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(Versailles 1924 - Parigi 1998) è stato uno dei pensatori francesi di maggior
rilievo della seconda metà del Novecento. Ha insegnato in Francia, in Canada
e negli Stati Uniti. Tra i padri del post-strutturalismo, Lyotard è noto in Italia
soprattutto per la teorizzazione del post-moderno, ma la sua riflessione si
estende anche a temi quali il rapporto tra discorso e figura, il dissidio, l’estetica
e il sublime.
MIMESIS BIBLIOTECA
Titolo originale: Leçons sur l’Analytique du sublime
Copyright © Klincksieck, 2015
Collana: Biblioteca, n. 14
Isbn: 9788857577340
PREMESSA
SIGLE UTILIZZATE
I. LA RIFLESSIONE ESTETICA
1. Il sistema e il sentimento
2. La sensazione come tautegoria
3. Il “soggettivo”
4. La temporalità estetica
5. L’euristica
6. L’anamnesi
7. Riflessione e categoria nei domini teoretico e pratico
8. Riflessione e categoria nel territorio estetico
N.B.: Per le tre Critiche, i riferimenti sono fatti prima alla traduzione
francese, in seguito, all’edizione tedesca. I riferimenti che non sono
preceduti da una sigla rimandano alla Critica della facoltà di giudizio.
La sigla “t.m.” che segue un rimando alla traduzione francese
segnala che questa è stata modificata.
I.
LA RIFLESSIONE ESTETICA
1. Il sistema e il sentimento
Ora, se tale validità universale [del gusto] non deve fondarsi su una
raccolta di voti, la Stimmensammlung, la raccolta delle voci, e su
un’inchiesta sul modo di sentire degli altri, ma deve riposare, per così dire,
su una autonomia del soggetto che giudica sul sentimento di piacere (per la
rappresentazione data), cioè sul suo proprio gusto, e tuttavia neppure deve
essere derivata da concetti, [ecc…] (116-117 t.m.; 130).72
Ecco dunque un piacere che, come ogni piacere o dispiacere che non
sia prodotto mediante il concetto di libertà […], non può essere mai inteso a
partire da concetti come necessariamente connesso alla rappresentazione
di un oggetto, ma deve essere sempre riconosciuto come legato a questa
rappresentazione solo attraverso la percezione riflessa […] (37 t.m.;
28)140?
Ciò che viene inteso con questo nome nell’estetica kantiana sembra
dipendere da una “dinamica”, da una teoria delle forze, nel senso
quasi freudiano del termine, in ogni caso in quello che se ne avvicina
maggiormente all’epoca, la psicologia burkiana delle tendenze.
L’interpretazione dinamista è stata annunciata sin dai primi paragrafi,
quando si tratta di identificare la soddisfazione che una
rappresentazione può provocare al pensiero: la rappresentazione è
allora “riferita interamente al soggetto, e cioè al suo sentimento
vitale, auf das Lebensgefühl desselben, sotto il nome di sentimento
del piacere e del dispiacere” (49; 40)38. Come in ogni dottrina (o
metafisica) dell’energia, il piacere è metaforizzato nell’aumento della
forza vitale del “soggetto”, il dolore nella sua diminuzione. Il principio
che accresce la forza è chiamato Geist, che Philonenko traduce
giustamente con anima [âme], giacché la sua funzione è di animare
(143; 167)39: il vivo del pensiero.
Si può essere sorpresi da questo brusco ricorso al vitalismo – che
non è esente da una grande confusione nell’uso dei termini Geist,
Gemüt e Seele (ibidem)40, per non parlare di Subjekt. Non vi
riconosce dunque, la critica, uno di quei dogmatismi metafisici ai
quali tenta di metter fine (KRV A, 5 ss.; 5 ss.)41? Bisogna che essa si
rimetta a un “principio vitale” non criticato, per spiegare la qualità del
sentimento estetico? Non è questo, in conclusione, uno stato attuale
di una delle facoltà dello spirito distinte dalla critica, la facoltà di
sentire piacere e dispiacere, che si allinea accanto alle altre due,
quella di conoscere e quella di desiderare? E non è semplicemente
un nome trascendentale per designare la condizione a priori che la
riflessione critica scopre, a partire dai sentimenti estetici
empiricamente osservabili, per dedurre la possibilità di questi?
Facendo del Geist un principio di accrescimento della forza vitale
“dentro” al soggetto, da cui risulterebbe il piacere che questo prova,
la critica sembra cedere all’illusione trascendentale che ipostatizza in
realtà trascendente ciò che non è altro che la condizione di
possibilità di un giudizio di gusto dal punto di vista della sua qualità.
Bisogna esaminare come l’analisi critica del sentimento del bello
arrivi a invocare una forza vitale. Alla fine dell’esposizione dei giudizi
estetici riflettenti, e prima di passare alla loro deduzione, Kant
consacra due o tre pagine, come fra parentesi, a discutere con
Burke (113-114; 125-127)42. Non ha alcuna difficoltà a concedere
all’autore della Enquiry il vitalismo di cui questi ha bisogno per
esplorare il dominio delle realtà psico-fiosiologiche che è suo.
1. Quantità e grandezza
1. La “comprensione” è “misurata”
Il caso sembra in fin dei conti abbastanza classico. Non evoca infatti
il chiliagono di Descartes, che può essere concepito ma non
immaginato14?
Una differenza separa però l’esempio cartesiano e la descrizione
kantiana che abbiamo appena letto. Il poligono a mille lati è una
figura costruita dall’intelletto per mezzo di concetti numerici. Ma
l’analisi fatta qui verte sul confrontarsi della comprensione
immaginativa, limitata alla sua “misura prima”, con “una grandezza”
tale che se ne può trovare una “nella natura bruta, an der rohen
Natur” (92; 97)15. Che Kant prenda ad esempio, di sfuggita, la parete
di una piramide egizia o il volume interno della basilica di San Pietro
a Roma non deve trarre in inganno. Si tratta soltanto di mostrare
che, viste alla distanza “adeguata [convenable]” (adeguata
all’emozione sublime), queste grandezze misurabili in effetti
matematicamente possono cionondimeno eccedere la “misura degli
occhi”, a cui quella della comprensione immaginativa è di nuovo
comparata, come delle grandezze naturali possono eccedere
quest’ultima spontaneamente, in maniera “bruta”.
