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Amicizia fraterna

Ettore Panizon
Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Indice

Grammatica degli affetti 3


Ama l’amico tuo come te stesso 7
Agàpē e philìa 10
Lea e Rachele 12
Selezione naturale, umana e soprannaturale 15
Un santo bacio 17
Amicizia lunga 19
Il SIGNORE per amico 23
Il Figlio dell’uomo 29
Figli di Dio 31
Fratelli in Cristo 33
Nome nuovo, amici nuovi 36
Ama lo straniero, come te stesso 39
Ama anche il tuo nemico 42
Al di là del bene e del male 44

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Grammatica degli affetti


Come insegna la proverbiale rima tra fratelli e coltelli, non è per niente
scontato che i fratelli tra di loro si vogliano bene. Si è, di solito, gli degli
stessi genitori, ma, sempre di solito, si è anche nati in diversi momenti
della loro vita e si è avuto ognuno un diverso rapporto con ciascuno dei
due. Inoltre, sempre salvo casi eccezionali, anche il patrimonio genetico
ereditato è abbastanza diverso. Così, se da una parte con i propri fratelli si
è legati da un’identità più forte che con qualunque altro essere umano,
dall’altra però le differenze di trattamento, di esperienze e di corredo
cromosomico, se mal gestite, possono portare anche a terribili con itti, e
fratricidi.

“Un fratello offeso è più inespugnabile di una fortezza; e le liti tra fratelli
sono come le sbarre di un castello.” (Proverbi 18:19).

Nella Bibbia vediamo che i primi due fratelli di cui abbiamo notizia non
andavano molto d’accordo: non sappiamo quali fossero i sentimenti di
Abele, ma certamente Caino non gli voleva tanto bene. La stessa cosa ci è
detta dei primi due gli di Abramo (Ismaele e Isacco), dei due gli di
Isacco (Giacobbe ed Esaù), e anche dei gli di Giacobbe, in particolare tra
Giuseppe e i suoi fratelli, le cose non sono andate sempre lisce.

Anche tra fratelli in Cristo non è così scontato che ci si ami veramente.
Tanto è vero che quello di amarci gli uni gli altri Gesù ha dovuto darcelo
come un comandamento, e un comandamento nuovo (Giovanni, 13:34).

Eppure, se amiamo il Padre, dovremmo amare anche gli altri suoi gli, non
solo perché, come ha scritto l’apostolo Giovanni, non possiamo dire di
amare Dio che non vediamo se non amiamo il fratello che vediamo
(1Giovanni, 4:20), ma anche perché sappiamo bene che un padre che ama
i suoi gli è felice di vedere che anche i gli si amano tra di loro.

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Spesso, però, anche nella famiglia della fede, l’amore per il nostro Padre
celeste non è suf cientemente forte da farci superare l’antipatia, l’invidia,
o altre cause di rivalità e di disamore. E noi, per giusti carci del fatto che
non amiamo i nostri fratelli, protestiamo che non possiamo mica essere
amici di tutti.

Ora, è vero che è dif cile amare qualcuno senza conoscerlo e senza
esserne amico, e che, in effetti, l’amicizia tra fratelli in Cristo è certamente
un importante aiuto per arrivare ad amarsi come ci ha comandato il
Signore (lo scrive chiaramente anche l’apostolo Pietro – in 2Pietro 1:5-6 –
dove elenca l’amicizia fraterna  (phialadelphìa φιλαδελφία) tra le cose da
aggiungere alla fede per giungere all’amore di Dio). Ma è anche vero che a
diventare amici bisogna pur cominciare da qualche parte, e certamente
gli atti d’amore che compiamo verso il nostro fratello in Cristo – senza
necessariamente conoscerlo bene e soprattutto senza aspettarci niente
in cambio – sono il principale mezzo per favorirne l’amicizia.

C’è insomma abbastanza confusione nei nostri discorsi riguardo ai nostri


rapporti in generale, e in particolare riguardo all’amicizia e all’amore, sia
nella nostra vita naturale nel mondo, sia anche nella chiesa. Può quindi
essere d’aiuto ri ettere sul signi cato di queste parole del lessico
quotidiano, con cui pensiamo alla nostra vita sentimentale e spirituale, e
ne parliamo con gli altri.

Nella lingua italiana parlata usiamo raramente la parola amore,


riservandola alle passioni più travolgenti, o agli affetti familiari più intensi.
Di solito preferiamo usare la locuzione ti voglio bene, oppure diciamo che
qualcuno ci piace o che ci sta simpatico, e, se ci sta antipatico, raramente
confessiamo il nostro odio.

Siamo un po’ più precisi con la parola amico (lo eravamo, almeno, prima
che i social ne in azionassero completamente l’utilizzo). Il senso di questa
parola varia però molto da regione a regione, e da ambiente ad ambiente,
e anche nello stesso ambiente non tutti intendono esattamente la stessa
cosa quando dicono di considerare qualcuno un proprio amico.

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Proviamo quindi a mettere un po’ d’ordine all’interno dei concetti base


che stanno sotto le parole, cercando una de nizione più astratta, ma forse
anche più profonda. E considerando intanto l’aspetto della reciprocità.

Sappiamo che l’amore può essere ricambiato, ma che può anche non
esserlo. Un certo tipo di amore normalmente lo è, un’altro tipo non lo è
quasi mai, o comunque non lo è necessariamente e nello stesso modo e
negli stessi tempi, perché il rapporto non è normalmente lo stesso in
entrambe le direzione, e cioè cambia senso e valore a seconda che vada
da chi ama a chi è amato o viceversa.

Potremmo intanto de nire l’amicizia come l’amore nella sua forma più
reciproca e paritaria. È il tipo di amore che può sfociare in erotismo, come
l’amore cortese cantato da Dante (“amor, ch’a nullo amato amar perdona”),
ma è anche quello che in linea di principio rimane libero da interessi
materiali. E che è la cosa più importante e preziosa della nostra vita. “L’olio
e il profumo rallegrano il cuore; così fa la dolcezza del proprio amico con un
consiglio dell’anima.” (Proverbi, 27:9)

Se si sviluppa verso il contatto sico, seguendo l’attrazione del proprio


orientamento sessuale, l’amicizia in certe situazioni sociali – in particolare,
fuori da un legame matrimoniale – rischia di consumarsi come tale e di
trasformarsi più o meno rapidamente nell’altro tipo di amore, nell’amore
cioè che potremmo chiamare “verticale”, e che ha a che fare con il
sentimento del bisogno (proprio e/o altrui). L’accento, più che sulla
reciprocità, viene allora a cadere sul vantaggio di chi riceve e sul
disinteresse di chi dà. Ammesso che le intenzioni siano quelle
dell’amore. Il matrimonio, con la reciproca promessa di fedeltà, ha proprio
lo scopo di riequilibrare il rapporto sulla base di una totale unità di intenti
e di interessi. Ci torniamo dopo.

Comunque sia, in questa seconda forma dell’amore, l’azione di dare e


quella di ricevere sono molto più diversi cate che nell’amicizia. Come
accade tra chi insegna e chi impara, o tra chi cura e chi viene curato.
Come, almeno in parte, accade anche nel matrimonio, dove i ruoli sono
sempre in qualche modo differenti, anche se non sempre nello stesso
modo in tutte le culture: c’è chi protegge e chi ha bisogno di protezione,
chi nutre e chi è nutrito, chi porta e chi è portato… (cf. Efesini, 5:22-28),

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Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

A differenza dell’amicizia nella sua forma pura, questo tipo di rapporto più
unidirezionale può trasformarsi in passione e dare luogo a una più o meno
legittima gelosia – “dura come il soggiorno dei morti” (come si esprime
Salomone nel Cantico dei cantici, 8:6) – che rende la comunicazione
sempre più dif cile e il rapporto ancora più sbilanciato, cose che
certamente non ne aiutano la sopravvivenza.

Ma, se è suf cientemente ricambiato, anche quest’amore verticale può


rimanere puro e tranquillo, come quello di una madre per il suo bambino
o di un glio per i suoi vecchi genitori, di un allievo per il suo maestro o di
un maestro per il suo allievo, e, nel migliore dei casi, di un marito per la sua
sposa.

Questo amore incondizionato è quello che può essere comandato, ed è


quello che Dio infatti ci ordina di nutrire nei confronti degli amici, e anche
dei nemici (dei quali sarebbe assurdo ordinarci di essere amici). Ma su
questo torneremo in seguito, nella seconda parte di questa meditazione.

Intanto è importante chiarire che, nella vita, questi due diversi tipi di
amore si sovrappongono sempre (se non altro, perché pure l’amicizia è un
bisogno), cosa che a volte ingenera dolorose confusioni. D’altra parte, la
loro compresenza è di vitale importanza per entrambi i due tipi di affetto:
non c’è vera amicizia senza amore e non c’è vero amore senza amicizia.

Dosati e diretti nel modo giusto, amicizia e amore sono entrambi


ingredienti necessari di una vita matrimoniale felice e contenta. E sono
perciò alla base dei rapporti familiari e sociali che garantiscono pace e
libertà in una certa popolazione. Sono, di fatto, entrambi attributi
dell’amore di Dio per i suoi santi.

La forma positiva di questi affetti dipende da un complicato equilibrio di


diversi fattori. Presi e orientati nel modo sbagliato possono anche
facilmente scatenare i più sanguinosi con itti.

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Ama l’amico tuo come te stesso


Nei libri dell’Antico Testamento, la parola italiana amico traduce spesso la
stessa parola che in altri contesti è tradotta con prossimo: rea’ ‫ ֵר ַע‬. Il
prossimo, l’amico, nella Bibbia è de nito, seppur incidentalmente, come
colui “che è come un altro te stesso” (letteralmente: “come la tua anima”;
Deuteronomio, 13:6). Con l’amico infatti si comunica anche senza bisogno
di parole. Si sente quello che sente lui. Quando si parla assieme ci si
capisce, molto oltre quello che le parole possono dire.

Ciò non ostante, il tratto principale dell’amicizia è proprio la


comunicazione: tra amici, sempre con la dovuta discrezione (di cui
parleremo più avanti), si condividono, direttamente o indirettamente, i
pensieri, le esperienze, le letture, tutte le cose importanti che si sono
capite della vita, soprattutto di quella interiore.

Il maestro non può spiegare subito tutto al suo allievo (cfr. Giovanni, 16:12)
e così nemmeno il genitore al glio. Neanche il padrone può dire tutto al
suo servo, o il direttore al suo impiegato. Né l’allievo, o il glio, o il servo, o
l’impiegato se ne possono stupire, o lamentare. Un amico invece si
aspetta di essere informato delle cose importanti che lo riguardano e
soprattutto delle cose che riguardano il rapporto con l’amico. Se questo
non avviene, si comincia a domandare se l’altro davvero lo consideri un
amico. E, d’altra parte, è solo con la con denza e la condivisione dei propri
punti di vista che anche un rapporto gerarchicamente ineguale, come
quello tra padre e glio o tra maestro e allievo, può svilupparsi in amicizia.

Anche Gesù ha dato un’importanza centrale, nel suo concetto di amicizia,


alla condivisione del sapere: sia quando ha parlato del suo rapporto con il
Padre (“il Padre ama [il testo greco dice philèi, cioè “è amico del”] Figlio, e
gli mostra tutto quello che egli fa”, Giovanni, 5:20), sia quando ha parlato
del suo rapporto con i discepoli, ai quali, durante l’ultima cena prima
dell’arresto, ha infatti detto: “Io non vi chiamo più servi, perché il servo non
sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto
conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio.” (Giovanni, 15:15).

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Come la condivisone dei segreti e della propria vita interiore è un tratto


fondamentale dell’amicizia ed è di vitale importanza per coltivarla, così la
falsità e la manipolazione ne sono nemici mortali. Per questo Gesù se la
prendeva tanto con i farisei e con la loro ipocrisia che rovinava l’amicizia in
Israele. Perché la cura per l’apparenza esteriore signi ca
automaticamente disinteresse per le cose del cuore e quindi, in ultima
analisi, per un vero rapporto d’amicizia. “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti,
perché siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma
dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia.” (Matteo, 23:27).

