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ATLANTE LEGGENDARIO DELLE STRADE
D’ISLANDA
a cura di Jón R. Hjálmarsson
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Prima edizione:
Almenna bókafélagið, Reykiavík, 2000
Titolo originale:
Þjóðsögur við Þjóðveginn
Traduzione dall’islandese di Silvia Cosimini
Nelle alte valli del Borgarfjörður, il Hvítá («Fiume bianco») si precipita dagli
altipiani interni per correre verso il mare e forma alcune prodigiose cascate, prime
fra tutte le Hraunfossar, «Cascate di lava», una moltitudine di esili rivoli sorgivi che
scorrono dal margine del campo di lava sulla sponda nord del Hvítá per circa un
chilometro, precipitando tra le rocce, il muschio e le betulle nelle acque scure del
fiume glaciale. Poco a monte si incontra Barnafoss («Cascata dei bambini»), nel
punto in cui il fiume si getta in una stretta gola formando rapide spettacolari. Di
recente vi è stato costruito un ponte pedonale, ma nel burrone si notano i resti di
antichi ponti in pietra ormai non più percorribili. Secondo la leggenda, un tempo il
fiume era attraversato da un arco di roccia naturale.
C’era una volta una donna molto agiata che abitava a Hraunsás e aveva due
figli maschi. Una volta andò in chiesa a Gilsbakki, a nord del fiume, insieme
a tutti i suoi domestici, mentre i due bambini rimasero a casa. Raccomandò ai
ragazzi di non muoversi e di non allontanarsi dalla fattoria mentre lei si
assentava, ma quando tutti se ne furono andati i bambini cominciarono ad
annoiarsi e decisero di seguire gli altri verso la chiesa. Scesero fino al fiume
Hvítá e in breve raggiunsero l’arco di pietra, che pare fosse piuttosto stretto e
ben alto rispetto al fiume e alla cascata. I ragazzi si impaurirono e si presero
per mano per attraversarlo insieme, e in un primo momento andò tutto per il
meglio, ma quando arrivarono a metà dell’arco e abbassarono lo sguardo
vedendo il gorgo sotto di loro, furono presi da un tale capogiro che caddero di
sotto e annegarono nel fiume.
Seguendo la statale n. 1 verso nord da Búðardalur, il più grande centro abitato della
regione dei Dalir, si raggiunge la pittoresca valle di Sælingsdalur, che dal fiordo di
Hvammsfjörður si estende verso nord-ovest. Una delle fattorie che costellano la valle
è Sælingsdalstunga, spesso chiamata semplicemente Tunga, luogo storico della
Laxdæla saga, dove vivevano Guðrún Ósvífursdóttir e Bolli Þorleiksson. A poca
distanza dalla fattoria si trova Tungustapi, un’imponente altura rocciosa che si erge
sopra il fiume Sælingsdalsá e che per secoli è stata ritenuta sede di una comunità di
elfi: molti sostenevano che fosse la cattedrale del popolo nascosto, come si narra in
una famosa leggenda popolare.
Tanti secoli fa a Sælingsdalstunga viveva un ricco contadino che aveva alcuni
figli, tra cui due maschi, Arnór e Sveinn, entrambi giovani per bene ma molto
diversi tra loro. Arnór era parecchio socievole e spesso andava a divertirsi
con gli amici, con i quali amava ritrovarsi alla sporgenza rocciosa chiamata
Tungustapi, nei pressi del fiume: durante l’inverno si lanciavano di corsa giù
dalla cima sulla neve ghiacciata, strillando in allegria. Sveinn partecipava
raramente ai loro lazzi e preferiva ritirarsi in chiesa quando gli altri se la
spassavano. Era un tipo solitario e andava a Tungustapi solo per starsene per
conto suo. La gente diceva che frequentasse gli elfi, perché la sera dell’ultimo
dell’anno spariva sempre, nessuno sapeva dove. Sveinn chiedeva spesso al
fratello di non fare tanto baccano intorno alla rupe, ma Arnór si prendeva
gioco di lui e diceva che non c’era da preoccuparsi tanto per gli elfi solo per
un po’ di chiasso.
Una sera dell’ultimo dell’anno, come d’abitudine, Sveinn scomparve. Tutti
cominciarono a chiedersi dove fosse finito e Arnór si offrì di andare a
cercarlo, uscendo in quella notte di maltempo per raggiungere la rupe. Prima
di rendersi conto di che cosa stava succedendo, vide la parete rocciosa aprirsi
dal lato rivolto verso la fattoria e rivelare un’infinità di luci all’interno.
Udendo un canto meraviglioso, Arnór capì che gli elfi stavano celebrando la
loro messa e quando si avvicinò per guardare oltre l’ingresso vide una
moltitudine di persone e un sacerdote vestito di magnifici paramenti in piedi
accanto all’altare, con varie file di luci su entrambi i lati. Varcò la soglia e
riconobbe suo fratello Sveinn inginocchiato davanti al sacerdote che gli
imponeva le mani sul capo. Arnór immaginò che lo stessero consacrando,
così gridò forte: «Sveinn, vieni via, ne va della tua vita!» Il ragazzo trasalì e
fece per raggiungere il fratello, ma in quel momento il sacerdote all’altare
disse: «Chiudete la porta della chiesa e punite l’umano che disturba la nostra
pace. Sveinn, devi lasciarci per colpa di tuo fratello. Visto che hai dato più
valore al suo richiamo che alla nostra consacrazione, ti prostrerai privo di vita
la prossima volta che mi vedrai vestito di questi paramenti.» Alcuni dei
presenti, nelle loro vesti sacre, sollevarono Arnór, e Sveinn lo vide
scomparire oltre la volta di pietra che copriva la chiesa. In quello stesso
momento si sentì un forte scampanio e l’intera congregazione si precipitò
fuori. Arnór corse verso casa più veloce che poté, ma sentiva alle calcagna la
torma di elfi furiosi che lo inseguivano scalpicciando e tra le prime file udì
qualcuno recitare:
Su galoppa nel buio del macigno,
via trascina quel brutto maligno,
che mai più veda il sole che sorge,
né il chiarore che il diman gli porge.
Poi la folla lo superò con uno scatto e si frappose tra lui e la fattoria, tanto che
Arnór fu costretto a indietreggiare. Vinto dalla stanchezza, si accasciò sul
pendio, così che gli elfi lo assalirono e lo lasciarono lì disteso, più morto che
vivo. Sveinn tornò a casa a tarda notte. Era afflitto e non parlò molto, ma
disse che occorreva mandare una squadra a cercare Arnór. Lo cercarono per
tutta la notte finché il fattore di Laugar lo trovò mentre andava al mattutino,
cosciente ma molto debole. Il ragazzo fece appena in tempo a raccontargli
com’era andata, ma era troppo sfinito per essere trasportato a casa e morì lì,
nel punto che da allora si chiama Banabrekkur, «Pendio della morte». Dopo
quei fatti Sveinn non fu più lo stesso e si fece ancora più serio e malinconico.
Di lì a poco si ritirò dalle cure terrene e divenne monaco nel monastero di
Helgafell. Fu un clerico erudito e cantava messa meglio di chiunque altro.
In vecchiaia suo padre contrasse una grave malattia. Quando sentì che gli
restava poco da vivere, mandò a chiamare Sveinn a Helgafell perché lo
raggiungesse. Il figlio acconsentì, anche se aveva il presentimento che non
sarebbe tornato vivo. Arrivò a Tunga il sabato prima di Pasqua e trovò il
padre vicino alla fine. Il vecchio gli chiese di cantare messa la domenica di
Pasqua e predispose di farsi portare in chiesa per morire nella casa del
Signore. Sveinn era reticente, ma lo assecondò, a condizione che nessuno
aprisse la porta della chiesa mentre si diceva messa, perché ne andava della
sua vita. La richiesta parve molto strana, ma la gente pensò che non volesse
vedere la rupe: al tempo la chiesa si trovava su una bassa collinetta e la porta
dava proprio su quell’altura rocciosa.
Il moribondo fu trasportato in chiesa, Sveinn indossò i paramenti davanti
all’altare e aprì il messale. I presenti erano stupefatti: in seguito raccontarono
di non aver mai sentito un canto tanto dolce e dai toni tanto eccelsi. Ma non
appena Sveinn si rivolse ai fedeli e iniziò a dare la benedizione, da ovest si
scatenò una tempesta improvvisa che spalancò la porta della chiesa. Tutti
rimasero sbigottiti e quando si voltarono a guardare videro come una porta
aperta nella rupe che riverberava di innumerevoli luci. Girandosi di nuovo
verso il sacerdote lo trovarono accasciato a terra, privo di vita. Nello stesso
istante anche il padre era caduto dal banco, esalando il suo ultimo respiro. Un
attimo prima non tirava un alito di vento e anche dopo tornò la bonaccia
completa, per cui fu chiaro a tutti che la bufera che si era scatenata dalla
roccia non era un fenomeno naturale.
Tra i testimoni dell’evento straordinario c’era anche il fattore di Laugar,
quello che anni prima aveva trovato Arnór in fin di vita e si era fatto
raccontare tutta la storia. A quel punto i parrocchiani compresero che era
accaduto quanto il vescovo degli elfi aveva preannunciato a Sveinn, che si
sarebbe prostrato senza vita la volta successiva che l’avesse visto. Quando la
rupe si era aperta e la porta della chiesa si era spalancata, Sveinn e il vescovo
degli elfi si erano infatti guardati negli occhi, perché l’entrata della cattedrale
degli elfi era proprio di fronte alla porta della chiesa degli umani. In seguito a
questi eventi si tenne un’assemblea e si decise di spostare la chiesa,
trasferendola da quella collina a una valletta nei pressi della fattoria: il casale
si venne quindi a trovare tra la roccia e la chiesa, così che i sacerdoti non
poterono più guardare attraverso la porta fino a Álfastapi, la «Rupe degli elfi»
– e da quel giorno non successe mai più un evento del genere.
Fiordi Occidentali
7. Il mostro di Látrabjarg
Il fiordo più ampio nella regione degli Strandir è lo Steingrímsfjörður, ben popolato
nella riva meridionale da una fiorente comunità basata sulla pesca che conta circa
cinquecento persone. Al largo dello Steingrímsfjörður si staglia l’isoletta di Grímsey.
La leggenda narra che un tempo alcuni troll iniziarono a scavare un tunnel nel punto
più stretto della penisola fino al Gílsfjörður per staccare i Fiordi Occidentali dal
resto dell’Islanda. Non riuscirono a completare l’opera prima del sorgere del sole,
ma la terra scavata dal tunnel venne gettata in mare: a ovest formò le isolette del
Breiðafjörður e a est l’isola di Grímsey. Talvolta su Grímsey venivano abbandonati
dei cuccioli di volpe per poi tornare a cacciarli in inverno, quando le pelli erano più
pregiate.
Nella parte meridionale dello Steingrímsfjörður si trova la tenuta di Tröllatunga, che
per secoli, fino al 1910, ha ospitato un vicariato. Uno dei sacerdoti che vi prestarono
servizio all’inizio del XIX secolo fu il reverendo Björn Hjálmarsson, ottimo
predicatore, poeta, guaritore e scrittore di talento. Di suo figlio Jón, che servì come
curato, si parla in questo racconto.
Björn Hjálmarsson fu a lungo reverendo di Tröllatunga, nella regione degli
Strandir. Aveva fatto studiare uno dei suoi figli, Jón, per poi assumerlo come
cappellano. Il reverendo Jón aveva un carattere socievole e si prendeva gioco
dell’occultismo e della superstizione ogni volta che capiva di avere a che fare
con qualcuno che credeva a certe cose. Un’estate alla fattoria di Tröllatunga
venne impiegato un tale dell’Arnarfjörður che come molti altri suoi
compaesani si vantava di avere doti soprannaturali. Quando lo sentì, il
cappellano lo derise chiedendogli di dimostrare quel che sapeva fare e
continuò a provocarlo finché l’uomo si arrabbiò e disse che gli avrebbe
mandato uno spettro per dimostrargli di cosa era capace. Poi tornò a casa
nell’ovest e presto il reverendo Jón dimenticò le sue minacce.
L’anno successivo, in una notte di tarda estate, mentre dormiva in un
capanno della fattoria, il cappellano si svegliò sentendo che qualcuno gli
muoveva il coltrone; alzò lo sguardo e gli parve di vedere uno spiritello
malvagio ai piedi del letto, ma tornò a coricarsi ignorando l’apparizione. Il
demonietto continuò a punzecchiarlo e a fargli il solletico, così Jón si alzò sui
gomiti e gli disse: «Vattene! Sei troppo gracile per farmi paura.» Al che lo
spiritello sparì. Poco dopo tuttavia il reverendo si accorse che nel capanno
stava entrando come una densa nube di nebbia, che presto si trasformò in un
mostro e riempì l’edificio intero. Il reverendo gli si rivolse dicendo: «Non ho
paura di te, sei solo stazza vuota. Dovresti avere più sostanza per togliermi di
mezzo, quindi vattene.» E l’apparizione svanì.
A quel punto il cappellano ricordò il tale dell’Arnarfjörður e le sue minacce,
quindi immaginò di doversi aspettare un’altra visione, ma si sentiva ancora
molto sicuro di sé. All’improvviso vide una figura che sembrava fluttuare
attraverso la porta: era un fenomeno che rifulgeva come fuoco e aveva la
forma di un triangolo dalle punte acuminate. In quel momento Jón ebbe
l’impressione che l’intera stanza fosse piena di letti, ciascuno occupato da un
uomo a torso nudo. Poi gli sembrò che la figura avanzasse svolazzando e
infilzasse con una delle sue punte il petto dell’uomo coricato più vicino: vide
l’angolo penetrare in profondità e udì la vittima emettere un gemito mentre
moriva sul colpo. Il triangolo scivolò quindi verso l’uomo seguente e lo
uccise allo stesso modo mentre quello urlava di dolore. Lo spettro non si
sarebbe fermato prima di averli uccisi tutti, o almeno questo pensò il
cappellano.
Alla fine toccò a lui: la figura gli si fece incontro, ma Jón si alzò dal letto,
nudo, spalancò le braccia e disse con voce tuonante: «Allora vieni, ma fallo
in nome di Dio!» E non appena ebbe pronunciato quelle parole, tutte le
visioni sparirono e le cose tornarono alla normalità. Così si conclude la storia
dell’impavido cappellano di Tröllatunga.
Islanda Settentrionale
13. Kola di Kolugljúfur
All’imboccatura della valle di Vatnsdalur si trova una vasta distesa di strani poggi, i
famosi Vatnsdalshólar, «Collinette di Vatnsdalur», che si dice siano innumerevoli
come le isolette del Breiðafjörður o i laghi della brughiera di Arnarvatnsheiði. La
loro origine non è chiara, ma si ritiene si siano formati in epoca preistorica in seguito
a un crollo di detriti rocciosi dal monte Vatnsdalsfjall. Su questo rilievo a est della
valle ci sono state nel corso del tempo molte frane che hanno lasciato tracce sia sui
suoi versanti che sulle pianure intorno: nel 1545, per esempio, un voluminoso
smottamento seppellì la fattoria di Skíðastaðir uccidendo tredici persone, ma la
tradizione sostiene che una fanciulla si sia salvata in circostanze straordinarie.
