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147
Comitato scienti co
PIERRE DALLA VIGNA
(Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como)
ANTONIO DE SIMONE
(Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”)
JOSÉ LUIS VILLACAÑAS BERLANGA
(Universidad Complutense de Madrid)
MAURO PROTTI
(Università del Salento)
RAFFAELE FEDERICI
(Università di Perugia)
Carlo Formenti
Ombre rosse
Saggi sull’ultimo Lukács e altre eresie
Meltemi editore
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redazione@meltemieditore.it
Collana: Linee, n. 147
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Due parole a mo’ di premessa
Un paio d’anni fa, nell’estate del 2019, usciva un volumetto dal titolo
Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare1. Si
trattava della registrazione di una conversazione fra chi scrive e Onofrio
Romano, il cui obiettivo era discutere in quale misura il marxismo possa
ancora ispirare un progetto politico capace di proiettarci oltre questo
presente sempre più intollerabile. Ci proponevamo, in primo luogo, di
capire di quali limiti e contraddizioni del discorso marxista sia opportuno
sbarazzarsi, per restituirgli il suo potenziale rivoluzionario. Fin dalle prime
righe della Prefazione, chiarivamo che non intendevamo proporre
l’ennesima operazione di reintegrazione della originaria “purezza” e
“autenticità” della teoria marxista, liberandola dalle incrostazioni con cui
un secolo e mezzo di revisionismi, fraintendimenti e distorsioni più o
meno intenzionali l’avevano deturpata. Non volevamo cioè contrapporre
il “vero” Marx ai suoi epigoni; scrivevamo in proposito:
Il punto di vista adottato dagli autori di questo libro è diverso: partendo dal presupposto che
l’originario corpus teorico marxiano – accanto a straordinari elementi di attualità sia sul piano
teorico che su quello politico – contiene tesi datate, incomplete e contraddittorie, assume che
non lo si possa contrapporre né separare dai tentativi storici di calarlo nella realtà. Pensiamo che
sia più utile cercare di capire quali concetti – presenti tanto in Marx quanto nelle varie tradizioni
marxiste, anche se con diverse sfumature – vadano archiviati, in quanto non servono più alla
trasformazione rivoluzionaria dell’esistente o rischiano addirittura di contribuire alla sua
conservazione (p. 5).
Per sempli care: ciò che Preve pone qui alla nostra attenzione è il fatto
che Marx fa propria la tesi secondo cui il proletariato sarebbe “per sua
stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di
produzione capitalistico, nonché di protagonista di un rivolgimento
sociale e politico in grado di generare un mondo in cui le contraddizioni
fra pubblico e privato, individuale e collettivo risulterebbero superate,
sanate. Una pretesa che lo stesso Marx (per tacere di Lenin) mette tuttavia
in questione, laddove pone la distinzione fra classe in sé e classe per sé,
aggiungendo che la conversione della prima nella seconda non è inscritta
in alcun dispositivo destinale.
Per il momento, mettiamo fra parentesi la questione del comunismo
come “società trasparente”, che verrà ripresa più avanti, e passiamo al
discorso deterministico-naturalistico, che appare intrecciato con quello
appena descritto nella misura in cui ne condivide la tendenza a una sorta
di “antropomor zzazione della storia”, nel senso che, alla narrazione
dell’esistenza di un soggetto collettivo capace di imprimere una precisa
direzione al processo storico, associa l’ipotesi che tale processo sia
animato da una “necessità immanente”. Il fondamento di questa visione,
argomenta Preve, è il concetto di necessità elaborato dalla scienza
ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un
nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità
di anticiparne e prevederne gli esiti processuali. Ma anche in Marx,
sostiene Preve, esistono tracce di una mentalità scienti co-idealistica in
ragione della quale la moderna produzione capitalistica assume il volto di
una entità cosalmente impersonale. In ciò si avverte l’in uenza del
concetto di storia naturale, che fa sì che le legalità di tipo naturalistico
vengano estese sotto forma di speci ci vincoli necessitanti a quella sezione
della natura chiamata società. Dire che il comunismo è lo sbocco
inevitabile, “scienti camente” prevedibile, della natura dinamica della
moderna produzione capitalistica, argomenta Preve, “non è diverso dal
dire che il comunismo è il passaggio dalla preistoria alla storia attuato dal
proletariato rivoluzionario” (p. 38). Se la teoria marxiana si potesse
ridurre a queste due narrazioni, che contengono i quattro miti del
soggetto, dell’origine, della ne e della trasparenza, avrebbero ragione i
suoi più so sticati detrattori borghesi, come Max Weber e Martin
Heidegger. Senonché, scrive Preve, la teoria marxiana non può essere
contenuta in questa cornice mitico-messianica; non solo: gli elementi in
questione sono secondari rispetto al lone fondamentale del pensiero di
Marx che essendo, viceversa, di tipo ontologico-sociale, esclude a priori
qualsiasi automatismo teleologico inscritto nella storia.
Prima di approfondire quest’ultima asserzione, passiamo alla seconda
parte del libro, nella quale l’autore prende avvio dal seguente
interrogativo: visto che i marxismi dopo Marx si sono quasi sempre
ispirati alle due narrazioni appena descritte, piuttosto che all’ontologia
sociale, è possibile liquidarli a partire da una interpretazione autentica
dell’opera del maestro? La risposta, chiarisce subito Preve, non può che
essere negativa, perché cento anni di interpretazioni sbarrano la strada del
viaggio verso il contatto originale e autentico con Marx8. Inoltre occorre
tenere presente che i “fraintendimenti” del testo marxiano operati da suoi
esegeti non sono frutto di “errori concettuali”, bensì “immagini del
mondo” che rispecchiano precisi vincoli storici. “L’incorporazione del
marxismo autentico in una formazione ideologica è una forma di esistenza
necessaria del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste
soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione
economico sociale”, scrive Preve, per poi aggiungere – sulle tracce
dell’ontologia lukacsiana – che l’ideologia non è riducibile al concetto di
“falsa coscienza”, ma è “lo strumento sociale con cui gli uomini
combattono in conformità ai propri interessi i con itti che nascono dal
contraddittorio sviluppo economico” (p. 211). Lo spazio ideologico è un
sistema di regni combattenti né è prevedibile che scompaia in una totalità
paci cata. Sull’ultima affermazione occorrerà tornare perché, come
vedremo, è in contraddizione con altre affermazioni dello stesso Preve.
Per ora possiamo accontentarci del concetto secondo cui le varianti (i
“fraintendimenti”) del marxismo vanno interpretate come espressione di
differenti insiemi di interessi con ittuali, storicamente determinati.
Nel libro che stiamo qui discutendo, Preve analizza, in particolare, due
di tali varianti. La prima è il marxismo della Seconda Internazionale, che
ha avuto il suo massimo esponente in Kautsky. Costui, scrive Preve, non
era un “rinnegato”. Al contrario, la sua era una versione “ortodossa”
dell’ideologia marxista, non nel senso (del tutto impossibile, come sopra
argomentato) della perfetta coincidenza con il pensiero di Marx, bensì nel
senso di un punto di vista che incarnava la visione delle magni che sorti e
progressive del proletariato industriale tedesco fra ne Ottocento e primo
Novecento, una “immagine del mondo” che rispecchiava una speci ca
composizione di classe e l’ascesa politica della socialdemocrazia che la
rappresentava. La visione kautskyana del capitalismo, argomenta Preve,
era incorporata nel discorso deterministico-naturalistico (evoluzione
automatica di un organismo complesso destinato al “crollo”), mentre
quella del proletariato era incorporata nel discorso grande-narrativo
(crescita cumulativa della coscienza politica di un soggetto associata alla
crescita della grande industria moderna). Per questo gli era alieno il
concetto leniniano di “anello debole”, che – come Gramsci riconobbe9 –
era la vera “eresia”.
La seconda variante è quella dell’operaismo italiano. Pur rendendo
omaggio alle analisi dei “Quaderni Rossi” (e di Raniero Panzieri in
particolare) sull’evoluzione dell’organizzazione capitalistica del lavoro e
della composizione di classe nelle grandi imprese italiane degli anni
Sessanta, Preve nota come da quell’analisi si sia fatto derivare un concetto
di composizione di classe che veniva eletto a “unica forma di
manifestazione concretamente empirica della classe operaia stessa” (p.
89). In altre parole, nella narrazione operaista, la composizione
astrattizzata dell’operaio massa diveniva sinonimo della classe in quanto
tale (e addirittura della classe in sé, nella misura in cui veniva tolta la
stessa distinzione marxiana fra classe in sé e classe per sé10), con il risultato
che questo racconto è entrato in crisi non appena è entrata in crisi la
concreta composizione di classe su cui si basava. Preve scriveva nell’84,
quindi non ha fatto in tempo a valutare le successive metamorfosi
concettuali (dall’operaio sociale ai lavoratori della conoscenza) che il post
operaismo ha escogitato per adattare una realtà radicalmente mutata al
paradigma originario, ha tuttavia fatto in tempo a cogliere due tendenze
teoriche speci che della corrente “negriana” del post operaismo, a partire
dalle quali, da un lato, si vaneggia sul “divenire comunista” del
capitalismo, nella misura in cui il comunismo viene ridotto all’orizzonte
“del consumo di beni e servizi privi ormai del ‘valore’ (lavoro) fruito da
un unico soggetto collettivo […] questi beni e servizi sono prodotti da
macchine automatiche mentre il soggetto fruitore è af dato alla
automaticità macchinica postmoderna di ussi desideranti” (p. 91)11;
dall’altro lato, la lotta di classe viene presentata come scontro fra potere e
potenza, il primo identi cato con “il comando capitalistico, che cerca di
reimporre l’infamia del lavoro produttivo […] quando ormai non
rimarrebbe che consumare gratis i prodotti senza valore della macchine”,
la seconda consistente “nella forza vitale meta sicamente promanante dai
nuovi soggetti sociali (giovani, donne ecc.)” (pp. 91-92).
Torniamo alle tre narrazioni del marxismo indenti cate da Preve. Come
si è visto, Preve liquida le prime due – quella grande narrativa e quella
deterministico-naturalistica – indicando piuttosto nel discorso ontologico-
sociale l’asse portante del contributo che Marx ha dato alla speranza
d’una possibile liberazione dell’umanità dal giogo del modo di produzione
capitalistico. Il discorso ontologico-sociale, secondo Preve, è de nibile
così: “La proposizione ontologico-sociale è fondata sull’esistenza di una
sola scienza, la storia, caratterizzata da processualità e speci cità” (p. 42).