L’amicizia non dovrebbe avere a che fare con l’interesse personale, né con
la convenienza sociale, in generale non dovrebbe essere basata sui
vantaggi materiali. Purtroppo però, spesso, più dell’amore, può il nostro
bisogno di affermazione sociale, e non siamo indifferenti ai vantaggi che ci
possono venire dall’amicizia di uomini importanti e facoltosi. O, viceversa,
facciamo fatica ad essere amici di coloro dai quali non riusciamo ad
aspettarci nessun vantaggio. “Le ricchezze procurano gran numero di
amici, ma il povero è abbandonato anche dal suo amico.” (Proverbi, 19:4).
Ma certo, più facciamo così, meno le nostre amicizie saranno autentiche e
profonde.

“Molti corteggiano l’uomo generoso, tutti sono amici dell’uomo che offre
regali” (Proverbi, 19:6). Ma l’amicizia di tutti rischia di rivelarsi l’amicizia di
nessuno. “Chi ha molti amici può esserne sopraffatto, ma c’è un amico che
è più affezionato di un fratello.” (Proverbi, 18:24). Il vero amico, come si dice,
si vede nel momento del bisogno.  “L’amico ama in ogni tempo; è nato per
essere un fratello nella sventura.” (Proverbi 17:17) “Non abbandonare il tuo
amico né l’amico di tuo padre, e non andare in casa del tuo fratello nel
giorno della tua sventura; una persona a te vicina vale più d’un fratello
lontano.” (Proverbi, 27:10).

Quello della vera amicizia e del suo legame con l’amore disinteressato è il
tema centrale della Bibbia: l’amicizia con Dio attraverso la fede, e l’amicizia
tra i fedeli, cioè tra coloro che sono diventati gli di Dio credendo nella sua
parola. La Legge data attraverso Mosè e le parole scritte dai profeti
avevano lo scopo di fare nascere e durare l’amicizia tra i gli di Israele,
attraverso l’amore insegnato da Dio. “Tutte le cose dunque che voi volete
che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge
e i profeti.” (Matteo, 7:12).

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

L’insegnamento del regno di Dio va anche oltre in questa stessa direzione


e ci dice di guadagnarci l’amicizia anche dei nemici, sempre attraverso
l’amore, cioè con la pazienza, la generosità e anche il perdono. Comunque
con comportamenti sempre disinteressati, rimettendoci del nostro e, se
necessario, mettendo anche a rischio la nostra persona.

Per spiegare tutto ciò ai suoi discepoli, Gesù ha raccontato una parabola,
spesso mal interpretata, in cui un servo riconosciuto infedele verso il suo
padrone decide di guadagnarsi almeno l’amicizia dei conservi,
condonando i debiti che questi avevano con lo stesso padrone che lo
stava licenziando. “E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito
con avvedutezza; poiché i gli di questo mondo, nelle relazioni con quelli
della loro generazione, sono più avveduti dei gli della luce. E io vi dico:
fatevi degli amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno
a mancare, quelli vi ricevano nelle dimore eterne.” (Luca, 16:8-9).

Tra i gli di Dio spesso ci si crede più spirituali quando si condanna con
maggiore severità i peccati dei nostri fratelli, ma questo non produce
amicizia: al contrario, freddezza, se non, peggio, tiepidezza, cioè
indifferenza e ipocrisia. L’amore e l’amicizia vengono dalla certezza di
essere compresi e non condannati da una supposta posizione di
maggiore santità o giustizia, sulla quale a volte ci arrocchiamo, mentendo
contro la verità. “Chi copre gli sbagli si procura amore, ma chi sempre vi
torna su disunisce gli amici migliori.” (Proverbi 17:9).

“Ama il tuo prossimo (‘ahavta larea’kha ‫)אָ ַה ְב ָתּ ְל ֵר ֲע ָך‬


ֽ come te stesso” (Levitico,
19:18), signi ca dunque “abbi cura del tuo amico come hai cura di te
stesso, tenendo conto della sua vita – esteriore e, soprattutto, interiore –
come della tua”.

Perché è anche scritto: “chi acquista senno [letteralmente: “cuore”, lev ‫] ֵלב‬
ama se stesso; e chi serba con cura l’intelligenza troverà del bene.”
(Proverbi, 19:8). Preoccuparsi del vero bene del nostro amico signi ca dirgli
la verità (Efesini, 4:25) e incoraggiarlo a considerare la sua vita interiore più
di quella esteriore. E questo è il nostro stesso bene, oltre che il suo. Perché
imparando a conoscere la verità della vita interiore assieme ai nostri amici,
li aiutiamo a entrare in una dimensione più profonda: il loro cuore ne trarrà
bene cio, per un rapporto più profondo e più autentico, anche con noi.
“Come il viso si ri ette nell’acqua, così il cuore dell’uomo si ri ette
nell’uomo.” (Proverbi, 27:19).

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Un amico è qualcuno su cui sappiamo di  poter contare come su noi


stessi, perché sappiamo che ci conosce da dentro. Lo riconosciamo dal
fatto che ci riconosce come esseri simili a lui. Si rende conto che, oltre a
una realtà esteriore, abbiamo anche una realtà interiore, delle sensazioni e
dei sentimenti, cioè un cuore, esattamente come lui. Per questo all’amico
è facile mettersi nei nostri panni e lo stesso sa che faremo noi con lui. Un
uomo di cuore è una persona che si mette nei panni degli altri, perché sa
che anche gli altri hanno (o possono avere) un cuore come il suo, con
pensieri, sentimenti, sofferenze e preoccupazioni molto simili ai suoi.

Agàpē e philìa
Nel greco del Nuovo Testamento, i due termini che si riferiscono ai due
atteggiamenti del cuore che abbiamo cercato di de nire come due
aspetti dell’amore sono espressi con due parole che hanno radici
completamente diverse: agàpē (ἀγάπη) e philìa (φιλία).

Possiamo tradurre entrambi i termini con il verbo amare e i suoi derivati, e


di fatto così sono stati anche tradotti, ma agàpē viene più speci camente
reso con amore o con carità e philìa con amicizia (“amico” si dice philos
φίλος).

Non si tratta, come a volte è stato detto, di due relazioni che si


distinguono per una diversa intensità e profondità dell’affetto, nel senso
che il verbo philèo caratterizzerebbe un rapporto più mentale e
distaccato, mentre solo agapào corrisponderebbe al pieno senso
dell’amore. Troviamo infatti philéo usato anche in certi versi della Bibbia
dove si esprime l’amore nel suo senso più pieno e completo (per esempio,
quando, nel già citato Giovanni 5:20, è scritto che “il Padre ama [philéi φιλεῖ]
il Figlio e gli mostra tutte le cose che fa”).

D’altra parte il rapporto tra lo stesso Padre e lo stesso Figlio è altrove


caratterizzato dal verbo agapào (Giovanni 3:35). Quale differenza c’è allora
tra il signi cato dei due termini? Appunto quella che abbiamo cercato di
delineare tra amore e amicizia, considerandoli come due diversi aspetti
della stessa cosa.

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


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Il verbo agapaō, con il sostantivo agàpē, esprime il rapporto d’amore


idealmente disinteressato che si stabilisce tra chi vede un bisogno e
decide di venirvi incontro da una parte, e la persona che ha questo
bisogno dall’altra. La persona che ama agisce in favore della persona
amata senza aspettarsi niente in cambio (agàpē traduce la parola ebraica
chesed ‫ ֶח ֶסד‬che ha una radice molto vicina al verbo che signi ca “provare
compassione” e “prendersi cura”, chus ‫)חוּס‬.

Agàpē è l’amore del quale Paolo scrive la poetica de nizione che è stata
considerata un vero e proprio inno, e che è anche una precisa istruzione
non solo su come riconoscerlo, ma anche su come realizzarlo: “L’amore è
paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si
gon a, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio
interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia,
ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa,
sopporta ogni cosa.” (1Corinzi, 13:4-7).

Questo è l’amore di cui “Dio ha tanto amato il mondo” del famoso versetto
di Giovanni (3:14) che spesso – e forse semplicisticamente – è stato
considerato la migliore sintesi del Vangelo di Cristo.

Philìa, l’amicizia, invece, sia quella con Dio che quella tra gli uomini, come
abbiamo già visto, non è un affetto incondizionato. Non si può essere
amici di qualcuno che non si conosce, e soprattutto di qualcuno che non
si lascia conoscere, perché non desidera conoscerci. La risposta può essere
anche immediata: uno sguardo, confermato da qualche altro gesto e
qualche parola. Ma sono anche necessarie altre conferme e assicurazioni,
che dimostrino un’af nità e una possibile vicinanza. Senza le quali, il
rapporto d’amicizia non può stabilirsi.

Così, in questo senso, anche l’amore di Dio (o, segnatamente, della


Sapienza) non è un amore incondizionato, ma è anzi fortemente
condizionato a una risposta da parte dell’amato (“Io amo quelli che mi
amano” – dichiara la Sapienza – “e quelli che mi cercano mi trovano”
Proverbi, 8:17). Abramo è stato chiamato “amico di Dio” (Giacomo, 2:23)
perché ha risposto positivamente ai suoi ordini, credendo no in fondo
alla sua fedeltà.

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Come tra il guardare e il vedere, o tra il formare e il creare, tra l’amore e


l’amicizia c’è una differenza di aspetto, o di punto di vista. L’amicizia philìa
deriva da un sentimento di af nità, da un certo grado di identità che si
percepisce con l’amico. L’amore agàpe è invece l’atto di colmare una
distanza, producendo un’identità che ancora non c’era, o che non si
vedeva. La differenza cioè sta in una diversa funzione rispetto all’identità
che è l’essenza dell’amore: agàpe la crea, philìa la presuppone.

Un passo del Vangelo di Giovanni mette a stretto confronto queste due


parole. L’episodio si svolge dopo la resurrezione di Cristo,
immediatamente di seguito alla seconda pesca miracolosa, quella dei 153
grossi pesci. “Quand’ebbero fatto colazione, Gesù disse a Simon Pietro:
Simone di Giona, mi ami (il verbo usato è agapào) più di questi? Egli
rispose: Sì, Signore, tu sai che ti sono amico (philéo). Gesù gli disse: Pasci i
miei agnelli. Gli disse di nuovo, una seconda volta: Simone di Giona, mi ami
(agapào)? Egli rispose: Sì, Signore; tu sai che ti  sono amico (philéo). Gesù
gli disse: Pastura le mie pecore. Gli disse la terza volta: Simone di Giona, mi
sei amico (philéo)? Pietro fu rattristato che egli la terza volta gli avesse
detto: Mi sei amico (philéo)? E gli rispose: Signore, tu sai ogni cosa; tu sai
che ti sono amico (philéo). Gesù gli disse: Pasci le mie pecore.” (Giovanni
21:15-17)

Non è la sede per una dettagliata esegesi del passo, ma è interessante


notare come sia Gesù che Pietro considerassero l’amicizia una condizione
più forte, cioè più dif cile e più necessaria per un rapporto di
collaborazione. Come se Gesù dicesse:  “Per dare da mangiare alle mie
pecore non basta la tua buona intenzione di servirmi. Solo se sei mio
amico e sei loro amico e senti quello che sento io e senti quindi anche
quello che sentono loro puoi fare il lavoro più dif cile di nutrire le mie
pecore, altrimenti no.” E Pietro si è rattristato che Gesù non fosse sicuro di
questo sentimento, proprio perché, come abbiamo detto e ripetuto,
l’amicizia è fondamentalmente un sentimento reciproco.

Lea e Rachele
L’amicizia ha senz’altro anche a che fare con l’ammirazione e il
compiacimento, per non dire il piacere. Gli amici, normalmente, sotto certi
aspetti almeno, si assomigliano, e si piacciono.

