Amicizia e vita consacrata sono due realtà non sempre facili da
coniugare e numerosi possono essere i motivi di tale problematico rapporto. L’amicizia è talvolta considerata più un ostacolo che un aiuto alla vita comune; anche attualmente, benché il fenomeno fosse più frequente in epoca pre-conciliare, nelle nostre fraternità sentiamo parlare di amicizia particolare, di un tipo di legame che privilegia il rapporto con una sorella e, di conseguenza, esclude le altre dalla relazione. Essa è dunque vissuta come una minaccia per la vita fraterna, una fonte di divisione, un’ingiustizia verso chi si sente messo da parte o privato di un rapporto intimo, a cui invece desidererebbe accedere. In altre occasioni il termine amicizia nasconde realmente un modo immaturo di porsi in relazione, in cui si riscontrano le caratteristiche di una dipendenza infantile più che di un rapporto adulto.
Diverse sono le forme assunte da questo tipo di legame:
talora esso si esprime come bisogno vicendevole e impellente della presenza dell’altro/a, necessità di cercarlo/a, di stargli sempre vicino, di condividere tutto, in un modo che tende a discriminare, a emarginare i membri della comunità. In altre situazioni, invece, uno dei due partner del rapporto amichevole vive una sorta di sudditanza e d’idealizzazione nei confronti dell’altro che, a sua volta, tende a strumentalizzarlo, a farsi servire, a usarlo per trarne vantaggi personali. Può anche accadere che l’amicizia sia percepita come pericolosa da un’autorità che, spesso inconsapevolmente, vive il proprio ruolo come un potere sempre minacciato da eventuali attacchi. Le relazioni amicali sono, allora, avvertite come possibili alleanze contro e il ritrovarsi insieme di alcune sorelle viene letto con sospetto e interpretato come una sorta di coalizione, il cui fine è quello di mettere in cattiva luce l’autorità.
Amicizia e fraternità
Al fine di riuscire a vivere serenamente dei legami di
amicizia, all’interno di una comunità religiosa, è bene che tutti i membri sappiano riconoscere le sue caratteristiche e, di conseguenza, le differenze che la contraddistinguono rispetto ai rapporti fraterni.
Tra tutte le possibili forme di relazione che una persona può
intessere, lo specifico della fraternità è il suo carattere diffusivo per eccellenza: essa, infatti, non può escludere nessuno, non può emarginare, tenere al di fuori, poiché trova la sua origine non in una dimensione psicologica, come l’amicizia o l’amore, né in un legame di sangue, viscerale, come i rapporti familiari, ma in una realtà ontologica, che accomuna ogni essere umano. Siamo sorelle in quanto creature pensate e volute da Dio, nostro creatore, legate da vincoli profondi, quali la comune umanità e il rapporto filiale rispetto a un Padre, che ci ha creati e ci ama.
Questo legame di fraternità, o di sorellanza, si rafforza
quando è sostenuto da una comune appartenenza: a una famiglia di sangue oppure a una comunità legata da valori condivisi, come avviene appunto nella vita religiosa. Ciò che rende fratelli o sorelle dei consacrati non nasce unicamente dal riconoscersi figli pensati e voluti da Dio, ma promana dal condividere dei valori, dei fini, un carisma, una missione. Nessuno dei membri di una comunità, di conseguenza, può essere estromesso da tale rapporto, né per motivi psicologici, quali la maggiore o minore simpatia, né per le qualità che lo/a caratterizzano o per il potere che esercita. All’interno della fraternità tutti devono essere considerati uguali e, se a qualcuno può essere accordata più attenzione, questi non sarà il più dotato, il più importante, ma il più piccolo e semplice.
Anche l’amicizia, come ci ricorda il detto inglese: gli amici
dei miei amici sono anche amici miei, è una relazione a carattere diffusivo, tanto da essere definita come il meno geloso degli affetti1. Quando è esclusiva, invece, la si deve considerare malata: essa, infatti, non può rinchiudersi su se stessa, ma ha bisogno di condividere, di partecipare, di confrontarsi e interrogarsi, di scambiare pareri. È proprio questa la sua caratteristica principale, che la contraddistingue e la differenzia rispetto all’amore sponsale il quale, per sua natura, può esprimersi pienamente solo attraverso il coinvolgimento con un’unica persona. Quando tende all’esclusione, all’unicità, più che di fronte a una vera amicizia, ci troviamo davanti a una sua deformazione, a una manifestazione di dipendenza, a una ricerca di sostegno reciproco, talvolta persino a un utilitarismo mascherato.
A differenza della fraternità, però, l’amicizia non è
universale e, di conseguenza, non può essere aperta a tutti. Essa, infatti, non si basa su una realtà ontologica, sulla comune appartenenza alla famiglia umana, ma su fattori psicologici, quali, in primo luogo, la simpatia e gli interessi comuni. Per essere veramente amici bisogna condividere un’attrattiva, una passione, sentirsi affini nel modo di pensare la vita, vivere in consonanza.
