Sei sulla pagina 1di 110

Linee

147
Comitato scienti co
PIERRE DALLA VIGNA
(Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como)
ANTONIO DE SIMONE
(Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”)
JOSÉ LUIS VILLACAÑAS BERLANGA
(Universidad Complutense de Madrid)
MAURO PROTTI
(Università del Salento)
RAFFAELE FEDERICI
(Università di Perugia)
Carlo Formenti

Ombre rosse
Saggi sull’ultimo Lukács e altre eresie
Meltemi editore
www.meltemieditore.it
redazione@meltemieditore.it
Collana: Linee, n. 147
© 2022 – MELTEMI PRESS SRL
Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 – 20124 Milano
Sede operativa: via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 22471892 / 22472232
Due parole a mo’ di premessa

Un paio d’anni fa, nell’estate del 2019, usciva un volumetto dal titolo
Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare1. Si
trattava della registrazione di una conversazione fra chi scrive e Onofrio
Romano, il cui obiettivo era discutere in quale misura il marxismo possa
ancora ispirare un progetto politico capace di proiettarci oltre questo
presente sempre più intollerabile. Ci proponevamo, in primo luogo, di
capire di quali limiti e contraddizioni del discorso marxista sia opportuno
sbarazzarsi, per restituirgli il suo potenziale rivoluzionario. Fin dalle prime
righe della Prefazione, chiarivamo che non intendevamo proporre
l’ennesima operazione di reintegrazione della originaria “purezza” e
“autenticità” della teoria marxista, liberandola dalle incrostazioni con cui
un secolo e mezzo di revisionismi, fraintendimenti e distorsioni più o
meno intenzionali l’avevano deturpata. Non volevamo cioè contrapporre
il “vero” Marx ai suoi epigoni; scrivevamo in proposito:
Il punto di vista adottato dagli autori di questo libro è diverso: partendo dal presupposto che
l’originario corpus teorico marxiano – accanto a straordinari elementi di attualità sia sul piano
teorico che su quello politico – contiene tesi datate, incomplete e contraddittorie, assume che
non lo si possa contrapporre né separare dai tentativi storici di calarlo nella realtà. Pensiamo che
sia più utile cercare di capire quali concetti – presenti tanto in Marx quanto nelle varie tradizioni
marxiste, anche se con diverse sfumature – vadano archiviati, in quanto non servono più alla
trasformazione rivoluzionaria dell’esistente o rischiano addirittura di contribuire alla sua
conservazione (p. 5).

Nelle pagine immediatamente successive, elencavamo alcuni dei fattori


di criticità che ci proponevamo di affrontare nella nostra conversazione.
In particolare, affermavamo la necessità di: 1) problematizzare la visione
ottimista secondo cui, una volta superata l’estraneità del lavoratore al
prodotto del proprio lavoro attraverso il processo di riappropriazione dei
mezzi di produzione, si passerà automaticamente dal regno della necessità
al regno della libertà; 2) criticare l’ideologia progressista che accomuna
certe parti delle opere di Marx al culto liberale della missione
“civilizzatrice” della società capitalista; 3) superare la concezione
economicista che associa la ne del capitalismo a presunte “leggi”
immanenti al modo di produzione, ribadendo che, in assenza di un
consapevole progetto rivoluzionario, il capitalismo, come qualcuno ha
scritto ironicamente, “ha i secoli contati”; 4) prendere distanza dall’idea
che la scienza e la tecnica in quanto tali – a prescindere dal loro ruolo
nella determinazione dei rapporti di forza fra le classi sociali – siano
fattori necessariamente progressivi, nonché dall’idea che lo sviluppo delle
forze produttive sia fattore necessario e suf ciente per la transizione al
socialismo; 5) abbandonare sia la visione evoluzionista del processo
storico, sia le sue rappresentazioni provvidenziali, escatologiche; 6)
superare la mistica del Soggetto rivoluzionario come entità sostanziale,
prede nita, da rimpiazzare con la consapevolezza della necessità di
costruire politicamente tale soggetto.
La ricezione della nostra provocazione è stata meno vivace di quanto ci
aspettassimo, forse perché molti amici, avendo già ragionato su questi
argomenti, condividevano, in tutto o in parte, le nostre ri essioni; più
probabilmente, temo, perché l’interesse nei confronti della teoria marxista
è oggi – almeno qui in Occidente – ai minimi storici; o peggio ancora
perché la critica del marxismo viene data per scontata ed è ispirata da
intenti liquidatori, più che dalla volontà di rivitalizzarlo.
Ciò detto, è stata per me una sorpresa scoprire che molte delle tesi da
noi sostenute erano state formulate diversi anni prima da un autore che, a
causa del feroce ostracismo di cui è stato fatto oggetto da parte degli
intellettuali “di sinistra”, non avevo avuto modo di leggere e apprezzare.
Mi riferisco a Costanzo Preve, che non ho avuto occasione di conoscere se
non attraverso contatti indiretti (l’unico rapporto che ho avuto con lui è
stato nelle vesti di caporedattore del mensile “Alfabeta”, quando Preve –
erano gli anni Ottanta – ci venne proposto come collaboratore da
Francesco Leonetti). Dopo averne letto alcuni libri, suggeritimi dal suo
allievo Alessandro Monchietto, in uno dei miei ultimi lavori2 gli ho
dedicato un paragrafo nel quale osservo come il contributo di questo
autore controverso e geniale alla teoria marxista sia stato oggetto di una
rimozione radicale, se non di un vero e proprio linciaggio, sia per le sue
critiche feroci a una sinistra in via di autodissoluzione (formulate in tempi
in cui ciò era considerato intollerabile), sia perché la scomunica di cui fu
vittima a causa di tale “colpa” contribuì a esacerbarne il carattere,
innescando certi suoi atteggiamenti provocatori che negli ultimi anni di
vita gli costarono un isolamento pressoché totale.
Nel Capitolo primo di questo volume spiegherò perché ritengo che un
suo testo del 19843 anticipi alcuni dei temi fondamentali del mio dialogo
con Onofrio Romano. Al tempo stesso, cercherò di evidenziarne alcuni
limiti e contraddizioni che ne depotenziano in parte l’apporto
(parzialmente superati in un testo successivo, che sta per essere
ripubblicato con una mia prefazione4). Ma soprattutto l’analisi delle sue
tesi servirà da introduzione ai due capitoli successivi, dedicati ad
altrettanti capolavori del marxismo novecentesco: Il principio speranza di
Ernst Bloch5 e L’ontologia dell’essere sociale di György Lukács6. La
decisione di ingaggiare un corpo a corpo con questi due giganti è scaturita
dal fatto che nell’opera del primo ho rintracciato molti dei miti che io e
Onofrio Romano criticavamo nel nostro dialogo, mentre in quella del
secondo ho trovato la formulazione più completa e convincente della
direzione che ritengo si debba seguire per proiettare il marxismo oltre i
suoi limiti storici. Una prima versione di tutti e tre i capitoli è apparsa
sulle pagine del mio blog7.
Lecce, agosto 2021
C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare,
DeriveApprodi, Roma 2019.
Cfr. C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo!, Meltemi, Milano 2019, pp. 86-90.
C. Preve, La loso a imperfetta. Proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco
Angeli, Milano 1984.
Cfr. C. Preve, Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale, in uscita nel settembre 2021 per
i tipi di Inschibbolleth.
E. Bloch, Il principio speranza, 3 voll., Mimesis, Milano-Udine 2019.
G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., PGRECO, Milano 2012.
socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/
Capitolo primo
Sulla loso a imperfetta di Costanzo Preve

1.1. I tre regimi narrativi del marxismo


La loso a imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo
contemporaneo si articola in cinque parti dedicate, rispettivamente, 1) ai
tre “discorsi” che, secondo Preve, sostanziano il corpus teorico marxiano;
2) ad alcune correnti marxiste del Novecento; 3) al pensiero di Heidegger,
indicato come la vetta più elevata del pensiero borghese novecentesco; 4)
al concetto di utopia concreta di Ernst Bloch; 5) all’ontologia dell’essere
sociale di György Lukács. Qui mi concentrerò esclusivamente sui primi
due e sul quinto, in quanto la discussione sulla loso a di Heidegger è
irrilevante rispetto ai temi che mi propongo di affrontare e, quanto a
Bloch, il mio giudizio su questo autore è diverso da quello di Preve, per
cui preferisco argomentarlo in prima persona, piuttosto che passare da un
confronto con il testo di Preve. I tre discorsi oggetto della prima parte
sono, nell’ordine, il discorso grande-narrativo, il discorso deterministico-
naturalistico e il discorso ontologico-sociale.
La de nizione più secca di discorso grande-narrativo che troviamo nel
testo di Preve è la seguente: “Meta sica immanentistica di un Soggetto
che marcia cantando verso l’utopia sintetica di una società integralmente
trasparente” (p. 11). Per meglio chiarire il senso di alcuni dei termini
appena evocati (soggetto con la maiuscola, utopia sintetica, società
trasparente) aggiungo quest’altro passaggio:
La categoria di soggetto [così come si presenta nella cornice di questa narrazione, N.d.A.] è
titolare di un’essenza che pretende di contenere in sé, in modo immanente, una teleologia
necessaria, la quale funge da supporto teorico di una concezione del comunismo come utopia
sintetica, in cui pubblico e privato, individuale e collettivo, si fonderanno insieme (Ibidem).

Per sempli care: ciò che Preve pone qui alla nostra attenzione è il fatto
che Marx fa propria la tesi secondo cui il proletariato sarebbe “per sua
stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di
produzione capitalistico, nonché di protagonista di un rivolgimento
sociale e politico in grado di generare un mondo in cui le contraddizioni
fra pubblico e privato, individuale e collettivo risulterebbero superate,
sanate. Una pretesa che lo stesso Marx (per tacere di Lenin) mette tuttavia
in questione, laddove pone la distinzione fra classe in sé e classe per sé,
aggiungendo che la conversione della prima nella seconda non è inscritta
in alcun dispositivo destinale.
Per il momento, mettiamo fra parentesi la questione del comunismo
come “società trasparente”, che verrà ripresa più avanti, e passiamo al
discorso deterministico-naturalistico, che appare intrecciato con quello
appena descritto nella misura in cui ne condivide la tendenza a una sorta
di “antropomor zzazione della storia”, nel senso che, alla narrazione
dell’esistenza di un soggetto collettivo capace di imprimere una precisa
direzione al processo storico, associa l’ipotesi che tale processo sia
animato da una “necessità immanente”. Il fondamento di questa visione,
argomenta Preve, è il concetto di necessità elaborato dalla scienza
ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un
nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità
di anticiparne e prevederne gli esiti processuali. Ma anche in Marx,
sostiene Preve, esistono tracce di una mentalità scienti co-idealistica in
ragione della quale la moderna produzione capitalistica assume il volto di
una entità cosalmente impersonale. In ciò si avverte l’in uenza del
concetto di storia naturale, che fa sì che le legalità di tipo naturalistico
vengano estese sotto forma di speci ci vincoli necessitanti a quella sezione
della natura chiamata società. Dire che il comunismo è lo sbocco
inevitabile, “scienti camente” prevedibile, della natura dinamica della
moderna produzione capitalistica, argomenta Preve, “non è diverso dal
dire che il comunismo è il passaggio dalla preistoria alla storia attuato dal
proletariato rivoluzionario” (p. 38). Se la teoria marxiana si potesse
ridurre a queste due narrazioni, che contengono i quattro miti del
soggetto, dell’origine, della ne e della trasparenza, avrebbero ragione i
suoi più so sticati detrattori borghesi, come Max Weber e Martin
Heidegger. Senonché, scrive Preve, la teoria marxiana non può essere
contenuta in questa cornice mitico-messianica; non solo: gli elementi in
questione sono secondari rispetto al lone fondamentale del pensiero di
Marx che essendo, viceversa, di tipo ontologico-sociale, esclude a priori
qualsiasi automatismo teleologico inscritto nella storia.
Prima di approfondire quest’ultima asserzione, passiamo alla seconda
parte del libro, nella quale l’autore prende avvio dal seguente
interrogativo: visto che i marxismi dopo Marx si sono quasi sempre
ispirati alle due narrazioni appena descritte, piuttosto che all’ontologia
sociale, è possibile liquidarli a partire da una interpretazione autentica
dell’opera del maestro? La risposta, chiarisce subito Preve, non può che
essere negativa, perché cento anni di interpretazioni sbarrano la strada del
viaggio verso il contatto originale e autentico con Marx8. Inoltre occorre
tenere presente che i “fraintendimenti” del testo marxiano operati da suoi
esegeti non sono frutto di “errori concettuali”, bensì “immagini del
mondo” che rispecchiano precisi vincoli storici. “L’incorporazione del
marxismo autentico in una formazione ideologica è una forma di esistenza
necessaria del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste
soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione
economico sociale”, scrive Preve, per poi aggiungere – sulle tracce
dell’ontologia lukacsiana – che l’ideologia non è riducibile al concetto di
“falsa coscienza”, ma è “lo strumento sociale con cui gli uomini
combattono in conformità ai propri interessi i con itti che nascono dal
contraddittorio sviluppo economico” (p. 211). Lo spazio ideologico è un
sistema di regni combattenti né è prevedibile che scompaia in una totalità
paci cata. Sull’ultima affermazione occorrerà tornare perché, come
vedremo, è in contraddizione con altre affermazioni dello stesso Preve.
Per ora possiamo accontentarci del concetto secondo cui le varianti (i
“fraintendimenti”) del marxismo vanno interpretate come espressione di
differenti insiemi di interessi con ittuali, storicamente determinati.
Nel libro che stiamo qui discutendo, Preve analizza, in particolare, due
di tali varianti. La prima è il marxismo della Seconda Internazionale, che
ha avuto il suo massimo esponente in Kautsky. Costui, scrive Preve, non
era un “rinnegato”. Al contrario, la sua era una versione “ortodossa”
dell’ideologia marxista, non nel senso (del tutto impossibile, come sopra
argomentato) della perfetta coincidenza con il pensiero di Marx, bensì nel
senso di un punto di vista che incarnava la visione delle magni che sorti e
progressive del proletariato industriale tedesco fra ne Ottocento e primo
Novecento, una “immagine del mondo” che rispecchiava una speci ca
composizione di classe e l’ascesa politica della socialdemocrazia che la
rappresentava. La visione kautskyana del capitalismo, argomenta Preve,
era incorporata nel discorso deterministico-naturalistico (evoluzione
automatica di un organismo complesso destinato al “crollo”), mentre
quella del proletariato era incorporata nel discorso grande-narrativo
(crescita cumulativa della coscienza politica di un soggetto associata alla
crescita della grande industria moderna). Per questo gli era alieno il
concetto leniniano di “anello debole”, che – come Gramsci riconobbe9 –
era la vera “eresia”.
La seconda variante è quella dell’operaismo italiano. Pur rendendo
omaggio alle analisi dei “Quaderni Rossi” (e di Raniero Panzieri in
particolare) sull’evoluzione dell’organizzazione capitalistica del lavoro e
della composizione di classe nelle grandi imprese italiane degli anni
Sessanta, Preve nota come da quell’analisi si sia fatto derivare un concetto
di composizione di classe che veniva eletto a “unica forma di
manifestazione concretamente empirica della classe operaia stessa” (p.
89). In altre parole, nella narrazione operaista, la composizione
astrattizzata dell’operaio massa diveniva sinonimo della classe in quanto
tale (e addirittura della classe in sé, nella misura in cui veniva tolta la
stessa distinzione marxiana fra classe in sé e classe per sé10), con il risultato
che questo racconto è entrato in crisi non appena è entrata in crisi la
concreta composizione di classe su cui si basava. Preve scriveva nell’84,
quindi non ha fatto in tempo a valutare le successive metamorfosi
concettuali (dall’operaio sociale ai lavoratori della conoscenza) che il post
operaismo ha escogitato per adattare una realtà radicalmente mutata al
paradigma originario, ha tuttavia fatto in tempo a cogliere due tendenze
teoriche speci che della corrente “negriana” del post operaismo, a partire
dalle quali, da un lato, si vaneggia sul “divenire comunista” del
capitalismo, nella misura in cui il comunismo viene ridotto all’orizzonte
“del consumo di beni e servizi privi ormai del ‘valore’ (lavoro) fruito da
un unico soggetto collettivo […] questi beni e servizi sono prodotti da
macchine automatiche mentre il soggetto fruitore è af dato alla
automaticità macchinica postmoderna di ussi desideranti” (p. 91)11;
dall’altro lato, la lotta di classe viene presentata come scontro fra potere e
potenza, il primo identi cato con “il comando capitalistico, che cerca di
reimporre l’infamia del lavoro produttivo […] quando ormai non
rimarrebbe che consumare gratis i prodotti senza valore della macchine”,
la seconda consistente “nella forza vitale meta sicamente promanante dai
nuovi soggetti sociali (giovani, donne ecc.)” (pp. 91-92).
Torniamo alle tre narrazioni del marxismo indenti cate da Preve. Come
si è visto, Preve liquida le prime due – quella grande narrativa e quella
deterministico-naturalistica – indicando piuttosto nel discorso ontologico-
sociale l’asse portante del contributo che Marx ha dato alla speranza
d’una possibile liberazione dell’umanità dal giogo del modo di produzione
capitalistico. Il discorso ontologico-sociale, secondo Preve, è de nibile
così: “La proposizione ontologico-sociale è fondata sull’esistenza di una
sola scienza, la storia, caratterizzata da processualità e speci cità” (p. 42).
E ancora: “Nel momento in cui Marx fa della produzione e riproduzione
della vita umana il problema centrale, compare la doppia determinazione
di una insopprimibile base naturale e di una ininterrotta trasformazione
sociale di questa” (Ibidem). Il materialismo storico non è ricerca di
presunte leggi deterministiche, perché la conoscenza tipicizzata del
passato, cioè la ricostruzione dei nessi causali che ne hanno determinato lo
sviluppo, può avvenire solo post festum. Nessuna necessità immanente,
nessuna teleologia sono all’opera nel processo storico, perché teleologia e
causalità sono compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del
lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire nalistico dell’uomo e, al
tempo stesso, costituisce quella prassi fondativa che innesca i processi
causali che trasformano natura e società. Preve trae dunque dall’ultimo
Lukács l’idea del lavoro come fondamento categoriale dell’ontologia
sociale, la quale non è loso a della storia “ma insieme di possibilità
ontologiche concrete e inscindibilmente collegate ai vari modi di
produzione”. Lukács esclude ogni forma di teleologia tanto nei processi
naturali che in quelli sociali: la storia non ha “il diavolo in corpo”, è
semplicemente il prodotto delle decisioni alternative che gli esseri umani
compiono per realizzare un ne determinato, e l’attività lavorativa è il
modello di questa prassi fatta di decisioni alternative ed è, di conseguenza,
il modello di ogni agire umano. La teleologia sta solo in queste decisioni
alternative, mentre la causalità nasce dal fatto che esse generano sequenze
causali necessarie “che a loro volta danno luogo a speci che soglie di
irreversibilità storica”. Né il soggetto delle decisioni è in grado di
controllare la “direzione” delle sequenze causali che mette in atto (per
questo le “leggi” del processo sono ricostruibili solo post festum). Le leggi
economiche infatti non sono altro che “la sommatoria impersonalizzata
delle alternative individuali” (gli uomini “non sanno ciò che fanno ma lo
fanno”, ripete Lukács ossessivamente sulle tracce di Marx).
Per riassumere e sempli care quanto appena esposto: per Lukács, e per
Preve che ne adotta il punto di vista: 1) il lavoro, in quanto attività umana
volta a modi care la natura al ne di realizzare un prodotto che esiste già
come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è il modello di
ogni processo teleologico, o meglio è l’unica via attraverso cui il fattore
teleologico penetra nel mondo reale, visto che né la storia naturale né
quella umana incorporano una teleologia immanente; 2) il lavoro, inteso
non solo come ricambio organico uomo-natura, ma anche e soprattutto in
quanto somma di decisioni dirette a in uenzare la coscienza di altri
uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente”12, gli atti
lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che
producono effetti necessari e irreversibili, nonché imprevedibili da coloro
che le mettono in atto, ed è per questo che le “leggi” del processo storico
sono comprensibili solo post festum; 3) da 1) e 2) deriva che la realtà
sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo
causale naturalistico, bensì come un insieme di possibilità generate dal
combinato disposto delle decisioni umane e dalle catene causali da esse
generate; 4) queste possibilità non potranno mai essere realizzate senza
l’intervento della posizione teleologica umano sociale; il che signi ca: 5)
che la trasformazione rivoluzionaria del presente non è l’esito di
automatismi, “oggettivi”, ma può avvenire solo grazie alla conversione
della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole (il cui
esito non è necessario/prevedibile ma appartiene a sua volta all’ordine
della possibilità).
E tuttavia Preve non è del tutto coerente nella sua presa in carico della
lezione teorica dell’ultimo Lukács. Personalmente ritengo che ciò sia
attribuibile al fatto che, all’epoca in cui uscì il libro di cui stiamo
discutendo, il nostro era ancora politicamente impegnato – sia pure su
posizioni critiche – in una sinistra radicale che aveva ereditato dai
movimenti degli anni Settanta un atteggiamento di ri uto totale e
aprioristico dell’esperienza del socialismo reale. È probabilmente per
questo che Preve colloca Lukács di default nel campo di un “marxismo
occidentale” contrapposto a un “marxismo orientale”13 identi cato con il
Diamat staliniano. Non a caso, pur concedendo qualche limitato credito al
maoismo, Preve assimila la Cina postmaoista all’URSS in quanto Paese in
cui si sarebbe restaurato il capitalismo, allineandosi a un radicato
pregiudizio ideologico di carattere eurocentrico che può essere fatto
risalire agli stessi Marx ed Engels14. Tipica in tal senso, l’alzata di spalle
con cui liquida la suggestione teorica di un’autrice come Rita di Leo15, la
quale ha avuto il merito di affrontare la s da del socialismo reale tentando
di analizzare come funziona concretamente un modello di società
caratterizzato dalla dominanza del fattore politico sul fattore economico.
Questo atteggiamento gli ha impedito di tenere conto del fatto che
Lukács, pur esplicitamente critico nei confronti dello stalinismo, non
aveva mai abbandonato la speranza nella possibilità di riformare i sistemi
a socialismo reale (per cui è presumibile che avrebbe accolto con estremo
interesse l’esperimento della Cina postmaoista). E probabilmente lo ha
anche indotto a interpretare in una chiave universalista, tipica della
loso a occidentale, due temi come l’ideologia giuridica e la questione
della estraniazione, che Lukács affronta in modo assai più problematico.
Parto dalla questione del diritto. Preve prende le mosse dalla
constatazione che, per Lukács, “la riproduzione sociale è un complesso di
complessi relativamente autonomi (linguaggio, economica, diritto,
sessualità, guerra, arte ecc.) che mutano nel tempo e muta anche la
collocazione di ognuno di essi nella gerarchia riproduttiva dell’insieme
sociale” (p. 200). Da qui discende il fatto che nessuno di tali complessi
può essere inquadrato in una gerarchia ssa che attribuisce all’economia il
ruolo di struttura e a tutti gli altri quello di ideologie sovrastrutturali. Ciò
vale, ovviamente, anche per il diritto. Preve sfrutta questo passaggio per
forzare una presunta valorizzazione lukacsiana del “potenziale
emancipativo contenuto nella formalità e nell’astrattezza del diritto
borghese” (p. 205). Ora, ciò è in palese contraddizione con la critica
radicale che Lukács rivolge alla visione astratta della storia come
progresso verso livelli sempre più elevati di civiltà. Del resto è lo stesso
Preve a riconoscere che anche Marx dif da di quei discorsi di tipo etico
nei quali identi ca una variante della concezione giuridica della società,
concezione che ri uta nella misura in cui è convinto che il superamento
dello sfruttamento non deriva da una presunta “giustizia socialista”, bensì
dal superamento della stessa forma giuridica in quanto consustanziale alla
forma economica (per Marx il diritto è per de nizione diritto borghese e
non “diritto umano”). Eppure Preve prende ugualmente le distanze da
Marx e, più in generale, da quello che de nisce il “disprezzo dei diritti
umani tipico delle legislazioni del socialismo reale”.
Posto che questa suona come una concessione alle suggestioni
eurocomuniste di quegli anni, mi pare di poter affermare che in nessun
passaggio dell’Ontologia di Lukács è possibile trovare qualcosa che
giusti chi tale presa di distanza, tanto che Preve va a cercarla in quella
parte nale dell’Ontologia in cui Lukács affronta i temi della estraniazione
e della transizione al socialismo. L’estraniazione, argomenta Preve, è
generata dal fatto che mentre lo sviluppo delle forze produttive
presuppone lo sviluppo delle capacità umane, quest’ultimo “non produce
obbligatoriamente lo sviluppo della personalità umana” (p. 217).
Dopodiché il nostro si avviluppa in una serie di contraddizioni che
complicano ulteriormente il già complesso intreccio di piste che lo stesso
Lukács percorre faticosamente (vedi Capitolo terzo). Cosa si intende per
sviluppo della personalità umana? Posto che Preve afferma che
“l’universalizzazione è possibile solo sulla base del capitalismo”; posto che
l’universalizzazione viene concepita come effetto collaterale
dell’astrattizzazione e che “la possibilità del rapporto non estraniato fra
individualità particolare e genere umano è ontologicamente consentita
dallo stesso progetto di astrattizzazione causato dal rapporto capitalistico
di produzione” (p. 205); posto che [a proposito di diritti umani, N.d.A.]
“il comunismo è al di là e non al di qua della soglia ontologica irreversibile
prodotta dal diritto borghese formale e astratto” (Ibidem); posto che il
comunismo è visto anche come momento “della lotta della personalità
individuale per la conquista della genericità in sé”; posto tutto ciò, è
evidente che siamo qui pericolosamente vicini a regredire ai miti del
discorso grande-narrativo che Preve ci invita ad abbandonare nella prima
parte del suo lavoro. È pur vero che il nostro cerca di salvare capra e
cavoli aggrappandosi al concetto di possibilità (il capitalismo rende
possibile, non necessario, il passaggio a un rapporto non estraniato fra
particolarità e generalità, lo sviluppo delle forze produttive rende
possibile, non necessario, lo sviluppo della personalità umana ecc.), ma
ciò non basta a dissipare il sospetto che si riaffacci qui la visione di un
processo lineare e irresistibile verso il paradiso del comunismo realizzato
come regno di una personalità umana universale e paci cata, cioè verso la
ne della storia. Un felice approdo che sarebbe reso possibile dal usso
principale della storia (borghese e occidentale), e non dalle deviazioni del
“barbarico” comunismo orientale. Ironicamente questa visione coincide
con l’avvio di un processo di marcescenza del comunismo occidentale, il
quale, di lì a poco, sarebbe stato pienamente reintegrato nel regime
neoliberale. Per capire se e in quale misura tale catastrofe abbia
contribuito a modi care l’atteggiamento di Preve faremo ora un salto di
25 anni, no a un testo del 2009.

1.2. 25 anni dopo. Un passo avanti, due passi indietro


Nei 25 anni che separano La loso a imperfetta da L’atteso ritorno del
nemico principale è successo di tutto: la caduta dell’Unione Sovietica, lo
scioglimento del PCI e la sua trasformazione in partito liberale, la
degenerazione della sinistra radicale convertitasi nei “nuovi movimenti”,
votati esclusivamente alla rivendicazione di diritti civili e individuali, il
tragico arretramento dei rapporti di forza delle classi subalterne
occidentali, travolte dai processi di globalizzazione e nanziarizzazione
dell’economia e dal tradimento delle loro organizzazioni tradizionali;
l’ascesa della Cina socialista, sempre più in grado di contendere agli Stati
Uniti l’egemonia mondiale. Come ha cambiato tutto ciò l’immagine del
mondo di Preve? Non ne ha fortunatamente provocato la conversione
all’ideologia mainstream della sinistra liberale; al contrario, ha suscitato il
suo odio nei confronti di questa sinistra, no a ripudiare il signi cato
stesso di tale parola, al punto da indurlo ad assumere provocatoriamente
certe suggestioni della Nuova Destra, nella misura in cui rilanciano
concetti e parole d’ordine già patrimonio delle sinistre rivoluzionarie,
come nel caso di questa citazione del losofo francese Alain de Benoist:
“Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più
potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico,
il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano loso co, la
borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano
geopolitico”. Perché citare de Benoist? Una scomposta reazione dettata
dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase
di decomposizione; o semplicemente perché quelle affermazioni appaiono
condivisibili, a prescindere dal campo ideologico da cui provengono?
Sciogliere questo dubbio mi sembra secondario rispetto al fatto che gli
inquisitori si sono concentrati sulla fonte della citazione, ignorandone il
contenuto; si sono cioè precipitati a disquisire sul dito, ignorando la luna
che il dito indicava. Molti altri “eretici” – come Jean-Claude Michéa,
Hosea Jaffe e Domenico Losurdo – sono stati messi all’indice, ma solo
Preve è stato sottoposto a un vero e proprio linciaggio, rimuovendo il suo
contributo alla comprensione dell’epoca di passaggio che il mondo vive in
questo inizio di secolo. Ma veniamo al modo in cui Preve sviluppa la
suggestione di de Benoist.
Nel de nire il nemico principale sul piano economico, Preve sostituisce
il termine modo di produzione capitalistico al termine capitalismo, in
quanto il primo consente di calare la determinazione del concetto astratto
di capitalismo nella pluralità delle società capitalistiche concrete, ma
soprattutto preferisce usare il termine società di mercato, in quanto
economia di mercato è de nizione troppo generica, poiché lo scambio
mercantile convive con formazioni sociali precapitalistiche (ma anche con
formazioni sociali postcapitalistiche, anche se, come vedremo più avanti,
Preve non condivide tale affermazione). Il modo di produzione
capitalistico è una società di mercato nel senso che, diversamente da tutte
le formazioni sociali che l’hanno preceduta, fa dello scambio mercantile il
fattore coattivo di tutti i rapporti sociali16. Una centralità ossessiva che,
con l’avvento della globalizzazione neoliberale, attinge livelli tali da
caratterizzarla, scrive Preve, come “nemico globale e complessivo del
Genere Umano in quanto tale”.
Passiamo al nemico principale in politica, cioè quel liberalismo che,
argomenta Preve, rappresenta, con la società capitalistica di mercato, uno
dei due volti inscindibili di un’unica forma oligarchica di dominio. Preve
compie qui due mosse: la prima, destinata ad aggravare la sua posizione di
fronte al tribunale delle sinistre, consiste nel prendere le distanze da chi
insiste nell’indicare quale nemico assoluto il Fascismo (maiuscolo) benché
questo regime appaia irreversibilmente tramontato. L’antifascismo senza
fascismi è il sintomo del fatto che il liberalismo – di destra, centro e
sinistra –, nella misura in cui dispone esclusivamente della ricchezza
privata quale unico criterio di riconoscimento sociale, necessita di “una
serie di ideologie di legittimazione etica integrativa”, la principale delle
quali è l’esaltazione degli “immortali valori dell’antifascismo”. La seconda
mossa chiama invece in causa tre diverse critiche radicali
dell’individualismo liberale: la prima appartiene a Michéa, il quale rilancia
il detto di Marx secondo cui l’uguaglianza formale e astratta nisce
inevitabilmente per accrescere le disuguaglianze reali; la seconda è quella
di Castoriadis, il quale riconosce nel liberalismo le stigmate del disincanto
come valore, del narcisismo come pro lo antropologico e del nichilismo
come nuova meta sica di fondazione; la terza rievoca un detto di Mo Ti
(antico losofo cinese) che recita: “In una società in cui ognuno considera
di fatto valido il proprio criterio di giudizio e disapprova quello degli altri,
la conseguenza è che i più forti si ri uteranno di aiutare i più bisognosi, e i
più ricchi si ri uteranno di dividere le loro ricchezze”.
In ne, nel de nire il nemico principale sul piano sociale, la borghesia, il
discorso di Preve si fa più originale, nella misura in cui si discosta dal
concetto marxiano di borghesia come insieme dei proprietari privati dei
mezzi di produzione. In primo luogo perché mette in luce come oggi il
processo di produzione capitalistico possa essere messo in moto da
soggetti non-borghesi, tanto che il termine più corretto da adottare
sarebbe oligarchie capitalistiche. Inoltre, e qui il ragionamento si fa più
sottile, perché la borghesia “classica” era portatrice di una “coscienza
infelice” che induceva le sue menti più brillanti a rinnegare il proprio
ruolo storico. Coscienza infelice di cui attualmente non rimane traccia
alcuna, se non nella patetica gura di quelle “anime belle” che
“trasformano l’impotenza in supremo valore morale”.
Quanto ai motivi per cui Preve concorda con de Benoist nell’indicare
negli Stati Uniti il nemico principale in geopolitica, cito qui di seguito le
sue motivazioni:
E siccome questa superpotenza, oggi, è anche il supremo garante strategico-militare del
capitalismo (1), della società di mercato (2), del liberalismo politico (3), della teologia
interventistica dei diritti umani (4), della nuova religione olocaustica del complesso di colpa
interminabile dell’umanità (5), della sottomissione dell’Europa costretta alla cosiddetta
“posizione del missionario” (6), della proliferazione di basi militari atomiche in tutto il mondo
(7), del modello culturale televisivo del rimbecillimento antropologico universale (8), della
secolarizzazione del presunto mandato messianico assegnato da Dio a una nazione protestante
eletta (9), più altre determinazioni che qui non riporto per brevità, ne consegue che non il
popolo americano, non la nazione americana, ma soltanto la superpotenza geopolitica imperiale
americana è il nemico principale.

