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In copertina:

Outerspace Landscape
© Vikki Chu
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Elaborazione grafica:
Iperborea
Progetto grafico:
xxystudio
ATLANTE LEGGENDARIO DELLE STRADE
D’ISLANDA
a cura di Jón R. Hjálmarsson

Edizione italiana a cura di Silvia Cosimini

>
Prima edizione:
Almenna bókafélagið, Reykiavík, 2000
Titolo originale:
Þjóðsögur við Þjóðveginn
Traduzione dall’islandese di Silvia Cosimini

Pubblicato con il contributo per la traduzione di ISLIT


© 2000, Jón R. Hjálmarsson
Published by agreement with Forlagið
www.forlagid.is
© 2017, Iperborea S.r.l., Milano
Illustrazioni di Felix Petruška
www.iperborea.com
ISBN 978-88-7091-211-1
L’OPINIONE DELL’EDITORE
Tra le ricchezze letterarie dell’Islanda c’è un patrimonio di miti e leggende
tramandato attraverso i secoli che è tutt’oggi una presenza viva
nell’immaginario popolare. Questo anche perché in nessun altro posto come
in Islanda le storie sono inscindibili dal paesaggio, nascono da una natura
“vivente” e misteriosa, che non ha tardato a popolarsi di troll, elfi, spettri,
eroi e stregoni. Ogni angolo del paese ha ispirato le sue leggende, da cui
spesso derivano gli stessi toponimi, e ogni leggenda può essere mappata
geograficamente. L’Atlante leggendario delle strade d’Islanda ci guida in un
viaggio attraverso l’isola raccontando le leggende più memorabili di ogni
luogo, dalle località più famose agli angoli più remoti e inesplorati. Storie che
spiegano l’origine di un villaggio, di una credenza o di una roccia bizzarra;
storie sul serpente del lago Lagarfljót, sugli spiriti che dimorano in un
anfratto, in una casa abbandonata o in una collina di lava; storie di eventi
poderosi, imprese eroiche, luoghi sacri o incantati; storie legate al credo
pagano, come la leggenda dell’impronta dello zoccolo di Ásbyrgi, e altre più
recenti basate su eventi reali, come la tragica scomparsa di un gruppo di
bambini in una cascata. Accompagnato da pratiche mappe e piccole
illustrazioni, l’Atlante è suddiviso in zone geografiche e ogni leggenda è
preceduta da un’introduzione che la localizza e ne spiega l’origine oltre a
dare una descrizione del panorama circostante e curiosi cenni storici e
culturali sulla regione, indicando di volta in volta quali sono i luoghi che
hanno lasciato una loro traccia anche nelle saghe.
Introduzione

In questo libro faremo un viaggio immaginario intorno all’Islanda seguendo


la statale n. 1, con varie deviazioni su strade minori ed escursioni negli
altipiani interni lungo sentieri montani poco battuti, fermandoci nei luoghi
più noti e in angoli meno conosciuti per rievocare le leggende e i racconti
popolari a loro associati, allo scopo di dare nuova vita al materiale della
tradizione e legare di volta in volta il paesaggio alla storia che lo caratterizza.
Ogni racconto è anticipato da una breve descrizione del territorio e da
qualche cenno storico sulla zona.
I racconti, tutti appartenenti alla tradizione popolare islandese documentata,
trattano una grande varietà di fenomeni misteriosi, personaggi con attitudini
magiche, elfi, spettri, troll, mostri, bestie e perfino il diavolo in persona. In
alcuni casi i testi sono stati adattati o sintetizzati per conformarsi meglio alle
esigenze di questa raccolta, senza tuttavia mai alterare gli elementi essenziali
della narrazione.
I racconti popolari rappresentano una parte importante dell’eredità culturale
di ogni Paese: l’Islanda possiede un corposo e variegato bagaglio di storie
che tratteggiano in maniera vivida l’immaginario, la mentalità e le credenze
delle generazioni passate; alcune contengono motivi conosciuti e riscontrabili
anche nelle leggende di altri paesi, poiché le esperienze soprannaturali non si
fermano davanti ai confini nazionali.
Spero che i lettori apprezzino i racconti inclusi nel presente volume, sia che
lo portino con sé durante un viaggio in Islanda sia che semplicemente
intraprendano un viaggio immaginario attraverso i sentieri del folklore
islandese.
Jón R. Hjálmarsson
Islanda Occidentale
1. Testarossa, la crudele balena del Hvalfjörður

Procedendo da Reykjavík verso la regione settentrionale, o occidentale, dell’Islanda,


lungo la strada statale n. 1, si attraversa una zona spettacolare, quella intorno al
Hvalfjörður, il «Fiordo della balena». Oggi un tunnel inaugurato nel 1998 consente
di tagliare il fiordo, ma vale la pena percorrere la strada costiera, che è in buone
condizioni, soprattutto nelle belle giornate estive. Il Hvalfjörður deve il suo nome a
una famosa leggenda.
Una volta alcuni uomini originari della Suðurnes, nella penisola di
Reykjanes, uscirono in barca per raggiungere l’isolotto di Geirfuglasker e
catturare degli alca.1 Quando fu il momento di tornare verso l’isola madre,
uno degli uomini mancava all’appello e risultò introvabile. Così, ritenendolo
morto, il resto del gruppo fece ritorno a casa senza di lui. Un anno più tardi
gli stessi uomini andarono di nuovo sull’isolotto e vi trovarono il compagno
vivo e vegeto: capirono che erano stati gli elfi a fargli un incantesimo e a
tenerlo con loro, trattandolo sempre bene. In realtà lui, non essendo felice,
preferì tornare a casa insieme agli altri, ma un’elfa portava in grembo un
figlio suo e si fece promettere che l’uomo avrebbe fatto battezzare il bambino
se lei l’avesse portato nella sua chiesa. Qualche tempo dopo, un giorno che
lui era andato alla messa nella chiesa di Hvalsnes, sul sagrato fu trovata una
culla con un neonato e un biglietto su cui stava scritto a grandi lettere: «Il
padre di questo bambino provvederà a farlo battezzare.» Tutti ne rimasero
stupefatti, ma il reverendo sospettò che il probabile padre fosse il
parrocchiano che aveva vissuto un anno sull’isolotto di Geirfuglasker e
insisté a lungo perché riconoscesse il piccino, mentre l’uomo continuava a
negare che fosse suo. In quello stesso istante apparve al loro fianco una
donna molto alta e robusta che si rivolse all’uomo dicendo: «Ti faccio un
incantesimo: diventerai la più crudele balena del mare e sarai cagione di
numerosi naufragi.» Poi afferrò la culla e sparì e di lei nessuno seppe più
nulla, ma tutti erano convinti che fosse l’elfa di Geirfuglasker.
Dopo questo episodio l’uomo perse il senno e fuggì correndo fino al mare,
dove si lanciò dalla scogliera chiamata Hólmsberg, tra Keflavík e Leira, per
trasformarsi immediatamente in una spietata balena che venne chiamata
Testarossa, perché al momento di buttarsi l’uomo indossava un berretto
rosso. La balena si rivelò un vero flagello: si dice che in tutto abbia fatto
naufragare diciannove imbarcazioni tra Seltjarnarnes e Akranes e furono in
molti a patire ingenti perdite a causa sua. Con il passare del tempo l’animale
cominciò a rintanarsi sempre più spesso tra Kjalarnes e Akranes, all’interno
del fiordo, che pertanto prese il nome di Hvalfjörður, il «Fiordo della
balena».
In quel tempo nella parrocchia di Saurbær c’era un reverendo ormai anziano
e cieco, dotato di poteri soprannaturali, che aveva tre figli adulti e
promettenti, due maschi e una femmina. I figli maschi uscivano spesso a
pescare nel fiordo, ma una volta si imbatterono in Testarossa, che li fece
annegare entrambi. Addolorato per la perdita dei due ragazzi, un bel giorno il
reverendo chiese alla figlia di accompagnarlo al fiordo, che non distava molto
dalla fattoria di Saurbær. Sorreggendosi a un bastone arrancò fino a riva con
l’aiuto della ragazza, poi conficcò il bastone nel bagnasciuga e vi si
appoggiò, proteso in avanti. Chiese alla figlia che aspetto avesse il mare e lei
gli riferì che era liscio come uno specchio. Poco dopo il reverendo le
domandò ancora una volta che aspetto avesse il mare e lei rispose che
intravedeva una striscia nera avvicinarsi al fiordo, come un voluminoso
branco di pesci. Quando gli disse che la striscia nera li aveva quasi raggiunti,
il reverendo le chiese di accompagnarlo lungo la costa verso l’interno, e la
figlia ubbidì. La striscia scura tenne il passo al loro fianco fino alla testa del
fiordo.

Mentre l’insenatura diventava sempre più stretta, la fanciulla si rese conto


che la scia apparteneva a un’enorme balena che si inoltrava nel fiordo come
se vi fosse guidata o spinta. Una volta raggiunta la testa del fiordo, alla foce
del fiume Botnsá che vi si getta, il reverendo chiese alla figlia di condurlo
lungo la sponda occidentale del corso d’acqua. La ragazza lo fece e mentre
l’anziano reverendo risaliva il corso del fiume arrampicandosi sul fianco di
un monte, la balena arrancava contro corrente al loro fianco, con enormi
difficoltà perché la portata d’acqua era troppo scarsa per la sua stazza. Una
volta raggiunto il dirupo dove il fiume crea una cascata, lo spazio si era
talmente ridotto che la bestia faceva tremare tutto, tanto si dibatteva. Quando
tentò di risalire la cascata la terra intorno si mise a sussultare come per un
violento terremoto e la montagna emise un boato poderoso. Da qui deriva il
nome della cascata più alta d’Islanda, Glymur, che significa «Boato», e
quello delle colline che la sovrastano, Skjálfandahæðir, «Colline tremanti».
Il reverendo proseguì imperterrito senza fermarsi finché non ebbe condotto
la balena al lago da cui ha origine il fiume Botnsá, che da allora fu chiamato
Hvalvatn, «Lago della balena». Anche un basso monte nei pressi del lago, il
Hvalfell, o «Monte della balena», trae il proprio nome da questi eventi.
Appena raggiunto il lago, Testarossa scoppiò per la fatica di essere risalito fin
lì e da allora nessuno l’ha più visto. Nel lago, però, sono state rinvenute
immense ossa di balena che sembrano avvalorare questa storia. Dopo aver
costretto Testarossa a infilarsi nel lago, il reverendo fece ritorno a casa
insieme alla figlia e tutti lo ringraziarono per l’impresa compiuta.
1 Pinguinus impennis, era un uccello incapace di volare appartenente alla famiglia
degli alcidi, estinto attorno alla metà del XIX secolo. Gli ultimi due esemplari vennero
abbattuti nel 1844 a Eldey, al largo delle coste islandesi. (N.d.T.)
2. La tragedia di Barnafoss

Nelle alte valli del Borgarfjörður, il Hvítá («Fiume bianco») si precipita dagli
altipiani interni per correre verso il mare e forma alcune prodigiose cascate, prime
fra tutte le Hraunfossar, «Cascate di lava», una moltitudine di esili rivoli sorgivi che
scorrono dal margine del campo di lava sulla sponda nord del Hvítá per circa un
chilometro, precipitando tra le rocce, il muschio e le betulle nelle acque scure del
fiume glaciale. Poco a monte si incontra Barnafoss («Cascata dei bambini»), nel
punto in cui il fiume si getta in una stretta gola formando rapide spettacolari. Di
recente vi è stato costruito un ponte pedonale, ma nel burrone si notano i resti di
antichi ponti in pietra ormai non più percorribili. Secondo la leggenda, un tempo il
fiume era attraversato da un arco di roccia naturale.
C’era una volta una donna molto agiata che abitava a Hraunsás e aveva due
figli maschi. Una volta andò in chiesa a Gilsbakki, a nord del fiume, insieme
a tutti i suoi domestici, mentre i due bambini rimasero a casa. Raccomandò ai
ragazzi di non muoversi e di non allontanarsi dalla fattoria mentre lei si
assentava, ma quando tutti se ne furono andati i bambini cominciarono ad
annoiarsi e decisero di seguire gli altri verso la chiesa. Scesero fino al fiume
Hvítá e in breve raggiunsero l’arco di pietra, che pare fosse piuttosto stretto e
ben alto rispetto al fiume e alla cascata. I ragazzi si impaurirono e si presero
per mano per attraversarlo insieme, e in un primo momento andò tutto per il
meglio, ma quando arrivarono a metà dell’arco e abbassarono lo sguardo
vedendo il gorgo sotto di loro, furono presi da un tale capogiro che caddero di
sotto e annegarono nel fiume.

I domestici rincasarono e non riuscirono a trovare i due bambini, così la


madre ordinò di cercarli per ogni dove ma senza risultato, finché non
immaginò che cosa dovesse essere accaduto, perché qualcuno li aveva visti
dirigersi verso il fiume quando ormai era già troppo tardi per aiutarli. La
donna ne rimase profondamente addolorata, e in preda alla rabbia fece
distruggere l’arco di pietra sul fiume, giurando che nessuna vita umana
l’avrebbe mai più attraversato. Da allora la cascata è rimasta legata a quella
disgrazia ed è nota con il nome di Barnafoss, la «Cascata dei bambini».
Ma il dolore più grande per la madre era il fatto di non riuscire a ritrovare i
corpi dei suoi due piccoli, che pertanto non potevano avere riposo in terreno
consacrato. Fece così voto di offrire in dono tre terreni di sua proprietà:
quello di Norður-Reykir alla chiesa del distretto in cui i loro corpi fossero
stati trasportati dalla corrente, e quelli di Hraunsás e di Húsafell alla chiesa
dove i figli avessero trovato sepoltura. Poco tempo dopo i due corpi furono
trasportati a riva dalla corrente nelle vicinanze di Norður-Reykir, nella
parrocchia di Reykholt; i bambini furono sepolti a Reykholt e i tre
appezzamenti divennero proprietà della chiesa.
3. Kolbeinn e il diavolo di Þúfubjarg

La statale n. 1 prosegue verso nord attraversando il ponte sul Borgarfjörður. Poco


oltre la cittadina di Borgarnes, sulla sinistra si diparte la strada che porta a Ólafsvík
passando da Borg á Mýrum, l’insediamento in cui nel IX secolo si stabilì Skalla-
Grímur e che divenne in seguito la dimora di suo figlio Egill, il poeta guerriero della
Saga di Egill.
Il ghiacciaio Snæfellsjökull svetta sull’intera zona, che è definita Undir jökli, «Sotto il
ghiacciaio», come nell’omonimo romanzo di Halldór Laxness. La strada che
prosegue verso ovest lungo la costa meridionale della penisola di Snæfellsnes è una
delle più pittoresche di tutta l’Islanda: a est di Malarrif si ergono i famosi pilastri di
roccia detti Lóndrangar, dove in passato i contadini si arrampicavano per
raccogliere le uova degli uccelli marini; a est dei Lóndrangar si forma il piccolo
promontorio di Svalþúfa, che è erboso nella parte superiore ma in prossimità della
costa presenta una ripida parete di roccia chiamata Þúfubjarg, erosa dalle onde che
vi hanno formato grotte e antri popolati da una ricca avifauna, e dove il rombo del
mare si confonde con le grida degli uccelli marini. Da qui con una breve passeggiata
si raggiunge Svalþúfa, il punto ideale per osservare le meraviglie naturali a est di
Malarrif e ricordare la leggenda di Kolbeinn, detto «il poeta del ghiacciaio», che una
notte si sedette sul bordo della scogliera accanto al diavolo, a comporre versi.
Si racconta che un tempo il diavolo avesse fatto una scommessa con
Kolbeinn, il poeta del ghiacciaio. Dovevano trovarsi sulla scogliera di
Þúfubjarg, sotto il ghiacciaio, dove le onde del mare arrivano più alte, e lì
sfidarsi in una tenzone poetica. Nelle prime ore della notte il diavolo avrebbe
composto il distico iniziale e Kolbeinn avrebbe concluso la quartina in
metrica,2 mentre nella seconda parte della notte i due si sarebbero invertiti i
ruoli. Chi dei due non fosse riuscito a completare la strofa iniziata
dall’avversario avrebbe dovuto buttarsi giù dalla scogliera e affidarsi alla
mercé dell’altro. Così, una notte in cui la luna era velata dalle nubi, i due si
sedettero sull’orlo della scogliera a comporre versi: il diavolo recitava il
primo distico e Kolbeinn, senza alcun indugio, completava la sua strofa.
Qualche ora dopo toccò a Kolbeinn comporre i due versi iniziali e anche il
diavolo riusciva ogni volta a concludere le sue quartine. Sul far del mattino
Kolbeinn si rese conto che non potevano andare avanti così ancora per molto
e allora estrasse un coltello dalla tasca, lo puntò davanti agli occhi del diavolo
in modo che la lama sembrasse sfiorare la luna, e recitò:
Ora che guardi la lama di luna
fammi una rima se hai del fegato!
A quel punto il demonio rimase senza parole, perché non trovava niente che
rimasse con «fegato», ed essendo in difficoltà provò a protestare: «Questa
non è poesia, Kolbeinn.» Al che Kolbeinn concluse la propria strofa dicendo:
Ne componevi almeno una
se per legàto dicevi légato!
Al sentire quel distico, il diavolo fu colto talmente alla sprovvista che
precipitò dalla scogliera nelle onde che si infrangevano di sotto. Si presume
che da quella volta Kolbeinn non abbia più dovuto misurarsi con il demonio,
che di certo non lo sfidò mai più in una tenzone poetica.

2 La rigida metrica islandese prevedeva le stesse rime e le stesse allitterazioni in


entrambi i distici. (N.d.T.)
4. Da Dritvík a Djúpalónssandur

La penisola di Snæfellsnes vanta una straordinaria varietà di paesaggi naturali


coronati dal ghiacciaio Snæfellsjökull, che domina la zona, magnifico e
impenetrabile. Nella parte meridionale della penisola si incontra Djúpalónssandur,
una baia a ferro di cavallo circondata da pareti rocciose con due lagune di acqua
dolce, poi la roccia di Gatklettur e la grotta di Draugahellir, che un tempo si riteneva
fosse infestata dai fantasmi. Sotto Gatklettur si trovano tre massi, utilizzati in passato
per misurare la forza degli aspiranti marinai: Maciste, da centocinquantacinque chili,
Mezzoforte, da centoquaranta chili, e Moscio, da quarantanove chili. Una quarta
pietra, Inetto, che pesava ventitré chili, è andata in frantumi.
Appena a nord di Djúpalónssandur si trova Dritvík, una profonda caletta rocciosa tra
i margini del campo di lava. Dritvík è stata un’importante stazione di pesca
stagionale fino al XIX secolo: da qui uscivano all’epoca circa sessanta barche che
davano lavoro a più di trecento marinai e la zona contava molti alloggi di pescatori e
numerosi lotti per l’essiccatura del pesce di cui tuttavia oggi rimane ben poco. A
questo tratto di costa sono legati molti racconti popolari e varie tradizioni, come
dimostra quest’antica leggenda.

Si racconta che uno degli equipaggi che uscivano a pescare dalla


Djúpalónssandur fosse composto da marinai così esperti e valorosi che niente
sembrava poterli fermare. Provavano la loro forza sollevando i tre massi che
si trovano tuttora nella baia, poco al di sopra della strada: Maciste,
Mezzoforte e Moscio. Nessuno riusciva a farsi assumere a bordo di una barca
ormeggiata a Djúpalónssandur se non era abbastanza forte da sollevare
Maciste e appoggiarlo su un piedistallo alto fino alla vita. Si dice che questi
possenti marinai di Djúpalónssandur avessero preso una vecchia, una volta, e
l’avessero ammazzata. Altri sostengono che ne avessero trafugato il cadavere
dalla bara, altri ancora che l’avessero riesumato poco dopo il funerale, ad
ogni modo pare che in primavera avessero usato quel corpo come esca, e poi
pescato talmente tanto da riempire il carico ogni santo giorno, mentre gli altri
equipaggi non prendevano mai niente. Si racconta che tutta la ciurma avesse
pescato con le carni della vecchia tranne uno, un pappamolla di nome
Sigurður. Questo Sigurður una notte sognò una donna che gli si presentò
urlando:
Sulla barca una breccia s’aprirà,
un mistero quei bruti colpirà,
non partire con loro all’indomani,
scamperai così a fatti molto strani.
Altri raccontano, o aggiungono, che abbia detto: «Non uscire nel mare
all’indomani: del trambusto farò sotto le mie ossa.» Il mattino dopo Sigurður
si finse ammalato mentre il resto dell’equipaggio uscì in mare, e vi trovò la
morte.
Appena a ovest di Dritvík c’è una grotta. Si dice che poco tempo dopo
questi fatti alcuni uomini siano passati in quei paraggi e abbiano sentito un
rumore dall’interno, come qualcuno che parlava. Pare che un paio di
pescatori annegati fosse di Helgafell e che uno di loro in particolare
frequentasse la figlia di un contadino di Hólahólar di nome Narfi. Comunque,
passando nei pressi della grotta, questi uomini sentirono una voce profonda
che recitava:
Che noia marcire nelle grotte!
A Helgafell era meglio restare,
a ballare, cantare e fare a botte.
Al che si udì un’altra voce, con un timbro così forte e chiaro che quelli
capirono ogni parola:
M’inabisso sotto la chiglia
nell’imo, cupo regno marino,
duro e torpido poi mi trascino
a Hólar, da Narfi e da sua figlia.
Poiché l’imboccatura della grotta è rivolta verso il basso, è probabile che
alcuni cadaveri della ciurma vi siano stati trasportati durante una forte
mareggiata e da allora quell’antro si chiama Draugahellir, la «Grotta degli
spettri».
5. I tre desideri sulla montagna sacra

Il periplo della penisola di Snæfellsnes è un’esperienza indimenticabile per chiunque


abbia interesse nel paesaggio islandese e nel misterioso Snæfellsjökull. Ma non è solo
al ghiacciaio che la tradizione popolare attribuisce qualità soprannaturali: un altro
luogo di grande rilievo è Helgafell, il «Monte sacro», una bassa collina che si erge
sul lato settentrionale della penisola, a destra seguendo la strada che porta a
Stykkishólmur.
Il goði3 Snorri, che vi si stabilì, fu un capo molto autorevole, ritenuto assai saggio e
preveggente ma all’occorrenza anche scaltro e senza scrupoli. Snorri giocò un ruolo
importante nella conversione dell’Islanda al Cristianesimo intorno al 1000 d.C.: si
convertì e fece costruire la prima chiesa nei suoi territori, poi in vecchiaia scambiò la
sua tenuta con quella di Guðrún Ósvífursdóttir, che risiedeva nella regione dei Dalir,
come si narra nella Laxdæla saga. In età avanzata Guðrún divenne una fervente
cristiana e condusse una vita virtuosa; fu sepolta a Helgafell e si ritiene che la sua
tomba si trovi a nord della chiesa, sopra il cimitero, dove molti anni fa è stata posta
una lapide commemorativa con inciso il suo nome e la data 1008, probabilmente
l’anno della sua morte. Nel 1184 a Helgafell fu costruito un monastero che divenne
luogo di grande spiritualità nonché un importante centro culturale in cui nel corso
dei secoli furono prodotti numerosi manoscritti miniati. Con la Riforma nel XVI
secolo il monastero fu però distrutto e saccheggiato e molti volumi vennero bruciati,
come era consuetudine in quel periodo.
Fin dall’antichità la gente del luogo ha sempre riconosciuto grandi poteri
spirituali a questa bassa montagnola, chiamata appunto Helgafell, «Monte
sacro». Þórólfur, uno dei primi colonizzatori, riponeva così tanta fede nella
sua sacralità che vietò di rivolgere lo sguardo a quell’altura a chi non si fosse
prima lavato. Helgafell garantiva asilo, perché nessuno, né uomo né animale,
poteva esservi ucciso, e Þórólfur e i suoi figli credevano che una volta
conclusi i loro giorni mortali sarebbero stati condotti all’interno del monte.
I primi colonizzatori erano pagani e adoravano Þór, Odino e altri dei, ma la
credenza nella sacralità di Helgafell sopravvisse anche dopo la conversione al
Cristianesimo. In seguito alla fondazione di un monastero ai piedi del monte,
i monaci crearono un luogo di preghiera costruendo un tabernacolo sulla
sommità, e tuttora sono visibili tracce di fondamenta in pietra che pare siano i
resti di quella cappella.
Ancora oggi è diffusa la credenza che salendo in cima a Helgafell sia
possibile vedersi esaudire tre desideri. Secondo gli esperti, il metodo prevede
quanto segue: partire dalla tomba di Guðrún Ósvífursdóttir e salire verso la
vetta; non guardarsi mai indietro né pronunciare una sola parola durante il
tragitto; una volta raggiunta la cima, fermarsi davanti ai ruderi della cappella,
voltarsi verso est e formulare mentalmente i tre desideri. Seguendo alla lettera
tali istruzioni si può sperare che i desideri vengano esauditi, sempre che siano
stati formulati con animo sincero, che non procurino offesa ad altri e non
siano rivelati a nessuno. In molti hanno tentato il rituale nel corso dei secoli,
pare con buoni risultati.
3 Nell’Islanda pagana il goði era un capo rispettato e ricco alla testa di un distretto e
preposto alla gestione di un hof, il tempio in cui si tenevano le celebrazioni religiose.
Dopo la cristianizzazione il termine perse la valenza sacra per indicare soltanto un
capo politico. (N.d.T.)
6. La chiesa degli elfi a Tungustapi

Seguendo la statale n. 1 verso nord da Búðardalur, il più grande centro abitato della
regione dei Dalir, si raggiunge la pittoresca valle di Sælingsdalur, che dal fiordo di
Hvammsfjörður si estende verso nord-ovest. Una delle fattorie che costellano la valle
è Sælingsdalstunga, spesso chiamata semplicemente Tunga, luogo storico della
Laxdæla saga, dove vivevano Guðrún Ósvífursdóttir e Bolli Þorleiksson. A poca
distanza dalla fattoria si trova Tungustapi, un’imponente altura rocciosa che si erge
sopra il fiume Sælingsdalsá e che per secoli è stata ritenuta sede di una comunità di
elfi: molti sostenevano che fosse la cattedrale del popolo nascosto, come si narra in
una famosa leggenda popolare.
Tanti secoli fa a Sælingsdalstunga viveva un ricco contadino che aveva alcuni
figli, tra cui due maschi, Arnór e Sveinn, entrambi giovani per bene ma molto
diversi tra loro. Arnór era parecchio socievole e spesso andava a divertirsi
con gli amici, con i quali amava ritrovarsi alla sporgenza rocciosa chiamata
Tungustapi, nei pressi del fiume: durante l’inverno si lanciavano di corsa giù
dalla cima sulla neve ghiacciata, strillando in allegria. Sveinn partecipava
raramente ai loro lazzi e preferiva ritirarsi in chiesa quando gli altri se la
spassavano. Era un tipo solitario e andava a Tungustapi solo per starsene per
conto suo. La gente diceva che frequentasse gli elfi, perché la sera dell’ultimo
dell’anno spariva sempre, nessuno sapeva dove. Sveinn chiedeva spesso al
fratello di non fare tanto baccano intorno alla rupe, ma Arnór si prendeva
gioco di lui e diceva che non c’era da preoccuparsi tanto per gli elfi solo per
un po’ di chiasso.
Una sera dell’ultimo dell’anno, come d’abitudine, Sveinn scomparve. Tutti
cominciarono a chiedersi dove fosse finito e Arnór si offrì di andare a
cercarlo, uscendo in quella notte di maltempo per raggiungere la rupe. Prima
di rendersi conto di che cosa stava succedendo, vide la parete rocciosa aprirsi
dal lato rivolto verso la fattoria e rivelare un’infinità di luci all’interno.
Udendo un canto meraviglioso, Arnór capì che gli elfi stavano celebrando la
loro messa e quando si avvicinò per guardare oltre l’ingresso vide una
moltitudine di persone e un sacerdote vestito di magnifici paramenti in piedi
accanto all’altare, con varie file di luci su entrambi i lati. Varcò la soglia e
riconobbe suo fratello Sveinn inginocchiato davanti al sacerdote che gli
imponeva le mani sul capo. Arnór immaginò che lo stessero consacrando,
così gridò forte: «Sveinn, vieni via, ne va della tua vita!» Il ragazzo trasalì e
fece per raggiungere il fratello, ma in quel momento il sacerdote all’altare
disse: «Chiudete la porta della chiesa e punite l’umano che disturba la nostra
pace. Sveinn, devi lasciarci per colpa di tuo fratello. Visto che hai dato più
valore al suo richiamo che alla nostra consacrazione, ti prostrerai privo di vita
la prossima volta che mi vedrai vestito di questi paramenti.» Alcuni dei
presenti, nelle loro vesti sacre, sollevarono Arnór, e Sveinn lo vide
scomparire oltre la volta di pietra che copriva la chiesa. In quello stesso
momento si sentì un forte scampanio e l’intera congregazione si precipitò
fuori. Arnór corse verso casa più veloce che poté, ma sentiva alle calcagna la
torma di elfi furiosi che lo inseguivano scalpicciando e tra le prime file udì
qualcuno recitare:
Su galoppa nel buio del macigno,
via trascina quel brutto maligno,
che mai più veda il sole che sorge,
né il chiarore che il diman gli porge.
Poi la folla lo superò con uno scatto e si frappose tra lui e la fattoria, tanto che
Arnór fu costretto a indietreggiare. Vinto dalla stanchezza, si accasciò sul
pendio, così che gli elfi lo assalirono e lo lasciarono lì disteso, più morto che
vivo. Sveinn tornò a casa a tarda notte. Era afflitto e non parlò molto, ma
disse che occorreva mandare una squadra a cercare Arnór. Lo cercarono per
tutta la notte finché il fattore di Laugar lo trovò mentre andava al mattutino,
cosciente ma molto debole. Il ragazzo fece appena in tempo a raccontargli
com’era andata, ma era troppo sfinito per essere trasportato a casa e morì lì,
nel punto che da allora si chiama Banabrekkur, «Pendio della morte». Dopo
quei fatti Sveinn non fu più lo stesso e si fece ancora più serio e malinconico.
Di lì a poco si ritirò dalle cure terrene e divenne monaco nel monastero di
Helgafell. Fu un clerico erudito e cantava messa meglio di chiunque altro.
In vecchiaia suo padre contrasse una grave malattia. Quando sentì che gli
restava poco da vivere, mandò a chiamare Sveinn a Helgafell perché lo
raggiungesse. Il figlio acconsentì, anche se aveva il presentimento che non
sarebbe tornato vivo. Arrivò a Tunga il sabato prima di Pasqua e trovò il
padre vicino alla fine. Il vecchio gli chiese di cantare messa la domenica di
Pasqua e predispose di farsi portare in chiesa per morire nella casa del
Signore. Sveinn era reticente, ma lo assecondò, a condizione che nessuno
aprisse la porta della chiesa mentre si diceva messa, perché ne andava della
sua vita. La richiesta parve molto strana, ma la gente pensò che non volesse
vedere la rupe: al tempo la chiesa si trovava su una bassa collinetta e la porta
dava proprio su quell’altura rocciosa.
Il moribondo fu trasportato in chiesa, Sveinn indossò i paramenti davanti
all’altare e aprì il messale. I presenti erano stupefatti: in seguito raccontarono
di non aver mai sentito un canto tanto dolce e dai toni tanto eccelsi. Ma non
appena Sveinn si rivolse ai fedeli e iniziò a dare la benedizione, da ovest si
scatenò una tempesta improvvisa che spalancò la porta della chiesa. Tutti
rimasero sbigottiti e quando si voltarono a guardare videro come una porta
aperta nella rupe che riverberava di innumerevoli luci. Girandosi di nuovo
verso il sacerdote lo trovarono accasciato a terra, privo di vita. Nello stesso
istante anche il padre era caduto dal banco, esalando il suo ultimo respiro. Un
attimo prima non tirava un alito di vento e anche dopo tornò la bonaccia
completa, per cui fu chiaro a tutti che la bufera che si era scatenata dalla
roccia non era un fenomeno naturale.
Tra i testimoni dell’evento straordinario c’era anche il fattore di Laugar,
quello che anni prima aveva trovato Arnór in fin di vita e si era fatto
raccontare tutta la storia. A quel punto i parrocchiani compresero che era
accaduto quanto il vescovo degli elfi aveva preannunciato a Sveinn, che si
sarebbe prostrato senza vita la volta successiva che l’avesse visto. Quando la
rupe si era aperta e la porta della chiesa si era spalancata, Sveinn e il vescovo
degli elfi si erano infatti guardati negli occhi, perché l’entrata della cattedrale
degli elfi era proprio di fronte alla porta della chiesa degli umani. In seguito a
questi eventi si tenne un’assemblea e si decise di spostare la chiesa,
trasferendola da quella collina a una valletta nei pressi della fattoria: il casale
si venne quindi a trovare tra la roccia e la chiesa, così che i sacerdoti non
poterono più guardare attraverso la porta fino a Álfastapi, la «Rupe degli elfi»
– e da quel giorno non successe mai più un evento del genere.
Fiordi Occidentali
7. Il mostro di Látrabjarg

Le scogliere di Látrabjarg, all’estremo ovest della costa settentrionale del


Breiðafjörður, sono tra le più spettacolari d’Islanda. Un tempo in questa zona
sorgevano molti insediamenti che si mantenevano grazie all’allevamento e alla pesca,
ma anche ad attività secondarie come la cattura degli uccelli marini e la raccolta
delle loro uova. Al largo di Látrabjarg sono affondate numerose imbarcazioni e molti
marinai hanno perso la vita, ma anche i contadini che si calavano lungo le pareti
rocciose per raccogliere le uova e le piume correvano enormi rischi, tanto che tale
attività non è più stata praticata dal 1925, quando due giovani morirono precipitando
dalle scogliere. Su Látrabjarg circolano parecchie leggende, tra cui la seguente.