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In inglese, la connessione tra piacere, somiglianza e af nità elettiva è


sottolineata dall’identità della radice che forma il verbo to like (che è
transitivo e de nisce la relazione per cui qualcosa o qualcuno piace al
soggetto del predicato verbale), la congiunzione like (“come”) e la
locuzione to be alike (“assomigliarsi”). In italiano abbiamo il detto “chi si
assomiglia si piglia”.

Mentre l’amore, come abbiamo accennato, richiede lo sforzo di andare


oltre quello che si vede immediatamente, per l’amicizia, invece, è
fondamentale lo sguardo.

Questi due tipi di relazione affettiva di cui stiamo parlando li troviamo


chiaramente rappresentati nel matrimonio di Giacobbe (che il SIGNORE
aveva già chiamato Israele), raccontato nel capitolo 29 della Genesi.
Quando incontra la bella cugina Rachele, Giacobbe se ne innamora subito,
ne chiede la mano allo zio Labano e i sette anni che lavora per averla in
sposa gli volano via come un sof o. Di Lea, sorella maggiore di Rachele,
quasi non si accorge nemmeno. “Gli occhi di Lea erano deboli [sarebbe
meglio forse tradurre le occhiate di Lea erano deboli, visto che
nell’originale “occhi” è al femminile eynay Le’ah rakhoth  ‫] ֵעינֵי ֵלאָה ַרכֹּות‬, invece
Rachele era avvenente [yephah tho’ar ‫ ]יְפַת־תֹּאַר‬e di bell’aspetto [viyphath
mareh ‫( ]וִיפַת ַמ ְר ֶֽאה‬Genesi, 29:17).

Tutte e tre le caratteristiche delle due sorelle menzionate dal testo hanno
a che fare, direttamente o indirettamente, con la visione. Del resto anche
oggi in ebraico, per dire che qualcuno ci piace, si dice che “ha trovato
grazia ai nostri occhi”. La grazia che si trova deriva da qualche simmetria o
identità che viene riconosciuta, e che produce gioia e piacere alla vista, e al
cuore. E un senso di reciproca appartenenza. Sentimento espresso anche
dalla sposa nel Cantico dei cantici: “Il mio amato [il termine ebraico usato
qui – dod ‫ – דּוֹד‬signi ca “bollente”, e ha a che fare con i baci] è mio, e io
sono sua: di lui che pastura [o “che è l’amico” ha-ro’eh ‫ ] ָהרֶֹעה‬fra i gigli.”
(Cantico, 2:16)

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Ma, dopo aver lavorato sette anni per Rachele, la mattina dopo le nozze
Giacobbe si sveglia “ed ecco che era Lea!” (Genesi, 29:25). Come Labano
spiega al nipote, non aveva potuto dargli subito Rachele perché non
sarebbe stato opportuno dare in sposa la glia minore prima della
maggiore. Giacobbe avrebbe avuto Rachele dopo la settimana di nozze
con Lea, in cambio di altri sette anni di lavoro come pastore e allevatore
delle greggi di Labano. Così, dopo quella settimana, “Giacobbe si unì pure
a Rachele, e amò Rachele più di Lea, e servì Labano per altri sette anni.”
(Genesi, 29:30).

Il doppio matrimonio con Rachele e con Lea rappresenta i due tipi di


affetto di cui stiamo parlando, perché Giacobbe aveva provato un
profondo affetto per Rachele che era stato da lei ricambiato. Il giorno
stesso che la incontrò “Giacobbe baciò Rachele, alzò la voce e pianse.”
(Genesi, 29:11). Pianse di gioia, immaginiamo; o forse anche di dolore,
pensando a tutto il tempo che era rimasto senza di lei; certamente, di
commozione. Come anche Adamo che, quando si è svegliato
dall’intervento di asporto della sua costola che il SIGNORE aveva usato per
costruire la donna, ha esclamato: “Questa, nalmente, è ossa delle mie
ossa e carne della mia carne!” (Genesi, 2:23).

Lea invece non era amata da Giacobbe, e sapeva che il cuore del marito
era rivolto verso sua sorella. Lea desiderava il marito perché aveva bisogno
di lui, e anche il marito era stato con lei per il suo bisogno. Mentre quello
con Rachele era un matrimonio d’amore, quello con Lea era stato un
matrimonio di interesse, un matrimonio combinato, accettato da tutti per
convenienza sociale.

È interessante osservare come il SIGNORE abbia comunque benedetto


l’unione con Lea imposta per convenienza e accettata per forza, e anche
più di quell’altra, dando a Lea molti più gli e soprattutto, tra questi gli,
donando a Israele Giuda, dal quale doveva discendere il Mashiach, cioè il
Cristo.

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

D’altra parte, anche l’altra unione è stata benedetta, perché da Rachele


nasceranno Giuseppe, grazie al quale la famiglia di Giacobbe diventerà la
nazione di Israele (in Egitto), e anche Beniamino, da cui, tra gli altri,
discenderà Paolo di Tarso. Segno che entrambe le unioni rappresentano
aspetti necessari dei rapporti d’amore che formano il tessuto del popolo di
Dio: la carità, che si cura dei bisogni dell’altro come se fossero i propri
anche quando non ci toccano direttamente, e l’amicizia, che nasce da
un’intima af nità, è spontaneamente ricambiata, e rende più leggera ogni
fatica.

Selezione naturale, umana e soprannaturale


Alla differenza tra i matrimoni d’amore e quelli di convenienza, nel mondo
animale si può fare corrispondere la differenza tra la selezione naturale e
quella operata dall’uomo. Da una parte le specie selvatiche che si auto-
selezionano attraverso i meccanismi studiati dalla biologia e dall’etologia, e
dall’altra le razze ottenute all’interno di una certa specie addomesticata.
L’addomesticamento di una specie presuppone infatti la possibilità di
effettuare gli incroci, cioè di combinare gli accoppiamenti, scegliendo
sapientemente le qualità della futura discendenza.

Non è certo un caso che i patriarchi del popolo di Israele siano stati tutti
pastori, n dalla loro infanzia (Genesi, 46:32-34). E che proprio Giacobbe
abbia dimostrato una particolare abilità con gli incroci tra i capi del
bestiame che gli era stato af dato dallo zio e suocero Labano (cfr. Genesi,
30). Anche in questo l’uomo era stato fatto a immagine e somiglianza di
Dio. Nel libro dei Salmi, in quello del profeta Ezechiele e nei vangeli
(segnatamente quelli di Luca e di Giovanni), il popolo di Dio e in particolare
i suoi discepoli sono infatti considerati “il gregge del SIGNORE”.

La formazione dell’uomo come specie umana avviene per effetto di una


vera e propria selezione soprannaturale delle qualità che rendono l’uomo
simile a Dio.

È Dio che sceglie chi prendere e chi lasciare. E spesso sceglie lasciando
scegliere all’uomo: scegliendo una o l’altra via, gli uomini manifestano la
loro natura, dirigendosi verso la casa di Dio, o rmando più o meno
consapevolmente la loro condanna. “Poiché il SIGNORE conosce la via dei
giusti, ma la via degli empi conduce alla rovina.” (Salmi, 1:6).

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Ed è Dio che organizza anche i nostri incontri, che ci dà i nostri amici e


anche i nostri nemici. È lui che modella la nostra vita e anche la nostra
discendenza. Quando non lo fa l’uomo, per i suoi  interessi o per le sue
passioni, è infatti il SIGNORE che combina i nostri matrimoni (e
certamente può usarsi anche di uomini, come ha fatto con Eliezer, il servo
di Abraamo che è andato a cercare una sposa per Isacco ed è tornato con
la cugina Rebecca, Genesi 24).

Difatti, quando dei farisei gli hanno chiesto se fosse lecito mandare via la
propria moglie, Gesù ha risposto: “Non avete letto che il Creatore, da
principio, li creò maschio e femmina e che disse: Perciò l’uomo lascerà il
padre e la madre, e si unirà con sua moglie, e i due saranno una sola
carne? Così non sono più due, ma una sola carne; quello dunque che Dio
ha unito, l’uomo non lo separi.” (Matteo, 19:4-6).

La sapienza dell’allevatore, come quella del sensale, sta nel dosare


similarità e complementarità, in modo che dall’incrocio possa nascere una
progenie di migliore qualità dei progenitori. Se da una parte la razza pura
ha un suo valore, dall’altra un’eccessiva chiusura delle possibilità di
scambio genetico porta a un’impoverimento e a una decadenza del
patrimonio cromosomico.

La sapienza di Dio guarda poi anche alla trasmissione dell’insegnamento,


cioè all’educazione, perché di generazione in generazione siano
tramandati i suoi precetti, in particolare riguardo all’amore e all’amicizia.
L’af nità che produce l’amicizia deve il più possibile accompagnarsi alla
complementarietà che si esprime nell’amore. All’unità presupposta
dall’amicizia non deve cioè mancare la differenza senza la quale l’amore
non ha nulla da colmare.

Nel piano di Dio, il compito di mantenere questo delicato equilibrio è


af dato al matrimonio, grazie al quale il rapporto verticale di reciproca
dipendenza riguardo al proprio corpo si racchiude in una sola coppia,
aprendo così lo sviluppo di quello orizzontale, dell’amicizia verso altre
famiglia. Ovviamente, senza che questo tolga amicizia alla propria famiglia
o cura verso i bisogni delle altre. Ma rispettando sempre le dovute priorità,
e senza travalicare i limiti imposti dalla promessa di fedeltà coniugale. “Il
matrimonio sia tenuto in onore da tutti e il letto coniugale non sia
macchiato da infedeltà; poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adùlteri.”
(Ebrei, 13:4).

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Il matrimonio è un grande mistero, che incarna nella nostra vita il rapporto


di Dio con la sua creazione, come è raccontato in tutta la Bibbia: dall’inizio
della Genesi no alle nozze dell’Agnello annunciate nell’Apocalisse. Lo
dichiara anche Paolo: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie e i due diverranno una carne sola. Questo mistero è
grande; dico questo riguardo a Cristo e alla chiesa. Ma d’altronde, anche fra
di voi, ciascuno individualmente ami sua moglie, come ama se stesso; e
altresì la moglie rispetti il marito.” (Efesini, 5:31-33).

Un santo bacio
Sia l’amore che l’amicizia devono avere anche un’espressione esteriore. È
con opere di amore-carità (agàpē) che possiamo e anzi dobbiamo
esprimere la nostra fedeltà (cioè l’ubbidienza) verso Dio e curarci del
nostro prossimo. Come scrive Paolo (Galati, 5:6), e come conferma anche
Giacomo: “Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del
cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: Andate in pace, scaldatevi e
saziatevi, ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve [la
vostra fede]?” (Giacomo, 2:15-16). E anche l’amicizia ha le sue manifestazioni
esteriori, che sono forse più piacevoli e costano meno sacri ci di quelle
dell’amore, ma non sono per questo meno necessarie. Paolo conclude
ben tre delle sue  epistole maggiori dicendo ai fratelli nella fede:
“salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio” (Romani, 16.16; 1Corinzi, 16:20;
2Corinzi, 13:12).

Nel testo originale la parola che traduciamo con bacio – cioè phìlēma
(φίλημα) – è chiaramente imparentata con philìa, “amicizia”. Il bacio è infatti
il principale segno dell’amicizia: come nel prendersi per mano o a
braccetto, nel bacio non solo si esprime vicinanza, ma si realizza anche una
forte comunione di sensazioni, che facilita quella dei sentimenti e de i
pensieri. Ma il bacio è comunque un gesto esteriore, e come tale può
essere usato per mentire. O per compiere e marcare una conquista.

Come, per altro, anche le opere dell’amore possono essere solo esteriori.
Opere d’amore senza amore, che non servono a niente (1Corinzi, 13:1-3), se
non a farsi belli agli occhi degli altri. Paradossi che purtroppo fanno parte
integrante di questa nostra vita, come i gesti di amicizia senza verità che si
sprecano nel mondo.

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Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Ricordiamo tutti che Giuda ha tradito Gesù proprio con un bacio (Luca,
22:48). E con quel bacio e con quel tradimento ha manifestato l’assenza di
amore nel suo rapporto con Cristo e con la chiesa, infatti rubava dalle
offerte per i poveri e probabilmente  si aspettava qualche vantaggio da
una vittoria politica del Cristo. Quando ha visto che il vantaggio non
arrivava e che l’affare stava per nire, ha preferito “l’uovo oggi” e ha preso i
trenta denari che gli erano stati offerti.