E ancora: “Nel momento in cui Marx fa della produzione e riproduzione
della vita umana il problema centrale, compare la doppia determinazione
di una insopprimibile base naturale e di una ininterrotta trasformazione
sociale di questa” (Ibidem). Il materialismo storico non è ricerca di
presunte leggi deterministiche, perché la conoscenza tipicizzata del
passato, cioè la ricostruzione dei nessi causali che ne hanno determinato lo
sviluppo, può avvenire solo post festum. Nessuna necessità immanente,
nessuna teleologia sono all’opera nel processo storico, perché teleologia e
causalità sono compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del
lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire nalistico dell’uomo e, al
tempo stesso, costituisce quella prassi fondativa che innesca i processi
causali che trasformano natura e società. Preve trae dunque dall’ultimo
Lukács l’idea del lavoro come fondamento categoriale dell’ontologia
sociale, la quale non è loso a della storia “ma insieme di possibilità
ontologiche concrete e inscindibilmente collegate ai vari modi di
produzione”. Lukács esclude ogni forma di teleologia tanto nei processi
naturali che in quelli sociali: la storia non ha “il diavolo in corpo”, è
semplicemente il prodotto delle decisioni alternative che gli esseri umani
compiono per realizzare un ne determinato, e l’attività lavorativa è il
modello di questa prassi fatta di decisioni alternative ed è, di conseguenza,
il modello di ogni agire umano. La teleologia sta solo in queste decisioni
alternative, mentre la causalità nasce dal fatto che esse generano sequenze
causali necessarie “che a loro volta danno luogo a speci che soglie di
irreversibilità storica”. Né il soggetto delle decisioni è in grado di
controllare la “direzione” delle sequenze causali che mette in atto (per
questo le “leggi” del processo sono ricostruibili solo post festum). Le leggi
economiche infatti non sono altro che “la sommatoria impersonalizzata
delle alternative individuali” (gli uomini “non sanno ciò che fanno ma lo
fanno”, ripete Lukács ossessivamente sulle tracce di Marx).
Per riassumere e sempli care quanto appena esposto: per Lukács, e per
Preve che ne adotta il punto di vista: 1) il lavoro, in quanto attività umana
volta a modi care la natura al ne di realizzare un prodotto che esiste già
come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è il modello di
ogni processo teleologico, o meglio è l’unica via attraverso cui il fattore
teleologico penetra nel mondo reale, visto che né la storia naturale né
quella umana incorporano una teleologia immanente; 2) il lavoro, inteso
non solo come ricambio organico uomo-natura, ma anche e soprattutto in
quanto somma di decisioni dirette a in uenzare la coscienza di altri
uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente”12, gli atti
lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che
producono effetti necessari e irreversibili, nonché imprevedibili da coloro
che le mettono in atto, ed è per questo che le “leggi” del processo storico
sono comprensibili solo post festum; 3) da 1) e 2) deriva che la realtà
sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo
causale naturalistico, bensì come un insieme di possibilità generate dal
combinato disposto delle decisioni umane e dalle catene causali da esse
generate; 4) queste possibilità non potranno mai essere realizzate senza
l’intervento della posizione teleologica umano sociale; il che signi ca: 5)
che la trasformazione rivoluzionaria del presente non è l’esito di
automatismi, “oggettivi”, ma può avvenire solo grazie alla conversione
della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole (il cui
esito non è necessario/prevedibile ma appartiene a sua volta all’ordine
della possibilità).
E tuttavia Preve non è del tutto coerente nella sua presa in carico della
lezione teorica dell’ultimo Lukács. Personalmente ritengo che ciò sia
attribuibile al fatto che, all’epoca in cui uscì il libro di cui stiamo
discutendo, il nostro era ancora politicamente impegnato – sia pure su
posizioni critiche – in una sinistra radicale che aveva ereditato dai
movimenti degli anni Settanta un atteggiamento di ri uto totale e
aprioristico dell’esperienza del socialismo reale. È probabilmente per
questo che Preve colloca Lukács di default nel campo di un “marxismo
occidentale” contrapposto a un “marxismo orientale”13 identi cato con il
Diamat staliniano. Non a caso, pur concedendo qualche limitato credito al
maoismo, Preve assimila la Cina postmaoista all’URSS in quanto Paese in
cui si sarebbe restaurato il capitalismo, allineandosi a un radicato
pregiudizio ideologico di carattere eurocentrico che può essere fatto
risalire agli stessi Marx ed Engels14. Tipica in tal senso, l’alzata di spalle
con cui liquida la suggestione teorica di un’autrice come Rita di Leo15, la
quale ha avuto il merito di affrontare la s da del socialismo reale tentando
di analizzare come funziona concretamente un modello di società
caratterizzato dalla dominanza del fattore politico sul fattore economico.
Questo atteggiamento gli ha impedito di tenere conto del fatto che
Lukács, pur esplicitamente critico nei confronti dello stalinismo, non
aveva mai abbandonato la speranza nella possibilità di riformare i sistemi
a socialismo reale (per cui è presumibile che avrebbe accolto con estremo
interesse l’esperimento della Cina postmaoista). E probabilmente lo ha
anche indotto a interpretare in una chiave universalista, tipica della
loso a occidentale, due temi come l’ideologia giuridica e la questione
della estraniazione, che Lukács affronta in modo assai più problematico.
Parto dalla questione del diritto. Preve prende le mosse dalla
constatazione che, per Lukács, “la riproduzione sociale è un complesso di
complessi relativamente autonomi (linguaggio, economica, diritto,
sessualità, guerra, arte ecc.) che mutano nel tempo e muta anche la
collocazione di ognuno di essi nella gerarchia riproduttiva dell’insieme
sociale” (p. 200). Da qui discende il fatto che nessuno di tali complessi
può essere inquadrato in una gerarchia ssa che attribuisce all’economia il
ruolo di struttura e a tutti gli altri quello di ideologie sovrastrutturali. Ciò
vale, ovviamente, anche per il diritto. Preve sfrutta questo passaggio per
forzare una presunta valorizzazione lukacsiana del “potenziale
emancipativo contenuto nella formalità e nell’astrattezza del diritto
borghese” (p. 205). Ora, ciò è in palese contraddizione con la critica
radicale che Lukács rivolge alla visione astratta della storia come
progresso verso livelli sempre più elevati di civiltà. Del resto è lo stesso
Preve a riconoscere che anche Marx dif da di quei discorsi di tipo etico
nei quali identi ca una variante della concezione giuridica della società,
concezione che ri uta nella misura in cui è convinto che il superamento
dello sfruttamento non deriva da una presunta “giustizia socialista”, bensì
dal superamento della stessa forma giuridica in quanto consustanziale alla
forma economica (per Marx il diritto è per de nizione diritto borghese e
non “diritto umano”). Eppure Preve prende ugualmente le distanze da
Marx e, più in generale, da quello che de nisce il “disprezzo dei diritti
umani tipico delle legislazioni del socialismo reale”.
Posto che questa suona come una concessione alle suggestioni
eurocomuniste di quegli anni, mi pare di poter affermare che in nessun
passaggio dell’Ontologia di Lukács è possibile trovare qualcosa che
giusti chi tale presa di distanza, tanto che Preve va a cercarla in quella
parte nale dell’Ontologia in cui Lukács affronta i temi della estraniazione
e della transizione al socialismo. L’estraniazione, argomenta Preve, è
generata dal fatto che mentre lo sviluppo delle forze produttive
presuppone lo sviluppo delle capacità umane, quest’ultimo “non produce
obbligatoriamente lo sviluppo della personalità umana” (p. 217).
Dopodiché il nostro si avviluppa in una serie di contraddizioni che
complicano ulteriormente il già complesso intreccio di piste che lo stesso
Lukács percorre faticosamente (vedi Capitolo terzo). Cosa si intende per
sviluppo della personalità umana? Posto che Preve afferma che
“l’universalizzazione è possibile solo sulla base del capitalismo”; posto che
l’universalizzazione viene concepita come effetto collaterale
dell’astrattizzazione e che “la possibilità del rapporto non estraniato fra
individualità particolare e genere umano è ontologicamente consentita
dallo stesso progetto di astrattizzazione causato dal rapporto capitalistico
di produzione” (p. 205); posto che [a proposito di diritti umani, N.d.A.]
“il comunismo è al di là e non al di qua della soglia ontologica irreversibile
prodotta dal diritto borghese formale e astratto” (Ibidem); posto che il
comunismo è visto anche come momento “della lotta della personalità
individuale per la conquista della genericità in sé”; posto tutto ciò, è
evidente che siamo qui pericolosamente vicini a regredire ai miti del
discorso grande-narrativo che Preve ci invita ad abbandonare nella prima
parte del suo lavoro. È pur vero che il nostro cerca di salvare capra e
cavoli aggrappandosi al concetto di possibilità (il capitalismo rende
possibile, non necessario, il passaggio a un rapporto non estraniato fra
particolarità e generalità, lo sviluppo delle forze produttive rende
possibile, non necessario, lo sviluppo della personalità umana ecc.), ma
ciò non basta a dissipare il sospetto che si riaffacci qui la visione di un
processo lineare e irresistibile verso il paradiso del comunismo realizzato
come regno di una personalità umana universale e paci cata, cioè verso la
ne della storia. Un felice approdo che sarebbe reso possibile dal usso
principale della storia (borghese e occidentale), e non dalle deviazioni del
“barbarico” comunismo orientale. Ironicamente questa visione coincide
con l’avvio di un processo di marcescenza del comunismo occidentale, il
quale, di lì a poco, sarebbe stato pienamente reintegrato nel regime
neoliberale. Per capire se e in quale misura tale catastrofe abbia
contribuito a modi care l’atteggiamento di Preve faremo ora un salto di
25 anni, no a un testo del 2009.
E qui il passo avanti maturato nel quarto di secolo che separa le due
opere appare decisivo, nel senso che Preve si è sbarazzato delle illusioni in
merito al potenziale emancipatorio del capitalismo che ancora nutriva nel
precedente lavoro
Due. In merito alla possibilità di tradurre in azione politica l’identità di
classe, Preve è più vicino a Lenin che a Marx. Già nel libro precedente
aveva ammesso che “a tutt’oggi non possediamo una teoria dello Stato e
del partito che abbia veramente superato Lenin”, per cui resta valido il
giudizio leniniano in merito alla incapacità delle classi subalterne, serrate
nella morsa di un sapere “limitato alla particolarità e prossimità diretta”,
di comprendere i meccanismi della riproduzione politica, economica e
geopolitica della società in generale. Il guaio è, argomenta Preve, che la
borghesia (che oggi veste i panni delle nuove oligarchie capitalistiche) “è
una signora classe, assai più coesa e abile del volonteroso e confuso
proletariato”. E a confonderlo ancora di più contribuiscono quegli
intellettuali “di sinistra” che si impegnano a descrivere il secolo delle
rivoluzioni proletarie come un museo degli orrori17, che demonizzano il
Novecento quasi volessero “prevenire la malaugurata ipotesi che le classi
subalterne ci possano riprovare”.
Tre. Preve non si limita a difendere il Novecento dall’accusa di essere
stato il secolo degli orrori: difende anche l’esperienza del comunismo
novecentesco dalle denigrazioni che gli arrivano dagli esponenti del
settarismo di sinistra, il che è senz’altro una novità rispetto al ripudio
totale che ٢٥ anni prima aveva manifestato nei confronti del socialismo
reale, e che ora sostiene invece che andrebbe rivendicato “come un
esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico,
anche se ovviamente deformata da rapine burocratiche di vario tipo”.
Tuttavia questo cambiamento di prospettiva non si spinge no a mettere
in discussione l’affermazione dogmatica secondo cui questo gigantesco
esperimento di ingegneria sociale sarebbe fallito, ancora prima di
concludersi, “con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato
attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche”.
