolo Paolo esortando a compierlo sempre: “in ogni cosa
rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di
voi.” (1 Tessalonicesi, 5:18). Questo sacri cio si presenta infatti come
l’antidoto al veleno contenuto nel frutto dell’albero della conoscenza del
bene e del male, il veleno che ha portato l’uomo ai furti, agli adulteri, e agli
omicidi di cui ci parla la Legge con i suoi divieti. Come è scritto anche nella
Lettera agli Ebrei: “Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a
Dio un sacri cio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo
nome.” (Ebrei, 13:15). Perché, attraverso il ringraziamento, non esprimiamo
più il nostro giudizio sulle cose che accadono e sui beni che possiamo
acquisire o perdere, ma piuttosto dichiariamo la nostra fede in Dio,
riconoscendo che ogni cosa coopera per il nostro bene quando amiamo il
Signore (Romani, 8:28). È un punto di cruciale importanza, ci ritorneremo
ancora.
Se il peccato deriva dal cercare ciò che è bene ai nostri occhi ma è male
agli occhi del SIGNORE, la giustizia (in ebraico tsedeq ) ֶצ ֶדקsigni ca cercare
quello che piace al SIGNORE anche quando è contrario ai desideri della
nostra carne (“elemosina”si dice tsedaqah ) ְצ ָד ָקה.
“Date, e vi sarà dato; vi sarà versata in seno buona misura, pigiata, scossa,
traboccante; perché con la misura con cui misurate, sarà rimisurato a voi.”
(Luca, 6:38). Chi dà agli altri non manca di niente e può quindi dimenticare
il bisogno di accumulare per se stesso riserve per il suo futuro: “L’uomo
dallo sguardo benevolo sarà benedetto, perché dà del suo pane al
povero.” (Proverbi, 22:9)
Ma, come abbiamo già detto, questa cura per l’avarizia funziona solo per
l’uomo nuovo, l’uomo che vive con Dio e si da di Lui. Altrimenti, se manca
il rinnovamento prodotto dalla rivelazione di Dio, anche l’elemosina sarà
fatta per interesse, “suonando la tromba” davanti alla propria azione per
riscuotere l’ammirazione degli altri uomini, e non procurerà nessun vero
bene cio da parte del SIGNORE (Matteo, 6:2).
Rea’, la parola che traduciamo con prossimo, nei testi biblici scritti in
ebraico, ha spesso il senso di “amico” (colui che consideriamo appunto
come la nostra stessa persona, cf. per es. Deuteronomio, 13:6). Le Sacre
Scritture ci insegnano a farci degli amici, e a mantenere queste amicizie.
L’insegnamento della parola di Dio, ha detto Gesù, ci indirizza all’amicizia e
alla reciprocità dei rapporti con i nostri simili (“Tutte le cose dunque che
voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa
è la legge e i profeti.” Matteo, 7:12).
Ora, non diventiamo certo amici di qualcuno contro il quale lanciamo delle
calunnie. “L’uomo che dichiara il falso contro il suo prossimo [le parole sono
proprio le stesse del testo originale di Esodo 20] è un martello, una spada,
una freccia acuta.” (Proverbi, 25:18). L’amicizia ha un nemico, che è, per
logica de nizione, il nemico per eccellenza.
Nel parallelo che stiamo tracciando con la preghiera del Padre nostro,
siamo chiaramente nel pieno dell’ultima richiesta: “Liberaci dal maligno”.
Anche del peccato vietato da questo comandamento troviamo infatti
l’origine nel terzo capitolo della Genesi, dove il nemico (ha-satan ) ַה ָשּׂטָןfa la
sua prima comparsa. A commetterlo è sempre lui, il serpente, “il più astuto
di tutti gli animali del campo” (Genesi, 3:1). Quando la donna
ingenuamente gli ha spiegato che non potevano mangiare del frutto
dell’albero che era in mezzo al giardino dell’Eden perché il SIGNORE aveva
detto loro che se l’avessero fatto sarebbero certamente morti, il serpente
le ha risposto: “Voi non morireste affatto. Ma Dio sa che, nel giorno che voi
ne mangereste, i vostri occhi si aprirebbero; onde sareste come Dio,
avendo conoscenza del bene e del male.” (Genesi, 3:4-5).
