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Contiguità e fratture nello spazio mediorientale

allargato: identità contese e lotte egemoniche


Paolo Maggiolini

La perdurante instabilità che avvolge il Mediterraneo allargato ha ormai favorito il


rifiorire di nuove immagini orientalizzanti che dipingono questo spazio come il luogo
paradigmatico dell’irrazionalità e della violenza arbitraria, intrappolato fra
transizioni fallimentari e irresistibili autoritarismi. Questa vasta regione, che si
stende dal Golfo al Nordafrica passando per l’area mesopotamica, la penisola anatolica
e il Levante, è così diventata il cuore di quel cosiddetto “cerchio di fuoco” da cui
l’Europa si sente sempre più presa d’assedio e che ne rafforza timori e diffidenze sia a
livello politico sia sociale. Lontane sembrano essere le speranze con cui venivano
salutati gli eventi delle cosiddette «primavere arabe», così come quelle ambizioni con
cui l’Europa guardava a quest’area durante gli anni Novanta, quando con il processo
di Barcellona del 1995 si proponeva di creare una zona di «prosperità condivisa»
promuovendone lo «sviluppo sociale ed economico sostenibile ed equilibrato».1
È proprio dal fallimento di queste speranze che si moltiplicano simili
rappresentazioni, sintomo di un bisogno di esorcizzare i complessi eventi attuali,
semplificandoli ed essenzializzandoli, piuttosto che impegnarsi nella loro spiegazione.
In questo modo, però, si corre il rischio di ignorare una profonda dinamica di
trasformazione, per nulla irrazionale, che sta avvolgendo la regione e che ha radice
nell’intricato percorso storico vissuto da questi territori e società a partire dalla fine
del primo conflitto mondiale. Una dinamica che chiama in causa molteplici fattori e
attori, sia a livello regionale sia internazionale, ma che in qualche modo ha nelle
questioni della legittimità e dell’autorità un punto di sintesi e contatto tra i numerosi
fronti di crisi e di confronto che ne hanno alimentato e descritto l’andamento.
A partire da queste considerazioni, il presente contributo si propone di tracciare un
breve percorso lungo alcune delle cosiddette linee di faglia socio-politiche che si
ritiene percorrano il Mediterraneo allargato, trattando la loro politicizzazione a livello
locale, regionale e internazionale. In particolare, si porrà l’attenzione su come la
concezione di Stato moderno all’interno di questo spazio si sia confrontata con alcune
di tali linee di faglia nel solco delle questioni legate alla legittimità e all’autorità e in
quale modo esse si siano intrecciate con gli equilibri di potere sia regionali sia
internazionali.
Di fatto, nonostante la crisi di legittimità mostrata dalle rivolte del 2011 risieda
principalmente nella sfera socio-economica e nelle carenze e inadeguatezze delle
strutture statuali, le dimensioni etnico-linguistiche, religioso-comunitarie, tribali e
ideologico-politiche hanno rappresentato e tutt’ora paiono disegnare una molteplicità
di possibili traiettorie sia nella prospettiva interna a numerosi Paesi sia in quella
trans-nazionale e transfrontaliera.