Dopo aver oltrepassato il fiume Giljá, che nasce nella valle Sauðadalur, si raggiunge
un distretto noto con il nome di Ásar, che da Blönduós si estende verso sud, tra il
fiume Blanda e il lago Húnavatn. Si tratta di una zona pianeggiante attraversata dal
fiume Laxá á Ásum, particolarmente ricco di salmoni e sfruttato per rifornire di
elettricità tutte le aree rurali circostanti. La zona di Ásar conta numerose eccellenti
fattorie poiché il terreno è particolarmente favorevole all’agricoltura. Una di queste è
Tindar, immortalata nella seguente leggenda popolare.
Il fattore di Tindar si chiamava Árni Þorleifsson ed era un buon contadino
versato anche nelle arti magiche. Un’estate in cui l’erba del suo podere era
cresciuta poco a causa del freddo e del ghiaccio intorno alla costa, Árni evitò
di falciarla per lasciare che si alzasse il più possibile. Gli altri contadini la
tagliarono come al solito, ma quando tutti avevano già concluso la loro
fienagione, Árni non aveva ancora cominciato la sua. Qualche tempo dopo
chiese al diavolo di falciargli il podere nell’arco di una notte. Il diavolo volle
sapere che cosa avrebbe ottenuto in cambio e il contadino gli rispose che
poteva scegliersi il premio che voleva. Così il diavolo annunciò che si
sarebbe preso Árni in persona. Il fattore acconsentì, a condizione che il
diavolo lavorasse tutti i suoi campi in una sola notte e che finisse prima
dell’ora di alzarsi il mattino successivo.
Il podere di Tindar era particolarmente sassoso e comprendeva delle rovine
note con il nome di Gníputótt, che si diceva fossero i resti di una cappella
costruita in antichità. In ogni modo, era impossibile calare la falce in quelle
terre senza colpire una pietra. Il giorno stabilito Árni preparò un buon numero
di falci con la lama affilata, e la stessa sera disse ai famigli di coricarsi e
rimanere a letto senza muoversi durante la notte. Tutti fecero come aveva
chiesto, tranne una vecchia, che volle sapere che cosa stesse accadendo fuori:
scese dal letto, andò a sbirciare dallo spiraglio della porta di casa e vide uno
spiritello su ogni singola zolla d’erba, ma perse all’istante la vista dall’occhio
con il quale aveva guardato, e subito dopo perse anche il senno.
Al mattino, quando Árni uscì di casa, constatò che il diavolo aveva falciato
tutto il podere, tranne però le rovine di Gníputótt. Era ancora lì ad affannarsi
per finire, ma la falce aveva ormai perso il filo. Quando il contadino gli si
avvicinò, il diavolo stava canticchiando tra sé:
A Gníputótt abbondano i sassi
e il ferro qui geme sui massi.
Se Tindar non è un campo vasto
comunque a falciarlo non basto.
Aveva tagliato tutta l’erba tranne quella intorno a due poggi di Gníputótt:
sull’uno Árni aveva lasciato una Bibbia e sull’altro i Salmi di Davide. Il
diavolo aveva evitato accuratamente di avvicinarsi ai due libri e così Árni
disse che l’accordo era nullo e gli chiese di non tornare mai più. Gníputótt si
chiama ancora così e ne rimangono le tracce nel podere di Tindar.
16. Solveig e il reverendo Oddur
Nell’entroterra dello Skagafjörður tre valli tagliano l’altopiano verso sud: quella
centrale prende il nome di Vesturdalur, «Valle occidentale». Un tempo era un
prospero distretto agricolo costellato di fattorie, di cui sono ormai rimaste poche
tracce, a parte i toponimi. All’estremità interna della valle, appena venti chilometri a
nord del ghiacciaio Hofsjökull, si trova un luogo deserto avvolto nella leggenda e nel
mistero: Hraunþúfuklaustur, «Monastero del poggio di lava», spesso chiamato
semplicemente Klaustur. Vi si trovano infatti resti di antichi edifici e si ritiene che in
antichità ospitasse una comunità religiosa, un convento o un monastero. Si racconta
che una volta alcuni contadini del luogo stavano praticando la lotta, come accadeva
spesso, quando uno cadde sulle ginocchia e sentì qualcosa di acuminato che spuntava
dal suolo. Lui e i suoi compagni si misero a scavare e videro che si trattava di un
oggetto color verderame, che una volta dissotterrato si rivelò essere una campana,
poi donata alla chiesa di Goðdalir.
L’insediamento più interno della Vesturdalur era Þorljótsstaðir, finché non fu
abbandonato nel 1950. Pare che fosse un casale abitato fin dagli albori della storia
islandese, nel X secolo, perché nelle vicinanze è stato rinvenuto un antico tumulo
pagano.
Un uomo di nome Snorri, soprannominato Geldinga-Snorri, ovvero «Snorri
dei montoni castrati», visse a Þorljótsstaðir qualche tempo dopo la Morte
Nera.8 Possedeva un numeroso gregge di ovini, tra cui due montoni castrati di
prima qualità, che in inverno lasciava all’aperto a Þorljótsstaðaruna, nome
dato alla parte orientale della valle fino a Hraunþúfuklaustur. Durante un
inverno particolarmente rigido, tra l’ultimo dell’anno e la tredicesima notte,9
il suo intero gregge sparì e per quanto Snorri lo cercasse, non riuscì e
ritrovarlo da nessuna parte. Con il disgelo primaverile le pecore riapparvero
al loro solito posto. L’inverno successivo fu altrettanto rigido, così Snorri
decise di controllare con più attenzione il suo gregge e lo raggiunse al
pascolo, portando con sé un grosso pezzo di trippa. Arrivò nel luogo che
ancora oggi si chiama Snorrasteinn, «Roccia di Snorri», vicino a Klaustur,
dove prima della Morte Nera prosperava una fattoria molto prestigiosa, si
sedette sulla roccia e mangiò la trippa tenendo d’occhio le sue pecore, che si
trovavano tutte a ovest del fiume.
Quando fece per radunarlo, il gregge scappò correndo verso Hraunþúfurani
e s’infilò nel campo di lava. Snorri lo seguì ma non riuscì a intercettarlo
perché si era scatenata una forte nevicata. Si dice che le pecore si fossero
spinte a est dei laghi di Ásbjarnarvötn, che un tempo erano ideali per la
pesca, a est di Lambahraun e Illviðrishnjúkar, e ancora a est del ghiacciaio
Hofsjökull. Snorri le inseguì per quasi un giorno e mezzo e infine si ritrovò in
un campo falciato nelle cui vicinanze sorgeva un ovile. Sulla porta c’era un
uomo che appena vide le pecore esclamò: «Allora siete tornate, povere
bestiole.» Snorri si avvicinò chiedendogli se le avesse già viste e quello
rispose di aver dato loro riparo l’inverno prima. Allora Snorri gli domandò
quali fossero i suoi terreni e l’uomo rispose di essere il fattore di Hamarsholt,
a Hreppar. Le pecore avevano dunque attraversato l’intero altopiano interno,
fino a raggiungere il sud dell’Islanda! Snorri fu accolto con ospitalità e
trascorse l’inverno lì, ma il venerdì santo i suoi ovini si rimisero in cammino
attraverso i monti per tornare a nord, e Snorri con loro. Rincasò a
Þorljótsstaðir la sera del sabato santo, entrò in cucina e trovò un paiolo di
carne sul focolare, così ne mangiò un boccone. In quel momento entrò sua
moglie, che al vederlo perse i sensi perché lo credeva uno spettro. Il
contadino cercò di rianimarla e quando la donna si riprese furono entrambi
molto felici di riabbracciarsi. Si dice che Snorri abbia ricompensato
generosamente il contadino di Hamarsholt per aver pasturato le sue greggi
durante l’inverno.
8 Una violenta epidemia di peste colpì l’Islanda tra il 1402 e il 1404; nonostante non
si conosca per certo il numero dei decessi, pare che la popolazione islandese ne sia
stata dimezzata. (N.d.T.)
9 Il þrettándinn (lett. «tredicesimo») si celebra il 6 gennaio e segna la fine delle feste
natalizie. (N.d.T.)
18. Da qualche parte i cattivi dovranno pur stare
Hólar, nella Hjaltadalur, è stata per secoli uno dei più importanti centri di potere e di
cultura di tutto il Paese. Nel 1106 vi venne fondata la sede episcopale del nord
Islanda e il primo vescovo, Jón Ögmundsson, che in seguito ottenne la beatificazione,
vi istituì una scuola e creò i presupposti per la fondazione del primo monastero
islandese. Tra i vescovi che servirono questa sede si annovera il famoso Guðmundur
il Buono, che si dice abbia consacrato pozzi, scogliere rocciose e sentieri perigliosi in
tutta l’isola. Il vescovo Guðbrandur Þorláksson fece stampare qui nel 1584 la prima
traduzione della Bibbia in islandese. La cattedrale di Hólar, consacrata nel 1763, è
uno degli edifici in pietra più antichi del Paese. Nel 1801 gli episcopati di Hólar e
Skálhólt furono soppressi per creare una sede unificata a Reykjavík e da quel
momento Hólar rimase solo una fattoria, finché nel 1883 vi fu istituita una scuola di
agraria attiva ancora oggi. Nel corso dei secoli molti giovani hanno studiato a Hólar
per poi prendere i voti e i più hanno servito egregiamente la Chiesa, con qualche
eccezione, come un certo Loftur, detto Galdra-Loftur, o «Loftur degli incantesimi»,
figura ben nota nel folklore islandese.
Loftur era il nome di uno studente della scuola di Hólar11 che si dedicava alle
pratiche magiche istigando i compagni a fare lo stesso, benché al suo
confronto fossero appena dei dilettanti. Con i suoi sortilegi era solito giocare
a tutti dei tiri mancini: una volta in cui era tornato a casa per le vacanze di
Natale prese una delle domestiche, la fornì di zoccoli, la imbrigliò e con un
incantesimo la cavalcò a lungo prima di riportarla a casa. La ragazza rimase
per parecchio tempo allettata a causa delle ferite e dello sfinimento, ma non
riuscì a dire niente a nessuno finché Loftur fu in vita. Un’altra serva la mise
incinta, per poi ucciderla con una stregoneria.
Þorleifur Skaftason, il reverendo della cattedrale di Hólar, rimproverava
spesso il ragazzo senza tuttavia ottenere alcun risultato, anzi, Loftur faceva
dispetti anche a lui, per quanto innocui, visto che il sacerdote era altrettanto
esperto di arti magiche. Loftur imparò tutto quel che stava nel volume di
magia detto Gráskinna, «Pelle grigia», ma non contento voleva poter
accedere al famoso libro magico Rauðskinna, «Pelle rossa», appartenente al
vescovo Gottskálk il Cattivo,12 che se l’era portato con sé nella tomba. Una
volta, all’inizio dell’inverno, Loftur parlò con un compagno di scuola che
sapeva essere molto coraggioso e gli chiese di aiutarlo a risvegliare dalla
morte i vescovi sepolti nel pavimento della piccola cattedrale. Il suo compito
sarebbe stato rimanere vicino alla corda della campana, per suonarla a più
non posso appena avesse ricevuto il segnale. Il ragazzo accettò con riluttanza,
e solo perché Loftur minacciò di ucciderlo se non lo avesse fatto.
Così si accordarono e la sera stabilita si alzarono dal letto e andarono in
chiesa. Era una notte di luna, per cui la cattedrale non era del tutto immersa
nell’oscurità. Il ragazzo prese posto sotto le campane mentre Loftur salì sul
pulpito e cominciò a recitare i suoi incantesimi. Ben presto i vescovi del
passato, uno dopo l’altro, si levarono dalle loro tombe. Indossavano tutti
tuniche bianche con una croce sul petto e avevano in mano un bastone.
Nessuno di loro possedeva doti magiche, quindi Loftur riuscì a pronunciare i
suoi incantesimi con crescente intensità e cantò i Salmi al contrario in onore
del demonio. A quel punto si udì un forte boato e Gottskálk il Cattivo in
persona si alzò dalla tomba, con un bastone nella mano sinistra e un libro
rosso nella destra, e disse sprezzante: «Canti bene, figliolo, ma non avrai la
mia Rauðskinna.» Al che Loftur recitò le sue formule magiche come mai
prima e rivolse al demonio sia il Paternoster che la preghiera di benedizione.
La chiesa intera scricchiolava e sussultava. Gottskálk porse con riluttanza
un angolo del libro a Loftur, che a sua volta allungò la mano per prenderlo,
ma il compagno scambiò quel gesto per il segnale, così afferrò la corda e si
mise a scampanare con foga. Le figure evocate svanirono nel pavimento con
un grande fragore e Loftur si ritrovò solo, attonito e disorientato. Uscì
barcollando dalla chiesa, dove trovò il suo complice che lo aspettava. Dopo
questo evento Loftur rimase come allucinato, convinto di essere perduto; non
sopportava più di rimanere solo e quando calava la sera doveva tenersi
sempre accanto una candela accesa. Spesso lo si sentiva mormorare: «La
domenica di metà Quaresima sarò negli inferi e nei tormenti.»
Alla fine fu deciso di mandarlo a Staðarstaður da un sacerdote timorato di
Dio che aveva la reputazione di curare i dissennati e le vittime di malefici.
Loftur si riprese e mostrò qualche progresso, finché non arrivò la domenica di
metà Quaresima. Il sacerdote fu convocato in una fattoria dei dintorni per
dare l’estrema unzione a un moribondo, ma prima di partire assicurò a Loftur
che sarebbe andato tutto bene se avesse avuto cura di non uscire di casa.
Appena il reverendo lo lasciò solo, però, Loftur si alzò dal suo giaciglio e
raggiunse una fattoria vicina, dove convinse un vecchio famigerato a uscire
con lui in mare a bordo di una barca a remi. Si allontanarono di poco dalla
riva, in una giornata limpida e senza vento, ma la barca non fece più ritorno
né si seppe mai che cosa ne fosse stato. In seguito qualcuno disse di aver
visto una mano pelosa e grigia uscire dall’acqua, afferrare la prua dove stava
seduto Loftur e trascinare negli abissi la barca e i due compari.
11 Galdra-Loftur è anche il soggetto dell’omonimo dramma di Jóhann Sigurjónsson
del 1914. (N.d.T.)
12 Gottskálk Nikulásson Grimmi fu vescovo di Hólar dal 1496 al 1520. È noto per
essere l’autore di un famoso testo di magia nera, la Rauðskinna, detto anche bók
máttarins, «libro del potere», che consentiva di diventare esperti di arti magiche al
punto di dominare Satana e che compare in numerose leggende del folklore islandese.
Si dice che il libro sia stato sepolto insieme al suo autore. (N.d.T.)