È dunque impossibile sperimentare una tale reciprocità con
tutti, anche all’interno di una fraternità religiosa. La comune partecipazione a uno stesso carisma, infatti, non esige una forte intesa a livello psicologico e affettivo. Non è necessario avere gli stessi gusti e provare simpatia per le sorelle con cui si vive, per sperimentare un solido senso di appartenenza a una comunità religiosa: ciò che viene richiesto dalla vita comune è il rispetto e l’amore reciproco, un amore che nasce non dai sentimenti, ma dalla volontà e dall’adesione al Vangelo. È proprio questo il legame profondo che unisce e crea vincoli fraterni; qui si colloca il nucleo della vita comune, mentre il resto, amicizia compresa, non può che essere considerato un sovrappiù, utile, desiderabile, ma non indispensabile. Il suo rifiuto, però, proprio in nome di quei pericoli sopra accennati, può essere fonte d’impoverimento per la comunità e d’inutile e gravosa sofferenza per i suoi membri. È allora importante trovare dei criteri che favoriscano una vita fraterna serena, capace di contenere e coniugare relazioni di tipo diverso.
Come coniugare queste due realtà
Ciò che spesso rende difficile sviluppare sani rapporti di
amicizia all’interno delle comunità religiose è l’importanza esagerata attribuita al criterio dell’uniformità, sovente ritenuto un valore atto a salvaguardare giustizia, povertà, attenzione agli ultimi. Quando esso, però, è applicato troppo rigidamente, finisce per costituire una sorta di gabbia, all’interno della quale tutti i membri vengono rinchiusi, senza lasciare spazio all’iniziativa personale, alla creatività, alla spontaneità dei sentimenti. Le persone più controllate e intransigenti si trovano a proprio agio in questo stile comunitario, che rischia però di allontanare chi è più dotato, più vivace emotivamente o intellettualmente, ma anche più capace di creare relazioni profonde. Una comunità matura accoglie e rispetta ogni suo membro, anche gli ultimi, i meno dotati e soprattutto coloro che, affettivamente, si possono definire meno amabili. Il Vangelo ci ricorda che la bontà e l’attenzione devono essere riservate a tutti; solo così riusciremo a realizzare quell’aspirazione profonda, che c’induce a desiderare di sentire rivolte anche a noi le stesse parole di simpatia e stima indirizzate alle prime comunità cristiane (cfr. At 4,33- 35). Nello stesso tempo, una fraternità matura sa accogliere le differenze presenti al suo interno, senza imporre schemi rigidi e inflessibili: cerca di fare in modo che ogni sorella si senta amata e, contemporaneamente, accetta la presenza di relazioni più intime, più intense tra alcuni dei suoi membri.
Gesù stesso non ha mai usato criteri di uniformità nelle sue
amicizie: attento a tutti, buono con tutti, egli ha privilegiato alcune persone, le ha tenute più vicine a sé, le ha rese partecipi di momenti “speciali” della sua vita, a cui altri non hanno avuto accesso. Gesù non è stato ingiusto, ma ha solo risposto alla logica dell’amore, e quindi anche a quella dell’amicizia, le quali richiedono che ogni rapporto sia unico, personale, irripetibile.
Celate dietro alle lotte contro i rapporti personali profondi
fra consorelle, non troviamo però solo rigidezza e uniformità. Spesso, infatti, il termine amicizia particolare nasconde qualche cosa di diverso, motivazioni molto profonde, intimamente radicate, ma mai riconosciute e accettate. La paura, l’invidia e la gelosia stanno di frequente alla base degli scontri presenti nelle nostre fraternità, scontri talvolta avvenuti “allo scoperto” ma, nella maggioranza dei casi, attuati in quelle forme, tipicamente femminili, che tendono più al pettegolezzo, all’insinuazione, al lasciar capire, che all’affrontare direttamente i problemi. Le persone amiche spesso possono creare timore: si ha paura di una possibile alleanza, si sospetta e si diffida, paventando una relazione che potrà diventare fonte di disaccordo, se non di divisione. Ciò che si teme maggiormente, però, è l’esclusione, la mancanza: l’amicizia degli altri, infatti, è sovente percepita a livello inconscio come “qualcosa di cui sono stato deprivato”; si fa difficoltà a gioire di due o tre sorelle che si vogliono bene, poiché immediatamente ci si sente rifiutati, esclusi da questo rapporto. Se fosse stato offerto a noi, lo avremmo accolto con gioia e magari avremmo rischiato di creare una relazione troppo stretta, di eccessiva dipendenza; poiché però ci sentiamo “tagliate fuori”, lo critichiamo e valutiamo negativamente, quasi rappresentasse una minaccia per l’intera comunità.
Amicizia e autorità
Un ruolo particolare nella non facile gestione del rapporto
tra amicizia e vita fraterna spetta alla guida della comunità. Il suo compito è innanzi tutto di vigilare, affinché non avvengano abusi. Ciò comporta in primo luogo la capacità di individuare le dinamiche comunitarie meno mature: i legami troppo stretti, invischiati, le gelosie, le rivalità. La responsabile, inoltre, deve fare attenzione a non schierarsi: disposta ad ascoltare tutti, a capire le intenzioni e i punti di vista di ogni sorella, deve però evitare di allearsi con una parte contro l’altra; al contrario, il suo ruolo le richiede la capacità di sedare gli animi, proporre letture diverse della realtà e, soprattutto, non alimentare invidie e gelosie, da qualunque parte esse provengano. Una superiora saggia, però, non può nemmeno permettersi l’assenteismo, apparente soluzione di conflitti comunitari, che, di fatto, complica i problemi invece di risolverli. Deve saper prendere posizione, valutando se davvero una relazione amicale è eccessiva, immatura o addirittura non sana e verificando se le accuse di “amicizia particolare” nascono da dati reali o invece da invidia, competizione, gelosia.
