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Amicizia e vita consacrata

di Anna Bissi *

Amicizia e vita consacrata sono due realtà non sempre facili da


coniugare e numerosi possono essere i motivi di tale problematico
rapporto. L’amicizia è talvolta considerata più un ostacolo che un aiuto
alla vita comune; anche attualmente, benché il fenomeno fosse più
frequente in epoca pre-conciliare, nelle nostre fraternità sentiamo
parlare di amicizia particolare, di un tipo di legame che privilegia il
rapporto con una sorella e, di conseguenza, esclude le altre dalla
relazione. Essa è dunque vissuta come una minaccia per la vita
fraterna, una fonte di divisione, un’ingiustizia verso chi si sente messo
da parte o privato di un rapporto intimo, a cui invece desidererebbe
accedere. In altre occasioni il termine amicizia nasconde realmente un
modo immaturo di porsi in relazione, in cui si riscontrano le
caratteristiche di una dipendenza infantile più che di un rapporto
adulto.

Diverse sono le forme assunte da questo tipo di legame:


talora esso si esprime come bisogno vicendevole e
impellente della presenza dell’altro/a, necessità di
cercarlo/a, di stargli sempre vicino, di condividere tutto, in
un modo che tende a discriminare, a emarginare i membri
della comunità. In altre situazioni, invece, uno dei due
partner del rapporto amichevole vive una sorta di
sudditanza e d’idealizzazione nei confronti dell’altro che, a
sua volta, tende a strumentalizzarlo, a farsi servire, a usarlo
per trarne vantaggi personali. Può anche accadere che
l’amicizia sia percepita come pericolosa da un’autorità che,
spesso inconsapevolmente, vive il proprio ruolo come un
potere sempre minacciato da eventuali attacchi. Le relazioni
amicali sono, allora, avvertite come possibili alleanze
contro e il ritrovarsi insieme di alcune sorelle viene letto
con sospetto e interpretato come una sorta di coalizione, il
cui fine è quello di mettere in cattiva luce l’autorità.

Amicizia e fraternità

Al fine di riuscire a vivere serenamente dei legami di


amicizia, all’interno di una comunità religiosa, è bene che
tutti i membri sappiano riconoscere le sue caratteristiche e,
di conseguenza, le differenze che la contraddistinguono
rispetto ai rapporti fraterni.

Tra tutte le possibili forme di relazione che una persona può


intessere, lo specifico della fraternità è il suo
carattere diffusivo per eccellenza: essa, infatti, non può
escludere nessuno, non può emarginare, tenere al di fuori,
poiché trova la sua origine non in una dimensione
psicologica, come l’amicizia o l’amore, né in un legame di
sangue, viscerale, come i rapporti familiari, ma in una realtà
ontologica, che accomuna ogni essere umano.
Siamo sorelle in quanto creature pensate e volute da Dio,
nostro creatore, legate da vincoli profondi, quali la comune
umanità e il rapporto filiale rispetto a un Padre, che ci ha
creati e ci ama.

Questo legame di fraternità, o di sorellanza, si rafforza


quando è sostenuto da una comune appartenenza: a una
famiglia di sangue oppure a una comunità legata da valori
condivisi, come avviene appunto nella vita religiosa. Ciò
che rende fratelli o sorelle dei consacrati non nasce
unicamente dal riconoscersi figli pensati e voluti da Dio,
ma promana dal condividere dei valori, dei fini, un carisma,
una missione. Nessuno dei membri di una comunità, di
conseguenza, può essere estromesso da tale rapporto, né per
motivi psicologici, quali la maggiore o minore simpatia, né
per le qualità che lo/a caratterizzano o per il potere che
esercita. All’interno della fraternità tutti devono essere
considerati uguali e, se a qualcuno può essere accordata più
attenzione, questi non sarà il più dotato, il più importante,
ma il più piccolo e semplice.

Anche l’amicizia, come ci ricorda il detto inglese: gli amici


dei miei amici sono anche amici miei, è una relazione a
carattere diffusivo, tanto da essere definita come il meno
geloso degli affetti1. Quando è esclusiva, invece, la si deve
considerare malata: essa, infatti, non può rinchiudersi su se
stessa, ma ha bisogno di condividere, di partecipare, di
confrontarsi e interrogarsi, di scambiare pareri. È proprio
questa la sua caratteristica principale, che la
contraddistingue e la differenzia rispetto all’amore sponsale
il quale, per sua natura, può esprimersi pienamente solo
attraverso il coinvolgimento con un’unica persona. Quando
tende all’esclusione, all’unicità, più che di fronte a una vera
amicizia, ci troviamo davanti a una sua deformazione, a una
manifestazione di dipendenza, a una ricerca di sostegno
reciproco, talvolta persino a un utilitarismo mascherato.

A differenza della fraternità, però, l’amicizia non è


universale e, di conseguenza, non può essere aperta a tutti.
Essa, infatti, non si basa su una realtà ontologica, sulla
comune appartenenza alla famiglia umana, ma su fattori
psicologici, quali, in primo luogo, la simpatia e gli interessi
comuni. Per essere veramente amici bisogna condividere
un’attrattiva, una passione, sentirsi affini nel modo di
pensare la vita, vivere in consonanza.

