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AULULARIA DI PLAUTO

ARGOMENTO I

Un vecchio avaro, Euclione, credendo a stento ai suoi occhi, trova una pentola con molte ricchezze
sotterrata in casa sua e, nascostala di nuovo profondamente, la sorveglia pallido (e) delirante. Liconide
aveva usato violenza a sua figlia. Nel frattempo il vecchio Megadoro, persuaso dalla sorella a prendere
moglie, chiede per sé la figlia dell’avaro. Il vecchio rozzo promette a stento e, temendo per la pentola,
toltala da casa sua, la nasconde in vari luoghi. Il servo di questo Liconide, che aveva usato violenza alla
vergine, gli fa un tranello: e proprio lui supplica lo zio materno Megadoro di cedere la moglie a lui che la
ama. Presto Euclione, dopo aver perso la pentola con un inganno, la ritrova insperatamente e, lieto, dà la
propria figlia in matrimonio a Liconide.

ARGOMENTO II

Trovata una pentola piena d’oro, Euclione, affetto da infelici ansie, la sorveglia con tutte le sue forze (con
somma forza). Liconide usa violenza alla figlia di costui. Megadoro vuole prendere in moglie questa senza
dote e, ben disposto a farlo, offre i cuochi con la spesa. Euclione si preoccupa per l’oro, lo nasconde fuori.
Vista tutta la cosa, il servetto del violentatore lo ruba di nascosto. Quello là riferisce l’accaduto ad Euclione.
Da quello sono donati oro, moglie e figlio.

PROLOGO

LARE FAMILIARE: Affinché nessuno rimanga curioso di sapere chi sono, lo dirò in breve. Io sono il lare
familiare di questa famiglia, da cui mi avete visto uscire. Sono ormai molti anni da che risiedo e onoro
questa casa, già per il padre e per il nonno di questo che si trova qui ora. Ma il nonno di questo mi ha
affidato con preghiere un tesoro d’oro all’insaputa di tutti: lo ha sotterrato in mezzo al focolare,
supplicandomi di custodirlo per sé. Quando quello muore – fu così d’avido ingegno – non ha mai voluto
indicarlo a suo figlio e ha scelto di lasciarlo povero piuttosto che di mostrare quel tesoro al figlio. Gli ha
lasciato una non grande estensione di terra, con cui vivere con grande fatica e miseria. Da quando è morto
lui che mi ha affidato quell’oro, ho iniziato ad osservare se, per caso, il figlio avesse per me maggior riguardo
di quanto ne avesse avuto suo padre. E quello, al contrario, si curava meno e ancora meno (di me) e mi
tributava meno riguardi. Parimenti è stato fatto da me in risposta: infatti è morto parimenti (a come ha
vissuto). Quello ha lasciato dopo di sé questo figlio, che ora abita qui, caratterizzato ugualmente a come
furono il padre e il nonno di questo. Questo ha una sola figlia; quella ogni giorno si prostra davanti a me o
con incenso o con vino o con qualche cosa; mi offre corone. Per i suoi riguardi, ho fatto sì che Euclione
rinvenisse qui il tesoro, con cui darla in moglie più facilmente, se voleva. Infatti un giovane di nobilissima
condizione sociale l’ha stuprata. Quel giovane sa chi sia (la ragazza) che ha stuprato. Quella non sa di lui né,
per di più, il padre sa che lei è stata stuprata. Io oggi farò in modo che il vecchio (che abita) qui vicino la
chieda in moglie per sé. Lo farò per tale motivo, affinché quello che l’aveva stuprata la prenda in moglie più
facilmente. E questo vecchio che la chiederà in moglie per sé è lo zio materno di quel giovane che l’ha
stuprata di notte, durante le feste di Cerere. E questo vecchio, dall’interno, sta già gridando come suo solito.
Sta cacciando fuori la vecchia, affinché non ne sia consapevole. Credo che voglia guardare l’oro, che non sia
stato rubato.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

EUC.: Esci, dice, suvvia esci! Per Ercole, devi uscire fuori di qui, spiona con occhi scrutatori!
STA.: Perché, infatti, maltratti me misera?
EUC.: Affinché tu sia misera e passi una brutta vecchiaia, degna della tua bruttezza (di te brutta).
STA.: Per quale motivo, infatti, mi hai cacciato da casa?
EUC.: Dovrei riferire il motivo a te, messe di staffili? Ritirati dalla porta d’ingresso (e vai) là! Là, per favore.
Guarda come cammina! Ma sai in che modo ti si presenta la cosa? Se, per Ercole, oggi prenderò in mano un
bastone o uno staffile, ti farò allungare codesto passo da tartaruga.
STA.: Magari gli dei mi avessero mandato sulla forca almeno piuttosto che, pattuito questo, servire presso di
te!
EUC.: Ma come mormora da sola tra sé e sé la scellerata! Per Ercole, ti caverò codesti occhi, sfacciata,
affinché tu non possa osservare quali cose io faccia. Allontanati ancora, ancora, anc… ohi, starai lì in piedi.
Se, per Ercole, ti allontanerai da codesto luogo quant’è grosso un dito o larga un’unghia o se ti volterai a
guardare finché non te lo ordinerò, io, per Ercole, ti consegnerò subito come alunna alla croce. So per certo
di non aver mai visto una più scellerata di questa vecchia e temo proprio tanto che questa raggiri a
tradimento me quando non sto in guardia e che venga a conoscenza di dove sia stato nascosto l’oro; e
questa ha degli occhi anche sulla nuca, sciagurata. Ora andrò a controllare se l’oro sia così come l’ho
nascosto, poiché tormenta me misero con moltissime ansie.

SCENA SECONDA

STA.: Per Castore, non posso immaginare quale male o quale pazzia dirò che è toccata al mio padrone: così,
spesso, dieci volte in un solo giorno, caccia fuori di casa me misera in questo modo. Per Polluce, non so
quali stramberie dominino quest’uomo; veglia tutte le notti; e poi durante il giorno, tutti i giorni, siede in
casa come un ciabattino zoppo. E non posso più immaginare in quale modo nascondere il disonore della
figlia del padrone, per la quale è imminente il parto; e non ci sarebbe niente di meglio per me, come credo,
che creare da me stessa come un’unica lunga lettera, dopo aver legato il mio collo con un laccio.

SCENA TERZA

EUC.: Ora, messomi finalmente in pace l’animo, esco di casa, dopo aver visto che tutte le cose dentro sono
intatte. Torna subito dentro e sorveglia dentro.
STA.: Perché no? Io dovrei sorvegliare dentro? O qualcuno non ti potrebbe rubare la casa? Infatti qui presso
di noi non c’è nessun altro guadagno per i ladri, così è stata riempita di vuoto e di ragnatele.
EUC.: È strano che Giove non mi renda ora re Filippo o Dario a causa tua, vecchia strega. Io voglio che quelle
ragnatele mi siano sorvegliate. Sono povero, lo confesso, lo tollero; mi accontento di ciò che (mi) danno gli
dei. Vai dentro, chiudi la porta; io sarò subito qui. Non fare entrare in casa nessun estraneo. Qualcuno
potrebbe chiedere qualche fuoco, voglio che sia spento, affinché non ci sia motivo per cui qualcuno te lo
chieda con insistenza. Infatti se il fuoco vivrà, tu sarai morta immediatamente. Se qualcuno te la chiederà,
allora dirai che l’acqua è scomparsa. Il coltello, la scure, il pestello, il mortaio, arnesi che i vicini chiedono
sempre da usare, dirai che sono giunti i ladri e che li hanno rubati. Non voglio assolutamente che nessuno
sia fatto entrare in casa mia in mia assenza. E ti ordino anche ciò: se dovesse giungere la buona Fortuna,
non farla entrare.
STA.: Quella stessa – io credo – evita di essere fatta entrare. Infatti non si è mai avvicinata alla nostra casa,
sebbene sia nelle vicinanze.
EUC.: Taci e vai dentro.
STA.: Taccio e vado.
EUC.: Chiudi le porte con entrambi i catenacci, per favore. Io sarò subito qui. – Mi tormento nell’animo
poiché devo allontanarmi da casa. Per Ercole, me ne allontano assai controvoglia; ma so che cosa faccio.
Infatti quello che è il nostro presidente della nostra curia ha detto che distribuiva un denaro d’argento a
testa. Se io lo lascio e non lo reclamo, tutti i qui presenti nutriranno il sospetto, credo, che io abbia dell’oro a
casa. Infatti sarebbe inverosimile che un uomo povero faccia a meno di reclamare del denaro, per quanto
(sia) una piccola quantità di poco conto. Infatti ora, quando lo nascondo accuratamente a tutti affinché non
lo sappiano, sembra che tutti lo sappiano e tutti mi salutano più gentilmente di quanto mi salutavano prima.
Si avvicinano, si fermano, mi stringono la destra; mi chiedono con insistenza come sto, che cosa faccio, quali
affari gestisco. Ora andrò dove mi sono diretto; poi mi ritirerò di nuovo a casa tanto (più presto) quanto
potrò.

