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La scolastica e Tommaso 

La scolastica è il pensiero filosofico prevalente nel basso Medioevo. Il termine deriva dallo scopo:
permettere agli uomini comuni di comprendere la verità rivelata. Le parole chiave per capire
meglio di cosa stiamo parlando sono già sotto i nostri occhi.
“Uomini comuni”, in quanto la scolastica presuppone l’essere insegnata a chiunque, siccome
ognuno ha diritto a conoscere Dio per quanto possibile, e l’unico modo perchè ciò accada è
l’unione tra fede e pensiero razionale.
“Verità rivelata” è il fondamento sul quale si basa la filosofia medievale. Non è per questo una vera
e propria filosofia, perchè si limita a sciogliere dubbi riguardo i dogmi e le scritture cristiane, invece
di provare a comprendere attraverso il ragionamento l’ignoto. 
La scolastica si dividein 4 grandi periodi, ed una domanda li accomuna tutti: fino a dove può
spingersi la mente dell’uomo? Da cui ne seguono altre: fin dove arriva la libertà umana? E’ lecito
tentare di comprendere Dio con la ragione che lui ci ha fornito? I dogmi cristiani necessitano una
giustificazione o sono verità assolute dai quali partire per costruire sillogismi a catena, che
conducono attraverso il ragionamento aristotelico alla verità rivelata?
Durante tutto il Medioevo, come abbiamo detto, si è discusso in particolare della compatibilità tra
fede e ragione. In epoca pre-scolastica, si pensava che esse fossero in qualche modo
combacianti, invero non sembrava nemmeno un problema tanto rilevante, ma successivamente i
filosofi si ricredettero decretando l’impossibilità di identità tra le due, fin quando Tommaso
d’Aquino, “Il bue muto”, convinse di come conducessero alle stesse conclusioni attraverso due
cammini diversi. L’impossibilità di scegliere una tra le due posizioni portò in definitiva al tramonto
della scolastica (fine 1300).
Le vie che i filosofi tentarono per districare un problema così spinoso furono molte. Anselmo
d’Aosta, nato in un periodo in cui ancora il pensiero medievale necessitava di tempo per maturare,
espose la sua prova a posteriori dell’esistenza di Dio, che usufruiva della ragione e portava alla
conclusione che Egli esistesse effettivamente. In altre parole, prendendo come base il concetto
aristotelico dove sìnolo è maggiore di forma pura o materia pura, probabilmente preso in prestito
da qualcuno degli antichi commentatori aristotelici, Anselmo affermò che Dio dovesse esistere
realmente, siccome non può esistere nulla di più perfetto al quale possiamo pensare. Infatti, se
non esistesse, potrebbe esistere qualcosa di migliore, basterebbe che sussistesse anche nella
realtà.
La dimostrazione non venne accettata dai suoi contemporanei, dato che, anche se si è in grado di
pensare a qualcosa di assolutamente perfetto, non è detto che ciò esista.
E’ chiaro che, con il senno di poi, un pensiero del genere sembra assurdo, e immagino che i
contemporanei di Anselmo pensassero la stessa cosa. Però, affidandosi alla logica in maniera
stringente, il ragionamento potrebbe effettivamente funzionare. Tommaso, più di un secolo dopo,
pose una pietra sopra questo tipo di dimostrazione, spiegando che, dibattendo sul fatto che un
essere perfettissimo necessiti di esistere o meno, non si conclude se effettivamente esista.
Ogni ragionamento filosofico medievale era strutturato grossomodo alla maniera di questo appena
illustrato. Il problema degli universali, ad esempio, fu un altro tra i grandi dilemmi che gli scolastici
si trovarono a dover affrontare. 
Un universale è qualcosa che trascende le categorie aristoteliche e va oltre, potendo essere
riferito a tutti gli individui di un determinato “gruppo”, ad esempio il genere o la specie. Un
universale esiste nella realtà o è solamente una convenzione frutto del linguaggio? Il problema,
però, era molto più ampio; infatti, la disputa sugli universali comprendeva anche interrogarsi sulla
validità effettiva della logica e fino a che punto essa potesse spingersi certamente, senza
supposizioni.
4 furono i tentativi principali di risoluzione del problema, che adesso tenterò di spiegare
aiutandomi con uno schema noto e quindi semplice da assimilare.
 Estrema destra, o realismo estremo: seguendo le idee platoniche-agostiniane, i realisti
estremi sostenevano che gli universali fossero forma pura relegati nel “mondo delle idee”,
o, per adattarlo al cristianesimo, esistessero realmente nella mente di Dio. Egli dunque li
utilizzerebbe come modello per creare qualunque ente naturale.