20. Il commerciante di Búðarbrekkur
La regione dello Skagafjörður appare ancora più maestosa grazie alla presenza
dell’alto promontorio di Þórðarhofði, appena a nord di Hofsós, sul versante est del
fiordo, un antico collo vulcanico che deve il nome a Þórður Bjarnarson, detto
«Þórður del promontorio», stabilitosi qui durante il periodo della Colonizzazione. Un
tempo si ventilò l’idea di costruirvi un attracco e trasformare Þórðarhofði in un porto
di pesca; il poeta Jóhann Sigurjónsson (1880-1919) ne fu uno dei maggiori
sostenitori, ma dopo la sua morte il progetto fu abbandonato. Sul lato meridionale del
promontorio si trova Búðarbrekkur, dove si ergono varie rocce basaltiche ritenute la
chiesa, lo spaccio e la dimora degli elfi. Una leggenda popolare racconta di un
contadino di Þrastarstaðir che intrattenne scambi commerciali con il popolo nascosto
lì residente.
A Þrastarstaðir, nella Höfðaströnd, viveva un uomo chiamato Þórður, che a
detta di tutti aveva un carattere particolare. Un giorno d’inverno decise di
andare al villaggio di Hofsós a fare compere. La neve cadeva così fitta che
tutti pensavano fosse impossibile orientarsi, ma Þórður si mise comunque in
marcia verso sud, con la sua bisaccia di beni da vendere, e attraversò i terreni
paludosi sopra Hofsós. Ben presto smarrì la strada a causa della bufera e
continuò a camminare senza meta per tutto il giorno fino a sera, quando d’un
tratto gli parve di scorgere delle botteghe a poca distanza, in edifici così alti
che ne rimase stupefatto. Le finestre erano tutte illuminate, quindi si avvicinò
e vide all’interno alcune persone che ballavano al suono di strumenti
musicali. Bussò alla porta e un uomo in pastrano si affacciò a domandare che
cosa volesse. Þórður spiegò di essersi perso e chiese di potersi fermare per la
notte. Il padrone gli permise di sistemarsi in casa e gli disse: «Entra pure e
porta la tua bisaccia di merci. Domani farò io affari con te, e non saranno
meno proficui che a Hofsós.» Al che l’uomo con il pastrano condusse Þórður
in una stanza dove c’era gente abbigliata a festa: una donna, dei bambini e dei
servi. L’uomo sussurrò alla moglie che era arrivato un viandante stanco che
aveva smarrito la strada e le chiese di preparargli qualcosa di buono da
mangiare. Lei gli servì subito del cibo ottimo e abbondante, mentre il padrone
di casa tirò fuori una bottiglia di vino e due bicchieri. Versò il vino, bevve dal
suo bicchiere e offrì l’altro a Þórður, che ebbe l’impressione di non aver mai
assaggiato un vino più buono in tutta la sua vita. Scolò un bicchiere dopo
l’altro in allegria e si ritrovò piuttosto alticcio, poi gli fu preparato un comodo
letto e dormì tutta la notte.
Il mattino dopo gli servirono una deliziosa colazione e il padrone di casa gli
propose di trattare con lui i suoi affari commerciali. Þórður gli vendette i beni
che aveva portato, incassando il doppio di quanto avrebbe ricavato a Hofsós.
La bottega dell’uomo, poi, era piena di ogni mercanzia che costava la metà
del prezzo chiesto nello spaccio di Hofsós. Þórður comprò granaglie, lino e
vari altri beni, e in più il commerciante gli regalò uno scialle per la moglie e
del pane per i bambini. Disse che era la sua ricompensa per l’aiuto che Þórður
aveva dato a suo figlio una volta che si era trovato in pericolo di vita. Þórður
replicò che non ricordava di aver fatto niente del genere, ma l’uomo raccontò:
«Una volta ti trovavi ai piedi del promontorio di Þórðarhofði con un gruppo
di altri uomini, in attesa del vento favorevole per raggiungere Drangey. I tuoi
compagni cominciarono a tirare sassi per passare il tempo, cercando di
colpire una certa roccia. Era una calda giornata di sole e mio figlio si era
disteso a riposare lì sotto, perché era rimasto sveglio tutta la notte. Tu
chiedesti a quegli uomini di smettere di tirare i sassi perché era un
passatempo inutile, e quelli smisero, ma ti canzonarono per le tue stranezze
dicendo che sei sempre stato un tipo bislacco. Se tu non avessi impedito loro
di giocare, avrebbero ucciso mio figlio.»
Quando l’uomo ebbe concluso la sua storia Þórður si preparò per partire,
perché il tempo si era rischiarato. Dopo aver salutato tutti si mise in marcia e
il commerciante lo accompagnò per un tratto, gli augurò buon viaggio e si
accomiatò. Þórður si avviò per la sua strada, ma qualche istante dopo,
voltandosi a guardare indietro, non vide più nient’altro che Þórðarhofði poco
lontano. Ne rimase profondamente stupito ma proseguì e tornò a casa, dove
raccontò tutta la storia alla moglie, le mostrò quello che aveva comprato e le
diede lo scialle. Lei ne fu molto felice e lo ringraziò per il dono. Gli acquisti
di Þórður vennero messi in mostra e richiamarono curiosi da ogni parte,
perché merci di una tale qualità non si erano mai viste in Islanda, nemmeno a
volerle cercare. Þórður non rivide più il commerciante né nessun altro della
compagnia, ma conservò alcuni dei beni acquistati per tutta la vita e li lasciò
in mostra perché tutti potessero ammirarli.
21. Hálfdan di Fell e la donna di Málmey
La Öxnadalur era una volta costellata di fattorie, oggi disabitate. Si tratta di una
valle stretta incuneata tra alti monti dove durante l’inverno si hanno pesanti nevicate.
Da un gruppo di rilievi che si allungano in mezzo alla valle si ergono spettacolari
pilastri di roccia noti come Hraundrangar, «Colonne di lava». Il più amato poeta
romantico islandese, Jónas Hallgrímsson, nacque qui a Hraun nel 1807. Nella valle
erbosa dove il fiume Bægisá si getta nell’Öxnadalsá si trova la fattoria di Bægisá,
dove servì anche il reverendo Jón Þorláksson, poeta e traduttore a cui si deve la
versione islandese del Paradiso Perduto di John Milton. È impossibile attraversare
questa regione senza ricordare una spaventosa leggenda popolare legata alle fattorie
di Bægisá e Myrká.
C’era una volta a Myrká un diacono che era molto legato a Guðrún, una
domestica a servizio dal reverendo di Bægisá. Durante l’avvento il diacono si
presentò a Bægisá in sella al suo solito destriero, un cavallo dalla criniera
grigia di nome Faxi, per invitare Guðrún a passare la festa del Natale a
Myrká, e si accordò con lei per tornare a prenderla il giorno della Vigilia. La
settimana prima era caduta molta neve e i fiumi si erano ghiacciati, ma il
giorno in cui il diacono andò a Bægisá per accordarsi con Guðrún ci fu un
repentino disgelo e il fiume Hörgá si fece così gonfio e pieno di pezzi di
ghiaccio galleggianti da risultare impraticabile. Il diacono ripartì in serata e
attraversò il fiume Öxnadalsá su un ponte di ghiaccio, ma una volta raggiunto
l’Hörgá vide che il ghiaccio era stato spazzato via dalla corrente. Allora
cavalcò lungo l’argine finché non trovò un altro passaggio e provò la
traversata a cavallo, ma verso metà tragitto la lastra di ghiaccio si spezzò e lui
finì in acqua.
Il mattino dopo il contadino di Þúfnavellir trovò un cavallo con tutti i
finimenti ai margini del suo podere e gli sembrò di riconoscere Faxi, il
destriero del diacono di Myrká. Ne rimase molto sorpreso, perché aveva visto
il diacono attraversare il fiume a cavallo il giorno prima ma non tornare
indietro, perciò sospettò subito che fosse accaduto qualcosa di grave. Scese al
fiume, fino al promontorio detto Þúfnavallanes, e vi trovò il diacono riverso
sulla riva e senza vita. Un pezzo di ghiaccio lo aveva colpito alla nuca. Il
contadino andò a Myrká a riferire la notizia, così il diacono fu trasportato a
casa e sepolto la settimana prima di Natale. A Bægisá non seppero niente di
tutto ciò, perché le fattorie erano rimaste isolate a causa del disgelo e dello
stato dei fiumi.
Il giorno della Vigilia il tempo si fece più stabile e durante la notte il livello
dell’acqua scese di nuovo, perciò Guðrún non stava quasi in sé dalla gioia di
poter trascorrere la festa di Natale a Myrká. Nel pomeriggio cominciò a
prepararsi ed era ormai pronta quando sentì bussare alla porta della fattoria.
Un’altra domestica andò ad aprire, ma non vide nessuno. Fuori non era del
tutto buio né del tutto chiaro, perché la luna vagava tra le nubi mostrandosi e
nascondendosi a turno. Quando la donna rientrò dicendo di non aver visto
nessuno, Guðrún replicò: «Dev’essere uno scherzo per me, vado io.» Afferrò
il paltò al volo mentre usciva e infilò una sola manica buttando l’altra sopra la
spalla e tenendola ferma con la mano. Fuori vide Faxi e un uomo che pensò
essere il diacono. Lui la prese in braccio e la sollevò in sella, poi montò
davanti a lei e cavalcarono per un tratto senza parlare.
Raggiunsero gli alti argini del fiume Hörgá e mentre il cavallo discendeva al
galoppo il terrapieno, al diacono scivolò il cappello in avanti e Guðrún gli
vide l’osso scoperto del cranio. In quello stesso istante la luna si affacciò tra
le nubi e il diacono recitò:
La luna sbuca,
il morto cavalca,
vedi la chiazza bianca
qui sulla mia nuca,
Garún, Garún?13
L’Islanda vanta un gran numero di cascate di ogni forma e dimensione, ma una delle
più pittoresche e famose è Goðafoss, la «Cascata degli dei», formata dal fiume
Skjálftandafljót. Poco a sud del lago Ljósavatn si trova una fattoria molto antica che
porta lo stesso nome: intorno all’anno 1000 era la dimora di Þorgeir Þorkelsson, il
capo di Ljósavatn, che ebbe un ruolo cruciale nella storia islandese. È a lui che la
cascata deve il proprio nome.
Il lago Mývatn è una delle maggiori attrazioni turistiche d’Islanda. Il nome, che
significa «Lago dei moscerini», è dovuto ai nugoli di piccoli insetti che nelle belle
giornate vi stazionano, talvolta fino a oscurare l’atmosfera. Le articolate coste del
lago e le quaranta isolette disseminate sulla sua superficie ospitano una ricca
avifauna, in particolare un gran numero di anatidi, che fin dalle epoche passate
hanno fornito uova agli abitanti della zona. Un’altra ricca risorsa del lago sono le
numerose trote, che per di più si ritengono di eccellente qualità: in passato si diceva
che nella zona del Mývatn non si soffriva mai la fame, nemmeno quando altrove si
pativano carestie. A est del lago si trova la fila di crateri detta Lúdentsborgir, creata
dal Lúdent, un cratere di esplosione, mentre poco più a sud si incontra un pendio noto
con il nome di Nökkvabrekka, «Pendio della barca», poiché vi si trova una roccia
solitaria che ricorda la forma di una barca. La sua storia è raccontata in una
leggenda.
Un tempo sopra il lago Mývatn viveva una trollessa, nei pascoli d’altura che
da allora si chiamano Skessuhali, «Crinali della trollessa». Era una creatura
notturna che per sua natura non poteva vedere la luce del sole e dunque si
muoveva nell’oscurità. La trollessa provocava seri danni agli abitanti del
Mývatn, per esempio rubando il pesce dal lago durante la notte. Si racconta
che avesse una piccola barca a remi con la quale usciva a pesca, per poi
riportarla a casa in spalla prima dell’alba.
Un’estate la pesca fu particolarmente abbondante nella baia di
Strandarvogur, che da sempre è la zona più pescosa di tutto il Mývatn, ma la
trollessa aveva preso l’abitudine di rubare il pesce dalla baia ogni notte,
contrariando oltremisura il fattore di Strandarvogur. Così una notte, in tarda
estate, quando la trollessa raggiunse la baia con l’intenzione di fare scorta di
pesci come al solito, vi trovò anche il fattore, che stava pescando proprio nel
punto dove di solito si sistemava lei. Non sentendosela di affrontarlo, visto
che era accompagnato da altri tre uomini, decise di aspettare che finissero la
loro battuta di pesca.
Ma il contadino se la prese con tutta calma, ben sapendo che cosa avesse in
mente la trollessa, e tirò fin quasi al mattino. La trollessa si faceva sempre più
impaziente, ma non voleva arrendersi e rientrare a mani vuote. Quando
finalmente il contadino se ne andò, scese a riva a calare le reti nella baia e poi
si mise in marcia per tornare a casa, ma quando fu poco più che a metà strada
il sole sorse. Pare che a quel punto la trollessa abbia scaricato la barca che
portava sulla schiena e vi sia salita sopra, per trasformarsi in pietra insieme a
lei.
Le prove della triste fine della trollessa si possono vedere ancora oggi: la
barca si trova sul pendio che da allora ha preso il nome di Nökkvabrekka,
«Pendio della barca», a metà strada tra Skessuhali e Mývatn. Nella forma è
del tutto simile alle imbarcazioni che si usano ancora per pescare sul lago,
solo di poco più grande, e si possono perfino distinguere i resti dei remi e
degli scalmi, benché di fattura diversa da quelli di oggi. A poppa si nota un
gran mucchio di pietre: lì si dice che stia la trollessa, nel suo riposo eterno.
26. L’impronta dello zoccolo di Sleipnir ad Ásbyrgi
Ásbyrgi si apre come il portale di un castello fatato nei pressi del fiume Jökulsá. Si
tratta di un’ampia depressione del suolo circondata da pareti di roccia quasi verticali
alte anche un centinaio di metri. Il fondo di Ásbyrgi è quasi piatto, con abbondante
vegetazione e boschetti di betulle, sorbi e salici, oltre a larici, pini e abeti piantati in
anni recenti. A sud di questa fortezza naturale si trova il piccolo lago di Botnstjörn.
L’origine di Ásbyrgi è da tempo al vaglio dei geologi, che ormai sembrano convenire
che questo canyon si sia formato in seguito a un’enorme inondazione del fiume
Jökulsá alla fine dell’ultima era glaciale, e a una successiva avvenuta tremila anni fa.
Ma al riguardo ci sono anche altre teorie, nonché un’antica leggenda popolare che
chiama in causa l’opera di una divinità.
Narra la leggenda che in un passato lontano Odino, dio supremo del pantheon
norreno, si divertisse a sfrecciare al galoppo attraverso i cieli. Una volta, in
una notte stellata tra luminose aurore boreali, in sella a Sleipnir, il suo
stallone a otto zampe, il dio si fece sempre più incurante nel manovrare le
redini, cavalcando su e giù nella volta celeste senza badare bene a dove stesse
andando. Così accadde che passò talmente vicino alla terra che Sleipnir pestò
il suolo con uno dei suoi otto zoccoli. La crosta terrestre si ruppe e il terreno
affondò. L’impronta dello zoccolo lasciata da Slepnir è ben visibile ancora
oggi ed è chiamata Ásbyrgi, «Bastione del dio».