1. Crisi dei confini o crisi degli Stati


Molti osservatori del Medio Oriente si sono chiesti se dietro l’attuale instabilità che
investe l’intero Mediterraneo allargato non ci sia anche la pesante eredità della
Grande Guerra e, in particolare, degli accordi Sykes-Picot del maggio del 1916.2 Fu,
infatti, durante quei negoziati segreti che Francia e Gran Bretagna concordarono su
come “emancipare” questi territori dal loro passato ottomano creando di fatto il Medio
Oriente contemporaneo. Un evento di per sé destabilizzante, ma che assunse un peso
ancora maggiore poiché questa scelta vanificò e “tradì” quasi contestualmente il
contenuto del carteggio McMahon-Hussein (luglio 1915-gennaio 1916), che avrebbe
dovuto invece portare alla creazione di un unico Stato arabo nelle province del Bilâd
al-Shâm (Levante). Nel lasso di pochi mesi si sarebbe perciò tracciato uno spartiacque
decisivo e, secondo tale interpretazione, mai veramente metabolizzato dalle
popolazioni della regione.
Questo dibattito ha inevitabilmente ripreso vigore dopo che nell’estate del 2014
l’organizzazione dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante (ISIL) ha proclamato la
nascita del Califfato subito dopo la presa di Mosul, denunciando tale eredità
attraverso la teatrale celebrazione dell’abbattimento del confine tra Iraq e Siria.3 Se
poi a questo evento uniamo sia il crescente attivismo delle forze combattenti curde in
entrambi i Paesi (che cela senza farne grande mistero il desiderio di giungere a quel
riconoscimento politico negato proprio nel primo dopoguerra), sia la progressiva
polarizzazione settaria e tribale e, infine, la diffusione di diverse organizzazioni
militanti terroriste in vari territori del Medio Oriente e del Nordafrica, tale tesi non
sembra solo fondata ma appare tracciare un destino inevitabile.
Ciononostante è doveroso ricordare che l’accordo Sykes-Picot non segnò solamente
la storia della geografia politica e della geopolitica della regione, ma fu anche uno
snodo centrale da cui prese le mosse il percorso di state-building e nation-building
mediorientale. Un incrocio storico in cui si compì sia la parziale realizzazione del
profondo percorso di ripensamento degli equilibri politici e degli assetti istituzionali
che gran parte dei territori coinvolti in tale processo avevano vissuto durante il
periodo delle riforme ottomane delle tanzîmât e della stagione politica di Abdülhamid
II, sia la temporanea negazione di molte delle aspirazioni di rinascita e indipendenza
manifestate da diversi movimenti nazionalisti, come quello della Nahda all’interno
della componente araba dell’Impero.4
Di fatto quindi è innegabile che l’influenza coloniale franco-britannica sia stata
determinante nel definire i profili contemporanei di questa regione secondo entrambe
le prospettive poc’anzi suggerite.
Da una parte, furono gli interessi geopolitici di Londra e Parigi a guidare il
processo di estensione dei mandati attraverso la Società delle Nazioni, portando al
riconoscimento dei moderni Stati arabi e dei loro confini. Anche la stessa nascita di
Israele – evento che esula dal nostro discorso e che richiederebbe molto più spazio
dati i complessi fattori alla base della questione israelo-palestinese – avvenne
comunque nei “limiti” territoriali della Palestina del Mandato e, a eccezione del breve
periodo di unificazione della Cisgiordania al Regno Hashemita di Giordania tra il 1950
e il 1967, è lungo tali “orizzonti” che tutt’ora corre il processo negoziale tra israeliani
e palestinesi.
Dall’altra, fu a partire dalle stesse logiche coloniali che vennero tracciati alcuni dei
profili interni dei nuovi Stati arabi sotto Mandato, scomponendo e ricomponendo il
complicato intreccio religioso ed etnico-linguistico che da sempre caratterizza la
regione. In particolare, rispetto alla questione etno-linguistica, si può dire che si
verificò una sorta di “esclusione” selettiva, compiuta con l’approvazione di molte delle
élite nazionaliste arabe.5 I tragici eventi a cavallo della Grande Guerra, con
l’esperienza dello scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia e i massacri degli
armeni e degli assiri, ricordano il prezzo di simile operazione.
A partire da tale quadro storico è però doveroso riconoscere che questo stesso
spazio politico, seppur profondamente segnato dall’ultima espressione del
colonialismo occidentale, sia in realtà rimasto nei decenni successivi tra i più stabili
se comparato ad altre regioni del mondo, come l’Europa centrale e sudorientale, il sud
e sud-est asiatico e, infine, l’Africa sub-sahariana.6 Persino le grandi narrazioni
politiche del pan-arabismo e del pan-islamismo non si sono scagliate mai
concretamente contro tali divisioni, benché le abbiano attaccate retoricamente a più
riprese come parte integrante della loro ideologia anti-imperiale e di resistenza
all’ingerenza occidentale. In qualche modo lo Stato arabo moderno nella sua
dimensione istituzionale e territoriale venne quindi accettato come campo legittimo
per la realizzazione di differenti e spesso contrapposti programmi politici. Di fatto, al
di fuori del giudizio circa la tipologia dei regimi al potere, a partire dagli anni
Settanta lo Stato arabo moderno e le sue classi politiche dimostrarono grande
stabilità, mantenendo il controllo delle leve del potere politico per periodi sempre più
lunghi grazie a una burocrazia ampia e capillare e all’esercizio del monopolio della
forza legittima.7
In altre parole, malgrado quello che accade oggi nella regione sembri
inevitabilmente ricondurci a Sykes-Picot, ciò avviene non tanto o almeno non solo in
ragione della questione del sistema regionale creato da tale accordo, ma in quanto a
essere in crisi sono i frutti più originali di quella decisione, ovvero gli Stati arabi
moderni e i patti sociali su cui si sono retti fino a oggi, come pure gli attori esterni
che ne hanno promosso la conclusione. Al tempo stesso si comprende l’abilità della
propaganda di ISIS che colpendo simbolicamente questi accordi ha voluto
drammatizzare il tradizionale risentimento verso l’esperienza coloniale europea e il
prodotto di quella stagione, dando forza al suo progetto di una struttura statuale
alternativa.