È dunque impossibile sperimentare una tale reciprocità con


tutti, anche all’interno di una fraternità religiosa. La
comune partecipazione a uno stesso carisma, infatti, non
esige una forte intesa a livello psicologico e affettivo. Non è
necessario avere gli stessi gusti e provare simpatia per le
sorelle con cui si vive, per sperimentare un solido senso di
appartenenza a una comunità religiosa: ciò che viene
richiesto dalla vita comune è il rispetto e l’amore reciproco,
un amore che nasce non dai sentimenti, ma dalla volontà e
dall’adesione al Vangelo. È proprio questo il legame
profondo che unisce e crea vincoli fraterni; qui si colloca il
nucleo della vita comune, mentre il resto, amicizia
compresa, non può che essere considerato un sovrappiù,
utile, desiderabile, ma non indispensabile. Il suo rifiuto,
però, proprio in nome di quei pericoli sopra accennati, può
essere fonte d’impoverimento per la comunità e d’inutile e
gravosa sofferenza per i suoi membri. È allora importante
trovare dei criteri che favoriscano una vita fraterna serena,
capace di contenere e coniugare relazioni di tipo diverso.

Come coniugare queste due realtà

Ciò che spesso rende difficile sviluppare sani rapporti di


amicizia all’interno delle comunità religiose è l’importanza
esagerata attribuita al criterio dell’uniformità, sovente
ritenuto un valore atto a salvaguardare giustizia, povertà,
attenzione agli ultimi. Quando esso, però, è applicato
troppo rigidamente, finisce per costituire una sorta di
gabbia, all’interno della quale tutti i membri vengono
rinchiusi, senza lasciare spazio all’iniziativa personale, alla
creatività, alla spontaneità dei sentimenti. Le persone più
controllate e intransigenti si trovano a proprio agio in
questo stile comunitario, che rischia però di allontanare chi
è più dotato, più vivace emotivamente o intellettualmente,
ma anche più capace di creare relazioni profonde. Una
comunità matura accoglie e rispetta ogni suo membro,
anche gli ultimi, i meno dotati e soprattutto coloro che,
affettivamente, si possono definire meno amabili. Il
Vangelo ci ricorda che la bontà e l’attenzione devono essere
riservate a tutti; solo così riusciremo a realizzare
quell’aspirazione profonda, che c’induce a desiderare di
sentire rivolte anche a noi le stesse parole di simpatia e
stima indirizzate alle prime comunità cristiane (cfr. At 4,33-
35). Nello stesso tempo, una fraternità matura sa accogliere
le differenze presenti al suo interno, senza imporre schemi
rigidi e inflessibili: cerca di fare in modo che ogni sorella si
senta amata e, contemporaneamente, accetta la presenza di
relazioni più intime, più intense tra alcuni dei suoi membri.

Gesù stesso non ha mai usato criteri di uniformità nelle sue


amicizie: attento a tutti, buono con tutti, egli ha privilegiato
alcune persone, le ha tenute più vicine a sé, le ha rese
partecipi di momenti “speciali” della sua vita, a cui altri
non hanno avuto accesso. Gesù non è stato ingiusto, ma ha
solo risposto alla logica dell’amore, e quindi anche a quella
dell’amicizia, le quali richiedono che ogni rapporto sia
unico, personale, irripetibile.

Celate dietro alle lotte contro i rapporti personali profondi


fra consorelle, non troviamo però solo rigidezza e
uniformità. Spesso, infatti, il termine amicizia
particolare nasconde qualche cosa di diverso, motivazioni
molto profonde, intimamente radicate, ma mai riconosciute
e accettate. La paura, l’invidia e la gelosia stanno di
frequente alla base degli scontri presenti nelle nostre
fraternità, scontri talvolta avvenuti “allo scoperto” ma, nella
maggioranza dei casi, attuati in quelle forme, tipicamente
femminili, che tendono più al pettegolezzo,
all’insinuazione, al lasciar capire, che all’affrontare
direttamente i problemi. Le persone amiche spesso possono
creare timore: si ha paura di una possibile alleanza, si
sospetta e si diffida, paventando una relazione che potrà
diventare fonte di disaccordo, se non di divisione. Ciò che
si teme maggiormente, però, è l’esclusione, la mancanza:
l’amicizia degli altri, infatti, è sovente percepita a livello
inconscio come “qualcosa di cui sono stato deprivato”; si fa
difficoltà a gioire di due o tre sorelle che si vogliono bene,
poiché immediatamente ci si sente rifiutati, esclusi da
questo rapporto. Se fosse stato offerto a noi, lo avremmo
accolto con gioia e magari avremmo rischiato di creare una
relazione troppo stretta, di eccessiva dipendenza; poiché
però ci sentiamo “tagliate fuori”, lo critichiamo e valutiamo
negativamente, quasi rappresentasse una minaccia per
l’intera comunità.

Amicizia e autorità

Un ruolo particolare nella non facile gestione del rapporto


tra amicizia e vita fraterna spetta alla guida della comunità.
Il suo compito è innanzi tutto di vigilare, affinché non
avvengano abusi. Ciò comporta in primo luogo la capacità
di individuare le dinamiche comunitarie meno mature: i
legami troppo stretti, invischiati, le gelosie, le rivalità. La
responsabile, inoltre, deve fare attenzione a non schierarsi:
disposta ad ascoltare tutti, a capire le intenzioni e i punti di
vista di ogni sorella, deve però evitare di allearsi con una
parte contro l’altra; al contrario, il suo ruolo le richiede la
capacità di sedare gli animi, proporre letture diverse della
realtà e, soprattutto, non alimentare invidie e gelosie, da
qualunque parte esse provengano. Una superiora saggia,
però, non può nemmeno permettersi l’assenteismo,
apparente soluzione di conflitti comunitari, che, di fatto,
complica i problemi invece di risolverli. Deve
saper prendere posizione, valutando se davvero una
relazione amicale è eccessiva, immatura o addirittura non
sana e verificando se le accuse di “amicizia particolare”
nascono da dati reali o invece da invidia, competizione,
gelosia.

