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JEAN-FRANÇOIS LYOTARD

(Versailles 1924 - Parigi 1998) è stato uno dei pensatori francesi di maggior
rilievo della seconda metà del Novecento. Ha insegnato in Francia, in Canada
e negli Stati Uniti. Tra i padri del post-strutturalismo, Lyotard è noto in Italia
soprattutto per la teorizzazione del post-moderno, ma la sua riflessione si
estende anche a temi quali il rapporto tra discorso e figura, il dissidio, l’estetica
e il sublime.
MIMESIS BIBLIOTECA
Titolo originale: Leçons sur l’Analytique du sublime
Copyright © Klincksieck, 2015

Traduzione italiana a cura di Antonio Branca

Il volume è stato pubblicato con il contributo del Centre National du Livre

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


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Collana: Biblioteca, n. 14
Isbn: 9788857577340

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Sesto San Giovanni (MI)
INDICE

INTRODUZIONE. L’ESTETICA DENATURATA.


J.-F. LYOTARD E LE LEZIONI SULL’ANALITICA DEL SUBLIME
di Antonio Branca

NOTA ALLA TRADUZIONE

LEZIONI SULL’ANALITICA DEL SUBLIME.


KANT, CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO, § 23-29

PREMESSA

SIGLE UTILIZZATE

I. LA RIFLESSIONE ESTETICA
1. Il sistema e il sentimento
2. La sensazione come tautegoria
3. Il “soggettivo”
4. La temporalità estetica
5. L’euristica
6. L’anamnesi
7. Riflessione e categoria nei domini teoretico e pratico
8. Riflessione e categoria nel territorio estetico

II. COMPARAZIONE DEL SUBLIME CON IL GUSTO


1. Perché un’Analitica del sublime?
2. Bello e sublime comparati secondo la qualità e la quantità del
giudizio
3. L’animazione
4. Bello e sublime comparati secondo la relazione (finalità) e la
modalità del giudizio
5. Continuità e discontinuità tra bello e sublime

III. ESAME CATEGORIALE DEL SUBLIME


1. Quantità e grandezza
2. Dalla quantità alla modalità attraverso la relazione
3. Matematico e dinamico
4. La qualità, di nuovo

IV. IL SUBLIME COME SINTESI MATEMATICA


1. La “comprensione” è “misurata”
2. La “composizione” è infinita
3. L’infinito non è comprensibile come un tutto: la paura
4. L’infinito è pensabile come un tutto: l’esaltazione

V. IL SUBLIME COME SINTESI DINAMICA


1. Tentativo di soluzione del dissidio attraverso la mediazione etica
2. Tentativo di soluzione del dissidio attraverso una “dialettica”
3. La sintesi dinamica della causa e del condizionato
4. Necessità della sintesi delle sensazioni nel sentimento sublime
5. Eterogeneità delle sensazioni del tempo nella sintesi sublime

VI. ALCUNI SEGNI DELL’ETEROGENEITÀ


1. La resistenza
2. La presentazione negativa
3. L’entusiasmo
4. La semplicità

VII. ESTETICA ED ETICA NEL BELLO E NEL SUBLIME


1. Le soddisfazioni
2. Il bello, simbolo del bene
3. L’analogia del bello con il bene argomentata logicamente
4. Il nerbo dell’argomentazione teleologica
5. Interesse di facoltà e primato del pratico
6. Un romanzo familiare del sublime
7. La teleologia nel bello e nel sublime
8. Il sacrificio sublime

VIII. LA CONDIVISIONE DEL GUSTO


1. Esigenza di condivisione universale
2. Esigenza di condivisione necessaria
3. Esitazione sull’esigenza
4. Localizzazione del principio che fonda l’esigenza
5. Soluzione dell’antinomia del gusto
6. Le Idee-limite
7. Il sostrato soprasensibile
8. La procedura di condivisione

IX. LA CONDIVISIONE DEL SENTIMENTO SUBLIME


1. Una condivisione mediata
2. L’altro sentimento
3. L’altro oggetto
4. Il sentimento estetico che ispira il giudizio morale
A Carla, che ha reso un gioco la mia vita
INTRODUZIONE
L’ESTETICA DENATURATA. J.-F. LYOTARD E LE LEZIONI
SULL’ANALITICA DEL SUBLIME
Antonio Branca

1. Le Lezioni sull’Analitica del sublime di Lyotard hanno patito un


destino peculiare. Testo pressoché ignoto alla letteratura secondaria
italiana su Kant e sulla terza Critica 1, esse vengono raramente
considerate anche nella scarna e anzi quasi del tutto assente critica
lyotardiana. Tanto che se vent’anni fa Ferrari aveva ben ragione di
dire che “Lyotard, oggi, è un autore finito”2, di queste Lezioni si
potrebbe dire forse che sono a stento state. Che a quasi trent’anni
dalla loro pubblicazione le si conosce poco e che attendono di
essere.
Quest’assenza di un testo pure così ricco dal dibattito filosofico
italiano si spiega in ogni caso per quello che a tutta prima appare – e
che è di fatto – un pregiudizio: secondo il quale la filosofia di Lyotard
sarebbe da ridurre a un dichiarato “postmodernismo” che oggi non è
più condivisibile e va anzi confutato. Al pensiero della “fine delle
narrazioni”3 sarebbe pertanto da contrapporre una ripresa del
moderno che ne sappia valorizzare ora questo, ora quell’aspetto4. Il
tutto dimenticando che il primo a criticare quel concetto che pure
aveva contribuito a sdoganare fu proprio Lyotard stesso. In un
articolo raccolto ne L’inhumain (testo anch’esso poco citato) e che
porta il significativo titolo “Riscrivere la modernità”5, questi affermava
infatti non solo che “la postmodernità non è una nuova epoca”6, ma
che è anzi una critica della modernità “all’opera da molto tempo già
nella modernità stessa”7. – Non dovendosi più parlare né di un
“pre-”, né di un “post-”, in quanto entrambi presuppongono un tempo
“diacronico e rivoluzionario” che proprio la modernità si è
costantemente trovata a scardinare8, se al postmoderno va
riconosciuto uno statuto questo è quello non di una tesi, ma di un
problema. Di quell’interrogazione radicale, anzi, in cui consiste il
moderno stesso. Nell’evidente paradosso, tra l’altro, per cui non solo
La condizione postmoderna non è mai citato nell’“autobiografia
filosofica” che Lyotard pronuncia e scrive nel 19889, ma viene
ridimensionato dal suo stesso autore ogni volta che lo richiama nelle
sue opere successive10.
Alla postmodernità come tesi, Il dissidio sostituisce una (post)
modernità come problema, che cresce e si sviluppa a partire dal
riconoscimento di differenti regimi di frasi e dal Widerstreit, dal
dissidio in cui questi cadono nel momento in cui si concatenano l’un
l’altro. Moderna è l’affermazione di un soggetto/sostrato
dell’esperienza, scrive qui Lyotard: “di un io che si forma (Bildung)
raccogliendo le proprietà delle cose che avvengono (gli eventi)”11.
Ma che accade invece nel momento in cui ci si accorge che “l’idea
dell’io e quella d’esperienza a essa associata non sono necessarie
alla descrizione della realtà”12? Laddove una parte della modernità
ha preteso di poter unificare l’esperienza sotto il dominio della
scienza, e di una scienza che è stata in grado di evolversi dalla
mathesis universalis di Descartes e Leibniz, fino al sapere assoluto
hegeliano, allo strutturalismo e alla tecnica13, lo sforzo di Lyotard
consiste invece nel cercare di recuperare quello che in questa
stessa tradizione si è affermato come un controcanto, nemmeno
sottotraccia.
Da Freud a Kant, l’opera di Lyotard va letta in questo senso come
un pensiero propriamente critico – e dunque kantiano e moderno, se
la modernità come diceva Kant è “l’epoca della critica”14 – in cui la
domanda sulla ragione si declina come domanda sui suoi margini di
consistenza. Su ciò che le rimane al fondo, su quell’impensato che
l’evento, come lo schematismo trascendentale, “cela ma non può
svelare”15; e che emerge non nella ragione, nel pensiero, ma in quel
suo “altro” – nell’estetico, come la crisi di qualsiasi tipo di tempo e di
soggetto.
Più che introdurre a queste Lezioni ricostruendone i temi e
l’articolazione (che, come Lyotard stesso avverte, seguono di fatto
molto da vicino quelli della Critica kantiana16), ciò che si vorrebbe
provare a fare nel breve spazio di questa Introduzione è pertanto
collocare le Leçons sur l’Analytique du sublime in quel percorso di
pensiero nel quale hanno avuto luogo. Riconoscendone così i
problemi e mostrando in tal modo in esse una ricchezza filosofica
che non le limita solo agli studi di letteratura secondaria sul
kantismo, ma che le valorizza inoltre come un confronto teoretico
con la critica della ragione in cui questa, come voleva Kant, è stata
fondamentalmente ripetuta17. Solo questo riferimento è forse in
grado, infatti, di permettere al lettore di apprezzarne veramente temi
e tentativi; di vederne l’attualità; e allo stesso tempo di riconoscere in
queste Lezioni un autentico esercizio di filosofia.

2. L’attenzione riservata al concetto del sublime sorge in effetti,


all’interno del pensiero di Lyotard, da un ben preciso contesto
problematico, nel quale l’esigenza di ridefinire lo statuto della
filosofia si incrocia con quella, forse ancora più pressante, di
confrontarsi con le estetiche contemporanee (quelle che Lyotard
chiama “avanguardie”: Newman, Cézanne e Duchamp in primis)18
per mostrare come in esse venga colta e “messa in figura” la
contingenza dell’evento19. A essere in questione è in entrambi i casi,
come si è visto, il logos e la sua pretesa di assolutezza. Rispetto alla
quale la scelta dell’estetico quale tema cardine non deve essere in
alcun modo intesa come casuale. Oltre a essere lo specchio del
tempo del nichilismo20, l’estetica conserva infatti, per Lyotard, un
valore rivelatore anche di un altro lato del pensiero: cioè del suo
sentirsi, del suo accadere e della contingenza dell’accadere stesso,
che lascia anche la logica sospesa a sé21. Se, da una parte, come
estetica del bello, l’estetica può essere rappresentazione della
forma, dell’“ordine del mondo” e della corrispondenza dell’essere al
pensiero nella sua stessa istituzione. Dall’altra, in quanto ritorno
sull’estetico: sulla materialità del dato, su “un giallo, del Delf di
Vermeer”, per esempio, sotto il quale “lo spirito si frantuma in mille
schegge”22 – essa sta a indicare un’agitazione fondamentale o “una
passività senza pathos”23, come scrive Lyotard, in cui la datità non
corrisponde più a un dato, ma meramente al proprio darsi.
Di contro alla logica e alla “sua” estetica – l’Estetica
trascendentale che, in fondo, fa pur sempre parte della Logica –, ciò
che Lyotard vuole mostrare parlando del sublime è che è possibile
un’altra estetica, “un’estetica denaturata, meglio: un’estetica della
denaturazione”24 in cui il sentimento non è rimosso nella sensazione
(che è sempre di qualcosa)25, ma riesce a emergere e a intendersi
nella sua purezza scardinando il tempo26. La denaturazione significa
in tal senso il crollo del tempo e del suo orizzonte, o almeno una
sospensione del suo accadere, in cui la natura nel senso stabilito
dalla prima Critica si sfalda per il venir meno di quelle sintesi
fondamentali che la costituiscono27. Non c’è ricognizione né tanto
meno riproduzione, nel sublime. Ma solo un’apprensione reiterata,
irrefrenabile e tuttavia frenata, che lascia la coscienza sospesa a un
succedere che non può nemmeno essere tale, dato che il tempo non
è stato ancora istituito.
Parlare del sublime e dell’estetica sottesa a esso vuol dire dunque
per Lyotard, come si vede già con questa panoramica, mettere in
discussione il tessuto stesso della ragione e dei princìpi grazie ai
quali istituisce la realtà. Ma come si arriva a una posizione tanto
radicale? Per quale ragione essa deve esser ottenuta, dal punto di
vista filosofico, confrontandosi proprio con Kant e col sublime?

3. Per rispondere a queste domande bisogna forse cominciare col


fare qualche passo indietro: il primo, all’autobiografia intellettuale
lyotardiana già citata; e, il secondo, da questa agli inizi della
riflessione di Lyotard. Se ci si attiene, infatti, alla testimonianza che
troviamo in Pérégrinations (testo tra l’altro anteriore alle Lezioni di tre
anni), il pensiero lyotardiano può essere compreso agevolmente
facendolo ruotare attorno a tre problemi – quelli della legge, della
forma e dell’evento28 –, rispetto ai quali Kant non è un riferimento
accidentale ma piuttosto una costante. Nato dal bisogno di “riservare
uno spazio alla bellezza e al sentimento”29, già Discours, figure30
viene riletto qui dal proprio autore, infatti, come finalizzato alla
descrizione di “una razionalità demoltiplicata che permettesse,
seppur timidamente, di ri-leggere e ri-scrivere la divisione kantiana
della ragione”31. E viene qui il secondo passo indietro.
Opponendosi a quei tipi di pensiero che risolvono il reale “nella
sola forma del teoretico”32, Lyotard inizia infatti questo libro
dichiarando da subito “il partito preso del figurale”33. E cioè la
convinzione che, per quanto tutto possa sembrare riducibile alle due
dimensioni del discorso e del linguaggio, del logos, in un senso più
appropriato34, comunque queste due dimensioni ne presuppongono
in se stesse un’altra. “Questo libro protesta: dichiara che il dato non
è un testo, che c’è, in esso, uno spessore [une épaisseur], o meglio
una differenza, costitutiva, che non è da leggere ma da vedere”35.
Una figura, insomma, ch’è senz’altro vero che sarà solo nel testo,
nel discorso che ne dà parola – ma mai in quanto suo momento. Il
problema è dei più difficili proprio perché della figura se ne parla. Per
cui occorre spiegare come sarà possibile riconoscere al vedere, alla
figura, all’estetico una dimensione e uno statuto propri, se per far ciò
bisognerà sempre parlare: se dell’estetico potrà aversi in ogni caso
solo logos. Qualsiasi tentativo di separare la pura differenza del
vedere, la figura, la bellezza36 dalla differenza sui cui assi è
costituito il logos cozza col fatto di assumere l’immagine sempre
all’interno della parola stessa. Con l’evidente conseguenza di non
riuscire a separare il testo dalla figura e di rendere quest’ultima
un’illustrazione37.
Di questa problematica, – peraltro kantiana: il tempo è reso in sé
possibile soltanto dalle sintesi fondamentali dell’immaginazione,
dunque dall’attività del pensiero stesso; e tuttavia l’intuizione non
potrà essere concetto, il dato dovrà differenziarsi dal pensato38 –,
Lyotard mostra coscienza sin dalla presentazione del problema. Per
affermare che la figura è “una manifestazione spaziale che lo spazio
linguistico non può incorporare senza essere destabilizzato,
un’esteriorità che non può interiorizzare in significazione”39, egli
deve riconoscere innanzitutto, infatti, che quest’esteriorità non deve
essere soltanto “fuori” (con il che, hegelianamente, sarebbe
comunque “dentro”)40, ma dev’essere allo stesso tempo “dentro e
fuori”41. “Solo dall’interno del discorso si può passare alla e nella
figura”42: secondo un movimento che destrutturi la complicazione
oppositiva e progressiva della significazione stessa e faccia
emergere al suo interno, come suo margine di consistenza, quello
spessore da cui trae il proprio senso.
La strategia argomentativa di Lyotard si può riassumere
facilmente seguendo come filo conduttore il tema cardine della
negazione nella prima metà dell’opera e nelle ultime battute della
terza, le cui tre tappe principali sono il confronto con Hegel, con la
linguistica e con Freud. Attraverso esse, Lyotard cerca di
guadagnare, prima, che c’è un Dasein, un esserci o una semplice
accidentalità che il sistema della ragione assoluta può assumere
soltanto trasponendolo in un Sinn43. E poi che tale Dasein (pur
sempre del sistema) può svilupparsi all’interno del sistema stesso
solo facendo concrescere l’uno sull’altro il No visibile e il No dicibile,
la variabilità dell’occhio e il non-essere della predicazione44.
“Il No è, nel discorso, la presenza esplicita del rovescio delle
cose”45. Ma questa presenza, pur avendo varie forme, non dipende
dal No, bensì da quel rovescio che in esso s’istituisce.
Hegelianamente, esso è “la morte catturata, addomesticata,
l’ingresso nel linguaggio e la venuta a sé”46. Ma affinché il Sé possa
insorgere e dire No, negare e, negando, distinguere le proposizioni,
la lingua e il loro oggetto47, è necessario prima di tutto che questa
stessa negazione tragga la propria forza proprio dalla distanza con
l’oggetto che in essa prende forma. Prima della negazione è
necessario ammettere uno zeigen, un indicare che faccia spazio, nel
senso che faccia da “spaziatura originaria”48 in cui inquadrare gli
assi stessi del discorso (significante-significato; segno-designato).
“La distanza fra la parola e la cosa, fra l’enunciato e il suo oggetto in
generale, non è affatto uno spessore da attraversare, è la distanza
del gesto che indica il suo oggetto”49.
E tuttavia: dove sono l’oggetto e il gesto? Quella che in tal modo
si raggiunge è infatti di nuovo la negazione o l’opposizione, per
quanto ultima, che es-pone la realtà, che la pone al di fuori del
discorso50. La distanza che si è così riguadagnata è ancora quella
della parola. Perché se è vero che l’opacità rimane nella cosa
esposta51, ciò che gliela attribuisce è sempre il nome. “Le parole non
sono segni, ma, dal momento che vi è parola, l’oggetto designato
diventa segno: che un oggetto diventi segno significa precisamente
che racchiude [recèle] un ‘contenuto’ nascosto nella sua identità
manifesta, che riserva un’altra faccia a un’altra veduta possibile”52. E
cioè che si approfondisce, che si inspessisce rendendo la parola e la
manifestazione stessa dei meri effetti di superficie.
“Quando il dito si tende verso l’albero per designarlo, lo fa
barcollare e venire in avanti su un niente di senso. O, se si
preferisce, la designazione stessa suppone questo scansarsi in
profondità [esquive profonde], questo svuotamento del retro delle
cose”53 in cui la cosa non si oppone più alla parola (che la
costituisce), ma semplicemente le differisce. Il “dentro e fuori” della
figura si vede in questo modo. Perché, sebbene quella di cui qui si
sta parlando sia pur sempre la designazione – “prima, non ci sono
alberi; ogni oggetto come tale presuppone la parola, la forza di
annientamento che esercita su ciò che designa”54 –, comunque la
designazione stessa non è sufficiente a generare questo scarto. Se
ne nutre, lo sviluppa, portando il discorso e la figura che gli fa da
spessore fino a strutturarsi nella significatività del mondo. Ma in
questo stesso atto fa esperienza del suo sottrarsi.
Lo scansarsi dell’oggetto (attenzione: non l’oggetto) attraversa il
logos stesso come il suo inconscio: come una matrice che non le è
altra, estranea, ma ne è persino l’orizzonte. E cioè come una
differenza che non si può dialettizzare, in quanto non si oppone al
discorso, essendone piuttosto lo spessore55; e che non è neppure
da pensare né pensabile come un’origine. “Lungi dall’essere
un’origine, la matrice fantasmatica attesta il contrario, che la nostra
origine è una assenza di origine e che ciò che si presenta come
discorso originario [il discorso sull’origine, ma anche la parola, dato
che logos e matrice sono il risvolto l’uno dell’altra] è una figura-
immagine allucinatoria posta proprio in questo non-luogo iniziale”56.
– In un senso talmente ampio da potersi tradurre tanto
nell’affermazione che la realtà deve essere ma non c’è, perché c’è
solo la figura che il logos le avrà dato: l’immagine del sintomo
segnata dalla sua rimozione; quanto, forse, in quella kantiana per cui
non è possibile fenomeno che non si contrapponga una cosa in sé57.

4. L’analogia con Kant, a questo punto, è però molto più forzata di


quanto non appaia. Avendo operato la destrutturazione del discorso
dal punto di vista psicanalitico, questa matrice appare essere a
Lyotard il desiderio: un inconscio sottinteso alla designazione come
“la spinta al godimento”58 si sottintende freudianamente
all’alternanza di fort e da59. Con una differenza. Mentre la cosa in sé
si impone per Kant quale rinvio alla contingenza dell’Erscheinung
(dipendenza dell’esperire da un’intuizione la cui Ur-sache non è data
nell’intuizione stessa, e dunque mero limite in senso negativo)60, la
matrice lyotardiana si arricchisce invece di una propria funzionalità
interna al discorso. – Come se la Ding an sich fosse una facoltà
dell’esperienza o una categoria.
“La profondità del mondo, la sua possibilità stessa come sintesi
sempre incompiuta, come orizzonte scavato dietro la sua presenza
sensibile, sono in questo modo una funzione del linguaggio”61. E
cioè, in fondo, un “effetto di spessore nel sistema”62 costitutivo del
sistema stesso. Sistema aperto, si dirà, e tuttavia coerente: logico fin
nel suo spessore.
Il riconoscimento dell’immagine-matrice come rimosso originario
del discorso non impedisce infatti né che la matrice, come abbiamo
visto, sia matrice sempre della parola, né che proprio su di essa si
impianti effettivamente il sistema stesso. – In quanto a esser
rimozione è la parola, la matrice è anzi figura dell’istituzione del
sistema: il differenziale del suo orizzonte, o lo scarto dalla sua realtà
che la parola si interpone nel momento in cui designa; il quale
svolge, rispetto al logos, la funzione di dato originario. L’ammissione,
da parte di Lyotard, che questo è in fondo il tempo kantiano, “che
attraversa e anche nasconde lo Ich denke, […] condizione
universale comune al vedere e al dire”63 riconduce così alla
problematica kantiana di cui si diceva sopra. Perché il problema è
ancora quello, se non dello schematismo, della sintesi della datità da
parte del pensiero; a cui Lyotard aggiunge, per sua esplicita
dichiarazione, solo la coscienza dell’arbitrarietà del linguaggio e
dell’imprescindibilità dell’orizzonte linguistico64.
Come l’Estetica trascendentale rimaneva, nella prima Critica, a
fare da margine alla Logica, a segnare l’impossibilità, per il pensiero,
di produrre da se stesso la datità del proprio oggetto e a indicare che
i modi del pensiero e della presenza delle cose non possono essere
gli stessi65, così in Discours, figure la matrice serve a individuare, nel
discorso, quel residuo interno per cui il discorso stesso si sviluppa.
Tutto ciò che lo spostamento sul piano della “logica concreta” (del
linguaggio) ha saputo guadagnare in più rispetto all’analitica
dell’intelletto puro è pertanto uno slittamento della questione
dell’estetico dall’ambito “conoscitivo” della prima Critica a quello
riflettente della terza. Ma parlare adesso della bellezza e del
sentimento (Gefühl) in quanto differenza, piuttosto che dell’intuizione
e della sensazione (Empfindung), non cambia nulla66.
Se il fine che con questo si persegue è l’affermazione di uno
statuto dell’estetico che possa pretendere di non esser riducibile al
discorso, infatti, (ed è questo il caso) l’individuazione all’interno del
discorso stesso di una matrice da cui emerge la significatività del
mondo rimane insufficiente. Kantianamente, come Lyotard
riconoscerà esplicitamente nelle Lezioni, la bellezza è sempre e solo
la tautegoria della Einstimmung, dell’accordo delle facoltà logiche tra
loro quando si esercitano67. E se trapassa dalle maglie della logica è
soltanto per metterla in figura, perpetuando ed esplicitando la logica
medesima. Il “libero gioco delle facoltà conoscitive”68 le slancia, le
spinge a gareggiare l’una con l’altra in una continua proliferazione di
forme, da parte dell’immaginazione, che l’intelletto, convocato in
questo gioco meramente in quanto Vermögen (potenza, facoltà)
dovrà impegnarsi a cercare di comprendere e concettualizzare69.
Alimentando l’accordo, anche dei soggetti convocati in essa, e
generando nella relazione tra le facoltà, da una parte, e tra gusto e
genio, dall’altra, l’esatto speculare del concrescere l’uno sull’altro del
No visibile e del No sensibile: l’esperienza effettiva, in cui le forme
contingenti (assunte conoscitivamente in quanto teleologiche) danno
senso all’attività dell’intelletto puro. – Ma senza riuscire infine a
infrangere la pretesa totalità assoluta del discorso, né ad aprire in sé
uno spazio dove pensare il sentimento scevro da qualsiasi
commistione con la theoria.

5. Il duplice rifiuto del problema della forma e dell’estetica della


bellezza che si ritroverà nelle Lezioni sull’Analitica del sublime
dipende in fondo da questo naufragio dell’impostazione di Discours,
figure. All’Analitica del bello, Lyotard preferisce l’Analitica del sublime
perché è convinto di poter trovare in essa un’altra via d’accesso al
sentimento. Ma ciò presuppone, intanto, un mutato orizzonte di
pensiero di Lyotard, quale quello che presenta ne Il dissidio: una
nuova impostazione del problema della razionalità e della sensibilità
a essa sottesa. E poi una virata rispetto all’interpretazione corrente
della terza Critica, che la svincoli dalla questione del ponte tra la
natura e la morale, su cui pure Kant aveva insistito nell’Introduzione
definitiva che le aveva apposto70.
Entrambe queste condizioni ruotano attorno alla ridefinizione in
senso trascendentale della ragione e all’uso riflettente che occorre
fare del pensiero per tenere insieme la ragione stessa. Con una
notevole differenza, però. Mentre in Discours, figure Lyotard si
trovava infatti davanti a un logos per così dire “unico”: l’intero del
linguaggio, del discorso con cui parla il desiderio, che occorreva lì
moltiplicare; ponendosi da un punto di vista trascendentale egli ha
invece il vantaggio di poter isolare direttamente nel discorso diversi
generi di istanze minime, cioè, per lui, di frasi71, ciascuno dei quali
dipenderà da diverse “condizioni di possibilità”. “Una frase, anche la
più comune, è costruita secondo un insieme di regole che ne
costituiscono il regime. Ci sono più regimi di frasi: ragionare,
conoscere, descrivere, raccontare, interrogare, mostrare, ordinare,
ecc.”72, i quali, tuttavia, così come possono presentarsi
isolatamente, il più delle volte vengono occasionati in un
concatenamento che passa immediatamente da un regime a un
altro.
A un amico che ci dice di aver avuto un incidente, rispondiamo
chiedendogli: “com’è successo?”; a un altro che ci dice di sentire
freddo rispondiamo: “chiudi la finestra!”. Ma se in questi casi le frasi
si concatenano tranquillamente, bisogna dire che in altre circostanze
– quali ad esempio la riduzione del reale “nella sola forma del
teoretico” o, ancora, nella dialettica hegeliana73 – questo non accade
affatto in modo così pacifico. All’interno del linguaggio si istituisce
allora, tra i regimi, un dissidio reiterato, in cui, con una frase, un
regime fa torto agli altri riducendoli al silenzio74. Auschwitz, attorno
al quale ruota il libro, è la testimonianza (impossibile) di questo
silenzio, in cui “ciò che è soggetto a minaccia non è un individuo
identificabile ma la capacità di parlare e di tacere”75. La frase che fa
torto minaccia di non permettere più all’altra istanza di concatenare:
di sospendere la concatenazione, anzi, rendendo la sua l’ultima
frase o l’ultimo silenzio. Ma ciò è impossibile.
“Il paradosso dell’ultima frase (o dell’ultimo silenzio), che è anche
quello della serie, dovrebbe dare a x [l’altra istanza] non la vertigine
di ciò che non può essere ‘frasato’ (che può essere chiamata anche
paura di morire) ma la convinzione irrefutabile che ‘frasare’ non ha
fine. Perché una frase sia l’ultima, ce ne vuole un’altra per
dichiararlo”76, in un rimando da frase a frase che è costitutivo della
frase stessa. Nell’istante in cui una frase accade, infatti, in essa è già
contenuta l’attesa di una risposta. Cosa le si concatenerà – e come
– non è detto, né prevedibile77. Anche se il fatto che qualcosa debba
concatenarsi sembra invece esserlo. “Su una frase che accade,
concatenare è necessario”78. E necessario, kantianamente, in senso
formale: perché è la forma stessa della frase a essere questa
necessità. “Le istanze sono valenze di concatenamento”79 che, in
quanto tali, si aspettano una risposta. Ma questa attesa rimane
sempre nella frase ora accaduta. Come le forme dell’intelletto e della
sensibilità, in quanto formali – vale a dire in quanto meramente
potenziali80 – devono esser attuate da una sensazione che le
muova81, così la frase successiva è contenuta nella attuale come
un’esigenza che sospende il concatenamento82.
Non come un “accade”, che, dalla frase ora accaduta, passerebbe
nella frase successiva, ma come un “accade?”, all’inverso, che di
quell’“accade” costituisce allo stesso tempo il sentimento e l’essere
in crisi83. La possibilità del torto e del dissidio si fonda proprio su
questa sospensione. In quanto io posso anche dire che, data,
accaduta una frase, ne deve accadere un’altra. Ma questo deve,
questo “müssen”, vale solo all’interno della concatenazione stessa.
La prende sempre “ex post”, mai “ex ante”: soltanto quando lo scarto
tra una frase e l’altra è stato già colmato dall’accadere della frase
successiva, che ha anteposto, per hysteron proteron, il proprio
accadimento84.
Prima del müssen, prima della necessità della concatenazione,
l’attesa della frase successiva sta nella frase ora accaduta come un
respiro trattenuto. E cioè come il sentimento della contingenza non
di un “accade” (il proprio o quello della frase che le si dovrà
concatenare), ma dell’“accade” in quanto tale. I torti possono
minacciare “la capacità di parlare e di tacere”85 solo perché è
inscritta all’interno della stessa logica (del discorso) la possibilità che
l’accadere venga meno86. Sintomo di questa possibilità, sentimento
della sospensione della presentazione, e sentimento della frase
stessa, l’“accade?” si pone dunque a un tempo come sensazione
(“accade”) e come tautegoria della sensazione: ovvero sentimento. –
Irriducibile al discorso. Inafferrabile come sua funzione. – Rispetto
alla matrice, questo margine tra le frasi ha infatti il vantaggio di non
essere costitutivo del discorso stesso. Si trova in esso, e ne è
“momento”, in quanto accade. Ma, in uno, proprio in quanto “accade”
è “accade?”, se ne sottrae.
Invece di essere quel sentimento che dà spessore all’evidenza
delle cose, esso è infatti sospensione del loro essere “evenienti”.
Ineliminabile, irriducibile al discorso perché il discorso può
rappresentare il caso della frase soltanto con un’altra frase, e ogni
frase presuppone sempre di accadere. E tuttavia presente – di più:
sentito, inteso (entendu), al punto da accompagnare ogni frase come
l’angoscia che il frasare possa venire meno.

6. L’insistenza di Lyotard sul giudizio riflettente e il recupero della


terza Critica, seppure in una chiave differente rispetto a quella della
sua lettura “conciliatrice”, può essere ora apprezzata maggiormente.
L’analisi della “struttura logica” tracciata da Le différend ci ha
permesso infatti di chiarire due punti: in primo luogo, che ci sono
diversi regimi di frasi che si concatenano l’un l’altro facendosi a
vicenda torto; e poi che questo torto (e cioè, esagerando, la stessa
connessione logica dell’esperienza) dipende in ultima analisi da un
sentimento, quello del vuoto tra le frasi, che, inscritto nell’accadere
delle frasi, le sospende a sé.
Ora, rispetto a questo quadro è rimasta in ombra una domanda. E
cioè: se ci sono diversi regimi di frasi, la cui regolazione è stabilita in
ciascuno dal regime stesso, come può accadere la concatenazione
dall’uno all’altro? Il tema è lo stesso del passaggio nella terza
Critica87. Perché, nonostante il fatto che i regimi non siano
assimilabili alle facoltà88, ciò che deve permettere la concatenazione
delle frasi è in sostanza la stessa capacità riflettente di giudizio
introdotta da Kant in quella sede.
Affinché possa esserci un passaggio da un regime all’altro, è
necessario infatti che vi sia tra essi un “Mittelglied”89: un termine
intermedio. Un “arcipelago”90, cioè, scrive Lyotard,
(etimologicamente: il “mare principale”91) che consenta la
navigazione da un dominio all’altro e sia con questo in grado di
isolarli. Non potendo essere dotato di una regolazione propria92, un
tale termine non solo non dovrà poi essere a sua volta un’isola
(regime o frase), ma potrà consistere soltanto in ciò che ne
accompagna la presenza. E questo è il sentimento, lo stato del
pensiero allorché pensa, e nel pensare sente sé.
Si vede in ciò il primo capovolgimento rispetto alla lettura classica
della terza Critica. Mentre questa tematizza infatti il problema del
passaggio rivolgendosi al giudizio estetico come alla manifestazione
pura di un principio, quello della Zweckmäßigkeit, che trova solo
nella finalizzazione della natura il proprio compimento – Lyotard
invece capovolge i ruoli: intendendo il giudizio stesso, in quanto
sentimento, come “luogo del passaggio”, e quindi la teleologia come
mera applicazione euristica della Zusammenstimmung delle facoltà
alla forma specifica della natura93. Lo statuto del principio della
commisurazione al fine si rivela perciò essere semplicemente
estetico, nel senso più povero e “passibile”: come la tautegoria del
sentimento che informa il pensiero sul suo stato oscillando
costantemente tra piacere (Lust) e dispiacere (Unlust). Al
riconoscimento del giudizio euristico, che ex-cogita (denkt … aus)94
le forme delle cose e del pensiero stesso, Lyotard affianca in questo
senso la coscienza che questo stesso “escogitare” è possibile solo
perché il giudizio euristico si conduce nella propria anamnesi sulla
base del proprio sentimento puro95. Che, come “il sentimento
differente della destra dalla sinistra”96 per il soggetto empirico, è
l’unico “Unterscheidungsgrund”97 – l’unico principio di
differenziazione che consenta al pensiero stesso di orientarsi nello
spazio logico che istituisce98.
La concatenazione delle frasi dovrà rivelarsi perciò possibile solo
in base a un sentimento cui le frasi per così dire corrispondono. Ma
con una differenza, rispetto a Kant. Mentre nella terza Critica questi
si sforza infatti, dichiaratamente, di pensare il sentimento (e il bello,
in particolar modo) come “fattore di coerenza” (relegando il sublime
a “semplice appendice”99) – Lyotard capovolge stavolta la stessa
posizione critica, rinunciando alla sintesi e alla simbolicità del bello, e
ponendo l’accento, invece, sul dispiacere100. Se i regimi si
concatenano, se, con e nelle frasi, essi non smettono di farsi torto,
non è per una loro Einstimmung o Angemessenheit, ma a causa
della “guerra civile del ‘linguaggio’ con se stesso”101, in cui questo
tenta di rimuovere l’“accade?”, la contingenza delle frasi, portando i
regimi a concatenarsi su di essa102. In una tale stasi, ogni frase è
“un pagus, una zona di confini, in cui i generi di discorso entrano in
conflitto sul modo di concatenare. Guerra e commercio. È sul pagus
che si fa la pax, il patto, è ancora sul pagus che si disfa”103. Ma in
ambo i casi ciò che regge il gioco e determina tanto l’accordo
quando il disaccordo non è la pace, è la guerra. La pace stessa,
kantianamente, se si pone nel mondo (e non come ideale), lo fa
soltanto in quanto “guerra rinviata”104. E dunque come un’esclusione
del conflitto, una marginalizzazione ai bordi quanto mai illusoria, se
non altro perché non riesce a eliminare il fatto che l’orizzonte stesso
che si apre nella pace (e, come nella pace, nella salute, nel tempo,
nel logos, nel racconto)105 comunque deve accadere.
Parlare del sublime, tornare a questo sentimento e alla sua analisi
trascendentale significa perciò, agli occhi di Lyotard, risalire a una
tale agitazione fondamentale del discorso. Alla minaccia, alla
vertigine “che l’impossibile è possibile”106: all’angoscia che rimane
all’interno della frase stessa, dei regimi – e del linguaggio – come ciò
che ne continua (e continuamente ne sospende) l’accadere.

7. La definizione kantiana del sublime come “Geistesgefühl”107


rappresenta in tal senso, per Lyotard, uno degli elementi cardine
della sua analisi trascendentale. Ciò che differenzia il sentimento
sublime da quello della bellezza è infatti, in primo luogo, proprio
quella denaturazione della quale si parlava nel § 2. E cioè il venir
meno, in esso, dell’oggetto per eccellenza: la natura. – Mentre il
bello implica comunque in sé “un oggetto”, se non come oggetto,
almeno come forma (e in fondo come sentimento stesso, dato che a
essere sentita è la figurazione dell’oggettività da parte
dell’immaginazione)108; il sublime può riferirsi invece a un qualcosa
(per Kant di nuovo la natura) solo a causa di un errore di prospettiva,
che proietta al di fuori del “soggetto”, sull’oggetto, quello che è
invece uno stato del tutto soggettivo109.
Non c’è infinito, nella natura; non c’è potenza che possa essere
assoluta. Se dinanzi alla grandezza delle piramidi e alla violenza
della tempesta che infuria sull’oceano l’animo può sentire un
assoluto, non è perché questi oggetti siano “grandi”, ma perché la
discrasia, all’interno della loro stessa sintesi, tra l’apprensione e la
comprensione della loro datità dà occasione al pensiero di intendere
la propria “forza (che non è natura [die nicht Natur ist]) di
considerare piccolo ciò di cui ci preoccupiamo (beni, salute, vita)”110.
Sentimento del pensiero “nella sua totalità”, che, come ragione,
infrange i limiti della sua stessa sintesi (dell’essere), e oltrepassa
qualsiasi oggetto, qualsiasi evento, in direzione del dovere, il
sublime è sentimento spirituale proprio perché “fa appello in noi [in
uns aufruft]”111 a questa forza. Elevandoci a ciò che in noi è primo e
fondamentale, la nostra Bestimmung razionale, determinazione e
destinazione a un tempo; e tuttavia lasciandoci in sospeso: appesi,
per così dire, all’immaginazione e alla sua impotenza, che non riesce
a comprendere in un solo colpo d’occhio l’assoluto della potenza, e
così soccombe rovinando il tempo assieme al Sé.
“La violenza sublime è come il fulmine – scrive Lyotard –.
Cortocircuita il pensiero con se stesso”112, e in questo cortocircuito
gli rivela l’impossibilità di conciliare i due domini (dell’essere e del
dovere) tra cui il pensiero stesso si ritrova scisso. Mentre il bello
promette perciò un’unità, un soggetto che “in fine” venga a compiere
la concordanza delle potenze in gioco113, il sublime si dimostra
invece, come dice Kant, “zweckwidrig”: “controfinale”114.
Inappropriato, non commisurato a un’unità ma piuttosto scisso, quasi
“divelto” da qualsiasi ordine e rinviato a un’illimitatezza che non sarà
mai in grado di mettere in figura o di presentare. Qualsiasi
finalizzazione del sublime, ivi compresa quella critica, si rivela
pertanto una surrezione, “una grazia ottenuta al prezzo di un abuso
d’ufficio”115, che dissimula l’incapacità dell’immaginazione di
presentare l’assoluto; per strappare, nel crollo dell’immaginazione e
della natura che essa istituisce, la presentazione almeno del fatto
“che c’è dell’impresentabile”116. È questo il vero oggetto del sublime:
un assoluto. E tuttavia non un assoluto tale da poter essere assoluto
in senso proprio.
Più che dell’unico assoluto, il sublime è infatti il paradosso della
presentazione del duplice assoluto della Grundmaß
dell’immaginazione e della Grundgesetz della ragione. Il quale è sì,
pur essendo duplice, comunque uno. Ma uno in quanto sintesi
dinamica: in quanto connessione necessaria degli eterogenei – e, in
tal caso, degli assolutamente eterogenei – nell’unico momento,
nell’unico “passaggio” (che non è affatto tale) del loro sentimento.
Come l’“accade?” ne Il dissidio, così qui il sublime significa
l’esclusione di qualsiasi priorità (logica, etica, ontologica o politica,
non ha importanza) della pace, a favore della guerra. Del dissidio e
della differenza, anzi, che nel sentimento del venir meno della sintesi
interna al discorso, della necessità formale di concatenazione,
annuncia un vuoto, una minaccia su cui occorre che si concateni.
Ciò non vuol dire l’istituzione di una nuova “soggettività”, di un altro
“uno” che rimarrebbe sotteso alla sintesi dinamica almeno come
Idea, e che sarebbe poi raggiunto capovolgendo la dinamica nella
dialettica o nell’etica. Bensì solo uno stato, un’occorrenza del
pensiero in cui le due istanze eterogenee, l’essere e il dovere, sono
necessariamente compresenti.
“Dissidio nel sentimento”, il sublime può essere allo stesso tempo
“sentimento del dissidio”117, come scrive Lyotard nella Premessa alle
Lezioni, proprio perché in esso emerge ed è sentita l’ambivalenza
dell’“accade?”. Nella quale sono compossibili tutti i regimi; in cui si
concatena, o si passa, da un regime all’altro unicamente non
passando. “Il ‘passaggio’, come si vede, non ha luogo, è un
‘passaggio’ in via di passarsi, e la sua via, il suo movimento, è una
sorta di agitazione senza spostamento, nel vicolo cieco
dell’incommensurabilità, al di sopra dell’abisso”118 per cui i regimi si
continuano a concatenare sulle frasi facendosi costantemente torto,
e dunque conseguendosi soltanto nella reciproca esclusione.
Lo “spirito”, il Geist di cui il sublime è sentimento, e che fa uso
della natura bruta per presentare che c’è un impresentabile: questo
spirito non è pertanto quello hegeliano che rileva tutto nell’istanza
terza del proprio movimento. Ma davvero la mera vivificazione delle
facoltà, delle potenze conoscitive (in senso lato) all’opera (o in gioco)
nella semplice coscienza. All’occorrenza. In un dissidio per cui non
c’è unità, Zusammenstimmung, se non nel “glücklicher Zufall119”,
come lo chiama Kant, d’una, quanto mai rara, pacifica
concatenazione.

8. Giunti a questo punto, si capisce finalmente qual è il senso (e il


luogo) delle Lezioni sull’Analitica del sublime all’interno del pensiero
di Lyotard. Come la terza Critica nella ricostruzione che egli ne offre,
esse “vengono da lontano e vanno lontano”120, e hanno come
premessa e fine una ridefinizione dell’effettiva consistenza
dell’esperienza non seconda ai tentativi condotti in Discorso, figura e
ne Il dissidio.
Non potendo (e non volendo), come si diceva all’inizio, entrare
nello specifico di un testo tanto ricco, ciò che si vorrebbe provare a
fare negli ultimi passaggi di quest’Introduzione è chiarire
brevemente, invece, le premesse su cui poggia l’interpretazione
lyotardiana della terza Critica (e non, come finora, il suo confronto
teoretico con Kant “in generale”), e le conclusioni a cui queste
conducono. Soffermandosi rispettivamente, per le prime, sul Cap. I
delle Lezioni: sullo statuto della riflessione, del soggetto e della
temporalità estetici. E, per le seconde, sui Cap. V e VII e sulla
relazione in cui stanno a suo parere il teoretico, il pratico e l’estetico.
Per poter parlare di un’estetica denaturata (e di un’estetica in
generale), il primo obiettivo che Lyotard deve ottenere è infatti una
ridefinizione dell’operazione critica e dell’atto della riflessione che li
liberi da qualsiasi interpretazione logica del loro movimento. Se da
Fichte in poi la riflessione è stata posta come raddoppiamento e
ritorno della rappresentazione su se stessa121, ciò che Lyotard crede
di poter trovare in Kant è un senso estetico della riflessione per cui
questa non è solo un Aus-denken, un ex-cogitare in cui il pensiero
perviene a espressione (sia poi, ciò, in senso critico o dialettico à la
Hegel o à la Fichte). Ma prima ancora lo stato patico e affettivo in cui
il pensiero sente il proprio atto.
Su questo punto, l’interpretazione lyotardiana della terza Critica si
avvicina molto a quella che ne ha dato Carchia122. Con la differenza
che, mentre questi prova a dimostrare l’esistenza di un’intuizione
antepredicativa a partire dal sentimento della bellezza, Lyotard non
solo non cerca affatto un qualcosa di antepredicativo – che in
sostanza è impossibile, criticamente, perché il sentimento è
sentimento del pensiero, e dunque della stessa sintesi logica
dell’esperienza123. Ma, per dimostrare la presenza di un momento
estetico o affettivo al di sotto della sintesi dell’esperienza risale anzi
alla stessa Introduzione alla terza Critica, e alla corrispondenza che
Kant vi istituisce, nelle tavole delle facoltà conoscitive e delle facoltà
dell’animo, tra giudizio e sentimento di piacere e dispiacere124. È qui
che, a suo parere, sta “forse tutto il segreto del problema della
riflessione”125. In quanto l’affermazione dell’identità del giudizio con il
sentimento permette di intendere la riflessione come un’affezione
libera da qualsiasi riferimento intenzionale, e vincolata piuttosto al
semplice stato del pensiero.
Tautegoria d’informazione, la riflessione è in tal senso sentimento
senza sensazione: “l’immediatezza folgorante e la perfetta
coincidenza del senziente e del sentito”126, in cui il giudizio si
converte in una coincidenza tra giudicante e giudicato talmente
perfetta e in sé conclusa, “che persino la distinzione dell’attivo e del
passivo in questo ‘sentire’ è per il sentimento impropria”127. Tutto ciò
che sarà dato nel suo gioco è una “ripercussione interiore
[retentissement intérieur]”128 della sintesi attuale. Che se, da un lato,
resta perciò legata alla sintesi dell’oggettività in cui si esercitano le
facoltà conoscitive (sia questa teoretica o morale, poco importa);
dall’altro se ne discosta, esponendo o essendo la coscienza della
mera sintesi, e dunque unicamente, se non del soggetto, del
“soggettivo”.
Come Lyotard nota esplicitamente, parlare di un soggetto nel
contesto della filosofia critica significa fare già riferimento alla
conoscenza e allo Ich denke presupposto come unità sintetica alla
costituzione del tessuto esperienziale129. Comporta un oggetto
(come minimo trascendentale)130 a cui lo Ich denke corrisponde. E
sta a indicare una funzione istitutiva del conoscere che “è solo, o
l’epicentro a cui si è appena sospesa la sintesi dei concetti (nella
prima Critica), o l’orizzonte sempre differito della sintesi delle facoltà
(nella terza Critica [segnatamente nella teleologia])”131. Qualsiasi
tipo di interpretazione “soggettivista” della critica kantiana è con ciò
esclusa per principio e a prescindere dalla Critica cui si faccia
riferimento. Al punto che, se, nella prima Critica, può esserci ancora
il dubbio che a unificare l’esperienza sia un “soggetto” – dubbio
fugato dallo stesso Kant quando afferma, proprio nel capitolo sui
Paralogismi, che “tramite questo Io, o Egli, o Esso (la Cosa), che
pensa, non viene rappresentato nient’altro che un soggetto
trascendentale = x”132 –, nella seconda e nella terza anche questo
soggetto viene meno. Non c’è “io”, nella morale, perché la legge si
impone solo a discapito dell’egoismo, e istituisce una persona che è
più un imputato o un “luogo di risonanza”, si potrebbe aggiungere,
che un soggetto in senso forte133. Non c’è “io”, infine, nell’estetico,
perché tutto ciò che avviene al sentimento “è l’aspetto soggettivo del
pensiero”134, che, soggettivo non a caso, non è altro che la forma
aggettivale del soggetto: quella “tautegoria che fa del sentimento,
per il pensiero, il segno del proprio stato – e dunque, giacché lo
‘stato’ del pensiero è il sentimento, il segno del sentimento
stesso”135.
Tra soggetto, riflessione e sentimento non vi è pertanto, in ambito
estetico, alcuna distinzione. L’uno è l’altra e l’altra è l’uno proprio per
la perfetta coincidenza dello stato del pensiero e dell’informazione su
di esso. Di modo che se a reggere il gioco dello spirito è sempre
l’alternanza di piacere e dispiacere, che dipende a sua volta
dall’accordo più o meno armonico delle facoltà all’opera
nell’istituzione della coscienza, il soggetto non potrà mai esser
differente da questo gioco stesso, ma si presenterà (in senso
lyotardiano: occorrerà) unicamente come eufonia o cacofonia della
genesi della coscienza stessa. Che questa avvenga poi come genesi
del tempo, che il pensiero si auto-affetti proprio nel comporre in una
intuizione complessiva l’accadere della sensazione136 – questo è
quanto consente, infine, di passare alla ricostruzione lyotardiana del
tempo estetico. In quanto il sentimento accade sì come
ripercussione del pensiero, e dunque del tempo lineare e stratificato
causalmente che Kant ha descritto nella prima Critica. Ma,
riferendosi alle sintesi costitutive della temporalità medesima, come
lo accompagna, così lo può anche sospendere, trapassare e
trattenere.
Nel bello, scrive qui Lyotard, “una tempesta di Idee sospende il
tempo ordinario per perpetuarsi”137. Nel sublime, aggiunge, non vi è
“che una deflagrazione improvvisa [subit], e senza avvenire”138. Per
la quale il tempo, trattenuto per un istante, subito si scatena con
ancora più violenza nel suo decorso139. E ciò non perché il
sentimento si ponga come un’intuizione antepredicativa. Quanto
piuttosto perché si inscrive all’interno delle stesse sintesi
fondamentali e costitutive della predicazione (apprensione,
riproduzione e ricognizione, che Kant stesso dice essere le “tre fonti
conoscitive soggettive, le quali rendono possibile l’intelletto
stesso”140) esponendone il risvolto. Mentre nel bello avremo perciò
la Verweilung, la pausa o il frattempo della rappresentazione141 che
per un istante lascia stupiti dinanzi all’accordo delle facoltà e alle
figure in cui l’accordo stesso si disegna; nel sublime troveremo
invece l’interdizione della stessa temporalità di fronte alla potenza –
e alla potenza del pensiero stesso – che, mentre il tempo
progredisce regolarmente e a misura di intuizioni e immagini,
pretende che a essere messa in immagine sia la stessa assolutezza
del pensiero, e così ne blocca il corso. Lo agita, lo inibisce, lo
“percuote” – e nell’istante stesso della sua rovina lo libera
immediatamente facendolo sfogare nella violenza bruta e nella
grandezza del terrore.
Il tempo, condizione stessa del soggetto e senso interno della
coscienza, si trova con ciò ridotto a sua volta a ripercussione e
sentimento, mostrando, all’interno dell’ordine dell’ente che l’intelletto
delinea con le proprie sintesi – lato sensu, come abbiamo visto, nel
logos –, una temporalità altra, diversa, su cui il tempo orizzontale ha
potuto istituirsi, come un pagus, solo a costo di un’interiorizzazione e
di una rimozione del suo accadere.

9. Ora, rispetto al rapido bilancio della temporalità estetica che


abbiamo appena dato, la temporalità sublime merita forse un ultimo
approfondimento, che ci condurrà direttamente alle conclusioni delle
Lezioni di Lyotard e alla relazione in cui egli pone l’estetico con il
logico e con il morale.
Nella misura in cui il sentimento del sublime è provocato infatti
dall’incapacità dell’immaginazione a continuare la ritenzione delle
datità apprese – scrive Kant che essa “perde da un lato tanto quanto
guadagna dall’altro”142 –, ciò che nella sua presentazione avrà di
fatto luogo non è tanto una semplice discordanza o cacofonia delle
potenze di pensiero, quanto l’interruzione della stessa sintesi
ontologica proposta dalla loro attività. Dinanzi all’oggetto smisurato,
all’immaginazione fa difetto infatti proprio la misura estetica della
comprensione sulla cui base l’animo può, soltanto, riprodurre e
riconoscere i dati che volta a volta apprende. Col risultato: 1. che
l’apprensione ci sarà comunque, perché si tratta del semplice
succedere di una sensazione, del tutto indifferente al fatto che la
sensazione sia formata o informe; 2. che l’immaginazione, per
provare a cogliere ciò che le è successo, farà violenza al senso
interno, capovolgendo l’ordine del tempo e cercando di
massimizzare una comprensione che non ha nemmeno luogo; e 3.
che il tempo stesso si troverà perciò disarticolato, annientato nel
sentimento di una tale impotenza dell’immaginazione, controfinale
alla sua destinazione143.
Per un istante, per un momento letteralmente a margine del
tempo, il tempo stesso sarà perciò inibito. Non ci sarà orizzonte
temporale. – Nei termini dell’edizione del 1787 della prima Critica,
non ci sarà synthesis speciosa, o, in quelli di Discours, figure, non ci
sarà alcun Sinn144. Ma solo un’occorrenza di pensiero, un mero
esserci (Dasein), un evento che può essere assunto dal pensiero
stesso solo come segno d’altro. Sentimento dello spirito, dunque
dell’animo e del suo dissidio, il sublime può pertanto usare la natura
bruta che gli si presenta (che in tal senso è equivalente al “rohen
Stoff”145, alla materia greggia di cui parla Kant nell’incipit della prima
Critica) solo perché capovolge quest’evento senza tempo e senza
immagine nell’eterno della legge. Sacrificato, il “‘nulla di tempo’”146
dell’immaginazione introduce all’altro “nulla di tempo”, quello che
“fonda la facoltà di desiderare pura”147. E se non presenta
un’occorrenza della libertà (che è impossibile, perché con ciò il
dovere si farebbe essere), dimostra nella crisi della temporalità del
mondo che di quella libertà comunque se ne ha la forza e la
potenza.
Vuol dire forse ciò, però, che il sentimento estetico sublime è lo
stesso sentimento morale, il rispetto che si prova per la legge? Se
fosse questo il caso, come Lyotard non smette di sottolineare, tanto
la morale quanto l’estetica sarebbero impossibili. La “Rührung”148,
l’emozione violenta del sublime, lo scuotimento che esso provoca
all’interno dello spirito, interverrebbero infatti paticamente nella legge
contaminandone in senso materiale la purezza. Il comando non
comanderebbe più per la sua mera forma, il dovere non sarebbe più
tale ma un’inclinazione. E allo stesso tempo il sentimento estetico
perderebbe il proprio disinteresse acquisendo di contro una spinta al
desiderio, a un qualcosa. Ne produrrebbe dunque uno e, dato che
questo dipenderebbe da una passione, dunque da un’inclinazione,
farebbe sprofondare di nuovo nell’essere l’intero territorio del
pensiero.
Al di là della riduzione dell’estetica alla morale, ciò che Lyotard ha
invece cura di mostrare è che per Kant ogni facoltà, ogni potenza è
dotata di un interesse che la caratterizza, e che rimane irriducibile a
quello delle altre. Si tratta di ciò che le attualizza, di ciò per cui e in
cui esse “si muovono” (perciò inter-esse)149. Il quale, se, per il
conoscere, è l’esperienza come sintesi costante e interconnessa150,
e per la ragion pratica l’attuazione della legge151, per la facoltà di
giudizio saranno invece più difficili da rintracciare. Il sentimento puro,
sia bello che sublime, è infatti dichiarato costantemente, da Kant,
qualitativamente disinteressato152. E se un interesse Kant gli
riconosce, questo è solo un interesse già traslato, “intellettuale”153
nel senso per cui nel sentimento ciò che viene ad espressione è il
soggettivo stesso. Disinteressato quanto al proprio oggetto, l’estetico
è perciò interessato a sé. Consiste ed è solo nel proprio essere,
nella presentazione dell’accordo o del disaccordo delle potenze di
pensiero con se stesse. Mostrando del pensiero che esso è in grado
di una potenza totalmente altra da quella di natura (nel sublime), che
si annuncia talvolta simbolicamente nel disinteresse con cui il
pensiero stesso si apprende nelle forme per cui disegna il suo
accadere (nel bello). In ambo i casi, quest’interesse sarà sempre
rivolto quindi alla ragione nel suo complesso, o “in totalità”; e rinvierà
perciò (come già l’interesse speculativo)154 alla ragione pratica, al
suo primato e al suo interesse come interesse sommo. Nella misura
in cui sarà, però, la commozione per la propria destinazione, e alla
Achtung, anche nel sublime, accompagnerà sempre la
“Bewunderung”155, l’ammirazione, esso sarà sempre da tenere ben
distinto dal rispetto.
Sentimento l’uno, movente l’altro156, i due interessi rimarranno
così irriducibili, segnando un margine di consistenza, e una
differenza in questo margine, per cui l’estetico potrà e dovrà
presentarsi sì come risvolto della sintesi teoretica dell’esperienza e
annuncio, in essa, di un’altra legislazione: del dovere. Ma senza
essere né riducibile né dialettizzabile in un solo movimento.

10. Credo che non sia superfluo dedicare in conclusione qualche


ultima parola alla collocazione delle Lezioni lyotardiane all’interno
della letteratura secondaria sulla critica di Kant. Spesso assenti dalle
discussioni specialistiche, come si diceva, esse si inseriscono di
fatto all’interno dei correnti studi in modo più o meno sotterraneo o
evidente, sia dal punto di vista teoretico che da quello filologico.
Una menzione particolare, dal primo punto di vista, va fatta in
effetti agli studi paralleli sul tema del sublime condotti da Nancy,
Lacoue-Labarthe, Deleuze e Derrida157, rispetto ai quali Lyotard è un
interlocutore talvolta sottotraccia, ma comunque sempre prezioso.
Con Deleuze, in particolare, Lyotard si trova in una straordinaria
convergenza proprio sul problema della deflagrazione del tempo nel
sublime, che non a caso entrambi provano a riguadagnare
attraverso un importante riferimento a Hölderlin e alle sue Note
all’“Edipo”158. Nel tempo che “non lascia più rimare in alcun modo
inizio e fine”159 essi vedono infatti la stessa crisi, la stessa agitazione
che esteticamente si sente nel sublime. Con la differenza che,
mentre Deleuze legge “storicamente” questa crisi della temporalità,
legandola alla fine del tempo ciclico platonico e alla rivoluzione
introdotta in filosofia dalla teoria kantiana della forma pura della
successione160 – Lyotard osserva invece questa “malattia del
tempo”161 da un punto di vista unicamente estetico. La
contrapposizione dell’estetica alla logica è in tal senso, per Lyotard,
assai più netta, e in un certo senso universale; riguardando non una
“comprensione” della temporalità, ma la stessa possibilità di istituire
un tempo orizzontale in generale.
In questo senso, il suo confronto con la critica kantiana si segnala
pertanto, a mio parere, anche come controparte delle grandi letture
classiche del kantismo – Fichte, Hegel e Heidegger in testa162.
Rispetto alle quali vi è da parte di Lyotard un tentativo di
acquisizione della terza Critica per molti versi nuovo, e volto a
liberare in senso riflessivo l’apparato concettuale kantiano da
qualsiasi primato, più o meno conscio e dichiarato, del teoretico. Un
accostamento interessante sarebbe poi, a tal proposito, quello, per
esempio, con gli studi di Vitiello sulla temporalità morale in Kant e
sulla sua differenza dal tempo “logico” della prima Critica163. Ma i
riferimenti potrebbero moltiplicarsi.
Dal punto di vista degli studi sulla terza Critica, le Lezioni
lyotardiane si inseriscono infatti su tutti i temi di dibattito, specie in
Italia. Tangendo in punti spesso fondamentali sia i lavori più
“estetici”, dedicati da Assunto, Carchia e Desideri al tema del
passaggio164; sia quelli linguistici o politici che, come Garroni e La
Rocca nel primo caso, e Negri e (per certi versi) Amoroso nel
secondo165, guardano all’estetica kantiana e alla riflessione
mettendo l’accento sul suo ruolo euristico e sul senso comune che
essa presuppone.
In tutti questi casi, le Lezioni sull’Analitica del sublime di Lyotard
possono rappresentare un notevole punto di confronto, anche
filologico, per la ricostruzione della terza Critica e dei problemi
teoretici, impliciti ed espliciti, che Kant vi discute. Aprire nuove
strade. E permettere di ripercorrere le vecchie con maggior
coscienza, forse, dei problemi in esse in gioco.

1 Cfr. ad esempio gli importanti studi di C. La Rocca, Esistenza e


Giudizio. Linguaggio e ontologia in Kant, ETS, Pisa, 1999 e Id., Soggetto e
mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia 2003 (che cita Lyotard solo
nell’ultimo, riferendosi unicamente a J.-F. Lyotard, L’enthousiasme. La critique
kantienne de l’histoire, Galilée, Paris 1986; tr. it. L’entusiasmo. La critica
kantiana della storia, di F. Mariani Zini, Guerini, Milano 1989), e di F. Desideri,
Il passaggio estetico. Saggi kantiani, il melangolo, Genova 2003. Mentre a
tenerlo presente sono solo pochi testi. Per quanto so: F. Sossi, Mentre
l’angoscia si fa guardare. Lo spazio dell’oggetto in Freud, Heidegger e Kant,
Guerini, Milano 1995 (rielaborazione della tesi di dottorato dell’autrice,
condotta sotto la supervisione proprio di Lyotard) e M.T. Catena, Orientamente
e disorientamente. Il sublime come luogo sistematico della filosofia di Kant,
Guerini, Milano 1996, in particolare Cap. III.2. – Fuori dall’Italia, le eccezioni
più rilevanti si trovano invece tra gli studi in ambito anglosassone sul tema del
sublime (quali ad esempio quelli di P. Shaw, The Sublime, Routledge, London-
New York 2007, che dedica a Lyotard tutto il Cap. 6, The Sublime is now:
Derrida and Lyotard, ivi, pp. 115-130; di R.R. Clewis, The kantian Sublime and
the Revelation of Freedom, Cambridge University Press, New York 2009 e di
R. Doran, The Theory of the Sublime from Longinus to Kant, Cambridge
University Press, New York 2015), e ciò per merito della tr. ing.: J.-F. Lyotard,
Lessons on the Analytic of the Sublime, tr. ing. di E. Rottenberg, Stanford
University Press, Stanford 1994, che ha inserito pienamente Lyotard all’interno
del dibattito anglofono. – Segnalo sin da adesso, infine, che per le citazioni
delle opere kantiane farò riferimento, per i testi in essa riportati, alle sigle (in
uso nella letteratura secondaria) indicate in conclusione alla “Nota alla
traduzione”: cfr. infra, pp. 48 sg. Mentre gli altri li citerò per esteso, utilizzando
come edizione critica di riferimento quella indicata nella suddetta Nota: cfr.
infra, p. 47.
2 F. Ferrari, Lyotard, oggi, Prefazione alla tr. it. di J.-F. Lyotard,
L’inhumain. Causeries sur le temps, Galilée, Paris 1988: L’inumano.
Divagazioni sul tempo, di F. Ferrari e M. Raimondi, Lanfranchi, Milano 20152,
p. 9, che nota tra l’altro anche come i contributi critici di spessore sul suo
pensiero sono pochi e dovuti spesso ad ex-allevi, citando ad esempio la
collettanea di F. Sossi (a cura di), Pensiero al presente. Omaggio a Jean-
François Lyotard, Cronopio, Napoli 1999.
3 Cfr. J.-F. Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir,
Minuit, Paris 1979; tr. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, di
C. Formenti, Feltrinelli, Milano 2014.
4 Cfr. la tradizione che muove da J. Habermas, Der philosophische
Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1985; tr.
it. Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, di E. Agazzi e E. Agazzi,
Laterza, Roma-Bari 1987. Sul dibattito nato sul tema, cfr. E. Franzini, Moderno
e postmoderno. Un bilancio, Cortina, Milano 2018. Su Lyotard e Habermans
cfr. invece E. Steuerman, The Bounds of Reason. Habermas Lyotard and
Melanie Klein on Rationality, Routledge, London-New York 2000.
5 J.-F. Lyotard, Réécrire la modernité, in Id., L’inhumain, cit., pp. 33-44;
tr. it. pp. 43-56.
6 Ivi, p. 43; tr. it. p. 55.
7 Ibidem (tr. it. leggermente modificata; corsivo mio).
8 Cfr. ivi, pp. 33-35; tr. it. pp. 43-45.
9 Cfr. Id., Peregrinations. Law, form, event, Columbia University Press,
New York 1988. Tradotte in francese dallo stesso Lyotard, con alcune
modifiche: Pérégrinations. Loi, forme, événement, Galilée, Paris 1990, di
questo testo esiste una tr. it. Peregrinazioni. Legge, forma, evento, di A.
Ceccaroni, il Mulino, Bologna 1992, che traduce però, malgrado ciò che indica,
non l’edizione inglese, ma la versione francese successiva. Per ciò ho scelto
in questa sede come testo base quello francese. – Sull’assenza de La
condizione postmoderna da questo libro, cfr. invece M. Ferraris, Prefazione a
J.-F. Lyotard, Peregrinazioni, cit., p. 17.
10 Cfr. ad esempio J.-F. Lyotard, L’inudibile, in Id., Rapsodia estetica.
Scritti su arte, musica e media (1972-1993), a cura di D. Cecchi, Guerini,
Milano 2015, pp. 117-128, e il rifiuto anche del termine “postmoderno” in Id.,
L’inhumain, cit., pp. 12 sg., 33, 41 sg.; tr. it. rispettivamente pp. 21 sg., 43, 55.
11 Id., Le différend, Minuit, Paris 1984, p. 75; tr. it. Il dissidio, di A.
Serra, Feltrinelli, Milano 1985, p. 68 (leggermente modificata).
12 Ibidem; tr. it. p. 69.
13 Per il confronto di Lyotard con l’ideale della mathesis universalis e
col problema della tecnica, cfr. Id., L’inhumain, cit., pp. 76-80; tr. it. pp. 93-98 e
ivi, Cap. I, II, V, VI, IX, XVII. Per il confronto con Hegel e con lo strutturalismo,
si veda invece, da questo punto di vista, Id., Discours, figure, Kliencksieck,
Paris 1971, pp. 27-116; tr. it. Discorso, figura, di F. Mazzini, Mimesis, Milano-
Udine 2008, pp. 57-155.
14 KrV A XI, nota; tr. it. p. 11.
15 Infra, p. 158.
16 Cfr. infra, p. 53.
17 Cfr. KrV A 838 B 866; tr. it. p. 1177.
18 Su ciò, cfr. J.-F. Lyotard, L’inhumain, Cap. VII, VIII, XII e Id., Les
Transformateurs Duchamp, Galilée, Paris 1977; tr. it. I Transformatori
Duchamp, di E. Grazioli, Hestia, Como 1992. Per Newman, cfr. invece la
raccolta recentemente editata in italiano, B. Newman, All’origine della nuova
astrazione. La pittura dinanzi all’inconoscibile, a cura di S. Esengrini, Marinotti,
Milano 2019.
19 Cfr. J.-F. Lyotard, L’inhumain, cit., pp. 104 sg.; tr. it. pp. 126-128.
20 Su ciò, si veda Id., Anima minima, in Id., Anima minima. Sul bello e
sul sublime, a cura di F. Sossi, Pratiche, Parma 1995, pp. 117-119, e la bella
Introduzione che Sossi premette a quest’edizione, ivi, pp. 7-16.
21 Cfr. Id., Le différend, cit., pp. 120 sg.; tr. it. p. 107.
22 Id., L’inhumain, cit., p. 164; tr. it. p. 195 (modificata).
23 Id., Pérégrinations, cit., pp. 42 sg.; tr. it. p. 41.
24 Infra, p. 117. Anche se quest’espressione accompagna il pensiero
di Lyotard sin dai suoi esordi. Per alcune occorrenze significative del concetto,
cfr. Id., Discours, figure, cit., p. 237; tr. it. p. 289; Id., L’inhumain, cit., p. 149; tr.
it. p. 179 e Id., Pérégrinations, cit., pp. 49, 83 sg.; tr. it. pp. 46, 69.
25 Cfr. KrV A 20 B 34; tr. it. p. 113 e, al riguardo, J.-F. Lyotard, Le
différend, cit., pp. 97 sg.; tr. it. p. 88.
26 L’immagine dello scardinamento del tempo è sviluppata da G.
Deleuze, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, a cura di S. Palazzo,
Mimesis, Milano 2004. Sulla vicinanza tra Deleuze e Lyotard a tal proposito,
cfr. il § 10 di questa Introduzione.
27 Cfr. su ciò già J.-F. Lyotard, Pérégrinations, cit., pp. 47 sg., 76; tr. it.
p. 45, 64 (dove Lyotard, riferendosi all’estetico in generale, e quindi anche al
bello, tiene però ancora presente la sintesi della riproduzione); e infra, pp. 81
sg.
28 Cfr. J.-F. Lyotard, Pérégrinations, cit., p. 20; tr. it. p. 24.
29 Ivi, p. 30; tr. it. p. 32.
30 Si tratta, come è noto, del suo primo libro (se si eccettua il breve Id.,
La Phénomènologie, PUF, Paris 1954; tr. it. La fenomenologia, di R.
Kirchmayr, Mimesis, Milano 2008), sul quale, più che M. Lydon, Veduta on
Discours, figure, “Yale French Studies”, 99, 2001, pp. 10-26, la cui veduta
rimane in sostanza “di superficie”, cfr. la bella Introduzione alla tr. it. di E.
Franzini, Lyotard come diavolo? Note per un’introduzione, in J.-F. Lyotard,
Discorso, figura, cit., pp. 9-31.
31 Id., Pérégrinations, cit., p. 31; tr. it. p. 32.
32 Ivi, p. 29; tr. it. p. 31 (modificata).
33 Id., Discours, figure, cit., p. 9; tr. it. p. 35.
34 Gli assi significante-significato e segno-designato, che costituiscono
rispettivamente la lunghezza e la larghezza del discorso. Per il che, cfr.
ibidem; tr. it. ibidem sg.
35 Ivi, p. 9; tr. it. p. 35.
36 Cfr. ivi, p. 13; tr. it. p. 41. Sulla bellezza come tema originario di
Discours, figure cfr. inoltre supra, la cit. corrispondente alla nota 29.
37 Cfr. ivi, p. 10; tr. it. p. 37: “Ecco l’immaginario: avere il rovescio e il
diritto. Ecco il peccato e l’orgoglio: avere il testo e l’illustrazione”.
38 Su ciò, cfr. KrV A 99 sg.; tr. it. p. 1209, per la presupposizione della
sintesi alle rappresentazioni di spazio e tempo; e ivi, A 50-52 B 74-76; tr. it. pp.
167-169, per la distinzione delle facoltà e la loro irriducibilità. Anche se,
soprattutto su quest’ultimo punto, i riferimenti kantiani potrebbero moltiplicarsi.
39 J.-F. Lyotard, Discours, figure, cit., p. 13; tr. it. p. 41.
40 Cfr. la critica di Hegel al concetto kantiano di limite: G.W.F. Hegel,
Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften (1830), Pt. I, Die
Wissenschaft der Logik, in Id., Werke in zwanzig Bänden, a cura di E.
Moldenhauer e K.M. Michel, vol. VIII, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, § 60,
pp. 143 sg.; tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, di B.
Croce, Laterza, Roma-Bari 19634, p. 65.
41 J.-F. Lyotard, Discours, figure, cit., p. 13; tr. it. p. 42.
42 Ibidem; tr. it. p. 41.
43 Cfr. ivi, pp. 41 sg.; tr. it. pp. 72 sg., dove Lyotard segue tra l’altro,
nell’interpretazione di Hegel, quella che ne ha dato J. Hyppolite, Logica ed
esistenza. Saggio sulla Logica di Hegel, tr. it. con testo francese a fronte di S.
Palazzo, Bompiani, Milano 2017.
44 Cfr. J.-F. Lyotard, Discours, figure, cit., pp. 27-29; tr. it. pp. 57-59.
45 Ivi, p. 29; tr. it. p. 59.
46 Ibidem. Dove il riferimento è ovviamente a G.W.F. Hegel,
Phänomenologie des Geistes, in Id., Werke in zwanzig Bänden, cit., vol. III, pp.
36, 376; tr. it. La fenomenologia dello spirito, di G. Garelli, Einaudi, Torino
2008, pp. 24, 337.
47 Si tratta delle tre forme del No cui si accennava. Al riguardo, cfr. J.-
F. Lyotard, Discours, figure, cit., p. 121; tr. it. p. 161.
48 Ivi, p. 37; tr. it. p. 68.
49 Ivi, p. 82; tr. it. p. 117. Su questo tema e per un’eventuale risposta
hegeliana alle critiche di Lyotard, mi permetto di rinviare ad A. Branca, Il
passaggio all’intuizione. Hegel, Kant e il problema della sensazione, “Quaderni
di Inschibboleth”, 13, 2020, pp. 29-45.
50 Cfr. J.-F. Lyotard, Discours, figure, cit., p. 123; tr. it. p. 163, dove
Lyotard parla della “ectesi” (da Mazzini tradotta con “ex-positio”): della
“posizione ‘al di fuori’” dell’oggetto da parte del No, che genera la
trascendenza.
51 “L’opacità è nell’oggetto, non nella parola, né nella sua distanza
dall’oggetto” (ivi, p. 82; tr. it. p. 117, leggermente modificata).
52 Ibidem, corsivo mio.
53 Ibidem (modifico la tr. it., che omette di tradurre il “profonde”).
54 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
55 Ivi, p. 278 sg.; tr. it. p. 333; ma anche ivi, p. 75; tr. it. p. 109: “La
differenza non è l’opposizione; l’una costituisce l’opacità che apre l’ordine della
referenza, l’altra sostiene il sistema d’invarianze sul piano del significante o del
significato”.
56 Ivi, p. 271; tr. it. p. 325.
57 Al riguardo, cfr. KrV B 306; tr. it. p. 473, passo su cui si è soffermato
F. Valagussa, L’arte del genio. Note sulla terza Critica, Mimesis, Milano-Udine
2012.
58 J.-F. Lyotard, Discours, figure, cit., p. 328; tr. it. p. 388.
59 Cfr. ivi, pp. 125 sg.; tr. it. pp. 165 sg. Per l’originale freudiano e per
tutti i riferimenti lyotardiani del caso, cfr. invece infra, Cap. V.2, nota 19, p. 200.
60 Su ciò, cfr. ovviamente KrV B 306-312; tr. it. pp. 473-479.
61 J.-F. Lyotard, Discours, figure, cit., p. 83; tr. it. 118 sg. (corsivo mio).
62 Ivi, p. 91; tr. it. p. 127.
63 Ivi, p. 293; tr. it. p. 348. Ma cfr. anche Id., Pérégrinations, cit., pp. 23
sg.; tr. it. p. 27, dove il tempo della Critica della ragion pura viene ripreso
proprio in quest’ottica.
64 Cfr. Id., Discours, figure, cit., pp. 46 sg.; tr. it. pp. 76 sg. Al riguardo,
cfr. C.-C. Härle, Presenza sensibile, in F. Sossi (a cura di), Pensiero al
presente, cit., pp. 163-178, che mette giustamente l’accento sul factum
loquendi come presupposto dell’estetica lyotardiana.
65 Data l’ampiezza del problema in gioco, preferisco limitarmi in
questa sede a rinviare a H. Cohen, La teoria kantiana dell’esperienza, tr. it. di
L. Bertolini, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 105-111 e 176-180 (traduzione
della prima edizione del testo, che non ho potuto purtroppo leggere in
originale).
66 Mi sembra questo il sottinteso dell’affermazione dello stesso
Lyotard in J.-F. Lyotard, Pérégrinations, cit., p. 30; tr. it. p. 32, dove questi dice
essere quella di Discours, figure “una risposta ancora troppo di comodo”.
Contro la sua impostazione si era pronunciato già M. Dufrenne, Une
esthétique libidinale?, in Id., Esthétique et philosophie, vol. II, Kliencksieck,
Paris 1976, pp. 64-84 (le cui critiche poggiavano non a caso sull’inafferrabilità
del desiderio: cfr. ivi, p. 65). Rispetto al dibattito tra i due cfr. le osservazioni di
E. Franzini, Il mito di Leonardo. Sulla fenomenologia della creazione artistica,
Unicopoli, Milano 1987, Cap. IV.3, pp. 407-442. Per la distinzione kantiana del
sentimento dalla sensazione, cfr. invece KU B 7-9; tr. it. pp. 41 sg.
67 Cfr. infra, pp. 65-67, 199. Per l’uso lyotardiano del termine
“tautegoria”, che questi mutua da Schelling, cfr. invece infra, Cap. I.1, nota 14,
pp. 60 sg.
68 KU B 28; tr. it. p. 53.
69 Sulla proliferazione delle forme, cfr. infra, Cap. II.5, pp. 140-144,
mentre sull’assunzione dell’intelletto meramente come potenza, cfr. KU B 146;
tr. it. p. 124 e, al riguardo, J.-F. Lyotard, Pérégrinations, cit., p. 47 sg.; tr. it. p.
45.
70 Cfr. infra, Cap. I.1, pp. 57-66. Per il riferimento kantiano, cfr. invece
KU B XIX sg., LIII-LVII; tr. it. rispettivamente pp. 11 sg., 30-33.
71 J.-F. Lyotard, Le différend, cit., p. 9; tr. it. pp. 11 sg. Segnalo per
inciso che, pur dipendendo in molto dalla rivoluzione linguistica
contemporanea, come Lyotard dichiara nella Scheda di lettura (ivi, pp. 11 sg.;
tr. it. pp. 13 sg.), questo termine va inteso inoltre come traslitterazione letterale
del greco φράζω.
72 Ivi, p. 10; tr. it. p. 12; sull’incommensurabilità dei diversi regimi, cfr.
invece ivi, pp. 187 sg.; tr. it. pp. 164 sg.
73 Per il confronto lyotardiano con Hegel in questa sede, cfr. ivi, pp.
130-158; tr. it. pp. 115-139, e al riguardo A. Herberg-Rothe, Lyotard und Hegel
– im Widerstreit, “Hegel-Jahrbuch”, 2015 (1), pp. 346-351.
74 Cfr. J.-F. Lyotard, Le différend, cit., pp. 18 sg., 24 sg.; tr. it.
rispettivamente pp. 21 sg., 26.
75 Ivi, p. 26; tr. it. p. 28. Non potendomi soffermare in questa sede su
un tema così complesso quale quello di Auschwitz nel pensiero di Lyotard, mi
limito a rinviare a F. Sossi, L’infanzia di Antigone, in Id. (a cura di), Pensiero al
presente, cit., pp. 221-250.
76 J.-F. Lyotard, Le différend, cit., p. 27; tr. it. p. 28 (modificata).
77 Cfr. ivi, p. 52; tr. it. p. 49.
78 Ivi, p. 51; tr. it. p. 49.
79 Ivi, p. 117; tr. it. pp. 104 sg.
80 Al riguardo, si veda infra, pp. 251-253.
81 Cfr. KrV B 1; tr. it. p. 69, e ivi, A 19 sg. B 33 sg.; tr. it. p. 113.
82 Cfr. J.-F. Lyotard, Le différend, cit., p. 108; tr. it. p 97.
83 Al riguardo, cfr. ibidem, ma anche ivi, p. 116; tr. it. p. 103.
84 Cfr. ivi, p. 120; tr. it. p. 107.
85 Ivi, p. 26; tr. it. p. 28 (corsivo mio).
86 Su tutto questo capoverso, cfr. ivi, p. 200; tr. it. p. 175: “Ogni frase è
in linea di principio la posta in gioco di un dissidio fra generi di discorso, quale
ne sia il regime. Questo dissidio deriva dalla domanda ‘Come concatenarla?’
che accompagna una frase. E questa domanda deriva dal nulla che ‘separa’
questa frase dalla ‘seguente’. Vi sono dei dissidi perché, o come, c’è
l’Ereignis” (leggermente modificata).
87 Cfr. ivi, pp. 189-193; tr. it. pp. 166-170. Sul tema del passaggio nella
terza critica, cfr. poi il già citato F. Desideri, Il passaggio estetico, cit.
88 Cfr. J.-F. Lyotard, Le différend, cit., p. 199; tr. it. pp. 174 sg.
89 KU B V, XXI; tr. it. pp. 4, 13, in merito al quale cfr. almeno L.
Anceschi, “Vorrede” ed “Einleitung” alla Critica del Giudizio, in Id., Tre studi di
estetica, Mursia, Milano 1966, pp. 57-120, e in particolare il § II, pp. 67-74.
90 J.-F. Lyotard, Le différend, cit., p. 190; tr. it. p. 167.
91 Ibidem.
92 Kant dice che non può avere una legislazione propria, ma ha sì un
principio per ricercare leggi: KU B XXI; tr. it. p. 13, ma anche ivi, B XXVI sg.; tr.
it. pp. 15 sg.
93 Cfr. infra, Cap. I.1, pp. 57-66.
94 Cfr. Anthr., § 44, AA VII 201; tr. it. p. 200.
95 Cfr. infra, pp. 63-66, 86-93.
96 EG AA II 380; tr. it. p. 414 (modificata). Su questo saggio kantiano
cfr. l’essenziale L. Scaravelli, Gli incongruenti e la genesi dello spazio
kantiano, in Opere di Luigi Scaravelli, a cura di M. Corsi, 2 voll., vol. II, La
Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 297-335.
97 DO AA VIII 135; tr. it. p. 5.
98 Cfr. EG AA II 379; tr. it. p. 413.
99 Cfr. KU B 78; tr. it. p. 82.
100 In merito, cfr. J.-F. Lyotard, Judicieux dans le différend, in Id. (a
cura di), La faculté de juger, Minuit, Paris 1985, pp. 213-223.
101 Id., Le différend, cit., p. 204; tr. it. p. 179. Sulla stasis, cfr. inoltre
Id., Judicieux dans le différend, cit., pp. 235 sg.
102 Cfr. Id., Le différend, cit., p. 200; tr. it. p. 175.
103 Ivi, p. 218; tr. it. 190.
104 Sul tema, cfr. F. Valagussa, L’arte del genio, cit., pp. 139-143, e la
straordinaria costellazione di testi kantiani: I. Kant, Verkündigung des nahen
Abschlusses eines Tractats zum ewigen Frieden in der Philosophie, AA VIII
411-422; tr. it. Annuncio della prossima conclusione di un trattato per la pace
perpetua in filosofia, in Id., Questioni di confine, di F. Desideri, Marietti,
Genova 1990, pp. 73-83; Id., Zum ewigen Frieden, AA VIII 341-386; tr. it. Per
la pace perpetua, in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, di G.
Solari e G. Vidari, UTET, Torino 1956, pp. 283-336; e KU B 394; tr. it. p. 265.
Sul primo di questi testi, Lyotard si sofferma in J.-F. Lyotard, Judicieux dans le
différend, cit., pp. 195-205, mettendolo in relazione, tra l’altro, con il terzo
Conflitto delle facoltà.
105 Cfr. ibidem e Id., Le différend, cit., pp. 218 sg.; tr. it. pp. 190 sg.
106 Ivi, p. 116; tr. it. p. 103.
107 EE AA XX 250; tr. it. p. 138 e KU B XLVIII; tr. it. p. 27.
108 Cfr. EE AA XX 223; tr. it. p. 101. Ma anche KU B XLIV sg.; tr. it. p.
25 sg.
109 Cfr. ivi B 76 sg. e 97; tr. it. pp. 81 e 93, su cui Lyotard, nelle
Lezioni, si sofferma a più riprese.
110 Ivi, B 105; tr. it. p. 98 (modificata).
111 Ibidem (tr. it. modificata). Sulla ragione come pensiero della e “in”
totalità, cfr. KrV A 326 sg. B 382 sg.; tr. it. pp. 567-569. Sul dovere oltre
l’evento, ivi A 539 B 567; tr. it. p. 795; al riguardo, invece, J.-F. Lyotard, Le
différend, cit., pp. 184-186; tr. it. pp. 162 sg., e, nonostante la differenza tra le
due interpretazioni, che dipende in sostanza, a mio parere, da come Lyotard
intende il concetto kantiano di “dinamico” (per il quale cfr. infra, Cap. III.3, pp.
158-165), V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992, p. 200-
212.
112 Infra, p. 118.
113 Cfr. infra, p. 79.
114 KU B 76; tr. it. p. 81 (modificata).
115 Cfr. infra, pp. 136 sg.
116 J.-F. Lyotard, L’inhumain, cit., p. 112; tr. it. p. 136 (leggermente
modificata).
117 Entrambe le espressioni si trovano infra, p. 54. Sul sublime come
dissidio nel sentimento e sentimento duplice, cfr. inoltre infra, Cap. V.4, pp.
210-215.
118 Id., Le différend, cit., p. 240; tr. it. p. 209. Data la peculiarità del
brano, e la rilevanza dei giochi di parole che Lyotard vi fa, preferisco riportarne
qui in nota l’originale: “Le ‘passage’, on le voit, n’a pas lieu, c’est un ‘passage’
en train de se passer, et son train, son mouvement, est une sorte d’agitation
sur place, dans l’impasse de l’incommensurabilité, au-dessus de l’abîme”.
119 “Caso felice” (o “felice contingenza”): KU B XXXIV; tr. it. p. 20.
120 Cfr. infra, p. 118.
121 Cfr. J.G. Fichte, Über den Begriff der Wissenschaftslehre oder der
sogennanten Philosophie, als Einladungsschrift zu seinen Vorlesung über
diese Wissenschaft, in Id., Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der
Wissenschaften, a cura di R. Lauth e H. Jacob, Frommann-Holzboog Verlag,
Stuttgart-Bad Cannstatt 1965 ss., vol. I.2, pp. 91-172; tr. it. Sul concetto della
dottrina della scienza ovvero sulla cosiddetta filosofia come scritto introduttivo
alle lezioni su questa scienza, in Id., Scritti sulla dottrina della scienza (1794-
1804), di M. Sacchetto, Mondadori, Milano 2008, pp. 75-139: in special modo
pp. 138 e 149; tr. it. pp. 112 e 123 sg.
122 Cfr. G. Carchia, Kant e la verità dell’apparenza, a cura di G.
Garelli, Ananke, Torino 2006, sul pensiero del quale cfr., oltre all’introduzione
del curatore al presente volume: G. Garelli, Eros e tempo. Gianni Carchia e il
senso dell’estetica, ivi, pp. 7-29, Id., Letture kantiane. L’apparente e il
contingente, Bulzoni, Roma 2006, Cap. V, Apparenza e contingenza. Gianni
Carchia e la Critica del Giudizio, pp. 167-186.
123 Cfr. il già citato EE AA XX 223; tr. it. p. 101. Ma il discorso
andrebbe in realtà esteso, coincidendo da un certo punto di vista con quello di
un’eventuale intuizione intellettuale, che in Kant rimane sempre decisamente
negata.
124 Cfr. KU B XXII e LVIII; tr. it. pp. 13, 33 e il relativo passo di Lyotard,
infra, pp. 59-61.
125 Infra, p. 60.
126 Infra, p. 69.
127 Ibidem.
128 Infra, p. 67.
129 Cfr. KrV B 131-136; tr. it. pp. 241-247.
130 Cfr. ivi, A 106-110; tr. it. pp. 1217-1221.
131 Infra, p. 86.
132 KrV A 346 B 404; tr. it. p. 593 (leggermente modificata: ho
aggiunto i maiuscoli).
133 Cfr. KpV A 130-134; tr. it. pp. 165-167, su cui Lyotard si sofferma
infra, Cap. VII.5, pp. 251-259. E, inoltre, il confronto con Kafka che egli
conduce in Id., Lectures d’enfance, Galilée, Paris, 1991, pp. 35-56; tr. it.
Letture d’infanzia, di F. Sossi, Anabasi, Milano 1993, pp. 37-66, dove l’etica
kantiana mi sembra essere sottintesa.
134 Infra, p. 86.
135 Ibidem.
136 Cfr. KrV B 152-156; tr. it. pp. 269-275.
137 Infra, p. 133.
138 Infra, p. 119.
139 Cfr. KU B 75; tr. it. p. 80 sg. Su ciò cfr. infra, pp. 134 sg.
140 KrV A 97; tr. it. p. 1205.
141 Traggo il concetto di “frattempo” da E. Lévinas, La realité et son
ombre, in Id., Les imprévus de l’histoire, Fata Morgana, Saint-Clément-la-
Rivière 1994, pp. 123-149, in particolare pp. 137-144. Sulla Verweilung, cfr.
invece KU B 37; tr. it. p. 58 e infra, p. 64.
142 KU B 87; tr. it. p. 88.
143 Al riguardo, cfr. ivi, B 76, 87-89, 99 sg.; tr. it. pp. 81, 87-89, 95.
144 Cfr. rispettivamente KrV B 151; tr. it. p. 267 e il già citato J.-F.
Lyotard, Discours, figure, cit., pp. 41 sg.; tr. it. pp. 72 sg.
145 KrV B 1; tr. it. p. 69.
146 Infra, p. 220.
147 Ibidem.
148 KU B 43; tr. it. p. 61.
149 Cfr. KpV A 216; tr. it. p. 245 e al riguardo infra, p. 252.
150 Cfr. KrV A 466 sg. B 494 sg.; tr. it. p. 705.
151 Cfr. KpV A 216; tr. it. p. 245.
152 Cfr. KU B 16; tr. it. p. 46.
153 Ivi, B 165; tr. it. p. 134.
154 Cfr. KrV A 474-476 B 502-504; tr. it. pp. 713-715.
155 KU B 75 sg.; tr. it. p. 81.
156 Cfr. la più che nota affermazione kantiana, che Lyotard cita varie
volte, secondo cui “il rispetto per la legge non è movente alla moralità, ma la
moralità stessa considerata soggettivamente come movente” (KpV A 134; tr. it.
p. 169).
157 Cfr. rispettivamente J.-L. Nancy, L’offrande sublime, in Id. (a cura
di), Du sublime, Belin, Paris 1988, pp. 43-95; P. Lacoue-Labarthe, La verité
sublime, in ivi, pp. 123-188; G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, cit., e J.
Derrida, La verité en peinture, Flammarion, Paris 1978; tr. it. La verità in
pittura, di G. e D. Pozzi, Newton Compton, Roma 2005. – Per una rapida
ricognizione delle fonti lyotardiane e della posizione occupata da Lyotard nel
contesto filosofico francese, cfr. E. Franzini, Elogio delle differenze, in F. Sossi
(a cura di), Pensiero al presente, cit., pp. 147-161.
158 Cfr. G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, cit., pp. 77-79 e J.-F.
Lyotard, Pérégrinations, cit., pp. 17 sg.; tr. it. pp. 22 sg. Per il testo cui
entrambi fanno riferimento, cfr. F. Hölderlin, Anmerkungen zum Oedipus, in Id.,
Sämtliche Werke, 8 voll., vol. V, a cura di F. Beissner, Kohlhammer, Stuttgart
1952, pp. 195-202; tr. it. Scritti di estetica, di R. Ruschi, Mondadori, Milano
1996, pp. 137-143.
159 Ivi, p. 202; tr. it. p. 143 (modificata).
160 Cfr. G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, cit., Lezione II, pp. 75-
92.
161 J.-F. Lyotard, Pérégrinations, cit., p. 18; tr. it. p. 23.
162 Data la pervasività del confronto con Kant nel pensiero di tutti e
tre, preferisco qui limitarmi a rinviare a: J.G. Fichte, Versuch eines erklärenden
Auszugs aus Kants Kritik der Urteilskraft, in Id., Gesamtausgabe, cit., vol. II.1,
pp. 325-373; tr. it. Saggio per un estratto esplicativo dalla Critica del Giudizio
di Kant, di S. Principe, Diogene, Campobasso 2017; G.W.F. Hegel, Glauben
und Wissen, in Id., Werke in zwanzig Bänden, cit., vol. II, pp. 287-433; tr. it.
Fede e sapere, in Id., Primi scritti critici, di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, pp.
121-261; e M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, in Id.,
Gesamtausgabe, vol. III, a cura di F.-W. Von Hermann, Klostermann, Frankfurt
a.M. 1991; tr. it. Kant e il problema della metafisica, di M.E. Reina rivista da V.
Verra, Laterza, Roma-Bari 20126.
163 Cfr. il già citato V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., pp. 200-212,
o Id., L’ethos della topologia. Un itinerario di pensiero, Le Lettere, Firenze
2013, l’Intermezzo e tutta la Sezione II.
164 Cfr. R. Assunto, Libertà e fondazione estetica. Quattro studi
filosofici, Bulzoni, Roma 1975 e, di nuovo, G. Carchia, Kant e la verità
dell’apparenza, cit. e F. Desideri, Il passaggio estetico, cit.
165 Cfr. E. Garroni, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica
del Giudizio” di Kant, Unicopoli, Milano 19982; C. La Rocca, Esistenza e
Giudizio, cit.; A. Negri, La comunità estetica in Kant, Mariano, Galatina 1957 e
L. Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli 1984.
NOTA ALLA TRADUZIONE

La presente traduzione è stata condotta sull’edizione: J.-F. Lyotard,


Leçons sur l’Analytique du sublime. Kant, Critique de la faculté de
juger, § 23-29, Klincksieck, Paris 2015. Di questo testo erano
presenti, in italiano, una traduzione parziale (del solo Cap. II) a cura
di F. Sossi, in Id., Anima minima. Sul bello e il sublime, Pratiche
Editrice, Parma 1995, Cap. III, pp. 85-116 (edizione in cui è
ricompresa però anche la traduzione della versione pubblicata a
parte del Cap. VII delle presenti Lezioni: cfr. ivi, Cap. II, pp. 49-83). E
una traduzione inglese: Id., Lessons on the Analytic of the Sublime,
a cura di E. Rottenberg, Stanford University Press, Stanford 1994. Di
entrambe ho tenuto conto nel corso della traduzione, cercando di
conformarmi sempre anche al lessico già in uso nelle traduzioni
italiane di Lyotard. Per quanto possibile, ho cercato poi di rendere i
termini tecnici che questi impiega in modo univoco, facendo
eccezione solo per quei termini francesi la cui polivocità imponeva
che venissero tradotti sulla base del contesto.
Parole come “bonheur” e il corrispettivo “malheur” sono state rese
così: in base ai casi, tanto con “benessere” (e “malessere”), quando
con “felicità”, “contentezza” (o “scontentezza”). Lo stesso vale poi
per termini come “convenance”: “convenienza”, ma anche
“concordanza” o “accordo”, insieme a “disconvenance”,
“opposizione”; “interdire” (con tutto il plesso semantico
corrispondente): per il quale, dato che si tratta di un termine tecnico,
ho preferito il più delle volte la resa letterale “interdire”, dovendo
usare solo sporadicamente “vietare” o “impedire”; il verbo “porter”:
“vertere”, “riguardare”, ma anche “fornire”; e quello, estremamente
comune, “saisir”: “comprendere”, “cogliere”, “afferrare”, con tutti i
suoi derivati.
Una nota a parte merita invece la traduzione dei gruppi di termini:
“capacité”, “faculté”, “pouvoir”, “puissance”; e “appréciation”,
“évaluation”, “estimation” – che corrispondono bene o male alle
traduzioni francesi dei termini kantiani tedeschi “Kraft”, “Vermögen”,
“Gewalt”, per il primo gruppo; e “Beurteilung” e “Schätzung” per il
secondo. Trattandosi infatti molto spesso di traduzioni oscillanti, che
si riferiscono tanto a uno quanto a un altro dei termini compresi nel
gruppo semantico corrispondente, una traduzione univoca era di
fatto possibile soltanto nel secondo caso, in cui ho reso
“appréciation”, come corrispettivo francese di “Beurteilung”, con
“valutazione” (e non con “giudizio”, come è più comune in italiano
nella traduzione del termine tedesco – proprio per tenere “ferma” la
distinzione tra i regimi di frasi cognitivo ed estetico, per attenermi ai
concetti lyotardiani); e “évaluation” ed “estimation” (traduzioni di
“Schätzung”) con “stima”, raramente con “estimazione”. Ciò non
toglie, ovviamente, che talvolta le traduzioni si siano equivocate, e
ciò non per esigenze intratestuali, quanto perché la resa del testo
kantiano di Philonenko (che Lyotard segue il più delle volte) e di
Lyotard stesso (quando se ne discosta) è spesso promiscua. Ove
possibile, ho preferito dunque mantenere coerente l’uso dei termini,
utilizzando a senso unico “valutazione” per l’uno e “stima” per gli
altri; ove no, segnalandolo invece sempre nelle note apposte.
Per quanto riguarda il primo gruppo, invece, ove possibile ho
cercato di attenermi a una traduzione definita, rendendo ad esempio
“faculté” con “facoltà” e “capacité” con “capacità”, ma seguendo di
preferenza come filo conduttore, nelle citazioni, più il testo kantiano
che quello di Lyotard. Nel caso in cui la citazione venisse subito
impiegata da Lyotard stesso per sviluppare in proprio il pensiero in
essa contenuto, ho preferito accordare l’una e l’altro, dando però la
precedenza a quest’ultimo. Ma in generale devo segnalare che,
soprattutto rispetto al termine “pouvoir”, ho preferito oscillare, in base
al contesto, dal più letterale “potenza” (dove mi sembra che Lyotard
declini il Vermögen kantiano nel senso, che tra l’altro condivido, di
“potenza del pensiero”) a “capacità”, più attinente al francese, in sé
molto fluido, o a “potere”, quando il termine era inteso in tal senso.
Laddove la prima traduzione si sovrapponeva a quella di “puissance”
o “capacité” perché il primo termine occorreva nello stesso brano
con uno di essi, ho cercato di adottare una resa letterale, riportando
al più tra parentesi quadre il francese.
Questa strategia l’ho utilizzata anche in tutti quei casi in cui
Lyotard faceva giochi di parole, che ho comunque sempre esplicitato
in nota a vantaggio del lettore italiano. Frequenti sono stati i casi in
cui egli prendeva a prestito termini dal linguaggio giuridico o
economico piegandoli a un impiego filosofico. Un esempio è il
ricorrente e intraducibile “facultaire” – il quale indica giuridicamente
ciò che compete a una facoltà universitaria –, che Lyotard fa invece
slittare all’interno del discorso critico per indicare l’attribuzione dei
singoli movimenti di pensiero a una o a un’altra facoltà dell’animo. In
tal senso, ho preferito impiegare quasi sempre la traduzione “di
facoltà”, facendo eccezione solo in quei pochi casi in cui il termine
veniva usato non come aggettivo ma come sostantivo. Si tratta di
casi rari, nel testo, nei quali ho dato la precedenza alla leggibilità
italiana, traducendolo con il forse troppo semplice “facoltà” e
riportando subito dopo il termine tra parentesi quadra.
Un’ultima precisazione dal punto di vista terminologico la
impongono invece i francesi “esprit” e “âme”, che vengono utilizzati
da Philonenko e da Lyotard per tradurre sia “Seele”, sia “Gemüt”, sia
“Geist”. La lingua francese si trova in ciò in difetto tanto rispetto a
quella tedesca, nella quale Kant distingue con accuratezza questi
termini, quanto rispetto a quella italiana, in cui non ci sono grossi
problemi a rendere le tre parole tedesche rispettivamente con
“anima”, “animo” e “spirito”. Per tale ragione, dove la cosa non
incideva nell’economia del discorso di Lyotard, ho preferito riportare
nelle citazioni di Kant la traduzione italiana e non quella francese,
rendendo ad esempio “Gemütszustand” non con “stato dello spirito”,
secondo la traduzione francese, ma con il nostro “stato d’animo”.
Stante la forte insistenza di Lyotard nel tradurre invece “Geist” con
“âme”, in quanto ciò che anima e vivifica il pensare (cfr. infra Cap.
II.3), ho dovuto fare riferimento, per questo termine, non al testo
kantiano ma a quello di Lyotard, traducendo direttamente l’“âme”
francese.
Per tutte le citazioni kantiane, infine, ho tenuto sempre presenti
non soltanto gli originali, ma anche le traduzioni italiane presenti,
approfittando della cosa per aggiornare i riferimenti lyotardiani alle
opere di Kant. Sebbene abbia deciso di mantenerli comunque tra
parentesi nel testo, questi rimandano tutti, infatti, a edizioni
difficilmente reperibili o le cui riedizioni sono state reimpaginate, per
cui ho deciso di riportare in nota prima la paginazione dell’edizione
critica tedesca, e poi quella dell’edizione italiana di riferimento.
Riporto in calce a questa Nota una lista completa delle opere
kantiane citate, delle sigle utilizzate e delle traduzioni su cui mi sono
confrontato. Tutte le citazioni di Kant nel testo sono state tradotte
tenendo presente l’originale tedesco e riportando, di preferenza, le
traduzioni italiane giù citate. Ciò, a meno che il discorso di Lyotard
non imponesse di piegare la traduzione sulla base di quella francese
o sulle modifiche che egli stesso propone. In tal caso, per fedeltà al
discorso di Lyotard, ho preferito talvolta tradurre Kant direttamente
dal francese, segnalando in ogni caso tutte le modifiche in nota.
In merito alla resa del lessico kantiano, mi sono attenuto pertanto
alle soluzioni ormai classiche nel contesto degli studi kantiani,
discostandomi solo in due casi. Il primo riguarda i termini “gefallen” e
“angenehm”, comunemente tradotti con “piacere” e “piacevole”,
l’ultimo in opposizione al bello. Il francese, rispetto all’italiano, ha il
vantaggio di poter tradurre l’ultimo con “agréable”, potendo con ciò
distinguere il piacere in generale e il piacere puro per il bello dal
piacere interessato all’esistenza materiale delle cose e alle cose
stesse. “Plaisant” e “agréable” rendono così in francese una
differenza notevole che in italiano rimane sfumata. Per cui le
alternative erano: o tenere la traduzione italiana e riportare di
seguito, tra parentesi quadre, i termini francesi corrispondenti;
oppure tradurre altrimenti “angenehm” (e “agréable”), in modo tale
da differenziare da essi il “gefallen” e il “plaisant”. Alla fine, ho optato
per quest’ultima soluzione, seguendo in ciò Amoroso e Garelli, che,
nelle rispettive traduzioni della terza Critica e della Antropologia da
un punto di vista pragmatico, rendono il primo con “gradevole”.
Diverso discorso vale invece nel secondo caso, il quale riguarda il
termine tedesco “Wohlgefallen”, che, reso abitualmente in italiano
con “compiacimento”, viene tradotto in francese, sia da Lyotard sia
da Philonenko, con “satisfaction”. La diversa resa poneva il
problema di decidere se tradurre il tedesco con un unico termine,
uniformandone la traduzione nelle citazioni e sostituendo a
“compiacimento” il corrispettivo al francese “soddisfazione”; o se
intervenire invece nel testo francese, rendendo lo stesso
“satisfaction” con “compiacimento”. Tutte e due le scelte mi sono
parse troppo estreme, onde per cui ho optato per una via di mezzo,
adottando nel testo francese “soddisfazione” e nelle citazioni, in
base ai casi, il più delle volte “compiacimento”, e solo alcune, invece,
“soddisfazione”. Al lettore è sufficiente tenere a mente che entrambi
indicano lo stesso stato d’animo. Ma in tal senso bisogna dire che
egli si trova agevolato già dal discorso di Lyotard.
Date le modifiche lessicali inevitabili in ogni traduzione, ho
soppresso l’Indice dei termini che si trova alla fine dell’edizione
originale. In merito allo “stile”, come Lyotard stesso avverte, si tratta
di lezioni, in cui il fraseggiare di Lyotard, già di per sé molto veloce,
tende a concatenare le frasi senza preoccuparsi di soluzioni di
continuità. Ne risulta un periodare a tratti “telegrafico”, che ha però in
francese anche una sua eleganza dovuta proprio al ritmo
impressogli dai segni di interpunzione e dalla ricorrenza dei pronomi.
Ho cercato per quanto possibile di conservare questa ritmicità,
apportando correzioni minime alla punteggiatura. Ma la necessità di
elidere o di sciogliere i pronomi ha spesso comportato un
distanziamento tra le frasi che ho potuto evitare solo provando a
rendere più fluido il discorso stesso. Si tratta in ogni caso di
interventi minimi, fatti a vantaggio della leggibilità dell’italiano, che
altrimenti sarebbe risultato a tratti sconnesso e macchinoso.
Tutte le note al testo, in cui ho cercato di agevolare il lettore
nell’individuazione dei riferimenti espliciti ed impliciti fatti da Lyotard,
sono infine del curatore.
Rispetto agli scritti kantiani, riporto qui, come anticipato, la lista di
quelli citati con le relative sigle e le rispettive traduzioni. Per tutti, ho
fatto riferimento ai Kants Gesammelte Schriften, a cura della
Preußischen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1902 ss. (= AA),
facendo seguire alla sigla il volume in numeri romani e quello della
pagina in numeri arabi. L’unica eccezione sono state le tre Critiche,
delle quali ho preferito indicare direttamente la paginazione delle
edizioni originali: per la Kritik der reinen Vernunft, A = 1781; B =
17872; per la Kritik der praktischen Vernunft, A = 1788; per la Kritik
der Urteilskraft, B = 17932. La numerazione di queste edizioni è
riportata sia in quella a cura dell’Accademia delle Scienze di Berlino,
sia nell’edizione complessiva delle opere a stampa: I. Kant,
Werkausgabe: in 12 Bd., a cura di W. Weischedel, Suhrkamp,
Frankfurt a.M. 1974 ss., sia in molte delle traduzioni italiane in
circolazione; e facilita molto, in tal senso, l’individuazione delle
citazioni. Avendo tenuto presente per alcuni passi della prima e della
terza Critica più di una traduzione italiana, ho deciso di riportare qui
tutte quelle consultate, segnalando però che quella a cui faccio
riferimento nelle note, a meno di specifiche indicazioni, è sempre la
prima riportata in elenco. Per quanto riguarda gli altri scritti kantiani,
poi, per indicare chiaramente quale si cita, ho fatto precedere
all’indicazione dell’edizione critica le sigle indicanti i vari testi
(aggiornate a quelle maggiormente in uso nella letteratura critica), e
seguire il numero di pagina della traduzione italiana di riferimento:

– Anthr. = Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, AA VII 117-334;


tr. it. Antropologia dal punto di vista pragmatico di G. Garelli,
introduzione e note di M. Foucault, Einaudi, Torino 2010;
– BFA = Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, AA VIII 33-
42; tr. it. Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, di G.
Solari e G. Vidari, in I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia
e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, UTET,
Torino 1956, pp. 141-149;
– BGSE = Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und
Erhabenen, AA II 205-256; tr. it. Osservazioni sul sentimento del
bello e del sublime, di L. Novati, RCS, Milano 2004;
– DO = Was heißt: Sich im Denken orientieren?, AA VIII 131-147;
tr. it. Che cosa significa orientarsi nel pensiero, in I. Kant,
Questioni di confine, di F. Desideri, Marietti, Genova 1990;
– EE = Erste Einleitung in die Kritik der Urteilskraft, AA XX 193-251;
tr. it. Prima introduzione alla Critica del Giudizio, tr. it. di P.
Manganaro, Laterza, Roma-Bari 1979;
– EG = Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden
im Raume, AA II 375-383; tr. it. Del primo fondamento della
distinzione delle regioni nello spazio, in I. Kant, Scritti precritici, di
P. Carabellese rivista da R. Assunto e R. Hohenemser e ampliata
da A. Pupi, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 409-418;
– GMS = Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, AA IV 385-463;
tr. it. Fondazione della metafisica dei costumi, di V. Mathieu,
Rusconi, Milano 1994;
– KpV = Kritik der praktischen Vernunft, AA V 1-163; tr. it. Critica
della ragion pratica, di V. Mathieu, Bompiani, Milano 20103;
– KrV = Kritik der reinen Vernunft, A = AA IV 1-252; B = AA III; tr. it.
Critica della ragion pura, di C. Esposito, Bompiani, Milano 20123;
Critica della ragion pura, di P. Chiodi, UTET, Torino 1967;
– KU = Kritik der Urteilskraft, AA V 165-485; tr. it. Critica della
facoltà di giudizio, di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino
1999; Critica della capacità di giudizio, di L. Amoroso, BUR,
Milano 1995;
– L = Logik, AA IX 1-150; tr. it. Logica, di L. Amoroso, Laterza,
Roma-Bari 20106;
– MA = Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, AA
IV 465-565; tr. it. Princìpi metafisici della scienza della natura, di
P. Pecere, Bompiani, Milano 20152;
– SF = Der Streit der Facultäten, AA VII 1-116; tr. it. Il conflitto delle
facoltà, di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia 1994.

