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Ettore Panizon
Amicizia fraterna. Prima parte | ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ
Indice
“Un fratello offeso è più inespugnabile di una fortezza; e le liti tra fratelli
sono come le sbarre di un castello.” (Proverbi 18:19).
Nella Bibbia vediamo che i primi due fratelli di cui abbiamo notizia non
andavano molto d’accordo: non sappiamo quali fossero i sentimenti di
Abele, ma certamente Caino non gli voleva tanto bene. La stessa cosa ci è
detta dei primi due gli di Abramo (Ismaele e Isacco), dei due gli di
Isacco (Giacobbe ed Esaù), e anche dei gli di Giacobbe, in particolare tra
Giuseppe e i suoi fratelli, le cose non sono andate sempre lisce.
Anche tra fratelli in Cristo non è così scontato che ci si ami veramente.
Tanto è vero che quello di amarci gli uni gli altri Gesù ha dovuto darcelo
come un comandamento, e un comandamento nuovo (Giovanni, 13:34).
Eppure, se amiamo il Padre, dovremmo amare anche gli altri suoi gli, non
solo perché, come ha scritto l’apostolo Giovanni, non possiamo dire di
amare Dio che non vediamo se non amiamo il fratello che vediamo
(1Giovanni, 4:20), ma anche perché sappiamo bene che un padre che ama
i suoi gli è felice di vedere che anche i gli si amano tra di loro.
Spesso, però, anche nella famiglia della fede, l’amore per il nostro Padre
celeste non è suf cientemente forte da farci superare l’antipatia, l’invidia,
o altre cause di rivalità e di disamore. E noi, per giusti carci del fatto che
non amiamo i nostri fratelli, protestiamo che non possiamo mica essere
amici di tutti.
Ora, è vero che è dif cile amare qualcuno senza conoscerlo e senza
esserne amico, e che, in effetti, l’amicizia tra fratelli in Cristo è certamente
un importante aiuto per arrivare ad amarsi come ci ha comandato il
Signore (lo scrive chiaramente anche l’apostolo Pietro – in 2Pietro 1:5-6 –
dove elenca l’amicizia fraterna (phialadelphìa φιλαδελφία) tra le cose da
aggiungere alla fede per giungere all’amore di Dio). Ma è anche vero che a
diventare amici bisogna pur cominciare da qualche parte, e certamente
gli atti d’amore che compiamo verso il nostro fratello in Cristo – senza
necessariamente conoscerlo bene e soprattutto senza aspettarci niente
in cambio – sono il principale mezzo per favorirne l’amicizia.
Siamo un po’ più precisi con la parola amico (lo eravamo, almeno, prima
che i social ne in azionassero completamente l’utilizzo). Il senso di questa
parola varia però molto da regione a regione, e da ambiente ad ambiente,
e anche nello stesso ambiente non tutti intendono esattamente la stessa
cosa quando dicono di considerare qualcuno un proprio amico.
Sappiamo che l’amore può essere ricambiato, ma che può anche non
esserlo. Un certo tipo di amore normalmente lo è, un’altro tipo non lo è
quasi mai, o comunque non lo è necessariamente e nello stesso modo e
negli stessi tempi, perché il rapporto non è normalmente lo stesso in
entrambe le direzione, e cioè cambia senso e valore a seconda che vada
da chi ama a chi è amato o viceversa.
Potremmo intanto de nire l’amicizia come l’amore nella sua forma più
reciproca e paritaria. È il tipo di amore che può sfociare in erotismo, come
l’amore cortese cantato da Dante (“amor, ch’a nullo amato amar perdona”),
ma è anche quello che in linea di principio rimane libero da interessi
materiali. E che è la cosa più importante e preziosa della nostra vita. “L’olio
e il profumo rallegrano il cuore; così fa la dolcezza del proprio amico con un
consiglio dell’anima.” (Proverbi, 27:9)
A differenza dell’amicizia nella sua forma pura, questo tipo di rapporto più
unidirezionale può trasformarsi in passione e dare luogo a una più o meno
legittima gelosia – “dura come il soggiorno dei morti” (come si esprime
Salomone nel Cantico dei cantici, 8:6) – che rende la comunicazione
sempre più dif cile e il rapporto ancora più sbilanciato, cose che
certamente non ne aiutano la sopravvivenza.
Intanto è importante chiarire che, nella vita, questi due diversi tipi di
amore si sovrappongono sempre (se non altro, perché pure l’amicizia è un
bisogno), cosa che a volte ingenera dolorose confusioni. D’altra parte, la
loro compresenza è di vitale importanza per entrambi i due tipi di affetto:
non c’è vera amicizia senza amore e non c’è vero amore senza amicizia.
Il maestro non può spiegare subito tutto al suo allievo (cfr. Giovanni, 16:12)
e così nemmeno il genitore al glio. Neanche il padrone può dire tutto al
suo servo, o il direttore al suo impiegato. Né l’allievo, o il glio, o il servo, o
l’impiegato se ne possono stupire, o lamentare. Un amico invece si
aspetta di essere informato delle cose importanti che lo riguardano e
soprattutto delle cose che riguardano il rapporto con l’amico. Se questo
non avviene, si comincia a domandare se l’altro davvero lo consideri un
amico. E, d’altra parte, è solo con la con denza e la condivisione dei propri
punti di vista che anche un rapporto gerarchicamente ineguale, come
quello tra padre e glio o tra maestro e allievo, può svilupparsi in amicizia.