Infine, il compito forse più arduo, e indubbiamente più


importante, che le compete è quello della sincerità verso se
stessa. Chi presiede alla vita comune, infatti, non è esente
da conflitti: ciò implica, per esempio, la possibilità di
percepire inconsciamente il proprio servizio come un potere
e, di conseguenza, di vederlo minacciato da eventuali
amicizie. La sorella con cui molte altre desiderano intessere
relazioni profonde può, infatti, essere vissuta come una
rivale, una presenza destabilizzante perché ha più successo
o è più amata.

Nello stesso tempo la guida della comunità dovrà fare


attenzione alle proprie amicizie, affinché non costituiscano
una fonte di sofferenza per le altre, che da esse si sentono
escluse. Per questo motivo sarà utile conservare uno spazio
di silenzio, di riservatezza, evitare le eccessive confidenze,
i legami troppo stretti e tendere soprattutto alla libertà
interiore. Non sempre è facile superare le naturali tendenze
umane, che ci rendono alcune persone più affini, simpatiche
e desiderabili rispetto ad altre; è però importante che chi
presiede la comunità lotti ogni giorno perché il suo cuore si
dilati e, pur coltivando rapporti intimi con le sorelle
sull’esempio di Gesù, diventi sempre più capace di
accogliere ognuna in modo unico e personale.

L’amico/a, custode dell’anima

All’interno della vita consacrata, però, l’amicizia non può


basarsi unicamente sulla simpatia e l’affinità. La
dimensione psicologica, presente all’origine di tale legame
e indubbiamente molto importante, non è sufficiente per
creare un affetto veramente solido e profondo. Se ci si
limitasse a instaurare un rapporto fondato su comuni
interessi o reciproca intesa, verrebbe esclusa una
dimensione fondamentale della persona: il suo naturale
orientamento verso Dio.

Commentando il brano delle Confessioni2, comunemente


conosciuto come L’estasi di Ostia, testo che egli considera
esemplare ed espressione compiuta della grandezza
dell’amicizia, L. Boros mette in risalto come in essa si
esercita una conoscenza comune, un incontro di due
persone in cui tutto il loro essere vibra all’unisono. Questa
possibilità di cogliere l’essere dell’altro, questa esperienza
così ricca, a livello interiore e relazionale, non esaurisce
però le possibilità dell’amicizia; infatti, insieme con
l’essere, nel medesimo atto, si viene toccati anche
dall’Assoluto3.

Ciò è tanto più vero dell’amicizia fra persone consacrate,


amicizia che può essere considerata veramente tale solo se
è spirituale e quindi mossa, guidata dallo Spirito santo,
Colui che, nell’unire i cuori, li introduce in una relazione
più intima con il Padre e il Figlio. Aelredo di Rievaulx, il
monaco cantore dell’amicizia spirituale, spiega come essa
deve cominciare in Cristo, svilupparsi in Cristo e porre in
Cristo il suo fine e la sua perfezione 4. Ciò significa, quindi,
che all’affettività psicologica, indispensabile perché tale
legame possa esistere, si deve aggiungere un interesse
comune, l’interesse per eccellenza nella vita di un/a
religioso/a: quello per il Signore Gesù. Esso non solo
costituisce il nesso più profondo che unisce le due persone,
ma rappresenta anche la maggiore preoccupazione
all’interno del legame. Dice ancora giustamente Aelredo
che l’amico è, in qualche modo, il guardiano dell’amore o,
come altri preferisce, il custode dell’anima stessa5. Ciò
significa, allora, che egli dovrà prendersi a cuore le fatiche
e le sofferenze dell’altro/a, gioire della sua felicità, tollerare
i suoi limiti, ma soprattutto desiderare per lui/lei una
relazione sempre più intima e profonda con il Signore e
sentire come suo compito specifico quello di favorirla, farla
crescere, promuoverla e custodirla.

I requisiti dell’amicizia spirituale

Per questo motivo la vera amicizia nello Spirito deve


rispondere ad alcuni requisiti essenziali.

Essa è innanzi tutto povera, non esigente, non pretenziosa:


l’amico/a accoglie, riceve con gratitudine e nello stesso
tempo sa rispettare i tempi e il cammino dell’altro/a. Essa
inoltre è discreta, non ha bisogno di troppe parole, di
chiacchiere inutili, di scambi continui e, anche se li
desidera, è tuttavia capace di rinunciarvi. La vera amicizia,
inoltre, è fedele, disposta ad accogliere l’altro/a anche nei
tempi bui, nelle stagioni difficili, quando ha bisogno di
essere sostenuta, difesa oppure fa difficoltà a vivere un
legame di reciprocità. Essa è sincera: non blandisce l’altra,
non la manipola per i propri scopi; al contrario, il suo
desiderio di bene per lei esige la purezza di cuore e la
capacità di dire la verità, anche quando questa può essere
sgradevole e dunque non facile da
manifestare. È anche misericordiosa, perché non giudica,
non esprime valutazioni, ma accetta sempre in modo
incondizionato. Amico/a, infatti, è colui, o colei, che
comprende e accoglie in profondità tutti i moti del cuore
dell’altro/a: proprio in questo sta la dolcezza che procede
dall’amicizia, quella felicità, quella sicurezza e gioia che
provengono dall’avere uno/a con cui parlare come a te
stesso6; uno a cui non temi di confidarti se sei caduto; cui
non arrossisci di rivelare i progressi nelle cose spirituali,
uno al quale puoi affidare tutti i segreti del cuore e
scoprirne i progetti7.

