2020/21
Liceo Classico
Materie caratterizzanti
Lingua e cultura greca – Lingua e cultura latina
Morti esemplari
οὕτω δὲ διαλύσας τὸ σύνδειπνον, καὶ περιπατήσας μετὰ τῶν φίλων τόν συνήθη μετὰ τὸ δεῖπνον
περίπατον, καὶ τοῖς ἄρχουσι τῶν φυλάκων ἃ καιρὸς ἦν προστάξας, ἀπιὼν εἰς τὸ δωμάτιον ἤδη, τόν
τε παῖδα καὶ τῶν φίλων ἕκαστον μᾶλλον ἢ πρότερον εἰώθει προσαγαγόμενος καὶ φιλοφρονηθείς,
πάλιν ὑποψίαν παρέσχε τοῦ μέλλοντος. εἰσελθὼν δὲ καὶ κατακλιθεὶς ἔλαβεν εἰς χεῖρας τῶν
Πλάτωνος διαλόγων τόν περὶ ψυχῆς: καὶ διελθὼν τοῦ βιβλίου τὸ πλεῖστον καὶ ἀναβλέψας ὑπὲρ
κεφαλῆς, ὡς οὐκ εἶδε κρεμάμενον τὸ ξίφος ῾ὑφῄρητο γὰρ ὁ παῖς ἔτι δειπνοῦντος αὐτοῦ, καλέσας
οἰκέτην ἠρώτησεν ὅστις λάβοι τὸ ἐγχειρίδιον. σιωπῶντος δὲ ἐκείνου πάλιν ἦν πρὸς τῷ βιβλίῳ: καὶ
μικρὸν διαλιπών, ὥσπερ οὐ σπεύδων οὐδὲ ἐπειγόμενος, ἄλλως δὲ τὸ ξίφος ἐπιζητῶν, ἐκέλευσε
κομίσαι. […]
εἰσπέμπεται δὲ διὰ παιδίου μικροῦ τὸ ἐγχειρίδιον καὶ λαβὼν ἐσπάσατο καὶ κατενόησεν. ὡς δὲ εἶδεν
ἑστῶτα τὸν ἀθέρα καὶ τὴν ἀκμὴν διαμένουσαν, εἰπὼν, ‘νῦν ἐμός εἰμι,’ τὸ μὲν ξίφος ἔθηκε, τὸ δὲ
βιβλίον αὖθις ἀνεγίνωσκε, καὶ λέγεται δὶς ὅλον διεξελθεῖν. […]
Dopo aver così congedato i convitati, Catone andò a passeggiare con i suoi amici, come aveva
l’abitudine di fare dopo cena. Impartì ai capi delle guardie gli ordini necessari e, finalmente, se ne
andò nella sua camera. Con il figlio e gli amici fu affettuoso e insisté nei saluti più del solito, cosa
che risvegliò in loro il sospetto sui suoi propositi. Entrò in camera, si coricò e prese in mano il
dialogo di Platone sull’anima1; poi, quando ebbe scorso tutto il libro, alzò gli occhi, ma non vide la
spada che teneva appesa sopra la testa (l’aveva tolta suo figlio quando Catone era ancora a
tavola). Chiamò subito un servo e gli chiese chi avesse preso la daga; il servo non rispose. Allora
Catone tornò al suo libro e per un po’ lasciò perdere, per far vedere che non se ne curava troppo e
non era impaziente, ma che s’era semplicemente accorto della mancanza della spada: quindi gli
1
Si tratta del Fedone, in cui si narra l’ultimo giorno di Socrate.