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

EUN.: Vorrei che giudicassi, o fratello, che io pronuncio queste parole per il mio affetto e per il tuo interesse,
come è giusto per una sorella del tuo stesso sangue. Sebbene io non mi sia ingannata sul fatto che noi siamo
ritenute odiose: infatti siamo tutte ritenute a buon diritto molto loquaci e oggi dicono che nessuna donna in
nessun secolo è certamente stata trovata zitta. Ma tuttavia, o fratello, penserai a ciò soltanto, che io sono la
parente più prossima a te e che tu lo sei ugualmente a me; così è giusto che tu con me e io con te ci
consultiamo e ci ammoniamo su ciò che entrambi giudichiamo che sia in (nostro) interesse e che ciò non sia
tenuto nascosto e non sia taciuto per timore, che anzi io renda te e tu renda me ugualmente partecipi. Ora
io ti ho condotto in disparte qua fuori così da parlare qui con te del tuo patrimonio.
MEG.: Dammi la mano, donna meravigliosa.
EUN.: Dov’è quella? Chi è infatti quella meravigliosa?
MEG.: Tu.
EUN.: Tu dici?
MEG.: Se lo neghi, lo nego.
EUN.: Ti conviene davvero dire la verità. Infatti non ne può essere scovata nessuna di meravigliosa. Una è
peggio dell’altra, fratello.
MEG.: Penso lo stesso, né è mai mia ferma volontà contrariarti riguardo a codesto punto, sorella.
EUN.: Prestami attenzione, per piacere.
MEG.: È tua; servitene e ordinale, se vuoi qualcosa.
EUN.: Mi avvicino per consigliarti ciò che giudico che sia ottimo per il tuo interesse.
MEG.: Sorella, fai secondo la tua abitudine.
EUN.: Vorrei una cosa.
MEG.: Che cosa, sorella?
EUN.: Una cosa che sia per te salvezza eterna, per procreare dei figli…
MEG.: Che gli dei facciano così!
EUN.: Vorrei che tu portassi a casa una moglie.
MEG.: Ahimè, sono morto!
EUN.: Perché (dici) così?
MEG.: Poiché le tue parole intronano il cervello a me infelice, sorella, (e) dici parole dure come pietre.
EUN.: Suvvia, fai ciò che tua sorella ti ordina.
MEG.: Se mi piacesse, lo farei.
EUN.: Ciò è in tuo interesse.
MEG.: Davvero magari io muoia piuttosto che prendere moglie. Ma, se vuoi darmene una, la prenderò a
queste condizioni: che questa giunga domani, che dopodomani sia portata fuori di casa. A queste condizioni
cedo a quella che vuoi darmi; prepara le nozze.
EUN.: Posso dartene una, fratello, con ricchissima dote; ma è piuttosto anziana di età; è una donna di mezza
età (l’età della donna è media). Se vuoi che io la chieda per te, la chiederò.
MEG.: Ti dispiace forse che io ti faccia una domanda?
EUN.: Tutt’altro, chiedimi se vuoi qualcosa.
MEG.: Se uno che, dopo la mezza età, porta a casa una moglie di mezza età, ha reso per caso incinta quella
vecchia per quanto sia vecchio, perché dubiti del fatto che al fanciullo sia stato (già) assegnato il nome di
Postumo? Ora io, sorella, ti toglierò e ti ridurrò codesta fatica. Io, per bontà degli dei e dei nostri antenati,
sono abbastanza ricco. Non faccio caso a codesti grandi partiti, ai loro capricci, alle ricche doti, alle grida,
agli ordini, alle carrozze d’avorio, ai mantelli, alla porpora, cose che riducono gli uomini in schiavitù a furia di
spese.
EUN.: Dimmi, per favore, chi sia quella che vuoi prendere in moglie.
MEG.: Te lo dirò. Conosci Euclione, questo vecchio povero (che abita) qui vicino?
EUN.: Lo conosco; non è un cattivo uomo, per Castore.
MEG.: Desidero che sua figlia, vergine, mi sia promessa in matrimonio. Non parlare, sorella. So che cosa
dirai: che questa è povera. Mi piace questa povera.
EUN.: Che gli dei te la mandino buona!
MEG.: Io spero lo stesso.
EUN.: E che vuoi che io ora (faccia) qualcosa?
MEG.: Stai bene, sorella.
EUN.: Anche tu, fratello.
MEG.: Io andrò a trovare Euclione, se è a casa. Ma eccolo; non so da dove l’uomo si ritiri a casa.