Infine, il compito forse più arduo, e indubbiamente più
importante, che le compete è quello della sincerità verso se stessa. Chi presiede alla vita comune, infatti, non è esente da conflitti: ciò implica, per esempio, la possibilità di percepire inconsciamente il proprio servizio come un potere e, di conseguenza, di vederlo minacciato da eventuali amicizie. La sorella con cui molte altre desiderano intessere relazioni profonde può, infatti, essere vissuta come una rivale, una presenza destabilizzante perché ha più successo o è più amata.
Nello stesso tempo la guida della comunità dovrà fare
attenzione alle proprie amicizie, affinché non costituiscano una fonte di sofferenza per le altre, che da esse si sentono escluse. Per questo motivo sarà utile conservare uno spazio di silenzio, di riservatezza, evitare le eccessive confidenze, i legami troppo stretti e tendere soprattutto alla libertà interiore. Non sempre è facile superare le naturali tendenze umane, che ci rendono alcune persone più affini, simpatiche e desiderabili rispetto ad altre; è però importante che chi presiede la comunità lotti ogni giorno perché il suo cuore si dilati e, pur coltivando rapporti intimi con le sorelle sull’esempio di Gesù, diventi sempre più capace di accogliere ognuna in modo unico e personale.
L’amico/a, custode dell’anima
All’interno della vita consacrata, però, l’amicizia non può
basarsi unicamente sulla simpatia e l’affinità. La dimensione psicologica, presente all’origine di tale legame e indubbiamente molto importante, non è sufficiente per creare un affetto veramente solido e profondo. Se ci si limitasse a instaurare un rapporto fondato su comuni interessi o reciproca intesa, verrebbe esclusa una dimensione fondamentale della persona: il suo naturale orientamento verso Dio.
Commentando il brano delle Confessioni2, comunemente
conosciuto come L’estasi di Ostia, testo che egli considera esemplare ed espressione compiuta della grandezza dell’amicizia, L. Boros mette in risalto come in essa si esercita una conoscenza comune, un incontro di due persone in cui tutto il loro essere vibra all’unisono. Questa possibilità di cogliere l’essere dell’altro, questa esperienza così ricca, a livello interiore e relazionale, non esaurisce però le possibilità dell’amicizia; infatti, insieme con l’essere, nel medesimo atto, si viene toccati anche dall’Assoluto3.
Ciò è tanto più vero dell’amicizia fra persone consacrate,
amicizia che può essere considerata veramente tale solo se è spirituale e quindi mossa, guidata dallo Spirito santo, Colui che, nell’unire i cuori, li introduce in una relazione più intima con il Padre e il Figlio. Aelredo di Rievaulx, il monaco cantore dell’amicizia spirituale, spiega come essa deve cominciare in Cristo, svilupparsi in Cristo e porre in Cristo il suo fine e la sua perfezione 4. Ciò significa, quindi, che all’affettività psicologica, indispensabile perché tale legame possa esistere, si deve aggiungere un interesse comune, l’interesse per eccellenza nella vita di un/a religioso/a: quello per il Signore Gesù. Esso non solo costituisce il nesso più profondo che unisce le due persone, ma rappresenta anche la maggiore preoccupazione all’interno del legame. Dice ancora giustamente Aelredo che l’amico è, in qualche modo, il guardiano dell’amore o, come altri preferisce, il custode dell’anima stessa5. Ciò significa, allora, che egli dovrà prendersi a cuore le fatiche e le sofferenze dell’altro/a, gioire della sua felicità, tollerare i suoi limiti, ma soprattutto desiderare per lui/lei una relazione sempre più intima e profonda con il Signore e sentire come suo compito specifico quello di favorirla, farla crescere, promuoverla e custodirla.
I requisiti dell’amicizia spirituale
Per questo motivo la vera amicizia nello Spirito deve
rispondere ad alcuni requisiti essenziali.
Essa è innanzi tutto povera, non esigente, non pretenziosa:
l’amico/a accoglie, riceve con gratitudine e nello stesso tempo sa rispettare i tempi e il cammino dell’altro/a. Essa inoltre è discreta, non ha bisogno di troppe parole, di chiacchiere inutili, di scambi continui e, anche se li desidera, è tuttavia capace di rinunciarvi. La vera amicizia, inoltre, è fedele, disposta ad accogliere l’altro/a anche nei tempi bui, nelle stagioni difficili, quando ha bisogno di essere sostenuta, difesa oppure fa difficoltà a vivere un legame di reciprocità. Essa è sincera: non blandisce l’altra, non la manipola per i propri scopi; al contrario, il suo desiderio di bene per lei esige la purezza di cuore e la capacità di dire la verità, anche quando questa può essere sgradevole e dunque non facile da manifestare. È anche misericordiosa, perché non giudica, non esprime valutazioni, ma accetta sempre in modo incondizionato. Amico/a, infatti, è colui, o colei, che comprende e accoglie in profondità tutti i moti del cuore dell’altro/a: proprio in questo sta la dolcezza che procede dall’amicizia, quella felicità, quella sicurezza e gioia che provengono dall’avere uno/a con cui parlare come a te stesso6; uno a cui non temi di confidarti se sei caduto; cui non arrossisci di rivelare i progressi nelle cose spirituali, uno al quale puoi affidare tutti i segreti del cuore e scoprirne i progetti7.
