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PROCEDURA PENALE

CODICE DI PROCEDURA PENALE del 1988. Diviso in due parti, DINAMICA E STATICA, ed 11 libri. Questa
divisione gli ha permesso di reggere ai mutamenti, in linea generale, arrecategli nelle forme più svariate
anche per dare attuazione a direttive e sentenze europee.

4 chiavi di lettura dell’intera disciplina.

1. Legislazione nata per delega a legislazione estremamente composita -> il codice del 1988 nacque
tramite legge delega del 1987 n 81. Occorre distinguere ciò che è rimasto immutato e ciò che è
frutto di una legislazione diretta o di statuizioni della Corte Costituzionale.
Il preambolo dell’art 2 della delega avrebbe dovuto condurre il nuovo codice ad attuare i principi
costituzionali, adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai
diritti della persona e al processo penale, e ad attuare i caratteri del sistema accusatorio. Un
sistema inteso secondo il principio della massima semplificazione nello svolgimento del processo,
adozione del metodo orale, la partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato
e grado del processo. Principi e criteri questi ultimi che sono rimasti coinvolti nel vortice delle
modificazioni apportate dal legislatore, dalla Corte costituzionale e dalle oscillazioni della
giurisprudenza ordinarie. Articoli come il 190-bis, il 195 e il 210 ecc ne sono la dimostrazione. Art
190-bis: requisiti della prova in casi particolari. Art 195: testimonianza indiretta. Art 210: esame di
persona imputata in un procedimento connesso.

2. Rapporti tra rito ordinario e speciali -> rito ordinario è il procedimento che, dopo le indagini
preliminari del pubblico ministero non concluse dall’archiviazione della notizia di reato, giunge
all’udienza preliminare e sfocia nel giudizio imperniato sul dibattimento. Riti etichettati come
speciali e dalla dottrina come alternativi, cioè giudizio abbreviato. I riti speciali si collocano nel
cuore del sistema, non meno del rito ordinario, rito principe. Questa importanza è dimostrata dal
confronto tra il sistema odierno (DELEGA 1987 E NUOVO CODICE) che dà più spazio ai riti speciali e
quello passato (1974 – 1978) che li riduceva al minimo.
PASSATO -> esaltava il dibattimento, considerato essenza del sistema accusatorio, riducendo l’area
dell’istruzione. Progetto criticato e nel 1980 si pone rimedio ai suoi due maggiori inconvenienti:
persistenza ipoteca istruttoria sul giudizio e iperbolica utilizzazione del dibattimento.
ODIERNO -> con la delega del 1987 e il codice del 1988 i residui dell’istruzione e la figura del giudice
istruttore sono eliminati ma non tutto è dibattimento. Il dibattimento viene valorizzato ma non
diventa la finalità preminente del sistema.
La funzione e il ruolo dei riti speciali -> deflazione dibattimentale, risparmio di costi, efficienza del
sistema, economia processuale. Due chiarimenti sulla deflazione del dibattimento. 1) La delega del
1987 non vuole più il dibattimento sempre e comunque, ma solo quando nessuna delle vie si sia
rivelata percorribile. Il processo residuale, che sfocia nel dibattimento, è un’alternativa, la più
rilevante ma non quella più incoraggiata e quindi non la privilegiata. La legge delega e il codice del
1988 sono stati costretti a ridimensionare il dibattimento per superare l’istruzione. Ponendo
comunque il dibattimento come simbolo del processo penale ma limitandolo con le alternative, che
ne riducono l’applicazione. 2) I riti alternativi sono di due categorie. Per la deflazione
dibattimentale sono preordinati il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle
parti o patteggiamento. Mentre diversa collocazione hanno il giudizio immediato ed il giudizio
direttissimo che anticipano il dibattimento. RITI CHE VOGLIO EVITARE IL DIBATTIMENTO/RITI CHE
MIRANO A DARGLI VITA IL PIU’ PRESTO POSSIBILE.
Riti speciali hanno come comune denominatore lo snellimento processuale, l’economia dei giudizi,
la riduzione dei costi, la contrazione del processo e non il dibattimento. Persegue scopi deflattivi del
dibattimento anche la nuova causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
Analogo scopo per l’istituto di estinzione del reato per condotte riparatorie, in cui di regola il
giudice dichiara estinto il reato sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato
interamente il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento e ha eliminato,
ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato.

3. Introduzione del giudice unico togato di primo grado e del giudice di pace -> a partire dal 2 giugno
1999, è stato soppresso l’ufficio giudicante di antica tradizione, cioè la PRETURA, ed il relativo
ufficio del pubblico ministero. La pretura è stata assorbita dal tribunale e l’ufficio del pubblico
ministero dalla procura della Repubblica. Questo ha portato ad una migliore gestione della giustizia,
più economica. Lo snellimento ricercato si è concretizzato in misura minore rispetto a quello
previsto. Infatti, alla tradizionale distinzione (reati di competenza del pretore e reati di competenza
del tribunale) è subentrata la distinzione tra procedimenti per reati attribuiti al tribunale collegiale
e procedimenti per reati attribuiti al tribunale monocratico. A tal proposito, anche il libro ottavo del
codice è stato modificato. Prima era intitolato “procedimento davanti al pretore”, ad oggi, dopo il
1998, è intitolato “procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica”. Libro che
disciplina i procedimenti di competenza del vecchio pretore più alcuni di nuova competenza del
tribunale monocratico, in seguito all’istituzione del giudice unico. Mentre, i procedimenti per i reati
più gravi sono disciplinati dalle norme dei procedimenti di competenza del tribunale collegiale.
Questa innovazione ha portato ad una pesantezza suscitata dalla pluralità di binari offerti in
prospettiva dai procedimenti ordinari di tribunale, con il rischio di errori e confusioni, più
facilmente superabili di quanto non avvenga allorché sia in discussione la competenza per materia,
ma pur sempre causa di polemiche, di parziali recuperi e di ritardi.
Considerazioni analoghe sono da porsi nei confronti della competenza penale devoluta al giudice di
pace, con l’obiettivo di togliere al giudice togato di primo grado il carico costituito da quei reati di
minore gravità non ritenuti passibili di depenalizzazione. Riforma apprezzabile anche per le novità
di ordine procedimentale. A tal proposito, il d.lgs 13 luglio 2017 n 116 ha attuato la riforma
organica della magistratura onoraria e dettato altre disposizioni sui giudici di pace, creando la
nuova figura del giudice onorario di pace, magistrato onorario addetto alla funzione del giudice di
pace.

4. Inserimento nella Costituzione dei principi del giusto processo a cominciare dalla sua ragionevole
durata -> punto di lettura importante ma complesso. Prima di tutto è complesso per il bisogno di
concretizzazione a livello di normativa ordinaria che le previsioni di natura costituzionale
normalmente comportano. Inoltre, creano difficoltà le operazioni di adeguamento della
legislazione ordinaria preesistente a dettati costituzionali sopravvenuti, così come la novità assoluta
introdotta dagli specifici enunciati dell’art 111 della Cost.
I primi due attuali commi dell’art 111 hanno portata generale, cioè riguardano ogni tipo di processo
avente natura giurisdizionale. Gli altri tre commi fanno riferimento al solo processo penale.
L’auspicio è che vi sia parsimonia nel sollevare questioni di legittimità costituzionale con riferimento
ai nuovi cinque commi dell’articolo 111 ed ancora di più nell’accoglierle. Tenendo conto che
un’interpretazione attenta ad ogni particolare è pur sempre per il giurista la via maestra da seguire.
Questa riforma fa pensare che anche il nostro paese darà maggiore considerazione al tema
dell’osservanza dei diritti umani, in ossequio a quello che impongono le convenzioni internazionali.
Un ostacolo però a questa osmosi di ordine sovranazionale potrà provenire dalla non piena
coincidenza dei contenuti tra il nuovo art 111 Cost e l’art 6 CEDU. Anche in duplice direzione,
alcune prescrizione sono contenute in uno e non nell’altro e viceversa.
L’aumento delle garanzie attorno al nucleo rappresentato dal principio del contraddittorio consente
di affermare che il nostro processo si sta sempre più caratterizzando in senso accusatorio.
Sia la nostra costituzione che l’art 6 della CEDU parlano del principio di ragionevole durata del
processo, il cui corollario è che le garanzie non potranno dilatarsi fino a rendere irragionevoli i
tempi processuali. È nella prospettiva della ragionevole durata che si muove la legge 103 del 2017,
il cui obiettivo è razionalizzare e semplificare il processo penale. Lo stesso prescrive la Convenzione
europea, la quale considera la ragionevole durata come un diritto della persona umana, tanto se
innocente quanto se colpevole. Data anche la presunzione di non colpevolezza fino al giudicato di
condanna. È ormai prassi per i più timorosi di andare incontro alla smentita di tale presunzione, di
ricercare la prescrizione del reato addebitato. Questo è il paradosso è male maggiore del nostro
sistema processuale italiano. La prescrizione del reato diventa per chi ha torto, un’ancora di
salvezza da ultima spiaggia, potendosi trasformare in un proscioglimento per estinzione del reato.
Questo è quello che si vuole evitare con la concretizzazione della ragionevole durata. La legge 103
del 2017 opera in tal senso, intervenendo sulla disciplina della prescrizione. Ha regolamentato il
rapporto fra prescrizione ed impugnazione -> la prescrizione è sospesa dal termine previsto per il
deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, sino alla pronuncia del
dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio. Analogamente, la
prescrizione è sospesa per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo
grado sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitivo.
Sul mezzo di impugnazione la manovra riformatrice, completata dal d.lgs del 2018 n 11, ha
innestato varie modifiche di segno deflativo.

LE FONTI DEL DIRITTO PROCESSUALE

L’incessante proliferazione legislativa iniziata a partire dal d.c. Martellii (1992 – provvedimenti antimafia),
pochi anni dopo l’entrata in vigore del codice, non deve far pensare che il diritto processuale penale
manchi di intrinseca sistematicità. L’interprete comunque ha il dovere di individuare le linee portanti del
sistema normativo, sul quale si fonda e si alimenta il meccanismo del processo penale. Tali linee si possono
individuare e capire attraverso le fonti che si possono raggruppare in 3 tipi: LEGISLATIVE, E DOTTRINALI O
LETTERARIE. All’interno di tale corpus iuris le forze politico-sociali connaturate ad un ordinamento
democratico quale è il nostro sono in continuo movimento soprattutto in un settore come quello
processuale penale, in cui il contrapporsi tra autorità e libertà non esaurirà mai del tutto l’ampia gamma
delle soluzioni tecniche possibili.

Fonti legislative sovraordinate ->

La costituzione della repubblica ha una serie cospicua di principi e regole fondamentali per il processo
penale. Poche riforme -> l’art 27 ultimo comma (ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE), l’art 68 (IMMUNITA’
PARLAMENTARE), art 79 (REGOLE PIU’ RIGIDE PER LA CONCESSIONE DI AMNISTIA E INDULTO), art 96
(SOTTOPOSIZIONE DEL PRESIDENTE DEI CONSIGLI DEI MINISTRI E MINISTRI ALLA GIURISDIZIONE
ORDINARIA), l’art 111 (LA PRECISAZIONE DEI CARDINI DEL GIUSTO PROCESSO LEGALE – TRAMITE PER DARE
CONCRETA ATTUAZIONE AL PROCESSO ACCUSATORIO), l’art 117 (DETTATO NORMATIVO CHE HA RESO LE
NORME DELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO NON DISSIMILI DALLE DISPOSIZIONI
COSTITUZIONALI VERE E PROPRIE), l’art 134 (ATTRIBUZIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE DELLA
COMPETENZA DI GIUDICARE ANCHE LE ACCUSE PROMOSSE CONTRO IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA A
NORMA DELLA COSTITUZIONE).

La legge costituzionale del 1999 n 2 ha riscritto tutto l’art 111 Cost -> viene confermato il principio di stretta
legalità in materia processuale (1°), si pongono le basi perché si alimenti la cultura della giurisdizione (2°),
infine viene rimarcata la necessità di una vera cultura della prova (3°), cioè quell’atteggiamento funzionale
in base al quale ogni decisione del giudice deve essere presa in funzione di risultati probatori, ottenuti
attraverso un’escussione dei mezzi di prova nel contraddittorio delle parti davanti ad un giudice terzo ed
imparziale.

Il legislatore costituzionale del 1948 privilegiò le garanzie oggettive di regolarità della giurisdizione rispetto
a quella della tutela dei diritti individuali. I componenti dell’Assemblea costituente si dimostrarono
comunque sensibili al bisogno di tutelare i diritti individuali, così furono aggiunte delle norme in cui si fa
riferimento a diritti definiti inviolabili. Quasi a rimarcare la loro natura di aspettative giuridiche preesistenti
ed in nessun modo comprimibili. Questo in quanto risultano naturali. Questi sono la libertà personale, il
domicilio, la libertà e segretezza delle comunicazioni, la difesa davanti ad ogni autorità giudiziaria. Il giudice
naturale, la famiglia intesa come una società naturale.

A questa elencazione si aggiunge poi l’art 2 della costituzione in cui si proclama che la Repubblica riconosce
e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle sue formazioni sociali. Articolo che non
riguardava solo il procedimento penale ma in generale tutte quelle carte internazionali e sovranazionali che
evocano i diritti dell’uomo, che nacquero da lì a poco. Come la dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo. Carte che hanno implementato l’inventario avviato dalla Costituzione, forse non ancora
completo. Nonostante il Trattato di Lisbona e la Carta di Nizza sui diritti fondamentali. Il 4 novembre 1950
venne firmato a Roma la CEDU che l’Italia ha ratificato e reso esecutiva solo nel 1955. Da qui, si può
cogliere come la prospettiva cambiò. Venero rimarcate le situazioni giuridiche soggettive dei protagonisti
del processo piuttosto che i canoni oggettivi di regolarità della giurisdizione. La prospettiva presa è quella
della tutela dei diritti inviolabili, ma ciò implica tutelare anche i doveri e gli obblighi dei soggetti verso i quali
i diritti potevano e possono essere esercitati. Le Garanzie della Convenzione sono più dettagliate di quelle
della Costituzione.

Patto internazionale sui diritti civili e politici. Ratificato ed esecutivo in Italia nel 1977, completato da due
protocolli facoltativi, il secondo dei quali dedicato all’abolizione della pena di morte.

Una questione di controversia è stata la collocazione delle norme particolari del Patto e della convenzione
nella gerarchia delle fonti, come norme di legge ordinaria o come norme di rango costituzionale. La corte
Costituzionale e di Cassazione si orientano per la prima tesi, giustificando che entrambi erano entrati a far
parte dell’ordinamento italiano per il tramite di una legge ordinaria. Argomentazione che resse fino alle
sentenze gemelle del 2007, in cui la Corte costituzionale diede chiarezza sulla questione. Dettando che la
Convenzione europea integra il parametro costituzionale dell’art 117 Cost (obbligo di conformarsi ai vincoli
internazionali). Specificando poi l’obbligo per i giudici italiani di conformarsi alle disposizioni della cedu, è
riferibile alle interpretazioni consolidate e le sentenze pilota pronunciate dalla Corte di Strasburgo con
proprie decisioni autonome rispetto alle Corti di stati interni. Dunque sono parametri di riferimento per
eventuali questioni di costituzionalità e matrici di regole di condotta processuale, ove il loro contenuto
precettivo sia così specifico da consentirne un’applicazione diretta.

La natura delle disposizioni di tali due documenti è migliorata di qualità con il Trattato di Lisbona.
L’importanza di questo trattato è chiara. Il trattato non solo è di revisione dei preesistenti trattati
sull’Unione europea e sulla Comunità europea, ma è anche espressione primaria del diritto comunitario.
Vale a dire espressione di un complesso normativo che ha il primato rispetto ai diritti degli Stati membri
dell’Unione europea.

Le principali novità destinate a modificare il sistema della gerarchia delle fonti -> L’unione riconosce i
diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, stabilendo che
essa abbia lo stesso valore giuridico dei trattati (art 6 TUE). L’Unione aderisce alla Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il Trattato prevede numerose previsioni
per attuare delle forme di cooperazione giudiziaria effettiva tra gli Stati dell’Unione europea. La pronuncia
della Corte di Giustizia dell’UE è obbligatoria intorno a questioni pregiudiziali in materia di interpretazione
dei trattati.
I corpi normativi internazionali e sovranazionali sono vincolanti anche per le autorità giudiziarie italiane e lo
sono secondo la loro specifica natura di testi normativi dotati di una copertura costituzionale. La Corte
costituzionale con la sentenza 80 del 2011 ha trattato la questione della disapplicazione delle norme
interne. La quale non può avvenire quando queste contengono o tutelano i diritti individuali, può avvenire
solo quando la norma che si presenta in contrasto con quelle dell’UE attenga in maniera diretta alla
struttura, finalità, organizzazione, funzioni dell’UE.

Fonti legislative ordinarie primarie e secondarie ->

Tutte le disposizioni che potremmo definire strutturali del processo sono precedute o accompagnate da
corpi legislativi complementari. Il primo raggruppa le leggi di ordinamento giudiziario. Tre sono i testi che
compongono la struttura portante del processo ordinario.

Il codice di procedura penale, emanato insieme ad altri 18 provvedimenti allegati, in forza e sulla base dei
principi e criteri direttivi della legge-delega del 1987 n 81. Dalla sua origine ha subito numerose modifiche
ad opera del legislatore e della Corte costituzionale. Perdendo alcuni suoi caratteri d’origine. Lo
accompagnano norme di attuazione, transizione, coordinamento. Queste ultime fondamentali per cogliere
il reale ambito di applicazione del codice.

Con la legge del 1991 n 374 si istituiva il giudice di pace. Ma questo acquisì competenze penali solo con il
d.lgs del 2000 n 274. Quest’ultimo testo, completato con un regolamento di esecuzione, ha dato prova
apprezzabile ai fini dello sfoltimento del carico giudiziario. Al giudice di pace vengono dati poteri decisori, il
potere di giudicare estinto il reato in conseguenza di condotte riparatorie, potere di applicare le pene
pecuniarie e le sanzioni di obbligo di permanenza domiciliare ecc.

Sono numerose le leggi complementari al codice di procedura penale.


L’organizzazione giudiziaria concernente la giustizia minorile nel 1934. La legge delega n 81 del 1987 ha
delegato il Governo della Repubblica a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento
della commissione del fatto. La stessa legge delega ha dettato una serie di criteri direttivi che esplicitano la
funzione particolare che viene richiesta al tribunale per i minorenni. Tali criteri sono la base del nuovo
sistema di giustizia minorile, che trova le sue fonti in vari provvedimenti. Il sistema della giustizia minorile
ha come obiettivo quello del recupero della personalità deviata del minore, tramite istituti di funzione
educativa anticipata rispetto al recupero sociale successivo al reato.

È stato istituito un patrocinio a carico dello Stato, per la difesa del cittadino non abbiente, indagato,
imputato, condannato, persona offesa da reato, danneggiato, che intenda costituirsi parte civile,
responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Questo non ha risolto tutti i
problemi dei non abbienti ma almeno si è operato un ragionevole tentativo per dare corpo all’impegno
solenne della Repubblica, di rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale (art 3 comma 2).

La legge n 69 del 2005 contiene le disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro sul
mandato d’arresto europeo. Altre importanti disposizioni sono poi nella legge sull’ordinamento
penitenziario e nel relativo regolamento. Quest’ultima legge riguarda il regime giuridico del trattamento
carcerario degli indagati o degli imputati sottoposti a custodia cautelare in carcere. Queste norme hanno
come obiettivo quello di seguire giorno dopo giorno la vita di coloro che affrontano una realtà dura, come
quella del carcere.
Tutti gli atti di buona volontà mirati alla rieducazione del condannato, tramite appositi istituti delle
istituzioni carcerarie non hanno dato luogo a realizzazioni pratiche adeguate, poiché si sono scontrati con il
problema del sovraffollamento. Sono state varate due leggi svuota carceri, in cui se la pena da scontare è
non superiore ai 18 mesi, la detenzione in carcere può sostituirsi con quella domiciliare. Questo è un
fallimento della funzione rieducativa della pena detentiva, in quanto non si possono perseguire obiettivi
rieducativi tra le mura domestiche.
Fonti giurisprudenziali ->

Ogni autorità dotata di potere giurisdizionale nell’atto conclusivo del procedimento principale o incidentale,
fissa una regola di diritto. In teoria tali decisioni sono vincolanti solo per le parti in causa ma nella prassi
sono un dictum che funge da precedente. Non vincolante ma pur sempre un punto di riferimento
importante per il consolidamento degli ambiti interpretativi della norma.
Le giurisdizioni superiori esprimono statuizioni con valore vincolante diverso rispetto ai giudici di merito.
Queste sono considerate, infatti, fonti del diritto di particolare significato.

Le declaratorie di incostituzionalità hanno un’efficacia immediata, dal momento che la norma dichiarata in
contrasto con i dettami costituzionali cessa di avere vigore, per tutti, dal giorno successivo a quello della
pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della sentenza dei giudici di palazzo della Consulta. Le sentenze
costituzionali interpretative di rigetto con cui non si accoglie la questione di costituzionalità ma viene
fornita un’interpretazione della norma sottoposta al vaglio di legittimità, tale da renderla compatibile con il
testo costituzionale evocato quale referente della questione. Queste non hanno efficacia erga omnes.

Una delle competenze essenziali della Corte di Cassazione è quella di assicurare l’esatta osservanza e
l’uniforme interpretazione della legge, nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale. Tali funzioni vengono
espletate con ogni decisione delle singole sezioni in cui si esprime la corte, ma la funzione nomofilattica si
evidenzia in modo particolare con le decisioni delle sezioni unite.

Importanti sono anche le decisioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Secondo l’art 46 CEDU, le
decisioni di questa sono vincolanti per le parti contraenti. Si tratta di un impegno politico in senso stretto,
per cui ogni stato dovrebbe adottare strumenti in grado di dare attuazione ai contenuti decisori delle
sentenze della Corte di Strasburgo. I giudici di merito si sono sforzati di dar vita a degli strumenti
compatibili con i principi generali del nostro sistema processuale, o per dichiarare inefficace il giudicato
definitivo, o per superarlo tramite una pronuncia che tenga conto delle decisioni emesse dalla Corte di
Strasburgo. Le decisioni della Corte di Giustizia dell’UE hanno un valore vincolante.

Fonti letterarie ->

Contribuiscono alla reale portata delle fonti normative, ma non sempre vengono presi nella dovuta
considerazione nella prassi forense anche le fonti letterarie. Come i commentari, i trattati, i manuali, gli
articoli, le note a sentenza, nonché i numerosi dibattiti sviluppati sulle riviste specializzate di diritto e
procedura penale. Questi il più delle volte vengono considerati come opinioni personali.

Ad oggi, la dottrina non ha più un potere formale di consulenza legale. Perché il sistema che viene
ricostruito dalla dottrina è sempre più minato. Perché l’idea diffusa della assoluta prevalenza della
componente pubblicistica nella formazione di ogni decisione giudiziaria ha finito per scolorire e svilire il
contributo privatistico degli studiosi del processo penale. Ma la qualità dei prodotti scientifici continua ad
essere molto apprezzabile, quindi non deve essere considerata come una mera opinione.

I nuovi orizzonti del diritto processuale penale -> 3 direzioni possibili

1) Si consoliderà il fenomeno della internazionalizzazione delle fonti della procedura penale.


L’applicazione diretta delle norme sovranazionali da parte degli organi giudiziari italiani deve
rappresentare un prius inderogabile. Si implementerà la cooperazione internazionale, usando nuovi
istituti soprattutto nell’ottica della criminalità internazionale. Istituti come il mandato di arresto
europeo, il coordinamento tra Stati per l’esecuzione delle pene detentive in carcere e la sempre più
intensa operatività delle convenzioni in materia di assistenza giudiziaria internazionale.
2) Espansione del diritto processuale penale in settori che prima ne erano rimasti lontani. Come ad
esempio le misure di prevenzione. L’entrata in vigore del Codice delle leggi antimafia. Spariranno
categorie che sono ancorate solo a delle sensazioni e non a dei risultati di prova in senso stretto.
Come il sospetto, le presunzioni, le supposizioni.
3) Prima o poi nascerà il diritto processuale penale speciale, cioè quell’insieme di norme che si
possono ricavare da leggi speciali e che identificano funzioni e ruoli non riconducibili a quelli
previsti dal codice di procedura penale. Leggi come sulla tutela ambientale, la sicurezza sul lavoro,
l’igiene nei luoghi di lavoro.

Le fonti di diritto processuale penale risultano datate, necessitando aggiornamenti ed allargamenti in molte
direzioni, non solo in ambiti strettamente giuridici.

La rilevanza della dimensione sovranazionale ed internazionale del diritto processuale penale impone di
considerare tra le fonti almeno quelle che disciplinano il funzionamento della Corte di Giustizia di
Lussemburgo e della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, nonché quelle fonti che dettano gli
effetti, diretti o indiretti, nell’ordinamento interno delle decisioni definitive dei giudici in oggetto.
Da qui si è consolidata l’opinione che i corpi legislativi della materia non bastino più.

Così ci si è resi conto dei problemi che alimentano il diritto penitenziario, i quali hanno incidenza diretta su
numerosi profili del diritto processuale penale. La salute fisica o mentale del detenuto viene compromessa
nel momento in cui varca la soglia del carcere, soglia dinanzi alla quale il diritto processuale penale si ferma.
L’analisi non deve fermarsi al titolo esecutivo ma deve spostarsi sulla persona privata della sua libertà
personale. Deve portare ad un regime penitenziario rispettoso della dignità e scevro da trattamenti
inumani e degradanti. Su tale l’argomento l’Italia è stata più volte sanzionata dalla Corte di Strasburgo.
Sanzioni a cui ha risposto con corpi normativi nuovi che vogliono allineare il nostro ordinamento interno
in modo da rispettare i canoni fondamentali della tutela dei detenuti privati della libertà a vario titolo.

A tal proposito sono due le leggi normative varate -> la l. 21 febbraio 2014 n 10 destinato a recare misure
urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione
carceraria. Questo intervento ha istituito il garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private
della libertà personale. La l. 28 aprile 2014 n 67 con cui sono state predisposte deleghe al Governo in
materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio, oltre ad introdurre un
istituto del tutto nuovo, cioè quello della messa alla prova con la contestuale sospensione del relativo
procedimento penale. La legge contiene anche novità essenziali verso gli irreperibili.

Il legislatore penale ha poi tentato di semplificare il panorama delle fattispecie penali nonché delle norme
processuali correlate. Con il d. lgs. 15 gennaio 2016 n 7 ha introdotto una nuova categoria giuridica, quella
degli illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili. Cioè sanzioni assimilabili ai danni punitivi. E con il d. lgs.
15 gennaio 2016 n 8 che ha creato un’ampia depenalizzazione.

Tutte queste modifiche incessanti e spesso mal coordinate non rispecchiano né il principio di stretta
legalità processuale né il principio della garanzia effettiva della presunzione di innocenza. Dal momento
che si legifera in lungo ed in largo spesso senza avere ben presenti i confini del sistema nazionale,
sovranazionale ed internazionale. L’interprete deve essere attento e non abbandonarsi alle ricadute
inaccettabili di provvedimenti legislativi spesso improvvisati e non ispirati da una politica processuale
unitaria ed ancorata ai valori della Costituzione e della Carta dei diritti dell’uomo. Il fronte del
coordinamento tra le varie corti regolatrici, europee e nazionali, è tutt’ora in comprensibile movimento.

Il panorama è complesso ed il sistema delle fonti e la gerarchia sono ancora in fase di assestamento.

Il legislatore italiano si è finalmente orientato a dare attuazione alle decisioni quadro adottate a più riprese
dal Consiglio dell’UE. Si tratta di un insieme imponente di norme attuative delle decisioni quadro che
impegneranno organi giudiziari e parti del processo penale.
La proliferazione normativa nell’ambito del processo penale non ha subito sosta. Le agenzie normative
interne hanno sfornato provvedimenti su provvedimenti, che hanno impegnato dottrina e giurisprudenza in
uno sforzo davvero imponente. Anzitutto a partire dalla esegesi sempre più dedita a cogliere la portata dei
dati normativi nuovi. Si è registrata poi una parcellizzazione delle riforme. Una riforma tira l’altra in una
filiera non ben articolata di leggi e leggine che non tengono conto della necessità di alimentare le culture di
fondo. Alle linee evolutive interne si aggiungono quelle del diritto sovranazionale, originato dalla
giurisprudenza non sempre allineata della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di giustizia dell’UE
e della Corte costituzionale in ordine alla tutela dei diritti fondamentali.

I SOGGETTI CAP 1
La distanza del codice di procedura penale del 1988 dal codice previgente si misura anche sul piano
sistematico. Una conferma sta nel libro iniziale del codice, il primo della parte statica a cui si contrappone la
parte dinamica.

Il libro I del codice abrogato disciplinava le azioni, dando la precedenza all’azione penale. Il libro I del
codice vigente è relativo ai soggetti e si apre con il titolo dedicato al giudice. Da qui si vede la centralità
della giurisdizione, nell’ambito di un processo concepito essenzialmente come sistema di garanzie. Negli
altri titoli del libro I si apre un elenco nutrito da cui restano esclusi numerosi soggetti che compaiono sulla
scena processuale, come gli ausiliari del giudice e del pubblico ministero, ma anche altre figure che
forniscono apporti importanti ai fini della decisione conclusiva del processo, come il testimone, il perito, il
consulente tecnico. È poi opportuno distinguere tra soggetto e parte, in considerazione anche della
differente ampiezza dei poteri. Parte è chi vanta il diritto ad una decisione giurisdizionale in rapporto ad
una pretesa fatta valere nel processo. Parte non sarà la totalità dei soggetti elencati nel libro I. Non è parte
il giudice che deve essere imparziale, non lo è nemmeno la polizia giudiziaria, la persona offesa e il
difensore. La qualifica di parte spetta a tutti gli altri soggetti elencati nel libro I.

IL GIUDICE

Il primo titolo del primo libro del codice è dedicato alla giurisdizione penale. L’art 1 riserva l’esercizio della
giurisdizione penale solo ai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario. Non la riserva a qualsiasi
magistrato, quindi non al pubblico ministero. La qualità di giudice è acquisita tramite un atto di investitura
di potere, atto regolato secondo la legge, precisamente le leggi di ordinamento giudiziario. Quindi solo le
norme di ordinamento giudiziario creano il giudice, ad eccezione dei giudici speciali.

Vi è stretto raccordo tra la normativa ordinamentale e quella codicistica. L’art 178 stabilisce che gli atti sono
nulli se non si osservano le disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice, il numero dei
giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario. (Codice –
ordinamento). Tali elementi sono rilevanti per l’esercizio della funzione giurisdizionale, e sono
normativamente regolati. Questo lo detta l’art 33 c.p.p., il quale nel suo 1° comma si limita a prevedere che
le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi giudicanti sono
stabiliti dalle leggi di ordinamento giudiziario. Gli altri due commi circoscrivono la portata dal 1°, elencando
una serie di ipotesi processualmente irrilevanti, esorbitanti dalla nullità assoluta prescritta dall’art 178
c.p.p.

Tale disposizione, art 33 comma 2 e 3, è nata dalla difficoltà di costruire una disciplina di individuazione
del giudice del processo tanto rigorosa da eliminare qualsiasi spazio di discrezionalità in capo ad organi
amministrativi-giudiziari, le complicazioni ed ipoteche che peserebbero sulla vicenda processuale se si
prevedesse la sanzioni della nullità assoluta anche per questioni sottoponibili al sindacato degli organi
amministrativi. Per questo si è scelto di non considerare attinenti alla capacità del giudice le disposizioni
sulla destinazione del giudice all’ufficio, sulla formazione dei collegi, sulla assegnazione dei processi a
sezioni, collegi e giudici.
La questione sull’assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici è attinente alla distribuzione delle
cause tra giudici parimenti legittimati all’esercizio della funzione giurisdizionale e non tanto alla capacità
del giudice. A tal proposito l’art 7 ter ord. Giudiziario del 1941 detta i criteri per la assegnazione degli affari
e la sostituzione dei giudici impediti, assicurando trasparenza. Di fatti i criteri da seguire sono obiettivi,
predeterminati ed indicati in via generale dal Consiglio superiore della magistratura. In caso di revoca del
provvedimento motivato deve essere comunicata al presidente della sezione e al magistrato interessato.

La questione sulla formazione dei collegi anch’essa non è attinente alla capacità del giudice. Riguarda
invece le disposizioni che regolano la composizione dell’organo giudicante nel caso di assegnazione di un
numero di giudici superiore a quello necessario per la costituzione dell’ufficio. Cioè disposizioni per i
provvedimenti del capo dell’ufficio diretti a stabilire turni di servizio di giudici già assegnati all’ufficio stesso.
Riguarda anche le disposizioni relative alle supplenze e alle applicazioni.

La questione delle disposizioni sulla destinazione del giudice all’ufficio è riconducibile al concetto di
capacità. Cosa residua di tale disposizione? Rimane invariata la carica patologica del soggetto non investito
del potere giurisdizionale. Un vizio forte da implicare l’inesistenza degli atti posti in essere da colui che, in
sostanza, è un non iudex. Al di fuori di questo caso, l’unico attributo rilevante ai fini di un’eventuale
incapacità del giudice è quello della qualifica richiesta per l’esercizio delle funzioni giudiziarie che è
chiamato a svolgere. Ad esempio, nella corte di assise deve presiedere un magistrato avente qualifica non
inferiore a magistrato di appello. Questo vizio, consistente in un difetto di qualifica, non essendo stato
neutralizzato dall’art 33 comma 2, ricade nell’ambito di operatività dell’art 178 comma 1°, dando origine ad
una nullità assoluta.

Art 33, 3° comma -> disposizione collegata alla riforma relativa all’istituzione del giudice unico di primo
grado. Tale riforma, 1997, avente come obiettivo la realizzazione di una razionale distribuzione delle
competenze degli uffici giudiziari ha comportato la soppressione dell’ufficio del pretore. Ma si è riconosciuta
la possibilità per il tribunale di giudicare in due diverse composizioni. La composizione collegiale (3
componenti) e quella monocratica. Senza far venir meno l’unitarietà dell’organo. Contestualmente si è
stabilito che l’attribuzione degli affari al giudice, in entrambe le composizioni, non è attinente alla capacità
del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante. Il 3° comma dell’art 33 è
una traduzione della direttiva della legge delega della riforma, prima citata. Tale comma è similare al 2°
comma perché attiene all’organizzazione interna dell’ufficio. Ed anche perché l’obiettivo è comune, cioè
quello di evitare che l’inosservanza dei criteri concernenti il riparto di attribuzioni tra giudice monocratico e
giudice collegiale si traduca in nullità assoluta.

Il giudice ha una serie di connotati essenziali per il corretto esercizio della giurisdizione. I principali hanno
il loro fondamento nei precetti costituzionali, dedicati sia alla magistratura in generale, sia più
specificamente alla figura del giudice. Rispetto però al giudice e alla sua funzione (giurisdizione) si possono
enucleare alcune sottocategorie di giudice.

Fondamentale la distinzione tra giudici straordinari (istituiti dopo il fatto da giudicare) giudici speciali
(estranei alla legge di ordinamento giudiziario) giudici ordinari (legittimati dall’ordinamento giudiziario). La
Costituzione vieta l’istituzione di giudici straordinari o speciali, ammette solo i giudici specializzati in
ragione dello specifico oggetto della loro giurisdizione. Come il tribunale per i minorenni. Esclusi dal divieto
solo i tribunali militari e gli altri organi giudicanti della giustizia militare (reati militari commesso dalle
forze armate) e la Corte costituzionale nella particolare composizione per le accuse promosse contro il
Presidente della Repubblica per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.

La categoria che bisogna analizzare è quella dei giudici ordinari che, dopo la soppressione dell’ufficio del
pretore e l’entrata in vigore del d.lgs 2000 n 274 inerente alla competenza penale del giudice di pace,
ricomprende i seguenti organi giudicanti:
1)giudice di pace: giudice onorario (giudice anche se non lo è come il magistrato togato) e monocratico che
si contrappone al giudice professionale e al giudice collegiale, il quale risulta composto da una pluralità di
magistrati. La categoria dei magistrati non professionali: la legge del 2016 n 57 da un lato contiene la
delega al Governo per la riforma organica di tutta la magistratura onoraria, dall’altro detta regole di
immediata applicabilità, incorporate in un secondo tempo nel succitato decreto legislativo. Con il d.lgs del
2017 si è raggiunto il risultato di uno statuto unico della magistratura ordinaria, riguardante i giudici onorari
del tribunale, i giudici di pace ed i viceprocuratori onorari. Con tale provvedimento si ribadisce la
temporaneità dell’incarico, si dettano le regole inerenti al tirocinio semestrale, si disciplinano in dettaglio le
funzioni e i compiti dei giudici onorari di pace, ci si occupa della formazione permanente dei giudici onorari.

2)giudice per le indagini preliminari monocratico e giudice dell’udienza preliminare monocratico (da un solo
giudice). Per tali due categorie vi sono delle innovazioni di carattere ordinamentale. Per evitare possibili
condizionamenti derivanti dalle attività compiute durante le indagini preliminari, l’art 7 ter ordinamento
giudiziario stabilisce che i due giudici devono essere diversi. Innovativi sono poi i commi 2 bis e 2 ter
dell’art 7 bis ordinamento giudiziario. La loro introduzione è ricollegata all’esigenza di assicurare un’elevata
qualificazione professionale dei giudici de quibus (obbligo di svolgere per almeno due anni la funzione di
giudice del dibattimento o quella di giudice dell’udienza preliminare) ed all’intento di creare le migliori
premesse per la terzietà di questi giudici. A tal fine è stata dettata la temporaneità delle funzioni, vista
come correttivo rispetto all’istaurarsi di inopportuni affiatamenti tra soggetti che nella dialettica
processuale sono chiamati a svolgere ruoli profondamente diversi. Lo stesso comma 2 ter permette che
l’esercizio delle funzioni venga prorogato, se alla scadenza del termine è in corso il compimento di un atto.
Proroga limitata a quel singolo procedimento, sino al compimento dell’attività in questione. Al di fuori di
questa ipotesi, tali disposizioni possono essere derogate solo per imprescindibili e prevalenti esigenze di
servizio.

3) tribunale ordinario giudicherà in composizione monocratica o collegiale (3 membri) a seconda della


gravità del reato o delle caratteristiche dello stesso.

4) corte d’assise, giudice collegiale composto da 8 magistrati, due togati e sei laici (c.d. giudici popolari,
temporanei e scelti fra i cittadini in possesso di determinati requisiti).

5) corte d’appello giudice collegiale composto da 3 magistrati

6) corte d’assise d’appello, giudice collegiale, la cui composizione mista ricalca quella della Corte d’assise

7) magistrato di sorveglianza monocratico

8) tribunale di sorveglianza giudice collegiale composto da 4 magistrati, due togati e due laici

Al vertice si trova la Corte di Cassazione, alla quale viene attribuito l’appellativo di giudice di legittimità. Ha
7 sezioni, ognuna delle quali giudica con 5 componenti, 9 quando tale organo è chiamato a pronunciarsi
nella composizione a sezioni unite. Con la legge del 1998 si è attuato l’art 106 comma 3° della cost, il quale
prevede che per meriti insigni possono essere chiamati all’ufficio di consigliere della Corte di cassazione
professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano 15 anni di servizio e siano
iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori. Anche i giudici minorili sono regolati dalla legge di
ordinamento giudiziario. Rispetto ad essi è corretta la definizione di giudici ordinari specializzati.

LA GIURISDIZIONE
La giurisdizione penale è autosufficiente, ha cognizione autonoma su tutte le questioni strumentali alla
pronuncia finale. Il giudice penale ha il dovere di risolvere ogni questione che si ponga come antecedente
logico-giuridico della decisione di cui è investito. La questione logicamente prioritaria verrà risolta con una
pronuncia incidentale di natura civile, amministrativa o penale, con rilevanza solo all’interno del
procedimento in cui è inserita, senza efficacia vincolante in nessun altro processo. Questo in virtù del
canone della massima semplificazione nello svolgimento del processo. Tutto regolato dall’art 2 comma 1,
meccanismo che risponde al bisogno di accelerare i tempi per pervenire alla decisione definitiva.

Vi sono però delle eccezioni alla regola -> prescindendo dalla sospensione del processo penale a seguito
della questione di legittimità devoluta alla Corte Costituzionale e dalla pregiudiziale comunitaria che implica
l’investitura della Corte di Giustizia, le deroghe alla regola stabilita dall’art 2 (COGNIZIONE INCIDENTALE)
risalgono a delle disposizioni del codice. Suddividibili, da un lato, in quelle disposizioni che si limitano a
devolvere la risoluzione al giudice civile e, dall’altro, a quelle disposizioni che si occupano specificatamente
delle questioni da cui dipende la decisione definitiva, le quali disciplinano i presupposti e il modus
dell’eventuale sospensione, nonché l’efficacia della decisione intervenuta in sede extrapenale. Due casi in
cui risulta opportuno consentire che sulla questione pregiudiziale intervenga una vera e propria decisione,
idonea a stabilizzarsi con la formazione del giudicato, e non un accertamento incidentale suscettibile di
essere contraddetto da ulteriori accertamenti di segno eventualmente opposto.

Questo vale soprattutto per le questioni pregiudiziali relative allo stato di famiglia o di cittadinanza -art 3.
Dinanzi ad una controversia rientrante in una di tali categorie, il giudice può sospendere il processo (è
quindi superato lo stato procedimentale) se vi sono 3 condizioni (art 3 comma1) : - deve sussistere
effettivamente un rapporto di pregiudizialità tra la risoluzione della controversia sullo stato di famiglia o di
cittadinanza e la decisione della regiudicanda penale. Ciò non implica necessariamente un condizionamento
sulla decisione circa l’esistenza del reato, essendo da riconnettere anche a quelle controversie la cui
risoluzione influisce sull’esistenza di una condizione di punibilità o di una circostanza aggravante. – la
questione deve essere seria non infondata o artificiosa. – l’azione deve essere già stata proposta a norma
delle leggi civili, ciò indica l’area non penale. Quindi il rinvio è esteso alle leggi amministrative.
Se manca uno dei requisiti il giudice deve decidere in via incidentale senza sospendere il processo penale.
Non è una regola automatica, infatti, in base alla difficoltà della questione e all’entità dei costi ricollegabili
alla scelta abdicativa, sarà il giudice a stabilire, di volta in volta, se nonostante la ricorrenza dei
presupposti non sia preferibile risolvere autonomamente la questione pregiudiziale.

Nel caso di sospensione è prevista la pronuncia di un’ordinanza, impugnabile in cassazione. Si ritengono


legittimate al ricorso tutte le parti in quel momento presenti nel processo. Durante la sospensione, sono
ammessi solo gli atti urgenti, purché non attinenti alla questione che ha determinato la sospensione.

La sentenza irrevocabile, intervenuta in sede extrapenale, del giudice civile che ha deciso una questione
pregiudiziale avrà efficacia di giudicato. Il giudicato civile o amministrativo ha un’identica efficacia
vincolante sia se si è formato prima dell’inizio del processo penale, sia se è sopraggiunto mentre il
medesimo è ancora in corso. Se la decisione extrapenale diventa irrevocabile dopo la conclusione del
processo penale, soccorre l’art 630 lettera c. Se la sentenza di condanna dipenda da un accertamento
incidentale sconfessato dal giudice civile o amministrativo, potrà essere adoperata la strada della revisione.
Cioè quando dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già
valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto.

Secondo caso di sospensione del processo penale a causa di una questione pregiudiziale è all’art 479
c.p.p. In questo caso, la controversia da risolvere in via prioritaria non verte su uno status ma su una
qualsiasi altra questione di competenza del giudice civile o amministrativo. La sospensione sembrerebbe
essere disposta solo nel corso del dibattimento. L’impronta restrittiva emerge tramite i requisiti inerenti
alla questione pregiudiziale: - la risoluzione della controversia deve condizionare la decisione sull’esistenza
del reato, irrilevante che riguardi altri elementi della regiudicanda. – la controversia deve risultare di
particolare complessità. – il relativo procedimento presso il giudice civile o amministrativo deve essere già
in corso. Ulteriore condizione è che la legge civile o amministrativa non ponga limitazioni alla prova della
situazione soggettiva controversa. Limitazioni che il giudice penale non incontra se risolve la controversia in
via incidentale.

La sospensione è disposta con ordinanza, impugnabile in cassazione, da tutte le parti. L’impugnazione non
avrà effetto sospensivo. A differenza della prima ipotesi, il giudice ha la possibilità di revocare, anche
d’ufficio, l’ordinanza di sospensione qualora il giudizio civile o amministrativo non si sia concluso entro il
termine di un anno. La sentenza extrapenale, inoltre, non avrà una efficacia vincolante. Questa andrà a far
parte del materiale probatorio destinato a costruire la base per la formazione del convincimento del
giudice, il quale la può anche disattendere, con l’unico limite di dover esporre in motivazione le ragioni
della divergenza.

Peculiare ipotesi di sospensione del processo, slegata dalle vicende processuali e dipendente dalla qualità
dell’imputato, era quella prevista dalla legge del 2008, secondo la quale i processi penali nei confronti dei
soggetti che rivestono la qualità di presidente della Repubblica, di presidente del Senato della repubblica, di
presidente della Camera dei deputati e di presidente del Consiglio dei ministri, dovevano essere sospesi
dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. Anche se relativi a fatti
antecedenti la carica o la funzione. In questo modo si creava una immunità temporanea. A parte ogni altra
possibile considerazione sulla ragionevolezza di una tale scelta legislativa, aveva suscitato dubbi gravi di
costituzionalità, la circostanza che una eccezione al principio di parità di trattamento rispetto alla
giurisdizione fosse stata introdotta da una legge ordinaria e non da una legge costituzionale. Considerazioni
poi sviluppate dalla Corte costituzionale nella sentenza con la quale tale disposizione è stata dichiarata
illegittima.

LA COMPETENZA DEL GIUDICE

Capo II titolo I del Libro I del c.p.p. -> competenze. Cioè l’insieme di regole che consentono di attuare una
distribuzione, in senso orizzontale e verticale, delle regiudicande penali, in modo che risulti predeterminato
il giudice legittimato a conoscere di ogni procedimento. Ciò era assolutamente vero prima del 1999,
momento in cui è stata predisposta la normativa per l’istituzione del giudice unico di primo grado. A partire
da tale momento è stato introdotto un ulteriore criterio di assegnazione, imperniato sulla categoria delle
attribuzioni. Criterio che si differenzia dal concetto di competenza perché opera come criterio interno di
ripartizione.

Alle due tradizionali figure (COMPETENZA PER MATERIA E PER TERRITORIO) si aggiunge una terza figura
(COMPETENZA PER CONNESSIONE) che vuole limitare le distorsioni ed i conflitti registrati durante la vigenza
del codice abrogato a causa di un’eccessiva propensione all’accumulazione dei processi.

COMPETENZA PER MATERIA -> il codice ha dettato la suddivisione tenendo conto sia del tipo di reato, cioè
usando il criterio qualitativo (natura, la maggiore professionalità del giudice, la frequenza statistica
dell’illecito), sia del livello della pena edittale, cioè facendo uso di un criterio quantitativo. Per il cui calcolo
sono stati forniti dei criteri recepiti nell’art 4. Il quale dispone che bisogna tener conto del massimo della
pena, stabilita dalla legge, per ciascun reato consumato o tentato. Escludendo l’incidenza della
continuazione, della recidiva, delle circostanze del reato. Salvo che si tratti di aggravanti per la quale la
legge stabilisce una pena di specie diversa o ad effetto speciale.

All’art 5 delinea la competenza della CORTE D’ASSISE, facendo uso sia del criterio quantitativo che
qualitativo, influenzato dalla particolare composizione di quest’organo. La corte d’assise è l’organo
giurisdizionale competente a giudicare, in primo grado, i reati più gravi.
Sono affidati alla sua competenza: 1) i delitti puniti con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel
massimo a 24 anni. Fatta eccezione per i delitti, comunque aggravati, di tentato omicidio, rapina,
estorsione, associazione di tipo mafioso, anche straniera, nonché per i delitti aggravati in materia di
sostanze stupefacenti. La Corte di cassazione aveva seguito l’orientamento secondo cui, la corte d’assise
aveva competenza nell’ipotesi in cui la pena detentiva, grazie alle aggravanti, superasse il tetto di 24 anni.
Ma la corte di cassazione lo seguì per i delitti di associazione di stampo mafioso, constatando che il limite di
24 anni di reclusione può essere raggiunto nell’ipotesi in cui ai promotori, direttori e organizzatori venga
applicata la circostanza aggravante dell’associazione armata. Allora per evitare la possibile scarcerazione di
molti imputati di gravi delitti è stato emanato un d.l. convertito in legge nel 2010 che è intervenuto sull’art
5 comma 1 lett a. Precisando che la corte d’assise non ha competenza relativamente al delitto di
associazione mafiosa, bensì l’avrà il tribunale, a prescindere dagli aumenti di pena causati dalle aggravanti.
Inoltre, la competenza della Corte d’assise è presenta in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione
anche senza la morte della persona offesa.
2) delitti consumati di omicidio del consenziente, istigazione o aiuto al suicidio, omicidio preterintenzionale.
3) ogni delitto doloso qualora derivi la morte di una o più persone, escluse le ipotesi di morte come
conseguenza non voluta di altro reato, di morte avvenuta in seguito a rissa e di morte derivante da
omissione di soccorso.
4) delitti di riorganizzazione del partito fascista, di genocidio e quelli contro la personalità dello Stato puniti
con pena edittale non inferiore nel massimo a dieci anni.
5) i delitti consumati o tentati di associazione per delinquere. Come il delitto di procurato ingresso illegale
dello straniero nel territorio dello Stato, il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, di
tratta di persone, di acquisto e alienazione di schiavi, i delitti con finalità di terrorismo. Fermo restando il
bisogno che la pena della reclusione non sia inferiore a dieci anni. Per gli ultimi delitti, questi sono stati
reintrodotti nella competenza della Corte d’assise, essendo stati sottratti e devoluti al tribunale collegiale,
nel 2003.

All’art 6 è dettata la COMPETENZA del TRIBUNALE, ricavata per sottrazione rispetto alla competenza della
Corte d’assise. È investito dei reati non appartenenti alla competenza di quest’ultima o al giudice di pace.
Per il tribunale occorrerà distinguere le ipotesi rispetto alle quale è tenuto a giudicare in composizione
collegiale da quelle per le quali è sufficiente la composizione monocratica.

La competenza per territorio -> la regola fondamentale è quella del luogo in cui il reato è stato consumato.
Altre regole: - alcune di carattere generale che derogano al criterio del locus commissi deliciti in ragione
della particolare configurazione della fattispecie delittuosa – alcune regole suppletive che individuano il
giudice territorialmente competente quando non si possono applicare le regole generali.

Regole generali derogatrici al criterio fondamentale nel fatto che cagiona la morte di una o più persone,
nel reato permanente e nel delitto tentato. Poiché nella prima ipotesi è frequente la sfasatura riscontrabile
tra il luogo della condotta e quello in cui si verifica la morte della persona offesa, si è individuata la
competenza del giudice nel luogo in cui è avvenuta l’azione o l’omissione. È qui che l’allarme sociale si è
creato ed è più agevole la ricerca di prove. Per le altre ipotesi si è scelto il criterio del luogo in cui ha avuto
inizio la consumazione per il reato permanente, il criterio del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto
diretto a commettere il tentato delitto.

Per le regole suppletive si rispetta la gerarchia interna dell’art 9 (REGOLE SUPPLETIVE). Prima il criterio del
luogo, l’ultimo se sono molti, in cui è avvenuta una parte dell’azione o omissione. Poi il criterio della
residenza, della dimora, del domicilio dell’imputato, quello del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico
ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia del reato nel registro appositamente previsto.
Regole che si applicano anche quando il reato è stato commesso in parte all’estero.
Nel caso di reato commesso interamente all’estero (ART 10) sono indispensabili degli adeguamenti. La
competenza è dettata dal luogo della residenza, della dimora, del domicilio, dell’arresto o consegna
dell’imputato. Nel caso di pluralità di imputati è competente il giudice che lo è per il maggior numero di
essi. Se è stato commesso contro un cittadino, qualora non riescano ad operare i criteri di cui all’art 10
comma 1, si applica la nuova regola in base alla quale la competenza spetta al tribunale o alla corte di assise
di Roma. Sempre se non ricorrano le ipotesi di connessione o di indagini collegate. In tal caso deve essere
investito in ultima battuta, il giudice del luogo in cui è avvenuta la prima iscrizione nel registro contemplato
dall’art 335.

Deroghe alla regola del locus commissi delicti sono legittimate dall’art 210 disposizioni di attuazione
( Continuano a osservarsi le disposizioni di leggi o decreti che regolano la competenza per materia o per
territorio in deroga alla disciplina del codice nonché le disposizioni che prevedono la competenza del
giudice penale in ordine a violazioni connesse a fatti costituenti reato) il quale stabilisce che continuano ad
osservarsi le disposizioni di leggi o decreti disciplinanti la competenza per territorio sulla base di criteri non
coincidenti con quello fissato dall’art 8 comma 1. Un esempio sono i reati commessi con il mezzo della
cinematografia o della rappresentazione teatrale, rispetto ai quali opera il criterio del luogo in cui è
avvenuta la rappresentazione in pubblico. Altre deroghe sono riconducibili a leggi successive alla
pubblicazione del codice. Come i reati commessi dal presidente del Consiglio dei ministri o dai ministri
nell’esercizio delle loro funzioni, rispetto ai quali è competente il tribunale ubicato nel capoluogo del
distretto di Corte d’appello.

In due situazioni è lo stesso codice che crea regole ad hoc, per cercare di farantire una migliore funionalità
dello strumento processuale e nell’opportunità di evitare offuscamenti dell’imparzialità del giudice. Una
prima deroga è quella risultante dall’art 328 commi 1 bis e 1 quater, che riguardano rispettivamente i
procedimenti relativi ai delitti elencati nell’art 51. Le funzioni di giudice per le indagini preliminari e per
l’udienza preliminare sono esercitate da un magistrato appartenente al capoluogo del distretto nel cui
ambito ha sede il giudice competente. Una seconda deroga è quella all’art 11 che riposa su un duplice
presupposto: - l’esistenza di un procedimento penale in un cui magistrato assuma la qualità di imputato
ovvero quella di persona offesa o danneggiato dal reato – la competenza di un ufficio giudiziario ricompreso
nel distretto di corte di appello in cui lo stesso magistrato esercita le proprie funzioni, ovvero le esercitava
al momento del fatto. L’art 11 bis tratta la competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati facenti
parte della direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Anche in tale caso la competenza si determina
in base alla normativa in esame, art 11.
In questi casi, la disciplina originaria prevedeva l’investitura del giudice, ugualmente competente per
materia, ubicato nel capoluogo del distretto di Corte di appello più vicino. La disciplina oggi è stata
perfezionata. La competenza per i procedimenti art 11 spetta al giudice, ugualmente competente per
materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge, sulla base di
una tabella incentrata sul criterio della circolarità. In questo modo si evitano competenze incrociate, insito
nel precedente sistema.

Il voler scongiurare il rischio di interventi discrezionali, tramite una serie di norme dirette
all’individuazione del giudice competente, raggiunge il suo massimo con la definizione della connessione
come criterio autonomo di attribuzione di competenza. Così da far confluire davanti ad un unico giudice i
procedimenti, riservati in base alle regole sulla competenza per materia e per territorio, a giudici diversi.
Quanto alle ipotesi di connessione, l’art 12 dispone che si ha connessione di procedimenti: - se il reato per
cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o in cooperazione tra loro, ovvero se più
persone, con condotte indipendenti, hanno determinato l’evento. – se una persona è imputata di più reati
commessi con una sola azione od omissione (concorso formale) o con più azioni od omissioni esecutive di
un medesimo disegno criminoso (reato continuato). – se per i reati, per cui si procede, taluni sono stati
commessi per eseguire o occultare gli altri. Per tale ultimo caso, la Cassazione in Sezioni unite ha avallato
l’orientamento secondo cui si può prescindere dal requisito dell’identità soggettivo tra il reato mezzo ed il
reato fine. L’autore o gli autori non devono necessariamente coincidere.
Per determinare il giudice competente nel caso di procedimenti connessi si usano criteri, che riflettono il
bisogno di non lasciare spazio alla discrezionalità. Primario è il criterio del giudice supremo, dal quale
discende che i procedimenti di competenza del tribunale risultano automaticamente attribuiti alla corte
d’assise. Prevale il giudice competente per il reato più grave se ci si muove sul versante della competenza
territoriale. In caso di pari gravità del reato, sarà competente quello per il primo reato. ART 15 E 16. Nel
caso di concorso di persone o condotte indipendenti, le azioni o omissioni sono commesse in luoghi diversi
e dal fatto deriva la morte di una persona, sarà competente il giudice del luogo in cui si è verificato l’evento.
In caso di connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali. Se la concorrenza è tra
Corte costituzionale e giudice ordinario, prevale quella del giudice speciale. Se invece il rapporto è tra
giudice ordinario e speciale vale quella del giudice ordinario. A patto che il reato comune è più grave di
quello militare.
La connessione non opera in caso di procedimenti relativi ad imputati che, al momento della commissione,
erano minorenni e procedimenti relativi ad imputati maggiorenni. Ciò vuol dire che è competente da un
lato il tribunale per i minorenni, dall’altro il giudice non specializzato.

LA COMPETENZA FUNZIONALE anche se priva di riscontri sul piano normativo, si tratta di una consolidata
categoria, utilizzata dalla dottrina e giurisprudenza che tende ad equipararla, quanto a disciplina, alla
competenza per materia. L’attività giurisdizionale è frazionata in scansioni aventi come protagonisti varie
figure di giudici, diversificati tra di loro in base alla funzione che svolgono nell’ambito di un medesimo
procedimento. Tali suddivisioni sono collegate al concetto di competenza funzionale. Differenziazioni sui
vari gradi che percorre una vicenda processuale, su articolazioni interne al grado del procedimento, sullo
specifico tipo di attività devolute ad un determinato giudice.
GIUDICI ORDINARI DIVISI PER GRADI: giudice di pace, tribunale ordinario, corte d’assise – GIUDICI DI
PRIMO GRADO – tribunale – MONOCRATICO- corte d’appello e corte d’assise d’appello – GIUDICI DI
SECONDO GRADO – Corte di Cassazione che verifica la legittimità delle decisioni prese nei gradi precedenti.
GIUDICI DIVISI PER FASI: nella fase ANTERIORE al giudizio si colloca l’attività del giudice per le indagini e
l’udienza preliminare. Nella fase DEL GIUDIZIO in cui sono competenti funzionalmente il tribunale, la corte
d’assise, la corte d’appello, la corte d’assise d’appello, la corte di cassazione. Nella fase di ESECUZIONE si
distingue il giudice di esecuzione dalla magistratura di sorveglianza. In quest’ultima si distingue il magistrato
di sorveglianza dal tribunale di sorveglianza.
COMPENTENZA FUNZIONALE PER LE SPECIFICHE ATTRIBUZIONI DI UN DETERMINATO GIUDICE: funzioni
espressamente riservate al presidente del collegio giudicante. Quelle espletate dal tribunale quale giudice
del riesame o dell’appello per i provvedimenti restrittivi della libertà personale. Quelle riservate alla corte
d’appello in materia di estradizione.

LE ATTRIBUZIONI DEL TRIBUNALE -> una volta appurato che in relazione ad un certo reato deve giudicare il
tribunale (competenza per materia), occorrerà una ulteriore suddivisione secondo cui il tribunale deve
essere o monocratico oppure collegiale. In questo caso il criterio di ripartizione si basa su di una
sottocategoria della competenza, chiamata attribuzione. Sottocategoria coniata durante l’istituzione del
giudice unico di primo grado, nato nell’intento di realizzare una più razionale distribuzione delle
competenze degli uffici giudiziari. L’ufficio del pretore è stato soppresso, da qui il tribunale ha funzionato
sia nella sua tradizionale composizione collegiale che nella sua inedita composizione monocratica. Questo
passaggio ha valorizzato con decisione la composizione monocratica, eletta a regola. Infatti, il principio della
collegialità è stato rivalutato nella sua importanza poiché l’obiettivo è di voler far uso delle risorse in
maniera più rigorosa, così da creare vantaggi sul piano dell’efficienza processuale. Questo ha spinto ad una
dilatazione dello spettro di reati in precedenza attribuiti al pretore. Questo emerge valutando la diversa
ampiezza dell’assegnazione dei reati incentrata sul criterio quantitativo. Es: per il pretore il limite era la
pena detentiva non superiore a 4 anni. Per il tribunale in composizione monocratica, i delitti che gli
vengono assegnati sono puniti con pena uguale o inferiore nel massimo a 20 anni.
La scelta operata dalla legge delega, istitutiva del giudice unico, di mantenere il rito pretorile per il tribunale
monocratico è risultata inadeguata, essendo stati oltrepassati i confini della competenza pretorile. Per
questo nel 99’ una legge, modificativa di più punti della normativa codicistica, ha regolamentato il
procedimento del tribunale monocratico. Inoltre, con tale legge si è proceduto ad un nuovo riparto delle
attribuzioni riservate alle due composizioni del tribunale. Così gli articoli 33 bis e 33 ter sono stati
riformulati. Al fine di ridimensionare le attribuzioni del giudice monocratico.
Al tribunale collegiale andranno i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 10 anni, ivi
compresi quelli tentati. Il limite di 10 anni va calcolato con le regole dell’art 4. Il criterio quantitativo deve
essere coordinato con quello qualitativo, che implica talune deroghe. Una prima deroga riguarda il fatto
che risultano sottratti al tribunale collegiale taluni delitti con la reclusione superiore a dieci anni. Come nel
caso dei delitti in materia di sostanze stupefacenti, fermo restando che il tribunale collegiale giudica su di
essi quando siano contestate le aggravanti di cui all’art 80 Testo unico in materia di sostanze stupefacenti.
Una seconda deroga riguarda quei casi in cui il tribunale collegiale giudica quei reati che dovrebbero essere
giudicati dal tribunale monocratico. Quindi reati puniti con reclusione non superiore ai 10 anni. Per tale
deroga occorre far riferimento all’art 33 bis comma 1 in cui si elencano i delitti consumati o tentati
giudicati dal TRIBUNALE COLLEGIALE. I delitti previsti all’art 407 c.p. comma 2 lettera a n 3, 4, 5, fatta
eccezione per quelli rientranti nella competenza della Corte d’assise. Esempio i delitti per finalità di
terrorismo, o di illegale fabbricazione, introduzione nello stato, messa in vendita ecc. I delitti dei pubblici
ufficiali contro la PA. I delitti di associazione per delinquere, associazione di tipo mafioso, scambio elettorale
politico-mafioso, disastro ferroviario causato da danneggiamento, attentato alla sicurezza dei trasporti a cui
sia conseguito un disastro, disastro ferroviario, naufragio, caduta di aeromobili colposi. I delitti previsti dal
codice navale. I delitti commessi dal presidente del Consiglio dei ministri e dai Ministri nell’esercizio delle
loro funzioni, nonché, in concorso con gli stessi, da altre persone. I delitti previsti da taluni articoli della
legge fallimentare. Delitto di interruzione di gravidanza non consensuale. I reati finanziari. Delitto di
trasferimento fraudolenti di valori. Delitti etnici, religiosi, razziali. Delitti in materia di produzione ed uso di
armi chimiche.
Per le attribuzioni del TRIBUNALE MONOCRATICO vale la regola della complementarietà. Giudica sui reati
del D.P.R. del 1990 e sui reati non attribuiti al tribunale collegiale dall’art 33 bis o altre disposizioni di legge.

Come incide un eventuale vincolo connettivo. L’art 33 quater (stessa ratio dell’art 15) dispone che se la
connessione riguarda alcuni procedimenti appartenenti alla cognizione del tribunale collegiale ed altri a
quella del tribunale monocratico, si applicano le disposizioni relative al procedimento davanti al giudice
collegiale, cui sono attribuiti tutti i procedimenti connessi. Quindi l’incidenza della connessione non è
circoscritta alla fase dibattimentale, ma opera anche in rapporto alle indagini preliminari.

LA RIUNIONE E LA SEPARAZIONE DEI PROCESSI sono degli istituti diversi rispetto alla connessione, in
quanto operano a partire dal momento in cui il procedimento, in seguito all’esercizio dell’azione penale, si
è evoluto in processo. La connessione invece produce effetti sin dall’inizio del procedimento, in quanto
criterio attributivo di competenza.
La riunione dei processi produce la trattazione congiunta di processi, in precedenza pendenti davanti a
giudici diversi, sezioni dello stesso ufficio giudiziario, preventivamente individuato in base ai normali criteri
di competenza. Non sempre è permessa la riunione di processi connessi. La riunione scongiura la possibilità
di arrivare a decisioni logicamente contrastanti, una volta che i procedimenti sono confluiti presso lo stesso
ufficio giudiziario.
Per la riunione dei processi vi devono essere dei presupposti (ART 17 COMMA 1): i processi da riunire
devono essere pendenti davanti al medesimo ufficio giudiziario; devono avere uno sviluppo omogeneo
(stesso stato e grado); prognosi negativa su di un possibile ritardo nella definizione delle singole vicende
processuali; sussistenza di uno dei casi tassativamente indicati dalla legge. Quindi la riunione è possibile
quando i processi pendenti siano connessi e quando siano relativi ai reati dei quali taluni siano stati
commessi in occasione di altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, prezzo,
prodotto o impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre,
ovvero se la prova del reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o circostanza.
Qualora non sussista il pregiudizio, in termini di ritardo nella definizione, per i processi pendenti, la riunione
costituisce un atto dovuto. Ferma restando la necessaria integrazione degli altri presupposti. Infatti, non si
ravvisa un motivo rilevante che possa giustificare il sacrificio delle esigenze connesse alla trattazione
unitaria.
Negli stessi casi e alle stesse condizioni si procede comunque alla riunione anche se alcuni dei processi
pendono davanti alle due diverse composizioni del tribunale. In tal caso la riunione è un accorpamento in
capo al tribunale collegiale, che si pronuncerà su tutte le regiudicande, anche nel caso in cui esse siano
oggetto di un successivo provvedimento di separazione.

La separazione (ART 18) avviene quando in una serie di ipotesi elencate, il giudice deve scindere un
processo cumulativo tale dalla nascita del processo o in seguito all’applicazione della Riunione. Si tratta di
casi accomunati dal fatto che per taluni imputati o imputazioni si versa in una situazione di attesa, mentre
per altri è possibile la immediata trattazione. Es: la decisione conclusiva del dibattimento o dell’udienza
preliminare. Separazione anche nel caso di sospensione del procedimento, esempio nel caso di infermità
mentale. Oppure quando bisogna rinnovare la citazione o l’avviso se l’imputato o il suo difensore sono
assenti incolpevolmente. Altro caso quando il processo ha come protagonisti uno o più imputati chiamati a
rispondere di reati di elevata gravità, sempre che tali imputati siano prossimi alla libertà per scadenza dei
termini massimi di custodia cautelare, mancando altri titoli di detenzione.
Alla base dell’istituto vi sono esigenze di celerità che soccombono però dinanzi a quelle di accertamento.
La separazione è esclusa se il giudice ritiene che la riunione sia necessaria per l’accertamento dei fatti.
La separazione può essere disposta su accordo tra le parti, sempre che il giudice la reputi utili per la
celerità.

Per i provvedimenti di separazione e riunione dei processi è prescritta la forma dell’ordinanza, emessa
anche d’ufficio, sentite le parti, con l’osservanza dei criteri per l’individuazione del giudice del processo
riunito (art 2 comma 1 disp att – RIUNIONE DEI PROCESSI).

LA VERIFICA DELLA GIURISDIZIONE E DELLA COMPETENZA

Per controllare il difetto di giurisdizione e di competenza è prevista una disciplina agli art 20 e 21, il cui
obiettivo è duplice. Per un verso si vuole anticipare la risposta definitiva sulla giurisdizione e sulla
competenza, così da non distogliere il procedimento dal suo vero oggetto, relativo all’accertamento dei fatti
e delle responsabilità. Per un altro verso si vogliono scongiurare i rischi di regressione di procedimenti
giunti in stadi avanzati, evitando le eccezioni tardive.

Gli articoli 20 e 21 indicano i momenti in cui può essere sollevata la relativa questione. DIFETTO DI
GIURISDIZIONE può essere rilevato anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento. Quindi a
cominciare dalla fase delle indagini preliminari. Se è rilevato nel corso di queste, il giudice provvede con
ordinanza e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero, fermo restando che la sua ordinanza
non risolve definitivamente la questione. Se per ipotesi la situazione processuale muta, potrà accadere che
il giudice si pronunci su di essa, riconoscendo implicitamente la propria giurisdizione. Dopo la chiusura delle
indagini preliminari, il giudice pronuncia, invece, sentenza e ordina, ad eccezione dell’ipotesi di un difetto
assoluto di giurisdizione, che gli atti vengano trasmessi all’autorità competente. Per l’INCOMPETENZA
occorre distinguere quella per materia da quella per territorio o connessione. L’incompetenza per materia
è considerata più grave degli altri tipi di incompetenza, poiché si traduce nell’inosservanza di regole
incentrate sulla maggiore o minore capacità tecnico professionale del giudice. La si può rilevare anche
d’ufficio, in ogni stato o grado del processo. L’incompetenza per territorio o connessione, invece, deve
essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare o entro il
termine previsto per la trattazione delle questioni preliminari, se l’eccezione venga respinta in sede di
udienza preliminare. Inoltre, per la competenza per territorio, in caso di giudizio abbreviato richiesto in
sede di udienza preliminare, è preclusa ogni questione sulla competenza territoriale del giudice.

Vi sono due deroghe all’ordinario regime dell’incompetenza per materia. La prima ricorre quando il
giudice conosce di un reato che appartiene alla cognizione di un giudice di competenza inferiore. È una
incompetenza per eccesso che giustifica una regolamentazione meno rigorosa. L’incompetenza deve
essere rilevata d’ufficio o eccepita entro il termine stabilito dall’art 491 (QUESTIONI PRELIMINARI). La
seconda l’incompetenza per materia derivante da connessione che deve essere rilevata o eccepita entro
gli stessi termini stabiliti per l’incompetenza per territorio. Tale situazione deve essere circoscritta da un
punto di vista interpretativo, infatti, deve essere intesa alla situazione in cui, ritenuto erroneamente
sussistente un vincolo connettivo, la corte d’assise, giudice superiore, giudica anche in merito ad un reato di
competenza del tribunale.

Art 22 – 25 definiscono la FORMA e gli EFFETTI del provvedimento con cui viene dichiarata l’incompetenza,
in rapporto ai vari stati e gradi del processo. Durante le indagini preliminari, il giudice che riconosca la
propria incompetenza pronuncia ordinanza, effetti circoscritti al provvedimento richiesto, disponendo la
restituzione degli atti al PM. Dopo la chiusura delle indagini preliminari e in sede di dibattimento di primo
grado, il giudice dichiara con sentenza la sua incompetenza e ordina la trasmissione degli atti al PM presso il
giudice competente. In grado di appello, se il giudice rileva che vi è stata incompetenza per difetto, cioè il
giudice inferiore ha deciso su un reato di competenza di un giudice superiore, pronuncia sentenza di
annullamento e ordina la trasmissione degli atti al PM presso il giudice di primo grado. Nel caso di
incompetenza per eccesso, il giudice d’appello pronuncia nel merito. In caso di incompetenza per
territorio o connessione, è prevista la pronuncia di una sentenza di annullamento del giudice di appello e la
conseguente trasmissione degli atti al PM presso il giudice di primo grado e direttamente a quest’ultimo.
Per questo è necessario che l’incompetenza sia stata eccepita in primo grado entro i termini previsti e sia
stata denunciata con i motivi di appello. In caso contrario, il giudice di appello, nonostante l’incompetenza,
deve pronunciare nel merito. Nel giudizio davanti la Corte di Cassazione, l’incompetenza per materia è
dichiarata, anche d’ufficio, se l’incompetenza è per difetto. Può dichiararla anche per territorio o
connessione, purché la eccezione sia stata tempestivamente proposta in primo grado e riproposta nei
motivi di appello. La decisione di incompetenza della Corte di Cassazione è vincolante nel corso del
processo. La si supera solo se vi sono nuovi fatti che incidono sul nomen delicti, modificando la giurisdizione
o la competenza del giudice superiore.

Gli atti assunti dal giudice incompetente sono conservati (Art 26 – 27). L’incompetenza non crea
inefficacia delle prove acquisite, con la sola eccezione delle dichiarazioni rese al giudice incompetente per
materia che, se ripetibili, possono essere utilizzate in sede di udienza preliminare e per le contestazioni
regolate dagli art 500 e 503 (contestazione esame testimoniale – esame delle parti private). Le misure
cautelari disposte da giudice incompetente cessano di avere efficacia, se entro 20 giorni dall’ordinanza di
trasmissione degli atti al giudice competente non siano confermate da quest’ultimo.

Per controllare la corretta applicazione della disciplina sulla competenza del giudice e sulla giurisdizione
occorre disciplinare anche i conflitti tra giudici. Con una disciplina apposita che consente il loro
superamento (art 28-32). Il conflitto nasce quando due giudici, in qualsiasi stato o grado del processo,
contemporaneamente prendono o rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla
stessa persona. Il conflitto può essere di giurisdizione se intercorre tra uno o più giudici ordinari o uno o
più giudici speciali. Di competenza quando ad essere coinvolti sono due o più giudici ordinari. Non vi può
essere conflitto, per espressa previsione di legge, tra il giudice dell’udienza preliminare e quello del
dibattimento, in quanto prevale sempre la decisione di quest’ultimo.
Non potendo elencare tutte le ipotesi di conflitto, il legislatore fa uso della categoria dei conflitti analoghi.
Sottoposti alla stessa regolamentazione. Esempio il conflitto tra due tribunali di sorveglianza in tema di
competenza territoriale, che non verte sul fatto su cui si basa l’imputazione. O ancora il conflitto nato, in
ordine allo stesso fatto attribuito alla stessa persona, tra il tribunale monocratico e quello collegiale. Non
rientrano in tale categoria di conflitti, quelli che hanno da un lato il giudice e dall’altro il PM. Perché i
conflitti riguardano l’esercizio della funzione giurisdizionale e non possono riguardare un soggetto (PM) che
ha la funzione di parte anche se pubblica. Anche se la regola è che il conflitto nasce in qualsiasi stato e
grado del processo, si è escluso che nel corso delle indagini preliminari possa essere proposto conflitto
positivo per ragione di competenza territoriale determinata dalla connessione. Con questo si è voluto che
il pubblico ministero presso il giudice competente per il reato meno grave o commesso per ultimo, sia
libero di svolgere le indagini oppure di trasmettere gli atti all’ufficio del pubblico ministero presso il giudice
competente.

Il procedimento di conflitto si avvia con denuncia di parte, privata o pubblica, o una rivelazione d’ufficio del
giudice. Questo non ha effetti sospensivi del processo in corso. Si tratta di un procedimento incidentale.
L’organo a cui spetta la risoluzione è la Corte di cassazione. Sussiste un meccanismo di comunicazione,
notificazione e trasmissione di copie di atti tale da garantire la partecipazione al procedimento di tutti i
soggetti interessati ai processi coinvolti nel conflitto. La Corte di cassazione decide con sentenza in camera
di consiglio. Conflitto cessa quando uno dei giudici dichiara, anche d’ufficio, la propria competenza
(conflitto positivo) o incompetenza (negativo). Se questo non si verifica si attende la sentenza della
Cassazione, vincolante, tranne nell’ipotesi in cui emerge la modificazione della giurisdizione oppure la
competenza di un giudice superiore, in seguito a nuovi fatti.
Gli atti del giudice risultato incompetente si conservano secondo l’art 26 e 27. Ma per i provvedimenti
cautelari, il termine di 20 giorni decorre dalla comunicazione della sentenza della corte al giudice che ha
disposto la misura cautelare.

CONTROLLO SUL RIPARTO DI ATTRIBUZIONE TRA TRIBUNALE MONOCRATICO E COLLEGIALE

L’inosservanza di tali disposizioni non è classificabile come incompetenza, pertanto è stata dettata una
specifica normativa collocata nel capo VI bis, introdotto nel 1998. Mediante una disposizione generale si
stabilisce che l’inosservanza delle disposizioni concernenti l’attribuzione di un reato ad una determinata
composizione del tribunale e delle disposizioni processuali collegate alla suddetta deve essere rilevata o
eccepita prima della conclusione dell’udienza preliminare o, nei processi in cui si prescinde dall’udienza,
entro il termine previsto per le questioni preliminari. Tale regolamentazione ricalca quella
dell’incompetenza per territorio o connessione. La diversificazione rispetto a questa emerge dagli articoli
che dettano la forma del provvedimento giudiziale con cui viene dichiarata l’erronea attribuzione del reato
e gli effetti di tale dichiarazione, a seconda del grado e della fase del processo.
In udienza preliminare, l’ipotesi è quella in cui il giudice ritenga che si debba prescindere dall’udienza, in
quanto il reato rientra tra quelli rispetto ai quali è prevista la citazione diretta a giudizio da parte del
pubblico ministero. Il giudice dell’udienza preliminare dispone con ordinanza che gli atti vengano trasmessi
al pubblico ministero, affinché questo provveda ad emettere il decreto di citazione a giudizio. La lettura
dell’ordinanza equivale a notificazione per le parti presenti.
Quando l’inosservanza delle regole avviene nel corso del dibattimento di primo grado, se il dibattimento è
stato avviato in seguito all’udienza preliminare è sufficiente trasmettere gli atti, con ordinanza, al giudice
competente a decidere sul reato contestato. Se il dibattimento è stato avviato in seguito a decreto di
citazione diretta a giudizio, l’imputato è stato indebitamente privato dell’udienza preliminare, quindi
occorre regredire nel processo per sanare l’errore. Pertanto, deve essere disposta, con ordinanza, la
trasmissione degli atti al pubblico ministero, per consentirgli di esercitare l’azione penale tramite la
richiesta di rinvio a giudizio. In entrambi i casi, la lettura dell’ordinanza è citazione e avviso per tutti coloro
che sono o devono considerarsi presenti.
Se il controllo del riparto delle attribuzioni avviene nel giudizio di appello, se ritiene che dovesse giudicare il
tribunale collegiale, pronuncia sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al PM presso il
giudice di primo grado, purché l’errore sia stata tempestivamente eccepita e denunciata nei motivi di
appello. Il giudice di appello pronuncia nel merito qualora ritenga che il reato fosse competenza del
tribunale monocratico.
Se il controllo avviene dinanzi alla Cassazione. Se l’attribuzione è viziata per difetto, la corte procede come
il giudice di appello, purché il vizio sia stato tempestivamente eccepito in primo grado, la relativa eccezione
proposta nei motivi di appello e riproposta nel ricorso per cassazione. Se viziata per eccesso vale la
medesima regola purché il ricorso riguardi sentenza inappellabile o sia un ricorso per saltum ai sensi dell’art
569 (RICORSO IMMEDIATO PER CASSAZIONE). Al di là di tali ipotesi, l’errore è irrilevante.

Le prove acquisite dal giudice che abbia proceduto in seguito ad un’erronea applicazione delle disposizioni
sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale, sono pienamente utilizzabili. Gli atti compiuti
non sono inficiati nella validità dalla inosservanza delle regole. A meno che non sia affetti da vizi
indipendenti dall’inosservanza delle norme sulla composizione del tribunale.

Se sono inosservati i criteri di ripartizione territoriale tra sede principale e relative sezioni distaccate del
tribunale o tra diverse sezioni distaccate -> questione rilevante anche se circoscritta. Poiché alcune sezioni
distaccate del tribunale sono ancora funzionanti. La violazione di tali criteri di ripartizione dei procedimenti
nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica, è dettata dalle disposizioni attuative. La
violazione è rilevabile fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Se il giudice la
considera sussistente o la ritiene non manifestatamente infondata, rimette gli atti al presidente del
tribunale che si pronuncia in proposito con un decreto non motivato e non soggetto ad impugnazione.
Questa violazione è considerata una questione interna, di corretta amministrazione della giurisdizione per
questo manca un potere formale di eccezione in capo alle parti e si predilige una procedura de plano, cioè
priva di istruttoria.

CAUSE PERSONALI DI ESTROMISSIONE DEL GIUDICE

Capo VII del libro I del codice regola le ipotesi in cui il giudice ha l’obbligo di non esercizio della funzione
giurisdizionale – ASTENSIONE – e le parti hanno diritto di chiederne l’estromissione – RICUSAZIONE.
L’incompatibilità è prevista autonomamente negli articoli dell’ordinamento giudiziario. Ciò nonostante,
sono ricomprese nella stessa disciplina delle ipotesi di astensione e ricusazione. Questo assorbimento di
disciplina non si adatta a quella parte di dottrina propensa a ritenere che in caso di incompatibilità si parli di
nullità assoluta, in quanto incidente sui requisiti di capacità del giudice. Al contrario avvalora la posizione
secondo cui l’esistenza di una situazione di incompatibilità costituisce un motivo di ricusazione, che la parte
deve far valere tempestivamente, qualora il giudice sospetto non abbia ottemperato all’obbligo di
astenersi.

CAUSE DI INCOMPATIBILITA’ sono dettate dalle leggi di ordinamento giudiziario e dal codice di rito. Le
leggi di ordinamento giudiziario si occupano della costituzione dell’organo giudicante e dettano alcune
condizioni dirette ad assicurare che la persona chiamata ad esercitare la funzione giurisdizionale sia ed
appaia imparziale. Come ad esempio il divieto per parenti, affini, coniugi o conviventi di far parte della
stessa corte, tribunale o ufficio giudiziario. Il codice si occupa dell’incompatibilità per ragioni di parentela,
affinità o coniugio all’art 35 e dell’incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento all’art
34.
L’art 34 contempla 4 diversi gruppi di situazioni, dopo l’ampliamento subito grazie alla legge delega sul
giudice unico.

1-Il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può
esercitare funzioni di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento da
parte della Cassazione o al giudizio per revisione.
2-2° comma, Non può partecipare al giudizio (sia il giudizio abbreviato sia l’udienza preliminare) né il
giudice che ha pronunciato il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio
immediato o ha emesso decreto penale di condanna, né quello che ha deciso sull’impugnazione avverso la
sentenza di non luogo a procedere, pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare. Previsione ampliata in
seguito alle sentenze additive della Corte costituzionale. Però al fine di scongiurare un’irragionevole
frammentazione del procedimento, si deve escludere una menomazione dell’imparzialità del giudice che
adotti, in una stessa fase processuale, decisioni preordinate al proprio giudizio o incidentali rispetto ad
esso. Esempio: sentenza emessa dal giudice che si sia preliminarmente pronunciato sulla richiesta cautelare
formulata dal pubblico ministero.

3-Il giudice che in un determinato procedimento ha esercitato le funzioni di giudice per le indagini
preliminari non può in quello stesso procedimento emettere il decreto penale di condanna, né partecipare
al giudizio. Inoltre, è incompatibile alla funzione di giudice dell’udienza preliminare. Disposizione precisata
nella sua portata dal comma 2-ter, il quale esclude che vi sia incompatibilità quando il giudice per le
indagini preliminari si sia limitato ad adottare taluno dei seguenti provvedimenti, ritenuti inidonei a
determinare una situazione di pregiudizio: come (1) il provvedimento con cui si autorizza il trasferimento in
un luogo esterno di cura dell’indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere e quello con cui si
autorizza il medesimo ad essere visitato da un sanitario di fiducia. Oppure (2) i provvedimenti relativi ai
permessi di colloquio, corrispondenza telefonico e al visto di controllo sula corrispondenza. Il
provvedimento (3) con cui si accoglie o rigetta la richiesta di un permesso di uscita dal carcere in presenza
di eventi gravi inerenti alla famiglia della persona sottoposta ad indagini. Il Provvedimento (4) con cui si
dichiara la latitanza dell’indagato. Altra ipotesi è disposta nel comma 2 quater, in cui il giudice provvede
all’assunzione dell’incidente probatorio o comunque adotta uno dei provvedimenti previsti dal titolo VII del
libro V. Escludendo che ciò basti a configurare a suo carico una situazione di incompatibilità.

Il comma 2 bis dell’art 34 è innovativo. Da un lato perché sancendo un’incondizionata incompatibilità al


giudizio, assorbe e supera la prima ipotesi prevista dal 2 comma, ivi comprese le sentenze additive della
Corte costituzionale. Dall’altro, escludendo che il giudice per le indagini preliminari possa tenere l’udienza
preliminare, capovolge l’originaria impostazione, prevalsa, a suo tempo, unicamente per preoccupazioni
legate alla carenza delle necessarie risorse. Tuttavia, nello stesso momento in cui è stata accolta la regola
dell’alternatività delle funzioni di giudice per le indagini preliminari e l’udienza preliminare, sono state
introdotte alcune disposizioni che comportano un attivismo del giudice dell’udienza preliminare nella
predisposizione del materiale probatorio per la decisione. Ciò potrebbe riproporre il problema a cui si è
inteso ovviare perfezionando il catalogo delle incompatibilità.

4-Non può infine esercitare l’ufficio di giudice in un determinato procedimento chi, nello stesso
procedimento, ha esercitato funzioni di pubblico ministero o ha svolto atti di polizia giudiziaria ovvero un
altro ruolo idoneo a comprometterne l’imparzialità. Per lo stesso motivo vi è incompatibilità per chi ha
proposto la notizia di reato e chi ha deliberato o ha concorso a deliberare l’autorizzazione a procedere (3°
comma).

LE CAUSE DI ASTENSIONE E RICUSAZIONE sono disciplinate all’art 36 e 37. Vi è coincidenza tra le due
cause ma non totale. Ad esempio, le gravi ragioni di convenienza non sono motivo di ricusazione. Oppure
la manifestazione indebita da parte del giudice del proprio convincimento sui fatti oggetto
dell’imputazione non è motivo di astensione. Tutti gli altri motivi sono comuni. All’art 39 poi è dettata la
regola secondo cui, concorrendo la dichiarazione di astensione con quella di ricusazione, quest’ultima si
considera come non proposta, ove l’astensione venga accolta.

L’elenco è tassativo. I casi riguardano in linea generale i rapporti del giudice con le parti ovvero la
situazione dedotta in giudizio.
Il giudice ha l’obbligo di astenersi se vi sono gravi ragioni di convenienza; se il giudice ha interesse nel
procedimento. È quindi tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero
che sia prossimo congiunto del difensore, procuratore o curatore di una delle parti. Si deve astenere se
abbia dato consiglio o il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dalle sue funzioni giudiziarie. È in
dovere di astenersi se è in rapporto di grave inimicizia con una delle parti private. L’obbligo sussiste anche
quando alcuno dei prossimi congiunti dl giudice o del coniuge è offeso, danneggiato dal reato o parte
privata. Quando un prossimo congiunto svolge o ha svolto nello stesso procedimento funzioni di pubblico
ministero. Infine, quando il giudice si trova in qualche situazione di incompatibilità stabilita dagli art 34 e 35
e dalle leggi di ordinamento giudiziario.

La differenza tra ricusazione e astensione sta nel procedimento. Per l’astensione si applica il
procedimento semplice all’art 36 comma 6. Per la ricusazione si applica un procedimento con un triplice
obiettivo. Accentuare il carattere giurisdizionale della procedura incidentale. Escludere un’automatica
sospensione dell’attività processuale in seguito alla semplice presentazione della domanda. Assicurare
criteri oggettivi per l’individuazione del giudice che sostituisce quello ricusato.
La ricusazione inizia con la presentazione della dichiarazione nella cancelleria del giudice competente e con
il deposito di una copia nella cancelleria del giudice ricusato. Da qui scatta il divieto per il giudice ricusato di
pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza di inammissibilità o rigetto della
dichiarazione. L’art 38 fissa i termini e le modalità con cui la dichiarazione deve essere presentata, a pena
d’inammissibilità. L’art 40 fissa gli organi competenti a decidere sull’istanza di ricusazione. Per evitare un
uso dilatorio dell’istituto, il legislatore ha previsto che la dichiarazione d’inammissibilità può essere
emanata per mancanza di legittimazione soggettiva, per inosservanza di forme e termini ma anche per
manifesta infondatezza dei motivi addotti. Questa scelta ha creato dei problemi per le garanzie, poiché sarà
una procedura de plano. Tuttavia, è previsto un controllo successivo tramite ricorso per cassazione. La
quale deciderà in camera di consiglio, seguendo il procedimento semplificato dell’art 611 (PROCEDIMENTO
IN CAMERA DI CONSIGLIO).
Dopo la fase dell’ammissibilità, la corte decide, in camera di consiglio, sul merito con le forme previste
dall’art 127, dopo aver assunto se necessario le informazioni opportune. Può anche disporre che il giudice
ricusato sospenda temporaneamente ogni attività processuale o si limiti agli atti urgenti. È possibile il
ricorso in cassazione.
La semplice presentazione della dichiarazione non comporta per il giudice ricusato alcuna limitazione di
poteri nello svolgimento dei compiti istituzionali, né tanto meno l’insorgere di un obbligo di astensione.
Unico effetto per il giudice ricusato è di non pronunciare, né concorrere a pronunciare, sentenza fino a che
sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione (art 36 – comma 2). Qualora
venga assunta la decisione a parte del giudice ricusato, questa sarà valida se la richiesta di ricusazione
venga poi dichiarata inammissibile o infondata dall’organo competente. Se la richiesta viene accolta, il
provvedimento emesso in violazione del divieto deve ritenersi viziato da nullità assoluta.

L’accoglimento della dichiarazione di astensione o ricusazione -> il giudice decidente può disporre la
conservazione di efficacia degli atti compiuti dal giudice astenutosi o ricusato. Per tale giudice, da tale
momento, vale il divieto assoluto di compiere qualunque atto del procedimento. Se nel provvedimento di
accoglimento manca una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia, gli atti precedentemente
compiuti dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci. In seguito all’accoglimento
avviene la sostituzione del giudice astenutosi o ricusato con altro magistrato dello stesso ufficio designato
secondo le leggi di ordinamento giudiziario, ovvero, qualora ciò non sia possibile, l’investitura del giudice
ugualmente competente per materia determinato a norma dell’articolo 11.

Tutte le ordinanze sul merito del giudice che decide sulla ricusazione sono immediatamente eseguibili. La
condanna pecuniaria prevista dall’ordinanza d’inammissibilità o di rigetto dell’istanza di ricusazione è,
adesso, facoltativa. Quindi, la funzione deterrente svolta dalla condanna si basa su una valutazione che il
giudice della ricusazione deve esprimere caso per caso. Soggetto passivo della condanna può essere solo la
parte privata che ha proposto la dichiarazione di ricusazione. La pronuncia di condanna non avrà alcuna
rilevanza ai fini dell’eventuale azione civile o penale esercitata per i fatti oggetto del giudizio di ricusazione.

LA RIMESSIONE DEL PROCESSO, cioè il suo spostamento da una sede ad un’altra, per turbative ambientale
che possono compromettere il suo regolare svolgimento, è dettato agli articoli 45-49. Anche qui l’obiettivo
è tutelare l’imparzialità, in questo caso non però della persona fisica ma dell’organo giudicante nel suo
complesso. Ma la rimessione del processo interferisce con il principio del giudice naturale garantito dall’art
25 comma 1 cost. Per questo la rimessione del processo è tassativamente disciplinata, così da evitare
discrezionalità nel meccanismo di assegnazione del giudice della nuova sede.

L’originaria versione dell’art 45 prevedeva che la traslatio iudicii fosse consentita quando la sicurezza o
incolumità pubblica risultassero pregiudicate in conseguenza di gravi situazioni locali non altrimenti
eliminabili. Quindi si usava un parametro oggettivo per poter rispettare il principio del giudice naturale e
poter rendere la disposizione costituzionalmente valida.
Recentemente però ha raccolto consensi la tesi secondo cui, la versione originaria della disposizione abbia
escluso dai casi di rimessione l’ipotesi del legittimo sospetto, determinando una lacuna da colmare, al fine
di garantire una copertura del principio di imparzialità. Questa tesi si è trasformata in una proposta di
legge che ha modificato vari profili dell’istituto, ma soprattutto ha ampliato i casi di rimessione. Da un
lato è rimasto invariato il nesso causale che deve intercorrere tra le gravi situazioni locali tali da turbare lo
svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, ed il conseguente pregiudizio alla libera
determinazione delle persone del processo, alla sicurezza e all’incolumità pubblica. La turbativa deve essere
un agente esterno al processo e non deve essere eliminabile. Dall’altro si è ampliata la casistica, essendosi
ammessa la rimessione del processo anche nell’ipotesi in cui le suddette gravi situazioni locali siano motivi
di legittimo sospetto. Questa formula ha così dilatato l’ambito di operatività dell’istituto, poiché lo
spostamento del processo per legittimo sospetto potrà avvenire anche con il solo ragionevole dubbio che la
gravità della situazione locale possa porta il giudice a non essere imparziale o sereno. Questa novella ha
fatto venir meno l’eccezionalità dell’istituto, non più ancorato a presupposti tassativi. Emergendo non
poche perplessità circa la conformità del testo novellato al principio del giudice naturale precostituito per
legge.

La rimessione può essere richiesta in ogni stato e grado del processo di merito dall’imputato, dal
procuratore generale presso la corte d’appello, dal pubblico ministero presso il giudice procedente. Non è
legittimata la parte civile. La richiesta se proviene dall’imputato deve essere sottoscritta da lui
personalmente o da un suo procuratore speciale e, dopo la notifica nella cancelleria del giudice insieme ai
documenti che la giustificano, deve essere notificata entro 7 giorni, a cura del richiedente alle altre parti.
Una volta depositate, richiesta e documenti sono trasmessi alla corte di cassazione ad opera del giudice
procedente, al quale è consentito formulare proprie osservazioni aggiuntive.

La legge che ha ampliato i casi di rimessione ha innovato anche gli effetti della richiesta.
Prima la richiesta non sospendeva automaticamente il processo, ferma restando la facoltà della cassazione
di decretare nel caso concreto la sospensione. Inoltre, figurava il divieto di emettere sentenza fino alla
infruttuosa conclusione del procedimento incidentale. Ma tale divieto è venuto meno in seguito ad una
sentenza della Corte costituzionale che ha sottolineato i suoi effetti paralizzanti sull’esito del processo.
Adesso è lo stesso giudice procedente che può disporre con ordinanza, inoppugnabile, la sospensione del
processo fino a che non sia intervenuta l’ordinanza di inammissibilità o di rigetto. Anche la Cassazione può
disporre la sospensione dopo essere stata investita della richiesta. Questi sono casi di sospensione
facoltativa i cui presupposti sono il fumus boni iuris (apparenza di buon diritto) e il periculum in mora
(possibile danno del diritto soggettivi), entrambi requisiti richiesti per la misura cautelare. Premessa, invece,
alla sospensione obbligatoria, è la comunicazione da parte della cassazione che è avvenuta l’assegnazione
della richiesta ad una delle altre sezioni della corte oppure alle sezioni unite. In seguito a tale
comunicazione, il giudice procedente deve sospendere il processo prima dello svolgimento delle
conclusioni o della discussione, e resta preclusa la pronuncia sia del decreto che dispone il giudizio, sia
della sentenza. Sospensione che dura fin quando non vi è l’ordinanza della corte che dichiari inammissibile
o rigetti la richiesta. La sospensione è esclusa se la richiesta non è fondata su elementi nuovi rispetto a
quelli di una precedente richiesta rigettata o dichiarata inammissibile.
Per evitare effetti nocivi dovuti dalla sospensione, sono stati previsti dei correttivi. I termini della
prescrizione del reato restano sospesi. Sospesi anche i termini di durata massima della misura cautelare se
la richiesta proviene dall’imputato. Termini che riprenderanno se vi sarà ordinanza che dichiara la richiesta
inammissibile o la rigetta oppure viene accolta, ed il processo perviene al medesimo stato in cui si trovava
al momento della sospensione. Inoltre, rimane la possibilità di compiere atti urgenti.

La decisione della cassazione assume la forma dell’ordinanza. Se di accoglimento, il giudice designato e


quello originario vengono informati. Quello originario dovrà trasmettere a quello designato gli atti del
processo, disporre che l’ordinanza della corte venga comunicata al pubblico ministero e notificata alle parti
private. Se la dichiarazione è di inammissibilità o rigetto, la cassazione può condannare l’imputato al
pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende. La legge del 2017 n 103, a tal proposito, ha
introdotto delle modifiche, con l’obiettivo di disincentivare la presentazione di richieste azzardate. È stato
previsto il possibile aumento sino al doppio della somma che l’imputato è condannato a versare alla cassa
delle ammende tenuto conto della causa di inammissibilità della richiesta. Ha dettato che gli importi
attualmente previsti vengano adeguati ogni due anni con decreto del Ministro della giustizia, di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze, tenuto conto della variazione ISTAT dei prezzi al consumo
verificatasi nel biennio precedente.

Per quanto riguarda la conservazione degli atti, oggi, vale la regola secondo cui il giudice designato procede
alla rinnovazione degli atti quando una (qualsiasi) delle parti ne faccia richiesta (Prima il giudice
subentrante decideva discrezionalmente se ed in che misura gli atti compiuti rimanessero efficaci). Due sole
eccezioni. Una nel caso in cui siano atti di cui è divenuta impossibile la ripetizione. L’altra nel caso in cui si
versi in una delle due situazioni rispettivamente contemplate dall’art 190 bis (requisiti della prova in casi
particolari). Inoltre, le parti esercitano gli stessi diritti e facoltà ad esse riservati davanti al primo giudice.

L’art 49 disciplina la nuova richiesta di rimessione, permettendo l’iterazione sia qualora la richiesta sia
diretta ad ottenere un ulteriore spostamento del processo, sia qualora miri ad ottenere per la prima volta il
provvedimento, negato precedentemente. Questo è ammesso quando si ripresenta una situazione
riconducibile al disposto dell’art 45, ovvero quando si creano le premesse per una revoca del
provvedimento di rimessione. Se invece vi è stata un’ordinanza negativa, occorre distinguere se l’ordinanza
abbia rigettato la richiesta o l’abbia definita inammissibile per manifesta infondatezza (1) o se l’ordinanza di
inammissibilità sia stata dettata da motivi diversi dalla manifesta infondatezza (2). Nel primo caso,
l’ulteriore richiesta deve fondarsi su elementi nuovi. Sarà inammissibile per manifesta infondatezza anche
la ulteriore richiesta, priva di elementi di novità, ma proveniente da un altro imputato del medesimo
processo o di un processo da esso separato. Nel secondo caso, la richiesta ulteriore può essere sempre
riproposta.

IL PUBBLICO MINISTERO

LA SUA POSIZIONE DI PARTE E LA SUA FUNZIONE TIPICA. Il PM oltre ad essere parte del processo è anche
un organo dell’apparato statale incaricato di vegliare all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare
amministrazione della giustizia, nonché di iniziare ed esercitare l’azione penale. Il ruolo istituzionale del PM
è mutato nel corso del tempo.
L’antica impostazione che lo vedeva come rappresentante del potere esecutivo presso gli organi
giurisdizionali non ha più fondamento normativo. Oggi, sotto la vigilanza del Ministero della giustizia,
esercita le funzioni che la legge gli attribuisce.
Il PM è affrancato dal potere esecutivo ma ha anche una indipendenza esterna rispetto agli altri poteri
costituzionali.
L’art 107 della Costituzione, secondo cui il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi
dalle norme di ordinamento giudiziario, pur essendo compatibile con la creazione di discipline
disomogenee per la magistratura inquirente e per quella giudicante, non sta a significare che debba
introdursi una netta separazione rispetto alle garanzie accordate ai giudici. Infatti, l’art 104 concependo la
Magistratura come autonoma, indipendente da ogni altro potere, si riferisce pure alla magistratura
requirente. O ancora, l’art 108 che dà alla legge il compito di assicurare l’indipendenza del pubblico
ministero presso le giurisdizioni speciali, vale per il pubblico ministero istituito presso gli organi di
giurisdizione ordinaria.
Canone assorbente è poi l’obbligatorietà dell’azione penale (art 112). Secondo un consolidato indirizzo
costituzionale, tale principio è la proiezione processuale del diritto di eguaglianza dei cittadini di fronte alla
legge penale. E postula l’indipendenza dagli altri poteri dell’organo a cui l’azione è demandata. Per rendere
effettivo tale principio di eguaglianza in rapporto all’azione penale ha portato il legislatore a prevedere fra i
compiti del procuratore della Repubblica, quello di assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio
dell’azione penale, nonché l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato ed il
rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio.
È ribadito anche dalla Corte costituzionale che le interferenze esterne non sono tollerate non solo nel
momento in cui il PM decide in ordine all’esercizio dell’azione penale, ma pure nel corso dell’intera fase
anteriore delle indagini preliminari.
Il PM risponde solo di fronte alla legge, gode delle stesse garanzie attribuite al giudice circa il
reclutamento, l’inamovibilità dalla sede e la soggezione al potere di controllo del Consiglio superiore della
magistratura. Del resto, i magistrati del PM sono accomunati ai giudici dei tribunali e delle corti,
nell’appartenenza all’ordine giudiziario.
Nondimeno, il d. lgs del 2006 n 160 ribadisce che il conferimento delle funzioni giudicanti e requirenti
avviene all’esito di un concorso unitario ma contempla anche diverse misure intese a rafforzare la
distinzione tra le due funzioni. Ad esempio, il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti è
disposto a seguito di concorso, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e
subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio
superiore della magistratura, su parere del Consiglio giudiziario. Passaggio non consentito all’interno dello
stesso distretto o un altro distretto della stessa regione. In ogni caso, i magistrati al termine del tirocinio
non possono essere destinati a svolgere le funzioni giudicanti monocratiche penali, le funzioni di giudice per
le indagini preliminari o di giudice dell’udienza preliminare anteriormente al conseguimento della prima
valutazione di professionalità, effettuata al termine del primo quadriennio dalla data di nomina.

Il titolo II del libro I dedicato al PM, quale soggetto del procedimento, sviluppa l’aspirazione in senso
accusatorio del sistema e la parità tra accusa e difesa. Le disposizioni del codice evidenziano la natura di
parte dell’accusa e l’autonomia delle soluzioni rispetto a quelle dettate per il giudice.

Il pubblico ministero è quel complesso di uffici pubblici che rappresentano nel procedimento penale
l’interesse generale dello Stato alla repressione dei reati. Tale organo è frazionato in tanti uffici ciascuno dei
quali svolge le sue funzioni, di regola, soltanto davanti all’organo giudiziario presso cui è costituito.

L’art 50 del codice – “Il PM esercita l’azione penale quando non sussistono i presupposti per la richiesta di
archiviazione. Quando non è necessaria la querela, la richiesta, l’istanza o l’autorizzazione a procedere,
l’azione penale è esercitata d’ufficio. L’esercizio dell’azione penale può essere sospeso o interrotto soltanto
nei casi previsti dalla legge” – sull’azione penale non compromette l’intento legislativo autonomistico. Il
legislatore ha voluto segnalare subito la funzione davvero tipica del PM, che non può essere affidata al
giudice, poiché intaccherebbe il principio di imparzialità. Nella parte dinamica del codice di p.p. saranno poi
individuate le funzioni del PM nel corso delle indagini preliminari, prima dell’esercizio dell’azione penale.
Il comma 1° dà la titolarità dell’azione penale al PM. L’art 231 disp. Att. Sancisce il monopolio dell’azione
penale in capo al PM. Quindi, nel sistema codicistico non trova spazio né l’azione penale privata (persona
offesa dal reato), né l’azione penale popolare (quisque de populo). Però per i reati procedibili a querela è
ammessa la citazione a giudizio dinanzi al giudice di pace della persona alla quale il reato è attribuito su
ricorso della persona offesa.
Il comma 1° esprime poi l’obbligatorietà dell’azione penale. Il doveroso esercizio dell’azione ha come unico
limite l’archiviazione. Eliminando l’interesse a distinguere l’inizio dall’esercizio dell’azione penale (l secondo
implica il primo). La lettura coordinata con l’art 405, relativo a tutti gli atti tipici di esercizio dell’azione
penale, contenenti tutti la formulazione dell’imputazione, permette di individuare il momento di inizio del
processo in proprio, riservando le indagini preliminari al mero procedimento. Inoltre, l’art 60 – assunzione
della qualità di imputato - chiarisce che questa deriva da un atto che segna l’avvenuto esercizio dell’azione
penale.
Il comma 2° ribadisce il principio dell’officialità dell’azione penale, circoscrivendo l’efficacia delle condizioni
di procedibilità alle figure richiamate. L’elenco non è però esaustivo. Suona più adeguata la formula dell’art
345 comma 2° che vi aggiunge, la presenza del reo nel territorio dello Stato per i delitti comuni del cittadino
e dello straniero commesso all’estero, ovvero l’assenza di una sentenza o di un decreto penale irrevocabili
pronunciati nei confronti della medesima persona per il medesimo fatto. Le condizioni di procedibilità sono
quelle che, qualora presenti, obbligano per legge il pubblico ministero ad esercitare l'azione penale e che si
sostanziano in dichiarazioni di volontà di un soggetto privato o pubblico.
Le condizioni sono suscettibili di collidere con il principio dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale,
poiché senza di esse il PM non può agire validamente. La dottrina più avveduta sottolinea l’esigenza che tali
condizioni siano a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, così da prevalere in sede di bilanciamento
con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Non è espresso nel codice invece il principio di pubblicità dell’azione penale. Perché la sua enunciazione è
parsa superflua. I poteri della persona offesa non sono assimilabili all’esercizio dell’azione penale privata.
Il comma 3° enuncia la irretrattabilità dell’azione penale. Una volta esercitata esce dalla sfera del suo
autore e comporta l’insorgere di un dovere decisorio in capo al giudice. L’oggetto del processo da questo
momento potrà chiudersi solo con una sentenza o atto equivalente.