SCENA SECONDA

EUC.: Il mio cuore mi presagiva che andavo inutilmente quando uscivo di casa; perciò mi allontanavo
controvoglia. Infatti non sono giunti né nessuno degli appartenenti alla curia, né il presidente che sarebbe
occorso che distribuisse il denaro. Ora ho premura di affrettarmi verso casa; infatti io in persona sono qui,
(ma) il mio cuore è a casa.
MEG.: Che tu sia sempre in salute e fortunato, Euclione!
EUC.: Gli dei ti amino, Megadoro.
MEG.: E che tu? Stai bene e come vorresti?
EUC.: Non è casuale quando il ricco appella affabilmente il povero? Quell’uomo sa già che io ho dell’oro,
perciò mi saluta più affabilmente (del solito).
MEG.: Dici veramente che stai bene?
EUC.: Per Polluce, non benissimo a causa del denaro.
MEG.: Per Polluce, se hai un cuore sereno, hai abbastanza con cui vivere bene la vita.
EUC.: Per Ercole, la vecchia ha fatto menzione dell’oro a costui: è evidentemente noto. E le taglierò la lingua
e le caverò gli occhi appena a casa.
MEG.: E che parli da solo, tra te e te?
EUC.: Mi lamento della mia povertà. Ho una figlia grande, priva di dote e impossibile da accasare, e non
posso darla in moglie a nessuno.
MEG.: Taci; stai di buon animo, Euclione. Sarà accasata; sarai aiutato da me; dimmi se ti occorre qualcosa,
ordina.
EUC.: Ora chiede, poiché promette; rimane a bocca aperta per divorare il mio oro. In una mano porta una
pietra, nell’altra ostenta del pane. Non credo a nessuno che, ricco, è molto cortese con un povero. Dove
poggia benignamente la mano, lì grava qualche guaio. Io conosco codesti polipi, che si attaccano lì, a
qualsiasi cosa abbiano toccato.
MEG.: Prestami attenzione per poco tempo; è con poche parole, Euclione, che voglio parlarti di un affare
comune a me e a te.
EUC.: Ah, (a svantaggio di) povero me! L’oro dentro mi è stato rubato. Ora questo vuole, lo so, quella cosa,
venire a patti con me; ma andrò a dare un’occhiata alla mia casa.
MEG.: Dove te ne vai?
EUC.: Tornerò subito da te; infatti c’è motivo di guardare dentro casa.
MEG.: Per Polluce, non appena farò menzione di sua figlia affinché me la prometta in matrimonio, penserà –
credo – di stare venendo schernito da me. Oggi non c’è nessun altro più spilorcio a causa della povertà di
quello.
EUC.: Gli dei mi proteggono; la roba è salva: qualcosa è salvo se non va perduto. Ho temuto davvero molto.
Prima di tornare dentro, sono rimasto senza fiato. Torno da te, Megadoro, se vuoi qualcosa da me.
MEG.: Ti ringrazio. Per favore, non ti rincresca di rispondere a ciò che ti chiederò.
EUC.: Purché tu non mi chieda qualcosa a cui non mi piaccia rispondere.
MEG.: Dimmi, da quale famiglia giudichi che io sia discendente?
EUC.: Buono.
MEG.: Che cosa della mia onorabilità?
EUC.: Buona.
MEG.: Che cosa delle mie azioni?
EUC.: Né cattive, né disoneste.
MEG.: Conosci la mia età.
EUC.: So che è grande, come il tuo denaro.
MEG.: Certamente, per Polluce, io davvero ho sempre creduto che tu fossi un cittadino senza nessuna
malvagia malizia, e lo credo ancora.
EUC.: Costui sente l’odore del mio oro. Che cosa vuoi da me ora?
MEG.: Poiché tu sai chi io sia e io so chi tu sia – e che questa cosa giri bene sia per me sia per te sia per tua
figlia – chiedo tua figlia in moglie per me. Promettimi che ciò sarà.
EUC.: Ah, Megadoro, commetti un gesto indegno delle tue azioni, poiché schernisci me povero e incolpevole
rispetto a te e ai tuoi beni. Non mi sono meritato da parte tua né nei fatti né a parole che tu facessi ciò che
stai facendo.
MEG.: Per Polluce, io né vengo per schernirti né ti schernisco. Né te ne giudico degno.
EUC.: Dunque perché chiedi mia figlia per te?
MEG.: Poiché sarebbe meglio per te grazie a me e per me grazie a te e ai tuoi.
EUC.: Megadoro, mi viene in mente ciò, che tu sei un uomo ricco, potente, e così pure che io sono il più
povero dei poveri. Ora se accasassi mia figlia con te, mi viene in mente che tu saresti il bue e che io sarei
l’asinello: aggiogato con te (e) incapace di portare un carico parimenti (a te), io, l’asino, stramazzerei nel
fango; tu, il bue, non ti volteresti più a guardarmi, come se non fossi mai nato. Mi varrei di te come di un
nemico e il mio gruppo mi schernirebbe. Non avrei una stalla stabile da nessuna parte, se ci fosse qualche
separazione. Gli asini mi lacererebbero con i morsi, i buoi mi inseguirebbero con le corna. Questo è un
grande pericolo, elevarsi dalla condizione degli asini a quella dei buoi.
MEG.: Quanto più vicino possibile tu ti sia legato nella parentela a uomini onesti, tanto è la cosa migliore.
Accetta questa proposta; ascoltami e promettimela in matrimonio.
EUC.: Ma non c’è nessuna dote da darle.
MEG.: Non dargliela. Purché venga con buon carattere, è dotata a sufficienza.
EUC.: Perciò lo dico, affinché tu non stimi che io abbia trovato dei tesori.
MEG.: Lo so; non spiegarmelo, promettimela in matrimonio.
EUC.: Che accada. Ma, per Giove, sono forse morto?
MEG.: Che cos’hai?
EUC.: Che cosa ha scricchiolato come un ferro poco fa?
MEG.: Ho ordinato di zappare il giardino qui presso di me. Ma dov’è quest’uomo? Se né andato e non mi ha
informato; mi disprezza poiché vede che voglio la sua amicizia: si comporta secondo il costume degli
uomini. Infatti se un ricco va a chiedere il favore di uno più povero, il povero teme di incontrarsi (con lui);
per timore fa male il proprio interesse. Quando quell’occasione è svanita, dopo, troppo tardi, desidera la
medesima cosa.
EUC.: Se, per Ercole, io non ti avrò dato da strappare la lingua fin dalle radici, ti ordino e ti autorizzo a porre
me da castrare in mano a chi vuoi.
MEG.: Per Ercole, vedo, Euclione, che mi giudichi un uomo degno di divertire a causa dell’età avanzata, non
per colpa mia.
EUC.: Per Polluce, Megadoro, né lo faccio né, se volessi, ce ne sarebbe la possibilità.
MEG.: E che allora? Ancora una volta, mi prometti tua figlia in sposa?
EUC.: A quelle condizioni, con quella dote che ti ho detto.
MEG.: Prometti dunque?
EUC.: Prometto.
MEG.: Che gli dei la mandino buona per codesto affare!
EUC.: Che gli dei facciano così! Farai sì di ricordare che si è convenuto ciò, che mia figlia non ti portasse
nessuna dote.
MEG.: Me lo ricordo.
EUC.: Ma so in che modo siete soliti ingarbugliare (le cose): ciò che si è pattuito non si è pattuito, ciò che
non si è pattuito si è pattuito, per quello che vi piace.
MEG.: Non ci sarà nessuna controversia tra me e te. Ma c’è forse qualche motivo perché non celebrare oggi
le nozze?
EUC.: Al contrario, per Ercole, va benissimo.
MEG.: Andrò dunque, farò i preparativi. Vuoi forse qualcosa da me?
EUC.: No. Stai bene.
MEG.: Ehi, Strobilo, svelto, seguimi al mercato, veloce.
EUC.: Quello (là) se n’è andato da qui. O dei immortali, vi imploro, che potere ha l’oro? Credo che quello
abbia senz’altro sentito che io ho un tesoro a casa; lo brama, perciò ha voluto fortemente questa parentela.

SCENA TERZA

EUC.: Dove sei tu, che hai già strombazzato a tutti i vicini che una dote sarebbe stata data da me a mia
figlia? Ehi, Stafila, ti sto chiamando. Mi senti? Affrettati e lava alla perfezione i piccoli vasi dentro casa. Io ho
promesso in matrimonio mia figlia; oggi la darò in moglie al nostro vicino Megadoro.
STA.: Che gli dei la mandino buona! Ma, per Castore, non è possibile: è un avvenimento troppo imprevisto.
EUC.: Taci e vai: fai sì che le cose siano pronte, quando torno a casa dal foro. E chiudi la casa; io sarò subito
qui.
STA.: Che cosa dovrei fare ora? Ora la rovina è accanto a noi, a me e alla figlia del padrone. Ora manca poco
che il disonore e il parto diventino noti/ora il disonore e il parto sono vicini al diventare noti. Ciò che è stato
tenuto nascosto e occultato fino ad ora, ora non può (più esserlo). Andrò dentro, affinché le cose che il
padrone mi ha ordinato siano state fatte quando torna. Infatti, per Castore, temo che mi sorbirò una
disgrazia mescolata a dolore.

SCENA QUARTA

STR.: Dopo che il padrone ha fatto la spesa e ha preso a servizio al foro i cuochi e codeste suonatrici di
flauto, mi ha incaricato di dividere qui in due la spesa.
ANTH.: Per Ercole, te lo dirò chiaramente, me non mi aprirai in due certamente; se vuoi mandarmi intero in
qualche luogo, ti presterò attenzione.
CONG.: Ma che grazioso e pudico prostituto di strada! Poi, se qualcuno volesse, tu non vorresti non essere
aperto in due.
STR.: E io, Antrace, avevo detto codesta cosa in un altro senso, non in codesto che tu insinui. Ma il mio
padrone oggi celebrerà le sue nozze.
ANTH.: Di chi sposa la figlia?
STR.: Di Euclione, il (nostro) vicino, che abita qui accanto. Mi ha ordinato che a lui, appunto, fossero dati da
qui metà della spesa, uno dei due cuochi e, allo stesso modo, una delle due suonatrici di flauto.
ANTH.: Dunque dici metà da questa parte, metà a casa tua?
STR.: Proprio come dici.
ANTH.: Perché? Questo vecchio non poteva fare la spesa da sé per le nozze della figlia?
STR.: Ah!
ANTH.: Che c’è?
STR.: Mi chiede che c’è? La pomice non è tanto arida quanto lo è questo vecchio.
ANTH.: Dici davvero?
CONG.: È così come dici?
STR.: Giudicalo tu stesso. (Dice che) la sua roba è svanita e che lui è rovinato. E poi invoca subito la
protezione degli dei e degli uomini, se del fumo esce in qualche modo fuori dal suo tizzone. E poi, quando
va a dormire, lega un sacchetto alla gola.
ANTH: Perché?
STR.: Per non perdere accidentalmente un briciolo di fiato mentre dorme.
ANTH.: Si tappa anche la bocca di sotto per non perdere accidentalmente un briciolo di fiato mentre
dorme?
STR.: È giusto, credo, che tu creda a me come io a te.
ANTH.: Poi io ti credo certamente.
STR.: Ma sai anche come (fa)? Quando si lava, lamenta il fatto che spreca acqua.
ANTH.: Credi che da questo vecchio si otterrebbe con preghiere che ci dia un talento tanto grande (e) in
grado con cui diventiamo liberi?
STR.: Per Ercole, qualora tu gliela chieda, non ti darà da usare la fame. Anzi, una volta il barbiere aveva
tagliato proprio a lui le unghie: le ha raccolte, ha portato via tutti i frammenti.
ANTH.: Per Polluce, parli di un uomo poco tirchio.
STR.: Ma credi che sia tirchio e che viva miserabile a tal punto? Una volta un nibbio gli ha sottratto un pezzo
di cibo. L’uomo si è precipitato lacrimoso dal pretore: lì comincia a chiedere tra suppliche (e) lamentele
(supplicando (e) lamentandosi) che gli sia lecito di citare in giudizio il nibbio. Sarebbero seicento gli episodi
da raccontare, se ci fosse (trascorresse) tempo libero. Ma chi di voi due è più veloce? Dimmi.
ANTH.: Io, e molto più bravo.
STR.: Io chiedo un cuoco, non un ladro.
ANTH.: Io, dunque, dico come cuoco.
STR.: Tu che cosa dici?
CONG.: Sono così come mi vedi.
ANTH.: Lui è un cuoco da mercato: suole andare a cucinare al nono giorno.
CONG.: Mi insulti tu, uomo di tre lettere? Ladro!
ANTH: Ladro anche tu, triplice pendaglio da forca!
STR.: Ora taci: e da qui (prendi) qual è l’anello più grasso.
ANTH.: Va bene.
STR.: Tu, Congrione, prendi quell’(altro) e vai là dentro, e voi seguitelo. Voi altri andate qui da noi.
CONG.: Per Ercole, hai diviso ingiustamente. Costoro hanno l’agnello più grasso.
STR.: Ma ora ti sarà data la più grassa suonatrice di flauto. Vai pure con quello, Frigia; tu, invece, Eleusia,
vieni qui dentro da noi.
CONG.: O perfido Strobilo, mi hai cacciato qua dal vecchio tirchissimo? Dove, se chiederò qualcosa, lo
chiederò fino a diventare rauco prima che (mi) sia dato.
STR.: Sei uno stupido; è senza riconoscenza l’agire rettamente nei tuoi confronti, poiché va perduto ciò che
fai.
CONG.: Ma come?
STR.: Me lo chiedi? Sin dall’inizio qua in casa non avrai nessuna confusione: se vorrai usare qualcosa, la
porterai da casa a tue spese, non perdere tempo a chiederla. Qui da noi, invece, c’è grande confusione e
una numerosa familia, suppellettili, denaro, vestiti, vasellame d'argento. Se qui fosse scomparso qualcosa –
impulso che so che puoi trattenere facilmente, se niente è a portata di mano –, direbbero: i cuochi l’hanno
rubato, prendeteli, legateli, bastonateli, nascondeteli nel sotterraneo. Niente di ciò ti accadrà qua, poiché
non c’è modo in cui, non c’è luogo dove rubare qualcosa. Seguimi per di qua.
CONG.: Ti seguo.