Come ogni forma di amore, anche l’amicizia conosce i
momenti difficili. Per quanto gradevole possa essere la compagnia dell’altro/a e profonda l’affinità, anche questa relazione incontrerà alla fine i suoi momenti di fatica e d’incomprensione. Le differenze nel sentire, di temperamento, di vedute, proprio quelle diversità che rendono più attraenti le relazioni potranno provocare dei piccoli o grandi conflitti. Ciò significa che, come ogni altro legame, anche l’amicizia non può essere lasciata alla spontaneità, ma richiede un impegno, una volontà specifica di crescere e approfondire il legame. Vero amico/a, infatti, è colui, o colei, che sa mettersi da parte, sa lasciare spazio alla differenza, rispettare l’unicità, e nello stesso tempo è in grado di mettere in questione, porre interrogativi, quando il pensiero o l’agire dell’altro/a non risponde agli ideali da entrambi condivisi. Lasciare spazio e vigilaresono quindi due atteggiamenti fondanti l’amicizia spirituale, quando essa è veramente tale: desiderosa di veder crescere Gesùnell’altro/a, secondo le parole di colui che il Vangelo definisce amico dello Sposo e sulla cui bocca pone queste parole così ricche di sapienza: Egli deve crescere e io invece diminuire… (cfr. Gv 3,30).
Note
* Psicologa [Torna al testo]
1. C.S. Lewis, I quattro amori, Jaca Book, Milano 1980, p. 82. [Torna al testo]
2. Agostino, Le Confessioni, IX, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano
1989, p. 249. [Torna al testo]
3. Boros L., Incontrare Dio nell’uomo, Queriniana, Brescia 1972, p.
80. [Torna al testo]
4. Cfr. Aelredo Di Rievaulx, L’amicizia spirituale, Cantagalli, Siena
1982, p. 89. [Torna al testo]
5. Ibid., p.88 [Torna al testo]
6. Cicerone, Dell’amicizia, 22. [Torna al testo]
7. Aelredo, op.cit., p. 106. [Torna al testo]
L’educazione del sentimento
Un nuovo itinerario per valorizzare la verginità I falsi concetti di educazione sentimentale di Anna Bissi Il sentimento, questo sconosciuto. Tale affermazione non vuole essere una provocazione; esso evidenzia invece un dato di fatto, che accomuna la maggior parte delle persone. Tutti, infatti, siamo fortemente condizionati dal nostro vissuto emotivo, ma non lo conosciamo, stentiamo a definire e comprendere ciò che viviamo e, di conseguenza, facciamo difficoltà a orientarlo, incanalarlo in modo adeguato. Talvolta viviamo una sorta di analfabetismo emotivo.
Ricordo, per esempio, la fatica di alcuni
seminaristi quando, durante un corso di psicologia, chiesi loro di riempire la lavagna con il nome di tutte le emozioni che venivano loro in mente. A stento riuscirono a trovare sette o otto termini, con cui definire i sentimenti più conosciuti; notevoli erano invece le difficoltà a cogliere le differenze, evidenziare le sfumature, dimostrare una padronanza nei confronti di un mondo che abita ognuno di noi. Queste stesse emozioni però erano, almeno in parte, alla base delle fatiche e delle gioie nel cammino vocazionale da loro intrapreso: l’aggressività creava problemi con l’autorità o i compagni di seminario o di corso, l’attrazione poneva loro degli interrogativi riguardo alla capacità di vivere il celibato, l’empatia faceva desiderare di mettersi a servizio dei fratelli, il desiderio di Dio sosteneva le motivazioni più profonde della loro scelta di vita.
Questi giovani aspiranti al sacerdozio non
rappresentano un’eccezione rispetto alla norma, non solo del mondo giovanile ma anche delle persone adulte, e persino noi consacrati viviamo la stessa situazione paradossale: quella di essere abitati da forze che ci sono sconosciute, benché esercitino su di noi un rilevante potere. Da esse dipendono infatti non solo il nostro stare bene o male, ma anche l’apertura nei confronti di Dio e degli altri: un’emozione come la paura, per esempio, ci può trattenere dal consegnarci senza riserve al Signore, mentre la gioia sperimentata durante la preghiera può consolidare il nostro desiderio di comunione con Lui.
Educare i sentimenti significa quindi orientare
l’attenzione verso questo orizzonte interiore, potente e sconosciuto, la cui influenza si fa notevolmente sentire, ma che raramente siamo stati aiutati a riconoscere, incanalare e gestire in modo adeguato.