L’amicizia non dovrebbe avere a che fare con l’interesse personale, né con
la convenienza sociale, in generale non dovrebbe essere basata sui
vantaggi materiali. Purtroppo però, spesso, più dell’amore, può il nostro
bisogno di affermazione sociale, e non siamo indifferenti ai vantaggi che ci
possono venire dall’amicizia di uomini importanti e facoltosi. O, viceversa,
facciamo fatica ad essere amici di coloro dai quali non riusciamo ad
aspettarci nessun vantaggio. “Le ricchezze procurano gran numero di
amici, ma il povero è abbandonato anche dal suo amico.” (Proverbi, 19:4).
Ma certo, più facciamo così, meno le nostre amicizie saranno autentiche e
profonde.
“Molti corteggiano l’uomo generoso, tutti sono amici dell’uomo che offre
regali” (Proverbi, 19:6). Ma l’amicizia di tutti rischia di rivelarsi l’amicizia di
nessuno. “Chi ha molti amici può esserne sopraffatto, ma c’è un amico che
è più affezionato di un fratello.” (Proverbi, 18:24). Il vero amico, come si dice,
si vede nel momento del bisogno. “L’amico ama in ogni tempo; è nato per
essere un fratello nella sventura.” (Proverbi 17:17) “Non abbandonare il tuo
amico né l’amico di tuo padre, e non andare in casa del tuo fratello nel
giorno della tua sventura; una persona a te vicina vale più d’un fratello
lontano.” (Proverbi, 27:10).
Quello della vera amicizia e del suo legame con l’amore disinteressato è il
tema centrale della Bibbia: l’amicizia con Dio attraverso la fede, e l’amicizia
tra i fedeli, cioè tra coloro che sono diventati gli di Dio credendo nella sua
parola. La Legge data attraverso Mosè e le parole scritte dai profeti
avevano lo scopo di fare nascere e durare l’amicizia tra i gli di Israele,
attraverso l’amore insegnato da Dio. “Tutte le cose dunque che voi volete
che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge
e i profeti.” (Matteo, 7:12).
Per spiegare tutto ciò ai suoi discepoli, Gesù ha raccontato una parabola,
spesso mal interpretata, in cui un servo riconosciuto infedele verso il suo
padrone decide di guadagnarsi almeno l’amicizia dei conservi,
condonando i debiti che questi avevano con lo stesso padrone che lo
stava licenziando. “E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito
con avvedutezza; poiché i gli di questo mondo, nelle relazioni con quelli
della loro generazione, sono più avveduti dei gli della luce. E io vi dico:
fatevi degli amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno
a mancare, quelli vi ricevano nelle dimore eterne.” (Luca, 16:8-9).
Tra i gli di Dio spesso ci si crede più spirituali quando si condanna con
maggiore severità i peccati dei nostri fratelli, ma questo non produce
amicizia: al contrario, freddezza, se non, peggio, tiepidezza, cioè
indifferenza e ipocrisia. L’amore e l’amicizia vengono dalla certezza di
essere compresi e non condannati da una supposta posizione di
maggiore santità o giustizia, sulla quale a volte ci arrocchiamo, mentendo
contro la verità. “Chi copre gli sbagli si procura amore, ma chi sempre vi
torna su disunisce gli amici migliori.” (Proverbi 17:9).
Perché è anche scritto: “chi acquista senno [letteralmente: “cuore”, lev ] ֵלב
ama se stesso; e chi serba con cura l’intelligenza troverà del bene.”
(Proverbi, 19:8). Preoccuparsi del vero bene del nostro amico signi ca dirgli
la verità (Efesini, 4:25) e incoraggiarlo a considerare la sua vita interiore più
di quella esteriore. E questo è il nostro stesso bene, oltre che il suo. Perché
imparando a conoscere la verità della vita interiore assieme ai nostri amici,
li aiutiamo a entrare in una dimensione più profonda: il loro cuore ne trarrà
bene cio, per un rapporto più profondo e più autentico, anche con noi.
“Come il viso si ri ette nell’acqua, così il cuore dell’uomo si ri ette
nell’uomo.” (Proverbi, 27:19).
Agàpē e philìa
Nel greco del Nuovo Testamento, i due termini che si riferiscono ai due
atteggiamenti del cuore che abbiamo cercato di de nire come due
aspetti dell’amore sono espressi con due parole che hanno radici
completamente diverse: agàpē (ἀγάπη) e philìa (φιλία).
Agàpē è l’amore del quale Paolo scrive la poetica de nizione che è stata
considerata un vero e proprio inno, e che è anche una precisa istruzione
non solo su come riconoscerlo, ma anche su come realizzarlo: “L’amore è
paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si
gon a, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio
interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia,
ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa,
sopporta ogni cosa.” (1Corinzi, 13:4-7).