Esaurito il ragionamento sul concetto di nemico principale, vengo a tre


argomenti trattati in questo secondo libro che mi paiono i più interessanti:
1) gli spunti critici nei confronti di certi aspetti del pensiero di Marx (che
riprendono temi trattati nel libro analizzato in precedenza); 2) il problema
della dif coltà di tradurre l’identità di classe in azione politica; 3) il
giudizio storico sul socialismo reale.
Uno. Preve ri uta l’idea del comunismo come ne della storia, intesa
come ne del con itto sociale, e quindi come ne della politica. La
transizione a un mondo in cui ciascuno dà secondo le sue capacità e riceve
secondo i suoi bisogni, che Marx associa a una visione irenica che dipinge
un futuro in cui la politica dovrebbe dissolversi in amministrazione della
cose, piace molto alla sinistra postmoderna e “antipolitica” dei giorni
nostri, ma fa venire i brividi a Preve, il quale non crede in una utopistica
ricomposizione di tutti i con itti fra interessi collettivi (e qui c’è un chiaro
passo avanti rispetto ai discorsi sulla possibile realizzazione futura di una
“personalità umana universale e paci cata” che abbiamo letto sopra).
Preve ri uta inoltre la separazione fra storia del pensiero politico e storia
del pensiero economico moderni: il modo di produzione capitalistico,
scrive, coincide in tutto e per tutto con ciò che chiamiamo modernità, per
cui il tentativo di salvare il contenuto emancipativo della modernità,
quali candola come “il solo aspetto culturale speci co della legittimazione
simbolica del modo di produzione capitalistico” può avere quale unico
risultato l’esaltazione di “quella divinità idolatrica chiamata Progresso”.
Com’è noto, Marx non era esente dalla fascinazione del Progresso, come
si vede nelle pagine in cui esalta il carattere “progressivo” dei rapporti
capitalistici nella misura in cui soppiantano i precedenti rapporti
schiavistici e feudali. Commenta Preve in proposito:
Personalmente, non sono un ammiratore incondizionato di questo aspetto borghese-
progressivo del pensiero di Marx, e anzi lo considero uno dei punti più deboli e datati del suo
pensiero. Ma non è questo il problema. Il fatto è che Marx non ha chiarito bene quale sia il
criterio che permette di stabilire quando questa funzione progressiva cessa, e quando
comincerebbe invece la funzione regressiva. Per essere più precisi, Marx ha bensì fornito un
criterio di giudizio, ma l’ha fornito errato, individuandolo nel momento storico dell’insorgenza
dell’incapacità di sviluppare ulteriormente le forze produttive, con conseguente stagnazione,
parassitismo eccetera. Insomma, il capitalismo diventerebbe “reazionario” soltanto quando non
è più in grado di sviluppare le forze produttive e i capitalisti da imprenditori creativi diventano
percettori oziosi di rendite, tipo i signori feudali. Ora, mi sembra chiaro che questo volenteroso
criterio è del tutto errato. Il capitalismo continua a produrre imprenditori di valore e a
sviluppare in modo vertiginoso le forze produttive. E allora non può essere questo il criterio
giusto. Il criterio deve tornare a essere pienamente loso co, e cioè “umanistico”, e deve essere
individuato nel modello di illimitatezza della produzione capitalistica complessiva e
nell’imbarbarimento sociale e antropologico delle forme di vita capitalistiche.

E qui il passo avanti maturato nel quarto di secolo che separa le due
opere appare decisivo, nel senso che Preve si è sbarazzato delle illusioni in
merito al potenziale emancipatorio del capitalismo che ancora nutriva nel
precedente lavoro
Due. In merito alla possibilità di tradurre in azione politica l’identità di
classe, Preve è più vicino a Lenin che a Marx. Già nel libro precedente
aveva ammesso che “a tutt’oggi non possediamo una teoria dello Stato e
del partito che abbia veramente superato Lenin”, per cui resta valido il
giudizio leniniano in merito alla incapacità delle classi subalterne, serrate
nella morsa di un sapere “limitato alla particolarità e prossimità diretta”,
di comprendere i meccanismi della riproduzione politica, economica e
geopolitica della società in generale. Il guaio è, argomenta Preve, che la
borghesia (che oggi veste i panni delle nuove oligarchie capitalistiche) “è
una signora classe, assai più coesa e abile del volonteroso e confuso
proletariato”. E a confonderlo ancora di più contribuiscono quegli
intellettuali “di sinistra” che si impegnano a descrivere il secolo delle
rivoluzioni proletarie come un museo degli orrori17, che demonizzano il
Novecento quasi volessero “prevenire la malaugurata ipotesi che le classi
subalterne ci possano riprovare”.
Tre. Preve non si limita a difendere il Novecento dall’accusa di essere
stato il secolo degli orrori: difende anche l’esperienza del comunismo
novecentesco dalle denigrazioni che gli arrivano dagli esponenti del
settarismo di sinistra, il che è senz’altro una novità rispetto al ripudio
totale che ٢٥ anni prima aveva manifestato nei confronti del socialismo
reale, e che ora sostiene invece che andrebbe rivendicato “come un
esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico,
anche se ovviamente deformata da rapine burocratiche di vario tipo”.
Tuttavia questo cambiamento di prospettiva non si spinge no a mettere
in discussione l’affermazione dogmatica secondo cui questo gigantesco
esperimento di ingegneria sociale sarebbe fallito, ancora prima di
concludersi, “con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato
attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche”.
Ammesso che ciò sia vero, è inspiegabile la rigidità con cui Preve liquida
anche la rivoluzione cinese, ri utandosi di prendere atto del fatto che, in
questo caso, l’esperimento ha prodotto – invece del disastro russo – la
straordinaria ascesa della Cina al rango di grande potenza mondiale, in
grado di confrontarsi da pari a pari con il “nemico principale”
statunitense. Preve arriva addirittura a liquidare il regime postmaoista con
la sprezzante de nizione di “capitalismo confuciano”.
Dietro questa banale sempli cazione si nasconde certamente un chiaro
de cit di conoscenza economica, sociale e politica da parte di un losofo
che ignora – o sottovaluta – le argomentazioni di quegli autori che
descrivono la Cina come un sistema socialista con presenza di mercato e
con con itti di classe che potrebbero condurlo sia verso una restaurazione
capitalistica, sia verso una più avanzata forma di socialismo. Giovanni
Arrighi18, fra gli altri, sottolinea come il permanere del controllo statale sui
settori produttivi strategici e sulle banche, di uno sviluppato sistema di
servizi pubblici, e di una politica estera dif cilmente de nibile come
imperialistica, inducono a prendere atto del fatto che, nché il potere
politico mantiene il controllo sull’economia, si può aggiungere mercato a
volontà senza che il sistema possa essere de nito capitalista. Se a ciò si
aggiunge lo straordinario risultato di avere ridotto il numero dei cittadini
in condizioni di povertà da più di ottocento a quattrodici milioni, di avere
mantenuto i livelli di occupazione nel momento in cui la crisi li aggrediva
duramente nei paesi capitalisti occidentali, e di avere pilotato l’economia
del Paese da un modello mercantilista fondato sui bassi salari a un
modello autocentrato, grazie a un aumento consistente e generalizzato
delle retribuzioni, è evidente che il “miracolo” cinese, più che a una
conversione del Partito-Stato ai princìpi e ai valori del liberismo, è da
attribuirsi al permanere di consistenti elementi di socialismo.
Ma non è solo questione di ignoranza e disinformazione. La radice di
questi due passi indietro, dopo il passo avanti descritto nelle pagine
precedenti, è da identi care, a mio parere, nel nodo loso co che
avevamo evidenziato discutendo le tesi della Filoso a imperfetta, e che un
quarto di secolo più tardi rimane irrisolto. Il fatto è che Preve non capisce
che, così come riconosce che il modo di produzione capitalista – in
quanto astratta categoria idealtipica – esiste solo attraverso una pluralità
di formazioni sociali concrete, lo stesso vale per il rapporto fra il modello
ideale di socialismo e la realtà delle diverse, concrete società socialiste in
cui tale modello si è storicamente incarnato. Ciò gli è impedito dal fatto
che rimane legato a categorie loso che “universali”, al punto che
nemmeno la frequentazione dell’ontologia sociale lukacsiana basata sul
lavoro è bastata a riportarlo con i piedi per terra. Preve non riesce a
digerire il “socialismo in stile cinese” perché non riesce ad afferrare la
speci cità storico-geogra ca di un immenso Paese con millenni di storia
alle spalle, che ha sviluppato un grandioso esperimento sociale in
coerenza con la concezione del tempo che ha ereditato dalle sue tradizioni
culturali, e che ha elaborato un concetto di transizione socialista
concepito come un processo secolare, caratterizzato da avanzate e ritirate,
vittorie e scon tte. Non ci riesce perché resta ancorato a una visione del
mondo sostanzialmente eurocentrica, tipica di quel marxismo occidentale
del quale, pur odiandolo, non ha saputo/potuto sbarazzarsi del tutto.
Qui il punto di vista di Preve coincide del tutto con quello del sottoscritto e di Onofrio Romano,
citato all’inizio della premessa.
Mi riferisco alla nota frase di Gramsci secondo cui i bolscevichi avevano fatto una rivoluzione
“contro il Capitale”, nel senso che la loro impresa aveva sovvertito l’idea marxiana, condivisa
dall’ortodosso Kautsky, secondo cui la rivoluzione avrebbe potuto svolgersi solo nei punti alti dello
sviluppo capitalistico.
A formulare tale tesi fu Mario Tronti in Operai e capitale (Einaudi, Torino 1966). In una recente
intervista, il losofo si è lamentato del fatto che pur avendo rinnegato quella tesi non molto dopo la
pubblicazione del libro, la sua immagine è rimasta per sempre legata a quell’opera “giovanile”.
Più che su Marx, del quale valorizza quasi esclusivamente il “Frammento sulle macchine” dei
Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze
1970), la retorica post operaista si fonda sulle teorie di autori come Michel Foucault e Gilles
Deleuze.
È il caso di notare che questa formulazione somiglia non poco alla de nizione di potere nelle
opere di Max Weber.
Per il confronto fra marxismo occidentale e marxismo orientale, vedi le opere di Domenico
Losurdo. Cfr. in particolare, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere,
Laterza, Roma-Bari 2017.
Sull’eurocentrismo di Marx ed Engels ho ragionato in un post apparso sul mio blog (vedi nota 7
della nota introduttiva), a partire dall’antologia di loro scritti India, Cina, Russia, a cura di Bruno
Maf , il Saggiatore, Milano 1960.
Per una versione aggiornata delle ri essioni della di Leo sul tema in questione cfr. la trilogia:
L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse, Roma 2012; Cento anni
dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, Ediesse, Roma 2017 e L’età della moneta. I suoi uomini, il
suo spazio, il suo tempo, il Mulino, Bologna 2018.
Un ragionamento che sembra fare eco alle tesi di C. Polanyi ne La grande trasformazione
(Einaudi, Torino 1974), se non fosse che Preve non sembra apprezzare questo autore.
Cfr., fra gli altri, M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001.
Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2008.
Capitolo secondo
Una visione cristologica del comunismo.
Su Il principio speranza di Ernst Bloch

2.1. Sogno, desiderio, speranza. Un’ontologia del non ancora


Come anticipato nel Capitolo primo, e come meglio vedremo nel
Capitolo terzo, Lukács colloca il lavoro al centro della sua Ontologia,
ponendolo come modello di ogni prassi sociale e de nendolo “l’unico
punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre
teleologico come momento reale della realtà materiale”. Nel primo
volume del Principio speranza, Ernst Bloch sembra incamminarsi nella
stessa direzione. Cita il passaggio del primo libro del Capitale in cui Marx
afferma che a distinguere il peggior architetto dalla miglior ape è il fatto
che nella mente del primo il risultato dell’opera è già presente prima della
sua esecuzione, commentando che “l’animale si riferisce allo scopo nei
modi delle sue successive brame, l’uomo invece oltre a ciò se lo raf gura”
(vol. I, p. 56). Indica nel lavoro il modello di quelle attività nalistiche che
plasmano la realtà in quanto storia del soddisfacimento dei bisogni umani.
Tuttavia, mentre svolge tali ri essioni, dissemina segnali di una
inclinazione a spingersi al di là della rigorosa impostazione materialistica
di Lukács: se costui ribadisce a più riprese che il distanziamento dalla
barriera naturale, per quanto possa ampliarsi, non la eliminerà mai del
tutto, in Bloch emerge invece la tentazione di affermare la possibilità che
il processo si possa spingere oltre ogni limite. Così quando scrive, per
esempio, che l’uomo “si trova sempre davanti a limiti che non sono limiti,
percependoli [corsivo mio] infatti egli li oltrepassa”. Nell’identi cazione
fra la percezione del limite e il suo superamento af ora una vena idealista
che proverò ora a mettere a nudo, a partire dal modo in cui Bloch discute
della triade sogno, desiderio, speranza.
Il ragionamento parte dall’affermazione che la vita di noi tutti è
attraversata da sogni a occhi aperti (vol. I, p. 5), cui segue, poche pagine
dopo, quella secondo cui “il contrasto fra sogno e realtà non è affatto
dannoso se chi sogna crede davvero [corsivo mio] al suo sogno” (vol. I, p.
14). Fin da subito, quindi, la categoria della fede entra a far parte della
rappresentazione blochiana del futuro come ambito dell’emancipazione
umana. Tornando ai sogni a occhi aperti: Bloch sostiene che la loro origine
affonda sempre in una mancanza che si vorrebbe eliminare, infatti “sono
tutti quanti sogni di una vita migliore” (vol. I p. 91). Dire che all’origine
del sogno sta una mancanza, un vuoto di essere, equivale ad affermare che
la causa del sogno – e al tempo stesso il motore della speranza di colmare
il vuoto in questione – è il desiderio. Poco sopra avevamo visto Bloch
affermare il primato ontologico del lavoro, dell’attività nalistica che si
presenta come un voler fare (come la fonte primaria, secondo la lezione di
Lukács, di ogni progredire – non necessariamente nel senso del progresso
in quanto valore ideologico – del processo storico), ma poi lo stesso Bloch
corregge parzialmente tale punto di vista: se da un lato ammette che “nel
desiderare non c’è ancora niente del lavoro o dell’attività”, subito dopo
aggiunge che “non c’è però un volere che non sia preceduto da un
desiderare” (vol. I, p. 57). Il desiderio dunque non è solo la fonte dei
sogni a occhi aperti, ma innesca anche la speranza che vi si associa,
assieme alla fede nella possibilità che essa divenga realtà. Bloch classi ca
la speranza nella categoria degli “affetti di attesa” (accanto a paura, timore
e fede), contrapponendola agli “affetti pieni” in ragione del suo carattere
anticipatorio (vol. I, p. 89). Nel sistema blochiano la speranza viene così di
fatto a occupare un ruolo primario, ontologico – paragonabile se non
superiore a quello del lavoro – in quanto fondamento di ogni prassi
umana. Non a caso Bloch la de nisce “il più umano di tutti i moti
dell’animo e accessibile solo agli uomini” (vol. I, p. 90). In altre parole: la
loso a di Bloch si discosta dalla loso a lukacsiana a mano a mano che
fuoriesce dalla cornice della marxiana loso a della prassi, collocando
l’aspettativa-fede nei confronti del futuro al centro del proprio pensare:
“La loso a avrà coscienza del domani, prenderà partito per il futuro,
saprà della speranza o non saprà più nulla” (vol. I, p. 10). In ne il cerchio
si chiude riportando l’attenzione sul ruolo del sogno a occhi aperti:
“L’interesse rivoluzionario, con la conoscenza di quanto cattivo sia il
mondo, con la conoscenza di quanto potrebbe essere buono se fosse
diverso, ha bisogno del sogno da desto del miglioramento del mondo”
(vol. I, p. 113).
A questo punto, vale la pena di approfondire il signi cato della triade
sogno-desiderio-speranza a partire dalla critica blochiana della teoria
psicoanalitica. Bloch analizza il pensiero di Freud (cui dedica la maggiore
attenzione, riconoscendone i meriti), Jung (che liquida con particolare
acrimonia, accusandolo di criptonazismo) e Adler (al quale attribuisce
minore importanza), ai quali imputa lo stesso errore di prospettiva:
l’inconscio della psicoanalisi non è mai un elemento di progressioni ma
consiste piuttosto di regressioni: Freud e Jung “considerano l’inconscio
unicamente come un qualcosa di passato nello sviluppo storico, come
qualcosa di sprofondato in cantina e presente solo lì… conoscono soltanto
un inconscio rivolto all’indietro o al di sotto della coscienza già presente,
non conoscono il preconscio del nuovo” (vol. I, p. 77). La psicoanalisi,
argomenta Bloch, procede con la testa girata al contrario, si nega ogni
possibilità di guardare in avanti, di interrogare il futuro; pur avendo avuto
il merito di scoprire che un’ampia quota della nostra vita psichica è
sottratta alla coscienza, relega questo tesoro all’oscuro regno del passato.
In Jung questa colpa è particolarmente grave, nella misura in cui il passato
in questione è appiattito sulle immagini archetipiche inscritte in una
mente collettiva razzialmente connotata (da qui l’accusa di avere
contribuito alla costruzione dell’immaginario fascista). Viceversa il limite
di Freud, che si propone di portare razionalmente alla luce l’inconscio in
quanto frutto della rimozione, consiste in ciò che quello che viene fatto
sorgere da tale svelamento “è unicamente un giorno all’interno della vita
privata e del ‘disagio’ di una civiltà alla quale a quanto pare non manca
altro che una brezza psicoanalitica” (vol. I, p. 65). L’ironia contenuta nel
passaggio appena citato fa presagire che la critica si avvia ad assumere toni
sociali e politici: la psicoanalisi, argomenta infatti Bloch, è una pratica
rivolta ai singoli individui, che si propone di curare un disagio associato
esclusivamente alla libido, alle pulsioni sessuali e alla loro dif cile
convivenza con le regole della morale borghese: “Libido, nient’altro che
libido per tutto il tempo… e con la libido nient’altro che psicologismo,
senza ambiente sociale” (vol. I, p. 100). Non a caso non ci si occupa mai
della fame, e per quanto questa urli, non riceve mai un nome clinico,
perché, annota ironicamente Bloch, “pazienti e medici psicoanalisti
provengono da un ceto medio che poco aveva da preoccuparsi del suo
stomaco” (vol. I, p. 78).
Tutto questo vuol dire che il nostro si avvia a superare le tentazioni
idealistiche associate alle sue ri essioni sull’intreccio fra sogno, desiderio e
speranza, e a rientrare nell’ambito di una concezione rigorosamente
materialistica? Così parrebbe laddove liquida il paradigma freudiano con
queste parole: “È evidente che non c’è nessuna concezione erotica della
storia in luogo di quella economica, nessuna spiegazione del mondo in
base alla libido invece che in base all’economia e alle sue sovrastrutture”
(vol. I, p. 80). Tuttavia non è così. La critica della concezione
psicoanalitica dell’inconscio è propedeutica a un’identi cazione di
quest’ultimo con il preconscio, con il non ancora conscio; sogno, desiderio,
speranza tornano al centro dell’ontologia blochiana in quanto ontologia
del non ancora; l’inconscio così ride nito viene sottratto ai labirinti della
libido individuale (borghese) e restituito a una dimensione, al tempo
stesso, storica e collettiva (di classe): “Tutte le epoche di svolta sono
pertanto colme, e anche stracolme, di non ancora conscio; e se ne fa
portatrice una classe in ascesa” (vol. I, p. 141). In barba a questa
affermazione che strizza l’occhio alla lotta di classe, è dif cile non
avvertire qui una eco dei vituperati archetipi junghiani (ancorché
storicizzati e ideologizzati).
Dopo avere introdotto il dubbio che la promozione della speranza a
fondamento ontologico del possibile superamento del capitalismo rischi di
connotare in senso idealistico la loso a blochiana, passeremo ora a
esaminare, nell’ordine, il concetto di utopia concreta e la rappresentazione
blochiana del comunismo realizzato che, come vedremo, profetizza un
futuro che ha tutte le caratteristiche del paradiso in Terra.

2.2. Utopia concreta. Logica della tendenza e principio di immanenza


Non ho qui l’intenzione di riassumere la mostruosa erudizione di cui
Bloch fa sfoggio ripercorrendo la storia dell’utopia, dall’antica Grecia ai
vari Owen, Fourier e Proudhon, passando per Gioacchino da Fiore,
Thomas More e Campanella. Trattando dei socialisti premarxisti, Bloch
de nisce donchisciotteschi i loro sogni:
Don Chisciotte è il patrono dei social-idealisti onestamente astratti […] [che vogliono] guarire
o addirittura rovesciare con la morale ciò che è affrontabile solo con l’economia […] un’anima
pura senza residenza nei movimenti del mondo e senza conoscenza degli interessi meno puri che
muovono il mondo (vol. III, p. 1209).
In barba a tale critica, il nostro non rinuncia a esaltare il ruolo
rivoluzionario del sogno d’un futuro migliore, per cui retti ca
parzialmente il giudizio appena citato scrivendo, poche pagine dopo: il
fattore soggettivo, per non essere disfattista, deve sempre possedere un
elemento del donchisciottismo bene inteso (vol. III, p. 1217).
Per cogliere il signi cato di questo “donchisciottismo bene inteso”,
occorre spiegare a quale postura ideologica Bloch lo contrappone: il
bersaglio è quella “idolatria oggettivistica dell’obiettivamente possibile
che attende, facendo l’occhiolino, che le condizioni economiche siano
divenute completamente mature” (vol. II, p. 667). Questo attendismo, che
è l’esatto contrario del talento di Lenin nel cogliere il momento giusto per
sferrare il colpo mortale al nemico, irrita profondamente Bloch, il quale
disprezza questa volontà troppo soppesata, troppo contemplata “in cui la
volontà stessa nisce inevitabilmente per spegnersi, al punto che ‘persino
nell’azione rivoluzionaria e nella sua rabbia’ diventa una forma di
attendismo ‘gradita ai tiepidi’” (vol. III, p, 1092). Ma qual è, allora, il
giusto punto di equilibrio fra attendismo e donchisciottismo bene inteso?
Il nostro oscilla fra due riposte, la prima delle quali rischia di farlo
regredire all’idolatria oggettivistica che pure critica, mentre la seconda lo
proietta verso un donchisciottismo tutt’altro che bene inteso. La prima
riposta viene fatta discendere dal detto marxiano secondo cui l’umanità si
pone sempre e solo compiti che può risolvere: “Non tutte le conoscenze e
opere sono possibili in tutti i tempi, la storia ha una sua tabella di marcia
[corsivo mio], spesso le opere che trascendono il loro tempo non sono
nemmeno concepibili, meno che mai eseguibili” (vol. I, p. 153). Posto che
questa rischia di suonare come una tautologia, e messa da parte l’allusione
alla tabella di marcia della storia (su cui torneremo a breve), veniamo alla
seconda risposta: “Tutto ciò che è reale trapassa, nel suo fronte
processuale, nel possibile, e possibile è tutto ciò che in primo luogo è
parzialmente condizionato, in quanto non ancora determinato in maniera
compiuta o conclusa” (vol. I, p. 231). Si oscilla insomma fra obiettivismo e
soggettivismo puro. Un soggettivismo che si aggrappa alla categoria del
possibile che è centrale nell’ontologia lukacsiana (vedi Capitolo terzo), con
la differenza che, mentre Lukács la gioca in opposizione alla visione
determinista/immanentista fondata sulla categoria di necessità storica, in
Bloch apre la strada proprio a questa soluzione immanentista, nella misura
in cui la mediazione fra possibilità (oggettiva) e volontà (soggettiva) viene
af data al concetto di tendenza.
La tendenza, che è dialettica nel suo decorso, scrive Bloch, è “insita nella
storia” e la speranza è “giusta”, in tanto e in quanto “mediata secondo la
tendenza storica”. E la storia (vedi sopra) “ha una tabella di marcia”,
viaggia cioè verso un esito necessario che è inscritto – immanente! – nel
processo del suo dispiegarsi. L’utopia concreta è dunque un’utopia
anticipatrice che non si disperde nell’immaginario di un socialismo
astratto, meramente fantasticato, ma sarebbe piuttosto “una funzione
trascendente senza trascendenza”. Ma questa paradossale unità dei
contrari ha poco da spartire con l’hegeliana (e marxiana) negazione della
negazione, nella misura in cui scade a mera giustapposizione verbale dal
momento che, alla ne dell’argomentazione blochiana, ciò che resta è una
funzione puramente immanente, per cui, in assenza di ogni mediazione, la
“pura” immanenza si rovescia in trascendenza (e addirittura, come
vedremo più avanti, in vera e propria rivelazione religiosa). L’utopia
concreta è un “futuro illuminato dal materialismo storico, nel e a partire
dal passato, come nel e a partire dal presente, a partire quindi dalle
tendenze che operano e continuano a operare” (vol. II, p. 715). Tutto è già
contenuto nel grembo della storia, insomma, che qui non è scienza nel
senso lukacsiano di processo mosso da catene causali conoscibili solo post
festum, ma assume la natura di dispiegamento/realizzazione di un ne
inscritto nella tendenza che, scrive Bloch, “sarebbe impensabile senza tale
relazione di nalità” (vol. II, p. 994). Due esempi di questa concezione
della tendenza come “tensione di ciò che è maturo e impedito”, annuncio
della liberazione di forme e contenuti “che si sono già sviluppati nel
grembo della società presente” (vol. II, p. 717) si riferiscono,
rispettivamente, al progresso tecnico – “l’apparato delle macchine con
tutta la sua arti cialità, già in questa società si presenta come un elemento
di un’altra società”19 (vol. II, p. 1041) – e all’idea secondo cui la
rivoluzione borghese conterrebbe in potenza quell’emancipazione umana
che toccherà alla rivoluzione socialista portare a compimento: “Il citoyen
che Marx fu il primo a distinguere da l’homme era pensato come membro
di una polis non egoistica e perciò ancora immaginaria, e, per quanto in
modo generico e spento, anticipa l’immagine guida del compagno” (vol.
III, pp. 1083-1084)20.
A discolpa di Bloch occorre riconoscere che questa sua visione non è
priva di agganci nell’opera di Marx, nella quale, come sottolineato da
Costanzo Preve (vedi Capitolo primo), sono presenti tre distinti regimi
discorsivi: il discorso grande-narrativo, il discorso deterministico-
naturalistico e il discorso ontologico-sociale. In particolare, le
argomentazioni di Bloch appena esaminate in merito al concetto di
tendenza ricadono pienamente sotto il regime deterministico-naturalistico,
rinviano cioè a quel concetto di necessità, elaborato dalla scienza
ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un
nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità
di anticiparne e prevederne gli esiti processuali. Anche in Marx esistono
tracce dell’in uenza di un concetto di storia naturale che fa sì che le
legalità di tipo naturalistico vengano estese sotto forma di speci ci vincoli
necessitanti a quella sezione della natura chiamata società. Senonché gli
elementi in questione sono secondari rispetto al lone ontologico-sociale
del pensiero marxiano, che esclude la presenza di automatismi di carattere
teleologico nel processo storico. Se invece si resta ingabbiati nel regime
deterministico-naturalistico, l’esito, come vedremo nel prossimo
paragrafo, è l’approdo a una visione profetico-messianica, se non
esplicitamente teologica, del processo rivoluzionario.

