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TERAPIA FAMILIARE n.

124/NOVEMBRE 2020
LA TERAPIA DEL DIVORZIO BLOCCATO
Anna Mascellani

I tempi e le modalità di elaborazione del divorzio sono strettamente collegati alle aspettative che
ciascuno dei coniugi aveva riposto nel matrimonio. Per questo motivo, per comprendere ciò che
avviene nel mondo interno di ciascun partner al momento del divorzio, è utile tornare indietro fino
alla formazione del patto intimo, ossia l'incastro affettivo derivante dall’intreccio profondo e
inconsapevole della scelta reciproca sulla base dei propri bisogni, desideri e paure connesse alle
reciproche storie familiari.
Nei primi tempi di una storia d’amore il patto intimo che tiene unita la coppia è quasi sempre
funzionale: ci si innamora di qualcosa del partner più che della persona. Tuttavia, il patto intimo
iniziale, può ritenersi realmente funzionale soltanto quando è sufficientemente flessibile per
modificarsi in funzione dei bisogni evolutivi che cambiano nel tempo, garantendo la continuità
dello scambio all’interno della relazione. Ciò viene garantito in relazione al livello di maturazione
individuale che i due hanno raggiunto, dal livello di flessibilità e quindi di elaborazione del mito
familiare e dei mandati che ne conseguono: più il mito è rigido e meno scelte comportamentali sono
disponibili.
Quando il patto intimo non riesce a trasformarsi da quello iniziale, lo scambio coniugale, viene
strumentalizzato per il soddisfacimento dei propri bisogni individuali, che peraltro non si sono
evoluti nel tempo. Tali dinamiche non permettono l’elaborazione psichica di un eventuale divorzio e
aumentano il rischio di un divorzio bloccato. Le situazioni di divorzio bloccato, ad oggi, sono
sempre più numerose e si tratta di statuizioni in cui l’ostilità manifestata viene spesso utilizzata dai
coniugi per non affrontare il dolore della ferita inferita dal divorzio e ne impedisce la naturale
trasformazione del legame coniugale e, di conseguenza, lo sviluppo di tutti i legami familiari
coinvolti. Quando un divorzio si blocca il tempo evolutivo si ferma, la competizione e l’intrusività
tra ex-coniugi da luogo a un impoverimento relazionale e alla strumentalizzazione dei figli.
Diversi autori individuano nella mancata separazione psichica dell’ex-coniuge il fattore più
importante tra quelli in grado di impedire ai legami familiari di continuare a svilupparsi con
successo a seguito del divorzio. In particolare esistono legami coniugali caratterizzati da un
“eccesso assoluto di coppia”, che si accompagna spesso con un’atrofia dell’autonomia individuale e
dell’identità familiare che, una volta spezzati, sono fortemente disfunzionali e conducono a una
situazione bloccata di divorzio. Il timore del cambiamento, il terrore di perdersi, la disperazione o la
solitudine diventano un'ossessione che si trasforma quotidianamente in una lotta continua per il
mantenimento del legame a qualunque costo.
Nasce così quello che Cigoli, Galimberti e Mombelli (1988) chiamano il legame disperante: il
rapporto non può essere mantenuto perché troppo distruttivo ma, spezzarlo, comporterebbe una
profonda angoscia che non può essere affrontata perché troppo dolorosa. L’altro viene considerato il
male e si cerca quindi di distruggerlo con ogni mezzo, giuridico, economico e psicologico. In tutte
le coppie unite da legami disperanti esiste un’impossibilità psicologica di riconoscere la propria
sconfitta affettiva, tanto da costringere se stessi e l’altro a sopportare l'intollerabile, nel tentativo di
tenere in vita una relazione di coppia che non può più essere in alcun modo salvata.
Superare l’alta conflittualità in un divorzio bloccato richiede un notevole lavoro su se stessi e sul
proprio ruolo da genitore e può essere affrontato all’interno di un percorso clinico. Gli obiettivi
terapeutici auspicabili sono quindi essenzialmente due: l’elaborazione della perdita da parte dei
coniugi e la riattivazione della competenza genitoriale e, possibilmente, devono seguire tale ordine.
In un intervento clinico con l’intera famiglia in seduta, non si potrà toccare minimamente la storia
del rapporto coniugale ma si dovrà restare sulla genitorialità: verranno maggiormente coinvolti i
figli nella loro qualità di “mediatori intergenerazionali” per aiutare a mettere luce su quei nodi
problematici presenti nelle storie di sviluppo di ciascuno dei due genitori. Il disorientamento di un
figlio e le emozioni che si trova ad affrontare a seguito del divorzio dei genitori producono sempre
un effetto destabilizzante sul suo processo evolutivo generando ricadute più o meno rilevanti per il
suo benessere psicofisico. Il problema per i figli non è la separazione ma semmai il perpetuo
conflitto tra gli ex-coniugi. Alcune ricerche dimostrano come un fattore di protezione per i figli di
famiglie divorziate risieda nel coinvolgimento dei nonni nelle relazioni quotidiane quindi è utile
fare in modo che i figli non si trovino triangolati anche dalle famiglie d’origine.
Quando la coppia arriva in seduta da sola, il terapeuta esegue un lavoro a ritroso che vede il
terapeuta in una posizione direttiva e di contenimento: ripercorrendo la storia dell’unione il
terapeuta potrà individuare la fase in cui ciascuno dei due è rimasto bloccato, accoglierne la
sofferenza e collegarla alla modalità espressiva personale.
Il diritto collaborativo, la negoziazione assistita o la mediazione familiare sono interventi tecnici
nella prima fase della separazione, quando si rende necessario trovare accordi sul piano concreto,
condividendo regole e comportamenti. Quando il terzo che tiene insieme la coppia è, invece, il
tribunale, può accadere che a seguito di consulenze tecniche d’ufficio il giudice emetta ordinanze
con cui invita i partners a effettuare percorsi di sostegno alla genitorialità. Tutto questo, tuttavia,
non fa altro che divaricare la frattura già esistente tra i coniugi e alimentare l’irrigidimento delle
loro posizioni producendo un ulteriore ostacolo nella naturale elaborazione psichica del divorzio in
quanto processo congiunto.

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