2. Ripensare lo Stato moderno arabo e le sue linee di faglia


Nella specifica configurazione mediorientale e nella sua complessa composizione
comunitaria, il percorso di formazione e consolidamento dello Stato moderno non ha
cercato di esprimere o rappresentare una specifica classe dominate, bensì si è
affermato come forma di controllo delle risorse strategiche e relativa definizione dei
vantaggi e dei poteri di ciascun gruppo e settore della società. In altre parole, non fu
mai stata l’affiliazione di classe a determinare il rapporto di contratto-scambio tra
questi gruppi e lo Stato, neppure secondo la prospettiva della finzione politica, bensì
la dimensione familiare e l’affiliazione a comunità particolari, villaggi o regioni.8 Il
campo politico si formò attraverso il riconoscimento e l’integrazione di alcuni soggetti
legittimati (e contemporaneamente di quelli selettivamente esclusi) a concorrere e
partecipare a una specifica relazione di distribuzione, di cui i regimi al potere si
fecero garanti secondo una razionalità politica ispirata all’acquisizione e al
mantenimento del potere politico mediante clienti e sostenitori locali. È così che la
costruzione dello Stato ha significato sia la contestuale definizione di maggioranza e
minoranza sia il loro intreccio con le questioni legate alla sfera dei diritti socio-
economici e politici, facendo sì che questi due piani si confondessero e complicassero
a vicenda. Inoltre, è così possibile comprendere alcune delle ragioni per cui diverse
identità sub-nazionali hanno potuto preservare il loro ruolo all’interno di taluni Stati
moderni arabi e mantenere intatto il peso politico, riscrivendo con successo la propria
presenza, mentre in altri contesti di esclusione e marginalizzazione elaboravano
progetti alternativi e di contrapposizione.
In questo senso, divisioni settarie e comunitarie hanno radici antiche e in qualche
modo sono sempre esistite, ma la loro attuale politicizzazione è il risultato
dell’intreccio e della sovrapposizione tra gli interessi e gli obiettivi specifici degli
attori statali e delle diverse leadership socio-politiche comunitarie.9 Allo stesso
tempo, sarebbero proprio il fallimento dello Stato (come nel caso iracheno) o la caduta
di specifici regimi politici in assenza di istituzioni riconosciute e funzionanti (ad
esempio in Libia) a liberare le forze sopite o marginalizzate di specifiche comunità,10
siano esse a base religiosa, etnica o tribale, che dimostrano la loro resilienza proprio
nell’agire come strutture socio-politiche organizzate di recupero e vie d’uscita da uno
stato di crisi e caos.11 Naturalmente il peso delle élite locali e le possibili ingerenze
esterne hanno giocato in tale orizzonte un ruolo determinante, sia nel senso della
stabilità sia in quello del cambiamento e della trasformazione di ogni singolo contesto
statuale.