Di fatto, la catastrofe che subisce l’immaginazione nel sublime
(dal punto di vista “matematico”) non dipende affatto
dall’incommensurabilità della “misura fondamentale” della
comprensione immaginativa con le misure estremamente elevate
che l’intelletto può concepire per addizione ricorrente di un’unità a se
stessa, e comunque grazie alla scelta di unità di misura sempre più
grandi. L’unità scelta dall’intelletto per misurare delle grandezze
potrebbe essere anche molto elevata (nella successione dei numeri):
il diametro della Terra contato in miglia, ad esempio, e preso in
seguito come unità per misurare le distanze interplanetarie (93, 95;
98, 101)16 – questo non opporrebbe alcun ostacolo insormontabile
alla cooperazione che l’immaginazione deve all’intelletto quando
questo vuole ottenere in tal modo una conoscenza determinata delle
grandezze che misura. Si può persino sostenere che l’estensione
delle conoscenze esige l’uso di unità di misura sempre più grandi (o
più piccole, dato che a tal riguardo c’è anche un’infinità di unità
possibili nell’ordine decrescente per misurare il microscopico, e i
microscopi ci forniscono un “materiale” altrettanto “ricco” di quello dei
telescopi) (90; 94)17. L’unica condizione, che è la stessa della
conoscenza, è che l’immaginazione possa sempre presentare per
apprensione, unità dopo unità, le grandezze parziali che l’intelletto
misura e aggiunge le une alle altre. Cosa che viene detta
chiaramente in questo brano: “l’immaginazione procede da sé
all’infinito nella composizione che è richiesta per la rappresentazione
della grandezza, senza che niente le sia d’ostacolo; l’intelletto la
guida, leitet sie, ciononostante per mezzo di concetti numerici a cui
essa deve fornire lo schema” (93 t.m.; 98)18.
Questa cooperazione senza ostacolo dell’immaginazione con
l’intelletto nella rappresentazione [Vorstellung] della grandezza può
sembrare anche paradossale, se si pensa che l’immaginazione vi
contribuisce con la sua “comprensione”, la sua “Zusammenfassung”.
È questo il termine che si trova nel testo tedesco, ma in seguito a
una correzione di Erdmann. Kant aveva scritto “Zusammensetzung,
composizione”19. E composizione non è affatto comprensione. La
prima, “Zusammensetzung (compositio)”, lo ricordo, viene definita in
una nota alla Rappresentazione sistematica dei Princìpi sintetici,
aggiunta in occasione della seconda edizione della prima Critica
(KRV B, 164; 216)20: essa è “la sintesi dei diversi [elementi] che non
si appartengono necessariamente a vicenda”, “la sintesi
dell’omogeneo, in tutto ciò che può essere considerato
matematicamente” (ibidem, t.m.)21. L’esempio dato per illustrare la
composizione è, lo ricordo ancora, la relazione tra i due triangoli che
si ottengono quando si traccia la diagonale di un quadrato: questi
sono omogenei l’uno all’altro, ma la loro congiunzione non è
necessaria, giacché ciascuno di essi può essere concepito senza il
concorso dell’altro. Al contrario, non si può pensare l’effetto senza la
causa, la loro sintesi è necessaria, sebbene essi siano di natura
eterogenea (la causa non è un fenomeno come l’effetto).
Il primo dei princìpi per mezzo dei quali l’intelletto costituisce gli
oggetti dell’esperienza, e cioè i fenomeni come conoscibili, è però
quello per cui questi sono intuiti nello spazio e nel tempo come
grandezze estensive. Questo principio si chiama Assioma
dell’intuizione. Esso implica che i fenomeni “non possono essere
appresi, apprehendiert, e cioè accolti in una coscienza empirica, se
non mediante la sintesi del molteplice […], e cioè mediante la
composizione, Zusammensetzung, dell’omogeneo e la coscienza
dell’unità sintetica di questo molteplice (dell’omogeneo)” (KRV B,
164-165; 217)22. Quanto a questa coscienza, essa è costituita dal
“concetto di una grandezza (di un quantum)” (ivi, 165 t.m.; 217)23.
Questo concetto, che è la coscienza dell’“unità della composizione di
un molteplice omogeneo” (ibidem)24, è un atto dell’intelletto. Ma
l’unità della Zusammensetzung stessa è lo schema che corrisponde
al concetto di grandezza e l’atto dell’immaginazione che prepara il
molteplice alla conoscenza da parte dell’intelletto per mezzo del
concetto di grandezza (e, in seguito, di numero).
È importante notare che la composizione è un’operazione di
addizione successiva di una parte a un’altra, in cui queste parti sono
omogenee. Non ci si rappresenta una linea nello spazio o una durata
nel tempo se non “producendo, zu erzeugen” ciascuna delle sue
parti dopo l’altra (ivi, 165; 218)25. Questa sintesi successiva, lo si è
visto, è la condizione a priori dell’“apprensione” stessa dei fenomeni.
E lo stesso testo insiste: il fenomeno “può essere conosciuto
nell’apprensione, in der Apprehension, solo mediante una sintesi
successiva (di una parte con un’altra parte)” (ibidem)26. Si dirà
dunque che l’apprensione non è possibile senza la composizione, o
anche che è la composizione stessa, almeno per ciò che concerne la
grandezza dei fenomeni.
Vi è però una prima difficoltà che conviene risolvere innanzitutto
se non ci si vuole ingannare in seguito sulla “comprensione” invocata
ai §§ 26 e 27 della terza Critica. Proviamo a situare l’assioma della
composizione nell’apprensione in rapporto alle sintesi esposte
nell’Avvertenza preliminare alla Deduzione delle categorie nella
prima Critica (KRV A, 110 ss.; 141 ss.)27. Bisogna fare attenzione al
fatto che queste sintesi sono costitutive della possibilità
dell’esperienza in generale, e non di quella degli oggetti
dell’esperienza, come invece l’assioma della composizione. Rispetto
a questo, esse sono solo più “fondamentali” (ivi, 115; 144)28,
l’assioma stesso le presuppone. Con questa riserva sembra però
che la “composizione nell’apprensione” richiesta dall’assioma
corrisponda alle due prime sintesi, quella dell’“apprensione,
Apprehension, nell’intuizione” e quella della “riproduzione,
Reproduktion, nell’immaginazione”. La terza, quella della
“ricognizione, Rekognition, nel concetto”29 sembra convenire a ciò
che l’assioma chiama la “coscienza dell’unità” ottenuta già dalla
composizione, giacché questa coscienza dell’unità non è altro che il
concetto di grandezza.