Ai giorni del vescovo Guðmundur il Buono4 la gente si diceva convinta che


nelle scogliere di Látrabjarg abitasse un mostro che rovinava la pesca ai
marinai. In quello stesso periodo anche coloro che si calavano dalla scogliera
per raccogliere le uova e catturare gli uccelli marini subivano parecchi
incidenti, tanto che la cosa cominciò a destare sospetti. Quando un
raccoglitore si trovava lungo la parete rocciosa, accadeva spesso che chi
attendeva in cima e gestiva le imbracature si accorgesse d’un tratto che il
compagno non c’era più, per ritrovarlo poi morto ai piedi della scogliera.
Esaminando le due estremità delle corde si poteva proprio pensare che
fossero state tagliate con un coltello affilato. A quell’epoca a Hvallátur,
l’insediamento più occidentale d’Islanda, viveva un tale di nome Gottskálk.
Era un tipo pieno di risorse e si dice avesse poteri soprannaturali, eppure, per
quanto ci avesse provato, non riusciva a far niente per contrastare il mostro
che abitava la scogliera. Gottskálk e gli altri abitanti del distretto che
sfruttavano le risorse delle scogliere sottoposero dunque il problema al
vescovo Guðmundur il Buono, il quale comprese subito l’urgenza di trovare
una soluzione e andò di persona a ovest per invitare il mostro a manifestarsi.
Il vescovo lo rimproverò severamente per il modo in cui si accaniva contro
gli uomini della zona e minacciò di gettarlo giù dal precipizio, ma il mostro
gli chiese di avere pietà di lui e di concedergli il permesso di rimanere nella
scogliera, dicendo: «Una pecora nera deve pur avere un posto in cui stare.»
Allora Guðmundur s’intenerì e chiese al mostro di quanta terra avesse
bisogno, ma quello rispose che il vescovo poteva deciderlo da sé quando
avesse saputo quant’era numerosa la sua famiglia. L’ecclesiastico gli
domandò quindi quanti fossero e lui rispose: «Ho dodici barche in mare, in
ognuna stanno dodici uomini, ciascuno con dodici arpioni, e per ogni arpione
ci sono dodici foche. Se faccio dodici pezzi di ogni foca, ci sarà un pezzo per
ciascun membro della mia famiglia, e anche due per ogni testa di foca:
contate voi, signore.»
Al che il vescovo diede il permesso al mostro di rimanere a vivere lì con
tutta la sua famiglia, nella parte della scogliera che da allora si chiama
Heiðnabjarg, la «Scogliera dei pagani», e che da Djúpadalur si estende fino a
Saxagjá, ovvero il tratto di roccia da cui risultava più difficile calarsi a
raccogliere le uova e catturare gli uccelli. Guðmundur vietò però al mostro di
superare quel confine e poi cominciò a benedire la scogliera, consacrandola
tutta tranne Heiðnabjarg. Quindi proibì a tutti i cristiani di calarsi lungo quel
tratto o sfruttarlo in qualsiasi maniera. Così le persecuzioni cessarono e il
mostro non si fece più vedere, e il divieto di calarsi da Heiðnabjarg rimase in
vigore per molti secoli.
4 Guðmundur Arason, detto il Buono (góði), fu vescovo di Hólar dal 1203 al 1237.
Noto per la sua bontà, gli furono ascritti vari miracoli in vita; rafforzò l’istituzione
ecclesiastica in Islanda e divenne una sorta di santo nazionale, seppure mai
riconosciuto dalla Chiesa di Roma. (N.d.T.)
8. Stregoneria nei Fiordi Occidentali

L’Arnarfjörður, il «Fiordo dell’aquila», è il più ampio dei Fiordi Occidentali a sud


dell’Ísafjarðardjúp e vanta molti siti storici come Selárdalur, sede di una chiesa in cui
nel XVII secolo, il periodo della caccia alle streghe, prestò servizio il reverendo Páll
Björnsson, che mandò al rogo molte persone sospettate di stregoneria. Nel versante
settentrionale dell’Arnarfjörður si trova Hrafnseyri, un altro sito ecclesiastico noto
fin dall’epoca della Colonizzazione e ancor più famoso per aver dato i natali a Jón
Sigurðsson (1811-1879), eroe dell’indipendenza nazionale, commemorato da un
museo e da un monumento.
L’Arnarfjörður non è noto solo per le sue bellezze naturali e per la sua
rilevanza storica: la regione è stata a lungo tristemente famosa per le
stregonerie e le arti magiche di vario genere che vi venivano praticate. Nel
XIX secolo un vero maestro in tali arti fu Jóhannes Ólafsson di Kirkjuból,
nella penisola di Langanes. Circolano molte storie sui suoi poteri
soprannaturali, che pare fossero talmente forti che perfino un suo misero
saluto avrebbe esorcizzato qualsiasi spettro. Una storia accertata riferisce di
una donna nel Bitrufjörður che era perseguitata dallo spettro di un membro
della famiglia e che proprio a causa sua si ritrovò sull’orlo della pazzia. Così
mandò qualcuno a chiedere consiglio a Jóhannes, il quale tracciò alcune rune
su un pezzo di carta e lo diede al messaggero perché lo consegnasse. La
donna avrebbe dovuto lanciare il foglio contro lo spettro appena avesse
percepito di nuovo la sua presenza e dirgli che Jóhannes di Kirkjuból gli
mandava i suoi saluti. Lei fece come gli era stato suggerito, si liberò del
fantasma e riacquistò la piena salute mentale.
Nell’entroterra rispetto a Bíldudalur si trova Otradalur, un tempo sede di
una chiesa e di un vicariato. All’epoca delle saghe vi risiedeva Eyólfur il
Grigio, che uccise Gísli Súrsson secondo quanto si narra nella Saga di Gísli.
Nel XVIII secolo il reverendo di Otradalur era Bernharður Guðmundsson,
versato poeta ritenuto in possesso di doti soprannaturali. Una volta fu
coinvolto in una disputa con un tale di nome Ármann che abitava nel
Tálknafjörður, e che avendo del risentimento nei confronti del sacerdote gli
aizzò contro un fantasma noto come Klaufi, «lo Zoccolo», per via dei suoi
zoccoli ungulati, risvegliandolo dalla morte. Ma il reverendo era così abile
nelle arti arcane che riuscì a difendere se stesso e la propria moglie, anche se
Klaufi gli fece fuori qualche capo di bestiame. Bernharður cominciò a
infastidirsi per il modo in cui quell’impiastro continuava a pedinarlo,
uccidendo spesso i tori delle fattorie dove lui andava in visita pastorale. Per
quanto facesse del suo meglio per esorcizzarlo non sembrava ottenere alcun
successo e così si rivolse a un altro abitante del Tálknafjörður di nome
Grámann, «il Bigio», che si era guadagnato la fama di avere poteri di
stregone, e gli chiese di sistemargli Klaufi una volta per tutte. Grámann
ammise che era un incarico impegnativo ma si disse disposto a provarci. Il
problema era che il fantasma era talmente potente che non c’era più un pezzo
di terra che volesse accoglierlo, tranne un poggio nel territorio di Lambeyri,
dove finalmente Grámann riuscì a riseppellirlo. La zona ne rimase così
contaminata che nessun animale né uccello del cielo poté più sfiorarla senza
cadere morto all’istante, e da allora non vi è più cresciuto nemmeno un filo
d’erba.
9. Þjóðólfur e Þuríður Sundafyllir

Bolungarvík è un grazioso villaggio di pescatori situato a un’estremità


dell’Ísafjarðardjúp, sulla costa occidentale, dove si pratica l’attività ittica fin dagli
albori della storia islandese grazie alla vicinanza di banchi di pesca particolarmente
ricchi. Nel passato la pesca era un’attività stagionale, per cui il villaggio consisteva
in qualche grappolo di alloggi temporanei, anche perché era isolato e raggiungibile
solo via mare. Ma a partire dal 1890, quando Bolungarvík diventò una stazione di
scambi commerciali, vi si svilupparono insediamenti permanenti. A ovest di
Bolungarvík si trova Stigahlíð, il cui accesso è reso difficoltoso da ripidi pendii e
pareti di roccia.
Nel Landnámabók, il «Libro della Colonizzazione», si racconta che Þuríður
Sundafyllir e suo figlio Völu-Steinn si stabilirono a Bolungarvík dopo aver
lasciato Hálogaland, in Norvegia. Þuríður era una donna particolarmente
versata nelle arti magiche e prima di trasferirsi in Islanda, così narra la storia,
durante un periodo di carestia nella sua regione d’origine, con un incantesimo
riempì di pesci ogni braccio di mare, procurandosi il soprannome di
Sundafyllir, «Riempistretto».
Prima di gettarsi in mare, il fiume Holsá scorre per un breve tratto lungo la
valle di Tungudalur e raggiunge Bolungarvík. Nella parte superiore della
baia, a nord del fiume, si incontrano i begli edifici di una fattoria che alcuni
dicono si chiamasse Þjóðólfstunga, «Lingua di Þjóðólfur», perché Þuríður
Sundafyllir aveva un fratello di nome Þjóðólfur. Si racconta che Þjóðólfur
chiese alla sorella di cedergli dei terreni a Bolungarvík, e che la donna gli
promise tutta la terra che fosse riuscito a recintare in un solo giorno. L’uomo
si mise all’opera e partendo da Stígi costruì un muretto con l’intenzione di
circoscrivere per intero le valli Híðardalur e Tungudalur, ma nel corso della
giornata arrivò a recintare la Tungudalur solo per metà: si vedono ancora le
tracce del muro che posò. Þjóðólfur pretese comunque il possesso di
entrambe le valli, ma Þuríður ribatté che la valle non recintata per intero
doveva rimanere di sua proprietà, e così andò come voleva lei. Risentito,
Þjóðólfur pensò di vendicarsi rubando un toro che la sorella teneva a
Stigahlíð. Lei però lo colse in flagrante e lo seguì fino a casa.
Si incontrarono nel punto che si chiama Ófæra, «Invalicabile». La donna lo
aggredì cercando di riprendersi il toro, ma non riuscendovi si arrabbiò a tal
punto che lanciò al fratello un incantesimo e disse che si sarebbe trasformato
in un masso dove una moltitudine di uccelli l’avrebbero ricoperto di guano. Il
fratello rispose per le rime e pronunciò a sua volta un maleficio, dicendo che
lei sarebbe diventata una roccia dove i venti soffiavano più forte. E infatti la
roccia di Þuríður si trova da allora sull’estremità settentrionale di Óshlíð.
Quanto a Þjóðólfur, anche lui si trasformò e rotolando cadde in mare, dove
atterrò su uno scoglio che emergeva dall’acqua ed era sempre coperto di
uccelli. Il masso di Þjóðólfur rimase lì fino all’autunno del 1936, quando in
una notte di totale bonaccia svanì e nessuno ne seppe più nulla. Per lungo
tempo gli abitanti di Bolungarvík conservarono il ricordo di Þjóðólfur e
furono in grado di indicare il punto esatto in cui si trovava, perché se ne stava
da solo su quello scoglio e gli si passava accanto a ogni uscita di pesca. Tutti
assicuravano che l’acqua in quel punto era così poco profonda che il masso
non avrebbe potuto trovarsi in mare senza essere visto. La gente del posto
ritiene che Þjóðólfur sia svanito perché con il tempo l’incantesimo aveva
esaurito la sua efficacia. Su quello scoglio è ancora chiaramente visibile la
sua impronta: alla base misurava poco più di cinque braccia di diametro. E
questa è la fine della storia di Þjóðólfur e di sua sorella Þuríður Sundafyllir e
dei loro destini.
10. Beffe ai sacerdoti di Aðalvík

A nord del golfo di Ísafjarðardjúp si incontra la baia di Aðalvík, di fronte al mare


aperto. Tra le varie valli che si insinuano tra i monti sopra la baia, la più meridionale
è Staðardalur, dove si trovano il lago Staðarvatn, che pare ospiti un mostro, e a breve
distanza la chiesa di Staður. Un tempo Aðalvík era densamente popolata, come gli
altri insediamenti della penisola degli Hornstrandir; la gente viveva di allevamento e
pesca e sfruttava varie altre risorse naturali, ma gli ultimi abitanti se ne sono andati
alla metà del XX secolo e oggi l’area è disabitata. Uno degli edifici che restano
ancora in piedi ad Aðalvík è la chiesa di Staður, una bella costruzione con un
vestibolo, un campanile e una cantoria.

Nei secoli passati molti sacerdoti importanti prestarono servizio nella


parrocchia di Staður, nella baia di Aðalvík: uno di loro fu Snorri Björnsson,
in seguito conosciuto come Snorri di Húsafell, la parrocchia dove servì per
sedici anni verso la metà del XVIII secolo. Era ritenuto esperto di arti
soprannaturali, virtù che gli tornava utile nei rapporti con la gente degli
Hornstrandir, sulla quale in genere aveva sempre la meglio quando doveva
misurarsi in varie scaramucce di magia. Una leggenda risalente al periodo in
cui Snorri serviva a Staður narra che il reverendo fosse sceso in riva al mare
per dedicarsi a qualche lavoretto di falegnameria e poco lontano si fosse
sistemato un suo vicino, anche lui dotato di talenti soprannaturali e anche lui
impegnato a lavorare. Il vicino si mise a intagliare rune su un listello di
legno, rune di una tale potenza che chiunque le avesse lette avrebbe perso
immediatamente la vista diventando cieco. Poi gettò il legnetto in mare e lo
lasciò in balia della corrente, che lo riportò a riva proprio nel punto in cui si
trovava il reverendo. Ignaro dello scherzo, Snorri lesse le rune e diventò cieco
all’istante. Ma era un ottimo poeta e fece uso delle sue abilità anche in questo
frangente, componendo versi per riacquistare la vista. Poi raschiò via tutte le
rune dal legnetto, lo lanciò di nuovo in mare e disse: «Torna dal tuo padrone
e sii causa della sua morte, se intende utilizzarti di nuovo per fare del male.»
Il contadino adocchiò il listello di legno e lo riprese, pensando di incidervi
rune così potenti da togliere di mezzo il reverendo una volta per tutte, ma non
riuscì a fare niente del genere perché il coltello gli scivolò di mano e gli si
piantò in petto, con tutta la lama fino all’impugnatura. Così il contadino morì
ed ebbe quel che si meritava per il suo gesto.
Il successore del reverendo Snorri fu il reverendo Vigfús Benediktsson, che
prestò servizio a Staður per diciotto anni. Era spesso oggetto dei sortilegi di
alcuni suoi parrocchiani ai quali il sacerdote non andava proprio a genio, ma
per fortuna aveva una moglie che sapeva come difenderlo. Un sabato il
reverendo raggiunse in barca un’isola insieme a due fratelli per lasciarvi i
loro agnelli a pascolare. Vigfús sbarcò mentre gli altri due rimasero a bordo,
ma al suo ritorno scoprì che i fratelli se n’erano andati e l’avevano lasciato lì
da solo. La moglie del reverendo si chiamava Málfríður, era una donna molto
ingegnosa e istruita e si diceva avesse poteri magici. Vedendo la barca fare
ritorno, scese a riva e chiese ai fratelli dove fosse suo marito, al che i due le
risposero ghignando che era impegnato a scrivere il sermone per il giorno
dopo. La donna ribatté che con ogni probabilità il sermone dell’indomani
sarebbe stato indirizzato proprio a loro, poi tornò a casa mentre gli uomini se
ne andarono per la loro strada senza più pensare al reverendo.
Il giorno dopo, di primo mattino, i due fratelli andarono in chiesa e appena
entrati trovarono il pastore davanti all’altare, che li accolse con una predica
severa come meritavano. Finita la messa, Málfríður disse loro: «Eccovi
serviti, avete avuto il sermone di cui avevate bisogno.» I due le risposero che
in effetti non avevano ancora ringraziato il pastore per la sua predica, ma
avrebbero certo avuto altre occasioni per farlo. I fratelli, uno dei quali era
sposato e cantava nel coro mentre l’altro era scapolo e sedeva nella navata,
non si presentarono in chiesa per tutta l’estate, fino alla prima domenica
d’inverno. Quel giorno la moglie del reverendo notò che i due continuavano a
guardarsi ridacchiando, e non appena il pastore salì sul pulpito, loro uscirono.
Qualche istante dopo, proprio mentre il reverendo era nel bel mezzo della sua
omelia, Málfríður lo chiamò e disse: «Fúsi,5 esci, prima lo fai e meglio è.» Al
che il sacerdote smise subito di parlare, uscì e si avviò per il pendio sopra il
cimitero, dove trovò uno dei fratelli che scaldava una pignatta mentre l’altro
scriveva delle rune magiche. Si avvicinò per svuotargli il tegame, ma in quel
momento lo raggiunse la moglie dicendogli di non farlo: prese lei la pentola e
la rovesciò in testa a uno dei due, poi la lanciò addosso all’altro e così li
uccise entrambi. Málfríður disse che avevano fatto bene ad agire con
prontezza, perché i due fratelli avevano intenzione di usare le loro stregonerie
per ammazzare il reverendo sul pulpito.
Nel periodo in cui il reverendo Vigfús servì ad Aðalvík dovette sempre
vedersela con maghi e stregoni e alla fine, capendo di essere in pericolo di
vita, fu costretto ad andarsene. Quando fu trasferito nella Austur-
Skaftafellssýsla, all’estremità opposta del Paese, i vecchi parrocchiani
continuarono a inviargli spettri malvagi che ogni volta sua moglie riusciva a
cacciare prima che potessero nuocergli. Vigfús diceva che tutti quei sortilegi
sarebbero stati la sua fine se avesse vissuto più a lungo della moglie, ma ciò
non accadde perché la donna gli sopravvisse, e il sacerdote si spense in
vecchiaia di una morte serena.

5 Vezzeggiativo di Vigfús. (N.d.T.)


11. Il famigerato fantasma di Snæfjöll

Il tratto di costa a nord del golfo dell’Ísafjarðardjúp è noto come Snæfjallaströnð,


«Costa dei monti innevati». La zona ha una ricca vegetazione ma rimane coperta da
una coltre di neve fino a estate inoltrata. In passato questa costa era molto popolata e
fino all’inizio del XX secolo a Snæfjallastaður esisteva un piccolo villaggio di
pescatori, mentre oggi l’area è completamente disabitata, a eccezione dell’isoletta di
Æðey. La sede ecclesiastica di Snæfjallastaður, di cui è rimasto un rudere, è stata per
secoli una chiesa frequentata da varie presenze, come raccontano alcune leggende.

Il reverendo di Staður negli anni dal 1588 al 1615 fu Jón Þorleifsson, un


uomo molto istruito e con la fama di essere assai rigoroso. Si era sposato due
volte: con la prima moglie, che si chiamava Sesselja, aveva avuto tre figli,
uno dei quali, di nome Jón, viveva con il padre e la matrigna, seconda moglie
del reverendo, che non gli aveva dato figli. Questo Jón si invaghì di una
domestica a servizio nella fattoria del padre, ma anche un lavorante era
interessato a lei, e per questo i due pretendenti non erano in buoni rapporti.
Una volta, all’inizio dell’inverno, il bracciante partì alla cerca delle greggi,
ma a causa della neve ghiacciata e del suolo scivoloso non riuscì a ricondurre
a valle un certo numero di pecore che si erano fermate sul fianco del monte. Il
reverendo lo ritenne un pusillanime e ordinò a suo figlio Jón di portare a
termine l’incarico. Anche lui era riluttante e gli spiegò che di lì a poco
sarebbe stato impossibile muoversi con quel maltempo, ma il pastore non
volle sentire ragioni e Jón fu costretto a partire contro la sua volontà. Non
fece mai più ritorno da quella spedizione, perché perse la vita sulla montagna.
La storia non specifica se il suo corpo fu rinvenuto o meno, ma ben presto
tutti si dissero convinti che l’anima del giovane non trovasse pace, perché
cominciò a tormentare la domestica e il pastore. Negli annali sta scritto che
quella zona dell’ovest era infestata e che lo spettro di Jón divenne il più
funesto di tutti: si appostò sul fianco del monte a Snæfjöll, da dove per lungo
tempo si divertì a giocare brutti tiri ai viandanti, gettando pietre e ordendo
vari altri dispetti. Si dice che nella fattoria di Snæfjallastaður spaccasse le
finestre e uccidesse capi di bestiame; spesso durante il giorno si sedeva nella
baðstofa6 mentre le donne lavoravano la lana e si faceva servire da mangiare
come gli altri famigli, leccando poi le loro ciotole vuote. Una volta un
bracciante del reverendo si accorse che qualcuno staccava la pelle del pesce
appeso ai tralicci a seccare e vide che era lo spettro, al quale chiese: «Non è
che ti serve un coltello, compare?» Ma il fantasma rispose a tono: «I morti
non hanno bisogno di coltelli. Staccano a morsi.»
Ci fu un inverno in cui scarseggiarono le scorte di tabacco e il reverendo Jón
chiese al fantasma di andare a procurarselo a nord, fino all’Eyjafjörður,
perché aveva saputo che ad Akureyri ne avevano ancora. Lo spettro era
sempre stato disponibile a sbrigare incombenze per il sacerdote, purché gli
fornisse da mangiare a sufficienza. Tornato dal nord, un lavorante lo vide
seduto fuori a mangiare con il tabacco sparso tutt’intorno e gli disse: «Buon
uomo, chiunque tu sia, dammi una presa di tabacco.» Il fantasma sgranò gli
occhi e gli rivolse uno sguardo terrificante, poi sparpagliò tutto il tabacco e
svanì, lasciandone due braccia7 lì dov’era seduto.
Per liberarsi una volta per tutte da quello spettro, il reverendo scrisse al suo
amico e collega Einar Sigurðsson di Skorrastaður, nel Norðfjörður, e incaricò
il fantasma di consegnargli la lettera. Era sicuro che fosse l’unico capace di
liberarlo da quel flagello. Una sera in cui Einar era già andato a coricarsi, il
fantasma si presentò accanto al suo letto e quando il sacerdote gli chiese se
avesse qualcosa da dirgli, si sentì rispondere che effettivamente era così.
Quell’anima in pena non gli fece una buona impressione e vedendo che lo
spettro era sul punto di aggredirlo, il reverendo sfilò un’asse del letto e gliela
sbatté con forza sul braccio, spezzandoglielo in due. Il fantasma fu così
costretto a mollare la lettera e gliela gettò addosso. Einar si alzò dicendo allo
spettro di tornarsene nell’ovest, ma quello rispose che era l’ultima cosa che
desiderava fare. Allora, dopo aver finto di pensare a una soluzione, gli ordinò
di tornare a Snæfjallastaður e fare in modo di incontrare il reverendo Jón
davanti al cancello del cimitero al termine della messa e consegnargli il
biglietto che gli stava affidando. Così il fantasma volente o nolente fu
costretto ad andarsene. Incontrò il reverendo Jón al cancello del cimitero e gli
consegnò il biglietto proveniente dall’est; ma il foglio conteneva un
esorcismo che il reverendo Jón pronunciò immediatamente per impedire al
fantasma di Snæfjöll di infestare qualsiasi anima vivente e con quello lo spedì
dritto all’inferno. L’incantesimo era così potente che lo spettro scomparve
all’istante e non causò mai più alcun danno, né a Snæfjallastaður né in nessun
altro posto.
6 Letteralmente, «stanza da bagno». In origine era lo spazio per la sauna o per il
bagno, e quindi il più caldo della casa; nel XVI secolo il termine passa a indicare la
stanza principale, quella in cui si trascorre più tempo, si dorme, si mangia e si lavora.
(N.d.T.)
7 Isl. alin, unità di misura riferita alla distanza tra il gomito e i polpastrelli,
corrispondente a circa 50 centimetri, anche se nel corso della storia islandese ha subito
varie oscillazioni. (N.d.T.)
12. Molestie spettrali al reverendo Jón di Tröllatunga

Il fiordo più ampio nella regione degli Strandir è lo Steingrímsfjörður, ben popolato
nella riva meridionale da una fiorente comunità basata sulla pesca che conta circa
cinquecento persone. Al largo dello Steingrímsfjörður si staglia l’isoletta di Grímsey.
La leggenda narra che un tempo alcuni troll iniziarono a scavare un tunnel nel punto
più stretto della penisola fino al Gílsfjörður per staccare i Fiordi Occidentali dal
resto dell’Islanda. Non riuscirono a completare l’opera prima del sorgere del sole,
ma la terra scavata dal tunnel venne gettata in mare: a ovest formò le isolette del
Breiðafjörður e a est l’isola di Grímsey. Talvolta su Grímsey venivano abbandonati
dei cuccioli di volpe per poi tornare a cacciarli in inverno, quando le pelli erano più
pregiate.
Nella parte meridionale dello Steingrímsfjörður si trova la tenuta di Tröllatunga, che
per secoli, fino al 1910, ha ospitato un vicariato. Uno dei sacerdoti che vi prestarono
servizio all’inizio del XIX secolo fu il reverendo Björn Hjálmarsson, ottimo
predicatore, poeta, guaritore e scrittore di talento. Di suo figlio Jón, che servì come
curato, si parla in questo racconto.
Björn Hjálmarsson fu a lungo reverendo di Tröllatunga, nella regione degli
Strandir. Aveva fatto studiare uno dei suoi figli, Jón, per poi assumerlo come
cappellano. Il reverendo Jón aveva un carattere socievole e si prendeva gioco
dell’occultismo e della superstizione ogni volta che capiva di avere a che fare
con qualcuno che credeva a certe cose. Un’estate alla fattoria di Tröllatunga
venne impiegato un tale dell’Arnarfjörður che come molti altri suoi
compaesani si vantava di avere doti soprannaturali. Quando lo sentì, il
cappellano lo derise chiedendogli di dimostrare quel che sapeva fare e
continuò a provocarlo finché l’uomo si arrabbiò e disse che gli avrebbe
mandato uno spettro per dimostrargli di cosa era capace. Poi tornò a casa
nell’ovest e presto il reverendo Jón dimenticò le sue minacce.
L’anno successivo, in una notte di tarda estate, mentre dormiva in un
capanno della fattoria, il cappellano si svegliò sentendo che qualcuno gli
muoveva il coltrone; alzò lo sguardo e gli parve di vedere uno spiritello
malvagio ai piedi del letto, ma tornò a coricarsi ignorando l’apparizione. Il
demonietto continuò a punzecchiarlo e a fargli il solletico, così Jón si alzò sui
gomiti e gli disse: «Vattene! Sei troppo gracile per farmi paura.» Al che lo
spiritello sparì. Poco dopo tuttavia il reverendo si accorse che nel capanno
stava entrando come una densa nube di nebbia, che presto si trasformò in un
mostro e riempì l’edificio intero. Il reverendo gli si rivolse dicendo: «Non ho
paura di te, sei solo stazza vuota. Dovresti avere più sostanza per togliermi di
mezzo, quindi vattene.» E l’apparizione svanì.
A quel punto il cappellano ricordò il tale dell’Arnarfjörður e le sue minacce,
quindi immaginò di doversi aspettare un’altra visione, ma si sentiva ancora
molto sicuro di sé. All’improvviso vide una figura che sembrava fluttuare
attraverso la porta: era un fenomeno che rifulgeva come fuoco e aveva la
forma di un triangolo dalle punte acuminate. In quel momento Jón ebbe
l’impressione che l’intera stanza fosse piena di letti, ciascuno occupato da un
uomo a torso nudo. Poi gli sembrò che la figura avanzasse svolazzando e
infilzasse con una delle sue punte il petto dell’uomo coricato più vicino: vide
l’angolo penetrare in profondità e udì la vittima emettere un gemito mentre
moriva sul colpo. Il triangolo scivolò quindi verso l’uomo seguente e lo
uccise allo stesso modo mentre quello urlava di dolore. Lo spettro non si
sarebbe fermato prima di averli uccisi tutti, o almeno questo pensò il
cappellano.
Alla fine toccò a lui: la figura gli si fece incontro, ma Jón si alzò dal letto,
nudo, spalancò le braccia e disse con voce tuonante: «Allora vieni, ma fallo
in nome di Dio!» E non appena ebbe pronunciato quelle parole, tutte le
visioni sparirono e le cose tornarono alla normalità. Così si conclude la storia
dell’impavido cappellano di Tröllatunga.
Islanda Settentrionale
13. Kola di Kolugljúfur

Sul versante orientale del Miðfjörður, verso l’entroterra, s’incontra la fattoria di


Bjarg, che diede i natali a Grettir Ásmundarson, protagonista dell’omonima saga
antica nonché l’uomo più forte d’Islanda all’epoca della Colonizzazione. Avanzando
verso est, di fronte alla costa si trova una formazione rocciosa chiamata Hvítserkur,
che ricorda un mammut o una bestia mitologica: le leggende popolari raccontano che
fosse un troll intenzionato a distruggere a sassate il monastero di Þingeyri, che però
fu trasformato in pietra ai primi raggi del sole nascente. Dalla statale n. 1
spostandosi verso l’entroterra si incontra la valle di Víðidalur, una regione ricca di
storia, e l’antica tenuta di Víðidalstunga, dove intorno al 1400 fu prodotto il più
grande manoscritto islandese, detto Flateyjarbók («Libro di Flatey»), contenente
saghe di re e compilato per il magnate Jón Hákonarsson. Realizzato con la
pergamena ricavata da centotredici vitelli e riccamente miniato, fu conservato nel
monastero dell’isoletta di Flatey, nel Breiðafjörður, che gli diede il nome, e poi
donato dal vescovo di Skálhólt al re Federico II di Danimarca nel XVII secolo. Dopo
essere rimasto per tre secoli a Copenaghen, il cimelio nazionale fu restituito
all’Islanda nel 1971 insieme ad altri volumi. La fattoria di Víðidalstunga fu abitata
per secoli dalla stessa famiglia; nel periodo in cui la classe più abbiente iniziava a
imitare gli usi stranieri adottando cognomi al posto dei tradizionali patronimici, i
proprietari della tenuta presero il vezzo di farsi chiamare Vídalín, dal nome della
valle.
A poca distanza dalla fattoria di Kolugil si trova un profondo precipizio
chiamato Kolugljúfur, «Burrone di Kola». Si dice che nei tempi antichi fosse
abitato da una donna gigantesca da cui ha tratto il nome. Sul lato occidentale
del burrone c’è una valletta erbosa chiamata tuttora Kolarúm, «Letto di
Kola», dove si racconta che Kola andasse a coricarsi di notte quando voleva
dormire. Davanti alla valletta si ergono due esili pilastri rocciosi detti Bríkur,
o «Colonne del letto», oltre i quali una parete scoscesa scende fino al fiume
Víðidalsá, che scorre nella gola. Si narra che al mattino, quando voleva farsi
un boccone, Kola allungava un braccio tra i due pilastri per acchiappare i
salmoni nel fiume sotto.
Vicino alla fattoria di Kolugil si trova una piccola altura chiamata Koluhóll,
«Collina di Kola», che pare celi il sepolcro della gigantessa. Più volte si è
provato a scavare nella collina, ma il progetto è stato sempre abbandonato in
corso d’opera per qualche motivo: o perché la chiesa di Víðidalstunga
sembrava andare a fuoco, o perché il fiume Víðidalsá era sul punto di
rompere gli argini sotto Kolugil inondando la fattoria. Nella collinetta si è ora
formata una conca del diametro di due o tre braccia. Questa è la storia della
trollessa Kola, e benché non se ne percepisca più la presenza nella Víðidalur,
rimangono le tracce del tempo in cui l’abitava.
14. La ragazza di Skíðastaðir e il corvo

All’imboccatura della valle di Vatnsdalur si trova una vasta distesa di strani poggi, i
famosi Vatnsdalshólar, «Collinette di Vatnsdalur», che si dice siano innumerevoli
come le isolette del Breiðafjörður o i laghi della brughiera di Arnarvatnsheiði. La
loro origine non è chiara, ma si ritiene si siano formati in epoca preistorica in seguito
a un crollo di detriti rocciosi dal monte Vatnsdalsfjall. Su questo rilievo a est della
valle ci sono state nel corso del tempo molte frane che hanno lasciato tracce sia sui
suoi versanti che sulle pianure intorno: nel 1545, per esempio, un voluminoso
smottamento seppellì la fattoria di Skíðastaðir uccidendo tredici persone, ma la
tradizione sostiene che una fanciulla si sia salvata in circostanze straordinarie.