Ogni epoca ha i suoi tabù: se fino agli anni
Sessanta era vietato parlare di sesso, il nostro tempo sembra esprimere un impercettibile divieto nell’affrontare altri argomenti, in particolare il tema della sofferenza e della morte. Le emozioni, o meglio, il riconoscimento della loro presenza in noi sembra rappresentare invece un tabù per tutte le epoche: ci arrabbiamo, ci sentiamo in colpa o offesi nei confronti di un’altra persona e tendiamo a sfogarci con qualcuno; il tempo, poi, medica le ferite e tutto sembra scivolar via, ma raramente sappiamo descrivere a noi stessi o agli altri che cosa è accaduto dentro di noi e perché è accaduto.
Qualcuno potrà obiettare che ciò era vero nel
passato, mentre attualmente la situazione è cambiata e tutti siamo più disinvolti e meno rigidi in rapporto al nostro sentire. Una tale osservazione merita di essere presa in considerazione perché, pur mettendo in risalto un dato vero, quello dell’avvenuta trasformazione, trascura di considerare un elemento importante, attualmente molto disatteso come effetto della cultura contemporanea.
La mentalità attuale, infatti, tende a equiparare
espressione delle emozioni con maturità emotiva e a considerare come un bene la loro manifestazione spontanea e incontrollata. Quando noi però ci interroghiamo a proposito dell’educazione dei sentimenti, ci riferiamo a un cammino più maturo rispetto alla disinvolta gestione dei propri stati d’animo, che caratterizza il mondo d’oggi.
Per comprendere allora in che cosa consiste tale
percorso interiore a cui siamo chiamate, come persone e come consacrate, è forse utile definire prima quali sono i falsi concetti di educazione sentimentale, per poi cercare di proporre un itinerario di crescita in cui la dimensione umana possa essere integrata nella nostra più profonda realtà di donne, cristiane e consacrate.
Che cosa non è l’educazione dei sentimenti
Chi tra le lettrici di questo articolo, e
probabilmente non saranno poche, ha iniziato la formazione alla vita religiosa prima del Concilio Vaticano II, ricorderà molto bene un metodo formativo che non lasciava molto spazio al mondo emotivo. Tale stile rifletteva una mentalità comune che non si limitava unicamente all’ambito pedagogico, in cui la persona veniva orientata più al controllo che all’espressione di sé, più all’adattamento alla realtà che alla realizzazione personale. Alla base di questo orientamento era una visione antropologica in cui si sottolineava maggiormente l’aspetto di limite, il peccato, la debolezza della persona e dunque si evidenziava l’importanza della disciplina, dell’ordine e del dovere rispetto allo sviluppo dei talenti, alla valorizzazione delle qualità, all’esercizio dei diritti e al rispetto della dignità del singolo.
In questa ottica, le emozioni erano dimensioni
della persona umana non così significative e dovevano essere contenute e rigidamente controllate.
Il modello di religiosa matura che veniva
proposto corrispondeva spesso a un’immagine un po’ asettica, disincarnata; era definita spirituale perché non lasciava trapelare sentimenti, era ossequiosa, obbediva ciecamente agli ordini dei superiori, tendeva a conformarsi e a non dare problemi. Se poi questa persona, pur mantenendo la stessa imperturbabilità, finiva per essere sottilmente aggressiva nei confronti delle consorelle o usava della sua perfezione per trarre vantaggi da un rapporto privilegiato con i superiori, questo spesso non veniva notato: l’importante, infatti, era mantenere la forma, l’autocontrollo personale, un atteggiamento virtuoso.
Tale stile educativo ha indubbiamente mietuto
molte vittime. Le personalità più ricche emotivamente e quelle più passionali hanno notevolmente sofferto di un metodo orientato al contenimento più che alla crescita, alla repressione più che alla giusta valorizzazione dei talenti dati da Dio. E’ importante notare che la sofferenza a cui alludiamo non si riferisce solo alla dimensione umana; infatti il blocco dei sentimenti, l’imperativo a controllarli in modo rigido non ostacola solo lo sviluppo della personalità dell’individuo, ma può anche rendere difficile o intralciare il cammino vocazionale, l’adesione a Dio.
Due esempi, forse banali, ci aiuteranno a meglio
comprendere tale affermazione. Il primo riguarda la scelta celibataria, che un’educazione rigida e conformista ha presentato più sotto forma di obbligo e di divieto che come occasione d’integrazione di tutte le dimensioni della persona. Seguendo tale metodo educativo, sentimenti che fanno parte dell’esperienza di ogni individuo, quali il desiderio di essere amati e di amare, l’attrazione, il piacere suscitavano timore, costituivano un pericolo e, di conseguenza, dovevano essere eliminati; non veniva quindi contemplata la possibilità di imparare a riconoscerli, accoglierli, offrirli a Dio, accettandoli e vivendoli con le persone dell’altro sesso in modo maturo e conforme alla propria scelta di vita.
L’amicizia veniva stigmatizzata, dai rapporti
interpersonali si era invitati a proteggersi, mentre si attribuiva un valore rilevante all’uniformità. Ciò ha spesso comportato sofferenza, pesanti sensi di colpa, timore di essere diversi rispetto agli altri, ma ha anche impedito lo sbocciare di una dimensione umana che, se accolta e orientata con gioia verso Dio, poteva rappresentare per la persona consacrata un’occasione di crescita e contemporaneamente una possibilità di approfondimento del suo rapporto con Lui.