SCENA QUINTA

STR.: Ehi, Stafila, sporgiti e apri la porta d’ingresso.


STA.: Chi (mi) chiama?
STR.: Strobilo.
STA.: Che cosa vuoi?
STR.: Che tu accolga questi cuochi e la suonatrice di flauto e la spesa per le nozze. Megadoro ha ordinato di
mandare queste cose a Euclione.
STA.: Cerere, Strobilo, ha coloro che stanno per celebrare queste nozze?
STR.: Perché?
STA.: Perché comprendo che non è stato portata nessuna goccia di vino.
STR.: Ma sarà portato subito, se lui stesso (=il padrone) tornerà dal foro.
STA.: Qui da noi non c’è legna.
CONG.: Ci sono delle travi?
STA.: Ci sono, per Polluce.
CONG.: La legna dunque c’è, non cercarla fuori.
STA.: E che, essere immondo, sebbene tu parteggi per Vulcano, pretendi che noi bruciamo la nostra casa per
una cena o per il tuo salario?
CONG.: Non lo pretendo.
STR.: Conduci dentro costoro.
STA.: Seguitemi.

SCENA SESTA

PIT.: Datevi da fare. Io andrò a vedere che cosa fanno i cuochi; e, per Polluce, la mia massima
preoccupazione è di sorvegliare questi oggi. A meno che io non faccia quest’unica cosa, ovvero che cucinino
la cena nel sotterraneo; una volta cotta, la tireremo in alto da lì con delle ceste. Se, invece, da basso
mangeranno se cucineranno qualcosa, quelli sopra rimangono senza cena e quelli sotto con la cena. Ma sto
chiacchierando qui, come se non ci fosse niente da fare dove ci sia una tale quantità di ladri in casa.

SCENA SETTIMA

EUC.: Oggi, una buona volta, avrei voluto prendere coraggio per trattarmi bene in occasione delle nozze di
mia figlia. Giungo al mercato, chiedo dei pesci: me ne indicano di cari, l’agnello, caro, il bue, caro, il vitello, il
tonno, il maiale, tutto caro. Saranno stati tanto più cari rispetto al fatto che non c’era denaro. Me ne vado
furioso da lì poiché non c’è niente da compare. Così ho imbrogliato tutti quegli ignobili. Poi, strada facendo,
ho cominciato a pensare tra me e me: se avessi sperperato qualcosa nel giorno festivo, sarebbe possibile
trovarsi in ristrettezze in quello feriale, se non hai risparmiato. Dopo che ho riferito questo ragionamento al
ventre e al cuore, l’animo ha aderito alla mia opinione, ovvero di dare mia figlia in matrimonio con la minor
spesa possibile. Ora ho comprato questo po’ d’incenso e delle corone di fiori; queste cose saranno poste sul
focolare del nostro lare (sul nostro focolare del lare), affinché renda felici le nozze di mia figlia. Ma perché
vede la nostra casa aperta? E c’è un baccano dentro. Sono forse derubato, povero me?
CONG.: Chiedi ai vicini (al vicinato) una pentola più grande, se è possibile: questa è piccola, non può
contenerlo.
EUC.: Ahimè! Per Ercole, sono morto: si ruba l’oro, si cerca la pentola. Sono certamente ucciso se non mi
sbrigo in fretta a correre qua dentro. Apollo, ti prego, vienimi in soccorso e aiutami. Trafiggi con le tue frecce
i ladri di tesori se sei già precedentemente venuto in soccorso a qualcuno in tale situazione. Ma mi attardo
a correre prima di essere del tutto morto?

SCENA OTTAVA

ANTH: Dromone, squama i pesci; tu, Macherione, togli la lisca al grongo, alla murena, a quanti più (ti) è
possibile. Io da qui vado a chiedere a Congrione (che sta) qui vicino uno stampo per il pane da usare. Tu, se
lo sai fare, mi renderai codesto gallo più liscio di quanto non lo sia un ballerino depilato. Ma che baccano si
leva di qua dai vicini? I cuochi, per Ercole, fanno il loro dovere. Fuggirò dentro, affinché non ci sia qualche
confusione parimenti qui.

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

CONG: Concittadini, abitanti della città, abitanti dei dintorni, stranieri tutti, datemi una via per cui mi sia
possibile fuggire, fate sì che tutte le piazze siano sgombre. Io mai eccetto oggi sono venuto a cucinare per
delle Baccanti in un Baccanale. Così hanno malamente ammaccato a furia di legnate me misero e i miei
aiutanti. Sono tutto dolorante e sono proprio morto; così codesto vecchio ha stimato che fossi la sua
palestra. E in nessun luogo ho visto che la legna fosse più bellamente offerta alla gente, dunque ha cacciato
fuori tutti, me e questi, carichi di legante. Oh, per Ercole, povero me, sono morto; si apre il Baccanale, è
vicino, mi segue. So che cosa fare: lui stesso, in qualità di maestro, me l’ha insegnato.

SCENA SECONDA

EUC.: Torna indietro. Dove scappi ora? Fermati, fermati!