Vediamo come la composizione successiva che è l’apprensione
del fenomeno come grandezza estensiva esiga in effetti delle sintesi
di apprensione e riproduzione. La prima di queste consiste nel
“mantenere, enthalten” il molteplice “come in un colpo d’occhio, als
in einem Augenblick”, di modo che “il per-correre” o “il trans-correre”,
“das Durchlaufen”, sia “messo assieme”, se così si può dire, da una
sola presa: la “Zusammennehmung” (ivi, 111-112; 143)30. Non c’è
evidentemente flusso, non c’è passaggio del molteplice se non c’è
successione, e quest’ultima esige per la sua costituzione che ci sia
un simultaneo. La corrente scorre soltanto nella “presa [emprise]” di
ciò che non scorre. Non c’è movimento senza quiete. E all’inverso.
La composizione per successione, la Zusammensetzung, esige
questo “abbraccio”, questa “parentesi” [“accolade”] più originaria, la
Zusammennehmung, che le fornisce le unità da comporre.
Ma la composizione esige anche che queste unità possano esser
messe le une di seguito alle altre, e dunque che ognuna non
scompaia quando un’altra appare, altrimenti non ci sarebbe
successione per formare la grandezza del fenomeno. È questa
sintesi che l’immaginazione effettua sotto il titolo della “riproduzione”.
“Se traccio una linea nel pensiero, o voglio pensare il tempo da un
mezzogiorno all’altro, o anche soltanto rappresentarmi un certo
numero, per prima cosa devo necessariamente cogliere nel pensiero
ognuna di queste rappresentazioni differenti [che sono le parti della
linea, della durata o del numero] l’una dopo l’altra” (ivi, 114; 148)31. E
allo scopo di mostrare la necessità della riproduzione, Kant
aggiunge, cosa che sembra fare eco al testo del § 26 della terza
Critica, che espone il limite della “comprensione estetica”
(l’immaginazione “perde da un lato tanto quanto guadagna
dall’altro”) (91; 96)32 – aggiunge: “se lasciassi sempre sfuggire dal
mio pensiero le rappresentazioni precedenti (le prime parti della
linea, le parti precedenti del tempo o le unità rappresentate l’una
dopo l’altra), e se non le riproducessi nel mentre progredisco verso
le seguenti, allora una rappresentazione intera […] non potrebbe mai
prodursi” (KRV A, 114-115 t.m.; 148)33. La riproduzione permette di
tenere presente nel pensiero un’unità appresa anteriormente, e
dunque assente attualmente. Questa sintesi di ritenzione è il fatto
dell’immaginazione. La “composizione” la comporta
necessariamente.
Possiamo ritornare adesso al testo del § 26 dell’Analitica del
sublime citato sopra. È comprensibile che a essere una sintesi che
l’immaginazione può proseguire “da sé all’infinito” sia la
“composizione” “che è richiesta per la rappresentazione della
grandezza” (93; 98)34, la “Zusammensetzung”, come aveva scritto
Kant, e non “la comprensione”, la “Zusammenfassung”, come lo
corregge per errore Erdmann. Questa sintesi non è in effetti altro che
l’apprensione e la riproduzione necessarie alla costituzione del
tempo della conoscenza (e dello spazio, sussidiariamente), ma
applicate alla costituzione degli oggetti della conoscenza secondo le
loro grandezze estensive. È egualmente comprensibile che
l’immaginazione possa lasciarsi “guidare” in questa composizione
dal concetto, che in fin dei conti non è altro che la “coscienza”
dell’unità prodotta dalla sintesi immaginativa. È comprensibile, infine,
che le grandezze concepite dall’intelletto possano essere molto
elevate (numericamente) senza che l’immaginazione si trovi
impedita a “fornirne lo schema” corrispondente (ibidem)35. Per
quanto possa essere elevata, una grandezza è appresa
intuitivamente per parti, e ogni apprensione è “ritenuta” o “riprodotta”
(in assenza) nell’apprensione successiva (che è “successiva” solo
perché la precedente è ritenuta). Detto altrimenti, l’ambitus della
presa della Zusammennehmung, resta ogni volta lo stesso. La
ricorrenza dell’apprensione precedente nell’attuale non ne allarga in
nulla l’ambitus, non più di quanto un gesto possa essere cento volte
più grande del fatto di essere ripetuto per la centesima volta. E
quanto al concetto, esso determina il numero delle “volte” (delle
apprensioni fornite dall’immaginazione), permettendo così la
ricognizione della grandezza dell’oggetto.
Si può comprendere così il fatto che l’immaginazione e l’intelletto
sono in perfetta affinità quando si tratta di procedere per ricorrenza.
Questa è una sintesi dell’omogeneo di cui entrambi sono capaci,
ognuno nel suo ordine (rispettivamente lo schema e il concetto),
senza particolari sforzi. È per questo che “in questo processo, in
quanto dipende dalla stima logica delle grandezze, c’è senza dubbio
qualcosa di oggettivamente finale secondo il concetto di un fine (e
tale è ogni misurazione)” (93 t.m.; 98)36. “Oggettivamente finale”
perché la coniugazione delle due facoltà è finalizzata alla
determinazione della grandezza dell’oggetto, cioè in effetti alla sua
misurazione. Ma, evidentemente, dato che questa finalità è
subordinata al “concetto di un fine”, che è questa determinazione
cognitiva, essa non è in nulla estetica, non apporta al pensiero che
procede a questa ricorrenza alcun piacere immediato, “nulla che sia
finale e piacevole, Gefallendes, per la facoltà estetica di giudizio”
(ibidem)37.