Sentire l’attrattiva di una vita familiare,
apprezzare la bellezza di appartenere a un determinato sesso, provare la tristezza della rinuncia a beni grandi quali il rapporto di coppia e la paternità o maternità sono sentimenti profondi e maturi; essi non solo costituiscono delle emozioni capaci di renderci più umani e, quindi, più vicini e compagni di viaggio dei fratelli e delle sorelle, ma ci permettono anche di offrire a Dio il dono prezioso del nostro amore, accompagnato dal sacrificio di beni così grandi e desiderabili. In questo modo tale rinuncia si può trasformare in dono, capace di esprimere la profondità e l’intensità del nostro amore per Lui.
Un ulteriore esempio, utile per comprendere i
limiti di un’educazione emotiva tendente alla repressione, riguarda un altro sentimento che nel passato veniva fortemente stigmatizzato: l’aggressività. Il modello della brava religiosa era infatti quello di una persona non solo senza reazioni esteriori, ma anche senza emozioni interne. Soprattutto nei confronti dell’autorità, verso la quale le nostre debolezze umane c’inducono spesso a sentire emozioni molto forti, le persone venivano incoraggiate non solo ad accettare e subire, ma anche a pensare e sentire nello stesso modo. Un punto di vista diverso o un sentimento di ribellione, anche se non manifestato, erano equiparati a una disobbedienza vera e propria e, come per il celibato, provocavano malessere e senso di colpa.
Tale modo di educare a vivere i sentimenti non
va giudicato come totalmente negativo. Se sovente esso ha ingabbiato le persone, impedendo loro non solo di essere libere, di svilupparsi e realizzarsi pienamente, ma anche di poter orientare tutta la propria umanità verso Dio, ha altre volte favorito lo sviluppo di personalità solide, capaci di sopportare le fatiche e frustrazioni della vita, d’impegnarsi a seguire i valori professati, di non lasciarsi trasportare e vivere in balia delle proprie emozioni. Tuttavia ha talvolta penalizzato le personalità più ricche, coi maggiori talenti, le più passionali oppure ha fornito a quelle fragili delle stampelle; quando però, a causa dei notevoli cambiamenti apportati dal Concilio e dalla ventata di novità del Sessantotto, esse sono venute a mancare, le persone si sono rivelate incapaci di stare in piedi da sole.
L’adesione passiva e la mancata interiorizzazione
del valore del celibato, unita alla repressione del mondo emotivo, ha così lasciato il posto all’abbandono della vita consacrata; nello stesso modo l’aggressività, contenuta e sopita per molti anni, si è trasformata in vera e propria ribellione e contestazione dell’autorità o dello stile di vita.
L’intransigente eliminazione del mondo emotivo,
che noi riferiamo prevalentemente al passato ma di cui ci sembra di riscontrare la presenza sotto forma di esasperato conformismo e rigidezza anche attualmente nel mondo giovanile, si rivela di conseguenza come un modo inadeguato di vivere l’affettività. Essa non permette di esprimere alcune dimensioni costitutive della nostra realtà di esseri umani e obbliga a contenere delle forze che, se non riconosciute, finiscono per trovare delle forme malsane per esprimersi.
Pensiamo, per esempio, alla tendenza a
manifestare sul piano fisiologico dei conflitti che non erano stati riconosciuti o accettati a livello psichico; ricordiamo anche la tendenza, spesso presente nelle nostre comunità, a contenere i conflitti con le sorelle o con i superiori, perché non si possono esprimere o non si è stati aiutati a riconoscerli, salvo poi scoppiare in vere e proprie liti incontenibili, quando diventa impossibile gestire un’aggressività accumulatasi per lungo tempo.
L’inadeguatezza accennata in precedenza
concerne però anche l’ambito vocazionale, il rapporto con Dio, a cui non è possibile consegnare, perché lo trasformi e lo illumini, tutto un mondo interiore che ci abita e ci motiva. Allo Spirito Santo è quindi impedito di entrare in alcune stanze segrete della nostra interiorità, proprio quelle in cui abitano le emozioni più intime e dove potrebbe agire come Balsamo per curare le ferite, come Fuoco per dare vigore all’agire, come Acqua per purificare, come Forza per orientare la totalità del nostro essere verso Dio. La gestione dei sentimenti orientata a contenerli, reprimerli e talvolta anche a non riconoscerli, è dunque una falsa educazione e non aiuta la persona a crescere nel suo rapporto con se stessa, con gli altri e con Dio.
Benché al presente si constati, anche in molti
giovani che domandano di entrare nella vita religiosa, un ritorno a uno stile rigoroso e costrittivo tendente a favorire lo sviluppo di personalità rigide, inflessibili e ipercontrollate, il metodo educativo descritto in precedenza non costituisce la forma attualmente più comune di gestione delle emozioni. La realtà contemporanea, in cui anche noi consacrati siamo immersi, sembra assumere nei confronti del mondo emotivo un atteggiamento del tutto opposto rispetto a quello passato.