Islanda Orientale
27. La storia di Manga di Möðrudalur
Da Njarðvík, la baia più settentrionale dei Fiordi Orientali, la strada porta verso
Borgarfjörður Eystri seguendo un ripido pendio montano noto con il nome di
Njarðvíkurskríður, il «Ghiaione di Njarðvík». In molti punti lungo il percorso ci sono
pareti di roccia che scendono a picco sul mare, erose in nicchie e crepacci dalle
onde. In passato il Ghiaione di Njarðvík era un tragitto spaventoso perché offriva
solo una misera mulattiera aggrappata alle ripide pareti costiere e non era insolito
che i viaggiatori vi perdessero la vita, anche a causa delle frequenti valanghe. Le due
morti più recenti risalgono al 1909. Oggi una strada più comoda ha eliminato i rischi,
mentre il panorama rimane spettacolare. In passato le morti sul Ghiaione di Njarðvík
erano attribuite a una creatura chiamata Naddi che si dice vivesse nella gola di
Naddagil, a nord. Una volta che Naddi fu sconfitto definitivamente, venne eretta una
croce lungo la strada con un’iscrizione in latino che recita:
Effigiem Christi
qui transis
pronus honora.
Anno MCCCVI15
Pare che Naddi fosse una creatura mostruosa con la parte superiore umana e quella
inferiore di bestia. Raramente lo si vedeva nei mesi di luce estiva, ma aggrediva
spesso i viaggiatori al calare della notte. Un’antica leggenda narra della sua
sconfitta.
Un giorno di fine autunno Jón Bjarnason stava tornando a casa a Njarðvík dal
Borgarfjörður. Verso il tramonto arrivò a Snotrunes, dove fece una sosta. Gli
abitanti della fattoria gli proposero di trascorrere la notte lì per non esporsi al
rischio di affrontare il ghiaione a tarda sera, ma Jón disse che non gli sarebbe
accaduto niente di grave e proseguì per la sua strada. Quando raggiunse
Naddagil, però, la creatura che vi dimorava lo aggredì, e Jón dovette
misurarsi in una battaglia lunga ed estenuante. Lottando corpo a corpo si
spostarono per ogni dove, in lungo e in largo, finché non raggiunsero
Krossjaðar, dove il mostro riuscì a divincolarsi e si gettò negli abissi del
mare. Jón tornò a casa esausto, ferito e tutto dolorante, e rimase a letto per un
mese prima di riuscire a rimettersi in piedi, ma dopo il loro scontro quella
creatura non si fece più vedere. Jón ritenne che fosse salita dal mare, dal
momento che vi aveva fatto ritorno dopo essere stata sconfitta.
15 «L’effigie di Cristo / tu che passi di qui / genuflesso onora. Anno 1306.» (N.d.T.)
29. La regina degli elfi di Snotrunes
«Ti ringrazio», gli disse Snotra. «Mi hai liberata da un incantesimo che mi
aveva allontanata da mio marito, condannandomi a non vederlo più se non
per Natale, finché qualcuno non fosse stato in grado di dirmi dove me ne
andavo durante le feste. Sei stato l’unico a riuscirci, perciò ti lascio in dono
tutta la mia tenuta e le mie greggi: sarai un uomo molto fortunato.» Dopo di
che scomparve e non la si vide mai più, ma da allora la fattoria porta il suo
nome, Snotrunes.
30. Borghildur di Álfaborg
Dalle rive del Borgarfjörður si apre verso l’interno una valle ampia e verdeggiante,
costellata da fattorie e circondata da montagne multicolori di basalto nero e riolite.
Nelle pianure intorno al villaggio di Bakkagerði si trova una collina rocciosa nota
con il nome di Borg, o Álfaborg, la «Rupe degli elfi», ritenuta una delle più grandi
dimore del popolo nascosto d’Islanda. Negli anni sono in molti ad aver visto questi
esseri aggraziati. Un tempo si riteneva che frequentassero la chiesa nella Kækjudalur
– una valle stretta dove si trova un’enorme roccia dalla forma di un edificio chiamata
Kirkjusteinn, «Roccia della chiesa» – e che vi arrivassero a cavallo in compagnia. I
racconti sul popolo nascosto del Borgarfjörður sono particolarmente fantasiosi.
C’era una volta un contadino che viveva a Jökulsá, la fattoria più vicina ad
Álfaborg, e aveva una domestica di nome Guðrún. Una domenica tutti i
famigli andarono a messa a Desjarmýri tranne Guðrún, perché la padrona le
aveva ordinato di radunare le pecore e mungerle, e poi scremare il latte e
preparare il burro. Così gli altri lavoranti andarono in chiesa mentre la
ragazza si occupava degli ovini. Quando ebbe munto tutte le pecore, le lasciò
uscire sui banchi sabbiosi lungo la costa sotto la fattoria e si mise a preparare
la cena, poi, dopo aver sbrigato tutte le incombenze domestiche, uscì sull’aia
per controllare il gregge e dare un’occhiata in giro. In quel momento vide una
moltitudine di persone cavalcare lungo i sentieri sotto il podere: indossavano
abiti dai colori vivaci ed erano in sella a eleganti destrieri vigorosi. Guðrún
rimase sorpresa dalla scena, anche perché, chiunque fossero, avrebbero già
dovuto essere in chiesa da tempo. La brigata a cavallo passò oltre, tranne una
donna che risalì il podere e raggiunse la fattoria.
Era piuttosto anziana, ma di bell’aspetto e con un portamento nobile. Salutò
Guðrún e le disse: «Dammi del latticello da bere, ragazza mia.» Guðrún corse
dentro, riempì una brocca di legno con del siero di latte e gliela portò. La
donna la prese e bevve. Quando alzò la testa dalla brocca, Guðrún le chiese:
«Come vi chiamate?» Ma la donna non rispose e bevve un altro sorso. La
domestica ripeté la domanda, ma la donna la ignorò di nuovo e bevve ancora.
Quando ebbe scolato la brocca e richiuso il coperchio, Guðrún la vide infilare
una mano nel corpetto ed estrarre un bellissimo fazzoletto di lino, che pose
sul coperchio della brocca prima di restituirla e ringraziare. Allora per la terza
volta Guðrún le chiese: «Come vi chiamate?» «Mi chiamo Borghildur, cara
curiosa», rispose la donna spronando il cavallo, e poi partì al galoppo per
raggiungere il resto della comitiva. La domestica rimase a guardarli e l’ultima
cosa che vide fu il gruppo che spariva dietro una roccia grigia oltre
Kollatungur, verso il sentiero per la valle Kækjudalur.
Giunta la sera, i lavoranti della fattoria rientrarono dalla chiesa e Guðrún
raccontò loro quello che le era accaduto e mostrò il fazzoletto che la donna le
aveva donato. Era di una fattura così pregiata che nessuno poteva dire di aver
mai visto una stoffa tanto fine, e si dice che in seguito sia stato tramandato
come un cimelio tra le nobili donne islandesi. I cavalieri che la domestica
aveva visto dovevano essere gli elfi di Álfaborg, diretti verso la chiesa di
Kirkjusteinn, nella Kækjudalur.
31. Il serpente del Lagarfljót
Nei pressi di Egilsstaðir il fiume Lagarfljót si amplia a formare il terzo lago d’Islanda
in ordine di ampiezza. A causa dei sedimenti glaciali l’acqua del lago è di un torbido
color marrone e raramente congela d’inverno, poiché in vari punti salgono dal fondo
dei gas naturali. Le acque fosche e la notevole profondità hanno sempre conferito al
lago un’aria di mistero su cui sono proliferate le leggende popolari. Secondo il
folklore locale, nelle acque del Lagarfljót vive un temuto mostro dalla forma di
serpente che è stato avvistato da molte persone nel corso dei secoli e di cui gli antichi
annali contengono numerosi riferimenti. Vedere uno o più gibbi emergere dell’acqua
era ritenuto di cattivo auspicio, tuttavia il serpente non ha mai causato danni, perché
si dice sia stato incatenato al fondo del lago molto tempo fa. Altri sostengono che ciò
che talvolta affiora in superficie non sia altro che legname, ma il lago è così ampio e
profondo che potrebbe anche nascondere misteri di cui ignoriamo la natura.
Una volta molto tempo fa nel distretto di Hérað, presso il lago Lagarfljót,
viveva una donna che aveva una figlia adulta a cui diede in dono un anello
d’oro. Quando la figlia le chiese come poter trarre il massimo beneficio da
quell’oro, la madre disse di infilarlo sotto un serpente di brughiera. Allora la
ragazza catturò un serpente di brughiera e lo chiuse nel suo baule dei lini
insieme all’anello, che aveva sistemato sul fondo. Dopo diversi giorni andò a
controllare, ma il rettile era diventato talmente grande che il baule si era
imbarcato e stava per cedere. Spaventata, la ragazza lo prese e lo buttò nel
fiume, con il serpente e tutto il resto.
Molto tempo dopo il serpente cominciò a farsi notare nel lago, uccidendo
chiunque si avventurasse in quelle acque, che fossero uomini o animali. A
volte si stendeva sulle rive e sputava un terribile veleno. Gli abitanti del
distretto erano molto preoccupati, ma nessuno sapeva come risolvere la
faccenda, finché non furono convocati in Islanda due finnici esperti nel
campo, con l’incarico di uccidere il serpente e recuperare l’oro.
I due finnici si tuffarono nel lago per riemergere poco dopo dicendo che la
situazione non era semplice, perché si trattava di un serpente dalla forza
insuperabile e non era possibile ucciderlo, né recuperare l’oro. Riferirono
inoltre che a covare l’oro c’era anche un secondo serpente, ancora meno
trattabile del primo. Ma si tuffarono di nuovo, e poi ancora e ancora, finché
non riuscirono a legare il rettile in due punti, annodandogli una corda dietro
le pinne laterali e una seconda poco sopra la coda. Da quel momento il
serpente non è più riuscito a uccidere né uomini né bestie, ma talvolta inarca
la groppa, che spunta fuori dall’acqua in un gibbo: in genere vederlo è
ritenuto di cattivo auspicio.
32. La trollessa di Prestagil
La costa orientale dell’Islanda è incisa da numerosi fiordi, il più ampio dei quali è il
Reyðarfjörður, citato fin all’inizio della storia islandese perché pare sia qui che il
navigatore Naddoður approdò nella metà del IX secolo, dopo aver perso la rotta nel
suo viaggio dalla Norvegia alle Isole Fær Øer. Si sostiene che sia stato il primo
norvegese a mettere piede in Islanda: comprendendo di aver raggiunto un’isola
prima sconosciuta, la chiamò Snæland, «Terra delle nevi», e inviò alcuni dei suoi
uomini sulla sommità del monte Reyðarfjall per avvistare eventuali tracce di
insediamenti umani, ma non trovandone, salpò subito.
Il fiordo si biforca nella sua parte più interna, all’altezza di Hólmanes. Qui si trovava
l’antica chiesa di Hólmar, a cui era assegnato un sacerdote stabile e che per secoli fu
considerata uno dei migliori benefici ecclesiastici d’Islanda, per le ottime risorse di
cui disponeva e per le isolette di proprietà al largo della costa. Oggi rimane ben poco
delle glorie passate di Hólmar, che però è teatro di una famosa leggenda popolare
sulla scomparsa della figlia del reverendo, che pare fosse stata stregata dal padrone
di Skrúður, una delle isole al largo del fiordo. Questo isolotto roccioso non conobbe
mai un insediamento fisso, ma gli abitanti del fiordo vi andavano spesso per catturare
uccelli, raccogliere uova e portarvi le greggi a pascolare. Se qualche capo di
bestiame non sopravviveva, la morte era di solito attribuita al padrone di Skrúður,
che teneva per sé le pecore migliori. Ma quando sparì la figlia del reverendo di
Hólmar la faccenda si fece molto più seria.
17 Le Andra rímur, o Rímur af Andra jarli («Ballate dello jarl Andri»), dedicate al
personaggio di una «saga dei cavalieri», furono composte nel XV secolo e si sono
tramandate in numerose varianti. (N.d.T.)
Dalla vasta calotta glaciale del Vatnajökull e dalle sue lingue che scendono verso le
pianure si riversano a valle molti fiumi tumultuosi e di grande portata, tanto che la
zona immediatamente a sud del ghiacciaio consiste in maggior parte di vaste distese
di sabbia alluvionale. Qui la densità di popolazione è ovviamente scarsa, in
particolare nel distretto di Öræfasveit, le cui comunità erano un tempo isolate dal
resto del mondo e anche l’una dall’altra per via dei rovinosi fiumi glaciali. Con lo
sviluppo della rete stradale le cose sono cambiate e nel 1974 è stato costruito l’ultimo
ponte, sul fiume Skeiðará, per completare l’anello della statale n. 1. In queste
comunità si sono conservati numerosi racconti e leggende, come quella del reverendo
di Einholt, nei Mýrar, che nel XVIII secolo fu soggetto a varie prove e tribolazioni di
origine soprannaturale: per fortuna nella sua fattoria vivevano donne che sapevano
come risolvere certe situazioni.
Tradizione vuole che molto tempo fa i ghiacciai islandesi fossero più piccoli di quanto
lo siano oggi, e che in mezzo al Vatnajökull passasse un sentiero che si snodava lungo
una valle attraverso gli altipiani interni. Si dice per esempio che il contadino di
Möðrudalur, una fattoria a nord del ghiacciaio, avesse il diritto di far legna a
Skaftafell, che dista centosettanta chilometri in linea d’aria ma il doppio se si segue
la strada statale n. 1, mentre il contadino di Skaftafell poteva usufruire dei pascoli di
Möðrudalur. Esistono inoltre storie sul fatto che il guardiano delle greggi di
Möðrudalur avesse un letto tutto suo nel casale di Skaftafell, e che il pastore di
Skaftafell avesse un suo posto letto a Möðrudalur, tanto erano frequenti i contatti tra
le due fattorie. A Skaftafell hanno vissuto molti personaggi leggendari, tra cui un
padre e un figlio famosi nel XVIII secolo per il loro ingegno e la loro abilità
artigianale. Pare che fabbricassero armi da utilizzare contro foche e orsi polari, e
che abbiano costruito un vascello a quattro ruote munito di vele procurandosi di volta
in volta i materiali dai relitti delle navi naufragate sullo Skeiðarársandur. Perfino il
famoso vascello olandese Het Wapen van Amsterdam, detto «la nave d’oro»,
proveniente dalle Indie Orientali con un carico di preziosi e affondato su queste coste
nel 1667, sembra aver contribuito parecchio alla loro impresa. Si tramandano
numerose altre leggende sulla perizia e l’abilità straordinarie degli abitanti di
Skaftafell: i suoi contadini, per esempio, avevano fama di mantenere buoni rapporti
con le trollesse dei monti circostanti.