CONG.: Perché gridi, stupido?
EUC.: Perché ora riferirò il tuo nome ai triumviri?
CONG.: Perché?
EUC.: Perché hai un coltello.
CONG.: Si addice ad un cuoco.
EUC.: Perché mi hai minacciato?
CONG.: Giudico codesto male come un delitto, poiché non ti ho perforato un fianco.
EUC.: Non c’è nessun uomo che vive oggi più scellerato di te e a cui io non nuoccia più intenzionalmente,
più volentieri.
CONG.: Per Polluce, anche se non lo dicessi, ciò sarebbe certamente evidente. La cosa stessa (ne) è a
testimonianza. Così a furia di legnate sono molto più flessibile di un cinedo. Ma che diritto di toccarci hai,
miserabile?
EUC.: Cosa? Me lo chiedi anche? O perché ho fatto meno di quanto era giusto che io (facessi)?
CONG.: Lasciami: ma, per Ercole, (sarà) con tuo grande danno, se questa testa è capace di intendere e di
volere.
EUC.: Per Polluce, non so che cosa sia poi; per ora la tua testa è capace di intendere e di volere. Ma che cosa
c’era per te in casa mia in mia assenza, se non te l’avevo ordinato? Voglio saperlo.
CONG.: Taci allora. Poiché siamo venuti a cucinare per le nozze.
EUC.: Perché ti curi, maledetto, se mangio crudo o cotto, se non mi sei tutore?
CONG.: Voglio sapere, ci permetteresti o non ci permetteresti di cucinare qui la cena.
EUC.: Voglio sapere se i miei beni rimarranno ugualmente intatti in casa mia.
CONG.: Magari mi portassi via intatti soltanto i miei beni che ti ho portato. Non mi pare poca cosa, non
bramo i tuoi.
EUC.: Lo so; non spiegarmelo; lo so.
CONG.: Perché ora ci proibisci di cucinare qui la cena? Che cosa abbiamo fatto? Che cosa ti abbiamo detto
diversamente da quanto avresti voluto?
EUC.: Me lo chiedi anche, scellerato, voi che mi ispezionate tutti gli angoli di casa mia e i varchi (varco) delle
stanze. Se fossi stato lì dove avevi il lavoro, presso il focolare, non avresti portato via una testa spaccata; ciò
è accaduto per colpa tua. Mi avvicino affinché tu ora possa conoscere la mia opinione: se verrai troppo
vicino qui alla porta, se non te l’avrò ordinato, io farò in ogni modo che tu sia l’uomo più infelice (di tutti).
Ora sai la mia opinione.
CONG.: Dove vai? Torna indietro. Così Laverna mi aiuti com’è vero che ora, se non ordini che mi siano
restituiti gli utensili, ti diffamo con uno schiamazzo qui davanti a casa. Che cosa dovrei fare ora? Per Polluce,
sono giunto qui proprio col malaugurio: sono stato preso a servizio per un denaro; ora (mi) è necessario di
più della paga al medico.

SCENA TERZA

EUC.: Certamente, per Ercole, dovunque andrò, questa sarà con me, la porterò con me, non commetterò più
l’errore che sia qua tra tanto grandi pericoli. Ora andate pure tutti dentro, sia cuochi sia suonatrici di flauto.
Porta dentro, se vuoi, anche addirittura un’orda di schiavi. Adesso cucinate, fate, affaccendatevi quanto vi
piace.
CONG.: Tempestivamente, dopo che mi hai riempito la testa di spaccature con il bastone.
EUC.: Vai dentro: il vostro lavoro è stato stipendiato, non le vostre chiacchiere.
CONG.: Ehi, vecchio, per Ercole, ti chiederò un salario per il ricevere bastonate. Poco fa sono stato
stipendiato per cucinare, non per ricevere bastonate.
EUC.: Intenta un processo contro di me; non essere fastidioso. Vai, cucina la cena o vai a farti impiccare
lontano da casa (mia).
CONG.: Vacci tu ora.

SCENA QUARTA

EUC.: Quello si allontana da qui. Dei immortali, compie un’impresa audace quel povero che ha cominciato a
avere interessi e affari con un ricco, come Megadoro tenta di corrompere me infelice in tutti i modi. Lui, che
ha finto di mandare qui dei cuochi in mio onore, per questo motivo ha mandato loro, che rubassero questa
a me infelice. Degnamente anche il mio gallo là dentro, che era di proprietà della vecchia, mi ha davvero
quasi mandato in rovina. Ha iniziato a graffiare con le unghie tutto intorno a lì dove questa era stata
sotterrata. E che c’è bisogno di parole? Così mi si è inasprito l’animo. Prendo un bastone, uccido il gallo,
ladro colto in flagrante. Credo, per Polluce, che i cuochi abbiano promesso un compenso a quel gallo, se
avesse reso noto ciò. Ho tolto il manico dalla loro mano. E che bisogno c’è di parole? La battaglia è stata
combattuta contro il gallo. Ma ecco, il mio caro genero Megadoro avanza dal foro. Non potrei più osare di
fare a meno di fermarmi e parlare (con lui).

SCENA QUINTA

MEG.: Ho detto a molti amici il mio progetto riguardo a questo matrimonio: lodano la figlia di Euclione,
(dicono che da me) è stato fatto saggiamente e con un buon progetto. Infatti certamente, secondo me, se
tutti gli altri facessero la medesima cosa, ovvero che i più ricchi conducono a casa come mogli le figlie senza
dote dei più poveri, sia la città diventerebbe molto più concorde, sia nutriremmo minore invidia di quanta
ne nutriamo, sia quelle (donne) temerebbero la malora più di quanto la temono, sia noi saremmo con meno
spesa di quanto siamo. Quello sarebbe ottimo per la maggior parte del popolo, ci sarebbe una disputa con
piuttosto pochi avidi, agli animi avidi e insaziabili dei quali non c’è né legge né calzolaio che possa prendere
la misura. E infatti qualcuno potrebbe dire ciò: “Con chi si sposeranno quelle (donne) ricche con dote, se si
accorda codesto diritto alle povere?”. Si potrebbero sposare con chi vogliano, purché la dote non sia resa
compagna. Se ciò fosse fatto così, si procurerebbero costumi da portare (che portino) come dote migliori di
quanto portano ora. Io farei sì che i muli, che superano i cavalli nel prezzo, siano a più buon mercato dei
ronzini gallici.
EUC.: Così gli dei mi aiutino com’è vero che lo ascolto volentieri. Ha parlato davvero graziosamente della
parsimonia.
MEG.: Nessuna, dunque, potrebbe dire: “Certamente ti ho portato una dote molto maggiore di quanto
denaro avevi. Infatti, secondo me, è certamente giusto che (mi) siano date porpora e oro, ancelle, muli,
mulattieri, staffieri, valletti, carrozze con cui io sia trasportata”.
EUC.: Come conosce proprio bene le azioni delle matrone costui! Vorrei che costui fosse stato eletto
prefetto dei costumi delle donne.
MEG.: Ora, dovunque tu vada, potrai vedere più carri in casa che in campagna, quando sei giunto ad una
masseria. Ma ciò è ancora bello in rapporto a quando (ti) chiedono le spese. C’è il lavandaio, il ricamatore,
l’orefice, il mercante di lino, i tavernieri, i produttori di frange, i produttori di sottovesti, i tintori di rosso, di
viola, di giallo, e i fabbricanti di maniche e i profumieri; ci sono i rivenditori di biancheria, i tessitori di lino, i
calzolai, i ciabattini sedentari, i fabbricatori di sandali; ci sono i tintori di malva; chiedono (d’essere pagati)
lavandai, lo chiedono i sarti; ci sono i fabbricanti di fasce, insieme ci sono i fabbricatori di cinture. Riterrai
che questi siano stati ormai liquidati; (questi) se ne vanno, trecento chiedono (d’essere pagati), quando
(prima) erano questuanti negli atri: tessitori, orlatori, costruttori di scrigni. Sono fatti entrare, è dato loro
denaro; riterrai che questi siano stati ormai liquidati, quando avanzano i tintori di zafferano o c’è sempre
qualche disgrazia che chieda qualcosa.
EUC.: Gli rivolgerei la parola se non temessi che cessasse di elencare i costumi delle donne; lo lascerò
(continuare) così.
MEG.: Non appena i conti sono stati sistemati con tutti i venditori di cianfrusaglie, alla fine viene lì un
soldato, chiede denaro. Si va, si fanno i conti con il banchiere. Il soldato sta in piedi a stomaco vuoto, ritiene
che (gli) sia dato denaro. Quando i conti sono stati fatti con il banchiere, anzi, anche tu stesso sei debitore al
banchiere. Al soldato la speranza è prorogata di un altro giorno. Queste e molte altre sono le seccature e le
spese intollerabili davanti alle grandi doti. Infatti colei che è senza dote è sotto l’autorità del marito; quelle
con la dote rovinano i mariti sia con disgrazie sia con danni. Ma ecco il mio suocero davanti a casa. Che cosa
fai, Euclione?

SCENA SESTA

EUC.: Mi gustato davvero volentieri il tuo discorso.