Come ogni forma di amore, anche l’amicizia conosce i


momenti difficili. Per quanto gradevole possa essere la
compagnia dell’altro/a e profonda l’affinità, anche questa
relazione incontrerà alla fine i suoi momenti di fatica e
d’incomprensione. Le differenze nel sentire, di
temperamento, di vedute, proprio quelle diversità che
rendono più attraenti le relazioni potranno provocare dei
piccoli o grandi conflitti. Ciò significa che, come ogni altro
legame, anche l’amicizia non può essere lasciata alla
spontaneità, ma richiede un impegno, una volontà specifica
di crescere e approfondire il legame. Vero amico/a, infatti, è
colui, o colei, che sa mettersi da parte, sa lasciare spazio
alla differenza, rispettare l’unicità, e nello stesso tempo è in
grado di mettere in questione, porre interrogativi, quando il
pensiero o l’agire dell’altro/a non risponde agli ideali da
entrambi condivisi. Lasciare spazio e vigilaresono quindi
due atteggiamenti fondanti l’amicizia spirituale, quando
essa è veramente tale: desiderosa di veder crescere
Gesùnell’altro/a, secondo le parole di colui che il Vangelo
definisce amico dello Sposo e sulla cui bocca pone queste
parole così ricche di sapienza: Egli deve crescere e io
invece diminuire… (cfr. Gv 3,30).

Note

* Psicologa [Torna al testo]

1. C.S. Lewis, I quattro amori, Jaca Book, Milano 1980, p. 82. [Torna
al testo]

2. Agostino, Le Confessioni, IX, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano


1989, p. 249. [Torna al testo]

3. Boros L., Incontrare Dio nell’uomo, Queriniana, Brescia 1972, p.


80. [Torna al testo]

4. Cfr. Aelredo Di Rievaulx, L’amicizia spirituale, Cantagalli, Siena


1982, p. 89. [Torna al testo]

5. Ibid., p.88 [Torna al testo]

6. Cicerone, Dell’amicizia, 22. [Torna al testo]

7. Aelredo, op.cit., p. 106. [Torna al testo]

L’educazione del sentimento


Un nuovo itinerario per valorizzare la verginità
I falsi concetti di educazione sentimentale
di Anna Bissi
Il sentimento, questo sconosciuto. Tale
affermazione non vuole essere una provocazione;
esso evidenzia invece un dato di fatto, che
accomuna la maggior parte delle persone. Tutti,
infatti, siamo fortemente condizionati dal nostro
vissuto emotivo, ma non lo conosciamo, stentiamo
a definire e comprendere ciò che viviamo e, di
conseguenza, facciamo difficoltà a orientarlo,
incanalarlo in modo adeguato. Talvolta viviamo una
sorta di analfabetismo emotivo.

Ricordo, per esempio, la fatica di alcuni


seminaristi quando, durante un corso di psicologia,
chiesi loro di riempire la lavagna con il nome di
tutte le emozioni che venivano loro in mente. A
stento riuscirono a trovare sette o otto termini, con
cui definire i sentimenti più conosciuti; notevoli
erano invece le difficoltà a cogliere le differenze,
evidenziare le sfumature, dimostrare una
padronanza nei confronti di un mondo che abita
ognuno di noi. Queste stesse emozioni però erano,
almeno in parte, alla base delle fatiche e delle gioie
nel cammino vocazionale da loro intrapreso:
l’aggressività creava problemi con l’autorità o i
compagni di seminario o di corso, l’attrazione
poneva loro degli interrogativi riguardo alla
capacità di vivere il celibato, l’empatia faceva
desiderare di mettersi a servizio dei fratelli, il
desiderio di Dio sosteneva le motivazioni più
profonde della loro scelta di vita.

Questi giovani aspiranti al sacerdozio non


rappresentano un’eccezione rispetto alla norma,
non solo del mondo giovanile ma anche delle
persone adulte, e persino noi consacrati viviamo la
stessa situazione paradossale: quella di essere
abitati da forze che ci sono sconosciute, benché
esercitino su di noi un rilevante potere. Da esse
dipendono infatti non solo il nostro stare bene o
male, ma anche l’apertura nei confronti di Dio e
degli altri: un’emozione come la paura, per
esempio, ci può trattenere dal consegnarci senza
riserve al Signore, mentre la gioia sperimentata
durante la preghiera può consolidare il nostro
desiderio di comunione con Lui.

Educare i sentimenti significa quindi orientare


l’attenzione verso questo orizzonte interiore,
potente e sconosciuto, la cui influenza si fa
notevolmente sentire, ma che raramente siamo
stati aiutati a riconoscere, incanalare e gestire in
modo adeguato.