Con questa osservazione negativa, il testo del § 26 ci riporta
all’esame del sentimento estetico. La suddetta osservazione evoca il
piacere del bello. Quella che la segue si rivolge al sentimento
sublime. La “finalità intenzionale, diese absichtlichen
Zweckmäßigkeit” implicata dalla composizione “non ha bisogno
[nemmeno] di spingere, treiben, la grandezza della misura, e dunque
la comprensione, la Zusammenfassung, della pluralità in
un’intuizione sino ai limiti della capacità dell’immaginazione, e cioè
tanto lontano quanto a questa è possibile estendersi, reichen”
(ibidem, t.m.)38. La composizione, anche all’infinito, non ha alcun
effetto di tensione, di spinta al limite, sulla comprensione e sulla sua
“misura prima”. Glosso l’argomentazione che segue questa frase: la
“Zusammenfassung”, la comprensione delle unità da parte
dell’immaginazione può essere “spinta” dall’intelletto fino a 10 o fino
a 4: la grandezza sarà prodotta in ogni caso in modo progressivo
(secondo il principio decimale o tetrastico che sarà stato ammesso).
Lo sarà per composizione, ‘Zusammensetzung’; e, se il quantum può
esser colto in un’unica intuizione, anche per apprensione,
‘Auffassung’. L’immaginazione può scegliere per unità una
grandezza che può afferrare in un colpo d’occhio, “in einem Blick
fassen” (un piede o un bastone, per esempio). Può anche prendere
un “miglio tedesco” o un “diametro terrestre”. L’intelletto sarà in
entrambi i casi “altrettanto ben servito e soddisfatto”. E tuttavia, nel
secondo caso (il miglio, il diametro) l’immaginazione avrà soltanto
“l’apprensione, la Auffassung” della grandezza presa a unità; non ne
avrà la “Zusammenfassung”, la “comprehensio aesthetica”. – Anche
se ciò non impedisce all’intelletto di averne la “comprehensio logica”
per mezzo dei concetti numerici (ibidem)39. E aggiungerei: non
impedirà affatto all’immaginazione di effettuare la “composizione”
che è la gemella di questa comprensione logica – la composizione,
dunque, e cioè la ricorrenza per “riproduzione” delle parti di un miglio
tedesco o del diametro terrestre –, perché ha la “Auffassung”,
l’apprensione di ognuna di queste parti.
Si vede chiaramente dove e quando il sentimento sublime ha
l’opportunità di svegliarsi: è allorché si richiede all’immaginazione di
avere una comprensione estetica di tutte le unità incluse dalla
composizione nel suo progredire. In quel caso, infatti, dato che
quest’ultima è limitata alla sua “misura fondamentale”, se tutte le
parti composte successivamente non possono essere comprese in
una sola volta (ciò che è necessariamente il caso, man mano che la
serie si accresce per composizione), la potenza della presentazione,
das Darstellungsvermögen, che è l’immaginazione si trova allora
propriamente sopraffatta [débordé]. Come può esserlo lo sguardo
che si rivolge alla parete della piramide, o all’interno di San Pietro,
se si trova a una distanza tale da non poter “comprendere” in un
colpo ciò che può “comporre” successivamente.
3. L’infinito non è comprensibile come un tutto: la paura
Questa comprensione estetica (in una sola volta) del tutto d’una
serie molto grande o infinita è ciò che la ragione chiede
all’immaginazione e che provoca l’emozione sublime. Cambia
dunque uno dei protagonisti del giudizio estetico. I partner, lo
abbiamo detto, non sono più l’immaginazione e l’intelletto, il cui
accordo è possibile e necessario per fornire un giudizio determinante
oggettivo, e la cui armonia soggettivamente finale procura il piacere
del gusto nel giudizio riflettente estetico. Sono attualmente
l’immaginazione e la ragione, o, più esattamente, dato che si tratta
allo stesso modo di un giudizio estetico riflettente, la sensazione
soggettiva che accompagna l’esercizio dell’immaginazione e la
sensazione soggettiva che accompagna l’esercizio della ragione.
Si dirà: perché due sensazioni se c’è soltanto un sentimento, il
sublime? Il fatto è che questo sentimento consiste in effetti in due
sensazioni contraddittorie, piacere e dispiacere, “attrazione” e
“repulsione”, e il pensiero vi si trova, come abbiamo letto al § 23,
“angezogen” e “abgestoßen” (85; 88)40. Ma non è tuttavia un
piacere, in definitiva, dato che è un giudizio estetico? Possiamo dirlo,
ma bisogna concedere che è un “piacere negativo, negative Lust”
(ibidem)41. Resta il fatto che queste osservazioni sono ancora
soltanto descrittive. La domanda propriamente critica chiede com’è
possibile questo piacere negativo. Ovverosia, per porla in forma di
problema: ammesso che ci sia un sentimento estetico sublime,
trovare la finalità soggettiva che unisce i due tipi di sensazione che
esso condensa in modo da fare di questo sentimento un piacere
negativo.
Se ci si attiene alle sintesi matematiche che ci stanno occupando
in questo capitolo, e cioè al giudizio sublime considerato sotto i titoli
riflessivi corrispondenti alle categorie di qualità e di quantità, si
indovina la direzione da seguire per trovare la risposta al problema.
L’immaginazione può sintetizzare “attualmente”, e cioè in
un’apprensione, delle grandezze, soltanto se queste non eccedono
la “misura prima” della sua “comprensione”. Possiamo dire questa
misura soggettivamente “assoluta”. Il massimo permesso alla “stima
estetica della grandezza” da parte dell’immaginazione può essere
esso stesso “valutato, beurteilt, come misura assoluta, als absolutes
Maß” (91; 95)42. C’è dunque un assoluto soggettivo della grandezza
presentabile. Come si è detto, la moltiplicazione delle forme e delle
Idee estetiche nell’immaginazione del fruitore o dell’artista non
prestano attenzione a questa misura; quest’ultima si applica volta a
volta a ogni forma o “Idea” attuale. La qualità del giudizio estetico
(altra sintesi matematica) vi si trova persino rinforzata, e il piacere
accresciuto. Ma nell’istante in cui si passa al di là di questo limite
assoluto, la sintesi comprensiva della grandezza diviene impossibile,
e la qualità dello stato in cui si trova allora il pensiero immaginante si
inverte: esso ha paura di questo “Überschwengliche”, di questo
“trascendente” che è un al di là (über) confuso e in movimento
[mouvant et confus] (schwingen), “come di un abisso, Abgrund, in
cui teme di perdere se stesso” (97; 103)43. Al di là del suo assoluto
di presentazione, il pensiero incontra l’impresentabile, l’impensabile
nel qui-e-adesso, e viene colto da ciò che Burke chiamava orrore44.