Succede la stessa cosa anche a noi, quando usiamo il nostro prossimo,


appro ttando del suo amore e della sua amicizia per i nostri interessi. Cioè
quando, nei nostri rapporti, pensiamo a prendere piuttosto che a dare (e
cioè anche quando diamo in vista di prendere). L’amore nella sua essenza
è dare senza pensare a un ritorno. Se l’amicizia addolcisce l’amore, è
certamente quest’amore disinteressato che puri ca l’amicizia.

In effetti, il bacio può essere anche il preludio di qualcosa che si spinge


oltre i limiti di quella che normalmente chiamiamo amicizia, e lo fa
precisamente quando comincia a voler prendere anziché limitarsi a
donare. Per questo Paolo speci ca – tutte e tre le volte che ne parla – che
il bacio del saluto cristiano deve essere un bacio “santo” (hàgios ἅγιος), cioè
puro, non intenzionato a portare il rapporto verso un contatto più esteso,
per prolungarne il piacere e ottenere soddisfazione di un proprio bisogno
sico, come può accadere in certi altri contesti.

L’unione carnale fuori dal matrimonio aggiunge all’amicizia un elemento


di interesse che ne snatura l’essenza. Il termine greco pornèia (πορνεία) ci fa
pensare ai casi estremi di sfruttamento del corpo, in cui l’amicizia – cioè la
conoscenza personale – e l’amore disinteressato sono uf cialmente
azzerati.

Il termine greco si conserva più intatto nel linguaggio della chiesa come
fornicazione e si riferisce a un’unione che in Israele è stata considerata
illecita molto prima che fosse data la legge di Mosè (Genesi, 34:7), e che
consiste nell’oltrepassare i limiti del rapporto di amicizia, saltando il
danzamento e il matrimonio. O trascurandone l’impossibilità, come
accade nel rapporto omosessuale o nell’incesto.

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Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

I capitoli 18-20 del Levitico, che trattano assieme proprio del divieto dei
rapporti omosessuali e e di quelli incestuosi, fanno riferimento all’atto di
oltrepassare questo limite parlando icasticamente dell’azione di “scoprire
la nudità” della persona desiderata.

La fornicazione (eterosessuale e omosessuale) e anche l’incesto


(soprattutto nelle sue forme indirette) sono trasgressioni che non sempre
ripugnano la nostra coscienza naturale. Per questo il Concilio di
Gerusalemme ha dovuto inserire la fornicazione nell’elenco dei divieti che
non ci si poteva esimere di imporre ai nuovi convertiti gentili (Atti, 15:20) e
anche Paolo ha sentito il bisogno di riprovare esplicitamente fornicazione,
omosessualità e incesto nelle sue lettere (in particolare in quella ai
Romani e nella prima ai Corinzi).

“Non sapete che chi si unisce alla prostituta (pòrnē πόρνη) è un corpo solo
con lei? Poiché – Dio dice – i due diventeranno una sola carne. (…). Fuggite
la fornicazione. Ogni altro peccato che l’uomo commetta, è fuori del corpo;
ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo.” (1Corinzi, 6:16 e 18).
Effettivamente, l’unione con un’altro corpo che non è fatta per durare è
un danno che in iggiamo al nostro stesso futuro.

Mentre l’amicizia tra un uomo e una donna è sempre esposta al rischio di


oltrepassare il limite consentito dalla legge, le amicizie tra le persone dello
stesso sesso o tra i consanguinei stretti sono normalmente più libere di
esprimere il loro affetto, più svincolate come sono da passioni carnali. Per
questo Davide, alla morte dell’amico Gionatan, la cui anima era legata alla
sua n dalla giovinezza, ne canta il ricordo dicendo: “io sono in angoscia a
motivo di te, Gionatan, fratello mio; tu mi eri molto caro, e l’amore tuo per
me era più meraviglioso dell’amore delle donne.” (2Samuele 1:26). E per
questo possiamo comprendere il divieto biblico dell’omosessualità e
dell’incesto come la proibizione di peccati che vanno proprio contro
l’amicizia, oltre che contro la famiglia. Perché tolgono all’amicizia la libertà
di svilupparsi in intensità mantenendo la propria purezza.

Amicizia lunga

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

“L’amore fraterno  (più esattamente “amicizia fraterna” philadelphìa


φιλαδελφία) rimanga tra di voi.” (Ebrei, 13:1), rimanga cioè perduri. Perché c’è
sempre il rischio che qualcosa rovini l’amicizia. Infatti, così come  nasce, si
forma e si consolida attraverso atti di amore, l’amicizia può anche
deteriorarsi attraverso atti che mostrano mancanza di amore, volontà di
sfruttamento, disinteresse di fronte ai sentimenti e ai bisogni dell’altro.

Ciò che è innanzitutto letale è la mancanza di rispetto, cioè di stima e di


considerazione. La stima è fondamentale per l’amicizia. Un’importante
caratteristica dell’amicizia, in rapporto all’amore, è infatti proprio il fatto
che, mentre la carità cerca di portare l’amato al livello di salute o di
benessere nel quale si trova colui che ama, la vera amicizia fa considerare
l’amico un po’ più in alto di sè.

Sempre Gionatan, quando andò da Davide che si nascondeva nella foresta


perché stava scappando dal re Saul, lo rassicurò dicendo: “Non temere;
poiché Saul, mio padre, non riuscirà a metterti le mani addosso. Tu
regnerai sopra Israele, e io sarò il secondo dopo di te.” (1Samuele, 23:17).

L’amicizia e l’onore che ci si rende reciprocamente sono così due realtà


intimamente legate. Raccomanda infatti Paolo ai credenti: “Quanto
all’amore fraterno  (parla sempre di philadelphìa φιλαδελφία), siate pieni di
affetto gli uni per gli altri. Quanto all’onore, fate a gara nel rendervelo
reciprocamente.” (Romani 12:10).

Quando non si stima l’amico o il fratello (come può accadere a chi


disprezza se stesso, la propria famiglia o la cerchia a cui appartiene), si
rischia di sfruttarlo invece che onorarlo. La parola di Dio, sempre per bocca
di Paolo, ci avvisa però di un grave pericolo che corriamo nel fare così,
ingiungendoci “che nessuno opprima il fratello, né lo sfrutti negli affari;
perché il Signore è un vendicatore in tutte queste cose…” (1Tessalonicesi,
4:6).

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Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Si sfrutta colui che si considera un mezzo e non un ne. Se sfruttiamo


qualcuno, se ci facciamo servire da lui, dimostriamo di non volere avere
con lui un rapporto di amicizia, ma di volere piuttosto instaurare un
rapporto di dipendenza, perché contiamo sulla sua carità (o forse sulla sua
ingenuità) per ottenere quello di cui crediamo di avere bisogno. E se
siamo noi che ci lasciamo sfruttare e gli permettiamo di credere che potrà
contare inde nitamente su di noi, gli stiamo mentendo (perché le nostre
forze sono comunque limitate, come lo è il nostro tempo), e non gli stiamo
insegnando a crescere e a imparare, invece, a contare sull’eterno e in nito
amore di Dio.

Dobbiamo servire gli altri, ma anche educarli a non farsi servire. Appunto
perché anche lo sfruttamento è un crimine contro l’amicizia. E se amiamo
il nostro amico come noi stessi, desideriamo che anche il suo cuore cresca,
non solo il nostro.

Chi sfrutta alla ne tradisce, come ha fatto Giuda con Gesù. Gesù no alla
ne l’ha chiamato “amico” (Matteo, 26:50), ma Giuda, che l’aveva sfruttato
nei mesi precedenti, ha usato un nto bacio per indicare la sua identità a
chi lo doveva arrestare e gli aveva promesso altri soldi.

Ma anche se non tradisce apertamente, chi sfrutta l’amico non sarà mai
veramente con lui. Perché il nostro cuore è lì dove abbiamo il nostro
tesoro (Matteo, 6:21), e se usiamo l’amico per qualche cosa d’altro vuole
dire che il nostro tesoro non è in lui. Il vero tesoro si trova invece proprio
nell’amicizia dei nostri fratelli, l’amicizia che non potremo mai avere, se
vogliamo dominare su di loro.

“Voi sapete che quelli che sono reputati prìncipi delle nazioni le
signoreggiano e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio.  Ma non
è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro
servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti.
Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per
servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti.” (Marco,
10:42-45)

Oltre al tradimento e allo sfruttamento, ci sono anche altri comportamenti


che rovinano l’amicizia. Uno di questi è la mancanza di rispetto che si
manifesta in un comportamento invadente.

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

“Metti di rado il piede in casa del tuo prossimo [la parola usata nel testo
originale è sempre rea’ ‫ ֵר ַע‬che vuol dire soprattutto “amico”], perché egli,
stufandosi di te, non abbia a odiarti.” (Proverbi, 25:17).

L’invadenza non è solo sica. Signi ca anche prendere il posto che non ci
è stato dato. Esigere un livello di con denza più intimo di quello che ci è
stato accordato. Dare per scontata l’attenzione e la disponibilità dell’amico.
Dimenticarci che siamo ospiti nel suo cuore, e che non è giusto che ci
sentiamo in diritto di starci e di prendere quello che ci troviamo.

“Quando sarai invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al


primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più
importante di te, e chi ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedi il posto a
questo!” e tu debba con tua vergogna andare allora a occupare l’ultimo
posto. Ma quando sarai invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, af nché
quando verrà colui che ti ha invitato, ti dica: “Amico, vieni più avanti”. Allora
ne avrai onore davanti a tutti quelli che saranno a tavola con te. Poiché
chiunque si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato.” (Luca
14:8-12)

L’amicizia non costringe e non si impone mai, perché, amando il nostro


amico come amiamo noi stessi, non gli vogliamo togliere la libertà e la
gioia di invitarci più vicino. L’amico vero sa aspettare con pazienza.

“Figlie di Gerusalemme, io vi scongiuro per le gazzelle, per le cerve dei


campi, non svegliate, non svegliate l’amore mio, nché lei non lo desideri!”
(Cantico, 2:7 e 3:5)

Come imparare ad amare e a rispettare i nostri fratelli (sia quelli spirituali


che quelli naturali, sia quelli facili che quelli dif cili) perché possano
diventare anche amici sarà, con l’aiuto del SIGNORE, il tema della seconda
parte di questa meditazione.

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Il SIGNORE per amico


Dio, se ci forma attraverso i nemici e le dif coltà che ci fa incontrare (in
ebraico, “nemico”, “dif coltà” e “formare” si esprimono con parole che
hanno in effetti radici molto vicine: rispettivamente,  tzar ‫ צַר‬, tzarah ‫ ָצ ָרה‬e
yatzar ‫)יָצַר‬, attraverso la dolcezza degli amici ci ricrea e parla positivamente
al nostro cuore. Certamente non solo per approvarci, ma sempre per darci
qualcosa che subito (o quasi subito) riconosciamo come un bene. Perché
dagli amici, di solito, ci sentiamo compresi e anche amati.

Nell’amico riconosciamo le profondità del nostro cuore. Ascoltandolo e


parlando con lui, i nostri stessi pensieri e sentimenti ci diventano più
chiari. Perché “come il viso si ri ette nell’acqua, così il cuore dell’uomo
[‘adam ‫אָ ָדם‬, cioè “l’essere umano, maschio e femmina”] si ri ette
nell’uomo.” (Proverbi, 27:19).

Con gli amici condividiamo i nostri interessi, che a volte non sono che un
pretesto per parlare assieme sapendo di essere reciprocamente ascoltati
e, di base, apprezzati. Anche solo per stare assieme, gli amici al bar o in
salotto parlano di di cinema, di macchine, di sport, di politica, o di
letteratura… ; in altri contesti comunitari si parla delle Sacre Scritture, di
libri spirituali, o di altre esperienze. A tu per tu, si parla più spesso dei
rapporti con gli altri, dei propri problemi, delle proprie ri essioni o delle
conclusioni a cui è arrivati meditando sul senso della vita, e si cerca di
de nire assieme una comune identità. Un “noi” in cui riconoscersi, come
coppia, come famiglia, come chiesa, come gruppo di amici.