2.3. Il comunismo come paradiso in Terra


Pur non ignorando la reticenza di Marx a descrivere – se non a grandi
linee – le caratteristiche del socialismo, per tacere di quelle del
comunismo realizzato, e pur ammettendo che lo stesso Marx non ha mai
dipinto alcun paradiso in Terra (vol. II, p. 714), Bloch non si è al contrario
risparmiato nel descrivere con toni enfatici le meraviglie della futura
società socialista (enfasi che cozza con il fatto che buona parte della sua
vita si è svolta nel contesto del socialismo reale, che lui stesso ha nito per
ripudiare). Il primo gradino di questa ascesa verso un futuro ideale
coincide con l’affermazione che si tratterà d’un mondo caratterizzato da
una comunità “assolutamente non antagonistica”, di “un unico
movimento in avanti nel mondo trasformabile e implicante felicità” (vol. I,
p. 337). A coronamento della vittoriosa lotta di classe proletaria brilla “la
pace lontana, la lontana occasione di essere solidali con tutti gli uomini,
amici di tutti” (vol. I, p. 43), E ancora, con immagine poetica (e in palese
con itto con la concezione dialettica della storia e accenti più vicini a
Fukuyama21 che a Marx): “Da tutte le dissonanze del tempo s’innalza la
quiete cristallina, come quiete della ne della storia” (vol. II, p. 991). Un
futuro di abbondanza, pace, amore universale e felicità, non dissimile
dalla terra “dove uiscono realmente e simbolicamente latte e miele” (vol.
III, p. 1514) che tutte le religioni superiori22 eleggono a loro meta; meta
che, secondo Bloch, sarebbe esattamente la stessa di quella ambita
dall’ateismo pieno di contenuto, con la sola differenza dell’assenza di Dio
(anche se, come vedremo fra breve, la dimensione del divino è tutt’altro
che assente nella sua narrazione).
Il secondo gradino di questa scala miracolosa, consiste nel rivendicare la
convergenza fra anarchici e marxisti sul terreno della profezia
dell’estinzione dello Stato (vol. II, p. 660). La collettività socialista potrà
infatti sbarazzarsi di questa ingombrante istituzione politica – il cui ruolo
consiste nel mediare i con itti fra gli interessi di tutte le classi sociali –
nella misura in cui la collettività non si opporrà più agli individui ma
promanerà da essi, non appena questi non saranno più divisi in classi dagli
interessi contrapposti. Anche qui è dif cile capire come Bloch, il quale,
nché non si è allontanato dal socialismo reale, ha difeso senza se e senza
ma l’esperienza dell’Unione Sovietica e degli altri Paesi del blocco
socialista, possa riproporre l’utopia marxiana nei suoi termini originari23
benché lo stesso Lenin – che pure l’aveva riproposta in Stato e
rivoluzione24 – ne avesse parzialmente preso distanza. Di più: l’insistenza
sul venir meno della contrapposizione fra comunità e individuo, che pure
può rivendicare una qualche pezza d’appoggio nella loso a marxiana
(soprattutto in quella del giovane Marx), assume qui una chiara venatura
liberale ove si consideri che, al di là di ogni discorso sull’emancipazione
individuale nella società socialista, nessun serio fondamento può essere
rivendicato, all’interno del discorso marxiano, che consenta di descrivere
la comunità a venire come “promanante” dagli individui che ne faranno
parte, ancorché non più divisi in classi. Ma Bloch insiste: nel socialismo
“l’individuo scompare talmente poco da liberarsi sul serio qui soltanto,
perché può diventare umano” (vol. III, p. 1123). Posto che nessun losofo
marxista ha mai teorizzato la scomparsa dell’individuo, né il suo
annullamento nella comunità, il punto è che, a un secolo e mezzo
dall’apparire del progetto di trasformazione socialista e dei molteplici
tentativi di metterlo in pratica, dovrebbe essere chiaro che il superamento
del con itto di classe (che resta una meta di là da venire, come
confermano le esperienze della Cina e altri Paesi socialisti) non implica
automaticamente il superamento di ogni tipo di con itto sociale, culturale
e politico, per cui lo Stato, in quanto luogo di sintesi e mediazione dei
con itti, non sembra destinato a estinguersi. Ma è soprattutto l’allusione a
quel “divenire umano dell’individuo”, dove è sottinteso che ci si riferisce a
un divenire autenticamente umano, in opposizione all’umanità alienata,
estraniata e dunque “inautentica”, dell’individuo borghese, che lascia
riaf orare l’elemento teologico che innerva l’utopia blochiana.
Il terzo gradino è la esplicita teologizzazionione della narrazione
utopistica. L’utopia socialista viene posta infatti da Bloch come il
momento culminante di un processo di secolarizzazione/umanizzazione
del messianesimo religioso (in particolare del messianesimo giudaico
cristiano). Una frase come la seguente: “L’ateismo è tanto poco il nemico
dell’utopia religiosa da formarne il presupposto: senza ateismo il
messianesimo non ha luogo” (vol. III, p. 1386), è da intendersi nel senso
che solo l’umanizzazione della gura divina, la sua estrinsecazione in un
essere di carne e sangue, consente di dar corso alla promessa messianica.
La trasposizione della promessa di un paradiso che si colloca nella
trascendenza, nell’aldilà, in quella di un paradiso in Terra, che si colloca
nella latenza di un possibile già presente da realizzarsi nella concretezza di
un futuro storico, è un processo che avviene per gradi. Il Dio di Mosè,
scrive Bloch, è un Dio della ne dei giorni che fa del futuro la struttura
dell’essere (vol. III, p. 1427); “l’impulso verso l’alto diventa da ultimo
impulso in avanti” (vol. III, p. 1476) e se i profeti greci, come Cassandra,
annunciavano un destino inesorabile, scritto negli astri, i profeti ebraici
rivelano al contrario che il destino può essere cambiato. La fede cristiana
va oltre perché, nella misura in cui vive della realtà storica del suo
fondatore, “essa è essenzialmente il seguire una vita, non un’immagine di
culto e la sua gnosi” (vol. III, p. 1454), la lieta novella consiste nel
“superamento dell’assoluta trascendenza di Dio attraverso la omousia,
l’eguaglianza di Cristo con Dio” (vol. III, p. 1461). Gioacchino da Fiore
completa in ne l’opera: la sua teoria dei tre stadi con na la teologia del
Padre in un passato di paura e servitù, “dissolve Cristo in una comune” e
strappa l’epoca della beatitudine al regno della trascendenza per
proiettarla in un futuro storico (vol. II, pp. 585-587).
Fin qui il ragionamento blochiano potrebbe essere accolto come un
esercizio – più letterario che storico – di retrodatazione dei contenuti della
moderna utopia sociale in un passato millenario. Una regressione, se si
vuole, dalla marxiana critica della religione all’ateismo antropologico
(ancora venato di idealismo) di un Feuerbach, per cui Dio appare come
“ipostatizzazione dell’essenza umana non ancora divenuta nella sua
realtà” (vol. III, p. 1489). Il discorso si fa più problematico allorché
l’annuncio messianico perde il carattere di futuro storico – ancorché
in occhettato di improbabili meraviglie – e sbanda pericolosamente verso
una teologia evoluzionista alla Teilhard de Chardin25 per cui l’umanità
diventa, come nelle visioni del teologo gesuita, il “cervello della Terra”,
“l’anima del mondo” (vol. III, p. 1334). Riaf orano addirittura immagini
gnostiche, laddove Bloch cita il mito che af da a un’umanità divinizzata il
compito di portare a termine “tutto ciò che egli [Dio] ha iniziato e lasciato
incompiuto” (vol. II, p. 992) o evoca la profezia secondo cui “nel settimo
giorno saremo noi stessi” (vol. II, p 990). Certamente Bloch intende
proporre una versione secolare, laica, di queste immagini mitiche, ma
nella misura in cui costruisce tale versione a partire da un’interpretazione
opinabile delle parole di Marx in merito a un futuro in cui si compiranno,
a un tempo, i processi convergenti di umanizzazione della natura e
naturalizzazione dell’uomo, rischia di attribuire al chiasmo in questione
un signi cato non meno profetico (e miracoloso) di quello che Teilhard de
Chardin attribuisce al suo “punto omega”. Così arriva a sostenere che il
materialismo dialettico “non conosce un ordine e una chiusura voluti dalla
natura” (vol. III, p. 1282), negando il principio secondo cui l’arretramento
della barriera naturale non può mai signi care la sua rimozione totale
(vedi Capitolo terzo). Così arriva persino a presupporre l’esistenza di uno
scopo immanente (ancorché sui generis) nella natura come rispondenza
allo scopo dell’agire umano, per cui “la parte esplicitamente soggettivo-
nale della natura [il mondo umano] sta e può stare in costante scambio
pratico con la parte soggettivo nale inespressa. Fino al divenire identiche
di entrambe” (vol. III, p. 1533). Una volta oltrepassato il con ne che
limita il regno della teleologia all’attività intenzionale umana, modellata
sul lavoro come ricambio organico uomo-natura, tutto diventa possibile,
anche l’abolizione della morte (sogno che viene adombrato in più
occasioni nei tre volumi del Principio speranza).

2.4. Il Bloch rivoluzionario oltre le tentazioni mistiche


Mi rendo conto che, da quanto nora argomentato, rischia di emergere
l’immagine di un Bloch losofo appiattito sul registro deterministico-
naturalistico del discorso marxiano, e di un Bloch ideologo ispirato da
valori mistico-religiosi, non lontano dall’ideologia peace & love delle
controculture nordamericane degli anni Sessanta. Fermarsi qui
signi cherebbe però non rendere giustizia alla gura del Bloch
rivoluzionario, saldamente radicato in una prospettiva anticapitalista. In
merito all’utopia sociale come trionfo dell’amore universale, ad esempio, il
nostro non perde di vista il fatto che il giudizio di Marx, nei confronti di
coloro che predicano il regno dell’amore, era che “quest’amore si perde in
frasi sentimentali da cui non viene eliminata nessuna situazione effettiva e
fattuale”, e che esso “in acchisce l’uomo con l’enorme pappa
sentimentale con cui lo ciba” (vol. I, p. 321). Per ribadire, un paio di
pagine dopo, che senza partigianeria nell’amore, “con un polo d’odio
altrettanto concreto”, non c’è amore autentico (tanto per ribadire che la
sinistra “buonista” d’oggidì, permanentemente mobilitata contro gli
“odiatori”, non trova sponda nel discorso blochiano); e che “senza la
parzialità del punto di vista rivoluzionario di classe c’è soltanto idealismo
all’indietro invece che prassi in avanti” (vol. I, p. 323).
Un altro equivoco può nascere dal fatto che, nell’esaltare la scienza e la
tecnologia come strumenti del doppio processo di umanizzazione della
natura e naturalizzazione dell’uomo, Bloch sembra perdere di vista il fatto
che il sapere tecnoscienti co non è affatto “neutrale”, privo di
connotazioni di classe, e quindi – come pensano oggi certi entusiasti “di
sinistra” della rivoluzione digitale26 – direttamente convertibile in moneta
sonante per gli obiettivi e i progetti della rivoluzione socialista. Ammesso
che il nostro non è del tutto esente da tale tentazione, occorre segnalare
che in altre occasioni si rivela capace di aggiustare il tiro, come laddove
scrive che “il giubilo per grandiosi progetti tecnologici non vale nulla se
non si pensa insieme alla classe e alla condizione di classe per cui tali
prodigi avvengono […], a progressi nel dominio della natura possono
corrispondere enormi regressi nella società” (vol. II, p. 803). In altre
parole: i “miracoli” della scienza e della tecnica che Bloch immagina
nell’utopistico mondo del futuro sono attribuiti a un sapere radicalmente
trasformato nei suoi metodi, nei suoi princìpi e nelle sue pratiche dalla
rivoluzione socialista, perché la tecnica borghese “sta in un rapporto
puramente commerciale, estraniato n dalle sue radici, con le forze
naturali con cui essa opera dall’esterno” (vol. II, p. 768). Da sottolineare
che Bloch è talmente consapevole di questa disfunzionalità della tecnica di
classe (borghese) a una trasformazione di segno progressivo del mondo
naturale, da mettere in luce, con un lampo di genialità, lo stretto rapporto
di af nità esistente fra catastro tecnologiche e crisi economiche (vol. II,
p. 800).
Vale in ne la pena di segnalare un altro passaggio che, a mio avviso,
contribuisce a riscattare – almeno in parte – certi svolazzi mistici su un
futuro paradisiaco in grado di realizzare le profezie religiose di trionfo
sulla morte: mi riferisco alle laicissime ri essioni che Bloch dedica, nel
terzo volume del Principio speranza, alla gura dell’eroe comunista. “Solo
una specie di uomini, leggiamo, se la cava sulla via verso la morte quasi
senza consolazione: l’eroe rosso” (vol. III, p. 1353). Il suo eroismo, che
nulla ha che fare con quello dei martiri cristiani o dei guerrieri islamici,
che si avviano all’olocausto in vista di un premio ultraterreno, consiste
nella disponibilità a sacri carsi “senza speranza di resurrezione”. Di più,
scrive Bloch, ci si sacri ca anche senza speranza che il proprio eroismo
venga celebrato e ricordato: “questo materialista muore come se tutta
l’eternità fosse sua […], la coscienza personale è talmente assunta nella
coscienza di classe che per la persona non resta nemmeno decisivo essere
ricordata o no sulla via verso la vittoria” (vol. III, p. 1354).
Esiste invece un tema sul quale l’atteggiamento di Bloch resta
costitutivamente ambiguo, se non francamente contraddittorio: mi
riferisco alla questione della libertà e dei diritti individuali. Non è che il
nostro non abbia le idee chiare sulla posizione marxiana in merito. In più
occasioni, infatti, ricorda come Marx, parlando di Proudhon, e più in
generale degli anarchici, abbia ribadito che “l’individuo in libertà non va
oltre la società di imprenditori privati” (vol. II, p. 655) e come, per
costoro “non è il capitale ma lo Stato a rappresentare il male principale”
(vol. II, p. 659) (un punto di vista condiviso oggi dalla stragrande
maggioranza dei militanti delle cosiddette sinistre “alternative” e radicali,
del tutto incapaci di cogliere la natura dello Stato come terreno di scontro
fra opposti interessi di classe piuttosto che come incarnazione del male
assoluto27). Purtuttavia Bloch non riesce a far proprio questo punto di
vista. Sulla questione dello Stato, come si è visto, resta fedele al dogma
dell’estinzione dello Stato e della sua riduzione “alla amministrazione
delle cose e alla direzione dei processi di produzione”, de nizione per cui
si rifà più direttamente a Engels che a Marx28, e costruendo la sua galleria
di utopie storiche, si mostra poco simpatetico nei confronti di quelle di
età barocca (come la Città del Sole di Campanella) che gli appaiono
autoritarie e burocratiche, in ragione della convergenza di interessi fra
borghesia e monarchia assoluta, fautrici di “un ordine senza classi ma
estremamente gerarchico”, nel quale “tutti i cittadini devono lavorare,
non esiste sfruttamento né pro tto, il benessere generale è il compito
supremo” (vol. II, p. 601).
Non so valutare se questa posizione contenga una critica, sia pure
indiretta, nei confronti dei regimi del socialismo reale. Quel che è certo è
che, quando parla di libertà e diritti dell’uomo, con particolare attenzione
alla tradizione giusnaturalista, non riesce a evitare di prendere distanza dal
punto di vista di Marx. Egli è certo consapevole della radicale ambiguità
del concetto di libertà, del “suo particolarmente grande mutamento di
funzione nel corso della storia”, nonché della necessità di “distinguere
l’elemento formale di questa relazione: libertà da o per qualcosa” (vol. II,
pp. 606-607). Così come è consapevole che il cosiddetto “diritto naturale”
è “chiaramente democratico-borghese, non solo per la sua difesa della
proprietà privata, ma soprattutto per la rivendicazione di universalità, di
validità generale per tutti dei princìpi giuridici” (vol. II, p. 614). Sa
benissimo che i diritti dell’uomo francesi (oggi perfezionati dalla
dichiarazione dei diritti universali dell’uomo del 1948) “sono il postulato e
la sovrastruttura giuridica di una borghesia ormai matura, della vittoria
del modo capitalistico-individuale contro corporazioni, società dei ceti,
mercato sottoposto a vincoli” (vol. II, p. 619). Tuttavia, così come insiste
nel vedere nel citoyen l’antesignano del compagno (vedi sopra), insiste
parimenti nel vedere nel giusnaturalismo (con particolare attenzione nei
confronti della lettura offertane da Rousseau) il merito di una democrazia
concepita come “una aristocrazia concessa a tutti”, aggiungendo che, se è
vero che è un’illusione, si tratta di “un’illusione eroica di un mondo senza
corruzione e oppressione, in cui vi è dignità umana” (vol. II, p. 620).
Forse avrebbe cambiato idea se avesse potuto vedere come questa
illusione abbia agito da fondamento di tutti i “cittadinismi” bene
intenzionati, convinti di poter sanare/rifondare la democrazia borghese
senza manomettere i meccanismi dello sfruttamento capitalistico, da
Giustizia e Libertà all’M5S, passando per i girotondi post Tangentopoli,
per restare in ambito italiano.
Ma se questi apologeti di un immaginario diritto universale, liberato dai
particolarismi dell’interesse di classe, possono trovare conforto in certi
aspetti della loso a blochiana, non altrettanto si può dire per i militanti
di quei movimenti post sessantottini che hanno abbandonato la lotta per i
diritti sociali per quella che Boltanski e Chiapello hanno de nito “critica
artistica”, riferendosi alla variegata galassia di movimenti portatori di
istanze antiautoritarie a partire da bisogni e interessi di speci ci gruppi
sociali29. Mi piace infatti concludere questa sintetica analisi critica del
capolavoro di Ernst Bloch rendendo omaggio alla straordinaria lucidità
anticipatrice con cui questo autore ha saputo criticare certe tendenze dei
movimenti giovanili e del femminismo. Nei programmi di questi gruppi
borghesi, scrive in un passaggio in cui sta parlando di giovani e donne (ma
che oggi potrebbe a buon diritto inglobare il movimento LGBT e relative
propaggini), “non campeggia la rivoluzione ma la secessione […], è
assente la volontà di ristrutturare l’intera società” (vol. II, p. 671). Nelle
stesse pagine ricorda inoltre che un presunto spirito “antiborghese” era
marchio distintivo dei giovani hitleriani e, sempre a proposito delle
smanie giovaniliste che esaltano il movimento per il movimento –
condivise dalle avanguardie artistiche di ieri e oggi, nonché dalle tesi dei
cosiddetti “accelerazionisti”30 – argomenta – in sintonia con il discorso di
Benjamin sul fatto che “tirare il freno a mano della storia” può essere un
radicale atto rivoluzionario31 – che “proprio l’amore di quiete può essere
più lontano dalla frenesia capitalistica che non una gioventù che scambi
l’ossessione con la vita” (vol. I, p. 50).
Quanto al femminismo, dopo avere acutamente rilevato che anche per
questa ideologia, al pari di quella giovanilista, vale l’osservazione che
l’oppressione familiare “venne tanto più avvertita quanto più essa
svaniva” (vol. II, p. 673), cogliendo il nesso dialettico fra processo di
individualizzazione, venir meno del ruolo delle strutture tradizionali nel
garantire la tenuta del legame sociale e nuove modalità di accumulazione
capitalistica, osserva che l’utopia femminista ottiene riconoscimento
sociale, non a caso, “solo quando il bisogno capitalistico di forze
produttive le diede via libera” (vol. II, p. 681). Mentre poche pagine
prima aveva scritto come il motore della rivolta va ricercato nel momento
storico in cui “un innegabile odio per il maschio prese forma: dall’odio
della persona oppressa e contemporaneamente dal riconoscimento
controvoglia, di qui l’invidia, la competizione e la volontà grottesca di
dimostrarsi la più forte” (vol. II, p. 678). Per concludere con il
riconoscimento che “la differenza fra i sessi si trova su un terreno diverso
da quello della differenza arti ciale prodotta dalla società di classe, quindi
non scompare con essa” (vol. II, p. 686). Riconoscimento che riscatta,
almeno in parte, quella sua visione della società socialista in quanto
paradiso in Terra in cui verrebbero meno tutti i con itti e le
contraddizioni sociali.
Uno dei passaggi dell’opera di Marx citati per sostenere questa visione è il celebre “Frammento
sulle macchine” contenuto nei Grundrisse. A ricorrervi più spesso sono, fra gli altri, i teorici
operaisti e post operaisti come Antonio Negri.
Questa affermazione di Bloch è tipica di una concezione diffusa in campo marxista, secondo la
quale il compito della rivoluzione proletaria consisterebbe nel portare a compimento ciò che la
rivoluzione borghese ha lasciato in sospeso.
Cfr. F. Fukuyama, La ne della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.
Parlando di religioni “superiori” Bloch manifesta il suo punto di vista squisitamente
eurocentrico. Infatti si riferisce alle religioni del Libro, i tre grandi monoteismi ebraico, cristiano e
musulmano (quest’ultimo su un gradino un po’ più basso). Altri culti, come il buddismo, il
confucianesimo, l’induismo ecc. hanno raggiunto per lui un grado di sviluppo “inferiore”.
Cfr. K. Marx, Critica al programma di Gotha. E testi sulla transizione democratica al socialismo,
Editori Riuniti, Roma 2021.
Cfr. V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, Edizioni clandestine, Massa 2017.
Sulla teologia evoluzionista di Teilhard de Chardin cfr., fra gli altri testi, L’energia umana tra
scienza e fede, Nuova Pratiche, Milano 1997.
Mi riferisco, in particolare, alle tesi di Antonio Negri e altri autori di scuola post operaista sulla
funzione obiettivamente rivoluzionaria della rivoluzione digitale (e sui lavoratori della conoscenza
come nuovo soggetto rivoluzionario). Ho polemizzato contro questa visione in Utopie letali, Jaka
Book, Milano 2013.
Per una critica all’antistatalismo delle sinistre radicali, vedi, fra gli altri, A.G. Linera, Democrazia,
Stato, Rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.
Sulla concezione engelsiana della transizione al socialismo cfr. V. Giacché, “Socialismo e ne
della produzione mercantile nell’Anti-Dühring di Friedrich Engels” in MarxVentuno, n. 1, gennaio-
febbraio 2021, pp. 105-125.
Cfr. L Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.
Cfr. A. Williams, N. Snricek, Manifesto accelerazionista, Laterza, Roma-Bari 2018.
Cfr. W. Benjamin, Tesi di loso a della storia, Mimesis, Milano-Udine 2012.
Capitolo terzo
Per una meta sica del possibile.
Sull’Ontologia dell’essere sociale di György Lukács

3.0. Nota introduttiva


L’ultima opera del più grande losofo marxista del Novecento (György
Lukács, 1885-1971) è di gran lunga la meno conosciuta. Alla Ontologia
dell’essere sociale Lukács iniziò a lavorare nel 1960, subito dopo avere
concluso la sua Estetica, ma l’opera non fu pubblicata che diversi anni
dopo la morte (in due volumi usciti, rispettivamente, nel 1984 e nel 1986).
L’edizione italiana (uscita assai più tardi, nel 2012, per i tipi di PGRECO) si
articola in quattro volumi, il primo dei quali contiene i Prolegomeni
all’ontologia dell’essere sociale che in realtà fu scritto per ultimo, per
sintetizzare e chiarire i concetti dell’opera principale (sia perché Lukács
non era soddisfatto della struttura espositiva che le aveva dato, sia per
replicare alle critiche e alle osservazioni che gli erano state fatte da alcuni
allievi). Il fatto che di Lukács continuino a essere più noti e studiati i
lavori “classici”, come Storia e coscienza di classe32 o La distruzione della
ragione33 è paradossale, visto che il Lukács dell’Ontologia, per sua stessa
ammissione, non condivideva praticamente nulla di quanto aveva scritto
decenni prima in Storia e coscienza di classe. Nondimeno ciò non è servito
a riformulare il giudizio sul suo contributo al pensiero sociale e politico. A
questa “rimozione” non ha contribuito solo il ritardo con cui l’Ontologia
ha iniziato a circolare – ritardo che ha fatto sì che la sua pubblicazione
abbia coinciso con un periodo storico caratterizzato da una catastro ca
crisi del marxismo – ma hanno in uito non poco anche le critiche
sfavorevoli che un gruppo di suoi allievi – fra cui Ágnes Heller, oggi nume
tutelare del pensiero liberale – fecero circolare sull’opera prima che
venisse pubblicata34.
Nella sua “Introduzione”, Nicolas Tertulian richiama l’attenzione su
alcuni dei temi principali affrontati dall’autore. In particolare, si concentra
sulla critica tanto di quelle interpretazioni del pensiero marxiano che
attribuiscono alla storia la natura di un processo teleologico governato da
una ferrea necessità immanente, per cui ogni fase di sviluppo
rappresenterebbe una tappa verso un esito predeterminato, quanto di
quelle che lo associano a una sorta di determinismo univoco dei fattori
economici (per citare i termini utilizzati da Costanzo Preve, potremmo
dire che critica tanto il discorso grande-narrativo quanto quello
deterministico-naturalistico). Contro questa visione, Lukács rivendica, da
un lato, la necessità di riconoscere il peso dei fattori casuali, dall’altro,
riformula il dispositivo della necessità storica in base alla formula “se…
allora”, con la quale intende signi care che, al cambiare di certe premesse,
che si possono dare in modo imprevisto e casuale, il corso dei fenomeni
storici può mutare, per cui la razionalità del loro esito non può essere
de nita a priori – in base a presunte “leggi” – ma solo post festum.
Questo punto di vista gli consente di rappresentare la società come un
“complesso di complessi”, dove ogni complesso (il diritto, la politica, la
religione, l’arte ecc.) mantiene una sua relativa autonomia, pur non
potendo sottrarsi mai del tutto alla sovradeterminazione da parte della
potenza “soverchiante” del complesso economico. I margini di libertà
dell’agire umano vengono così ride niti in base al detto marxiano (citato
molte volte nel testo dell’opera) secondo cui gli esseri umani “non sanno
di far ciò ma lo fanno”. Detto altrimenti: i processi sociali vengono messi
in atto dagli atti teleologici degli individui, ma la loro risultante nale ha
un carattere causale privo di connotazioni nalistiche, il risultato delle
azioni non è, cioè, mai coestensivo alle intenzioni.
Dal testo che segue il lettore non si aspetti dissertazioni accademico
lologiche, bensì un più modesto sforzo di “estrarre” da alcuni dei
passaggi che mi hanno più intrigato durante la lettura dei quattro volumi
dell’opera una serie di ri essioni relative alle grandi s de di fronte alle
quali ci pone la realtà contemporanea. Il capitolo è strutturato in cinque
sezioni tematiche: “Il lavoro come modello di ogni prassi sociale”; “Critica
del materialismo meccanicista”; “Se… allora. Storia e necessità”;
“Ideologia e lotta di classe”; “Libertà, utopia, socialismo”. Ogni sezione è
ulteriormente articolata in due parti: un compendio delle tesi lukacsiane
in merito al tema trattato – di fatto un collage di citazioni interconnesse –
e un commentario dei passaggi citati.

3.1. Il lavoro come modello di ogni prassi sociale


a) Compendio
I tentativi di depurare il pensiero di Marx dai suoi fondamenti loso co-
antropologici, per estrarne il presunto contenuto “scienti co” – ridotto
alla descrizione delle modalità di funzionamento del modo di produzione
capitalistico e dei meccanismi causali delle crisi economiche – sono del
tutto incompatibili con l’approccio di Lukács. Il contributo di Marx alla
comprensione del fenomeno sociale, sostiene Lukács, può essere
compreso solo se si capisce che, per lui, il lavoro è la categoria centrale in
cui tutte le altre determinazioni si presentano in nuce. E il lavoro di cui
parla Lukács non si identi ca con la forma storicamente determinata che
esso assume nella società capitalistica: è il lavoro utile, il lavoro come
formatore di valori d’uso che, scrive Marx citato da Lukács, “è una
condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della
società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il
ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini” (vol. II, p.
265).
Per Marx, sostiene Lukács, il lavoro non è una delle tante forme
fenomeniche della teleologia (cioè dell’agire nalistico in generale), “ma
l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero
porre teleologico come momento reale della realtà materiale” (vol. III, p.
23). Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre
specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione
consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire nalistico
entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno
trascendente, ideale. È in questo senso che si può affermare che, per
Marx, “il lavoro risulta il modello di ogni prassi sociale” (vol. III, p. 19).
Ed è in base a questo assunto che la de nizione del pensiero marxiano
come “ loso a della prassi” assume il suo signi cato più corretto e
rigoroso.
La critica di Marx al materialismo feuerbachiano consiste appunto
nell’essersi limitato alla mera intuizione, evitando di scendere sul terreno
della prassi. La critica di Marx all’idealismo è invece una critica
ontologica, in quanto “parte dal principio che l’essere sociale, in quanto
adattamento attivo dell’uomo al proprio ambiente, poggia primariamente
e insopprimibilmente sulla prassi” (vol. I, p. 36). Lukács torna su questa
visione concreto-ontica delle entità sociali ragionando sui Manoscritti
economico- loso ci, a proposito dei quali scrive che
in essi per la prima volta nella storia della loso a le categorie dell’economia compaiono come
quelle della produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una descrizione
ontologica dell’essere sociale su base materialistica, per aggiungere subito dopo: ma l’economia
come centro dell’ontologia marxiana non signi ca affatto che la sua immagine del mondo sia
fondata sull’“economismo” (vol. II, p. 264).

Quest’ultima affermazione (della quale è impossibile sopravvalutare


l’importanza, e sulla quale dovremo ritornare a più riprese) trova riscontro
in un passaggio in cui Lukács sottolinea che “considerando così
isolatamente il lavoro si compie un’astrazione”, infatti “la socialità, la
prima divisione del lavoro, il linguaggio ecc. sorgono bensì dal lavoro, non
però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece,
quanto alla loro essenza, simultaneamente” (vol. III, p. 14). Tutte le
categorie appena evocate appaiono dunque avvinte in un intreccio
inestricabile, per cui nessuna di esse può essere realmente compresa ove la
si consideri isolata dalle altre. Al tempo stesso non vanno dimenticati, da
un lato, la loro scaturigine originaria dal lavoro, dall’altro lato, “il fatto
che il lavoro continui a essere il momento soverchiante non solo non
sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensi ca”
(vol. III, p. 58).
L’ultimo passaggio consente di comprendere meglio quanto richiamato
in precedenza in relazione al concetto del lavoro come unico momento
che attribuisce concretezza ontologica al porre teleologico – concetto che
appare ancora più chiaro in quest’altra citazione:
Solamente nel lavoro, quando pone il ne e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la
posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente,
– dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano
la natura – ma invece un compiere trasformazioni nella natura stessa che a partire di qui, dalla
natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili

e (a partire da questo momento, la coscienza) “non può più essere


ontologicamente un epifenomeno. Ed è questa constatazione che separa il
materialismo dialettico da quello meccanicistico”.
Ciò posto, Lukács procede a descrivere le relazioni dialettiche fra il
lavoro da un lato, e il suo ne e il suo mezzo dall’altro:
In ogni singolo processo lavorativo concreto il ne domina e regola i mezzi. Se però guardiamo
ai processi lavorativi nella loro continuità ed evoluzione storica entro i complessi reali dell’essere
sociale, abbiamo una certa inversione di questo rapporto gerarchico, che se non è certamente
assoluta e totale, è purtuttavia di estrema importanza per lo sviluppo della società e dell’umanità
(vol. III, p. 29).

In questo accenno all’inversione gerarchica fra ni e mezzi sono


contenuti in nuce i discorsi sull’alienazione e sull’ambiente tecnologico
come “seconda natura” (benché Lukács non ami tale concetto che, a suo
avviso, ha solo valore metaforico). L’ipertro ca valorizzazione del mezzo è
conseguenza del fatto che “la ricerca sulla natura, indispensabile per
lavorare, è prima di tutto concentrata intorno alla preparazione dei mezzi,
sono questi il principale veicolo della garanzia sociale che i risultati dei
processi lavorativi rimangano ssati, che vi sia continuità nell’esperienza
lavorativa e specialmente che si abbia un suo ulteriore sviluppo” (Ibidem).
Di grande interesse mi pare in ne: 1) il fatto che Lukács non
rappresenta questi sviluppi come esclusivi delle fasi più avanzate
dell’evoluzione dell’essere sociale, ma li considera già presenti delle sue
fasi primitive; 2) il fatto che ogni ulteriore avanzamento del processo di
autonomizzazione della coscienza, mentre in uisce profondamente sulle
immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne elimina mai la
sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra
uomo e natura. Vediamo quanto scrive in proposito:
L’uomo che lavora deve piani care in anticipo ciascuno dei suoi movimenti e controllare di
continuo criticamente, consapevolmente la realizzazione del suo piano, se nel suo lavoro vuole
ottenere quel che è in concreto l’ottimo possibile. Questo dominio della coscienza sul proprio
corpo, che si estende anche a una parte della sfera della coscienza, alle abitudini, agli istinti, agli
affetti, è una richiesta elementare dello stesso lavoro più primitivo, non può quindi non marcare
a fondo le rappresentazioni che l’uomo si fa su sé stesso (vol. III, p. 104).