Questo è l’amore di cui “Dio ha tanto amato il mondo” del famoso versetto
di Giovanni (3:14) che spesso – e forse semplicisticamente – è stato
considerato la migliore sintesi del Vangelo di Cristo.
Philìa, l’amicizia, invece, sia quella con Dio che quella tra gli uomini, come
abbiamo già visto, non è un affetto incondizionato. Non si può essere
amici di qualcuno che non si conosce, e soprattutto di qualcuno che non
si lascia conoscere, perché non desidera conoscerci. La risposta può essere
anche immediata: uno sguardo, confermato da qualche altro gesto e
qualche parola. Ma sono anche necessarie altre conferme e assicurazioni,
che dimostrino un’af nità e una possibile vicinanza. Senza le quali, il
rapporto d’amicizia non può stabilirsi.
Lea e Rachele
L’amicizia ha senz’altro anche a che fare con l’ammirazione e il
compiacimento, per non dire il piacere. Gli amici, normalmente, sotto certi
aspetti almeno, si assomigliano, e si piacciono.
Tutte e tre le caratteristiche delle due sorelle menzionate dal testo hanno
a che fare, direttamente o indirettamente, con la visione. Del resto anche
oggi in ebraico, per dire che qualcuno ci piace, si dice che “ha trovato
grazia ai nostri occhi”. La grazia che si trova deriva da qualche simmetria o
identità che viene riconosciuta, e che produce gioia e piacere alla vista, e al
cuore. E un senso di reciproca appartenenza. Sentimento espresso anche
dalla sposa nel Cantico dei cantici: “Il mio amato [il termine ebraico usato
qui – dod – דּוֹדsigni ca “bollente”, e ha a che fare con i baci] è mio, e io
sono sua: di lui che pastura [o “che è l’amico” ha-ro’eh ] ָהרֶֹעהfra i gigli.”
(Cantico, 2:16)
Ma, dopo aver lavorato sette anni per Rachele, la mattina dopo le nozze
Giacobbe si sveglia “ed ecco che era Lea!” (Genesi, 29:25). Come Labano
spiega al nipote, non aveva potuto dargli subito Rachele perché non
sarebbe stato opportuno dare in sposa la glia minore prima della
maggiore. Giacobbe avrebbe avuto Rachele dopo la settimana di nozze
con Lea, in cambio di altri sette anni di lavoro come pastore e allevatore
delle greggi di Labano. Così, dopo quella settimana, “Giacobbe si unì pure
a Rachele, e amò Rachele più di Lea, e servì Labano per altri sette anni.”
(Genesi, 29:30).
Lea invece non era amata da Giacobbe, e sapeva che il cuore del marito
era rivolto verso sua sorella. Lea desiderava il marito perché aveva bisogno
di lui, e anche il marito era stato con lei per il suo bisogno. Mentre quello
con Rachele era un matrimonio d’amore, quello con Lea era stato un
matrimonio di interesse, un matrimonio combinato, accettato da tutti per
convenienza sociale.
Non è certo un caso che i patriarchi del popolo di Israele siano stati tutti
pastori, n dalla loro infanzia (Genesi, 46:32-34). E che proprio Giacobbe
abbia dimostrato una particolare abilità con gli incroci tra i capi del
bestiame che gli era stato af dato dallo zio e suocero Labano (cfr. Genesi,
30). Anche in questo l’uomo era stato fatto a immagine e somiglianza di
Dio. Nel libro dei Salmi, in quello del profeta Ezechiele e nei vangeli
(segnatamente quelli di Luca e di Giovanni), il popolo di Dio e in particolare
i suoi discepoli sono infatti considerati “il gregge del SIGNORE”.
È Dio che sceglie chi prendere e chi lasciare. E spesso sceglie lasciando
scegliere all’uomo: scegliendo una o l’altra via, gli uomini manifestano la
loro natura, dirigendosi verso la casa di Dio, o rmando più o meno
consapevolmente la loro condanna. “Poiché il SIGNORE conosce la via dei
giusti, ma la via degli empi conduce alla rovina.” (Salmi, 1:6).
Difatti, quando dei farisei gli hanno chiesto se fosse lecito mandare via la
propria moglie, Gesù ha risposto: “Non avete letto che il Creatore, da
principio, li creò maschio e femmina e che disse: Perciò l’uomo lascerà il
padre e la madre, e si unirà con sua moglie, e i due saranno una sola
carne? Così non sono più due, ma una sola carne; quello dunque che Dio
ha unito, l’uomo non lo separi.” (Matteo, 19:4-6).
Un santo bacio
Sia l’amore che l’amicizia devono avere anche un’espressione esteriore. È
con opere di amore-carità (agàpē) che possiamo e anzi dobbiamo
esprimere la nostra fedeltà (cioè l’ubbidienza) verso Dio e curarci del
nostro prossimo. Come scrive Paolo (Galati, 5:6), e come conferma anche
Giacomo: “Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del
cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: Andate in pace, scaldatevi e
saziatevi, ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve [la
vostra fede]?” (Giacomo, 2:15-16). E anche l’amicizia ha le sue manifestazioni
esteriori, che sono forse più piacevoli e costano meno sacri ci di quelle
dell’amore, ma non sono per questo meno necessarie. Paolo conclude
ben tre delle sue epistole maggiori dicendo ai fratelli nella fede:
“salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio” (Romani, 16.16; 1Corinzi, 16:20;
2Corinzi, 13:12).