La vera differenza tra noi e gli animali, riguardo al linguaggio, è infatti che
noi uomini possiamo usarlo per conoscere e fare conoscere la verità, che è
fuori del tempo e fuori dalla portata dei sensi. Purtroppo, però, possiamo
anche usare le parole e gli altri segni per i nostri scopi temporali, come
fanno le bestie. Anche Salomone parla con disprezzo di questo uso del
linguaggio: “L’uomo da nulla, l’uomo iniquo, cammina con la falsità sulle
labbra; ammicca con gli occhi, parla con i piedi, fa segni con le dita; ha la
perversità nel cuore, trama del male in ogni tempo, semina discordie…”
(Proverbi, 6:12-14 ).
Diavolo (diàbolos διάβολος), la versione greca del termine ebraico con cui
viene indicato “il nemico”, è un sostantivo che viene proprio dal verbo che
signi ca “scagliare accuse, calunniare” (diaballō διαβάλλω). Del diavolo, Gesù
ha detto che “è stato omicida n dal principio e non si è attenuto alla
verità, perché non c’è verità in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è
suo, perché è bugiardo e padre della menzogna.” (Giovanni, 8:44).
La radice della parola ebraica per “falsità, menzogna” (sheqer )שׁ ֶקר
ֶ è molto
vicina a quella della parola che signi ca “ricompensa” (shecher )שׂ ֶכר.
ֶ Dietro
alla bugia si nasconde infatti sempre un piano, un interesse. La bugia
presuppone e produce una distanza tra chi la proferisce, la persona che la
riceve e anche la persona o il fatto a cui si riferisce. Nonostante sembri
creare intimità, il pettegolezzo divide, porta morte. “Le parole del
maldicente sono come ghiottonerie, e penetrano no all’intimo delle
viscere.” (Proverbi 18:8). La radice shin+qof+resh che produce questa parola
che abbiamo tradotta con “il falso” ha anche il senso dello sguardo scuro
che serve per sedurre. L’inganno delle ricchezze e del potere. La sapienza
di Dio ci mette in guardia da questa seduzione. “Non mangiare il pane di
chi ha l’occhio maligno, non desiderare i suoi cibi delicati; poiché,
nell’intimo suo, egli è calcolatore; ti dirà: Mangia e bevi!, ma il suo cuore
non è con te. Vomiterai il boccone che avrai mangiato, e avrai perduto le
tue belle parole.” (Proverbi, 23:6-8).
Ma il male lo si può vincere solo con il bene: per scon ggere la menzogna
occorre la verità. Alla ne della meditazione sull’ottava parola, abbiamo
visto che l’esortazione di Paolo a non rubare (e a condividere piuttosto ciò
che si ha con chi è nel bisogno) è preceduta da un altro comando,
positivo: “ognuno dica la verità al suo prossimo perché siamo membra gli
uni degli altri” (Efesini, 5:26).
In ebraico, la parola che signi ca “verità” è ‘emet () ֱא ֶמת, molto vicina alla
radice del verbo che signi ca “credere” (e che è la stessa del termine
amèn אָ ֵמן, che – accentata in un modo o nell’altro – è entrato nel lessico di
tutte le principali lingue in cui è stata tradotta la Bibbia). Si tratta di
qualcosa che ha a che fare con la certezza, con l’in nito e con l’eternità,
cioè con la totalità dei fatti. Qualcosa che non può essere rappresentato,
perché sta alla base di ogni rapporto e rappresentazione: è la parola stessa
di Dio, che è anche la via, e la vita (Giovanni, 14:6).
Parlando del termine ebraico che signi ca “parola”, davar () ָדּבָר, abbiamo
già visto che la lingua della Bibbia non distingue tra parole e cose. Anzi
diciamo meglio che non distingue tra discorsi e fatti. A differenza delle
teorie loso che classiche che consideravano la verità come
corrispondenza tra proposizioni e fatti, nella visione ebraica del mondo la
realtà appare costituita di collegamenti tra fatti, e i discorsi e le azioni degli
uomini e delle altre creature si intrecciano a formarne il tessuto. La verità,
in senso ebraico, non è un discorso vero su come stanno delle cose che
sussisterebbero anche senza le parole, ma piuttosto è la rete di viventi
connessioni che collega tutti i fatti gli uni con gli altri. Un fatto viene
stabilito da almeno due testimoni (Deuteronomio, 17:6 e 19:15). La verità
non solo è l’accordo esterno tra i fatti, ma è la vita che intesse questo
accordo e che dura mantenendo la sua identità nello spazio e nel tempo:
Colui che era, che è e che sarà.
Anche la parola che traduciamo con testimonianza ha che fare con la rete
delle connessioni tra i fatti e con la loro ripetibilità nel tempo. È infatti
scritta con le stesse consonanti della congiunzione che signi ca “ancora”
(‘owd עוֹד, o ‘od )עֹד. Un fatto, un rapporto, è vero se rimane tale,
indipendentemente dalle circostanze. Cambiano il modo e il tempo in cui
può essere rappresentato ma non cambia la sua verità, né gli effetti che
ha prodotto e ancora produce.