L’amicizia però è ancora sempre imperfetta. Come di fatto lo sono il


matrimonio, la famiglia, e anche la chiesa (la società lo è per de nizione).
Innanzitutto perché, persino in chiesa, è decisamente molto raro che si
faccia veramente a gara ad onorarsi l’un l’altro (come abbiamo letto che
Paolo esorta a fare, in Romani 12:10). Più o meno consciamente, è sempre
presente una certa componente di vanagloria, di interesse personale, e
quindi anche di sfruttamento e di manipolazione degli altri, anche di
quelli che consideriamo amici, e che ci considerano tali.

Amicizia fraterna. Prima parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Già n all’inizio della storia dell’uomo – con la cacciata dal giardino


dell’Eden – tra i due componenti del primo nucleo familiare ce n’era uno
che comandava e uno che era comandato. Il primo a comandare è stato
l’uomo. Alla donna infatti il SIGNORE aveva detto che i suoi desideri
sarebbero stati rivolti verso il marito e che lui avrebbe dominato su di lei
(Genesi, 3:16). Poi quando, nei secoli e millenni successivi, i desideri
dell’uomo si sono rivolti verso la donna, questa non si è sempre lasciata
sfuggire l’occasione di sfruttare la debolezza maschile per dominare a sua
volta sull’uomo. Tant’è che, almeno in italiano, donna – a differenza
dell’ebraico ‘ishah ‫ – ִא ָשּׁה‬non deriva dalla parola che signi ca “uomo” (cioè
‘ish ‫) ִאישׁ‬, ma dal verbo latino che signi ca “dominare”.

Così, sebbene Dio abbia chiaramente detto che nel matrimonio marito e
moglie diventano una sola carne (Genesi, 2:24; Matteo, 19:5-6), e pur
essendo una dottrina largamente condivisa che nella chiesa i credenti
sono tutti membra di un solo corpo (Romani, 12:4-5), sia tra gli sposi che tra
i membri della chiesa non prevale sempre il desiderio e la gioia di donarsi
per il bene comune, e ancora di meno questo avviene in un gruppo di
amici: c’è comunque sempre una certa separazione, un calcolo che
facciamo, magari giusti candoci con il desiderio che ci sia equilibrio tra
dare e ricevere, stando ad ogni modo molto attenti a che nessuno si
appro tti dell’altro. Perché, in  particolare dalle nostre parti, abbiamo
molta paura che gli altri ci sfruttino, o anche, più giustamente, che
pensino di essere sfruttati. Evidentemente, il valore dell’amicizia non è
così chiaramente condiviso come valore in sé.

Ma, grazie a Dio, questo non lo troviamo sempre giusto, o normale.


Consoliamoci così, ricordando che la cosa importante non è tanto la
quantità assoluta del bene che auspichiamo, quanto piuttosto in che
direzione – più o meno lentamente – va il nostro cambiamento, cioè qual
è il nostro modello, cioè, in questo caso, quanto grande è il nostro
desiderio di vera amicizia. Perché, grazie a Dio, le Scritture ci hanno
sempre dato un ef cace buon esempio.

Un esempio che non è solo un esempio, ma anche e soprattutto la fonte


di nuove energie per una radicale trasformazione del nostro intimo e di
conseguenza anche dei rapporti che intratteniamo con familiari, amici e
membri della chiesa.

Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Uno dei salmi più famosi e più amati tra quelli scritti da Davide comincia
con la doppia affermazione “Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.”
(Salmi, 23:1). Abbiamo in precedenza collegato l'amicizia e il matrimonio
con l'allevamento e la cura del gregge. Effettivamente, in ebraico le parole
che signi cano “pastore” (raa'h ‫ ) ָרעָה‬e “amico” (rea’ ‫ ) ֵר ַע‬hanno radici molto
vicine tra di loro. Questo salmo parla di un rapporto speciale, con un
pastore/amico che non ci fa mancare nulla. Qualcuno che ci guida
attraverso luoghi di riposo, che non ci forza e non ci manipola, ma al
contrario fa abbondare in noi la sua vita perché in lui è la sorgente della
vita, e, anche se possiamo essere poveri di ricchezze materiali, in lui
abbiamo tutto quello che esiste (2Corinzi 6:10).

Il terzo verso infatti dice: “Egli mi ristora l’anima, mi conduce per sentieri di
giustizia, per amore del suo nome.” Non si tratta di un nome qualsiasi, ma
del Nome di “Colui che fa esistere”, che è un possibile signi cato del
tetragramma che compone il santo nome proprio di Dio (che traduciamo
come SIGNORE, o come l’Eterno, e che è certamente connesso con il
verbo essere). L’apostolo Giovanni nell’Apocalisse traduce lo stesso nome
con la locuzione Colui che era, che è e che viene (Apocalisse 1:4, 1:8 e 4:8). E
all’inizio del suo Vangelo, riferendosi al SIGNORE come alla parola di Dio,
scrive che “ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure
una delle cose fatte è stata fatta” (Giovanni, 1:3).

Se ci ricordiamo di chi è il SIGNORE e vogliamo conoscerlo meglio, cioè più


intimamente, troviamo una vera ragione per vivere, e comprendiamo che
tutte le cose cooperano per il nostro bene, che appunto il bene non è più
quello che abbiamo deciso o possiamo ritenere noi, ma quello
predestinato da Dio per noi, di conoscere cioè Colui che ci ha
preconosciuti (Romani, 8:28-29).

In aggiunta, ci vengono date anche le cose di cui Dio sa che abbiamo


bisogno e che noi non cerchiamo più con affanno (Matteo, 6:33-34).
Appunto perché abbiamo creduto che, avendo il SIGNORE come nostro
amico, non ci manca più nulla.

Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Il Salmo 23 continua dichiarando: “Quand’anche camminassi nella valle


dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me; il
tuo bastone e la tua verga sono la mia consolazione.” (Salmi, 23:4). Un altro
salmo di Davide dice “Dio è per noi un rifugio e una forza, un aiuto sempre
pronto nelle dif coltà.” (Salmi, 46:1). In un altro ancora, Davide esclama “il
mio aiuto viene da Colui che ha fatto il cielo e la terra.” (Salmi, 121:2).

Il buon pastore va in cerca delle sue pecore, non le abbandona a se stesse.


Non le tiene sempre chiuse nell’ovile, e le lascia anche libere di vagare e
magari di perdersi, ma poi le va a cercare e comunque non si dimentica di
loro (Luca, 15:4). Come il buon padre della parabola, che lascia partire il suo
glio quando lui glielo chiede, ma poi non solo lo aspetta ma gli corre
anche incontro quando decide di tornare (Luca, 15:20).

Il pastore guida le sue pecore con la sua verga e le protegge con il suo
bastone, a rischio della sua stessa vita. Davide, discutendo da giovane con
il re Saul a proposito di Goliat, ha raccontato come proteggeva le sue
pecore al suo re perplesso davanti alla sua decisione di s dare il gigante. “Il
tuo servo pascolava il gregge di suo padre e talvolta veniva un leone o un
orso a portar via una pecora dal gregge. Allora gli correvo dietro, lo colpivo,
gli strappavo dalle fauci la preda; e se quello mi si rivoltava contro, lo
afferravo per le mascelle, lo ferivo e l’ammazzavo.” (1Samuele, 17:34-35).

Gesù ha detto la stessa cosa di se stesso, riferendosi però non più a degli
ovini, ma a noi suoi discepoli: “Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la
sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non
appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà
alla fuga (e il lupo le rapisce e disperde), perché è mercenario e non si cura
delle pecore. Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono
me” (Giovanni, 10:11-14).

L’invito a conoscere personalmente il SIGNORE è contenuto anche in un


altro famoso salmo di Davide: “Il mio cuore mi dice da parte tua: Cercate il
mio volto! Io cerco il tuo volto, o SIGNORE. Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo; tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi,
non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza! Qualora mio padre e mia
madre m’abbandonino, il SIGNORE mi raccoglierà.” (Salmi, 27:8-10).

Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


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Quando desideriamo più di ogni altra cosa conoscere il volto e la voce del
nostro pastore ed essere conosciuti da lui come sue pecore, allora da Gesù
– che oltre a essere il nostro buon pastore è anche l’agnello immolato –
riceviamo il vero riposo, e impariamo la mansuetudine e l’umiltà di cuore
che ci rendono amici di Dio (Matteo, 11:28-30).

Il Figlio dell’uomo
Nonostante il suo amore e la sua cura per l’umanità, e in particolare per il
popolo di Israele, il SIGNORE è stato ripetutamente trascurato e tradito,
soprattutto proprio dal popolo che si era scelto (una delle prove
dell’autenticità della Bibbia è che il popolo che l’ha scritta e conservata è
quello che vi riceve i più tremendi rimproveri).

Ma l’inimicizia dell’uomo verso Dio è iniziata molto prima che si formasse il


popolo di Israele, cioè già da quando, ancora in Eden, noi uomini, nella
persona di Adamo, abbiamo cominciato a non credergli, imboccando così
la via di un giudizio autonomo; quando cioè abbiamo creduto che ci
fossero cose buone anche senza, o addirittura contro di lui.

Gli uomini non sono molto cambiati neanche dopo che il diluvio ha
spazzato via tutte le famiglie della terra tranne quella di Noè (distruzione
che, come scrive Pietro 3:21, è una chiara gura del battesimo; difatti,
anche dopo esserci battezzati da adulti, continuiamo per molti versi a
ignorare l’onnipotenza di Dio e a vivere stoltamente, come se fossimo noi i
padroni delle nostre vite).

L’uomo deve ancora – e continuamente – imparare a non scegliere


secondo quello che sembra giusto a lui, ma secondo quello che gli dice il
SIGNORE; a fare cioè come ha fatto Abraamo quando ha accettato di
sacri cargli il glio che amava e che aveva avuto in vecchiaia (Genesi, 22). 
Occorre imparare a farlo perché la voce della nostra natura è sempre
molto forte e non ci è per niente facile sapere cosa ci sta dicendo il
SIGNORE, momento per momento (perché i comandi del SIGNORE
possono anche cambiare nel tempo, come per esempio è successo
proprio nel caso del sacri cio di Isacco, che prima doveva essere ucciso e
poi, improvvisamente, risparmiato). La via per af na re il nostro udito
spirituale e predisporre il nostro cuore all’ubbidienza è stata aperta dalla
croci ssione di Gesù, pre gurata dalla “legatura” di Isacco sullo stesso
monte che doveva diventare il Calvario.

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Perché l’umanità (in ebraico bney ha-adam ‫“ ְבּנֵי ָהאָ ָֽדם‬i gli dell’uomo”)
potesse riguadagnare l’amicizia con Colui che ci ha creato a sua immagine
e somiglianza, era necessario un atto completamente simmetrico alla
disubbidienza del primo Adamo. Questo compito non poteva essere
af dato che alla stessa “immagine del Dio invisibile” (Colossesi, 1:15), la
vivente parola di Dio che è stata mandata a farsi carne nello stesso seme
di Abraamo, per diventare il prezzo del riscatto che doveva essere pagato
per tutti noi.

Nell’agonia dell’ultima preghiera prima dell’arresto, Gesù ha dimostrato


che stava accettando di percorrere una via completamente opposta a
quella che gli indicava la sua umana conoscenza del bene e del male, e
che si sarebbe lasciato croci ggere (e immergere nel peccato degli
uomini che gli avrebbe dato la morte) solo per ubbidienza alla volontà del
Padre: “Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo calice! Ma pure,
non come voglio io, ma come tu vuoi.” (Matteo, 26:42).