Ma perché dovrebbe esser necessario che il pensiero arrivi fino a
questo?
Si riconosce in questa esigenza di un passaggio al limite il tratto
della ragione. Dal punto di vista della quantità, la ragione persegue
la serie delle grandezze concepibili all’infinito. Si obietterà che è
innanzitutto il fatto dell’intelletto a essere inarrestabile nella
composizione di unità sempre più elevate grazie ai concetti numerici.
L’infinito quantitativo prodotto dalla ricorrenza illimitata dell’addizione
dell’unità a se stessa (e che può facilmente accompagnare
l’immaginazione grazie alla “composizione”) non è già forse oggetto
di un concetto dell’intelletto? “Comparata a quest’ultimo [all’infinito –
tuttavia –], ogni altra grandezza (dello stesso tipo di grandezza) è
piccola”. È per questo che diciamo che “l’infinito è assolutamente
(non solo comparativamente), grande, das Unendliche […] ist
schlechthin (nicht bloß komparativ) groß” (94 t.m.; 99)45.
Il seguito dell’argomentazione obietterà che il concetto d’infinito
che l’intelletto può formarsi, e cioè, di fatto, l’orizzonte di un
progresso all’infinito, non è “il più importante” (ibidem)46. Ma prima di
fare il passo successivo che si dimostra necessario per
comprendere che ne è dell’infinito di ragione e come affetta il
pensiero, fermiamoci un istante sull’infinito dell’intelletto, e cioè della
progressione, nella misura in cui può produrre già da se stesso nel
pensiero una specie di sentimento sublime. Mi riferisco qui alla fine
del § 26 (95-96; 101)47.
Ci sono “esempi di sublime matematicamente considerato,
Mathematisch-Erhabenen, nella natura, der Natur”. Questi ci sono
“forniti nella semplice intuizione, in der bloßen Anschauung liefern
uns”, cosa che intendo: in modo semplicemente intuitivo. Affiancato
all’intuizione, il solo concetto dell’intelletto contribuirebbe come
vedremo a questo sentimento sublime. Questo sarebbe “diretto”, per
così dire, perché non sarebbe mediato da un’Idea della ragione, e
soprattutto non dovrebbe niente al modo in cui la ragione concepisce
l’infinito. Si tratterebbe dunque di esempi di sublime “matematico”
nei quali l’intuizione può seguire l’intelletto nel suo progredire
all’infinito. Il caso può sembrare inatteso, dopo quanto abbiamo detto
della misura della comprensione soggettiva permessa alla facoltà di
presentazione. Ora, qual è, dunque, questo caso? Quello in cui “ciò
che è dato all’immaginazione come misura, als Maß, non è tanto un
concetto numerico superiore quanto piuttosto una grande unità,
große Einheit (per abbreviare la serie dei numeri)” (95; 101)48. È
questo ciò che non è chiaro. Rispetto a ciò che pensavamo di aver
compreso della “misura prima” dell’immaginazione, un tale caso
sembra persino contraddittorio. La “grande unità” non eccede infatti
questa misura? Può essere presente all’immaginazione altrimenti
che per composizione? Se eccede la misura, il caso è già quello del
conflitto con la ragione. Mentre, se si tratta proprio del rapporto
dell’immaginazione con l’intelletto, come suggerisce la parentesi
(abbreviare la serie dei numeri significa per l’intelletto cambiare
l’unità di misura mentre progredisce verso grandezze elevate), non
si vede invece come il caso possa essere sublime: l’immaginazione
segue il progresso dell’intelletto per composizione “senza che niente
le sia d’ostacolo”49.
Fornendo degli esempi destinati a gettare un po’ di luce su questa
questione oscura, il testo sposta di fatto il motivo di questo sublime
“di semplice intuizione”. Mentre progredisce a misurare le
grandezze, dunque, l’intelletto cambia infatti unità di misura allo
scopo di abbreviare la serie dei numeri: può stimare la grandezza di
un albero sulla scala di quella di un uomo, quella di una montagna in
unità d’albero, quella di un diametro terrestre in “montagne”, del
sistema solare in diametri terrestri, di una galassia in “sistemi solari”,
di una nebulosa in galassie (95; 101)50. Per questa progressione
non ci sono limiti da superare. Non ci si potrebbe “aspettare,
erwarten” (ibidem)51 nulla che possa fermare il processo di questa
sostituzione di unità.
Eppure, riflessivamente, la valutazione “di un tutto così immenso,
eines so unermeßlichen Ganzen” (ibidem)52 genera un sentimento di
sublimità. Si tratta senz’altro di una valutazione “estetica”53, e cioè
dello stato di piacere o dispiacere nel quale questo “oggetto” che è il
tutto “non misurabile” pone il pensiero. Questo pensiero è
concipiente, d’intelletto – o, piuttosto, come è stato annunciato col
nome di semplice intuizione, presentante, d’immaginazione? E
innanzitutto, è davvero il pensiero di una “grande unità”?
Qui Kant precisa, e si corregge: la suddetta sensazione sublime
non dipende “tanto dalla grandezza del numero, quanto dal fatto
che, progredendo in questo modo, im Fortschritte, giungiamo a unità
sempre più grandi” (ibidem, t.m.)54. Ciò che si prova come sublime
non è dunque il pensiero della “grande unità”, ma quello del
progresso verso il “sempre più grande”. E quanto a sapere se è nel
concepire il progresso o nell’immaginarlo, e cioè nell’intuirlo, che il
pensiero prova questo sentimento, il testo sembra tagliar corto
[trancher]: “la divisione sistematica dell’edificio del mondo, des
Weltgebäudes, vi contribuisce [a questo sentimento], essa che ci
rappresenta tutto ciò che è grande nella natura sul punto di
convertirsi senza posa, immer wiederum, in ciò che è piccolo” (95-
96, t.m.; 101)55. Questa “divisione sistematica” è la parte lasciata
all’intelletto nella formazione di questo sentimento. E in effetti ciò che
gli è dovuto è la progressione, e dunque anche la “conversione”
della stima delle grandezze che accompagna i cambiamenti di unità
di misura a cui procede l’intelletto “per abbreviare” le cifre. Ma,
aggiunge Kant, “propriamente, eigentlich” (96 t.m.; 101)56 ciò che
questa divisione sistematica dell’universo da parte dell’intelletto “ci
rappresenta”, rappresenta al pensiero quando cambia scala di
misura, è “la nostra immaginazione nella sua piena illimitatezza, in
ihrer ganzen Grenzlosigkeit, sul punto di svanire, verschwindend, di
fronte alle Idee della ragione, mentre deve dar loro una
presentazione, Darstellung, appropriata – e con questa [sul punto di
svanire insieme all’immaginazione], la natura” (ibidem, t.m.)57.