Come i tralci, per produrre frutto, devono essere connessi alla vite
(Giovanni, 15:5-6), i fatti sono veri (e veritiere le persone che li esprimono)
no a che non perdono il loro rapporto con il tessuto della realtà. La
testimonianza ci collega al passato e rimane per il futuro: è ciò che rimane
vero, oltre il cambiamento causato dal tempo, e persino oltre la morte. Le
Sacre Scritture raccolgono queste testimonianze e ci incoraggiano a
portarle avanti no agli ultimi giorni della storia, come ha detto Gesù: “E
questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo, af nché ne sia
resa testimonianza a tutte le genti; allora verrà la ne.” (Matteo, 24:14).
Quello che fa l’immagine, infatti, come abbiamo già visto anche parlando
del secondo comandamento, è ritagliare una fetta di realtà scelta o
forgiata in modo da assomigliare a qualcosa che non c’è, suscitando una
sensazione simile a quella che produrrebbe l’oggetto rappresentato. Ma
l’immagine è appunto un oggetto, una cosa morta e vuota,
necessariamente separata dal tessuto della vita, anche se rappresenta
una persona vivente. È un oggetto che può essere preso e spostato,
acquistato e venduto, usato a proprio piacere, per decorare o arredare,
come non si può fare con le persone, a meno di non riuscire a manipolarle,
imprigionarle, o anche ucciderle.
La fatica che facciamo per dare di noi un’immagine migliore di quello che
siamo in realtà partecipa e contribuisce alla generalizzazione della
menzogna che prende la forma dell’ipocrisia, uccidendo l’amicizia. Questa
menzogna contagiosa e generalizzata impedisce inoltre l’unica
espressione della verità, cioè la confessione dei propri peccati,
l’ammissione della necessità di perdono e della remissione delle nostre
colpe. Non che questa debba essere l’unico tema delle nostre
comunicazioni, ma, se non vogliamo parlare contro la verità, deve
certamente esserne il presupposto. Quando, invece, in un gruppo
abbondano le chiacchiere di auto-celebrazione, tutti si sentono giudicati
da tutti e si sforzano, perciò, di apparire buoni e senza peccato, o
quantomeno spirituali e autorizzati a criticare.
Il ché, a sua volta, è una calunnia nei confronti di Dio: “Se diciamo che
siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se
riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i
peccati e ci puri cherà da ogni colpa. Se diciamo che non abbiamo
peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.” (1
Giovanni, 1:8-10).
Lo spirito della verità è quello che ci convince di essere dei peccatori e che
possiamo essere resi giusti solo dalla fede in ciò che Dio ha fatto attraverso
Gesù (Giovanni, 16:8-9). E che, nella misura in cui non crediamo alla parola
di Dio, o ci accontentiamo di crederci solo limitatamente, non siamo
ancora nella verità. Se invece ci sforziamo di credere alle parole che Gesù ci
è venuto a portare da parte del Padre, e di metterle in pratica, allora
conosceremo la verità, e sarà questa verità che ci renderà liberi (Giovanni,
8:32).
Venendo quindi, per concludere, alla prima parte del testo di questa nona
parola (lo’-tha’nah לֹא־ ַת ֲענֶה,
ֽ letteralmente “non risponderai”), consideriamo il
verbo ebraico che viene usato per de nire l’azione vietata dal
comandamento. La radice ayn+nun+he ha i signi cati più diversi. Nelle
sue varie forme e accezioni, può intendersi come: “essere af itto”, “essere
umile” e anche “rispondere” (in certi contesti addirittura “cantare”). Il
signi cato generale è quello di un’espressione spontanea, conseguenza
di una certa pressione.
Per questo, valgono ancora (anche per quelli di noi che viviamo in paesi
liberi e almeno nominalmente cristiani) le parole che Pietro ha rivolto ai
credenti dispersi dalla prima persecuzione: “Se doveste soffrire per la
giustizia, beati voi! Non vi sgomenti la paura che incutono e non vi agitate;
ma santi cate anzi il Signore Dio nei vostri cuori, e siate sempre pronti a
rispondere a chiunque vi domandi spiegazione della speranza che è in voi,
con mansuetudine e timore, avendo una buona coscienza af nché,
quando vi accusano di essere dei malfattori, vengano svergognati coloro
che calunniano la vostra buona condotta in Cristo.” (1Pietro, 3:16).