Ma se occorre ammettere che la posizione teleologica di causalità nel


processo lavorativo produce questi effetti trasformatori, va anche
ricordato che “per quanto rilevanti siano questi ultimi, la barriera naturale
può solo arretrare, mai scomparire completamente” (vol. III, p. 103).
In ne, la posizione dei ni – mediata dal progredire della coscienza e del
linguaggio, che operano come fattori di separazione e distacco dell’uomo
dal suo ambiente, “di una presa di distanza che si manifesta con chiarezza
nel fronteggiarsi di soggetto e oggetto” (vol. III, p. 38) – impone continue
scelte fra alternative che, tuttavia, non sono prodotte dal soggetto che
decide, “ma dall’essere sociale in cui vive e opera” (vol. III, p. 48).
b) Commentario
Ribadire la centralità del lavoro come ricambio organico uomo–natura,
cioè del lavoro creatore dei valori d’uso, in quanto fondamento di ogni
visione materialistica dell’essere sociale è una scelta che implica
conseguenze impegnative sotto diversi aspetti loso ci, politici e
ideologici. In primo luogo, signi ca riconoscere implicitamente
l’eccezionalità della società capitalistica rispetto a tutte le forme sociali che
l’hanno preceduta (e presumibilmente a tutte quelle che la seguiranno)
nella misura in cui è l’unica che occulta tale fondamento concreto-ontico
del lavoro per ridurlo, da un lato, a merce forza-lavoro, dall’altro lato, a
fonte del valore di scambio, cioè a valore-lavoro incorporato nelle merci
da realizzare tramite scambio sul mercato35.
Rimuovere questa premessa loso ca è una mossa comune a tutte quelle
interpretazioni del pensiero marxiano – da Althusser a Negri, per citarne
un paio – che hanno teso a svalorizzarne gli elementi “meta sici”
(generalmente associati alle opere giovanili e contrapposti al pensiero
“maturo” del Capitale e dei Grundrisse) e a esaltare la “scienti cità” delle
categorie della critica dell’economia politica. La riduzione del contributo
di Marx alla modellizzazione concettuale del modo di produzione
capitalistico ha avuto, fra le altre conseguenze, quella di fondare ogni
speranza emancipativa del lavoro – inteso esclusivamente come forza-
lavoro integrata nel processo di valorizzazione del capitale – sulle
contraddizioni immanenti al modo di produzione. Di qui la valutazione
del ruolo progressivo della riduzione di tutte le relazioni sociali a relazioni
di mercato, in quanto presupposto necessario del rovesciamento dei
rapporti di forza fra lavoro e capitale (in sostanza, l’idea è che solo
quando tutto sarà interno al rapporto di capitale sarà possibile rovesciare
quest’ultimo).
L’elenco delle conseguenze di tale postura teorica è lungo. Mi limito a
ricordarne alcune. L’invenzione di categorie spurie come quella di “lavoro
immateriale”36 (riferita, in particolare, all’attività dei lavoratori
dell’economia digitale, con la paradossale rimozione, da un lato, del
lavoro materiale dei milioni di lavoratori dell’industria della
componentistica hardware e di quelli delle industrie estrattive delle
materie prime indispensabili per tali attività, dall’altro del lavoro corporeo
degli stessi lavoratori presunti immateriali). Le varie declinazioni
ideologiche del cosiddetto “ri uto del lavoro”37 che, dall’originario
signi cato di rivolta operaia contro il lavoro alienato e ripetitivo, sono
venute estendendosi no ad affermare la possibilità (garantita dall’enorme
sviluppo delle forze produttive) di trascendere la necessità stessa del
ricambio organico uomo-natura. Corollari di questa negazione del
principio formulato da Lukács e richiamato in precedenza – secondo cui,
per quanto radicali siano le trasformazioni indotte dal distanziamento
progressivo fra soggetto e oggetto, “la barriera naturale può solo arretrare
ma mai sparire completamente” – sono tanto la mitologizzazione
dell’illimitata potenza trasformativa delle conoscenze scienti che e
tecnologiche ( no al trascendimento delle stesse caratteristiche della
specie verso forme di vita “transumane”38), quanto la condivisione, da
parte di alcuni intellettuali appartenenti alle sinistre “radicali”, degli
slogan dei boss dell’industria high tech, i quali propongono di risolvere i
problemi occupazionali generati dalla “ ne del lavoro”39 attraverso
l’erogazione di un reddito universale non condizionato dallo svolgimento
di attività lavorative – punto di vista che confonde emancipazione del
lavoro ed emancipazione dal lavoro, per cui quest’ultima si presenta come
apologia del consumo40 ignorando sia il ruolo del lavoro come
autorealizzazione e costruzione identitaria individuali e collettive, sia la
necessità di liberare il valore d’uso dalle distorsioni causate dalla sua
riduzione a valore di scambio.
Gli spunti critici relativi all’economismo e al materialismo
meccanicistico contenuti nelle citazioni precedenti verranno approfonditi,
rispettivamente, nella seconda e terza sezione, mentre quelli relativi alle
autorappresentazioni che gli esseri umani sviluppano parallelamente al
crescere della complessità dell’essere sociale, verranno affrontati nella
quarta e quinta sezione. Mi pare invece che, a proposito di economismo,
valga la pena di sottolineare come la rappresentazione dell’essere sociale
in quanto “complesso di complessi” (vedi sopra “Nota introduttiva” al
Capitolo terzo) ognuno dei quali dotato di reciproca autonomia, ma al
tempo stesso vincolato dalle relazioni di interdipendenza reciproca con
tutti gli altri, presenti signi cative analogie con la rappresentazione del
sociale come sistema complesso articolato in sottosistemi, proposta da un
autore come Niklas Luhmann41, con la differenza che, in Lukács, i
complessi non si dispongono secondo un piano orizzontale privo di
relazioni gerarchiche ma appaiono sovradeterminati (ancorché in modo
indiretto e non meccanico) dal complesso economico.
Anche i passaggi sull’inversione del rapporto gerarchico fra ni e mezzi
del processo lavorativo – che, come si è visto, secondo Lukács è una
tendenza presente n dalle fasi più primitive dello sviluppo sociale ma
assume importanza crescente in quelle più recenti e progredite – verranno
ripresi e approfonditi nelle ultime due sezioni. Qui mi limito ad affermare
che il modo in cui Lukács affronta il tema mi pare richiami il concetto di
alienazione tecnologica sviluppato dai membri della Scuola di Francoforte
e altri autori a lui contemporanei. L’approccio di Lukács, tuttavia, non è
mai “catastro sta” – alla Günther Anders42 per intenderci –, nel senso che
la sua critica nei confronti del feticismo della tecnica non approda mai alla
negazione assoluta del potenziale emancipativo di quest’ultima. Al tempo
stesso, non rinuncia mai a evidenziare la relazione fra sviluppo tecnologico
e rapporti di forza fra le classi sociali, né scade mai nelle forme di
esaltazione acritica dello sviluppo delle forze produttive tipico sia del
materialismo meccanicista, sia dell’ideologia “accelerazionista” di alcune
correnti teoriche contemporanee43.

3.2. Critica del materialismo meccanicista


a) Compendio
La critica delle interpretazioni meccaniciste e deterministe del pensiero
di Marx è un lo rosso che attraversa tutta l’Ontologia, per cui lo
ritroveremo in tutte le sezioni in cui è articolato questo capitolo. In questa
sezione, intendo concentrare l’attenzione soprattutto su due aspetti: 1) il
modo in cui, nel pensiero di Lukács, il principio della determinazione (in
ultima istanza!) della coscienza da parte del fattore economico si associa
all’affermazione della (relativa) libertà del fattore soggettivo ; 2) la critica
della feticizzazione oggettivistica della tecnica.
Parto da un passaggio particolarmente illuminante per quanto riguarda
il primo punto: il metodo dialettico, scrive Lukács,
riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e
l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile
interazione reciproca, da cui però non deriva […] né uno sviluppo storico privo di leggi […] né
un dominio meccanico “per legge” dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella
organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo
la funzione di momento soverchiante (vol. II, pp. 290-291).

Il passaggio è particolarmente denso e ricco di aspetti degni di rilievo. In


primo luogo, l’affermazione secondo cui economico ed extraeconomico si
convertono di continuo l’uno nell’altro fa eco alla concezione dell’essere
sociale come complesso di complessi evocata in precedenza: nessuna
dimensione dell’essere sociale è separata dalle altre da un con ne rigido,
per cui il gioco dialettico delle interazioni reciproche è continuo, e
soprattutto non è mai unidirezionale, nel senso che nessuna dimensione
condiziona le altre senza venirne a sua volta condizionata. Dopodiché
questo complesso gioco di interazioni reciproche non giusti ca la visione
di un processo storico privo di determinazioni causali, di “leggi” (anche se
sappiamo, vedi quanto esposto nella prima sezione, che queste leggi non
hanno nulla a che vedere con quelle che governano i processi naturali, dal
momento che i loro nessi causali sono ricostruibili solo post festum). In ne
ci viene detto che alle “rigide leggi dell’economia” (che sono tali solo nel
contesto dell’economico inteso come pura astrazione) spetta la funzione
di momento soverchiante.
Il modo in cui l’economico svolge tale funzione deve tuttavia essere
chiarito: Marx non sostiene che l’economia determina la coscienza,
sostiene piuttosto che “non è la coscienza degli uomini che determina
l’essere sociale, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la
loro coscienza”, “dove il mondo delle forme di coscienza e dei loro
contenuti”, commenta Lukács subito dopo la citazione, “non è visto come
prodotto direttamente dalla struttura economica, ma dalla totalità
dell’essere sociale” (vol. II, p. 288). In altre parole, la funzione
soverchiante dell’economico si esercita in modo indiretto, attraverso la
mediazione della totalità dell’essere sociale (totalità di cui fanno parte sia
l’economico che l’extraeconomico).
Lukács chiarisce ulteriormente il senso di quest’ultima affermazione
laddove ragiona sulle potenzialità emancipative del processo di sviluppo
economico in quanto presupposto della liberazione dell’umanità dal regno
della necessità:
Il processo in quanto tale, però, dal punto di vista ontologico non fa che produrre ogni volta il
reale campo di possibilità af nché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora
indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una
conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo
processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima
analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto
vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente
libero, giacché il suo sì o no è legato a esso soltanto sul piano delle possibilità (vol. IV, p. 511).

La relativa libertà che la loso a della prassi concede all’agire soggettivo


consiste dunque in una relazione che si con gura come la facoltà di
decidere in un campo di alternative prede nite. Questa formulazione non
offre spazio né a una sottovalutazione della libertà del fattore soggettivo
né a una sottovalutazione della forza vincolante del fattore oggettivo,
come ben chiarisce il seguente passaggio: “La determinazione [della
coscienza] da parte dell’essere sociale è dunque sempre ‘soltanto’ la
determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra
concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che
nella natura non compare mai (vol. I, p. 325). Da un lato, le virgolette che
racchiudono – quasi ironicamente – quel soltanto stanno a signi care che
è più che giusti cato de nire “soverchiante” il potere di condizionamento
dell’economico, nella misura in cui limita il campo delle alternative
possibili; dall’altro lato, sottolinea Lukács, la libertà del soggetto umano,
ancorché vincolata, appare smisurata ove paragonata alla rigida legalità
dei processi naturali. Attenzione però: questa libertà di decisione, tanto
limitata in termini di alternative concrete quanto pregna di sviluppi
inediti, non può essere imputata a un soggetto trascendentale, perché vale
sempre il detto marxiano “non sanno di far ciò ma lo fanno”, o per dirlo
con le parole di Lukács: “L’agire sociale, l’agire economico degli uomini
dà via libera a forze, tendenze, oggettività, strutture ecc. che certo
nascono esclusivamente a opera della prassi umana, ma il cui carattere
resta in tutto o in gran parte incomprensibile per chi le ha prodotte” (vol.
II, p. 298).
Delle implicazioni di quest’ultima affermazione ci occuperemo
soprattutto nella sezione “Ideologia e lotta di classe”. Veniamo ora alla
critica della feticizzazione della tecnica. Lukács attribuisce questa
tendenza, fra gli altri, a Bucharin, al quale imputa di avere indicato nella
tecnica l’elemento fondamentale dell’economia (vol. III, p. 341), tuttavia
ribadisce a più riprese che costui non è l’unico autore in capo marxista a
commettere questo errore: è accaduto e accade spesso, scrive, che “i
rapporti economici non vengono intesi come relazioni fra uomini, ma
sono invece feticizzati, ‘rei cati’ – ad esempio identi cando le forze
produttive con la tecnica presa a sé, pensata come autonoma”. Questa
concezione, che già si era diffusa durante le prime due rivoluzioni
industriali – e alla cui diffusione lo stesso Marx ha involontariamente
contribuito con le sue ammirate descrizioni della potenza produttiva del
macchinismo della grande industria44 –, ha ricevuto ulteriore impulso con
la rivoluzione digitale che, come vedremo nel “Commentario” di questa
sezione, ha generato una vera e propria esplosione di entusiasmo tecno lo
in ampi settori delle sinistre radicali.
La conseguenza più grave di queste deviazioni ideologiche è la perdita di
consapevolezza della complessità dei molteplici fattori che convergono nel
concetto di forze produttive. Lukács svolge questa ri essione anche nelle
pagine in cui ragiona sulla sopravvalutazione del ruolo della tecnologia
militare nella storia:
Da un punto di vista generale in tutti questi casi abbiamo che – entro determinati con ni
prescritti dall’intera struttura economico-sociale – la difesa dell’esistenza, le tendenze espansive
prodotte dall’economia ecc. fanno diventare realtà talune possibilità che nel processo
riproduttivo normale sarebbero rimaste possibilità. E proprio qui sarebbe molto pericoloso
lasciarsi andare al feticismo della tecnica. Esattamente come nell’economia stessa la tecnica è una
parte importante, ma sempre derivata, dello sviluppo delle forze produttive, e anzitutto degli
uomini (il lavoro) e delle relazioni interumane (divisione del lavoro, strati cazione di classe ecc.),
così anche le categorie militari speci che, come tattica e strategie, non derivano dalla tecnica ma
da rivolgimenti che intervengono nelle fondamentali relazioni economico-sociali tra gli uomini
(vol. III, pp. 238-239).

A prescindere dal contesto settoriale del discorso (il rapporto fra storia
economico-sociale e storia militare), il punto è chiarissimo: le forze
produttive – e a maggior ragione l’economia in generale – non sono mai
riducibili alla tecnica, nella misura in cui rispecchiano l’intera complessità
delle relazioni interne all’essere sociale. “L’economia e la tecnica sono
bensì, nello sviluppo del lavoro, in uno stato di coesistenza indissociabile,
hanno continue interrelazioni fra loro, ma questo fatto non ne sopprime la
eterogeneità, che si manifesta […] nella dialettica contradditoria fra ne e
mezzo”, contraddizione che abbiamo già evidenziato in quel passaggio,
citato nella prima sezione, in cui Lukács punta il dito contro il feticismo
associato all’inversione gerarchica nella relazione ne-mezzo.
b) Commentario
La descrizione che Lukács fa delle interazioni fra economico ed
extraeconomico o – se si preferisce seguire la classica contrapposizione –
fra struttura e sovrastruttura, fa piazza pulita di tutte le letture “crolliste”
della ne del modo di produzione capitalista. Tipica, in questo senso, la
tesi secondo cui la caduta tendenziale del saggio del pro tto destinerebbe
necessariamente il capitalismo all’estinzione (tesi che, per inciso, ignora
l’esistenza di controtendenze alla caduta tendenziale evidenziate dallo
stesso Marx). Ma il punto di vista di Lukács consente di liquidare anche
tutte quelle visioni “oggettivistiche” che, a ogni crisi, rilanciano la diagnosi
secondo cui il capitalismo starebbe vivendo la sua “fase terminale”, un
approccio che Giorgio Ruffolo ha criticato con l’ironica battuta “il
capitalismo ha i secoli contati”45. La verità è che, come aveva ben
compreso Lenin, le premesse di un superamento del capitalismo si danno
solo quando le classi dirigenti “non appaiono più in grado di
conservare/difendere lo status quo”, vale a dire quando la crisi trascende
la dimensione economica per divenire crisi istituzionale, politica e
culturale (crisi di egemonia in senso gramsciano), quando, cioè, coinvolge
la totalità dell’essere sociale (come abbiamo appena visto, Lukács
chiarisce che l’economico può svolgere il ruolo di fattore determinante nei
confronti degli altri complessi sociali esclusivamente attraverso la
mediazione della totalità sistemica che abbraccia sia la struttura che la
sovrastruttura).
Il punto di vista lukacsiano si rivela un’arma critica altrettanto ef cace
nei confronti delle torsioni soggettiviste del discorso marxiano, come
quell’ideologia operaista e post operaista che ha svolto un ruolo
signi cativo, se non egemonico, nei confronti dei movimenti dell’ultimo
mezzo secolo, a partire dalle teorizzazioni contenute nella rivista
“Quaderni rossi”46. La peculiarità di questa scuola teorica consiste
nell’aver sviluppato un punto di vista in cui il soggettivismo convive con
l’esaltazione oggettivista del fattore economico, un paradosso che si spiega
con il fatto che quest’ultimo viene sostanzialmente indenti cato con le
tecniche produttive. Infatti è alla particolare organizzazione del lavoro
fondato sulle tecnologie produttive fordiste, che si attribuisce il merito di
avere favorito la nascita d’uno strato di classe – l’operaio massa – capace
di sviluppare spontaneamente una coscienza antagonistica nei confronti
del capitale. In altre parole, l’inestricabile intreccio fra economico ed
extraeconomico che Lukács proietta nell’essere sociale in quanto totalità
per il paradigma operaista si realizza all’interno stesso del processo
produttivo, per cui la coscienza rivoluzionaria appare come una
scaturigine spontanea, immanente alla stessa produzione capitalistica. Di
qui la tesi trontiana47 secondo cui la nuova classe operaia non ha più
bisogno del partito come strumento di una coscienza rivoluzionaria che le
viene inoculata dall’esterno (cioè dal campo totale delle relazioni politiche
e sociali, secondo la visione di Lenin48), dal momento che ora è lei stessa il
partito, in quanto esprime direttamente e spontaneamente tale coscienza.
Viene così a mancare del tutto la consapevolezza del fatto che, per quanto
duramente con ittuali, certi comportamenti di classe rappresentano una
prassi che resta – per usare le parole di Lukács – in tutto o in gran parte
incomprensibile ai loro stessi protagonisti. Consapevolezza che Tronti
riacquisterà in un secondo tempo, autocriticando le sue tesi originarie e
riaffermando il principio della “autonomia del politico”49, riconoscendo
cioè che l’interdipendenza fra economico ed extraeconomico non mette in
questione i reciproci margini di libertà dei due ambiti.
Si è accennato, poco sopra, alla riduzione dell’economico alle tecniche
produttive. Questa tendenza dell’operaismo (condivisa da altre correnti
marxiste) è sopravvissuta alla transizione dalla produzione fordista alla
produzione postfordista, e si è ulteriormente rafforzata con l’avvento delle
tecnologie digitali. Un ruolo fondamentale ha svolto in tal senso una certa
lettura del celebre “Frammento sulle macchine” contenuto nei
Grundrisse, laddove lo stesso Marx si consegna alla fascinazione della
potenza produttiva del general intellect, cioè della potenza produttiva
incorporata nel sistema delle macchine della grande industria capitalistica.
In quelle pagine Marx ipotizza infatti che, raggiunto un determinato
livello di sviluppo tecnologico, tale da determinare un formidabile salto
qualitativo della produttività del lavoro sociale, la legge del valore-lavoro
non sarebbe più in grado di regolare l’economia, né tanto meno l’insieme
dei rapporti sociali. I tecnoentusiasti di sinistra hanno elevato a dogma
questa profezia, credendo di riconoscere le condizioni del suo
inveramento storico nelle narrazioni dei guru della New Economy negli
anni Novanta e nei primi anni del Duemila. Quella variopinta comunità di
hacker dell’hardware e del software, ricercatori dei dipartimenti
universitari di informatica, fondatori di startup, giornalisti specializzati,
futurologi ecc. annunciavano l’avvento di un imminente futuro in cui: 1)
le startup, grazie alla rapidità di innovazione e alla libertà dai rigidi vincoli
imposti dai grandi investimenti in capitale sso e forza lavoro, avrebbero
sbaragliato la concorrenza dei vecchi monopoli high tech; 2) i lavoratori
della conoscenza, abituati alla cooperazione spontanea e alla condivisione
di informazioni e conoscenze, si sarebbero emancipati dal comando
capitalistico sviluppando nuove forme di produzione di beni comuni
svincolate dal mercato50; 3) questi soggetti non avrebbero solo sviluppato
una nuova forma di democrazia economica, ma si sarebbero
progressivamente liberati anche dal controllo politico dello Stato, dando
vita a nuove forme di aggregazione sociale di tipo orizzontale51.
I movimenti libertari eredi del ciclo di lotte degli anni Sessata e Settanta
hanno tradotto questa utopia anarco-capitalista in un progetto politico in
cui il ruolo dell’operaio massa appare rimpiazzato da quello dei lavoratori
“creativi”, in quanto depositari di una presunta coscienza politica
anticapitalista. In entrambi i casi, l’agente di tale evoluzione è un elemento
immanente al modo di produzione, elemento che, mentre da un lato è
appiattito sulla tecnica, dall’altro viene descritto come il catalizzatore di
una coscienza politica spontaneamente antagonista e tendenzialmente
egemonica52. Questa narrazione è miseramente naufragata di fronte agli
sviluppi successivi alla crisi dei titoli tecnologici dei primi anni del
Duemila: formidabile concentrazione monopolistica della New Economy,
con conseguente subordinazione/marginalizzazione dei progetti
“alternativi”; cooptazione degli strati superiori dei knowledge workers nel
sistema di comando, controllo e sfruttamento degli strati inferiori della
forza lavoro (e contestuale proletarizzazione degli strati inferiori);
integrazione fra industrie high tech e colossi della nanza in un complesso
capace di accelerare mostruosamente la “guerra di classe dall’alto”53
contro le classi subalterne. Così la “dialettica contraddittoria fra ne e
mezzo”, a partire dalla quale Lukács analizza il rapporto fra economia e
tecnica, si è presa la sua rivincita sui sogni neoproudhoniani.

3.3. Se… allora. Storia e necessità


a) Compendio
Abbiamo evidenziato la distanza di Lukács dai teorici che vorrebbero
sfrondare il pensiero di Marx dagli “orpelli” loso ci, salvandone solo le
parti “scienti che” (ridotte di fatto alla critica dell’economia politica).
Diversamente da costoro, Lukács ribadisce a più riprese che “Marx
riconosce una sola scienza, quella della storia, che investe sia la natura che
il mondo degli uomini” (vol. II, pp. 264-265), e, in un altro passaggio,
rafforza tale affermazione scrivendo che la questione fondamentale della
teoria marxiana è “la storia come principio fondamentale di ogni essere.
In termini generali e precisi esso venne enunciato da Marx già molto
presto (nell’Ideologia tedesca), ma di fatto è il principio che dall’inizio alla
ne domina le sue argomentazioni sull’essere” (vol. I, pp. 234-235).
Parimenti abbiamo messo in luce il principio che Lukács fa derivare
dall’imprevedibilità del processo storico, principio che ne distingue le
“leggi” da quelle delle scienze naturali e che può essere riassunto nella tesi
per cui la conoscenza scienti ca è afferrabile solo post festum.
La domanda ora è: ciò signi ca che non è possibile associare al processo
storico alcun tipo di legalità? Non è questo ciò che Lukács vuol dire con
le affermazioni sopra citate. Per Marx, scrive, le leggi economiche
oggettive
hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di “se… allora”. La loro forma generalizzata,
la loro elevazione al concetto, tuttavia, non è – in contrasto con Hegel – la forma più pura della
necessità, e nemmeno, come pensano i kantiani o i positivisti, una mera generalizzazione
intellettuale, ma invece, nel senso meramente storico, una possibilità generale, un campo reale di
possibilità per le realizzazioni legali concrete “se… allora” (vol. IV, p. 344).

Il carattere post festum di queste ultime non esclude la possibilità di


riconoscere l’esistenza di nessi generali, ma questi ultimi
si esplicitano nell’essere processuale, non “come grandi bronzee leggi eterne”, che già in sé
possano pretendere a una validità sovrastorica, “atemporale”, ma invece come tappe,
determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili
sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi
precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce (vol. I, p. 308).

L’ultimo passaggio consente di afferrare il senso di tutto quanto siamo


venuti n qui affermando nel seguire i ragionamenti di Lukács: la
scienti cità del discorso marxiano è ascrivibile esclusivamente alla sua
capacità di afferrare i nessi storici che innervano lo sviluppo della totalità
dell’essere sociale (e non solo delle sue componenti economiche) e di
descrivere le catene causali che essi mettono in moto, senza elevarle a
“leggi bronzee eterne”, ma anche senza ridurle a meri idealtipi, a puri
modelli conoscitivi54.
Come ora vedremo, tale punto di vista implica necessariamente la
negazione dell’esistenza di nalità immanenti al processo storico, anche se
a Lukács non sfugge come la cultura marxista non sia esente dalla
tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un
obiettivo nale prede nito. Il fatto che lo sviluppo della storia europea
presenti una successione di tappe apparentemente ordinate verso il
“progresso”55 sembrerebbe suggerire la possibilità che esso sia direzionato
da un qualche fattore teleologico, ma Lukács scrive che occorre tenersi
alla larga da simili suggestioni e che ciò va sottolineato
proprio perché simili tendenze aleggiano anche negli atteggiamenti di taluni marxisti, secondo
cui, per esempio, il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la
schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo, porta al socialismo sarebbe nella sua necessità in
qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico) (vol. III,
p. 300).

Contro questa tendenza va ribadito che non esistono processi


teleologici: “la posizione teleologica [cioè l’agire nalizzato, N.d.A.] è
bensì in grado, ponendo praticamente il ne e i mezzi [ricordiamo che per
Lukács il modello cui si rifanno tutte le posizioni teleologiche è il lavoro,
vedi sezione 1], di modi care largamente i processi causali messi in
movimento, ma non di trasformare il carattere causale di questo
movimento. Esistono, appunto, solo processi causali, quelli teleologici
semplicemente non esistono” (vol. I, p. 201).
Le concezioni della storia che attribuiscono priorità all’azione
intenzionale del soggetto da un lato ignorano il fatto che “le conseguenze
causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle
posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto” (vol. IV, p.
347), dall’altro approdano inevitabilmente a un qualche tipo di
irrazionalismo trascendente, se non di vero e proprio profetismo religioso,
nella misura in cui “da un soggetto isolato, basato su sé stesso, non è
possibile far derivare un comportamento consapevolmente attivo, pratico,
verso la realtà, senza un aiuto trascendente” (vol. I, p. 179).
Il successo della concezione teleologica della storia (al pari di quella
della natura, vedi certe tesi di Bloch analizzate nel Capitolo secondo) nasce
dal fatto che essa svolge una funzione “consolatoria”, ci protegge cioè
dall’orrore dell’insensatezza:
[…] quel che fa nascere queste concezioni del mondo non solo nei listei facitori di teodicee
del secolo XVII, ma anche in pensatori lucidi e profondi come Aristotele e Hegel, è un bisogno
umano elementare e primordiale: il bisogno che l’esistenza, il corso del mondo, giù giù no ai
fatti della vita individuale – e questi in primo luogo – abbiano un senso (vol. III, p. 20).

Può il concetto di progresso sopravvivere alla negazione dell’esistenza di


qualsiasi fattore teleologico immanente al processo storico? La risposta di
Lukács a tale dilemma non è scevra da ambiguità. Un’ambiguità che si
rispecchia, per esempio, in affermazioni del tipo: “Noi parliamo di
progresso in senso oggettivo-ontologico e non in senso valutativo” (vol.
III, p. 154). Naturalmente è possibile che per progresso in senso
oggettivo-ontologico si intenda qui l’evoluzione dell’essere sociale, la
quale, al pari dell’evoluzione biologica, non dovrebbe implicare alcun
giudizio di valore. Ma il fatto è, e ne avremo conferma analizzando i
passaggi in cui Lukács ragiona sulla transizione dal capitalismo al
socialismo, che questa distinzione non è facile da mantenere, nella misura
in cui il giudizio di valore fa inevitabilmente capolino nel momento stesso
in cui viene evocato il termine di progresso.
Ciò detto, è innegabile che Lukács, in varie parti dell’Ontologia, svolga
una rigorosa critica dell’ideologia progressista. “Il processo della storia”,
scrive nei “Prolegomeni”,
è causale, non teleologico, è multistrato, mai unilaterale, sempli-cemente rettilineo, è sempre una
tendenza evolutiva posta in movimento da interazioni e interrelazioni reali dei complessi ogni
volta attivi. Gli indirizzi che in tal modo si presentano nelle trasformazioni non devono perciò
mai essere subito giudicati come progresso o come regresso (vol. I, p. 35).

E ancora più chiaramente:


La irreversibilità dei processi […] non ha nulla a che vedere né con le ideologie del tipo
“irresistibilità del progresso” [e qui il dito è puntato sia contro il progressismo liberal-borghese
sia contro la sua versione del marxista volgare], né con quelle che, per occultare le necessarie
conseguenze del processo, parlano di “ ne della storia”, di storia come ciclo ecc. con un ritorno,
più o meno apertamente confesso, al passato” [e qui il bersaglio sono evidentemente le loso e
dell’“eterno ritorno dell’uguale”].

Trattando delle “concezioni volgar meccanicistiche del progresso”,


Lukács è particolarmente duro: “sono teoricamente impotenti di fronte
alla coazione economico-sociale con cui forme nuove e – anche quanto al
grado – più perfette di rei cazione subentrano al posto di quelle
invecchiate” (vol. IV, p. 650). La trappola in cui cadono le concezioni in
questione, nella misura in cui fanno dello sviluppo delle forze produttive
il presupposto non solo necessario, ma anche suf ciente,
dell’emancipazione umana, nasce dall’appiattimento dell’essere sociale
sulla dimensione economica (e di quest’ultima sulla tecnica): “lo sviluppo
delle forze produttive è necessariamente anche sviluppo delle capacità
umane, ma […] lo sviluppo delle capacità umane non produce
obbligatoriamente quello della personalità umana” (vol. IV, p. 562).
Nelle parti conclusive dell’opera che stiamo discutendo, nelle quali
esamina, fra gli altri, i concetti di alienazione, rei cazione ed
estraniazione, la preoccupazione di Lukács non è molto lontana, come
vedremo, da quella degli autori della Scuola di Francoforte56, i quali, in
quello stesso periodo (ricordiamo che Lukács scrive queste pagine negli
anni Sessanta/Settanta) concentrano l’attenzione sulle mutazioni
antropologiche indotte dal consumismo e dall’industria culturale, e sulla
loro capacità di abbassare il livello di coscienza politica delle masse e
neutralizzare il con itto sociale. Così, contro gli illusionisti del (ma anche
contro gli illusi dal) progresso, Lukács ricorda che
lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale, non aumenta affatto la conoscenza
che gli uomini hanno circa la vera natura delle rei cazioni da essi spontaneamente compiute.
Riscontriamo, al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a
queste forme di vita, ad appropriarsele con intensità sempre maggiore, in maniera sempre più
determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana (vol. IV, p.
649).

I “progressi” economico sociali disgregano certamente vecchie forme di


rei cazione ma, al tempo stesso, “ne formano di nuove, ammodernate,
ben funzionanti” (vol. IV, p. 670).
b) Commentario
Con la sua visione storico- loso ca delle leggi di sviluppo dell’essere
sociale, Lukács si pone agli antipodi di tutti quegli intellettuali marxisti –
perlopiù appartenenti alla corporazione degli economisti – che hanno
progressivamente abbandonato il punto di vista marxiano della critica
dell’economia politica per sposare quello dell’economia politica intesa
come “scienza” tout court (non di rado elevata alla dignità di scienza pura
e dura, in opposizione alle scienze sociali). Conseguenze di tale scelta
sono: da un lato, la pretesa di competere con gli economisti borghesi sul
terreno della de nizione delle leggi di funzionamento dell’economia –
rappresentate come indipendenti/autonome dalle altre determinazioni
dell’essere sociale (diritto, politica, cultura ecc.) –; dall’altro lato, il
crescente condizionamento delle scelte politiche di partiti e sindacati di
sinistra da parte dei vincoli “oggettivi” associati a presunte leggi
economiche.
Ma non è solo Lukács ad allargare la prospettiva dalle leggi economiche,
integrandola nel contesto delle leggi di sviluppo dell’essere sociale in
quanto totalità (e sintetizzando il tutto la formula “se… allora”, che
de nisce un campo di possibilità). Vale la pena di sottolineare come sia lo
stesso Marx a contestare le interpretazioni che gli attribuiscono
l’intenzione di formulare le “bronzee leggi eterne” della storia umana,
laddove replica alla recensione critica che l’economista Zukowski aveva
dedicato all’edizione russa del Capitale con le seguenti parole:
Zukowski sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo
nell’Europa occidentale in una teoria teorico- loso ca della marcia generale imposta a tutti i
popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere in ne alla forma economica
che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale
sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto.