Le cause di sospensione o interruzione dell’azione penale sono tassative. La legge del 2014 n 67 ha
immesso altri due casi di sospensione del processo riconducibili ad esigenze di economia processuale. Il
primo quando non è certa la conoscenza del processo da parte dell’imputato. In tal caso, il giudice dispone
con ordinanza la sospensione del processo nei confronti dell’imputato assente. Il provvedimento ha durata
annuale. Il secondo è conseguente alla messa alla prova per i reati puniti con pena pecuniaria o con pena
detentiva non superiore nel massimo a 4 anni. L’esito positivo di questa probatio processuale genera
l’estinzione del reato.
Cause di sospensione del procedimento, inteso come fase delle indagini preliminari. Quella facoltativa
segue la dichiarazione di ricusazione del giudice. Quella obbligatoria segue l’accertata incapacità della
persona sottoposta alle indagini, di partecipare coscientemente al procedimento, sempre che l’infermità
non sia irreversibile. Quella obbligatoria e automatica segue l’insorgere di indizi di reato di false
informazioni rese al PM o di false dichiarazioni al difensore.

LA DISTRIBUZIONE DEL LAVORO TRA GLI UFFICI DEL PM, in rapporto agli sviluppi procedimentali, si basa su
criteri improntati all’evitare sfere di concorrenza, pur volendosi rafforzare l’attività investigativa nei
confronti dei reati più gravi di criminalità organizzata.

L’art 51 comma 1° lett a -> le funzioni di PM nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado
sono esercitate dai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale.
Il capo dell’ufficio coordina l’istituito ufficio di collaborazione del procuratore della Repubblica,
distribuendo il lavoro tra i viceprocuratori, vigilando la loro attività e sorvegliando l’andamento dei servizi di
segreteria ed ausiliari.
Il viceprocuratore ha poi il compito di coadiuvare il magistrato togato compiendo gli atti preparatori utili
per la funzione giudiziaria, provvedendo allo studio dei fascicoli, all’approfondimento giurisprudenziale e
dottrinale ed alla predisposizione delle minute (prime stesure) dei provvedimenti.
La delega delle funzioni ai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale si atteggia a deroga
implicita per i procedimenti di primo grado. Ma assume caratteri diversi a seconda che si tratti di
procedimenti di primo grado davanti al giudice di pace o davanti al tribunale in composizione monocratica.
Davanti al giudice di pace hanno rilievo le funzioni delegate nell’udienza dibattimentale, non esclusive dei
viceprocuratori onorari addetti all’ufficio. Poiché sono esercitate anche dai magistrati ordinari in tirocinio,
da personale in quiescenza da non più di due anni che nei cinque anni precedenti abbia svolto le funzioni di
polizia giudiziaria. O ancora da laureati in giurisprudenza che frequentano il secondo della scuola biennale di
specializzazione per le professioni legali. In tali casi, la delega è conferita in relazione ad una determinata
udienza o ad un singolo procedimento, ma è revocabile solo quando è prevista la sostituzione del PM dal
codice.
Altre funzioni svolte dai viceprocuratori onorari sono quelle di chiusura delle indagini, per la presentazione
di richieste al giudice di pace, per la partecipazione al procedimento in camera di consiglio. Ma in seguito
alla riforma della magistratura onoraria, può considerarsi unica figura residua quella del viceprocuratore
onorario.
Davanti al tribunale in composizione monocratica, ai viceprocuratori onorari sono delegabili oggi molteplici
funzioni, seguendo le direttive del magistrato professionale che ne coordina l’attività. Ad esclusione dei
procedimenti per i delitti di omicidio o lesione colposa, il viceprocuratore onorario svolge le funzioni di PM
nell’udienza dibattimentale, nella convalida dell’arresto, per la richiesta del decreto penale di condanna, nei
procedimenti in camera di consiglio ai sensi dell’art 127, può svolgere atti di indagine. Il viceprocuratore
può chiedere che le attività ed i provvedimenti delegati siano svolti dal magistrato professionale titolare se
non ricorrono nel caso concreto le condizioni di fatto per provvedere il loro conformità. Il procuratore della
repubblica può revocare la delega, se vi sono giustificati motivi.

Con la riforma organica della magistratura onoraria si è voluto anche elevare la professionalità dei
viceprocuratori onorari. Infatti, hanno l’obbligo di partecipare a riunioni trimestrali, organizzate dal
procuratore della Repubblica o da un magistrato a ciò delegato, al fine di esaminare le questioni giuridiche
più rilevanti che hanno trattato, al fine di discutere le soluzioni adottate e di facilitare lo scambio delle
esperienze giurisprudenziali e delle prassi innovative. I viceprocuratori onorari hanno l’obbligo di
partecipare a dei corsi di formazione decentrata, organizzati semestralmente, secondo programmi indicati
dalla Scuola superiore della magistratura. La mancata partecipazione senza giustificato motivo viene
considerata in maniera negativa ai fini della conferma dell’incarico.

L’art 51 comma 1 lett b -> la procura generale della Repubblica presso la corte d’appello esercita funzioni
di PM nei soli giudizi di impugnazione, così come accade sempre per i magistrati della procura generale
presso la corte di cassazione relativamente a tale giudizio. La partecipazione al giudizio d’appello del
rappresentante dell’ufficio presso il giudice di primo grado non si configura alla stregua di una deroga in
senso proprio. Qui, il procuratore generale presso la corte d’appello dispone la delega ad personam, sulla
base di una valutazione di opportunità. Sarà sempre il procuratore a ricevere gli avvisi e ad avere il potere
di proporre ricorso in cassazione avverso le sentenze di appello. Qui la procura è priva del potere di
svolgere le indagini preliminari, anche se la notizia di reato dovesse essere stata direttamente recapitata al
suo ufficio.

Il procuratore generale per il codice, nella sua versione originaria, non aveva mezzi per controllare la
mancata attivazione dei procuratori della Repubblica del suo distretto nei riguardi di informazioni che non
assurgano a notizia di reato. Nei confronti di informazioni che non integrano gli estremi di una notizia di
reato nulla impedisce, però, al procuratore generale, in quanto organo del PM, di svolgere indagini
amministrative volte ad apprendere la notizia di reato.
La recente riforma del 2017, che voleva irrobustire i compiti del procuratore generale, lo ha investito del
generico potere di curare l’osservanza delle disposizioni relative alla iscrizione delle notizie di reato.

Nel corso delle indagini preliminari, si aprono una serie di canali informativi tra procure della Repubblica e
procure generali presso la corte d’appello e viceversa. Come le notizie e le segnalazioni o la comunicazione
dell’elenco delle notizie di reato contro persone note.

L’art 407 del c.p.p., inserito con la riforma del 2017, potenzia le funzioni del procuratore generale anche
sul versante che investe l’alternativa finale tra l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione al
fine di contrastare diffuse prassi lassiste. Se sono notizie di reato che rendono complesse le investigazioni
per la molteplicità dei fatti tra loro collegati ovvero per l’elevato numero di persone sottoposte alle indagini
o di persone offese, il procuratore generale, dietro richiesta del PM formulata prima della scadenza del
termine trimestrale dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini, può prorogare il termine
per non più di 3 mesi, dando notizia al procuratore della Repubblica. Il termine in questione assume una
durata pari a 15 mesi per taluni specifici reati. Inoltre, se il PM non assume le sue determinazioni in
ordine all’azione penale nel termine stabilito, ne deve dare immediata comunicazione al procuratore
generale. Sia tale articolo che il 127 disp att sembrano avere il medesimo obiettivo, agevolare il potere di
avocazione. Unico strumento con cui il procuratore generale presso la corte d’appello subentra, nella
titolarità delle indagini, al procuratore della repubblica del proprio distretto. Non è un potere generalizzato
ma subordinato a tassative previsioni legislative. È un istituto eccezionale anche se con il tempo le ipotesi,
in cui è possibile usarlo, sono aumentate. L’avocazione (assunzione su di sé) dovrebbe scattare in maniera
automatica quando ricorrano determinate situazioni: 1) in caso di impossibilità di provvedere alla
tempestiva sostituzione del magistrato designato a seguito di astensione o incompatibilità. 2) in caso di
omessa tempestiva sostituzione del magistrato da parte del capo dell’ufficio, ricorrendo alcune tra le
fattispecie che avrebbero imposto al giudice di astenersi e consentito alle parti di ricusarlo. 3) meno solido
sembra il caso di avocazione per inerzia. Ovvero sia quando il PM non esercita l’azione penale o non
richieda l’archiviazione nei termini previsti.

L’avocazione assume i tratti di un provvedimento discrezionale. Se così non fosse, le difficoltà di


smaltimento del carico giudiziario di cui soffrono le procure presso i tribunali si riverserebbero sulle procure
generali presso le corti d’appello che sono dotate di organici ancor meno consistenti. L’avocazione è
discrezionale anche quando il giudice per le indagini preliminari fissa l’udienza in camera di consiglio, non
avendo accolto in prima battuta la richiesta di archiviazione, oppure quando ritiene ammissibile
l’opposizione all’archiviazione proposta dalla persona offesa. Nella stessa prospettiva si colloca ancora
l’avocazione nel caso in cui il giudice dell’udienza preliminare abbia indicato al PM le ulteriori indagini da
compiere ad integrazione di quelle già svolte, ma ritenute incomplete.

4)Complessa è poi l’ipotesi al comma 1-bis. In cui il procuratore generale dispone, sempre con decreto
motivato, l’avocazione delle indagini preliminari per una serie di delitti di criminalità organizzata,
allorquando, trattandosi di indagini collegate, non risulti effettivo il coordinamento prescritto e non abbiano
dato esito le riunioni disposte o promosse dal procuratore generale, anche d’intesa con gli altri procuratori
generali interessati.

Una copia del provvedimento con cui il procuratore generale presso la corte d’appello dispone
l’avocazione delle indagini preliminari, è trasmessa al Consiglio superiore della magistratura ed ai
procuratori della Repubblica interessati. Questo permette di proporre reclamo al procuratore generale
presso la corte di cassazione. Se questo l’accoglie, revoca il decreto di avocazione e dispone la restituzione
degli atti. Gli effetti dell’avocazione disposta nel corso delle indagini preliminari perdurano al di là di tale
fase, nell’udienza preliminare e durante l’intero processo di primo grado.

Nel disegno che incrementa le funzioni del procuratore generale presso la corte d’appello si situa una
prescrizione che accompagna la reintroduzione del concordato sui motivi di appello. Il legislatore, conscio
delle disparità di trattamento a cui l’applicazione dell’istituto aveva dato luogo a suo tempo, ha formato
linee di comportamento omogenee all’interno dei singoli distretti di corte d’appello. Qui, il potenziamento
del ruolo del procuratore generale persegue l’obiettivo di guidare e monitorare l’ulteriore mezzo di
deflazione processuale. In virtù dell’art 599 bis comma 4°, immesso dalla riforma del 2017, viene affidato al
procuratore generale il potere di indicare i criteri capaci di orientare la valutazione dei magistrati del
pubblico ministero in vista delle udienze, alla luce della tipologia dei reati e della complessità dei
procedimenti. La mancata previsione di una responsabilità disciplinare per gli scostamenti dai parametri
dettati dai procuratori generali non è in grado di impedire applicazioni lassiste dell’istituto. Ad esse non
può mettere riparo il nuovo compito a cui sono ora chiamati i presidenti delle corti d’appello. Nella
relazione annuale sull’amministrazione della giustizia, essi debbono riferire dati e valutazioni sulla durata
dei giudizi di appello avverso le sentenze di condanna, nonché dati e notizie sull’andamento dei giudizi
conclusosi con il concordato sui motivi.

Il codice evita l’uso del termine competenza per gli altri criteri di distribuzione del lavoro tra i diversi uffici
del PM, riservandolo alla sola attività giurisdizionale. Ma il parametro adottato è lo stesso. Dato che il PM
trae la propria titolarità alle funzioni (legittimazione) in modo riflesso dalla competenza del giudice del
dibattimento presso il quale è istituito.
Poiché la competenza per territorio della corte d’assise è a volte più ampia di quella del tribunale. L’art 238
disp att introduce un’eccezione alla regola della replica, al fine di assicurare la continuità delle funzioni per
tutto il procedimento di primo grado. Durante le indagini preliminari ed il processo di primo grado, la
legittimazione spetta al procuratore della Repubblica territorialmente competente secondo i criteri stabiliti
dagli articoli 8-9-10-16. Quantunque nel circondario del tribunale non abbia sede la corte d’assise. Una
spinta all’osservanza delle regole sulla legittimazione allo svolgimento delle indagini preliminari proviene
dalla necessità di ottenere provvedimenti giurisdizionali. Se il giudice delle indagini preliminari rifiuta di
emettere un provvedimento, definendosi incompetente, restituisce gli atti allo stesso ufficio del PM.
L’ordinanza di incompetenza produrrà effetti limitatamente al provvedimento richiesto. Questo può indurre
il PM a trasmettere gli atti al PM presso il giudice competente, rimanendo precluso per lui di avvalersi, per
l’intera fase delle indagini preliminari, dei provvedimenti adottabili dal giudice del tribunale presso cui è
istituito.

Escluso un possibile conflitto tra PM e giudice per le indagini preliminari. Il Codice disciplina solo i
contrasti negativi e positivi tra diversi uffici del PM. Sebbene gli articoli al riguardo emanati, 54 e 54 bis, sia
specificatamente predisposti per le indagini preliminari. Entrambe le norme troveranno applicazione nei
confronti di ogni contrasto tra uffici del PM. Come per le questioni di legittimazione.
Contrasto negativo -> art 54. Se il PM ritiene che la competenza sul reato spetti ad un giudice diverso
rispetto a quello presso cui esercita le sue funzioni, trasmette tempestivamente gli atti all’ufficio del PM
presso il giudice competente. L’ufficio che li riceve qualora dissenta, si crea un contrasto negativo la cui
risoluzione è demandata al procuratore generale presso la corte d’appello o a quello presso la corte di
cassazione, qualora appartenga ad un diverso distretto. L’art 4 disp att detta che il procuratore della
Repubblica dissenziente trasmette all’organo risolutore del contrasto tutti gli atti del procedimento in
originale o in copia. Differenza con i conflitti di competenza, poiché si richiedono tutti gli atti e non solo
quelli necessari alla risoluzione del conflitto. Questo perché il contrasto viene risolto esclusivamente
all’interno degli uffici del PM, senza dare spazio al contraddittorio. Il procuratore generale può pure
designare un ufficio diverso da quelli in gioco. La risoluzione del contrasto, però, non è qui parificabile agli
effetti che scaturiscono dal provvedimento della corte di cassazione che risolve un conflitto di competenza.
La statuizione del procuratore generale ha portata solo per le indagini preliminari e solo nei confronti
degli appartenenti all’ufficio del PM. Anche la sorte degli atti è diversa da quella degli atti acquisiti dal
giudice incompetente. Gli atti, compiuti prima della trasmissione o della designazione, conservano la loro
efficacia. Essendo investigativi e dato che i ritmi della fase delle indagini preliminari sono accelerati. Non
cessano di avere effetto nemmeno le misure cautelari.
Contrasto positivo -> art 54 bis. Articolo introdotto in virtù della consapevolezza che pure una
sovrapposizione tra indagini preliminari da parte di uffici diversi può comprometterne l’esito. Qui, però, il
presupposto è duplice. Occorre che le indagini preliminari abbiano ad oggetto lo stesso fatto storico, anche
se diversamente qualificato, ma occorre anche che esse siano a carico della stessa persona. Al pari di
quanto è contemplato per i conflitti di competenza tra giudici.
Il PM procedente riceve notizia che presso un altro ufficio sono in corso le indagini preliminari così
caratterizzate, il primo informa il PM presso il secondo ufficio richiedendogli la trasmissione degli atti. Il PM
che ha ricevuto la richiesta, a sua volta, qualora non ritenga di aderirvi informa il procuratore generale
presso la corte d’appello o il procuratore generale presso la corte di cassazione se appartenente ad un
diverso distretto. Il procuratore generale, assunte le necessarie informazioni, decide con decreto motivato,
secondo le regole di competenze del giudice, quale ufficio debba procedere, dandone comunicazione agli
interessati.
È stata poi prevista la risoluzione anticipata, prevedendo l’ipotesi in cui, prima della designazione del
procuratore generale, uno degli uffici procedenti desiste, trasmettendo i dati all’altro. Anche qui gli atti,
compiuti prima del contrasto, mantengono la loro efficacia.

Quando invece sono i giudici delle indagini preliminari ad essere investiti contemporaneamente di una
richiesta relativa allo stesso fatto, nasce un conflitto positivo di competenza. Risolto dalla Corte di
Cassazione. Tuttavia, l’art 28 nega l’ammissibilità nel corso delle indagini preliminari di un conflitto positivo
di competenza per territorio generato da connessione. Per questo a priori si pensa che i conflitti tra PM non
siano configurabili. Ma la giurisprudenza della procura generale presso la corte di cassazione tende ad
ammetterli.

L’art 54 – quater prevede poi un controllo sulla legittimazione del PM a svolgere le indagini preliminari
con riguardo ai parametri della competenza per territorio e per connessione. Il controllo coinvolge solo gli
uffici del PM. Possono promuovere il sistema di controllo la persona sottoposta alle indagini, che abbia
avuto conoscenza delle indagini a suo carico e la persona offesa, nonché i rispettivi difensori. L’elenco dei
presupposti è tassativo. La procedura è innescabile a seguito di un decreto di perquisizione del PM perché
equipollente dell’informazione di garanzia. Il PM procedente deposita in segreteria la richiesta di
trasmissione degli atti al corrispondente ufficio istituito presso il giudice competente. Corredata delle
ragioni poste a sostegno dell’indicazione del diverso giudice ritenuto competente. Il PM può o accogliere la
richiesta o rigettarla. Se la rigetta, al richiedente resta il potere di investire della questione il procuratore
generale presso la corte d’appello o presso la corte di cassazione. Il procuratore generale assunte le
necessarie informazioni e ottenuta la trasmissione di copia degli atti del procedimento provvede con
decreto motivato dandone comunicazione agli uffici interessati ed al richiedente.
La richiesta non può essere riproposta, a pena di inammissibilità, salvo che si fondi su fatti nuovi e diversi.
La trasmissione degli atti non incide sulle misure cautelari applicate dal giudice ritenuto ormai
incompetente. I termini di durata delle indagini preliminari continuano a decorrere dal momento che non si
profila alcuna paralisi nel relativo svolgimento.

ASTENSIONE disciplinato all’art 52. Non è obbligatoria sotto il profilo processuale secondo la lettera
dell’articolo. Potrebbe esserlo invece sotto il profilo disciplinare. Si fonda su gravi ragioni di convenienza.
Presuppone una dichiarazione motivata. La decide il capo dell’ufficio o il procuratore generale presso la
corte d’appello o la corte di cassazione. La conseguente sostituzione è effettuata con un magistrato
appartenente allo stesso ufficio. Regola derogabile se si tratta del capo dell’ufficio, poiché si può designare
un altro magistrato del PM appartenente ad un diverso ufficio, egualmente legittimato per materia.
Il PM non può essere ricusato, stante la sua qualità di parte.

Difficoltà interpretativa può sorgere con il termine “magistrato” per quanto riguarda il magistrato ordinario
in tirocinio, il viceprocuratore onorario e l’ufficiale di polizia giudiziaria e il laureato in giurisprudenza che
frequenti il secondo anno della scuola biennale di specializzazione per le professioni legali. L’istituto è
esteso ai primi due, in virtù della qualifica di magistrato e l’equiparazione al magistrato. Per gli ultimi due
l’istituto non vale.

I RAPPORTI INTERNI ALL’UFFICIO – ogni ufficio ha il titolare. Cioè il Procuratore generale presso la corte di
cassazione o la corte d’appello; Procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario. Ed uno o più
magistrati addetti all’ufficio. Cioè sostituti procuratori.

Negli uffici delle procure della Repubblica presso i tribunali ordinari vi possono essere istituiti posti di
procuratore aggiunto in proporzione all’organico dell’ufficio.
Le procure collocate presso le sezioni distaccate delle corti d’appello sono assegnate ad avvocati generali
alla dipendenza del procuratore generale.

Il titolare dirige ed organizza l’attività del proprio ufficio, secondo il buon andamento, l’imparzialità che
ispirano il funzionamento della Pubblica Amministrazione. Loro stessi esercitano le funzioni di pubblico
ministero, se non designano uno o più tra gli altri magistrati dell’ufficio. Il titolare può anche procedere con
una designazione congiunta in considerazione del numero degli imputati o della complessità delle indagini
o dibattimento.

Il singolo magistrato nei confronti del titolare dell’ufficio è dotato di piena autonomia. Ciò è dettato all’art
53 comma 1 – le funzioni di PM in udienza siano esercitate in piena autonomia. Con il termine udienza si
vuole assicurare autonomia del PM nell’udienza preliminare o nell’udienza per l’applicazione della pena
nella fase dellle indagini preliminari o per il giudizio abbreviato, investendo anche il potere di rinunciare
all’impugnazione, anche se la stessa è stata proposta da altro PM. La ratio sottostante al riconoscimento
codicistico dell’autonomia sta nel consentire che la condotta del magistrato possa adeguarsi all’oralità
dell’udienza. Il capo ha però la possibilità di dare direttive sulle premesse dell’udienza. Es: in ordine alla
formulazione dell’imputazione per l’udienza preliminare o al consenso da prestare ai fini dell’applicazione
della pena richiesta dall’imputato.
L’autonomia comporta che le cause di sostituzione restino circoscritte perché non si risolvano in un
espediente volto ad aggirare quel principio. Un elenco è dettato ai commi 2 e 3 dell’art 53.
Un primo gruppo si riferisce a cause che consentono una valutazione discrezionale da parte del capo
dell’ufficio come il grave impedimento e le rilevanti esigenze di servizio. Un secondo gruppo alcune
situazioni in presenza delle quali il giudice sarebbe obbligato ad astenersi. Un terzo gruppo riguarda la
sostituzione effettuata con il consenso del magistrato interessato. Le Cause possono essere le più disparate.
Qui possono trovare spazio anche quelle ragioni di convenienza che avrebbero potuto sorreggere una
richiesta di astensione. Spetterà al capo dell’ufficio scegliere.

Resta il caso in cui il capo dell’ufficio non provvede alla sostituzione in presenza di uno dei presupposti
considerati nel secondo gruppo. Essendo la sostituzione demandata al procuratore generale si avrà una
figura simile a quella dell’avocazione, da non confondersi con il provvedimento d’avocazione, con
designazione di un magistrato del suo ufficio, che opera per l’intera fase delle indagini preliminari e per
quelle successive. Invece, per la sostituzione demandata al procuratore generale, se non provvede il capo
dell’ufficio di PM, la designazione vale per le sole funzioni di udienza e per le attività che ne seguono. In
questo modo la sostituzione del secondo gruppo avrebbe efficacia temporanea.
Per quanto riguarda la fase delle indagini preliminari, pare che il magistrato goda pur sempre di un grado di
autonomia, necessaria per l’integrale attuazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Tuttavia,
secondo le sezioni unite civili, il capo dell’ufficio può fissare regole generali per la migliore efficienza
dell’ufficio, nonché dettare singole direttive. Il magistrato che contravviene a simili disposizioni può essere
legittimamente sostituito, tramite provvedimento motivato che revochi l’ordinaria designazione. Resta
salvo il potere del magistrato designato di chiedere di essere sostituito.

La disciplina interna dell’ufficio deve integrarsi con il d.lgs che ha attuato i criteri della legge che aveva
delegato il governo a riformare l’ordinamento giudiziario, riorganizzando l’ufficio del PM secondo una
impostazione verticistica, se non incondizionatamente gerarchica.
L’art 1 del decreto conferisce al procuratore della Repubblica la titolarità esclusiva dell’azione penale.
Potere esercitato personalmente o tramite uno o più magistrati dell’ufficio. Concerne tanto la trattazione
globale di uno o più procedimenti, quanto il solo compimento di singoli atti. Può stabilire i criteri ai quali il
magistrato deve attenersi nell’esercizio dell’attività assegnata. Può revocare l’assegnazione in tutti i casi il
magistrato che non vi si attiene o quando si crea un contrasto circa le modalità di esercizio delle funzioni.
Entro 10 giorni dalla revoca il magistrato può presentare osservazioni al procuratore della Repubblica.
Inoltre, il procuratore della Repubblica ha alcune prerogative quando occorre disporre il fermo di indiziato
di delitto o richiedere una misura cautelare personale o una misura cautelare reale. L’atto, qui, deve essere
oggetto di un assenso scritto del procuratore della Repubblica, fatte salve le ipotesi in cui la richiesta del
provvedimento sia contestuale alla richiesta di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo ovvero di
quella di convalida del sequestro preventivo disposto in caso di urgenza. Ragioni di efficienza escludono che
l’assenso sia necessario per le misure cautelari reali, avuto riguardo alla rilevanza del fatto per il quale si
procede. Il proposito è quello di scongiurare strumentalizzazioni del c.d. potere di domanda cautelare da
parte di singoli appartenenti all’ufficio del PM. Ma questa prerogativa è stata sottoposta a varie critiche che
hanno portato la Suprema corte, in sezioni unite, ad escludere che il mancato assenso scritto del
procuratore della Repubblica costituisca una condizione di validità della conseguente ordinanza cautelare
emessa dal giudice a seguito di richiesta cautelare, presentata da un magistrato dell’ufficio del PM
assegnatario del procedimento.
Solo il procuratore della Repubblica può intrattenere, personalmente ovvero tramite un magistrato
dell’ufficio appositamente delegato, rapporti con i mass media. Mentre è vietato ai magistrati dell’ufficio di
rilasciare dichiarazioni o notizie ad organi di informazione sull’attività dell’ufficio. Questo nonostante non
sembra che la prassi ci si sia adeguata.

GLI UFFICI DEL PM DISTRETTUALE. Il voler aumentare l’efficienza degli apparati giudiziari nei confronti di
taluni gravissimi reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, aveva suggerito di introdurre una serie
di deroghe destinate ad incidere sulla divisione del lavoro e sui rapporti tra gli uffici del PM. Al fine di creare
una sorta di procedimento speciale per tali reati.

La disciplina speciale concernente il PM opera nei procedimenti di cui all’art 51 comma 3 bis, cioè quelli
relativi ai delitti di associazione per delinquere aggravata, associazione per delinquere allo scopo di
commettere delitti relativi all’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di associazione per
delinquere realizzata allo scopo di commettere delitti di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni
distintivi ovvero di brevetti, modelli o disegni, delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù,
tratta di persone, di associazioni di tipo mafioso anche straniere, di scambio elettorale politico-mafioso,
attività organizzativa per il traffico illecito di rifiuti, Ecc.

Il legislatore consapevole del bisogno di irrobustire gli strumenti di repressione di delitti considerati di
particolare gravità, ha incrementato le fattispecie per le quali è prevista la legittimazione dell’ufficio del
PM presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente. Prima, la
manovra ha investito i delitti con finalità di terrorismo. Successivamente, ratificando e dando esecuzione
alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, la legittimazione della procura della
Repubblica distrettuale è stata estesa ad una serie di reati. Come l’istigazione a pratiche di pedofilia e
pedopornografia, la prostituzione minorile, la pornografia minorile, la detenzione di materiale pornografico,
l’adescamento di minorenni, l’istallazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire
comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche, la diffusione di apparecchiature, programmi o
dispositivi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico. Danneggiamento di sistemi
informatici o telematici e di frode informatica. Tanto prevede l’art 51 – quinquies.

Per tutti i reati tassativamente indicati al comma 3 bis, 3 quater e 3 quinquies, le funzioni di PM nelle
indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono attribuite all’ufficio che ha sede presso il
tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello. Inoltre, il procuratore della Repubblica presso il
tribunale del capoluogo del distretto costituisce una direzione distrettuale antimafia (Dda) per la
trattazione dei soli procedimenti relativi ai reati indicati nel comma 3 bis, art 51. Negli uffici delle procure
distrettuali può essere comunque istituito un posto di procuratore aggiunto, per specifiche ragioni
riguardanti lo svolgimento dei compiti della direzione distrettuale. Lo stesso procuratore o un suo delegato
dirige l’attività e controlla che i magistrati ottemperino all’obbligo di assicurare la completezza e la
tempestività della reciproca informazione sulle indagini, eseguendo le direttive impartite per il
coordinamento delle investigazioni e per l’impiego della polizia giudiziaria. Salvi taluni casi, il procuratore
distrettuale designa per l’esercizio delle funzioni di PM nei procedimenti in discorso i magistrati addetti alla
direzione. Il procuratore generale presso la corte d’appello può però disporre che le funzioni di PM per il
dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il giudice
competente. Inoltre, i magistrati addetti alla direzione distrettuale non hanno il divieto di essere designati a
svolgere indagini anche per altri reati. Quindi non hanno alcun vincolo funzionale, in quanto magistrati
specializzati.

La concentrazione dell’attività investigativa presso le direzioni distrettuali accresce il grado di efficienza


del sistema. Grazie alla specializzazione dei magistrati addetti e alla conduzione unitaria, all’interno dello
stesso distretto, delle indagini preliminari per i reati prima citati.

Questo non scongiura l’eventualità che si creino contrasti, positivi o negativi, tra i diversi uffici del PM sulla
relativa legittimazione a procedere. Rilevanti in proposito è l’art 54 ter. Se il contrasto si verifica tra diverse
direzioni distrettuali la risoluzione è affidata al procuratore generale presso la corte di cassazione, ma al
procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo è demandata, in virtù della sua sfera di cognizione
privilegiata, una funzione consultiva. Se il contrasto nasce all’interno dello stesso distretto, il compito tocca
al procuratore generale presso la corte d’appello. Poiché si tratterà di un contrasto tra la direzione
distrettuale ed una procura ordinaria, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo diviene parte in
causa. Se prevale la direzione distrettuale, egli potrà poi esercitare i poteri conferitogli.

Diversa collocazione ce l’ha la procura nazionale antimafia (Dna), denominata oggi direzione nazionale
antimafia e antiterrorismo, istituita nell’ambito della procura generale presso la corte di cassazione.
Alla direzione sono preposti un magistrato con funzioni di procuratore nazionale e ora due magistrati con
funzioni di procuratore aggiunto, nonché in qualità di sostituti, magistrati che abbiano la terza valutazione
di professionalità. Tutti i magistrati della direzione devono aver svolto funzioni di PM per almeno un
decennio e determinate attitudini, capacità organizzative ed esperienze nella trattazione di procedimenti in
materia di criminalità organizzata e terrorismo. Il procuratore nazionale ed il procuratore aggiunto hanno
durata quadriennale. Il rinnovo è possibile solo una volta. La direzione nazionale antimafia e antiterrorismo
può continuare ad essere considerato un ufficio del PM specializzato. Il procuratore generale presso la
corte di cassazione sorveglia e dirige il Dna.

Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo ha estese funzioni. Si può avvalere della direzione
investigativa antimafia e dei servizi centrali e interprovinciali delle forze di polizia, impartendo direttive
intese a regolarne l’attività investigativa. Può servirsi del solo personale dei servizi centrali ed
interprovinciali delle forze di polizia, per determinati delitti, non essendosi voluto istituire un organo
unitario di polizia antiterrorismo.
Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo sembra essere investito di due nuclei di funzioni.
Quelle di impulso al coordinamento e quelle di impulso alle investigazioni.
Al primo nucleo (coordinamento) è ascrivibile il compito di assicurare, d’intesa con i procuratori distrettuali
interessati, il collegamento investigativo anche tramite i magistrati della direzione nazionale antimafia e
antiterrorismo. Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo è investito del potere di impartire ai
procuratori distrettuali specifiche direttive, a cui ci si deve attenere per evitare contrasti sulle modalità
relative al coordinamento delle attività di indagine. Può indire riunioni tra i procuratori distrettuali
interessati allo scopo di risolvere i contrasti che hanno impedito di promuovere o rendere effettivo il
coordinamento. Infine, può ricorrere allo strumento dell’avocazione come estremo rimedio al mancato
coordinamento.
Al secondo nucleo si ascrivono il potere di acquisizione ed elaborazione di notizie, informazioni e dati
attinenti alla criminalità organizzata ed ai delitti di terrorismo, anche internazionali, ai fini del
coordinamento investigativo e della repressione dei reati. Ciò vuol dire che è abilitato non solo a ricevere
ma pure a ricercare informazioni. Può procedere a colloqui personali con detenuti ed internati, senza
autorizzazione. Ha la funzione di curare la necessaria flessibilità e mobilità degli apparati del PM, tramite
applicazioni temporanee dei magistrati della direzione nazionale antimafia e antiterrorismo e delle procure
distrettuali. I presupposti di questa figura di applicazione temporanea sono descritti in maniera generica
dalla corrispondente norma della legislazione antimafia e antiterrorismo. L’applicazione è disposta con
decreto motivato del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, sentiti i procuratori generali e i
procuratori della Repubblica interessati. Per le applicazioni alla procura distrettuale avente sede nel
capoluogo del medesimo distretto, il decreto motivato è emesso dal procuratore generale presso la corte
d’appello che lo comunica al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Il decreto di applicazione è
trasmesso al Consiglio superiore della magistratura per l’approvazione, nonché al Ministro della giustizia.
Poiché il titolare dell’ufficio al quale il magistrato viene applicato, non può designare questo per la
trattazione di affari diversi da quelli indicati dal decreto di applicazione, è logico pensare che anche nel
corso delle indagini preliminari non siano consentite sostituzioni.
Da qui si coglie l’estrema duttilità e la latitudine di questa particolare forma di applicazione che finisce per
ridimensionare l’ambito dell’istituto dell’avocazione. Pur utilizzabile dallo stesso procuratore nazionale
antimafia e antiterrorismo.

LA POLIZIA GIUDIZIARIA

LE FUNZIONI ED I SOGGETTI – la polizia giudiziaria è collocata tra i soggetti del procedimento al titolo III del
libro I. L’attività investigativa ha un ruolo unitario, distribuita tra il PM e la polizia giudiziaria. Quest’ultima
si occupa del delicato momento di inizio delle indagini preliminari, tant’è che viene raffigurata come
l’orecchio ed il braccio del magistrato.

La funzione demandata alla polizia giudiziaria si caratterizza per l’intervento successivo alla (supposta)
realizzazione del reato. La polizia amministrativa (comprensiva anche della polizia di sicurezza) svolge
un’azione di vigilanza ed ha il compito di impedire la commissione di illeciti penali o amministrativi.
L’elevazione al rango di soggetto del procedimento non altera la tradizionale collocazione della polizia
giudiziaria tra gli organi ausiliari dell’autorità giudiziaria.

L’art 55 riassume, enucleandole, le funzioni espletate dalla polizia giudiziaria.


Il 1° comma si occupa delle attività che la polizia svolge anche di propria iniziativa, seguendo una
tripartizione. L’attività informativa: acquisire notizia di reato e riferirla, con ritmi accelerati, al PM. L’attività
investigativa: ricercare l’autore del reato mediante il compimento di atti tipici e atipici. L’attività
assicurativa: attività di ideale perfezionamento della precedente, fa riferimento alle fonti di prova. La
disposizione menziona anche l’obbligo di raccogliere tutto ciò che possa servire per l’applicazione della
legge penale e l’obbligo di impedire che i reati siano portati a conseguenze ulteriori. Il 1° ha un’ampia
portata. Ricomprende anche le attività svolte a determinare la pericolosità del soggetto o la gravità del
danno. Il 2° investe un profilo preventivo, che è tipico della polizia di sicurezza. Essendo una disposizione
riassuntiva, questa non porta ad un ampliamento dei poteri della polizia giudiziaria dettati dalla normativa.
Quindi non sono ammessi atti preventivi atipici diversi dal sequestro preventivo.
Il 2° comma considera le funzioni che la polizia giudiziaria adempie su ordine o su delega dell’autorità
giudiziaria. Come le funzioni svolte su ordine o su delega del PM. Ad esempio, le funzioni esecutive
consistenti nell’eseguire le notificazioni richieste dal PM con riferimento ai soli atti di indagine o ai
provvedimenti che la polizia giudiziaria è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire. O nel documentare,
mediante verbale o annotazioni, gli atti del titolare delle indagini. Oppure su ordine o su delega del giudice.
Esempio, l’intervento della polizia giudiziaria per eseguire provvedimenti ordinatori come
l’accompagnamento coattivo dell’imputato o di altre persone, misure cautelari personali o reali,
perquisizioni o sequestri. Le notificazioni possono essere eseguite dalla polizia penitenziaria del luogo, se si
parla di detenuti o procedimenti davanti al tribunale del riesame.

All’art 57 vi è l’elenco di riveste la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La distinzione rileva
su un piano organizzativo e sulla possibilità di compiere una serie di atti riservata solo al primo, l’ufficiale.
Esempio, la ricezione della denuncia o querela, la remissione della querela, l’assunzione di informazioni,
notizie o indicazione dalla persona sottoposta alle indagini, gli accertamenti urgenti e i sequestri,
l’immediata liberazione dell’arrestato o del fermato, nonché la delega per le funzioni di PM nelle udienze
dibattimentali relative a procedimenti per i quali il tribunale giudica in composizione monocratica.
Tra gli ufficiali di polizia giudiziaria vi sono i dirigenti, ispettori, sovraintendenti, altri appartenenti alla
polizia di stato ai quali l’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza riconosce la qualità di
ufficiali, gli ufficiali superiori ed inferiori, il personale dei ruoli ispettori e sovrintendenti dell’arma dei
carabinieri, della guardia di finanza, del corpo di polizia penitenziaria, del corpo forestale, gli altri
appartenenti alle suddette forze, ai quali l’ordinamento riconosce la qualità di ufficiale.

Per il corpo forestale dello stato è stato riorganizzato. Ad oggi è assorbito nell’arma dei carabinieri,
riorganizzato. Al corpo nazionale dei vigili del fuoco sono state assegnate specifiche competenze, alla
polizia di Stato e al corpo della guardia di finanzia sono state attribuite specifiche competenze che
contemplano attività tipiche della polizia giudiziaria.

Tra gli agenti di polizia giudiziaria occorre annoverare il personale della polizia di stato al quale
l’ordinamento amministrativo della pubblica sicurezza riconosce tale qualità, i carabinieri, la guardia di
finanza, gli agenti del corpo di polizia penitenziaria, le guardie forestali. Per quanto riguarda le guardie delle
province e dei comuni, questi sono agenti di polizia giudiziaria in via generale, ma solo nell’ambito
territoriale dell’ente di appartenenza e limitatamente al tempo nel quale sono in servizio. Questi si
collocano quindi in una posizione intermedia rispetto agli ufficiali ed agli agenti considerati dal 3° comma
dell’art 57. A questi ultimi continuano ad essere attribuiti compiti di polizia giudiziaria rispetto
all’accertamento di determinate fattispecie di reato ovvero rispetto a determinati settori, nei limiti del
servizio cui sono destinati e secondo le rispettive attribuzioni.

Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria a competenza limitata o settoriale sono numerosi. Per
esempio, gli ispettori del lavoro, i dirigenti degli uffici di cancelleria per le disposizioni tributarie concernenti
le loro funzioni, il personale direttivo, gli ufficiali e i sottoufficiali del corpo dei vigili del fuoco, i responsabili
del servizio o del corpo e gli addetti al coordinamento e al controllo del corpo di polizia municipale.

In posizione particolare si trovano coloro che fanno parte della Direzione Investigativa antimafia. Il
relativo personale, attinto da quello dei ruoli della polizia di Stato, dell’arma dei carabinieri e della guardia
di finanza, è investito di funzioni investigative preventive attinente alla criminalità organizzata, e del
compito di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative esclusivamente a delitti di associazione di tipo
mafioso o ricollegabili all’associazione medesima.

L’ORGANIZZAZIONE E LA SUA DIPENDENZA FUNZIONALE DALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA

L’attribuzione dei compiti di polizia giudiziaria a funzionari della Pubblica Amministrazione rischia di
consentire ad organi esterni all’attività giudiziaria di condizionare lo svolgimento dei compiti giudiziari. Il
personale esiguo o la modestia delle attrezzature tecniche fornite alla polizia giudiziaria finirebbero per
compromettere così sia l’indipendenza esterna dell’ordine giudiziario, sia la garanzia di eguaglianza di
fronte alla legge, fondamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Il costituente, pur
consapevole di tali rischi, si limitò a fornire una norma alquanto debole, l’art 109 Cost. A sua volta la Corte
Costituzionale ha ritenuto necessaria la distinzione tra la dipendenza funzionale dell’autorità giudiziaria e
la dipendenza burocratica dalla PA. Molti sono poi del parere che non sia opportuno separare rigidamente
l’attività di polizia da quella di prevenzione. Poiché è nel corso dell’attività di prevenzione che si
apprendono le notizie di reato.

Il Codice ha rafforzato più la dipendenza funzionale dall’autorità giudiziaria, specie dal pubblico ministero,
che quella gerarchica. Senza mai troncare del tutto la relazione burocratica che lega la polizia giudiziaria
all’esecutivo. Qui l’articolato codicistico va integrato con le disposizioni di attuazione, le quali contengono
disposizioni propriamente organizzative.

Tutte le funzioni della polizia giudiziaria sono svolte alla dipendenza e sotto la direzione dell’autorità
giudiziaria. Ma il legame che si istaura con l’autorità giudiziaria è variabile, poiché costruito in relazione a
diversi apparati amministrativi. L’art 56 individua una triplice struttura organizzativa.
La 1° concerne i servizi di polizia giudiziaria. Il dipartimento di pubblica sicurezza deve istituire ed
organizzare simili unità, nei contingenti necessari, determinati dal Ministro dell’interno di concerto con il
Ministro di giustizia. Le amministrazioni interessate devono costituire servizi centrali ed interprovinciali
della polizia di Stato, dell’arma dei carabinieri e del corpo delle guardie di finanza. In determinate regioni e
per particolari esigenze, le strutture predette possono essere costituite in servizi interforze. Nella stessa
prospettiva si colloca l’introduzione di unità antiterrorismo operata per le esigenze derivanti da indagini su
delitti di terrorismo di rilevante gravità.
Fanno parte dei servizi tutti gli uffici e le unità cui, dalle rispettive amministrazioni o dagli organismi previsti
dalla legge, sono affidate le funzioni di polizia giudiziaria. Al procuratore della Repubblica devono essere
comunicati, periodicamente, il nome e il grado degli ufficiali che dirigono i servizi di polizia giudiziaria, in
modo da individuare tempestivamente i responsabili dei servizi. La destinazione dei capi dei servizi è
demandata ai dirigenti degli enti di appartenenza. Anche qui si avverte lo sbilanciamento tra i poteri di
gestione conferiti all’autorità amministrativo rispetto a quelli propri dell’autorità giudiziaria.

La 2° struttura concerne le sezioni di polizia giudiziaria. Da cui si desume il grado massimo di dipendenza
organizzativa e funzionale dall’autorità giudiziaria. Le sezioni sono istituite presso ogni procura della
Repubblica, così da garantire uno stretto rapporto con l’organo che dirige le indagini preliminari e
scongiurare una proliferazione che avrebbe compromesso l’efficienza. Le sezioni si compongono di
personale facente già parte dei servizi di polizia giudiziaria, così da assicurare collaborazione tra sezioni e
servizi. Al riguardo, l’art 5 disp. Att., dopo aver precisato che le sezioni sono composte da ufficiali ed agenti
di polizia giudiziaria appartenenti alla polizia di Stato, all’arma dei carabinieri ed alla guardia di finanza, al
corpo forestale dello Stato, consente l’applicazione di ufficiali ed agenti provenienti da altri organi di polizia
giudiziaria che fruiscono, di conseguenza del medesimo status giuridico. L’art 6 disp. Att. Prevede che il
personale delle sezioni non debba essere inferiore al doppio dei magistrati della procura della Repubblica
presso il tribunale e stabilisce in due terzi il rapporto numerico tra ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria.
La 3° struttura concerne i restanti ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria tenuti a compiere indagini a
seguito di una notizia di reato. Essendo una categoria eterogenea, i profili organizzativi non potevano che
essere demandati per intero agli enti di appartenenza.

L’art 58 imposta il profilo della dipendenza, con riguardo al rapporto che intercorre tra l’autorità giudiziaria
e gli organi di polizia giudiziaria. La disponibilità della polizia giudiziaria è conferita al magistrato in
quanto titolare delle indagini preliminari o del processo, benché al Procuratore della Repubblica sia
sempre consentito sostituirsi al magistrato designato per le indagini preliminari nell’impartire ordini alla
polizia giudiziaria. Ogni procura della Repubblica dispone della relativa sezione. La disponibilità del singolo
magistrato, oltre che diretta è anche immediata, non essendo sottoposta né al filtro dei capi
dell’organizzazione della polizia giudiziaria, né a quello del dirigente dell’ufficio del PM. Presso alcune
procure della Repubblica, secondo moduli organizzativi interni, il personale applicato alle sezioni è
assegnato in via continuativa ed esclusiva ad un singolo magistrato del PM.
Le attività di polizia giudiziaria per i giudici del distretto sono svolte dalle sezioni press le corrispondenti
procure della Repubblica. In tal caso la disponibilità non è immediata.
Disponibilità meno intensa è attribuita a qualsiasi autorità giudiziaria nei confronti delle sezioni, dei
servizi e dei restanti organi di polizia giudiziaria. L’autorità giudiziaria quindi non deve ricorrere in via
prioritaria al personale delle sezioni. Nondimeno se il PM procede per delitti di criminalità organizza deve
avvalersi, per regola, congiuntamente dei servizi di polizia giudiziaria della polizia di Stato, dell’arma dei
carabinieri e del corpo della guardia di finanza. Per i più gravi reati di criminalità organizzata, il procuratore
nazionale antimafia e antiterrorismo dispone del personale della direzione investigativa antimafia e dei
servizi centrali e interprovinciali.

Il procuratore generale presso la corte d’appello deve sorvegliare il rispetto delle norme in ordine alla
diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell’autorità giudiziaria.

I RAPPORTI DI SUBORDINAZIONE

La convinzione che la dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria risulterebbe
priva di efficacia se non fosse accompagnata da forme di dipendenza organizzativa ha trovato un notevole
spazio di rilevanza nel sistema. Benché gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria restino subordinati agli
enti amministrativi di appartenenza, l’autorità giudiziaria risulta anch’essa investita di una serie di poteri
di natura gerarchica. Il livello di tali poteri segna il livello della dipendenza funzionale.

L’art 59 costruisce il rapporto di subordinazione con riguardo alla tipologia dell’organizzazione della polizia
giudiziaria.
Le sezioni, unità organiche, si pongono in rapporto di subordinazione nei confronti del procuratore della
Repubblica, che dirige l’ufficio presso cui le sezioni sono istituite. Sussiste il divieto di distogliere gli
ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria dalla loro attività se non per disposizione del magistrato dal quale
dipendono. Destinatari di un simile divieto siano le singole amministrazioni e non i magistrati che possono
avvalersi del personale delle sezioni. La destinazione a compiti di polizia giudiziaria può essere derogata in
casi eccezionali o per necessità di istruzione o di addestramento. Anche in tali ipotesi è necessario il previo
consenso del capo dell’ufficio della procura presso il quale la sezione è istituita.
Nei confronti dei servizi la subordinazione si attenua perché gli ordini sono mediati dalle gerarchie
amministrative. La responsabilità personale investe unicamente l’ufficiale preposto al servizio.
Trattandosi di responsabilità per fatto proprio, la condotta di altri ufficiali e agenti di polizia giudiziaria
appartenenti al servizio, contrastante con i rispettivi doveri funzionali è valutata in sede disciplinare e, se vi
sono gli estremi, in quella penale. La relativa responsabilità si pone nei soli confronti del procuratore della
Repubblica presso il tribunale, escludendo il procuratore generale presso la corte d’appello. Se si parla di
servizi costituiti per lo svolgimento di attività che travalicano l’ambito del circondario, allora l’ufficiale
preposto sarà responsabile verso il procuratore generale del distretto dove ha sede il servizio.
Rapporto di subordinazione rafforzato dall’obbligo in capo alle singole amministrazioni, di ottenere il
consenso del procuratore della Repubblica preso il tribunale o il procuratore generale presso la corte
d’appello per allontanare dalla sede od assegnare ad altri uffici i dirigenti dei servizi e vincolare le
promozioni dei dirigenti degli uffici al parere favorevole dei magistrati predetti.

In ordine al potere disciplinare, in sede attuativa si sono individuate le singole fattispecie di illecito con le
relative sanzioni. E si è introdotto un analitico regolamento del rito medesimo istaurato dal procuratore
generale presso la corte d’appello, a partire dalla contestazione scritta dell’addebito e dall’obbligatoria
assistenza del difensore.

LE PARTI DEL PROCESSO

L’IMPUTATO

La qualità di imputato, di parte in senso stretto, discende da considerazioni sistematiche ancorate alla
volontà di creare un rigido spartiacque tra la fase delle indagini preliminari (procedimento) e quella
successiva all’esercizio dell’azione penale (processo).

Nel procedimento – (indagini preliminari) - l’attribuzione di un reato ha un carattere precario connaturato


allo stato fluido delle indagini. In sede processuale (esercizio dell’azione penale), superato il dubbio della
non infondatezza della notizia di reato, invece l’addebito di un reato si cristallizza nella formulazione
dell’imputazione, che si risolve nella richiesta dell’indefettibile accertamento giurisdizionale

L’assunzione della qualità di imputato coincide con l’atto che contiene la formale individuazione della
persona a cui un determinato fatto storico penalmente rilevante è attribuito, quindi con l’avvenuto
esercizio dell’azione penale. Poiché senza imputato non c’è processo.

L’art 60 enumera gli atti tipici dai quali l’assunzione scaturisce. Come la persona a cui è attribuito il reato
nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato e di decreto penale di condanna. Oppure come gli
atti nati dall’incontro di volontà tra le parti, come la richiesta di applicazione della pena formulata o il
consenso prestato dal PM nel corso delle indagini preliminari. Altri atti hanno la veste di atti di impulso
come il decreto di citazione diretta nel giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica emesso dal
PM, o nel giudizio direttissimo, la contestazione orale dell’imputazione in dibattimento o il decreto di
citazione a giudizio se l’imputato è libero. A questi si aggiungono la contestazione del reato connesso o del
fatto nuovo nell’udienza preliminare o nel dibattimento, sia la formulazione coatta dell’imputazione
allorquando la richiesta di archiviazione non sia stata accolta dal giudice per le indagini preliminari. Altro
atto di esercizio dell’azione penale è la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova,
presentata nel corso delle indagini preliminari dalla persona sottoposta alle indagini.

Tale soluzione che vede l’assunzione della qualità di imputato coincidente con l’atto che contiene la
formale individuazione della persona è lineare ma ha anche dei riflessi negativi. Poiché l’assunzione di
qualità di imputato è in uno stadio del procedimento assai inoltrato.
Farla collidere con l’inizio del processo, crea il rischio che le indagini anteriori possano chiudersi con la
semplice emissione del provvedimento di archiviazione, intervenuto magari dopo la custodia cautelare in
carcere. Ma l’instabilità e la mancata predisposizione di strumenti di conoscenza pubblica possono rendere
il provvedimento di archiviazione meno favorevole della sentenza di non luogo a procedere. Sentenza che
si caratterizza per la sua efficacia preclusiva e per il regime di conoscenza pubblica cui è assoggettata.

In un sistema dove l’azione penale è irretrattabile, la perdita della qualità di imputato può derivare solo
da sentenza o provvedimento ad essa assimilabile. L’art 60 comma 2° fornisce un elenco dei casi. Da
integrarsi con l’ordinanza di inammissibilità di impugnazione, con le sentenze che dichiarano il difetto di
giurisdizione o di competenza, le quali importano la trasmissione degli atti al PM presso il giudice ritenuto
competente.
Ai sensi dell’art 60 comma 3, la qualità di imputato risorge per effetto della revoca della sentenza di non
luogo a procedere o dell’emissione del decreto di citazione a dibattimento per il giudizio di revisione, la
cui richiesta è ammissibile e non infondata. Per il caso della revoca della sentenza di non luogo a procedere
occorre dettare una distinzione. Il prosciolto riacquista la qualità di imputato con l’ordinanza che fissa
l’udienza preliminare quando il PM abbia richiesto il rinvio a giudizio, essendo state acquisite le nuove fonti
di prova. Se invece, le nuove fonti ancora non siano state acquisite, l’ordinanza di riapertura delle indagini
non ha tale effetto formale. La qualità di imputato sarà riassunta quando, a seguito delle indagini espletate,
il PM formuli l’imputazione.

Tale casistica deve essere integrata con la rescissione del giudicato. Il mezzo straordinario di impugnazione
scatta nel caso in cui sia stata emessa una sentenza passata in giudicato e pronunciata all’esito di un
processo celebratosi in assenza del già imputato. Se si dimostra che l’assenza è causata da incolpevole
mancata conoscenza del processo, la corte d’appello dispone la revoca della sentenza e la trasmissione
degli atti al giudice di primo grado. A tal punto, il già condannato o prosciolto riassume la qualità di
imputato.

Le garanzie e i diritti attribuiti a chi ha assunto la qualità di imputato sono estesi alla persona sottoposta
alle indagini preliminari. Ciò è stabilito dall’art 61. È sufficiente la semplice sottoposizione della persona
alle indagini preliminari. L’estensione opera anche quando vi sono atti non documentabili, come le notizie o
le indicazioni assunte dagli ufficiali di polizia giudiziaria sul luogo o nell’immediatezza del fatto. Opera anche
indipendentemente dall’effettiva iscrizione nel registro delle notizie di reato o dall’invio dell’informazione di
garanzia.
Più precisamente, taluno diviene persona sottoposta alle indagini a seguito della ricezione da parte della
polizia giudiziaria o del PM di una notizia qualificata di reato contenente un’incolpazione verso un soggetto
determinato. Se la notizia non è qualificata la persona può dirsi sottoposta alle indagini a seguito di una
valutazione di attendibilità delle medesime, espressa dall’ufficiale od agente di polizia giudiziaria o dal PM.
Se la valutazione è positiva allora scatta l’obbligo di riferire la notizia al PM per l’ufficiale o l’agente. Per il
PM scatta l’obbligo di farla iscrivere nell’apposito registro.
Sono in gioco anche le valutazioni di dati emergenti dalle indagini e ritenuti idonei a fornire un principio di
conoscenza sull’attribuibilità a taluni di un fatto di reato. L’ipotesi trae origine dalla nozione di indizio (63
comma 1) nonostante le interferenze tra questa e la nozione di prova indiziaria dell’art 192.
L’indizio è un risultato conoscitivo indispensabile per adottare alcune misure nel corso della fase delle
indagini preliminari o per farne scaturire determinati effetti diversi dalla decisione sul dovere di punire,
ossia sul tema principale del processo. Con la prova indiziaria invece si allude alle c.d. prove critiche
assoggettate ad una apposita regola di giudizio al momento della valutazione probatoria.
Conta infine il fatto obiettivo dell’esecuzione dell’arresto in flagranza, non quella del fermo o la richiesta di
una misura cautelare personale.

Art 61 comma 1-> La tutela assicurata alla persona sottoposta alle indagini preliminari è estesa. Risulta
sancita tanto per i diritti dell’imputato quanto per le garanzie a lui riconosciute, senza alcun limite derivante
dall’effettivo compimento di un qualche atto del procedimento.
Art 61 comma 2 -> alla persona sottoposta alle indagini si estende ogni altra disposizione relativa
all’imputato, salvo esplicite statuizioni in diverso senso. Estende a questa solo le disposizioni in bonam
partem e non in malam partem.

Non vale la relazione contrario, cioè che all’imputato si estendono le disposizioni per la persona sottoposta
alle indagini. L’equiparazione tra indagato e imputato finisce per intaccare la linea distintiva tra le due
figure. Ad esempio, a proposito dei presupposti per disporre una perquisizione nei luoghi dove possa
eseguirsi l’arresto dell’imputato, art 247, qui la regola vale anche per la persona sottoposta alle indagini.
Le dichiarazioni rese dall’imputato, dalla persona sottoposta alle indagini ovvero da soggetti che a
seguito di tali dichiarazioni possono assumere tale qualità. Queste sono contenute agli art 62 – 65 ed
hanno un oggetto ed uno scopo comune. Voler assicurare nei rapporti con l’autorità procedente un livello
di lealtà e civiltà adeguato ai canoni personalistici tipici del modello accusatorio. E vanno dal generale al
particolare.

L’art 62 ha una portata generale. Prescrive che le dichiarazioni comunque rese nel corso del
procedimento dall’imputato e dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di
testimonianza. La norma investe non solo le dichiarazioni sollecitate ma anche quelle che il soggetto rilasci
di sua iniziativa. Essa vale anche nei confronti di coloro a carico dei quali, per effetto delle dichiarazioni
rese, emergano indizi di reità e di coloro che, fin dall’inizio, dovevano essere sentiti in qualità di imputato o
di persona sottoposta alle indagini. Essa vale anche per le dichiarazioni rese, nel contesto del
procedimento, dinnanzi all’autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria, nonché ad altre persone abilitate a
riceverle.
Il divieto, in forza dell’interpretazione estensiva della formula codicistica fatta dalla Corte Costituzionale,
vale anche nei confronti di ogni altra persona che abbia inteso le dichiarazioni, spontanee o sollecitate, che
siano rese dall’imputato in occasione del compimento di un qualsiasi atto collocato nella sequenza del
procedimento. Sono escluse quindi le dichiarazioni rilasciate prima dell’avvio del procedimento o al di fuori
di esso.
Infine, non è testimonianza, nemmeno il contenuto delle dichiarazioni dell’imputato o dei soggetti a lui
assimilati riferiti da qualcun altro, anche se lo ha appresso tramite altri. Qui, il regime è più restrittivo
rispetto alla testimonianza indiretta.

Il legislatore in questo caso ha voluto dare efficacia rappresentativa solo alla documentazione
appositamente redatta ed utilizzabile entro i limiti stabiliti in funzione dello sviluppo procedimentale.
Allo stesso tempo ha voluto impedire che, ricorrendo il duplice meccanismo delle dichiarazioni spontanee
e della testimonianza de auditu, possa venire aggirato il diritto al silenzio riconosciuto all’art 64 comma 3.

L’inosservanza del divieto posto dall’art 62 comporta sanzioni processuali. Acquisita illegittimamente, la
testimonianza in discorso risulta compresa nella sfera dell’inutilizzabilità.

Il legislatore ha poi espressamente statuito che le dichiarazioni rese dalle parti, nel corso dell’attività di
conciliazione in sede di procedimento davanti al giudice di pace, non possono essere utilizzate ai fini della
deliberazione.

Con la manovra che ha inteso dare attuazione alla direttiva europea, relativa alla lotta contro l’abuso e lo
sfruttamento sessuale dei minori, nonché avverso la pornografia minorile, si è aggiunto un 2° comma all’art
62. Nonostante la presunzione di non colpevolezza, il legislatore ha voluto tener conto che l’imputato si
può sottoporre a programmi di prevenzione della recidiva per reati in materia sessuale a danno di minori
prima che sopravvenga la sentenza irrevocabile. Da qui, il divieto è stato esteso anche alle dichiarazioni
rese nel corso dei programmi terapeutici, ritenute comunque inutilizzabili.

L’art 63 svolge il principio garantista del nemo tenetur se detegere – secondo la quale nessuno può essere
obbligato ad affermare la propria responsabilità penale. Prima di tutto, la disciplina delle dichiarazioni
indizianti non solo costituisce un’anticipazione della garanzia del diritto al silenzio operante in sede di
interrogatorio. Ma perfeziona la regola per cui nessuno può essere obbligato a deporre su fatti dai quali
potrebbe emergere la propria responsabilità penale. Stessa conclusione vale per le informazioni assunte
dal PM, così come per le sommarie informazioni che la polizia giudiziaria è abilitata ad assumere ex art 351.

Invece, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’operatività dell’art 63 non scatta nei confronti del
giudice civile e del curatore fallimentare. Nessun dubbio sul fatto che l’interdizione non vale nei confronti
di circostanze indizianti emergenti dalla intercettazione di una conversazione telefonica o ambientale
ritualmente disposta ed eseguita.

Il comune presupposto è che emergano indizi di reità (colpevolezza) a carico di chi non è ancora imputato o
persona sottoposta alle indagini. L’art 63 viene in gioco verso chi ha già commesso il reato e non verso chi
lo commette mediante le stesse dichiarazioni che sta rendendo. Come la falsa testimonianza o la calunnia.

In capo all’autorità, profilatisi gli indizi, sorgono 3 obblighi distinti


(1) Vige l’obbligo di interrompere l’esame e l’eventuale assunzione di informazioni. La pausa si adegua alle
cadenze accelerate impresse alle formalità della nomina del difensore.
(2) L’autorità procedente deve avvertire la persona che potranno essere svolte indagini nei suoi confronti
per effetto della mutata veste processuale. Il parlare di mera eventualità di future indagini tiene conto che
le dichiarazioni indizianti sono magari rese davanti alla polizia giudiziaria o al giudice i quali saranno tenuti
a trasmettere la notizia di reato al suo destinatario ultimo. Non vi è l’obbligo di avvertire l’indiziato che le
sue dichiarazioni potranno essere utilizzate sempre nei suoi confronti. Quindi il soggetto non è messo
sull’avviso circa gli effetti sfavorevoli che potrebbero scaturire da ulteriori dichiarazioni prima
dell’interrogatorio o delle sommarie informazioni. La soluzione è ancora più discutibile se si considera la
evidente efficacia attribuita alla lettura delle dichiarazioni spontanee rese davanti alla polizia giudiziaria, in
sede dibattimentale.
(3) Vi è l’obbligo di invitare la persona che ha rilasciato le dichiarazioni indizianti a nominare un difensore.
Questo accentua il divario rispetto a coloro ai quali il fatto è attribuito da una comune notizia di reato.
Rispetto a questi ultimi, l’invito è formulato nell’informazione di garanzia, da inviarsi solo a partire dal
primo atto cui il difensore ha diritto di assistere.

La disciplina art 63 si perfeziona con il divieto di utilizzare contro la persona auto indiziata, le dichiarazioni
rese prima dell’avvertimento. La norma vuole tutelare la libertà di autodeterminazione di chi, se fosse
stato consapevole del proprio status, avrebbe potuto esercitare il diritto al silenzio e non rilasciare
dichiarazioni a sé pregiudizievoli. Il divieto di usare le dichiarazioni rese prima dell’avvertimento investe
l’uso di stretta natura probatoria o contestativa all’imputato in sede dibattimentale ed ogni altro uso
diverso da quello conseguente all’acquisizione di una mera notizia di reato.

Il 2° comma dell’art 63 delinea la situazione in cui la persona sentita, sia già imputata o sotto indagini fin
dall’inizio, senza che l’autorità procedente faccia risultare tale qualità. Qui si presuppone che la doverosa
applicazione delle regole dell’interrogatorio sia stata disattesa illegittimamente dall’organo che procede.
L’accertamento della qualifica soggettiva del dichiarante spetta solo al giudice di merito. Il potere di
verificare l’attribuibilità della qualità di indagato al momento in cui le dichiarazioni vengono rese deve
esercitarsi in termini sostanziali.

Le dichiarazioni sono inutilizzabili anche nei confronti di coloro che dalle dichiarazioni indizianti sono
comunque coinvolti. Così da evitare l’adozione di comportamenti contra legem intesi ad acquisire
dichiarazioni accusatorie a carico di terzi piuttosto che il contributo della persona sottoposta a indagini. Qui
si vuole tutelare il terzo, cui si siano riferite le dichiarazioni accusatorie, predisponendo un meccanismo
destinato a scattare anteriormente alle ipotesi di incompatibilità a testimoniare, nonché alle forme
acquisitive del contributo conoscitivo del coimputato nel medesimo reato o in un procedimento connesso o
collegato.

Il 2° comma è stato circoscritto dalla giurisprudenza alle persone imputate in procedimenti connessi o
collegati. Nelle restanti ipotesi, il dichiarante deve essere sentito in qualità di persona informata sui fatti
per cui si indaga, ovvero di testimone. Non potendosi configurare nei suoi confronti violazione delle
garanzie difensive, l’operatività del 2° comma è esclusa.
L’interrogatorio è disciplinato agli articoli 64 e 65 ed è distinto in maniera netta dall’esame dell’imputato
che è un mezzo di prova.

Nella fase delle indagini preliminari, il PM procede all’interrogatorio della persona sottoposta a misura
cautelare personale, dell’arrestato o del fermato. Tramite delega alla polizia giudiziaria, può essere
interrogato chi si trova a piede libero mediante invito a presentarsi. Ma Se la persona non vi ottempera,
l’accompagnamento coattivo è disponibile solo con autorizzazione del giudice.

Il titolare delle indagini è libero di scegliere il momento in cui assumere l’atto, salvo che si tratti di una
persona sottoposta a custodia cautelare. In tal caso, l’interrogatorio del giudice deve precedere quello del
PM. Il titolare dell’accusa è libero di non procedervi nel corso delle indagini preliminari, talché la richiesta di
archiviazione può ben essere formulata inaudita altera parte. Tuttavia, il PM, ove non intenda formulare
richiesta di archiviazione, deve notificare, prima della scadenza del termine di durata delle indagini
preliminari, un avviso di conclusione di queste indirizzandolo alla persona sottoposta alle indagini e al
difensore. Tale avviso contiene l’avvertimento che l’indagato ha facoltà, entro 20 giorni, di presentarsi per
rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio. Se il soggetto lo richiede, il
PM è tenuto a procedere. All’inosservanza della prescrizione e dell’invio dell’avviso di conclusione delle
indagini preliminari è ricollegata una nullità della richiesta di rinvio a giudizio o del decreto di citazione a
giudizio del PM.

Il titolare dell’accusa, se vuole inscenare il giudizio immediato, deve procedere all’interrogatorio sui fatti
dai quali emerge l’evidenza della prova o deve averlo disposto, tramite invito a presentarsi. A meno che la
persona sottoposta alle indagini non sia comparsa a causa di un legittimo impedimento, ovvero sia risultata
irreperibile.

Nella fase delle indagini preliminari, l’interrogatorio si atteggia come attività sempre doverosa. Ciò vale
per l’arrestato, o il fermato e per quello di chi si sia sottoposto ad una misura cautelare personale. Se si
tratta di custodia cautelare in carcere deve essere eseguito immediatamente e non oltre cinque giorni
dall’esecuzione della misura. Per le altre misure cautelari, coercitive o interdittive, l’interrogatorio deve
essere posto non oltre dieci giorni dopo.
Se il PM fa istanza (richiede) di interrogatorio nella richiesta di custodia cautelare, l’interrogatorio deve
avvenire entro 48 ore ad opera del giudice.
Il giudice procede ad interrogatorio in rapporto a talune vicende delle misure cautelari personali, come la
sospensione della persona sottoposta alle indagini, dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio. Quando è
revocata o sostituita la misura applicata. Oppure è prorogata la custodia cautelare in carcere disposta per
esigenze probatorie.
L’imputato è libero di sottoporsi ad interrogatorio in sede di udienza preliminare, così come nel giudizio
abbreviato, una volta esercitata l’azione penale. Non è interrogatorio quel colloquio che il giudice può
istaurare con l’imputato, dopo averne disposta la comparizione.

L’interrogatorio del PM ha un carattere prevalentemente investigativo. Poiché finalizzato alle


determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. L’interrogatorio condotto dal giudice ha un
significato prevalente di controllo e garanzia. Questo è confermato dalla precedenza dell’interrogatorio
della persona in stato di custodia cautelare da parte del giudice.

Dal punto di vista delle modalità del suo svolgimento, l’interrogatorio è disciplinato in modo da
assicurarne la natura di strumento di difesa.
Per la difesa tecnica si assicura al difensore il diritto di essere, anche in tempi brevi, avvisato del
compimento dell’atto così da potervi assistere. La sua presenza diviene, talvolta, condizione di validità
dell’atto perché la legge impone al legale di intervenire all’interrogatorio o perché l’interrogatorio è
funzionalmente inserito in un contesto come l’udienza di convalida o l’udienza preliminare.
Per la difesa personale, agli articoli 64 e 65 si delinea una disciplina che modella l’interrogatorio in maniera
idonea a garantire una partecipazione libera e cosciente da parte del soggetto. Il luogo di svolgimento
dell’interrogatorio è l’istituto penitenziario in cui l’arrestato, il fermato o l’imputato in stato di detenzione
per qualsiasi titolo, si trova. Il giudice può però disporre, quando vi sono eccezionali motivi di necessità ed
urgenza, che i soggetti in discorso siano trasferiti davanti a sé.

Tramite numerosi rinvii, espliciti o impliciti, contenuti negli articoli, le modalità di svolgimento di altre
figure vengono equiparate a quelle dell’interrogatorio dell’imputato. Ciò vale per le sommarie
informazioni che gli ufficiali di polizia giudiziaria assumono e per le dichiarazioni degli imputati in un
procedimento connesso, ovvero di un reato collegato. Sono denominate informazioni se rese davanti ad un
ufficiale di polizia giudiziaria; interrogatorio se rese davanti al PM o se rese davanti al giudice in sede di
udienza preliminare. Sono assimilate all’interrogatorio anche le dichiarazioni rilasciate dalla persona
sottoposta alle indagini a seguito della presentazione spontanea al PM.

Art 64 comma 1: stabilisce che la persona soggetta al regime di custodia cautelare o detenuta per altra
causa interviene libera nell’interrogatorio. Questa regola tutela la personalità ma anche un’esigenza di
economia processuale, nel momento in cui una persona in stato di arresto o detenzione domiciliare deve
comparire davanti all’autorità giudiziaria. In questi casi, è consentito di non disporre l’accompagnamento o
la traduzione per salvaguardare comprovate esigenze processuali o di sicurezza, sostituendoli con
l’autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di arresto o detenzione per il tempo necessario.

Art 64 comma 2: detta il principio per cui, durante l’interrogatorio, non possono essere usati, anche con il
consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione
o ad alterare le capacità mnemoniche o valutative. La stessa regola vale anche per i mezzi di prova e
l’esame dell’imputato. Nella stessa prospettiva si trova la documentazione rafforzata dell’interrogatorio,
svoltosi fuori udienza, di chi sia in stato di detenzione.

Art 64 comma 3: detta la disciplina del diritto al silenzio della persona sottoposta ad interrogatorio, con i
suoi corollari diretti a restringere l’area di quel diritto in rapporto alle eventuali dichiarazioni rese da tale
persona con riferimento all’altrui responsabilità. Più precisamente prima dell’interrogatorio, l’organo
procedente ha l’obbligo di rivolgere alla persona interrogata un triplice avvertimento, ai sensi del comma 3
art 64.
In primo luogo, lettera a del comma 3, il soggetto deve essere edotto che le dichiarazioni che renderà
potranno essere usate nei suoi confronti. Lettera b, il soggetto deve essere avvertito che, fermo l’obbligo di
fornire le proprie generalità, gli spetta la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma che in ogni caso
il procedimento proseguirà il suo corso. Se tali prescrizioni vengono omesse le dichiarazioni
eventualmente rese saranno inutilizzabili, tanto nei confronti dell’interrogato, quanto nei confronti dei
terzi. Lettera c, la persona interrogata deve essere anche avvertita che se renderà dichiarazioni su fatti che
concernono la responsabilità di altri, assumerà in ordine a tali atti l’ufficio di testimone. In tale caso, la
persona divenuta testimone non è sottoposta ad una disciplina dell’esame analoga a quella del testimone
non indagato. Infatti, a tutela del diritto di difesa e della presunzione di non colpevolezza, la norma fa salve
le incompatibilità a testimoniare e le garanzie inerenti alla conduzione dell’esame testimoniale ed il regime
di utilizzabilità delle dichiarazioni contro chi le ha rese. Questo per bilanciare il diritto di difesa dell’indagato
con il diritto alla persona da lui accusata di procedere, in dibattimento, al controesame del dichiarante.
In mancanza dell’avvertimento di cui alla lettera c si ricollega una duplice sanzione, dettata al comma 3 bis.
La persona interrogata non potrà assumere l’ufficio di testimone e le dichiarazioni eventualmente rese non
saranno utilizzabili nei confronti dei terzi coinvolti, ferma restando la loro utilizzabilità nei confronti del
dichiarante. Tale comma infatti, oltre a dettare un dovere informativo, detta anche i presupposti da cui
scaturiscono gli obblighi testimoniali in capo all’imputato.
Il d. lgs. Luglio 2014 n 101, attuativo della direttiva europea sull’informazione nei procedimenti penali ,
impone di somministrare l’avviso della facoltà di non rispondere subito dopo l’esecuzione delle più severe
restrizioni della libertà personale. In particolare, gli ufficiali o gli agenti di polizia giudiziaria, devono
consegnare una comunicazione scritta, chiara e precisa e tradotta in una lingua a lui comprensibile, se
l’imputato non è italiano, tramite la quale lo si informa del diritto di avvalersi della facoltà di non
rispondere. Il giudice deve poi, in sede di interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare
personale, verificare che la comunicazione sia stata data o che sia stato informato. Provvedendo se del
caso, a dare o a completare la comunicazione o l’informazione. Inoltre, gli ufficiali e gli agenti di polizia
giudiziaria debbono somministrare un analogo avviso, all’arrestato o al fermato, in forma scritta o orale. Il
giudice deve poi confermare, nell’udienza di convalida che l’arrestato o il fermato abbia ricevuto tale
comunicazione.
Questo decreto legislativo, attuativo della direttiva europea, mostra di tener conto della condizione di
stress in cui versa il soggetto al momento dell’arresto o del fermo, tale da spingerlo a rendere
dichiarazioni avventate, con l’intento di discolparsi subito, ma che potrebbero poi essere usate contro di
lui nel prosieguo delle indagini. Infatti, le dichiarazioni che la polizia giudiziaria riceve spontaneamente
dall’indagato possono essere utilizzate sia a fini contestativi sia in chiave probatoria.

Il diritto di non rispondere è una insindacabile espressione del diritto di difesa personale, l’organo
procedente non può ricavare conseguenza alcuna da questo. Il legislatore ha esplicitato all’art 274 lettera
a, il divieto di individuarvi un attuale e concreto pericolo per l’acquisizione e la genuinità della prova. La
formula esprime non tanto un ammonimento nei confronti di prassi devianti, quanto il proposito legislativo
di avversare discutibili prese di posizione giurisprudenziali di segno opposto.

Una volta che il soggetto abbia dichiarato di voler rispondere, entrano in gioco le prescrizioni dettate per
l’interrogatorio nel merito, all’art 65. Queste sono più specifiche, operano esclusivamente per l’atto
assunto dall’autorità giudiziaria. La portata di queste subisce adattamenti in rapporto allo sviluppo dell’iter
procedimentale. L’art 65 prevede l’obbligo di contestare in forma chiara e precisa alla persona sottoposta
alle indagini il fatto attribuitole, di renderle noti gli elementi di prova esistenti a suo carico e di
comunicargliene le fonti, se ciò non crea un pregiudizio per le indagini.

La dimensione dell’interrogatorio come strumento difensivo emerge appieno dall’invito ad esporre quanto
la persona ritenga utile per discolparsi e dalla mancata riproduzione dell’invito ad indicare le fonti di prova
a proprio favore, nonché dall’assenza dell’obbligo di dire la verità, salvi determinati limiti. Ne è segno la
facoltà di non rispondere a singole domande sul merito, benché di ciò debba farsi menzione nel verbale.

L’atto è svolto con le domande poste in via diretta dal solo organo procedente. Questo vale anche per
l’interrogatorio che l’imputato ha facoltà di rendere all’udienza preliminare. A meno che il giudice
disponga, su richiesta di parte, che l’interrogatorio sia reso nelle forme previste dagli art 498 e 499 (Esame
diretto e controesame dei testimoni- regole per l’esame testimoniale).

L’IDENTIFICAZIONE DELL’IMPUTATO E L’ESISTENZA IN VITA DI QUESTO sono questioni trattate con una
tecnica legislativa semplificata.

L’art 66 tratta il profilo dell’identità personale o anagrafica (l’identificazione).


Nel primo atto del procedimento in cui è presente l’imputato, l’autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le
proprie generalità e quant’altro può valere ad identificarlo, ammonendolo sulle conseguenze cui si espone
chi rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false. Gli stessi avvisi ed ammonizioni sono indirizzati dalla
polizia giudiziaria alla persona sottoposta alle indagini. L’art 21 disp. Att. Si riferisce solo all’autorità
giudiziaria quando statuisce che debbano essere richieste all’imputato o alla persona sottoposta alle
indagini, nel primo atto cui sono presenti, una serie di informazioni relative all’identità personale, alla vita
di relazione, alla posizione patrimoniale, nonché agli eventuali ruoli pubblici ricoperti ed ai precedenti
penali.
L’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità è irrilevante, non pregiudica alcun atto da
parte della polizia giudiziaria o dell’autorità giudiziaria, purché sia certa la identità fisica della persona.
L’attribuzione di generalità erronee è trattata alla stregua di un mero errore materiale, vi fa luogo alla
rettifica. La norma trova spazio anche nella fase delle indagini preliminari e pure nei confronti della persona
che vi è sottoposta, ogni volta che il giudice sia comunque chiamato ad emettere un provvedimento. La
correzione invece è operata de plano dal PM.

L’art 66 bis è stato introdotto allo scopo di ridurre il margine dei possibili errori nell’applicazione dei c.d.
benefici penali, a causa dell’incompleta identificazione del soggetto e dei suoi procedimenti penali. Prevede
che l’autorità giudiziaria debba, in ogni stato e grado del procedimento, comunicare a quella competente ai
fini dell’applicazione della legge penale la circostanza che l’indagato o l’imputato è già stato segnalato,
magari sotto diverso nome, all’autorità giudiziaria quale autore di reato commesso antecedentemente o
successivamente a quello per il quale si procede.

L’identità personale è diversa da quella fisica. La quale si identifica nella coincidenza tra la persona nei cui
confronti è esercitata l’azione penale e quella che in effetti è soggetta a processo. Come nel caso di
omonimia. Il codice affronta la questione del relativo dubbio in sede di esecuzione, art 667. È il PM che,
nella fase delle indagini preliminari, deve disporre gli accertamenti del caso, sulla base dei quali saranno
formulate le conseguenti richieste al giudice. Se il dubbio insorge nel processo, le determinazioni saranno
tratte dal giudice dell’udienza preliminare o del dibattimento. Qualora, gli accertamenti svolti non
eliminino i dubbi sulla identità fisica, il silenzio serbato dal codice non consente che si addivenga alla
sospensione dell’iter processuale.

Il tema dell’errore sull’identità fisica (errore di persona) non è trattato dal codice. In proposito soccorre
l’ampiezza delle formule per le quali è consentito al PM di richiedere il decreto di archiviazione. Se l’errore
di persona risulta evidente, l’arresto in flagranza o il fermato deve essere immediatamente liberato, art
389. Se l’errore è nel processo, il giudice (art 68) sentiti il PM e l’imputato, pronuncia sentenza ex art 129,
sentenza di non luogo a procedere. Norma che si deve coordinare con l’art 620 lettera g, relativo
all’annullamento senza rinvio disposto dalla corte di cassazione a seguito di condanna pronunciata per
errore di persona. All’art 129 si elencano sia le formule di rito che quelle di merito. Quindi occorre
circoscrivere la portata dell’art 129. Nel caso di errore di cui si parla, non è sussumibile quello che pur si
verifica quando l’imputazione sia stata elevata nei confronti di una persona poi risultata diversa da quella
che si voleva perseguire. Tale situazione crea pronuncia nel merito. Per converso, l’errore di persona
continua a sfociare in una sentenza meramente processuale. Pertanto, la sentenza resa ex art 68 è sfornita
di efficacia preclusiva. Quindi la persona erroneamente estromessa dal processo torna ad esservi
assoggetta quando risulti essere il vero imputato.

L’incertezza sull’età minorile dell’imputato è sciolta dal giudice minorile con le forme del rito. La soluzione
è coerente al sistema che demanda al giudice specializzato la cognizione di tutti i reati commessi da minori
degli anni 18 e risponde all’intento di evitare che la persona di cui si dubita l’età minorile, possa rimanere a
contatto con imputati maggiorenni. Quando l’autorità giudiziaria abbia ragione di ritenere che l’imputato o
la persona sottoposta alle indagini sia minorenne, trasmette gli atti al procuratore della Repubblica presso il
tribunale minorile.

Anche l’incertezza sull’esistenza in vita non è disciplinata dal codice. Non conta la dichiarazione di morte
presunta pronunciata dal giudice civile. Se il dubbio è risolto con la morte, il PM durante le indagini
preliminari chiede l’archiviazione per estinzione del reato. Mentre se avviene nel corso del giudizio, il
giudice proscioglie. Posto che la morte dell’imputato si risolve in una causa estintiva del reato, la relativa
declaratoria rimane subordinata alla gerarchia delle formule scaturente dall’art 129 comma 2. L’accertata
morte dell’imputato non dovrebbe impedire al giudice di adottare la formula di merito. L’esito rileva ai fini
dell’efficacia conferita alla sentenza di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno intentabile
contro gli eredi.
L’art 69 comma 2 precisa che la sentenza erroneamente dichiarativa dell’estinzione del reato per morte
dell’imputato non impedisce un nuovo esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto a carico della
medesima persona. Tale previsione deve essere rapportata con l’art 649, là dove contempla per l’ipotesi in
discorso, una deroga al principio del ne bis in idem.

LA CAPACITA’ AD ESSERE PARTE NEL PROCESSO PENALE è detenuta, di regola, da ogni persona fisica. Tale
capacità difetta negli infanti e negli immuni, da distinguersi in assoluti o relativi, a seconda che l’esenzione
dalla giurisdizione valga per tutte le imputazioni o solo per alcune. Ma per l’immunità relativa, si può
istaurare comunque un processo per verificare se il fatto è coperto dal privilegio.

Nozione distinta e successiva è LA CAPACITA’ PROCESSUALE DELL’IMPUTATO. Cioè l’idoneità ad esercitare,


all’interno del processo, i diritti e le facoltà ricollegati all’assunzione di tale qualità. In genere la capacità
processuale coincide con la capacità ad esserne parte, in quanti i requisiti della seconda sono sufficienti ai
fini del compimento degli atti propri dell’imputato. Vi sono dei casi di frattura. Come l’imputato nel giudizio
di cassazione, privo di capacità processuale, dovendo stare in giudizio a mezzo del difensore, che assume la
veste di suo rappresentante. O il caso dell’imputato sottoposto a tutela o a curatela speciale. Ma il caso più
vistoso è quello dell’infermità mentale dell’imputato, antecedente o sopravvenuta al fatto costituente il
reato.

La disciplina sull’infermità mentale è articolata. Poiché si vuole tutelare l’esercizio della difesa personale
nella logica del modello accusatorio, nella maggior misura possibile.
Presupposto non è più commisurato sul parametro penalistico della non imputabilità, sulla mancanza della
capacità di intendere o di volere, ma si basa sulla inidoneità del soggetto a partecipare coscientemente al
processo. Ciò vale sia quando l’infermità è sopravvenuta al fatto, sia quando l’infermità è risalente ma
perdurante al tempo del processo, sempre che non integri uno stato di totale incapacità di intendere e di
volere. Tale criterio elastico permette di racchiudervi una serie di situazioni in cui l’infermità di mente
dell’imputato è solo diminuita, senza scomparire, purché produca l’effetto di impedirne una consapevole
partecipazione.
Restano irrilevanti al fine di tale disciplina, invece, le situazioni nelle quali l’esercizio all’autodifesa è
ostacolato da altre cause, come le infermità fisiche sopravvenute. A queste pongono un rimedio, parziale,
altri istituti, come la sospensione o il rinvio dell’udienza.

Una volta che non deve essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento, la
valutazione sull’esistenza dell’infermità di mente dell’imputato non è necessariamente subordinata
all’esito di una indagine peritale disponibile anche d’ufficio. Il giudice può persuadersene anche grazie ad
elementi ricavabili da perizie appena espletate o da manifestazioni conclamate.
Quando viene disposta la perizia psichiatrica, l’attività giudicante subisce consistenti limitazioni. Si può
parlare di paralisi parziale. Il Giudice può assumere su richiesta del difensore, solo le prove che possono
condurre al proscioglimento dell’imputato e anche altre prove nel caso di pericolo di ritardo. Se la necessità
di provvedere sorge durante le indagini preliminari, la perizia è disposta solo su richiesta delle parti con le
forme dell’incidente probatorio, restando sospesi i termini per le indagini preliminari.

La disciplina dell’infermità mentale non opera per il giudizio di cassazione, per il procedimento di
esecuzione, per quello di sorveglianza. Qui valgono apposite disposizioni, poiché l’imputato non è presente.

Una volta accertato lo stato psichico dell’imputato, che impedisce la cosciente partecipazione al
procedimento pur manifestando allo stato carattere reversibile, il giudice emette ordinanza di sospensione
del procedimento a norma dell’art 71 comma 1. È ricorribile per cassazione e produce una pluralità di
effetti. Opera solo se non si deve emettere una sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento.
Il più rilevante effetto è l’obbligo di nominare un curatore speciale a favore dell’imputato, designando
preferibilmente, l’eventuale rappresentante legale. Al curatore speciale sono attribuiti una serie ampia di
diritti. Gli è consentito di ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza di sospensione, di assistere agli atti
disposti sulla persona dell’imputato nonché a quelli rispetto ai quali tale potere è riconosciuto all’imputato
stesso. Se la sospensione interviene nel corso delle indagini preliminari, operano i limiti del comma 3 art 70.
Ulteriori effetti sono l’obbligatoria separazione del processo e l’inoperatività della regola posta
dall’art 75 comma 3, sulla sospensione obbligatoria del processo civile .

Sul piano sostanziale, l’art 159 c.p. disponeva che il corso della prescrizione venisse sospeso quando il
procedimento o il processo penale fosse sospeso per impedimento delle parti. Pur preoccupandosi di far
salve le facoltà prevista all’art 71 comma 1 e 5. Il tentativo di contemperare il diritto di difesa con l’esigenza
della repressione penale è suscettibile di creare l’eterno giudicabile, vale a dire l’imputato che, affetto da
infermità psichica irreversibile, resta assoggettato alla giurisdizione penale per tutta la vita. Solo la
declaratoria di estinzione del reato per morte dell’incapace metteva fine agli effetti della doppia
sospensione. La Corte Costituzionale ha affrontato la tematica. Pur dichiarando, nel dispositivo, la
questione formalmente inammissibile, il giudice ha emanato una sentenza monito. In cui avvertiva come
non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato
nella presente pronuncia. Rimasto inoperoso il legislatore, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la
disciplina della prescrizione in parte qua, per un duplice profilo. Da un lato, l’incapacità irreversibile
determina effetti permanenti che contrastano con il progressivo venir meno dell’interesse della comunità
alla punizione del comportamento penalmente illecito e con il diritto all’oblio da parte dei cittadini.
Dall’altro, se l’incapacità è irreversibile risultano frustrate le finalità insite nelle norme sostanziali e
processuali, con il che le garanzie ivi previste si rovesciano nel loro contrario.
Per questo, occorre evitare che l’irreversibilità della condizione mentale dell’imputato impedisca la
decorrenza del termine prescrizionale del reato e di affermate il dovere del giudice di pronunciare la
sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato.

Però per i reati imprescrittibili, punibili con l’ergastolo, l’eterno giudicabile non scompariva dal sistema.
Allora, la legge del 2017 ha introdotto l’art 72 bis con l’intento di definire il procedimento in tempo
ragionevoli. Quindi, se dagli accertamenti risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la
cosciente partecipazione al procedimento in maniera irreversibile, il giudice revocata, se necessario,
l’ordinanza sospensiva, emette sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere. Così si
costruisce una condizione di improcedibilità in maniera armonica alla tendenza legislativa ad incrementare i
relativi casi alla luce dei vantaggi che ne discendono sul terreno dell’economia processuale. La declaratoria
di improcedibilità prevale su ogni altra formula di proscioglimento ivi compresa l’estensione del reato.
A prima vista, sembra incongruo il riferimento, esclusivo, all’emissione di una sentenza di improcedibilità
che, se del caso, impedirebbe l’emissione di un provvedimento di archiviazione. Ragioni di economia
processuale e il richiamo dell’art 72 bis all’art 70, infatti, inducono a ritenere praticabile l’archiviazione dove
si menziona la mancanza di una condizione di procedibilità.

Costruire l’incapacità a partecipare coscientemente al procedimento alla stregua di una causa di


improcedibilità, permette di procedere nuovamente se si scopre che il soggetto ha fraudolentemente
simulato l’infermità mentale. La riapertura del procedimento darà vita ad un procedimento incidentale
inteso ad accertare l’esistenza delle condizioni per procedere una seconda volta a carico del soggetto già
prosciolto. Questo avviene solo se lo stato d’incapacità viene meno o se si accerta che lo stato fu
erroneamente dichiarato.

Eccezioni all’art 72 bis, pronuncia della sentenza di non doversi procedere per incapacità irreversibile, sono
quelle fattispecie in cui si deve applicare una misura di sicurezza diversa dalla confisca. Applicare misure
di sicurezza personale presuppone la pericolosità del soggetto al momento del fatto. La misura di sicurezza
può essere solo provvisoria, non potendovi essere alcuna condanna per il reato addebitato. L’applicazione
provvisoria di tali misure impone lo svolgimento di accertamenti periodici sulla permanenza della
pericolosità sociale. Tuttavia, la legge 81 del 2014, ha introdotto un termine di durata massima per le
misure di sicurezza detentive, siano esse applicate in via provvisoria oppure in via definitiva. Escludendo
dalla portata della regola i reati puniti con l’ergastolo. Stando all’orientamento prevalente prima
dell’introduzione dell’art 72 bis, l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza detentiva si riteneva
potesse scattare solo per la persona afflitta da un vizio di mente al momento del fatto e non quando
l’infermità fosse sopravvenuta nel corso del processo, sebbene la persona fosse socialmente pericolosa. La
clausola finale dell’art 72 bis vale, pertanto, a coprire l’ipotesi in cui l’imputato, divenuto incapace di
partecipare irreversibilmente al procedimento, risulti anche socialmente pericoloso.

Un’interpretazione costituzionalmente doverosa degli arti 71 comma 1 e 72-bis, induce a ritenere che, a
fronte di uno stato di incapacità processuale dovrebbe, salvo per coloro ai quali è addebitato un reato
imprescrittibile, essere impedito che si determini l’effetto sospensivo sulla prescrizione. La stasi del
procedimento non è senza limiti, perché la sua durata è rapportata al termine prescrizionale. Se questo si
consuma allora l’esito è obbligato. Ma la sentenza costituzionale del 2015 impone, comunque, di emettere
una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere che dichiari l’estinzione del reato. Però
la riforma non è esaustiva. Infatti, nel caso in cui l’imputato la cui incapacità a partecipare al procedimento
sia irreversibile, a cui sia stato addebitato un reato imprescrittibile, a cui sia stata applicata una misura di
sicurezza detentiva, nei confronti del quale gli accertamenti periodici continuino a dare esito positivo circa
la permanenza della pericolosità, può dirsi ancora una persona eternamente giudicabile.

L’ordinanza di sospensione del processo ha un’efficacia temporalmente circoscritta. Viene


immediatamente revocata (art 72 comma 2) quando sono integrati i presupposti di una sentenza di non
luogo a procedere o di proscioglimento, oppure sia acquisita la certezza che l’imputato è in grado di
partecipare coscientemente al procedimento. Per evitare comportamenti simulatori si impone al giudice di
verificare lo stato psichico dell’imputato con frequenze periodiche semestrali mediante appositi
accertamenti peritali. L’inosservanza delle prescrizioni citate si risolve in una causa di nullità a regime
intermedio, essendo in gioco l’intervento dell’imputato.

Il giudice non ha il potere di disporre il ricovero dell’imputato in un’idonea struttura del servizio
psichiatrico ospedaliero. Ai sensi dell’art 73 vi provvede l’autorità competente, il sindaco, per l’adozione
delle misure previste dalla normativa sul trattamento sanitario delle malattie mentali, sulla base di una
informativa del giudice. Se vi è il pericolo di ritardo, il giudice può ordinare, anche d’ufficio, il ricovero
provvisorio. Se è stata disposta o si deve disporre la custodia cautelare, il ricovero provvisorio è ordinato
dal giudice adottando i provvedimenti necessari per prevenire il pericolo di fuga. Qui il ricovero è figura
autonoma, divenendo misura alternativa alla custodia in carcere.

LA PARTE CIVILE è una delle parti c.d. eventuali, potendo il processo penale prescindere dalla loro
presenza. L’intervento della parte civile è finalizzato ad ottenere le restituzioni o il risarcimento del danno
ricollegabili al reato oggetto di accertamento in sede penale.

La normativa concernente la parte civile riflette un’impostazione differenziata da quella risultante dal
codice del 1930.
Elementi della precedente regolamentazione erano la pregiudizialità necessaria del processo penale
rispetto a quello civile di danno, il processo civile rimaneva sospeso fino alla formazione del giudicato
penale, le preclusioni ed i vincoli che la pronuncia irrevocabile del giudice penale esercitava nei confronti
dell’azione civile riparatoria ex delicto proposta in sede propria. Inoltre, dati gli scarsi poteri riconosciuti
all’offeso dal reato in quanto tale, indipendentemente dalla sua costituzione come parte civile, emergono
con chiarezza i contorni di un sistema capace di esprime una forte sollecitazione, nei confronti dei soggetti
legittimati, ad inserire la pretesa restitutoria o risarcitoria all’interno del processo penale.
Nel nuovo contesto processuale, in aderenza alla direttiva della legge delega, tale sollecitazione è venuta
meno, anzi risulta opposta. Allo stesso tempo, si è predisposta per la parte civile una normativa in linea con
il suo ruolo istituzionale all’interno del processo penale, che è quello di un soggetto proteso verso il
soddisfacimento delle sue pretese di carattere civilistico.

Per quanto riguarda la sua legittimazione, cioè la legitimatio ad causam, l’art 74 stabilisce che l’azione
civile per la restituzione e risarcimento del danno, possa essere esercitata dal soggetto che mira alle
restituzioni o al risarcimento del danno cagionato dal reato o dai suoi successori universali. Il danneggiato
(non necessariamente coincidente con la parte civile) può costituirsi parte civile anche per mezzo di un
procuratore speciale, fermo restando che però difetta di legittimazione il sostituto eventualmente
nominato dal difensore della parte civile. Laddove il codice di rito consente il compimento di un atto per
mezzo di un procuratore speciale, se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la
sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo. Una volta costituitosi il danneggiato, in base
al principio della immanenza della costituzione di parte civile, questo partecipa al processo in tutti i suoi
gradi, compreso l’eventuale giudizio di rinvio, senza dover assumere ulteriori iniziative.

Qualora il danneggiato non abbia capacità processuale, questo deve essere rappresentato, assistito o
autorizzato nelle forme prescritte per l’esercizio delle azioni civili.

Dopo aver posto questa regola, l’art 77 prevede due diversi correttivi per l’ipotesi in cui risulti impedito
l’inserimento dell’azione civile all’interno del processo penale. Primariamente si prevede la possibilità della
nomina di un curatore speciale, necessaria quando manchi la persona a cui spetterebbe la rappresentanza
o l’assistenza e ricorrano ragioni di urgenza, oppure quando vi è un conflitto di interessi tra incapace e il suo
legale rappresentante. Secondariamente viene consentito che il PM, sul presupposto di una assoluta
urgenza, eserciti l’azione civile nell’interesse del minore o dell’infermo di mente, finché non subentri il
legale rappresentante o il curatore speciale. Conformemente alla normativa del processo civile, la parte
civile può stare in giudizio solo con il ministero di un difensore, munito di procura speciale. Quindi, ai fini
di una regolare costituzione devono essere rispettate le formalità stabilite dall’art 78: cioè unitamente alla
procura deve depositarsi nella cancelleria del giudice procedente, o in udienza, una dichiarazione contente,
a pena di inammissibilità, gli elementi indicati dall’art 78. Qualora non sia stata presentata in udienza,
occorre che venga notificata al PM e all’imputato, rispetto ai quali avrà effetto dal giorno dell’avvenuta
notificazione.

L’art 79 detta poi un termine iniziale ed uno finale, tra i quali deve collocarsi la costituzione di parte civile.
Il termine iniziale è “per l’udienza preliminare”. Dunque, non solo per l’udienza ma anche precedentemente
alla stessa purché sia stata esercitata dal PM l’azione penale e quindi a partire dal deposito della richiesta
di rinvio a giudizio ex art 416. Nel corso delle indagini preliminari, resta esclusa la partecipazione del
danneggiato, che può avvalersi dei diritti e facoltà che la legge gli riconosce, solo se contemporaneamente
riveste la qualifica di offeso.
Il termina finale, a pena di decadenza, coincide con l’effettuazione, da parte del giudice dibattimentale di
primo grado, degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti di cui all’art 484. Fatta salva l’ipotesi di
nuove contestazioni nel corso del dibattimento, ciò vuol dire che conseguentemente la costituzione della
parte civile risulta preclusa, una volta iniziata la trattazione delle questioni preliminari.

La costituzione di parte civile non implica una stabile permanenza della medesima nel processo penale,
potendovi accorrere una sua esclusione o un suo spontaneo recesso.
1° ipotesi di esclusione può essere conseguenza di una richiesta motivata, proveniente dal PM,
dall’imputato e dal responsabile civile. Con tale richiesta si possono denunciare vari profili di illegittimità,
come la tardività della costituzione, il difetto di legittimazione o capacità processuale, l’inesistenza di un
danno risarcibile. Il giudice procedente deve pronunciarsi senza ritardo con un’ordinanza sulla richiesta di
esclusione. La valutazione giudiziale non deve andare oltre l’accertamento diretto a verificare la mancanza
del fumus boni iuris. L’eventuale esclusione, disposta in sede di udienza preliminare, non preclude la
possibilità di una sua costituzione entro il termine finale previsto.
Anche per la richiesta di esclusione occorre rispettare dei termini perentori che variano a seconda della
fase processuale in cui la costituzione di parte civile è avvenuta.
Come detta l’art 80 comma 2 e 3, se la parte civile si è costituita per l’udienza preliminare, la richiesta deve
essere effettuata, in forma scritta fuori dell’udienza oppure oralmente in sede di udienza preliminare o
dibattimentale, prima che siano terminati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti. Se la parte
civile si è costituita nella fase degli atti preliminari al dibattimento o nel corso degli atti introduttivi del
medesimo, la richiesta di esclusione deve avanzare in sede di trattazione delle questioni preliminari. La
proposizione è preclusa se la questione preliminare non viene proposta subito dopo che è compiuta per la
prima volta l’accertamento della costituzione delle parti.
L’eventuale rigetto della richiesta in sede di udienza preliminare non preclude la riproposizione tempestiva
in dibattimento, non essendovi un divieto.

2° ipotesi di esclusione può essere disposta ex officio dal giudice, il quale, quando accerti l’inesistenza dei
requisiti stabiliti per la costituzione di parte civile, può provvedere in conformità fino a che non sia stato
aperto il dibattimento di primo grado, indipendentemente dalla circostanza che sia stata precedentemente
rigettata una richiesta di esclusione.

Le ordinanze con cui la parte civile è ammessa o esclusa dal processo penale sono di carattere
processuale. L’ammissione della parte civile non pregiudica la decisione sul suo diritto alle restituzioni e al
risarcimento del danno. La sua esclusione è priva di riflessi sull’esercizio dell’azione civile in sede propria.

Il danneggiato ha anche la possibilità di recedere spontaneamente, espressamente o tacitamente,


revocando la costituzione di parte civile. O perché ha concluso un accordo con l’imputato o perché ritiene i
suoi interessi meglio tutelati nel processo civile. La revoca può essere espressa, interviene in ogni stato e
grado del procedimento. Occorre un’apposita dichiarazione, personale o per mezzo di un procuratore
speciale. Può essere orale o scritta. Nel secondo caso deve essere depositata in cancelleria del giudice
procedente e notificata alle parti. Nel caso di revoca tacita o presunta, si parla di ipotesi tassativamente
indicate dall’art 82 comma 2. Il quale menziona la mancata presentazione, in sede di discussione
dibattimentale, delle conclusioni riservate al difensore della parte civile ed il promovimento dell’azione di
danno davanti al giudice civile. La revoca non preclude il successivo esercizio dell’azione aquiliana nella
sede propria, pur dovendosi tenere presente il disposto il quale detta che il giudizio civile resta sospeso,
finché, in sede penale, non venga pronunciata la sentenza non più soggetta ad impugnazione.

I RACCORDI TRA PROCESSO PENALE E AZIONE CIVILE da reato sono il frutto di un’impostazione antitetica
rispetto a quella risultante dal codice del 1930, che favoriva la trattazione congiunta delle due regiudicande
da parte del giudice penale. Tale opinione si fonda sull’art 75 che opera una scelta a favore dell’autonomia
dei rispettivi giudizi, nell’occuparsi delle interferenze possibili tra processo penale e azione di danno
esercitata davanti al giudice civile. Precisamente, la conferma sta nel 2° e 3° comma. Mentre nel 1° ci si
limita solo a disciplinare la trasferibilità nel processo penale, dell’azione che il danneggiato dal reato abbia
promosso davanti al giudice civile.
Il trasferimento è subordinato a due condizioni che riguardano lo stadio di progressione del giudizio a quo
(giudice di grado inferiore in una determinata vicenda processuale) e quello del giudizio ad quem (giudice a
cui si ricorre impugnando una sentenza del giudice inferiore). Per cui se da un lato l’attore è vincolato alla
sua scelta iniziale dopo la pronuncia in sede civile di una sentenza di merito anche non definitiva, dall’altro
non è consentito l’inserimento dell’azione civile nel processo penale, una volta spirato il termine finale per
la costituzione di parte civile. Il cambiamento di sede processuale provoca l’estinzione del giudizio civile per
rinuncia agli atti e la devoluzione al giudice penale della decisione sulle spese afferenti al processo civile
interrotto.
Art 75 comma 2° -> a prescindere dall’ipotesi di una volontà del danneggiato di trasferire la sua pretesa
risarcitoria nell’ambito del processo penale, nulla impedisce che l’azione di danno proceda in assoluta
autonomia rispetto al parallelo processo penale. Tale disposizione deve essere coordinata con gli articoli
651 e 652 (EFFICACIA DELLA SENTENZA PENALE DI CONDANNA NEL GIUDIZIO CIVILE O AMMINISTRATIVO DI
DANNO ED EFFICACIA DELLA SENTENZA DI PROSCIOGLIMENTO PER PARTICOLARE TENUITA’ DEL FATTO NEL
GIUDIZIO CIVILE O AMMINISTRATIVO DI DANNO), dai quali emerge una regolamentazione che può essere
sintetizzata: qualora il processo penale si concluda con sentenza irrevocabile di condanna, il danneggiato
può sfruttare nel giudizio civile, l’efficacia di giudicato riconosciuta alla sentenza dall’art 651, mentre non
può accadere il contrario, poiché è esclusa l’efficacia di giudicato della sentenza assolutoria.

L’art 75 comma 3 -> eccezione alla regola. Ricalca il codice previgente, disponendo che il processo civile
rimanga sospeso in attesa del giudicato penale, se l’azione sia stata proposta in sede civile dopo la
sentenza penale di primo grado o dopo la precedente costituzione di parte civile nel processo penale,
salve le eccezioni previste dalla legge. Quindi il giudizio civile prosegue senza interruzioni quando 1) il
processo penale è stato sospeso per incapacità dell’imputato 2) vi è stata esclusione della parte civile 3)
sebbene vi siano i presupposti dettati per legge per tale adempimento, non risulta possibile notificare
personalmente all’imputato assente l’avviso dell’udienza preliminare 4) la parte civile ha abbandonato il
processo penale in seguito alla sua mancata accettazione del rito abbreviato 5) l’esodo della parte civile
consegue alla pronuncia di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti 6) viene accolta la
richiesta di sospensione con messa alla prova 7) il danneggiato, già parte civile, esercita l’azione civile in
sede proprio, dopo che il giudice penale ha dichiarato estinto il reato per intervenuta oblazione.

Il soggetto danneggiato dal reato può agire per le restituzioni ed il risarcimento del danno anche verso la
persona fisica o l’ente plurisoggettivo che è tenuto, secondo le leggi civile, a rispondere per il fatto
dell’imputato. Questo, obbligato in solido con il protagonista del processo penale, è chiamato dal codice il
RESPONSABILE CIVILE.
Le situazioni nelle quali la legge civile configura una responsabilità per fatto altrui sono l’art 1784 c.c.
(Responsabilità dell’albergatore per le cose consegnategli dai clienti), l’art 2047 ( responsabilità della
persona tenuta alla sorveglianza per il danno cagionato dall’incapace), l’art 2048 (responsabilità dei genitori
e dei tutori per i danni cagionati dal fatto illecito dei domestici e dei commessi, l’art 2053 (responsabilità del
proprietario di un edificio per i danni provocati dalla sua rovina). Ulteriori ipotesi sono rinvenibili al di fuori
del Codice civile come nel codice navale oppure nel caso dei reati commessi col mezzo della stampa.