Molto tempo fa a Skíðastaðir viveva un fattore assai facoltoso, con un buon


numero di lavoranti a servizio che faceva sgobbare parecchio, sia in inverno
che in estate. Durante la fienagione le sue domestiche avevano il permesso di
cucinare soltanto la domenica, in modo da poter dare una mano nei campi gli
altri giorni della settimana. Inoltre non consentiva ai braccianti di andare alla
messa in chiesa né di leggere la Bibbia a casa. Una domenica, di primo
mattino, da molte fattorie della zona fu avvistato un uomo vestito di bianco
che avanzava verso nord sul monte Vatnsdalsfjall aiutandosi con un bastone.
Lo videro fermarsi sopra Skíðastaðir e con il bastone colpire il monte. In
quello stesso istante si formò una frana che diventò sempre più voluminosa
via via che precipitava lungo il pendio e che finì per abbattersi sulla fattoria
radendola al suolo. Nessuno ne uscì vivo, tranne una giovinetta che in quel
momento non si trovava lì.
La ragazza era da tempo a servizio a Skíðastaðir, nonostante non lo trovasse
affatto un buon posto di lavoro e fosse scontenta della miscredenza del
padrone. Era comunque gentile e volenterosa e per questo molto apprezzata
da tutti. Spesso doveva cucinare durante le feste di precetto senza mai
ricevere compensi straordinari se non il permesso di raschiare il fondo della
pentola. L’ultimo inverno era stato particolarmente duro, tanto da provocare
morti per fame, sia tra gli animali che tra le persone. Il fattore di Skíðastaðir
era ben rifornito di tutto ma si era rifiutato di condividerlo con gli altri e
aveva cacciato in malo modo tutti coloro che si erano presentati a chiedere
aiuto. La ragazza che cucinava la domenica era addolorata di non poter
aiutare i poveri e gli affamati e aveva cercato di dare loro parte della propria
razione e di quanto riusciva a grattare dal fondo della pentola. Tra il bestiame
che doveva rimanere all’aperto c’erano state ingenti perdite e i corvi si
radunavano in gran numero intorno alle fattorie per beccare qualsiasi scarto
venisse buttato. La ragazza cercava di gettare loro tutto quello che poteva,
perché aveva un cuore d’oro e voleva aiutare i corvi come qualsiasi altro
essere vivente. Uno di questi uccelli le si era affezionato a tal punto che la
seguiva ovunque andasse ogni volta che usciva dalla fattoria. E nei mesi
successivi a quel rigido inverno, in primavera e in estate, aveva continuato a
presentarsi a Skíðastaðir ogni giorno di buon mattino, perché lei gli teneva
sempre da parte qualcosa da mangiare.
La domenica della frana la ragazza si era alzata di buon’ora per preparare la
zuppa e si era affrettata a raschiare il fondo della pentola prima dell’arrivo del
corvo, in modo da potergli offrire gli avanzi. Mentre finiva lo aveva sentito
gracchiare fuori, così era uscita portando i resti in un mestolo e li aveva
posati sui sassi dove era solita dare da mangiare all’uccello. Ma quel giorno il
corvo non aveva toccato il cibo e si era invece messo a svolazzare qua e là in
cortile allontanandosi sempre più. Lei lo aveva seguito con il mestolo, ma lui
aveva proseguito per la sua strada. Così avevano continuato, lei seguiva il
corvo con il cibo e quello ogni volta volava avanti di un altro tratto. La
fanciulla non capiva perché il corvo si comportasse in modo così strano ma,
determinata a nutrirlo e a non darsi per vinta, lo aveva rincorso fino a
ritrovarsi a una notevole distanza dal podere, verso sud. Quando si era detta
di averne abbastanza ed era sul punto di rincasare, aveva sentito un rombo in
alto sulla montagna. Poi aveva visto la frana e la massa di detriti che
travolgeva la fattoria nella sua corsa lungo la valle. E aveva ringraziato Dio
con tutto il cuore per averle mandato quel saggio corvo a salvarle la vita.
15. Il mietitore di Tindar

Dopo aver oltrepassato il fiume Giljá, che nasce nella valle Sauðadalur, si raggiunge
un distretto noto con il nome di Ásar, che da Blönduós si estende verso sud, tra il
fiume Blanda e il lago Húnavatn. Si tratta di una zona pianeggiante attraversata dal
fiume Laxá á Ásum, particolarmente ricco di salmoni e sfruttato per rifornire di
elettricità tutte le aree rurali circostanti. La zona di Ásar conta numerose eccellenti
fattorie poiché il terreno è particolarmente favorevole all’agricoltura. Una di queste è
Tindar, immortalata nella seguente leggenda popolare.
Il fattore di Tindar si chiamava Árni Þorleifsson ed era un buon contadino
versato anche nelle arti magiche. Un’estate in cui l’erba del suo podere era
cresciuta poco a causa del freddo e del ghiaccio intorno alla costa, Árni evitò
di falciarla per lasciare che si alzasse il più possibile. Gli altri contadini la
tagliarono come al solito, ma quando tutti avevano già concluso la loro
fienagione, Árni non aveva ancora cominciato la sua. Qualche tempo dopo
chiese al diavolo di falciargli il podere nell’arco di una notte. Il diavolo volle
sapere che cosa avrebbe ottenuto in cambio e il contadino gli rispose che
poteva scegliersi il premio che voleva. Così il diavolo annunciò che si
sarebbe preso Árni in persona. Il fattore acconsentì, a condizione che il
diavolo lavorasse tutti i suoi campi in una sola notte e che finisse prima
dell’ora di alzarsi il mattino successivo.
Il podere di Tindar era particolarmente sassoso e comprendeva delle rovine
note con il nome di Gníputótt, che si diceva fossero i resti di una cappella
costruita in antichità. In ogni modo, era impossibile calare la falce in quelle
terre senza colpire una pietra. Il giorno stabilito Árni preparò un buon numero
di falci con la lama affilata, e la stessa sera disse ai famigli di coricarsi e
rimanere a letto senza muoversi durante la notte. Tutti fecero come aveva
chiesto, tranne una vecchia, che volle sapere che cosa stesse accadendo fuori:
scese dal letto, andò a sbirciare dallo spiraglio della porta di casa e vide uno
spiritello su ogni singola zolla d’erba, ma perse all’istante la vista dall’occhio
con il quale aveva guardato, e subito dopo perse anche il senno.
Al mattino, quando Árni uscì di casa, constatò che il diavolo aveva falciato
tutto il podere, tranne però le rovine di Gníputótt. Era ancora lì ad affannarsi
per finire, ma la falce aveva ormai perso il filo. Quando il contadino gli si
avvicinò, il diavolo stava canticchiando tra sé:
A Gníputótt abbondano i sassi
e il ferro qui geme sui massi.
Se Tindar non è un campo vasto
comunque a falciarlo non basto.
Aveva tagliato tutta l’erba tranne quella intorno a due poggi di Gníputótt:
sull’uno Árni aveva lasciato una Bibbia e sull’altro i Salmi di Davide. Il
diavolo aveva evitato accuratamente di avvicinarsi ai due libri e così Árni
disse che l’accordo era nullo e gli chiese di non tornare mai più. Gníputótt si
chiama ancora così e ne rimangono le tracce nel podere di Tindar.
16. Solveig e il reverendo Oddur

Blönduhlíð è un distretto rurale fertile e relativamente popolato che si estende a ovest


fino al fiume Héraðsvötn. Nei pressi della strada principale, nel cuore di questa
comunità, si trova Miklabær, una tenuta illustre nella storia islandese, che per molti
secoli fu sede di una chiesa e di una canonica. Nel XIII secolo, durante la cosiddetta
era degli Sturlunghi, nei pressi di Miklabær si combatté la sanguinosa battaglia di
Örlygsstaðir e nel XV secolo il reverendo Sigmundur Steinþórsson assaltò la fattoria
durante la disputa con il vescovo di Hólar. Ma Miklabær è particolarmente
conosciuta soprattutto per la leggenda che narra di una sfortunata fanciulla, Solveig,
che si suicidò nel 1778, e del reverendo Oddur Gíslason che svanì senza lasciare
traccia nel 1786.
Una ragazza di nome Solveig era domestica nella fattoria del reverendo
Oddur Gíslason di Miklabær. Accadde che si innamorò di lui e voleva che il
reverendo la sposasse, ma l’uomo non ne aveva l’intenzione e per questo la
fanciulla si disperò fino a perdere la ragione e a mostrare la volontà di
togliersi la vita. I lavoranti della fattoria non la perdevano mai d’occhio, in
particolare durante la notte, quando una donna di nome Guðlaug Björnsdóttir,
che era sorella del reverendo Snorri di Húsafell, le faceva la guardia. Tuttavia
un giorno, verso il crepuscolo, Solveig eluse la vigilanza di tutti e fuggì,
raggiungendo alcune rovine nel podere della fattoria. Þorsteinn, un bracciante
alle dipendenze del reverendo, se ne accorse e la seguì, ma lei fu così rapida
che quando la trovò si era già tagliata la gola. Vedendo tutto quel sangue che
le sgorgava dalla ferita pare che Þorsteinn abbia detto: «Se l’è presa il
demonio!» Ma poi sentì che Solveig mormorava qualcosa e capì che chiedeva
che il reverendo le concedesse degna sepoltura nel cimitero. Detto questo,
esalò l’ultimo respiro.
Þorsteinn raccontò l’accaduto ai famigli e riferì al reverendo l’estremo
saluto di Solveig, con la richiesta di poter giacere in terreno consacrato. Il
reverendo presentò istanza ai suoi superiori, ma si vide negare il permesso
perché la ragazza si era suicidata. La notte seguente Solveig gli si presentò in
sogno e con uno sguardo rancoroso gli disse: «Visto che non vuoi
concedermi una sepoltura in suolo consacrato, non ne beneficerai nemmeno
tu.» Il corpo della fanciulla fu poi sepolto fuori dal cimitero e senza rito
religioso. Poco tempo dopo Solveig cominciò a perseguitare il reverendo
Oddur non appena si trovava in giro da solo, che stesse cavalcando verso la
parrocchia annessa di Silfrastaðir o altrove. La cosa si venne a sapere in tutto
il circondario e così gli uomini della zona si incaricarono di scortare a turno il
reverendo fino a casa quando gli capitava di rientrare tardi.
Ma una volta accadde che il reverendo Oddur dovette andare alla chiesa di
Silfrastaðir e alla fine della giornata non era ancora rientrato a Miklabær. I
famigli non erano in pensiero per lui, perché sapevano che in genere veniva
scortato se faceva tardi. E in effetti anche quel giorno il sacerdote era stato
accompagnato fino al podere, ma poi aveva detto al suo parrocchiano che non
c’era bisogno che lo seguisse fino alla soglia di casa, tanto era già
praticamente arrivato, e così i due si erano salutati. Quella sera durante la
veglia gli abitanti della fattoria sentirono bussare, ma visto che erano colpi
piuttosto insoliti preferirono non andare ad aprire. Subito dopo sentirono che
qualcuno saliva di gran fretta sul tetto della baðstofa, ma prima di riuscire a
bussare alla finestra veniva trascinato via, come se fosse tirato giù per i piedi.
Più tardi, quando uscirono a dare un’occhiata, i famigli videro il cavallo del
reverendo legato fuori, con i guanti e il frustino infilati sotto la sella, e
cominciarono a sentirsi molto inquieti perché evidentemente Oddur era
tornato a casa, ma sembrava svanito nel nulla. Presero a cercarlo chiedendo di
lui in ogni fattoria dove poteva eventualmente essersi fermato, e appresero
che era stato accompagnato fino al podere ma non aveva voluto essere
scortato fino alla porta di casa. Allora si organizzarono squadre di ricerca che
si misero all’opera per giorni e giorni, ma fu tutto invano. Alla fine le
ricerche vennero sospese e tutti si convinsero che Solveig avesse tenuto fede
alla sua promessa e si fosse premurata che il reverendo Oddur non riposasse
in terreno consacrato, trascinandolo con sé nella tomba; ma nessuno andò mai
a controllare.
Questa è la leggenda di Solveig e del reverendo Oddur. Sulla scomparsa del
sacerdote esistono numerosi altri racconti: alcuni sostengono che il suo corpo
sia stato in realtà ritrovato e sepolto segretamente in un cimitero, forse nella
Héraðsdalur. Comunque non è mai stato dimostrato e la storia è rimasta
avvolta nel mistero, ispirando perfino un celebre componimento del poeta
romantico Einar Benediktsson (1864-1940), Hvarf séra Odds frá Miklabæ,
«La scomparsa del reverendo Oddur di Miklabær».
17. Snorri dei montoni di Þorljótsstaðir

Nell’entroterra dello Skagafjörður tre valli tagliano l’altopiano verso sud: quella
centrale prende il nome di Vesturdalur, «Valle occidentale». Un tempo era un
prospero distretto agricolo costellato di fattorie, di cui sono ormai rimaste poche
tracce, a parte i toponimi. All’estremità interna della valle, appena venti chilometri a
nord del ghiacciaio Hofsjökull, si trova un luogo deserto avvolto nella leggenda e nel
mistero: Hraunþúfuklaustur, «Monastero del poggio di lava», spesso chiamato
semplicemente Klaustur. Vi si trovano infatti resti di antichi edifici e si ritiene che in
antichità ospitasse una comunità religiosa, un convento o un monastero. Si racconta
che una volta alcuni contadini del luogo stavano praticando la lotta, come accadeva
spesso, quando uno cadde sulle ginocchia e sentì qualcosa di acuminato che spuntava
dal suolo. Lui e i suoi compagni si misero a scavare e videro che si trattava di un
oggetto color verderame, che una volta dissotterrato si rivelò essere una campana,
poi donata alla chiesa di Goðdalir.
L’insediamento più interno della Vesturdalur era Þorljótsstaðir, finché non fu
abbandonato nel 1950. Pare che fosse un casale abitato fin dagli albori della storia
islandese, nel X secolo, perché nelle vicinanze è stato rinvenuto un antico tumulo
pagano.
Un uomo di nome Snorri, soprannominato Geldinga-Snorri, ovvero «Snorri
dei montoni castrati», visse a Þorljótsstaðir qualche tempo dopo la Morte
Nera.8 Possedeva un numeroso gregge di ovini, tra cui due montoni castrati di
prima qualità, che in inverno lasciava all’aperto a Þorljótsstaðaruna, nome
dato alla parte orientale della valle fino a Hraunþúfuklaustur. Durante un
inverno particolarmente rigido, tra l’ultimo dell’anno e la tredicesima notte,9
il suo intero gregge sparì e per quanto Snorri lo cercasse, non riuscì e
ritrovarlo da nessuna parte. Con il disgelo primaverile le pecore riapparvero
al loro solito posto. L’inverno successivo fu altrettanto rigido, così Snorri
decise di controllare con più attenzione il suo gregge e lo raggiunse al
pascolo, portando con sé un grosso pezzo di trippa. Arrivò nel luogo che
ancora oggi si chiama Snorrasteinn, «Roccia di Snorri», vicino a Klaustur,
dove prima della Morte Nera prosperava una fattoria molto prestigiosa, si
sedette sulla roccia e mangiò la trippa tenendo d’occhio le sue pecore, che si
trovavano tutte a ovest del fiume.
Quando fece per radunarlo, il gregge scappò correndo verso Hraunþúfurani
e s’infilò nel campo di lava. Snorri lo seguì ma non riuscì a intercettarlo
perché si era scatenata una forte nevicata. Si dice che le pecore si fossero
spinte a est dei laghi di Ásbjarnarvötn, che un tempo erano ideali per la
pesca, a est di Lambahraun e Illviðrishnjúkar, e ancora a est del ghiacciaio
Hofsjökull. Snorri le inseguì per quasi un giorno e mezzo e infine si ritrovò in
un campo falciato nelle cui vicinanze sorgeva un ovile. Sulla porta c’era un
uomo che appena vide le pecore esclamò: «Allora siete tornate, povere
bestiole.» Snorri si avvicinò chiedendogli se le avesse già viste e quello
rispose di aver dato loro riparo l’inverno prima. Allora Snorri gli domandò
quali fossero i suoi terreni e l’uomo rispose di essere il fattore di Hamarsholt,
a Hreppar. Le pecore avevano dunque attraversato l’intero altopiano interno,
fino a raggiungere il sud dell’Islanda! Snorri fu accolto con ospitalità e
trascorse l’inverno lì, ma il venerdì santo i suoi ovini si rimisero in cammino
attraverso i monti per tornare a nord, e Snorri con loro. Rincasò a
Þorljótsstaðir la sera del sabato santo, entrò in cucina e trovò un paiolo di
carne sul focolare, così ne mangiò un boccone. In quel momento entrò sua
moglie, che al vederlo perse i sensi perché lo credeva uno spettro. Il
contadino cercò di rianimarla e quando la donna si riprese furono entrambi
molto felici di riabbracciarsi. Si dice che Snorri abbia ricompensato
generosamente il contadino di Hamarsholt per aver pasturato le sue greggi
durante l’inverno.
8 Una violenta epidemia di peste colpì l’Islanda tra il 1402 e il 1404; nonostante non
si conosca per certo il numero dei decessi, pare che la popolazione islandese ne sia
stata dimezzata. (N.d.T.)
9 Il þrettándinn (lett. «tredicesimo») si celebra il 6 gennaio e segna la fine delle feste
natalizie. (N.d.T.)
18. Da qualche parte i cattivi dovranno pur stare

L’isola di Drangey, nel fiordo di Skagafjörður, è formata da pareti di roccia basaltica


e ha una caratteristica forma squadrata. Si può scalare da un solo punto, chiamato
Uppganga, «Salita», ma l’ascesa è piuttosto impegnativa e nell’ultima parte richiede
l’aiuto di una scala di metallo. La sommità dell’isola è quasi del tutto pianeggiante e
molto erbosa e misura circa due chilometri quadrati. In passato vi si portavano gli
ovini a pascolare e si falciava l’erba per farne foraggio, ma se ne sfruttava anche la
ricca avifauna, raccogliendo uova e cacciando uccelli. Si dice che a volte in una sola
primavera si catturassero oltre duecentomila pennuti, tanto che Drangey era
comunemente detta «la dispensa dello Skagafjörður». Non ha mai conosciuto un
insediamento permanente ma a quanto sostiene la Saga di Grettir, Grettir
Ásmundarson e suo fratello Illugi sopravvissero sull’isola come esiliati dal 1028 al
1030, finché non vi furono uccisi.

Numerose leggende sono legate all’isola di Drangey e una in particolare ne


racconta l’origine. Una coppia di troll che viveva a Hegranes voleva portare
la mucca a farla montare, ma il toro più vicino si trovava a ovest, negli
Strandir. Così si misero in cammino, il troll davanti con la mucca per la
cavezza e la trollessa dietro. Non si erano addentrati molto nel fiordo che il
sole sorse da est e tutti e tre furono trasformati in pietra: la trollessa è il
pilastro roccioso chiamato Kerling, «Vecchia», che si trova a sud dell’isola,
mentre il troll si trasformò in un altro scoglio chiamato Karl, «Vecchio», che
si ergeva a nord di Drangey ed è crollato nel terremoto del 1755. La mucca,
naturalmente, è l’isoletta stessa.
Molte vite sono andate perdute a Drangey nel corso dei secoli, perché
calarsi dalle rocce per raccogliere uova o catturare uccelli era un’attività assai
pericolosa. A un certo punto, visto il gran numero di incidenti che capitavano,
si cominciò a credere che vi fosse qualcosa di sospetto, anche perché spesso
le corde con cui si calavano i raccoglitori sembravano tranciate di netto con
un’ascia o una lama affilata. Così si sparse la voce che nella roccia
albergassero mostri o spiriti maligni a cui dava fastidio che i contadini
dell’isola madre sottraessero le loro uova e i loro uccelli, tant’è che la gente si
avventurava sempre meno volentieri sull’isola di Drangey.
All’inizio del XIII secolo il vescovo di Hólar era Guðmundur Arason, un
uomo mite e un vero benefattore per i poveri e tutti i più sfortunati, al punto
di meritarsi l’appellativo di Gvendur il Buono,10 nonché famoso per aver
consacrato e benedetto vari angoli d’Islanda, tra cui numerosi pozzi ancora
noti come Gvendarbrunnar, «pozzi di Gvendur».
Guðmundur Arason venne a sapere di tutte quelle vite sacrificate a Drangey,
che da tempo faceva parte delle proprietà della sede episcopale di Hólar, ed
essendo intenzionato a trovare una soluzione al problema decise di
raggiungere l’isola insieme ad alcuni suoi chierici, portandosi una scorta di
acqua santa. Durante il tragitto si fermò a cantare messa nei pressi di uno
scoglio che da allora è detto Gvendaraltari, «Altare di Gvendur». Il vescovo
si mise poi a benedire le scogliere di Drangey con canti, acqua santa e
preghiere, e tutto andò per il meglio finché non raggiunse l’estremità
settentrionale dell’isola. Lì si fece calare con una fune per consacrare la
parete scoscesa, ma pochi istanti dopo che ebbe cominciato a parlare, una
grinfia grigia e pelosa emerse dalla roccia brandendo una spada o un’ascia
affilata e si mise a tagliare la corda a cui era appeso il vescovo. Due trefoli si
erano già spezzati e il buon prelato ebbe salva la pelle solo perché
fortunatamente il terzo trefolo tenne, essendo stato benedetto per intero.
Intanto una voce tuonò dalla parete rocciosa: «Basta benedire, vescovo
Gvendur. Da qualche parte i cattivi dovranno pur stare.» A quel punto il
vescovo smise di benedire e si fece issare in cima alla scogliera: il tratto di
parete rocciosa che non fu consacrata prese il nome di Heiðnaberg, «Roccia
dei pagani», e si dice vi siano molti più uccelli che in tutta Drangey.
10 Vedi nota a pag. 35. Gvendur è il vezzeggiativo di Guðmundur. (N.d.T.)
19. Il discepolo Loftur il Mago

Hólar, nella Hjaltadalur, è stata per secoli uno dei più importanti centri di potere e di
cultura di tutto il Paese. Nel 1106 vi venne fondata la sede episcopale del nord
Islanda e il primo vescovo, Jón Ögmundsson, che in seguito ottenne la beatificazione,
vi istituì una scuola e creò i presupposti per la fondazione del primo monastero
islandese. Tra i vescovi che servirono questa sede si annovera il famoso Guðmundur
il Buono, che si dice abbia consacrato pozzi, scogliere rocciose e sentieri perigliosi in
tutta l’isola. Il vescovo Guðbrandur Þorláksson fece stampare qui nel 1584 la prima
traduzione della Bibbia in islandese. La cattedrale di Hólar, consacrata nel 1763, è
uno degli edifici in pietra più antichi del Paese. Nel 1801 gli episcopati di Hólar e
Skálhólt furono soppressi per creare una sede unificata a Reykjavík e da quel
momento Hólar rimase solo una fattoria, finché nel 1883 vi fu istituita una scuola di
agraria attiva ancora oggi. Nel corso dei secoli molti giovani hanno studiato a Hólar
per poi prendere i voti e i più hanno servito egregiamente la Chiesa, con qualche
eccezione, come un certo Loftur, detto Galdra-Loftur, o «Loftur degli incantesimi»,
figura ben nota nel folklore islandese.

Loftur era il nome di uno studente della scuola di Hólar11 che si dedicava alle
pratiche magiche istigando i compagni a fare lo stesso, benché al suo
confronto fossero appena dei dilettanti. Con i suoi sortilegi era solito giocare
a tutti dei tiri mancini: una volta in cui era tornato a casa per le vacanze di
Natale prese una delle domestiche, la fornì di zoccoli, la imbrigliò e con un
incantesimo la cavalcò a lungo prima di riportarla a casa. La ragazza rimase
per parecchio tempo allettata a causa delle ferite e dello sfinimento, ma non
riuscì a dire niente a nessuno finché Loftur fu in vita. Un’altra serva la mise
incinta, per poi ucciderla con una stregoneria.
Þorleifur Skaftason, il reverendo della cattedrale di Hólar, rimproverava
spesso il ragazzo senza tuttavia ottenere alcun risultato, anzi, Loftur faceva
dispetti anche a lui, per quanto innocui, visto che il sacerdote era altrettanto
esperto di arti magiche. Loftur imparò tutto quel che stava nel volume di
magia detto Gráskinna, «Pelle grigia», ma non contento voleva poter
accedere al famoso libro magico Rauðskinna, «Pelle rossa», appartenente al
vescovo Gottskálk il Cattivo,12 che se l’era portato con sé nella tomba. Una
volta, all’inizio dell’inverno, Loftur parlò con un compagno di scuola che
sapeva essere molto coraggioso e gli chiese di aiutarlo a risvegliare dalla
morte i vescovi sepolti nel pavimento della piccola cattedrale. Il suo compito
sarebbe stato rimanere vicino alla corda della campana, per suonarla a più
non posso appena avesse ricevuto il segnale. Il ragazzo accettò con riluttanza,
e solo perché Loftur minacciò di ucciderlo se non lo avesse fatto.
Così si accordarono e la sera stabilita si alzarono dal letto e andarono in
chiesa. Era una notte di luna, per cui la cattedrale non era del tutto immersa
nell’oscurità. Il ragazzo prese posto sotto le campane mentre Loftur salì sul
pulpito e cominciò a recitare i suoi incantesimi. Ben presto i vescovi del
passato, uno dopo l’altro, si levarono dalle loro tombe. Indossavano tutti
tuniche bianche con una croce sul petto e avevano in mano un bastone.
Nessuno di loro possedeva doti magiche, quindi Loftur riuscì a pronunciare i
suoi incantesimi con crescente intensità e cantò i Salmi al contrario in onore
del demonio. A quel punto si udì un forte boato e Gottskálk il Cattivo in
persona si alzò dalla tomba, con un bastone nella mano sinistra e un libro
rosso nella destra, e disse sprezzante: «Canti bene, figliolo, ma non avrai la
mia Rauðskinna.» Al che Loftur recitò le sue formule magiche come mai
prima e rivolse al demonio sia il Paternoster che la preghiera di benedizione.
La chiesa intera scricchiolava e sussultava. Gottskálk porse con riluttanza
un angolo del libro a Loftur, che a sua volta allungò la mano per prenderlo,
ma il compagno scambiò quel gesto per il segnale, così afferrò la corda e si
mise a scampanare con foga. Le figure evocate svanirono nel pavimento con
un grande fragore e Loftur si ritrovò solo, attonito e disorientato. Uscì
barcollando dalla chiesa, dove trovò il suo complice che lo aspettava. Dopo
questo evento Loftur rimase come allucinato, convinto di essere perduto; non
sopportava più di rimanere solo e quando calava la sera doveva tenersi
sempre accanto una candela accesa. Spesso lo si sentiva mormorare: «La
domenica di metà Quaresima sarò negli inferi e nei tormenti.»
Alla fine fu deciso di mandarlo a Staðarstaður da un sacerdote timorato di
Dio che aveva la reputazione di curare i dissennati e le vittime di malefici.
Loftur si riprese e mostrò qualche progresso, finché non arrivò la domenica di
metà Quaresima. Il sacerdote fu convocato in una fattoria dei dintorni per
dare l’estrema unzione a un moribondo, ma prima di partire assicurò a Loftur
che sarebbe andato tutto bene se avesse avuto cura di non uscire di casa.
Appena il reverendo lo lasciò solo, però, Loftur si alzò dal suo giaciglio e
raggiunse una fattoria vicina, dove convinse un vecchio famigerato a uscire
con lui in mare a bordo di una barca a remi. Si allontanarono di poco dalla
riva, in una giornata limpida e senza vento, ma la barca non fece più ritorno
né si seppe mai che cosa ne fosse stato. In seguito qualcuno disse di aver
visto una mano pelosa e grigia uscire dall’acqua, afferrare la prua dove stava
seduto Loftur e trascinare negli abissi la barca e i due compari.
11 Galdra-Loftur è anche il soggetto dell’omonimo dramma di Jóhann Sigurjónsson
del 1914. (N.d.T.)
12 Gottskálk Nikulásson Grimmi fu vescovo di Hólar dal 1496 al 1520. È noto per
essere l’autore di un famoso testo di magia nera, la Rauðskinna, detto anche bók
máttarins, «libro del potere», che consentiva di diventare esperti di arti magiche al
punto di dominare Satana e che compare in numerose leggende del folklore islandese.
Si dice che il libro sia stato sepolto insieme al suo autore. (N.d.T.)
20. Il commerciante di Búðarbrekkur

La regione dello Skagafjörður appare ancora più maestosa grazie alla presenza
dell’alto promontorio di Þórðarhofði, appena a nord di Hofsós, sul versante est del
fiordo, un antico collo vulcanico che deve il nome a Þórður Bjarnarson, detto
«Þórður del promontorio», stabilitosi qui durante il periodo della Colonizzazione. Un
tempo si ventilò l’idea di costruirvi un attracco e trasformare Þórðarhofði in un porto
di pesca; il poeta Jóhann Sigurjónsson (1880-1919) ne fu uno dei maggiori
sostenitori, ma dopo la sua morte il progetto fu abbandonato. Sul lato meridionale del
promontorio si trova Búðarbrekkur, dove si ergono varie rocce basaltiche ritenute la
chiesa, lo spaccio e la dimora degli elfi. Una leggenda popolare racconta di un
contadino di Þrastarstaðir che intrattenne scambi commerciali con il popolo nascosto
lì residente.
A Þrastarstaðir, nella Höfðaströnd, viveva un uomo chiamato Þórður, che a
detta di tutti aveva un carattere particolare. Un giorno d’inverno decise di
andare al villaggio di Hofsós a fare compere. La neve cadeva così fitta che
tutti pensavano fosse impossibile orientarsi, ma Þórður si mise comunque in
marcia verso sud, con la sua bisaccia di beni da vendere, e attraversò i terreni
paludosi sopra Hofsós. Ben presto smarrì la strada a causa della bufera e
continuò a camminare senza meta per tutto il giorno fino a sera, quando d’un
tratto gli parve di scorgere delle botteghe a poca distanza, in edifici così alti
che ne rimase stupefatto. Le finestre erano tutte illuminate, quindi si avvicinò
e vide all’interno alcune persone che ballavano al suono di strumenti
musicali. Bussò alla porta e un uomo in pastrano si affacciò a domandare che
cosa volesse. Þórður spiegò di essersi perso e chiese di potersi fermare per la
notte. Il padrone gli permise di sistemarsi in casa e gli disse: «Entra pure e
porta la tua bisaccia di merci. Domani farò io affari con te, e non saranno
meno proficui che a Hofsós.» Al che l’uomo con il pastrano condusse Þórður
in una stanza dove c’era gente abbigliata a festa: una donna, dei bambini e dei
servi. L’uomo sussurrò alla moglie che era arrivato un viandante stanco che
aveva smarrito la strada e le chiese di preparargli qualcosa di buono da
mangiare. Lei gli servì subito del cibo ottimo e abbondante, mentre il padrone
di casa tirò fuori una bottiglia di vino e due bicchieri. Versò il vino, bevve dal
suo bicchiere e offrì l’altro a Þórður, che ebbe l’impressione di non aver mai
assaggiato un vino più buono in tutta la sua vita. Scolò un bicchiere dopo
l’altro in allegria e si ritrovò piuttosto alticcio, poi gli fu preparato un comodo
letto e dormì tutta la notte.
Il mattino dopo gli servirono una deliziosa colazione e il padrone di casa gli
propose di trattare con lui i suoi affari commerciali. Þórður gli vendette i beni
che aveva portato, incassando il doppio di quanto avrebbe ricavato a Hofsós.
La bottega dell’uomo, poi, era piena di ogni mercanzia che costava la metà
del prezzo chiesto nello spaccio di Hofsós. Þórður comprò granaglie, lino e
vari altri beni, e in più il commerciante gli regalò uno scialle per la moglie e
del pane per i bambini. Disse che era la sua ricompensa per l’aiuto che Þórður
aveva dato a suo figlio una volta che si era trovato in pericolo di vita. Þórður
replicò che non ricordava di aver fatto niente del genere, ma l’uomo raccontò:
«Una volta ti trovavi ai piedi del promontorio di Þórðarhofði con un gruppo
di altri uomini, in attesa del vento favorevole per raggiungere Drangey. I tuoi
compagni cominciarono a tirare sassi per passare il tempo, cercando di
colpire una certa roccia. Era una calda giornata di sole e mio figlio si era
disteso a riposare lì sotto, perché era rimasto sveglio tutta la notte. Tu
chiedesti a quegli uomini di smettere di tirare i sassi perché era un
passatempo inutile, e quelli smisero, ma ti canzonarono per le tue stranezze
dicendo che sei sempre stato un tipo bislacco. Se tu non avessi impedito loro
di giocare, avrebbero ucciso mio figlio.»
Quando l’uomo ebbe concluso la sua storia Þórður si preparò per partire,
perché il tempo si era rischiarato. Dopo aver salutato tutti si mise in marcia e
il commerciante lo accompagnò per un tratto, gli augurò buon viaggio e si
accomiatò. Þórður si avviò per la sua strada, ma qualche istante dopo,
voltandosi a guardare indietro, non vide più nient’altro che Þórðarhofði poco
lontano. Ne rimase profondamente stupito ma proseguì e tornò a casa, dove
raccontò tutta la storia alla moglie, le mostrò quello che aveva comprato e le
diede lo scialle. Lei ne fu molto felice e lo ringraziò per il dono. Gli acquisti
di Þórður vennero messi in mostra e richiamarono curiosi da ogni parte,
perché merci di una tale qualità non si erano mai viste in Islanda, nemmeno a
volerle cercare. Þórður non rivide più il commerciante né nessun altro della
compagnia, ma conservò alcuni dei beni acquistati per tutta la vita e li lasciò
in mostra perché tutti potessero ammirarli.
21. Hálfdan di Fell e la donna di Málmey

Al largo dello Skagafjörður, non lontano da Drangey, si trova Málmey, un’altra


piccola isola verde e fertile, abitata per molti secoli fino al 1950, quando gli ultimi
residenti la abbandonarono in seguito a un incendio. Málmey vanta una storia lunga
e ricca di eventi e fino al XVIII secolo ha avuto una propria chiesa, servita dal
reverendo di Fell, una parrocchia sul versante est dello Skagafjörður che ha avuto
molti sacerdoti famosi anche per le loro doti soprannaturali. Esistono diverse storie
collegate all’isoletta: per esempio pare fosse proibito portarvi dei cavalli, e se una
coppia vi abitava per più di vent’anni, la moglie spariva senza lasciare traccia. Uno
dei racconti più celebri parla infatti della scomparsa della moglie del fattore di
Málmey e dei tentativi fatti dal marito per riprendersela con l’aiuto delle arti occulte
del reverendo di Fell.
Una volta, al tempo del reverendo Hálfdan di Fell, sull’isola di Málmey
viveva un uomo piuttosto benestante di nome Jón. Aveva iniziato la sua
attività agricola sull’isoletta e da allora non l’aveva più lasciata, ma i
vent’anni durante i quali sua moglie poteva dirsi al sicuro a Málmey erano
ormai trascorsi e nessuno avrebbe più osato continuare ad abitarci. Jón aveva
però un carattere determinato e non dava molto credito alle superstizioni, così
rimase nella fattoria che aveva avuto in eredità dal padre. Passò il
ventunesimo anno e arrivò il Natale senza che accadesse nulla, ma la sera
della Vigilia la moglie di Jón sparì e nessuno riuscì a capire che cosa ne fosse
stato di lei, nonostante l’avessero cercata per ogni dove.
Addolorato, Jón era deciso a scoprire perché sua moglie fosse sparita, così si
precipitò a Fell dal reverendo Hálfdan e gli spiegò la situazione. Il pastore
disse di essere sicuramente in grado di venire a sapere che cosa fosse
accaduto e dove si trovasse la donna, ma sarebbe stato inutile perché
comunque Jón non ne avrebbe tratto alcun beneficio. Il contadino gli chiese
allora se poteva almeno portarlo a fargliela vedere e il reverendo, benché
molto restio a esaudire la richiesta, finì per cedere alla sua insistenza e decise
di concederglielo. Disse a Jón di tornare da lui in un giorno ben preciso,
nell’ora in cui tutti erano già coricati.
Jón si presentò a Fell nel giorno stabilito e trovò il reverendo già in piedi e
pronto per partire. All’estremità settentrionale del cimitero c’era un cavallo
grigio, sellato e imbrigliato. Il reverendo montò in groppa e ordinò al
contadino di salire dietro di lui, dicendo: «Ti avverto, però, qualsiasi cosa
succeda, non devi dire una sola parola, perché ne va della tua vita.» Il
reverendo spronò il cavallo e partì e il contadino rimase strabiliato dalla
velocità a cui procedevano. Seguirono il tragitto più breve per attraversare il
fiordo, oltre Dalatá e Siglunes, e si diressero verso Ólafsfjarðarmúli. A un
certo punto il cavallo ebbe uno scarto improvviso e il contadino gridò per lo
spavento. «È scivolato, e ora zitto!» ordinò il reverendo – e da allora la frase
è diventata un modo di dire.
Non si conoscono altri dettagli sul loro viaggio finché non arrivarono alle
alte e ripide scogliere che si trovano a nord di Ólafsfjarðarmúli. Smontarono
da cavallo e il reverendo avanzò verso la parete di roccia, prese un ramoscello
e con quello bussò. Pochi istanti dopo la roccia si aprì e apparvero due figure
femminili vestite di blu che scortavano la moglie del contadino. La donna era
molto cambiata e quasi irriconoscibile: sembrava gonfia e bluastra,
somigliava a una trollessa, e sulla fronte aveva il marchio della croce del
colore della sua carne. In seguito il reverendo Hálfdan spiegò a Jón che era il
ricordo del battesimo, unico indizio della sua vita precedente. La donna disse
al marito: «Dunque sei qui, Jón. Che cosa vuoi da me?» Il contadino rimase
senza parole. Il sacerdote gli chiese se voleva riprendersi sua moglie o
parlarle, ma Jón rispose di no. Allora Hálfdan fece cenno alle donne di
rientrare nella roccia, che si richiuse alle loro spalle. Poi sigillò l’accesso in
modo che le donne non potessero più fare del male a nessuno. Da quella volta
il punto in cui il reverendo aprì la roccia a nord di Ólafsfjarðarmúli si chiama
Hálfdanarhurð, «Porta di Hálfdan»: è di colore rosso e si distingue
chiaramente dalle altre rocce intorno.
Il reverendo Hálfdan e il contadino di Málmey tornarono indietro
percorrendo la stessa strada e arrivarono a Fell prima che facesse giorno.
Smontarono da cavallo nello stesso punto all’estremità nord del cimitero e il
reverendo sbrigliò Gráni, sbattendogli accidentalmente le redini contro un
fianco. Il cavallo si indispettì e scalciò con le zampe posteriori. Il sacerdote
scansò il colpo, ma lo zoccolo lasciò una tacca sul muretto del cimitero e pare
che per quanto provassero a ripararla, la fenditura si riapriva ogni volta. Si
dice inoltre che da quella volta nessuno ha mai più subito alcun danno a
Málmey, anche perché nessuno ha più osato viverci per più di vent’anni.
22. Il diacono di Myrká