Caratteristiche della mentalità attuale
L’elemento distintivo forse più rilevante della
mentalità attuale è costituito dalla tendenza a ritenere sani e fonte di benessere due modi, molto distanti dall’atteggiamento passato, di gestire l’emotività, che potremmo definire come rimanere in superficie e tirare fuori ciò che si sente dentro.
Con la prima espressione ci riferiamo all’attuale
propensione a evitare tutto ciò che della vita può essere faticoso, frustrante e a cercare quanto può risultare gratificante e piacevole. Segno evidente di tale inclinazione non è solo la ricerca, da parte di molti giovani, di esperienze forti, primitive, di sensazioni intense, quali si possono sperimentare e acquisire con il sesso, la droga, l’aggressività, ma anche alcune manifestazioni dell’attuale ricerca religiosa; essa si esprime talora in forme edulcorate, soft, orientate a procurare sensazioni piacevoli, a offrire rassicurazioni, proporre certezze capaci di attutire il diffuso senso di minaccia, senza però offrire la possibilità di un rapporto personale con Dio.
Il mondo delle emozioni, di conseguenza, pare
essersi ristretto e racchiudere solo le manifestazioni più epidermiche, le sensazioni superficiali, fonti di benessere e tranquillità.
La seconda caratteristica, quella del tirar fuori,
si allontana anch’essa fortemente dallo stile di un tempo: mentre una volta s’insegnava a contenere, reprimere, controllare e ci si spaventava di fronte alla forza dei propri sentimenti, ora s’invoglia a esprimere, a buttar fuori quanto c’è dentro.
Dietro questa visione riguardante il modo in cui i
sentimenti devono essere vissuti, è paradossalmente presente una concezione dell’emotività che non si distingue molto da quella descritta in precedenza. Si tratta sempre, infatti, di qualcosa di pericoloso: pericoloso per gli altri, per l’istituzione, per se stessi nel primo caso, poiché la vita emotiva poteva costituire una forza capace di allontanare dai valori scelti; pericoloso per la persona stessa nel secondo, in quanto fonte di malessere, di stress, di tensione e dunque faticoso da portare dentro, quasi fosse un bagaglio scomodo, di cui doversi liberare, non importa come, il più presto possibile.
E’ questo il motivo per cui siamo invitati a
esprimere, a tirar fuori quasi che, contenendo dentro di noi rabbia, tristezza, paura queste potessero esercitare sulla nostra persona un potere tale da farci del male.
Un altro aspetto utile da rilevare è una sorta di
atteggiamento diverso, oserei affermare opposto rispetto al passato, nei confronti di alcune emozioni e, più in particolare, una sorta di capovolgimento nel rapporto tra senso di colpa e aggressività. Mentre in passato la seconda veniva considerata come pericolosa, mentre il primo era valorizzato e quasi ritenuto uno strumento educativo e un mezzo per orientare l’agire della persona, ora sembra di assistere al fenomeno opposto.
L’aggressività è non solo accettata ma spesso
anche considerata un valore, giacché permette alle persone di porsi in modo assertivo nei confronti degli altri, di farsi valere, di essere rispettate.
Il senso di colpa, al contrario, è comunemente
condannato, quasi costituisse sempre e in ogni caso una sorta di legame e impedimento alla libertà dell’individuo. Sovente, per esempio, si sente affermare da parte dei genitori nei confronti dei figli: Non vorrei che il mio atteggiamento lo facesse sentire in colpa o si accusa l’altro di farci sentire in colpa e questo sembra bastare per far passare come ingiusto il suo comportamento, prescindendo dalla validità dei motivi a esso sottesi. Nessuno tende più a ricordare che ci sono cause oggettive per cui sentirsi colpevoli, collegate alle nostre responsabilità nei confronti di Dio, degli altri e di noi stessi, dipendenti dalla maggiore o minore onestà o bontà presenti nel nostro agire.
E’ possibile cogliere tale trasformazione nel
modo di considerare queste emozioni anche all’interno delle nostre comunità. Pensiamo, per esempio, all’ambito formativo e alla precauzione da parte degli educatori nel correggere, indirizzare, far notare gli errori. Se una volta il rischio era quello del pugno di ferro e dell’esercizio di un’autorità intransigente, punitiva, che manteneva le distanze e impediva un rapporto fraterno, ora corriamo il pericolo di una mancanza di indirizzo, di una relazione eccessivamente paritaria, cui manca la capacità di orientare, indicare ed anche, attraverso la dimensione emotiva, aiutare a prendere coscienza del proprio limite e della distanza tra il vissuto e gli ideali.
Dopo il Concilio molti hanno giustamente
evidenziato come il senso di colpa non coincida con il senso del peccato. E’ tuttavia vero che senza il primo il secondo non può formarsi; di conseguenza, solo la persona capace di sentire dispiacere per il male compiuto può imparare ad amare.
Al contrario, quando la colpa viene eliminata,
l’aggressività può esprimersi troppo liberamente, talvolta senza confini, e ostacolare nella persona lo sviluppo della capacità di donarsi a Dio e ai fratelli. Senza colpa, la comunità rischia di trasformarsi in una giungla, dove ognuno tende a far prevalere i propri diritti; l’obbedienza diventa un eterno oggetto di contestazione, in quanto percepita come ostacolo alla crescita individuale, e la povertà e la castità sono sentite come pesi di cui liberarsi nel modo più facile, cercando di giustificare le debolezze personali ai propri occhi e a quelli altrui.