Pietro sapeva bene di cosa stava parlando, perché, sotto questa stessa
pressione, lui stesso aveva negato di conoscere Gesù. Ma se ne era
sinceramente pentito, e Gesù l’aveva perdonato e reintegrato al servizio
della verità, af nché, come gli altri discepoli, e anche più degli altri,
sapesse come rispondere rendendone testimonianza. Perché ora che
possiamo rispondere agli altri dicendo loro la verità per il loro eterno bene,
diventiamo colpevoli se non lo facciamo: “… chi sa fare il bene e non lo fa,
commette peccato.” (Giacomo, 4:17).
Esodo, 20:17 Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la
moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il
suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo.
Allo Spirito santo non è mai interessato altro se non il nostro cuore, cioè la
nostra vita interiore. E, quando sgrida il formalismo dei farisei, Gesù cita
proprio le Scritture: “Ipocriti! Ben profetizzò Isaia di voi quando disse:
Questo popoo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me.”
(Matteo, 15:7-8). Il cuore è infatti riconosciuto dalle Scritture come la
sorgente delle nostre azioni e di tutta la nostra vita. “Custodisci il tuo
cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso provengono le sorgenti della
vita.” (Proverbi, 4:23). Salomone insegna anche che se amiamo veramente
noi stessi, cerchiamo di sviluppare la nostra vita interiore: “Chi acquista
cuore (qoneh-lev )קֹנֶה־ ֵלּב
ֽ ama se stesso” (Proverbi, 19:8a). Così, se amiamo il
nostro prossimo come noi stessi, lo consideriamo come qualcuno che
deve crescere interiormente. Ma questo è esattamente ciò che non
facciamo quando desideriamo le sue cose. Quando cioè, anziché il suo
bene, desideriamo i suoi beni.
Ora, nella Bibbia le ripetizioni non sono mai irrilevanti o sprovviste di senso,
ci invitano anzi a una più approfondita ri essione sul tema su cui insistono.
Consideriamo dunque questa decima parola più da vicino. Vediamo che ci
dice di non desiderare qualcosa. Il verbo usato per esprimere l’azione di
desiderare – chamad – ָחמַדsigni ca “provare piacere”, e ha in sé la radice
del “calore” chet+mem, con probabile riferimento al calore generato dal
desiderio. Vediamo anche che, in realtà, l’oggetto del desiderio proibito è
costituito sia da cose che da persone. Come se l’autore del
comandamento ne volesse confondere la natura. Cosa che però non può
certo accadere agli occhi di Dio.
Soprattutto, essere interessati alle cose piuttosto che alle persone è l’altra
faccia dei peccati a cui si riferiscono entrambi i due primi comandamenti,
cioè: avere altri dei diversi dal SIGNORE (prima parola) e adorarli in forma di
immagini (seconda parola). Due peccati e due comandamenti
intimamente e logicamente legati, visto che il SIGNORE non può essere
rappresentato e che, quindi, colui che rappresentiamo e veneriamo deve
per forza essere un altro dio.
Per questo ci conviene odiarlo, per cercare Dio. “Nessun domestico può
servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo
per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona”.
(Luca, 16:13). Nessuno può servire Dio e il Capitale (il nome moderno di quel
dio che Gesù chiama mammonà, da una parola aramaica che signi cava
probabilmente “mucchio”, come abbiamo già detto parlando della
seconda parola).
Nella parabola del “fattore infedele”, che Gesù racconta poco prima di
dichiarare questo aut-aut tra servire Dio e Mammona, il padrone, che
rappresenta Dio, loda la sapienza del suo domestico imbroglione: per farsi
degli amici, ha preso su di sé debiti che corrispondono a una certa
quantità di determinati beni. Ha scelto la qualità dell’amicizia dei suoi
conservi, rispetto alla quantità del bene commerciabile, che ha
considerato meno importante delle loro “dimore eterne” (Luca, 16:9).
Cosa che non avviene soltanto nella nostra piccola vita quotidiana, con
quella che abbastanza ipocritamente oggi si chiama condivisione, ma
anche su scala planetaria e industriale, nel cui funzionamento però siamo
più o meno tutti coinvolti, se non altro come complici spettatori.
Pensiamo al mondo dello spettacolo, agli attori del cinema o alle
personalità della politica e della cultura, alla loro vita considerevolmente
divorata dalla fatica di produrre convincenti immagini di sé (dentro e fuori
dal “set”), cioè dal fatto di essere diventate “ gure pubbliche”. E
ricordiamoci che il pubblico, i carne ci, siamo proprio noi.
