Sei sulla pagina 1di 4

Documenti

Dom Andrè Louf, o.c.s.o.

L’umile amore *

Nulla rivela un essere meglio della sua capacità di amare, anche se è altrettanto evidente
che questa capacità non è immediatamente disponibile. Solo dopo un processo di
maturazione, che può durare anni – e a volte anche tutta la vita -, arriviamo a liberare
progressivamente tutto l’amore che è racchiuso nel nostro cuore. Il nostro sviluppo
spirituale e l’esperienza acquisita svolgono un ruolo importante in questo processo. In
fondo l’amore a che fare con Dio – Dio infatti è Amore – e noi possiamo amare solo nella
misura in cui abbiamo potuto sperimentare qualcosa dell’amore di Dio e della sua grazia.
L’abbiamo già visto più volte in questo libro: è al cuore della tentazione e della
conversione che impariamo come prendere contatto con la grazia e come vivere
conformemente ad essa. È lì infatti che incontriamo la misericordia straripante di Dio.
Nella misura in cui ogni amore è il frutto dello Spirito in noi, una simile esperienza della
nostra impotenza e della misericordia, fatta al momento della conversione, si ripercuote
forzatamente sulla nostra capacità di entrare in contatto con gli altri attraverso l’amore.
Questa esperienza infatti libera in noi un amore che va ben al di là dei limiti del nostro
amore naturale, un amore che finisce per somigliare all’amore del Padre celeste, di cui
Gesù testimonia che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni (Mt 5,45). L’amore
andrà così lontano che Gesù vuole si che si estenda non solo a quelli che ci amano – anche
i pagani fanno altrettanto – ma addirittura a quelli che ci odiano, perfino ai nostri nemici
(Mt 5,44). È una missione gravosa, impossibile da realizzare finché lavoriamo solo con la
nostra generosità. Solo una lunga familiarità con la grazia, o meglio con l’agire della grazia
in noi, un agire paziente e generoso, mite e forte insieme, ci insegna come amare sempre
meglio. Non è tanto facile parlare dell’amore come esperienza spirituale: fino a poco
tempo fa, l’aspetto sensibile dell’amore creava a molti un certo disagio. Da allora molte
cose sono state scritte a questo proposito, ma non è detto che la situazione si sia evoluta

* Sotto la guida dello Spirito, Qiqajon 1990

1
così velocemente come lascerebbe pensare la marea di parole e di scritti: affermazioni
scottanti, anche se ben intenzionate, generalmente non bastano a infiammare un cuore; e la
partecipazione con cui solitamente tradisce il malessere che proviamo nei suoi confronti.
Non è mia intenzione soffermarmi su questa difficoltà: vorrei soltanto ricordare un duplice
deformazione dell’amore, che a volte si incontra anche nei nostri giorni e la cui origine
risale forse all’atteggiamento adottato dalle generazioni precedenti nei confronti della
tenerezza e dell’amore sensibile. Una prima deformazione concerne il fatto che l’amore è
stato spesso forzato nel senso di un servizio attivo: per amare non sarebbe essenziale
sentire qualcosa ma, al contrario, fare qualcosa. La seconda deformazione porta ad
accentuare in modo unilaterale gli aspetti sociali dell’amore, a danno degli altri aspetti
personali: è più facile che ci venga chiesto di amare un popolo, una classe, una giusta
causa, magari la chiesa stessa, piuttosto che la persona che incontriamo per caso all’angolo
della strada.
Questa duplice deformazione procura seri rischi all’amore. È indubbio che l’amore deve
portarci a dedicarci a quanti ne hanno veramente bisogno: ogni pagina dell’evangelo ce lo
ricorda.
Tuttavia non bisogna dimenticare che ogni amore autentico quello che conta innanzitutto è
che io stesso mi senta indigente. La mia povertà in amore ha un ruolo altrettanto
importante del bisogno materiale o spirituale del mio prossimo. A prima vista, ciò può
apparire egoista, ma non è così: se mi preoccupo troppo in fretta del servizio da offrire
all’altro, salto una tappa importante dell’amicizia, forse addirittura una tappa essenziale. È
anche possibile che, inconsciamente, questa omissione ci venga a costare meno: in fondo è
più piacevole fare qualcosa per un altro piuttosto che accettare che si avvicini a me come
un povero.
E tuttavia per l’amore è essenziale che io sia per primo ferito dall’altro, gli devo lasciare
l’occasione e il tempo di procurarmi questa ferita. Quando amo, sorge in me un bisogno
che può venir colmato solo dalla persona amata; amare significa dire a qualcuno:”Sei la
mia gioia, senza di te non posso vivere, ho bisogno di te”. L’amore desta un bisogno,
rende indigente e povero, arriva a farmi dipendere dall’altro. L’amore mi apre all’altro, mi
insegna ad ascoltare, mi rende ricettivo. In questo senso l’amore non può mai essere
dissociato dall’autentica umiltà: è soprattutto l’amore che mi rende umile nei confronti di
colui verso il quale mi sento così fortemente attratto. È forse quanto c’è di più difficile
nell’amicizia: non il carattere troppo sensibile dell’amore e i problemi che pone, ma il fatto
che l’amore ci porti a riconoscere che abbiamo bisogno dell’altro, un altro che solo può
darci quello che ci manca, nella misura in cui ci abbandoniamo a lui. È comprensibile che
molti oppongano inconsciamente resistenza a quanto può apparire debolezza o viltà, e che
facciano tutto il possibile per evitare questa prova. Allora un’attività generosa diventa
spesso la vi d’uscita più onorevole che lusingherà il nostro amor proprio. Un simile amore,