Ammesso che ciò sia vero, è inspiegabile la rigidità con cui Preve liquida
anche la rivoluzione cinese, ri utandosi di prendere atto del fatto che, in
questo caso, l’esperimento ha prodotto – invece del disastro russo – la
straordinaria ascesa della Cina al rango di grande potenza mondiale, in
grado di confrontarsi da pari a pari con il “nemico principale”
statunitense. Preve arriva addirittura a liquidare il regime postmaoista con
la sprezzante de nizione di “capitalismo confuciano”.
Dietro questa banale sempli cazione si nasconde certamente un chiaro
de cit di conoscenza economica, sociale e politica da parte di un losofo
che ignora – o sottovaluta – le argomentazioni di quegli autori che
descrivono la Cina come un sistema socialista con presenza di mercato e
con con itti di classe che potrebbero condurlo sia verso una restaurazione
capitalistica, sia verso una più avanzata forma di socialismo. Giovanni
Arrighi18, fra gli altri, sottolinea come il permanere del controllo statale sui
settori produttivi strategici e sulle banche, di uno sviluppato sistema di
servizi pubblici, e di una politica estera dif cilmente de nibile come
imperialistica, inducono a prendere atto del fatto che, nché il potere
politico mantiene il controllo sull’economia, si può aggiungere mercato a
volontà senza che il sistema possa essere de nito capitalista. Se a ciò si
aggiunge lo straordinario risultato di avere ridotto il numero dei cittadini
in condizioni di povertà da più di ottocento a quattrodici milioni, di avere
mantenuto i livelli di occupazione nel momento in cui la crisi li aggrediva
duramente nei paesi capitalisti occidentali, e di avere pilotato l’economia
del Paese da un modello mercantilista fondato sui bassi salari a un
modello autocentrato, grazie a un aumento consistente e generalizzato
delle retribuzioni, è evidente che il “miracolo” cinese, più che a una
conversione del Partito-Stato ai princìpi e ai valori del liberismo, è da
attribuirsi al permanere di consistenti elementi di socialismo.
Ma non è solo questione di ignoranza e disinformazione. La radice di
questi due passi indietro, dopo il passo avanti descritto nelle pagine
precedenti, è da identi care, a mio parere, nel nodo loso co che
avevamo evidenziato discutendo le tesi della Filoso a imperfetta, e che un
quarto di secolo più tardi rimane irrisolto. Il fatto è che Preve non capisce
che, così come riconosce che il modo di produzione capitalista – in
quanto astratta categoria idealtipica – esiste solo attraverso una pluralità
di formazioni sociali concrete, lo stesso vale per il rapporto fra il modello
ideale di socialismo e la realtà delle diverse, concrete società socialiste in
cui tale modello si è storicamente incarnato. Ciò gli è impedito dal fatto
che rimane legato a categorie loso che “universali”, al punto che
nemmeno la frequentazione dell’ontologia sociale lukacsiana basata sul
lavoro è bastata a riportarlo con i piedi per terra. Preve non riesce a
digerire il “socialismo in stile cinese” perché non riesce ad afferrare la
speci cità storico-geogra ca di un immenso Paese con millenni di storia
alle spalle, che ha sviluppato un grandioso esperimento sociale in
coerenza con la concezione del tempo che ha ereditato dalle sue tradizioni
culturali, e che ha elaborato un concetto di transizione socialista
concepito come un processo secolare, caratterizzato da avanzate e ritirate,
vittorie e scon tte. Non ci riesce perché resta ancorato a una visione del
mondo sostanzialmente eurocentrica, tipica di quel marxismo occidentale
del quale, pur odiandolo, non ha saputo/potuto sbarazzarsi del tutto.
Qui il punto di vista di Preve coincide del tutto con quello del sottoscritto e di Onofrio Romano,
citato all’inizio della premessa.
Mi riferisco alla nota frase di Gramsci secondo cui i bolscevichi avevano fatto una rivoluzione
“contro il Capitale”, nel senso che la loro impresa aveva sovvertito l’idea marxiana, condivisa
dall’ortodosso Kautsky, secondo cui la rivoluzione avrebbe potuto svolgersi solo nei punti alti dello
sviluppo capitalistico.
A formulare tale tesi fu Mario Tronti in Operai e capitale (Einaudi, Torino 1966). In una recente
intervista, il losofo si è lamentato del fatto che pur avendo rinnegato quella tesi non molto dopo la
pubblicazione del libro, la sua immagine è rimasta per sempre legata a quell’opera “giovanile”.
Più che su Marx, del quale valorizza quasi esclusivamente il “Frammento sulle macchine” dei
Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze
1970), la retorica post operaista si fonda sulle teorie di autori come Michel Foucault e Gilles
Deleuze.
È il caso di notare che questa formulazione somiglia non poco alla de nizione di potere nelle
opere di Max Weber.
Per il confronto fra marxismo occidentale e marxismo orientale, vedi le opere di Domenico
Losurdo. Cfr. in particolare, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere,
Laterza, Roma-Bari 2017.
Sull’eurocentrismo di Marx ed Engels ho ragionato in un post apparso sul mio blog (vedi nota 7
della nota introduttiva), a partire dall’antologia di loro scritti India, Cina, Russia, a cura di Bruno
Maf , il Saggiatore, Milano 1960.
Per una versione aggiornata delle ri essioni della di Leo sul tema in questione cfr. la trilogia:
L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse, Roma 2012; Cento anni
dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, Ediesse, Roma 2017 e L’età della moneta. I suoi uomini, il
suo spazio, il suo tempo, il Mulino, Bologna 2018.
Un ragionamento che sembra fare eco alle tesi di C. Polanyi ne La grande trasformazione
(Einaudi, Torino 1974), se non fosse che Preve non sembra apprezzare questo autore.
Cfr., fra gli altri, M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001.
Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2008.
Capitolo secondo
Una visione cristologica del comunismo.
Su Il principio speranza di Ernst Bloch
A prescindere dal contesto settoriale del discorso (il rapporto fra storia
economico-sociale e storia militare), il punto è chiarissimo: le forze
produttive – e a maggior ragione l’economia in generale – non sono mai
riducibili alla tecnica, nella misura in cui rispecchiano l’intera complessità
delle relazioni interne all’essere sociale. “L’economia e la tecnica sono
bensì, nello sviluppo del lavoro, in uno stato di coesistenza indissociabile,
hanno continue interrelazioni fra loro, ma questo fatto non ne sopprime la
eterogeneità, che si manifesta […] nella dialettica contradditoria fra ne e
mezzo”, contraddizione che abbiamo già evidenziato in quel passaggio,
citato nella prima sezione, in cui Lukács punta il dito contro il feticismo
associato all’inversione gerarchica nella relazione ne-mezzo.
b) Commentario
La descrizione che Lukács fa delle interazioni fra economico ed
extraeconomico o – se si preferisce seguire la classica contrapposizione –
fra struttura e sovrastruttura, fa piazza pulita di tutte le letture “crolliste”
della ne del modo di produzione capitalista. Tipica, in questo senso, la
tesi secondo cui la caduta tendenziale del saggio del pro tto destinerebbe
necessariamente il capitalismo all’estinzione (tesi che, per inciso, ignora
l’esistenza di controtendenze alla caduta tendenziale evidenziate dallo
stesso Marx). Ma il punto di vista di Lukács consente di liquidare anche
tutte quelle visioni “oggettivistiche” che, a ogni crisi, rilanciano la diagnosi
secondo cui il capitalismo starebbe vivendo la sua “fase terminale”, un
approccio che Giorgio Ruffolo ha criticato con l’ironica battuta “il
capitalismo ha i secoli contati”45. La verità è che, come aveva ben
compreso Lenin, le premesse di un superamento del capitalismo si danno
solo quando le classi dirigenti “non appaiono più in grado di
conservare/difendere lo status quo”, vale a dire quando la crisi trascende
la dimensione economica per divenire crisi istituzionale, politica e
culturale (crisi di egemonia in senso gramsciano), quando, cioè, coinvolge
la totalità dell’essere sociale (come abbiamo appena visto, Lukács
chiarisce che l’economico può svolgere il ruolo di fattore determinante nei
confronti degli altri complessi sociali esclusivamente attraverso la
mediazione della totalità sistemica che abbraccia sia la struttura che la
sovrastruttura).
Il punto di vista lukacsiano si rivela un’arma critica altrettanto ef cace
nei confronti delle torsioni soggettiviste del discorso marxiano, come
quell’ideologia operaista e post operaista che ha svolto un ruolo
signi cativo, se non egemonico, nei confronti dei movimenti dell’ultimo
mezzo secolo, a partire dalle teorizzazioni contenute nella rivista
“Quaderni rossi”46. La peculiarità di questa scuola teorica consiste
nell’aver sviluppato un punto di vista in cui il soggettivismo convive con
l’esaltazione oggettivista del fattore economico, un paradosso che si spiega
con il fatto che quest’ultimo viene sostanzialmente indenti cato con le
tecniche produttive. Infatti è alla particolare organizzazione del lavoro
fondato sulle tecnologie produttive fordiste, che si attribuisce il merito di
avere favorito la nascita d’uno strato di classe – l’operaio massa – capace
di sviluppare spontaneamente una coscienza antagonistica nei confronti
del capitale. In altre parole, l’inestricabile intreccio fra economico ed
extraeconomico che Lukács proietta nell’essere sociale in quanto totalità
per il paradigma operaista si realizza all’interno stesso del processo
produttivo, per cui la coscienza rivoluzionaria appare come una
scaturigine spontanea, immanente alla stessa produzione capitalistica. Di
qui la tesi trontiana47 secondo cui la nuova classe operaia non ha più
bisogno del partito come strumento di una coscienza rivoluzionaria che le
viene inoculata dall’esterno (cioè dal campo totale delle relazioni politiche
e sociali, secondo la visione di Lenin48), dal momento che ora è lei stessa il
partito, in quanto esprime direttamente e spontaneamente tale coscienza.
Viene così a mancare del tutto la consapevolezza del fatto che, per quanto
duramente con ittuali, certi comportamenti di classe rappresentano una
prassi che resta – per usare le parole di Lukács – in tutto o in gran parte
incomprensibile ai loro stessi protagonisti. Consapevolezza che Tronti
riacquisterà in un secondo tempo, autocriticando le sue tesi originarie e
riaffermando il principio della “autonomia del politico”49, riconoscendo
cioè che l’interdipendenza fra economico ed extraeconomico non mette in
questione i reciproci margini di libertà dei due ambiti.
Si è accennato, poco sopra, alla riduzione dell’economico alle tecniche
produttive. Questa tendenza dell’operaismo (condivisa da altre correnti
marxiste) è sopravvissuta alla transizione dalla produzione fordista alla
produzione postfordista, e si è ulteriormente rafforzata con l’avvento delle
tecnologie digitali. Un ruolo fondamentale ha svolto in tal senso una certa
lettura del celebre “Frammento sulle macchine” contenuto nei
Grundrisse, laddove lo stesso Marx si consegna alla fascinazione della
potenza produttiva del general intellect, cioè della potenza produttiva
incorporata nel sistema delle macchine della grande industria capitalistica.