Un ultimo aspetto, da notare in riferimento al
modo in cui l’emotività è attualmente vissuta, riguarda la tendenza a favorire le forme meno evolute di emozioni, quali il piacere e la sensazione. E’ un fenomeno che ha evidenti nessi con quelli descritti sopra. In un mondo in cui le emozioni difficili da portare devono essere buttate fuori, mentre si incoraggiano quelle tendenti a gratificare la persona e ad affermare i suoi diritti, l’individuo non è aiutato a percorrere un cammino di crescita all’interno del suo mondo affettivo.
Per superare la paura, bisogna sopportarla e
affrontare le esperienze temute; per imparare a contenere l’aggressività affinché non si esprima in forme violente, è necessario che qualcuno ci ponga dei limiti. Se ciò non avviene, si verificherà una fuga costante dalle esperienze faticose e sgradevoli, unita a una sorta di appiattimento emotivo, nella ricerca ripetuta di un piacere sempre uguale; esso sarà raggiunto attraverso le emozioni intense provocate dal sesso e dalla violenza, o per mezzo di sensazioni edulcorate, procurate dai vari mass media che tendono a propinarci un’immagine della realtà irreale e distorta. Questo mondo falso e dolciastro, spesso entra anche nelle nostre case e condiziona il modo di sentire e cogliere la realtà.
Diventa dunque importante, se non urgente,
domandarsi se sia possibile riscontrare un’eventuale influenza di tale modo di rimanere in superficie sul nostro stile di vita. All’interno della vita consacrata attiva pare talvolta di riscontrare una sorte di dicotomia tra la dedizione, lo spirito di sacrificio, la disponibilità che caratterizzano il servizio ai fratelli e lo stile di vita personale e comunitario.
Nel primo, la persona sembra spendersi
totalmente, senza riserve e limiti, donando tutta se stessa; nel secondo è invece possibile notare una sorta di trasformazione rispetto al passato: l’austerità di vita, la pratica delle virtù, la dimenticanza di sé per edificare una comunità veramente fraterna sono valori oggi raramente richiamati e proposti. Ne risulta così un’immagine di vita religiosa un po’ appiattita, dove i diritti e le esigenze personali vengono fortemente messi in risalto, mentre minore importanza è attribuita a valori tipicamente evangelici, quali la radicalità, l’esigenza di una continua conversione, la lotta alle passioni.
E’ proprio a tale proposito che ci pare possibile
cogliere un evidente nesso fra appiattimento e modo di vivere le emozioni, che accentua l’importanza della ricerca del piacere a livello sensoriale e l’eliminazione del dispiacere. Ci sembra quindi di riscontrare nell’aspirazione al benessere, uno dei valori massimi della nostra società consumistica, la possibile spiegazione di quanto possiamo costatare intorno a noi. Un benessere inteso in forma molto ambigua e parziale, come ricerca della soddisfazione e abolizione di ogni forma di frustrazione, che costituisce una sorta di falso miraggio di felicità e induce a cercare la comodità, una vita agiata, tranquilla, a evitare le fatiche insite nel dono di sé e nella conversione personale; una felicità, di conseguenza, molto lontana dall’Evangelo, che indica nella via stretta, nel perdere la vita, nello spendersi con gratuità i modi per partecipare alla vera gioia.
Come avremo modo di evidenziare nel seguito
di queste riflessioni, né un rigido controllo dell’interiorità né una ricerca di emozioni accompagnata da una gestione superficiale costituiscono un modo maturo per vivere la vita emotiva; è dunque necessario cercare una forma più adeguata, che non può prescindere da una visione ampia e completa della persona umana, la quale è anche ma non solo emozioni.
All’attuale gestione della vita affettiva, cui si
deve ascrivere l’indubbio merito di aver favorito una maggiore flessibilità rispetto al passato, un atteggiamento meno spaventato nei confronti del mondo affettivo personale, pare essere sottesa una visione parziale dell’individuo, dove la valorizzazione della componente emotiva va a scapito di altre dimensioni, in particolare di quella razionale e volitiva.
Solo un’armonizzazione di tutti gli elementi
costitutivi dell’essere umano e il riconoscimento al suo interno della presenza di una realtà spirituale, che lo orienta verso Dio, permette di valorizzare la dimensione affettiva e di proporre un modo adeguato di educare i sentimenti.
Una vita fraterna gioiosa, per esempio, non
nasce né in una comunità dove si domanda un adeguamento totale alla volontà di un membro e la negazione di ogni fatica, aggressività e ribellione, ma nemmeno là dove tutti possono esprimere ciò che sentono nel modo più immediato e impulsivo. Ciò significa dunque che le emozioni, per quanto importanti, devono essere sottomesse e orientate da qualcosa che le supera, dalla ricerca di un criterio capace di esprimerle, incanalarle e utilizzarle per il bene della persona e degli altri e di trasformarle in forza, in energia a servizio della nostra tensione verso i valori del Regno.