La Öxnadalur era una volta costellata di fattorie, oggi disabitate. Si tratta di una
valle stretta incuneata tra alti monti dove durante l’inverno si hanno pesanti nevicate.
Da un gruppo di rilievi che si allungano in mezzo alla valle si ergono spettacolari
pilastri di roccia noti come Hraundrangar, «Colonne di lava». Il più amato poeta
romantico islandese, Jónas Hallgrímsson, nacque qui a Hraun nel 1807. Nella valle
erbosa dove il fiume Bægisá si getta nell’Öxnadalsá si trova la fattoria di Bægisá,
dove servì anche il reverendo Jón Þorláksson, poeta e traduttore a cui si deve la
versione islandese del Paradiso Perduto di John Milton. È impossibile attraversare
questa regione senza ricordare una spaventosa leggenda popolare legata alle fattorie
di Bægisá e Myrká.
C’era una volta a Myrká un diacono che era molto legato a Guðrún, una
domestica a servizio dal reverendo di Bægisá. Durante l’avvento il diacono si
presentò a Bægisá in sella al suo solito destriero, un cavallo dalla criniera
grigia di nome Faxi, per invitare Guðrún a passare la festa del Natale a
Myrká, e si accordò con lei per tornare a prenderla il giorno della Vigilia. La
settimana prima era caduta molta neve e i fiumi si erano ghiacciati, ma il
giorno in cui il diacono andò a Bægisá per accordarsi con Guðrún ci fu un
repentino disgelo e il fiume Hörgá si fece così gonfio e pieno di pezzi di
ghiaccio galleggianti da risultare impraticabile. Il diacono ripartì in serata e
attraversò il fiume Öxnadalsá su un ponte di ghiaccio, ma una volta raggiunto
l’Hörgá vide che il ghiaccio era stato spazzato via dalla corrente. Allora
cavalcò lungo l’argine finché non trovò un altro passaggio e provò la
traversata a cavallo, ma verso metà tragitto la lastra di ghiaccio si spezzò e lui
finì in acqua.
Il mattino dopo il contadino di Þúfnavellir trovò un cavallo con tutti i
finimenti ai margini del suo podere e gli sembrò di riconoscere Faxi, il
destriero del diacono di Myrká. Ne rimase molto sorpreso, perché aveva visto
il diacono attraversare il fiume a cavallo il giorno prima ma non tornare
indietro, perciò sospettò subito che fosse accaduto qualcosa di grave. Scese al
fiume, fino al promontorio detto Þúfnavallanes, e vi trovò il diacono riverso
sulla riva e senza vita. Un pezzo di ghiaccio lo aveva colpito alla nuca. Il
contadino andò a Myrká a riferire la notizia, così il diacono fu trasportato a
casa e sepolto la settimana prima di Natale. A Bægisá non seppero niente di
tutto ciò, perché le fattorie erano rimaste isolate a causa del disgelo e dello
stato dei fiumi.
Il giorno della Vigilia il tempo si fece più stabile e durante la notte il livello
dell’acqua scese di nuovo, perciò Guðrún non stava quasi in sé dalla gioia di
poter trascorrere la festa di Natale a Myrká. Nel pomeriggio cominciò a
prepararsi ed era ormai pronta quando sentì bussare alla porta della fattoria.
Un’altra domestica andò ad aprire, ma non vide nessuno. Fuori non era del
tutto buio né del tutto chiaro, perché la luna vagava tra le nubi mostrandosi e
nascondendosi a turno. Quando la donna rientrò dicendo di non aver visto
nessuno, Guðrún replicò: «Dev’essere uno scherzo per me, vado io.» Afferrò
il paltò al volo mentre usciva e infilò una sola manica buttando l’altra sopra la
spalla e tenendola ferma con la mano. Fuori vide Faxi e un uomo che pensò
essere il diacono. Lui la prese in braccio e la sollevò in sella, poi montò
davanti a lei e cavalcarono per un tratto senza parlare.
Raggiunsero gli alti argini del fiume Hörgá e mentre il cavallo discendeva al
galoppo il terrapieno, al diacono scivolò il cappello in avanti e Guðrún gli
vide l’osso scoperto del cranio. In quello stesso istante la luna si affacciò tra
le nubi e il diacono recitò:
La luna sbuca,
il morto cavalca,
vedi la chiazza bianca
qui sulla mia nuca,
Garún, Garún?13

Guðrún rimase sconvolta e non riuscì ad aprire bocca. Proseguirono e non si


sa se parlarono o meno prima di arrivare a Myrká, dove smontarono davanti
al cancello del cimitero e il diacono disse:
Aspetta qui, Garún, intanto,
che porto Faxi, Faxi
oltre il camposanto.
Detto questo si allontanò conducendo il cavallo per le redini, e quando la
fanciulla si voltò vide una fossa aperta nel cimitero. Atterrita, corse ad
aggrapparsi alla corda della campana all’ingresso del camposanto e la suonò,
ma all’improvviso si sentì ghermire da dietro. Per fortuna aveva infilato una
sola manica del cappotto, perché se lo sentì tirare con una tale forza che la
cucitura si strappò. L’ultima cosa che vide fu il diacono ruzzolare nella fossa
aperta con il paltò strappato in mano e la terra che gli si riversava addosso da
entrambi i lati. Guðrún scampanò furiosamente finché la gente di Myrká non
venne a prenderla, trovandola fuori di sé dalla paura perché era convinta di
aver avuto a che fare con il fantasma del diacono, benché non sapesse ancora
della sua morte. Le raccontarono subito tutta la storia e lei a sua volta riferì
quanto le era accaduto.
Quella sera, quando tutti erano a letto e le luci erano spente, il diacono tornò
a trovare Guðrún. Ci fu un tale putiferio in casa che nessuno riuscì a dormire,
e la ragazza, terrorizzata, non fu più capace di rimanere sola. Dovettero
vegliarla ogni notte per due settimane e perfino il reverendo si sedeva ogni
sera al suo capezzale a leggerle il Salterio. Alla fine mandarono a chiamare
uno stregone dello Skagafjörður che con un potente incantesimo riuscì a
placare il diacono e a far rotolare un grosso macigno fin sulla sua tomba,
dove in tutta probabilità riposa tuttora. Dopo questo evento le apparizioni a
Myrká cessarono e Guðrún si riprese e poté fare ritorno a casa a Bægisá, ma a
detta di molti non fu mai più quella di prima.
13 Essendo uno spettro, il diacono non può pronunciare il nome di Dio (Guð-,
componente del nome della ragazza), pertanto lo storpia in Garún. (N.d.T.)
23. Il contadino di Grímsey e l’orsa polare

L’isoletta di Grímsey ospita la comunità più settentrionale d’Islanda e


nonostante sia attraversata dal Circolo Polare Artico gode di un clima
relativamente mite. In passato vi erano una dozzina di fattorie in cui si viveva
di pesca, allevamento e altre risorse naturali, come le uova degli uccelli
marini, ma la popolazione non è stata sempre costante nei secoli e in alcuni
periodi l’isola è rimasta disabitata. Oggi conta circa cento abitanti, un
negozio, un ufficio postale, un centro civico e un osservatorio meteorologico,
oltre a un ottimo porto e a una pista d’atterraggio che consentono regolari
collegamenti via mare e via aria con l’isola madre. Spesso accade che gli
orsi polari finiscano a Grímsey dalla Groenlandia su lastroni di ghiaccio
alla deriva e si aggirino per l’isola in cerca di cibo. Uno di questi esemplari,
ucciso nel 1969, è stato imbalsamato ed è esposto al Museo di Storia
Naturale di Húsavík. Ma le leggende popolari narrano di un altro orso che
molto tempo fa fece visita all’isola ricevendo un’accoglienza ben più
calorosa.
Una volta accadde che il fuoco si spense su tutta l’isola di Grímsey e nessuna
fattoria era più in grado di accendere il focolare. Successe molto tempo prima
dell’invenzione dei fiammiferi, per cui l’unica soluzione era andare sull’isola
madre a recuperare delle braci. In quei giorni non tirava vento e il gelo era
stato talmente intenso che lo stretto di Grímsey si era ghiacciato, così furono
scelti tre uomini forti da inviare in missione. I compagni si misero in marcia
di primo mattino in una giornata serena e procedettero senza eventi degni di
nota finché non si trovarono di fronte a una crepa nel ghiaccio. Due di loro la
superarono con un salto, mentre il terzo non se la sentì. I primi due
proseguirono il cammino dicendo al terzo di tornare indietro, ma quello non
aveva intenzione di arrendersi e avanzò lungo il crepaccio sperando di trovare
un punto in cui fosse più agevole superarlo. Con il trascorrere della giornata
il cielo si coprì di nubi e da sud si alzò un vento carico di pioggia. Il ghiaccio
cominciò a spaccarsi e l’uomo si ritrovò su una lastra galleggiante che fu
trasportata dalla corrente verso il mare aperto. Quando scese la sera la lastra
si accostò a uno sperone di ghiaccio e l’uomo riuscì a saltarvi sopra, ma
subito dopo vide poco lontano da lui la femmina di un orso polare con due
cuccioli. Come se il freddo e la fame che lo attanagliavano non fossero
bastati, l’uomo si ritrovò così in un ben più inquietante pericolo di vita.
L’orsa lo osservò per qualche istante, poi si alzò sulle zampe posteriori, gli si
avvicinò e gli fece cenno di coricarsi nella sua tana. L’uomo le obbedì,
benché non fosse molto convinto. Poi l’orsa si distese e gli consentì di
succhiare il suo latte come facevano i cuccioli.
Così trascorse la notte. La mattina dopo l’orsa si alzò, si allontanò di un
breve tratto dalla tana e indicò all’uomo di raggiungerla. Quindi si accucciò e
fece intendere all’uomo di montarle in groppa. Quando le si fu arrampicato
sopra, l’orsa si drizzò e si scrollò tutta con una tale violenza che lui perse la
presa e cadde. Così passarono tre giorni: l’uomo dormiva nella tana dell’orsa
e beveva il suo latte; l’orsa lo faceva montare in groppa e si scrollava fino a
farlo cadere. Il quarto mattino andò meglio, perché l’uomo riuscì a tenersi
forte e a non cadere per quanto lei si dimenasse, così più tardi quello stesso
giorno l’orsa scivolò in acqua con lui sulla schiena e nuotando lo portò fino a
Grímsey.
Quando raggiunsero la riva, l’uomo fece cenno alla bestia di seguirlo a casa,
e una volta arrivati, fece mungere la sua vacca migliore e offrì all’orsa tutto il
latte che voleva, ancora tiepido. Poi andarono all’ovile, dove l’uomo fece
macellare due dei suoi ovini migliori, li legò insieme per le corna e glieli
appese alla groppa. A quel punto l’orsa riprese il mare e tornò a nuoto dai
suoi cuccioli. Gli abitanti di Grímsey quel giorno ebbero motivo per essere
felici, perché nello stesso momento in cui guardavano stupefatti l’orsa polare
che partiva, intravidero una barca che arrivava veloce dall’isola madre
riportando il fuoco. Tutti e tre i loro valorosi uomini erano tornati.
24. Gli dei e i troll di Goðafoss

L’Islanda vanta un gran numero di cascate di ogni forma e dimensione, ma una delle
più pittoresche e famose è Goðafoss, la «Cascata degli dei», formata dal fiume
Skjálftandafljót. Poco a sud del lago Ljósavatn si trova una fattoria molto antica che
porta lo stesso nome: intorno all’anno 1000 era la dimora di Þorgeir Þorkelsson, il
capo di Ljósavatn, che ebbe un ruolo cruciale nella storia islandese. È a lui che la
cascata deve il proprio nome.

Þorgeir di Ljósavatn era il legislatore che, com’è noto, all’Alþing14 tenutosi


nell’anno 1000 prese la decisione che l’Islanda dovesse diventare una
nazione cristiana. Pagano lui stesso quando arrivò a cavallo all’assemblea
quella fatidica estate, una volta che fu accettata la proposta che tutti gli
islandesi venissero battezzati fu probabilmente tra i primi a ricevere il
sacramento e quando tornò a casa come cristiano dovette modificare i propri
usi e costumi. Per dare l’esempio rimosse i simulacri degli dei norreni dal
tempio, li portò fino al fiume Skjálfandi e li gettò in acqua in una grande
cascata, che da quel giorno prese il nome di Goðafoss, la «Cascata degli dei».
Anche nella Saga di Grettir si racconta la storia di una cascata, e benché
non si specifichi quale sia, è evidente che si tratti di Goðafoss.
Il fuorilegge Grettir Ásmundarson si nascondeva nella fattoria di
Sandhaugar, nella valle Bárðardalur. Da due anni accadeva che durante la
notte di Natale, quando i famigli andavano alla messa, gli uomini incaricati di
rimanere di guardia alla fattoria sparissero nel nulla. Prima era stato
Þorsteinn, il fattore in persona, a sparire, e l’anno dopo era toccato a un
bracciante. Così Grettir si offrì di rimanere da solo a badare alla fattoria per il
Natale successivo. Dopo che tutti gli altri se ne furono andati, cercò di
prepararsi al meglio e in un primo momento non accadde nulla di particolare.
Ma nel cuore della notte sentì un gran fracasso e vide entrare una trollessa
mostruosa che gli si avventò contro. I due lottarono parecchio, prima dentro
casa, poi fuori, spostandosi per il lungo e per il largo nel loro corpo a corpo.
La trollessa cercò in tutti i modi di trascinare Grettir verso il burrone sotto il
quale scorreva il fiume, e ce l’aveva quasi fatta ma all’ultimo momento e con
uno sforzo estremo Grettir riuscì a liberare la mano destra e ad afferrare
l’ascia. In un colpo solo mozzò di netto il braccio alla trollessa, che cadde giù
dal precipizio e fu trascinata nella cascata.
Grettir sospettava che nel burrone si nascondessero altri troll, perciò, poco
dopo Natale, chiese al reverendo Sveinn di Eyjadalsá di accompagnarlo a
esplorare la cascata e i dintorni. Dietro la cortina d’acqua ebbero
l’impressione di intravedere una grotta, e malgrado fosse difficile
raggiungerla, Grettir volle esaminarla meglio. Così convinse il reverendo a
stare sulla sponda del precipizio a badare alla corda dell’imbracatura e si
preparò all’impresa: rimase con pochi indumenti addosso, si cinse dell’ascia,
e senza portare altre armi si tuffò dentro la cascata. L’ultima cosa che il
reverendo vide di lui furono le piante dei piedi che sparivano nell’acqua,
dopo di che non ebbe modo di sapere che cosa gli fosse successo. Grettir si
immerse in profondità, cosa non facile a causa del gorgo che si formava sotto
la cascata, e dovette scendere fin sul fondo per poter risalire al di là della
cortina d’acqua. Lì trovò un masso su cui si arrampicò. Nella parete di roccia
da cui il fiume precipitava si apriva una grotta enorme. Grettir entrò e vide un
grande fuoco, davanti al quale era seduto un gigante spaventoso. Sentendolo
arrivare, il gigante saltò in piedi, afferrò una lancia e gliela scagliò contro, ma
Grettir parò il colpo con il manico dell’ascia, che si spaccò in due. Allora il
gigante fece per prendere la spada appesa nella grotta, ma in quell’istante
Grettir lo colpì sul petto, con un taglio così lungo e profondo che le viscere
del troll rotolarono giù nel fiume. Nel frattempo il reverendo, rimasto a tenere
la corda dell’imbracatura, vide che la corrente trascinava via delle interiora
insanguinate e fuggì di corsa, mollando lì la fune. Era sera e il reverendo si
convinse che Grettir fosse ormai morto.
Ma Grettir continuò a colpire il gigante finché non lo uccise, poi accese una
fiaccola e si addentrò nella caverna per esplorarla. Non si sa a quanto
ammontasse il tesoro che vi trovò, ma si dice che fosse piuttosto
considerevole. Per quasi tutta la notte continuò a ispezionare la grotta, dove
rinvenne anche le ossa di due uomini e le mise in un sacco per portarle con
sé. Quando infine decise di uscire, afferrò la corda e la strattonò pensando
che il reverendo fosse ancora lì per tirarlo su, ma capì che il sacerdote se
n’era andato e così dovette risalire la parete rocciosa con la sola forza delle
braccia. Una volta tornato a Eyjadalsá, lasciò il sacco con le ossa nel
vestibolo della chiesa, in modo che le due vittime potessero essere sepolte in
terreno consacrato. Dopo l’impresa di Grettir non si seppe più di troll o altri
mostri che fecero del male nella Bárðardalur.
14 Assemblea della durata di circa due settimane, durante la quale i capi più potenti
(goðar) di tutta l’Islanda si riunivano per legiferare e amministrare la giustizia. Era il
maggiore evento sociale dell’anno: vi partecipavano famiglie, contadini,
commercianti, viaggiatori, artigiani e chiunque fosse coinvolto in dispute legali,
alloggiando in accampamenti temporanei. Sebbene con mutate funzioni nel corso
della storia, l’Alþing si tenne nelle piane di Þingvellir a partire dal 930 d.C. fino al
1800, quando l’istituzione fu smantellata dal regno danese, per poi essere ripristinata a
Reykjavík nel 1844. (N.d.T.)
25. La trollessa notturna e la sua barca sul lago Mývatn

Il lago Mývatn è una delle maggiori attrazioni turistiche d’Islanda. Il nome, che
significa «Lago dei moscerini», è dovuto ai nugoli di piccoli insetti che nelle belle
giornate vi stazionano, talvolta fino a oscurare l’atmosfera. Le articolate coste del
lago e le quaranta isolette disseminate sulla sua superficie ospitano una ricca
avifauna, in particolare un gran numero di anatidi, che fin dalle epoche passate
hanno fornito uova agli abitanti della zona. Un’altra ricca risorsa del lago sono le
numerose trote, che per di più si ritengono di eccellente qualità: in passato si diceva
che nella zona del Mývatn non si soffriva mai la fame, nemmeno quando altrove si
pativano carestie. A est del lago si trova la fila di crateri detta Lúdentsborgir, creata
dal Lúdent, un cratere di esplosione, mentre poco più a sud si incontra un pendio noto
con il nome di Nökkvabrekka, «Pendio della barca», poiché vi si trova una roccia
solitaria che ricorda la forma di una barca. La sua storia è raccontata in una
leggenda.

Un tempo sopra il lago Mývatn viveva una trollessa, nei pascoli d’altura che
da allora si chiamano Skessuhali, «Crinali della trollessa». Era una creatura
notturna che per sua natura non poteva vedere la luce del sole e dunque si
muoveva nell’oscurità. La trollessa provocava seri danni agli abitanti del
Mývatn, per esempio rubando il pesce dal lago durante la notte. Si racconta
che avesse una piccola barca a remi con la quale usciva a pesca, per poi
riportarla a casa in spalla prima dell’alba.
Un’estate la pesca fu particolarmente abbondante nella baia di
Strandarvogur, che da sempre è la zona più pescosa di tutto il Mývatn, ma la
trollessa aveva preso l’abitudine di rubare il pesce dalla baia ogni notte,
contrariando oltremisura il fattore di Strandarvogur. Così una notte, in tarda
estate, quando la trollessa raggiunse la baia con l’intenzione di fare scorta di
pesci come al solito, vi trovò anche il fattore, che stava pescando proprio nel
punto dove di solito si sistemava lei. Non sentendosela di affrontarlo, visto
che era accompagnato da altri tre uomini, decise di aspettare che finissero la
loro battuta di pesca.
Ma il contadino se la prese con tutta calma, ben sapendo che cosa avesse in
mente la trollessa, e tirò fin quasi al mattino. La trollessa si faceva sempre più
impaziente, ma non voleva arrendersi e rientrare a mani vuote. Quando
finalmente il contadino se ne andò, scese a riva a calare le reti nella baia e poi
si mise in marcia per tornare a casa, ma quando fu poco più che a metà strada
il sole sorse. Pare che a quel punto la trollessa abbia scaricato la barca che
portava sulla schiena e vi sia salita sopra, per trasformarsi in pietra insieme a
lei.
Le prove della triste fine della trollessa si possono vedere ancora oggi: la
barca si trova sul pendio che da allora ha preso il nome di Nökkvabrekka,
«Pendio della barca», a metà strada tra Skessuhali e Mývatn. Nella forma è
del tutto simile alle imbarcazioni che si usano ancora per pescare sul lago,
solo di poco più grande, e si possono perfino distinguere i resti dei remi e
degli scalmi, benché di fattura diversa da quelli di oggi. A poppa si nota un
gran mucchio di pietre: lì si dice che stia la trollessa, nel suo riposo eterno.
26. L’impronta dello zoccolo di Sleipnir ad Ásbyrgi

Ásbyrgi si apre come il portale di un castello fatato nei pressi del fiume Jökulsá. Si
tratta di un’ampia depressione del suolo circondata da pareti di roccia quasi verticali
alte anche un centinaio di metri. Il fondo di Ásbyrgi è quasi piatto, con abbondante
vegetazione e boschetti di betulle, sorbi e salici, oltre a larici, pini e abeti piantati in
anni recenti. A sud di questa fortezza naturale si trova il piccolo lago di Botnstjörn.
L’origine di Ásbyrgi è da tempo al vaglio dei geologi, che ormai sembrano convenire
che questo canyon si sia formato in seguito a un’enorme inondazione del fiume
Jökulsá alla fine dell’ultima era glaciale, e a una successiva avvenuta tremila anni fa.
Ma al riguardo ci sono anche altre teorie, nonché un’antica leggenda popolare che
chiama in causa l’opera di una divinità.
Narra la leggenda che in un passato lontano Odino, dio supremo del pantheon
norreno, si divertisse a sfrecciare al galoppo attraverso i cieli. Una volta, in
una notte stellata tra luminose aurore boreali, in sella a Sleipnir, il suo
stallone a otto zampe, il dio si fece sempre più incurante nel manovrare le
redini, cavalcando su e giù nella volta celeste senza badare bene a dove stesse
andando. Così accadde che passò talmente vicino alla terra che Sleipnir pestò
il suolo con uno dei suoi otto zoccoli. La crosta terrestre si ruppe e il terreno
affondò. L’impronta dello zoccolo lasciata da Slepnir è ben visibile ancora
oggi ed è chiamata Ásbyrgi, «Bastione del dio».
Islanda Orientale
27. La storia di Manga di Möðrudalur

Da Egilsstaðir, il centro amministrativo dell’Islanda Orientale, la strada statale n. 1


passa attraverso la Fljótsdalur e la brughiera della Jökuldalsheiði. In passato qui
sorgeva un gran numero di casali, alcuni dei quali abitati fino a buona parte del XX
secolo. Möðrudalur era una delle fattorie più remote di tutto il Paese, e trovandosi a
più di quattrocentocinquanta metri sul livello del mare, era anche la più alta. È stata
una tenuta molto importante e fino a poco tempo fa rappresentava un luogo di sosta
sul percorso tra la regione settentrionale e quella meridionale. I terreni della tenuta,
oggi spogli, erano densamente coperti di vegetazione e ritenuti eccellenti: si diceva
che lo strato di panna che si formava sulle taniche di latte a Möðrudalur fosse
abbastanza spesso perché potesse galleggiarvi un ferro di cavallo. La strada montana
che prima passava da Möðrudalur è stata spostata e ora transita poco distante, ma
vale la pena fare la breve deviazione per vedere questo luogo storico e ricordare la
leggenda della moglie del pastore, che molto tempo fa rifiutò di giacere in pace nella
tomba.

Bjarni Jónsson fu l’ultimo sacerdote di Möðrudalur. La sua prima moglie,


Margrét, detta Manga, lo amava profondamente, ma non le fu concesso di
passare molto tempo con lui, perché morì quando ancora aspettava il primo
figlio. In punto di morte chiese al marito di non risposarsi mai più, e lui glielo
promise. Prima di ammalarsi stava lavorando a maglia un calzino con un
filato sottile di colore bruno. Subito dopo la morte il suo fantasma tornò a
infestare la casa: si sentivano spesso rumori nella dispensa e in cucina e la
sua figura si manifestava tanto a chiaroveggenti quanto a persone comuni,
con il solito fazzoletto sulla testa che aveva sempre portato in vita, la pancia
perché non aveva partorito, e un calzino di un sottile filato bruno da lavorare
ai ferri.
Non passò molto tempo che il reverendo Bjarni si risposò. La prima volta
che andò a coricarsi con la nuova moglie, Margrét gli apparve e si sedette di
fronte a lui sul bordo del letto. «Vattene, Manga. È finito il tempo in cui
questo era il tuo posto», le disse Bjarni. Ma il fantasma di Manga di
Möðrudalur causò sempre più scompiglio e perseguitò a tal punto la moglie
del reverendo che alla fine fu cagione della sua morte. Così Bjarni si sposò
per la terza volta. Gli consigliarono di trovarsi una donna che Margrét non
avesse mai visto e lui finì per prenderne una del Vopnafjörður, che pare abbia
vissuto più a lungo del marito.
Il reverendo Bjarni morì all’improvviso un giorno al principio dell’inverno,
sulla strada tra Eiríksstaðir e Hákonarstaðir, nella Jökuldalur. Lo ritrovarono
in serata e poiché non c’era modo di trasportarlo subito, fu eretta una tenda
sopra il cadavere, nei pressi del fiume Jökulsá. Una giovane coraggiosa di
nome Guðrún, originaria di Eiríksstaðir, fu incaricata di fare la guardia alla
salma. Era una notte serena, la luna ora usciva e ora si nascondeva tra le nubi.
Guðrún raccontò che verso il crepuscolo si era avvicinato uno stormo di corvi
grigi che salendo dal burrone lungo il fiume aveva attaccato la tenda con una
violenza tale da non lasciarle modo di proteggerla. La cosa era andata avanti
per la notte intera fino all’alba, e per tutto quel tempo la fanciulla aveva visto
Manga seduta sulle pendici del monte, che lavorava a maglia un calzino di un
sottile filato bruno. Guðrún disse di non essersi mai sentita tanto esausta
come dopo quella notte.
In seguito alla morte del reverendo Bjarni la fattoria di Möðrudalur venne
abbandonata a causa dei fantasmi che la infestavano, ma gli edifici rimasero
in piedi e capitò che ospitassero viandanti di passaggio che avevano bisogno
di un riparo per la notte. Una volta il reverendo Gísli Gíslason di Desjarmýri
vi si fermò lungo il tragitto per raggiungere la sua parrocchia, dopo essere
stato ordinato sacerdote. Era molto stanco, così entrò nella baðstofa della
fattoria di Möðrudalur e si preparò un giaciglio su una pedana rialzata.
Quando si fu sistemato e poté guardarsi intorno, vide lo spettro di Manga
seduto su una pedana più alta a lavorare a maglia. Appena si accorse di essere
stato visto, il fantasma ruzzolò di sotto e per tutta la notte il reverendo sentì
un gran baccano, porte che sbattevano e pentole che cadevano, tanto che non
riuscì a chiudere occhio.
Un giorno un altro viandante cercò riparo nella fattoria abbandonata e
puntualmente si trovò davanti Manga che lavorava a maglia sulla sua pedana.
Ma il viandante era un temerario e non aveva paura di niente, così estrasse la
tabacchiera e le offrì una presa. Manga fu colta talmente alla sprovvista da
quel gesto che scappò al piano di sotto e si mise a trafficare nella dispensa e
in cucina, facendo un tale baccano che per quel povero ospite non ci fu verso
di poter riposare.
28. Naddi del Ghiaione di Njarðvík

Da Njarðvík, la baia più settentrionale dei Fiordi Orientali, la strada porta verso
Borgarfjörður Eystri seguendo un ripido pendio montano noto con il nome di
Njarðvíkurskríður, il «Ghiaione di Njarðvík». In molti punti lungo il percorso ci sono
pareti di roccia che scendono a picco sul mare, erose in nicchie e crepacci dalle
onde. In passato il Ghiaione di Njarðvík era un tragitto spaventoso perché offriva
solo una misera mulattiera aggrappata alle ripide pareti costiere e non era insolito
che i viaggiatori vi perdessero la vita, anche a causa delle frequenti valanghe. Le due
morti più recenti risalgono al 1909. Oggi una strada più comoda ha eliminato i rischi,
mentre il panorama rimane spettacolare. In passato le morti sul Ghiaione di Njarðvík
erano attribuite a una creatura chiamata Naddi che si dice vivesse nella gola di
Naddagil, a nord. Una volta che Naddi fu sconfitto definitivamente, venne eretta una
croce lungo la strada con un’iscrizione in latino che recita:
Effigiem Christi
qui transis
pronus honora.
Anno MCCCVI15
Pare che Naddi fosse una creatura mostruosa con la parte superiore umana e quella
inferiore di bestia. Raramente lo si vedeva nei mesi di luce estiva, ma aggrediva
spesso i viaggiatori al calare della notte. Un’antica leggenda narra della sua
sconfitta.
Un giorno di fine autunno Jón Bjarnason stava tornando a casa a Njarðvík dal
Borgarfjörður. Verso il tramonto arrivò a Snotrunes, dove fece una sosta. Gli
abitanti della fattoria gli proposero di trascorrere la notte lì per non esporsi al
rischio di affrontare il ghiaione a tarda sera, ma Jón disse che non gli sarebbe
accaduto niente di grave e proseguì per la sua strada. Quando raggiunse
Naddagil, però, la creatura che vi dimorava lo aggredì, e Jón dovette
misurarsi in una battaglia lunga ed estenuante. Lottando corpo a corpo si
spostarono per ogni dove, in lungo e in largo, finché non raggiunsero
Krossjaðar, dove il mostro riuscì a divincolarsi e si gettò negli abissi del
mare. Jón tornò a casa esausto, ferito e tutto dolorante, e rimase a letto per un
mese prima di riuscire a rimettersi in piedi, ma dopo il loro scontro quella
creatura non si fece più vedere. Jón ritenne che fosse salita dal mare, dal
momento che vi aveva fatto ritorno dopo essere stata sconfitta.
15 «L’effigie di Cristo / tu che passi di qui / genuflesso onora. Anno 1306.» (N.d.T.)
29. La regina degli elfi di Snotrunes

Il Borgarfjörður Eystri è il più settentrionale dei Fiordi dell’Est e in tempi recenti vi


si è sviluppato il piccolo centro abitato di Bakkagerði. Vicino al villaggio sorge una
collina rocciosa chiamata Álfaborg, «Roccia degli elfi», che si dice ospiti una delle
maggiori comunità di elfi di tutta l’Islanda. L’ultima fattoria del Borgarfjörður,
prima del famigerato Ghiaione di Njarðvík, è Snotrunes: un tempo conosciuta
semplicemente come Nes, assunse poi il nome della regina degli elfi, Snotra, che vi
abitò per un certo periodo. Ecco la sua storia.
Una volta, molto tempo fa, una donna elegante che nessuno aveva mai visto
giunse a Nes, nel Borgarfjörður, e vi si stabilì. Con il tempo, quando la gente
cominciò a conoscerla meglio, si guadagnò il rispetto di tutti e ottenne ben
presto il controllo sull’intera tenuta diventandone la proprietaria. Allora si
procurò un amministratore e, dopo aver fatto sapere a tutti che il Natale
seguente sarebbe partita, lo sfidò a dirle al suo ritorno dove fosse stata. Se
l’amministratore non avesse indovinato, ci avrebbe rimesso la vita, ma se le
avesse dato la risposta giusta sarebbe stato ricompensato generosamente.
Il Natale era alle porte e il giorno della Vigilia Snotra – perché così si
chiamava la donna – si preparò a partire, senza che nessuno sapesse dove
fosse diretta. Dopo le festività fece ritorno, andò dal suo amministratore e gli
chiese se era in grado di dirle dove fosse stata. Lui ammise di non saper
rispondere, dopo di che sparì e nessuno seppe mai che cosa gli fosse
successo. Lo stesso accadde al secondo amministratore, e poi a quello
successivo: ogni anno nei giorni di Natale Snotra se ne andava, e quando non
sapevano dirle dove fosse stata, i suoi amministratori svanivano senza
lasciare traccia. Ne arrivò un quarto e Snotra gli pose la stessa domanda, al
che lui promise che avrebbe cercato di risponderle.
Il Natale si stava avvicinando. Il giorno della Vigilia, dopo il tramonto,
Snotra cominciò come al solito a prepararsi per la partenza mentre i famigli
andavano a dormire. L’amministratore tuttavia rimase sveglio, e quando
Snotra lasciò la casa, la seguì. Vide che attraversava i poderi a piedi e
scendeva verso il mare portando qualcosa sotto braccio. Una volta raggiunti
gli scogli sulla riva, la donna si sedette e svolse il fagotto che aveva con sé.
L’amministratore vide che ne uscivano veli di colore chiaro. Non appena si
accorse della presenza dell’uomo, Snotra gli lanciò un velo, se ne avvolse un
altro intorno alla testa e si tuffò in mare. L’amministratore si affrettò a
imitarla, le corse dietro e riuscì ad afferrare un lembo del velo che la donna
portava in testa. Proseguirono a nuoto come attraverso un denso fumo o una
nebbia finché non raggiunsero un’altra riva. Snotra emerse dal mare, si tolse i
veli e li nascose in un posto appartato, poi si incamminò verso l’entroterra.
L’uomo fece lo stesso, posò il suo velo sopra quello della donna e continuò a
seguirla. Erano giunti in una terra bellissima, piena di erbe odorose, frutteti,
alberi in fiore, con una splendida città circondata da una cinta muraria.
Varcato l’ingresso delle mura, Snotra venne accolta da un drappello di
persone che la presero per mano accompagnandosi con strumenti musicali.
Lei fece cenno all’amministratore di raggiungere due edifici. Lui entrò in
quello più piccolo, dove attraverso una finestra era possibile vedere dentro il
palazzo più grande. Vi si appostò e sbirciando dalla finestra assisté a una
cerimonia principesca. Vide una sala tutta illuminata con una moltitudine di
persone in abiti sontuosi che danzava festosamente al suono della musica.
Al fianco di un uomo di nobile aspetto seduto su un trono riconobbe Snotra
in vesti regali. L’amministratore rimase a guardare dalla finestra fino alla fine
delle danze, quando i tavoli furono sparecchiati e la sala sgomberata, poi si
coricò e a quel punto venne una giovane a portargli da mangiare. Durante
tutta la sua permanenza lì, la stessa donna gli portò cibo e bevande e ogni
sera lui si affacciò alla finestra assistendo agli stessi festeggiamenti, con
ricchi addobbi e danze al cospetto della stessa coppia sul trono. L’ultima sera
vide due uomini avvicinarsi al seggio per dire al sovrano che una mucca
aveva dato alla luce due vitelli, uno dei quali era morto, e che le due donne
incaricate di vegliarli si erano messe a litigare perché ciascuna incolpava
l’altra del brutto evento, al che il sovrano si adirò.
Passato il Natale, l’amministratore notò che erano in corso i preparativi per
la partenza di Snotra. La solita folla l’accompagnò fuori dal palazzo
suonando strumenti musicali, mentre il sovrano la conduceva per mano e poi
si separò da lei con grande mestizia. Snotra ripercorse la via per la quale era
venuta e l’amministratore di nuovo dietro: avanzarono come attraverso una
nebbia finché non riemersero nello stesso punto da cui erano partiti. Snotra si
tolse il velo e lo ripiegò. L’amministratore fece lo stesso con il suo e glielo
lanciò per restituirlo. Snotra non disse una parola e fece ritorno a casa.
L’uomo la seguì fino alla loro tenuta e andò subito a letto, dormendo fino al
mattino dopo, e quando i famigli si alzarono come d’abitudine e si misero al
lavoro, lui rimase solo. Snotra gli si avvicinò, gli diede il buongiorno e gli
chiese se era in grado di dirle dove fosse stata per Natale. Lui rispose di non
saperlo, ma recitò:
Due dame disputaron per la morte
di un vitello, mia regina, lo sapete.
Volaron frasi d’ira ed obsolete,
ne fu furioso il re, vostro consorte.