L’esempio che ci ha dato Gesù è ef cace per noi solo se lo seguiamo


davvero, nutrendocene. Aveva infatti detto che la carne e il sangue che
avrebbe dato per noi sono il nostro vero cibo e la nostra vera bevanda, cioè
le sostanze che soddisfano realmente il nostro bisogno essenziale, di
amare e di essere amati (Giovanni, 4:13-17; Giovanni, 6:26-55). Nutrendoci di
questo cibo, impariamo a stare con lui e riceviamo così il suo carattere
(Giovanni, 6:56-57; Giovanni, 15:5), il frutto dello Spirito (“amore, gioia, pace,
pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo”
Galati,5:21) di cui abbiamo bisogno per vivere con gli altri come amici.

Ci cibiamo e ci dissetiamo di Cristo quando crediamo che il suo sacri cio è


avvenuto davvero, e che era assolutamente necessario per coprire i
peccati che abbiamo commesso e che ci impediscono di avere un vero
rapporto con Dio (Isaia, 59:2). Rendiamo ef cace questo sacri cio quando
decidiamo di seguire il suo esempio e ascoltare le sue parole, che ci
invitano a prendere ogni giorno la nostra croce, cioè a confermare ogni
giorno la nostra decisione di non cercare che sia fatta la nostra volontà ma
solo quella di Dio, sapendo che quest’ultima è  migliore per noi, anche se
al momento ci può apparire addirittura inaccettabile.

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Come ha scritto anche Paolo: “… l’amore di Cristo ci costringe, perché


siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti
morirono;  e ch’egli morì per tutti, af nché quelli che vivono non vivano
più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro.” (2Corinzi,
5:14-15).

Venendo soddisfatti in Dio i nostri bisogni (affettivi, oltre che materiali),


anche i  rapporti tra noi uomini possono lasciare la via dello sfruttamento e
prendere quella dell’amicizia.

Sapendo di essere stati perdonati attraverso un così grande atto di amore


(“nessuno ha amore più grande di quello di dare la sua vita per i suoi
amici.” Giovanni, 15:13), acquisteremo anche la pazienza necessaria per
amare e rispettare il nostro prossimo, tanto quanto desideriamo che gli
altri amino e rispettino noi. E amare i nostri fratelli anche più di quanto
amiamo noi stessi, diventando capaci di servirli come ci ha servito il Figlio
dell’uomo, che “non è venuto per essere servito ma per servire e per dare
la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Matteo, 20:28).

Inoltre, avendo il SIGNORE come amico, non vorremo più dipendere da


nessun altro, né che gli altri dipendano da noi. Non  faremo diventare le
persone amate degli idoli per noi, né vorremmo diventare noi idoli per
loro.

Tutto ciò avviene progressivamente, man mano che la natura di Cristo si


sviluppa e matura in noi e man mano che noi lasciamo che venga
demolita la nostra vecchia natura.

Figli di Dio
Il Salmo 27, citato poco fa, inizia dicendo: “Il SIGNORE è la mia luce e la mia
salvezza; di chi temerò?”. In ebraico c’è una connessione abbastanza
stretta tra le radici che signi cano “luce”, “insegnamento” e “genitore” e in
effetti credere alla parola di Dio signi ca uscire dalle tenebre e dalla nostra
solitudine venire alla “sua meravigliosa luce” (1Pietro, 2:9). “La luce della
conoscenza della gloria di Dio che rifulge nel volto di Gesù Cristo” (2Corinzi,
4:6): la conoscenza che Dio ha di noi e che desidera che anche noi
abbiamo di lui.

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“Perché chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce,
af nché le sue opere non siano scoperte; ma chi mette in opera la verità
viene alla luce, af nché le sue opere siano manifestate, perché sono fatte
in Dio.” (Giovanni, 3:20-21).

Chi ci fa venire a questa luce divina è appunto Dio. Per chi crede alla sua
parola, oltre a essere un pastore e un amico, Dio diventa cioè anche un
padre. Perché, quando crediamo alla parola di Dio come alla verità,
entriamo in contatto con Colui che parla dal cielo, cioè dall’eternità, e che
si rivolge all’eternità. Diventiamo suoi gli, cioè parte dell’eternità.

Gesù nella sua preghiera assieme ai discepoli ha infatti detto: “Questa è la


vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato,
Gesù Cristo.” (Giovanni, 17:3).

Se già in qualche passo degli scritti dell’Antico Testamento il nostro Dio


viene chiamato “padre” (per es.: Isaia, 9:6 e 63:16), nel Nuovo Testamento
Padre nostro che sei nei cieli è il nome con cui Gesù ci ha insegnato a
rivolgergli le nostre preghiere. Perché è scritto esplicitamente che chi
crede alla parola di Dio acquista il diritto (il termine usato nel testo greco è
exousìa ἐξουσία e signi ca più propriamente “autorità”) di diventare glio
di Dio (Giovanni 1:12).

Credendo che Dio ha generato la sua eterna parola incarnata in Cristo


Gesù (che ha potuto dire ai farisei che si vantavano di essere gli di
Abramo, “prima che Abraamo fosse, io sono” Giovanni, 8:58), diventiamo
quindi anche noi gli di Dio. A quelli che credono in Gesù Dio ha infatti
dato lo Spirito Santo, per agire non più guidati dal nostro naturale
egoismo, ma seguendo lo Spirito della verità (“infatti tutti quelli che sono
guidati dallo Spirito di Dio, sono gli di Dio.” Romani, 8:14).

Come abbiamo già detto, il passaggio da creature di Dio a gli suoi non è
un processo immediato. Analogamente alla nascita naturale, questa
nascita spirituale avviene attraverso varie fasi che possono richiedere
anche molto più tempo di quelle che, dal concepimento, portano alla
nascita e allo sviluppo di un organismo naturale.

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La nuova nascita è una nascita “dall’alto”, come si può anche intendere


l’espressione usata dal vangelo di Giovanni per riportare le parole che
Gesù ha detto a Nicodemo (ànōthen ἄνωθεν, l’avverbio usato in Giovanni
3:7, signi ca sia “dall’alto” che “di nuovo”). Richiede una partecipazione
attiva da parte nostra, senza la quale Dio non può (né vuole) fare niente,
ma neanche noi possiamo fare niente da soli, e, di fatto, se non fosse per
l’opera dello Spirito Santo, non ci renderemmo affatto conto della
necessità del sacri cio di Cristo per i nostri peccati e del bisogno che
abbiamo di seguire il suo esempio per cercare il regno e la giustizia di Dio.

D’altra parte, se non fosse per l’opera di Dio prima e attorno a noi, non ci
sarebbe nessuna realtà in cui entrare dopo avere lasciato la nostra. Perché
sulla via della salvezza non si può camminare da soli. Al contrario,
nascendo dall’alto, siamo invitati a fare parte del popolo che Dio si è
formato attraverso i secoli della storia dell’uomo, e ad amare questo
popolo e le sue testimonianze e rivelazioni. Come aveva già scritto Davide:
“Quanto ai santi che sono sulla terra, essi sono la gente onorata in cui
ripongo tutto il mio affetto.” (Salmi, 16:3). Il popolo che ha scritto la Bibbia e
che ne ha tratto ispirazione per molte generazioni.

Questa è la famiglia di Cristo, secondo le stesse parole di Gesù, quando


sono venuti a dirgli che lo cercavano sua madre e i suoi fratelli: “Chi è mia
madre, e chi sono i miei fratelli? – E, stendendo la mano verso i suoi
discepoli, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Poiché chiunque avrà
fatto la volontà del Padre mio, che è nei cieli, mi è fratello e sorella e
madre.” (Matteo, 12:48-50).

Fratelli in Cristo
Credendo a Dio, diventiamo quindi fratelli di Cristo e di tutti i suoi
discepoli, tutti gli dello stesso Padre. Entriamo così in una nuova famiglia,
quella che Paolo chiama “la famiglia di Dio” (Efesini, 2:19).

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Per quanto formata di uomini, questa famiglia non è un’organizzazione


umana, formata cioè da uomini. Infatti, come abbiamo già detto con altre
parole, si nasce da Dio non per volontà dell’uomo, ma per volontà di Dio
(Giovanni 1:13). E non accade come con la nascita naturale che avviene più
o meno quando e dove lo hanno deciso (o almeno accettato) i nostri
genitori, ma avviene quando e dove rispondiamo positivamente alla
chiamata di Dio. È Dio che prende l’iniziativa: a noi sta di rispondere, ma il
quando e il dove li decide il SIGNORE. Ravvederci e convertirci sono azioni
che Dio ci esorta a fare noi, ma che noi non possiamo fare senza di lui.

A noi sta di riconoscere la bontà di Dio, ma è questa bontà che ci porta a


ravvedimento (Romani, 2:4). È Dio stesso, cioè, che ci guida a cambiare la
nostra idea su noi stessi, e su di lui. Questo in effetti è il primo senso della
parola greca che traduciamo con ravvedimento: cioè metànoia μετάνοια,
“cambio di mente”. Se prima pensavamo di essere fondamentalmente
buoni, tanto da poter nutrire qualche ragionevole dubbio sulla bontà di
Dio, dopo (e solo dopo) aver capito che Dio ha dovuto mandare a morire
per noi il suo unigenito e diletto glio, il nostro modo di pensare è
cambiato radicalmente.

Per questo, da Dio, normalmente, si nasce che si è già adulti, almeno non
più bambini piccoli. E ci si si ritrova a fare parte di un gruppo di credenti
altrettanto adulti, che non solo non ci siamo scelti ma che, per lo più, non
abbiamo neanche avuto il tempo di conoscere.

Come accade con la nascita naturale, si “nasce di nuovo” in una famiglia


(cioè in una comunità) e normalmente si trovano o si ricevono dei fratelli e
delle sorelle con cui possiamo capirci e andare d’accordo, ma anche no.
Anche perché, a differenza di quanto normalmente accade nella vita
naturale, la famiglia spirituale in cui si viene a nascere è però composta di
persone che possono essere di cultura, età, razza e condizione sociale
molto diverse. Bisogna riuscire a concentrarsi sulle cose veramente
importanti, e non sempre ci si riesce subito.

Come ogni padre, Dio desidera che il suo amore per la sua famiglia sia
anche il sentimento che lega tra loro i suoi gli. Purtroppo però, come
abbiamo già detto e ripetuto, essere fratelli non signi ca
automaticamente che si vada d’accordo. Neanche nella famiglia di Dio.

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Infatti già nella prima chiesa (poche settimane dopo la discesa dello
Spirito Santo avvenuta il giorno della prima festa di Pentecoste dopo la
Pasqua del Signore Gesù), è presto nato un dissapore tra i discepoli,
causato proprio dalle differenze di ceto e di cultura tra quelli che si erano
convertiti a Cristo tra i giudei e quegli ebrei, detti “ellenisti”, che venivano
da fuori della terra di Israele. Una distanza che tardavano ad essere
colmata dall’amore. Infatti il problema era che le “loro vedove erano
trascurate nell’assistenza quotidiana.” (Atti, 6:2).

Quel problema fu risolto istituendo un servizio af dato a uomini ripieni di


Spirito che si occupassero delle mense (sono tuttora chiamati diaconi, da
una parola greca che signi ca appunto “servo”). Cosa che ci mostra che,
nella chiesa, i veri problemi non sono quelli delle differenze socio-culturali
che ci possono essere tra persone provenienti da paesi molto lontani, o
quelli delle differenze di valutazione e di comportamento che possono
prodursi tra persone di etnie anche molto vicine (anzi normalmente più
sono vicine le culture, maggiori sono le cause di attrito).  Questi problemi
possono costituire delle dif coltà nello sviluppo dell’amicizia fraterna
(come certamente accade quando non si parla la stessa lingua), ma si
possono risolvere con l’amore, che è innanzitutto paziente e
disinteressato, ed è attento ai bisogni dell’amato.

Il vero problema si pone quando non abbiamo a disposizione questo


amore disinteressato per chi è diverso da noi, per chi cioè non fa parte
della nostra casa, della nostra famiglia, o della nostra vita. Quando cioè
l’interesse per noi stessi e per il nostro nome prevale al punto che non
riusciamo ad attingere dall’amore di Dio.