 Centro-destra, o realismo moderato: trova il suo maggior sostenitore in Tommaso d’Aquino,
e immagina che gli universali esistano intrinsecamente alle cose come loro forma, come
modelli organizzatori della materia, uguali per ogni individuo come “base”. Secondo
Tommaso, inoltre, ciò che differenzia tra loro gli esseri è la materia signata, che differisce
per misure da individuo a individuo. Infine, gli universali esistono anche prima dei loro
corrispettivi reali, ovvero nella mente divina, e persino dopo, nell’intelletto umano che, per
comprendere, ha bisogno di astrarre l’universale dalla materia. 
 Centro-sinistra, o nominalismo moderato: gli universali sono solo nel nostro cervello, e ci
servono per comprendere tutto ciò che abbiamo intorno. Costituiscono modelli mentali che
fungono da recipienti e aiutano a classificare individui affini.
 Estrema sinistra, o nominalismo estremo: come dice il nome stesso, gli universali non sono
altro che nomi privi di qualsiasi significato logico-mentale, e non esistono categorie in grado
di accogliere nemmeno due enti differenti tra loro. In contraddizione con il pensiero cristiano
della Trinità, padre, figlio e spirito santo. Ne seguì una separazione di Dio in 3 identità
diverse, una sorta di politeismo ristretto, che fu presto condannato.
Delle 4 visioni elencate qui sopra, mai una riuscì ad affermarsi come superiore alle altre, e il
problema non trovò una soluzione definitiva, come d’altronde quasi ogni quesito posto in ambito
scolastico.
Pietro Abelardo, ritenuto dagli storici contemporanei uno degli uomini più illustri dell’intero
medioevo, provò a coniugare la destra con la sinistra creando un partito filosofico di centro
assoluto. Disse che gli universali erano concetti utilizzati per raggruppare enti simili al loro interno;
la natura oggettiva consisteva nella condizione effettiva in cui si trovavano tutti gli enti raggruppati.
Tutti gli animali, dunque, secondo Abelardo, vengono raccolti sotto questo sermo proprio per la
loro “animalità”. 
Abelardo però non si limitò alla disputa sugli universali, e, oltre alla sua (non troppo) segreta storia
d’amore con Eloisa, fu per tutta la vita impegnato filosoficamente come imperterrito sostenitore
della ragione. Da ciò derivò la sua stima per i pensatori greci, e la lotta contro i dogmi cristiani
rispettati a priori, senza averli prima dimostrati attraverso qualche sorta di ragionamento razionale.
Infatti, secondo il francese, era necessario e imprescindibile discutere se fosse opportuno prestare
fede a qualcosa o meno. La chiesa non si dimostrò pronta ad accettare un atteggiamento quasi
“scientifico” di questo tipo, e perciò si oppose al saggio professore sino alla sua morte, nel 1142.
Abelardo si rivelò inoltre uno dei più ottimisti tra i pensatori medievali. Sostenendo che tutto ciò
che accade sia bene, e di conseguenza faccia parte del disegno di Dio, non v’era ragione per
disperare, anche davanti alle più grandi atrocità: in qualche modo il destino di ognuno doveva
essere volto al bene. Ciò non significava però che l'uomo non fosse libero; il libero arbitrio si
esercita scegliendo se abbandonarsi alle inclinazioni naturali oppure combatterle. Nonostante
questo, secondo Abelardo, esistono alcuni peccati che vengono compiuti involontariamente,
quindi nemmeno la chiesa può comprenderne l’intenzionalità. Da ciò scaturisce l’inadeguatezza
dell’uomo nel giudicare altri uomini.

Fino ad ora sono stati esposti i principali argomenti del primo periodo scolastico. Il secondo è
tuttavia caratterizzato dalla diffusione del pensiero di Aristotele, importato dagli arabi in Europa
attraverso i commenti di Averroè, principalmente. Non bisogna dimenticare però Avicenna,
sostenitore delle idee neoplatoniche e contemporaneo all’età che abbiamo chiamato pre-
scolastica.
Inizierei proprio da quest’ultimo, che, come detto, rientra nell’argomento appena affrontato, ma
costituirà anche la base dell’Averroismo, lasciando in eredità innanzitutto il principio fondamentale
della filosofia araba: “Tutto ciò che accade non poteva accadere diversamente ed è necessario”.
Da cui deriva che tutte le cose sono necessarie rispetto ad altre cose, e la catena prosegue
all’infinito sino a giungere a Dio, essere necessario per sé stesso. Se però ogni elemento del
creato è necessario rispetto a qualcos’altro, allora anche la creazione stessa è necessaria rispetto
a Dio; dunque essa non è un atto libero, ma si svolge necessariamente.