Profili processuali -> la presenza del responsabile civile è strettamente collegata all’inserimento e al
mantenimento, da parte del danneggiato, della pretesa restitutoria o risarcitoria all’interno del processo
penale. Quindi l’intervento del responsabile civile non è possibile prima della costituzione di parte civile. E
al recesso o all’esclusione della parte civile segue l’estromissione del responsabile civile.

L’art 83 comma 1 prevede che il responsabile civile venga citato su richiesta di parte e che possa
intervenire volontariamente nel processo penale. Possono richiedere la citazione solo la parte civile, che
ha interesse a far intervenire il coobbligato solidale, e il PM, limitatamente all’ipotesi in cui, sulla base di
una assoluta urgenza, abbia esercitato l’azione civile a favore dell’infermo di mente o del minore. Il ruolo di
imputato è incompatibile con il responsabile civile, poiché se condannato è comunque civilmente
responsabile in solido anche per il fatto dei coimputati. Ma la citazione dell’imputato come responsabile
civile è consentita per il fatto dei coimputati, giocando d’anticipo rispetto ad una eventuale sentenza di
proscioglimento o di non luogo a procedere nei suoi confronti.

L’art 83 comma 2 stabilisce i tempi della richiesta, dettando solo il termine finale. Cioè deve essere
proposta al più tardi per il dibattimento, formula che non ostacola una citazione del responsabile civile per
l’udienza preliminare.
L’art 83 comma 3 specifica il contenuto del decreto con cui il giudice procedente ordina la citazione. Deve
cioè contenere la generalità della parte civile, l’indicazione delle domande avanzate nei confronti del
responsabile civile, l’invito a costituirsi, data e sottoscrizioni del giudice e dell’ausiliario. Ma tralascia un
elemento essenziale di qualsiasi citazione, la data ed il luogo dell’udienza, rispetto alla quale dovrà essere
garantita l’osservanza dei termini dilatori previsti normalmente. Copia del decreto deve essere notificata a
cura della parte civile alle parti che potrebbero avere interesse all’estromissione del responsabile civile. La
citazione è nulla qualora il responsabile civile non sia stato in grado di esercitare i suoi diritti nell’udienza
preliminare o nel giudizio, ovvero qualora risulti nulla la relativa notificazione.

Art 84 comma 1 -> il responsabile civile, regolarmente citato, Può rinunciare al processo, ciò non elimina il
potere del giudice di addebitargli la responsabilità per il fatto dell’imputato. Ma viceversa, può decidere di
costituirsi e solo in questa ipotesi, assumerà la qualità di imputato avvalendosi delle relative facoltà.

Premesso che anche il responsabile civile sta in giudizio col ministero di un difensore. È estesa ad esso la
regola dell’immanenza della costituzione (art 84 comma 4). Il RC può costituirsi in ogni stato e grado del
processo, anche per mezzo di un procuratore speciale, depositando nella cancelleria del giudice procedente
o presentando in udienza, una dichiarazione che deve contenere, a pena di inammissibilità, gli elementi
indicati al comma 2 dell’art 84. Se la citazione è regolare, l’assenza del responsabile civile non determina la
sospensione o il rinvio del dibattimento, né una nuova fissazione dell’udienza preliminare. Gli deve però
essere notificato l’estratto della sentenza insieme all’avviso di deposito della stessa.

Art 85 (intervento volontario) -> Anche se non è stato citato, il responsabile civile può intervenire
volontariamente nel processo penale, sempre che vi sia stata costituzione di parte civile o il PM abbia agito
come supplente. La forma dell’intervento volontario del responsabile civile deve seguire quanto disposto
all’art 84 comma 1 e 2 e all’art 85 comma 3, il quale impone la notifica della dichiarazione, presentata fuori
udienza, alle altre parti. Stabilendo che avrà effetto dal giorno della rispettiva notificazione. Esiste un
termine finale, a pena di decadenza, che coincide con l’effettuazione, nel dibattimento di primo grado,
degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti. Il 2° comma esclude la facoltà di presentare la lista
di testimoni, periti e consulenti tecnici, qualora l’intervento volontario sia avvenuto al di là del limite
fissato.

L’estromissione del RC può avvenire o per revoca della costituzione di parte civile o di esclusione, ma può
avvenire anche su richiesta di parte o di ufficio (art 86- 87). Sono legittimate a proporre l’esclusione sono
l’imputato, la parte civile e il PM. Ad esse si aggiunge il responsabile civile che può chiedere la propria
esclusione, oltre che per ragioni attinenti alla legittimazione, anche qualora gli elementi di prova raccolti
prima della citazione possano recare pregiudizio alla sua difesa. La richiesta, motivata, di esclusione, sulla
quale il giudice decide - con ordinanza, senza ritardo - deve essere proposta, a pena di decadenza, non
oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nella udienza preliminare o nel
dibattimento. Relativamente alla fase del dibattimento è più corretto parlare di un momento successivo,
cioè quello delle questioni preliminari, in quanto è qui che si colloca l’eventuale esclusione del RC
(responsabile civile).
La revoca può avvenire d’ufficio da parte del giudice, art 87. Sarà disposta con ordinanza inoppugnabile, sia
qualora si accerti la mancanza dei requisiti per la citazione o per l’intervento del RC, sia qualora venga
accolta dal giudice la richiesta di giudizio abbreviato. Questa seconda ipotesi si basa sull’esigenza di
semplificazione, sentita nei giudizi speciali, e sulle esigenze fisionomiche del giudizio abbreviato che implica
una decisione allo stato degli atti, cioè sul materiale raccolto durante le indagini preliminari, da cui il RC è
escluso.
Se l’esclusione del RC è stata disposta su richiesta di parte civile, viene meno, per il soggetto danneggiato
dal reato, la possibilità di esercitare l’azione riparatoria ex delicto in sede propria.
In determinati casi, si parla di una persona (fisica o giuridica) che può essere assoggetta, in via sussidiaria
ed eventuale, ad una obbligazione civile pecuniaria pari all’importo della multa o dell’ammenda inflitta al
condannato. Più esattamente si può affermare che la responsabilità della PERSONA CIVILMENTE
OBBLIGATA si concretizza nel momento in cui il condannato risulta insolvibile . Non è prevista la
possibilità di un intervento volontario, rispetto al quale la persona civilmente obbligata non avrebbe
interesse. Poiché se rimane fuori dal processo penale risulta scongiurata l’eventualità di una sua condanna.
Può essere citata su richiesta del PM o dell’imputato, per l’udienza preliminare o per il giudizio (art89).
L’interesse del PM è che la sanzione pecuniaria non resti infruttuosa. L’interesse dell’imputato è che la pena
pecuniaria non resti insoluta, poiché in tal caso questa verrebbe convertita in libertà controllata o in lavoro
sostitutivo.
La Citazione, Costituzione, l’Esclusione della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria è trattata
tramite rinvio alla normativa dettata per il responsabile civile, escludendo tuttavia l’applicabilità del
comma 3° art 87. La sua esclusione non viene disposta da parte del giudice che accoglie la richiesta del
giudizio abbreviato.

Altre parti eventuali nel processo sono gli enti fornitori di personalità giuridica, le società e le
associazioni anche prive di personalità giuridica. A cui si possono irrogare sanzioni amministrativi se
vengono accertati reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da parte di persone che rivestano
funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente, nonché di persone che ne esercitano la
gestione e il controllo, ed infine di persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei soggetti prima citati.
La responsabilità amministrativa e le relative sanzioni possono venire in rilievo solo se espressamente
previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto. Questa forma di responsabilità, al
momento, ha un ambito di applicazione circoscritto ad un ristretto numero di delitti dolosi.

La cognizione dell’illecito amministrativo addebitabile all’ente appartiene al giudice penale competente


per il reato dal quale l’illecito amministrativo dipende. Se l’ente partecipa al procedimento penale con il
proprio rappresentante legale, si deve costituire depositando in cancelleria una dichiarazione contenente
oltre alla denominazione e alle generalità del rappresentante, il nome del difensore, la sottoscrizione di
questo, la dichiarazione o l’elezione di domicilio. La partecipazione dell’ente è solo eventuale. Se non si
costituisce si procede alla dichiarazione di contumacia. Tenendo conto del fatto che la categoria in
questione è stata eliminate nel 2014, si deve ovviare il problema in via interpretativa. Ritenendo applicabile
la normativa vigente dell’imputato assente.

PERSONA OFFESA DAL REATO diversa dalla parte civile. Alla persona offesa dal reato, titolare dell’interesse
protetto dalla norma penale che si assume violata, è attribuibile la qualifica di soggetto, qualora decida di
intervenire nel processo. Non gli viene attribuita la qualifica di parte. Nonostante vi sia una disciplina più
adeguata nel codice del 1930. Ancora oggi, nel nostro ordinamento, alla persona offesa dal reato è
riservato un ruolo non particolarmente incisivo. Il panorama è differente se si prendono in considerazione
le indicazioni desumibili dalle fonti sovranazionali europee, in cui è stabilito che è compito dei singoli Stati il
compito di assicurare un ruolo effettivo e appropriato alla vittima che intervenga nel processo penale.
Importante è la direttiva del 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, che detta norme minime in
materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Per le vittime di reato è costante il pericolo
dettato dalla vittimizzazione secondaria, istaurata per mezzo del processo penale.

È l’influenza delle direttive europee sul legislatore italiano che lo ha portato ad integrare la normativa
originariamente contenuta nel c.p.p., considerando più attentamente le esigenze della persona offesa, la
quale si può avvalere, ora, di maggiori garanzie. Ciò è avvenuto con il d.l. del 2013 n 93 per contrastare la
violenza di genere. Con la Convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione della violenza contro le
donne e la lotto contro la violenza domestica. Il d.lgs. del 2014 n 24 che ha represso e prevenuta la tratta
degli esseri umani, proteggendo le vittime. Il d.lgs. del 2015 n 9 che ha potenziato la protezione delle
vittime, che versano in particolari condizioni di vulnerabilità, informando la persona offesa che può
richiedere un ordine di protezione europeo, che permette di estendere le misure per la sua tutela al
territorio di un altro SM nel quale questa risieda o intenda trasferirsi. Il più recedenti d.lgs del 2015 n 212
con cui si sono attuate le norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

La più importante novità sta all’art 90-quater in cui si dettano i criteri con cui si desume se la persona
offesa versa in una condizione di particolare vulnerabilità. Gli elementi da considerare sono l’età,
l’eventuale stato di infermità o deficienza psichica, il tipo di reato, la modalità e le circostanze del fatto per
il quale si procede. Occorre poi accertare se il reato è commesso con violenza o odio razziale, se è
riconducibile alla criminalità organizzata o terrorismo, anche internazionale, o alla tratta di essere umani, se
ha intenti discriminatori, se la persona è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente
dall’autore del reato. Nel caso in cui si confermi la sua particolare vulnerabilità, vengono assicurate varie
forme di tutela prevista dall’art 398 comma 5 ter e da altre disposizioni del d. lgs del 2015 n 212. Sono
disposizioni, il cui intento comune è rispettare il più possibile la fragilità psico-emotiva di persone
seriamente ferite dal reato commesso nei loro confronti.

Stessa ratio è nella legge del 2015 n 208 (legge di stabilità del 2016) che stabilisce l’attivazione, nelle
aziende sanitarie e ospedaliere, di un protocollo di protezione denominato “Percorso di tutela delle vittime
di violenza, finalizzato a garantire supporto medico e psicologico alle persone vulnerabili vittime di altrui
violenza, di violenza sessuale, maltrattamenti o persecuzione”. Sulla stessa linea si pone il d.p.c.m. del 2017
recante le “Linee guida nazionali per le aziende sanitarie e ospedaliere in tema di soccorso e assistenza
socio-sanitaria alle donne che subiscono violenza”.
Altro intervento legislativo è la l. del 2016 n 122 che è finalizzata a garantire un indennizzo da parte dello
Stato alle vittime di un reato intenzionale violento, anche se commesso in uno SM diverso da quello in cui il
richiedente l’indennizzo risiede abitualmente. La richiesta è formulabile da chi è rimasto vittima sia di un
reato doloso commesso con violenza alla persona, sia del reato di intermediazione illecita e sfruttamento
del lavoro. L’indennizzo mira al rimborso delle spese mediche e assistenziali, tranne che nelle ipotesi di
omicidio e di violenza sessuale, essendo in tali due casi elargito anche in assenza delle spese.
I presupposti per il conseguimento dell’indennizzo sono la titolarità di un reddito annuo non superiore a
quello previsto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. E l’infruttuoso esperimento dell’azione
esecutiva nei confronti dell’autore del reato. Salva l’ipotesi in cui il giudice penale abbia dichiarato che
l’autore è rimasto ignoto o l’ipotesi in cui l’autore del reato abbia ottenuto l’ammissione al gratuito
patrocinio nel procedimento penale o civile sfociato nell’accertamento della sua responsabilità.

Nonostante tali provvedimenti legislativi abbiano diminuito la disattenzione del legislatore verso le esigenze
della persona offesa, gli interventi in questione rimangono privi di sistematicità ed inadeguati per difetto
rispetto alle direttive europee cui intendevano dare attuazione.

Dal c.p.p. emerge che l’intento del legislatore è di tenere ben distinta la posizione della persona offesa da
quella della parte civile, al fine di caratterizzare con chiarezza la parte civile come la parte che interviene
nel processo penale per fare valere la sua pretesa restitutoria o risarcitoria. In questo modo si voleva
reagire a prassi distorsive, incoraggiate dagli esigui poteri riconosciuti alla persona offesa dal codice
abrogato. Sul piano dei risultati, l’operazione è riuscita per la fase delle indagini preliminari. Alla maggiore
incisività della persona offesa si contrappone la latenza della parte civile. Da questo momento però alla
persona offesa dal reato in quanto tale vengono riconosciuti poteri assai ridotti. È vero che in molti casi,
coincidono in capo al medesimo soggetto sia le qualifiche di danneggiato che di persona offesa, quindi
l’ultima potrà costituirsi come parte civile. Ciò però può perpetrare la confusione tra persona offesa e parte
civile, implicando un disincentivo nei confronti dell’offeso-danneggiato ad esercitare l’azione civile nella sua
sede naturale, contrariamente a ciò che è spiegato nei rapporti tra le due giurisdizioni tracciate dal
legislatore nell’art 75.
I diritti e le facoltà della persona offesa sono dettati agli articoli 90 – 90quater.
Art 90 comma 1 rinvia ai diritti e alle facoltà della persona offesa, a prescindere da tali attribuzioni, questa
può presentare memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, indicare elementi di prova. Il binomio
diritti e facoltà trovano la loro giustificazione nella diversa robustezza delle posizioni soggettive di cui è
titolare la persona offesa. Cioè è necessario verificare se l’iniziativa della persona offesa corrisponde
oppure no ad una situazione di obbligo in capo al destinatario dell’iniziativa, sia esso il giudice o il PM. Se vi
corrisponde allora si potrà parlare di diritto. In contrario si parlerà di facoltà.

Lungo l’intero arco del procedimento, la persona offesa è legittimata a presentare memorie. Cioè elaborati
scritti di vari contenuti, con cui si possono avanzare istanze, illustrare questioni o toccare temi rilevanti per
il processo in corso. Le memorie saranno indirizzate al PM (per prospettare una diversa ricostruzione del
fatto criminoso o per sollecitare la richiesta di una misura cautelare) o al giudice procedente (per eccepire
una nullità). In entrambe le ipotesi, a differenza delle memorie provenienti dalle parti e con destinatario il
giudice, non vi è un dovere di tali soggetti di deliberare sulle medesime.
La persona offesa ha anche il potere di indicare elementi di prova, in ogni stato e grado del processo. Tale
potere viene esercitato nelle indagini preliminari, al fine di spingere il PM a verificare una certa ipotesi
accusatoria. Anche se non si può escludere che venga esercitato nei confronti del giudice, al fine di indurlo
ad intraprendere quelle iniziative che la legge gli consente in materia di prova.

Un settore in cui il ruolo della persona offesa risulta particolarmente valorizzato è la sospensione del
processo con messa alla prova. Settore che ha affiancato la omogenea figura di probation processuale
operante da tempo nel settore minorile. La persona offesa partecipa sia all’udienza in cui si esaminano i
presupposti della sospensione, sia quando si valuta l’esito della messa alla prova nonché nell’eventuale
revoca della misura sospensiva. Nell’ipotesi in cui sia praticabile e abbia successo l’attività di mediazione tra
imputato e persona offesa, tale circostanza costituisce la premessa di una valutazione positiva della prova e
della conseguente declaratoria di estinzione del reato.

Anche per la persona offesa si pone la questione della capacità processuale, l’art 90 comma 2. Considera il
minorenne e l’interdetto per infermità di mente o inabilitato, rinviando a quanto disposto nel Codice
penale, in tema di esercizio del diritto di querela. Per i minori fino ai 14 anni e gli interdetti per infermità di
mente devono essere rappresentati dai genitori e dal tutore. Per i minori sopra i 14 anni o inabilitati, la
legittimazione ad esercitare i diritti e le facoltà riconosciuti alla persona offesa spetta tanto al diretto
interessato, quanto ai genitori, curatore e tutore. Inoltre, si autorizza la nomina di un curatore speciale se
ne ricorrono i presupposti. Qui, però, la legge autorizza ma non obbliga la persona offesa a nominare un
difensore, il quale deve ritenersi legittimato a svolgere anche le investigazioni difensive.

L’art 90 è stato poi modificato dal d.lgs. del 2015, che ha integrato il 3° comma ed aggiunto il comma 2-bis.
Quest’ultimo disciplina l’ipotesi di incertezza circa la minore età della persona offesa. Stabilendo che il
giudice disponga, anche d’ufficio, una perizia e si aggiunge che, se, ciò nonostante, il dubbio non viene
sciolto, la minore età è presunta. Questa presunzione opera però solo per i profili processuali non quelli
strettamente penali. Nel 3° comma si sancisce ope legis un’estensione soggettiva delle prerogative
riservate alla persona offesa, allorché quest’ultima sia deceduta in conseguenza del reato.
Le facoltà e i diritti riservati alla persona offesa sono attribuiti ad una cerchia più ampia di persone offese
grazie al d.lgs del 2015 n 212. Oggi si avvantaggiano dell’estensione, i prossimi congiunti di chi è deceduto
in conseguenza del reato, le persone legate ad esso da una relazione affettiva o che convivano
stabilmente con questo. Oggi, tra i prossimi congiunti si ricomprende anche la parte di un’unione civile tra
persone dello stesso sesso.

Il d.lgs del 2015 ha anche introdotto l’art 90 bis e 90 ter. L’art 90 bis detta il diritto della persona offesa ad
essere informata su una pluralità di profili della vicenda processuale che la riguarda. La persona offesa
deve essere informata in una lingua a lei comprensibile e sin dal primo contatto con l’autorità procedente.
Le informazioni riguardano: le modalità di presentazione degli atti di denuncia o querela, il ruolo che la
persona offesa assume nel corso delle indagini e del processo, il diritto ad avere conoscenza della data,
luogo del processo e della imputazione e il diritto a ricevere notifica della sentenza, in caso di parte civile;
riguarda la facoltà di ricevere comunicazione del procedimento e delle iscrizioni nel registro delle notizie di
reato; la facoltà di essere avvisata della richiesta di archiviazione; la facoltà di avvalersi della consulenza
legale e del patrocinio a spese dello Stato; le modalità di esercizio del diritto all’interpretazione e alla
traduzione di atti del procedimento; le eventuali misure di protezione a suo favore; i diritti riconosciuti dalla
legge nel caso in cui risieda in uno SM diverso da quello in cui è stato commesso il reato; le modalità di
contestazione di eventuali violazioni dei suoi diritti; le autorità cui rivolgersi per informazioni; le modalità di
rimborso spese sostenute per la partecipazione al procedimento; la possibilità di richiedere risarcimento dei
danni da reato; la possibilità che il procedimento venga definito con remissione di querela o attraverso la
mediazione; le facoltà che gli spettano nei procedimenti in cui l’imputato formula richiesta di sospensione
del procedimento con messa alla prova o in quelli in cui è applicabile la causa di esclusione della punibilità
per particolare tenuità; le strutture sanitarie sul territorio, le case famiglia, i centri antiviolenza e le case
rifugio.

Anche l’art 90 ter vuole fornire un elemento di conoscenza alla persona offesa, non però sul funzionamento
dei meccanismi processuali. Vuole che si informi immediatamente la persona offesa quando l’imputato, il
condannato o l’internato non è più in vinculis. O per scarcerazione o per cessazione della misura di
sicurezza, o per evasione o per volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura di sicurezza
detentiva. Per procedere a tale comunicazione vi devono essere 3 condizioni. Il processo penale deve
riguardare o avere riguardato un delitto commesso con violenza alla persona. Bisogna che la persona offesa
abbia richiesto di essere informata. Si deve potere escludere che dalla comunicazione alla persona offesa
derivi il pericolo concreto di un danno per l’imputato, il condannato, l’internato. Danno ricollegabile ad
eventuali condotte di carattere ritorsivo.

Le comunicazioni previste all’art 90 bis e 90 ter non sono previste a pena di nullità. La loro eventuale
omissione provoca una semplice irregolarità.

Anche gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato possono essere soggetti
processuali, art 91, equiparabili alla persona offesa. La ratio dell’articolo si comprende con il solo tener
presente che, oltre ai reati esclusivamente lesivi di interessi individuali, esistono reati che violano interessi
collettivi o diffusi. Infatti, se si rispettano alcuni requisiti, gli enti e le associazioni aventi finalità di tutela
degli interessi lesi dal reato possono esercitare le facoltà e i diritti attribuiti alla persona offesa dal reato. In
questo modo si attua la direttiva risultante dalla legge delega, la cui adozione è stata influenzata anche da
due ragioni. La prima è l’opportunità di ricevere l’apporto che gli enti collettivi sono in grado di fornire per
la repressione di un determinato reato, quando il processo penale verte sulla violazione di un interesse
afferente all’area di sua pertinenza. La seconda è la consapevolezza delle forzature del passato, quando non
essendo il ruolo di tali soggetti legislativamente disciplinato, la partecipazione al processo era assicurata
usando improprie costituzioni di parte civile.

Con il nuovo codice, l’area è definita con chiarezza. Se l’ente collettivo risulta direttamente danneggiato dal
reato, si può costituire parte civile del processo penale. Se manca tale presupposto e si soddisfano i
requisiti previsti all’art 91, l’ente collettivo partecipa al processo in veste di accusatore privato al fianco
della persona offesa disposta ad accettare il suo intervento, senza che ciò comporti alcun trasferimento di
poteri dall’accusatore privato principale all’ente collettivo. La coincidenza di poteri tra la persona offesa e
la sua eventuale appendice non è perfetta. Con questo si allude alla diversa ampiezza di diritti e facoltà
riconosciuti in relazione a specifici contesti processuali. Esempio: l’informazione di garanzia da inviare alla
persona offesa ma non all’ente collettivo e alla facoltà di assumere le iniziative previste dall’art 505
(FACOLTA’ DEGLI ENTI E DELLE ASSOCIAZIONI RAPPRESENTATIVI DI INTERESSI LESI DAL REATO).
Gli articoli 91 e 92 si concentrano, nello stabilire i requisiti ai quali è subordinata l’acquisizione della
qualifica di soggetto processuale legittimato a svolgere il ruolo di accusatore privato sussidiario,
rispettivamente (91) sugli attributi idonei ad una appropriata caratterizzazione dell’ente collettivo e (92)
sui rapporti intercorrenti tra l’ente medesimo e il soggetto passivo del reato.
L’articolo 91 richiede che l’ente collettivo non abbia scopo di lucro e che gli siano state riconosciute in forza
di legge finalità di tutela degli interessi lesi dal reato. Si esige poi che il riconoscimento sia avvenuto prima
della commissione del fatto per cui si procede. Tutto questo al fine di garantire l’affidabilità dell’ente
collettivo.
Nell’art 92, che si uniforma all’esigenza del costante consenso della persona offesa, nonostante la
convergente collocazione dell’ente collettivo rispetto a quella della persona offesa, detta che possono
divergere, anche profondamente, le rispettive strategie processuali. In tal caso, l’intervento dell’ente
collettivo perderebbe il suo carattere accessorio. Per questo è ritenuto necessario il consenso della
persona offesa da prestare con atto pubblico o con scrittura privata autenticata. Ammettendo la
possibilità di una revoca, con le stesse forme previste per la prestazione del consenso, in qualsiasi
momento dell’iter processuale. Fermo restando che dopo l’eventuale revoca resta in assoluto esclusa, per
la persona offesa, la possibilità di essere nuovamente fiancheggiata da uno degli enti di cui all’art 91. Non
è stata trascurata nemmeno l’ipotesi del consenso plurimo. È considerato inefficace il consenso prestato a
più enti o associazioni.

L’ente collettivo per poter svolgere il ruolo ausiliario che gli compete, è indispensabile che il suo difensore
munito di procura speciale, presenti all’autorità procedente un atto di intervento – da notificare alle parti
quando la presentazione non avviene in udienza – il cui contenuto deve essere conforme, a pena di
inammissibilità, alle indicazioni dell’art 93 comma 1. Per essere legittimato ad intervenire nel processo, si
deve presentare anche la dichiarazione di consenso della persona offesa, e la procura al difensore qualora
quest’ultima sia conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata.

All’art 94 si dettano i limiti temporali. Analoghi a quelli dettati per le parti eventuali, anche se vi è una
significativa differenza. Secondo il termine finale, l’intervento non può avvenire dopo che si è conclusa la
fase del dibattimento dedicata alla verifica della regolare costituzione delle parti. Ma per quel che riguarda
il termine iniziale, è certo che l’intervento dell’ente collettivo si può collocare nella fase delle indagini
preliminari. Perché l’azione dell’ente collettivo risulterebbe sminuita qualora gli venisse impedito di essere
attivo prima dell’orientamento del PM circa le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale.

(art 95) Successivo all’intervento può intervenire l’estromissione dell’ente collettivo, disposta dal giudice
con ordinanza, in seguito ad un’opposizione di parte oppure ex officio, quando si riscontri un motivo di
inammissibilità o un vizio attinente alla capacità processuale del soggetto intervenuto.
1)Nel caso di una opposizione, bisogna tenere presente le distinzioni operate all’art 95. L’ipotesi più
articolata è quella in cui vi sia stato un atto di intervento. L’opponente, nel termine perentorio di 3 giorni
dalla data della notificazione, deve far notificare la dichiarazione scritta di opposizione al rappresentante
legale dell’ente collettivo, così da consentirgli di presentare le sue controdeduzioni, nel termine perentorio
di 5 giorni dalla notifica. Se l’intervento è avvenuto prima dell’azione penale, la decisione è di competenza
del giudice delle indagini preliminari. Se l’intervento avviene nell’udienza preliminare o nel dibattimento ,
allora saranno, rispettivamente competenti il giudice dell’udienza preliminare o quello del dibattimento.
La dichiarazione di opposizione deve essere presentata entro i termini stabiliti a pena di decadenza .
Nell’udienza preliminare la dichiarazione di opposizione deve intervenire prima che sia dichiarata aperta la
discussione. Analogamente per l’udienza dibattimentale, l’opposizione deve essere proposta subito dopo
aver compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti.
2)L’estromissione ex officio è emanata dal giudice avviene quando accerta, in ogni stato e grado del
processo, la mancanza dei requisiti richiesti dalla legge per l’intervento dell’ente collettivo. Qui, il termine
iniziale per disporre l’estromissione ex officio è l’inizio del processo. Quindi l’estromissione dell’ente
collettivo durante le indagini preliminari può avvenire solo se collegato ad un’opposizione di parte.

IL QUERELANTE -> per una serie di reati espressamente indicati dal legislatore è previsto che l’esercizio
dell’azione penale da parte del PM sia subordinato ad un’esplicita voluntas persecutionis, che la persona
offesa o altri soggetti sono tenuti ad esprimere nella forma della querela. La querela fa parte della categoria
delle notizie di reato e, più specificatamente, alle condizioni di procedibilità. La posizione del querelante è
peculiare nel processo penale sviluppatosi in seguito alla sua iniziativa. Si tratta di una posizione di
maggiore rilievo rispetto a quella in cui si collocano gli autori di altri tipi di notitiae criminis. Per questo è
necessario conoscere il querelante, anche se il legislatore non gli ha riservato tale qualifica.

La normativa privilegiata di riferimento è quella del Codice penale. Un primo dato da evidenziare è sui limiti
temporali entro la quale si deve presentare la querela. Di regola, entro 3 mesi dal giorno della notizia del
fatto che costituisce il reato. Qualora si debba procedere alla nomina di un curatore speciale, tenuto a
valutare l’opportunità di presentare querela, il termine decorre dal giorno in cui gli è notificato il decreto di
nomina.
Dal soggetto legittimato a sporgere querela non vi deve essere stata rinuncia, espressa o tacita, la quale
opera automaticamente nei confronti di tutti gli autori del reato.

Il regime prevalente del nostro sistema è la procedibilità di ufficio, ciò è confermato dalla regola di
indivisibilità della querela. Infatti, il reato commesso in danno di più soggetti è perseguibile anche quando
la querela sia prestata da una sola delle persone offese. Come anche nel caso del concorso di persone, la
querela contro una si estende di diritto agli altri concorrenti.

Il diritto di querela si estingue in seguito alla morte della persona offesa che non lo abbia ancora esercitato,
mentre la morte è irrilevante ai fini dell’estinzione del reato. L’estinzione del reato segue la remissione
della querela, sempre che il querelato non l’abbia espressamente o tacitamente ricusata. Fermo restando
che, se la querela è stata proposta da più persone, per avere effetto estintivo, occorre la remissione di tutti i
querelanti. Se solo una ha proposto querela tra più persone offese, la sua remissione non pregiudica il
diritto di querela degli altri soggetti legittimati. Si tratta in sostanza di una revoca, da effettuare prima che
sia divenuta irrevocabile la sentenza di condanna. La remissione può avvenire in forma espressa o tacita.
Non può essere sottoposta a termini o a condizioni, pur essendo consentita al remittente la contestuale
rinuncia al suo diritto alle restituzioni o al risarcimento del danno.

L’ambito dei reati perseguibili a querela è stato oggetto di attenzione da parte della l.23 giugno 2017 n 104,
la quale se ne è occupato in due diversi contesti, riconducibili ad un denominatore comune. Cioè al
proposito del legislatore di alleggerire il carico di lavoro degli uffici giudiziari.
Da un lato è stato introdotto l’art 162 ter del c.p. che ricollega l’estinzione del reato alla messa in atto di
condotte riparatorie da parte dell’imputato. Fermo restando che la declaratoria di estinzione è circoscritta
ai casi di procedibilità a querela e sempre che si tratti di reati per i quali è ammessa la remissione della
querela. Dall’altro il legislatore ha ampliato le ipotesi in cui la perseguibilità del reato sia subordinata alla
presentazione di apposita querela. Il legislatore è poi intervenuto riducendo o eliminando il riferimento a
circostanze aggravanti la cui ricorrenza escludeva la procedibilità a querela prevista per il reato base.
Precisando che le regole sul nuovo regime di procedibilità non si applicano qualora ricorrano circostanze
aggravanti ad effetto speciale.

IL DIFENSORE DI FIDUCIA DELL’IMPUTATO -> le basi del nuovo modello processuale hanno posto
attenzione al tema della difesa tecnica. Ciò costituisce una logica conseguenza dell’inviolabilità del diritto di
difesa proclamata dall’art 24 comma 2° Cost, il quale garantisce un’adeguata copertura nei confronti non
solo della difesa tecnica ma anche dell’autodifesa. Cioè quell’insieme di attività che l’imputato esplica
personalmente per dimostrare l’inconsistenza o la minore gravità dell’accusa a suo carico. L’opzione del
processo tendenzialmente accusatorio comporta che il difensore dell’imputato viene chiamato a svolgere
un ruolo più importante e più impegnativo. Essendo tenuto a dimostrare la scarsa significatività degli
elementi di prova a valenza accusatoria ma anche ad individuare e acquisire elementi probatori che
scagionino l’imputato o alleggeriscano la sua posizione. Conferma l’essenzialità del suo ruolo l’esclusione di
qualsiasi spazio all’ipotesi di un’esclusiva autodifesa dell’imputato.

Il codice, stante il carattere sussidiario della difesa d’ufficio, ha dedicato al difensore di fiducia dell’imputato
la prima disposizione del titolo VII del libro I. L’imputato e la persona sottoposta alle indagini hanno il
diritto di nominare non più di due difensori di fiducia ed elenca le tre modalità di nomina. Consistenti
nella dichiarazione orale dell’interessato all’autorità procedente, nella dichiarazione scritta consegnata
all’autorità dal difensore e nel documento di nomina trasmesso con raccomandata. Non è necessaria
l’autentificazione o la certificazione da parte del difensore dell’autografia della sottoscrizione. Non sono
ipotesi tassative. Poiché si condivide l’opinione secondo cui si tratta di un atto a forma libera, il cui
fondamentale requisito è l’espressione chiara della scelta del suo autore. La nomina del difensore può
essere fatta in via preventiva, cioè per l’eventualità che si istauri un procedimento penale. Qui la nomina
del difensore deve contenere anche l’indicazione dei fatti ai quali si riferisce oltre all’indicazione del
difensore.

Il difensore per assistere e rappresentare l’imputato nel processo a suo carico deve avere i requisiti
richiesti dalla legge professionale. In caso contrario vi è un vizio equiparabile all’assenza del difensore.
Sono 3 le figure prese in considerazione. Il praticante avvocato che può patrocinare davanti al giudice di
pace e al tribunale in composizione monocratica nei soli processi aventi ad oggetti i reati previsti dall’art
550 (casi di citazione diretta a giudizio). L’avvocato che può svolgere il suo ruolo di difensore nei processi
davanti ad ogni giudice penale, fatta eccezione per la corte di cassazione. L’avvocato iscritto nello speciale
albo, il quale può difendere anche davanti alla corte di cassazione. Bisogna tenere presente che l’avvocato
iscritto nell’albo professionale è sottoposto ad una verifica triennale onde accertare la sussistenza
dell’esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente. In mancanza di tale
presupposto e che non vi siano giustificati motivi è disposta la cancellazione dall’albo. Ferma restando la
possibilità per l’interessato di ottenere in seguito una nuova iscrizione. Affinità con l’iscrizione nell’albo dei
cassazionisti presenta l’iscrizione finalizzata ad acquisire il titolo di avvocato specialista. Il regolamento
emanato con d.m. il 2015 n144 ha individuato 18 aree di specializzazione ed i relativi requisiti per
l’iscrizione. Come l’aver frequentato con esito positivo appositi corsi di formazione o l’aver maturato una
comprovata esperienza nel settore del diritto relativamente al quale si intende ottenere il titolo di
specialista. Senonché la parte del regolamento relativa alle aree di specializzazione è stata annullata dal
giudice amministrativo di primo grado.

La prestazione del difensore di fiducia costituisce l’oggetto di un contratto per la cui conclusione è
indispensabile l’accettazione sia pure implicita del nominato. L’imputato può orientare liberalmente la
propria scelta, senza alcun limite derivante dall’appartenenza etnica o linguistica del difensore,
indipendentemente dalla lingua del processo. La nomina del difensore dell’imputato produce di regola i
suoi effetti per tutto l’arco del processo di cognizione. Ai fini dell’istanza finalizzata alla concessione di una
misura extracarceria al proprio assistito, è prevista una proroga automatica in executivis dell’investitura
effettuata dall’imputato per il processo di cognizione. L’imputato non ha più libertà di scelta del difensore
quando è sottoposto alla più radicale restrizione della sua libertà personale. In sua vece si possono attivare
i prossimi congiunti della persona arrestata, fermata o sottoposta a custodia cautelare in carcere. Questi
possono nominare un difensore di fiducia che cessa di operare non appena l’interessato manifesta una
diversa volontà. Inoltre, è vietato agli agenti e agli ufficiali di polizia giudiziaria, nonché a tutti i
dipendenti dell’amministrazione penitenziaria di dare consigli sulla scelta del difensore di fiducia.

Il difensore di ufficio, art 97, subentra quando l’imputato non ha nominato il difensore o ne è rimasto privo.
La presenza del difensore d’ufficio è da correlare all’imputato, anche se il carattere esclusivo di tale
abbinamento risulta ora attenuato grazie alla disposizione che prevede la designazione di un difensore
d’ufficio al testimone c.d. assistito e all’ente responsabile per l’illecito amministrativo dipendente da reato,
che si sia costituito nel relativo processo penale. Il difensore d’ufficio è sussidiario rispetto al difensore di
fiducia, le sue funzioni cessano quando quest’ultimo viene nominato. Il difensore di fiducia è libero di non
accettare l’impiego, mentre quello d’ufficio è obbligato a prestare il patrocinio salvo che in presenza di un
giustificato motivo. In tal caso, se il difensore non ha nominato un sostituto, il difensore d’ufficio è tenuto
ad avvisare immediatamente l’autorità giudiziaria specificando le ragioni ostative, in modo che si proceda
ad una nuova designazione.

È stato posto l’accento sull’esigenza di adeguare l’istituto del difensore d’ufficio a criteri che ne
garantissero l’effettività. Il raggiungimento di tale obiettivo è sembrato più necessario con l’entrata in
vigore del nuovo art 11 Cost, dove si proclama inter alia che il contraddittorio tra le parti deve essere svolto
in condizioni di parità e che la persona accusata deve disporre del tempo e delle condizioni necessarie per
preparare la sua difesa. Al fine di irrobustire gli istituti della difesa d’ufficio e del patrocinio statale dei non
abbienti, si sono posti due provvedimenti legislativi. La l. 2001 n 60 che è intervenuta sulle disposizioni
relative alla difesa di ufficio. E la l. 2001 n 34 modificativa della legge istitutiva del patrocinio a spese dello
Stato per i non abbienti.

La disciplina della difesa di ufficio è stata modificata dalla d.lgs 2015 n 6, con l’intenzione di garantire alla
difesa di ufficio un più alto livello qualitativo. Si sono resi più selettivi i requisiti necessari per iscriversi
all’elenco nazionale dei difensori d’ufficio. Attualmente, l’avvocato deve dimostrare di essere in possesso di
almeno uno di questi elencati: partecipazione, con superamento dell’esame finale, ad un corso biennale di
formazione e aggiornamento professionale in materia penale; iscrizione all’albo da almeno 5 anni,
accompagnata da documentata esperienza in materia penale; conseguimento del titolo di specialista in
diritto penale. L’iscrizione non basta a garantire la permanenza nell’elenco. Occorre che l’interessato
presenti ogni anno per evitare la cancellazione, una documentazione comprovante l’esercizio continuativo
di attività nel settore penale. Il consiglio nazionale forense si occupa di controllare l’effettiva sussistenza di
tali requisiti, predisponendo e aggiornando trimestralmente l’elenco dei difensori. Fissando, anche,
annualmente i criteri generali per la nomina dei difensori d’ufficio sulla base della prossimità alla sede del
procedimento e della reperibilità.

Ad oggi, la normativa risulta aspirare ad un più alto tasso di automatismo e al voler diminuire, quanto più
possibile, le scelte discrezionali degli organi procedenti. Su di questa si basa un nuovo sistema, il cui perno è
l’ufficio, con recapito centralizzato, che deve essere istituito presso l’ordine forense del capoluogo del
distretto di ogni corte d’appello. È tale ufficio che fornisce, sulla base di una selezione automatica, il
nominativo del difensore d’ufficio, ogni volta che gli perviene la relativa richiesta da parte dell’autorità
giudiziaria o della polizia giudiziaria. Tale ufficio funge preliminarmente da collettore. Nonostante l’effetto
positivo che può avere tale automatizzazione, questo può avere anche effetti negativi verso il soggetto a
favore del quale è stato progettato. Infatti, qualora la materia oggetto della notitia crimins riguardi
competenze specifiche allora si potrà non far ricorso alla procedura informatizzata.
Si è operato anche per rendere più vincolata la scelta del difensore destinato a subentrare nelle ipotesi in
cui questo non sia stato reperito o non sia comparso o abbia abbandonato la difesa. L’osservazione fa
riferimento all’ipotesi in cui l’iniziativa debba essere assunta dal PM o dalla polizia giudiziaria. Di regola si
attiva la procedura informatizzata stabilita per la prima nomina del difensore d’ufficio. Ma vi è un’eccezione
che può sminuire le positività del sistema. Nei casi di urgenza è consentita, sia pure previa adozione di un
provvedimento motivato, la designazione di un difensore immediatamente reperibile. Quando la questione
di stallo deve essere affrontata dal giudice, che è un organo super partes, si procede diversamente. Se il
difensore già nominato non compare, non sia reperibile o abbia abbandonato la difesa, il giudice nomina un
sostituto senza che quello originario sia soppiantato. A meno che l’esigenza del sostituto si manifesti
duranti il giudizio. Qui il criterio dell’immediata reperibilità passa in secondo piano e sarà nominato
sostituto solo un difensore che risulti iscritto nell’elenco dei difensori di ufficio.
Altro profilo importante è la retribuzione del difensore d’ufficio, di cui si occupano gli art 116 e 117 del t.u.
delle disposizioni in materia di spese di giustizia. La retribuzione del difensore d’ufficio è un profilo
fondamentale per garantire il diritto di difesa. Inoltre, la persona sottoposta alle indagini viene
tempestivamente informata del fatto che non può fare a meno del difensore, nonché del suo obbligo di
retribuire il difensore d’ufficio, ove non sussistano i requisiti per essere ammessi al patrocinio a spese dello
Stato.
Dall’art 116 si possono estrapolare 3 regole: 1) il difensore d’ufficio si deve far carico della procedura
esecutiva per il recupero del credito professionale nei confronti dell’assistito inadempiente, fermo restando
che in questa sua iniziativa giudiziaria usufruisce dell’esenzione da bolli, imposte e spese 2) qualora sia in
grado di dimostrare che la procedura prima citata risulti infruttuosa, il difensore viene retribuito dallo Stato
nella misura e secondo le modalità previste 3) a meno che l’assistito non chieda ed ottenga l’ammissione al
patrocinio a spese dello Stato, quest’ultimo surroga il difensore nel suo credito verso il soggetto assistito.
L’art 117, norma ad hoc qualora risulti che l’assistenza prestata sia a favore di un soggetto irreperibile. In tal
caso il difensore è retribuito senza che sia necessaria una sua preventiva attivazione per il recupero del
credito professionale.

Il patrocinio dei non abbienti è una conseguenza della proclamata inviolabilità del diritto di difesa, secondo
la nostra Carta costituzionale. Il Patrocinio prevede che lo Stato assicuri ai non abbienti i mezzi per agire e
difendersi davanti ad ogni giurisdizione. L’art 98 c.p.p. se ne occupa, menzionando una vasta gamma di
destinatari. È intervenuta, poi, la l. del 1990 n 217, che tuttavia è stata modificata in più punti dalla l del
2001 n 134, con la quale si è dettata una disciplina generale del patrocinio dei non abbienti.
L’intera materia è oggi disciplinata dal t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari sulle spese di
giustizia, il cui art 299 ha abrogato le precedenti leggi.

L’originaria impostazione di fondo è rimasta inalterata. Anche per questa forma di difesa si fa capo
all’organizzazione professionale degli avvocati, nel senso che il soggetto ammesso al patrocinio sceglie
quale difensore un libero professionista, il cui compenso viene poi liquidato dall’autorità giudiziaria ed è a
carico dello Stato. Non è l’unica soluzione possibile poiché si possono utilizzare, a tal proposito, appositi
istituti. Per ipotesi anche tramite l’istituzione di pubblici uffici di assistenza legale.

L’art 81 del T.U. contempla l’istituzione presso ogni consiglio dell’ordine di un elenco degli avvocati idonei
ad essere nominati difensori da colui che è ammesso al patrocinio a spese dello Stato. Il consiglio
dell’ordine delibera sull’inserimento, su richiesta dell’interessato, in tale elenco, valutando una serie di
requisiti aggiornati recentemente dalla legge del 2005 n 25. Questa ha puntualizzato che per l’iscrizione
nell’elenco in questione è necessaria una esperienza professionale specifica, facilitando, allo stesso tempo,
l’iscrizione nell’elenco. Invece di sei anni di anzianità professionale originariamente richiesti, è sufficiente
l’iscrizione all’albo da almeno due anni.
La stessa legge ha integrato l’art 80 del T.U., facendo venire meno l’obbligo di scegliere un difensore iscritto
negli elenchi istituiti presso uno dei consigli dell’ordine del distretto di corte d’appello in cui aveva sede il
giudice procedente. Oggi è possibile scegliere anche un difensore extra districtum, in tal caso però non
sono dovute le spese e le indennità di trasferta previste dalla tariffa professionale. L’elenco dei nominativi
degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato è messo a disposizione degli utenti, presso tutti gli uffici
giudiziaria situati nel territorio della provincia.

Le disposizioni dagli art 90-118 del T.U. sulle spese giudiziarie tracciano la configurazione dell’istituto
nell’ambito del processo penale. La soglia del reddito annuale, che consente di usufruire del patrocinio a
spese dello Stato, è stata aumentata a 11.493,82. Se l’interessato convive con il coniuge o altri familiari,
viene innalzato di 1.03,91 euro per ogni convivente. I limiti di reddito vengono aggiornati ogni due anni in
base alle variazioni dell’indice Istat.
L’art 76 comma 4-ter del T.U. precisa che la persona offesa da specifici reati, nonché, qualora siano
commessi in danno di minori, può usufruire del patrocinio statale anche se il suo reddito è superiore alla
soglia fissata. La stessa deroga è prevista al comma 4-quater a favore dei minorenni e dei maggiorenni non
economicamente autosufficienti, rimasti orfani di un genitore a seguito di omicidio commesso dal coniuge,
dall’altra parte dell’unione civile o dalla persona legata da relazione affettiva e stabile convivenza, essendo
irrilevante in tutte e tre le ipotesi che al momento del delitto la relazione con la vittima risultante
legalmente o di fatto interrotta.

Il progresso rispetto al passato è evidente ma ancora inadeguato. Una soluzione ragionevole, adottata da
altri paesi, poteva essere quella di prevedere due distinti livelli di reddito e di riservare un’esenzione solo
parziale dalle spese processuali ai titolari del reddito di livello meno basso. In tale direzione si muove la
direttiva europea concernente l’ammissione al patrocinio. Infatti, questa esprime che nel concedere il
patrocinio a spese dello Stato, le autorità competenti degli SM dovrebbero poter richiedere all’indagato,
all’imputato o alla persona ricercata di sostenere parte di tali costi, in base alle risorse finanziarie di cui
dispongono.

L’art 96 comma 2 e 3 T.U. del rischio che vengano ammessi soggetti i quali, contrariamente alle loro
attestazioni, non versino in realtà nella situazione di non abbienza. L’istanza di ammissione sarà respinta
quando vi siano fondati motivi per il giudice di ritenere che il reddito da prendere in analisi superi il tetto
stabilito dalla legge.
Il giudice non ha nessun tipo di discrezionalità qualora si proceda per uno dei delitti previsti dall’art 51
c.p.p. verso la persona sottoposta a misura di prevenzione. Il giudice, qui, è tenuto ex lege a chiedere la
valutazione della direzione investigativa antimafia e della direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.
Stessa impostazione è seguita nei casi di un soggetto già condannato con sentenza definitiva per taluni
delitti elencati all’art 76 comma 4 bis del T.U. In tale ipotesi, il reddito si ritiene già superato ed i delitti
considerati ostativi sono quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso, associazione a delinquere
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti oppure al contrabbando di tabacchi lavorati esteri. Tale
disposizione non è superabile a prescindere da quanto sia remota nel tempo la condanna alla quale si
ricollega il divieto in esame. Pertanto, appare condivisibile una sentenza della Corte costituzionale che,
dichiarando parzialmente illegittima la disposizione art 76 comma 4 bis, ha reso superabile la presunzione
de qua qualora l’interessato sia in grado di fornire un’idonea prova contraria.

La copertura garantita al soggetto ammesso al patrocinio dei non abbienti è stata ampliata dal solo
processo principale a tutte le eventuali procedure, derivate ed incidentali, comunque connesse. La
formulazione risulta onnicomprensiva. Per questo sembra lecito farvi rientrare anche l’assistenza relative
alle procedure svolte davanti agli organi giurisdizionali internazionali, in particolare davanti alla Corte
europea dei diritti dell’uomo.

Tra gli effetti dell’ammissione al patrocinio non figurava la facoltà dell’interessato di potersi avvalere
degli apporti di un investigatore privato autorizzato. Questa lacuna è ora colmata dall’art 101 del T.U., il
quale detta che il difensore del soggetto ammesso al patrocinio può nominare sia un sostituto, sia un
investigatore privato autorizzato. L’art 102 T.U. prevede che si possa nominare un consulente tecnico di
parte. La scelta del sostituto, investigatore e del consulente è ammessa anche al di fuori dell’ambito
distrettuale. In tal caso, le spese e le indennità di trasferta imputabili al travalicamento del distretto non
sono dovute.

Rispetto alla l.1990 n 217 sono stati eliminati divieti e limitazioni. Come l’ammissione al patrocinio non più
ostacolata dalla natura contravvenzionale del reato per cui si procede. La sostituzione del difensore non è
più ammessa solo per giustificato motivo e previa autorizzazione del giudice procedente. Il divieto di
nomina di un secondo difensore è attenuato. Attualmente la nomina di un secondo difensore è ammessa
nei casi in cui l’imputato o il condannato partecipino al procedimento penale a distanza. A parte tale
ipotesi, nominare un secondo difensore provoca la cessione degli effetti dell’ammissione al patrocinio a
spese dello Stato.
Secondo la normativa codicistica, sussiste la regola secondo cui il difensore ottiene le facoltà ed i diritti
spettanti all’imputato medesimo. L’estensione è esclusa per i diritti e facoltà che presuppongono l’imputato
come soggetto agente e per gli atti che postulano il conferimento di una procura speciale, come la richiesta
di rimessione e di giudizio abbreviato. L’imputato ha, comunque, la possibilità di togliere effetto con
espressa dichiarazione contraria all’atto compiuto dal difensore, anche se tale iniziativa deve essere assunta
prima della pronuncia del giudice inerenti all’atto controverso.

Al diverso tipo di interessi di cui sono portatori l’imputato e le altre parti private corrisponde una
marcata diversità di regolamentazione in tema di difesa tecnica.
Art 100 (difensore delle altre parti private) stabilisce che la parte civile, il responsabile civile e la persona
civilmente obbligata per la pena pecuniaria stiano in giudizio col ministero di un difensore munito di
procura speciale, da presumere conferita solo per un determinato grado a meno che nell’atto sia espressa
volontà diversa. La forma della procura -> ammessa la sua apposizione in calce o a margine dei vari atti
mediante i quali avviene l’ingresso della parte nel processo penale. Al di fuori di tale ipotesi si può conferire
la procura con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, ad opera non solo dei soggetti a ciò abilitati
ma anche del difensore.
Il difensore può compiere e ricevere tutti gli atti del procedimento tranne quelli che la legge riserva
espressamente al rappresentante, il cui domicilio deve intendersi automaticamente eletto ad ogni effetto
processuale presso il difensore. Inoltre, in assenza di una procura ad hoc, il difensore non può compiere atti
implicanti disposizione del diritto in contesa.
L’art 101 detta che la normativa prima esaminata vale anche per gli enti rappresentativi degli interessi lesi
dal reato, obbligati a stare in giudizio col ministero di un difensore.

Non si può dire lo stesso per la persona offesa. Per lui la nomina del difensore è solo facoltativa, pur
essendo doveroso rilevare che in alcuni contesti processuali è ammessa soltanto la partecipazione del
difensore. Presso di lui risulta automaticamente domiciliata la persona offesa. Al difensore, eventualmente
nominato, spetta l’esercizio dei diritti e delle facoltà riconosciute alla persona offesa, i quali si vanno ad
aggiungere al potere di presentare in ogni stato e grado del processo memorie e richieste. Anche il
difensore della persona offesa si deve ritenere legittimato a svolgere le investigazioni difensive.

Al fine di assicurare continuità all’esercizio della difesa tecnica, il nuovo codice ha disciplinato la possibilità
per il difensore, di nominare legittimamente un sostituto (art 102). Anche se il riferimento del legislatore
evoca il protagonista del processo penale, non vi sono ragioni che impediscano di estendere tale facoltà al
difensore delle parti private diverse dall’imputato e al difensore della persona offesa. La designazione deve
essere portata a conoscenza dell’autorità procedente con le stesse forme indicate per la nomina del
difensore dell’imputato. Solo nei casi di urgenza e previa adozione di un provvedimento motivato che
indichi le ragioni dell’urgenza, sarà designato dal giudice o dal PM o dalla polizia giudiziaria.

Ad oggi, il difensore può nominare il sostituto non più nel solo caso in cui vi siano elementi ostativi a
continuare il suo lavoro. Ma può nominare il sostituto anche per mere esigenze di organizzazione interna
dell’ufficio della difesa. Quindi, tutto dipende dall’adeguamento del difensore titolare dell’ufficio ai canoni
deontologici. Questo è diverso rispetto al passato grazie alla legge del 2001 n 60 che ha eliminato i limiti
esterni. Tale ampia facoltà di sostituzione data al difensore rischia di creare effetti negativi, che si
ripercuotono sul principio di effettività perseguito dal legislatore nel dettare le linee guida della nuova
regolamentazione. Questo perché per la difesa di fiducia, vi è il legame contrattuale a garantire un
adeguato controllo sulla osservanza dei canoni deontologici. Mentre per la difesa d’ufficio non vi è un
legame contrattuale a vincolare, quindi si possono ben creare dei dubbi sul rispetto dei canoni deontologici
da parte del primo.
La sostituzione non incide sulla titolarità dell’incarico difensivo, tuttavia il difensore sussidiario esercita i
diritti e assume i doveri del difensore impedito. La sostituzione non coinvolge quelle situazioni soggettive
processuali aventi come fonte una procura speciale conferita dalla parte al difensore sostituito. Quindi, ad
esempio, è inammissibile la richiesta di patteggiamento formulata dal sostituto qualora la relativa procura
speciale sia stata conferita solo al difensore che si è avvalso della sostituzione.

Il difensore ha uno scudo normativo che pone, a suo vantaggio, precisi limiti ai poteri investigativi degli
organi inquirenti.
L’art 103 si fa carico del problema di tutelare le garanzie per la libertà del difensore in ogni stato e grado
del processo. Le ispezioni e le perquisizioni, se effettuate negli uffici dei difensori, sono consentite in due
soli casi. Quando il difensore o altre persone che svolgono stabilmente la loro attività nel suo ufficio sono
imputati, oppure quando si devono rilevare tracce o altri effetti materiali del reato ovvero occorre
ricercare cose o persone predeterminate. La disposizione continua poi tracciando in negativo l’area del
sequestrabile presso i difensori, gli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento,
i consulenti tecnici. Salvaguardando carte e documenti relativi all’oggetto della difesa, sottoponibili a
sequestro solo se sono corpo del reato. Tale divieto opera anche in relazione all’attività difensiva
concernente un diverso procedimento.
Per le ispezioni, perquisizioni ed i sequestri negli uffici dei difensori valgono anche talune regole di
carattere procedurale che incrementano l’apparato di garanzie previsto in generale.
A pena di nullità l’autorità giudiziaria deve comunicare un avviso al locale consiglio dell’ordine per
consentire al presidente o ad un suo delegato di presenziare alle operazioni. I soggetti legittimati a
procedere in prima persona, senza possibilità di delegare l’atto alla polizia giudiziaria, sono il giudice o il
PM.
Per quanto riguarda la corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore è disposto il divieto di sequestro
e di ogni altra forma di controllo. Sempre che la corrispondenza sia riconoscibile grazie alle indicazioni da
apporre sulla busta, e sempre che il giudice non abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo di
reato.
Per quel che riguarda le conversazioni dei difensori, investigatori privati autorizzati ei incaricati in relazione
al procedimento, consulenti tecnici e loro ausiliari che effettuano tra di loro, al pari di quelle tra i medesimi
e i loro assistiti non possono essere intercettate. Sia che si tratti di conversazioni sia che si tratti di
comunicazioni. Il divieto concerne le conversazioni costituenti esercizio della funzione difensiva. Non è
preclusa, però, la captazione delle conversazioni integranti un reato.
Il profilo sanzionatorio risulta ricco di significato. Salvo i divieti di utilizzazione delle intercettazioni sanciti
dall’art 271 e la nullità prevista al 3° comma art 103 (avviso verso il consiglio dell’ordine forense), in caso di
inosservanza delle rimanenti disposizioni dell’art 103, i risultati delle operazioni compute non possono
essere usati. L’ultimo comma dell’art 103 dispone, infatti, che il contenuto delle comunicazioni e delle
conversazioni illegittimamente intercettate non può essere trascritto neppure sommariamente. E nel
relativo verbale, ci si deve limitare a dare atto della data, ora e del dispositivo su cui la registrazione è
intervenuta.

Tali garanzie sono estese anche agli assistenti sociali iscritti all’albo professionale e ai dipendenti del
servizio pubblico per la tossicodipendenza e a coloro che operano presso gli enti, centri, associazioni o
gruppi che hanno stipulato convenzioni con le unità sanitarie locali.

Diritto di conferire -> La normativa attuale permette al difensore di conferire immediatamente o


comunque non oltre sette giorni dal momento in cui è stato eseguito il provvedimento limitativo della
libertà personale. Prima invece, l’imputato poteva avere il primo colloquio col difensore solo dopo la
conclusione degli interrogatori.
Da qui è nato il riconoscimento che il soggetto sottoposto a custodia cautelare, al pari della persona in
stato di fermo o di arresto, ha diritto di conferire con il difensore subito dopo che è stato privato della
libertà personale (art 104). Conseguentemente, è previsto che il difensore, di fiducia o ufficio, venga
avvisato immediatamente dell’avvenuta esecuzione della misura restrittiva. Attribuendo al difensore il
diritto di accedere ai luoghi in cui la persona si trova detenuta. In ossequio alla direttiva europea sul diritto
all’interpretazione e sulla traduzione nei procedimenti penali, si è inserito il comma 4 bis, il quale detta che,
qualora non conoscano la lingua italiana, gli indagati in vinculis (vuoi perché arrestati in flagranza o
fermati, o perché entrati in carcere in seguito della misura più grave delle misure coercitive) hanno diritto
all’assistenza gratuita di un interprete, per essere posti in grado di conferire proficuamente col proprio
difensore.

Tale regola, in talune situazioni, deve però essere contemperata con le esigenze di carattere investigativo.
Da qui la previsione che consentiva, in presenza di specifiche ed eccezionali ragioni di cautela, di
dilazionare il colloquio stesso per un termine non superiore a 5 giorni. Attualmente la regolamentazione,
però, è cambiata, grazie alla legge del 2017 n 103. Si è stabilito che, fermo restano la necessaria presenza
delle specifiche ed eccezionali ragioni di cautela nonché il termine massimo dei cinque giorni di dilazione, è
consentito rinviare il colloquio dell’indagato col difensore solo quando si proceda per i delitti di cui all’art
51 comma 3 bis e 3 quater, cioè quei delitti le cui indagini sono affidate alla procura distrettuale. La
modifica apportata all’art 104 comma 3 è riconducibile all’intento del legislatore italiano di adeguarsi ad
una direttiva europea che mira a garantire una tempestiva presa di contatto di chi è sottoposto ad un
processo penale col difensore.
Nonostante l’avanzamento rispetto alla previgente formulazione del comma 3 dell’art 104, la soluzione del
legislatore del 2017 non si sottrae ad una valutazione critica. Criticata perché basata su un compromesso
che fa sorgere dubbi di compatibilità con la direttiva europea. Ci si riferisce alla disposizione della direttiva
che, in circostanze eccezionale, ammette come unica giustificazione di un ritardato contatto col difensore la
lontananza geografica tra di loro.

Dato atto dell’operatività dell’eccezione nella sola fase delle indagini preliminari. Occorre distinguere il
funzionamento del meccanismo dilatorio in due ipotesi. Una in cui la privazione della libertà sia l’effetto di
un’ordinanza cautelare (1) e una in cui sia conseguenza di una misura precautelare (2). Nel primo caso la
decisione sull’eventuale differimento del colloquio spetta al giudice per le indagini preliminari che provvede
con decreto motivato. Nel secondo provvede direttamente il pubblico ministero che può dilazionare il
colloquio fino al momento in cui l’arrestato o il fermato è posto a disposizione del giudice. Dopo tale
periodo, che si può estendere per un massimo di 48 ore, non ci sono più ostacoli all’esercizio del diritto al
colloquio, salvo un’eventuale proroga da parte del giudice per le indagini preliminari (art 104 comma 4).

Il punto di maggiore frizione tra esigenze investigative e diritto di difesa coincide con l’interrogatorio
dell’arrestato o del fermato, escluso dal colloquio col difensore, che il PM può effettuare ai sensi dell’art
388.

Anche se il provvedimento sulla dilazione è inoppugnabile alla luce del principio di tassatività delle
impugnazioni. Il difetto o l’insufficienza di motivazione è ricollegabile ad una nullità (intermedia)
suscettibile di estendersi agli atti successivi, secondo quanto disposto dall’art 185 comma 1.

La valutazione del rispetto delle regole deontologiche inerenti alla funzione del difensore si basa sul
caposaldo di assoluta autonomia del procedimento disciplinare, devoluto alla competenza esclusiva del
consiglio dell’ordine forense.
Infatti, con riferimento all’abbandono della difesa (configurabile sia nella difesa d’ufficio che di fiducia) e
al rifiuto dell’incarico difensivo da parte del difensore d’ufficio, si dispone che il relativo procedimento
disciplinare sia di competenza esclusiva del Consiglio dell’ordine forense (art 105) e si esclude che il
procedimento penale, nel cui contesto è avvenuto l’abbandono o il rifiuto, sia pregiudiziale rispetto al
procedimento disciplinare. Conferma dell’autonomia del procedimento disciplinare è la previsione secondo
cui se il consiglio dell’ordine ritiene giustificato il comportamento del difensore, la sanzione disciplinare non
è applicata, neppure in presenza di una sentenza irrevocabile che escluda la violazione dei diritti della
difesa.
L’autorità giudiziaria, in tale ambito, non ha più un ruolo di protagonista si occupa solo di compiti
informativi. Infatti, secondo il comma 4 dell’art 105, deve comunicare al consiglio professionale sia i casi di
abbandono e di rifiuto della difesa d’ufficio, sia i comportamenti integranti violazione da parte dei difensori
dei doveri di lealtà e di probità, sia la violazione del disposto concernente il divieto, per uno stesso
difensore, di assumere la difesa di più imputati che abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di
altro imputato.

Le implicazioni di carattere processuale. A seguito di abbandono della difesa da parte del difensore di
fiducia dell’imputato si determina una stasi processuale, finché non si procede alla nomina di un nuovo
difensore di fiducia o, in mancanza, alla designazione di un difensore di ufficio. Diversa l’ipotesi di
abbandono della difesa delle altre parti private, della persona offesa e degli enti o associazioni (art 91), in
quanto non risulta ostacolata l’immediata prosecuzione del procedimento. Però, in seguito all’abbandono,
tali ultimi soggetti se non provvedono ad una nuova nomina, perdono la possibilità di essere attivi in sede
processuale, potendovi stare solo col ministero di un difensore.

In riferimento sempre al rapporto tra il difensore e il suo assistito, un’altra situazione anomala, analoga
negli effetti all’abbandono della difesa è quella che fa capo alla nozione di incompatibilità.
Premessa, un difensore assiste una pluralità di imputati. Ad eccezione dell’ipotesi dell’art 106 comma 4
bis, il codice ammette tale eventualità, a condizione che le diverse posizioni degli assistiti non siano tra loro
incompatibili. Non vi è una nozione legislativa del concetto di incompatibilità quindi si usa quella
giurisprudenziale. Dalla quale emerge che è condizione indispensabile l’inconciliabilità delle posizioni degli
imputati, cioè l’uno deve avere interesse a sostenere tesi pregiudizievoli all’altro.
L’incompatibilità si rimuove fisiologicamente quando l’imputato o gli imputati interessati revochino la
nomina del difensore oppure rinunci alla difesa. Nel caso in cui ciò non avvenga, interviene il giudice il quale
stabilisce un termine per la sua rimozione da parte dei diretti interessati. Nel caso di mancata attivazione
degli interessati, l’extrema ratio è costituita da un’ordinanza del giudice (previa richiesta) con la quale si
dichiara l’incompatibilità e si procede alle necessarie designazioni dei difensori d’ufficio.
Seppur equiparata dal punto di vista del trattamento processuale alle ipotesi di incompatibilità, è
eterogenea la situazione considerata nell’art 106 comma 4 bis. Qui è preclusa la difesa da parte di uno
stesso difensore di più imputati che, pur trovandosi in posizioni processuali dalle quali non scaturisce alcun
conflitto di interessi, abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di un altro soggetto, imputato
nello stesso procedimento o in un procedimento connesso o collegato. Il divieto sembra riferibile alla sola
ipotesi in cui gli imputati si avvalgano del difensore comune nell’ambito dello stesso processo. Qui il divieto
viene in gioco per non sacrificare il diritto di difesa del soggetto accusato. Sacrificio che potrebbe risultare
agevolato dall’esistenza di una figura che funga da anello di congiunzione tra le convergenti fonti di prova.
L’inosservanza della regola non è causa di nullità, né di inutilizzabilità delle dichiarazioni, pur essendo
necessaria una verifica particolarmente attenta della loro attendibilità.
Il meccanismo previsto dall’art 106 presuppone l’esistenza di u difensore di fiducia.

Lo stesso si deve dire per le ipotesi di non accettazione, rinuncia e revoca del difensore (art 107), le
quali da un lato riguardano la difesa tecnica di tutte le parti private, dall’altro non sono configurabili con
riferimento al difensore d’ufficio. Il denominatore comune è rappresentato dal fatto che ostacolano
l’instaurazione o la prosecuzione del rapporto fiduciario.
Nel caso di revoca il soggetto agente è l’assistito. Nella non accettazione e la rinuncia il soggetto agente è il
difensore. Questi ultimi sono atti alternativi che, al pari della revoca, non necessitano di una motivazione.
Gli effetti -> rimane l’obbligo per il difensore che non accetti l’incarico o vi rinunci di darne subito
comunicazione all’autorità procedente e a chi lo ha nominato. La non accettazione ha effetto dal momento
in cui perviene la comunicazione all’autorità procedente, con possibili vuoti di copertura difensiva medio
tempore. La rinuncia e revoca sono prive di effetto fino a che la parte non risulti assistita da un nuovo
difensore. E se il nuovo difensore si avvale del diritto di ottenere un termine a difesa, la rinuncia e revoca
diventano efficaci solo a partire dalla sua scadenza.
Per il termine a difesa, va ricordato che l’originaria regolamentazione prevedeva la concessione di un
termine congruo, di norma non inferiore a 3 giorni. Attualmente, il difensore ha diritto ad un termine che,
di regola, non può essere inferiore a 7 giorni (art 108). Si può scendere al di sotto di tale termine, fermo
restando il limite minimo invalicabile di 24 ore, solo se ricorre una delle 3 situazioni considerate nel 2°
comma dell’art 108. 1 – se vi è il consenso dell’imputato o il suo difensore 2 – se vi sono specifiche esigenze
processuali che possono determinare la scarcerazione dell’imputato, con cui si allude alla scadenza dei
termini massimi di custodia cautelare 3 – se ricorrono esigenze processuali che possono determinare la
prescrizione del reato, cioè se si sta profilando la causa di estinzione.

GLI AUSILIARI DEL GIUDICE E DEL PM

La categoria degli ausiliari è costituita da coloro che affiancano il giudice o il PM svolgendo compiti di vario
genere, accomunabili, in virtù del loro carattere strumentale rispetto alla funzione della figura cui
ineriscono. La qualifica di ausiliare in senso lato è attribuibile a chi collabora, anche in via precaria ed
occasionale con taluno dei soggetti processuali. Ma per ausiliare in senso stretto si intende il coadiutore
istituzionale, quello cioè la cui presenza è contrassegnata dai connotati della continuità e della ordinarietà.
Questa seconda definizione restringe il numero degli ausiliari. Riconoscendo la qualifica solo al cancelliere,
segretario, l’ufficiale giudiziario e il diretto degli istituti penitenziari.

Sono numerosi i riferimenti alla cancelleria come ufficio. Però il termine cancelliere è usato solo nell’art
124. Normalmente nel codice si fa uso di formulazioni più generiche, le quali consentono di evitare
inopportune sfasature con la normativa di settore. Le funzioni del cancelliere: assistenza a tutti gli atti posti
in essere dal giudice, salvo che la legge disponga altrimenti. Come nel caso del giudice che delibera in
camera di consiglio; Attività di documentazione, relativamente alla quale è prevista la redazione del
processo verbale; L’autenticazione di atti e dei provvedimenti emessi dal giudice; La custodia delle cose
sequestrate; Il rilascio di copie; La notificazione dell’atto di impugnazione.

Anche presso l’ufficio del PM, precisamente nell’ambito della sua segreteria, opera un ausiliario che
svolge funzioni analoghe a quelle del cancelliere. Infatti, svolge funzioni di assistenza, redige il verbale e le
annotazioni degli atti posti in essere dal magistrato inquirente, autentica, controfirmandoli, i suoi atti e
provvede alla custodia delle cose sequestrate. Comunica gli atti del PM e riceve quelli a lui destinati.

Quanto all’ufficiale giudiziario, la cui funzione principale è curare l’esecuzione delle notificazioni, svolge
un’attività ausiliare nei confronti sia del giudice che del PM. Corollario di questa funzione è la relazione di
notificazione, che documenta l’attività svolta con riferimento all’atto da notificare. Ha anche compiti
funzionali al corretto svolgimento dell’udienza, come l’impedire che i testimoni da esaminare comunichino
con quelli già esaminati o con gli estranei. O come il vigilare affinché i testimoni, prima del loro esame, non
assistano al dibattimento.

Anche il direttore dell’istituto penitenziario opera come ausiliario sia del giudice che del PM. È tenuto a
ricevere e ad inoltrare immediatamente, dopo aver proceduto alla loro iscrizione in apposito registro, l’atto
di impugnazione e gli altri atti contenenti dichiarazioni e richieste destinate all’autorità giudiziaria, che gli
vengano presentati dal soggetto detenuto o internato.

GLI ATTI CAP 2


L’invalidità degli atti.
Per poter dettare una nozione di invalidità è indispensabile prendere le mosse da quella di fattispecie. Cioè
il complesso degli elementi necessari e sufficienti al prodursi di un determinato effetto giuridico.
L’individuazione degli elementi che compongono una certa fattispecie appare più facile quando è costruita
in modo chiuso, sulla base di una previsione legislativa analitica e specifica.
Gli atti nel processo penale, a differenza di quello civile (libertà delle forme), sono nella stragrande
maggioranza a forma vincolata. E la perfezione dell’atto (conformità allo schema tipico) e la sua efficacia
(attitudine a produrre effetti giuridici) si implicano reciprocamente.

In generale, la mancanza anche di un solo elemento della fattispecie non dovrebbe consentire la
produzione dei relativi effetti (brocardo “quod nullum est nullum producit effectum”). Tuttavia,
l’ordinamento non decreta l’invalidità e l’inefficacia di ogni difformità, ben potendo essere talune di
queste irrilevanti. In questo caso non si parla di invalidità ma di irregolarità.
Ma l’atto, pur se le sue difformità siano giuridicamente rilevanti, quando si configura come invalido quasi
mai lo si definisce del tutto inefficace. Al riguardo giocando ragioni di economia e di speditezza
processuale, che portano il legislatore ad avvalersi del principio di conservazione degli atti imperfetti. L’atto
diviene così idoneo a produrre effetti, anche se questi ultimi assumono precarietà in attesa della sanatoria
del vizio o la declaratoria di invalidità dell’atto. La sanatoria crea un’altra fattispecie, equivalente a quella
viziata ma integrata da uno o più fatti ulteriori, ai quali si attribuisce il nome di cause di sanatoria, perché
consolidano ex tunc gli effetti dell’atto. Invece, nella declaratoria di invalidità dell’atto, dichiarata dal
giudice, si sana la frattura nell’equivalenza tra imperfezione ed inefficacia. In tale ipotesi, l’attività del
giudice provoca l’eliminazione degli effetti dell’atto.

Il modello di stampo accusatorio comporta la creazione di adeguati meccanismi sanzionatori aventi una
funzione di supporto rispetto all’osservanza delle forme, tali da assicurare l’effettività delle regole
sull’ammissione, acquisizione e valutazione della prova.

Premesso che sono ritenute specie di invalidità l’inesistenza, la nullità, l’inammissibilità e l’inutilizzabilità,
ma non la decadenza. Il titolo VII si limita alla sola invalidità - nullità, salvo un unico riferimento, in
negativo, all’inammissibilità. La mancata inclusione di quest’ultima figura può addebitarsi al fatto che
riguarda gli atti di parte o di chi si fa parte, come il giudice che sollevi un conflitto di competenza.
La natura dei requisiti la cui assenza crea inammissibilità è disparata. Spesso tale specie di invalidità
discende dal compimento dell’atto nonostante la scadenza del relativo termine perentorio, dal vizio sulla
titolarità o dalla forma della domanda o l’omissione di taluni contenuti della stessa, o dalla sussistenza di un
certo rapporto con un altro atto. L’inammissibilità è oggetto di autonomo motivo di ricorso per cassazione.
È dichiarabile d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, senza altra causa di sanatoria se non quella
del giudicato, a meno che non siano previsti, espressamente, limiti temporali alla sua rivelazione. Come per
la costituzione di parte civile, le cui cause di inammissibilità non possono essere rilevate dopo la
dichiarazione di apertura del dibattimento.

Nemmeno l’inutilizzabilità è inclusa nel libro II, nonostante sia una sanzione processuale fornita di una sua
puntuale autonomia, come dimostra la sua elevazione a motivo di ricorso per cassazione, a fianco della
nullità e inammissibilità. L’inutilizzabilità può investire sia gli atti probatori, come le prove in senso proprio,
che gli atti delle indagini preliminari. Ad esempio, le notizie e le indicazioni assunti dagli ufficiali di polizia
giudiziaria nei confronti della persona sottoposta alle indagini, senza l’assistenza del difensore, sul luogo o
nell’immediatezza del fatto sono inutilizzabili. È quindi viziata l’ordinanza che dispone una misura cautelare
traendo i necessari gravi indizi di colpevolezza da tali sommarie informazioni. Ancora, l’inutilizzabilità è
usata anche per alludere alla non produttività di effetti da parte di atti delle indagini preliminari compiuti
dal PM dopo la scadenza del termine o dell’interrogatorio dell’imputato detenuto avvenuto fuori udienza,
che non sia stato documentato integralmente con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva.
In generale, ogni ipotesi è funzionale ad una esigenza di tutela della legalità della prova. Quello che rende
complicato dare una disciplina unitaria è la varietà delle ipotesi riconducibili a questa figura. Talvolta fa
riferimento alla sanzione conseguenza dell’uso di un atto delle indagini preliminari nel dibattimento, altre a
casi di difformità rispetto ai criteri di ammissione o assunzione della prova. Per questo non è stato
enunciato, nei suoi confronti, il principio di tassatività. Ma molti ritengono che le ipotesi integrino,
comunque, un numero chiuso, anche rispetto alla fase dibattimentale. Posto che la regola dell’art 526
(prove utilizzabili ai fini della deliberazione) vale per tutte le violazioni relative al procedimento di
ammissione o assunzione della prova nella fase dibattimentale.

L’inutilizzabilità è di natura assoluta, perché proviene da un vero e proprio divieto di ammissione o


acquisizione valido nei confronti di chiunque. Solo a volte assume natura relativa, per determinate
categorie di soggetti. Recentemente, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la sanzione dell’inutilizzabilità
operi anche nel procedimento volto ad ottenere la riparazione per ingiusta detenzione. Quindi,
l’inutilizzabilità della prova dichiarata nel procedimento di cognizione comporta il divieto di trarre da questa
prova, elementi sul dolo o la colpa grave che possano impedire il riconoscimento al prosciolto dell’equa
riparazione, indipendentemente dalla natura civilistica o penalistica assegnata al procedimento de quo.
La inutilizzabilità è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni grado e stato del procedimento. Vi può essere
interferenza con il regime di nullità. Soprattutto quando questa è collegata, come la inutilizzabilità, a talune
violazioni del procedimento di assunzione della prova. La scelta del legislatore tra una o l’altra talvolta
risulta casuale, ma non è esclusa l’eventualità che un atto probatorio risulti in concreto plurisanzionato
(concorrenza di vizi previsti a pena di inutilizzabilità e nullità).

Infine, il tema dell’abuso del processo è stato affrontato da una pronuncia delle Sezioni unite della Corte di
cassazione. Sulla scorta delle Sezioni unite civili, della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti
dell’uomo, l’abuso del processo è ritenuto un vizio della funzione, cioè una frode della funzione.

La tassatività delle nullità e la tecnica di previsione.


Le disposizioni in tema di nullità sono dominate dal principio di tassatività, che può dirsi il cardine attorno
al quale ruota l’intera disciplina in materia. L’art 177 riferisce tale principio all’inosservanza delle
disposizioni stabilite per gli atti del procedimento, comprese quelle relative alla fase delle indagini
preliminari. Quindi anche agli atti compiuti dal PM. È quindi superata ogni disputa sull’estensione del
principio alle nullità non formali.
Dal principio di tassatività derivano una serie di corollari. All’interprete non è consentito ricorrere
all’integrazione analogica facendo leva sulle disposizioni che creano ipotesi di nullità, né, una volta
accertata la causa di nullità, valutare se sussista un pregiudizio effettivo. Quindi, il giudice non può ravvisare
nullità fuori dai casi stabiliti, né disconoscere la causa di nullità ove risulti integrata la fattispecie oggetto
della previsione normativa.

Le nullità formano un sistema chiuso. Quindi al di fuori delle ipotesi definite o implicitamente definibili non
vi sono spazi residui per questa specie di invalidità. Per questo, i vizi della volontà considerati dal codice
civile non sono riferibili agli atti processuali penali, data l’autosufficienza del relativo sistema delle nullità.
Quindi, un atto inficiato da violenza o minaccia è processualmente valido. Al massimo gli interrogatori e le
prove affette da vizi di volontà conseguenti all’adozione di metodi o tecniche idonee ad influire sulla libertà
di autodeterminazione rientrano nella inutilizzabilità. Caso diverso è quello in cui viene in gioco un
assoluto difetto della volontà, quale conseguenza di una coazione fisica. Essendo la volontarietà un
coefficiente psichico minimo di ogni atto processuale penale, una dichiarazione di scienza coatta non è un
atto del procedimento.

Gli errores in iudicando non sono inquadrabili tra le nullità. Cioè quei vizi sostanziali dei provvedimenti del
giudice, elevati ad autonomo motivo di ricorso per cassazione. Quindi la loro disciplina si ricava dall’assetto
dei poteri di impugnazione delle parti e dei poteri di annullamento conferiti al giudice dell’impugnazione.
Inoltre, secondo opinione accreditata anche gli errores in iudicando sono parte della teoria dell’invalidità,
dati i tempi e i modi con cui sono fatti valere, la loro sanabilità e la natura degli effetti conseguenti alla loro
declaratoria.

Le altre difformità dallo schema tipico, ad eccezione dell’inammissibilità e inutilizzabilità, sono riportabili
alla categoria dell’irregolarità, produttiva di conseguenze di natura disciplinare o ricavabili da altri rami
dell’ordinamento, come quello penale, civile o tributario. A meno che non debbano ricondursi in via
interpretativa alla specie più grave d’invalidità ravvisabile nell’inesistenza giuridica. Quest’ultima categoria
non dovrebbe mai essere diagnosticata quando il vizio ricade in una specie di invalidità disciplinata dal
codice. Tale categoria nasce come il frutto di un’operazione interpretativa.
L’inesistenza genera un vizio rilevabile, in ogni stato e grado del procedimento, compreso quello di
esecuzione, ma anche oltre, mediante un’azione di accertamento, in quanto la gravità del vizio è tale da
impedire la formazione del giudicato.

Qui si denota la differenza terminologica tra il Codice Civile ed il Codice di procedura. Il C.C. definisce nulli
gli atti inidonei a produrre effetti. Annullabili quelli che producono effetti suscettibili di cadere con
l’istaurazione di apposite azioni. Il codice di procedura li definisce inesistenti e nulli.

Su un piano diverso si colloca l’abnormità dei provvedimenti del giudice. Qui l’atto integra lo schema
normativo minimo, nonostante abbia un contenuto estemporaneo, sia sul piano strutturale che funzionale.
Esempio: la trasmissione degli atti al PM motivata dall’esigenza di rinnovare il decreto di citazione a
giudizio, il che spetta, invece, allo stesso giudice del tribunale monocratico.
L’abnormità pone rimedio alla tassatività oggettiva delle impugnazioni, rendendo ammissibile un autonomo
ricorso per cassazione o la rilevazione ufficiosa da parte del giudice dell’impugnazione ritualmente
investito. L’abnormità è soggetta ai termini ordinari di impugnazione, talché perde rilevanza a seguito della
formazione del giudicato, a differenza dell’inesistenza.

Non è contrario al principio di tassatività il fatto che talune nullità siano ricavabili da una disposizione
generale che rinvia ad una serie di fattispecie disciplinate altrove. Tale tecnica si ispira a ragioni di
economia normativa e al proposito di colmare eventuali dimenticanze, che comporterebbero
l’inquadramento dell’imperfezione nella mera irregolarità, data la struttura chiusa del sistema di nullità.
L’art 178, la cui portata va intesa in tale senso, è dedicato alle nullità di ordine generale. Qui figura
l’inosservanza di una serie di disposizioni che concernono il giudice, il PM, l’imputato, le altre parti
private, i loro difensori e rappresentanti, nonché la citazione a giudizio della persona offesa dal reato e del
querelante.
L’art 178 pone le premesse affinché, all’interno delle nullità generali, possano distinguersi due
sottocategorie assoggettate a trattamenti diversi.

Alle nullità generali si contrappongono quelle speciali, stabilite da apposita previsione legislativa, la quale
può essere tanto nel corpo della stessa fattispecie quanto in altre. È una categoria costruita in via residuale.
Tuttavia, si è avvertita l’esigenza di precisare che non sempre la previsione specifica comporta il regime
consueto delle nullità speciali.
In sintesi, quando si parla di nullità generali e speciali, si allude alla differente tecnica di previsione adottata
dal legislatore. Quando, invece, si parla di nullità assolute, intermedie, relative, si allude al regime di
trattamento previsto dalla legge per le diverse specie di nullità.

Le nullità assolute -> tali nullità sono insanabili (art 179). Ma tale insanabilità non è un carattere
indefettibile delle nullità assolute. Queste continuano ad essere sottoposte alla forza preclusiva del
giudicato o dell’irrevocabilità della sentenza, nonché dell’immutabilità dell’ordinanza o del decreto che
chiude il procedimento. È, inoltre, citato un caso in cui una sanatoria opera in un momento anteriore: all’art
627 comma 4 si apprende che non sono rilevabili nel giudizio di rinvio le nullità assolute verificatesi
anteriormente, in forza del c.d. giudicato implicito. Deve quindi concludersi che ciò che distingue le nullità
assolute dalle altre è il normale regime di insanabilità fino all’irrevocabilità del giudicato.

Le nullità assolute sono poi rilevabili ex officio da parte del giudice, in ogni stato e grado del procedimento.
Questa caratteristica è comune alle nullità a regime intermedio nonché ad una sottoclasse di nullità
relative.

Le nullità assolute, relative alla figura del giudice, si sovrappongono per intero all’area delle nullità di
ordine generale. È, quindi, causa di nullità assoluta l’inosservanza delle disposizioni concernenti le
condizioni di capacità del giudice ed il numero dei giudici necessario a costituire i collegi giudicanti. Non
sono riconducibili a tale ambito i vizi di nomina del giudice, ove non rientranti nell’ambito della capacità.
In proposito, l’art 33 c.p.p. definisce la sfera di capacità del giudice, da cui esclude le disposizioni sulla
destinazione del giudice agli uffici giudiziari e alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sull’assegnazione
dei processi a sezioni, collegi e giudici, come anche le disposizioni sulla attribuzione degli affari penali al
tribunale collegiale o monocratico.

Per la figura del PM, tra le nullità di ordine generale sono assolute quelle sull’iniziativa del medesimo
nell’esercizio dell’azione penale. Quindi sono assolute le violazioni delle disposizioni concernenti l’atto di
promovimento dell’azione penale, facendo riferimento sia alla sua mancanza che la sua invalidità. Al
riguardo vale l’elenco dell’art 405 (inizio azione penale. Forme e termini), a cui bisogna aggiungere
l’imputazione coatta e le contestazioni in udienza del reato connesso o del fatto nuovo. Come anche la
citazione diretta a giudizio nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica.
Quindi si avrà nullità assoluta quando il giudice decide sul fatto nuovo emerso in udienza preliminare o nel
corso dell’istruzione dibattimentale senza che sia stato formalmente contestato dal PM. O quando il fatto
storico nell’imputazione è sostituito con un altro fatto. In tale caso vi è però interferenza con la nullità a
regime intermedio che attiene alla difesa dell’imputato. Ma l’inquadramento come nullità assoluta
permette un rispetto maggiore del valore del contraddittorio.
Nell’ambito delle nullità assolute si collocano le violazioni delle disposizioni sulla capacità e sulla
legittimazione del rappresentante del PM, purché si riflettano sulla sua iniziativa nell’esercizio dell’azione
penale.
Capacità -> si richiamano le norme sulla delega nominativa a svolgere le funzioni di PM, nell’udienza
davanti al tribunale in composizione monocratica, a favore di un uditore giudiziario, di un viceprocuratore
onorario addetto all’ufficio o di personale in quiescenza da non più di due anni che nei 5 anni precedenti
abbia svolto le funzioni di polizia giudiziaria o laureati in giurisprudenza che frequentino il 2 anno della
scuola biennale di specializzazione. Sempre che uno di questo abbia compiuto un atto di esercizio
dell’azione penale.
Legittimazione -> ci si può riferire al promuovimento dell’azione davanti ad un giudice diverso da quello
presso cui l’ufficio del PM è istituito.
Più delicata la questione di sostituzione del magistrato del PM avvenuta in violazione della garanzia di
piena autonomia in udienza prevista quando, nell’udienza, il sostituto attui un atto di esercizio dell’azione,
ad esempio contestando un fatto nuovo. A tale questione si potrebbe obiettare che la disposizione attiene
in realtà ai rapporti interni all’ufficio, insindacabili in sede processuale.

Per le figure dell’imputato e il suo difensore, la disciplina vuole presidiare le numerose sedi del
contraddittorio indefettibile.
1)L’intervento dell’imputato deve essere rispettato a pena di nullità . Lo si vuole garantire nei confronti di
quelle nullità che derivano da omessa citazione al dibattimento di primo grado, benché tenuto a seguito di
giudizio direttissimo instaurato nei confronti di imputato libero o di giudizio immediato, e al dibattimento di
secondo grado. Quindi si vuole proteggere la vocatio in iudicium, protezione che investe tutti gli atti di tale
fattispecie, ivi compresa la notificazione. L’uso del termine “citazione” non vuole limitare la disposizione.
Quindi, si intende nullità assoluta anche l’omesso avviso per l’udienza preliminare.
2)È tutelata con nullità assoluta anche l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato. Tutela non solo
dall’assenza dal dibattimento di primo e di secondo grado, ma pure da ogni altra ipotesi rispetto alla quale
ne sia dichiarata obbligatoria la presenza. Quindi, l’assenza del difensore dall’interrogatorio di persona
sottoposta a misura cautelare personale, dalle sommarie informazioni che la polizia giudiziaria assume dalla
persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, dall’interrogatorio e dal confronto cui partecipi la
persona sottoposta alle indagini, dall’udienza di convalida dell’arresto in flagranza, dall’udienza destinata
allo svolgimento dell’incidente probatorio, dall’udienza preliminare, dall’udienza tenuta ai fini del
proscioglimento prima del dibattimento, dall’udienza dinnanzi alla corte d’appello nel procedimento di
estradizione passiva. In tali ipotesi, anche l’incapacità o incompatibilità del difensore genera una nullità
assoluta.

Sono nullità assolute anche quelle definite da specifiche disposizioni, cioè a previsione speciale. Esempio
è l’art 525 in cui si detta che alla deliberazione della sentenza debbono concorrere gli stessi giudici che
hanno partecipato al dibattimento. Qui non si può far uso dell’inosservanza delle disposizioni sul numero
dei componenti del collegio giudicante, venendo in gioco la loro identità fisica. Piuttosto, è in gioco quella
sulle condizioni di capacità del giudice, che determinerebbe, in ogni caso, la riconduzione dell’ipotesi nelle
nullità assolute.

Nullità intermedie -> le nullità generali, diverse da quelle assolute, sono disciplinate all’art 180, senza
dargli alcuna etichetta. L’espressione nullità intermedie è la più opportuna per raggrupparle, perché il
relativo trattamento si situa in posizione mediana tra le nullità assolute e quelle relative.

Le intermedie sono rilevabili ex officio (come quelle assolute) e sanabili anteriormente all’irrevocabilità
della sentenza (come le relative). Le nullità intermedie non possono essere rilevate (dal giudice) né dedotte
(dalle parti), se verificate prima del giudizio, dopo la deliberazione della sentenza in primo grado o, se
verificate durante il giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo.

Per le nullità intermedie, i tempi di rilevazione risultano distinti e più ampi rispetto a quelli di deduzione.
Infatti, il giudice al momento della deliberazione può rilevare una nullità la cui deduzione non è più
possibile. Per le parti vale il termine della chiusura del dibattimento o della chiusura delle discussioni. Un
limite di maggior portata per la deduzione delle nullità intermedie deriva poi dall’art 182 (deducibilità delle
nullità). Sul tema è importante una presa di posizione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione. Queste
hanno espresso che il termine ultimo per dedurre la nullità a regime intermedio coincide con la
deliberazione della sentenza nel medesimo grado anche nell’ipotesi in cui fossero assenti dall’udienza sia
l’imputato, sia l’altro difensore pur ritualmente avvisati.

Le nullità intermedie sono soggette al principio per il quale una nullità risulta in via automatica devoluta
al giudice dell’impugnazione, senza che formi oggetto dei relativi motivi? Il silenzio del codice induce ad
una risposta positiva in ordine all’appello. Per il giudizio di cassazione, l’art 609 (Cognizione della Corte di
Cassazione) sembra impedire una simile conclusione. Ma ragioni sistematiche propendono anche qui per la
tesi della devoluzione ex lege.

Ad eccezione delle nullità riferite al giudice (interamente assolute), le nullità intermedie sono ricavate per
sottrazione dell’area delle nullità assolute da quelle delle nullità generali. Tra quelle intermedie non vi
sono nullità speciali.

Nell’area delle nullità intermedie figura l’inosservanza delle disposizioni sulla partecipazione del PM al
procedimento, sempre che tale attività non sia una iniziativa nell’esercizio dell’azione penale. Quindi la
nullità inficia l’attività di prosecuzione dell’azione. Ad esempio, l’inosservanza delle disposizioni sulla
modifica dell’imputazione nell’udienza preliminare o nel dibattimento. Ma inficia anche tutti quegli
interventi in cui si risolve il contributo dialettico del PM al procedimento. Come nel caso delle conclusioni
che gli competono nell’udienza preliminare, o nel dibattimento di primo e secondo grado, o nel giudizio di
cassazione. La nullità intermedia tocca pure le richieste del PM in ordine alle misure cautelari, come quando
la revoca o la sostituzione della misura è disposta dal giudice senza che il PM abbia espresso il previo
parere, nonché la partecipazione attiva nel procedimento di esecuzione.
La posizione del PM è diversa rispetto a quella del difensore. Qualora il PM manchi per sequenze
procedimentali in cui la sua presenza è indefettibile genera nullità intermedie. Nel caso del difensore si
genera nullità assoluta.

La categoria delle nullità intermedie tocca pura l’inosservanza delle disposizioni sull’intervento, assistenza
e rappresentanza dell’imputato. Intervento è l’ipotesi di diretta e personale partecipazione dell’imputato al
procedimento. L’assistenza è quella in cui le attività sono svolte dal difensore, dal consulente tecnico,
dall’interprete o curatore speciale, per far valere i diritti e gli interessi dell’imputato. La rappresentanza
riguarda fattispecie piuttosto eterogenee fra di loro (i poteri di rappresentanza del difensore conferiti da
singole disposizioni, i poteri di rappresentanza legale forniti a soggetti diversi dal difensore).
L’inosservanza delle disposizioni sull’intervento, l’assistenza e la rappresentanza delle altre parti private è
tutelato da nullità a regime intermedio. Ma l’inosservanza è sottoposta ad un regime più blando rispetto a
quello dell’imputato. I due casi anche se sottoposti entrambi alla nullità intermedia hanno, quindi, una
tutela differenziata, considerata razionale dalla Corte costituzionale.
L’inosservanza delle disposizioni che riguardano la citazione a giudizio della persona offesa e del
querelante è sottoposta a nullità intermedia.

Nullità relative -> la categoria è disciplinata all’art 181 per esclusione. Sono tali le nullità non generali o
non definite assolute. Quindi sono speciali, poiché costruite in maniera residuale e la loro esistenza dipende
da un’espressa comminatoria. Una nullità a previsione speciale può essere riconducibile allo schema delle
nullità generali, così da essere assolute o intermedia.

Quindi l’interprete, posto di fronte ad una nullità a previsione speciale, è chiamato ad individuare il
trattamento aiutato da una serie di operazioni successive. Deve ricondurla nella categoria delle nullità
generali. Se vi appartiene deve accertare se essa rientri nella nullità assoluta. Se l’indagine è negativa gli
toccherà inserire l’ipotesi nelle nullità a regime intermedio. Solo se la collocazione nella categoria delle
nullità generali non è riuscita, allora si conclude che la nullità a previsione speciale sia una nullità relativa.

Le nullità relative, a differenza delle altre, devono essere dichiarate dal giudice solo su eccezione della
parte interessata. Tale possibilità per la parte e la persona offesa di dedurre la difformità si accosta al
regime adottato per tali nullità dal c.p.c. Questa possibilità di autoregolare i propri interessi, grazie ad un
diritto potestativo, ha risvolti negativi là dove lascia il giudice sfornito di strumenti per prevenire il
diffondersi, agli atti successivi dipendenti, di una nullità che egli non può rilevare ex officio. Per circoscrivere
il pericolo si sono compressi i termini di sanatoria delle nullità relative e si è data efficacia alle regole poste
per la deducibilità.

L’eccezione delle nullità, sulle indagini preliminari o l’incidente probatorio o gli atti dell’udienza preliminare
deve essere eccepita in tempi brevi, ma distinti a seconda che vi sia o meno l’udienza preliminare. Se vi è
l’udienza, le nullità devono eccepirsi prima della pronuncia del provvedimento conclusivo dell’udienza. Se
non vi è, le nullità devono eccepirsi subito dopo aver compiuto per la prima volta l’accertamento della
costituzione delle parti in giudizio, quindi l’eccezione di nullità diventerà oggetto di questione preliminare.
Questo ultimo termine vale anche per le nullità del decreto che dispone il giudizio o gli atti preliminari al
dibattimento. Lo stesso limite opera, se si procede a giudizio, per le nullità concernenti gli atti delle indagini
preliminari e quelli compiuti nell’incidente probatorio e per le nullità concernenti gli atti dell’udienza
preliminare, che non siano state dichiarate a suo tempo ma regolarmente eccepite. Se vi è sentenza di non
luogo a procedere le medesime nullità devono essere riproposte con la relativa impugnazione. Infine, le
nullità relative avvenute nel giudizio devono eccepirsi tramite impugnazione della sentenza.
Il principio per cui le cause di nullità relative debbono convertirsi in motivi di impugnazione è enunciato
solo con riguardo alle nullità avvenute nel giudizio. Ma questo vale anche per quelle verificatesi prima del
giudizio e che il giudice, in tale sede, non ha dichiarato, pur essendo state eccepite entro i termini
assegnati.

La legge del 1995 ha introdotto due fattispecie di nullità rilevabili anche d’ufficio. La prima concerne
l’indicazione delle esigenze cautelari quando vi sia pericolo per l’acquisizione delle prove, ricompresa nella
seconda fattispecie, concernente al contenuto dell’ordinanza che dispone la misura cautelare.
Non risulta agevole inquadrare queste due nuove fattispecie rispetto alla nullità. Da un lato la rilevabilità
d’ufficio le accosta alle nullità intermedie, dall’altro esse si avvicinano alle nullità relative, sicché non è
mancato chi ha suggerito di collocarle in un nuovo quarto genere.
Non è necessario arrivare ad un nuovo quarto genere ed inoltre l’operazione ha un sapore classificatorio,
non influendo sul trattamento.

In verità, partendo dall’assunto che le nullità che investono le ordinanze cautelari non possono essere
dedotte o rilevate, se non con i mezzi di impugnazione previsti, e che il procedimento de libertate è del
tutto autonomo dal procedimento principale, è necessario concludere che il mancato esperimento delle
specifiche impugnazioni consentite avverso le ordinanze cautelari provoca la sanatoria delle nullità che le
affliggono entro i termini di presentazione delle stesse. Quindi, anche in sede di revoca della misura
cautelare, il giudice non potrebbe rilevare ex officio una delle nullità in corso.

Per comprendere l’incidenza delle nullità contemplate per l’ordinanza applicativa della misura coercitiva,
si deve distinguere tra quelle che ne investono la motivazione e quelle che riguardano altri requisiti.
La nullità della motivazione -> data la pluralità delle fattispecie di nullità comminate per profili
motivazionali dell’ordinanza applicativa e data la complessa tipologia dei poteri conferiti oggi al tribunale
della libertà in sede di riesame è inevitabile rinviare alla sede specifica di trattazione.
La nullità su altri requisiti-> nullità inerenti alle generalità dell’imputato, l’indicazione del fatto e delle
norme violate, nonché la data e la sottoscrizione dell’atto. Qui la rilevabilità anche d’ufficio sembra dotata
di una qualche maggiore efficacia. In sede d’appello, contro le ordinanze applicative di misure cautelari non
coercitive, la rilevabilità anche d’ufficio, sempre per i vizi appena elencati, rafforza il controllo di legalità sul
provvedimento, abilitando il giudice a travalicare l’ambito dei motivi proposti. Scenari analoghi per il
giudizio di cassazione.

I limiti alla deducibilità sono tenuti separati dalle cause di sanatoria -> l’istituto della sanatoria,
risolvendosi in un fatto successivo che determina un’equivalenza di effetti rispetto al corrispondente atto
perfetto e la fattispecie imperfetta, non deve essere pensato come attinente alle ipotesi in cui sussiste un
difetto di legittimazione a far valere la nullità.

Secondo l’art 182, la deducibilità delle nullità relative e a regime intermedio trova un duplice limite
soggettivo. La nullità non può essere dedotta o eccepita né da chi vi ha dato causa o concorso a darla, né
da chi non ha interesse all’osservanza della disposizione violata. Con tale limite temporale, si prevede che la
nullità venga eccepita prima del compimento dell’atto oppure, se non è possibile, immediatamente dopo.
In questo modo, gli oneri che si costruiscono incidono sui diritti delle parti, ma si è ritenuto prevalente
l’interesse ad evitare ritardi strumentali.
Nel caso in cui la parte non abbia assistito al compimento dell’atto, il termine per dedurre la nullità coincide
con quelli di sanatoria stabiliti, rispettivamente, per le nullità relative e quelle intermedie.
Ai fini in discorso, si intende come parte il solo difensore (o PM) e non l’indagato (o una delle altre parti
private), poiché sprovvisto delle conoscenze tecnico-giuridiche per ravvisare l’omissione censurabile
processualmente in cui lo stesso organo sia incorso. I termini per rilevare o eccepire le nullità sono dettati a
pena di decadenza.
La disciplina delle sanatorie generali (art 183) si concentra su due figure. La prima, acquiescenza, è la
rinuncia espressa della parte interessata a eccepire la nullità e l’accettazione degli effetti dell’atto, ossia del
suo risultato pratico. L’accettazione tacita si atteggia come un comportamento concludente, in cui è insita
una manifestazione di volontà della parte, presupponendo la consapevolezza del vizio in capo al soggetto
stesso. La seconda, sanatoria per il raggiungimento dello scopo rispetto a tutti gli interessati. Sono i casi in
cui la parte si avvale della facoltà, al cui esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato. È escluso l’ipotesi in
cui l’atto equipollente non sia stato seguito dall’effettivo esercizio della facoltà.
Le sanatorie generali non operano per le nullità assolute, espressamente insanabili. Per contro, esse
valgono sia per le nullità relative che quelle a regime intermedio.

All’art 184 è prevista una sanatoria speciale che scatta nei confronti del PM, delle parti private nonché dei
loro difensori. Riguarda la nullità di una citazione o di un avviso, nonché delle relative comunicazioni e
notificazioni. “La nullità sarà sanata se la parte interessata è comparsa o ha rinunciato a comparire”; la
comparizione è personale e deve essere volontaria. La comparizione del difensore non funge da sanatoria
per l’imputato e non opera nemmeno l’accompagnamento coattivo. La sanatoria opera anche se la parte
non ha consapevolezza del vizio o non sia intenzionata a sanarlo.
La parte che dichiari di essere comparsa con l’unico obiettivo di far rilevare l’irregolarità non impedisce il
verificarsi della sanatoria, ma ha diritto ad un termine a difesa non inferiore a cinque giorni.
Per la citazione a comparire al dibattimento, si precisa che il termine a difesa non può essere inferiore a 20
giorni, pari cioè a quello contemplato in via ordinaria dall’art 429 per il giudizio davanti al tribunale o la
corte d’assise. Data la generalità della disposizione, tale temine dilatorio sembra valere anche per il giudizio
davanti al tribunale in composizione monocratica.

Gli effetti della dichiarazione di nullità -> una volta escluso che ricorrano i limiti all’eccezione o
deduzione della nullità o che non vi siano cause di sanatoria, il giudice dichiara la nullità. Lo fa con la
dichiarazione, i cui effetti sono disciplinati, sotto un triplice effetto, dall’art 185.

Primo effetto è l’invalidità di atti consecutivi che dipendono da esso. Da qui il concetto di nullità derivata
che si trasmette nello stesso tipo di quella anteriore. In ogni caso, la propagazione o diffusione si riferisce
solo ad un rapporto di successione cronologica, tale da tradursi in un nesso di causalità necessaria sul piano
logico o su quello giuridico. Esempio: l’omesso invio dell’informazione di garanzia determina la nullità
dell’atto per il quale doveva essere inviata.
È esclusa la propagazione di nullità a ritroso degli effetti della dichiarazione di nullità ad un atto anteriore o
contemporaneo. Esempio di atto a formazione progressiva è la citazione a giudizio. La nullità della
notificazione non si traduce in causa di nullità del relativo decreto, ma come una inidoneità a raggiungere lo
scopo assegnatogli, conseguibile poi con la rinnovazione della notificazione.

La dichiarazione di nullità comporta anche rinnovazione dell’atto solo quando è necessaria (ciò non
accade quando è nullità assoluta insanabile) e possibile (non valido per gli atti ab origine non reiterabili). La
rinnovazione è obbligatoria per gli atti con natura propulsiva. Le spese di rinnovazione sono a carico di chi
ha dato causa alla nullità per dolo o colpa grave.

Se la nullità è dichiarata in uno stato o grado diverso da quello in cui la stessa si è verificata, il codice
opera una distinzione.
La dichiarazione di nullità, a prescindere dal tipo, comporta regressione del procedimento allo stato e
grado in cui è stato compiuto l’atto nullo, purché si tratti di un atto di natura non probatoria. L’obiettivo di
reintegrare le parti nella posizione in cui si trovavano al verificarsi della causa di nullità non è sempre
perseguito per ragioni di economia processuale.
Anche le Sezioni unite si ispirano a ragioni di economia processuale e dettano che la mancata
sottoscrizione della sentenza di appello da parte del presidente del collegio, generando una nullità relativa,
comporta l’annullamento della sentenza documento, così il processo in grado di appello regredisce alla fase
successiva alla deliberazione. Così che venga redatto un nuovo documento sentenza, sottoscritto dal
presidente e dall’estensore e fatto oggetto di nuovo deposito.
Se invece la nullità concerne le prove, il giudice non può avvalersi della regressione. Provvede, piuttosto
alla rinnovazione, sempreché ciò sia necessario ai fini della decisione e la prova sia ripetibile.

LE PROVE CAP 3
Il codice ha dedicato il libro III del codice alle prove, concentrandovi la disciplina dei mezzi di prova e dei
mezzi di ricerca della prova, dopo aver dedicato il titolo I alle disposizioni generali sulla materia.
Questo è espressione di una scelta meditata e sistematica di enorme significato.

Prima di tutto racchiudere in un solo contesto normativo la disciplina delle prove, corrisponde ad una
duplice esigenza. Da un canto, l’esigenza di sottolineare la centralità del tema nell’ambito di un processo
caratterizzato dalla adesione allo schema accusatorio, dall’altro all’esigenza di ripudiare l’impostazione
frammentaria cui erano ispirati i codici previgenti, che rintracciavano nella fase delle indagini preliminari il
baricentro del processo. Per rovesciare tale prospettiva è stata usata l’idea di riservare un apposito libro
agli atti probatori e dislocarlo nella prima parte del codice.