Nel testo originale la parola che traduciamo con bacio – cioè phìlēma
(φίλημα) – è chiaramente imparentata con philìa, “amicizia”. Il bacio è infatti
il principale segno dell’amicizia: come nel prendersi per mano o a
braccetto, nel bacio non solo si esprime vicinanza, ma si realizza anche una
forte comunione di sensazioni, che facilita quella dei sentimenti e de i
pensieri. Ma il bacio è comunque un gesto esteriore, e come tale può
essere usato per mentire. O per compiere e marcare una conquista.
Come, per altro, anche le opere dell’amore possono essere solo esteriori.
Opere d’amore senza amore, che non servono a niente (1Corinzi, 13:1-3), se
non a farsi belli agli occhi degli altri. Paradossi che purtroppo fanno parte
integrante di questa nostra vita, come i gesti di amicizia senza verità che si
sprecano nel mondo.
Ricordiamo tutti che Giuda ha tradito Gesù proprio con un bacio (Luca,
22:48). E con quel bacio e con quel tradimento ha manifestato l’assenza di
amore nel suo rapporto con Cristo e con la chiesa, infatti rubava dalle
offerte per i poveri e probabilmente si aspettava qualche vantaggio da
una vittoria politica del Cristo. Quando ha visto che il vantaggio non
arrivava e che l’affare stava per nire, ha preferito “l’uovo oggi” e ha preso i
trenta denari che gli erano stati offerti.
Il termine greco si conserva più intatto nel linguaggio della chiesa come
fornicazione e si riferisce a un’unione che in Israele è stata considerata
illecita molto prima che fosse data la legge di Mosè (Genesi, 34:7), e che
consiste nell’oltrepassare i limiti del rapporto di amicizia, saltando il
danzamento e il matrimonio. O trascurandone l’impossibilità, come
accade nel rapporto omosessuale o nell’incesto.
I capitoli 18-20 del Levitico, che trattano assieme proprio del divieto dei
rapporti omosessuali e e di quelli incestuosi, fanno riferimento all’atto di
oltrepassare questo limite parlando icasticamente dell’azione di “scoprire
la nudità” della persona desiderata.
“Non sapete che chi si unisce alla prostituta (pòrnē πόρνη) è un corpo solo
con lei? Poiché – Dio dice – i due diventeranno una sola carne. (…). Fuggite
la fornicazione. Ogni altro peccato che l’uomo commetta, è fuori del corpo;
ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo.” (1Corinzi, 6:16 e 18).
Effettivamente, l’unione con un’altro corpo che non è fatta per durare è
un danno che in iggiamo al nostro stesso futuro.
Amicizia lunga
Dobbiamo servire gli altri, ma anche educarli a non farsi servire. Appunto
perché anche lo sfruttamento è un crimine contro l’amicizia. E se amiamo
il nostro amico come noi stessi, desideriamo che anche il suo cuore cresca,
non solo il nostro.
Chi sfrutta alla ne tradisce, come ha fatto Giuda con Gesù. Gesù no alla
ne l’ha chiamato “amico” (Matteo, 26:50), ma Giuda, che l’aveva sfruttato
nei mesi precedenti, ha usato un nto bacio per indicare la sua identità a
chi lo doveva arrestare e gli aveva promesso altri soldi.
Ma anche se non tradisce apertamente, chi sfrutta l’amico non sarà mai
veramente con lui. Perché il nostro cuore è lì dove abbiamo il nostro
tesoro (Matteo, 6:21), e se usiamo l’amico per qualche cosa d’altro vuole
dire che il nostro tesoro non è in lui. Il vero tesoro si trova invece proprio
nell’amicizia dei nostri fratelli, l’amicizia che non potremo mai avere, se
vogliamo dominare su di loro.
“Voi sapete che quelli che sono reputati prìncipi delle nazioni le
signoreggiano e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio. Ma non
è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro
servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti.
Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per
servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti.” (Marco,
10:42-45)
“Metti di rado il piede in casa del tuo prossimo [la parola usata nel testo
originale è sempre rea’ ֵר ַעche vuol dire soprattutto “amico”], perché egli,
stufandosi di te, non abbia a odiarti.” (Proverbi, 25:17).
L’invadenza non è solo sica. Signi ca anche prendere il posto che non ci
è stato dato. Esigere un livello di con denza più intimo di quello che ci è
stato accordato. Dare per scontata l’attenzione e la disponibilità dell’amico.
Dimenticarci che siamo ospiti nel suo cuore, e che non è giusto che ci
sentiamo in diritto di starci e di prendere quello che ci troviamo.