Prima di prendere commiato, desidero qui porgere alcuni brevi


ringraziamenti, in primo luogo al prof. Massimo Donà, che ha
creduto nel progetto di traduzione di queste Lezioni e mi ha spinto a
realizzarlo. E ai prof. Vincenzo Vitiello e Francesco Valagussa, nelle
lunghe discussioni con i quali hanno avuto modo di crescere i miei
interessi kantiani (e lyotardiani). Un altro ringraziamento sento di
dover rivolgere poi al dott. Aldo Bisceglia, che ha discusso con me la
resa di molti dei passi più complicati di questo testo. E a Irene e
Carla, che mi hanno supportato nella revisione, e sopportato,
l’ultima, durante tutto il corso del lavoro. Alla mia famiglia, infine, per
la presenza e il sostegno che non sono mai venuti meno.
LEZIONI SULL’ANALITICA DEL SUBLIME. KANT, CRITICA
DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO, § 23-29
Jean-François Lyotard
PREMESSA*

Questo non è un libro, ma una raccolta di lezioni. O, piuttosto, un


fascicolo di appunti preparatori alla spiegazione orale dell’Analitica
del Sublime (Kant, Critica della facoltà di giudizio, §§ 23-29). Non
dispensa affatto dal leggere il testo kantiano, lo esige.
La “toelettatura” di questi appunti non è compiuta, e il professore
non avrà mai finito il suo corso. Da questa duplice negligenza risulta
una doppia mancanza: la scrittura conserva le goffaggini e le
imperfezioni dell’esposizione orale, che segue il testo kantiano
passo passo; ma, allo stesso tempo, l’insieme è lungi dal “coprire”
questo testo. E non mi riferisco “al contenuto”, che è inesauribile, ma
anche alla “lettera”.
Il genere di queste lezioni è modesto. Lo si chiamava fino a poco
tempo fa “commento al testo”. Una delle sue regole è di trovare la
spiegazione del testo nel testo, senza alcun mezzo esterno. Cosa
che ho fatto, estendendo nondimeno i riferimenti all’insieme delle tre
Critiche, così come l’Analitica del Sublime impone.
Perché pubblicare questi appunti in tali condizioni? La questione
eccede sempre ciò che l’“autore” può avanzare a mo’ di ragioni o
scuse. Eccone qualcuna. Egli immagina che questi appunti saranno
adatti a evitare dei fraintendimenti durante la lettura del testo
kantiano, e anche nelle discussioni, in atto o a venire, con i suoi
colleghi filosofi. Si è convinto inoltre che questo libro, una volta
pubblicato, permetterà di alleggerire molto chi si trova all’opera. Egli
vorrebbe ancora che i segni visibili dell’insegnamento orale che ha
lasciato facciano di questo fascicolo una specie di omaggio
maldestro – e di addio – a questa “professione” così strana: si
“insegna la filosofia” solo imparando a filosofare. Così com’è, dedico
la raccolta agli studenti che, qua e là, hanno sopportato negli anni
questo rimuginio.
Se fosse necessario indicarne il proposito in poche parole, si
potrebbe dire che queste lezioni puntano a isolare nel testo kantiano
l’analisi di un dissidio nel sentimento che è anche analisi di un
sentimento del dissidio, e a ricondurre il motivo di questo sentimento
al trasporto che conduce ogni pensiero (ivi compreso quello critico)
ai propri limiti.
Una prima versione dei Capitoli I e VII è stata pubblicata
rispettivamente nella “Revue internationale de philosophie”, vol. 4, n.
175, 1990, e nella raccolta collettanea Du Sublime, Belin, Paris
19881. Ringrazio i curatori di queste pubblicazioni.

* Il titolo “Premessa” manca nel francese.


1 Lyotard si riferisce rispettivamente a J.-F. Lyotard, La réflexion dans
l’esthétique kantienne, in “Revue internationale de philosophie”, vol. 4, n. 175,
1990, pp. 507-551 e a Id., L’intérêt du sublime, in J.-L. Nancy (a cura di), Du
sublime, Belin, Paris 1988, pp. 189-227. Dell’ultimo, vi è una tr. it. di G.
Gabetta in Id., Anima minima. Sul bello e il sublime, a cura di F. Sossi,
Pratiche Editrice, Parma 1995, Cap. II, pp. 49-83.
SIGLE UTILIZZATE

Anth.: Anthropologie du point de vue pragmatique (1798), tr. fr.


Foucault, Vrin 1970.
Gegend.: Du premier fondement de la différence des régions dans
l’espace (1768), tr. fr. Zac, in Quelques opuscules précritiques,
Vrin 1970.
KPV: Critique de la raison pratique (1788), tr. fr. Picavet, PUF 1943;
Kritik der praktischen Vernunft, Meiner, Hamburg 1974.
KRV A, B: Critique de la raison pure (A: 1781; B: 1787), tr. fr.
Tremesaygues e Pacaud, PUF 1980; Kritik der reinen Vernunft,
Meiner, Hamburg 1956.
KUK: Critique de la faculté de juger (1790), tr. fr. Philonenko, Vrin
1979; Kritik der Urteilskraft, Meiner, Hamburg 1974.
Orient.: Qu’est-ce que s’orienter dans la pensée? (1786), tr. fr.
Philonenko, Vrin 1978.
PI: Première Introduction à la Critique de la faculté de juger (1789),
tr. fr. Guillermit, Vrin 1975.

N.B.: Per le tre Critiche, i riferimenti sono fatti prima alla traduzione
francese, in seguito, all’edizione tedesca. I riferimenti che non sono
preceduti da una sigla rimandano alla Critica della facoltà di giudizio.
La sigla “t.m.” che segue un rimando alla traduzione francese
segnala che questa è stata modificata.
I.
LA RIFLESSIONE ESTETICA

1. Il sistema e il sentimento

Il compito assegnato alla Critica della facoltà di giudizio, come


spiega la sua Introduzione, è di ristabilire l’unità della filosofia dopo
la severa “divisione” che le prime due Critiche le hanno inflitto. Una
certa lettura, corretta ma troppo fiduciosa nella lettera, vede questo
compito realizzarsi grazie all’Idea regolativa di una finalità della
natura che sarà esposta dalla Parte II della terza Critica. Questa
idea costituisce in effetti il “ponte” cercato tra il teoretico e il pratico al
di sopra dell’abisso scavato in precedenza tra la conoscenza degli
oggetti secondo le condizioni dell’esperienza possibile e la
realizzazione della libertà al di sotto dell’incondizionato della legge
morale. Secondo la detta lettura, la critica della facoltà di giudizio
estetico assolverebbe all’inizio di questo passaggio una funzione
principalmente preparatoria: se non il sentimento sublime, almeno il
gusto offre il paradosso di un giudizio che sembra destinato alla
particolarità, alla contingenza e al problematico. L’Analitica del gusto
gli restituirà un’universalità, una finalità e una necessità – senz’altro
tutte soggettive – rivelando semplicemente il suo statuto di giudizio
riflettente. È questo statuto che sarà trasferito sul giudizio teleologico
per legittimarne esattamente l’uso. La validazione del piacere
soggettivo, allora, non fa altro che introdurre quella della teleologia
naturale.
Questa lettura sembra pienamente giustificata dal modo in cui la
riflessione viene presentata nell’Introduzione della terza Critica. La
facoltà di giudizio è detta “semplicemente riflettente” quando “è dato
solo il particolare” e si tratta di “trovare l’universale” (28; 15)1. Essa è
ciò che l’Antropologia (§ 44) chiamerà Witz, ingenium, “escogitare il
generale per il particolare”2, trovare un’identità nella molteplicità
delle dissomiglianze. Se la riflessione è chiamata al compito della
riunificazione, è dunque in ragione della sua funzione euristica: la
facoltà di giudizio pura non ha forse “una sua propria legislazione”,
ma potrebbe darsi che abbia almeno “un suo proprio principio per
ricercare leggi” (26; 12)3. Nei termini della sfera giudiziaria impiegati
nel Paragrafo 2 di questa Introduzione (23-24; 9-10)4, la facoltà di
giudizio non avrà un “dominio” in cui legiferare in modo autonomo,
ma il suo principio particolare può applicarsi a “un qualche
territorio”5. S’intende che questo principio può integrare le
legislazioni determinanti dell’intelletto nel suo dominio teoretico e
della ragione nel suo dominio pratico, e di conseguenza riconciliarle,
proprio perché non è legiferante. La “debolezza” della riflessione è in
tal modo la sua “forza”.
Questa debolezza si nota nel fatto che questo principio, che è
tipico della riflessione, è “un principio a priori semplicemente
soggettivo” (26; 12)6. Esso non riguarda la determinazione di quegli
oggetti che sono il mondo per l’intelletto e la libertà per la ragione.
Anche se gli oggetti così determinati dalle due Critiche precedenti lo
sono stati soltanto come possibili a priori. Il giudizio riflettente si
applica a questi oggetti nella loro particolarità, così come sono dati.
Li giudica come se le regole che determinano la loro possibilità a
priori non fossero sufficienti a render conto della loro particolarità. Si
sforza dunque di “scoprire” una generalità o un’universalità che non
è quella della loro possibilità, ma della loro esistenza. E la questione
critica consiste nel determinare secondo quale principio la riflessione
conduce se stessa sul cammino di questa scoperta.
Ciò che è messo in luce da questa problematica è, in linea di
massima, che questo principio non deve trovarsi né nel dominio
dell’intelletto teoretico, né in quello della ragion pratica. Esso non
deve essere preso in prestito da nessun’altra autorità di facoltà
[facultaire] che non sia la facoltà di giudizio stessa. Quest’ultima
“non può far altro che darsi da se stessa come legge un tale
principio trascendentale” (28; 16)7. Tale è la “soggettività” di questo
principio: la facoltà che l’esercita è la stessa che lo inventa. Questo
principio, che deriva da un’arte piuttosto che dalla ragione e che non
può applicarsi che con arte, questo principio non può dunque avere
la stessa validità oggettiva delle categorie per l’intelletto o della
legge per la ragion pratica, che si deducono per argomentazione.
Questo principio, si sa, è quello di una teleologia della natura per
la libertà. Giudicando in base a esso, il pensiero si autorizza a
pensare le “leggi particolari della natura” come formanti un “sistema
dell’esperienza” tale che la nostra facoltà di conoscere nel suo
complesso (e cioè il pensiero stesso) potrebbe averlo determinato “a
[suo] vantaggio, zum Behuf unserer Erkenntnisvermögen” (28; 16)8.
È grazie a questa idea semplicemente regolativa, e non legislatrice,
che i domini separati della natura e della libertà possono essere
riuniti, senza nulla perdere della loro eterogeneità.
Non è dunque discutibile il fatto che la riflessione sia convocata
alle soglie della terza Critica al solo titolo della sua capacità
euristica: essa inventa il suo principio, la finalità, e conduce se
stessa in base a esso per decifrare le leggi empiriche della natura.
Ciò è sufficiente al progetto di raccoglimento del pensiero filosofico
con se stesso, poiché la finalità naturale non può essere pensata
allora se non analogicamente, “nach der Analogie” (26; 12-13)9, con
quella della ragione nel suo uso pratico, in cui la finalità è la
causalità mediante l’Idea. È dunque opportuno introdurre la facoltà
riflettente tra l’intelletto e la ragione, per assicurare l’integrazione
indispensabile a questo progetto.
Eppure il testo dell’Introduzione non si limita a questo. Esso
invoca “un’ulteriore ragione” per stabilire un collegamento tra
teoretico e pratico. E il collegamento che ci si può aspettare da
questa ragione “sembra essere di importanza ancora maggiore” di
quello che abbiamo appena indicato. Quest’ultimo era “logico” (26;
12)10 nel senso trascendentale della determinazione dei domini di
legiferazione e dei territori di legislazione. Quello che è giudicato “più
importante” concerne le “facoltà […] dell’anima” (ibidem)11, e si
potrebbe dire che appartiene alla psicologia trascendentale – se
questo nome non fosse troppo apparentato con quello della
“psicologia razionale”, di cui i Paralogismi della prima Critica hanno
sufficientemente dimostrato che “ha la propria origine in un semplice
malinteso” (KRV B, 308; 415)12.
Non è questo il luogo di discutere tale distinzione – tutto sommato
enigmatica – tra le facoltà conoscitive (logiche) e “le facoltà
dell’anima nel loro insieme” di cui la fine dell’Introduzione delinea il
parallelismo, necessariamente “contorto”, in una tavola famosa (42;
36)13. Questa distinzione – e il parallelismo che essa inferisce di
rimando – sono nondimeno così importanti da contenere forse tutto il
segreto del problema della riflessione. Perché “logicamente” quella
si chiama facoltà di giudizio; ma “psicologicamente”, se si autorizza
per un momento quest’uso improprio del termine, essa non è
nient’altro che il sentimento di piacere e dispiacere. Ora, in quanto
facoltà conoscitiva, essa è votata all’euristica, mentre procurando
delle “sensazioni” nel senso che ci apprestiamo a precisare, essa
rivela pienamente il suo carattere tautegorico14, termine col quale
designerei soltanto questo fatto notevole, per cui il piacere o il
dispiacere è allo stesso tempo uno “stato” dell’anima e
“l’informazione” che l’anima raccoglie in merito al suo stato. Di modo
che non si comprende bene, a prima vista, che ruolo potrà giocare
l’estetica (analisi delle condizioni a priori di queste sensazioni tutte
“soggettive”) nella grande strategia di integrazione.
Il Paragrafo 7 dell’Introduzione è certo consacrato a esporre
questa giustificazione. Ma non è un caso se la molla
dell’argomentazione consiste nel rinviare il piacere del gusto come
facoltà dell’anima all’accordo – tutto soggettivo, certo, ma all’accordo
(alla “convenienza, die Angemessenheit”, 36; 27)15 – delle due
facoltà della conoscenza che sono in gioco in qualsiasi rapporto a un
oggetto: la facoltà di presentare e la facoltà di concepire,
l’immaginazione e l’intelletto. Il motivo del piacere, stato “psicologico”
per eccellenza, si trova così trasferito in un’armonia che è tutta
logica. Gli si può dunque trovare ugualmente una finalità: quella del
rapporto degli oggetti, attraverso le loro sole forme (perché
comunque il piacere non dà alcuna conoscenza), con le facoltà
conoscitive. È il rapporto che queste intrattengono tra di loro che
conferisce, infine, al gusto l’autorità di pretendere l’universalità (infra
I.8.). Pretesa che è certo tutta soggettiva ma universale, giacché il
gioco dell’intelletto e dell’immaginazione riguardo alla forma
dell’oggetto è sufficiente, “senza considerazione di alcun concetto,
ohne Rücksicht auf einen Begriff” (37 t.m.; 28)16, a suscitare nel
pensiero il piacere che gli procura, in generale, la convenienza di
queste due facoltà conoscitive (37; 28-29)17.
La finalità soggettiva analizzata in tal modo nel piacere estetico
sembra così poco essenziale al progetto generale annunciato
nell’Introduzione della terza Critica, che la riflessione estetica è
dichiarata non appartenere che a una “facoltà particolare”, la quale
“giudica le cose secondo una regola, ma non secondo concetti” (40;
32)18. La facoltà teleologica, al contrario, “non è una facoltà
particolare, ma soltanto la facoltà riflettente di giudizio in generale”
(ibidem)19. E la ragione di quest’eccellenza (sorprendente, a prima
vista) è che, “come dappertutto nella conoscenza teoretica”, la
facoltà teleologica “procede per concetti, nach Begriffen” (ibidem)20.
Non può trattarsi che del concetto di finalità, o causalità secondo il
fine. Semplicemente, la suddetta facoltà utilizza questo concetto di
finalità “seguendo, in relazione a certi oggetti della natura, dei
princìpi particolari” (ibidem)21. Questi stessi princìpi sono poi quelli
“di una facoltà di giudizio solo riflettente” (ibidem)22. La quale
prescrive infatti che la finalità sia impiegata soltanto come idea
regolativa, e non legiferante. Resta il fatto che, essendo un’Idea, la
finalità è un concetto. E ciò è sufficiente a rivolgere la riflessione
teleologica dal lato della conoscenza: “essa appartiene alla parte
teoretica della filosofia”, mentre la riflessione estetica, che “non
contribuisce in nulla, nichts beiträgt, alla conoscenza dei suoi
oggetti, deve dunque essere imputata, gezählt, unicamente alla
critica del soggetto giudicante” (ibidem, t.m.)23. L’argomento relativo
all’estetica può dunque concludersi con questa concessione: “questa
critica [del soggetto giudicante] è la propedeutica di ogni filosofia”
(ibidem)24.
Si vede bene che la lettura classica della terza Critica, quella che
mette l’accento sulla teleologia, è fondata saldamente nella lettera
dell’Introduzione. Anche quando questa riconosce al piacere estetico
una grande “importanza”, lo fa solo per ricondurlo a ciò che esso
significa per le facoltà conoscitive, e cioè a una finalità soggettiva. E
il carattere soggettivo di tale finalità permette subito di limitare
l’“importanza” dell’estetica a quella di una propedeutica. All’inverso,
l’uso esplicito – e cioè concettuale, e dunque “esponibile” (166-167;
201-202)25 – della teleologia e la sua applicazione agli oggetti della
natura – per quanto sospesa alla clausola del “come se” o della
“regolazione” che costituisce il “principio particolare” della riflessione
– meritano per quest’ultima il posto d’onore nella strategia
d’unificazione. La forza della debolezza riflessiva risale alla funzione
euristica della riflessione; l’estetica, tutta tautegorica, di questa forza
non condivide che la debolezza.
Mi sembra che si possa concedere un’importanza completamente
diversa all’Analitica dei giudizi estetici: quella di una propedeutica
filosofica, di fatto, ma che è forse l’intera filosofia (perché “si può
tutt’al più imparare a filosofare, höchstens nur philosophieren
lernen”, e non imparare la filosofia) (KRV, 561; 752)26. È sufficiente
non fermarsi alla lettura tematica che ho appena ricordato, e che il
testo kantiano reclama con tutte le sue forze. Questa lettura è fedele
al problema del sistema che infesta [hante] l’Introduzione della terza
Critica. Ma il giudizio estetico nasconde a mio parere un segreto più
importante di quello della dottrina: il segreto della “maniera”
(piuttosto che del metodo) con cui procede, in generale, lo stesso
pensiero critico. La maniera (modus aestheticus) “non ha altra
misura che il sentimento dell’unità nella presentazione”; il metodo
(modus logicus) “segue in ciò princìpi determinati” (148; 174)27. Non
c’è un metodo, ma “soltanto una maniera (modus) per l’arte bella”
(176; 215)28. Il modo del pensiero critico, per definizione, non
dovrebbe essere però che puramente riflettente (dato che esso non
possiede già i concetti dei quali cerca di stabilire l’uso), mentre il
giudizio estetico manifesta la riflessione nel suo stato più
“autonomo”, più nudo, se così si può dire. Essa vi sta infatti [nel
giudizio estetico], come abbiamo appena letto nel testo
dell’Introduzione, spogliata del suo ufficio teleologico oggettivo, e si
può dire persino del suo ufficio euristico in generale – dato che il
giudizio estetico, considerato dal punto di vista “dell’anima”, non ha
alcuna pretesa conoscitiva, e che il piacere puro che esso è non
deve ricercare nient’altro che se stesso. Si perpetua: “la
contemplazione [del bello] si fortifica e riproduce se stessa; è uno
stato analogo (ma non identico) alla Verweilung, alla pausa”, alla
“passività” che un oggetto attraente suscita nel pensiero (65; 61)29.
Prima di intraprendere la ricerca sulle condizioni a priori dei
giudizi, è necessario che il pensiero critico si trovi in uno stato
riflessivo di questo tipo, se quanto meno esso non vuole – e deve
non volerlo – che le condizioni a priori siano in un qualsiasi modo
pre-giudicate nella sua ricerca, così che quelle siano solo delle
illusioni e le sue scoperte delle parvenze. Il pensiero deve osservare
una “pausa” in cui sospende l’adesione a ciò che crede di sapere. Si
mette in ascolto di ciò che è sul punto di orientare il suo esame
critico: un sentimento. La critica deve aprire un’inchiesta sul
“domicilio” di legittimazione di un giudizio. Questo domicilio è
costituito dall’insieme delle condizioni a priori di possibilità di questo
giudizio. Ma come fa la critica a sapere che esso ha un domicilio, e
come sa dove trovarlo, supponendo che essa non sia già informata
sul suo indirizzo? E anche se ne fosse informata, sarebbe ancora
necessario che essa sia in grado di orientarsi per trovarlo. Orientarsi,
per il pensiero come per il corpo, esige però “un sentimento”. Per
orientarmi in dei luoghi sconosciuti potrei anche conoscere già i
sistemi di riferimento astronomici necessari (i punti cardinali): mi
sarebbe ancora concretamente “indispensabile provare, in rapporto
a me stesso, il sentimento di una differenza; intendo quella della
destra e della sinistra” (Orient., 77)30. Altrimenti, ad esempio, come
potrei mai sapere che, ponendomi di fronte al mezzogiorno, l’oriente
è alla mia sinistra? E Kant sottolinea: “chiamo ciò un sentimento;
perché questi due lati [destra e sinistra], esteriormente,
nell’intuizione, non presentano nessuna differenza notevole”
(ibidem)31. Di conseguenza, “mi oriento geograficamente soltanto
per mezzo di un principio di differenziazione soggettivo” (ibidem)32.
(Il sentimento che guida una maniera può essere definito un
principio che comanda un metodo? Ma esso è soggettivo.)
Trasposta nel campo del pensiero, la questione è dunque quella
di un tale “principio soggettivo di differenziazione” che permetta “alla
ragione” di determinare il suo “Fürwahrhalten”, il modo in cui essa
tiene per vero un oggetto del pensiero in assenza dei “princìpi
oggettivi della ragione” (ibidem, 78)33. Questa problematica dell’uso
empirico di concetti “già” determinati (in questo caso, i punti
cardinali) è senz’altro quella di una riflessione pura. Kant vi
risponderà, nell’articolo che cito, ricorrendo al “sentimento del
bisogno proprio della ragione” (ibidem)34. Ma la sua risposta è essa
stessa orientata secondo la posta in gioco nella discussione a cui è
dedicato l’articolo, la “disputa sul panteismo” tra Jacobi e
Mendelssohn. Quanto alla riflessione estetica, il “principio soggettivo
di differenziazione” non deve poter essere che il sentimento di
piacere e dispiacere. È soltanto questo a poter dare o a rifiutare il
satisfecit a quell’orientamento adottato dalla riflessione, e ciò
immediatamente, “soggettivamente”, in assenza di qualsiasi principio
oggettivo. Ancora, è necessario che questo piacere e il suo contrario
siano “puri”, senza il che procederebbero necessariamente dalla
soddisfazione di una facoltà diversa (teoretica o pratica) rispetto a
quella del piacere e del dispiacere, o persino da un mero gradimento
empirico. Essi perderebbero con ciò ogni valore discriminate per la
riflessione, e soprattutto attesterebbero che le legislazioni che
devono essere ancora scoperte esercitano già i loro criteri di
soddisfazione sul pensiero che prova a domiciliarle. La “pausa” non
sarebbe stata veramente rispettata.
Si vedrà che, in verità, quest’ultima congiuntura (del tipo: non mi
cercheresti se non mi avessi già trovato) non viene affatto evitata dal
pensiero kantiano, e che essa è persino inevitabile. Ma non poter
evitare è una cosa, sapere ciò che bisogna evitare è un’altra. Questo
“sapere” ideale è dato alla riflessione nel giudizio estetico, affinché
questa vi trovi il modello della sua “maniera” più autonoma. La
lettura che annuncio – senza nulla contestare alla legittimità dell’altra
– ammette, di conseguenza, che se la terza Critica può adempiere
alla sua missione di unificazione del campo filosofico, non è, in
particolare, perché espone come suo argomento l’Idea regolativa di
una finalità oggettiva della natura – è perché rende manifesta, a
titolo di estetica, la maniera riflettente di pensare che è all’opera nel
testo critico nella sua interezza.
2. La sensazione come tautegoria

Riprendiamo la distinzione di questi due tipi di operazioni devolute


alla riflessione, che non è per nulla facile pensare insieme: le
operazioni di conduzione, che ho chiamato euristiche per l’attività
trascendentale del pensiero, e le “sensazioni”, che informano il
pensiero sul suo “stato”. La difficoltà consiste nella combinazione di
queste due disposizioni. Se ne potrebbe riassumere la posta in gioco
nella duplice questione, certo un po’ sommaria: come possono dei
sentimenti orientare la critica? E perché quest’ultima ne ha bisogno?
Esaminiamo in primo luogo il sentimento stesso. Come si sa, il
termine “estetico” subisce nella terza Critica, in rapporto al suo uso
nella prima, uno slittamento semantico importante. Sorvolo sulle
questioni, a dire il vero primordiali, che si ricollegano a questa
piccola rivoluzione. Essa deve in ogni caso interdire di trasporre
senza precauzione la problematica delle forme pure a priori della
sensibilità in quella dell’analisi dei giudizi sul bello e sul sublime.
“Estetica” significa dapprima, nel contesto della problematica delle
condizioni di una conoscenza in generale, la comprensione dei dati
dell’intuizione sensibile nelle forme a priori dello spazio e del tempo.
Nella terza Critica, il termine designa invece il giudizio riflettente
stesso in quanto interessa esclusivamente quella “facoltà dell’anima”
che è il sentimento di piacere e dispiacere. Kant sottolinea che il
termine sensazione, come “determinazione del sentimento del
piacere o del dispiacere […] significa qualcosa di completamente
diverso, etwas ganz anderes” rispetto alla “rappresentazione di una
cosa” (51; 42)35. La sensazione era un pezzo indispensabile nel
“montaggio” delle condizioni di possibilità di una conoscenza
oggettiva in generale, la cui articolazione essenziale consiste nella
sussunzione di un dato intuitivo, già sintetizzato da uno schema,
sotto la sintesi di un giudizio secondo un concetto, di cui è incaricato
l’intelletto. Essa non ha più, nell’Analitica del gusto, alcuna finalità
cognitiva, non dà più nessuna informazione su un oggetto, ma
soltanto sul “soggetto” stesso.
La sensazione, in questo secondo senso, informa “l’animo” sul
suo “stato”. Diciamo che lo “stato d’animo”, il “Gemütszustand”, è
una sfumatura [nuance]. Questa sfumatura affetta il pensiero mentre
questo pensa qualcosa. L’affezione occupa una posizione su una
scala cromatica [nuancier] delle affezioni che si estende dal piacere
estremo all’estremo dolore, i quali sarebbero, per il pensiero
riflettente puro, come la destra e la sinistra. La sensazione,
l’aisthèsis, segnala dove si trova “l’animo” su questa scala di tinte
affettive. Si può dire che la sensazione è già un giudizio immediato
del pensiero su se stesso. Il pensiero, data l’attività che gli è propria
in quel momento, giudica di stare “bene” o “male”. Questo giudizio
sintetizza in tal modo l’atto del pensiero che si sta compiendo in
occasione di un oggetto con l’affezione che gli procura quest’atto.
L’affezione è come la ripercussione interiore [le retentissement
intérieur] dell’atto, la sua “riflessione”.
Da questa breve localizzazione della sensazione36 seguono due
caratteristiche notevoli, che si rapportano entrambe al soggetto e al
tempo estetici. La prima è che la sensazione è sempre presente [est
toujours là]. Conscio del problema che solleva l’idea di permanenza
nel pensiero critico, soprattutto se applicata al “soggetto”, con ciò
non voglio dire che essa è permanente. Ci ritornerò. Con “sempre
presente” [toujours là], intendo soltanto che essa è presente [qu’elle
est là: “che essa c’è”] “ogni volta” che c’è un atto di pensiero: ciò che
Kant chiama una “conoscenza” o una “rappresentazione”. Il termine
“atto di pensiero” non è anch’esso esente da difficoltà. Si può
sperare di diminuirle limitando la sua portata alla nozione di pensiero
attuale piuttosto che attivo, occorrente piuttosto che performante:
“poiché, in quanto contenuta in un istante, in einem Augenblick
enthalten, non c’è nessuna rappresentazione che possa essere
qualcos’altro, niemals etwas anderes, che un’unità assoluta, als
absolute Einheit” (KRV A, 111-112 t.m.; 143; in corsivo nel testo)37.
Quest’occorrenza della sensazione accompagna tutti i modi del
pensare, qualunque ne sia la natura. Per riprendere i termini che
Kant impiega per collocarla nella “scala graduale” delle
rappresentazioni (KRV, 266; 354)38, che si “intuisca” o che si
“concepisca”, che si formi una “nozione” o una “idea”, c’è sempre
sensazione. La dicotomia con la quale inizia questa classificazione
interessa direttamente la nostra questione. Essa distingue nelle
percezioni (che sono le rappresentazioni “accompagnate da
coscienza”), le conoscenze – “Erkenntnis (cognitio)”: le percezioni
oggettive; e le sensazioni – “Empfindung (sensatio)”, percezioni “che
si riferiscono unicamente al soggetto, come modificazioni del suo
stato” (ibidem)39. L’intuizione, come la sensazione, è una
rappresentazione immediata; ma dell’oggetto, non del “soggetto”. È
dunque una “conoscenza”. La sensazione, malgrado la presenza
immediata dello stato del pensiero che segnala, o a causa di esso,
non è la conoscenza di un soggetto. Nel passaggio citato non si dice
che essa è presente, che c’è [est là] ogni volta che c’è
“rappresentazione”, almeno cosciente. Ma vedremo nella “deduzione
del senso comune” al § 21 della terza Critica (infra VIII.2) che tale
deve essere il caso, se, come minimo, il giudizio estetico non deve
essere ridotto a un’opinione particolare legata a un semplice
gradimento empirico (54-55; 46-48)40. Questo stesso argomento
secondo l’universalità delle condizioni a priori della conoscenza in
generale (del pensiero) è stato annunciato – lo si è visto –
nell’Introduzione (37; 28)41 per legittimare la pretesa del gusto
all’universalità.
Ogni atto del pensiero si accompagna dunque a un sentimento
che segnala al pensiero stesso il suo “stato”. Ma questo stato non è
nient’altro che il sentimento che lo segnala. Essere informato sul
proprio stato è per il pensiero provare questo stato, essere affetto.
La sensazione (o il sentimento) è allo stesso tempo lo stato del
pensiero e l’avvertimento del suo stato fatto al pensiero da questo
stato. Tale è la prima caratteristica della riflessione: l’immediatezza
folgorante e la perfetta coincidenza del senziente e del sentito, al
punto che persino la distinzione dell’attivo e del passivo in questo
“sentire” è per il sentimento impropria, in quanto vi introdurrebbe
l’abbozzo di un’oggettività e, con essa, di una conoscenza. Se posso
affermare che qui si tratta senz’alcun dubbio di riflessione, è perché
la sensazione si riferisce all’unico criterio di differenziazione di
piacere/dolore (e niente affatto a vero/falso o giusto/ingiusto). La
facoltà dell’anima che ha l’incarico di questa differenziazione è il
sentimento di piacere e dispiacere, al quale corrisponde, dal lato
delle facoltà cosiddette conoscitive, la semplice “facoltà di giudizio”
(42; 36)42. Nel suo modo puro, questa è però riflettente. La
riflessione pura è dapprima la capacità del pensiero di essere
informato immediatamente del suo stato, attraverso questo stato e
senza il mezzo di criteri diversi dal sentimento.
Al § 9 della terza Critica, Kant introduce la sensazione. La
questione è di sapere in che modo, nel giudizio di gusto, prendiamo
coscienza dell’accordo delle facoltà (conoscitive) che vi è in gioco,
se è per mezzo di una sensazione o “intellettualmente”. Ecco come
viene argomentata la risposta a questo problema:

Se la rappresentazione data, che dà occasione al giudizio di gusto, fosse


un concetto che unificasse l’intelletto e l’immaginazione nell’estimazione, la
Beurteilung, dell’oggetto perché si abbia una conoscenza di quest’ultimo, la
coscienza di questo rapporto sarebbe intellettuale (come nello
schematismo oggettivo della facoltà di giudizio, di cui tratta la Critica). Ma
allora il giudizio non verrebbe dato in relazione al piacere e al dispiacere, e
quindi non si tratterebbe di un giudizio di gusto. Ora, invece, il giudizio di
gusto determina l’oggetto relativamente alla soddisfazione e al predicato
della bellezza indipendentemente da concetti. Ne consegue che l’unità
soggettiva del rapporto può manifestarsi, kenntlich machen, soltanto tramite
la sensazione (62; 57).43

Più avanti (§ 36)44, allorché si tratta di procedere alla “deduzione”


dei giudizi di gusto rispondendo alla questione “come sono possibili
giudizi di gusto?”, Kant distingue tale questione da quella della
possibilità dei giudizi conoscitivi nei termini seguenti: a differenza dei
secondi, nei primi la facoltà di giudizio “non deve semplicemente
sussumere [dei dati] sotto concetti oggettivi dell’intelletto e non è
sottoposta a una legge, ma è per se stessa, soggettivamente,
oggetto come anche legge, Gegenstand sowohl als Gesetzt ist” (123
t.m.; 138)45.
Si vede delinearsi già, soprattutto in quest’ultimo passaggio, l’altra
caratteristica della riflessione, una capacità che chiamerei
domiciliatrice: per avere una conoscenza dell’oggetto, il pensiero
può riferirsi all’autorità dell’intelletto; quanto al gusto che ha per
l’oggetto, si rimette alla propria competenza, alla sua “legge”, che è il
“principio soggettivo” già menzionato. Perché il pensiero, giudicando
ciò che piace, deve giudicare soltanto secondo il suo stato. In tal
modo, questo stato che è l’“oggetto” del suo giudizio è lo stesso
piacere che è la “legge” di questo giudizio. Nell’estetica, questi due
aspetti del giudizio – referenzialità e legittimità, per così dire – sono
soltanto uno. Deviando il termine dall’uso esatto che gli attribuisce
Schelling (per quanto si tratti di un problema analogo), è questa
notevole disposizione che definisco la tautegoria della riflessione46. Il
termine designa l’identità della forma e del contenuto (o della “legge”
e dell’“oggetto”) nel giudizio riflettente puro così come ce lo
consegna l’estetica.
La ricorrenza della sensazione a ogni occorrenza del pensiero
(cosciente) ha per effetto che il pensiero “sappia” (pur senza
conoscerlo – ma la sensazione è una rappresentazione
accompagnata da coscienza, una percezione) qual è lo stato in cui si
trova all’occorrenza. La sensazione può così transitare attraverso i
differenti movimenti del pensiero che la critica ha distinto. Essa ha
luogo in occasione di ogni oggetto che il pensiero può pensare,
ovunque sia nel “campo” delle conoscenze possibili. Perché la
sensazione ha luogo unicamente in occasione di un pensiero. Le
differenze che hanno permesso di gerarchizzare il semplice
“domicilio” di un oggetto di pensiero in rapporto a un “territorio”, in
cui la sua conoscenza si rivela possibile, e a un “dominio”, in cui il
pensiero legifera a priori (23-24; 9-10)47, queste suddivisioni non
impediscono affatto che a ogni occasione il pensiero si senta. Esso,
suppongo, deve sentirsi persino quando si rapporta agli oggetti di
quel “campo illimitato” (25; 11)48 che è il sopra-sensibile; anche se
non vi si trovano che Idee della ragione i cui oggetti non si possono
conoscere teoreticamente (ibidem)49.
Si obietterà che questa transitività è certa dal momento che si è
presupposto uno spirito, un pensiero, un soggetto, e che così la
riflessione non è altro, in conclusione, che il predicato di una di
queste entità. Di modo che la ricorrenza della sensazione non
farebbe altro che tradurre in successione la permanenza del
sostrato. Una tale obiezione non solleva niente meno che il
problema del soggetto nel pensiero kantiano. Ci ritorneremo. Ma
quanto alla presupposizione di un sostrato “portante” [porteur] la
sensazione, la confutazione di quest’ipotesi è semplice. Se nel
pensiero kantiano vi è infatti un sostrato, ciò è soltanto, lo si sa, a
titolo di Idea regolativa; perché il sostrato è il soprasensibile e noi
non ne abbiamo alcuna conoscenza (168-169; 203-205)50. L’idea
che noi ne abbiamo non può nemmeno essere unica, giacché deve
adattarsi a ognuna delle antinomie che sono proprie delle tre grandi
facoltà che sono oggetto della critica. Per rappresentarsi questo
sostrato, sono necessarie non una, ma tre Idee: quella di un
“soprasensibile della natura in generale”, quella di una “finalità
soggettiva della natura per la nostra facoltà conoscitiva”, e quella di
una finalità della libertà in armonia con la finalità della moralità (169;
205; cfr. infra VIII.7.)51. Si è con questo a cento leghe dalla
rappresentazione di un supporto per quei predicati come il
sentimento di piacere e dispiacere.
È degno di nota che, nella maggior parte dei testi citati che
riguardano la riflessione, si fa menzione del soggetto soltanto
raramente. Le eccezioni si trovano in generale nell’Introduzione.
Qualsiasi cosa sia, il concetto di “soggetto”, nella sua forma
sostantiva, non sembra affatto necessario all’intelligenza di che
cos’è la riflessione. La nozione di “pensiero attuale”, nel senso
richiamato più in alto, è sufficiente. Al contrario, le forme aggettivali o
avverbiali “soggettivo”, “soggettivamente” abbondano in questi testi.
Esse non designano un’istanza, la soggettività, a cui la sensazione
si rapporterebbe. Permettono di distinguere l’informazione che la
sensazione fornisce al pensiero da quella che gli apporta una
conoscenza dell’oggetto. Si è letto (62; 57)52 che Kant colloca la
suddetta sensazione in una specie di simmetria con lo schema. Il
parallelismo è subito abbandonato perché lo schema rende possibile
una conoscenza, mentre la sensazione non ne procura alcuna.
Ciononostante, qualcosa della simmetria può esser conservato:
come lo schema, dal lato dell’oggetto (se così si può dire), unisce
due facoltà, immaginazione e intelletto, per rendere possibile la
conoscenza di un oggetto, la sensazione, dal lato del pensiero, è
soltanto il segno, invece, della loro unione (piacere) o della loro
disunione (dispiacere) in occasione di un oggetto. In entrambi i casi,
si tratta senz’altro di un rapporto tra le due stesse facoltà. Resta il
fatto che lo schema è un operatore di determinazione dell’oggetto da
conoscere, la sensazione un semplice indice, per il pensiero, dello
stato del pensiero di quest’oggetto. Quest’indice fornisce
l’indicazione di questo stato ogni volta che il pensiero pensa. Si può
dire che vi si riflette, a condizione di ammettere una riflessione senza
rappresentazione, nel senso moderno di quest’ultima parola (Freud,
per esempio, concepisce l’affezione come un “rappresentante”
senza rappresentazione)53.
È per render conto di questa disposizione che Kant introduce la
nozione di una facoltà supplementare – fin qui passabilmente
trascurata, soprattutto sotto l’aspetto “tautegorico” –: la mera
capacità di sentire piacere o dispiacere. Questa non ha più bisogno
di esser riferita a un “soggetto” sostanziale di quanto non ne abbiano
le altre facoltà. Queste, rimanendo nel pensiero critico, non sono – o
non devono essere – che degli insiemi di condizioni che rendono
meramente possibili a priori dei giudizi sintetici. Una facoltà, nella
sua connotazione logica, può ridursi a un gruppo di proposizioni
“prime”54, che sono le suddette condizioni a priori: definizioni di
oggetti pensabili, assiomi delle sintesi che si possono effettuare su di
essi. E ciò che Kant chiama il “territorio” o il “dominio” della facoltà
sarebbe ciò che logicamente nomina il dominio di applicazione di un
gruppo di assiomi (mutatis mutandis…).
“Soggettivo” definisce sempre uno stato del pensiero (dello
“spirito” [“esprit”], se si vuole, ma il Gemüt del Gemütszustand è più
un modo sentimentale di quanto non sia un Geist). Il termine obbliga
la critica a interrogarsi su ciò che risente il pensiero quando pensa.
Su ciò che esso non può non risentire in ogni caso o, come scrive
Kant, in tutte le “occasioni”55. Se dunque si può parlare della
transitività della sensazione agli usi del pensiero, non ci si inganni:
essa è soltanto l’insistenza dell’ombra che questo pensiero attuale
proietta su se stesso, e non la persistenza di un predicato
sostanziale che si attribuisca “al pensiero”. Nella sensazione, la
facoltà di giudizio giudica soggettivamente, e cioè riflette lo stato di
piacere o dispiacere in cui si sente il pensiero attuale. Questa
caratteristica quasi elementare, sulla quale poggerà la deduzione
dell’universalità soggettiva del gusto, emerge nel giudizio estetico,
giacché in questo caso il giudizio non ha nessun valore oggettivo, e
la facoltà di giudizio non deve giudicare, di fatto, nient’altro che uno
stato di piacere o dispiacere, il quale, in questo momento, è già
questo giudizio.
3. Il “soggettivo”

La seconda osservazione verte su ciò che la precedente implica


riguardo alla natura di una temporalità estetica. Non farò altro che
delinearla, poiché quest’ultima merita uno studio a parte. Un
elemento indispensabile di questo studio risiede nell’analisi del
piacere provato nel gusto dal punto di vista delle facoltà della
conoscenza in generale. C’è un minimalismo della condizione a
priori del piacere procurato dal bello:

Poiché i concetti costituiscono in un giudizio il suo contenuto (ciò che


appartiene alla conoscenza dell’oggetto), e però il giudizio di gusto non è
determinabile mediante concetti, allora esso si fonda soltanto sulla
condizione soggettiva formale di un giudizio in genere. La condizione
soggettiva di tutti i giudizi è la stessa capacità di giudicare, o facoltà di
giudizio (121; 136-137).56

Dove si vede perché la “deduzione” del giudizio di gusto è “così


facile”: essa “non ha bisogno di giustificare la realtà oggettiva di un
concetto” (124; 141)57. Questo minimalismo dal lato delle facoltà
conoscitive esclude l’attribuzione del piacere a un soggetto. Esso
spinge al contrario all’analisi della parte che giocano le altre due
facoltà, l’immaginazione e l’intelletto, nello “stato” del pensiero che è
il piacere. È infatti nella loro relazione reciproca al di fuori di qualsiasi
intento cognitivo che risiede la sfumatura di questo stato, o che
consiste questo stato stesso.
Questo è ciò che mostra l’Analitica del giudizio di gusto sotto il
doppio capo della sua quantità e della sua modalità. Dovremo
tornare in seguito sull’utilizzo delle categorie per quest’analisi (infra,
I.7-8, II). Se il gusto non deve versare nella particolarità e nella
contingenza di un gradimento empiricamente determinato, bisogna
poter scoprire in esso un’universalità e una necessità, a dispetto del
suo carattere esclusivamente “soggettivo”. La soluzione data
dall’Analitica a questo problema è nota: il giudizio sul bello non è
immediatamente universale, ma “richiede, sinnet… an”, “si aspetta,
erwartet”, “si ripromette, sich… verspricht” (60; 54)58
immediatamente l’universalità soggettiva, a titolo di una
“Gemeingültigkeit”, di una validità universale (58; 52)59. Ciò per
quanto concerne la sua quantità. Per quello che riguarda invece la
sua modalità, il giudizio di gusto unisce il “favore”, la “Gunst” (55;
47)60 che lo distingue dagli altri tipi di compiacimento, alla forma
giudicata bella in modo necessario: questa forma non può non
piacere. Ma questa necessità non può essere dimostrata, né
tantomeno anticipata per mezzo di un ragionamento. Essa è definita
“esemplare, exemplarisch” (77; 78)61 perché il giudizio, nella
singolarità della sua occorrenza all’occasione, tutta contingente,
della forma di un oggetto, non fa altro che dare l’“esempio di una
regola universale che non si può addurre, die man nicht angeben
kann” (ibidem, t.m.)62. Questa forma non deve poter non piacere.
Così definite, la quantità e la modalità contravvengono
notevolmente a ciò che dovrebbero essere se fossero delle
categorie dell’intelletto. Ammettono delle clausole – restrittive, se si
vuole – che ne fanno delle specie di mostri logici. Ma in queste
distorsioni bisogna vedere esattamente il segno del fatto che
abbiamo a che fare con dei “luoghi” della topica riflessiva, i quali
sono dei modi di sintesi soggettivi, provvisori o preparatori alle
categorie tali, quali li descrive l’Appendice all’Analitica della prima
Critica intitolata Anfibolia dei concetti della riflessione (KRV, 232;
309)63. (Ci tornerò più avanti. Per abbreviare, farò riferimento a
questo testo semplicemente con il nome di “Appendice”.) Al posto di
ciò che sarà la quantità di un giudizio determinante, la riflessione
può già comparare dei dati sotto il “titolo, Titel” della loro identità o
diversità; e al posto della modalità, sotto il “titolo” della loro
determinabilità o della loro determinazione (KRV, 233, 236-237; 310,
315-316)64. La distorsione o la mostruosità che affettano le categorie
per mezzo delle quali procede l’analisi del gusto risultano dal fatto
che qui il movimento dell’anamnesi riflessiva lavora il soggettivo a
partire dall’oggettivo. Se le categorie in quanto tali fossero applicabili
al gusto, questo sarebbe un giudizio determinante. (Ma è vero, e
proveremo a comprendere perché, che questo giudizio che non è
determinante, per apparire in quanto tale, paradossalmente, ha
bisogno di essere analizzato per mezzo delle categorie.)
Esso è riflettente, e dunque singolare o particolare, ma comporta
una duplice pretesa all’universale e al necessario. Legittima? Lo è
sotto la condizione del principio che la autorizza. Questo principio è
“soggettivo”, evidentemente. “Determina soltanto mediante il
sentimento e non mediante concetti, welches nur durch Gefühl und
nicht durch Begriffe […] bestimme” (78; 79)65. E si formula: bisogna
che ci sia un “Gemeinsinn”, un “senso comune”66. Questo senso non
è affatto un “senso esterno” (allusione, forse, alla supposizione di un
sesto senso, estetico, fatta da Du Bos e da Hutcheson)67, ma
“l’effetto del libero gioco delle nostre facoltà conoscitive” (78; 80)68.
È lo stesso principio che è stato presupposto, al § 8, sotto il nome di
“voce universale, eine allgemeine Stimme” (60; 54)69. Questo
termine è raro, se non unico, nel testo della terza Critica. Stimme
dice tutt’altra cosa dal francese voix [l’italiano “voce”]; esso evoca sia
l’accordo delle voci e il clima di un’anima (Stimmung), sia l’abbozzo
della sua determinazione come destinazione (Bestimmung). Il
termine porta direttamente all’analisi del Gemeinsinn. Ciò che si
accorda, in questo, sono le voci dell’intelletto e dell’immaginazione,
dunque le facoltà conoscitive; ma precisamente “prima” che esse
operino in modo determinante, prese soltanto nelle loro rispettive
attitudini: l’una per concepire, l’altra per presentare.
È nota la discussione che provoca l’interpretazione da dare a
questo senso comune. Proverò a mostrare che esso, per la sua ratio
essendi, non consiste nell’assenso che gli individui empirici si danno
gli uni gli altri a proposito della bellezza di un oggetto, ma – in
quanto rende possibile a priori il sentimento del piacere estetico –
nel punto d’unisono in cui si trovano, in quel momento, le due “voci”
di facoltà [facultaires]: “proporzionata disposizione all’accordo,
proportionierte Stimmung” (62; 58)70, “disposizione all’accordo,
Stimmung”, “proporzione, Proportion” in cui il loro “rapporto,
Verhältnis” è il “più favorevole, zuträglichste” (79; 80)71. Questo
argomento verrà sviluppato più avanti (infra I.8). Al momento, mi
accontento di supportarlo con questo passaggio dal § 31:

Ora, se tale validità universale [del gusto] non deve fondarsi su una
raccolta di voti, la Stimmensammlung, la raccolta delle voci, e su
un’inchiesta sul modo di sentire degli altri, ma deve riposare, per così dire,
su una autonomia del soggetto che giudica sul sentimento di piacere (per la
rappresentazione data), cioè sul suo proprio gusto, e tuttavia neppure deve
essere derivata da concetti, [ecc…] (116-117 t.m.; 130).72

Ponendo il problema dell’universalità del gusto in questi termini,


questo testo (tra altri) dovrebbe essere sufficiente a scoraggiare una
lettura sociologizzante o antropologistica del senso comune estetico,
sebbene altri passaggi della terza Critica sembrino prestarvisi (127;
144-145)73. Penso in particolare alla lettura di Hannah Arendt74, ma
lei non è la sola. “L’autonomia del soggetto” qui evocata da Kant non
può essere nient’altro che ciò che chiamo tautegoria riflettente. Che
ci riconduce alla nostra questione, quella del tempo estetico.
Il piacere del bello promette, esige, dà ad esempio una
contentezza condivisa. Non si avranno mai delle prove che questa
contentezza sia condivisa, neppure se degli individui o delle culture
dovessero mettersi empiricamente d’accordo nel riconoscere come
belle delle forme date dalla natura o dall’arte. Non può esserci
alcuna prova di ciò perché il giudizio di gusto non è determinante, e
il predicato della bellezza non è oggettivo (49-50, 55-56; 39-40, 48-
49)75. Se, nondimeno, il gusto comporta questa richiesta, ciò
dipende dal fatto che esso è il sentimento di una possibile armonia
delle facoltà conoscitive al di fuori della conoscenza. E dato che
queste facoltà sono universalmente e necessariamente richieste in
ogni pensiero che in generale giudichi, la loro convenienza migliore
deve poterlo essere anche in ogni pensiero che si giudichi, vale a
dire che si senta. È questa, riassumendo, la “deduzione” del
principio del senso comune di cui il § 21 (78-79; 80-81)76 fornisce lo
scheletro argomentativo (annunciato al § 9: 61; 55-56)77. Questa
“deduzione” riposa sul “fatto”, procurato dal piacere del gusto stesso,
che c’è un grado di intesa ottimale tra le due facoltà, persino
quando, liberate dagli obblighi della conoscenza e della moralità,
esse si sfidano l’un l’altra ad afferrare ciò che procura questo
piacere, la forma dell’oggetto: “libero gioco, freie Spiel” (61; 55)78,
“vivificazione, Belebung” (65, 122; 61, 137)79 che “risveglia,
erweckt”, “incita, versetzt” (129; 147)80 (infra II.3).
Ammesso questo, resta il fatto che questo unisono ha “luogo”
soltanto ogni volta che il piacere del gusto viene sentito. Esso è
soltanto la “sensazione” di questo unisono, qui e adesso. E libera un
orizzonte di unisono in generale, pur essendo esso stesso singolare,
legato all’occorrenza imprevedibile di una forma. L’unione delle
facoltà è sentita in occasione di questo tramonto, in occasione di
questo allegro di Schubert. L’universalità e la necessità sono
promesse, ma ogni volta promesse singolarmente, e non sono mai
altrimenti che promesse. Non ci si potrebbe sbagliare maggiormente
sui giudizi di gusto che dichiarandoli senz’altro universali e
necessari.
4. La temporalità estetica

Considero questo unisono singolare e ricorrente, ma sempre


“nuovamente”, che appare ogni volta per la prima volta, come lo
schizzo di un “soggetto”. Ogni volta che una forma procura il piacere
puro che è il sentimento del bello, è come se le dissonanze che
dividono il pensiero (quelle dell’immaginazione e del concetto)
entrassero in fase e lasciassero il posto, se non a una consonanza
perfetta, a una coniugalità pacifica, per lo meno a un’emulazione
benevola e dolce, come quella che unisce i fidanzati (infra VII). Il
soggetto sarebbe la compiuta [parachevée: “perfezionata”] unità
delle facoltà. Ma il gusto non risulta da quest’unità. E in questo
senso non può essere provato da un soggetto. Esso risulta dal
fidanzamento delle due facoltà, e annuncia così la nascita sperata di
una coppia unita. Non c’è una soggettività (questa coppia) che
proverebbe dei sentimenti puri: c’è questo sentimento puro che
promette un soggetto. Nell’estetica del bello, il soggetto è “in stato
nascente”.
Lo è ogni volta che c’è piacere del bello. Non resta nascente.
Affinché lo resti, dovrebbe essere come minimo possibile che la
sintesi delle sue “promesse d’unità” in un’unità persista identica a se
stessa attraverso il tempo. Ché questa condizione di persistenza è
una di quelle che si devono trovare nella concezione di un soggetto.
Si vede bene che la condizione è contraddittoria: se un’unità delle
promesse fosse possibile, le promesse d’unità sarebbero impossibili,
o fallaci. L’estetica non sarebbe altro che un qualcosa di logico
ancora confuso.
Anche logicamente, però, la condizione di unificazione della
diversità delle rappresentazioni in un soggetto incontra una grande
difficoltà. Questa sintesi, come si sa, viene tentata nella seconda
edizione della prima Critica sotto il titolo di Deduzione trascendentale
dei concetti puri dell’intelletto. Che questa deduzione (nel senso
critico) (KRV A, 100; 126)81 manchi o meno il proprio oggetto è una
cosa che non discuterò in questa sede. Ricorderò soltanto che,
qualsiasi sia la sua consistenza intrinseca, “il principio dell’unità
sintetica dell’appercezione” che essa stabilisce o pretende di
stabilire, anche detto “Ich denke” o “Sé identico” (KRV B, 110, 113;
140; 145)82, si rapporta solo al pensiero che conosce
oggettivamente degli oggetti. Mentre argomenta per legittimare
questo principio (KRV B, § 19)83, Kant insiste su questo aspetto al
punto da farne la molla della suddetta deduzione: in mancanza di un
collegamento al principio a priori di questo Selbst, i giudizi sugli
oggetti potrebbero avere solo una “validità soggettiva” (ivi, 119;
154)84, “semplicemente soggettiva” (ivi, 120; 154-155)85, come nel
caso delle “percezioni” e delle “associazioni” (ibidem)86.
Senza parlare delle difficoltà intrinseche di questa deduzione, è
certo che ci si ingannerebbe pesantemente se si cercasse il
“soggetto” estetico dal lato di una sintesi analoga a quella dello Ich
denke, che non ha altro scopo che garantire l’oggettività dei giudizi.
Dirò di più. Anche una lettura come quella di Heidegger, che si
sforza, non senza ragioni, di dimostrare che l’autentico principio
della sintesi non è, in definitiva, lo “Io penso”, ma il tempo87 – anche
questa lettura non può valere (se vale) che per la conoscenza, e può
riguardare soltanto i giudizi teoretici determinanti. È chiaro che la
moralità, ad esempio, non potendo essere tale che in ragione della
supposizione che si deve fare, per dedurla, di una causalità
incondizionata che sfugge per ipotesi al tempo seriale delle
condizioni della determinazione, richiede una nozione di tempo o di
temporalità eterogenea rispetto a quella che esige la conoscenza
(infra V.3). Lo stesso vale a fortiori per il tempo estetico. I giudizi di
gusto non determinano niente del loro oggetto. Per essere
sintetizzati gli uni con gli altri in una successione ed eventualmente
in un soggetto, è comunque necessario che essi stessi siano
compresi come oggetti di questa sintesi. Ciò è sempre possibile. Ma
questa sintesi sarà ipso facto quella che unisce la diversità dei
giudizi di gusto sotto il concetto della loro determinazione e sotto lo
schema della loro successione. Sarà dunque teoretica e oggettiva,
come l’unità a priori dell’appercezione, non estetica e soggettiva.
Bisognerebbe spingersi ancor oltre. La prima edizione della prima
Critica, nell’Avvertenza preliminare, o, più esattamente, nella
“vorläufige Erinnerung” che costituisce il corpo della seconda
Sezione della Deduzione (KRV A, 110-129; 141-147)88, analizza in
dettaglio le tre sintesi elementari dell’apprensione, della riproduzione
e della ricognizione (ivi, 109; 140-141)89 che si applicano ai dati sui
quali l’intelletto potrà fornire dei giudizi di conoscenza. Queste
sintesi, scrive Kant, “conducono a tre fonti conoscitive soggettive, le
quali rendono possibile, esse stesse [queste fonti], l’intelletto e, per
suo tramite, ogni esperienza in quanto prodotto empirico
dell’intelletto” (KRV A, 109 t.m.; 141)90. Che queste fonti siano
“soggettive” Kant l’ha già notato qualche riga più in alto, precisando
che “costituiscono i fondamenti a priori della possibilità
dell’esperienza”91 che hanno appena sostituito le categorie
dell’intelletto. La “realtà oggettiva”92 di queste ultime è
sufficientemente autorizzata dalla prova che non si può pensare
senza di esse. Ma qui si tratta di “più che, mehr als”93 dell’unica
capacità di pensare che è l’intelletto. Si tratta dell’intelletto in quanto
conosce degli oggetti. È la possibilità trascendentale di questa
conoscenza degli oggetti che le “fonti soggettive”94 (le sintesi) hanno
appena fondato.
L’importanza di queste sintesi è però decisiva per i giudizi estetici
per lo meno per ciò che riguarda il loro rapporto al tempo. Non è un
caso se, nella terza Critica, l’Analitica del sublime dal punto di vista
“matematico” verta quasi interamente, sotto la categoria di quantità
o, meglio, sotto il “titolo” del suo analogo soggettivo, sulla
“apprensione, Auffassung” e sulla “comprensione”, la
“Zusammenfassung”, detta altrimenti “comprehensio aesthetica” (91,
93, 97; 95, 98, 104)95, degli elementi di una forma data (infra IV.2).
L’analisi è condotta dal punto di vista dello spazio, ma è facile – e
interessante – trasporla nella forma del tempo. Il carattere penoso
che è proprio del sentimento del sublime procede in particolar modo
dall’aporia del giudizio che comporta dal punto di vista quantitativo
(infra IV). Trasposta sul tempo, questa aporia significa un’impotenza
a sintetizzare dei dati racchiudendoli “in un solo istante, in einem
Augenblick” (KRV A, 111-112; 143)96. Pertanto, se, nell’apprensione,
l’intuizione (limitata in questo caso al suo statuto soggettivo, in
quanto non si tratta di conoscere l’oggetto) è, se non impossibile,
come minimo ostacolata (infra V.5), ci si chiede come potrebbe aver
luogo la sintesi della “riproduzione nell’immaginazione” che le è
“inseparabilmente connessa” (KRV A, 115; 148)97. E della terza
sintesi, la “ricognizione nel concetto”98, non parliamo neppure. Non
si vede come in assenza di queste sintesi elementari, o “fonti
soggettive” che “rendono possibile l’intelletto”99, possa essere
dedotta l’unità di un soggetto (in questo caso il soggetto del
sentimento del sublime).
Ho scelto l’esempio del giudizio sublime perché dal canto suo
risponde chiaramente, e cioè negativamente, alla questione della
possibilità di un soggetto e di una temporalità estetici (sublimi)
costituiti sul modello dello Ich denke e della temporalità richiesti per il
pensiero teoretico. Non sembra discutibile il fatto che qui facciano
difetto le condizioni più elementari (le sintesi del tempo) per la sintesi
di un Selbst.
Ora, questa deficienza non impedisce affatto al sentimento
sublime di essere un sentimento, e cioè una “sensazione” per mezzo
della quale un pensiero, in questo caso riflettente, viene avvertito del
suo stato. Questo stato è senz’altro complesso e ambivalente
quanto alla qualità del giudizio che in esso è fornito sull’oggetto,
poiché il pensiero dice a quest’ultimo, che gli accorda e gli rifiuta il
suo “favore”, allo stesso tempo sì e no: “attirato, angezogen” e
“respinto, abgestoßen” (85; 88)100. Resta il fatto che “il giudizio
stesso [che è il sentimento del sublime] rimane in ciò sempre solo
estetico, perché, senza avere a fondamento un concetto determinato
di oggetto, rappresenta come armonico soltanto il gioco soggettivo
delle facoltà dell’animo […]” (97; 103)101. Ne concludo che queste
stesse proprietà che vietano la deduzione di un soggetto sublime
sono quelle che autorizzano la permanenza del sublime nell’ordine
del “soggettivo”.
Il “soggettivo” può e deve persistere come la sensazione di se
stesso che accompagna ogni atto di pensiero nel proprio istante,
persino quando la sintesi più elementare richiesta per la
conoscenza, quella di un’apprensione minima dei dati in una sola
acquisizione istantanea, non è più assicurata dalla facoltà che ne è
incaricata, e cioè l’immaginazione. Stanti così le cose, ciò che fa
difetto a questa sintesi nell’ordine della determinazione, la mancanza
della sintesi non è meno sentita in quello della riflessione. Perché
per la riflessione la sola sintesi pertinente è quella che mette in
relazione le facoltà in gioco nel pensiero. Che nel suo duello con la
ragione l’immaginazione soccomba – è questo che si segnala in e
come uno “stato” del pensiero: è questo che si sente. È una pena.
Trattandosi del gusto, la relazione tra i partner è buona, “ben
proporzionata” e “libera”, poiché non è sottoposta alla legalità
dell’intelletto che, tramite lo schematismo e i princìpi, costringe
l’immaginazione a preparare i dati alla loro sussunzione sotto
concetti. Questa libertà si significa in una dolce emulazione
reciproca delle facoltà di concepire e di presentare, senza che né la
prima debba poterla trascinare per mezzo di un eccesso “noioso”
(82; 85)102 di ordine (di geometria, ad esempio), né la seconda per
mezzo di una fantasia talmente incontrollata da sfuggire a qualsiasi
finalità soggettiva (80-83; 82-84)103. Questa disposizione eufonica
(per riprendere il motivo della Stimme) viene esaminata nell’analisi
del gusto dal punto di vista della relazione, che è qui la finalità (63-
76; 58-77)104. Tale finalità è soggettiva in quanto mette in relazione
le componenti del pensiero del bello, e cioè l’immaginazione e
l’intelletto, in modo da suggerire il loro accordo. È soltanto in questo
modo, lo ripeto, che un “soggetto”, un soggetto uno, viene
promesso.
Che la relazione delle facoltà in gioco nel sentimento del sublime,
l’immaginazione e la ragione, sia al contrario cacofonica non cambia
nulla alla disposizione generale che colloca l’intera estetica dal lato
del “soggettivo” o del giudizio riflettente. Semplicemente, il
sentimento sembra dover essere in esso l’opposto di quello che è
nel gusto, giacché ciò che si prova nel sublime non è la buona
proporzione nel gioco delle due facoltà che vi sono in esercizio, ma
la loro sproporzione e, persino, la loro incommensurabilità: un
“abisso, Abgrund” le separa, che “spaventa” e “attira”
l’immaginazione (97; 163)105 intimata di presentare l’assoluto. Il
paradosso dell’analisi di Kant (che qui segue molto da vicino,
checché egli ne dica, quella che Burke ha fatto del delight)106 sarà
svelare in questa cacofonia un’eufonia segreta e di rango superiore
(infra V).
Ma anche i partner saranno cambiati; la ragione sarà venuta a
rimpiazzare l’intelletto nella sfida da lanciare all’immaginazione ed è
proprio per questa che un’altra finalità potrà rivelarsi nelle rovine
della concordanza delle facoltà che costituiva il piacere del bello.
Perché è grazie al cambiamento di partner dell’immaginazione che
può mutarsi in un conflitto “dinamico” un conflitto che appariva
all’inizio, in seno all’Antinomica della prima Critica, soltanto
“matematico”. Da un conflitto in cui la riflessione licenzia [renvoie] le
due parti, fianco a fianco, per mezzo di un doppio No: voi non avete
né l’una, né l’altra, alcuna legittimità per pretendere ciò che
pretendete, – si passerà a un conflitto in cui la riflessione si appresta
ad avvalorarle entrambe per mezzo di un doppio Sì: l’immaginazione
è giustificata a sforzarsi di presentare l’impresentabile e a non
potervi riuscire; la ragione ha ragione di esigere da essa questo
sforzo vano, giacché la ragione è in questo caso pratica e l’Idea da
presentare è la causalità incondizionata, la libertà, che richiede
costitutivamente la propria effettuazione presente, ma che
costituisce anche la “destinazione” suprema dello spirito (infra VII.4
ss.).
Chiedersi adesso se il soggetto del sublime sia lo stesso di quello
del bello vuol dire porsi una domanda senza senso. Non c’è un
soggetto del sentimento del sublime (come sintesi, come contenente
o come supporto), più di quanto ce ne sia uno del gusto. Che il
sentimento sublime sia soggettivo significa che è un giudizio
riflettente e che a tal titolo non ha nessuna pretesa all’oggettività di
un giudizio determinante. Esso è soggettivo per il fatto che giudica in
base a e dello stato del sentimento, in modo tautegorico. Come per il
gusto, il filtraggio dell’analisi di questo giudizio estetico attraverso le
categorie permetterà di determinare una concezione di questo
“stato”. La procedura rivelerà quanto l’unità delle facoltà sia precaria,
quasi persa – il che è la componente d’angoscia di questo
sentimento. La “attitudine” alle Idee della ragione dev’esser
sviluppata affinché la prospettiva di un’unità possa risorgere dal
disastro e il sentimento del sublime, molto semplicemente, sia
possibile. È questa la sua componente d’elevazione che lo
apparenta al rispetto morale. Il gusto promette a ognuno la
contentezza di un’unità soggettiva compiuta; il sublime annuncia a
qualcuno un’altra unità, meno completa, in un certo senso
naufragata e più “nobile, edel” (109; 120)107. Ricordando questi
diversi predicati, non si fa altro che dipingere delle tinte, delle
sfumature del sentimento; non si costruisce un soggetto. Il
sentimento estetico, nella singolarità della sua occorrenza, è il
soggettivo puro del pensiero, e cioè il giudizio riflettente in se stesso
[le jugement réfléchissant en lui-même].
In Kant, ciò che si chiama “soggetto”, o è l’aspetto soggettivo del
pensiero, e consiste interamente nella tautegoria che fa del
sentimento, per il pensiero, il segno del proprio stato – e dunque,
giacché lo “stato” del pensiero è il sentimento, il segno del
sentimento stesso; oppure il soggetto è solo o l’epicentro [le point
zéro] a cui si è appena sospesa la sintesi dei concetti (nella prima
Critica), o l’orizzonte sempre differito della sintesi delle facoltà (nella
terza Critica). In entrambi questi ultimi due casi, esso è in sostanza
un’Idea di cui la prima Critica enumera i paralogismi che le si
attaccano se non si fa attenzione, riflessivamente, alla parvenza
trascendentale (KRV, 278 ss.; 370 ss.)108. È precisamente per
mezzo della riflessione, conducendosi sullo stato soggettivo del
pensiero, sul sentimento che lo accompagna in tutti i suoi atti, che si
può rintracciare questa parvenza e ristabilire i giusti domicili. E
quando l’atto del pensiero verte sul soggetto, è ancora per mezzo
della riflessione che si può fare la critica del concetto di soggetto.
5. L’euristica

È opportuno esaminare adesso le conseguenze, per il pensiero e il


testo critici, dell’altro tratto caratteristico della riflessione, quello che
ho chiamato euristico. Dire che la riflessione accompagna a titolo di
sensazione tutti gli atti del pensiero è dire poco: essa li guida. È dir
poco che essa attraversa la topica delle movenze di facoltà: perché
la elabora. È dir poco, ancora, dire che essa elabora se stessa in
modo trasparente nell’estetica, per il fatto che quest’ultima è
soggettiva: la riflessione è anche il laboratorio (soggettivo) di tutte le
oggettività. Sotto l’aspetto euristico, la riflessione sembra dunque
essere il nervo del pensiero critico in quanto tale.
È sotto l’aspetto euristico che Kant la introduce, fin dalla prima
Critica, nell’Appendice all’Analitica dei princìpi (KRV, 232-249; 309-
331)109. Egli chiama riflessione, Überlegung, “quello stato dell’animo
in cui anzitutto ci accingiamo a scoprire, ausfindig zu machen, le
condizioni soggettive sotto le quali possiamo pervenire ai concetti”
(ivi, 232; 309)110. Il testo è ampiamente dedicato alla critica della
filosofia intellettualista, segnatamente quella di Leibniz. Fedele
all’ispirazione che guida l’Estetica trascendentale, Kant ricorda qui
che i fenomeni non sono degli oggetti in sé e che bisogna rimpatriare
nel territorio che appartiene alla sensibilità un certo uso dei “concetti”
che Leibniz attribuisce per errore soltanto all’intelletto.
La questione è quella relativa alla domiciliazione delle sintesi. Non
ogni sintesi è prodotta dall’intelletto. Ma com’è che lo sappiamo?
Bisognerebbe disporre di una “topica” che possa distinguere in
anticipo non soltanto i “luoghi” (ivi, 236; 315)111 secondo cui le
sintesi possano precisamente “avere luogo”, ma anche le condizioni
in cui l’applicazione di queste sintesi è legittima e quelle in cui non lo
è. La “topica logica” (ivi, 236; 316)112, che ha la propria origine in
Aristotele, distingueva i diversi “titoli” (ivi, 236-237; 315-316)113 sotto
cui può essere raccolta una pluralità di “rappresentazioni” date. Ma
questa determinazione dipende da una “dottrina, eine Lehre” (ivi,
236; 315)114 che confonde già questi titoli con delle categorie
logiche, come se ogni sintesi fosse legittima a condizione di
obbedire a una regola dell’intelletto, errore che l’intellettualismo
perpetuerà.
La questione preliminare a una topica logica è dunque: come si
determina l’uso di questi “titoli”? In cosa differiscono dalle categorie?
È la questione della “topica trascendentale”. Essa non pregiudica se
i “titoli” che distingue siano applicabili alle cose stesse. Ciò che vi si
presenta è unicamente “la comparazione delle rappresentazioni che
precedono i concetti delle cose” (ivi, 237; 316)115. Questi “titoli”
raggruppano dei modi spontanei di sintetizzare dei dati. Si potrebbe
dire che rispondono tutti alla domanda: a cosa (questo dato) fa
pensare? Sono sempre delle comparazioni, dunque. Ma si può
paragonare a titoli diversi. Kant enumera così quattro maniere di
paragonare, quattro titoli che egli discute nella prima parte
dell’Appendice: identità/diversità (Verschiedenheit),
accordo/opposizione (Widerstreit), interno/esterno, determinabile (o
materia)/determinazione (o forma).
In cosa differiscono dagli schemi, dato che sembrano occupare un
posto intermedio analogo al loro? La funzione dello schematismo è,
ripetiamolo, di rendere compossibili quei modi della sintesi già
definiti e attribuiti rispettivamente alla capacità di unificare che ha
sede [logé] nelle forme della sensibilità, e alla capacità di unificare
propria delle categorie dell’intelletto. Gli schemi vengono al “terzo”
posto, per così dire, come operatori intermedi nell’elaborazione
trascendentale delle condizioni di possibilità della conoscenza
propriamente detta. Ma i diversi “titoli” riflessivi della messa in
relazione delle rappresentazioni le une con le altre sono dei “luoghi”
in uno “stato dell’animo” (ivi, 232-233; 310)116. I rapporti che essi
permettono attendono la loro “corretta determinazione” (ivi, 233;
310)117 dalla loro assegnazione a una facoltà, intelletto o sensibilità.
Una volta che siano così domiciliate, le sintesi che questi rapporti
indicano all’inizio soltanto “soggettivamente” (ibidem)118 saranno
legittimate nel loro uso oggettivo, cognitivo. I “titoli” non sono dunque
nemmeno dei “concetti comparativi” (ibidem)119, come si può essere
tentati di chiamarli, ma soltanto i luoghi di una localizzazione
provvisoria e preparatoria. Li si può accostare ai topoi che, in
Aristotele e nei retori (ivi, 236-237; 315-316)120, sostengono
l’argomentazione delle opinioni; a parte il fatto che la critica non ne
riterrà “più dei suddetti quattro” (ivi, 237; 316)121 già citati, e che non
accorderà loro alcun valore cognitivo. Questi luoghi sono per così
dire immediati. Alla riflessione che li rintraccia per mutarli in
autentiche condizioni di possibilità delle sintesi, in luoghi
trascendentali, in forme o in categorie. È questa trasformazione
attesa che permette di chiamarli ugualmente “concetti della
riflessione” (ivi, 243; 324)122.
È in effetti per mezzo della riflessione o soggettivamente, direi,
che essi sono innanzitutto presenti al pensiero: come delle sintesi
possibili sentite dal pensiero “prima” che quest’ultimo le volga alla
conoscenza degli oggetti. Ed è ancora la sola riflessione che
assicurerà la loro determinazione esatta, domiciliando il loro uso
presso l’una o l’altra facoltà. Giacché la riflessione, scrive Kant, è “la
coscienza del rapporto delle rappresentazioni date con le diverse
sorgenti della nostra conoscenza” (ivi, 232; 309)123. Il termine
“coscienza”, in generale, si sovrappone nel testo kantiano a
“riflessione”: il pensiero è cosciente in quanto è avvertito del suo
stato, e cioè si sente. La riflessione, dunque, non sente solo il
pensiero sintetizzato spontaneamente in questa o in quest’altra
maniera – quattro, in tutto –, ma anche che questa maniera, o
questo “titolo” di sintesi, provata [éprouvée] soggettivamente
appartiene alla sensibilità, quest’altra all’intelletto. È in tal modo che
“anzitutto ci accingiamo a scoprire le condizioni soggettive sotto le
quali possiamo pervenire ai concetti” (ibidem)124, come si è letto. Ed
è in tal modo che opera la “topica trascendentale”, affidando alla
riflessione la determinazione delle facoltà in cui ciascuna sintesi
troverà, qualsiasi ne sia il “titolo”, il suo legittimo domicilio: “una
riflessione trascendentale è necessaria innanzitutto per stabilire di
quale facoltà conoscitiva essi [gli oggetti di questi ‘titoli’] debbano
essere oggetti, se dell’intelletto puro o della sensibilità” (ivi, 237;
316)125.
Un esempio: a “titolo” di identità/diversità, due oggetti i cui
predicati sono tutti identici sono, come pensa Leibniz, logicamente
indiscernibili. Ma se essi, inoltre, sono intuiti, secondo le forme dello
spazio e/o del tempo, in delle regioni differenti, può anche darsi che
ciò accada nello stesso istante: sarà comunque necessario pensarli
come due oggetti distinti. “Se conosco una goccia d’acqua, in tutte le
sue determinazioni interne, come una cosa in sé, non posso lasciar
ammettere che una goccia d’acqua sia diversa da un’altra, quando il
suo intero concetto sia identico a quello dell’altra. Ma se la goccia è
un fenomeno nello spazio, essa ha un suo luogo non semplicemente
nell’intelletto (sotto concetti), ma nell’intuizione sensibile esterna
(nello spazio)” (ivi, 238; 318)126. Il principio leibniziano degli
indiscernibili non è dunque nulla di più che “una regola analitica della
comparazione delle cose mediante semplici concetti” (ivi, 239;
318)127.
Si vede che non è soltanto la critica dell’intellettualismo a essere
in gioco nel testo dell’Appendice: è già l’individuazione della
“parvenza trascendentale”, pienamente esposta qualche pagina più
avanti128, che fa credere che la determinazione puramente
concettuale di un rapporto trai fenomeni (la loro identità) è la sola
valida, mentre, dati nell’intuizione spazio-temporale (ciò per cui essi
sono precisamente dei fenomeni), questi ammettono altri rapporti,
che possono essere in contraddizione coi precedenti. Indiscernibili
logicamente, due oggetti possono essere discernibili esteticamente
(nel senso della prima Critica).
Questa confusione, nell’Appendice ai princìpi, è ancora soltanto
una “anfibolia trascendentale” (ivi, 237; 316)129, e cioè una
confusione d’indirizzo: le gocce d’acqua sono identiche se hanno il
loro domicilio nell’intelletto, differenti se sono indirizzate alla
sensibilità. Il punto è che il pensiero ha un’intuizione sensibile delle
gocce d’acqua. Non si tratta, dunque, come nella “parvenza”
trascendentale (KRV, 251 ss.; 334 ss.)130, di una finitudine della
facoltà di presentare che si oblia nell’uso dei concetti, ma di una
negligenza nella riflessione topica sulle condizioni della conoscenza
degli oggetti effettivamente conoscibili. Non accadrà lo stesso per
quanto riguarda l’oggetto di un’Idea della ragione.
Di fronte all’“illusione” che spinge il pensiero ad accordare ai
concetti della ragione (senza intuizione corrispondente) lo stesso
valore cognitivo di quelli dell’intelletto, che sono legittimamente
associati alle intuizioni sensibili, la riflessione avrà a che fare con
una controparte ben più forte che non con l’ignoranza dell’“anfibolia”
segnalata nell’Appendice. Giacché questa “semplice prescrizione
logica di avvicinarsi, nell’ascendere a condizioni sempre più alte, alla
completezza di esse […]” (ivi, 260; 346)131 dipende da una
“dialettica naturale e inevitabile della ragion pura” (ivi, 254; 337)132.
La parvenza logica (quella che dà luogo all’anfibolia, per esempio)
può essere dissolta; l’intellettualismo, che ne è la vittima e il
rappresentante, confutato. Ma la parvenza trascendentale non può
essere evitata (ivi, 252-254; 335-337)133. La dialettica
trascendentale potrà solo impedire alla “dialettica naturale” della
ragione di ingannarci, senza poterla sopprimere. Sono infatti “dei
princìpi reali, wirkliche Grundsätze, che ci spingono ad abbattere tutti
quei paletti di confine” (ivi, 253; 336)134 che “la critica” ha appena
opposto all’uso dei concetti al di là dell’esperienza.
Resta il fatto che la questione posta alla dialettica trascendentale
dalla parvenza e dall’illusione in queste condizioni non può essere,
se non risolta, quanto meno elabora altrimenti che per mezzo del
lavoro riflessivo. Meditando sulla nozione di parvenza e prendendo a
modello la parvenza sensoriale, Kant assimila il giudizio erroneo che
quella contiene a una “diagonale”, “la diagonale risultante da due
forze che determinano il giudizio in due direzioni diverse, le quali per
così dire formano un angolo” (ivi, 252; 335)135. Scomporre questo
effetto complesso negli effetti propri, rispettivamente, delle due forze
in gioco, la sensibilità e l’intelletto, cosa che permetterà di dissolvere
l’illusione – è questo che “deve avvenire nei giudizi puri a priori [e
non più nei giudizi percettivi empirici] per mezzo della riflessione
trascendentale” (ibidem)136. La sua funzione, è pertanto ricordato –
“come è stato già mostrato” (ibidem)137, vale a dire nell’Appendice –,
consiste nell’“assegnare a ogni rappresentazione il luogo che le
spetta nella facoltà conoscitiva a essa corrispondente” (ibidem)138.
Così, il compito oneroso e infinito di distinguere le sintesi speculative
dalle sintesi cognitive, che è uno degli obiettivi maggiori della
Dialettica della prima Critica, appartiene anche alla riflessione.
Se ne deve dunque concludere quanto segue: è sul sentimento
che prova fintanto che procede alle sintesi elementari chiamate
“titoli” o “concetti della riflessione” che il pensiero “anzitutto, zuerst”
(ivi, 232; 309)139 si conduce, si orienta per determinare il o i domicili
di facoltà che autorizzano ognuna di queste sintesi. Soltanto in
questo dominio la sintesi potrà legittimamente “avere luogo”, perché
sarà stata localizzata e circoscritta nelle condizioni di possibilità della
sua facoltà tutelare. Ma questa domiciliazione esige dal pensiero
una facoltà di orientarsi. La relativa indeterminazione dei “titoli”
riflessivi, l’anfibolia, lascia spazio tanto all’esitazione quanto
all’indirizzo giusto, mentre la determinazione delle sintesi sotto le
categorie dell’intelletto presuppone all’inverso che il domicilio
legittimo sia già noto e occupato.
Bisognerebbe verificare questa conclusione su altri momenti della
critica degni di nota, su quei momenti in cui circoscrive i “territori” e i
“domini” di validità dei giudizi. In particolare, per i giudizi etici e,
evidentemente, per i giudizi estetici. Non si potrà rendere in questa
sede che una parte di queste testimonianze. Ma, a giudicare solo
dall’Appendice all’Analitica e dall’Introduzione alla Dialettica, due
testi contigui che compongono la grande svolta della prima Critica, si
può già diagnosticare che, con la riflessione, il pensiero sembra
disporre proprio dell’arma critica nella sua interezza. Perché la
riflessione è il nome che porta, nella filosofia critica, la possibilità di
questa stessa filosofia. La potenza [pouvoir] euristica di criticare, la
Urteilskraft, è la potenza di elaborare le condizioni a priori di
possibilità “appropriate” [“bonnes”], e cioè la legittimità, di un giudizio
sintetico a priori. Ma questa elaborazione (analisi e “deduzione”)
richiede essa stessa dei giudizi sintetici di discriminazione. È
necessario, dunque, che la potenza di criticare abbia questa
enigmatica capacità [capacité] di giudicare delle condizioni
“appropriate” del giudizio “prima” di poter usare e di avere il diritto di
usare queste condizioni per giudicare se sono appropriate o meno.
La riflessione, però, come abbiamo detto, è tautegorica nella misura
in cui non è nient’altro che il sentimento piacevole e/o spiacevole
che il pensiero ha di se stesso mentre pensa, e cioè mentre giudica
o sintetizza. Gli operatori delle sintesi che produce sono “anzitutto”
riflessi o riflessivi, sotto i “titoli” o i “concetti della riflessione” di cui si
è detto, come degli assemblaggi spontanei di “rappresentazioni”,
come delle “comparazioni” sfocate, non ancora domiciliate, pre-
concettuali, sentite. È proprio perché questi “titoli” sentiti non sono
ancora determinati nel loro uso oggettivo (avendo soltanto un valore
“soggettivo”), che la riflessione potrà legittimarne o delegittimarne
l’uso secondo la facoltà che se ne appropria.
Il lettore di Kant non può fare a meno di chiedersi, prima o poi, in
che modo il pensatore critico abbia mai potuto stabilire delle
condizioni di pensiero che sono a priori. Con quali strumenti, come si
suol dire, può formulare le condizioni di legittimità dei giudizi
nonostante si presuma che non possa disporne ancora? Come può
giudicare come si deve, insomma, “prima” di sapere cosa significa
giudicare come si deve, e anzi per saperlo? La risposta è che il
pensiero critico dispone, nella sua riflessione, nello stato in cui lo
pone questa tale sintesi non ancora assegnata, di una specie di pre-
logica trascendentale. Quest’ultima è in realtà un’estetica perché è
fatta soltanto della sensazione che affetta ogni pensiero attuale in
quanto è meramente pensato, il pensiero sentendosi pensare e
sentendosi pensato a un tempo. E dato che pensare è giudicare,
sentendosi d’un sol colpo giudicante e giudicato. È in questa
presenza soggettiva del pensiero a sé che si delinea il gesto di
domiciliazione che ha appena indirizzato le sintesi spontanee (sotto i
rispettivi “titoli”) alle loro facoltà tutelari, limitandone così l’uso e
fondandone la legittimità.
È questo, dunque, l’aspetto della riflessione che ho chiamato
“euristico”. Gemellato con l’aspetto tautegorico, esso ha appena
trasformato in paradosso legittimo l’aporia apparente di un pensiero,
il pensiero critico, che può anticipare i suoi a priori. Quest’ultimo
sembra per ciò poter sfuggire a molte delle obiezioni che gli sono
state fatte, in particolare da parte del pensiero speculativo. Ma la
cosa la tralascio.
6. L’anamnesi

Soffermiamoci piuttosto su due osservazioni. La prima è che questo


“momento” riflessivo non deve essere inteso come se si collocasse
all’interno di una genealogia. Le condizioni a priori, come ad
esempio le categorie dell’intelletto o le forme dell’intuizione, sono
degli a priori di diritto, ed esse, per “esistere”, non hanno atteso che
il pensiero riflettente le generasse a partire dalle sue comparazioni
soggettive. A parte il fatto che, nel senso proprio, non sono mai
esistite e non esisteranno mai, queste condizioni a priori sono “già
da sempre” ciò a cui bisogna fare appello per legittimare la pretesa
d’un giudizio di conoscere il proprio oggetto. La questione posta
nell’Appendice è di sapere come il loro uso legittimo possa essere
scoperto, non come esse vengano generate. Il che è il motivo per cui
la riflessione, assumendosi questo compito, adempie una funzione
che non è costitutiva, ma proprio “euristica”. Ben più che di una
genealogia, bisogna dunque vedere in questo momento riflessivo il
movimento di una specie di anamnesi dello stesso pensiero critico
che si interroga sulla propria capacità di scoprire l’uso appropriato
dei luoghi trascendentali che ha determinato nella “Teoria
trascendentale degli elementi” formata dall’Estetica e dalla Logica. Si
è per ciò incitati a supporre che, a mano a mano che il pensiero
critico si allontana da quei luoghi sicuri della sintesi che sono le
forme dell’intuizione e le categorie dell’intelletto (con gli schemi), e
cioè, a mano a mano che si discosta dall’esame delle condizioni a
priori della conoscenza, l’aspetto tautegorico della riflessione si
manifesterà sempre di più. Ne vedo dei segnali nell’occorrenza più
frequente di operatori quali la regolazione (nell’“Idea regolativa”, o
nel “principio regolatore”), la conduzione (nel “filo conduttore”),
l’analogia (nel “come se”), che non sono categorie, ma che possono
essere identificate con delle tautegorie euristiche. Grazie a questi
curiosi “operatori soggettivi”, il pensiero critico si dà e scopre dei
processi di sintesi che non vengono marchiati nel dominio della
conoscenza. Il pensiero critico non può che attingerli riflessivamente,
mentre li inventa, direttamente dal suo sentimento, anche a costo di
legittimarne in seguito la validità oggettiva. Se questa valutazione è
corretta, si dirà che, dopo la teoria degli elementi della prima Critica,
il timbro anamnestico del testo kantiano si fa intendere sempre di più
man mano che il pensiero critico si avvicina a oggetti così poco
conoscibili (stricto sensu) quali le Idee della ragione teoretica, prima,
la legge morale in seguito, poi il gusto e il sentimento sublime, e
infine in giudizio storico-politico. Per questi oggetti del pensiero
critico, quando si debba scoprire l’uso appropriato [le bon usage]
delle loro condizioni a priori di possibilità, la sola dissoluzione di
un’anfibolia dovuta a una mancanza di domiciliazione facoltaria non
è sufficiente.
Da questa prima osservazione si trae naturalmente la seconda:
che con l’estetica (metto da parte la politica, che non è stata oggetto
di una Critica) ci si deve già trovare a un punto molto avanzato
nell’anamnesi del pensiero critico. “L’oggetto” della Critica della
facoltà di giudizio estetico non è infatti nient’altro che il giudizio
riflettente stesso, allo stato puro. Ora, che significa “puro”, in questo
caso? Che esso è la “sensazione” che rinvia il pensiero a se stesso
e, in questo, l’avverte dello stato “sentimentale”, del piacere o del
dispiacere, in cui esso si trova, giacché questa “sensazione” è
questo stesso stato. Ne viene che il movimento del pensiero critico,
se paragonato a quello che era nella prima Critica, qui dev’essere
capovolto.
Come abbiamo visto esaminando l’Appendice ai Princìpi, per la
prima Critica l’interesse della riflessione consisteva principalmente
nella sua funzione euristica. Si trattava di manifestare il modo in cui il
pensiero critico può distinguere le comparazioni spontanee con cui
procede, redistribuendole sulle competenze di facoltà che
potrebbero legittimarle. Non ho ancora studiato il ruolo che le
categorie giocano in questa redistribuzione, e mi appresto a farlo.
Ma al lettore dell’Appendice non può sfuggire che tutto si svolge
come se i quattro grandi concetti puri dell’intelletto (qualità, quantità,
relazione e modalità) comandassero – dall’alto e da lontano, ma
comandassero – l’anamnesi per mezzo della quale la riflessione
scopre in sé i quattro “titoli” sotto cui il pensiero, soggettivamente,
sente le possibili comparazioni. Questa teleguida della riflessione da
parte delle categorie dell’intelletto si può spiegare qui, a rigore, col
fatto che, presa soprattutto nel suo aspetto euristico, la prima non
deve scoprire altro che l’uso appropriato delle seconde per la
conoscenza stricto sensu.
Quando si tratta esclusivamente dei giudizi estetici, che non sono
altro che sensazioni considerate come dei giudizi, e che esigono di
essere analizzate in quanto tali, la funzione tautegorica della
riflessione deve al contrario prevalere sulla funzione euristica,
perché qui la sensazione non conduce, e non deve condurre, a
nient’altro che a se stessa. In particolare, essa non “prepara” il
pensiero ad alcuna conoscenza possibile. I luoghi di legittimità che
scopre devono rimanere suoi luoghi, nulla di più, di conseguenza,
che quei “titoli” sotto i quali il pensiero sente la comparabilità dei dati.
E se è vero che questi “titoli”, così come li enumera e li esamina
l’Appendice della prima Critica, sono ancora troppo affiliati o affidati
alle categorie dell’intelletto, la critica dovrebbe sbarazzarsi adesso di
questa soggezione e rimettersi alla riflessione puramente tautegorica
così come l’assume il mero giudizio estetico, avendo cura di
domiciliare adeguatamente i “titoli” del pensiero riflettente ridotto a
se stesso, e cioè alla sensazione. Perché, dal punto di vista delle
facoltà nell’anima, la sensazione è per se stessa il tutto del gusto e
del sentimento del sublime.
Il cammino seguito dal pensiero critico, però, non è questo.
L’Analitica del bello e quella del sublime consistono proprio nella
domiciliazione esatta di questi due giudizi estetici, nella
circoscrizione esclusiva della loro legittimità: la riflessione
tautegorica. Ma essi vi pervengono solo con l’aiuto delle categorie
dell’intelletto. Si direbbe che l’analisi dei giudizi “riflettenti” puramente
tautegorici (per il gusto, almeno) non può “aver luogo” – è proprio il
caso di dirlo – senza ricorrere ai princìpi di legittimazione dei giudizi
determinanti scoperti nella prima Critica. Un colpo d’arresto
sembrerebbe così mettere fine al movimento dell’anamnesi riflessiva
nel momento stesso in cui, col gusto, quest’ultima sembrava dover
rivelare riflessivamente l’intimità della riflessione. Sembra che, sui
“titoli” e sui “luoghi” della sintesi riflettente pura, non si debba mai
sapere nulla più di ciò che può esserne conosciuto per mezzo dei
concetti puri dell’intelletto. E tuttavia, l’Introduzione non aveva forse
detto, riguardo al gusto:

Ecco dunque un piacere che, come ogni piacere o dispiacere che non
sia prodotto mediante il concetto di libertà […], non può essere mai inteso a
partire da concetti come necessariamente connesso alla rappresentazione
di un oggetto, ma deve essere sempre riconosciuto come legato a questa
rappresentazione solo attraverso la percezione riflessa […] (37 t.m.;
28)140?