Sotto il ghiacciaio Mýrdalsjökull si trova il vulcano Katla, che nel corso della storia
islandese ha eruttato spesso causando enormi alluvioni e depositando detriti dove un
tempo c’era il mare. I deserti di sabbia alluvionali si estendono su un’area di
settecento chilometri quadrati e sono per lo più brulli, a parte una piccola sezione a
est. Secondo le fonti medievali, all’epoca della Colonizzazione la regione era coperta
da boschi e da una ricca vegetazione e vi si contavano numerosi insediamenti, come
testimoniano toponimi quali Dynskógar («Boschi rumorosi») e Laufskáli («Rifugio
frondoso»). Si presume quindi che intorno al 900 d.C. il vulcano Katla fosse
quiescente da lungo tempo. Nonostante le eruzioni, gli insediamenti non sono del tutto
scomparsi dal Mýrdalssandur: Álftaver sopravvive come un’oasi nel deserto, con
varie fattorie e terreni di buona qualità, grazie a un grappolo di colline a nord che
hanno sempre deviato il corso delle alluvioni. Nel periodo precedente la Riforma a
Þykkvabær si trovava un monastero il cui primo abate fu Þorlákur Þorláksson, morto
nel 1193 e poi canonizzato. Ma una leggenda racconta di un ospite monastico molto
meno piacevole.
L’abate del monastero di Þykkvabær aveva assunto una massaia di nome
Katla che possedeva dei poteri soprannaturali e un paio di pantaloni di una
tale fattura che chiunque li indossasse era in grado di correre senza mai
stancarsi. Katla li utilizzava all’occorrenza ed erano in molti a temere il suo
temperamento e le sue arti magiche, non da ultimo l’abate stesso. Al
monastero lavorava anche un pastore di nome Barði, che spesso prendeva
delle violente lavate di capo da Katla se al ritorno dal raduno delle greggi
mancava qualche pecora.
Una volta l’abate fu invitato a un convito e la massaia lo accompagnò. Barði
avrebbe dovuto riportare a casa le pecore prima del loro ritorno, ma non
riuscendo a trovarle tutte, indossò i pantaloni di Katla e corse per ogni dove,
radunando anche gli ovini che mancavano. Quando Katla tornò a casa si rese
subito conto che Barði aveva usato i suoi pantaloni, così montò su tutte le
furie e senza farsi vedere prese il pastore e lo annegò in una botte di siero di
latte che per un’antica consuetudine veniva tenuta accanto alla porta
principale, poi lo lasciò lì a mollo. Nessuno capiva che fine avesse fatto il
pecoraio, ma con il passare dell’inverno, mentre il livello del siero si
abbassava a poco a poco, capitava che i famigli sentissero Katla mormorare
tra sé: «Presto Barði spunterà, presto Barði spunterà.» Un bel giorno rimase
così poco siero nella botte che Katla capì che la sua malvagità sarebbe stata
scoperta. Aspettandosi una severa punizione, infilò i pantaloni e si allontanò
di corsa dal monastero, raggiunse il ghiacciaio, si buttò in un crepaccio e non
si fece vedere mai più.
Poco tempo dopo dal ghiacciaio si riversò a valle un’alluvione che
sembrava dirigersi verso Álftaver e il monastero di Þykkvabær, così tutti
cominciarono a pensare che l’attività vulcanica e la conseguente inondazione
fossero dovuti ai poteri soprannaturali di Katla. Da allora il burrone nel
ghiacciaio ha preso il nome di Kötlugjá, «Crepaccio di Katla», e la terra
devastata dall’alluvione è detta di Kötlusandur, «Pianura alluvionale di
Katla», anche se oggi è più nota come Mýrdalssandur.
38. Jóka di Höfðabrekka e il reverendo di Hörgsland
Höfðabrekka è una vasta tenuta storica che fu spesso alloggio di sacerdoti e ufficiali
distrettuali. Nel XVII secolo vi dimorava una famiglia molto influente che pare
possedesse il famoso manoscritto dell’Edda poetica noto come Codex Regius,20 poi
inviato a Copenaghen e infine restituito all’Islanda nel 1971 insieme al Libro di
Flatey. Anticamente la chiesa e la fattoria si trovavano nella pianura sotto le rocce di
Höfðabrekkuhamar, ma nel 1660 una vasta eruzione del Katla provocò un’alluvione
glaciale che riversandosi a est distrusse gli edifici della fattoria, in seguito ricostruita
nella brughiera al di sopra delle pareti rocciose e poi ritrasferita in pianura solo nel
1964. L’alluvione glaciale del 1660 depositò così tanto materiale che la costa si
spostò in avanti di molti metri: si dice che dove al mattino c’erano venti braccia
d’acqua si trovò terra asciutta la sera. Anticamente la tenuta di Höfðabrekka era nota
anche per un famigerato spettro, il fantasma di Jóka, che ne era stata la fattoressa.
Molto tempo fa a Höfðabrekka viveva una donna di nome Jórunn che aveva
un temperamento violento e un carattere duro, ma per il resto non si era fatta
una cattiva reputazione. Nella tenuta viveva anche un uomo di nome
Þorsteinn, bello e di buon carattere, che si innamorò della figlia di Jórunn.
Alla donna la cosa non piaceva affatto; alcuni dicono che l’avrebbe voluto
per sé, ma Þorsteinn la trovava troppo vecchia. Accadde però che Þorsteinn
ebbe un bambino con la figlia di Jórunn, la quale per questo andò su tutte le
furie e dichiarò che i due non avrebbero mai potuto sposarsi. In molti
provarono a mettere una buona parola per Þorsteinn, ma peggiorarono solo le
cose e alla fine fu deciso che l’uomo se ne andasse da Höfðabrekka e non
avesse più niente a che fare con la madre di suo figlio.
A Höfðabrekka il bestiame veniva condotto ai pascoli estivi, dove avveniva
la mungitura e la preparazione del burro, e in genere era la figlia di Jórunn a
salire alla casera per occuparsene. Þorsteinn non riusciva a dimenticare la
madre del suo bambino e colse l’occasione per farle visita e portarle dei doni.
Qualcuno però andò a riferirlo a Jórunn esagerandone i particolari, così la
donna si arrabbiò a tal punto che giurò di vendicarsi di Þorsteinn anche dopo
la morte, se non vi fosse riuscita in vita, e in effetti l’intera faccenda la
condusse alla tomba.
In quel periodo il sacerdote di Hörgsland era Magnús Pétursson, a cui si
attribuivano capacità soprannaturali. Þorsteinn si rivolse a lui per chiedergli
consiglio e il reverendo gli suggerì di trasferirsi immediatamente alle isole
Vestmannaeyjar. Gli procurò una scorta per tutto il viaggio e gli raccomandò
di non tornare sulla terraferma prima che fossero passati vent’anni.
Dopo la morte di Jórunn, il suo spettro tornò a infestare la fattoria di
Höfðabrekka, dove veniva vista a occuparsi dei lavori domestici, distribuire il
cibo della dispensa e a volte mescolarvi zolle di terra. Per il resto non faceva
del male a nessuno e se ne andava in giro con il copricapo che le pendeva tra
le spalle, distinguendola così dalle altre donne.
Spesso la gente riferiva di averla vista in posti diversi. Una volta incontrò il
reverendo Magnús su un antico sentiero e si appoggiò a uno dei suoi cavalli;
allora pare che il reverendo le abbia detto: «Hai fatto del male a te stessa,
Jóka», e che lei abbia risposto: «Non me ne parlare, reverendo Mangi, da
morti è tardi per pentirsi», e subito dopo sia sparita, ma il cavallo a cui si era
appoggiata si ritrovò con un fianco rotto.
Un giorno due ragazze erano rimaste di veglia nell’ovile, sedute sulla panca
con una lanterna accesa. Una disse all’altra: «Come credi che reagiremmo se
Jóka di Höfðabrekka venisse a trovarci?» Ma in quello stesso istante la testa
di Jóka spuntò su dal bordo della panca, e poi la sua mano, e lo spettro disse:
«Già, come credete che reagireste?» E si attardò un attimo, per poi svanire
senza nuocere alle giovani.
Un’altra volta una barca stava facendo il suo consueto giro alle isole
Vestmannaeyjar e quando il capitano era sul punto di mollare gli ormeggi
uno della ciurma gli domandò: «Hai intenzione di portare anche il demonio
sulle isole?» Il capitano rispose di non averne nessuna intenzione e chiese al
marinaio che cosa volesse dire, al che l’uomo lo avvertì che Jóka era a bordo
con loro. Ma appena glielo sentì dire, Jóka lasciò la barca, senza che nessun
altro a parte quel marinaio avesse il tempo di vederla.
Þorsteinn era rimasto alle Vestmannaeyjar per diciannove anni, e non
riuscendo più a trovare pace decise di tornare sulla terraferma in primavera,
nel periodo dell’anno in cui molti islandesi erano soliti andare su quelle isole,
compreso il reverendo Magnús. Non appena Þorsteinn ebbe messo piede a
terra, comparve Jóka che lo afferrò e lo fece a pezzi. Il reverendo Magnús
arrivò proprio nel momento in cui Jóka stava completando l’opera, così la
donna gli disse: «Tardi arrivasti, benché forte galoppasti.» Il reverendo
replicò: «Su questo hai ragione, ma ti finirò per bene.» E cominciò con Jóka
un duello a suon di versi in cui non andò certo leggero; una sua quartina
diceva:
Nell’Hekla una forra brutta
sputa fuoco e spesso erutta;
ecco il tugurio in cui ti confino,
non avrai mai migliore destino.
Ben presto Jóka scomparve e nessuno la vide mai più.
20 Il Codex Regius dell’Edda poetica (Konungsbók Eddukvæða) è un manoscritto
composto da quarantacinque fogli di pergamena contenente una raccolta di carmi
eroici e mitologici. Si ritiene sia stato redatto nella seconda metà del XIII secolo e fu
scoperto nel 1643 dal vescovo Brynjólfur Sveinsson di Skálhólt, che lo donò al re
Federico III di Danimarca nel 1651. È stato rimpatriato in Islanda nel 1971 insieme al
Flateyjarbók. (N.d.T.)
39. Il costruttore di chiese di Reynir
Skógafoss, la «Cascata dei boschi», è una delle cascate più belle d’Islanda, intorno
alla quale è sorta una piccola comunità a partire dal 1949, anno in cui vi fu fondata
una scuola. Oggi vanta anche un ottimo Museo del Folklore,21 che comprende alcuni
antichi edifici ristrutturati in loco e una chiesa del XIX secolo. In anni recenti le
pendici sopra la scuola sono state riforestate, così che Skógar rende ancora una volta
onore al nome che porta, ma dei boschi che qui crescevano in origine non è rimasto
niente, a parte gli alberi di Viðarhólmi. Il primo abitante di Skógar fu il ricco Þrasi
Þórólfsson, di cui parla questa famosa leggenda.
Þrasi di Skógar era un uomo molto agiato. In età avanzata, quando sentì che
la morte si stava avvicinando, si mise a pensare alle proprie ricchezze e
decise che preferiva non venissero suddivise, perciò riempì un baule di
denaro e oggetti preziosi e lo seppellì nel profondo specchio d’acqua che si
forma sotto la cascata Skógafoss. Lì il baule è rimasto, secolo dopo secolo, e
per molto tempo una sua fiancata è stata ben visibile oltre la cortina d’acqua
della cascata. Nel corso del tempo in molti hanno tentato di prenderlo, ma
nessuno ha avuto successo. Una volta tuttavia poco ci mancò, perché alcuni
ardimentosi riuscirono a far passare una corda attraverso la maniglia laterale,
che era a forma di anello, e si misero a tirare. In un primo momento andò
tutto bene, ma a un tratto le viti che assicuravano la maniglia alla fiancata
cedettero e il baule svanì in profondità. L’unica cosa che rimase a quegli
uomini fu l’anello della maniglia, e se lo portarono a casa.
Un tempo Skógar aveva una chiesa, e così si decise di fissare quella
pregevole maniglia alla sua porta come battente. Quando la cappella fu
sconsacrata nel 1890, la maniglia finì a Eyvindarhólar e fu di nuovo
inchiodata alla porta della chiesa, dove stava particolarmente bene. Dopo la
demolizione della vecchia casa di culto di Eyvindarhólar nel 1960, la
maniglia, anziché essere utilizzata per il portone del nuovo edificio, fu
affidata al Museo del Folklore di Skógar perché vi fosse conservata. Ancora
oggi è lì esposta al pubblico ed è considerata uno degli oggetti più
interessanti della collezione.
Probabilmente non vale la pena immergersi sotto la cascata Skógafoss per
cercare il leggendario baule d’oro di Þrasi, di cui non è poi così certa
l’esistenza, tuttavia questo racconto potrebbe avere un nocciolo di verità,
come testimonia un’antica strofa tramandata di generazione in generazione:
Una cassa zeppa d’oro
sta lì a Skógar, alle cascate.
Chi la prenderà per primo
otterrà soldi a palate.
21 Lo Skógasafn è stato fondato nel 1949 da Þórður Tómasson, che ne è stato il
curatore fino al 2013. Il museo raccoglie manufatti e articoli d’uso regionali e vi si
possono ammirare alcuni edifici antichi ristrutturati. (N.d.T.)
42. Una, l’elfa di Rauðafell
Nella fattoria di Rauðafell, a est del distretto di Eyjafjöll, si stabilì all’epoca della
Colonizzazione Hrafn lo Sciocco, discendente di quel Sæmundur il Saggio che ha
assunto uno stato quasi leggendario nel folklore islandese. Sempre Rauðafell è legata
a una delle leggende più popolari: la storia di Gilitrutt. Alcuni dicono che fosse una
trollessa, per altri era un’elfa. Sopra la fattoria si trova un’altura chiamata Álfahóll,
«Collina degli elfi», che si suppone fosse la sua dimora.
C’era un tempo un contadino energico e molto laborioso che viveva nell’est,
alle pendici degli Eyjafjöll. Si era però sposato con una giovane donna
infingarda e oziosa che si occupava poco delle faccende della fattoria. Al
contadino la cosa non piaceva affatto, ma non sapeva cosa fare. Un autunno
le portò una grande quantità di lana e le chiese di farne del tessuto. Lei
accettò senza entusiasmo, ma l’inverno arrivò senza che si decidesse a
toccare la lana.
Un giorno le si presentò una vecchia imponente che le chiese un favore.
Prontamente la moglie del contadino le chiese di rimando se fosse disposta a
fare qualcosa per lei in cambio. La vecchia le domandò che cosa, e quando la
giovane le spiegò che doveva tessere della lana, quella accettò. La moglie del
contadino le porse dunque un grande sacco pieno di lana, la vecchia se lo
caricò sulla schiena e disse che sarebbe tornata con il tessuto fatto e finito il
primo giorno d’estate. «Ma tu che vuoi in cambio?» le chiese allora la
giovane. «Una cosa da poco», rispose la vecchia. «Se indovini il mio nome in
tre tentativi saremo pari.» La donna accettò e la vecchia se ne andò con la
lana. Durante l’inverno il contadino chiese spesso alla moglie dove fosse la
lana, ma lei ogni volta gli rispondeva di non impicciarsi perché avrebbe avuto
il suo tessuto il primo giorno d’estate. Il contadino non si lasciò
impressionare, e il tempo passò.
La donna cominciò a pensare al nome della vecchia, ma non trovando il
modo per scoprirlo si incupì sempre più. Il marito si accorse che era cambiata
e insisté perché gli dicesse che cosa la rendeva tanto infelice, così andò che la
giovane gli raccontò tutta la storia. L’uomo ne fu atterrito e pensò che la
vecchia doveva essere una trollessa che si sarebbe presa sua moglie e
l’avrebbe portata via con sé.