Il vero problema, in altri termini, è quello della nostra identità, perché si


stenta a dimenticarsi di se stessi e a ricordarsi di Cristo, che ha detto
testualmente “se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda
la sua croce e mi segua.” (Matteo, 16:24).

La croce, piuttosto che come la via che ci è stata indicata per imparare
qualcosa di in nitamente più prezioso di tutto ciò che possiamo lasciare,
proprio a causa del nostro attaccamento a noi stessi e alle cose che sono
in qualche modo collegate al nostro nome, ci appare per lo più come un
obbligo che preferiamo dimenticare.

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Così, purtroppo, come scrive anche Paolo, molti, anche nella chiesa, vivono
come “nemici della croce” (Filippesi, 3:18). E, ancora più lamentabilmente,
questa profonda e spesso inconfessata avversione per la croce si trova
anche in quelli che dovrebbero dare l’esempio e che invece occupano i
primi posti in chiesa proprio perché, più che per la gloria di Dio, si
affaticano per il proprio nome, o per quello della propria denominazione.

Di fatto, le chiese non si dividono solo per ragioni buone, come fanno le
cellule degli organismi viventi, cioè per la naturale crescita ed espansione
della testimonianza del regno di Dio, ma anche per disaccordi e a volte
futili discussioni interne alle comunità. E spesso vengono costruite
differenze dottrinali che sono soltanto un pretesto per separarsi da coloro
con cui non si sta bene a causa di tutt’altre ragioni.

La cosa importante, per ciascuno di noi, è continuare a credere in Dio e


anche in Cristo, cioè non in un Dio impersonale, ma in quel Dio che ci ha
fatto conoscere Gesù. È importante, cioè, che, nonostante tutto quello
che vediamo nel mondo (e anche tra i nostri fratelli che, come noi, vivono
in questo mondo, e che, come noi, non sono totalmente insensibili ai suoi
insegnamenti e alle sue lusinghe) non smettiamo di credere che Dio sa
ogni cosa, ci conosce personalmente e, se permette che ci avvenga
qualcosa di male o di doloroso, ha le sue buone ragioni per farlo e i suoi
strumenti per tirarcene fuori. Ma noi non dobbiamo mai rinunciare alla
nostra nuova vita con Dio, e neanche a quella con i nostri fratelli nella fede,
evitando di incontrarli per evitare problemi (come alcuni hanno preso
l’abitudine di fare, Ebrei, 10:25). Non è bene che l’uomo stia da solo (Genesi,
2:18), perché Dio ha ordinato che la benedizione sia dove i fratelli stanno
assieme in unità (Salmi, 133:1-3), in quanto è lì che ha promesso di essere
sempre presente (Matteo, 18:20)

Nome nuovo, amici nuovi


Nascendo dall’alto, riceviamo una nuova identità. Non si tratta di
un’identità ttizia che ci viene appiccicata a caso, ma piuttosto di un
nome “cifrato” che dobbiamo ricercare attivamente, continuamente e
appassionatamente. Un premio che ci sarà dato “in chiaro” soltanto alla
ne (“A chi vince io darò della manna nascosta e una pietruzza bianca,
sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui
che lo riceve.” Apocalisse, 2:17).

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A differenza del nome che portiamo oggi, e che riassume tutto il nostro
passato, il nuovo nome esprimerà un’identità futura. E già oggi, la nuova
creatura che siamo diventati con la conversione non guarda più indietro,
ma avanti. Non ha nostalgia per le cose che sono passate, né compie
azioni per potersene vantare, o per riceverne dei meriti davanti agli
uomini, ma è ricca in vista di Dio (Luca, 12:21).

“Ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a


causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di
fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il
quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose [cioè il fatto di essere
stato circonciso l’ottavo giorno, di essere israelita della tribù di Beniamino,
ebreo glio d’Ebrei; fariseo, irreprensibile riguardo alla legge] come tanta
spazzatura al ne di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con
una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante
la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto
questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la
comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua
morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti. Non che
io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma
proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato
afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma
una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi
verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio
della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù.”(Filippesi 3:7-14)

Infatti, come Paolo scrive anche altrove, la cosa importante non è se siamo
ebrei o se non lo siamo: “perché, tanto la circoncisione che
l’incirconcisione non sono nulla; quello che importa è l’essere una nuova
creatura.” (Galati 6:15). La cosa importante, cioè, è che sia stata rinnovata la
nostra mente, e di conseguenza anche la nostra vita.

E questa nuova creatura è nuova proprio perché, a differenza della


vecchia, non è più attaccata alla propria identità. “Sono stato croci sso con
Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora
nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha
dato se stesso per me.” (Galati, 2:20).

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Ma il regno di Dio in noi non ci spersonalizza, come farebbe la dittatura di


un uomo o di una ideologia politica. Perché è il regno di Colui che ha
creato tutte le colorate creature dell’Universo e anche ciascuno di noi, che
ci conosce tutti con le nostre differenze e che, se ci chiede di lasciare la
nostra natura vecchia, lo fa per sostituire all’immagine che ci siamo fatti di
noi stessi qualche speciale aspetto dell’in nitamente varia natura di
Cristo.

Ed è in vista di un più profondo rapporto con Cristo che possiamo


volentieri lasciare la nostra vita passata e il nostro speciale interesse per
quello che riguarda noi stessi piuttosto che gli altri. In questo senso vanno
anche le esortazioni di Paolo, che fa appello alla comunione con Cristo per
incoraggiare i fratelli a non pensare più in termini di interessi egoistici: “Se
dunque v’è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto
d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di
affetto e qualche compassione, rendete perfetta la mia gioia, avendo un
medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di
un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria,
ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando
ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.” (Filippesi, 2:1-
4).

Nati di nuovo in Cristo, ci possiamo concentrare sul nostro futuro e sulla


nostra destinazione, piuttosto che sulle nostre provenienze e sul nostro
passato. Sull’aiutare il prossimo, piuttosto che sul modo per attirare la sua
attenzione ed esserne aiutati. Sul dare piuttosto che sul ricevere.

Restiamo comunque ciascuno caratterizzato dalla nostra storia. Ed è


anche giusto che non la dimentichiamo e che onoriamo i nostri genitori e
li amiamo, assieme ai nostri coniugi, ai nostri amici, ai nostri familiari e ai
nostri connazionali. Paolo, in questa direzione, arriva a dire: “perché io
stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei
fratelli, miei parenti secondo la carne” (Romani, 9:3). Ma questo
certamente non per indifferenza verso Gesù, ma anzi proprio per lo stesso
sentimento, di cui Paolo parla in quel capitolo della lettera ai Filippesi, che
ha portato Cristo a lasciare il cielo e a venire a morire come un peccatore
sulla croce per noi.

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L’amore per i nostri cari non ci deve cioè portare al punto di dimenticare
coloro che ancora non appartengono alla nostra storia, perché, facendo
così, dimenticheremmo Cristo e il vero senso della nostra vita (“Chi ama
padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama glio o glia più di
me, non è degno di me.” Matteo, 10:37).

E difatti Paolo, ri utato e perseguitato dai capi dei giudei, non si è ritirato a
vita privata ma ha rivolto il suo messaggio ai non ebrei, portandone molti a
entrare nella famiglia di Dio.

Così ogni nazionalismo è bandito dal regno di Dio. Difatti Paolo conclude il
discorso sul vero sentimento di Cristo prendendo le distanze da quelli che
hanno l’animo alle cose della terra e concludendo che “quanto a noi, la
nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù
Cristo, il Signore…” (Filippesi, 3:20). “Perché non abbiamo quaggiù una città
stabile, ma cerchiamo quella futura.” (Ebrei, 13:14).

Ama lo straniero, come te stesso


Mentre la natura vecchia, che siamo invitati a lasciare, è quella che
condividiamo con gli animali, la natura nuova, fatta a immagine e
somiglianza di Dio, è veramente umana, nel senso umano del termine.

Gli animali, soprattutto i carnivori, de niscono il loro territorio e lo


difendono dai co-speci ci, stabilendo rapporti gerarchici molto precisi con
quelli di loro con cui lo condividono. Modello etologico che vediamo
ripetersi – in modo un po’ imbarazzante, per quanto considerato
assolutamente normale – anche tra gli umani con cui ci tocca vivere. Nella
chiesa però il modello animale non dovrebbe assolutamente ripetersi
(Matteo, 20:25-28). Perché tra i principali comportamenti del “Figlio
dell’uomo” che ne è il capo ci sono proprio l’umiltà di cuore,  la
mansuetudine, il servizio e l’ospitalità.

Aprire la propria casa a chi viene da lontano e venire incontro alle


necessità dell’ospite straniero (che forse non potrà mai ricambiare il nostro
servizio) sono comandamenti che troviamo chiaramente espressi sia
nell’Antico che nel Nuovo Testamento, e sono la base dell’insegnamento
di Dio.

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Infatti il Creatore dell’Universo è anche Colui che ci ha accolto nella sua


creazione, prendendosi cura di tutti i nostri bisogni. Lo ha fatto ricordare
poche volte nella Bibbia, perché, com’è scritto, Dio “dona a tutti
generosamente senza rinfacciare” (Giacomo, 1:5).

Ma non per questo vuole che ci dimentichiamo di lui. Parlando delle


proprietà terriere ha esplicitamente detto, attraverso Mosè: “la terra è mia
e voi state da me come stranieri e ospiti.” (Levitico 25:23b). Allo stesso
modo ha insegnato al suo popolo ad essere ospitali e a prendersi
amorevole cura degli stranieri che si avvicinavano a loro e volevano vivere
con loro. Già nella Legge di Mosè, colui che veniva ad abitare presso il
popolo di Israele era infatti da considerare come parte del popolo:
“Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo
amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto.
Io sono il SIGNORE vostro Dio.” (Levitico, 19:34).

IL SIGNORE non si è scelto Abraamo come amico per benedire soltanto


lui, ma perché nella sua discendenza e in quella di Isacco fossero
benedette tutte le nazioni della terra (Genesi, 22:18 e 26:4).

Così quando, parlando dei due primi comandamenti (ama Dio con tutto
te stesso, e ama il tuo prossimo come te stesso) un dottore della Legge ha
chiesto a Gesù chi fosse il prossimo che doveva amare come se stesso, il
Signore gli ha risposto con la parabola del buon samaritano:

“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e si imbattè nei briganti,


che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciando mezzo
morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada, ma
quando e lo vide, passò oltre dal lato opposto. Così pure il levita quando
giunse in quel luogo lo vide, passò oltre dal lato opposto. Ma un
samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe
pietà; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo
mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di
lui. Il giorno dopo, presi due denari, e disse all’oste e gli disse: prende cura
di lui; e tutto ciò che spenderà in più, però rimborserò al mio ritorno. Quale
di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che si imbattè nei
ladroni? Quegli rispose: colui che gli usò misericordia. Gesù gli disse: va e fa
anche tu la stessa cosa.” (Luca, 10:30-37).

Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Gesù con quella parabola ha mostrato che il punto non è decidere chi sia
da considerare nostro amico, ma essere noi gli amici che vorremmo che
gli altri fossero per noi (” E come volete che gli uomini facciano a voi, fate
voi pure a loro.” Luca, 6:31).

Ama anche il tuo nemico


Gesù parlando di un samaritano che si comporta secondo la legge di Dio
(perché fa quello che avrebbero dovuto fare coloro che erano incaricati di
dare l’esempio e che invece con le loro azioni hanno dimostrato di non
avere nessuna reale fede in Dio), ha messo in chiaro quali siano i termini
del giudizio del nostro Dio, che non guarda in faccia nessuno, cioè non
bada alle apparenze e neanche alle genealogie, ma guarda al cuore
(1Samuele, 16:7).