Forse che la critica non può dunque parlare il linguaggio di questa


“percezione riflessiva” sulla quale tutto indica che essa stessa non
smette di orientarsi? Oppure questa “percezione riflessiva” non ha
affatto alcun linguaggio, neppure la voce del silenzio? Ciò che qui è
in gioco è la relazione della tautegoria con la categoria, del riflettente
puro con il determinante.
7. Riflessione e categoria nei domini teoretico e pratico

Ritorniamo un attimo, anzitutto, a quanto l’Appendice della prima


Critica espone riguardo a questa relazione. I “titoli” sotto i quali si
raggruppano le sintesi puramente soggettive, le “comparazioni” che
si fanno per semplice riflessione, sono, lo si è detto, solo quattro:
identità/diversità, accordo/opposizione, interno/esterno,
determinabile/determinazione (KRV, 233 ss.; 310 ss.)141. Questi titoli
possono sembrare enigmatici. Ma Kant ne esplicita la funzione in un
modo che non lascia alcun dubbio. Così, la comparazione di un
insieme di rappresentazioni a “titolo” della loro identità è il
movimento soggettivo del pensiero che lo condurrà a un giudizio
universale; se è a titolo della loro diversità, ne seguirà che esse non
potranno essere tutte raggruppate sotto un medesimo concetto, e il
giudizio che se ne potrà trarre sarà particolare. È pertanto chiaro che
il titolo riflessivo identità/diversità è la “soglia” soggettiva attraverso
cui una comparazione transita e si colloca al di sotto della categoria
di quantità. Allo stesso modo, per quello che riguarda la qualità,
accordo e opposizione annunciano soggettivamente dei giudizi
affermativi o negativi. Il titolo dell’“interno” prepara alla categoria di
inerenza (o sussistenza), quello d’esterno a quella di causalità (o
dipendenza), entrambe categorie di relazione. Infine, il determinabile
(la materia) darà luogo a giudizi problematici, la determinazione (o
forma) a giudizi apodittici; che un soggetto sia soltanto determinabile
si traduce, nel lessico della modalità, con: “non giudico impossibile
attribuire questo predicato a tale soggetto”; che sia pienamente
determinato, con: “giudico impossibile non attribuire questo predicato
a tale soggetto”.
Da questa esposizione (estremamente galvanizzata dalle critiche
che Kant moltiplica contro l’intellettualismo leibniziano, cosa che può
sembrare offuscarla un po’), risulta che i “titoli” riflessivi sono quasi
ridotti a essere soltanto dei riflessi soggettivi delle categorie
dell’intelletto. Un po’ come se l’a priori cognitivo da ricercare
governasse già questa ricerca e subordinasse a sé ciò che avrebbe
dovuto essere un a priori riflessivo.
Non servirebbe a nulla, per giustificare quest’inversione, invocare
il fatto che la conoscenza che il pensiero ha da se stesso è
sottomessa alle stesse condizioni a priori di ogni altra conoscenza, e
che è necessario ritrovare dunque in essa le stesse condizioni
formali che si trovano nella conoscenza degli oggetti. Questo
argomento non ha alcuna rilevanza perché la riflessione non è una
conoscenza. Nei Paralogismi della prima Critica viene ricordato che
“io non mi conosco solo per il fatto che sono cosciente di me in
quanto pensante” (KRV B, 282; 377-378)142. Ed è vero che la
coscienza di cui si tratta in questo passaggio è più logica (l’Io è un
concetto) che riflessiva. Per la coscienza riflessiva anche di uno “Io
penso” – coscienza la quale è immediata e senza concetto –, la
conclusione non è però a fortiori che più vera: si tratta infatti di una
sensazione, e cioè, lo ricordo, di “una percezione che si rapporta
unicamente al soggetto come modificazione del suo stato” (KRV,
266; 354)143.
Per giustificare questa predeterminazione dell’anamnesi riflessiva
da parte delle condizioni della conoscenza oggettiva, si potrebbe
invocare ancora quanto abbiamo già detto: la riflessione non genera
l’intelletto, scopre in sé dei modi di sintesi che sono analoghi a quelli
dell’intelletto. Questi ultimi sono già da sempre presenti [là] per
rendere possibile ogni conoscenza. Quanto ai “titoli” riflessivi, che in
effetti non sono affatto dei titoli della riflessione per la conoscenza di
sé, essi sarebbero senz’altro delle “maniere” riflessive di comparare i
dati, ma queste maniere, nel pensiero, non sarebbero in fin dei conti
che l’eco soggettivo dell’uso delle categorie.
Attenendosi a questa risposta, si rinuncia molto semplicemente
alla funzione euristica della riflessione. La ricerca, allora, sembra
persino procedere nella direzione inversa: è grazie alle categorie che
la riflessione può rivelare in se stessa dei modi spontanei di
comparazione che non sono altro che delle figurazioni
approssimative dei concetti puri. È nondimeno necessario che ci sia
però un’euristica riflessiva perché la Critica ha potuto essere scritta –
intendo dire: perché il trascendentale può essere costituito
muovendo dall’empirico. Sarebbe più corretto dire che i “titoli”
riflessivi operano come dei “princìpi di differenziazione soggettiva”
analoghi, per il loro ruolo, a quello che indica Che cosa significa
orientarsi nel pensiero: la differenza tra la destra e la sinistra
(Orient., 77)144. Come per orientarsi nello spazio non è sufficiente
avere i quattro punti cardinali, ma bisogna disporre inoltre
dell’incongruenza tutta soggettiva della destra e della sinistra
(elaborata già da prima nel Del primo fondamento della distinzione
delle regioni nello spazio)145, allo stesso modo la categoria non è
sufficiente a orientarsi nel pensiero, ed è necessario che il pensiero
disponga inoltre di un principio di differenziazione che ha un valore
unicamente soggettivo, ma grazie al quale l’uso delle categorie sarà
reso possibile e legittimo. In ciò consiste propriamente quella che ho
già chiamato domiciliazione. I “titoli” riflessivi guidano la
domiciliazione verso un domicilio adatto.
Si spiega così il fatto che nel testo dell’Appendice la controversia
con il pensiero leibniziano si innesta sull’esposizione dei “concetti
della riflessione”. Ciò che mostra infatti la critica dell’intellettualismo
imbastita nell’esposizione dei titoli della comparazione riflessiva, è
che la categoria, per se stessa, è cieca. Essa applica il suo modo di
sintesi, e autorizza dunque il giudizio che ne risulta, su tutti i dati che
le sono presentati, senza alcuna distinzione. Il giudizio di
attribuzione di un predicato alla totalità di un soggetto, che è
universale, non ha per condizione che l’enumerazione completa
delle proprietà logiche che definiscono il soggetto. Così le due gocce
d’acqua saranno identiche per l’intelletto perché lo sono
logicamente. Ma, guidata dal suo “titolo” di identità/diversità, che non
è la categoria di quantità, la riflessione rileva invece che esse non
sono assolutamente identiche perché localizzate diversamente nello
spazio. Questi “identici” oggetti di pensiero esigono dunque delle
sintesi differenti a seconda che siano pensati logicamente o
esteticamente (nel senso della prima Critica): una sintesi identitaria,
nel primo caso, disgiuntiva nel secondo. La funzione euristica della
riflessione è così importante da scoprire una “resistenza” delle forme
dell’intuizione alla loro assimilazione indebita alle categorie
dell’intelletto. È questa scoperta che dissolve la confusione che è
propria dell’intellettualismo, e legittima i modi di sintesi secondo il
loro domicilio di facoltà. La riflessione è decisamente discriminante o
critica perché si oppone all’estensione sconsiderata del concetto al
di fuori del dominio che gli appartiene. Essa domicilia le sintesi
presso delle facoltà, o, il che è lo stesso, determina quei
trascendentali che sono le facoltà per mezzo della comparazione
delle sintesi che ciascuna può effettuare su oggetti che sono
apparentemente gli stessi: le due gocce d’acqua sono e non sono
identiche.
Come si è detto, è grazie a questa stessa capacità separatrice
dell’euristica riflessiva che sarà individuata la parvenza
trascendentale e denunciata l’illusione che ne risulta. Mi limiterò qui
a citare il caso particolarmente eminente dell’Antitetica della prima
Critica, perché ha una portata decisiva per la lettura dell’Analitica del
sublime. Lo chiamerò l’Atto (nel senso di “prendere atto” [acter], non
di “agire”) della transazione (KRV, 392 ss.; 519 ss.)146. È noto che,
quando si tratta dei primi due conflitti della ragione con se stessa a
proposito delle Idee cosmologiche di cominciamento e di elemento
semplice, la riflessione licenzia entrambe le parti, fianco a fianco,
mostrando semplicemente che questi concetti non hanno delle
intuizioni corrispondenti nell’esperienza e che il dissidio è indecidibile
nel dominio di competenza della conoscenza secondo intelletto. Si
tratta di conflitti che vertono sulla qualità e la quantità dei fenomeni
che appartengono al mondo. Le sintesi dei dati effettuate a titolo di
queste categorie – e cioè la loro messa in serie regressiva,
rispettivamente, verso il semplice e verso il tutto (ivi, 330-331; 441-
443)147 – sono dette “matematiche” (ivi, 392; 520)148 perché
uniscono elementi “omogenei” (ivi, 393; 521)149: la condizione di un
fenomeno deve essere un fenomeno, esso stesso condizionato; la
parte di un composto dev’essere a sua volta composta. A questi
termini è legata l’incapacità dell’intelletto di deliberare su questioni
(se c’è un semplice, se c’è un cominciamento nel mondo) che
implicano l’Idea di un assoluto (l’indivisibile, l’incondizionato), che
appartiene alla ragione speculativa.
Ma è noto anche che, all’inverso, quando si presentano la tesi e
l’antitesi in tema di causalità, categoria della relazione (se ci sia o
meno una causalità libera in gioco nei fenomeni del mondo), la
riflessione riconosce che si possono ammettere entrambe le
posizioni, a condizione di domiciliarle in facoltà diverse: la prima,
nella ragione speculativa che ammette l’Idea di causalità
incondizionata, la seconda nella conoscenza secondo intelletto,
dove ogni causa è essa stessa effetto. Gli elementi sintetizzati qui a
titolo della relazione causale sono eterogenei (il condizionato e
l’incondizionato) e la loro sintesi è detta “dinamica” (ivi, 392-393;
520-521)150. “Questo processo può [così] essere risolto per mezzo
di una transazione, vergleichen werden kann, che soddisfi ambo le
parti” (ivi, 393; 521)151. L’intelletto è legittimato a non accettare nella
spiegazione che il condizionato, e la ragione ad ammettere
l’incondizionato, il quale è, col nome di libertà, una condizione a
priori della moralità. Questa soluzione viene presentata però come
una compensazione giudiziale: “il giudice compensa le mancanze
dei fondamenti giuridici, der Richter den Mangel des Rechtsgründe
[…] ergänzt” (ibidem)152. Se la riflessione può in tal modo
compensare la categoria, è proprio perché essa dispone di un
principio soggettivo di discriminazione che non appartiene a nessuna
facoltà, ma le permette, esplorando i confini che quelle si disputano,
di ristabilire i loro limiti legittimi. L’Atto della transazione fornisce così
l’esempio stesso dell’euristica riflessiva nella sua funzione di
domiciliazione. E si vede che il rapporto del riflettente con la
categoria non è qui di soggezione del primo alla seconda, ma
piuttosto l’inverso.
Non sarebbe difficile mostrare che lo stesso vale anche nella
Critica della ragion pratica. Nella ricerca del “concetto di un oggetto
della ragion pura pratica” (KPV, 59 ss.; 68 ss.)153, la critica può
confutare le dottrine del bene unicamente determinando il limite che
la riflessione impone all’uso della categoria di causalità nel dominio
della moralità. Questa categoria è decisamente necessaria per
rendere possibile la sintesi, nel giudizio, di un atto con la causa
morale (l’Idea del bene, si dice) di cui è l’effetto. Ma è la riflessione
ad aver appena dissociato questa causalità da quella che si applica
nella conoscenza degli oggetti della natura, di cui fanno parte,
ugualmente, le azioni empiricamente considerate. È necessario
infatti che, se l’atto deve essere una cosa diversa dall’effetto di una
determinazione naturale (interessata), la causa resti senza
contenuto. La riflessione conserverà dunque dell’uso teoretico dei
concetti puri solo la nozione di una vuota legalità (come “tipo”: ivi,
70-74; 79-84)154, vietando che il contenuto di ciò che essa mette in
collegamento sia determinato. L’uso di quella categoria (di relazione)
che è la causalità subisce in tal modo, più che una limitazione, una
flessione, ma così importante che ciò che ne risulta, l’Idea di causa
incondizionata, smette di essere assegnata al dominio dell’intelletto
per passare a quello della ragione.
Ci si può assicurare che sia la riflessione a effettuare questo
lavoro discriminante facendo ancora riferimento al capitolo sui
“Moventi della ragione pura pratica” (ivi, 75-94; 84-104)155. Il
concetto di movente “presuppone degli esseri […] dotati di questa
sensibilità [il sentimento], e di conseguenza della finitudine” (ivi, 80;
89)156. Esso esige che, nella moralità, il pensiero sia
immediatamente avvertito del suo stato grazie alla sensazione che
esso ne ha e che è questo stato stesso, il sentimento. È così, per
mezzo della riflessione sul suo aspetto anzitutto tautegorico, che il
rispetto si rivela essere il solo sentimento morale. Esso soltanto,
infatti, è quel “titolo” di una sintesi soggettiva che corrisponde
all’esigenza “logica” di una causalità o di una legalità vuota o
solamente formale. Giacché il rispetto “non è movente alla moralità,
ma è la moralità stessa, considerata soggettivamente come
movente” (ibidem)157. Essendo la moralità pensata come
obbligazione pura, la “Achtung” ne è il sentimento. Si trova qui la
pura tautegoria del sentimento che gli conferisce il suo valore
euristico. La riflessione isola il rispetto da se stessa, comparandolo
agli altri possibili moventi come se fosse il solo “stato” soggettivo
adeguato alla legge pura.
Il testo dà atto del fatto che la scoperta abbia luogo per
riflessione, come una “maniera” piuttosto che come un “metodo”158,
osservando che l’inversione del rapporto tra il contenuto (il bene) e
la forma (la legge come dovere) è senz’altro di buon “metodo” (ivi,
65, 66; 74, 75)159, ma che questo metodo non è esente dal
“paradosso” (ivi, 65; 74)160. Ora, cos’è un metodo paradossale se
non una maniera? E come potrebbe essere altrimenti, soprattutto nel
capitolo dei Moventi, quando si tratta in fin dei conti, come si è visto,
dell’“estetica” della moralità esaminata dal punto di vista del
sentimento? Come nella questione delle gocce d’acqua, bisogna
rinunciare a un’applicazione logica delle categorie alla moralità, che
sarebbe propriamente il “metodo” (si veda la tavola delle categorie
della libertà, ivi, 68-69; 78)161; e questa rinuncia è sufficiente a fare
in modo che, per mezzo del paradosso che essa scopre e di cui fa
uso, l’euristica proceda piuttosto come una “maniera” (“modus
aestheticus”).
Questa maniera permette di spiegare “l’enigma, das Rätsel, della
critica” (ivi, 3; 5)162 che “nega [qualsiasi] realtà oggettiva all’uso
soprasensibile delle categorie”, sebbene glielo conceda quando si
tratta degli “oggetti della ragion pura pratica” (ibidem)163.
L’incoerenza è solo apparente. La conoscenza riguarda i fenomeni,
a cui le categorie devono essere applicate per determinarli. Ma la
moralità riposa su “un fatto, ein Faktum” (ivi, 4; 6)164, quello di una
causalità soprasensibile, o libertà, che non può essere che “soltanto
pensato, bloß gedacht” (ibidem)165, senza essere determinato allo
stesso modo in cui dev’esserlo la causalità nel suo uso cognitivo. È
l’uso delle categorie che è “altro”, “einen anderen Gebrauch”166, nel
teoretico e nel pratico. Ora, qual è però la capacità che stima il loro
uso appropriato e che così le orienta, se non la riflessione? Essa è il
pensiero “conseguente”.
Se distinta dall’“andamento sistematico” adeguato alla
costituzione di una scienza (ivi, 5; 7)167, è in effetti opportuno
ricollegare questa maniera paradossale di procedere stessa al
termine con cui la chiama la Prefazione della seconda Critica per
legittimare, infatti, l’accumulazione di paradossi o di “inversioni” che
stupiscono il lettore di questa critica. Questo termine è “maniera
conseguente di pensare, konsequente Denkungsart” (ivi, 3, 4; 5,
7)168, una maniera conseguente nel pensiero.
Questo termine ricompare nella terza Critica durante l’“episodio”
(128; 146)169 dedicato alle “massime del senso comune”. Esso
designa la terza di queste massime, “pensare in accordo con se
stessi, mit sich selbst einstimmig denken” (127; 145)170, “la più
difficile da mettere in opera” (128; 146)171 perché esige che si
osservino allo stesso tempo le due precedenti, “pensare da sé” e
“pensare mettendosi al posto di ciascun altro” (127; 145)172, e
perché, per “esser padroneggiata”, richiede “un’osservazione
ripetuta, nach einer […] öfteren Befolgung” (128 t.m.; 146)173. Lo
spirito di una topica sistematica spinge Kant ad attribuire, ma in
modo soltanto problematico (“si può dire”, ibidem)174, la prima
massima all’intelletto, incaricato così dell’emancipazione in rapporto
ai pregiudizi; la seconda alla facoltà di giudizio, che si vede in tal
modo conferire la sorveglianza di una universalità non ancora
garantita dal concetto; e la terza alla ragione. Mi sembra più fedele
al pensiero della topica trascendentale mettere tutte e tre in conto
alla riflessione, e soprattutto l’ultima. Perché, anzitutto, una maniera
che non si acquisisce, ma la cui “padronanza” si acquisisce per
mezzo di un’“osservazione ripetuta”, e che in definitiva non si
apprende affatto (perché “apprendere non è nient’altro che imitare”)
(139; 161)175, dipende piuttosto dal “giudizio” (dall’esser giudiziosi
[avoir du jugement]) che dalla ragione. Essa potrebbe caratterizzare
anche il genio nell’arte (§§ 46-49)176. Se si tiene nondimeno ad
attribuire questa maniera alla ragione, bisognerà ricordarsi ancora
una volta che “la filosofia” stessa, che è comunque “scienza
razionale”, non può “mai” “essere appresa”: “per quel che riguarda la
ragione [e non la sua storia], si può apprendere, tutt’al più, solo a
filosofare” (KRV, 561; 752)177. È a questa ragione, che conta
soltanto su se stessa, che si richiama la terza “massima del senso
comune”: una ragione riflessiva, euristica, che è quella che fa del
“razionalismo” delle Critiche un razionalismo critico. Ma, soprattutto:
cosa potrebbe voler dire “pensare in accordo con se stessi” se non
mettersi in ascolto della libera capacità riflettente allo scopo di
condurre, facendo questo, il pensiero e le sintesi che azzarda
secondo il sentimento che esso stesso ha di se stesso?
8. Riflessione e categoria nel territorio estetico

Alla luce di ciò che precede, si vedrà forse più chiaramente la


ragione dei “paradossi” categoriali che nella terza Critica non
abbondano meno che nella seconda. La distorsione che vi
subiscono i concetti dell’intelletto sembra essere qui ancora più
violenta, al punto che ci si è potuti chiedere a buon diritto cosa
potesse apportare all’intelligenza dei giudizi estetici il filtraggio delle
Analitiche estetiche per mezzo delle categorie. Dopo tutto, come ho
messo in evidenza, con l’estetica, e cioè con l’esame della
sensazione pura, la riflessione sembra essere presso di sé [chez
elle] come da nessun’altra parte, e nel suo aspetto più intimo, per
così dire, cioè in quanto tautegoria esente da ogni compito, persino
euristico. Essa non deve cercare neppure la propria condizione di
possibilità. Quest’ultima, lo si è già sottolineato, è soltanto la
“condizione soggettiva formale di un giudizio in genere […], la stessa
capacità di giudicare, o facoltà di giudizio” (121; 137)178. Con
l’estetica, la riflessione sembra non aver bisogno, per giudicare
riflessivamente, che della capacità di riflettere. La sua condizione a
priori è logicamente ridotta a questo quasi niente che si chiama
“facoltà”, qui quella di sentire, e cioè quella di giudicare
immediatamente. Vi è in ciò una specie di semplicità, di povertà nella
condizione a priori del giudizio estetico, che si avvicina alla penuria.
Questo minimalismo dovrebbe rendere inutile, e persino dannoso,
un “metodo” d’analisi governato dalle categorie dell’intelletto.
La prova di questa “forzatura” non è forse fornita, nell’Analitica del
gusto, specificatamente, dalla moltiplicazione delle clausole negative
o privative, che neutralizzano a poco a poco la determinazione del
giudizio di gusto sotto la guida di ognuna delle quattro categorie?
Questo è qualitativamente affermativo (dice sì al piacere, è un
compiacimento), ma senza motivo. È singolare secondo la quantità,
ma pretende l’universale. È finale quanto alla relazione, ma di una
finalità “percepita”, non conosciuta (76; 77)179. Modaliter, infine, è un
giudizio apodittico, la cui necessità non è dimostrabile, bensì
“esemplare” (77; 78)180. L’interferenza è costante ed evidente. Non
c’è motivo di stupirsi, a quanto pare, dato che proviene
dall’applicazione del determinante al riflessivo. Ciò di cui ci si
stupisce è che si debba applicare il determinante a una maniera di
giudicare dalla quale sembra escluso.
Si può trovare a questo paradosso una motivazione polemica.
L’Appendice della prima Critica affermava la necessità di una topica
riflettente per evitare l’equivoco dell’intellettualismo.
Simmetricamente, l’uso rivolto all’estremo delle categorie
dell’intelletto per analizzare il sentimento sarebbe volto a
manifestare la vacuità della loro applicazione diretta. Ci si ricorda del
fatto che, in una nota della prima Critica, lo “sforzo” di Baumgarten
per “ricondurre la valutazione critica del bello sotto dei princìpi
razionali” è già stato dichiarato “vano” (KRV, 54; 64-65)181.
L’inversione paradossale che la critica riflessiva si appresta a
introdurre vi è annunciata: questi princìpi o regole, che, di fatto, sono
empirici, “non potranno mai servire come determinate leggi a priori,
sulle quali dovrebbe regolarsi il nostro giudizio di gusto, giacché è
piuttosto quest’ultimo a costituire la vera pietra di paragone della loro
correttezza” (ivi, 54; 65)182. Il filtraggio (o la “forzatura”) categoriale
non farebbe altro che suggerire insomma, a contrario, la necessità di
introdurre un “principio di discriminazione soggettivo” che consenta
di fare un uso appropriato delle categorie.
Più ancora, non si vede nemmeno di quale principio di
discriminazione soggettivo il sentimento estetico avrebbe bisogno
per domiciliarsi, giacché esso stesso è, come si è già detto, questo
principio: esso discrimina il bello e il brutto per mezzo del “favore” o
dello “sfavore” che accorda alla forma, senza mediazione. Non è un
caso se la qualità prende il posto della quantità in testa all’analisi
categoriale del gusto: il sì e il no del sentimento non sono qui una
semplice proprietà logica del giudizio che contiene il sentimento, ma
determinano se il bello c’è o meno, e appartengono a questo tipo di
discriminazione “essenziale”, se così posso dire, di cui la distinzione
della destra e della sinistra è un analogo nello spazio percettivo.
In verità, giacché si tratta di un giudizio riflessivo puro, la
competenza dell’intelletto non è forse semplicemente nulla? La “vera
pietra di paragone” non si trova, dopo tutto, nel solo sentimento
estetico? E non si deve concludere che la riflessione, lasciata a se
stessa, non può dire nient’altro che “sento, sento” e “sento che
sento”, tautegoricamente? Proprio come il genio nell’arte “non può
descrivere lui stesso o mostrare scientificamente come realizza il
suo prodotto”, poiché “al contrario, è in quanto natura che dà la
regola” (139; 161)183? Bisogna acconsentire, alla fine (o all’inizio),
che la “coscienza” che è la riflessione pura, la sensazione, è
incosciente come una “natura”?
Il processo è sufficientemente istruito, credo, perché sia giunto il
momento di giudicare. Il sentimento estetico puro non ha per
definizione i mezzi per costruire le condizioni a priori della propria
possibilità perché è immediato, vale a dire senza termine medio.
Non può nemmeno cercarsi lui stesso, lo si è detto, di modo che gli
vengono a mancare persino i “luoghi” di comparazione che la
riflessione può includere sotto i suoi “titoli” o i suoi “concetti”
provvisori quando comincia a conoscere. Anche quel sentimento
puro che è il rispetto, che è tautegorico, non lo è che in quanto
“dice”, tutto d’un colpo, uno stato del pensiero e l’altro del pensiero,
la trascendenza della libertà che è “assolutamente incomprensibile”
(KPV, 5; 8)184. Esso è la “maniera” etica in cui questa trascendenza
può essere “presente” nell’immanenza (ivi, 48; 57)185. Ma con il
gusto (da questo punto di vista, bisogna mettere da parte il sublime)
l’immediatezza riflessiva non si riferisce a nessuna oggettività, né
mondo da conoscere, né legge da realizzare.
I ruoli qui devono dunque invertirsi. È per mezzo delle categorie
che il pensiero comincia l’euristica della riflessione. Sono le
categorie che si apprestano a servire apertamente, e direi anche:
brutalmente, da “princìpi di discriminazione” per orientare il pensiero
nel mutismo del sentimento puro. Questo mezzo non è vano, e il
filtraggio del sentimento nel quadrilatero dell’intelletto non è la
forzatura del primo per mezzo del secondo. Si osserva piuttosto un
effetto inverso: i concetti puri si applicano al sentimento solo alla
condizione, tutta riflessiva, di piegarsi alla sua resistenza e di
distorcere, per essergli fedele, le sintesi corrette che autorizzano nel
loro dominio. Verrà così mostrato quattro volte che il gusto non si
lascia comprendere dalla categoria che al prezzo di sfuggire alla sua
logica. Il giudizio che contiene non ha una quantità, una qualità, una
relazione e una modalità se non “falsate”, e per semplice analogia.
Ciò che così si scopre sono senz’altro dei “titoli” riflessivi, le pre-
categorie del pensiero, ma che stavolta non pensano più degli
oggetti, come nell’Appendice della prima Critica, né degli atti, come
nella seconda, bensì soltanto degli stati del pensiero stesso. La
paradossale anamnesi della riflessione, condotta con i mezzi della
logica, scopre in modo ricorrente l’analogico.
È dunque il concetto puro dell’intelletto che qui funge da principio
di discriminazione per scoprire il “soggettivo”. Lo scambio di ruoli è
tale che laddove ci si aspettava di trovare come procedura euristica
la “maniera” stessa, si ha il “metodo”. Dal che ne viene che il lettore
disattento sospetta una forzatura. Ma in verità, se le categorie
possono e devono essere così impiegate per domiciliare le
condizioni a priori del gusto, il domicilio cercato non è l’intelletto,
poiché nessuna delle sue condizioni soddisfa senza mancanze
quelle del gusto. E neppure la ragione, persino nel sublime (infra
VII). Se domicilio c’è, bisognerebbe chiamarlo, si sa, facoltà di
giudizio riflettente. Ma si può dubitare che questa sia un domicilio,
essendo piuttosto, nel pensiero critico, il titolo del pensiero stesso in
generale, e specialmente di quello critico: domiciliante.
Infine, e soprattutto, ci si deve chiedere, dopo aver tentato di
comprendere la sua necessità, come lo scambio che indichiamo sia
possibile. Chi o cosa procede all’anamnesi paradossale per mezzo
della quale la logica scopre l’analogia? Questo chi o cosa non può
essere che la riflessione. Nell’Analitica del bello, il pensiero si ostina
a riflettere attraverso ciò per mezzo del quale, in generale,
determina. Sebbene impieghi dei concetti sotto i quali i dati devono
essere sussunti allo scopo di arrivare a una conoscenza, il pensiero
sostiene che questi concetti non sono adatti, tali e quali, a
determinare ciò che cerca di determinare per loro tramite, e cioè il
gusto. La riflessione si rivela in quanto tale, vale a dire come
eccedenza dalla determinazione, nella pretesa di questa
inconvenienza.
Di ciò il lettore può trovare nel testo un gran numero di
testimonianze. Esaminiamo da questa prospettiva, per esempio,
l’“Antinomia del gusto” nella Dialettica del giudizio estetico (§§ 56 e
57)186. Questa antinomia ammette che il sentimento puro, che da sé
non lascia spazio ad alcuna disputatio (tesi: 163; 197)187 perché è
immediato, esigerebbe nondimeno una expositio (antitesi: 163, 166-
167; 197, 200-202)188 destinata a stabilire la sua universalità e
necessità in modo oggettivo, dunque per mezzo di argomenti e
tramite concetti. Il primo tratto dipende dalla tautegoria sentimentale.
Il secondo presuppone un’euristica (il gusto cerca di farsi
condividere). Abbiamo ripetuto che l’aspetto euristico proprio della
riflessione era assente dal sentimento estetico puro, che non cerca
niente. Le “promesse”, le “attese”, le “esigenze”189 di universalità e
necessità che l’analisi rivelerà in esso devono essere pensate come
immediate, sentite direttamente per lui stesso [à même lui], in modo
puramente “soggettivo”. Queste segnalano tutt’al più, dal punto di
vista della riflessione, dei “titoli” di comparazione possibili. Se ci si
tiene al verdetto che l’intelletto può pronunciare sui giudizi di gusto
per mezzo delle sue categorie, questo giudizio sarà determinato, in
qualsiasi logica, come particolare (o singolare) e assertorio
soltanto190. Cosa che non mancheranno di mostrare un’esposizione
e una discussione condotte secondo concetti. Queste ultime
concluderanno sempre: a ognuno il proprio gusto.
Nondimeno, questo stesso uso delle categorie di quantità
(particolare) e modalità (assertorio) verrà a rivelare o risvegliare, in
seno all’immediatezza del sentimento, i “titoli” di comparazione o i
“concetti riflessivi” sotto i quali il sentimento pretende, non meno
immediatamente, le proprietà contrarie. Ci si ricorda che,
nell’Appendice della prima Critica, il titolo identità/diversità è
l’analogo riflettente della quantità, e il titolo
determinabile/determinazione quello della modalità. Quando il gusto
“richiede” o “si ripromette” che la bellezza che attribuisce alla forma
presente le sia attribuita assolutamente, e cioè quantitativamente in
totalità, con ciò esso esclude che altri giudizi estetici che vertono su
questa forma siano legittimati a rifiutarle la bellezza sotto qualche
altro aspetto. Se comportasse una restrizione che implica che è
possibile che la forma giudicata non induca per un altro aspetto il
sentimento immediato di un’armonia soggettiva, quel giudizio
riflessivo che è il gusto rimarrebbe particolare. Ma lo “stato” del
pensiero corrispondente al gusto resta al contrario identico a se
stesso, persiste, e non consente al giudizio sul bello alcuna diversità.
Valutata logicamente, questa proprietà quantitativa si chiamerebbe
universalità. Ma la quantità logica del giudizio resta particolare (o
singolare). È dunque soltanto come comparazione soggettiva sotto il
titolo dell’“identità” che si indica un’universalità, che si dirà, di
conseguenza, “soggettiva”.
Lo stesso per la modalità. Considerato dal punto di vista
dell’intelletto, il giudizio di gusto è al più assertorio: si trova che
questa forma è bella perché procura il piacere legato alla bellezza, è
un fatto. Ma qui, ancora, l’esigenza riflessiva all’opera nello stesso
uso delle categorie riconduce nell’immediatezza dell’asserzione
sentimentale un titolo inverso, quello che esclude che la forma possa
non essere sentita, e cioè giudicata, come bella. È quest’esigenza di
necessità assoluta del giudizio presente nel sentimento soggettivo
che richiede la sua condivisione da parte di tutti. E anche in questo
caso tale pretesa contraria il valore di semplice asserzione che la
logica le deve attribuire (giacché questo giudizio non ha i mezzi per
dimostrare la sua necessità). Quella che l’Analitica riconosce al
giudizio di gusto nella sua immediatezza non è dunque una
necessità apodittica. È un caso del titolo pre-modale sotto il quale la
riflessione può raggruppare delle comparazioni, e che,
nell’Appendice della prima Critica, si chiama “determinazione” (la
“forma”, appunto).
Queste procedure sono paradossali solo dal punto di vista
dell’intelletto, per una filosofia intellettualista. Sono legittime, invece,
se si vede che le categorie sono manovrate in esse dalla riflessione
nella sua funzione euristica, che eccede la funzione determinante
delle categorie tuttavia indispensabile all’analisi. L’euristica riflessiva
è all’opera nel testo dell’Analitica del gusto, e scopre un’euristica
latente (le pretese del gusto) in un sentimento che ne sembrava
privo. Ma è necessaria la mediazione delle categorie perché la
scoperta sia possibile. Ne risulta una torsione degli effetti di
determinazione che si era in diritto di aspettarsi dall’applicazione
delle categorie. Questa torsione che il riflettente esercita sul
determinante produce o inventa i mostri logici che conosciamo: un
compiacimento senza movente né motivo, un’universalità soggettiva,
una finalità percepita, una necessità esemplare. Designazioni prese
a prestito dalla logica dell’intelletto ma distorte da epiteti inattesi
come opere d’arte, questi nomi sono, in buon metodo o, piuttosto, in
buona maniera, quelli dei “luoghi” che l’euristica riflessiva scopre
persino nella tautegoria grazie alla categoria.
Ci si accosterà alla lettura dell’Analitica del sublime tenendo a
mente il principio di questo capovolgimento della riflessione preteso
dall’estetico. Questi luoghi riflettenti si rivelano nel sentimento
sublime ancora una volta grazie all’uso delle categorie. Ma si vedrà
che è al prezzo di una torsione impressa a esse ancora più forte,
una distorsione. Questo prezzo è quello che la riflessione pura
all’opera nel testo kantiano fa pagare al giudizio determinante
affinché questo determini il riflettente meglio di come quest’ultimo
possa riuscirci quand’è lasciato a se stesso.

1 KU B XXVI; tr. it. p. 15.


2 Anthr., AA VII 201; tr. it. pp. 200 ss.
3 KU B XXI; tr. it. p. 13.
4 Cfr. ivi, B XVI-XX; tr. it. pp. 10-12.
5 Ivi, B XXI; tr. it. p. 13.
6 Ibidem.
7 Ivi, B XXVII; tr. it. p. 16 (modificata).
8 Ibidem.
9 Ivi, B XXII; tr. it. p. 13.
10 Per le due citazioni precedenti: ibidem. Per quanto riguarda l’ultima,
invece, non sono purtroppo riuscito a rintracciarla né nel testo originale, né
nelle traduzioni. Sono così propenso a interpretare questa definizione della
“prima ragione” in quanto “logica” come dovuta allo stesso Lyotard, in analogia
con quell’applicazione “secondo la forma logica a princìpi” che Kant attribuisce
all’intelletto e alla ragione (cfr. ivi, B XXI; tr. it. p. 12).
11 Ivi, B XXII; tr. it. p. 13. Rispetto al testo di Lyotard, ho aggiunto il
segno di omissione.
12 KrV B 421; tr. it. p. 615 (leggermente modificata).
13 KU B LVIII; tr. it. p. 33.
14 Il riferimento, come Lyotard stesso preciserà più avanti, è a F.W.J.
Schelling, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, in
Schellings Werke nach der Originalausgabe in neuer Anordnung, a cura di M.
Schröter, vol. VI, Beck und Oldenbourg, München 1928, pp. 195-198; tr. it.
Filosofia della mitologia. Introduzione storico-critica, di T. Griffero, Guerini,
Milano 1998, pp. 306-310. In entrambe le edizioni è riportata a margine la
paginazione dell’edizione originale dei Sämmtliche Werke, a cura di K.F.A.
Schelling, vol. IX, J.G. Cotta’scher Verlag, Stuttgart-Augsburg 1856, pp. 193-
196. Alla p. 196 di questa (ed. Schröter, p. 198; tr. it. pp. 309 ss.), in
particolare, Schelling, oltre a precisare di aver tratto il termine “tautegorico” da
un articolo di Coleridge, ne spiega il significato, rispetto agli dèi, dicendo che
questi “non sono qualcosa di diverso, né significano qualcosa di diverso, bensì
significano solo ed esclusivamente ciò che essi sono”. Nel riprendere da
Schelling l’uso di questo termine, e nell’applicarlo alla “dinamica” kantiana del
sentimento, è proprio questo aspetto di assoluta identità “dell’esserci” e “del
senso” che Lyotard vuole sottolineare. Quello per cui, cioè, il sentimento come
stato d’animo non è altro che la stessa informazione di (e su) questo stato. –
In merito al concetto di tautegoria nella filosofia di Schelling, cfr. almeno X.
Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, 2 voll., vol. II: La dernière
philosophie, Vrin, Paris 1992, pp. 411-414 e Id., La mythologie comprise.
L’interprétation schellingienne du paganisme, Bibliopolis, Napoli 1984. Per la
fonte schellinghiana, cfr. invece S.T. Coleridge, On the Prometheus of
Æschilus; an Essay preparatory to a series of Disquisitions respecting the
Egyptian in connection with the Sacerdotal Theology, and in contrast with the
Mysteries of ancient Greece, in “Transactions of the Royal Society of Literature
of the United Kingdom”, London 1834, vol. II, pt. II, pp. 384-404; comprensivo
dell’Appendice, ora in The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge, a cura
di H.J. Jackson e J.R. de J. Jackson, 12 voll., vol. XI, pt. II, Princeton
University Press, Princeton 2019, pp. 1251-1302.
15 KU B XLIV; tr. it. p. 25, dove però Garroni e Hohenegger traducono
“die Angemessenheit” con “l’adeguatezza”. Ho optato per la traduzione
“convenienza” allo scopo di rendere più efficacemente il francese
“convenance”.
16 Ivi, B XLVI; tr. it. p. 27 (modificata).
17 Ivi, B XLVII; tr. it. ibidem.
18 Ivi, B LII; tr. it. p. 30 (leggermente modificata).
19 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
20 Ibidem.
21 Ibidem (tr. it. modificata).
22 Ibidem.
23 Ibidem (tr. it. modificata).
24 Ivi, B LIII; tr. it. ibidem (modificata); d’ora in avanti, tutte le
specificazione tra parentesi quadre nelle citazioni sono di Lyotard.
25 Cfr. ivi, B 240; tr. it. p. 177.
26 KrV A 837 B 865; tr. it. p. 1177.
27 KU B 201; tr. it. p. 154 (leggermente modificata).
28 Ivi, B 261; tr. it. p. 189.
29 Ivi, B 37; tr. it. p. 58 (modificata).
30 DO AA VIII 134; tr. it. p. 5 – dove però il testo originale differisce
abbastanza dalla traduzione (a tratti libera) citata da Lyotard. Guardando alla
resa del testo di quest’ultimo, ho dunque preferito tradurre direttamente dal
francese. Riporto di seguito il testo originale e la tr. di Desideri: “Zu diesem
Behuf bedarf ich aber durchaus das Gefühl eines Unterschiedes an meinem
eigenen Subject, nämlich der rechten und linken Hand” – “A questo fine, però,
ho assolutamente bisogno del sentimento di una differenza nel mio proprio
soggetto, vale a dire la differenza tra mano destra e mano sinistra”.
31 Ivi, 134 ss.; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
32 Ivi, 135; tr. it. ibidem (modificata). Dato che l’espressione francese
“principe de différenciation” (che traduce il tedesco “Unterscheidungsgrund”) è
un termine molto ricorrente nell’argomentazione di Lyotard, ho preferito, per
conservare il riferimento, tradurre entrambi con “principio di differenziazione”,
anziché l’ultimo, come fa Desideri, con “fondamento della distinzione”.
33 Ivi, 136 nota; tr. it. p. 6.
34 Ibidem.
35 KU B 8; tr. it. p. 42.
36 Il riferimento sottinteso è ovviamente alla Erörterung metafisica e
trascendentale di spazio e tempo condotta da Kant nell’Estetica
trascendentale della prima Critica, che Lyotard, in modo tanto sottile quanto
evidente, estende anche allo stesso momento o movimento estetico. In merito,
cfr. KrV B 37-49; tr. it. pp. 117-133.
37 Ivi, A 99; tr. it. p. 1207 (leggermente modificata).
38 Ivi, A 320 B 376; tr. it. p. 561 (modificata).
39 Ibidem. Rispetto all’originale e all’italiano, Lyotard ha trasposto al
plurale tutti i termini (il che è evidente già nel fatto che i termini “Erkenntnis” ed
“Empfindung” citati in tedesco sono entrambi al singolare).
40 KU B 12-14; tr. it. pp. 45 ss. Contrariamente al riferimento al § 21 a
inizio frase (che può trarre in inganno), il paragrafo citato è il § 5.
41 Cfr. ivi, B XLV-XLVII; tr. it. pp. 26 ss.
42 Ivi, B LVIII; tr. it. p. 33.
43 Ivi, B 30 ss.; tr. it. p. 54 (modificata). Segnalo incidentalmente che,
malgrado non lo indichi, Lyotard ha modificato qui la traduzione di Philonenko
rendendo “Beurteilung” con “estimation”, piuttosto che, come fa quest’ultimo,
con “considération”. Data l’evidente assonanza con la Stimme, che è quanto
credo che Lyotard abbia in vista in questa traduzione, ho scelto in tal caso di
rendere il termine “estimation” letteralmente con l’arcaico “estimazione”. Si
tratta però di un hapax. Nel resto del testo Lyotard usa infatti “estimation”,
assieme a “évaluation”, per differenziare la Beurteilung (francese
“appréciation”, italiano “valutazione”) dalla Schätzung delle grandezze, per
indicare la quale ho deciso di tradurre sia “estimation” che “évaluation” con
“stima”, non seguendo Garroni-Hohenegger, ma Amoroso.
44 Cfr. ivi, B 147-149; tr. it. pp. 124 ss.
45 Ivi, B 148; tr. it. p. 125 (modificata).
46 Cfr. supra, nota 14.
47 Ivi, B XVI-XVIII; tr. it. pp. 10 ss.
48 Ivi, B XIX; tr. it. p. 11.
49 Ibidem.
50 Cfr. ivi, B 243-245; tr. it. pp. 179-181.
51 Ivi, B 245; tr. it. p. 180. La prima delle due citazioni è molto libera. Il
testo, infatti, parla piuttosto dell’idea “des Übersinnlichen überhaupt, ohne
weitere Bestimmung, als Substrats der Natur” – “del soprasensibile in genere,
senz’altra determinazione, in quanto sostrato della natura”.
52 Cfr. ivi, B 30 ss.; tr. it. p. 54.
53 Sono propenso a intendere questo rimando a Freud da parte di
Lyotard come un riferimento diretto alla sua teoria della “rappresentanza
pulsionale”, intesa anche a partire dalla dialettica che intrattiene con i processi
di rimozione “originaria” e “propriamente detta”. In merito, cfr. almeno S.
Freud, Triebe und Triebschicksale, in Id., Gesammelte Werke, 18 voll., a cura
di A. Freud, E. Bibring, W. Hoffer, E. Kris e O. Isakower, Imago, London 1940
ss., vol. X, pp. 210-214, per il concetto “rappresentanza pulsionale” e la
relazione stimolo/pulsione, da un lato. E Id., Die Verdrängung, ivi, pp. 247-261
e il § III, Unbewußte Gefühle, di Id., Das Unbewußte, ivi, pp. 275-279, riguardo
al rapporto che la lega alla rimozione, dall’altro. La traduzione italiana di tutti
questi testi li raggruppa complessivamente col titolo Metapsicologia, in Opere
di Sigmund Freud, 12 voll., edizione diretta da C.L. Musatti, vol. VIII,
rispettivamente pp. 14-17, 36-48, 60-63. Per l’interpretazione lyotardiana di
Freud, cfr. invece J.-F. Lyotard, Dérive à partir de Marx et Freud, Galilé, Paris
19942 e Id., Des dispositifs pulsionnels, Galilé, Paris 1994, parti dei quali sono
stati raccolti e tradotti in italiano in Id., A partire da Marx e Freud.
Decostruzione e economia dell’opera, tr. it. di M. Ferraris, Multhipla, Milano
1979; oltre ai quali cfr. l’ultimo capitolo di Id., Lectures d’enfance, Galilée, Paris
1991, pp. 129-153; tr. it. Letture d’infanzia, di F. Sossi, Anabasi, Milano 1993,
pp. 157-187, in cui Lyotard tratta esplicitamente tanto del concetto freudiano di
“affetto”, quanto di quello di Vorstellungsrepräsentanz.
54 Il riferimento kantiano è qui al sistema dei Grundsätze: KrV A 148-
218 B 187-266; tr. it. pp. 315-415. Anche se il sottinteso di questa
interpretazione, del tutto corretta nel suo anti-soggettivismo, sono inoltre i
punti de Il dissidio in cui Lyotard discute la struttura dell’esperienza come
concatenazione di frasi. Cfr. al riguardo J.-F. Lyotard, Le différend, Minuit,
Paris 1984, pp. 10, 51 ss., 75 ss., 93 ss., 103, 109 ss.; tr. it. Il dissidio, di A.
Serra, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 12, 49 ss., 68 ss., 84 ss., 93, 98.
55 Cfr. sempre KU § 9, B 27-32; tr. it. p. 54.
56 Ivi, B 145; tr. it. p. 123. Ritengo necessario sottolineare che, rispetto
all’ultima frase, l’originare dice: “das Vermögen zu urteilen selbst, oder die
Urteilskraft”. Per l’attinenza a esso, ho preferito utilizzare la traduzione italiana.
Dato però che, per tradurre Urteilskraft, in questo caso, Philonenko usa un
termine specifico che verrà ripreso più volte da Lyotard, riporto qui la versione
francese: “la condition subjective formelle de tous les jugements est la faculté
de juger elle-même ou la faculté judiciaire”.
57 Ivi, B 152; tr. it. p. 127 (leggermente modificata).
58 Ivi, B 26; tr. it. pp. 51 ss.
59 Ivi, B 23; tr. it. p. 50.
60 Ivi, B 15; tr. it. p. 46.
61 Ivi, B 62; tr. it. p. 72.
62 Ivi, B 63; tr. it. ibidem.
63 KrV A 260 B 316; tr. it. p. 485.
64 Ivi A 261, 263-268 B 317, 319-324; tr. it. pp. 485, 489-493.
65 KU B 64; tr. it. p. 73 (leggermente modificata).
66 Ibidem.
67 Si tratta della teoria che sta al cuore delle opere di J.-B. Du Bos,
Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, nouvelle édition revue,
corrigée et considérablement augmenté, Jean Mariette, Paris 1733, 3 voll.;
rist. anast. dell’edizione del 17708: Slatkine, Genevre-Paris 1982; tr. it.
(parziale) Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, di E. Fubini, Guerini,
Milano 1990; e di F. Hutcheson, An Inquiry into the Original of Our Ideas of
Beauty and Virtue, a cura di W. Leidhold, in The Collected Works of Francis
Hutcheson, Liberty Found Inc., Indianapolis 2004; tr. it. Ricerca sull’origine
delle nostre idee di bellezza e di virtù, di A. Lupoli, Baldini&Castoldi, Milano
2000.
68 KU B 64 ss.; tr. it. p. 74.
69 Ivi, B 25; tr. it. p. 51.
70 Ivi, B 31; tr. it. p. 54.
71 Ivi, B 65 ss.; tr. it. p. 74.
72 Ivi, B 135; tr. it. pp. 117 ss. (modificata).
73 Ivi, B 156-158; tr. it. pp. 129 ss.
74 Cfr. H. Arendt, Lectures on Kant’s political philosophy, University of
Chicago Press, Chicago 1982; tr. it. Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla
filosofia politica di Kant, di P.P. Portinaro, Il melangolo, Genova 2005.
75 KU §§ 1, 6, B 3-5, 17 ss.; tr. it. pp. 40 ss., 46 ss.
76 Ivi, B 65 ss.; tr. it. pp. 74 ss.
77 Ivi, B 28-30; tr. it. pp. 52 ss.
78 Ivi, B 28; tr. it. p. 52.
79 Ivi, B 31, 146; tr. it. pp. 54, 123 (modificata).
80 Ivi, B 161; tr. it. p. 132 (modificata).
81 KrV A 85 B 117; tr. it. pp. 221-223.
82 Ivi, B 136, 138; tr. it. pp. 247, 251.
83 Ivi, B 140-142; tr. it. pp. 253-255.
84 Ivi, B 141; tr. it. p. 255.
85 Ivi, B 142; tr. it. ibidem.
86 Ibidem.
87 Cfr. M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, in
Gesamtausgabe, vol. III, a cura di F.-W. von Hermann, Klostermann, Frankfurt
a.M. 1991; tr. it. Kant e il problema della metafisica, di M.E. Reina rivista da V.
Verra, Laterza, Roma-Bari 20126. Sulla lettura heideggeriana da Kant, cfr.
inoltre J.-F. Lyotard, Pérégrinations. Loi, forme, événement, Galilée, Paris
1990, pp. 67-71; tr. it. Peregrinazioni. Legge, forma, evento, di A. Ceccaroni, Il
Mulino, Bologna 1992, pp. 57-60.
88 KrV A 98-114; tr. it. pp. 1207-1227.
89 Cfr. ivi, A 97; tr. it. p. 1205.
90 Ivi, A 97 ss.; tr. it. ibidem (modificata).
91 Ibidem.
92 Ivi A 95; tr. it. p. 1203.
93 Ivi, A 97; tr. it. p. 1205.
94 Ibidem.
95 KU B 87, 91, 99 ss.; tr. it. pp. 87 ss., 90, 95.
96 KrV A 99; tr. it. p. 1207.
97 Ivi, A 102; tr. it. p. 1211 (modificata).
98 Ivi, A 103; tr. it. p. 1213.
99 Ivi, A 97 ss.; tr. it. ibidem.
100 KU B 75; tr. it. p. 81.
101 Ivi, B 99; tr. it. p. 94.
102 Cfr. ivi, B 72; tr. it. p. 78.
103 Cfr. ivi, B 68-73; tr. it. pp. 76-79.
104 Cfr. ivi, §§ 10-17, B 32-61; tr. it. pp. 55-71.
105 Ivi, B 98 ss.; tr. it. p. 94 (leggermente modificata).
106 Cfr. E. Burke, A philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of
the Sublime and Beautiful, a cura di A. Philips, Oxford University Press,
Oxford-New York 1990, pp. 33 ss.; tr. it. Inchiesta sul bello e il sublime, di G.
Sertori e G. Miglietta, Aesthetica, Palermo 19913, pp. 68 ss. Anche se il
riferimento può essere esteso all’intera trattazione del sublime nella Parte II,
ivi, pp. 51-79; tr. it. pp. 85-109.
107 KU B 122; tr. it. p. 108.
108 KrV A 344 B 402 ss.; tr. it. p. 591 ss.
109 Ivi, A 260-292 B 316-349; tr. it. pp. 485-525.
110 Ivi, A 260 B 316; tr. it. p. 485.
111 Ivi, A 268 B 324; tr. it. p. 495.
112 Ibidem.
113 Ivi, A 269 B 324; tr. it. ibidem.
114 Ivi, A 268 B 324; tr. it. ibidem.
115 Ivi, A 269 B 325; tr. it. ibidem (modificata). Per ragioni di resa di
Lyotard, qui come di seguito ho preferito tradurre il termine “Vergleichung” con
“comparazione”, piuttosto che con “paragone” (come Esposito).
116 Ivi, A 261 B 317; tr. it. p. 485.
117 Ibidem; tr. it. p. 487.
118 Ibidem.
119 Ivi, A 262 B 318; tr. it. ibidem.
120 Cfr. ivi, A 268 ss., B 324 ss.; tr. it. p. 495.
121 Ivi, A 269 B 325; tr. it. ibidem.
122 Ivi, A 280 B 336; tr. it. p. 509.
123 Ivi, A 260 B 316; tr. it. p. 485.
124 Ibidem.
125 Ivi, A 269 B 325; tr. it. p. 495.
126 Ivi, A 272 B 328; tr. it. p. 499 (modificata).
127 Ibidem.
128 Il riferimento è al § I dell’Introduzione alla Dialettica trascendentale:
cfr. ivi, A 293-298 B 349-355; tr. it. pp. 527-533.
129 Ivi, A 270 B 326; tr. it. p. 497.
130 Ivi, A 293 B 349; tr. it. p. 527.
131 Ivi, A 309 B 365; tr. it. p. 547.
132 Ivi, A 298 B 354; tr. it. p. 533 (leggermente modificata).
133 Cfr. ivi, A 293-298 B 349-355; tr. it. pp. 527-533.
134 Ivi, A 296 B 352; tr. it. p. 531.
135 Ivi, A 295 B 351; tr. it. p. 529. Segnalo inoltre che nell’originale
francese è presente un refuso. Per fare riferimento all’edizione tedesca della
Critica, Lyotard rinvia infatti a p. 355, anziché, come corretto, a p. 335.
136 Ibidem.
137 Ibidem.
138 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
139 Ivi, A 260 B 316; tr. it. p. 485.
140 KU B XLV ss.; tr. it. p. 26 (modificata).
141 Cfr. KrV A 261 B 317; tr. it. p. 485.
142 Ivi, B 406; tr. it. p. 597 (modificata).
143 Ivi, A 320 B 376; tr. it. p. 561.
144 Cfr. DO AA VIII 134; tr. it. p. 5. Cfr. supra, nota 30.
145 Cfr. EG AA II 380; tr. it. p. 414.
146 KrV A 528-530 B 556-558; tr. it. pp. 781-783. Dove però bisogna
stare attenti, maneggiando la traduzione italiana, al fatto che Esposito non
rende l’idea della transazione implicita nel discorso kantiano. Una traduzione
più prossima a quella che usa Lyotard si trova nella tr. it. Chiodi, pp. 438 ss.
Cfr. comunque infra la citazione corrispondente alla nota 151.
147 Cfr. ivi, A 411-413 B 438-440; tr. it. pp. 635-639.
148 Cfr. ivi, A 529 B 557; tr. it. p. 781.
149 Cfr. ivi, A 530 B 558; tr. it. p. 783.
150 Cfr. ivi, A 529 ss. B 557 ss.; tr. it. pp. 781-783.
151 Ivi, A 530 B 558; tr. it. p. 783 (modificata per seguire Lyotard).
152 Ibidem.
153 Cfr. KpV A 100-126; tr. it. pp. 135-159. La citazione corrisponde al
titolo della sezione, ivi, A 100; tr. it. p. 135.
154 Cfr. ivi, A 119-126; tr. it. pp. 153-159.
155 Cfr. ivi, A 126-159; tr. it. pp. 161-191.
156 Il riferimento di Lyotard è: ivi, A 134 ss.; tr. it. p. 169, anche se
segnalo che quella riportata nel testo non è la traduzione dell’originale
kantiano, bensì del francese di Lyotard, che si è dovuto mantenere per
rispettare l’economia della sua argomentazione. Riporto dunque qui, per
completezza, l’originare: “a questo proposito c’è ora da osservare che,
siccome il rispetto è un effetto sul sentimento, e pertanto sulla sensibilità di un
essere razionale, esso presuppone tale sensibilità, e dunque anche la
finitudine di quegli esseri a cui la legge morale impone rispetto” (tr.
leggermente modificata).
157 Ivi, A 134; tr. it. ibidem.
158 Per la distinzione tra metodo e maniera, cfr. KU B 201; tr. it. p. 154.
159 KpV A 110, 112; tr. it. pp. 145, 147.
160 Ivi, A 110; tr. it. p. 145.
161 Cfr. ivi, A 117; tr. it. p. 151.
162 Ivi, A 8; tr. it. p. 41.
163 Per questa citazione e la precedente: ibidem; tr. it. p. 41
(modificata).
164 Ivi, A 9; tr. it. ibidem.
165 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
166 Ibidem. La traduzione italiana dell’intero passaggio suona: “[…]
perché di quei concetti si fa un uso diverso da quello richiesto dalla ragione
speculativa”.
167 Ivi, A 11; tr. it. p. 43.
168 Ivi, A 9, 11; tr. it. pp. 41-43 (modificata).
169 KU B 160; tr. it. p. 131.
170 Ivi, B 158; tr. it. p. 130.
171 Ivi, B 160; tr. it. p. 131.
172 Ivi, B 158; tr. it. p. 130.
173 Ivi, B 160; tr. it. p. 131. Segnalo però che la traduzione italiana è
stata modificata per seguire quella di Lyotard, il quale accentua, anche di
contro all’originale, quell’idea di padronanza con cui, nella traduzione
francese, Philonenko rende la seconda occorrenza del verbo “erreichen”.
174 Ibidem.
175 Ivi, B 183; tr. it. p. 144.
176 Cfr. ivi, B 181-202; tr. it. pp. 143-155.
177 Tutte le quattro citazioni spezzettate sono tratte, con qualche
modifica nella traduzione, da KrV A 837 B 865; tr. it. pp. 1175 ss.
178 KU B 145; tr. it. p. 123. Cfr. supra, nota 56.
179 Ivi, B 61; tr. it. p. 72.
180 Ivi, B 62; tr. it. ibidem.
181 KrV B 35; tr. p. 115 (leggermente modificata).
182 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
183 KU B 182; tr. it. p. 143 (leggermente modificata).
184 KpV A 13; tr. it. p. 45 (leggermente modificata).
185 Cfr. ivi, A 83; tr. it. pp. 117-119.
186 Cfr. KU B 232-239; tr. it. pp. 172-176.
187 Cfr. ivi, B 234; tr. it. p. 173.
188 Cfr. ibidem e ivi, B 240; tr. it. p. 177.
189 Cfr. ivi, B 26; tr. it. pp. 51 ss.
190 Lyotard tiene qui presente evidentemente la suddivisione dei giudizi
che Kant riprende dalla logica a lui contemporanea e ripete in KrV § 9, A 70 B
95; tr. it. p. 193 e nella sua Logica, L §§ 21-30, AA IX 102-109; tr. it. pp. 94-
103.
II.
COMPARAZIONE DEL SUBLIME CON IL GUSTO

1. Perché un’Analitica del sublime?

Bisogna dedicare molta attenzione all’organizzazione testuale


dell’Analitica del sublime, a quella che Kant chiama la sua
“Einteilung”, la sua suddivisione (86; 90)1. Questa partizione significa
già da sé molto del “contenuto”, e talvolta l’eccede.
L’analisi comincia con un passaggio, uno Übergang (§ 23)2 che
conduce il lettore dalla capacità di valutare (la Beurteilung) il bello a
quella di valutare il sublime. Non si tratta di due facoltà di giudizio,
ma di due capacità [pouvoirs] di valutare esteticamente che la
facoltà di giudizio possiede, e che procedono in modo divergente. I
due sentimenti, quello del bello e quello del sublime, appartengono
senz’altro alla stessa grande famiglia, quella della riflessione
estetica, ma, in questa famiglia, non alla stessa varietà.
Perché “passare” all’esame della specie sublime? Kant non lo
spiega. È per la preoccupazione di saturare l’analisi del sentimento
estetico? O per lasciare un suo spazio alla disputa che già da un
secolo agita l’Europa a proposito del sublime? Motivo intratestuale,
motivo contestuale? L’impatto di quest’ultimo era evidente nelle
Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime pubblicate nel
17643. Kant aveva letto allora l’Aesthetica di Baumgarten (1750)4,
che egli respinge in una nota della prima Critica, lo si è visto, come
“la speranza vana […] di ricondurre la valutazione critica del bello
sotto dei princìpi razionali” (KRV, 54; 65)5. Non leggerà l’Enquiry into
the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757) che nella
traduzione tedesca di Garve (1773)6. E nella terza Critica classifica
l’Inchiesta sotto la rubrica della “psicologia” o della “fisiologia
empirica” (113; 125)7. Essa espone correttamente, e anche
ingegnosamente, i tipi di soddisfazione che l’ego, corpo e anima,
può provare a seconda che giudichi un oggetto bello o sublime. Ma
una tale esposizione è incapace di render conto dell’esigenza di
condivisione che il sentimento estetico comporta immediatamente. A
questa esigenza la descrizione empirica non ha neppure accesso,
oppure la imputa a un desiderio di “socievolezza”, cosa che fa
perdere al sentimento estetico ogni specificità. Essa non ha per
ipotesi (l’empirismo) alcun mezzo per elaborare un principio a priori
che legittimi che l’ego che prova il bello (e forse il sublime: infra IX)
esiga dall’alter che egli provi lo stesso sentimento che prova lui (113-
114; 125-127)8. Non ha il mezzo, insomma, di una critica
trascendentale della comunità richiesta dall’estetica.
Ecco qui, molto brevemente, il contesto immediato e citato dal
testo. Quanto alla completezza testuale che l’analisi del sublime
verrebbe ad assicurare, il sentimento del lettore ingenuo è piuttosto
inverso: l’Analitica del sublime apre nell’esame della facoltà di
giudizio estetico una breccia, per non dire che fa effrazione.
A dire il vero, la domanda “perché un’Analitica del sublime?” è
essa stessa ingenua. Che significa “perché”? È certo che questa
Analitica non è “introdotta”, se ci si tiene alla “superficie” del testo.
Altrimenti detto, la sua necessità non è “dedotta” in senso critico. Si
dirà che accade lo stesso nel caso del bello, la cui Analitica comincia
anche ex abrupto. Ma la funzione filosofica critica assegnata al
gusto, come giudizio riflessivo estetico, in vista dell’unificazione del
teoretico e del pratico, questa è stata almeno largamente
argomentata nell’Introduzione (a partire dal § III)9. Questa funzione è
stata da quel momento in poi legittimata: il piacere procurato dalle
belle forme naturali o quasi naturali (artistiche) presuppone, a titolo
di Idea, un’affinità della natura con il pensiero riflettente che Kant
chiama “finalità soggettiva della natura per la nostra facoltà
conoscitiva” (169; 205)10. Quest’affinità sarà poi estesa all’Idea di
una finalità oggettiva della natura per la libertà, Idea che costituisce
l’oggetto della Parte II della terza Critica. Sarà così resa possibile,
criticamente parlando, la compatibilità (e nulla di più) dell’Idea della
natura come meccanismo, subordinata alla legislazione dell’intelletto
che costituisce l’esperienza (prima Critica), con la natura come arte
che autorizza, e persino richiede al proprio termine, come proprio
orizzonte, le opere soprannaturali della libertà (243; 302)11. Questa
compatibilità è quella stessa che si annuncia soggettivamente, in
modo minimale, per così dire, nel semplice piacere del bello.
Vedremo che non accade lo stesso nel caso del sentimento
sublime. Il rapporto del pensiero con l’oggetto presentato vi si
guasta. La natura, in esso, non “parla” più al pensiero per mezzo
della “scrittura cifrata” delle sue forme (133 t.m.; 153)12. Al di qua o
al di là delle qualità formali che inducevano la qualità del gusto, il
pensiero colto dal sentimento sublime non ha a che fare, “nella”
natura, che con delle quantità in grado di suggerire una grandezza o
una forza che eccede la sua capacità di presentazione. Questa
impotenza rende il pensiero sordo o cieco alla bellezza naturale.
Divorziato, il pensiero entra in celibato. Può fare ancora “uso” della
natura, ma per i propri fini. Diviene l’utilizzatore [usagère]13 della
natura. Quest’uso è un abuso, una violenza. Si direbbe che il
pensiero, nel sentimento sublime, si spazientisca, disperi, si
disinteressi del raggiungimento dei fini della libertà attraverso i mezzi
della natura.
In seguito a questo, non si vede come l’analisi del sentimento
sublime possa contribuire al progetto di unificazione filosofica che
comanda tutta la nostra Critica e, segnatamente, la sua Parte
estetica. Consacrata a esporre questo progetto, l’Introduzione non fa
menzione del sublime se non in un breve passaggio alla fine del
paragrafo VII (38; 29)14. Vi si dichiara che, se il piacere estetico è
possibile, ciò non è soltanto perché l’oggetto può offrire una finalità
al pensiero riflettente (come nel bello, che è la natura “nel” pensiero),
ma anche perché il pensiero, inversamente, può provare la propria
finalità in occasione di una forma, “o anche per la loro non-forma”
(ibidem)15: è il caso del sublime, che è “il soggetto” senza la natura.
Non una parola di più, nell’Introduzione, su questo capovolgimento
delle finalità, peraltro molto notevole. Si direbbe che Kant abbia
quasi dimenticato di menzionare l’Analitica del sublime
nell’esposizione del progetto di unificazione. O che cerchi di farla
dimenticare richiamandola così sommariamente. La prima
Introduzione era più esplicita in merito al sublime (PI, 82 ss.)16.
Del resto, e per tornare al nostro “passaggio” dal bello al sublime,
Kant non fa mistero dell’incongruità di questa Analitica quando
conclude il suddetto passaggio con questo bilancio sotto forma di
aporia:

Da ciò vediamo come il concetto di sublime della natura non è, di gran


lunga, così importante e ricco di conseguenze come quello del bello che si
trova in essa, e non indica assolutamente nulla di conforme a scopi nella
natura stessa, ma solo nel possibile uso, il Gebrauch, delle sue intuizioni
allo scopo di rendere sensibile, fühlbar, in noi stessi una finalità del tutto
indipendente dalla natura […]. Un’annotazione preliminare davvero
necessaria, che separa del tutto, ganz abtrennt, le Idee del sublime da
quella di una finalità della natura (86; 90).17

E ciò, aggiunge, perché nella “valutazione estetica della finalità


della natura”, la “teoria” del sublime è “una semplice appendice,
einen bloßen Anhang” (ibidem)18.
Ciò che si è appena aggiunto alla natura esteticamente finalizzata
è, insomma, la perdita della sua finalità. Con il nome di Analitica del
sublime un’estetica denaturata, meglio: un’estetica della
denaturazione viene a infrangere il buon ordine dell’estetica naturale
e a sospendere la funzione che assume nel progetto di unificazione.
Ciò che sveglia il “sentimento dello spirito, il Geistesgefühl” (38;
29)19 che è il sentimento sublime non è la natura, artista nelle forme
e opera delle forme, ma una grandezza, una forza, una quantità allo
stato puro, una “presenza” che eccede ciò che il pensiero
immaginante può cogliere d’un colpo in una forma – ciò che esso
può formare.
La “semplice appendice” all’elaborazione critica dell’estetica
attraverso la finalità naturale prende così una piega minacciosa.
Essa segnala che un’altra estetica può essere anche non solo
esposta, ma “dedotta” secondo le regole della critica. Quest’altra
estetica è, o sembra, “controfinale, zweckwidrig” (85; 88)20. Il
sentimento che analizza è senz’altro estetico, giacché informa
immediatamente il pensiero del suo stato “soggettivo”. Ma questa
qualità dello “stato” del pensiero è procurata da delle quantità pure
che sfidano l’immaginazione.
Estetica negativa, si dirà. Ma il termine è vago. Anche il gusto è
negativo, nega all’intelletto la capacità di risolvere in concetti il
sentimento del bello e il giudizio che lo costituisce: l’Analitica del
bello procede secondo le categorie ma non può venire a capo del
gusto per mezzo delle sole categorie; le è necessario rinnegare
parzialmente la loro competenza (supra I.8). Ciò che il sublime nega
è, all’immaginazione, il potere delle forme, e alla natura il potere di
affettare immediatamente il pensiero grazie alle forme.
L’Analitica del sublime è negativa perché annuncia un’estetica
senza natura. La si può chiamare moderna nel senso in cui Rabelais
o Amleto21 sono moderni. Direi anche che, alla luce di
quest’Analitica e di tutto ciò che la prepara e vi si prepara da lungo
tempo nel pensiero occidentale, a partire dal cristianesimo così
insistente nel Trattato di Longino22, l’estetica in generale – che è il
pensiero moderno dell’arte, venuto a prendere il posto di una poetica
dell’ordine naturale ormai impossibile – quest’estetica innanzitutto
formale contiene in sé, fin dalla sua comparsa, la promessa della
sua scomparsa. A dispetto degli sforzi del pensiero speculativo e del
Romanticismo, alla fine del secolo XIX, bisognerà pure che la fiducia
riposta nelle forme naturali venga meno, e che il pensiero si renda
passibile, empfänglich, al di qua, al di là delle forme o in seno a
esse, a qualcosa che non gli parla in buona e dovuta forma.
Storicamente parlando, l’Analitica del sublime non ha dunque
nulla d’incongruo: viene da lontano e va lontano. Criticamente
parlando, resta un enigma. “Caduta d’un disastro oscuro”23, se
dobbiamo patetizzare. Certo, sarà fatto tutto ciò che la procedura
critica permette di fare per determinare il luogo di questo sentimento
estetico dell’an-estetica nel gioco delle facoltà, nella loro “economia”
e nella loro dinamica. È questo che qui si esamina, e il risultato
dell’elaborazione critica del sublime non è misero per noi, oggi.
Resta il fatto che questo sforzo non apporterà alcun contributo al
progetto generale di riconciliazione della natura e della libertà, e cioè
di unificazione della filosofia. Nella Parte II della terza Critica, la
teleologia non farà alcun uso, almeno esplicito – non più –, dei
risultati dell’analisi del sentimento sublime. Non è difficile
comprendere perché. La violenza sublime è come il fulmine.
Cortocircuita il pensiero con se stesso. La natura, o ciò che ne resta,
la quantità, non serve che a fornire il falso contatto [le mauvais
contact]24 da cui si è sprigionata la scintilla. La macchina teleologica
salta. La lunga “conduttura” che la natura, per mezzo del suo filo
conduttore, doveva costituire per il pensiero in movimento verso il
suo chiarimento finale non avrà luogo. Il bello contribuiva ai Lumi,
che, come diceva Kant, sono un’uscita dall’infanzia25. Ma il sublime
non è che una deflagrazione improvvisa [subit], e senza avvenire. È
in tal modo che ha avuto un avvenire, e che questo si rivolge ancora
a noi, che, in senso kantiano, speriamo appena. Ma tutto ciò non è
che storia, ancora.
Esaminata in termini critici, l’Analitica del sublime trova la propria
“legittimità” in un principio, che, a un tempo, è esposto dal pensiero
critico e lo motiva: un principio d’impeto del pensiero. Così per come
è esposto e dedotto nella sua tematica, il sentimento sublime si
analizza dunque in una duplice sfida: portata alle frontiere di ciò che
essa può presentare, l’immaginazione si fa violenza per presentare
almeno che non può più presentare. La ragione, dal canto suo, cerca
irragionevolmente di violare l’interdetto che si impone e che è
propriamente critico: l’interdetto di trovare nell’intuizione sensibile
degli oggetti corrispondenti ai suoi concetti. Sotto questi due aspetti,
il pensiero sfida la sua propria finitudine, come affascinato dalla
propria dismisura. Ed è questo desiderio d’illimitatezza che sente nel
suo “stato” sublime: contentezza e scontentezza.
Che questo desiderio sia vano, che esso debba esser relegato tra
le illusioni inevitabili, che la critica classifichi finalmente il sublime
nelle vicinanze della demenza, che mostri che esso non ha alcun
valore morale, e che, infine, l’analisi di questo sentimento sia
concessa a titolo di semplice appendice dell’estetica, senza portata
– tutto ciò è fin troppo evidente. Ma è anche “secondo” e, se così
posso dire, reattivo. Ciò che è “primo”, attivo, e che motiva tali
misure protettive è lo scatenarsi del pensiero immaginante e
razionale. Se la critica moltiplica i suoi richiami a ciò che è
“permesso” o “legittimo”, è perché il pensiero è irresistibilmente
tentato di oltrepassarlo.
Il sentimento sublime non è, a tal riguardo, che l’irruzione, nel e al
pensiero, di questo sordo desiderio di illimitatezza. Il pensiero “passa
all’atto”, “agisce” l’impossibile, “realizza”, soggettivamente, la propria
onnipotenza. Gode del Reale26. Mi si perdoni di andare a cercare,
per situare questa violenza, dei termini presi a prestito da tutt’altro
idioma, quello di Freud e di Lacan. Non sono il primo a farlo. Ma non
intendo proseguire in questa direzione. C’è di che designare questo
stato nella lingua criticista stessa. Il pensiero critico, tutto sommato,
non fa che ricercare le condizioni a priori di possibilità del giudicare
vero, giusto o bello nei domini della conoscenza, della morale e nel
territorio dell’estetica. Il progetto sembra modesto e ragionevole. E
nondimeno è motivato dallo stesso principio d’impeto che la critica
ha appena moderato. Le condizioni a priori di possibilità dovrebbero
essere per ipotesi esse stesse incondizionate, altrimenti non
sarebbero a priori. Ma se l’esame critico le può stabilire in quanto
tali, ciò è perché esso può appercepire il niente di condizione che si
trova “dietro” di esse. La riflessione, in altri termini, spinge l’analisi
delle proprie condizioni tanto lontano quanto le è possibile in virtù
della medesima esigenza critica. Tocca così l’assoluto di queste
condizioni, che non è altro che l’impossibilità, per lei, di proseguire
“oltre”: assoluto della presentazione, assoluto della speculazione,
assoluto della moralità. Ogni pensiero è infatti una messa in
relazione, nella lingua kantiana una “sintesi”. Quando dunque il
pensiero tocca l’assoluto, la relazione tocca il senza-relazione,
giacché l’assoluto è il senza-relazione. In che modo il senza-
relazione può essere “presente” alla relazione? Non può esservi
“presente” che come sconfessato (come entità metafisica), interdetto
(come illusione). Questa sconfessione, che è costitutiva del pensiero
criticista, è la confessione dell’impeto suo proprio. Essa si interdice
l’assoluto nella misura in cui lo vuole ancora. Ne risulta una sorta di
spasmo nel pensiero. E l’Analitica del sublime è il disegno di questo
spasmo. La portata di questa “appendice” eccede dunque di molto
l’esplorazione di un sentimento estetico. Espone lo “stato” del
pensiero critico nel momento in cui tocca il suo limite estremo – uno
stato spasmodico.
2. Bello e sublime comparati secondo la qualità e la quantità del
giudizio

Imbocchiamo adesso il “passaggio” che porta dal bello al sublime.


La maniera kantiana è qui quasi scolastica. Tra bello e sublime ci
sono delle convergenze, “das Schöne kommt […] mit dem
Erhabenen überein” (84; 87)27, ma anche “delle differenze
significative, namhafte Unterschiede” (ibidem)28. Le une e le altre
sono distribuite sul quadrangolo categoriale.
Dal lato delle convergenze, la qualità: bello e sublime piacciono
“per se stessi, für sich selbst” (ibidem)29. La soddisfazione che
procurano, o, piuttosto, che essi sono, è indipendente da ogni
interesse, empirico o razionale, inclinazione o concetto. Vedremo
che per il sublime le cose non sono così semplici (infra VII). Come il
gusto, il piacere sublime è procurato dalla presentazione. La facoltà
di presentare, la Darstellungsvermögen che designa qui,
chiaramente, l’immaginazione, vi si trova “in Einstimmung”, in
armonia, con la facoltà dei concetti in generale, intelletto o ragione,
“all’occasione di un’intuizione data, bei einer gegebenen
Anschauung” (84; 87)30. Ma viene precisato: armonia con la facoltà
dei concetti, intelletto o ragione, “als Beförderung der letztern”
(ibidem)31. Philonenko rende quest’espressione con: a beneficio di
quest’ultima, la ragione. Nondimeno, dato che si tratta anche del
bello, lo intenderei piuttosto come rafforzamento di questi ultimi, i
concetti, tanto dell’intelletto, nel caso del bello, quanto della ragione,
in quello del sublime. Si vedrà come il bello provochi anch’esso
un’eccitazione dell’intelletto da parte della presentazione
immaginativa (infra II.3).
Ancora dal lato della convergenza del sublime con il bello, la
quantità. I due sentimenti sono dei giudizi singolari, ma entrambi si
danno per universalmente validi. Questa universalità non è
oggettiva, non verte sull’attribuzione di un predicato al concetto
dell’oggetto che è occasione del piacere. Verte soltanto
sull’“attribuzione” di uno stato, la soddisfazione, al pensiero quando
quest’ultimo si rapporta all’oggetto bello o sublime; è soggettiva.
Dopo queste concessioni alla convergenza dei due sentimenti
estetici – la maggior parte delle quali saranno annullate dall’analisi
ulteriore –, le divergenze non si fanno attendere. Sono in gran
numero. Dopo tutto, se non fosse questo il caso, il “passaggio” non
avrebbe luogo.
Tali divergenze “saltano agli occhi” (ibidem)32. La prima dipende
in apparenza da una semplice differenza d’accento. Kant ritorna
sulla qualità e la quantità dei due giudizi. Il gusto, giudizio sul bello, è
indotto dalla forma dell’oggetto; il sentimento sublime può “anche
trovarsi relazionato a un oggetto senza forma, an einem formlosen
Gegenstande” (ibidem; t.m.)33. E tuttavia cos’è una forma? Una
“limitazione, Begrenzung”. Il senza-forma è al contrario il senza-
limite, la “Unbegrenzheit” (ibidem)34.
L’argomento è allora il seguente: giacché il sentimento del bello
risulta da una forma, che è una limitazione, esso si trova in affinità
con l’intelletto; il sentimento sublime, che è o può esser procurato
dal senza-forma, si trova in affinità con la ragione. Vi è senz’altro, in
entrambi i casi, una similitudine, che sta nel fatto che si tratta della
presentazione di un dato che dovrebbe poter essere pensato
secondo concetto, ma che in entrambi i casi non lo è. E ciò perché il
concetto dell’intelletto rimane qui “indeterminato” (ibidem)35 come
quello della ragione.
Ma questo tratto comune non deve far dimenticare la differenza di
natura tra un concetto dell’intelletto e un concetto della ragione. La
limitazione di un dato intuitivo in una forma non interdice in alcun
modo a un concetto di applicarsi a esso, di sussumere il dato, e per
ciò stesso di determinarsi per mezzo dell’intuizione che gli
corrisponde. Questa limitazione nella forma è al contrario una
condizione della determinazione nel concetto, e questo è in effetti il
caso quando si tratta di conoscere l’oggetto per mezzo
dell’intuizione. Ma non sarà questo il caso nel sentimento del bello,
quando si tratta per il pensiero di provar piacere in occasione del
dato. – Al contrario, se ci si rivolge al sentimento sublime, ciò che
interdice a priori a ogni concetto di applicarsi in modo determinante
al dato che provoca questo sentimento è che questo dato è illimitato
o quasi illimitato. – La differenza tra i due sentimenti estetici a questo
riguardo può essere allora correttamente situata. Nel caso del gusto,
la forma suscita l’attività – soltanto regolatrice e di fatto non
determinante, ma l’attività – dell’intelletto, facoltà di determinare.
Questa attività non deve qui poter riuscire a determinare il dato, ma
soltanto sforzarvisi. Se ci riuscisse, il piacere del gusto lascerebbe il
posto all’oggettività della conoscenza. Nel caso del sublime, il
senza-forma suggerisce immediatamente un qualche concetto della
ragione speculativa perché dell’oggetto di un tale concetto è per
definizione interdetta la presentazione, e non c’è presentazione
senza forma.
Questa differenza si chiarisce se si confronta il passaggio che
commento con il “primo conflitto delle Idee trascendentali” esposto
dalla Dialettica della prima Critica (KRV, 338 ss.; 454 ss.)36. La
questione posta è di sapere se il mondo, nello spazio e nel tempo, è
limitato o illimitato. Non può essere illimitato perché una totalità
simultanea (spazio) o una totalità successiva (tempo) di stati di cose
non può essere data nelle forme della sensibilità se questa totalità è
infinita. Non può nemmeno essere limitato perché bisogna supporre
allora uno spazio vuoto, al di fuori dell’estensione del mondo finito, o
un tempo vuoto, prima dell’inizio del mondo finito, e perché nessuna
intuizione sensibile può dare degli oggetti che corrispondano a
questa supposizione.
La critica trae da questa aporia la conclusione che la questione
non può essere risolta in modo determinato, e cioè per mezzo
dell’intelletto, giacché ciò che fa difetto alla determinazione nei due
casi, tesi e antitesi, è l’intuizione sensibile corrispondente qui
all’illimitato, là a ciò che il limite lascia “al di fuori” di sé (nello spazio
e nel tempo). Le due pretese sono dunque rigettate, almeno in
quanto tesi dell’intelletto. Resta il fatto che il concetto stesso di limite
continua a esigere il suo uso, anche se quest’ultimo può essere
soltanto non speculativo. Il limite è l’oggetto di un’Idea della ragione,
un “essere di ragione”.
La differenza tra il bello e il sublime legata a quella del carattere
limitato o senza limite dell’oggetto che è rispettivamente occasione
di questi due sentimenti non si limita, dunque, a una differenza tra
l’intelletto, al quale risalirebbe il limite, e la ragione, che avrebbe in
carico l’illimitato. In verità, è il limite stesso che l’intelletto non può
concepire come proprio oggetto. Il limite si concepisce solo insieme
al suo al di fuori e al suo al di dentro. Implica immediatamente e il
limitato, e l’illimitato. Non ci sono però concetti determinabili
dell’illimitato. Tutti insieme, il limite, il limitato e l’illimitato, presi come
oggetti, non possono essere che quelli delle Idee della ragione
speculativa. Il limite non è un oggetto per l’intelletto, è il suo metodo:
tutte le categorie dell’intelletto sono degli operatori di
determinazione, e cioè di limitazione. E le facoltà d’intuire o di
presentare, rispettivamente la sensibilità e l’immaginazione,
procedono anch’esse, nel loro ordine, per mezzo di limitazioni: gli
schemi quando lavorano per la conoscenza, le forme libere quando
concorrono al piacere del bello. È proprio quello che ha mostrato la
“Avvertenza preliminare” alla Deduzione dei concetti puri
dell’intelletto nella prima Critica (KRV A, 110 ss.; 141 ss.)37:
l’intelletto può essere “dedotto” in senso critico, e cioè legittimato a
pretendere di conoscere i dati dell’intuizione determinandoli secondo
concetti, solo in quanto questi ultimi sono precedentemente
delimitati, messi in forma in modo elementare, dalle tre sintesi
dell’apprensione, della riproduzione e della ricognizione. È qui che il
limite opera innanzitutto, che rende possibile ogni presentazione.
Vediamo così che la differenza del sublime con il bello non è
d’accento. È una differenza trascendentale. Il “passaggio” dall’uno
all’altro significa per l’immaginazione che essa cambia partner di
facoltà [de partenaire facultaire]. Il pensiero prova un sentimento
sublime quando si scontra con l’aporia esposta nella prima
Antinomia, ma nell’ordine della presentazione e non più della
concezione. Anche se è ancora necessario che esso vi sia spinto, o
attratto, da un’esigenza quasi demente della ragione.
Così isolata nel testo, la differenziazione non fa altro che
correggere l’apparente convergenza dei sentimenti del bello e del
sublime quanto alla qualità e alla quantità dei giudizi estetici che vi si
trovano rispettivamente in gioco. Kant aggiunge a questa
eterogeneità trascendentale una differenza supplementare, che
concerne ancora la qualità della soddisfazione da una parte e
dall’altra, ma vista stavolta dal punto di vista dell’“animazione” che la
soddisfazione procura al pensiero.
3. L’animazione

Ciò che viene inteso con questo nome nell’estetica kantiana sembra
dipendere da una “dinamica”, da una teoria delle forze, nel senso
quasi freudiano del termine, in ogni caso in quello che se ne avvicina
maggiormente all’epoca, la psicologia burkiana delle tendenze.
L’interpretazione dinamista è stata annunciata sin dai primi paragrafi,
quando si tratta di identificare la soddisfazione che una
rappresentazione può provocare al pensiero: la rappresentazione è
allora “riferita interamente al soggetto, e cioè al suo sentimento
vitale, auf das Lebensgefühl desselben, sotto il nome di sentimento
del piacere e del dispiacere” (49; 40)38. Come in ogni dottrina (o
metafisica) dell’energia, il piacere è metaforizzato nell’aumento della
forza vitale del “soggetto”, il dolore nella sua diminuzione. Il principio
che accresce la forza è chiamato Geist, che Philonenko traduce
giustamente con anima [âme], giacché la sua funzione è di animare
(143; 167)39: il vivo del pensiero.
Si può essere sorpresi da questo brusco ricorso al vitalismo – che
non è esente da una grande confusione nell’uso dei termini Geist,
Gemüt e Seele (ibidem)40, per non parlare di Subjekt. Non vi
riconosce dunque, la critica, uno di quei dogmatismi metafisici ai
quali tenta di metter fine (KRV A, 5 ss.; 5 ss.)41? Bisogna che essa si
rimetta a un “principio vitale” non criticato, per spiegare la qualità del
sentimento estetico? Non è questo, in conclusione, uno stato attuale
di una delle facoltà dello spirito distinte dalla critica, la facoltà di
sentire piacere e dispiacere, che si allinea accanto alle altre due,
quella di conoscere e quella di desiderare? E non è semplicemente
un nome trascendentale per designare la condizione a priori che la
riflessione critica scopre, a partire dai sentimenti estetici
empiricamente osservabili, per dedurre la possibilità di questi?
Facendo del Geist un principio di accrescimento della forza vitale
“dentro” al soggetto, da cui risulterebbe il piacere che questo prova,
la critica sembra cedere all’illusione trascendentale che ipostatizza in
realtà trascendente ciò che non è altro che la condizione di
possibilità di un giudizio di gusto dal punto di vista della sua qualità.
Bisogna esaminare come l’analisi critica del sentimento del bello
arrivi a invocare una forza vitale. Alla fine dell’esposizione dei giudizi
estetici riflettenti, e prima di passare alla loro deduzione, Kant
consacra due o tre pagine, come fra parentesi, a discutere con
Burke (113-114; 125-127)42. Non ha alcuna difficoltà a concedere
all’autore della Enquiry il vitalismo di cui questi ha bisogno per
esplorare il dominio delle realtà psico-fiosiologiche che è suo.

È indiscutibile […], come affermava Epicuro, che piacere e dolore sono


in fin dei conti, zuletzt, sempre corporei […], perché la vita, senza il
sentimento dell’organo corporeo, non è che coscienza della propria
esistenza, ma non sentimento del benessere o del malessere, vale a dire di
rafforzamento o d’inibizione delle forze vitali; perché lo spirito, il Gemüt, è
per se stesso unicamente e interamente vita, allein ganz Leben (lo stesso
principio di vita) (113 t.m.; 126).43

Nell’ordine dell’“antropologia empirica” (ibidem)44, Kant stesso


non esita a far uso di questo principio vitale. Lo si trova ancora in un
testo tardo come il terzo Conflitto delle facoltà che oppone la filosofia
alla medicina45. La confutazione critica non verterà, l’ho detto, che
su un punto decisivo, sul fatto che il realismo vitalista impedisce di
distinguere il piacere estetico da una soddisfazione valevole soltanto
“egoisticamente” (114; 127)46. Esso ignora l’esigenza, inscritta nel
gusto singolare, di farsi condividere universalmente senza
mediazione. Rinchiude il sentimento procurato dal bello in un
idioletto contingente, privato di ogni autorità di farsi “esempio” per gli
altri e di “promettere” una comunità di gusto.
La questione dell’animazione nel testo kantiano non dipende
dunque tanto dalla presenza del motivo vitalista, che viene
dall’antropologia, quanto dal modo in cui la critica si appresta a
lavorare questo motivo in fin dei conti metafisico in modo da trarne il
tratto propriamente trascendentale del piacere estetico, vale a dire la
sua richiesta immediata di essere condiviso universalmente. Il
paragrafo consacrato al genio (§ 49)47 espone chiaramente questo
lavoro critico. Più di qualsiasi altro passaggio della terza Critica,
esso inizia sviluppando appieno la lettura vitalista del genio nell’arte:
“l’anima, il Geist, nel suo significato estetico, designa il principio
vivificante, das belebende Prinzip, nello spirito, im Gemüte. Ma ciò
per cui questo principio vivifica, belebt, lo spirito, la Seele, la materia,
Stoff, che esso applica a questo effetto, questo è ciò che dà
finalisticamente slancio alle forze dello spirito, was die Gemütskräfte
zweckmäßig in Schwung versetzt […]” (143 t.m.; 167)48.
Nondimeno, questo stesso paragrafo iniziato così sotto l’egida
della dinamica, si conclude su quel tratto che nel gusto come nel
genio solo la critica può individuare, e cioè l’esigenza inerente al
sentimento del bello di farsi condividere. E siccome col genio si tratta
della “produzione” degli oggetti che occasionano questo sentimento
piuttosto che della loro “ricezione”, il testo mostra precisamente che
questa medesima esigenza è inscritta immediatamente nella
generazione delle opere. Il genio è così dichiarato consistere in un
“felice rapporto” (146; 172)49 – felice [heureux] nel senso in cui noi
parliamo di una “felicità di espressione” [bonheur d’expression], la
felicità di trovare “l’espressione, den Ausdruck” che conviene alle
“Idee [dell’immaginazione] in rapporto a un concetto dato” (ibidem)50,
ma soprattutto un’espressione grazie alla quale “la disposizione
soggettiva dello spirito, die […] subjektive Gemütsstimmung, così
provocata […] può essere condivisa da altri” (146 t.m.; 172)51. Dico
“soprattutto” perché è senz’altro “quest’ultimo talento, das letztere
Talent” che è “propriamente, eigentlich” ciò che si chiama “anima,
Geist”. L’anima è questo potere “di esprimere per mezzo di una certa
rappresentazione, bei einer gewissen Vorstellung, ciò che non può
esser nominato nello stato in cui si trova lo spirito, das Unnennbare
in dem Gemütszustande, e di renderlo condivisibile universalmente,
allgemein mitteilbar” (147 t.m.; 172)52.
Questo paragrafo sul genio è come il laboratorio in cui si opera la
trasmutazione degli elementi pregiudicati dall’antropologia dinamica
nelle condizioni a priori che risultano dall’analisi critica. Il segreto di
questa chimica appartiene però al potere euristico della riflessione.
Questa scompone la “forza vitale” nei suoi vettori e domicilia le
componenti così isolate presso le “facoltà conoscitive” (in senso lato)
che devono trovarsi in gioco nel piacere estetico.
In che modo il principio vivificante, il Geist, “vivifica” il pensiero?
Fornendo alle facoltà conoscitive in quanto tali, la pura capacità di
regolare, la pura capacità di presentare, una materia, uno Stoff, lo si
è letto, che le slancia l’una verso l’altra e le lancia l’una contro l’altra
in un “gioco”: “in Schwung […], d.i. in ein solches Spiel, welches sich
von selbst erhält, uno slancio che è un gioco tale che si mantiene da
se stesso” (143; 167)53. Questo gioco delle facoltà l’una con l’altra è
retto “da una finalità, zweckmäßig” (ibidem)54. Il fine perseguito da
questa finalità non è concepito, la finalità è “percepita” sull’oggetto
giudicato bello. E questa semplice percezione è quella stessa che
caratterizza il giudizio di gusto quanto alla categoria di relazione,
“finalità percepita sull’oggetto, an ihm, senza rappresentazione di un
fine” (76 t.m.; 77)55.
Che le facoltà giochino l’una con l’altra senza essere guidate dal
concetto di un fine a cui questo gioco tenderebbe spiega la
persistenza del piacere estetico: gli è essenziale di “attardarsi,
weilen” (65; 61)56, di “conservare il soggetto nello stesso stato, in
demselben zu erhalten” (63; 58)57, dato che quella persistenza è
essenziale a ogni piacere. Al punto che “la Verweilung, la pausa”
che il gioco delle facoltà impone al pensiero che giudica
esteticamente pone quest’ultimo in uno stato “analogo” alla
“passività” che esso subisce quando prova un’attrazione per un
oggetto, “wobei das Gemüt passiv ist” (65; 61)58. Analogo, ma non
identico: l’attrazione pietrifica le facoltà, il bello le lancia in un gioco.
Nel passaggio al quale mi riferisco – il terzo Momento
dell’Analitica del bello, quello che procede all’analisi del gusto per
mezzo della categoria di relazione e che isola la finalità senza fine
propria del giudizio estetico (63 ss.; 58 ss.)59 –, il testo abbozza
senza perfezionarla [sans la parfaire] una temporalità inerente al
sentimento del bello. I due grandi tratti che caratterizzano il tempo
cognitivo e che nella prima Critica hanno permesso di “dedurre” l’“Io
penso”, la successione e l’auto-affezione, sono qui messi in
sospeso. Dato che “il soggettivo”, quasi passivamente, non è
nient’altro che il suo stato, l’“Io penso” si oblia come pensiero
dell’oggetto rivolgendosi verso l’esperienza per mezzo delle forme
della simultaneità (spazio) e della successione (tempo). Il tempo
della pausa estetica è anche la pausa, la deposizione del tempo
diacronico. La sensazione che procura il libero gioco delle facoltà
instaura una maniera d’essere al tempo [être au temps] che non può
dipendere dal senso interno.
Torno a quella materia, a quello Stoff che l’anima fornisce alle due
facoltà conoscitive, l’immaginazione e l’intelletto, in modo che esse
rivaleggino per afferrarla; l’una pensandola secondo la forma, l’altra
secondo il concetto. Questa materia – e la parola ha sempre, in
Kant, il senso di una diversità senz’ordine – sono le Idee estetiche. Il
principio di “animazione” che le propone al gioco delle facoltà,
l’anima, dunque, trova così, nella critica, il suo vero nome: esso è “la
facoltà, il Vermögen, della presentazione di Idee estetiche” (143 t.m.;
167)60. “Facoltà della presentazione” è nella terza Critica il nome
dell’immaginazione (73, 84; 73; 86)61. Ma l’immaginazione è detta
presentare delle forme, e presentarle nel formarle. Ecco che sembra
incaricata di presentare delle Idee. Come potrebbe però presentare
un’Idea, quando la definizione dell’Idea è di avere un oggetto di cui
non c’è una presentazione possibile (KRV, 277; 368-369)62? – Ma
qui si tratta di Idee estetiche. Ora, queste sono come il rovescio
simmetrico, la “controparte, Gegenstück, (pendant)” (144; 168)63, di
quelle Idee di cui abbiamo appena ricordato la proprietà negativa, e
cioè delle Idee della ragione. L’Idea estetica è una rappresentazione
d’oggetto tale da non avere alcuna proprietà corrispondente nel
concetto di questo oggetto. L’Idea razionale è la concezione di un
oggetto impresentabile; l’Idea estetica la presentazione di un
“oggetto” che sfugge alla concezione dell’oggetto stesso, la
presentazione di ciò che Kant chiama, lo si è letto, “das Unnennbare,
l’innominabile” (147; 172)64 non dell’oggetto stesso (la forma), ma
l’innominabile dello stato che l’oggetto procura al pensiero.
Perché chiamare questa presentazione Idea? Perché essa
eccede l’esperienza allo stesso modo in cui la eccede l’Idea della
ragione. E così come la riflessione può trovare nell’esperienza un
“analogo” presentabile dell’oggetto dell’Idea razionale (174; 211-
212)65, l’immaginazione può “trasformare”, anch’essa “per analogia”,
un oggetto dell’esperienza e presentare un oggetto che non è
presente in quest’ultima (144; 168)66, ad esempio quando
l’esperienza è risentita come “troppo quotidiana” (ibidem)67. Grazie a
questo tratto di eccedenza o di supplenza, l’Idea estetica smette di
essere pensata negativamente. Essa aggiunge al concetto
l’espressione. E alla rappresentazione dell’oggetto la “materia” che
eccede la sua determinazione da parte dell’intelletto, che “da se
stessa dà ben più da pensare, so viel zu denken veranlaßt, di ciò
che si lascia mai comprendere, zusammenfassen, in un concetto
determinato” (ibidem, t.m.)68. Questa materia è senz’altro
l’immaginazione che la fornisce, e cioè uno dei partner del gioco.
Che la prende a prestito dalla “natura reale”, ma “crea” a partire da
questa materia “un’altra natura” (ibidem)69.
Questa trasformazione si ottiene per mezzo di un’operazione
eminente e costitutiva del pensiero kantiano stesso, se la si
comprende come riflessiva: l’analogia. L’analogia trasforma, o,
meglio, commuta un dato facendogli fare un salto da un dominio di
legislazione o da un territorio di legittimità di facoltà a un altro. Essa
attraversa tutti i campi dei possibili oggetti di pensiero trasportando
una relazione di rappresentazioni da un settore all’altro, al prezzo di
trasporla secondo le regole in vigore nel settore d’arrivo. Lo fa
emigrare, lo accultura.
L’immaginazione che opera esteticamente si dimostra così
produttiva e non soltanto “riproduttiva” (mnestica), come doveva
essere allo scopo di permettere la conoscenza teoretica. Essa si
prende delle libertà rispetto ai “Postulati del pensiero empirico in
generale”, e particolarmente rispetto alle “Analogie dell’esperienza”
che sono la permanenza, la successione e la simultaneità (KRV B,
173 ss.; 229 ss.)70: rispetto a tutto ciò che qui Kant riassume in
un’unica parola, “la legge dell’associazione”, che appartiene solo
all’uso empirico dell’immaginazione (144; 168)71. Quest’ultima
fabbrica infatti un’altra natura che non dipende dal pensiero secondo
concetti, ma da ciò che è prossimo al concetto, “dalle
rappresentazioni secondarie, Nebenvorstellungen”, i cui elementi
costituenti non le sono attribuiti logicamente, ma sono invece degli
“attributi (estetici)” (144-145; 169)72. Alla determinazione logica del
concetto di onnipotenza non appartiene il fatto di comportare la
rappresentazione di un’aquila che tiene un fulmine tra i propri artigli.
Questa rappresentazione è un’Idea estetica. Essa lancia il pensiero
in “una moltitudine di rappresentazioni della stessa famiglia” (145;
169)73, una moltitudine che, ancora una volta, “dà più da pensare,
mehr denken lassen, di quanto si possa esprimere in un concetto
determinato per mezzo di parole” (ibidem, t.m.)74. Perché il concetto
esige “con sé […] l’espressione linguistica determinata, mithin in
einem bestimmten Sprachausdrucke” (145 t.m.; 170)75. Nessun
linguaggio che determini il proprio oggetto può mantenersi a galla
nella marea delle Idee estetiche. Questa trascina con sé le parole
della concezione. Intendiamoci: quand’anche si trattasse di poesia o
di letteratura, dove si ha certo a che fare ancora con parole, queste
sono però quelle dell’analogia, che sommergono le parole della
definizione. Queste ultime “si slargano”, vengono portate al largo, “in
modo illimitato” (144; 169)76, si perdono “su un campo di
rappresentazioni […] che si estende a perdita d’occhio, ein
unabsehliches Feld” (145; 169)77. Ci si ricorda a questo punto che
Burke sosteneva anche che solo le parole, al di sopra degli altri
materiali estetici, hanno il privilegio di generare una simile
illimitatezza78, questo “orizzonte”, insomma – qualcosa, forse, come
l’aura benjaminiana79.
È questa la sfida, lanciata dall’immaginazione libera, che
comanda il gioco in cui resta impigliato l’intelletto. Questo gioco è a
sua volta la ragione dell’“animazione” in cui consiste infine il piacere
del bello. Una tempesta di Idee sospende il tempo ordinario per
perpetuarsi. Non c’è alcun bisogno della metafora vitalista né della
metafisica dell’energia per comprendere in conclusione che nel
genio e analogicamente nel gusto, l’anima, il Geist, il vivo del
pensiero eccede la lettera, “la semplice lettera del linguaggio, mit der
Sprache, als bloßem Buchstaben” (146; 171)80. Per ciò alla critica
basta introdurre come condizione a priori della possibilità del gusto
una potenza di presentare che eccede quella che essa ha stabilito
essere una delle condizioni a priori della possibilità della
conoscenza. L’immaginazione, che è questa potenza, può
presentare dei dati, e cioè sintetizzarli in forme, al di là di ciò che
l’intelletto può conoscere, e cioè di ciò che esso può sintetizzare in
concetti. È proprio perché questa capacità di produzione, che
eccede quella della semplice riproduzione, è una condizione a priori
per il giudizio estetico (come lo è per il giudizio determinante la
capacità di riproduzione) che essa deve essere universalmente
condivisa. È per questa che essa è legittimata a richiedere quando si
esercita, fosse anche singolarmente, che lo spazio illimitato che apre
al pensiero e che il tempo sospeso in cui perdura il suo gioco con
l’intelletto siano accessibili a ogni pensiero che si confronti
esteticamente con la stessa circostanza singolare. Cosa che la
metafisica delle forze fa gran fatica a fondare.
4. Bello e sublime comparati secondo la relazione (finalità) e la
modalità del giudizio