Qualche tempo dopo stava camminando pensieroso e infelice sotto i monti
quando raggiunse una collina pietrosa e sentì come dei colpi all’interno. Si
avvicinò e notò una fessura. Sbirciando dentro vide una donna corpulenta
seduta a tessere con zelo su un telaio che teneva tra le gambe, mentre
canticchiava:
Eh eh, ah ah;
la massaia il mio nome non sa.
È Gilitrutt, è Gilitrutt
eh eh, ah ah.
Il contadino si rallegrò, certo che fosse la vecchia che aveva incontrato sua
moglie, così tornò a casa tutto contento e scrisse su un biglietto il nome
Gilitrutt. Il tempo passò e arrivò anche l’ultimo giorno d’inverno: la donna
era così angosciata e abbattuta che non si alzò nemmeno dal letto. Il marito le
si avvicinò e le chiese se sapeva il nome della vecchia che l’aveva aiutata, ma
lei disse di no, convinta che sarebbe stata la sua fine. A quel punto il
contadino la rincuorò, le raccontò tutta la storia e le consegnò il biglietto con
il nome. La donna lo prese tremante di paura, perché temeva che fosse il
nome sbagliato, e chiese al marito di starle accanto quando fosse arrivata la
vecchia, ma lui si rifiutò dicendo che l’accordo per la lana l’aveva concluso
lei, perciò era lei a dover pagare il fio.
Il mattino del primo giorno d’estate, mentre era ancora a letto da sola e in
casa non c’era nessun altro, la donna sentì un grande frastuono e un rumore di
passi pesanti e vide entrare la vecchia con un’espressione tutt’altro che
benevola, che le svolse davanti un’enorme pezza di tessuto di lana e le chiese:
«Allora, allora, come mi chiamo, come mi chiamo?»
La donna era più morta che viva dalla paura, ma sussurrò:
«Ása?»
«Riprovaci, riprovaci, massaia!» disse la vecchia.
«Signý?» sospirò allora la donna.
«Ritenta, ritenta, massaia!»
A quel punto la donna si fece coraggio e disse:
«Non ti chiamerai Gilitrutt?»
La vecchia rimase talmente di stucco che cadde lunga distesa per terra con
un grande tonfo, poi si rialzò, girò sui tacchi e se ne andò senza farsi più
vedere. Dopo quel giorno la moglie del contadino cambiò completamente:
diventò una massaia operosa e disciplinata e lavorò da sola tutta la sua lana.
44. Lo spettro marino di Hvammsnúpur
La Herjólfsdalur è una valle pittoresca a ovest della cittadina di Heimaey, sulle isole
Vestmannaeyjar, e deve il proprio nome al primo colonizzatore delle isole, un certo
Herjólfur, che vi si stabilì. Nel 1874, quando si celebrarono i mille anni della
colonizzazione dell’Islanda e la costituzione ottenuta dal re di Danimarca, gli abitanti
delle Vestmannaeyjar tennero qui le loro celebrazioni. I festeggiamenti si ripeterono
nel 1900 e da allora ogni anno, nel primo fine settimana di agosto, sulle isole si tiene
un festival durante il quale la Herjólfsdalur viene addobbata e illuminata. All’interno
della valle si trova un piccolo laghetto formato da una sorgente, Lindin, che era
ritenuta la migliore di tutto questo piccolo arcipelago.
Una volta, tanto tempo fa, un uomo di nome Herjólfur si stabilì in una valle
delle Vestmannaeyjar che da allora è chiamata Herjólfsdalur. Era l’unico
degli isolani a poter vantare una buona sorgente nei pressi della propria
fattoria, perciò accadeva spesso che la gente andasse a chiedergli dell’acqua,
che lui non voleva concedere se non dietro pagamento. Herjólfur aveva una
figlia di nome Vilborg che mostrava un carattere molto diverso da quello del
padre: se lui era un osso duro quando contrattava con i vicini per la vendita
dell’acqua, la giovane usciva spesso di nascosto per regalarla a tutti.
Una volta accadde che mentre Vilborg stava fuori dalla fattoria a riparare un
paio di scarpe, un corvo le si avvicinò, le prese una scarpa e volò via
portandola con sé. Alla ragazza dispiaceva perdere quella calzatura e così si
mise a inseguire l’uccello. Ma si era da poco allontanata da casa quando dal
monte scese una spaventosa slavina che investì la fattoria e uccise suo padre.
Così Vilborg ebbe salva la vita grazie a quel corvo, con il quale era sempre
stata molto generosa.
Dopo la slavina, la figlia di Herjólfur non volle più vivere nella vecchia
fattoria e la leggenda narra che si sia costruita un nuovo casale, chiamato
Vilborgastaðir. Pare che avesse dichiarato che un laghetto a sud della sua
tenuta dovesse chiamarsi Vilpa, e che l’acqua di Vilpa non dovesse mai
nuocere a nessuno, anche se non sempre aveva un aspetto salubre. Si dice che
Vilborg sia sepolta a ovest di Vilborgastaðir, in un posto che tuttora porta il
nome di Borguleiði, «Tomba di Borga».
Nella Herjólfsdalur, sopra il mucchio di rocce che investirono la fattoria, c’è
ancora una sorgente d’acqua limpida che non si prosciuga mai, nemmeno
quando altrove sull’isola l’acqua scarseggia. Dev’essere la stessa da cui
anticamente Herjólfur vendeva l’acqua, mentre la sua gentile figlia la
regalava ogni volta che poteva.
48. Sæmundur il Saggio e il diavolo
Chi percorre la regione meridionale dell’Islanda non potrà fare a meno di notare il
monte Hekla, il più bel vulcano del Paese, nonché il più famoso. A partire dalla
Colonizzazione, l’Hekla ha mostrato attività eruttiva con una media di due volte ogni
cento anni, tranne nel XX secolo in cui ha eruttato ben sei volte. In passato si riteneva
che le eruzioni dell’Hekla presagissero eventi importanti, come guerre o la morte di
qualche re o imperatore.
Nei pressi del vulcano sorge la fattoria di Næfurholt, la più interna nella regione di
Rangárvellir. Nelle vicinanze si trova una collina molto pittoresca, dalle pendici
ripide, chiamata Bjófell, mentre a nord di Næfurholt, sopra le aree abitate, si apre un
vasto burrone chiamato Trollkonugil, «Burrone della trollessa». A ovest del fiume
Þjórsá, ancora più verso l’entroterra rispetto al Bjófell, si erge un monte a tavola,
chiamato Búrfell. Addentrandosi ulteriormente si raggiunge il deserto di sabbia e
pomice prodotto dalle eruzioni dell’Hekla: è il territorio della trollessa di Búrfell.
C’erano una volta due trollesse che vivevano l’una nel monte Búrfell e l’altra
nel Bjófell. La trollessa del Búrfell faceva spesso visita alla sorella,
spostandosi verso est sui fiumi Þjórsá e Rangá fino a raggiungere il Bjófell, e
probabilmente anche la sorella andava a volte verso ovest fino al Búrfell per
contraccambiare le visite. Il Búrfell è molto roccioso e ha pareti ripide su
ogni lato; a est, sotto la metà del monte, ci sono due rocce, non molto alte,
una su ciascuna sponda del Þjórsá, mentre altre due rocce, circa della stessa
altezza, spuntano fuori dall’acqua provocando una cascata che si divide in tre
getti. Pare che le rocce siano state collocate lì dalla trollessa di Búrfell, per
permetterle di attraversare il fiume con tre balzi senza bagnarsi i piedi. Il
punto in cui si trovano le rocce si chiama Tröllkonuhlaup, il «Salto della
trollessa».
Kjallakatungur è il nome di una zona di dune sabbiose e chiazze di
vegetazione che si apre tra i fiumi Þjórsá e Rangá. In tempi antichi chi
viaggiava verso i pascoli degli altipiani interni era costretto a passare da qui.
Nella Landsveit c’è una fattoria che si chiama Botnar, o Lækjarbotnar, e
all’epoca in cui si svolge questa storia vi abitava un contadino di nome
Gissur. Un giorno Gissur raggiunse a cavallo i pascoli montani per andare a
pescare nel fiume, e quando gli parve di aver pescato tutto il pesce che il suo
cavallo era in grado di portare si avviò verso casa. Non si conoscono i
dettagli dei suoi spostamenti finché non raggiunse Kjallakatungur e si trovò
di fronte al Tröllkonuhlaup; a quel punto sentì una voce tuonare dal Búrfell:
«Sorella, prestami una pentola.»
«Che ci vuoi fare?» chiese una voce dal Bjófell.
«Ci voglio lessare un tale», risuonò la voce del Búrfell.
«Come si chiama?» fu la domanda dal Bjófell.
«Gissur di Botnar, Gissur di Lækjarbotnar», riecheggiò dal Búrfell.
In quel momento il fattore Gissur alzò lo sguardo verso il Búrfell e vide una
trollessa scendere strascicando i piedi dal pendio e dirigersi verso di lui.
Convinto che volesse davvero mettere in pratica le sue minacce, capì di non
poter perdere tempo e di dover correre a mettersi in salvo, così abbandonò il
cavallo da soma e frustò quello che montava, che era un destriero agile e di
prima qualità. Galoppò più veloce che poté senza mai guardarsi indietro,
benché sentisse la trollessa ansimare alle sue spalle e fosse certo che lo stava
raggiungendo. Cavalcò dritto attraverso Land con la trollessa alle calcagna,
ma a quel punto fortuna volle che la gente della fattoria di Klofi li vide
passare e prontamente corse a suonare tutte le campane, proprio mentre
Gissur entrava nel loro podere. Non essendo riuscita a catturarlo, la trollessa
gli lanciò l’ascia dietro, così che quando Gissur raggiunse l’aia il suo cavallo
stramazzò a terra morto, con la lama piantata nei lombi. Gissur ringraziò Dio
di tutto cuore per aver avuto salva la vita.
Quanto alla trollessa, fu colta talmente di sorpresa da quello scampanio che
perse il senno e corse via all’impazzata, tanto che la videro passare da diverse
fattorie della regione. Senza fermarsi superò la sua dimora puntando verso
est, in direzione di un burrone, e fu lì che poi la trovarono, morta di
stanchezza. Da allora il dirupo ha preso il nome di Tröllkonugil, il «Burrone
della trollessa». Nessuno ha mai sentito dire che sua sorella di Bjófell abbia
minacciato gli abitanti del circondario, e del resto, dopo questo episodio, di
lei si è saputo ben poco. Alcuni raccontano che si sia trasferita a Tröllkonugil,
perché non voleva più vivere così vicino alle aree abitate dagli umani.
50. La verde valle dentro il ghiacciaio
Tra due grandi fiumi, il Þjórsá e il Hvítá, si trova il distretto rurale di Hreppar. Molti
visitatori attraversano la regione, che vanta diversi siti interessanti e spettacolari,
come Gullfoss e Geysir. Nelle vicinanze del villaggio di Flúðir si trova Hruni, che un
tempo era una tenuta di prestigio in cui prestarono servizio sacerdoti di rilievo. Ed è
proprio un sacerdote, benché di fama poco onorevole, il protagonista di una famosa
leggenda che spiega come mai la chiesa, che un tempo si trovava sulla sommità della
collina sovrastante la fattoria, sia stata spostata in basso, nella pianura circostante.
C’era un tempo a Hruni un sacerdote che amava le feste e i divertimenti. Era
sua consuetudine non celebrare alcun rito sacro la sera della vigilia di Natale
e allestire invece una festa per i parrocchiani, con danze, bevute, giochi e altri
intrattenimenti disdicevoli fin nel cuore della notte. La madre del reverendo,
che si chiamava Una, viveva con lui a Hruni e disapprovando tale condotta
gli esprimeva spesso il suo malcontento, ma il reverendo non le badava e
continuò a fare a modo suo per molti anni.
Ci fu una volta in cui, durante la notte di Natale, il sacerdote si attardò più a
lungo del solito a ballare in chiesa. Così la madre, che era preveggente e
sensitiva, lo raggiunse nella casa del Signore dicendogli di smetterla e di
pensare a celebrare la messa. Ma il sacerdote le rispose che c’era ancora
tempo: «Ancora un giro, madre, ancora un giro», e la musica proseguì. Al che
Una andò a casa, ma essendo molto scontenta tornò in chiesa una seconda
volta, e poi una terza, ripetendo al figlio di pensare a Dio e di smetterla con
quei bagordi prima che la situazione gli sfuggisse di mano. Il reverendo le
diede però la medesima risposta: «Ancora un giro, madre, ancora un giro», e
la musica proseguì. Una dovette uscire di nuovo ma mentre percorreva la
navata per la terza volta sentì recitare una strofa che la impressionò:
C’è baldoria stasera a Hruni,
che la folla vi si raduni!
La musica che risuonerà
nessuno la scorderà,
ma Una è sempre là
Una è ancora là.
Uscita dalla chiesa, Una vide qualcuno fuori dalla porta, un uomo che non
riconobbe ma che non le piacque affatto, ed era certa che fosse stato lui a
recitare la strofa. Di colpo sentì che la situazione era davvero degenerata,
perché quello doveva essere il diavolo in persona.
Allora montò a cavallo e si precipitò al galoppo dal sacerdote della chiesa
più vicina, gli raccontò tutta la storia e gli chiese di andare a liberare suo
figlio dal pericolo in cui si era cacciato, se mai fosse stato possibile. Il
sacerdote reagì prontamente, prese con sé un buon numero di parrocchiani e
partì per Hruni insieme a Una, ma era già troppo tardi. Quando arrivarono, la
chiesa, il reverendo e tutta la congregazione erano svaniti nelle viscere della
terra e se ne sentivano soltanto le urla e i gemiti.
Dopo questo episodio la nuova chiesa fu eretta ai piedi della collina, dove si
trova da allora, ma in cima all’altura di Hruni si notano ancora le tracce
dell’edificio che vi sorgeva un tempo. Tutti assicurano che in seguito non
sono mai più state allestite danze alla chiesa di Hruni nella notte di Natale.
53. Bergþór, il gigante di Bláfell
L’area geotermale di Geysir è uno dei luoghi più famosi d’Islanda. La sorgente che
ha dato il nome a tutti i geyser del mondo eruttava una colonna d’acqua calda alta
tra i quaranta e i sessanta metri, ma è rimasta quiescente per gran parte del XX
secolo, finché nel 2000, in seguito ad alcuni terremoti, ha ripreso una sporadica
attività a intervalli irregolari. Il vicino Strokkur invece erutta regolarmente una
colonna d’acqua alta dai venti ai trenta metri. Geysir fa parte di Haukadalur, un
insediamento di grande prestigio all’epoca dello Stato Libero d’Islanda (930-1262).
Nell’XI secolo vi venne fondata una famosa scuola, frequentata anche dal primo
storico islandese, Ari Þorgilsson il Saggio.22 Nei secoli successivi il podere di
Haukadalur fu soggetto a una forte erosione e quindi abbandonato, ma dal 1940 è di
proprietà del Corpo Forestale statale che ne cura il rimboschimento. La chiesa di
Haukadalur vanta vari interessanti possedimenti, come un antico battente ad anello, e
sorge vicino a una collinetta ovale chiamata Bergþórsleiði, «Tomba di Bergþór»,
legata a un’antica leggenda.