In quelle pagine Marx ipotizza infatti che, raggiunto un determinato
livello di sviluppo tecnologico, tale da determinare un formidabile salto
qualitativo della produttività del lavoro sociale, la legge del valore-lavoro
non sarebbe più in grado di regolare l’economia, né tanto meno l’insieme
dei rapporti sociali. I tecnoentusiasti di sinistra hanno elevato a dogma
questa profezia, credendo di riconoscere le condizioni del suo
inveramento storico nelle narrazioni dei guru della New Economy negli
anni Novanta e nei primi anni del Duemila. Quella variopinta comunità di
hacker dell’hardware e del software, ricercatori dei dipartimenti
universitari di informatica, fondatori di startup, giornalisti specializzati,
futurologi ecc. annunciavano l’avvento di un imminente futuro in cui: 1)
le startup, grazie alla rapidità di innovazione e alla libertà dai rigidi vincoli
imposti dai grandi investimenti in capitale sso e forza lavoro, avrebbero
sbaragliato la concorrenza dei vecchi monopoli high tech; 2) i lavoratori
della conoscenza, abituati alla cooperazione spontanea e alla condivisione
di informazioni e conoscenze, si sarebbero emancipati dal comando
capitalistico sviluppando nuove forme di produzione di beni comuni
svincolate dal mercato50; 3) questi soggetti non avrebbero solo sviluppato
una nuova forma di democrazia economica, ma si sarebbero
progressivamente liberati anche dal controllo politico dello Stato, dando
vita a nuove forme di aggregazione sociale di tipo orizzontale51.
I movimenti libertari eredi del ciclo di lotte degli anni Sessata e Settanta
hanno tradotto questa utopia anarco-capitalista in un progetto politico in
cui il ruolo dell’operaio massa appare rimpiazzato da quello dei lavoratori
“creativi”, in quanto depositari di una presunta coscienza politica
anticapitalista. In entrambi i casi, l’agente di tale evoluzione è un elemento
immanente al modo di produzione, elemento che, mentre da un lato è
appiattito sulla tecnica, dall’altro viene descritto come il catalizzatore di
una coscienza politica spontaneamente antagonista e tendenzialmente
egemonica52. Questa narrazione è miseramente naufragata di fronte agli
sviluppi successivi alla crisi dei titoli tecnologici dei primi anni del
Duemila: formidabile concentrazione monopolistica della New Economy,
con conseguente subordinazione/marginalizzazione dei progetti
“alternativi”; cooptazione degli strati superiori dei knowledge workers nel
sistema di comando, controllo e sfruttamento degli strati inferiori della
forza lavoro (e contestuale proletarizzazione degli strati inferiori);
integrazione fra industrie high tech e colossi della nanza in un complesso
capace di accelerare mostruosamente la “guerra di classe dall’alto”53
contro le classi subalterne. Così la “dialettica contraddittoria fra ne e
mezzo”, a partire dalla quale Lukács analizza il rapporto fra economia e
tecnica, si è presa la sua rivincita sui sogni neoproudhoniani.
Dal che consegue che “ogni reazione degli uomini al loro ambiente
economico sociale può in determinate circostanze diventare ideologia”
(vol. IV, p. 446). Una volta che abbia assunto tale ruolo, tanto il suo
contenuto quanto la sua forma conservano però segni incancellabili della
loro genesi. Il fatto che tali segni appaiono evidenti, o al contrario
impercettibili, dipende da quale funzione svolgono nei con itti sociali, dal
momento che l’ideologia è anche e soprattutto “uno strumento della lotta
sociale che caratterizza ogni società [ed è in queste lotte che] acquista
anche il signi cato peggiorativo divenuto storicamente tanto importante”
(vol. IV, p. 447).
Poche pagine dopo, Lukács approfondisce la questione della genesi
delle ideologie associandola alla nascita di differenti gruppi sociali, fondati
sulla condivisione di interessi comuni contrapposti a quelli di altri gruppi:
In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle
ideologie, giacché questi con itti si possono dirimere con ef cacia nella società solo quando i
membri dell’un gruppo riescono a persuadere sé stessi che i loro interessi vitali coincidono con
gli interessi importanti della società nel suo intero (vol. IV, pp. 452-453).
b) Commentario
Discutere la critica di Lukács alla formulazione gramsciana del concetto
di ideologia (vedi sopra), va oltre gli scopi di questo lavoro. Ciò che mi
pare chiaro è che, rispetto a quella di Gramsci, la versione di Lukács
appare ancora più “eretica” rispetto a quella del marxismo volgare, nel
senso che, se si accetta il suo punto di vista, l’ideologia non può in alcun
modo essere ricondotta a mera “illusione”, a una sorta di travestimento
puramente ideale che sottrae allo sguardo la cruda realtà fattuale
dell’economico. L’idea lukacsiana di fondo è che, nella misura in cui il
processo di socializzazione avanza, emancipandosi dalla determinazione
immediata da parte delle esigenze del processo di riproduzione dell’essere
sociale (che tuttavia non perdono mai il ruolo di elemento soverchiante in
ultima istanza), sorgono bisogni sociali che devono essere risolti tramite la
costruzione di sovrastrutture ad hoc che svolgono precise funzioni
riproduttive di tipo materiale, non si limitano cioè ad assolvere esigenze
puramente ideali.
Ancora più importante mi pare il criterio adottato per distinguere fra il
signi cato positivo e quello negativo del concetto. Per ssare tale con ne
(sempre storicamente determinato, a partire dall’analisi concreta di una
speci ca fase di sviluppo dell’essere sociale), Lukács ci riconduce alla
genesi del fattore ideologico in quanto prodotto dell’articolazione
dell’essere sociale in gruppi portatori di interessi in con itto reciproco.
Una volta superata la fase in cui il con itto si risolve con la violenza, a
partire cioè dal momento in cui la complessità delle relazioni sociali
impone di elaborare nuovi modi per gestirlo, emerge l’elemento
ideologico, il quale si manifesta come autoconvinzione della classe
dominante che i propri interessi coincidano con quelli della società intera.
L’ideologia rivela quindi n dalle origini la sua natura di strumento della
lotta di classe, e la sua caratterizzazione positiva e negativa ri ette tale
essenza, nella misura in cui dipende da quali sono gli interessi di classe
che esprime: serve alla conservazione dello status quo o al suo
superamento? La lotta ideologica – che in termini gramsciani si declina
come lotta per l’egemonia – è quindi direttamente e materialmente lotta di
classe. Il discorso vale anche per la teoria. Il richiamo alla celebre tesi
marxiana su Feuerbach – “I loso hanno [ nora] solo interpretato
diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo” – va di pari passo con
l’insistenza con cui Lukács caratterizza il marxismo come loso a della
prassi, facendoci capire che, dal suo punto di vista, la teoria serve solo se e
quando la classe se ne impadronisce, facendone una propria arma di lotta,
cioè solo se e quando essa si converte in forza materiale al servizio delle
masse. Il che, come già detto, avviene solo nella misura in cui si fa essa
stessa ideologia.
Passando alla seconda sottosezione: abbiamo visto come Lukács segua
quasi alla lettera la lezione di Lenin, dimostrando, da un lato,
l’inconsistenza delle letture “soggettiviste” del suo pensiero, tipiche di chi
si limita a esaltarne il genio rivoluzionario, senza tenere conto delle rigide
condizioni oggettive che lo stesso Lenin giudicava indispensabili per poter
parlare di situazione rivoluzionaria; ma dimostrando anche, dall’altro lato,
come nel modo stesso in cui Lenin descriveva tali condizioni – la
compresenza fra la volontà di cambiamento delle classi inferiori e la
impossibilità di mantenere lo status quo di quelle superiori – fosse già
inscritta la necessità del fattore attivo, soggettivo, il quale si esprime
attraverso l’elaborazione di un discorso ideologico. Discorso che, per
esercitare la propria forza materiale di trasformazione dell’esistente, deve
tuttavia incarnarsi in organizzazione. È facile prevedere quanto indigesta
appaia oggi l’adesione lukacsiana alla concezione leninista del partito
come coscienza politica trasportata alla classe dall’esterno, in quest’epoca
in cui le sinistre “radicali” ri utano qualsiasi visione gerarchica
dell’organizzazione politica, se non del politico in generale, e in
particolare della sua concrezione in potere70. Eppure è evidente perché
Lukács non potesse che essere leninista: il modo in cui Lenin descrive
l’esterno di cui sopra – vale a dire il campo dei rapporti di tutte le classi e
di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo – coincide
infatti con la visione lukacsiana della totalità dell’essere sociale come
“complesso di complessi”, nonché della lotta ideologica come tentativo di
presentare gli interessi di classe come interessi della società intera. Per
inciso, questo è lo stesso motivo per cui Gramsci, in barba a tutte le
letture post strutturaliste, post coloniali ecc. che ne sono state fatte, resta
inequivocabilmente leninista: i concetti gramsciani di egemonia e blocco
sociale alludono precisamente alla capacità dell’ideologia rivoluzionaria di
divenire egemone nei confronti della totalità del corpo sociale, e lo
strumento di tale capacità è il partito, come Gramsci ribadisce in più
occasioni nei Quaderni71. Posto che difendere la concezione leninista – ma
anche lukacsiana e gramsciana – del partito non comporta la
riproposizione dogmatica delle particolari forme organizzative che esso ha
assunto storicamente, resta la profonda differenza fra quella concezione e
la visione “orizzontalista” della politica che caratterizza le sinistre
occidentali contemporanee, la quale ha dimostrato in ogni occasione la
sua incapacità di incidere sui rapporti di forza fra le classi sociali.
Restando in argomento di pensiero politico “debole”, credo valga la
pena di ricordare le critiche che Lukács rivolge a quel processo di
“deideologizzazione” che ha provocato il trionfo di una paradossale
“ideologia dell’anti-ideologia” che si regge in realtà su un’ideologia
“forte”, in quanto eletta a pensiero unico e universalmente condivisa, vale
a dire sull’esaltazione della “libertà” come salvi co valore chiave per tutte
le questioni della vita. Un sintomo inquietante del salto di qualità che
questo processo di deideologizzazione ha compiuto in tempi recenti è la
scandalosa approvazione di una risoluzione del Parlamento europeo che
equipara fascismo e comunismo. Questa vergognosa falsi cazione storica
sarebbe stata inconcepibile no a vent’anni fa, benché si tratti dell’esito
conclusivo di un processo iniziato subito dopo la Seconda guerra
mondiale, il cui primo passo è consistito nella condanna dell’ideologia
nazifascista celebrata a Norimberga, un processo ai crimini di guerra dei
vinti celebrato dai vincitori (che nel contempo si assolvevano dei loro
crimini, a partire dalla nuclearizzazione di Hiroshima) e aveva lo scopo di
negare qualsiasi relazione fra forme “normali” e forme dittatoriali del
dominio di classe. A partire da quel momento le prime, identi cate con la
democrazia borghese, non erano più classi cabili come ideologie, termine
che veniva riservato alle idee fasciste. L’estensione della condanna al
comunismo non era allora praticabile perché quest’ultimo, oltre ad avere
offerto un contributo decisivo alla vittoria contro il nazifascismo, era
troppo forte e godeva di troppe simpatie da parte delle masse popolari
occidentali. I presupposti loso ci di tale estensione erano tuttavia già
presenti: basti pensare alla categoria di “totalitarismo” coniata da Hannah
Arendt72 che mirava esattamente a tale obiettivo, esattamente come la sua
contrapposizione fra la Rivoluzione americana, democratica e liberale
(cioè anti-ideologica), e la Rivoluzione francese, macchiata dal terrore
giacobino73.