Inoltre, nella unitarietà di collocazione formale del regime delle prove si riflette anche il proposito di una
sostanziale unitarietà di fondo delle previsioni, che vi sono dettate, in vista della costruzione di un vero e
proprio sottosistema normativo dedicato alle prove penali. Necessariamente articolato, sulla
regolamentazione del diritto alla prova e sui rapporti tra prova e decisione.

Alla base di tale scelta troviamo l’intento legislativo di recuperare maggior rigore sul piano della legalità
della prova, sottolineando la funzionalità delle relative regole alla formazione del convincimento del
giudice. Cioè, occorreva ripristinare il primato del principio di legalità sulla disciplina della prova,
riaffermando la necessità di ricondurre nell’ambito di precise previsioni di legge i capisaldi della attività del
giudice, consistente nel conoscere attraverso le prove.

In questa prospettiva risultano interessanti le disposizioni generali collocate a guisa di preambolo del libro
sulle prove (art 187 – 193). Ne nasce una sorta di catalogo dei principi guida da osservarsi in materia
probatoria, come tali logicamente prioritari rispetto alla regolamentazione dei singoli mezzi e destinati a
trovare applicazione ogni volta si ponga un problema di prova di fatti rilevanti ai fini della decisione. Tali
disposizioni generali, sia per la loro attitudine unificatrice in rapporto all’intero sistema delle prove, sia per
il loro contenuto taluna fortemente innovatori, sono uno dei settori di più elevato risalto ideologico e
culturale dell’intero codice.
Esse delineano, in concreto, le nervature del diritto delle prove e pongono anche le premesse di una
teoria della prova, che si precisa meglio in rapporto alle diverse fasi del procedimento ed ai diversi modelli
processuali.

Rimane aperto il delicato problema della sfera di operatività delle disposizioni in questione, nonché delle
altre disposizioni racchiuse nel libro III, con riferimento alla tematica dei mezzi di prova e dei mezzi di
ricerca della prova.
Premesso che il Libro III non è l’unico luogo dove le norme sulla prova sono ospitate (sono racchiuse anche
nel libro V, dedicato a indagini e udienza preliminare, libro VII, dedicato al giudizio). Ci si domanda se le
disposizioni del libro III possano o debbano trovare applicazione anche al di là delle aree processuali
tecnicamente destinate alla formazione della prova (quali la fase del dibattimento e quella di svolgimento
dell’incidente probatorio, paritetica ed anticipatrice ante iudicium delle garanzie dibattimentali).
L’applicazione in tali fasi non è posta in dubbio. Anche se con riguardo alla fase dell’incidente probatorio si
impongono degli accorgimenti interpretativi. Ad esempio, per quanto concerne l’individuazione
dell’oggetto della prova non si potrà fare riferimento ad una imputazione che, al momento dell’incidente,
non è ancora stata formulata, si dovrà ripiegare quindi sulla ipotesi di imputazione risultante da altri
adempimenti del PM.

Al di là del dibattimento e della fase di incidente probatorio, il quesito sulla incidenza della normativa
contenuta nel Libro III anche nelle fasi preliminari è problematico ma non può essere accantonato sulla
base di frettolosi schematismi. Come avverrebbe se si riconoscesse il rango di prova soltanto a quelle
acquisite o formate nel dibattimento. E se ne escludesse aprioristicamente l’operatività delle norme in
questione rispetto alle attività probatorie estranee a tali ambiti.

Ad esempio, non si vede come potrebbe sostenersi che le norme del libro sulle prove non debbano
applicarsi nelle fasi anteriori al dibattimento, riferendosi ai diversi momenti in cui è previsto l’intervento del
giudice, ora come organo di garanzia ora come organo di decisione, anche nel merito.
Come organo di decisione, quindi facendo riferimento all’attività del giudice in sede di udienza
preliminare sembra ovvio che lo stesso giudice debba attenersi alle norme sancite nel libro III, fermi
ovviamente i limiti risultanti da specifiche previsioni di natura derogatoria.
Più precisamente dovranno osservarsi le disposizioni generali in tema di ammissione delle prove, facendo
riferimento al restrittivo parametro della evidente decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere.
Così dovranno osservarsi le disposizioni dettate in tema di acquisizione e assunzione della prova, con la
consapevolezza che il 3° ed il 4° comma dell’art 422 stabiliscono una disciplina peculiare per l’audizione dei
testimoni, periti e dei consulenti tecnici. Inoltre, al termine dell’udienza preliminare il giudice potrà
pronunciare un decreto di rinvio a giudizio o una sentenza di non luogo a procedere, ma anche una
sentenza di condanna nel caso di giudizio abbreviato o una sentenza di applicazione della pena su richiesta
delle parti. E ai fini della selezione e valutazione del materiale probatorio su cui fondare la propria
decisione, lo stesso giudice non può discostarsi dalle norme che presiedono alla formazione del
convincimento giudiziale.
La conclusione è analoga, salvo i necessari adattamenti, anche per le ipotesi in cui il giudice debba
intervenire, nel corso delle indagini preliminari, adempiendo il suo tipico compito di garanzia dei diritti e
libertà fondamentali. Come ad esempio nel caso di adozione di un provvedimento in tema di coercizione
personale, ovvero in tema di intercettazioni telefoniche. Qui, il giudice, di fronte agli elementi probatori
fornitigli a supporto delle correlative richieste, può utilizzare alla base del proprio provvedimento soltanto
quelli il cui impiego non è incoerente con la disciplina corrispondente in materia di prove.

Più delicata è la questione dell’operatività delle disposizioni del libro III rispetto alle indagini preliminari
svolte dal PM. Sia per la ordinaria inidoneità a conseguire risultati utilizzabili come prova in sede
dibattimentale, sia a causa della scelta legislativa di usare per molti atti di indagine una terminologia diversa
rispetto agli atti corrispondenti, compiuti di fronte al giudice, allo scopo di sottolineare la differente
rilevanza probatoria. Questo però non significa che il PM operi senza alcun obbligo di osservanza almeno
dei principi di fondo dettati sul terreno probatorio. Infatti, vi sono atti del PM che per loro natura sono
destinati ad essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento, quindi ad essere acquisiti con valore di prova in
tale sede. Altri atti possono assumere lo stesso valore per effetto del verificarsi di determinate circostanze,
o in conseguenza del loro impiego per le contestazioni dibattimentali o a seguito di lettura dei verbali, o in
forza di accordo intervenuto tra le parti.
Inoltre, con il consenso delle parti, tutti gli atti di indagine preliminare compiuti dal PM possono essere usati
come prove alla base di una sentenza di merito idonea a definire il procedimento prima del passaggio al
dibattimento. Come capita nel giudizio abbreviato e nell’applicazione della pena su richiesta delle parti,
posto che in entrambi i casi, il giudice può pronunciare la propria sentenza sulla scorta degli atti disponibili
al termine delle indagini preliminari, solo eventualmente integrati dagli atti nati in udienza preliminare. Lo
stesso accade nelle ipotesi del decreto di condanna tutte le volte che l’imputato non presenta opposizione.
Quindi se è vero che le indagini preliminari del PM possono assurgere al livello di prova, contribuendo alla
formazione del convincimento del giudice, non è pensabile che le stesse possano svolgersi al di fuori di
qualunque riferimento alla disciplina dettata in materia di attività probatorie. Anzi occorre che tale
disciplina operi anche con riguardo alle già menzionate indagini, nella misura della oggettiva compatibilità
con le stesse.

Quindi, le disposizioni generali del Libro III, in quanto basilari per le scelte di civiltà giuridica sul terreno
probatorio, si devono applicare anche nel corso delle indagini preliminari del PM, nei limiti consentiti dalla
natura e dalla finalità delle indagini. Il discorso è diverso a seconda che si faccia riferimento alle norme dei
mezzi di prova e i mezzi di ricerca della prova.

Per i mezzi di ricerca delle prove precostituite la relativa disciplina deve essere osservata dal PM e dalla
polizia giudiziaria. Il dato formale, poi, conferma che il destinatario di tali norme sia l’autorità giudiziaria e
non il giudice, come invece lo è per le norme sui mezzi di prova. È decisiva la loro applicazione nella fase
preliminare al dibattimento. Le attività di ricerca delle prove non si possono svolgere senza l’osservanza
delle norme dettate in tema, quindi non possono essere lasciate all’arbitrio degli organi inquirenti. Il tutto
confermato dal fatto che le attività in questione corrispondono agli atti non ripetibili da includersi nel
fascicolo per il dibattimento, ai fini della loro utilizzabilità per la formazione del convincimento del giudice.

La disciplina dei mezzi di prova risulta dettata per il giudice, essendo atti normalmente affidati alla sua
gestione, destinati a sfociare in prove formate nel processo e idonee a concorrere direttamente alla
formazione del convincimento giudiziale. Per questi motivi, la regolamentazione delle omologhe attività
da parte del PM presenta una sua autonomia specifica, tale da far pensare che il legislatore abbia voluto
tenerla distinta da quella dei mezzi di prova in senso proprio.
A sostegno di questa tesi è la circostanza che gli atti del PM corrispondenti a tali mezzi di prova siano stati
definiti e regolati avendo cura di usare anche una differente nomenclatura (operazione e accertamenti
tecnici anziché perizie, individuazione di persone e cose anziché di ricognizione). Questo per evidenziare il
diverso finalismo ma anche per sottolineare la maggiore snellezza formale che dovrebbe caratterizzarli,
tenuto conto della fase in cui si collocano e della loro destinazione diversa.

Quindi, le norme dei diversi mezzi di prova non devono, in linea di massima, applicarsi nel corso delle
indagini preliminari del PM. Ma, in sede interpretativa, si può ritenere che le norme per i mezzi di prova
possano applicarsi anche con riferimento a particolari attività o situazioni riconducibili all’ambito delle
indagini preliminari del PM. Così avviene in determinati casi da enuclearsi caso per caso, soprattutto con
riferimento all’esigenza di colmare evidenti carenze riscontrabili, sul terreno garantistico, nella disciplina
delle indagini preliminari.
Per esempio, nella nomina dei consulenti tecnici, il PM ed altri soggetti legittimati non possono esimersi
dal rispettare la prescrizione secondo la quale non vi deve esse incapacità o incompatibilità del perito, o che
nell’acquisizione di documenti da parte del PM si possa prescindere dal rispetto dei divieti sanciti in
materia di prova documentale.

Si tratta di operazioni interpretative delicate, occorrendo verificare quando nel silenzio del legislatore su
determinati aspetti della disciplina delle indagini preliminari si debba ravvisare una lacuna o quando vi si
rifletta una consapevole scelta legislativa, tale da escludere qualunque integrazione del genere.
Pertanto, poiché vi è una apposita ed autonoma disciplina per gli atti di indagine del PM omologhi ai tipici
mezzi di prova, le norme previste per i tipici mezzi di prova si applicano agli atti di indagine del PM solo in
via del tutto residuale, solo per gli aspetti non coperti dalla loro specifica disciplina. In quanto si tratta di
norme dettate non in funzione della specifica attitudine di tali mezzi a formare la prova, bensì allo scopo di
stabilire le idonee garanzie minime per il relativo procedimento di acquisizione probatoria. Garanzie in
assenza delle quali il procedimento potrebbe risultare deficitario, rispetto ai principi fondamentali del
sistema.

L’oggetto della prova.


L’art 187 è la prima disposizione generale del settore dedicato alla definizione dell’oggetto della prova.
Definire l’oggetto della prova risponde all’esigenza di evitare che l’attività probatoria possa
arbitrariamente orientarsi verso qualunque obiettivo di ricostruzione della verità storica, volendola
circoscrivere la destinazione, piuttosto, verso temi coessenziali all’oggetto stesso del procedimento, inteso
nella sua complessità. D’altra parte, vi sono norme nel codice rispetto alle quali la precisa determinazione
dell’oggetto della prova assume un risalto decisivo in funzione di istituti fondamentali per i meccanismi di
formazione della prova stessa. Come per i criteri per l’ammissione delle prove in sede dibattimentale (art
493 e 495).

Omessa ogni enfatica allusione ad un irraggiungibile accertamento della verità, si è passati a definire
l’oggetto della prova facendo riferimento al tema della decisione. E si è fissato il requisito della pertinenza
come criterio-guida per lo sviluppo dell’attività probatoria, ma anche per la definizione dei suoi confini.
Da qui l’elencazione dei fatti suscettibili di divenire oggetto dell’accertamento probatorio , quali emergono
dal 1° comma dell’art 187, dove si evidenzia lo sforzo di limitare il perimetro del thema probandum,
corrispondente all’area delle questioni poste attraverso l’esercizio dell’azione penale (cioè l’area delle
questioni da risolversi in vista delle relative determinazioni, con riferimento alla ipotesi di imputazione
posta alla base delle indagini). Sono tali i fatti che si riferiscono all’imputazione e quelli che riguardano la
punibilità dell’imputato, nonché la determinazione della pena o della misura di sicurezza. Quando vi è
costituzione di parte civile, il tema probatorio si allarga fino ad includere le questioni derivanti
dall’esercizio dell’azione civile in sede penale. In tal caso, diventeranno oggetto di prova anche i fatti di
responsabilità civile da reato, oltreché quelli relativi ai danni prodotti dal reato (compresi nella sfera di
accertamento attinente all’imputazione).
Nuova è l’estensione dell’oggetto della prova ai fatti processuali o ai fatti dai quali dipende l’applicazione
di norme processuali. È utile la sua esplicita previsione, dato che l’accertamento di tali fatti assume, non di
rado, contorni di particolare delicatezza, tali da rendere importante l’operatività della comune normativa
probatoria.

Per tale via, il principio dell’art 187 diventa una sorta di cardine primario per l’intero sistema delle prove. Il
criterio di pertinenza che vi è enunciato rappresenta il parametro di fondo per la verifica circa la rilevanza
della prova in vista della sua ammissione, oltreché per la soluzione di vari problemi che si possono porre in
sede di assunzione di determinate prove. Ad esempio, per quanto riguarda l’esercizio dei poteri del
presidente volti ad assicurare la pertinenza delle domande e a decidere sulle correlative opposizioni, in
sede di esame diretto e di controesame.

Le prove si distinguono in prove dirette e indirette, a seconda che le stesse si riferiscano, o non si
riferiscano, immediatamente al thema probandum principale, quale risulta dall’art 187. Stando a ciò, le
prove dirette sono quelle aventi per oggetto il fatto da provare, nelle sue diverse articolazioni. Le prove
indirette sono quelle che non hanno direttamente ad oggetto il fatto da provare, ma un altro fatto, dal
quale il giudice potrà risalire al primo solo attraverso un’operazione mentale induttiva, fondata sulle regole
della logica o su massime di esperienza. Quindi esse si caratterizzano come prove critiche. Le prove di
questa seconda categoria si definiscono anche come prove indiziarie. E tali sono gli indizi da non
confondere con gli indizi richiesti come presupposto, ad esempio, per l’adozione di una misura cautelare o
per l’autorizzazione ad una intercettazione telefonica. In queste ipotesi si parla di indizi con riguardo ad
elementi conoscitivi di varia natura, elementi legittimamente acquisiti ma non necessariamente dotati di
efficacia probatoria piena.
Alla distinzione tra prove dirette e indirette si fa corrispondere, talora, la distinzione tra prove storiche e
prove critiche. A seconda che il fatto da provare venga descritto o riprodotto immediatamente davanti al
giudice, o che si renda necessario l’intervento di inferenza del medesimo giudice.

Ma le due classificazioni non possono ritenersi coincidenti, data la eterogeneità dei criteri che le ispirano.
La prima classificazione fa leva sull’eventualità che la circostanza oggetto della prova si riferisca
direttamente, o no, al tema da provare. La seconda classificazione pone l’accento sul processo logico
seguito dal giudice per ritenere raggiunto il risultato probatorio su quel tema. Esse, invece, possono dar
luogo a differenti combinazioni.
Esempio: le prove storiche, dichiarazioni di prova, possono avere ad oggetto un fatto diverso rispetto al
fatto da provare, per esempio un elemento dotato di forza indiziante. In questo caso, le prove storiche
assumono la fisionomia di prove indirette. Per converso, fermo restando che tutte le prove indirette
presentano la struttura di prove critiche, non è escludibile che anche una prova riconducibile alle prove
critiche possa avere ad oggetto il fatto assunto come thema probandum, e quindi abbia natura di prova
diretta.

Prove atipiche e garanzie per la libertà morale della persona.


Le prove atipiche o innominate sono al centro di discussioni, in cui da un lato troviamo il principio di
tassatività e dall’altro il criterio di libertà delle prove. Su tale questione, il codice ha adottato una posizione
intermedia. Si è deciso di non dettare alcuna aprioristica preclusione nei confronti delle prove non
disciplinate dalla legge, poiché sarebbe potuto sembrare eccessivo. Piuttosto, si è optato per il
trasferimento in capo al giudice di valutare preliminarmente l’ammissibilità di tali prove. Dovranno,
comunque, essere prove non vietate dalla legge o difformi dal modello di una prova tipica, cioè disciplinata
dalla legge.
Più specificatamente, quando si avrà a che fare con una prova non riconducibile a nessuna delle figure
probatorie legislativamente predeterminate, spetterà al giudice decidere, di volta in volta, se la stessa
potrà trovare ingresso in sede processuale.
Il tutto sulla base di una verifica fondata su due distinte valutazioni. Da un lato deve essere idonea ad
assicurare l’accertamento dei fatti, dall’altro deve non pregiudicare la libertà morale della persona. Nel
momento in cui viene riconosciuta come ammissibile, il giudice dovrà dettare le modalità concrete della
sua assunzione, dopo aver sentito le parti allo scopo di concordare le relative cadenze procedurali.

Nelle due valutazioni, la tutela della libertà morale della persona ha, in ogni caso, un ruolo determinante
rispetto all’esito della valutazione. Cioè nessuna prova potrà essere ammessa, se dalla sua ammissione
potrà derivare una lesione alla libertà personale del soggetto che vi è coinvolto. Questa è applicazione del
principio secondo cui, anche se vi è consenso della persona interessata, non si possono usare tecniche o
metodi probatori idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di
ricordare e valutare i fatti (attitudine della persona ad autodeterminarsi ed esercizio delle facoltà
mnemoniche e valutative).
Principio, specificato già nell’apposita sede relativa all’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini,
inserito nelle disposizioni generali del sistema delle prove, allo scopo di sancirne il rango di regola basilare
nel settore, idonea a configurare un limite assoluto alla ammissibilità di mezzi o procedure confliggenti con
esso. Alcuni esempi sono la narcoanalisi, l’ipnosi, i c.d. sieri della verità.
Questo è previsto soprattutto per tutelare la libertà morale della persona, intesa come valore prioritario
rispetto all’accertamento processuale.

Diritto alla prova e criterio di ammissione.


La disciplina delle modalità di ammissione della prova è un terreno su cui incide il modello del processo di
parti, in coerenza con il suo canone di fondo per cui il giudice decide iuxta alligata et probata partium (il
giudice giudica secondo le prove raggiunte e i documenti allegati). Quest’ultimo è il brocardo del principio
di disponibilità delle prove, secondo cui il giudice, salvi casi eccezionali, deve porre a fondamento della
decisione le prove proposte dalle parti.
Corollario di questa impostazione processuale è il diritto alla prova, riconosciuto nei confronti delle parti.
Diritto esplicitamente sancito nel codice, concretizzando una nozione in passato elaborata soprattutto sul
piano delle ricostruzioni dottrinali.

Quindi capovolgendo la logica inquisitoria (iniziativa officiosa del giudice in materia di prove) e relegando
ai confini le eccezionali prove ammesse d’ufficio. L’art 190 afferma il principio (di impronta accusatoria)
per cui le prove sono ammesse a richiesta di parte, e su tale base, s’impone al giudice di provvedere senza
ritardo con ordinanza alla deliberazione di ammissibilità che gli è demandata.

Così emerge il duplice livello del diritto alla prova delle parti.
1° diritto alla prova come diritto di richiedere l’ammissione di determinate prove, espressivo di un potere di
disponibilità in ordine alla gamma di prove ammissibili, salve le eccezioni espressamente previste di
intervento del giudice ex officio.
2° diritto alla prova come diritto ad ottenere la prova richiesta, entro i limiti in cui può essere ammessa la
prova o ad ottenere una tempestiva pronuncia sulla richiesta formulata.

Tra le concrete specificazioni del diritto alla prova delle parti vi è l’esplicita attribuzione all’imputato del
diritto ad ottenere l’ammissione delle prove a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico, ed
al PM del corrispondente diritto in ordine alle prove a carico sui fatti costituenti oggetto delle prove a
discarico. Qui il legislatore ha dato risalto al diritto di controprova, al punto da configurarlo come specifico
motivo di ricorso per cassazione proprio con riferimento alla mancata assunzione di una prova decisiva,
allorché la stessa sia stata richiesta dalla parte, anche nel corso dell’istruzione dibattimentale.

La pronuncia sull’ammissibilità della prova è vincolata ad un duplice ordine di parametri (art 190). Si
tratta di un passaggio obbligato rispetto a qualunque prova, quale che sia l’oggetto della stessa, non
potendosi accreditare l’interpretazione orientata a ritenere incompatibili i suddetti criteri di ammissibilità
con il riconoscimento costituzionale della facoltà dell’imputato di ottenere l’acquisizione di ogni altro
mezzo di prova a suo favore.
I parametri: Prima, sul piano delle valutazioni di diritto, il giudice dovrà escludere le prove vietate dalla
legge, cioè quelle per le quali esiste un espresso divieto in ordine all’oggetto o al soggetto della prova, o in
ordine alla procedura di acquisizione probatoria. Dopo, sul piano delle valutazioni di fatto, il giudice dovrà
escludere le prove che risultino in concreto superflue e irrilevanti. La verifica sulla rilevanza delle prove si
risolve in un giudizio sulla sua riconducibilità all’ambito oggettivo delineato dall’art 187 (pertinenza al
thema probandum). La verifica sulla non superfluità della prova comporta un giudizio sulla potenziale utilità
della stessa e quindi sulla sua attitudine ad arricchire la piattaforma su cui si formerà il convincimento del
giudico.
Il giudice segue gli stessi criteri anche quando deve pronunciarsi sull’eventuale revoca dei provvedimenti di
ammissione della prova, una volta sentite le parti in contraddittorio.

Ha carattere derogatorio l’art 190 bis rispetto alla disciplina ordinaria di ammissione. Questo opera per i
procedimenti per i delitti di criminalità organizzata. In particolare, quando si richiede l’esame del testimone
o di uno dei soggetti di cui all’art 210 (persona imputata in un procedimento connesso), i quali hanno già
reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o dibattimento, l’esame è ammesso solo se riguarda fatti
o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni, o quando il giudice o una delle parti lo
ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze.
Tale disciplina è estesa anche ai processi per i gravi delitti indicati al comma 1, con specifico riferimento
all’esame di un testimone minore negli anni 16, nonché quando l’esame testimoniale riguardi una persona
offesa in condizioni di particolare vulnerabilità.
Ne deriva una deroga ai criteri di ammissione di prova, sanciti all’art 190, che ubbidisce all’esigenza di
tutelare le persone da esaminare di fronte al pericolo dell’usura psicologica collegata alla eventualità di
reiterate deposizioni sugli stessi temi, cui si aggiunge anche l’esigenza di evitare alle suddette persone la
prospettiva della esposizione a ripetuti rischi o disagi personali (per i delitti di criminalità organizzata).

Queste esigenze sono tutelate dalla disciplina, attenta, da un lato, ad assicurare l’osservanza della garanzia
del contraddittorio e, dall’altro, a subordinare il potere del giudice di ammettere o di non ammettere la
rinnovazione dell’esame dei soggetti in questione, all’accertamento di un presupposto ben definito o ad
una valutazione di necessità. Quest’ultima valutazione deve riservarsi sempre al giudice, secondo i principi
generali in tema di ammissione della prova, senza alcun vincolo alle richieste e prospettazioni avanzate da
taluna delle parti.

Il testo base dell’art 190 vuole garantire il diritto delle parti ad ottenere l’ammissione e l’acquisizione die
mezzi di prova richiesti. Ma il legislatore ha ribadito tale disciplina anche in più specifiche disposizioni
relative ai criteri di ammissibilità della prova, soprattutto con riferimento alla fase del giudizio. Quindi,
l’incidenza dei principi espressi è da ritenersi circoscritta all’intero arco del procedimento, quindi anche
nelle fasi anteriori al dibattimento, beninteso entro i limiti di compatibilità, con tali fasi, della tematica che
vi è disciplinata.

È indubbio che i principi in questione si debbano applicare in sede di incidente probatorio. In cui si parla di
un diritto alla prova in capo ai soggetti legittimati e del correlativo potere-dovere del giudice di pronunciarsi
sull’ammissibilità delle corrispondenti richieste. Ma è indubbio che valgano anche per l’udienza
preliminare, tenendo conto delle modalità di assunzione delle prove che vi sono stabilite, nonché della
specialità del criterio di ammissione che vi è sancito, basato sul parametro della decisività delle prove in
vista della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere.
Resta fermo, però, che la fase dibattimentale è quella in cui con maggiore intensità sono destinati a trovare
applicazione i principi generali riguardanti il diritto alla prova, a cominciare dalla disciplina del diritto di
controprova e dalla articolazione dell’esame diretto ed incrociato.

Inoltre, proprio in rapporto alla fase dibattimentale sono previste vistose eccezioni al principio di iniziativa
di parte sul terreno probatorio, accanto a quelle stabilite in via generale nell’ambito della
regolamentazione di singoli mezzi di prova. Come risulta dalle disposizioni in materia di testimonianza o di
esame di persone imputate in un procedimento connesso, od ancora di perizia o di documenti provenienti
dall’imputato. Sono diverse ipotesi, previste dal codice, in cui determinati poteri di iniziativa probatoria
sono esperibili ex officio. Ad esempio, sono poteri attribuiti al presidente del collegio o al giudice del
dibattimento.
Ma, sul piano dei rimedi agli eventuali squilibri verificatisi nel contraddittorio tra le parti, l’attribuzione
all’organo giurisdizionale di tale potere di intervento suppletivo, assume un risalto secondario e marginale.
Tale in ogni caso da non compromettere l’originaria impronta accusatoria della disciplina probatoria.

Prove illegittimamente acquisite e sanzione di inutilizzabilità .


Nel solco della garanzia per il rispetto delle previsioni relative alla tematica probatoria e quindi di tutela
del principio di legalità in materia di prova, si colloca la regola che sancisce la non utilizzabilità delle prove
illegittimamente acquisite, cioè ammesse o assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (art 191).
Regola diretta a sottolineare la portata garantistica delle norme sulla prova, esplicitando la reazione
negativa dell’ordinamento di fronte al fenomeno delle prove illegittime, acquisite contra legem
(inosservanza di un divieto concernente il momento dell’acquisizione).

In questo modo risalta la categoria della inutilizzabilità, intesa come vizio e come sanzione processuale
predisposta in via generale nel caso di violazione dei divieti probatori risultanti ex lege. Categoria in cui si
vuole diversificare la sanzione prevista per i vizi del procedimento di acquisizione della prova rispetto alla
tradizionale sanzione della nullità, riservata ai vizi di forma degli atti per i quali essa venga comminata.
Differenza che risalta con riferimento al regime di rilevabilità del vizio che non ammette sanatorie, essendo
modellato sullo schema del regime previsto per le nullità assolute. Infatti, la inutilizzabilità della prova si
rileva anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, quindi anche nel giudizio di cassazione.

La sfera di operatività della sanzione è individuata in ogni ipotesi di inosservanza di un divieto sancito dalla
legge processuale in materia di ammissione ovvero di acquisizione probatoria, comprese le ipotesi in cui il
divieto possa emergere ex post rispetto al momento acquisitivo e quindi si concreti solo nel momento di
valutazione della prova. In altri termini, l’art 191 si configura, da un lato, come norma generale di
previsione della sanzione di inutilizzabilità, destinata a combinarsi con tutte le svariate disposizioni che,
pur sancendo un divieto probatorio, non prevedono alcun riflesso sanzionatorio per l’ipotesi della sua
trasgressione. Dall’altro, è norma generale di riferimento per il regime normativo del vizio della
inutilizzabilità, destinata a trovare applicazione tutte le volte in cui singole disposizioni dichiarino tout court
inutilizzabili determinati atti probatori, oltreché nel caso in cui venga esplicitamente richiamata.
In via generale si può concludere che la sanzione della inutilizzabilità opera nei confronti di tutte le prove
acquisite contra legem, cioè nella inosservanza di un divieto di ammissione o acquisizione stabiliti per
legge. Ad esempio, contro le prove acquisite senza essere state ritualmente ammesse, o ammesse d’ufficio
al di fuori dei casi stabiliti dalla legge.

Il 2° comma bis dell’art 191, aggiunto dalla legge 2017 n 110, detta uno specifico caso di inutilizzabilità per
le dichiarazioni o informazioni ottenute tramite delitto di tortura. La disposizione, così come è formulata,
è inopportuna. Dato che prove di questo tipo sarebbero comunque inammissibili per violazione della libertà
morale della persona. La precisazione potrebbe, anche, rivelarsi controproducente. Prestandosi ad essere
erroneamente intesa nel senso che la libertà di autodeterminazione risulti pregiudicata solo in caso di
comportamenti particolarmente gravi e reiterati come quelli descritti dal Codice penale. Inoltre, l’uso di tali
prove ai soli fini della prova del delitto di tortura è pleonastico e mal formulato, poiché in tal caso la
dichiarazione non sarebbe usata per il suo contenuto narrativo ma come corpo del reato, che deve essere
in quanto tale acquisito.

Valutazione della prova e regole di convincimento del giudice.


All’art 192 è dettato il regime di valutazione della prova.
In cui vi risulta, in primis, ribadito il principio del libero convincimento del giudice, che trova in questa sede
ricezione secondo una prospettiva di rigorosa tutela della legalità sul terreno probatorio.
Tale principio viene affermato con esclusivo riferimento al momento della valutazione della prova, non
anche a momenti anteriori del procedimento probatorio. Una valutazione che può avere ad oggetto solo
l’area delle prove legittimamente ammesse ed acquisite, dunque utilizzabili. È, quindi, escluso che il
convincimento del giudice possa formarsi al di fuori di tale ambito, perché vorrebbe dire fare uso di prove
per legge non utilizzabili.

Questa esigenza di legalità nel momento valutativo della prova è confermata dalla previsione del
necessario raccordo tra le valutazioni operate dal giudice e la motivazione dei provvedimenti che ne
siano derivati, nella quale dovrà essere dato conto sia dei risultati acquisiti, sia dei criteri adottati. In
sostanza, l’obbligo di motivazione dei provvedimenti è sia un limite alla libertà di convincimento del giudice
che premessa logica imprescindibile per l’esercizio del successivo controllo sulle linee di formazione di quel
convincimento.

Di conseguenza, attraverso i doverosi passaggi argomentativi, il giudice dovrà ricostruire il percorso logico-
conoscitivo che lo ha condotto ad apprezzare le prove disponibili e a trarne determinate conclusioni.
Questo prima di tutto per la sua consapevolezza ma anche per gli eventuali riscontri da parte del giudice di
impugnazione. In particolare, tra i requisiti della sentenza dibattimentale, nella motivazione dovranno
essere indicati i criteri di valutazione della prova adottati, ma anche le ragioni per cui il giudice ritiene non
attendibili le prove contrarie.

Il principio del libero convincimento, oltre al limite razionale dell’obbligo della motivazione, incontra
alcuni limiti di tipo normativo, a parte la dichiarata irrilevanza degli sbarramenti probatori stabiliti dalle
leggi civili, con l’unica eccezione per quelli concernenti lo stato di famiglia e cittadinanza (art 193).
È lo stesso art 192 ad enunciare due specifiche regole di giudizio, volte a circoscrivere la sfera del libero
apprezzamento probatorio che la stessa disposizione riconosce al giudice per la formazione del proprio
convincimento.
Prima di tutto, si esclude che al fine di formare il convincimento del giudice si possano usare elementi di
natura solo indiziaria, a meno che i medesimi possano qualificarsi come gravi, precisi e concordanti,
secondo la formula tradizionale mutuata dalla disciplina civilistica delle presunzioni. Quando si accerta un
simile carattere degli indizi entrati nella sfera conoscitiva del giudice, la regola probatoria è ribaltata. Gli
indizi assumono valenza di prova e diventano idonei ad integrare la piattaforma di convincimento, da cui
può essere desunta l’esistenza di un fatto.
In secondo luogo, riferendosi alla peculiare situazione dei coimputati del medesimo reato, o degli imputati
in un procedimento connesso a norma dell’art 12, si stabilisce che le dichiarazioni, testimoniali, provenienti
da una di tali persone non possano venire valutate ex se, ma debbano sempre esserlo unitamente agli altri
elementi di prova che ne confermano l’attendibilità. Lo stesso per le dichiarazioni di un imputato di reato
collegato a quello per cui si procede, nonché nei confronti delle dichiarazioni rese dall’imputato che abbia
assunto l’ufficio di testimone. In questo modo il codice configura una sorta di presunzione relativa di
inattendibilità delle suddette dichiarazioni, ammettendo che di esse possa tenersi conto solo quando siano
stati acquisiti altri elementi probatori idonei a comprovarne la credibilità.

Così è palese la deroga apportata al principio del libero convincimento del giudice, così come sono intuibili i
condizionamenti che recenti esperienze giudiziarie possono avere esercitato su una soluzione del genere.
Soluzione che non esclude la utilizzabilità probatoria delle dichiarazioni rese dal coimputato dichiarante
sull’altrui responsabilità, ma finisce per subordinarla al concreto vaglio di tali elementi di riscontro ab
externo, vaglio rimesso all’apprezzamento dello stesso giudice.

Tale scelta normativa, non vi è dubbio, che ha imposto al giudice un preciso impegno di verifica in vista
della conferma di dichiarazioni delicate per la loro provenienza. Tale scelta evita di per sé il rischio della
aprioristica esclusione dell’impiego di prove che l’esperienza ha dimostrato preziose fonti per la conoscenza
dei fatti. Quindi, tutto dipenderà dal risultato degli sforzi realizzati dal giudice al fine di vagliare la
sussistenza e la adeguatezza di ulteriori elementi probatori, capaci di corroborare le suddette dichiarazioni
del coimputato, facendole così rientrare nella sfera del convincimento giudiziale. In questo contesto, torna
ad emergere la logica del libero convincimento, che si dovrà esprimere nella motivazione circa la sufficienza
e l’attitudine di tali altri elementi ad attestare l’attendibilità della prova così confermata.

Ultima ipotesi di limite al principio del libero convincimento del giudice è quella che si esprime nel divieto
di valutazione sancito dall’art 526 comma 1bis (prova della colpevolezza dell’imputato), con l’escludere che
tale prova possa essere ottenuta con dichiarazioni di chi, per libera scelta, si è volontariamente sottratto
all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore. Dove si è operata una trasposizione nel codice della
regola enunciata all’art 111 Cost 4° comma. Da cui risulta che la regola probatoria opera solo se il
dichiarante si è sottratto all’esame in contraddittorio.

La testimonianza.
Come il titolo I del Libro III del codice dedicato alle disposizioni generali in materia probatoria, vi sono altri
due titoli dedicati rispettivamente ai singoli mezzi di prova e ai mezzi di ricerca della prova. Operando una
distinzione che trova le sue ragioni nella diversa incidenza di tali mezzi sui meccanismi di formazione del
convincimento del giudice.
I mezzi di prova si caratterizzano per la loro attitudine ad offrire al giudice dei risultati direttamente
utilizzabili ai fini della decisione, lo stesso non si può dire per i mezzi di ricerca della prova. I quali non
integrano di per sé una fonte del convincimento giudiziale, ma risultano funzionalmente diretti a
permettere l’acquisizione di cose, tracce, notizie o dichiarazioni idonee ad assumere rilevanza probatoria.

La distinzione si giustifica anche sotto un profilo più tecnico ed operativo, dal momento che i mezzi di
ricerca della prova si caratterizzano per essere diretti a propiziare l’acquisizione al processo di elementi
probatori precostituiti rispetto al medesimo. I mezzi di prova si qualificano, invece, per la loro funzionalità
ad assicurare la formazione della prova in sede processuale.
Quindi è normale che la disciplina per le due categorie sia differente. Differenza posta, anche, al fine di
sottolineare a livello sistematico come, nel caso dei mezzi di prova, l’attenzione legislativa debba
concentrarsi sulle modalità di assunzione in iuidicio della prova medesima, diversamente da quanto
accade nel caso dei mezzi di ricerca della prova, riguardo ai quali assume prioritaria importanza il regime
delle modalità di individuazione ed ingresso nel processo di elementi in vario modo preesistenti rispetto
allo svolgimento processuale.

Non è possibile una analisi dettagliata dei singoli mezzi di prova ma occorre, comunque, sottolineare gli
aspetti maggiormente importanti di tale disciplina, cominciando dai mezzi di prova primari nella sede
dibattimentale, quale momento centrale della relativa istruttoria. Cioè L’ESAME TESTIMONIALE E L’ESAME DELLE
PARTI.

Quanto alla tematica della testimonianza, il cui oggetto ed i cui limiti risultano definiti con sufficiente
chiarezza dall’art 194, merita di essere posta in luce l’articolata normativa dettata per il fenomeno della c.d.
testimonianza indiretta (art 195).
Precisamente, da un lato si sancisce la inutilizzabilità della deposizione di chi non possa o non voglia
indicare la persona o la fonte da cui abbia appreso la notizia al centro dell’esame testimoniale. Da qui
deriva il divieto di acquisizione e impiego delle notizie provenienti dagli informatori confidenziali, dei quali
gli organi di polizia e dei servizi di sicurezza non abbiano rilevato i nomi, essendo espressamente facoltizzati
a tacerli anche di fronte al giudice. Il tutto secondo il principio che vieta le testimonianze di provenienza
anonima.
Dall’altro lato, viene previsto che quando il testimone riferisca fatti o circostanze, la cui conoscenza dichiari
d’aver appreso da persone diverse, queste ultime possono essere chiamate a deporre d’ufficio dal giudice e
debbono esserlo su richiesta di parte, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato, laddove tale
richiesta venga disattesa. Salvo che l’esame del testimone direttamente a conoscenza dei fatti risulti
impossibile, a causa di morte, irreperibilità o infermità. Se non viene avanzata nessuna richiesta al fine di
ottenere l’esame del testimone fonte, le dichiarazioni rese dal testimone indiretto saranno utilizzabili,
potendosi interpretare la mancanza di tale richiesta come un tacito consenso delle parti all’utilizzo dei
contenuti della deposizione resa dal testimone per sentito dire.

Al 4° comma dell’art 195 è dettato il divieto di deporre, per ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, sul
contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni. Questa è una deroga alla disciplina ordinaria della
testimonianza indiretta. Motivata dall’esigenza di garantire la oralità della prova, privilegiando l’esame
testimoniale dei loro autori, in luogo di quello degli ufficiali ed agenti cui le stesse siano state rilasciate. Così
da evitare che per questa seconda via si consenti l’aggiramento dei limiti posti all’utilizzabilità, in sede
dibattimentale, dei verbali delle dichiarazioni rese agli organi di polizia, nella fase preliminare, da persone
informate dei fatti.
Nonostante sia stata dichiarata illegittima, poiché sfornita di ragionevole giustificazione, la disposizione è
stata riproposta, anche se in versione più circoscritta, nella legislazione attuativa dei principi di garanzia del
contraddittorio affermati nel testo novellato dell’art 111 Costituzione. È stato ripristinato in capo ad ufficiali
ed agenti di polizia giudiziaria il divieto di deporre sul contenuto di dichiarazioni rese da testimoni, ma
limitatamente alle dichiarazioni acquisite con le modalità previste agli art 351 e 357 (altre sommarie
informazioni e documentazione dell’attività di polizia giudiziaria). Divieto che non opera per gli altri casi, a
cui si applicheranno gli altri commi della testimonianza indiretta.
Ne deriva che l’ordinaria disciplina si applicherà anche nei confronti di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria
non solo per ogni dichiarazione proveniente da soggetti terzi ed appresa da tali organi, al di fuori di
qualunque rapporto dialettico formale interno al procedimento. Ma anche con riferimento alle
dichiarazioni rese e acquisite e documentate secondo modalità diverse da quelle a cui il 4° comma allude.
Come affermazioni rilasciate nel corso di attività investigative dirette ad altri scopi, di cui gli organi si siano
limitati a redigere le annotazioni.

Anche la regola che prevede l’esclusione della testimonianza dei soggetti che facciano riferimento a fatti
conosciuti da persone titolari di un segreto professionale o di un segreto d’ufficio, senza dubbio
comprensivo anche del segreto di Stato, sempreché le medesime persone non abbiano deposto sugli stessi
fatti o non li abbiano altrimenti divulgati (manifestando una scelta incompatibile con il vincolo di
segretezza), risponde alla esigenza di assicurare un controllo sulla fonte delle deposizioni di seconda mano
e a quella di rafforzare la tutela processuale di determinati soggetti.

All’art 196 si delinea la capacità di testimoniare.


All’art 197 si detta la disciplina delle incompatibilità con il relativo ufficio, in particolare le ipotesi di
incompatibilità a testimoniare dell’imputato. Va sottolineato che la disciplina trova la sua premessa negli
avvertimenti preliminari che devono essere dati ad ogni persona sottoposta ad indagine in sede di
interrogatorio, nonché le conseguenze della violazione della relativa previsione, articolata su un triplice
livello.

L’area dell’incompatibilità risulta oggi circoscritta in termini assoluti (lettera a) alla situazione di chi sia
coimputato del medesimo reato o imputato in un procedimento connesso a norma dell’art 12 comma 1 lett
a, sempreché nei suoi confronti già non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento o
sentenza irrevocabile di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’art 444.
Questa ipotesi di incompatibilità assoluta a testimoniare dell’imputato, si affianca (lettera b) l’ipotesi di
incompatibilità ad essa speculare. Con riferimento alla situazione di chi sia imputato in un procedimento
connesso ai sensi dell’art 12 comma 1 lettera c, o di un reato collegato a norma dell’art 371 lettera b
comma 2, sempreché non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di
applicazione della pena ai sensi dell’art 444. Tale ipotesi è però temperata dalla clausola di esordio che fa
salvo quanto previsto dall’art 64 comma 3 lettera c (Regole generali per l’interrogatorio). Quindi, questa
causa non opera se, dopo che l’imputato dichiarante abbia ricevuto il relativo avvertimento, questo renda
dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri. In tal caso diventerà testimone in ordine ai
fatti concernenti la responsabilità di altri che siano stati oggetto delle proprie precedenti dichiarazioni.

Questo è confermato nell’art 197 bis, destinato a disciplinare la posizione delle persone che rivestendo la
qualifica di imputato in un procedimento connesso o collegato, nondimeno possono ricoprire l’ufficio di
testimone.
Tali sono gli imputati che si siano trovati nelle situazioni descritte alla lettera a e b dell’art 197, quando nei
loro confronti sia stata pronuncia sentenza irrevocabile di proscioglimento o sentenza irrevocabile di
condanna, ivi compresa la sentenza di patteggiamento (ex art 444). Tali sono tutti gli imputati in un
procedimento connesso ai sensi dell’art 12 comma 1 lettera c o di un reato collegato a norma dell’art 371
comma 2 lettera b, i quali in sede di interrogatorio abbiano reso dichiarazioni concernenti l’altrui
responsabilità, essendo stati avvertiti del rilascio di simili dichiarazioni proprio in ordine all’assunzione degli
stessi dell’ufficio testimoniale.
Quindi, le previsioni al 1° e 2° comma definiscono l’ambito soggettivo degli imputati destinatari della
particolare disciplina delineata, con riferimento alle ipotesi in cui assumano l’ufficio di testimone. Un
testimone che è tale a tutti gli effetti ma che gode, anche, di un regime particolare dal punto di vista delle
garanzie, evidentemente in ragione del rischio che dall’adempimento del dovere di deporre possa derivargli
qualche pregiudizio sul terreno dell’accertamento delle proprie eventuali responsabilità.

La disciplina particolare: nelle ipotesi in questione il testimone viene assistito da un difensore, prevedendo
la nomina di un difensore d’ufficio nel caso di mancanza di un difensore di fiducia. A tale difensore non
viene attribuito il diritto di partecipare all’esame, allo stesso modo di come viene attribuito al difensore di
altri soggetti. Gli si riconosce, comunque, sia il diritto di presenziare all’esame dei testimoni di cui tratta
l’art 197 bis, sia il diritto di formulare richieste, osservazioni e riserve, ovviamente a tutela della posizione
del testimone assistito e delle corrispondenti prerogative sul versante dei limiti al dovere testimoniale.
Limiti dettati dall’art 197 bis comma 4, in aggiunti alla clausola derogatoria generale sancita ex art 198
comma 2, in cui si dettano due ipotesi specifiche in cui il testimone può legittimamente rifiutarsi di
rispondere alle domande.

1° Quando il testimone versa in una delle situazioni previste dal comma 1, è esonerato dall’obbligo di
deporre sui fatti per i quali in giudizio sia stata pronuncia, a suo carico, sentenza irrevocabile di condanna,
quando nel procedimento aveva negato la propria responsabilità o non aveva reso alcuna dichiarazione.

2° Quando il testimone versa in una delle situazioni previste al 2 comma, è esonerato dall’obbligo di
deporre su fatti concernenti la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto
nei suoi confronti, così integrandosi e specificandosi il principio per cui nessun testimone può essere
obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale.

Accanto a queste garanzie, che operano come limiti rispetto alla ordinaria estensione dei doveri
testimoniali, il 5° comma art 197 detta un diverso tipo di garanzia, che opera ex post, cioè con riferimento
al potenziale ambito di impiego processuale delle dichiarazioni comunque rese dall’imputato che abbia
assunto l’ufficio di testimone a norma dello stesso art 197 bis. Queste dichiarazioni non posso essere usate
contro la persona da cui provengono sia nel procedimento a suo carico, eventualmente in corso, sia
nell’eventuale procedimento di revisione della sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti, né in
qualsiasi altro giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto di tale procedimento o di tale
sentenza.
Così si crea una sorta di garanzia ombrello, idonea a funzionare a largo raggio rispetto a tutte le
dichiarazioni da lui rese in qualità di testimone ex art 197 bis. Nel senso di escludere qualsiasi uso
processuale di tali dichiarazioni a danno del loro autore, essendo state rilasciate nel ruolo di ufficio di
testimone, quindi sul presupposto che gli autori non potevano sottrarsi alla deposizione.

Con questo, il legislatore ha voluto completare la tutela riservata agli imputati, cui l’art 197 bis riconosce il
ruolo di testimone, dal rischio di ricadute contro di loro del contenuto delle dichiarazioni dagli stessi rese
in sede di audizione testimoniale. Questa soluzione è, del resto, in armonia con la ratio del meccanismo di
salvaguardia dell’art 63 nei confronti del soggetto che abbia reso dichiarazioni auto indizianti all’autorità
giudiziaria o alla polizia giudiziaria, al di fuori del contesto garantistico tipico della posizione dell’imputato o
della persona sottoposta a indagini.

Risulta meno comprensibile la previsione all’ultimo comma dell’art 197 bis, là dove alle dichiarazioni
provenienti dai testimoni indicati allo stesso articolo, viene estesa la regola art 192 comma 3. Esigendo
che anche tali dichiarazioni, per assumere pieno valore probatorio, debbano venire corroborate da altri
elementi di prova che ne confermano l’attendibilità. Questo fa chiarezza riguardo ad un problema che,
probabilmente, si sarebbe profilato in termini interpretativi ma suscita, allo stesso tempo, una perplessità
di fronte alla scelta legislativa di un ulteriore allargamento dell’ambito di operatività della regola di
valutazione. Una regola eccezionale, in quanto limitativa del principio del libero convincimento, e
comunque fondata su una presunzione legislativa di minorata attendibilità del dichiarante. Regola che può
apparire discutibile rispetto a soggetti ai quali viene formalmente riconosciuta la qualifica di testimone, ed
oltretutto con le prerogative e garanzie previste all’art 197 bis.

L’art 198 stabilisce, dopo i tradizionali obblighi propri dell’ufficio di testimone (1° comma), che il medesimo
teste non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità
penale (2°comma). stabilisce la classica garanzia contro il rischio della self-incrimination.

La disposizione al 2° comma non è l’unica eccezione all’obbligo del testimone di rispondere secondo verità
alle domande che gli sono rivolte, poiché il legislatore ha confermato la tradizionale area delle deroghe a
tale obbligo. Deroghe da inquadrarsi tra gli effetti dei segreti opponibili allo stesso giudice e modellate
come divieti rispetto all’assunzione della testimonianza in chiave obbligatoria, sia pure con diverse
modulazioni, a seconda che il testimone abbia la facoltà o l’obbligo di astenersi dal deporre.

Le deroghe all’obbligo di testimoniare secondo verità -> a parte la disciplina della testimonianza dei
prossimi congiunti dell’imputato (art 199), basata sulla facoltà di astensione e sul diritto al relativo avviso.
Le altre deroghe sono riconducibili alla sfera dei segreti, cui la legge dà rilevanza in sede di acquisizione
probatoria.
Nell’ambito del segreto professionale, oltre alle categorie tradizionali, legittimate all’opposizione di tale
segreto, vi sono anche gli esercenti altri uffici o professioni cui la legge riconosce la facoltà di astenersi dal
deporre determinata dal segreto professionale. Un limite a tale facoltà è previsto per i soggetti all’art 200
(SEGRETO PROFESSIONALE) che hanno l’obbligo di riferire all’autorità giudiziarie le notizie conosciute per
ragione del proprio ministero, ufficio o professione.
Il giudice, comunque, ha il potere di ordinare che il testimone deponga, tutte le volte che è convinto, dopo
i necessari accertamenti, che la dichiarazione di segretezza sia infondata.

Sono sottoposti ad un regime particolare i giornalisti professionali iscritti all’albo, relativamente ai nomi di
coloro che gli abbiano fornito notizie in via fiduciaria. Entro tali limiti, la regola del segreto professionale è
estesa anche loro, fermo restando sempre il potere del giudice di ordinare la rivelazione dell’identità di tali
persone. Qualora tali notizie siano indispensabili per la prova del reato, e la loro veridicità possa essere
accertata solo tramite l’identificazione della fonte fiduciaria.

Disciplina analoga alla facoltà di astenersi per i titolari di un segreto professionale è estesa ai Pubblici
ufficiali, ai pubblici impiegati ed agli incaricati di un pubblico servizio in rapporto alla tematica del segreto
d’ufficio, sia pure con la variante che ad essi compete l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti conosciuti
per ragioni del loro ufficio che devono rimanere segreti. Fatti salvi i casi in cui questi hanno l’obbligo di
riferirne all’autorità giudiziaria, funzionalmente alle esigenze di giustizia.

Un aspetto peculiare della disciplina del segreto d’ufficio è la prerogativa riconosciuta agli ufficiali ed agli
agenti di polizia giudiziaria di non rilevare i nomi dei propri informatori confidenziali, il giudice non poteva
obbligarli a fornire le relative indicazioni.

L’art 202 prevede le ipotesi di opposizione del segreto di Stato, in sede testimoniale, da parte degli stessi
soggetti tenuti ad opporre il segreto d’ufficio. Disposizione riformulata grazie alla riforma in materia di
sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto.
In situazioni del genere, è ribadito l’obbligo dell’autorità giudiziaria di rivolgersi al presidente del
Consiglio dei ministri al fine di chiedere conferma della sussistenza di quel segreto. Sospendendo ogni
iniziativa volta ad acquisire la notizia oggetto del segreto. Qualora, entro 30 giorni la conferma venga
fornita, all’autorità giudiziaria sarà vietata l’acquisizione e l’uso anche indiretto delle notizie coperte dal
segreto.
Di conseguenza, quando il giudice reputi essenziale, ai fini della definizione del processo, la conoscenza
delle notizie così inibite alla sua sfera cognitiva, dichiara con sentenza il non doversi procedere per
l’esistenza del segreto di Stato.
Se, invece, le notizie protette dal segreto non sono reputate essenziali il processo potrà proseguire.
Processo che prosegue, a maggior ragione, quando il Presidente del Consiglio dei ministri nega la
sussistenza del segreto o comunque non ne dà conferma entro 30 giorni dalla notificazione della richiesta.

L’art 202, comma 7° detta l’ipotesi in cui, a seguito della conferma della sussistenza del Segreto di Stato,
venga sollevato dall’autorità giudiziaria conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale.

Se il conflitto viene risolto nel senso della insussistenza del segreto, si stabilisce che il presidente del
Consiglio dei ministri non possa più opporlo riferendosi allo stesso oggetto. Quindi il processo continua.
Se il conflitto è risolto nel senso della sussistenza del segreto, si stabilisce che l’autorità giudiziaria non
possa né acquisire, né utilizzare, direttamente o indirettamente gli atti o i documenti rispetto ai quali il
medesimo segreto sia stato opposto.

Una disciplina simile a quella delineata all’art 202 è all’art 41 della l 2007 n 124. Precisamente, dopo aver
enunciato un divieto, in capo ai medesimi soggetti, di riferire riguardo a fatti coperti dal segreto di Stato,
dispone che nel processo penale, in ogni stato e grado del procedimento, quando viene opposto un tale
segreto, l’autorità giudiziaria deve informare il presidente del Consiglio dei ministri e chiedere la conferma.
Poiché, tale disciplina dovrà applicarsi esclusivamente a soggetti diversi da quelli aventi la veste di
testimone ex art 202, ne discende che la previsione del suddetto divieto di riferire operi soprattutto nei
confronti degli indagati e degli imputati. Rispetto a questi ultimi, in assenza di diversa previsione normativa,
la operatività di quel divieto dovrà contemperarsi con l’esercizio del diritto di difesa.

L’art 204, infine, vieta che possano venire opposti il segreto d’ufficio ed il segreto di Stato su fatti, notizie
e documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale, nonché delitti elencati
nella disposizione. In caso di opposizione, il giudice ha il compito di definire la natura del reato. Necessario
presupposto per l’eventuale pronuncia contraria all’eccezione di segretezza, affidata allo stesso giudice,
anche in rapporto alle altre situazioni descritte nell’art 204. Il provvedimento di rigetto di tale eccezione è
comunicato al presidente del Consiglio, al fine di permettergli di avviare le opportune iniziative nell’ipotesi
di contrasto con le valutazioni operate dal giudice.
L’art 66 comma 2° disp. Att. Dispone che, in tale ipotesi, il presidente del Consiglio ha il potere di
confermare il segreto con atto motivato, quando ritenga che il fatto, la notizia o il documento coperto dal
segreto di Stato non concerne il reato per cui si procede. In mancanza di tale conferma, nei 30 giorni
successivi alla comunicazione, il giudice potrà sequestrare il documento o esaminare il soggetto interessato.

A parte le precisazioni in ordine alle modalità di assunzione del presidente della Repubblica e dei grandi
ufficiali dello stato (art 205) nonché degli agenti diplomatici (art 206), è fondamentale la disciplina sul
trattamento processuale della testimonianza falsa o reticente. Si esclude il rapporto di pregiudizialità del
relativo procedimento rispetto al procedimento principale e vi è il divieto della possibilità di arresto in
udienza per il testimone.
La disciplina, all’art 207, distingue il profilo della iniziativa penale contro il testimone per il delitto di falsa
testimonianza, dal profilo della valutazione della testimonianza da parte del giudice del processo. Il giudice
del processo deve informare il PM, trasmettendogli gli atti, ove ne ricorrano gli estremi, soltanto con la
decisione conclusiva della fase processuale in cui il testimone ha deposto. Salva l’autonomia del PM stesso
di promuovere l’azione penale in qualsiasi momento, anche prima di tali adempimenti.

Disciplina analoga è prevista per il delitto di false informazioni al PM, precisando che il procedimento deve
rimanere sospeso finché il procedimento principale, nel corso del quale le informazioni siano state assunte,
si sia concluso con sentenza di primo grado, o sia stato anteriormente definito. Tale ultima previsione è
ribadita anche per il delitto di false dichiarazioni al difensore.

L’esame delle parti.


Istituto trattato agli articoli 208-2010. Diventa la figura dell’interrogatorio in sede dibattimentale. È un
vero e proprio mezzo di prova, sia pure di natura eventuale, essendo l’esperibilità subordinata alle parti
stesse. Parti che vengono sottoposte all’esame soltanto qualora ne facciano richiesta o consentano alla
richiesta formulata da altra parte, ivi compreso il PM.

Dentro tali limiti, la parte (l’imputato, anzitutto) che vi è stata sottoposta con la sua volontà perde la
possibilità di esercitare la strategia del silenzio. Anche se, per l’imputato la scelta del rifiuto all’esame non
appare del tutto libera. Ma si inquadra nella prospettiva dell’onere, come risulta dalle conseguenze per lui
potenzialmente svantaggiose che ne fa discendere l’art 513 comma 1.

Non vi è un obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte. Non è prevista alcuna
formale attribuzione alla parte esaminata della facoltà di non rispondere, né è previsto un avvertimento
analogo a quello prescritto dall’art 64 comma 3 in sede di interrogatorio (Mancanza che può essere
superata sul piano interpretativo). Piuttosto, si prevede che l’eventuale rifiuto di rispondere venga
menzionato nel verbale. Questo atteggiamento negativo assumerà un valore, anche sul piano probatorio,
essendo quel verbale destinato a confluire nel fascicolo dibattimentale e quindi tra le prove utilizzabili, ai
fini della decisione.

È fermo, comunque, come per il testimone, l’esplicito riconoscimento, anche per la parte esaminata, della
facoltà di non rispondere, tutte le volte in cui dalla risposta potrebbe emergere una sua responsabilità
penale. Nell’ottica dell’evitare la self-incrimination.

Le regole di esclusione in materia di testimonianza indiretta sono richiamate solo con riguardo all’esame
delle parti diverse dall’imputato. Rimane il potere del giudice di valutare la credibilità delle informazioni
acquisite, tenendo anche conto della loro eventuale provenienza da altre persone.

Apposita regolamentazione è dettata per l’esame dibattimentale delle persone imputate in un


procedimento connesso, art 210 (Devono essere procedimenti connessi a norma dell’art 12 comma 1
lettera a), nei confronti delle quali si proceda o si sia proceduto separatamente, e che non possono
assumere l’ufficio di testimone. Tali soggetti, nei dibattimenti relativi a processi diversi da quello in cui
rivestono la qualità di imputati, vengono esaminati su richiesta di parte, ma possono esserlo anche
d’ufficio, quando ai medesimi sia stato fatto riferimento nell’ambito di una testimonianza, o di un esame, di
natura indiretta. E in questa sede particolare si applicano sempre le disposizioni dettate dall’art 195 per
l’ipotesi della testimonianza de relato.
Le forme di svolgimento dell’esame hanno come modello di base quello dell’esame dei testimoni, sia pure
con le peculiarità necessariamente imposte dalla atipica posizione processuale delle persone che devono
esservi assoggettate.
A tali soggetti si riconosce una disciplina costruita su di un assetto intermedio, tra quello del testimone e
quello dell’imputato. Si richiamano le norme concernenti la citazione, l’obbligo di presentazione e
l’eventuale accompagnamento coattivo. È ritenuta necessaria l’assistenza difensiva e gli si riconosce il
diritto al silenzio, coessenziale alla loro qualità di imputati in un procedimento connesso. Quest’ultimo
diritto gli è riconosciuto allo scopo di tutelarli dal rischio di dichiarazioni contra se, che potrebbero essere
utilizzate a loro carico nel procedimento di provenienza.
L’ambito di operatività dell’art 210 è stato modificato con l’introduzione dell’art 197bis. Ne deriva che la
disciplina si applicherà solo ai soggetti non ricompresi nell’area degli imputati che a norma dell’art 197bis
assumono l’ufficio di testimone.
Ciò vuol dire che il meccanismo previsto a tale articolo è riservato, prima di tutto, alle persone imputate in
un procedimento connesso a norma dell’art 12 comma 1 lettera a, le quali possono assumere l’ufficio di
testimone. Per le persone imputate in un procedimento connesso ai sensi dell’art 12 comma 1 lettera c o di
un reato collegato, bisogna distinguere sulla base della loro precedente condotta processuale, in forza del
combinato degli articoli 210 comma 6 e 197bis comma 2.
Precisamente, dispone a questo proposito il 6° comma dell’art 210, il quale detta che la disciplina contenuta
all’articolo si debba applicare anche ai soggetti in questione, ma solo quando non hanno reso in precedenza
dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato. Ci si riferisce, così, sia al caso in cui non siamo mai
state sentite da alcuna autorità interrogante, sia all’ipotesi in cui, anche se interrogate, non abbiano reso
alcuna dichiarazione sull’altrui responsabilità. A tali ipotesi è equiparata quella in cui le persone abbiano
reso dichiarazioni sul fatto altrui, ma senza avere ricevuto l’avvertimento ex art 64 comma 3°.

Si prevede, altresì, che a tali soggetti, pur chiamati per essere esaminati a norma dell’art 210, venga dato
l’avvertimento previsto art 64 comma 3° lettera c, nel qual caso, ove non si avvalgano della facoltà di non
rispondere, questi si assumeranno l’ufficio di testimone. In tale ipotesi, si applicheranno non solo le
disposizioni relative alla deposizione testimoniale richiamate dal 5° comma art 210, ma anche, in raccordo
con l’ufficio di testimone ormai assunto dall’imputato dichiarante, le disposizioni dettate dagli art 197 bis e
497, compreso l’avvertimento al testimone dell’obbligo di dire la verità.

Confronti, ricognizioni ed esperimenti giudiziali.


Si tratta di 3 diversi istituti, la cui disciplina è dettata in capi diversi, al fine di evidenziare la loro autonomia.

I Confronti (art 211-212) sono ammessi solo fra persone già esaminate o interrogate, nel caso di
dichiarazioni in contrasto su fatti e circostanze importanti. Mezzo probatorio che dovrebbe avere largo uso
nel corso delle indagini preliminari, pur al di là dell’ipotesi prevista in termini espressi con riferimento
all’incidente probatorio. L’atto del confronto è affidato al giudice, che ha una funzione propulsiva nel
richiamare le precedenti dichiarazioni, nonché nell’invitarli alle reciproche contestazioni, quando le
medesime siano state confermate. Si tratta di un rapporto a più voci, di cui si dovrà dare riscontro in sede di
verbale.

Le Ricognizioni (art 213-217) possono avere ad oggetto sia le persone che le cose. Gli adempimenti
preliminari e i modi di svolgimento dell’atto sono accuratamente descritti ed analitici. Probabilmente, per
una diffidenza legislativa verso i risultati di questo delicato mezzo di prova. Infatti, è causa di nullità anche
la sola mancata menzione, in sede di verbale, dell’osservanza delle forme prescritte per scandire la relativa
procedura, dai suoi preliminari alla vera attività ricognitiva.
Il giudice ha il potere/dovere di adottare le necessarie cautele volte ad impedire che la persona chiamata ad
effettuare la ricognizione possa subire intimidazioni da parte di quella sottoposta all’atto, disponendo che
l’atto stesso sia compiuto senza che quest’ultima possa vedere la prima.
Sono ammesse le voci, i suoni o quanto altro possa essere oggetto di percezione sensoriale, come specie di
ricognizioni diverse da quelle specificatamente regolate ex lege. Diventa così una figura probatoria
riconducibile all’ambito delle prove non disciplinate dalla legge, per questo dovranno valere i principi
dettati nell’art 189 (PROVE NON DISCIPLINATE DALLA LEGGE).

In entrambi gli istituti, la persona che è chiamata a compiere l’atto, rilascia dichiarazioni che sono
assimilabili per il loro contenuto informativo a quelle rese dall’imputato in sede di interrogatorio o di esame
delle parti private (ex art 503) o dal testimone in sede di sommarie informazioni o di esame ex art 500
(contestazioni nell’esame testimoniale). Di conseguenza quando si tratta di imputato non sembra dubbio
che verso di esso debbano operare le garanzie ispirate al principio nemo tenetur se detegere (nessuno può
essere obbligato ad accusare se stesso). Garanzie come il diritto di non collaborare con lo svolgimento
dell’atto o la facoltà di non rispondere alle domande che gli rivolgono. Stesse garanzie che dovranno valere
anche per i coimputati dello stesso reato e gli imputati in un procedimento connesso o di un reato
collegato.

Gli esperimenti giudiziali (art 218-219) sono mezzi di prova che voglio accertare se un fatto sia o possa
essere avvenuto in un determinato modo, tramite la riproduzione della situazione e la ripetizione delle
modalità relative al suo presumibile svolgimento. Per tale istituto, la preoccupazione del legislatore era di
dare maggiore specificazione alle forme da osservarsi. Per questo è dettagliata sia la previsione dei
contenuti dell’ordinanza che abbia disposto l’esperimento (tra i quali l’eventuale nomina di un esperto per
operazioni non qualificabili come perizia) sia i poteri del giudice, diretti ad assicurare un efficace e corretto
svolgimento dell’atto.

In particolare, il giudice ha l’obbligo di provvedere che l’operazione non offenda sentimenti di coscienza e
non esponga a pericolo l’incolumità delle persone o della sicurezza pubblica.

La perizia.
La disciplina (art 220-223) ha una notevole importanza. Si fonda sul voler dare la più idonea competenza
tecnica e scientifica ai periti, nonché, nei congrui casi, l’interdisciplinarietà della ricerca peritale e la
collegialità dell’organo cui è affidata la perizia.

L’art 220 detta l’oggetto della perizia, attraverso la definizione del presupposto di ammissibilità della
prova peritale, facendo riferimento cioè alle situazioni in cui occorre svolgere indagini, o acquisire dati o
valutazioni, i quali richiedano specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche.

Strumentale rispetto alla disciplina della perizia in materia penale è la previsione secondo la quale, se nel
corso di un’autopsia non ordinata dall’autorità giudiziaria emerge il sospetto che la morte sia dovuta a
reato, il medico settore deve sospendere le operazioni e darne immediata comunicazione all’autorità
giudiziaria, affinché quest’ultima possa disporre gli accertamenti peritali del caso.

Ipotesi particolare di perizia è quando l’imputato è accusato di un grave delitto contro la personalità dei
minori o contro la libertà sessuale. In tale caso, questo è sottoposto con le forme della perizia ad
accertamenti per l’individuazione di patologie sessualmente trasmissibili, tutte le volte in cui le modalità del
fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie stesse.

Linee di fondo dell’istituto.


Quando si accerta una necessità prevista dall’art 220, il giudice è obbligato ad ammettere la perizia anche
d’ufficio, prevedendo anche il contenuto della relativa ordinanza, che accanto alla nomina del perito dovrà
recare la sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini. La perizia non è ammessa per determinati
oggetti, come nel caso di perizie concernenti il carattere e la personalità dell’imputato, le forme qualificate
di pericolosità sociale e le sue qualità psichiche indipendenti da cause patologiche. Non è consentita quindi,
la perizia psicologica e criminologica, al di fuori della fase esecutiva.
Non vi sono profili di risalto per la incapacità, incompatibilità o astensione del perito. Per la nomina del
perito si vuole assicurare un adeguato livello di specifica qualificazione. Tramite la nomina del solo perito
iscritto negli appositi albi professionali, senza escludere però, in via sussidiaria, il ricorso ad esperti di
particolare competenza. Oppure tramite l’imposizione al giudice di disporre una perizia collegiale, quando
le indagini e le valutazioni risultano di notevole complessità, o quando le medesime richiedono distinte
conoscenze in differenti discipline.

Le sequenze procedurali.
L’art 224 comma 2° attribuisce al giudice il potere di adottare ogni altro provvedimento necessario per
l’esecuzione delle relative operazioni, sono da escludere da tale ambito le misure incidenti sulla libertà
personale dell’imputato o di terze persone, salve quelle specificamente previste nei casi e nei modi dalla
legge.

Al fine di evitare che il giudice possa disporre di eventuali prelievi coattivi di sangue, altri tessuti o materiali
organici. Per sopperire a tale rischio, il nuovo art 224 bis, inserito grazie alla legge 2009 n 85, detta la
disciplina dei provvedimenti del giudice, nel caso di perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad
incidere sulla libertà personale.
Nello specifico, quando si procede per delitti di una certa gravità e per i delitti elencati nella legge, se per
una perizia occorrono atti idonei ad incidere sulla libertà personale e manca il consenso della persona
interessata, il giudice può disporre anche ex officio con ordinanza la esecuzione coattiva, sempreché essa
risulti indispensabile per la prova dei fatti.
Tale ordinanza del giudice deve contenere la generalità della persona da sottoporre all’esame peritale, le
ragioni che rendono assolutamente indispensabile sul terreno probatorio l’effettuazione del prelievo o
dell’accertamento, unitamente all’avviso della facoltà riconosciuta alla stessa persona di farsi assistere da
un difensore o da persona di fiducia.
Le operazioni peritali non potranno, comunque, essere contrarie ad espressi divieti di legge, né mettere in
pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute della persona o del nascituro, e nemmeno dovranno essere in
grado di provocare sofferenze di non lieve entità, restando salva l’esigenza del rispetto della dignità e del
pudore.
Qualora la persona invitata non compaia, senza portare un legittimo impedimento, il giudice può disporne
l’accompagnamento coattivo. Qualora, invece compaia ma non presti il proprio consenso agli atti o
accertamenti da compiersi nei suoi confronti, il giudice può disporne l’esecuzione coattiva, tramite l’uso dei
necessari mezzi di coercizione fisica, da impiegarsi in maniera proporzionata allo scopo e per il tempo
strettamente necessario all’esecuzione dell’operazione o all’accertamento. L’atto peritale è comunque
nullo se la persona sottopostavi non è assistita dal difensore, ove nominato (ipotesi di assistenza difensiva
obbligatoria).

Tornando alla disciplina generale, una volta che il giudice ha conferito l’incarico, con la formulazione dei
relativi quesiti, occorre espletare le operazioni necessarie per rispondere. Il perito può essere autorizzato
dal giudice ad assistere all’esame delle parti ed all’assunzione di altre prove, mentre potrà prendere visione
degli atti e delle cose prodotti dalle parti solo nei limiti in cui i medesimi siano acquisibili al fascicolo
dibattimentale. Il perito può, inoltre, raccogliere notizie dall’imputato, dall’offeso o da altre persone. Ma gli
elementi acquisiti potranno essere usati solo ai fini dell’accertamento peritale.

Per la relazione finale del perito, questo deve rispondere immediatamente ai questi proposti, in forma
orale, mediante parere raccolto nel verbale, salvo il potere del giudice di autorizzare la presentazione anche
di una relazione scritta, se la stessa risulta indispensabile per il suddetto parere. Se non può fornire una
risposta immediata e se il giudice non ritiene di sostituirlo, si prevede la concessione di un termine, non
superiore a 90 giorni, entro il quale dovrà fornire il prescritto parere. Inoltre, la presumibile durata
dell’accertamento peritale è assunta come presupposto di ammissibilità dell’incidente probatorio (art 392).

La direttiva sulla tutela dei diritti delle parti rispetto alla perizia corrisponde alla disciplina della
partecipazione dei consulenti tecnici, nominati sia dal PM che dalle parti private, lungo l’intero arco di
svolgimento della perizia, fin dal momento della formulazione dei quesiti. Riscontro di tale disciplina è la
possibilità di sottoporre ad esame, nella fase dibattimentale, tanto i periti, quanto i consulenti tecnici,
secondo le disposizioni dettate per l’esame dei testimoni.

I consulenti tecnici, in particolare, sono autorizzati ad assistere al conferimento dell’incarico e a


partecipare a tutte le operazioni peritali. Formulando osservazioni e riserve e proponendo al perito lo
svolgimento di specifiche indagini, con la previsione che delle une e delle altre debba darsi atto in sede di
relazione. Questi possono prendere visione delle relazioni, essere autorizzati dal giudice ad esaminare le
persone, cose, luoghi oggetto della perizia. Purché non ne derivi ritardo per l’esecuzione della perizia o per
il compimento di altre attività processuali.
L’art 233 prevede la possibilità di nomina e di intervento dei consulenti tecnici delle parti anche nelle
ipotesi in cui non sia stata disposta perizia. Con la conseguenza che questi avranno il potere di esporre al
giudice il proprio parere su singole questioni, eventualmente tramite le memorie. In questo modo, si
realizza il presupposto per l’attuazione del diritto alla prova in ordine a materie che potrebbero anche dare
luogo a perizia e, soprattutto, di sottoporne i contributi al giudice, quando pure quest’ultimo non abbia
ritenuto necessario nominare un perito.
Qualora dopo la nomina del consulente, il giudice decide di disporre perizia, ai primi vengono attribuiti i
diritti e le facoltà ordinarie.
Qualora la perizia non venisse disposta, si ritiene che il consulente tecnico possa, di sua iniziativa, svolgere
le indagini e gli accertamenti consentitigli dalla oggettiva disponibilità delle persone, cose o dei luoghi
assunti come oggetto della consulenza. Così si forniscono gli apporti tecnici necessari per gli ulteriori
sviluppi processuali, ma si pone, anche, il giudice nelle condizioni di non poter prescindere dal contenuto
del parere ed eventuali memorie presentate.
Anche il consulente tecnico così nominato può essere sottoposto ad esame, nel corso del dibattimento,
proprio allo scopo di consentire l’acquisizione probatoria degli esiti delle sue indagini e delle sue
valutazioni.

La prova documentale.
Il codice ha assicurato all’istituto una sistemazione unitaria (art 234-243). L’area dei documenti in senso
stretto (formata fuori dal procedimento) si è tenuta distinta dall’area degli atti (formati all’interno del
procedimento e rappresentativi di quanto vi sia accaduto). Solo ai primi fa riferimento la disciplina
dell’istituto.
Questo sulla base della definizione accolta all’art 234 comma 1. In cui accanto ai tradizionali scritti si
consente l’acquisizione come documento di ogni altra cosa idonea a rappresentare fatti, persone o cose
attraverso la fotografia, la cinematografia, la fonografia e qualsiasi altro mezzo. Esclusa la possibilità di
acquisire come documenti le voci correnti nel pubblico intorno ai fatti, ovvero la moralità in generale delle
parti e dei testimoni. È invece ammessa l’acquisizione dei documenti necessari al giudizio sulla personalità
dell’imputato, se del caso della persona offesa dal reato, ricomprendendovi anche quelli esistenti presso gli
uffici pubblici di servizio sociale e presso gli uffici di sorveglianza. Inoltre, si prevede che possano venire
acquisiti i certificati del casellario giudiziale e le sentenze divenute irrevocabili, anche al fine di valutare la
credibilità dei testimoni. Di recente, grazie all’introduzione del nuovo art 234-bis, è sempre consentita
l’acquisizione di documenti e dati informatici conservati all’estero, anche diversi da quelli disponibili al
pubblico, previo consenso del legittimo titolare dell’informazione.

Sulla base di una opportuna distinzione tra i documenti come ordinari mezzi di prova ed i documenti
costituenti corpo del reato (art 235), è stato sancito un regime differenziato per questi ultimi. Si è escluso
che a questi si applichi la comune disciplina dei primi. E in via generale, si è stabilito che i secondi debbano
essere acquisiti qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga, anche d’ufficio.
Normativa ad hoc è per i documenti provenienti dall’imputato (art 237), di essi è sempre consentita
l’acquisizione anche d’ufficio, sebbene si tratti di documenti sequestrati presso altri o da altri prodotti.

Ai fini della verifica della provenienza dei documenti, il documento viene sottoposto per il riconoscimento
alle parti private ed ai testimoni (art 239). Per i documenti anonimi (art 240) si conferma la regola
dell’esclusione, prescrivendosi che essi non possono essere acquisiti, né utilizzati, a meno che non siano
corpo del reato o provengano comunque dall’imputato. Affiancata alla previsione sui documenti anonimi,
nella stessa disposizione, è posta una particolare disciplina sulla sorte dei documenti, dei supporti e degli
atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni , relativi a traffico telefonico e
telematico, illegalmente formati o acquisiti, nonché dei documenti formati tramite la raccolta illegale di
informazioni.
In tal caso, il PM deve disporne l’immediata secretazione e la custodia in luogo protetto, stabilendosi altresì
che di essi sia vietato effettuare copia e che il loro contenuto non può essere utilizzato, salva restando la sua
utilizzabilità come notizia di reato. Inoltre, nell’arco di termini molto brevi, il PM deve chiedere al giudice
per le indagini preliminari la distruzione di tali materiali. Il giudice, in seguito, deve fissare un’udienza
camerale in contraddittorio con le parti interessati. Al termine della quale dovrà essere pronunciato ed
eseguito il relativo provvedimento di distruzione. Di queste ultime operazioni si deve redigere un verbale, in
cui si dà atto dei mezzi usati e dei soggetti interessati, senza alcun riferimento al contenuto degli stessi
materiali. Si delinea una procedura di eliminazione anticipata della prova, carente sotto il profilo delle
garanzie dei valori tutelati dagli art 24, 111 e 112 Cost. Ma la Corte cost. non sembra dello stesso avviso.

Quanto alla ipotesi di falsità dei documenti, a parte l’eventualità che venga accertata e dichiarata con la
sentenza di condanna o proscioglimento, si stabilisce (art 241) che il giudice dopo la definizione del
procedimento debba informare il PM, trasmettendogliene copia in vista degli adempimenti di sua
competenza. Qui, si riconosce al giudice penale il potere di accertare incidenter tantum l’eventuale falsità
dei documenti, in sede di valutazione complessiva delle prove, rinunciandosi a riproporre nel nuovo codice
lo schema dell’impugnazione e del conseguente incidente di falso. Scelta coerente con l’abolizione della
pregiudizialità penale, che non preclude la possibilità di operare accertamenti tecnici in ordine al
documento sospettato di falsità, ma non impone la sospensione o il rinvio del procedimento fino alla
pronuncia della sentenza definitiva sul falso.

Assume risalto la disciplina dettata nell’art 238 per regolare l’ingresso nel processo dei verbali relativi alle
prove di altri procedimenti, considerati alla stregua di documenti in ragione della loro provenienza ab
externo rispetto al processo nel quale dovrebbero venire acquisiti. L’acquisizione è ammessa senza ulteriori
condizioni, secondo i normali criteri di legge, solo quando si tratti di prove assunte nell’incidente probatorio
o nel dibattimento, mentre la stessa regola non vale per i verbali di cui sia stata data lettura in sede
dibattimentale. Qualora si tratti di verbali recanti dichiarazioni, assunti nell’incidente probatorio o nel
dibattimento, questi sono utilizzabili solo contro gli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro
assunzione, ovvero nei cui confronti fa stato la sentenza civile (comma 2 bis). È ammessa l’acquisizione
della documentazione di atti compiuti nel corso di altri procedimenti penali, comprese le fasi preliminari,
che anche per cause sopravvenute non sono ripetibili (comma 3). In caso di ipotesi di impossibilità di
ripetizione dovuta a fatti o circostanze sopravvenuti, l’acquisizione della relativa documentazione deve
ritenersi consentita se questi ultimi fatti o circostanze siano imprevedibili.
Al di fuori di tali ipotesi, l’acquisizione e il successivo uso dibattimentale dei verbali, di altri procedimenti
contenenti dichiarazioni, è ammessa solo nei confronti dell’imputato che vi consenta (comma 4). In
assenza, tali verbali possono essere usati solo ai fini delle contestazioni in sede di esame dibattimentale.
In ogni caso, quando siano stati acquisiti i verbali di dichiarazioni provenienti da altri procedimenti, rimane
fermo il diritto delle parti di ottenere l’esame delle persone che hanno reso tali dichiarazioni, salva la
previsione art 190 bis (requisiti della prova in casi particolari).
Viene così garantita la possibilità di interrogare direttamente nel contraddittorio dibattimentale le persone
fonti delle dichiarazioni acquisite in forza dell’art 238, i cui verbali sono destinati ad essere letti in
dibattimento solo dopo il corrispondente esame, sempreché la nuova assunzione della stessa prova abbia
luogo.

Secondo l’art 238 bis, è sempre consentita l’acquisizione delle sentenze divenute irrevocabili, ai fini della
prova dei fatti in esse accertati. Nei limiti dei criteri di pertinenza fissati all’art 187 (oggetto della prova), ma
con la precisazione che esse potranno valere come prova dei fatti accertati, a norma dell’art 192 comma 3,
soltanto se confortate da altri elementi probatori di riscontro.

Le modalità di introduzione nel processo delle prove documentali.


Prima di tutto vale la regola desumibile dal combinato degli art 495 e 515. Dopo che siano stati ammessi su
richiesta di parte, a norma dell’art 495, i documenti dovranno essere inseriti nel fascicolo per il
dibattimento e potranno considerarsi legittimamente acquisiti.
Per le fasi anteriori al dibattimento, vale la regola dettata con riferimento all’avviso di conclusione delle
indagini preliminari, nonché all’udienza preliminare. In vista della quale si stabilisce che anche il difensore
dell’imputato possa produrre documenti, i quali dovranno essere ammessi dal giudice prima dell’inizio della
discussione. Allo stesso modo dovranno essere ammessi i nuovi documenti eventualmente prodotti a
seguito delle ulteriori indagini, come pure quelli acquisiti dal giudice in virtù dei poteri di integrazione
probatoria.
Conclusasi l’udienza preliminare con il rinvio a giudizio, tra i documenti acquisiti in precedenza sono
destinati a confluire nel fascicolo per il dibattimento solo i certificati del casellario giudiziale e i restanti atti
indicati all’art 236, mentre tutti gli altri documenti, raccolti dal PM nel corso delle indagini, o prodotti ed
ammessi successivamente ai fini dell’udienza stessa, entreranno a far parte del fascicolo del PM formato ai
sensi dell’art 433 (quindi saranno impiegato solo per le contestazioni, ove non vengano ammessi come
prova in dibattimento).

Ispezioni e perquisizioni.
Le ispezioni (art 244-246) e le perquisizioni (art 247-252) sono due tipici atti a sorpresa, appartenenti
all’area dei mezzi di ricerca della prova. I due atti sono disciplinati tramite l’attribuzione dei relativi poteri
alla autorità giudiziaria. Quindi si tratta di atti appartenenti alla competenza del giudice e del PM. E questo
vale anche per il sequestro.

Tra i due atti vi è una diversità finalistica. L’ispezione è diretta ad accertare sulle persone, nei luoghi o nelle
cose le tracce e gli altri effetti materiali del reato. La perquisizione è diretta a cercare il corpo del reato o
cose pertinenti al reato sulle persone od in luoghi determinati, ovvero ad eseguire in questi ultimi l’arresto
dell’imputato o dell’evaso. In entrambi gli istituti vi è sensibilità per l’incidenza sui diritti di libertà tutelati
dalla Costituzione (art 13 e 14). Per questo è stata aumentata la dimensione garantistica delle previsioni.
Ad esempio, con la necessità del decreto motivato dell’autorità giudiziaria, come presupposto per
l’esercizio dei corrispondenti poteri. Inoltre, entrambi gli istituti possono avere ad oggetto anche sistemi
informatici o telematici.

In particolare, per le ispezioni la garanzia costituzionale emerge dalla disciplina dell’ispezione personale
(art 245). Da un lato, si avverte l’interessato della facoltà che gli è riconosciuta di farsi assistere da persona
di fiducia. Dall’altro, si richiama l’esigenza che l’ispezione, da compiersi personalmente ad opera
dell’autorità procedente, o anche per mezzo di un medico, venga eseguita nel rispetto della dignità,
oltreché, se possibile, del pudore della persona che deve soggiacervi.
Per l’ispezione di luoghi o di cose, si sottolinea la garanzia concretizzata nella consegna del decreto, prima
dell’inizio delle operazioni, all’imputato ed alla persona titolare della disponibilità dei luoghi, sempreché
presenti. L’autorità giudiziaria ha il potere di impedire l’allontanamento di una o più persone dai luoghi
dell’ispezione, prima della loro conclusione, e di farvele ricondurre se del caso in forma coattiva, in
entrambe le ipotesi con provvedimento motivato da ricomprendersi nel verbale. L’autorità, relativamente
ad ogni specie di ispezione, ha il potere di disporre rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, insieme ad ogni
altra operazione necessaria.

Anche in materia di perquisizioni (atti a cui procede personalmente l’autorità giudiziaria, o un ufficiale di
polizia giudiziaria delegato) si attenziona la garanzia per i diritti delle persone interessate, sulla base di una
disciplina che (sia per le perquisizioni personale che locali) ricalca le linee della disciplina dettata in tema di
ispezioni. A parte la tradizionale definizione degli ordinari limiti temporali delle perquisizioni nel domicilio,
rispetto alle perquisizioni locali vi è particolare cura per gli adempimenti connessi alla consegna del decreto
ed all’avviso circa la facoltà di assistenza nel corso delle operazioni. I poteri dell’autorità procedente
risultano estesi all’eventuale perquisizione delle persone sopraggiunte, nonché all’adozione degli altri
provvedimenti coercitivi temporanei previsti relativamente alle ispezioni locali. Inoltre, è enunciato in
termini generali, il principio della richiesta di consegna come attività prodromica rispetto alla perquisizione,
quando si ricerchi una cosa determinata. Se quindi la cosa viene consegnata, si potrà evitare la
perquisizione, sempreché non si ritenga utile procedervi per la completezza delle indagini.
Analogamente, con specifico riferimento al regime degli atti, documenti e corrispondenza presso banche, si
prevede che l’autorità giudiziaria possa procedere al loro esame, eventualmente dopo averne richiesta
l’esibizione, quando si tratta di rintracciare cose da sottoporre a sequestro o di accertare altre circostanze
utili ai fini delle indagini. Tale disposizione, che vuole contemperare l’efficienza delle indagini con la
riservatezza degli istituti bancari, non si può applicare se i responsabili degli istituti rifiutino il loro consenso.
In tal caso, l’autorità giudiziaria procede necessariamente con perquisizione.

Per le garanzie in tema di assistenza del difensore agli atti di ispezione e di perquisizione si rinvia alla
disciplina sulle indagini preliminari della polizia giudiziaria e del PM. Merita di essere ricordata anche la
peculiare normativa prevista circa la fisionomia ed i limiti delle ispezioni e delle perquisizioni presso gli
uffici dei difensori, non a caso collocata nel titolo dedicato ai medesimi, sotto la rubrica “garanzie di libertà
del difensore” (art103). I presupposti, in presenza dei quali si può far luogo a tali atti, sono rigorosamente
definiti. Quando tali atti debbono eseguirsi negli studi professionali dei difensori, la relativa procedura si
caratterizza per la prevista necessità che ne venga avvisato il locale consiglio dell’ordine forense, affinché il
presidente o un consigliere suo delegato possa assistere alle operazioni.
Identiche modalità sono previste anche in materia di sequestro, con la classica precisazione che presso i
difensori ed i consulenti tecnici non si può procedere a sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto
della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato. Per tutelare la medesima esigenza di riservatezza dei
rapporti funzionali all’esercizio della difesa, è vietato il sequestro ed ogni altra forma di controllo della
corrispondenza tra l’imputato ed il proprio difensore, sempreché non vi sia fondato motivo di ritenere che
costituisca corpo del reato. Sono vietate anche le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni dei
difensori, dei consulenti tecnici e dei loro ausiliari nonché quelle tra i medesimi ed i loro assistiti.
Si tratta di una serie di adempimenti vincolanti per l’autorità giudiziaria e l’eventuale inosservanza
comporta una rigida sanzione. In questo modo tutelano la libertà della funzione difensiva.
Infatti, (art 103) i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri e intercettazioni, eseguiti in violazione
delle precedenti disposizioni, non possono essere utilizzati, con la sola eccezione rappresentata dall’ipotesi
in cui essi costituiscano corpo del reato.
In particolare, per le intercettazioni, il nuovo comma 7 dell’art 103 ha rafforzato la garanzia, inserendo
accanto alla previsione dell’inutilizzabilità, il divieto di trascriverne anche sommariamente il contenuto, al
fine di evitare qualunque uso delle notizie così ottenute.

Vi sono delle particolari figure di perquisizione, consentite agli organi di polizia giudiziaria da leggi speciali,
quando, nel corso delle operazioni dirette alla prevenzione o repressione di determinati delitti, si verifichino
situazioni di necessità ed urgenza, tali da non permettere un tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria.
Ad esempio, quando tali operazioni riguardino il traffico illecito di stupefacenti, gli ufficiali ed agenti di
polizia giudiziaria possono procedere di regola a perquisizioni, ove abbiano fondato motivo di ritenere che
possano essere rinvenute tali sostanze. Oppure quando tali operazioni riguardano i delitti di associazione di
tipo mafioso, anche straniere; riciclaggio o impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecito, qualora si
abbia fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenuti denaro o valori costituenti il prezzo o il
profitto di tali delitti, o armi ed esplosivi.
Resta fermo il potere attribuito agli organi di polizia, sempre in caso di necessità ed urgenza, di procedere
ad immediata perquisizione sul posto di persone e di mezzi di trasporto, al solo fine di accertare l’eventuale
possesso di armi, strumenti di effrazione ed esplosivi. Mentre è attribuito ai soli ufficiali di polizia
giudiziaria il potere di procedere a perquisizioni locali anche di interi edifici o blocchi di edifici.
Precisamente, queste perquisizioni possono essere disposte se vi è motivo di ritenere che in tali edifici si
trovino armi, munizioni, esplosivi, o che vi sia rifugiato un latitante o un evaso in relazione a taluno dei
delitti di criminalità organizzata, o a delitti con finalità terroristica.
Nella stessa prospettiva, si colloca il potere degli ufficiali di polizia giudiziaria di procedere, anche di loro
iniziativa, alla perquisizione degli immobili, rispetto ai quali vi sono concreti elementi per ritenere che
l’autore se ne sia avvalso come luogo di riunione, deposito o rifugio o per altre attività, connesse ai più gravi
reati finalizzati alla discriminazione od alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Per tutte tali ipotesi di perquisizioni di polizia si prevede la tempestiva notizia al procuratore della
Repubblica in vista della eventuale convalida delle stesse, che dovrà sopravvenire nelle successive 48 ore,
affinché i risultati così acquisiti possano venire usati nel procedimento.

Il sequestro.
Nel codice, nella disciplina del sequestro penale si separa la disciplina del sequestro penale (art 253-265)
dal sequestro con finalità conservativa (art316-320) da quello con finalità preventiva (art 321-323). Tutti e
tre i tipi impongono un vincolo di indisponibilità sulla cosa, ma il primo funge da particolare mezzo di
acquisizione della prova, gli altri due rispondono invece ad una esigenza di natura cautelare.

La caratterizzazione in chiave probatoria dell’istituto emerge dalla stessa definizione del suo oggetto, che
l’art 253 individua facendo riferimento al corpo del reato ed alle cose pertinenti al reato, le quali risultino
necessarie per l’accertamento dei fatti. Circa la nozione di corpo del reato il 2° comma vi ricomprende le
cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso, ma anche quelle che ne costituiscono il
prodotto, il profitto o il prezzo. Sono le medesime cose per cui si può disporre la perquisizione, poiché
secondo i meccanismi del sistema vi è un rapporto di logica consequenzialità tra perquisizione e sequestro.
Quindi, può accadere che il sequestro non sia preceduto da perquisizione, ma è ordine naturale delle
sequenze di ricerca probatoria che le cose rinvenute a seguito di perquisizione, vengano sottoposte a
sequestro.
Pertanto, si dovrebbe desumere che, nel caso di ipotesi di perquisizione eseguita contra legem, dalla
illegittimità della perquisizione dovrebbe scaturire la illegittimità del sequestro e quindi la inutilizzabilità
come prova dei suoi risultati. Tuttavia, dopo vari contrasti giurisprudenziali, le Sezioni unite della Corte di
cassazione hanno ritenuto che la sanzione dell’inutilizzabilità non operi quando si tratti di sequestro del
corpo del reato o delle cose pertinenti al reato. Sulla base del fatto che prevale l’obbligo della autorità
procedente di disporre il sequestro piuttosto che il modo con cui allo stesso si sia pervenuti.

Dopo aver delineato i profili generali della disciplina (Come la necessità del decreto motivato ad opera
dell’autorità giudiziaria procedente. L’autorità giudiziaria può procedere all’atto sia di persona, sia a mezzo
di un ufficiale di polizia delegato con il già menzionato decreto), il codice si occupa di alcune fattispecie
peculiari di sequestro. In cui rientrano le ipotesi del sequestro di corrispondenza, del sequestro presso
banche, nonché le diverse figure di sequestro aventi ad oggetto atti o documenti rispetto ai quali venga
eccepita la sussistenza di un segreto.

IL SEQUESTRO DI CORRISPONDENZA – la cui disciplina si applica anche al sequestro di oggetti di corrispondenza


telematica presso i fornitori dei relativi servizi - (art 254) prevede la sequestrabilità negli uffici postali di
lettere, pieghi, pacchi e di ogni altro oggetto presumibilmente spedito dall’imputato, od a lui diretto o che
comunque abbia relazione con il reato. Se vi procede un ufficiale di polizia giudiziaria, questo ha l’obbligo di
consegnarli al magistrato senza aprirli né alterarli, e senza prendere in altro modo conoscenza del loro
contenuto.
Laddove si accerti ex post la loro estraneità all’ambito della corrispondenza suscettibile di sequestro, si
devono immediatamente restituire all’avente diritto le carte e i documenti sequestrati con la conseguente
previsione della inutilizzabilità dei medesimi sul piano probatorio.
Una particolare disciplina di garanzia è all’art 254-bis con riferimento al sequestro dei dati dagli stessi
detenuti, potendo in tal caso l’autorità giudiziaria stabilire che la loro acquisizione avvenga mediante copia
di essi su adeguato supporto, attraverso una procedura che assicuri la conformità dei dati acquisiti a quelli
originali e la loro immodificabilità.

IL SEQUESTRO PRESSI ISTITUTI BANCARI – articolo 255 – non vi sono grandi peculiarità di grande rilievo, a parte la
possibilità che l’esecuzione di tale atto venga delegata agli organi di polizia giudiziaria, d’altronde in linea
con la richiamata possibilità di delega agli stessi del potere di esaminare atti, documenti e corrispondenza
presso banche, a norma dell’art 248. Per il resto si prevede che presso le banche possano venire sequestrati
documenti, titoli, valori, somme ed ogni altra cosa, ancorché depositata o contenuta in cassette di
sicurezza, quando si abbia fondato motivo di ritenere la loro pertinenza al reato, indipendentemente dal
fatto che appartengano all’imputato o siano iscritti a suo nome. Così si ribadisce la insussistenza di alcun
segreto bancario di fronte al potere di sequestro dell’autorità giudiziaria in sede penale.

SEQUESTRO DI ATTI O DOCUMENTI RISPETTO AI QUALI VIENE ECCEPITO UN SEGRETO – art 256 - segreti cui il codice
attribuisce risalto nell’ambito della disciplina della prova testimoniale, ai fini dell’esenzione del relativo
obbligo. La disciplina, in tal caso, ricalca le linee della normativa già dettata a proposito dei rapporti tra
testimonianza e segreti. Sulla base del generale dovere di esibizione imposte alle persone indicate agli art
200 e 201 (segreto professionale e segreto di ufficio), di consegnare atti, documenti ed ogni altra cosa di cui
abbiano la disponibilità per ragioni del loro ufficio, incarico, ministero, professione o arte, se gli viene fatta
richiesta dall’autorità giudiziaria. A meno che queste persone si oppongano alla richiesta, dichiarando per
iscritto il vincolo derivante da segreto professionale, o d’ufficio o da un segreto di Stato. Qualora
l’opposizione si riferisca all’esistenza di un segreto professionale o di un segreto d’ufficio e l’autorità
giudiziaria dubiti della fondatezza delle suddette dichiarazioni, la stessa autorità potrà disporre i necessari
accertamenti, a conclusione dei quali il sequestro viene ordinato, nel caso di accertata infondatezza
dell’opposizione di quei segreti.
Nel caso di opposizione del segreto giornalistico, il sequestro dovrà essere ordinato anche prescindendo
dalla fondatezza, o meno, della relativa dichiarazione, quando le notizie fornite dalla fonte fiduciaria del
giornalista risultino indispensabili ai fini della prova del reato, e la loro veridicità possa venire accertata solo
tramite la identificazione di tale fonte. È una conclusione che si impone sul piano di una corretta
interpretazione sistematica all’interno del codice, ma anche in ossequio alla legge delega che, in materia,
non ammette distinzioni tra la sfera della testimonianza e quella del sequestro.
Allo stesso modo è da escludere che possano venire sottoposti a sequestro gli atti ed i documenti
contenenti i nomi degli informatori confidenziali, dei quali gli organi di polizia giudiziaria o dei servizi di
sicurezza dichiarino di non voler rilevare l’identità.
Nell’ipotesi di opposizione del segreto di Stato, gli adempimenti prescritti all’autorità giudiziaria risultano
corrispondenti a quelli delineati dall’art 202, a proposito della prova testimoniale, con il conseguente
epilogo della sentenza di non doversi procedere nel caso di conferma del segreto, da parte del presidente
del Consiglio dei ministri, su una prova ritenuta dal giudice essenziale per la definizione del processo. Se
tale conferma non viene tempestivamente fornita, l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro degli
stessi atti o documenti.
Rimane fermo il principio di non ammettere la opponibilità del segreto d’ufficio o di Stato su fatti, notizie
e documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale.

Disciplina particolare è stata dettata all’art 256-bis, per l’acquisizione di documenti presso le sedi dei
servizi di informazione per la sicurezza, nell’eventualità in cui dai responsabili dei relativi uffici non venga
eccepito il segreto di Stato. In tali ipotesi, l’autorità giudiziaria, dopo aver esaminato sul posto i suddetti
documenti e dopo aver acquisito solo quelli strettamente indispensabili alle indagini, si può rivolgere al
presidente del Consiglio dei ministri ove ritenga che i documenti esibiti non siano quelli richiesti o siano
incompleti.
Al presidente del Consiglio dei ministri si dovrà necessariamente rivolgere in caso di documenti originati da
un organismo informativo estero e trasmessi con vincolo di non divulgazione. In tal caso è prevista la
sospensione dell’esame e della consegna, nell’attesa che il presidente adotti le relative determinazioni,
autorizzando l’acquisizione o opponendo il segreto di Stato entro 60 giorni.
Qualora, il responsabile dell’ufficio, detentore dei documenti da acquisirsi, eccepisca il segreto di Stato,
l’art 256-ter dispone che l’esame e la consegna degli stessi debba essere sospesa, per farsi luogo alla
immediata trasmissione al presidente del Consiglio dei ministri. Il quale dovrà o autorizzare l’acquisizione
di tali documenti o confermare il segreto di Stato. Ma quando il presidente non si pronuncia per la
conferma del segreto entro 30 giorni dalla trasmissione, l’autorità giudiziaria può procedere all’atto
acquisitivo.

Il decreto di sequestro è impugnabile tramite richiesta di riesame, procedura descritta all’art 324.
Quando il sequestro riguarda i dati informatici memorizzati in un computer personale, normalmente
l’apparecchio viene immediatamente restituito previa estrazione di copia integrale della memoria.
L’impugnazione del decreto è comunque ammissibile se viene dedotto l’interesse concreto ed attuale alla
esclusiva disponibilità dei dati per ragioni di privacy.

Mettendo da parte la regolamentazione sul rilascio di copie, estratti e certificati dei documenti sequestrati
e della custodia delle cose sequestrate, è importante la disciplina dettata in rapporto alle vicende estintive
del sequestro. A parte gli eventuali esiti del riesame, ciò che interessa è la tematica relativa alla restituzione
delle cose sequestrate dopo l’estinzione del sequestro.
L’estinzione del vincolo imposto attraverso il sequestro e la restituzione delle cose ad esso assoggettate
dipendono dal venir meno delle esigenze probatorie che avevano determinato il provvedimento, a parte
altri adempimenti specificamente previsti. In particolare, l’art 262 detta che quando il sequestro non è più
necessario ai fini della prova, le cose sequestrate devono essere restituite a chi ne abbia il diritto, anche
prima della sentenza.
A questa regola è legata l’ipotesi di conversione del sequestro da misura probatoria a misura cautelare. La
conversione non è automatica occorre un apposito provvedimento, nel rispetto delle ordinarie procedure,
limitandosi ad operare una saldatura tra il momento estintivo del sequestro penale ed il momento di
eventuale adozione della cautela reale. Precisamente, una volta eliminato il presupposto probatorio del
sequestro penale, il giudice, se ritualmente richiesto, potrà disporre il mantenimento del vincolo a titolo di
sequestro conservativo o preventivo, soltanto se ha verificato la sussistenza dei relativi presupposti.

L’art 263 prevede il procedimento per la restituzione delle cose sottoposte a sequestro penale. Il relativo
provvedimento può essere pronunciato de plano quando non vi sono dubbi sulla loro appartenenza. Se
invece sorge controversia sulla proprietà delle stesse la sua risoluzione è rimessa al giudice civile
competente, fermo restando il vincolo del sequestro. La competenza è normalmente riconosciuta al giudice
competente, in primo grado. Tuttavia, nel corso delle indagini preliminari, sulla restituzione delle cose
sequestrate deve provvedere il PM con decreto motivato. Dopo di che, contro il decreto che ha disposto la
restituzione o abbia respinto la relativa richiesta, le persone interessate possono proporre opposizione,
sulla quale sarà chiamato a decidere il giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’art 127.

Le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni.


Questo è l’ultimo istituto dei mezzi di ricerca della prova (art 266-271). La delicatezza della tematica è
testimoniata dalla protezione offerta dall’art 15 Cost, in cui si precisa che la libertà e la segretezza delle
comunicazioni, inviolabili, possono essere limitate solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le
garanzie stabilite dalla legge. Ed è testimoniata anche dai numerosi interventi in materia richiesti alla Corte
costituzionale.
Le polemiche sul tema sono numerose. Per questo il testo originario del codice è stato oggetto di diverse
proposte di modifica. Solo di recente, queste sono sfociate nel d.lgs. 216 del 2017, il quale ha introdotto
ulteriori strumenti di garanzia. Le nuove norme vogliono la tutela della riservatezza dei soggetti
intercettati, riconosciuta non solo ai terzi occasionalmente coinvolti ma anche alle persone sottoposte alle
indagini, almeno per quanto riguarda le notizie non rilevanti per il procedimento.

L’art 266 detta i limiti oggettivi entro i quali deve ritenersi ammissibile l’intercettazione di conversazioni o
comunicazioni di qualunque specie, in relazione alla natura ed alla gravità dei reati per i quali si stia
procedendo. Secondo l’art 266 bis, deve ritenersi sempre consentita anche l’intercettazione del flusso di
comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici, tutte le volte in cui si proceda per uno dei reati
indicati all’art 266, nonché per i reati commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o
telematiche.

Negli stessi casi si può procedere ad intercettazione di colloqui tra persone presenti (intercettazione
ambientale) per mezzo di appositi strumenti di ascolto. Tuttavia, l’intercettazione è consentita nei luoghi di
domicilio solo se vi risulti in corso di svolgimento l’attività criminosa. Delicato è l’impiego, a tale fine, di
captatori informatici che, istallati occultamente, consentono di acquisire in tempo reale ogni sorta di dati
in esso presenti, inclusa la registrazione di suoni ed immagini nell’ambiente circostante, mediante
l’attivazione a distanza del microfono o della videocamera.
L’uso di tali captatori informatici è consentito solo in base ai presupposti ordinari per le conversazioni tra
presenti che si svolgono fuori dal domicilio. Ma i captatori informatici sono istallati in un dispositivo
portatile, che per sua natura può venire a trovarsi in un ambiente domiciliare. Le sezioni unite della Corte di
cassazione avevano chiarito che per i delitti di criminalità organizzata è legittima l’intercettazione tramite
captatori. Seguendo tale profilo, è intervenuto il legislatore che si è allineato al principio definito dalla Corte
ma ne ha ristretto la portata ai soli delitti all’art 51 comma 3bis e 3quater (per i quali i captatori possono
essere usati senza il limite del domicilio). Negli altri casi occorre un decreto autorizzativo in cui si indicano i
luoghi e il tempo in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono, così da escludere
l’intercettazione ambientale domiciliare. Inoltre, il decreto autorizzativo deve sempre indicare le ragioni che
rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini.

La nuova normativa concerne solo i captatori informatici su dispositivi portatili per l’intercettazione tra
presenti, mentre gli altri strumenti di intercettazione non sono menzionati. Questo viene giustificato per il
carattere estremamente insidioso ed invasivo di questo tipo di interferenza nella vita privata. Ma la
delimitazione come divieto di qualsiasi diversa utilizzazione del captatore informatico lascia uno spazio non
espressamente disciplinato, a fronte delle enormi potenzialità dello strumento. Nonostante le cautele prese
probabilmente si è persa l’occasione di varare una disciplina più meditata e più completa, lasciando così
una zona grigia che non rassicura sulla possibilità di abusi.