Ora, come abbiamo già detto e ripetuto in altre occasioni, il nuovo patto
che è stato sigillato dal sangue di Gesù non solo ci mostra la malattia, ma
ce ne dà anche la cura. Che non è diversa da quella data a Mosè e agli altri
profeti, ma che a quel tempo era solo per pochissimi privilegiati all’interno
di un unico popolo, altamente privilegiato tra tutte le nazioni della Terra;
oggi invece questa cura è stata data a ogni essere umano che la cerchi
con tutto il cuore, maschio o femmina, piccolo o grande che sia. E consiste
nel regno di Dio, che, come ha detto Gesù, non è un regno esteriore,
visibile, ma piuttosto segreto e interiore: “Il regno di Dio non viene in
modo da attirare gli sguardi; né si dirà: Eccolo qui, o: Eccolo là; perché,
ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi” (Luca, 17:20-21, dove il nostro in
mezzo a voi traduce il greco entòs hymōn ἐντὸς ὑμῶν, che vuole dire sia “tra
di voi” che “dentro di voi”).
All’ultima delle dieci parole scritte sulle tavole della Legge, nella versione
neo-testamentaria dell’insegnamento di Dio, corrispondono bene le
ultime parole del “Padre nostro”. Strutturata come quella che i teologi
chiamano una dossologia (“discorso sulla gloria”), questa frase non è
riportata in tutti i manoscritti (e per questo non appare in tutte le
traduzioni), ma conclude signi cativamente il modello della preghiera
insegnato da Gesù, mostrando la via d’uscita dalla nostra dif coltà:
“liberaci dal maligno, perché tuo è il regno e la potenza e la gloria in
eterno. Amèn”. (Matteo, 6:13b).
“Il regno di Dio e la sua giustizia” che Gesù consiglia di cercare prima di
ogni altra cosa (Matteo, 6:36) producono una meravigliosa luce che
soppianta le tenebre del male (1Pietro, 2:9). “Il regno di Dio consiste in
giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Romani, 14:17).
Mentre l’aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male
ha messo nell’uomo il sentimento di insoddisfazione che ha portato Caino
a invidiare e uccidere suo fratello Abele, la conoscenza dell’amore di Dio
non lascia spazio per l’invidia, perché porta felicità e soddisfazione. “Tu
m’hai messo in cuore più gioia di quella che essi provano quando il loro
grano e il loro mosto abbondano.” (Salmi, 4:7).
“Ora sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano
Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.” (Romani, 8:28).
Sappiamo: questa è la conoscenza che ci aiuta a non invidiare. Perché
l’amore del SIGNORE che produce l’amore per il SIGNORE ci dà la vera
conoscenza (1 Corinzi, 8:3). In questa conoscenza sappiamo per esperienza
che la volontà di Dio è perfetta per noi (Romani, 12:2). Cioè che quello che
abbiamo ricevuto è esattamente quello che possiamo portare, il nostro
incarico e la nostra responsabilità.
Esodo, 20:18-19 Ora tutto il popolo udiva i tuoni, il suono della tromba e
vedeva i lampi e il monte fumante. A tal vista, tremava e stava lontano. E
disse a Mosè: Parla tu con noi e noi ti ascolteremo; ma non ci parli Dio,
altrimenti moriremo.
Come un sol uomo, all’udire il suono dei tuoni che si univa a quello dello
shofar, e alla vista dei lampi e del fumo in vetta al monte, il popolo di
Israele trema (la radice verbale nun+vav+ayin, che ha il senso primario di
“oscillare”, ci fa capire che si trattava di qualcosa di più di un intimo
tremore: piuttosto di uno sgomento, se non di un vero e proprio
scompiglio). È ben felice quindi di delegare a Mosè il compito di interagire
con il SIGNORE, per tenersi alla larga dalla presenza di Dio. Nel racconto
dello stesso episodio che troviamo in Deuteronomio, l’ultimo libro della
Torah, è scritto che il popolo ha esclamato: “abbiamo visto che Dio ha
parlato con l’uomo e l’uomo è rimasto vivo. Ma ora perché dovremmo
morire? Questo gran fuoco ci consumerà!” (Deuteronomio, 29:24-25).