«Ti ringrazio», gli disse Snotra. «Mi hai liberata da un incantesimo che mi
aveva allontanata da mio marito, condannandomi a non vederlo più se non
per Natale, finché qualcuno non fosse stato in grado di dirmi dove me ne
andavo durante le feste. Sei stato l’unico a riuscirci, perciò ti lascio in dono
tutta la mia tenuta e le mie greggi: sarai un uomo molto fortunato.» Dopo di
che scomparve e non la si vide mai più, ma da allora la fattoria porta il suo
nome, Snotrunes.
30. Borghildur di Álfaborg

Dalle rive del Borgarfjörður si apre verso l’interno una valle ampia e verdeggiante,
costellata da fattorie e circondata da montagne multicolori di basalto nero e riolite.
Nelle pianure intorno al villaggio di Bakkagerði si trova una collina rocciosa nota
con il nome di Borg, o Álfaborg, la «Rupe degli elfi», ritenuta una delle più grandi
dimore del popolo nascosto d’Islanda. Negli anni sono in molti ad aver visto questi
esseri aggraziati. Un tempo si riteneva che frequentassero la chiesa nella Kækjudalur
– una valle stretta dove si trova un’enorme roccia dalla forma di un edificio chiamata
Kirkjusteinn, «Roccia della chiesa» – e che vi arrivassero a cavallo in compagnia. I
racconti sul popolo nascosto del Borgarfjörður sono particolarmente fantasiosi.
C’era una volta un contadino che viveva a Jökulsá, la fattoria più vicina ad
Álfaborg, e aveva una domestica di nome Guðrún. Una domenica tutti i
famigli andarono a messa a Desjarmýri tranne Guðrún, perché la padrona le
aveva ordinato di radunare le pecore e mungerle, e poi scremare il latte e
preparare il burro. Così gli altri lavoranti andarono in chiesa mentre la
ragazza si occupava degli ovini. Quando ebbe munto tutte le pecore, le lasciò
uscire sui banchi sabbiosi lungo la costa sotto la fattoria e si mise a preparare
la cena, poi, dopo aver sbrigato tutte le incombenze domestiche, uscì sull’aia
per controllare il gregge e dare un’occhiata in giro. In quel momento vide una
moltitudine di persone cavalcare lungo i sentieri sotto il podere: indossavano
abiti dai colori vivaci ed erano in sella a eleganti destrieri vigorosi. Guðrún
rimase sorpresa dalla scena, anche perché, chiunque fossero, avrebbero già
dovuto essere in chiesa da tempo. La brigata a cavallo passò oltre, tranne una
donna che risalì il podere e raggiunse la fattoria.
Era piuttosto anziana, ma di bell’aspetto e con un portamento nobile. Salutò
Guðrún e le disse: «Dammi del latticello da bere, ragazza mia.» Guðrún corse
dentro, riempì una brocca di legno con del siero di latte e gliela portò. La
donna la prese e bevve. Quando alzò la testa dalla brocca, Guðrún le chiese:
«Come vi chiamate?» Ma la donna non rispose e bevve un altro sorso. La
domestica ripeté la domanda, ma la donna la ignorò di nuovo e bevve ancora.
Quando ebbe scolato la brocca e richiuso il coperchio, Guðrún la vide infilare
una mano nel corpetto ed estrarre un bellissimo fazzoletto di lino, che pose
sul coperchio della brocca prima di restituirla e ringraziare. Allora per la terza
volta Guðrún le chiese: «Come vi chiamate?» «Mi chiamo Borghildur, cara
curiosa», rispose la donna spronando il cavallo, e poi partì al galoppo per
raggiungere il resto della comitiva. La domestica rimase a guardarli e l’ultima
cosa che vide fu il gruppo che spariva dietro una roccia grigia oltre
Kollatungur, verso il sentiero per la valle Kækjudalur.
Giunta la sera, i lavoranti della fattoria rientrarono dalla chiesa e Guðrún
raccontò loro quello che le era accaduto e mostrò il fazzoletto che la donna le
aveva donato. Era di una fattura così pregiata che nessuno poteva dire di aver
mai visto una stoffa tanto fine, e si dice che in seguito sia stato tramandato
come un cimelio tra le nobili donne islandesi. I cavalieri che la domestica
aveva visto dovevano essere gli elfi di Álfaborg, diretti verso la chiesa di
Kirkjusteinn, nella Kækjudalur.
31. Il serpente del Lagarfljót

Nei pressi di Egilsstaðir il fiume Lagarfljót si amplia a formare il terzo lago d’Islanda
in ordine di ampiezza. A causa dei sedimenti glaciali l’acqua del lago è di un torbido
color marrone e raramente congela d’inverno, poiché in vari punti salgono dal fondo
dei gas naturali. Le acque fosche e la notevole profondità hanno sempre conferito al
lago un’aria di mistero su cui sono proliferate le leggende popolari. Secondo il
folklore locale, nelle acque del Lagarfljót vive un temuto mostro dalla forma di
serpente che è stato avvistato da molte persone nel corso dei secoli e di cui gli antichi
annali contengono numerosi riferimenti. Vedere uno o più gibbi emergere dell’acqua
era ritenuto di cattivo auspicio, tuttavia il serpente non ha mai causato danni, perché
si dice sia stato incatenato al fondo del lago molto tempo fa. Altri sostengono che ciò
che talvolta affiora in superficie non sia altro che legname, ma il lago è così ampio e
profondo che potrebbe anche nascondere misteri di cui ignoriamo la natura.
Una volta molto tempo fa nel distretto di Hérað, presso il lago Lagarfljót,
viveva una donna che aveva una figlia adulta a cui diede in dono un anello
d’oro. Quando la figlia le chiese come poter trarre il massimo beneficio da
quell’oro, la madre disse di infilarlo sotto un serpente di brughiera. Allora la
ragazza catturò un serpente di brughiera e lo chiuse nel suo baule dei lini
insieme all’anello, che aveva sistemato sul fondo. Dopo diversi giorni andò a
controllare, ma il rettile era diventato talmente grande che il baule si era
imbarcato e stava per cedere. Spaventata, la ragazza lo prese e lo buttò nel
fiume, con il serpente e tutto il resto.
Molto tempo dopo il serpente cominciò a farsi notare nel lago, uccidendo
chiunque si avventurasse in quelle acque, che fossero uomini o animali. A
volte si stendeva sulle rive e sputava un terribile veleno. Gli abitanti del
distretto erano molto preoccupati, ma nessuno sapeva come risolvere la
faccenda, finché non furono convocati in Islanda due finnici esperti nel
campo, con l’incarico di uccidere il serpente e recuperare l’oro.
I due finnici si tuffarono nel lago per riemergere poco dopo dicendo che la
situazione non era semplice, perché si trattava di un serpente dalla forza
insuperabile e non era possibile ucciderlo, né recuperare l’oro. Riferirono
inoltre che a covare l’oro c’era anche un secondo serpente, ancora meno
trattabile del primo. Ma si tuffarono di nuovo, e poi ancora e ancora, finché
non riuscirono a legare il rettile in due punti, annodandogli una corda dietro
le pinne laterali e una seconda poco sopra la coda. Da quel momento il
serpente non è più riuscito a uccidere né uomini né bestie, ma talvolta inarca
la groppa, che spunta fuori dall’acqua in un gibbo: in genere vederlo è
ritenuto di cattivo auspicio.
32. La trollessa di Prestagil

Il Mjóifjörður, «Fiordo esile», uno dei numerosi Fiordi Orientali, è chiuso su


entrambi i lati da alte montagne ed è talmente angusto che alcune fattorie non vedono
il sole per molti mesi durante l’inverno. Alla testa del fiordo un tempo si trovava la
tenuta di Fjörður, che è stata abitata fino al XX secolo e per lungo tempo ha avuto
una chiesa e un vicariato; il cimitero, dalla planimetria antica a pianta circolare, è
ancora visibile a est del sito della fattoria. Un tempo a Fjörður viveva un centinaio di
anime distribuite su una dozzina di fattorie, ma alla fine del XIX secolo, con
l’apertura degli stabilimenti per la lavorazione dell’aringa e del merluzzo e della
stazione baleniera norvegese, la popolazione crebbe notevolmente, fino a raggiungere
le quattrocentododici unità nel 1902. Oggi le cose sono cambiate e nel Mjóifjörður
vivono circa trenta persone, quasi tutte concentrate nel villaggio di Brekka. Il
panorama offre strane e affascinanti formazioni rocciose, che hanno dato origine a
leggende popolari come quella che segue.
Nell’entroterra dalla fattoria abbandonata di Fjörður, alle pendici meridionali
del monte, si trova uno strapiombo di grande suggestione chiamato Prestagil,
«Burrone del prete». Secondo la leggenda, in passato vi abitava una potente
trollessa che stregava i sacerdoti di Fjörður per poi divorarli: aveva il vizio di
avvicinarsi alla chiesa mentre il pastore era sul pulpito, poi agitava
ritmicamente la mano davanti alla finestra, e il povero chierico perdeva il
senno e si metteva a urlare la strofa:
Strappatemi la fame e il desìo,
nel baratro mi butto e nell’oblio.
Prendetemi semenza e volontà,
la forra del Mjóifjörður mi avrà.
Detto ciò correva fuori dalla chiesa, si lanciava nel burrone e di lui non se ne
sapeva più nulla. Una volta un viaggiatore si trovò a passare nelle vicinanze e
sull’orlo del dirupo vide la trollessa con qualcosa in mano. Quando le chiese
cosa stesse facendo, lei rispose che stava rosicchiando il cranio del reverendo
Snjóki. Il viandante riferì quanto aveva visto e il fatto fu considerato foriero
di cattive notizie.
La situazione in effetti andò avanti così per lungo tempo, con i sacerdoti
officianti a Fjörður che svanivano uno dopo l’altro, e cominciò a farsi
problematica, perché i clerici erano sempre più riluttanti a servire quella
parrocchia, finché non si trovò più nessuno disposto ad accettare l’incarico.
Ma poi un sacerdote si offrì volontario, nonostante fosse al corrente della
presenza di un ospite pernicioso nel burrone, e prima di dire messa per la
prima volta istruì i parrocchiani su cosa fare nel caso l’avessero visto
comportarsi in maniera strana sul pulpito: sei uomini dovevano accorrere a
tenerlo fermo, altri sei suonare le campane, e dieci si sarebbero precipitati
sulla porta della chiesa. Stabilito ciò, il reverendo iniziò a celebrare la messa
e tutto andò per il meglio, finché non salì sul pulpito. A quel punto alla
finestra apparve una mano che si agitava ritmicamente. Il reverendo perse il
senno e cominciò a salmodiare:
Toglietemi la fame ed il desìo,
nel baratro mi butto e nell’oblio.
Strappatemi semenza e volontà,
la forra del Mjóifjörður mi prenderà.
E fece per lanciarsi fuori dalla chiesa, ma a quel punto i sei uomini prescelti
corsero a tenerlo fermo, altri sei si misero a scampanare con foga e dieci si
precipitarono alla porta. Appena la trollessa sentì le campane se la diede a
gambe e scavalcò di corsa il muro del cimitero aprendovi un’ampia breccia.
Allora inveì: «Non terrai mai più!» e da quella volta la breccia nel muretto si
è sempre riaperta, per quanto ci si adoperasse per ripararla al meglio. La
trollessa in preda al panico si precipitò nel burrone e di lei non si è mai più
avuta notizia.
Si dice che scavalcando il muretto del cimitero la trollessa abbia perso una
delle sue scarpe di ferro: Hermann Jónsson di Fjörður, morto nel 1837,
sosteneva di ricordarsi di quel calzare, che era poi stato usato come trogolo
per gli avanzi. Sul Burrone del prete c’è una pietra chiamata Skrúði
(«Paramenti») o Skrúðasteinn («Pietra dei paramenti»), dove pare che i
sacerdoti stregati si spogliassero delle loro vesti prima di lanciarsi giù dal
dirupo. Inoltre nella forra c’è una roccia detta Líksöngshamar, «Roccia del
requiem», che sembra prendere il nome dal fatto che vi riecheggiavano le
grida e i lamenti dei sacerdoti mentre la trollessa li faceva a pezzi.
33. Il padrone di Skrúður e la figlia del reverendo

La costa orientale dell’Islanda è incisa da numerosi fiordi, il più ampio dei quali è il
Reyðarfjörður, citato fin all’inizio della storia islandese perché pare sia qui che il
navigatore Naddoður approdò nella metà del IX secolo, dopo aver perso la rotta nel
suo viaggio dalla Norvegia alle Isole Fær Øer. Si sostiene che sia stato il primo
norvegese a mettere piede in Islanda: comprendendo di aver raggiunto un’isola
prima sconosciuta, la chiamò Snæland, «Terra delle nevi», e inviò alcuni dei suoi
uomini sulla sommità del monte Reyðarfjall per avvistare eventuali tracce di
insediamenti umani, ma non trovandone, salpò subito.
Il fiordo si biforca nella sua parte più interna, all’altezza di Hólmanes. Qui si trovava
l’antica chiesa di Hólmar, a cui era assegnato un sacerdote stabile e che per secoli fu
considerata uno dei migliori benefici ecclesiastici d’Islanda, per le ottime risorse di
cui disponeva e per le isolette di proprietà al largo della costa. Oggi rimane ben poco
delle glorie passate di Hólmar, che però è teatro di una famosa leggenda popolare
sulla scomparsa della figlia del reverendo, che pare fosse stata stregata dal padrone
di Skrúður, una delle isole al largo del fiordo. Questo isolotto roccioso non conobbe
mai un insediamento fisso, ma gli abitanti del fiordo vi andavano spesso per catturare
uccelli, raccogliere uova e portarvi le greggi a pascolare. Se qualche capo di
bestiame non sopravviveva, la morte era di solito attribuita al padrone di Skrúður,
che teneva per sé le pecore migliori. Ma quando sparì la figlia del reverendo di
Hólmar la faccenda si fece molto più seria.

Molto tempo fa scomparve la figlia del reverendo di Hólmar, nel


Reyðarfjörður. La cercarono insistentemente per mare e per terra, ma nessuno
la ritrovò. Davanti al fiordo si erge Skrúður, un isolotto di roccia dove in
autunno i contadini della zona portavano gli ovini a pascolare per andare a
riprenderli dopo Natale. Ogni anno la pecora migliore spariva, e dalle greggi
non risultava mancare nessun altro capo.
Una volta durante l’inverno una barca uscì in mare per raggiungere le zone
di pesca, ma al rientro l’equipaggio non riuscì ad attraccare e cercò riparo
sull’isolotto di Skrúður. Dopo aver tirato in secca la barca, i pescatori
infreddoliti e bagnati si misero a recitare le Ballate di Maria.16 A quel punto
la parete rocciosa si aprì e uscì una mano maschile enorme con un anello in
ogni dito, coperta da una manica scarlatta. La mano porse ai marinai una
grossa ciotola di zuppa d’avena con tutti i cucchiai mentre all’interno della
rupe una voce diceva: «Ora sì che mia moglie si diverte, invece io non mi
diverto per niente.» Quando gli uomini si sentirono sazi e si furono ripresi
grazie alla zuppa calda, la ciotola scomparve dentro la roccia. Il giorno dopo
l’equipaggio fece ritorno sulla terraferma e tutti ritennero che la moglie di cui
aveva parlato il troll fosse la figlia perduta del reverendo.
Un anno dopo la ciurma di un’altra barca si trovò nelle stesse circostanze e i
marinai approdati sullo scoglio roccioso si misero a cantare le Ballate di
Andri.17 Di nuovo emerse una mano che stavolta porse loro un piatto di carne
affumicata calda e grassa, mentre la voce all’interno diceva: «Ora sì che mi
diverto, invece mia moglie non si diverte per niente.» Appena il tempo
migliorò, i marinai sazi ripartirono. Passarono così alcuni anni, finché il
vescovo Guðmundur il Buono18 intraprese un viaggio verso l’est del Paese,
durante il quale benedisse laghi e sorgenti e legò il serpente sotto la cascata a
Lagarfljót. Mentre alloggiava a Hólmar gli fu chiesto di benedire anche
Skrúður, ma durante la notte sognò che un uomo grande e grosso in abiti
sontuosi gli si presentava dicendo: «Non andare a benedire Skrúður, perché
ho cose da trasferirvi e non è semplice trasportarle. Se vai nella mia dimora a
far del male ai miei, sarà il tuo ultimo viaggio.» Il vescovo ne fece un
precetto e decise di non consacrare Skrúður.
16 Le Maríurímur, dette anche Rímur af barndómi Jesú Krists («Ballate dell’infanzia
di Gesù Cristo»), furono composte nel 1654 dal reverendo Guðmundur Erlendsson,
sacerdote di Fell nella Sléttuhlíð. Le rímur sono lunghi componimenti in versi che
rielaborano materiale preesistente (saghe, fiabe, leggende popolari, motivi
cavallereschi stranieri, episodi della Bibbia) in un linguaggio arcaicizzante e ricco di
metafore con una metrica rigida e complessa. Per secoli furono il maggiore
intrattenimento letterario degli islandesi. (N.d.T.)

17 Le Andra rímur, o Rímur af Andra jarli («Ballate dello jarl Andri»), dedicate al
personaggio di una «saga dei cavalieri», furono composte nel XV secolo e si sono
tramandate in numerose varianti. (N.d.T.)

18 Vedi nota a pag. 35. (N.d.T.)


34. Il reverendo di Einholt

Dalla vasta calotta glaciale del Vatnajökull e dalle sue lingue che scendono verso le
pianure si riversano a valle molti fiumi tumultuosi e di grande portata, tanto che la
zona immediatamente a sud del ghiacciaio consiste in maggior parte di vaste distese
di sabbia alluvionale. Qui la densità di popolazione è ovviamente scarsa, in
particolare nel distretto di Öræfasveit, le cui comunità erano un tempo isolate dal
resto del mondo e anche l’una dall’altra per via dei rovinosi fiumi glaciali. Con lo
sviluppo della rete stradale le cose sono cambiate e nel 1974 è stato costruito l’ultimo
ponte, sul fiume Skeiðará, per completare l’anello della statale n. 1. In queste
comunità si sono conservati numerosi racconti e leggende, come quella del reverendo
di Einholt, nei Mýrar, che nel XVIII secolo fu soggetto a varie prove e tribolazioni di
origine soprannaturale: per fortuna nella sua fattoria vivevano donne che sapevano
come risolvere certe situazioni.

Prima di diventare reverendo di Kálfafellsstaður, Vigfús Benediktsson aveva


servito a Einholt, nello stesso periodo in cui il fattore di Viðborðssel era un
tale di nome Ólafur che aveva spesso dei contenziosi con lui. Un giorno il
religioso decise di andare a far visita ad alcuni parrocchiani e sentendo che
intendeva fermarsi anche a Viðborðssel, sua moglie Málfríður si propose di
accompagnarlo. Il reverendo Vigfús però non volle, per via del maltempo,
così la moglie non andò ma lo mise in guardia dicendo: «Sta’ attento che non
ti capiti nulla di brutto, e comunque ti consiglio di non andare a
Viðborðssel.»
Il sacerdote partì per il suo giro di visite e arrivò a Viðborðssel poco dopo il
tramonto. Ólafur lo accolse cordialmente e lo invitò a entrare, poi estrasse da
una cassa una bottiglia, la mise sul tavolo e gliela offrì. Lì per lì il pastore non
ne bevve, ma dopo un po’ gli venne voglia di assaggiare il vino e cominciò
ad allentare il tappo. In quello stesso istante la porta si spalancò e Málfríður
piombò in casa gridando: «Fúsi, non bere!» Poi afferrò la bottiglia, bevve un
sorso e lo sputò subito sul pavimento. Nella stanza c’era un cane che leccò
per terra e cadde morto stecchito. Al che la donna disse al marito: «Adesso
puoi anche bere.» Lui mandò giù un sorso e in effetti non gli nocque.
Un altro giorno, mentre attraversava il distretto di Öræfi, Vigfús si fermò a
Hnappavellir nel tardo pomeriggio con l’intenzione di raggiungere Hof, una
fattoria non molto distante, quella sera stessa. Gli proposero di
accompagnarlo, ma ritenendo di non averne bisogno si mise in marcia da
solo. In tarda notte, o forse alle prime luci dell’alba, qualcuno si presentò alla
finestra della fattoria di Litlahof, confinante con Hof. La padrona di casa
andò ad aprire la porta e fu sorpresa di vedere il reverendo in giro a quell’ora.
Vigfús le chiese ospitalità per il resto della notte, ma volle tenersi una luce
accesa accanto per tutto il tempo. Intanto a Einholt la moglie del reverendo
era andata a coricarsi al crepuscolo, ma si svegliò di soprassalto pensando: «Il
mio Fúsi è nei guai.» Poi estrasse dal corpetto un panno grigio e si mise a
mordicchiarlo, continuando per tutta la sera e per tutta la notte finché non fu
quasi giorno, quando smise dicendo: «Adesso basta. Ormai credo sia al
sicuro.»
Prima di trasferirsi nel sud, il reverendo Vigfús aveva servito la parrocchia
di Staður ad Aðalvík, nell’ovest, dove risiedevano stregoni con immensi
poteri magici e in particolare due fratelli che sembravano averlo perseguitato
fino a fargli lasciare la zona. Sebbene se ne fosse andato da tempo, i due
ritenevano di avere ancora dei conti in sospeso con il sacerdote, così
destarono uno spettro e lo inviarono a ucciderlo.
Il fantasma, vestito tutto di pelle, arrivò alla fattoria di Tvísker al crepuscolo
del martedì grasso, mentre tutti già dormivano tranne il fattore Einar. Il
contadino sentì la porta aprirsi e rimase in ascolto, finché non decise di uscire
a controllare, ma non vedendo nessuno rientrò, richiuse a chiave e tornò a
dormire. Si era coricato da poco quando sentì la porta aprirsi di nuovo.
Ancora una volta si alzò e uscì, ma non trovò nessuno e richiuse a chiave. La
terza volta si vide davanti un uomo vestito di pelle, il fantasma mandato
dall’ovest.
Il nuovo arrivato non salutò nemmeno, così il contadino gli chiese da dove
venisse e quello rispose di essere dei Fiordi Occidentali. Einar gli chiese che
notizie portasse e quello disse che una sua pecora giaceva morta nei campi.
Al contadino parve piuttosto sospetto che quel tale dei Fiordi Occidentali
conoscesse il marchio delle sue pecore,19 così gli domandò come faceva a
sapere che quella pecora era proprio sua e l’uomo non rispose. Quando però
gli fece qualche domanda su una chiave che era andata persa vent’anni prima,
lo sconosciuto gli disse esattamente dove trovarla insieme ad altri oggetti
smarriti. A quel punto il contadino cominciò a sentirsi a disagio perché lo
spettro gli si stava avvicinando troppo, così si fece coraggio e gli ordinò di
andarsene. Lo spettro se ne andò di malavoglia, portandosi via tutti gli stipiti
delle porte, che il giorno dopo furono ritrovati sparsi per i campi.
Il fantasma continuò la sua peregrinazione finché non raggiunse il casale di
Einholt. Lì insieme a Vigfús viveva ancora la sua vecchia balia, una donna
ben esperta in certe cose, che quella sera costrinse il reverendo a scambiarsi il
letto con lei. Al mattino il letto del sacerdote aveva le lenzuola a brandelli,
mentre la vecchia giaceva sul pavimento lì accanto, così stremata che quasi
non riuscì a raccontare del suo scontro con lo spettro. Fu appena in grado di
dire che di sicuro i due fratelli stregoni dell’ovest non avrebbero più mandato
al reverendo nessun messaggero, e con questo esalò l’ultimo respiro.
19 I contadini islandesi marchiano le pecore con dei tagli sulle orecchie, ciascuno in
maniera diversa, per identificare il gregge di proprietà. (N.d.T.)
35. Le trollesse di Skaftafell

Tradizione vuole che molto tempo fa i ghiacciai islandesi fossero più piccoli di quanto
lo siano oggi, e che in mezzo al Vatnajökull passasse un sentiero che si snodava lungo
una valle attraverso gli altipiani interni. Si dice per esempio che il contadino di
Möðrudalur, una fattoria a nord del ghiacciaio, avesse il diritto di far legna a
Skaftafell, che dista centosettanta chilometri in linea d’aria ma il doppio se si segue
la strada statale n. 1, mentre il contadino di Skaftafell poteva usufruire dei pascoli di
Möðrudalur. Esistono inoltre storie sul fatto che il guardiano delle greggi di
Möðrudalur avesse un letto tutto suo nel casale di Skaftafell, e che il pastore di
Skaftafell avesse un suo posto letto a Möðrudalur, tanto erano frequenti i contatti tra
le due fattorie. A Skaftafell hanno vissuto molti personaggi leggendari, tra cui un
padre e un figlio famosi nel XVIII secolo per il loro ingegno e la loro abilità
artigianale. Pare che fabbricassero armi da utilizzare contro foche e orsi polari, e
che abbiano costruito un vascello a quattro ruote munito di vele procurandosi di volta
in volta i materiali dai relitti delle navi naufragate sullo Skeiðarársandur. Perfino il
famoso vascello olandese Het Wapen van Amsterdam, detto «la nave d’oro»,
proveniente dalle Indie Orientali con un carico di preziosi e affondato su queste coste
nel 1667, sembra aver contribuito parecchio alla loro impresa. Si tramandano
numerose altre leggende sulla perizia e l’abilità straordinarie degli abitanti di
Skaftafell: i suoi contadini, per esempio, avevano fama di mantenere buoni rapporti
con le trollesse dei monti circostanti.

Molto tempo fa a Skaftafell viveva un contadino e ottimo artigiano di nome


Bjarni, mentre in una grotta nei dintorni dimorava una trollessa molto
bendisposta nei suoi confronti, che gli sorvegliava le pecore sui pascoli
montani e il legname alla deriva sul suo tratto di costa. Un inverno la trollessa
riferì a Bjarni che una nave si era incagliata a riva e tutti i membri
dell’equipaggio erano morti tranne uno: un temibile moro che avrebbe
distrutto tutta la regione meridionale se non l’avessero fatto fuori in tempo.
Poi afferrò un’ascia e insieme a Bjarni raggiunse la riva, dove combatté
contro il moro e lo uccise. La trollessa visse per molte vite umane e fu sempre
benevola nei confronti dei discendenti di Bjarni. Si dice che la sua grotta
esista ancora oggi e che abbia una finestra sulla volta rocciosa e un letto
scolpito nella pietra lungo otto braccia e largo due. E si dice che sia stato
Bjarni a costruire tutti gli infissi e la porta d’accesso, in modo che la trollessa
potesse dimorarvi comodamente.
Un altro abitante di Skaftafell di nome Einar era noto per conoscere bene
una certa trollessa. Una volta, mentre era in viaggio, si ritrovò avvolto da una
densa nebbia e sospettò subito che non fosse del tutto naturale, bensì foggiata
per disorientarlo, così afferrò l’ascia che aveva con sé e la lanciò lontano. La
nebbia si dissolse all’istante ed Einar proseguì il suo cammino, tornando a
casa sano e salvo. L’attimo dopo però il suo cavallo stramazzò a terra ed
Einar si ritrovò l’ascia coperta di sangue sulla soglia della fattoria.
L’anno successivo, mentre era di nuovo in viaggio e si preparava a guadare
il fiume Skeiðará, vide una donna molto alta e corpulenta arrancare nella sua
direzione. Quando gli fu di fronte gli chiese di prestarle il cavallo per
attraversare il fiume, ma Einar disse di temere che glielo uccidesse, com’era
accaduto l’anno prima. Allora la trollessa ribatté che l’aveva fatto per un
buon motivo, perché Einar le aveva giocato un brutto tiro: quando aveva
lanciato l’ascia, l’aveva colpita al petto, e gli mostrò la cicatrice che le aveva
lasciato. Einar constatò che diceva il vero, così le permise di salire in sella al
suo cavallo e la trollessa arrivò sana e salva sull’altra sponda.
Ma a ben guardare era stata lei a fare per prima un brutto scherzo a Einar,
che per questo giurò di trovarla anche se gli fosse occorso molto tempo. Così
tornò a casa e si costruì un’arma di rame che ancora esiste a Skaftafell.
Qualche tempo dopo incontrò la trollessa, che si riappacificò con lui e gli
promise di fare tutto quello che voleva. Ma l’unica richiesta di Einar fu che si
assicurasse che nessuno gli rubasse mai il legname dei suoi boschi.
Islanda Meridionale
36. La messa del fuoco a Kirkjubæjarklaustur

Il ben noto villaggio di Kirkjubæjarklaustur era un tempo sede di contadini abbienti,


ufficiali distrettuali e capi regionali. Anticamente era chiamata Kirkjubær, «Fattoria
della chiesa», e secondo le fonti vi si insediarono degli eremiti islandesi, i papar,
ancora prima che arrivassero i coloni norvegesi alla fine del IX secolo. Il cosiddetto
Kirkjugólf, «Pavimento della chiesa», è un’interessante formazione rocciosa
adiacente alla vecchia fattoria, con colonne basaltiche pentagonali che sembrano
formare un pavimento piastrellato: leggenda vuole che ai giorni dei papar fosse il
selciato di una chiesa. Quale che sia la verità sugli eremiti, nel 1186 a Kirkjubær fu
fondato un convento che rimase attivo fino alla Riforma nel 1550 e le cui tracce sono
ancora visibili. Per questo il nome cambiò in Kirkjubæjarklaustur, «Convento della
fattoria della chiesa», e vari altri toponimi locali si riferiscono alle suore che lo
abitavano, come Systravatn, Systrafoss, Systrastapi (Lago, Cascata e Rupe «delle
sorelle»).
Una volta due suore si trovavano sulle rive del Systravatn, il «Lago delle
sorelle». D’un tratto un pettine d’oro emerse dall’acqua e una delle due si
tuffò per prenderlo e annegò. L’altra salì in groppa a un cavallo grigio che
trovò sulla riva e si avventurò nel lago per aiutarla, ma inutile dire che da
quella volta né le suore, né il pettine d’oro, né il cavallo si sono più visti.
Poco più a monte del fiume Skaftá c’è una roccia isolata chiamata
Systrastapi, «Rupe delle sorelle», dove pare che due suore siano state
mandate al rogo per aver violato le regole morali del convento e tenuto una
condotta eretica. Una si era venduta al demonio portando del pane consacrato
oltre la soglia della latrina e giacendo con gli uomini, e l’altra aveva parlato
in maniera irrispettosa del Papa. Le due sventurate consorelle furono sepolte
e poco tempo dopo su una tomba spuntò una pianta bellissima, mentre
sull’altra non crebbe quasi niente: per questo tutti ritennero che una delle due
fosse stata condannata ingiustamente.
Nel periodo in cui a Kirkjubær si trovava un convento femminile, a poca
distanza verso la costa a sud, ovvero a Þykkvabær nell’Álftaver, c’era un
monastero maschile. Talvolta l’abate e i monaci di Þykkvabær andavano a
trovare la badessa e le suore a Kirkjubær, ma c’era chi riteneva questi loro
incontri licenziosi e assai sconvenienti. All’epoca c’era un ponte sul fiume
Skaftá, a sud del quale si ergeva una collina che da allora è detta Sönghóll,
«Collina del canto», perché i monaci vi si mettevano a cantare per avvertire le
suore del loro arrivo. Nel sentirli, la badessa suonava le campane e usciva con
le consorelle ad accogliere gli ospiti.
L’8 giugno del 1783, domenica di Pentecoste, nei crateri di Lakagígar, a
ovest del ghiacciaio Vatnajökull, iniziò una violenta eruzione che produsse
un’enorme colata lavica e la riversò sulla pianura sottostante. Lo
Skaftáreldahraun, «Campo di lava dell’eruzione nello Skaftá», si estese per
cinquecentosessantacinque chilometri quadrati, diventando il più vasto della
storia tra quelli provocati da una singola eruzione. Molte fattorie vennero
danneggiate o distrutte e i gas tossici emessi dal vulcano uccisero numerosi
capi di bestiame. La conseguente foschia oscurò il sole causando la peggiore
carestia della storia islandese, nota come Móðuharðindi, «Carestia della
caligine», e ci fu un momento in cui parve che il flusso di lava che scorreva
nel letto del fiume Skaftá potesse distruggere Kirkjubæjarklaustur. Allora il
reverendo Jón Steingrímsson, che non abbandonò mai i parrocchiani e fece
del suo meglio per aiutarli ad affrontare questi tragici eventi, convocò i fedeli
in chiesa la domenica del 20 luglio 1783 e celebrò la messa pregando
ferventemente che Dio mostrasse loro clemenza. A funzione conclusa tutti
uscirono, per constatare con indescrivibile sollievo che la lava si era fermata
a poca distanza dalla chiesa, senza avanzare oltre. Si gridò al miracolo e da
quel momento in poi la celebrazione rimase nota con il nome di Eldmessa,
«Messa del fuoco», il reverendo venne chiamato Eldklerkur, «Chierico del
fuoco», e il punto in cui la lava si era fermata fu detto Eldmessutangi,
«Lingua della messa del fuoco».
Il reverendo Jón Steingrímsson è sepolto nel cimitero di
Kirkjubæjarklaustur e la sua tomba è contraddistinta da un pilastro di basalto
pentagonale. Famoso per il coraggio dimostrato durante l’eruzione, è anche
autore di importanti opere che restano tra le migliori fonti documentarie su
questo periodo di sventure nella storia d’Islanda, meritando la cappella
commemorativa a lui dedicata a Kirkjubæjarklaustur.
37. Katla di Kötlugjá

Sotto il ghiacciaio Mýrdalsjökull si trova il vulcano Katla, che nel corso della storia
islandese ha eruttato spesso causando enormi alluvioni e depositando detriti dove un
tempo c’era il mare. I deserti di sabbia alluvionali si estendono su un’area di
settecento chilometri quadrati e sono per lo più brulli, a parte una piccola sezione a
est. Secondo le fonti medievali, all’epoca della Colonizzazione la regione era coperta
da boschi e da una ricca vegetazione e vi si contavano numerosi insediamenti, come
testimoniano toponimi quali Dynskógar («Boschi rumorosi») e Laufskáli («Rifugio
frondoso»). Si presume quindi che intorno al 900 d.C. il vulcano Katla fosse
quiescente da lungo tempo. Nonostante le eruzioni, gli insediamenti non sono del tutto
scomparsi dal Mýrdalssandur: Álftaver sopravvive come un’oasi nel deserto, con
varie fattorie e terreni di buona qualità, grazie a un grappolo di colline a nord che
hanno sempre deviato il corso delle alluvioni. Nel periodo precedente la Riforma a
Þykkvabær si trovava un monastero il cui primo abate fu Þorlákur Þorláksson, morto
nel 1193 e poi canonizzato. Ma una leggenda racconta di un ospite monastico molto
meno piacevole.
L’abate del monastero di Þykkvabær aveva assunto una massaia di nome
Katla che possedeva dei poteri soprannaturali e un paio di pantaloni di una
tale fattura che chiunque li indossasse era in grado di correre senza mai
stancarsi. Katla li utilizzava all’occorrenza ed erano in molti a temere il suo
temperamento e le sue arti magiche, non da ultimo l’abate stesso. Al
monastero lavorava anche un pastore di nome Barði, che spesso prendeva
delle violente lavate di capo da Katla se al ritorno dal raduno delle greggi
mancava qualche pecora.
Una volta l’abate fu invitato a un convito e la massaia lo accompagnò. Barði
avrebbe dovuto riportare a casa le pecore prima del loro ritorno, ma non
riuscendo a trovarle tutte, indossò i pantaloni di Katla e corse per ogni dove,
radunando anche gli ovini che mancavano. Quando Katla tornò a casa si rese
subito conto che Barði aveva usato i suoi pantaloni, così montò su tutte le
furie e senza farsi vedere prese il pastore e lo annegò in una botte di siero di
latte che per un’antica consuetudine veniva tenuta accanto alla porta
principale, poi lo lasciò lì a mollo. Nessuno capiva che fine avesse fatto il
pecoraio, ma con il passare dell’inverno, mentre il livello del siero si
abbassava a poco a poco, capitava che i famigli sentissero Katla mormorare
tra sé: «Presto Barði spunterà, presto Barði spunterà.» Un bel giorno rimase
così poco siero nella botte che Katla capì che la sua malvagità sarebbe stata
scoperta. Aspettandosi una severa punizione, infilò i pantaloni e si allontanò
di corsa dal monastero, raggiunse il ghiacciaio, si buttò in un crepaccio e non
si fece vedere mai più.
Poco tempo dopo dal ghiacciaio si riversò a valle un’alluvione che
sembrava dirigersi verso Álftaver e il monastero di Þykkvabær, così tutti
cominciarono a pensare che l’attività vulcanica e la conseguente inondazione
fossero dovuti ai poteri soprannaturali di Katla. Da allora il burrone nel
ghiacciaio ha preso il nome di Kötlugjá, «Crepaccio di Katla», e la terra
devastata dall’alluvione è detta di Kötlusandur, «Pianura alluvionale di
Katla», anche se oggi è più nota come Mýrdalssandur.
38. Jóka di Höfðabrekka e il reverendo di Hörgsland