Riprendiamo ora dalla comparazione della soddisfazione sublime


con quella procurata dal bello secondo le categorie di qualità e di
quantità (85; 87-88)81. La seconda soddisfazione si prova dunque
“direttamente” come un “rinvigorimento della vita”, allo stesso titolo di
quella che potrebbe suscitare un’“attrazione”82 (sebbene non sia
questo il caso, poiché quella soddisfazione è disinteressata) (65, 68;
61-62, 65)83. Essa partecipa al gioco attraverso l’immaginazione. La
soddisfazione procurata dal sublime sorge all’inverso
“indirettamente”, come un sentimento a due tempi contrari: le “forze
vitali” subiscono per un istante una “Hemmung”, un’inibizione, sono
trattenute, represse; poi vengono lasciate andare e “si sfogano” – è
la “Ergießung” – in modo ancora più forte nell’istante seguente
(ibidem)84. A causa di questa specie di angoscia transitoria,
l’emozione sublime non ha dunque nulla di un gioco.
L’immaginazione vi compare indaffarata in modo quanto mai serio. A
dire il vero, contrariamente al gusto, il sentimento sublime è
un’emozione, una “Rührung”, alternanza del no e del sì affettivi (68;
65-66)85. Non è possibile nessuna analogia con l’attrazione. Il
pensiero non vi è soltanto “attratto, angezogen” dalla circostanza, ne
è alternativamente “respinto, abgestoßen”, in un movimento incerto,
incessante (85; 88)86. Comparato al piacere del bello, quello del
sublime è per così dire negativo (è a questo titolo che Burke lo
distingueva col nome di delight)87, comporta questo contraccolpo,
come se il pensiero inciampasse su ciò stesso che lo attira. Il testo
kantiano anticipa le analisi ulteriori assimilando questo piacere
negativo a un “meravigliarsi”, una “Bewunderung”, o a un “riguardo
rispettoso”, la “Achtung”, tenuti anch’essi a trattenere prima di
travolgere, e a trattenere nuovamente (ibidem)88.
Ci si chiede allora quale sia “la cosa” che suscita una tale
ambivalenza, e si passa dunque alla comparazione dei sentimenti
del bello e del sublime secondo la categoria di relazione (la finalità).
Almeno dopo Mallarmé, e forse già dopo Jean-Paul, le estetiche
negative, un certo pensiero della scrittura e la riflessione sull’arte
moderna vengono tutti a proporsi adducendo questa cosa dinnanzi
alla quale il pensiero allo stesso tempo subisce un contraccolpo e si
precipita. Ciò che sembra certo è che con il sublime la si fa finita con
quella “felicità” grazie alla quale l’immaginazione creatrice apre al
pensiero il campo illimitato delle Idee estetiche. La si fa finita con
quella sovrabbondanza, con quel supplemento di naturalità venuto a
continuare la “natura reale” grazie al talento analogizzante e a
sommergere il pensiero di questa natura.
È proprio questo, però, ciò che il “passaggio” secondo la finalità
sottolinea subito: per quanto estasiate dall’immaginazione libera, il
gusto suppone l’affinità delle forme naturali con la facoltà di giudizio
nel suo esercizio più elementare, e cioè in quel giudizio estetico che
è il sentimento del bello. Ma se è vero invece che il sentimento
sublime contiene in sé lo stupore di cui si è detto, se dal lato
dell’oggetto o della circostanza c’è una “cosa” che lascia il pensiero
interdetto proprio nel momento in cui contraddittoriamente lo esalta,
allora questo oggetto non è affatto di natura, o la natura che gli è
propria non è quella natura che è stata come predisposta dalla
“scrittura cifrata” delle sue forme, la sua “Chiffreschrift” (133; 153)89,
alla sua “lettura” immediata da parte del sentimento del bello. La
“cosa” non deve appartenere a questa natura che lascia
l’immaginazione geniale attingere dalla sua “scrittura” ciò con cui
presentare un numero di forme sempre maggiore di quelle che
presenta questa scrittura stessa, e formare così un’altra natura.
L’approvazione, il “Beifall” (85; 89)90, che la natura dà al pensiero
per il tramite del gusto, – la sublimità lo rescinde. Non c’è oggetto
della natura cifrata che sia sublime (85; 88-89)91. Il sentimento è
sublime nell’esatta proporzione in cui “la cosa” che lo suscita
rovescia l’affinità sviluppata nel gusto e nel genio, si dimostra
“controfinale, zweckwidrig” (85; 89)92 quanto al giudizio estetico
diretto, è “smisurata [démesurée], unangemessen” quanto
all’immaginazione e “fa violenza, gewalttätig” a quest’ultima
(ibidem)93.
Dal che segue che, non appartenendo “la cosa” alla natura data
[cette nature-là], è necessario che essa appartenga allo “spirito”, e
che “non possiamo dire più di questo” (ibidem)94. Eppure qualcosa in
più possiamo dirla. Se la forma sensibile non può contenere “la
cosa” è perché questa intrattiene una qualche relazione con le Idee
della ragione, giacché proprio gli oggetti di queste Idee non si danno
mai in una presentazione conveniente, in una forma che sia loro
commisurata, angemessen. Tuttavia, anche nel caso di questa
impresentabilità di principio ciò che resta presentabile è
l’inconvenienza, la Unangemessenheit, la dis-misura [dé-mesuration]
di qualsiasi presentazione agli oggetti delle Idee razionali.
Presentata nella sensibilità alla e dall’immaginazione, questa
“discrepanza” stessa ricorda allo spirito quelle Idee sempre assenti
alla presentazione, e in tal modo le ravviva. Per esempio, l’oceano
che infuria è semplicemente orribile, gräßlich, quand’è preso
percettivamente. Se può suscitare un’emozione sublime è in quanto
rinvia negativamente il pensiero a una finalità superiore, quella di
un’Idea, in effetti (86; 89)95.
Questo gesto del pensiero che capovolge “l’orrore”, avrebbe detto
Burke, l’orribile del pensiero, che lo svia e lo sovverte in meraviglia e
in rispetto per un’Idea impresentabile – questo gesto verrà chiamato
“surrezione, Subreption” (96; 102)96. Subreptio indica nel diritto
canonico l’atto di ottenere un privilegio o una grazia dissimulando
una circostanza che si oppone al suo ottenimento. È un abuso
d’ufficio. Qual è la grazia ottenuta nel sublime al prezzo di un tale
abuso d’ufficio? Intravedere l’Idea, l’assoluto della potenza [l’absolu
de la puissance], la libertà. Perché il pensiero non ha questo diritto?
Perché, in questa circostanza e per principio, non ne ha nella natura
nessuna presentazione propriamente detta. Che cos’è che è stato
dissimulato per procurarsi questa grazia? Quest’impotenza
dell’immaginazione di presentare l’oggetto della ragione. In che
consiste la surrezione? Nell’ottenere o nello strappare una quasi-
presentazione di questo oggetto, che non è presentabile, in
presenza di una grandezza o di una forza naturale “informe”.
È così che si comprende il fatto che il pensiero fa “uso, Gebrauch”
della presentazione (86; 90)97. C’è in questo termine, lo ripeto, sotto
la piuma di Kant, il senso di un abuso, di un delitto, di un peccato,
quasi, che si sente anche nella surrezione. È il peccato del moderno.
Heidegger dirà che con la tecnica l’essere si dà come “fondo”
presente sottomano, dal quale si attinge senza doverlo intendere98.
Mutatis mutandis, il Gebrauch kantiano annuncia un motivo analogo,
la denaturazione dell’essere che rende caduca la poesia [poème] e
che permette il mezzo. – Non proseguo per questa direttrice
grossomodo delineata, ma che condurrebbe forse alla comprensione
dell’affinità delle estetiche sublimi con l’epoca della tecnica99.
In conclusione, se la natura contribuisce all’emozione sublime non
è sicuramente, come nel sentimento del bello, attraverso le sue
forme. Lo fa invece, lo si è già letto, quando “lascia apparire solo
grandezza e forza” (86 t.m.; 89)100, un quantitativo bruto e in una
relazione finalistica invertita. Il quantitativo è finale per il pensiero
razionale tanto quanto non lo è per l’immaginazione. Le divergenze
tra bello e sublime hanno la meglio, e di molto, sembra, sulla loro
parentela di sentimenti estetici.
Qualche parola ancora sul “passaggio” dal bello al sublime. Nel
sistema delle comparazioni tra i due sentimenti si nota un’assenza
degna di nota. Somiglianza o dissomiglianza, non viene condotta la
comparazione sotto la categoria di modalità. Si sa dal quarto
momento dell’Analitica del bello che il giudizio sul bello è sempre
posto come necessario. Si sa anche che questa necessità del
giudizio non è “completa” né “apodittica”, ma “esemplare,
exemplarisch” (77; 78-79)101. Vale lo stesso per il sublime? La
risposta sarà data soltanto nel § 29, dedicato alla modalità del
giudizio contenuto nel sentimento sublime. E ancora ciò non sarà
senza imbarazzo. La sublimità si afferma necessariamente come la
bellezza. Ma, quanto allo statuto della necessità del giudizio sublime,
persiste una sfumatura. Non è sicuro che sia il medesimo del gusto.
Questa sfumatura sarà di grande importanza quando si dovrà
determinare la natura e l’estensione della “condivisibilità” del
sentimento sublime (infra IX).
Ho tuttavia omesso intenzionalmente l’affermazione
programmatica sulla modalità del giudizio sublime che viene fatta
nell’esposizione della “suddivisione della ricerca” su questo
sentimento, a cui è dedicato il § 24 (86-87; 90-91)102: “la
soddisfazione relativa al sublime, proprio come, eben sowohl, als,
quella relativa al bello, deve […] rappresentarsi, vorstellig machen,
secondo la relazione come finalità soggettiva, e rappresentare
questa finalità come necessaria secondo la modalità” (87 t.m.; 90:
non tengo conto di una “correzione” di Erdmann)103. Il parallelismo
delle due Analitiche e delle loro rispettive conclusioni è così
fortemente affermato. Ma non senza essere un po’ forzato. La
difficoltà riguarda l’espressione “vorstellig machen, rendere
rappresentabile” che si applica sia alla soggettività della finalità (che
è un caso della relazione), sia alla necessità della sua asserzione
(che è un caso della modalità). Che l’una e l’altra debbano essere
“rappresentabili” non va da sé. Ci si ricorda ad esempio che alla fine
del terzo momento dell’Analitica del bello si è arrivati alla
conclusione che quest’ultimo è “la forma della finalità di un oggetto in
quanto è percepita riguardo a esso, an ihm, senza rappresentazione
di un fine, ohne Vorstellung eines Zwecks” (76 t.m.; 77)104. Senza
tornare sulla relazione e la modalità del giudizio che verte sul bello,
ci si limita a esaminare come la finalità necessaria del giudizio
sublime (considerando dunque questo allo stesso tempo secondo le
categorie di relazione e modalità) possa trovarvisi “rappresentata”.
Bisogna qui rinviare alla nomenclatura esposta nella sezione:
“Delle Idee in generale” del Libro I della Dialettica della prima Critica
(KRV, 262 ss.; 348 ss.)105. La suddetta sezione è dedicata a criticare
il vano uso che l’empirismo fa del termine Idea e a inscrivere
quest’ultimo nell’eredità dell’uso platonico. Segue allora, per
dissolvere qualsiasi fraintendimento, l’esposizione della “scala
graduale”106 delle rappresentazioni. Ammesso che ogni pensiero è
rappresentazione (cosa che non discuterò qui, pur riconoscendovi il
pregiudizio derivante dalla metafisica cartesiana)107, si distinguono
tra le percezioni, che sono le rappresentazioni accompagnate da
coscienza, quelle che si rapportano al solo “soggetto” in quanto
modificazioni del suo stato senza fornire nessuna conoscenza
dell’oggetto, e che si chiamano “Empfindungen, sensazioni” (KRV,
266; 354)108. Nella misura in cui il sentimento sublime è un giudizio
riflessivo soggettivo, la finalità necessaria che caratterizza questo
giudizio deve appartenere alla famiglia delle percezioni soggettive,
vale a dire delle sensazioni, in ciò simile al gusto. Ma per quanto
questo stato soggettivo sublime è messo necessariamente in
relazione con la “presenza” di un concetto della ragione, l’assoluto, il
giudizio sublime deve comportare una rappresentazione di tutt’altra
famiglia, quella che nella “scala graduale” si chiama precisamente
Idea (ibidem)109.
La finalizzazione del sentimento sublime attraverso l’assoluto
esige forse la rappresentazione di quest’ultimo da parte di un’Idea?
Oppure l’assoluto è nel sentimento sublime un oggetto di pensiero
che può certo essere rappresentato peraltro, nell’uso che ne fa la
ragione speculativa, da un’Idea, ma che qui è solo sentito, vale a
dire “presentato” soltanto come la sensazione di una finalità
necessaria? Trattandosi di un giudizio riflettente, la seconda ipotesi
dev’essere quella buona. È per questo che parlo della “presenza” di
un concetto della ragione: l’oggetto di questo concetto, l’assoluto, è
sentito senza essere rappresentato da un’Idea. È soltanto come
sensazione che è presente nel sentimento sublime e che esercita la
sua finalità necessaria. Se l’assoluto fosse rappresentato nel giudizio
sublime da un’Idea, questo giudizio smetterebbe di essere estetico e
diventerebbe speculativo: “se dev’essere estetico e non deve essere
confuso con un giudizio dell’intelletto o della ragione quale che sia,
un giudizio puro sul sublime non deve avere il minimo fine
nell’oggetto stesso, gar keinen Zweck des Objekts, per fondare la
propria determinazione, zum Bestimmungsgrunde” (92 t.m.; 97)110.
L’assoluto non vi è dunque concepito come un’Idea, ma soltanto
sentito. Per la natura della rappresentazione che esso implica, il
sublime è cugino del gusto. Ma soltanto cugino, perché presuppone
e la capacità di concepire l’assoluto e la sensibilità alla sua
“presenza” – cosa che il sentimento del bello ignora.
5. Continuità e discontinuità tra bello e sublime

Questa parentela tra i due sentimenti estetici, se non esclude una


lettura attenta alle differenze, discontinuista come quella che sarà
condotta qui, non autorizza perciò meno una lettura continuista, che
metta l’accento sulla “tensione” e l’instabilità che caratterizza i due
sentimenti. Si sente il bello, si sente il sublime in quanto il rapporto
tra la potenza di presentare e la potenza di concepire un oggetto non
è fissato da una regola.
Il piacere del bello accade quando queste due potenze,
l’immaginazione e l’intelletto, si trovano impegnate l’una con l’altra,
secondo una “proporzione” appropriata (78; 80)111, in una specie di
gioco. È un gioco perché esse sono tra loro in competizione per
afferrare l’oggetto, l’una attraverso forme, l’altra attraverso concetti.
Ma è un gioco anche perché sono complici, l’una e l’altra, nel non
determinare questo oggetto, e cioè nel non afferrarlo per mezzo di
forma e concetto così come fanno nella conoscenza oggettiva. Ne
segue che nemmeno la “proporzione appropriata”, che procura
quella soddisfazione che chiamiamo piacere del bello, è
determinata; è la soddisfazione che la segnala. Ne segue inoltre che
la tensione tra le due potenze è necessariamente instabile (infra
VIII).
Si è visto che è soprattutto l’immaginazione a essere responsabile
di questa instabilità. Essa si adopera a moltiplicare le
“Nebenvorstellungen”, le rappresentazioni marginali (145; 169)112, e
fa brulicare le Idee estetiche. Non è escluso che a forza di aprire e
riaprire il campo degli “attributi estetici” (ibidem)113 che essa scopre
[découvre] attorno all’oggetto, quest’ultimo smetta di essere
riconoscibile dal suo partner, l’intelletto. Si può arrivare persino a
immaginare (è il caso di dirlo) che l’oggetto così elaborato [travaillé]
sfugga non soltanto alla sua identificazione da parte dell’intelletto,
ma anche alla “ricognizione”, nell’accezione forte che la Deduzione
dei concetti puri dà a questo termine nella prima Critica (KRV A, 115
ss.; 149 ss.)114. L’accezione è forte perché non si tratta niente meno
che della costituzione del “senso interno”, e cioè del tempo implicito
in ogni conoscenza (ivi, 111; 142-143)115. Questa costituzione esige
tre sintesi elementari effettuate sul puro molteplice [divers] dei dati al
fine di renderlo rappresentabile (ibidem)116. La prima consiste
nell’unire questo molteplice evanescente in un’“apprensione,
Apprehension” intuitiva, la seconda nel ripeterlo in una “riproduzione,
Reproduktion” che è opera dell’immaginazione (ivi, 111-115; 142-
149)117. La “ricognizione, Rekognition” è la terza sintesi del tempo,
ed è il concetto che la effettua: “se non avessimo coscienza,
Bewußtsein, del fatto che ciò che pensiamo è esattamente la stessa
cosa che abbiamo pensato un istante prima, ogni riproduzione nella
serie delle rappresentazioni sarebbe vana” (ivi, 115-116; 149)118.
Non continuo la dimostrazione (infra IV.2). È qui sufficiente
immaginare, come risultato dell’immaginazione produttiva nel gusto
e nel genio, una proliferazione di rappresentazioni innestate su uno
stesso dato, tale che venga a mancare la coscienza concettuale che
dovrebbe rendere queste rappresentazioni “riconoscibili”, e cioè che
le situi in una sola e medesima serie di apprensioni e riproduzioni del
molteplice.
L’ipotesi è allora questa: nell’eccesso del suo gioco produttivo di
forme o di Idee estetiche, l’immaginazione può arrivare fino a
interdire la ricognizione da parte del concetto, a sconcertare o a far
disperare questa coscienza della quale è incaricato l’intelletto,
facoltà dei concetti. Un tale impeto non evoca soltanto gli “eccessi”
del barocco, del manierismo e del surrealismo, è una sregolazione
che nella “calma” contemplazione del bello rimane sempre
potenziale. Il Geist, il “vivo” dell’“animazione” può sempre eccedere
la “lettera”, farla cedere e dimettere; il “benessere” della scrittura
mutarsi in delirio per sovrabbondanza di “immagini”.
Bisogna ricordarsi tuttavia che questa specie di sregolazione (in
merito alla quale Kant sicuramente non ammetterebbe mai che
procuri il piacere del bello, per mancanza d’una “proporzione
appropriata” tra le due potenze) conduce agli antipodi della
sregolazione sublime. Gli diamo facilmente il nome di genio. Ma per
l’analisi critica il genio non è affatto sublime, è folle delle forme e
folle di forme, mentre la sublimità nasce invece dalla loro “assenza”.
Cionondimeno, il sentimento sublime può essere pensato, dal
canto suo, come un caso limite del bello. È per la facoltà di
concepire, allora, che il sentimento estetico si sregola. Si può
immaginare infatti che l’intelletto, a forza di opporre alla potenza
delle forme dei concetti sempre più “al limite” allo scopo di mettere
questa potenza, l’immaginazione, in difficoltà, come potenza dei
concetti determinabili dall’intuizione passi “la mano”, in questo gioco,
alla potenza dei concetti di oggetti impresentabili, e cioè alla ragione
(infra IV.3). Non è più del concetto di dominio, per esempio, che la
facoltà di concepire chiede all’immaginazione di fornire una
presentazione ricca e piacevole, come nei tratti del re dell’Olimpo, ai
quali può aggiungere altri mille “attributi estetici” – ma dell’Idea di
onnipotenza stessa. L’oggetto di quest’Idea non è però presentabile
nell’intuizione. L’immaginazione non può “creare” alcuna forma che
le sia commisurata, giacché ogni forma è circoscrizione (84; 74)119 e
l’onnipotenza è concepita come un assoluto che esclude ogni
limitazione.
Certo, la moltiplicazione delle forme da parte dell’immaginazione
scatenata può venire a supplire a quest’impotenza di principio, ma
allora la creatività non è più un gioco libero, piacevole e gratuito,
anche: passa invece in un regime d’angoscia. È questo ciò che
bisogna intendere nell’“Ernst”, nella serietà con cui Kant qualifica la
sua attività nel sublime. È la serietà della melancolia, il dolore di una
mancanza irreparabile, questa nostalgia, anch’essa assoluta, per il
fatto che la forma non sia mai altro che forma, e cioè limitazione,
Begrenzung (ibidem)120. Anche se dispiega dinanzi al pensiero il
campo illimitato delle forme proliferanti, l’immaginazione resta
schiava della propria finitudine perché ognuna di quelle forme che
essa inventa e aggiunge alle altre rimane per definizione confinata
[bornée].
Con il genio, la potenza di presentare tende fino a romperlo il
rapporto che intrattiene con l’intelletto, di modo che la loro
proporzione può smettere di procurare il sentimento del bello e che
l’oggetto che era occasione di questo sentimento sembra infine
irriconoscibile per il concetto. Con il sentimento sublime, la tensione
si esercita invece in un altro senso. Il concetto si pone fuori dalla
portata di qualsiasi presentazione; l’immaginazione si inabissa,
inanimata; tutte le sue forme sono inani di fronte all’assoluto;
“l’oggetto” che è occasione del sentimento sublime scompare, tout
court: “la natura come svanendo davanti alle Idee della ragione” (96;
101)121.
Si vede così che, a partire da queste due tensioni, si delineano
due estetiche, due estetiche anch’esse sempre possibili e che
minacciano sempre le arti, le epoche, i generi e le scuole, qualsiasi
siano: un’estetica figurale del “davvero troppo” che sfida il concetto,
e un’estetica astratta o minimale del “quasi niente”, che sfida la
forma. Assimilarle l’una all’altra perché entrambe implicano una
tensione vorrebbe dire non attenersi al rigore critico e soccombere
all’illusione trascendentale che confonde l’intelletto e la ragione.
Resta il fatto che entrambe sono delle estetiche. E che non si
potrebbe far passare né l’una né l’altra in un’altra famiglia,
localizzarle in un altro territorio di facoltà, ad esempio nell’etica, se
non per tramite di un’altra illusione. Lo dico perché è un’inclinazione
frequente, nei lettori dell’Analitica del sublime, quella di rinvenire nel
sentimento sublime una specie di atavismo etico, un’ombra gettata
dal sentimento morale sulla presentazione (e che la occulta). Per
designare la relazione che il pensiero ha con “la cosa” nel
sentimento sublime, non evoca forse Kant stesso, lo si è letto, la
Achtung, il rispetto, che è dovuto soltanto alla legge morale? Senza
dubbio; ma parla anche di “ammirazione” (85; 88)122, che non è un
termine proprio del lessico morale. Il dossier verrà istruito più avanti
(infra VII).

1 KU B 79; tr. it. p. 82 (modificata).


2 Ivi, B 74; tr. it. p. 80.
3 Cfr. BGSE.
4 Cfr. A.G. Baumgarten, Aesthetica, Kleyb, Frankfurt a.d. Oder 1750;
rist. anast., G. Olms Verlag, Hildesheim 19863; tr. it. L’Estetica, di F.
Caparrotta, A. Li Vigni e S. Tedesco, Aesthetica, Palermo 2000.
5 KrV B35; tr. p. 115. Segnalo incidentalmente che la traduzione
francese della citazione non riferisce l’aggettivo “vano” alla speranza, come
nell’originale tedesco: “es liegt hier eine verfehlte Hoffnung”, ma allo “sforzo” di
cui Kant parla poco sotto. La riporto qui per completezza: “un vain effort pour
soumettre le jugement critique du beau à des principes rationnels”.
6 Si tratta della traduzione di C. Garve citata dallo stesso Kant anche
in KU B 128; tr. it. p. 113: E. Burke, Philosophische Untersuchungen über den
Ursprung unserer Begriffe von Schönen und Erhabenen, Hartknoch, Riga
1773.
7 Cfr. KU B 128 ss.; tr. it. pp. 113 ss.
8 Cfr. ivi, B 129-131; tr. it. p. 114 ss.
9 Cfr. ivi, B XX ss.; tr. it. pp. 12 ss.
10 Ivi, B 245; tr. it. p. 180 (modificata).
11 Cfr. ivi, B 394 ss.; tr. it. p. 266.
12 Ivi, B 170; tr. it. p. 137. Segnalo che la modifica nella traduzione
consiste nel fatto che, là dove Philonenko traduce “Chiffreschrift” con “langage
chiffré”, Lyotard recupera invece quel senso di “scrittura cifrata” cui fa
riferimento Kant.
13 Ho scelto di tradurre “usagère” con “utilizzatore” e non con “utente”,
come nelle altre traduzioni, perché credo che il termine conservi in questo
caso la carica semantica del francese. Usagers sono infatti tanto gli utenti di
un servizio, quanto i consumatori; senso, quest’ultimo, che Lyotard mantiene a
mio parere sottinteso parlando subito dopo di un abuso. Per quanto più duro,
“utilizzatore” mi è parso in tal senso una soluzione più adeguata, mantenendo
quella specie di distanza che separa il consumatore dall’“oggetto”
“consumato”.
14 Cfr. ivi, B XLVIII; tr. it. p. 27.
15 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
16 Cfr. EE AA XX 249-251; tr. it. pp. 136-138.
17 KU B 78; tr. it. p. 82 (modificata).
18 Ibidem (tr. modificata).
19 Ivi, B XLVIII; tr. it. p. 27.
20 Ivi, B 76; tr. it. p. 81 (modificata).
21 Per il primo, rimando a F. Rabelais, Œuvres complètes, a cura di M.
Huchon e F. Moreau, Gallimard, Paris 1994. Dell’opera principale di Rabelais
esiste una pregevole traduzione: Id., Gargantua e Pantagruele, 3 voll., tr. it. di
A. Frassineti, a cura di G. Macchia e con le illustrazioni di G. Dorè, BUR,
Milano 1984, che riporta però a fronte il testo dell’edizione critica precedente:
Id., Œuvres complètes, a cura di J. Boulenger e L. Scheler, Gallimard, Paris
1955. Per l’Amleto, invece, cfr. W. Shakespeare, Hamlet, Prince of Denmark,
in Id., Complete Works, a cura di W.J. Craig, Oxford University Press, New
York-London 19662, pp. 870-907; tr. it. Amleto, in Id., I drammi dialettici, di E.
Montale, a cura di G. Melchiori, Mondadori, Milano 1977, pp. 26-327.
22 Cfr. Dionigi Longino, Il sublime, tr. it. di E. Matelli con testo greco a
fronte, Rusconi, Milano 1988.
23 Lyotard riprende qui il primo verso della seconda terzina della poesia
Tombeau d’Edgar Poe di S. Mallarmé, Œvres complètes, 2 voll., vol. I., a cura
di B. Marchal, Gallimard, Paris 1998, p. 38; tr. it. La tomba di Edgar Poe, in Id.,
Poesie, di P. Valduga, Mondadori, Milano 2003, p. 173.
24 “Falso contatto”, così come il termine “conduttura” della frase
seguente, vanno intesi in senso tecnico.
25 Sul tema dell’infanzia, Lyotard ha variamente insistito in un senso
estremamente polivoco in J.-F. Lyotard, Lectures d’enfance, cit. e Id.,
L’inhumain. Causeries sur le temps, Galilée, Paris 1988; tr. it. L’inumano.
Divagazioni sul tempo, di E. Raimondi e F. Ferrari, Lanfranchi, Milano 2015.
Per il riferimento kantiano, cfr. invece BFA AA VIII 35 ss.; tr. it. pp. 141 ss.
26 Il verbo utilizzato da Lyotard è “jouir”, il quale vuol dire in francese
“gioire”, “godere”, ma anche, in senso più forte, “raggiungere l’orgasmo”. Il
riferimento a Freud e Lacan che segue è rivolto a quest’ultimo significato. Ma
in generale Lyotard sta qui giocando a mio parere con tutti i sensi di “jouir”. Il
godimento del reale che si verifica nel sublime va ricollegato infatti anche con
quell’uso o consumo della natura di cui parlava.
27 KU B 74; tr. it. p. 80: “il bello si accorda con il sublime”.
28 Ivi, B 75; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
29 Ivi, B 74; tr. it. ibidem.
30 Ibidem (tr. it. modificata).
31 Ibidem. La traduzione di Philonenko cui Lyotard fa subito dopo
riferimento è: “au profit de cette dernière”. Garroni e Hohenegger la traducono
invece con “in quanto agevolazione di queste ultime facoltà”. Mentre Amoroso
(tr. cit. p. 257), ad esempio, segue invece Philonenko, traducendo
quest’espressione con un semplice “per promuoverla” e riferendola alla facoltà
dei concetti.
32 KU B 75; tr. it. p. 80.
33 Ibidem. Ho modificato la traduzione italiana per seguire quella di
Lyotard, che specifica, rispetto alla traduzione di Philonenko, che il sublime si
trova in relazione con l’oggetto e non direttamente in esso (come pure
suggerisce la lettera di Kant) e rende il formlosen con sans forme anziché con
informe.
34 Ibidem, sia per questa, che per la citazione immediatamente
precedente.
35 Ibidem.
36 KrV A 426-433 B 454-461; tr. it. pp. 655-663.
37 Ivi, A 98-114; tr. it. p. 1207-1227.
38 KU B 4; tr. it. p. 39.
39 Cfr. ivi, B 192; tr. it. p. 149.
40 Cfr. ibidem.
41 Cfr. KrV A IX ss.; tr. it. p. 9.
42 Cfr. KU B 129-131; tr. it. pp. 113-115.
43 Ivi, B 129; tr. it. p. 114 (modificata).
44 Ibidem.
45 Cfr. SF AA VII 95-116; tr. it. pp. 179-207.
46 KU B 130; tr. it. p. 115.
47 Ivi, B 192-202; tr. it. pp. 148-155.
48 Ivi, B 192; tr. it. p. 149 (modificata).
49 Ivi, B 198; tr. it. p. 153.
50 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
51 Ibidem (tr. it. modificata).
52 Ibidem (tr. it. modificata). La modifica più rilevante che si segnala è la
traduzione, da parte di Lyotard, di “das Unnenbare” con “ce qui ne peut pas
être nommé” (che ho reso con “ciò che non può esser nominato”) anziché,
come Philonenko, con “ce qui est indicible” (tr. it. cit.: “l’indicibile”).
53 Ivi, B 192; tr. it. p. 149 (leggermente modificata).
54 Ibidem (tr. it modificata).
55 Ivi, B 61; tr. it. p. 72 (modificata).
56 Ivi, B 37; tr. it. p. 58 (modificata).
57 Ivi, B 33; tr. it. p. 55 (modificata).
58 Ivi, B 37; tr. it. p. 58: “là dove l’animo è passivo” (leggermente
modificata).
59 Cfr. ivi, B 32-61; tr. it. pp. 55-72.
60 Ivi, B 192; tr. it. p. 149 (modificata). Rispetto alla traduzione di
Philonenko, Lyotard usa qui “d’Idées”, anziché “des Idées”.
61 Cfr. ivi, B 55, 74; tr. it. rispettivamente pp. 68, 80.
62 Cfr. KrV A 327 B 383; tr. it. p. 569.
63 KU B 193; tr. it. p. 149.
64 Ivi, B 198; tr. it. p. 153 (modificata). Segnalo che rispetto a sopra (cfr.
supra, nota 52), Lyotard rende qui “das Unnenbare” con “l’innommable”
(Philonenko, ricordo, usa “indicible”), e non con “ce qui ne peut pas être
nommé”.
65 Cfr. ivi, B 255-257; tr. it. pp. 186 ss.
66 Cfr. ivi, B 193; tr. it. p. 149.
67 Ibidem (tr. it modificata).
68 Ivi, B 194; tr. it. p. 150 (modificata).
69 Ivi, B 193; tr. it. p. 149.
70 Cfr. KrV A 176-235 B 218-287; tr. it. pp. 355-443.
71 KU B 193; tr. it. p. 149.
72 Ivi, B 195; tr. it. p. 150.
73 Ibidem; tr. it. p. 151 (modificata). Rendo in questo caso con
“moltitudine” il tedesco “Menge”, tradotto in francese da Philonenko con
“foule”. La traduzione italiana “quantità” adottata da Garroni-Hohenegger, per
quanto generalmente adeguata al termine, mi sembra di fatto troppo legata
alla dimensione “matematica”. Credo invece che nel passo di Kant richiamato
da Lyotard il termine abbia un senso prettamente estetico, e si riferisca non al
numero o alla quantificabilità (l’essere “un certo numero”) delle
rappresentazioni, ma quasi “alla calca” (in questo senso il francese “foule” è
più attinente) di immagini che si spingono e si affollano nell’Idea estetica. Ora,
se di mathesis si può comunque parlare anche in questo caso, è in un senso
estremamente diverso da quello di “reine Größenlehre” con cui Kant descrive
la Foronomia (MA AA IV 489; tr. it. p. 153), dipendendo ciò dal fatto che
queste rappresentazioni estetiche saranno pur sempre tali, e dunque non
soltanto relazionali (cfr. KrV A 285 B 341; tr. it. p. 515), ma rappresentazioni
ordinate da e secondo un certo principio, che è proprio l’Idea estetica di cui si
tratta.
74 KU B 195; tr. it. p. 151.
75 Ivi, B 196; tr. it. ibidem (modificata).
76 Ivi, B 194; tr. it. p. 150. Segnalo che quel “s’‘élargissent’” che qui si è
reso con “si slargano”, e che parafrasa l’“élargit” usato da Philonenko, è
traduzione del tedesco “erweitern”, nella tr. it. di Garroni-Hohenegger
“estendere”.
77 Ivi, B 195; tr. it. p. 151 (leggermente modificata).
78 Cfr. E. Burke, A philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of
the Sublime and Beautiful, cit., pp. 55-59; tr. it. pp. 87-90, e tutta la Parte V, pp.
147-161; tr. it. pp. 167-178.
79 Cfr. W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen
Reproduzierbarkeit, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H.
Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, Bd. I.2, pp. 431-508. Della
Erste e della Dritte Fassung e della versione francese di questo testo c’è in
italiano una traduzione molto pregiata: Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-39), a cura di F. Desideri, Donzelli,
Roma 2012. Mentre un utile strumento è anche il volume Id., Aura e choc.
Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino
2012, in cui sono raccolti tutti i saggi benjaminiani che trattano dell’argomento.
80 KU B 197; tr. it. p. 152 (modificata). Segnalo qui che il testo originale
di Lyotard presenta un refuso, indicando la p. 144 della tr. fr. e non p. 146,
dove si trova la citazione, e omette di segnalare che la traduzione è stata
modificata (in modo tra l’altro abbastanza libero).
81 Cfr. ivi, B 75 ss.; tr. it. p. 80 ss.
82 Sebbene nel testo di Lyotard possa sembrare che i tre termini
appena indicati come citazioni si trovino alle pagine indicate in coda alla
prossima parentesi, essi sono tratti invece dalla pagina indicata nella nota
precedente: ivi, B 75; tr. it. p. 80 (modificata). In effetti, a essere confuso ed
errato non è solo questo riferimento all’originale kantiano, ma tutti quelli in
questa pagina e nelle immediatamente seguenti. Quella che si è resa con
“rinvigorimento della vita” (“renforcement de la vie”) è infatti una modifica della
traduzione francese, “épanouissement de la vie”, con cui Philonenko rende il
tedesco “Beförderung des Lebens”. Mentre lo “ibidem” riportato poco sotto non
si ricollega al testo delle pp. 65, 68; 61 ss., 65 delle edizioni utilizzate da
Lyotard, ma, con un salto, ancora una volta al testo del § 23 commentato
sopra.
83 Cfr. ivi, B 36-38, 43; tr. it. pp. 57 ss., 61.
84 Ivi, B 75; tr. it. pp. 80 ss. (modificata).
85 Ivi, B 43; tr. it. p. 61.
86 Ivi, B 75; tr. it. p. 81.
87 Cfr. E. Burke, A philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of
the Sublime and Beautiful, cit., pp. 33 ss.; tr. it. pp. 68-70.
88 KU B 75 ss.; tr. it. p. 81 (modificata per seguire Lyotard, il quale, di
nuovo senza segnalarlo, modifica la traduzione di Philonenko usando
“émerveillement” al posto di “admiration” e “égard respectueux” invece di
“respect”).
89 Ivi, B 170; tr. it. p. 137 (modificata); cfr. supra, nota 12.
90 Ivi, B 76; tr. it. p. 81.
91 Cfr. ivi, B 76 ss.; tr. it. ibidem.
92 Ivi, B 76; tr. it. ibidem (modificata).
93 Ibidem (modificata sia la traduzione francese, da parte di Lyotard,
che quella italiana).
94 Ibidem (tr. it. modificata).
95 Cfr. ivi, B 77; tr. it. ibidem.
96 Ivi, B 97; tr. it. p. 93.
97 Ivi, B 78; tr. it. p. 82.
98 Cfr. M. Heidegger, Die Frage nach der Technik, in Id., Vorträge und
Aufsätze, in Gesamtausgabe, vol. VII, a cura di F.-W. Von Hermann,
Klostermann, Frankfurt a.M. 2000, pp. 5-36; tr. it. La questione della tecnica, di
G. Vattimo, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991, pp. 5-27; in
particolare ivi, pp. 17 ss.; tr. it. pp. 12 ss.
99 Su questo tema, cfr. J.-F. Lyotard, L’inhumain, cit., Cap. VIII, Le
sublime et l’avant-garde, pp. 101-118; tr. it. pp. 123-143 e Cap. XII, Après le
sublime, état de l’esthétique, pp. 147-155; tr. it. pp. 177-186.
100 Ivi, B 78; tr. it. p. 82 (modificata).
101 Ivi, B 62 ss.; tr. it. pp. 72 ss.
102 Cfr. ivi, B 79 ss.; tr. it. pp. 82 ss. (leggermente modificata).
103 Ivi, B 79; tr. it. ibidem (modificata). Riportata nell’edizione Vorländer
della terza Critica, cfr. I. Kant, Kritk der Urteilskraft, in Id., Sämtliche Werke, a
cura di K. Vorländer, Felix Meiner Verlag, Leipzig 1915, p. 90, ma assente sia
dall’edizione dell’Accademia che da quella a cura di Weischedel, la correzione
di Erdmann a cui fa riferimento Lyotard consiste nell’aggiunta di un “sein” dopo
il termine “Interesse”. È in ogni caso strano che Lyotard faccia riferimento a
questa correzione, però, perché il passaggio del brano in cui è compresa
quest’aggiunta viene da lui omesso.
104 Ivi, B 61; tr. it. p. 72 (modificata). Rispetto alla versione di
Philonenko, Lyotard modifica la traduzione di “an ihm”, rendendolo non con
“en celui-ci”, come Philonenko, ma con “à propos de celui-ci”.
105 Cfr. KrV A 312-320 B 368-377; tr. it. pp. 551-561.
106 Ivi, A 320 B 376; tr. it. p. 561 (modificata).
107 Sulla questione, è probabile che Lyotard tenga presente M.
Heidegger, Nietzsche II, in Gesamtausgabe, vol. 6.2, a cura di B. Schillbach,
Klostermann, Frankfurt a.M. 1997, pp. 130-149; tr. it. Nietzsche, di F. Volpi,
Adelphi, Milano 1994, pp. 656-673.
108 KrV A 320 B 376; tr. it. p. 561, anche se Lyotard, per coerenza col
suo discorso, usa al plurale il termine, che nel testo è al singolare.
109 Cfr. ivi, A 320 B 377; tr. it. ibidem.
110 KU B 89 ss.; tr. it. p. 89. Data la notevole libertà che Lyotard si
prende nel tradurre il passo, ho preferito in questo caso tradurre direttamente
la sua versione.
111 Ivi, B 65; tr. it. p. 74.
112 Ivi, B 195; tr. it. p. 150. Garroni e Hohenegger rendono questo
termine kantiano con “rappresentazioni secondarie”, e lo stesso fa Philonenko
(“représentations secondaires”; espressione che si trova a p. 144, e non a p.
145, come Lyotard segnala nel testo), mentre Amoroso, tr. it. cit. p. 447,
preferisce invece “rappresentazioni accessorie”.
113 Ibidem. Nell’originale, l’aggettivo “estetici” si trova tra parentesi.
114 KrV A 103-110; tr. it. pp. 1213-1221.
115 Cfr. ivi, A 98-100; tr. it. pp. 1207-1209.
116 Cfr. ibidem.
117 Cfr. ivi, A 98-102; tr. it. pp. 1207-1211.
118 Ivi, A 103; tr. it. p. 1213 (leggermente modificata).
119 Cfr. KU B 75; tr. it. p. 74.
120 Cfr. ibidem. Per lo Ernst, cfr. ibidem; tr. it. p. ss.
121 Ivi, B 96; tr. it. p. 93 (leggermente modificata).
122 Ivi, B 76; tr. it. p. 81.
III.
ESAME CATEGORIALE DEL SUBLIME

1. Quantità e grandezza

Passo adesso alla suddivisione dell’Analitica del sublime a cui è


dedicato il § 24. L’analisi di questo sentimento procederà secondo la
tavola delle categorie come quella del bello. Non torno su questa
procedura paradossale, ma propriamente critica, per mezzo della
quale il giudizio riflettente è sottomesso alla prova della propria
determinazione, e per così dire intimato di esibire la propria
differenza e persino la propria resistenza (supra I.8). Nel caso del
sublime le cose andranno quindi come in quello del bello. Anche se
due disposizioni supplementari sconvolgono il parallelismo tra le
Analitiche.
La prima sembra modesta: nel caso del sublime occorre iniziare
dalla quantità del giudizio piuttosto che dalla sua qualità, come è
stato fatto riguardo al bello. Kant rimanda alla motivazione data nel §
23. L’analisi del gusto comincia dalla qualità del giudizio (è una
soddisfazione disinteressata, e cioè che non è comandata da un
interesse per l’esistenza dell’oggetto) perché ciò che risveglia il
sentimento del bello è la sola forma dell’oggetto e perché è in tal
modo che questo piacere estetico si differenzia da ogni altro piacere
per la sua qualità specifica. La forma presentata dall’immaginazione
tiene infatti il pensiero lontano da [à l’écart de] qualsiasi
determinazione oggettiva secondo concetti perché l’immaginazione
si impegna a sfidare l’intelletto moltiplicando le forme associate, ma
soprattutto perché il privilegio della forma mette il pensiero al riparo
da ogni interesse per la “materia” dell’oggetto, e dunque per la sua
presenza reale. Il desiderio o il bisogno non si attardano sulle forme.
Come abbiamo visto (supra II.2), nel sublime la forma non gioca
all’inverso alcun ruolo. E piuttosto ostacolerebbe la purezza della
soddisfazione sublime. Se è ancora lecito parlare di natura in questo
sentimento, è in quanto questa è la “natura bruta, rohe Natur” (92;
97)1, “soltanto in quanto contiene una grandezza, bloß sofern sie
Größe enthält” (ibidem)2. Una tale grandezza è però bruta e suscita
il sentimento sublime solo perché sfugge alla forma, perché è “de-
forme [a-forme], formlos oder ungestalt” (115; 128)3. Ed è questa
“mancanza di forma, questa Formlosigkeit” che Kant evoca per
iniziare l’analisi del sublime dalla quantità (87; 90)4.
Nondimeno, questi termini “grandezza” e “quantità” inducono una
certa confusione, che regna nell’insieme dell’Analitica del sublime e
che ne rende la lettura e l’interpretazione pericolose – la stessa
confusione in cui sembra versare l’impiego dei termini “matematico”
e “dinamico” (infra III.3; IV; V). Perché la “grandezza” designa una
proprietà dell’oggetto, mentre la “quantità” è una categoria del
giudizio. E non si vede perché la grandezza, nella natura o in ciò che
ne resta quando è spogliata delle sue forme, dovrebbe dotare il
giudizio estetico di cui è occasione di una qualsiasi proprietà,
universale o particolare, quanto alla sua quantità logica. Eppure
questa è la posta in gioco: quando la riflessione giudica, provando il
sublime, che “questo è grande”, mostrare che questo giudizio, che è
singolare perché il suo oggetto, “questo”, è unico, è allo stesso
tempo universale per la sua quantità, giacché il predicato “grande” si
applica alla totalità del soggetto logico.
È senza dubbio una proprietà dei giudizi singolari, concede Kant
nella prima Critica, che li si possa trattare logicamente, per la
ragione che si è appena detto, come degli universali (KRV 89; 111)5.
Ma la difficoltà non sta in questo. Essa sta nel fatto che il giudizio
sublime, come il gusto, appartiene alla riflessione. Non sono dunque
le categorie logiche che governano l’intelletto, e cioè il giudizio
determinante, che gli devono essere applicate: sono, lo si è visto, i
“titoli” della riflessione (supra I.5), e cioè dei “luoghi” in uno “stato
dell’animo” (ivi, 232-233; 310)6. Alla categoria di quantità per
l’intelletto corrisponde per la riflessione una maniera di comparare i
propri oggetti sotto il “titolo”: identità/diversità. Riportata a quel
giudizio riflessivo che è il sublime, questa maniera può essere
commentata in questo modo: ciò che io provo mentre giudico
“questo” grande, è la sensazione di una grandezza tra altre
(diversità), o piuttosto quella della grandezza tout court, della
grandezza stessa (identità)? (Dico “io” per facilitare la formulazione.
Questo “io” non è lo Ich denke che parla, la riflessione non ne ha
bisogno (supra I.3): è “il soggettivo” della sensazione).
Tautegoricamente parlando, il “questo” si sente grande, o più o meno
grande? Risposta: “questo” si sente grande, assolutamente.
Il pensiero non fa che comparare riflessivamente il “questo” con
altre grandezze sotto il titolo “identità/diversità”, e prova [éprouve] (è
la “quantità” della sua sensazione) che “questo” è sentito come
assolutamente grande, e cioè non ammette alcuna comparazione
con altre grandezze (diversità).

Quando definiamo una cosa non solo grande, ma grande senz’altro,


schlechthin, assolutamente, sotto ogni rispetto (oltre ogni comparazione), e
cioè sublime, si capisce subito che non permettiamo che le si cerchi alcuna
misura al di fuori di quella che le sarà appropriata, ma permettiamo anzi
che si cerchi una misura solo in essa. Questa cosa è una grandezza che è
uguale solo a se stessa (89 t.m.; 93).7

La formulazione è chiara. E nondimeno richiede una correzione.


Perché “le cose della natura” sono dei fenomeni intuiti
nell’esperienza, che l’intuizione costituisce immediatamente come
“aggregati” sintetizzandone le parti. Gli “Assiomi dell’intuizione”
esposti nella prima Critica (KRV A, B, 164 ss.; 217 ss.)8 sono queste
condizioni a priori della grandezza estensiva dei fenomeni. “Non
posso rappresentarmi alcuna linea, per quanto corta essa sia, senza
tracciarla nel pensiero, cioè senza produrne successivamente tutte
le parti partendo da un punto, e senza tracciare in tal modo
quest’intuizione. Ciò vale allo stesso esatto modo per tutte le parti
del tempo, anche per la più piccola” (ivi, 165; 218)9. Gli assiomi
dell’intuizione proseguono così, nella costituzione degli oggetti
dell’esperienza, la “sintesi dell’apprensione nell’intuizione”
necessaria a priori alla costituzione del tempo della conoscenza in
generale (KRV A, 111 ss.; 142 ss.)10. Il concetto di grandezza
estensiva, o di quantum, aggiunge a questa sintesi immediata la
coscienza della stessa sintesi. È “la coscienza dell’unità sintetica […]
di un molteplice omogeneo nell’intuizione in generale, nella misura in
cui con questa coscienza diviene innanzitutto possibile la
rappresentazione di un oggetto” (KRV B, 165; 217)11.
Conformemente a ciò, che il fenomeno sia per se stesso un
quantum può “essere conosciuto a partire dalla cosa stessa, senza
alcuna comparazione con le altre cose” (88; 92)12. È sufficiente che
si abbia coscienza dell’unità delle diverse parti che la compongono.
Ma questa sintesi “interna” alla cosa, per così dire, non può far
sapere “quanto [la cosa] sia grande” (ibidem)13. Giacché non si
tratta, allora, di apprenderla come quantum, ma è necessario
misurare la sua quantitas. La quantità non è la grandezza (KRV,
166; 218)14, ma il numero delle volte che una stessa unità è
contenuta all’interno della grandezza estensiva. È dunque
necessario misurare ogni volta quest’ultima applicando su di essa
un’unità, e cioè comparandola a un’altra grandezza presa come
unità di misura. E questa, a sua volta, viene scelta dopo essere stata
comparata con altre grandezze (88; 92)15. A differenza del quantum,
la quantità non viene dunque fornita da una sintesi a propri
nell’intuizione. Essa necessita di “formule numeriche” (KRV A, 166;
218)16 che operano a posteriori sull’oggetto dato. La quantitas non
dipende da un assioma dell’intuizione, ma dall’uso di un concetto
dell’intelletto, il numero.
Dato che la grandezza della cosa sublime è stimata assoluta,
senza possibile comparazione, essa non è dunque misurabile come
una quantità. Per designarla bisogna introdurre un nuovo termine,
magnitudo: “essere grande ed essere una grandezza sono concetti
totalmente differenti (magnitudo e quantitas)” (87 t.m.; 91)17. La
magnitudo sublime non è il predicato di “un giudizio
matematicamente determinante, ma [di] un semplice giudizio di
riflessione sulla rappresentazione dell’oggetto” (89; 93)18. Una
quantità non può essere assoluta; può al contrario essere stimata
infinitamente piccola o infinitamente grande a seconda dell’unità di
misura scelta (89-90; 94)19. La grandezza assoluta attribuita
all’oggetto sublime, la sua magnitudine, segnala in realtà “una
disposizione dello spirito in occasione, durch, di una certa
rappresentazione che occupa, beschäftigende, la facoltà riflettente di
giudizio” (90 t.m.; 94)20. Vedremo più avanti in che consiste questa
“occupazione” data alla facoltà dalla rappresentazione (infra IV).
Per quel che riguarda la quantitas, questo è tutto. La cosa
sublime non ne ha perché non ammette comparazione. Ma è almeno
un fenomeno? Non costituisce forse, come ogni fenomeno, l’oggetto
di una sintesi apprensiva nell’intuizione, che dota questa di una
grandezza estensiva, di un quantum? E cioè di una grandezza
“estetica”, “nella semplice intuizione (secondo la misura dell’occhio,
nach dem Augenmasse)”, e non “matematica”, “per mezzo di
concetti numerici, di Zahlbegriffe” (90; 94-95)21? La “misura”
(dell’occhio) qui evocata per la stima di una grandezza si costituisce
essa stessa senza comparazione, è l’estensione del molteplice che
può essere “appreso” intuitivamente in una sola volta, o in un sol
colpo. Si può chiamare questa misura “prima” o “fondamentale” (90;
95)22 perché la sua unità è quella della sintesi dell’apprensione.
Torneremo più avanti su questa domanda essenziale (infra IV e
V). La risposta sarà che la grandezza sublime è assoluta non perché
coincida con questa misura fondamentale dell’apprensione, ma
perché “quasi” l’eccede, perché è un po’ oltre il limite che le
appartiene – noi diciamo: al limite. Di conseguenza, la cosa sublime
non è esattamente un fenomeno: “considerato in questo modo,
niente di tutto ciò che può essere oggetto dei sensi deve essere
chiamato sublime” (90 t.m.; 94)23. La conclusione di questa
discussione apporta la correzione annunciata: “è l’uso che la facoltà
di giudizio fa in modo del tutto naturale di certi oggetti in vista di
quest’ultimo (del sentimento), e non l’oggetto dei sensi, a essere
semplicemente grande, schlechthin groß, mentre in confronto a esso
ogni altro uso è piccolo” (ibidem, t.m.)24. La sublimità non predica la
cosa, ma la Geistesstimmung, la disposizione del pensiero che si
prova o si riflette quando questo si rappresenta la cosa. Uso,
disposizione, in cui si riconoscono i due tratti, euristico e tautegorico,
che caratterizzano la riflessione. Tautegorico: questo è giudicato
grande assolutamente perché il pensiero che giudica di questo si
sente assolutamente grande. Ma cos’è la grandezza assoluta di uno
stato del pensiero? Euristico: è la sua affinità assoluta con una
finalità che il pensiero scopre in sé in occasione di questo
sentimento (infra IV.3).
2. Dalla quantità alla modalità attraverso la relazione

L’analisi che ho appena ricordato costituisce l’essenziale del § 25,


intitolato Definizione nominale del sublime (87 ss.; 91 ss.)25. Si tratta
di intendersi sul nome “grande” con cui si caratterizza il sublime. Il
chiarimento è nominale per il fatto che non prende o prende poco in
considerazione il gioco delle facoltà conoscitive all’opera nel giudizio
sublime, ma si impegna principalmente a evitare la confusione di
questo “grande” con una quantità dell’estensione nell’oggetto, che è
concettuale, o con la “misura prima” dell’apprensione, che è intuitiva.
Il vero nome della grandezza sublime è la magnitudine. Questa è
una stima soggettiva che conviene riservare alla facoltà di giudizio
riflettente.
Assegnando la valutazione della magnitudine alla riflessione,
l’analisi procede già in direzione di uno degli oggetti essenziali
dell’Analitica del giudizio estetico. E sottrae quest’ultimo all’aporia
nella quale una descrizione antropologica (come quella di Burke)
non può mancare di rinchiuderlo: lasciato alla sua particolarità, un
tale oggetto non ha alcun diritto a essere condivisibile
universalmente. Al contrario, “i giudizi: ‘quell’uomo è bello’ (allusione
al § 17 dedicato all’Ideale della bellezza) e: ‘quell’uomo è grande’
non si limitano semplicemente al soggetto che giudica, ma
richiedono, allo stesso titolo dei giudizi teoretici, l’assenso di
ciascuno” (88 t.m.; 92)26. La deduzione della legittimità di questa
richiesta del giudizio estetico di essere condiviso universalmente
verrà condotta nell’Analitica del bello (ai § 20 e 21; infra VIII)27.
Rispetto a questa richiesta, la frase citata pone il sublime in
equivalenza con il bello. Si vedrà che le cose non sono così semplici
(infra IX). Resta il fatto che se il giudizio estetico può chiedere a
giusto titolo l’assenso (se poi l’ottenga è tutt’altra cosa) è perché la
facoltà riflettente è universalmente condivisa. Essa non è infatti
nient’altro che il pensiero stesso in quanto affetto dal fatto di
pensare. Sia che pensi teoreticamente o, altrettanto bene,
praticamente, esso allo stesso tempo sente sempre se stesso
soggettivamente [elle s’éprouve toujours elle-même, en même
temps, subjectivement]. Diciamo che pensa esteticamente quando
rapporta l’oggetto che pensa alla sensazione (aisthesis) che
l’oggetto gli procura. L’“universalità” e la “necessità” dei giudizi
estetici sono in tal modo assicurati (le virgolette ricordano che non si
tratta di categorie propriamente dette).
Detto questo, nella Definizione nominale del sublime, un punto
trattiene l’attenzione. Si tratta di uno slittamento, che si nota
ugualmente nell’Analitica del bello, secondo il quale l’universalità e la
necessità si trovano confusi nella loro funzione e persino nella loro
natura, come se la categoria di quantità da cui dipende la prima non
fosse del tutto distinta da quella di modalità, cui appartiene la
seconda. A prendere queste categorie alla lettera, l’universalità (o la
singolarità) del giudizio sublime dovrebbe significare che il predicato
di magnitudine è attribuito alla totalità del soggetto del giudizio,
“questo” o, nella frase su citata, “l’uomo”. La necessità del medesimo
giudizio dovrebbe significare che il giudizio stesso non può esser
“posto” altrimenti da come lo è; la modalità di un giudizio, infatti, non
“contribuisce in nulla al contenuto del giudizio […], ma riguarda
soltanto il valore della copula in rapporto al pensiero in generale”
(KRV, 91; 113-114)28. In che modo si può trarre da questi due valori
logici, l’universalità quantitativa e la necessità modale, la
conseguenza, che si è tentati oggi di chiamare “pragmatica”, nel
senso della semiotica e della linguistica, per cui ciascuno dovrebbe
giudicare che di fatto “questo (o l’uomo) è grande”?
L’economia di questo slittamento viene esposta nel § 8
dell’Analitica del bello (57 ss.; 51 ss.)29. Ma prima di esaminarne
l’argomentazione, va sottolineata in questo stesso paragrafo una
preziosa “annotazione” relativa all’universalità. Essa fornisce una
prova dello slittamento di cui parliamo. “Innanzitutto, dobbiamo
notare qui che un’universalità che non riposi su concetti dell’oggetto
(sia pure solo empirici) non è affatto logica ma estetica, vale a dire
che essa non contiene alcuna quantità oggettiva del giudizio, ma
soltanto una quantità soggettiva” (58 t.m.; 52)30. Si distingueranno
dunque una validità universale oggettiva e una validità universale
soggettiva. La seconda quantificherebbe “il rapporto di una
rappresentazione al sentimento di piacere e dispiacere”, la prima il
rapporto della rappresentazione “alla facoltà di conoscere”
(ibidem)31. In merito a quest’ultima espressione non ci saranno
difficoltà: seguendo la tavola generale delle facoltà che chiude
l’Introduzione della nostra Critica, quest’espressione designa
l’intelletto. Ma non si mancherà di sorprendersi dello spostamento
impresso all’universalità. Al posto di quantificare il rapporto del
predicato con il soggetto del giudizio (il giudizio è universale quando
il predicato si applica al soggetto nella sua totalità, particolare
quando l’attribuzione non vale che per una parte del soggetto del
giudizio), la quantità che l’annotazione invoca riguarda il rapporto del
giudizio stesso alla facoltà che giudica, l’intelletto o il sentimento del
piacere e del dispiacere. Questo rapporto appartiene però, lo si sa,
alla categoria di modalità.
Ripartiamo dall’opposizione dell’oggettivo e del soggettivo.
“Universalità” o, più esattamente, “validità universale” si dice in
logica Allgemeingültigkeit: il predicato è valido, gültig, per l’insieme,
gemein, tutto intero, all, del soggetto di giudizio. Giocando con
questa composizione di termini che designa l’universalità oggettiva,
Kant propone di nominare la validità universale soggettiva
Gemeingültigkeit, una validità per l’insieme. Ma la parola gemein ha,
nell’uso, una forte connotazione di comunione, di messa in comune.
La Gemeinschaft si oppone alla Gesellschaft allo stesso modo in cui
una comunione spontanea di sentimenti, di pratiche e di costumi si
oppone a una società formalmente organizzata, a un’associazione
dotata per contratto di regole e di scopi. All’interno della nostra
Critica, la Gemeingültigkeit annuncia la “allgemeine Stimme” (60;
54)32, la voce universale, un’universalità di voce o di suffragi che è
costitutivamente reclamata dal giudizio di gusto singolare. È da tale
richiesta costitutiva che sarà dedotto al § 28 il principio che la fonda,
il Gemeinsinn, il senso comune, “sensus communis” nel latino di
Kant stesso (78; 79-80)33. Ora, grazie a questo gioco con la parola
“universalità”, si vede bene che al suo significato di quantità nel
giudizio si sostituisce quello di una modalità del giudizio stesso. Sarà
detto universale un giudizio soggettivo in cui “si attribuisce a ognuno,
jedermann ansinne” il dovere di provare, in occasione dello stesso
oggetto, la stessa soddisfazione che prova il “soggetto” giudicante
(58; 51)34. Il carattere modale e non quantitativo sta però in questo:
non essendo ammesso come possibile uno stato differente del
pensiero, si dovrebbe dire che la soddisfazione è di conseguenza
non universale ma necessaria.
Ritorniamo all’esposizione che argomenta questa “universalità”
soggettiva al § 8 (57 ss.; 51 ss.)35. L’argomentazione inizia con
l’opporre il giudizio estetico come “Reflexions-Geschmack, gusto
della riflessione”, da una parte al giudizio associato a una
soddisfazione empirica dovuta ai sensi, il “Sinnen-Geschmack, il
gusto dei sensi”, e, dall’altra, al giudizio determinante per concetto.
Quest’ultimo può essere universale in senso strettamente logico. In
ragione dello slittamento su citato, si ammetterà per questo motivo
che esso dovrà essere necessariamente ammesso da tutti. Il gusto
dei sensi, per la stessa ragione ma invertita, verte soltanto su
“giudizi personali”, su “Privaturteile” (58; 52)36, non richiede
l’assenso di altri e non può dunque pretendere l’universalità. Il che
significa, secondo la stessa “confusione”, che non è necessario
perché non interdice agli altri di provare una soddisfazione diversa
da quella che provo io quando mangio gli spinaci, ad esempio.
Le cose non stanno così per il gusto della riflessione. A differenza
di un giudizio determinante, questo gusto giudica senza concetto;
eppure, contrariamente al gusto dei sensi, può essere universale, o
almeno pretendere di esserlo. Cosa potrebbe essere la quantità di
un giudizio soggettivo, una quantità soggettiva? Non essendo
concetti né il soggetto, né il predicato di questo giudizio, non si vede
come si potrebbe quantificare l’applicazione dell’uno all’altro. In
queste condizioni, ci si azzarda a parlare di attribuzione soltanto a
stento. Ci si potrebbe arrischiare a dire che l’oggetto che procura la
soddisfazione estetica è il soggetto del giudizio di gusto e che il suo
attributo è la soddisfazione stessa. “Questo è bello” potrebbe essere
commentato allora con: “in occasione di questo, c’è piacere” (un
piacere le cui condizioni devono essere specificate). Diciamo:
“questo è piacevole [est plaisant, piace]”. L’equivalente della quantità
universale per un giudizio di questo tipo corrisponderebbe
all’applicazione del “piacevole” alla totalità del “questo”, senza resto
e senza riserva: “questo è interamente piacevole”. La capacità di
procurare piacere per così dire “satura” l’oggetto.
Ora, ad attenersi a questa nozione di quantità soggettiva, non si
potrà però distinguere il piacere dei sensi, il gradevole [agréable], dal
piacere estetico, dal bello: la soddisfazione secondo “inclinazione,
Neigung” da quella dovuta al “favore, Gunst” (54, 55; 47)37. Perché,
per dirlo altrimenti, e cioè riferendosi alla discussione che occupa il §
14, il piacere che può procurare la “materia” della sensazione
(sempre supponendo che essa possa essere mai separata dalla sua
forma) e persino il piacere interessato legato a una preferenza
“privata” e personale per tale forma possono entrambi “saturare” la
totalità degli oggetti che rispettivamente li suscitano, di modo che si
dovrebbe concedere ai giudizi implicati in questi gusti dei sensi una
validità universale. L’eccezione fatta a tal riguardo in favore del gusto
della riflessione, e cioè del piacere estetico puro, non avrebbe più
luogo d’essere. È per evitare questa conseguenza che l’universalità
riflessiva è compresa in modo totalmente diverso da come l’abbiamo
appena esposta, e di fatto assimilata alla necessità che autorizza il
principio d’unanimità.
Ancora una volta, questo passaggio dalla quantità alla modalità
non sembra giustificato in alcun modo. Ricordo a memoria che nulla
impedisce a un giudizio particolare (dal punto di vista della quantità)
di esser posto come necessario (quanto alla sua modalità): che
“alcuni animali siano quadrupedi” può essere affermato come
necessario (in conclusione di una dimostrazione, ad esempio).
Inversamente, un giudizio universale può esser posto
“problematicamente”, e cioè come enunciante una semplice
possibilità (come quando si fa un’ipotesi). L’anello che manca per
concatenare la modalità del giudizio estetico (la sua necessità, che
giustifica la sua richiesta di esser condiviso) con la sua quantità (la
sua universalità, che sarebbe la saturazione dell’oggetto in grado di
piacere) è la categoria di relazione, che è oggetto del terzo Momento
dell’Analitica del bello.
Che, quando c’è (è esistente), un oggetto al quale si è legati da
un interesse procuri al pensiero una soddisfazione completa (e cioè
universale nel senso che si è appena letto), indica che c’è un’affinità
tra il pensiero e questo oggetto. Diciamo ad esempio che l’oggetto
viene a soddisfare un desiderio, un bisogno, un’inclinazione, un
“gusto”. Dove il punto è dunque che la “capacità di desiderare”, per
parlare kantiano, era già determinata da un fine che quest’oggetto
soddisfa. Se l’oggetto soddisfa tali moventi, qualsiasi siano, è perché
rispetto a questi esso è “finale”. Tali moventi lo intendevano come
mezzo del loro fine; oppure l’assenza (la non-esistenza) di questo
oggetto era ancora la causa (finale) di tali moventi. Si tratta all’incirca
di ciò che gli psicologi chiamano “motivazione”: ciò che mette in
movimento.
Ciò che meraviglia Kant, e che costituisce uno dei punti maggiori
della critica del giudizio estetico, è però che un’affinità all’oggetto o
una relazione finale con l’oggetto possa essere sentita dal pensiero
mentre intende un oggetto verso il quale non è mosso da nessuna
motivazione determinabile. “La finalità può essere dunque senza fine
nella misura in cui non poniamo le cause di questa forma
[dell’oggetto] in una volontà” (63; 59)38. Certamente, aggiunge Kant,
se si volesse spiegare perché la forma dell’oggetto suscita la
soddisfazione nel pensiero, bisognerebbe trovare la volontà che ha
concepito questa forma in modo da renderla piacente [plaisant].
Questa forma sarebbe così pensata come “un effetto possibile solo
per mezzo di un concetto dell’effetto stesso”, ed è questo che
significa propriamente “pensare un fine” (63; 58)39. “La
rappresentazione dell’effetto è allora il principio di determinazione
della sua causa, e la precede” (ibidem)40. E in quanto la facoltà di
desiderare “può essere determinata ad agire solo mediante concetti,
e cioè conformemente alla rappresentazione di un fine”, essa è
allora precisamente la volontà (63; 59)41.
Come si vede facilmente, una tale spiegazione dell’affinità
estetica di un oggetto al pensiero farebbe uscire quest’affinità dal
territorio estetico perché vi introdurrebbe sia il concetto sia il volere.
Persino quando la critica dovrà impegnarsi a fondare quest’affinità
grazie all’azione di un principio “soprasensibile” (infra VIII.7),
quest’ultimo rimarrà un concetto indeterminabile, e il suo fine, del
quale la suddetta affinità è un effetto, inconoscibile. Non sarà
questione di volontà. Al gusto della riflessione bisogna riconoscere
invece “una finalità secondo la forma senza mettere a suo
fondamento un fine (come se fosse la materia del nexus finalis)” (63;
59)42. La sensazione di piacere che il giudizio del bello “predica”
dell’oggetto è “immediata” perché non risulta dalla mediazione di un
fine determinabile secondo concetti. Non si dirà che l’oggetto piace
perché la sua forma è “perfetta” in rapporto a un “Ideale” di bellezza
– cosa che espone il § 17 (73 ss.; 72 ss.)43. Nessuna causalità, non
soltanto la causalità finale, è applicabile al gusto. Né si può dire che
il piacere è effetto della bellezza che attribuiamo all’oggetto. “È
assolutamente impossibile stabilire a priori il collegamento di un
sentimento di piacere o di dispiacere come effetto, con una
rappresentazione quale che sia (sensazione o concetto), come
causa” (64; 60)44 (così come è impossibile stabilire il contrario).
Bisogna dire che soltanto la coscienza dell’affinità soggettiva
dell’oggetto con il pensiero “può costituire” il piacere estetico
(ibidem)45.
Ricollegandoci ai diversi “titoli” che guidano la riflessione e che
chiamiamo (unicamente per analogia con l’intelletto) “concetti della
riflessione”, osserviamo che alla categoria di relazione corrisponde
nella riflessione la procedura “comparativa” “dell’interno e
dell’esterno” (KRV, 233, 235, 239-240; 310, 313-314, 319-320; supra
I.5)46. Considerata a titolo della relazione e ricollocata nella topologia
trascendentale della riflessione, la finalità soggettiva del giudizio
estetico è l’interno puro. Il piacere del gusto è tutto interno nel senso
che la sensazione di finalità che lo costituisce non dipende da
nessuna causa esterna, finale o meno, soggettiva o oggettiva.
Questa finalità riflessiva è qui messa in conto alla “facoltà dello
spirito, a quel Gemütsvermögen” che è il sentimento di piacere e di
dispiacere, ed è esplicitata quando l’analisi critica esamina il gioco
delle “facoltà conoscitive” all’opera nel gusto. L’immaginazione e
l’intelletto sono l’una e l’altro in un rapporto di emulazione rispetto
all’oggetto, non per conoscerlo, ma in modo tale da suscitare e
perpetuare nel pensiero una contentezza: in cui questo va e viene
dalla presentazione alla concezione dell’oggetto. Si capisce meglio,
allora, il fatto che la “forma della finalità” che è propria del giudizio
del bello consista nel gioco di questo va-e-vieni tra le due potenze di
cui il pensiero dispone – e sia di fatto tutto interno: quella di mostrare
e quella di concepire. L’oggetto è solo l’occasione del gioco, vi si
presta per la sua forma. Questo gioco indica però a sua volta
l’affinità delle due potenze l’una con l’altra, un’affinità pura, non
subordinata a un compito specifico come dire il vero o fare il bene.
Prima di essere quello richiesto agli individui dall’individuo che
giudica, questo unisono, mai stabile, sempre indeterminato – la
Einstimmung richiesta e promessa dal giudizio del bello –, è dunque
quello delle facoltà. Il piacere che questo gioco è rivela un’affinità tra
le facoltà che è trascendentale e non anzitutto empirica. Si tratta
dell’affinità del pensiero con se stesso a dispetto dell’eterogeneità
delle sue capacità. Anche se questa la rivela. La spiegazione
dettagliata di quest’analisi verrà condotta più avanti (infra VIII e IX).
Si può comprendere così perché il giudizio del bello sia posto
come necessario. Il punto non è certo che si possa dimostrare che
ogni altro giudizio estetico sull’oggetto è impossibile: mancando di
concetti, l’argomentazione sul bello non conclude niente. Quanto
piuttosto che questo giudizio attesta immediatamente la finalità, tutta
interna, del pensiero in rapporto al pensiero. Il pensiero che presenta
è finale rispetto al pensiero che concepisce, e viceversa. Il gusto
rivela il segreto dell’“arte nascosta nel profondo dell’anima umana”
(KRV, 153; 200)47 che lo schematismo cela [recèle] ma non può
svelare [déceler] perché le potenze del pensiero sono assorbite in
esso dalle faccende “serie” della conoscenza. Al contrario, il gusto le
lascia scorrazzare liberamente, e il pensiero si sente felice.
Ricollegata così alle condizioni a priori di ogni pensiero (le sue
facoltà, eterogenee ma capaci di unisono), la forma di questa finalità
interna è sufficiente a legittimare la pretesa che la felicità del bello
sia accessibile a ogni pensiero in occasione dello stesso oggetto. È
in tal modo aperta, grazie alla relazione finale, la transizione dalla
quantità universale del giudizio del bello alla sua modalità
necessaria.
3. Matematico e dinamico

Alla fine del § 24, il testo introduce la seconda disposizione originale


che verrà a sconvolgere per il sublime l’ordine categoriale seguito
dall’Analitica del bello. Sconvolgere, o piuttosto complicare, meglio
ancora: sovradeterminare. L’esame del sublime secondo le quattro
categorie sarà diviso secondo le due “famiglie”, matematico e
dinamico, che raggruppano rispettivamente le prime due categorie,
la qualità e la quantità, e le seconde due, la relazione e la modalità.
Ho detto che questi termini si prestano a confusioni. In quanto
non significano che ci sarebbero due tipi di sublime, l’uno
matematico, l’altro dinamico, come può suggerire la traduzione
francese dei titoli delle sezioni, Du sublime mathématique, Du
sublime dynamique de la nature. Il tedesco è meno equivoco: le
espressioni Vom Mathematisch-Erhabenen, Vom Dynamisch-
Erhabenen der Natur48 significano che il sublime (della natura) è
considerato, in un caso, “matematicamente”, nell’altro
“dinamicamente”. E cioè secondo l’ordine delle categorie già
esposto. Cionondimeno, l’insistenza nel raggruppare queste ultime
nelle “famiglie” matematico e dinamico merita attenzione. L’Analitica
del bello non aveva richiesto questa classificazione supplementare.
La divisione in dinamico e matematico è introdotta nel testo critico
da un’aggiunta della seconda edizione al commento della tavola
delle categorie esposta dalla Critica della ragion pura (KRV B, 96;
121-122)49. Ma viene fatta un po’ più avanti già nella prima edizione
di questa stessa Critica a proposito dei Princìpi sintetici dell’intelletto
puro (KRV, 164; 216)50. Questi princìpi sono le regole a priori che
l’intelletto osserva per costituire non l’esperienza in generale, ma gli
oggetti dell’esperienza o nell’esperienza. Come le forme
dell’intuizione, le categorie dell’intelletto sono le condizioni di
possibilità dell’esperienza in generale. Dopo le quali rimangono da
stabilire le condizioni di possibilità degli oggetti così come li si trova
nell’esperienza. Se questi oggetti non soddisfacessero a dei princìpi
di costituzione compatibili con quelle sintesi a priori che sono le
forme dello spazio e del tempo e le categorie, tali oggetti
rimarrebbero inconoscibili. Non ci sarebbe conoscenza reale degli
oggetti, ma soltanto una conoscenza possibile di oggetti possibili.
Dividendo i quattro Princìpi (assiomi dell’intuizione, anticipazioni
della percezione, analogie dell’esperienza, postulati del pensiero
empirico in generale) in matematici e dinamici, Kant precisa che non
intende presentare i primi due come “i princìpi della matematica” e
gli altri due come quelli “della dinamica generale (fisica)” (ibidem)51.
Si tratta senz’altro, in entrambi i casi, della “determinazione a priori
dei fenomeni secondo le categorie” (e, mi permetterei di aggiungere:
grazie alle forme dell’intuizione. Kant stesso osserva che i princìpi
regolano la relazione dell’intelletto “al senso interno”, il tempo, forma
universale dell’intuizione)52. Ma la divisione in matematico e
dinamico corrisponde semplicemente a una differenza nella
“certezza, la Gewißheit” che forniscono i princìpi. Tutti quanti
procurano al pensiero una certezza “completa, völlig” quanto al
risultato (l’oggetto dell’esperienza) che ottengono le sintesi effettuate
secondo questi princìpi. Ma la certezza procurata dai primi due, gli
assiomi e le anticipazioni, è “intuitiva”, mentre la certezza che risulta
dagli altri due, le analogie e i postulati, è “semplicemente discorsiva”
(ibidem)53.
Il che significa che il pensiero è intuitivamente certo che tutti i
fenomeni sono delle grandezze estensive (per gli assiomi
dell’intuizione), e che ogni sensazione che lo avverte di un fenomeno
ha una grandezza intensiva, un grado (per le anticipazioni
dell’intuizione). Ma che un fenomeno debba essere necessariamente
legato a un altro nel tempo, che ciò debba accadere secondo il
principio di permanenza, di successione o di simultaneità (e cioè
secondo le analogie dell’esperienza)54, è cosa di cui il pensiero è
certo solo “in modo discorsivo”, e non per un’intuizione immediata.
Lo stesso per quanto riguarda i postulati del pensiero empirico.
Questa differenza nella certezza, che qui autorizza la sfaldatura
[le clivage] del matematico dal dinamico, rimane nondimeno difficile
da afferrare, per non dire inesplicata. Di che “discorso” ha bisogno
un’analogia dell’esperienza per far ammettere di esser certa (del
tutto certa, in ogni modo) che un fenomeno o persista tale e quale
nel tempo, succeda a un altro o gli sia simultaneo? Una nota della
seconda edizione aggiunta al passaggio che sto commentando fa un
po’ di chiarezza precisando questa volta la natura delle sintesi in
gioco rispettivamente nei princìpi matematici e dinamici (KRV B,
164; 216)55, e non soltanto il tipo di certezza che procurano al
pensiero.
La sintesi matematica è chiamata “compositio,
56
Zusammensetzung” , un termine che avrà un suo ruolo nell’analisi
del sublime (infra IV.2). Questa consiste nell’unificare più elementi
“che non sono necessariamente legati”, da un lato, e che dall’altro
sono “omogenei”, e cioè dipendono da una stessa facoltà
conoscitiva. I due triangoli che appaiono in un quadrato quando si
traccia una delle diagonali di questo sono pertanto uniti da una
“composizione” di natura matematica: sono omogenei, perché dati
entrambi secondo gli assiomi dell’intuizione; ma non appartengono
necessariamente alla stessa unità, perché per produrre quest’unità
(il numero due) bisogna enumerarli, e le “formule numeriche” non
sono degli assiomi dell’intuizione, ma consistono invece
nell’“aggregazione” a posteriori di grandezze estensive (qui i
triangoli) (KRV, 166; 218-219)57. Lo stesso varrebbe per delle
grandezze intensive, e cioè per dei fenomeni considerati secondo la
qualità della sensazione che procurano. L’intelletto regola il loro
apparire nell’esistenza tramite il principio a priori chiamato
“anticipazione della percezione”, ma l’unificazione delle loro
rispettive intensità, che sono omogenee, consiste qui ancora in una
“composizione” matematica a posteriori, che Kant distingue
dall’“aggregazione” delle loro grandezze estensive con il nome di
“coalizione” delle intensità (KRV B, 164; 216)58.
Se si trasferisce questa definizione della sintesi “matematica”
sull’Analitica del sublime, si trova, al § 26 (che sarà commentato nel
dettaglio più avanti: infra IV), che la tensione e persino il dispiacere
inerenti al sentimento sublime provengono precisamente, e
innanzitutto, dalla “composizione” matematica richiesta dalla
grandezza dell’oggetto detto sublime. Il punto non è certo che la
“Zusammensetzung” (93; 98)59 presenti in sé una qualche difficoltà
per l’intelletto o per la facoltà di presentazione, giacché è un
principio di composizione dei fenomeni come grandezze estensive,
un assioma dell’intuizione. Ma che il risultato della composizione
diviene impresentabile per la facoltà di presentazione,
l’immaginazione – e cioè che questo stesso risultato non può essere
“compreso” in una sola volta come un tutto secondo la sua misura
(estetica), che le è fondamentale, se, pur essendo pervenuta la
composizione matematica delle unità che formano l’oggetto a delle
grandezze troppo elevate, all’immaginazione viene nondimeno
richiesto, per una ragione che resta da determinare, di fornirne
un’apprensione intuitiva immediata. La sintesi matematica fa
problema, allora, non per se stessa, ancora una volta, ma perché è
tenuta a poter esser raddoppiata da una sintesi “estetica”: quella
dell’infinito presentato. Se ci si chiede perché sia rivolta alla capacità
apprensiva dell’immaginazione una tale sfida, si scoprirà nel giudizio
del sublime una finalità del tutto diversa da quella che si trova nel
giudizio del bello.
Ritorniamo alla nota aggiunta alla presentazione dei Princìpi
sintetici dell’intelletto puro nella seconda edizione della prima Critica.
La sintesi dinamica non è una composizione, ma un “nexus”, una
“Verknüpfung”, la “connessione” di elementi che sono, così, legati a
priori e non “arbitrariamente” (come lo erano i triangoli per mezzo
dell’atto di tracciare la diagonale), ma che sono eterogenei, e cioè
non dipendono dalla stessa facoltà conoscitiva. Dinamica è dunque
la sintesi necessaria di ciò che è eterogeneo. L’accidente, per
esempio, non può essere concepito senza la sostanza che esso
affetta, l’effetto senza la causa da cui risulta: la loro unità è
necessaria a priori. Ciononostante, l’accidente e l’effetto sono dei
fenomeni dati nell’esperienza per mezzo dell’intuizione e dei princìpi
dell’intelletto, mentre la sostanza e la causa costituiscono l’oggetto di
puri concetti, e non hanno una possibile presentazione intuitiva
nell’esperienza. Sono eterogenei rispetto a quei termini ai quali sono
nondimeno uniti necessariamente (KRV B, 164; 217)60.
Nel sublime considerato dinamicamente, si ritroverà la stessa
eterogeneità degli elementi uniti dalla sintesi e la stessa necessità di
quest’ultima. Gli elementi sono, da un lato, l’oggetto che procura
all’immaginazione la difficoltà di presentazione che si è detta,
l’oggetto “colossale” (92; 97)61, “bruto” (ibidem)62, “senza forma” (89;
93)63, e dall’altra l’Idea di infinito, di tutto assoluto o di causa
assoluta (96, 99-100; 102, 106-107)64. L’Idea non ha un oggetto
corrispondente presentabile nell’intuizione (salvo per analogia). La
facoltà di presentazione non può apprendere una grandezza
estensiva che ecceda la sua “misura prima”. La sintesi di questi
elementi eterogenei, il loro nexus, consiste nel mettere in rapporto il
senza-forma a stento appreso nella natura, con la “presenza”
dell’Idea della ragione. Nel fare così dell’impotenza
dell’immaginazione un segno dell’onnipotenza della ragione. Questa
sintesi è necessaria a priori, perché i due termini da essa uniti non
potrebbero esserlo per mezzo di una decisione arbitraria (come il
tracciare la diagonale di un quadrato). È questa necessità che
espone il § 29: il “colossale” è sentito come sublime soltanto se il
pensiero può rappresentarsi allo stesso tempo l’assoluto, se è
“suscettibile” (102; 111)65 alle Idee, se ne ha la “Empfänglichkeit”.
Questo operatore (o meta-operatore) matematico/dinamico trova
un uso decisivo per l’insieme del pensiero critico, e soprattutto per
l’unificazione dei risultati della prima Critica con quelli della seconda,
nel momento in cui si tratta di risolvere le Antinomie con cui si
scontra la ragione speculativa quando cerca di dar forma al concetto
di mondo (cosmos) come tale (KRV, 328-412; 437-548)66. Che il
mondo abbia un limite nel tempo (un cominciamento) e nello spazio
sembra dimostrabile; ma che non ne abbia lo è altrettanto. Si può
dimostrare ugualmente che nel mondo le sostante composte sono
formate di semplici e che non lo sono. Che è necessaria una causa
prima (incondizionata) alle serie che uniscono i fenomeni del mondo,
ma anche che non la si deve ammettere. O, infine, che l’esistenza
del mondo esige quella di un essere necessario (nel mondo o al di
fuori di esso) che ne sia la ragione, ma altrettanto bene che
l’esistenza di quest’essere non può affatto esser dedotta da quella
del mondo.
Come può la ragione sfuggire a queste aporie? È qui che il meta-
operatore matematico/dinamico si rivela cruciale. Nelle sintesi in
gioco nelle prime due Antinomie si possono riconoscere infatti le
stesse sintesi che operano nei primi due Princìpi dell’intelletto.
Queste servono a formare le serie che uniscono i fenomeni
nell’esperienza, considerati come grandezze sia estensive (assiomi
dell’intuizione), sia intensive (anticipazioni della percezione). Tali
sintesi sono matematiche, uniscono in modo non necessario una
molteplicità di elementi omogenei. La ragione speculativa chiede se
le serie che formano queste sintesi debbano essere arrestate (a un
cominciamento nell’estensione, a un semplice nella “intensione”), o
meno. La sentenza è semplice da pronunciare: non possono. Ogni
oggetto dell’esperienza è costituito secondo questi princìpi. Inoltre, la
sola conoscenza che può darne l’intelletto (con l’aiuto dell’intuizione
sensibile) consiste nello scoprire come il fenomeno è condizionato
da altri fenomeni nella sua estensione e nella sua intensione. Questi
altri fenomeni, le condizioni, sono a loro volta sottomesse agli stessi
princìpi costitutivi e alla stessa spiegazione. – Bisogna concludere
allora che il mondo è indefinito in grandezza estensiva e infinito in
grandezza intensiva, che non ha limiti né esterni né interni? Niente
affatto. L’indefinito in grandezza estensiva e l’infinito in grandezza
intensiva non sono dei fenomeni. È il regresso nell’enumerazione
delle condizioni che è indefinito, e il progresso nella scomposizione
in parti che è infinito (KRV, 381-385; 504-510)67. Questa proprietà
risulta da un principio regolatore imposto dalla ragione alla
conoscenza, e non fornisce nessuna conoscenza, estensiva o
intensiva, del mondo stesso.
Quando si cercano di risolvere la terza e la quarta Antinomia (se il
mondo ammette una causalità prima, secondo la relazione, e se la
sua esistenza debba essere posta necessariamente, secondo la
modalità), il ricorso alla sintesi dinamica permette una soluzione del
tutto differente. Questo ricorso è possibile perché la causalità (per
limitarsi al suo caso), e cioè la relazione di un effetto con la sua
causa, non unisce, lo si è visto, due elementi omogenei: l’effetto è un
fenomeno, la causa è un concetto il cui oggetto non è intuibile. Gli
elementi sono eterogenei, ma la loro unione è necessaria: non si
può pensare l’uno senza l’altro. Nulla, perciò, impedisce che lo
stesso fenomeno che costituisce l’oggetto di una sintesi matematica
(quand’è collocato in una serie contingente di condizioni che gli sono
omogenee come grandezze estensive e intensive), possa “inoltre,
auch” (KRV, 393; 521)68 essere considerato, quanto alla sua
esistenza, come effetto di una causa che per definizione è
incondizionata, la libertà, e possa essere anche unito a un elemento
che gli è eterogeneo in una sintesi dinamica.
Di questa soluzione terremo in considerazione la conclusione
secondo cui la sintesi matematica e la sintesi dinamica non sono
esclusive l’una dell’altra, e ce ne ricorderemo leggendo l’Analitica del
sublime. Certo il problema è spostato, giacché qui non si tratta di
giudizi determinanti come nelle Antinomie, ma di un giudizio estetico,
che è riflettente e soggettivo. Ma, mutatis mutandis, è plausibile, da
un lato, che la “magnitudine” sublime non sfugga completamente agli
assiomi dell’intuizione e alle anticipazioni della percezione, se non
addirittura alle sintesi più elementari dell’apprensione e della
riproduzione del molteplice in un’intuizione (c’è un “oggetto” che
serve da occasione al sentimento sublime); e, dall’altro, che questa
stessa magnitudine venga considerata come l’effetto (negativo),
nella presentazione, di un’Idea pura della ragione.
4. La qualità, di nuovo

Ciò che motiva la coniugazione delle due sintesi, matematica e


dinamica, da parte dell’analisi critica del sublime è la stessa qualità
del sentimento per come lo si osserva nella realtà empirica. Non c’è
alcun bisogno di questo meta-operatore per analizzare il gusto. E ciò
perché la natura della soddisfazione in ciascuno dei due sentimenti
estetici è completamente diversa. Il § 24 classifica molto brevemente
il sublime, di contro al gusto, dal punto di vista della loro qualità:
entrambi sono privi di interesse. Ma la qualificazione è negativa. Il
paragrafo precedente, quello in cui i due sentimenti sono comparati,
è più eloquente. Ma perché sottolinea anche la loro differenza, come
abbiamo già accennato (supra II.2 e II.3). Qualitativamente, il
sentimento sublime sembra “contraddittorio”. Sappiamo che la
qualità di un giudizio soggettivo consiste nella soddisfazione o nel
dispiacere. A tal riguardo, il giudizio di sublimità è qualitativamente
del tutto diverso dal giudizio di bellezza perché associa il dispiacere
al piacere.
Come categoria dell’intelletto, la qualità richiede che un giudizio
sia affermativo, negativo o “infinito, unendlich” (KRV, 88; 110)69. Nel
primo caso, il giudizio attribuisce il predicato al soggetto realmente,
nel secondo lo nega, nel terzo lo limita. Da qui le tre categorie della
“classe” qualità: “Realität, Negation, Limitation” (ivi, 94; 118)70. In
tutte le classi, la terza categoria “nasce sempre dalla congiunzione
della seconda con la prima” (KRV B, 97 t.m.; 122)71. Così, per la
qualità, “la limitazione, la Einschränkung, altro non è che la realtà
congiunta con la negazione” (ibidem)72.
Trattandosi di un giudizio soggettivo che è in rapporto soltanto
con la facoltà di sentire il piacere e il dispiacere, la sua qualità si
enuncia dunque “piacere” quand’è reale o affermativa, “dispiacere”
quand’è negativa, o “piacere legato al dispiacere” quand’è limitata o
infinita. Quest’ultimo caso è quello del sentimento sublime quanto
alla sua qualità: il piacere vi è limitato dal dispiacere, ciò che fa di
questo sentimento un giudizio soggettivo infinito. Quest’infinità è la
qualità che chiede alla critica di far ricorso alle due sintesi che ho
appena ricordato. La sintesi dinamica renderà conto della
componente di piacere, la sintesi matematica della componente di
dispiacere. Dato che si tratta di un giudizio riflettente estetico, la
compresenza di queste sintesi è soltanto sentita. Consiste
interamente nell’emozione violenta e ambivalente che il pensiero
prova in occasione del “senza forma”.

1 KU B 89; tr. it. p. 89.


2 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
3 Ivi, B 132; tr. it. p. 116 “privo di forma o informe”, che ometto
traducendo il sintetico “a-forme” usato da Lyotard.
4 Ivi, B 79; tr. it. p. 83.
5 Cfr. KrV A 71 B 96; tr. it. p. 195.
6 Ivi, A 261 B 317; tr. it. p. 485.
7 KU B 84; tr. it. p. 86 (modificata).
8 Cfr. KrV A 162-166 B 202-207; tr. it. pp. 333-339.
9 Ivi, A 162 ss. B 203; tr. it. p. 335 (modificata).
10 Cfr. ivi, A 98-100; tr. it. pp. 1207-1209.
11 Ivi, B 203; tr. it. p. 335 (leggermente modificata).
12 KU B 81; tr. it. p. 84 (leggermente modificata).
13 Ibidem. Lyotard toglie il corsivo a “grande” per accentuare quello
(dello stesso Kant) sul “quanto”.
14 Cfr. KrV A 163 ss. B 204 ss.; tr. it. p. 337.
15 Cfr. KU B 81; tr. it. p. 84.
16 KrV A 164 B 205; tr. it. p. 337.
17 KU B 80; tr. it. p. 83.
18 Ivi, B 83; tr. it. p. 85 (leggermente modificata).
19 Cfr. ivi, B 84 ss.; tr. it. p. 86.
20 Ivi, B 85; tr. it. ibidem (modificata).
21 Ibidem ss.; tr. it. p. 87 (leggermente modificata).
22 Ivi, B 86; tr. it. ibidem (modificata; mentre Garroni e Hohenegger
intendono il Grundmaß kantiano come “misura di base”, Philonenko (e con lui
Lyotard) lo declina invece nel senso della misura “fondamentale”, perché
fondamento della misurazione. Per rispettare il testo lyotardiano, in questo
caso e in tutti i seguenti modificherò così la tr. it.).
23 Ivi, B 84 ss.; tr. it. p. 86 (leggermente modificata).
24 Ivi, B 85; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
25 Cfr. ivi, B 80-85; tr. it. pp. 83-86.
26 Ivi, B 82; tr. it. p. 84. Data la libertà della resa lyotardiana di questo
passo, ho preferito tradurlo direttamente dal francese.
27 Cfr. ivi, B 64-66; tr. it. pp. 73-75.
28 KrV A 74 B 100; tr. it. p. 199 (leggermente modificata).
29 Cfr. KU B 21-26; tr. it. pp. 49-52.
30 Ivi, B 23; tr. it. p. 50 (leggermente modificata).
31 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
32 Ivi, B 25; tr. it. p. 51.
33 Ivi, B 64; tr. it. p. 73. Per il § 28, cfr. invece ivi, B 102-109; tr. it. pp.
96-100.
34 Ivi, B 21; tr. it. p. 49.
35 Cfr. ivi, B 21-26; tr. it. pp. 49-52.
36 Cfr., per questo riferimento e per quelli precedenti, ivi, B 22; tr. it. p.
49.
37 Cfr. ivi, § 5, B 14-16; tr. it. pp. 45 ss. (i due termini citati compaiono
per la prima volta in ivi, B 15; tr. it. p. 46).
38 Ivi, B 33; tr. it. pp. 55 ss. (modificata).
39 Ivi, B 32; tr. it. p. 55 (modificata).
40 Ivi, B 33; tr. it. ibidem.
41 Ibidem (tr. it. modificata).
42 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
43 Cfr. ivi, B 53-61; tr. it. pp. 67-71.
44 Ivi, B 35; tr. it. p. 57.
45 Cfr. ibidem; tr. it. p. 56.
46 Cfr. rispettivamente KrV A 261 B 317, A 265 ss. B 321 ss., A 274 ss.
B 330 ss.; tr. it. pp. 485, 491, 501-503.
47 KrV A 141 B 180; tr. it. p. 307 (leggermente modificata).
48 Per questi titoli, cfr. KU B 80, 102; tr. it. rispettivamente pp. 83, 96:
Del sublime matematico, Del sublime dinamico della natura. Che come si vede
corrisponde perfettamente a quella francese.
49 KrV B 110; tr. it. pp. 211-213.
50 Per quanto Lyotard si riferisca qui a un passo preciso, quello in cui la
distinzione viene applicata ai Grundsätze, (per cui cfr. nota s.) preferisco
rinviare comunque all’intero passaggio, ivi, A 160-162 B 199-202; tr. it. p. 329-
333.
51 Ivi, A 162 B 202; tr. it. p. 333.
52 Per la citazione, ivi, A 161 B 201; tr. it. p. 331; per il riferimento tra
parentesi, cfr. invece ivi, A 162 B 202; tr. it. p. 333.
53 Ibidem; tr. it. p. 331.
54 L’originale lyotardiano è qui “selon les anticipations de la perception”,
ma si tratta evidentemente di un refuso.
55 Cfr. ivi, B 201 ss., nota; tr. it. pp. 331-333.
56 Ivi, B 201; tr. it. p. 331 (modificata da Lyotard, che toglie il termine
latino dalla parentesi e lo antepone al tedesco). Alla stessa nota appartengono
i termini citati nelle prossime tre righe e l’esempio dei triangoli.
57 Per il riferimento alla differenza tra gli assiomi e le formule numeriche
(che è quello indicato tra parentesi), ivi, A 164 ss. B 205 ss.; tr. it. pp. 337-339;
mentre il termine “aggregazione” viene recuperato da Lyotard dalla nota su
citata: ivi, B 201, nota; tr. it. p. 333.
58 Ibidem.
59 KU B 90; tr. it. pp. 89 ss.
60 Per tutte le citazioni in questo capoverso, cfr. KrV B 201, nota; tr. it.
p. 333.
61 KU B 89; tr. it. p. 89.
62 Ibidem.
63 KU B 83; tr. it. p. 85 (leggermente modificata).
64 Cfr. ivi, B 96-98, 104-106; tr. it. pp. 93 ss., 97 ss.
65 Ivi, B 110; tr. it. p. 101 (modificata).
66 Cfr. KrV A 405-567 B 432-595; tr. it. pp. 629-829.
67 Cfr. ivi, A 510-514 B 538-542; tr. it. pp. 759-763.
68 Ivi, A 530 B 558; tr. it. p. 783 (modificata).
69 Ivi, A 70 B 95; tr. it. p. 193 (Lyotard rende al singolare i titoli
categoriali che Kant usa al plurale).
70 Ivi, A 80 B 106; tr. it. p. 207.
71 Ivi, B 110; tr. it. p. 213.
72 Ivi, B 111; tr. it. ibidem.
IV.
IL SUBLIME COME SINTESI MATEMATICA

1. La “comprensione” è “misurata”

Il “dramma” che porta il nome di “sublime matematicamente


considerato”, “das Mathematisch-Erhabene”1 (che non è il sublime
matematico), è senza dubbio analogo al conflitto che dà luogo alle
prime due Antinomie nella Dialettica della prima Critica, giacché
questo conflitto dipende dal fatto che le sintesi invocate dalle due
parti per pronunciarsi sulla quantità (cominciamento o meno) o sulla
qualità (semplicità o meno) del mondo nella sua totalità sono
soltanto matematiche e non fanno altro che unire degli elementi
omogenei, i fenomeni nel mondo. Un limite assoluto, tuttavia, come
un cominciamento, una frontiera senza esteriorità, un elemento
semplice non sottomesso a una possibile scomposizione in parti –
un tale limite non può essere un fenomeno, perché è sempre
supposto essere incondizionato. Ritroveremo presto quest’aporia
nell’analisi “matematica” del giudizio sublime. Ma trasposta.
Per essere più precisi, si potrebbe localizzare il cambiamento di
scena preteso dall’analisi del sublime situandolo non soltanto in
rapporto alla scena dell’Antitetica della ragione speculativa, ma
anche in rapporto a quella dell’Analitica del bello. Il giudizio sul
sublime è un giudizio riflettente come il giudizio sul bello, e non
determinante come quelli che entrano in conflitto nelle Antinomie.
Ma, nella costituzione del sentimento sublime, la ragione si
sostituisce all’intelletto come partner dell’immaginazione, ed è per
ciò che quest’ultima subisce nel sublime uno scacco che non
conosce nel gusto, e che è analogo all’aporia esposta nelle prime
due Antinomie.
Dal fatto che il giudizio sublime sia riflettente come quello che
concerne il bello, ne segue che la posta in gioco non è la
conoscenza dell’oggetto, ma la sensazione soggettiva che
accompagna la presentazione dell’oggetto. Ciò per quanto riguarda
l’aspetto della riflessione che ho chiamato tautegorico (supra I.2).
Quanto all’aspetto euristico (supra I.5), si può dire a prima vista che
nel sublime le cose vanno come nel caso del bello: la regola della
sintesi del giudizio (riflessivo) non è data da una categoria o da un
principio dell’intelletto puro, che è il caso di un giudizio determinante
oggettivo; resta da trovare, e deve restarlo. È per questo che “il
sublime piace, das Erhabene gefällt” (87; 91)2, che, come il bello,
“piace semplicemente, bloß gefällt” (54; 47)3. In entrambi i casi, è
senz’altro in ragione di una finalità soggettiva. Ma nel sublime questa
finalità è completamente diversa da com’è nel gusto. “L’oggetto è
colto, aufgenommen, come sublime con un piacere che è possibile
solo per mezzo, vermittelst, di un dispiacere” (98 t.m.; 105)4.
Bisognerà cercare la fonte di questa “contentezza” [bonheur] distorta
dalla scontentezza [malheur] non nell’affinità del pensiero che
presenta con il pensiero che concepisce, ma altrove. Essa si trova
piuttosto, e paradossalmente, nella loro eterogeneità. Ed è in
ragione di questa eterogeneità, quella dell’immaginazione messa a
confronto con la ragione, che lo scioglimento del conflitto costitutivo
del giudizio sublime esige una sintesi “dinamica”. In questo conflitto,
l’immaginazione non contribuisce al piacere per mezzo della sua
libera produttività di forme e di Idee estetiche, ma per la sua
impotenza a dar forma all’oggetto. La regola della sintesi del giudizio
manca qui non per profusione, ma per difetto di presentazione.
A tal riguardo, la situazione è in effetti analoga a quella delle
Antinomie della prima Critica. L’immaginazione (coniugata però con
l’intelletto ai fini della conoscenza, che è la differenza con la sua
situazione nel sublime) era supposta presentare un cominciamento o
un limite (uno zero temporale o spaziale), un semplice (uno zero
d’intensità), un assoluto nella causalità, o nell’esistenza del mondo.
E si mostrava che in tutti questi casi non ne era capace, giacché può
presentare soltanto fenomeni e l’assoluto non è un fenomeno. Nel
giudizio riflessivo che è il gusto, la posta in gioco certo non è più di
conoscere gli oggetti, ma di provare piacere in occasione di essi. E
se questo piacere deve essere estetico, è allora indipendente da
ogni interesse per la materia del fenomeno ed è dovuto soltanto alla
forma degli oggetti in quanto può affettare “lo stato” del pensiero.
L’immaginazione è incaricata precisamente di queste forme. Certo,
questa messa in forma non è più subordinata qui alle regole e ai
princìpi dell’intelletto poiché non si tratta di rendere conoscibile il suo
risultato, il fenomeno. Lo “schematismo” (che è questa messa in
forma regolata) (KRV, 150 ss.; 196 ss.)5 lascia il posto alla libera
produzione delle forme con lo scopo, del tutto inverso, di sfidare
l’intelletto a collocare queste ultime al di sotto delle sue regole e dei
suoi princìpi. Tuttavia, l’intelletto continua a giocare il suo gioco in
questa sfida, che tenta di raccogliere senza risultato. Di modo che
tra esso e l’immaginazione si instaura una coniugazione del tutto
diversa da quella che esige la conoscenza, una sorta di
competizione tra queste due potenze in cui ciascuna delle due prova
la propria forza senza riuscire a sopraffare l’altra. Bisogna ricordare
che, per quanto possano essere numerose e profuse le forme
presentate dall’immaginazione, in questo libero gioco ognuna di
esse è effettivamente “presentata” o presentabile, e cioè rimane nei
limiti di quella sintesi “comprensiva” che è affare dell’immaginazione.
Le cose cambiano completamente nel sentimento del sublime,
quando quest’ultima si vede imporre come partner la ragione invece
dell’intelletto. La ragione è anch’essa una capacità di concepire, e
tuttavia di concepire degli oggetti (di pensiero) di cui non c’è
presentazione possibile nell’esperienza. Essa non oppone dunque
all’immaginazione delle regole categoriali e dei princìpi applicabili a
priori a ciò che quest’ultima può presentare, ma delle Idee che sono
a priori inapplicabili a qualsiasi presentazione perché i loro oggetti
sono degli assoluti o degli illimitati, mentre la “comprensione”, la
Zusammenfassung che permette la presentazione delle sensazioni
in un’unica unità è, come si suol dire, “limitata”. Ha un limite o,
piuttosto, è la limitazione stessa, prima di ogni regola concettuale –
poiché consiste in una messa in forma, e la forma è una limitazione.
Dire che dei dati sono foggiati assieme [façonnées ensemble]6,
zusammenfassen, significa che i loro rapporti sono arrestati dalla e
nella forma che risulta dalla loro foggiatura [façonnage].
Ne va della “stima, la Schätzung” estetica della grandezza in una
sola intuizione come di un campo visivo. Tale stima è a misura della
“comprensione” come quest’ultimo è “nach dem Augenmaße, a
misura d’occhi” (90 t.m.; 95)7. Il campo visivo è limitato, la grandezza
che la facoltà di presentazione può abbracciare in un sol colpo è
misurata da un massimo. Questo massimo è “determinato
soggettivamente” (ibidem)8. Il pensiero che presenta prova, sente di
essere trattenuto nell’estensione della sua intuizione attuale da un
limite infrangibile. Questo limite è l’assolto, soggettivamente o
esteticamente sentito, di ciò che il pensiero può afferrare in materia
di grandezza presentabile. È sufficiente che questa misura sia
sentita dal pensiero come inoltrepassabile, come soggettivamente
assoluta, perché questo massimo estetico “comporti con sé l’Idea
del sublime, es die Idee des Erhabenen bei sich führe”, e susciti
“l’emozione, la Rührung” (91; 95)9 che caratterizza questo
sentimento. Una stima matematica di grandezze molto elevate per
mezzo di concetti numerici (90; 95)10 non può in alcun modo
generare quest’emozione, e stiamo per vedere perché.
Kant coglie l’occasione che gli fornisce l’esame di questa misura
estetica per fare un’osservazione che anticipa, si direbbe, certe
analisi husserliane. La nozione stessa di grandezza in generale, qui
compresa nella sua accezione matematica, trova il suo fondamento
in questa misura della “comprensione” immaginativa. La grandezza
matematica non può essere costituita matematicamente. Può essere
misurata. Ma la misura è essa stessa una grandezza. Bisognerà a
sua volta misurarla. Il matematico dirà che l’unità di misura viene
scelta arbitrariamente. Kant ne conviene (95-96; 104-105)11. Ma la
nozione stessa di misura non risulta da questa scelta d’unità.
Procede dalla limitazione “estetica” della comprensione del
molteplice in una sola presentazione. È questa “la misura prima, o
misura fondamentale, Grundmaß” dalla quale è resa possibile ogni
misura matematica come determinazione numerica di una
grandezza (90; 95)12. “L’orizzonte” della comprensione è la
grandezza della misura che rende possibile la misura delle
grandezze. Una grandezza “valutante”, per così dire, una misura
misurante per tutte le grandezze misurate. Dall’estetico al
matematico, il termine misura cambia allora di senso. Essa è per
l’immaginazione il massimo di grandezza presentabile in una volta.
Mentre per l’intelletto non c’è grandezza numerica massima. Esso
può misurare delle grandezze con unità numeriche molto piccole o
molto grandi senza incontrare alcun ostacolo.
2. La “composizione” è infinita

Il dramma sublime sembra dunque risultare innanzitutto da questa


soglia “fondamentale” che la facoltà di presentazione oppone da se
stessa a ogni stima estetica della grandezza.