Per volontà del popolo e anche di Dio, Mosè con Aaronne e la sua famiglia
diventano quindi gli intermediari uf ciali del rapporto (cioè del patto) tra il
SIGNORE e Israele. L’autore della Lettera agli Ebrei ci parla di quest’incarico
di mediatore tra Dio e il popolo come del “punto essenziale” di tutto il suo
discorso (Ebrei, 8:1). E ci ricorda che, nel primo patto, l’Antico Testamento, il
sommo sacerdote, che continuava il servizio di mediazione inaugurato da
Mosè e da suo fratello Aaronne, era colui che il “giorno dell’espiazione”
(Yom Kippur, della quale festa solenne abbiamo già parlato considerando il
comandamento di osservare il sabato) entrava nel luogo santissimo per
coprire con il sangue di capri e di torelli “i peccati suoi e del popolo” (Ebrei,
9:7; curiosamente, la radice del verbo coprire si è conservata identica a
quella del verbo ebraico chaf+pe+resh da cui deriva il nome della festa).
Paolo ha detto che Dio giudicherà tutti gli uomini per mezzo di Cristo, e
l’Apocalisse ci parla di terribili agelli che stanno per colpire l’umanità
ribelle e di un lago di fuoco pronto per il diavolo e tutti coloro che non
avranno ricevuto la salvezza di Dio. L’anonimo autore della Lettera agli
Ebrei ci ricorda infatti che “il nostro Dio è anche un fuoco consumante”
(Ebrei, 12:29). Gesù stesso aveva detto apertamente “Io vi mostrerò chi
dovete temere. Temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare
nella gheenna. Sì, vi dico, temete lui.” (Luca, 12:5).
In effetti, la realtà di Dio non può cambiare, e anche oggi, come prima di
Cristo, l’avvicinamento a Dio non può essere senza conseguenze per la
nostra vita. Nessuno può entrare in contatto con Dio e rimanere lo stesso.
A meno che non si decida di ignorarlo, come fa la maggioranza delle
persone, aiutata in questo anche dalle diverse forme della religiosità
“cristiana”. Ma se lo vogliamo ascoltare e imparare da lui, dobbiamo essere
pronti a un cambiamento radicale. Gesù infatti l’ha detto chiaramente:
“chi non rinuncia a (ouk apostàssetai οὐκ ἀποτάσσεται, lett. “non mette via in
ordine per partire”, cioè “non saluta”) tutto quello che ha, non può essere
mio discepolo” (Luca, 14:34). Per seguire Gesù dobbiamo lasciare la nostra
vecchia vita e cominciarne una nuova, con una nuova destinazione e dei
nuovi interessi.
Così, in questa nuova vita non si entra per caso o per sbaglio, ma occorre
anzi un considerevole sforzo cosciente, sia per entrarci sia per non uscirne.
Non si diventa cristiani solo perché si nasce in una nazione o in una
famiglia cristiana, e non si resta cristiani senza che ci costi fatica. Gesù ha
infatti esclamato: “quanto stretta è la porta e angusta la via che porta alla
vita!” (Matteo, 7:14).
Eppure, per no nelle chiese evangeliche che sono sorte dopo la Riforma e
che sono tutte dottrinalmente basate sul ri uto dell’idolatria e del culto ai
santi (e ai morti), rimane sempre presente la tendenza a ritenersi salvati
solo in virtù della salvezza e della guida di altri, come se l’essere salvati
dipendesse da qualcos’altro oltre che dalla fede nel sacri cio di Cristo.
Tra i nostri “possedimenti”, le cose a cui è più dif cile rinunciare sono i
meriti e i diritti che riteniamo di esserci guadagnati con le nostre fatiche, o
comunque con la nostra onestà. Ci costa moltissimo ammettere un torto,
ma ancora di più ci costa rinunciare ad avere ragione. Il libro di Giobbe è
una profonda illustrazione di questo aspetto della natura umana, e ci
mostra anche come Dio, invitandoci a rinunciare alla nostra “giustizia”, non
ci vuole affatto defraudare di ciò che ci spetta, ma piuttosto portarci a un
livello più alto di intimità con il suo cuore e la sua giustizia.
Perdonare di cuore non è affatto facile, e tanto meno facile doveva esserlo
in un paese occupato dall’esercito romano, sotto la cui pressione non tutti
riuscivano a mantenersi integri, anzi molto pochi. Ma Gesù ha ordinato di
dare il nostro perdono a tutti quelli che ce lo chiedono. Lo ha ordinato ai
suoi discepoli di allora e anche di oggi, cioè a noi. “Se tuo fratello pecca,
riprendilo; e se si ravvede, perdonalo. Se ha peccato contro di te sette
volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: Mi pento, perdonalo.
Allora gli apostoli dissero al Signore: Aumentaci la fede!” (Luca, 17:3-5). Lo
stesso dobbiamo dire anche noi: chi non ha qualche risentimento,
qualcosa (o qualcuno) che non riesce a perdonare anche e soprattutto a (o
tra) coloro che gli sono più vicini?