A completare il lavoro hanno provveduto le evoluzioni parallele dei
partiti eurocomunisti e delle sinistre radicali nate sulle rovine dei
movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta. Dopo le rivolte
ungherese e cecoslovacca, queste forze politiche hanno preso congedo
dall’ideologia (termine ormai compiutamente negativizzato) marxista-
leninista e abbracciato versioni più o meno “radicali” della democrazia
borghese garante della “libertà” come valore assoluto, non più
analizzabile né criticabile da un punto di vista di classe. Il crollo dei
sistemi socialisti ha contribuito a dare il colpo di grazia: il passo successivo
è stato aderire senza riserve all’apparato concettuale e valoriale della
liberal-democrazia (a partire dalla concezione neoliberista dell’economia).
Da allora la tendenza è stata continuamente rafforzata attraverso la guerra
di classe dall’alto scatenata dal capitalismo globale, ormai libero dal
“ricatto” dell’alternativa socialista, e attraverso quel processo che
Wolfgang Streeck ha de nito il divorzio fra democrazia e liberalismo74,
riferendosi al progressivo smantellamento delle istituzioni democratiche
generate dal compromesso fordista del trentennio postbellico. Oggi
l’ideologia liberale, non più riconosciuta come tale ma eletta a principio di
civiltà unico, indiscutibile e universale, trova la de nitiva consacrazione
nella crociata per l’esportazione con ogni mezzo possibile – guerra
compresa – dei “diritti universali dell’uomo” in tutti quei Paesi – a partire
dalla Cina – che rivendicano la propria autonomia storica, culturale e
politica dal dominio occidentale.
Sui cosiddetti diritti dell’uomo e sull’ideologia liberale non credo vi sia
molto da aggiungere ai passaggi di Lukács e Marx citati nel Compendio.
Vale solo la pena di approfondire un paio di aspetti. Uno: il carattere
squisitamente individuale di tali diritti, il loro riferirsi a quello che Marx
chiama, come si è visto, “l’uomo ripiegato su sé stesso, sul suo interesse
privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità”. In effetti, se
analizziamo la pletora dei diritti che sorgono a getto continuo dalle più
disparate richieste di riconoscimento da parte dei gruppi più diversi, i
quali rivendicano in primo luogo il diritto di avere diritti75, non è dif cile
rendersi conto del fatto che tali presunti diritti, non solo non rispecchiano
più interessi di classe, ma non rispecchiano nemmeno interessi collettivi.
Non è un caso se Rodotà e altri identi cano il soggetto portatore di questi
“nuovi diritti” con una persona che rinvia a un astratto individuo
cosmopolita, privo di qualsiasi concreto connotato nazionale, culturale, di
genere, religioso, socioeconomico ecc.: una sorta di immaginario
“cittadino del mondo”76. Notiamo per inciso che, a portare acqua al
mulino di tale visione, hanno contribuito tanto la narrazione femminista
articolata attorno allo slogan il personale è politico77, quanto le tesi di
autrici come Judith Butler78 secondo cui l’identità sessuale, una volta
mondata di ogni condizionamento culturale, si riduce a libera scelta
individuale, per tacere delle deliranti pratiche linguistiche del
politicamente corretto79. Due: un altro aspetto su cui vale spendere
qualche parola è quell’atteggiamento che Lukács de nisce “conformismo
non conformistico”, riferendosi a quella tipologia di intellettuali che,
temendo di essere accusati “di fare dell’ideologia”, esprimono il proprio
disagio nei confronti dello status quo e del modo in cui i poteri dominanti
lottano per conservarlo “in forme che non vogliono né possono in alcun
modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo”.
Chi come il sottoscritto ha avuto modo di frequentare gli ambienti
dell’accademia, del giornalismo e più in generale dell’industria culturale sa
benissimo di cosa si parla qui: tutti coloro la cui carriera professionale o,
più banalmente, la cui quotidiana sopravvivenza dipendono dalla
benevolenza delle istituzioni culturali – pubbliche o private – per cui
lavorano, sono consapevoli dei con ni che le loro manifestazioni di
indipendenza critica non devono violare. Pur esaltando la “libertà di
opinione”, la esercitano con somma prudenza, avendo cura di garantirsi la
possibilità di rimanere “apprezzati collaboratori della manipolazione
universale” (secondo la sprezzante de nizione di Lukács).
Passando dal tema dei diritti dell’uomo alla critica della giustizia
borghese, mi pare importante riprendere il concetto lukacsiano che
stabilisce, quale condizione dell’allontanamento del diritto dall’esercizio
violento del dominio di classe, la sua trasformazione in un corpus di
princìpi e procedure che assumono la forma dello scambio economico.
Come si è detto, per Lukács (e per Marx), l’illusione delle classi
subalterne in merito alla possibilità di “ottenere giustizia” restando nei
con ni del sistema giuridico si basa sull’incomprensione del fatto che tale
sistema non può, in linea di principio, derogare da “una concezione in
de nitiva economica dell’uguaglianza”. Ciò non rappresenta ovviamente
una novità rispetto alla “classica” denuncia dell’essenza ideologica (cioè di
classe) del diritto. La novità sta piuttosto nel fatto che Lukács rispolvera
un aspetto relativamente poco frequentato del pensiero di Marx
sull’argomento, laddove cita quella parte della Critica al Programma di
Gotha in cui si afferma che nel socialismo come fase di transizione al
comunismo “il diritto uguale [cioè il criterio per cui ciascuno riceve in
proporzione al proprio lavoro] resta in sostanza un diritto borghese”.
Questo ovviamente perché la capacità produttiva varia in relazione alla
forza, all’intelligenza e al talento individuali, per cui applicare a tutti i
lavoratori un diritto uguale signi ca di fatto applicare un diritto disuguale
per lavoro disuguale. La questione è cruciale in relazione alla valutazione
della natura, dei limiti e delle prospettive di sviluppo dei Paesi socialisti
esistenti. In Cina gli intellettuali comunisti discutono apertamente
l’argomento, riconoscendo la fondatezza della critica di Marx ma
sostenendo, nel contempo, che il problema potrà essere risolto soltanto
con la transizione dal socialismo al comunismo, in una prospettiva di
lungo periodo80. Ci torneremo sopra nella quinta sezione, dedicata
appunto ai temi dell’utopia e del socialismo.
Passiamo in ne alla critica della religione. Non mi soffermerò sui
passaggi in cui Lukács ricostruisce le radici che il fenomeno religioso
affonda nella prassi sociale, svolgendo la funzione di “ponte” fra interessi
quotidiani del singolo e grandi bisogni ideali – motivo per cui egli lo
de nisce come una “forma intermedia fra politica e loso a”; né
riprenderò la sua critica nei confronti della sottovalutazione “illuminista”
della potenza materiale del religioso, sottovalutazione associata
all’illusione secondo cui le scoperte scienti che – e più in generale
l’avanzamento di tutte conoscenze umane sulla realtà e sul mondo –
sarebbero fatalmente destinate a spegnere la fede religiosa. Mi
concentrerò invece sull’analisi della differenza fra logica settaria e logica
istituzionale. La parte in cui Lukács ricostruisce le differenze
“idealtipiche” fra chiesa e setta mi pare non si discosti molto dal
contributo che Max Weber ha dato a tale argomento81. In effetti, si
potrebbe persino sostenere che Weber è andato più a fondo
nell’evidenziare non solo le differenze, ma anche il rapporto dialettico fra i
due fenomeni: da un lato la setta come fattore di rinnovamento e
rivitalizzazione della fede “assopita” nella routine della prassi ecclesiale,
dall’altro la chiesa come esito dell’inevitabile processo di
assestamento/consolidamento istituzionale, successivo all’esaurirsi della
“spinta propulsiva” della rivelazione profetica. Tuttavia l’analisi di Lukács
è decisamente più consistente laddove affronta il tema dei rapporti di
forza fra le classi sociali che sovradeterminano questo gioco dialettico. In
particolare, laddove evidenzia il carattere sovversivo e “plebeo”
dell’originario messaggio cristiano, nonché la sua successiva
neutralizzazione, dovuta all’allontanamento della parusia82: nché questa
era annunciata come imminente, essa appariva associata a una visione
egualitaria del mondo, alimentando speranze, aspettative e rivendicazioni
degli “ultimi”; il suo allontanamento verso un orizzonte temporale
inde nito, tendenzialmente coincidente con l’in nito, ha viceversa
consentito l’instaurazione di un modus vivendi con gli strati sociali
superiori, no a convertirsi in culto “uf ciale” del potere politico,
economico e culturale.
Tuttavia Lukács aggiunge che il fascino della gura di Cristo, immutato
nel corso dei millenni, è associato alla persistenza, sia pure sottotraccia,
dell’originario messaggio “classista”, alla sua capacità di rispondere alle
“contraddizioni reali che mettono in movimento gruppi estesi”. Questo
contenuto ideologico potenzialmente “rivoluzionario” riaf ora
periodicamente: Lukács cita in merito la guerra dei contadini in
Germania83, ma si pensi anche ai movimenti ereticali del Medioevo e alla
gura di San Francesco, senza dimenticare il ruolo fondamentale che la
“teologia della liberazione” ha svolto – e tuttora svolge – in tutte le
rivoluzioni sociali dell’America Latina84. Questa oscillazione temporale fra
potere delle chiese e insorgenze settarie ed ereticali presenta evidenti
analogie con certi passaggi della storia del marxismo, e più in generale del
movimento operaio negli ultimi due secoli: dopo il consolidamento del
potere socialdemocratico, proseguito no allo scoppio della Prima guerra
mondiale, e caratterizzato dal progressivo rafforzamento delle strutture
organizzative di partiti e sindacati, e dalla conquista di rapporti di forza
tali da migliorare le condizioni materiali di vita del proletariato e ottenere
l’allargamento degli spazi democratici all’interno del sistema capitalistico,
è arrivata la crisi della Seconda Internazionale e il diffondersi dell’eresia
comunista in Russia e in altri Paesi europei, così come dopo la
normalizzazione riformista dei partiti comunisti dell’Europa occidentale,
culminata con la svolta eurocomunista, sono arrivati i movimenti sociali
degli anni Sessanta e Settanta e i loro (maldestri) tentativi di ricostruire un
progetto rivoluzionario orientato al superamento del sistema capitalistico.
Dopo la trasformazione dei partiti ex comunisti in chiese liberal-
democratiche associate al culto universale del libero mercato, siamo
viceversa ancora in attesa di un nuovo sussulto capace di rivitalizzare
l’“annuncio” del Manifesto di Marx ed Engels.