Nell’antica epoca pagana, al tempo della trollessa Hít, che ha dato il nome
alla valle Hítardalur, un gigante di nome Bergþór viveva in una grotta nel
monte Bláfell. Quando Hít diede una festa per tutti i troll del Paese e li invitò
a competere in vari giochi di forza da lei organizzati, Bergþór risultò più forte
di chiunque altro.
Bergþór non faceva del male a nessuno se lo si lasciava in pace, ma pare che
avesse poteri magici e doti di preveggenza. Una volta che l’Islanda fu
convertita al Cristianesimo, sua moglie Hrefna non fu più tanto contenta di
abitare a Bláfell perché da lì si vedeva la comunità cristiana. Ne era talmente
infastidita che voleva spostarsi a nord, oltre il fiume Hvítá. Bergþór non dava
peso alla cosa e insisteva per rimanere nella sua caverna, ma Hrefna non
cambiò idea, si spostò dall’altra parte del fiume e si stabilì sotto un monte, in
un luogo che da allora si chiama Hrefnubúðir, «Dimora di Hrefna», a nord
del lago Hvítárvatn. Da quel momento Bergþór e la moglie si incontravano
solamente al lago, quando entrambi andavano a pescare le trote.
Spesso Bergþór si spostava sulla costa meridionale, a Eyrarbakki, per
comprare la farina, soprattutto durante l’inverno, quando i laghi erano
ghiacciati, ed era solito tornare indietro con due botti piene. Una volta che
stava rincasando con il suo carico incontrò a Biskupstungur il contadino del
podere di Bergstaðir e gli chiese da bere. Poi si mise ad aspettarlo mentre il
fattore andava a prenderglielo. Adagiò le botti a terra e batté ripetutamente la
punta del suo bastone contro la roccia, scavandovi una nicchia. Il contadino
tornò con qualcosa da bere per Bergþór, che lo ringraziò e dopo essersi
dissetato gli disse di utilizzare la nicchia da lui creata nella roccia per
conservarvi il siero, che così non si sarebbe diluito né ghiacciato. Se il
contadino non gli avesse dato retta, avrebbe subito gravi perdite. E dopo
averlo salutato se ne andò.
Una volta, quand’era già avanti con gli anni, Bergþór incontrò il contadino
di Haukadalur e gli disse di volersi scegliere un luogo di sepoltura da dove
poter sentire le campane e il chiacchierio del ruscello. Gli chiese quindi di
portarlo nel suo podere una volta morto. In cambio di quel favore avrebbe
avuto l’intero contenuto del calderone che Bergþór teneva accanto al letto. Il
contadino avrebbe appreso della sua morte quando il suo bastone fosse
apparso sulla soglia della fattoria.
Una mattina, molto, molto tempo dopo, qualcuno in visita alla fattoria di
Haukadalur trovò un enorme bastone da passeggio accanto alla porta. Il
contadino capì che era il bastone di Bergþór di Bláfell e non si dilungò in
spiegazioni: fece costruire una bara e si preparò per andare a Bláfell con una
squadra di uomini. Non si sa altro del loro viaggio finché non raggiunsero la
grotta di Bergþór, a nord, dove trovarono il troll steso nel suo letto, senza
vita. Lo deposero allora nella bara e furono stupiti di trovarlo tanto leggero
vista la stazza.
Il contadino notò un grande calderone accanto al letto e vi guardò subito
dentro per sapere cosa contenesse, ma tutto quello che vide furono delle
foglie secche e così, convinto che Bergþór l’avesse ingannato, non si
preoccupò di prenderlo e portarselo a casa, mentre uno dei suoi compagni
riempì i guanti con le foglie. Poi trasportarono il corpo di Bergþór fuori dalla
caverna e una volta scesi dal monte scoprirono che i guanti erano pieni zeppi
di monete. Allora vollero tornare indietro, intenzionati a prendere il
calderone, ma per quanto cercassero non trovarono più la caverna, né nessun
altro da allora è più riuscito a trovarla. La compagnia dovette abbandonare la
ricerca e tornare a Haukadalur a mani vuote.
Il contadino fece seppellire Bergþór a nord del cimitero, in un luogo che
ancora oggi si chiama Bergþórsleiði, «Tomba di Bergþór». L’anello del
bastone pare sia diventato il battente della chiesa di Haukadalur, mentre la
punta venne utilizzata per farne del ferro. E qui finisce la storia di Bergþór, il
gigante di Bláfell.
22 Ari Þorgilsson (1067-1148) detto fróði, «il Saggio», fu uno storico e un cronista,
versato nella cultura storiografica classica come nella tradizione islandese. È l’autore
di Íslendingabók, il «Libro degli islandesi», in cui si racconta nel dettaglio la storia
della colonizzazione. (N.d.T.)
54. L’attraversamento del fiume Hvítá a Gullfoss
Gullfoss, al margine degli altipiani interni, è una delle cascate più spettacolari del
Paese, originata dal fiume Hvítá. Il nome, che significa «Cascata d’oro», pare si
riferisca alla rifrazione dei raggi del sole negli spruzzi d’acqua, che spesso formano
arcobaleni multipli. Tuttavia la leggenda attribuisce il nome a un tesoro d’oro e
oggetti preziosi gettato un tempo nella cascata da un ricco contadino dei dintorni.
Già alla fine del XIX secolo da Reykjavík si organizzavano gite a cavallo o a piedi per
ammirare Gullfoss, e gli investitori stranieri vi hanno sempre visto dei potenziali
profitti, tanto che all’inizio del XX secolo venne ceduta per centocinquant’anni a un
tale che prevedeva di sbarrare il corso del fiume per sfruttarne l’energia. La giovane
Sigríður, figlia di Tómas di Brattholt, ereditò la tenuta dai genitori e si oppose sempre
a ogni progetto per la costruzione di una centrale elettrica: grazie al suo impegno la
cascata è diventata di proprietà statale e la donna è stata definita la prima
ambientalista islandese, ovvero la prima persona a intraprendere una campagna per
tutelare una delle maggiori ricchezze dell’Islanda. Il fiume Hvítá è un ampio fiume
dalla corrente impetuosa, difficile da guadare, benché non manchino alcuni punti di
attraversamento utilizzati prima che fossero costruiti i viadotti. A monte rispetto a
Gullfoss il fiume precipita in rapide prima di ampliarsi appena sopra la cascata, e
benché non sembri questo il posto più indicato per attraversarlo, qualcuno si è
cimentato nell’impresa, come narra questa storia.
Alla fine del XVII secolo il figlio del contadino di Brattholt, una fattoria a
ovest del fiume Hvítá, era ancora un bambinetto e in quello stesso periodo
sulla sponda opposta cresceva la figlia del contadino di Hamarsholt,
pressoché sua coetanea. Durante l’estate entrambi si occupavano di badare
alle greggi, che portavano a pascolare ciascuno sul proprio versante del
fiume, sopra la cascata Gullfoss; cominciarono così a chiamarsi e a scambiare
qualche parola e con il tempo divennero amici, anche se non si erano mai
incontrati.
Anno dopo anno la loro amicizia crebbe sempre più fino a trasformarsi in un
profondo affetto reciproco e in una forte attrazione, tanto che quando i due
furono quasi adulti il ragazzo dichiarò il suo amore alla fanciulla e le chiese
di diventare sua moglie. La ragazza accettò di buon grado la proposta e gli
disse, forse più per celia che sul serio, che lui avrebbe potuto averla se avesse
attraversato il fiume per raggiungerla. Il ragazzo non se lo fece ripetere una
seconda volta e si buttò nel fiume impetuoso. Il letto era pietroso e in alcuni
punti molto più profondo che in altri, per cui dovette guadarlo con estrema
cautela e impiegò parecchio tempo, ma alla fine riuscì a raggiungere l’altra
sponda sano e salvo. La ragazza lo attendeva sulle spine, in preda alla paura e
all’aspettativa, sicuramente pentita di averlo spinto a rischiare la vita. Non è
quindi difficile immaginare che gli avesse riservato un’affettuosa
accoglienza, e una volta che lui risalì l’argine uscendo dalle acque tumultuose
di quel fiume glaciale, lei mantenne la promessa.
I due giovani che si dichiararono il loro amore sul fiume Hvítá più di tre
secoli orsono si chiamavano Þórður Guðbrandsson e Guðrún Þóroddsdóttir.
Si sposarono nel 1690 e vissero a lungo a Fjall, nel distretto di Skeiðar. Si
dice che fossero persone molto laboriose, e che ebbero figli e discendenti per
tante generazioni.
55. La chiesa sacra di Engilsvík
Selvogur si trova all’estremità occidentale delle basse distese pianeggianti della costa
sud. Oggi non è un posto ambito in cui vivere, perché non ci sono attracchi e
l’erosione e le tempeste di sabbia ne hanno distrutto la vegetazione, ma anticamente
la realtà era molto diversa: le fattorie producevano una grande quantità di fieno,
avevano ottimi pascoli e qualche area boscosa. Il problema dell’erosione sembra
essere sorto all’improvviso nel XVII secolo, causando ingenti danni nel giro di pochi
decenni. Nell’insediamento di Strönd, per esempio, in passato si contavano sette o
otto fattorie, gradualmente abbandonate fino a spopolare del tutto la zona nel 1696.
La chiesa però sopravvisse, perché il terreno su cui sorgeva non era deteriorato:
secondo la tradizione era stata costruita su suolo sacro e lì doveva rimanere,
nonostante le autorità politiche ed ecclesiastiche insistessero per trasferirla,
sostenendo che fosse ingiusto lasciare un edificio sacro in quelle distese desertiche.
La gente di Selvogur, ma anche molti altri islandesi, credono ancora nella sua
sacralità: chiunque si trovi in pericolo o in un momento di avversità rivolge una
preghiera alla chiesa di Strönd, offrendo un contributo o un dono votivo, e pare che
queste preghiere siano spesso esaudite.
Questa storia risale al XIII secolo, ai giorni del vescovo Árni Þorláksson di
Skálhólt, detto anche Staða-Árni. Il vescovo inviò degli uomini in Norvegia a
procurargli del legname per costruire una chiesa. Il viaggio andò per il meglio
finché sulla tratta di ritorno incapparono in una bufera e persero
l’orientamento, vagando a lungo in mare in balia della corrente. A un certo
punto cominciarono a scarseggiare le scorte di cibo e di acqua e tutto lasciava
intendere che rimanesse solo la morte ad attenderli. Erano uomini giovani e
forti a cui si profilava davanti una triste fine e non sapevano a quale
soluzione ricorrere per uscirne vivi. Quando sembrava ormai persa ogni
speranza, il capitano disse alla ciurma di raccogliersi sul ponte e pregare Dio
di poter raggiungere la terraferma sani e salvi, promettendo di costruire una
chiesa con il carico della nave se fossero stati tanto fortunati da scamparla. I
marinai ubbidirono e si misero a pregare fervidamente.
Non passò molto tempo che la bufera si placò e avvistarono terra a
Selvogur. Tuttavia, man mano che si avvicinavano a riva, parve loro sempre
più improbabile riuscire ad attraccare a causa della furia dei marosi. Allora si
apprestarono a invertire la rotta ma in quello stesso istante distinsero una
figura vestita di bianco sugli scogli, che tenendo in mano una croce luminosa
e splendente fece loro cenno di avvicinarsi. Gli uomini seguirono le sue
indicazioni e riuscirono ad approdare. Una volta sbarcati sani e salvi si
guardarono intorno per cercare la figura bianca che li aveva guidati, ma non
videro più nessuno. Si trovavano in una piccola baia a cui diedero il nome di
Engilsvík, «Baia dell’angelo», com’è chiamata ancora oggi. Gli uomini della
ciurma mantennero quanto avevano promesso: andarono a Skálhólt e
raccontarono tutta la storia al vescovo Árni, che permise loro di utilizzare il
legname portato dalla Norvegia per costruire una chiesa nel punto di approdo.
La chiesa di Selvogur si trova ancora lì da allora, anche se gli insediamenti
del distretto circostante sono stati abbandonati a poco a poco.
Fin da quando è stata fondata, la chiesa di Strönd ha sempre avuto una
reputazione speciale. Molti vi hanno pregato in tempi di dolore e malattia e
pare che ogni supplica sia stata esaudita, tanto che vi si è accumulato un
considerevole tesoro in forma di ex voto, tra cui un calice d’oro puro del XIV
secolo che è l’oggetto più antico e prezioso in possesso della chiesa. In
antichità si offrivano per lo più doni in natura, come il diritto di utilizzare il
legname nei boschi norvegesi, mentre in epoche più recenti le offerte sono in
genere in denaro e in doni votivi, e continuano a essere fatte, oggi come ieri.
Per questo motivo la chiesa di Strönd è tra le più ricche del Paese e ha
spesso fatto prestiti ad altre parrocchie per edificare le loro cappelle. Molti
che si trovano in visita o di passaggio nella zona vi si recano per la messa
della domenica, ma c’è anche chi compie una sorta di pellegrinaggio in
questo luogo tanto caro alla nazione, che nei secoli ha mantenuto intatta tutta
la propria sacralità.
56. Lo stregone reverendo di Vogsósar
La fattoria di Vogsósar, a est del lago Hlíðarvatn, rimane piuttosto distante dalle
altre fattorie della regione ma non è lontana dalla chiesa di Strönd. Molti chierici
famosi hanno prestato servizio in questa parrocchia prima che fosse abolita nel 1908;
il più leggendario è certamente il reverendo Eiríkur Magnússon, parroco di Selvogur
dal 1677 fino alla sua morte nel 1738, che pare avesse grandi poteri magici di cui si
serviva principalmente per giocare scherzi innocui, o magari per risolvere qualche
pena affettiva.
Il reverendo Eiríkur cominciò presto a praticare la magia, imparando gran
parte di ciò che sapeva da un vecchio libro che lui e i suoi compagni di studi
si erano procurati alla scuola di Skálhólt: il libro si chiamava Gráskinna e per
lungo tempo è rimasto su un tavolo dell’istituto. Una volta nominato pastore
di Vogsósar, Eiríkur si guadagnò in fretta la fama di avere poteri
soprannaturali, ma la voce giunse anche alle orecchie del vescovo, che ne fu
assai contrariato e volle convocare in udienza il reverendo. Quando Eiríkur
gli si presentò davanti, il vescovo gli mostrò la Gráskinna chiedendogli se
sapeva che cosa contenesse. Eiríkur prese il libro, lo sfogliò per qualche
istante e rispose: «Non ne conosco un solo carattere.» Il vescovo gli fece
giurare che quanto diceva fosse la verità, poi gli consentì di tornare a casa.
Qualche tempo dopo il reverendo rivelò in segreto ai suoi amici che
conosceva tutti i caratteri contenuti nel libro tranne, in effetti, uno solo.