La fede non è una virtù astratta. È un rapporto di ducia, che nel caso di
un superiore si esprime con l’obbedienza. La fede in Dio deriva
dall’obbedienza e si esprime con l’obbedienza verso la sua parola. In
Romani 10:17, Paolo scrive che la fede viene dall’ascolto: il testo dice ex
akoès (ἐξ ἀκοῆς), con una parola che ha la stessa radice di hypakoè (ὑπακοή),
che signi ca appunto “obbedienza”. Perché ascolta davvero chi ascolta
per mettere in pratica quello che ascolta. Ed è solo ascoltando la parola di
Dio e mettendola in pratica nella nostra vita che possiamo renderci conto
della sua verità.
Invece, “chi guarda attentamente nella legge perfetta, cioè nella legge
della libertà, e in essa persevera, non sarà un ascoltatore smemorato ma
uno che la mette in pratica; egli sarà felice nel suo operare.” (Giacomo, 1:25).
Come abbiamo già ricordato (sempre parlando dell’ottava parola), la legge
perfetta è la legge compiuta da Gesù Cristo sulla croce, la legge della
libertà che ci fa operare nella giustizia, se e quando ci diamo di Dio e
stabiliamo con lui un rapporto personale attraverso l’unico mediatore che
è Cristo Gesù, la parola stessa di Dio (Apocalisse, 19:13). Difatti Paolo
esclama: “la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla
legge del peccato e della morte” (Romani, 8:2).
La fede che ci serve per perdonare ed essere perdonati ci può venire solo
da Dio. A chi altro possiamo rivolgerci per ottenerla? Ma come facciamo a
cercarlo se non abbiamo fede in lui? Per perdonare abbiamo bisogno di
essere perdonati, ma più abbiamo bisogno di perdono, meno lo
riconosciamo. Nella nostra mente e nella nostra vita si formano così dei
circoli viziosi, delle spirali – o, meglio, dei gorghi – da cui è molto dif cile
liberarsi.
Ne abbiamo già più volte parlato (l’ultima delle quali meditando sull’ottava
parola), come della “chiave di Davide” per raggiungere il cuore di Dio.
Quando si ringrazia, infatti, non si ringrazia una cosa, ma qualcuno che si
riconosce come la sorgente del bene per cui lo si ringrazia e si esprime la
certezza che quel bene fosse rivolto proprio a noi. Il ringraziamento è la
base del rapporto personale. Per questo, nel ringraziamento occorre un
nome e una storia, e questa storia, per noi uomini verso il Dio di Abraamo,
di Isacco e di Giacobbe, è quella che culmina con la morte di Gesù sulla
croce, grazie alla quale “offriamo continuamente a Dio un sacri cio di lode:
cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome.” (Ebrei, 13:15).
Riconoscere l’opera di Dio in tutte le nostre vie (Proverbi, 3:6) è il modo per
ringraziarlo e per perdonare a nostra volta ogni strumento che Dio ha
voluto usare per farsi conoscere nella nostra vita, anche causandoci quello
che ai nostri occhi non poteva apparire che come un male. Abbiamo già
visto questo principio manifestarsi nel momento clou della vita di
Giuseppe (a cui abbiamo già alluso a proposito del quarto comandamento
e di cui abbiamo parlato ancora più approfonditamente meditando sul
perdono, a proposito del sesto), quando cioè Giuseppe spiega ai suoi
fratelli che il terribile male che loro avevano pensato di fargli era stato
trasformato da Dio in una immensa benedizione, perché essendo
diventato l’amministratore di tutti i beni in Egitto Giuseppe aveva ora il
potere di ospitare tutta la su famiglia estesa e di farli sopravvivere alla
carestia. Secoli dopo, quella benedizione si sarebbe però di nuovo
trasformata in una maledizione, perché il popolo di Israele da gradito
ospite nel frattempo si era trasformato in un popolo di schiavi (Esodo, 1:8-
14). Ma anche quella terribile situazione sarebbe stata l’occasione per Dio
di rivelare al suo popolo il suo Nome, così che potessero amarlo come il
loro personale salvatore (Esodo, 20:2; Deuteronomio, 6:4-5). Guardando
fedelmente alla fedeltà di Dio, le situazioni cambiano e possiamo dover
attraversare molte tribolazioni, ma possiamo anche sapere che il SIGNORE
ci libera da tutte (Salmi, 34:17-19). Possiamo cercare innanzitutto il regno di
Dio e la sua giustizia e avere da Dio in aggiunta anche tutte le cose che
non abbiamo chiesto (Matteo, 6:33), come era già successo a Salomone,
che però poi a un certo punto ha distolto lo sguardo dal SIGNORE.