I presupposti e le forme del provvedimento relativo alle operazioni di intercettazione, essi risultano dettati
nell’art 267, dov’è definita la scansione delle competenze.
L’intercettazione può essere disposta dal PM solo a seguito di autorizzazione da parte del giudice per le
indagini preliminari, il quale vi provvederà con decreto motivato quando, in presenza di gravi indizi di reato,
non necessariamente già orientati a carico di una determinata persona, la intercettazione risulti
assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini.
Ma nei casi di urgenza, qualora vi siano valide ragioni per ritenere che il ritardo provocherebbe gravi
pregiudizi alle indagini, si ammette che l’iniziativa possa venire assunta direttamente dal PM con decreto
motivato, da convalidarsi entro 48 ore ad opera del medesimo giudice tramite proprio decreto.
Nel caso di mancata convalida, l’intercettazione non potrà venire proseguita, ed i risultati eventualmente
ottenuti non potranno essere usati.
Allo stesso modo, in caso di urgenza, il PM può procedere, solo per i delitti previsti, istallando captatori
informatici su dispositivo portatile, indicando le ragioni di urgenza che rendono impossibile attendere il
provvedimento del giudice.
In passato, si riteneva che dovesse sottostare alla stessa disciplina autorizzativa anche l’acquisizione dei
tabulati attestanti il flusso del traffico telefonico relativo ad una certa utenza. Ma questa interpretazione
è stata ribaltata dalle Sezioni unite che hanno escluso la necessità di estendere all’acquisizione dei suddetti
tabulati le garanzie dettate in tema di intercettazioni telefoniche. Partendo dal presupposto che nel caso di
intercettazioni telefoniche si pregiudica la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate.
Mentre nel primo caso (flusso del traffico telefonico) ci si limita ad acquisire la documentazione del fatto
storico. Quindi si può escludere che gli atti apprensivi dei corrispondenti tabulati siano da includere nelle
intercettazioni di conversazioni e comunicazione.

La disciplina dell’acquisizione dei tabulati è regolata dal d.lgs del 2003 n 196. Si detta che i dati relativi al
traffico dei tabulati debbano essere conservati dal fornitore del servizio per 24 mesi dalla data della
comunicazione per finalità di accertamento e repressione dei reati. Per le stesse finalità si prescrive un
tempo di conservazione pari a 12 mesi rispetto ai dati concernenti il traffico telematico, e 30 giorni per le
chiamate senza risposta. Entro tali termini, tali dati possono essere acquisiti dal PM, con decreto motivato,
anche su istanza dei difensori delle parti private. Rimane il potere del difensore dell’imputato di richiedere
direttamente al fornitore i dati relativi alle utenze intestate al proprio assistito, secondo le modalità
previste dall’art 319 quater.
Ma recenti modifiche, nell’ambito della lotta al terrorismo, hanno previsto tempi più lunghi per i dati
relativi al traffico telefonico o telematico, se in relazione ai reati di cui agli art 51 comma 3 quater e 407
comma 2 lettera a. Per questi reati il termine è di 72 mesi.

Gli aspetti esecutivi delle intercettazioni si prescrive prima di tutto, che il decreto del PM stabilisca le
modalità e la durata delle corrispondenti operazioni. L’art 267 prevede che queste, in forza di tale decreto,
non possono essere prolungare oltre il termine di 15 giorni (prorogabili dal giudice ed in permanenza dei
presupposti richiesti ab origine). E le operazioni devono essere eseguite dal PM personalmente o tramite un
ufficiale di polizia giudiziaria.

Disciplina particolare è stata disposta per le indagini relative a delitti di criminalità organizzata, o al delitto
di minaccia col mezzo del telefono, come per i delitti di natura terroristica o eversiva, i delitti dei pubblici
ufficiali contro la Pubblica amministrazione, il delitto di assistenza agli associati, atti di terrorismo con
ordigni micidiali o esplosivi, riduzione o mantenimento in schiavitù, prostituzione e pornografia minorile,
traffico di organi prelevati da persona vivente, tratta di persone.
Precisamente, si è stabilito che quando l’intercettazione risulti necessaria per lo svolgimento di tali
indagini, essa può venire autorizzata dal giudice anche soltanto in presenza di sufficienti indizi di reato. Ma
di regola, la durata delle operazioni, così autorizzate, non può superare i 40 giorni. Ma la durata può
essere prorogata, con decreto motivato, dal giudice, previa verifica della permanenza dei presupposti
richiesti dalla legge, per periodi successivi di 20 giorni.
Se si tratta di intercettazione tra persone presenti, nell’ambito dei procedimenti prima elencati, si può
autorizzare l’operazione anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo
l’attività criminosa. Ciò vale anche per le intercettazioni ambientali posto per agevolare le ricerche dei
latitanti in relazione a tali delitti. L’uso del captatore informatico nel domicilio rimane, sempre, limitato ai
soli delitti previsti dall’art 266 comma 2 bis.

L’art 268 dispone che il PM deve annotare in un apposito registro riservato, secondo l’ordine cronologico,
tutti i decreti che abbiano disposto, autorizzato, convalidato o prorogato le intercettazioni, nonché i tempi
di inizio e di conclusione delle operazioni. Le operazioni devono essere compiute solo per mezzo degli
impianti installati nella procura della Repubblica, salvo consentire subito dopo che lo stesso PM possa
autorizzare con decreto motivato l’uso di impianti di pubblico servizio, o di quelli in dotazione alla polizia
giudiziaria, qualora vi siano eccezionali ragioni di urgenza. Il comma 3 bis ammette che si possano usare
impianti anche appartenenti a privati, se si tratta di intercettazione di comunicazioni informatiche o
telematiche.
È stabilito poi che le comunicazioni intercettate siano sempre registrate, e nel relativo verbale deve essere
trascritto, anche in maniera sommaria, il loro contenuto. Tuttavia, è vietato trascrivere nel verbale
comunicazioni o conversazioni irrilevanti. Divieto rivolto alla polizia, che se del caso deve avvisare
preventivamente il PM. Solo questo potrà valutarne l’effettiva rilevanza e disporne eventualmente la
trascrizione. Dopo il termine per le operazioni, verbali e registrazioni sono trasmessi immediatamente al
PM, che può anche disporre il differimento della loro trasmissione per il tempo occorrente all’ufficiale di
polizia giudiziaria per consultarne le risultanze a fini investigativi, in caso di indagini complesse.

La novità più significativa è l’archivio riservato nel quale vanno conservati i verbali, le registrazioni ed ogni
altro atto ad esse relativo. L’art 269 comma 1, modificato nel 2017, prevede che tale archivio sia istituito
presso l’ufficio del PM che ha richiesto ed eseguito l’intercettazione.
Secondo le modalità indicate dall’art 89bis disp.att, il procuratore della Repubblica ha qualità di capo
dell’ufficio, la direzione e la sorveglianza dell’archivio, con il dovere di assicurarne la segretezza. Quindi, il
contenuto delle conversazioni intercettate è coperto dal segreto finché il giudice non ne abbia disposto
l’acquisizione, se ed in quanto rilevanti a fini di prova. Possono accedere all’archivio riservato il giudice, il
PM gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati, i difensori delle parti al fine di consultare gli atti ed ascoltare le
registrazioni, ma senza diritto di estrarne copia. Ogni accesso deve essere annotato allo scopo di risalire più
facilmente alla responsabilità di eventuali violazioni del segreto.
Entro 5 giorni dalla conclusione delle operazioni, il PM deposita le annotazioni, verbali e le registrazioni,
insieme ai decreti autorizzativi e l’elenco delle comunicazioni che reputa rilevanti, dandone avviso ai
difensori. Ma il giudice può autorizzare il PM a ritardare il deposito, se da ciò può derivare un grave
pregiudizio per le indagini, fino alla chiusura delle indagini.
Il PM, entro i 5 giorni successivi, deve presentare al giudice la richiesta di acquisizione delle intercettazioni
depositate, e i difensori, entro 10 giorni dall’avviso, possono chiedere l’acquisizione delle intercettazioni
secondo loro rilevanti e l’eliminazione di quelle inutilizzabili o di cui è vietata la trascrizione. Il PM può poi
chiedere l’eliminazione di quelle irrilevanti.
Secondo l’art 268-quater, il giudice, dopo 5 giorni dalla presentazione delle richieste, con ordinanza
emessa in camera di consiglio senza la presenza delle parti, dispone l’acquisizione delle intercettazioni
richieste, escludendo quelle irrilevanti o inutilizzabili manifestatamente. Con tale ordinanza viene meno il
segreto, quindi i difensori potranno estrarne copia, una volta che gli atti saranno inseriti nel fascicolo delle
indagini.
Tale procedura vuole evitare che siano depositate indiscriminatamente tutte le comunicazioni o
conversazioni intercettate, con la conseguente caduta del segreto, e che se ne possa chiedere
l’acquisizione senza nessun vaglio effettivo sulla rilevanza. Il sistema prevede, oggi, un doppio filtro (prima
il PM poi il Giudice) accompagnato da una selezione a monte operata dalla polizia giudiziaria, sotto il
controllo del PM.

Può accadere però che le intercettazioni debbano essere usate prima della conclusione delle operazioni o
senza che sia avviata la procedura acquisitiva davanti al giudice. È il caso della misura cautelare, richiesta
alla quale il PM deve allegare gli elementi dimostrativi della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e
delle esigenze cautelari. In tal caso, la selezione delle intercettazioni rilevanti è effettuata senza
contraddittorio dal PM che le inserisce nel fascicolo delle indagini. Una volta adottata la misura, il giudice
deve restituire al PM gli atti relativi alle intercettazioni che abbia ritenuto non rilevanti a tal fine o
inutilizzabili, perché li collochi nell’archivio riservato. Per tutelare la riservatezza, sia nel caso di richiesta
che nell’ordinanza cautelare si devono riportare solo i brani essenziali delle comunicazioni o conversazioni
intercettate. Questo poiché l’ordinanza cautelare non è un atto di indagine, non è quindi coperto dal
segreto. Pertanto, per evitare in tale caso, la divulgazione dell’intero contenuto della comunicazione
utilizzata, comprese le parti non rilevanti, si è previsto tale limite.
Una volta eseguita la misura cautelare, l’ordinanza è depositata in cancelleria, insieme alla richiesta del PM
e agli atti presentati con queste.
All’art 293 comma 3, si prevede, espressamente, il diritto del difensore non solo di accedere ai verbali, ma
di ottenere la trasposizione delle registrazioni su supporto idoneo alla riproduzione dei dati, in modo da
potersene avvalere in vista dell’eventuale richiesta di riesame della misura. Questo codifica il principio
enunciato dalla Corte costituzionale che aveva riconosciuto alla difesa il diritto di richiedere copia delle
registrazioni, delle quali non era nemmeno disposto il deposito.
La documentazione delle intercettazioni non acquisite deve essere conservata nell’archivio. Tuttavia, gli
interessati, a tutela della propria riservatezza, possono chiederne la distruzione al giudice, il quale
provvederà in camera di consiglio e curerà che la distruzione sia eseguita sotto il proprio controllo (art 269).

Il profilo della utilizzabilità probatoria delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli rispetto ai quali
siano state autorizzate è disposto all’art 270. Precisamente, si prevede che in tali contesti, le intercettazioni
possano venire utilizzate solo quando le medesime risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i
quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. Per le intercettazioni eseguite con captatore informatico il
suddetto limite vale, anche all’interno del medesimo procedimento, per i reati diversi da quelli contemplati
nel decreto di autorizzazione.
All’interno del diverso procedimento ci si è sforzati di circoscrivere il sacrificio delle garanzie difensive,
prescrivendosi che, una volta trasmesse le registrazioni ed i verbali correlativi all’autorità giudiziaria
competente, nell’ambito di tale procedimento debba assicurarsi il contraddittorio in ordine a tale
documentazione, tramite le forme previste agli art 268bis, ter e quater. Tuttavia, per evitare una
trasmissione parziale dei verbali e delle registrazioni, il PM ed i difensori possono esaminare l’intera
documentazione delle stesse, così come depositata ex art 268 bis nel procedimento, per il quale le
intercettazioni siano state all’inizio autorizzate.
Qualora la conversazione o comunicazione intercettata sia essa stessa corpo del reato, è sempre
utilizzabile nel processo penale e quindi anche in procedimenti diversi da quello d’origine, pure quando non
indispensabile per l’accertamento di delitti per i quali sia obbligatorio l’arresto in flagranza.

L’art 270 bis dispone sull’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria, tramite lo strumento delle intercettazioni,
abbia acquisito comunicazioni di servizio di appartenenti al sistema dei servizi di sicurezza. Qui, la relativa
documentazione deve essere immediatamente secretata e custodita in luogo protetto, prevedendo quindi
che la medesima autorità giudiziaria debba trasmettere al presidente del Consiglio dei ministri copia della
documentazione, nella parte contente le informazioni di cui intende avvalersi nel processo allo scopo di
accertare se alcuna di esse sia coperto da segreto di Stato.
Se, entro 60 giorni, il presidente del Consiglio non opponga tale segreto, l’autorità giudiziaria potrà
acquisire la documentazione trasmessa e provvedere per l’ulteriore corso del procedimento. Nel caso di
opposizione del segreto di Stato le sarà inibita l’uso delle notizie coperte dal segreto. Tuttavia, prima che
sopraggiunga la risposta del presidente del Consiglio, le informazioni ad esso inviate possono essere usate,
sia pure limitatamente ad una prospettiva cautelare. Cioè solo se vi è pericolo di inquinamento delle prove
o pericolo di fuga o quando sia necessario intervenire per prevenire o interrompere la commissione di un
delitto, punito con reclusione non inferiore a 4 anni.

L’art 271 si occupa del regime dei divieti di utilizzabilità delle intercettazioni eseguite contra legem.
Queste se non rispettano le disposizioni previste o comunque sono state effettuate fuori dei casi consentiti
dalla legge, non possono essere usate a fini probatori. Il riferimento è ai limiti di ammissibilità. Tra questi vi
rientra il divieto di intercettazione delle comunicazioni dei difensori e dei consulenti tecnici o relative ai
rapporti tra i medesimi e le persone assistite. Inoltre, vi è inutilizzabilità per i dati acquisiti nel corso delle
operazioni preliminari all’inserimento del captatore informatico nel dispositivo portatile, e per i dati
acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e luogo indicati nel decreto di autorizzazione.
Le intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni dei membri del Parlamento,
devono essere autorizzate dalla Camera di appartenenza. In mancanza, le intercettazioni non possono
essere usate. Per ipotesi del genere, in cui le intercettazioni devono effettuarsi direttamente nei confronti
di un parlamentare, l’autorizzazione deve essere richiesta dall’autorità che ha emesso il provvedimento da
eseguire. Cioè dal PM. È prevista analoga disciplina anche nel caso in cui l’autorità giudiziaria debba
acquisire tabulati di comunicazioni nei riguardi di un parlamentare. In questo modo si crea una previsione
fortemente sospetta di illegittimità per ingiustificata disparità di trattamento a favore dei membri del
Parlamento.
Il divieto di utilizzazione, art 271, viene esteso fino a ricomprendervi tutte le intercettazioni riguardanti le
comunicazioni delle persone indicate nell’art 200, comma 1, quando abbiano ad oggetto fatti conosciuti per
ragione del loro ministero, ufficio o professione. Salvo che tali persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li
abbiano in altro modo divulgati. Questa norma rappresenta una sorta di proiezione del diritto di
astensione riconosciuto alle suddette persone in sede di testimonianza, ferma restando la verifica del
giudice sulla effettiva riferibilità delle comunicazioni intercettate all’area dei segreti riconosciuti meritevoli
di tutela.
Tale normativa di salvaguardia indiretta è stata dettata per i soli segreti professionali, con esclusione del
segreto d’ufficio. Ciò sorprende considerando che la discriminazione sul terreno delle intercettazioni
telefoniche coperte dal segreto d’ufficio, perché posto a tutela degli interessi della pubblica
amministrazione e non dei diritti fondamentali, può portare ad una privazione di tutela per gli eventuali
segreti di Stato conosciuti attraverso lo strumento delle intercettazioni telefoniche.
Le registrazioni ed i verbali ritenuti inutilizzabili devono essere distrutti per ordine del giudice in ogni stato
e grado del processo, salvo che i medesimi costituiscano corpo del reato.

Problema particolare è per i verbali e registrazioni di conversazioni o comunicazioni, cui abbiano preso
parte dei membri del Parlamento, le quali siano state regolarmente intercettate nel corso di procedimenti
riguardanti terze persone o non a seguito di operazioni compiute avendo intenzionalmente di mira il
parlamentare. Fermo restando il principio dell’art 68 Cost e la correlativa normativa ordinaria. Ciò sia che si
tratti di intercettazioni dirette, sia che si tratti di intercettazioni indirette, aventi natura non casuale.
Intercettazioni dirette – disposte su utenze o luoghi rientranti nella sfera di appartenenza o di disponibilità
dello stesso membro del Parlamento.
Intercettazioni indirette – disposte su utenze appartenenti a soggetti diversi, o in luoghi diversi, in quanto si
presumono frequentati dal parlamentare.
Le intercettazioni indirette, o fortuite ma occasionali, casuali, nei confronti di membri del parlamento,
sono disciplinate dalla legge del 2003 n 140. Nello specifico, si distingue a seconda che il giudice per le
indagini preliminari ritenga irrilevanti i verbali, le registrazioni delle conversazioni o comunicazioni
intercettate nel corso di procedimenti riguardanti terzi. Oppure li ritenga rilevanti, cioè si ritenga necessario
utilizzare i risultati delle intercettazioni, su istanza di una parte, dopo avere sentito le altre parti nei termini
e modi previsti. Nel primo caso, i risultati devono essere distrutti. Nel secondo, il giudice deve
tempestivamente chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare, le cui
conversazioni siano state in modo casuale intercettate, trasmettendo con la richiesta la copia integrale dei
verbali e registrazioni.
Da qui non si pongono quesiti nel caso in cui la richiesta di autorizzazione venga data. Problemi sorgono
quando viene negata. In tale ultimo caso, la documentazione delle intercettazioni deve essere distrutta non
oltre i dieci giorni dalla comunicazione del diniego. Per evitare un possibile equivoco interpretativo, la legge
dispone che le registrazioni acquisite in violazione dell’obbligo di distruzione, in caso di autorizzazione
negata, saranno dichiarate inutilizzabili in ogni stato e grado del processo.
Si tratta di una disciplina molto drastica. Ragionevole se riferita al caso delle sole intercettazioni indirette
casuali, i cui contenuti siano incidenti sulla posizione di un membro parlamentare. La stessa disciplina
risultava non ragionevole qualora si fosse riferita anche al caso delle intercettazioni indirette casuali, i cui
contenuti fossero risultati rilevanti solo sulla posizione di terze parti, delle quali un membro del Parlamento
fosse stato interlocutore. Rendendo inutilizzabili o distruggendo, in caso di diniego, quei risultati recanti
elementi probatori a carico o a favore di soggetti non aventi la qualifica parlamentare, o costituendo esse
stesse corpo del reato.
Questo creava un meccanismo immunitario, poiché equiparava la situazione dei parlamentari con soggetti
terzi. Di conseguenza, dinanzi ad un quadro normativo tanto dissonante è intervenuta la Corte
costituzionale, che ha dichiarato illegittimo l’art 6 della legge 140 del 2003, nella parte in cui si applica
anche nei confronti di soggetti non aventi qualifica parlamentare.
Diverso è il tema delle intercettazioni relative al Presidente della Repubblica, la cui posizione non può
essere assimilata a quella del parlamentare. Dato il suo ruolo istituzionale e l’alto valore delle funzioni da lui
svolte, si è dettato un divieto assoluto di intercettazione delle conversazioni del Presidente della
Repubblica, con obbligo di distruzione immediata di tali registrazioni, anche se casualmente effettuate.

Le intercettazioni preventive di comunicazioni o conversazioni, comprese quelle tra soggetti presenti,


anche all’interno del domicilio, non fanno diretto riferimento alla tematica processuale propriamente
detta. Queste hanno la propria disciplina nelle disposizioni attuative.
Le intercettazioni sono consentite, su iniziativa del Ministro dell’interno o di un’autorità da lui delegata,
quando risultano necessarie per l’acquisizione di notizie concernenti la prevenzione di determinati delitti,
nonché di quelli commessi tramite l’uso di tecnologie informatiche o telematiche. Tali intercettazioni
possono essere disposte anche su iniziativa dei direttori dei servizi di informazione per la sicurezza ed a
seguito di autorizzazione del procuratore generale presso la Corte di appello di Roma, quando siano
indispensabili per l’espletamento delle attività loro demandate.

Poiché la loro posizione è estranea all’ambito del processo penale e, allo stesso tempo, per evitare
pericoli di abusi, si è stabilito che gli elementi eventualmente acquisiti tramite tali intercettazioni
preventive non possono essere usati nel procedimento penale, fatti salvi i fini investigativi. Inoltre, le
suddette attività preventive non possono essere menzionate in atti di indagine, né essere oggetto di
deposizione, né essere divulgate.

LE MISURE CAUTELARI CAP 4


Il sistema delle misure cautelari.
La disciplina delle misure restrittive per esigenze cautelari è un vero e proprio sottosistema normativo, cui
il codice dedica il libro IV, diviso in due titoli. Uno dedicato alle misure cautelari personali, l’altro dedicato
alle misure cautelari reali.
Non è collocato in tale libro, la disciplina relativa all’arresto in flagranza ed al fermo, cui è riservato un
apposito titolo nel libro relativo alle indagini preliminari e udienza preliminare. Non vi trova collocazione
nemmeno la disciplina dell’accompagnamento coattivo che viene costruito come atto strumentalmente
diretto a soddisfare determinate esigenze di indagine o di accertamento, in rapporto allo svolgimento di
attività per le quali è necessaria la presenza dell’imputato o del coimputato in separato procedimento
connesso, o della persona sottoposta alle indagini preliminari, nonché di altre persone. Esigenze del tutto
estranee all’ambito di quelle per le quali si ammette l’adozione di una delle misure cautelari.

Questo significa che le misure non potranno essere adottate allo scopo di ottenere dall’imputato quelle
condotte collaborative, il cui rifiuto rientra a pieno titolo nella sfera del diritto di difesa (trattandosi di una
applicazione indiscutibile del diritto al silenzio). Questo aspetto è stato però oggetto di polemiche che
hanno portato il legislatore ad intervenire, dedicando un’apposita previsione proprio al tema dei rapporti
tra diritto al silenzio dell’imputato e misure cautelari.

Le disposizioni relative alle misure cautelari risultano di regola dettate facendo riferimento all’imputato,
pur essendo indubbio che la qualifica di imputato può riconoscersi solo alla persona che si trova in una
delle situazioni descritte dall’art 60. Sicché la persona, nel corso delle indagini preliminari, sottoposta ad
una misura cautelare non avrà, per definizione, ancora la qualità di imputato. Si tratterà, piuttosto, di
persona indiziata, verso cui si svolgono indagini preliminari e verso la quale opera l’estensione dei diritti e
delle garanzie previsti per l’imputato.
Misure cautelari personali.
Nel libro IV, titolo I, assume un risalto centrale il complesso delle disposizioni generali contenute nel capo I
(art 272-279). Qui vi sono le disposizioni fondamentali del sistema delle cautele incidenti sulla libertà
personale dell’imputato, a cominciare dal principio di legalità sancito nell’art 272, che stabilisce “le libertà
della persona sono limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo”.
Nella formulazione del principio, l’uso dell’avverbio soltanto esprime una precisa volontà del legislatore.
Quindi non sembra potersi dubitare del significato garantistico del principio così enunciato, sotto il profilo
della tassatività, in quanto diretto a vincolare alla previsione legislativa l’esercizio della discrezionalità del
giudice in materia di limitazioni alle libertà della persona.

Alla disposizione dell’art 272 (garanzia sotto il profilo della riserva di legge) fa subito riscontro la
disposizione all’art 279, che è norma generale attributiva della competenza funzionale, nella quale si
riflette la garanzia della riserva di giurisdizione in ordine alle misure cautelari personali. E stabilisce che sia
sull’applicazione, che sulla revoca, che sulle vicende modificative delle misure cautelari personali, la
competenza a provvedere spetta sempre al giudice che procede (cioè il giudice competente all’esercizio
della giurisdizione nelle diverse fasi del procedimento), individuabile anche sulla base della disponibilità
giuridica e materiale degli atti processuali. Quindi all’organo giurisdizionale si riserva la titolarità esclusiva
dei poteri in materia di restrizioni della libertà personale, riconoscendo al PM unicamente il potere di
disporre il fermo di indiziati.
La norma di competenza, art 279, deve essere correlata a quella dell’art 291 (dove si prevede una disciplina
per il caso del giudice incompetente), relativamente al concreto esercizio dei poteri attribuiti al giudice
circa i provvedimenti de libertate.

I presupposti del fumus commissi delicti (sussistenza di indizi di colpevolezza su un determinato


soggetto) e del periculum libertatis.
Tra le disposizioni generali relative alle misure cautelari vi sono quelle sui presupposti delle misure stesse,
sia con riferimento al profilo del fumus commissi delicti, sia con riferimento alla sfera del periculum
libertatis.

Sul profilo del fumus commissi delicti, l’art 273 comma 1 individua quali condizioni generali di applicabilità
la sussistenza a carico del destinatario di gravi indizi di colpevolezza, con l’evidente proposito di accentuare
la consistenza della piattaforma indiziaria indispensabile per l’adozione di qualunque misura cautelare
personale. Il 2° comma impone alla competente autorità un sommario accertamento negativo circa la
sussistenza di una delle cause di giustificazione o non punibilità, o di estinzione del reato o della pena,
menzionate nella stessa disposizione.

I criteri per valutare i suddetti gravi indizi, sono delineati al comma 1 bis dell’art 273, nel quale vengono
richiamate alcune specifiche previsioni. Il richiamo non riguarda solo l’art 203 (informatori della polizia
giudiziaria e dei servizi di sicurezza) ma anche l’art 192 (valutazione della prova) e l’art 271 (divieti di
utilizzazioni). Si offre, quindi, un ventaglio ampio di disposizioni, di cui il giudice dovrà necessariamente
tener conto nel valutare il presupposto del fumus commissi delicti a fronte di una richiesta di misura
cautelare. All’interno di tale ventaglio, il richiamo art 271 vuole estendere il regime di inutilizzabilità in
tema di intercettazioni telefoniche all’ambito di valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, ma più ampio è
il richiamo all’art 192, che vuole estendere l’applicazione delle regole di valutazione probatoria all’ambito
del procedimento applicativo delle misure cautelari.
Ai fini della valutazione, il giudice potrà tenere conto delle dichiarazioni provenienti da persone che siano
imputate dello stesso reato, o in un procedimento connesso, o di un reato collegato, in quanto le
medesime dichiarazioni risultino corredate da altri elementi probatori idonei a confermarne l’attendibilità.
Precisamente, tali dichiarazioni potranno integrare il presupposto della gravità indiziaria a carico del
soggetto destinatario della misura cautelare soltanto se, esse risultino intrinsecamente attendibili e
corroborate da riscontri estrinseci individualizzanti circa l’ipotesi di attribuzione del fatto reato al medesimo
soggetto. L’esistenza di un fatto non può essere desunta sulla base di indizi (da intendersi come prova
critica indiziaria), salvo che questi risultino gravi, precisi e concordanti.

Appare palese dunque che la scelta legislativa, nel comma 1 bis, si sia indirizzata nel senso di anticipare sul
terreno cautelare l’operatività, di alcune specifiche regole in tema di inutilizzabilità probatoria e di una
regola tipicamente prevista per la valutazione della prova ai fini della decisione giudiziale, come quella del 3
e 4 comma dell’art 192.
Questo suggerisce due ordini di rilievi, nella prospettiva delle possibili ripercussioni a livello applicativo.
Per un verso ne risulta irrigidito il criterio di apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza rilevanti nel
contesto cautelare, al punto da essere equiparato a quello prescritto per la prova della colpevolezza, con la
conseguenza di restringere all’ambito di adozione delle misure cautelari.
Per altro verso, il provvedimento applicativo di una misura cautelare, per tale via, finisce per caricarsi di
un peso assai gravoso sulla sorte processuale dell’imputato. Rispetto al quale sarà d’ora in poi difficile
escludere l’incidenza negativa di quello che sembrerebbe essere un anticipato giudizio di colpevolezza.
Questo è difficilmente evitabile quando si impone al giudice di valutare la piattaforma indiziaria necessaria
ai fini cautelari sulla base della stessa regola valutativa dettata per la prova della colpevolezza.

Per il profilo del periculum libertatis, l’art 274 si preoccupa di predeterminare le esigenze cautelari che sole
(concorrendo con il presupposto dei gravi indizi di colpevolezza) devono considerarsi idonee a giustificare
l’adozione delle misure cautelari personali. La previsione sottolinea come si tratti di esigenza ciascuna
autonomamente sufficiente a legittimare il ricorso allo strumento cautelare, ma anche come nessuna
misura possa venire disposta se non in base al concreto accertamento della sussistenza di una delle
suddette esigenze.
Da qui nasce un duplice corollario.
Da un lato, l’esclusione di qualsiasi automatismo nell’adozione delle misure cautelari, e quindi la
esclusione della obbligatorietà delle stesse in base alla natura o gravità dell’imputazione cui si riferiscano i
gravi indizi di colpevolezza.
Dall’altro, il rifiuto di qualunque meccanismo fondato sull’obbligo del giudice di giustificare, motivandone
in positivo le ragioni, la mancata adozione della custodia cautelare con riferimento a determinate
imputazioni. Si prevede un onere motivazionale nel caso di misure carcerarie, quando vi è inidoneità in
concreto, della detenzione domiciliare controllata, a fronteggiare la situazione di ritenuto pericolo.

L’art 274 opera alcune puntualizzazioni dirette a meglio definire i criteri di esercizio della discrezionalità del
giudice. E al riguardo, come pure più in generale per la tematica dei presupposti e criteri di applicazione
delle misure cautelari, occorre tener presente delle numerose innovazioni sopravvenute rispetto alla
versione originaria del codice.

Le diverse esigenze cautelari.


Con riferimento alla sussistenza di specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini, queste
vengono circoscritte in rapporto a situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità
della prova, che l’articolo 274 lettera a esige ad abundantiam fondate su circostanze di fatto espressamente
indicate nel provvedimento a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio.
In questo modo le misure cautelari vengono usate per contrastare il pericolo di inquinamento delle prove,
cui si affianca un preciso intento di escludere qualunque possibilità di impiego delle misure in questione per
assicurare il compimento di atti determinati, per i quali non si possa prescindere dalla presenza
dell’imputato.
In caso di fuga o pericolo di fuga dell’imputato (art 274 lettera b) il legislatore è intervenuto sul testo
legislativo per precisarne e delimitarne l’ambito di operatività. La formulazione originaria, infatti
permetteva letture lassiste che consentivano il sacrificio della libertà personale anche a prescindere
dall’attualità di specifici comportamenti dell’indizio alla fuga. Per questo è stato precisato che il pericolo
deve essere concreto ed attuale, e le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte
esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede.

Alla lettera c si valorizza l’esigenza cautelare di natura sostanziale di tutela della collettività,
specificandone le condizioni nel tentativo di evitare richiami generici alla pericolosità sociale del prevenuto,
censurabili sotto il profilo della determinatezza della fattispecie, e nel tentativo di assicurare il rispetto
dell’art 27 Cost, da cui si ricava la illegittimità di qualsiasi finalismo delle misure cautelari tale da
presupporre la colpevolezza dell’imputato.
Il problema è risolto usando come parametro di valutazione dell’esigenza cautelare in questione gli
elementi ricavabili da specifiche modalità e circostanze del fatto, nonché dalla personalità dell’imputato e
riconoscendole rilevanza ogni volta che ne risulti il concreto e attuale pericolo che il medesimo imputato
possa commettere gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, o diretti contro l’ordine
costituzionale, o delitti di criminalità organizzata o ancora delitti della stessa specie per cui si procede.
Le misure di custodia cautelare (domiciliare) potranno essere disposte solo quando il pericolo si riferisce
alla commissione di delitti per i quali sia comminata una pena detentiva non inferiore nel massimo a 4 anni.
Mentre la custodia carceraria vuole un massimo edittale non inferiore a 5 anni di reclusione, fatta
eccezione per il delitto di finanziamento illecito dei partiti.
Anche qui è stato rimarcato che il rischio da presidiare con la misura limitativa della libertà non può essere
ipotetico, ma deve necessariamente tradursi nella individuazione di occasioni reali e prossime, che
l’imputato probabilmente sfrutterebbe per commettere nuovi reati.

Da qui segue la illegittimità di ogni provvedimento di adozione o mantenimento delle misure cautelari
che risulti finalizzato alla sola confessione dell’imputato. A tal proposito, tali misure possono essere
adottate o mantenute se vi è una delle esigenze cautelari previste, indipendentemente dalla circostanza
che abbia, o meno, confessato. Anche se è normale che l’avvenuta confessione possa essere valutata dal
giudice come rilevante al fine di escludere la sussistenza, o la permanenza di talune delle esigenze che
altrimenti potrebbero giustificare la sottoposizione dell’imputato ad una misura cautelare. In tale contesto,
il legislatore ha precisato, all’interno dell’art 274 lettera a, che le situazioni di concreto ed attuale pericolo
ivi previste non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato
di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti.
Quindi si può concludere che, in nessun caso l’esercizio del diritto al silenzio, da parte dell’imputato, possa
essere posto a fondamento, sul terreno del periculum libertatis, di una misura cautelare disposta a suo
carico e quindi che nessuna misura cautelare possa venire legittimamente adottata allo scopo di indurre
l’imputato stesso a collaborare con l’autorità giudiziaria.

I principi di adeguatezza e di proporzionalità nella scelta delle misure.


Una volta accertata la sussistenza di almeno una delle esigenze cautelari descritte, l’art 275 in ordine alla
scelta delle misure da adottarsi nel caso concreto, detta alcuni criteri fondamentali, ispirati alla
adeguatezza e proporzionalità.

Partendo dalla premessa della configurazione di una pluralità di misure cautelari personali, viene enunciato
il principio di adeguatezza. In forza di tale principio il giudice, nell’individuare quale misura applicare, dovrà
tenere conto della specifica idoneità di ciascuna, rapportandola alla natura ed al grado delle esigenze
cautelari da soddisfare nel caso concreto. Dovrà essere scelta la misura meno gravosa per l’imputato, tra
quelle idonee a fronteggiare le suddette esigenze.
Al principio di adeguatezza si raccorda il principio di proporzionalità (art 275 comma 2), secondo la quale
ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa
essere irrogata. Cioè il giudice dovrà tener conto dell’attitudine della misura stessa a soddisfare le esigenze
cautelari verificate caso per caso, ma anche della sua congruità, sotto il profilo della deminutio libertatis
che ne deriva all’imputato, sia rispetto alla gravità del fatto, sia rispetto al quantum di pena che in concreto
può essere irrogata o che gli si sia stata irrogata.

Riconducibile al principio di proporzionalità è il comma 2 bis dell’art 275, in cui si è dettato in capo al
giudice un esplicito divieto di deporre sia la custodia cautelare in carcere che gli arresti domiciliari quando
il medesimo ritenga che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena.
Divieto che opera anche quando il giudice ritiene che la pena detentiva irrogata, all’esito del giudizio, non
sarà superiore a 3 anni. Una norma che vuole rendere residuale ed eccezionale il ricorso alle più afflittive
misure privative della libertà, escludendole nei casi in cui sia prevedibile che l’eventuale condanna alla pena
detentiva potrà non essere scontata in carcere o che vi sarà accesso alle misure alternative alla detenzione.
Il divieto di deporre le misure cautelari personali subisce alcuni limiti. La custodia in carcere può essere
disposta in sostituzione della misura non carceraria quando siano state violate le connesse prescrizioni. Si
può fare ricorso alla carcerazione se, irrilevante ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possono essere
disposti per mancanza di un luogo idoneo per l’esecuzione. E ancora non opera quando si procede per una
serie di delitti indicati dalla norma. Come l’incendio boschivo, lo stalking, il furto in abitazione o con strappo
alla pedopornografia, i maltrattamenti in famiglia, i delitti di mafia.
Qui, il legislatore si preoccupa di evitare che usufruisca dell’esenzione dal carcere anche chi non avrebbe
titolo ad ottenere l’esecuzione extramuraria della pena, posto che la concessione delle misure alternative
alla detenzione non è automaticamente collegata all’entità della pena, ed è anzi preclusa in una serie di
casi, mentre il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere opera solo in ragione dell’entità della pena
che il giudice ritiene irrogabile.
Tuttavia, catalogare le fattispecie ostative risulta discutibile. Sarebbe stato meglio assegnare al giudice
cautelare il compito di stimare, con il quantum della pena irrogabile, anche la possibile futura
meritevolezza delle alternative al carcere, usando i parametri dettati per la fase esecutiva. Una
valutazione non esorbitante dai confini della cognizione cautelare.

Tornando al principio di adeguatezza, si sottolineano le modifiche introdotte con il comma 1 bis e 2 ter
dell’art 275. Entrambi si occupano dei criteri relativi alla scelta delle misure cautelari da disporre
contestualmente ad una sentenza di condanna. Dettando il primo, un criterio di carattere generale ed il
secondo, un criterio specifico per il caso di condanna di appello.
A norma del comma 1 bis art 275 (CRITERIO GENERALE) è previsto anzitutto che, insieme alla sentenza di
condanna, l’esame delle esigenze cautelari sia condotto tenendo conto anche dell’esito del procedimento,
delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che risulta taluna delle
esigenze indicate all’art 274. Si vincola, anche, il giudice a tener conto dei risultati del relativo
accertamento, nonché di ogni altro elemento sopravvenuto, quali fattori rilevanti per la valutazione delle
esigenze cautelari.
A norme del comma 2 ter art 275 (CRITERIO SPECIFICO) se la condanna è stata pronunciata in grado di appello,
è previsto che le misure cautelari personali debbano essere disposte, contestualmente alla sentenza,
quando, all’esito dell’esame condotto a norma del comma 1 bis, risultano sussistere le esigenze cautelari
previste all’art 274, e la condanna riguarda uno dei delitti previsti dall’art 380 comma 1, e questo risulta
commesso da soggetto condannato nei cinque anni precedenti per delitti della stessa indole. Ciò significa
che, in deroga alla regola generale per cui il giudice procedente applica le misure cautelari su richiesta del
PM, nel caso di sentenza pronunciata in secondo grado, il giudice, contestualmente, dovrà
obbligatoriamente, anche senza richiesta, valutare le esigenze cautelari e gli altri presupposti, ed applicare
sempre la misura cautelare personale più adeguata, ogni volta che la valutazione abbia esito positivo.
Un particolare sviluppo normativo del principio di adeguatezza è al 3° comma dell’art 275, con riferimento
alla misura della custodia in carcere con lo stabilire che la medesima può essere disposta solo quando le
altre misure coercitive o interdittive, anche se cumulative, risultino inadeguate.
Nel ricorso alla carcerazione dell’imputato (la più gravosa tra le misure cautelari) si individua una vera e
propria extrema ratio. Cioè è usata solo quando le esigenze cautelari del singolo caso non possano venire
soddisfatte da nessuna diversa forma di limitazione della libertà, anche risultante dall’applicazione
congiunta di misure coercitive o interdittive.
Questa regola subisce un’eccezione sempre al 3° comma dell’art 275, poiché detta che quando vi sono gravi
indizi di colpevolezza per i delitti elencati, la misura applicabile è sempre quella carceraria, salvo che siano
acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Questo non incide sul dovere del
giudice di provvedere solo dietro richiesta del PM, ma configura in capo all’indiziato dei suddetti delitti una
forte presunzione di periculum libertatis ed una vera propria presunzione assoluta di adeguatezza della
misura carceraria.
Ne deriva, per lo stesso giudice, un onere di motivazione negativa, circa la sussistenza in concreto di
esigenze cautelari, tutte le volte in cui ritenga di non dover disporre la misura carceraria. Questa situazione
dovrebbe creare uno scudo normativo di fronte al rischio delle minacce o dei condizionamenti cui lo stesso
giudice potrebbe essere sottoposto, soprattutto nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata.
Un meccanismo normativo del genere si colloca ai limiti della compatibilità con il disposto dell’art 13
comma 2 Cost, nel quale l’atto motivato dall’autorità giudiziaria è richiesto come garanzia ai fini
dell’applicazione delle misure restrittive della libertà personale, e non del diniego.
Quindi, nei procedimenti per i delitti previsti dall’art 275 comma 3, una volta accertata la gravità degli indizi
relativamente ad uno di tali delitti, o il giudice è in grado di escludere qualunque esigenza cautelare a carico
dell’indiziato, o è tenuto a disporre la custodia in carcere, senza poter optare per una misura meno gravosa,
nemmeno quand’anche ritenesse tale misura ultima, sufficiente a soddisfare le esigenze del caso concreto.
Questa presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere risultava applicabile ai
procedimenti relativi ad un elenco assai ampio di fattispecie. Con l’ultimo intervento operato nel 2009,
tale elenco è stato esteso, ad esempio ai delitti dell’art 51, 575 e 600bis e ter e quinques, l’art 609 bis,
quater e octies del c.p.

A seguito delle censure della Corte costituzionale, il meccanismo presuntivo di assoluta adeguatezza della
custodia in carcere era rimasto confinato in un ambito più ridotto rispetto a quello dettato dal legislatore.
Infatti, la presunzione è divenuta relativa, permettendo al giudice, laddove aveva accertato la sussistenza
degli elementi, l’applicazione di misure diverse e meno rigorose della custodia in carcere.

Sul testo, infine, è intervenuta la riforma del 2015, che ha mantenuto la regola con riguardo ai delitti di
mafia e l’ha estesa ai delitti di matrice sovversiva e terroristica. Prevedendo, anche, che quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine agli altri gravi delitti è applicata la custodia cautelare in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, nel
caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Altre applicazioni del principio di adeguatezza.


Al 4° comma dell’art 275 è sancita una sorta di presunzione di non necessità della misura carceraria, con
riferimento ad una vasta gamma di ipotesi, rispetto alle quali si delinea una previsione di divieto della
suddetta misura. In particolare, quando imputato è una donna incinta, o una madre di prole di età non
superiore a 6 anni con lei convivente, o un padre, qualora la madre sia deceduta o impossibilitata a dare
assistenza alla prole, o una persona che abbia superato i 70 anni.
Nei loro confronti, di regola, deve essere applicata una misura diversa dalla custodia in carcere, salva
l’eccezione dettata dall’eventualità che vi siano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Solo in tal caso,
si rovescia la presunzione posta a loro favore, e si dovrà disporre la misura della custodia carceraria.
Analogamente, se si tratta di imputati tossicodipendenti o alcoldipendenti sottoposti a programma
terapeutico di recupero, se vi sono i presupposti per la custodia in carcere ma non le esigenze cautelari di
eccezionale rilevanza, si dispone la misura degli arresti domiciliari, poiché l’interruzione del programma
potrebbe pregiudicare il loro recupero. Stessa misura per il tossicodipendente o alcoldipendente già
sottoposto a custodia cautelare, il quale intenda sottoporsi ad un programma terapeutico di recupero, in
tale ipotesi si prevede la sostituzione della custodia carceraria con quella degli arresti domiciliari.
Tuttavia, quando si procede per rapina aggravata o estorsione aggravata o vi sono esigenze cautelari
particolari, il provvedimento applicativo degli arresti domiciliari è subordinato alla individuazione di una
struttura residenziale per lo svolgimento del programma di recupero.

Un rigido divieto di custodia cautelare è stabilito al comma 4 bis nei riguardi degli imputati che siano
affetti da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria, o da altra malattia particolarmente grave, a
causa della quale le loro condizioni di salute risultino incompatibili con lo stato di detenzione, e siano
comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detezione carceraria. Quindi, se si verifica la
sussistenza di una delle condizioni di salute menzionate, si prevede che la custodia cautelare in carcere
non può essere disposta e né mantenuta.
Anche qui vi sono delle attenuazioni. Il comma 4 ter lascia intendere che se sussistono esigenze cautelari di
eccezionale rilevanza dovrà avere luogo la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie
penitenziarie, a meno che l’adozione di tale misura sia impossibile senza pregiudizio per la salute
dell’imputato o per quella degli altri detenuti.
Infine, pur ricorrendo le situazioni prima descritte, se il soggetto sia imputato, o sia stato sottoposto ad
altra misura cautelare, per uno dei delitti previsti all’art 380 (patrocinio o consulente infedele), il giudice
dovrà disporre la custodia in carcere, per evitare gli inconvenienti derivanti (il pericolo di reiterazione di
determinati reati) dal riconoscimento a tali soggetti di una immunità rispetto alla custodia carceraria. In
tal caso, l’imputato deve essere, sempre, condotto in un istituto dotato di un reparto attrezzato per la cura
e l’assistenza necessarie. Mentre la custodia è esclusa quando la malattia da cui è affetto l’imputato si trovi
in una fase così avanzata da non rispondere più ai trattamenti e terapie.

Si riconduce al principio di adeguatezza la disposizione dell’art 276 comma 1, con riferimento all’ipotesi di
condotte dell’imputato contrastanti con le prescrizioni inerenti alle singole misure cautelari. Nel caso di
inosservanza di tali prescrizioni, il giudice può ordinare la sostituzione della misura già disposta, o il suo
cumulo con altra più grave. Sempre previa richiesta del PM e senza previo contraddittorio, come in ogni
altra applicazione ex novo di una misura cautelare.
In sostanza, il giudice ha un potere discrezionale che si configura come una sorta di proiezione ulteriore del
potere attribuito al medesimo giudice dall’art 275, in tema di scelta della misura da adottare.
La decisione verte su sé e quale misura si debba adottare in luogo, o in aggiunta della misura originaria. I
criteri di valutazione sono quelli indicati all’art 275, insieme a quelli imperniati sulla entità, motivi e sulle
circostanze della violazione. Dunque, non ogni trasgressione alle prescrizioni imposte dovrà
necessariamente dare luogo ad un nuovo provvedimento in chiave sostitutiva o cumulativa. Ma solo le
trasgressioni tali da far ritenere che non sia più sufficiente la misura originaria a far fronte alla mutata
situazione cautelare.
Si precisa poi che, qualora la trasgressione riguardi una misura interdittiva, il giudice può disporne la
sostituzione o il cumulo anche con una misura coercitiva.

Derogatoria rispetto a tale situazione è il comma 1 ter dello stesso articolo, con riferimento al caso in cui
tale condotta riguardi le prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla
propria abitazione o da altro luogo di privata dimora. La disposizione prevedeva che, in tali ipotesi, il giudice
dovesse, una volta accertata la violazione, revocare la misura domiciliare, sostituendola con la misura
carceraria, senza ulteriori margini di discrezionalità. Ma la legge del 2015 n 47 l’ha sostituita, riproducendo
con lessico migliore il testo originario, ed aggiungendovi il “salvo che il fatto sia di lieve entità”. Così si è
favorita una valutazione caso per caso in merito alla gravità della trasgressione e non più un passaggio
automatico alla misura carceraria.

Ipotesi particolare di applicazione del principio di adeguatezza è nel comma 1 bis dell’art 276, con
riguardo all’imputato che, trovandosi nelle condizioni di salute descritte all’art 275, sia stato sottoposto ad
una misura diversa dalla custodia carceraria, in ossequio al divieto sancito da quest’ultima disposizione.
Quando tale imputato ha trasgredito le prescrizioni di tale diversa misura cautelare, il giudice può disporre
a suo carico in via sostitutiva la custodia cautelare in carcere, salva la prescrizione che il medesimo sia
condotto in un istituto dotato di un reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie.

Salvaguardia dei diritti della persona sottoposta a misura cautelare .


Tipica norma di garanzia per la posizione soggettiva dell’imputato è l’art 277, che detta una regola di
fondo relativa ai rapporti tra l’esecuzione di tali misure e la tutela dei diritti dell’imputato cui le medesime si
riferiscono. Precisamente stabilisce che le modalità esecutive delle misure cautelari devono salvaguardare
i diritti della persona ad esse sottoposta, sia pure limitando la sfera della tutela ai diritti il cui esercizio
non sia incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto.
È una norma che garantisce la personalità dell’indiziato, dal particolare punto di vista dell’esercizio dei
diritti che gli competono come persona. Rispetto a tale garanzia, l’eventuale sussistenza di una situazione di
incompatibilità sotto il profilo cautelare dovrebbe essere di stretta eccezionalità.

La disposizione è riferibile anche ai detenuti e si presenta come una concreta applicazione del principio
sancito nell’ordinamento penitenziario, e deve raccordarsi con la previsione, più specifica, dell’art 285
comma 2. Secondo la quale la persona sottoposta a custodia carceraria non può subire limitazione della
libertà, prima del trasferimento in istituto, se non per il tempo e con le modalità strettamente necessarie
alla sua traduzione.

I criteri di determinazione della pena ai fini dell’applicazione delle misure cautelari


Tra le disposizioni generali sulle misure cautelari personali trovano posto anche le regole dettate dall’art
278, per la determinazione della pena agli effetti dell’applicazione delle misure stesse.

Essa prescrive che debba aversi riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o
tentato, senza tener conto né della continuazione, né della recidiva, anche se si tratta di reiterata, né delle
circostanze del reato.
L’art 278 non fa cenno alcuni alla minore età dell’imputato. Questo si spiega perché tale circostanza rileva
nei procedimenti penali appartenenti alla competenza del tribunale per i minori, quindi ha più appropriata
disciplina nella sede della legislazione processuale penale minorile.
Sono eccezione alla regola della loro irrilevanza le circostanze ad effetto speciale. A tal proposito, ai fini
della determinazione della pena deve tenersi conto, nel caso di concorso di circostanze ad effetto speciale,
oltre che della pena stabilita dalla legge per la circostanza più grave, anche dell’ulteriore aumento
complessivo di un terzo previsto dall’art 63 per le altre omologhe aggravanti meno gravi.

Tali criteri, definiti all’art 278, sono richiamati per la determinazione della pena ai fini dell’arresto in
flagranza e del fermo. Ad oggi, si esclude l’arresto obbligatorio per il caso dei delitti di cui al comma 5 art
73, il quale configura un’autonoma fattispecie di reato per i casi di lieve entità.

Misure coercitive e interdittive.


Il titolo I del libero IV dedicato alle misure cautelari personali, dedica il capo II e III alle singole misure
coercitive e quelle interdittive.
Per entrambe le misure è generalizzato il limite oggettivo correlato alla gravità del reato, essendo stabilito
che le une e le altre possano applicarsi solo quando si procede per i delitti per i quali la legge stabilisce la
pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 3 anni.

Questa regola subisce delle eccezioni.


A parte quelle dettate per specifiche misure, in linea generale il comma 1 dell’art 280 fa salvo quanto
previsto ai commi 2 e 3 dello stesso articolo, dove la deroga si riferisce all’uso della custodia cautelare in
carcere. Può essere applicata solo per delitti consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni. L’innalzamento del tetto è stato richiesto dal legislatore della
riforma, al fine di ridurre il flusso dei soggetti in ingresso negli istituti penitenziari, per rispondere alla
necessità di contenere il fenomeno del sovraffollamento carcerario. Fenomeno stigmatizzato dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Questo limite tuttavia non opera per chi abbia trasgredito le prescrizioni inerenti ad una misura
cautelare, poiché a carico di tali imputati la misura carceraria potrà essere applicata in forza del
meccanismo sostitutivo previsto, anche con riferimento a delitti puniti con una pena detentiva superiore a
3 anni.
Una seconda eccezione è stabilita dallo stesso comma 1, facendo salvo quanto disposto all’art 391. Il
richiamo opera verso la c.d. conversione dell’arresto in flagranza o del fermo in una misura coercitiva a
norma dell’art 291, ivi compresa la custodia in carcere. Specificatamente, si dispone che tale conversione
possa avere luogo anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli art 274 e 280, quando l’arresto è eseguito
per uno dei delitti indicati all’art 381, o per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dei casi di
flagranza. Dunque, anche con riferimento a determinati delitti punibili con la reclusione non inferiore nel
massimo a 3 anni.
Quindi, in ordine alle ipotesi delittuose contemplate dall’art 381 comma 2, l’applicazione di misura
coercitiva personale potrà configurare solo a seguito di conversione dell’arresto in flagranza.
Tale clausola di salvaguardia sembrava ineccepibile nella sua sfera di operatività. Però fu tale fino
all’intervento del legislatore del 95’ che ha circoscritto l’applicabilità della custodia in carcere solo ai
delitti punibili con la reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni. A questa innovazione, però, non
seguita alcuna modifica dell’art 391. Di conseguenza, nelle ipotesi qui previste, l’applicazione della custodia
carceraria a seguito di convalida dell’arresto in flagranza continua ad essere consentita nei soli casi in cui
l’arresto sia stato eseguito a norma dell’art 381 comma 2. Mentre risulta preclusa nei casi in cui l’arresto sia
stato eseguito a norma dell’art 381 comma 1, ogni volta si tratti di delitti per i quali la legge stabilisce la
pena della reclusione in misura bensì superiore nel massimo a 3 anni, ma inferiore nel massimo a 5.
Infatti, a causa della mancata predisposizione di una clausola derogatoria analoga a quella contenuta
nell’art 391 comma 5, non può operare il limite di applicabilità sancito, per la custodia in carcere, dal 2
comma dell’art 280.
Tutto ciò ha creato nel sistema una fascia di situazioni rispetto alle quali, pur dopo la convalida dell’arresto
in flagranza, non potrà essere applicata la misura custodiale nei confronti dell’arrestato. Nonostante
l’accertamento dei presupposti cautelari idonei a legittimarne l’applicazione. Ne deriva una disparità di
disciplina irragionevole e difficilmente superabile in via interpretativa.

Non risultando ammessa nessuna ulteriore deroga, il limite dell’art 280 sarà operante per tutte le altre
misure coercitive, ivi comprese le più blande. Il che può apparire eccessivo, e rischia di dare luogo ad
inconvenienti e distorsioni sul piano della prassi.

La tipologia delle misure coercitive ed il principio di gradualità .


Le diverse misure coercitive, attraverso le quali si realizza il principio di gradualità, sono tra loro ordinate
in termini di progressiva afflittività. A cominciare da misure di contenuto meramente obbligatorio, per
finire alle vere e proprie misure detentive.
All’interno di questa ideale gerarchia si collocano le misure del divieto di espatrio, dell’obbligo di
presentazione periodica agli uffici di polizia giudiziaria e dell’allontanamento dalla casa familiare, nei casi e
secondo le modalità previste dai vari commi dell’art 282 bis, ivi comprese una particolare misura
patrimoniale a tutela delle persone conviventi con l’imputato allontanato e l’eventuale adozione del c.d.
braccialetto elettronico. Nella stessa prospettiva si colloca anche la misura del divieto di avvicinamento a
determinati luoghi, in quanto frequentati dalla persona offesa, o da suoi congiunti o conviventi. Misura
introdotta in occasione dell’intervento legislativo che ha configurato il nuovo delitto di atti persecutori
(stalking).
Le decisioni relative all’allontanamento dalla casa familiare e al divieto di avvicinamento ai luoghi
frequentati dalla persona offesa devono essere comunicate all’autorità di pubblica sicurezza competente
nonché alla persona offesa e ai servizi socioassistenziali del territorio. Il responsabile del servizio deve
comunicare agli organi del procedimento cautelare l’esito positivo del programma di prevenzione della
violazione cui l’imputato si sia sottoposto, al fine di valutare la sussistenza delle condizioni per la
sostituzione della misura ai sensi dell’art 299.
Con la nuova disciplina dell’ordine di protezione europeo, il comma 1 bis prevede che la persona offesa,
con la comunicazione del provvedimento, sia informata della facoltà di richiedere al giudice della cautela
l’adozione di una decisione che estenda gli effetti della misura protettiva al territorio di altro SM in cui la
persona protetta risieda, soggiorni o dichiari di voler risiedere o soggiornare.

A queste misure si aggiungono quelle del divieto e dell’obbligo di dimora (art283).


A proposito dell’obbligo di dimora si sottolinea l’attribuzione al giudice del potere di imporre all’imputato
sia la prescrizione tradizionale di non allontanarsi, senza la previa autorizzazione, dal territorio del comune
di dimora abituale, o comune viciniore, o da una frazione di tali comuni, sia di non allontanarsi
dall’abitazione in alcune ore del giorno, senza pregiudizio per le normali esigenze di lavoro. Prescrizione
analoga, anche se circoscritta entro limiti temporali piuttosto rigidi, a quella degli arresti domiciliari,
riguardo alla quale l’obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione o dai luoghi consentiti può essere
attenuata solo dalla autorizzazione del giudice ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto,
per il tempo strettamente necessario a provvedere ad indispensabili esigenze di vita, o per esercitare
un’attività lavorativa, nel caso di assoluta indigenza.
Anche qui, con la duplice possibilità offerta al giudice di graduare diversamente la sottoposizione
dell’imputato all’obbligo di non allontanamento dalla propria abitazione, ricorrendo all’obbligo di dimora o
agli arresti domiciliari, si coglie una ulteriore conferma dell’ampia gamma di modalità utilizzabili dal
giudice stesso per adeguare alla concreta situazione cautelare i propri interventi coercitivi di natura
extracarceraria.
Non si tratterà di una scelta senza conseguenze per l’imputato, a seconda che abbia l’obbligo di non
allontanarsi dalla propria abitazione come prescrizione accessoria dell’obbligo di dimora, o come
prescrizione coessenziale agli arresti domiciliari. Poiché infatti l’imputato agli arresti domiciliari si considera
in stato di custodia cautelare, solo nell’ultimo caso non anche nel primo l’imputato costretto a rimanere
nella propria abitazione potrà usufruire dei vantaggi derivanti dalla suddetta equiparazione. In particolare,
con riferimento alla disciplina dei termini massimi di custodia, nonché al meccanismo di scomputo della
durata della misura domiciliare dalla durata della pena.

In ogni caso, nell’attuale codice gli arresti domiciliari vengono configurati quale autonoma misura di
coercizione domiciliare alternativa alla custodia, anziché quale modalità esecutiva extracarceraria della
custodia cautelare, come nel sistema previgente. Questo non è privo di riflessi significativi, anche per
quanto concerne la posizione della persona sottoposta all’una o all’altra misura. Come la previsione di
alcuni divieti o adempimenti tipicamente riferiti alla misura della custodia carceraria, e non estensibili
anche a quella degli arresti domiciliari. Infatti, in alcune ipotesi si prescrive l’applicazione della misura degli
arresti domiciliari in luogo della custodia carceraria, nei confronti di imputati rispetto ai quali quest’ultima
misura non risulti consentita dalla legge. Questo accade per gli imputati affetti da malattie del tipo di quelle
menzionate nel precedente comma 4 bis.

Un limite soggettivo agli arresti domiciliari è espresso al comma 5bis dell’art 284, in termini di divieto
degli imputati già condannati per il reato di evasione nei 5 anni precedenti al fatto per cui si procede. Non
opera qualora il giudice valuti in senso positivo sia in ordine alla lieve entità del fatto, sia in ordine alla
idoneità della misura a soddisfare le esigenze cautelari in concreto sussistenti.

È articolata la disciplina all’art 275bis, con riferimento alla subordinazione della misura degli arresti
domiciliari a particolari procedure di controllo da attuarsi tramite mezzi elettronici o altri strumenti tecnici,
alludendo al congegno del braccialetto elettronico. Precisamente, il giudice dispone la misura degli arresti
domiciliari anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere, prescrivendo le procedure di controllo
elettronico, salvo che le ritenga non necessarie per la natura e il grado delle esigenze cautelari da
soddisfare nel caso concreto, e sempre che vi sia la disponibilità della strumentazione da parte della polizia
giudiziaria. La misura carceraria viene disposta quando l’imputato nega il consenso a tali mezzi e
strumenti. Quindi il consenso dell’imputato è condizione imprescindibile per poter fruire degli arresti
domiciliari in luogo della custodia cautelare in carcere. La misura degli arresti domiciliari con controllo
elettronico è un’alternativa più favorevole per l’imputato rispetto alla eventualità della misura carceraria,
quindi viene usata secondo il criterio del minore sacrificio per la libertà personale.
Se il giudice, investito della richiesta di adottare la misura degli arresti domiciliari controllati, accerta che
non è disponibile il dispositivo elettronico, non potrà automaticamente disporre la misura cautelare in
carcere, ma dovrà valutare l’idoneità, l’adeguatezza e proporzionalità di ogni misura in relazione alle
esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto.

Le forme della custodia cautelare.


Si abbandona la formula custodia provvisoria per adottare quella di custodia cautelare in carcere. Ma dal
punto di vista dei contenuti tale misura non presenta grandi novità. Si tratta dello stesso istituto che il
codice del 30’ aveva definito come custodia preventiva e che nella Costituzione è, tutt’ora, chiamato
carcerazione preventiva.

Per la tutela dei diritti dell’imputato sottoposto a misure cautelari vi è una norma di garanzia,
specificamente, dettata per ridurre al minimo il sacrificio della libertà dell’imputato in custodia prima del
trasferimento nel carcere. Quando poi si tratta di imputato in stato di infermità di mente, che incide sulla
sua capacità di intendere e di volere, si prevede che il giudice possa disporre la custodia cautelare non
carceraria tramite ricovero provvisorio in idonea struttura, adottando ogni accorgimento necessario per
prevenirne il pericolo di fuga (art 286). Questa misura potrebbe soddisfare le esigenze sottostanti
all’istituto dell’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza, anche se è noto che l’operatività di tale
istituto copre un’area di ipotesi più ampia di quella riferibile al solo imputato di fermo di mente.
Quindi il codice ha mantenuto un’autonoma disciplina per l’applicazione provvisoria di misure di
sicurezza, almeno finché l’istituto all’art 286 non venga ampliato per ricomprendervi tutte le situazioni di
imputati socialmente pericolosi.

L’art 285bis, riferendosi alla situazione descritta dall’art 275 comma 4, consente al giudice di disporre la
custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, sempre che le esigenze cautelari
accertate nello specifico caso lo consentano.

Per gli imputati che si trovano in gravi condizioni di salute, art 275 comma 4 bis, il 3° comma dell’art
286bis stabilisce che il giudice può disporne il ricovero provvisorio in adeguata struttura del servizio
sanitario nazionale per il tempo necessario, adottando allo stesso tempo, i provvedimenti idonei a evitare il
pericolo di fuga se necessario. Dopo di che, il giudice provvederà o con custodia in carcere o con gli arresti
domiciliari o pronunciando uno dei provvedimenti all’art 299 (revoca e sostituzione delle misure).
Ai sensi dell’art 657, per tutte le misure di custodia cautelare, carcere o luogo di cura, vale il principio della
computabilità per una sola volta della durata delle stesse ai fini della determinazione della pena da
eseguire. Principio valido anche per la custodia cautelare subita all’estero a seguito di una domanda di
estradizione, o nel caso di rinnovamento del giudizio.

Infine, determinate autorità pubbliche, ovvero l’autorità ecclesiastica, devono essere informate
dell’eventuale esercizio dell’azione penale contro uno dei soggetti indicati nelle disposizioni di attuazione.
Informazione che deve essere inviata anche nel caso di custodia cautelare, anche prima dell’esercizio
dell’azione stessa.

La tipologia delle misure interdittive.


Anche le misure interdittive, come quelle cautelari, sono sistematicamente raccolte in un unico contesto.
Qui, il limite di sbarramento correlato ai procedimenti per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena
dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 3 anni, subisce svariate deroghe, in rapporto a
quanto previsto da disposizioni particolari. Cioè dalle singole disposizioni concernenti le diverse misure,
relativamente a ciascuna delle quali sono sancite specifiche ipotesi derogatorie all’osservanza di tale limite,
con riferimento a determinate figure delittuose, cui le misure stesse sono state riconosciute collegate da
una concreta funzionalità cautelare (art 287).

Le misure interdittive disciplinate sono la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, la


sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, non applicabile agli uffici elettivi ricoperti per
diretta investitura popolare, infine il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o
imprenditoriali, o determinati uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese – 3 ipotesi.
Queste misure riecheggiano da vicino il modello di alcune delle pene accessorie, delle quali era ammessa
la provvisoria applicazione, fino a sostituire l’istituto disciplinato nel vecchio sistema ed oggi abrogato.

I criteri di scelta delle misure interdittive sono i principi di adeguatezza e proporzionalità, enunciati in via
generale nell’art 275, accompagnati dalla possibilità di applicare solo parzialmente la misura prescelta,
secondo la logica del sacrificio minimo. Infatti, la misura può essere limitata esclusivamente a una parte
della potestà, o a un settore o una parte della attività inerente all’ufficio o alla professione interdetti.

Ai sensi dell’art 293 comma 4°, ogni ordinanza che applichi una misura interdittiva deve essere trasmessa
in copia all’organo eventualmente competente a disporre l’interdizione in via ordinaria.

Profili formali dei provvedimenti cautelari e procedimento applicativo .


All’art 291 si ripartiscono i ruoli tra il PM, come organo richiedente, ed il Giudice, come organo decidente
nel settore delle misure cautelari personali.

Precisamente, la competenza a disporre tali misure appartiene al giudice , il quale nel momento applicativo
provvede sempre su richiesta del PM. Questo dovrà fornire al giudice gli elementi su cui si fonda la
richiesta, come i verbali delle operazioni di intercettazione, limitatamente alle conversazioni rilevanti, e
quando è necessario, la riproduzione dei soli brani essenziali dei colloqui captati. Dovrà allegare tutti gli
altri elementi a favore dell’imputato, le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate. Previsione
che sottolinea l’esigenza che il giudice non si veda sottratto alcun elemento utile per formarsi un
convincimento completo sul tema della richiesta presentata dal PM.
Al 2° comma si detta una disciplina nel caso di ipotesi in cui il giudice destinatario della richiesta si
riconosca incompetente. Qui, ove quel giudice accerti l’urgenza di provvedere sotto il profilo cautelare, egli
stesso dovrà disporre la misura richiesta, salva la caducazione della misura applicata, entro 20 giorni dalla
trasmissione degli atti al giudice competente, questi non la confermi con proprio autonomo provvedimento.
Inoltre, la richiesta di misure cautelari personali ad opera del magistrato del PM deve essere accompagnata
da assenso scritto del procuratore della Repubblica, o altro magistrato da lui delegato. Tuttavia, tale
assenso secondo la Corte di cassazione non è condizione di ammissibilità della richiesta, poiché la sua
eventuale mancanza non incide sull’ordinanza cautelare del giudice.

La richiesta del PM, necessaria per attivare il potere cautelare del giudice, non è vincolante per la tipologia
della misura oggetto della richiesta. Il giudice può decidere per una misura cautelare meno grave di quella
richiesta dall’organo dell’accusa, ma non una più grave, per la quale mancherebbe qualunque iniziativa del
PM. Questo è sintomo di voler rafforzare la posizione del giudice, quale organo decisorio rispetto al PM.
Infine, secondo il comma 2 bis, il PM può chiedere al giudice, nell’interesse della persona offesa,
l’applicazione di una delle misure patrimoniali provvisorie. Così si amplia l’area di applicazione di tali
misure, in chiave accessoria rispetto ad ogni altra misura cautelare applicata in via principale, con l’intento
di creare una tutela anticipata a livello patrimoniale.

Il provvedimento cautelare è un atto a sorpresa, quindi il procedimento di adozione non prevede il


contraddittorio con l’imputato. Unica eccezione è la sospensione dall’esercizio di un pubblico servizio o
ufficio, per la quali si prescrive l’interrogatorio dell’indagato di un delitto contro la Pubblica
Amministrazione. Qui l’obiettivo è di assicurare anticipatamente che la sospensione non rechi pregiudizio
alla continuità della funzione o del servizio pubblico, secondo quanto espresso dalla Corte costituzionale.
Ma se così è, il preventivo interrogatorio si pone allo stesso modo quando il Pubblico ufficiale o l’incaricato
di un pubblico servizio è destinatario di una richiesta di misura coercitiva che inibisca lo svolgimento della
funzione o del servizio. Questo rende poco giustificata la differente modulazione del procedimento.

Il provvedimento del giudice, secondo l’art 292, deve rispettare degli aspetti formali, tra cui la sua
motivazione. Il requisito più importante poiché vuole responsabilizzare al massimo il giudice
nell’esposizione delle ragioni che lo hanno indotto ad adottare la misura. Una esposizione modellata in
modo tale da ricoprire l’intera gamma dei presupposti per l’applicazione delle misure cautelari, sia sul
profilo del fumus commissi delicti che sul profilo del periculum libertatis.
Riguardo a tale ultimo profilo, si prescrive anche la predeterminazione della durata della misura, quando la
stessa è deposta in vista dell’esigenza cautelare di garantire l’acquisizione o genuinità della prova.
Tale prescrizione è funzionale alla disciplina della estinzione delle misure disposte per esigenze probatorio e
della loro eventuale rinnovazione, oltreché al peculiare regime della durata della custodia cautelare
disposta per le medesime esigenze.
Il modello di motivazione non si limita a ciò. A seguito della legge del 1995 è stata inserita una nuova
lettera c-bis, con la quale si prescrivono altri due adempimenti del giudice.
L’esposizione delle ragioni per la quali siano stati ritenuti irrilevanti gli elementi forniti dalla difesa.
L’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali si sia ritenuto che le esigenze cautelari del caso
non possono essere soddisfatte con altre misure che quella carceraria.
Questa ulteriore specificazione potrebbe divenire pedante per il giudice, costretto a soffermarsi uno per
uno sui diversi elementi prospettati dalla difesa, allo scopo di attestarne la non rilevanza.
Nel rapportare le esigenze cautelari riscontrate in concreto alla specifica idoneità della misura applicata, il
giudice è fuori discussione che debba sempre dar conto della osservanza dei criteri di scelta, con particolare
riguardo ai canoni della adeguatezza e proporzionalità.
Inoltre, nel motivare l’ordinanza il giudice deve esporre gli elementi indicati nella disposizione, ma ne deve
dare anche una sua autonoma valutazione. Non è chiaro se tale novità sarà in grado di indurre ad un
maggior rigore nel motivare i provvedimenti, o piuttosto porterà allo scaltro accorgimento lessicale in grado
di salvare le apparenze.
Tra gli obblighi di motivazione vi rientra anche quello relativo alla scelta della misura carceraria. Deve
indicare quali sono i motivi per cui ritiene inidonea la misura degli arresti domiciliari con le procedure di
controllo.
Tutti i requisiti stabili all’art 292 sono stabiliti a pena di nullità. E questa, rilevabile anche d’ufficio, in
assenza di altra specifica disposizione deve ritenersi assoggettata alle regole generali di deducibilità e
sanatoria. L’eventuale verificarsi di una sanatoria non preclude il successivo meccanismo di revoca della
misura applicata, se viene accertata la mancanza delle condizioni di applicabilità o delle esigenze cautelari
prescritte a fondamento della misura stessa.
Ulteriore nullità è al comma 2 ter dello stesso articolo. Qualora l’ordinanza non contenga valutazione degli
elementi a carico e a favore dell’imputato. È una previsione che non aggiunge nulla sul piano degli obblighi
imposti al giudice. Mentre è singola che il trattamento sanzionatorio si esprima tramite la comminatoria di
una nullità per la quale non è sancita la rilevabilità d’ufficio.

Tale disciplina sulla nullità deve essere necessariamente coordinata con la disciplina del procedimento di
riesame. Precisamente l’art 309 comma 6 e comma 9. Previsioni palesemente dirette ad affrancare il
tribunale da qualunque condizionamento nella declaratoria delle nullità delle ordinanze sottoposte a
riesame.

Gli adempimenti esecutivi e le garanzie difensive .


Tra gli adempimenti diretti a dare esecuzione alle ordinanze recanti una misura cautelare emergono (art
293) quelli più strettamente funzionali a consentire l’esercizio della difesa. Sia sotto il profilo della difesa
personale che tecnica.

La direttiva europea del Parlamento europeo e del Consiglio sull’informazione nei procedimenti penali ha
modificato il comma 1° dell’art 293.
Quindi l’ufficiale o l’agente, incaricato di eseguire l’ordinanza che ha disposto la custodia cautelare, ha
l’obbligo di consegnare all’imputato copia del provvedimento ed una comunicazione scritta, chiara e
precisa, con cui lo informa dei suoi diritti difensivi. E cioè della facoltà di nominare un difensore di fiducia e
di essere ammesso al patrocinio statale. Della facoltà di ottenere informazioni in merito all’accusa. Il diritto
all’interprete e alla traduzione di atti fondamentali. Il diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere. Il
diritto di accedere agli atti sui quali si fonda il provvedimento. Il diritto di informare le autorità consolari e di
dare avviso ai familiari. Il diritto di accedere all’assistenza medica di urgenza. Il diritto di essere condotto
davanti all’autorità giudiziaria non oltre 5 giorni dall’inizio dell’esecuzione (custodia cautelare in carcere), o
non oltre i 10 giorni (se altra misura). Il diritto di comparire dinanzi al giudice per rendere l’interrogatorio,
impugnare l’ordinanza che dispone la misura cautelare e di chiederne la sostituzione o la revoca.
Poi, qualora la comunicazione scritta non sia prontamente disponibile in una lingua comprensibile
all’imputato, le informazioni sono fornite oralmente, salvo l’obbligo di dare comunque, senza ritardo,
comunicazione scritta all’imputato (1 bis).
L’incaricato dell’esecuzione della misura deve informare immediatamente il difensore e redigere il
verbale di tutte le operazioni compiute, menzionando in particolare la consegna della comunicazione
scritta o l’informazione orale fornita (1ter).

Il 3° comma prevede che tutte le suddette ordinanze, una volta notificate o eseguite, devono essere
depositate in cancelleria. Il deposito deve essere notificato tramite avviso al difensore dell’imputato.
Inoltre, insieme all’ordinanza cautelare deve essere depositata anche la richiesta del PM, e con essa gli
atti presentati da quest’ultimo a norma del 1° comma. Tutto ciò amplia l’area di potenziale esplicazione
dell’attività difensiva a tutela dell’imputato sottoposto alla misura cautelare, grazie alla maggiore
consapevolezza consentita al difensore. Questo anche grazie alla possibilità del difensore di estrarre copia
dell’ordinanza applicativa della misura cautelare e della richiesta del PM e degli atti presentati a corredo.
Grazie anche al diritto di ottenere copia delle registrazioni di conversazioni intercettate, alla base del
provvedimento cautelare, sebbene non depositate insieme alla relativa richiesta.
Le ordinanze applicative di custodia cautelare vengono eseguite con la consegna all’imputato di copia del
provvedimento e con il suo immediato trasferimento in un istituto di custodia a disposizione dell’autorità
giudiziaria. Le ordinanze, invece, relative alle misure cautelari non custodiali sono notificate all’imputato
secondo i modi ordinari.
Per le prime, l’organo di polizia incaricato dell’esecuzione deve avvertire l’imputato della facoltà di
nominare un difensore di fiducia, così da informare immediatamente il difensore di fiducia o quello
d’ufficio.
Qualora il destinatario della misura non venga rintracciato, si redige il verbale di vane ricerche da parte del
competente organo di polizia, e la successiva dichiarazione dello stato di latitanza dell’imputato, ad opera
del giudice che abbia ritenuto esaurienti tali ricerche.

Per la disciplina della latitanza (volontaria sottrazione), a parte gli adempimenti collegati all’esercizio
dell’attività difensiva ad opera del difensore designato d’ufficio, l’art 296 enuncia la regola che circoscrive
l’operatività dei suoi effetti al solo procedimento penale nel quale essa è stata dichiarata.
La previsione di maggior risalto è quella che autorizza il giudice o il PM ad utilizzare lo strumento della
intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche, nonché di altre forme di telecomunicazione,
anche allo scopo di agevolare le ricerche del latitante.
Tale finalità assume rilievo qualificante sotto il profilo dei contenuti del provvedimento autorizzativo delle
intercettazioni, ma ciò non esclude che il medesimo provvedimento debba rispettare i termini di durata
delle operazioni.
Sempre per agevolare la ricerca di tali latitanti si è stabilito che si possa far uso delle intercettazioni di
comunicazioni tra persone presenti, se i latitanti sono relazionati ad uno dei delitti di criminalità mafiosa, o
ad uno dei gravi delitti di natura terroristica o eversiva. Allo stesso scopo si è stabilito che possa procedersi,
anche ad iniziativa di ufficiali di polizia giudiziaria, alla perquisizione locale di interi edifici o di blocchi di
edifici, qualora vi sia fondato motivo di ritenere che si siano rifugiati i latitanti ricercati, sempre relazionati
ad un delitto di criminalità mafiosa o ad un delitto commesso con finalità di terrorismo.

La disciplina speciale relativa alle operazioni sotto copertura prevede che, l’autorità giudiziaria può
ritardare l’esecuzione dei provvedimenti applicativi di una misura cautelare, con decreto motivato, quando
è necessario per acquisire rilevanti elementi probatori, o per l’individuazione o la cattura dei responsabili
dei delitti indicati, tra i quali vi rientrano i più gravi delitti tipici di criminalità organizzata, ivi compresi quelli
concernenti sostanze stupefacenti.

L’art 42 delle disposizioni penitenziarie dispone sugli aspetti più operativi connessi alla esecuzione di una
misura di custodia, e alla conseguente traduzione di persone in stato detentivo. Prevede che si adotti ogni
cautela necessaria per proteggere tali persone dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, per
evitare inutili disagi. Sempre per tutelare la dignità personale delle persone sottoposte a misure restrittive,
si prevede l’uso obbligatorio delle manette solo quando lo richiedano la pericolosità del soggetto, il pericolo
di fuga o circostanze di ambiente che rendono difficile la traduzione. In ogni diverso caso l’uso delle
manette o di altro mezzo di coercizione fisica è vietato.

Appartiene alla serie di adempimenti necessariamente successivi all’esecuzione della misura della custodia
cautelare in carcere anche l’istituto dell’interrogatorio dell’indiziato. Interrogatorio affidato, fino
all’apertura del dibattimento, al giudice che ha deciso sull’applicazione della misura cautelare.
L’effettuazione è prescritta immediatamente e comunque non oltre i 5 giorni dall’inizio dell’esecuzione
della custodia, a meno che l’indiziato sia assolutamente impedito. Nel qual caso il giudice dovrà darne atto
con decreto motivato, ed il termine decorrerà di nuovo dalla notizia della cessazione dell’impedimento.
Un analogo interrogatorio di garanzia è previsto nei confronti di qualunque persona sottoposta a misura
cautelare, coercitiva o interdittiva, diversa dalla custodia in carcere. Tale adempimento deve avvenire non
oltre 10 giorni dall’esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione. L’eventuale inosservanza di tale
termine produce la perdita di efficacia della corrispondente misura.
L’interrogatorio della persona in stato di custodia .
Per le modalità di compimento dell’interrogatorio ex art 294 da parte del giudice (lo stesso che abbia
deciso in ordine al provvedimento restrittivo) si prevede che l’atto dovrà svolgersi secondo le regole
generali dettate in materia. Ad esse deve aggiungersi la obbligatorietà della documentazione integrale
dell’interrogatorio stesso, tramite strumenti di riproduzione fonografica o audiovisiva. Una precisazione
stabilita a pena di inutilizzabilità probatoria dei risultati dell’atto, con la conseguenza che l’avvenuto
interrogatorio, se idoneo per il resto, dovrà ritenersi idoneo ad integrare tutte quelle fattispecie che lo
configurano come presupposto necessario per il prodursi di determinati effetti. Per esempio, per evitare la
caducazione della misura custodiale.

L’interrogatorio verrà condotto dal giudice, si prevede una facoltà di intervento del PM ed un correlativo
obbligo del difensore, ai quali verrà dato tempestivo avviso. Disposizione che potrà, in particolari ipotesi,
far sorgere qualche problema riguardo alla concreta presenza del difensore di fiducia o d’ufficio. Data la
doverosa osservanza del termine di 5 giorni imposto al giudice per l’espletamento dell’interrogatorio nei
confronti della persona detenuta. Un termine che corrisponde a quello per il quale il giudice per le indagini
preliminari, dietro richiesta del PM, può dilazionare l’esercizio del diritto dell’indiziato di conferire con il
proprio difensore. Questo permette al giudice di esercitare un potere dilatorio, se vi sono le specifiche ed
eccezionali ragioni di cautela, in maniera tale da consentirgli di interrogare l’indiziato assoggettato a
custodia prima dell’eventuale colloquio con il difensore.

Sul contenuto di garanzia dell’interrogatorio dispone l’art 294 comma 3, secondo la quale il giudice deve
valutare se permangono le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari richieste per l’assoggettamento
a custodia cautelare. Questo permette di porre le premesse per una nuova valutazione degli stessi, alla luce
degli elementi che gli siano stati forniti dall’indiziato in sede di interrogatorio. Questo conferma la natura
difensiva dell’atto, che vuole consentire all’indiziato di fare presenti condizioni a suo favore, così da
obbligare il giudice ad un controllo successivo sulla tenuta delle valutazioni operate ex ante, usando gli
argomenti emersi in quella sede. Infatti, il giudice sulla base dei risultati di tale controllo può provvedere
anche d’ufficio alla revoca o sostituzione della misura disposta.
Il carattere difensivo dell’atto è alla base dell’indirizzo giurisprudenziale che ritiene tale interrogatorio
viziato da nullità, qualora non sia stato preceduto dal deposito nella cancelleria del giudice dell’ordinanza
cautelare e degli altri atti ivi indicati.

Questo voler accentuare l’interrogatorio come strumento di difesa spiega anche la previsione del
meccanismo di caducazione disciplinato nell’art 302, stabilendo che la custodia cautelare disposta fino
all’apertura del dibattimento perde immediatamente efficacia ogni volta che il giudice non procede
all’interrogatorio entro il termine previsto dall’art 294. La stessa fattispecie estintiva vale nel caso di misure
coercitive o interdittive, ovviamente in rapporto al termine di 10 giorni ivi previsto.
Lo stesso articolo 302 precisa poi che, una volta avvenuta la liberazione dell’indiziato, lo stesso potrà essere
di nuovo sottoposto a custodia cautelare, su richiesta del PM, se ne ricorrono i presupposti, solo dopo che
sia stato interrogato in stato di libertà. In sostanza, il legislatore mostra di interpretare la prevista
caducazione della custodia cautelare per omesso interrogatorio come istituto funzionale a garantire
all’indiziato il diritto ad essere interrogato da libero, ove non lo sia stato nel termine stabilito ex lege
dall’inizio della custodia.
Non è necessario il previo interrogatorio in caso di nuova emissione di misura cautelare, a seguito di
dichiarazione di inefficacia di quella precedente, per il mancato rispetto dei termini nel procedimento di
riesame. Qui la ragione è diversa, l’imputato ha già avuto l’occasione di essere interrogato nel corso della
procedura esecutiva del primo provvedimento.
Il testo dell’art 294 è stato modificato a seguito della legge del 1995, intervenendo sui rapporti tra
l’interrogatorio di competenza del giudice e l’interrogatorio cui la persona in custodia può essere
assoggettata anche ad opera del PM.
Mentre, in passato tale ultimo interrogatorio poteva precedere senza difficoltà l’interrogatorio del giudice.
Ad oggi, l’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare da parte del PM non può precedere
l’interrogatorio del giudice.
Tale norma non sembra avere una giustificazione razionale a livello garantistico. Avendo i due
interrogatori due finalità diverse che difficilmente collidono. La ratio della norma sembra essere fondata
sull’atteggiamento legislativo di diffidenza verso l’attività inquirente dell’organo dell’accusa.

Poiché è innegabile che il PM possa avere necessità di interrogare al più presto la persona in custodia,
l’art 294 prevede che, ove lo stesso PM ne faccia istanza nel presentare la richiesta di custodia cautelare, il
giudice è tenuto ad effettuare l’interrogatorio entro il termine di 48 ore dall’inizio della custodia. Per tale
via, il legislatore ha compensato la rigidezza del divieto di anticipazione dell’interrogatorio del PM,
attenuando i possibili inconvenienti ai fini dello sviluppo delle indagini.
Non è impossibile immaginare che il PM, in tali eventualità, preferisca ricorrere allo strumento del fermo di
indiziati ex art 384, con cui il PM può essere legittimato ad interrogare l’indiziato prima che possa essere
interrogato dal giudice nell’ambito del successivo procedimento di convalida.
Nel caso in cui il giudice non riesca ad effettuare tale interrogatorio entro 48 ore, così come richiestogli dal
PM, è da escludere che ne consegua la caducazione della custodia cautelare. Tale conseguenza è
riconducibile solo per l’inosservanza del termine ordinario di 5 giorni.

Il computo dei termini di durata delle misure.


Sebbene funzionale ad una causa tipica di estinzione delle misure cautelari personali, la normativa
concernente il computo di tali termini si colloca nel nuovo sistema, con l’art 297, tra le disposizioni di
esecuzione delle varie misure. Sia perché al suo interno vi sono le regole sulla decorrenza degli effetti delle
misure, sia perché al suo interno trova posto anche la disciplina dei casi di concorrenza tra diversi
provvedimenti cautelari relativi allo stesso fatto, o dei casi di cumulo tra i provvedimenti definitivi e quelli
cautelari.

I primi due commi dell’art 297 esprimono il principio generale secondo cui gli effetti della custodia
cautelare decorrono dal momento della cattura, dell’arresto o del fermo, mentre gli effetti delle altre
misure decorrono dal momento della notifica della relativa ordinanza.
Il 3° comma disciplina l’ipotesi della pluralità di provvedimenti applicativi della stessa misura a carico dello
stesso imputato.
Cominciando dall’ipotesi più tradizionale, cioè che i provvedimenti riguardino lo stesso fatto, si precisa che
i termini decorrono dal giorno in cui è stato eseguito o notificato il primo provvedimento, ma sono
commisurati in rapporto all’imputazione più grave tra quelle contestate con le diverse ordinanze. Questo è
singolare, perché non tiene conto della eventualità che l’originaria imputazione sia stata modificata in
melius, con possibili ripercussioni sui termini di durata della custodia e delle altre misure cautelari.
Il 3° comma dell’art 297 ha subito radicali modifiche. In particolare, la regola della simultanea decorrenza
dei termini di durata delle distinte misure cautelari applicate tramite successive ordinanze, a partire dal
giorno dell’esecuzione o della notificazione del primo provvedimento, è stata estesa anche all’ipotesi in cui
tali ordinanze facciano riferimento a fatti diversi, sotto una duplice condizione: quando tra tali fatti vi sono
rapporti di connessione e purché si tratti di fatti commessi anteriormente all’emissione della prima
ordinanza.

L’unica deroga alla regola è nell’ultima parte del 3° comma, secondo la quale tale regola non si applica alle
ordinanze emesse per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il
quale sussiste connessione. Quindi, l’operatività della regola in questione si basa su fatti diversi,
contestati con le ordinanze ulteriori, applicative della stessa misura nei confronti dello stesso imputato,
desumibili dagli atti nel momento del rinvio a giudizio per il fatto contestato con l’originaria ordinanza
cautelare. A prescindere dalla circostanza che tali fatti non fossero ancora noti all’epoca dell’adozione di
tale ordinanza, o che all’epoca non fossero stati acquisiti tutti gli elementi necessari per l’applicazione della
misura, poi solo in seguito applicata. In tutti tali casi, opera automaticamente la regola di retrodatazione
fittizia del giorno di computo dei termini di durata delle misure disposte con provvedimenti successivi al
primo.

Alla base del congegno di computo dettato all’art 297 comma 3, vi è il proposito di contrastare una certa
deplorevole prassi adottata in chiave elusiva dell’ordinaria disciplina dei termini delle misure cautelari. Cioè
quella che dilaziona nel tempo l’adozione di misure di custodia cautelare riferite a distinti fatti criminosi loro
connessi, tramite un differimento a cascata in epoche successive dei relativi provvedimenti, così da far
decorrere da momenti diversi i corrispondenti termini di durata. In particolare, anche quando tali fatti
fossero già noti.
Una prassi contrastata con una reazione legislativa fuori misura, che ha correlato la regola di
retrodatazione alla mera successione cronologica delle diverse ordinanze cautelari, sulla base di una sorta
di presunzione assoluta di colpevole inerzia o artificioso ritardo del PM nel richiedere la pronuncia delle
ordinanze successiva alla prima. Ma, per tale via nasce una disciplina paradossale nel suo rigido
automatismo, che finisce per imporre lo stesso regime di decorrenza simultanea dei termini di custodia
relativi alle misure applicate con le distinte ordinanze scaglionate nel tempo, anche con riferimento a
situazioni tra loro differenziate. Ad esempio, alle situazioni in cui il PM abbia indebitamente ritardato la
propria iniziativa vengono equiparate anche le situazioni in cui non si registri alcun ritardo imputabile al
PM. E questa equiparazione è priva di razionale giustificazione.

Qualora la pluralità di ordinanze emesse nei confronti dello stesso imputato riguardino fatti diversi,
l’eventuale passaggio in giudicato della condanna per il fatto considerato nel primo provvedimento
cautelare, non fa venir meno l’operatività della regola di retrodatazione del termine iniziale della misura
disposta con la successiva ordinanza cautelare, non potendo il giudicato produrre l’effetto di azzerare il
tempo della custodia già sofferta.

Per l’ipotesi del cumulo tra un provvedimento cautelare ed uno di custodia per altro reato, o di
detenzione o di internamento a titolo definitivo, occorre fare riferimento al disposto dell’ultimo comma
dell’art 297. Anche qui, gli effetti della misura cautelare decorrono dal giorno della notifica della relativa
ordinanza, ove si tratti di misura compatibile con lo stato di detenzione o di internamento, mentre nel caso
contrario decorrono dalla cessazione di tale stato. La stessa disposizione si occupa di stabilire in via assoluta
che la custodia cautelare, agli effetti del computo dei termini massimi, si considera compatibile con lo stato
di detenzione per esecuzione di pena o di internamento per misura di sicurezza. Si ritiene lo stesso nel
caso di cumulo tra misura cautelare detentiva ed un provvedimento di custodia già in atto a carico della
stessa persona per un diverso fatto di reato.

In analogo ordine, l’art 298 prevede che l’esecuzione di un ordine di carcerazione nei confronti di un
imputato, sottoposto ad una misura cautelare personale per un diverso reato, determini la sospensione
dell’esecuzione di tale ultima misura personale, a meno che gli effetti di tale misura siano compatibili con
l’espiazione della pena.

I provvedimenti di revoca e sostituzione.


La disciplina dettata all’art 299 vuole riunire in un solo contesto normativo le diverse ipotesi di revoca e
sostituzione delle misure riconducibili alla fenomenologia dei presupposti di fatto e di diritto delle stesse.
Questa collocazione appare in linea con due ragioni. Con un apprezzabile istanza di uniformità e di
semplificazione normativa ma soprattutto con il proposito di una organica costruzione sistematica delle
vicende modificative ed estintive delle misure in questione, raccordata al quadro delle disposizioni generali
concernenti l’an ed il quomodo di esercizio, da parte del giudice, del potere di disporre le misure medesime.

In tale quadro si inserisce la revoca come fattispecie estintiva delle misure cautelari personali, destinata
ad operare tutte le volte in cui risultino carenti le condizioni di applicabilità previste dall’art 273, o da altre
specifiche disposizioni, o le esigenze cautelari previste dall’art 274. È un’applicazione contraria delle regole
di discrezionalità vincolata cui si deve attenere il giudice nel momento applicativo delle suddette misure. Lo
stesso vale per le ipotesi in cui si accerti che le esigenze cautelari sono attenuate, al punto da ritenere la
misura applicata eccessivamente vessatoria, o la misura non più proporzionale all’entità del fatto o della
sanzione irrogabile. In tali casi, il giudice deve sostituire la misura originaria con altre correlativamente
meno grave, o disporne l’applicazione con modalità meno gravose, salvo il limite dell’art 275 comma 3.
Quando si tratti della sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari, una particolare
disciplina consente all’imputato di raggiungere con i propri mezzi il luogo di esecuzione della misura, a
meno che non ne disponga l’accompagnamento qualora ritenga sussistenti esigenze processuali o altre
esigenze di sicurezza.

Il giudice, durante le indagini preliminari, deve provvedere alla revoca o sostituzione delle misure, se vi è
richiesta del PM o dell’imputato, ed entro 5 giorni dal deposito della richiesta. Tuttavia, anche nel corso
delle indagini preliminari si ammette che il giudice possa assumere ex officio l’iniziativa della revoca o della
sostituzione delle misure suddette, quando risulti già investito del procedimento per l’esercizio di uno dei
poteri appartenenti alla sua competenza funzionale. In particolare, quando assuma l’interrogatorio
dell’indiziato in stato di custodia cautelare o quando sia richiesto della proroga del termine per le indagini
preliminari, o quando proceda all’assunzione di un incidente probatorio.
In ogni caso, il giudice deve sempre sentire il PM, prima della revoca o sostituzione. Il PM deve esprimere il
proprio parere nei due giorni successivi, salva restando la possibilità per il giudice di procedere alla
decisione qualora, entro tale termine, il suddetto parere non sia stato espresso. La stessa regola vale anche
se la sostituzione o la revoca è stata chiesta dall’imputato dopo la chiusura delle indagini.

In tutte tali ipotesi, il giudice prima di provvedere può sempre procedere ad interrogatorio della persona
sottoposta alla misura. Ma tale interrogatorio diventa doveroso per il giudice, se l’imputato lo abbia
specificatamente richiesto, quando l’istanza di revoca o sostituzione sia basata su elementi nuovi o diversi
rispetto a quelli già valutati. Quindi ogni volta che l’imputato fonda la propria istanza su elementi non
ancora esaminati dal giudice, sarà sufficiente una richiesta in tal senso affinché il giudice sia tenuto a
procedere ad interrogatorio. Il tutto appesantisce l’intera procedura.

Particolare è il caso della richiesta nel caso di revoca o sostituzione di determinate misure coercitive
applicate nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona. Qui il
provvedimento deve essere immediatamente comunicato a cura della polizia giudiziaria, ai servizi
socioassistenziali e al difensore della persona offesa. A meno che la revoca o la sostituzione siano state
proposte nell’interrogatorio di garanzia, il richiedente deve notificare l’atto presso il difensore della persona
offesa o alla persona offesa, salvo che non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio. Il difensore o
la persona offesa potranno presentare una memoria al giudice, il quale procede una volta decorso il
termine di 2 giorni.

Qualora vi sia l’ipotesi in cui si accerti che le esigenze cautelari sono accresciute rispetto a quelle
individuate alla base della misura applicata, è previsto che il giudice debba sempre (se vi sono i presupposti)
sostituire la misura originaria con altra più rigida, o disporne l’applicazione con modalità più gravose,
potendo anche disporre l’applicazione, congiunta a quella in esecuzione, di altra misura coercitiva o
interdittiva.
Infine, il giudice può in ogni stato e grado del procedimento disporre anche d’ufficio i necessari
accertamenti sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali dell’imputato.
Accertamenti da svolgersi con la massima celerità, ed entro 15 giorni dal deposito della richiesta.
A tal proposito, si prevede una particolare disciplina in caso di richiesta di revoca o sostituzione della
misura della custodia carceraria fondata sulle condizioni di salute particolarmente gravi. Qui, qualora il
giudice non ritenga di accogliere tale richiesta sulla base degli atti prodotti, o comunque disponibili, è
prescritto che debbano essere disposti con immediatezza gli accertamenti medici del caso, tramite la
nomina di un perito ad hoc, il quale dovrà tenere conto del parere del medico penitenziario e riferire al
giudice entro 5 giorni o non oltre 2 giorni dall’accertamento.

Quando occorre accertare la sussistenza delle condizioni di salute e le relative esigenze diagnostiche non
possono venire soddisfatte nell’ambito penitenziario, il giudice potrà disporre il ricovero provvisorio in
idonea struttura del servizio sanitario nazionale per il tempo necessario, adottando se del caso adeguate
cautele.

Fattispecie particolari di estinzione automatica delle misure.


Il fenomeno estintivo generato con la revoca o la sostituzione delle misure cautelari presuppone sempre un
provvedimento giurisdizionale di accertamento sulla carenza, o sul grado di differenziata intensità dei
relativi presupposti. Opportunamente, il codice si preoccupa di dare rilievo ad alcune figure di estinzione
caratterizzate dall’automatismo degli effetti, derivanti dal verificarsi di determinati eventi.

SI colloca qui la già ricordata ipotesi di estinzione della custodia cautelare a causa dell’omesso
interrogatorio dell’indiziato entro il termine previsto dall’art 294.
Successivamente viene in evidenza la prevista estinzione ipso iure di tutte le suddette misure in
conseguenza della pronuncia di determinati provvedimenti, come dispone l’art 300.
Nei commi 1 e 2 si dispone la perdita immediata di efficacia delle misure applicate con riferimento ad un
certo fatto quando venga disposta l’archiviazione o venga pronunciata una sentenza di non luogo a
procedere o di proscioglimento. A meno tali sentenze siano seguite dalla misura di sicurezza del ricovero in
ospedale o la custodia carceraria sia sostituita con tale misura di sicurezza. Il detenuto sottoposto a tali
provvedimenti è immediatamente posto in libertà, stabilendo che per il disbrigo delle relative formalità il
medesimo imputato viene riaccompagnato presso l’istituto carcerario separatamente dai detenuti e senza
uso di mezzi di coercizione.
Nei commi 3 e 4 si stabilisce che, se la sentenza è di condanna, le misure già in atto perdono efficacia
quando la pena irrogata è dichiarata estinta, o condizionalmente sospesa. Oppure quando la durata della
custodia presofferta è uguale o superiore alla pena irrogata.

In tutte tali ipotesi, l’effetto estintivo si produce di diritto, così che al giudice resta solo di far cessare
immediatamente l’esecuzione delle misure ormai estinte disponendo per i seguenti adempimenti operativi.

Per quanto riguarda la peculiare ipotesi in cui l’imputato prima è destinatario di una sentenza di
proscioglimento o di non luogo a procedere e poi viene condannato per il medesimo fatto, l’ultimo comma
dell’art 300 dispone che nei suoi confronti possano venire adottate una o più misure coercitive, solo
quando ricorrano le esigenze cautelari previste dall’art 274, come la fuga o concreto pericolo di fuga o il
concreto pericolo di commissione dei gravi delitti ivi indicati.

Allo stesso meccanismo estintivo si riconduce l’ipotesi di caducazione contemplata dall’art 301. Il quale
prevede la perdita di efficacia delle misure applicate per esigenze cautelari di natura probatoria, quando
alla scadenza del termine fissato nel provvedimento applicativo, non ne venga ordinata la rinnovazione.
Questa previsione generale si applica a tutte le misure cautelare adottate per la finalità probatoria.
In particolare, la loro rinnovazione può avvenire tramite nuova ordinanza applicativa, disposta dal giudice
su richiesta del PM, anche per più volte, purché si rispettino i termini di durata massima previsti.
Così viene rafforzata la prescrizione secondo cui le misure motivate da esigenze attinenti alle indagini
operano per il tempo strettamente necessario, sia pure con il temperamento rappresentato dalla possibilità
che le stesse vengano rinnovate oltre i termini temporali originariamente fissati dal giudice.

In tale cornice si collocano i nuovi commi 2 bis e 2 ter dell’art 301, i quali prevedono un particolare regime
per la durata della misura della custodia cautelare in carcere, quando questa sia stata disposta per esigenze
probatorie.
Precisamente, il comma 2 bis va nel senso che la custodia carceraria motivata da esigenze probatorie non
può avere durata superiore a 30 giorni. In questo modo si detta un limite rigido alla discrezionalità del
giudice nell’esercizio del potere-dovere di fissare la durata di tale misura.
A tale rigidità pone rimedio il comma 2 ter, il quale prevede la possibilità di una proroga di tale termine, ad
opera del giudice, dietro richiesta del PM e previo interrogatorio dell’imputato, sulla base di un’ordinanza
che dovrà valutare le ragioni che hanno impedito il compimento delle indagini per le cui esigenze la misura
era stata disposta. La proroga può avvenire non più di due volte ed entro il limite complessivo di 90 giorni,
che quindi si configura come una soglia insuperabile per la durata della custodia cautelare disposta con il
provvedimento originario.

Dall’intero contesto dell’odierno art 301 si desume che alla scadenza di tale termine (90 giorni), il PM può
chiedere, ed il giudice può disporre, la rinnovazione della custodia in carcere nei confronti dello stesso
imputato, sempre per esigenze di natura probatoria. Tale rinnovazione fungerà da nuovo titolo di custodia
e nel rispetto dei limiti legali di durata sanciti dal codice. Precisamente, la durata della misura carceraria
rinnovata non potrà superare i termini rispettivamente stabiliti, tenuto conto delle possibili proroghe, salvi
restando i limiti sanciti dal comma 2 dell’art 301.

I termini di durata massima della custodia cautelare


Assumono un particolare risalto, tra le figure di estinzione automatica delle misure cautelari, quelle figure
collegate alla disciplina dei termini di durata massima delle misure cautelari.

Partendo dalla custodia cautelare, l’art 303 individua tutte le varie ipotesi in cui si realizza il fenomeno della
caducazione della misura custodiale per decorso dei termini massimi della stessa.
Al 1° comma è stata prevista una serie di termini autonomi di durata massima della custodia cautelare in
relazione ai diversi stati o gradi del procedimento e, con riferimento a ciascuna di tali fasi, i suddetti
termini intermedi sono stati differenziati. Ora in funzione della gravità dell’imputazione, ora in funzione
della pena applicata in concreto, quando già vi sia stata sentenza di condanna.

Più precisamente al 1° comma, per quanto riguarda la fase preliminare, la custodia è destinata a perdere
efficacia quando, dall’inizio della sua esecuzione, siano decorsi i seguenti termini: 3 mesi (procede per
delitto la cui pena della reclusione non è superiore nel massimo a 6 anni) 6 mesi (delitto per il quale la pena
della reclusione è superiore nel massimo a 6 anni), 1 anno (delitto per il quale la pena dell’ergastolo o
reclusione non è inferiore nel massimo a 20 anni, oppure per uno dei delitti dell’art 407, purché per questi
ultimi la pena della reclusione sia sempre non superiore nel massimo a 6 anni).
Per quanto riguarda la fase del giudizio di primo grado, secondo il rito ordinario, la custodia perde efficacia
quando dal provvedimento che dispone il giudizio, e senza che sia stata pronunciata sentenza di condanna
di primo grado, la sua durata abbia superato il termine di 6 mesi (delitto la cui pena non è superiore nel
massimo a 6 anni), di 1 anno (delitto la cui pena non è superiore nel massimo a 20 anni), o di 1 anno e 6
mesi (delitto la cui pena dell’ergastolo o della reclusione è superiore nel massimo a 20 anni).
Infine, per la fase del giudizio abbreviato, la custodia perde efficacia quando dall’ordinanza con cui sia
stato disposto tale giudizio, la sua durata abbia superato il termine di 3 mesi (delitto la cui pena della
reclusione non è superiore nel massimo a 6 anni), di 6 mesi (delitto la cui pena della reclusione non è
superiore nel massimo a 20 anni), 9 mesi (delitto la cui pena dell’ergastolo o reclusione è superiore nel
massimo a 20 anni).

Per le ulteriori fasi del giudizio il criterio è diverso. Poiché la definizione dei termini massimi intermedi è
stata operata facendo riferimento non alla pena legislativamente prevista per il delitto imputato, ma la
pena concretamente irrogata in sede di condanna.
Così per la fase del giudizio di secondo grado, la custodia cautelare perde efficacia quando dalla pronuncia
della sentenza di condanna di primo grado sia decorso il termine di 9 mesi (condanna alla pena della
reclusione non superiore ai 3 anni), 1 anno (condanna alla pena della reclusione non superiore ai 10 anni), 1
anno e 6 mesi (condanna alla pena dell’ergastolo o della reclusione superiore a 10 anni).
La stessa disciplina è applicata per le fasi di giudizio successiva alla pronuncia di condanna in grado di
appello, finché la condanna non sia divenuta irrevocabile. Salva la precisazione secondo cui quando vi è già
stata condanna in primo grado o quando l’impugnazione sia stata proposta solo dal PM, si stabilisce che
non si debba fare più riferimento ai termini intermedi di fase, ma si deve applicare solo la disposizione
dell’art 303 comma 4, concernente i termini di durata complessiva della custodia cautelare.

La disciplina imperniata sulla segmentazione dei termini massimi di custodia in rapporto alle diverse fasi
processuali è completa con la previsione al comma 2. La quale prevede che nel caso di regresso del
procedimento ad una diversa fase o rinvio dinanzi ad un diverso giudice, riprendono a decorrere ex novo i
termini stabiliti con riguardo a ciascuno stato e grado del procedimento. E si completa con la previsione al
comma 4, di termini di durata complessiva della custodia.
Precisamente, sono individuati 3 livelli, a seconda della gravità dell’imputazione. Saranno 2 anni quando si
procede per un delitto la cui pena della reclusione è non superiore nel massimo a 6 mesi. 4 anni quando la
pena di reclusione del delitto, per cui si procede, è non superiore nel massimo a 20 anni. 6 anni quando la
pena della reclusione è nel massimo a 20 o l’ergastolo (qui si supera il tetto massimo dei 4 anni indicato
come soglia massima per la durata complessiva della custodia cautelare, ritenuto poco realistico).
I termini individuati al 4 comma sono limiti che, di regola, non sono suscettibili di superamento. Né con il
meccanismo di proroga dei termini di custodia né con la previsione di neutralizzazione dei giorni di udienza,
nonché di quelli usati per la deliberazione della sentenza nella fase del giudizio.

Proroga e sospensione dei termini massimi di custodia .


Le deroghe all’ordinaria disciplina dei termini di durata massima della custodia cautelare sono gli istituti
della sospensione e della proroga di quei termini.

Per quanto riguarda la proroga, ad eccezione dell’art 305 comma 1 che detta un’ipotesi peculiare per il
compimento di una perizia psichiatrica, il comma 2 ne circoscrive l’operatività alla sola fase delle indagini
preliminari. Solo in presenza di gravi esigenze cautelari, le quali, rapportate ad accertamenti
particolarmente complessi, o a nuove indagini disposte, rendano indispensabile la prosecuzione della
custodia. La competenza a provvedere sulla richiesta è del giudice per le indagini preliminari. Il quale, dopo
aver sentito PM e difensore dell’indiziato nell’ambito di un contraddittorio semplificato ma effettivo, ove ne
ricorrano i presupposti potrà concedere una proroga, ed anche rinnovarla una sola volta, fino al limite della
metà dei termini massimi di custodia previsti per la fase delle indagini preliminari.