Ciò che, nella produzione di questo sentimento, sembrava esser
stato deciso [tranché] in favore della concezione da parte
dell’intelletto si trova in tal modo infine ritrattato [retranché]. È ciò che
accade al pensiero immaginante, il suo arresto, che indica che non
si tratta più, alla lunga, della stessa situazione trascendentale che si
riscontra nel corso della progressione. L’immaginazione può
accompagnare l’intelletto nel suo progresso verso unità di misura
molto grandi. Può persino continuare a presentare delle grandezze
di ordine cosmico: compone l’apprensione di una grandezza
presentabile per sintesi riproduttiva molte volte. Può dunque
continuare a “fornire lo schema” per concetti numerici elevati.
E tuttavia, dal lato della concezione si produce un mutamento. La
ricorrenza all’infinito da parte del “e così di seguito” porta il pensiero
a concepire non soltanto “la volta” successiva, ma subito “il più volte”
in una sola volta, in un colpo solo. La massimizzazione infinita delle
grandezze induce l’Idea di una grandezza infinita, sempre già più
grande di ogni grandezza misurabile. Questa grandezza non può
essere numerata con un’addizione ricorrente dell’unità, per quanto
grande sia, a se stessa. È fuori limite, per l’intelletto. Quest’ultimo, lo
si è detto, non può concepire però l’illimitato e nemmeno il limite.
Questi sono concetti il cui oggetto non è presentabile nell’intuizione.
La conoscenza esige però che il concetto sia coniugato dallo
schema con la presentazione del suo oggetto. Pensato come un
tutto (in una sola volta), l’infinito in grandezza non è un oggetto
dell’esperienza possibile, non ha intuizione. È un oggetto di pensiero
in generale, l’oggetto di un pensiero che rimane indeterminato per
mancanza di presentazione appropriata. Il pensiero che concepisce
un tale oggetto non è più, dunque, l’intelletto, ma la ragione.
Ciò che il nostro testo analizza è insomma il cambiamento di
partner dell’immaginazione nel corso del progresso all’infinito delle
misure di grandezza. Questo cambiamento si fa riconoscere per il
cambiamento di “stato” soggettivo nel pensiero immaginante. Una
sorta di vertigine, ma euforica, si impossessa di quest’ultimo mentre
accompagna la facoltà dei concetti nel progresso verso misure molto
elevate. Vi è in questo una specie di sublime “matematico” che
sarebbe dovuto infatti alla sola composizione all’infinito. Perché
“sublime”? Perché il progresso indica da sé solo che ogni grandezza
della natura a lungo andare sembrerà piccola, e che ogni
composizione di una grandezza elevata da parte dell’immaginazione
riproduttiva può essere seguita da una composizione superiore, nella
quale la suddetta grandezza non sarà altro che una parte della
grandezza ormai appresa. È dunque proprio il solo progredire nella
serie che procura questo sentimento quasi sublime. Dico “quasi”
perché come si vede esso non comporta ancora l’effrazione della
“misura prima” dell’immaginazione, ma semplicemente la sua
“illimitatezza”, la quale dipende interamente dalla ricorrenza della
sintesi della riproduzione, e cioè dalla facoltà di comporre
(Zusammensetzung).
Ma, quando il concetto di numero grande si muta nell’Idea di un
infinito assolto o attuale, la sintesi matematica per composizione si
dimostra impotente a darne una presentazione. Davanti a
quest’Idea, la vertigine del pensiero presentante si trasforma in
angoscia mortale. L’immaginazione sprofonda nello zero della
presentazione che è il correlato dell’infinito assoluto. La natura
sprofonda con essa, poiché niente, in essa, può esser presentato
come oggetto di quest’Idea.
Eccoci dunque ricondotti a ciò che è “più importante”58. Il punto
non è dunque il progresso all’infinito da parte dell’intelletto e
dell’immaginazione che è connessa a esso, è “inoltre, auch, il fatto di
poterlo almeno pensare [l’infinito], nur denken, come un tutto” (94
t.m.; 99)59. Perché questo indica che lo spirito (il pensiero) ha una
potenza [puissance] che “oltrepassa, übertrifft” tutto ciò di cui i sensi
possono prendere la misura (ibidem)60. Non si tratta più, infatti,
dell’infinito come orizzonte di una composizione ricorrente, si tratta
dell’“infinito dato, das gegebene Unendliche” (ibidem)61, dato
attualmente come oggetto di pensiero, se si dovesse fornire una
presentazione al quale sarebbe necessario che “una comprensione,
eine Zusammenfassung” procuri in una sola volta, come un’unica
unità, un campione di misura che si troverebbe con questo infinito in
un rapporto determinato, e persino esprimibile in numeri (ibidem)62.
Cosa che viene interdetta dalla “misura prima” della comprensione
immaginante.
Ma bisogna andare oltre, e questo passo in più prova che la
facoltà di concepire l’infinito come un tutto non può essere l’intelletto.
L’infinito come tutto sta all’infinito del mondo sensibile come un
oggetto “noumenico” (KRV, 216-232; 287-308)63, oggetto soltanto
del pensiero, sta a un semplice fenomeno, oggetto di conoscenza.