Quando l’apprensione, Auffassung, è arrivata fino al punto in cui le


rappresentazioni parziali dell’intuizione sensibile che sono state apprese
inizialmente iniziano già a svanire nell’immaginazione, mentre questa
progredisce nell’apprensione delle successive, allora essa perde da un lato
tanto quanto, eben so viel, guadagna dall’altro, e c’è nella comprensione,
Zusammenfassung, un massimo che quella non può oltrepassare (91 t.m.;
96).13

Il caso sembra in fin dei conti abbastanza classico. Non evoca infatti
il chiliagono di Descartes, che può essere concepito ma non
immaginato14?
Una differenza separa però l’esempio cartesiano e la descrizione
kantiana che abbiamo appena letto. Il poligono a mille lati è una
figura costruita dall’intelletto per mezzo di concetti numerici. Ma
l’analisi fatta qui verte sul confrontarsi della comprensione
immaginativa, limitata alla sua “misura prima”, con “una grandezza”
tale che se ne può trovare una “nella natura bruta, an der rohen
Natur” (92; 97)15. Che Kant prenda ad esempio, di sfuggita, la parete
di una piramide egizia o il volume interno della basilica di San Pietro
a Roma non deve trarre in inganno. Si tratta soltanto di mostrare
che, viste alla distanza “adeguata [convenable]” (adeguata
all’emozione sublime), queste grandezze misurabili in effetti
matematicamente possono cionondimeno eccedere la “misura degli
occhi”, a cui quella della comprensione immaginativa è di nuovo
comparata, come delle grandezze naturali possono eccedere
quest’ultima spontaneamente, in maniera “bruta”.
Di fatto, la catastrofe che subisce l’immaginazione nel sublime
(dal punto di vista “matematico”) non dipende affatto
dall’incommensurabilità della “misura fondamentale” della
comprensione immaginativa con le misure estremamente elevate
che l’intelletto può concepire per addizione ricorrente di un’unità a se
stessa, e comunque grazie alla scelta di unità di misura sempre più
grandi. L’unità scelta dall’intelletto per misurare delle grandezze
potrebbe essere anche molto elevata (nella successione dei numeri):
il diametro della Terra contato in miglia, ad esempio, e preso in
seguito come unità per misurare le distanze interplanetarie (93, 95;
98, 101)16 – questo non opporrebbe alcun ostacolo insormontabile
alla cooperazione che l’immaginazione deve all’intelletto quando
questo vuole ottenere in tal modo una conoscenza determinata delle
grandezze che misura. Si può persino sostenere che l’estensione
delle conoscenze esige l’uso di unità di misura sempre più grandi (o
più piccole, dato che a tal riguardo c’è anche un’infinità di unità
possibili nell’ordine decrescente per misurare il microscopico, e i
microscopi ci forniscono un “materiale” altrettanto “ricco” di quello dei
telescopi) (90; 94)17. L’unica condizione, che è la stessa della
conoscenza, è che l’immaginazione possa sempre presentare per
apprensione, unità dopo unità, le grandezze parziali che l’intelletto
misura e aggiunge le une alle altre. Cosa che viene detta
chiaramente in questo brano: “l’immaginazione procede da sé
all’infinito nella composizione che è richiesta per la rappresentazione
della grandezza, senza che niente le sia d’ostacolo; l’intelletto la
guida, leitet sie, ciononostante per mezzo di concetti numerici a cui
essa deve fornire lo schema” (93 t.m.; 98)18.
Questa cooperazione senza ostacolo dell’immaginazione con
l’intelletto nella rappresentazione [Vorstellung] della grandezza può
sembrare anche paradossale, se si pensa che l’immaginazione vi
contribuisce con la sua “comprensione”, la sua “Zusammenfassung”.
È questo il termine che si trova nel testo tedesco, ma in seguito a
una correzione di Erdmann. Kant aveva scritto “Zusammensetzung,
composizione”19. E composizione non è affatto comprensione. La
prima, “Zusammensetzung (compositio)”, lo ricordo, viene definita in
una nota alla Rappresentazione sistematica dei Princìpi sintetici,
aggiunta in occasione della seconda edizione della prima Critica
(KRV B, 164; 216)20: essa è “la sintesi dei diversi [elementi] che non
si appartengono necessariamente a vicenda”, “la sintesi
dell’omogeneo, in tutto ciò che può essere considerato
matematicamente” (ibidem, t.m.)21. L’esempio dato per illustrare la
composizione è, lo ricordo ancora, la relazione tra i due triangoli che
si ottengono quando si traccia la diagonale di un quadrato: questi
sono omogenei l’uno all’altro, ma la loro congiunzione non è
necessaria, giacché ciascuno di essi può essere concepito senza il
concorso dell’altro. Al contrario, non si può pensare l’effetto senza la
causa, la loro sintesi è necessaria, sebbene essi siano di natura
eterogenea (la causa non è un fenomeno come l’effetto).
Il primo dei princìpi per mezzo dei quali l’intelletto costituisce gli
oggetti dell’esperienza, e cioè i fenomeni come conoscibili, è però
quello per cui questi sono intuiti nello spazio e nel tempo come
grandezze estensive. Questo principio si chiama Assioma
dell’intuizione. Esso implica che i fenomeni “non possono essere
appresi, apprehendiert, e cioè accolti in una coscienza empirica, se
non mediante la sintesi del molteplice […], e cioè mediante la
composizione, Zusammensetzung, dell’omogeneo e la coscienza
dell’unità sintetica di questo molteplice (dell’omogeneo)” (KRV B,
164-165; 217)22. Quanto a questa coscienza, essa è costituita dal
“concetto di una grandezza (di un quantum)” (ivi, 165 t.m.; 217)23.
Questo concetto, che è la coscienza dell’“unità della composizione di
un molteplice omogeneo” (ibidem)24, è un atto dell’intelletto. Ma
l’unità della Zusammensetzung stessa è lo schema che corrisponde
al concetto di grandezza e l’atto dell’immaginazione che prepara il
molteplice alla conoscenza da parte dell’intelletto per mezzo del
concetto di grandezza (e, in seguito, di numero).
È importante notare che la composizione è un’operazione di
addizione successiva di una parte a un’altra, in cui queste parti sono
omogenee. Non ci si rappresenta una linea nello spazio o una durata
nel tempo se non “producendo, zu erzeugen” ciascuna delle sue
parti dopo l’altra (ivi, 165; 218)25. Questa sintesi successiva, lo si è
visto, è la condizione a priori dell’“apprensione” stessa dei fenomeni.
E lo stesso testo insiste: il fenomeno “può essere conosciuto
nell’apprensione, in der Apprehension, solo mediante una sintesi
successiva (di una parte con un’altra parte)” (ibidem)26. Si dirà
dunque che l’apprensione non è possibile senza la composizione, o
anche che è la composizione stessa, almeno per ciò che concerne la
grandezza dei fenomeni.
Vi è però una prima difficoltà che conviene risolvere innanzitutto
se non ci si vuole ingannare in seguito sulla “comprensione” invocata
ai §§ 26 e 27 della terza Critica. Proviamo a situare l’assioma della
composizione nell’apprensione in rapporto alle sintesi esposte
nell’Avvertenza preliminare alla Deduzione delle categorie nella
prima Critica (KRV A, 110 ss.; 141 ss.)27. Bisogna fare attenzione al
fatto che queste sintesi sono costitutive della possibilità
dell’esperienza in generale, e non di quella degli oggetti
dell’esperienza, come invece l’assioma della composizione. Rispetto
a questo, esse sono solo più “fondamentali” (ivi, 115; 144)28,
l’assioma stesso le presuppone. Con questa riserva sembra però
che la “composizione nell’apprensione” richiesta dall’assioma
corrisponda alle due prime sintesi, quella dell’“apprensione,
Apprehension, nell’intuizione” e quella della “riproduzione,
Reproduktion, nell’immaginazione”. La terza, quella della
“ricognizione, Rekognition, nel concetto”29 sembra convenire a ciò
che l’assioma chiama la “coscienza dell’unità” ottenuta già dalla
composizione, giacché questa coscienza dell’unità non è altro che il
concetto di grandezza.
Vediamo come la composizione successiva che è l’apprensione
del fenomeno come grandezza estensiva esiga in effetti delle sintesi
di apprensione e riproduzione. La prima di queste consiste nel
“mantenere, enthalten” il molteplice “come in un colpo d’occhio, als
in einem Augenblick”, di modo che “il per-correre” o “il trans-correre”,
“das Durchlaufen”, sia “messo assieme”, se così si può dire, da una
sola presa: la “Zusammennehmung” (ivi, 111-112; 143)30. Non c’è
evidentemente flusso, non c’è passaggio del molteplice se non c’è
successione, e quest’ultima esige per la sua costituzione che ci sia
un simultaneo. La corrente scorre soltanto nella “presa [emprise]” di
ciò che non scorre. Non c’è movimento senza quiete. E all’inverso.
La composizione per successione, la Zusammensetzung, esige
questo “abbraccio”, questa “parentesi” [“accolade”] più originaria, la
Zusammennehmung, che le fornisce le unità da comporre.
Ma la composizione esige anche che queste unità possano esser
messe le une di seguito alle altre, e dunque che ognuna non
scompaia quando un’altra appare, altrimenti non ci sarebbe
successione per formare la grandezza del fenomeno. È questa
sintesi che l’immaginazione effettua sotto il titolo della “riproduzione”.
“Se traccio una linea nel pensiero, o voglio pensare il tempo da un
mezzogiorno all’altro, o anche soltanto rappresentarmi un certo
numero, per prima cosa devo necessariamente cogliere nel pensiero
ognuna di queste rappresentazioni differenti [che sono le parti della
linea, della durata o del numero] l’una dopo l’altra” (ivi, 114; 148)31. E
allo scopo di mostrare la necessità della riproduzione, Kant
aggiunge, cosa che sembra fare eco al testo del § 26 della terza
Critica, che espone il limite della “comprensione estetica”
(l’immaginazione “perde da un lato tanto quanto guadagna
dall’altro”) (91; 96)32 – aggiunge: “se lasciassi sempre sfuggire dal
mio pensiero le rappresentazioni precedenti (le prime parti della
linea, le parti precedenti del tempo o le unità rappresentate l’una
dopo l’altra), e se non le riproducessi nel mentre progredisco verso
le seguenti, allora una rappresentazione intera […] non potrebbe mai
prodursi” (KRV A, 114-115 t.m.; 148)33. La riproduzione permette di
tenere presente nel pensiero un’unità appresa anteriormente, e
dunque assente attualmente. Questa sintesi di ritenzione è il fatto
dell’immaginazione. La “composizione” la comporta
necessariamente.
Possiamo ritornare adesso al testo del § 26 dell’Analitica del
sublime citato sopra. È comprensibile che a essere una sintesi che
l’immaginazione può proseguire “da sé all’infinito” sia la
“composizione” “che è richiesta per la rappresentazione della
grandezza” (93; 98)34, la “Zusammensetzung”, come aveva scritto
Kant, e non “la comprensione”, la “Zusammenfassung”, come lo
corregge per errore Erdmann. Questa sintesi non è in effetti altro che
l’apprensione e la riproduzione necessarie alla costituzione del
tempo della conoscenza (e dello spazio, sussidiariamente), ma
applicate alla costituzione degli oggetti della conoscenza secondo le
loro grandezze estensive. È egualmente comprensibile che
l’immaginazione possa lasciarsi “guidare” in questa composizione
dal concetto, che in fin dei conti non è altro che la “coscienza”
dell’unità prodotta dalla sintesi immaginativa. È comprensibile, infine,
che le grandezze concepite dall’intelletto possano essere molto
elevate (numericamente) senza che l’immaginazione si trovi
impedita a “fornirne lo schema” corrispondente (ibidem)35. Per
quanto possa essere elevata, una grandezza è appresa
intuitivamente per parti, e ogni apprensione è “ritenuta” o “riprodotta”
(in assenza) nell’apprensione successiva (che è “successiva” solo
perché la precedente è ritenuta). Detto altrimenti, l’ambitus della
presa della Zusammennehmung, resta ogni volta lo stesso. La
ricorrenza dell’apprensione precedente nell’attuale non ne allarga in
nulla l’ambitus, non più di quanto un gesto possa essere cento volte
più grande del fatto di essere ripetuto per la centesima volta. E
quanto al concetto, esso determina il numero delle “volte” (delle
apprensioni fornite dall’immaginazione), permettendo così la
ricognizione della grandezza dell’oggetto.
Si può comprendere così il fatto che l’immaginazione e l’intelletto
sono in perfetta affinità quando si tratta di procedere per ricorrenza.
Questa è una sintesi dell’omogeneo di cui entrambi sono capaci,
ognuno nel suo ordine (rispettivamente lo schema e il concetto),
senza particolari sforzi. È per questo che “in questo processo, in
quanto dipende dalla stima logica delle grandezze, c’è senza dubbio
qualcosa di oggettivamente finale secondo il concetto di un fine (e
tale è ogni misurazione)” (93 t.m.; 98)36. “Oggettivamente finale”
perché la coniugazione delle due facoltà è finalizzata alla
determinazione della grandezza dell’oggetto, cioè in effetti alla sua
misurazione. Ma, evidentemente, dato che questa finalità è
subordinata al “concetto di un fine”, che è questa determinazione
cognitiva, essa non è in nulla estetica, non apporta al pensiero che
procede a questa ricorrenza alcun piacere immediato, “nulla che sia
finale e piacevole, Gefallendes, per la facoltà estetica di giudizio”
(ibidem)37.
Con questa osservazione negativa, il testo del § 26 ci riporta
all’esame del sentimento estetico. La suddetta osservazione evoca il
piacere del bello. Quella che la segue si rivolge al sentimento
sublime. La “finalità intenzionale, diese absichtlichen
Zweckmäßigkeit” implicata dalla composizione “non ha bisogno
[nemmeno] di spingere, treiben, la grandezza della misura, e dunque
la comprensione, la Zusammenfassung, della pluralità in
un’intuizione sino ai limiti della capacità dell’immaginazione, e cioè
tanto lontano quanto a questa è possibile estendersi, reichen”
(ibidem, t.m.)38. La composizione, anche all’infinito, non ha alcun
effetto di tensione, di spinta al limite, sulla comprensione e sulla sua
“misura prima”. Glosso l’argomentazione che segue questa frase: la
“Zusammenfassung”, la comprensione delle unità da parte
dell’immaginazione può essere “spinta” dall’intelletto fino a 10 o fino
a 4: la grandezza sarà prodotta in ogni caso in modo progressivo
(secondo il principio decimale o tetrastico che sarà stato ammesso).
Lo sarà per composizione, ‘Zusammensetzung’; e, se il quantum può
esser colto in un’unica intuizione, anche per apprensione,
‘Auffassung’. L’immaginazione può scegliere per unità una
grandezza che può afferrare in un colpo d’occhio, “in einem Blick
fassen” (un piede o un bastone, per esempio). Può anche prendere
un “miglio tedesco” o un “diametro terrestre”. L’intelletto sarà in
entrambi i casi “altrettanto ben servito e soddisfatto”. E tuttavia, nel
secondo caso (il miglio, il diametro) l’immaginazione avrà soltanto
“l’apprensione, la Auffassung” della grandezza presa a unità; non ne
avrà la “Zusammenfassung”, la “comprehensio aesthetica”. – Anche
se ciò non impedisce all’intelletto di averne la “comprehensio logica”
per mezzo dei concetti numerici (ibidem)39. E aggiungerei: non
impedirà affatto all’immaginazione di effettuare la “composizione”
che è la gemella di questa comprensione logica – la composizione,
dunque, e cioè la ricorrenza per “riproduzione” delle parti di un miglio
tedesco o del diametro terrestre –, perché ha la “Auffassung”,
l’apprensione di ognuna di queste parti.
Si vede chiaramente dove e quando il sentimento sublime ha
l’opportunità di svegliarsi: è allorché si richiede all’immaginazione di
avere una comprensione estetica di tutte le unità incluse dalla
composizione nel suo progredire. In quel caso, infatti, dato che
quest’ultima è limitata alla sua “misura fondamentale”, se tutte le
parti composte successivamente non possono essere comprese in
una sola volta (ciò che è necessariamente il caso, man mano che la
serie si accresce per composizione), la potenza della presentazione,
das Darstellungsvermögen, che è l’immaginazione si trova allora
propriamente sopraffatta [débordé]. Come può esserlo lo sguardo
che si rivolge alla parete della piramide, o all’interno di San Pietro,
se si trova a una distanza tale da non poter “comprendere” in un
colpo ciò che può “comporre” successivamente.
3. L’infinito non è comprensibile come un tutto: la paura

Questa comprensione estetica (in una sola volta) del tutto d’una
serie molto grande o infinita è ciò che la ragione chiede
all’immaginazione e che provoca l’emozione sublime. Cambia
dunque uno dei protagonisti del giudizio estetico. I partner, lo
abbiamo detto, non sono più l’immaginazione e l’intelletto, il cui
accordo è possibile e necessario per fornire un giudizio determinante
oggettivo, e la cui armonia soggettivamente finale procura il piacere
del gusto nel giudizio riflettente estetico. Sono attualmente
l’immaginazione e la ragione, o, più esattamente, dato che si tratta
allo stesso modo di un giudizio estetico riflettente, la sensazione
soggettiva che accompagna l’esercizio dell’immaginazione e la
sensazione soggettiva che accompagna l’esercizio della ragione.
Si dirà: perché due sensazioni se c’è soltanto un sentimento, il
sublime? Il fatto è che questo sentimento consiste in effetti in due
sensazioni contraddittorie, piacere e dispiacere, “attrazione” e
“repulsione”, e il pensiero vi si trova, come abbiamo letto al § 23,
“angezogen” e “abgestoßen” (85; 88)40. Ma non è tuttavia un
piacere, in definitiva, dato che è un giudizio estetico? Possiamo dirlo,
ma bisogna concedere che è un “piacere negativo, negative Lust”
(ibidem)41. Resta il fatto che queste osservazioni sono ancora
soltanto descrittive. La domanda propriamente critica chiede com’è
possibile questo piacere negativo. Ovverosia, per porla in forma di
problema: ammesso che ci sia un sentimento estetico sublime,
trovare la finalità soggettiva che unisce i due tipi di sensazione che
esso condensa in modo da fare di questo sentimento un piacere
negativo.
Se ci si attiene alle sintesi matematiche che ci stanno occupando
in questo capitolo, e cioè al giudizio sublime considerato sotto i titoli
riflessivi corrispondenti alle categorie di qualità e di quantità, si
indovina la direzione da seguire per trovare la risposta al problema.
L’immaginazione può sintetizzare “attualmente”, e cioè in
un’apprensione, delle grandezze, soltanto se queste non eccedono
la “misura prima” della sua “comprensione”. Possiamo dire questa
misura soggettivamente “assoluta”. Il massimo permesso alla “stima
estetica della grandezza” da parte dell’immaginazione può essere
esso stesso “valutato, beurteilt, come misura assoluta, als absolutes
Maß” (91; 95)42. C’è dunque un assoluto soggettivo della grandezza
presentabile. Come si è detto, la moltiplicazione delle forme e delle
Idee estetiche nell’immaginazione del fruitore o dell’artista non
prestano attenzione a questa misura; quest’ultima si applica volta a
volta a ogni forma o “Idea” attuale. La qualità del giudizio estetico
(altra sintesi matematica) vi si trova persino rinforzata, e il piacere
accresciuto. Ma nell’istante in cui si passa al di là di questo limite
assoluto, la sintesi comprensiva della grandezza diviene impossibile,
e la qualità dello stato in cui si trova allora il pensiero immaginante si
inverte: esso ha paura di questo “Überschwengliche”, di questo
“trascendente” che è un al di là (über) confuso e in movimento
[mouvant et confus] (schwingen), “come di un abisso, Abgrund, in
cui teme di perdere se stesso” (97; 103)43. Al di là del suo assoluto
di presentazione, il pensiero incontra l’impresentabile, l’impensabile
nel qui-e-adesso, e viene colto da ciò che Burke chiamava orrore44.
Ma perché dovrebbe esser necessario che il pensiero arrivi fino a
questo?
Si riconosce in questa esigenza di un passaggio al limite il tratto
della ragione. Dal punto di vista della quantità, la ragione persegue
la serie delle grandezze concepibili all’infinito. Si obietterà che è
innanzitutto il fatto dell’intelletto a essere inarrestabile nella
composizione di unità sempre più elevate grazie ai concetti numerici.
L’infinito quantitativo prodotto dalla ricorrenza illimitata dell’addizione
dell’unità a se stessa (e che può facilmente accompagnare
l’immaginazione grazie alla “composizione”) non è già forse oggetto
di un concetto dell’intelletto? “Comparata a quest’ultimo [all’infinito –
tuttavia –], ogni altra grandezza (dello stesso tipo di grandezza) è
piccola”. È per questo che diciamo che “l’infinito è assolutamente
(non solo comparativamente), grande, das Unendliche […] ist
schlechthin (nicht bloß komparativ) groß” (94 t.m.; 99)45.
Il seguito dell’argomentazione obietterà che il concetto d’infinito
che l’intelletto può formarsi, e cioè, di fatto, l’orizzonte di un
progresso all’infinito, non è “il più importante” (ibidem)46. Ma prima di
fare il passo successivo che si dimostra necessario per
comprendere che ne è dell’infinito di ragione e come affetta il
pensiero, fermiamoci un istante sull’infinito dell’intelletto, e cioè della
progressione, nella misura in cui può produrre già da se stesso nel
pensiero una specie di sentimento sublime. Mi riferisco qui alla fine
del § 26 (95-96; 101)47.
Ci sono “esempi di sublime matematicamente considerato,
Mathematisch-Erhabenen, nella natura, der Natur”. Questi ci sono
“forniti nella semplice intuizione, in der bloßen Anschauung liefern
uns”, cosa che intendo: in modo semplicemente intuitivo. Affiancato
all’intuizione, il solo concetto dell’intelletto contribuirebbe come
vedremo a questo sentimento sublime. Questo sarebbe “diretto”, per
così dire, perché non sarebbe mediato da un’Idea della ragione, e
soprattutto non dovrebbe niente al modo in cui la ragione concepisce
l’infinito. Si tratterebbe dunque di esempi di sublime “matematico”
nei quali l’intuizione può seguire l’intelletto nel suo progredire
all’infinito. Il caso può sembrare inatteso, dopo quanto abbiamo detto
della misura della comprensione soggettiva permessa alla facoltà di
presentazione. Ora, qual è, dunque, questo caso? Quello in cui “ciò
che è dato all’immaginazione come misura, als Maß, non è tanto un
concetto numerico superiore quanto piuttosto una grande unità,
große Einheit (per abbreviare la serie dei numeri)” (95; 101)48. È
questo ciò che non è chiaro. Rispetto a ciò che pensavamo di aver
compreso della “misura prima” dell’immaginazione, un tale caso
sembra persino contraddittorio. La “grande unità” non eccede infatti
questa misura? Può essere presente all’immaginazione altrimenti
che per composizione? Se eccede la misura, il caso è già quello del
conflitto con la ragione. Mentre, se si tratta proprio del rapporto
dell’immaginazione con l’intelletto, come suggerisce la parentesi
(abbreviare la serie dei numeri significa per l’intelletto cambiare
l’unità di misura mentre progredisce verso grandezze elevate), non
si vede invece come il caso possa essere sublime: l’immaginazione
segue il progresso dell’intelletto per composizione “senza che niente
le sia d’ostacolo”49.
Fornendo degli esempi destinati a gettare un po’ di luce su questa
questione oscura, il testo sposta di fatto il motivo di questo sublime
“di semplice intuizione”. Mentre progredisce a misurare le
grandezze, dunque, l’intelletto cambia infatti unità di misura allo
scopo di abbreviare la serie dei numeri: può stimare la grandezza di
un albero sulla scala di quella di un uomo, quella di una montagna in
unità d’albero, quella di un diametro terrestre in “montagne”, del
sistema solare in diametri terrestri, di una galassia in “sistemi solari”,
di una nebulosa in galassie (95; 101)50. Per questa progressione
non ci sono limiti da superare. Non ci si potrebbe “aspettare,
erwarten” (ibidem)51 nulla che possa fermare il processo di questa
sostituzione di unità.
Eppure, riflessivamente, la valutazione “di un tutto così immenso,
eines so unermeßlichen Ganzen” (ibidem)52 genera un sentimento di
sublimità. Si tratta senz’altro di una valutazione “estetica”53, e cioè
dello stato di piacere o dispiacere nel quale questo “oggetto” che è il
tutto “non misurabile” pone il pensiero. Questo pensiero è
concipiente, d’intelletto – o, piuttosto, come è stato annunciato col
nome di semplice intuizione, presentante, d’immaginazione? E
innanzitutto, è davvero il pensiero di una “grande unità”?
Qui Kant precisa, e si corregge: la suddetta sensazione sublime
non dipende “tanto dalla grandezza del numero, quanto dal fatto
che, progredendo in questo modo, im Fortschritte, giungiamo a unità
sempre più grandi” (ibidem, t.m.)54. Ciò che si prova come sublime
non è dunque il pensiero della “grande unità”, ma quello del
progresso verso il “sempre più grande”. E quanto a sapere se è nel
concepire il progresso o nell’immaginarlo, e cioè nell’intuirlo, che il
pensiero prova questo sentimento, il testo sembra tagliar corto
[trancher]: “la divisione sistematica dell’edificio del mondo, des
Weltgebäudes, vi contribuisce [a questo sentimento], essa che ci
rappresenta tutto ciò che è grande nella natura sul punto di
convertirsi senza posa, immer wiederum, in ciò che è piccolo” (95-
96, t.m.; 101)55. Questa “divisione sistematica” è la parte lasciata
all’intelletto nella formazione di questo sentimento. E in effetti ciò che
gli è dovuto è la progressione, e dunque anche la “conversione”
della stima delle grandezze che accompagna i cambiamenti di unità
di misura a cui procede l’intelletto “per abbreviare” le cifre. Ma,
aggiunge Kant, “propriamente, eigentlich” (96 t.m.; 101)56 ciò che
questa divisione sistematica dell’universo da parte dell’intelletto “ci
rappresenta”, rappresenta al pensiero quando cambia scala di
misura, è “la nostra immaginazione nella sua piena illimitatezza, in
ihrer ganzen Grenzlosigkeit, sul punto di svanire, verschwindend, di
fronte alle Idee della ragione, mentre deve dar loro una
presentazione, Darstellung, appropriata – e con questa [sul punto di
svanire insieme all’immaginazione], la natura” (ibidem, t.m.)57.
Ciò che, nella produzione di questo sentimento, sembrava esser
stato deciso [tranché] in favore della concezione da parte
dell’intelletto si trova in tal modo infine ritrattato [retranché]. È ciò che
accade al pensiero immaginante, il suo arresto, che indica che non
si tratta più, alla lunga, della stessa situazione trascendentale che si
riscontra nel corso della progressione. L’immaginazione può
accompagnare l’intelletto nel suo progresso verso unità di misura
molto grandi. Può persino continuare a presentare delle grandezze
di ordine cosmico: compone l’apprensione di una grandezza
presentabile per sintesi riproduttiva molte volte. Può dunque
continuare a “fornire lo schema” per concetti numerici elevati.
E tuttavia, dal lato della concezione si produce un mutamento. La
ricorrenza all’infinito da parte del “e così di seguito” porta il pensiero
a concepire non soltanto “la volta” successiva, ma subito “il più volte”
in una sola volta, in un colpo solo. La massimizzazione infinita delle
grandezze induce l’Idea di una grandezza infinita, sempre già più
grande di ogni grandezza misurabile. Questa grandezza non può
essere numerata con un’addizione ricorrente dell’unità, per quanto
grande sia, a se stessa. È fuori limite, per l’intelletto. Quest’ultimo, lo
si è detto, non può concepire però l’illimitato e nemmeno il limite.
Questi sono concetti il cui oggetto non è presentabile nell’intuizione.
La conoscenza esige però che il concetto sia coniugato dallo
schema con la presentazione del suo oggetto. Pensato come un
tutto (in una sola volta), l’infinito in grandezza non è un oggetto
dell’esperienza possibile, non ha intuizione. È un oggetto di pensiero
in generale, l’oggetto di un pensiero che rimane indeterminato per
mancanza di presentazione appropriata. Il pensiero che concepisce
un tale oggetto non è più, dunque, l’intelletto, ma la ragione.
Ciò che il nostro testo analizza è insomma il cambiamento di
partner dell’immaginazione nel corso del progresso all’infinito delle
misure di grandezza. Questo cambiamento si fa riconoscere per il
cambiamento di “stato” soggettivo nel pensiero immaginante. Una
sorta di vertigine, ma euforica, si impossessa di quest’ultimo mentre
accompagna la facoltà dei concetti nel progresso verso misure molto
elevate. Vi è in questo una specie di sublime “matematico” che
sarebbe dovuto infatti alla sola composizione all’infinito. Perché
“sublime”? Perché il progresso indica da sé solo che ogni grandezza
della natura a lungo andare sembrerà piccola, e che ogni
composizione di una grandezza elevata da parte dell’immaginazione
riproduttiva può essere seguita da una composizione superiore, nella
quale la suddetta grandezza non sarà altro che una parte della
grandezza ormai appresa. È dunque proprio il solo progredire nella
serie che procura questo sentimento quasi sublime. Dico “quasi”
perché come si vede esso non comporta ancora l’effrazione della
“misura prima” dell’immaginazione, ma semplicemente la sua
“illimitatezza”, la quale dipende interamente dalla ricorrenza della
sintesi della riproduzione, e cioè dalla facoltà di comporre
(Zusammensetzung).
Ma, quando il concetto di numero grande si muta nell’Idea di un
infinito assolto o attuale, la sintesi matematica per composizione si
dimostra impotente a darne una presentazione. Davanti a
quest’Idea, la vertigine del pensiero presentante si trasforma in
angoscia mortale. L’immaginazione sprofonda nello zero della
presentazione che è il correlato dell’infinito assoluto. La natura
sprofonda con essa, poiché niente, in essa, può esser presentato
come oggetto di quest’Idea.
Eccoci dunque ricondotti a ciò che è “più importante”58. Il punto
non è dunque il progresso all’infinito da parte dell’intelletto e
dell’immaginazione che è connessa a esso, è “inoltre, auch, il fatto di
poterlo almeno pensare [l’infinito], nur denken, come un tutto” (94
t.m.; 99)59. Perché questo indica che lo spirito (il pensiero) ha una
potenza [puissance] che “oltrepassa, übertrifft” tutto ciò di cui i sensi
possono prendere la misura (ibidem)60. Non si tratta più, infatti,
dell’infinito come orizzonte di una composizione ricorrente, si tratta
dell’“infinito dato, das gegebene Unendliche” (ibidem)61, dato
attualmente come oggetto di pensiero, se si dovesse fornire una
presentazione al quale sarebbe necessario che “una comprensione,
eine Zusammenfassung” procuri in una sola volta, come un’unica
unità, un campione di misura che si troverebbe con questo infinito in
un rapporto determinato, e persino esprimibile in numeri (ibidem)62.
Cosa che viene interdetta dalla “misura prima” della comprensione
immaginante.
Ma bisogna andare oltre, e questo passo in più prova che la
facoltà di concepire l’infinito come un tutto non può essere l’intelletto.
L’infinito come tutto sta all’infinito del mondo sensibile come un
oggetto “noumenico” (KRV, 216-232; 287-308)63, oggetto soltanto
del pensiero, sta a un semplice fenomeno, oggetto di conoscenza.
Se l’intelletto può però avanzare all’infinito nella serie regressiva
delle condizioni dei fenomeni nel mondo è perché è sostenuto
dall’Idea dell’Infinito come tutto, che può essere formata solo da “una
facoltà […] essa stessa soprasensibile” (ibidem)64. La nozione
d’infinito seriale procede dalla nozione d’infinito attuale. Il che
significa che, anche “nella pura stima intellettuale delle grandezze, in
der reinen intellektuellen Größenschätzung” che pratica l’intelletto, è
necessario che “l’infinito del mondo dei sensi”, che è l’orizzonte di
questa stima, sia “interamente compreso sotto un unico concetto,
unter einem Begriffe ganz zusammengefaßt” (ibidem)65. Questo
concetto appartiene così poco all’intelletto, viene precisato, che la
stima matematica non arriva mai a pensare l’infinito del mondo
sensibile “mediante concetti numerici”, i soli di cui dispone
(ibidem)66. L’oggetto del concetto di cui si tratta, l’infinito come
totalità attualmente data al pensiero, non appartiene al mondo; ne è
il “sostrato, Substrat” (ibidem)67. E il pensiero che lo concepisce si
chiama ragione. Tale è dunque l’impossibile partner di cui
l’immaginazione si trova provvista [nantie] (e dal quale si trova
annientata [anéantie]) per produrre insieme a esso il giudizio estetico
riflettente chiamato sublime.
4. L’infinito è pensabile come un tutto: l’esaltazione

Abbiamo detto che questo giudizio è un sentimento formato da due


sensazioni. È venuto il momento di chiederci da quale sensazione il
pensiero è affetto quando pensa l’infinito come un tutto, o, come
viene detto più avanti, “das absolut-Ganze”, il tutto come assoluto,
l’assolutamente tutto (96; 102)68. La risposta a questa domanda non
permette di determinare la quantità del sentimento sublime come
tale, nella sua complessità essenziale, ma soltanto quella di uno dei
suoi componenti: l’affezione prodotta nel pensiero ragionante a cui
l’oggetto noumenico è presente. Questa affezione viene analizzata
nel § 27 sotto la categoria matematica di qualità, così come nel § 28,
nella parte dedicata al sublime considerato dinamicamente, sotto a
categoria di relazione. Ricordo che il “titolo” riflessivo che
corrisponde alla prima categoria è quello di accordo e opposizione
(KRV, 234, 239; 312-313, 318-319)69, quello corrispondente alla
seconda, invece, quello di interno ed esterno (KRV, 235, 239-240;
313-314, 319-320)70. Come per il gusto, allo stesso modo si tratta
qui di un giudizio riflettente.
Di fatto, la maggior parte del § 27 dedicato alla qualità del giudizio
sublime consiste nel derivarla dall’analisi della quantità aiutandosi
con la categoria di relazione. Di modo che a trovarsi così esposto è il
tutto del sentimento sublime nella sua interna eterogeneità.
Conservo dunque questo esame per il capitolo seguente, che si
dedicherà alla sintesi delle affezioni eterogenee costituenti il
sentimento sublime – una sintesi dinamica. Rivolgiamoci al § 28.
Questo esamina innanzitutto l’emozione provata dal pensiero
immaginante in occasione dell’oggetto detto sublime: la paura. Viene
precisato che non si tratta di un terrore effettivamente determinato
da un oggetto presentemente spaventoso (come soprattutto
nell’analisi di Burke, a cui questa discussione è implicitamente
indirizzata)71. E noi sappiamo che si tratta infatti del dispiacere e
persino dell’angoscia che prova la facoltà di presentazione, al
pensiero che si dovrebbe fornire per “comprensione estetica” un
fenomeno corrispondente all’Idea del tutto infinito. Questa
componente soggettiva proviene dall’immaginazione. Qual è quella
legata all’Idea di questo tutto che proviene dalla ragione?
Si è tentati di tornare all’inizio del § 27, il quale introduce il rispetto
come il sentimento suscitato dalla presenza al pensiero di un’Idea
della ragione. Ma si vedrà che questa non è ancora la sensazione
ricercata. Ecco infatti ciò che espone il testo (che traduco un po’ più
“liberamente” di come si fa di solito, allo scopo di restituirne più
chiaramente l’argomentazione):

Questo sentimento, e cioè che la nostra capacità non è alla misura a cui
dovrebbe essere, Unangemessenheit, per raggiungere un’Idea che per noi
è legge, – questo sentimento è rispetto, Achtung [che si renderebbe forse
meglio con: riguardo (égard)]. Ora, l’Idea che bisogna comprendere, die
Idee der Zusammenfassung, nell’intuizione di un tutto, non importa quale
fenomeno possa esserci dato, è proprio di questo tipo, solche: essa ci è
imposta, auferlegt ist, da una legge della ragione, che non conosce come
misura determinata, valida per tutti e inalterabile, nient’altro che
l’assolutamente tutto, das absolut-Ganze (96 t.m.; 102).72

Si è tentati di concludere che il rispetto è la sensazione che


cerchiamo d’identificare, quella che nel sublime risulta per il pensiero
della presenza dell’Idea della ragione. Eppure, a guardare più da
vicino, non è questo il caso. Il “rispetto” è esplicitamente (e
stranamente) descritto qui come l’affezione che provoca nel pensiero
non la comprensione [saisie] dell’assolutamente tutto, ma
l’incommensurabilità, la “Unangemessenheit”, della “nostra capacità,
unseres Vermögens”, della nostra facoltà a questa comprensione [à
cette saisie], “zur Erreichung” (ibidem)73.
Di quale capacità, di quale facoltà si tratta? Il testo citato non la
qualifica, ma ciò che segue non lascia dubbi:

Anche quando arriva però al punto più estremo della sua tensione,
Anstrengung, allo scopo di comprendere, Zusammenfassung, come le è
richiesto, un oggetto dato in un tutto dell’intuizione (e dunque allo scopo di
presentare, Darstellung, un’Idea della ragione), anche così la nostra
immaginazione attesta, beweist, di essere limitata, ihre Schranken, e di non
essere a misura, Unangemessenheit […] (ibidem).74

Si tratta dunque della capacità di presentare, e dello sconforto


[détresse]75 che prova il pensiero immaginante quando deve
“comprendere” in una sola intuizione un oggetto o, persino, la forma
di un oggetto che corrisponde all’assolutamente tutto che la ragione
concepisce. Il rispetto può provocare questo sconforto, o
accompagnarlo, quando il pensiero compara la sua finitudine in
materia di presentazione (o di volere) con la propria infinitudine in
materia di concezione (o con la libertà). Ma il rispetto propriamente
detto non potrebbe risultare da questa comparazione. Non lo può più
di quanto può essere una soddisfazione procurata immediatamente
da questa infinitudine. Esso è a malapena un sentimento, è un
sentimento “bianco”, sul quale torneremo (infra VII; IX.4). Il fatto è
che il rispetto è prima di tutto il sentimento morale, il modo in cui
l’Idea della legge affetta il pensiero; e che questo pensiero che prova
il rispetto è il pensiero che vuole, il pensiero desiderante, e non il
pensiero presentante o immaginante a cui il nostro testo sembra
esclusivamente riferirsi. Di fatto, perché l’allusione al sentimento
morale prenda consistenza e sia fondata, bisognerà introdurre nel
concerto o nel conflitto delle facoltà necessario alla formazione del
giudizio estetico sublime la facoltà di desiderare, e non soltanto la
facoltà di conoscere (in senso lato) che è l’immaginazione. Ciò verrà
fatto nell’esame “dinamico” del sublime, ai §§ 28 e 29, ma in un
modo che resta ancora abbastanza implicito, come lo è nei paragrafi
precedenti.
C’è una sorta di timidezza persistente nel fare al sentimento
morale tutto lo spazio che merita nel sublime, e la ricorrenza della
parentesi che lo menziona ne è un segno. Del pensiero che trova
materia per l’“estensione” nel conflitto del sublime viene detto che è
“in grado di oltrepassare i confini della sensibilità da un altro punto di
vista (il punto di vista pratico)” (94 t.m.; 99)76. La “disposizione
d’animo” sublime è conforme a “quella che produrrebbe sul
sentimento l’influenza d’Idee (pratiche) determinate” (95 t.m.; 100)77.
Questo per quanto riguarda l’approccio “matematico”. Le parentesi
per riferirsi alla moralità si trovano anche nell’esame dinamico: la
ragione fa violenza alla sensibilità “al solo scopo di estendere la
misura del dominio che le è proprio (il dominio pratico)” (102; 111)78.
Il giudizio sul sublime ha il proprio fondamento “nella disposizione al
sentimento per le Idee (pratiche), cioè al sentimento morale” (103;
112)79.
Certo, lo si è appena letto, la messa fra parentesi non è costante,
e per il lettore vale anche come richiamo al principio della Critica
della ragion pratica: la ragione è la volontà pratica pura, e legifera
nel dominio del volere per mezzo di un’Idea, quella della causalità
assoluta o libertà, che fonda la legge morale80. Cionondimeno, se il
riferimento a questo principio non è sviluppato maggiormente
nell’Analitica del sublime è in definitiva perché il sentimento sublime
non può essere identificato col sentimento morale. Molto
semplicemente perché quest’ultimo, il rispetto, non è un sentimento
estetico (infra VII).
La soddisfazione che procura l’Idea della ragione, l’assolutamente
tutto (o l’assolutamente potente) nel caso del sentimento sublime, è
senza dubbio definita meglio quando, continuando nel § 28 la
discussione della natura della paura e dell’importanza che le è
accordata in questo sentimento, Kant osserva che, anche se la
paura non è reale o realista, anche se il fruitore del sublime non è
davvero minacciato, “la soddisfazione esaltante, dieses begeisternde
Wohlgefallen” (100; 108)81 che egli prova a proposito dell’oggetto
detto sublime non è meno “cosa seria, Ernst” (ibidem, t.m.)82.
“Begeisternde, esaltante” nel senso che ravviva il Geist, lo spirito – il
vivo del pensiero (supra II.2). Se la natura può esser giudicata
sublime non è perché “suscita timore, ma perché fa in noi appello,
aufruft, alla forza, che è nostra (e che non è natura), di considerare
come piccolo ciò di cui ci preoccupiamo (i beni, la salute, la vita)”
(100 t.m.; 107)83.
Qui, come in tutto questo passaggio che inizia con una riflessione
quasi meccanicista sul concetto di “resistenza, Widerstand” (98;
105)84, la descrizione viene sviluppata nel lessico della dinamica (in
senso fisico). Come se Kant stesso si imbrogliasse sul senso da
dare al termine “dinamico”. Ma in realtà egli non si imbroglia affatto.
Vedremo (infra V) che, se la contraddizione del sublime può essere
risolta dinamicamente, è allo stesso titolo a cui ha potuto esserlo la
terza Antinomia della ragione speculativa; la causalità prima o libertà
può essere ammessa contemporaneamente al condizionamento dei
fenomeni perché appartiene all’ordine noumenico, mentre
quest’ultimo regge il mondo fenomenico. È questa causalità prima o
libertà pensata nell’Idea di onnipotenza che permette alla debolezza
che ci è propria, come fenomeni, di resistere allo scatenarsi delle
forze della natura. E ancora una volta, dato che si tratta qui dell’Idea
di libertà, a giustificare l’uso del vocabolario delle forze, è il fatto che
l’analisi critica è passata all’esame della facoltà di desiderare.
Nel sentimento sublime c’è dunque la sensazione, provata dal
pensiero, che sia fatto “appello” a una “forza”, in esso, che non è “di
natura”. Questa sensazione è una soddisfazione esaltante, dunque
un piacere vivo. Perché? Perché questo appello, questa chiamata
[cet appel] attualizza, proprio nel momento in cui la scopre, la
“destinazione, Bestimmung” della nostra “Geistesvermögen”, della
nostra “facoltà spirituale”85 – se si vuole: della potenza del pensiero
in ciò che ha di più vivo. In questa vocazione che è la Bestimmung,
la destinazione, si sente la voce, la Stimme. Questa voce chiama il
pensiero in occasione della situazione sublime offerta dalla natura.
Se la chiamata esalta il pensiero è perché viene dal “luogo” stesso,
dal luogo trascendentale verso il quale è già rivolto, verso il quale va,
verso il quale (e al quale?) esso “si arrende”, come diciamo in
francese86.
Qual è questa voce che chiama? La risposta viene già data nel §
26, e dunque a proposito non delle forze ma delle grandezze: “nun
aber hört das Gemüt in sich auf die Stimme der Vernunft, ora, ecco
però che l’animo sente in sé la voce della ragione” (93 t.m.; 98)87.
Questa voce “esige, fordert”: “per tutte le grandezze date, anche per
quelle che non possono mai essere completamente apprese, ganz
aufgefaßt, ma che non sono meno tenute a esser date
completamente (nella rappresentazione sensibile) [si riconoscono le
grandezze ottenute per composizione], [la voce della ragione] esige
la totalità, Totalität fordert” (93 t.m.; 98-99)88. La totalità, e cioè la
loro “comprensione, Zusammenfassung, in un’unica intuizione” (93;
99)89. La cosa è abbastanza chiara? Non ancora. Il pensiero
potrebbe ingannarsi sull’estensione della totalità che le è richiesta
dalla voce. Questa “pretende una presentazione per tutti i membri di
una serie numerica progressivamente crescente, non escludendo da
questa esigenza nemmeno l’infinito (lo spazio e il tempo trascorsi), e
richiedendo più ancora senza transigere che nel giudizio della
ragione comune esso sia pensato come completamente dato
(secondo la sua totalità)” (93-94 t.m.; 99)90.
Ecco cosa dice la voce al pensiero in materia di grandezza. Non
c’è alcun dubbio che dica la stessa cosa anche in materia di forza.
Anche qui viene preteso, reclamato, richiesto dal pensiero che esso
compia ciò a cui è destinato, l’assolutamente tutto, l’infinito del
volere. Questa richiesta intransigente, “unvermeidlich” (ibidem)91,
ineludibile, è però provata come una soddisfazione esaltante.
Perché? Perché, come si è detto, il pensiero riconosce in essa, in
questa richiesta, la sua destinazione, la sua vocazione. Il pensiero è
votato all’assoluto. Non è però un caso che questa “scoperta” venga
fatta dalla critica, principalmente, quando quest’ultima analizza il
giudizio estetico sublime sotto la categoria di relazione. Ché
l’oggetto che suscita la soddisfazione esaltante, la grandezza o la
forza “brute” che si crede di trovare nella natura, dovrebbe esser
predicato, nella buona logica dei giudizi determinanti, sotto la
relazione “di inerenza e di sussistenza”, e il giudizio che attribuisce il
predicato di assoluto dovrebbe esser dichiarato “categorico” (KRV,
94, 88; 118, 110)92. Ma il giudizio sublime non è determinante
quanto all’oggetto: è riflettente quanto allo stato del pensiero quando
pensa l’oggetto (tautegoricamente); e non è la categoria di relazione
che è opportuno applicare a esso, ma il “titolo” riflessivo
corrispondente, quello dell’interno e dell’esterno (KRV, 232 ss.; 309
ss.)93.
Tento di chiarire questo punto difficile. Abbiamo già detto (supra
II.3) che l’Idea dell’assoluto non è presente nel giudizio sublime in
quanto tale, e cioè come concetto della ragione, poiché in questo
caso un tale giudizio sarebbe un giudizio determinante. Dato che è
un giudizio riflettente, l’Idea dell’assoluto vi è soltanto “presente”,
abbiamo detto, e questa presenza è quella della “soddisfazione
esaltante” che prova il pensiero in occasione dell’oggetto che giudica
sublime. È questa sensazione – ed essa sola – che segnala la
richiesta della ragione e che la critica fa emergere. Ciò che importa
al giudizio in quanto riflettente, dunque, non è tanto che l’oggetto di
quest’Idea sia l’assoluto (sebbene per la sua capacità euristica sia
condotto a scoprirlo, cosa che fa la critica). Ciò che importa è che la
soddisfazione sia essa stessa risentita come assoluta. L’assoluto
riflettente non predica un oggetto ma uno stato del pensiero. Ora,
sentire la chiamata o la requisizione del pensiero da parte della voce
della ragione è una soddisfazione assoluta perché la vocazione
assoluta del pensiero è di pensare l’assoluto. Dal punto di vista della
categoria di relazione, l’assoluto è inerenza pura, e cioè un “oggetto”
giudicato non avere nulla al di fuori di sé che sia con esso in
relazione. È il paralogismo di un’entità che dal punto di vista della
relazione è senza relazione. Ma, trasposta sul giudizio riflettente che
è il sublime, la categoria di relazione diventa “titolo” riflessivo, e
l’inerenza pura si chiama allora “puro interno”. Se l’ombra (o lo
splendore) dell’Idea dell’assoluto proiettata sullo stato del pensiero,
o, piuttosto, proiettata in stato del pensiero, gli procura una tale
soddisfazione, è perché il pensiero riconosce in quest’ombra o in
questa luce la verità di ciò che esso è in sé, “prima” di ogni
determinazione. Da se stesso, assolutamente parlando, “prima” che
gli siano opposti dei dati da afferrare con le forme della sensibilità,
da assemblare in schemi, da conoscere attraverso concetti o anche
da valutare secondo il Bene (anche se in ciò la critica dichiara il
pensiero autonomo – ma una tale autonomia si esercita sotto
un’obbligazione che la trascende) – “prima” di tutto questo, il
pensiero è potenza di pensiero, Geistesvermögen, irrelata, “viva”,
che non viene da nient’altro che da se stessa, e dunque in questo
senso “interna”. Le limitazioni, le forme, gli schemi le regole
concettuali, le illegittimità, le illusioni che la critica non smette di
opporre a questa potenza non hanno alcun senso se non si ammette
innanzitutto che la presupposizione a malapena segreta del pensiero
kantiano è che “c’è il pensiero”, e che questo è assoluto. È proprio
questo che gli dice, però, “la voce della ragione” nel sentimento
sublime, e che lo esalta.

1 KU B 80; tr. it. p. 83 (modificata).


2 Ibidem.
3 Ivi, B 15; tr. it. p. 45 (modificata).
4 Ivi, B 102; tr. it. p. 96 (leggermente modificata).
5 Cfr. KrV A 137-147 B 176-187; tr. it. pp. 301-313.
6 In francese, il verbo “façonner” indica l’attività di foggiare nel senso
di un lavorare, di un modellare che elabora qualcosa dandole forma. Il termine
“façonnage” che ricorre subito dopo continua sulla stessa riga, indicando infatti
ad esempio la forgiatura o formatura del vetro e dei metalli.
7 KU B 85; tr. it. p. 87 (leggermente modificata).
8 Ivi, B 86; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
9 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
10 Cfr. ibidem.
11 Cfr. ivi, B 95 ss.; tr. it. pp. 92 ss.
12 Ivi, B 86; tr. it. p. 87 (modificata).
13 Ivi, B 87; tr. it. p. 88 (leggermente modificata).
14 Cfr. R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, in Id., Opere

1637-1649, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 20122, pp. 776-779.


15 KU B 89; tr. it. p. 89.
16 Cfr. ivi, B 91, 95 ss.; tr. it. pp. 90, 93.
17 Ivi, B 84; tr. it. p. 86.
18 Ivi, B 90; tr. it. pp. 89 ss. (leggermente modificata).
19 A differenza del precedente (per il quale cfr. supra, Cap. II, nota
103), questo riferimento all’emendazione di Erdmann è riportato anche nella
traduzione francese di Philonenko, p. 93, nota a; anche questa correzione,
come la precedente, non ricorre né nella Akademie-Ausgabe, né nell’edizione
Weischedel seguita dalle traduzioni italiane citate.
20 Cfr. KrV B 201 ss., nota; tr. it. pp. 331-333.
21 Ivi, B 201; tr. it. p. 333 (leggermente modificata, per seguire Lyotard,
che gioca in francese con il termine “divers”).
22 Ivi, B 202 ss.; tr. it. pp. 333-335.
23 Ivi, B 203; tr. it. p. 335 (modificata).
24 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
25 Ivi, A 163 B 203; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
26 Ivi, A 163 B 204; tr. it ibidem.
27 Ivi, A 98-114; tr. it. pp. 1207-1227.
28 Cfr. ivi, A 102; tr. it. p. 1211.
29 Cfr. rispettivamente ivi, A 98, 100, 103; tr. it. pp. 1207, 1209, 1213.
30 Ivi, A 99; tr. it. pp. 1207-1209 (modificata).
31 Ivi, A 102; tr. it. p. 1211 (leggermente modificata).
32 KU B 87; tr. it. p. 88.
33 KrV A 102; tr. it. p. 1211 (modificata).
34 KU B 90; tr. it. pp. 89 ss.
35 Ibidem; tr. it. p. 90 (leggermente modificata).
36 Ibidem (tr. it. modificata).
37 Ibidem (tr. it. modificata).
38 Ivi, B 90 ss.; tr. it. ibidem (modificata).
39 Tutti i termini citati appartengono al brano ivi, B 91; tr. it. ibidem. Ho
messo tra singole e non doppie i termini ‘Zusammensetzung’ e ‘Auffassung’,
perché le espressioni letterali che compaiono nei passaggi cui Lyotard fa
riferimento sono “im Zusammensetzen” e “im Auffassen”.
40 Ivi, B 75; tr. it. p. 81.
41 Ivi, B 76; tr. it. ibidem.
42 KU B 86; tr. it. p. 87 (modificata). Noto incidentalmente che Lyotard
ha ancora una volta modificato la traduzione di Philonenko senza segnalarlo,
rendendo il “beurteilt” indicato con “évalué” piuttosto che con “considère”.
L’indicazione del termine tedesco serve però anche a un’altra differenziazione:
quella di questa Beurteilung dalla “évaluation esthétique de la grandeur
(ästhetische Größenschätzung)” (espressione che, tra l’altro, nell’edizione di
Philonenko si trova a p. 90 e non, come la seguente, a p. 91). Come già
segnalato (cfr. supra, Cap. I, nota 43), ho tradotto il primo con “valutato” e la
seconda con “stima” per agevolare il lettore italiano nel riconoscimento dei due
diversi termini.
43 Ivi, B 98; tr. it. p. 94 (leggermente modificata).
44 Cfr. E. Burke, A philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of
the Sublime and Beautiful, cit., p. 36; tr. it. p. 71 – ma anche ivi, p. 123; tr. it. p.
147 dove parla addirittura di un “delightful horror”: di un “dilettoso orrore”.
45 Per questa e per la citazione precedente, KU B 92; tr. it. p. 91 (la
prima è modificata; l’integrazione tra parentesi quadre è di Lyotard).
46 Ibidem (tr. it. modificata).
47 Cfr. ivi, B 95 ss.; tr. it. pp. 92 ss.
48 Per questa citazione e per le precedenti, ivi, B 95; tr. it. ibidem
(modificata).
49 Ivi, B 90; tr. it. p. 90.
50 Cfr. ivi, B 95 ss.; tr. it. p. 93.
51 Ivi, B 96; tr. it. ibidem (modificata).
52 Ibidem.
53 Ibidem.
54 Ibidem (tr. it. modificata).
55 Ibidem (tr. it. modificata).
56 Ibidem.
57 Ibidem (tr. it. modificata).
58 Ivi, B 92; tr. it. p. 91.
59 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
60 Ibidem (tr. it. modificata).
61 Ibidem.
62 Ibidem.
63 Cfr. KrV A 235-260 B 294-315; tr. it. pp. 451-485.
64 Malgrado Lyotard usi la sigla “ibidem”, il passo cui questa sigla si
riferisce non è quello della Critica della ragion pura citato nella nota
precedente, ma quello della terza Critica che stava commentando in
precedenza: KU B 92; tr. it. p. 91.
65 Ibidem (leggermente modificata). Segnalo che, malgrado si tratti
chiaramente di una Größenschätzung, Lyotard non usa in questo caso né
“estimation”, né “évaluation”, ma, modificando la traduzione di Philonenko
senza segnalarlo (o ritenendo di averlo già segnalato sopra), preferisce invece
“appréciation”. Così per l’intero capoverso, nel quale, ho deciso di mantenermi
fedele più al detto kantiano che a Lyotard, traducendo “appréciation” non con
“valutazione”, ma con “stima”.
66 Ivi, B 93; tr. it. ibidem.
67 Ibidem.
68 Ivi, B 97; tr. it. p. 93.
69 Cfr. KrV A 264 ss. B 320 ss., A 272-274 B 328-330; tr. it. pp. 489-
491, 499-501.
70 Cfr. ivi, A 265 ss. B 321 ss., A 274 ss. B 330 ss.; tr. it. pp. 491, 501-
503.
71 Cfr. ad esempio E. Burke, A philosophical Enquiry into the Origin of
our Ideas of the Sublime and Beautiful, cit., Parte IV, § V, pp. 121 ss.; tr. it. p.
145, che cito di preferenza perché sintetica e perché mette l’accento sulla
cosa che causa il terrore. Segnalo nondimeno che il termine “angoscia”
compare anche in Burke stesso, ivi, p. 79; tr. it. p. 109, dove la più forte
impressione sublime viene riconosciuta essere “un’emozione d’angoscia
[distress]”.
72 KU B 96 ss.; tr. it. p. 93. Data l’ampia mole di modifiche da parte di
Lyotard, ho preferito tradurre nel testo direttamente la sua versione. Per
favorire un eventuale confronto da parte del lettore, riporto qui in nota la tr. it.
di Garroni e Hohenegger (per altro abbastanza convergente con quella di
Philonenko): “il sentimento dell’inadeguatezza della nostra facoltà a
raggiungere un’idea, che per noi è legge, è il rispetto. Ora, l’idea della
comprensione di un qualsiasi fenomeno che possa esserci dato nell’intuizione
di un tutto è un’idea che ci viene imposta mediante una legge della ragione,
che non riconosce alcun’altra misura determinata, valida per ognuno e
immutabile, se non il tutto assoluto”.
73 Ivi, B 96; tr. it. ibidem.
74 Ivi, B 97; tr. it. ibidem. Anche in questo caso traduco direttamente la
versione di Lyotard.
75 Traduco “détresse” con “sconforto” per comodità, sebbene nel
parlato questo termine possa significare anche “disperazione”, “miseria”. Si
parla in quest’ultimo senso di una “famille dans la détresse”, di una “famiglia in
miseria”; mentre, riferito a una situazione, il semplice “en détresse” va tradotto
invece con “in pericolo”. L’uso del termine da parte di Lyotard mi sembra
contenere tutti questi significati.
76 Ivi, B 93; tr. it. p. 91 (leggermente modificata).
77 Ivi, B 94 ss.; tr. it. p. 92 (leggermente modificata).
78 Ivi, B 110; tr. it. p. 101 (leggermente modificata).
79 Ivi, B 112; tr. it. p. 102 (leggermente modificata).
80 Più che alla “Legge fondamentale della ragion pura pratica” (per la
quale cfr. KpV, A 54; tr. it. p. 87), ritengo che Lyotard faccia qui riferimento a
quel Grundsatz che Kant definisce lungo tutto il corso della prima parte del
Cap. I della seconda Critica, ed “enuncia” subito prima della deduzione dei
princìpi individuati, cfr. ivi, A 71; tr. it. p. 107: “… segue che il principio formale
pratico della ragion pratica, secondo il quale la semplice forma di una
legislazione universale possibile mediante le nostre massime deve costituire il
fondamento di determinazione supremo e immediato della volontà, è l’unico
principio possibile atto a fornire imperativi categorici, cioè leggi pratiche”.
81 KU B 105; tr. it. p. 98 (leggermente modificata).
82 Ivi, B 106; tr. it. ibidem (modificata).
83 Ivi, B 105; tr. it. ibidem. Anche in questo caso, data la mole di
interventi da parte di Lyotard, ho preferito tradurre direttamente la sua
versione. Segnalo tra l’altro che il “fa appello” che ho utilizzato corrisponde al
francese “fait appel”, col quale da questo momento in avanti Lyotard inizierà a
giocare per indicare la “chiamata della coscienza”. La soluzione ideale
sarebbe stata tradurre il termine “appel” in modo univoco, direttamente con
“chiamata”. Ciò avrebbe fatto perdere però non solo il gioco di parole, ma
anche quell’evidente coerenza testuale, anche nella traduzione lyotardiana di
Kant, che costituisce uno degli aspetti più interessanti di questi capoversi. Ho
scelto dunque di alternare “appello” e “chiamata”, in base al senso volta a
volta più forte nel francese. Invito nondimeno il lettore a tenere presente che si
tratta sempre della medesima parola.
84 Ivi, B 102; tr. it. p. 96.
85 Ivi, B 106; tr. it. p. 98.
86 L’espressione francese con cui Lyotard gioca è “se rend”, che alla
lettera significa sia “rendersi (utile)”, sia “arrendersi”, sia “recarsi”. Non
potendo rendere in italiano la polisemia del francese, ho preferito adottare nel
testo solo la seconda soluzione.
87 Ivi, B 91; tr. it. p. 90 (leggermente modificata).
88 Ivi, B 91 ss.; tr. it. ibidem (modificata).
89 Ivi, B 91; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
90 Ivi, B 92; tr. it. ibidem ss. (leggermente modificata).
91 Ibidem; tr. it. p. 91 (modificata).
92 Cfr. KrV A 80 B 106, A 70 B 95; tr. it. pp. 193, 207.
93 Cfr. l’intera Anfibolia dei concetti della riflessione, ivi, A 260-292 B
316-349; tr. it. pp. 485-525.
V.
IL SUBLIME COME SINTESI DINAMICA

1. Tentativo di soluzione del dissidio attraverso la mediazione


etica

La ragione entra dunque “in scena” al posto dell’intelletto. Essa


lancia al pensiero immaginante la sfida: rendilo presente con le tue
forme, l’assoluto che io concepisco. La forma è però limitazione,
divide lo spazio e il tempo in un “dentro”, ciò ch’essa “comprende”, e
in un fuori, ciò che essa esclude (il “fondo”1). Non può presentare
l’assoluto. Ma questo non è il problema più grave. La limitazione che
costituisce la “comprensione”, la Zusammenfassung, dei dati in una
forma è essa stessa limitata. La presentazione non può afferrare, in
una volta e in una forma sola, un’infinità di dati. Se le è chiesto di
estendersi, essa si scontra con il suo massimo, con quella sua
“misura” che è fondamento “soggettivo” di ogni grandezza. Questa
misura è l’assoluto del pensiero presentante (91; 95)2, l’assoluto
della grandezza “esteticamente” possibile.
Tale è il dissidio che si trova al cuore del sentimento sublime: il
confronto di due “assoluti” ugualmente “presenti” al pensiero,
l’assolutamente tutto quando concepisce, l’assolutamente misurato
quando presenta. Confronto è dir poco; è uno scontro, giacché, in
virtù della sua stessa destinazione, che è di essere tutto, l’assoluto
della concezione esige di esser presentato. Se si è attenti alla
“sensazione” che ne risulta (esteticamente) per il pensiero, la
situazione la si definirà tragica; assurda, se si desidera
caratterizzarla logicamente. Sotto quest’ultimo aspetto, infatti, che
l’assoluto sia messo in relazione con qualcosa d’altro da se stesso è
contraddittorio in sé, giacché esso è il senza-relazione. A fortiori se
l’altro è ugualmente un assoluto. La loro messa in relazione
sopprime entrambi come assoluti. Ma se deve restare l’assoluto,
ognuno di essi continua a essere per se stesso il suo unico ricorso,
la sua corte d’appello, per così dire, nell’ignoranza dell’altro. È per
questo che il loro conflitto non è una lite ordinaria, che una terza
istanza può comprendere e recidere, ma “un dissidio”, un
“Widerstreit” (97; 103)3.
Abbiamo visto (supra III.3) che la funzione della sintesi dinamica
(attribuita alle categorie di relazione e di modalità) è di collocare
sotto un’unità necessaria due elementi eterogenei. La critica è qui
sul punto di impegnarsi a elaborare una tale sintesi: abbiamo
appena visto che gli elementi da unificare sono infatti eterogenei, si
può dire: assolutamente eterogenei, in quanto assoluto dell’infinito e
assoluto del finito, e che la loro sintesi è necessaria a priori come
condizione di possibilità del sentimento sublime, il quale è una realtà
empirica. Nondimeno, a dispetto della natura del conflitto, che non
dovrebbe permettere questa soluzione, qua e là viene abbozzata
una transizione sul modello dell’accordo dell’intelletto con
l’immaginazione che la critica ha elaborato in merito al gusto, in
modo da conciliare le due potenze del pensiero, quella di presentare
in forme e quella di concepire in Idee.
Ecco due passaggi in cui questa messa in parallelo viene
suggerita, non senza riserve, bisogna riconoscerlo, ma in entrambi i
casi secondo la figura esplicita dell’“allo stesso modo in cui… così
anche”:

Dunque, allo stesso modo in cui, gleichwie, la facoltà estetica di giudizio,


quando valuta il bello, in Beurteilung des Schönen, riferisce
l’immaginazione nel suo libero gioco all’intelletto, allo scopo di accordare,
zusammenzustimmen, tale gioco con i concetti di quest’ultimo in generale
(senza loro determinazione), così, so, riferisce anche alla ragione questa
stessa facoltà [l’immaginazione], quando essa [la facoltà di giudizio] valuta
una cosa come sublime, allo scopo di accordarla soggettivamente con le
Idee della ragione (senza determinare quali), e cioè allo scopo di produrre
una disposizione d’animo, eine Gemütsstimmung, che sia conforme a,
gemäß, e compatibile con, verträglich, quella che l’influenza delle Idee
(pratiche) determinate esercitano sul sentimento (95 t.m.; 100).4

Lo stesso parallelo, ma un po’ più sfumato, si trova anche un po’


più avanti: “infatti, allo stesso modo in cui, so wie, immaginazione e
intelletto producono una finalità soggettiva delle forze dello spirito
mediante il loro unisono, Einhelligkeit, quando valutano il bello, così,
so, fanno immaginazione e ragione mediante il loro dissidio […]” (97;
103)5, quando valutano il sublime. Certo, il testo aggiunge subito che
in quest’ultimo caso la finalità che il pensiero risente
soggettivamente è quella che lo destina a pensare l’assoluto della
grandezza in Idea, la finalità della ragione stessa, di conseguenza, la
cui “preminenza”, la “Vorzüglichkeit”, è resa “intuibile, anschaulich”
solo attraverso la “sconfitta, la Unzulänglichkeit” dell’immaginazione.
(Quest’ultima è qualificata in un modo che può sorprendere: una
“facoltà che è essa stessa illimitata, unbegrenzt, nella presentazione
delle grandezze (degli oggetti sensibili)” (97; 104)6. Questa
illimitatezza non può essere che quella della Zusammensetzung
accordata all’intelletto nel suo progresso, ma senza valore per la
ragione.)
Resta il fatto che, attraverso la forzatura del parallelismo tra il
bello e il sublime per mezzo del ricorso al principio di una finalità che
agirebbe in entrambi i casi, lo scontro della ragione e
dell’immaginazione nel sublime sembra poter esser ricondotto alla
misura della lite, dell’innocua lite tra l’intelletto e l’immaginazione che
dà al gusto il suo valore di emulazione per il pensiero. L’ultimatum
indirizzato dalla ragione alla facoltà di presentare sembra poter
essere compreso anche come una proposta d’alleanza, e la guerra
esser motivata dal progetto di un patto. Si è già notato che la pretesa
della ragione di ottenere una presentazione dell’assoluto nel primo
dei testi citati si trova sfumata e persino ridotta dall’introduzione di
un’analogia formulata all’irreale: sarebbe sufficiente che
l’immaginazione presenti qualcosa che possa affettare il pensiero
(procurandogli una sensazione di se stesso) allo stesso modo in cui
questo sarebbe affetto se pensasse (senza presentazione) l’Idea
della ragione pratica, e cioè la legge e il suo fondamento, la libertà.
Questa può essere evidentemente solo un’analogia. Giacché
quando il pensiero prova soggettivamente la legge morale, il
sentimento che corrisponde a questo “stato” si chiama rispetto (KPV,
75 ss.; 84 ss.)7. E il rispetto “(col nome di sentimento morale) è
prodotto esclusivamente dalla ragione” (ivi, 80; 89)8. Esso non
“serve” a nient’altro che a essere “il movente, Triebfeder, grazie al
quale la legge in se stessa si fa massima” (ibidem, t.m.)9. Che è
come dire che esso è la sensazione soggettiva che prova il pensiero
quand’è per così dire colto dalla legge pratica in quanto tale, e cioè
non come oggetto di una conoscenza possibile (o impossibile), ma
come incitazione ad agire, ciò che si chiama “massima”. Il rispetto è
la sensazione del pensiero obbligato, puramente e immediatamente
obbligato dalla ragion pratica. Un’obbligazione che non è
“pflichtmäßig, conforme al dovere”, ma “aus Pflicht, di dovere”
direttamente (ivi, 85; 95)10. Questa disposizione del tutto
“particolare”, “etwas Besonderes” (ivi, 84; 93)11, esclude ogni
riferimento a degli oggetti che potrebbero affettare il pensiero,
metterlo alle loro dipendenze attraverso il sentimento che gli
procurano. Quest’ultimo sentimento si dice allora “patologico,
pathologisch” (ibidem)12 perché il pensiero vi subisce il suo stato
come proveniente dal di fuori di se stesso. Il rispetto non può dunque
esser “messo in rapporto alla soddisfazione, Vergnügen, né al
dolore, Schmerz” (ivi, 84; 94)13, l’una e l’altro testimoni della
passibilità del pensiero. È questa la cosa strana: un sentimento che
non dipende dalla facoltà di piacere e dispiacere, un sentimento
“bianco”. Che esso si accompagni al dispiacere, che l’obbligazione
pura contrasti risolutamente l’attaccamento della volontà al suo
oggetto favorito, l’Io (ivi, 82 ss.; 92 ss.)14, questo è un effetto
estrinseco, un effetto secondario, e la sofferenza che ne segue
proviene dal fatto che la facoltà di desiderare è già attratta, è
preoccupata da un oggetto. Ma questo oggetto non è la legge.
Quanto alla legge, il pensiero praticamente orientato, il pensiero che
guarda all’azione, che la giudica buona o cattiva non prova
inizialmente alcuna “passione”, non patisce in alcun modo. E in
particolare gli è completamente estranea la “soddisfazione
esaltante”, che ha per sua disposizione o per suo “stato” quando la
“presenza” dell’assoluto si fa sentire nel sublime (infra VII).
È per questo che l’analogia della disposizione richiesta al
pensiero dalla ragione sublime con quella in cui si trova posto dalla
ragione pratica deve restare un’analogia. La sostituzione dell’una
all’altra non è possibile. Che la ragione voglia la presentazione della
sua Idea nel mondo dei fenomeni è esattamente ciò che la definisce
come causalità pratica assoluta. Ed è in quanto sottomesso a questa
obbligazione che il pensiero presentante “si sforza” (96; 103)15 di
fornire la presentazione più grande possibile – che corrisponde
all’assoluto di ragione. Avanzando in questo modo fino al ciglio di ciò
che gli è impossibile. Le catene montuose, le piramidi di ghiaccio, gli
strapiombi rocciosi minacciosi, gli uragani, i mari scatenati, i vulcani
(95, 99; 101, 117)16, tutto ciò che di “bruto” può trovare nella natura
è sublime nella presentazione perché è al limite di ciò che può
essere afferrato in un’unica intuizione: “beinahe zu groß ist, è quasi
troppo grande” (92; 97)17, ripete il testo, e troppo grande proprio per
l’apprensione, lo “Auffassungsvermögen” (ibidem)18. Si dirà che
questo sforzo è analogo a quello della volontà in direzione della
virtù. Lo è senz’altro, a parte il fatto che l’immaginazione appartiene
alla capacità di conoscere, laddove la volontà è la facoltà di
desiderare, e che il risultato della violenza che l’ultima fa a se
stessa, la virtù, è morale, mentre il risultato della violenza che la
prima fa a se stessa, il sublime, è estetico. La commistione di paura
ed esaltazione di cui è fatto il sentimento sublime è di fatto
irrisolvibile, non riducibile al sentimento morale. Almeno direttamente
(infra VII).
2. Tentativo di soluzione del dissidio attraverso una “dialettica”

È di una “commistione” che è fatto il sentimento sublime, parlando


propriamente? Parlare propriamente vuol dire qui parlare nei termini
della critica. Commistione non è un termine critico. Esso
designerebbe la giustapposizione o la coesistenza dei due “sentire
grande” in un unico e identico “stato” del pensiero, mentre questo,
allo stesso tempo, presenta e concepisce. Se fosse questo il caso, il
sentimento che risulterebbe da una tale coesistenza “soggettiva” non
avrebbe alcuna finalità, e non potrebbe pretendere alla qualità di un
giudizio estetico finalmente affermativo, e dunque di un piacere
(“finalmente” nei due sensi del termine: come risultato e come
conforme a un fine non concepito ma soggettivamente percepito).
(Si potrebbe accostare forse questa “commistione” all’angoscia che
suscita nella psiche l’avvicinarsi del “reale” del desiderio in eccesso
su ogni domanda “immaginaria”. Ma questo accostamento non
potrebbe essere davvero articolato perché né il campo, né
l’avvicinarsi del campo sono, in Freud e Lacan, dello stesso ordine di
quelli della critica trascendentale19.)
Se il sentimento sublime è estetico è perché, come il gusto, è
soggettivamente finale senza concetto del fine. Nel dissidio stesso
della ragione con l’immaginazione bisogna trovare dunque, se non
un fine, una finalità. Ciò che suscita il sentimento sublime, o almeno
ne è occasione, potrà sembrare tanto “controfinale, zweckwidrig, per
la nostra facoltà di giudizio”, tanto “primo di una misura comune,
unangemessen, alla nostra facoltà di presentazione”, tanto “violento,
gewalttätig, per l’immaginazione”20 quanto si voglia – con questo
esso sarà giudicato soltanto ancora più sublime, e lo stato del
pensiero, di conseguenza, ancora più finale.
Si è tentati di concepire la finalizzazione di questa discordanza
estrema come un’operazione dialettica. Dialettica in un senso non
kantiano, piuttosto hegeliano, ma conosciuta da gran tempo tra i
paradossi della logica col nome che le darà la prima sofistica:
l’argomento detto dell’antistrephon o ritorsione. Prendendo ad
esempio una risposta data da Gorgia al suo allievo Evatlo,
riassumerei questa figura dialettica in tal modo: è proprio affermando
che la serie dei tuoi giudizi era finita che lo neghi, giacché con
questo tu aggiungi a questa serie un nuovo giudizio21. È proprio
mostrando che non puoi “comprendere” una grandezza maggiore in
un’unica intuizione che lo fai, che mostri di poterlo fare, giacché per
mostrare il limite bisogna mostrare l’al di là del limite. Di modo che il
piacere dell’infinità che è mio è già in potenza nel malessere che
provi per la tua finitudine. Il procedimento consiste nello spostare
l’esame del giudizio dalla sua qualità (negativa) alla sua modalità
(assertiva): tu dici di non…, ma lo affermi. Il modus di una
proposizione è infatti indipendente dal suo contenuto, il dictum.
Il testo kantiano si presta a volte a questa lettura “dialettica”:

Quando una grandezza si avvicina […] al massimo della nostra capacità


di comprensione in un’unica intuizione mentre l’immaginazione viene
sollecitata mediante grandezze numeriche […] a una comprensione
estetica in un’unità più grande, allora noi ci sentiamo nell’animo come
esteticamente rinchiusi entro dei limiti; ma troviamo una certa finalità nel
dispiacere risentito riguardo all’estensione dell’immaginazione che è
necessaria perché essa si ponga a misura di ciò che è illimitato nella nostra
facoltà della ragione, e cioè a misura dell’Idea del tutto assoluto, e con
questo, mithin, [troviamo una certa finalità] nella non-finalità della capacità
dell’immaginazione per le Idee della ragione e per il loro risvegliarsi (98
t.m.; 105).22

“Con questo [par là]” traduce “mithin” in modo forse un po’


eccessivo, lo concedo. E tuttavia il filo dell’argomentazione è proprio:
il rapporto tra immaginazione e ragione è finale, dunque piacevole,
proprio perché è non-finale, dunque spiacevole o almeno neutro.
Ma si vedano ancora le righe seguenti, che concludono lo stesso
passaggio in modo ancora più esplicito: “è proprio per questa, eben
dadurch [per la non-finalità dell’immaginazione per la ragione] che il
giudizio estetico diviene esso stesso soggettivamente finale per la
ragione come fonte di Idee […], e che l’oggetto viene colto come
sublime con un piacere che è possibile solo attraverso la mediazione
di un dispiacere, nur vermittelst einer Unlust” (ibidem, t.m.)23. Il
“dadurch”, “grazie a questo”, “per questo”, “per mezzo di questo”, e
l’“attraverso la mediazione, vermittelst” richiamano la lettura
dialettica che evocavo. Non manca in essi nemmeno un abbozzo
della “soppressione” (dello Aufheben o della “rilevazione” [relève]24)
per mezzo del negativo che questa lettura si aspetta: la finalità
soggettiva del sentimento sublime che risulta dalla non-finalità
dell’immaginazione per la ragione è la sua finalità (lo ripeto: di
questo sentimento “stesso”, come tutto e come risultato) per la
ragione stessa, per la fonte delle Idee; cosa che può essere intesa,
“dialetticamente”: l’autoaffermazione assoluta del pensiero come
ragione supera (conserva e sopprime, “rileva”) la sua negatività
come immaginazione.
Questa “elevazione”, questo Erheben (sublime si dice erhaben)
della ragione che è allo stesso tempo la “rilevazione”, lo Aufheben
dell’immaginazione (il termine tedesco, come il latino tollere, evoca
allo stesso tempo l’azione di togliere e quella di elevare [l’action
d’enlever et celle d’élever]), sembra essere così un senso legittimo
della procedura esposta dal testo citato. Come nell’operazione
dialettica, ogni “momento” del pensiero, presentazione o concezione,
ha “per sé” il suo assoluto. Ma, messo in rapporto all’altro, l’assoluto
dell’uno non ha una potenza eguale. L’assoluto della ragione è
l’impossibile dell’immaginazione, mentre l’assoluto
dell’immaginazione, relativamente all’assoluto della ragione, non
sarebbe che un momento. E dato che qui si tratta di un sentimento
provato dal pensiero che pensa l’assoluto, il dispiacere che esso
sente pensando l’assoluto impossibile (per l’immaginazione) si
eclissa (mentre vi si conserva) davanti e nel piacere che esso sente
pensando l’assoluto possibile (per la ragione).
Eppure questa lettura non è quella corretta. Non è infatti critica, è
speculativa. E con questo intendo dire che essa rende “omogenee”
le due potenze in conflitto allo scopo di trasformarle in momenti di un
processo di fatto finalizzato. Prova ne è che, per una specie di
distrazione, questa dialettica, come abbiamo appena detto,
relativizza l’assoluto dell’immaginazione mettendolo in rapporto con
quello della ragione, la “misura prima” dell’una mettendola in
rapporto con “l’infinito come tutto” dell’altra. Questa “distrazione”
consiste in realtà nell’ammettere tra l’immaginazione e la ragione
un’istanza terza che autorizza il passaggio dall’una all’altra. Come se
la questione che comanda tutta la terza Critica, quella del
“passaggio”, precisamente, avesse già trovato la sua soluzione, e,
più precisamente, come se l’Analitica del sublime non avesse
appena smentito quella promessa d’accordo del pensiero con se
stesso e con la natura che costituisce il sentimento del bello. Perché
il “resto”, la “rimanenza”25 della pretesa “dialettica” del sublime è
infine considerevole: ciò che nel sublime si perde senza rilievo è
l’intera natura come “scrittura” delle forme, e tutto ciò per cui il
pensiero è legato, finalizzato a questa scrittura, la sua stessa
potenza delle forme.
La terza istanza a cui le due potenze, l’immaginazione e la
ragione, sarebbero tenute a far ricorso nell’ipotesi di una lettura
dialettica sarebbe il “divenire” stesso, come nella Scienza della
logica, o la “vita dello spirito”, come nella Fenomenologia dello
spirito26. Un’istanza che certo non è altro che “mentio”, atto della
mens (dello spirito), e smentita, contraddizione [démenti] di
quest’atto da parte della mens, costruzione di una presenza e sua
decostruzione, puro toglimento, dunque, che insiste ma non è
un’istanza. Resta il fatto che, tale e quale, se così posso dire, questa
potenza sempre in eccesso sui propri atti non ha problemi a
scavalcare gli “abissi” che sbigottiscono il pensiero critico, e a
relativizzare gli “assoluti” che esso crede di aver localizzato. In ciò
consiste anzitutto il lavoro di questa potenza. Essa non è afferrabile
altrimenti che in questo lavoro indecidibile, il lavoro affermativo del
negativo. Che sarebbe qui il lavoro della ragione. Bisognerebbe dire
di conseguenza che l’immaginazione è una ragione arrestata in una
delle proprie formazioni, in uno dei suoi atti, e che, come ragione
provvisoriamente confinata, essa non mancherà di oltrepassare i
suoi confini e di fissarsi più avanti in un’altra pretesa istanza o
facoltà, meno confinata (l’intelletto, ad esempio), la cui “estensione”
condurrà a sua volta all’autoposizione dello spirito da se stesso
come unico vero assoluto, sotto la forma della ragione.
Si capisce che una lettura di questo tipo deve restare insensibile
al sublime come dissidio provato soggettivamente dal pensiero. È
sufficiente a tal riguardo rifarsi a ciò che caratterizza il sublime
nell’estetica hegeliana (e in generale romantica). È chiaro che
questa lettura esprime per il pensiero critico l’illusione trascendentale
di cui la ragione non smette di essere vittima, o come minimo un
fallimento nella “domiciliazione” degli atti del pensiero. L’esame di
questa carenza è stato condotto nell’Appendice della prima Critica
dedicata alla riflessione, a proposito dell’intellettualismo leibniziano
(KRV, 232 ss.; 309 ss.; supra I.5)27. A parte il “divenire” e la “vita
dello spirito”, questa confutazione vale anche per la dialettica
speculativa.
3. La sintesi dinamica della causa e del condizionato

I testi che permettono di identificare la sintesi dinamica, e soprattutto


di distinguerla dalla sintesi “dialettica” sono già stati citati (supra III.1
e, soprattutto, III.3). Questi sono principalmente l’esposizione degli
Assiomi dell’intuizione e l’Osservazione inserita tra la soluzione delle
Idee matematicamente trascendentali e quella delle Idee
dinamicamente trascendentali (rispettivamente, KRV A e B, 164 ss.;
217 ss. e KRV, 392 ss.; 519 ss.)28. Riprendo il nerbo dell’argomento
soltanto per mostrare la conseguenza che esso ha sulla sintesi
dinamica nel sentimento del sublime. Per introdurre la “decisione, la
Entscheidung” critica dell’Antitetica nel suo insieme (KRV, 376-381;
496-504)29, Kant risale il ragionamento che sostiene le tesi e le
antitesi presenti. Questo rimane lo stesso a prescindere dalla posta
in gioco di ogni Antinomia. Giacché in ogni caso si tratta sempre del
pensiero del mondo come totalità dei fenomeni: questo è illimitato o
limitato nell’estensione spazio-temporale (secondo la quantità), nella
complessità intensiva (secondo la qualità), nella causalità (secondo
la relazione), e nella necessità di esistere (secondo la modalità)?
Ciò che sostiene in entrambi i casi le argomentazioni è il
ragionamento seguente: “quando il condizionato è dato, è data
anche l’intera serie di tutte le condizioni; ma gli oggetti dei sensi ci
sono dati in quanto condizionati; dunque, ecc.” (KRV, 376; 496)30.
Su di esso la critica ragiona in questo modo: è corretto dire che gli
oggetti dei sensi ci sono dati come fenomeni, per il fatto di essere
filtrati dalle forme della sensibilità, dagli schemi dell’immaginazione e
dai princìpi dell’intelletto. Di ciò che ce li “dà”, della cosa o
dell’essere da cui questi fenomeni provengono alla nostra
apprensione non conosciamo nulla. Per definizione, questo non è un
fenomeno ma un oggetto del pensiero, un noumeno, una cosa in sé.
Ma ciò che non è esatto nel ragionamento per come è formulato è
la maggiore. Dal fatto che ogni fenomeno sia dato come
condizionato (vale a dire come oggetto delle sintesi matematiche
implicite nelle forme, negli schemi e nei princìpi) non segue in alcun
modo che sia data “l’intera serie” di tutte le condizioni. Le cose
starebbero forse in questo modo, prosegue Kant, se i dati fossero
delle cose in sé. Perché allora le loro condizioni, che sono ad esse
omogenee, sarebbero anch’esse delle cose in sé, e si potrebbe
sostenere che l’insieme delle condizioni sarebbe a sua volta dato
(come cosa in sé). Ma il dato non è la cosa così per come è in sé. È,
in senso lato, ciò che di essa è appreso, e più precisamente ciò che
è colto dall’intuizione in un’“apprensione” e dall’immaginazione in
una “comprensione”. Questi atti di sintesi, minimali quando
presentano il dato, sono però limitati, non fosse altro che “in
grandezza”, da una “misura” che la facoltà della presentazione non
può eccedere (si vede qui come l’analisi “matematica” del sublime
venga in modo del tutto naturale a sostituire l’argomento critico
dell’Antitetica). La sintesi dell’“intera serie” dei fenomeni eccede
questo limite. Non ve ne è dunque né un’apprensione intuitiva, né
una comprensione immaginativa. E di conseguenza “l’intera serie”
non è “data”. Certo, il “regresso” nella serie delle condizioni può
proseguire all’infinito. Esso non è altro che il “progresso” nella
composizione, nella “Zusammensetzung” degli elementi esposta
nella sezione sul sublime esaminato matematicamente. L’intuizione
e l’immaginazione possono seguire l’intelletto all’infinito senza
incontrare alcun ostacolo. Ma ciò che queste non possono fare è
“dare” l’insieme della serie, e cioè, nella problematica dell’Antitetica,
“dare” il mondo in totalità. La polemica sull’infinità o la finitezza del
mondo è dunque vana, e le istanze di entrambe le parti sono
respinte.
Ma, come si sa, il rigetto della duplice lamentela è legittimo
soltanto in quanto da una parte e dall’altra si discute di un fenomeno
limite, che è una pura assurdità giacché ogni fenomeno non è dato
che nelle sintesi che lo associano ad altri fenomeni, in modo
contingente ma omogeneo. Non è questo il caso per quello che
riguarda la causa e la necessità dell’esistenza. La sintesi della causa
con l’effetto è necessaria a priori, non potendosi pensare l’una senza
l’altro, ma unisce anche due elementi eterogenei. L’effetto è dato
come fenomeno. Se ne si cerca la causa, l’intelletto potrà fornire
come condizione dell’effetto soltanto altri fenomeni, rispondendo
così “matematicamente” alla domanda: come appare il fenomeno-
effetto? Ma fornire la sua causa (o la necessità che esso esista)
significa rispondere alla domanda: perché?
Kant espone questa differenza dal punto di vista della temporalità;
e ciò è di grande importanza per il sentimento sublime. La relazione
di una causa con un effetto non è quella che corre tra un prima e un
dopo. Perché il prima è per sintesi matematica sempre il dopo di un
altro prima. “Tra” la causa e l’effetto c’è dal punto di vista temporale
un evento che non appartiene alla successione. L’effetto è detto
risultare dalla causa. Se la causa non agisce, il fenomeno può
benissimo essere dato: non è però l’effetto di questa causa. Diciamo
che rimane da spiegare. I momenti che formano il contesto
temporale di un momento sono proposti al regresso (o al progresso)
nella successione. Ma l’“azione” della causa che “produce” l’effetto è
soltanto un principio di intelligibilità del fenomeno, e questo principio
non è un fenomeno della serie, dà ragione del fatto che il fenomeno
vi appare. È un’Idea. La nozione di causalità, che è l’Idea dell’azione
di una causa che produce un effetto, non è per nulla soddisfatta se
l’intelletto le fornisce una serie, anche molto grande, di condizioni del
fenomeno. Vi sono molte condizioni perché un corpo cada o prenda
fuoco, ma esse non danno ragione della caduta, né dell’ignizione. È
per questo che la causalità non è una sintesi la cui certezza può
essere “intuitiva”, che la sua certezza è “discorsiva” (KRV, 164;
216)31.
Si parla facilmente di un fenomeno come “causa” di un fenomeno.
Ma anche allora bisognerà distinguere questa “causalità”, che è
quella sensibile, dalla causalità intelligibile che è qui in questione.

Chiamo intelligibile ciò che in un oggetto sensibile non è esso stesso


fenomeno. Se pertanto quello che nel mondo sensibile dev’essere
considerato come fenomeno, ha in se stesso anche una facoltà che non
viene da un oggetto dell’intuizione sensibile, ma tramite la quale,
nondimeno, esso può essere una causa dei fenomeni, allora si può
considerare la causalità di quest’essere da due punti di vista, come
intelligibile quanto alla sua azione, o in quanto causalità di una cosa in sé, e
come sensibile quanto agli effetti di questa azione, o in quanto causalità di
un fenomeno nel mondo sensibile (KRV, 397; 527).32

Ho parlato dell’“evento” che è la messa in azione della causalità


intelligibile, e che non appartiene al tempo fenomenico. Il testo
kantiano non menziona questo termine. Ma sottolinea l’indipendenza
dell’“agente” causale in rapporto al tempo della successione.