La sospensione dei termini di durata della custodia cautelare è configurata, dall’art 304, come un
fenomeno idoneo a determinare il superamento dei termini fissati dall’art 303 comma 4 per la durata
complessiva della custodia cautelare.
Maggiori dubbi sono rivolti alla definizione delle fattispecie di sospensione dei termini di custodia previsti
all’art 303, che l’art 304 comma 1 ha individuato facendo riferimento ad una variegata serie di situazioni,
tutte relative alla fase del giudizio.
Con riguardo alle ipotesi di sospensione o di rinvio del dibattimento per impedimento dell’imputato o del
suo difensore, o dietro richiesta dei medesimi. O alle ipotesi di sospensione o rinvio del dibattimento a
causa della mancata presentazione, dell’allontanamento o della mancata partecipazione di uno o più
difensori, qualora ne rimangano privi di assistenza uno o più imputati.
A queste ipotesi si deve aggiungere quella della sospensione dei termini di custodia, nella fase del giudizio,
durante la pendenza dei termini previsti dall’art 544 per la redazione differita dei motivi della sentenza.
Analogamente, i termini di custodia devono essere sospesi quando le situazioni appena descritte si
verifichino nell’ambito del giudizio abbreviato, come risulta dalla lettera cbis dell’art 304, comma 1°.
Grazie poi ad una modifica della legge del 1995 n 332, nel nuovo comma 4 dell’art 304 è stato prevista
l’operatività della sospensione dei termini di custodia anche per la fase della udienza preliminare.
Una speciale figura di sospensione dei termini di custodia è stata prevista come conseguenza della
sospensione del processo a seguito di richiesta di rimessione, nelle varie ipotesi disciplinate.
Poi, secondo il 5° comma dell’art 304, le ipotesi di sospensione previste al comma 1 lettera a e b e comma 4
non si applicano, nel processo cumulativo, nei confronti dei coimputati cui le stesse non si riferiscono,
sempreché questi ultimi chiedano che nei loro confronti si proceda previa separazione dei processi. Tale
norma corrisponde ad esigenze di equità rispetto ai coimputati. Anche se vi è il pericolo che una previsione
tanto drastica possa prestarsi ad usi di natura strumentale.

Al 2° comma dell’art 304, il legislatore si è occupato delle ipotesi di particolare complessità dei
dibattimenti o dei giudizi abbreviati relativi ai gravi delitti all’art 407, ivi compresi quelli della criminalità
organizzata. Disponendo che in tali casi, il regime della sospensione possa essere esteso anche ai periodi di
tempo in cui sono tenute le udienze o si delibera la sentenza nella fase del giudizio. Si tratta degli stessi
periodi rispetto ai quali l’art 297 comma 4 prevede invece il meccanismo della neutralizzazione automatica
dei giorni corrispondenti, cioè dei soli giorni di fatto impiegati per tali attività, ai fini del computo dei
termini intermedi.
Quando vi sono i presupposti dettati dal 2° comma, il successivo 3° comma detta che la sospensione dei
termini di custodia non potrà essere disposta dal giudice ex officio, ma solo su richiesta del PM, con
ordinanza appellabile. Quindi se manca la richiesta o non viene pronunciato il provvedimento sospensivo,
si verificherà in ogni caso ex lege almeno l’effetto di congelamento del decorso dei termini di custodia.

La disciplina della sospensione permette di far fronte alle preoccupazioni inerenti all’elevato rischio di uno
sfondamento dei termini massimi sanciti dal codice, nel caso soprattutto di procedimenti appesantiti dalla
natura delle imputazioni o dal numero degli imputati. E tale disciplina, inoltre, si accorda all’orientamento
della giurisprudenza europea in tema di ragionevolezza della durata della detenzione preventiva.

Rispetto alla versione originaria, l’art 304 individua il limite finale di durata, al 6° comma, con riferimento
alle ipotesi di sospensione dei termini di custodia, su due distinti livelli.
1° avendo riguardo alla durata della custodia nelle diverse fasi del procedimento, si stabilisce che tale
durata non possa superare il doppio dei termini intermedi.
2° avendo riguardo alla durata complessiva della custodia, si stabilisce che tale durata non può superare i
termini sanciti dal 4° comma art 304 aumentati della metà, o quando in concreto risulti più favorevole, il
tradizionale limite commisurato ai due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato
contestato o ritenuto in sentenza.
In questo modo si riduce di molto il tetto massimo di potenziale prolungamento della durata della custodia
cautelare, in conseguenza del verificarsi di una delle fattispecie sospensive descritte dall’art 304, con
evidenti pericoli di scarcerazioni automatiche. Pericolo che aumenta nei casi di regresso del procedimento
o di rinvio ad altro giudice.

L’unica deroga alla disciplina fissata al 6° comma è disposta al 7° comma, in cui si prevede che dei periodi
di sospensione di cui al 1° comma lettera b si tenga conto solo nel computo riguardante il limite relativo alla
durata complessiva della custodia, e non anche in quello riguardante il limite relativo alle diverse fasi del
procedimento, operandosi così una sorta di neutralizzazione di tali ultimi periodi. Il legislatore ha voluto, in
questo modo, frenare il rischio di un uso pretestuoso dello strumento dello sciopero degli avvocati, ove
fosse praticato allo scopo di propiziare la scarcerazione per decorrenza dei termini di fase degli imputati
detenuti.

In analoga prospettiva, sia pure più in generale, si pone il comma 1 art 159 c.p., il quale stabilisce che il
corso della prescrizione rimane sospeso, nelle ipotesi già previste, ma anche ogni volta in cui la
sospensione dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge. Il richiamo
sembra operato soprattutto per le ipotesi in cui venga effettivamente disposta la sospensione dei termini di
custodia cautelare e dunque con esclusivo riguardo ai processi con imputati sottoposti a custodia.
Il richiamo deve essere interpretato come operato, in astratto, alle situazioni processuali cui una
particolare disposizione di legge ricollega la conseguenza della sospensione dei termini di custodia. In tal
caso, la sospensione dovrebbe operare anche nei confronti degli imputati in stato di libertà. Questa sembra
l’unica interpretazione idonea ad evitare una disparità di trattamento tra imputati detenuti e quelli liberi. A
favore di ciò va anche l’indirizzo interpretativo delle Sezioni unite della Corte di cassazione il quale afferma
che l’art 159 comma 1 c.p. deve essere interpretato nel senso che la sospensione o il rinvio del
procedimento o del dibattimento hanno effetti sospensivi della prescrizione, anche se l’imputato non è
detenuto, in ogni caso in cui siano disposti per l’impedimento dell’imputato o del suo difensore o su loro
richiesta, salvo quando siano disposti per esigenze di acquisizione della prova o in seguito al riconoscimento
di un termine a difesa.

I provvedimenti adottabili nei confronti dell’imputato scarcerato per decorrenza dei termini .
L’art 307 detta un’autonoma disciplina sui provvedimenti adottabili nei confronti dell’imputato scarcerato
grazie alla decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare.

Anzitutto, su un piano generale, si stabilisce che a carico di tale imputato il giudice debba disporre le altre
misure cautelari di cui ricorrano i presupposti. Sempre se vi è la permanenza delle esigenze che avevano
giustificato la sua sottoposizione alla custodia stessa. Più in particolare, le misure all’art 281, 282 e 283
(DIVIETO DI ESPATRIO, OBBLIGO DI PRESENTAZIONE ALLA POLIZIA GIUDIZIARIA, DIVIETO E OBBLIGO DI DIMORA) possono
essere disposte cumulativamente, quando si proceda per uni dei delitti indicati all’art 407 comma 2 lettera
a c.p.p.
In secondo luogo, si prevede che la custodia cautelare debba essere rinnovata se ricorrono due situazioni di
specifica rilevanza cautelare. Tale è l’ipotesi dell’imputato scarcerato che abbia dolosamente trasgredito
alle prescrizioni inerenti ad una delle misure cautelari applicategli in luogo della custodia. E l’ipotesi della
sopravvenienza a carico del suddetto imputato di una sentenza di condanna di primo o secondo grado. In
entrambe le due ipotesi, il ripristino della custodia può avvenire sia contestualmente, sia successivamente
alla sentenza stessa. Quindi anche quando soltanto dopo la pronuncia della sentenza di condanna si accerti
che l’imputato, nella fase precedente, aveva maturato il diritto alla scarcerazione per decorrenza dei
termini.

Per il ripristino della custodia, il comma 3° dell’art 307 detta la regola della decorrenza ex novo dei termini
relativi alla fase in cui il procedimento si trova. La stessa regola è applicata per l’imputato sottrattosi
tramite evasione all’esecuzione della custodia cautelare.
Il comma 4° dell’art 307 prevede, nel caso dell’imputato scarcerato che, trasgredendo alle prescrizioni
della misura cautelare applicatagli in via sostituiva, stia per darsi alla fuga, che ufficiali ed agenti di polizia
possono procedere al suo fermo. In proposito è dettata una particolare normativa per la comunicazione del
provvedimento al procuratore della Repubblica presso il tribunale del luogo, entro 24 ore. E per la
successiva procedura di convalida e per l’applicazione, se del caso, al fermato della misura della custodia
cautelare ad opera del giudice per le indagini preliminari.
I termini di durata massima delle misure cautelari non custodiali .
L’art 308, nel dettare la disciplina dei termini di misura massima delle misure diverse da quelle di custodia
cautelare, opera una distinzione di fondo a seconda che si tratti di misure coercitive o di misure interdittive.

Il 1° comma detta la perdita di efficacia delle misure coercitive diverse dalla custodia cautelare a seguito del
decorso di un periodo di tempo pari al doppio dei termini previsti in rapporto alla custodia.
Il 2° comma si occupa della durata delle misure interdittive pari a 12 mesi, non superabile nemmeno
quando la misura sia stata disposta per esigenze probatorie e sia, dunque, rinnovabile.
La norma risulta dalla recente riforma del 2015 n 47 rispetto al testo originario. In cui si dettava un termine
di due mesi, trascorso il quale la misura interdittiva perdeva efficacia e prevedeva una serie di eccezioni,
che consentivano il superamento di quel limite. Con la nuova formula si vuole favorire un contenimento
delle misure coercitive, favorendo l’uso delle misure interdittive, grazie al nuovo limite temporale, più
elevato del valore base. Ma tale risultato si raggiunge solo in parte perché il nuovo limite non è superabile
dal giudice con il provvedimento di rinnovazione.

Il limite di durata massima risulta ancora troppo rigido, almeno per quelle misure interdittive (esempio la
sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale) che di per sé sarebbero destinate a protrarsi nel
tempo, in ragione di concrete esigenze di prevenzione speciale.
Pone soluzione a tale problema il 3° comma, anche se solo in parte. In cui si enuncia il principio secondo cui
la sopravvenuta estinzione delle misure in discorso non può recare pregiudizio all’esercizio dei poteri
attribuiti ex lege al giudice penale o ad altre autorità in materia di pene accessorie, o di misure
interdittive di diversa natura.

Il riesame dei provvedimenti coercitivi dinanzi al tribunale .


Alla tematica dei rimedi contro provvedimenti applicativi delle misure cautelari sono riconducibili i vari
istituti appartenenti alla sfera delle impugnazioni. Il codice, a tal proposito costruisce un sistema organico,
imperniato sui mezzi DEL RIESAME, DELL’APPELLO E DEL RICORSO PER CASSAZIONE.

Si tratta di mezzi rivisitati nel loro aspetto procedurale, all’insegna di una esigenza di maggior efficienza e
tempestività nel funzionamento della garanzia che vi è implicata, sotto il profilo del controllo ex post in
ordine ai presupposti del provvedimento impugnato. Le decisioni cautelari sono immediatamente esecutive
e qui (a differenza di quello che vale per la sentenza) opera il principio per cui le impugnazioni contro i
provvedimenti in materia di libertà personale non hanno effetto sospensivo.
Nell’ambito del procedimento cautelare, l’interesse ad impugnare da parte dell’indagato, contro una
ordinanza che abbia applicato o mantenuto a suo carico la misura della custodia cautelare, permane anche
nel caso di revoca o sostituzione con una misura meno grave. La persistenza dell’interesse si radica
sull’esigenza dell’indagato di poter ottenere, dal giudice dell’impugnazione, una decisione irrevocabile
sull’illegittimità dell’originaria misura custodiale, idonea a fungere da presupposto del diritto alla
riparazione per ingiusta detenzione.

Il RIESAME anche nel merito è dettato all’art 309, come strumento esperibile solo contro le ordinanze che
abbiano disposto una misura coercitiva, salvo che si tratti di ordinanze emesse dietro appello proposto dal
PM ai sensi del successivo art 310 (appello). E con l’eccezione delle ordinanze recanti misure coercitive
adottate nell’ambito del procedimento di estradizione o nel procedimento di esecuzione di un mandato
d’arresto europeo. Poiché in tali casi è ammesso il solo ricorso per cassazione per violazione di legge.
L’art 309 attribuisce la titolarità del diritto al riesame solo all’imputato, accanto al quale risulta
menzionato anche il difensore, salva la previsione di un diverso regime di decorrenza del termine di 10
giorni fissato per la proposizione della relativa richiesta, a norma dei primi 3 commi. Il comma 3 bis precisa
che si devono escludere dal computo di tale termine, i giorni per i quali sia stato disposto il differimento del
colloquio tra il difensore e l’imputato detenuto, a dimostrazione dell’importanza attribuita a tale colloquio.

La competenza a decidere sulla richiesta di riesame è del tribunale in composizione collegiale del
capoluogo del distretto di corte d’appello in cui ha sede l’ufficio del giudice che abbia emesso l’ordinanza
impugnata, per quanto concerne le concrete modalità dell’iniziativa si stabilisce che la stessa richiesta
debba venire direttamente proposta alla cancelleria di quel tribunale.
Una volta presentata la richiesta, l’autorità giudiziaria procedente dovrà trasmettere al medesimo
tribunale gli atti correlativi entro il giorno successivo a quello dell’avviso, e comunque non oltre il 5 giorno.
Il termine di 5 giorni decorre dal giorno stesso della presentazione della richiesta di riesame.
Gli atti correlativi da trasmettere al tribunale sono quelli presentati dal PM al giudice in vista dell’adozione
del provvedimento, gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini. Precisamente
tutti gli elementi acquisiti dal PM, dopo la richiesta della misura oggetto di riesame. Cioè pervenutigli in
virtù dell’attività investigativa del difensore, sempre nel corso delle indagini preliminari.

L’art 309 comma 6 si occupa del contenuto della richiesta di riesame. Prevedendo che possa recare i
motivi, riconoscendo, allo stesso tempo, la facoltà di enunciare nuovi motivi dinanzi al tribunale
competente per il riesame, purché ne venga dato atto a verbale prima della discussione. E tra questi motivi
(come i presupposti della misura coercitiva adottata) devono essere ritenuti compresi anche quelli diretti a
contestare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. L’imputato, con la richiesta, può anche chiedere di
comparire personale e ha diritto di presenziare di persona all’udienza, se ne fa richiesta.

La rapidità coessenziale al procedimento di riesame emerge dai commi 8 e 9, in cui si prescrive che il
tribunale emetta la sua decisione nel termine di 10 giorni dalla ricezione degli atti trasmessigli a norma del
5 comma. Termine da valutarsi in rapporto alla particolare ipotesi di caducazione prevista dal 10 comma.
Sulla base dell’intero contesto dell’art 309 deriva che il procedimento di riesame dovrebbe di regola
sempre concludersi nell’arco di 15 giorni da quello in cui la richiesta sia pervenuta alla cancelleria del
tribunale competente. Una deroga per evitare un’eccessiva compressione dei tempi è al comma 9 bis, il
quale detta che l’imputato se ne emette richiesta formulata entro 2 giorni dalla notificazione dell’avviso, il
tribunale differisce la data dell’udienza da un minimo di 5 ad un massimo di 10 giorni, se vi sono giustificati
motivi.

Il tribunale dovrà procedere in camera di consiglio, quindi con le corrispondenti garanzie di


contraddittorio, salva una necessaria abbreviazione del termine stabilito per il corrispondente avviso al
PM presso lo stesso tribunale, all’imputato e al suo difensore, ai fini della loro eventuale comparizione.
Comunque, fino al giorno dell’udienza, gli atti depositati in cancelleria posso essere esaminati dal difensore,
e questo ne può estrarre copia. I soggetti dell’avviso di comparizione hanno diritto di essere sentiti di fronte
al tribunale investito della richiesta di riesame. L’imputato che ne faccia richiesta deve essere sentito
personalmente, sia che sia detenuto o interno in un luogo posto fuori dalla circoscrizione del tribunale.
Occorre domandarsi se il diritto alla partecipazione personale possa essere negato nei casi in cui l’imputato
ristretto fuori circoscrizione abbia formulato la richiesta di comparire solo in un momento successivo alla
proposizione della dichiarazione di impugnazione, ma in tempo per ottenere la traduzione in udienza. Il
dato letterale propende per una risposta affermativa ma è preferibile una lettura meno rigida. Che vede
tardiva la richiesta solo quando in concreto non vi è la possibilità pratica di assicurare la presenza in udienza
dell’impugnante.

Il 10 comma ribadisce l’esigenza del rispetto del termine di 10 giorni fissato per la decisione sulla richiesta
di esame, tramite la previsione per cui la misura coercitiva disposta con l’ordinanza assoggettata a
riesame deve ritenersi immediatamente caducata. È una fattispecie di estinzione automatica delle misure
coercitive.
Per l’individuazione della scadenza del termine di 10 giorni, ai fini della perdita di efficacia della misura, si
deve fare riferimento alla data di deliberazione del provvedimento da parte del tribunale del riesame,
attestata dal deposito in cancelleria del dispositivo e della corrispondente documentazione. Il deposito in
cancelleria deve avvenire entro 30 giorni dalla decisione. Se la stesura della motivazione è particolarmente
complessa, il tribunale può disporre per il deposito un termine più lungo, non eccedente i 45esimo giorno
da quello della decisione.
A tali peculiari ipotesi di caducazione, si è affiancata anche l’ulteriore ipotesi che si concreta quando la
trasmissione al tribunale degli atti non avviene nei termini prescritti dal precedente 5 comma. Tale effetto
caducatorio si realizza non quando il termine sia scaduto e gli atti non siano stati inoltrati al tribunale del
riesame, ma quando entro tale termine gli atti non sono ancora pervenuti al tribunale. Si tratta di previsione
molto drastica.
Quale che sia, comunque, la causa della decadenza del titolo cautelare, si dispone che la misura caducata
per il mancato tempestivo intervento del controllo non può essere rinnovata, a meno che sussistano
eccezionali esigenze cautelari motivate specificamente. Con questo si vuole evitare che l’inerzia
dell’organo controllante si traduca nella elusione del diritto dell’imputato alla verifica del titolo cautelare e
nella protrazione della limitazione della libertà personale.

Per quello che concerne l’esercizio dei poteri decisori da parte del tribunale investito dalla richiesta di
riesame, il comma 9 definisce la tipologia dei provvedimenti adottabili dal tribunale stesso, precisando
anche che la decisione potrà tener conto pure degli ulteriori elementi addotti dalle parti nel corso
dell’udienza, senza tuttavia che il tribunale possa procedere ad una vera e propria attività istruttoria,
incompatibile con le esigenze di speditezza del procedimento incidentale di controllo. Si attribuisce, poi, al
tribunale il potere di provvedere senza particolari vincoli sul piano della cognizione e della decisione,
riconoscendo con ciò alla richiesta di riesame la natura di un mezzo totalmente devolutivo.
Precisamente, da un lato, l’ordinanza impugnata potrà essere annullata o riformata in senso favorevole
all’imputato, anche per motivi diversi da quelli enunciati nella richiesta o successivamente ad essa.
Dall’altro lato, la stessa ordinanza potrà essere confermata anche sulla base di ragioni diverse da quelle
indicate nella sua motivazione. Dunque, sulla scorta di elementi già risultanti dagli atti trasmessi al
tribunale.

Per l’annullamento dell’ordinanza per vizio della motivazione, in forza di un dominante orientamento
giurisprudenziale, si è escluso che il tribunale possa censurare il provvedimento impugnato quando questi
sia corredato da una motivazione carente, illogica o lacunosa. Dovendo in questi casi, il giudice
dell’impugnazione rimediare al vizio, sostituendola con la propria motivazione . In questo modo si rimedia a
patologie anche gravi del titolo cautelare. Come la motivazione non specifica in tema di periculum libertatis
o incoerente rispetto ai riscontri investigativi o assertiva in ordine alla prognosi di colpevolezza o di
punibilità in concreto della condotta contesta.
La legge 47 del 2016 ha poi aggiunto al 9 comma, la previsione finale secondo cui il tribunale annulla il
provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma
dell’art 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa. Tale novità ha però
scarsi risultati, perché il richiamo all’autonomia della valutazione giudiziale sembra imporre solo una
verifica circa la presenza, nel testo dell’ordinanza che richiami o riproduca la richiesta cautelare, di una
traccia visibile delle ragioni dell’adesione da parte del giudice al ragionamento probatorio espresso dal PM
su fumus, periculum ed elementi difensivi. Resta comunque il fatto che sarà passibile di censura solo
l’ordinanza che non contiene alcuna valutazione dei dati rilevanti, mentre tutte le altre gravi patologie della
motivazione continuano ad essere assoggettate alla sanatoria del tribunale.
Infine, si tenga presenta che una sentenza costituzionale ha allargato l’ambito dei poteri di cognizione del
tribunale, in sede di riesame, per quanto riguarda il fumus commisssi delicti, riconoscendo al medesimo
tribunale la possibilità di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, anche quando sia già stato
emesso il decreto che dispone il giudizio. Con riferimento dunque, anche ad ipotesi in cui, secondo un
orientamento giurisprudenziale, la relativa valutazione avrebbe dovuto ritenersi assorbita dal contenuto del
suddetto decreto. In particolare, dopo aver osservato che in molte ipotesi il giudice avrebbe dovuto
emettere il decreto di rinvio a giudizio, non potendo pronunciare sentenza di non luogo a procedere, la
Corte ne aveva desunto che il suddetto provvedimento non si sarebbe fondato su una presunzione di
probabile condanna, ma solo sulla ritenuta necessità di dare spazio ad ulteriori sviluppi probatori nella
dialettica del dibattimento. Senonché il quadro è cambiato grazie alla modifica del 3° comma, in cui si è
dettato un nuovo criterio decisorio, stabilendo che la sentenza di non luogo a procedere debba venire
pronunciata anche quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti o contraddittori. Di conseguenza, la
previsione di tale più rigido criterio decisorio avrebbe potuto indurre a rivedere le valutazioni della Corte
con riguardo al testo dell’art 425 (sentenza di non luogo a procedere), in quanto in tale decreto dovrebbe
ormai ritenersi consolidato un apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza tale da precluderne una
ulteriore valutazione da parte del tribunale del riesame.

La disciplina dell’appello e del ricorso per cassazione in materia di misure cautelari personali .
Lo strumento dell’APPELLO è delineato all’art 310 come strumento residuale rispetto all’ambito oggettivo
e soggettivo tipico della richiesta di riesame. I provvedimenti suscettibili di appello sono tutte le ordinanze
in materia di misure cautelari personali, diverse da quelle assoggettabili a riesame, mentre la titolarità del
relativo potere viene riconosciuta all’imputato, al suo difensore e al PM. Si tratterà dell’unica possibilità di
impugnazione nel riesame, essendogli precluso il riesame.
Per la proposizione dell’appello viene fatto rinvio alle corrispondenti disposizioni dettate in tema di
riesame, salva restando la necessità della contestuale enunciazione dei motivi. La competenza a decidere
spetta, anche qui, al tribunale del capoluogo del distretto in cui risiede il giudice che abbia emesso
l’ordinanza appellata. Stabilendosi, inoltre, che quel tribunale decida entro 20 giorni dalla ricezione della
suddetta ordinanza, nonché degli atti su cui la medesima si sia fondata. Ordinanza e atti che devono essere
trasmessi al tribunale, da parte dell’autorità procedente, entro il giorno successivo all’immediato avviso
della presentazione dell’appello, e devono rimanere depositati in cancelleria fino al giorno dell’udienza, con
facoltà di esaminarli ed estrarne copia da parte del difensore. Anche per il deposito dell’ordinanza di
appello in cancelleria si è previsto un termine di 30 giorni dalla data della decisione, con la possibilità per il
giudice di indicare nel dispositivo un termine maggiore, non eccedenti i 45 giorni, in caso di motivazione
particolarmente complessa.

Per il resto, si rinvia alla disciplina generale dell’appello, in quanto non risulti diversamente disposto, a
cominciare dalla regola dell’effetto limitatamente devolutivo. Quindi il tribunale avrà una cognizione
limitata solo ai punti dell’ordinanza appellata cui si riferiscano i motivi tempestivamente proposti. Tra i
quali dovrebbero essere compresi anche motivi concernenti la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza,
pur nell’ipotesi in cui sia stato già emesso il decreto che dispone il giudizio ex art 429.
Quando poi il tribunale, accogliendo l’appello del PM, abbia disposto una misura cautelare a carico
dell’imputato, il comma 3 dell’art 310 stabilisce che l’esecuzione della decisione sulla misura cautelare
rimanga sospesa, finché la medesima non sia diventata definitiva.

L’art 311 disciplina il RICORSO PER CASSAZIONE, riconoscendo, prima di tutto, la titolarità all’imputato, al
suo difensore e al PM. Stabilendo che il ricorso venga proposto entro 10 giorni dalla notificazione o dalla
comunicazione dell’avviso di deposito del provvedimento. Nonostante la lettera della norma, secondo la
Corte di Cassazione, in sezioni unite, il mezzo non può essere proposto personalmente dalla parte, ma
deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della corte di
cassazione. Il 2° comma prevede la possibilità di un ricorso omisso medio, là dove autorizza l’imputato ed il
suo difensore a ricorrere in cassazione per violazione di legge direttamente contro le ordinanze applicative
di una misura coercitiva, cioè prescindendo dalla previa richiesta di riesame. In tale ipotesi, la proposizione
del ricorso rende inammissibile la richiesta di riesame, anche eventualmente già presentata. Qui, il
legislatore ha dimostrato un indirizzo di favore per il ricorso, potendo questo dare benefici in chiave di
economia processuale e compiere una funzione deterrente per atteggiamenti lassisti o disinvolti, del
giudice in sede di motivazione dei provvedimenti coercitivi.
Il ricorso alla cassazione, in entrambi i casi, ha sempre dei ritmi serrati. Ciò risulta dalla disciplina della sua
presentazione presso la cancelleria del giudice a quo, il conseguente meccanismo di trasmissione degli atti
alla corte di cassazione, da parte dell’autorità giudiziaria procedente. Risulta dalla previsione che impone
alla stessa corte di decidere entro 30 giorni dalla ricezione di tali atti. Infine, i motivi debbono essere
enunciati contestualmente al ricorso, riconoscendosi al ricorrente la facoltà di enunciare nuovi motivi
dinanzi alla corte di cassazione, prima dell’inizio della discussione.

Altrettando serrate sono le cadenze previste per il giudizio di rinvio, a seguito dell’annullamento, su ricorso
dell’imputato, di una ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva ai sensi dell’art 309.
Infatti, il giudice decide entro 10 giorni dalla ricezione degli atti trasmessi dalla corte di cassazione e
l’ordinanza è depositata in cancelleria nei 30 giorni successivi.
La disposizione è integrata dalla previsione della perdita di efficacia dell’ordinanza che ha disposto la
misura. Previsione che non opera nel caso in cui l’esecuzione sia sospesa a norma dell’art 310 comma 3. In
caso di decadenza della misura per mancato rispetto delle cadenze procedimentali del riesame, anche per il
giudizio di rinvio è stabilito il divieto di rinnovazione della cautela, a meno che sussistano eccezionali
esigenze cautelari specificamente motivate.

Applicazione provvisoria di misure di sicurezza.


La disciplina dell’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza ha trovato collocazione nel libro
dedicato alle misure cautelari in forza di una scelta sistematica di tipo analogico, essendo per il resto fuori
discussione che tali misure presentano natura, presupposti e contenuti diversi rispetto alle misure cautelari
personali intese in senso proprio.

Quanto alle condizioni di applicabilità provvisoria delle misure in questione, l’art 312 stabilisce che esse
possono venire disposte dal giudice procedente, in qualunque stato e grado del procedimento, e sempre su
richiesta del PM, sulla base di un presupposto riconducibile all’area del fumus commissi delicti.
Occorre accertare, cioè, la sussistenza a carico dell’imputato di gravi indizi di commissione del fatto,
escludendo contemporaneamente la ricorrenza di una delle cause di non punibilità o di estinzione previste
quali condizioni negative delle misure cautelari personali.
Inoltre, il giudice, prima di provvedere all’applicazione di una misura di sicurezza, deve accertare in
concreto la sussistenza dell’altro tipico presupposto di queste ultime, riconducibile alla sfera del periculum
libertatis, e rappresentato dalla pericolosità sociale del soggetto contro cui si sta procedendo, in quanto
risulti rientrare nell’ambito dei soggetti a cui si riferisce. Come, a parte il minorenne, l’infermo di mente,
l’ubriaco abituale o la persona dedita all’uso di sostanze stupefacenti, o in stato di cronica intossicazione da
alcool o da stupefacenti.

La pronuncia del provvedimento applicativo della misura di sicurezza deve essere, di regola, preceduta
dall’interrogatorio dell’imputato. Necessario soprattutto nei confronti di un soggetto di cui deve essere
accertata la pericolosità. Se ciò non è possibile, l’indiziato sottoposto in via provvisoria alla misura di
sicurezza dovrà essere interrogato dal giudice per le indagini preliminari non oltre i 5 giorni dall’inizio
dell’esecuzione della stessa. Al termine di tale interrogatorio il medesimo giudice, dopo aver valutato la
sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto della misura adottata, potrà disporne la revoca.
Tipica causa estintiva delle misure di sicurezza è quella già evidenziata dall’art 206 c.p., col prevedere la
revoca delle stesse quando le persone ad esse sottoposte non siano più socialmente pericolose. Al fine di
concretizzare tale disposizione, il giudice può procedere anche d’ufficio al riesame sulla pericolosità
sociale dell’imputato, prescrivendo nuovi accertamenti, al più tardi, allo scadere del 6 mese della
pronuncia dell’ordinanza e ad ogni successiva scadenza semestrale. Questo è previsto anche per la
particolare ipotesi di applicazione della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario,
applicata ai sensi dell’art 312.

Per il resto si dispone che, ai fini delle impugnazioni dei relativi provvedimenti, le misure di sicurezza
provvisoriamente applicate vengano equiparate alla custodia cautelare. Quindi le ordinanze applicative di
tali misure potranno essere sottoposte a riesame su richiesta dell’imputato o del suo difensore a norma
dell’art 309, mentre le ordinanze corrispondenti di diniego potranno essere appellate dal PM a norma
dell’art 310. Infine, anche nei confronti delle misure di sicurezza si applicano le norme sulla riparazione per
ingiusta detenzione. Da un lato, quando il destinatario di una di tali misure sia stato prosciolto, al termine
del procedimento, con sentenza irrevocabile, prescindendo dall’accertamento circa l’eventuale difetto di
imputabilità. Dall’altro, quando il provvedimento di applicazione provvisoria della misura di sicurezza risulti
essere stato emesso o mantenuto in assenza delle condizioni di applicabilità, con riferimento ai casi previsti
dalla legge ivi richiamati.

Riparazione per ingiusta detenzione.


La disciplina di riparazione per ingiusta detenzione appartiene, lato sensu, all’area dei rimedi successivi
contro la indebita applicazione delle misure cautelari. È un istituto inedito per la nostra tradizione
codicistica, nonostante l’enunciazione di principio contenuta nella CEDU. Un istituto da coordinare con le
ipotesi di risarcimento dei danni da responsabilità civile dei magistrati in materia di provvedimenti
concernenti la libertà personale.

L’art 722bis prevede che la custodia cautelare all’estero, subita in conseguenza di una domanda di
estradizione presentata dallo Stato, è computata ai fini della riparazione per ingiusta detenzione nei casi
indicati all’art 314. Precisamente, fissando l’esigenza della riparazione sia nel caso dell’errore giudiziario sia
nel caso dell’ingiusta detenzione, il legislatore ha voluto allargare l’orbita di incidenza della procedura
riparatoria ad ogni forma di detenzione che, pur senza derivare da una sentenza passata in giudicato,
dovesse risultare ingiusta.

Così, l’art 314 ha individuato due diverse fasce di ipotesi di detenzione, come quelle nelle quali si profilano
i presupposti di una situazione di ingiustizia rilevante ai fini di una equa riparazione.
La prima fascia è riferita alla situazione dell’imputato che, dopo aver subito un periodo di custodia
cautelare, sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile per non aver commesso il fatto, o perché il fatto
non sussiste o non costituisce reato, ivi comprese le eventualità del fatto compiuto nell’adempimento di
un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, od ancora perché il fatto non è previsto dalla legge
come reato. Lo stesso vale per la persona nei cui confronti siano stati pronunciati, al termine delle indagini
preliminari, una sentenza di non luogo a procedere, con le medesime formule, o un provvedimento di
archiviazione. In tutte queste situazioni, si tratta di ipotesi in cui il rapporto tra la natura della decisione
liberatoria adottata e la restrizione sofferta risulta senza dubbio sufficiente ad attestare ex post la
sostanziale ingiustizia della restrizione.
Nelle stesse ipotesi, alla disciplina riparatoria si affianca il riconoscimento del diritto di essere reintegrato
nel posto di lavoro che occupava prima dell’applicazione della misura e dal quale sia stato licenziato a causa
della ingiusta detenzione.
Nella seconda fascia vi sono diverse fattispecie. Si parla di casi in cui l’imputato è già sottoposto a custodia
cautelare nel corso del processo, facendo riferimento alle ipotesi in cui sia stato accertato con decisione
irrevocabile che il relativo provvedimento era stato emesso, o mantenuto, senza che sussistessero le
condizioni di applicabilità. Qui non rileva una ingiustizia bensì una illegittimità, assunta come presupposto
del sorgere di un diritto alla riparazione in capo all’imputato medesimo.
L’istituto della riparazione deve essere inteso come operante anche per le ipotesi di detenzione originata
da arresto in flagranza o da fermo disposto ex art 384, nonché per le ipotesi di detenzione originata da un
provvedimento di arresto provvisorio, o di applicazione provvisoria di misura cautelare a carico
dell’estradando, in assenza delle condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione.

Si esclude la configurabilità di un diritto alla riparazione per quella parte della custodia cautelare che sia
stata computata ai fini della determinazione della misura di una pena, o per il periodo in cui le relative
limitazioni siano state sofferte anche in forza di un altro titolo.

L’art 315 dispone che la domanda di riparazione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, entro
due anni dal giorno in cui siano divenute irrevocabili le sentenze previste nella prima e seconda fascia
dell’art 314. O sia divenuta inoppugnabile la sentenza di non luogo a procedere, o dal giorno in cui il
provvedimento di archiviazione sia stato notificato al soggetto destinatario. La legittimazione a proporre
tale domanda spetta al soggetto interessato, che si trovi in una delle situazioni descritte all’art 314 o, in
casi particolari, anche ai suoi eredi. Per il resto, si rinvia alle norme sulla riparazione dell’errore giudiziario.
Per individuare la Corte di appello si usano i criteri dettati nelle disposizioni attuative.

Le misure cautelari reali.


La disciplina delle misure cautelari reali è al titolo II del libro IV. Così da poter sottolineare il loro specifico
finalismo e da poterle distinguere rispetto ad altre misure, in cui l’imposizione di un vincolo di
indisponibilità sulla cosa non corrisponde ad un’esigenza cautelare ma ad una esigenza di natura
probatoria. Come accade nelle ipotesi di sequestro penale, non a caso disciplinato tra i mezzi di ricerca
della prova.

Il codice individua due diverse specie di misure cautelari reali, accomunate da finalità cautelare, ma
distinte sul terreno delle esigenze su cui l’una e l’altra rispettivamente si riferiscono. Da un lato, il
sequestro conservativo, dall’altro il sequestro preventivo. Entrambi affidati alla competenza del giudice di
merito in omaggio alla stessa logica della riserva di giurisdizione, cui si ispira l’intero sistema delle misure
cautelari personali.

Il SEQUESTRO CONSERVATIVO vuole assicurare, tramite il vincolo posto sui beni mobili o immobili
dell’imputato, nonché sulle somme o cose a lui dovute, l’esecuzione della sentenza che potrebbe venire
emessa, tutte le volte in cui vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le relative
garanzie. Garanzie sia relative al pagamento della pena pecuniaria, delle spese procedurali e delle altre
somme dovute all’erario statale, sia per l’adempimento delle obbligazioni civili da reato, estensibile anche
ai beni del responsabile civile.
Novità è la soppressione dell’ipoteca legale, grazie all’incidenza del sequestro conservativo anche ai beni
immobili. Ma lo è anche l’organica disciplina dell’offerta di cauzione e della prevista conversione del
sequestro in pignoramento, quale conseguenza del giudicato di condanna. Precisamente, l’estinzione della
misura cautelare patrimoniale e la sua conversione in pignoramento, non estinguono il carattere
privilegiato dei crediti tutelati tramite il sequestro. Salva restando la priorità dei crediti della parte civile
rispetto a quelli dello Stato.

Il SEQUESTRO PREVENTIVO, usato per le misure di coercizione reale per esigenze di prevenzione, si
caratterizza per il suo finalismo cautelare. Si basa sul presupposto che sia stata accertata la sussistenza di
elementi idonei a suffragare la configurabilità in concreto della fattispecie di reato ipotizzata, mentre non è
richiesta la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico di un soggetto indagato o imputato.
Precisamente, si stabilisce che, anche prima dell’esercizio dell’azione penale, il giudice può disporre con
decreto motivato il sequestro delle cose pertinenti al reato, tutte le volte in cui la libera disponibilità delle
stesse possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato stesso o agevolare la commissione di altri reati.
Al di fuori di tali casi, il sequestro è rimesso alla discrezionalità del giudice, mentre diventa obbligatorio
nel corso dei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione. Le
disposizioni concernenti il sequestro preventivo si applicano anche alla fattispecie di sequestro dei beni nei
confronti dei beni della persona vittima di sequestro estorsivo, al suo coniuge e alle altre persone ivi
indicate.
Se, durante le indagini preliminari, è impossibile attendere il provvedimento del giudice competente per la
fase, il sequestro preventivo può essere disposto con proprio decreto dal PM, e vi potranno procedere di
loro iniziativa anche gli ufficiali di polizia giudiziaria, salva la necessaria trasmissione al medesimo pubblico
ministero del relativo verbale entro 48. Il sequestro perde efficacia se entro le successive 48 ore il pubblico
ministero non ne abbia richiesto al giudice la convalida e l’emissione del decreto di sua competenza, o
quando il giudice non emetta il suddetto provvedimento di convalida entro 10 giorni dalla ricezione di tale
richiesta.
È previsto che la misura venga revocata dal giudice o dallo stesso PM, durante le indagini preliminari,
quando si accerta l’insussistenza delle esigenze di prevenzione che l’avevano giustificata, anche per fatti
sopravvenuti.

Con riguardo alla perdita di efficacia del sequestro preventivo conseguente alla pronuncia di determinate
sentenze, vi sono due specifiche previsione relative al fenomeno della conversione del medesimo in altre
figure di sequestro.
Ci si riferisce, da un lato, all’ipotesi di conversione del sequestro preventivo in sequestro probatorio tutte
le volte in cui il primo, abbia perso di efficacia a seguito di una sentenza di proscioglimento o di non luogo a
procedere, peraltro impugnata dal PM. In tali casi, il giudice, se la cosa ha interesse sotto il profilo
probatorio, dispone il mantenimento del sequestro a tale scopo su un solo esemplare della stessa,
disponendo la restituzione degli altri esemplari.
Dall’altro, risalta l’ipotesi di conversione conseguente alla pronuncia di una sentenza di condanna, solo
quando non sia stata disposta la confisca delle cose sequestrate in via preventiva. In tale ultimo caso,
dovranno rimanere fermi gli effetti del sequestro. Al di fuori di tale caso, si dovrà ordinare la restituzione di
tali cose. Ma il giudice potrà disporre la conversione del sequestro preventivo in sequestro conservativo, ove
vi siano i presupposti, dietro richiesta del PM o della parte civile. Sia nell’ipotesi di sentenza di non luogo a
procedere o di proscioglimento, sia nell’ipotesi di sentenza di condanna.

Si deve tenere presente, in ogni caso, il diverso fenomeno della conversione del sequestro penale in una
delle due figure di sequestro cautelare, quale risulta dalla disciplina per la restituzione delle cose
sequestrate a fini probatori, quando si profili una situazione idonea ad integrare i presupposti del
sequestro conservativo o del sequestro preventivo. Più precisamente si prevede che la restituzione non
deve essere disposta se vi sono gli estremi per l’adozione di una misura cautelare reale. In tali casi si dovrà
ordinare o il sequestro preventivo o quello conservativo.

Il sistema dei RIMEDI contro i provvedimenti di sequestro, fa perno sullo strumento del riesame di fronte al
tribunale in composizione collegiale, sia contro l’ordinanza di sequestro conservativo, sia contro il decreto
di sequestro preventivo, dopo che analoga previsione era stata dettata per il sequestro per finalità
probatorie. La richiesta di riesame non sospende l’esecuzione del provvedimento di sequestro.
Il procedimento di riesame è delineato all’art 324 sulla falsariga dell’istituto previsto in materia di misure di
coercizione personale, ivi compresi i meccanismi del contraddittorio richiamati tramite il rinvio all’art 127.
Con l’Ulteriore particolarità rappresentata dalla previsione del deposito degli atti nella cancelleria del
tribunale in composizione collegiale competente su base provinciale, ancorché senza esplicito riferimento
al diritto del difensore di esaminarli e di estrarne copia.
Nel caso di contestazione sulla proprietà delle cose sequestrate, il giudice del riesame dovrà rimettere la
decisione della controversia al giudice civile, mantenendo fermo il sequestro.
Gli aspetti procedurali, la disposizione richiama anche l’art 309 comma 9, 9bis e 10. Dubbio se debba
essere considerato come riferito al testo originario o a quello innovato.
Secondo la corte di cassazione, il rinvio al 10 comma deve essere riferito alla formulazione codicistica
originaria. Dunque, non comporta l’applicazione, in materia di misure reali, né del congegno caducatorio
per omessa trasmissione degli atti, né del divieto di rinnovazione della misura.
Mentre il rinvio al comma 9 e 9 bis va riferita al testo attuale delle norme.

Infine, si prevede che tutte le ordinanze emesse dal tribunale in sede di riesame, intorno ai provvedimenti
di sequestro, siano suscettibili di ricorso per cassazione. Tuttavia, si ammette che lo stesso ricorso possa
essere proposto direttamente contro i medesimi provvedimenti di sequestro con la conseguenza che in
tale caso il ricorso rende inammissibile la richiesta di riesame.
Fuori dei casi di riesame del decreto di sequestro preventivo, l’imputato, il PM, e le altre persone
interessate alle cose sequestrate hanno il diritto di proporre appello al tribunale, collegiale, contro le
ordinanze in materia di sequestro preventivo, nonché contro il decreto di revoca eventualmente emesso
dal PM. Mentre nulla del genere si dice per quanto riguarda i corrispondenti provvedimenti in materia di
sequestro conservativo. Anche per le ordinanze emesse dal tribunale in sede di appello è ammesso ricorso
in cassazione.

LE INDAGINI PRELIMINARI E UDIENZA PRELIMINARE CAP 5


Finalità e caratteri essenziali.
Il Libro V intitolato indagini preliminari e udienza preliminare introduce la parte dinamica del codice,
disciplinando la fase del procedimento precedente al giudizio e agli epiloghi della stessa.

Mentre l’istruzione è ora dislocata nel cuore del dibattimento, luogo elettivo di formazione della prova, la
locuzione indagini preliminari allude ad una attività di individuazione e di raccolta di dati utili a stabilire se
il processo debba o meno essere istaurato. Questo permette di sottolineare la centralità del dibattimento.

I rapporti tra la fase preliminare e giudizio sono il nodo cruciale nell’architettura di un modello processuale:
perché le regole che governano l’attività di ricerca del materiale probatorio plasmano le linee giudiziali e il
metodo del conoscere giudiziale accolto si riverbera all’indietro, segnando i connotati dell’attività di
reperimento di quello stesso materiale. L’adozione di un rito dai caratteri accusatori e di un metodo di
conoscenza a struttura dialettica, individuando nel contraddittorio il baricentro dell’accertamento, postula
una attività di indagine meramente preparatoria.

L’art 326 dispone che le indagini preliminari devono essere finalizzate al reperimento di elementi necessari
per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale (finalità delle indagini preliminari).

Nelle nuove cadenze impresse al tradizionale impianto, l’esercizio dell’azione penale (atto introduttivo del
processo) è stato collocato a valle del tempo delle indagini, mentre queste sono state estromesse dal
terreno giurisdizionale, in quanto funzionali ad assumere elementi necessari per l’azione ma privi di valore
probatorio per il giudizio.

A sottolineare l’idea di una netta separazione tra le fasi del procedimento, assumendo l’azione penale
come linea di confine tra indagini e giudizio, il legislatore ha avuto minuziosa cura anche terminologica nel
distinguere il prima e il dopo, riservando la definizione di processo alla parte del procedimento connotata
dalla giurisdizione ed introdotta dalla imputazione, indicando con il termine procedimento la fase delle
indagini. Designando nella persona sottoposta alle indagini il protagonista del primo scenario accusatorio
ed individuando nell’imputato il soggetto destinatario di una imputazione, nella domanda introduttiva della
sequenza procedurale destinata a concludersi con una indefettibile risposta giurisdizionale. Infine,
attribuendo distinte etichette agli atti di indagine del PM rispetto agli atti di prova dall’analogo contenuto
compiuti innanzi al giudice.
La progressiva presa d’atto della pervasività (capacità di diffondersi) degli atti compiuti dal PM ha condotto
ad una giurisdizionalizzazione della fase di indagine, esigendo un rafforzamento delle garanzie e maggiori
spazi difensivi. Sulla stessa lunghezza d’onda, una spinta concorrente ha contribuito ad un mutamento della
primitiva impostazione. La perdita di centralità del dibattimento, dovuta alle rilevanti modifiche apportate
alla disciplina dell’udienza preliminare e del giudizio abbreviato, ha mutato lo scenario rispetto al quale
l’organo di accusa era chiamato ad operare le sue determinazioni per l’esercizio dell’azione.

Il PM, tenuto comunque a svolgere ogni attività necessaria, è ora chiamato a irrobustire il quadro
probatorio per passare il vaglio dell’udienza preliminare. Inoltre, l’organo dell’accusa è tenuto a svolgere
le indagini complete al fine di ottenere una piattaforma probatoria sufficientemente convincente, in vista
di una possibile richiesta dell’imputato di essere giudicato allo stato degli atti in sede di giudizio abbreviato.
Quel rito consente all’imputato, se solo lo richieda, di essere giudicato esclusivamente sul materiale
conoscitivo raccolto in fase preliminare. Se tale materiale fosse insufficiente o contraddittorio, l’imputato
otterrebbe una facile impunità.

L’art 326 ha rappresentato, fin dal principio, una sineddoche normativa, illustrando, cioè, solo una parte
degli usi dei risultati di indagine. La formula, focalizzandosi sui nuovi rapporti tra indagini e dibattimento, ha
lasciato in ombra l’idoneità dei risultati di indagine di supportare una serie di decisioni da adottarsi
all’interno della stessa fase o successivamente. Come quelle decisioni suscettibili di incidere sui diritti
fondamentali, sulla base di elementi acquisiti in sede di indagine. Come le ordinanze restrittive della libertà
personale di natura cautelare, le quali, pur adottabili in ogni fase, sono frequentemente adottate nel
contesto preprocessuale. Non si può trascurare nemmeno il fatto che tali elementi erano suscettibili fin da
principio di assumere valore probatorio nei giudizi speciali caratterizzati dall’essere privi di dibattimento,
ed anche nel dibattimento, nelle ipotesi specificamente regolate dalla legge, oggi riconducibili ai tre ambiti
di deroga al contraddittorio nella formazione della prova.

I protagonisti dell’attività investigativa .


Protagonisti dell’attività di indagine preliminare sono il PM e la polizia giudiziaria.

Il PM, titolare dell’obbligo di esercitare l’azione penale, ha la direzione delle indagini. Compie
personalmente ogni attività necessaria ai fini indicati nell’art 326.
L’obiettività della sua natura di organo pubblico, gli impone di compiere accertamenti anche su fatti e
circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. Tale potere non vuole sostituire l’attività
difensiva, bensì è correlato alle disposizioni che pongono al PM l’alternativa, da sciogliersi al termine delle
indagini preliminari, tra la richiesta di archiviazione e l’esercizio dell’azione penale.
Ciò è stato chiarito dalla Corte costituzionale che ha definito l’obbligatorietà dell’azione penale un principio
che non comporta l’esercizio dell’azione penale ogni volta che il PM viene raggiunto da una notizia di reato.
L’obbligatorietà dell’azione penale deve essere contemperata con il fine di evitare l’instaurazione di un
processo superfluo. Fine che si realizza anche con l’obbligo di svolgere accertamenti a favore della persona
sottoposta alle indagini.
La polizia giudiziaria affianca il PM in un ruolo ancillare, che si colloca nel solco dell’art 109 Cost, stando al
quale l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria. Infatti, se l’art 326 lascia presagire
una diversità di ruoli operativi, l’art 327 esplicita la portata dell’indicazione all’articolo precedente,
definendo che il PM dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria. La disponibilità degli
organi di polizia nel corso delle indagini è affidata solo all’organo di accusa, non anche al giudice.

La stretta subordinazione dell’una all’altro risulta, oggi, in parte attenuata. Questo non ha turbato
formalmente il ruolo di dominus delle indagini. Ma a seguito di questa rivisitazione dei ruoli spicca la
presenza di un soggetto libero di esplicare l’attività investigativa secondo linee di azione non
necessariamente asservite alla guida dell’autorità giudiziaria.
Alle indagini della polizia giudiziaria e del PM sono dedicati i titoli IV e V del libro V. Il modello dei nuovi
equilibri tra i due protagonisti della fase investigativa trova un riscontro anche nella collocazione della
disciplina nel codice. L’attività a iniziativa della polizia giudiziaria precede quella delle indagini del PM.
Suggerendo che la prima può trovare spazio solo fino al momento in cui il magistrato non avesse impartito
le necessarie direttive. Una volta assunta la direzione delle indagini ogni autonomia investigativa è preclusa.
Nell’assetto codicistico compaiono, però, i temperamenti aggiunti nella disciplina. Come l’allentamento
del vincolo di dipendenza funzionale che lega la polizia giudiziaria al PM, che trova un primo riscontro nelle
disposizioni generali introduttive della disciplina della fase preliminare.
L’art 327: La polizia giudiziaria, “anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere
attività di propria iniziativa secondo le modalità indicate nei successivi articoli”.

Il segreto sugli atti di indagine.

Al fine di impedire che la conoscenza degli atti investigativi compiuti dal PM e dalla polizia giudiziaria
possa pregiudicare l’individuazione e la raccolta degli elementi necessari per l’esercizio dell’azione penale,
entrambi i soggetti sono tenuti all’obbligo del segreto.

Il segreto sugli atti di indagine - nella sua dimensione interna, destinata ad operare nei confronti dei
protagonisti della vicenda processuale - rischia di essere un ostacolo per le chances difensive. Perciò la
necessità di tutelare gli esiti dell’indagine deve cedere davanti all’esigenza di garantire il diritto di difesa
della Costituzione. La quale si concreta nel diritto, della persona sottoposta alle indagini, di essere
informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico, e deve poter disporre
del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa, di cui è menzione nell’art 111 Cost.
Il segreto riguarda gli atti di indagine compiuti dal PM e dalla polizia giudiziaria, nonché le richieste del
PM di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali
richieste. Di regola si estende per tutto l’arco delle indagini. Ma cade ogni volta che l’imputato può o deve
avere conoscenza dell’atto. Questo avviene o quando l’atto è formato necessariamente in sua presenza,
perché lo contempla quale protagonista dello stesso, o perché l’atto rientra nel novero di quelli cui lo stesso
indagato o il suo difensore possono assistere, con diritto o senza diritto di esserne preavvisati. O quando
l’atto venga usato a sostegno di una richiesta avanzata dal PM al giudice in vista di una sua decisione
endofasica.

Il segreto sugli atti di indagine – nella sua dimensione esterna – vuole impedire che la conoscenza
dell’attività investigativa si diffonda anche presso soggetti non direttamente coinvolti nel processo penale.
Infatti, di questi stessi atti è previsto un divieto di pubblicazione, di carattere assoluto.
Regime particolare è per le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni, rispetto alle quali il segreto
non cade al momento della conoscenza degli stessi da parte dell’imputato ma è subordinato alla
acquisizione del fascicolo, secondo le forme previste dalla legge.
Salva quelle ipotesi di deroga al segreto, correlate alla circolazione di copie e informazioni tra autorità
giudiziarie o tra autorità giudiziarie ed amministrative, esigenze di efficienza delle indagini possono
consentire al PM di derogare al regime di segretezza degli atti dettato nell’art 329, con i provvedimenti di
cui al 2° e 3° comma. Sono provvedimenti di segno opposto. Al 2° comma (desegretazione) si prevede che,
se necessario per le indagini, il PM può consentire, con decreto motivato, la pubblicazione di singoli atti o di
parti di essi. Gli atti pubblicati sono depositati presso la segreteria del PM.
Al 3° comma (segretazione) si prevede una duplice ipotesi. Il PM può prorogare con, decreto motivato, il
segreto su singoli atti quando l’imputato lo consente o quando la conoscenza dell’atto può ostacolare le
indagini riguardanti altre persone, o può disporre un divieto di pubblicare il contenuto di singoli atti o
notizie specifiche relative a determinate operazioni.
I diritti della difesa e il ruolo delle parti private.
La segretezza dell’impianto accusatorio in itinere è suscettibile di condizionare i diritti difensivi della
persona già raggiunta da indizi di reità. Tuttavia, non ne impedisce ogni esplicazione. Se è vero che, salvi i
diritti di partecipazione espressamente previsti, la conoscenza degli atti può avvenire solo al termine delle
indagini, l’esigenza di segretezza della fase non si spinge fino ad impedire all’imputato di avere notizia
della pendenza di un procedimento nei suoi confronti.

Sulla premessa della possibilità di conoscere l’ipotesi di reato provvisoriamente elevata a suo carico si
registra come la centralità del PM abbia subito un parziale spostamento a beneficio della posizione del
principale interessato.
A seguito della legge 2000 n 397, si è introdotta una compiuta regolamentazione delle investigazioni
difensive. E tra i protagonisti della fase delle indagini, compaiono ora anche i DIFENSORI. Che possono
svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, fin dal
momento dell’incarico professionale. Incarico che può essere conferito in ogni stato e grado del
procedimento, nell’esecuzione penale e per promuovere il giudizio di revisione. Può ricevere apposito
mandato che lo abiliti a svolgere indagini, con esclusione degli atti che richiedono autorizzazione o
intervento dell’autorità giudiziaria, anche prima che si istauri un procedimento penale e per la mera
eventualità che ciò avvenga.
Il difensore può investigare personalmente o conferire apposito incarico ad un sostituto, ad investigatori
privati autorizzati o a consulenti tecnici (se vi sono le esigenze). Ai soggetti che collaborano con il
difensore nell’attività investigativa sono riconosciute le stesse garanzie di libertà del difensore. Al fine di
garantire la professionalità ed il corretto esercizio della attività degli investigatori privati, questi devono
essere muniti di apposita autorizzazione del prefetto. Non vi sono analoghe garanzie per i consulenti tecnici
dei difensori. Non necessariamente vengo scelti dall’albo dei periti, invece lo è per il PM.

Tra i molti modelli possibili per realizzare un procedimento che veda i soggetti posti in una posizione di
tendenziale parità, alla indagine ufficiale si è giustapposta una privata, una vera e propria attività di
investigazione, speculare a quella compiuta dall’organo di accusa, nei limiti della differenza tra parte
pubblica e imputato nel processo penale, specificatamente nella fase delle indagini. A segnare la diversità
dei due ruoli è l’onere di obiettività che grava sul PM e non sul difensore. D’altro canto, la difesa non
scompare dall’orizzonte di una fase che pure reca tra i suoi tratti principali la segretezza. Segretezza che
cede davanti ai diritti dell’indagato, là dove vengano in gioco interessi preminenti. Infatti, la partecipazione
del diretto interessato e del suo difensore agli atti compiuti dagli organi di indagine è modulata
diversamente a seconda delle esigenze di tutela dell’atto da compiersi.

Diritti di informazione e partecipazione della persona offesa sono in un certo modo analoghi a quelli
riconosciuti alla persona sottoposta alle indagini. Il ruolo di questa è stato progressivamente valorizzato
grazie a recenti direttive europee che hanno intensificato gli obblighi informativi connessi ad alcuni
significativi momenti della fase preliminare.
Non partecipano alle indagini le parti eventuali, legittimate a costituirsi per l’udienza preliminare. Tuttavia,
nulla impedisce che i relativi difensori svolgano attività di indagine difensiva anche prima della loro formale
costituzione.

D’altro canto, un giudice presidia ogni snodo cruciale prospettato nel corso della fase investigativa,
tutelando i diritti fondamentali della persona e la correttezza delle dinamiche del procedimento. L’art 328
dispone in tal senso, prevedendo che il giudice per le indagini preliminari provvede sulle richieste
provenienti dal PM, dalle parti private e dalla persona offesa.

Il ruolo del giudice per le indagini preliminari.


La presenza di un giudice in una fase non giurisdizionale è necessaria perché gli atti di indagine incidono
su diritti costituzionalmente garantiti. Per salvaguardare il carattere non giurisdizionale della fase
preliminare, il legislatore dell’88 ha affidato le decisioni incidenti du tali diritti ad un giudice monocratico,
denominato per le indagini preliminari. Ne ha tratteggiato i poteri per evitare interventi contrari
all’imparzialità e segnare la netta diversità dal giudice istruttore, ibrido attore dell’ordinamento processuale
previgente.

Il giudice interviene su richiesta del PM, delle parti private e della persona offesa dal reato ed
esclusivamente nei casi previsti dalla legge. La disciplina dei suoi poteri non riceve una regolamentazione
unitaria.
Tra i suoi compiti principali vi sono i poteri di controllo in ordine a decisioni incidenti sulle libertà
fondamentali, sui diritti alla proprietà o alla disponibilità dei beni. In particolare può essere chiamato ad
emettere provvedimenti di natura cautelare concernenti la libertà personale o analoghi provvedimenti
reali; a disporre la convalida di misure precautelari adottate dal PM o polizia giudiziaria; a disporre
l’accompagnamento coattivo; autorizzare atti che incidono sulla inviolabilità delle comunicazioni e sul
domicilio; a pronunciare provvedimenti concernenti prelievi coattivi di campioni biologici; a decidere sulla
restituzione di cose sequestrate; sulla richiesta di sequestro da una parte privata e rispetto alla quale il PM
non abbia ritenuto di disporre il sequestro.
Interviene per tutelare diritti strettamente collegati alla dinamica processuale. A tutela del diritto di difesa
compie accertamenti sulla capacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo, e decide sulla
dilazione del diritto dell’imputato privato della libertà di conferire immediatamente con il difensore.
Interviene se necessario per compensare lo squilibrio tra parte pubblica e privata, autorizzando il
difensore a conferire, ricevere dichiarazioni o assumere informazioni da persona detenuta nel corso delle
indagini preliminari. Oppure decide sulla richiesta di un difensore di ottenere documenti dalla Pubblica
amministrazione, se questa rifiuta. Può autorizzare il difensore all’accesso ai luoghi privati o no aperti al
pubblico. Infine, se necessario anticipare l’acquisizione della prova, interviene per assicurare la
formazione del contraddittorio, con il potere di ammettere e dirigere l’incidente probatorio.
Altre ipotesi di intervento dell’organo giurisdizionale sono previste per garantire l’obbligatorietà
dell’esercizio dell’azione penale. Come i poteri sui tempi di svolgimento delle indagini; i poteri sui
presupposti per il loro ulteriore sviluppo, nonché sulle determinazioni in materia del Pubblico ministero,
essendo demandata al giudice sia la delibazione della scelta di non procedere sia la verifica sull’esercizio
dell’azione esercitata tramite richiesta di rinvio a giudizio.
Infine, il giudice delle indagini preliminari diviene organo del giudizio, quando le parti si orientano per una
procedura alternativa al dibattimento. Quindi, accederà alla dimensione della giurisdizione, essendo
chiamato a definire il processo, quando il PM abbia richiesto il decreto penale di condanna, le parti si siano
accordate per l’applicazione della pena su richiesta, l’imputato abbia avanzato richiesta di giudizio
abbreviato o lo stesso imputato abbia richiesto la sospensione della pena con messa alla prova.

Le funzioni del giudice per le indagini preliminari sono svolte da un magistrato del tribunale nel cui
circondario è stato commesso il reato. Regole peculiari di competenza sono previste nel caso di
procedimenti per alcuni gravi delitti: quando, la titolarità delle indagini è di un magistrato dell’ufficio del PM
presso il tribunale del capoluogo del distretto, le funzioni di giudice per le indagini preliminari sono svolte
da un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.
Regola analoga riguarda i delitti all’art 51 comma 3-quinquies.

Le funzioni di giudice per le indagini preliminari vanno attribuite ad un medesimo magistrato. Cioè nel
determinare i criteri per l’assegnazione degli affari penali si deve stabilire la concentrazione, dove possibile,
in capo allo stesso giudice dei provvedimenti relativi al medesimo procedimento. Inoltre, il magistrato che
ha svolto le funzioni di giudice per le indagini preliminari non potrà svolgere le funzioni nell’udienza
preliminare.
L’avvio del procedimento.
Il procedimento prende avvio con l’acquisizione di una NOTIZIA DI REATO. È tale ogni prospettazione
attendibile di un fatto storico idoneo ad integrare gli estremi di un reato. È quindi una ipotesi di reato, che
è compito del processo penale verificare, a concretare la quale basta un fumus di rilevanza penalistica di un
fatto, anche non soggettivamente attribuito.

Vi sono due modalità di acquisizione della notizia di reato, a seconda che gli organi inquirenti rivestano un
ruolo propulsivo nella ricerca delle notitiae criminis o fungano da collettori delle stesse. È lo stesso codice a
dettare le forme tipiche attraverso le quali le notizie di reato, presentate o trasmesse a norma degli articoli
seguenti, sono ricevute dagli organi inquirenti. Denuncia da parte di pubblici ufficiali e incaricati di un
pubblico servizio, denuncia da parte di privati, referto, sono notizie qualificate. Accanto a queste ultime,
quando la legge prevede una necessaria condizione di procedibilità, le dichiarazioni di querela, istanza,
richiesta, nel voler esprimere la volontà di rimuovere l’ostacolo alla procedibilità, possono fungere anche da
veicolo per la notizia di reato, sempre che la stessa non sia già nella disponibilità degli organi inquirenti.
Fuori da tali ipotesi, la notizia di reato può derivare da qualsiasi fonte che si palesi alle autorità inquirenti,
anche nella attività loro riconosciuta di prendere notizia dei reati di propria iniziativa. Si tratta di notizie non
qualificate. Cioè tutti gli eventi fenomenici idonei a prospettare la commissione di un reato, come la notizia
di fonte giornalistica, un’informazione confidenziale

Un ruolo attivo nella ricerca di elementi penalisticamente rilevanti ce l’ha l’attività svolta dalla polizia, la
quale nell’assommare in sé la duplice funzione di carattere amministrativo e giudiziario, beneficia
dell’osmosi tra le due diverse sfere di competenza. A seguito dell’approvazione del codice vigente, il
legislatore ha esteso tale potere di iniziativa anche al PM, come antidoto ad un possibile condizionamento
della sua funzione di propulsore della giurisdizione. Tale potere se venisse lasciato alla sola polizia
giudiziaria, subordinata al potere esecutivo, rischierebbe di creare una eventuale messa a tacere di episodi
politicamente sensibili.
Ma la simmetria tra le due sfere operative dei due soggetti è solo apparente. Rientra nelle attribuzioni
degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria il dovere di prendere notizia dei reati e di riferirne
all’autorità giudiziaria. Chi abbia avuto notizia di un reato e non lo abbia comunicato con apposita
informativa, nei casi in cui fosse obbligatorio, viene sanzionato penalmente. Invece, il singolo magistrato
non sembra avere analoghi obblighi. Infatti, sembra esserci una mera facoltà per il magistrato, venuto a
conoscenza, fuori dall’esercizio delle sue funzioni, di fatti che possono determinare l’inizio dell’azione
penale o di indagini preliminari, di segnalarli per iscritto al titolare dell’ufficio. Spetterà al titolare
dell’ufficio, se informato, adottare i provvedimenti conseguenti a quella segnalazione. Questo, quando non
vi sono i presupposti per la richiesta di archiviazione e non intende procedere personalmente, provvede a
designare per la trattazione uno o più magistrati d’ufficio.

Poiché l’attività procedimentale, serrata entro confini anche temporali ben precisi, ha inizio solo a seguito
di una notizia di reato, il quesito che si pone in relazione al potere di prendere notizia dei reati è quello
concernente la liceità nonché l’estensione della attività investigativa che venga compiuta prima di quel
momento. Secondo la giurisprudenza, si tratta di attività lecita in quanto preordinata ad acquisire e
precisare gli estremi della notizia di reato, fino a che non incida su valori costituzionalmente protetti quali
i diritti di libertà. Sono non consentiti i provvedimenti cautelari incidenti sulla libertà, gli atti di indagine
invasivi, quali perquisizioni e sequestri, ispezioni o intercettazioni di conversazioni o comunicazioni.

La notizia di reato non è essa stessa un atto di indagine e non è assoggettata alla disciplina propria di quegli
atti. Ciononostante, la relativa disciplina è inclusa tra le norme attinenti alla dinamica processuale grazie
alla stretta connessione con prerogative e doveri che ne derivano in capo agli organi di indagine.
Per lo sviluppo procedimentale, LA NOTIZIA DI REATO DEVE ESSERE ISCRITTA IN UN APPOSITO
REGISTRO, non appena è acquisita dal PM o è stata comunicata a quest’ultimo dalla polizia giudiziaria. il
PM deve iscrivere immediatamente la notizia di reato, che gli perviene o che ha acquisito di sua iniziativa,
in apposito registro, custodito presso l’ufficio. Questo anche quando la notizia non è soggettivamente
determinata. Da quando risulterà si dovrà inserire, anche, il nome della persona alla quale il reato stesso è
attribuito. Il PM deve aggiornare l’iscrizione, qualora muti la qualificazione giuridica del fatto o risulti
diversamente circostanziato, senza procedere a nuove iscrizioni. In tutti gli altri casi, gli eventuali
mutamenti porteranno ad una nuova iscrizione. Da tale adempimento decorrono il termine di durata delle
indagini, il termine per la richiesta del giudizio immediato, del decreto penale di condanna e del giudizio
direttissimo nei confronti dell’indagato che ha reso confessione. Dallo stesso momento sembra decorrere il
termine di 6 mesi per la richiesta di rinvio a giudizio.
Il PM è tenuto, non appena è riscontrata la corrispondenza di un fatto di cui abbia avuto notizia ad una
fattispecie di reato, a provvedere alla iscrizione della notitia criminis, senza avere un potere discrezionale.
Ma l’assenza di una sanzione, in caso di inottemperanza, genera il rischio che tra l’acquisizione e la
trascrizione della notizia di reato possa intercorrere un lasso di tempo indefinito e incontrollato. Per
evitare eventuali manovre elusive o comportamenti negligenti, la giurisprudenza ha individuato una
soluzione, prospettando l’eventualità di una retrodatazione del dies a quo di durata delle indagini, tutte le
volte in cui fosse accertata la tardiva trascrizione. Ma la Corte di cassazione ha precisato che, fermo
restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinari o penali nei confronti del PM negligente,
l’apprezzamento della tempestività dell’iscrizione è valutazione discrezionale del PM ed è sottratto al
sindacato del giudice. La legge 103 del 2017 non ignora il problema, ma il suo intervento è limitato ad
alcune modifiche delle norme di ordinamento giudiziario finalizzate a rafforzare i poteri di controllo
demandati ai dirigenti degli uffici requirenti.
Sarà il Procuratore della Repubblica ad assicurare insieme al corretto, puntuale ed uniforme esercizio
dell’azione penale, anche l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato. Il
procuratore generale presso la corte d’appello, nell’ambito del suo potere di vigilanza, acquisisce dati e
notizie dalle procure della Repubblica del distretto ed invia al procuratore generale presso la Corte di
cassazione una relazione, almeno annuale.

L’obbligo di iscrizione, della notizia di reato in apposito registro, scatta quando si tratta di informazione
dotata degli elementi per definirsi tale. Qualora sia, invece, una pseudo notizia di reato, il PM dovrà
iscrivere la stessa in un diverso registro, esistente presso ogni procura della Repubblica, trasmettendo poi
direttamente gli atti all’archivio (il c.d. potere di cestinazione o archiviazione diretta), senza richiedere al
giudice su di essa un formale provvedimento di archiviazione. Tale potere può prestarsi a disinvolte
operazioni di deflazione del carico penale, poiché sottrae al giudice il controllo sull’inazione. Il giudice,
secondo la giurisprudenza, dovrà comunque pronunciarsi qualora il PM abbia rivolto al giudice la richiesta
di archiviazione.

UN OBBLIGO DI DENUNCIA è posto ai pubblici ufficiali e agli incaricati di un pubblico servizio, che
nell’esercizio o a causa delle loro funzioni hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, i quali devono
procedervi anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito. L’apprensione
dell’informazione su un fatto costituente reato deve avvenire nell’esercizio o a causa delle funzioni o del
servizio. Diversamente, l’art 333 prevede la facoltà per ogni soggetto privato di denunciare.
Tutto questo vale salvo però che non si tratti di informativa della polizia giudiziaria che deve prendere
notizia dei reati ed informarne il PM con le cadenze e le modalità stabilite all’art 347.

Tra i Pubblici ufficiali sono ricompresi anche i magistrati. Se nel corso di un procedimento civile o
amministrativo, emerge un fatto nel quale si può configurare un reato perseguibile d’ufficio, l’autorità che
procede, redige e tramette senza ritardo la denuncia al PM. In realtà, anche se non espressamente
considerato nell’art 331, anche il giudice penale può essere il soggetto tenuto alla informazione.
La denuncia deve essere redatta per iscritto, eventualmente con unico atto proveniente e sottoscritto da
più persone obbligate alla denuncia per il medesimo fatto. I contenuti della denuncia sono previsti all’art
332. In particolare, contiene la esposizione degli elementi essenziali del fatto e indica il giorno
dell’acquisizione della notizia, nonché le fonti di prove già note. Contiene, inoltre, quando è possibile, le
generalità, il domicilio e ogni altro elemento valido per identificare la persona alla quale il fatto è attribuito,
la persona offesa e coloro che sia in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti.
La denuncia può essere trasmessa o presentata senza ritardo al PM ma anche ad un ufficiale di polizia
giudiziaria, salvo che nell’ipotesi al 4° comma dell’art 331, in cui è l’autorità procedente a redigere la
denuncia ed inviarla direttamente al PM.

La denuncia da parte di privati è facoltativa, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, in cui la
relativa omissione è penalmente sanzionata. Come nei casi di omessa denuncia di un delitto contro la
personalità dello Stato per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo, o l’omessa denuncia di cose
provenienti da delitto. Oppure la omessa denuncia di furto o smarrimento di armi o di parti di esse o di
esplosivi.
La denuncia di un privato può essere presentata oralmente o per iscritto (se scritta, deve essere
sottoscritta dal denunciante o da un suo procuratore speciale) - personalmente o a mezzo di procuratore
speciale - al PM o a un ufficiale di polizia giudiziaria, il quale ha obbligo di rilasciare una ricevuta.

La denuncia anonima non può essere usata in alcun modo, non essendo nota l’identità del soggetto
dell’informazione, quindi non varrà come notizia di reato e nemmeno sarà iscritta nell’apposito registro.
Verrà iscritta, piuttosto, in un suo apposito registro. E, inoltre, il PM e la polizia giudiziaria, fermi restando i
limiti della attività preprocedimentale, possono trarre spunto per la loro attività da un’informazione anche
anonima, attivandosi per verificare se dall’atto anonimo possano ricavarsi gli estremi utili per
l’individuazione di una notitia criminis.

IL REFERTO è la denuncia cui sono obbligati gli esercenti una professione sanitaria che abbiano prestato la
propria opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile d’ufficio. Vi sono
obbligati coloro che svolgono una professione sanitaria principale o secondaria, non coloro che svolgono
mestieri espressione della arte medica, come ottici o odontotecnici. I medici che svolgono la loro attività in
strutture pubbliche, in quanto pubblici ufficiali, non rientrano tra i soggetti obbligati al referto ma sono
sottoposti alla disciplina dell’art 331. L’obbligo, per il professionista sanitario, di collaborare nei confronti
dello Stato prevale sul segreto professionale.
L’obbligo del referto viene meno e così anche la sanzione penale quando la notizia del reato è suscettibile di
esporre la persona assistita a conseguenze di carattere penalistico. Ciò per evitare che il soggetto
bisognoso di cure debba scegliere tra il precludersi l’accesso alla assistenza sanitaria o il sottoporsi alle cure
con il rischio di essere incriminato.
Il referto deve pervenire entro 48 ore o immediatamente, se vi è pericolo di ritardo, al PM o a qualsiasi
ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in cui, chi è obbligato a redigerlo ha prestato la propria opera o
assistenza o, in loro mancanza, all’ufficiale di polizia giudiziaria più vicino.
La forma scritta del referto è suggerita dal testo normativo, che prevede un dettagliato contenuto. Nel
referto si deve indicare ogni elemento utile ad identificare e a rintracciare la persona alla quale è stata
prestata assistenza, ogni circostanza in cui questa è stata presentata, nonché le notizie che servono a
stabilire le circostanze del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può
causare.

Infine, per garantire la massima esplicazione del diritto di difesa nel processo penale, il legislatore precisa
che il difensore e gli altri soggetti previsti al’art 391bis (colloquio, ricezione di dichiarazioni e assunzioni di
informazioni da parte del difensore) non hanno obbligo di denuncia neppure relativamente ai reati dei
quali abbiano avuto notizia nel corso delle loro attività investigative. Questo è specificato poiché la natura
del difensore-investigatore è controversa. Secondo la prevalente interpretazione, egli opera per far valere
interessi di parte, quindi non potrebbe essere gravato da obblighi suscettibili di confliggere con il ruolo
difensivo. Tuttavia, la giurisprudenza ha attribuito al difensore che svolge attività investigativa connotazioni
di rilevanza pubblicistica.
Della regola, prima detta, si può dare una duplice alternativa lettura, a seconda dell’opinione accolta. O
conferma l’estraneità ad ogni obbligo collaborativo del difensore e di tutti coloro che partecipavano alle
indagini difensive, oppure è una deroga rispetto all’obbligo di denuncia, posto ai pubblici ufficiali e agli
incaricati il pubblico servizio.

Gli ostacoli alla progressione. Le condizioni di procedibilità


L’istaurazione del processo o il suo ulteriore incidere sono subordinati a determinati eventi riconducibili di
regola a manifestazioni di volontà di un soggetto pubblico o privato o ad accadimenti oggettivi. Negli stessi
casi, le indagini preliminari e il successivo sviluppo processuale ne risultano condizionati.

Nel definire caratteri e titolarità dell’azione penale, l’art 50, circoscrive l’obbligo di agire all’organo di
accusa, nei casi in cui non è necessaria la querela, la richiesta, la istanza o l’autorizzazione a procedere. È un
temperamento dell’obbligo di esercizio dell’obbligo di esercizio dell’azione penale, la cui ratio si coglie nella
tutela di interessi di varia natura e la cui tollerabilità costituzionale risiede nella ragionevolezza del
bilanciamento tra il valore sancito nell’art 112 Cost e i suddetti interessi.
Meno dubbia la compatibilità della querela e della istanza di procedimento. Istituti che subordinano la
procedibilità ad una manifestazione di volontà di un soggetto privato quale è l’offeso dal reato.
In casi particolari, lo scarso disvalore giuridico del fatto o il tipo di reato rende ragionevole che
l’ordinamento rinunci volontariamente alla decisione sulla perseguibilità in favore del soggetto colpito. Più
discussa la legittimità degli apparati normativi (come l’autorizzazione a procedere) che lasciano tale scelta
ad una autorità pubblica. Tuttavia, la Corte costituzionale ha rigettato le relative questioni, ritenendo che le
condizioni di procedibilità inciderebbero sulla officiosità dell’azione penale e non sul principio di
obbligatorietà della stessa, il quale non sarà compresso tutte le volte in cui la legge ricolleghi l’obbligo di
agire a determinate condizioni.

Le condizioni di procedibilità nel codice sono la querela, istanza, richiesta e autorizzazione a procedere.
Tuttavia, esistono condizioni diverse da quelle che trovano collocazione nel codice. Non vi sono indicazioni
che permettano di individuare le relative ipotesi. Quindi dottrina e giurisprudenza, in assenza di un ausilio
normativo, le individuano nella trama sistematica del codice di procedura penale, del codice penale e di
altre fonti di diritto penale sostanziale.
Condizione di procedibilità atipica è il Segreto di Stato. Se il segreto è confermato e ciò che è coperto dal
segreto è essenziale per il processo, il giudice dichiara non doversi procedere per esistenza del segreto di
Stato. Altra condizione atipica è l’esistenza di un precedente giudicato, che porta ad improcedibilità.
La Corte cost. e la corte di cassazione, sul presupposto che il provvedimento di archiviazione e la sentenza
di non luogo a procedere spieghino un effetto limitatamente preclusivo di un secondo procedimento,
riconducono al tema in esame le preclusioni correlate alla riapertura delle indagini e alla revoca della
sentenza di non luogo a procedere.
Tra le condizioni di procedibilità atipiche vi è poi la clausola di specialità nell’estradizione. Da ultimo, si
accosta alle altre condizioni di procedibilità la nuova ipotesi di declaratoria di non doversi procedere per
essere l’incapacità irreversibile. La stessa disciplina dettata per le ipotesi di improcedibilità all’art 345
(difetto di una condizione di procedibilità. Riproponibilità dell’azione penale) è applicabile anche quando,
dopo pronuncia di sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, lo stato di incapacità
dell’imputato viene meno o si accerta che è stato erroneamente dichiarato.

La MANCANZA DI UNA CONDIZIONE DI PROCEDIBILITÀ HA EFFETTI SULLA ATTIVITÀ DI INDAGINE


E SUL PROCESSO EVENTUALMENTE AVVIATO. Nella fase preliminare, la mancanza non impedisce ogni
attività, ma si tratta di indagini fortemente caratterizzate dall’evento impeditivo dell’azione. In proposito, vi
sono dei termini piuttosto brevi che permettono a chi ne è titolare di sciogliere il dubbio sulla volontà di
rimuovere l’ostacolo al promovimento dell’azione, così che l’attività processuale non ne rimanga
indefinitamente condizionata.

Si arriverà ad una decisione di archiviazione, quindi ad un epilogo definitivo solo nelle ipotesi in cui è
evidente che la condizione di procedibilità non potrà più sopravvenire. Ad esempio, nel caso di remissione
della querela. Nelle altre ipotesi, la mancanza della condizione avrà un effetto paralizzante. Il termine
delle indagini decorrerà solo dopo che l’ostacolo è stato rimosso e dal momento in cui la querela, richiesta
e istanza pervengono al PM. Se necessaria l’autorizzazione a procedere, il decorso di quello stesso termine
resta sospeso dalla richiesta al momento in cui l’autorizzazione viene concessa. Prima di quel momento,
eventuali attività di indagine possono essere esperite nei limiti previsti. Cioè in mancanza di una condizione
di procedibilità che può ancora sopravvenire, possono essere compiuti gli atti di indagine preliminare
necessari per le fonti di prova e, quando vi è pericolo, possono essere assunte le prove previste all’art 392
(Casi incidente probatorio).
La mancanza della condizione non blocca la istaurazione del processo. Tuttavia, l’azione promossa in
difetto della condizione di procedibilità è destinata ad esito abortivo. Non appena si realizza la sussistenza
dell’ostacolo alla prosecuzione, il giudice si pronuncia in ogni stato e fase del processo con una decisione di
non doversi procedere. Decisione suscettibile di passare in giudicato ma ciò non impedisce un nuovo
processo per lo stesso fatto. Infatti, se la condizione sopravvenga in un secondo momento, o diventi
superflua l’azione penale può essere nuovamente esercitata. Lo stesso avviene se il non doversi procedere
per difetto di una condizione di procedibilità sia stato dichiarato con archiviazione o con sentenza di non
luogo a procedere.

La QUERELA è una dichiarazione con la quale la persona offesa dal reato, in quanto titolare dell’interesse
leso, manifesta la volontà che si proceda in ordina a un fatto previsto dalla legge come reato. La querela
trova in gran parte la sua disciplina nel c.p. Il c.p.p. si occupa solo delle formalità di presentazione della
querela così come le formalità delle vicende estintive dello stesso diritto. Cioè la rinuncia, dichiarazione
preventiva di non volersi avvalere del diritto di querela, la remissione espressa, l’atto con il quale chi ha già
posto la querela dichiara di non voler insistere.

La titolarità del diritto spetta ad ogni persona offesa da un reato per il quale non debba procedersi d’ufficio,
o su istanza o richiesta, eventualmente rappresentata da un tutore o da un curatore speciale, nominato con
le forme e nei casi previsti. La querela deve essere presentata entro 3 mesi dal giorno della notizia del fatto
che costituisce reato, con le modalità previste per la denuncia e alle medesime autorità alle quali può
essere presentato denuncia o a un agente consolare all’estero.
L’identificazione del proponente è essenziale. Infatti, se recapitata da un incaricato o spedita per posta in
piego raccomandato, deve avere la sottoscrizione autentica del proponente. Se proposta oralmente, il
verbale in cui è ricevuta deve essere sottoscritto dal querelante o procuratore speciale. La dichiarazione di
querela proposta dal legale rappresentante di una persona giuridica, ente o associazione deve avere la
indicazione specifica della fonte dei poteri di rappresentanza.
In ogni caso, l’autorità che la riceve deve attestare la data e il luogo della presentazione, identificare la
persona che la propone e trasmettere gli atti all’ufficio del PM.

Il diritto non può essere esercitato se il titolare vi ha rinunciato. La rinuncia può essere tacita (compimento
di atti incompatibili con la volontà di querelarsi) o espressa. In questo secondo caso, la rinuncia assume le
forme dell’art 339 (rinuncia alla querela). Cioè deve essere posta con dichiarazione sottoscritta, rilasciata
all’interessato o a un suo rappresentante o con dichiarazione fatta oralmente ad un ufficiale di polizia
giudiziaria o ad un notaio. I quali redigono verbale che deve essere sottoscritto dal dichiarante. La rinuncia
si può estendere anche all’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno.
Il diritto di querela si estingue per decadenza derivante dal suo mancato esercizio nel termine previsto, per
la morte della persona offesa, la quale non estingue il reato, se la querela è stata già posta.
Una volta esercitato tale diritto, è possibile rimettere la querela nei casi previsti dal c.p. Questa deve
intervenire prima della condanna, non può essere sottoposta a termini o condizioni e deve essere accettata.
Comporta che le spese del procedimento siano a carico del querelato, salvo che nell’atto di rimessione sia
stato diversamente disposto. In ipotesi specifiche previste per legge, la querela proposta è irrevocabile.
Le forme per proporre la remissione e per l’accettazione di questa sono quelle previste per la rinuncia
espressa della querela. Entrambi gli atti devono essere presentati personalmente o a mezzo procuratore,
con dichiarazione ricevuta dall’autorità procedente o da un ufficiale di polizia giudiziaria che deve
trasmetterla immediatamente alla predetta autorità.

L’ISTANZA DI PROCEDIMENTO è rimessa in capo all’offeso per taluni delitti comuni commessi all’estero.
Come delitti commessi all’estero dal cittadino puniti con una pena inferiore ai 3 anni di detenzione, o quelli
commessi all’estero dallo straniero a danno dello Stato italiano o cittadino italiano, puniti con l’ergastolo o
la reclusione non inferiore nel minimo a 1 anno. Per i delitti contro la libertà individuale e quelli previsti agli
arti 609 e seguenti c.p., si prevede che essi siano perseguibili senza bisogno dell’istanza della persona offesa
quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano, o in danno di cittadino italiano, o dallo straniero
in concorso con un cittadino italiano.
Può essere proposta entro 3 mesi dal giorno in cui la persona offesa ha avuto notizia del fatto che
costituisce reato e non oltre i 3 anni dal giorno in cui il colpevole si trova nel territorio dello stato (art 128).
Viene proposta con le forme della querela. L’istanza a differenza della querela è irretrattabile, perché
trattandosi di reati che, se commessi in territorio italiano sarebbero perseguibili ex officio, si ritiene che,
una volta rimosso l’ostacolo alla procedibilità, il potere di ritrattare l’azione non possa essere demandato
alla volontà di un soggetto privato.

La RICHIESTA DEL PROCEDIMENTO è una dichiarazione di autorità pubblica con la quale, questa dichiara
di volere che si proceda con riguardo ad un determinato reato. Spetta al Ministro della giustizia la titolarità
della richiesta rispetto ai delitti all’art 8,9,10 c.p. nonché per i delitti perseguibili a querela della persona
offesa, quando essi siano commessi in danno del Presidente della Repubblica. Può essere proposta secondo
i termini previsti dall’art 128 (gli stessi dell’istanza di procedimento). È irretrattabile, nonché irrinunciabile.
Il c.p.p. si limita a disciplinarne le forme. Deve essere presentata al PM con atto sottoscritto dall’autorità
procedente. Quindi occorre la firma del ministro o di altra autorità politica espressamente delegata e non
sostituibile da un funzionario dello stesso dicastero.

Nei confronti di taluni soggetti, ed in ragione della carica dagli stessi ricoperta, il procedimento subisce
limiti e contempla divieti. Fino a quando l’autorità competente pubblica, sollecitata dal PM, non abbia
deliberato L’AUTORIZZAZIONE A PROCEDERE, rimuovendo l’ostacolo legislativamente stabilito
all’ordinario svolgimento delle funzioni giudiziarie.

La ratio di tale autorizzazione, irrevocabile, è nella necessità di bilanciare istanze punitive e prerogative
connesse alle funzioni di taluni organi amministrativi, preservando il singolo appartenente all’organo da
iniziative persecutorie. È necessaria per i reati commessi dal presidente del consiglio o dai ministri
nell’esercizio delle loro funzioni, nonché per i reati commessi dai giudici della Corte costituzionale. Non
sono più soggetti ad autorizzazione a procedere i procedimenti interessanti i membri del Parlamento.
L’autorizzazione a procedere è necessaria per alcuni delitti contro la personalità dello Stato.

PRIMO ORDINE DI LIMITI per il procedimento in assenza di autorizzazione a procedere, la quale rappresenta un
elemento condizionante l’esercizio dell’azione penale.
Se necessario fin dal momento delle indagini, l’autorizzazione deve essere richiesta prima di procedere a
giudizio direttissimo o di richiedere il giudizio immediato, il rinvio a giudizio, il decreto penale di condanna o
di emettere il decreto di citazione a giudizio, ed entro e non oltre 30 giorni dall’iscrizione del nome della
persona per la quale essa è necessaria nell’apposito registro.
Se la persona è arrestata in flagranza, la richiesta deve essere avanzata immediatamente e prima
dell’udienza di convalida.
Può avvenire che la necessità dell’autorizzazione emerga solo dopo aver esercitato l’azione penale. In tal
caso il processo deve essere sospeso e l’autorizzazione deve essere chiesta senza ritardo. Per evitare che la
sospensione pregiudichi l’assunzione della prova, si prevede che se vi è pericolo nel ritardo, il giudice
provvede all’assunzione delle prove richieste dalle parti.
Quando si procede nei confronti di più persone, per alcune delle quali soltanto è necessaria
l’autorizzazione, affinché il ritardo determinato dalla procedura non si riverberi sulle vicende concernenti
altri imputati, è previsto che si possa procedere separatamente contro coloro per i quali l’autorizzazione
non è necessaria.

SECONDO ORDINE DI LIMITI è connesso ai poteri di indagine del PM, il quale non può compiere alcun
provvedimento suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’indiziato, fin quando non vi è stata
autorizzazione a procedere. Nella specie, è fatto divieto di disporre il fermo o misure cautelari personali nei
confronti della persona rispetto alla quale è prevista l’autorizzazione medesima. Nonché di sottoporla a
perquisizione personale o domiciliare, ispezione personale, a ricognizione, individuazione, confronto,
intercettazione di conversazioni o comunicazioni, mentre si può procedere all’interrogatorio se vi è
consenso dell’interessato. Limiti che cadono con l’autorizzazione a procedere.
Differenti discipline sono disposte per alcune categorie di persone.

Particolari AUTORIZZAZIONI AD ACTA concorrono con la richiesta di autorizzazione a procedere per i


membri della Corte costituzionale e per i ministri.

Alla Corte si deve rivolgere la richiesta di autorizzazione se un suo giudice ordinario o aggregato deve
essere arrestato, o privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare,
salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di
cattura (delitti elencati all’art 380 comma 1 e 2).
Alla Camera di appartenenza o al senato (se non siano parlamentari) si deve richiedere autorizzazione per
sottoporre il presidente del Consiglio dei ministri o un ministro, nonché gli altri inquisiti che siano membri
del senato della Repubblica o della Camera dei deputati, a misure limitative della libertà personale, a
intercettazioni telefoniche, sequestro, violazione di corrispondenza o a perquisizioni personali o domiciliari.
Salvo siano coinvolti in un delitto elencato all’art 380.

È prevista la necessità di un’autorizzazione ad acta per il compimento di singoli atti che si riflettano su diritti
fondamentali di un membro del Parlamento. Precisamente, alla Camera di appartenenza deve essere
richiesta autorizzazione per sottoporre i membri del Parlamento a perquisizione personale o domiciliare o a
ispezione personale. Per arrestarli o privarli della libertà personale. Per mantenerli in detenzione. Salvo che
si tratti di eseguire una sentenza irrevocabile di condanna o il parlamentare sia colto nell’atto di
commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
L’autorizzazione è richiesta dall’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire (PM o giudice), in
attesa dell’autorizzazione, l’esecuzione del provvedimento è sospesa.
Al parlamentare italiano è equiparato il membro italiano del Parlamento europeo.

L’attività di indagine della polizia giudiziaria.


La polizia giudiziaria e il PM non hanno, rispetto alla stessa notizia, i medesimi poteri e doveri, nonostante
siano entrambi titolari del potere di prendere notizia dei reati, anche di propria iniziativa.
Il destinatario ultimo è il solo magistrato, il quale deve immediatamente attivarsi, procedendo alla
iscrizione della notizia nell’apposito registro, in vista dei successivi adempimenti.
Invece sulla polizia giudiziaria grava l’obbligo di informare il PM di ogni notizia che rechi il fumus di un
illecito penale, previa essenziale attività di accertamento.

L’attività della polizia giudiziaria era un interludio tra la notizia di reato e comunicazione della stessa al
magistrato titolare delle indagini. Pur non trascurandone il fondamentale apporto, in quanto indispensabile
ausilio per individuare le premesse dell’azione penale, il legislatore aveva inteso accentuare l’unitarietà
dello sviluppo investigativo, valorizzando il ruolo di giuda del magistrato fin dalle prime battute del
procedimento. Quello che si voleva evitare era che un atto conseguente a ricerche dai tempi non
contingentati e caratterizzato da contenuti non meramente informativi, potesse finire per condizionare le
strategie di indagine del PM. Tuttavia, il legislatore andò oltre, producendo una deresponsabilizzazione
della polizia giudiziaria e la difficile gestione del carico delle notizie di reato.

Dopo l’approvazione del codice, l’aumento della criminalità a stampo mafioso, la normativa è stata
modificata. In questo modo, la polizia giudiziaria ha guadagnato un certo grado di autonomia
svincolandosi da quel rapporto di subordinazione istaurato inizialmente, che finiva per bloccare l’operato
investigativo fino all’intervento del PM, strettamente subordinandolo in ogni alle direttive del magistrato.

La polizia giudiziaria era tenuta a comunicare entro 48ore la notizia di reato e a svolgere successivamente
le proprie attività di indagine, nell’ambito delle direttive del magistrato procedente, ad oggi ha un più
ampio margine operativo tanto nelle battute iniziali del procedimento quanto successivamente.

Stando al testo vigente, la polizia giudiziaria deve ora riferire al PM senza ritardo. L’informativa, da
presentarsi in forma scritta, deve contenere gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad
allora raccolti, con l’indicazione delle fonti di prova e delle attività compiute e con la relativa
documentazione. Inoltre, quando possibile, deve contenere le generalità, il domicilio ed ogni altra notizia
utile alla identificazione della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa e di coloro che siano
in grado di riferire su circostanze idonee alla ricostruzione del fatto.
La nuova normativa vuole eliminare un termine rigido ed eccessivamente ristretto, consentendo di svolgere
ogni attività necessaria a definire la notizia di reato. Tuttavia, a tale più elastica definizione del limite
temporale non corrisponde ad un mutamento, quantitativo e qualitativo, degli atti da compiersi e del ruolo
attribuito alla polizia, ancora limitato dalle direttive del magistrato procedente. Di fatti, una volta individuati
gli estremi del reato, ogni indugio sarà causa di reato, censurabile dal magistrato.

La comunicazione della notizia di reato deve indicare anche il giorno e l’ora in cui la notizia di reato è
acquisita, adempimento funzionale all’accertamento di una responsabilità disciplinare prospettabile.

La locuzione senza ritardo rischia di legittimare una zona temporale di indagine, suscettibile di essere anche
piuttosto ampia, in cui la polizia giudiziaria agisce senza alcun controllo dell’autorità giudiziaria e senza che
nessun adempimento formale segni l’inizio del procedimento. Quindi si rischiano indagini autonome e
parallele suscettibili di sfuggire al controllo del magistrato. A cui si affianca il rischio di surrettizi
ampliamenti della durata delle indagini preliminari.
Rispetto al limite temporale qui descritto, sono state previste, nella disposizione, due deroghe.
Il primo stabilisce che la comunicazione debba essere data entro 48 ore dal compimento di un atto per il
quale sia prevista l’assistenza del difensore, salva diversa disposizione di legge. Così da sollecitare un
controllo dell’autorità giudiziaria su atti in grado di incidere sui diritti della persona sottoposta a indagini.
La seconda deroga, quando la notizia riguardi uno dei delitti all’art 407, e quando ricorrano ragioni di
urgenza, si prevede la comunicazione immediata, anche in forma orale, salva la trasmissione senza ritardo e
in forma scritta della stessa, con allegata documentazione.
Regola speciale armonizza gli adempimenti conseguenti ad una notizia di reato non perseguibile d’ufficio,
quando ancora non sia sopravvenuta la condizione di procedibilità. La polizia giudiziaria riferisce senza
ritardo al PM l’attività d’indagine previste dall’art 346, trasmettendone anche la documentazione ove detto
organo ne faccia richiesta.
Una deroga al regime informativo è nel caso di denunce a carico di ignoti. Queste unitamente agli eventuali
atti di indagine svolti per la identificazione dell’autore del reato, saranno trasmessi all’ufficio di procura
competente con elenchi mensili.

LE FUNZIONI DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA sono esplicate all’art 55 c.p.p., secondo una tradizionale
tripartizione. Attività di carattere informativo, di carattere investigativo e di assicurazione della prova. Da
tale testo si evincono poteri che esulano dalla definizione tripartita. Come l’attività in chiave preventiva per
impedire conseguenze ulteriori al reato. Il 2° comma dell’art 55 definisce poi i suoi rapporti di dipendenza
dal PM e l’obbligo di agire nell’ambito della attività da quello disposta o delegata. Tempi e modi dell’agire
della polizia giudiziaria, nella parte dinamica del codice ricevono una disciplina più articolata.

Si scandiscono tre tempi dell’azione investigativa della polizia. È investita del potere dovere di prendere
notizia dei reati di propria iniziativa. È libera di agire, finché non ne riferisca al PM nei tempi prescritti (347).
E poi vi è un duplice scenario che si sussegue in rapporto alla diligenza operosa e coscienziosa del titolare
delle indagini (art 348).
Art 348, 1° comma ribadisce che, anche una volta comunicata la notizia di reato al PM, la polizia giudiziaria
continua ad esercitare le funzioni riconosciutele dall’art 55. Rinvio che il legislatore indirizza verso un fine
preciso, raccogliendovi le attività esperibili.
Dopo l’intervento del PM, la polizia deve compiere gli atti ad essa specificatamente delegati ed eseguire le
direttive del PM. Qui, dunque si parla di due dei 3 moduli che esprimono il rapporto tra i protagonisti
dell’attività investigativa. L’attività delegata e quella guidata di indagine. Dalla nuova formulazione del 3°
comma, emerge anche il 3 modulo. Là dove si lascia intendere che i margini di autonomia permangono
anche dopo che il PM abbia impartito le direttive di indagine. Un unico limite ne restringe la libertà
d’azione, nello svolgimento di indagine parallela, deve informarne prontamente il PM.

Quando procede di sua iniziativa, la polizia giudiziaria goda di discrezionalità quanto alla scelta degli
strumenti, in funzione della circostanza che una rigida predeterminazione dei suoi poteri finirebbe per
rendere inadeguata la sua azione rispetto alle molteplici e imprevedibili evenienze delle vicende
investigative.

Una serie di atti di indagine espressamente disciplinati nel titolo IV del Libro V. Come l’identificazione
della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini o di altre persone. La raccolta di informazioni
dalla persona nei cui confronti si svolgono le indagini, da persone informate sui fatti, o da imputati in un
procedimento connesso. In caso di marcata urgenza, si può proceder con atti suscettibili di incidere sulla
libertà ed altri diritti fondamentali della persona (Perquisizioni, acquisizione di plichi o corrispondenza.
Sequestro del corpo del reato e delle cose a questo pertinenti). Attività legittimate dal pericolo di
dispersione della prova.

Nell’ambito delle stesse funzioni, la polizia può svolgere attività non predeterminabili con una tipizzazione
normativa. Sono atipiche le operazioni di osservazione, controllo e pedinamento, svolte anche tramite
mezzi di rilevamento satellitare. Le videoregistrazioni in luoghi pubblici o aperti o esposti al pubblico. Sono
soggettivamente atipici anche quegli atti che la legge attribuisce al PM. Come la richiesta rivolta
all’indiziato di pronunciare delle espressioni verbali, al fine di consentire il riconoscimento della voce da
parte della persona offesa (atipico atto di indagine della polizia giudiziaria mentre sarebbe individuazione se
compiuto dal PM). Rispetto agli strumenti investigativi atipici si pone il problema di legittimità degli stessi,
soprattutto quando siano suscettibili di intercettare diritti fondamentali della persona. Secondo la corte di
cassazione e costituzionale, tali atti sono inutilizzabili se incidono su libertà fondamentali della persona, se
non è prevista la predeterminazione legislativa di casi e modi.
Quando sono necessarie specifiche competenze tecniche, la polizia giudiziaria si avvale di persone idonee
che non possono rifiutare la propria opera. È opinione consolidata che non siano consentiti alla polizia
giudiziaria atti di carattere valutativo. Pertanto, le competenze tecniche potranno essere usate unicamente
per il compimento di attività di carattere materiale.

Attività prodromica ad ogni altro accertamento è quella della IDENTIFICAZIONE DEL SOGGETTO NEI CUI
CONFRONTI SI SVOLGONO LE INDAGINI e delle ALTRE PERSONE che possono riferire circostanze
rilevanti per la ricostruzione dei fatti (art 349).

L’identificazione dell’indagato ad opera della polizia giudiziaria è operata sulla base di dichiarazioni dallo
stesso fornite. Il quale viene ammonito circa le conseguenze di un rifiuto o di una dichiarazione mendace.
Ed è anche invitato a dichiarare o a eleggere il domicilio per le notificazioni. La polizia ha numerosi
strumenti per pervenire alla identificazione qualora il soggetto non voglia dichiarare la propria identità.
Se la persona è sottoposta a indagini si può procedere a rilievi dattiloscopici (impronte digitali), fotografici o
antropometrici (rilevazione del corpo) o ad altri accertamenti.
Tra gli altri accertamenti, categoria suscettibile di recepire ogni genere di strumento utile e non illegittimo,
vi possono rientrare il prelievo dei capelli o saliva anche in mancanza del consenso dell’interessato. Inoltre,
si può procedere al prelievo coattivo di materiale biologico, nel rispetto della dignità personale del soggetto
e con l’esile garanzia di una previa autorizzazione scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto,
del PM.

Se le persone indicate nella disposizione si rifiutano di farsi identificare o forniscono generalità o documenti
falsi. La polizia giudiziaria accompagna la persona nei propri uffici, la cui permanenza è presidiata da
talune garanzie. Non vi può stare oltre il tempo strettamente necessario per l’identificazione e comunque
non oltre le 12 ore. Solo quando l’identificazione risulti complessa, oppure occorre l’assistenza dell’autorità
consolare o di un interprete, la persona può essere trattenuta per più tempo ma sempre non più di 24 ore.
In questa ipotesi, il soggetto può chiedere di avvisare un familiare o un convivente, ma rimane necessario il
previo avviso, anche orale al PM.
Il PM deve ricevere immediata notizia dell’accompagnamento e dell’ora in cui questo è stato compiuto. Se
ritiene che non vi siano le condizioni necessarie, ordina il rilascio della persona accompagnata. Il PM deve
essere anche avvisato dell’avvenuto rilascio e dell’ora in cui è avvenuto.

Tra i compiti della polizia giudiziaria vi è quello di ASSUMERE INFORMAZIONI dalla persona già raggiunta
da indizi di reato, da persone informate sui fatti e da imputati o indagati in procedimenti connessi o
collegati.

L’art 350 regola l’assunzione del contributo conoscitivo della persona sottoposta a indagini, tramite 3
differenti discipline.

1° gli ufficiali di polizia giudiziaria (non gli agenti) possono assumere informazioni dal soggetto che non sia
in stato di arresto o di fermo, né sottoposto alla misura di cui all’art 384 bis (allontanamento d’urgenza
dalla casa-famiglia). Si tratta del quasi interrogatorio, da compiersi nel rispetto delle garanzie previste ma
senza la necessità di contestazione del fatto. Prima di procedere, la polizia giudiziaria invita a nominare un
difensore di fiducia o provvede a procurarglielo. L’assunzione delle dichiarazioni deve avvenire
necessariamente con un difensore d’ufficio. Le informazioni così assunte potranno essere usate in
dibattimento per le contestazioni. Queste informazioni possono avere anche un uso endofasico, offrendo
elementi idonei a supportare le decisioni di natura incidentale e confluire nella piattaforma utile al giudizio
nei riti speciali alternativi al dibattimento.
2° In cui si disciplina la differente ipotesi delle informazioni assunte sul luogo o nell’immediatezza del
fatto. Sono utili esclusivamente per la prosecuzione delle indagini, che possono essere assunte dagli
ufficiali anche in assenza del difensore.
3° La polizia giudiziaria può infine ricevere dichiarazioni spontanee dalla persona nei cui confronti
vengono svolte le indagini. Qui sembrerebbe escludersi che siano dovuti al dichiarante i relativi avvisi, così
come l’assistenza difensiva. I relativi verbali saranno usati esclusivamente ai fini delle contestazioni, ma le
dichiarazioni spontanee saranno utilizzabili nei procedimenti speciali privi di dibattimento.

(Art 370) Infine, la polizia giudiziaria può assumere il contributo conoscitivo della persona sottoposta alle
indagini anche essendo delegata dal PM a svolgere l’interrogatorio. L’atto può essere assunto solo da
persona non sottoposta a restrizione della libertà e con l’assistenza necessaria del difensore. Il relativo
verbale potrà essere allegato al fascicolo dibattimentale, finendo per fornire elementi di natura probatoria.

(Art 351) Agenti e ufficiali di polizia giudiziaria possono anche assumere informazioni da soggetti informati
sui fatti, con le stesse garanzie che presiedono la prova testimoniale. Nell’assunzione di dette informazioni,
si applicazioni le disposizioni del comma 1 art 362, per l’assunzione di informazioni da parte del PM.
In forza del rinvio operato, ferme restando le garanzie assicurate dall’art 63, nell’espletamento dell’atto
devono trovare luogo le forme previste per la testimonianza con la conseguenza che: non possono essere
sentiti soggetti nei casi di incompatibilità; i soggetti chiamati a testimoniare devono presentarsi e
rispondere secondo verità, ma non sui fatti da cui potrebbe emergere una responsabilità penale; i prossimi
congiunti dell’indagato devono essere avvertiti della facoltà di astenersi dal rendere dichiarazioni; i soggetti
dai quali si assumano informazioni possono astenersi dal rispondere nel rispetto delle norme sui segreti;
sono applicabili le garanzie per gli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza.
Il potenziale testimone, pur tenuto a rispondere secondo verità, non può essere penalmente sanzionato
per la falsità delle sue dichiarazioni, salvo che esse siano tali da integrare gli estremi del reato di
favoreggiamento personale o calunnia. In ogni caso, in funzione di tutela del dichiarante e della genuinità
delle sue dichiarazioni, è vietato l’arresto in flagranza della persona a cui è richiesto di fornire
informazioni, dalla polizia giudiziaria, per reati concernenti il contenuto delle informazioni o il rifiuto di
fornirle.
Inoltre, è vietato chiedere informazioni sulle domande formulate e sulle risposte date a persone già
sentite dal difensore o dal suo sostituto. Così da evitare interferenze tra l’investigazione privata e quella
pubblica.