Se l’intelletto può però avanzare all’infinito nella serie regressiva
delle condizioni dei fenomeni nel mondo è perché è sostenuto
dall’Idea dell’Infinito come tutto, che può essere formata solo da “una
facoltà […] essa stessa soprasensibile” (ibidem)64. La nozione
d’infinito seriale procede dalla nozione d’infinito attuale. Il che
significa che, anche “nella pura stima intellettuale delle grandezze, in
der reinen intellektuellen Größenschätzung” che pratica l’intelletto, è
necessario che “l’infinito del mondo dei sensi”, che è l’orizzonte di
questa stima, sia “interamente compreso sotto un unico concetto,
unter einem Begriffe ganz zusammengefaßt” (ibidem)65. Questo
concetto appartiene così poco all’intelletto, viene precisato, che la
stima matematica non arriva mai a pensare l’infinito del mondo
sensibile “mediante concetti numerici”, i soli di cui dispone
(ibidem)66. L’oggetto del concetto di cui si tratta, l’infinito come
totalità attualmente data al pensiero, non appartiene al mondo; ne è
il “sostrato, Substrat” (ibidem)67. E il pensiero che lo concepisce si
chiama ragione. Tale è dunque l’impossibile partner di cui
l’immaginazione si trova provvista [nantie] (e dal quale si trova
annientata [anéantie]) per produrre insieme a esso il giudizio estetico
riflettente chiamato sublime.
4. L’infinito è pensabile come un tutto: l’esaltazione
Questo sentimento, e cioè che la nostra capacità non è alla misura a cui
dovrebbe essere, Unangemessenheit, per raggiungere un’Idea che per noi
è legge, – questo sentimento è rispetto, Achtung [che si renderebbe forse
meglio con: riguardo (égard)]. Ora, l’Idea che bisogna comprendere, die
Idee der Zusammenfassung, nell’intuizione di un tutto, non importa quale
fenomeno possa esserci dato, è proprio di questo tipo, solche: essa ci è
imposta, auferlegt ist, da una legge della ragione, che non conosce come
misura determinata, valida per tutti e inalterabile, nient’altro che
l’assolutamente tutto, das absolut-Ganze (96 t.m.; 102).72
Anche quando arriva però al punto più estremo della sua tensione,
Anstrengung, allo scopo di comprendere, Zusammenfassung, come le è
richiesto, un oggetto dato in un tutto dell’intuizione (e dunque allo scopo di
presentare, Darstellung, un’Idea della ragione), anche così la nostra
immaginazione attesta, beweist, di essere limitata, ihre Schranken, e di non
essere a misura, Unangemessenheit […] (ibidem).74
1. La resistenza
1. Le soddisfazioni
Abbiamo detto (supra VI.3) che non c’è un solo, ma più sentimenti
sublimi: tutta una famiglia, o piuttosto tutta una generazione. Ricamo
per un attimo il romanzo di questo genos. Nell’albero genealogico
cosiddetto delle “facoltà dell’animo”, la genitrice è una “sensazione”
(42; 36)92, uno stato della facoltà di piacere e dispiacere, come il
genitore. Ma il padre è contento, la madre infelice. Il figlio sublime
sarà sentimentalmente contrariato, contraddittorio: dolore e
soddisfazione. Il fatto è che nella genealogia delle facoltà dette
“conoscitive” (in senso lato, in quanto le potenze del pensiero si
rapportano ad oggetti) i genitori vengono da due famiglie estranee.
Lei è “facoltà di giudizio”, lui “ragione”. Lei è artista, lui moralista. Lei
“riflette”, lui “determina”. La legge morale (paterna) si determina, e
determina il pensiero ad agire. La ragione vuole dei figli buoni, esige
di generare delle massime morali giuste. Ma la madre,
l’immaginazione, riflettente, libera, sa soltanto dispiegare forme,
senza regole premesse e senza fine conosciuto, né conoscibile.
Nella sua relazione con l’intelletto, “prima” di incontrare la ragione,
poteva succedere che questa libertà di “forme” si trovasse
all’unisono con la potenza delle regole, e che nascesse da questo
incontro “una felicità” esemplare (supra VII.1). Ma in ogni caso non
un figlio. La bellezza non è il frutto di un contratto, è il fiore di un
amore, e passa come tutto ciò che non è stato concepito per
interesse.
Il sublime è il figlio dell’infelicità di un incontro, quello dell’Idea con
la forma. Infelice perché quest’Idea si dimostra così poco
concessiva, la legge (il padre) così autoritario, così incondizionato, il
riguardo che egli esige così esclusivo, che questo padre non ha
bisogno di ottenere un consenso da parte dell’immaginazione, fosse
anche per una deliziosa rivalità. Egli esige la propria “ritrazione”
(supra VI.1-2). Esclude [écarte] le forme, o le forme si escludono
[s’écartent], si squarciano, si dismisurano, alla sua presenza.
Feconda la vergine votata alle forme senza riguardo per il suo
favore. Esige riguardo soltanto per se stesso, per la legge e per la
sua realizzazione. Non ha alcun bisogno di una natura bella. Gli è
necessaria imperativamente un’immaginazione violata, esasperata,
esaurita. Questa morirà dando alla luce il sublime. Crederà di morire
(supra IV.3).
C’è dunque senz’altro, nel sublime, un’aria di rispetto che gli viene
dalla ragione, da suo padre. E tuttavia l’Erhabene non è la Erhebung
(KPV, 85; 94)93, la pura “elevazione, la Erhabenheit” che ispira la
legge (ivi, 91; 102)94. La violenza, il “coraggio” (109; 120)95 è
necessario al sublime. Esso si sradica, si toglie [s’enlève]. Mentre il
rispetto semplicemente sorge [se lève]96, si indirizza.
L’immaginazione dev’esser violentata perché è per il suo dolore, per
la mediazione della sua violenza che si ottiene la gioia di vedere, o
di quasi vedere, la legge. Il sublime “ci rende quasi intuibile,
gleichsam anschaulich, la superiorità della destinazione razionale
delle nostre facoltà conoscitive sulla massima capacità della
sensibilità” (96 t.m.; 102)97. E questo “piacere […] è possibile solo
attraverso la mediazione di un dispiacere” (98 t.m.; 105)98.
Il lutto comportato dal rispetto dovuto alla legge è soltanto la
faccia scura del rispetto, ma non il suo mezzo. Il Sé grida perché la
sua volontà non è santa. Ma non è necessario al rispetto che il Sé
gridi. È un fatto di finitudine. Il rispetto non si misura coi sacrifici. La
legge non vuole per te il male, per te non vuole nulla. Il sublime ha
bisogno della tua sofferenza, al contrario. Deve dispiacerti. È
“controfinale, zweckwidrig”, “inappropriato”, “e tuttavia, proprio per
questa ragione, viene valutato soltanto più sublime, dennoch nur um
desto erhabener zu sein geurteilt wird” (85 t.m.; 88)99. Gli è
necessaria una “presentazione”, che è ufficio dell’immaginazione,
sua madre, e una “presunzione”, questa malattia innata della volontà
serva, per manifestare la loro nullità alla luce della legge.