Con gli amici condividiamo i nostri interessi, che a volte non sono che un
pretesto per parlare assieme sapendo di essere reciprocamente ascoltati
e, di base, apprezzati. Anche solo per stare assieme, gli amici al bar o in
salotto parlano di di cinema, di macchine, di sport, di politica, o di
letteratura… ; in altri contesti comunitari si parla delle Sacre Scritture, di
libri spirituali, o di altre esperienze. A tu per tu, si parla più spesso dei
rapporti con gli altri, dei propri problemi, delle proprie ri essioni o delle
conclusioni a cui è arrivati meditando sul senso della vita, e si cerca di
de nire assieme una comune identità. Un “noi” in cui riconoscersi, come
coppia, come famiglia, come chiesa, come gruppo di amici.
Così, sebbene Dio abbia chiaramente detto che nel matrimonio marito e
moglie diventano una sola carne (Genesi, 2:24; Matteo, 19:5-6), e pur
essendo una dottrina largamente condivisa che nella chiesa i credenti
sono tutti membra di un solo corpo (Romani, 12:4-5), sia tra gli sposi che tra
i membri della chiesa non prevale sempre il desiderio e la gioia di donarsi
per il bene comune, e ancora di meno questo avviene in un gruppo di
amici: c’è comunque sempre una certa separazione, un calcolo che
facciamo, magari giusti candoci con il desiderio che ci sia equilibrio tra
dare e ricevere, stando ad ogni modo molto attenti a che nessuno si
appro tti dell’altro. Perché, in particolare dalle nostre parti, abbiamo
molta paura che gli altri ci sfruttino, o anche, più giustamente, che
pensino di essere sfruttati. Evidentemente, il valore dell’amicizia non è
così chiaramente condiviso come valore in sé.
Uno dei salmi più famosi e più amati tra quelli scritti da Davide comincia
con la doppia affermazione “Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.”
(Salmi, 23:1). Abbiamo in precedenza collegato l'amicizia e il matrimonio
con l'allevamento e la cura del gregge. Effettivamente, in ebraico le parole
che signi cano “pastore” (raa'h ) ָרעָהe “amico” (rea’ ) ֵר ַעhanno radici molto
vicine tra di loro. Questo salmo parla di un rapporto speciale, con un
pastore/amico che non ci fa mancare nulla. Qualcuno che ci guida
attraverso luoghi di riposo, che non ci forza e non ci manipola, ma al
contrario fa abbondare in noi la sua vita perché in lui è la sorgente della
vita, e, anche se possiamo essere poveri di ricchezze materiali, in lui
abbiamo tutto quello che esiste (2Corinzi 6:10).
Il terzo verso infatti dice: “Egli mi ristora l’anima, mi conduce per sentieri di
giustizia, per amore del suo nome.” Non si tratta di un nome qualsiasi, ma
del Nome di “Colui che fa esistere”, che è un possibile signi cato del
tetragramma che compone il santo nome proprio di Dio (che traduciamo
come SIGNORE, o come l’Eterno, e che è certamente connesso con il
verbo essere). L’apostolo Giovanni nell’Apocalisse traduce lo stesso nome
con la locuzione Colui che era, che è e che viene (Apocalisse 1:4, 1:8 e 4:8). E
all’inizio del suo Vangelo, riferendosi al SIGNORE come alla parola di Dio,
scrive che “ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure
una delle cose fatte è stata fatta” (Giovanni, 1:3).
Il pastore guida le sue pecore con la sua verga e le protegge con il suo
bastone, a rischio della sua stessa vita. Davide, discutendo da giovane con
il re Saul a proposito di Goliat, ha raccontato come proteggeva le sue
pecore al suo re perplesso davanti alla sua decisione di s dare il gigante. “Il
tuo servo pascolava il gregge di suo padre e talvolta veniva un leone o un
orso a portar via una pecora dal gregge. Allora gli correvo dietro, lo colpivo,
gli strappavo dalle fauci la preda; e se quello mi si rivoltava contro, lo
afferravo per le mascelle, lo ferivo e l’ammazzavo.” (1Samuele, 17:34-35).
Gesù ha detto la stessa cosa di se stesso, riferendosi però non più a degli
ovini, ma a noi suoi discepoli: “Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la
sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non
appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà
alla fuga (e il lupo le rapisce e disperde), perché è mercenario e non si cura
delle pecore. Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono
me” (Giovanni, 10:11-14).
Quando desideriamo più di ogni altra cosa conoscere il volto e la voce del
nostro pastore ed essere conosciuti da lui come sue pecore, allora da Gesù
– che oltre a essere il nostro buon pastore è anche l’agnello immolato –
riceviamo il vero riposo, e impariamo la mansuetudine e l’umiltà di cuore
che ci rendono amici di Dio (Matteo, 11:28-30).
Il Figlio dell’uomo
Nonostante il suo amore e la sua cura per l’umanità, e in particolare per il
popolo di Israele, il SIGNORE è stato ripetutamente trascurato e tradito,
soprattutto proprio dal popolo che si era scelto (una delle prove
dell’autenticità della Bibbia è che il popolo che l’ha scritta e conservata è
quello che vi riceve i più tremendi rimproveri).