ordinò di portarla. […] Mandarono2 la daga a Catone per un ragazzino ed egli la prese, la sguainò
e la controllò. Quando si fu assicurato che la punta fosse dritta e tagliente, esclamò: “Ora sì, che
sono padrone di me stesso!” Posò la spada e riprese a leggere il libro. Si dice che lo scorse tutto
per due volte. […] (Trad. L. Ghilli)
ἤδη δὲ ὄρνιθες ᾖδον, καὶ μικρὸν αὖθις κατηνέχθη πρὸς ὕπνον. ἐπανελθόντος δὲ τοῦ Βούτα καὶ
φράσαντος πολλὴν ἡσυχίαν περὶ τοὺς λιμένας εἶναι 3, προσέταξεν αὐτῷ τὴν θύραν κλεῖσαι, καὶ
καθῆκεν ἑαυτὸν εἰς τὸ κλινίδιον ὡς τὸ λοιπὸν ἔτι τῆς νυκτὸς ἀναπαυσόμενος. ἐξελθόντος δὲ τοῦ
Βούτα σπασάμενος τὸ ξίφος ἔωσε μὲν ὑπὸ τὸ στῆθος, τῇ δὲ χειρὶ κουφότερον διὰ τὴν φλεγμονὴν
χρησάμενος οὐκ εὐθὺς ἀπήλλαξεν ἑαυτόν, ἀλλὰ δυσθανατῶν ἐξέπεσε τῆς κλίνης καὶ ψόφον
ἐποίησε, καταβαλὼν ἀβάκιόν τι τῶν γεωμετρικῶν παρακείμενον, ὥστε τοὺς θεράποντας
αἰσθομένους ἀναβοῆσαι καὶ τὸν υἱὸν αὐτίκα καὶ τοὺς φίλους ἐπεισελθεῖν.
ἰδόντες δὲ πεφυρμένον αἵματι καὶ τῶν ἐντέρων τὰ πολλὰ προπεπτωκότα, ζῶντα δ᾽ αὐτόν ἔτι καὶ
βλέποντα, δεινῶς μὲν ἅπαντες ἔσχον, ὁ δὲ ἰατρὸς προσελθὼν ἐπειρᾶτο τῶν ἐντέρων ἀτρώτων
διαμεινάντων ταῦτά τε καθιστάναι καὶ τὸ τραῦμα διαρράπτειν. ὡς οὖν ἀνήνεγκεν ὁ Κάτων καὶ
συνεφρόνησε, τὸν μὲν ἰατρὸν ἀπεώσατο, ταῖς χερσὶ δὲ τὰ ἔντερα σπαράξας καὶ τὸ τραῦμα
ἐπαναρρήξας ἀπέθανεν.
Traduzione
E gli uccelli cantavano già, e ancora una volta si addormentava per un po’. Quando tornò Buta, e gli
disse che c’era molta tranquillità ai porti, gli ordinò di chiudere la porta, e si sdraiò sulla lettiga,
come se volesse fermarsi ancora per quel che rimaneva della notte. Appena uscito Buta, Catone
estrasse la spada e si pugnalò sotto il petto ma, usando una debole impulsione, a causa
dell'infiammazione che aveva alla mano, non riuscì a liberarsi subito di sé, e mentre moriva
lentamente, cadde dalla lettiga e fece un forte rumore, dopo aver urtato un abaco geometrico che
giaceva a terra. Così i servi, appena sentito il rumore, scoppiarono in lacrime e subito il figlio e gli
amici accorsero lì; lo videro macchiato di sangue e con parti interne fuoriuscite, ma ancora vivo e
con gli occhi aperti; tutti soffrivano terribilmente. Dopo che il medico arrivò, tentò di rimettere a
posto le interiora ancora illese e di cucire la ferita, e quando Catone si riprese e se ne accorse, spinse
via il medico, mentre strappava via le sue interiora allargando ancor più la ferita. Così morì.
2
A mandargli la daga sono Demetrio e Buta: il primo un filosofo peripatetico col quale Catone aveva conversato durante la
cena di cui si parla all’inizio, il secondo un consigliere militare.
3
Catone aveva inviato Buta a verificare che chi voleva salpare da Utica fosse partito senza problemi.
Testo 2: TACITO
Alla fine di quello che ci è giunto del XVI libro degli Annales di Tacito viene narrata la morte
dell’ennesima vittima del regime neroniano, il senatore Trasea Peto. Condannato a morte in un
processo farsa, a Trasea viene concessa la scelta del genere di morte. Il racconto, purtroppo, ci è
giunto incompleto, ma la parte che possiamo leggere è comunque significativa.