MEG.: Hai sentito?
EUC.: Tutto, sin dall’inizio.
MEG.: Tuttavia, almeno secondo me, faresti alquanto meglio se fossi più elegante per le nozze di tua figlia.
EUC.: Coloro che hanno l’eleganza in proporzione alla roba e la gloria in proporzione alla possibilità, si
ricordano di dove sono originari. Per Polluce, Megadoro, né io né nessun povero abbiamo in casa la roba
meglio ammassata di quanto si crede (dell’opinione).
MEG.: È al contrario e magari gli dei facciano sì che rimanga (così) (e) accrescano sempre di più codesto che
possiedi ora.
EUC.: Non mi piace quell’espressione “ciò che possiedi ora”. Sa che possiedo ciò tanto quanto me stesso: la
vecchia l’ha reso noto.
MEG.: Perché ti allontani da solo dalla discussione?
EUC.: Per Polluce, progettavo di accusarti a buon diritto.
MEG.: Perché?
EUC.: Mi chiedi perché? Perché mi hai riempito tutti gli angoli di casa di ladri, povero me; perché mi hai
fatto entrare in casa cinquecento cuochi con sei mani per ciascuno, del genere di Gerione. E se li
sorvegliasse Argo, che è tutto occhi, che Giunone ha anticamente posto come custode a fianco di Io, lui non
riuscirebbe mai a sorvegliarli (non li sorveglierebbe mai). Inoltre (mi hai fatto entrare in casa) una suonatrice
di flauto, che potrebbe tracannarsi da sola la sorgente corinzia di Pirene, se fosse piena di vino. E poi la
spesa…
MEG.: Per Polluce, sarebbe abbastanza perfino per una legione. Ti ho mandato anche un agnello.
EUC.: E so abbastanza certamente che nessuna bestia in nessun luogo è più un curione di questo agnello.
MEG.: Vorrei sapere da te come sia un agnello curione.
EUC.: È tutto pelle e ossa, è così magro per la preoccupazione. Perfino, è possibile vedergli, per quanto vivo,
le viscere alla luce del sole: è trasparente così come una lanterna punica.
MEG.: Io l’ho comprato da uccidere.
EUC.: Allora sarebbe ottimo che tu disponga il medesimo da seppellire; infatti, credo, è già morto.
MEG.: Oggi, Euclione, vorrei bere insieme a te.
EUC.: Ma, per Ercole, io non potrei bere.
MEG.: Ma io avrò ordinato che sia portato da me un barile di vino invecchiato.
EUC.: Non voglio, per Ercole; infatti da me è stato deciso di bere acqua.
MEG.: Com’è vero che sono vivo, oggi renderò ubriaco per bene te, da cui è stato deciso di bere acqua.
EUC.: So che cosa fa. Assume quell’atteggiamento per stroncarmi con il vino; poi perché ciò che possiedo
cambi residenza. Io starò attento a questo; lo nasconderò fuori in qualche luogo. Avrò fatto sì che abbia
perso insieme sia tempo sia vino.
MEG.: Io, se non vuoi qualcosa da me, vado a lavarmi per celebrare il sacrificio.
EUC.: Per Polluce, pentola mia, hai davvero molti nemici, tu e codesto oro che ti è stato affidato. Ora,
secondo me, l’azione migliore è questa, che io ti porti, pentola mia, nel tempio della Buona Fede; lì ti
nasconderò per bene. Buona Fede, tu mi conosci e io ti conosco: per favore, non cambiare nome se ti avrò
affidato questo (tesoro). Verrò da te, Buona Fede, confidando nella tua fiducia.

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

STR.: È compito di un servo onesto fare quest’azione che io faccio, ovvero ricevere su di sé l’ordine del
padrone senza indugio e senza fastidio. Il servo, che chiede di servire il padrone secondo il suo desiderio,
conviene che si indirizzi subito verso i bisogni del padrone, tardi verso i suoi. Qualora abbia sonno,
dormirebbe a patto che pensi di essere un servo. Infatti colui che serve un padrone innamorato, come io lo
servo, se vede che l’amore vince il suo padrone, credo che questo sia il dovere di un servo, di mantenerlo in
salute, non di spingerlo lì dove precipita. Come ai bambini che imparano a nuotare, affinché fatichino meno
e affinché nuotino e muovano le mani più facilmente, è messo indosso un salvagente di giunchi, allo stesso
modo ritengo che sia giusto che il servo sia per il padrone innamorato un salvagente tale da sostenerlo
affinché non vada a fondo come uno scandaglio. Che impari a conoscere l’ordine del padrone (a tal punto)
che i suoi occhi sappiano ciò che la fronte (di lui) voglia. Che s’affretti a fare ciò che ordini più velocemente
di quadrighe veloci. Colui che si curerà di queste cose, si terrà lontano dalla punizione bovina, né luciderà
mai (ridurrà mai allo splendore) i ceppi con la sua opera. Infatti il mio padrone ama la figlia del qui presente
povero Euclione: al padrone è stato ora riferito che quella è data in moglie al qui presente Megadoro. Egli
mi ha mandato qui a guardare, affinché io diventassi partecipe di quali cose accadevano. Ora senza nessun
sospetto siederò qui accanto al sacro altare. Da qui potrò giudicare che cosa fanno sia da una parte sia
dall’altra.

SCENA SECONDA
EUC.: Soltanto non rivelare a nessuno che il mio oro è qua, Buona Fede. Non temo che qualcuno lo trovi: è
stato riposto così per bene nel nascondiglio. Per Polluce, se qualcuno trovasse quella pentola piena d’oro,
quello farebbe davvero un bel bottino; ma ti prego di impedire ciò, Buona Fede. Ora mi laverò per celebrare
il sacrificio, per non impedire a mio genero di condurre a casa mia figlia subito quando la mandi a chiamare.
Bada ancora e ancora, Buona Fede, affinché io porti via da te la pentola sana e salva. Ho affidato l’oro alla
tua fiducia; è stato posto nel tuo bosco sacro e nel tuo tempio.
STR.: Dei immortali, quale cosa ho sentito che quest’uomo dice. Che ha nascosto una pentola piena d’oro
qui nel tempio della Buona Fede! Ti prego, tu non essere fedele a quello piuttosto che a me. E questo, come
credo, è il padre di questa che il mio padrone ama. Andrò qui dentro; perlustrerò il tempio, non si sa mai
che io trovi l’oro in qualche luogo, mentre costui è occupato. Ma se lo troverò, ti offrirò un vaso da un
congio pieno di vino mielato. Sì, te lo offrirò; ma, non appena te l’avrò offerto, me lo berrò io.

SCENA TERZA

EUC.: Non è a caso che un corvo ora canta alla mia sinistra. Contemporaneamente raschiava la terra con le
sue zampe e gracchiava con la sua voce: improvvisamente il mio cuore ha cominciato a fare acrobazie e a
balzarmi fuori dal petto. Ma (perché) mi attardo a correre?

SCENA QUARTA

EUC.: Vieni fuori, verme, che poco fa hai strisciato sotto terra, che poco fa non ti facevi vedere da nessuna
parte: ora, nel momento stesso in cui ti fai vedere, sei spacciato. Io, per Polluce, ti accoglierò in misero
modo, impostore.
STR.: Quale disgrazia ti tormenta? Quale attività hai con me, vecchio? Perché mi maltratti? Perché mi
trascini via con la forza? Perché mi prendi a bastonate?
EUC.: Meritevolissimo di essere bastonato, me lo chiedi anche, ladro, tre volte ladro?
STR.: Che cosa ti ho rubato?
EUC.: Restituiscimelo qui, per favore.
STR.: Che cosa vuoi che ti restituisca?
EUC.: Me lo chiedi?
STR.: Non ho davvero portato via niente a te.
EUC.: Ma dammi quello che avevi portato via per te. Che cosa aspetti?
STR.: Che cosa dovrei aspettare?
EUC.: Non puoi portarmelo via.
STR.: Che cosa vuoi per te?
EUC.: Dammelo.
STR.: Per Polluce, credo davvero che tu sia abituato a darlo, vecchio.
EUC.: Dammelo, per favore. Piantala (porta lontano) con il doppio senso; io ora non sto facendo lo spiritoso.
STR.: Che cosa dovrei darti? Suvvia, qualsiasi cosa sia, chiamala con il suo nome. Per Ercole, io non ho
davvero preso né toccato niente.
EUC.: Mostrami qui le mani.
STR.: Eccoti, le ho mostrate: eccole!
EUC.: Le vedo. Suvvia, mostrami anche la terza.
STR.: Spiriti e inquietudini e follie turbano questo vecchio. Mi stai o no facendo un torto?
EUC.: Lo confesso, grandissimo, poiché non pendi sei appeso. E anche ciò accadrà subito, se non confessi.
STR.: Che cosa dovrei confessarti?
EUC.: Che cosa hai portato via da qui?
STR.: Gli dei mi mandino in rovina, se ti ho portato via qualcosa. O piuttosto avrei voluto portartelo via.
EUC.: Su, scuoti dunque il pallio.
STR.: A tuo piacimento.
EUC.: Ammettiamo pure che tu non ce l’abbia sotto la tunica.
STR.: Tasta dove ti piace.
EUC.: Ah, scellerato, quanto (si comporta) condiscendentemente affinché io non comprenda che l’ha
portato via. Conosco (questi) raggiri. Su, mostrami qui di nuovo la mano destra.
STR.: Ecco.
EUC.: Ora mostrami la sinistra.
STR.: Anzi, certamente te le tendo entrambe.
EUC.: Ora smetto di perquisirti; restituiscimelo qui.
STR.: Che cosa dovrei restituirti?
EUC.: Ah! Fai lo spiritoso; lo hai per certo.
STR.: Ce l’ho io? Che cos’ho?
EUC.: Non lo te dico; vorresti sentirlo. Restituiscimi qualsiasi cosa mia tu abbia.
STR.: Pazzo; mi hai perquisito a tuo piacimento e non hai trovato nelle mie mani niente di tuo.
EUC.: Fermati, fermati. Chi c’è di là? Chi era quest’altro dentro insieme a te? Per Ercole, sono morto! Quello
ora mette in disordine dentro. Se congedo costui, se ne andrà da qui. Alla fine l’ho già perquisito; costui non
ha niente. Vai dove ti piace.
STR.: Che Giove e gli dei ti mandino in rovina.
EUC.: Costui non ringrazia male. Andrò dentro e strangolerò subito la gola a quel tuo compagno. Ti dilegui
da qui, dai miei occhi? Te ne vai o no da qui?
STR.: Me ne vado.
EUC.: Guardati dal fatto che io ti veda, per favore.