Inoltre, Avicenna si interrogò, come molti suoi contemporanei e filosofi successivi, sul problema
dell’intelletto. Espose la tesi secondo la quale esistono 3 intelletti: quello attivo, o divino, quello
potenziale, o umano, strettamente derivato da quello divino, e quello acquisito, che permette di
astrarre i concetti dalle immagini. L’unico intelletto che sussiste dopo la morte è l’attivo, poiché
divino e separato dal corpo. Ciò nega l’immortalità dell’anima, andando in contraddizione con i
filosofi scolastici cristiani che provarono una profonda avversione nei suoi confronti.

Nato circa 1 secolo e mezzo dopo Avicenna, fu Averroè probabilmente il pensatore arabo di
maggiore risonanza in occidente, con il suo Gran Commento alle opere illustri di Aristotele.
Egli, al contrario del suo predecessore, negò il libero arbitrio, asserendo che, siccome tutto è
necessario, anche le azioni che gli individui compiono lo sono. Anche il mondo, essendo
necessario, è solo una manifestazione della perfezione divina, e non occorre nemmeno porsi il
problema che la sua creazione sia volontaria o involontaria, siccome è sempre esistito e sempre
esisterà.
Averroè modificò l’interpretazione degli intelletti di Avicenna scrivendo che l’intelletto potenziale è
una partecipazione dell’intelletto attivo, ed è unico per tutti gli uomini, ma distaccato dalla loro
anima.
Quando il Gran Commento giunse in Europa generò ostilità da parte dei contemporanei, in quanto
si opponeva fortemente a molti dei capisaldi della chiesa cristiana. Bonaventura da Bagnoregio in
particolare fu aspro detrattore della filosofia araba, articolando un pensiero che suddivideva in 3 le
facoltà dell’animo umano, e ipotizzando uno stato oltre il quale non fosse possibile spingersi,
dovendo abbandonarsi quindi alla fede in Dio come unico modo per elevarsi allo stadio
successivo.
Successivamente, prima Alberto Magno e poi il suo allievo Tommaso d’Aquino tentarono di
coniugare il pensiero aristotelico alla religione cattolica, e in particolare il secondo influenzò a tal
punto i suoi contemporanei e successori che il pensiero aristotelico-tomista viene studiato ancora
oggi, ed ha costituito un caposaldo culturale per il mondo occidentale per più di 7 secoli.

Ora, è giunto il momento di approfondire uno dei 4 temi proposti. Proverò ad analizzare le prove
dell’esistenza di Dio che ci hanno fornito sia Anselmo d’Aosta che Tommaso d’Aquino,
confrontarle, ed esprimere la mia opinione personale.
In parte abbiamo già parlato sopra della prova a posteriori che Anselmo fornisce dell’esistenza di
Dio, e la si è anche confrontata con la risposta frate d’Aquino, traendo la conclusione che essa sia
logicamente corretta ma realmente discutibile. Conseguenza di ciò è un visibile limite della logica,
che è parte del pensiero, ma non può essere direttamente correlata alla realtà, per non creare
paradossi. O almeno, deve fare uso di premesse dimostrate e unanimemente accettate dalla
comunità, per essere ritenuta ineccepibile.
Ciò non avviene nel caso di Anselmo. Perchè non si potrebbe pensare un oggetto perfettissimo
che non esiste nella realtà, ma allo stesso tempo ritenerlo più perfetto di un oggetto reale?
Aristotele pone il vincolo che sìnolo tra forma e materia sia più perfetto di forma o materia pure,
ma ciò funziona solamente nell’ambito della logica, pur essendo un principio metafisico: anche se
non può esistere nulla di superiore a tale ente, non è detto che effettivamente questo ente che
costituisce il limite della perfezione immaginabile esista. In altre parole, perchè dovremmo
constatare che, solamente poichè possiamo pensare a un limite, esso debba esistere realmente?
Il sillogismo, come abbiamo già detto, logicamente funziona, ma è il postulato alla base che è
discutibile. 
Allo stesso modo, costruire un sillogismo con premesse false conduce a un risultato falso, anche
se la logica di base è squisitamente semplice ed ineccepibile. Decretato che non si possa
dimostrare l’esistenza di Dio in questa maniera, vediamo ora come il “bue muto” scelse di
affrontare tale problema. 
Egli propose cinque vie per dimostrare l’esistenza del creatore. Proviamo ad analizzarle una ad
una, mettendo in evidenza i punti di forza e ciò che invece ci fa storcere il naso. Evidentemente,
come solevano gli scolastici, noi astrarremo le affermazioni del conte d’Aquino dal periodo storico
a cui appartengono, altrimenti, usufruendo delle medesime conoscenze di cui disponeva
Tommaso, sarebbe improbabile trovare argomentazioni più convincenti.
Le dimostrazioni, sono, come il tentativo di Anselmo, a posteriori, ovvero partono dal mondo
sensibile per giungere a dimostrare l’esistenza del divino.