Ciò detto, ciò che ci appare qui come un campo “libero”, incontra il
proprio limite nella misura in cui “l’analisi ci mostra un ulteriore
momento signi cativo del determinismo del soggetto dell’alternativa: la
necessaria ignoranza delle sue conseguenze o almeno di una parte di
esse”. È facile infatti constatare “come sia anzitutto la vita quotidiana che
di continuo pone davanti ad alternative inattese e spesso bisogna trovare
una risposta immediata, pena la rovina; in tal caso il carattere essenziale
dell’alternativa medesima è che bisogna decidere non conoscendo la
maggioranza delle componenti della situazione, delle conseguenze ecc.”
Ciò signi ca che l’ignoranza delle conseguenze dell’agire rimuove ogni
elemento di libertà dall’agire stesso? No perché, “anche così resta un
minimo di libertà della decisione; anche in questo caso [cioè l’azione
dettata dalla necessità di reagire immediatamente di fronte ad alternative
inattese, N.d.A.] – come caso limite – si tratta pur sempre di una
alternativa e non di un evento naturale determinato da una causalità
puramente spontanea” (vol. III, p. 114).
La tensione fra l’apertura del campo delle alternative possibili che si
offrono all’agire del soggetto umano e i vincoli posti dalla legalità del
contesto sociale in cui esso opera attinge ai massimi livelli a fronte
dell’enorme sviluppo della potenza tecnico-scienti ca alimentato dal
capitalismo contemporaneo. Da un lato, quest’ultima sembra fare
dell’individuo “un plasmatore sovrano di tutte le cose”, “di fronte alla cui
volontà plasmatoria non c’è nessun mondo dell’essere che risulti
indipendente”, dall’altro lato, “ogni uomo diventa un nulla impotente di
fronte alla onnipotenza della manipolazione”. L’aspetto più rilevante della
nostra epoca, per quanto concerne il rapporto fra teleologia (libertà) e
necessità (determinismo), può quindi essere descritto come “il coesistere
di una onnipotenza astratta e di una concreta impotenza”85. Questo
paradosso non è il risultato di tendenze puramente “oggettive”, di
dispositivi meramente causali, bensì dell’agire egemonico dell’ideologia
(intesa come necessaria espressione di interessi determinati) dei gruppi
dominanti:
Basta ricordare con quale forza l’attuale capitalismo manipolato, con i suoi interventi
“regolati” sul mercato dei consumi e dei servizi, con i suoi mass media, agisca nel senso di
restringere la possibilità di decisioni veramente personali (proprio mediante l’apparenza
propagandistica del loro massimo dispiegamento) (vol. I, p. 185).
Non vi è dubbio che Lukács faccia qui propria la visione marxiana che
attribuisce all’uomo comunista un forte connotato di “autenticità”, nella
misura in cui prevede che egli possa compiutamente emanciparsi da ogni
forma di estraniazione. Del resto non è un caso se critica quelle correnti
loso che (a partire dagli esistenzialisti) che non considerano
l’estraniazione una caratteristica peculiare della società borghese e
capitalistica, bensì “una ‘condition humaine’ universale e sovrastorica,
dove ad esempio l’uomo si contrappone alla società, il soggetto alla
oggettività ecc.” (vol. IV, p. 568). Dobbiamo dedurne che ritiene che ogni
e qualsiasi tipo di estraniazione sia destinata a sparire nel comunismo
realizzato? Non suonerebbe ciò come un annuncio di “ ne della storia”,
in palese contraddizione con la concezione lukacsiana del processo storico
che abbiamo n qui tentato di ricostruire? Proveremo ad affrontare
questo interrogativo nelle pagine seguenti.
b) Commentario
La prima parte dei materiali selezionati e raccolti in questa sezione
contiene una serie di argomentazioni critiche contro il concetto astratto di
libertà. Molte di esse mi paiono suf cientemente chiare, tanto da non
richiedere particolari apporti esplicativi, per cui mi concentrerò solo sugli
aspetti che ritengo propedeutici alla discussione sul tema della transizione
dal capitalismo al socialismo come passaggio dal regno della necessità al
regno della libertà. Inizio provando a evidenziare il lo rosso che connette
questi due piani del discorso lukacsiano, identi cabile, a mio parere, nel
tema dell’estensione del campo di possibilità che il lavoro – inteso come
dimensione dell’agire teleologico – viene progressivamente generando a
mano a mano che avanza il processo di socializzazione dell’essere sociale.
Questo processo non è lineare, né univocamente direzionato da un
qualche tipo di teleologia immanente, ma consiste in una serie di scelte
che mettono in moto catene causali – il cui esito è in larga misura
imprevedibile per il soggetto che opera tali scelte (e questa è la breccia
attraverso cui la necessità torna a imporre pedaggio alla libertà) – le quali,
a loro volta, dischiudono un nuovo campo di possibilità e quindi pongono
il soggetto di fronte ad alternative inedite, concedendogli un nuovo spazio
in cui esercitare una libertà che, tuttavia, come si è visto, “è possibile solo
all’interno delle legalità del campo”.
Il soggetto cui qui si riferisce Lukács non è il soggetto individuale che
sta al centro della concezione liberale del mondo e della politica. Un
soggetto che, secondo tale concezione, è portatore esclusivamente di
libertà “negative”, “libertà da”, nella misura in cui il fardello della
necessità viene espulso dall’orizzonte quotidiano di vita e proiettato sul
Leviatano, sul corpo arti ciale della soggettività collettiva incarnato dallo
Stato, secondo la raf gurazione di Hobbes (l’ideologia liberale non può
tollerare la “libertà di”, che implica inevitabilmente una limitazione delle
libertà individuali – in primis della libertà associata al diritto di proprietà
privata – laddove queste entrano in con itto con esigenze e bisogni
collettivi, proprio perché ciò comporta l’intrusione del Leviatano nella
sfera privata del singolo92). Questo soggetto, per Lukács come per Marx, è
una costruzione arti ciale che letteralmente non esiste: nessuno può
compiere “atti soggettivi puri”, per la semplice ragione che ogni atto
soggettivo è sempre e solo una “risposta” a domande poste dalla società.
Nemmeno proiettando lo spettro della necessità sul Leviatano è possibile
esorcizzarlo, in quanto nulla può impedire che le “leggi” (le catene
causali) generate dalla totalità delle relazioni intersoggettive – tanto fra
singoli che fra gruppi sociali – impongano vincoli stringenti all’azione di
ciascuno, operando come una “seconda natura”.
Tuttavia, per alimentare il perpetuarsi dell’illusione, l’ideologia liberale
può contare sull’enorme sviluppo della potenza scienti ca e tecnologica
che, nel corso dell’ultimo secolo e mezzo e con un’accelerazione
formidabile negli ultimi decenni, ha sgombrato il campo da gran parte
degli ostacoli che la “prima” natura poneva alla libertà umana. La
celebrazione del progresso tecnologico e scienti co alimenta una sfrenata
euforia, sistematicamente ampli cata dalla narrazione dei mass media e dal
sistema educativo, che induce a rappresentare, scrive Lukács, il moderno
soggetto umano come “il plasmatore di tutte le cose”, che concentra
l’attenzione sul continuo proliferare di inedite possibilità di
comunicazione a distanza, di cure mediche, di viaggi veloci, di consumo di
prodotti e servizi di ogni genere ecc., mentre proietta un cono d’ombra
sulle contraddizioni generate dagli effetti imprevisti e imprevedibili di tale
accelerazione: dal degrado ambientale, alla progressione geometrica delle
disuguaglianze economiche e sociali. Nel contempo, l’immagine del
Leviatano – fonte di una necessità incarnata da un insieme di regole,
valori, procedure e princìpi percepiti come arbitrarie imposizioni –
subisce un’ulteriore negativizzazione consentendo al capitalismo di
addebitare all’invadenza dello Stato il perpetuarsi di vincoli all’agire
individuale che la scienza e la tecnica sarebbero ormai in grado di
rimuovere93. Nasce così quella coesistenza fra onnipotenza astratta e
concreta impotenza che fa sì che “ogni uomo diventi un nulla impotente
di fronte alla onnipotenza della manipolazione”.
Il lo rosso che connette questa analisi al discorso sul socialismo come
regno della libertà sta qui, ma qui stanno anche le contraddizioni e le
problematicità con cui questo lo è intessuto. Parlare di coesistenza fra
onnipotenza astratta e concreta impotenza non vuol dire mettere
implicitamente in discussione il dogma in base al quale quanto più elevato
è il livello di sviluppo delle forze produttive, tanto più si avvicina la
concreta possibilità della transizione al socialismo, il passaggio dal regno
della necessità al regno della libertà? È pur vero che Lukács,
contrariamente ai marxisti volgari, concepisce tale transizione come una
possibilità, non come una necessità dettata da presunte “leggi” del
processo storico, il quale
dal punto di vista ontologico, non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità
af nché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso
opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni
alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo.
I.
Qual è il rapporto fra le tesi emerse dal dialogo fra chi scrive e Onofrio
Romano, citato nella Premessa, e i tre excursus su altrettanti testi di Preve,
Bloch e Lukács che avete letto nelle pagine di questo lavoro? Perché
chiedere a ri essioni loso che che risalgono a diversi anni addietro
risposte a interrogativi politici legati all’attualità storica? Il fatto è che
l’opera di Ernst Bloch rappresenta una summa di tutte le speranze e le
illusioni che hanno alimentato il progetto del socialcomunismo
novecentesco. Non è azzardato affermare che ne incarna la versione più
nobile, e che proprio per questo rappresenta una tragica testimonianza del
suo tramonto. Viceversa la loso a dell’ultimo Lukács, e il modo in cui
Costanzo Preve si è sforzato di attualizzarla, offrono spunti preziosi per
farla nita con il lutto generato dalle disastrose scon tte che il campo
marxista ha subito negli ultimi decenni, e per interrogarci sulla possibilità
di una ripartenza che segni una radicale discontinuità nei confronti di
certe categorie del passato, senza rinnegare i princìpi e i valori che lo
avevano innervato. Nel tentativo di trovare conferma di tale possibilità, è
probabile che, in alcuni casi, chi scrive abbia forzato le idee degli autori
presi in esame al di là delle loro intenzioni. Il lettore giudicherà se e in che
misura questi “tradimenti” siano giusti cati, ma soprattutto se e in che
misura siano utili alla causa di chi si propone di rilanciare un progetto
rivoluzionario.