3. Il ruolo politico delle minoranze nel Mediterraneo allargato


contemporaneo
Che ci si trovi nel contesto del Nordafrica, del Levante o del Golfo, è innanzitutto
necessario comprendere quali siano state le linee che hanno accompagnato la
fondazione dei singoli Stati moderni e come, in un gioco per così dire a specchio,
minoranze e maggioranze si siano vicendevolmente definite all’interno del campo
politico. Di per sé la nascita stessa di questi due “istituti” si lega indissolubilmente al
modello dello Stato-nazione, la cui fondazione e il cui preteso ruolo di rappresentante
della cultura e dell’essenza di un popolo genera l’ideale di maggioranza e minoranza,
secondo logiche speculari e al contempo antitetiche.
Nonostante le aree del Nordafrica e del Medio Oriente vengano generalmente
descritte come realtà omogenee essenzialmente arabe, arabofone e musulmane, fatta
eccezione per la presenza di Israele e senza dimenticare l’importanza della
dimensione turca e persiana, queste regioni sono caratterizzate da molteplici
differenze sotto il profilo etnico-linguistico e religioso.12 Specificità culturali,
cultuali, linguistiche, etniche e religiose si sono mescolate e sovrapposte da sempre in
vario modo e trasversalmente, complicandone significativamente il quadro socio-
politico, che non a caso molti descrivono secondo l’immagine del mosaico. È quindi
utile delineare in breve le principali realtà che animano tale ricco orizzonte di culture
e tradizioni, cercando di mettere in luce alcune delle ragioni per cui la loro
politicizzazione è stata particolarmente percepita.
Di fatto, dei circa 355.000 milioni di abitanti che risiedono in questo vasto territorio
si può affermare che circa il 70-80% appartiene alla fede islamica di matrice sunnita,
ma di questi non tutti possono essere associati alla sola dimensione araba. Divisa tra
Turchia, Siria, Iraq e Iran, la componente curda rappresenta la più cospicua realtà
demografica non-araba nel Medio Oriente contemporaneo priva di una sua divisa
statuale autonoma (circa 20 milioni di individui, anche se non esistono proiezioni
ufficiali certe), così come la componente berbera descrive il principale orizzonte
culturale e linguistico non-arabo nei contesti nordafricani del Marocco (40% della
popolazione) e dell’Algeria (20-30% della popolazione). Seppur sensibilmente minori
dal punto di vista numerico, si trovano poi comunità turcomanne, cecene e circasse.
Nel caso di queste ultime due, la loro presenza rimanda alla loro espulsione dalle
regioni del Mar Nero in seguito all’avanzata delle truppe di Mosca nel X IX secolo.
A ciò si aggiunge certamente la macro-distinzione tutta interna all’Islam tra la
sfera sunnita e quella sciita, che sfugge però alle facili catalogazioni se esaminata
sotto il profilo etnico: in contesti come quello iracheno e libanese sciiti e sunniti
infatti si riferiscono in maniera identica alla sfera linguistica e culturale araba.
Per quanto riguarda le realtà non-islamiche la presenza cristiana è diffusa in
diversi Paesi della regione. Divisi in numerose denominazioni, i cristiani in alcuni casi
abbracciano senza contraddizioni l’orizzonte arabo e arabofono, mentre in altri si
rifanno a tradizioni e affiliazioni delle antiche “nazioni” preislamiche come per gli
assiri dell’Iraq e della Siria. Per quanto riguarda i copti, invece, tali memoria ed
eredità rimangono vive nella sola sfera liturgica ed ecclesiastica della Chiesa copta
d’Egitto. Non è poi da dimenticare la comunità armena, la cui diffusa presenza nei
diversi Paesi dell’area si lega indissolubilmente ai drammatici eventi a cavallo della
Grande Guerra.
Vi sono poi altre realtà il cui inquadramento appare molto complesso dato che può
variare a seconda delle prospettive adottate, come nel caso degli alawiti in Siria e dei
drusi in Siria, Libano e Israele. Di fatto, queste due comunità sono state considerate
ora sette eterodosse dell’orizzonte islamico di matrice sciita ora peculiari
denominazioni reliogiose. Seppur di minor peso demografico e impatto politico, non
vanno neppure tralasciate le popolazioni eredi delle antiche tradizioni religiose
mesopotamiche, come le comunità yazide, mandee e gli ahl al-haqq. Pur contenendo
elementi che richiamano i tre grandi monoteismi orientali dell’Ebraismo, del
Cristianesimo e dell’Islam, queste non rappresentano né loro ramificazioni né sette
eterodosse, complicando in tal modo ogni possibile classificazione.13
Infine, tale quadro si arricchisce ancor di più se si aggiunge il fattore tribale che
nel contesto del Mediterraneo allargato trascende e sfuma molte delle distinzioni
precedentemente abbozzate. In quanto struttura sociale e fattore politico, nel corso
del secolo scorso l’elemento tribale ha espresso la sua vitalità riuscendo a riprodursi
all’interno della dimensione statuale. Non a caso lo stesso percorso di fondazione
degli Stati moderni arabi si è anche giocato sull’abilità nel controllare, limitare o
cooptare il fattore tribale, come le esperienze dell’Iraq, della Giordania e della Libia
ricordano. Il tribalismo ha dimostrato di essere una struttura sociale di “recupero”,14
capace di scomparire e riaffiorare in corrispondenza di situazioni di crisi e necessità,
come si è visto ad esempio alla caduta del regime di Gheddafi in Libia e in Iraq dopo
l’intervento statunitense nel 2003.
A fronte di un panorama così ricco, è chiaro che si possa provare un certo
disorientamento. Ciononostante la diversità non è sufficiente a spiegare l’impatto
politico e il ruolo che alcune comunità o minoranze hanno ricoperto nella storia
contemporanea di questa regione.15 Anche il solo peso demografico specifico non pare
determinante: ad esempio la realtà berbera non ha giocato il medesimo ruolo di quella
curda, benché esse siano demograficamente paragonabili. Allo stesso modo, gli alawiti
e i drusi di Libano e Siria, entrambi definite minoranze “compatte” poiché concentrate
in specifiche porzioni di territorio, raccontano storie profondamente differenti rispetto
al rapporto con la dimensione statuale. Nel primo caso, l’intreccio tra l’esperienza
coloniale e la complessa stagione post-indipendenza ha permesso agli alawiti di
assumere progressivamente rilevanti posizioni all’interno della macchina statale.
Inizialmente fu la politica coloniale francese a far sì che l’esercito venisse formato