SCENA QUINTA

STR.: Preferirei essere morto con una mala morte che non tendere insidie a quel vecchio oggi. Infatti non
oserà più nascondere qui l’oro; ora, credo, lo porterà fuori con sé e gli cambierà posto. Ah, ha scricchiolato
la porta d’ingresso; ecco il vecchio porta fuori l’oro. Per un po’ mi ritirerò qua vicino alla porta.

SCENA SESTA

EUC.: Credevo che la Buona Fede avesse la davvero massima fiducia: quella per pochissimo non si è presa
gioco di me (non mi ha tinto la bocca). Se non fosse sopraggiunto il corvo, sarei morto infelice. Per Ercole,
vorrei davvero che giungesse da me quel corvo che mi ha fatto la rivelazione, affinché io gli dica qualcosa di
buono: infatti che io gli dia ciò che mangia (sarebbe) tanto quanto che io lo perda. Ora sto pensando ad un
luogo deserto dove nasconderlo. Fuori dalle mura c’è l’inaccessibile bosco sacro di Silvano: è fittamente
pieno di salici: sceglierò li un posto. È cosa certa, avrò più fiducia in Silvano che nella Buona Fede.
STR.: Evviva, evviva, gli dei mi vogliono sano e salvo. Ora gli correrò davanti e salirò su qualche albero e
osserverò da lì dove il vecchio nasconde l’oro. Sebbene il padrone mi abbia ordinato di rimanere qui, è cosa
certa: (è) meglio che io mi procuri un malanno insieme al guadagno.

SCENA SETTIMA

LYC.: Ti ho detto, madre; circa la figlia di Euclione sai parimenti a me. Ora ti supplico e ti risupplico, madre,
cosa di cui (ti) avevo supplicato poco fa: fanne menzione con lo zio, madre mia.
EUN.: Tu sai che io voglio ciò che tu vuoi. Spero che otterrò codesta cosa da mio fratello; e c’è una giusta
causa se è davvero così come dichiari, che tu, ubriaco, hai violentato quella vergine.
LYC.: Come potrei mentire nei tuoi confronti, madre mia?
PHAE.: Sono morta, nutrice mia! Ti scongiuro, mi duole il ventre. Giunone Lucina, assistimi!
LYC.: Ecco, madre mia, per te un fatto (è) di maggior valore di una parola: sta gridando, sta partorendo.
EUN.: Vieni dentro per di qua con me da mio fratello, figlio mio, affinché io porti via da lui, una volta
ottenutolo, ciò che mi preghi di conseguire per te.
LYC.: Vai, ti seguirò subito, madre. Sono curioso di sapere dove sia il mio servo Strobilo, a cui avevo ordinato
di aspettarmi qui. Ora ci penso tra me e me: se mi sta aiutando, è ingiusto che mi adiri con lui. Andrò dentro
dove si decide della mia vita (ci sono i comizi riguardo alla mia vita).

SCENA OTTAVA

STR.: Io da solo sono superiore per ricchezza ai picchi che abitano monti d’oro. Infatti non voglio ricordare
tutti codesti altri re, razza di accattoni (accattoni di uomini). Io sono quel famoso re Filippo. Oh, che bella
giornata! Infatti, quando poco fa me ne sono andato da qui, sono giunto molto prima di quello e molto
prima mi sono coricato su un albero e da qui attendevo dove il vecchio nascondeva l’oro. Non appena quello
se n’è andato, mi calo giù dall’albero, disseppellisco la pentola piena d’oro; immediatamente fuggo da lì.
Vedo che il vecchio si ritira; quello non mi vede. Infatti mi sono scansato un po’ fuori strada. Oh, ecco
proprio lui. Andrò a nasconderla a casa.

SCENA NONA

EUC.: Sono morto, sono rovinato, sono finito! Dove dovrei correre? Dove non dovrei correre? Fermalo,
fermalo! (Fermare) chi? Chi (lo ferma)? Non lo so, non vedo niente, cammino alla cieca e non sono in grado
di scoprire con l’animo con certezza dove vado o dove sono o chi sono. Vi supplico, vi prego, vi scongiuro,
siatemi d’aiuto e indicatemi l’uomo, chi me l’ha portata via. Che cosa dici tu? È cosa certa che io ti creda;
infatti riconosco che sei buono dalla faccia. Che c’è? Perché ridete? Vi conosco tutti: so che qui ci sono
parecchi ladri, che si nascondono sotto una veste e del gesso e siedono come se fossero persone oneste. Eh,
nessuno di questi ce l’ha? Mi hai ucciso. Dimmi, dunque, chi ce l’ha? Non lo sai? Oh miseramente povero
me, sono morto! Sono disgraziatamente rovinato, sono a tal punto conciato malissimo, questo giorno mi ha
procurato tanti gemiti e mali e tristezze, fame e povertà! Sono il più rovinato di tutti sulla terra. Infatti
perché occorre la vita a me che ho perso una quantità tale di oro che ho custodito accuratamente? Io stesso
ho truffato il mio animo e il mio genio; ora, dunque, altri sono allietati dalla mia sventura e dal mio danno.
Non posso sopportarlo.
LYC.: Chi (quale uomo) si lamenta qui davanti a casa nostra gemendo, piangendo? E questo è certamente
Euclione, come credo. Sono del tutto morto; la cosa è nota. Sa, come credo, che sua figlia ha già partorito.
Ora per me è incerto che cosa fare (se) andarmene o rimanere o avvicinarmi o fuggire. Per Polluce, non so
che cosa fare.

SCENA DECIMA

EUC.: Chi parla qui?