Viceversa, se non amiamo Dio e sospettiamo che Dio non ci ami non
possiamo ringraziarlo per tutto quello che ci capita. Lo facciamo a stento
per le cose evidentemente buone; attribuendole, quando ci capitano,
piuttosto alla nostra bravura, educazione, naturale bontà, o al caso, o
all’opera magica o politica di qualche creatura, visibile o invisibile. Ma
certamente, se non abbiamo un vero rapporto di ducia, non riusciamo a
ringraziare Dio per le cose che ci sembrano cattive e che ci spaventano a
morte, e che ci fanno perdere quel minimo di fede in Dio che ci è rimasto.
E attraverso la nostra paura della morte ( sica o civile) il diavolo può
regnare incontrastato sulle nostre anime (Ebrei, 2:15).
Così non sia, perché tutta la parola di Dio si è realizzata nella storia ed è
stata scritta e insegnata nei secoli proprio per darci modo di reagire alle
circostanze non solo con le nostre forze o con la forza dei nostri alleati o
aiutanti, ma con la forza e il coraggio che vengono dalla fede in Dio, al
quale possiamo rivolgerci in preghiera. Per insegnarci cioè a stabilire un
rapporto intimo, sincero e profondo con il SIGNORE (questo il senso del
primo e del secondo patto: “patti chiari, amicizia lunga” dice anche il
proverbio). Il rapporto aperto per tutti da Cristo Gesù, che ha potuto
insegnare ai suoi discepoli a chiamare “Padre nostro” il Re di tutto
l’Universo.
Per pregare, non dobbiamo essere già degni di parlare con Dio, basta
essere umili e sinceri (“ecco su chi io poserò il mio sguardo: su chi è umile,
ha il cuore af itto e trema alla mia parola” Isaia, 66:2). La preghiera è un
dialogo che certamente richiede da parte nostra un passo di fede. Ma
all’inizio un solo passo è suf ciente. E in questo passo possiamo anche
chiedere che il Signore venga in aiuto alla nostra incredulità (Marco, 9:24).
La fede può essere anche minima sul nascere, perché se ne abbiamo
anche pochissima può svilupparsi e diventare sempre più forte man
mano che viene a essere esercitata e confermata dall’esperienza delle
risposte di Dio. Come un piccolo seme che può crescere e diventare
anche un grande albero (Matteo, 13:31 e 17:20).
Ma c’è ancora speranza, per tutti quelli che la vogliono trovare. Come ne è
rimasta per il popolo di Israele anche dopo tutte le trasgressioni che sono
raccontate nei libri dello stesso Antico Testamento, così anche per tutti gli
uomini di tutte le nazioni a cui la Bibbia è arrivata grazie al sacri cio di
Cristo e alle esortazioni contenute nel Nuovo. Infatti, mentre la devozione
verso un dio morto che ci siamo fatti noi per i nostri scopi (o che si è
presentato per i suoi) ci porta a vivere in una realtà morta (abbandonata
alle leggi della sica degli oggetti inanimati, o della biologia e dell’etologia;
o alla cattiveria delle creature – visibili e invisibili – che ci possono divorare
o sottomettere; o anche, in una visione meno drammatica, alle leggi del
caso e della probabilità), la fede nel Dio vivente su cui è fondata la Chiesa
(Matteo, 16:16) ci trasmette la forza e la solidità che vengono da una
“speranza viva” (1Pietro, 1:3). Ci toglie dal buio della disperazione e fa
albeggiare all’orizzonte il senso di questa nostra vita.
La realtà del regno messianico descritto negli ultimi capitoli del libro di
Isaia è al contrario caratterizzata da un contatto immediato tra Dio e il suo
popolo: “Avverrà che, prima che m’invochino, io risponderò; parleranno
ancora, che già li avrò esauditi.” (Isaia, 65:24) che ci garantirà la possibilità di
rispondere alle circostanze e di vedere trasformate le situazioni attorno a
noi in risposta alle nostre preghiere (addirittura anticipate dalla
preconoscenza di Dio), non vivendo quindi più la nostra vita come
spettatori di una tragedia, ma come gli del Re che ha autorità su ogni
cosa in terra e in cielo e che ci invita a disturbarlo per ogni cosa
importante ai nostri occhi, soprattutto quando siamo mossi dal suo
amore.
“Perciò, come dice lo Spirito Santo: Oggi, se udite la sua voce, non indurite
i vostri cuori…” (Ebrei, 3:7-8)