attraverso l’arruolamento massiccio delle minoranze presenti nel Paese.16 Tale
posizione si rivelò in seguito determinante nella fase post-indipendenza, quando di
fronte all’instabilità parlamentare l’esercito divenne la forza politica più importante e
in grado di esercitare la maggiore influenza all’interno dello Stato, favorendo l’ascesa
della famiglia Assad. È così che, alla luce del conflitto in corso e di alcune sue letture,
la questione del ruolo delle minoranze in Siria e del difficile rapporto con la
dimensione maggioritaria sunnita appare essere molto più il risultato della complessa
relazione tra la dimensione civile e quella militare che l’espressione di un irriducibile
scontro settario. Nel caso dei drusi in Libano, invece, il discorso è ben differente,
laddove la debolezza dello Stato ha prodotto piuttosto una sorta di stallo e di
frammentazione costituzionale del potere tra le varie anime che risiedono in questo
Stato.
Un punto che accomuna la maggior parte di queste esperienze statuali in realtà
esiste: è l’aver considerato la questione etnica e delle minoranze un problema e una
sfida alla propria sopravvivenza o un’utile strumento per consolidare i regimi al
potere manipolando timori e diffidenze.17 Tale atteggiamento ha rafforzato nelle
minoranze un senso di instabilità e precarietà, in cui le loro sorti si sono legate ai
regimi al potere piuttosto che alle garanzie costituzionali dei propri Stati. Tale
atteggiamento non è contraddetto, ma anzi confermato, da esperienze in cui si è
assistito all’ascesa al potere di gruppi minoritari, come in Libano con i maroniti, in
Siria con gli alawiti, in Iraq e Bahrein con i sunniti e, infine, in Yemen con gli zayditi.
Al tempo stesso, e sebbene possa sembrare stridente di fronte alla realtà appena
descritta, lo Stato arabo moderno si è retto fin dalla sua nascita sulla costante pretesa
di rappresentare un’unità sociale indivisibile e coerente. In tal senso, sia le ideologie
secolari universalistiche del nazionalismo, del socialismo e del comunismo, sia l’Islam
politico a partire dalla fine degli anni Settanta, hanno egualmente attinto e alimentato
tale cultura politica.18 Paradossalmente ciò ha favorito le rappresentazioni
orientalizzanti di un mondo mediorientale inevitabilmente diviso da inesauribili
contrapposizioni etnico-religiose.19
Un simile richiamo all’unità e omogeneità si è poi chiaramente saldato alla retorica
della conquista dell’indipendenza, sottolineando ancor più il principio della
concentrazione del potere e della forza militare come unica garanzia per la
realizzazione di tale promessa e negando di conseguenza ogni forma di delega e
condivisione dell’autorità. Questa propensione non è venuta meno con la crisi
dell’arabismo e del pan-arabismo, ma si è rinnovata e complicata ulteriormente con la
costante crescita dell’Islam politico e il richiamo alla necessità di creare uno “Stato
islamico”. Infatti, nonostante l’irrinunciabile riferimento alla dimensione
transnazionale dell’intera comunità islamica (umma), nella maggior parte dei casi il
richiamo all’Islam è andato a riempire il vuoto della retorica nazionalista, svolgendo
quasi un ruolo ancillare e riproponendo così molte delle questioni insolute rispetto
alle posizioni sia delle minoranze non-islamiche sia di quelle intra-islamiche, queste
ultime secondo la macro distinzione tra Shî‘a e Sunna.
In tal senso, diversità e distinguo rispetto alla pretesa “omogeneità” sono state
percepite con sospetto, favorendo strategie per così dire difensive che hanno condotto
spesso alla negazione dei diritti delle minoranze e delle loro specificità culturali, in
particolare laddove entravano in gioco la dimensione etnica e quella intra-islamica.
Ciò le ha inevitabilmente trasformate in vere e proprie linee di faglia, politicizzandole
e facendone strumenti dei regimi al potere per rafforzare la propria legittimità. E
anche quando questi hanno optato per formule e strategie di controllo ispirate alla
cooptazione e all’inclusione della pluralità, il rapporto tra maggioranza e minoranze
non ha trovato un equilibrio realmente stabile.
Chiaramente, tale relazione è risultata ancora più complicata nel caso di regimi
dominati da minoranze, come la Siria e l’Iraq. Infatti, l’opzione della cooptazione è
stata sempre circoscritta entro limiti invalicabili.20 I sistemi statuali del Mediterraneo
allargato, siano essi monarchie o repubbliche, si sono retti sul ruolo di singoli
individui o giunte militari, inevitabilmente ponendo la relazione sul piano
dell’ossequio verso tali poli di potere piuttosto che in ragione di formule
istituzionalizzate e formali. Ne consegue che ogni espressione di dissenso è stata di
frequente ridotta allo schema settario e comunitario. Il caso della Siria e del regime
degli Assad è emblematico in questo senso, come dimostrano i toni che lo scontro tra
il fronte delle opposizioni e il regime al potere ha assunto nel corso del 2011 portando
alla guerra civile che ancora infiamma il Paese.
Infine, l’atteggiamento nei confronti delle minoranze nel corso del secolo scorso è
stato frequentemente segnato anche dal timore che queste potessero favorire
ingerenze e interventi di potenze straniere sia a livello regionale sia internazionale.
Se è innegabile che la memoria dell’influenza coloniale possa aver favorito tale
percezione, questa propensione ha d’altra parte precluso il raggiungimento di
equilibri duraturi in molti Stati arabi moderni, impedendo che la questione etnico-
linguistica e religiosa fosse affrontata come una sfida “normale” che ogni percorso di
costruzione statuale ha sperimentato, e rendendola piuttosto simile a una linea di
faglia sempre pronta a muoversi. L’ossessione per la difesa e la protezione dei regimi
al potere e per la costante produzione di legittimità, unita al timore di sempre
possibili interventi esterni, ha così indotto molti dirigenti arabi a negare la questione
delle minoranze e ignorare la necessità di tradurre la pluralità in un bilanciato
pluralismo, spesso riducendo tali manifestazioni alla dimensione della sedizione e
della cospirazione, e così paradossalmente favorendo la politicizzazione delle
differenze, nell’intreccio con questioni più propriamente legate alla dimensione della
giustizia sociale e della perequazione economica.