Ogni epoca ha i suoi tabù: se fino agli anni


Sessanta era vietato parlare di sesso, il nostro
tempo sembra esprimere un impercettibile divieto
nell’affrontare altri argomenti, in particolare il tema
della sofferenza e della morte. Le emozioni, o
meglio, il riconoscimento della loro presenza in noi
sembra rappresentare invece un tabù per tutte le
epoche: ci arrabbiamo, ci sentiamo in colpa o offesi
nei confronti di un’altra persona e tendiamo a
sfogarci con qualcuno; il tempo, poi, medica le
ferite e tutto sembra scivolar via, ma raramente
sappiamo descrivere a noi stessi o agli altri che
cosa è accaduto dentro di noi e perché è accaduto.

Qualcuno potrà obiettare che ciò era vero nel


passato, mentre attualmente la situazione è
cambiata e tutti siamo più disinvolti e meno rigidi
in rapporto al nostro sentire. Una tale osservazione
merita di essere presa in considerazione perché,
pur mettendo in risalto un dato vero, quello
dell’avvenuta trasformazione, trascura di
considerare un elemento importante, attualmente
molto disatteso come effetto della cultura
contemporanea.

La mentalità attuale, infatti, tende a equiparare


espressione delle emozioni con maturità emotiva e
a considerare come un bene la loro manifestazione
spontanea e incontrollata. Quando noi però ci
interroghiamo a proposito dell’educazione dei
sentimenti, ci riferiamo a un cammino più maturo
rispetto alla disinvolta gestione dei propri stati
d’animo, che caratterizza il mondo d’oggi.

Per comprendere allora in che cosa consiste tale


percorso interiore a cui siamo chiamate, come
persone e come consacrate, è forse utile definire
prima quali sono i falsi concetti di educazione
sentimentale, per poi cercare di proporre un
itinerario di crescita in cui la dimensione umana
possa essere integrata nella nostra più profonda
realtà di donne, cristiane e consacrate.

Che cosa non è l’educazione dei sentimenti

Chi tra le lettrici di questo articolo, e


probabilmente non saranno poche, ha iniziato la
formazione alla vita religiosa prima del Concilio
Vaticano II, ricorderà molto bene un metodo
formativo che non lasciava molto spazio al mondo
emotivo. Tale stile rifletteva una mentalità comune
che non si limitava unicamente all’ambito
pedagogico, in cui la persona veniva orientata più
al controllo che all’espressione di sé, più
all’adattamento alla realtà che alla realizzazione
personale. Alla base di questo orientamento era
una visione antropologica in cui si sottolineava
maggiormente l’aspetto di limite, il peccato, la
debolezza della persona e dunque si evidenziava
l’importanza della disciplina, dell’ordine e del
dovere rispetto allo sviluppo dei talenti, alla
valorizzazione delle qualità, all’esercizio dei diritti e
al rispetto della dignità del singolo.

In questa ottica, le emozioni erano dimensioni


della persona umana non così significative e
dovevano essere contenute e rigidamente
controllate.

Il modello di religiosa matura che veniva


proposto corrispondeva spesso a un’immagine un
po’ asettica, disincarnata; era definita spirituale
perché non lasciava trapelare sentimenti, era
ossequiosa, obbediva ciecamente agli ordini dei
superiori, tendeva a conformarsi e a non dare
problemi. Se poi questa persona, pur mantenendo
la stessa imperturbabilità, finiva per essere
sottilmente aggressiva nei confronti delle
consorelle o usava della sua perfezione per trarre
vantaggi da un rapporto privilegiato con i superiori,
questo spesso non veniva notato: l’importante,
infatti, era mantenere la forma, l’autocontrollo
personale, un atteggiamento virtuoso.

Tale stile educativo ha indubbiamente mietuto


molte vittime. Le personalità più ricche
emotivamente e quelle più passionali hanno
notevolmente sofferto di un metodo orientato al
contenimento più che alla crescita, alla repressione
più che alla giusta valorizzazione dei talenti dati da
Dio. E’ importante notare che la sofferenza a cui
alludiamo non si riferisce solo alla dimensione
umana; infatti il blocco dei sentimenti, l’imperativo
a controllarli in modo rigido non ostacola solo lo
sviluppo della personalità dell’individuo, ma può
anche rendere difficile o intralciare il cammino
vocazionale, l’adesione a Dio.

Due esempi, forse banali, ci aiuteranno a meglio


comprendere tale affermazione. Il primo riguarda
la scelta celibataria, che un’educazione rigida e
conformista ha presentato più sotto forma di
obbligo e di divieto che come occasione
d’integrazione di tutte le dimensioni della persona.
Seguendo tale metodo educativo, sentimenti che
fanno parte dell’esperienza di ogni individuo, quali
il desiderio di essere amati e di amare, l’attrazione,
il piacere suscitavano timore, costituivano un
pericolo e, di conseguenza, dovevano essere
eliminati; non veniva quindi contemplata la
possibilità di imparare a riconoscerli, accoglierli,
offrirli a Dio, accettandoli e vivendoli con le
persone dell’altro sesso in modo maturo e
conforme alla propria scelta di vita.

L’amicizia veniva stigmatizzata, dai rapporti


interpersonali si era invitati a proteggersi, mentre
si attribuiva un valore rilevante all’uniformità. Ciò
ha spesso comportato sofferenza, pesanti sensi di
colpa, timore di essere diversi rispetto agli altri, ma
ha anche impedito lo sbocciare di una dimensione
umana che, se accolta e orientata con gioia verso
Dio, poteva rappresentare per la persona
consacrata un’occasione di crescita e
contemporaneamente una possibilità di
approfondimento del suo rapporto con Lui.