Considerato nel suo carattere intelligibile, il soggetto agente, dieses


handelnde Subjekt [l’origine dell’azione che causa l’effetto], non sarebbe
dunque sottoposto a nessuna delle condizioni di tempo, unter keinen
Zeitbedingungen stehen, poiché il tempo è solo la condizione dei fenomeni,
ma non delle cose in sé. In esso [in questo “soggetto”], non c’è azione che
nasca né perisca, würde keine Handlung entstehen, oder vergehen, e di
conseguenza esso non sarebbe più subordinato, unterworfen, alla legge di
ogni determinazione di tempo, di tutto ciò che può alterarsi, alles
Veränderlichen: e cioè che tutto ciò che accade trova la propria causa nei
fenomeni (dello stato precedente) (KRV, 398 t.m.; 528).33

Il modo verbale resta condizionale per sottolineare il carattere


problematico dell’implicazione. Perché a dire il vero noi non
conosciamo nulla di questo “agente” o di questo “soggetto”. Questo
è l’oggetto di un’Idea. Ma è proprio in ragione di tale statuto che si
può caratterizzare negativamente il suo modo di agire in rapporto
alla successione. L’azione della causa non deve essere causata da
ciò che ha già avuto luogo; perché il “già” appartiene al tempo della
successione, e in questo caso la causa perderebbe il suo carattere
di causa intelligibile. Ma, mentre produce il suo effetto, quest’ultimo è
“reale”, è un fenomeno, è “dato” nelle condizioni necessarie a priori
perché dei fenomeni siano dati. La causa intelligibile può esser detta
prima, ma la sua autorità non appartiene alla successione.
Molte proprietà dell’agente che esercita l’azione causale si
trovano così determinate negativamente: è un’entità soltanto
intelligibile (non “presentabile”); non contribuisce alla conoscenza
degli oggetti, nel senso dell’intelletto; è incondizionato; non è situato
nella successione. Il prima e il dopo che sostengono
l’immaginazione e l’intelletto nel loro progresso o nel loro regresso
all’infinito gli sono sconosciuti. Questo agente esercita o attualizza la
sua potenza, e cioè produce un fenomeno come stato del suo
effetto, secondo “una regola e un ordine, Regel und Ordnung, del
tutto differenti da quelli dell’ordine della natura” (KRV, 403; 536)34. È
così possibile che “tutto ciò che nondimeno è accaduto [est arrivé],
alles […] was […] geschehen ist, secondo il corso della natura, e che
secondo i propri princìpi empirici doveva accadere inevitabilmente,
unausbleiblich geschehen mußte, dovesse forse non essere
accaduto, sollte vielleicht […] nicht geschehen sein” (ibidem, t.m.)35.
Si intende qui la differenza del sollen dal müssen. Ciò che doveva
accadere secondo la necessità delle leggi dell’intelletto (müssen),
non lo doveva forse secondo la “libera” causalità dell’agente (sollen).
Ciò che dovrà accadere, forse non lo dovrà.
La riflessione critica sul tempo dell’azione causale conduce così a
far slittare il senso della parola “dovere”. Come necessità (müssen),
esso designa la prevedibilità delle successioni nella natura sotto le
regole dell’intelletto. Come obbligazione (sollen), significa che “è
tempo” per l’agente di esercitare la sua azione (un “tempo” che nel
greco classico, o in quello della traduzione dei Settanta, o ancora in
quello di Paolo di Tarso, si dice kairos). Questo “tempo” è l’agente
che lo decide. Questa decisione non è motivata, e cioè condizionata,
perché non lo è la causalità dell’agente. Il punto non è che il
fenomeno stesso risulti da quest’azione “dovuta” (sollen): è che
allora esso sia “anche” l’effetto di questa azione, e non più soltanto il
condizionato delle condizioni che lo implicano. Il fenomeno resta
condizionato secondo la regola e l’ordine della natura, e diviene
effetto di una causa incondizionata, secondo la regola e l’ordine del
tutto differenti della ragione (che non conosciamo).
Questa causa appartiene infatti all’ordine della ragione perché è
oggetto di un’Idea, di un concetto della ragione. Ma, in quanto essa
è supposta essere qui la causa agente della produzione non del
fenomeno, ma del suo carattere di effetto, questa ragione è essa
stessa presupposta come agente. Allo stesso modo in cui non c’è
effetto senza causa, non c’è causa senza effetto. È questo che vuol
dire il “Sollen”: quest’azione dev’essere “effettuata”. Si parte
dall’esame speculativo delle proprietà della causalità intelligibile, e le
proprietà sono negative. Ma proprio perché sono speculativamente
negative, queste formano le condizioni a priori di una causalità
affrancata da ogni condizione, e cioè le condizioni della libertà.
Senza questa causalità libera un giudizio morale non avrebbe mai
luogo. Ogni “sollen” potrebbe essere ridotto a un “müssen”. Ciò che
si inscrive insieme al Sollen è il fatto che l’agente è agente solo se
agisce. Dapprima oggetto di un’Idea della ragione speculativa, la
causalità libera si rivela essere la ragion pratica in azione. Non
bisogna “chiedere alla ragione di spiegare, erklären, l’origine” delle
azioni che risultano da questa causalità; bisogna riconoscere nella
ragione stessa, in quanto ha l’Idea di questa causalità, “la causa in
grado di produrle, erzeugen” (KRV, 403; 536)36.
Bisognerebbe fermarsi un po’ su quest’esempio di sintesi
dinamica perché è molto più che un mero esempio. Esso sovrasta
una gran parte del sistema critico, giacché questa sintesi rende
possibile per il pensiero l’unione della natura e della libertà malgrado
la loro eterogeneità assoluta. Lo stesso fenomeno che può essere
spiegato nella serie delle condizioni di cui è un elemento, può esser
colto anche come l’effetto di una causalità libera. Questo “cogliere
[saisie]” non è assolutamente né l’apprensione di un dato, né la sua
sussunzione sotto un concetto dell’intelletto. È piuttosto come
l’ascolto di un “segno”. È questo il nome che Kant dà al fenomeno in
cui è “percepito”, anche, l’effetto della causalità libera: “il segno
sensibile della cosa-originaria [archi-chose], della causa,
trascendentale, das sinnliche Zeichen der transzendentale Ursache”
(KRV, 401 t.m.; 533)37. È per tali segni che si potrà discernere se la
causalità per libertà agisce in quella parte della storia naturale che è
la storia degli uomini, nella misura in cui gli uomini stessi “intendono
[entendent]” la “presenza” della libertà nei fenomeni (secondo
Conflitto delle facoltà)38. La “lettura” o l’ascolto di questi segni non
ha evidentemente nulla a che vedere con una determinazione
secondo concetti. Richiede una “maniera”, più che un metodo (148;
174)39. Ma si applica agli stessi oggetti. La sintesi dinamica fa in
modo che il fenomeno incuneato nella necessità immanente valga
talvolta come segno di un’obbligazione trascendente.
4. Necessità della sintesi delle sensazioni nel sentimento sublime

Dinamicamente considerato, il sentimento sublime deve presentare il


caso di una sintesi analoga. Questa sintesi deve unire
necessariamente due elementi eterogenei. Si può prevedere che un
dato presentato nell’intuizione sarà “colto” in essa come il segno di
un’Idea della ragione. Ma dato che qui si tratta di un giudizio estetico
riflettente, la sintesi deve vertere non sull’oggetto (il dato fenomenico
preso come segno di una causalità noumenica), ma sullo stato del
pensiero, sulla sensazione. È dunque necessario che quest’ultima
sia duplice, o sdoppiata in due sensazioni esse stesse eterogenee e
tuttavia indissociabili. Si tratta evidentemente del terrore, che si
riferisce al presentabile, e dell’esaltazione, che si rapporta
all’impresentabile.
Tentiamo di comprendere innanzitutto per quale motivo l’unità di
queste due sensazioni, o di queste due facce della sensazione
sublime, è necessaria. L’immaginazione “si sforza”, con la “massima
tensione, die größte Bestrebung” (96; 103)40, di presentare in una
sola “comprensione” l’assoluto di cui la ragione ha l’Idea. Se il
pensiero che immagina (sempre nel senso kantiano: che presenta
qui e adesso) opponesse al pensiero che concepisce l’assoluto un
rifiuto puro e semplice, non ci sarebbe nessun sentimento sublime.
Sarebbe lo stesso se la ragione non esigesse niente, e cioè se il
pensiero non fosse tanto disponibile, “passibile” – non avesse la
“Empfänglichkeit” (102; 111)41 – alle Idee della ragione, necessaria
perché queste siano “risvegliate” in occasione di quella
presentazione quasi impossibile. È necessario che quest’ultima
faccia “segno” a una trascendenza. “Il buon contadino savoiardo”
che guarda Saussure esaltato dall’immensità degli alti ghiacciai
alpini lo giudica semplicemente folle (103; 111)42. È perché non è
“colto”, “sviluppato” in materia di Idee della ragione (102-103; 111)43.
Di fatto, questi due casi di insensibilità al sublime non sono che
uno. L’immaginazione può rifiutarsi alla presentazione del “quasi
troppo grande”, allo stesso modo in cui questo può non segnalare
nel pensiero la “presenza” di un’Idea della ragione. L’immaginazione
si accontenterà di “misurare a grandi passi”44, se così si può dire,
per composizione progressiva, le grandezze date. Lo farà sotto la
sola direzione dell’intelletto, certa com’è che questo non gli chiede di
cogliere “in un colpo d’occhio” tutte le unità che compongono queste
grandezze. Il pensiero rimarrà così confinato nella sintesi
matematica ricorrente di una serie che può senza difficoltà essere
infinita.
Se la sintesi delle sensazioni nel sentimento sublime è
necessaria, è perché all’inverso l’immaginazione si fa violenza per
presentare una grandezza che sia una specie di segno dell’assoluto
soggettivo della grandezza (magnitudine). E se essa si fa violenza, è
perché la ragione ha la forza di esigerglielo. Questa è però la
situazione, lo si è visto (supra V.3), quando si tratta dell’Idea di un
“agente” assoluto, e non soltanto di un “assolutamente tutto”. Perché
la prima idea contiene immediatamente l’esigenza della sua
effettuazione. Con “immediatamente”, bisogna ripeterlo, non si
intende “subito”, ma, dato che l’agente assoluto non appartiene alla
successione, “senza mediazione”. È soltanto al prezzo della
trasformazione dell’assoluto di grandezza in assoluto di causalità
che la sintesi delle sensazioni nel sentimento sublime diviene
necessaria. L’assoluto smette di essere solo l’oggetto di un’Idea
speculativa; è il “soggetto agente” assolutamente, ed è per questo
che esige la presentazione del “quasi troppo grande” come segno di
se stesso nel sentimento estetico.
Questo spiega perché l’Analitica del sublime considerato
dinamicamente si apre senza indugio sul tema della forza, e non più
su quello della grandezza, al punto da creare la confusione già
segnalata. La natura ha una forza, questa forza fa “paura, Furcht” al
pensiero, ma questo scopre di avere anch’esso una forza, una
“potenza, Gewalt” sufficiente a resistere a quella della natura (98-99;
105-106)45. Non si tratta, lo abbiamo detto, di una paura reale o
empirica, che non può dar luogo al sentimento sublime più di quanto
il pensiero “dominato dall’inclinazione dell’appetito può fornire un
giudizio sul bello” (99; 106)46. Ciò che importa nella formazione del
sentimento sublime è la sensazione di aver paura che in esso ha
luogo, uno spavento che corrisponde all’affermazione “questo è
spaventoso”, e cioè un giudizio riflettente in senso tautegorico.
Questa precisazione conduce a una prima osservazione relativa
al modo in cui la causalità assoluta fa “segno” nel sentimento
sublime. Il “soggetto agente”, abbiamo detto, esige la propria
presentazione sotto il segno di un “quasi troppo grande”, o,
possiamo aggiungere adesso, di un “quasi troppo forte”. Ma non
esige la propria “effettuazione”, e cioè l’inscrizione, nell’ordine dei
fenomeni, di un’azione che sia un effetto o un segno della sua
causalità assoluta. In altri termini, qui l’Idea di libertà non conduce
all’azione morale, ma al sentimento estetico. Non è presente al
pensiero come movente per far esistere ciò che non è ma che
dev’esserlo (sollen): gli è presente come terrore ed esaltazione per il
fatto che ciò che è (il fenomeno) sia quasi niente al cospetto di ciò
che essa, la libertà, potrebbe e dovrebbe fare. La legge morale –
che è semplicemente l’obbligazione di effettuare liberamente la
causalità libera – non è dunque sentita sotto la forma o, piuttosto,
secondo lo “stato” del pensiero che ne è segnale soggettivo: intendo
il rispetto. Quest’ultimo, lo si è detto (supra I.7), è una disposizione
sentimentale vuota che attesta soltanto che il pensiero è pronto a
“effettuare” la causalità assoluta, a compiere il dovere (sollen) di
realizzarla. Questa disposizione rispettosa è immediatamente
determinata dalla causalità prima quando il pensiero pensa
quest’ultima, è la causalità prima stessa in quanto sentita, ma sentita
come movente per agire. Nel sentimento sublime, la causalità prima
non diventa movente per il pensiero che vuole, per la volizione o,
come dice Kant, per la facoltà di desiderare (e di agire). Questa
differenza è considerevole. Nel sublime, la causalità assoluta è
“presente” solo nella misura in cui piace o dispiace, e di fatto è
presente in quanto piace e dispiace allo stesso tempo. Se non fosse
questo il caso, l’Analitica del sublime sarebbe un capitolo della
Critica della ragion pratica. Ma la separazione delle due potenze del
pensiero (desiderare e provare piacere o dispiacere), che viene
esposta chiaramente dalla tavola delle facoltà alla fine
dell’Introduzione della terza Critica (42; 36)47, interdice questa
confusione e salvaguarda la specificità irriducibile dell’estetica,
anche sublime. La tavola ricorda anche che il fine non è la finalità: il
concetto di causalità prima o libertà è dato dalla ragione, come fine,
alla volontà; la finalità (paradossale, nel caso sublime) che si
esprime nel sentimento estetico è “giudicata” soggettivamente
(tautegoricamente, come sensazione) da una capacità di giudicare
che opera senza la mediazione del concetto.
Una seconda osservazione deve essere fatta in merito alla
“sostituzione” dell’“assolutamente tutto” con l’“assolutamente causa”,
oso dire, comportata dal passaggio dall’esame matematico del
giudizio estetico sul sublime al suo esame dinamico. L’Idea
dell’infinito presa come tutto, assolutamente, non può dar luogo, con
la presentazione, a una sintesi necessaria dell’eterogeneo, e cioè a
una sintesi dinamica completa. In quanto oggetto di un’Idea,
quest’infinito assoluto non è evidentemente presentabile, e in questo
senso c’è senz’altro un’eterogeneità tra questo oggetto del pensiero
ragionante e non importa quale oggetto presentabile nell’intuizione.
Ma la sintesi dell’uno con l’altro non è necessaria, e ciò perché non è
inscritto nell’Idea di grandezza infinita attuale che essa debba essere
presentata. Vi è inscritto soltanto che non può esserlo. E questo
perché l’immaginazione incaricata di questa presentazione non
arriva a compierla. Ma ciò che rimarrebbe inesplicato con la sola
Idea del tutto assoluto è che la ragione esige una presentazione
dell’assoluto. Essa mantiene l’oggetto che concepisce come tutto
assoluto al di fuori della serie dei fenomeni che l’intelletto può
stimare in grandezza e che l’immaginazione può comporre nel
seguirlo, giacché l’Idea dell’infinito come totalità è tutt’altra dal
concetto di una serie infinita di apprensioni e di predicazioni
progressive. Certo l’Idea sta al concetto come la sua
“massimizzazione” o come il suo passaggio al limite. E tuttavia essa
salta il limite, e ciò è sufficiente a rendere il suo oggetto
impresentabile, e dunque a far naufragare qualsiasi tentativo di
presentazione in una sola “comprensione”. Ma, ancora una volta,
questo statuto “intelligibile” dell’infinito non è affatto sufficiente a far
comprendere il fatto che all’immaginazione sia intimato di dargli
ugualmente una presentazione.
Solo l’Idea della causalità assoluta può legittimare la specie di
double bind in cui l’immaginazione è presa e resta prigioniera nel
sentimento sublime: quello di presentare l’impresentabile. Perché
solo quest’Idea comporta con sé, come suo stesso contenuto,
l’obbligazione della propria effettuazione. Abbiamo appena
tratteggiato il motivo per cui quest’ultima non è l’azione morale.
Resta il fatto che è proprio questo stesso dovere d’effettuazione ciò
che si trascrive nell’ordine del sentimento estetico come necessità,
per l’immaginazione, di presentare un oggetto che non può esserlo.
Dato che essa non vi può riuscire, il suo stesso scacco avrà almeno
il senso di una testimonianza della “presenza” di questa causalità.
Mancando [faute de] della capacità di presentare quest’ultima,
l’immaginazione presenterà, attraverso la mancanza [par le défaut]
di ogni presentazione, che c’è un tale oggetto impresentabile, la
causalità assoluta. Ed è in tal modo che il suo sconforto diventerà il
segno dell’intelligibile nel sensibile. Ma ancora una volta è
necessario che l’intelligibile esiga da se stesso questo segno, e
soltanto il “soggetto agente” libero ha questa proprietà essenziale. È
soltanto con esso che la sintesi di ciò che è eterogeneo nel
sentimento procurato dalle grandezze e dalle forze naturali (molto
grandi nell’ordine del fenomeno, segno di un assoluto di grandezza
in estensione o in potenza nell’ordine del noumeno) – è soltanto
grazie a questo “soggetto agente” e poiché esso esige la propria
“incarnazione”, se così si può dire, che questa sintesi
dell’eterogeneo è anche una sintesi necessaria. È così che essa è
propriamente dinamica.
5. Eterogeneità delle sensazioni del tempo nella sintesi sublime

Non è inutile precisare un po’ di più il carattere eterogeneo dei due


elementi unificati nel sentimento sublime esaminandoli dal punto di
vista della temporalità. Un passaggio del § 27 dedicato
all’esposizione della qualità della soddisfazione sublime invita a far
ciò il lettore. L’ho trascurato in precedenza perché il suo contenuto
presenta le proprie conseguenze soltanto in rapporto alla sintesi
dinamica. Si tratta del passaggio che inizia con: “Messung eines
Raums (als Auffassung) […], la misura di uno spazio (in quanto
apprensione) […]” (97; 104)48. Il testo precisa aggravandolo il
carattere “controfinale, zweckwidrig” per il funzionamento normale
dell’immaginazione della “tensione, Bestrebung” che le è richiesta
nel giudizio sublime (ibidem)49. Kant indica con minuzia in cosa
consiste il capovolgimento del “modo di rappresentare,
Vorstellungsart” (ibidem)50 che è conforme alla finalità
dell’immaginazione. Ne conosciamo la localizzazione: è il passaggio
dall’apprensione alla comprensione (supra IV.2-3). L’apprensione,
parte dopo parte, di una grandezza anche elevata resta sempre
possibile, le viene dato il cambio dalla “composizione” delle parti
apprese l’una dopo l’altra, permette la “descrizione, Beschreibung” di
questa grandezza grazie a questo “movimento oggettivo, objektive
Bewegung” (si intenda: movimento di sintesi successiva di proprietà
dell’oggetto), e questo movimento è “un progresso, ein Progressus”
(ibidem)51. In questo lavoro, l’immaginazione opera in modo
conforme alla sua finalità, e cioè in un modo tale da fornire una
presentazione dell’oggetto.
Ma quando essa deve comprendere il molteplice in un’unità che
non è più “del pensiero” (che non è dunque più per composizione),
ma “dell’intuizione”; quando deve dunque fornire una comprensione
“in un solo istante, in einen Augenblick” di ciò che è stato appreso in
modo successivo, “des Sukzessiv-aufgefaßten” (ibidem)52, allora
l’immaginazione lavora “regressivamente”, c’è “Regressus”. Questo
regresso attenta però – ed è questo il punto – a ciò che gli è più
essenziale: alla “condizione temporale nel progresso, die
Zeitbedingung im Progressus” (ibidem)53, nella sua stessa
progressione. Quale condizione temporale? La stessa che è esposta
dall’Avvertenza preliminare alla Deduzione delle categorie a cui
abbiamo già fatto riferimento: ciò che l’intuizione ha appreso in
un’unità di prima acquisizione [de première saisie], per così dire,
l’immaginazione lo comprende in un’unità di seconda acquisizione
esercitando la sua facoltà di “riprodurlo” (KRV A, 112 ss.; 145 ss.)54.
Abbiamo notato che è in tal modo che essa può accompagnare
l’intelletto nel suo progresso all’infinito verso unità di grandezza
molto elevate (supra IV.2). Ma ciò che osserva il nostro testo è più
grave di un ostacolo opposto alla Zusammenfassung di grandezze
importanti. È la distruzione, “aufhebt” (ibidem)55, della temporalità
che è propria di ogni presentazione, di cui le sintesi esaminate nella
prima Critica costituiscono le condizioni a priori. In modo ancora più
preciso, l’acquisizione simultanea del successivo distrugge la
“Zeitfolge, la successione temporale” (ibidem)56 di cui la descrizione
oggettiva ha bisogno, soprattutto se la grandezza da descrivere è
importante. Ma – cosa più importante ancora, e decisamente –
questa successione temporale non è soltanto indispensabile alla
presentazione di un oggetto nell’intuizione: è “una condizione del
senso interno, eine Bedingung des innern Sinnes” (ibidem)57.
L’Estetica trascendentale della prima Critica ha mostrato che il
tempo non ha alcuna realtà in sé, ma è una condizione formale
dell’intuizione di dati in generale. La forma propria di questa
condizione è la successione: il tempo “ha una sola dimensione:
tempi diversi non sono simultanei, bensì successivi” (KRV, 61; 74)58.
Lo spazio è all’inverso la condizione a priori affinché i dati siano
intuiti “gli uni al di fuori e accanto agli altri” (KRV A e B, 56; 67)59. Ma
solo il tempo è “la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in
generale” (KRV, 63; 77)60. Giacché i dati, esterni come interni, sono
sottomessi alla sua forma, la successione, mentre i dati interni non
sono sottomessi alla forma spaziale della giustapposizione (che,
temporalmente parlando, significa simultaneità), ne segue che il
tempo, come successione imposta ai “dati” perché essi siano dati,
“non è altro che la forma del senso interno, cioè la forma con cui
intuiamo noi stessi e il nostro stato interno” (ivi, 63; 76-77)61.
È così che la comprensione [saisie] del successivo “in un colpo
d’occhio” richiesta dalla ragione all’immaginazione nel giudizio
sublime, e che deve “rendere intuibile la coesistenza, lo
Zugleichsein” (con cui bisogna intendere “l’essere-d’un-colpo”, in un
sol colpo) di ciò che non può esser dato che successivamente – è
così che una tale comprensione “fa violenza” non soltanto alla
condizione a priori dell’intuizione di ogni dato che è la successione,
ma alla condizione eminente e unica che essa impone all’“intuizione
di noi stessi e del nostro stato”. Se l’immaginazione arrivasse a
soddisfare la ragione, il tempo come forma del senso interno si
altererebbe, almeno per la durata dello Zugleich (ma allora come
determinare quest’ultimo?), e per ciò stesso non ci sarebbe più un
senso interno per organizzare le nostre rappresentazioni in un
succedersi temporale. Il “soggetto” verrebbe privato di quel mezzo
che gli permette di costituirsi in soggettività. Giacché, sotto il nome di
“Io penso”, il “soggetto” non è nient’altro che la coscienza dell’unità
sintetica originaria a cui vengono per così dire imputate tutte le
rappresentazioni. In mancanza di questa imputazione chiamata
“appercezione”, le rappresentazioni non sarebbero quelle di un
soggetto. Nel caso in cui le rappresentazioni non fossero esse
stesse già date nella forma della successione, questa imputazione
sarebbe però impossibile. Se ricordo, in maniera davvero troppo
breve, quest’analisi esposta nella seconda edizione della prima
Critica sotto il titolo di Deduzione trascendentale dei concetti puri
dell’intelletto (KRV B, 110 ss.; 140 ss.)62, è solo per far capire quanto
la “regressione” dell’immaginazione nel sentimento sublime può
attentare al fondamento stesso del “soggetto”. Il gusto gli prometteva
una bella vita, il sublime lo minaccia di scomparsa. Ci torneremo
(infra VII.6-8).
La suddetta regressione è dunque “anti-finale” per la sintesi
temporale, che è a sua volta costitutiva per la sintesi
dell’appercezione, e cioè per l’“Io penso”. Ma l’analisi dell’Estetica
trascendentale della prima Critica considera il pensiero soltanto per
la sua capacità di conoscere. Possiamo ammettere (supra, I.3-4)
che, nell’esercizio delle sue altre potenze, soprattutto di quella di
sentir piacere e dispiacere che qui ci interessa, l’“Io penso” non è
necessariamente richiesto. Che il pensiero non è l’“Io penso”, e che
il soggettivo non è il soggetto. Infine, che il tempo del sentimento
estetico non è necessariamente lo stesso di quello della cognizione.
Kant, da parte sua, non sembra dubitarne. Poiché, per quanto possa
esser disastrosa per il senso interno, la “regressione” richiesta
dall’immaginazione non è meno dichiarata “soggettivamente” sentita,
e sentita come “zweckwidrig”, come contrariante la finalità della
facoltà di presentare (97; 104)63. Che questo pensiero non possa
esser riferito all’unità di uno “Io penso” come un momento in un
succedersi di rappresentazioni interne non gli impedisce di essere
sentito, nel senso tautegorico della riflessione. Non è mai stato detto
che il pensiero come riflessione, come facoltà pura di giudicare,
presupponga un “Io penso”. Viene detto, ben all’inverso, che “la
condizione soggettiva di tutti i giudizi è la stessa capacità di
giudicare” (121; 137)64. Ed è proprio perché questa “potenza di
fornire giudizi, das Vermögen zu urteilen” (ibidem)65 eccede di molto
ciò che possono l’“Io penso” e la sua sintesi temporale secondo
successione, che, quando quest’ultima sembra minacciata di
scomparsa, tale potenza può trovare una finalità in questa minaccia,
una finalità in rapporto “alla destinazione o all’intera vocazione dello
spirito, für die ganze Bestimmung des Gemüts” (97; 104)66, che
eccede la sua mera vocazione cognitiva.
Detto questo, ritorniamo alla questione dell’eterogeneità delle
sensazioni provate assieme nel sentimento sublime. Nel momento
stesso (oso dire) in cui il pensiero immaginante sembra minacciato
di annientamento dalla propria “regressione”, e cioè lavorando
controcorrente rispetto alla successione di cui ha normalmente
bisogno, il pensiero ragionante (razionale) prova [éprouve] inoltre
che il tempo seriale si annienta nell’Idea dell’infinito inteso come
tutto assoluto e, più ancora, come abbiamo mostrato, nell’Idea di
causalità assoluta. La capacità di generare un “effetto” senza esservi
determinato da una condizione non dipende dalla temporalità in cui i
fenomeni sono percepiti e spiegati secondo la loro concatenazione.
Essa sfugge alle sintesi elementari dell’intuizione,
dell’immaginazione e dell’intelletto, rispettivamente la forma, lo
schema e l’assioma del tempo come grandezza che si aggiunge a
se stessa.
Il sentimento sublime è notevole proprio a questo titolo, la doppia
estenuazione del principio della successione: un’estenuazione in
senso proprio, dovuta alla “regressione” dell’immaginazione; e
un’estenuazione (mal detta), un’estemporalizzazione dovuta alla
“presenza” dell’Idea della ragione. Si potrebbe credere che si tratti di
una sola e identica fuoriuscita dal senso interno. In realtà, si tratta di
due sensazioni quasi simili ma eterogenee. Dal lato
dell’immaginazione, questa “fuoriuscita” si fa regressivamente, nel
terrore di perdere il potere minimale che ha il pensiero di sintetizzare
i dati (ivi compresi i suoi) per mezzo della successione. Dal lato della
ragione, la fuoriuscita è fatta (è già da sempre fatta) con un salto,
nell’esaltazione di riscuotere il potere massimale che ha il pensiero
di cominciare una serie di dati senza essere incatenato a essa (KRV,
404-407; 536-541)67. Il primo “nulla di tempo” minaccia la facoltà di
conoscere, il secondo “nulla di tempo” fonda la facoltà di desiderare
pura.
Dopo tutto questo, si avranno senz’altro molte difficoltà a
classificare il kantismo, come spesso accade, tra le filosofie del
soggetto.

1 Traduco letteralmente con “fondo” il francese “fond”, che ha però una


polivocità su cui mi sembra che Lyotard stia qui giocando, e che solo
parzialmente si sovrappone con quella del termine italiano. “Fond” può
indicare infatti sia “fondo”, sia “sfondo”, sia “base” (“fond de tarte” è la base
della torta, “de fond” significa “di base, fondamentale”).
2 Cfr. KU B 87; tr. it. pp. 87 ss.
3 KU B 99; tr. it. p. 94 (modificata).
4 KU B 94 ss.; tr. it. p. 92 (modificata).
5 Ivi, B 99; tr. it. p. 94 (leggermente modificata).
6 Ibidem; tr. it. p. 95 (leggermente modificata).
7 Cfr. KpV A 128-144; tr. it. pp. 163-177.
8 Ivi, A 135; tr. it. p. 169 (modificata).
9 Ibidem (tr. it. modificata).
10 Ivi, A 144; tr. it. p. 177 (leggermente modificata).
11 Ivi, A 141; tr. it. p. 175.
12 Ivi, A 142; tr. it. ibidem.
13 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
14 Cfr. ivi, A 138-141; tr. it. pp. 173-175.
15 Cfr. KU B 97; tr. it. p. 93.
16 Cfr. ivi, B 95, 104; tr. it. pp. 92, 97.
17 Ivi, B 89; tr. it. p. 89.
18 Ibidem.
19 Rispetto a Freud, credo che Lyotard si riferisca soprattutto a S.
Freud, Jenseits des Lustprinzips, in Id., Gesammelte Werke, cit., vol. XIII, pp.
3-69; tr. it. Al di là del principio di piacere, in Opere di Sigmund Freud, cit., vol.
IX, pp. 193-249, anche se si tratta di una tematica estremamente ricorrente,
nell’opera di Freud, che torna ad esempio in Id., Hemmung, Symptom und
Angst, ivi, vol. XIV, pp. 111-205; tr. it. Inibizione, sintomo e angoscia, ivi, vol. X,
pp. 231-317. Sulla cosa, Lyotard si era soffermato in J.-F. Lyotard, Discours,
figure, Klincksieck, Paris 1971, pp. 117-160; tr. it. Discorso, figura, di F.
Mazzini, Mimesis, Milano 2008, pp. 157-202. Per il riferimento a Lacan, cfr.
invece J. Lacan, Le Seminaire. Livre X: L’angoisse (1962-1963), testo stabilito
da J.-A. Miller, Seuil, Paris 2004; tr. it. Il seminario. Libro X. L’angoscia 1962-
1963, di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007.
20 KU, B 76; tr. it. 81 (leggermente modificata).
21 In questo passaggio, Lyotard sovrappone inavvertitamente due
diversi momenti di un’unica argomentazione, che aveva ricostruito
ampiamente in J.-F. Lyotard, Le différend, cit., pp. 19-22 e 31-34; tr. it. pp. 22-
24 e 32-34, applicando il tutto poi a Hegel, ivi, pp. 130-158; tr. it. pp. 115-139.
Come questi stesso aveva notato in quella sede (cfr. ivi, p. 19; tr. it. p. 22), la
risposta a Evatlo che egli attribuisce qui a Gorgia gli fu data invece da
Protagora, per il che: H. Diels, W. Kranz, I Presocratici, tr. it. a cura di G.
Reale, Giunti, Milano 2017, dove Protagora è indicato con il numero 80,
frammenti A1 e A4, rispettivamente pp. 1550-1553 e 1554 ss. Cosa che non
impedisce però che questo stesso ragionamento venga poi ripreso da Gorgia
e applicato all’essere sotto forma di “né… né…” (cfr. J.-F. Lyotard, Le
différend, cit., pp. 32 ss.; tr. it. pp. 32 ss.).
22 KU B 101; tr. it. p. 96 (modificata).
23 Ibidem ss.; tr. it. ibidem (modificata).
24 Il verbo “relever” viene utilizzato come traduzione dell’hegeliano
“aufheben” soprattutto da Derrida, il quale lo impiega nella sua polisemia come
sostituto di quella non del tutto coincidente del termine tedesco. “Relever” può
voler dire infatti sia “sollevare”, sia “raccogliere, alzare”, sia ancora, nella
forma “relever de”, “dipendere da”, “rientrare nelle competenze, nell’ambito,
nel dominio di”. È in quest’ultimo senso che lo si incontra il più delle volte nel
testo di Lyotard, e se qui egli sceglie di riportarlo nella forma sostantivata
come traduzione di “Aufhebung” mi sembra che lo faccia riferendosi proprio
all’interpretazione di Derrida. A tal riguardo, cfr. J. Derrida, Marges de la
philosophie, Minuit, Paris 1972, pp. 101-111; tr. it. Margini della filosofia, di M.
Iofrida, Einaudi, Torino 1997, pp. 128-137.
25 Anche se non gli corrisponde pienamente, traduco con “il resto, la
rimanenza” il modo di dire francese “laissé-pour-compte”, il quale, applicato a
una merce, indica un reso o un qualcosa di invenduto, una giacenza di
magazzino; mentre detto di una persona vale invece come “reietto”,
“diseredato”, “emarginato”.
26 Cfr. rispettivamente G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik in Id.,
Werke in zwanzig Bänden, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, vol. V, Erstes Buch, Erstes Kapitel, pp. 82-
115; tr. it. Scienza della logica, di A. Moni, rivista da C. Cesa, 2 voll., vol I,
Laterza, Roma-Bari 20089, pp. 70-102; e Id., Phänomenologie des Geistes, ivi,
vol. III; tr. it. La fenomenologia dello spirito, di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008.
Per l’espressione “vita dello spirito”, cfr. in particolare ivi, p. 36; tr. it. p. 24, che
Lyotard cita e commenta in J.-F. Lyotard, Le différend, cit., pp. 133-135; tr. it.
pp. 118 ss. Per il confronto di Lyotard con Hegel, cfr. l’intera “Notizia Hegel”,
ivi, pp. 137-145; tr. it. pp. 121-128.
27 Cfr. KrV A 260-292 B 316-349; tr. it. pp. 485-525.
28 Cfr. ivi, A 162-166 B 202-339; tr. it. pp. 333-339, e ivi, A 528-532 B
556-560; tr. it. pp. 781-785.
29 Cfr. ivi, A 497-502 B 525-530; tr. it. pp. 741-747.
30 Ivi, A 497 B 525; tr. it. p. 741.
31 Ivi, A 162 B 201; tr. it. p. 331.
32 Ivi, A 538 B 566; tr. it. p. 793.
33 Ivi, A 539 ss. B 567 ss.; tr. it. p. 795 (modificata).
34 Ivi, A 550 B 578; tr. it. p. 809 (leggermente modificata).
35 Ibidem (tr. it. modificata).
36 Ibidem (tr. it. modificata).
37 Ivi, A 546 B 574; tr. it. p. 803. Segnalo per inciso che Lyotard
modifica qui lo stesso testo tedesco, che suona “als das sinnliche Zeichen
desselben” esplicitando il riferimento del “desselben” alla “transzendentale
Ursache” di cui Kant parlava poco sopra.
38 Cfr. SF AA VII 77-94; tr. it. pp. 155-177.
39 Cfr. KU B 201 ss.; tr. it. pp. 154 ss.
40 Ivi, B 98; tr. it. p. 94.
41 Ivi, B 110; tr. it. p. 101 (modificata).
42 Cfr. ivi, B 111; tr. it. p. 101.
43 Cfr. ivi, B 110 ss.; tr. it. ibidem.
44 Il verbo utilizzato da Lyotard in questo caso è “arpenter”, il quale
significa a un tempo sia “misurare” (dei terreni, ad esempio), sia,
figurativamente, “percorrere su e giù” o “misurare a grandi passi”. Tra queste
ho preferito adottare l’ultima soluzione per conservare sia l’idea di una
misurazione, sia quella del percorrere.
45 Cfr. ivi, B 102 ss.; tr. it. pp. 96 ss. (modificata).
46 Ivi, B 103; tr. it. p. 97 (modificata).
47 Cfr. ivi, B LVIII; tr. it. p. 33.
48 Ivi, B 99; tr. it. p. 95.
49 Ivi, B 100; tr. it. ibidem (modificata).
50 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
51 Ivi, B 99; tr. it. ibidem.
52 Ibidem.
53 Ibidem.
54 Cfr. KrV A98-114; tr. it. pp. 1207-1227.
55 Di contro alle apparenze, lo “ibidem” nel testo non fa riferimento
all’Avvertenza preliminare della Critica della ragion pura, ma al brano della
terza Critica che Lyotard sta commentando: KU B 99; tr. it. p. 95. Garroni e
Hohenegger traducono questo termine con “toglie”, traduzione che mi sembra
troppo incline a declinazioni dialettiche, specie nel contesto del discorso di
Lyotard. A essa preferirei invece “sopprime” o, più ancora, “sospende”,
soluzione, quest’ultima, adottata non a caso da Chiodi nella traduzione della
famosa frase della Prefazione in B della prima Critica: “ich mußte also das
Wissen aufheben, um zum Glauben Platz zu bekommen” – “ho dunque dovuto
sospendere il sapere per far posto alla fede” (KrV B XXX; tr. it. Chiodi p. 52;
ma cfr. anche la nota apposta a questa frase da Chiodi). Questa soluzione mi
sembra appropriata anche per rimarcare il riferimento lyotardiano alla
Verweilung, alla pausa come temporalità costitutiva dell’estetico (cfr. supra,
Cap. I.1), tenendo sempre a mente però che, mentre nel bello questa
sospensione è quella del moltiplicarsi delle forme, quella che fa esplodere
esponenzialmente il tempo nella disseminazione delle sue forme e dei suoi
stati, nel sublime essa è invece la sospensione della stessa sintesi della
successione temporale. Il fatto che Lyotard veda in esso “la destruction” del
tempo non mi sembra poi contraddire la sospensione: perché il tempo
effettivamente viene meno, ed è quindi distrutto; ma, come Lyotard stesso ha
già detto (cfr. supra, Cap. II.4), la distruzione avviene nell’istante e per un
istante. La sintesi “poi” riprende. Trattenuta, “inibita”, essa si sfoga subito nel
correre del tempo stesso.
56 KU B 99; tr. it. p. 95.
57 Ibidem ss.; tr. it. ibidem.
58 KrV A 31 B 47; tr. it. p. 131.
59 Ivi, A 23 B 38; tr. it. p. 119 (modificata).
60 Ivi, A 34 B 50; tr. it. p. 135.
61 Ivi, A 33 B 49; tr. it. ibidem.
62 Cfr. ivi, B 129-169; tr. it. pp. 239-291.
63 KU B 100; tr. it. p. 95.
64 Ivi, B 145; tr. it. p. 123.
65 Ibidem (tr. modificata da Lyotard stesso e da noi per seguirlo).
66 Ivi, B 100; tr. it. p. 95 (modificata).
67 Cfr. KrV A 551-555 B 579-583; tr. it. pp. 809-815.
VI.
ALCUNI SEGNI DELL’ETEROGENEITÀ

1. La resistenza

Che l’estrema dissonanza delle potenze del pensiero che questo


prova nel sentimento sublime sia sentita allo stesso tempo come la
sua suprema consonanza con se stesso, ciò è senza dubbio il tratto
più difficile da decifrare, il più sottile di questo sentimento. Si
esaminerà più avanti il modo in cui il testo dell’Analitica, e persino
delle Analitiche (del bello e del sublime), “deduce” questa
consonanza a partire da un principio soprasensibile. Proviamo
innanzitutto a prendere le misure del paradosso sublime
esaminando i termini, alcuni termini che sono connessi a esso.
“Resistenza”, “presentazione negativa”, “entusiasmo”, “semplicità”:
sono questi i termini che scandiscono la Nota generale con cui si
conclude l’Esposizione dei giudizi estetici riflettenti (104-112; 113-
125)1.
Il concetto critico di “resistenza, Widerstand” (105; 114)2
caratterizza precisamente il rapporto del sentimento sublime con
l’“interesse dei sensi, das Interesse der Sinne” (ibidem)3.
Quest’ultima nozione rinvia alla discussione della natura specifica
della soddisfazione estetica condotta nel primo “Momento”
dell’Analitica del bello, sotto la categoria di qualità. Il gusto ha per
qualità il piacere. Questo piacere è distinto da quello procurato dalla
soddisfazione di un’inclinazione, e diverso anche dal piacere che
può provocare un’azione buona, e cioè la “soddisfazione” della legge
morale. Il criterio di questa doppia differenza è unico: l’interesse.
“Ogni interesse presuppone un bisogno o ne produce uno; e, in
quanto principio di determinazione dell’approvazione, non lascia più
esser libero il giudizio sull’oggetto” (55; 47)4. “Presuppone o
produce” un bisogno. L’“inclinazione, la Neigung” (ibidem)5, è una
soddisfazione determinata dal bisogno dei sensi. Gli animali la
provano come gli uomini. La legge della ragione, che è propria degli
uomini, determina un interesse per gli oggetti in cui giudica di potersi
realizzare. L’interesse non è dunque situato allo stesso modo quanto
alla determinazione, a seconda che appartenga ai sensi o alla
ragione. L’interesse dei sensi presuppone il bisogno, l’inclinazione è
la soddisfazione di quest’ultimo. L’interesse della ragion pratica, e
cioè ciò che determina quest’ultima a esercitare la potenza della sua
causalità assoluta (KPV, 129; 138)6, “produce un interesse […] che
chiamiamo interesse morale” (KPV, 84; 94)7, un interesse che
consiste nell’osservanza della legge. Ma in entrambi i casi la
soddisfazione è legata a una determinazione empirica o
trascendentale (o anche trascendente).
Al contrario, il “favore, la Gunst” (55; 47)8, che è la soddisfazione
estetica dovuta al bello, non è determinata da alcun interesse per
l’oggetto che ne è occasione, e non ne produce alcuno. Questa
soddisfazione è dunque la sola “libera” (ibidem)9, libera da ogni
determinazione. Il bello è “ciò che piace semplicemente, was […]
bloß gefällt” (54; 47)10. Semplicità stupefacente: il piacere del bello
accade, capita al pensiero senza che questo ne provi il bisogno.
Nulla lo motiva. Il bello “piace nella semplice valutazione, in der
bloßen Beurteilung, (senza essere mediato da una sensazione del
senso conforme a un concetto dell’intelletto)” (104-105; 114)11, viene
ricordato nella Nota generale che chiude l’esposizione dei giudizi
estetici. “Also nicht vermittelst, senza l’intromissione” di una
sensazione che sarebbe sussunta sotto un concetto. La mediazione
che manca è chiaramente indicata: è quella dello schema. La
“Empfindung des Sinnes, la sensazione del senso” è la sensazione
in quanto si rapporta all’oggetto, quella che è esaminata nella prima
Critica, e non la sensazione in quanto provata dal pensiero,
riflessivamente. La valutazione da parte del gusto è libera da ogni
condizione cognitiva, da quella della sensibilità come da quella
dell’intelletto (della sensibilità sensoriale, si intende).
Riassumendo, il bello piace in assenza di un interesse sensibile.
Quanto al sublime, anch’esso “piace senza mediazione, unmittelbar
gefällt”, ma piace “per la propria resistenza all’interesse dei sensi,
durch seinen Widerstand gegen das Interesse der Sinne” (105;
114)12. “Unmittelbar, senza intromissione”, ma “durch, attraverso,
mediante” una resistenza. Incontriamo questo tratto di resistenza (il
wider), di un “contro” (il gegen), sottolineato di nuovo qualche riga
più avanti: il bello “ci prepara ad amare, lieben, senza interesse
qualcosa, la natura stessa”, il sublime “a stimarlo altamente,
hochzuschätzen, perfino contro il nostro interesse (sensibile)”
(ibidem)13. Il “contro”, il “wider” è una figura essenziale del
sentimento sublime come l’“attraverso”, il “durch”. Entrambi
segnalano una resistenza. Il sublime non ignora l’interesse sensibile,
lo contraria. Questa contrarietà intrinseca si esprime nel dissidio
affettuale (mi si permetta questo termine)14 da cui il sentimento
sublime è costituito: paura, esaltazione. Dissidio che, a sua volta, è
lo stato soggettivo del pensiero in preda al dissidio delle sue
potenze, di presentare e di concepire.
Il termine “resistenza”, Widerstand, meriterebbe, legato a quello di
“dissidio”, Widerstreit (97; 103)15, un lungo approfondimento. Non è
vero che ogni resistenza presuppone o esprime un dissidio.
Nell’ordine politico, ad esempio, la resistenza di un partito contro un
altro può non essere motivata che da una lite riguardante la
legittimità o l’autorità del governo. All’inverso, non si può concepire
un dissidio che non si segnali per la resistenza di almeno una delle
parti in causa contro l’altra, forse anche per la loro resistenza
reciproca. La conciliazione, sicuramente auspicabile, in realtà non
cancella affatto il dissidio: lo sposta, mentre il suo segno, e cioè
proprio la resistenza, ricomparirà altrove. (Il modello di questo
spostamento è dato dalla resistenza dell’inconscio alla psicanalisi.)
Questa resistenza che caratterizza il sentimento sublime vale qui
come testimonianza di cos’è la sintesi dinamica da cui risulta.
Questa implica infatti l’incommensurabilità di una potenza del
pensiero con un’altra. Se si ammette tuttavia con Kant che la loro
dissonanza in quanto tale, e non la sua risoluzione, attesta una
finalità, una consonanza suprema del pensiero con se stesso,
bisogna concluderne allora che è essenziale al pensiero, quando si
spinge ai propri limiti (cosa che non può evitare di fare), di provare
riflessivamente la sua stessa eterogeneità. Il pensiero può una cosa
e il suo contrario, presentare un oggetto in modo finito e concepire
un oggetto come attualmente infinito. Può sentire questa duplice
potenza come un prenderci gusto [plaisir pris] alla forma e come
esaltazione dovuta all’Idea. E nel sublime può sentire la nullità di
questo piacere in confronto a questa esaltazione. È allora che esso
si sente [s’éprouve] nella verità della sua sfaldatura [clivage]. Il
sublime tiene tale verità in sospeso, al di sopra o nello scarto tra i
due modi di comprendere questa sfaldatura, che sono entrambi due
rifiuti: dell’empirismo ordinario, che ne trae la lezione di una
saggezza della disillusione; e dell’idealismo speculativo, a cui esso
serve da pretesto per autorizzare il delirio dell’assoluto. Di fatto, il
sentimento sublime, come abbiamo già suggerito (supra II.1), è lo
stato soggettivo che deve provare lo stesso pensiero critico nel suo
impeto verso i propri limiti (e dunque al di là di essi) e nella
resistenza a quest’impeto, o, inversamente, nella sua passione di
determinare e nella sua resistenza a questa passione. Si potrà
credere che si tratti di una nevrosi filosofica. Ma si tratta piuttosto di
una fedeltà al sentimento filosofico per eccellenza, la dura
melancolia, come Kant suggeriva nelle Osservazioni sul sentimento
del bello e del sublime16. L’assoluto non c’è mai, non è mai qui [là],
non è mai dato in una presentazione, ma è sempre “presente” come
appello a pensare al di là del “qui”17. Inafferrabile, ma inobliabile. Mai
restituito, mai abbandonato.
2. La presentazione negativa

È questo modo di “essere presente” dell’assoluto che forma il motivo


della “presentazione negativa” evocata dalla Nota generale (110 ss.;
122 ss.)18. Il motivo è esposto nel lessico dell’energetica (supra II.3).
Dal fatto che nel sentimento sublime i sensi sono contrariati e “non
vedono più nulla dinanzi a sé” (111; 122)19, non ne consegue che il
sentimento procurato dalla “presenza” impresentabile dell’assoluto
sia “smarrito, verlieren” (110; 122)20, che si riduca a una
“approvazione fredda e senza vita”, senza “impulso”, senza
“emozione” (111; 122)21. È proprio il contrario, “gerade umgekehrt”
(ibidem)22. Segue allora un’argomentazione che può sorprendere,
perché sembra annullare tutta l’economia contraddittoria del
sentimento sublime. Se non c’è da temere un abbassamento di
tensione dovuto all’allontanamento, e persino all’eclissi di ciò che
può esser presentato dall’immaginazione in considerazione dell’Idea
dell’assoluto, è perché l’immaginazione che si credeva bloccata ai
limiti della sua “misura prima” “si sente illimitata, fühlt sich […]
unbegrenzt” (110; 122)23, e ciò grazie all’eliminazione, allo
“sgombero, alla Wegschaffung” (ibidem)24 dei suoi confini. Al punto
tale che essa può scatenarsi, “sbrigliarsi, zügellos” (111; 123)25, e
trascinare il pensiero nella “demenza, il Wahnsinn” dell’entusiasmo
(ibidem)26.
Questa è una demenza provvisoria e remissibile, non la
“Schwärmerei” propriamente detta. In quest’ultima l’immaginazione
pretende di “presentare positivamente” l’assoluto27. Nell’impeto del
Wahnsinn, la presentazione si estende al di là della sua misura
fondamentale, ma resta negativa. Il punto è che l’obbligazione cui la
ragione sottopone l’immaginazione non solo lascia quest’ultima
terrificata, ma le dà il coraggio di forzare i suoi confini e di tentare
“una presentazione dell’infinito” (110; 122)28. Questo tentativo si
salda con una “presentazione semplicemente negativa” (ibidem)29.
Quale? Una tale presentazione non è né l’assenza di presentazione,
né la presentazione del niente. È negativa riguardo al sensibile, ma
allo stesso tempo è senz’altro “un modo di presentazione, eine […]
Darstellungsart” (ibidem)30. Ciò che specifica questo modo è il fatto
che esso è ritirato, in disparte, “abgezogene”, e che la presentazione
che fornisce è una “Absonderung”, una messa da parte e a margine,
una “ab-strazione” (ibidem)31. Il modo sfugge, si sottrae
(abgezogene) alla “misura prima” dell’immaginazione. E ciò che si
presenta secondo questo modo è separato da ciò che è
normalmente presente secondo questa misura; è isolato, ab-, in uno
statuto speciale, sonder. Vi è dunque in ciò, per l’immaginazione, un
modo di presentare che “ex-cede” la sua norma, o che piuttosto
opera una “se-cessione” rispetto a essa.
Il gioco delle facoltà nel giudizio sublime si dimostra così più
complesso di quanto si potesse pensare. Il fatto è, inoltre, che il loro
dissidio non può consistere nella semplice incomunicabilità delle loro
rispettive cause (in senso giuridico). Il dissidio del finito e dell’infinito
può essere pienamente provato nel pensiero soltanto se il pensiero
finito (quello della forma) si sottrae alla finalità che gli è propria per
provare a porsi alla misura di quella dell’altra parte. Senza questo
gesto non c’è dissidio. E, dato che non può andare a buon fine, di
esso rimarrà nell’ordine della presentazione solo un tratto, il tratto di
un ritrarsi [le trait d’un retrait], il segno di una “presenza” che non
sarà mai presentazione. La “presenza negativa” è il segno della
presenza dell’assoluto, e non è o non fa segno che al suo esser
sottratta alle forme del presentabile. L’assoluto resta dunque
impresentabile; al di sotto del suo concetto non può essere sussunto
nessun dato. Ma l’immaginazione può segnalarne la “presenza”, un
miraggio quasi demente, nel vuoto che scopre al di là della propria
capacità di “comprensione”. Ancora una volta, bisogna intendere
questo gesto riflessivamente. È soltanto attraverso la sua
sensazione che il pensiero è avvertito di questa “presenza”
eccettuata dalla presentazione.
Il dissidio non significa che due parti non si intendono. Esso
richiede che ognuna conosca l’idioma dell’altra (forma, Idea),
sebbene non possa soddisfare la sua domanda con i mezzi del
proprio idioma. È per questo che tutti i diversi sentimenti sublimi
appartengono, qualsiasi siano le loro particolarità, al genere
“valoroso, wackern”, coraggioso (109; 120)32. Lungi dal rinchiudersi
nel “buon diritto” della sua finalità e dal rinunciare al processo,
ognuna delle parti, o almeno una, accetta di subire in pieno il torto
che la pretesa dell’altra le fa subire, e si sforza di mostrare coi suoi
propri mezzi l’inconsistenza di questa pretesa per se stessa. La
“presentazione negativa” non è in questo senso che la dimostrazione
dell’inconsistenza della richiesta che l’assoluto sia presentato.
L’immaginazione suggerisce la presenza di ciò che non può
presentare escludendosi dai limiti della presentazione che le sono
propri. Si illimita, si scatena, ma sottraendosi alla sua finalità, e
dunque secondo questa finalità annientandosi. Ne consegue che la
suddetta “presenza” non è un oggetto dell’immaginazione: è soltanto
sentita soggettivamente dal pensiero, come questo gesto di
ritrazione.
Due brevi osservazioni, per chiudere questo punto. Innanzitutto, si
comprenderà quanto sia futile credere di rifiutare la nozione stessa
di dissidio mostrando che quest’ultimo presuppone la comunicabilità
delle cause presenti. Che le parti “s’intendano” l’un l’altra è
evidentemente necessario al loro dissidio. Ma ognuna non arriva a
far propria la legittimità della richiesta dell’altra. E poi, lo
sconvolgimento del pensiero delle forme da parte del pensiero
dell’assoluto esprime e consacra un mutamento maggiore nella
posta in gioco delle arti e delle letterature. Questo mutamento non
ha i tratti di una “rivoluzione”. È storicamente un movimento lento,
incerto, sempre minacciato di essere rimosso, per mezzo del quale il
pensiero presentante prova a sottrarsi alla technè delle belle forme.
Se ne possono seguire le trasformazioni in Occidente, almeno dopo
il Medioevo, passando per la disputa dei Vittorini e dei Bernardini,
per il motivo barocco che raddoppia e contrasta il classicismo
rinascente, per la Querelle degli Antichi e dei Moderni, per
l’appropriazione del Trattato di Longino e la discussione della figura
del sublime nel secolo XVIII, di cui l’Analitica kantiana è uno degli
elementi maggiori. Questo mutamento possibile nella finalità delle
arti e delle letterature prosegue attraverso il romanticismo e le
avanguardie fino ai nostri giorni. La sua posta in gioco può essere
formulata in modo semplice: è possibile, e come, testimoniare
l’assoluto con i mezzi di presentazione artistici e letterari, che sono
sempre sottomessi a delle forme? In ogni caso, il bello cessa di
essere il loro “oggetto”, o almeno il senso del termine subisce
un’effettiva sovversione.
3. L’entusiasmo

Un altro dei motivi maggiori della Nota generale che sto


commentando è l’entusiasmo. “Voglio soffermarmi un po’ su
quest’ultimo punto”, scrive Kant (108; 119)33. Il motivo è di grande
importanza, in effetti. Come ha mostrato la sua analisi dal punto di
vista dinamico, la soddisfazione “intellettuale” nel sentimento
sublime procede dal rapporto del pensiero con l’assoluto della
causalità libera che fonda la morale. Questa soddisfazione è però
“negativa dal punto di vista estetico”, “in contrasto con l’interesse”
della sensibilità (108; 118-119)34. Essa esige dunque dei “sacrifici,
Aufopferungen” (108; 118)35, una privazione o una “spoliazione,
Beraubung” (106, 108; 116, 118)36. Esamineremo tale questione più
avanti (infra VII.8). Se Kant vi si sofferma è per dissipare un errore
comune, per il quale si confonde l’entusiasmo con il rispetto dovuto
alla legge o a ciò che vale per essa, Dio, soprattutto (101; 109-
110)37. L’entusiasmo è però “l’Idea del bene accompagnata
dall’affetto, mit Affekt” (108 t.m.; 119)38. La presenza di questo
affetto è sufficiente a privare l’entusiasmo di ogni valore etico: “esso
non può servire in alcun modo a una soddisfazione della ragione”
(108-109; 119-120)39, e cioè all’effettuazione della causalità libera
attraverso l’osservazione della legge. “Ogni affetto è infatti cieco sia
nella scelta del suo fine, sia, se si trova che questo è dato anche
dalla ragione, nella sua maniera di compierlo” (108 t.m.; 119)40. La
legge della ragion pratica non deve compiersi che per ragione.
Nemmeno: “conformemente a ciò che la legge prescrive”, il che non
è possibile, dato che non prescrive niente che sia determinato e che
potrebbe essere determinante come oggetto per la volontà.
Semplicemente [tout court] si compie, facendosi essa stessa
direttamente movente della volontà. Questo è il rispetto, unico
sentimento morale puro (KPV, 76 ss.; 84 ss.)41. Questa purezza
esige trascendentalmente una volontà “santa” (KPV, 86; 96)42,
affrancata da ogni altro interesse che non sia quello che ha la legge
per la propria realizzazione. Non è questo il caso dell’entusiasmo.
Provocando l’estrema tensione di cui si è detto e che si inscrive
soggettivamente come terrore davanti alla perdita della
presentazione e come “slancio, Schwung” (111; 122)43 verso ciò che
eccede quest’ultima, e cioè verso la causalità assoluta, l’entusiasmo
mette il pensiero in rapporto con la legge in modo “fortemente,
mutig” (109; 120)44 affettuale.
Mentre sottolinea quanto l’entusiasmo contravviene al sentimento
morale, Kant è condotto a rivolgersi contro un altro tipo di
confusione. Prima di tutto, non bisogna pensare che sia il
“contenuto” affettuale, se così si può dire, a determinare la sublimità
di un sentimento. Ogni emozione, ogni “stato” del pensiero può
passare al sublime, la collera, la disperazione (ibidem)45, la tristezza
(112; 124)46, l’ammirazione (109; 120)47, e persino “la mancanza di
affetto, die Affektlosigkeit” o l’apatia, uno stato di disaffezione
(ibidem)48. Il sublime non si distingue per le sue qualità o le sue
sfumature affettuali, ma per la quantità di energia che vi si dispensa
in occasione dell’oggetto detto sublime. La disperazione “avvilita,
verzagte”, abbattuta, non è sublime; lo è soltanto la disperazione
“entrüstete, in rivolta”, indignata, l’energia del disperare (109; 120)49.
È l’energia che dà alla qualità affettuale singolare il suo valore
sublime, la sua “nobiltà” (ibidem)50. È nobile l’impassibilità, la
“Affektlosigkeit” che in una persona risulta dalla risoluzione
irremovibile di seguire in tutto “i suoi princìpi immutabili”; nobile una
maniera di scrivere, un contegno, un edificio in cui si tradisce questa
estrema fermezza nella “tenuta” quanto ai princìpi. Questi stati e
queste opere nobili provocano “l’ammirazione”, che è una
“meraviglia” che persiste dopo la sorpresa del nuovo (ibidem)51. La
quantità di energia si trascrive in quantità di tempo, come dicono le
parole “tenuta” e “persistenza”. Data questa caratterizzazione
secondo la sola tensione, si vede bene quanto il sublime venga
allontanato dal sentimento assolutamente neutro che è il rispetto.
A questa osservazione se ne aggiunge un’altra. Questa tensione
affettuale è necessaria al sublime, e tuttavia non è sufficiente. Ci
sono dei “moti impetuosi dell’animo, stürmische
Gemütsbewegungen” (110; 121)52 procurati dall’edificazione
religiosa, ad esempio, o dalla portata sociale di certe “idee”, che non
hanno niente di sublime se il pensiero non vi si sente
imperiosamente chiamato dall’Idea di assoluto. È necessario che la
“presenza” di questa sia sentita come più forte di ogni presentazione
possibile. Il “soprasensibile” (ibidem)53 deve segnalarsi come il fine
supremo del pensiero, segnalarsi per il segno che è lo “stato”
intrinsecamente contraddittorio di quest’ultimo. Il tumulto è sublime
solo se procede dalla resistenza, e dalla persistenza della resistenza
che l’Idea soprasensibile oppone alla resistenza del presentabile.
L’impetuosità delle folle politiche o sportive, ieri o oggi, non è
l’entusiasmo. “Altrimenti, sonst”, in mancanza di questa chiamata
ostinata, l’emozione impetuosa, il rapimento stesso che il pensiero
può provare davanti alla prodezza della performance sportiva o
politica, o dell’eloquenza religiosa “convengono solo alla Motion”, al
movimento ginnico, “che apprezziamo per i suoi effetti sulla salute”
(110; 121)54. Il “gioco degli affetti” vi scuote infatti energicamente.
Dopo di che godete di una “piacevole spossatezza”, che è il
ristabilimento delle forze vitali in voi, lo stesso effetto che “i voluttuosi
orientali” ottengono col massaggio, ma, all’occorrenza, con un
massaggio senza massaggiatore (ibidem)55. Manca a tutto questo
“la Denkungsart, il modo di pensare” (ibidem)56 che appartiene allo
strazio del pensiero con se stesso.
Concluderemo da quest’argomento che l’emozione sublime è
contraria all’igiene del pensiero? In merito alla salute del corpo, Kant
fa nel terzo Conflitto delle facoltà questa osservazione: che essa non
è mai determinabile nell’esperienza e che se ne ha solo un’Idea57.
Quanto al pensiero, la sua vera salute consiste nell’essere malata
dell’assoluto. Esso è in “buono stato” soltanto quando questo “stato”
gli segnala la sua stessa vocazione, pensare l’assoluto, ma nella
resistenza che oppone all’attualizzazione di quest’ultima la “misura
fondamentale” di ogni presentazione. Il sentimento della sua
destinazione e della sua delusione può arrivare fino alla “demenza”.
Ma questa demenza stessa è buona, perché è prima di tutto
remissibile, e soprattutto perché per un istante rende l’assoluto
“quasi intuibile, gleichsam anschaulich” (96; 102)58.
4. La semplicità

Un motivo merita ancora di essere esaminato, un motivo che la Nota


generale introduce in modo incidentale, sembra: il motivo della
“semplicità, Einfalt” (111; 123)59. Il termine tedesco non evoca
soltanto ciò che non è complesso, ma anche ciò che non è sottile: il
candore, e persino l’ingenuità. Esso è inserito qui, senza ragione
apparente, dopo il passaggio dedicato a distinguere la demenza e il
delirio. La semplicità, leggiamo tutto d’un tratto, “è per così dire,
gleichsam, lo stile della natura nel sublime” (ibidem)60. È una “finalità
senz’arte, kunstlose Zweckmäßigkeit”, e in quanto tale, in quanto
natura senz’arte, è anche lo stile “della moralità”.
Questa brusca osservazione fa eco alla disputa che ha occupato
e che in quella data occupa ancora l’Europa intellettuale, vale a dire
se il sublime sia lo “stile grande” nel senso della retorica antica, o
all’inverso l’assenza di ogni stile. Ciò che è in gioco in questa
controversia è, ancora una volta, il conflitto di un’estetica della
“presenza” con la poetica pagana della buona forma. Il Trattato di
Longino si mostrava esitante. Boileau, il suo traduttore, si orientava
sempre più verso la tesi della semplicità a mano a mano che
moltiplicava le sue Osservazioni su Longino61. Fénelon opta senza
esitare per la nudità. La frase della predicazione sarà tanto più
sublime quanto più si sarà spogliata dei preparativi, degli
abbellimenti, degli artifici, come se essa, attraverso la bocca del
predicatore, venisse direttamente dalla voce divina62. Tale è, in Kant,
la “finalità senz’arte” dello stile sublime: senza artificio.
Ma teniamo fermo che questo “stile” candido è quello della
moralità. Vi sarebbe dunque un’estetica della moralità, o almeno che
sfiora la moralità. Nel contesto, questa potrebbe essere soltanto
quella del sublime: “il bene intellettuale in se stesso conforme a
scopi (il bene morale) valutato esteticamente deve essere
rappresentato non tanto come bello, quanto piuttosto come sublime”
(108; 119)63. E cioè deve essere rappresentato come affettante il
pensiero in modo duplice, con il terrore e l’esaltazione. Vedremo che
non è questa l’ultima parola della critica sull’estetica della moralità
(infra IX.4). Teniamo fermo intanto che la tesi della semplicità
dichiara che questa dualità molto complessa delle sensazioni – che
per essere correttamente determinata esige niente meno che una
sintesi dinamica – è la semplicità stessa. Semplice per la sua
occasione, la magnitudine, la potenza, che può svegliare questo
sentimento complesso. Semplice la spontaneità di quest’ultimo.
Come è semplice anche la virtù. Niente di tutto questo ha bisogno di
preparativi, né tanto meno di intenzioni particolari, “unabsichtlich und
ohne Kunst, spogliato d’intenzione e d’artificio” (109; 120)64. Che è
ciò che noi chiamiamo “naturale”. La moralità stessa è nel pensiero
come una natura, “una seconda natura (soprasensibile)”. Il pensiero
ne conosce “le leggi”, e non ha alcuna “intuizione” della “facoltà
soprasensibile” in esso che le legittima (111; 123)65.
Questa semplicità non annuncia né la fine dell’arte, né l’inizio
dell’etica. Come stile, appartiene all’estetica. Ed è il segno che
l’assoluto fa nelle forme della natura e anche nei costumi umani,
nella “Sittlichkeit”. L’assoluto segna in tutta semplicità66. Dal lato
dell’arte, la formulazione della sua posta in gioco sotto questo segno
darà luogo a diverse “scuole” – suprematista, astrazionista,
minimalista, ecc. –, che sono altrettanti titoli ai quali l’assoluto può
segnalarsi semplicemente nella presentazione. Dal lato della
moralità, se la si considera per se stessa, essa non ha affatto uno
stile. Lo stile è una maniera della presentazione destinata ad
affettare il pensiero. Ma la legge morale affetta il pensiero senza
affettarlo e senza maniera, lo occupa direttamente, senza alcuna
presentazione, con la sua sola “presenza”, che è il rispetto. Il rispetto
è la “presentazione negativa” assoluta, nel senso, stavolta, che la
presentazione vi è intrinsecamente assente. È per questo che esso
è un sentimento così strano, che non può esser provocato da
nessun oggetto, anche smisurato o informe, e che sfugge ai valori
del piacere e del dispiacere. Ma esso è, per questa stessa ragione, il
modello assoluto del sentimento semplice che l’arte sublime può
(inutilmente) tentare di suscitare. Per il che sarebbe necessario che
quest’arte si facesse “ingenua” come lo è la natura nella sua
grandezza o nella sua forza “bruta”.

1 Cfr. KU B 113-128; tr. it. pp. 103-113.


2 Ivi, B 115; tr. it. p. 104 (modificata).
3 Ibidem.
4 Ivi, B 16; it. 46 (modificata).
5 Ibidem.
6 KpV A 216; tr. it. p. 245.
7 Ivi, A 142; tr. it. p. 175.
8 KU B 15; tr. it. p. 46.
9 Ibidem.
10 Ibidem; tr. it. p. 45 (leggermente modificata).
11 Ivi, B 114 ss.; tr. it. p. 104 (modificata, com’è modificata anche la
traduzione di Lyotard rispetto a quella di Philonenko). Le due citazioni che
seguono sono specificazioni di questa.
12 Ivi, B 115; tr. it. ibidem (leggermente modificata). Segnalo per inciso
che il testo di Lyotard riporta non “unmittelbar”, come l’edizione critica che ho
seguito, ma “unvermittelbar”.
13 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
14 Il termine francese utilizzato da Lyotard è “affectuel”, di cui l’affettuale
con cui ho scelto di tradurlo è il calco letterale. Si tratta di un “neologismo”
lyotardiano con il quale egli intende marcare non il carattere, come nel caso di
“affettivo”, ma lo stato, la condizione in cui si trova l’animo nella e come
affezione, a esprimere la quale servono i suffissi “-al” (in questo caso “-uel”) in
francese e “-ale” in italiano.
15 Cfr. ivi, B 99; tr. it. p. 94.
16 Cfr. BGSE AA II 219-222; tr. it. pp. 94-97.
17 La frase, in francese, suona: “l’absolu n’est jamais là, jamais donné
dans une présentation, mais il est toujours ‘présent’ comme appel à penser
au-delà du ‘là’”. Data la difficoltà evidente di tradurla compiutamente, ho
deciso per due soluzioni: intanto, per non riportare il gioco di parole tra au-delà
e là; e poi per tradurre due volte la prima parte. Oltre a significare l’effettiva
presenza, l’esser sottomano della cosa, l’être là è un implicito rinvio (come sua
traduzione) al Dasein (tedesco e heideggeriano). Il là è il Da, il luogo, il “ci”
dell’italiano “esserci” non come riflessivo, ma come orizzonte, come “qui”
dell’effettività. Tradurre un tale complesso semantico era però pressoché
impossibile. Per cui ho preferito, anche per il seguito della frase, rendere il là
con “qui” ed esplicitare alla prima occorrenza il senso del “ci”.
18 Cfr. ivi, B 123-128; tr. it. pp. 109-113.
19 Ivi, B 125; tr. it. p. 111.
20 Ivi, B 124; tr. it. p. 110.
21 Ivi, B 125; tr. it. p. 111 (modificata).
22 Ibidem.
23 Ivi, B 124; tr. it. p. 110.
24 Ibidem (modificata, sia la versione francese, sia la tr. it.; Garroni e
Hohenegger traducono con “rimozione”).
25 Ivi, B 126; tr. it. p. 111 (modificata).
26 Ibidem (tr. it. modificata).
27 Cfr. ivi, B 125 ss.; tr. it. ibidem.
28 Ivi, B 124; tr. it. p. 110 (leggermente modificata).
29 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
30 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
31 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
32 Ivi, B 122; tr. it. p. 109 (leggermente modificata).
33 Ivi, B 121; tr. it. p. 108.
34 Ivi, B 120; tr. it. p. 107 (leggermente modificata).
35 Ibidem.
36 Ivi, B 117, 120; tr. it. pp. 105, 107 (dove il termine è tradotto con
“privazione”).
37 Cfr. ivi, B 107-109; tr. it. pp. 99 ss.
38 Ivi, B 121; tr. it. p. 108 (leggermente modificata).
39 Ibidem (tr. it. modificata).
40 Ibidem (data la libertà della versione di Lyotard, ho preferito tradurre
direttamente quest’ultima).
41 Cfr. KpV A 130-144; tr. it. pp. 163-177.
42 Cfr. A 145 ss.; tr. it. p. 179.
43 KU B 125; tr. it. p. 111.
44 Ivi, B 122; tr. it. p. 109. Più che una citazione dal testo kantiano,
segnalo che si tratta in questo caso dell’applicazione all’entusiasmo, da parte
di Lyotard, della distinzione kantiana tra mutige e zärtliche Rührungen fatta nel
luogo citato.
45 Cfr. ibidem.
46 Cfr. ivi, B 127; tr. it. p. 112.
47 Cfr. ivi, B 122; tr. it. p. 109.
48 Ivi, B 121; tr. it. p. 108.
49 Ivi, B 122; tr. it. p. 109 (modificata).
50 Cfr. ibidem; tr. it. ibidem ss.
51 Per tutte le citazioni di questo passaggio, cfr. il brano corrispondente
ivi, B 121 ss.; tr. it. ibidem.
52 Ivi, B 123; tr. it. p. 109.
53 Ibidem; tr. it. p. 110.
54 Ibidem ss.; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
55 Ivi, B 124; tr. it. ibidem.
56 Ibidem.
57 Cfr. SF AA VII 100; tr. it. pp. 185 ss. Su questo brano, Lyotard si era
già soffermato in J.-F. Lyotard, Judicieux dans le différend, in Id. (a cura di), La
faculté de juger, Minuit, Paris 1985, pp. 195-236, in particolare pp. 195-209.
58 KU B 97; tr. it. p. 93 (modificata).
59 Ivi, B 126; tr. it. p. 111.
60 Ibidem. Anche i due termini seguenti (la traduzione del primo dei
quali è modificata) si riferiscono a questo luogo.
61 Cfr. N. Boileau, Traité du Sublime, Remarques, in Id., Œuvres
complètes, a cura di F. Escal, con introduzione di A. Adam, Gallimard, Paris
1966, pp. 403-440.
62 Cfr. F. Fénelon, Réflexions sur la grammaire, la rhétorique, la
poétique et l’histoire ou Mémoire sur les travaux de l’Académie française à m.
Dacier (Lettre à l’Académie), in Id., Œuvres, 2 voll., vol. II, a cura di J. Le Brun,
Gallimard, Paris 1997, pp. 1135-1237.
63 KU B 120; it. 107 ss. (leggermente modificata).
64 Ivi, B 122; tr. it. p. 109 (modificata).
65 Ivi, B 126; tr. it. p. 111.
66 Gioco di parole intraducibile tra il sostantivo “signe”, “segno”, e il
verbo “signer”, che propriamente significa “firmare”, al riflessivo “segnarsi”.
VII.
ESTETICA ED ETICA NEL BELLO E NEL SUBLIME

1. Le soddisfazioni

Uso, interesse, beneficio, sacrificio: il testo delle Critiche lavora le


sue poste in gioco, il vero, il bene, il bello, con degli operatori (quelli,
ma ce ne sono altri, ad esempio l’inclinazione, il movente) presi a
prestito dall’economia. Persino il Vermögen fa pensare ancora a un
potenziale finanziario o industriale. Il fatto è che c’è un’economia
delle facoltà. Lo abbiamo intravisto parlando dell’“animazione” (supra
II.3). Questa interviene sempre in due occasioni: quando bisogna
elaborare la loro cooperazione le une con le altre, e quando si tratta
di comprendere come “la facoltà [le facultaire]” in generale, che non
è altro che un potere, venga ad attualizzarsi nella realtà empirica.
Come il capitale delle potenze di pensiero si investa, si “realizzi” in
atto.
Collocando il chiarimento sull’interesse nel sentimento sublime,
tocchiamo un punto nevralgico dell’“organismo” o dell’organigramma
delle facoltà. L’analisi del bello permette di sperare nell’avvento di un
soggetto come unità delle facoltà, e in una legittimazione
dell’accordo degli oggetti reali con la destinazione autentica di
questo soggetto grazie all’Idea di natura. Meteora piombata in
un’opera consacrata a questo duplice progetto, l’Analitica del
sublime, nonostante sia solo una “semplice appendice” (86; 90;
supra II.1)1, sembra mettere fine a queste speranze. Ora,
quell’interesse che si può trovare nel sentimento sublime è
precisamente il detonatore di questa delusione.
Il sentimento del bello è un giudizio riflessivo, singolare che
pretende l’universalità, immediato e disinteressato. Dipende da una
sola facoltà dell’animo, quella del piacere e del dispiacere. Ha luogo
all’occasione di una forma. È su questo punto che si gioca la sua
sorte, di piacere in modo disinteressato. Se procedesse dal minimo
attaccamento alla materia del dato, al colore, al timbro, regredirebbe
nel “gradimento”, in questa specie di piacere che risulta da
un’“inclinazione” soddisfatta. L’oggetto avrebbe allora esercitato sullo
spirito un’“attrazione” (65-68; 62-66)2 per la sua esistenza qui e
adesso.
L’attrazione è un caso dell’interesse, il caso empirico,
“patologico”. La massima della volontà, si potrebbe dire la finalità del
desiderio, è comandata in esso dal “godimento, Genießen” (52; 43)3
dell’oggetto. Il pensiero prova un interesse per l’esistenza di
quest’ultimo (50-52; 41-43)4. Per un oggetto empirico, un interesse
schiavo, e un piacere della dipendenza.
Ci si può aspettare che per emancipare il piacere estetico dal
godimento dell’oggetto sia sufficiente distinguere gusto puro e gusto
impuro. Distinguere dal “Sinnen-Geschmack”, il gusto dei sensi, un
“Reflexions-Geschmack”, un gusto della riflessione (58; 52)5. La
riflessione in generale, soprattutto in questo “gesto” esemplare che è
il giudizio immediato sul bello, il sentimento, esclude a quanto
sembra ogni interesse definito da una sottomissione del volere a un
oggetto determinato, giacché la riflessione in generale consiste nel
giudicare senza determinazione del criterio, senza regola categoriale
di giudizio, dunque senza poter qui anticipare in alcun modo
l’oggetto, o l’unico oggetto, che potrebbe procurare un piacere.
Tuttavia, questa distinzione dei gusti secondo le facoltà
conoscitive (il giudizio determinante appartiene all’intelletto, il
giudizio riflettente alla facoltà di giudizio) ne nasconde un’altra
secondo le “facoltà dell’animo” (42; 36)6 e in base al fatto che esse
siano pure o applicate empiricamente. Kant oppone tre tipi di
soddisfazione (in senso lato), tre tipi di rapporto al sentimento di
piacere e dispiacere. Un oggetto può “soddisfare, vergnügen” in
senso proprio, può semplicemente “piacere, gefallen”, può essere
“apprezzato, stimato, geschätzt, gebilligt werden” (54; 46)7. L’oggetto
si chiamerà allora, rispettivamente, gradevole, bello o bene. Dal lato
del pensiero, il movente corrispondente a questo oggetto è,
rispettivamente, l’inclinazione, il favore o il rispetto. Solo il favore,
accordato dunque al bello, è “un compiacimento disinteressato e
libero”, scrive Kant, “l’unico compiacimento libero” (55; 47)8. Il gusto
dei sensi presuppone l’inclinazione, vuole la soddisfazione in senso
stretto, si interessa al gradevole. Il gusto di riflessione presuppone il
favore. Il “piacere” (Gefallen) gli capita. E il bello è l’“oggetto” che in
tal modo gli accade. Il tedesco Gefallen indica abbastanza bene
quanto il bello gli cada addosso, gli cada dalle nuvole, sia persino
inatteso. Non si è a esso né pronti né preparati [paré ni préparé]. Il
francese ha per dire questa ingenuità nella soddisfazione (in
generale) l’espressione: “una felicità [un bonheur]” (che non è affatto
la felicità [le bonheur])9 (supra II.3). Il disinteresse è una condizione
per “avere delle felicità”. Ma non ne è una garanzia. Il “genio” è
questa “felicità” nel “rapporto” tra le potenze conoscitive, “besteht
[…] in dem glücklichen Verhältnisse” (146; 172)10; non si insegna né
si apprende. Ora, il genio sta alla creazione delle forme come il
gusto sta alla loro valutazione.
Due osservazioni in merito a questa prima distinzione. Intanto, nel
fatto, e cioè quando il giudizio estetico si applica empiricamente, può
accadere che “quell’oggetto che è già piaciuto per sé e senza
riguardo a un qualsiasi interesse” susciti ormai un interesse per la
sua esistenza, per l’esistenza di qualcosa (129; 147-148)11. È in tal
modo che l’inclinazione a vivere in società può venire a dare il
cambio al puro piacere estetico: la socievolezza trova il modo di
realizzarsi attraverso il gusto nel fatto che esso comporta l’esigenza
di essere condiviso da tutti (129-130; 148-149)12. Bisogna dunque
separare quest’ultima esigenza, che è inscritta a priori nell’analisi
trascendentale del sentimento estetico, da ogni inclinazione empirica
a comunicare questo sentimento. Bisogna insomma ammettere che
la promessa di una condivisione universale del gusto, che è
connessa a esso analiticamente, non è dovuta ad alcun interesse
per una comunità determinabile (130-131; 149)13. Il “favore” puro
non può essere l’inclinazione, altrimenti il bello sarebbe il gradevole
e non ci sarebbe piacere estetico.
Questo argomento attiene alla distinzione del trascendentale
dall’empirico. Ma si richiama anche, ed è la seconda osservazione,
alla differenza tra le “facoltà dell’animo”. La soddisfazione in senso
stretto appaga un’inclinazione. Essa dipende dall’economia che è
propria del desiderio, e implica che ci fosse una mancanza e l’attesa
della sua soppressione, una sazietà, l’“abbastanza”, il genug, che si
sente nella Vergnügung. Il gusto non ha però aspettato niente per
avere luogo. Se obbedisse a una finalità, non si potrebbe – e voglio
dire: persino l’analisi trascendentale non potrebbe – produrre il
concetto determinato del suo fine, dell’oggetto che potrebbe riuscire
a saziarla. Il gusto non è determinato. Ciò non significa che è infinito.
Ma che la soddisfazione in cui esso consiste è indipendente da ogni
disposizione. Che non c’è alcun desiderio della bellezza. C’è o l’uno
o l’altro: o il desiderio o la bellezza. E cioè: o la facoltà di desiderare,
o la facoltà di piacere e dispiacere. E questa riconoscenza o questa
grazia, questa “Gunst” che non viene ricercata non è una cosa facile
da pensare per noi, oggi, e forse per noi Occidentali, ossessionati
come siamo dalla passione di volere. Un piacere ha “innanzitutto”
luogo, in modo tale da non aver appagato niente e non poter niente
deludere. È irrelativo. Un movente, il “favore”, che nient’altro muove.
Torno alle tre soddisfazioni. La terza, di “apprezzamento”, di
“stima”, ha per movente il rispetto e per oggetto il bene. I rapporti
dell’estetica con l’etica si giocano già nella situazione che Kant
assegna al piacere di stima rispetto alla felicità del gusto. E per ciò si
determina già, con questa localizzazione, il punto d’inserimento del
sublime nella sentimentalità trascendentale. Almeno quanto alla
costrizione che impone, questo oggetto, il bene, viene paragonato a
quello di un bisogno empirico. Solo il favore procura una
“soddisfazione libera”. Come si è visto, il rispetto è in se stesso
un’affezione libera. Ma la legge, dal canto suo e per così dire a cose
fatte, per ciò che essa prescrive, si tratti anche di una forma delle
azioni da compiere – la legge impone alla volontà degli interessi per
certi oggetti. Dato che qui ci troviamo nel campo pratico, nella legge
dell’“agire”, questi oggetti sono delle azioni, o, piuttosto, poiché la
legge è formale, delle massime di azioni. E delle massime che a
causa della prescrizione diventano potentemente interessanti. “Dove
parla la legge morale, là non c’è più, oggettivamente, alcuna libera
scelta riguardo a ciò che deve esser fatto” (55; 47)14. Ritorno della
costrizione oggettuale – anche se soggettivamente ed
empiricamente –, le “buone massime”, e cioè gli oggetti buoni,
rimangono da determinare secondo il caso.
Ritorno della costrizione perché ritorno alla facoltà di desiderare.
La “stima” è sottoposta al tal riguardo alla stessa posta in gioco della
‘sazietà, la Vergnügung’ che è la posta in gioco propria della facoltà
di desiderare: raggiungere ‘ciò che è buono’ (52; 43-44)15. In ciò che
è ragionevole giudicare buono si distingue certo il “wozu gut” dall’“an
sich gut”, il “buono-a…” e il “buono in sé”, ma l’uno e l’altro
presuppongono il “concetto di un fine”16. Dobbiamo ancora
distinguere dall’utile (il “buono a…”) il gradevole, a cui la ragione non
prende parte (KPV, 59-65; 68-74)17. Resta il fatto che, per quanto
siano diversi rispetto alla ragione, in questi due estremi della
soddisfazione – il gradevole e il bene puro e semplice, passando per
l’utile – si riconosce un tratto comune che li distingue tutti dal piacere
estetico: l’interesse, “un interesse relativo al loro oggetto” (53; 46)18.
Anche il bene morale puro differisce dagli altri soltanto per la qualità
dell’interesse che suscita: fa appello all’“interesse più alto” (54;
46)19. E il motivo di questa somiglianza è che in tutti, al contrario del
piacere estetico, si tratta della volontà. Giacché c’è interesse lì dove
c’è volontà: “sono la stessa cosa volere qualcosa e provare
compiacimento per la sua esistenza, e cioè avere per essa un
interesse” (ibidem)20.
2. Il bello, simbolo del bene

La disgiunzione dell’estetica dall’etica sembra qui senza appello.


Essa obbedisce all’eterogeneità tra le due “facoltà dell’animo”
rispettivamente in gioco, il sentimento di piacere e dispiacere e la
facoltà di desiderare. Nella terza Critica si trattava tuttavia di stabilire
un ponte tra la potenza di conoscere e la potenza di volere, e il
sentimento in questione, il sentimento estetico, doveva servire da
pilone centrale per lanciare un ponte a due archi tra queste due
potenze. Ed ecco che il primo arco, quello che doveva aprire il
transito dalla volontà al sentimento, verrebbe a mancare. Ciò che
interdice di edificarlo è l’interesse. Allo stesso tempo dovrebbe
essere assolutamente delusa la speranza di unificare il pensiero in
un “soggetto”, di unificare le sue diverse potenze. Ci sarebbe
sempre un dissidio tra “gustare” e volere. E dunque non uno ma due
soggetti, eteronomi: quello che non smette mai di nascere a sé (infra
VII.7), senza nemmeno esservi interessato, senza volerlo, nel puro
piacere del bello; e quello che non smettere di essere tenuto ad
agire nell’interesse della realizzazione della legge.
Questo divorzio non si pronuncia senza discussioni. Il giudice
critico moltiplica le procedure di conciliazione. Soprattutto nei §§ 42
e 59, che è convenzione leggere come se esponessero la “tesi”
kantiana sul problema. Il sentimento del bello racchiuderebbe
comunque un interesse, un “interesse intellettuale” (§ 42: 131;
149)21 da intendersi qui come non empirico. Un interesse a
realizzare precisamente ciò che la legge morale prescrive, interesse
“intellettuale” perché sarebbe collegato all’“oggetto” che la ragion
pratica prescrive alla volontà di realizzare, il bene (131-133; 151-
153)22. E nell’altro paragrafo questa tesi verrebbe riaffermata e
precisata, e l’arco mancante al ponte potrebbe essere riedificato
grazie a quello specifico pontaggio, di grande impiego nella strategia
critica poiché permette di saltare gli “abissi” spalancati
dall’eteronomia delle facoltà – quel pontaggio chiamato “ipotiposi”,
“subjecto ad aspectum”, una sottomissione alla vista, l’operazione di
collocare comunque in vista qualcosa che corrisponde
(analogicamente) a un oggetto invisibile (§ 59: 173 ss.; 211 ss.)23. È
il caso dell’oggetto di un’Idea della ragione, per se stesso
impresentabile nell’intuizione, ma del quale si può presentare un
analogo intuitivo che ne è allora “simbolo”. La bellezza potrebbe
essere in tal modo “il simbolo del bene morale” (175; 213)24.
Più di un pensatore si è infilato per il passaggio così aperto,
tormentato dall’ansia di concludere per qualsiasi motivo dal bello al
bene, ed è riuscito in effetti a varcarlo (a dispetto degli avvertimenti
moltiplicati da Kant) per reimpiantare la testa di ponte della
metafisica sul suolo critico; per riaffermare l’argomento arcaico,
arcaico per il pensiero occidentale, secondo il quale è giusta [bonne]
la conseguenza dal bello al bene, e a ben sentire si farà bene.
Ancora di più: facendo sentire il bello, si farà fare il bene. Foggiando
i dati secondo il bello, con gusto si moralizzerà l’ethos individuale o
quello comunitario, il politikon25. Si riapre il cammino, perso per un
istante, verso una “educazione estetica…”26. Senza tenere in alcun
conto la riserva esplicita che Kant non smette di opporre a un uso
conclusivo dell’analogia. Quando scrive, ad esempio: “di due cose
eterogenee si può, sì, pensare, proprio nel punto della loro
eterogeneità, a una di esse secondo un’analogia con l’altra; ma da
ciò in cui sono eterogenee non si può inferire da una cosa all’altra
secondo analogia” (268; 337-338)27. Si può insomma sostenere che
“come il bello, così anche il bene”, ma non che “se il bello, allora il
bene” (né l’inverso). Un’etica e una politica estetiche si trovano per
questa riserva a priori esautorate. Sono esattamente ciò che Kant
chiama un’“illusione”, un’“apparenza” trascendentale.
Aggiungerei che non si deve confondere all’inverso l’aspirazione,
la chiamata da cui il pensiero è affetto, il debito che questo accetta di
contrarre quando si impegna nella realizzazione dell’opera bella, in
ciò che noi chiamiamo scrittura, nel senso letterario e artistico,
mantenuta almeno nell’esigenza del bello, – non si deve confondere
quest’obbedienza con l’ascolto della legge morale, con
l’obbligazione sentita di agire secondo il principio di
universalizzazione che questa legge comporta in quanto ragione
prescrittiva o unica prescrizione razionale (supra V.5). A fare
direttamente dell’opera un testamento della legge, si occulterebbe la
differenza estetica, si farebbe calare l’oscurità su un territorio, quello
delle forme belle, e su una posta in gioco, il piacere che esse
procurano, che devono essere preservati da ogni ingerenza.
“Scrivere”, in questo senso, fare del bello con le parole non è una
maniera di assolversi dalla legge, che sarebbe poi senza speranza.
E, per quanto considerata come una “presentazione negativa” (infra
VI.2), nemmeno una scrittura “sublime” varrebbe come azione. Per
dirlo altrimenti, “l’antinomia della ragione […] per il sentimento di
piacere e dispiacere” non deve essere confusa con “l’antinomia della
ragione […] per la facoltà di desiderare” (168; 204)28. L’“uso estetico
della facoltà di giudizio” non è l’“uso pratico della ragione, in se
stessa legislatrice” (ibidem)29.
Il principio dell’eterogeneità delle facoltà è sufficiente a interdire la
confusione del bello con il bene. Esso dissipa anche l’illusione che
subordina il sentimento di piacere e dispiacere alla facoltà di
conoscere, e che ammette “che il giudizio di gusto dissimula un
giudizio della ragione sulla perfezione di una cosa”30, la differenza
tra questi due giudizi non essendo più, allora, che questione di
“distinzione” (70; 68)31: il gusto sarebbe la “concezione confusa,
verworrener” di un oggetto la cui perfezione sarebbe concepibile da
principio “con distinzione, deutlicher Begriff” (ibidem)32. Tesi
leibniziana che tutta la terza Critica contesta, seguendo la strategia
generale di un’autonomizzazione dello spazio-tempo rispetto
all’intelletto – e anche della riflessione rispetto alla determinazione –
già messa in opera nella prima Critica (supra I.6).
E per tornare brevemente alla prima confusione, quella del bene
con il bello, la sua dissipazione da parte della critica dovrebbe
senz’altro scoraggiare anche qualsiasi “filosofia della volontà”, a
cominciare dalla “volontà di potenza”33. Che riduce l’etica e la
politica a dei “valori”, e si autorizza così a trattarli al pari di “forme”.
L’“affermazione” viene intesa in Nietzsche come formazione,
creazione artistica. Il bene e, in via accessoria, il vero si sostengono
soltanto sulla loro “bellezza”. Espressione estrema dell’ossessione
per l’atto di foggiatura, dopo la critica autorizzata non più di quella
per l’armonia prestabilita. È sempre un forzare l’unità dell’essere.
Ritorniamo al nostro ponte. Il ponteggio analogico è lontano
dall’avere l’assetto di un ponte vero e proprio. Abbiamo appena
evocato i pericoli, alcuni dei pericoli che il pensiero non può evitare
di correre quando si impegna troppo in fretta in questo fragile
passaggio. Kant prova senz’altro a consolidarlo, poiché l’unificazione
che ha di mira, quella del sistema, ne ha gran bisogno (supra I.1).
Esamino ora la strategia di questa consolidazione. Vedremo così
qual è la sua portata quando si tratta di situare il sentimento sublime
rispetto all’etica.
3. L’analogia del bello con il bene argomentata logicamente

Due serie di argomenti di due diversi tipi. I primi fanno valere le


proprietà trascendentali comuni ai giudizi estetici e ai giudizi morali, i
tratti qua e là simili che autorizzano la loro analogia. Chiamerei
questi argomenti logici, perché si limitano a comparare i due giudizi
secondo ciò che la sola logica trascendentale consente. Gli altri
ricorrono al contrario all’Idea regolativa di una natura finalizzata sul
modello dell’arte. Questi utilizzano il “filo conduttore” che la
teleologia critica trae dalla tessitura concreta delle esistenze di cui il
mondo è fatto. Chiamiamoli teleologici, con la riserva che esige l’uso
di questo termine nell’opera critica, e soprattutto nella terza Critica.
In questo libro essi seguono, o per lo meno accompagnano,
l’elaborazione dell’Idea di natura, mentre i primi le sono estranei e,
per così dire, anteriori.
La distinzione di questi due tipi di argomentazione viene fatta nel
§ III dell’Introduzione della nostra Critica. La facoltà di giudizio, vi si
trova scritto, deve aprire un passaggio, uno Übergang tra il dominio
della natura e quello della libertà, “allo stesso titolo a cui, eben so
wohl […] als, rende possibile il passaggio dall’intelletto alla ragione
im logischen Gebrauch, nell’uso logico” (26; 15)34. Il primo
passaggio necessita di un principio teleologico, il secondo della
semplice estensione logica del concetto al di là dell’esperienza. Si
tratta in ogni caso di unificare il vero e il bene, e non, come per noi, il
bello e il bene, e cioè la facoltà di giudizio stessa con la ragion
pratica.
Logicamente, il bello e il bene hanno un’aria di famiglia: piacciono
immediatamente; senza o prima di ogni interesse; secondo un
rapporto libero delle facoltà di cui sono rispettivamente la posta in
gioco; sono giudicati, sotto il modo della necessità, come
universalmente condivisibili (175-176; 214-215)35. Queste
somiglianze un po’ forzate esigono in base alla dichiarazione di Kant
delle correzioni. E delle correzioni tali che la differenza del bene con
il bello si accentua di nuovo e maggiormente. È un concetto, quello
della legge, che ispira senza mediazione il sentimento morale; è una
forma immaginativa, inconcepibile, almeno per un istante, che è
occasione del gusto. (Si è certo “obbligati” prima di sapere a cosa lo
si è; resta il fatto che la legge che obbliga è concepibile.) È la
volontà che è libera nella moralità, nel senso in cui essa dipende
soltanto da una prescrizione di tipo razionale (il “tipo” della legalità)
(KPV, 70 ss.; 79 ss.)36; mentre nel gusto è l’immaginazione a esser
libera. Questa produce forme nuove, molto “al di là” dell’“accordo
con il concetto” che limita lo schema (146; 171)37, al punto da
“creare per così dire un’altra natura a partire dalla materia che le dà
la natura reale” (144; 168)38. Questa libertà incita o eccita l’intelletto
a rivaleggiare nella concezione con la creatività immaginativa. Da cui
un “gioco” esso stesso “libero” tra le due facoltà, una “vivificazione”,
una “Beförderung” (122; 137)39. La pretesa del gusto singolare alla
condivisione universale non si appoggia sull’autorità di alcun
concetto, mentre l’universalizzazione della massima è pretesa
analiticamente nella definizione stessa del concetto della legge. E
quanto all’interesse, che distinguo qui in posizione finale in questa
comparazione termine per termine, il bello non lo riguarda affatto,
“esso piace al di fuori di ogni interesse”, mentre “il bene morale è
necessariamente legato a un interesse” (175; 214)40.
L’opposizione non è tuttavia così netta come la presento, neppure
nell’argomentazione logica. Il bene è legato a un interesse, ma
questo interesse “non precede” il giudizio morale, “ne risulta”
(ibidem)41. Precisazione reiterata: il giudizio pratico non “si fonda” su
alcun interesse, “ma ne produce uno” (132; 152)42. Questo
capovolgimento della posizione dell’interesse è essenziale alla
critica della moralità. La legge non risulta dall’interesse della volontà
per il bene, lo comanda. Tale è “il paradosso del metodo”: “il
concetto del bene e del male non dev’essere determinato prima
della legge morale (alla quale, in apparenza, dovrebbe perfino
servire da fondamento), ma soltanto (come accade qui) dopo questa
legge e mediante essa” (KPV, 65; 74)43. Se la volontà, nella
moralità, considerasse il bene come proprio oggetto “prima” che
questo le sia prescritto, essa dipenderebbe da questo oggetto buono
allo stesso titolo a cui lo farebbe per un oggetto empirico,
desiderabile, gradevole o utile. Non ci sarebbe allora alcuna
differenza trascendentale tra il pathos e l’ethos puri. Soltanto una
differenza di oggetto. In entrambi i casi si tratterebbe di un
imperativo soggetto a condizione, a una condizione oggettuale, e
dunque “interessato”, ipotetico. Se vuoi questo (il bene o il
cioccolato), fai quest’altro.
Per sfuggire a questa conseguenza rovinosa che è l’“eteronomia”
(KPV, 66; 76)44, rovinosa per la differenza etica e che porta allo
scetticismo o al cinismo (alcuni amano il bene, altri il cioccolato), –
per sfuggire a questa conseguenza bisogna invertire l’ordine della
determinazione. La legge, per mezzo dell’obbligazione, afferra
“immediatamente” la volontà “senza riguardo per alcun oggetto”
(ibidem)45. Essa può dunque prescrivere alla volontà soltanto la
prescrizione stessa. Il suo dictum (il suo contenuto) è ridotto al
comandamento, senza oggetto. E per mezzo del suo modus (la
modalità di questa prescrizione) deve prescrivere necessariamente
la prescrizione. Essa è posta come ciò che non può non esser posto
[ne pouvant pas ne pas être posée]. E di conseguenza, dev’essere
la legge di ogni “soggetto” morale, di tutti i “tu”. È imposta
universalmente46.
Si dirà che lo stesso vale per il giudizio di gusto. È necessario che
tutti giudichino bello ciò che io giudico bello. “Il giudizio di gusto
pretende di ottenere l’adesione di tutti; e chi dichiara bello qualcosa
vuole che ognuno debba, solle, dare la sua approvazione all’oggetto
in questione e a sua volta dichiararlo bello” (77; 79)47. Kant
sottolinea l’analogia: “nei giudizi di gusto il sentimento è richiesto,
zugemutet, da ognuno quasi come un dovere, gleichsam als Pflicht”
(129; 147)48. L’analogia arriva persino ad assimilare una proprietà
importante dell’interesse estetico a quella dell’interesse morale:
l’interesse che il pensiero che giudica il bello ha per il suo oggetto è
“immediato, unmittelbares Interesse”, “del tutto simile a,
gleichmäßiges […], so wie” quello che ha per il suo oggetto quando
giudica il bene (133; 153)49.
L’analogia deve tuttavia fermarsi qui. Gli “interessi” in gioco nel
giudizio estetico e nel giudizio morale sono “ugualmente” immediati,
ma resta il fatto che il primo è “libero”, il secondo “fondato su leggi
oggettive” (ibidem)50. Si dirà che la legge morale non prescrive ciò
che è bene e lascia al contrario il giudizio libero (responsabile) di
decidere dell’oggetto che merita di essere stimato un bene. Questo è
vero, ed è ciò per cui l’interesse che ha per questo oggetto è in
effetti immediato, non determinato da un concetto del bene
preliminare. Ma questo stesso interesse immediato risulta dalla
“presenza” dell’Idea di causalità assoluta nel pensiero che vuole o
desidera. Questa “presenza” è il rispetto. È essa a determinare non
l’oggetto della moralità, ma la volontà stessa a realizzare la moralità.
È così che nell’etica l’interesse è “fondato”, soltanto fondato, su un
concetto della ragione, quello della libertà, che la legge trascrive
prescrivendo che questa libertà sia resa reale. Quest’Idea è
assolutamente universale, poiché il suo oggetto, la causalità prima, è
un assoluto. La legge può dunque specificare non ciò che deve
esser fatto per realizzarla, ma che, qualsiasi cosa si faccia, deve
esserlo “in modo che” ogni altra volontà voglia a sua volta farlo per
realizzare la libertà. La prescrizione di universalizzare la massima
secondo cui la volontà si dirige per decidere dell’oggetto che giudica
un bene (dunque dell’azione da compiere che stima buona) è così
inerente alla legge perché la legge è morale, e cioè perché è la
causalità assoluta in quanto si esercita sul e nel pensiero che vuole.
Se il bene è interessante, è perché la libertà deve esser
realizzata, ed è questo che la legge dice. Ma il bello è “interessante”
soltanto nella misura in cui il pensiero riflessivo non vi ha alcun
interesse. “Nessun interesse, né dei sensi, né della ragione
costringe all’assenso” (55; 47)51. L’esigenza del gusto di essere
condiviso da tutti sarebbe un “Sollen” identico a quello
dell’obbligazione morale soltanto se questa universalizzazione “in
sé, an sich, dovesse già comportare per noi da se stessa un
interesse, schon ein Interesse für uns bei sich führen müsse” (129;
147)52. Ma solo l’universalizzazione della massima morale ha per se
stessa e in se stessa questa capacità di comportare per il pensiero
un interesse. Abbiamo appena visto come e perché. Il punto è che
essa procede da un’Idea, e da quell’Idea della ragione che comporta
l’esigenza della sua realizzazione da parte della volontà. Una tale
potenza o, piuttosto, una tale necessità “non si è in diritto di inferirla,
schließen, dalla costituzione, aus der Beschaffenheit, di una facoltà
di giudizio che è meramente riflettente, bloß reflektierenden”
(ibidem)53. E cioè dalla costituzione di una potenza di pensare che
per giudicare il bello non si appoggia in alcun modo su un concetto
universale – e meno ancora su quel concetto di causalità assoluta
che contiene il comandamento che il suo oggetto sia realizzato. Di
una potenza di pensare che pensa dunque in modo totalmente altro
e non dispone della forza di obbligare “ciascuno, jedermann” né in
sé, né da sé, né per noi.
Se parentela vi è tra i due giudizi, diciamo che è alla lontana.
Tirata su come un ponteggio [échafaudé] su di un’analogia
improbabile. Sarebbe infatti necessario che “si passi”, dal bello al
bene. Ma ad attenersi alla stretta logica trascendentale, si passa
comunque molto male54. Assolutamente nessun interesse,
l’immediatezza sentimentale, nel gusto. Mentre nell’etica un
interesse, un interesse certo secondo, ma secondo perché si deduce
precisamente dalla concezione della legge, un interesse quanto mai
mediato, un’implicazione d’interesse. Nell’etica l’interesse risulta.
Nell’estetica il disinteresse inizia.
4. Il nerbo dell’argomentazione teleologica

La parentela del bello con il bene si attesta forse meglio con


l’argomentazione che ho chiamato teleologica? Il ragionamento è il
seguente:

1. Lo spirito non ha interesse per la legge. Ma la legge gli


comanda di operare bene, e lo interessa a degli “atti” in grado di
attualizzare il bene. (Quest’esigenza d’attualizzazione si esercita per
altro su tutte le facoltà, che, per se stesse, non sono altro che
possibilità, un qualcosa di “facoltativo”.)
2. Lo spirito non ha interesse per il bello. Ma che il bello
sopravvenga dà al giudizio riflessivo puro (disinteressato)
l’occasione di esercitarsi attualmente, di realizzarsi come sensazione
di piacere puro. Ciò che fornisce quest’occasione è in apparenza
l’arte che produce il bello. Ma a condizione che l’arte stessa non
solleciti, e dunque non obbedisca ad alcun interesse.
3. Il modello dell’attualizzazione disinteressata del bello è però
fornito “dalla natura”. Per quanto si sappia, essa non si aspetta alcun
guadagno dai paesaggi, dalle armonie che offre allo spirito. Non ha il
concetto del fine che ha di mira producendo il bello. L’arte è pura
soltanto se produce le opere come fa “la natura”, anch’essa
paradigma dell’arte pura.
4. “La natura”, artista e/o opera d’arte, procurando allo spirito
delle occasioni di piacere estetico puro (di gusto), attesta dunque
che un giudizio o un’attività disinteressati e soltanto possibili
possono attualizzarsi. Essa si mostra così favorevole all’esigenza di
attualizzazione del possibile in generale, della facoltà [du facultaire]
o del facoltativo. E in particolare all’esigenza di attualizzare quella
facoltà di agire in modo disinteressato che è la volontà razionale.
5. La ragion pratica trova dunque un interesse nel piacere
disinteressato che suscitano le bellezze “naturali” (131-133; 149-152
e KPV, 129-131; 138-140)55.
È questa la nervatura dell’argomentazione “teleologica” con cui il
pensiero critico sostiene l’affinità del bello con il bene. Si potrebbe
essere tentati di farle prendere la piega di una logica dialettica: un
interesse (etico) per il disinteresse (estetico). Ma questa dialettica
non sarebbe critica. La critica è tenuta a esporre la condizione di
questa pretesa “dialettica”, e questa condizione non è “concettuale”
nel senso hegeliano, è l’Idea meramente regolativa di una natura
finalizzata (come può esserlo un’arte) all’attualizzazione delle
potenze dello spirito. Ben lungi dall’autorizzare una logica della
negazione che omogeneizzerebbe a suo modo il sì e il no, in questo
caso l’interesse e il disinteresse, in un movimento di “rilevazione”
(supra V.2), secondo la critica quest’Idea deve all’inverso fondare la
sua legittimità (“dedursi” nel senso kantiano) (KRV, 100; 126)56. La
deduzione rivela l’esistenza di una terza facoltà, quella di giudicare
riflessivamente, che, pur essendo in gioco anche nella conoscenza e
nella morale, non dispone per questo di meno di un proprio “Boden”,
di un suo “territorio” proprio (26; 13)57, l’arte e la natura, nel quale si
esercita “puramente” e “in accordo con se stessa”58. Cosa che
complica evidentemente i processi dell’unificazione, sospesa con ciò
all’Idea “indimostrabile” (167; 201-202)59 di una teleologia artista
naturale, e costretta a includere una facoltà supplementare nella
sintesi delle prime due. È dunque nel linguaggio critico che bisogna
esaminare il gioco dell’interesse e del disinteresse che permette in
via di principio di apparentare e di appaiare (di “ponteggiare”) il
favore estetico con il rispetto etico. Esame tanto più “utile” in quanto
rivela il punto esatto in cui il sentimento sublime ha appena
disturbato questo gioco rompendo la fragile alleanza delle due
“soddisfazioni”. Le conseguenze che la localizzazione di questa
frattura può avere e sull’Idea della “natura” e sul progetto generale di
costituire lo spirito come un’unità soggettiva si traggono per così dire
da sole. Tratteremo qui soltanto delle prime. Quanto al soggetto, ci
limiteremo a indicarle.
5. Interesse di facoltà e primato del pratico

Dobbiamo ripartire innanzitutto dall’esigenza di attualizzazione della


facoltà. Una tale esigenza si estende a tutte le potenze, a tutte le
facoltà dello spirito. Queste sono soltanto delle possibilità. Come
diventano dunque atti dello spirito? Come accade che, dato o meno
il fenomeno, in tale o tal altra occasione (“al momento giusto”)
l’intelletto si eserciti, o che lo faccia piuttosto il gusto o la volontà?
Come si supera lo scarto tra posse ed esse? Per l’“interesse”,
precisamente.
Nella seconda Critica, Kant prova a stabilire il primato della
ragione pura pratica sulla ragion pura speculativa (KPV, 129 ss.; 138
ss.)60. Questo primato, spiega, non può essere intrinseco. Non si
può sostenere che l’uso pratico della ragione dà “una visione più
penetrante” (KPV, 131; 140)61 del suo uso teoretico. Più penetrante
in sé. Verrebbe da dire: una “migliore” presa ontologica.
Formulato criticamente, questo primato non è insomma né
metafisico, né tanto meno trascendentale. Le condizioni secondo cui
una potenza del pensiero può sono quelle che sono. Sarebbe
assurdo pretendere che alcune siano più “radicali” di altre. Di contro,
quando si tratta di attualizzare una qualsiasi di queste potenze, è
permesso e persino inevitabile chiedersi in quale occasione questa
“messa in esercizio” ha luogo e perché questa potenza e non
un’altra vi trova il proprio “uso”. Questo termine, “uso”, che ricorre
con interesse e movente per tutto il corso delle Critiche, merita di
essere esaminato. L’uso di una facoltà è come la trasformazione del
suo “valore” trascendentale in atti dello spirito, diciamo: come la sua
produzione e la sua consumazione. La facoltà è ciò che permette la
regola del gioco, l’uso la mossa che si gioca, per parlare come
Wittgenstein62. Questa trasformazione, questa realizzazione simile a
quella della moneta in beni è comandata da un interesse. L’interesse
è il “principio che contiene la condizione a cui soltanto questa
potenza [ognuna delle ‘potenze dello spirito’] è messa in esercizio”
(KPV, 129; 138)63. Esso non consiste nella “semplice concordanza
[della ragione] con se stessa” secondo ognuna delle sue facoltà
(cosa che stabilisce lo statuto delle sue “condizioni a priori”), ma
“soltanto [nella sua] estensione, la sua Erweiterung” (ibidem)64.
L’interesse dell’uso di una facoltà è un interesse quanto alla facoltà
stessa: facendone uso, il pensiero ne effettua il potenziale, per
quanto gli è possibile ne “realizza” il credito. E in tal modo esso
“estende, amplia” la portata della facoltà manifestandone il potere in
actu. La facoltà è come una banca di giudizi possibili, ed è suo
interesse che un imprenditore attinga alle risorse della banca per
farne uso.
Ma all’imprenditore è necessario un “movente”. Questo movente è
nell’esperienza il doppione dell’interesse di facoltà. Una specie di
incitamento a investire il potere di facoltà [le pouvoir facultaire]. È
necessario che all’interesse della banca a “realizzare” corrisponda
un interesse della realtà a intraprendere, un interesse del pensiero
empirico a imprimere il marchio di questa sua potenza
nell’esperienza. Quest’interesse non è a priori, dev’essere calcolato.
E si calcola perché, quando attualizza una delle sue potenze, il
pensiero empirico deve sempre assumersi un rischio, il rischio di una
perdita. Un interesse “non può mai essere attribuito a un essere
diverso da quello che è dotato di ragione, e significa un movente
della volontà in quanto è rappresentato dalla ragione” (KPV, 83;
93)65. C’è da fare un calcolo ragionevole perché l’attualizzazione di
una potenza del pensiero per il pensiero empirico non è esente da
rischi. Il rischio di un fallimento, o almeno di una perdita netta, di un
deficit. E se un saldo negativo può minacciare così l’attualizzazione
di un potenziale razionale, è perché degli ostacoli le si oppongono.