4. Il fattore geopolitico e l’entropia del sistema regionale


L’analisi del fattore geopolitico e del ruolo che le influenze regionali e internazionali
ricoprono all’interno dei diversi scenari di crisi è la naturale conclusione di questa
breve ricognizione ed è in larga parte complementare alle precedenti osservazioni. Di
fatto, in una condizione di crescente frammentazione e polarizzazione la possibilità di
esercitare ingerenza e influenza a favore di specifici attori non-statuali, gruppi e
comunità, giocando su timori, diffidenze e pretese irriducibili d’identità, assume una
rilevanza centrale e spiega la difficoltà di estinguere le crisi attuali, in cui fattori
locali, regionali e internazionali si rinsaldano e si alimentano vicendevolmente. Ciò
vale a maggior ragione quando la posta in gioco è il governo di un territorio e la
possibilità di incidere sulla distribuzione delle risorse, ovvero sulla definizione delle
regole e del funzionamento di un campo politico. In tal senso, percezioni divergenti
rispetto ai profili delle possibili minacce e degli interessi contrapposti risultano
determinanti nel definire la stabilità e l’instabilità dell’intero sistema regionale e
degli attori statuali che lo compongono.
Il Mediterraneo allargato, e in particolare il Medio Oriente, rappresentano da
sempre il centro di un’intricata competizione tra interessi politici ed economici
contrastanti. Non potrebbe essere altrimenti data la naturale vocazione di punto di
contatto fra tre continenti e la presenza di risorse energetiche strategiche.21 Come
ricorda la famosa “questione d’Oriente” che vide Francia, Gran Bretagna e Russia
competere per imporre la propria influenza nell’Impero Ottomano durante il X IX
secolo, e in seguito gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica nel secondo dopoguerra, gli
equilibri di potere interni a questa regione hanno dovuto da sempre confrontarsi con
gli interessi e gli opposti obiettivi strategici delle principali potenze mondiali. In tal
senso, ingerenza e influenza non sono una novità e in larga parte rispecchiano logiche
antiche. Anche la tendenza a manipolare dall’esterno le possibili linee di frattura dei
diversi Paesi che compongono questa regione non costituisce nulla d’inedito. Già nel
corso dell’Ottocento e poi durante le prime decadi del Novecento, Parigi scelse di
coltivare buoni rapporti con le comunità berbere, druse, alawite, copte e maronite al
fine di estendere la propria influenza nella regione, laddove Londra preferì giocare la
carta opposta, supportando piuttosto la maggioranza arabo-sunnita, sempre con lo
scopo di stringere alleanze funzionali ai propri interessi imperiali. Tale propensione
non mutò durante la Guerra Fredda: gli Stati Uniti proseguirono in parte sulla linea
tracciata da Londra cercando di consolidare la propria influenza attraverso i regimi
esistenti, mentre l’Unione Sovietica si concentrò nel sostegno di movimenti ispirati
alle lotte di liberazione e anti-imperialiste, appoggiando le cause di gruppi minoritari
emarginati, come nel caso dei curdi.
A queste linee di contrapposizione e competizione si sono costantemente affiancate
e intrecciate dinamiche più propriamente regionali, che si sono espresse sia secondo i
tradizionali canoni della competizione militare inter-statale sia attraverso l’influenza
e la manipolazione di identità e ideologie politiche trans-nazionali. La regione ha
sperimentato le guerre tra Iran-Iraq (1980-1988), quella del Golfo con l’invasione del
Kuwait (1990-1991) e, infine, l’operazione militare in Iraq (nel 2003). In questo
scenario poi le guerre arabo-israeliane e la perdurante questione israelo-palestinese
hanno costantemente rappresentato un elemento di destabilizzazione e tensione. A
queste si sono aggiunte tensioni di matrice etnica, settaria, tribale e ideologica, che,
abilmente manipolate dall’esterno, hanno rappresentato continue minacce alla
stabilità di diversi Paesi. Il tentativo iraniano al tempo dello Shah di supportare le
formazioni curde contro il regime baathista in Iraq, così come la reazione di Baghdad
che adottò una strategia simile nelle aree del Khuzistan iraniano con la componente
araba sono un esempio chiaro di come la questione etnica interna ai singoli Paesi sia
stata utilizzata nella competizione geopolitica. In modo simile, l’influenza saudita
nell’area yemenita ha cercato di giocare la carta della competizione intra-tribale.
Infine, sono numerosi gli esempi di come l’elemento ideologico abbia ricoperto un
ruolo rilevante nella competizione regionale, a partire dal tentativo di Nasser con le
diverse formazioni pan-arabiste nel Vicino Oriente, per giungere poi alla Repubblica
iraniana e all’Arabia Saudita, nel primo caso attraverso il sostegno a diverse
formazioni militanti e ai partiti di matrice sciita, nel secondo con il finanziamento di
gruppi militanti salafiti.
Di conseguenza, la geopolitica del Mediterraneo allargato è costantemente mutata
nel corso del dell’ultimo secolo secondo la sovrapposizione e l’intreccio di questi
numerosi piani e vettori di competizione, vivendo fasi differenti, dalla caduta
dell’Impero Ottomano e dall’estensione dell’influenza franco-britannica, all’epoca
delle indipendenze e delle logiche della Guerra Fredda, fino alla crisi del blocco
sovietico e all’imposizione dell’egemonia nordamericana, testimoniata dalla guerra in
Iraq del 1991 e dalla seconda operazione nel 2003.
In questo senso il 2003 può essere considerato una prima tappa verso la definizione
della geopolitica odierna del Mediterraneo allagato. La caduta del regime di Saddam
Hussein e la più rilevante decisione di ricostruire lo Stato iracheno ex nihilo hanno
innescato un profondo rimescolamento delle forze in campo. Da una parte la
cancellazione di un attore rilevante nel gioco politico regionale ha riacceso la
tradizionale competizione tra Iran e Arabia Saudita che ha in breve assunto i toni
infiammati dello scontro identitario e settario lungo la macro-distinzione tra sunniti e
sciiti.22 Rivalità che è continuata a crescere parallelamente alla progressiva riduzione
dell’impegno diretto statunitense nella regione. Dall’altra si è determinato un vuoto di
potere che ha consentito a formazioni jihadiste di penetrare nella regione
ritagliandosi ampi margini di manovra. Entrambi questi elementi sono essenziali per
la comprensione dell’odierno caos politico regionale, che è andato costantemente
complicandosi ed espandendosi.
In verità, di fronte all’attuale condizione di instabilità a preoccupare non è tanto il
fenomeno delle influenze e delle ingerenze esterne. Il vero punto di novità è che a
partire dal 2011 queste hanno potuto esprimersi con inedita forza, manipolando le
profonde debolezze degli ordinamenti politici e delle strutture istituzionali di molti
Stati arabi. Ciò è stato possibile per due ragioni.23 Da una parte, le rivolte hanno
messo in evidenza tutte le fragilità di quello che era stato l’elemento centrale nel
bilanciamento del gioco geopolitico nella regione, ovvero lo Stato arabo moderno, che
pure in passato aveva dimostrato una rilevante capacità di resistenza di fronte alle
molteplici sfide internazionali, regionali e interne. Del resto, il caso del Libano e della
guerra civile che ha scosso questo Paese tra il 1975 e il 1990 aveva già dimostrato la
difficoltà di contenere tali spinte in assenza di uno Stato forte e di fronte a società
frammentate. Dall’altro, la decisione statunitense di ridimensionare il proprio ruolo
regionale ha inevitabilmente offerto a differenti attori ampi spazi di intervento, senza
che nessun’altra potenza fosse però in grado di assumersi eredità e oneri di un ruolo
egemonico nella regione, a partire dalla stessa Europa. Si è così chiusa
inevitabilmente la stagione geopolitica post-Guerra Fredda, dando il via all’attuale
fase di ricerca di un nuovo equilibrio.
A ciò si è aggiunto l’interesse delle principali potenze internazionali e regionali a
chiudere velocemente il dossier delle «primavere arabe», cercando di imporre la
propria visione o consegnando alle sole urne e a troppo veloci percorsi di scrittura
costituzionale il compito di realizzare le richieste delle piazze, piuttosto di
accompagnare il processo di transizione verso la costruzione di nuovi equilibri
istituzionali se non del vero e proprio state building, come nel caso libico.
È così che di fronte all’inevitabile crisi dello Stato denunciata dalle rivolte del 2011
l’influenza e l’ingerenza esterna hanno potuto esercitare liberamente il ruolo di
catalizzatore o freno delle dinamiche politiche in corso. In particolare, questi eventi
hanno aperto il campo all’intervento massiccio delle monarchie del Golfo, che grazie
alle loro ingenti risorse economiche e finanziare sono state in grado di influenzarne in
più punti il corso, spesso in aperta competizione tra di loro. Al tempo stesso non è
casuale che il fenomeno del jihadismo, o del radicalismo islamico militante, abbia
potuto diffondersi liberamente nella regione, riscattandosi dopo il periodo di
disorientamento provocato dalle rivolte del 2011, nate e svoltesi in totale autonomia e
secondo logiche diametralmente opposte rispetto al suo ideale.24 La crisi dello Stato o
il suo vero e proprio fallimento ha catalizzato come mai prima le ambizioni e le agende
politiche di queste organizzazioni, consentendo loro di proporsi come vere alternative
agli Stati esistenti, non solo in Siria e in Iraq, ma anche in Egitto e in Libia. Il
Mediterraneo allargato è così divenuto un terreno di scontro aperto, all’interno del
quale vengono giocate numerose partite, mentre i diversi attori coinvolti spingono,
secondo le convenienze del caso, per il cambiamento, per la conservazione o per il
ristabilimento dei precedenti equilibri di potere.
Le tradizionali raffigurazioni di coerenti schieramenti in campo, come ad esempio
l’immagine della mezzaluna sciita guidata dall’Iran a cui si contrapponeva il blocco
sunnita o l’ancor più famosa “guerra fredda” tra Teheran e Riyadh, sono ormai in
grado di cogliere solo una piccola parte della complessa dinamica in atto. Ne consegue
che lo scontro settario tra sciiti e sunniti appare molto più la conseguenza piuttosto
che la causa della competizione in atto; il risultato di una controversa saldatura tra la
propensione di molti attori regionali a manipolare tali differenze ricercando
legittimità e appeal all’interno delle proprie constituencies e la tendenza a
rappresentare e ridurre lo scontro in atto secondo tali canoni. Di fatto il cosiddetto
“campo sunnita” ha dimostrato di essere quanto meno diviso sui futuri equilibri di
potere nella regione. Arabia Saudita, Qatar e Turchia perseguono interessi tra loro
divergenti, come ha dimostrato il caso dell’Egitto, con Turchia e Qatar a sostegno dei
Fratelli Musulmani e Arabia Saudita a favore della componente salafita e
dell’operazione dei militari; oppure il contesto libico, con gli Emirati Arabi Uniti e
l’Egitto di al-Sisi schierati contro la Fratellanza Musulmana nel Paese, che ha
beneficiato invece dell’aiuto qatarino. In tal senso, la guerra in Siria rimane
l’emblema del caos politico in atto, passato in pochi mesi dalla rivolta alla guerra
civile, mentre sul territorio si proiettavano tutte le principali forze in campo, sia
statuali (con il coinvolgimento occidentale, russo, saudita, iraniano e turco) sia non-
statuali (da Hezbollah e alle formazioni curde, sino a includere al-Qaida e lo Stato
Islamico). A ciò si aggiunge, come si osserva in altri contesti di crisi, la presenza non
solo di interessi contrapposti, ma di profonde differenze nell’ordine delle priorità e
nella percezione della minaccia, sintomo della complessità della geopolitica attuale di
questa regione.