2
che pretende di essere disinteressato, è un sistema facile per schivare l’amore vero e
soprattutto l’autentica umiltà dell’amore. Mostrarsi eroici nell’amore del prossimo è
relativamente semplice. “Eroe della carità”: curiosa espressione che ha trovato molto
presto diritto di cittadinanza. Un simile eroismo ha però poco a che fare con l’amore
autentico, il quale riguarda piuttosto la vulnerabilità e fragilità della persona amata. Non
si parla mai di eroi dell’amicizia, né di amore coniugale eroico: l’amore non sa che farsene
dell’eroismo che potrebbe essere al massimo un amore che schiaccia. L’amore è amore e
basta a se stesso.
Un altro modo di schivare il confronto con la nostra debolezza sarebbe quello di
indirizzare il nostro amore solo verso gruppi di persone. Ci si dedica attivamente agli altri
(al plurale!), alla parrocchia, alla chiese, alla patria, ai paesi sottosviluppati. È una semplice
distrazione se non si menziona mai l’uomo concreto? È così facile amare al plurale, di un
amore astratto e idealizzato che non fa male a nessuno – né a noi, né agli altri – ma che non
fa neanche del bene ad alcuna persona concreta. Allora si può essere occupatissimi con un
prossimo lontano (già la contraddizione dei termini dovrebbe dirci qualcosa!), in qualche
paese straniero, ed essere in difficoltà con tutti i propri compagni di lavoro: è ancora un
modo di sfuggire all’amore autentico, che si vive sempre al singolare. Non si ama un
gruppo, ma innanzitutto una persona, qualcuno che mi può ferire, davanti al quale accetto
di perdere la faccia e al quale faccio l’onore di essere l’unico che, in un dato momento, mi
salva la miseria.
Questa capacità di essere ferita dall’amore, questa debolezza che nasce in ogni relazione
d’amore possiamo impararla solo da Dio e dalla sua grazia. È lui che ci ha lasciato
l’esempio assoluto dell’amore nella sua azione redentrice, lui il cui amore si occupa di noi
ogni giorno. Non ha forse tanto amato il mondo da offrire suo Figlio unigenito (Gv 3,16)?
E suo figlio non ha forse detto – lui, il buon pastore – che abbandonerebbe le novantanove
pecore nel deserto per cercare la pecora smarrita (cf. Lc 15,4)? Non si è forse paragonato al
Padre che ogni giorno si mette di sentinella per correre verso il figlio prodigo e
abbracciarlo non appena lo vede sbucare all’orizzonte (cf. Lc 15,20)? E quando, alla vigilia
della sua passione, ha voluto dare un segno al suo amore infinito, non si è forse tolto le
veste e, come un servo, non si è inginocchiato davanti ai suoi discepoli, Giuda compreso,
per lavar loro i piedi (cf. Gv 13,5)? La vulnerabilità di Dio di fronte all’uomo è così grande,
il suo desiderio di lui è così intenso, il prezzo che è disposto a pagare è così alto che non
c’è gioia più grande in cielo di quella che solo il peccatore è in grado di dare a Dio quando
decide di tornare dal Padre suo (cf. Lc 15,7). L’amore di Dio non schiaccia mai, anzi: è
discreto e umano, mite, umile e riconoscente.
L’amore umile, humilis caritas, ecco forse la virtù evangelica per eccellenza. È molto più
rara di quanto lascerebbe supporre l’uso odierno del termine amore; è l’amore a immagine
di Dio: generoso, paziente, mite con tutti, con il prossimo vicino come con quello lontano,

3
con l’amico come con il nemico, un amore che si offre anche al primo venuto. Un abate
cistercense del XII secolo, Guerrico d’Igny, l’ha espresso a modo suo:”Proprium est amicitiae
humiliari pro amicis. Proprio dell’amicizia è umiliarsi per gli amici”.
Persone simili sono una grande grazia per la chiese e per il mondo. Di solito sono persone
facilmente riconoscibili perché l’amore autentico attira gli altri, a sua insaputa. A volte
vivono nascoste, in disparte, ma una sola delle loro parole, pronunciata sulla porta del loro
eremo, può bastare a gettarci a terra, come è capitato a Paolo, e a farci gustare qualcosa
della grazia di Dio.
Vorrei concludere questo capitolo sui frutti dello Spirito con il ricordo personale di un
pellegrinaggio presso alcuni eremiti del Monte Athos. C’è poco da dire, se non che me li
ero immaginati completamente diversi: magari come uomini rozzi, rudi e duri, degli eroi
dell’ascesi e della solitudine, restii a ogni contatto umano. La realtà è stata tutt’altra:
raramente ho potuto sperimentare un amore simile, un amore mite e umile che mi ha
immediatamente fatto sentire accolto nella loro preghiera e mi ha trascinato, come mio
malgrado, verso Dio. Raramente mi sono anche sentito così vicino agli uomini, immesso
nel cuore stesso del mondo che non cessa di battere per Dio e che così pochi, purtroppo,
sanno ascoltare.

Fonte: http://www.donboscoland.it

Potrebbero piacerti anche