Questi tre concetti, quello di un movente, quello di un interesse e quello


di una massima [che sarebbe dunque, nella metafora, la strategia
dell’imprenditore] possono essere applicati soltanto a esseri finiti. Perché
presuppongono tutti una limitatezza della natura di un essere […], un
bisogno di essere spinti, angetrieben [ecco l’inclinazione a investire],
all’attività da un qualche movente, poiché un ostacolo interiore si oppone a
essa (KPV, 83-84; 93).66
Quando il pensiero è interessato dalla attualizzazione di una delle
sue facoltà, è interessato a essa, è allora il suo movente razionale, e
bisognerà che sacrifichi un qualche altro interesse, che, questo sì,
non è razionale, che è razionalmente impuro. È per questo che
l’interesse razionale si deve negoziare. L’imprenditore non è un
santo.
Nel passaggio che commento, Kant analizza il movente e
l’interesse della, per la e alla moralità razionale, il movente che incita
a fare il bene e l’interesse che questa incitazione (la massima) può
avere per il pensiero. L’ostacolo è facile da designare: ciò che dovrà
essere scartato nella e con l’attualizzazione della ragion pratica, nel
e con l’“uso” della legge morale, è il godimento-di-sé dell’io empirico,
la sua preferenza per se stesso, la sua arroganza. “La
rappresentazione della legge morale toglie all’amor-di-sé, der
Selbstliebe, la sua influenza e alla sua presunzione, dem
Eigendünkel, la sua illusione, den Wahn” (KPV, 79 t.m.; 89)67. Kant
sembra non avere abbastanza parole per dire ciò che il pensiero
deve “sacrificare” per realizzare la legge morale. Eppure, a mettere
l’accento sul calcolo dei sacrifici da fare in vista dell’attuazione del
bene prescritto dalla legge ci si ingannerebbe. Si confonderebbe il
rispetto con l’entusiasmo, l’etica con l’estetica sublime. Ed è questo
tutto il problema.
La ragion pratica è interessata alla propria attualizzazione non
soltanto come facoltà, allo stesso titolo delle altre, a cominciare
dall’intelletto. Essa lo è per giunta per il fatto di essere pratica, che è
come dire che essa comporta l’obbligazione della sua realizzazione
nella sua intrinseca condizione di possibilità, nella forma imperativa
della sua legge. “Agisci”, prescrive al pensiero pratico (alla volontà
empirica); e ciò non significa altro che: attualizzami. Ma per ottenere
questo effetto deve esserci in questa volontà un movente in grado di
oltrepassare quegli ostacoli interiori che sono i moventi prestabiliti, e
cioè l’attaccamento della volontà all’io empirico.
L’interesse della ragion pratica può essere inteso solo se essa
crea in quest’io un “interesse” che si è sbarazzato del suo oggetto
d’elezione, l’io stesso. Ma “sbarazzare” non implica soltanto
cambiare l’oggetto dell’interesse, riorientare sulla legge l’interesse
carpito dall’io: è trasformare la natura dell’interesse. Perché ciò che
la legge razionale esige è il suo interesse, e non quello dell’io.
Questo interesse comporta però dal lato empirico un movente
paradossale, un “disinteresse”. La legge non offre all’io un nuovo
oggetto d’investimento dall’appropriazione del quale potrebbe trarre
un guadagno. Essa stessa non può essere questo oggetto. Non
propone all’io alcun “contenuto” che gli permetterebbe di
sovradeterminare (ivi compreso per “sublimazione”, nel senso
freudiano)68 l’interesse della legge con quello dell’io. Non deve
autorizzare la minima equivocità nell’obbedienza che esige. L’io, in
quanto tale, non deve sperare dall’ascolto della legge alcun
vantaggio, in felicità, in orgoglio, ecc. Deve prestarsi alla legge
senza interesse soggettivo (empirico). Questa deve dunque produrre
in lui un movente disinteressato, senza “pathos”, senza calcolo. Ed è
questo l’interesse della facoltà razionale pratica: di doversi
attualizzare senza suscitare un interesse empirico per essa (KPV,
78-79; 88-89)69.
Nella prima Critica il movente e l’interesse per la potenza
teoretica della ragione sono circoscritti in modo meno chiaro, cosa
che qui lascio da parte (KRV, 358-365; 470-480)70. Ciò che è sicuro,
in ogni caso, è che questi sono diversi da quelli che “mettono in
esercizio” la ragion pratica. Ed è per questo che si pone un problema
quanto alla loro “Verbindung” (KPV, 129; 138)71, al loro
collegamento gli uni con gli altri. Secondo Kant, il problema non è
drammatico, nel senso per cui un interesse dovrebbe “cedere”
all’altro. Lo sarebbe se l’interesse teoretico e l’interesse pratico
fossero tra di loro “contradditori” (ibidem)72, il che non è necessario.
Si tratta soltanto di una questione di gerarchia o di “primato”: qual è
l’interesse “più elevato” tra quelli dei due compiti? Estendere la
conoscenza, o estendere la moralità?
Conosciamo la risposta: senza fare attenzione al funzionamento
interno e all’interesse della conoscenza, il primato nell’interesse
appartiene alla ragion pratica. Ma l’argomentazione di questa priorità
merita attenzione. Il motivo dell’eterogeneità del pratico non è
dovuto, o non soltanto, come si è abituati a dire, al fatto che solo
l’etico dà al pensiero, per mezzo dell’obbligazione, e cioè per mezzo
dell’intimazione della legge morale, un accesso necessario a quel
soprasensibile che è la libertà (l’assoluto della causalità), mentre la
conoscenza conduce al soprasensibile (all’assoluto del mondo)
soltanto per mezzo di una “massimizzazione” dei suoi concetti (KRV,
381-385; 504-510)73, che è inevitabile ma senza uso cognitivo: la
“prescrizione di avvicinarsi all’integralità delle condizioni più elevate,
Vorschrift, sich […] der Vollständigkeit derselben zu nähern” (KRV,
260 t.m.; 346)74 è ad ogni modo ciò che muta i concetti in Idee
indeterminabili con l’intuizione, “indimostrabili” (166; 201)75. – No, il
motivo è prima di tutto una tautologia. “Che, capovolgendo l’ordine,
la ragion pratica sia subordinata alla ragione speculativa è cosa che
non le si può chiedere in alcun modo, perché in definitiva ogni
interesse è pratico” (KPV, 131; 140)76.
Ogni interesse è pratico. Da un lato, l’interesse trascendentale
attesta una specie di “bisogno” di attualizzare la facoltà, una spinta
del possibile a realizzarsi che è puro prattein. Diciamo: una specie di
“voler esserci” di facoltà [de “vouloir être-là” facultaire] (che
meriterebbe un lungo esame). E dall’altro, dal lato empirico, questo
“volere” di facoltà può effettuarsi soltanto se trova il modo di farsi
intendere dal pensiero immerso nel mondo degli interessi empirici,
condizioni e attrazioni. È necessario che questo pensiero “presti
attenzione” (“Achtung”, rispetto), che abbia riguardo per la “spinta” di
facoltà (qualsiasi essa sia): che sia “movibile” da essa. Tale è
precisamente la condizione dell’attualizzazione della potenza di
facoltà considerata dal punto di vista di un essere razionale, pratico
e finito: che esso possa esser mosso da questa potenza.
È in tal modo che “persino l’interesse della ragione speculativa è
solo condizionato” (KPV, 131; 140)77. Questo non vuol dire che la
scienza passi così al servizio della moralità. Ma che ciò che
attualizza la conoscenza, che ciò che porta la ricerca scientifica a
compiere i suoi sforzi (in base alle regole che le sono proprie,
evidentemente, e non secondo la legge morale), che ciò che ne
estende il dominio è anch’esso condizionato innanzitutto da un
interesse trascendentale, da un “voler effettuare” il potenziale
dell’intelletto, condizionato da un “voler far uso”, da un’impazienza,
diremmo noi oggi, di performare la competenza cognitiva, di far
essere nel mondo il sapere sul mondo. E, nell’empirico, la
realizzazione della conoscenza esige l’altro “interesse”
corrispondente o rispondente all’interesse speculativo della ragione,
un “movente”, “il principio soggettivo di determinazione della volontà
di un essere” (KPV, 75; 84)78 che non è immediatamente
onnisciente (benevolente, quando si tratta di attualizzare la legge), la
cui spontaneità razionale teoretica (o pratica) è intralciata e
dev’essere “incitata”. Di un essere che ha costitutivamente a che
fare con l’ignoranza (o con la cattiveria). (E forse, trattandosi
dell’interesse della facoltà riflessiva, con la bassezza, col disgusto,
con l’insipido?)
Quando si tratta della moralità, l’intralcio che deve essere rimosso
è quello per cui le inclinazioni frenano la messa in esercizio della
volontà buona. Il volere empirico è sempre già investito e fissato da
delle “attrazioni”. Pre-occupato. Il movente pratico puramente
razionale può aver luogo soltanto accompagnato da un “dolore”
(KPV, 76; 85)79, da un lutto o da una rinuncia [deuil de]80 agli oggetti
di attaccamento, da un ritiro degli investimenti già fissati. Questo
lutto deve dunque affliggere l’“oggetto” per eccellenza che ostacola il
rispetto o il movente buono: “il sé, das Selbst” (KPV, 77; 87)81
(quello che, secondo Freud, rimane in seguito alla e riposa sulla
perdita degli oggetti dell’attaccamento). Questa faccia oscura82 del
rispetto è l’“umiliazione” della “presunzione”, dell’“arroganza” dell’io
empirico, del suo “sovrastimare” se stesso da se stesso (ibidem)83. Il
narcisismo non può che essere “abbattuto”, stroncato. L’io si sente
afferrato dall’obbligazione, affetto dal rispetto della legge e rivolto a
realizzarla solo in quanto sente se stesso spossessato [dessaisi] e
spezzata la sua dipendenza “patologica”. Dis-occupato. A questo
non arriva mai del tutto. Il lutto rimarrà una melancolia. Faccia scura,
finitudine. La volontà non è santa, il male è radicale. Ma questo è
soltanto il rovescio del rispetto, non la sua condizione.
Per la sua faccia visibile, il rispetto è “un movente” (KPV, 83;
93)84. È l’ascolto empirico della ragione pura pratica. È “la legge
stessa” ascoltata. Interessante perché “dal concetto di un movente
deriva quello di un interesse” (ibidem)85. Un interesse indipendente
dagli interessi empirici, “il mero interesse che si ha per
l’osservazione della legge” (ibidem)86. Questo interesse è senza
interesse, nel senso che non risulta da un calcolo del godimento. “Il
rispetto per la legge non è movente alla moralità, nicht Triebfeder zur
Sittlichkeit, ma la moralità stessa considerata soggettivamente come
movente, die Sittlichkeit selbst, subjektiv als Triebfeder betrachtet”
(KPV, 80; 89)87. Proprio come l’ascolto dell’ordine di fare il bene,
esso è l’intera condizione dell’etica. Realizzato o meno, l’ordine è
sentito [écouté] prima di essere compreso. È questo che dice il
tedesco Achtung. È così che la legge si fa movente secondo la sua
faccia visibile. Come un riguardo.
Achtung è piuttosto riguardo, un riguardo per qualcosa che non
c’è [qui n’est pas là], che non è un oggetto e che non dà luogo a un
intrigo passionale, né della passione di conoscere né della passione
di desiderare o d’amare. È a malapena un sentimento, che sarebbe
necessariamente “patologico”: è un “sentimento singolare,
sonderbare”, “di specie così particolare, so eigentümlicher Art”
(ibidem)88. La legge apre la radura [la clairière] della sua “presenza”
nella tessitura della serie del condizionato. Che essa sia
incondizionata, “categorica”: è questo che le dà la sua semplicità, la
sua leggerezza. La radura che essa apre non consiste in nulla, si
“segnala” soltanto nel fatto che, qualsiasi sia la circostanza, “bassa e
borghesemente comune”, persino, si deve aver riguardo per il
dovere (KPV, 81; 90)89. Il riguardo è un movente in riposo, uno stato
sentimentale a priori, un pathos a-patico. “L’effetto negativo sul
sentimento […] è esso stesso un sentimento” (KPV, 76; 85)90. È
questo il luogo per ricordare che l’apatia, la apatheia, la
Affektlosigkeit deve essere contata tra i sentimenti sublimi, con il
vantaggio, rispetto all’entusiasmo, “che ha dalla sua […] il
compiacimento della ragion pura” (109; 120)91, cosa che
quest’ultimo non può dire perché comporta troppo pathos. C’è tutta
una scala cromatica di sentimenti disinteressati, una gamma che va
dal favore estetico puro al puro riguardo etico. E i “toni” intermedi
sono tutti sublimi.
6. Un romanzo familiare del sublime

Abbiamo detto (supra VI.3) che non c’è un solo, ma più sentimenti
sublimi: tutta una famiglia, o piuttosto tutta una generazione. Ricamo
per un attimo il romanzo di questo genos. Nell’albero genealogico
cosiddetto delle “facoltà dell’animo”, la genitrice è una “sensazione”
(42; 36)92, uno stato della facoltà di piacere e dispiacere, come il
genitore. Ma il padre è contento, la madre infelice. Il figlio sublime
sarà sentimentalmente contrariato, contraddittorio: dolore e
soddisfazione. Il fatto è che nella genealogia delle facoltà dette
“conoscitive” (in senso lato, in quanto le potenze del pensiero si
rapportano ad oggetti) i genitori vengono da due famiglie estranee.
Lei è “facoltà di giudizio”, lui “ragione”. Lei è artista, lui moralista. Lei
“riflette”, lui “determina”. La legge morale (paterna) si determina, e
determina il pensiero ad agire. La ragione vuole dei figli buoni, esige
di generare delle massime morali giuste. Ma la madre,
l’immaginazione, riflettente, libera, sa soltanto dispiegare forme,
senza regole premesse e senza fine conosciuto, né conoscibile.
Nella sua relazione con l’intelletto, “prima” di incontrare la ragione,
poteva succedere che questa libertà di “forme” si trovasse
all’unisono con la potenza delle regole, e che nascesse da questo
incontro “una felicità” esemplare (supra VII.1). Ma in ogni caso non
un figlio. La bellezza non è il frutto di un contratto, è il fiore di un
amore, e passa come tutto ciò che non è stato concepito per
interesse.
Il sublime è il figlio dell’infelicità di un incontro, quello dell’Idea con
la forma. Infelice perché quest’Idea si dimostra così poco
concessiva, la legge (il padre) così autoritario, così incondizionato, il
riguardo che egli esige così esclusivo, che questo padre non ha
bisogno di ottenere un consenso da parte dell’immaginazione, fosse
anche per una deliziosa rivalità. Egli esige la propria “ritrazione”
(supra VI.1-2). Esclude [écarte] le forme, o le forme si escludono
[s’écartent], si squarciano, si dismisurano, alla sua presenza.
Feconda la vergine votata alle forme senza riguardo per il suo
favore. Esige riguardo soltanto per se stesso, per la legge e per la
sua realizzazione. Non ha alcun bisogno di una natura bella. Gli è
necessaria imperativamente un’immaginazione violata, esasperata,
esaurita. Questa morirà dando alla luce il sublime. Crederà di morire
(supra IV.3).
C’è dunque senz’altro, nel sublime, un’aria di rispetto che gli viene
dalla ragione, da suo padre. E tuttavia l’Erhabene non è la Erhebung
(KPV, 85; 94)93, la pura “elevazione, la Erhabenheit” che ispira la
legge (ivi, 91; 102)94. La violenza, il “coraggio” (109; 120)95 è
necessario al sublime. Esso si sradica, si toglie [s’enlève]. Mentre il
rispetto semplicemente sorge [se lève]96, si indirizza.
L’immaginazione dev’esser violentata perché è per il suo dolore, per
la mediazione della sua violenza che si ottiene la gioia di vedere, o
di quasi vedere, la legge. Il sublime “ci rende quasi intuibile,
gleichsam anschaulich, la superiorità della destinazione razionale
delle nostre facoltà conoscitive sulla massima capacità della
sensibilità” (96 t.m.; 102)97. E questo “piacere […] è possibile solo
attraverso la mediazione di un dispiacere” (98 t.m.; 105)98.
Il lutto comportato dal rispetto dovuto alla legge è soltanto la
faccia scura del rispetto, ma non il suo mezzo. Il Sé grida perché la
sua volontà non è santa. Ma non è necessario al rispetto che il Sé
gridi. È un fatto di finitudine. Il rispetto non si misura coi sacrifici. La
legge non vuole per te il male, per te non vuole nulla. Il sublime ha
bisogno della tua sofferenza, al contrario. Deve dispiacerti. È
“controfinale, zweckwidrig”, “inappropriato”, “e tuttavia, proprio per
questa ragione, viene valutato soltanto più sublime, dennoch nur um
desto erhabener zu sein geurteilt wird” (85 t.m.; 88)99. Gli è
necessaria una “presentazione”, che è ufficio dell’immaginazione,
sua madre, e una “presunzione”, questa malattia innata della volontà
serva, per manifestare la loro nullità alla luce della legge.
7. La teleologia nel bello e nel sublime

Questo scenario puerile farà sorridere. E tuttavia è una “maniera,


Manier” di esporre (148; 174)100 permessa in materia estetica.
Riprendiamo il “modus logicus”, qui teleologicus. Kant non ignora
che la parentela del bene col sublime è più stretta di quella con il
bello. “Il bene intellettuale in se stesso conforme a scopi (il bene
morale) valutato esteticamente deve essere rappresentato non tanto
come bello, quanto piuttosto come sublime, nicht sowohl schön, als
vielmehr erhaben vorgestellt” (108; 119)101. Ecco la tesi. L’effetto di
questa parentela sullo statuto della natura nell’estetica sublime,
innanzitutto, non si fa attendere.

Il concetto di sublime della natura non è, di gran lunga, così importante e


ricco di conseguenze, bei weitem nicht so wichtig und an Folgerungen
reichhaltig, quanto quello del bello che si ritrova in essa, e non indica in
generale nulla di finale nella natura stessa, ma solo nell’uso possibile delle
sue intuizioni allo scopo di rendere sensibile in noi stessi una finalità del
tutto indipendente dalla natura, um eine von der Natur ganz unabhängige
Zweckmäßigkeit in uns selbst fühlbar zu machen (86 t.m.; 89-90).102

La parola “uso, Gebrauch” è sottolineata nel testo. Per


comprenderne la portata è necessario ritornare all’argomento
teleologico e al parallelismo del paradosso degli interessi che è
esposto in esso, tra il favore estetico e il riguardo etico. Ho detto che
l’interesse della ragion pratica è di farsi ascoltare senza interesse.
Tale è il rispetto della legge. Anche l’interesse della facoltà di
giudicare esteticamente è di offrire allo spirito delle occasioni di
giudicare senza interesse, senza inclinazione patologica, senza
movente cognitivo, senza persino l’intenzione di fare il bene: tale è il
favore per il bello. L’uso delle due facoltà, eterogenee nelle
condizioni a priori dei loro rispettivi funzionamenti, esige uno stesso
tipo di movente, paradossale, un interesse disinteressato. Dato che il
favore è tanto meno sospetto quanto più la bellezza di cui è
occasione è di natura, la legge si interessa alla natura come a ciò
che, spontaneamente, suscita una soddisfazione disinteressata
(supra VII.4).
Ciò che l’argomento teleologico aggiunge all’argomentazione
logica, strettamente analogica, dell’affinità del bello con il bene è un
gesto. Lo spirito abbozza un gesto, mentre gusta il paesaggio.
Chiamiamo paesaggi le bellezze naturali, qualsiasi siano, e
spogliate, come esige Kant, delle loro attrattive materiali (65-68; 61-
66)103. Esse ci “parlano”, o per loro tramite la natura “ci parla
figurativamente, figürlich zu uns spricht” (133 t.m.; 153)104, in una
“scrittura cifrata, [eine] Chiffreschrift” (ibidem)105. La cifra di questa
scrittura rimane sconosciuta. Impossibile decriptare i paesaggi,
“esporli, exponieren” (167; 202)106 concettualmente. Accessibili
soltanto al sentimento, al gusto. Questo “soltanto” abbozza da sé
solo come un ritratto, uno sguardo di sbieco verso “l’interno, in uns
selbst” (86; 90)107. Lo spirito sente in questi messaggi muti che sono
i paesaggi una quasi-finalità, una quasi-intenzionalità, una quasi-
regolarità. Ma “dato che fuori di noi non incontriamo questo fine da
nessuna parte, lo cerchiamo naturalmente in noi stessi, vale a dire in
ciò che costituisce il fine ultimo della nostra esistenza, e cioè nella
nostra destinazione morale” (133 t.m.; 153)108.
Questo gesto per cui ci si rivolge a sé è surrettizio. A proposito del
sublime è stato posto il problema di una “surrezione, Subreption”
(96; 102)109 come della “sostituzione del rispetto, Achtung, per l’Idea
dell’umanità in noi come soggetto con un rispetto per l’oggetto”
(ibidem)110. È di questa proiezione, di questa oggettivazione che
l’Analitica del sublime fa la critica: non ci sono oggetti sublimi,
soltanto sentimenti (95; 100-101; supra II.4)111. Una surrezione è
però già implicita nel gusto, una surrezione che procede all’inverso,
dall’oggetto verso il soggetto. Grazie al suo ritrarsi, il paesaggio fa
allusione alla destinazione del pensiero. Il favore con cui lo si
accoglie provoca una “svolta [tour]”, timida, sospesa, un rivolgimento
[une tournure] di rispetto112. Ma l’allusione alla legge non va oltre
questo sguardo obliquo. Bisognerà elaborare le condizioni che
autorizzano la teleologia “oggettiva” per legittimare questa svolta
(133; 153)113. La finalità naturale sarà costituita soltanto da una
tessitura di “fili conduttori, di Leitfäden” (203, 205, 206; 250, 253)114.
Ma è uno solo di questi fili che muove il gesto leggero della
surrezione estetica.
Ora, il sublime recide però il filo, interrompe l’allusione, aggrava la
surrezione. Esso “non indica in generale nulla di finale nella natura
stessa, ma solo nell’uso possibile delle sue intuizioni […]” (86;
90)115. Ignora la natura, tanto “unerklärlich” (a un tempo insondabile,
inesplicabile e improclamabile) (210; 260)116, quanto che deve
rimanere tale per l’Aufklärer, deciso a proteggerne l’enigma contro il
delirio metafisico (leibniziano, hegeliano). E anche di questo gesto di
sbieco verso l’estetico, che permette l’estetica della natura e che
sembra esigere la legge per la sua realizzazione, il sublime non ha
cura.
In esso, la natura non fa segno al pensiero, un segno indiretto
verso la sua destinazione. È il pensiero che fa “uso” della natura.
L’oggetto, “come informe o senza figura, formlos oder ungestalt”,
“informe e senza finalità, formlos und unzweckmäßig”, è “utilizzato,
gebraucht, in maniera soggettivamente finale, e non giudicato per se
stesso e in ragione della sua forma (per così dire species finalis
accepta, non data)” (115-116; 128-129)117. Inversione del rapporto
all’oggetto, sicuramente, ma soprattutto inversione degli interessi, e
dunque rimessa in causa dei disinteressi interessanti. C’è un uso
possibile dell’anti-finalità naturale – potremmo dire, esagerando,
dell’anti-natura. Abbiamo visto ciò che può voler dire “anti-natura”,
un termine che non è kantiano, nell’economia del pensiero
considerato secondo la sua natura soggettiva. La parola indica la
“natura bruta” (supra III.1) in quanto induce il pensiero a trascurare
le sue belle forme: “può accadere che, quando è percepito, l’oggetto
non comporti in se stesso per la riflessione la benché minima finalità
relativa alla determinazione della sua forma” (PI, 83)118. Non è
affatto questione di mostruosità (92; 97)119, lo abbiamo letto (supra
IV.3). Semplicemente, la forma smette di essere pertinente in
materia di percezione estetica. Il sublime non accoglie l’oggetto
secondo la sua forma, secondo la sua finalità interna soggettiva. La
forma non fa risuonare l’anima al timbro di “una felicità”.
Di che “uso” della natura o dell’anti-natura da parte del pensiero si
tratta dunque nel sublime? La Prima Introduzione risponde che si
tratta di un “uso contingente” (PI, 82)120. “La finalità della natura dal
punto di vista del soggetto” smette di indurre “nel” pensiero la sua
propria finalità “naturale”, risentita come un accordo dei suoi diversi
poteri. È all’inverso “una finalità che risiede a priori nel soggetto”, “un
principio a priori (unicamente soggettivo, è vero)”, che “fa un
possibile uso finale di certe intuizioni sensibili […]”. La contingenza
di quest’uso risiede nel fatto che essa non “presuppone […] nessuna
tecnica particolare della natura” (PI, 83)121. L’arte naturale, di cui il
gusto era per così dire la ripercussione nel pensiero, l’armonica
“interna”, si tace.
È il pensiero che, al contrario, impone da lontano, dall’alto, una
finalità tutta sua a ciò che resta della natura quando la forma
naturale non è più “data” (“data”) come opera d’arte, ma soltanto
“ricevuta”, “accolta” (“accepta”)122, indiretta. E la destinazione (etica)
di cui il sublime è il sentimento troppo vigoroso, non è l’opera
naturale, il “paesaggio” che la suggerisce al pensiero, anche di
sbieco, come nel gusto, ma è il pensiero stesso che arbitrariamente
la attualizza, in modo “contingente” quanto all’oggetto, in modo
autonomo quanto a se stesso, cogliendo l’occasione che gli fornisce
non il paesaggio, ma la quasi-amorfia di una grandezza “bruta” (92;
97)123.
La parte che l’immaginazione (o la sensibilità) assume nel giudizio
sublime deve di conseguenza essere ridotta, “ritrattata”; attenuato il
grado di forme della presentazione sublime (supra VI.2). È per
questo che nel lessico kantiano il sublime si chiama “sentimento
dello spirito, Geistesgefühl” (PI, 84)124 in opposizione al gusto. La
sua vera molla consiste in una destinazione propria al pensiero che
è indifferente alla finalità delle sue forme. Ciò che lancia e sostiene il
sentimento sublime non è più “soltanto una finalità degli oggetti in
rapporto alla facoltà riflettente di giudizio”, ma “inversamente anche
una finalità del soggetto riguardo agli oggetti per la loro forma, e
perfino per la loro assenza di forma, in forza del concetto della
libertà” (38 t.m.; 29)125. Capovolgimento, se non conflitto, delle
finalità. Attraverso il bello, il “soggetto” è messo in ascolto della
natura, e allo stesso modo della sua natura di “soggetto”. Attraverso
il sublime, la natura è sottoposta a un taglio netto da parte di
quell’altro pensiero, quello richiesto dalla legge, un pensiero che è
“soggetto” solo perché è assolutamente soggetto all’obbligazione.
Perché infine il Geistesgefühl non è estraneo al “rispetto per le Idee
morali” (161; 193)126. E, com’è d’obbligo, il “compiacimento” che può
affettare questo pensiero non è un piacere, un Vergnügen, ma una
Selbstschätzung, una stima di sé (54, 161; 47, 193; infra IX.2)127.
A proseguire questo rivolgimento delle finalità, ci si potrebbe
preoccupare infine del fatto che un sentimento tutto “spirituale”, che
non si aspetta e non apprende niente, sembra, dal proprio oggetto –
o piuttosto da ciò che gli serve da occasione, data più nel senso di
“colta” che di “data”, natura “bruta”, forme al limite del presentabile –
possa meritare ancora di essere chiamato “estetico”. Deve esserlo,
“nondimeno”, scrive Kant, “perché esprime anch’esso una finalità
soggettiva che non riposa su un concetto d’oggetto” (PI, 83)128.
Come il gusto, il sublime è un giudizio riflettente “senza concetto di
oggetto, semplicemente rispetto a una finalità soggettiva”
(ibidem)129. Ciò è sufficiente a classificarlo come estetico perché
aisthèsis, sensazione, significa qui non “la rappresentazione di una
cosa (mediante i sensi, in quanto ricettività che compete alla facoltà
conoscitiva)”, ma “una determinazione del sentimento del piacere o
del dispiacere”, una rappresentazione che “è in relazione al soggetto
puramente e semplicemente, lediglich, e non serve affatto a una
conoscenza, neppure a quella per cui il soggetto conosce se stesso”
(51 t.m.; 42-43)130. Estetico è ciò che (si) giudica per lo stato del
pensiero, per la sua “sensazione” interiore. Quest’ultima non è
affatto un’informazione sull’oggetto, sia esso interiore o esteriore
(supra, I.2-3). Informativa è all’inverso la sensazione che forniscono i
sensi. Essa è persino una componente indispensabile dei giudizi di
conoscenza. Dipende dalla logica (70; 68; e KRV, 54; 64-65)131.
Quanto al “sentimento spirituale”, questo appartiene all’estetica, a
dispetto della sua indifferenza alle forme sensibili, per il fatto che,
come il gusto, è un giudizio non cognitivo che il pensiero fornisce,
non sull’oggetto, ma all’occasione di un oggetto e secondo il solo
stato soggettivo in cui si trova in quest’occasione.
Semplicemente, l’occasione di questa sensazione giudicante non
ha lo stesso statuto, e il pensiero non si trova nello stesso stato, a
seconda che senta il bello o il sublime. Questa alterità nell’occasione
deve affettare però il regime degli interessi rispettivamente in gioco.
L’oggetto detto sublime non è più l’occasione data a una forma di
mutarsi immediatamente in una “felicità” d’animo per una specie di
transitività delle finalità, la “cifra” naturale convertendosi in
disposizione affettiva. È per la sua assenza di forma, o, piuttosto,
considerato “senza” le proprie forme, al di là o al di qua di esse, che,
a dispetto di se stesso, per così dire, l’oggetto dà alla ragion pratica
occasione di rafforzare la sua presa sul pensiero, di estendere la sua
potenza secondo il suo interesse di facoltà. E senz’altro il pensiero
così costretto dalla legge si volge verso quest’ultima, o si espone a
essa senza esservi spinto da alcun interesse, dunque secondo quel
singolare movente dell’etica che è il riguardo, la Achtung (infra IX.2).
Ma possiamo dire altrettanto della faccia oscura del sublime, più
nera di quella del rispetto perché è qui una componente costitutiva
del sentimento, e non semplicemente il suo rovescio? Diremo forse
che l’indifferenza sublime alla forma è ancora il segno di un
“disinteresse”?
Nel senso di questo interesse trascendentale che spinge le
facoltà ad attuarsi, la disfatta delle forme, o il “ritrarsi”
dell’immaginazione (supra VI.2) che il sublime esige implica un
rimpasto delle gerarchie interfacoltarie. L’intelletto (o il pensiero nel
suo uso cognitivo) deve rinunciare a esercitarsi, mentre ci si
ricorderà (supra II.3) che nel gusto le forme chiedevano la sua
attualizzazione come potenza sfidando ed eccitando l’intelletto. Le
prospettive di conoscenza che la bellezza lascia accessibili, per
quanto aporeticamente (162-165; 197-200)132, sono d’un tratto
soppresse dal sublime. La ragione, la facoltà delle Idee pure, e
anzitutto di quella della causalità assoluta, sembra avere all’inverso
tutto l’interesse alla disorganizzazione del dato e alla disfatta
dell’intelletto e dell’immaginazione. Nella lacuna così aperta dalla
“presentazione negativa”, essa può infatti rendere “quasi intuibile”
(96; 102)133 al pensiero l’Idea della sua vera destinazione, che è
morale.
8. Il sacrificio sublime

Se si tratta adesso dell’interesse o del disinteresse provato dal


pensiero empirico affetto dall’emozione sublime, e se si mette da
parte “l’interesse disinteressato” che esso prova per il fatto della
scoperta della legge morale dentro di sé, può sembrare che
l’indifferenza che il pensiero oppone alle forme degli oggetti dipenda,
piuttosto che da un interesse o da un disinteresse, da un ininteresse
puro e semplice. Le forme immaginative non avrebbero alcuna
pertinenza con il risveglio del “sentimento spirituale”.
Nondimeno, a guardare con più attenzione, almeno la loro “messa
a margine, la loro Absonderung” (110; 122)134 non è senza
interesse, per il pensiero, per ciò che riguarda la scoperta della sua
vera destinazione. Se la loro non-pertinenza è un mezzo, se il dolore
che l’impossibilità della presentazione procura al pensiero è una
“mediazione” che autorizza il piacere esaltato a scoprire la vera
destinazione (etica) del pensiero, e che evoca così il rispetto, è
perché “l’oblio” delle forme, per quando in rapporto al gusto e alla
finalità della natura possa apparire “contro-finale”, è nondimeno
finalizzato – o finalizzabile – all’Idea di questa destinazione ultima. “Il
dispiacere” che attesta quanto la ragione è “contro-finale” per
l’immaginazione, “è tuttavia rappresentato come finale” (98; 105)135.
C’è qui come una “logica del peggio”, o almeno un’estetica del
peggio che non “giocherebbe” il brutto, ma l’amorfo. Quanto più
l’anti-paesaggio eccede ogni messa in forma, tanto più la potenza
della ragione pura (pratica) vi si trova “estesa”, attualizzata: tanto più
vi si rivela la sua grandezza. La ragione punta sulla miseria del
favore per far valere l’elevazione della sua legge. L’ho già detto
(supra V.2-5): a differenza di ciò che ha luogo nel rispetto, che
suscita dispiacere soltanto secondariamente, in modo estrinseco, il
sublime media (“dinamicamente” parlando) il visibile con l’oscuro [le
clair per le noir]. La radura si schiarisce con un taglio netto [La
clairière se dégage par une coupe sombre].
Questo interesse distorto, per non dire perverso, il beneficio tratto
così dal quasi-“svanimento della natura di fronte alle Idee della
ragione” (96; 101; infra IV.3)136 è ciò che motiva o accompagna,
“l’uso”, l’uso “contingente” che il pensiero fa della natura (dell’anti-
natura) nel sublime. Rileggiamo ancora una volta: “il concetto di
sublime […] non indica in generale nulla di finale nella natura stessa,
ma solo nell’uso possibile delle sue intuizioni, al fine di rendere in noi
stessi sensibile, fühlbar, una finalità del tutto indipendente dalla
natura” (86; 90)137. Dal lato del pensiero attuale, quell’“al fine di
rendere sensibile […]” tradisce il motivo di un potente interesse. Il
fallimento delle forme è interessante. E dunque è interessato
l’asservimento dell’immaginazione a una finalità tuttavia
incompatibile alla sua, che è la libera produzione delle forme.
“L’immaginazione priva se stessa della libertà, giacché è determinata
in senso finale secondo una legge diversa da quella dell’uso
empirico” (106; 116)138. Qual è il beneficio atteso della “Beraubung,
della spoliazione” consentita (ibidem)139? Quello che ci si aspetta da
un sacrificio. Qual è il beneficiario? La natura è sacrificata sull’altare
della legge. “Facendo questo, l’immaginazione raggiunge
un’estensione, una Erweiterung, e una forza maggiori di quella che
sacrifica, aufopfert, ma il cui fondamento le rimane nascosto, e
piuttosto che di quest’ultimo, è di un sacrificio e di una spoliazione
che ha il sentimento, e allo stesso tempo della causa alla quale è
sottomessa” (ibidem, t.m.)140.
L’“uso contingente” della natura ha dunque origine da
un’economia sacrificale dei poteri di facoltà. La specie di riguardo
che il sublime rivolge alla legge si ottiene, e si segnala, per mezzo di
un uso delle forme naturali che non è quello a cui esse destinano il
pensiero, per mezzo di un loro uso improprio [mésusage].
Conversione (o perversione) nella destinazione che forse connota
sempre l’istituzione del sacro. Questa esige la distruzione o la
consumazione del dato, del “ricco” dono [présent], dello “Stoff” che è
la forma naturale libera (146; 171-172; infra II.3)141, per ottenerne in
cambio il contro-dono dell’impresentato. “Questa potenza [della
legge morale] si rende esteticamente conoscibile solo attraverso dei
sacrifici” (108; 118)142. Esteticamente. Appicca il fuoco al bello
affinché dalle sue ceneri ti ritorni il segno del bene. Ogni sacrificio
comporta questo sacrilegio. Il perdono si ottiene soltanto attraverso
l’abbandono, la messa al bando di un primo dono, che deve essere
anch’esso infinitamente prezioso143. La natura sacrificata è
consacrata. L’interesse sublime evoca un tale sacrilegio. Si sarebbe
tentati di dire: un sacrilegio ontologico. In ogni caso, qui, un
sacrilegio di facoltà. La legge della ragion pratica, la legge della
legge pesa con tutto il proprio peso su quella dell’immaginazione
produttiva. Ne fa uso. Asservisce fino alle sue condizioni a priori di
possibilità l’autonomia che le è propria e che è anche la sua
eterogeneità quanto alle condizioni della moralità. Ma questa servitù
dell’immaginazione è “volontaria”, violentemente interessata. La
facoltà delle forme libere “priva se stessa della libertà” (106; 116)144,
e ciò “al fine di rendere sensibile” una legge che non è la sua (86;
90)145. L’immaginazione, sacrificandosi, sacrifica la natura,
esteticamente consacrata, in vista dell’esaltazione della legge santa.
Come in ogni dispositivo sacrificale, c’è qui un calcolo degli
interessi, uno sconto sui sentimenti. Rescisso il favore, avrai il
riguardo. Sembra facile far combaciare questo calcolo con quello
che sostiene una “dialettica” (ad esempio, “servo-padrone”: rinuncia
al godimento, avrai il riconoscimento e lo spirito). Sarebbe questo il
caso se Kant si lasciasse andare a essere Hegel (supra V.2). Se
ritenesse che la legge fosse negoziabile al costo di rinunciare alla
bellezza nel dono-per-dono che comanda la logica dialettica e che le
garantisce il suo profitto, il suo Resultat finale, anche se sempre
differito146.
Ma al contrario quest’economia del peggio, del più per il meno,
quest’impeto interessato alla de-naturazione che Kant chiama
“entusiasmo” (anche se esso ha dei fratelli) ne denuncia la “cecità”
quanto alla “scelta” del suo scopo o quanto alla sua “realizzazione”
(108; 119)147. Essendo un’“affezione vigorosa”, una violenza del
sentimento, il sublime “non può in alcun modo servire a una
soddisfazione della ragione” (109; 119-120; supra VI.3)148.
Quest’“uso” rimarrà dunque inutile, senza risultato etico. La legge
non si lascerà mai piegare dalla consumazione delle forme. Perché
la legge esige molto semplicemente il solo riguardo, una pura
obbedienza disinteressata. Non ha che farsene di dimostrazioni di
eroismo. Il rispetto non si ottiene nemmeno a forza di macerazioni. È
una reverenza immediata e a priori. Una cosa è che questa
venerazione abbia per effetto, come ho detto, l’umiliazione dell’amor
proprio. Un’altra, ben all’inverso, è che il sacrificio dell’io o quello
delle forme immaginative possa essere la condizione del rispetto. Il
rispetto ha luogo senza condizioni, è, ripetiamolo, “la moralità stessa
considerata […] come movente” nella volontà empirica (KPV, 80;
89)149. Non si acquisita, nemmeno fissando come suo prezzo la
natura tutta intera. Non può essere oggetto di una negoziazione,
nemmeno espiatoria, più di quanto possa esserlo la legge.
E soprattutto non di una negoziazione trascendentale. Voglio dire:
soprattutto se la negoziazione implica che una potenza del pensiero
“ceda” davanti a un’altra, ad esempio la facoltà di presentare forme
davanti a quella di essere obbligati dalla legge. E non conceda solo il
primato nell’estensione, ma ceda anche sulle sue stesse condizioni
di possibilità, sulla sua autonomia, e all’occorrenza sulla libertà della
presentazione e sul suo disinteresse. Questa resa, questo “fermo”
[arraisonnement] non sconvolge soltanto il funzionamento specifico
dell’immaginazione. Disorganizza anche il principio stesso della
ragion pratica, che è precisamente l’incondizionatezza della legge e
del riguardo che le è dovuto. È pertanto l’economia generale delle
facoltà che si trova affetta da una grave crisi.
Per designare questa concessione radicale, questo asservimento
di una facoltà a un’altra, che comporta anche la disorganizzazione di
quest’ultima (si tratta all’occorrenza della sempre minacciosa
subordinazione della ragion pratica alla ragione speculativa, “il
capovolgimento dell’ordine”), la seconda Critica usa il termine
“Frevel” (KPV, 131; 140)150. Questo significa un oltraggio alla pietà,
un sacrilegio. C’è un che di frevelhaft nel sublime. O, per dirlo
altrimenti, il rispetto, secondo il suo ideale puro, che è la faccia
visibile della legge, non può in alcun modo essere messo in conto,
esser scontato in un’economia del sacrificio. Esso dipende da un’an-
economia che sarebbe l’ordinamento della santità. La sua faccia
scura, la perdita che comporta è dovuta al fatto che il volere empirico
non è santo ma finito. Resta però il fatto che il sacrificio di questa
finitezza non può servire ad acquistare la santità. La ragione
(pratica) non può essere “soddisfatta” al prezzo di questa demenza,
che nasconde una scommessa “frivola”151.

1 Ivi, B 78; tr. it. p. 82.


2 Cfr. ivi, B 37-43; tr. it. pp. 58-61. Sebbene il francese “attrait”
corrisponda a entrambi, ho deciso di tradurre il kantiano “Reiz” con “attrazione”
piuttosto che con “attrattiva”, come fanno Garroni-Hohenegger (ma anche
Amoroso), per rendere più fluido il discorso di Lyotard.
3 Ivi, B 10; tr. it. p. 43.
4 Cfr. ivi, § 3, B 7-10; tr. it. pp. 41-43.
5 Ivi, B 22; tr. it. p. 49.
6 Ivi, B LVIII; tr. it. p. 33.
7 Ivi, B 15; tr. it. p. 45 (modificata).
8 Ibidem; tr. it. rispettivamente ibidem e ss.
9 E cioè un “caso fortuito”, “un piacere inatteso”, contrapposto alla
felicità tout court.
10 Ivi, B 198; tr. it. p. 153: “consiste propriamente in quel felice
rapporto”.
11 Ivi, B 162; tr. it. p. 133.
12 Cfr. ibidem ss.; tr. it. ibidem.
13 Cfr. ivi, B 163-165; tr. it. ibidem ss.
14 Ivi, B 16; tr. it. p. 46 (leggermente modificata).
15 Cfr. ivi, B 9-12; tr. it. pp. 42 ss. Ho scelto di mettere le due
espressioni tra virgolette singole e non doppie perché si tratta in entrambi i
casi di esplicitazioni di Lyotard, il quale, nel primo, riconduce il Vergnügen di
cui parla Kant alla Vergnügung (termine che nell’originale non compare);
mentre nel secondo capovolge l’incipit del § 4: “Gut ist das, was” (“est bon ce
qui”, nella tr. fr. di Philonenko), per specificare meglio la distinzione kantiana
introdotta subito dopo.
16 Ivi, B 10; tr. it. p. 43 (leggermente modificata).
17 Cfr. KpV A 100-109; tr. it. pp. 135-143.
18 KU B 13; tr. it. p. 44 (modificata).
19 Ibidem; tr. it. p. 45.
20 Ivi, B 14; tr. it. ibidem.
21 Ivi, B 165; tr. it. p. 134.
22 Cfr. ivi, B 165-170; tr. it. pp. 134-137.
23 Cfr. ivi, B 254-260; tr. it. pp. 185-189.
24 Ivi, B 258; tr. it. p. 187.
25 Come specifica nella versione di questo capitolo pubblicata in
Aa.Vv., Du sublime, cit., pp. 196, Lyotard sta facendo qui riferimento a P.
Lacoue-Labarthe, La fiction du politique (Heidegger, l’art et la politique),
Association des Publications près les Universités de Strasbourg, Strasbourg
1987; tr. it. La finzione del politico, di G. Scibilia, il Melangolo, Genova 1991.
26 Il riferimento è ovviamente a F. Schiller, Über die ästhetische
Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, in Schillers Werke.
Nationalausgabe, Böhlau, Weimar 1943 ss., vol. XX, pp. 309-412; tr. it.
L’educazione estetica dell’uomo, di G. Boffi, Bompiani, Milano 2007.
27 KU B 448-450; tr. it. p. 295 ss.
28 Ivi, B 244; tr. it. pp. 179 ss.
29 Ibidem.
30 Ivi, B 245; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
31 Cfr. ivi, B 46-48; tr. it. pp. 63 ss.
32 Ivi, B 47; tr. it. p. 63 (modificata da Lyotard rispetto a quella di
Philonenko, e da noi per seguire Lyotard).
33 Si tratta, come è noto, di un concetto sviluppato nelle ultime fasi della
sua riflessione da F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1885-1887, in Id.,
Samtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, vol. XII, De Gruyter,
Berlin 1999; tr. it. Frammenti postumi 1885-1887, di S. Giametta in Opere di
Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari,
Adelphi, Milano 1975, vol. VIII.I; e Id., Nachgelassene Fragmente 1887-1889,
in ivi, vol. XIII; tr. it. Frammenti postumi 1887-1888 e Frammenti postumi 1888-
1889, di S. Giametta, ivi, vol. VIII.II e vol. VIII.III. Anche se è probabile, dato il
modo in cui continua il brano, che, oltre allo stesso Nietzsche, Lyotard tenga
qui presente anche l’interpretazione dell’ultima filosofia di questi data da M.
Heidegger, Der Wille zur Macht als Kunst, in Id., Nietzsche I, in
Gesamtausgabe, vol. 6.2, a cura di B. Schillbach, Klostermann, Frankfurt a.M.
1996, pp. 1-224; tr. it. La volontà di potenza come arte, in Id., Nietzsche, cit.,
pp. 21-215.
34 KU B XXV; tr. it. p. 15 (leggermente modificata).
35 Cfr. ivi, B 258-260; tr. it. pp. 187-189.
36 Cfr. KpV A 119-126; tr. it. pp. 153-159.
37 KU B 198; tr. it. p. 152 (modificata).
38 Ivi, B 193; tr. it. p. 149.
39 Ivi, B 146; tr. it. p. 124 (modificata).
40 Ivi, B 259; tr. it. p. 188 (leggermente modificata).
41 Ibidem (tr. it. modificata).
42 Ivi, B 169; tr. it. p. 136 (leggermente modificata).
43 KpV A 110; tr. it. p. 145 (modificata).
44 Ivi, B 113; tr. it. p. 147 (modificata).
45 Ibidem.
46 Tra questa versione del capitolo e quella pubblicata in Aa.Vv., Du
sublime, cit., vi è una differenza notevole. Perché mentre questa stesura si
sofferma sull’analogia tra l’interesse del bello e quello del bene dal punto di
vista del bello, l’altra approfondisce invece il punto di vista del bene, rinviando
l’analisi dell’analogia dal lato estetico ad altra sede (questa). A differire sono
tutti i capoversi da qui all’ultimo del paragrafo (escluso). Dato il loro interesse,
li riporto perciò in nota, citando direttamente dalla tr. it. disponibile: “Questa
sottrazione dell’oggetto è ben nota, questa riscoperta della condizione
dell’etica che è il dovere puro, ‘prima’ di ogni oggetto. (Dico riscoperta: questa
assenza d’oggetto è già presente nell’‘Ascolta Israele’). Condizione dunque
‘disinteressata’. Il sentimento di obbligazione, il rispetto per la legge, non è
connesso all’esistenza di alcun oggetto. La legge stessa non è un oggetto.
Non si ama la legge. E tuttavia essa prescrive di agire. Prescrive di realizzare
ciò che è bene ‘assolutamente, sotto ogni rispetto’ (KPV, 78). Essa induce
interesse per ‘oggetti’ giudicati capaci di far esistere questo bene. Questi
oggetti evidentemente non esistono previamente, giacché il problema è di farli
esistere praticamente, e non di conoscerli teoricamente. Il bene bisogna farlo,
non scoprirlo. Questi ‘oggetti’ sono azioni da fare, giudizi da addurre. La legge
induce un interesse, da determinare, un interesse per ‘massime’ che porranno
la volontà in grado di fare il bene. È in questo preciso punto, fortemente, ma
solo in questo punto, che l’interesse svolge un ruolo nel dominio della morale.
Esso risulta dalla legge, è ‘prodotto’ da essa. Se il bene è interessante, è
anzitutto perché la legge dev’essere realizzata. Essa dice: attualizzami. Dice
solo questo, senza dire qual è il proprium della legge. Aggiunge soltanto quale
potrebbe essere una ‘buona’ attualizzazione: universalizzabile, estensibile a
ogni volontà particolare. Questa condizione, o meglio questa supposizione (so
daß, als ob), determinerà degli interessi per i modi di realizzazione.
Paragonato al giudizio estetico sotto questo aspetto dell’interesse, il giudizio
morale non ne sembra lontano, agli occhi di Kant, al punto da poterli dividere
con un sì e con un no. Ha un’‘analogia’ con esso per il fatto che accorda ‘un
interesse immediato per l’oggetto’ (KUK, 159), e questo interesse è ‘uguale’ a
quello del gusto. La sola differenza è che ‘il primo interesse [quello del gusto] è
libero, mentre il secondo si basa su leggi oggettive’ (ibidem). Conciliazione da
prendere, come si vede, cum grano salis. In ambito estetico, un interesse
‘libero’ non può essere che un interesse disinteressato, il ‘favore’, in cui
‘l’approvazione non è imposta su alcun interesse, né dai sensi, né dalla
ragione’ (KUK, 51). E, in ambito etico, come potrebbe un interesse per il ‘suo’
oggetto attrarre immediatamente la volontà, se è ‘fondato su una legge
oggettiva’, cioè mediato necessariamente dall’imperativo categorico vuoto da
cui essa ha poi da ricavare, con l’ausilio della sola clausola di
universalizzazione, le massime che la interesseranno infine a certe azioni?”
(J.-F. Lyotard, L’intérêt du sublime, in Aa.Vv., Du sublime, cit., pp. 201 ss.; tr. it.
in Id., Anima minima, cit., pp. 59 ss.).
47 KU B 63; tr. it. p. 73 (modificata).
48 Ivi, B 161; tr. it. p. 132 (modificata). Segnalo per inciso che la
versione francese nel testo è di Lyotard.
49 Ivi, B 170; tr. it. p. 137 (modificata).
50 Ibidem.
51 KU B 15; tr. it. pp. 45 ss. (leggermente modificata).
52 Ivi, B 161; it. p. 132. Noto inoltre che Lyotard ha qui modificato
(ancora una volta senza segnalarlo) la traduzione troppo sommaria di
Philonenko.
53 Ibidem (tr. it. leggermente modificata). A questo brano appartiene
anche lo “jedermann” citato poco sotto.
54 Gioco di parole intraducibile, in cui il verbo “passer” viene utilizzato
da Lyotard, nel primo caso, per indicare lo Übergang, il passaggio tra i due
ambiti; nel secondo, invece, anche in senso lato, per indicare non solo il modo
in cui questo passaggio avviene, ma anche come “il pensiero” “se la passa”
nel passaggio, “come gli vanno le cose”.
55 Cfr. ivi, B 165-171; tr. it. pp. 134-138 e KpV, A 215-219; tr. it. pp. 245-
249.
56 Cfr. KrV, A 84 ss. B 116 ss.; tr. it. pp. 221-223.
57 KU B XXI; tr. it. p. 13.
58 Cfr. ivi, B XXVI-XXVIII; tr. it. pp. 15 ss.
59 Ivi, B 241; tr. it. p. 178.
60 Cfr. KpV A 215-219; tr. it. pp. 245-249.
61 Cfr. ivi, A 218; tr. it. p. 247 (modificata: si tratta della traduzione
lyotardiana del termine kantiano “Einsichten” che Mathieu traduce più
correntemente con “vedute”).
62 Il riferimento è ovviamente a L. Wittgenstein, Philosophische

Untersuchungen, Blackwell, Oxford 19992; tr. it. Ricerche filosofiche, di M.


Trinchero, Einaudi, Torino 1999.
63 KpV A 216; tr. it. p. 245.
64 Ibidem.
65 Ivi, A 141; tr. it. p. 175 (modificata).
66 Ibidem (tr. it. modificata).
67 Ivi, A 134; tr. it. p. 167 (leggermente modificata).
68 Per il concetto freudiano di sublimazione, cfr. S. Freud, Die
Traumdeutung, in Id., Gesammelte Werke, cit., voll. II/III, pp. V-642; tr. it.
L’interpretazione dei sogni, in Opere di Sigmund Freud, cit., vol. III.
69 Cfr. KpV A 130-134; tr. it. pp. 165-167.
70 Cfr. KrV A 462-476 B 490-504; tr. it. pp. 699-715.
71 KpV A 215; tr. it. p. 245.
72 Ivi, A 216; tr. it. ibidem (modificata).
73 Cfr. KrV A 510-514 B 538-542; tr. it. pp. 759-763.
74 Ivi, A 309 B 365; tr. it. p. 547. Data la manipolazione del testo, ho
deciso di tradurre direttamente la versione di Lyotard.
75 KU B 240; tr. it. p. 177.
76 KpV A 219; tr. it. p. 249 (modificata).
77 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
78 Ivi, A 127; tr. it. p. 161 (modificata).
79 Ivi, A 129; tr. it. p. 163.
80 L’espressione francese “faire un/son deuil de”, pur riferendosi al lutto,
significa di norma “rinunciare completamente a qualcosa”. Lyotard gioca con
essa, utilizzando l’espressione qui per riferirsi alla rinuncia, e più avanti per
parlare proprio del lutto. Non potendo restituire la cosa in italiano, ho deciso
dunque di esplicitarla alla prima occorrenza riportando in congiunzione
entrambe le traduzioni.
81 Ivi, A 131; tr. it. p. 165 (modificata, in quanto Mathieu non traduce
mai “Selbst” con “sé”, come sarebbe letteralmente preferibile, ma lo traduce
ogni volta nell’individuo, nell’individualità o nella persona, schiacciando l’uno
sull’altro piani che kantianamente sono invece distinti e vanno
progressivamente recuperati). Per il riferimento a Freud che segue
immediatamente la citazione, cfr. invece supra, Cap. V, nota 19.
82 Da qui in avanti, Lyotard inizierà a giocare con i termini “face noire” e
“face claire” contrapponendo l’uno all’altro. Il riferimento è evidentemente al
lato oscuro e a quello visibile della luna, ma anche alle due facce della
medaglia, o ancora alla “faccia nera” del lutto e della melancolia. Il “claire” con
cui Lyotard definisce il lato “in luce” o “visibile” del rispetto si ricollega tra l’altro
anche alla “clairière”, alla “radura” della presenza della legge, suggerendo così
un legame di luminosità che in italiano si perde inevitabilmente. Per una
maggiore fruizione della traduzione ho preferito così tradurre “face noire” con
“faccia oscura” o “faccia scura”, e “face claire” con “faccia visibile”.
83 KpV A 131 ss.; tr. it. p. 165 (leggermente modificata).
84 KpV A 141; tr. it. p. 175.
85 Ibidem.
86 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
87 Ivi, A 134; tr. it. p. 169.
88 Ivi, A 135; tr. it. ibidem.
89 Ivi, A 136; tr. it. ibidem (modificata).
90 Ivi, A 129; tr. it. p. 163 (leggermente modificata).
91 KU B 122; it. p. 108.
92 Ivi, B LVIII; tr. it. p. 33 (modificata da Lyotard, che legge il kantiano
“sentimento” come “sensazione”).
93 KpV A 143; tr. it. p. 177: “elevazione”.
94 Ivi, A 158; tr. it. p. 189 (modificata per seguire Lyotard, che traduce il
tedesco con “élation”).
95 KU B 122; tr. it. p. 109 (modificata, sia la tr. fr. che quella it.).
96 Gioco di parole intraducibile tra la “élation” con cui Lyotard rende la
“Erhabenheit”, il “se lever” del rispetto e, di contro, il “s’enlever” del sublime.
Se nel suo innalzamento il rispetto infatti sorge, si innalza e si solleva,
l’innalzamento, l’elevazione del sublime corrisponde invece al togliersi sia nel
senso hegeliano dell’aufheben (cfr. supra, Cap. V, nota 24), sia in quello
kantiano del cancellarsi, del sospendersi, del togliersi e del venir meno (per il
che cfr. di nuovo supra, Cap. V, nota 55). Nella sua traduzione inglese del
passo, E. Rottenberg usa per questi termini “undoes itself” e “arise” (J.-F.
Lyotard, Lessons on the Analytic of the Sublime, Stanford University Press,
Stanford 1994, p. 180), soluzione che se, nel secondo caso, è di fatto
convergente con la mia, nel primo mi sembra invece eccessiva.
97 KU B 97; tr. it. p. 93 (leggermente modificata).
98 Ivi, B 102; tr. it. p. 96 (modificata).
99 Ivi, B 76; tr. it. p. 81 (leggermente modificata).
100 Ivi, B 201; tr. it. p. 154.
101 Ivi, B 120; it. 107 ss. (leggermente modificata).
102 Ivi, B 78; tr. it. p. 82 (leggermente modificata).
103 Cfr. ivi, B 37-43; tr. it. pp. 58-61.
104 Ivi, B 170; tr. it. p. 137.
105 Ibidem.
106 Ivi, B 242; tr. it. p. 178 (leggermente modificata).
107 Ivi, B 78; tr. it. p. 82 (la tr. è libera e di Lyotard).
108 Ivi, B 170 ss.; tr. it. p. 137 (modificata).
109 Ivi, B 97; tr. it. p. 93.
110 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
111 Cfr. ivi, B 95; tr. it. p. 92.
112 Anche in questo caso si tratta di un gioco di parole intraducibile, in
quanto la “tournure”, oltre a significare “piega”, “direzione”, “rivolgimento”,
indica anche la “figura”, l’“aspetto”. La “tournure d’esprit” è la “forma mentis”,
una “jolie tournure” una “bella figura”, il “bell’aspetto” di qualcosa (forma) o di
qualcuno.
113 Cfr. ivi, B 169-171; tr. it. pp. 136 ss.
114 Ivi, B 313, 318, 319; tr. it. pp. 219 e 222.
115 Ivi, B 78; tr. it. p. 82 (leggermente modificata).
116 Cfr. ivi, B 329; tr. it. p. 228.
117 Ivi, B 132 sg; tr. it. p. 116 (leggermente modificata).
118 EE AA XX 249; tr. it. p. 136 (leggermente modificata).
119 Cfr. KU B 89; tr. it. p. 89.
120 EE AA XX 249; tr. it. p. 136.
121 Ibidem ss. (tr. it. leggermente modificata).
122 Cfr. KU B 133; tr. it. p. 116.
123 Ivi, B 89; tr. it. p. 89.
124 EE AA XX 250; tr. it. p. 138 (modificata).
125 KU B XLVIII; tr. it. p. 27 (leggermente modificata).
126 Ivi, B 228; tr. it. p. 170.
127 Cfr. ivi, B 15, 228; tr. it. rispettivamente pp. 45, 170.
128 EE AA XX 250; tr. it. p. 137 (leggermente modificata).
129 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
130 KU B 8 ss.; tr. it. p. 42 (leggermente modificata).
131 Cfr. ivi, B 47 ss.; tr. it. pp. 63 ss. e KrV B35, nota; tr. p. 115
132 Cfr. KU B 231-239; tr. it. pp. 172-176.
133 Ivi, B 97; tr. it. p. 93 (leggermente modificata).
134 Ivi, B 124; tr. it. p. 110 (modificata).
135 Ivi, B 101; tr. it. p. 96 (modificata).
136 Ivi, B 96; tr. it. p. 93 (leggermente modificata).
137 Ivi, B 78; tr. it. p. 82 (leggermente modificata).
138 Ivi, B 117; tr. it. p. 105. Data la libertà della traduzione francese (di
Philonenko, riportata da Lyotard) rispetto all’originale tedesco e alla traduzione
italiana (molto più letterale), ho preferito in questo caso tradurre direttamente
dal francese. Segnalo però che la letteralità di questa traduzione viene corretta
da Lyotard stesso subito dopo.
139 Ibidem (tr. it. modificata).
140 Ibidem (tr. it. modificata per seguire quella di Lyotard).
141 Ivi, B 198; tr. it. p. 152 (modificata).
142 Ivi, B 120; tr. it. p. 107 (leggermente modificata).
143 Gioco di parole tra “pardon”, “don”, “ban” e “abandon”, stavolta
perfettamente traducibile in italiano.
144 Ivi, B 117; tr. it. p. 105 (modificata).
145 Ivi, B 78; tr. it. p. 82 (leggermente modificata).
146 Sulla questione, cfr. J.-F. Lyotard, Le différend, cit., pp. 130-158; tr.
it. pp. 115-139.
147 KU B 121; tr. it. p. 108 (leggermente modificata).
148 Ibidem (tr. it. modificata).
149 KpV A 134; tr. it. p. 169.
150 Ivi, A 218; tr. it. p. 247 (modificata).
151 Rispetto alla versione del capitolo pubblicata in Aa.Vv., Du sublime,
cit., Lyotard ha soppresso qui un intero capoverso, che riporto di seguito, per
completezza, citando di nuovo direttamente dalla traduzione italiana:
“Insomma, l’entusiasmo non è pio. È il modo profano, per non dire
profanatore, e dunque aporetico, di aprirsi un accesso alla pietà. Il conflitto
interno da cui è scosso erige l’uno contro l’altro il motivo del sacro e il motivo
del santo. Ho detto tuttavia che esso ha dei fratelli, un’intera generazione di
altri individui sublimi. Non posso qui dettagliarne la famiglia, nemmeno quella
che Kant stesso enumera, la ‘collera’, l’‘indignazione’, il ripiegamento su di sé,
la ‘tristezza’ o l’‘abbattimento’ (KUK, 126, 131), l’‘invincibilità […] di fronte al
pericolo’ (KUK, 114), l’‘umiltà’, la retta e libera ‘ammirazione’ di Dio (KUK, 115),
senza dimenticare il ‘dovere’, ‘nome sublime e grande’ (KPV, 106). Non
sarebbe impossibile stabilirne una sorta di classificazione periodica, secondo il
grado di ‘sacrificio’ che ciascuno di essi comporta. Esso è quasi nullo nel
rispetto, evidentemente, in cui l’umiliazione dell’io non è che l’ombra riflessa su
una volontà finita dalla luce della legge. Al contrario condurrebbe lo spirito
vicino alla ‘demenza’ (KUK, 129) nelle affezioni assai negative come
l’‘abbattimento’, o quella ‘melanconia’ quasi ‘misantropica’ ispirata dai mali che
gli uomini si infliggono reciprocamente per ‘puerilità’ (KUK, 130). Di fronte a
tale varietà, il demone della tassonomia antropologica sembra in procinto di
riprendere possesso dello spirito criticista, ed è esso d’altronde che gli aveva
aperto il cammino verso la questione del sublime, benché in termini diversi,
nelle Osservazioni del 1764-1766. Resta il fatto che, nel catalogo dei rampolli
sublimi, la differenza specifica che li unisce, e che si esige in ciascuno, è che
sia un ‘affetto libero del genere valoroso’ (KUK, 126). Da intendere: sacrificale,
più o meno. Nessuno (se si eccettua il rispetto per la legge) è eticamente
valido. In quanto ‘estetici’, sono tutti sospetti di interesse nell’uso (negativo)
che fanno delle forme naturali. La ‘teoria del sublime’, di tutti i sublimi, resta
dunque ‘una semplice appendice al giudizio estetico della finalità naturale’
(KUK, 94). Vi si procede alla radiografia dei bastardi nati da un ‘colpo di
fulmine’ della natura per la legge, ad opera della legge [pour, par la loi].
Restano da esaminare le implicazioni di questo disastro per l’unità del
soggetto e per la comunità sentimentale (estetica).”. (J.-F. Lyotard, L’intérêt du
sublime, in Aa.Vv., Du sublime, cit., pp. 226 ss.; tr. it. in Id., Anima minima, cit.,
pp. 82 ss.).
VIII.
LA CONDIVISIONE DEL GUSTO

1. Esigenza di condivisione universale

Il gusto e il sentimento sublime devono essere elaborati dalla critica


come dei sentimenti spogli di qualsiasi interesse allo scopo di
distinguerli dalle inclinazioni, che presuppongono dei bisogni, e dal
sentimento morale, che produce il bisogno del bene (54-55; 46-48)1.
Questa condizione di possibilità del sentimento estetico è stata
stabilita a titolo della sua qualità. Ma abbiamo visto che ancora un
altro tratto distingue il gusto, se non il sublime, dagli altri sentimenti,
e questo tratto non è meno importante. Tutt’altro. Il gusto è una
sensazione che chiede immediatamente di essere condivisa. Lo
chiede immediatamente nel senso che questa esigenza o
aspettativa è inscritta direttamente nella sensazione, senza nessuna
mediazione estrinseca. E, per giunta, chiede di essere condivisa
immediatamente. Il che non significa nello stesso istante, ma senza
la mediazione di alcun argomento, come per una transitività diretta.
Immediatezza di una richiesta di condivisione senza mediazione.
Abbiamo visto (supra III.2) che l’analisi critica di questa duplice
immediatezza viene condotta al doppio titolo della quantità e della
modalità. L’importanza di questi due titoli è però tale che l’onere
della legittimazione del gusto come giudizio necessario a priori, e
cioè la responsabilità della sua “deduzione” critica ricadrà soltanto su
di loro: “la risoluzione, la Auflösung, di queste caratteristiche
logiche”, l’universalità e la necessità, “sarà da sola sufficiente alla
deduzione di questa singolare facoltà, dieses sonderbaren
Vermögens” (117; 130-131)2.
Considerata secondo la categoria di quantità, la domanda di
condivisione reclama direttamente, per il giudizio sul bello,
un’universalità essa stessa immediata. Secondo la modalità, esige
spontaneamente che la sua necessità sia ammessa senza
discussione. (Per semplificare, e seguendo l’esempio di Kant, uso
qui le designazioni per mezzo delle categorie dell’intelletto puro,
invece dei titoli della riflessione, che sarebbero rispettivamente
unità/diversità e determinazione/determinabile e che soli sono
adeguati per principio a quei giudizi soggettivi che sono i sentimenti
estetici puri. Il primo titolo suggerisce per comparazione che tutto ciò
che è bello dà piacere, il secondo che il bello non può non dar
piacere.)
Abbiamo visto anche (supra II.3) che l’analisi della richiesta di
universalità e quella della richiesta di necessità convergono
entrambe nella nozione di una condivisione possibile del gusto.
“Condivisione possibile” si dice in un’unica parola “Mitteilbarkeit”, la
condivisibilità. Questa nozione costituisce l’oggetto del § 39: “Von
der Mitteilbarkeit einer Empfindung, Se una sensazione può esser
condivisa” (125 t.m.; 142)3. È in tal modo che l’analisi quantitativa
della pretesa all’universalità, alla “Allgemeinheit”, conduce la critica
all’Idea di una “allgemeine Stimme, di una voce universale” (60;
54)4. Cosa dice questa voce? Dice che è “possibile, che vi è la
Möglichkeit” (ibidem)5 che il giudizio estetico, che questa sensazione
stessa sia considerata “nello stesso tempo, zugleich” (ibidem)6 come
“valida per tutti e per ciascuno, als für jedermann gültig” (ibidem)7. Il
giudizio di gusto non “postula” la “Einstimmung, l’accordo” (il chorus)
di ciascuno: non fa altro che “ingiungerlo, es sinnet […] an, a
ciascuno” (ibidem)8.
Essa lo ingiunge “come un caso della regola, als ein Fall der
Regel” (ibidem)9. Ogni “accordo”, ogni piacere puro provato a
proposito di una stessa forma è un caso, e come tale resta un
giudizio singolare. Chiamandolo “caso” lo si riferisce tuttavia a una
regola generale del giudizio estetico, della quale esso sarebbe il
caso particolare. Questa regola non è però data, giacché la
sensazione giudica senza la mediazione di un concetto
determinante. L’intelletto è all’opera nel gusto solo come potenza,
Vermögen dei concetti, e non come determinante l’oggetto con un
concetto di bellezza per mezzo di una regola d’attribuzione. Se
regola c’è, la sensazione, il piacere del bello, di essa “attende,
erwartet, la conferma, la Bestätigung” (ibidem)10, l’omologazione. E
la aspetta “non dai concetti, nicht von Begriffen, ma dall’adesione
degli altri, von anderer Beitritt” (ibidem)11, dal loro “accesso” alla
stessa sensazione12. La regola del gusto che è “ingiunta” nel piacere
singolare dovrebbe dunque essere indotta a partire dai piaceri
ugualmente singolari provati “dagli altri”, a partire dalla loro
moltiplicazione, che ne farebbe altrettanti casi confermanti la regola.
È questa una lettura frequente e che il testo sembra autorizzare.
Così: “dire: questo fiore è bello è la stessa cosa, eben so viel, che
ridire semplicemente, nur nachsagen, che questo fiore pretende
propriamente, ihren eigenen Anspruch, di soddisfare ognuno” (117
t.m.; 131)13. Bisogna ricordarsi che nell’Antropologia dal punto di
vista pragmatico (§ 44), la facoltà di “trovare, auszufinden, il
particolare, das Besondere, che conviene all’universale (alla regola),
zum Allgemein (der Regel)” si chiama “Urteilskraft, facoltà di
giudizio”. All’inverso, “la facoltà di escogitare, ausdenken,
l’universale che conviene al particolare è lo spirito, der Witz
(ingenium)”14. L’Antropologia è senz’altro soltanto un’antropologia, e
non dev’essere confusa con gli affari della critica. Da questa
distinzione si può trarre tuttavia la domanda: quando la sensazione
di gusto viene detta “attendere” l’assenso di altri, lo fa al modo in cui
il Witz si appresta a pensare il generale a partire dai casi particolari,
o piuttosto al modo in cui la Urteilskraft si informa sui casi che
possono cadere sotto una regola che ha già? Certamente, ciò che il
gusto “attende” o “si ripromette” (60; 54)15 non è né l’uno, né l’altro.
Non può trattarsi di applicare una regola di gusto già determinata a
dei “casi” di giudizi estetici perché questi giudicano senza regola. Ma
non si può neppure trovare questa regola a partire dai giudizi d’altri,
per quanto numerosi essi possano essere nel consenso, e ciò per
due ragioni. La prima è di principio: agli occhi della critica,
l’induzione empirica non è una legittimazione. La sintesi implicata nel
giudizio di gusto dev’essere “dedotta” trascendentalmente, come
condizione a priori di questo giudizio, e l’unanimità constatata nei
fatti (se esiste) non vale da legittimazione. L’altra ragione si applica
propriamente al giudizio estetico: ancora una volta, esso ignora la
regola concettuale; non la presuppone, non la intende come la
riflessione può fare nel suo uso cognitivo. Questo giudizio è
tautegorico, ma non per se stesso euristico.
La “voce universale” non può essere dunque confusa con
l’accordo che ciascuno può dare effettivamente alla sensazione
singolare di piacere puro che una forma può suscitare. Ma resta il
fatto che “la capacità di condividere universalmente uno stato
dell’animo nella rappresentazione data, die allgemeine
Mitteilungsfähigkeit des Gemütszustandes in der gegebenen
Vostellung, […] deve stare a fondamento, zum Grunde liegen […]
muß” del giudizio di gusto (60; 55)16. Il carattere di condivisibilità è
davvero distintivo. Ma rimane da dedurre la legittimità di questa
strana esigenza. È ciò che verrà fatto esplicitamente dalla
Deduzione, ai §§ 30 e seguenti (115 ss.; 128 ss.)17. Anche se i
materiali della deduzione si trovano già nell’Analitica del bello.
Soffermiamoci per un po’ su ciò che dipende dalla quantità.
Abbiamo già osservato lo slittamento per cui la pretesa
all’universalità comportata dal giudizio sul bello viene trattata come
una pretesa alla condivisione universale, e quest’ultima intesa a sua
volta, apparentemente, almeno, come condivisione di questo
giudizio da parte di tutti [par “tout le monde”] (supra III.2). Si vede a
malapena perché l’universalità logica di un giudizio sarebbe
garantita, o persino segnalata, dall’unanimità degli individui
giudicanti. Che il giudizio sia riflessivo e non determinante non toglie
nulla a questa difficoltà. Il “titolo” riflessivo “unità” rimpiazza la
categoria determinante “universalità”, ma non si vede meglio come
esso debba assicurarsi dell’accordo d’altri per farsi valere.
Ricordo brevemente quella che sembra essere la struttura del
ragionamento che sostiene questo “slittamento”. In primo luogo,
come abbiamo appena detto, l’universalità dev’essere pensata qui
come un titolo riflessivo, giacché il giudizio sul bello è un giudizio
riflettente. In secondo luogo, questo titolo, l’unità, indica che la
totalità della forma giudicata bella “si applica” alla totalità dello stato
del pensiero chiamata piacere puro: tale è l’analogo riflettente
dell’universalità nella determinazione. In terzo luogo, questa
“applicazione”, o attribuzione, in questo caso non è affatto tale
perché il bello non è un predicato di oggetti e il piacere non è un
concetto, “soggetto” possibile di un giudizio. Non bisogna cadere
vittime della forma predicativa che noi diamo – per “surrezione” – al
nostro gusto, dicendo: questa forma è bella. Formulato
correttamente, il gusto dice: all’occasione di questa forma, il
pensiero prova un piacere puro (e cioè immotivato e intero).
E tuttavia, questa formula nasconde un equivoco: cos’è “il
pensiero” che prova questo piacere? È il pensiero istantaneo che
“apprende” e “riproduce”, che “comprende” la suddetta forma, questo
pensiero “contenuto in un istante”, l’“unità assoluta” (KRV A, 111-
112; 143)18 in cui si sintetizza innanzitutto il molteplice e che si
riproduce attualmente per presentarsi come forma (ivi, 112 ss.; 145
ss.)19 – inteso che nel gusto questa forma è libera, e nondimeno
sempre presentabile nei limiti della “misura prima”
20
dell’immaginazione (90; 95; supra I.2; IV.1) ? O si tratta piuttosto
“del pensiero” in generale, di ogni pensiero in quanto pensa questa
forma, considerato dunque come un oggetto permanente, identico a
se stesso attraverso la molteplicità successiva e/o simultanea dei
pensieri che lo afferrano? È il pensiero come totalità immediata,
come occorrenza, o piuttosto il pensiero in totalità, ogni pensiero,
come capacità? L’articolo cosiddetto determinativo è equivoco (in
francese, ma anche in tedesco). Designa l’universale: l’uomo è
mortale (ogni uomo è mortale); o il singolare: l’uomo è biondo
(l’uomo di cui parlo). Allo stesso modo “il pensiero” nella nostra
formula.
Che il pensiero singolare, nella sua occorrenza attuale, sia affetto
in totalità da un piacere puro in occasione della presentazione della
forma giudicata bella è evidentemente richiesto affinché ci sia gusto.
È la sua definizione a titolo della qualità. Ma questa mantiene la
quantità del giudizio nella singolarità, in un’universalità unica ed
esclusiva, che è senz’altro sufficiente a distinguerla dalla
“soddisfazione” provocata dal “gradevole” (54; 46-47)21 o dalla
“stima” positiva attribuita al “buono” (ibidem)22, ma che non le
conferisce alcuna universalità propriamente detta. Dal che ne
seguirebbe, secondo lo slittamento segnalato, che la “condivisibilità”
smetterebbe di essere un tratto trascendentale del gusto.
La cosa sarebbe dunque così grave? Ad autentificare il piacere
come estetico puro non è sufficiente il “disinteresse”? Ad
autentificarlo senza dubbio, ché la sua qualità è in effetti sufficiente a
distinguerlo. Ma non a legittimarlo. Senza questa universalità di
condivisione, anche semplicemente richiesta, l’estetica non può
essere fondata. Fondare il giudizio contenuto nel gusto significa
criticamente dedurre la sua possibilità a priori, e non soltanto
esporre le sue caratteristiche distintive. Secondo il progetto critico,
queste servirebbero soltanto a stabilire le condizioni necessarie a
priori perché questi caratteri possano essere quelli che sono. In
quanto necessarie a priori, queste condizioni sono universali, e cioè
vere per ogni giudizio estetico singolare. Bisogna poter dimostrare
dunque che questo giudizio presuppone nella sua singolarità
empirica e contingente certe condizioni senza le quali non potrebbe
presentarsi fattualmente così come si presenta, singolare e
contingente. Queste condizioni dette trascendentali saranno
universali e necessarie per ogni giudizio di questo tipo. Non sono
dunque né la singolarità né la contingenza del giudizio estetico a
poter condurre la critica a tali condizioni. E neppure la sua qualità di
“disinteresse”, perfettamente compatibile con la sua singolarità e
contingenza. È solo questo tratto, spesso dimenticato, per cui esso
richiede di essere condiviso universalmente e necessariamente. È
perché la condivisione possibile dello stato dello spirito sta “a
fondamento” del giudizio di gusto (60; 55)23 che il piacere ne è “la
conseguenza, zur Folge” (ibidem)24, che il piacere estetico ha “il
proprio fondamento, Grund” (61; 55)25 nel giudizio, e infine che
“soltanto l’universalità delle condizioni soggettive di questo giudizio
fonda, allein […] gründet, la validità soggettiva universale del
compiacimento che leghiamo alla rappresentazione dell’oggetto”
(ibidem)26.
Si potrebbe opporre a quest’ultimo testo quello del § 1, in cui
troviamo scritto all’inverso, sembra, che “il sentimento di piacere e
dispiacere […] fonda, gründet, una facoltà di discernere e di valutare
[…]” (49; 40)27. L’ordine di fondazione sembra così capovolto in
favore del piacere, dunque del singolare, a scapito della facoltà di
giudizio e delle sue condizioni a priori. Il fatto è, però, che l’oggetto di
quest’ultimo passaggio è tutt’altro. Si tratta di distinguere una facoltà
“che non contribuisce in nulla alla conoscenza” dell’oggetto (49-50;
40)28, in opposizione alla “facoltà di conoscere (secondo un modo
rappresentativo chiaro o confuso che sia)” (49; 40)29. (Il modo
“confuso” riguarda ancora una volta l’intellettualismo leibniziano.) Ciò
che “fonda” il sentimento è una capacità di pensare che mette in
relazione un pensiero (una rappresentazione) non all’oggetto
pensato, ma al pensiero stesso secondo il suo “stato”, una capacità
di pensare strettamente “soggettiva”, e persino tautegorica. Il testo,
insomma, non fa altro che trascrivere la “facoltà dell’animo,
Vermögen des Gemüts” che è il sentimento di piacere e dispiacere in
quella “facoltà di conoscere, Erkenntnisvermögen” che è la facoltà di
giudizio pura, senza far ricorso all’intelletto (42; 36)30. “Fondare” vuol
dire qui istituire questa corrispondenza.
Torniamo alla “condivisibilità”. Quest’esigenza è molto più che un
tratto notevole del gusto. Servirà a fondarne la validità universale. È
a partire da essa che verrà formulata l’ipotesi di un senso estetico
comune a ogni pensiero, il “sensus communis” (78-80; 80-82)31. È
grazie a essa, e attraverso l’ipotesi del “sensus communis”, che il
pensiero critico scoprirà il principio di un sostrato sovrasensibile che
finalizza ogni pensiero (164; 198)32. È la condivisibilità stessa,
ancora, che permetterà di argomentare l’antinomia della critica del
gusto: che dice a un tempo che non si può “disputare” e “decidere”,
“disputieren” ed “entscheiden”, riguardo al gusto, e che bisogna
sempre “dibatterne, streiten” (163 t.m.; 196-197)33; cosa che si
ricollega evidentemente allo statuto della sua universalità e della sua
necessità. Si deve dunque comprendere che nella nostra formula:
“all’occasione di questa forma, il pensiero prova un piacere puro”, i
termini “il pensiero” significano allo stesso tempo il tutto di un tale
pensiero che accade attualmente e ogni pensiero che penserebbe la
stessa forma. Pensiero singolare e condizione universale del
pensiero, in uno. È esattamente questa simultaneità paradossale
che si evidenzia, analiticamente, con la duplice immediatezza
segnalata poc’anzi: come singolare, il pensiero è immediatamente
affetto da piacere all’occasione di una tale forma; come universale,
esso pretende immediatamente la condivisione della sua affezione.
2. Esigenza di condivisione necessaria

Esaminando il giudizio di gusto secondo la categoria di modalità (o


secondo il “titolo” riflessivo corrispondente:
determinazione/determinabile) (KRV, 235 ss.; 314 ss.)34, la critica
precisa ulteriormente la questione della condivisione possibile. E le
dà una soluzione. Questo quarto Momento dell’Analitica del bello
determina innanzitutto la modalità del giudizio di gusto procedendo
per eliminazione. La categoria logica di modalità comanda la sintesi
che unisce i termini implicati in un giudizio a seconda che
quest’ultimo ponga tale sintesi come “possibile”, “esistente” o
“necessaria” (KRV, 94; 118)35. Nel caso di un giudizio estetico
riflettente, i tre valori modali sarebbero: è possibile che una forma
procuri piacere al pensiero, o: è un fatto che gli dà piacere, o: è
impossibile che non gliene dia. Il primo giudizio sarebbe
“problematico” (KRV, 88; 110)36; il secondo, che pone che la forma
dà “effettivamente, wirklich” (77; 78)37 piacere, sarebbe “assertorio”.
Mentre non appena una forma dichiarata bella è giudicata per ciò
stesso procurare piacere, la sintesi della forma e della soddisfazione
è posta come necessaria, e il giudizio dovrebbe essere “apodittico”.
Sarebbe questo il caso, in effetti, se si trattasse di un giudizio
determinante che attribuisce al concetto dell’oggetto una proprietà
che gli appartiene necessariamente. Ma il giudizio di gusto non è
tale, giacché il bello non è un predicato oggettivo, ma il nome di uno
stato soggettivo del pensiero proiettato sull’oggetto. È vero tuttavia
che l’unione della forma e di questo stato è necessaria. Chiamando
bella la forma, vogliamo dire che ogni pensiero dovrebbe trovarsi
nello stato in cui si trova il nostro in presenza di questa forma. Ma
“dovrebbe” soltanto. Possiamo evocare o invocare questa necessità,
ma non possiamo “esporla, exponieren” (167; 202)38. Esporre è
“ricondurre una rappresentazione dell’immaginazione a concetti, auf
Begriffe bringen” (167; 202)39. Il giudizio che viene formulato sulla
forma dal nostro sentimento opera però senza concetto. Se esso
esprime una connessione necessaria tra la sensazione e la sua
occasione è soltanto nel senso in cui “non concediamo a nessuno di
avere un parere differente, verstatten wir keinem anderer Meinung
zu sein” (79; 81)40. Cosa che porta di nuovo la critica sul cammino
della “condivisibilità”.
Quest’esperienza mentale, se così si può dire, o questa
“variazione immaginaria” per cui tentiamo di provare ciò che altri
dovrebbero provare nella medesima occasione, dota il nostro
giudizio di una necessità speciale, che non è logica e che Kant
chiama “esemplare, exemplarisch” (77; 78)41: “una necessità
dell’accordo di tutti a un giudizio, eine Notwendigkeit der
Bestimmung aller zu einem Urteil” (ibidem)42. Si vede bene lo
spostamento: non è il giudizio a esser necessario, ma l’accordo del
pensiero al soggetto di questo giudizio. Spostamento legittimo,
giacché il pensiero che giudicherà il giudizio sarà lo stesso pensiero
che, come “soggetto” (logico) di questo giudizio, sarà supposto
giudicare la forma alla quale si rapporta. A causa di questa semplice
evocazione, però, il giudizio di gusto si presenta “come un esempio,
Beispiel, di una regola universale che non si può addurre” (ibidem)43.
Come la pretesa all’universalità precedentemente, l’esigenza di
necessità evoca il fantasma di una regola concettuale. Ma questa
regola non può essere formulata (dall’intelletto, di cui è funzione), di
modo che l’esigenza di necessità rimane dunque non fondata
concettualmente. In mancanza di questa regola, la critica deve
trovare un qualche “principio” (78; 79-80)44, ma riflessivo, un
principio che autorizza la sensazione a reclamare la sua
condivisione necessaria. Questo principio dovrà poter determinare
“solo mediante il sentimento e non mediante concetti” ciò che piace,
“ma in modo universalmente valido” (ibidem)45. La necessità
invocata dal giudizio di gusto sarà esemplare solo se legittimata da
questo principio.
In che consiste questo principio? Lo si può chiamare
“Gemeinsinn, senso comune” (ibidem)46. Non è il “buon senso”, la
facoltà ordinaria di ragionare che si attribuisce a ogni essere
pensate, ma una disposizione a “sentire” che sarebbe comunemente
condivisa (126-127; 144-145)47. Avrebbe (tutta la descrizione è
condotta al condizionale, tanto questo principio resta problematico a
questo stadio della deduzione) la funzione di autorizzare
l’esemplarità universale della necessità sentita singolarmente nel
gusto: “il senso comune, del cui giudizio fornisco qui il mio giudizio di
gusto come un esempio, Beispiel, conferendogli per ciò stesso una
validità esemplare, exemplarische […]” (79 t.m.; 81)48. Questo
principio del senso comune adempirebbe così alla funzione della
regola mancante.
Si è forse legittimati a presupporre tale principio, detto questo?
L’argomentazione che autorizza questa presupposizione, già
abbozzata nell’Introduzione (37-38; 28-29)49, è esposta al § 21. La si
può sviluppare nel modo seguente:

1. È necessario (müssen) (78; 80)50 che conoscenze e giudizi


siano condivisi universalmente, “così come la convinzione, la
Überzeugung, che li accompagna” (ibidem)51. Perché è necessario?
Perché in mancanza di questa condivisione universale ci sarebbero
soltanto opinioni individuali, incapaci di mostrare l’accordo,
Übereinstimmung, di queste conoscenze e di questi giudizi con i loro
oggetti. Lo scetticismo che risulterebbe da questa incapacità è però
insostenibile, come ha mostrato la prima Critica.
2. Questa condivisione universale possibile richiesta dalla
conoscenza deve esserlo anche dallo “stato d’animo, dal
Gemütszustand” (ibidem)52 che accompagna la conoscenza. Poiché
ogni pensiero occupato a conoscere un oggetto è allo stesso tempo
affetto dal suo atto conoscitivo e si trova così in un certo “stato”, ad
esempio la “convinzione”, che è una soddisfazione dovuta alla
conoscenza. Si può dire persino, invertendo l’ordine, che questa
“condizione” soggettiva, questa Stimmung, lo stato in cui si trova il
pensiero mentre conosce, è inoltre una “condizione soggettiva del
conoscere”, condizione, stavolta, nel senso di condizione di
possibilità, “die subjektive Bedingung der Erkennens” (ibidem,
t.m.)53. Se non ci fosse una disposizione del pensiero di cui esso è
immediatamente avvertito e che sia propizia al suo atto di
conoscere, questo neppure esisterebbe per il pensiero, ed esso non
conoscerebbe. Il soggettivo, e cioè il riflessivo, prende qui il
sopravvento sull’oggettivo, sul determinante. (Cosa che può
sorprendere solo il lettore frettoloso delle Critiche, e soprattutto della
Appendice della prima dedicata ai “concetti” della riflessione.)
Certamente, la sensazione soggettiva è nel gusto “l’effetto, die
Wirkung” della facilità del gioco tra l’intelletto e l’immaginazione,
facoltà della conoscenza oggettiva (62; 57)54; ma, di contro, “la
conoscenza in quanto effetto, das Erkenntnis als Wirkung” (78; 80)55
non potrebbe prodursi senza la “Stimmung, la disposizione” del
pensiero che permette l’accordo delle due facoltà. Questo
capovolgimento è di grande importanza: la Stimmung si vede
conferire la dignità di condizione della conoscenza, di Bedingung. E
dato che questa condizione dev’essere universale affinché la
condizione connessa alle conoscenze e ai giudizi determinanti possa
essere condivisa, come lo è di fatto, allora la Stimmung stessa è
universalmente condivisibile.
3. Vi è però una disposizione del pensiero particolarmente
“conveniente”, particolarmente “dovuta” (provo a rendere così il
“welche sich […] gebührt, che si deve”) (ibidem)56 a una
rappresentazione d’oggetto per farne una conoscenza. Essa
corrisponde a una “proporzione, [eine] Proportion” (ibidem)57 delle
due potenze, immaginazione e intelletto, l’una in relazione all’altra.
La disposizione del pensiero valutata secondo piacere e dispiacere
(facoltà dello spirito) può essere così trascritta nei termini delle
facoltà conoscitive. Un oggetto è dato dalla sensibilità,
l’immaginazione procede alla “composizione, alla
58
Zusammensetzung” (79; 80) del molteplice dato in uno schema, e
mette l’intelletto in azione perché “riconosca” l’oggetto per mezzo di
concetti. Si riconosce in ciò la “proporzione” richiesta dalle facoltà
conoscitive affinché la conoscenza dell’oggetto sia effettiva. È quella
che è stata elaborata nella prima Critica.
4. Questa proporzione è sentita inoltre dal pensiero come
“buona”, come piacere? Non è certo. Sono possibili molte
proporzioni. La proporzione delle facoltà in atto per una conoscenza
dipende dall’oggetto da conoscere, da conoscere “in generale”, “auf
Erkenntnis (gegebener Gegenstände) überhaupt”59. Nel lessico
critico, la “conoscenza in generale” include la conoscenza in senso
stretto, che determina un oggetto d’esperienza, ma anche la
rappresentazione di un’azione da compiere praticamente, di una
forma libera da presentare per il piacere puro, di un oggetto
“trascendentale” di cui la ragione ha l’Idea e sul quale essa specula
e argomenta, di un oggetto del quale l’intelletto puro si sforza di
determinare la “nozione” senza riguardo per l’esperienza, ecc. È
chiaro che in ognuno di questi casi, la proporzione
dell’immaginazione e dell’intelletto “investita” nell’atto del pensiero
non è la stessa.
5. “Ciò detto, è tuttavia necessario, gleichwohl aber muß es”
(ibidem)60 che, tra tutte quelle che sono possibili, ci sia una
proporzione tale che il rapporto tra le due potenze (di presentare e di
concepire) sia “il più favorevole, die zuträglichste” (ibidem)61; una
sorta di grado ottimale della proporzione. Ottimale per cosa,
favorevole a cosa? Alle “forze dell’animo”, alle “Gemütskräfte”
(ibidem, t.m.)62 rispetto alla conoscenza in generale.
6. Questa proporzione si riconosce per il fatto di essere sentita
immediatamente dal pensiero. Si passa così di nuovo dall’analisi
delle potenze conoscitive all’esame della disposizione riflessiva del
pensiero come potenza di sentire piacere e dispiacere. Né la
suddetta buona proporzione né la felice disposizione che ne è il
segno (allo stesso tempo la causa e l’effetto) sono però determinabili
“secondo concetti”. Lo sono soltanto “mediante il sentimento”63.
Riconosciamo qui la proprietà assolutamente tautegorica del
pensiero riflessivo: il suo “stato” è il segno di se stesso. Il § 9 mostra
che non può essere determinato concettualmente. Se questo fosse il
caso, il pensiero sarebbe avvertito del suo piacere, reso “cosciente”
in modo “intellettuale”, come lo è nella conoscenza di un oggetto
grazie allo “schematismo oggettivo” (62; 57-58)64. Ciò è però
impossibile. Il pensiero non ha conoscenza, in senso stretto (per lo
schema e il concetto), dei suoi stati soggettivi: ne ha sensazione, e
la sensazione è lo stato stesso.
7. In conclusione, la conoscenza dell’oggetto deve essere
condivisibile, la disposizione soggettiva che le conviene deve essere
condivisibile, e deve esserlo anche la buona disposizione (il
piacere). È dunque permesso presupporre un “senso comune”, e
cioè un’attitudine comune a sentire la buona proporzione delle
facoltà conoscitive. E ciò non è soltanto permesso, è necessario
tanto quanto lo è la “condivisibilità” della conoscenza.
3. Esitazione sull’esigenza

Malgrado il suo rigore, questa dimostrazione non soddisfa


pienamente la critica. Essa lascia infatti in sospeso la questione
dello statuto trascendentale da dare al “sensus communis”. Non
sono certo delle “osservazioni psicologiche” (79; 81)65 che possono
stabilire questo statuto. Esso è trascendentale, ma dove dev’essere
“domiciliato”? La questione è riflessiva. È la preoccupazione della
“topica trascendentale” che reclama questo supplemento di
determinazione.
La questione sarà precisata al § 22 sotto forma di un’alternativa.
Ma per cogliere davvero la posta in gioco dell’alternativa bisogna
circoscrivere chiaramente quale ne è l’oggetto. Questo non è il
“sensus communis” stesso. È la “norma ideale, idealische Norm”
(79; 81)66, “semplicemente ideale”, che il piacere del bello sembra
implicare quando pretende l’universalizzazione del suo giudizio
singolare: se ti chiedo di trovare bello ciò che io trovo bello non è
forse perché il mio gusto obbedisce a una norma? “Richiedere”,
“aspettarsi”, “ripromettersi” l’assenso67, tutti questi termini si
autorizzano in forza di un “dovere”, di un “Sollen”. Come abbiamo
già letto, “chi dichiara bello qualcosa vuole che ognuno debba dare
la sua approvazione all’oggetto in questione e a sua volta dichiararlo
bello” (77; 79; supra VII.3)68. Ma abbiamo visto anche che questo
“Sollen” si vede subito interdire ogni pretesa allo statuto del dovere
morale: “anche con tutti i dati necessari alla valutazione, nel giudizio
estetico il Sollen, l’obbligazione è espressa solo condizionalmente”
(ibidem)69. La condizione perché l’“obbligazione” estetica obblighi è
che il giudizio che la comporta sia il caso di un principio di
obbligazione universalmente valido, giacché questo giudizio che è
soggettivo, senza concetto e singolare non ha in se stesso l’autorità
di obbligare. E supponendo anche che questo principio sia
dimostrato, sarebbe inoltre necessario che fosse “sempre
assicurato, immer sicher” che “il caso, der Fall”, e cioè un tale
giudizio di gusto nella sua occorrenza singolare, sia stato davvero
“sussunto correttamente sotto quel principio” (ibidem)70 e che non
obblighi per motivi diversi da questo principio puro. L’obbligazione
estetica avrebbe allora una validità simile a quella di un “principio
oggettivo, gleich einem objektiven [Prinzip]” (79-80; 81)71. Ma la
condizione è ripetuta: se si è sicuri che il giudizio di gusto singolare è
“sussunto correttamente” sotto questo principio (80; 81)72.
Il termine “sussunzione”, impiegato a due riprese per designare la
condizione di validità dell’obbligazione estetica, porta a pensare il
principio al quale quest’obbligazione si riferisce come una regola
dell’intelletto. Allo stesso modo in cui un giudizio d’esperienza
acquisisce la sua validità cognitiva e il diritto all’universalizzazione
per il fatto che la sintesi che opera tra i dati può essere sussunta
sotto una regola dell’intelletto, così accadrebbe anche nel giudizio
sul bello: la sua validità sarebbe sottomessa alla condizione di una
sussunzione analoga alla sua sintesi sotto un principio. “Si potrebbe
a buon diritto stabilire come regola per ognuno, für jedermann mit
Recht zur Regel machen” (79; 81)73 un giudizio singolare, un “caso”
di gusto, se esso soddisfacesse a questa condizione di sussunzione.
Ma questa interpretazione del principio come regola cognitiva
deve essere abbandonata per tre ragioni: in primo luogo, anche se
esige universalità e necessità, il giudizio di gusto è soggettivo, e non
può cadere sotto una regola dell’intelletto; l’immaginazione non vi
lavora poi, in secondo luogo, per mezzo di schemi; e infine, in terzo,
una tale regola, in senso proprio, non obbliga affatto. Essa esige che
il caso le sia sussunto per essere conosciuto, e cioè per essere
determinato secondo concetti. Il “sensus communis” è però sentito
come una “norma ideale” che ognuno “dovrebbe” osservare
giudicando a sua volta la forma giudicata bella. Ciò che obbliga, ciò
che è sentito dal pensiero come un “Sollen”, un “tu devi”, non si
chiama regola ma norma. La legge morale è una norma. Essa
prescrive imperativamente e senza condizioni. E a differenza della
regola dell’intelletto, la legge non determina ciò che è necessario
fare, il caso, ma che qualcosa deve essere fatta, nel caso, affinché
la legge stessa sia realizzata. Se il principio di universalizzazione
che legittima il giudizio estetico singolare a richiedere la sua
condivisione opera come una “norma ideale”, esso opera dunque
piuttosto come la legge morale. E, come quella della legge morale,
la sua norma dovrebbe restare “indeterminata, unbestimmte” (80;
82)74.
Riassumendo, con l’esigere la condivisione, il gusto
esemplificherebbe una norma; questa dovrebbe restare
indeterminata (il giudizio estetico deve rimanere libero); questa
norma sarebbe fondata su un principio incondizionato e universale.
Ma prima di ammettere la deduzione così avviata del suddetto
principio, persiste la difficoltà di localizzarne il domicilio di facoltà.
Ricominciamo: quando giudica bella una forma, il pensiero esige che
questa forma sia sentita bella da ogni altro pensiero, o piuttosto
obbliga ogni pensiero a sentire bella questa forma? Il nostro testo
invoca la necessità del giudizio estetico. Ma la necessità, stricto
sensu, è l’impossibilità del contrario. È questo il caso, nel gusto?
Affatto. I pareri differiscono, come si suol dire. Quando si giudica un
corpo pesante, il giudizio contrario è escluso. La forma non è bella
come il corpo è pesante. La necessità non è dunque “apodittica”. È
esemplare (77; 78)75. Ma come domiciliare una “necessità
esemplare” in una topica trascendentale? “Exemplarisch” non
appartiene allo stesso topos di “Beispiel”. “Sollen”, obbligazione, non
è “müssen”, necessità.
E tuttavia la critica sembra avere delle difficoltà a separare questi
termini quando espone l’obbligazione estetica. Questo passaggio ne
è testimonianza: “il dovere, das Sollen, cioè la necessità oggettiva,
die objektive Notwendigkeit, che il sentimento di ognuno confluisca,
Zusammenfließen, con quello che è proprio di ciascuno, significa
solo la possibilità di trovarsi d’accordo, einträchtig, a tal proposito, e
il giudizio di gusto espone solo un esempio, ein Beispiel,
dell’applicazione di questo principio” (80 t.m.; 82)76. L’esemplare è
un semplice esempio d’applicazione, e il Sollen una necessità
oggettiva: eccoci tornati all’ipotesi cognitiva. È dunque urgente
localizzare il principio che autorizza la condivisibilità. Se questa è
pretesa come una regola, il principio appartiene al dominio
dell’intelletto, il che è impossibile. Se è obbligatoria come una
norma, il principio dipende dalla ragion pratica, il che è però
ugualmente impossibile (supra VII.2-5). Troppo massiccia,
quest’alternativa sarà di fatto spostata a beneficio di un’altra, più
sottile, che viene esposta al § 22. La soluzione di quest’ultima sarà
differita ed esposta soltanto ai §§ 57 e 59.
4. Localizzazione del principio che fonda l’esigenza