L’estensione all’istituto in esame di garanzie previste per i corrispondenti strumenti di prova, iniziata con il
richiamo alle disposizioni della prova testimoniale, si è incanalata nella direzione di matrice europea che
tende alla tutela dei soggetti deboli. Per esempio, se la polizia giudiziaria deve assumere sommarie
informazioni da persone minori, si avvale dell’ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile,
nominato dal PM.
Successivamente nel 2015, il comma 1 ter è stato modificato, ampliando la tutela e lo spettro dei
destinatari. Vengono riconosciute alle persone offese, anche maggiorenni, in condizioni di particolare
vulnerabilità, garanzie analoghe a quelle già previste per il soggetto minore di età. Ma si assicurano anche
nuovi profili di garanzia, assicurando in ogni caso che la persona offesa particolarmente vulnerabile non
abbia contatti con la persona sottoposta a indagini e non sia chiamata più volte a rendere sommarie
informazioni, salva l’assoluta necessità per le indagini.

All’art 351 comma 1 bis viene dettata una scarna previsione concernente l’assunzione di informazioni da
imputati in procedimento connesso o da imputati di un reato collegato a quello per cui si procede. L’atto è
riservato ai soli ufficiali ed è previsto che il soggetto debba venire avvertito di essere assistito da un
difensore d’ufficio e della facoltà di nominarne uno di fiducia, il quale ha diritto di assistere,
tempestivamente, all’atto.

Gli ufficiali di polizia giudiziaria possono procedere a PERQUISIZIONE PERSONALE O LOCALE in una serie
di ipotesi previste in leggi speciali, ed in casi connotati da particolare urgenza. Poiché è un atto suscettibile
di incidere sulla libertà della persona sottoposta alle indagini, la disciplina rispetta i valori espressi all’art 13
Cost. Secondo il quale l’intervento degli organi di Pubblica sicurezza può essere legittimo solo in casi
eccezionali di necessità ed urgenza e tramite provvedimenti sottoposti a convalida dell’autorità giudiziaria,
nelle rigide cadenze temporali costituzionalmente imposte.

L’art 352 disciplina presupposti e procedura delle perquisizioni.


I presupposti ricalcano in larga misura le situazioni legittimanti le perquisizioni disposte dal PM. Si può agire
con perquisizione personale se vi è fondato motivo di ritenere che sulla persona si trovino occultate cose o
tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse. Si agisce con perquisizione reale quando
vi è fondato motivo di ritenere che quelle cose o tracce si trovino in un determinato logo o che ivi si trovi la
persona sottoposta alle indagini o l’evaso.
I connotati di necessità ed urgenza hanno una duplice declinazione nei primi due commi dell’art 352.
L’art 352 comma 1 prevede che gli ufficiali di polizia giudiziaria possano procedere a perquisizione
personale o locale nella flagranza del reato o nel caso di evasione. Sono due situazioni espressive di
occorrenze di natura eccezionale, rispetto alle quali la necessità e l’urgenza sono in re ipsa.
L’art 352 comma 2 prevede che gli ufficiali di polizia giudiziaria potranno compiere perquisizione locale o
personale, quando si debba procedere alla esecuzione di un’ordinanza che dispone la custodia cautelare o
di un ordine che dispone la carcerazione nei confronti di persona imputata o condannata per uno dei delitti,
per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza o al fermo di persona indiziata di delitto. In questi casi si può
procedere solo se vi sono particolari motivi di urgenza che non consentono la emissione di un tempestivo
decreto di perquisizione.

Ipotesi peculiare è nel caso di perquisizione informatica. Secondo il comma 1 bis nella flagranza del reato, o
nei casi descritti al 2 comma, quando vi sono i presupposti e le altre condizioni previste, gli ufficiali
potranno procedere a perquisizione di sistemi informatici o telematici ancorché protetti da misure di
sicurezza, quando vi è il fondato motivo di ritenere che in questi si trovino occultati dati, informazioni,
programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato che possono essere cancellati o dispersi.
Occorre procedere con modalità tali da assicurare la conservazione del materiale informatico o
telematico e idonee ad impedirne l’alterazione.

Di regola, sono legittimati alla perquisizione i soli ufficiali di polizia giudiziaria , ma in casi di particolare
urgenza e necessità possono procedervi anche gli agenti, senza motivare le ragioni del loro intervento,
quando emergono dalla eccezionalità delle circostanze. Per le modalità di esecuzione ci si deve rifare alla
normativa del libro III. Regola derogatoria è qui dettata per la perquisizione domiciliare. Queste deve
eseguirsi anche fuori dai limiti temporali previsti, quando il ritardo potrebbe pregiudicarne l’esito.

Quanto al procedimento. La polizia giudiziaria una volta eseguita la perquisizione deve trasmettere il
verbale delle operazioni compiute senza ritardo e comunque non oltre le 48 ore al PM il quale, se vi sono i
presupposti, dovrà convalidarle nelle successive 48 ore.

La polizia giudiziaria, all’interno della sua funzione di conservazione delle tracce di reato, ha anche IL
POTERE DI COMPIERE RILIEVI E ACCERTAMENTI su persone e luoghi. In particolare, devono curare che
le tracce e le cose pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga
mutato prima dell’intervento del PM. Se vi è pericolo che le tracce si disperdano o vengano alterate,
l’ufficiale deve eseguire i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose, e sempre che il
PM non possa intervenire tempestivamente o non abbia ancora assunto la direzione delle indagini.

In caso di urgenza e necessità, gli ufficiali devono impiegare le misure tecniche o impartire le prescrizioni
necessarie ad assicurare la conservazione del materiale informatico o telematico e ad impedirne
l’alterazione e l’accesso, provvedendo, ove possibile, alla immediata duplicazione su adeguati supporti
tramite una procedura che assicuri la conformità della copia all’originale e la sua immodificabilità.
Solo gli ufficiali possono procedere ad accertamenti e rilievi sulla persona, diversi dalla ispezione
personale. Cioè saranno atti che si limitino ad osservare e a cogliere i particolari immediatamente visibili,
senza poter procedere ad operazioni anche minimamente invasive della sfera personale di un soggetto.
Tutte le volte in cui vi è l’esigenza, la polizia giudiziaria può procedere al sequestro del corpo del reato e
delle cose ad esso pertinenti. Il motivo del provvedimento deve essere trascritto nel verbale, la cui copia
deve essere fornita alla persona a cui appartengono le cose sequestrate. Deve essere trasmesso entro 48 al
PM del luogo dove il sequestro è avvenuto. Il quale lo convaliderà, se vi sono i presupposti, nelle successive
48 ore o disporrà la restituzione delle cose. Contro il decreto di convalida, la persona a cui sono state
sequestrate le cose e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione, può, entro 10 giorni dalla notifica del
decreto o dalla diversa data in cui l’interessato ha avuto conoscenza dell’avvenuto sequestro, richiedere il
riesame anche nel merito. La relativa richiesta non sospende il provvedimento.

Infine, la polizia ha il POTERE DI ACQUISIRE PLICHI SIGILLATI O ALTRIMENTI CHIUSI . Le restrizioni del
bene non possono essere compiute da autorità diversa da quella giudiziaria, il materiale così acquisito deve
essere trasmesso intatto al PM per l’eventuale sequestro.
Due situazioni di urgenza legittimano l’intervento immediato della polizia.
1)Se si ha fondato motivo di ritenere che i plichi contengano notizie utili alla ricerca e all’assicurazione di
fonti di prova che potrebbero andare disperse a causa del ritardo, l’ufficiale informa il PM, il quale può
autorizzare l’apertura immediata e l’accertamento del contenuto.
2)Se si tratta di plichi, lettere, pacchi, valori, telegrammi o altri oggetti di corrispondenza, trasmessi per via
elettronica o telematica, gli ufficiali di polizia giudiziaria, in caso di urgenza, ordinano a chi è preposto al
servizio postale, telegrafico, telematico o di telecomunicazione di sospendere l’inoltro. Se entro 48 ore
dall’ordine, il PM non dispone il sequestro, avviene l’inoltro.

L’attività di indagine del PM.


La titolarità delle indagini trova esplicita affermazione nell’art 370 comma 1, là dove questo dispone che il
PM debba compiere personalmente ogni attività di indagine. La regola che individua nell’organo di accusa
il dominus delle attività funzionali all’esercizio dell’azione, subisce un temperamento, in considerazione
delle esigenze di efficienza delle indagini. Il carico di lavoro delle singole procure e la molteplicità e la
varietà delle operazioni necessarie rendono irrealistica la prospettiva di un PM come attore unico di ogni
indagine.

Infatti, egli si può avvalere della polizia giudiziaria per le attività di indagine e di atti specificatamente
delegati. Quindi, solo se investita del potere di indagine dal PM, la polizia potrà compiere atti di regola
riservati all’organo di accusa. Gli atti compiuti dalla polizia su delega sono corredati, ferma restando la
necessaria presenza del difensore, dalle necessarie garanzie difensive. Il riferimento alla possibilità di
avvalersi della polizia giudiziaria anche per l’attività di indagine generale, permette di ampliare l’ambito di
intervento sostitutivo. Lasciando spazio per la prassi della delega globale allo svolgimento delle indagini,
che il legislatore aveva voluto estirpare.

Anche quando si tratta di assumere singoli atti nella circoscrizione di altro tribunale, il PM può scegliere di
procedervi personalmente o può delegare il PM presso il tribunale territorialmente competente. Il
magistrato così delegato ha facoltà di procedere, di propria iniziativa, anche agli atti che a seguito dello
svolgimento di quelli specificamente delegati, appaiono necessari ai fini delle indagini. Perché sia
legittimato ad esorbitare dall’oggetto della delega vi devono essere ragioni di urgenza o altri gravi motivi.

Per evitare che la frammentazione investigativa possa nuocere all’efficienza delle indagini, tanto sotto il
profilo della celerità quanto sotto quello dell’esigenza di una visuale dei fenomeni criminali, IL
LEGISLATORE HA DETTATO SISTEMI DI COOPERAZIONE TRA UFFICI e SISTEMI DI OSMOSI DEI
RELATIVI RISULTATI DI INDAGINE.
Rimanendo ferma la possibilità per il PM di richiedere all’autorità giudiziaria copie di atti e informazioni
scritte sul loro contenuto. Si prevede uno strumento di coordinamento, il quale detta che uffici diversi del
PM che procedono a indagini collegate si coordinano tra loro per la speditezza, economia ed efficacia delle
indagini medesime. A tali fini, hanno obbligo di reciproca informazione (provvedono allo scambio di atti e
informazioni) e una facoltà di cooperazione (possono procedere congiuntamente). La ratio dell’istituto è di
costituire un temperamento alla drastica riduzione dei casi di connessione, quale effetto della scelta
legislativa di ridurre l’elefantiasi processuale determinata dai maxiprocessi. Alla necessità di ridurre il
ricorso ai processi cumulativi dovevano contrapporsi misure idonee a evitare che l’eccessiva
parcellizzazione delle indagini potesse privare gli organi investigativi di un orizzonte ad ampio spettro.
Il coordinamento è applicabile se le indagini sono collegate. Quindi se sono connessi. Se si tratta di reati
dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o
ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, se si tratta di reati commessi da più persone in danno
reciproco, o se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di
un’altra circostanza. Se la prova di più reati deriva dalla stessa fonte.

Pur formulata in modo da lasciar intendere che gravi sui singoli magistrati un obbligo di collaborazione, la
disciplina sui rapporti tra gli uffici del PM nel caso di indagini collegate ha trovato scarsa applicazione di
fronte alle resistenze collaborative degli organi di indagine. Per questo sono stati introdotti alcuni correttivi,
i quali suppliscono al mancato spontaneo coordinamento, tramite poteri di sollecitazione e impulsi affidati
al procuratore generale presso la corte d’appello.
In particolare, ha il potere di promuovere il coordinamento delle indagini per la violazione del sepolcro, per i
delitti colposi contro la salute pubblica. Ha il potere di disporre, con decreto motivato, l’avocazione delle
indagini preliminari relative ai delitti di associazioni con finalità di terrorismo o eversive dell’ordine
democratico, delitti di attentato per finalità terroristiche o di eversione, per guerra civile, devastazione,
saccheggio o strage e nei casi in cui è obbligatorio l’arresto in flagranza.

Ad un obiettivo analogo è indirizzato l’apparato normativo che incentra in capo al procuratore nazionale
antimafia e antiterrorismo i poteri di impulso e coordinamento nei confronti dei procuratori distrettuali.

L’art 358 impone al PM di compiere ogni attività necessaria ai fini indicati nell’art 326. La genericità della
locuzione “ogni attività necessaria” richiama un COMPLESSO DI ATTI INVESTIGATIVI TIPICI E ATIPICI .

Solo alcuni degli ATTI INVESTIGATIVI TIPICI sono disciplinati nel titolo dedicato alla attività del PM. Sono una
serie di atti, largamente corrispondenti ai mezzi di prova disciplinati nel Titolo II libro III, diversamente
denominati. Al fine di rimarcare la differenza di natura e di regime che intercorre tra gli atti probatori
compiuti davanti al giudice e quelli compiuti dal PM per accertamenti tecnici, individuazioni, assunzione di
informazioni, interrogatorio di persone imputate in procedimento connesso.
Sono concepiti come atti caratterizzati da tendenziale fluidità delle forme. In funzione della natura
preprocessuale delle indagini preliminari e della loro limitata spendibilità probatoria.
Non sono stati specificatamente disciplinati i confronti, i quali possono essere compiuti, quali espressioni di
attività libera. Mentre l’interrogatorio della persona sottoposta a indagini potrà essere assunto nelle forme
dettate agli art 64 e 65.
Il PM può procedere a ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni, mezzi di ricerca della prova.
Questi ultimi sono tipici della fase di indagine, la cui titolarità è posta in capo all’autorità giudiziaria (giudice
e PM), se non esclusivamente al PM, su autorizzazione del giudice. In quanto idonei a fornire contributi
conoscitivi irripetibili e dunque confluiranno nel fascicolo del dibattimento.

Risulta evidente che tra le attività necessarie rispetto agli scopi perseguiti possono rientrare ATTIVITÀ NON
DISCIPLINATE DALLA LEGGE (ATIPICI). Nei medesimi limiti denunciati con riguardo alle attività di polizia
giudiziaria (limiti che garantiscono diritti fondamentali ed il rispetto della legalità probatoria), il PM può
svolgere attività di indagine innominata o atipica.
Secondo l’art 359, il PM può esperire ACCERTAMENTI O RILIEVI SEGNALETICI, DESCRITTIVI O FOTOGRAFICI, nonché
ogni ALTRA OPERAZIONE TECNICA NECESSARIA. Includendovi atti meramente esecutivi ed atti che
importino discrezionalità valutativa. Infatti, i rilievi sono esecutivi, descrittivi. Mentre gli accertamenti
impongono valutazioni ed elaborazioni.

Se sono necessarie specifiche competenze, il PM si può avvalere di consulenti i quali possono essere
autorizzati ad assistere a singoli atti di indagine. Non possono rifiutare la loro opera, sono iscritti negli albi
dei periti, così da garantire lo stesso livello di affidabilità e professionalità del loro apporto. La consulenza
tecnica non produce elementi probatori, concentrandosi in operazioni ripetibili. Per questo, il PM può
procedervi senza obbligo di coinvolgere la persona sottoposta a indagini e la persona offesa dal reato.

L’art 360 si riferisce solo agli accertamenti che non possono essere rinviati o ripetuti al dibattimento. Sono
accertamenti che riguardano persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione. Le stesse
disposizioni devono applicarsi nei casi in cui l’accertamento tecnico determina modificazioni delle cose, dei
luoghi o delle persone tali da rendere l’atto non ripetibile.
La consulenza tecnica disposta a norma dell’art 360 è destinata ad essere inserita nel fascicolo per il
dibattimento e potrà essere acquisita e utilizzata dal giudice. Si tratta di una anticipazione della prova la
cui acquisizione è demandata al PM, attraverso la quale il legislatore ha cercato di comporre contrastanti
esigenze. Da un lato, affidando la titolarità di tale potere al PM ha assicurato la non dispersione della prova.
Dall’altro lato, la legge ha previsto due livelli di garanzia per la tutela dei diritti difensivi.
Le parti private possono agire da comprimari, partecipando all’atto disposto dal magistrato inquirente. Si
inscena un contraddittorio tra difensori e consulenti, ma senza la presenza del giudice. In alternativa, è
possibile contrastare il compimento dell’atto. Un potere penetrante è conferito alla sola persona sottoposta
alle indagini, la quale può esprimere la volontà che l’accertamento sia condotto davanti al giudice, salvo che
ciò non pregiudichi l’assunzione della prova.

Secondo l’art 360, la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa e i loro difensori devono essere
informati senza ritardo del giorno, ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico e della facoltà di
nominare consulenti tecnici. Se la persona sottoposta alle indagini ne sia priva può nominare un difensore
di fiducia o d’ufficio. Il difensore e i consulenti tecnici, eventualmente nominati, hanno diritto di assistere al
conferimento dell’incarico, di partecipare agli accertamenti e di formulare osservazioni e riserve.
L’obbligo di avviso e la correlativa sanzione di nullità per l’eventuale inadempimento ricorrono solo nel
caso che al momento del conferimento dell’incarico al consulente, sia già stata individuata la persona nei
confronti della quale si procede. I risultati degli accertamenti tecnici irripetibili saranno usati anche nei
confronti di soggetti che al momento del conferimento dell’incarico non erano ancora indagati per assenza
di elementi indiziari a loro carico.

In alternativa, la persona sottoposta a indagini, prima del conferimento dell’incarico, può formulare
riserva di promuovere incidente probatorio. Il nuovo comma 4 bis prevede che la riserva di cui al comma 4
perde efficacia e non può essere ulteriormente formulata se la richiesta di incidente probatorio non è
proposta entro il termine di 10 giorni dalla formulazione della riserva stessa. Al fine di evitare
comportamenti dilatori che portano a non adire tempestivamente il giudice dell’incidente.

Di fronte alla resistenza della controparte, il PM deve prestare acquiescenza, rinunciando ai programmati
accertamenti, salvo che questi non possano più essere utilmente compiuti se differiti. La valutazione spetta
allo stesso PM. Ma se questo procedesse fuori dai casi consentiti, i relativi risultati non potrebbero essere
usati nel dibattimento. Si tratta di una inutilizzabilità relativa, poiché non osta all’utilizzo dei risultati
dell’atto nei giudizi speciali privi di dibattimento e nelle decisioni incidentali.
Se l’accertamento tecnico supponga un PRELIEVO DI UN CAMPIONE BIOLOGICO , o altra operazione
INCIDENTE SUL CORPO UMANO, le relative operazioni devono avvenire nel rispetto dei diritti della
persona.

Quando il materiale biologico deve essere prelevato da persona vivente non consenziente, la limitazione
della libertà richiede una predeterminazione legislativa dei casi e dei modi.

La legge del 2009 ha colmato il vuoto normativo determinatosi a seguito della sentenza di illegittimità con
cui la Corte costituzionale censurò la disciplina previgente. La quale prevedeva le modalità attraverso le
quali è possibile procedere al prelievo di campioni biologici necessari in funzione degli accertamenti di
indagine. Da qui la disciplina che ha abrogato la frettolosa disciplina del 2005.

Ora la possibilità di prelievo di campioni di materiale biologico è disciplinata nell’art 359 bis tra gli atti del
PM. L’attribuzione a questo del potere di procedere all’operazione de qua costituisce la premessa per
l’attuazione di un più ampio e articolato sistema di tutela della persona.
Resta salva la disposizione in base al quale la polizia giudiziaria può procedere all’identificazione della
persona nei cui confronti vengono svolte le indagini o di altri soggetti, tramite accertamenti che
comportino il prelievo di capelli e saliva, quando non vi sia il consenso a detto prelievo da parte
dell’interessato. Tale fattispecie non comprende accertamenti di natura medica.
A queste previsioni si aggiunge un regime peculiare ed eccentrico di prelievo forzoso d’urgenza,
nell’ambito delle indagini in materia di reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali gravi o
gravissime. Qualora il conducente si rifiuti di sottoporsi agli accertamenti di stato di ebbrezza alcolica o
alterazione dovuta a sostanze stupefacenti o psicotrope, se vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo
può derivare un pregiudizio alle indagini, gli ufficiali di polizia giudiziaria procedono all’accompagnamento
dell’interessato presso il più vicino presidio ospedaliero al fine di sottoporlo al necessario prelievo o
accertamento, procedendosi in tal caso all’esecuzione coattiva delle operazioni se la persona rifiuta di
sottoporvisi. Operazioni sempre da svolgersi con il rispetto delle garanzie dovute ai soggetti. Garanzie
comuni a tutti gli accertamenti da compiersi.
Prima di procedere al prelievo, gli ufficiali devono munirsi di decreto di autorizzazione da parte del PM che
può, nei casi di urgenza, essere adottato anche oralmente e successivamente confermato per iscritto. Del
decreto e delle operazioni da compiersi è data tempestiva notizia al difensore dell’interessato. Entro le 48
successive, il PM richiede la convalida del decreto e degli eventuali ulteriori provvedimenti al giudice per le
indagini preliminari, che provvede al più presto ed entro le 48 dopo, dandone immediato avviso al PM e al
difensore.

Salve tali ipotesi eccezionali, il prelievo è disposto dal PM, che deve fare richiesta al giudice di autorizzare
le relative operazioni con ordinanza, ove ricorrano le condizioni previste. In caso di urgenza, quando vi è
motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini, il PM dispone
lo svolgimento delle operazioni con decreto motivato, che deve contenere i medesimi elementi prescritti
per l’ordinanza del giudice, se del caso, provvedendo a disporre l’accompagnamento coattivo o l’esecuzione
coattiva delle operazioni. Tuttavia, entro le 48 ore successive, il PM dovrà chiedere al giudice per le indagini
preliminari la convalida del decreto e dell’eventuale provvedimento di accompagnamento coattivo. Sulla
richiesta di convalida, il giudice provvede con ordinanza al più presto ed entro le 48 successive, dandone
avviso immediatamente al PM e al difensore.

L’accertamento del PM mutua in larga misura dall’analogo atto del giudice la regolamentazione relativa a
presupposti, oggetto, soggetti passivi e modalità esecutive.
Tali accertamenti possono essere disposti quando non vi sia il consenso della persona interessata,
nell’ambito dei reati ivi previsti e solo in quanto indispensabili per la prova dei fatti. Sono applicabili anche
le disposizioni di garanzia che segnano la tutela dei principali valori e connotano l’intervento investigativo.
Ad esempio, non possono essere disposte operazioni contrastanti con espressi divieti posti dalla legge o che
possano mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute della persona o del nascituro, o che possono
provocare sofferenze di non lieve entità. Le operazioni peritali sono eseguite nel rispetto della dignità e del
pudore. A parità di risultato, vengono scelte le tecniche meno invasive.
Il rispetto della disciplina sui contenuti del provvedimento e sulle garanzie che presidiano tale attività è
dettato da un groviglio sanzionatorio. È prevista l’applicazione delle disposizioni 132 e 224 bis, a pena di
nullità delle operazioni e di inutilizzabilità delle informazioni così acquisite, ribadendo l’applicazione della
disciplina della inutilizzabilità.
La legge disciplina i casi e i modi del prelievo forzoso, in ottemperanza alla tutela costituzionale della
libertà personale. Il materiale biologico può essere, senza dubbio, acquisito anche con il consenso della
persona, nonostante non vi sia nessuna disciplina al riguardo. Anche in presenza del consenso della
persona, opereranno le cautele e i divieti dettati nell’art 224 bis commi 4 e 5.

Una volta eseguito il prelievo, il procedimento di estrazione del profilo genetico è adempimento da
svolgersi tramite accertamento del PM, ai sensi dell’art 359. Il dato conoscitivo ottenuto è comparato con
altro profilo. Si deve compiere con elementi emersi nell’ambito del medesimo procedimento o ricorrendo
alle risorse della banca dati nazionali del DNA, istituita nel 2009, ma solo di recente posta in grado di
operare a seguito della approvazione del relativo regolamento.
La banca raccoglie i profili del DNA di un vasto numero di soggetti individuati tra le persone che siano state
sottoposte a misure cautelari e precautelari, o tra quelle che siano detenute o internate a vario titolo.
Raccoglie anche i profili del DNA di reperti biologici acquisiti nel corso di procedimenti penali e quelli di
persone scomparse o loro consanguinei o estratti da resti cadaverici non identificati.
Alla banca dati si affianca il Laboratorio centrale per la banca dati del DNA, presso il Ministero della
giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Tramite decreto interministeriale sono regolate le procedure attuative in rapporto alle competenze di
entrambi i soggetti. Ragioni di privacy comportano la raccolta solo temporanea dei campioni e profili
genetici sia che siano acquisiti nel corso di un procedimento penale (distruzione alla chiusura del
procedimento o processo), sia che siano acquisiti secondo i canali evidenziati (campioni biologici per 8 anni,
profili del DNA 30 anni, 40 anni per i più gravi reati o in caso di recidiva).

Il PM può RACCOGLIERE INFORMAZIONI DALLE PERSONE IN GRADO DI RIFERIRE CIRCOSTANZE


UTILI ai fini delle indagini con le forme previste dall’art 362 (assunzioni di informazioni). Atto omologo alla
testimonianza ma utilizzabili per le indagini preliminari e nei casi di contestazione o di irripetibilità
sopravvenuta.

Il PM cita a comparire con le forme dell’art 377 la persona offesa, le persone in grado di riferire su
circostanze utili ai fini delle indagini, il consulente tecnico, l’interprete e il custode delle cose sequestrate. E
lo fa tramite decreto che deve contenere le generalità, il giorno, il luogo e l’ora della comparizione,
l’autorità davanti alla quale deve presentarsi, l’avvertimento che il PM può disporre dell’accompagnamento
coattivo in casi di mancata comparizione senza valido motivo.
Le forme per l’assunzione di informazioni sono legate al corrispondente atto della polizia giudiziaria,
disciplinato all’art 351. Sono, dunque, due discipline sovrapponibili ed entrambe modificate grazie alle
forme e garanzie proprie della testimonianza, oltre che grazie alle forme di tutela per i soggetti deboli.

L’assimilazione alla testimonianza dell’atto del PM si spinge anche sul versante delle conseguenze che
raggiungono l’eventuale dichiarante renitente, reticente o mendace. Il soggetto che tace in tutto o in
parte ciò che sa intorno ai fatti su cui viene sentito è punibile ai sensi dell’art 371 bis c.p. Un trattamento
diverso è previsto per le due diverse condotte che riguardano il reato. Nel caso di solo rifiuto si prevede la
immediata procedibilità. Mentre per le false dichiarazioni resta sospeso fino a quando nel processo sia stata
pronunciata sentenza di primo grado o il procedimento sia stato definito con archiviazione o con sentenza
di non luogo a procedere. Alla luce del fatto che la valutazione della falsità delle dichiarazioni potrebbe
venire sconfessata dall’accertamento operato nel processo e che, se il soggetto ritratta la sua dichiarazione
non oltre la chiusura del dibattimento, non sarebbe punibile (ravvedimento operoso). Tale regola
contempla una deroga. La sospensione non opera se la falsità o il rifiutarsi è commesso per impedire,
ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale se riguarda, ad esempio, il traffico illegale di armi o
materiale nucleare, chimico o biologico e in relazione ai reati dell’art 51 c.p.
Resta fermo il divieto dell’arresto in flagranza del potenziale testimone.

Secondo l’art 363, il PM può interrogare persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art
12, nonché le persone imputate in un reato collegato. Anche qui, può essere disposto l’accompagnamento
coattivo del dichiarante, gli deve essere garantita l’assistenza difensiva, deve essere avvertito della facoltà
di non rispondere alle domande nonché debba essere destinatario dell’avviso.

Rientra tra gli atti di natura dichiarativa anche L’ISTITUTO DI INDIVIDUAZIONE DI PERSONE O COSE
(art 361), secondo cui il PM procede alla individuazione di persone, cose o quanto altro può essere oggetto
di percezione sensoriale, quando sia necessario per la immediata prosecuzione delle indagini.
L’individuazione si articola in forme snelle ed essenziali, non riproponendo la dettagliata sequela di cautele,
dettate in funzione della attendibilità dei risultati di natura probatoria. Ci si limita a prevedere che le
persone, le cose e gli altri oggetti sono presentati o sottoposti in immagine a chi deve eseguire
l’individuazione. Anche qui, valgono le esigenze volte a tutelare la persona da atti di intimidazione o
ritorsione. Se questo può avvenire a causa della presenza della persona sottoposta alla individuazione,
l’atto deve essere compiuto senza che quest’ultima possa vedere la prima.
Qui vi sono delle perplessità dettate dalla non assistenza di garanzie stringenti quali quelle predisposte per
l’atto probatorio. Dal fatto che può creare interferenze con quest’ultimo, potendo distorcere l’esito dello
strumento probatorio successivamente esperito in sede processuale.
L’individuazione è una specie del generale concetto di dichiarazione, è soggetta alle regole processuali che
consentono l’utilizzabilità in dibattimento di dichiarazioni rese da una persona informata dei fatti nella fase
delle indagini preliminari.

Il PM può ASSUMERE IL SAPERE DELLA PERSONA SOTTOPOSTA ALLE INDAGINI TRAMITE


L’INTERROGATORIO. L’interrogatorio esprime una esplicazione di autodifesa dell’imputato ed un atto
investigativo con il quale l’organo, che svolge le indagini, può assumere informazioni da un soggetto, le cui
parole possono rivestire un ruolo di significativa importanza per la ricostruzione del quadro probatorio.

L’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini è rimesso ad una scelta strategica del PM che può
decidere se e quando compierlo. Grava su di lui un obbligo di sentire il soggetto che ne faccia richiesta,
solo il limine (prima che si inizi la lite) rispetto all’apertura del processo.
Prima di quel momento, il soggetto nei cui confronti sono svolte le indagini può presentarsi in ogni tempo
al PM per rilasciare dichiarazioni spontanee. L’iniziativa dell’indagato non pregiudica l’applicazione di
misure cautelari. Di fronte alla richiesta di essere sentito, al PM si offrirà una alternativa. O si limita a
raccogliere quanto l’indagato si dimostrerà interessato a comunicare, o potrà contestare il fatto e
convertire il colloquio in un atto equivalente per ogni effetto all’interrogatorio.
Se il PM decide di sentire di propria iniziativa la persona sottoposta alle indagini, gli invia un invito a
presentarsi, eventualmente potendo disporne, su autorizzazione del giudice, l’accompagnamento coattivo.
L’invito deve contenere le generalità, il giorno, l’ora e il luogo della presentazione, l’autorità dinanzi al quale
presentarsi, il tipo di atto per il quale l’invito è predisposto, l’avvertimento che il PM potrà disporre
l’accompagnamento coattivo. Quando la persona è chiamata a rendere l’interrogatorio, l’invito contiene
anche la sommaria enunciazione del fatto, quale risulta dalle indagini fino a quel momento compiute. Può
contenere anche l’indicazione degli elementi e delle fonti di prova e l’avvertimento che potrà essere
presentata richiesta di giudizio immediato. L’invito è notificato almeno 3 giorni prima di quello fissato per
la comparizione, salvo che ragioni di urgenza impongono di abbreviare il termine e sempre che sia lasciato
il tempo necessario per comparire.

La documentazione degli atti della polizia e del PM.


Il legislatore ha dettato una forma di documentazione degli atti di indagine della polizia giudiziaria e del
PM semplificata, riservando la redazione del verbale ad atti specificamente individuati.

La documentazione si articola in due diverse forme.


Di regola la polizia ricorre alla annotazione, connotata da forme libere e sommarie, per tutte le attività
svolte, comprese quelle dirette alla individuazione delle fonti di prova. Gli ufficiali o agenti redigono
verbale, nelle forme previste all’art 373, per la documentazione degli atti del PM. Si tratta di verbali
suscettibili di confluire nel fascicolo dibattimentale. Sono le denunce, querele e istanze orali, sommarie
informazioni rese e dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona verso cui si svolgono le indagini,
informazioni, perquisizioni e sequestri. Operazioni e accertamenti. Atti che descrivono fatti e situazioni,
eventualmente compiuti sino a che il PM non abbia impartito le direttive per lo svolgimento delle indagini.
La documentazione dell’attività di polizia giudiziaria è posta a disposizione del PM, e trova ordinaria
collocazione nel fascicolo delle indagini.

Anche per gli atti del PM vige un tendenziale principio di libertà delle forme. Alla documentazione delle
attività di indagine preliminare si procede solo tramite il verbale in forma riassuntiva o tramite le
annotazioni ritenute necessarie. La redazione è solo per gli atti specificatamente considerati come
denunce, querele, istanze orali, gli interrogatori, i confronti con la persona sottoposta a indagine. Le
ispezioni, perquisizioni, sequestri. Le sommarie informazioni gli accertamenti tecnici.

Per la modalità operativa, la regola è che gli atti vengano documentati nel corso del loro compimento,
perché la contestualità dell’adempimento contribuisce a garantire l’esatta rispondenza del contenuto del
verbale con quanto avviene in presenza del verbalizzante. Solo in determinate circostanze si ammette che
avvenga immediatamente dopo.
Il verbale è nullo se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione del PM
che lo ha redatto.
L’atto che contiene la notizia di reato e la documentazione relativa alle indagini sono conservati in
apposito fascicolo presso l’ufficio del PM assieme agli atti trasmessi dalla polizia giudiziaria.

Le misure precautelari.
Ascritti al novero delle c.d. misure precautelari dalla dottrina sono l’arresto in flagranza, fermo e
allontanamento urgente dalla casa familiare. Istituti che permettono una provvisoria restrizione della
libertà personale. Tali istituti sono peculiari rispetto alle forme di restrizione della libertà (misure cautelari).
Presentando diversità strutturali e funzionali.

Sotto il profilo funzionale, tali istituti sono strettamente connessi con i momenti significativi della attività di
indagine della polizia giudiziaria e del PM. Per esempio, l’arresto in flagranza tende a coincidere con la
notizia di reato.
Sotto il profilo strutturale, questi mutuano dalla relazione con le indagini. La titolarità ad adottare i relativi
provvedimenti spetta agli organi investigativi, anziché il giudice per le indagini preliminari, organo
imparziale che presidia ogni decisione in materia. Infatti, il potere di arresto in flagranza è esplicitamente
riservato alla polizia giudiziaria. Il potere di fermo invece al PM. Il potere di allontanamento dalla casa
familiare alla polizia giudiziaria su autorizzazione del PM.

Tali provvedimenti, legittimi in quanto riconducibili ai casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, sono provvisori, destinati a decadere se non convalidati attraverso una
procedura assistita da rigide cadenze temporali. La procedura di convalida è unica, compete al giudice, in
coerenza con le scelte adottate in materia di libertà, che negano al PM la possibilità di incidere sulla libertà
dell’imputato.
In realtà, le peculiarità dei poteri restrittivi e la interconnessione con le attività indagine non impediscono
alle misure precautelari di essere in rapporto con le misure cautelari coercitive, le quali ultime possono
essere adottate nel corso della procedura di convalida, ove ne risultino sussistenti le ragioni.

L’ambito applicativo dei singoli strumenti è circoscritto rispetto a diverse fasce di reati, individuate
secondo un criterio qualitativo e quantitativo (A determinare quello quantitativo valgono i criteri di
computo della pena stabiliti dall’art 278, in relazione all’applicazione delle misure cautelari).

L’art 358 detta disciplina speculare a quello dell’art 273, anticipando alle misure precautelari il divieto di
limitare la libertà personale nei casi in cui manchi un elemento essenziale per la punibilità. La disposizione
si limita a prevedere che l’arresto o il fermo non sono consentiti quando appare che questo è stato
compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima o in presenza di una causa
di non punibilità.
Ma L’interpretazione sistematica tende a ritenere precluso l’intervento precautelare, ogni volta che sia
interdetto quello cautelare. Quindi è illegittimo il provvedimento di arresto, fermo o allontanamento
eseguito in presenza di cause di giustificazione o di cause di estinzione del reato o della pena.

L’ARRESTO IN FLAGRANZA. Titolari di procedere sono ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Nonostante
la mancata menzione del PM, questo è considerato un titolare poiché sarebbe poco giustificabile negare
tale potere a chi è preposto alla conduzione delle indagini. In un caso è anche legittimato espressamente
dalla legge (arresto disposto per reati commessi in udienza).
Il potere di arresto spetta ai privati nei soli casi previsti (380). Ossia quando il suo esercizio da parte degli
organi di polizia sarebbe obbligatorio e sempre che si tratti di delitti perseguibili d’ufficio. La limitazione
della libertà personale operata dal privato non deve protrarsi oltre il tempo strettamente necessario a tale
incombente, per non trasmodare in arbitrio. La polizia giudiziaria redige il verbale della consegna da parte
del privato e ne rilascia copia.

Presupposto per procedere è la flagranza del reato. Si è in stato di flagranza quando il soggetto è colto
nell’atto di commettere reato o è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone,
subito dopo il reato. Oppure è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il
reato immediatamente prima. Nel reato permanente la flagranza dura fin quando non cessa la
permanenza.
Il 1° comma dell’art 382 si riferisce alla flagranza c.d. propria che suppone un rapporto di contestualità tra
la commissione e l’intervento della forza pubblica o dei privati. E alla flagranza c.d. impropria o quasi
flagranza, che avviene nell’ipotesi di chi è inseguito e nel caso di chi è sorpreso con cose o tracce.
In tale seconda ipotesi di flagranza, la contestualità tra reato e intervento dell’autorità si attenua. In tali
situazioni, è doveroso non ampliare i confini temporali segnati dal subito dopo e dall’immediatamente
prima.
Immediatezza della constatazione e continuità dell’azione tra percezione ed intervento sono i canoni cui
deve essere improntata ogni interpretazione in merito. Da un lato è necessario che l’attività di
inseguimento si basi su una diretta ed autonoma percezione da parte del soggetto che procede e non solo
in conseguenza di una denuncia. Dall’altro, occorre che non vi sia soluzione di continuità nell’attività di
inseguimento che si estende tra percezione del reato e arresto. Analogamente nel caso di sorpresa del reo
con cose o tracce del reato, si richiede l’esistenza di una stretta contiguità fra la commissione del fatto e la
successiva sorpresa del presunto autore ed il susseguirsi, senza soluzione di continuità, della condotta del
reato e l’intervento degli operanti.
Il nesso di contestualità tra constatazione del fatto e apprensione del reato si allenta di più in casi previsti
da leggi speciali. Per esempio, in caso di fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive
(flagranza differita). Qui l’arresto è valido anche con la constatazione del fatto tramite documentazione
video fotografica, purché non avvenga oltre il tempo necessario alla sua identificazione e non oltre le 48 dal
fatto. Un altro caso è per i reati commessi con violenza alle persone o alle cose, compiuti alla presenza di
più persone anche in occasioni pubbliche, per i quali è obbligatorio l’arresto. Quando non si può procedere
immediatamente si considera comunque lo stato di flagranza.
In alcuni casi, l’arresto avviene anche al di fuori della flagranza. Nel caso di evasione, persone sottoposte a
misure di prevenzione personale che commettano determinati reati o contravvengano a obblighi inerenti
alle misure, i cittadini stranieri o appartenenti a SM che trasgrediscano all’ordine di espulsione o
allontanamento pronunciato dal giudice.

All’arresto in flagranza si procedere sole ove il soggetto sia colto nella flagranza di un reato, rientrante
nell’ambito dell’arresto obbligatorio o quello facoltativo.

I casi di arresto obbligatorio: gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria devono procedere all’arresto di
chiunque, colto in flagranza di un delitto colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la
pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni e nel massimo a 20 anni. Al di fuori
di tale ambito, si procedere all’arresto obbligatorio anche per chi è colto nella flagranza di uno dei delitti
non colposi, consumati o tentati, specificatamente elencati all’art 380. Si tratta di reati di significativa
gravità. Un elenco che continua ad estendersi.
Con la stessa tecnica si elencano i casi di arresto facoltativo. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria
hanno la facoltà di procedere all’arresto di chiunque sia colto in flagranza di un delitto non colposo,
consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione nel massimo a 3 anni e nel
massimo a 5 anni. Non è consentito l’arresto della persona richiesta di fornire informazioni dalla polizia
giudiziaria o dal PM per reati concernenti il contenuto delle informazioni o il rifiuto di fornirle. In ossequio
al divieto di arresto del testimone per reati concernenti il contenuto della deposizione.
Fuori dai casi individuati, ufficiali e agenti hanno facoltà di procedere all’arresto di chi sia colto nella
flagranza di uno dei delitti elencati al 2° comma dell’art 381. Anche tale elenco è stato progressivamente
esteso.
Impropriamente definito facoltativo, l’arresto all’art 381 esprime in realtà un potere discrezionale della
polizia giudiziaria, che deve procedervi ogni volta che ritiene la misura giustificata dalla gravità del fatto o
dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto.

Infine, se è delitto perseguibile a querela, l’arresto in flagranza (Obbligatorio o facoltativo) viene eseguito
solo se la querela è posta. Proposizione che avviene o con dichiarazione resa oralmente all’ufficiale o
all’agente di polizia giudiziaria presente nel luogo. E se l’avente diritto dichiara di rimettere la querela,
l’arrestato è posto immediatamente in libertà.

Il FERMO DI INDIZIATO DI DELITTO è un potere di restrizione della libertà di cui è titolare il PM. Il quale
vi può procedere anche fuori dei casi di flagranza, se vi sono specifici elementi che fanno ritenere fondato il
pericolo di fuga di una persona che sia gravemente indiziata di un delitto, che la legge punisce con
l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a 2 anni e superiore nel massimo a 6 anni, o di un
delitto commesso per terrorismo, anche internazionale, o per eversione dell’ordine democratico.

Il titolare è solo il PM che vi procede, previo assenso scritto del procuratore della Repubblica o di un suo
delegato, anche se il soggetto si trova in un luogo posto al di fuori della competenza territoriale del giudice
presso il quale è incardinato. La polizia giudiziaria può procedere al fermo di propria iniziativa se il PM,
prima, ha assunto la direzione delle indagini o nelle particolari situazioni di urgenza dettate all’art 384.
Qualora sia successivamente individuato l’indiziato, quando vi sono elementi che fondano il pericolo che
l’indiziato stia per darsi alla fuga e non sia possibile attendere il provvedimento del PM .
Ad altri fini è predisposto il fermo di identificazione, esercitabile anche nei confronti di potenziali testimoni
oltre che dell’indagato.

L’ALLONTANAMENTO D’URGENZA DALLA CASA DI FAMIGLIA è un istituto autonomo, preordinato ad


anticipare la tutela cautelare rispetto ai reati commessi in ambito familiare, graduando l’afflittività
dell’intervento precautelare.
Lo possono disporre ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, qualora la persona sia colta in flagranza di uno
dei delitti indicati all’art 282 bis (allontanamento dalla casa familiare), con divieto di avvicinarsi ai luoghi
abitualmente frequentati dalla persona offesa. Ma occorre l’autorizzazione del PM, iscritta o orale
(confermata dopo per iscritto o per via telematica).

Presupposto è la sussistenza di fondati motivi per ritenere che le condotte criminose di cui sia stata
ravvisata la flagranza possano reiterarsi, ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o
psichica della persona offesa.
La procedura segue le disposizioni agli art 385-391, nonché la regola dell’art 381 sui reati procedibili a
querela.

L’intervento, che è finalizzato a garantire una tutela tempestiva alla vittima di tali reati, non si ferma
all’immediata allontanamento del presunto colpevole ma si estende ad obblighi informativi e di assistenza.
Nel procedere all’allontanamento, ufficiali e agenti devono fornire alla persona offesa tutte le informazioni
relative ai centri antiviolenza presenti sul territorio, in particolare nella sua zona di residenza e, qualora la
persona offesa ne faccia richiesta, devono provvedere a metterla direttamente in contatto con tali strutture
assistenziali.

Una volta eseguito l’arresto o il fermo, agenti ed ufficiali devono operare contestualmente su due fronti.
Devono assicurare immediatamente garanzie al soggetto privato della libertà e compiere ogni atto
doveroso per il passaggio di consegne al PM, al quale spetta rivolgere al giudice le richieste conseguenti
all’esecuzione del provvedimento (PROCEDIMENTO DI CONVALIDA).

Sotto il profilo delle garanzie per il soggetto privato della libertà, gli ufficiali e gli agenti hanno una serie di
obblighi informativi. Si deve consegnare comunicazione scritta all’arresto o il fermato. Redatta in forma
chiara e precisa, tradotta se questo non è italiano.
La comunicazione lo informare di poter nominare un difensore, del diritto di ottenere informazioni in
merito all’accusa, del diritto di avere un interprete, di avvalersi della facoltà di non rispondere, del diritto di
accedere agli atti sui quali si fonda l’arresto o il fermo. Del diritto di informare le autorità consolari e i
familiari, del diritto all’assistenza medica, di essere condotto davanti all’autorità giudiziaria per la convalida,
del diritto di comparire dinanzi al giudice per rendere l’interrogatorio e di proporre ricorso per cassazione
contro l’ordinanza che decide sulla convalida dell’arresto o del fermo.
La polizia deve, senza ritardo, con il consenso dell’arresto o il fermato, dare notizia ai familiari
dell’avvenuto arresto o fermo. Questa deve pure informare il difensore di fiducia, eventualmente
nominato, o quello di ufficio designato dal PM.

Sotto il profilo degli atti doverosi per il passaggio di consegne al PM. Gli agenti e gli ufficiali hanno il dovere
di dare immediata notizia al PM del luogo ove l’arresto o il fermo è stato eseguito. Quindi, assolti gli
obblighi del primo profilo, devono, non oltre 24 ore dall’arresto o dal fermo, metterlo a disposizione del
Pubblico Ministero. Lo fanno mediante la conduzione nella casa circondariale o mandamentale del luogo
dove l’arresto o il fermo è stato eseguito. Il PM può disporre che venga custodito agli arresti domiciliari o
presso altra casa circondariale o mandamentale.
Entro 24 ore, salvo diversamente previsto dal PM, deve essere trasmesso il verbale, anche per via
telematica. Il quale contiene nomina del difensore di fiducia, indicazione del giorno, ora e luogo in cui
l’arresto o il fermo è stato eseguito e l’enunciazione delle ragioni che lo hanno determinato, nonché la
menzione dell’avvenuta consegna della comunicazione scritta o dell’informazione orale fornita. Entrambi gli
adempimenti sono previsti a pena di inefficacia della misura.

Il PM, entro 48 ore dall’arresto o dal fermo, deve chiedere la convalida al giudice per le indagini
preliminari competente in relazione al luogo dove l’arresto o il fermo è stato eseguito, sempre se non
dispone la immediata scarcerazione.
Quando non intende chiedere una misura cautelare personale, il PM dispone la immediata liberazione ma
alla liberazione dell’arresto o fermato deve fare seguito l’udienza di convalida.
La giurisprudenza ritiene che il procedimento di convalida l’arresto debba essere attivato in ogni caso,
poiché è sempre configurabile l’interesse a valutare la legalità dell’arresto, essendo il giudizio di convalida
finalizzato alla verifica dei requisiti di legittimità dei provvedimenti sulla libertà personale, adottabili
dall’autorità di pubblica sicurezza solo nei casi eccezionali di necessità ed urgenza tassativamente indicati.

Nelle more della richiesta di convalida, se lo si reputa utile, si può procedere all’interrogatorio
dell’arrestato. La disciplina rimanda all’interrogatorio ma ha una duplice finalità. Non solo vuole accertare i
presupposti per l’immediata liberazione ma ha anche una funzione investigativa.

Con la richiesta di convalida, il PM trasmette al giudice il verbale di arresto o di fermo e copia della
documentazione attestante la conduzione del soggetto nel luogo di custodia. Il giudica fissa l’udienza di
convalida al più presto e non oltre le 48 ore successive, dandone avviso senza ritardo al PM e al difensore.
L’udienza di convalida si svolge nel luogo in cui l’arrestato o il fermato si trova custodito , salvo che nel caso
di custodia nel proprio domicilio o altro luogo di privata dimora. Tuttavia, se vi sono fondati motivi, si può
chiedere, con decreto motivato, la disposizione del trasferimento per la comparazione davanti al giudice.
L’udienza è celebrata in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del difensore , il quale ha
diritto di consultare ed estrarre copia dei documenti presentati. Non è più necessaria la presenza del PM.
Se questa non compare trasmette le sue richieste in ordine alla libertà personale, con gli elementi su cui le
stesse si fondano. Se compare indica i motivi dell’arresto o del fermo e illustra le richieste in ordine alla
libertà personale.
Il giudice dopo aver verificato che all’arrestato o fermato siano stata data comunicazione scritta o
l’informazione orale, deve procedere all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato, salvo che questi non
abbia potuto o si sia rifiutato di comparire, sente in ogni caso il suo difensore.

Il giudice decide con ordinanza (contro cui si può ricorrere in cassazione) convalidando il provvedimento se
l’arresto o fermo sono stati legittimamente eseguiti e sono stati osservati i termini.
In caso di mancata convalida, si potrebbe arrivare a conseguenze di natura disciplinare, nonché ad una
eventuale riparazione per ingiusta detenzione.
Se l’ordinanza non è pronunciata o depositata nelle 48 ore successive al momento in cui l’arresto o il
fermato è stato posto a disposizione, il fermo o l’arresto perdono efficace. Il giudice, se vi è stata richiesta
dal PM, può disporre l’applicazione di una misura coercitiva. Se non emette tale provvedimento, sempre
con ordinanza, dispone l’immediata liberazione dell’arrestato o del fermato.
Le ordinanze conclusive, pronunciate in udienza, sono comunicate al PM e notificate all’arrestato o al
fermato che non siano comparsi. Se queste non sono pronunciate in udienza, vengono comunicate o
notificate a coloro che hanno diritto di proporre impugnazione. I cui termini decorrono dalla lettura del
provvedimento in udienza o dalla sua comunicazione o notificazione.

Il diritto di difensa nelle indagini.


L’art 111 Cost, in apertura del catalogo di diritti riconosciuti all’imputato nel processo penale, prevede che
la legge assicuri alla persona accusata di un reato L’INFORMAZIONE riservatamente sulla NATURA E SUI
MOTIVI DELL’ACCUSA elevata a suo carico.
Se la conoscenza dell’addebito è premessa indefettibile per articolare una risposta in chiave difensiva, la
possibilità di giocare proficuamente un ruolo attivo nella fase preliminare, presuppone la tempestività della
informazione. Diritto che deve essere contemperato con le esigenze di tutela dell’efficacia delle indagini,
che potrebbero essere pregiudicate dalla prematura conoscenza degli esiti delle stesse.

Diversi istituti, a ciò diretti, non scongiurano che, in alcune ipotesi, l’intera fase di indagine possa svolgersi
senza che il diretto interessato ne sia a conoscenza. Se le indagini terminano con l’archiviazione, il soggetto
indiziato può anche non venire mai a conoscenza delle indagini.

Solo nel caso in cui il PM si risolve ad esercitare l’azione penale, vi è un preciso obbligo (ineludibile a pane
di nullità sulla richiesta di rinvio a giudizio), di inviare avviso (dovuto alla persona sottoposta alle indagini,
suo difensore e difensore della persona offesa o direttamente verso questa) che contiene la sommaria
enunciazione del fatto per il quale si procede, delle norme di legge che si assumono violate, della data e
luogo del fatto, con l’avvertimento che la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata
presso la segreteria del PM e che l’indagato e il suo difensore hanno facoltà di prevederne visione ed
estrarne copia. È un’informazione tardiva, avviene dopo la conclusione della fase preliminare. Nonostante
ciò, essa ha un ruolo decisivo, consentendo all’indagato di istaurare un contraddittorio sulle indagini prima
che l’accusa sia formalizzata nella richiesta di rinvio a giudizio. Reso edotto non solo della notizia di reato
ma dell’intera documentazione raccolta, può verificare e contraddire l’impianto accusatorio cui le indagini
hanno messo capo ma anche lucrare un supplemento investigativo.

In tale prospettiva, medesimo avviso deve informare la persona ancora sottoposta alle indagini delle
facoltà difensive che le spettano. Il quale può presentare memorie, documenti, documenti su investigazioni
del difensore, che il compimento di atti di indagine e presentarsi per rilasciare dichiarazioni o
interrogatorio.
Prima dell’avviso dal PM, l’indagato può avere conoscenza del procedimento a suo carico in via solo
eventuale. L’informazione potrà pervenirle o non a seconda delle scelte di strategia investigativa degli
organi inquirenti.
In proposito, un ruolo centrale riveste l’informazione di garanzia (369). Avviso che il PM invia al
compimento del primo atto al quale il difensore ha diritto di assistere, alla persona sottoposta alle indagini
e alla persona offesa. Vi devono essere indicate le norme di legge che si assumono violate, la data ed il
luogo del fatto e l’invito a nominare un difensore di fiducia. L’informazione di garanzia non illustra i fatti
ma si limita ad indicare gli estremi formali dell’addebito. In questo sembra finalizzata a porre l’indagato in
condizione di nominare un difensore di fiducia in grado di assisterlo all’atto di indagine, in funzione del
quale l’informazione è stata inviata.
Rimane la possibilità, tramite apposita richiesta, per l’indagato e il suo difensore di conoscere ogni
estremo della notizia di reato, iscritta in apposito registro, con i limiti previsti.
L’istituto è stato rimodulato, modificando il momento dell’invio, con l’obiettivo di arginare impieghi abusivi
dell’incombente. Adesso, il PM deve inviare l’avviso solo quando debba essere eseguito un atto al quale il
difensore ha diritto di assistere. Ma l’intervento non sembra risolutivo perché lo allontana ulteriormente da
una conformazione suscettibile di attuare l’obbligo di informazione che l’art 111 Cost vuole anche
tempestiva.

Una serie di atti, equipollenti, sostituisce l’informazione di garanzia. Come l’avviso del PM nel caso di
accertamento tecnico irripetibile o interrogatorio. Oppure nel caso di consegna dei decreti di perquisizione
o di sequestro all’imputato, che sia presente e sia stato contestualmente invitato a nominare un difensore.
Se l’atto è stato compiuto, senza la presenza della persona sottoposta a indagini, il PM ha ancora l’obbligo
del tempestivo inoltro dell’informazione predetta, anche al fine di assicurare la pienezza delle facoltà
difensive.
La notizia che si stanno svolgendo indagini a suo carico può pervenire all’indagato anche nel corso di
attività di indagine della polizia giudiziaria che si svolgano in sua presenza o in occasione di ulteriori atti
che lo vedano protagonista passiva. Come quando è destinatario di un provvedimento precautelare o
cautelare, o quando si debba svolgere un incidente probatorio richiesto dal PM o vi è richiesta di proroga
dei termini di indagine.

Infine, la conoscenza può avvenire da una iniziativa del diretto interessato, il quale deve avere motivo di
ritenere di essere sottoposto ad un procedimento presso un determinato ufficio giudiziario. Infatti,
l’iscrizione della notizia di reato ed eventuali aggiornamenti è notificata alla persona offesa, indagato o i
rispettivi difensori, se ne facciano richiesta. La comunicazione è esclusa per delitti gravi.
Anche l’accesso a tali informazioni può subire restrizioni di carattere temporaneo. Se vi sono specifiche
esigenze attinenti all’attività di indagine, il PM può disporre con decreto motivato, il segreto sulle iscrizioni
per un periodo non superiore a 3 mesi e non rinnovabile.

Anche la persona offesa dal reato ha diritti informativi, in funzione della sua partecipazione ad alcuni atti
investigativi e delle facoltà ulteriori, riconosciutigli nella fase delle indagini preliminari. Oggi si dispone che
senza pregiudizio del segreto investigativo, decorsi 6 mesi dalla data di presentazione della denuncia, o
della querela, la persona offesa dal reato può chiedere di essere informata dall’autorità che ha in carico il
procedimento circa lo stato del medesimo. Tale comunicazione permette alla persona offesa di esercitare al
meglio i suoi diritti difensivi. Come l’opposizione ad eventuale richiesta di archiviazione o prevenirle,
tramite le facoltà di presentare memorie. Ma rimane salvo il segreto investigativo, cosicché in capo al PM
residua comunque un ampio spazio discrezionale per ignorare del tutto eventuali richieste.

IL DIRITTO ALLA DIFESA TECNICA è irrinunciabile. Infatti, se l’imputato non ha già nominato un
difensore di fiducia, sarà nominato d’ufficio. Una particolare informativa - da inviarsi al compimento del
primo atto a cui il difensore ha diritto di assistere e prima dell’invito a presentarsi per rendere
l’interrogatorio o al più tardi contestualmente all’avviso della conclusione delle indagini preliminari - lo
avvertirà della nomina fornendogli alcune notizie su diritti e doveri che circondano il suo rapporto con il
difensore.
La comunicazione sul diritto di difesa deve contenere l’informazione sulla obbligatorietà della difesa
tecnica nel processo penale, con l’indicazione della facoltà e dei diritti attribuiti dalla legge all’indagato. Il
nominativo del difensore d’ufficio, indirizzo e recapito telefonico. L’indicazione della facoltà di nominare un
difensore di fiducia con l’avvertimento che l’indagato sarà assistito da quello nominato d’ufficio. Indicazione
dell’obbligo di retribuire il difensore d’ufficio, in caso di insolvenza si procede ad esecuzione forzata.
L’informazione del diritto all’interprete e la traduzione di atti fondamentali. L’indicazione delle condizioni
per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Il ruolo del difensore è stato riletto ed ora sviluppato in una duplice linea prospettica, grazie alla
evoluzione del sistema introdotto dal Codice di procedura penale vigente. Infatti, l’esplicitazione di principi,
insiti nel processo di parti, e la collocazione degli stessi in un sistema fondato sulla parità delle armi lo ha
permesso.
La 1° linea prospettica vede il difensore nell’orbita delle indagini compiute dalla polizia giudiziaria e dal PM.
Egli vi si aggira come comprimario della scena investigativa pubblica a tutela dei diritti fondamentali della
persona e della genuinità degli esiti probatori. Se la legge lo prevede, può assistere agli atti di iniziativa
altrui proponendo richieste, osservazioni, riserve delle quali è fatta menzione nel verbale. Non gli è
concesso di influenzare i partecipanti o indirizzare il contributo del proprio assistito. Anche al di fuori dei
casi in cui è tipizzato l’intervento del difensore, questo ha un potere generale di interlocuzione con l’organo
di accusa. E si prevede che nel corso delle indagini, i difensori abbiano facoltà di presentare memorie e
richieste scritte al PM. Ma nessuna risposta sembra dovuta.
Lungo la 2° linea, allontanandosi da un ruolo passivo, il difensore può compiere autonomamente una serie
di atti investigativi per la ricerca di elementi utili per la difesa del proprio assistito, muovendosi
specularmente all’organo di accusa e su un terreno apparentemente omogeneo.

L’ASSISTENZA DEL DIFENSORE AGLI ATTI DI INDAGINE DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA E DEL PM,
finalizzata a presidiare la correttezza dell’azione inquirente, è stabilita in correlazione con la potenziale
proiezione dibattimentale delle conseguenti acquisizioni.

Allo stesso tempo, la disciplina tiene in considerazione la necessità di preservare l’efficacia dell’azione
investigativa, rispetto a quei casi in cui l’invito al difensore potrebbe precludere o alterare gli esiti
dell’accertamento. Da qui deriva un triplice regime.

In primo luogo, il difensore può assistere all’atto con diritto di essere preavvertito, quando la polizia
giudiziaria proceda all’assunzione di sommarie informazioni dalla persona indagata. Le sommarie
informazioni qui devono essere assunte necessariamente con la presenza del difensore.
Nel caso di attività svolta dal PM, il difensore deve ricevere avviso per gli accertamenti tecnici urgenti, in
relazione al quale deve pervenire senza ritardo. Inoltre, nel caso di interrogatorio, ispezione, individuazione
di persone o confronto al quale debba intervenire la persona sottoposta alle indagini, il difensore deve
essere avvisato con le cadenze temporali ivi previste (24 ore prima del compimento di tali atti e ispezioni a
cui l’indagato non deve partecipare).
Duplice deroga. Se vi è urgenza assoluta e dal ritardo, vi è fondato motivo di ritenere che possa derivare un
pregiudizio per le fonti di prova, il PM procede a interrogatorio, ispezione e individuazione di persone o
confronto, dandone avviso al difensore senza ritardo e tempestivamente. Oppure l’avviso può essere
omesso quando il PM procede a ispezione e vi è fondato motivo di ritenere che le tracce o gli altri effetti
materiali del reato possano essere alterati. Anche qui è salva la facoltà del difensore di intervenire all’atto.
Quando procede in uno di tali casi, il PM deve indicare, a pena di nullità, i motivi della deroga e le modalità
di avviso.

In secondo luogo, quando si tratta di atti sorpresa è prevista la facoltà del difensore di assistere all’atto
senza diritto di essere preavvisato. Questo riguarda gli atti del PM e della polizia giudiziaria.
Tra quelli a iniziativa della polizia vi sono le perquisizioni, accertamenti urgenti sui luoghi, cose, persone, ed
i sequestri. Nonché la immediata apertura del plico. In tali casi, l’indagato è avvisato della possibilità di
nominare un difensore di fiducia. Qualora non lo faccia, non vi è alcun obbligo di nominarne uno d’ufficio.
Tra quelli a iniziativa del PM vi sono atti di perquisizione o sequestro. Egli deve chiedere alla persona
indagata che sia presente, se è assistita da un difensore di fiducia. Se privo ne designa uno d’ufficio.

In entrambi i casi, se il difensore, legittimato ad assistere con o senza preavviso, decida di non intervenire,
non si produce alcuna ripercussione sulla legittimità dell’atto, salvo che la sua partecipazione sia necessaria.

In terzo luogo, non è previsto alcun diritto di assistere per l’assunzione di informazioni da persone a
conoscenza di notizie utili e al relativo confronto tra di esse, per l’interrogatorio di persona imputata in un
procedimento connesso. Ed anche per l’assunzione di sommarie informazioni. Assunte anche senza che la
persona sottoposta a indagini sia assistita.

Il difensore che non abbia assistito all’atto può comunque accedervi subito dopo il suo compimento. Salvo
alcuni casi eccezionali, i verbali del PM e della polizia giudiziaria, ai quali il difensore ha diritto di assistere,
sono depositati nella segreteria del PM entro il 3 giorno dopo il compimento dell’atto. Con facoltà per il
difensore di esaminarli ed estrarne copia nei 5 giorni successivi. Il difensore, che non ha ricevuto avviso del
compimento dell’atto, deve ricevere la notifica di avviso di deposito e da questo avviso decorreranno 5
giorni prima di prendere visione degli atti ed estrarne copia. In ogni caso, il difensore ha facoltà di
esaminare le cose sequestrate nel luogo in cui esse si trovano o estrarne copia se sono documenti. Il PM
può chiedere il ritardo del deposito, senza pregiudizio di attività difensiva, per non oltre 30 giorni.
La figura del difensore-investigatore (INVESTIGAZIONI DIFENSIVE) è emersa dalle riforme intervenute
dall’approvazione del codice vigente. Non è un caso che la disciplina delle investigazioni del difensore abbia
uno spazio centrale nel libro V. Il nuovo armamentario trova collocazione nel Titolo VI bis, situato dopo le
indagini pubbliche e prima dell’intervento del giudice, chiamato ad hoc per anticipare la formazione della
prova. In questo modo, si affida al difensore uno status paritario a quello dell’autorità inquirente e poteri
di indagine ricalcati sugli atti tipici dell’organo di accusa, per evidenziarne una pressoché totale
equiparazione di forme e valore probatorio.
Analizzando, la tipologia degli strumenti difensivi e la loro utilizzazione probatoria, si può capire fin dove
l’equiparazione può spingersi. Ma, ove si rifletta solo un momento sulle peculiarità di fondo che
distinguono l’organo di accusa, titolare dell’interesse pubblico nel processo penale e il difensore,
professionista portatore di un interesse di parte, divengono evidenti alcuni tratti differenziali. Il fatto che
parità di armi non voglia dire eguaglianza di poteri è evidente.
Ciò premesso, la situazione del difensore si confronta con quella del PM.

Il difensore dotato di minore autonomia rispetto all’organo di accusa, nel compimento di alcune attività è
invece più libero del primo, con riguardo alle modalità di svolgimento degli atti, a quelle di documentazione
a la possibilità di utilizzare gli elementi coercitivi. È privo di poteri coercitivi, quindi dovrà essere affiancato
dal giudice, o dall’organo di accusa, di fronte a fonti di prova renitenti e a Pubbliche amministrazioni
resistenti.
La diversità tra le due figure è dettata dalla diversa finalità. Il difensore porrà una investigazione orientata
alla ricerca e individuazione di elementi di prova a favore del proprio assistito, mentre il PM porrà una
investigazione sarà più oggettiva. In ragione dell’univoco orientamento della sua azione, il difensore ha
ampia libertà nell’individuare e approfondire i temi di prova, nel decidere se documentare la propria
attività e nel decidere se e quando immettere i verbali, autonomamente redatti, nel procedimento.

La prima delle attività investigative del difensore è la possibilità di conferire con le persone che siano in
grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa. La DISCIPLINA DELL’ACQUISIZIONE di
informazioni da fonti dichiarative è modulata tramite 3 differenti modelli.
Il colloquio non documentato, la richiesta e ricezione di una dichiarazione scritta documentata e
l’assunzione di informazioni.
Al colloquio non documentato si ricorre per sondare l’attendibilità, pertinenza e rilevanza delle conoscenze
in possesso della persona contattata, ai fini della ricostruzione dei fatti. È informale, non destinata ad
essere cristallizzata, quindi i relativi contenuti non avranno valore probatorio.
Le altre due modalità sono riservate al difensore o suo sostituto, in quanto possono avere valore
probatorio. La dichiarazione scritta e le informazioni devono essere documentate, a pena di inutilizzabilità.
In particolare, il colloquio dovrà essere documentato con le forme ordinarie di documentazione degli atti, al
fine di poter usare le informazioni provenienti dalla persona con cui si conferisce. Il difensore o suo
sostituto possono chiedere alla persona informata una dichiarazione scritta, in cui si riferiscono le
circostanze utili di cui è a conoscenza. Dichiarazione che deve essere autenticata dal difensore ed allegata
ad una relazione da lui stesso redatta. Relazione che contiene la data in cui l’ha ricevuta, le proprie
generalità e quella della persona autore della dichiarazione, l’attestazione di avere rivolto gli avvertimenti e
i fatti sui quale verte la dichiarazione.

Tutte e 3 le forme di acquisizione di informazioni utili per l’indagine devono essere precedute dal
composito elenco di avvertimenti, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni e salve le conseguenze
disciplinari.
In particolare, devono informare la persona che detiene le informazioni della loro qualità e dello scopo del
colloquio, se intendono conferire o ricevere dichiarazioni o assumere informazioni indicando le modalità e
la forma di documentazione. Devono informare dell’obbligo di dichiarare se sono sottoposte ad indagini o
imputate nello stesso procedimento, in uno connesso o per un reato collegato. Avvertono della facoltà di
non rendere dichiarazione, del divieto di rivelare le domande formulate e le risposte date, delle
responsabilità penale in caso di falsa dichiarazione.

I soggetti con i quali il difensore e suoi ausiliari possono conferire, sono tutti coloro in grado di riferire
notizie utili, salva diversa indicazione e con le garanzie assicurate.
Come la incompatibilità a testimoniare per il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la
pena pecuniaria, per coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di
giudice, PM o loro ausiliario nonché il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro
che hanno formato la documentazione. Invece, il difensore può acquisire informazioni da persona
sottoposta alle indagini o imputata nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un
reato collegato a quello del proprio assistito. In tal occorre che egli ne dia avviso, almeno 24 ore prima, al
difensore di fiducia della persona, la cui presenza è necessaria. In assenza del difensore di fiducia, il giudice,
su richiesta del difensore che investiga, ne nomina uno d’ufficio.
Il Giudice interviene quando deve essere sentita persona detenuta. Occorrerà che il difensore ottenga
un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente, che l’assume sentiti il PM e il difensore del
detenuto.

L’audizione davanti al difensore ha garanzie omologhe a quelle dettate con riguardo per l’attività della
polizia e del PM. Prima di tutto, all’assunzione di informazioni non possono partecipare l’indagato, la
persona offesa o altre parti per evitare indebite influenze. Altre garanzie sono nei casi di dichiaranti
minorenni o nel caso di dichiarazioni auto indizianti (le precedenti dichiarazioni non possono essere usate
contro la persona che le ha rese). Infine, è precluso richiedere notizie sulle domande formulate e sulle
risposte date alle persone già sentite dalla polizia giudiziaria o dal PM.
Per evitare che le indagini vengano pregiudicate dalla diffusione di notizie non divulgabili, il PM ha un
potere più penetrante. Infatti, se vi sono determinate esigenze il PM può vietare alle persone sentite di
comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza.

La persona informata sui fatti deve rispondere secondo verità, pena la sua responsabilità per le false
dichiarazioni rilasciate al difensore. Avvertita della correlativa facoltà può non rispondere o non rendere la
dichiarazione al difensore.
In tal caso, la difesa può rivolgersi al PM affinché disponga l’audizione del dichiarante renitente, sempre che
non si tratti di persone sottoposte a indagini nello stesso o in altro procedimento connesso. Ma la richiesta
di audizione tramuta l’iniziativa difensiva in un atto dell’organo inquirente. Quindi, l’atto confluirà nel
fascicolo del PM e così acquisito, sarà suscettibile di essere usato alla stregua degli atti di indagine. Il
difensore, per questa via, otterrà la dichiarazione ma perderà la discrezionalità su di esso.
In alternativa a tale modalità, il difensore può chiedere che il soggetto venga sentito con incidente
probatorio. La disposizione lascia intendere che la richiesta può essere avanzata dal difensore della persona
indagata ma anche da quella offesa.

Affianco alla disciplina dell’acquisizione, le investigazioni difensive possono portare ALL’ACQUISIZIONE


DI ELEMENTI PROBATORI DI CARATTERE REALE. Per questo, il difensore, unico legittimato, può
rivolgersi alla Pubblica amministrazione per prendere visione o acquisire copia , a sue spese, di
documenti formati o detenuti stabilmente dall’amministrazione stessa.

Il soggetto destinatario dell’istanza difensiva è la Pubblica amministrazione che ha formato il documento e


lo detiene stabilmente. La richiesta non può essere rivolta alla PA che li detiene temporaneamente. Inoltre,
la disposizione non prevede un obbligo di esplicitare le finalità perseguite. Ma è lecito ritenere che il
difensore debba indicare le circostanze che lo rendono rilevante ai fini investigativi. La consegna non è un
atto dovuto, la PA può rifiutare l’accesso ai documenti.
In caso di rifiuto, differimento, limitazione dell’accesso ai documenti, o in caso di mancata risposta, il
difensore può sollecitare il PM tramite una richiesta scritta. Così il difensore potrà prospettare al PM la
necessità di un provvedimento finalizzato al raggiungimento dello scopo. Qualora il PM non intenda dar
seguito alla richiesta, dovrà trasmetterla, insieme ad un suo parere, al giudice per le indagini preliminari. Il
quale dovrà valutare se la richiesta sia fondata e se il rifiuto pregiudichi o meno la difesa. Valutazione che
verrà svolta in assenza del contraddittorio tra le parti.

Il difensore, il sostituto e suoi ausiliari possono anche effettuare accesso ai luoghi. Questo permette di
osservare direttamente l’ambiente in cui si sono svolti i fatti, premessa insostituibile per rinvenire elementi
rilevanti ai fini difensivi. Poiché una volta effettuato l’accesso, possono prendere visione dello stato dei
luoghi e delle cose che potrebbero risultare rilevanti ai fini delle indagini difensive e procedere alla loro
descrizione, anche servendosi di ogni mezzo tecnologico per eseguire rilievi tecnici, grafici, planimetrici,
fotografici o audiovisivi.
Tale attività è meramente ricognitiva e non può causare modificazioni dello stato delle cose, poiché non
deve interferire con l’attività di ricerca svolta dagli organi dell’accusa. La legge non stabilisce se l’assistito
possa partecipare a tale attività. La giurisprudenza, in proposito, ha riconosciuto la possibilità di una sua
partecipazione, se non vietato l’accesso secondo i casi previsti per legge, poiché aiuterebbe nella
ricostruzione dei fatti tramite l’osservazione dell’ambiente.

Specifica disciplina d’accesso è per i luoghi privati o non aperti al pubblico e ai luoghi adibiti a privata
abitazione e alle relative pertinenze.
Per l’accesso nei luoghi privati o non aperti al pubblico, occorre il consenso del soggetto che ha la
disponibilità della cosa o del luogo. Se tale consenso manca, l’accesso deve essere autorizzato dal giudice,
su richiesta del difensore, con decreto motivato. In questo modo si bilancia la tutela dell’inviolabilità del
domicilio con l’esplicazione del diritto di difesa. Se vi è un provvedimento che autorizza l’attività, chi ne ha
la disponibilità non può impedirne l’accesso.
La persona che ha disponibilità del luogo, se presente al momento dell’accesso, deve essere avvertita della
possibilità di farsi assistere da una persona di fiducia. I soggetti della difesa devono pure avvertire riguardo
alla loro qualità, la natura dell’atto da compiere e delle possibilità che l’atto sia autorizzato dal giudice. Tali
avvertimenti devono essere documentati almeno mediante annotazione.
Per l’accesso ai luoghi di abitazione e alle loro pertinenze, occorre sempre il consenso di chi ne la
disponibilità. In assenza l’autorizzazione del giudice viene concessa solo se vi è necessità di accertare le
tracce e gli altri effetti materiali del reato. Cioè quando si tratta di prendere cognizione dei segni esteriori.

Il difensore, sostituto o ausiliari possono redigere il verbale, in cui riportano data e luogo dell’accesso, le
proprie generalità e di chi è intervenuto, la descrizione dello stato del luogo e delle cose e l’indicazione di
eventuali rilievi eseguiti. Tale atto deve essere sottoscritto dall’autore e dalle persone intervenute. La
redazione non è obbligatoria, è un onere per il difensore che intenda usare i risultati dell’indagine in chiave
probatoria nel procedimento.

La disciplina che segna la tipologia delle modalità investigative si risolve apparentemente nel triplice ambito
di operatività fin qui descritto. Ma in realtà, il quadro tracciato dalle disposizioni non è esaustivo. Ciò è
esplicitato nell’art 391 decies, in cui si definisce il VALORE PROBATORIO DI ATTI E ACCERTAMENTI
IRRIPETIBILI, legittimando implicitamente il difensore all’esperimento degli stessi.
Innanzitutto, in occasione dell’accesso ai luoghi, il difensore può svolgere rilievi irripetibili. Cioè atti
ricognitivi che non comportano un’attività invasiva o valutazioni proprie degli accertamenti tecnici e che
hanno ad oggetto cose o luoghi soggetti a modificazioni, i quali devono essere svolti tempestivamente per
evitare la dispersione degli elementi di prova. La disposizione disciplina l’utilizzabilità di tali atti, venendo
inseriti nel fascicolo per il dibattimento. Il PM può assistere al compimento di tali atti personalmente o per
mezzo di una delega alla polizia giudiziaria. In tal caso, il verbale sarà inserito nel fascicolo del difensore e
in quello del PM e confluirà nel fascicolo del dibattimento, seguendo lo stesso percorso del verbale degli
accertamenti tecnici non ripetibili.
Anche in occasioni diverse dall’accesso ai luoghi, il difensore può svolgere accertamenti tecnici ripetibili e
non. Avvalendosi o di consulenti tecnici o di un diverso procedimento nel caso di accertamenti irripetibili. In
tale ultimo caso, deve darne avviso, senza ritardo, al PM per l’esercizio delle facoltà previste. Per tale via, il
PM diviene destinatario di garanzie analoghe a quelle attribuite al difensore, in caso di accertamenti tecnici
irripetibili compiuti dalla parte pubblica. Tuttavia, sono applicabili al PM le disposizioni inerenti al diritto di
partecipare al conferimento dell’incarico e agli accertamenti, nonché il potere di formulare riserva di
incidente probatorio. Mentre è inapplicabile la disposizione sulla garanzia di nomina del difensore. Il tenore
letterale della disposizione sembra escludere che l’avviso sia dovuto alla persona offesa. Così sembra di
violare il principio del contraddittorio. Ma secondo le regole di comportamento del penalista, nel caso di
accertamenti tecnici irripetibili si deve dare avviso a tutti coloro nei confronti dei quali l’atto può avere
effetto e dei quali si abbia conoscenza. Se la persona offesa non rientrasse tra queste, l’eventuale omissione
dell’adempimento non riceverebbe alcuna sanzione.

L’intento di ripristinare un equilibrio dei poteri tra le parti ruota introno alla ricerca di una parificazione
della figura del difensore a quella del PM. Parificazione fondata sulla equiparazione del VALORE
PROBATORIO DEGLI ELEMENTI SCATURITI dalle rispettive attività.
Un ruolo centrale è rivestito dalla previsione di un fascicolo del difensore, funzionale a raccogliere la
documentazione degli atti compiuti, quale preludio ad una successiva utilizzabilità del materiale che vi è
conferito. È formato e conservato presso l’ufficio del giudice per le indagini preliminari. Di regola è
riservato. Il PM ne prendere visione solo quando debba essere adottata una decisione su richiesta delle
altre parti o con il loro intervento. Non vi è nessuna previsione per l’accesso per le altre parti private. Dopo
la chiusura delle indagini, questo è inserito nel fascicolo del PM, dove giace in autonomia, offrendo i propri
contributi alla dialettica dibattimentale, nelle ipotesi e forme consentite. Contributi che troveranno ampio
uso nella fase preliminare, nell’udienza preliminare, ma anche nei riti speciali e in dibattimento.

I fascicoli previsti per il PM e quello del difensore si differenziano quanto ai rispettivi criteri di formazione.
Nel primo viene inserito ogni atto compiuto mentre nel secondo verrà inserito quanto vorrà il difensore.
Questo è libero di decidere se, come e in quale fase dell’arco procedimentale offrire i risultati investigativi
ala conoscenza del giudice e della controparte. Qualora se ne voglia servire, deve presentarli al giudice o
PM, con le forme previste per legge. Ma una volta introdotto nel procedimento, l’elemento conoscitivo
non sarà più di sua esclusiva disponibilità, entrando a far parte del materiale cognitivo del procedimento
penale. La documentazione dell’attività investigativa presentata deve essere inserita nel fascicolo del
difensore in originale, o in copia se il difensore ne richiede la restituzione.
La discrezionalità del difensore ha un limite. La sua libertà non può spingerlo ad una infedele
verbalizzazione, nemmeno può presentate solo parti di atti, per oscurare informazioni sfavorevoli. In questo
modo risponderebbe di falso ideologico in atto pubblico e favoreggiamento, poiché il difensore quando
svolge attività investigativa è pubblico ufficiale.

Il difensore ha ampia possibilità servirsi del materiale cognitivo raccolto, a partire dalle indagini
preliminari, nelle quali l’ostensione probatoria delinea un dialogo tra difensore e giudice. Al giudice
possono essere presentati elementi utili in funzione di una decisione che debba essere adottata con
l’intervento della parte privata. Ma il difensore può porre a disposizione del giudice ogni risultanza
probatoria che ritenga utile per il caso che siano adottate decisioni inaudita parte.
È previsto anche un dialogo tra le parti, prevedendo che il difensore può presentare gli elementi di prova
raccolti, direttamente al PM.
Il difensore ha anche la possibilità di far pervenire gli elementi di prova raccolti al giudice dell’udienza
preliminare. Prima della discussione potranno essere presentati i risultati ottenuti durante la fase delle
indagini, ma non depositati in precedenza, o i risultati delle attività di indagine suppletiva, svolte in seguito
alla chiusura delle indagini preliminari. Sulla base di tali elementi il giudice dell’udienza preliminare dovrà
decidere le sorti del processo. Ove poi l’udienza preliminare sia la scena per lo svolgimento di un rito
speciale, tale documentazione è utilizzabile, in quella sede, anche per il giudizio.

L’uso degli elementi dell’investigazione difensiva nel giudizio abbreviato presenta caratteri di peculiarità ed
è stato perciò fonte di vivace dibattito. Qualora si concordi che il contraddittorio possa essere derogato,
solo quando le parti presentino acquiescenza rispetto ad una diversa modalità di accertamento, non
dovrebbe ritenersi ammesso che sia la sola parte, che ha formato unilateralmente gli elementi di prova, a
poter consentire all’utilizzabilità degli stessi al di fuori del metodo dialettico. Questo è quello che avviene
nel giudizio abbreviato: se l’imputato si sia avvalso della facoltà di depositare i risultati delle proprie
investigazioni difensive, egli realizza, con la richiesta di accesso al rito, una trasformazione dei propri
elementi di indagine in prove utilizzabili dal giudice. Ma la Corte costituzionale, facendo leva sul
contraddittorio come garanzia, ha escluso che questa sia censurabile.
Il legislatore è intervenuto rimodulando le prerogative delle parti dinanzi alla richiesta di giudizio
abbreviato immediatamente successiva al deposito delle investigazioni difensive. Un breve termine spetta
al PM per svolgere indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa. Mentre all’imputato
viene consentito un discessus, essendogli attribuita la facoltà di revocare la richiesta di giudizio abbreviato.

Complementare alla disciplina sul valore probatorio delle indagini delle parti private nella fase preliminare e
nell’udienza preliminare è il regime di impiego in fase dibattimentale degli elementi raccolti dal difensore
nella sua attività investigativa. Questo sembra confermare l’intento del legislatore di attuare una simmetria
tra le indagini svolte dal PM o dalla polizia giudiziaria e quelle svolte dai soggetti della difesa anche sul
piano dell’utilizzabilità.
Il regime prevede che le dichiarazioni inserite nel fascicolo del difensore possano essere usate dalle parti
per le contestazioni e per le letture, in tutti i casi in cui ciò è consentito in relazione agli atti delle indagini
preliminari svolte dall’accusa.

Gli atti irripetibili, infine, compiuti in occasione dell’accesso ai luoghi ed immessi nel procedimento, sono
destinati a confluire, al pari di quelli compiuti dal PM e dalla polizia giudiziaria, nel fascicolo per il
dibattimento. Stessa sorte per gli accertamenti tecnici non ripetibili.
Un doppio regime connota il percorso intermedio dei relativi verbali. Se si tratta di accertamenti, cioè solo
ove il PM vi abbia assistito, se si tratta di altri atti, prima di accedere alla destinazione finale, devono
essere inseriti sia nel fascicolo del difensore che in quello del PM. Tale doppia custodia permette che tali
atti restino a disposizione anche dell’organo di accusa, il quale non avendo libero accesso al fascicolo
difensivo, in assenza di tale previsione, non potrebbe disporne al momento di sciogliere l’alternativa che lo
attende nella fase conclusiva delle indagini.

L’intervento del giudice per la prova.


L’INCIDENTE PROBATORIO è l’istituto con cui le parti possono assumere elementi conoscitivi,
cristallizzandone il valore probatorio, durante le indagini preliminari. Essa offre alle parti una sede per
l’acquisizione della prova davanti ad un giudice e in contraddittorio. L’incidente si svolge al cospetto di un
giudice che è diverso da quello che sarà chiamato alla decisione finale.
Inoltre, la formazione della prova avviene in un contesto idoneo a garantire il contraddittorio, ma il
confronto si svolge in una fase arretrata e sulla scorta di una conoscenza limitata dei risultati delle indagini.
Per questo l’istituto è eccezionale, e la sua fisionomia funzionale è dettata alla luce dell’esigenza di
conferire dignità di prova ad atti il cui compimento non fosse rinviabile.

All’art 392 erano scandite le attività che vi possono essere compiute. Nel 2° comma era rifluita una ipotesi
peculiare. L’ipotesi di una perizia che, se fosse disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una
sospensione superiore a 60 giorni, non sembra inscrivibile nella preoccupazione di tutelare la conoscenza
processuale di elementi conoscitivi labili, bensì spinge nell’opportunità di evitare il sacrificio della
concentrazione dibattimentale. Nel 1° comma era stato collocato il catalogo dei casi suscettibili di dar
luogo all’acquisizione anticipata della prova in quanto non rinviabile, perché indifferibile, o suscettibile di
essere inquinata, o soggetta a deteriorabilità, comunque urgente.

L’originario catalogo resta invariato. In forza della elencazione ivi contenuta, l’incidente probatorio può
essere instaurato per procedere:

1- A testimonianze e confronti, quando vi è fondato motivo di ritenere che il potenziale testimone non
potrà essere esaminato nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento, o quando vi sia
motivo di ritenere che la medesima persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta promessa di
denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso.
2- All’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri, o
all’esame delle persone indicate all’art 210 (connessione) e all’esame dei testimoni di giustizia. Qui
si vuole non rinviare l’acquisizione delle dichiarazioni di particolari soggetti che avvalendosi della
facoltà di non rispondere loro riconosciuta, potrebbero essere indotti a non ripetere in
dibattimento le dichiarazioni che erano disposti a rilasciare nel corso delle indagini.
3- A una perizia o a un esperimento giudiziale , se la prova riguarda una persona, cosa o luogo il cui
stato è soggetto a modificazione non evitabile.
4- A una ricognizione, quando particolari ragioni di urgenza non consentono di rinviare l’atto al
dibattimento.

Nonostante non siano perfettamente sovrapponibili la prova così acquisita e quella dibattimentale,
l’istituto, grazie alla sua flessibilità, si è prestato a rispondere ad esigenze che prescindono dal concetto di
non rinviabilità della prova, ponendo così un ampliamento del suo spettro operativo.

Ipotesi inedite nella stesura originaria -> due sono riconducibili all’intervento del giudice per l’acquisizione
di prove che richiedano l’esercizio di poteri coercitivi.
Si è esteso lo spettro operativo alla perizia che comporti l’esecuzione di accertamenti o prelievi su una
persona vivente. Inoltre, si può fare ricorso all’incidente probatorio quando si tratti di supplire alla
mancanza di poteri coercitivi del difensore nell’acquisire il sapere delle persone, in grado di riferire
elementi utili ai fini difensivi.

Nei casi concernenti la testimonianza dei minori e delle persone offese maggiorenni coinvolte in particolari
reati o in situazione di particolare vulnerabilità, ormai, l’incidente probatorio è divenuto la regola, mentre
la successiva audizione dibattimentale l’eccezione.
Nello specifico, il PM eventualmente su richiesta della persona offesa o persona indagata possono chiedere
che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minorenne o della
persona offesa maggiorenne, anche al di fuori delle ipotesi previste. Analoga tutela è accordata alla persona
offesa che versi in condizione di particolare vulnerabilità. L’immediata acquisizione della prova, in tali due
casi, permette di deporre in un contesto protetto sottraendoli alla pubblicità dibattimentale e consentendo
loro di cominciare il processo di elaborazione e di rimozione dell’esperienza vissuta.

Nonostante tali regole diano piano valore probatorio alle dichiarazioni, non vi è garanzia assoluta che il
soggetto già sentito non venga nuovamente citato in dibattimento. In ogni caso, la determinazione
legislativa ad istituzionalizzare l’anticipazione della prova è testimoniata dalla previsione di una disciplina
ad hoc che quasi delinea un regime autonomo.

IL PROCEDIMENTO. Titolari di richiedere l’incidente probatorio sono il PM e la persona indagata. La


persona offesa non vi rientra, di regola. Può solo fare richiesta al PM di promuoverne l’istaurazione con il
diritto ad ottenere una risposta. Se non accolta, il PM pronuncia decreto motivato e lo fa notificare alla
persona.
La richiesta deve essere presentata entro i termini per la conclusione delle indagini preliminari, in tempo
sufficiente per l’assunzione della prova prima della scadenza dei medesimi termini, salva la possibilità di
chiederne la proroga finalizzata all’esecuzione dell’incidente. Il limite è apparente. Ad oggi, l’incidente
probatorio può essere richiesto anche nell’udienza preliminare. In altre occasioni, La Corte cost ha
precisato che la richiesta può essere avanzata tra la conclusione delle indagini e l’udienza, qualora vi sia
concreto ed effettivo pericolo di dispersione del materiale conoscitivo.
La richiesta deve indicare, a pena di inammissibilità: La prova da assumere, i fatti che ne costituiscono
l’oggetto e le ragioni della sua rilevanza; Le persone nei confronti delle quali si procede per i fatti oggetto
della prova; Le circostanze che rendono la prova non rinviabile al dibattimento.
Una volta depositata la richiesta nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari, il richiedente deve
notificare a tutte le parti interessate la richiesta stessa, successivamente depositando la prova della
avvenuta notifica nella medesima cancelleria.
Dalla data della notifica decorre un termine di 2 giorni, entro il quale il PM o la persona indagata possono
presentare deduzioni sulla richiesta, depositare cose, produrre documenti, indicare fatti che debbano
costituire oggetto della prova e altre persone interessate alla prova stessa (contraddittorio, cartolare e a
tempi ridotti).

Il PM venuto a conoscenza della richiesta può chiedere al giudice il differimento dell’incidente probatorio,
quando la sua esecuzione pregiudicherebbe uno o più atti di indagine preliminare. Il giudice entro 2 giorni
dalla richiesta di differimento può dichiarare inammissibile la richiesta, se manchino i requisiti formali, o
rigettarla. Il differimento non è consentito se pregiudica l’assunzione della prova. In entrambi i casi, la
soluzione è comunicata al PM. Se accoglie, il giudice fissa l’udienza per l’incidente probatorio. L’ordinanza
di accoglimento è immediatamente comunicata al PM e notificata alle persone interessate.

Scaduto il termine per le deduzioni o quello conseguente al differimento dell’incidente probatorio, il


giudice decide sulla richiesta di incedente probatorio con ordinanza non impugnabile. Ordinanza di
inammissibilità se la richiesta non permette di capire quale sia la prova e la sua rilevanza, le ragioni di
urgenze e le persone interessate, compresi i difensori. Sarà di rigetto per mancanza delle condizioni di
merito. Di accoglimento negli altri casi.
Per tutelare l’efficacia dello strumento in esame, si prevede che, nella necessità di procedere a più
incidenti probatori, essi debbano essere assegnati alla stessa udienza. Si prescrive poi che quando ricorrono
ragioni di urgenza, tali da impedire lo svolgimento dell’incidente probatorio nella circoscrizione del giudice
competente, questo può delegare il giudice per le indagini preliminari del luogo in cui la prova deve essere
assunta.
Con l’ordinanza di accoglimento il giudice stabilisce: l’oggetto della prova nei limiti della richiesta e delle
deduzioni, le persone interessate all’assunzione della prova individuate sulla base della richiesta e delle
deduzioni, la data dell’udienza. Le parti, una volta avvisate della data dell’udienza, sono avvertite della
facoltà di prendere cognizione ed estrarre copia delle dichiarazioni già rese dalla persona da esaminare.

Quando si tratta di reati gravi, come di associazione mafiosa o finalità terroristiche o di eversione, il giudice,
qualora fra le persone interessate all’assunzione della prova vi siano minorenni, con l’ordinanza stabilisce
luogo, tempo, modalità particolari con cui procedere, quando le esigenze di tutela delle persone lo
rendono necessario o opportuno. A tal fine, l’udienza si può svolgere in un luogo diverso dal tribunale,
avvalendosi il giudice di strutture specializzate di assistenza o presso l’abitazione della persona interessata
all’assunzione della prova.

Peculiarità riguardano anche la documentazione: le forme vengono irrobustite. Le dichiarazioni


testimoniali devono essere documentate integralmente con mezzi di riproduzione fonografica o
audiovisiva. Quando questi strumenti sono indisponibili, si usano le forme della perizia o della consulenza
tecnica. Dell’interrogatorio è anche redatto verbale riassuntivo. La trascrizione della riproduzione è posta
solo su richiesta delle parti.
Le regole dettate per il minore sono estese al maggiore in condizioni di particolare vulnerabilità, desunta
anche dal tipo di reato per cui si procede. Applicazione che avviene su richiesta delle parti.

L’udienza si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del PM e del difensore della
persona sottoposta a indagini. Se mancata comparizione del difensore della persona indagata, il giudice ne
nomina uno. La partecipazione del difensore dell’offeso è facoltativa. La persona offesa e quella indagata
hanno diritto di parteciparvi se si esamina un testimone o altra persona. Negli altri casi occorre
autorizzazione del giudice. Da questo momento non sono più ammesse questioni sull’ammissibilità e
fondatezza della richiesta.

Le prove vengono assunte con le forme stabilite per il dibattimento. Dopo l’assunzione le prove sono
trasmesse al PM e saranno inclusi nel suo fascicolo, in attesa di transitare in quello del dibattimento. I
difensori ne possono prendere visione ed estrarne copia. La prova assunta in incidente probatorio può
essere usata in dibattimento esclusivamente nei confronti degli imputati i cui difensori abbiano
partecipato alla relativa assunzione (indicate nell’ordinanza del giudice).
L’assunzione della prova non può essere estesa a fatti riguardanti persone diverse da quelle i cui difensori
partecipano all’incidente probatorio. Qualora se ne presenti la necessità, si può chiedere una estensione
dell’incidente probatorio, e il giudice, se ne ricorrono i requisiti e sempre che il rinvio non pregiudichi
l’assunzione della prova, dispone le necessarie notifiche e rinvia l’udienza per il tempo strettamente
necessario.
Il divieto è presidiato dalla inutilizzabilità. Una sola eccezione: le prove non sono utilizzabili verso l’imputato
raggiunto, solo dopo l’incidente probatorio, da indizi di colpevolezza se il difensore non ha partecipato alla
loro assunzione. Salvo che tali indizi siano emersi dopo che la ripetizione dell’atto sia divenuta impossibile.
Analogo divieto presidia gli interessi della parte civile. La sentenza pronunciata sulla base di una prova
assunta con incidente probatorio, a cui il danneggiato dal reato non è stato posto in grado di partecipare,
non produce gli effetti previsti, salvo che il danneggiato stesso ne abbia fatta accettazione anche tacita.

La chiusura delle indagini preliminari


Nell’indicare la direzione verso la quale le indagini devono rivolgersi, l’art 326 preannuncia all’organo
inquirente le determinazioni che lo attendono al termine della fase preliminare. Infatti, al PM l’obbligo di
esercitare l’azione gli impone uno sforzo di accertamento completo e rigoroso, dovendo essere compiuta
ogni attività necessaria allo scopo. Ma il suo operare non può essere indefinito. Vi si oppongono istanze di
tempestività delle indagini, di tutela della persona che non deve essere troppo a lungo soggetta
all’intrusione di una inchiesta che può incidere sui suoi diritti.

Mediando tra queste istanze, il legislatore ha fissato un tempo massimo perché il PM indaghi e decida.
Tempo graduato a seconda della gravità dei reati, prorogabile anche più volte, pur esso modulato, in
relazione al tipo di reato e alla complessità dello scenario investigativo. Se il PM non rispetta i limiti
temporali, l’azione penale non viene preclusa ma eventuali operazioni investigative debordanti sono
sanzionate con l’inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine. È escluso dal regime temporale il
supplemento investigativo conseguente all’avviso di conclusione delle indagini. Questo prolungamento
della fase preliminare è richiesto al PM dalla persona indagata (non può superare i 30 giorni), e risulta
essere strettamente funzionale ai diritti della difesa.

Qualora scaduto il termine originario o prorogato, l’agenda investigativa indicasse la necessità di ulteriori
accertamenti, queste saranno rinviati. Con due possibili scenari. 1) se gli elementi raccolti finora
permettono una imputazione, il PM, dopo il rinvio a giudizio, potrà svolgere indagine suppletiva. 2) se gli
elementi raccolti non sono sufficienti a giustificare una richiesta di rinvio a giudizio, egli potrà indagare ma
dovrà chiedere al giudice un decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini.
Inoltre, la eventuale incompletezza delle indagini è monitorata nel corso delle procedure giurisdizionali che
seguono la richiesta del PM. Poteri di controllo e di impulso da parte del giudice presidiano correttezza ed
efficacia delle investigazioni, tanto nel procedimento camerale (istaurato dalla richiesta di archiviazione),
tanto nell’udienza preliminare (a seguito di richiesta di rinvio a giudizio). Nel primo, il giudice, se l’impianto
accusatorio è carente per difetto di impegno investigativo, se ritiene necessarie ulteriori indagini può
indicarle con ordinanza al PM. Nel secondo, il giudice se le indagini preliminari sono incomplete, indica le
ulteriori indagini.

In entrambi i casi, il controllo giurisdizionale è affiancato da un controllo attribuito al procuratore


generale presso la corte d’appello. Avvertito da apposita comunicazione, questo può intervenire, se del
caso, avocando le indagini.

Le Regole che definiscono la DURATA DELLA FASE E I MECCANISMI DI PROROGA viste più nel
dettaglio. L’art 405 detta che l’azione deve essere esercitata, tramite richiesta di rinvio a giudizio entro 6
mesi dall’iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito nel registro delle notizie di reato. Il
termine è un anno nel caso in cui si proceda per i gravi delitti. Entro lo stesso termine si deve fare richiesta
di archiviazione.
Nel caso in cui il PM intenda esercitare l’azione, prima dello scadere del termine, basta inviare l’avviso di
conclusione delle indagini.

Ma il tutto deve coordinarsi con l’art 407 bis. Poiché, alla luce delle recenti modifiche, la coincidenza
istituita dal codice tra chiusura delle indagini e adozione delle determinazioni del PM va verso un nuovo
assetto dai tratti meno nitidi. Esaurito il tempo per investigare, vi è un nuovo segmento temporale, pure
ascrivibile alla fase preliminare e variamente modulato, entro il quale il PM deve esercitare l’azione penale
o l’archiviazione.

L’iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito nel registro, continua ad essere il dies a
quo per il computo del tempo di durata delle indagini. Mentre il momento di decorrenza di un nuovo ed
autonomo termine stabilito per l’esercizio dell’azione penale deve essere rapporto allo scadere delle
indagini. Quest’ultimo termine è variabile a seconda delle esigenze investigative nel caso concreto.
Più in particolare, il Giudice, su richiesta del PM, può concedere una proroga del termine di indagine. Il PM
per fare richiesta, basta che mostri una giusta causa. Ma le ulteriori proroghe rispetto alla prima potranno
essere approvate solo in casi di particolare complessità delle indagini o oggettiva impossibilità di
concluderle entro il termine prorogato. Ogni proroga non può andare oltre i 6 mesi. Ma per i delitti di
maltrattamenti contro conviventi e familiari, o omicidio colposo commesso in violazione delle norme contro
infortuni su lavoro, omicidio stradale e lesioni colpose personale in violazione delle norme sugli infortuni a
lavoro, atti persecutori, lesioni stradali personali gravi o gravissime, la proroga non può andare oltre la
prima.

La durata delle indagini preliminari non può superare i 18 mesi. Ma anche questo termine subisce una
estensione in ragione di istanze riconducibili alla esigenza di efficienza processuale. Precisamente, la fase
preliminare può estendersi fino a 2 anni in 4 casi. Se le indagini riguardano gravi delitti. Nel caso di indagini
complesse per la molteplicità dei fatti tra loro collegati o per l’elevato numero di persone sottoposte alle
indagini o di persone offese. Se occorre compiere atti all’estero. Se si tratta di indagini collegate.

Precedente alla ordinanza di proroga è un contraddittorio cartolare (diritto legato a un documento). La


richiesta di proroga è notificata alla persona indagata e quella offesa che abbia chiesto di essere informata,
con l’avviso della facoltà di presentare memorie entro 5 giorni dalla notificazione. Entro 10 giorni dalla
scadenza di tale termine, il giudice decide. Se accoglie, la richiesta autorizza l’estensione delle indagini con
ordinanza in camera di consiglio senza intervento di PM o difensori.
Se ritiene che la proroga non debba essere concessa, il giudice fa luogo ad un procedimento camerale.
Notificando l’udienza al PM, alla persona indagata e alla persona offesa che ne ha fatto richiesta. Al termine
di tal procedimento può o autorizzare il PM a proseguire le indagini o a respingere la richiesta di proroga, e
fissa un termine entro cui il PM deve formulare delle richieste conclusive delle indagini.
Non vi è nessun tipo di contraddittorio quando si procede per i delitti gravi. In tali casi il giudice decide
entro 10 giorni dalla presentazione della richiesta, dandone notizia al PM.

Gli atti compiuti nelle more del procedimento di proroga sono utilizzabili, salvo che gli stessi siano compiuti
oltre lo spirare del termine originariamente previsto per le indagini.

Le conseguenze dettate dal mancato rispetto dei tempi di indagine toccano solo l’utilizzabilità degli, non la
corretta istaurazione del processo. L’azione penale promossa al di fuori delle cadenze temporali è così
immune da vizi. Questo ha creato, nella prassi, che i relativi adempimenti finissero per non essere presidiati
da alcun limite temporale, nonostante questo limite fosse desumibile.

All’esigenza di garantire il rispetto dei tempi previsti ai fini delle determinazioni del PM si rivolge la legge
103 del 2017. La nuova disciplina stabilisce un TERMINE ACCELERATORIO PER L’ESERCIZIO
DELL’AZIONE O PER LA PRESENTAZIONE DELLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE .
Il limite definitivo della fase preliminare viene spinto oltre. A tal proposito, il nuovo comma 3 bis art 407,
nella prospettiva di garantire la tempestività delle determinazioni del PM, prevede un duplice dies a quo, un
dies ad quem, deroghe, allestisce una vi fuga prospettando per tabulas il possibile inadempimento.

“In ogni caso il PM è tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di 3
mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e dalla scadenza dei termini di cui all’art
415bis.”

Precisamente il nuovo testo si colloca alla scadenza del termine delle indagini previsto dalla legge o
prorogato dal giudice, ove non sia stato inviato alcun avviso di chiusura delle indagini, o al momento in cui
siano esauriti gli adempimenti conseguenti a quell’avviso. Adempimenti caratterizzati da una serie di
termini, oggi, irrigiditi.
Rigidità temperata da una duplice deroga. In primo luogo, nel caso di indagini particolarmente complesse.
Su richiesta del PM prima della scadenza, il procuratore generale presso la Corte d’appello può prorogare il
termine per no più di 3 mesi, dandone notizia al Procuratore della Repubblica. In secondo luogo, un
termine più ampio è previsto nella prospettiva del doppio binario: è lo stesso legislatore a presumere
scenari di marcata complessità, fissando in 15 mesi il termine per l’esercizio dell’azione quando si tratti dei
delitti di cui al 2° comma lett. A n 1,2,3,4 dello stesso art 407. Disciplina che deve essere coordinata con l’art
416 comma 2bis, che impone termini più serrati per i reati qui contemplati. Per i quali sembra interdetta
l’estendibilità del nuovo regime, anche per quanto riguarda la proroga.

Nel nuovo testo normativo l’ipotesi del mancato rispetto dei termini è realisticamente presa in
considerazione. È previsto per il PM, che non riesce ad adempiere, un obbligo informativo. Se non assume
le proprie determinazioni in ordine all’azione penale nel termine indicato, deve darne comunicazione
immediata al procuratore generale presso la Corte d’appello. Comunicazione finalizzata a favorire l’azione
di vigilanza sull’obbligo di azione da parte del dirigente dell’ufficio requirente presso la Corte d’appello. A
quest’ultimo spetta l’avocazione delle indagini.

Tale nuovo termine aggraverebbe le disfunzioni del meccanismo giudiziario, se il principio di obbligatorietà
impone di escludere che l’azione penale esercitata tardivamente sia invalida. Difficilmente, del resto, il
rimedio dell’obbligo di informazione può restituire efficienza al sistema.

Le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale.


Il PM una volta conclusa la fase preliminare, deve esercitare l’azione penale o quella di archiviazione. L’art
405 prospetta tale alternativa, indicando nelle rispettive richieste i due complementari epiloghi delle
indagini. Precisamente, il PM quando non deve chiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale. E poiché
l’azione è la regola le sue premesse non sono esplicitate, esse possono leggersi al negativo, ove si guardino,
al positivo, i presupposti dell’inazione.

L’obbligo di esercitare l’azione penale non impone una sequenza automatica tra notizia di reato ed
esercizio dell’azione. L’azione deve essere promossa solo quando l’ipotesi che ha sospinto le indagini
finisca per concretarsi in una tesi che appaia plausibile sostenere nel processo. Infatti, insistere nell’azione,
in assenza dei parametri di legge, si rivelerebbe un’opzione non troppo fertile e condurrebbe ad un esito
abortivo. Cioè se il processo venisse istaurato, muovendo da premesse inadeguate, il soggetto finirebbe per
essere prosciolto nelle fasi successive a quella preliminare. L’azione potrebbe, poi, rivelarsi
controproducente. Perché il proscioglimento sarebbe presidiato da effetti preclusivi più robusti rispetto a
quelli dettati dal provvedimento di archiviazione. Così, l’aver agito incautamente finirebbe per tutelare con
più vigore quell’indagato rispetto ad un eventuale seguito di indagine.