Höfðabrekka è una vasta tenuta storica che fu spesso alloggio di sacerdoti e ufficiali
distrettuali. Nel XVII secolo vi dimorava una famiglia molto influente che pare
possedesse il famoso manoscritto dell’Edda poetica noto come Codex Regius,20 poi
inviato a Copenaghen e infine restituito all’Islanda nel 1971 insieme al Libro di
Flatey. Anticamente la chiesa e la fattoria si trovavano nella pianura sotto le rocce di
Höfðabrekkuhamar, ma nel 1660 una vasta eruzione del Katla provocò un’alluvione
glaciale che riversandosi a est distrusse gli edifici della fattoria, in seguito ricostruita
nella brughiera al di sopra delle pareti rocciose e poi ritrasferita in pianura solo nel
1964. L’alluvione glaciale del 1660 depositò così tanto materiale che la costa si
spostò in avanti di molti metri: si dice che dove al mattino c’erano venti braccia
d’acqua si trovò terra asciutta la sera. Anticamente la tenuta di Höfðabrekka era nota
anche per un famigerato spettro, il fantasma di Jóka, che ne era stata la fattoressa.
Molto tempo fa a Höfðabrekka viveva una donna di nome Jórunn che aveva
un temperamento violento e un carattere duro, ma per il resto non si era fatta
una cattiva reputazione. Nella tenuta viveva anche un uomo di nome
Þorsteinn, bello e di buon carattere, che si innamorò della figlia di Jórunn.
Alla donna la cosa non piaceva affatto; alcuni dicono che l’avrebbe voluto
per sé, ma Þorsteinn la trovava troppo vecchia. Accadde però che Þorsteinn
ebbe un bambino con la figlia di Jórunn, la quale per questo andò su tutte le
furie e dichiarò che i due non avrebbero mai potuto sposarsi. In molti
provarono a mettere una buona parola per Þorsteinn, ma peggiorarono solo le
cose e alla fine fu deciso che l’uomo se ne andasse da Höfðabrekka e non
avesse più niente a che fare con la madre di suo figlio.
A Höfðabrekka il bestiame veniva condotto ai pascoli estivi, dove avveniva
la mungitura e la preparazione del burro, e in genere era la figlia di Jórunn a
salire alla casera per occuparsene. Þorsteinn non riusciva a dimenticare la
madre del suo bambino e colse l’occasione per farle visita e portarle dei doni.
Qualcuno però andò a riferirlo a Jórunn esagerandone i particolari, così la
donna si arrabbiò a tal punto che giurò di vendicarsi di Þorsteinn anche dopo
la morte, se non vi fosse riuscita in vita, e in effetti l’intera faccenda la
condusse alla tomba.
In quel periodo il sacerdote di Hörgsland era Magnús Pétursson, a cui si
attribuivano capacità soprannaturali. Þorsteinn si rivolse a lui per chiedergli
consiglio e il reverendo gli suggerì di trasferirsi immediatamente alle isole
Vestmannaeyjar. Gli procurò una scorta per tutto il viaggio e gli raccomandò
di non tornare sulla terraferma prima che fossero passati vent’anni.
Dopo la morte di Jórunn, il suo spettro tornò a infestare la fattoria di
Höfðabrekka, dove veniva vista a occuparsi dei lavori domestici, distribuire il
cibo della dispensa e a volte mescolarvi zolle di terra. Per il resto non faceva
del male a nessuno e se ne andava in giro con il copricapo che le pendeva tra
le spalle, distinguendola così dalle altre donne.
Spesso la gente riferiva di averla vista in posti diversi. Una volta incontrò il
reverendo Magnús su un antico sentiero e si appoggiò a uno dei suoi cavalli;
allora pare che il reverendo le abbia detto: «Hai fatto del male a te stessa,
Jóka», e che lei abbia risposto: «Non me ne parlare, reverendo Mangi, da
morti è tardi per pentirsi», e subito dopo sia sparita, ma il cavallo a cui si era
appoggiata si ritrovò con un fianco rotto.
Un giorno due ragazze erano rimaste di veglia nell’ovile, sedute sulla panca
con una lanterna accesa. Una disse all’altra: «Come credi che reagiremmo se
Jóka di Höfðabrekka venisse a trovarci?» Ma in quello stesso istante la testa
di Jóka spuntò su dal bordo della panca, e poi la sua mano, e lo spettro disse:
«Già, come credete che reagireste?» E si attardò un attimo, per poi svanire
senza nuocere alle giovani.
Un’altra volta una barca stava facendo il suo consueto giro alle isole
Vestmannaeyjar e quando il capitano era sul punto di mollare gli ormeggi
uno della ciurma gli domandò: «Hai intenzione di portare anche il demonio
sulle isole?» Il capitano rispose di non averne nessuna intenzione e chiese al
marinaio che cosa volesse dire, al che l’uomo lo avvertì che Jóka era a bordo
con loro. Ma appena glielo sentì dire, Jóka lasciò la barca, senza che nessun
altro a parte quel marinaio avesse il tempo di vederla.
Þorsteinn era rimasto alle Vestmannaeyjar per diciannove anni, e non
riuscendo più a trovare pace decise di tornare sulla terraferma in primavera,
nel periodo dell’anno in cui molti islandesi erano soliti andare su quelle isole,
compreso il reverendo Magnús. Non appena Þorsteinn ebbe messo piede a
terra, comparve Jóka che lo afferrò e lo fece a pezzi. Il reverendo Magnús
arrivò proprio nel momento in cui Jóka stava completando l’opera, così la
donna gli disse: «Tardi arrivasti, benché forte galoppasti.» Il reverendo
replicò: «Su questo hai ragione, ma ti finirò per bene.» E cominciò con Jóka
un duello a suon di versi in cui non andò certo leggero; una sua quartina
diceva:
Nell’Hekla una forra brutta
sputa fuoco e spesso erutta;
ecco il tugurio in cui ti confino,
non avrai mai migliore destino.
Ben presto Jóka scomparve e nessuno la vide mai più.
20 Il Codex Regius dell’Edda poetica (Konungsbók Eddukvæða) è un manoscritto
composto da quarantacinque fogli di pergamena contenente una raccolta di carmi
eroici e mitologici. Si ritiene sia stato redatto nella seconda metà del XIII secolo e fu
scoperto nel 1643 dal vescovo Brynjólfur Sveinsson di Skálhólt, che lo donò al re
Federico III di Danimarca nel 1651. È stato rimpatriato in Islanda nel 1971 insieme al
Flateyjarbók. (N.d.T.)
39. Il costruttore di chiese di Reynir

Reynir, non lontano da Vík í Mýrdal, fu colonizzata da un uomo facoltoso di nome


Björn. Da secoli vi si erge una chiesa, ma sulla costa c’era anche una stazione di
pesca chiamata Reynishöfn, il «Porto di Reynir». La regione vanta preziose risorse
naturali, come fiumi ricchi di trote, colonie di fulmari e di pulcinella di mare e grandi
quantità di legname alla deriva, materiale di grande valore in un Paese quasi del
tutto privo di alberi. Quando una vecchia chiesa andava in rovina, come spesso
accadeva, se ne costruiva una nuova: non abbiamo molti documenti sulla costruzione
delle chiese di Reynir, ma pare che un elfo di nome Finnur ne avesse eretta una in
poco tempo.
C’era una volta un contadino che viveva a Reynir nella Mýrdalur e voleva
costruirvi una chiesa, ma gli mancava il legname per farlo. Era arrivato il
tempo della fienagione e non trovava nessuno disposto a dedicarsi alla
carpenteria e svolgere il lavoro, così cominciò a temere che la chiesa non
sarebbe stata ultimata entro l’inverno. Un giorno, mentre vagava accigliato
per i campi, gli si avvicinò un tale che si offrì di costruirgliela. In cambio il
contadino doveva indovinare come lui si chiamasse prima che la chiesa fosse
completata, altrimenti avrebbe dovuto cedergli il suo unico figlio, che aveva
sei anni. Concluso l’accordo, lo sconosciuto si mise all’opera. Non si
occupava di nessun’altra mansione alla fattoria se non del proprio incarico di
carpentiere e diceva a malapena due parole, ma era indubbio che lavorasse
con una rapidità strabiliante. Il contadino si rese conto che la chiesa sarebbe
stata completata entro la fine della fienagione e si intristì per le conseguenze
del suo patto, ma non c’era nulla che potesse fare.
Un giorno d’autunno, quando la chiesa era quasi finita, il contadino si mise
a camminare senza una meta precisa oltre il podere e si distese vicino a un
poggio. A quel punto sentì qualcuno che cantava all’interno, come una madre
che stesse ninnando il proprio bambino:
Finnur verrà, te l’ho detto,
tuo padre da Reynir verrà,
e a te porterà un amichetto.
La strofa fu ripetuta più volte, così che il contadino riuscì a memorizzarla.
Allora riprese animo e fece ritorno alla chiesa, dove il carpentiere aveva
appena finito di piallare l’ultima asse e stava per fissarla sopra l’altare. Il
contadino si fermò sulla porta e disse: «Quindi hai quasi finito, caro Finnur.»
A quelle parole l’uomo rimase così sconcertato che lasciò cadere l’asse e
svanì. Nessuno l’ha più visto da allora.
40. La donna e la pelle di foca

La Mýrdalur, la regione compresa tra lo Jökulsá a ovest e il deserto di


Mýrdalssandur a est, è la più meridionale d’Islanda, un’area fertile protetta dal
ghiacciaio che in passato contava diverse stazioni di pesca. Il principale centro
urbano è Vík í Mýrdal, che si formò come villaggio costiero a partire dal 1887,
quando divenne un centro per gli scambi commerciali. Spesso al largo della Mýrdalur
si vedono nuotare le foche, che secondo il folklore islandese hanno origini bibliche.
Quando i guerrieri del faraone vennero travolti dalle acque del Mar Rosso dopo il
passaggio dei figli di Israele, furono trasformati in foche, a cui Dio misericordioso
concesse di tornare a riva una sola volta all’anno, smettere la livrea da foca e fare
festa in forma umana fino al mattino. La leggenda della donna e della pelle di foca
della Mýrdalur lo conferma.

Molto tempo fa, nella Mýrdalur, un contadino camminava sulle scogliere


lungo la costa di primo mattino, quando ancora nessuno era in piedi.
Raggiunse l’imboccatura di una grotta davanti alla quale erano accatastate
numerose pelli di foca, mentre all’interno si sentiva far festa con musica e
danze. Così raccolse una pelle, la portò a casa e la chiuse a chiave in una
cassa. Più tardi ripassò davanti alla grotta e vide una giovane molto bella
seduta lì fuori, completamente nuda e in lacrime: era la foca a cui l’uomo
aveva sottratto la pelle quella mattina. Le diede di che coprirsi, la consolò e la
portò a casa con sé. La donna era docile con lui, ma legava poco con gli altri
della fattoria e spesso se ne stava tutta sola a guardare il mare.
In seguito i due si sposarono, furono felici insieme ed ebbero sette figli. Il
contadino teneva sempre la pelle di foca chiusa nella cassa e portava la
chiave con sé ovunque andasse.
Passarono gli anni e un Natale il contadino andò in chiesa insieme a tutti gli
altri, mentre sua moglie rimase a casa dicendo che non si sentiva bene. Per
l’occasione l’uomo indossò però gli abiti della festa e dimenticò la chiave
nella tasca dei suoi altri vestiti. Non c’è molto da aggiungere, se non che
quando fece ritorno a casa la cassa era aperta e la pelle di foca era sparita,
insieme a sua moglie. La donna aveva trovato la chiave, aveva aperto la cassa
per la curiosità e aveva scoperto la sua vecchia pelle di foca. Incapace di
resistere alla tentazione, aveva salutato i suoi figli, indossato la pelle e preso
il mare. Prima di tuffarsi in acqua si dice che abbia recitato:
Oh, me tapina,
son messa alle strette,
ho sette figli a terra
e in mare altri sette.
Il contadino rimpianse a lungo la perdita della moglie, ma non poté farci
niente. Da quel giorno, ogni volta che usciva in mare per raggiungere i banchi
di pesca, intorno alla sua barca si vedeva spesso nuotare una foca che
sembrava avere le lacrime agli occhi. Inoltre da allora fece sempre una pesca
abbondante e spesso sul suo tratto di costa finivano oggetti preziosi
trasportati dalla corrente. Accadeva poi che mentre i suoi figli camminavano
sulla riva la gente notasse una foca che nuotava in mare tenendosi al passo
con loro. E non solo: spesso la foca lanciava ai ragazzi pesci multicolori e
graziose conchiglie. Ma la loro madre non fece mai più ritorno sulla
terraferma.
41. Il baule d’oro sotto Skógafoss

Skógafoss, la «Cascata dei boschi», è una delle cascate più belle d’Islanda, intorno
alla quale è sorta una piccola comunità a partire dal 1949, anno in cui vi fu fondata
una scuola. Oggi vanta anche un ottimo Museo del Folklore,21 che comprende alcuni
antichi edifici ristrutturati in loco e una chiesa del XIX secolo. In anni recenti le
pendici sopra la scuola sono state riforestate, così che Skógar rende ancora una volta
onore al nome che porta, ma dei boschi che qui crescevano in origine non è rimasto
niente, a parte gli alberi di Viðarhólmi. Il primo abitante di Skógar fu il ricco Þrasi
Þórólfsson, di cui parla questa famosa leggenda.
Þrasi di Skógar era un uomo molto agiato. In età avanzata, quando sentì che
la morte si stava avvicinando, si mise a pensare alle proprie ricchezze e
decise che preferiva non venissero suddivise, perciò riempì un baule di
denaro e oggetti preziosi e lo seppellì nel profondo specchio d’acqua che si
forma sotto la cascata Skógafoss. Lì il baule è rimasto, secolo dopo secolo, e
per molto tempo una sua fiancata è stata ben visibile oltre la cortina d’acqua
della cascata. Nel corso del tempo in molti hanno tentato di prenderlo, ma
nessuno ha avuto successo. Una volta tuttavia poco ci mancò, perché alcuni
ardimentosi riuscirono a far passare una corda attraverso la maniglia laterale,
che era a forma di anello, e si misero a tirare. In un primo momento andò
tutto bene, ma a un tratto le viti che assicuravano la maniglia alla fiancata
cedettero e il baule svanì in profondità. L’unica cosa che rimase a quegli
uomini fu l’anello della maniglia, e se lo portarono a casa.
Un tempo Skógar aveva una chiesa, e così si decise di fissare quella
pregevole maniglia alla sua porta come battente. Quando la cappella fu
sconsacrata nel 1890, la maniglia finì a Eyvindarhólar e fu di nuovo
inchiodata alla porta della chiesa, dove stava particolarmente bene. Dopo la
demolizione della vecchia casa di culto di Eyvindarhólar nel 1960, la
maniglia, anziché essere utilizzata per il portone del nuovo edificio, fu
affidata al Museo del Folklore di Skógar perché vi fosse conservata. Ancora
oggi è lì esposta al pubblico ed è considerata uno degli oggetti più
interessanti della collezione.
Probabilmente non vale la pena immergersi sotto la cascata Skógafoss per
cercare il leggendario baule d’oro di Þrasi, di cui non è poi così certa
l’esistenza, tuttavia questo racconto potrebbe avere un nocciolo di verità,
come testimonia un’antica strofa tramandata di generazione in generazione:
Una cassa zeppa d’oro
sta lì a Skógar, alle cascate.
Chi la prenderà per primo
otterrà soldi a palate.
21 Lo Skógasafn è stato fondato nel 1949 da Þórður Tómasson, che ne è stato il
curatore fino al 2013. Il museo raccoglie manufatti e articoli d’uso regionali e vi si
possono ammirare alcuni edifici antichi ristrutturati. (N.d.T.)
42. Una, l’elfa di Rauðafell

Proseguendo verso est, la strada statale n. 1 raggiunge i monti Eyjafjöll con


l’omonimo ghiacciaio Eyjafjallajökull, sotto il quale si trova un cratere vulcanico
formatosi attraverso numerose eruzioni, dall’era glaciale a tempi più recenti. A sud e
a ovest dei monti Eyjafjöll si estende l’Eyjafjallasveit, con praterie e varie zone
paludose. Durante l’ultima era glaciale, dieci o undicimila anni fa, quando i
ghiacciai cominciarono a sciogliersi, questa pianura si trovava sotto il livello del
mare: le pareti rocciose dei monti mostrano chiaramente di essere state un tempo
scogliere marine. Uno degli insediamenti originari nella parte orientale della
regione, un tempo molto più popolosa, si chiama Rauðafell, «Monte rosso». La zona
degli Eyjafjöll ha dato origine a molte storie di elfi, come la seguente.
Geir era il nome di un contadino che viveva a Rauðafell e possedeva una
fattoria piuttosto prospera. Era giovane e laborioso, ma aveva perso sua
moglie. Un giorno d’estate, nel periodo della fienagione, quando aveva già
falciato gran parte dell’erba ma le donne erano lente a rastrellarla, Geir vide
arrivare una giovane di alta statura che si unì alle lavoranti. La sera la donna
sparì, ma fece ritorno la mattina dopo e rastrellò insieme alle altre per il
giorno intero. Così andò avanti tutta l’estate. Nessuno sapeva da dove venisse
quella sconosciuta, né dove andasse.
L’ultimo giorno di fienagione il contadino le si avvicinò, la salutò e la
ringraziò per il lavoro svolto. Lei accettò volentieri i ringraziamenti e si
fermò a parlare con lui, che alla fine decise di assumerla come domestica. Il
mattino dopo la giovane si presentò a casa di Geir senza avere con sé
nient’altro che un grande baule, che fu sistemato nella rimessa. La donna si
fece carico di tutte le incombenze della casa e dimostrò di essere
particolarmente efficiente e una grande lavoratrice. Disse a Geir di chiamarsi
Una, ma non volle rivelargli da dove venisse e non mise mai piede in chiesa,
nonostante il contadino, molto osservante, la invitasse a farlo.
Arrivò il Natale e tutti andarono alla messa della Vigilia, tranne Una che
preferì rimanere a casa a badare alla fattoria, e quando i famigli rientrarono
dopo la celebrazione, lei aveva già sbrigato tutte le faccende. Una rimase per
tre anni a casa del contadino, che si affezionò molto a lei, ma non se la sentì
mai di sposarla per il fatto che non frequentava la chiesa. Inevitabilmente
cominciarono a circolare storie e congetture su quella donna misteriosa che
era considerata tra le più meritevoli di tutta la regione. Giunse il Natale del
terzo anno e Una rimase di nuovo a casa mentre gli altri andarono alla messa.
Erano partiti da poco quando uno dei lavoranti si sentì male all’improvviso, si
distese lungo il sentiero e disse di voler aspettare di star meglio, così rimase
indietro mentre il contadino e gli altri proseguivano verso la chiesa. Quando
non furono più a portata d’occhio, il lavorante si alzò e tornò alla fattoria,
perché il suo malessere era solo una finzione.
A casa vide Una impegnata a spazzare il pavimento, ma si nascose per non
farsi scoprire. Quando ebbe finito di spazzare, Una andò nella rimessa e aprì
il suo baule, estrasse delle vesti sfarzose e le indossò. Il lavorante era certo di
non aver mai visto una donna più bella. Poi Una afferrò un drappo o un
manto rosso e uscì, mettendosi a correre per i campi, e il lavorante la seguì. Si
fermò infine nei pressi di una palude, dispiegò la stoffa e cominciò a
camminarvi sopra. Il lavorante si fece coraggio e prontamente afferrò un
lembo di quel drappo e l’attimo dopo sprofondarono entrambi nel suolo come
se passassero attraverso una nebbia, senza che Una si fosse ancora accorta
dell’uomo che l’aveva seguita.
Si ritrovarono su un prato verde dove si ergeva un’immensa e splendida
fattoria: Una vi si diresse, e il lavorante dietro. All’interno una moltitudine di
persone diede il benvenuto alla nuova arrivata, poi tutti si sedettero davanti a
una tavola imbandita dove furono serviti vino e ricche pietanze. Il lavorante
ne approfittò subito, prese una costoletta di agnello affumicato e la infilò
nelle vesti, perché non aveva mai visto una carne così succulenta in tutta la
sua vita. Dopo il banchetto furono indetti dei giochi e ogni cosa era
organizzata con arte e maestria. Verso l’alba Una disse di dover andare,
perché il suo fattore sarebbe presto rincasato dalla chiesa, così salutò
solennemente gli altri e corse via sulla sua stoffa, insieme al lavorante. Fecero
lo stesso percorso a ritroso e riemersero in superficie accanto alla palude, poi
Una riportò a casa il manto e lo richiuse insieme alle sue vesti raffinate dentro
il baule nella rimessa.
Il lavorante tornò nel punto in cui aveva finto di sentirsi male e si fece
trovare ancora lì disteso quando il contadino arrivò dalla chiesa insieme agli
altri, ma disse di sentirsi meglio e rincasò con loro. Una li accolse e poco
dopo si sedettero tutti a tavola, dove tra i vari piatti fu servita anche della
carne di agnello affumicata. Il fattore ne prese una porzione abbondante e
disse: «Qualcuno di voi ha mai visto un pezzo di agnello così grosso?» «Direi
di sì», fece allora il lavorante mostrando la costoletta che aveva sottratto al
banchetto. Quando Una lo vide cambiò colore e sparì senza dire una parola.
Nessuno la rivide più, ma sotto i poderi di Rauðafell esiste ancora un luogo
chiamato Unudý, «Palude di Una».
43. La massaia pigra e Gilitrutt

Nella fattoria di Rauðafell, a est del distretto di Eyjafjöll, si stabilì all’epoca della
Colonizzazione Hrafn lo Sciocco, discendente di quel Sæmundur il Saggio che ha
assunto uno stato quasi leggendario nel folklore islandese. Sempre Rauðafell è legata
a una delle leggende più popolari: la storia di Gilitrutt. Alcuni dicono che fosse una
trollessa, per altri era un’elfa. Sopra la fattoria si trova un’altura chiamata Álfahóll,
«Collina degli elfi», che si suppone fosse la sua dimora.
C’era un tempo un contadino energico e molto laborioso che viveva nell’est,
alle pendici degli Eyjafjöll. Si era però sposato con una giovane donna
infingarda e oziosa che si occupava poco delle faccende della fattoria. Al
contadino la cosa non piaceva affatto, ma non sapeva cosa fare. Un autunno
le portò una grande quantità di lana e le chiese di farne del tessuto. Lei
accettò senza entusiasmo, ma l’inverno arrivò senza che si decidesse a
toccare la lana.
Un giorno le si presentò una vecchia imponente che le chiese un favore.
Prontamente la moglie del contadino le chiese di rimando se fosse disposta a
fare qualcosa per lei in cambio. La vecchia le domandò che cosa, e quando la
giovane le spiegò che doveva tessere della lana, quella accettò. La moglie del
contadino le porse dunque un grande sacco pieno di lana, la vecchia se lo
caricò sulla schiena e disse che sarebbe tornata con il tessuto fatto e finito il
primo giorno d’estate. «Ma tu che vuoi in cambio?» le chiese allora la
giovane. «Una cosa da poco», rispose la vecchia. «Se indovini il mio nome in
tre tentativi saremo pari.» La donna accettò e la vecchia se ne andò con la
lana. Durante l’inverno il contadino chiese spesso alla moglie dove fosse la
lana, ma lei ogni volta gli rispondeva di non impicciarsi perché avrebbe avuto
il suo tessuto il primo giorno d’estate. Il contadino non si lasciò
impressionare, e il tempo passò.
La donna cominciò a pensare al nome della vecchia, ma non trovando il
modo per scoprirlo si incupì sempre più. Il marito si accorse che era cambiata
e insisté perché gli dicesse che cosa la rendeva tanto infelice, così andò che la
giovane gli raccontò tutta la storia. L’uomo ne fu atterrito e pensò che la
vecchia doveva essere una trollessa che si sarebbe presa sua moglie e
l’avrebbe portata via con sé.
Qualche tempo dopo stava camminando pensieroso e infelice sotto i monti
quando raggiunse una collina pietrosa e sentì come dei colpi all’interno. Si
avvicinò e notò una fessura. Sbirciando dentro vide una donna corpulenta
seduta a tessere con zelo su un telaio che teneva tra le gambe, mentre
canticchiava:
Eh eh, ah ah;
la massaia il mio nome non sa.
È Gilitrutt, è Gilitrutt
eh eh, ah ah.
Il contadino si rallegrò, certo che fosse la vecchia che aveva incontrato sua
moglie, così tornò a casa tutto contento e scrisse su un biglietto il nome
Gilitrutt. Il tempo passò e arrivò anche l’ultimo giorno d’inverno: la donna
era così angosciata e abbattuta che non si alzò nemmeno dal letto. Il marito le
si avvicinò e le chiese se sapeva il nome della vecchia che l’aveva aiutata, ma
lei disse di no, convinta che sarebbe stata la sua fine. A quel punto il
contadino la rincuorò, le raccontò tutta la storia e le consegnò il biglietto con
il nome. La donna lo prese tremante di paura, perché temeva che fosse il
nome sbagliato, e chiese al marito di starle accanto quando fosse arrivata la
vecchia, ma lui si rifiutò dicendo che l’accordo per la lana l’aveva concluso
lei, perciò era lei a dover pagare il fio.

Il mattino del primo giorno d’estate, mentre era ancora a letto da sola e in
casa non c’era nessun altro, la donna sentì un grande frastuono e un rumore di
passi pesanti e vide entrare la vecchia con un’espressione tutt’altro che
benevola, che le svolse davanti un’enorme pezza di tessuto di lana e le chiese:
«Allora, allora, come mi chiamo, come mi chiamo?»
La donna era più morta che viva dalla paura, ma sussurrò:
«Ása?»
«Riprovaci, riprovaci, massaia!» disse la vecchia.
«Signý?» sospirò allora la donna.
«Ritenta, ritenta, massaia!»
A quel punto la donna si fece coraggio e disse:
«Non ti chiamerai Gilitrutt?»
La vecchia rimase talmente di stucco che cadde lunga distesa per terra con
un grande tonfo, poi si rialzò, girò sui tacchi e se ne andò senza farsi più
vedere. Dopo quel giorno la moglie del contadino cambiò completamente:
diventò una massaia operosa e disciplinata e lavorò da sola tutta la sua lana.
44. Lo spettro marino di Hvammsnúpur

A est di Seljaland si trova un gruppo di collinette, Hafurshóll, che in passato


costituiva un luogo di sosta molto apprezzato dai viaggiatori, mentre oggi la strada si
snoda più a sud e ormai sono in pochi a fermarvisi. Si riteneva che Hafurshóll fosse
abitato dal popolo nascosto e c’erano vari punti in cui l’erba non veniva mai falciata:
spesso nelle sere invernali vi si intravedevano delle luci, le finestre delle dimore
elfiche.
Ancora a est di Hafurshóll, prima dei ripidi pendii di Hvammsnúpur, si erge la
fattoria di Hvammur. Anticamente la principale via di transito della regione passava
da questo podere e proseguiva sulle erte pendici di Hvammsnúpur, con il fiume
Markarfljót che scorreva proprio sotto. Molto tempo fa, uno spettro noto con il nome
di Flóðalabbi infestava il sentiero e giocava brutti tiri a chi si ritrovava a dover
percorrere questo angusto e rischioso itinerario: si divertiva a staccare la soma ai
cavalli e a buttarla di sotto nel fiume impetuoso, come spiega un antico racconto.
C’era una volta un contadino che viveva nella fattoria di Hvammur, sotto i
monti Eyjafjöll: non se ne conosce il nome, ma pare che fosse talmente forte
e audace da valere per due. Una volta che gli capitò di scendere in riva al
mare trovò il cadavere di un uomo trasportato dalla corrente. Il morto
indossava una tunica e un paio di stivali di foggia elegante, ma il contadino
non ne ebbe alcun rispetto e lo derubò di ogni oggetto di valore, per poi
trasportarlo a casa e farlo seppellire nella sua parrocchia a Holt. Era inverno,
il suolo era coperto di neve e ghiaccio. Un giorno accadde che il contadino
uscì dopo la veglia serale, all’ora in cui le donne vanno nella stalla a mungere
le mucche, e non fece più ritorno. Al mattino lo cercarono, ma si trovarono
solo numerose tracce nella neve a sud della fattoria, e seguendole si vide che
portavano oltre il fiume Markarfljót, che era coperto da un solido strato di
ghiaccio. Procedendo in quella direzione si scoprirono chiazze di sangue
nella neve mentre le impronte continuavano verso sud, fino al mare, dove il
contadino fu trovato morto, con la schiena spezzata e pieno di ferite. Fu
sepolto e dopo la morte non fece mai del male a nessuno, mentre il fantasma
dell’uomo che era stato portato a riva dalla corrente continuò ad aggirarsi
nella zona di giorno e di notte e fu sempre ritenuto un ospite funesto. Gli
venne dato il nome di Flóðalabbi, «Spettro marino».
Poiché a quei tempi il fiume Markarfljót scorreva a est di Hvammsleira e si
gettava nel fiume Rimhúsaáll, tutti i viandanti passavano a est di
Hvammsnúpur, sulle cui erte pendici si snodava uno stretto sentiero.
Flóðalabbi si fermava spesso nei paraggi e giocava brutti scherzi ai passanti,
tanto che il sentiero era ormai ritenuto impraticabile, se non in pieno giorno e
preferibilmente in compagnia di altre persone. Una volta il sacerdote di Holt
si trovò a passare di lì con i suoi ottimi destrieri, ma il suo cavallo si fermò
nel punto più rischioso del sentiero e non volle più muoversi. Il reverendo,
infastidito, lo colpì in mezzo alle orecchie con la frusta, al che il cavallo reagì
con un salto in aria di quasi due metri e partì al galoppo senza più fermarsi
finché non raggiunse l’aia a Holt. Il reverendo era convinto che Flóðalabbi si
fosse piazzato in mezzo al sentiero, benché lui non potesse vederlo, e che il
suo cavallo l’avesse superato con quel salto.
In estate, come di consueto, tutti partirono per raggiungere la costa e
vendervi i propri prodotti e tra loro il reverendo Magnús di Hörgsland, il
quale però fece sosta a Holt durante il tragitto sui monti, mentre il resto della
carovana proseguiva. Quando i compagni del reverendo furono sul sentiero di
Hvammsnúpur, si trovarono davanti Flóðalabbi che slegò il carico da tutti i
cavalli. Loro lo sistemarono di nuovo, ma lo spettro lo staccò subito dopo.
Tra i beni precipitati nel fiume c’erano alcune botti di burro che il reverendo
doveva portare al mercato. La faccenda andò avanti così finché non arrivò
Magnús, che ordinò ai suoi compagni di viaggio di caricare nuovamente i
cavalli, perché Flóðalabbi non avrebbe certo osato slegare le some se c’era lui
presente. Dopo di che disse agli altri di proseguire per la tappa successiva e di
aspettarlo lì fino al mezzodì del giorno seguente. Se non fosse arrivato per
quell’ora non avrebbe avuto senso attenderlo ulteriormente.
La carovana proseguì fino a Djúpadalur, sul ramo orientale del fiume
Rangá, arrancando in vari punti negli acquitrini che si trovano in quelle zone.
Successe quel che successe, il reverendo non raggiunse l’accampamento dei
suoi compagni prima del mattino dopo, e quando si presentò aveva l’aria
parecchio frastornata. In seguito raccontò di aver dovuto sostenere un duro
duello con lo spettro, che era un versificatore esperto e per quanto il
reverendo componesse versi nelle dieci lingue che conosceva, Flóðalabbi gli
rispondeva per le rime in altrettanti idiomi, anzi, anche in uno in cui era più
versato e che il chierico non conosceva. Alla fine il reverendo era riuscito ad
avere la meglio e quando Flóðalabbi era sprofondato nella palude fino al
collo, con la sola testa che emergeva, aveva chiesto a Magnús di calpestarlo
prima di ripartire. Lui l’aveva accontentato, ma sospettando che Flóðalabbi
stesse giocando sporco, si era prima tagliato i lacci delle scarpe, così lo
spettro era sprofondato insieme a una scarpa del reverendo e aggrappandosi
con una mano alle rocce vicine vi aveva lasciato un segno, visibile ancora
oggi. Il reverendo Magnús era finalmente riuscito a liberarsi una volta per
tutte di Flóðalabbi, che infatti da allora nessuno ha più visto.
45. Snorri il fuggitivo

Dirigendosi di poco verso l’entroterra dalla costa meridionale si raggiunge


Þórsmörk, un luogo molto apprezzato dai visitatori, che vanta montagne e vallate,
fiori selvatici e boschetti di betulle, fiumi glaciali e ruscelli cristallini, praterie e
brulle distese sabbiose, il tutto circondato da tre maestosi ghiacciai. Ma le bellezze
naturali non sono l’unica attrattiva della valle: chi è interessato al folklore locale
troverà nella Húsadalur una parete rocciosa basaltica, nella cui parte superiore si
apre una grotta chiamata Snorraríki, «Regno di Snorri».
Snorri era in tutta probabilità un giovane astuto e vigoroso, pieno di risorse e
perfettamente in grado di cavarsela in qualsiasi situazione. Doveva aver
rubato o commesso qualche infrazione, perché un giorno si ritrovò ad
affrontare la giustizia. A quell’epoca il codice penale era severo e spietato,
per cui Snorri preferì evitare gli ufficiali regi e si diede alla fuga. Alcuni
volontari si offrirono subito di inseguirlo e catturarlo, ma ben presto si resero
conto che il fuggitivo era velocissimo e li stava distanziando tutti quanti.
Snorri si diresse verso i monti e finì a Þórsmörk, dove tuttavia non si accorse
dei suoi inseguitori, che alla fine riuscirono a circondarlo e metterlo
all’angolo. Sembrava non avere più alcuna via d’uscita. Ma quando
cercarono di prenderlo, Snorri dal piede veloce si arrampicò su una parete
rocciosa della Húsadalur fino all’imboccatura di una grotta. Capendo
immediatamente dove avesse intenzione di andare, la squadra decise di
circondare la grotta e prendere Snorri per sfinimento. Non avevano infatti
modo di raggiungerlo, perché la grotta era così in alto che un uomo solo
poteva facilmente difendersi anche se assediato da molti, così aspettarono ai
piedi della roccia finché la fame non avesse convinto Snorri a consegnarsi a
loro.
Tuttavia le cose non andarono come previsto: gli inseguitori attesero lì
giorno dopo giorno e notte dopo notte, ma il fuggitivo non dava segno di
volersi arrendere. Il tempo passò e proprio quando cominciavano a pensare
che dovesse presto soccombere alla fame, Snorri comparve sulla soglia della
grotta, ma non per darsi per vinto, perché lanciò un grasso cosciotto di
agnello ai poveri uomini esausti appostati di sotto, dicendo loro di favorire.
La truppa rimase di sasso e tutti capirono che era inutile cercare di convincere
Snorri ad arrendersi con la fame, perché era così ben rifornito di cibo che
poteva anche permettersi di condividerlo con loro. Dopo essersi consultati per
qualche momento, gli assedianti decisero di rinunciare e tornarono a casa.
Ciò che non sapevano era che quel cosciotto d’agnello era l’ultima scorta
rimasta nella grotta: Snorri aveva compiuto quel gesto come ultima risorsa,
ottenendo l’effetto desiderato. Una volta che tutti se ne furono andati, scese
dalla parete rocciosa e fuggì. Di lui non sappiamo altro, ma un uomo tanto
audace e ingegnoso sarà certo stato in grado di cavarsela egregiamente. Dopo
questo episodio la grotta fu chiamata Snorraríki, il «Regno di Snorri», in
onore di questo scaltro e lesto fuggitivo.
In tempi recenti nella roccia sono stati scolpiti dei gradini e un corrimano,
per cui chiunque può accedere a questa spelonca, purché non soffra di
vertigini. Nel corso degli anni molti viaggiatori hanno inciso il loro nome o la
data nella parete rocciosa sottostante, e chissà che da qualche parte fra tutte
quelle scritte non si celi anche il nome di Snorri, chi può mai dirlo?
46. Il reverendo di Súlnasker