Gli uomini non sono molto cambiati neanche dopo che il diluvio ha
spazzato via tutte le famiglie della terra tranne quella di Noè (distruzione
che, come scrive Pietro 3:21, è una chiara gura del battesimo; difatti,
anche dopo esserci battezzati da adulti, continuiamo per molti versi a
ignorare l’onnipotenza di Dio e a vivere stoltamente, come se fossimo noi i
padroni delle nostre vite).
Perché l’umanità (in ebraico bney ha-adam “ ְבּנֵי ָהאָ ָֽדםi gli dell’uomo”)
potesse riguadagnare l’amicizia con Colui che ci ha creato a sua immagine
e somiglianza, era necessario un atto completamente simmetrico alla
disubbidienza del primo Adamo. Questo compito non poteva essere
af dato che alla stessa “immagine del Dio invisibile” (Colossesi, 1:15), la
vivente parola di Dio che è stata mandata a farsi carne nello stesso seme
di Abraamo, per diventare il prezzo del riscatto che doveva essere pagato
per tutti noi.
Figli di Dio
Il Salmo 27, citato poco fa, inizia dicendo: “Il SIGNORE è la mia luce e la mia
salvezza; di chi temerò?”. In ebraico c’è una connessione abbastanza
stretta tra le radici che signi cano “luce”, “insegnamento” e “genitore” e in
effetti credere alla parola di Dio signi ca uscire dalle tenebre e dalla nostra
solitudine venire alla “sua meravigliosa luce” (1Pietro, 2:9). “La luce della
conoscenza della gloria di Dio che rifulge nel volto di Gesù Cristo” (2Corinzi,
4:6): la conoscenza che Dio ha di noi e che desidera che anche noi
abbiamo di lui.
“Perché chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce,
af nché le sue opere non siano scoperte; ma chi mette in opera la verità
viene alla luce, af nché le sue opere siano manifestate, perché sono fatte
in Dio.” (Giovanni, 3:20-21).
Chi ci fa venire a questa luce divina è appunto Dio. Per chi crede alla sua
parola, oltre a essere un pastore e un amico, Dio diventa cioè anche un
padre. Perché, quando crediamo alla parola di Dio come alla verità,
entriamo in contatto con Colui che parla dal cielo, cioè dall’eternità, e che
si rivolge all’eternità. Diventiamo suoi gli, cioè parte dell’eternità.
Come abbiamo già detto, il passaggio da creature di Dio a gli suoi non è
un processo immediato. Analogamente alla nascita naturale, questa
nascita spirituale avviene attraverso varie fasi che possono richiedere
anche molto più tempo di quelle che, dal concepimento, portano alla
nascita e allo sviluppo di un organismo naturale.
D’altra parte, se non fosse per l’opera di Dio prima e attorno a noi, non ci
sarebbe nessuna realtà in cui entrare dopo avere lasciato la nostra. Perché
sulla via della salvezza non si può camminare da soli. Al contrario,
nascendo dall’alto, siamo invitati a fare parte del popolo che Dio si è
formato attraverso i secoli della storia dell’uomo, e ad amare questo
popolo e le sue testimonianze e rivelazioni. Come aveva già scritto Davide:
“Quanto ai santi che sono sulla terra, essi sono la gente onorata in cui
ripongo tutto il mio affetto.” (Salmi, 16:3). Il popolo che ha scritto la Bibbia e
che ne ha tratto ispirazione per molte generazioni.
Fratelli in Cristo
Credendo a Dio, diventiamo quindi fratelli di Cristo e di tutti i suoi
discepoli, tutti gli dello stesso Padre. Entriamo così in una nuova famiglia,
quella che Paolo chiama “la famiglia di Dio” (Efesini, 2:19).
Per questo, da Dio, normalmente, si nasce che si è già adulti, almeno non
più bambini piccoli. E ci si si ritrova a fare parte di un gruppo di credenti
altrettanto adulti, che non solo non ci siamo scelti ma che, per lo più, non
abbiamo neanche avuto il tempo di conoscere.
Come ogni padre, Dio desidera che il suo amore per la sua famiglia sia
anche il sentimento che lega tra loro i suoi gli. Purtroppo però, come
abbiamo già detto e ripetuto, essere fratelli non signi ca
automaticamente che si vada d’accordo. Neanche nella famiglia di Dio.
Infatti già nella prima chiesa (poche settimane dopo la discesa dello
Spirito Santo avvenuta il giorno della prima festa di Pentecoste dopo la
Pasqua del Signore Gesù), è presto nato un dissapore tra i discepoli,
causato proprio dalle differenze di ceto e di cultura tra quelli che si erano
convertiti a Cristo tra i giudei e quegli ebrei, detti “ellenisti”, che venivano
da fuori della terra di Israele. Una distanza che tardavano ad essere
colmata dall’amore. Infatti il problema era che le “loro vedove erano
trascurate nell’assistenza quotidiana.” (Atti, 6:2).
La croce, piuttosto che come la via che ci è stata indicata per imparare
qualcosa di in nitamente più prezioso di tutto ciò che possiamo lasciare,
proprio a causa del nostro attaccamento a noi stessi e alle cose che sono
in qualche modo collegate al nostro nome, ci appare per lo più come un
obbligo che preferiamo dimenticare.