Sentire l’attrattiva di una vita familiare,


apprezzare la bellezza di appartenere a un
determinato sesso, provare la tristezza della
rinuncia a beni grandi quali il rapporto di coppia e
la paternità o maternità sono sentimenti profondi e
maturi; essi non solo costituiscono delle emozioni
capaci di renderci più umani e, quindi, più vicini e
compagni di viaggio dei fratelli e delle sorelle, ma
ci permettono anche di offrire a Dio il dono
prezioso del nostro amore, accompagnato dal
sacrificio di beni così grandi e desiderabili. In
questo modo tale rinuncia si può trasformare in
dono, capace di esprimere la profondità e
l’intensità del nostro amore per Lui.

Un ulteriore esempio, utile per comprendere i


limiti di un’educazione emotiva tendente alla
repressione, riguarda un altro sentimento che nel
passato veniva fortemente stigmatizzato:
l’aggressività. Il modello della brava religiosa era
infatti quello di una persona non solo senza
reazioni esteriori, ma anche senza emozioni
interne. Soprattutto nei confronti dell’autorità,
verso la quale le nostre debolezze umane
c’inducono spesso a sentire emozioni molto forti, le
persone venivano incoraggiate non solo ad
accettare e subire, ma anche a pensare e sentire
nello stesso modo. Un punto di vista diverso o un
sentimento di ribellione, anche se non manifestato,
erano equiparati a una disobbedienza vera e
propria e, come per il celibato, provocavano
malessere e senso di colpa.

Tale modo di educare a vivere i sentimenti non


va giudicato come totalmente negativo. Se sovente
esso ha ingabbiato le persone, impedendo loro non
solo di essere libere, di svilupparsi e realizzarsi
pienamente, ma anche di poter orientare tutta la
propria umanità verso Dio, ha altre volte favorito lo
sviluppo di personalità solide, capaci di sopportare
le fatiche e frustrazioni della vita, d’impegnarsi a
seguire i valori professati, di non lasciarsi
trasportare e vivere in balia delle proprie emozioni.
Tuttavia ha talvolta penalizzato le personalità più
ricche, coi maggiori talenti, le più passionali oppure
ha fornito a quelle fragili delle stampelle; quando
però, a causa dei notevoli cambiamenti apportati
dal Concilio e dalla ventata di novità del
Sessantotto, esse sono venute a mancare, le
persone si sono rivelate incapaci di stare in piedi da
sole.

L’adesione passiva e la mancata interiorizzazione


del valore del celibato, unita alla repressione del
mondo emotivo, ha così lasciato il posto
all’abbandono della vita consacrata; nello stesso
modo l’aggressività, contenuta e sopita per molti
anni, si è trasformata in vera e propria ribellione e
contestazione dell’autorità o dello stile di vita.

L’intransigente eliminazione del mondo emotivo,


che noi riferiamo prevalentemente al passato ma di
cui ci sembra di riscontrare la presenza sotto forma
di esasperato conformismo e rigidezza anche
attualmente nel mondo giovanile, si rivela di
conseguenza come un modo inadeguato di vivere
l’affettività. Essa non permette di esprimere alcune
dimensioni costitutive della nostra realtà di esseri
umani e obbliga a contenere delle forze che, se non
riconosciute, finiscono per trovare delle forme
malsane per esprimersi.

Pensiamo, per esempio, alla tendenza a


manifestare sul piano fisiologico dei conflitti che
non erano stati riconosciuti o accettati a livello
psichico; ricordiamo anche la tendenza, spesso
presente nelle nostre comunità, a contenere i
conflitti con le sorelle o con i superiori, perché non
si possono esprimere o non si è stati aiutati a
riconoscerli, salvo poi scoppiare in vere e proprie
liti incontenibili, quando diventa impossibile gestire
un’aggressività accumulatasi per lungo tempo.

L’inadeguatezza accennata in precedenza


concerne però anche l’ambito vocazionale, il
rapporto con Dio, a cui non è possibile consegnare,
perché lo trasformi e lo illumini, tutto un mondo
interiore che ci abita e ci motiva. Allo Spirito Santo
è quindi impedito di entrare in alcune stanze
segrete della nostra interiorità, proprio quelle in cui
abitano le emozioni più intime e dove potrebbe
agire come Balsamo per curare le ferite, come
Fuoco per dare vigore all’agire, come Acqua per
purificare, come Forza per orientare la totalità del
nostro essere verso Dio.
La gestione dei sentimenti orientata a contenerli,
reprimerli e talvolta anche a non riconoscerli, è
dunque una falsa educazione e non aiuta la
persona a crescere nel suo rapporto con se stessa,
con gli altri e con Dio.

Benché al presente si constati, anche in molti


giovani che domandano di entrare nella vita
religiosa, un ritorno a uno stile rigoroso e
costrittivo tendente a favorire lo sviluppo di
personalità rigide, inflessibili e ipercontrollate, il
metodo educativo descritto in precedenza non
costituisce la forma attualmente più comune di
gestione delle emozioni. La realtà contemporanea,
in cui anche noi consacrati siamo immersi, sembra
assumere nei confronti del mondo emotivo un
atteggiamento del tutto opposto rispetto a quello
passato.