Riparto dai tre regimi discorsivi del marxismo catalogati da Costanzo
Preve. Mi pare che dal confronto con le tesi di Ernst Bloch siano emersi
validi motivi per prendere commiato tanto dal discorso grande-narrativo
quanto dal discorso deterministico-naturalistico. Bloch è stato attaccato
dai marxisti ortodossi per la sua visione profetico-religiosa del futuro. È
pur vero che la sua rappresentazione del comunismo come paradiso in
Terra, mondo emancipato da tutti i con itti e da tutte le contraddizioni,
transizione dal regno della necessità al regno della libertà, in cui l’umanità
potrà attingere la sua essenza autentica, per tacere degli annunci su una
possibile liberazione dalla morte e sulla prospettiva di una umanizzazione
senza residui della natura, rivelano una evidente ispirazione teologica (con
chiare assonanze giudaico-cristiane). Lo stesso si può dire della sua
ricostruzione della storia delle utopie come un ininterrotto lo rosso che
corre da Mosè a Marx, passando per Cristo, Gioacchino da Fiore e i
socialisti premarxisti. Ciò detto: coloro che ironizzano su queste
“bizzarrie” non sono gli stessi che interpretano la storia come un processo
teleologico, “animato” da un principio immanente (sia pure sub specie di
“leggi” economiche e sociali) che ne orienta la direzione secondo un
percorso ascensionale che conduce a livelli sempre più alti di civiltà? Non
sono gli stessi che attribuiscono alla scienza e alla tecnica, e più in
generale alle forze produttive (a prescindere dal loro impatto sui rapporti
fra le classi sociali) il magico potere di creare le condizioni “oggettive” per
la transizione al socialismo? Non sono gli stessi che attribuiscono alla
classe operaia il ruolo di Soggetto predestinato della Rivoluzione? Il fatto
è che, piaccia o no, l’intero apparato categoriale delle versioni
evoluzioniste (deterministico-naturaliste) e progressiste (grandi-narrative)
del marxismo è sovrapponibile punto a punto alla variante religiosa che ne
è stata elaborata da Bloch, il quale si è semplicemente limitato mettere in
scena il Soggetto provvidenziale che si cela dietro le quinte della
commedia uf ciale. Se oggi non si ironizza più sulle utopie blochiane è
solo perché gli intellettuali marxisti “pentiti”, che no a ieri lo criticavano,
hanno dismesso qualsiasi velleità, non dico di utopia sociale, ma persino
di deviazione dall’eterno presente in cui Francis Fukuyama vorrebbe
intrappolarci. Per fortuna la trappola non è scattata, ma ciò non signi ca
che si possa rispolverare il sogno di Bloch come se la storia non ne avesse
impietosamente rivelato l’inconsistenza. Quel sogno è morto, ma non
sono morte le passioni che l’avevano alimentato. Si esprimono tuttavia in
forme diverse e, se vogliamo riconoscerle e indirizzarle sui giusti bersagli,
è al discorso ontologico-sociale che occorre chiedere risposte.
II.
Nel Capitolo terzo ho descritto cinque elementi dell’ontologia lukacsiana
– il lavoro come modello di ogni attività teleologica; la storia come scienza
fondata su un principio di causalità descrivibile con la formula “se…
allora”; la relazione dialettica fra libertà e necessità; l’ideologia come
potenza materiale; il socialismo come orizzonte di possibilità – che a mio
avviso consentono di formulare in termini inediti la prospettiva di un
superamento del modo di produzione capitalista. Qui di seguito proverò a
sintetizzare, prima le implicazioni loso che, poi quelle ideologico-
politiche di questa lettura ontologico-sociale del marxismo.
Sul piano loso co:
1) Assumere il lavoro (il lavoro in generale, come ricambio organico fra
uomo e natura) quale unico esempio di attività teleologica – di attività
consapevolmente e nalisticamente orientata – esistente al mondo,
signi ca escludere qualsiasi ipotesi in merito all’esistenza di una
direzionalità prede nita nel cammino evolutivo della specie umana.
Ponendosi obiettivi sempre più ambiziosi per soddisfare i propri bisogni e
desideri, inventando mezzi sempre più so sticati per realizzarli, ed
elaborando modelli organizzativi e metodi sempre più ef cienti per
indurre tanto la natura che gli altri esseri umani a collaborare ai loro
progetti, gli uomini hanno costruito inconsapevolmente (“essi fanno ciò
ma non sanno di farlo”) società sempre più complesse e sempre più
dif cili da trasformare, se non attraverso progetti dall’esito dif cilmente
programmabile/prevedibile.
2) In conseguenza di quanto affermato al punto 1), la storia (che per
Lukács è la sola scienza riconosciuta da Marx) si presenta come una
successione di “salti”, descrivibili come altrettante aperture di inediti
campi di possibilità. Questi salti non con gurano una scala evolutiva
ascendente verso il “progresso”, ma appunto solo l’emergere di nuove
possibilità di assumere decisioni alternative; che poi tali decisioni
con gurino un miglioramento o un peggioramento delle condizioni
umane dipende anche da fattori contingenti (casuali), soprattutto perché
esse vengono assunte senza che se ne possano conoscere/prevedere
compiutamente gli effetti. Ciò fa sì che le “leggi” della storia (cioè i nessi
causali che ne determinano gli esiti) siano analizzabili solo post festum, e
assumano la forma “se… allora” (date certe condizioni, non pre gurabili,
si avranno questi o quest’altri esiti).
3) Da 1) e 2) deriva che la libertà non è mai descrivibile come libertà
individuale (o di gruppo) assoluta. Essa si esercita esclusivamente come
libertà di scelta socialmente e storicamente determinata, cioè come facoltà
di assumere decisioni alternative in un campo di possibilità rigorosamente
prede nito dalle “leggi” (sempre e solo formulabili in base al principio
“se… allora”) di una speci ca fase storica.
4) Dal momento in cui il processo storico ha generato una società divisa
in gruppi (classi sociali) portatori di interessi contrapposti (legati ai diversi
ruoli svolti nel processo lavorativo e nella gestione del surplus generato da
tale processo), è nata l’esigenza, per i gruppi dominanti, di produrre una
giusti cazione ideale del proprio dominio, identi cando i propri interessi
con il bene comune (lo stesso principio vale, arrivati a un determinato
livello di con itto, per i gruppi dominati in cerca di una giusti cazione
ideale della volontà/necessità di cambiare lo stato di cose presente). Tali
giusti cazioni ideali assumono la forma di ideologie e, per Lukács come
per Gramsci (anche se fra i due autori esistono sfumature diverse sul
tema), l’ideologia non è riducibile a “falsa coscienza”, a un insieme di
misti cazioni, di proiezioni illusorie che misti cano la realtà, ma
rappresenta una potenza materiale in grado di trasformare in profondità
tale realtà.
5) In sintonia con quanto ricordato ai punti precedenti, la visione
lukacsiana della rivoluzione è rigorosamente ispirata ai princìpi del
leninismo: a) la rivoluzione è possibile solo se e quando le classi dirigenti
non sono più in grado di conservare/difendere lo status quo, cioè quando
si è in presenza di una crisi che trascende la dimensione economica per
divenire crisi istituzionale, politica e culturale, quando, cioè, coinvolge la
totalità dell’essere sociale. Il che non signi ca trascurare il peso dei fattori
oggettivi, strutturali, ma riconoscere che le situazioni rivoluzionarie si
veri cano “quando gli ‘strati inferiori’ non vogliono più il passato e gli
‘strati superiori’ non possono più vivere come in passato”; b) la
rivoluzione è un evento la cui radicalità rispecchia il rapporto asimmetrico
fra dominanti e dominati, nel senso che ai primi “basta la riproduzione
normale, per mantenere in piedi lo status quo, mentre i secondi hanno
bisogno di un energico e unitario atto di volontà”; c) nessun dominio
crolla da solo, l’essere sociale non si trasforma ma viene trasformato, il che
implica l’esistenza di un progetto, di una volontà politica organizzata in
grado di immettere dall’esterno la coscienza politica nelle classi subalterne
(si intende dall’esterno della sfera dei rapporti immediati fra operai e
padroni, cioè dal campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati
della popolazione con lo Stato e con il governo).
5 bis) Per Lukács il passaggio dal regno della necessità al regno della
libertà è una possibilità, non l’esito di presunte “leggi” della storia, la
quale non può fare altro se non generare il campo di possibilità af nché
ciò avvenga. La teoria della transizione al socialismo come prodotto della
contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione viene così
degradata da dogma a una delle condizioni di possibilità (non la sola, né
tantomeno l’esclusiva) di tale transizione. In ultima istanza questa
condizione “oggettiva” è riconducibile alla proprietà del lavoro di
produrre più di ciò che è necessario per riprodurre il soggetto che lo
compie. E visto che l’economia intesa come ricambio organico fra uomo e
natura non può discostarsi dai suoi fondamenti ontologici, ne discende
che il socialismo come prima fase del comunismo fa ancora parte del
regno della necessità. Quanto all’interrogativo se Lukács creda realmente
in un futuro in cui si potrà realizzare la transizione al regno della libertà
secondo le modalità descritte da Marx ed Engels nella seconda metà
dell’Ottocento, chi scrive azzarda l’ipotesi che Lukács consideri l’utopia
come un’arma ideologica più che come una previsione sull’evoluzione
dell’essere sociale. A sostegno di tale ipotesi torno a citare il seguente
passaggio: “l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche
molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di
continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo
sviluppo dell’umanità”.
Sul piano ideologico-politico:
1) La concezione lukacsiana della storia liquida le interpretazioni
“oggettiviste” del marxismo: le classi subalterne non possono sperare che
la propria emancipazione arrivi da presunte “leggi” di sviluppo
dell’economia. La storia “non ha il diavolo in corpo”, non contiene alcun
principio immanente che la indirizzi necessariamente verso il “progresso”.
L’essere sociale non si trasforma, viene trasformato. Al tempo stesso, ciò
non signi ca immaginare la rivoluzione come un puro atto di volontà
soggettiva, bensì rendersi conto che le sue condizioni di possibilità
incorporano una buona dose di fattori casuali, contingenti e individuali, e
che tali fattori vanno ricercati nel campo dei rapporti fra tutte le classi
sociali e fra queste e le istituzioni politiche, il governo ecc.
2) Dire che il progresso non è una prestazione automatica della storia
non basta: occorre prendere atto che l’idea stessa di progresso – che è un
parto della moderna cultura borghese, e in particolare della sua variante
liberale, illuministica – non va accettata acriticamente, come viceversa
hanno nora fatto quasi tutte le forze politiche di matrice marxista. È
l’intero corredo di princìpi e valori della cultura borghese che va messo in
discussione, a partire da quelle idee di libertà e di diritti umani universali
nei confronti delle quali l’ultimo Lukács ripropone le feroci critiche di
Marx. Detto altrimenti: la rivoluzione socialista non è la
prosecuzione/compimento della rivoluzione borghese, la messa in pratica
di princìpi e valori che quest’ultima si è limitata a enunciare senza metterli
in pratica, è il passaggio a una forma di vita, a una civiltà, radicalmente
alternative.
3) Quanto affermato al punto precedente induce a respingere l’idea
secondo cui il futuro maturerebbe “naturalmente” nel grembo del
presente. La rivoluzione proletaria non può replicare il modello delle
rivoluzioni borghesi, per la semplice ragione che le dinamiche della
società capitalistica non consentono ai proletari di acquisire abbastanza
potere per sostituirsi senza sforzo eccessivo alle classi dominanti. Una
volta che si sia compreso che la asimmetria di potere e di mezzi fra
dominanti e dominati è tale da richiedere un vero e proprio “assalto al
cielo” per essere spezzata, occorre anche riconoscere che una simile
impresa impone un formidabile sforzo di accumulazione di
consapevolezza politica e di mezzi organizzativi. È per questo motivo che
Lukács resta fedele alla concezione leninista del partito rivoluzionario in
quanto espressione di un livello di consapevolezza politica che i dominati
non sono in grado di attingere spontaneamente.