Dove bisogna domiciliare il principio su cui si fonda l’esigenza di


condivisibilità inerente al giudizio di gusto? A quale facoltà
appartiene, a che potenza del pensiero? Al § 22, la questione trova
una nuova formulazione: “il gusto è […] una potenza originaria e
naturale, ein ursprüngliches und natürliches […] Vermögen, o solo
l’Idea di una potenza che rimane da acquisire [la potenza] e che si
coltiva come un’arte, oder nur die Idee von einem noch zu
erwerbenden und künstlichen Vermögen […]?” (80 t.m.; 82)77. La
domanda può essere intesa secondo una triplice opposizione: o il
gusto è una potenza già data, o non esige che l’Idea di una potenza;
o il pensiero è ab origine dotato di questa potenza, o gli è necessario
appropriarsene; o questa potenza appartiene alla sua natura di
pensiero, o è il frutto della sua arte.
La questione, presa globalmente, può sorprendere. Non avevamo
stabilito che la capacità del pensiero di essere e di sentirsi felice in
occasione della percezione di una forma era spontanea, costitutiva?
Il “soggettivo” non era concepito precisamente come questa
affettività o affettualità immediata del pensiero attraverso i propri
oggetti? È possibile che il pensiero debba impiegare le risorse
dell’arte, di un’arte che si dimostra artista e persino artificiale,
künstliche, per ottenere da se stesso questa capacità di sentire il
bello?
Sorprendente, in effetti. Oltretutto, non è il gusto come sensazione
pura e disinteressata a essere interrogato in questa maniera, ma
quell’aspetto per cui esso comporta una richiesta di essere condiviso
universalmente e necessariamente. L’inizio di quello stesso
passaggio non lascia alcun dubbio: ciò che è in questione è sapere
“se ci sia in effetti, ob es in der Tat […] gebe, un tale senso comune,
come principio costitutivo della possibilità dell’esperienza, o se un
principio ancora più alto, noch höheres, della ragione faccia in modo,
solo a titolo di principio regolativo, che innanzitutto, allererst, noi
suscitiamo in noi stessi, in uns hervorzubringen, un senso comune
per dei fini più alti” (80 t.m.; 82)78. La prima ipotesi è chiaramente
quella di un principio che opera come una regola dell’intelletto per la
conoscenza dell’esperienza; e bisogna ricordarsi che quest’ipotesi è
stata autorizzata dalla procedura di deduzione del “sensus
communis”, sostenuta interamente dal richiamo alle condizioni
soggettive di ogni conoscenza stricto sensu. Seguendo la seconda
ipotesi, all’inverso, quella di un “principio della ragione” di rango “più
alto”, la critica deve riconoscere che il “sensus communis” non è
esso stesso il principio che fa da norma estetica. Il “sensus
communis” è subordinato a quest’altro principio, ed è “regolato,
regulativ” e “suscitato, hervorbringen” in noi da esso. Il così detto
“senso comune” è così riclassificato a titolo di traccia, di segno che
richiama nell’ordine estetico un’Idea che governa da lontano il
pensiero mentre questo prova piacere per il bello e ne richiede la
condivisione. Si capisce allora come in quest’ipotesi il pensiero
estetico (il sentimento del bello, il gusto, in una parola) appartenga a
un’altra potenza, che non disponga ancora di questa potenza tanto
alta e che gli sarà necessaria tutta un’arte per ottenerla. Ché anche
nella sua richiesta di condivisione, il gusto è ancora soltanto una
premessa, allererst, e la sua finalità non è l’ultima.
A costo di “suonare” un po’ intellettualista, in senso leibniziano o
hegeliano, è questo a essere enigmatico: che il gusto sarebbe
insomma solo l’attualizzazione ancora confusa di una potenza del
pensiero puramente razionale, a venire e che non si limita affatto a
rendere “possibile l’esperienza”. Sarà questa, tuttavia, l’ipotesi
corretta, come vedremo a breve. Giacché ciò che è certo è che la
condivisibilità richiesta dal gusto non può basarsi sulla sola
dimostrazione del fatto di essere implicata in ogni atto di conoscenza
teoretica. Per una ragione in conclusione molto semplice: e cioè
perché questa domanda non opera come una regola dell’intelletto,
ma come una norma della ragione. La norma implica una finalità, la
regola no.
5. Soluzione dell’antinomia del gusto

Passiamo adesso ai §§ 57 e 59 in cui viene argomentata l’ipotesi


che abbiamo appena delineato. Questi paragrafi appartengono alla
Dialettica del giudizio estetico e seguono la “soluzione dell’antinomia
del gusto” (163 ss.; 197 ss.)79. Ricordo qui il contenuto di
quest’ultima.
Prima di tutto, bisogna tenere a mente che questa antinomia non
appartiene al gusto stesso, ma alla “critica del gusto” (162; 195)80. È
infatti la critica che può e deve sostenere in merito al gusto due
proposizioni apparentemente contraddittorie: il gusto è un giudizio
singolare soggettivo che non fa uso di alcun concetto; e, il gusto è
un giudizio che pretende l’universalità e la necessità, categorie
dell’intelletto, e quest’ultimo è la facoltà dei concetti. Dalla prima
proposizione segue la tesi dell’Antinomia (che procede per
confutazione come nell’Antitetica della prima Critica): se si
giudicasse del bello per mezzo di concetti, si “potrebbe decidere
mediante prove” ciò che è bello; non è però questo il caso (163;
197)81. Dalla seconda proposizione risulta l’antitesi: se si giudicasse
del bello senza concetti, non si potrebbe neppure “pretendere
l’accordo necessario degli altri con questo giudizio” (ibidem, t.m.)82,
e la discussione sarebbe impossibile; non è però questo il caso.
Per risolvere quest’aporia, che è la sua, la critica distingue
innanzitutto due tipi di interlocuzioni argomentative. “Disputare,
disputieren” è uno scambio di argomenti che obbedisce a delle
regole della logica concettuale e della conoscenza oggettiva, allo
scopo di arrivare all’accordo di questi interlocutori sull’oggetto della
“disputatio”. È a questo titolo che implica l’ammissione di prove: nel
corso della disputa vengono addotti dei fenomeni che attestano che
un tale concetto empirico ha ben presente il proprio oggetto
nell’esperienza (166; 201)83. E, se si tratta di concetti utilizzati da
giudizi a priori, si adducono gli schemi stessi (174; 212)84, che
assicurano che questo oggetto è presentabile a priori
nell’esperienza. In entrambi i casi, giudizio meramente empirico e
giudizio a priori, la disputatio ricorre al “Darstellen”, alla
“presentazione” (166; 201)85, alla “Darstellung diretta” (174; 212)86,
e pretende di conquistarsi la convinzione. L’immaginazione, facoltà
della presentazione, e l’intelletto, che fornisce i concetti, cooperano
così all’amministrazione della prova della verità dell’argomento, e
permettono di “decidere, entscheiden” (163; 196)87 tra esso e il suo
contrario.
Abbiamo già compreso che, se l’oggetto della disputa è il gusto,
non si potrà decidere tra i giudizi riguardo al bello. I giudizi di gusto,
ignorando il concetto, privi di regole, indifferenti all’esperienza
conoscibile, non sono in grado di fornire l’argomento logico e la
prova della loro validità per mezzo della presentazione. Se
nondimeno danno materia all’interlocuzione, a una “conversazione”,
questa non può essere una “disputatio”, ma sarà “ein Streiten, un
dibattito” (163 t.m.; 196)88, quasi un combattimento. Ci si batte89.
Ognuna delle parti prova ad argomentare il suo giudizio sul bello allo
scopo di arrivare a un accordo con l’altro. Ma “la speranza,
Hoffnung” (ibidem)90 di arrivare a questo accordo sarà sempre
delusa. Per gli interlocutori, non si arriverà mai a quella comunione
consensuale stabilita su delle ragioni e su delle prove condivise e
che permette di dichiarare che la disputa è chiusa. Il che è come dire
che il dibattito sul bello, non potendo essere deciso, si perpetua. E
se si perpetua non è, o è non soltanto, perché non può arrestarsi.
Dopo tutto, gli avversari potrebbero essere rinviati entrambi, come
nel caso delle prime due Antinomie della prima Critica (infra I.7), e il
dibattito cessare per mancanza di combattenti. No, il dibattito si
perpetua anche, ed essenzialmente, perché una finalità “più alta”, di
cui nessuno degli interlocutori ha la concezione, “abita”, se così
posso dire, l’oggetto del dibattito, e infesta il dibattito stesso. Evoco
qui l’enigmatica istanza che, dall’alto e da lontano, non smette di
chiamare alla condivisione del sentimento estetico e, di
conseguenza, alla discussione di questo sentimento.
La soluzione critica dell’Antinomia si orienta grazie alla direzione
indicata dal dibattito interminabile. Ché esso è per se stesso il segno
del modo in cui bisogna procedere per unificare ciò che è
eterogeneo, ma unificarlo necessariamente. La soluzione può
essere cercata solo dal lato di una sintesi dinamica (supra III.3). Il
nostro testo ne ricorda l’essenziale: questa sintesi ha per principio
“la possibilità che due proposizioni che si contraddicono secondo
l’apparenza, dem Scheine nach, non si contraddicano di fatto, in der
Tat, ma possano coesistere l’una accanto all’altra, neben einander”
(165 t.m.; 199)91. L’“andamento” di questa soluzione, il suo “Gang”, è
simile a quello che risolve le ultime due antinomie della ragione pura
teoretica (ibidem)92.
Si può, si deve dar ragione alla tesi per cui non ci sono concetti
nel gusto che permettano di disputarne, e anche all’antitesi per cui
devono esserci dei concetti che spingono almeno a dibatterne,
giacché il dibattito è un’argomentazione. Perché non ci sono
senz’altro dei concetti determinabili all’opera nel giudizio di gusto.
Ma questo giudizio obbedisce nondimeno, in modo regolativo, a un
concetto “indeterminato” e “indeterminabile” (164; 197)93. Non ci
sono concetti che possano qui essere “probanti, erweislich” (164;
197)94 appoggiandosi a un’intuizione, come esige la disputa. Ma c’è
come minimo un concetto, altrimenti non si comprenderebbe
nemmeno questa richiesta di condivisione che c’è nel gusto e che
motiva il dibattito e la speranza di arrivare a un accordo. Questa
richiesta e questa speranza sono come l’impronta, il segno che la
potenza di concepire imprime su quella riflessione pura che è il
sentimento del bello. Il giudizio estetico è sottratto grazie a questa
impronta alla particolarità limitata di un “Privaturteil” (164; 198)95, di
un giudizio privato di ogni condivisione, incondivisibile come un
giudizio dei sensi. Esso giudica certo senza regola, ma non senza
Idea regolatrice. La chiamata alla condivisione procede da questa
regolazione.
Un concetto indeterminabile il cui oggetto rimane impresentabile
si chiama Idea (KRV, 261 ss.; 347 ss.)96. Il pensiero non conosce, in
senso stretto, nulla dell’oggetto di questa Idea. La critica scopre
nell’esigenza di essere condiviso, che è costitutiva del piacere
procurato dal bello, il segno di un’Idea. Quest’Idea rende dunque il
gusto possibile secondo il tratto che lo distingue da ogni altra
soddisfazione, e cioè quest’esigenza stessa. Il pensiero che valuta il
bello non conosce niente di questa Idea, ne è affetto, ne sente la
voce, una voce che evoca il concerto delle voci, che promette,
attende e prescrive la “voce universale” (60; 54)97. Tale è
l’indeterminazione del concetto (della ragione) che “sta a
fondamento” (164; 197)98 delle condizioni del giudizio estetico.
6. Le Idee-limite

Questo concetto della ragione è chiamato “das Übersinnliche, il


soprasensibile” (ibidem)99, l’al di sopra del sensibile, senza
determinazione altra dalla sua localizzazione in rapporto alla
sensibilità. La voce che chiama alla condivisione della sensazione
non è quella della sensazione. La sensazione che si trova in
relazione con lo stato del pensiero è paralizzata da “un’altra
sensazione” che il pensiero sente come una chiamata che abita il
suo piacere. Perché il soprasensibile affetta il pensiero soltanto
rendendolo “segno” di una norma regolatrice, ed è questo che
trasfigura il sentimento singolare in un “esempio” da seguire
necessariamente e universalmente.
La localizzazione di questa voce nella topica trascendentale non è
difficile. La soluzione dinamica dell’antinomia suggerisce che essa è
un’Idea della ragione perché il gusto dà luogo a un’argomentazione,
ma che questa non può fornire le sue prove sotto forma di
presentazione: concetto senza intuizione corrispondente. Come ogni
Idea, essa è “indimostrabile, indemonstrabel” (166; 201)100.
“Demonstrieren” è “ostendere, exhibere”, presentare l’oggetto di un
concetto nell’intuizione (167; 201-202)101. Indimostrabile è ad
esempio, come spiega la Critica della ragion pratica, l’Idea che sta a
fondamento della moralità, “il concetto di libertà trascendentale”
(167; 202)102. L’Idea del soprasensibile, secondo la distinzione
stabilita dalla prima Critica nell’Osservazione conclusiva sull’intera
Antinomia della ragion pura (KRV, 411 ss.; 546 ss.)103, non è
dunque soltanto un “concetto trascendentale della ragione,
transzendentale Vernunftbegriff” (164; 197)104, è “un concetto
trascendente, ein transzendenter Begriff” (166; 200)105. Ciò che
viene concepito nel concetto trascendente eccede ogni intuizione
sensibile e si sottrae a tutti i mezzi della prova.
Un’Idea è trascendentale in quanto regola in ultima istanza l’uso
legittimo di una facoltà nel suo dominio o nel suo territorio. È
trascendente quando “muta se stessa in un oggetto la cui materia
non è tratta” da questo dominio o da questo territorio (KRV, 411;
547)106. Non è determinabile coi mezzi che regolano il giudizio in
questo campo, e “non è di conseguenza altro che un semplice
essere di ragione, ein bloßes Gedankending” (ivi, 412; 547)107.
L’“essere di ragione” è stato definito nella tavola del Niente come “un
concetto vuoto senza oggetto, ens rationis” (ivi, 248-249; 332-
333)108. È questo concetto “bianco”, per l’oggetto del quale
l’intuizione non ha niente da mostrare. Ma, preso in se stesso o
preso esso stesso come oggetto del pensiero, questo concetto vuoto
non è per questo meno certo, la sua trascendenza è certa. Il
concetto del soprasensibile è trascendente, ma certo. La sua
certezza è “immediata”, non si ottiene con l’amministrazione di
prove, che sono impossibili (166-167; 201-202)109. È trascendentale
perché è preteso dalla riflessione critica sul giudizio di gusto quando
questo cerca di legittimare l’esigenza di condivisione che è
contenuta in esso. È trascendente perché il suo proprio oggetto
rimane sconosciuto. Detto altrimenti, quest’esigenza di condivisione
stessa non vuole una presentazione dell’oggetto pensato col nome
di soprasensibile. Non è altro che la “presenza” o il segno di questo
oggetto assolutamente assente, insensibile, nel senso stretto della
conoscenza.
Si dirà, e Kant stesso lo scrive, che queste proprietà sono anche
quelle dell’Idea di libertà: trascendentale perché rende possibile la
moralità e governa il dominio della ragion pratica; trascendente
perché la sua “presenza” si segnala solo per il sentimento del
rispetto, che include anch’esso l’obbligazione di condivisione
universale. Questo vuol dire forse che le due Idee, quella che
comanda l’estetica e quella che comanda l’etica, sono soltanto una?
Esse non sono identiche, ma stanno tra di loro in un rapporto
d’“analogia” (174; 212)110. Più precisamente, il bello sta al bene
come una presentazione indiretta (ibidem)111 sta a un concetto
impresentabile. Questa “ipotiposi” si chiama “simbolica” (ibidem)112.
Abbiamo già esaminato la quadruplice ragione di questa analogia
esposta al § 59 (supra VII.3).
A dire il vero, sebbene il testo induca a una tale lettura, poiché la
Critica del giudizio estetico si conclude sull’analogia del bello con il
bene, il concetto trascendentale del soprasensibile scoperto
dall’esame di questo giudizio non è l’oggetto della comparazione del
bello con il bene. Ciò che è comparato con l’Idea della ragion
pratica, la libertà trascendentale, è l’Idea propria della facoltà di
giudizio estetico, l’Idea estetica. Introdotta nella prima Nota che
segue il § 57 a titolo “tecnico”113, quest’ultima espressione viene
ripresa, come abbiamo letto (supra II.3), dall’analisi del genio (143
ss.; 167 ss.)114. Essa indica quel modo di presentazione delle forme
proprio dell’immaginazione per cui nessun concetto determinato può
essere adeguato a questa presentazione, né alcun linguaggio
intelligibile può renderne conto (143-144; 167-168)115. Si sarebbe
tentati di dire che, se c’è in effetti un’Idea della facoltà di giudizio
estetico analoga a quella della ragion pratica, questa è di nuovo la
libertà trascendentale, ma come libertà dell’immaginazione e non
della volontà. È in tal senso che essa è la “controparte” (144; 168)116
dell’Idea della ragione: presentazione senza concetto adeguato,
concetto senza presentazione adeguata.
Questa simmetria motiva l’opposizione, nella Dialettica,
dell’“inesponibile, inexponibel” e dell’“indimostrabile, indemonstrabel”
(166; 201)117. Dato che esporre è mettere in concetto una
rappresentazione dell’immaginazione, l’Idea estetica che non lo
permette è inesponibile. L’Idea razionale è indimostrabile per il
motivo inverso: il concetto non trova un’intuizione appropriata.
Quest’opposizione è sufficiente da se stessa a interdire la
confusione, e persino la continuità, dell’etica con l’estetica. Il loro
rapporto deve essere mantenuto dalla critica in forma analogica.
L’inesponibilità estetica non è nulla più che un simbolo
dell’indimostrabilità. Sebbene nel gusto sia legato a una buona
proporzione delle facoltà conoscitive (ma esso è considerato allora
soltanto come la condizione soggettiva della possibilità
dell’esperienza, il “sensus communis”, come si ricorderà), malgrado
ciò, c’è in entrambi i casi, estetica ed etica, una specie di eccedenza
nel gioco di una facoltà con l’altra: un eccesso di presentazione
immaginativa, un eccesso di obbligazione razionale.
L’analogia finale, esposta al § 59, mette dunque in parallelo Idea
con Idea, Idea del bello con Idea del bene, “dimostrazione” con
“esposizione” (attenzione a queste parole fuorvianti). Non riguarda
affatto il concetto indeterminato del soprasensibile. Quest’ultimo è di
rango ancora più elevato. Giacché ciò che esso è incaricato di
fondare è l’accordo o l’affinità delle facoltà stesse, le une con le altre,
a dispetto della divergenza estrema delle Idee (che abbiamo appena
sottolineato per l’etica e l’estetica) a cui queste facoltà pervengono
quando provano a scoprire, al limite della loro capacità, la
condizione suprema delle condizioni di possibilità specifiche dei loro
rispettivi domini o territori. Non è soltanto la facoltà di desiderare
che, per il dominio etico, culmina nell’Idea di libertà trascendentale,
né la facoltà di presentare in quella di libertà trascendentale, ancora,
per il territorio estetico. L’intelletto stesso non può evitare più degli
altri di massimizzare i suoi concetti (che condizionano la possibilità
della conoscenza dell’esperienza) fino alle Idee di “integralità
assoluta, absolute Vollständigkeit” che formano la tavola dei concetti
cosmologici: la “composizione, Zusammensetzung”, la “divisione”,
l’“istituzione, Entstehung” e la “dipendenza dell’esistenza” (KRV, 332
t.m.; 444)118. Le antinomie che risultano da questi concetti
massimizzati fino all’assoluto mostreranno anche in questo caso che
l’intelletto, comunque padrone delle regole sul territorio della
conoscenza della natura, si contraddice quando prova a conoscere
queste nozioni-limite: esse appartengono alla ragione teoretica, nella
sua libertà trascendentale di concepire.
Ognuna della facoltà conoscitive (in senso largo), arrivata in tal
modo al suo punto di dispnea, alla sua hybris, viene afferrata dalla
propria inconsistenza intrinseca. L’antinomia è il marchio logico
(trascendentale) di quella contraddizione che è il limite. Come “ci
sono tre facoltà conoscitive”, “ci sono allora” tre antinomie: “della
ragione per la facoltà di conoscere rispetto all’uso teoretico
dell’intelletto, fino all’incondizionato”; “della ragione per il sentimento
di piacere e dispiacere rispetto all’uso estetico della facoltà di
giudizio”, e qui, si può aggiungere: fino all’universalità necessaria del
gusto; “della ragione per la facoltà di desiderare rispetto all’uso
pratico della ragione in se stessa legislatrice”, cioè: fino
all’autonomia del volere nella legge (168 t.m.; 204)119.
Il “fino all’incondizionato” che indica il limite da cui nasce la prima
di queste antinomie, e che mi permetto di precisare per le due
seguenti, indica che si tratta proprio dell’orizzonte impensabile a cui
ogni potenza del pensiero si avvicina nella sua passione di
legittimarsi. Orizzonte perché l’incondizionato delle condizioni del
pensiero in ognuna delle sue capacità è sempre differito, e perché la
sua ricerca è senza fine. Si è in diritto di intendere col nome di
“ragione” l’euristica interminabile della stessa riflessione critica. Essa
non può determinare con i mezzi che le sono propri in ognuno dei
domini e territori citati gli assoluti da cui questi mezzi dipendono.
L’incondizionato della conoscenza non può conoscersi, la legge della
facoltà di desiderare non può essere desiderata, il principio
soprasensibile che fonda l’esigenza di condivisione universale del
gusto non può costituire l’oggetto di un piacere estetico. E tuttavia,
l’orizzonte è ovunque “presente”. Chiamo qui “presenza”, in
opposizione alla presentazione, l’effetto di questa trascendenza sul
pensiero teoretico, pratico o estetico, il suo segno. E se è vero che
“la ragione” che è arrivata a queste regioni di frontiera, a questi
confini, è di fatto la riflessione, si comprende di quale privilegio si
ritrovi dotata la facoltà di giudizio riflettente che opera nel giudizio
estetico nel suo accostarsi all’assoluto.
7. Il sostrato soprasensibile

L’Idea del soprasensibile è stata già esposta col nome di


“intelligibile” nella prima Critica (KRV, 397 ss.; 527 ss.)120 durante la
soluzione della terza Antinomia cosmologica grazie alla sintesi
dinamica della condizione e della causa (infra V.3). Questa stessa
Idea compariva con questo stesso nome di soprasensibile nella
Critica della ragion pratica (KPV, 56-58; 65-67)121: essa è il
concetto, “teoreticamente nullo” ma che condiziona la possibilità
stessa della moralità, di una “causalità empiricamente
incondizionata” (ivi, 57; 66)122. Quest’Idea di soprasensibile non è
ciononostante nessuna delle Idee-limite proprie di ciascun dominio o
territorio, oppure le è tutte insieme. Diciamo che queste Idee
enumerate, come abbiamo letto, nell’esposizione delle tre antinomie
(168; 204)123 sono infatti degli orizzonti specificati secondo la
facoltà, mentre il soprasensibile è l’orizzonte di questi orizzonti, la
nozione di cui la critica ha bisogno per unificarli. Il soprasensibile
viene a garantire che delle capacità di pensare profondamente
eterogenee, teoretica, pratica, estetica, siano nondimeno in affinità le
une con le altre. Quest’affinità si scopre grazie alla similitudine delle
loro rispettive inconsistenze. Ogni facoltà è colta dall’impossibilità di
pensare il suo limite coi mezzi che le sono propri, ma il fatto che
essa debba tentare di pensarlo è il segno del soprasensibile. Questo
segno è transitivo, in rapporto all’eterogeneità delle facoltà.
Ma non la sopprime. Al contrario, esso deve “segnalarsi, sich
zeigen” (169 t.m.; 205)124 in ognuno dei tre ordini di facoltà. È il
“sostrato” che fa della totalità dei fenomeni una natura, “Substrat der
Natur” (ibidem)125. Ma è anche il principio di affinità di questa natura
con la nostra capacità conoscitiva considerata soggettivamente
come piacere del gusto, “Prinzips der subjektiven Zweckmäßigkeit
der Natur für unser Erkenntinisvermögen” (ibidem)126. Ed è ancora il
principio secondo cui la libertà trascendentale pone i suoi fini, e il
principio che accorda questi ultimi con la moralità, “Prinzips der
Zwecke der Freiheit und Prinzips der Übereinstimmung derselben
mit jener in Sittlichen” (ibidem)127. Queste tre funzioni differenti sono
assicurate dall’Idea di soprasensibile. Esse non sono soltanto ciò
che accorda in ultima istanza ogni facoltà con l’esercizio del suo
potere: sono accordate le une con le altre dal segno comune della
loro incompetenza nel pensare fino alla fine quest’esercizio,
nell’esercitare la loro potenza per pensare questa potenza stessa.
Come nome unico di questo “bordo” [bord] o di questo
“strabordare” [débord], il soprasensibile è così ciò che fa sì che tutti i
modi di pensare siano compossibili per il fatto che tutti pensano
eccessivamente. Bisogna pensare eccessivamente e fino alla
discordanza, per sentire la voce della concordanza.
Questa voce è però la stessa che si sente attraverso la
presupposizione di un “sensus communis” per la facoltà estetica. La
vera deduzione dell’esigenza di condivisione è allora la seguente: 1)
il sentimento del tutto singolare del bello comporta l’esigenza di
essere condiviso universalmente e necessariamente; 2) per fondare
quest’esigenza contraddittoria bisogna presupporre un “sensus
communis”; 3) questa presupposizione, essa stessa paradossale, è
permessa a sua volta solo se un principio assicura infine al pensiero
la sua consistenza con tutti gli “oggetti” che gli sono propri (ivi
compreso il pensiero stesso) nello stesso momento in cui questa
consistenza sembra impossibile. Questo principio di unisono deve
agire attraverso tutti gli atti di pensiero, tutti i giudizi, per quanto
eterogenei siano, come una natura. Questo principio “naturale” viene
chiamato “sostrato soprasensibile di tutte le sue facoltà” (168;
203)128, di tutte le facoltà del “soggetto”, vale a dire del pensiero.
Esso è “ciò stesso in rapporto al quale il fine ultimo dato
dall’intelligibile alla nostra natura è di porre in unisono,
zusammenstimmend, tutte le nostre facoltà conoscitive” (ibidem,
t.m.)129.
L’antinomia del gusto (indisputabile/discutibile) è risolta finalmente
dal ricorso a questa “natura” indeterminabile. Quest’ultima elabora
allo stesso modo tutte le impasse in cui il pensiero si blocca quando
arriva ai propri limiti. Grazie a questo substrato, quelle impasse
possono essere commutate in passaggi. La sintesi dinamica fornisce
il modello generale di questa mutazione. Ma resta il fatto che il
sentimento estetico ha, come ho già detto, questo strano privilegio di
aprire un accesso quasi diretto all’Idea di tale substrato. Si è visto
(supra VII.4) che c’è “una finalità, estetica ma incondizionata, nelle
belle arti” (ibidem)130, incondizionata perché non sottomessa a una
causalità secondo concetti: l’artista non conosce ciò ch’egli fa, il
fruitore non conosce ciò che gusta. Né l’uno né l’altro consulta “una
regola e una prescrizione, Regel und Vorschrift” (ibidem)131 per
valutare le forme. Il loro giudizio è guidato da una “misura
soggettiva, subjektiven Richtmaße” che opera come “semplice
natura nel soggetto” (ibidem)132.
Ciò che dà questa misura, ciò che “può servire” (ibidem)133 da
misura puramente riflettente alla finalità estetica è però il principio
del sostrato soprasensibile. Perché? Semplicemente perché questo
garantisce, prima di ogni schema, di ogni regola o di ogni norma,
che la sintesi del molteplice, anche del più eterogeneo, è possibile.
Ivi compresa la sintesi del molteplice delle facoltà stesse,
immaginazione, intelletto, ragione teoretica, volere, sentimento. È la
sua azione, la Wirkung della sua azione, allo stesso tempo
rassicurante e affrancante, generosa, a essere provata
immediatamente nel paradosso estetico di un sentimento singolare
che pretende di valere universalmente. Una volta ammesso che “la
finalità estetica ma incondizionata” che si trova nell’arte “deve, soll,
avanzare la legittima pretesa di dover piacere a tutti, jedermann
gefallen zu müssen” (ibidem)134, una tale pretesa non può in effetti
legittimarsi pienamente che sulla base del principio per cui
appartiene alla natura del pensiero di poter provare piacere
all’occasione delle forme, o per cui appartiene alla natura delle forme
di poter fornire immediatamente piacere al pensiero.
È dunque sufficiente che il gusto esiga la sua condivisione
possibile per far segno al fatto che il pensiero riflettente, nel suo
rapporto più soggettivo con se stesso e più immediato con l’oggetto
(la forma), è naturalmente all’unisono con se stesso in generale e
con i dati in generale. È questo, penso, ciò che permette di
comprendere meglio l’“episodio” del § 40 (127 ss.; 145 ss.)135, dove
l’analisi critica sembra distrarsi improvvisamente dal suo motivo, il
“sensus communis” estetico, per enumerare le “massime del buon
senso comune”136 relative alla maniera di pensare in generale. Il filo
dell’argomentazione sembra interrotto. Ma dicendo che il pensiero
deve pensare da sé, in accordo con ogni altro pensiero e in accordo
con sé, le suddette massime non fanno altro che attestare nel
linguaggio comune della saggezza popolare la certezza di poter
sempre pensare, che il pensiero trae dal principio di unisono. Ho
detto (supra VII.1) che queste massime dipendono tutte dalla
riflessione. Aggiungo adesso che, se la riflessione può azzardarsi a
provare a comprendere qualcosa che non comprende (euristica)
conducendosi secondo la sola sensazione soggettiva (tautegorica) –
sia anche, questo qualcosa, indeterminabile –, ciò essa lo deve alla
garanzia di unisono che le conferisce il soprasensibile. Senza
dimenticare che è il pensiero riflettente che scopre il principio di
questa stessa garanzia con il nome di sostrato soprasensibile. Il che
dimostra decisamente che “la condizione soggettiva di tutti i giudizi è
la stessa capacità di giudicare, o facoltà di giudizio, das Vermögen
zu urteilen selbst, oder die Urteilskraft” (121 t.m.; 137)137.
8. La procedura di condivisione

Dopo tutto questo, è facile mostrare che la presupposizione del


“sensus communis” non deve niente all’esperienza. E che
un’interpretazione non soltanto “psicologica” (79; 81)138, ma anche
sociologica della comunità estetica deve essere di conseguenza
rigettata. Quest’interpretazione contravviene infatti alla procedura
critica, che non può essere induttiva, ma parte dal dato per stabilire
le condizioni della sua possibilità e torna al dato per legittimare o
delegittimare, in breve per criticare, ciò per cui esso si “dà”.
L’esigenza di condivisione possibile comporta come sua condizione
di possibilità, per com’è data nel sentimento del bello, un “sensus
communis” che, a sua volta, si fonda sul principio sopra-sensibile
dell’unisono. Va da sé che il semplice fatto empirico di un’unanimità
o persino di una mera maggioranza di opinioni favorevoli a un
giudizio singolare che dichiara bella una forma non può legittimare in
nulla la pretesa intrinseca di questo giudizio a esser condiviso da
tutti. La “voce universale” non risulta dal conteggio dei voti. La
condivisibilità è un carattere trascendentale del gusto, ed esige a
sua volta un supplemento trascendentale, l’Idea del soprasensibile.
Ciononostante, molti passaggi dell’Analitica del bello sembrano
richiedere una lettura a un tempo sociologizzante ed
“egologizzante”, se così posso dire, e in ogni caso antropologica.
Così già la definizione del “sensus communis” data al § 40 (127;
144)139. Per chiamare il lettore a testimoniare e abbreviare la
discussione, la citerò direttamente in una traduzione che credo
rispettosa della lettera del testo, ma meno tributaria del pregiudizio
antropologico di quanto non sia necessario:

Con l’espressione ‘sensus communis’ si deve intendere l’Idea di un


senso comunitario, gemeinschaftlichen Sinnes, e cioè di una capacità di
valutare che nella sua riflessione prende in considerazione nel pensiero (a
priori), in Gedanken (a priori), il modo di rappresentare di ogni altro, jedes
andern, allo scopo di tenere per così dire in connessione il suo giudizio con
la ragione umana nel suo complesso, e sfuggire così all’illusione che
proviene dalle condizioni soggettive private, pronte a farsi passare per
oggettive, la quale potrebbe avere un’influenza svantaggiosa sul giudizio
(127 t.m.; 144).140

La fine del passaggio è tradotta un po’ più liberamente, in modo


da rendere la frase meno dura di come non sia.
Ma il punto delicato è il “jedes andern”. Lo si intende in generale
come se si trattasse di “ogni altro uomo”. Mi sembra che
l’espressione faccia eco a quella, abbastanza strana, di “eines
Beurteilungsvermögen”: “una capacità di valutare” prende in
considerazione, “Rücksicht nimmt”, un’altra, “andern” capacità di
valutare qualsiasi sia, “jedes”. Nello stesso senso, “gleichsam, per
così dire”, è sottolineato nel testo, cosa che indica che la
comparazione (siamo in piena riflessione) di un giudizio con altri
viene condotta “quasi come se” il pensiero cercasse di “riconnettere”
il giudizio alla ragione umana in generale. Nel modo dell’“als ob”, di
conseguenza. Sempre nello stesso senso, il carattere
“gemeinschaftlich, comunitario” del “sensus communis” (che non c’è
alcuna ragione di tradurre “comune a tutti”141) consiste nella
preoccupazione di comparare “nel pensiero, in Gedanken” (e non
“pensando”), e di comparare a priori (e non nell’esperienza), una
valutazione estetica singolare con un’altra diversa dalla sua. La
“comunità” estetica non è costituita innanzitutto dalla convergenza
delle opinioni espresse dagli individui. Si “sviluppa”, per così dire,
grazie al lavoro di variazioni che “il pensiero”, e il pensiero soltanto,
“in Gedanken”, effettua per sottrarsi alla sua condizione “privata”,
privata dell’altro dalla singolarità del suo atto di valutazione. Si
potrebbe dire che la riflessione moltiplica le valutazioni della forma
che giudica bella per assicurarsi che la sua valutazione, immediata e
singolare, è ragionevolmente universale. In questo caso, importa
poco che l’individuo empirico che è incaricato di questa variazione
mentale sia o non sia lo stesso che ha valutato in principio. Questi
può trovarsi anche “su un’isola disabitata” (50; 41)142: l’esigenza e la
procedura di questa condivisione non sarebbero meno necessarie,
per assicurarsi che la sua valutazione è un giudizio estetico puro, di
quanto non lo sia il disinteresse di questa valutazione.
Detto ciò, resta nel nostro testo solo l’evocazione della “ragione
umana nel suo complesso”, che suona indiscutibilmente
antropologica. Tutto sommato, il seguito suona allo stesso modo:

Ora, ciò accade grazie al fatto che si tiene il proprio giudizio, sein Urteil,
in connessione con i giudizi degli altri, an anderer […] Urteile hält – non
tanto a quelli effettivi, quanto piuttosto a quelli semplicemente possibili –, e
che ci si traspone, versetzt, al posto di ogni altro, in die Stelle jedes andern,
facendo semplicemente astrazione dalle limitazioni che ineriscono in modo
contingente alla nostra propria valutazione, unserer eigenen Beurteilung
(127 t.m.; 144-145).143

Sembra difficile continuare a sostenere qui la tesi puramente


trascendentale del senso “comunitario”. “Si” ha una valutazione
propria, ci si trasferisce, versetzt, nella posizione altrui per sfuggire
alla contingenza a sé del proprio giudizio singolare: non sono forse
degli individui umani che si dedicano a questa ginnastica? È vero
che essa appartiene più all’ordine del possibile che a quello del
reale, ma non è forse condizione inevitabile della “simpatia” umana
che l’io possa mettersi al posto del tu solo al prezzo di un
trasferimento immaginario?
Non nego affatto che la concezione del “sensus communis” sia,
qua e là, segno di ciò che la critica stessa chiama il suo “realismo
empirico”144. Il “dieses geschieht nun dadurch, ora, ciò accade solo
quando” dell’ultimo passaggio citato dipende evidentemente da
questo realismo. Quest’ultimo è ad ogni modo, insieme all’idealismo
trascendentale, una componente essenziale della procedura critica.
Ma è importante non confondere i due movimenti, se si vuole
stabilire non il fatto della chiamata al “senso comune” incluso nel
sentimento estetico, ma la legittimità di questo fatto, e cioè la sua
necessità a priori affinché questo sentimento sia propriamente
estetico. A tal riguardo, però, il testo non permette esitazioni,
beninteso. Esso smette di essere antropologico e si fa davvero
critico quando bisogna elaborare la procedura per cui il pensiero
estetico cerca di emanciparsi dalle particolarità contingenti che
potrebbero pesare sulla sua valutazione. Si arriva a questa
“astrazione” “trascurando quanto più possibile ciò che nello stato
rappresentativo è materia, e cioè sensazione, Empfindung, e
prestando attenzione unicamente ai caratteri formali della propria
rappresentazione o del proprio stato rappresentativo” (127; 145)145.
Dal che risulta, qualsiasi sia il modo in cui la si interpreta, che
l’operazione “comunitaria” esige in ogni caso una specie di
epurazione della rappresentazione dell’oggetto giudicato bello, e
dello “stato soggettivo” che corrisponde nel pensiero a questa
rappresentazione. Una specie di sgrassatura da tutto ciò che
potrebbe essere “materia” nella rappresentazione o nello stato
soggettivo che produce. Non si può “ripromettersi l’assenso di
ciascuno” che “solo perciò”, perché si ha “separato per mezzo della
coscienza la soddisfazione che si prova da tutto ciò che appartiene
al gradevole e al buono” (60; 54)146.
La “materia” della sensazione dev’essere eliminata dal piacere
estetico perché la materia esercita sul pensiero un’“attrazione”.
Quando il pensiero è sottomesso a quest’attrazione, il suo giudizio è
un “giudizio dei sensi” (66; 62)147, detto anche “giudizio estetico
materiale”: che non fa altro che “esprimere ciò che un oggetto ha di
gradevole o sgradevole” (ibidem)148. La materia della sensazione
crea in tal modo un interesse. La soddisfazione dovuta alla materia è
un’emozione. Non c’è nulla di estetico in tutto questo, almeno se ci si
attiene al gusto (il sublime è un’emozione, ma che è dovuta non più
alla materia, è dovuta all’assenza di forma, che non è lo stesso)
(supra II.2-4).
Si sarà notato che nel testo citato la materia della
rappresentazione si chiama “Empfindung, sensazione”. Ma ciò,
stavolta, nel senso della prima Critica. Quando si tratta di
gradevolezza, “la sola sensazione, lediglich Empfindung” (66 t.m.;
63)149 è sufficiente al piacere. Lo stato del pensiero è euforico, ma
non può pretendere alla condivisione universale e necessaria.
Questo stato gradevole può essere definito esso stesso come “la
materia del compiacimento” (66; 62)150 perché è una soddisfazione
dovuta alla materia. Non risulta in nulla dalla “buona proporzione”
delle facoltà conoscitive messe in gioco dal giudizio estetico puro.
Queste ultime possono mettersi in unisono, foss’anche solo per
un istante, quello in cui sorge il gusto, soltanto nella misura in cui
ognuna si presta al gioco dell’altra, alle “regole del gioco” dell’altra.
Dunque senz’altro nella misura in cui l’intelletto modera la sua fame
di concetti e rinuncia a “spiare, geschäftig […] durchzuspähen” (KRV
A, 141; 185)151 i fenomeni per dar loro una regola. Ma, dall’altra
parte, anche nella misura in cui l’immaginazione affina sulle forme
pure – libere da concetti, sicuramente, ma libere anche da ogni
materia – delle costruzioni fantasiose di relazione in cui l’intelletto
crederà di poter trovare nutrimento per le sue regole. È in tal modo
che essa gli dà la “ricca materia, Stoff”152 che lo sommerge e che
non è evidentemente affatto la materia della sensazione, ma la
proliferazione delle forme (supra II.3).
Per il pensiero estetico, quest’epurazione è dunque il mezzo per
riuscire a mettersi al posto dell’altro e per rivendicare la condivisione
del suo giudizio da parte dell’altro. Se ne conclude che il giudizio può
pretendere la condivisione solo se si è epurato dalle attrazioni
materiali. L’argomentazione procede qui dalla purificazione critica
(trascendentale) alla comunità empirica possibile. Ma si può trovare
un’argomentazione che procede nel senso inverso. Alla fine del §
40, ad esempio, dopo il passaggio che ho appena commentato: “si
potrebbe addirittura definire il gusto come la facoltà di valutare ciò
che rende universalmente condivisibile, senza la mediazione di un
concetto, il sentimento che proviamo in occasione di una
rappresentazione data” (129 t.m.; 147)153. Da cui si potrebbe
concludere piuttosto che è la condivisibilità che assicura la purezza
del giudizio di gusto.
Non c’è alcuna ragione di “scegliere” tra queste due versioni.
Trascendentalmente, la critica procede piuttosto dalla purezza del
gusto (la sua qualità di disinteresse) in direzione della sua
condivisibilità (la sua quantità universale e la sua modalità
necessaria) passando per la sua finalità (e cioè per la sua relazione)
(supra II e III). È infatti sempre il disinteresse della soddisfazione a
essere addotto per introdurre il paradosso dell’universalità senza
concetto. Ma empiricamente, la purezza del giudizio di gusto si
stimerà piuttosto sulla possibilità della sua condivisione. Si potrebbe
dire in conclusione che la condivisibilità è la ratio cognoscendi della
purezza del gusto, il modo in cui questo si fa riconoscere nei fatti,
ma che questa stessa purezza è la ratio essendi della possibile
condivisione, che sarebbe impossibile senza di essa.
Tutto ciò, conclude Kant, può ben sembrare “künstlich, artificioso”.
E tuttavia “non c’è nulla di più naturale” che epurare il piacere
estetico dalle attrazioni e dalle emozioni, se deve avere valore
esemplare e universale (127; 145)154. Il fatto è che la natura del
gusto è artista e l’arte è natura. Persino il principio soprasensibile è
nel pensiero come una “natura” che si risveglia al suo unisono (167-
168; 202-203)155. Cosa che non impedisce che l’Idea di questo
principio sia “künstlich” (80; 82)156, frutto di un’arte di pensare.

1 Cfr. KU B 14-16; tr. it. pp. 45 ss.


2 Ivi, B 135 ss.; tr. it. p. 118.
3 Ivi, B 153; tr. it. p. 128. Rispetto alle traduzioni sia di Philonenko che
di Garroni-Hohenegger e Amoroso, Lyotard non intende la Mitteilbarkeit
kantiana come “comunicabilità”, ma come “condivisibilità”, come possibilità di
comunione di un giudizio estetico, e quindi del sentimento stesso provato in
occasione di un oggetto. La cosa è importante, se non altro perché piega il
problema del sensus communis in una direzione più “comunitaria” che
“comunicativa”, svincolandolo da una soluzione linguistico-semiologica del
giudizio riflettente. D’ora in poi modificherò perciò costantemente la traduzione
del termine. Per le critiche lyotardiane alle filosofie della comunicazione, cfr.
invece J.-F. Lyotard, Pérégrinations, cit., pp. 77 sg.; tr. it. pp. 64 ss.
4 Ivi, B 25; tr. it. p. 51.
5 Ibidem (tr. it. modificata).
6 Ivi, B 26; tr. it. ibidem.
7 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
8 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
9 Ibidem.
10 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
11 Ibidem.
12 Il termine usato da Lyotard è “accession”, che, come il tedesco
“Beitritt”, può significare tanto “accesso”, “ingresso”, quanto “adesione” (ad
esempio a un trattato).
13 Ivi, B 136; tr. it. p. 118. Data la specificità della tr. di Lyotard, ho
preferito tradurre direttamente questa. Segnalo inoltre che nel testo, per un
refuso, come pagina dell’edizione fr. viene indicata p. 11 anziché, come ho
corretto, p. 117.
14 Anthr. AA VII 201; tr. it. pp. 200 ss. (modificata, in quanto, oltre a
esplicitare diversamente lo “zum” che connette in ambo i casi il particolare e
l’universale, il francese rende “Witz” con “esprit” e non, come in italiano, con
“ingegno”).
15 KU B 26; tr. it. p. 51 (modificata).
16 Ivi, B 27; tr. it. p. 52 (leggermente modificata).
17 Cfr. ivi, §§ 30-40, B 131-161; tr. it. pp. 115-132.
18 KrV A 97, 99; tr. it. pp. 1205, 1207 (leggermente modificata).
19 Cfr. ivi, A 100-102; tr. it. pp. 1209-1211.
20 KU B 86; tr. it. p. 87.
21 Ivi, B 14 ss.; tr. it. p. 45 (modificata). Segnalo per inciso che la
“soddisfazione” di cui si parla in questo caso non è il Wohlgefallen ma la
Vergnügung.
22 Ivi, B 15; tr. it. ibidem.
23 Ivi, B 27; tr. it. p. 52.
24 Ibidem.
25 Ivi, B 29; tr. it. p. 53 (modificata).
26 Ibidem (modificata per seguire le modifiche che Lyotard apporta a
quella di Philonenko senza segnalarlo).
27 Ivi, B 4; tr. it. p. 39 (leggermente modificata).
28 Ibidem; tr. it. p. 40.
29 Ibidem; tr. it. p. 39.
30 Ivi, B LVIII; tr. it. p. 33 (leggermente modificata).
31 Cfr. ivi, §§ 20-22, B 64-68; tr. it. pp. 73-76.
32 Cfr. ivi, B 235; tr. it. p. 174.
33 Ivi, B 233; tr. it. p. 173 (modificata). La modifica che Lyotard segnale
nel testo consiste nel tradurre “streiten” con “débattre”, “dibattere” e non con
“discuter” (“discutere” nella tr. it. cit.). Per mantenere il senso di questa
modifica, mi conformerò d’ora in avanti alla resa di Lyotard.
34 Cfr. KrV A 261 B 317, A 266-268 B 322-324; tr. it. pp. 485-487, 491-
493.
35 Ivi, A 80 B 106; tr. it. p. 207 (leggermente modificata).
36 Ivi, A 70 B 95; tr. it. p. 193. Si trovano sempre in questo luogo
l’“assertorio” e l’“apodittico” citati in seguito.
37 KU B 62; tr. it. p. 72 (modificata).
38 Ivi, B 242; tr. it. p. 178. Segnalo che nel testo c’è un refuso, che situa
la citazione a p. 166 anziché a p. 167 della tr. fr.
39 Ibidem.
40 Ivi, B 66 ss.; tr. it. p. 75 (leggermente modificata).
41 Ivi, B 62; tr. it. p. 72.
42 Ibidem ss.; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
43 Ivi, B 63; tr. it. ibidem.
44 Ivi, B 64; tr. it. p. 73.
45 Ibidem.
46 Ibidem.
47 Cfr. ivi, B 156-158; tr. it. pp. 129 ss.
48 Ivi, B 67; tr. it. p. 75 (leggermente modificata).
49 Cfr. ivi, B XLVI-XLVIII; tr. it. pp. 26 ss.
50 Ivi, B 65; tr. it. p. 74.
51 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
52 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
53 Ibidem.
54 Ivi, B 31; tr. it. p. 54.
55 Ivi, B 65; tr. it. p. 74 (leggermente modificata). A questo passaggio
appartiene anche la citazione immediatamente successiva.
56 Ibidem (tr. it. modificata per seguire i vari tentativi di traduzione
proposti da Lyotard).
57 Ibidem.
58 Ibidem.
59 Ivi, B 66; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
60 Ibidem (tr. it. modificata, com’è modificata la tr. fr. da parte di
Lyotard).
61 Ibidem.
62 Ibidem (tr. it. modificata).
63 Ibidem.
64 Ivi, B 30; tr. it. p. 54.
65 Ivi, B 66; tr. it. p. 75.
66 Ivi, B 67; tr. it. ibidem. Segnalo che nell’originale francese è presente
un refuso, in quanto Kant non scrive mai, come riporta Lyotard, “die ideale
Norm”, ma: “eine bloße idealische Norm”. Espressione a cui Lyotard stesso
farà riferimento subito di seguito.
67 Ivi, B 26; tr. it. pp. 51 ss.
68 Ivi, B 63; tr. it. p. 73 (modificata).
69 Ibidem (tr. it. modificata).
70 Ibidem (tr. it. modificata).
71 Ivi, B 67; tr. it. p. 75.
72 Ibidem.
73 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
74 Ibidem.
75 Ivi, B 62; tr. it. p. 72.
76 Ivi, B 68; tr. it. p. 76 (modificata).
77 Ibidem; tr. it. p. 75 (modificata).
78 Ivi, B 67 ss.; tr. it. ibidem. (modificata).
79 Cfr. ivi, B 234-245; tr. it. pp. 173-181.
80 Ivi, B 232; tr. it. p. 172.
81 Ivi, B 233; tr. it. p. 173 (modificata).
82 Ivi, B 234; tr. it. ibidem (modificata).
83 Cfr. ivi, B 239 ss.; tr. it. pp. 176 ss.
84 Cfr. ivi, B 256; tr. it. p. 186.
85 Ivi, B 240; tr. it. p. 177 (modificata).
86 Ivi, B 256; tr. it. p. 186.
87 Ivi, B 233; tr. it. p. 173 (leggermente modificata).
88 Ibidem (tr. it. modificata).
89 Rendo così il gioco di parole del testo: “[…] presque un combat. On
s’y bat”.
90 Ibidem.
91 Ivi, B 237; tr. it. p. 175 (modificata).
92 Ivi, B 239; tr. it. p. 176.
93 Ivi, B 236; tr. it. p. 174 ss.
94 Ivi, B 235; tr. it. p. 174 (modificata).
95 Ibidem.
96 Cfr. KrV A 310-338 B 366-396; tr. it. pp. 549-583.
97 KU B 25; tr. it. p. 51.
98 Ivi, B 235; tr. it. p. 174.
99 Ibidem.
100 Ivi, B 240; tr. it. p. 177.
101 Ivi, B 241; tr. it. ibidem.
102 Ibidem; tr. it. p. 178 (leggermente modificata).
103 Cfr. KrV A 565-567 B 593-595; tr. it. pp. 827-829.
104 KU B 235; tr. it. p. 174 (leggermente modificata).
105 Ivi, B 239; tr. it. pp. 176 ss.
106 KrV A 565 B 593; tr. it. p. 827 (modificata).
107 Ivi, A 566 B 594; tr. it. p. 829 (modificata).
108 Ivi, A 292 B 348; tr. it. p. 523.
109 Cfr. KU B 241; tr. it. pp. 177 ss.
110 Ivi, B 256; tr. it. p. 186.
111 Cfr. ibidem.
112 Ivi, B 255; tr. it. p. 185 ss.
113 Cfr. ivi, B 239; tr. it. p. 176.
114 Cfr. ivi, § 49, B 192-202; tr. it. pp. 148-155.
115 Cfr. ivi, B 192 ss.; tr. it. p. 149.
116 Ivi, B 193; tr. it. ibidem (modificata).
117 Ivi, B 240; tr. it. p. 177.
118 KrV A 415 B 443; tr. it. p. 641 (leggermente modificata).
119 KU B 243 ss.; tr. it. pp. 179 ss. (modificata).
120 Cfr. KrV A 538-541 B 566-569; tr. it. pp. 793-797.
121 Cfr. KpV A 95-100; tr. it. pp. 129-133.
122 Ivi, A 98; tr. it. p. 133.
123 Cfr. KU B 243 ss.; tr. it. pp. 179 ss.
124 Ivi, B 245; tr. it. p. 180 (modificata).
125 Ibidem.
126 Ibidem.
127 Ibidem; tr. it. ibidem ss.
128 Ivi, B 242; tr. it. p. 178.
129 Ibidem; tr. it. ibidem ss. (modificata).
130 Ibidem; tr. it. p. 179.
131 Ibidem; tr. it. p. 178 (leggermente modificata).
132 Rispettivamente, ivi, B 243 e B 242; tr. it. pp. 179 e 178
(leggermente modificata).
133 Ivi, B 243; tr. it. p. 179.
134 Ivi, B 242 ss.; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
135 Cfr. ivi, B 158-161; tr. it. pp. 130-132. Il termine “episodio” ricorre ivi,
B 160; tr. it. p. 131.
136 Ivi, B 158; tr. it. p. 130 (modificata per seguire Lyotard).
137 Ivi, B 145; tr. it. p. 123.
138 Cfr. ivi, B 66; tr. it. pp. 74 ss.
139 Cfr. ivi, B 157; tr. it. p. 130.
140 Ibidem (tr. it. modificata). A questo brano apparterranno tutte le
varie citazioni fatte sino alla fine del prossimo capoverso.
141 Sia in questa parentesi che nella successiva, Lyotard si riferisce alla
traduzione del passo data da Philonenko, p. 127, che riporto qui per facilitare
un’eventuale paragone: “Sous cette expression de sensus communis on doit
comprendre l’Idée d’un sens commun à tous, c’est-à-dire d’une faculté de
juger, qui dans sa réflexion tient compte en pensant (a priori) du mode de
représentation de tout autre homme, afin de rattacher pour ainsi dire son
jugement à la raison humaine tout entière et échapper, ce faisant, à l’illusion,
résultant de conditions subjectives et particulières pouvant aisément être
tenues pour objectives, qui exercerait une influence néfaste sur le jugement”.
142 KU B 6; tr. it. p. 40.
143 Ivi, B 157; tr. it. p. 130 (modificata).
144 Cfr. KrV A 28 B 44; tr. it. p. 127.
145 KU B 157; tr. it. p. 130 (modificata).
146 Ivi, B 26; tr. it. p. 52 (modificata).
147 Ivi, B 39; tr. it. p. 59.
148 Ibidem; tr. it. p. 58 ss.
149 Ibidem; tr. it. p. 59 (modificata).
150 Ivi, B 38; tr. it. p. 58.
151 KrV A 126; tr. it. p. 1241 (modificata).
152 KU B 84; tr. it. p. 86.
153 Ivi, B 160; tr. it. p. 132 (leggermente modificata).
154 Ivi, B 157 ss.; tr. it. p. 130.
155 Cfr. ivi, B 242 ss.; tr. it. p. 178 ss.
156 Ivi, B 68; tr. it. p. 75.
IX.
LA CONDIVISIONE DEL SENTIMENTO SUBLIME

1. Una condivisione mediata

Ci si chiede adesso se il sentimento sublime esiga anch’esso di


essere condiviso universalmente come il gusto e se è fondato a farlo
allo stesso titolo di quest’ultimo, e cioè autorizzandosi sulla base del
principio di un “sensus communis” che trova la sua finalità suprema
nel soprasensibile. Questa domanda viene esaminata al § 39,
dedicato all’esame della “possibile condivisione di una sensazione,
von der Mitteilbarkeit einer Empfindung” (125-126; 142-144)1.
L’esame della condivisibilità del sublime occupa in esso poche righe.
Il testo distingue quattro varietà di sensazione, a seconda che
essa sia dovuta ai sensi, alla moralità, al sublime o al bello. E
riprende così la divisione fatta, sin dall’inizio dell’Analitica del bello,
al titolo della qualità del gusto (50-55; 40-48)2. Il piacere del bello, il
“favore, Gunst”, è l’unico compiacimento “libero” da ogni interesse. Il
piacere dei sensi è “costretto” dall’interesse che questi hanno per
l’esistenza dell’oggetto, per la sua presenza “materiale”. Quanto alla
soddisfazione presa nel fare o nel giudicare ciò che è buono, che si
chiama “stima, approvazione” (54; 47)3, essa è determinata
dall’interesse che risulta dall’obbligazione presentata alla volontà
empirica dalla legge morale di dover effettuare quest’ultima.
L’obbligazione morale, il Gebot, il comandamento, non risulta
sicuramente da un interesse, in ciò del tutto differente dalla
necessità subìta attraverso i sensi, ma genera un interesse per la
realizzazione del bene (52-54, 108, 132; 46-48, 118, 152)4.
Durante il primo Momento dell’Analitica del bello, l’esame critico
distingue tre tipi di compiacimento (supra VII.1). Al § 39, se ne
aggiunge un quarto tipo, il compiacimento che procura il “sublime
della natura, die Lust am Erhabenen der Natur” (126; 142)5. Inoltre,
la categoria o il “luogo riflessivo” che comanda questo esame non è
più la qualità della soddisfazione, ma la sua condivisione possibile,
la sua Mitteilbarkeit, che è un carattere modale. Ciò che si trova qui
riconsiderato quanto al sublime è in tal modo l’intera elaborazione
della condivisibilità già sviluppata per il gusto. Intendo dire che la
sola qualità della sensazione sublime, disinteressata come quella del
bello (“entrambi piacciono per se stessi”; 84; 87)6, ma in cui il
piacere e il dispiacere si combinano “dinamicamente” (supra V), non
può esser sufficiente a decidere dalla sua condivisibilità. Come per il
bello, bisogna procedere all’esame del giudizio sublime secondo la
sua quantità e modalità. Si tratta precisamente di sapere se un
giudizio sublime singolare esiga allo stesso modo del gusto di
ottenere immediatamente un assenso universale e necessario, e lo
esiga immediatamente, cioè comporti quest’esigenza nella sua
occorrenza stessa, prima di ogni concezione, come semplice segno
dell’universalità soggettiva necessaria in ogni pensiero.
A questa domanda, il testo risponde chiaramente: no. Ci si ricorda
tuttavia del fatto che i sentimenti del bello e del sublime erano stati
assimilati puramente e semplicemente, sembra, sotto l’aspetto della
loro universalizzazione: “i giudizi: ‘quell’uomo è bello’ e: ‘quell’uomo
è grande’ non si limitano semplicemente al soggetto che giudica, ma
richiedono, allo stesso titolo dei giudizi teoretici, l’assenso di
ciascuno” (88; 92)7. Il nostro testo dichiara al contrario che il
sentimento sublime “fa certo appello anche a una partecipazione
universale, macht zwar auch auf allgemeine Teilnehmung Anspruch”
(126; 142-143)8. Ma questo appello non può essere immediato come
nel gusto. L’esigenza d’universalità che è propria del sublime passa
“attraverso una mediazione, vermittelst, quella della legge morale,
des moralischen Gesetzes” (ibidem)9. Il piacere sublime è definito
“piacere della contemplazione ragionante, als Lust der
vernünftelnden Kontemplation”, il piacere di contemplare ragionando
(126; 142-143)10.
Abbiamo visto (supra IV.4) che, dal punto di vista del piacere, quel
sentimento contraddittorio che è il sublime dipende esclusivamente
dalla “soddisfazione esaltante” procurata dall’Idea di assoluto (come
tutto e come causa), e che solo il pensiero ragionante, la ragione,
può rappresentare quell’oggetto impresentabile che è propriamente
un’Idea. Questo piacere è la componente “attrattiva” dell’emozione
(o della “scossa”) sublime. Esso corrisponde proprio alla
considerazione di un oggetto che è un essere di ragione. La
“repulsione” che afferra il pensiero e gli impedisce di proseguire la
contemplazione di questo oggetto proviene dalla sua impotenza a
presentarlo per mezzo di una sintesi immaginativa.
In tal senso, la condivisibilità del sentimento sublime come
soddisfazione apparterrebbe soltanto alla ragione come capacità
dell’universale, e la sua universalità sarebbe in definitiva quella della
legge morale. Il testo lo suggerisce con forza, al punto da infrangere
l’unità precaria di questo sentimento paradossale e da distruggere la
sintesi dinamica che lo costituisce. Cionondimeno, il motivo stesso di
un piacere legato all’esercizio del pensiero ragionante, sia esso
soltanto contemplativo (e non etico, direttamente), non è esente da
difficoltà. Giacché, se è vero che l’esigenza di condivisione
universale è mediata nel sentimento sublime dalla rappresentazione
della “legge morale”, sappiamo d’altronde che il concetto di questa
legge si trascrive o si prova soggettivamente in un sentimento, il
rispetto, che ha per qualità specifica di non essere né piacere né
dispiacere (KPV, 80 ss.; 89 ss.)11. Il nostro testo sembra però
sfuggire a quest’obiezione. Esso suggerisce che il piacere come
componente del sentimento sublime pretende di essere condiviso
universalmente solo in quanto “presuppone già, schon, decisamente,
doch, un altro sentimento, ein anderes Gefühl, vale a dire quello
della sua destinazione soprasensibile” (126 t.m.; 143)12. (Accentuo il
doch; il seiner della “sua destinazione” mette quest’ultimo in
relazione col pensiero.) Questo “altro sentimento”, però, può
benissimo, “da parte sua, auch”, essere del tutto “oscuro, dunkel”:
non ha per questo meno “un fondamento morale, eine moralische
Grundlage” (ibidem)13.
2. L’altro sentimento

Quest’“altro sentimento” non riceve un nome nel nostro passaggio.


Ma i tratti menzionati sono sufficienti a identificarlo. È un sentimento
molto oscuro, ha un fondamento morale, segnala la destinazione
soprasensibile del pensiero. Riconosciamo il rispetto, la Achtung o il
riguardo che la seconda Critica ha isolato con cura come l’unico
sentimento morale. “L’attitudine, la Fähigkeit, a prendere un tale
interesse per la legge (ossia il rispetto per la legge) è propriamente il
sentimento morale” (KPV, 84; 94)14. Si tratta di un “interesse”
indipendente da ogni movente. Il rispetto non soddisfa un bisogno,
provato dal pensiero, di obbedire alla legge. A poter produrre in esso
un interesse ad agire bene è al contrario, abbiamo visto, il semplice
ascolto della legge (ibidem)15. Questo capovolgimento è il motivo
essenziale della seconda Critica, e un motivo ricorrente della terza. Il
riguardo che il pensiero sente per la legge non è interessato (nel
senso di una motivazione), ma l’imperativo categorico, senza
contenuto (senza “materia”), il comandamento derivante dalla sola
forma della legge morale, è sufficiente a determinare un interesse
del pensiero per certi oggetti (le azioni buone, fatte e da fare) (55,
108, 132; 47, 118-119, 152)16.
La legge non deve prescrivere ciò che è bene, perché allora la
volontà sarebbe affetta in modo “patologico” (KPV, 84; 94)17 e non
potrebbe pretendere di determinarsi liberamente. È perché il
pensiero non è “patologico”, perché il pensiero rispettoso non
subisce alcuna eteronomia, che il rispetto è “eccezionale,
sonderbar”, incomparabile a ogni altro sentimento, e che c’è una
maniera che è propria solo a esso, “eigentünlicher Art” (ivi, 80; 89)18.
È oscuro perché è “bianco” quanto al piacere e al dispiacere. Non è
un piacere. Ci si lascia andare al rispetto “nei confronti di un uomo
soltanto controvoglia”19. Si fa persino uno sforzo per difendersi
contro il rispetto dovuto alla legge. Ma il rispetto per se stesso non è
nemmeno un dispiacere (ivi, 81-82; 90-91)20, non ci si può “saziare
di contemplare, nicht satt sehen” la maestà della legge (ivi, 82 t.m.;
91)21.
Tali strane proprietà si riducono a quest’ultima: il rispetto è “l’unico
caso in cui possiamo determinare in base a concetti a priori il
rapporto di una conoscenza (in questo caso, di una ragione pura
pratica) con il sentimento di piacere e di dispiacere” (ivi, 76; 85)22. Il
rispetto è prodotto “da un fondamento intellettuale”, che è la legge,
ed è come tale il solo sentimento “che conosciamo perfettamente a
priori” (ivi, 77; 86)23. Dire che è prodotto dalla legge è ancora dire
troppo: esso “non è un movente per la moralità”, è la ‘presenza’ della
legge sentita soggettivamente, il suo ‘segno’, “la moralità stessa,
considerata soggettivamente come movente” (ivi, 80; 89)24. In virtù
del suo statuto a priori, per apparire il rispetto non aspetta affatto
l’occasione che gli può fornire un oggetto: esso “c’è, è presente [est
là]” nel pensiero come il segnale della sua disposizione a volere il
bene. È l’a priori soggettivo del pensiero morale. E in tal senso non
appartiene alla facoltà di piacere e dispiacere. Esso è certo la
disposizione, il segno della disposizione del pensiero, ma in quanto
questo vuole o “desidera”, e non in quanto patisce.
È così, di fatto, un “sentimento del tutto altro” dal sentimento
sublime. Questo è un’emozione, un’emozione violenta, prossima alla
sragione, che fa correre il pensiero fino agli estremi del piacere e del
dispiacere, dall’esaltazione gioiosa al terrore – così intensamente
teso tra l’ultravioletto e l’infrarosso affettivi quanto il rispetto è bianco.
Ciò non toglie che il pathos sublime “presupponga” il rispetto
“apatico”. Ché se il pensiero non avesse in sé la potenza di
concepire sotto forma di un’Idea la causalità assoluta (libera) che
fonda la legge per la quale e della quale prova rispetto, esso non
avrebbe alcuna possibilità di sentire così intensamente la grandezza
e la forza “brute” della natura come dei segni indicanti
negativamente la “presenza” di quest’Idea in se stesso. Il sentimento
sublime non è il sentimento morale, ma esige “l’attitudine” a
prendere un “interesse” puro per la legge. Ed è a partire da questa
presupposizione che si argomenta il rifiuto di riconoscere al
sentimento sublime una “condivisibilità” analoga a quella del gusto.
Non c’è un “sensus communis” sublime perché il sublime ha bisogno
della mediazione del sentimento morale, e perché quest’ultimo è un
concetto della ragione (la libertà come causalità assoluta) sentito
soggettivamente a priori. In quanto provato soggettivamente dal
pensiero, questo concetto si trascrive certo in un sentimento (per
quanto del tutto a sé). Ma in quanto concetto sentito, questo
sentimento si genera a priori da una facoltà di conoscere, la ragione
nel suo uso pratico.
È questo il motivo che il testo della Deduzione invoca per
spiegare come mai il sentimento sublime non ha bisogno di una
deduzione in senso critico. L’affinità (o finalità) della forma di un
oggetto con la facoltà di provare piacere o dispiacere, e cioè col
gusto, anche esposta nel dettaglio secondo i quattro “titoli” del
giudizio riflettente, richiede ancora una “deduzione”: la critica deve
svelare ciò che è presupposto come condizione a priori affinché una
tale affinità (che è reale perché c’è un gusto) sia possibile. E questa
condizione è il “sensus communis” e, al di là di esso, il sostrato
soprasensibile. Non è questo il caso del sublime. La sua
“esposizione” critica è “allo stesso tempo, zugleich” la sua deduzione
(116; 129)25. Perché, con la semplice analisi del sentimento del
sublime, questa esposizione scopre in sé direttamente “un rapporto
finale delle facoltà conoscitive”, rapporto che abbiamo visto essere
paradossale: finale per la ragione pura pratica, “controfinale” per
l’immaginazione. Ma questo rapporto paradossale attesta con ciò
stesso di essere a priori “a fondamento della facoltà dei fini (la
volontà), dem Vermögen der Zwecke (dem Willen) a priori zum
Grunde gelegt werden muß” (ibidem)26. Lo è in effetti per il fatto che
il sublime contiene il concetto della causalità assoluta, o volontà
libera, o ragion pratica, e cioè quello di una causalità secondo il fine
che si ha di mira. E questo fine è l’universalizzazione della libertà
pratica. È per questo che il sentimento sublime è legittimato a
chiedere la sua universalizzazione, senza aver bisogno di una
deduzione propria (ibidem)27. Esso deve questo privilegio al fatto di
essere un parente prossimo del sentimento morale: la volontà libera
è un’Idea universale, e il rispetto, che è quest’Idea sentita
soggettivamente, è anch’esso universale.
Bisogna nondimeno precisare questo. Tale concetto di libertà
come causalità assoluta non è certo determinante. Il suo oggetto, la
libertà, resta indeterminato (nel senso in cui lo esige l’intelletto),
“inconcepibile, unbegreiflich” (per l’intelletto), “impenetrabile,
unerforschlich” (KPV, 5, 47, 48; 8, 56, 57)28. Ma, in quanto tale,
questo oggetto dell’Idea pura della ragione è indispensabile (KPV, 5;
8)29 al dominio della moralità, ne è il fondamento, la condizione di
possibilità. Perché questa indeterminazione fa in modo che la
determinazione di che cos’è la libertà resti impossibile, e che la
legge non abbia un contenuto. Questa prescrive che, non appena il
pensiero vuole, bisogna giudicare del bene e del male. Ma la
decisione di ciò che è bene o male appartiene al pensiero che vuole.
È in tal modo che, per quanto obbligato, il pensiero che vuole può
volere liberamente, e cioè moralmente. La legge gli dà soltanto un
filo conduttore per guidarsi in questa decisione.
Questo filo o quest’Idea regolativa è però, precisamente, quella
della possibile condivisione universale della “massima” che avrà
sostenuto il pensiero nella sua decisione. “Agisci in modo che […],
handle so, daß […]” (KPV, 30; 36)30, “Agisci come se […], handle so,
als ob […]” (Fondazione della metafisica dei costumi, 137; Akad. 4,
421)31: queste sono tutte clausole che modalizzano la regola di
universalizzazione (e cioè la quantità dell’imperativo) allo scopo di
lasciare a questa regola il suo carattere semplicemente regolativo.
Ma il contenuto della suddetta regola così modalizzata è
chiaramente l’esigenza di condivisione universale: “[…] in modo che
la massima del tuo volere possa valere sempre allo stesso tempo
come principio di una legislazione universale” (KPV, 30; 36)32. Si
vede bene come la condivisione richiesta dalla moralità sia mediata.
Essa lo è per mezzo della legge. Più precisamente, è richiesta nella
forma stessa della legge. Ed è anzi la forma tutta intera. Questa
forma è presa a prestito da quella di una regola concettuale
cognitiva e trasposta analogicamente nel dominio pratico. La legge
non è la regola, ma si formula secondo il “tipo” della regola
conoscitiva, guardando a essa solo per il principio della sua validità
universale. È questo ciò che spiega la Tipica della seconda Critica
(KPV, 70-74; 79-84)33.
Così trasposta dalla conoscenza alla pratica, l’universalità perde a
causa dell’analogia il suo carattere determinato e riveste la sua
funzione di “filo conduttore”, come indicano lo “als ob” e il “so, daß”.
Allo stesso tempo, il concetto dell’intelletto è trasformato in Idea
della ragione e, dal lato dell’oggetto, il fenomeno è ormai colto come
segno. Ogni azione volontaria data nell’esperienza dà luogo a
conoscenze secondo la serie delle condizioni di cui essa è il
condizionato. Ma la stessa azione sottoposta cognitivamente alle
sintesi dell’intuizione, dell’immaginazione e dell’intelletto può essere
anche giudicata moralmente come l’effetto (il segno) di una causalità
libera, e il criterio per valutarla in questo modo risiede nella clausola
di possibile universalizzazione. Ma, a dispetto di questa profonda
trasformazione della natura dell’universalità mentre passa dalla
conoscenza alla moralità, essa conserva il suo fondamento
concettuale. Il concetto è ormai un concetto di ragione e non più
dell’intelletto, ma, come Idea, rimane ancora ciò che legittima la
domanda di universalizzazione posta alla massima morale. E, dato
che questa domanda è la sola che si senta nel sentimento sublime
(e che è sufficiente ad autorizzarlo o a “dedurlo” nella sua pretesa
alla possibile condivisione), bisogna dire che quest’ultima è in effetti
“mediata” dal concetto della ragione.
Per concludere questo punto, si vede che l’esigenza di
condivisione nel sublime è di natura del tutto diversa da quella nel
bello. Differente due volte. Intanto non appartiene in proprio al
sentimento sublime, ma gli proviene dall’esigenza di condivisione
inscritta nella forma della legge morale, e quest’ultima esigenza è
autorizzata dalla facoltà di concepire e dalla facoltà di volere. Ben
lungi dall’essere “immediata” come quella del gusto, ben lungi
dall’essere un’universalità “senza concetto” (62; 58)34, l’universalità
in gioco nel sentimento sublime passa attraverso il concetto della
ragion pratica. Se non si ha l’Idea della libertà e della sua legge, non
si prova il sentimento sublime. E poi il sublime differisce dal gusto
per la qualità del sentimento, come sappiamo. Violento, diviso da se
stesso, esso è allo stesso tempo attrattiva, orrore ed elevazione.
Questa sfaldatura si esprime però altrettanto bene in termini di
condivisione possibile. Perché quello che autorizza il sentimento
sublime a chiedere la condivisione è a sua volta, e soltanto, quella
parte di esso, quella componente che è l’analogo estetico del
rispetto. E, di conseguenza, soltanto ciò che in esso fa appello al
concetto. La condivisione del bello non si riferisce ad alcun concetto,
ed è per questo che la critica deve dedurla, non senza difficoltà. Il
gusto è immediatamente un pensiero che si sente, quel pensiero che
non pensa l’oggetto, ma si sente in occasione della forma di un
oggetto. Il sublime è un pensiero che si sente all’occasione di
un’assenza di forma dell’oggetto. Ma questa assenza non è dovuta
che al pensiero di un altro oggetto per mezzo di un concetto, l’Idea
della causalità e della grandezza assolute. Il pensiero sublime è una
contemplazione “nell’atto di ragionare”. È a questo titolo che esso
richiede la condivisione. La richiede, dunque, soltanto sotto la
condizione del concetto. Ed è anche questo a dare al sublime la sua
violenza. È un sentimento estetico, e non una soddisfazione
qualunque, perché esige la condivisione universale. Ma ciò che
esige questa condivisione in questo sentimento estetico non è
estetico, è la ragione.
3. L’altro oggetto

Sottolineo brevemente un effetto notevole dello statuto dato dalla


critica alla condivisibilità del sublime. L’Analitica di questo sentimento
sottolinea a più riprese che il sublime sta solo nel pensiero (85, 86,
102, 115; 88-89, 89-90, 110, 129)35, e che in senso proprio non c’è
un oggetto sublime. Ci si ricorda così dell’insistenza della critica a
definire il sublime un “Geistesgefühl” (supra VII.7) per marcare
quanto la natura, quella che nel bello si rivolge al pensiero per
mezzo della “scrittura” cifrata delle sue forme, sia tralasciata
[déconsidérée]36 invece nel sentimento sublime. Come se il pensiero
si distogliesse da ogni oggetto dato per esaltarsi solo per la sua
forza di pensare un “oggetto” che si dà esso stesso.
La cosa non è tuttavia così semplice. Perché, se si trattasse
soltanto di pensare l’assoluto, il caso sarebbe quello della ragione
speculativa e non apparterrebbe affatto all’estetica. Si tratta però
davvero di una soddisfazione estetica, che implica una
presentazione d’oggetto o almeno la presentazione di una forma
d’oggetto da parte dell’immaginazione, questa presentazione
sarebbe negativa, e l’oggetto informe. Se non un oggetto sublime,
c’è dunque senz’altro un oggetto che dà occasione al sublime. Il
nostro testo del § 39 fa riferimento al “piacere per il sublime della
natura” (126; 142)37. E l’argomentazione che rifiuta al sublime la sua
condivisibilità universale si appoggia anche sul carattere informe
dell’oggetto che può dare occasione al sentimento sublime. “Che
altri uomini prestino attenzione a questo oggetto e che provino un
certo compiacimento nel contemplare la rude grandezza, in der
Betrachtung der rauhen Größe, della natura, non sono autorizzato a
presupporlo puramente e semplicemente, schlechthin” (126 t.m.;
143)38.
Quest’argomentazione contro l’ipotesi di un “sensus communis”
sublime, che procede dalla stranezza dell’“oggetto sublime”, non fa
senz’alcun dubbio altro che raddoppiare quella che abbiamo appena
analizzato e che fa appello all’“altro sentimento” nascosto nel
sentimento sublime. Ma invece di esplorare lo stato soggettivo del
pensiero afferrato dal sublime, si accontenta di sottolineare lo statuto
incerto dell’oggetto che è occasione di questo stato. L’oggetto è
senz’altro un fenomeno (un ghiacciaio, l’oceano, un vulcano, ecc.), e
in quanto tale cade sotto la regola generale della conoscenza, lo
schematismo. Il “buon contadino savoiardo” lo percepisce e lo
concepisce, mente “il signor de Saussure”, che trova in questo
stesso oggetto l’occasione di un’emozione sublime, gli sembra
“indiscutibilmente pazzo” (103; 111)39. Il primo ha buon senso,
intelletto, è “verständig”. Il secondo sente nell’oggetto la “presenza”
di qualcosa che trascende l’oggetto. La vetta alpina è un fenomeno
che indica di essere anche qualcos’altro oltre che un fenomeno. Lo
indica precisamente in quanto “quasi” eccede la capacità di
comprensione dell’immaginazione e obbliga quest’ultima a battere in
ritirata. Lo spazio e il tempo che essa rinuncia a sintetizzare (che
non sono più, dunque, lo spazio e il tempo come forme
dell’intuizione) fanno segno, allora, alla “presenza” impresentabile di
un oggetto del pensiero altro rispetto all’oggetto dell’esperienza, ma
che non è sentimentalmente decifrabile altrove che in quest’ultima.
L’analogia con la moralità si impone di nuovo per questa via
d’accesso fenomenista o parafenomenista. Perché anche l’atto
virtuoso stesso, se esiste, è un fenomeno. Ma se è virtuoso indica
l’altro della fenomenalità, la causalità assoluta e la sua legge.
Si dirà che l’altro dell’oggetto non è un oggetto e che il segno è
ciò che disoggettiva l’oggetto. Ciò è vero solo se si indentifica
l’oggetto col fenomeno. Ma nel vocabolario della critica non si deve
farlo. Oggetto è tutto ciò che si offre al pensiero. Le Idee della
ragione hanno degli oggetti, quei limiti dell’intelletto che sono il tutto
assoluto, la causa assoluta ecc. Che non si trovino intuizioni a essi
corrispondenti non impedisce affatto di pensarli e con ciò stesso di
prenderli ad oggetto. Sono questi gli oggetti che Kant chiama
“intelligibili” (KRV, 397, 411; 527, 547)40. Quando il pensiero coglie
un fenomeno come segno, lo pensa allo stesso tempo in due modi
diversi: come un oggetto dato e condizionato nell’esperienza, e
come l’effetto di una causalità trascendente. Questi due modi di
pensare sono “localizzati”, trascendentalmente, in due domicili di
facoltà diversi. Sono eterogenei, e caratterizzano lo stesso oggetto
in modo eterogeneo. Per la ragione, l’oggetto che le è presentato nel
fenomeno è sempre troppo poco “grande” rispetto a quello di cui
essa possiede l’Idea, mentre per l’immaginazione è sempre troppo
“grande” per essere presentabile41. Il dissidio è senza soluzione. Ma
può essere sentito come tale, come dissidio. Tale è il sentimento
sublime. E questo sentimento fa della “grandezza bruta della natura”
un segno della ragione, allo stesso tempo in cui essa rimane un
fenomeno dell’esperienza. Grazie alla sintesi dinamica. Bisogna
avere ancora il “senso”, la “Fähigkeit” dell’eterogeneità, e della
necessità che costringe i modi di pensare eterogenei a incontrarsi
senza nulla cedere sul loro dissidio.
4. Il sentimento estetico che ispira il giudizio morale

Resta da esaminare il punto seguente: la “soddisfazione esaltante”


che il pensiero prova nel sublime “in quanto ragiona, vernünftelnd”
(126; 143)42 non è il rispetto per la legge morale stessa. È piuttosto
una specie di eco del rispetto nell’ordine estetico, e cioè nell’ordine
della contemplazione e non della pratica. Dobbiamo comprendere di
conseguenza quest’esaltazione come la sensazione che non può
mancare di accompagnare soggettivamente il giudizio morale, o la
“massima” della volontà morale in generale?
Kant esamina questa sensazione alla fine della Metodologia della
ragione pura pratica (KPV, 169 ss.; 182 ss.)43. La questione
cosiddetta del metodo nella morale concerne l’apprendimento del
giudizio giusto. Due disposizioni da acquisire. Innanzitutto, fare in
modo che il “giudizio secondo le leggi morali” divenga come
“un’abitudine”, e cioè acquisire e/o far acquisire una competenza che
permetta di discernere i “doveri essenziali” e i “doveri
extraessenziali” (ivi, 169; 182)44. Mentre in seguito bisogna
apprendere e/o insegnare a distinguere se l’azione giudicata è stata
fatta non soltanto in accordo con la legge morale, ma “in vista della
legge morale” (ivi, 170; 183)45. Giacché nel primo caso l’azione, o la
sua massima, piuttosto, non offre che una rettitudine di fatto e non
ha un vero valore morale che nel secondo caso.
Questo esercizio di discernimento morale, però, ed è questo che
interessa la nostra discussione – questo esercizio di discernimento
morale in cui si forma la riflessione rivolta alla pratica, la riflessione
che ha la responsabilità di “decidere” ciò che è bene, deve “produrre
a poco a poco un certo interesse anche per la legge della ragione,
selbst am Gesetze derselben [Vernunft]” (ibidem)46. Quest’interesse
si segnala per un sentimento che deve essere esattamente la
sensazione che stiamo provando a isolare: lo stato in cui si trova il
pensiero che scopre la purezza di una massima, che estende il
“segno” che gli fa la “presenza” della legge morale nella massima.
Questo “segno” significa che la volontà non obbedisce soltanto a
una motivazione interessata, ivi compresa quella che può spingerla
ad accordarsi con la legge morale, ma che la ragione pura pratica, la
causalità libera (assolutamente prima) è implicata nella
determinazione della volontà. Questa sensazione è una specie
d’amore: “finiamo per amare, wir gewinnen endlich […] lieb, ciò la cui
considerazione ci fa sentire che l’uso delle nostre capacità
conoscitive riceve un’estensione” (ibidem, t.m.)47. Uso “più esteso,
erweiterte”, perché la ragione pura pratica entra allora in gioco nella
massima del volere empirico. È questo sentimento d’“amore” che il
pensiero prova quando discerne (intende) la vera moralità, al di là
della rettitudine fattuale.
C’è dunque una specie di contentezza soggettiva nella
considerazione di un giudizio pratico puro, o di una massima
propriamente morale, – contentezza che si proietta in un amore per
quest’ultima. Questa contentezza si analizza criticamente
nell’armonia delle “facoltà conoscitive”, e cioè delle potenze del
pensiero in quanto sono rivolte verso l’oggetto. Questa sensazione
felice proviene dal fatto che “la ragione può semplicemente trovarsi
bene, allein gut finden kann, con la sua facoltà di determinare a
priori, secondo princìpi, ciò che deve prodursi, was geschehen soll”
(ibidem, t.m.)48. Il pensiero ragionante si trova “bene”, allora, perché
la sua capacità di determinare a priori “i fini della libertà” si trova in
“armonia, Übereinstimmung” con la libertà “nel dominio morale, im
Sittlichen” (169; 205)49. Cito qui la definizione, data nella terza
Critica, della terza “Idea del soprasensibile”, quella che autorizza
precisamente la messa in unisono, la Übereinstimmung, della legge
a priori della libertà con la massima della volontà morale. Si vede
allora che l’“estensione” delle facoltà conoscitive è considerevole,
che è massima perché richiede questo principio soprasensibile che
garantisce alla volontà pura a priori la sua effettuazione in una
massima concreta (ma sempre e soltanto come segno).
Quest’armonia, questo unisono e questa contentezza non
smettono però di far pensare per analogia a quelli che caratterizzano
lo stato del pensiero che giudica il bello, e che sono garantite a
quest’ultimo dalla seconda Idea del soprasensibile, secondo la quale
ci si ricorderà che c’è “una finalità soggettiva della natura per la
nostra facoltà di conoscere” (ibidem)50. Analogia inevitabile perché
in questo testo della metodologia pratica si tratta del sentimento
(soggettivo) che il giudizio morale procura al pensiero, e non
dell’effettuazione pratica della legge da parte di questa massima.
Kant stesso non manca di fare la suddetta analogia. Questo
esercizio del giudizio morale “fa solo in modo che si provi piacere
per un tale giudizio e che si dia alla virtù o al modo di pensare
secondo le leggi morali una forma di bellezza, eine Form der
Schönheit, che suscita ammirazione, bewundert, ma che non viene
ancora per questo ricercata” (KPV, 170; 183)51. “Bewundert”, “noch
nicht gesucht”: si ammira la virtù, è un sentimento estetico, ma non
la si cerca ancora, non è l’obbligazione etica. Il pensiero gioisce di
se stesso, del suo unisono in occasione della virtù presa ad oggetto:
eppure non si impegna ancora a praticarla. La “buona proporzione”
in cui si trovano le facoltà conoscitive l’una con l’altra, la capacità di
prescrivere assolutamente e la capacità di realizzare la prescrizione,
è così piacevole che il pensiero “si attarda” nel suo stato soggettivo,
segna una “pausa”, una “Verweilung” (65; 61)52, e differisce così la
messa in atto della virtù.
È dunque al sentimento del bello che lo stato soggettivo procurato
dalla considerazione della rettitudine morale deve essere comparato.
“L’esistenza dell’oggetto ci lascia indifferenti, dato che esso viene
considerato solo come l’occasione, die Veranlassung, per
riconoscere che c’è dentro di noi, in uns inne zu werden, la
disposizione di talenti, Talente, che ci elevano, erhabenen, al di
sopra dell’animalità” (KPV, 170 t.m.; 183)53. “Talent” appartiene al
lessico del bello, la loro elevazione, “erhabenen”, a quello del
sublime. A dire il vero, l’importante non è tanto che la massima
morale (l’“oggetto”) “manifesti” una trascendenza della volontà libera
in rapporto a ogni motivazione (“animale”, “patologica”); l’importante
è che l’oggetto sia colto come un’occasione di piacere, che è il caso
del gusto. Se ne ha la prova in ciò che segue: “[…] allo stesso modo
provoca un compiacimento tutto ciò la cui considerazione produce
soggettivamente in noi una coscienza dell’armonia delle nostre
capacità rappresentative, e per la quale noi sentiamo che tutta intera
la nostra facoltà conoscitiva (intelletto e immaginazione) è rafforzata,
gestärkt” (ibidem)54. La formula introduce direttamente all’Analitica
del bello, e soprattutto al titolo dell’“animazione” (supra II.3).
Non bisogna omettere la determinazione della “soddisfazione”
così descritta da parte della proposizione relativa che vi si ricollega e
sulla quale si chiude la frase tedesca: “[…] provoca un
compiacimento che si lascia condividere anche dagli altri, das sich
auch andern mitteilen läßt” (ibidem)55. Questa precisazione ci
riconduce dopo questo giro alla questione della condivisione. Il
sentimento estetico che procura il giudizio morale richiede
“anch’esso” di essere condiviso. Si riconosce l’obbligazione alla
condivisione, il Sollen inerente al gusto. Ma non bisogna
fraintendere: che tu debba condividere il mio gusto non comporta
che tu debba condividere il dovere. Il gusto è soggettivo, il dovere è
oggettivo. Nella Metodologia della ragion pratica, il primo “tu devi” è
“ancora” solo un’analogia del secondo, e il sentimento estetico
procurato dalla virtù solo un mezzo per creare l’abitudine di
riconoscere e di praticare quest’ultima. In quanto mezzo per una
cosa diversa da se stesso, questo sentimento non può essere
identificato con il gusto puro. E d’altra parte, in quanto estetico, esso
si tiene lontano dal sentimento propriamente morale, il rispetto, e
dall’obbligazione di mettere in atto la legge. C’è persino un certo
pericolo in questa specie di apprendimento: il piacere di ammirare la
virtù può sviare il pensiero dal desiderio di praticarla.
Resta che il termine di comparazione nell’ordine estetico del
sentimento procurato dalla massima etica non è il sentimento
sublime, ma il sentimento del bello. Il sentimento sublime non è in
alcun modo una felice disposizione del pensiero. Le potenze di
quest’ultimo non si rapportano affatto l’una all’altra secondo una
buona proporzione, si “sproporzionano” violentemente. L’oggetto che
ne è occasione è sicuramente anch’esso un “segno”, il segno di una
“destinazione soprasensibile”, ma tale da disarmare la presentazione
e da tralasciare [déconsidère] perfino la fenomenalità del fenomeno.
Trova qui il suo limite l’analogia (che si poteva supporre possibile)
della grandezza o della forza “brute” della natura con la virtù, in
quanto queste susciterebbero tutte un sentimento sublime. Giudicare
una massima stimabile moralmente porta il pensiero a sentirla bella.
Giudicare l’oceano “troppo grande” per la presentazione porta a
sentirlo sublime. Il dovere può e deve essere chiamato sublime:
“Dovere! nome sublime e grande, tu che non contieni in te nulla di
amabile, nichts Beliebtes […]” (KPV, 91; 101)56. Ma differisce ancora
dal sublime propriamente detto perché non comporta più “nulla che
risvegli nel pensiero un’avversione naturale, nulla che lo riempia di
terrore” (ibidem)57, e perché la legge che prescrive “trova da se
stessa accesso al pensiero, ein Gesetzt […], welches von selbst im
Gemüte Eingang findet” (ibidem)58. Nella descrizione della sublimità
del dovere ritroviamo così i tratti che fanno in modo che il sentimento
del dovere, il rispetto, non sia un sentimento sublime. E se la virtù
stessa era sublime, è perché il segno della legge della libertà che è
in essa può essere afferrabile per il pensiero soggettivo solo a costo
di “sommergere” la fenomenalità dell’atto virtuoso, che è perciò
troppo grande o troppo forte per essere presentabile. Quest’atto non
sarebbe dunque un atto, la volontà pura e libera di cui sarebbe il
segno interdirebbe alla volontà empirica di effettuarla, proprio come
l’assoluto della ragione porta alla disfatta la presentazione del
fenomeno da parte dell’immaginazione.
Tutto ciò che può essere concesso al sentimento sublime nella
considerazione della moralità è la resistenza (supra VI.1), la
resistenza della virtù alle passioni, alla “paura”, alla “superstizione”,
alla “fragilità della natura umana” e ai suoi “errori” (100-102; 108-
110)59. Il coraggio di un guerriero o di un popolo in guerra, la
sottomissione di un fedele a Dio possono essere provati dal pensiero
in maniera sublime a condizione che la massima che orienta la
volontà di questo guerriero, di questo popolo o di questo fedele sia
virtuosa. Ma anche allora non è la moralità stessa che è sentita
sublime, è la sua resistenza alle inclinazioni e il suo trionfo su di
esse, al punto da renderle nulle. L’effetto sublime, estetico, risulta da
questa disposizione della volontà pura con il desiderio empirico. Ma
la virtù, quanto a essa, consiste nella semplice “presenza” di questa
in esso, nel loro unisono “naturale”, senza resistenza. Ed è per
questo che evoca la bellezza.
La moralità implica dunque intrinsecamente l’esigenza della
propria condivisione universale, analoga in ciò al sentimento del
bello. Ma analoga soltanto, giacché quest’esigenza si legittima per
un’Idea immediatamente o incondizionatamente presente, sempre e
a priori presente al pensiero che vuole: il concetto della libertà.
Mentre l’esigenza di condivisione immediata che comporta il gusto
esige la propria deduzione da un principio di “sensus communis”
che, a sua volta, si legittima per un’Idea “soprasensibile” del tutto
celata, secondo la quale le forme della natura sono in affinità con gli
stati del pensiero. Quanto al sublime, esso sfugge all’una e all’altra
esigenza di condivisione universale. Di fronte alla grandezza e alla
forza brute della natura (o alla resistenza della virtù), “non sono
autorizzato a presupporre che altri uomini vi prestino attenzione,
darauf Rücksicht nehmen” (126 t.m.; 143)60. L’Idea di assoluto non è
qui presente al pensiero sotto la forma necessaria del rispetto, l’Idea
della finalità senza concetto di una forma per il piacere puro non può
essere suggerita dalla controfinalità violenta dell’oggetto. Né
universalità morale né universalizzazione estetica, ma piuttosto la
distruzione dell’una da parte dell’altra nella violenza del loro dissidio,
che è il sentimento sublime. Il dissidio stesso non può esigere di
essere condiviso da ogni pensiero, nemmeno se considerato
soggettivamente.

1 Cfr. ivi, B 153-156; tr. it. pp. 128 ss.; per il titolo, ivi, B 153; tr. it. p.
128 (modificata).
2 Cfr. ivi, B 5-16; tr. it. pp. 40-46.
3 Per quanto nel testo Lyotard rinvii solo alla distinzione dei differenti
tipi di compiacimento, in realtà le citazioni riportate si trovano tutte in punti
diversi del § 5; per il che cfr. ivi, B 14 ss.; tr. it. pp. 45 ss.
4 Cfr. ivi, B 10-14, 120, 169; tr. it. rispettivamente pp. 43-45, 107, 136.
5 Ivi, B 154; tr. it. p. 128.
6 Ivi, B 74; tr. it. p. 80.
7 Ivi, B 82; tr. it. p. 84. Come sopra (cfr. supra, Cap. III, nota 26), anche
stavolta Lyotard riporta la propria traduzione di contro a quella di Philonenko.
8 Ivi, B 154; tr. it. p. 128. Lyotard modifica ampiamente, senza
segnalarlo, la traduzione di Philonenko. Per seguirlo ho preferito tradurre la
sua piuttosto che modificare quella italiana.
9 Ibidem (tr. it. modificata).
10 Ibidem.
11 Cfr. KpV A 134-139; tr. it. pp. 169-173.
12 KU B 154; tr. it. p. 128 (leggermente modificata).
13 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
14 KpV A 142; tr. it. p. 175 (leggermente modificata).
15 Cfr. ibidem.
16 Cfr. KU B 15 ss., 120, 169; tr. it. rispettivamente pp. 46, 107, 136.
17 KpV A 142; tr. it. p. 175.
18 Ivi, A 135; tr. it. p. 169.
19 Ivi, A 137; tr. it. p. 171 (modificata).
20 Cfr. ivi, A 137-139; tr. it. pp. 171-173.
21 Ivi, A 138; tr. it. p. 171 (leggermente modificata).
22 Ivi, A 129; tr. it. p. 163.
23 Ivi, A 130; tr. it. p. 165 (leggermente modificata).
24 Ivi, A 134; tr. it. p. 169. Le citazioni in questo insieme di frasi
lyotardiane sono estremamente confuse. Intanto perché i termini “presenza” e
“segno” non compaiono nel testo citato (motivo per cui li ho messi tra virgolette
singole e non tra doppie), e poi perché la prima metà della citazione parla nel
francese di un “modello” per la moralità (termine, anche questo che non
compare nel testo kantiano) e non di un “movente”, come ho corretto.
25 KU B 133; tr. it. p. 116 ss.
26 Ibidem; tr. it. p. 117 (leggermente modificata).
27 Cfr. ibidem.
28 Cfr. KpV A 13, 82 ss.; tr. it. pp. 45, 117 (modificata).
29 Cfr. ivi, A 13; tr. it. p. 45.
30 Ivi, A 54; tr. it. p. 87.
31 GMS AA IV 421; tr. it. p. 125.
32 KpV A 54; tr. it. p. 87 (leggermente modificata).
33 Cfr. ivi, A 119-126; tr. it. pp. 153-159.
34 KU B 32; tr. it. p. 55.
35 Cfr. ivi, B 76 ss., 78, 109, 132 sg; tr. it. p. 81, 82, 100, 116.
36 Ho deciso di tradurre in questo caso il verbo “déconsiderer” con
“tralasciare”, piuttosto che, come nell’uso comune francese, con “screditare”,
perché mi sembra che Lyotard lo usi qui nel suo senso etimologico. La natura,
credo che intenda dire, nel sublime viene del tutto esclusa dalla
considerazione. Non si guarda più a essa, non è in vista: è “omessa”, e in
questo senso “tralasciata”.
37 Ivi, B 154; tr. it. p. 128.
38 Ibidem (tr. it. modificata).
39 Ivi, B 111; tr. it. p. 101 (modificata).
40 KrV A 538 B 566, A 565 B 593; tr. it. rispettivamente pp. 793, 827-
829.
41 Cfr. ivi, A 486-490 B 514-518; tr. it. pp. 729-733.
42 KU B 154; tr. it. p. 128 (modificata).
43 Cfr. KpV A 284-288; tr. it. pp. 313-317.
44 Ivi, A 284; tr. it. p. 313 (leggermente modificata).
45 Ivi, A 285; tr. it. ibidem (leggermente modificata).
46 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
47 Ibidem (tr. it. modificata; data la libertà della tr. fr. e il fatto che
Lyotard la riporta al testo subito dopo, ho preferito tradurre direttamente
questa).
48 Ibidem (tr. it. modificata).
49 KU B 245; tr. it. pp. 180 ss. (modificata).
50 Ibidem; tr. it. p. 180 (leggermente modificata).
51 KpV A 286; tr. it. p. 315 (modificata).
52 KU B 37; tr. it. p. 58.
53 KpV A 286; tr. it. p. 315 (modificata).
54 Ibidem (tr. it. modificata).
55 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
56 Ivi, A 154; tr. it. p. 187 (leggermente modificata).
57 Ibidem (tr. it. modificata; in questa citazione come nella seguente ho
seguito Lyotard traducendo il kantiano “im Gemüte” con “nel pensiero” anziché
con “nell’animo”).
58 Ibidem (tr. it. leggermente modificata).
59 Cfr. KU B 105-109; tr. it. pp. 98-100.
60 Ivi, B 154; tr. it. p. 128 (modificata).
BIBLIOTECA

1 Peter Sloterdijk, I figli impossibili della nuova era. Sull’esperimento anti-


genealogico dell’epoca moderna
2 Roberto Esposito, Termini della politica I. Comunità, immunità, biopolitica
3 Roberto Esposito, Termini della politica II. Politica e pensiero
4 Ludwig Wittgenstein, Lezioni di psicologia filosofica. Dagli appunti (1946-
47) di Peter T. Geach
5 Ivan Illich, Descolarizzare la società. Una società senza scuola è
possibile?, Prefazione di Andrea Staid
6 Massimo Recalcati, Il vuoto e il resto (nuova edizione)
7 David K. Lewis, Sulla pluralità dei mondi
8 Martin Heidegger, Hegel, a cura di Giampiero Moretti
9 Umberto Curi, Film che pensano. Cinema e filosofia
10 Wilhelm Worringer, Il Gotico. problemi di forma, a cura di Giovanni
Gurisatti
11 Massimo Recalcati, Legge, soggetto ed eredità. Lezioni veronesi di
psicoanalisi
12 Silvano Tagliagambe, Come in uno specchio: il cervello e il suo ambiente
13 Ludwig Wittgenstein, Lezioni di psicologia filosofica Dagli appunti (1946-
47) di Kanti J. Shah

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