5. Conclusione
Nell’arco di poco più di un secolo, la vasta regione del Mediterraneo allargato, dal
Nordafrica fino ai territori della penisola araba, è stata sottoposta alla pressione di
forze endogene ed esogene contrapposte sia a livello regionale sia internazionale. Da
una parte, queste si sono ripetutamente scontrate per imprimere senso a un
multiforme mosaico sociale, culturale e religioso. Dall’altra, hanno influenzato sia il
percorso di nascita e sviluppo di diversi movimenti nazionalistici e trans-nazionali sia
la fondazione dei moderni Stati arabi.
I complessi eventi politici del secolo scorso dimostrano la densità di tale processo,
il cui esito finale rimane in larga parte incerto, vivendo oggi un’ulteriore stagione di
confronto, come le attuali crisi raccontano in modo evidente. Di fatto l’odierna fase di
instabilità pare evidenziare che una nuova stagione di cambiamento si stia compiendo,
oltre le semplici categorie della transizione democratica o della resilienza autoritaria,
coinvolgendo in modo radicale tutti gli elementi su cui erano stati fondati in
precedenza i patti sociali vigenti nella regione.
È, quindi, proprio la crisi dello Stato moderno arabo l’elemento attorno cui pare
orbitare l’imponente scontro di potere che sta investendo il Mediterraneo allargato.
La nuova fase di politicizzazione di molte delle tradizionali linee di faglia pare essere
sintomatica di una crisi più profonda che risiede nell’incapacità degli Stati di
corrispondere ai bisogni delle proprie popolazioni, piuttosto che essere l’espressione
di un’impossibilità strutturale di vivere insieme accettando differenze e specificità
che da sempre sono convissute, nonostante le naturali difficoltà e possibili
incomprensioni. Di conseguenza, assecondare tali pulsioni promuovendo in alcuni
contesti la nascita di nuove entità secondo nuove e immaginate omogeneità appare
quanto meno pericoloso, prefigurando il rischio di creare soggetti statuali ancor più
instabili, precari e vulnerabili a quelle ingerenze che difficilmente cesseranno nel
breve periodo e contro cui solo apparati istituzionali solidi possono in qualche modo
contrapporsi efficacemente.
La geopolitica del Mediterraneo allargato continuerà a essere a lungo
caratterizzata da una forte entropia e diffusione del potere. Inevitabile appare anche
la necessità di trovare una nuova centratura in assenza di un’unica potenza egemone,
come avvenuto invece immediatamente dopo la Guerra Fredda. La ricomposizione di
interessi e di percezioni della minaccia profondamente discordanti impegnerà
l’attività diplomatica e politica a livello regionale e internazionale, ma in assenza di
strutture statuali stabili e funzionanti, tale operazione corre il rischio di divenire
episodica e disordinata. In questo senso, il recente percorso politico avviato con i
colloqui di Vienna del 30 ottobre 2015 per la risoluzione del conflitto siriano, in
seguito all’intervento russo e anche alle nuove possibilità offerte dall’accordo sul
nucleare firmato con Teheran, potrebbe essere il primo banco di prova per ricercare
nuove vie e più durature soluzioni.
Le fasi che hanno preceduto e immediatamente seguito le «primavere arabe» hanno
dimostrato che molte delle crisi attuali sono state amplificate dall’incapacità o
indisponibilità ad accompagnare questi Paesi nel percorso di rifondazione delle
proprie istituzioni, se non di vera fondazione. La fine dei tradizionali regimi
autoritari, infatti, ha più frequentemente significato la crisi dell’intero apparato
statuale, sprigionando nuove competizioni e conflittualità per la conquista del potere,
piuttosto che l’avvio di vere e proprie “rivoluzioni” in grado di proporre nuove visioni
e coscienze politiche.