La prima via è la via cosmologica. Nella metafisica di Aristotele si legge che “tutto ciò che si
muove è mosso da altro”. Dunque è naturale che sia necessario un motore perpetuo, che non ha
bisogno di nulla che lo muova a sua volta, e il primo motore non può essere che Dio. Qui pare
sbagliato sia il principio di base che la conclusione. Volendo fare un torto a Newton, Galileo,
Einstein e tutti gli altri scienziati illustri, che utilizzarono la ragione per spiegare come mai ciò che è
contenuto nell’universo si muove, è comunque innaturale pensare che oggetti senza vita come
possono essere pianeti, oppure secondo il sistema tomista cerchi concentrici al cui centro vi è la
terra, si debbano muovere seguendo l’amore di Dio, a cui essi tendono naturalmente. Perchè una
roccia dovrebbe tendere all’amore supremo e superiore? Il discorso potrebbe funzionare per gli
esseri umani, che tendono a Dio come unica fonte di gioia eterna, ma non spiega perchè gli astri
dovrebbero muoversi di conseguenza. E il fatto che gli esseri viventi credano in un essere
superiore, come sappiamo, non dimostra che egli esista. 
La seconda via è la prova causale, che, similmente alla prova cosmologica, illustra come non si
possa risalire all’infinito per quanto riguarda le cause efficienti che governano il mondo. Ci deve
essere una causa prima, che in questo caso è Dio. 
Forse occorre fermarsi un attimo. Albert Einstein, quando, nel 1928, prese atto della casualità del
cosmo in determinate situazioni, affermò: “Egli non gioca a dadi con l’universo”. Pur essendo ateo,
Einstein non riusciva a credere non vi fosse davvero nulla che controllasse in maniera precisa
particolari comportamenti dell’universo, apparentemente ritenuti inspiegabili. E nemmeno
Tommaso, a quanto pare. E’ chiaro che pensare non vi sia un destino segnato o un disegno
prestabilito, con una ricompensa finale per i meritevoli, getti nello sconforto, ma, a quanto ne
sappiamo oggi, il finalismo, o il suo reciproco, non sono vie adeguate a spiegare la complessità
del tutto. 
La frase precedente volutamente richiama le ricerche compiute da Stephen W. Hawking a partire
dalla fine degli anni settanta fino al momento in cui si è tristemente spento; Hawking impiegò più di
40 anni a tentare di formulare una “teoria del tutto”, in grado di coniugare la meccanica quantistica
con la relatività generale, in modo da trovare un modello di funzionamento dell’universo in ogni
luogo dello spazio-tempo. Sfortunatamente,non ebbe il tempo per ultimare le sue ricerche, ma,
come scrisse nell’eccellente testo divulgativo “The theory of everything”: “Se trovassimo la
risposta a quest’ultima domanda, decreteremmo il definitivo trionfo della ragione umana, poichè
allora conosceremmo il pensiero stesso di Dio”. Naturalmente, la chiusura è provocatoria; la verità
è che decreteremmo come non serva affidarsi al creatore per conoscere le leggi che regolano
ogni cosa.
Con questa digressione abbiamo chiarito come siano errate sia la seconda sia la quinta via,
finalistica.
La terza e la quarta via sono molto simili. Con parole differenti ricorrono a catene differenti che
analizzate a ritroso devono avere un inizio, e questo non può fare a meno di essere identificato in
Dio. Anche qui, il problema è squisitamente logico. Affermare che, se al mondo esistono diversi
gradi di perfezione, debba esistere un essere perfettissimo con il grado più alto di tutti gli altri,
logicamente ha senso, non fa una grinza, ma realmente non funziona. Perchè la catena della
perfezione non potrebbe spezzarsi all’uomo? Non potrebbe egli essere l’essere più perfetto
dell’universo?
Tutto ciò, sia chiaro, non funziona se si crede fermamente nell’esistenza di Dio. Riportando i
ragionamenti contenuti in questo documento all’epoca di Tommaso, si dimostrerebbero fallaci,
eretici, provocatori. Non è possibile dimostrare a un ateo che Egli effettivamente esista, come non
è possibile convincere un credente del contrario.
Proprio per l’impossibilità di risolvere questo problema, il limite che separa fede e ragione, la
scolastica venne abbandonata nel XIV secolo. La ragione non può dimostrare l’esistenza di Dio, e
la fede non può affermare che le conclusioni a cui si giunge tramite la ragione siano false.
Decretare che, se qualsiasi ragionamento culmina con ipotesi che sono in disaccordo con il
pensiero cristiano, esse siano sbagliate, è una sciocca limitazione, ma purtroppo per secoli (bui) la
chiesa ha esercitato il suo potere in maniera autoritaria, talvolta appoggiata erroneamente
dall’opinione comune.

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