Tum ad Thraseam in hortis agentem quaestor consulis missus vesperascente iam die. inlustrium
virorum feminarumque coetus frequentis egerat, maxime intentus Demetrio Cynicae institutionis
doctori, cum quo, ut coniectare erat intentione vultus et auditis, si qua clarius proloquebantur, de
natura animae et dissociatione spiritus corporisque inquirebat, donec advenit Domitius Caecilianus
ex intimis amicis et ei quid senatus censuisset exposuit. igitur flentis queritantisque qui aderant
facessere propere Thrasea neu pericula sua miscere cum sorte damnati hortatur, Arriamque
temptantem mariti suprema et exemplum Arriae matris sequi monet retinere vitam filiaeque
communi subsidium unicum non adimere. Tum progressus in porticum illic a quaestore reperitur,
laetitiae propior, quia Helvidium generum suum Italia tantum arceri cognoverat. accepto dehinc
senatus consulto Helvidium et Demetrium in cubiculum inducit; porrectisque utriusque brachii
venis, postquam cruorem effudit, humum super spargens, propius vocato quaestore 'libamus' inquit
'Iovi liberatori. specta, iuvenis; et omen quidem dii prohibeant, ceterum in ea tempora natus es
quibus firmare animum expediat constantibus exemplis’.
Traduzione:
Allora a Trasea, che stava in giardino, fu mandato il questore del console quando era ormai sera.
Trascorreva il tempo con un folto gruppo di illustri uomini e donne, in particolare con Demetrio,
maestro di scuola cinica, col quale, per quello che si poteva presumere dall’espressione del volto e
da ciò che si sentiva, se parlavano più chiaramente, discorreva riguardo la natura dell’anima e della
separazione dello spirito dal corpo, finché giunse Domizio Ceciliano, uno degli intimi, e gli disse
cosa il senato avesse decretato. Ora piangevano e si lamentavano coloro che erano lì presenti e
Trasea li esortava ad allontanarsi subito e a non legarsi, dato che già erano in pericolo, alla sorte di
un condannato; e ammoniva Arria, che tentava di seguire gli ultimi attimi di vita del marito e
l’esempio della madre Arria di rimanere in vita e a non togliere l’unico sostegno per la figlia
comune. Allora avviatosi nel portico, veniva scoperto dal questore, piuttosto lieto, perché aveva
saputo che il suo genero Elvidio sarebbe soltanto stato allontanato dall’Italia. Quindi ricevuto il
decreto del senato faceva entrare nella sua stanza da letto Demetrio ed Elvidio; e dopo aver tagliato
le vene dell’uno e dell’altro braccio, dopo averne fatto sprizzare il sangue, spargendolo sulla terra,
chiamato più vicino il questore disse: “Beviamo a (in onore di) Giove Liberatore. Guarda, giovane;
e gli dei tengano lontano da te l’infausto presagio, ma del resto sei nato in tempi in cui conviene
temprare l’animo con esempi di fermezza”.
Traccia di lavoro
A. Produci una traduzione personale dei testi proposti.
B. Proponi un commento complessivo dei testi che tenga conto di:
1. aspetti linguistici e stilistici;
2. aspetti contenutistici (contestualizzazione, confronto).
Puoi eventualmente integrare il tuo commento con agganci ad altre discipline, esperienze relative ai
Percorsi per le competenze trasversali, alle competenze individuali presenti nel Curriculum.
I testi proposti sono tratti rispettivamente dalle Vite parallele di Plutarco e dagli Annales di Tacito;
il tema trattato è comune, infatti entrambi raccontano la morte, tramite suicidio, di due importanti
personaggi della storia romana: Catone Uticense e Tràsea Peto. Benché il tema sia comune, non lo è
la trattazione delle due morti, non solo perché si tratta di due personaggi differenti, ma anche
perché ci troviamo davanti a due opere differenti; e differente è anche l’opinione che hanno i
rispettivi autori riguardo i soggetti presi in analisi.
Il primo testo, come già affermato, appartiene ad una delle Vite Parallele di Plutarco, quella di
Catone Uticense. Le “Βίοι Παράλληλοι” sono una serie di biografie di uomini illustri composte tra
il I e il II secolo, che procedono a coppie (perciò parallele), cioè vengono presentati in coppia un
personaggio greco ed uno romano per proporre virtù o vizi comuni ai due personaggi.
Nonostante trattino di personaggi storici non possono essere definite come opera storica, proprio
perché l’intento è quello di parlare di vite non di storie; così dichiara nel proemio alle Vite di
Alessandro e di Cesare, egli è interessato a narrare ciò che è necessario per la comprensione del
carattere di un personaggio, del suo modo di pensare e agire.
Vi è quivi proposto un testo tratto dalla “Vita di Catone il Giovane”, in cui è narrata la morte dello
stoico oratore degli anni della Repubblica, se non giorni.