4) L’insieme degli apporti lukacsiani all’analisi e alla critica del presente
conduce alla valorizzazione dell’ideologia come fattore materiale di
trasformazione dell’esistente. Ciò non comporta tentazioni di tipo
idealistico: Lukács considera infatti l’ideologia come strumento della lotta
di classe, come un’arma politica che serve, più che a misti care la realtà
(l’ideologia come falsa coscienza), a imporre positivamente l’egemonia
delle idee delle classi dominanti sui dominati. Il fatto che questo rapporto
possa essere invertito, il fatto cioè che l’ideologia possa essere usata come
arma controegemonica dai dominati, fa sì che il tardo capitalismo abbia
fatto propria una strategia di deideologizzazione della società e della
politica.
III.
Se e in che misura quanto sin qui discusso può tradursi in un progetto
all’altezza dell’attuale realtà storica? Rispondere è compito che trascende
l’obiettivo di questo lavoro, per cui mi limito a buttar giù alcuni appunti
preliminari. Mi pare evidente che, dalle analisi degli autori esaminati in
queste pagine, l’intero impianto del marxismo occidentale ne esce a pezzi.
In particolare ne esce a pezzi l’idea – palesemente eurocentrica – secondo
cui all’estensione del dominio imperiale delle metropoli capitalistiche sul
resto del mondo andrebbe riconosciuto il “merito” di avere creato i
presupposti per la transizione al socialismo. Questa idiozia è frutto di un
concentrato di tutte le categorie che sono state qui messe sotto accusa:
economicismo, evoluzionismo, progressismo, presunte necessità storiche,
feticismo della tecnica e delle forze produttive ecc. Un’idiozia che, a
partire dagli anni Settanta del secolo scorso, è divenuta una sorta di
pensiero unico delle sinistre “radicali”, a mano a mano che le analisi dei
teorici della dipendenza104 venivano liquidate come “terzomondismo”,
lasciando il campo alla certezza che solo la sussunzione del mondo intero
sotto il rapporto di capitale può creare le condizioni per una rivoluzione
mondiale. A smentire questa visione non sono state tanto le disastrose
scon tte subite dalle classi subalterne occidentali (accompagnate dalla
conversione delle sinistre al liberal-liberismo), quanto il fatto che, nel
resto del mondo, la penetrazione del mercato non solo non si è
automaticamente tradotta in omologazione ai valori, ai princìpi e ai
rapporti sociali e politici di tipo capitalistico, ma ha accompagnato
l’emergenza di un’alternativa socialista globale di cui la Cina rappresenta
la punta più avanzata. Sul futuro del capitalismo tornano ad addensarsi
ombre rosse che vengono dall’Est e dal Sud del mondo.
Il fatto che le sole rivoluzioni socialiste riuscite non siano avvenute in
Paesi a elevato sviluppo economico, ma in regioni del mondo “arretrate”,
e che ne siano state protagoniste classi operaie in formazione e larghe
masse contadine, alleate con strati di piccola borghesia urbana e guidate
da partiti rivoluzionari di impostazione marxista-leninista, è stato nora
oggetto di semplici prese d’atto empiriche, mentre è mancato il coraggio
di riconoscere che “le cose non avrebbero potuto andare altrimenti”. In
effetti: più la classe operaia è sviluppata, organizzata, capace di contrattare
migliori condizioni di vita e di lavoro con i capitalisti, più essa si riduce a
capitale variabile, a motore interno del modo di produzione e in fattore di
accelerazione del suo sviluppo (come già Marx ed Engels avevano intuito
osservando l’evoluzione della Socialdemocrazia tedesca). Al contrario le
masse popolari periferiche e semiperiferiche, soggette all’oppressione
coloniale e neocoloniale, oltre che a forme di supersfruttamento, si
percepiscono e si considerano come esterne al rapporto di capitale105,
anche in ragione delle radicali differenze culturali (tradizioni storiche,
religiose, princìpi e valori morali ecc.) nei confronti dei Paesi del centro. È
in questo contesto che la storia ha generato inedite possibilità
trasformative, così come è in questo contesto che partiti rivoluzionari
originariamente formatisi alla scuola del marxismo occidentale hanno
saputo afferrare tali possibilità ma, per farlo, hanno dovuto adattare la
teoria alla concreta realtà storica e sociale in cui operavano (i comunisti
cinesi la chiamano sinizzazione del marxismo).
Più di mezzo secolo prima delle riforme cinesi degli anni Settanta,
questo rovesciamento dei dogmi marxisti era già avvenuto con la
Rivoluzione russa del 1917. L’eresia leninista non è consistita solo
nell’avere sostituito la tesi dell’attacco all’anello più debole della catena a
quella dell’attacco al livello più elevato di sviluppo del capitale: è
consistita ancor più, come osserva Rita di Leo106, nell’aver liquidato, nei
suoi ultimi anni di vita, le visioni estremiste che pretendevano di applicare
immediatamente il modello “classico” di transizione alla costruzione del
socialismo in Russia; nell’avere compreso che, per superare l’arretratezza
dell’economia sovietica e garantire un livello di vita decente alle masse,
occorreva reintrodurre robuste dosi di capitalismo nel sistema; occorreva
capire che il capitalismo di Stato, nché fosse rimasto saldamente sotto il
controllo dello Stato/partito, non avrebbe signi cato automaticamente la
restaurazione del capitalismo; nell’avere in ne compreso che, per
intraprendere la lunga, faticosa marcia di avvicinamento al socialismo, non
si poteva delegare il controllo della produzione a un’autogestione operaia
soggetta all’inevitabile in uenza di interessi corporativi, ma bisognava
concentrare tutto il potere nelle mani del partito107.
Non abbiamo qui modo di analizzare l’evoluzione del regime sovietico
dopo la morte di Lenin, né tantomeno di discutere le cause del suo
recente crollo. Resta il fatto che la svolta postmaoista in Cina presenta
chiare analogie con quella della NEP. Dopo il fallimento del Grande Balzo
in avanti e della Rivoluzione culturale, in una situazione che vedeva
ottocento milioni di cittadini sotto la soglia di povertà, si è capito che, per
avanzare verso il regno della libertà, ci si sarebbe prima dovuti sbarazzare
dei vincoli della necessità. Le riforme economiche del ’78 e dei successivi
decenni, con l’apertura agli investimenti stranieri nelle zone speciali, e la
reintroduzione di criteri manageriali nella gestione delle imprese di Stato,
hanno permesso al Paese di ottenere gli straordinari successi che sono
oggi sotto i nostri occhi. Basta il fatto che il processo sia sempre rimasto
sotto il rigido controllo politico dello Stato/partito, e che il sistema abbia
conservato robusti elementi di socialismo, a respingere l’accusa di avere
restaurato il capitalismo in Cina? Per il vivace dibattito che agita il campo
marxista in merito a tale interrogativo, rinvio a quanto ho scritto
altrove108, qui mi limito a citare l’opinione (che condivido pienamente)
espressa in merito da Giovanni Arrighi: si possono aggiungere a volontà
elementi di mercato a un sistema sociale, ma se e nché il mercato resta
embedded in un sistema di relazioni politiche, sociali e culturali non
capitaliste che ne subordinano il ruolo ad altre nalità, non è possibile
parlare di capitalismo.
Certo, le ombre rosse che arrivano da Oriente non annunciano l’avvento
del paradiso in Terra profetizzato da Bloch. E lo stesso vale per quelle che
arrivano da Sud, dai Paesi dell’America Latina impegnati a de nire il
progetto di un socialismo del secolo XXI109. Delineano però le condizioni
di un socialismo possibile, di una lunga transizione dall’esito aperto e
imprevedibile, caratterizzata dalla convivenza fra economia pubblica ed
economia di mercato e dal persistere della lotta di classe. Quanto a noi
occidentali: la disarticolazione delle nostre classi operaie ci condanna a un
futuro senza speranza di cambiamento? Certamente la ripartenza, dopo la
catastro ca scon tta che abbiamo subito dal regime liberista, si presenta
tutt’altro che facile; né – se ri utiamo le scorciatoie dell’economicismo –
possiamo attenderci granché dalla profonda crisi capitalistica in corso,
aggravata dalla pandemia. Paradossalmente, la necessità di ripartire da
una classe operaia divisa, immiserita, precarizzata, priva di ef caci
strumenti organizzativi e di lotta potrebbe rivelarsi, almeno da un certo
punto di vista, un vantaggio: il proletariato forte, numeroso, omogeneo,
organizzato del ciclo fordista non è mai uscito, né poteva/voleva farlo,
dallo stato di capitale variabile, né si è mai posto – né avrebbe
potuto/voluto farlo – obiettivi antisistema. Questo proletariato, che oggi
non esiste in quanto soggetto consapevole e unitario, questo proletariato
che appare assai più “estraneo” alle dinamiche sociali e politiche rispetto
al suo aristocratico predecessore potrà tornare a esistere solo come
prodotto di un processo di costruzione politica, potrà rinascere solo
insieme a un partito capace di mettere in atto tale processo.
Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.
Cfr. N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaka Book, Milano 1972. Zitara applica questo concetto al
proletariato meridionale italiano, mentre Samir Amin lo estende a livello mondiale.
Cfr. la trilogia di questa autrice citata nella nota 8 del Capitolo primo.
Rita di Leo, nei libri citati nella nota 8 del Capitolo primo, sostiene che Stalin, contrariamente alle
tesi dei sovietologi “uf ciali”, non avrebbe represso la classe operaia russa; al contrario, avrebbe
abbandonato la linea leninista, lasciando ampia autonomia gestionale agli operai di fabbrica.
Inoltre la durezza con cui ha perseguitato, oltre ai vecchi intellettuali e tecnici zaristi e ai contadini
ricchi, anche i vecchi dirigenti bolscevichi (a loro volta intellettuali di estrazione medio-borghese,
laddove Stalin faceva eccezione, date le sue origini popolari) sarebbe nata dalla volontà di
rimpiazzare l’intera classe dirigente ereditata dal passato con quadri di estrazione proletaria.
Effetto di tali scelte sarebbe stato, fra gli altri, quello di creare un rapporto di complicità fra
dirigenti di fabbrica di estrazione popolare e forza lavoro, per cui gli operai potevano lavorare a
ritmi assai bassi, praticare l’assenteismo, opporsi alle innovazione tecnologiche ecc. È nata così
quella divaricazione fra obiettivi uf ciali del piano e realtà produttiva che verrà progressivamente
aggravandosi dopo la morte di Stalin, tanto da rendere possibile la nascita di una economia
informale emersa dopo il crollo dell’89.
Cfr. Il socialismo è morto…, cit. Vedi anche Il capitale vede rosso, cit.
Sul dibattito latino-americano in merito al concetto di socialismo del secolo XXI vedi quanto ho
scritto nei lavori citati nella nota precedente.
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