Al largo della costa meridionale islandese si ergono le Vestmannaeyjar, le «Isole


degli uomini dell’ovest», un arcipelago di quindici isole e circa trenta isolotti e
scogli, di cui solo la più grande, Heimaey, è abitata, e lo è dagli albori della storia
d’Islanda. Le isole hanno una storia lunga e pittoresca, a partire dal XV e XVI secolo,
quando gli inglesi e altri forestieri vi andavano a pescare e commerciare, non sempre
con uno spirito di pacifica condivisione. Nel 1627 furono teatro della cosiddetta
razzia turca, quando dei pirati algerini le saccheggiarono e presero in ostaggio
duecento persone per rivenderle ai mercati degli schiavi del Nord Africa. In epoca più
recente, nel 1973, un’eruzione vulcanica ha costretto tutti gli abitanti di Heimaey a
trasferirsi temporaneamente sull’isola madre, seppellendo un terzo della cittadina
sotto la lava. Non meno ricco è il patrimonio di storie locali, come la leggenda del
reverendo di Súlnasker, un piccolo scoglio nel sud dell’arcipelago.
Súlnasker, lo «Scoglio delle sule», si chiama così per la folta colonia di sule
che lo popola, ma è detto anche Skerið góða, lo «Scoglio buono». E in effetti
merita questo nome, perché gli abitanti delle Vestmannaeyjar vi catturano
ogni anno da quattro a cinquemila fulmari e da quattro a cinquecento sule e si
approvvigionano di uova di uccelli marini, di cui Súlnasker è la maggiore
fonte di tutto l’arcipelago. L’isolotto emerge dall’acqua su quattro pilastri
rocciosi, così alti che vi si può passare sotto in barca quando il mare è calmo.
In genere gli isolani vi si recano una volta all’anno per catturare gli uccelli,
ma occorre scegliere una bella giornata perché intorno allo scoglio si formano
alti flutti e l’arrampicata è piuttosto rischiosa. Il giorno in cui si scala
Súlnasker rappresenta una sorta di gioiosa festività, sempre che nessuno si
faccia male e che la caccia sia proficua.
L’isolotto digrada notevolmente verso sud-ovest e una storia ne spiega il
motivo: in origine nessuno aveva mai preso in considerazione di salirvi,
perché sembrava a tutti inaccessibile, a meno di potersi fornire di un paio
d’ali. Ma una volta due valorosi tentarono l’impresa e vi riuscirono, anche se
la loro spedizione fu un vero azzardo. Il tale che per primo riuscì a scalare lo
scoglio esclamò: «Ce l’ho fatta, per voler di Dio!» mentre l’altro ribatté: «Ce
l’ho fatta anch’io, che Dio lo volesse o meno». Al che lo scoglio si inclinò di
lato e si scrollò di dosso quel miscredente, precipitandolo negli abissi marini,
mentre un uomo corpulento apparve d’un tratto ad afferrare l’altro e
sostenerlo per impedirgli di fare la stessa fine. Da quel giorno l’isolotto è
rimasto in pendenza. L’uomo corpulento era il reverendo di Súlnasker, che
poi aiutò il primo arrampicatore a scendere e anche ad aprire un passaggio
per visite future. Il sentiero fu utilizzato per lungo tempo, per poi essere
abbandonato quando fu trovato un accesso migliore.
Anticamente si diceva che il reverendo dello scoglio apparisse per dare
indicazioni agli isolani che vi approdavano, o per far loro segno di tornare
indietro se prevedeva l’arrivo del maltempo. Se si ignoravano i suoi
avvertimenti, qualcosa sarebbe andato storto: la barca avrebbe riportato dei
danni, qualcuno si sarebbe ferito e via dicendo. A volte accadeva, nonostante
il maltempo intorno allo scoglio, che il reverendo facesse cenno di attraccare:
allora si poteva star certi che il vento sarebbe calato e il mare si sarebbe
placato. Per questo gli abitanti delle Vestmannaeyjar erano molto
riconoscenti al reverendo dello scoglio, e ancora oggi, quando qualcuno vi
approda per la prima volta, lascia qualche monetina in dono in un contenitore
di pietra che si trova lì – e alla visita successiva il denaro è immancabilmente
sparito.
Si dice inoltre che il reverendo dello scoglio sia un ottimo divulgatore della
dottrina cristiana. Se così non fosse, infatti, non potrebbe essere grande amico
del pastore di Ofanleiti, sull’isola di Heimaey. Il reverendo dello scoglio va a
trovarlo con la sua barca di pietra la sera di ogni ultimo dell’anno, e il
sacerdote di Ofanleiti lo accoglie a braccia aperte, lo fa accomodare in casa e
gli offre caffè, brennivín, agnello affumicato e altre leccornie. Quando
l’ospite riparte, verso mezzanotte, il prete di Ofanleiti lo accompagna fino
alla baia, dove il reverendo dello scoglio è solito tirare in secca la sua barca, e
lo aiuta a calarla di nuovo in mare.
Negli ultimi tempi pare che il reverendo dello scoglio si veda più raramente
di prima. Alcuni sostengono che sia ormai troppo vecchio per andarsene in
giro in barca, ma nessuno ha sentito dire che la parrocchia dello scoglio sia
stata affidata a qualche altro chierico, o che il vecchio reverendo abbia
nominato un cappellano.
47. Herjólfur e Vilborg delle Vestmannaeyjar

La Herjólfsdalur è una valle pittoresca a ovest della cittadina di Heimaey, sulle isole
Vestmannaeyjar, e deve il proprio nome al primo colonizzatore delle isole, un certo
Herjólfur, che vi si stabilì. Nel 1874, quando si celebrarono i mille anni della
colonizzazione dell’Islanda e la costituzione ottenuta dal re di Danimarca, gli abitanti
delle Vestmannaeyjar tennero qui le loro celebrazioni. I festeggiamenti si ripeterono
nel 1900 e da allora ogni anno, nel primo fine settimana di agosto, sulle isole si tiene
un festival durante il quale la Herjólfsdalur viene addobbata e illuminata. All’interno
della valle si trova un piccolo laghetto formato da una sorgente, Lindin, che era
ritenuta la migliore di tutto questo piccolo arcipelago.
Una volta, tanto tempo fa, un uomo di nome Herjólfur si stabilì in una valle
delle Vestmannaeyjar che da allora è chiamata Herjólfsdalur. Era l’unico
degli isolani a poter vantare una buona sorgente nei pressi della propria
fattoria, perciò accadeva spesso che la gente andasse a chiedergli dell’acqua,
che lui non voleva concedere se non dietro pagamento. Herjólfur aveva una
figlia di nome Vilborg che mostrava un carattere molto diverso da quello del
padre: se lui era un osso duro quando contrattava con i vicini per la vendita
dell’acqua, la giovane usciva spesso di nascosto per regalarla a tutti.
Una volta accadde che mentre Vilborg stava fuori dalla fattoria a riparare un
paio di scarpe, un corvo le si avvicinò, le prese una scarpa e volò via
portandola con sé. Alla ragazza dispiaceva perdere quella calzatura e così si
mise a inseguire l’uccello. Ma si era da poco allontanata da casa quando dal
monte scese una spaventosa slavina che investì la fattoria e uccise suo padre.
Così Vilborg ebbe salva la vita grazie a quel corvo, con il quale era sempre
stata molto generosa.
Dopo la slavina, la figlia di Herjólfur non volle più vivere nella vecchia
fattoria e la leggenda narra che si sia costruita un nuovo casale, chiamato
Vilborgastaðir. Pare che avesse dichiarato che un laghetto a sud della sua
tenuta dovesse chiamarsi Vilpa, e che l’acqua di Vilpa non dovesse mai
nuocere a nessuno, anche se non sempre aveva un aspetto salubre. Si dice che
Vilborg sia sepolta a ovest di Vilborgastaðir, in un posto che tuttora porta il
nome di Borguleiði, «Tomba di Borga».
Nella Herjólfsdalur, sopra il mucchio di rocce che investirono la fattoria, c’è
ancora una sorgente d’acqua limpida che non si prosciuga mai, nemmeno
quando altrove sull’isola l’acqua scarseggia. Dev’essere la stessa da cui
anticamente Herjólfur vendeva l’acqua, mentre la sua gentile figlia la
regalava ogni volta che poteva.
48. Sæmundur il Saggio e il diavolo

Tra le cittadine di Hella e di Hvolsvöllur, la strada statale n. 1 passa davanti


all’antica tenuta di Oddi, che all’epoca del cosiddetto Stato Libero d’Islanda (930-
1262) era uno dei maggiori centri di cultura e di potere. Già in epoca medievale vi fu
fondata una scuola che formava i giovani al clericato. Un famoso allievo fu Snorri
Sturluson, che divenne un grande studioso e un influente magnate. La famiglia di
Oddi entrò in declino nel XIII secolo e perse ogni potere nel 1262, quando l’Islanda
fu sottomessa al dominio norvegese. Il più rinomato tra i sacerdoti che prestarono
servizio a Oddi fu Sæmundur Sigfússon, noto come «il Saggio», di cui si raccontano
molte leggende: partito in giovane età per studiare all’estero, pare sia stato il primo
studente nordico alla Sorbona di Parigi, nota in islandese come Svartaskóli, «Scuola
Nera», perché si riteneva vi venisse insegnata la magia nera. C’è chi sostiene che
Sæmundur sia uno dei pionieri della letteratura islandese e gli ascrive una storia dei
re norvegesi in latino. Sebbene nessuna delle sue opere sia stata tramandata fino a
noi, gli autori dei secoli successivi fanno spesso riferimento ai suoi scritti.
Alla Scuola Nera il preside era il diavolo in persona e si potevano imparare
magie e altri arcani misteri. Quando gli studenti si diplomavano, per
consuetudine il diavolo si prendeva l’ultimo a uscire, così quando Sæmundur
appena diplomato si offrì volontario per varcare la soglia per ultimo, i suoi
compagni ne furono molto sollevati. Si avvolse un grande pastrano sulle
spalle, ma senza infilare le maniche e senza abbottonarlo. Sulla porta il
diavolo lo ghermì esclamando: «Sei di mia proprietà!» per poi rimanere lì con
il cappotto in mano mentre Sæmundur se la svignava.
Dopo gli anni trascorsi alla Scuola Nera, Sæmundur era diventato così
esperto che riusciva a servirsi del diavolo per fargli svolgere incombenze di
ogni genere al posto suo, e lo raggirava a tal punto che il demonio non
riusciva mai a ottenere qualcosa in cambio per il disturbo. Si trovava ancora
all’estero quando si rese vacante il posto di sacerdote nella parrocchia di
Oddi. Sæmundur vi ambiva molto, e poiché prevedeva un gran numero di
candidati aveva urgenza di presentarsi per primo, così convocò il diavolo e
gli disse: «Prova a portarmi a nuoto fino in Islanda, se mi farai arrivare sulla
terraferma senza che io mi bagni la toga, sarò di tua proprietà.» Il diavolo lo
prese in parola, si trasformò in foca e percorse tutto il tratto di mare a nuoto
con in groppa Sæmundur che intanto leggeva il Salterio. In breve tempo
arrivarono al largo dell’Islanda, ma a quel punto Sæmundur sbatté il Salterio
sulla testa della foca, che sprofondò in acqua, mentre lui si tuffò per
raggiungere la riva, dove arrivò completamente fradicio. Il diavolo aveva
perso la scommessa e Sæmundur ottenne il posto a Oddi.
Una volta il reverendo Sæmundur chiese al diavolo quanto riusciva a
diventare piccolo, al che quello gli rispose che poteva diventare piccolo come
un moscerino. Allora Sæmundur prese una trivella, praticò un foro in un
pilastro e gli disse di entrarvi. Il diavolo ci mise un attimo a farlo e così
Sæmundur chiuse il foro, e per quanto l’altro si lamentasse e strillasse e
chiedesse pietà, non tolse il tappo finché il demonio non gli promise di
servirlo e obbedirgli sempre. Ecco perché Sæmundur otteneva da lui tutto
quello che voleva.
Una volta a Sæmundur venne a mancare il bovaro, così incaricò il diavolo di
occuparsi delle mucche. Per l’intero inverno il demonio svolse il suo compito
alla perfezione, ma la domenica di Pasqua, mentre Sæmundur stava
celebrando la messa, si mise a trasportare tutto il letame davanti alla porta
della chiesa, per impedire al sacerdote di uscire dopo la celebrazione. A quel
punto il reverendo convocò il diavolo al suo cospetto e lo costrinse volente o
nolente a riprendersi tutto il letame e riportarlo al suo posto, e fu così severo
che gli fece leccare ogni residuo con la lingua. Il diavolo leccò con tanta
forza che nella lastra di pietra del selciato davanti alla chiesa di Oddi si formò
una conca. La lastra è ancora lì, anche se è solo un quarto di quella originale,
ma vi si nota molto bene il solco creato dalla lingua del diavolo.
Il demonio era oltremodo risentito con Sæmundur il Saggio e gli bruciava
terribilmente avere sempre la peggio con lui, perciò cercava ogni maniera
possibile per vendicarsi. Una volta si trasformò in mosca e si nascose nella
giara del reverendo sotto lo strato di panna di latte, pensando a quel modo di
entrargli nello stomaco e ucciderlo da dentro, ma Sæmundur vide la mosca e
l’avvolse nello strato di panna che chiuse dentro un budello, per poi posare
l’involucro sull’altare. La mosca dovette rimanere intrappolata lì per tutto il
tempo in cui Sæmundur officiava la funzione successiva, perché solo al
termine il reverendo svolse il fagotto e la liberò. Si dà per certo che il diavolo
non si sia mai sentito tanto infelice come quando gli toccò stare in chiesa
mentre il reverendo Sæmundur celebrava la messa.
49. Gissur di Botnar e la trollessa

Chi percorre la regione meridionale dell’Islanda non potrà fare a meno di notare il
monte Hekla, il più bel vulcano del Paese, nonché il più famoso. A partire dalla
Colonizzazione, l’Hekla ha mostrato attività eruttiva con una media di due volte ogni
cento anni, tranne nel XX secolo in cui ha eruttato ben sei volte. In passato si riteneva
che le eruzioni dell’Hekla presagissero eventi importanti, come guerre o la morte di
qualche re o imperatore.
Nei pressi del vulcano sorge la fattoria di Næfurholt, la più interna nella regione di
Rangárvellir. Nelle vicinanze si trova una collina molto pittoresca, dalle pendici
ripide, chiamata Bjófell, mentre a nord di Næfurholt, sopra le aree abitate, si apre un
vasto burrone chiamato Trollkonugil, «Burrone della trollessa». A ovest del fiume
Þjórsá, ancora più verso l’entroterra rispetto al Bjófell, si erge un monte a tavola,
chiamato Búrfell. Addentrandosi ulteriormente si raggiunge il deserto di sabbia e
pomice prodotto dalle eruzioni dell’Hekla: è il territorio della trollessa di Búrfell.

C’erano una volta due trollesse che vivevano l’una nel monte Búrfell e l’altra
nel Bjófell. La trollessa del Búrfell faceva spesso visita alla sorella,
spostandosi verso est sui fiumi Þjórsá e Rangá fino a raggiungere il Bjófell, e
probabilmente anche la sorella andava a volte verso ovest fino al Búrfell per
contraccambiare le visite. Il Búrfell è molto roccioso e ha pareti ripide su
ogni lato; a est, sotto la metà del monte, ci sono due rocce, non molto alte,
una su ciascuna sponda del Þjórsá, mentre altre due rocce, circa della stessa
altezza, spuntano fuori dall’acqua provocando una cascata che si divide in tre
getti. Pare che le rocce siano state collocate lì dalla trollessa di Búrfell, per
permetterle di attraversare il fiume con tre balzi senza bagnarsi i piedi. Il
punto in cui si trovano le rocce si chiama Tröllkonuhlaup, il «Salto della
trollessa».
Kjallakatungur è il nome di una zona di dune sabbiose e chiazze di
vegetazione che si apre tra i fiumi Þjórsá e Rangá. In tempi antichi chi
viaggiava verso i pascoli degli altipiani interni era costretto a passare da qui.
Nella Landsveit c’è una fattoria che si chiama Botnar, o Lækjarbotnar, e
all’epoca in cui si svolge questa storia vi abitava un contadino di nome
Gissur. Un giorno Gissur raggiunse a cavallo i pascoli montani per andare a
pescare nel fiume, e quando gli parve di aver pescato tutto il pesce che il suo
cavallo era in grado di portare si avviò verso casa. Non si conoscono i
dettagli dei suoi spostamenti finché non raggiunse Kjallakatungur e si trovò
di fronte al Tröllkonuhlaup; a quel punto sentì una voce tuonare dal Búrfell:
«Sorella, prestami una pentola.»
«Che ci vuoi fare?» chiese una voce dal Bjófell.
«Ci voglio lessare un tale», risuonò la voce del Búrfell.
«Come si chiama?» fu la domanda dal Bjófell.
«Gissur di Botnar, Gissur di Lækjarbotnar», riecheggiò dal Búrfell.
In quel momento il fattore Gissur alzò lo sguardo verso il Búrfell e vide una
trollessa scendere strascicando i piedi dal pendio e dirigersi verso di lui.
Convinto che volesse davvero mettere in pratica le sue minacce, capì di non
poter perdere tempo e di dover correre a mettersi in salvo, così abbandonò il
cavallo da soma e frustò quello che montava, che era un destriero agile e di
prima qualità. Galoppò più veloce che poté senza mai guardarsi indietro,
benché sentisse la trollessa ansimare alle sue spalle e fosse certo che lo stava
raggiungendo. Cavalcò dritto attraverso Land con la trollessa alle calcagna,
ma a quel punto fortuna volle che la gente della fattoria di Klofi li vide
passare e prontamente corse a suonare tutte le campane, proprio mentre
Gissur entrava nel loro podere. Non essendo riuscita a catturarlo, la trollessa
gli lanciò l’ascia dietro, così che quando Gissur raggiunse l’aia il suo cavallo
stramazzò a terra morto, con la lama piantata nei lombi. Gissur ringraziò Dio
di tutto cuore per aver avuto salva la vita.
Quanto alla trollessa, fu colta talmente di sorpresa da quello scampanio che
perse il senno e corse via all’impazzata, tanto che la videro passare da diverse
fattorie della regione. Senza fermarsi superò la sua dimora puntando verso
est, in direzione di un burrone, e fu lì che poi la trovarono, morta di
stanchezza. Da allora il dirupo ha preso il nome di Tröllkonugil, il «Burrone
della trollessa». Nessuno ha mai sentito dire che sua sorella di Bjófell abbia
minacciato gli abitanti del circondario, e del resto, dopo questo episodio, di
lei si è saputo ben poco. Alcuni raccontano che si sia trasferita a Tröllkonugil,
perché non voleva più vivere così vicino alle aree abitate dagli umani.
50. La verde valle dentro il ghiacciaio

Negli altipiani interni del sud si trova l’area geotermale di Landmannalaugar. La


valle abbonda di sorgenti, calde e fredde, che alimentano un ruscello profondo dal
corso lento e piacevolmente tiepido per un bagno. A sud-est di Landmannalaugar una
gola chiamata Jökulgil, che si allunga verso sud fino al ghiacciaio Torfajökull, era un
tempo ritenuta rifugio di fuorilegge ed esiliati: quando i contadini non riuscivano a
radunare tutte le loro pecore dai pascoli estivi, la colpa era sicuramente di coloro che
vivevano alla macchia in queste zone remote. Nel 1852 il burrone venne esplorato per
la prima volta e da allora regolarmente perlustrato durante i raduni autunnali.
Secondo alcuni antichi racconti fu abitato per un certo periodo, quando l’ufficiale
distrettuale Torfi Jónsson di Klofi vi trasferì la sua tenuta durante l’epidemia di peste
che colpì l’Islanda dal 1494 al 1495. Pare che la piaga, che all’epoca era creduta
propagarsi in forma di un miasma blu, fosse stata portata da una nave di mercanti
inglesi sbarcati a Hafnarfjörður, nei pressi di Reykjavík, e che colpisse con una tale
rapidità che le donne venivano trovate morte davanti ai secchi della mungitura o sulle
botti nelle dispense. In molte fattorie si salvarono solo un paio di persone: potevano
esserci tre o quattro funerali al giorno, e se in sei o sette vi partecipavano, solo due o
tre tornavano a casa vivi perché gli altri morivano per strada. Torfi trovò il modo di
proteggere se stesso e i suoi famigli da questa terribile pestilenza.
Quando Torfi, l’ufficiale distrettuale, venne a sapere che la peste si era spinta
fino a est della brughiera di Hellisheiði, raccolse i suoi averi e se ne andò da
Klofi con tutto ciò che riusciva a trasportare per trasferirsi con la sua gente
negli altipiani del distretto di Land, a sud dei pascoli montani, dove un
ghiacciaio isolato si erge a est dell’Hekla. Si diresse verso est costeggiando le
propaggini settentrionali del ghiacciaio finché non arrivò a un ruscello lungo
il quale si apriva un bel lotto di terreno fertile, con l’erba talmente alta che si
piegava al proprio peso. Torfi proseguì verso monte imboccando la gola,
detta oggi Jökulgil, in cui scorreva il ruscello, ma lungo il percorso l’erba
cominciò a farsi sempre più rada e la terra più sassosa. Allora i famigli
discussero tra loro dicendo che avrebbero preferito rimanere nella prateria a
valle, che sembrava un posto vivibile, e che non avrebbero certo trovato un
luogo migliore addentrandosi in quel burrone buio e quasi completamente
chiuso da pareti rocciose. Quando Torfi li sentì borbottare chiese loro di
lasciare a lui la decisione, perché fino a quel momento aveva sempre
provveduto al meglio per tutti.
Così continuarono il cammino finché notarono che da sud proveniva un
grande chiarore: la forra si apriva di nuovo in un’ampia valle di sorprendente
bellezza che sembrava allungarsi per tutta l’estensione del ghiacciaio, da est a
ovest. Non si vedeva altra apertura nella roccia intorno a parte quella da cui
erano venuti; sopra di loro non c’era altro che il ghiacciaio e il cielo terso,
mentre le pendici del precipizio erano coperte di boschi fino alle verdi lande
pianeggianti. «Fermiamoci qui per un po’», disse Torfi, «il miasma blu
dev’essere proprio malefico per riuscire ad aggredirci anche in questa
vallata.» Dopo di che mise all’opera i suoi numerosi uomini e costruì una
casa bellissima.
Durante l’estate Torfi fece coltivare la valle ai suoi contadini e la fattoria
prosperò grazie alle particolari qualità del terreno. Anche se aveva avvertito
tutti di evitare contatti tra la valle e le aree abitate del distretto, ogni due
settimane mandava un paio di uomini fidati sulla cresta della catena
montuosa, da dove riuscivano a vedere le altre fattorie e a riferirgli del
miasma blu della peste. Per lungo tempo i due riportarono le scoraggianti
notizie che il miasma alleggiava ancora sopra le case ed era salito fino a metà
dei versanti montuosi e che nel distretto non si vedeva nessuno in giro, ma
finalmente venne il giorno in cui i due messaggeri annunciarono che era tutto
finito. Torfi rimase nella valle ancora per qualche tempo, finché non si sentì
sicuro che la peste se ne fosse andata per sempre, poi raccolse i suoi averi e
tornò a Klofi, dove costruì un’altra fattoria, senza che né lui né i suoi uomini
avessero riportato alcun danno dall’epidemia.
Non si sa quanto tempo Torfi sia rimasto nel ghiacciaio, che da allora ha
preso il suo nome e si chiama Torfajökull. Al momento di partire per fare
ritorno alle aree abitate, alcuni lavoranti non vollero lasciare la valle e Torfi
permise loro di rimanere nella casa che avevano costruito. Da allora, fino a
poco tempo fa, si diceva che nel Torfajökull si nascondessero dei fuorilegge e
che i viaggiatori che percorrevano la pista Fjallabak verso la regione della
Skaftafellssýsla sentissero spesso odore di fumo provenire dal ghiacciaio,
come quando si accende un falò. Ma quando gli uomini del distretto di Land
si decisero a esplorare la gola constatarono senza ombra di dubbio che la
presunta vallata rigogliosa era invece piena di ghiaccio e neve e quindi
assolutamente inabitabile. Non c’erano più i prati e i boschi dei giorni di
Torfi di Klofi.
51. Jóra di Jórukleif

Selfoss è una cittadina a poca distanza da Reykjavík che si sviluppò durante il XX


secolo grazie alla costruzione di un ponte sul fiume Ölfusá. Inaugurato l’8 settembre
del 1891, fu il primo ponte moderno mai costruito in Islanda e annunciò l’ingresso
della nazione nell’età contemporanea. Inteso esclusivamente per pedoni e cavalli,
all’inizio del 1900 fu aperto anche al traffico a motore e riuscì a sostenerne le
sollecitazioni per molti anni, prima di collassare nel 1944 a causa del peso di due
camion. Fortunatamente non ci furono morti e il nuovo ponte fu completato nel
dicembre dell’anno successivo. Poco al di sopra del ponte, due rocce si protendono
emergendo dal fiume: un tempo erano tre, ma una fu trasportata a valle da
un’alluvione nel 1959. Note come Jóruhlaup, il «Salto di Jóra», devono il loro nome a
una certa Jórunn, detta Jóra, figlia di un contadino della zona e vissuta molto tempo
fa.
C’era una volta una ragazza di nome Jórunn che abitava in una fattoria nel
distretto di Sandvík, a Flói. Era una giovane promettente, ma aveva un brutto
carattere. Un giorno fu organizzata una gara tra i cavalli del distretto a cui
partecipò anche un destriero di suo padre. Jórunn si arrabbiò a tal punto
vedendolo avere la peggio che si precipitò verso l’altro cavallo e gli staccò
una zampa. Poi corse più veloce che poté al fiume Ölfusá, fino a una cascata,
forse Laxfoss oppure Selfoss, afferrò grossi pezzi di pietra dalle pareti
rocciose e li lanciò in acqua. Così attraversò il fiume saltando sulle pietre,
mentre diceva:
I sassi giusti per la pulcella ho unito,
è ormai tempo di prendere marito.
E da allora il luogo si chiama Jóruhlaup, il «Salto di Jóra». Raggiunta l’altra
riva continuò a correre attraversando il distretto di Ölfus a est del monte
Ingólfsfjall fino a Grafningur, per poi raggiungere una gola poco lontana da
Nesjar. La percorse tutta fino ai monti Hengill, dove si costruì una dimora a
Jóruhellir, la «Grotta di Jóra», e diventò una crudele trollessa. Per abitudine,
spesso saliva su una vetta della catena montuosa di Hengill e rimaneva seduta
per ore in un punto che da allora si chiama Jórusöðull, la «Sella di Jóra». Da
lì vedeva la gente di passaggio e tendeva agguati ai viandanti in un dirupo
che ha preso il nome di Jórukleif, la «Scarpata di Jóra». Una volta mangiata
la coscia del cavallo, si mise a rapire la gente per divorarla e in breve tempo
diventò così malvagia e feroce che mandò in rovina tutte le fattorie dei
dintorni e fece sì che i sentieri della zona venissero abbandonati. Era una
situazione terribile e fu radunata una squadra per uccidere Jóra, ma senza
risultato.
Proprio quando ogni speranza di trovare una soluzione sembrava perduta,
un giovane disse di sapere come fare. Andava spesso all’estero e dovendo
trascorrere un anno in Norvegia si presentò dal re e gli raccontò di
quell’essere malvagio che si era annidato nei monti Hengill, chiedendogli
come poterlo sconfiggere. Il sovrano accolse favorevolmente la sua richiesta
e consigliò al giovane di aggredire Jóra all’alba della domenica di Pentecoste,
perché, come gli disse: «Non c’è alcuno spirito maligno né troll che in quel
momento non sia profondamente addormentato. Ricorda di attaccarla mentre
dorme ed è coricata prona. Ecco, prendi in dono questa.» Il re gli porse
un’ascia intarsiata d’argento. «Dovrai colpirla in mezzo alle scapole. Lei si
sveglierà dal dolore, si volterà e ti dirà: “Mani ferme sul manico.” A quel
punto tu risponderai: “Se ne vada l’ascia.” Entrambe le formule hanno poteri
magici, Jóra rotolerà giù fino al lago nei pressi della sua grotta con la lama
piantata in mezzo alle spalle. L’ascia verrà portata via dalla corrente, fino a
un fiume che da quel momento ne prenderà il nome, e lì gli islandesi
decideranno in futuro di tenere la loro assemblea.»
Così parlò il sovrano di Norvegia. Il giovane lo ringraziò per i consigli e per
l’ascia, poi tornò in Islanda e fece esattamente quanto gli era stato suggerito,
riuscendo a uccidere la trollessa. La profezia del re si avverò e l’ascia venne
portata via dalla corrente nel fiume che da allora si chiama Öxará, il «Fiume
dell’ascia», ed è il luogo dove gli islandesi stabilirono il loro parlamento, a
Þingvellir.
52. Le danze di Hruni

Tra due grandi fiumi, il Þjórsá e il Hvítá, si trova il distretto rurale di Hreppar. Molti
visitatori attraversano la regione, che vanta diversi siti interessanti e spettacolari,
come Gullfoss e Geysir. Nelle vicinanze del villaggio di Flúðir si trova Hruni, che un
tempo era una tenuta di prestigio in cui prestarono servizio sacerdoti di rilievo. Ed è
proprio un sacerdote, benché di fama poco onorevole, il protagonista di una famosa
leggenda che spiega come mai la chiesa, che un tempo si trovava sulla sommità della
collina sovrastante la fattoria, sia stata spostata in basso, nella pianura circostante.
C’era un tempo a Hruni un sacerdote che amava le feste e i divertimenti. Era
sua consuetudine non celebrare alcun rito sacro la sera della vigilia di Natale
e allestire invece una festa per i parrocchiani, con danze, bevute, giochi e altri
intrattenimenti disdicevoli fin nel cuore della notte. La madre del reverendo,
che si chiamava Una, viveva con lui a Hruni e disapprovando tale condotta
gli esprimeva spesso il suo malcontento, ma il reverendo non le badava e
continuò a fare a modo suo per molti anni.
Ci fu una volta in cui, durante la notte di Natale, il sacerdote si attardò più a
lungo del solito a ballare in chiesa. Così la madre, che era preveggente e
sensitiva, lo raggiunse nella casa del Signore dicendogli di smetterla e di
pensare a celebrare la messa. Ma il sacerdote le rispose che c’era ancora
tempo: «Ancora un giro, madre, ancora un giro», e la musica proseguì. Al che
Una andò a casa, ma essendo molto scontenta tornò in chiesa una seconda
volta, e poi una terza, ripetendo al figlio di pensare a Dio e di smetterla con
quei bagordi prima che la situazione gli sfuggisse di mano. Il reverendo le
diede però la medesima risposta: «Ancora un giro, madre, ancora un giro», e
la musica proseguì. Una dovette uscire di nuovo ma mentre percorreva la
navata per la terza volta sentì recitare una strofa che la impressionò:
C’è baldoria stasera a Hruni,
che la folla vi si raduni!
La musica che risuonerà
nessuno la scorderà,
ma Una è sempre là
Una è ancora là.
Uscita dalla chiesa, Una vide qualcuno fuori dalla porta, un uomo che non
riconobbe ma che non le piacque affatto, ed era certa che fosse stato lui a
recitare la strofa. Di colpo sentì che la situazione era davvero degenerata,
perché quello doveva essere il diavolo in persona.
Allora montò a cavallo e si precipitò al galoppo dal sacerdote della chiesa
più vicina, gli raccontò tutta la storia e gli chiese di andare a liberare suo
figlio dal pericolo in cui si era cacciato, se mai fosse stato possibile. Il
sacerdote reagì prontamente, prese con sé un buon numero di parrocchiani e
partì per Hruni insieme a Una, ma era già troppo tardi. Quando arrivarono, la
chiesa, il reverendo e tutta la congregazione erano svaniti nelle viscere della
terra e se ne sentivano soltanto le urla e i gemiti.
Dopo questo episodio la nuova chiesa fu eretta ai piedi della collina, dove si
trova da allora, ma in cima all’altura di Hruni si notano ancora le tracce
dell’edificio che vi sorgeva un tempo. Tutti assicurano che in seguito non
sono mai più state allestite danze alla chiesa di Hruni nella notte di Natale.
53. Bergþór, il gigante di Bláfell