Per i giudei, i samaritani, oltre che stranieri, erano per lo più anche nemici,
e qualsiasi cosa venisse da loro era considerata con sospetto. Se vogliamo
seguire Gesù, invece, dobbiamo capire che l’albero si riconosce dal frutto e
non viceversa (Matteo, 12:33; Luca, 6:43-44), e dobbiamo anche imparare a
non giudicare nemmeno noi dall’apparenza. Che non dobbiamo cioè
condannare gli altri dal loro passato, come se questo fosse inamovibile, ma
vincere il male, che è rimasto in loro come una cicatrice di tante ferite
passate, con il bene che noi oggi riceviamo da Dio (Romani, 12:21).

“Voi avete udito che fu detto: “Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”.
Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano, af nché siate gli del Padre vostro che è nei cieli; poiché
egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui
giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne
avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i
vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani
altrettanto? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro
celeste.” (Matteo, 5:43-47).

Naturalmente, quando parla di amare qui Gesù non sta usando il verbo
philèo, ma il verbo agapào (della differenza tra questi due verbi abbiamo
trattato a lungo nella prima parte di questa meditazione). Non ci dice cioè
di essere amici dei nostri nemici, ma piuttosto ci dice di amarli noi per
primi, in modo da aiutarli a diventarci amici.

Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬

Nemmeno ci dice, Gesù, di essere amici di tutti. Infatti ci raccomanda di


non dare le nostre perle ai maiali che potrebbero rivoltarsi contro di noi
(Matteo, 7:6) e di essere prudenti come serpenti (Matteo, 10:16). Non ci dice
che tutti saranno amici nostri: al contrario, ci ha predetto che se lo
seguiamo ci verranno contro anche quelli di casa nostra (Matteo, 10:36).

Ma ci dice chiaramente di non essere rispondere al male con il male


(Matteo, 5:39), cioè di non essere noi litigiosi. “Non rendete a nessuno male
per male. Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomini. Se è
possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini.
Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all’ira di Dio;
poiché sta scritto: A me la vendetta; io darò la retribuzione, dice il Signore.
Anzi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere;
poiché, facendo così, tu radunerai dei carboni accesi sul suo capo.  Non
lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene..” (Romani, 12:17-21).

Nella Bibbia ebraica, il Nemico per eccellenza è chiamato ha-Satan (‫) ַה ָשּׂטָן‬,
da una radice che signi ca “accusa” e “inimicizia” (la stessa del nome dato
al pozzo che Isacco chiamò Sitnah perché per il suo possesso i suoi pastori
avevano litigato con i pastori dei listei, Genesi, 26:21). Il Nemico per
eccellenza è la bestia che ha voluto n dal principio renderci nemici di Dio,
e, con le sue bugiarde insinuazioni, ci ha trascinato sulla via della sua
stessa ribellione. Non è questo nemico che possiamo amare.  Se seguiamo
lui, amiamo l’inimicizia e non potremo quindi amare i nostri nemici.
Dobbiamo invece resistergli (“resistere”, “fare opposizione” è peraltro uno
dei sensi del suo nome), non credendo alle sue bugie. E lui fuggirà da noi
(Giacomo, 4:7).

Al Nemico non importa di noi. Per lui siamo una realtà aliena e un disturbo.
Gli interessiamo solo come strumenti e come strumenti dobbiamo essere
il più possibile prevedibili, come dei corpi morti. Per il nemico, la nostra
libertà è un problema, per questo ci vuole fare prigionieri, con le sue
promesse e con i suoi ricatti.

Amicizia fraterna. Seconda parte | ‫ְדבַר־ ֱאלֵֹהינוּ‬


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Ma il Signore Gesù è venuto per “distruggere, con la sua morte, colui che
aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, e liberare tutti quelli che dal
timore della morte erano tenuti schiavi per tutta la loro vita.” (Ebrei, 2:14-
15).

Perché Dio non solo fa piovere e splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti,
ma  lascia tutti liberi di scegliere se stare con lui oppure no. Anche nella
Legge era scritto: “Io prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra,
che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la
maledizione; scegli dunque la vita, af nché tu viva, tu e la tua
discendenza, amando il SIGNORE, il tuo Dio, ubbidendo alla sua voce e
tenendoti stretto a lui, poiché egli è la tua vita e colui che prolunga i tuoi
giorni.” (Deuteronomio, 30:19-20).

Certamente, se scegliamo la morte, la conseguenza non può essere la vita


eterna. Ma la morte non ci è messa davanti come una minaccia, è indicata,
semplicemente, come la ne della strada che siamo avvertiti di non
prendere.

Allo stesso modo, Gesù ha guarito o sfamato anche coloro che avrebbero
usato la loro salute per agire contro (o senza) di lui, ma li ha anche avvertiti
che quella via non era la via giusta (cf. per es. Giovanni, 5:14-16; 6:26-58).

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Al di là del bene e del male


Come abbiamo già meditato, se veramente cerchiamo Dio prima di ogni
altra cosa, non faremo più differenza tra quello che consideriamo un bene
e quello che consideriamo un male per noi, perché sapremo che ogni cosa
che avviene ci aiuta a conoscere meglio il nostro Amico, anche le
sofferenze che ci possono essere in itte dal prossimo. Per questo veniamo
liberati dalle minacce e dai ricatti del Nemico.

Non siamo noi che dobbiamo fare giustizia. Non siamo noi che dobbiamo
decidere chi merita e chi non merita di essere aiutato. Il Signore ci dice
anzi di usare le cose che non sono in realtà nostre e sulle cose non
possiamo vantare nessun reale diritto, come i nostri soldi o il nostro
tempo, per farci oggi degli amici che ci ricevano domani, in quanto
avremo usato loro misericordia, scontando i debiti che avevano con Dio, e
trattandoli meglio di quello che meritavano.

È anche questo il senso della parabola del fattore infedele di cui abbiamo
già parlato nell prima parte della meditazione: “E io vi dico: fatevi degli
amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno a mancare,
quelli vi ricevano nelle dimore eterne.” (Luca, 16:8-9). Vivere con Gesù
signifca vivere per la risurrezione.

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Gesù ha infatti detto alla sorella sel suo amico Lazzaro, che era morto da
quattro giorni: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se
muore, vivrà” (Giovanni, 11:25).

Il ché non signi ca che non ci farà male essere feriti. Né, soprattutto,
signi ca che non ci debba importare del bene e del male che accade agli
altri. Con la nuova nascita non si diventa insensibili, anzi. Al posto del cuore
insensibile che avevamo ci viene dato un cuore capace di sentire i
sentimenti degli altri (Ezechiele, 11:19, 36:26). Ma certamente diventiamo
meno sensibili a quello che ci tocca direttamente, sia nel bene che nel
male (è questo il senso della circoncisione del cuore, di cui è scritto già
nella Legge di Mosè, Deuteronomio 10:16 e 30:6).

Così, non vivendola più egoisticamente, la conoscenza del bene e del


male può diventare lo strumento per fare del bene a tutti (Galati, 6:10;
1Tessalonicesi, 5:15). E per essere ospitali e di aiuto, anche con chi non
conosciamo ancora (“Non dimenticate l’ospitalità; perché alcuni
praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli.” Ebrei 13:2).

Sopratutto, per non dare più tanta importanza ai nostri diritti, pensando
prima ai nostri doveri (“Certo è già in ogni modo un vostro difetto che
abbiate fra voi dei processi. Perché non patite piuttosto qualche torto?
Perché non patite piuttosto qualche danno?” 1Corinzi, 6:7).

Abbiamo ricordato, all’inizio di questa meditazione, la vicinanza tra la


radice che signi ca “nemico” e “distretta” (tsade+resh) e quella che
signi ca “formare” (yod+tsade+resh), ri ettendo sul fatto che le esperienze
che ci formano di più sono alla ne proprio le dif coltà in cui ci mettono i
nostri nemici, e a volte anche gli amici quando ci voltano le spalle.

In realtà in ebraico esiste anche un’altra parola per dire “nemico”, e questa
parola è molto vicina proprio a quella che signi ca “amare” (“nemico” è
‘ayav ‫ אָיַב‬e “amare ‘ahav ‫)אָ ַהב‬.

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Certamente della parola di Dio non bisogna trascurare nanche una yod
(Matteo, 5:18). Ma in ebraico la vicinanza tra le lettere con cui sono scritte le
parole manifesta una vicinanza tra il signi cato che intendono veicolare. E
in questo caso il senso a cui ci ha portato la Bibbia è proprio quello di un
amore che va oltre la nostra distinzione tra amico e nemico: l’amore di Dio
che ha mandato Cristo a morire per noi quando gli eravamo ancora nemici
(Romani, 5:6-8). E anche l’amore che è giusto che anche noi, come gli e
amici di Dio, nutriamo per le persone che ci fanno del danno, non solo
perché spesso non sanno quello che fanno, ma anche perché quello che
oggi si appare come un danno, in futuro si rivelerà come una benedizione
(come nel caso di Giuseppe e dei suoi fratelli, cfr. Genesi, 45:4-8).

Un’altra signi cativa vicinanza, anzi in questo caso proprio un’identità, è


quella tra la parola ebraica che signi ca “amico” e quella che signi ca
“cattivo”. Infatti rea’ (ַ‫) ֵרע‬, la parola di cui abbiamo già parlato e che si usa per
“amico”, “prossimo” e anche “coniuge”, si scrive con le stesse identiche
lettere della parola che signi ca “male”: ra’ ‫ ַרע‬. 

Anche questa omogra a non può essere casuale. Fa piuttosto pensare al


fatto, osservato già da Salomone, che “come il ferro si af la con il ferro, così
un uomo af la il volto del suo amico”, Proverbi 27:17, dove il verbo che
abbiamo tradotto con af lare khadad ‫ ָח ַדד‬è molto vicino a yakhad ‫יַ ַחד‬, che
sign ca “essere uniti” e “unire”, ed è certamente collegato a ‘ekhad ‫ֶא ָחד‬
che signi ca “uno”.

All’inizio, il SIGNORE ha infatti detto: “Non è bene che l’uomo sia solo; io gli
farò un aiuto che sia adatto a lui” (Genesi, 2:18; letteralmente il testo dice:
“un aiuto che gli stia di fronte”, un aiuto con cui, cioè, possa confrontarsi). E
il testo conclude “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a
sua moglie, e saranno una stessa carne [lebasar ‘ekhad ‫ָשׂר ֶא ָֽחד‬
ָ ‫”] ְלב‬.

Paolo commenta questo passo esclamando: “Questo mistero è grande;


dico questo riguardo a Cristo e alla Chiesa. Ma d’altronde, anche fra di voi,
ciascuno individualmente ami sua moglie, come ama se stesso; e altresì la
moglie tema il marito.” (Efesini, 5:32-33).

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Perché questa è la famiglia di Cristo, una famiglia formata da varie famiglie,


come un corpo è formato da diversi organi, gli organi da diversi tessuti e i
tessuti da diverse popolazioni di cellule. “Da lui tutto il corpo ben collegato
e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture, trae il
proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edi care
se stesso nell’amore.” (Efesini 4:16).

Ma questa armonia ha anche un suo prezzo, che occorre essere disposti a


pagare. Come dice anche Paolo, che si dichiara lieto di soffrire per i suoi
fratelli e scrive che quel che manca alle af izioni di Cristo è disposto a
compierlo nella sua carne, a favore del corpo di Cristo, che è la Chiesa
(Colossesi 1:4).

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Amicizia fraterna

"L'amico ama in ogni tempo; è nato per essere un f ratello


nella sventura (...) Non abbandonare il tuo amico né l'amico
di tuo padre, e non andare in casa del tuo f ratello nel
giorno della tua sventura; una persona a te vicina vale più
d'un f ratello lontano." (Proverbi, 17:7 e 27:10). Anche molte
altre Scritture ci presentano l'amicizia come un affetto più
intimo e più nobile del legame che lega i f ratelli di sangue. 
Ma la volontà del Padre è che i f ratelli siano tra di loro
anche amici e quest'amicizia è motivo e risultato della
nostra ubbidienza al nuovo comandamento che Gesù ha
dato ai suoi f ratelli: "come vi ho amati io, anche voi amatevi
gli uni gli altri" (Giovanni, 13:34). E fa diventare anche noi, per
fede, amici del SIGNORE.

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