Caratteristiche della mentalità attuale

L’elemento distintivo forse più rilevante della


mentalità attuale è costituito dalla tendenza a
ritenere sani e fonte di benessere due modi, molto
distanti dall’atteggiamento passato, di gestire
l’emotività, che potremmo definire come rimanere
in superficie e tirare fuori ciò che si sente dentro.

Con la prima espressione ci riferiamo all’attuale


propensione a evitare tutto ciò che della vita può
essere faticoso, frustrante e a cercare quanto può
risultare gratificante e piacevole. Segno evidente di
tale inclinazione non è solo la ricerca, da parte di
molti giovani, di esperienze forti, primitive, di
sensazioni intense, quali si possono sperimentare e
acquisire con il sesso, la droga, l’aggressività, ma
anche alcune manifestazioni dell’attuale ricerca
religiosa; essa si esprime talora in forme
edulcorate, soft, orientate a procurare sensazioni
piacevoli, a offrire rassicurazioni, proporre certezze
capaci di attutire il diffuso senso di minaccia, senza
però offrire la possibilità di un rapporto personale
con Dio.

Il mondo delle emozioni, di conseguenza, pare


essersi ristretto e racchiudere solo le
manifestazioni più epidermiche, le sensazioni
superficiali, fonti di benessere e tranquillità.

La seconda caratteristica, quella del tirar fuori,


si allontana anch’essa fortemente dallo stile di un
tempo: mentre una volta s’insegnava a contenere,
reprimere, controllare e ci si spaventava di fronte
alla forza dei propri sentimenti, ora s’invoglia a
esprimere, a buttar fuori quanto c’è dentro.

Dietro questa visione riguardante il modo in cui i


sentimenti devono essere vissuti, è
paradossalmente presente una concezione
dell’emotività che non si distingue molto da quella
descritta in precedenza. Si tratta sempre, infatti, di
qualcosa di pericoloso: pericoloso per gli altri, per
l’istituzione, per se stessi nel primo caso, poiché la
vita emotiva poteva costituire una forza capace di
allontanare dai valori scelti; pericoloso per la
persona stessa nel secondo, in quanto fonte di
malessere, di stress, di tensione e dunque faticoso
da portare dentro, quasi fosse un bagaglio
scomodo, di cui doversi liberare, non importa
come, il più presto possibile.

E’ questo il motivo per cui siamo invitati a


esprimere, a tirar fuori quasi che, contenendo
dentro di noi rabbia, tristezza, paura queste
potessero esercitare sulla nostra persona un potere
tale da farci del male.

Un altro aspetto utile da rilevare è una sorta di


atteggiamento diverso, oserei affermare opposto
rispetto al passato, nei confronti di alcune emozioni
e, più in particolare, una sorta di capovolgimento
nel rapporto tra senso di colpa e aggressività.
Mentre in passato la seconda veniva considerata
come pericolosa, mentre il primo era valorizzato e
quasi ritenuto uno strumento educativo e un mezzo
per orientare l’agire della persona, ora sembra di
assistere al fenomeno opposto.

L’aggressività è non solo accettata ma spesso


anche considerata un valore, giacché permette alle
persone di porsi in modo assertivo nei confronti
degli altri, di farsi valere, di essere rispettate.

Il senso di colpa, al contrario, è comunemente


condannato, quasi costituisse sempre e in ogni
caso una sorta di legame e impedimento alla
libertà dell’individuo. Sovente, per esempio, si
sente affermare da parte dei genitori nei confronti
dei figli: Non vorrei che il mio atteggiamento lo
facesse sentire in colpa o si accusa l’altro di farci
sentire in colpa e questo sembra bastare per far
passare come ingiusto il suo comportamento,
prescindendo dalla validità dei motivi a esso
sottesi. Nessuno tende più a ricordare che ci sono
cause oggettive per cui sentirsi colpevoli, collegate
alle nostre responsabilità nei confronti di Dio, degli
altri e di noi stessi, dipendenti dalla maggiore o
minore onestà o bontà presenti nel nostro agire.

E’ possibile cogliere tale trasformazione nel


modo di considerare queste emozioni anche
all’interno delle nostre comunità. Pensiamo, per
esempio, all’ambito formativo e alla precauzione da
parte degli educatori nel correggere, indirizzare, far
notare gli errori. Se una volta il rischio era quello
del pugno di ferro e dell’esercizio di un’autorità
intransigente, punitiva, che manteneva le distanze
e impediva un rapporto fraterno, ora corriamo il
pericolo di una mancanza di indirizzo, di una
relazione eccessivamente paritaria, cui manca la
capacità di orientare, indicare ed anche, attraverso
la dimensione emotiva, aiutare a prendere
coscienza del proprio limite e della distanza tra il
vissuto e gli ideali.

Dopo il Concilio molti hanno giustamente


evidenziato come il senso di colpa non coincida con
il senso del peccato. E’ tuttavia vero che senza il
primo il secondo non può formarsi; di
conseguenza, solo la persona capace di sentire
dispiacere per il male compiuto può imparare ad
amare.

Al contrario, quando la colpa viene eliminata,


l’aggressività può esprimersi troppo liberamente,
talvolta senza confini, e ostacolare nella persona lo
sviluppo della capacità di donarsi a Dio e ai fratelli.
Senza colpa, la comunità rischia di trasformarsi in
una giungla, dove ognuno tende a far prevalere i
propri diritti; l’obbedienza diventa un eterno
oggetto di contestazione, in quanto percepita come
ostacolo alla crescita individuale, e la povertà e la
castità sono sentite come pesi di cui liberarsi nel
modo più facile, cercando di giustificare le
debolezze personali ai propri occhi e a quelli altrui.