Subito dopo, per chiarire il senso di quest’ultima affermazione, ricorre


all’esempio dei piccoli contadini liberi dell’antica Roma: costoro, dopo
essere stati espropriati dei loro pezzetti di terra, non divennero salariati
ma “plebaglia fannullona”, mentre, nel contempo, veniva sviluppandosi il
modo di produzione bastato sulla schiavitù, non quello capitalistico,
benché, in teoria, non sarebbero mancate le condizioni af nché ciò
potesse avvenire; quindi conclude: “eventi di un’analogia sorprendente,
ma veri catisi in ambiti storici affatto diversi, produssero risultati del tutto
diversi”57.
Veniamo ora alla critica del progressismo. Ho sottolineato come Lukács
non sia esente da una certa ambiguità sul tema, ambiguità che
approfondiremo nella sezione dedicata ai temi dell’utopia socialista;
tuttavia nei brani analizzati in questa sezione tale ambiguità appare
soverchiata dalla radicale condanna delle concezioni teleologiche del
processo storico. Particolarmente signi cativi i passaggi in cui viene
smascherata l’ispirazione mistico/trascendente che aleggia in tali
concezioni, quandanche associate a ideologie rivoluzionarie. Non è certo
un caso se il marxismo è stato spesso accusato di “profetismo”, anche se
non va dimenticato il fatto che la tendenza ad assumere una certa
coloritura “salvi ca” non manca mai nelle narrazioni dei progetti politici
di emancipazione, né va trascurata la funzione positiva che essa può
svolgere in quanto mito fondativo58.
Nella sua critica dei miti progressisti, Lukács prende spesso le mosse
anche dagli effetti controintuitivi associati all’agire orientato allo scopo. Il
punto si presenta tuttavia complesso e problematico. La sua critica al
volontarismo soggettivistico (deviazione che Lukács associa, fra gli altri,
all’ideologia stalinista,) è infatti sempre a un passo dall’alimentare errori di
segno opposto. Si è detto, per esempio, che la visione lukacsiana
dell’essere sociale come “complesso di complessi” presenta una certa
analogia con le teoria di Luhmann, il quale descrive il sistema sociale
come un insieme complesso di sottosistemi. Ebbene: uno dei rischi della
teoria della complessità è appunto che, a partire dalla tesi secondo cui gli
esiti delle interazioni reciproche fra sistemi, e fra sistemi e ambiente, sono
per de nizione imprevedibili, si arriva a sostenere che qualsiasi progetto
politico di trasformazione/manipolazione dei meccanismi sistemici – tanto
più quanto più esso appare radicale e ambizioso – è a priori votato allo
scacco, a causa degli effetti controintuitivi che inevitabilmente innesca.
Ho la sensazione che Lukács non tematizzi a suf cienza questo rischio,
mentre, da parte mia, ritengo che la dialettica fra progetto politico (in
quanto quintessenza del porre teleologico) e ambiente socioeconomico,
vada gestita nel modo più pragmatico possibile, accantonando i princìpi
dogmatici e affrontando i problemi concreti in base al metodo della
sperimentazione per tentativi ed errori59. Più scontate mi paiono le
considerazioni che Lukács dedica alle critiche conservatrici al concetto di
progresso (vedi le allusioni a Nietzsche nelle citazioni relative alle
concezioni cicliche del processo temporale che ne negano l’irreversibilità).
Anche se vale la pena di sottolineare il fatto che, nei passaggi in questione,
Lukács associa tali visioni al concetto di “ ne della storia”. Il punto non è
tanto che così sembra anticipare le tesi di Fukuyama, quanto il fatto che
tale immaginario “profetico”, come si è visto ragionando sulla loso a di
Bloch nel Capitolo secondo, è tutt’altro che assente in campo marxista.
Torneremo sul tema ragionando sull’utopia socialista nell’ultima sezione.
Vengo ora a un nodo teorico che chi scrive ha già avuto modo di
affrontare assieme a Onofrio Romano60: mi riferisco alla sopravvalutazione
del ruolo progressivo dello sviluppo delle forze produttive. Lukács – lo si
è visto poco sopra – ascrive tale errore di prospettiva alle “concezioni
volgar meccaniciste del progresso” e ne denuncia l’incapacità di
riconoscere gli effetti della coazione economico-sociale in ragione della
quale “forme nuove e più perfette di rei cazione subentrano al posto di
quelle vecchie”. E altrove ammonisce che, se è vero che lo sviluppo delle
forze produttive è anche sviluppo delle capacità umane, è altrettanto vero
“che lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente
quello della personalità umana”. Questa ri essione è a mio avviso cruciale.
Come ho già messo in luce, gli anni in cui Lukács scrive queste pagine
sono gli stessi in cui la Scuola di Francoforte ragiona sul paradosso per cui
l’espansione della produttività del lavoro, associata all’innovazione
tecnologica, e il conseguente aumento esponenziale della ricchezza
materiale e dei consumi di massa, non generano più elevati livelli di
coscienza sociale e politica, bensì un generale impoverimento culturale e
una crescente omologazione ai valori della società capitalista occidentale
(in primis americana). Allo sviluppo della capacità umana non
corrisponde per l’appunto quello della personalità umana.
Questa lezione è rimasta pressoché inascoltata dalle generazioni del ’68 e
successive, le quali hanno continuato a esaltare l’avanzamento sempre più
rapido ( no al parossismo della rivoluzione digitale) del progresso
tecnologico come fattore di illimitata estensione delle libertà individuali,
ignorando sistematicamente le “forme nuove e più perfette di rei cazione
subentranti a quelle vecchie”. La feticizzazione del general intellect –
tipica ma non esclusiva della narrazione post operaista – ha alimentato la
convinzione che le nuove tecnologie incorporino la totalità delle relazioni
sociali e la possibilità di dispiegarne pienamente il potenziale
emancipativo. Il principio di coazione economico-sociale a esse associato è
stato al contrario sistematicamente ignorato, o ridotto a un residuo
giuridico (la proprietà privata) agevolmente liquidabile61. Il dogma
secondo cui il superamento del capitalismo diviene possibile nel momento
in cui lo sviluppo delle forze produttive genera una contraddizione
insanabile con i rapporti di produzione si è così convertito in una trappola
ideologica, che sbarra la strada al riconoscimento della necessità di
costruire politicamente il livello di sviluppo della personalità umana
indispensabile a trasformare il mondo.

3.4. L’ideologia come forza materiale


a) Compendio
1a) Il doppio signi cato del termine ideologia
Lukács inizia il terzo capitolo del quarto volume citando Il materialismo
storico e la loso a di Benedetto Croce di Antonio Gramsci62, opera a
proposito della quale scrive:
Gramsci parla di un doppio signi cato del termine ideologia. Nel suo interessante discorso
non possiamo però non rilevare una carenza, e cioè che egli contrappone la sovrastruttura
necessaria soltanto alle idee arbitrarie di singole persone. Ciò nondimeno ha il merito di aver
messo in evidenza il doppio signi cato che sta sempre nello sfondo di questo importantissimo
termine. Ma purtroppo cade subito vittima di una astrazione convenzionale. Da un lato è
certamente vero che i marxisti intendono con ideologia la sovrastruttura ideale che
necessariamente sorge da una base economica, ma dall’altro è fuorviante interpretare il concetto
peggiorativo di ideologia, che rappresenta una realtà sociale indubbiamente esistente, come
un’arbitraria elucubrazione di singole persone (vol. IV, p. 445).

Dopodiché motiva la critica affermando che, se un pensiero resta


espressione ideale di un singolo, non può essere de nito un’ideologia, né
una sua più ampia diffusione basta a renderlo tale. Perché possa
meritarselo, esso deve svolgere una funzione sociale ben determinata.
Quindi aggiunge:
[…] diventa subito chiaro che cosa in termini ontologici collega i due concetti di ideologia
citati da Gramsci. L’ideologia è anzitutto quella forma di elaborazione ideale della realtà che
serve a rendere consapevole e capace di agire la prassi sociale degli uomini. Deriva da qui la
necessità e l’universalità di taluni modi di vedere per dominare i con itti dell’essere sociale”.

Dal che consegue che “ogni reazione degli uomini al loro ambiente
economico sociale può in determinate circostanze diventare ideologia”
(vol. IV, p. 446). Una volta che abbia assunto tale ruolo, tanto il suo
contenuto quanto la sua forma conservano però segni incancellabili della
loro genesi. Il fatto che tali segni appaiono evidenti, o al contrario
impercettibili, dipende da quale funzione svolgono nei con itti sociali, dal
momento che l’ideologia è anche e soprattutto “uno strumento della lotta
sociale che caratterizza ogni società [ed è in queste lotte che] acquista
anche il signi cato peggiorativo divenuto storicamente tanto importante”
(vol. IV, p. 447).
Poche pagine dopo, Lukács approfondisce la questione della genesi
delle ideologie associandola alla nascita di differenti gruppi sociali, fondati
sulla condivisione di interessi comuni contrapposti a quelli di altri gruppi:
In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle
ideologie, giacché questi con itti si possono dirimere con ef cacia nella società solo quando i
membri dell’un gruppo riescono a persuadere sé stessi che i loro interessi vitali coincidono con
gli interessi importanti della società nel suo intero (vol. IV, pp. 452-453).

La genesi in questione, dunque, presuppone “strutture sociali in cui


operino gruppi diversi e interessi contrapposti che tendono a opporsi
come interesse generale dell’intera società. Insomma: la nascita e la
diffusione delle ideologie sono il connotato generale della società di
classe” (vol. IV, p. 453).
A questo punto è chiaro perché Lukács ri uta l’approccio che
indenti ca l’ideologia negativa con le espressioni ideali dei singoli:
l’ideologia è tale solo e nella misura in cui riesce a fondare la pretesa di un
gruppo sociale secondo cui i suoi interessi, in con itto con quelli di altri
gruppi sociali, rappresenterebbero gli interessi dell’intera società. Di fatto
tale pretesa riesce a imporsi solo quando l’ideologia in questione è quella
della classe dominante, come Marx chiarisce ne L’Ideologia tedesca: “Le
idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la
classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la
sua potenza spirituale dominante”63. Vale in ne la pena di citare
quest’altro passaggio: “L’imposizione intransigente dell’interesse globale
della classe dominante può benissimo trovarsi in contrasto con molti
interessi di persone che appartengono a quella medesima classe” (vol. III,
p. 209), ma anche se questi ultimi possono opporsi agli interessi globali
della propria classe, nché la loro posizione resta isolata e individuale non
si può parlare di ideologia.
Lukács affronta il tema dell’ideologia in quanto forza materiale che
svolge un ruolo cruciale nel con itto di classe anche da un altro punto di
vista, laddove analizza il rapporto fra teoria e ideologia. In un passaggio
che potremmo de nire una sorta di glossa al detto marxiano “i loso
nora hanno solo interpretato il mondo ma si tratta di cambiarlo”, scrive:
[…] una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in
quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei
problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per
quello strato sociale anche un’ideologia ef cace (vol. I, p. 245).

E altrove aggiunge, più icasticamente, che la teoria “diventa una forza


materiale quando si impadronisce delle masse” (vol. IV, p. 529). Inutile
aggiungere che, per impadronirsi delle masse, deve essere “tradotta” in
discorso ideologico. La necessità di tale trasposizione è conseguenza della
forma stessa che ogni agire orientato alla trasformazione della realtà tende
ad assumere: “Il momento determinante immediato di ogni azione
intenzionata non può non presentarsi come dover-essere, non fosse altro
perché ogni passo avanti nella realizzazione viene deciso stabilendo se e
come esso favorisca il raggiungimento del ne” (vol. III, p. 71). Il ne è
nella coscienza (nel momento ideale) prima della sua realizzazione “e nel
processo che vi conduce ogni passo, ogni movimento viene guidato dalla
posizione del ne” (Ibidem). Dal che deriva che, a determinare il carattere
positivo o negativo di un’ideologia è, in ultima istanza, la natura del ne
verso il quale essa indirizza l’azione, cioè se tale ne coincide con gli
interessi di coloro che lottano per emanciparsi dal dominio, o con quelli
di coloro che lo vogliono conservare.
In una folgorante pagina situata nella parte nale del quarto volume,
Lukács ricorda poi che le classi dominanti dell’Occidente post fascista
(non senza la complicità delle sinistre socialdemocratiche) sono riuscite a
trasformare il ri uto dell’ideologia fascista in ri uto dell’ideologia tout
court, per cui
ogni ideologia, ogni tentativo di dirimere con itti sociali con l’ausilio di ideologie risulta a priori
sotto accusa. […] non ci sono più veri con itti, non c’è più campo di manovra per le ideologie:
le differenze sono soltanto “pratiche” e quindi regolabili “praticamente” con accordi razionali,
compromessi ecc. La deideologizzazione signi ca perciò illimitata manipolabilità e
manipolazione dell’intera vita umana (vol. IV, p. 770).

Ironia vuole, aggiunge Lukács qualche riga sotto, che questa


deideologizzazione “in ultima analisi non possa sussistere senza una
ideologia: quella della libertà come ‘salvi co’ valore-chiave per tutte le
questioni della vita”. Lukács de nisce “conformismo non conformistico”
la critica puramente teorica nei confronti di questa “ideologia dell’anti-
ideologia”, la critica, cioè, di quegli intellettuali che temono di essere a
loro volta accusati “di fare dell’ideologia”, un atteggiamento che descrive
come
il comportamento adottato da quello strato relativamente ampio di individui nel quale il disagio
di fronte ai poteri dominanti comincia già a svilupparsi in inizi di ri uto teorico, ma che usa
esprimere questo suo intendimento […] in forme che non vogliono né possono in alcun modo
disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo. Questi conformisti non-
conformistici, perciò, nonostante le manifestazioni pubbliche verbalmente di forte critica e
addirittura di opposizione, rimangono di fatto apprezzati collaboratori della manipolazione
universale (vol. IV, p. 782).

1a) Ideologia e rivoluzione


Una prima cosa da tenere presente, quanto alla concezione lukacsiana
del processo rivoluzionario, è la sua convinzione che la rivoluzione, per
quanto radicale, non segna mai una discontinuità totale e assoluta nella
vita dell’essere sociale: “L’atto più risolutamente rivoluzionario è nel suo
contenuto, nelle sue forme, nella sua speci ca qualità, legato con mille li
alla continuità storica oggettiva, nasce dalle possibilità oggettive di
questa” (vol. III, p. 264). Il che non signi ca sposare un punto di vista
“oggettivista”, signi ca piuttosto, spiega Lukács citando Lenin – che
de nisce “il grande teorico del fattore soggettivo” –, che le situazioni
rivoluzionarie si veri cano “quando gli ‘strati inferiori’ non vogliono più il
passato e gli ‘strati superiori’ non possono più vivere come in passato”64.
Questa contrapposizione fra volere e potere
esprime anzitutto il modo opposto di presentarsi da parte della prassi politica ai suoi due poli, in
quanto alla classe dominante basta la riproduzione normale, anzi la riproduzione non troppo
anormale della vita per mantenere in piedi lo status quo, mentre gli oppressi hanno bisogno di un
energico e unitario atto di volontà (vol. IV, pp. 503-504).

Questo punto di vista implica due convinzioni: 1) che nessun dominio


crolla da sé stesso perché “in politica non vi sono mai situazioni
assolutamente senza vie di uscita, e ciò implica ovviamente anche il
contrario, vale a dire che non sono mai possibili soluzioni favorevoli
automatiche”; 2) che l’essere sociale non si trasforma semplicemente ma
viene sempre trasformato, perché “lo sviluppo economico può bensì
creare situazioni oggettivamente rivoluzionarie, ma non produce affatto
insieme a esse obbligatoriamente il fattore soggettivo che nei fatti e nella
pratica è determinante” (Ibidem).
Queste considerazioni aiutano a compiere ulteriori passi avanti nella
comprensione del ruolo del fattore soggettivo (ideologico) nel processo
rivoluzionario. In primo luogo, non dev’essere sottovalutato il ruolo dei
singoli: quella che Marx chiama “la classe per sé”, scrive Lukács, si
costituisce solo nella lotta, ma la genesi immediata di quest’ultima “non
può essere compresa senza la continua presenza di decisioni alternative di
singoli uomini” (vol. I, p. 62). Anche se altrove precisa che da ciò “non
deriva alcun ‘irrazionalismo storico’, nessun ‘caos’, dove soltanto il ‘genio’
riesce a trovare la giusta via”. Infatti le divergenze, le contraddizioni, le
incertezze che non possono mancare nel fattore soggettivo “sono
anch’esse, tutte e sempre, condizionate causalmente e quindi possono
venir interpretate – almeno post festum – in termini perfettamente
razionali” (vol. III, p. 505). Secondariamente, occorre tenere presente, sul
lato del fattore oggettivo, che un tratto essenziale delle situazioni
rivoluzionarie consiste nel
sempli care, ridurre a sintesi, generalizzare, in specie nei momenti alti, le alternative umano
sociali. Mentre nella quotidianità normale ciascuna decisione che non sia ancora divenuta
completa routine viene presa in una atmosfera di innumerevoli “se” e “ma” […] nelle situazioni
rivoluzionarie, e spesso già nei processi che le preparano, questa cattiva in nità di questioni
singole si condensa in poche decisioni centrali, che però si presentano alla grande maggioranza
degli uomini come problemi che segnano il destino della loro vita (vol. IV, p. 506).

È proprio sulla capacità di sfruttare tale sempli cazione che si misura la


genialità di un leader rivoluzionario. La parola d’ordine “terra e pace”,
che giocò un ruolo decisivo della rivoluzione del 1917, era
apparentemente banale, nel senso che, in teoria, appariva realizzabile
anche nella società borghese,
la genialità politica di Lenin, però, consisté nel vedere la contraddizione per cui esse, da un lato,
rappresentavano una aspirazione irreprimibile e appassionata di larghissime masse, dall’altro per
la borghesia russa erano in pratica inaccettabili e in quelle date circostanze non potevano trovare
appoggio, anzi neppure un’accoglienza passiva, neanche fra i partiti piccolo-borghesi. Cosicché
nalità politiche che in sé non dovevano obbligatoriamente abbattere la società borghese,
diventavano un materiale esplosivo, il veicolo per produrre una situazione nella quale la
rivoluzione socialista poté essere attuata con successo (vol. IV, p. 486).

Non va tuttavia dimenticato che l’esito positivo del processo


rivoluzionario non sarebbe stato possibile se, oltre alla genialità di Lenin,
il quale seppe cogliere e sfruttare una contraddizione che la borghesia
russa non era oggettivamente in grado di risolvere, non vi fosse stato il
processo di “costruzione organizzativa e ideologica” che consentì di
forgiare il partito bolscevico come avanguardia cosciente della lotta di
classe. Questa costruzione è potuta avvenire solo perché Lenin – e più in
generale la direzione del partito – non delimitava, diversamente dagli
ideologi economisti e tradeunionisti, la lotta di classe agli antagonismi
diretti fra borghesia e proletariato, bensì era consapevole che si dà una
“genuina coscienza di classe proletaria, solo laddove venga alla luce
consapevolmente la priorità del politico” (vol. IV, p. 502). Ecco perché
Lukács cita in merito la seguente, celeberrima frase di Lenin65:
[…] la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè
dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti fra operai e padroni. Il
solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le
classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti
reciproci di tutte le classi. (pp. 389-390)

2a) Ideologia e diritto


Affrontando la questione del diritto, Lukács distingue fra due livelli:
quello del diritto come speci co complesso (sistema o struttura, secondo
altri linguaggi disciplinari) della totalità dell’essere sociale, e quello della
“giustizia” come valore ideologico (borghese). Partiamo dal primo. La
genesi del diritto, sostiene Lukács, va messa in relazione con il
superamento della fase di sviluppo dell’essere sociale in cui gli
antagonismi possono ancora essere risolti con l’uso diretto della forza:
[…] man mano che l’essere sociale va socializzandosi, il dominio della mera forza si attenua,
anche se non scompare mai del tutto nella società di classe […]. A questo punto deve prendere il
sopravvento quella complicata unità di forza scoperta e forza mascherata, rivestita dei panni
della legge, che prende gura nella sfera giuridica.

Quale emblema di questa transizione di fase, Lukács sceglie la nota


battuta di Talleyrand secondo cui “con le baionette si può far tutto, meno
che starci seduti sopra” (vol. III, p. 207).
L’enfasi originaria che accompagna la genesi del diritto – la “maestà”
della legge – si indebolisce a mano a mano che esso si trasforma nel
“normale e prosaico regolatore della vita quotidiana”, allorché divengono
cioè prevalenti gli elementi manipolatori del “diritto positivo”: “Il diritto
diviene così una sfera della vita sociale dove le conseguenze degli atti, le
possibilità di riuscita, i rischi di perdite sono calcolati in modo analogo a
quel che accade nel mondo economico” (vol. III, p. 212). Detto
altrimenti: l’essenza ideologica della giustizia come prestazione del sistema
giuridico viene alla luce quanto più la prassi giuridica si allontana dalle
sue origini intrise di violenza, cioè quanto più assume forma economica. È
a questo punto che arriviamo a comprendere che “il diritto non è che il
riconoscimento uf ciale del fatto” (citazione da Marx) “cioè a dire il
riconoscimento della priorità ontologica dell’economico” (vol. III, p. 213).
Le tracce della genesi violenta del diritto, della sua stretta relazione con
il dominio di classe, si attenuano senza mai sparire del tutto. Il loro
indebolimento può alimentare il sogno dei sottoposti di ottenere giustizia
ma, ntanto che il sogno viene inteso in termini giuridici, “non può
situarsi oltre una concezione in de nitiva economica dell’eguaglianza”
(vol. III, p. 218). Il diritto non sfugge quindi all’indissolubile intreccio fra
dimensione economica e dimensione extraeconomica, che caratterizza la
totalità dell’essere sociale. E ciò appare chiaramente nella relazione di
compravendita della forza-lavoro. Dalla speci ca qualità della merce
forza-lavoro (che Marx identi ca con il fatto che il suo valore d’uso
consiste nel generare plusvalore) deriva “la presenza continua di momenti
extraeconomici nella realizzazione della legge del valore anche nella
compravendita normale di questa merce”. Così il compratore (il
capitalista) rivendica il proprio diritto a prolungare quanto più possibile la
giornata lavorativa, mentre il venditore (il lavoratore) rivendica il proprio
diritto a limitarne la durata: “diritto contro diritto, entrambi consacrati
dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti uguali decide la forza”
(vol. III, p. 291). Qui la genesi violenta del diritto non riemerge malgrado
la sua conversione nelle leggi dell’economia, bensì in ragione di tale
conversione.
In ne Lukács mette in luce il fatto che la critica marxiana nei confronti
nella concezione giuridico borghese dell’uguaglianza si estende al di là
della stessa società capitalista, per investire la fase iniziale del socialismo,
come emerge da questa citazione della Critica al Programma di Gotha66:
Questo diritto uguale è un diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna
distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce
tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi
naturali. Esso è perciò, per suo contenuto un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto.

Anche dopo l’espropriazione degli sfruttatori, commenta Lukács, “il


diritto uguale resta in sostanza un diritto borghese” (vol. III, pp. 218-
219).
Non è possibile concludere l’argomento senza un sia pur breve cenno al
tema dei diritti dell’uomo. Più avanti sottolineerò la dimensione
esorbitante che tale questione è venuta assumendo in questa fase storica,
nella misura in cui è diventata un’arma strategica della guerra
dell’Occidente capitalistico contro i Paesi socialisti, e contro tutte le
nazioni che non compiono atto di sottomissione al suo dominio. Per
Lukács il problema nasce dalla separazione fra il cytoyen e l’homme: i
diritti dell’uomo che si presentano nelle costituzioni delle rivoluzioni
borghesi, scrive, sono appunto i diritti dell’homme, che ne sanciscono la
separazione e l’autonomia dalla sfera dello Stato, della società, della
politica, offrendo “all’uomo la piena libertà di estraniarsi a suo arbitrio sul
piano sociale e naturalmente anche su quello ideologico” (vol. IV, p. 623).
Una libertà che Marx liquida così: “Nessuno dei cosiddetti diritti
dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro
della società civile, cioè l’uomo ripiegato su sé stesso, sul suo interesse
privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità” (pp. 961-962).
3a) Ideologia e religione
Nel quarto volume, Lukács dedica ampio spazio al tema della religione.
Qui mi limiterò a evocare tre momenti della sua complessa elaborazione:
la religione come fattore della prassi sociale reale; l’illusorietà dell’idea
illuminista, secondo cui il progredire delle conoscenze scienti che è
inevitabilmente destinato a emancipare l’uomo dalle credenze religiose; la
dialettica fra chiese e movimenti settari. Partiamo dal primo aspetto.
Dopo un passaggio in cui afferma che l’arte e la loso a sono le forme più
pure dell’ideologia “in quanto non intendono e non possono esercitare
alcuna azione diretta sull’economia e sulle strutture sociali con essa
collegate, indispensabili per la sua riproduzione sociale”, Lukács prende
le distanze da Hegel, il quale le associa alla religione laddove tratta dello
spirito assoluto: “Noi qui invece la lasceremo da parte, perché essa come
fattore della realtà sociale non è mai stata e non è una pura ideologia nel
senso ora detto, ma rappresenta anche e soprattutto un fattore diretto
della prassi sociale reale degli uomini”. E, poche righe più in basso, la
de nisce “una forma intermedia sintetica fra la politica e la loso a” (vol.
IV, p. 518). Tanta importanza accordata al fattore religioso nella concreta
esperienza umana, si spiega con la obiettiva dif coltà di controllare le
conseguenze impreviste – e imprevedibili in linea di principio – dell’agire
teleologico:
La prassi quotidiana è sempre avvolta da una cerchia di ignoto che è impossibile padroneggiare
completamente. Quale meraviglia, allora, se in questa situazione che varia di continuo sul piano
qualitativo e quantitativo, ma che resta costante per il suo tratto di fondo, nella vita degli uomini
– nell’immediatezza della quotidianità – la trascendenza coesiste con l’immanenza dell’ambiente
conoscibile e viene sentita come realtà in ultima istanza decisiva? (vol. IV, p. 637).

Ma se il bisogno sociale della religione è relativamente semplice da


spiegare, non va dimenticato “che nessuna religione socialmente davvero
attiva può mai essere un’ideologia a sé, interiormente ben differenziata,
come per esempio il diritto e la morale”. Piuttosto essa “deve costituirsi in
una entità complicata, assai articolata e multiforme, per gettare un ponte
fra i particolarissimi interessi singoli degli uomini quotidiani e i grandi
bisogni ideali di quella data società nella interezza del suo essere-in-sé”
(vol. IV, p. 672). Dal che si comprende il motivo della de nizione della
religione come “forma intermedia sintetica fra la politica e la loso a”;
concetto che viene ribadito nel seguente passaggio: “Ogni religione
comprende in sé tutti i contenuti che in una società normale sono di solito
presenti nel sistema complessivo della sovrastruttura, nell’insieme delle
ideologie” (vol. IV, p. 673).
Questa proprietà della religione di lanciare un ponte fra la vita
particolare del singolo e le questioni generali della società, aggiunge
tuttavia Lukács poche righe sotto, non dovrebbe farci dimenticare “che
tali nalità della vita quotidiana sono, nel loro contenuto, mondane,
terrene. Nessuna persona desidererebbe mettere in moto delle potenze
trascendenti (cioè non crederebbe alla loro esistenza) se non sperasse di
ricevere da loro un aiuto per le sue nalità terrene” (vol. IV, p. 672).
Questa considerazione che può suonare scontata, se non addirittura
banale, appare meno banale ove si consideri che questa relazione di do ut
des rispecchia una forma consolidata nella totalità delle relazioni sociali:
“nel cristianesimo”, si chiede Lukács, “che altro è la salvezza dell’anima,
se non un – pur spiritualizzato – valore di scambio” (vol. IV, p. 659).
È per questo radicamento materiale nelle concrete esigenze e aspettative
della vita quotidiana che la fede non può essere messa in questione dalla
vita mondana di quegli aderenti a una chiesa “che può anche sembrare un
arbitrario nonsenso nell’ottica dei veri credenti”. Ciò perché resta
comunque il fatto che “un comportamento che sia divenuto sociale non
può rimanere in vigore e funzionare in nessuna società – religiosa o laica –
se esso in qualche modo, magari con motivazioni distorte, non soddis un
bisogno sociale reale” (vol. IV, p. 631). A maggior ragione – e qui siamo al
secondo dei tre momenti sopra anticipati – è priva di qualsiasi
fondamento l’aspettativa che la religione debba ritrarsi dal mondo a mano
a mano che in esso cresce il livello delle conoscenze scienti che:
[…] quantunque il processo di incivilimento produca di continuo conoscenze nuove intorno
alla natura e alla società, cadrebbe di nuovo vittima delle illusioni illuministiche chi pensasse che
esse di per sé costituiscano delle armi spirituali contro le estraniazioni, anche contro quella
religiosa. Si potrebbe quasi affermare che avviene il contrario (vol. IV, p. 643).

Quest’ultima affermazione, apparentemente paradossale, si spiega con la


complessa analisi storica che Lukács dedica all’evoluzione del rapporto fra
scienza e religione, a partire da quello che de nisce il “compromesso
bellarminiano”, in ragione del quale il cardinale Bellarmini avrebbe
risparmiato Galileo in virtù di un tacito accordo che, mentre concede alla
scienza la conoscenza della realtà, , ridotta alla mera utilità pragmatica e
dunque privata di ogni valenza ontologica, conferma la validità ontologica
delle verità della teologia. Un compromesso, argomenta Lukács, che è
stato ulteriormente consolidato da quella svolta neopositivista in campo
epistemologico che nega qualsiasi interesse scienti co agli interrogativi
“meta sici” sulla realtà67.
Passiamo ora al terzo momento, vale a dire al rapporto fra chiese e sette.
L’elemento politico che distingue la religione dall’arte e dalla loso a,
sostiene Lukács, consiste nel fatto che la prima, a differenza delle seconde,
si dota di strumenti organizzativi attraverso i quali esercita un potere
temporale oltre che spirituale. Ciò che distingue le sette dalle chiese è il
fatto che esse percepiscono questi apparati di potere, ma soprattutto “il
loro situarsi oltre il limite di un’azione solo morale”, come contrari
all’essenza stessa della religione (vol. IV, p. 519). Lukács approfondisce e
articola così – in un passaggio che richiama certe argomentazioni di Max
Weber68 – questa differenza: posto che setta e religione si fondano
entrambe sulla fede in una verità rivelata, la loro diversità “consiste
semplicemente nel fatto che le sette sono legate all’immediatezza,
all’azione permanente e profonda delle loro dottrine sulla vita personale,
per cui riconoscono come propri membri soltanto coloro che accolgono
senza riserve le loro dottrine, facendone il lo conduttore della propria
vita”. Viceversa la religione divenuta chiesa, nella misura in cui punta a
una propria diffusione universale, “per un verso deve organizzare
oggettivamente l’appartenenza a essa mediante istituzioni, per l’altro è
costretta […] a fare di continuo grosse concessioni ai propri aderenti nel
campo della fede e soprattutto nella condotta di vita” (vol. IV, p. 674).
Un esempio di queste logiche contrapposte, secondo Lukács, coincide
con l’evoluzione storica dal cristianesimo originario al cristianesimo
istituzionalizzato, evoluzione in ragione della quale la religione cristiana
perde la sua carica “sovversiva”, associata all’attesa della parusia come
evento imminente, per convertirsi in una istituzione interclassista e
universalista: le speranze sociali degli strati inferiori erano legate alla
vicinanza della parusia per cui è evidente
come solo lo spostamento all’in nito della sua data potesse garantire il predominio nella
religione di un orientamento che li staccava dalla sovversione sociale. Con ciò, naturalmente, si
attenuava anche l’originario settarismo plebeo, per far posto a un più organizzato modus vivendi
con i proprietari (vol. IV, p. 676).