1 Unione Europea (UE) e dodici Paesi del Sud del Medit erraneo, Dichiarazione di Barcellona e partenariato
euromediterraneo, 27 e 28 novembre 1995, Barcellona, Spagna, EUR-Lex - r15001.
2 Abdul Lat if T ibawi, A Modern History of Syria. Including Lebanon and Palestine, Mcmillan, London 1969, pp. 255-
257.
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4 Philip S. Khoury, Continuity and Change in Syrian Political Life: The Nineteenth and Twentieth Century, «T he
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10 Toby Dodge, Iraq: From War to a New Authoritarianism, Rout ledge, London 2012.
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19 Baghat Korany, Looking at the Middle East Differently: An Alternative Conceptual Lens, in Baghat Korany (ed.),
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20 Ofra Bengio, Gabriel Ben-Dor (eds), Minorities and the State in the Arab World.
21 Abdul Lat if T ibawi, A Modern History of Syria.
22 Gregory F. Gause III, Saudi Arabia in the New Middle East, Council Special Report n. 63 (dicembre 2011), p. 9.
23 Shams uz Zaman, Rise of the Non-State Actors in Middle East: Regional Dimensions, «IPRI Journal» vol. XV, 1
(inverno 2015), pp. 59-60.
24 Paolo Maggiolini, Da al-Qaida alle nuove formazioni: la minaccia jihadista cambia, in Art uro Varvelli, St efano
Torelli (eds), L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?, ISPI, Milano 2015.

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