Così, purtroppo, come scrive anche Paolo, molti, anche nella chiesa, vivono
come “nemici della croce” (Filippesi, 3:18). E, ancora più lamentabilmente,
questa profonda e spesso inconfessata avversione per la croce si trova
anche in quelli che dovrebbero dare l’esempio e che invece occupano i
primi posti in chiesa proprio perché, più che per la gloria di Dio, si
affaticano per il proprio nome, o per quello della propria denominazione.
Di fatto, le chiese non si dividono solo per ragioni buone, come fanno le
cellule degli organismi viventi, cioè per la naturale crescita ed espansione
della testimonianza del regno di Dio, ma anche per disaccordi e a volte
futili discussioni interne alle comunità. E spesso vengono costruite
differenze dottrinali che sono soltanto un pretesto per separarsi da coloro
con cui non si sta bene a causa di tutt’altre ragioni.
A differenza del nome che portiamo oggi, e che riassume tutto il nostro
passato, il nuovo nome esprimerà un’identità futura. E già oggi, la nuova
creatura che siamo diventati con la conversione non guarda più indietro,
ma avanti. Non ha nostalgia per le cose che sono passate, né compie
azioni per potersene vantare, o per riceverne dei meriti davanti agli
uomini, ma è ricca in vista di Dio (Luca, 12:21).
Infatti, come Paolo scrive anche altrove, la cosa importante non è se siamo
ebrei o se non lo siamo: “perché, tanto la circoncisione che
l’incirconcisione non sono nulla; quello che importa è l’essere una nuova
creatura.” (Galati 6:15). La cosa importante, cioè, è che sia stata rinnovata la
nostra mente, e di conseguenza anche la nostra vita.
L’amore per i nostri cari non ci deve cioè portare al punto di dimenticare
coloro che ancora non appartengono alla nostra storia, perché, facendo
così, dimenticheremmo Cristo e il vero senso della nostra vita (“Chi ama
padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama glio o glia più di
me, non è degno di me.” Matteo, 10:37).
E difatti Paolo, ri utato e perseguitato dai capi dei giudei, non si è ritirato a
vita privata ma ha rivolto il suo messaggio ai non ebrei, portandone molti a
entrare nella famiglia di Dio.
Così ogni nazionalismo è bandito dal regno di Dio. Difatti Paolo conclude il
discorso sul vero sentimento di Cristo prendendo le distanze da quelli che
hanno l’animo alle cose della terra e concludendo che “quanto a noi, la
nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù
Cristo, il Signore…” (Filippesi, 3:20). “Perché non abbiamo quaggiù una città
stabile, ma cerchiamo quella futura.” (Ebrei, 13:14).
Così quando, parlando dei due primi comandamenti (ama Dio con tutto
te stesso, e ama il tuo prossimo come te stesso) un dottore della Legge ha
chiesto a Gesù chi fosse il prossimo che doveva amare come se stesso, il
Signore gli ha risposto con la parabola del buon samaritano:
Gesù con quella parabola ha mostrato che il punto non è decidere chi sia
da considerare nostro amico, ma essere noi gli amici che vorremmo che
gli altri fossero per noi (” E come volete che gli uomini facciano a voi, fate
voi pure a loro.” Luca, 6:31).
Per i giudei, i samaritani, oltre che stranieri, erano per lo più anche nemici,
e qualsiasi cosa venisse da loro era considerata con sospetto. Se vogliamo
seguire Gesù, invece, dobbiamo capire che l’albero si riconosce dal frutto e
non viceversa (Matteo, 12:33; Luca, 6:43-44), e dobbiamo anche imparare a
non giudicare nemmeno noi dall’apparenza. Che non dobbiamo cioè
condannare gli altri dal loro passato, come se questo fosse inamovibile, ma
vincere il male, che è rimasto in loro come una cicatrice di tante ferite
passate, con il bene che noi oggi riceviamo da Dio (Romani, 12:21).
“Voi avete udito che fu detto: “Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”.
Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano, af nché siate gli del Padre vostro che è nei cieli; poiché
egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui
giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne
avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i
vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani
altrettanto? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro
celeste.” (Matteo, 5:43-47).
Naturalmente, quando parla di amare qui Gesù non sta usando il verbo
philèo, ma il verbo agapào (della differenza tra questi due verbi abbiamo
trattato a lungo nella prima parte di questa meditazione). Non ci dice cioè
di essere amici dei nostri nemici, ma piuttosto ci dice di amarli noi per
primi, in modo da aiutarli a diventarci amici.
Nella Bibbia ebraica, il Nemico per eccellenza è chiamato ha-Satan () ַה ָשּׂטָן,
da una radice che signi ca “accusa” e “inimicizia” (la stessa del nome dato
al pozzo che Isacco chiamò Sitnah perché per il suo possesso i suoi pastori
avevano litigato con i pastori dei listei, Genesi, 26:21). Il Nemico per
eccellenza è la bestia che ha voluto n dal principio renderci nemici di Dio,
e, con le sue bugiarde insinuazioni, ci ha trascinato sulla via della sua
stessa ribellione. Non è questo nemico che possiamo amare. Se seguiamo
lui, amiamo l’inimicizia e non potremo quindi amare i nostri nemici.