In tutta la narrazione, Plutarco presenta Catone come un personaggio imperturbabile e modesto,
parco ed estraneo ad ogni forma di lusso; come lo era il suo illustre antenato Catone il Censore,
agguerrito sostenitore della parte degli optimates e dei valori fondanti della Repubblica romana, mai
violento o iroso, caratterizzato dall’ ἡσυχία (tranquillità) tipicamente stoica. Dunque, un
personaggio di questo tipo ci si aspetterebbe che abbia una morte immersa nella più assoluta
serenità, ma in realtà la descrizione degli ultimi momenti risulta prolungata e dolorosa e la calma
che contraddistingue Catone sembra venir meno.
In un primo momento egli si prepara a vivere le sue ultime ore come ogni filosofo stoico che si
rispetti: si prepara un bagno e cena con i suoi compagni; e poi come suo solito svolge una
passeggiata con gli amici per poi recarsi nella sua camera. Ed è qui che comincia a soccombere
all’emotività e alla violenza; ciò accade quando, dopo aver chiesto di poter avere la sua spada, non
ricevendola, non si trattiene e in uno scatto d’ira colpisce uno dei servi 4“...ἑνὸς δὲ καὶ πὺξ τὸ στόμα
πατάξας ᾕμαξε τὴν αὐτοῦ χεῖρα...”. Subito dopo Catone e il figlio con gli amici intrattengono un
discorso in cui i toni non sono poi così placidi; addirittura ad lui sembra che lo considerino pazzo:
5
“ ‘πότε,’ εἶπεν, ‘ἐγὼ καὶ ποῦ λέληθα παρανοίας ἡλωκώς, ὅτι διδάσκει μέν…”.
Quando finalmente gli viene consegnata la spada il suo animo torna alla pacatezza e qui comincia il
racconto del suicidio.
Plutarco inizia a narrarlo quasi in modo poetico, “...ἤδη δὲ ὄρνιθες ᾖδον…”, gli uccelli hanno
cominciato il loro canto (c’è anche una allitterazione del gruppo ‘ηδ’), siamo quasi alle prime luci
dell’alba, la tempesta che durante la notte aveva imperversato (“...πολὺν δὲ χειμῶνα καὶ μέγα
πνεῦμα κατέχειν τὴν θάλατταν...”) si è ormai pacata e regna la tranquillità sulle spiagge. L’autore
procede per ipotassi, con periodi ampi e complessi; e lo fa utilizzando appunto diversi genitivi
assoluti, (“...ἐπανελθόντος δὲ τοῦ Βούτα καὶ φράσαντος…” rr. 1-2 ) e (“...ἐξελθόντος δὲ τοῦ
Βούτα…” r.3), e i participi, presenti in tutto l’estratto.
Alla riga 2 è presente l’espressione (“...τὴν θύραν κλεῖσαι…”), una sorta di allegoria e
prefigurazione delle “porte della morte”, figura emblematica della cultura funeraria greca; la porta
della camera si chiude, immagine della morte imminente dello stoico.
E nella solitudine completa Catone da inizio alla sua morte: (“...τὸ ξίφος ἔωσε μὲν ὑπὸ τὸ
στῆθος…), il verbo utilizzato (ὠθέω) non ha esattamente il significato di pugnalare, ma quello di
spingere, premere; è forse usato per far comprendere più concretamente l’idea del gesto (Catone
“spinge” la spada dentro di sè, quella spada che lo libera dall’oppressione cesariana), che sarà poco
efficiente, infatti non lo ucciderà subito, aumentando dunque la sua agonia. Si noti pure una certa
presenza di lessico che si riferisce alla posizione (supina) del corpo, quella che assumono appunto i
defunti, (“καθῆκεν ἑαυτὸν εἰς τὸ κλινίδιον”), (“ἐξέπεσε τῆς κλίνης”); e anche il lessico delle
funzioni vitali, ad esempio (ζῶντα... βλέποντα).
4
Plut. Cato Minor, 68,3
5
Plut. Cato Minor, 68,4
Il lessico plutarcheo è essenzialmente attico, pur non rinunciando agli influssi della κοινή, egli
utilizza maggiormente verbi composti e evita assolutamente lo iato, tanto che quest’ultima
caratteristica è stata spesso metro per valutare l'autenticità dei suoi scritti. Il periodare è ampio e
complesso, ma non scade a parer mio in sterili formalismi estetici; ogni cosa ha un suo senso.