L’area geotermale di Geysir è uno dei luoghi più famosi d’Islanda. La sorgente che
ha dato il nome a tutti i geyser del mondo eruttava una colonna d’acqua calda alta
tra i quaranta e i sessanta metri, ma è rimasta quiescente per gran parte del XX
secolo, finché nel 2000, in seguito ad alcuni terremoti, ha ripreso una sporadica
attività a intervalli irregolari. Il vicino Strokkur invece erutta regolarmente una
colonna d’acqua alta dai venti ai trenta metri. Geysir fa parte di Haukadalur, un
insediamento di grande prestigio all’epoca dello Stato Libero d’Islanda (930-1262).
Nell’XI secolo vi venne fondata una famosa scuola, frequentata anche dal primo
storico islandese, Ari Þorgilsson il Saggio.22 Nei secoli successivi il podere di
Haukadalur fu soggetto a una forte erosione e quindi abbandonato, ma dal 1940 è di
proprietà del Corpo Forestale statale che ne cura il rimboschimento. La chiesa di
Haukadalur vanta vari interessanti possedimenti, come un antico battente ad anello, e
sorge vicino a una collinetta ovale chiamata Bergþórsleiði, «Tomba di Bergþór»,
legata a un’antica leggenda.
Nell’antica epoca pagana, al tempo della trollessa Hít, che ha dato il nome
alla valle Hítardalur, un gigante di nome Bergþór viveva in una grotta nel
monte Bláfell. Quando Hít diede una festa per tutti i troll del Paese e li invitò
a competere in vari giochi di forza da lei organizzati, Bergþór risultò più forte
di chiunque altro.
Bergþór non faceva del male a nessuno se lo si lasciava in pace, ma pare che
avesse poteri magici e doti di preveggenza. Una volta che l’Islanda fu
convertita al Cristianesimo, sua moglie Hrefna non fu più tanto contenta di
abitare a Bláfell perché da lì si vedeva la comunità cristiana. Ne era talmente
infastidita che voleva spostarsi a nord, oltre il fiume Hvítá. Bergþór non dava
peso alla cosa e insisteva per rimanere nella sua caverna, ma Hrefna non
cambiò idea, si spostò dall’altra parte del fiume e si stabilì sotto un monte, in
un luogo che da allora si chiama Hrefnubúðir, «Dimora di Hrefna», a nord
del lago Hvítárvatn. Da quel momento Bergþór e la moglie si incontravano
solamente al lago, quando entrambi andavano a pescare le trote.
Spesso Bergþór si spostava sulla costa meridionale, a Eyrarbakki, per
comprare la farina, soprattutto durante l’inverno, quando i laghi erano
ghiacciati, ed era solito tornare indietro con due botti piene. Una volta che
stava rincasando con il suo carico incontrò a Biskupstungur il contadino del
podere di Bergstaðir e gli chiese da bere. Poi si mise ad aspettarlo mentre il
fattore andava a prenderglielo. Adagiò le botti a terra e batté ripetutamente la
punta del suo bastone contro la roccia, scavandovi una nicchia. Il contadino
tornò con qualcosa da bere per Bergþór, che lo ringraziò e dopo essersi
dissetato gli disse di utilizzare la nicchia da lui creata nella roccia per
conservarvi il siero, che così non si sarebbe diluito né ghiacciato. Se il
contadino non gli avesse dato retta, avrebbe subito gravi perdite. E dopo
averlo salutato se ne andò.
Una volta, quand’era già avanti con gli anni, Bergþór incontrò il contadino
di Haukadalur e gli disse di volersi scegliere un luogo di sepoltura da dove
poter sentire le campane e il chiacchierio del ruscello. Gli chiese quindi di
portarlo nel suo podere una volta morto. In cambio di quel favore avrebbe
avuto l’intero contenuto del calderone che Bergþór teneva accanto al letto. Il
contadino avrebbe appreso della sua morte quando il suo bastone fosse
apparso sulla soglia della fattoria.
Una mattina, molto, molto tempo dopo, qualcuno in visita alla fattoria di
Haukadalur trovò un enorme bastone da passeggio accanto alla porta. Il
contadino capì che era il bastone di Bergþór di Bláfell e non si dilungò in
spiegazioni: fece costruire una bara e si preparò per andare a Bláfell con una
squadra di uomini. Non si sa altro del loro viaggio finché non raggiunsero la
grotta di Bergþór, a nord, dove trovarono il troll steso nel suo letto, senza
vita. Lo deposero allora nella bara e furono stupiti di trovarlo tanto leggero
vista la stazza.
Il contadino notò un grande calderone accanto al letto e vi guardò subito
dentro per sapere cosa contenesse, ma tutto quello che vide furono delle
foglie secche e così, convinto che Bergþór l’avesse ingannato, non si
preoccupò di prenderlo e portarselo a casa, mentre uno dei suoi compagni
riempì i guanti con le foglie. Poi trasportarono il corpo di Bergþór fuori dalla
caverna e una volta scesi dal monte scoprirono che i guanti erano pieni zeppi
di monete. Allora vollero tornare indietro, intenzionati a prendere il
calderone, ma per quanto cercassero non trovarono più la caverna, né nessun
altro da allora è più riuscito a trovarla. La compagnia dovette abbandonare la
ricerca e tornare a Haukadalur a mani vuote.
Il contadino fece seppellire Bergþór a nord del cimitero, in un luogo che
ancora oggi si chiama Bergþórsleiði, «Tomba di Bergþór». L’anello del
bastone pare sia diventato il battente della chiesa di Haukadalur, mentre la
punta venne utilizzata per farne del ferro. E qui finisce la storia di Bergþór, il
gigante di Bláfell.
22 Ari Þorgilsson (1067-1148) detto fróði, «il Saggio», fu uno storico e un cronista,
versato nella cultura storiografica classica come nella tradizione islandese. È l’autore
di Íslendingabók, il «Libro degli islandesi», in cui si racconta nel dettaglio la storia
della colonizzazione. (N.d.T.)
54. L’attraversamento del fiume Hvítá a Gullfoss

Gullfoss, al margine degli altipiani interni, è una delle cascate più spettacolari del
Paese, originata dal fiume Hvítá. Il nome, che significa «Cascata d’oro», pare si
riferisca alla rifrazione dei raggi del sole negli spruzzi d’acqua, che spesso formano
arcobaleni multipli. Tuttavia la leggenda attribuisce il nome a un tesoro d’oro e
oggetti preziosi gettato un tempo nella cascata da un ricco contadino dei dintorni.
Già alla fine del XIX secolo da Reykjavík si organizzavano gite a cavallo o a piedi per
ammirare Gullfoss, e gli investitori stranieri vi hanno sempre visto dei potenziali
profitti, tanto che all’inizio del XX secolo venne ceduta per centocinquant’anni a un
tale che prevedeva di sbarrare il corso del fiume per sfruttarne l’energia. La giovane
Sigríður, figlia di Tómas di Brattholt, ereditò la tenuta dai genitori e si oppose sempre
a ogni progetto per la costruzione di una centrale elettrica: grazie al suo impegno la
cascata è diventata di proprietà statale e la donna è stata definita la prima
ambientalista islandese, ovvero la prima persona a intraprendere una campagna per
tutelare una delle maggiori ricchezze dell’Islanda. Il fiume Hvítá è un ampio fiume
dalla corrente impetuosa, difficile da guadare, benché non manchino alcuni punti di
attraversamento utilizzati prima che fossero costruiti i viadotti. A monte rispetto a
Gullfoss il fiume precipita in rapide prima di ampliarsi appena sopra la cascata, e
benché non sembri questo il posto più indicato per attraversarlo, qualcuno si è
cimentato nell’impresa, come narra questa storia.
Alla fine del XVII secolo il figlio del contadino di Brattholt, una fattoria a
ovest del fiume Hvítá, era ancora un bambinetto e in quello stesso periodo
sulla sponda opposta cresceva la figlia del contadino di Hamarsholt,
pressoché sua coetanea. Durante l’estate entrambi si occupavano di badare
alle greggi, che portavano a pascolare ciascuno sul proprio versante del
fiume, sopra la cascata Gullfoss; cominciarono così a chiamarsi e a scambiare
qualche parola e con il tempo divennero amici, anche se non si erano mai
incontrati.
Anno dopo anno la loro amicizia crebbe sempre più fino a trasformarsi in un
profondo affetto reciproco e in una forte attrazione, tanto che quando i due
furono quasi adulti il ragazzo dichiarò il suo amore alla fanciulla e le chiese
di diventare sua moglie. La ragazza accettò di buon grado la proposta e gli
disse, forse più per celia che sul serio, che lui avrebbe potuto averla se avesse
attraversato il fiume per raggiungerla. Il ragazzo non se lo fece ripetere una
seconda volta e si buttò nel fiume impetuoso. Il letto era pietroso e in alcuni
punti molto più profondo che in altri, per cui dovette guadarlo con estrema
cautela e impiegò parecchio tempo, ma alla fine riuscì a raggiungere l’altra
sponda sano e salvo. La ragazza lo attendeva sulle spine, in preda alla paura e
all’aspettativa, sicuramente pentita di averlo spinto a rischiare la vita. Non è
quindi difficile immaginare che gli avesse riservato un’affettuosa
accoglienza, e una volta che lui risalì l’argine uscendo dalle acque tumultuose
di quel fiume glaciale, lei mantenne la promessa.
I due giovani che si dichiararono il loro amore sul fiume Hvítá più di tre
secoli orsono si chiamavano Þórður Guðbrandsson e Guðrún Þóroddsdóttir.
Si sposarono nel 1690 e vissero a lungo a Fjall, nel distretto di Skeiðar. Si
dice che fossero persone molto laboriose, e che ebbero figli e discendenti per
tante generazioni.
55. La chiesa sacra di Engilsvík

Selvogur si trova all’estremità occidentale delle basse distese pianeggianti della costa
sud. Oggi non è un posto ambito in cui vivere, perché non ci sono attracchi e
l’erosione e le tempeste di sabbia ne hanno distrutto la vegetazione, ma anticamente
la realtà era molto diversa: le fattorie producevano una grande quantità di fieno,
avevano ottimi pascoli e qualche area boscosa. Il problema dell’erosione sembra
essere sorto all’improvviso nel XVII secolo, causando ingenti danni nel giro di pochi
decenni. Nell’insediamento di Strönd, per esempio, in passato si contavano sette o
otto fattorie, gradualmente abbandonate fino a spopolare del tutto la zona nel 1696.
La chiesa però sopravvisse, perché il terreno su cui sorgeva non era deteriorato:
secondo la tradizione era stata costruita su suolo sacro e lì doveva rimanere,
nonostante le autorità politiche ed ecclesiastiche insistessero per trasferirla,
sostenendo che fosse ingiusto lasciare un edificio sacro in quelle distese desertiche.
La gente di Selvogur, ma anche molti altri islandesi, credono ancora nella sua
sacralità: chiunque si trovi in pericolo o in un momento di avversità rivolge una
preghiera alla chiesa di Strönd, offrendo un contributo o un dono votivo, e pare che
queste preghiere siano spesso esaudite.
Questa storia risale al XIII secolo, ai giorni del vescovo Árni Þorláksson di
Skálhólt, detto anche Staða-Árni. Il vescovo inviò degli uomini in Norvegia a
procurargli del legname per costruire una chiesa. Il viaggio andò per il meglio
finché sulla tratta di ritorno incapparono in una bufera e persero
l’orientamento, vagando a lungo in mare in balia della corrente. A un certo
punto cominciarono a scarseggiare le scorte di cibo e di acqua e tutto lasciava
intendere che rimanesse solo la morte ad attenderli. Erano uomini giovani e
forti a cui si profilava davanti una triste fine e non sapevano a quale
soluzione ricorrere per uscirne vivi. Quando sembrava ormai persa ogni
speranza, il capitano disse alla ciurma di raccogliersi sul ponte e pregare Dio
di poter raggiungere la terraferma sani e salvi, promettendo di costruire una
chiesa con il carico della nave se fossero stati tanto fortunati da scamparla. I
marinai ubbidirono e si misero a pregare fervidamente.
Non passò molto tempo che la bufera si placò e avvistarono terra a
Selvogur. Tuttavia, man mano che si avvicinavano a riva, parve loro sempre
più improbabile riuscire ad attraccare a causa della furia dei marosi. Allora si
apprestarono a invertire la rotta ma in quello stesso istante distinsero una
figura vestita di bianco sugli scogli, che tenendo in mano una croce luminosa
e splendente fece loro cenno di avvicinarsi. Gli uomini seguirono le sue
indicazioni e riuscirono ad approdare. Una volta sbarcati sani e salvi si
guardarono intorno per cercare la figura bianca che li aveva guidati, ma non
videro più nessuno. Si trovavano in una piccola baia a cui diedero il nome di
Engilsvík, «Baia dell’angelo», com’è chiamata ancora oggi. Gli uomini della
ciurma mantennero quanto avevano promesso: andarono a Skálhólt e
raccontarono tutta la storia al vescovo Árni, che permise loro di utilizzare il
legname portato dalla Norvegia per costruire una chiesa nel punto di approdo.
La chiesa di Selvogur si trova ancora lì da allora, anche se gli insediamenti
del distretto circostante sono stati abbandonati a poco a poco.
Fin da quando è stata fondata, la chiesa di Strönd ha sempre avuto una
reputazione speciale. Molti vi hanno pregato in tempi di dolore e malattia e
pare che ogni supplica sia stata esaudita, tanto che vi si è accumulato un
considerevole tesoro in forma di ex voto, tra cui un calice d’oro puro del XIV
secolo che è l’oggetto più antico e prezioso in possesso della chiesa. In
antichità si offrivano per lo più doni in natura, come il diritto di utilizzare il
legname nei boschi norvegesi, mentre in epoche più recenti le offerte sono in
genere in denaro e in doni votivi, e continuano a essere fatte, oggi come ieri.
Per questo motivo la chiesa di Strönd è tra le più ricche del Paese e ha
spesso fatto prestiti ad altre parrocchie per edificare le loro cappelle. Molti
che si trovano in visita o di passaggio nella zona vi si recano per la messa
della domenica, ma c’è anche chi compie una sorta di pellegrinaggio in
questo luogo tanto caro alla nazione, che nei secoli ha mantenuto intatta tutta
la propria sacralità.
56. Lo stregone reverendo di Vogsósar

La fattoria di Vogsósar, a est del lago Hlíðarvatn, rimane piuttosto distante dalle
altre fattorie della regione ma non è lontana dalla chiesa di Strönd. Molti chierici
famosi hanno prestato servizio in questa parrocchia prima che fosse abolita nel 1908;
il più leggendario è certamente il reverendo Eiríkur Magnússon, parroco di Selvogur
dal 1677 fino alla sua morte nel 1738, che pare avesse grandi poteri magici di cui si
serviva principalmente per giocare scherzi innocui, o magari per risolvere qualche
pena affettiva.
Il reverendo Eiríkur cominciò presto a praticare la magia, imparando gran
parte di ciò che sapeva da un vecchio libro che lui e i suoi compagni di studi
si erano procurati alla scuola di Skálhólt: il libro si chiamava Gráskinna e per
lungo tempo è rimasto su un tavolo dell’istituto. Una volta nominato pastore
di Vogsósar, Eiríkur si guadagnò in fretta la fama di avere poteri
soprannaturali, ma la voce giunse anche alle orecchie del vescovo, che ne fu
assai contrariato e volle convocare in udienza il reverendo. Quando Eiríkur
gli si presentò davanti, il vescovo gli mostrò la Gráskinna chiedendogli se
sapeva che cosa contenesse. Eiríkur prese il libro, lo sfogliò per qualche
istante e rispose: «Non ne conosco un solo carattere.» Il vescovo gli fece
giurare che quanto diceva fosse la verità, poi gli consentì di tornare a casa.
Qualche tempo dopo il reverendo rivelò in segreto ai suoi amici che
conosceva tutti i caratteri contenuti nel libro tranne, in effetti, uno solo.
Molti giovani si rivolgevano al reverendo Eiríkur chiedendogli di poter
apprendere la magia e lui li metteva alla prova in vari modi, per poi scegliere
come discepoli quelli che più gli piacevano. Una volta, a un ragazzo che lo
pregò di poter imparare da lui, il reverendo disse: «Rimani con me fino a
domenica, mi accompagnerai a Krýsuvík. A quel punto ti dirò se potrai
diventare mio allievo.» La domenica partirono al galoppo attraverso le
pianure di sabbia per raggiungere Krýsuvík, ma a un certo punto il reverendo
si fermò dicendo: «Ho dimenticato il libro a casa. Lo tengo sotto il cuscino.
Torna indietro a prenderlo, però bada di non aprirlo lungo la strada.» Il
ragazzo tornò indietro, prese il libro e percorse lo stesso tragitto per tornare
dal reverendo, ma non riuscì a trattenersi dall’aprire il libro e cominciare a
leggere. In un attimo si ritrovò circondato da demoni che gli chiedevano:
«Che devo fare? Che devo fare?» Il ragazzo non si perse d’animo e ordinò
loro: «Intrecciate la sabbia per farne una corda.» I demoni si sedettero
all’istante e cominciarono a intrecciare la sabbia, ma ovviamente si trattava di
un compito impossibile, così il ragazzo se ne liberò e raggiunse il reverendo
che lo aspettava sul campo di lava. Appena lo vide, Eiríkur prese il libro ed
esclamò: «L’hai aperto.» Ma il ragazzo negò, così proseguirono ed Eiríkur
celebrò la messa a Krýsuvík. Sulla via del ritorno, quando raggiunsero il
deserto sabbioso dove i demoni erano ancora alle prese con il loro compito, il
reverendo disse: «Sapevo che avevi aperto il libro, ragazzo mio, anche se me
l’hai negato. E hai preso la decisione più astuta, meriti che ti insegni
qualcosa.» E così il ragazzo venne preso a scuola dal reverendo Eiríkur.
Un altro giovane che chiedeva di essere istruito venne inviato dal reverendo
Eiríkur fino alla chiesa di Strönd a recuperare un paio di guanti che vi aveva
dimenticato. Il ragazzo andò a Strönd e trovò i guanti, ma quando fece per
prenderli vide che tutte le dita si muovevano e si spaventò. Corse quindi dal
sacerdote a riferirgli l’accaduto, al che il reverendo Eiríkur gli disse: «Torna a
casa, ragazzo mio, non posso insegnarti niente.»
Un giovane che doveva raggiungere gli alloggi stagionali dei pescatori si
fermò a Vogsósar per trascorrervi la notte, ma verso sera il reverendo Eiríkur
si accorse che era particolarmente triste e perciò lo prese da parte e gli chiese
che cosa lo angustiasse tanto. Sulle prime il giovane era restio a confidarsi,
ma alla fine si persuase e spiegò di essere stato lasciato dalla fidanzata poco
prima di partire. Chiese dunque un aiuto al reverendo, che però non si
dimostrò molto bendisposto e gli disse che la questione era piuttosto
complessa.
La sera Eiríkur fece coricare un uomo in ciascun letto mentre lui rimase
sveglio fino a notte fonda. A un certo punto bussarono alla porta e quando
Eiríkur andò ad aprire vide che si trattava di una ragazza vestita poveramente
e completamente bagnata, perché fuori pioveva a dirotto. La giovane salutò e
chiese alloggio per la notte perché era mezza morta di freddo, così il
sacerdote la invitò a entrare e le domandò perché mai fosse in giro a
quell’ora. La giovane raccontò che mentre si preparava per andare a letto le
era venuto in mente di uscire a controllare se il bucato fosse stato raccolto,
data la pioggia in arrivo, ma nel buio si era persa e non si era accorta di dove
stesse andando finché non si era ritrovata davanti alla porta della fattoria di
Vogsósar. Il reverendo Eiríkur le spiegò che sarebbe stato difficile darle una
sistemazione per la notte perché tutti i letti erano occupati, a meno che non
volesse condividere il giaciglio con quel giovane là, e indicò il viaggiatore
afflitto. La giovane disse che era disposta a farlo piuttosto che morire di
freddo e andò a distendersi accanto all’ospite notturno, in cui riconobbe
subito il fidanzato che aveva appena lasciato, così come lui riconobbe lei, e i
due trascorsero tutta la notte insieme trovandosi molto bene. Alla fine si
sposarono e vissero felici e contenti.
57. E il tritone se la rise

Vogar è una vivace comunità nella baia del Faxaflói che conta circa cinquecento
abitanti. Alla fine del XIX secolo l’insediamento cominciò a svilupparsi in un vero e
proprio villaggio, soprattutto dopo aver ottenuto la licenza di porto commerciale nel
1893. A sud di Vogar si trova Vogastapi, una ripida scogliera che si getta in mare.
Pare che da tempo immemorabile Vogastapi sia infestata dai fantasmi e nei secoli
passati molti vi si sono smarriti, perdendo la vita cadendo dalla scogliera oppure in
balia del freddo e delle intemperie. Perfino oggi gira voce che la zona sia frequentata
dai fantasmi: alcuni motociclisti che percorrevano la statale hanno visto un uomo
camminare portando la propria testa sotto braccio, e dei turisti se lo sono ritrovati in
macchina mentre viaggiavano soli di notte. Gli abitanti del distretto sbarcano il
lunario sfruttando le risorse del mare e sono considerati pescatori molto determinati
che non si scoraggiano facilmente. Ne è un esempio il contadino di Vogar che una
volta pescò un tritone all’amo, come narra la leggenda.
Nella regione della Suðurnes c’è un villaggio che si chiama Vogar, o
Kvíguvogar, come lo si definisce nel Landnámabók, il «Libro della
Colonizzazione». Una volta vi abitava un contadino che usciva spesso in
mare, perché ancora oggi al largo di Vogar si trovano le aree di pesca
migliori di tutta la regione meridionale. Un giorno come al solito il contadino
uscì con la sua barca a remi e non si sa quanto abbia pescato, ma si dice che
avesse preso all’amo qualcosa di molto pesante, che una volta issato fuori
dall’acqua scoprì avere forme umane. Così lo tirò a bordo. Vedendo che era
vivo gli chiese da dove venisse, al che la creatura rispose di essere un tritone
e di provenire dal fondo del mare, e spiegò di essere stato preso all’amo
mentre stava sistemando la ventola del comignolo della stufa di sua madre.
Poi chiese di poter tornare in acqua, ma il contadino rispose che era fuori
discussione e che da quel momento doveva rimanere con lui. Al che il tritone
non volle più parlargli.
Poco dopo il contadino tornò a terra portandolo con sé. Mentre tirava in
secca la barca il cane gli corse incontro e gli saltò addosso per fargli le feste,
ma il contadino reagì in malo modo e picchiò la povera bestiola, così il
tritone se la rise per la prima volta. Il contadino si avviò verso il suo podere,
ma lungo il tragitto inciampò in una zolla d’erba e cadde imprecando, così il
tritone se la rise per la seconda volta. Il contadino proseguì verso casa e sua
moglie gli venne incontro uscendo sulla porta per salutarlo con affetto.
L’uomo rispose calorosamente al saluto, al che il tritone se la rise per la terza
volta.
A quel punto il contadino chiese al tritone: «Per tre volte ti sei messo a
ridere, sarei proprio curioso di sapere perché ridi.» «Non te lo rivelerò»,
rispose il tritone, «se poi non mi riporterai dove mi hai pescato.» Il contadino
glielo promise, così il tritone disse: «La prima volta che ho riso è stato
quando hai picchiato il tuo cane, perché la povera bestiola era sinceramente
felice di vederti. La seconda volta ho riso perché hai imprecato contro una
zolla d’erba su cui sei inciampato, perché era piena di monete d’oro. E ho riso
ancora quando sei stato felice di vedere tua moglie, che invece è falsa e ti
tradisce. Bene, adesso devi mantenere la tua promessa e riportarmi al largo, ai
banchi di pesca dove mi hai trovato.»
Il contadino ribatté: «Due delle cose che hai detto, l’affetto del mio cane e la
fedeltà di mia moglie, non posso provarle qui su due piedi, ma posso
verificare quanto hai detto riguardo al tesoro nascosto nella zolla d’erba. Se è
vero, è probabile che anche le altre due cose lo siano e io manterrò la mia
promessa.» Così il contadino andò a scavare nella zolla dov’era inciampato e
vi trovò una gran quantità di monete d’oro. A quel punto mise in mare la
barca e portò il tritone nello stesso punto in cui l’aveva pescato. Ma prima
che lo lasciasse libero, il tritone disse: «Hai agito bene, facendomi tornare da
mia madre, e ti ricompenserò, se sai far uso di ciò che ricevi. Stammi bene,
contadino.» L’uomo lo lasciò scendere negli abissi e del tritone non si seppe
altro, ma la sua risata è commemorata in una filastrocca:
Memorando fu il momento
che il tritone sogghignò:
un tesoro pien d’argento
l’uomo a riva riportò,
poi baciò la bella sposa
che l’accolse ma insincera
e la bestia sua festosa
dalle botte fece nera.
Poco tempo dopo qualcuno riferì al contadino che in fondo al suo podere, in
riva al mare, c’erano sette mucche grigie. L’uomo corse subito sulla costa,
afferrando un bastone mentre usciva, poi si avvicinò alle vacche, che erano
irrequiete e nervose, e notò che tutte avevano una bolla tra le narici.
Comprendendo che era stato il tritone a mandargli delle mucche marine per
ringraziarlo di averlo riportato in mare, si rese conto che le avrebbe perse se
non avesse fatto scoppiare le bolle, così ne colpì sul muso una e riuscì a
prenderla, mentre tutte le altre corsero subito a tuffarsi in mare. La bestia
catturata si rivelò essere un’ottima mucca da latte, da cui discese una razza
che si diffuse in tutta l’Islanda, sempre di colore grigio, conosciuta come la
«razza marina». Il contadino diventò ricco e cambiò il nome della fattoria,
che volle chiamare Kvíguvogar, «Baia delle mucche».
Islanda Centrale
58. La fuga di Skúli per la Kaldidalur

La Kaldidalur è una pista montana che collega la Árnessýsla a sud e il Borgarfjörður


a ovest passando dalla valle omonima, in alternativa al più lungo tragitto che segue
la costa occidentale. Nel corso dei secoli, prima che l’Islanda avesse delle strade, la
pista veniva percorsa a piedi e a cavallo, ma nel 1830 fu aperto un sentiero e un
secolo dopo costruita una strada per i veicoli a motore. La valle Kaldidalur si trova
tra i ghiacciai Ok e Langjökull ed è il luogo in cui, secondo la saga a lui dedicata,
Grettir Ásmundarson dimorò per un certo periodo insieme a un gigante chiamato
Þórir. Nel suo ultimo tratto la pista piega verso nord-est attraverso un terreno
roccioso a est del fiume Geitá, per poi seguire il corso del fiume fino alle pianure di
Húsafell. Un tratto di questa pianura rocciosa, noto come Skúlaskeið, fa da sfondo a
un’antica leggenda.
Secondo la leggenda, Skúli aveva commesso qualche crimine grave e
l’assemblea l’aveva condannato a morte. La sentenza doveva essere eseguita
all’Alþingi, ma all’ultimo momento Skúli riuscì a eludere le guardie, montò
in sella al suo Sörli e fuggì. Nonostante fosse inseguito da una moltitudine di
uomini, riuscì a distanziarli tutti grazie alla velocità eccezionale del suo
cavallo. Galoppò verso nord passando da Hofmannaflöt, Tröllaháls, Víðiker,
Hallbjarnarvörður e poi dalla valle Kaldidalur, dove smontò per una breve
sosta. I suoi inseguitori erano ancora lontani perché non riuscivano a tenere il
passo di Sörli. Così, quando li vide avvicinarsi, Skúli versò qualche goccia
dalla sua fiaschetta in un recipiente di pietra che trovò nei paraggi, urlando
sprezzante che era la sua ricompensa per averlo seguito così numerosi. Poi
rimontò in sella e cavalcò a perdifiato spronando il suo corsiero lungo uno dei
sentieri più pietrosi e accidentati d’Islanda, che per questo viene chiamato
ancora oggi Skúlaskeið, la «Fuga di Skúli». Così riuscì a cavarsela e fece
ritorno a casa, ma alla fine Sörli cadde morto stecchito per la stanchezza. Per
rendere onore a quello straordinario destriero che gli aveva salvato la vita,
Skúli lo fece seppellire con tanto di cerimonia e gli allestì una veglia funebre.
59. Gli spettri si aggirano ancora per la Kjölur

Fin dall’epoca della Colonizzazione (IX-X secolo), la pista Kjölur è stata


un’importante via di collegamento tra il nord e il sud dell’Islanda, e tagliando in
mezzo agli altipiani interni disabitati, tra i ghiacciai Langjökull e Hofsjökull,
costituiva il tragitto più diretto, lungo appena centosessantacinque chilometri. In
passato la Kjölur aveva molte varianti e diramazioni, ma dall’avvento dei mezzi a
motore la pista ha assunto un andamento stabile, partendo dalla cascata Gullfoss per
congiungersi alla statale n. 1 nella Blöndudalur. Circa a metà percorso, oltre
Beinahóll, si trova Hveravellir, un’area geotermale nel cuore degli altipiani. Nelle
vicinanze ci sono i resti di un capanno dove il più famoso fuorilegge islandese,
Eyvindur Jónsson, noto come Fjalla-Eyvindur, «Eyvindur dei monti», visse insieme
alla moglie Halla nel XVIII secolo.23
A nord-est di Kjalfell, una breve passeggiata nel campo di lava conduce a
Beinahóll, la «Collina delle ossa», dove Bjarni ed Einar, due fratelli di
Reynistaður, morirono assiderati insieme ad altri compagni di viaggio, i loro
cavalli e un gran numero di ovini nell’autunno del 1780. Nessuno sopravvisse
per raccontare esattamente cosa fosse accaduto, ma su questo triste evento
sono state fatte e scritte molte supposizioni che hanno dato origine a
numerose leggende tuttora in circolazione. La compagnia intendeva dirigersi
verso la regione meridionale per comprare delle pecore e si era messa in
marcia alla fine dell’autunno per attraversare la Kjölur da nord, nonostante gli
avvertimenti di amici e conoscenti che sconsigliavano loro di partire. Sugli
altipiani interni furono colti da una bufera e non riuscirono a proseguire oltre
il campo di lava di Kjalahraun, dove morirono assiderati.
Pare che Jón Austmann, un uomo robusto che faceva parte del gruppo, abbia
tentato di raggiungere le aree abitate a nord e si sia smarrito a Blöndugil,
dove in seguito è stata ritrovata una sua mano, identificata dal guanto.
Vedendo che i fratelli di Reynistaður non avevano fatto ritorno a nord entro
i giorni previsti, la gente cominciò a preoccuparsi che fosse accaduto loro
qualcosa, ma il sospetto si delineò meglio quando Björg, la loro sorella, vide
in sogno Bjarni che le recitava questa strofa:
Nessuno mai più ci ritrova
nei nostri sepolcri nevosi.
Qui veglio gli amici perduti
da tre lunghi giorni luttuosi.

La primavera successiva un viandante che percorreva gli altipiani interni


diretto a sud trovò la loro tenda e gli parve di riconoscere quattro corpi.
Quando poco tempo dopo altre persone arrivarono sul posto, i cadaveri erano
solo due e mancavano quelli dei fratelli di Reynistaður. La cosa generò
scompiglio e finì in tribunale, perché si ritenne che qualche estraneo avesse
trovato la tenda, rubato ogni oggetto di valore e poi nascosto i corpi dei
fratelli. Allora Björg sognò di nuovo Bjarni che le diceva:
In un anfratto di roccia giacciamo
noi fratelli che prima con gli altri
nella tenda e nel gelo stavamo.
Il caso non venne mai risolto e le ossa dei fratelli furono ritrovate soltanto
sessantacinque anni più tardi, o per lo meno così si ritiene. Ancora oggi, a
guardar bene, tra i muschi di Beinahóll si vedono ossa di ovini e di cavalli.
Nel 1971 fu eretto un memoriale ai fratelli di Reynistaður e ai loro compagni.
Si vocifera ancora di fantasmi che si aggirerebbero nella zona, e si dice che a
volte, se si campeggia in questi luoghi, capiti di vedere un’ombra proiettarsi
sulla tenda, come se passasse qualcuno, anche se non c’è anima viva.

23 Eyvindur Jónsson (1714-ca.1783) è stato uno dei fuorilegge più noti della storia
d’Islanda, ormai diventato leggenda. Esiliato per furto insieme alla moglie Halla
Jónsdóttir, si diede alla macchia vivendo per vent’anni negli altipiani interni del
Paese, dove ancora si conservano tracce, vere o presunte, dei loro nascondigli. A loro
è dedicato il famoso dramma del 1912 Fjalla-Eyvindur; Leikrit í fjörum þáttum
(«Fjalla-Eyvindur; dramma in quattro atti») di Jóhann Sigurjónsson, sul quale il
regista svedese Victor Sjöström basò l’omonimo film nel 1918. (N.d.T.)
60. Spettri e fuorilegge sulla Sprengisandur

La Sprengisandur è la più lunga tra le piste che tagliano gli altipiani dell’Islanda
centrale da nord a sud, nonché quella che raggiunge le altitudini maggiori. Era
battuta già nei primi secoli dopo la Colonizzazione, come dimostra la Saga di Njáll
che vi fa riferimento. Da Skriðufell nella Þjórsárdalur a sud, fino a Mýri nella
Bárðardalur a nord, la pista misurava circa duecentoquaranta chilometri ed era
estremamente difficoltosa, sia per gli uomini sia per i cavalli, soprattutto a causa
della mancanza di pascoli lungo il tragitto. Erano in pochi ad affrontare gli altipiani
lungo questo percorso, che si ritiene sia entrato in disuso già entro il 1700. A partire
dal XIX secolo si fecero alcuni tentativi per ripristinarlo, segnando tra l’altro il
sentiero con dei mucchi di pietre. Nel 1933 lo si percorse per la prima volta in
automobile e nel 1949, quando fu trovato un guado accessibile sul fiume Tungnaá, la
pista cominciò a vedere un regolare traffico di mezzi a motore, in particolare dopo
l’installazione di una teleferica per il trasporto delle auto e infine di un ponte a
Sigalda nel 1968, durante i lavori per la costruzione di una centrale idroelettrica. La
pista Sprengisandur è sempre stata collegata al mistero e al pericolo, come dimostra
la poesia Á Sprengisandi («Sulla Sprengisandur») di Grímur Thomsen (1820-1896),
che è ancora uno dei canti popolari preferiti dagli islandesi:
Galoppo, galoppo sulla sabbia nera,
il sole è oltre il monte e viene sera,
gremita è la strada di spiriti maligni
che oscurano il ghiaccio ed i macigni.
Scorta oh Signore il mio ronzino
ché ancora assai lungo è il mio cammino.
In Islanda i fuorilegge e chiunque volesse evadere la giustizia era costretto a
vivere un’esistenza alla giornata negli altipiani interni, come testimoniano
molti casi giudiziari documentati. Quello che segue è un estratto della
relazione stilata da Einar Brynjólfsson di Stóri-Núpur quando nel 1772 trovò
Eyvindur Jónsson e sua moglie Halla sulla Sprengisandur:
«In breve raggiungemmo un ruscelletto con entrambe le sponde erbose. Il
sentiero si snodava lungo il corso d’acqua, così lo seguimmo finché non
raggiungemmo dei tuguri intorno ai quali brucavano alcune pecore. Io caricai
la pistola che avevo con me mentre i miei compagni di viaggio, che non
erano armati, brandirono i bastoni e i picchetti delle tende. Avanzammo in
testa alla fila e vedemmo due persone uscire da una delle catapecchie, e
quando puntammo verso di loro, uno si voltò e ci venne incontro, gettando a
terra tutto quel che portava in mano. Poi si avvicinò e ci salutò uno per uno.
Allora gli chiesi il suo nome e lui rispose di chiamarsi Jón, ma quando mi
rifiutai di credergli disse: “Se devo dire la verità, il mio vero nome è
Eyvindur Jónsson.” Anche l’altra persona, che era sua moglie e vestiva un
pastrano di pelliccia, ci venne incontro ed entrambi ci pregarono con fervore
di risparmiarli e di avere pietà. Li prendemmo con noi, e anche i cavalli, e
lasciammo il loro rifugio circa mezz’ora prima del mezzodì.»
Il folklore narra anche di un certo Starkaður di Stóruvellir, nella
Bárðardalur, innamorato di una fanciulla che viveva nel sud, a Stóri-Núpur
oppure a Þrándarholt. Una volta l’uomo decise di andare a trovare la sua
amata e si avventurò lungo la Sprengisandur, ma fu colto dal maltempo e
morì assiderato sotto una roccia che adesso porta il suo nome,
Starkaðarsteinn, la «Roccia di Starkaður», così come il luogo in cui morì,
chiamato Starkaðarver. Nello stesso istante in cui lui esalava l’ultimo respiro,
la sua fidanzata sognò che la veniva a trovare recitando questa strofa:
Pene e dolori per l’incanto femminile
ha sempre patito anche l’uom più virile.
Le ossa di Starkaður sotto un masso
da tempo ormai stanno, ahimè lasso.
Pronuncia dei caratteri speciali: Ð, ð: come th inglese in «this» e «that»; Þ, þ: come th
inglese in «teeth»; Æ, æ: ai.
La traduttrice: Silvia Cosimini

Nata a Montecatini Terme (PT), si laurea in Filologia germanica a Firenze e


poi in Lingua e cultura islandese a Reykjavík. In Italia frequenta il Master in
traduzione letteraria della Ca’ Foscari di Venezia e il corso di
specializzazione Tradurre la letteratura della SSIT di Misano Adriatico. Da
più di vent’anni si dedica esclusivamente alla traduzione e alla promozione
della letteratura islandese contemporanea e medievale, traducendo autori
quali Halldór Laxness, Thor Vilhjálmsson, Guðbergur Bergsson, Hallgrímur
Helgason, Arnaldur Indriðason e Jón Kalman Stefánsson. Nel 2007 ha
ricevuto un premio per il suo impegno in qualità di mediatrice culturale da
parte del Primo ministro islandese Geir Haarde; nel 2011 le è stato assegnato
il premio nazionale per la traduzione dal Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali. Dal 2011 al 2014 è stata tutor didattico di Filologia germanica
presso l’Università degli Studi di Bologna.

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