Dobbiamo invece resistergli (“resistere”, “fare opposizione” è peraltro uno
dei sensi del suo nome), non credendo alle sue bugie. E lui fuggirà da noi
(Giacomo, 4:7).
Al Nemico non importa di noi. Per lui siamo una realtà aliena e un disturbo.
Gli interessiamo solo come strumenti e come strumenti dobbiamo essere
il più possibile prevedibili, come dei corpi morti. Per il nemico, la nostra
libertà è un problema, per questo ci vuole fare prigionieri, con le sue
promesse e con i suoi ricatti.
Ma il Signore Gesù è venuto per “distruggere, con la sua morte, colui che
aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, e liberare tutti quelli che dal
timore della morte erano tenuti schiavi per tutta la loro vita.” (Ebrei, 2:14-
15).
Perché Dio non solo fa piovere e splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti,
ma lascia tutti liberi di scegliere se stare con lui oppure no. Anche nella
Legge era scritto: “Io prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra,
che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la
maledizione; scegli dunque la vita, af nché tu viva, tu e la tua
discendenza, amando il SIGNORE, il tuo Dio, ubbidendo alla sua voce e
tenendoti stretto a lui, poiché egli è la tua vita e colui che prolunga i tuoi
giorni.” (Deuteronomio, 30:19-20).
Allo stesso modo, Gesù ha guarito o sfamato anche coloro che avrebbero
usato la loro salute per agire contro (o senza) di lui, ma li ha anche avvertiti
che quella via non era la via giusta (cf. per es. Giovanni, 5:14-16; 6:26-58).
Non siamo noi che dobbiamo fare giustizia. Non siamo noi che dobbiamo
decidere chi merita e chi non merita di essere aiutato. Il Signore ci dice
anzi di usare le cose che non sono in realtà nostre e sulle cose non
possiamo vantare nessun reale diritto, come i nostri soldi o il nostro
tempo, per farci oggi degli amici che ci ricevano domani, in quanto
avremo usato loro misericordia, scontando i debiti che avevano con Dio, e
trattandoli meglio di quello che meritavano.
È anche questo il senso della parabola del fattore infedele di cui abbiamo
già parlato nell prima parte della meditazione: “E io vi dico: fatevi degli
amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno a mancare,
quelli vi ricevano nelle dimore eterne.” (Luca, 16:8-9). Vivere con Gesù
signifca vivere per la risurrezione.
Gesù ha infatti detto alla sorella sel suo amico Lazzaro, che era morto da
quattro giorni: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se
muore, vivrà” (Giovanni, 11:25).
Il ché non signi ca che non ci farà male essere feriti. Né, soprattutto,
signi ca che non ci debba importare del bene e del male che accade agli
altri. Con la nuova nascita non si diventa insensibili, anzi. Al posto del cuore
insensibile che avevamo ci viene dato un cuore capace di sentire i
sentimenti degli altri (Ezechiele, 11:19, 36:26). Ma certamente diventiamo
meno sensibili a quello che ci tocca direttamente, sia nel bene che nel
male (è questo il senso della circoncisione del cuore, di cui è scritto già
nella Legge di Mosè, Deuteronomio 10:16 e 30:6).
Sopratutto, per non dare più tanta importanza ai nostri diritti, pensando
prima ai nostri doveri (“Certo è già in ogni modo un vostro difetto che
abbiate fra voi dei processi. Perché non patite piuttosto qualche torto?
Perché non patite piuttosto qualche danno?” 1Corinzi, 6:7).
In realtà in ebraico esiste anche un’altra parola per dire “nemico”, e questa
parola è molto vicina proprio a quella che signi ca “amare” (“nemico” è
‘ayav אָיַבe “amare ‘ahav )אָ ַהב.
Certamente della parola di Dio non bisogna trascurare nanche una yod
(Matteo, 5:18). Ma in ebraico la vicinanza tra le lettere con cui sono scritte le
parole manifesta una vicinanza tra il signi cato che intendono veicolare. E
in questo caso il senso a cui ci ha portato la Bibbia è proprio quello di un
amore che va oltre la nostra distinzione tra amico e nemico: l’amore di Dio
che ha mandato Cristo a morire per noi quando gli eravamo ancora nemici
(Romani, 5:6-8). E anche l’amore che è giusto che anche noi, come gli e
amici di Dio, nutriamo per le persone che ci fanno del danno, non solo
perché spesso non sanno quello che fanno, ma anche perché quello che
oggi si appare come un danno, in futuro si rivelerà come una benedizione
(come nel caso di Giuseppe e dei suoi fratelli, cfr. Genesi, 45:4-8).
All’inizio, il SIGNORE ha infatti detto: “Non è bene che l’uomo sia solo; io gli
farò un aiuto che sia adatto a lui” (Genesi, 2:18; letteralmente il testo dice:
“un aiuto che gli stia di fronte”, un aiuto con cui, cioè, possa confrontarsi). E
il testo conclude “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a
sua moglie, e saranno una stessa carne [lebasar ‘ekhad ָשׂר ֶא ָֽחד
ָ ”] ְלב.