Un ultimo aspetto, da notare in riferimento al


modo in cui l’emotività è attualmente vissuta,
riguarda la tendenza a favorire le forme meno
evolute di emozioni, quali il piacere e la
sensazione. E’ un fenomeno che ha evidenti nessi
con quelli descritti sopra. In un mondo in cui le
emozioni difficili da portare devono essere buttate
fuori, mentre si incoraggiano quelle tendenti a
gratificare la persona e ad affermare i suoi diritti,
l’individuo non è aiutato a percorrere un cammino
di crescita all’interno del suo mondo affettivo.

Per superare la paura, bisogna sopportarla e


affrontare le esperienze temute; per imparare a
contenere l’aggressività affinché non si esprima in
forme violente, è necessario che qualcuno ci ponga
dei limiti. Se ciò non avviene, si verificherà una
fuga costante dalle esperienze faticose e
sgradevoli, unita a una sorta di appiattimento
emotivo, nella ricerca ripetuta di un piacere sempre
uguale; esso sarà raggiunto attraverso le emozioni
intense provocate dal sesso e dalla violenza, o per
mezzo di sensazioni edulcorate, procurate dai vari
mass media che tendono a propinarci un’immagine
della realtà irreale e distorta. Questo mondo falso e
dolciastro, spesso entra anche nelle nostre case e
condiziona il modo di sentire e cogliere la realtà.

Diventa dunque importante, se non urgente,


domandarsi se sia possibile riscontrare
un’eventuale influenza di tale modo di rimanere in
superficie sul nostro stile di vita. All’interno della
vita consacrata attiva pare talvolta di riscontrare
una sorte di dicotomia tra la dedizione, lo spirito di
sacrificio, la disponibilità che caratterizzano il
servizio ai fratelli e lo stile di vita personale e
comunitario.

Nel primo, la persona sembra spendersi


totalmente, senza riserve e limiti, donando tutta se
stessa; nel secondo è invece possibile notare una
sorta di trasformazione rispetto al passato:
l’austerità di vita, la pratica delle virtù, la
dimenticanza di sé per edificare una comunità
veramente fraterna sono valori oggi raramente
richiamati e proposti. Ne risulta così un’immagine
di vita religiosa un po’ appiattita, dove i diritti e le
esigenze personali vengono fortemente messi in
risalto, mentre minore importanza è attribuita a
valori tipicamente evangelici, quali la radicalità,
l’esigenza di una continua conversione, la lotta alle
passioni.

E’ proprio a tale proposito che ci pare possibile


cogliere un evidente nesso fra appiattimento e
modo di vivere le emozioni, che accentua
l’importanza della ricerca del piacere a livello
sensoriale e l’eliminazione del dispiacere. Ci
sembra quindi di riscontrare nell’aspirazione al
benessere, uno dei valori massimi della nostra
società consumistica, la possibile spiegazione di
quanto possiamo costatare intorno a noi. Un
benessere inteso in forma molto ambigua e
parziale, come ricerca della soddisfazione e
abolizione di ogni forma di frustrazione, che
costituisce una sorta di falso miraggio di felicità e
induce a cercare la comodità, una vita agiata,
tranquilla, a evitare le fatiche insite nel dono di sé
e nella conversione personale; una felicità, di
conseguenza, molto lontana dall’Evangelo, che
indica nella via stretta, nel perdere la vita, nello
spendersi con gratuità i modi per partecipare alla
vera gioia.

Come avremo modo di evidenziare nel seguito


di queste riflessioni, né un rigido controllo
dell’interiorità né una ricerca di emozioni
accompagnata da una gestione superficiale
costituiscono un modo maturo per vivere la vita
emotiva; è dunque necessario cercare una forma
più adeguata, che non può prescindere da una
visione ampia e completa della persona umana, la
quale è anche ma non solo emozioni.

All’attuale gestione della vita affettiva, cui si


deve ascrivere l’indubbio merito di aver favorito
una maggiore flessibilità rispetto al passato, un
atteggiamento meno spaventato nei confronti del
mondo affettivo personale, pare essere sottesa una
visione parziale dell’individuo, dove la
valorizzazione della componente emotiva va a
scapito di altre dimensioni, in particolare di quella
razionale e volitiva.

Solo un’armonizzazione di tutti gli elementi


costitutivi dell’essere umano e il riconoscimento al
suo interno della presenza di una realtà spirituale,
che lo orienta verso Dio, permette di valorizzare la
dimensione affettiva e di proporre un modo
adeguato di educare i sentimenti.

Una vita fraterna gioiosa, per esempio, non


nasce né in una comunità dove si domanda un
adeguamento totale alla volontà di un membro e la
negazione di ogni fatica, aggressività e ribellione,
ma nemmeno là dove tutti possono esprimere ciò
che sentono nel modo più immediato e impulsivo.
Ciò significa dunque che le emozioni, per quanto
importanti, devono essere sottomesse e orientate
da qualcosa che le supera, dalla ricerca di un
criterio capace di esprimerle, incanalarle e
utilizzarle per il bene della persona e degli altri e di
trasformarle in forza, in energia a servizio della
nostra tensione verso i valori del Regno.

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