LYC.: Sono un infelice.
EUC.: Al contrario, infelice sono io e disgraziatamente rovinato, a cui è capitata una così grande disgrazia e
tristezza.
LYC.: Stai di buon animo, coraggio!
EUC.: In quale modo potrei starci, ti prego?
LYC.: Poiché codesto fattaccio che turba il tuo animo, io l’ho commesso e lo confesso.
EUC.: Che cosa sento da te?
LYC.: Ciò che è vero.
EUC.: Quale colpa ho commesso nei tuoi confronti, giovane, perché tu agissi così e andassi a rovinare me e i
miei figli?
LYC.: Un dio mi fu istigatore, lui mi ha attirato a quella.
EUC.: In che modo?
LYC.: Confesso di avere sbagliato e so di aver commesso una colpa. E precisamente sono giunto per pregarti
di perdonarmi con animo indulgente.
EUC.: Perché hai osato fare ciò, ovvero toccare ciò che non era tuo?
LYC.: Che cosa vuoi farci? Ciò è accaduto; non si può fare che non sia accaduto. Credo che gli dei l’abbiano
voluto: infatti se non avessero voluto, non sarebbe accaduto, lo so.
EUC.: Ma io credo che gli dei abbiano voluto che io ti facessi morire in catene a casa mia (presso di me).
LYC.: Non dire codesta cosa!
EUC.: Perché, dunque, hai toccato una cosa mia (hai il toccare una cosa mia) con me controvoglia?
LYC.: Poiché l’ho fatto per colpa del vino e dell’amore.
EUC.: Uomo sfrontatissimo, che azzardo avvicinarti qui a me con codesto discorso, impudente! Infatti se
codesta è una ragione per poter giustificare codesta azione, potremmo rubare l’oro alle matrone
pubblicamente, in pieno giorno. Dopo, se fossimo stati arrestati, addurremo come scusa che, ubriachi,
l’abbiamo fatto per amore. Il vino e l’amore sarebbero di valore troppo basso se ad un ubriaco e ad un
innamorato fosse lecito fare ciò che gli piace.
LYC.: Anzi, io vengo a supplicarti di mia volontà a causa della mia stupidità.
EUC.: Non mi piacciono gli uomini che, dopo aver agito male, si discolpano. Tu sapevi che quella non era
tua; non sarebbe convenuto che fosse stata toccata (da te).
LYC.: Dunque poiché ho osato toccarla, non adduco pretesti, anzi soprattutto dovrei tenermela.
EUC.: Tu dovresti tenere una cosa mia con me controvoglia?
LYC.: Non la pretendo con te controvoglia, ma giudico che convenga che sia mia. Anzi, troverai subito tu
stesso, dico, che convenga che quella sia mia, Euclione.
EUC.: Per Ercole, ti trascinerò davvero subito dal pretore e ti intenterò un processo, se non mi restituisci…
LYC.: Che cosa ti dovrei restituire?
EUC.: Il mio che hai rubato.
LYC.: Io rubo il tuo? Da dove? O che cos’è ciò?
EUC.: Così Giove ti aiuti com’è vero che non lo sai!
LYC.: Certamente se non mi dici che cosa cerchi.
EUC.: Reclamo, dico, la pentola d’oro, che tu hai confessato di avermi portato via.
LYC.: Per Polluce, io né l’ho detto né l’ho fatto.
EUC.: Lo neghi?
LYC.: Anzi, nego risolutamente: infatti io non so e non conosco né l’oro né quale sia codesta pentola.
EUC.: Dammi quella che avevi portato via dal bosco sacro di Silvano. Suvvia, restituiscimela: piuttosto la
dividerò a metà con te. Sebbene tu sia il ladro dei miei beni, tuttavia non sarò fastidioso. Ma suvvia,
restituiscimela.
LYC.: Non sei sano di mente tu che mi chiami ladro. Io ho creduto che tu, Euclione, fossi venuto a sapere di
un’altra cosa, una cosa che mi riguarda. È una cosa importante, di cui desidero parlarti con calma, se c’è
calma.
EUC.: Dimmi in buona fede: tu non hai rubato quell’oro?
LYC.: Giuro.
EUC.: E non sai chi l’ha portato via?
LYC.: Giuro anche codesta cosa.
EUC.: E se verrai a sapere chi l’ha portato via me lo indicherai?
LYC.: Lo farò.
EUC.: Non prenderai per te una parte da colui di cui è (l’oro) e non accoglierai il ladro?
LYC.: No.
EUC.: Che cosa se vieni meno alla promessa?
LYC.: Allora il grande Giove renda me ciò che vuole.
EUC.: Lo ritengo abbastanza: suvvia, ora parla di ciò che vuoi.
LYC.: Se conosci me meno che da quale famiglia sono nato, il qui presente Megadoro è per me zio materno;
mio padre fu Antimaco, io mi chiamo Liconide, mia madre è Eunomia.
EUC.: Conosco la (tua) famiglia. Ora che cosa vuoi? Vorrei saperlo.
LYC.: Tu hai una figlia.
EUC.: Sì, ecco quella è a casa.
LYC.: Tu, credo, l’hai promessa in matrimonio a mio zio.
EUC.: Sai tutto.
LYC.: Egli ora mi ha ordinato di annunciarti il ripudio.
EUC.: (Annuncia) il ripudio dopo che sono state preparate le cose, dopo che sono state allestite le nozze.
Che gli dei e le dee immortali quanti sono mandino in rovina lui a causa del quale oggi ho perso una tale
quantità d’oro, me infelice, me misero.
LYC.: Stai di buon animo, coraggio, e parla bene (di lui). E ora questa cosa volga bene e felicemente per te e
per tua figlia: dirai “Così vogliano gli dei”.
EUC.: Così vogliano gli dei.
LYC.: Così vogliano gli dei anche per me! Ascoltami adesso. Nessun uomo che si è reso colpevole di una
colpa è di tanto poco valore da non vergognarsi, da non giustificarsi. Ora ti supplico, Euclione. Se, senza
pensarci, ho sbagliato qualcosa nei confronti tuoi e di tua figlia, perdonami e dammela in moglie, come
ordinano le leggi. Confesso di aver usato violenza a tua figlia durante le feste di Cerere a causa del vino e in
un impeto di giovinezza.
EUC.: Ahimè, quale fattaccio sento da te?
LYC.: Perché lanci grida di dolore, tu che io ho fatto sì che fossi nonno nelle nozze di tua figlia? Infatti tua
figlia ha partorito dopo il decimo mese: fai il conto. Perciò, per causa mia, mio zio ha acconsentito al
ripudio. Vieni dentro, chiedi se sia così come dico.
EUC.: Sono del tutto morto! Così moltissime sventure mi si attaccano alla sventura. Andrò dentro per sapere
che cosa sia vero di questo.
LYC.: Ti seguo subito. Sembra che questa cosa sia ormai pressocché al sicuro [di salvezza]. Ora non trovo
dove dica di essere il mio servo Strobilo. A meno che io non lo aspetti qui, tuttavia per breve tempo; poi
seguirò dentro costui. Ora, nel frattempo, gli darò il tempo di chiedere della mia azione alla vecchia nutrice
schiava della figlia: lei sa la cosa.

ATTO CINQUE

SCENA PRIMA

STR.: Dei immortali, quali e quante gioie mi donate! Possiedo una pentola piena d’oro dal peso di quattro
libbre: chi è più ricco di me? C’è qualche uomo ora ad Atene a cui gli dei siano più propizi che a me?
LYC.: Mi è sembrato proprio certamente di sentire la voce di (uno) che parla qui (e) ora.
STR.: Eh, vedo forse il mio padrone?
LYC.: Vedo forse ora il mio servo Strobilo?
STR.: È proprio lui.
LYC.: Non (può) essere un altro.
STR.: Mi avvicinerò (a lui).
LYC.: Indirizzerò il passo (verso di lui).
STR.: Credo che quello, come gli ho ordinato, è andato a trovare quella vecchia nutrice di questa vergine.
STR.: Perché non gli dico che ho trovato questo bottino e gliene parlerò? Dunque gli chiederò di affrancarmi.
Andrò e gliene parlerò. Ho trovato…
LYC.: Che cosa hai trovato?
STR.: Non ciò che i fanciulli gridano di aver trovato nella fava.
LYC.: Ma stai forse già scherzando come sei solito?
STR.: Padrone, aspetta; parlerò subito, ascoltami.
LYC.: Suvvia, parla dunque.
STR.: Oggi ho trovato, padrone, un’immensa ricchezza.
LYC.: Dove mai?
STR.: Una pentola piena d’oro, dico, dal peso di quattro libbre.
LYC.: Quale fattaccio sento da te?
STR.: L’ho rubata al vecchio qui presente, Euclione.
LYC.: Dov’è quell’oro?
STR.: In una cassa presso di me. Ora vorrei che tu mi affrancassi.
LYC.: Io dovrei affrancare te, colmissimo di delitti?
STR.: Basta, padrone, so quale cosa stai facendo. Per Ercole, ho saggiato dolcemente il tuo animo; subito ti
preparavi a sottrarmelo. Che cosa avresti fatto tu, se l’avessi trovato?
LYC.: Non puoi avermi giudicato un burlone. Suvvia, restituiscimi l’oro.
STR.: Dunque dovrei restituirti l’oro?
LYC.: Restituiscimelo, dico, affinché sia restituito a costui.
STR.: Da dove (te lo restituisco)?
LYC.: Ciò che poco fa hai ammesso che è in una cassa.
STR.: Per Ercole, sono solito dire sciocchezze spiritosamente. Dico così…
LYC.: Ma sai come?
STR.: Per Ercole, ammazzami pure. Non lo porterai mai via da qui da me.

CONCLUSIONE

Qui la commedia nei manoscritti s'interrompe. La conclusione è andata perduta, ma si può verosimilmente
presumere che Liconide si facesse consegnare dal servo la famosa pentola, promettendogli la libertà; quindi
la restituiva a Euclione e questi gliela concedeva, quale dote, insieme alla figlia.

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