Lukács rimprovera alla critica marxista della religione l’avere trascurato


questo originario potenziale sovversivo69. La vitalità e il fascino che la
gura di Gesù è riuscita a esercitare nel corso dei millenni è frutto della
capacità di evocare tale potenziale. Al tempo stesso, nella vitalità di questa
immagine, scrive Lukács,
si esprime il carattere duplice della religiosità settaria: insieme la sua forza e la sua debolezza. La
forza deriva dal fatto che le sette autentiche, capaci di muovere e spesso di scuotere a fondo la
società, si basano sulle contraddizioni reali che mettono in forte movimento gruppi alquanto
estesi fra le persone più avvertite e cercano per essi una via d’uscita degna dell’uomo […]. Di
qui, come plasticamente appare nell’opera di Gesù, il loro orientamento in prevalenza plebeo
(vol. IV, p. 681).

b) Commentario
Discutere la critica di Lukács alla formulazione gramsciana del concetto
di ideologia (vedi sopra), va oltre gli scopi di questo lavoro. Ciò che mi
pare chiaro è che, rispetto a quella di Gramsci, la versione di Lukács
appare ancora più “eretica” rispetto a quella del marxismo volgare, nel
senso che, se si accetta il suo punto di vista, l’ideologia non può in alcun
modo essere ricondotta a mera “illusione”, a una sorta di travestimento
puramente ideale che sottrae allo sguardo la cruda realtà fattuale
dell’economico. L’idea lukacsiana di fondo è che, nella misura in cui il
processo di socializzazione avanza, emancipandosi dalla determinazione
immediata da parte delle esigenze del processo di riproduzione dell’essere
sociale (che tuttavia non perdono mai il ruolo di elemento soverchiante in
ultima istanza), sorgono bisogni sociali che devono essere risolti tramite la
costruzione di sovrastrutture ad hoc che svolgono precise funzioni
riproduttive di tipo materiale, non si limitano cioè ad assolvere esigenze
puramente ideali.
Ancora più importante mi pare il criterio adottato per distinguere fra il
signi cato positivo e quello negativo del concetto. Per ssare tale con ne
(sempre storicamente determinato, a partire dall’analisi concreta di una
speci ca fase di sviluppo dell’essere sociale), Lukács ci riconduce alla
genesi del fattore ideologico in quanto prodotto dell’articolazione
dell’essere sociale in gruppi portatori di interessi in con itto reciproco.
Una volta superata la fase in cui il con itto si risolve con la violenza, a
partire cioè dal momento in cui la complessità delle relazioni sociali
impone di elaborare nuovi modi per gestirlo, emerge l’elemento
ideologico, il quale si manifesta come autoconvinzione della classe
dominante che i propri interessi coincidano con quelli della società intera.
L’ideologia rivela quindi n dalle origini la sua natura di strumento della
lotta di classe, e la sua caratterizzazione positiva e negativa ri ette tale
essenza, nella misura in cui dipende da quali sono gli interessi di classe
che esprime: serve alla conservazione dello status quo o al suo
superamento? La lotta ideologica – che in termini gramsciani si declina
come lotta per l’egemonia – è quindi direttamente e materialmente lotta di
classe. Il discorso vale anche per la teoria. Il richiamo alla celebre tesi
marxiana su Feuerbach – “I loso hanno [ nora] solo interpretato
diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo” – va di pari passo con
l’insistenza con cui Lukács caratterizza il marxismo come loso a della
prassi, facendoci capire che, dal suo punto di vista, la teoria serve solo se e
quando la classe se ne impadronisce, facendone una propria arma di lotta,
cioè solo se e quando essa si converte in forza materiale al servizio delle
masse. Il che, come già detto, avviene solo nella misura in cui si fa essa
stessa ideologia.
Passando alla seconda sottosezione: abbiamo visto come Lukács segua
quasi alla lettera la lezione di Lenin, dimostrando, da un lato,
l’inconsistenza delle letture “soggettiviste” del suo pensiero, tipiche di chi
si limita a esaltarne il genio rivoluzionario, senza tenere conto delle rigide
condizioni oggettive che lo stesso Lenin giudicava indispensabili per poter
parlare di situazione rivoluzionaria; ma dimostrando anche, dall’altro lato,
come nel modo stesso in cui Lenin descriveva tali condizioni – la
compresenza fra la volontà di cambiamento delle classi inferiori e la
impossibilità di mantenere lo status quo di quelle superiori – fosse già
inscritta la necessità del fattore attivo, soggettivo, il quale si esprime
attraverso l’elaborazione di un discorso ideologico. Discorso che, per
esercitare la propria forza materiale di trasformazione dell’esistente, deve
tuttavia incarnarsi in organizzazione. È facile prevedere quanto indigesta
appaia oggi l’adesione lukacsiana alla concezione leninista del partito
come coscienza politica trasportata alla classe dall’esterno, in quest’epoca
in cui le sinistre “radicali” ri utano qualsiasi visione gerarchica
dell’organizzazione politica, se non del politico in generale, e in
particolare della sua concrezione in potere70. Eppure è evidente perché
Lukács non potesse che essere leninista: il modo in cui Lenin descrive
l’esterno di cui sopra – vale a dire il campo dei rapporti di tutte le classi e
di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo – coincide
infatti con la visione lukacsiana della totalità dell’essere sociale come
“complesso di complessi”, nonché della lotta ideologica come tentativo di
presentare gli interessi di classe come interessi della società intera. Per
inciso, questo è lo stesso motivo per cui Gramsci, in barba a tutte le
letture post strutturaliste, post coloniali ecc. che ne sono state fatte, resta
inequivocabilmente leninista: i concetti gramsciani di egemonia e blocco
sociale alludono precisamente alla capacità dell’ideologia rivoluzionaria di
divenire egemone nei confronti della totalità del corpo sociale, e lo
strumento di tale capacità è il partito, come Gramsci ribadisce in più
occasioni nei Quaderni71. Posto che difendere la concezione leninista – ma
anche lukacsiana e gramsciana – del partito non comporta la
riproposizione dogmatica delle particolari forme organizzative che esso ha
assunto storicamente, resta la profonda differenza fra quella concezione e
la visione “orizzontalista” della politica che caratterizza le sinistre
occidentali contemporanee, la quale ha dimostrato in ogni occasione la
sua incapacità di incidere sui rapporti di forza fra le classi sociali.
Restando in argomento di pensiero politico “debole”, credo valga la
pena di ricordare le critiche che Lukács rivolge a quel processo di
“deideologizzazione” che ha provocato il trionfo di una paradossale
“ideologia dell’anti-ideologia” che si regge in realtà su un’ideologia
“forte”, in quanto eletta a pensiero unico e universalmente condivisa, vale
a dire sull’esaltazione della “libertà” come salvi co valore chiave per tutte
le questioni della vita. Un sintomo inquietante del salto di qualità che
questo processo di deideologizzazione ha compiuto in tempi recenti è la
scandalosa approvazione di una risoluzione del Parlamento europeo che
equipara fascismo e comunismo. Questa vergognosa falsi cazione storica
sarebbe stata inconcepibile no a vent’anni fa, benché si tratti dell’esito
conclusivo di un processo iniziato subito dopo la Seconda guerra
mondiale, il cui primo passo è consistito nella condanna dell’ideologia
nazifascista celebrata a Norimberga, un processo ai crimini di guerra dei
vinti celebrato dai vincitori (che nel contempo si assolvevano dei loro
crimini, a partire dalla nuclearizzazione di Hiroshima) e aveva lo scopo di
negare qualsiasi relazione fra forme “normali” e forme dittatoriali del
dominio di classe. A partire da quel momento le prime, identi cate con la
democrazia borghese, non erano più classi cabili come ideologie, termine
che veniva riservato alle idee fasciste. L’estensione della condanna al
comunismo non era allora praticabile perché quest’ultimo, oltre ad avere
offerto un contributo decisivo alla vittoria contro il nazifascismo, era
troppo forte e godeva di troppe simpatie da parte delle masse popolari
occidentali. I presupposti loso ci di tale estensione erano tuttavia già
presenti: basti pensare alla categoria di “totalitarismo” coniata da Hannah
Arendt72 che mirava esattamente a tale obiettivo, esattamente come la sua
contrapposizione fra la Rivoluzione americana, democratica e liberale
(cioè anti-ideologica), e la Rivoluzione francese, macchiata dal terrore
giacobino73.
A completare il lavoro hanno provveduto le evoluzioni parallele dei
partiti eurocomunisti e delle sinistre radicali nate sulle rovine dei
movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta. Dopo le rivolte
ungherese e cecoslovacca, queste forze politiche hanno preso congedo
dall’ideologia (termine ormai compiutamente negativizzato) marxista-
leninista e abbracciato versioni più o meno “radicali” della democrazia
borghese garante della “libertà” come valore assoluto, non più
analizzabile né criticabile da un punto di vista di classe. Il crollo dei
sistemi socialisti ha contribuito a dare il colpo di grazia: il passo successivo
è stato aderire senza riserve all’apparato concettuale e valoriale della
liberal-democrazia (a partire dalla concezione neoliberista dell’economia).
Da allora la tendenza è stata continuamente rafforzata attraverso la guerra
di classe dall’alto scatenata dal capitalismo globale, ormai libero dal
“ricatto” dell’alternativa socialista, e attraverso quel processo che
Wolfgang Streeck ha de nito il divorzio fra democrazia e liberalismo74,
riferendosi al progressivo smantellamento delle istituzioni democratiche
generate dal compromesso fordista del trentennio postbellico. Oggi
l’ideologia liberale, non più riconosciuta come tale ma eletta a principio di
civiltà unico, indiscutibile e universale, trova la de nitiva consacrazione
nella crociata per l’esportazione con ogni mezzo possibile – guerra
compresa – dei “diritti universali dell’uomo” in tutti quei Paesi – a partire
dalla Cina – che rivendicano la propria autonomia storica, culturale e
politica dal dominio occidentale.
Sui cosiddetti diritti dell’uomo e sull’ideologia liberale non credo vi sia
molto da aggiungere ai passaggi di Lukács e Marx citati nel Compendio.
Vale solo la pena di approfondire un paio di aspetti. Uno: il carattere
squisitamente individuale di tali diritti, il loro riferirsi a quello che Marx
chiama, come si è visto, “l’uomo ripiegato su sé stesso, sul suo interesse
privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità”. In effetti, se
analizziamo la pletora dei diritti che sorgono a getto continuo dalle più
disparate richieste di riconoscimento da parte dei gruppi più diversi, i
quali rivendicano in primo luogo il diritto di avere diritti75, non è dif cile
rendersi conto del fatto che tali presunti diritti, non solo non rispecchiano
più interessi di classe, ma non rispecchiano nemmeno interessi collettivi.
Non è un caso se Rodotà e altri identi cano il soggetto portatore di questi
“nuovi diritti” con una persona che rinvia a un astratto individuo
cosmopolita, privo di qualsiasi concreto connotato nazionale, culturale, di
genere, religioso, socioeconomico ecc.: una sorta di immaginario
“cittadino del mondo”76. Notiamo per inciso che, a portare acqua al
mulino di tale visione, hanno contribuito tanto la narrazione femminista
articolata attorno allo slogan il personale è politico77, quanto le tesi di
autrici come Judith Butler78 secondo cui l’identità sessuale, una volta
mondata di ogni condizionamento culturale, si riduce a libera scelta
individuale, per tacere delle deliranti pratiche linguistiche del
politicamente corretto79. Due: un altro aspetto su cui vale spendere
qualche parola è quell’atteggiamento che Lukács de nisce “conformismo
non conformistico”, riferendosi a quella tipologia di intellettuali che,
temendo di essere accusati “di fare dell’ideologia”, esprimono il proprio
disagio nei confronti dello status quo e del modo in cui i poteri dominanti
lottano per conservarlo “in forme che non vogliono né possono in alcun
modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo”.
Chi come il sottoscritto ha avuto modo di frequentare gli ambienti
dell’accademia, del giornalismo e più in generale dell’industria culturale sa
benissimo di cosa si parla qui: tutti coloro la cui carriera professionale o,
più banalmente, la cui quotidiana sopravvivenza dipendono dalla
benevolenza delle istituzioni culturali – pubbliche o private – per cui
lavorano, sono consapevoli dei con ni che le loro manifestazioni di
indipendenza critica non devono violare. Pur esaltando la “libertà di
opinione”, la esercitano con somma prudenza, avendo cura di garantirsi la
possibilità di rimanere “apprezzati collaboratori della manipolazione
universale” (secondo la sprezzante de nizione di Lukács).
Passando dal tema dei diritti dell’uomo alla critica della giustizia
borghese, mi pare importante riprendere il concetto lukacsiano che
stabilisce, quale condizione dell’allontanamento del diritto dall’esercizio
violento del dominio di classe, la sua trasformazione in un corpus di
princìpi e procedure che assumono la forma dello scambio economico.
Come si è detto, per Lukács (e per Marx), l’illusione delle classi
subalterne in merito alla possibilità di “ottenere giustizia” restando nei
con ni del sistema giuridico si basa sull’incomprensione del fatto che tale
sistema non può, in linea di principio, derogare da “una concezione in
de nitiva economica dell’uguaglianza”. Ciò non rappresenta ovviamente
una novità rispetto alla “classica” denuncia dell’essenza ideologica (cioè di
classe) del diritto. La novità sta piuttosto nel fatto che Lukács rispolvera
un aspetto relativamente poco frequentato del pensiero di Marx
sull’argomento, laddove cita quella parte della Critica al Programma di
Gotha in cui si afferma che nel socialismo come fase di transizione al
comunismo “il diritto uguale [cioè il criterio per cui ciascuno riceve in
proporzione al proprio lavoro] resta in sostanza un diritto borghese”.
Questo ovviamente perché la capacità produttiva varia in relazione alla
forza, all’intelligenza e al talento individuali, per cui applicare a tutti i
lavoratori un diritto uguale signi ca di fatto applicare un diritto disuguale
per lavoro disuguale. La questione è cruciale in relazione alla valutazione
della natura, dei limiti e delle prospettive di sviluppo dei Paesi socialisti
esistenti. In Cina gli intellettuali comunisti discutono apertamente
l’argomento, riconoscendo la fondatezza della critica di Marx ma
sostenendo, nel contempo, che il problema potrà essere risolto soltanto
con la transizione dal socialismo al comunismo, in una prospettiva di
lungo periodo80. Ci torneremo sopra nella quinta sezione, dedicata
appunto ai temi dell’utopia e del socialismo.
Passiamo in ne alla critica della religione. Non mi soffermerò sui
passaggi in cui Lukács ricostruisce le radici che il fenomeno religioso
affonda nella prassi sociale, svolgendo la funzione di “ponte” fra interessi
quotidiani del singolo e grandi bisogni ideali – motivo per cui egli lo
de nisce come una “forma intermedia fra politica e loso a”; né
riprenderò la sua critica nei confronti della sottovalutazione “illuminista”
della potenza materiale del religioso, sottovalutazione associata
all’illusione secondo cui le scoperte scienti che – e più in generale
l’avanzamento di tutte conoscenze umane sulla realtà e sul mondo –
sarebbero fatalmente destinate a spegnere la fede religiosa. Mi
concentrerò invece sull’analisi della differenza fra logica settaria e logica
istituzionale. La parte in cui Lukács ricostruisce le differenze
“idealtipiche” fra chiesa e setta mi pare non si discosti molto dal
contributo che Max Weber ha dato a tale argomento81. In effetti, si
potrebbe persino sostenere che Weber è andato più a fondo
nell’evidenziare non solo le differenze, ma anche il rapporto dialettico fra i
due fenomeni: da un lato la setta come fattore di rinnovamento e
rivitalizzazione della fede “assopita” nella routine della prassi ecclesiale,
dall’altro la chiesa come esito dell’inevitabile processo di
assestamento/consolidamento istituzionale, successivo all’esaurirsi della
“spinta propulsiva” della rivelazione profetica. Tuttavia l’analisi di Lukács
è decisamente più consistente laddove affronta il tema dei rapporti di
forza fra le classi sociali che sovradeterminano questo gioco dialettico. In
particolare, laddove evidenzia il carattere sovversivo e “plebeo”
dell’originario messaggio cristiano, nonché la sua successiva
neutralizzazione, dovuta all’allontanamento della parusia82: nché questa
era annunciata come imminente, essa appariva associata a una visione
egualitaria del mondo, alimentando speranze, aspettative e rivendicazioni
degli “ultimi”; il suo allontanamento verso un orizzonte temporale
inde nito, tendenzialmente coincidente con l’in nito, ha viceversa
consentito l’instaurazione di un modus vivendi con gli strati sociali
superiori, no a convertirsi in culto “uf ciale” del potere politico,
economico e culturale.
Tuttavia Lukács aggiunge che il fascino della gura di Cristo, immutato
nel corso dei millenni, è associato alla persistenza, sia pure sottotraccia,
dell’originario messaggio “classista”, alla sua capacità di rispondere alle
“contraddizioni reali che mettono in movimento gruppi estesi”. Questo
contenuto ideologico potenzialmente “rivoluzionario” riaf ora
periodicamente: Lukács cita in merito la guerra dei contadini in
Germania83, ma si pensi anche ai movimenti ereticali del Medioevo e alla
gura di San Francesco, senza dimenticare il ruolo fondamentale che la
“teologia della liberazione” ha svolto – e tuttora svolge – in tutte le
rivoluzioni sociali dell’America Latina84. Questa oscillazione temporale fra
potere delle chiese e insorgenze settarie ed ereticali presenta evidenti
analogie con certi passaggi della storia del marxismo, e più in generale del
movimento operaio negli ultimi due secoli: dopo il consolidamento del
potere socialdemocratico, proseguito no allo scoppio della Prima guerra
mondiale, e caratterizzato dal progressivo rafforzamento delle strutture
organizzative di partiti e sindacati, e dalla conquista di rapporti di forza
tali da migliorare le condizioni materiali di vita del proletariato e ottenere
l’allargamento degli spazi democratici all’interno del sistema capitalistico,
è arrivata la crisi della Seconda Internazionale e il diffondersi dell’eresia
comunista in Russia e in altri Paesi europei, così come dopo la
normalizzazione riformista dei partiti comunisti dell’Europa occidentale,
culminata con la svolta eurocomunista, sono arrivati i movimenti sociali
degli anni Sessanta e Settanta e i loro (maldestri) tentativi di ricostruire un
progetto rivoluzionario orientato al superamento del sistema capitalistico.
Dopo la trasformazione dei partiti ex comunisti in chiese liberal-
democratiche associate al culto universale del libero mercato, siamo
viceversa ancora in attesa di un nuovo sussulto capace di rivitalizzare
l’“annuncio” del Manifesto di Marx ed Engels.

3.5. Libertà, socialismo, utopia


a) Compendio
Nella quarta sezione abbiamo esaminato la critica lukacsiana della
religione e del diritto che, come si è visto, non vengono liquidate come
dimensioni “illusorie”, prive di spessore ontologico. Nella stessa sezione
abbiamo ripreso il tema della critica del concetto di necessità storica
elaborato dal materialismo volgare. In questa quinta e ultima sezione
riprenderemo lo stesso argomento, a partire dalla critica all’antitesi fra
necessità e libertà posta dal pensiero idealistico. Contro questa
impostazione, Lukács sottolinea che
il problema della libertà può essere posto in maniera sensata soltanto in un rapporto di
complementarietà con la necessità. Se nella realtà non ci fosse nessuna necessità, non sarebbe
possibile neppure la libertà, la quale però non esisterebbe nemmeno in un mondo dominato dal
determinismo di Laplace, dal “ritorno dell’identico” di Nietzsche, e così via (vol. IV, p. 350).

L’opposizione fra necessità e libertà da cui muove il pensiero orientato


in senso logico-gnoseologico
identi ca semplicemente il determinismo con la necessità, in quanto generalizza ed estremizza in
termini razionalistici il concetto di necessità, dimenticando il suo carattere ontologico autentico
di “se… allora”. In secondo luogo, la loso a premarxiana, anzitutto quella idealistica […] per
la massima parte estende in modo ontologicamente illegittimo il concetto di teleologia alla natura
e alla storia, per cui ha grandissima dif coltà a impostare il problema della libertà nella sua
forma vera, autentica, reale (vol. III, p. 117).

Per impostarlo nella sua forma autentica, argomenta Lukács, occorre


ricercarne il fondamento nella “decisione concreta fra diverse possibilità
concrete; se la questione viene portata a un più alto livello di astrazione
distaccandola del tutto dal concreto, essa perde ogni contatto con la
realtà, diviene una vuota speculazione” (vol. III, p. 113). Poco oltre
avverte che più complicato è rispondere alla domanda
no a che punto il determinismo esterno o interno alla decisione può essere inteso come criterio
della sua libertà. Se l’antitesi fra determinismo e libertà viene concepita in termini astratto-
logicistici, si viene a dire che soltanto un dio onnipotente potrebbe davvero essere interamente
libero, il quale però, data la sua essenza teologica, poi esisterebbe oltre la sfera della libertà.

Ma nell’uomo, che “vive nella società e socialmente agisce”, “la libertà


non è mai del tutto priva di determinismo”.
Lukács ripropone quest’ultimo principio laddove liquida l’illusoria
convinzione che i singoli possano compiere “atti soggettivi puri”. Si può
credere che esista qualcosa del genere solo nella misura in cui gli atti in
questione vengono considerati nella loro immediatezza sempli cata ed
estremizzata, dimenticando che, a metterli in moto, è sempre in ultima
analisi “l’impulso a produrre una ‘risposta’ a domande poste dalla
società”, dal momento che l’uomo “non può mai agire in situazioni
umanamente vuote, anzi ciascuna delle sue azioni, anche la più bizzarra
[…] non può non provenire da comunità umane e in qualche maniera
sfociare in esse” (vol. I, p. 69). Tanto meno l’opposizione fra libertà e
necessità si regge ove venga formulata come opposizione fra sfera
dell’agire orientato allo scopo e sfera delle relazioni causali, fra
intenzionalità umana e legalità naturale, fra teleologia e causalità:
contrapporre queste dimensioni come momenti dell’essere è, dal punto di
vista ontologico, privo di senso, in quanto “la causalità può esistere e
operare senza teleologia, mentre questa può avere essere reale nel gioco
con la causalità, soltanto come momento di tale complesso, presente solo
nell’essere sociale” (vol. IV, p. 336). Ancora una volta la libertà può essere
concepita dunque solo come esito del fatto che l’agire teleologico produce
nel mondo fenomenico campi “liberi”, la cui libertà, tuttavia, “è possibile
solo all’interno delle legalità del campo” (vol. IV, p. 376).
In poche parole: il modello concettuale all’opera dietro ogni
argomentazione lukacsiana resta sempre quello del lavoro come ricambio
organico fra uomo e natura. Teleologia e causalità si mettono in relazione
nell’essere sociale esattamente come avviene nella prassi lavorativa:
I processi, le situazioni ecc. sociali sono bensì in ultima analisi prodotti di decisioni alternative
degli uomini, ma non va dimenticato che acquistano rilievo sociale solo quando mettono in
funzione serie causali che si muovono più o meno indipendentemente dalle intenzioni di chi le
ha poste, secondo legalità speci che a esse immanenti. L’uomo che agisce praticamente nella
società si trova perciò di fronte a una seconda natura [ricordiamo che per Lukács il concetto di
seconda natura è da intendersi in senso metaforico], verso la quale egli, se vuole gestirla con
successo, deve comportarsi come con la prima, cioè deve cercare di trasformare in un fatto posto
da lui il corso delle cose che è indipendente dalla sua coscienza, deve, dopo averne conosciuto
l’essenza, stamparci l’impronta di quel che egli vuole (vol. III, p, 125).

Ciò detto, ciò che ci appare qui come un campo “libero”, incontra il
proprio limite nella misura in cui “l’analisi ci mostra un ulteriore
momento signi cativo del determinismo del soggetto dell’alternativa: la
necessaria ignoranza delle sue conseguenze o almeno di una parte di
esse”. È facile infatti constatare “come sia anzitutto la vita quotidiana che
di continuo pone davanti ad alternative inattese e spesso bisogna trovare
una risposta immediata, pena la rovina; in tal caso il carattere essenziale
dell’alternativa medesima è che bisogna decidere non conoscendo la
maggioranza delle componenti della situazione, delle conseguenze ecc.”
Ciò signi ca che l’ignoranza delle conseguenze dell’agire rimuove ogni
elemento di libertà dall’agire stesso? No perché, “anche così resta un
minimo di libertà della decisione; anche in questo caso [cioè l’azione
dettata dalla necessità di reagire immediatamente di fronte ad alternative
inattese, N.d.A.] – come caso limite – si tratta pur sempre di una
alternativa e non di un evento naturale determinato da una causalità
puramente spontanea” (vol. III, p. 114).
La tensione fra l’apertura del campo delle alternative possibili che si
offrono all’agire del soggetto umano e i vincoli posti dalla legalità del
contesto sociale in cui esso opera attinge ai massimi livelli a fronte
dell’enorme sviluppo della potenza tecnico-scienti ca alimentato dal
capitalismo contemporaneo. Da un lato, quest’ultima sembra fare
dell’individuo “un plasmatore sovrano di tutte le cose”, “di fronte alla cui
volontà plasmatoria non c’è nessun mondo dell’essere che risulti
indipendente”, dall’altro lato, “ogni uomo diventa un nulla impotente di
fronte alla onnipotenza della manipolazione”. L’aspetto più rilevante della
nostra epoca, per quanto concerne il rapporto fra teleologia (libertà) e
necessità (determinismo), può quindi essere descritto come “il coesistere
di una onnipotenza astratta e di una concreta impotenza”85. Questo
paradosso non è il risultato di tendenze puramente “oggettive”, di
dispositivi meramente causali, bensì dell’agire egemonico dell’ideologia
(intesa come necessaria espressione di interessi determinati) dei gruppi
dominanti:
Basta ricordare con quale forza l’attuale capitalismo manipolato, con i suoi interventi
“regolati” sul mercato dei consumi e dei servizi, con i suoi mass media, agisca nel senso di
restringere la possibilità di decisioni veramente personali (proprio mediante l’apparenza
propagandistica del loro massimo dispiegamento) (vol. I, p. 185).

In tale direzione, accanto a (e in sinergia con) i meccanismi manipolativi


della comunicazione pubblicitaria e mediatica operano quelli del sistema
educativo: “ogni educazione è per l’appunto diretta a sviluppare
nell’alunno possibilità molto determinate, che nelle date circostanze
appaiono socialmente importanti, e a reprimere o modi care quelle che
vengono considerate dannose per tale situazione” (vol. I, p. 187). Per dirlo
con altre parole: le alternative cui veniamo messi di fronte – e che
delimitano il campo delle nostre scelte e quindi l’ampiezza della nostra
libertà – non sono mai semplicemente “date” (prodotto cioè di vincoli
meramente “oggettivi”), “ma vengono sviluppate con consapevolezza più
o meno giusta oppure si tenta di reprimerle, per formare un essere umano
utile e utilizzabile per la società” (Ibidem). Quanto appena detto vale
tanto per la società capitalista quanto per quella socialista, intesa come
transizione verso il comunismo, mentre quest’ultimo, nella prospettiva
utopistica delineata da Marx, dovrebbe proiettarsi al di là delle modalità
di relazione fra libertà e necessità sin qui descritte, verso una nuova
dimensione del concetto di libertà umana. (Del modo in cui Lukács
affronta il tema dei rapporti fra necessità e libertà nel socialismo e nel
comunismo discuteremo nel commentario di questa sezione.)
A fondare la possibilità (non la necessità!) di una forma sociale più
avanzata del capitalismo è il fatto che “il lavoro teleologicamente,
consapevolmente, posto contiene in sé n dall’inizio la possibilità
(dynamis) di produrre più di quanto è necessario per la semplice
riproduzione di colui che compie il processo lavorativo”. Questa capacità
del lavoro, prosegue Lukács, “crea la base oggettiva della schiavitù, prima
della quale esisteva solo l’alternativa di uccidere o di adottare il nemico
fatto prigioniero” e, dopo avere aggiunto che, analogamente, è tale
capacità che ha consentito il cammino storico delle successive forme
economiche no al capitalismo, nel quale “questo valore d’uso della forza-
lavoro diviene la base dell’intero sistema”, conclude il ragionamento
ricordando che quale che sia l’orrore ideologico che prende qualche
teorico di fronte all’espressione pluslavoro “anche il regno della libertà nel
socialismo, la possibilità di un tempo libero sensato, riposa su questa
fondamentale peculiarità del lavoro di produrre più di quanto occorra per
la riproduzione del lavoratore” (vol. III, p. 136). Come si vede, i passaggi
dall’una all’altra forma sociale sono qui posti sotto la categoria della
possibilità, a conferma del fatto che, per Lukács – come per Marx86 – non
esiste una direzione immanente al processo storico scandita dagli
automatismi evolutivi delle forze produttive, bensì un progressivo
allargamento del campo di possibilità disponibili sotto forma di
alternative poste di fronte alla soggettività umana.
Posto che il regno della libertà si potrà realizzare solo nel comunismo –
come Lukács ricorda citando quanto scrive Marx nel III libro del
Capitale: “il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro
determinato dalla necessità e dalla nalità esterna; si trova quindi per sua
natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria” –, nel
socialismo come prima fase del comunismo la libertà
può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano
razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune
controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca […]. Ma questo rimane
sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è
ne a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può orire soltanto sulle basi di quel
regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata
lavorativa.87

Da queste citazioni Lukács estrae, fra le altre cose, la considerazione che


“l’economia [intesa in senso generale] è e rimane anche nel socialismo il
regno della necessità”, nella misura in cui la lotta dell’uomo con la natura
per soddisfare i suoi bisogni e riprodurre la propria vita “non può, per
principio, cambiare dati i suoi fondamenti ontologici” (vol. IV, p. 510). Ne
fa inoltre discendere il fatto che, nella misura in cui ricon gura forma e
contenuto della relazione fra necessità (l’economia come ricambio
organico fra uomo e natura) e libertà (che ora si con gura come controllo
consapevole dei produttori associati sull’economia), il socialismo prepara
le condizioni per la transizione al comunismo. Precisando tuttavia che
il processo in quanto tale, dal punto di vista ontologico, non fa che produrre ogni volta il reale
campo di possibilità af nché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato
oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza
delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo (vol.
IV, p. 511).

Se il comunismo dovrà essere la forma sociale in cui il lavoro sarà “non


soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno di vita” (Marx), al
socialismo spetta il compito di preparare le condizioni perché ciò possa
avvenire, perché allo sviluppo illimitato delle forze produttive promosso
dal modo di produzione capitalistico possa essere sottratto il senso
economico, “anche se oggi possiamo vedere soltanto certe tendenze – che
non è possibile interpretare in modo del tutto univoco – in tale direzione”
(vol. IV, p. 513). Da notare che Lukács non considera tutto ciò
esclusivamente come tendenza verso un futuro possibile, ma mette in luce
come la storia abbia già prodotto esempi parziali di un simile
orientamento:
[…] dalle semplici economie contadine, in circostanze relativamente favorevoli, no
all’artigianato del tardo Medioevo e del Rinascimento, ci sono state ripetutamente situazioni
nelle quali il lavoro ha potuto avere questa funzione nella vita degli uomini. Ma sempre in
maniera transitoria, perché no a oggi lo sviluppo economico ha sempre per forza di cose88
distrutto tali realizzazioni soggettive fondate sull’arretratezza delle forze produttive (vol. IV, p.
512).

A conclusione del passaggio appena citato, Lukács sostiene che


l’impulso emotivo dell’uomo a trovare nel lavoro il senso della propria vita
è inestirpabile89, ed è probabilmente tale convinzione che altrove lo
induce ad affermare che certe rappresentazioni positivo-nostalgiche del
passato, “ovviamente con riadattamenti adeguati ai tempi, abbiano in
periodi di crisi un grande peso e svolgano una funzione positiva” (vol. IV,
p. 798), non siano, cioè, automaticamente liquidabili come rigurgiti
ideologici di segno conservatore o francamente reazionario90.
A questo punto dobbiamo chiederci: in quale misura Lukács crede
realmente91 nella possibilità reale, concreta, della realizzazione dell’utopia
marxiana, e in quale misura non la considera piuttosto come uno
strumento per l’azione politica, come una “ideologia”, nel senso positivo
chiarito nella precedente sezione? Dare una risposta secca non è facile,
perché nel testo lukacsiano non mancano elementi di ambiguità.
Ambiguità che emerge, per esempio, laddove Lukács si occupa appunto
della funzione ideologica dell’utopia, scrivendo che l’impossibilità di
tradursi in realtà di quest’ultima
non signi ca tuttavia che essa non eserciti un in usso ideologico. Infatti tutte le utopie che si
muovono a livello loso co non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in
maniera diretta sul futuro immediato. […] l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono
essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo,
anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità (vol. IV, p. 522).