Il secondo testo invece, come già detto prima, è tratto dagli Annales di Tacito, ci troviamo alla fine
del XVI libro (quello che abbiamo, dato che è mutilo). Qui l’autore ci narra la morte di Publio
Clodio Trasea Peto, una delle tante vittime dello spietato regime neroniano, che viene presentata in
modo negativo, inutile secondo lo storiografo di Terni. Il suicidio a Roma era una prassi accettata
dalla società, in quanto veniva visto come migliore alternativa ad una vita senza dignità; ne parla
anche Cicerone nell’orazione Pro Sestio (cum omnia semper ad dignitatem rettulissem nec sine ea
quicquam expetendum esse homini in vita putassem, mortem, quam etiam virgines Athenis, regis,
opinor, Erechthei filiae, pro patria contempsisse dicuntur, ego vir consularis tantis rebus gestis
timerem?) asserendo appunto che: “l’uomo non deve desiderare nulla senza quella” (dignità),
facendo poi diversi esempi di chi aveva affrontato la morte per evitare la vergogna o per la
gloria.Tacito usò una serie particolare di fonti letterarie, che può essere definita nel suo insieme la
letteratura degli Exitus illustrium virorum, cioè una produzione focalizzata sul racconto delle morti
di uomini illustri fiorita presso gli ambienti stoici in età giulio-claudia e continuata fino a quella
flavia e sotto Traiano.
La morte di Trasea Peto viene presentata da Tacito come una morte teatrale; egli la critica come
ambitiosa mors, cioè morte ostentata e inutile per lo stato; dunque “teatro” della morte di Peto ha il
suo pubblico, che è formato dagli amici e dai discepoli (inlustrium virorum feminarumque) con cui
discute fino agli ultimi momenti. La morte di Trasea Peto inoltre è raccontata similmente a quella
di Seneca, che viene a sua volta accostata a quella di Socrate: le analogie risiedono nella presenza
degli amici fino alla fine e nella discussione filosofica fino all’ultimo respiro.
Importante è il ruolo della moglie, che pateticamente vuole condividere la stessa sorte del marito,
espediente che è utilizzato per ridicolizzare ancor più il suicidio.
L'utilizzo della variatio (inconcinnitas), ovvero l'impiego di uno stile nettamente opposto alla
simmetria ciceroniano, ad esempio nel periodo che va da “...ut coniectare erat....” a “...censuisset
exposuit…”. Presente è la brevitas, che lo storico ottiene attraverso l'ellissi di sostantivi o predicati,
molto spesso utilizzata con l'asindeto; vi è anche l'uso del color poëticus, ovvero l'impiego di
vocaboli e costrutti di stampo tipicamente poetico e di figure retoriche.
Vi è l’impiego di diversi ablativi assoluti, ad esempio “accepto consulto” e “vocato quaestore”.
L’andamento del periodo è disarmonico e riflette anche le disarmonie del comportamento umano;
Trasea affronta la sua morte stoicamente, ma lo fa ostentando il suo gesto, forse più finalizzato
all’apparenza che alla morte in sé.
E’ evidente che i due testi abbiano una tematica comune, pure se trattata in modo molto diverso,
diverse son le premesse, diverse le conclusioni, diverse le opere.
Le due morti si contrappongono fra loro: la prima, nonostante non sia pervasa dalla tranquillità
stoica, avviene per la libertas e Plutarco non critica negativamente quest’atto di Catone, che si
oppone alla seconda quivi presente, cioè all’ambitiosa mors di Trasea Peto, una morte senza
un'intenzione vera, ma solo scenica, una morte che non sarà d’esempio per nessuno. Chiaramente
questa differenza è determinata anche da come i due autori propongono i rispettivi racconti: infatti
uno è presentato come esempio per chi leggerà (è questa la finalità delle vite parallele), l’altro come
critica di una prassi sterile usuale tra gli stoici.
aggancio con marat di david (arte): Catone che cade, parallelismo figurativo
aggancio con il suicidio secondo Schopenauer e il tema della morte in Foscolo
aggancio con Antonin Artaud, aggancio con storia (hitler e mussolini)
broxton onians
italiano: antonin artaud
filosofia: Gaston Bachelard