7. La teleologia nel bello e nel sublime
Ora, ciò accade grazie al fatto che si tiene il proprio giudizio, sein Urteil,
in connessione con i giudizi degli altri, an anderer […] Urteile hält – non
tanto a quelli effettivi, quanto piuttosto a quelli semplicemente possibili –, e
che ci si traspone, versetzt, al posto di ogni altro, in die Stelle jedes andern,
facendo semplicemente astrazione dalle limitazioni che ineriscono in modo
contingente alla nostra propria valutazione, unserer eigenen Beurteilung
(127 t.m.; 144-145).143
1 Cfr. ivi, B 153-156; tr. it. pp. 128 ss.; per il titolo, ivi, B 153; tr. it. p.
128 (modificata).
2 Cfr. ivi, B 5-16; tr. it. pp. 40-46.
3 Per quanto nel testo Lyotard rinvii solo alla distinzione dei differenti
tipi di compiacimento, in realtà le citazioni riportate si trovano tutte in punti
diversi del § 5; per il che cfr. ivi, B 14 ss.; tr. it. pp. 45 ss.
4 Cfr. ivi, B 10-14, 120, 169; tr. it. rispettivamente pp. 43-45, 107, 136.
5 Ivi, B 154; tr. it. p. 128.
6 Ivi, B 74; tr. it. p. 80.
7 Ivi, B 82; tr. it. p. 84. Come sopra (cfr. supra, Cap. III, nota 26), anche
stavolta Lyotard riporta la propria traduzione di contro a quella di Philonenko.
8 Ivi, B 154; tr. it. p. 128. Lyotard modifica ampiamente, senza
segnalarlo, la traduzione di Philonenko. Per seguirlo ho preferito tradurre la
sua piuttosto che modificare quella italiana.
9 Ibidem (tr. it. modificata).
10 Ibidem.
11 Cfr. KpV A 134-139; tr. it. pp. 169-173.
12 KU B 154; tr. it. p. 128 (leggermente modificata).
13 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
14 KpV A 142; tr. it. p. 175 (leggermente modificata).
15 Cfr. ibidem.
16 Cfr. KU B 15 ss., 120, 169; tr. it. rispettivamente pp. 46, 107, 136.
17 KpV A 142; tr. it. p. 175.
18 Ivi, A 135; tr. it. p. 169.
19 Ivi, A 137; tr. it. p. 171 (modificata).
20 Cfr. ivi, A 137-139; tr. it. pp. 171-173.
21 Ivi, A 138; tr. it. p. 171 (leggermente modificata).
22 Ivi, A 129; tr. it. p. 163.
23 Ivi, A 130; tr. it. p. 165 (leggermente modificata).
24 Ivi, A 134; tr. it. p. 169. Le citazioni in questo insieme di frasi
lyotardiane sono estremamente confuse. Intanto perché i termini “presenza” e
“segno” non compaiono nel testo citato (motivo per cui li ho messi tra virgolette
singole e non tra doppie), e poi perché la prima metà della citazione parla nel
francese di un “modello” per la moralità (termine, anche questo che non
compare nel testo kantiano) e non di un “movente”, come ho corretto.
25 KU B 133; tr. it. p. 116 ss.
26 Ibidem; tr. it. p. 117 (leggermente modificata).
27 Cfr. ibidem.
28 Cfr. KpV A 13, 82 ss.; tr. it. pp. 45, 117 (modificata).
29 Cfr. ivi, A 13; tr. it. p. 45.
30 Ivi, A 54; tr. it. p. 87.
31 GMS AA IV 421; tr. it. p. 125.
32 KpV A 54; tr. it. p. 87 (leggermente modificata).
33 Cfr. ivi, A 119-126; tr. it. pp. 153-159.
34 KU B 32; tr. it. p. 55.
35 Cfr. ivi, B 76 ss., 78, 109, 132 sg; tr. it. p. 81, 82, 100, 116.
36 Ho deciso di tradurre in questo caso il verbo “déconsiderer” con
“tralasciare”, piuttosto che, come nell’uso comune francese, con “screditare”,
perché mi sembra che Lyotard lo usi qui nel suo senso etimologico. La natura,
credo che intenda dire, nel sublime viene del tutto esclusa dalla
considerazione. Non si guarda più a essa, non è in vista: è “omessa”, e in
questo senso “tralasciata”.
37 Ivi, B 154; tr. it. p. 128.
38 Ibidem (tr. it. modificata).
39 Ivi, B 111; tr. it. p. 101 (modificata).
40 KrV A 538 B 566, A 565 B 593; tr. it. rispettivamente pp. 793, 827-
829.
41 Cfr. ivi, A 486-490 B 514-518; tr. it. pp. 729-733.
42 KU B 154; tr. it. p. 128 (modificata).
43 Cfr. KpV A 284-288; tr. it. pp. 313-317.
44 Ivi, A 284; tr. it. p. 313 (leggermente modificata).
45 Ivi, A 285; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
46 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
47 Ibidem (tr. it. modificata; data la libertà della tr. fr. e il fatto che
Lyotard la riporta al testo subito dopo, ho preferito tradurre direttamente
questa).
48 Ibidem (tr. it. modificata).
49 KU B 245; tr. it. pp. 180 ss. (modificata).
50 Ibidem; tr. it. p. 180 (leggermente modificata).
51 KpV A 286; tr. it. p. 315 (modificata).
52 KU B 37; tr. it. p. 58.
53 KpV A 286; tr. it. p. 315 (modificata).
54 Ibidem (tr. it. modificata).
55 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
56 Ivi, A 154; tr. it. p. 187 (leggermente modificata).
57 Ibidem (tr. it. modificata; in questa citazione come nella seguente ho
seguito Lyotard traducendo il kantiano “im Gemüte” con “nel pensiero” anziché
con “nell’animo”).
58 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
59 Cfr. KU B 105-109; tr. it. pp. 98-100.
60 Ivi, B 154; tr. it. p. 128 (modificata).
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