Dobbiamo dunque considerare irrilevante l’interrogativo formulato


poco sopra, dal momento che ci viene detto che, dal punto di vista della
prassi politica, la concreta realizzabilità dell’utopia è inin uente? Ciò non
renderebbe giustizia all’impegno che Lukács profonde nel misurarsi con
la “verità” dell’utopia marxiana. È vero che dedica poco spazio a un tema
che gli intellettuali marxisti di orientamento libertario considerano
cruciale, ossia la previsione dell’estinzione dello Stato nella società
comunista realizzata (in proposito scrive semplicemente che “l’estinzione
è questione dello sviluppo futuro, che non è prevedibile” (vol. III, p.
220)). Ma è altrettanto vero che, altrove, sembra prendere molto sul serio
il discorso marxiano sulle mutazioni antropologiche associate all’avvento
del comunismo realizzato. Per esempio, dopo avere ricordato (vol. IV, p.
573) come per Marx l’avere rappresenti nella vita degli individui una
potente fonte di estraniazione, inserisce questa lunga citazione dai
Manoscritti economico- loso ci:
La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi
umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e
qualità sono divenuti umani sia soggettivamente che oggettivamente (in altre parole i sensi così
“umanizzati”) si rapportano sì alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un
comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento
ha perciò perduto la sua natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento
che l’utile è divenuto utile umano (p. 329).

Non vi è dubbio che Lukács faccia qui propria la visione marxiana che
attribuisce all’uomo comunista un forte connotato di “autenticità”, nella
misura in cui prevede che egli possa compiutamente emanciparsi da ogni
forma di estraniazione. Del resto non è un caso se critica quelle correnti
loso che (a partire dagli esistenzialisti) che non considerano
l’estraniazione una caratteristica peculiare della società borghese e
capitalistica, bensì “una ‘condition humaine’ universale e sovrastorica,
dove ad esempio l’uomo si contrappone alla società, il soggetto alla
oggettività ecc.” (vol. IV, p. 568). Dobbiamo dedurne che ritiene che ogni
e qualsiasi tipo di estraniazione sia destinata a sparire nel comunismo
realizzato? Non suonerebbe ciò come un annuncio di “ ne della storia”,
in palese contraddizione con la concezione lukacsiana del processo storico
che abbiamo n qui tentato di ricostruire? Proveremo ad affrontare
questo interrogativo nelle pagine seguenti.
b) Commentario
La prima parte dei materiali selezionati e raccolti in questa sezione
contiene una serie di argomentazioni critiche contro il concetto astratto di
libertà. Molte di esse mi paiono suf cientemente chiare, tanto da non
richiedere particolari apporti esplicativi, per cui mi concentrerò solo sugli
aspetti che ritengo propedeutici alla discussione sul tema della transizione
dal capitalismo al socialismo come passaggio dal regno della necessità al
regno della libertà. Inizio provando a evidenziare il lo rosso che connette
questi due piani del discorso lukacsiano, identi cabile, a mio parere, nel
tema dell’estensione del campo di possibilità che il lavoro – inteso come
dimensione dell’agire teleologico – viene progressivamente generando a
mano a mano che avanza il processo di socializzazione dell’essere sociale.
Questo processo non è lineare, né univocamente direzionato da un
qualche tipo di teleologia immanente, ma consiste in una serie di scelte
che mettono in moto catene causali – il cui esito è in larga misura
imprevedibile per il soggetto che opera tali scelte (e questa è la breccia
attraverso cui la necessità torna a imporre pedaggio alla libertà) – le quali,
a loro volta, dischiudono un nuovo campo di possibilità e quindi pongono
il soggetto di fronte ad alternative inedite, concedendogli un nuovo spazio
in cui esercitare una libertà che, tuttavia, come si è visto, “è possibile solo
all’interno delle legalità del campo”.
Il soggetto cui qui si riferisce Lukács non è il soggetto individuale che
sta al centro della concezione liberale del mondo e della politica. Un
soggetto che, secondo tale concezione, è portatore esclusivamente di
libertà “negative”, “libertà da”, nella misura in cui il fardello della
necessità viene espulso dall’orizzonte quotidiano di vita e proiettato sul
Leviatano, sul corpo arti ciale della soggettività collettiva incarnato dallo
Stato, secondo la raf gurazione di Hobbes (l’ideologia liberale non può
tollerare la “libertà di”, che implica inevitabilmente una limitazione delle
libertà individuali – in primis della libertà associata al diritto di proprietà
privata – laddove queste entrano in con itto con esigenze e bisogni
collettivi, proprio perché ciò comporta l’intrusione del Leviatano nella
sfera privata del singolo92). Questo soggetto, per Lukács come per Marx, è
una costruzione arti ciale che letteralmente non esiste: nessuno può
compiere “atti soggettivi puri”, per la semplice ragione che ogni atto
soggettivo è sempre e solo una “risposta” a domande poste dalla società.
Nemmeno proiettando lo spettro della necessità sul Leviatano è possibile
esorcizzarlo, in quanto nulla può impedire che le “leggi” (le catene
causali) generate dalla totalità delle relazioni intersoggettive – tanto fra
singoli che fra gruppi sociali – impongano vincoli stringenti all’azione di
ciascuno, operando come una “seconda natura”.
Tuttavia, per alimentare il perpetuarsi dell’illusione, l’ideologia liberale
può contare sull’enorme sviluppo della potenza scienti ca e tecnologica
che, nel corso dell’ultimo secolo e mezzo e con un’accelerazione
formidabile negli ultimi decenni, ha sgombrato il campo da gran parte
degli ostacoli che la “prima” natura poneva alla libertà umana. La
celebrazione del progresso tecnologico e scienti co alimenta una sfrenata
euforia, sistematicamente ampli cata dalla narrazione dei mass media e dal
sistema educativo, che induce a rappresentare, scrive Lukács, il moderno
soggetto umano come “il plasmatore di tutte le cose”, che concentra
l’attenzione sul continuo proliferare di inedite possibilità di
comunicazione a distanza, di cure mediche, di viaggi veloci, di consumo di
prodotti e servizi di ogni genere ecc., mentre proietta un cono d’ombra
sulle contraddizioni generate dagli effetti imprevisti e imprevedibili di tale
accelerazione: dal degrado ambientale, alla progressione geometrica delle
disuguaglianze economiche e sociali. Nel contempo, l’immagine del
Leviatano – fonte di una necessità incarnata da un insieme di regole,
valori, procedure e princìpi percepiti come arbitrarie imposizioni –
subisce un’ulteriore negativizzazione consentendo al capitalismo di
addebitare all’invadenza dello Stato il perpetuarsi di vincoli all’agire
individuale che la scienza e la tecnica sarebbero ormai in grado di
rimuovere93. Nasce così quella coesistenza fra onnipotenza astratta e
concreta impotenza che fa sì che “ogni uomo diventi un nulla impotente
di fronte alla onnipotenza della manipolazione”.
Il lo rosso che connette questa analisi al discorso sul socialismo come
regno della libertà sta qui, ma qui stanno anche le contraddizioni e le
problematicità con cui questo lo è intessuto. Parlare di coesistenza fra
onnipotenza astratta e concreta impotenza non vuol dire mettere
implicitamente in discussione il dogma in base al quale quanto più elevato
è il livello di sviluppo delle forze produttive, tanto più si avvicina la
concreta possibilità della transizione al socialismo, il passaggio dal regno
della necessità al regno della libertà? È pur vero che Lukács,
contrariamente ai marxisti volgari, concepisce tale transizione come una
possibilità, non come una necessità dettata da presunte “leggi” del
processo storico, il quale
dal punto di vista ontologico, non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità
af nché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso
opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni
alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo.

Questo spostamento del punto di vista ricon gura il dogma della


transizione al socialismo come prodotto della contraddizione fra forze
produttive e rapporti di produzione, nella misura in cui la contraddizione
non viene più presentata come motore “oggettivo” del processo bensì
come condizione di possibilità. Possiamo accontentarci di questo?
Per rispondere, occorre inquadrare storicamente il discorso di Lukács. Il
losofo ungherese scrive l’Ontologia negli anni Sessanta, epoca in cui il
socialismo reale, che di lì a poco sarebbe entrato in crisi, si era già lasciato
alle spalle mezzo secolo di storia e aveva dovuto aggiornare più volte i
concetti su cui fondava la propria autolegittimazione, per cui la ri essione
lukacsiana risente di questo lungo e complesso travaglio ideale di cui non
è possibile rendere pienamente conto nello spazio limitato di questo
lavoro. Partendo da un recente articolo di Vladimiro Giacché94, siamo
tuttavia in grado di ricostruire alcuni passaggi fondamentali del dibattito
teorico sul socialismo dagli anni Settanta del secolo XIX ai giorni in cui
Lukács scrive la sua opera. Giacché prende le mosse dall’Anti-Dühring di
Engels95 un testo uscito alla ne degli anni Settanta dell’Ottocento che,
come La Critica al Programma di Gotha scritta da Marx qualche anno
prima, aveva, fra gli altri scopi, appunto quello di fare chiarezza sulla
questione del socialismo che, in quel periodo, era oggetto di divergenze
all’interno del Partito Socialdemocratico tedesco. In quel lavoro Engels
afferma chiaramente che la società socialista non è caratterizzata solo dalla
socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla ne della
produzione mercantile e dei rapporti monetari. In altre parole, quelle che
più tardi verranno descritte come caratteristiche del comunismo realizzato
vengono qui già attribuite al socialismo come prima fase del comunismo.
In proposito, basti leggere queste citazioni dal testo di Engels inserite
nell’articolo di Giacché: “La lotta per l’esistenza individuale cessa, l’uomo
si separa de nitivamente dal regno degli animali e passa da condizioni di
esistenza animali a condizioni di esistenza umane”; “Per la prima volta [gli
uomini] diventano coscienti ed effettivi padroni della natura in quanto
padroni della propria organizzazione sociale”; “Solo da questo momento
gli uomini stessi faranno con piena coscienza la loro storia”. Engels scrive
inoltre che sparisce il valore lavoro e la contabilità sociale si basa sulla
“sola misura naturale, adeguata, assoluta, il tempo”.
Mi pare non sussistano dubbi: per Engels il passaggio dell’umanità dal
regno della necessità al regno della libertà – o almeno il suo primo,
decisivo passo – si compie già nella società socialista. Questa visione,
ricorda Giacché, non era condivisa dal solo Marx, ma anche da esponenti
di primo piano della Socialdemocrazia tedesca e della Seconda
Internazionale, come Kautsky e Hilferding; quest’ultimo negava, ad
esempio, qualsiasi ipotesi di gradualismo nell’attuazione del programma
delineato da Engels (vedi in merito quest’altra citazione di Giacché: “Un
tale rovesciamento può veri carsi solo in modo subitaneo, sottoponendo
l’intera produzione a un consapevole controllo”). Del resto, questo punto
di vista non verrà messo in discussione nemmeno da Bucharin e Lenin
negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione del 1917: no al
1919-1920 Lenin pensava ancora che al monopolio di Stato sul
commercio sarebbe dovuta subentrare la sostituzione totale del
commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano. Tuttavia,
negli anni 1921-1923 (siamo alla NEP), Lenin, in un primo tempo critica la
convinzione per cui si sarebbe potuti passare direttamente al socialismo
senza un periodo di transizione in cui adattare la vecchia economia alle
esigenze della nuova, dopodiché nisce per ammettere che, per arrivare al
socialismo, sarebbe stata necessaria una lunga fase di transizione,
caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari.
Nel periodo staliniano le caratteristiche che Engels attribuiva alla società
socialista verranno proiettate nell’inde nito futuro della società comunista
realizzata96, laddove la società socialista verrà riconosciuta come un
autonomo e speci co modo di produzione, nel quale, assieme ai rapporti
mercantili e monetari, persistono anche la legge del valore e il suo ruolo
nella regolazione degli scambi economici97. In ne, nell’epoca post
staliniana in cui scrive Lukács, i Paesi socialisti saranno al centro di una
serie di tentativi di riforme economiche, con le quali si tentava di
razionalizzare e risolvere i con itti e le contraddizioni generate dalla
coesistenza fra piano e mercato. In che misura questo tormentato
processo si rispecchia nelle ri essioni loso che di Lukács?
Nel Compendio abbiamo evidenziato come il nostro prenda le mosse,
anche nel discutere i temi della transizione, dal lavoro: il regno della
libertà è possibile solo in quanto il lavoro contiene in sé la dynamis che gli
consente di produrre pluslavoro, cioè più del necessario per riprodurre il
soggetto che lo compie. Quindi la possibilità della transizione al
socialismo si fonda, né più e né meno di quella dalla schiavitù al
feudalesimo e di quella dal feudalesimo al capitalismo, su questa proprietà
del lavoro. Ciò detto, Lukács ci dice che, visto che l’economia in senso
generale, metastorico – cioè l’economia intesa come ricambio organico fra
uomo e natura –, non può discostarsi dai suoi fondamenti ontologici, ne
discende che essa rimane il regno della necessità anche nel socialismo, per
cui siamo già di fatto nell’ordine del “realismo” dell’ultimo Lenin,
allorché costui accantona le aspettative engelsiane sulla società socialista
come regno della libertà.
È pur vero che Lukács non nega che, in linea di principio, possano
realizzarsi condizioni che consentano all’essere sociale di proiettarsi “oltre
la sfera della produzione materiale vera e propria”, sottraendo allo
sviluppo delle forze produttive il suo signi cato economico. Tuttavia non
sembra casuale il fatto che, per descrivere il comunismo, eviti di riferirsi ai
sopracitati scritti di Engels o di Lenin prima della NEP, e preferisca citare il
Marx dei Manoscritti e alcuni passaggi delle opere maggiori come il
Capitale o i Grundrisse. Ecco perché, come anticipato in precedenza, mi
azzardo a ipotizzare che, trattando dell’orizzonte utopistico del
comunismo, Lukács compia un gesto “ideologico” più che avanzare una
previsione sull’evoluzione dell’essere sociale. Soprattutto perché tutti
quegli annunci in merito all’avvento di una umanità “autentica” –
formulati con un tono profetico non dissimile da quello di Bloch (vedi
Capitolo secondo) – che abbiamo sentito citare poco sopra, somigliano ad
altrettante profezie di “ ne della storia” scarsamente compatibili con
l’impianto loso co lukacsiano. In ne perché quel passaggio in cui
Lukács scrive che “l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono
essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è
all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore
per lo sviluppo dell’umanità”, mi sembra indizio signi cativo di una
propensione ad assumere l’utopia soprattutto come strumento di lotta
ideologica più che come concreto obiettivo politico.
Si potrebbe concludere dicendo che, mentre nell’Ontologia la critica
dell’impostazione idealista del rapporto fra necessità e libertà appare un
compito brillantemente risolto, la questione del socialismo come regno
della libertà rimane impaniata in una serie di tensioni che ri ettono le
contraddizioni irrisolte del sistema socialista in cui Lukács ha trascorso la
vita intera. Eppure proprio quelle tensioni possono rivelarsi pro cue per
affrontare un tema di bruciante attualità: come collochiamo il socialismo
cinese nel quadro concettuale appena abbozzato? Sul fatto che in Cina
non viga il regno della libertà non possono sussistere dubbi, anche perché
sono gli stessi intellettuali comunisti di quel Paese a escluderlo98. Ma che
dire dell’atteggiamento della maggioranza dei marxisti occidentali
contemporanei, i quali, di fronte allo straordinario successo
dell’esperimento del socialismo di mercato cinese99, che in pochi decenni
ha consentito a un Paese ex coloniale di divenire la seconda potenza
economica mondiale e di riscattare dalla povertà un miliardo di esseri
umani, ri utano di chiedersi se questo fenomeno sposti i termini della
de nizione stessa di cos’è una società socialista?
Conosciamo gli argomenti con cui costoro si sottraggono alla domanda:
in Cina, si sostiene, c’è un capitalismo di Stato che sta rapidamente
regredendo verso una società capitalista tour court100; non è possibile
costruire il socialismo in un solo Paese101; la Cina è un Paese totalitario102
ecc. Conosciamo anche gli argomenti con cui i comunisti cinesi replicano
a tali accuse: la transizione al socialismo è un processo di lunga durata,
che implica avanzate e ritirate, vittorie e scon tte, in cui non solo
permangono relazioni di mercato, ma permane anche la lotta di classe, dal
cui esito dipende se il processo andrà avanti o sarà bloccato. Un processo
che, malgrado le riforme e le concessioni ai capitalisti nazionali e
internazionali, rimane sotto lo stretto controllo dello Stato/partito, il quale
garantisce che a trarre bene cio dallo sviluppo economico siano in primo
luogo le classi subalterne. Qual è il criterio per giudicare se tale garanzia è
reale? Per rispondere occorre tornare al discorso sul pluslavoro come
conseguenza della caratteristica ontologica del lavoro di produrre più del
necessario alla riproduzione del lavoratore: è infatti questa caratteristica
che permette di concepire la transizione al “regno della libertà”, un regno
che Lukács de nisce “possibilità di un tempo libero sensato”, mentre
altrove scrive: “economia di tempo, in questo si risolve in ne ogni
economia” (vol. III, p. 144). Così anche David Harvey103, dopo avere
giusti cato le riforme postmaoiste come una scelta imposta dalla necessità
di sottrarre centinaia di milioni di cittadini alla povertà, conclude che i
propositi dello Stato/partito di fondare la transizione al socialismo su
quella formidabile accelerazione dello sviluppo, verranno messi alla prova
dalla capacità del sistema di produrre non solo benessere, ma anche
“possibilità di un tempo libero sensato”, per usare le parole di Lukács.
Per concludere mi pare interessante notare che i comunisti cinesi,
malgrado il loro pragmatismo, descrivono il comunismo realizzato
esattamente negli stessi termini in cui lo descrivevano Marx, Engels e
Lenin. Mi importa poco stabilire in che misura ci credano realmente, o
utilizzino questo immaginario utopistico come arma ideologica. Ciò che
conta veramente, a mio avviso, è la loro capacità di riconoscere il
persistere del con itto di classe nel socialismo: è questo il vero pilastro su
cui si fonda la catena di inedite possibilità che si presentano a ogni
passaggio storico cruciale. È a partire da qui che l’essere sociale può fare
passi – non verso un mondo senza con itti, cui credo personalmente assai
poco – ma verso un mondo in cui tutti possano appunto disporre “di un
tempo libero sensato”.
G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997.
G. Lukács, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011.
Ricavo questa e altre informazioni riportate in questa nota introduttiva dalla “Introduzione” di
N. Tertulian a G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., PGRECO, Milano 2012.
Sul capitalismo come forma sociale sui generis, diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta, cfr.
K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
Cfr., in particolare, A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri,
Torino 2003.
Lo slogan del ri uto del lavoro è uno dei Leitmotiv dell’ideologia operaista e post operaista dagli
anni Settanta ai giorni nostri.
Sull’ideologia transumanista vedi quanto ho scritto in Incantati dalla Rete, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2000.
Cfr. J. Rifkin, La ne del lavoro, Mondadori, Milano 2002. In anni recenti il tema non è più di
moda, anche perché la realtà ha dimostrato che tale tendenza è letteralmente inesistente a livello
globale – il lavoro salariato è cresciuto a livelli esponenziali su scala mondiale nei primi decenni del
Duemila – e meno signi cativo del previsto anche nei Paesi occidentali più sviluppati, dove si
assiste piuttosto alla proliferazione dei lavori precari, saltuari e sottopagati, e dove anche il
fenomeno della cosiddetta deindustrializzazione è contestato (vedi in proposito le critiche di David
Harvey in The Anti-capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020).
Evidenti elementi di apologia del consumo (intesa come rivendicazione di elevati livelli di
consumo a prescindere dall’utilità e/o dalla nocività dei beni e servizi consumati, nonché dalla loro
rispondenza a effettivi bisogni individuali e collettivi) sono riscontrabili sia nell’ideologia dei
movimenti di ispirazione operaista e post operaista, sia nelle loso e “desideranti” di autori come
Gilles Deleuze e Felix Guattari (cfr. in merito le critiche di P. Dardot e C. Laval ne La nuova
ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2013), sia in ne nelle “teorie dei bisogni” in auge negli
anni Settanta/Ottanta (cfr. Á. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, Milano 1977).
Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, il Saggiatore, Milano 1979; cfr. anche Illuminismo
sociologico, il Saggiatore, Milano 1983 e Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari
1983.
Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 1956.
Cfr. A. Williams, R. Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza, Roma-Bari 2018.
Cfr. il “Frammento sulle macchine”, che si trova nella parte conclusiva dei Grundrisse.
Cfr. G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2008.
La ristampa integrale dei “Quaderni rossi” curata dalle Edizioni Sapere nel 1970 è oggi
introvabile, ma in rete se ne possono scaricare ampi stralci in versione pdf.
Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, cit.
Cfr. Che fare, cfr. anche V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, Edizioni clandestine, Massa 2017.
Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009.
La formulazione più organica e coerente di questa profezia si trova in Y. Benkler, La ricchezza
della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007.
Delle narrazioni sulla presunta vocazione democratica e libertaria della Rete mi sono occupato in
varie occasioni. Vedi, in particolare il mio Cybersoviet, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008.
Ho analizzato criticamente queste posizioni in diversi lavori. Vedi, in particolare, Felici e
sfruttati, Egea, Milano 2011, e Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013.
Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
Sulla categoria gnoseologica di idealtipo, cfr. M. Weber, Economia e società, Edizioni di
Comunità, Torino 1999.
Per Lukács il termine progresso è tutt’altro che privo di elementi problematici. Tuttavia è
sintomatico che l’idea stessa di progresso venga qui associata alla storia europea: in questo senso,
Lukács non è esente dal peccato di eurocentrismo che Hosea Jaffe (cfr. Davanti al colonialismo:
Engels, Marx e il marxismo, Jaka Book, Milano 2007) rimprovera a Marx ed Engels (critica che chi
scrive ha rilanciato in un post apparso sul blog
socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021_02_14_archive.html).
Cfr. in particolare M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010.
La citazione si riferisce a una lettera di Marx alla redazione di un giornale russo datata 1877,
consultabile in K. Marx, F. Engels, India, Cina, Russia, a cura di B. Maf , il Saggiatore, Milano
1960, pp. 235-236.
In merito alla vena profetica incontestabilmente presente nel marxismo, e alla sua assunzione
consapevole da parte di un autore come Ernst Bloch, vedi Capitolo secondo. Sul carattere profetico
presente in quasi tutte le utopie politiche, cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di
Comunità, Milano 1982. E. Voegelin (Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1990) non si limita
viceversa ad accusare Marx di profetismo, ma gli af bbia addirittura una patente di gnosticismo.
Come ho argomentato ne Il capitale vede rosso (Meltemi, Milano 2020) e in altri lavori, sono
convinto che l’esperimento socialista cinese abbia avuto più fortuna di quello sovietico – fra i vari
motivi – anche e soprattutto per aver adottato una concezione più essibile e pragmatica –
improntata appunto al metodo di sperimentazione per tentativi ed errori – della piani cazione.
Cfr. Tagliare i rami secchi, cit.
Una critica radicale dell’idea secondo cui la rivoluzione digitale creerebbe di per sé le condizioni
per una transizione diretta al comunismo si trova in P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del
mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.
Cfr. A. Gramsci, Il materialismo storico e la loso a di Benedetto Croce, Torino, Einaudi 1949.
Cfr. K. Marx, L’ideologia tedesca, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947.
V.I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale, in Opere complete, vol. XXI, Editori Riuniti,
Roma 1966, p. 191.
V.I. Lenin, Che fare, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma.
K. Marx, Critica al Programma di Gotha, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti,
Roma.
Quello di Bellarmino non è l’unico modo in cui la religione ha tentato di adattarsi alla
“concorrenza” della scienza sul piano della de nizione dell’immagine del mondo. Un’altra via per
affrontare la s da, sostiene Lukács, è quella indicata, fra gli altri, da Karl Barth, il quale, in
Dogmatik im Grundriss (Berlino 1948), scrive: “Non è faccenda che riguardi né la Sacra Scrittura,
né la fede cristiana […] difendere una determinata immagine del mondo. La fede cristiana non è
legata né a quella antica né a quella moderna […] è per principio libera di fronte a tutte le
immagini del mondo, cioè di fronte a tutti i tentativi di interpretare l’ente sul metro e con i mezzi
della scienza che domina in quel momento”. In questo modo, commenta Lukács, si nisce però per
interrompere qualsiasi legame fra religione e realtà. Ma questo, aggiunge, non è in fondo che l’altro
polo della soluzione di Bellarmino. Con gli sforzi moderni di “demitologizzare” la Bibbia “si
sacri ca il carattere di realtà di ogni conoscenza del mondo per salvare teoricamente il dominio
ontologico assoluto della ideologia religiosa… si rinuncia a ogni realtà della predicazione della
Chiesa (inclusa la Bibbia) per salvare comunque il sogno, l’apparenza della sua validità mediante
un distacco radicale da ogni nesso reale” (vol. IV, p. 699). In altre parole: nichilismo neopositivista
e nichilismo teologico si specchiano l’uno nell’altro.
Cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982.
Da questo punto di vista, la visione Lukács sembra convergere con la valorizzazione blochiana
del profetismo religioso come anticipazione del profetismo politico (vedi Capitolo secondo).
Tuttavia le visioni di questi autori sono inserite in due contesti diversi: per Bloch si dà un effettivo
elemento di continuità – un lo rosso che le congiunge – fra utopia religiosa e utopia politica, per
Lukács la relazione è meno stretta e diretta.
Pierre Rosanvallon, fra gli altri, sostiene che la rinuncia a priori a lottare per il potere è un tratto
distintivo dei nuovi movimenti sociali, i quali, piuttosto che impegnarsi a conquistarlo,
preferiscono esercitare nei suoi confronti forme di pressione e condizionamento che egli de nisce
“democrazia della s ducia e del controllo” (cfr. Controdemocrazia. La politica nell’era della s ducia,
Castelvecchi, Roma 2012; cfr. anche La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2013). È
interessante notare come questo autore ammetta che le sue posizioni sul tema non sono lontane da
quelle di Antonio Negri, a dimostrazione della convergenza fra riformismo liberale e ideologie
libertarie della sinistra “antagonista”. Per una critica di questa posizione politica delle nuove
sinistre, con riferimento speci co al contesto della rivoluzione boliviana, cfr. A.G. Linera,
Democrazia, Stato, Rivoluzione, cit.
Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, 4 voll., Einaudi,
Torino 2014.
Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.
Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983.
Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.
Su questa visione di un cittadino cosmopolita, portatore di diritti che trascendono quelli
garantiti dagli ordinamenti dei singoli Stati-nazione, cfr. U. Beck, La società cosmopolita, il Mulino,
Bologna 2003.
Nella critica di questo slogan, e più in generale dell’ideologia femminista, mi sono più volte
speso nei miei ultimi lavori, vedi, in particolare, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013 e Il
socialismo è morto. Viva il socialismo!, Meltemi, Milano 2019. Una critica dall’interno del
movimento femminista – ancorché caratterizzata da contraddizioni e incoerenze – in merito alla
convergenza fra femminismo mainstream e liberal-liberismo è contenuta nelle opere di N. Fraser
(cfr. in particolare, Fortunes of Feminism, Verso, London-New York 2013 e Capitalismo, Meltemi,
Milano 2020).
Delle differenze fra ortodossia femminista e le posizioni teoriche della Butler mi sono occupato
in Il socialismo è morto, cit.
La più dura ed esauriente critica del linguaggio politicamente corretto, e del suo ruolo repressivo
e totalitario, si deve a J. Friedman (Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime,
Meltemi, Milano 2018).
Sulla estraneità dei cittadini cinesi nei confronti dei concetti occidentali di democrazia e diritti
umani, vedi, fra gli altri, D.A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia,
Luiss, Roma 2019.
Cfr. Sociologia della religione, cit.
Secondo Koselleck la moderna concezione lineare del tempo sarebbe il frutto della
secolarizzazione del tempo escatologico, cioè della visione medievale-cristiana che vive nel tempo
sospeso dell’attesa della parusia, ma in effetti il processo di allontanamento inde nito della parusia
era iniziato in precedenza, e comunque il cristianesimo aveva preparato il terreno alla visione
moderna del tempo, liquidandone la visione circolare del mondo classico (cfr. R. Koselleck, Futuro
passato, Marietti, Genova 1986).
Cfr. F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Edizioni Rinascita, Roma 1949.
Cfr. H. Assmann, F. Hinkelammert, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia,
Castelvecchi, Roma 2020.
Come già segnalato in precedenza, questa immagine dell’uomo ridotto a un nulla impotente di
fronte alla onnipotenza della manipolazione conferma l’esistenza di una certa assonanza fra il
pensiero di Lukács e le tesi avanzate da Marcuse e altri esponenti della Scuola di Francoforte.
Mi riferisco alla nota replica di Marx all’economista che aveva recensito l’edizione russa del
Capitale in cui leggiamo: “Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della
genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico- loso ca della marcia generale
fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere
in ne alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale,
assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e
troppo torto”.
A p. 144 del terzo volume, troviamo citata quest’altra frase di Marx, tratta dai Grundrisse:
“Economia di tempo, in questo si risolve in ne ogni economia”. Si tratta di un Leitmotiv della
ri essione lukacsiana, che in tutta l’opera che stiamo discutendo pone al centro la contraddizione
fra tempo di lavoro come fonte del valore e tempo di lavoro come misura della relazione fra
necessità e libertà.
Questo “per forza di cose” suona come una concessione eccessiva al determinismo economista
che altrove Lukács contrasta decisamente. Che certe forme economiche precapitaliste siano
necessariamente destinate a soccombere alla potenza dissolutrice del mercato capitalistico è messo
in dubbio dallo stesso Marx, nel corso del suo confronto con le teorie dei populisti russi in merito
al possibile passaggio diretto delle comunità contadine russe al socialismo senza passare dalla fase
capitalista (vedi India, Cina, Russia, cit.).
Il fatto che la ricerca di senso nella propria attività lavorativa sopravviva anche nelle condizioni
più estreme di alienazione e sfruttamento, come quelle imposte dalla fabbrica fordista, è una realtà
che sfugge del tutto ai teorici operaisti del ri uto del lavoro.
Sulla capacità di resilienza di certe forme comunitarie precapitaliste e sul loro possibile ruolo
nella lotta anticapitalista (e quindi non solo fonte di nostalgie conservatrici) vedi quanto scrive
A.G. Linera a proposito del contributo delle comunità indigene andine alla rivoluzione boliviana
(Forma valor y forma comunidad, Tra cantes de sueños, Quito 2015).
Come si è visto nel Capitolo secondo, per Ernst Bloch l’utopia è oggetto di una vera e propria
fede religiosa. Un sentimento che mi pare dif cile attribuire a Lukács.
Da notare che l’evoluzione in senso antistatalista dell’orientamento ideologico delle sinistre
radicali ne ha determinato il progressivo allineamento con l’antistatalismo di matrice liberale,
dando origine a una tendenza culturale che ha il suo interprete più coerente nell’area dei
Libertarian statunitensi che altrove ho de nito anarco-capitalista (cfr. Utopie letali, Jaka Book,
Milano 2013).
Manifestazioni tipiche di questa illusione di onnipotenza del soggetto individuale, alimentata
dalle possibilità di manipolazione tecnologica del mondo, sono, fra le altre, i miti transumanisti su
un futuro caratterizzato dall’ibridazione uomo-macchina e dalla possibilità di attingere
all’onniscienza e all’immortalità (cfr. C. Formenti, Incantati dalla Rete, cit.); la negazione della
determinazione biologica del genere sessuale da parte dell’ideologia queer e transgender, alcune
forme di manipolazione tecnologica delle funzioni riproduttive (fecondazione assistita, maternità
surrogata ecc.). Tutti fenomeni associati all’idea di un inde nito ampliamento delle libertà e dei
diritti, laddove trattasi in larga misura di comportamenti ed esigenze sovradeterminati
dall’intreccio sistemico fra tecnologia, mercato e marketing.
Cfr. V. Giacché, “Socialismo e ne della produzione mercantile nell’Anti-Dühring di Friedrich
Engels” in MarxVentuno, n. 1, gennaio-febbraio 2021, pp. 105-125.
Cfr. F. Engels, Antidühring, Editori Riuniti, Roma 1971.
È dif cile non riconoscere un’analogia fra questa procrastinazione del passaggio dal socialismo al
comunismo e l’allontanamento in un futuro inde nito della parusia. Cosa che potrebbe giusti care
un certo parallelismo fra i con itti che hanno opposto partiti comunisti uf ciali ed eresie
rivoluzionarie negli anni Settanta e i con itti fra chiesa e sette, descritti nei passaggi dedicati alle
ideologie religiose della sezione precedente.
Cfr. G. Stalin, Problemi economici del socialismo, Edizioni Rinascita, Roma 1953.
Cfr. Z. Boying, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona, Edizioni Marx Ventuno,
2019.
Sulla distinzione fra le de nizioni socialismo di mercato e socialismo con mercato cfr. R.
Herrera, Z. Long, La Chine est-elle capitaliste?, Editions Critiques, Paris 2019. Sul dibattito in
merito alla natura del sistema cinese (socialista o capitalista?) cfr. A. Gabriele, Enterprises, Industry
and Innovation in the People’s Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and
Tech War, Springer, Berlino 2020. In ne sulla critica del concetto secondo cui la presenza del
mercato connoterebbe automaticamente in senso capitalista un sistema economico, cfr. G. Arrighi,
Adam Smith a Pechino, cit.
A chi attaccava la NEP sostenendo che essa comportava la regressione dal socialismo al
capitalismo di Stato, Lenin replicava così: “il capitalismo di Stato discusso in tutti i libri di
economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo Stato mette sotto il proprio
controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno Stato proletario che dà al proletariato tutti i
privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco
perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di Stato. Il capitalismo di Stato che abbiamo
introdotto nel nostro Paese è di un tipo speciale… Noi deteniamo tutte le posizioni chiave.
Possediamo il Paese, che appartiene allo Stato. Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori
lo negano” (citato in Gabriele, op. cit.).
Questa litania trotskista si è diffusa in una larga maggioranza degli intellettuali marxisti
occidentali, i quali vanno blaterando che oggi più di ieri – dal momento che viviamo nell’era della
globalizzazione – vale il principio secondo cui la rivoluzione socialista sarà mondiale o non sarà
(forse si preparano a sincronizzare gli orologi sull’ora X…).
Per una argomentata critica della de nizione della Cina come sistema totalitario, cfr. D.A. Bell, Il
modello Cina, cit.
Cfr. D. Harvey, The Anti-Capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.
Conclusioni