Quindi occorre che il PM verifichi e decida se vi sono i presupposti, avviandosi verso l’azione o
l’archiviazione. La sua valutazione non si basa su considerazioni di opportunità ma è tipica espressione di
discrezionalità tecnica. Opererà una scelta di carattere vincolato. E se non vi sono i presupposti che
impongono l’archiviazione, il PM deve procedere formulando l’imputazione nei modi previsti dalla legge.
Questi sono individuati con un richiamo agli atti introduttivi dei riti speciali e con la richiesta di rinvio a
giudizio. È un catalogo incompleto e non aggiornato. Non contempla, infatti, la citazione diretta a giudizio
oppure le forme di esercizio dell’azione penale che si insinuano in un procedimento già avviato.

Per le modalità di avvio del processo nei riti alternativi, si richiamano le disposizioni dell’applicazione della
pena su richiesta delle parti, il giudizio direttissimo, il giudizio immediato, il decreto penale (riti speciali).
Non compare il riferimento al giudizio abbreviato perché questo si incardina nell’udienza preliminare e solo
a seguito di una richiesta di rinvio a giudizio del PM.
Non viene citato il nuovo istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova. Quando la
richiesta di sospensione è presentata nel corso delle indagini preliminari, il rito è instaurato tramite atto
scritto e sinteticamente motivato nel quale il PM esprime il consenso e formula l’imputazione. Il mancato
riferimento a tale istituto è riferibile ad un mancato coordinamento normativo.

L’archiviazione della notizia di reato.


La fattispecie cardine che segna il perimetro dell’obbligo di agire del PM (azione penale), si impernia sulla
infondatezza della notizia di reato.

L’eliminazione dell’aggettivo manifesta è conseguenza della rivisitazione dei meccanismi di instaurazione


del processo. Oggi la notizia di reato è solo infondata perché l’infondatezza è acclarata a seguito di un iter
investigativo lungo e articolato, ed incentrata su valutazioni più complesse.

Il legislatore ha cercato di conferire maggiore determinatezza al concetto sul quale insiste il discrimine tra
azione e non azione.
La regola posta all’art 125, “il PM presenta al giudice richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza
della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere
l’accusa in giudizio”, è una specificazione del requisito della infondatezza della notizia di reato. Proprio su
tale regola si sono scaricate le difficoltà di individuazione e di comprensione dei nuovi equilibri processuali.
A tal proposito, intervenne la Corte Cost smentendo e risolvendo ogni dubbio, chiarendo come, in quella
regola, dovesse leggersi la traduzione, in chiave accusatoria, del principio di non superfluità del processo.
In quanto il dire che gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere l’accusa, equivale al dire che l’accusa
è insostenibile e che, quindi, la notizia di reato è infondata.
La Corte spiegò bene come la scelta del PM dovesse passare per un apprezzamento degli elementi raccolti
nelle indagini, postulando una prognosi da compiersi non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella
della superfluità o no dell’accertamento giudiziale. Quindi doveva convincere il PM ad agire la sussistenza
di un quadro probatorio articolato. In particolare, il favor actionis doveva guidare l’organo di accusa nei
casi dubbi, tenendosi conto della possibilità di acquisire nuovi elementi dopo la richiesta di rinvio a giudizio
o dopo la pronuncia del decreto che dispone il giudizio, o nel corso dell’udienza preliminare, oltreché
dell’attività probatoria esperibile nel contesto della dialettica dibattimentale.

Ma i più complessi scenari sistematici obbligano, oggi, il PM a maggiore cautela. La scelta tra azione e
archiviazione, insieme al criterio che orienta chi vi è chiamato, continuano ad essere in osmosi con quello
che accadrà nel seguito. Ma l’orizzonte oltre la chiusura delle indagini è diverso. Per esempio, il riformulato
assetto del giudizio abbreviato. In tal caso, il PM non potrebbe più scegliere per la possibilità di una
corroborazione dibattimentale di elementi incerti, sapendo che un giudizio abbreviato può congelare il
materiale cognitivo sul quale l’accertamento dovrà essere compiuto. D’altro canto, una imputazione
sfornita di solido supporto sarebbe destinata a non passare il vaglio dell’udienza preliminare, da condursi
tramite un filtro a maglie più strette. Se il PM agisse anche sulla base di elementi insufficienti o
contraddittori, il suo atto propulsivo potrebbe non passare il vaglio del giudice dell’udienza preliminare.

Definita la nozione di infondatezza (fattispecie cardine) ad essa si possono collegare le ulteriori fattispecie
di archiviazione che il legislatore considera. Come la mancanza di una condizione di procedibilità,
estinzione del reato, fatto non previsto dalla legge come reato. Più complesso è il nuovo caso di
archiviazione per particolare tenuità del fatto. Altra situazione di archiviazione è per essere ignoto
l’autore del reato, dotato di un grado di autonomia rispetto alle altre. Peculiare disciplina concerne
l’archiviazione per trasferimento all’estero del procedimento penale. Evenienza che può prospettarsi
quando il PM abbia notizia della pendenza di un procedimento penale all’estero, per gli stessi fatti per i
quali si è proceduto all’iscrizione.

Dopo una lunga e controversa gestazione è stato inserito un nuovo istituto, LA NON PUNIBILITÀ PER
PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO, calibrato sulla falsa riga di analoghe soluzioni da tempo presenti
nell’ordinamento minorile e nel procedimento davanti al giudice di pace.
L’ambito applicativo è segnato dal c.p. che ne circoscrive l’operatività ai soli reati per i quali è prevista la
pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, o la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta
pena. La nozione di tenuità del fatto si basa su due requisiti: la particolare tenuità dell’offesa (modalità
condotta, danno o pericolo esiguo) e la non abitualità del comportamento.

Riallacciandosi a tale disciplina, il c.p.p. prevede che la richiesta di archiviazione ed i conseguenti


provvedimenti debbano essere adottati quando risulta che la persona sottoposta alle indagini non è
punibile ai sensi dell’art 131 bis del codice penale per particolare tenuità del fatto.
La nuova ipotesi (causa di non punibilità) presuppone che l’effetto liberatorio consegua alla previa
identificazione di un fatto tipico che appaia così scarsamente lesivo del bene protetto da giustificare l’esito
liberatorio. Cioè presuppone una prognosi sulla colpevolezza del soggetto ed una contestuale valutazione
del carattere scarsamente lesivo del fatto. La nuova ipotesi può ascriversi nella stessa logica della
procedura di archiviazione, perché anch’essa vuole evitare un processo superfluo, impedendo l’accesso al
giudizio di una notizia di reato suscettibile di tradursi in una decisione di proscioglimento.

Sembra lecito ritenere che la esplicita menzione della nuova causa di archiviazione (all’art 411) debba
essere correlata alla volontà legislativa di definire per quella una procedura ad hoc. Ed infatti l’art 411 è
arricchito di un nuovo comma 1 bis, recante i tratti specifici di un particolare modulo procedurale da
coordinarsi al rito già previsto in generale ed esplicitamente richiamato nel 1° comma dello stesso.
IL PROCEDIMENTO DI ARCHIVIAZIONE. Precisare in termini tassativi le fattispecie che delineano i
presupposti è premessa essenziale perché l’agire o il non agire del PM si svolga secondo legalità. Tuttavia,
il principio di obbligatorietà dell’azione penale potrebbe essere eluso se fosse titolare del potere di
archiviazione il solo organo inquirente. Per questo al giudice si è affidato un controllo sull’archiviazione del
PM. In questo modo garantisce il principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Quindi la richiesta del PM di archiviazione deve essere rivolta al giudice, affinché valuti le condizioni
legittimanti l’inazione. Con questa trasmette il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione
relativa alle indagini espletate e i verbali degli atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari.
Sulla richiesta del PM si innesta il procedimento adibito per vagliare le scelte dell’organo di accusa.
Sono previsti due moduli procedurali, a seconda che le parti private intervengano oppure no.
Di regola è istaurato ad iniziativa del giudice, in alcuni casi, il contraddittorio potrà essere preteso dalla
persona offesa e anche dall’imputato che dimostrino di averne interesse.

1° modulo è di estrema semplicità. L’organo giurisdizionale si occuperà di disporre l’archiviazione de plano,


sena formalità di procedura, ove concordi prima facie con la richiesta del PM. Qui, emanato il decreto di
archiviazione, restituisce gli atti al PM. Nessun contraddittorio precederà quel provvedimento che conclude
l’iter, avallando la scelta rinunciataria. Il decreto di archiviazione è impugnabile solo quando siano stati
omessi i diritti dell’offeso. Non è mai impugnabile da parte dell’indagato, le verrà notificato solo se è stata
sottoposta una misura cautelare, in vista di un suo eventuale interesse a chiedere la riparazione per
l’ingiusta detenzione.

2° modulo è più complesso. Il provvedimento di archiviazione costituisce l’esito di un procedimento in


camera di consiglio, da svolgersi secondo le forme previste. Qui, il giudice fissa un’udienza camerale
quando non è immediatamente convinto della infondatezza della notizia di reato e ritenga opportuno
convocare i soggetti portatori di interessi in conflitto. Udienza che dovrà essere fissata entro 3 mesi, così da
avere cadenze più sollecite. Deve essere dato avviso al PM, alla persona indagata e al suo difensore, nonché
alla persona offesa della data dell’udienza. Comunicazione che deve essere data anche al procuratore
generale presso la corte d’appello per i provvedimenti di sua competenza.

Il giudice potrà convincersi ad esercitare i suoi poteri di indirizzo che mirano a trattenere il procedimento
nella fase preliminare, o con un supplemento di indagine o spingendolo oltre la soglia ultima di quella
stessa fase, verso il giudizio. Se tali evenienze non si realizzano, l’epilogo è un’ordinanza di archiviazione.
Ordinanza suscettibile di ricorso per cassazione, per difetto di contraddittorio e di reclamo secondo uno
strumento di doglianza finora estraneo agli orizzonti del processo penale. Salvo che si pongano le esigenze
di un supplemento di indagine, il giudice deve provvedere sulle richieste entro 3 mesi, sempre con l’intento
di propiziare una sollecita chiusura della fase di indagine.

ALLA PERSONA OFFESA DAL REATO, titolare dell’interesse leso dal reato, SPETTA IL POTERE DI
OPPORSI ALLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE. A tal proposito, nell’ampia messe di informazioni dovute
all’offeso sin dal primo contatto con l’autorità procedente, si stabilisce che egli debba essere informato
della sua facoltà di essere avvisato della richiesta di archiviazione. L’avviso della richiesta deve essere
notificato, a cura del PM, alla persona offesa, la quale abbia dichiarato di voler essere informata sulla
richiesta di archiviazione al momento della presentazione della notizia di reato o anche successivamente.
La titolarità del diritto alla opposizione alla richiesta di archiviazione spetta ad ogni persona offesa dal
reato, a prescindere dalla ricezione dell’avviso.

Nell’avviso si precisa che, nel termine di 20 giorni, la persona offesa può prendere visione degli atti e
presentare opposizione con richiesta motivata di prosecuzione delle indagini. Per i delitti commessi con
violenza alla persona l’avviso della richiesta di archiviazione è in ogni caso notificato, a cura del PM, alla
persona offesa ed il termine di cui al 3° comma è elevato a 30 giorni. Lo stesso per i maltrattamenti e gli atti
persecutori, poiché l’espressione violenza alla persona deve essere intesa alla luce del concetto di violenza
di genere. Con ulteriore modifica il reato di furto in abitazione e furto con strappo vi è stato accostato.

Reso edotto degli atti, l’offeso con l’opposizione dovrà offrire argomenti idonei a giustificare l’incontro
camerale. Dovranno essere indicati l’oggetto della investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova, a
pena di inammissibilità. Così da evitare dispendio di attività processuale dettate da iniziative dilatorie e
prive di fondamento.
Il diritto all’opposizione si fonda solo sulla indicazione da parte dell’offeso di lacune investigative. A tal
proposito, secondo un indirizzo consolidato è necessario che emergano elementi di prova concreti e
specifici. A tratti poi sono concesse al giudice valutazioni che sembrano travalicare i limiti della declaratoria
di inammissibilità per trasmodare in un vaglio di infondatezza.
Se mancano tali requisiti il giudice archivia de plano. Se invece la richiesta è formalmente ammissibile,
egli dovrà convocare l’udienza prevista, introducendo la variante partecipata del procedimento di
archiviazione. Se ciò avviene, allora il giudice dovrà provvedere secondo l’art 409 (provvedimenti del
giudice sulla richiesta di archiviazione), ma il contraddittorio sarà esteso al solo opponente.

Nel caso di inammissibilità dell’opposizione, invece, l’offeso ha diritto che il giudice esponga le ragioni per
le quali alle doglianze dell’offeso non sia stato dato seguito, dedicandovi adeguata motivazione nel decreto
di archiviazione.

Un ulteriore MODULO PROCEDURALE è quello introdotto in relazione alla nuova ipotesi di


ARCHIVIAZIONE PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO. Per analizzare la sua procedura occorre
premettere che tale procedimento è il risultato di un compromesso tra diritti della persona sottoposta alle
indagini e intenti deflativi.

Alla nuova ipotesi si applicano le regole ordinarie, tramite rinvio. Nel senso che tali regole si applicano in
quanto compatibili. Infatti, il nuovo comma 1 bis dell’art 411 reca i tratti specifici di un particolare modulo
procedurale. Vi si compendiano il diritto all’avviso e diritto di opposizione della persona offesa, una
sintetica disciplina del contraddittorio camerale, i vari epiloghi, la restituzione degli atti al PM tutte le volte
in cui non si possa pronunciare un provvedimento di archiviazione. Questo è uno schema che deve essere
coordinato con il rito ordinario, fin dove possibile.

Nello specifico, la dichiarazione di archiviazione si svolge in apposita udienza camerale, solo se vi è


richiesta degli interessati. Sono poi rafforzati i poteri di intervento dell’offeso e della persona sottoposta
ad indagini. Infatti, l’avviso all’offeso della richiesta di archiviazione è garanzia prodromica del diritto di
opposizione, da esercitarsi entro 10 giorni, tramite atto cui devono indicarsi le ragioni del dissenso rispetto
alla richiesta. Inoltre, si concedono le medesime prerogative alla persona sottoposta alle indagini, cui
viene conferito un potere di opposizione. Al fine di evitare le conseguenze di una possibile decisione nei
suoi confronti che potrebbe costituire una premessa per escludere nuovi giudizi di tenuità del fatto in
successivi procedimenti penali.

L’iter decisorio prevede un vaglio di ammissibilità del giudice sulle eventuali opposizioni, limitato a
verificare che siano esposte le ragioni di dissenso, un contraddittorio camerale conseguente ad un atto di
opposizione ammissibile in alternativa ad una procedura de plano ove le eventuali opposizioni siano
inammissibili o non siano state presentate, due epiloghi alternativi. O archiviazione con ordinanza o
decreto, a seconda che si sia svolta o no l’udienza camerale. Oppure la restituzione degli atti al PM quando
il giudice non l’accoglie. Nel restituire gli atti, il giudice può eventualmente indicare ulteriori indagini,
fissandone un termine per il compimento, o disporre con ordinanza che il PM entro 10 giorni formuli
l’imputazione.

Il legislatore ha incisivamente riformato il regime DELL’IMPUGNABILITÀ DEL PROVVEDIMENTO DI


ARCHIVIAZIONE, tramite l’introduzione dell’art 410 bis.
In precedenza, l’impugnabilità era circoscritta ai soli provvedimenti dispositivi dell’archiviazione, restando
escluso che analogo rimedio potesse essere proposto nei confronti delle decisioni pure conseguenti ai
diversi epiloghi dell’udienza camerale. Dunque, inammissibile il ricorso vero i provvedimenti con cui si
dispone l’indagine coatta o la formulazione dell’imputazione. Il ricorso era ritenuto esperibile verso il
decreto emesso all’omissione dell’avviso della stessa richiesta di archiviazione alla persona offesa, che
avesse chiesto di esserne informata nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione. Quanto
ai motivi di doglianza ed ai soggetti legittimati, rientravano nella previsione normativa i casi di omesso
avviso dell’udienza alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato. Nei soggetti titolari
del diritto era ricompreso anche il procuratore generale presso la corte d’appello, quando fosse stata
omessa nei suoi confronti la comunicazione.

A seguito delle ricordate modifiche normative, con riguardo all’ordinanza di archiviazione si continua a
prevedere che la stessa sia nulla solo nei casi all’art 271 comma 5 (art 410 bis comma 2). Una disciplina
inedita è prevista per il decreto.
Il nuovo testo, in primis, fissa per tabulas i casi di nullità del decreto di archiviazione, stabilendo che il vizio
ricorra quando questo sia emesso senza che la persona offesa dal reato sia stata posta in condizione di
presentare opposizione alla archiviazione o perché non avvertita della richiesta avanzata dal PM o perché il
giudice si sia pronunciato nelle more del termine a lei concesso per la presentazione dell’atto di
opposizione. La stessa tutela è estesa anche alle ipotesi in cui il giudice omette di pronunciarsi sulla sua
ammissibilità o dichiara l’opposizione inammissibile, salvi i casi di inosservanza art 410 comma 1.
La novità più significativa è verso il tipo di rimedio e sull’organo chiamato a decidere sui casi di nullità del
decreto e dell’ordinanza. Si attribuisce la competenza ad esaminare eventuali doglianze verso il
provvedimento di archiviazione, espresse in forma di reclamo, al tribunale in composizione monocratica.
Organo già marginalmente presente per taluni provvedimenti dell’ordinamento penitenziario e quello
giudiziario. Il reclamo ora trova collocazione nella disciplina del procedimento di cognizione, del c.p.p.,
come inedito strumento di impugnazione.
L’organo monocratico, adito dall’interessato entro 15 giorni dalla conoscenza del provvedimento, decide
con ordinanza non impugnabile, a seguito di un procedimento meramente cartolare. Il procedimento si
svolge senza intervento delle parti interessate. Ma deve essere dato avviso, almeno 10 giorni prima,
dell’udienza fissata per la decisione, alle parti medesime che possono presentare memorie non oltre il 5°
giorno precedente l’udienza.

L’art 410bis contempla poi le alternative decisorie. Il giudice, se il reclamo è fondato, annulla il
provvedimento oggetto di reclamo e ordina la restituzione degli atti al giudice che lo ha emesso.
Quest’ultimo deve rimediare al difetto di contraddittorio, ove il vizio concernesse la convocazione
dell’udienza, essendo a lui imputabile, ovvero rinviare gli atti a sua volta al PM, per quanto di sua
competenza.
Fuori dai casi di fondatezza, il giudice può o porre una declaratoria di inammissibilità del reclamo o
rigettarlo con la conferma del provvedimento. In entrambi i casi, la parte privata che lo ha proposto è
condannata al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della
cassa delle ammende, in caso di inammissibilità.

I POTERI DI CONTROLLO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI SULL’OBBLIGO DI AGIRE . La


procedura camerale innestata dalla richiesta di archiviazione può portare ad epiloghi differenti da quelli
fino adesso considerati.

Richiesto dell’archiviazione, il giudice deve esplicare il suo compito di tutore del principio di obbligatorietà
dell’azione. Poiché l’elusione dell’obbligo potrebbe essere determinata dagli elementi sottovalutati e dalla
insufficienza delle indagini. Il suo controllo deve articolarsi lungo queste due prospettive. Rispetto ad
entrambe le valutazioni di sua competenza, egli potrà dissentire ed è dotato a tal riguardo di poteri coattivi,
speculari alle mancanze dell’organo di accusa che egli è tenuto a rilevare. Da un canto può imporre al PM di
approfondire le investigazioni. Dall’altro può ordinargli di formulare l’imputazione.

Il potere del giudice si concreta in un potere sollecitatorio, sul fronte della verifica della completezza dello
spettro investigativo. Tale potere si incardina nell’udienza camerale. Qui, il giudice se reputa che il quadro
investigativo necessiti di approfondimento, indica al PM le ulteriori indagini, fissando un termine
indispensabile per lo svolgimento delle stesse. Il termine è indipendente dai termini di durata massima
delle indagini. È ragionevole che i contenuti dell’ordine si conformino a seconda del quadro di indagine e
delle lacune individuate. Ma il potere del giudice di indicare nuovi temi d’indagine non può andare fino a
coartare l’organo inquirente sulle modalità di svolgimento delle investigazioni. Inoltre, il giudice nel
suggerire al PM nuove indagini, su fatti diversi o persone diverse, non deve esorbitare dalle sue funzioni
interferendo con quelle del PM.

Più difficile è il tema del carattere vincolante dell’ordine giudiziale e dell’esito della procedura nel caso in
cui il PM appaia renitente ad ottemperare alle indicazioni del giudice. Premesso che il PM debba
adempiere non è in dubbio, anche se il testo normativo non conferma e non smentisce l’ipotesi.
Premesso che l’ordinanza del giudice definisce il procedimento di archiviazione, il PM viene ricollocato nella
vecchia alternativa. Se nessun ulteriore elemento sembra aver mutato il quadro probatorio è ragionevole
ritenere che egli reiteri la richiesta di archiviazione. se il supplemento investigativo ha fornito elementi
significativi egli potrà essere convinto a esercitare l’azione penale.
Ma vi possono essere scenari patologici: il PM potrà non adempiere le indicazioni e tornare ad assumere le
determinazioni che gli sono imposte. Se tornerà a richiedere l’archiviazione, obbligato comunque ad aver
preventivamente investigato nella direzione suggerita dal giudice, per risolvere l’empasse servirà
l’avocazione. Facoltà conferita al procuratore generale, con l’obiettivo di prevenire situazioni di stallo
determinate dal dissenso del giudice. Il procuratore generale deve essere sempre informato di ogni
procedura camerale, ma il suo intervento è eventuale e non destinato a larga applicazione. Resterebbe
un’altra alternativa al giudice, non convinto della irrilevanza dei fatti, dinanzi ad un PM negligente e un
procuratore generale assente. Potrebbe imporre la formulazione dell’imputazione, contando su
acquisizioni probatorie successive. Ma l’esito rischierebbe di essere deludente. E deludente sarebbe anche
l’epilogo in ipotesi di azione avventata, ignorando le sollecitazioni all’approfondimento delle indagini.

Come premesso, il giudice può sindacare la valutazione operata dal PM in punto di concludenza degli
elementi di indagine, essendo dotato di un significativo potere di impulso. Il giudice, in sede di controllo
dei risultati delle indagini, ove il PM insista nel riproporre la richiesta di archiviazione, il giudice dissentendo
dal PM e convinto che vi siano elementi rilevanti, potrà disporre con ordinanza che, entro 10 giorni, il PM
formuli l’imputazione. Così modulata la risoluzione del conflitto, la formulazione coatta è una modalità di
esercizio dell’azione penale sui generis, con contemplata tra quelle annoverate. Si tratta sempre di un atto
del PM ma il giudice avrà la decisione ultima in ordine alla sussistenza degli elementi che obbligano ad
agire. Il giudice può quindi imporre l’esercizio dell’azione. Ma non potrebbe ordinare la formulazione coatta
della imputazione per un fatto diverso o per un soggetto diverso, prima che il PM abbia adempiuto le
consuete attività, se lo facesse sarebbe atto abnorme.

Il giudice supplisce il PM rispetto ad adempimenti rispetto al quale non risulta solerte. Qui il giudice, entro
due giorni dalla formulazione dell’imputazione, fissa con decreto l’udienza preliminare. Si prescinde qui da
una richiesta di rinvio a giudizio. Il PM non può esimersi dal dar corso all’ordine del giudice ed è
ragionevole ritenerlo vincolato alle indicazioni di carattere contenutistico che egli può desumere
dall’ordinanza del giudice.

Il giudice è titolare di un potere di controllo sull’inazione solo quando il PM manifesti l’intenzione di non
procedere. Ma se il PM omette di rivolgersi ad esso, il giudice per le indagini preliminari non è fornito di
alcun controllo.
Un CONTROLLO DELLA GESTIONE DELL’ATTIVITÀ INVESTIGATIVA E DELLE CONSEGUENTI
DETERMINAZIONI È AFFIDATO AL PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO , al
quale spetta il potere di vigilanza e di avocazione delle indagini.

Se il PM non esercita l’azione penale o non richiede l’archiviazione nel termine previsto, il procuratore
generale dispone, con decreto motivato, l’avocazione delle indagini. Una volta avocate le indagini, il
procuratore generale svolge le indagini preliminari indispensabili e formula le sue richieste entro 30 giorni
dal decreto di avocazione. La segreteria del PM ha l’onere di trasmettergli, ogni settimana, eventuali
situazioni di stallo.
Tale meccanismo opererà in funzione di controllo, consentendo l’avocazione solo nei casi di macroscopica
ingiustificata protrazione dell’inerzia nell’esercizio dell’azione. In questo modo, il meccanismo è
ricondotto ad un potere di avocazione fondato su una discrezionalità selettiva, volta a distinguere i casi di
inerzia apparente da quelli in cui l’inerzia è effettiva. L’intervento del procuratore generale è doveroso solo
versi questi ultimi.

La persona indagata e quella offesa possono sollecitare il procuratore generale. Informato dalle parti
dell’inosservanza, il procuratore è tenuto a svolgere le medesime attività già contemplate, ma muterà il
dies a quo del termine per adempiere, che sarà dalla richiesta avanzata dalle parti.

Il controllo del procuratore generale si estende non solo ai tempi da rispettare ma anche alla gestione
delle indagini e alle conseguenti valutazioni. A tal riguardo, sembra avere un potere largamente
discrezionale. Il potere di avocazione delle indagini preliminari può essere esercitato in tutti i casi in cui il
giudice non accolga de plano la richiesta di archiviazione e fissi l’udienza camerale. Il procuratore generale
potrà avocare quando ritenga negligente, insufficiente l’azione investigativa o non concordi sulla richiesta di
archiviazione del PM.

Aver imposto un termine temporale al potere investigativo presenta dei profili critici rispetto all’obbligo di
rango costituzionale di perseguire i reati. La legittimità di tale limite riposa nella ragionevolezza delle
esigenze che lo hanno reso necessario e nella provvisorietà della preclusione. Sarebbe illegittima una
disciplina che si spingesse ad impedire tout court ulteriori indagini. Tale limite sarebbe vanificato se il PM
potesse RICOMINCIARE LE RICERCHE. Di qui il meccanismo disciplinato all’art 414.
Dopo il provvedimento di archiviazione, per poter tornare ad indagare, il PM dovrà presentare al giudice
una richiesta di riapertura delle indagini. Ottenuta l’autorizzazione, si dovrà effettuare una nuova iscrizione
nel registro delle notizie di reato, aprendosi una nuova fase di indagini. Prima del provvedimento di
autorizzazione il PM non può compiere alcun atto di indagine.
Il presupposto alla base della richiesta è controverso. Nella vaghezza del dettato normativo, basato
sull’esigenza di nuove investigazioni, c’è chi suppone che basti una rilettura degli atti già acquisiti e chi
ritiene che la preclusione sia superata soltanto dalla emersione della necessità di assumere nuovi elementi.

Infine, è criticabile la tesi degli effetti preclusivi. Quella secondo cui la mancata autorizzazione alla
riapertura delle indagini determina la inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dopo
l’archiviazione ma anche la preclusione all’esercizio dell’azione penale per quello stesso fatto-reato,
oggettivamente e soggettivamente considerato. Così si andrebbe ad espropriare l’organo di accusa del suo
potere-dovere di esercitare l’azione penale.

La disciplina della ARCHIVIAZIONE PER ESSERE IGNOTO L’AUTORE DEL REATO prevede che il PM,
entro 6 mesi dalla data della registrazione della notizia di reato, debba presentare al giudice una richiesta di
archiviazione o di autorizzazione a proseguire le indagini. Una duplice alternativa. Presenta richiesta di
archiviazione quando esperito ogni mezzo utile non abbia ottenuto alcun risultato. Presenta domanda di
autorizzazione a proseguire qualora reputi che le ulteriori indagini possano consentirgli di arrivare a
risultati utili.
Qualora il giudice ritenga che il reato sia da attribuire a persona già individuata, può solo ordinare che il
nome venga trascritto. Intervento che vuole scongiurare pratiche elusive, per esempio, se la persona
interessata dalle indagini è concretamente individuata ma non formalmente per la sua iscrizione nel
registro.
Quando accoglie la richiesta di archiviazione o di autorizzazione a proseguire le indagini, si pronuncia con
decreto motivato, non impugnabile e restituisce gli atti al PM.

La disposizione rinvia alle disposizioni, in quanto applicabili, della disciplina dedicata alle ipotesi di
archiviazione nei casi di un soggetto individuato. Quindi, si ritiene che la procedura di archiviazione
conseguente a tale richiesta non differisca da quella ordinaria. Si applicano anche i termini di indagine
ordinari. Secondo una interpretazione diffusa, prevede che quando il PM indaga nell’ambito di un
procedimento contro ignoti, il PM dovrà non solo chiedere l’autorizzazione a proseguire le indagini ma
anche, se necessario, la proroga ordinaria dei termini di indagine. Tuttavia, le Sezioni unite, in contrasto con
tale tendenza, esclude che una volta disposta l’archiviazione, ove il PM voglia tornare a indagare, debba
chiedere la relativa autorizzazione.

Gli organi di polizia possono trasmettere agli uffici di procura le denunce dei reati commessi da persone
ignote, unitamente agli atti di investigazione compiuti, elencate in apposito indice mensile. Con
riferimento a tali elenchi, la richiesta di archiviazione ed il decreto del giudice che accoglie la richiesta
sono pronunciati cumulativamente, con l’eventuale indicazione delle denunce che il PM o il giudice
intendono escludere dalla richiesta o dal decreto.

L’udienza preliminare
Il PM posto dinanzi alla alternativa, una volta giunto alla conclusione delle indagini, fuori dai casi che lo
conducono ad una richiesta di archiviazione, formula l’imputazione con la richiesta di rinvio a giudizio.
Sempre che la sua iniziativa non vada verso un rito alternativo a quello del dibattimento. La richiesta di
rinvio a giudizio è l’atto introduttivo dell’udienza preliminare, segnando, attraverso l’accusa di cui è
gravida, la soglia tra procedimento e processo. Tale udienza, posta tra indagini e giudizio, tende ad evitare
dibattimenti iniqui per l’imputato e inutili per l’ordinamento.

Un giudice (magistrato diverso da chi ha già conosciuto la regiudicanda nelle indagini) opera un controllo
sul corretto esercizio dell’azione penale, filtrando le imputazioni non sostenute da impianto accusatorio
sufficientemente robusto per giustificare il dibattimento. La decisione del giudice suppone un confronto
orale tra le parti, preceduto da una discovery degli atti. L’imputato può resistere e contrastare la richiesta
del PM. Esercitando i poteri difensivi riconosciutigli nella fase preliminare, la persona indagata avrebbe
potuto prevenire l’azione. Ormai trasformata in imputato, potrà articolare le proprie argomentazioni
difensive davanti ad un giudice, chiamato a dirimere l’alternativa tra l’istaurazione del dibattimento e il non
luogo a procedere. L’udienza le offre anche la possibilità di decidere di dirigersi verso procedure alternative
o di anticiparne lo svolgimento, rinunciando alla discussione preliminare sulla necessità dello stesso
dibattimento.

Il contraddittorio e la valutazione del giudice si sviluppano intorno agli esiti delle indagini, ormai svelate.
Ma i termini del dibattito non sono definitivamente fissati al momento della richiesta introduttiva. In realtà,
il rapporto tra giudice e parti nell’udienza preliminare è work in progress. Poiché PM e difensori possono
proseguire le investigazioni e chiedere di assumere prove con le forme dell’incidente probatorio. Inoltre, il
giudice può anche imporre al PM di tornare ad indagare e potrà inscenare un interludio per la ricerca di
elementi cognitivi che siano idonei a convincerlo della inutilità del dibattimento.

L’attuale assetto dell’udienza preliminare è il risultato di una evoluzione normativa. Il ruolo era quello di
filtrare le imputazioni azzardate ma nelle sue vesti originarie si era dimostrata incapace di svolgere la
propria funzione. Il tentativo di rivitalizzare l’istituto è stato perseguito tramite la dilatazione dei margini
operativi. Pur restando formalmente un vaglio di natura processuale, funzionale alla scelta tra il procedere
o il non procedere, l’epilogo dell’udienza preliminare ha assunto la pregnanza di un giudizio di merito. Il
nuovo assetto legislativo, così, sembrerebbe lasciar paventare il rischio che l’imputazione abbia le
sembianze di una condanna. Ma pur così trasfigurata l’udienza preliminare ha comunque le stesse capacità
drenanti che deteneva in passato.

LA RICHIESTA DI RINVIO A GIUDIZIO (primo atto dell’udienza preliminare) deve essere depositato dal
PM nella cancelleria del giudice. Il termine dovrebbe coincidere con quello fissato dall’art 405 (6 mesi o 1
anno per i delitti più gravi). Tuttavia, tra la chiusura delle indagini e l’esercizio dell’azione penale, può
decorrere un termine imprecisato. La prassi ne desume che un’iniziativa volta ad istaurare il processo,
anche se tardiva, non può essere invalida. Il legislatore pone una eccezione al termine ordinariamente
fissato. Per determinati reati (omicidio colposo per gli infortuni sul lavoro- omicidio colposo stradale) il
termine è di 30 giorni dalla data di chiusura delle indagini preliminari. Questa voleva ridurre il tempo per il
deposito della richiesta o quanto meno renderlo determinato.

I requisiti formali sono fissati all’art 417. E sono la generalità dell’imputato o altre indicazioni personali che
lo indentificano, nonché le generalità della persona offesa dal reato qualora ne sia possibile
l’identificazione. L’enunciazione del fatto, circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare
l’applicazione di misure di sicurezza. L’indicazione delle fonti di prova acquisite. La domanda al giudice di
emissione del decreto che dispone il giudizio. La data e la sottoscrizione.
La definizione dell’accusa è requisito fondamentale. Deve essere chiara e precisa. La sua ambiguità o la sua
eccessiva vaghezza generano una nullità a regime intermedio per violazione delle disposizioni
sull’intervento dell’imputato, che una volta constatata si dovrebbe regredire il processo alla fase
precedente.

In vista del successivo contraddittorio, il PM deve mettere a disposizione delle parti il corpo del reato e le
cose pertinenti al reato e trasmettere il fascicolo contente la notizia di reato, la documentazione relativa
alle indagini espletate e i verbali degli atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari.

La richiesta del PM innesca la sequenza giurisdizionale. Tempi brevi cadenzano la fissazione dell’udienza.
Entro 5 giorni dal deposito della richiesta, il giudice stabilisce con decreto giorno, ora e luogo dell’udienza in
camera di consiglio. Tra la data di deposito e la data dell’udienza non può intercorrere un tempo superiore
ai 30 giorni. Se l’imputato è privo di difensore, il giudice provvede a nominarlo.

Il giudice ha il dovere di dare notizia alle parti e ai difensori dell’udienza. Gli competono oneri informativi
dettagliati e diversamente modulati a seconda dei destinatari. All’imputato e alla persona offesa deve
notificare l’avviso sull’udienza, con la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal PM. Solo l’imputato è
avvertito del suo diritto a partecipare al processo e delle conseguenze della sua mancata partecipazione. Gli
avvisi e comunicazioni sono notificati e comunicati almeno 10 giorni prima della data dell’udienza. Entro lo
stesso termine è notificata la citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la
pena pecuniaria. L’omessa o erronea citazione dell’imputato, nonché la mancata indicazione della data e
del luogo di udienza genera una nullità generale a regime assoluto.
Nello stesso termine, l’avviso è comunicato al PM e notificato al difensore dell’imputato, con alcuni
contenuti aggiuntivi per quest’ultimo. Come l’avvertimento della facoltà di prendere visione degli atti e
delle cose trasmessi a norma dell’art 416 e di presentare memorie e produrre documenti. Entrambi sono
invitati a trasmettere la documentazione relativa alle indagini eventualmente espletate dopo la richiesta di
rinvio a giudizio. Questo è un atto però doveroso solo per il PM, per il difensore si tratta di un mero onere.

I contenuti dell’avviso dovuto al difensore dell’imputato tendono a favorire la conoscenza degli atti
depositati dal PM ai sensi dell’art 416. Tale discovery degli atti è stata anticipata, divenendo preludio della
presentazione della richiesta di rinvio a giudizio. Infatti, questa è nulla se non è preceduta dall’avviso
all’indagato della conclusione delle indagini preliminari o dell’invito a presentarsi per rendere
l’interrogatorio. Ma l’ostensione degli atti imposti al PM, all’art 416 è più ampia.
L’invito a depositare la ulteriore attività di indagine (indagini suppletive) compiuta a seguito della richeista
di rinvio a giudizio prelude a futuri ampliamenti della discovery. Su questi e altri possibili approfondimenti
della piattaforma costituita dal fascicolo delle indagini e dall’ulteriore materiale depositato, che le parti e il
giudice perverranno, nell’udienza, alle rispettive determinazioni.

L’imputato, soppesati gli elementi di accusa, può scegliere se accedere ad un rito premiale che si svolga
nell’udienza preliminare. Può avere interesse a che il giudizio sia abbreviato, in vista della riduzione della
pena che esso comporta, quando il materiale di accusa sia difficilmente contrastabile in dibattimento o
quando l’impianto accusatorio sia così labile da sconsigliare qualsiasi seguito che possa irrobustirne le
premesse. Ragioni uguali potranno orientarlo verso l’applicazione della pena o la sospensione del processo
con messa alla prova. Ulteriore ragione può essere la mancanza di pubblicità di questi ultimi riti.

Nel momento immediatamente prima dell’udienza, l’imputato può rinunciare all’udienza preliminare e
richiedere il giudizio immediato, rispettando alcune formalità. La dichiarazione di rinuncia deve essere
presentata in cancelleria, almeno 3 giorni prima della data dell’udienza e notificata dal PM e alla persona
offesa dal reato a cura dell’imputato. Il giudice, preso atto della rinuncia, emette decreto di giudizio
immediato. Tale soluzione non ha trovato ampia applicazione. Ma per chi è sicuro di essere assolto è
preferibile essere destinatario di una sentenza emessa in seguito a dibattimento, per la sua diversa stabilità
e per gli effetti dei relativi esiti nel giudizio civile o amministrativo.

L’imputato se non rinuncia e non sceglie nessuno degli altri riti, può interloquire con le altre parti e il
giudice nella prospettiva dell’epilogo a lui più favorevole, assistito dal suo difensore.

L’udienza preliminare si svolge in camera di consiglio con il PM e il difensore dell’imputato (necessari). La


procedura camerale è caratterizzata da tempi ad hoc e da un contraddittorio rafforzato. Autonome
disposizioni regolano le forme di redazione del verbale, redatto di regola in forma riassuntiva, salvo che il
giudice non ne disponga la riproduzione fonografica o audiovisiva o la redazione con la stenotipia.
Chiusa la discussione, il giudice potrà pervenire a due differenti epiloghi alternativi. Se il processo non
dovrà essere istaurato, il giudice dovrà emettere una sentenza di non luogo a procedere, suscettibile di
divenire definitiva. Se il giudice riterrà sussistenti gli elementi per il dibattimento dovrà pronunciare un
decreto non motivato con il quale dispone il giudizio ( LE FASI DELL’UDIENZA PRELIMINARE).
Originariamente caratterizzata da una procedura snella, la fase introduttiva dell’udienza preliminare è oggi
gravata da una articolata procedura che verte sulle formalità di verifica dell’instaurazione del rapporto
processuale. Come IL CONTROLLO SULLA REGOLARITÀ DELLA COSTITUZIONE DELLE PARTI.

Come nel testo originario, il giudice deve verificare la regola costituzione delle parti. Ma l’intera materia è
stata riformulata, traslocando nell’ambito dell’udienza preliminare gli adempimenti prima contenuti nel
dibattimento. Dunque, la nuova procedura di accertamento della costituzione delle parti è applicabile, in
quanto compatibile, al dibattimento, in forza dell’espresso richiamo contenuto all’art 484 coma 2 bis
(costituzione delle parti).

Per le parti private diverse dall’imputato, la verifica concerne la parte civile che può costituirsi per
l’udienza preliminare, il responsabile civile, intervenuto volontariamente o citato e il civilmente obbligato.
Per l’imputato però il dato formale della correttezza della citazione e notifica non esaurisce le verifiche da
compiersi per accertare la regolarità della sua costituzione. Poiché la partecipazione al suo processo è
espressione del diritto di difesa, a cui l’imputato può rinunciare ma che l’ordinamento non può
disconoscere. Il tema della partecipazione dell’imputato al proprio processo ha subito una evoluzione, che
ha portato all’eliminazione dell’istituto della contumacia, al fine di impedire che il processo si possa
svolgere in assenza dell’imputato anche quando egli potrebbe non esserne a conoscenza.
Quindi, verificata la correttezza della notifica dell’imputato, occorre accertare se l’assenza dell’imputato
possa essere la conseguenza di un impedimento, di una mancata conoscenza dell’addebito o se derivi da
un suo disinteresse. Solo in questo ultimo terzo caso, il giudice potrà procedere. Negli altri casi si dovranno
ricercare le cause ostative alla sua comparizione e, se del caso, attendere.
Il giudice potrò procedere senza l’imputato, se questo ha espressamente rinunciato ad assistervi.
Se non vi è rinuncia espressa, il giudice accerta se si versi nelle situazioni che provino o portino a
presumere ex lege la conoscenza del processo. Pertanto, si potrà procedere se nel corso del procedimento
abbia dichiarato o eletto domicilio o sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare o abbia
nominato un difensore di fiducia, nonché nel caso in cui l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la
notificazione dell’avviso dell’udienza o risulti con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o
si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo.
Non si può procedere se l’imputato non si presenta alla prima udienza adducendo un’assoluta
impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento. In tal caso è
disposta nuova udienza e nuova notifica ed avviso. Si opera allo stesso modo se l’imputato è probabile che
non si sia presentato per tali cause. La valutazione sulla probabilità è discrezionale e non impugnabile.
Tuttavia, l’imputato può dimostrare che la prova dell’impedimento è pervenuta con ritardo senza sua colpa.
Se per le stesse cause, l’imputato non si presenti alle successive udienze, questa deve essere rinviata e
nuovamente notificata.

Quando si procede in sua assenza l’imputato è rappresentato dal difensore. Questo anche quando è
comparso, ma si allontana dall’aula di udienza o che non compare a udienze successive.

Le ipotesi previste al comma 2 pongono una presunzione solo relativa del disinteresse dell’imputato a
partecipare al proprio processo e non ne ostacolano il suo tardivo ingresso. Se compare prima della
decisione, l’ordinanza che ha disposto di procedere in sua assenza è revocata. Se l’imputato compare e
dimostra di non aver avuto conoscenza della celebrazione del processo, senza sua colpa, viene rimesso in
termine per l’esercizio del diritto alla prova.
Infatti, nell’udienza preliminare, l’imputato ha la possibilità di chiedere l’acquisizione di atti e documenti.
Così come nel corso del giudizio di primo grado può formulare richiesta di prove ai sensi dell’art 493.
L’imputato può anche chiedere la rinnovazione di prove già assunte. La tutela si estende ai gradi di giudizio
successivi.
La presunzione legislativa che consente al giudice di procedere anche nei casi in cui non vi sia la certezza
del disinteresse dell’imputato, potrà essere ribaltata anche a seguito di passaggio in giudicato della
sentenza pronunciata in absentia. Qui si prevede un rimedio di carattere straordinario. L’imputato la cui
mancata conoscenza del processo medesimo non è riconducibile a sua colpa, può chiedere la rescissione
del giudicato. Questo permette un nuovo giudizio, poiché comporta, in caso di accoglimento, la
trasmissione degli atti al giudice di primo grado. Ma tale rimedio è concesso solo al condannato o al
sottoposto a misura di sicurezza con sentenza passata in giudicato, nei cui confronti si sia proceduto in
assenza.
Il giudice revoca l’ordinanza con cui ha disposto la prosecuzione in assenza dell’imputato anche quando
risulta che il procedimento dovesse essere sospeso. Cioè se il giudice deve compiere un ultimo tentativo,
quando da tutti gli adempimenti non sussiste alcuna prova che l’imputato sia assente per sua volontà. A tal
fine, rinvia l’udienza e dispone che l’avviso sia notificato personalmente all’imputato ad opera della polizia
giudiziaria. Se non sarà stata ottenuta la presenza dell’imputato, né la rinuncia espressa o presunta, il
giudice dovrà sospendere il processo. Durante la sospensione, il giudice acquisisce, a richiesta delle parti, le
prove non rinviabili.
Inoltre, per circoscrivere gli effetti negativi scaturenti dalla sospensione, impedendo che si propaghino a
soggetti diversi dall’imputato irreperibile, si stabilisce che si possa procedere alla separazione di eventuali
processi connessi. Prevedendo anche la non sospensione del processo civile, il danneggiato cioè potrà
trasferire l’azione civile nella sede propria in qualsiasi momento.
Tale stasi processuale dovrà essere monitorata a intervalli fissi: alla scadenza di 1 anno o anche prima
quando ne ravvisi l’esigenza, il giudice dispone nuove ricerche dell’imputato per la notifica dell’avviso. In 4
casi il giudice revoca l’ordinanza di sospensione. Se le ricerche hanno avuto positivo. Se l’imputato ha
nominato un difensore di fiducia. Se vi è la prova certa che l’imputato è a conoscenza del procedimento
avviato nei suoi confronti. Se deve essere pronunciata sentenza secondo l’art 129.

La presenza del difensore dell’imputato è necessaria, quindi ogni violazione di tale garanzia è sanzionata a
pena di nullità assoluta. Infatti, se non è presente è nominato dal giudice. L’udienza è rinviata in assenza,
quando un legittimo impedimento impedisca la sua partecipazione. L’impedimento, oltre che prontamente
comunicato deve derivare da una impossibilità di comparire assoluta.
La previsione non si applica se l’imputato è assistito da due difensori o il difensore ha designato un
sostituto. Infine, l’imputato può consentire che si proceda in assenza del difensore impedito. Di recente, è
stato aggiunto come legittimo impedito lo stato di gravidanza, nei 2 mesi prima della data del presunto
parto e nei 3 mesi successivi.

Non è assoluta impossibilità ma libera scelta, l’eventuale astensione per aderire ad una manifestazione di
protesta indetta dagli organismi forensi. Tale tipo di adesione è espressione di un diritto di libertà, il cui
corretto esercizio impone il rinvio delle udienze camerali. Il giudice dovrà accertare se l’adesione per
astensione sia avvenuta nel rispetto delle regole fissate dalle disposizioni.

Conclusi gli accertamenti sulla costituzione delle parti, IL GIUDICE DICHIARA APERTA LA DISCUSSIONE.

La discussione si concreta in un confronto sintetico tra il PM e i difensori delle parti private e l’imputato. A
seguire il difensore della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena
pecuniaria e dell’imputato intervengono e poi replicano una sola volta. Conclusa l’esposizione introduttiva
del PM, prima che prendano la parola i difensori, l’imputato può rendere dichiarazioni spontanee e
chiedere di essere sottoposto all’interrogatorio. Al termine degli interventi e delle repliche, il PM e i
difensori formulano e illustrano le rispettive conclusioni, usando gli atti contenuti nel fascicolo trasmesso a
norma dell’art 416, nonché gli atti e i documenti ammessi dal giudice prima dell’inizio della discussione.
Tuttavia, è possibile che l’udienza preliminare divenga la scena per ulteriori momenti acquisitivi, sollecitati
dalle parti o dal giudice.

Il giudice potrà emettere una ordinanza, con la quale, se le indagini preliminari sono incomplete, indica le
ulteriori indagini, fissando il termine per il loro compimento e la data della nuova udienza preliminare. Si
tratta di un potere omologo a quello del giudice per la richiesta di archiviazione. Ma in tal caso, il potere è
giustificato dal fine di impedire l’elusione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Mentre nell’udienza
preliminare, il giudice deve valutare se l’accusa già formulata sia sostenibile in giudizio. Per questo, in tale
fase, eccessive ingerenze in chiave di sollecitazione probatoria, rischierebbero di compromettere il suo
ruolo di terzietà.
Anche qui, il procuratore generale presso la corte d’appello ha un potere di controllo.

L’esercizio del potere di integrazione probatoria di carattere officioso è regolato da un criterio


marcatamente restrittivo. Il giudice potrà disporre l’assunzione delle prove delle quali appare evidente la
decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere. Se non sia possibile procedervi nella medesima
udienza, il giudice fissa nuova udienza e dispone la citazione dei testimoni, periti, consulenti tecnici e delle
persone indicate di cui siano stati ammessi l’audizione o l’interrogatorio. Mezzi condotti dal giudice. Il PM e
i difensori possono porre domande a mezzo del giudice. Al termine, PM e difensori illustrano le rispettive
conclusioni.
Anche nell’ambito della istruzione officiosa, l’imputato può chiedere di essere sottoposto
all’interrogatorio, che si svolgerà con le stesse modalità appena delineate.
Si prevede poi la possibilità di acquisire gli esiti di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non già
selezionati prima della chiusura delle indagini. L’acquisizione può avvenire su richiesta di parte. Non sono
applicabili le disposizioni sui tempi e modi ordinari dettati per la presentazione delle richieste, date le
peculiarità del contesto della discussione. Il criterio di acquisizione di tali prove non può essere quello della
non manifesta irrilevanza ma quello della evidente decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere.

La richiesta di rinvio a giudizio formalizza l’accusa fissando il tema probandum sul quale il PM richiede che
il giudice si pronunci. Tuttavia, è evenienza probabile che nel corso dell’udienza risultino mutati i contorni
dell’addebito (si MODIFICHI L’IMPUTAZIONE), a fronte dell’ampliamento delle ipotesi di acquisizione
probatoria. In tal caso, bisogna nuovamente calibrare l’imputazione alla luce delle nuove emergenze. Sono
previste 4 ipotesi di mutamento, nelle stesse scandite più dettagliatamente nella disciplina dibattimentale.

Le prime tre ricevono uguale trattamento. Se il fatto risulta diverso da come è descritto nell’imputazione. o
emerge un reato connesso o una circostanza aggravante, il PM modifica l’imputazione e la contesta
all’imputato presente o se questo è assente la comunica al suo difensore.

Ad una ulteriore ipotesi corrisponde disciplina più complessa. Se risulta un fatto nuovo non enunciato nella
richiesta di rinvio a giudizio, per il quale si debba procedere di ufficio, il giudice ne autorizza la
contestazione se il PM ne fa richiesta e vi è il consenso dell’imputato.

La disciplina rispetto a quella del dibattimento non è adeguatamente provvista di garanzie. I numerosi
silenzi vengono colmati in via interpretativa. Secondo la Corte cost, sebbene il principio di correlazione tra
imputazione e sentenza sia stato espressamente disciplinato soltanto con riferimento alla fase del giudizio,
la disposizione prevista a tal riguardo, deve applicarsi anche con riferimento al giudice dell’udienza
preliminare. Ciò premesso, anche se difetta un esplicito richiamo normativo, al giudice viene riconosciuto il
potere di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione.
Il contraddittorio non è costituzionalmente obbligato, è discrezione del legislatore se imporlo o meno.
Se si accerta che il fatto è diverso da quello enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio, il giudice deve
disporre la trasmissione degli atti all’organo dell’accusa perché eserciti ex novo l’azione penale. Tuttavia,
può farlo solo dopo una prima sollecitazione a riformulare l’imputazione che non sia stata raccolta
dall’organo di accusa.

IL MOMENTO DELIBERATIVO del giudice è caratterizzato da forme sintetiche e ristrette e cadenze


temporali ristrette. Il giudice delibera immediatamente dopo la chiusura della discussione, e ne dà lettura.
Equivalente a notifica. Il provvedimento è immediatamente depositato in cancelleria e le parti ne possono
ottenere copia. Una deroga in tale ultimo caso è prevista per la SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE.
Infatti, pur richiedendosi una sommaria esposizione dei motivi di fatto e di diritto che la giustificano,
potrebbe essere impossibile dare una motivazione immediata. In tal caso, il giudice provvede non oltre il
30 giorno da quello della pronuncia.

Epiloghi ordinari dell’udienza preliminare sono la sentenza di non luogo a procedere e decreto che dispone
il giudizio. Tuttavia, si può ipotizzare una terza opzione, ritenendo la propria incompetenza, il giudice
dovrebbe dichiararla con sentenza. Al di fuori di tale caso, il giudice deve adottare l’uno o l’altro
provvedimento (complementari tra di loro).

Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere se vi è una causa che estingue il reato o per la
quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto
dalla legge come reato o quando risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che
il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa (può comprendere
anche la non punibilità per particolare tenuità del fatto), indicandone la causa nel dispositivo. Nel caso in
cui il reato è commesso da persona non imputabile si può emettere sentenza di non luogo a procedere, a
condizione che, ritenuto non socialmente pericoloso, non debba essergli applicata una misura di sicurezza
personale. Perché in quel caso la sentenza non può essere pronunciata (art 425 comma 4).

Ai fini della pronuncia, il giudice tiene conto delle circostanze attenuanti, potendo effettuare il
bilanciamento delle circostanze. Si tratta di una precisazione che ha perso di significato dopo la sostituzione
dell’art 157, il quale esclude ora che per determinare il tempo necessario a prescrivere la pena debba
essere computata tenendo conto della diminuzione per le circostanze attenuanti.

Nel 3° comma dell’art 425 sono espressi i delicati equilibri della fase.
La regola di giudizio contenuta nel testo originario concretava un vaglio solo poco più che formale, potendo
la sentenza essere pronunciata solo quando una delle situazioni di proscioglimento in fatto risultasse
evidente. In questo modo si è azzerata la sua funzione deflattiva. Una volta eliso il requisito della evidenza si
poteva sanare l’impotenza del giudice e conferire nuovo vigore al vaglio dell’udienza preliminare. Ma il
testo approvato dava vita a varie interpretazioni. Per questo intervenne una nuova puntualizzazione. Ora, il
giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano
insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Il criterio, così, sembra
restringere il varco con cui le imputazioni transitano al dibattimento.
Ma la disposizione resta ancora ambigua, poiché accosta ad una valutazione di insufficienza e
contraddittorietà degli elementi, una prognosi sulla loro idoneità ad essere corroborati dalla dialettica
dibattimentale. La giurisprudenza tende a far prevalere il secondo profilo, ritenendo che la regola di
giudizio per la sentenza di non luogo a procedere resta qualificata da una delibazione di tipo prognostico di
sostenibilità dell’accusa in giudizio, poiché il giudice dovrebbe prosciogliere l’imputato non in qualunque
situazione di incertezza, ma solo nel momento in cui il dubbio non appaia superabile nemmeno a seguito
del passaggio al giudizio.

I contenuti necessari della sentenza: l’intestazione in nome del popolo italiano e l’indicazione dell’autorità
che la pronuncia, le generalità dell’imputato o altre indicazioni nonché quelle di altre parti private,
l’imputazione, l’esposizione sommaria dei motivi di fatto e di diritto, il dispositivo, la data e la sottoscrizione
del giudice, in caso di impedito del giudice la sentenza è sottoscritta dal presidente del tribunale previa
menzione della causa della sostituzione. La sentenza è nulla se manca la motivazione, e se manca o è
incompleto il dispositivo o se manca la sottoscrizione del giudice. Dichiarazioni di falsità di atti o
documenti e statuizioni di natura civile concernenti il querelante sono contenuti di natura eventuale. La
dichiarazione di falsità di un atto o documento può essere contenutavi se accertata nel corso del processo.

Se il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, il giudice condanna il querelante al pagamento
delle spese del procedimento tramite la sentenza di non luogo a procedere. Con ulteriori statuizioni di
carattere civilistico, il giudice provvede, negli stessi casi, a richiesta di parte: il giudice condanna il
querelante alla rifusione delle spese sostenute dall’imputato e anche di quelle sostenute dal responsabile
civile citato o intervenuto. Se vi sono giusti motivi, le spese possono essere compensate in tutto o in parte.
Se il reato è estinto per remissione della querela, le spese del procedimento sono a carico del querelato,
salvo che nell’atto di remissione sia stato diversamente convenuto. Nel caso di colpa grave, il giudice può
condannare a risarcire i danni all’imputato e al responsabile civile che ne abbiano fatto domanda. Contro
tale capo della sentenza si può procedere con impugnazione.

La impugnazione della sentenza di non luogo a procedere è stata riformata dalla legge 103 del 2017, la
quale ha reso nuovamente appellabile la sentenza in esame, ripristinando un regime in larga parte
coincidente con quello originariamente delineato dal codice.
Legittimati all’appello sono il Procuratore della repubblica e il procuratore generale (solo nei casi di
avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento).
Anche l’imputato è tra questi soggetti, salvo che sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che
l’imputato non lo ha commesso. La persona offesa può, ora, proporre appello. Agli stessi soggetti legittimati
all’appello spetta l’alternativa del ricorso per saltum.
Sull’impugnazione la corte d’appello decide in camera di consiglio con le forme ordinarie della procedura
camerale.
La nuova disciplina regola anche gli epiloghi del giudizio, a seconda dell’appellante.
Nel caso di appello del PM -> se la corte d’appello avrà ritenuto sussistenti gli elementi per il rinvio a
giudizio, pronuncia immediatamente il decreto che dispone il giudizio. In tal caso, è posto alla stessa corte il
compito di formare il fascicolo per il dibattimento. In caso contrario, l’esito potrà essere la conferma della
sentenza di non luogo a procedere con formula meno favorevole all’imputato.
Nel caso di appello dell’imputato  la corte, se non conferma la sentenza, pronuncia sentenza di non
luogo a procedere con formula a lui più favorevole.

Contro la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello può essere proposto ricorso
per cassazione. Legittimati sono l’imputato e il procuratore generale ed esclusivamente per determinati
motivi.
Infine, si prevede come inappellabili le sentenze di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite
con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa. Anche se nulla è disposto, queste sono ricorribili per
cassazione dall’imputato, procuratore generale presso la corte d’appello, e procuratore della repubblica.

Una volta non soggetta a impugnazione la sentenza acquista forza esecutiva. Ha effetti preclusivi ma la sua
stabilità è limitata poiché è revocabile. Alcuni esempi dei suoi effetti sono l’interdizione dell’esercizio
dell’azione penale e gli atti di indagine sono inutilizzabili.
La revoca può essere disposta dal giudice per le indagini preliminari, su richiesta del PM. Il PM può
richiedere la revoca se dopo la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere, sopravvengono o si
scoprono nuove fonti di prova che possono determinare il rinvio a giudizio. Nella richiesta di revoca, il PM
indica le nuove fonti di prova, specifica se queste sono già state acquisite o sono ancora da acquisire. I
nuovi elementi di prova acquisiti dopo la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere possono
essere usati ai fini della revoca della sentenza e della successiva applicazione di una misura cautelare
personale nei confronti dell’imputato prosciolto, a condizione che essi siano stati acquisiti aliunde nel
corso di indagini estranee al procedimento già definito o siano provenienti da altri procedimenti, ovvero
reperiti in modo casuale o spontaneamente offerti, e comunque non siano il risultato di indagini
finalizzate alla verifica ed all’approfondimento degli elementi emersi.

Sulla richiesta di revoca il giudice provvede con ordinanza. Se non dichiara inammissibile o non rigetta la
richiesta, i provvedimenti conseguenti variano a seconda dell’iter segnato dalla domanda del PM. Se il PM
ha chiesto il rinvio a giudizio, il giudice fissa l’udienza preliminare, dandone avviso agli interessati presenti e
disponendo per gli altri la notificazione. Se la richiesta preludeva a nuove indagini in ordine alle fonti di
prova ancora da acquisire, il giudice ordina la riapertura delle indagini, stabilendo per il loro compimento
un termine improrogabile non superiore a 6 mesi. Qui, il soggetto torna ad essere indagato e la nuova
vicenda potrà concludersi anche con una archiviazione. Se sulla base dei nuovi atti di indagine non si debba
chiedere l’archiviazione, il PM trasmette alla cancelleria del giudice la richiesta di rinvio a giudizio.
Contro l’ordinanza di inammissibilità o rigetto della richiesta di revoca il PM può proporre ricorso per
cassazione solamente per i motivi indicati. Non vi è rimedio per l’ordinanza che ammette il seguito.

Se l’accusa passa indenne il vaglio dell’udienza preliminare, il giudice imprime un impulso al processo.
emettendo un DECRETO CON CUI DISPONE IL GIUDIZIO.

Tale provvedimento ha due funzioni essenziali. Cristallizza l’accusa, offrendo al giudice del dibattimento il
thema probandum e contiene la vocatio in iudicium. Lo stesso giudice dell’udienza preliminare fissa
l’agenda del giudice dibattimentale.
Sono stati dettati dei criteri peculiari per la formazione dei ruoli di udienza e per la trattazione dei
processi, al fine di garantire una corsia preferenziale ad alcuni processi in ragione di esigenze di differente
natura che suggeriscano comunque la necessità di una celere celebrazione del giudizio.
A quelle esigenze si rapportano una serie di previsioni fondate sulla gravità del reto. Come il delitto di
criminalità organizzata o terroristica. Oppure i delitti commessi in violazione della normativa sugli infortuni
a lavoro. Altre ipotesi sono fondate su considerazioni attinenti allo status libertatis dell’imputato.
Esempio i processi a carico di imputati detenuti, anche per reato diverso per cui si procede. Processi in cui
l’imputato è sottoposto ad arresto o a fermo di indiziato di delitto.

I contenuti del decreto che dispone il giudizio, essendo sanzionati da nullità, sono: una enunciazione, in
forma chiara e precisa del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare
l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge, così come l’indicazione
del luogo, giorno e ora della comparizione, avvertendo l’imputato che in caso di non comparizione è
considerato in contumacia. Dovrà anche comparire l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui
esse si riferiscono (sembra chiedersi una mera elencazione e non una elaborazione critica degli stessi,
preservando la neutralità del giudice dibattimentale). Dovranno risultare anche le generalità delle altre
parti private, indicandone i difensori. Dovrà essere indicata la persona offesa dal reato, il dispositivo, con
l’indicazione del giudice competente per il giudizio. La data e la sottoscrizione del giudice e dell’ausiliario
che l’assiste.

Tra la data del decreto e la data fissata per il giudizio deve intercorrere un termine non inferiore a 20
giorni. In taluni casi è fissato un termine acceleratorio (non superiore a 60 giorni), come per l’omicidio
colposo commesso in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni su lavoro, omicidio stradale.
Il decreto letto in udienza deve essere notificato all’imputato contumace. All’imputato e alla persona
offesa non presenti, la notifica avviene almeno 20 giorni prima della data fissata per il giudizio.

Immediatamente dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, il giudice provvede nel
contraddittorio delle parti alla formazione del fascicolo per il dibattimento. Separandovi al suo interno il
materiale che può essere conosciuto da quello che deve rimanere fuori dal processo. Si tratta di un
adempimento funzionale al sistema del doppio fascicolo, che rappresenta la trasposizione materiale del
principio di separazione delle fasi, caratterizzante l’intera struttura del modello processuale adottato dal
legislatore del codice vigente. È una attività non neutra e di estrema delicatezza per questo.
Le parti possono concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo
del PM, nonché della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva. Tutto quello che non
rientra nella tassativa elencazione, operata all’art 431, su quello che deve contenere il fascicolo, viene
trasmesso al PM con gli atti acquisiti all’udienza preliminare e unitamente al verbale d’udienza. I difensori
possono prenderne visione ed estrarne copia, nella segreteria del PM degli atti raccolti nel fascicolo.

L’attività integrativa di indagine.

Durante l’udienza preliminare, il PM e i difensori possono continuare la loro attività investigativa, la quale
si estende anche oltre l’emissione del decreto che dispone il giudizio. Infatti, dopo l’emissione del decreto
che dispone il giudizio, questi possono compiere attività integrativa di indagine, ai fini delle proprie richieste
al giudice del dibattimento.

Sul quanto (dies ad quem) tale attività si possa estendere non è dettato in maniera esplicita. Vi sono solo
degli indizi, ma non regole esaustive. Per questo, la giurisprudenza è intervenuta ritenendo che l’attività si
può spingere per tutto l’arco del dibattimento e pure nel corso della discussione finale, eventualmente
proiettandosi verso il giudizio di appello ed ai fini della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale che
quella sede può accogliere. Anche se molto amplio il suo ambito, tale attività ha comunque caratteri
eccezionali. Nella fase aperta con il decreto di rinvio a giudizio, il potere di indagine ha dei limiti, non
possono essere compiuti atti per il quale è prevista la partecipazione dell’imputato o del difensore di
questo.

La documentazione per tale attività integrativa è depositata nella segreteria del PM con facoltà di
prenderne visione ed estrarne copia. A tal fine, la segreteria dà avviso del deposito. Gli atti delle indagini
integrative non confluiscono nel fascicolo di parte, poiché vogliono finalizzare le richieste indirizzate al
giudice del dibattimento.

Per evitare strategie sleali, sono posti ulteriori limiti, come nell’art 430 bis (divieto di assumere
informazioni). La disposizione è applicabile anche ad attività che si svolgano prima dell’emissione del
decreto che dispone il giudizio. Così si spiega il divieto in capo al PM, alla polizia giudiziaria e al difensore di
assumere informazioni dalla persona ammessa ai sensi dell’art 507 o indicata nella richiesta di incidente
probatorio o ai sensi dell’art 422 comma 2. Le informazioni assunte in violazione del divieto sono
inutilizzabili. Divieto che cessa dopo l’assunzione della testimonianza e nei casi in cui questa non sia
ammessa o non abbia luogo.

I PROCEDIMENTI SPECIALI CAP 6


Considerazioni sulla nozione di specialità.
Il concetto di procedimento speciale fa riferimento alla dinamica processuale. Il procedimento ordinario è
composto da tre segmenti (indagini preliminari, udienza preliminare e giudizio) mentre quello speciale si
caratterizza per l’assenza di almeno uno di quei segmenti.
Ogni ordinamento, per quanto sensibile al canone di eguaglianza, predispone, variamente giustificandole,
procedure alternative a quella prevista come ordinaria. Anche nelle codificazioni previgenti, la scarsa
gravità del reato da perseguire o l’evidente fondatezza dell’accusa, legittimavano la semplificazione o
l’omissione di taluni adempimenti processuali.
Invece, recente è la tendenza ad attuare semplificazione dell’ordinario svolgimento processuale, con
incentivi premiali che incoraggiano la rinuncia alla fase dibattimentale e all’esercizio di quei diritti di difesa e
di prova che in essa potrebbero trovare spazio.

Le disposizioni che regolano i vari procedimenti speciali hanno alla base un’esigenza economica. L’esigenza
di risparmiare tempo, risorse umane e, in generale, l’attività processuale. E poiché tale semplificazione
finisce inevitabilmente con l’incidere su garanzie costituzionali anche diverse dall’eguaglianza, quali il
diritto di difesa, il giudice naturale, nonché la presunzione di innocenza, è facile desumerne che la
compressione di siffatte garanzie deve essere espressamente autorizzata dalla legge e deve apparire
ragionevole alla luce di un adeguato bilanciamento idoneo a contemperare l’efficienza del sistema
processuale con un’adeguata protezione dei diritti individuali.

Il nostro codice prevede sei tipi di procedimento speciale: il giudizio abbreviato, l’applicazione di pena su
richiesta delle parti, il giudizio direttissimo, il giudizio immediato, il procedimento per decreto e la
sospensione del processo con messa alla prova.
Ma la serie non è esaustiva. Perché se si ritiene che la qualifica speciale spetti a quei tipi di procedimento la
cui caratteristica essenziale è la mancanza di una fase o sottofase, allora meritano di essere qualificati come
tali anche alcuni procedimenti non disciplinati. Come il procedimento di oblazione, il cui tratto
caratteristico è nel consentire una chiusura anticipata della vicenda processuale, evitando la fase
dibattimentale con contestuale degradazione dell’illecito penale in illecito amministrativo. Oppure la
estinzione del reato per condotte riparatorie, il giudizio immediato richiesto dall’imputato, che consente di
anticipare il dibattimento saltando l’udienza preliminare. E infine i procedimenti che traggono origine da
una contestazione suppletiva nell’udienza preliminare o nel dibattimento, i quali risultano privi
dell’indagine preliminare e dell’intera fase preliminare al giudizio.
Anche il procedimento davanti al giudice monocratico è, a suo modo, un caso di specialità, non fosse altro
per il fatto di essere privo dell’udienza preliminare. Discorso analogo vale per il giudice di pace, disciplinato
con regole specialissime, condizionate dall’impronta conciliativa e solo residualmente repressiva che
caratterizza questo particolare tipo di giurisdizione.

Non sono speciali quegli istituti che vogliono solo semplificare il procedimento in fase di impugnazione,
come il patteggiamento in appello o il ricorso immediato per cassazione. Qui la qualifica speciale riguarda
solo il procedimento di primo grado non i gradi successivi del giudizio.
Infine, esce dalla nozione di specialità il non doversi procedere per particolare tenuità del fatto. Benché
ispirato da ragioni di economia processuale, si risolve in un proscioglimento che può intervenire in ogni
stato e grado del procedimento penale, senza che ciò comporti modalità procedurali tali da rendere il
corrispondente rito speciale.

Alla luce delle RAGIONI SPECIALI che li giustificano, i procedimenti speciali rivelano una duplice natura,
che genera una triplice partizione. È dunque opportuno suddividerli.

1-Riti fondati su un requisito di carattere principalmente soggettivo, quale la scelta volontaria di una o
entrambe le parti. (GIUDIZIO ABBREVIATO, APPLICAZIONE DI PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI - PATTEGGIAMENTO,
OBLAZIONE, ESTINZIONE DEL REATO PER CONDOTTE RIPARATORIE, SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA E IL
GIUDIZIO IMMEDIATO RICHIESTO DALL’IMPUTATO) Questi sono espressione di una giustizia consensuale. Le
normative di tali procedimenti attribuiscono alle parti la facoltà di disporre di taluni stati o situazioni
processuali, con conseguente rinuncia alle chances di intervento che la legge vi ricollega. Scelta che in
alcuni casi può influire sulla determinazione della pena. Tali istituti recepiti recentemente nel nostro
ordinamento processuale, sono ispirati a una visione marcatamente pragmatica del giudicare. Riconoscono
una certa signoria delle parti su talune situazioni processuali e sul modo di formare la prova, nonché sulle
questioni attinenti alla qualificazione giuridica del fatto e alla quantificazione della pena. Da qui la difficoltà
di armonizzare le normative delle principali manifestazioni di giustizia consensuale con i tradizionali
capisaldi del nostro sistema penale, come la legalità della pena, obbligatorietà dell’azione penale e la
presunzione di innocenza.

2-Riti fondati su requisiti di carattere oggettivo, imperativamente affermati dal magistrato penale ( GIUDIZIO
DIRETTISSIMO, GIUDIZIO IMMEDIATO RICHIESTO DAL PM, CONTESTAZIONE SUPPLETIVA DEL REATO CONCORRENTE O DEL REATO
CONTINUATO). Tali procedimenti sono espressione di un esercizio della giurisdizione autoritativo, questi
istituti rappresentano il nucleo più antico delle procedure speciali. L’esigenza di semplificazione qui è
giustificata da predefiniti presupposti processuali connotati da una certa oggettività, la cui sussistenza
viene affermata da autorità: prima dal PM e poi vagliata e confermata dal giudice.
Il giudizio direttissimo e immediato si fondano su una supposta facilità di accertamento probatorio, talvolta
codificata in una situazione-tipo dai contorni assai netti, altre volte definita in maniera approssimativa. Il
caso di contestazione suppletiva si fonda sull’opportunità di cumulare il fatto, emerso nell’udienza
preliminare o dibattimento, con quello già in precedenza contestato, al fine di facilitare il compito del
giudice nel calcolo della pena.

3-Gruppo misto, formato da quei procedimenti in cui la semplificazione costituisce il risultato di un’iniziale
scelta imperativa, combinata con il consenso dell’imputato o con l’accordo delle due parti principali del
processo (imputato e PM). Le ragioni che giustificano la normativa degli istituti di tale gruppo sono affini a
quelli del 2° gruppo. Caratteristica principale è far dipendere la semplificazione procedurale da un atto
autoritativo del magistrato penale combinato con un atto volontario di una o entrambe le parti. Sono il
procedimento per decreto, il giudizio direttissimo esperibile nel consenso delle parti, la contestazione
suppletiva del fatto nuovo.
I PROCEDIMENTI SPECIALI (alternativi al rito ordinario, ragionevoli e rispettosi dei diritti) NON SONO
NECESSARIAMENTE INCOMPATIBILI FRA LORO.
Un procedimento del tipo consensuale esclude la trasformazione in altro procedimento appartenente al
medesimo tipo. Esempio, una volta ammesso il patteggiamento non si può chiedere il giudizio abbreviato,
oppure il giudizio immediato richiesto dall’imputato esclude la possibilità di richiedere sia il rito abbreviato
sia il patteggiamento.
La procedura consensuale è incompatibile anche con qualsiasi semplificazione autoritativa del
procedimento. Ad esempio, la scelta del giudizio abbreviato o patteggiamento esclude sia il giudizio
direttissimo sia il giudizio immediato.
Sempre consentito il passaggio inverso, da un rito scelto ex auctoritate a uno dei riti consensuali, premiati
con uno sconto di pena.

A rendere opportuna e doverosa tale trasformazione concorrono: una ragione economica, giacché il rito
premiale, chiudendosi prima del dibattimento, realizza quasi sempre un risparmio di risorse maggiore
rispetto al rito speciale imposto dal magistrato. Per questo è favorito dal sistema. Una ragione più
propriamente giuridico costituzionale collegata all’esigenza di garantire un trattamento uniforme degli
imputati di fronte alle possibili scelte processuali, verso le quali si può orientare la strategia difensiva
dell’imputato. Cioè l’accesso ai riti premiali non può essere ostacolato dall’istaurazione autoritativa di un
procedimento speciale. Di mezzo c’è anche il diritto di difesa. Cioè il diritto di ogni imputato di scegliere il
modo più adeguato e consono ai propri interessi per difendersi. Quindi sottrarre alla difesa la chance del
rito alternativo, per effetto di una scelta imperativa dell’autorità giudiziaria, significherebbe esporre
l’imputato a una irragionevole disparità di trattamento.
Per questo motivo, la legge processuale gli dà la facoltà di attivarsi, al fine di trasformare il giudizio
direttissimo, il giudizio immediato o il procedimento per decreto in giudizio abbreviato, in patteggiamento,
in sospensione del processo con messa alla prova o in estinzione del reato per condotte riparatorie.

Giustizia consensuale e corrispondenti forme di specialità .


Il codice di rito dà ampio spazio alla c.d. giustizia consensuale. Questo è effetto di una scelta culturale e di
politica legislativa, propensa a dilatare il potere dispositivo delle parti sulle situazioni processuali e sugli
esiti del processo.
Lo spazio riservato dalla legge alla negoziabilità delle situazioni processuali è andato aumentando, via via
che i principi dello Stato autoritario, nel corso della storia, hanno perso terreno a vantaggio di un rapporto
cittadino autorità basato su un progressivo coinvolgimento dell’individuo nei problemi di funzionamento
degli uffici pubblici, ivi compresi quelli deputati all’esercizio della giurisdizione penale.
Nel codice del 30, la volontà delle parti, specificatamente, del deputato, figurava in soli due casi quale
presupposto per una semplificazione procedurale tale da comportare una chiusura anticipata del
processo (nell’oblazione e nel procedimento per decreto). Suscettibili di tale soluzione pattizia o
consensuale erano solo i reati bagatellari, come le contravvenzioni punibili con ammenda o i reati punibili
con pena pecuniaria.

Prima significativa dilatazione degli istituti negoziali è nel 1981, con l’estensione dell’operatività
dell’oblazione sì da includere le contravvenzioni punibili con pena alternativa, per le quali il giudice ritenga
di applicare la pena pecuniaria. Ed introducendo una forma di patteggiamento che offre alle parti la
possibilità di accordarsi sul quantum di pena, evitando il dibattimento, a fronte di reati di scarsa gravità,
come quelli punibili con pene detentive brevi.
La riforma del 1988 ha ampliato il dominio delle parti sulle situazioni processuali, dilatando l’operatività di
vecchi istituti e introducendone di nuovi. Ha Esteso il patteggiamento e il procedimento per decreto. Ed è
stato introdotto un nuovo rito speciale deflattivo del dibattimento. Assegnando, infine, all’imputato la
facoltà di rinunciare all’udienza preliminare e all’intera fase preliminare del processo.
La disciplina dei procedimenti speciali è stata poi rimessa a punto con la legge sul giudice unico di primo
grado. Attuativa della riforma nel settore processuale penale che ha portato ad una innovazione della
normativa sul giudizio abbreviato, ha rimaneggiato il procedimento per decreto, allo scopo di accrescerne
l’efficacia deflattiva, ha parzialmente modificato patteggiamento e giudizio immediato, al fine di adeguare
le rispettive discipline alla giurisprudenza costituzionale e alle nuove norme sull’udienza preliminare.
La legge sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche fa leva sugli istituti premiali,
rendendo accessibile all’ente-imputato sia il giudizio abbreviato, che l’applicazione della sanzione su
richiesta ed il procedimento per decreto. Infine, la legge del 2003 ha dilatato il patteggiamento.
Più di recente la legge del 2014 ha introdotto un nuovo rito speciale, la sospensione del processo con
messa alla prova.
Da ultimo, la legge 103 del 2017 ha introdotto la novità consistente nella estinzione del reato per condotte
riparatorie ed è intervenuta sui presupposti di ammissibilità del giudizio abbreviato e sui limiti dello sconto
di pena per i reati contravvenzionali, nonché sui limiti di ricorribilità per cassazione contro la sentenza che
applica la pena richiesta dalle parti.

Queste riforme dimostrano che i riti consensuali sono sempre più incoraggiati dalla legge processuale,
guadagnandosi uno spazio significativo nella prassi giudiziaria.

Il comun denominatore risiede nella rinuncia delle parti a giovarsi dei possibili vantaggi abbinati a
determinate situazioni processuali tipiche del procedimento ordinario. La diversità di disciplina si giustifica
con la varietà delle situazioni suscettibili di essere oggetto di quell’atto dispositivo e di rinuncia, che una o
entrambe le parti sono legittimate a compiere.

Se si rinuncia al dibattimento ci si priva della facoltà di contrastare l’accusa con gli strumenti che la fase del
giudizio offrirebbe. Tale rinuncia comporta accelerazione dello svolgimento processuale, avvantaggiando
l’accusa. Nessun imputato farebbe tale scelta se non vi fosse spinto dalla prospettiva di un possibile
tornaconto. Per questo, tali procedimenti hanno un carattere premiale, basandosi cioè su uno scambio di
entità disomogenee rese forzatamente omogenee in nome di un principio efficientistico. Dunque, al fine di
incentivare la rinuncia alle opportunità difensive dell’imputato, la legge offre sconti di pena e cospicui
vantaggi.
Diversa è la ragione che porta alla rinuncia dell’udienza preliminare nel giudizio immediato richiesto
dall’imputato o all’intera fase preliminare del processo nei casi di giudizio direttissimo consensuale. Qui
non vi è alcun carattere premiale. Consentendo l’amputazione di una fase per arrivare prima al giudizio,
l’imputato rinuncia alla possibilità di profittare di certe chances difensive, ma lo fa allo scopo di tutelare
meglio la propria posizione, in vista di un pronosticabile e irreversibile proscioglimento.

Procedimento di oblazione (collocata nel Codice penale).


Essa è una chiusura anticipata del processo, provocata da una richiesta dell’imputato di regolare in denaro
la propria pendenza penale. Il termine oblazione designa per l’appunto il comportamento del soggetto che
offre spontaneamente una somma di denaro, al fine di conseguire l’estinzione del reato, facendo così
cessare immediatamente il processo a suo carico.

Esperibile solo per reati contravvenzionali punibili con l’ammenda in astratto o in concreto.
Nel primo caso (oblazione obbligatoria) il giudice è tenuto ad accogliere la richiesta, se solo l’imputato l’ha
presentata ritualmente entro il termine prescritto. Unica eccezione è per i reati permanenti che la
giurisprudenza di legittimità considera insuscettibili di oblazione. Fissa, in un terzo del massimo
dell’ammenda prevista in via edittale, la somma da pagare al fine di estinguere la contravvenzione.
Nel secondo caso (oblazione facoltativa) il giudice ha discrezionalità. Rigetterà la richiesta quando ritenga di
dover applicare la pena detentiva anziché quella pecuniaria, cioè quando considera grave il fatto commesso
e quindi incongrua l’offerta dell’imputato o nei casi di recidiva, abitualità e professionalità del reato. Si
impone il dimezzamento della massima ammenda prevista, al fine di estinguere la contravvenzione.

Già nel corso delle indagini preliminari, la domanda di oblazione può essere presentata al PM, il quale la
inoltra al giudice insieme al fascicolo dell’indagine. Si possono attivare sia imputato che difensore, senza
bisogno di procura speciale.
Iniziato il processo, la richiesta va presentata direttamente al giudice, prima del dibattimento o prima che
sia emesso decreto penale di condanna. Nei casi di oblazione facoltativa la domanda può essere riproposta
anche nel corso del dibattimento, fino all’inizio della discussione finale.

Vi può essere un problema di informazione per l’imputato sulla possibilità di attivarsi. Egli potrebbe persino
ignorare l’esistenza di un procedimento a proprio carico. Per scongiurare tale ipotesi, si prevede che il PM
debba informarlo sia della possibilità di essere ammesso all’oblazione, sia dei vantaggiosi effetti conseguibili
tramite la stessa. L’omesso avvertimento sarebbe lesivo del diritto di difesa, poiché lo priverebbe di una
chance processuale. Se il PM non adempie, l’avviso deve essere fatto dal giudice, contestualmente
all’emissione del decreto penale per il fatto oblazionabile, con la quale l’imputato viene reintegrato nel suo
diritto di chiedere l’oblazione.

Il termine per la richiesta è perentorio, sicché andrebbe incontro a una declaratoria d’inammissibilità
l’imputato che agisse tardivamente. Se nel dibattimento fosse contestato un fatto diverso o n reato
concorrente suscettibile di oblazione, i termini si riaprirebbero.

Accolta la richiesta, il giudice dichiara non doversi procedere per estinzione del reato, con sentenza
inappellabile. In caso di rigetto, il rito prosegue nella sua forma ordinaria o secondo le regole del
procedimento per decreto, ma imputato e difensore possono rinnovare la richiesta d’oblazione anche nel
corso del dibattimento di primo grado, fino all’inizio della discussione finale.
Benché esplicitamente prevista per la sola oblazione facoltativa, tale regola viene intesa come principio
generale. La richiesta potrebbe essere riproposta anche in limine al giudizio di secondo grado, sul
presupposto di un erroneo rigetto da parte del giudice di prima istanza. In tal caso, il giudice di appello
concede un termine di 10 giorni entro i quali l’imputato è ammesso al pagamento della sanzione
pecuniaria, ciò che gli permette di conseguire tardivamente l’estinzione del reato negatagli per sbaglio in
precedenza.

Offerta riparatoria finalizzata alla declaratoria di estinzione del reato (collocata nel Codice
penale).
Benché sia uno degli ultimi ad essere stato formato, è importante perché affine all’oblazione. L’art 162 ter
c.p. la delinea definendo che permette una chiusura anticipata del processo, promettendo l’estinzione del
reato all’imputato che ripara integralmente il danno procuratore alla vittima. È Applicabile solo per i reati
perseguibili a querela, purché questa sia soggetta a remissione. Quindi sono esclusi i delitti di violenza
sessuale per i quali la querela è irrevocabile. In questo modo si arriva ad una estinzione del reato, evitando
il dibattimento, anche a prescindere dalla rimessione della querela. È escluso anche il delitto di atti
persecutori nonostante sia perseguibile a seguito di querela revocabile, quando le minacce non siano gravi
e reiterate.

Il presupposto di tale rito speciale non è essenziale che l’offerta risarcitoria sia accettata dalla persona
offesa. È sufficiente che il giudice consideri l’offerta congrua e proporzionata al danno cagionato. È questo il
senso da attribuire al sintagma delle condotte riparatorie.

Sul piano procedurale la legge contiene una scarna previsione circa il termine entro il quale formulare la
proposta. Cioè prima che sia dichiarato aperto il dibattimento di primo grado, come accade per l’oblazione.
Non vi è un terminus a quo, ma è ragionevole ritenere che la richiesta possa essere avanzata già nel corso
delle indagini preliminari. Altrettanto opportuno sarebbe estendere a questo nuovo rito speciale la regola
secondo la quale l’indagato va avvertito dal PM della possibilità di conseguire l’estinzione del reato,
riparando il danno.

Circa il diritto della persona indagata o dell’imputato di ricevere l’informazione su tale chance di uscita
collaterale dal procedimento penale non vi è nulla di esplicito al riguardo. Pertanto, si applicano, finché
non interverrà il legislatore, le soluzioni prospettate per la procedura di oblazione. Quindi, prima di
chiedere un decreto penale di condanna per i reati qui considerati, sarebbe opportuno che il PM avvisasse
l’interessato della prospettiva che ha. Ed in mancanza di tale avviso, dovrebbe essere il giudice a
menzionare nel decreto di condanna l’occasione riparatoria finalizzata all’estinzione del reato, in maniera
che l’imputato sia messo tempestivamente in condizione di esercitare quel suo diritto opponendosi al
decreto stesso.

Ma molti dei delitti, a cui risulta applicabile l’offerta riparatoria, possono essere estranei all’ambito
applicativo del procedimento per decreto. Ad esempio, la truffa semplice punibile sia con pena detentiva
che pecuniaria. Se questo fosse il caso converrebbe ispirarsi alla citazione diretta a giudizio, ove si prevede
che l’imputato venga avvisato della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato, patteggiamento o l’oblazione,
sicché alla lista andrebbe aggiunta anche la domanda di riparazione del danno. Notificando tale possibilità
anche alla persona offesa.

L’offerta riparatoria può essere presentata già nel corso delle indagini preliminari, prima che il PM esercita
l’azione penale, oppure successivamente fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.
L’ammissibilità della domanda è vagliata dal giudice destinatario della richiesta, secondo il criterio di
congruità della somma offerta a riparare il danno cagionato. Il giudice statuisce una volta sentite le parti e
la persona offesa dal reato. Questa apertura al contraddittorio è opportuna. I pareri, non vincolanti,
provenienti dall’accusa, difesa e dalla vittima del reato servono a meglio orientare la valutazione del giudice
circa la congruità della somma che l’asserito autore del reato è disposto a pagare.

L’accoglimento della richiesta apre la via alla declaratoria di estinzione del reato, sancita con
provvedimento di archiviazione, se l’offerta è presentata nel corso dell’indagine preliminare, oppure con
sentenza di non doversi procedere, quando la domanda di riparazione fosse successiva.
Se la richiesta venisse rigettata si andrebbe verso il giudizio, ma si deve ritenere che una nuova offerta
riparatoria possa essere reiterata, fin tanto che non sia dichiarato aperto il dibattimento. In caso di rigetto
dell’offerta riparatoria resterebbe comunque aperta la possibilità per l’imputato di attivarsi con la richiesta
di altro rito alternativo (patteggiamento, giudizio abbreviato, sospensione del processo con messa alla
prova).

Applicazione della pena su richiesta delle parti (Patteggiamento)


Si risolve in una rinuncia dell’imputato a contestare l’accusa.

La prima disciplina di tale istituto attribuiva all’imputato la facoltà di provocare una chiusura anticipata del
processo e di evitare il dibattimento, chiedendo l’applicazione di sanzioni sostitutive delle pene detentive
brevi. Il risultato positivo di tale disciplina porta il legislatore ad ampliare l’ambito dell’istituto nel codice del
1988, dotandolo di una più dettagliata regolamentazione. Con la legge del 2003 n 134, il patteggiamento è
stato esteso in misura davvero ampia, ben oltre i confini della criminalità bagatellare (reati con minore
rilevanza sociale).

Oggi, il patteggiamento è esperibile per una serie di reati, identificati tramite il riferimento alla sanzione in
concreto applicabile. Vi rientrano i delitti e le contravvenzioni punibili con la pena pecuniaria oppure con
una sanzione sostitutiva, o con una pena detentiva non superiore a 5 anni.
La pena pecuniaria può essere applicata assieme a quella detentiva, la quale va a sua volta determinata
computando le eventuali circostanze previste dalla legge penale e tenendo anche conto della diminuzione
di pena prevista dalla legge processuale, come incentivo all’imputato per la scelta del rito speciale.
Pertanto, in astratto, sono ammessi al patteggiamento reati puniti con pene che superano di gran lunga i
5 anni di reclusione.

Il Patteggiamento è escluso per i delitti di criminalità organizzata, terrorismo o per determinati delitti
contro la personalità individuale o contro la libertà sessuale. Nonché con riguardo a imputati che dovendo
rispondere di reati concretamente punibili con sanzione detentiva superiore a due anni, siano marchiati
dallo stigma giudiziale di delinquenti abituali, professionali o per tendenza oppure risultino plurirecidivi.
Nel caso di delitti contro la Pubblica amministrazione, la richiesta è ammessa a condizione che l’imputato
restituisca integralmente il prezzo o il profitto del reato. In caso di reati in materia di imposte dirette o
indirette, l’ammissibilità del patteggiamento è subordinata al pagamento del debito tributario. Per ragioni
connesse con comprensibili esigenze trattamentali, il rito è precluso nel procedimento minorile e con la
giurisdizione conciliativa del giudice di pace.
A render meno favorevole il rito speciale per le manifestazioni di grave illiceità che pur lo ammettono,
contribuisce il ridimensionamento della premialità per chi accetta di patteggiare pene detentive da due a
cinque anni. Questo porta a distinguere due tipi di patteggiamento. Patteggiamento maius quello
concernente i reati più gravi, e minus l’altro patteggiamento fino a 2 anni.
Nei procedimenti a carico di persone giuridiche il patteggiamento è ammesso per tutti gli illeciti sanzionati
con pena pecuniaria, ma per quelli sanzionati con altra pena il rito speciale è esperibile a condizione che
non si debba applicare una delle sanzioni interdittive.

Fulcro del rito speciale è l’accordo fra le parti principali del processo, il quale contiene il quantum della
pena da applicare. Ma l’accordo è condizione solo necessaria per la semplificazione dell’iter processuale,
poiché la legge impone al giudice di verificare i presupposti di applicabilità dell’intesa raggiunta, alla luce
dei parametri sostanziali e processuali. In altre parole, il giudice resta soggetto alla legge e non al volere
delle parti.
Oggetto dell’accordo è la pena da applicare per il fatto descritto nell’imputazione.

Per l’imputato -> Il Patteggiamento comporta una serie di rinunce verso diritti che gli spetterebbero
secondo le ordinarie regole processuali. Come il diritto alla prova con conseguente accettazione di essere
giudicato sulla base degli atti probatori presenti nel fascicolo e compiuti nella fase preliminare al processo.
La rinuncia a controvertere sul fatto e la relativa qualifica giuridica. Oppure il controvertere sulla specie e
sulla misura della pena da applicare.
In compenso, ottiene una serie di cospicui vantaggi, diversamente distribuiti a seconda che si tratti di
patteggiamento minus o maius.
Taluni vantaggi sono comuni ai due tipi di patteggiamento.
Ad esempio, lo sconto di pena, l’assenza di effetti pregiudizievoli della sentenza che applica la pena
concordata (questa non è idonea a irradiare effetti vincolanti nei giudizi civili e amministrativi nei quali sia
parte l’imputato postulante), infine l’assenza di pubblicità (funge da efficace incentivo alla scelta del rito
speciale, soprattutto per imputati che preferiscono sottrarsi ai riflettori della scena dibattimentale, dai quali
potrebbe magari derivare un danno d’immagine, persino quando il giudizio si dovesse concludere in loro
favore.

Vantaggi ulteriori sono collegati solo al patteggiamento minus.


Come l’affrancamento dell’imputato dall’obbligo di pagare le spese procedurali, l’esenzione da pene
accessorie e misure di sicurezza, eccettuata la confisca, la non menzione della sentenza nel certificato
generale del casellario giudiziale richiesto dal privato. Appartiene, infine, al novero dei vantaggi anche la
possibilità di conseguire l’estinzione del reato per fatti che non rientrerebbero nell’ambito dell’istituto art
167 c.p. Infatti, la pena concordata che non superi i due anni può essere sospesa sub condicione e la
relativa condanna può sfociare in una declaratoria di estinzione del reato, se nei 5 anni post sententiam
l’imputato non commette un altro delitto o se, nei 2 anni successivi, non si rende responsabile di una
contravvenzione della stessa indole di quella che aveva costituito oggetto di accordo.

Per l’accusa -> il patteggiamento comporta la rinuncia a controvertere sulle questioni di fatto e di diritto
connesse col tema dell’imputazione. Dal canto suo, il PM realizza un risparmio di risorse da impiegare nel
perseguimento d’altri reati.
Il magistrato penale è tenuto ad effettuare la propria scelta alla stregua di parametri obbiettivi e non in
base a valutazioni di opportunità che attribuirebbero al consenso prestato o al dissenso manifestato una
connotazione politica, non compatibile con la sua posizione istituzionale di funzionario pubblico, soggetto
alla legge e anche obbligato ad un atteggiamento imparziale, non solo quando promuove l’accusa penale
ma anche quando assume determinazioni inerenti alla scelta del rito. Quindi, si ritiene che qui il PM debba
operare nell’interesse della legge, affidandosi a quegli stessi criteri che la legge espressamente impone al
giudice per stabilire se la richiesta di patteggiamento vada ammessa o rigettata.
Quindi esprime il suo consenso dopo aver appurato che il materiale d’indagine è sufficiente per applicare
la pena richiesta. Deve anche verificare la corretta qualificazione giuridica assegnata al fatto dall’imputato
nella richiesta di patteggiamento o nell’atto di consenso. E deve chiedersi se all’esperibilità del rito
alternativo non ostino i motivi di esclusione oggettiva o soggettiva. Infine, si deve interrogare sulla
congruità della sanzione richiesta rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del suo autore.

Il PM non dà conto delle ragioni che lo spingono a optare per il patteggiamento. La ragione per cui il
consenso al patteggiamento non ha bisogno di essere motivato risiede nella circostanza che ci penserà poi
il giudice a vagliare, anche alla stregua di tali criteri, se il rito speciale possa avere luogo. Infatti, il giudice
prima di pronunciarsi sul merito deve condurre una verifica sulla ammissibilità della richiesta, a meno che
non ricorra una causa di non punibilità.
Il giudice compie l’accennato vaglio di ammissibilità, innanzitutto verificando che il reato rientri fra quelli
suscettibili di essere definiti con questa speciale procedura anche con riferimento alle esclusioni soggettive
e oggettive. In secondo luogo, appurando che la qualificazione giuridica prospettata dalle parti sia corretta.
Infine, valutando che la pena dalle stesse indicata sia congrua rispetto alle finalità che le sono proprie.
Quanto alla eventuale incompletezza dell’indagine, il giudice deve assolvere l’imputato, se a suo carico non
risulta alcun elemento.
Insomma, benché il consenso al patteggiamento non esiga una formale motivazione, conviene al PM
riflettere bene prima di prestarlo, non foss’altro per evitare che l’insufficienza dello sforzo investigativo
sfoci in una indesiderata assoluzione.

Deve sempre essere motivato il dissenso opposto alla richiesta dell’imputato. Poiché tale dissenso è
idoneo ad influire sullo svolgimento procedurale, precludendo il rito speciale, cioè impedendo la soluzione
anticipata del processo. In altre parole, il suo dissenso impone la discussione dibattimentale del caso, ma
non pregiudica in alcun modo il contenuto della decisione che si sarebbe potuta applicare all’esito del
patteggiamento. Cioè non preclude una tardiva applicazione della pena chiesta dall’imputato, ogni volta
che il giudice del dibattimento o dell’appello ritengano ingiustificato il dissenso stesso. E per poter
esercitare tale funzione critica, i suddetti giudici debbono essere messi in condizione di conoscere i motivi
che hanno portato al dissenso. Ecco perché deve essere motivato e giustificato alla luce dei criteri.

INTRODUZIONE E SVOLGIMENTO PROCEDURALE DEL PATTEGGIAMENTO.

Il patteggiamento è introdotto tramite richiesta presentata al giudice da una delle due parti principali del
processo. L’iniziativa compete sia al PM che all’imputato, purché la parte non richiedente presti poi il
proprio consenso. Richiesta e consenso sono formulati oralmente se presentati in udienza. Hanno forma
scritta negli altri casi.
Trattandosi di atti negoziali, coi quali le parti rinunciano a propri diritti e facoltà, ne è requisito
indispensabile la volontarietà. Quindi l’imputato o agisce personalmente o tramite difensore munito di
procura speciale. Per le persone giuridiche invece agisce il rappresentante legale, purché non abbia la veste
di imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, nel quale caso si dovrà procedere alla nomina
di un rappresentante ad hoc.
Un vizio della volontà renderebbe invalidi sia la richiesta sia il consenso e sarebbe motivo di
inammissibilità del rito speciale. Per questo verificare l’assenza di vizi a questo riguardo rientra fra i doveri
d’ufficio del giudice.

Il termine di presentazione è il corso dell’indagine preliminare o la successiva udienza preliminare, fino a


che le parti non abbiano concluso la relativa discussione.
Sono previsti altri termini per i procedimenti privi di udienza preliminare.
Nel procedimento monitorio, la richiesta va proposta dall’imputato contestualmente all’opposizione contro
il decreto di condanna. Negli altri procedimenti privi di tale fase, il termine ultimo cade sempre nella fase
predibattimentale (entro 15 giorni dalla notificazione del decreto di citazione, quando si procede con
giudizio immediato/ prima dell’apertura del dibattimento, nel giudizio direttissimo e in quello conseguente
a citazione diretta davanti al tribunale monocratico).

Una speciale rimessione in termini assiste l’imputato erroneamente processato come assente, purché in
grado di documentare l’incolpevole ignoranza del processo a suo carico. Il processo, persino se definito con
sentenza irrevocabile di condanna, regredisce alla fase introduttiva del giudizio e all’imputato è
riconosciuto il diritto di chiedere il patteggiamento in limine al dibattimento. Una sorta di rimessione è
anche ammessa a fronte di una contestazione del fatto diverso, del reato concorrente o di una circostanza
aggravante, quando all’imputato non possa essere rimproverata l’omessa, tempestiva richiesta di
patteggiamento in ordine alle nuove imputazioni.

Non è precisato quale debba essere il contenuto della richiesta ma si ricava che deve almeno indicare il
fatto da giudicare, la relativa qualificazione giuridica e la pena ritenuta congrua. L’imputato può inoltre
legare il patteggiamento alla possibilità di usufruire della sospensione condizionale della pena,
subordinando l’efficacia della prima alla concessione della seconda.
Assume contenuto particolare la richiesta presentata dal PM durante l’indagine preliminare. Qui,
l’introduzione del rito coincide con l’esercizio dell’azione penale, sicché la richiesta o il consenso
provenienti dall’organo requirente debbono necessariamente contenere l’atto di imputazione. Quindi, il
PM deve astenersi dal presentare richiesta di patteggiamento o prestare il proprio consenso se l’indagine è
incompleta e quando l’esito investigativo appaia insufficiente per sostenere l’accusa in giudizio. Qui, il
consenso dell’imputato rileva essenzialmente come atto di volontà. Esso è privo di valore probatorio, quindi
è inidoneo a colmare eventuali incompletezze investigative.

La richiesta di patteggiamento è revocabile o modificabile dal proponente, almeno fino a quando


intervenga il consenso dell’altra parte. Si prevede un caso di irrevocabilità, per l’ipotesi in cui la richiesta sia
presentata durante l’indagine preliminare e il giudice abbia assegnato un termine all’altra parte per
esprimere il proprio consenso. In tale circostanza, la legge vieta alla parte instante di revocare o modificare
la richiesta, finché quel termine è in corso. Negli altri casi, invece, la revoca può avvenire o il contenuto può
essere modificato.

L’intesa che le parti raggiungono sulla pena da applicare obbliga il giudice a decidere sull’ammissibilità del
rito speciale. Per questo, il giudice deve svolgere varie verifiche alla stregua dei seguenti criteri:
l’insussistenza di cause di non punibilità, appurare l’esistenza dell’accordo tra le parti e l’effettiva volontà
delle stesse di chiudere in anticipo il processo, accertare che non vi siano esclusioni oggettive e soggettive.
Infine, controlla la corretta qualificazione giuridica data al fatto dalle parti e la congruità della pena dalle
stesse proposta.
Se concluso con esito positivo, il vaglio impone una soluzione di merito conforme all’accordo intervenuto
fra le parti. Cioè il giudice sarà obbligato ad applicare la pena esattamente nella specie e nella misura
quantificata nell’accordo, non una pena diversa, nemmeno se questa fosse inferiore a quella prospettata
nell’accordo fra le parti.
Qualora, il giudice non condivida il progetto di sentenza prospettato dalle parti, deve rigettare la richiesta
di patteggiamento, determinando così la prosecuzione del procedimento lungo il normale itinerario verso il
dibattimento. Ma ciò non preclude nuove richieste di fronte al medesimo giudice, finché è aperto il termine
per la loro presentazione. Anche la inammissibilità dichiarata dal giudice primo destinatario della domanda
di patteggiamento, è esposta, sia pur per una sola volta, al successivo sindacato di altro giudice, quando
l’imputato ne faccia espressa richiesta. Precisamente al giudice del dibattimento se la richiesta è rigettata
dal giudice dell’indagine preliminare. Al sindacato del giudice di appello se è stata presentata e rigettata da
quello dibattimentale. Infine, al giudice di cassazione nei casi di citazione diretta e direttissima aventi ad
oggetto reati che non ammettono l’appello.

Caso particolare di inammissibilità è il dissenso che il PM oppone alla richiesta dell’imputato. Tale
disaccordo deve essere motivato per permettere al giudice di merito una indipendenza decisionale dinanzi
all’atto negativo sul pubblico accusatore. Indipendenza compromessa se quel dissenso ostacolasse la
soluzione di merito prefigurata nella richiesta dell’imputato. L’imputato ha facoltà di reiterare la richiesta
davanti al giudice dibattimentale o a quello dell’impugnazione, se questo vuole contestare il dissenso del
PM o se non condivide la declaratoria di inammissibilità del giudice primo destinatario della domanda di
patteggiamento.

L’applicazione di pena concordata non esige un accertamento positivo della responsabilità penale. la
SENTENZA contiene un semplice accertamento negativo della non punibilità, risolvendosi nella constatata
insussistenza delle cause di proscioglimento.

L’insufficienza o contraddittorietà di prove non sarebbero di ostacolo ad una applicazione della pena su
richiesta delle parti, poiché il giudice sarebbe tenuto a prosciogliere solo se risultasse provata una delle
cause indicata all’art 219 c.p.p. o se in atti non vi fosse alcune prova di colpevolezza. Cioè, la situazione di
incertezza non gioca a favore dell’imputato come accadrebbe nel dibattimento o giudizio abbreviato.
Pertanto, si deve riconoscere che fra la sentenza di condanna emessa al termine del dibattimento e quella
che applica la pena richiesta dalle parti già nell’indagine o udienza preliminare sussiste uno scarto evidente.
Poiché diversa è la regola di giudizio d’applicare e diversa è anche l’estensione dell’accertamento condotto
dal giudice e dalle parti sulla questione di fatto.

È in questa diversità la radice della questione sulla natura della sentenza che applica la pena richiesta dalle
parti. Il problema viene affrontato dalla legge che equipara tale sentenza ad una pronuncia di condanna
(art 145). La disposizione in questione ravvisa nella sentenza di patteggiamento una condanna penale, tutte
le volte in cui certi effetti sono collegati ad una sentenza condannatoria. Come l’esecuzione della pena,
iscrizione nel casellario giudiziale o effetti pregiudiziali nel procedimento cautelare personale. In certi casi
però determinati effetti sono connessi alla condanna in ragione dell’accertamento di responsabilità che la
sentenza racchiude e documenta. Essa quindi non può spiegare effetti se non contiene tale accertamento.
A volte è la stessa legge ad escludere che la sentenza in questione vada considerata come decisione di
condanna. Così è stabilito che la sentenza in questione non può applicare pene accessorie, nemmeno
quando questo sono collegate ex lege alla condanna per determinati reati. E che è inidonea a sortire effetti
vincolanti in sede civile risarcitoria, oltreché in sede amministrativa o in sede civile extra-risarcitoria. Unica
eccezione è nel procedimento disciplinare, in cui si impone all’autorità disciplinare di considerare accertata
la responsabilità penale di colui che patteggia. Talvolta, poi, la legge ribadisce la regola generale che mette
sullo stesso piano la comune sentenza di condanna e quella di patteggiamento, anche in situazioni in cui
rileva l’effettiva responsabilità del condannato, pur considerata come indice di pericolosità. Una
dimostrazione è nella normativa speciale antimafia dove lo status di condannato tramite patteggiamento è
spesso equiparato a quello di condannato con sentenza dibattimentale.
La giurisprudenza era giunta anche a negare la natura condannatoria delle sentenze di patteggiamento ai
fini del giudizio di revisione. Regola giurisprudenziale che è stata poi ribaltata ammettendo alla revisione
anche le sentenze di patteggiamento.

Il dubbio sulla natura di tale particolare sentenza è affiorato di nuovo nell’applicazione di quella variegata
serie di previsioni normative che allo status di condannato associano automaticamente alcuni effetti.

IL GIUDIZIO CAP 7
LE IMPUGNAZIONI CAP 8

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