Molti giovani si rivolgevano al reverendo Eiríkur chiedendogli di poter
apprendere la magia e lui li metteva alla prova in vari modi, per poi scegliere
come discepoli quelli che più gli piacevano. Una volta, a un ragazzo che lo
pregò di poter imparare da lui, il reverendo disse: «Rimani con me fino a
domenica, mi accompagnerai a Krýsuvík. A quel punto ti dirò se potrai
diventare mio allievo.» La domenica partirono al galoppo attraverso le
pianure di sabbia per raggiungere Krýsuvík, ma a un certo punto il reverendo
si fermò dicendo: «Ho dimenticato il libro a casa. Lo tengo sotto il cuscino.
Torna indietro a prenderlo, però bada di non aprirlo lungo la strada.» Il
ragazzo tornò indietro, prese il libro e percorse lo stesso tragitto per tornare
dal reverendo, ma non riuscì a trattenersi dall’aprire il libro e cominciare a
leggere. In un attimo si ritrovò circondato da demoni che gli chiedevano:
«Che devo fare? Che devo fare?» Il ragazzo non si perse d’animo e ordinò
loro: «Intrecciate la sabbia per farne una corda.» I demoni si sedettero
all’istante e cominciarono a intrecciare la sabbia, ma ovviamente si trattava di
un compito impossibile, così il ragazzo se ne liberò e raggiunse il reverendo
che lo aspettava sul campo di lava. Appena lo vide, Eiríkur prese il libro ed
esclamò: «L’hai aperto.» Ma il ragazzo negò, così proseguirono ed Eiríkur
celebrò la messa a Krýsuvík. Sulla via del ritorno, quando raggiunsero il
deserto sabbioso dove i demoni erano ancora alle prese con il loro compito, il
reverendo disse: «Sapevo che avevi aperto il libro, ragazzo mio, anche se me
l’hai negato. E hai preso la decisione più astuta, meriti che ti insegni
qualcosa.» E così il ragazzo venne preso a scuola dal reverendo Eiríkur.
Un altro giovane che chiedeva di essere istruito venne inviato dal reverendo
Eiríkur fino alla chiesa di Strönd a recuperare un paio di guanti che vi aveva
dimenticato. Il ragazzo andò a Strönd e trovò i guanti, ma quando fece per
prenderli vide che tutte le dita si muovevano e si spaventò. Corse quindi dal
sacerdote a riferirgli l’accaduto, al che il reverendo Eiríkur gli disse: «Torna a
casa, ragazzo mio, non posso insegnarti niente.»
Un giovane che doveva raggiungere gli alloggi stagionali dei pescatori si
fermò a Vogsósar per trascorrervi la notte, ma verso sera il reverendo Eiríkur
si accorse che era particolarmente triste e perciò lo prese da parte e gli chiese
che cosa lo angustiasse tanto. Sulle prime il giovane era restio a confidarsi,
ma alla fine si persuase e spiegò di essere stato lasciato dalla fidanzata poco
prima di partire. Chiese dunque un aiuto al reverendo, che però non si
dimostrò molto bendisposto e gli disse che la questione era piuttosto
complessa.
La sera Eiríkur fece coricare un uomo in ciascun letto mentre lui rimase
sveglio fino a notte fonda. A un certo punto bussarono alla porta e quando
Eiríkur andò ad aprire vide che si trattava di una ragazza vestita poveramente
e completamente bagnata, perché fuori pioveva a dirotto. La giovane salutò e
chiese alloggio per la notte perché era mezza morta di freddo, così il
sacerdote la invitò a entrare e le domandò perché mai fosse in giro a
quell’ora. La giovane raccontò che mentre si preparava per andare a letto le
era venuto in mente di uscire a controllare se il bucato fosse stato raccolto,
data la pioggia in arrivo, ma nel buio si era persa e non si era accorta di dove
stesse andando finché non si era ritrovata davanti alla porta della fattoria di
Vogsósar. Il reverendo Eiríkur le spiegò che sarebbe stato difficile darle una
sistemazione per la notte perché tutti i letti erano occupati, a meno che non
volesse condividere il giaciglio con quel giovane là, e indicò il viaggiatore
afflitto. La giovane disse che era disposta a farlo piuttosto che morire di
freddo e andò a distendersi accanto all’ospite notturno, in cui riconobbe
subito il fidanzato che aveva appena lasciato, così come lui riconobbe lei, e i
due trascorsero tutta la notte insieme trovandosi molto bene. Alla fine si
sposarono e vissero felici e contenti.
57. E il tritone se la rise
Vogar è una vivace comunità nella baia del Faxaflói che conta circa cinquecento
abitanti. Alla fine del XIX secolo l’insediamento cominciò a svilupparsi in un vero e
proprio villaggio, soprattutto dopo aver ottenuto la licenza di porto commerciale nel
1893. A sud di Vogar si trova Vogastapi, una ripida scogliera che si getta in mare.
Pare che da tempo immemorabile Vogastapi sia infestata dai fantasmi e nei secoli
passati molti vi si sono smarriti, perdendo la vita cadendo dalla scogliera oppure in
balia del freddo e delle intemperie. Perfino oggi gira voce che la zona sia frequentata
dai fantasmi: alcuni motociclisti che percorrevano la statale hanno visto un uomo
camminare portando la propria testa sotto braccio, e dei turisti se lo sono ritrovati in
macchina mentre viaggiavano soli di notte. Gli abitanti del distretto sbarcano il
lunario sfruttando le risorse del mare e sono considerati pescatori molto determinati
che non si scoraggiano facilmente. Ne è un esempio il contadino di Vogar che una
volta pescò un tritone all’amo, come narra la leggenda.
Nella regione della Suðurnes c’è un villaggio che si chiama Vogar, o
Kvíguvogar, come lo si definisce nel Landnámabók, il «Libro della
Colonizzazione». Una volta vi abitava un contadino che usciva spesso in
mare, perché ancora oggi al largo di Vogar si trovano le aree di pesca
migliori di tutta la regione meridionale. Un giorno come al solito il contadino
uscì con la sua barca a remi e non si sa quanto abbia pescato, ma si dice che
avesse preso all’amo qualcosa di molto pesante, che una volta issato fuori
dall’acqua scoprì avere forme umane. Così lo tirò a bordo. Vedendo che era
vivo gli chiese da dove venisse, al che la creatura rispose di essere un tritone
e di provenire dal fondo del mare, e spiegò di essere stato preso all’amo
mentre stava sistemando la ventola del comignolo della stufa di sua madre.
Poi chiese di poter tornare in acqua, ma il contadino rispose che era fuori
discussione e che da quel momento doveva rimanere con lui. Al che il tritone
non volle più parlargli.
Poco dopo il contadino tornò a terra portandolo con sé. Mentre tirava in
secca la barca il cane gli corse incontro e gli saltò addosso per fargli le feste,
ma il contadino reagì in malo modo e picchiò la povera bestiola, così il
tritone se la rise per la prima volta. Il contadino si avviò verso il suo podere,
ma lungo il tragitto inciampò in una zolla d’erba e cadde imprecando, così il
tritone se la rise per la seconda volta. Il contadino proseguì verso casa e sua
moglie gli venne incontro uscendo sulla porta per salutarlo con affetto.
L’uomo rispose calorosamente al saluto, al che il tritone se la rise per la terza
volta.
A quel punto il contadino chiese al tritone: «Per tre volte ti sei messo a
ridere, sarei proprio curioso di sapere perché ridi.» «Non te lo rivelerò»,
rispose il tritone, «se poi non mi riporterai dove mi hai pescato.» Il contadino
glielo promise, così il tritone disse: «La prima volta che ho riso è stato
quando hai picchiato il tuo cane, perché la povera bestiola era sinceramente
felice di vederti. La seconda volta ho riso perché hai imprecato contro una
zolla d’erba su cui sei inciampato, perché era piena di monete d’oro. E ho riso
ancora quando sei stato felice di vedere tua moglie, che invece è falsa e ti
tradisce. Bene, adesso devi mantenere la tua promessa e riportarmi al largo, ai
banchi di pesca dove mi hai trovato.»
Il contadino ribatté: «Due delle cose che hai detto, l’affetto del mio cane e la
fedeltà di mia moglie, non posso provarle qui su due piedi, ma posso
verificare quanto hai detto riguardo al tesoro nascosto nella zolla d’erba. Se è
vero, è probabile che anche le altre due cose lo siano e io manterrò la mia
promessa.» Così il contadino andò a scavare nella zolla dov’era inciampato e
vi trovò una gran quantità di monete d’oro. A quel punto mise in mare la
barca e portò il tritone nello stesso punto in cui l’aveva pescato. Ma prima
che lo lasciasse libero, il tritone disse: «Hai agito bene, facendomi tornare da
mia madre, e ti ricompenserò, se sai far uso di ciò che ricevi. Stammi bene,
contadino.» L’uomo lo lasciò scendere negli abissi e del tritone non si seppe
altro, ma la sua risata è commemorata in una filastrocca:
Memorando fu il momento
che il tritone sogghignò:
un tesoro pien d’argento
l’uomo a riva riportò,
poi baciò la bella sposa
che l’accolse ma insincera
e la bestia sua festosa
dalle botte fece nera.
Poco tempo dopo qualcuno riferì al contadino che in fondo al suo podere, in
riva al mare, c’erano sette mucche grigie. L’uomo corse subito sulla costa,
afferrando un bastone mentre usciva, poi si avvicinò alle vacche, che erano
irrequiete e nervose, e notò che tutte avevano una bolla tra le narici.
Comprendendo che era stato il tritone a mandargli delle mucche marine per
ringraziarlo di averlo riportato in mare, si rese conto che le avrebbe perse se
non avesse fatto scoppiare le bolle, così ne colpì sul muso una e riuscì a
prenderla, mentre tutte le altre corsero subito a tuffarsi in mare. La bestia
catturata si rivelò essere un’ottima mucca da latte, da cui discese una razza
che si diffuse in tutta l’Islanda, sempre di colore grigio, conosciuta come la
«razza marina». Il contadino diventò ricco e cambiò il nome della fattoria,
che volle chiamare Kvíguvogar, «Baia delle mucche».
Islanda Centrale
58. La fuga di Skúli per la Kaldidalur
23 Eyvindur Jónsson (1714-ca.1783) è stato uno dei fuorilegge più noti della storia
d’Islanda, ormai diventato leggenda. Esiliato per furto insieme alla moglie Halla
Jónsdóttir, si diede alla macchia vivendo per vent’anni negli altipiani interni del
Paese, dove ancora si conservano tracce, vere o presunte, dei loro nascondigli. A loro
è dedicato il famoso dramma del 1912 Fjalla-Eyvindur; Leikrit í fjörum þáttum
(«Fjalla-Eyvindur; dramma in quattro atti») di Jóhann Sigurjónsson, sul quale il
regista svedese Victor Sjöström basò l’omonimo film nel 1918. (N.d.T.)
60. Spettri e fuorilegge sulla Sprengisandur
La Sprengisandur è la più lunga tra le piste che tagliano gli altipiani dell’Islanda
centrale da nord a sud, nonché quella che raggiunge le altitudini maggiori. Era
battuta già nei primi secoli dopo la Colonizzazione, come dimostra la Saga di Njáll
che vi fa riferimento. Da Skriðufell nella Þjórsárdalur a sud, fino a Mýri nella
Bárðardalur a nord, la pista misurava circa duecentoquaranta chilometri ed era
estremamente difficoltosa, sia per gli uomini sia per i cavalli, soprattutto a causa
della mancanza di pascoli lungo il tragitto. Erano in pochi ad affrontare gli altipiani
lungo questo percorso, che si ritiene sia entrato in disuso già entro il 1700. A partire
dal XIX secolo si fecero alcuni tentativi per ripristinarlo, segnando tra l’altro il
sentiero con dei mucchi di pietre. Nel 1933 lo si percorse per la prima volta in
automobile e nel 1949, quando fu trovato un guado accessibile sul fiume Tungnaá, la
pista cominciò a vedere un regolare traffico di mezzi a motore, in particolare dopo
l’installazione di una teleferica per il trasporto delle auto e infine di un ponte a
Sigalda nel 1968, durante i lavori per la costruzione di una centrale idroelettrica. La
pista Sprengisandur è sempre stata collegata al mistero e al pericolo, come dimostra
la poesia Á Sprengisandi («Sulla Sprengisandur») di Grímur Thomsen (1820-1896),
che è ancora uno dei canti popolari preferiti dagli islandesi:
Galoppo, galoppo sulla sabbia nera,
il sole è oltre il monte e viene sera,
gremita è la strada di spiriti maligni
che oscurano il ghiaccio ed i macigni.
Scorta oh Signore il mio ronzino
ché ancora assai lungo è il mio cammino.
In Islanda i fuorilegge e chiunque volesse evadere la giustizia era costretto a
vivere un’esistenza alla giornata negli altipiani interni, come testimoniano
molti casi giudiziari documentati. Quello che segue è un estratto della
relazione stilata da Einar Brynjólfsson di Stóri-Núpur quando nel 1772 trovò
Eyvindur Jónsson e sua moglie Halla sulla Sprengisandur:
«In breve raggiungemmo un ruscelletto con entrambe le sponde erbose. Il
sentiero si snodava lungo il corso d’acqua, così lo seguimmo finché non
raggiungemmo dei tuguri intorno ai quali brucavano alcune pecore. Io caricai
la pistola che avevo con me mentre i miei compagni di viaggio, che non
erano armati, brandirono i bastoni e i picchetti delle tende. Avanzammo in
testa alla fila e vedemmo due persone uscire da una delle catapecchie, e
quando puntammo verso di loro, uno si voltò e ci venne incontro, gettando a
terra tutto quel che portava in mano. Poi si avvicinò e ci salutò uno per uno.
Allora gli chiesi il suo nome e lui rispose di chiamarsi Jón, ma quando mi
rifiutai di credergli disse: “Se devo dire la verità, il mio vero nome è
Eyvindur Jónsson.” Anche l’altra persona, che era sua moglie e vestiva un
pastrano di pelliccia, ci venne incontro ed entrambi ci pregarono con fervore
di risparmiarli e di avere pietà. Li prendemmo con noi, e anche i cavalli, e
lasciammo il loro rifugio circa mezz’ora prima del mezzodì.»
Il folklore narra anche di un certo Starkaður di Stóruvellir, nella
Bárðardalur, innamorato di una fanciulla che viveva nel sud, a Stóri-Núpur
oppure a Þrándarholt. Una volta l’uomo decise di andare a trovare la sua
amata e si avventurò lungo la Sprengisandur, ma fu colto dal maltempo e
morì assiderato sotto una roccia che adesso porta il suo nome,
Starkaðarsteinn, la «Roccia di Starkaður», così come il luogo in cui morì,
chiamato Starkaðarver. Nello stesso istante in cui lui esalava l’ultimo respiro,
la sua fidanzata sognò che la veniva a trovare recitando questa strofa:
Pene e dolori per l’incanto femminile
ha sempre patito anche l’uom più virile.
Le ossa di Starkaður sotto un masso
da tempo ormai stanno, ahimè lasso.
Pronuncia dei caratteri speciali: Ð, ð: come th inglese in «this» e «that»; Þ, þ: come th
inglese in «teeth»; Æ, æ: ai.
La traduttrice: Silvia Cosimini