I.
Qual è il rapporto fra le tesi emerse dal dialogo fra chi scrive e Onofrio
Romano, citato nella Premessa, e i tre excursus su altrettanti testi di Preve,
Bloch e Lukács che avete letto nelle pagine di questo lavoro? Perché
chiedere a ri essioni loso che che risalgono a diversi anni addietro
risposte a interrogativi politici legati all’attualità storica? Il fatto è che
l’opera di Ernst Bloch rappresenta una summa di tutte le speranze e le
illusioni che hanno alimentato il progetto del socialcomunismo
novecentesco. Non è azzardato affermare che ne incarna la versione più
nobile, e che proprio per questo rappresenta una tragica testimonianza del
suo tramonto. Viceversa la loso a dell’ultimo Lukács, e il modo in cui
Costanzo Preve si è sforzato di attualizzarla, offrono spunti preziosi per
farla nita con il lutto generato dalle disastrose scon tte che il campo
marxista ha subito negli ultimi decenni, e per interrogarci sulla possibilità
di una ripartenza che segni una radicale discontinuità nei confronti di
certe categorie del passato, senza rinnegare i princìpi e i valori che lo
avevano innervato. Nel tentativo di trovare conferma di tale possibilità, è
probabile che, in alcuni casi, chi scrive abbia forzato le idee degli autori
presi in esame al di là delle loro intenzioni. Il lettore giudicherà se e in che
misura questi “tradimenti” siano giusti cati, ma soprattutto se e in che
misura siano utili alla causa di chi si propone di rilanciare un progetto
rivoluzionario.
Riparto dai tre regimi discorsivi del marxismo catalogati da Costanzo
Preve. Mi pare che dal confronto con le tesi di Ernst Bloch siano emersi
validi motivi per prendere commiato tanto dal discorso grande-narrativo
quanto dal discorso deterministico-naturalistico. Bloch è stato attaccato
dai marxisti ortodossi per la sua visione profetico-religiosa del futuro. È
pur vero che la sua rappresentazione del comunismo come paradiso in
Terra, mondo emancipato da tutti i con itti e da tutte le contraddizioni,
transizione dal regno della necessità al regno della libertà, in cui l’umanità
potrà attingere la sua essenza autentica, per tacere degli annunci su una
possibile liberazione dalla morte e sulla prospettiva di una umanizzazione
senza residui della natura, rivelano una evidente ispirazione teologica (con
chiare assonanze giudaico-cristiane). Lo stesso si può dire della sua
ricostruzione della storia delle utopie come un ininterrotto lo rosso che
corre da Mosè a Marx, passando per Cristo, Gioacchino da Fiore e i
socialisti premarxisti. Ciò detto: coloro che ironizzano su queste
“bizzarrie” non sono gli stessi che interpretano la storia come un processo
teleologico, “animato” da un principio immanente (sia pure sub specie di
“leggi” economiche e sociali) che ne orienta la direzione secondo un
percorso ascensionale che conduce a livelli sempre più alti di civiltà? Non
sono gli stessi che attribuiscono alla scienza e alla tecnica, e più in
generale alle forze produttive (a prescindere dal loro impatto sui rapporti
fra le classi sociali) il magico potere di creare le condizioni “oggettive” per
la transizione al socialismo? Non sono gli stessi che attribuiscono alla
classe operaia il ruolo di Soggetto predestinato della Rivoluzione? Il fatto
è che, piaccia o no, l’intero apparato categoriale delle versioni
evoluzioniste (deterministico-naturaliste) e progressiste (grandi-narrative)
del marxismo è sovrapponibile punto a punto alla variante religiosa che ne
è stata elaborata da Bloch, il quale si è semplicemente limitato mettere in
scena il Soggetto provvidenziale che si cela dietro le quinte della
commedia uf ciale. Se oggi non si ironizza più sulle utopie blochiane è
solo perché gli intellettuali marxisti “pentiti”, che no a ieri lo criticavano,
hanno dismesso qualsiasi velleità, non dico di utopia sociale, ma persino
di deviazione dall’eterno presente in cui Francis Fukuyama vorrebbe
intrappolarci. Per fortuna la trappola non è scattata, ma ciò non signi ca
che si possa rispolverare il sogno di Bloch come se la storia non ne avesse
impietosamente rivelato l’inconsistenza. Quel sogno è morto, ma non
sono morte le passioni che l’avevano alimentato. Si esprimono tuttavia in
forme diverse e, se vogliamo riconoscerle e indirizzarle sui giusti bersagli,
è al discorso ontologico-sociale che occorre chiedere risposte.

II.
Nel Capitolo terzo ho descritto cinque elementi dell’ontologia lukacsiana
– il lavoro come modello di ogni attività teleologica; la storia come scienza
fondata su un principio di causalità descrivibile con la formula “se…
allora”; la relazione dialettica fra libertà e necessità; l’ideologia come
potenza materiale; il socialismo come orizzonte di possibilità – che a mio
avviso consentono di formulare in termini inediti la prospettiva di un
superamento del modo di produzione capitalista. Qui di seguito proverò a
sintetizzare, prima le implicazioni loso che, poi quelle ideologico-
politiche di questa lettura ontologico-sociale del marxismo.
Sul piano loso co:
1) Assumere il lavoro (il lavoro in generale, come ricambio organico fra
uomo e natura) quale unico esempio di attività teleologica – di attività
consapevolmente e nalisticamente orientata – esistente al mondo,
signi ca escludere qualsiasi ipotesi in merito all’esistenza di una
direzionalità prede nita nel cammino evolutivo della specie umana.
Ponendosi obiettivi sempre più ambiziosi per soddisfare i propri bisogni e
desideri, inventando mezzi sempre più so sticati per realizzarli, ed
elaborando modelli organizzativi e metodi sempre più ef cienti per
indurre tanto la natura che gli altri esseri umani a collaborare ai loro
progetti, gli uomini hanno costruito inconsapevolmente (“essi fanno ciò
ma non sanno di farlo”) società sempre più complesse e sempre più
dif cili da trasformare, se non attraverso progetti dall’esito dif cilmente
programmabile/prevedibile.
2) In conseguenza di quanto affermato al punto 1), la storia (che per
Lukács è la sola scienza riconosciuta da Marx) si presenta come una
successione di “salti”, descrivibili come altrettante aperture di inediti
campi di possibilità. Questi salti non con gurano una scala evolutiva
ascendente verso il “progresso”, ma appunto solo l’emergere di nuove
possibilità di assumere decisioni alternative; che poi tali decisioni
con gurino un miglioramento o un peggioramento delle condizioni
umane dipende anche da fattori contingenti (casuali), soprattutto perché
esse vengono assunte senza che se ne possano conoscere/prevedere
compiutamente gli effetti. Ciò fa sì che le “leggi” della storia (cioè i nessi
causali che ne determinano gli esiti) siano analizzabili solo post festum, e
assumano la forma “se… allora” (date certe condizioni, non pre gurabili,
si avranno questi o quest’altri esiti).
3) Da 1) e 2) deriva che la libertà non è mai descrivibile come libertà
individuale (o di gruppo) assoluta. Essa si esercita esclusivamente come
libertà di scelta socialmente e storicamente determinata, cioè come facoltà
di assumere decisioni alternative in un campo di possibilità rigorosamente
prede nito dalle “leggi” (sempre e solo formulabili in base al principio
“se… allora”) di una speci ca fase storica.
4) Dal momento in cui il processo storico ha generato una società divisa
in gruppi (classi sociali) portatori di interessi contrapposti (legati ai diversi
ruoli svolti nel processo lavorativo e nella gestione del surplus generato da
tale processo), è nata l’esigenza, per i gruppi dominanti, di produrre una
giusti cazione ideale del proprio dominio, identi cando i propri interessi
con il bene comune (lo stesso principio vale, arrivati a un determinato
livello di con itto, per i gruppi dominati in cerca di una giusti cazione
ideale della volontà/necessità di cambiare lo stato di cose presente). Tali
giusti cazioni ideali assumono la forma di ideologie e, per Lukács come
per Gramsci (anche se fra i due autori esistono sfumature diverse sul
tema), l’ideologia non è riducibile a “falsa coscienza”, a un insieme di
misti cazioni, di proiezioni illusorie che misti cano la realtà, ma
rappresenta una potenza materiale in grado di trasformare in profondità
tale realtà.
5) In sintonia con quanto ricordato ai punti precedenti, la visione
lukacsiana della rivoluzione è rigorosamente ispirata ai princìpi del
leninismo: a) la rivoluzione è possibile solo se e quando le classi dirigenti
non sono più in grado di conservare/difendere lo status quo, cioè quando
si è in presenza di una crisi che trascende la dimensione economica per
divenire crisi istituzionale, politica e culturale, quando, cioè, coinvolge la
totalità dell’essere sociale. Il che non signi ca trascurare il peso dei fattori
oggettivi, strutturali, ma riconoscere che le situazioni rivoluzionarie si
veri cano “quando gli ‘strati inferiori’ non vogliono più il passato e gli
‘strati superiori’ non possono più vivere come in passato”; b) la
rivoluzione è un evento la cui radicalità rispecchia il rapporto asimmetrico
fra dominanti e dominati, nel senso che ai primi “basta la riproduzione
normale, per mantenere in piedi lo status quo, mentre i secondi hanno
bisogno di un energico e unitario atto di volontà”; c) nessun dominio
crolla da solo, l’essere sociale non si trasforma ma viene trasformato, il che
implica l’esistenza di un progetto, di una volontà politica organizzata in
grado di immettere dall’esterno la coscienza politica nelle classi subalterne
(si intende dall’esterno della sfera dei rapporti immediati fra operai e
padroni, cioè dal campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati
della popolazione con lo Stato e con il governo).
5 bis) Per Lukács il passaggio dal regno della necessità al regno della
libertà è una possibilità, non l’esito di presunte “leggi” della storia, la
quale non può fare altro se non generare il campo di possibilità af nché
ciò avvenga. La teoria della transizione al socialismo come prodotto della
contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione viene così
degradata da dogma a una delle condizioni di possibilità (non la sola, né
tantomeno l’esclusiva) di tale transizione. In ultima istanza questa
condizione “oggettiva” è riconducibile alla proprietà del lavoro di
produrre più di ciò che è necessario per riprodurre il soggetto che lo
compie. E visto che l’economia intesa come ricambio organico fra uomo e
natura non può discostarsi dai suoi fondamenti ontologici, ne discende
che il socialismo come prima fase del comunismo fa ancora parte del
regno della necessità. Quanto all’interrogativo se Lukács creda realmente
in un futuro in cui si potrà realizzare la transizione al regno della libertà
secondo le modalità descritte da Marx ed Engels nella seconda metà
dell’Ottocento, chi scrive azzarda l’ipotesi che Lukács consideri l’utopia
come un’arma ideologica più che come una previsione sull’evoluzione
dell’essere sociale. A sostegno di tale ipotesi torno a citare il seguente
passaggio: “l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche
molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di
continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo
sviluppo dell’umanità”.
Sul piano ideologico-politico:
1) La concezione lukacsiana della storia liquida le interpretazioni
“oggettiviste” del marxismo: le classi subalterne non possono sperare che
la propria emancipazione arrivi da presunte “leggi” di sviluppo
dell’economia. La storia “non ha il diavolo in corpo”, non contiene alcun
principio immanente che la indirizzi necessariamente verso il “progresso”.
L’essere sociale non si trasforma, viene trasformato. Al tempo stesso, ciò
non signi ca immaginare la rivoluzione come un puro atto di volontà
soggettiva, bensì rendersi conto che le sue condizioni di possibilità
incorporano una buona dose di fattori casuali, contingenti e individuali, e
che tali fattori vanno ricercati nel campo dei rapporti fra tutte le classi
sociali e fra queste e le istituzioni politiche, il governo ecc.
2) Dire che il progresso non è una prestazione automatica della storia
non basta: occorre prendere atto che l’idea stessa di progresso – che è un
parto della moderna cultura borghese, e in particolare della sua variante
liberale, illuministica – non va accettata acriticamente, come viceversa
hanno nora fatto quasi tutte le forze politiche di matrice marxista. È
l’intero corredo di princìpi e valori della cultura borghese che va messo in
discussione, a partire da quelle idee di libertà e di diritti umani universali
nei confronti delle quali l’ultimo Lukács ripropone le feroci critiche di
Marx. Detto altrimenti: la rivoluzione socialista non è la
prosecuzione/compimento della rivoluzione borghese, la messa in pratica
di princìpi e valori che quest’ultima si è limitata a enunciare senza metterli
in pratica, è il passaggio a una forma di vita, a una civiltà, radicalmente
alternative.
3) Quanto affermato al punto precedente induce a respingere l’idea
secondo cui il futuro maturerebbe “naturalmente” nel grembo del
presente. La rivoluzione proletaria non può replicare il modello delle
rivoluzioni borghesi, per la semplice ragione che le dinamiche della
società capitalistica non consentono ai proletari di acquisire abbastanza
potere per sostituirsi senza sforzo eccessivo alle classi dominanti. Una
volta che si sia compreso che la asimmetria di potere e di mezzi fra
dominanti e dominati è tale da richiedere un vero e proprio “assalto al
cielo” per essere spezzata, occorre anche riconoscere che una simile
impresa impone un formidabile sforzo di accumulazione di
consapevolezza politica e di mezzi organizzativi. È per questo motivo che
Lukács resta fedele alla concezione leninista del partito rivoluzionario in
quanto espressione di un livello di consapevolezza politica che i dominati
non sono in grado di attingere spontaneamente.
4) L’insieme degli apporti lukacsiani all’analisi e alla critica del presente
conduce alla valorizzazione dell’ideologia come fattore materiale di
trasformazione dell’esistente. Ciò non comporta tentazioni di tipo
idealistico: Lukács considera infatti l’ideologia come strumento della lotta
di classe, come un’arma politica che serve, più che a misti care la realtà
(l’ideologia come falsa coscienza), a imporre positivamente l’egemonia
delle idee delle classi dominanti sui dominati. Il fatto che questo rapporto
possa essere invertito, il fatto cioè che l’ideologia possa essere usata come
arma controegemonica dai dominati, fa sì che il tardo capitalismo abbia
fatto propria una strategia di deideologizzazione della società e della
politica.

III.
Se e in che misura quanto sin qui discusso può tradursi in un progetto
all’altezza dell’attuale realtà storica? Rispondere è compito che trascende
l’obiettivo di questo lavoro, per cui mi limito a buttar giù alcuni appunti
preliminari. Mi pare evidente che, dalle analisi degli autori esaminati in
queste pagine, l’intero impianto del marxismo occidentale ne esce a pezzi.
In particolare ne esce a pezzi l’idea – palesemente eurocentrica – secondo
cui all’estensione del dominio imperiale delle metropoli capitalistiche sul
resto del mondo andrebbe riconosciuto il “merito” di avere creato i
presupposti per la transizione al socialismo. Questa idiozia è frutto di un
concentrato di tutte le categorie che sono state qui messe sotto accusa:
economicismo, evoluzionismo, progressismo, presunte necessità storiche,
feticismo della tecnica e delle forze produttive ecc. Un’idiozia che, a
partire dagli anni Settanta del secolo scorso, è divenuta una sorta di
pensiero unico delle sinistre “radicali”, a mano a mano che le analisi dei
teorici della dipendenza104 venivano liquidate come “terzomondismo”,
lasciando il campo alla certezza che solo la sussunzione del mondo intero
sotto il rapporto di capitale può creare le condizioni per una rivoluzione
mondiale. A smentire questa visione non sono state tanto le disastrose
scon tte subite dalle classi subalterne occidentali (accompagnate dalla
conversione delle sinistre al liberal-liberismo), quanto il fatto che, nel
resto del mondo, la penetrazione del mercato non solo non si è
automaticamente tradotta in omologazione ai valori, ai princìpi e ai
rapporti sociali e politici di tipo capitalistico, ma ha accompagnato
l’emergenza di un’alternativa socialista globale di cui la Cina rappresenta
la punta più avanzata. Sul futuro del capitalismo tornano ad addensarsi
ombre rosse che vengono dall’Est e dal Sud del mondo.
Il fatto che le sole rivoluzioni socialiste riuscite non siano avvenute in
Paesi a elevato sviluppo economico, ma in regioni del mondo “arretrate”,
e che ne siano state protagoniste classi operaie in formazione e larghe
masse contadine, alleate con strati di piccola borghesia urbana e guidate
da partiti rivoluzionari di impostazione marxista-leninista, è stato nora
oggetto di semplici prese d’atto empiriche, mentre è mancato il coraggio
di riconoscere che “le cose non avrebbero potuto andare altrimenti”. In
effetti: più la classe operaia è sviluppata, organizzata, capace di contrattare
migliori condizioni di vita e di lavoro con i capitalisti, più essa si riduce a
capitale variabile, a motore interno del modo di produzione e in fattore di
accelerazione del suo sviluppo (come già Marx ed Engels avevano intuito
osservando l’evoluzione della Socialdemocrazia tedesca). Al contrario le
masse popolari periferiche e semiperiferiche, soggette all’oppressione
coloniale e neocoloniale, oltre che a forme di supersfruttamento, si
percepiscono e si considerano come esterne al rapporto di capitale105,
anche in ragione delle radicali differenze culturali (tradizioni storiche,
religiose, princìpi e valori morali ecc.) nei confronti dei Paesi del centro. È
in questo contesto che la storia ha generato inedite possibilità
trasformative, così come è in questo contesto che partiti rivoluzionari
originariamente formatisi alla scuola del marxismo occidentale hanno
saputo afferrare tali possibilità ma, per farlo, hanno dovuto adattare la
teoria alla concreta realtà storica e sociale in cui operavano (i comunisti
cinesi la chiamano sinizzazione del marxismo).
Più di mezzo secolo prima delle riforme cinesi degli anni Settanta,
questo rovesciamento dei dogmi marxisti era già avvenuto con la
Rivoluzione russa del 1917. L’eresia leninista non è consistita solo
nell’avere sostituito la tesi dell’attacco all’anello più debole della catena a
quella dell’attacco al livello più elevato di sviluppo del capitale: è
consistita ancor più, come osserva Rita di Leo106, nell’aver liquidato, nei
suoi ultimi anni di vita, le visioni estremiste che pretendevano di applicare
immediatamente il modello “classico” di transizione alla costruzione del
socialismo in Russia; nell’avere compreso che, per superare l’arretratezza
dell’economia sovietica e garantire un livello di vita decente alle masse,
occorreva reintrodurre robuste dosi di capitalismo nel sistema; occorreva
capire che il capitalismo di Stato, nché fosse rimasto saldamente sotto il
controllo dello Stato/partito, non avrebbe signi cato automaticamente la
restaurazione del capitalismo; nell’avere in ne compreso che, per
intraprendere la lunga, faticosa marcia di avvicinamento al socialismo, non
si poteva delegare il controllo della produzione a un’autogestione operaia
soggetta all’inevitabile in uenza di interessi corporativi, ma bisognava
concentrare tutto il potere nelle mani del partito107.
Non abbiamo qui modo di analizzare l’evoluzione del regime sovietico
dopo la morte di Lenin, né tantomeno di discutere le cause del suo
recente crollo. Resta il fatto che la svolta postmaoista in Cina presenta
chiare analogie con quella della NEP. Dopo il fallimento del Grande Balzo
in avanti e della Rivoluzione culturale, in una situazione che vedeva
ottocento milioni di cittadini sotto la soglia di povertà, si è capito che, per
avanzare verso il regno della libertà, ci si sarebbe prima dovuti sbarazzare
dei vincoli della necessità. Le riforme economiche del ’78 e dei successivi
decenni, con l’apertura agli investimenti stranieri nelle zone speciali, e la
reintroduzione di criteri manageriali nella gestione delle imprese di Stato,
hanno permesso al Paese di ottenere gli straordinari successi che sono
oggi sotto i nostri occhi. Basta il fatto che il processo sia sempre rimasto
sotto il rigido controllo politico dello Stato/partito, e che il sistema abbia
conservato robusti elementi di socialismo, a respingere l’accusa di avere
restaurato il capitalismo in Cina? Per il vivace dibattito che agita il campo
marxista in merito a tale interrogativo, rinvio a quanto ho scritto
altrove108, qui mi limito a citare l’opinione (che condivido pienamente)
espressa in merito da Giovanni Arrighi: si possono aggiungere a volontà
elementi di mercato a un sistema sociale, ma se e nché il mercato resta
embedded in un sistema di relazioni politiche, sociali e culturali non
capitaliste che ne subordinano il ruolo ad altre nalità, non è possibile
parlare di capitalismo.
Certo, le ombre rosse che arrivano da Oriente non annunciano l’avvento
del paradiso in Terra profetizzato da Bloch. E lo stesso vale per quelle che
arrivano da Sud, dai Paesi dell’America Latina impegnati a de nire il
progetto di un socialismo del secolo XXI109. Delineano però le condizioni
di un socialismo possibile, di una lunga transizione dall’esito aperto e
imprevedibile, caratterizzata dalla convivenza fra economia pubblica ed
economia di mercato e dal persistere della lotta di classe. Quanto a noi
occidentali: la disarticolazione delle nostre classi operaie ci condanna a un
futuro senza speranza di cambiamento? Certamente la ripartenza, dopo la
catastro ca scon tta che abbiamo subito dal regime liberista, si presenta
tutt’altro che facile; né – se ri utiamo le scorciatoie dell’economicismo –
possiamo attenderci granché dalla profonda crisi capitalistica in corso,
aggravata dalla pandemia. Paradossalmente, la necessità di ripartire da
una classe operaia divisa, immiserita, precarizzata, priva di ef caci
strumenti organizzativi e di lotta potrebbe rivelarsi, almeno da un certo
punto di vista, un vantaggio: il proletariato forte, numeroso, omogeneo,
organizzato del ciclo fordista non è mai uscito, né poteva/voleva farlo,
dallo stato di capitale variabile, né si è mai posto – né avrebbe
potuto/voluto farlo – obiettivi antisistema. Questo proletariato, che oggi
non esiste in quanto soggetto consapevole e unitario, questo proletariato
che appare assai più “estraneo” alle dinamiche sociali e politiche rispetto
al suo aristocratico predecessore potrà tornare a esistere solo come
prodotto di un processo di costruzione politica, potrà rinascere solo
insieme a un partito capace di mettere in atto tale processo.
Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.
Cfr. N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaka Book, Milano 1972. Zitara applica questo concetto al
proletariato meridionale italiano, mentre Samir Amin lo estende a livello mondiale.
Cfr. la trilogia di questa autrice citata nella nota 8 del Capitolo primo.
Rita di Leo, nei libri citati nella nota 8 del Capitolo primo, sostiene che Stalin, contrariamente alle
tesi dei sovietologi “uf ciali”, non avrebbe represso la classe operaia russa; al contrario, avrebbe
abbandonato la linea leninista, lasciando ampia autonomia gestionale agli operai di fabbrica.
Inoltre la durezza con cui ha perseguitato, oltre ai vecchi intellettuali e tecnici zaristi e ai contadini
ricchi, anche i vecchi dirigenti bolscevichi (a loro volta intellettuali di estrazione medio-borghese,
laddove Stalin faceva eccezione, date le sue origini popolari) sarebbe nata dalla volontà di
rimpiazzare l’intera classe dirigente ereditata dal passato con quadri di estrazione proletaria.
Effetto di tali scelte sarebbe stato, fra gli altri, quello di creare un rapporto di complicità fra
dirigenti di fabbrica di estrazione popolare e forza lavoro, per cui gli operai potevano lavorare a
ritmi assai bassi, praticare l’assenteismo, opporsi alle innovazione tecnologiche ecc. È nata così
quella divaricazione fra obiettivi uf ciali del piano e realtà produttiva che verrà progressivamente
aggravandosi dopo la morte di Stalin, tanto da rendere possibile la nascita di una economia
informale emersa dopo il crollo dell’89.
Cfr. Il socialismo è morto…, cit. Vedi anche Il capitale vede rosso, cit.
Sul dibattito latino-americano in merito al concetto di socialismo del secolo XXI vedi quanto ho
scritto nei lavori citati nella nota precedente.
Linee

100 Franco Foschi, Farsi fuori. Vizi e virtù del suicidio


101 Bernard Stiegler e Collettivo Internation (a cura di), L’assoluta necessità. In risposta ad António
Guterres e Greta Thunberg
102 Fabio Armao, Le reti del potere. La costruzione sociale dell’oikocrazia
103 Gianluca Ciuffardi, Tommaso Perissi, Il coraggio delle emozioni (ai tempi del coronavirus)
104 Giacomo Pezzano, Ereditare. Il lo che unisce e separa le generazioni
105 Doriana Dipaola (a cura di), Intrecci psiche soma
106 Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, a cura di
Giacomo Russo Spena
107 Damiano Cantone, Tiberio Snaidero, Codice Bowie. Cinquanta chiavi per aprire quelle porte
108 Enzo Lombardo, Africa. (Neo)colonialismo, ambiente e migrazioni
109 Paolo Groppo, La crisi agraria ed eco-genetica spiegata ai non specialisti
110 Édouard Glissant, Introduzione a una poetica del Diverso, a cura di Giuseppe Sofo
111 Marco Senaldi, Van Gogh a Hollywood. La leggenda cinematogra ca dell’artista
112 Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male
113 Francesco Muzzioli, Scritture della catastrofe. Istruzioni e ragguagli per un viaggio nelle distopie
114 Michael Löwy, Comunismo e questione nazionale. Madrepatria o Madre terra?, a cura di Jacopo
Custodi
115 Salvatore Palidda, Polizie, sicurezza e insicurezza
116 Sebastiano Ghisu, Alessandro Mongili (a cura di), Filoso a de logu. Decolonizzare il pensiero e
la ricerca in Sardegna
117 Jacqueline Ceresoli, Light Art paradigma della modernità. Luce come oper-azione di arte
relazionale
118 Anna D’Elia, Vederscorrere. L’arte che salva
119 Andrea Ferreri, Sugli spalti. In viaggio negli stadi del mondo. Storie di sport, popoli e ribelli
120 Paola De Rosa, Elisa Mandelli, Valentina Re (a cura di), Aging girls. Identità femminile,
sessualità e invecchiamento nella cultura mediale italiana
121 Thierry Voeltzel, Vent’anni e poi. Conversazioni con Michel Foucault su amore e rivoluzione
122 Massimo Bignardi, La città di Atlantide. Arte ambientale tra processi di democratizzazione e
ornamento urbano
123 Jean Ziegler, Il capitalismo spiegato a mia nipote. Nella speranza che ne vedrà la ne, prefazione
di Vladimiro Giacché
124 Brian D’Aquino, Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora
125 Frank Furedi, I con ni contano. Perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare frontiere,
prefazione di Andrea Zhok
126 Cristoforo Spinella, Erdoğan. Storia di un uomo e di un Paese, prefazione di Alberto Negri
127 Alberto Martinengo, Un pensiero anarchico. Filsoo a, azione e storia in Reiner Schürmann
128 Aldo Barba, Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa
129 Miguel Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei
postcolonial studies
130 Alessandro Tedesco, Il viaggio di Mouktar. Storie di migranti raccolte da un insegnante di
frontiera
131 Gabriela Galati (a cura di), Ecologie complesse. Pensare l’arte oltre l’umano
132 Santino Spinelli, Le verità negate. Storia, cultura e tradizioni della popolazione romaní
133 Umberto Melotti, Marx passato, presente, futuro. Una visione alternativa dello sviluppo storico
134 Vincenzo Agostini, La montagna di Quentin. Immaginari e regole di una terra con naria
135 Irene Strazzeri, Marie-Aimée Hélie Lucas. Ritratto di una sociologa algerina
136 Quinn Slobodian, Globalists. La ne dell’impero e la nascita del neoliberalismo
137 Federico Cramer, Geni, evoluzione e destino. L’irripetibile storia della vita sulla Terra e l’incerto
futuro dell’uomo
138 Luigi Matt, Narratori italiani del Duemila. Scritti di stilistica militante
139 Pierpaolo Donati, Lo sguardo relazionale. Saggio sul punto cieco delle scienze sociali
140 Emanuele Antonelli, Due o tre cose sul merito. Saggio di estetica sociale
141 Peter Andreas, Killer High. Storia della guerra in sei droghe
142 Matteo Oreggioni, Filoso a tra i ghiacci. Viaggio nella ne di un mondo
143 Cristiano Caltabiano, Gianluca Budano (a cura di), Viaggi con la speranza. Storie di famiglie
colpite dalla malattia di un glio. Primo rapporto sull’emigrazione sanitaria in Italia
144 Alessandro Duranti, Antropologia del linguaggio, a cura di Aurora Donzell
145 Lisa Björkman (a cura di), Bombay Brokers. Metropoli e creatività culturale
146 Alberto Felice De Toni, Gilberto Marzano, Angelo Vianello, Antropocene e le s de del XXI
secolo. Per una società solidale e sostenibile

Potrebbero piacerti anche